Il Consiglio e i consiglieri del Principe 9788878702264

Pubblicata ad Anversa nel 1559 e opera più nota del consigliere di Felipe II di Spagna, il *Consiglio e i consiglieri de

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Il Consiglio e i consiglieri del Principe
 9788878702264

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Fadrique Furió Ceriol

Il Consiglio e i consiglieri del Principe a cura di

Luca D’Ascia Bulzoni Editore

«Europa delle Corti» Centro studi sulle società di antico regime Biblioteca del Cinquecento

ISBN 978-88-7870-226-4

€ 14,00

«E Centro stud

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€ 14,00

«Europa delle Corti» Centro studi sulle società di antico regime Biblioteca del Cinquecento – 133 –

FADRIQUE FURIÓ CERIOL

Il Consiglio e i consiglieri del Principe a cura di

Luca D’Ascia

BULZONI EDITORE

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-226-4

© 2007 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

INDICE

INTRODUZIONE FADRIQUE FURIÓ CERIOL TRA ERASMO E MACHIAVELLI ........................

pag.

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IL LIBRO ...........................................................................................

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FADRIQUE FURIÓ CERIOL AL GRAN RE CATTOLICO DI SPAGNA, DON FILIPPO SECONDO .......................................................................

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FADRIQUE FURIÓ CERIOL IL CONSIGLIO E I CONSIGLIERI DEL PRINCIPE

OPERA DI FADRIQUE FURIÓ CERIOL CHE È IL LIBRO PRIMO DEL QUINTO TRATTATO DELL’EDUCAZIONE DEL PRINCIPE CAPITOLO I SUI CONSIGLI .....................................................................................

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CAPITOLO II SUL CONSIGLIERE E IN PRIMO LUOGO SULLE SUE QUALITÀ SPIRITUALI ...

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CAPITOLO III SULLE QUALITÀ FISICHE DEL CONSIGLIERE ........................................

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Indice

CAPITOLO IV SULLA SCELTA DEL CONSIGLIERE .......................................................

pag. 143

CONGEDO DELL’INTERA OPERA ...........................................................

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INTRODUZIONE FADRIQUE FURIÓ CERIOL TRA ERASMO E MACHIAVELLI

Campanella accomunava polemicamente «epicurei machiavellisti» e «politici erasmici»1. L’accostamento, a prima vista sorprendente, trova tutta la sua ragion d’essere se riferito a un eccezionale servitore della “Monarchia di Spagna”: l’umanista valenziano Fadrique Furió Ceriol. Sulla scia di Erasmo – anche se con sviluppi più radicali – si pone l’intervento del Ceriol nel dibattito religioso: il Bononia, sive de libris sacris in vernaculas linguas traducendis libri duo, stampato a Basilea nel 1556 da Martinus Stella per commissione dell’editore Johannes Oporinus. Numerosi prestiti non dichiarati dimostrano invece la dipendenza da Machiavelli di un notevole scritto di teoria politica: il Concejo y consejeros del Príncipe, pubblicato ad Anversa nel 1559 dalla vedova di Martin Nuncio. Né Erasmo né Machiavelli, com’è noto, erano autori integralmente proibiti negli stati di Filippo II: il Rey Prudente, anzi, risulta dedicatario della traduzione spagnola del Principe curata da Lorenzo Ottavanti (o Ottevanti) 2. Ma proprio attraverso la critica congiunta a Machiavelli ed Erasmo si era andata definendo nel medio Cinquecento quella che sarà poi l’ideologia trionfante del Regno: l’eroismo cristiano conquistatore e missionario, ugualmente lontano dal pacifismo evangelico conciliante verso i nemici della fede e dalla celebrazione neopagana di un culto puramente civile, che esclude qualsiasi funzione separata del clero e riconosce nella religione il vin-

1 Cfr. T. Campanella, Articuli Prophetales, a cura di G. Ernst, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 38: «E si levarono questi immani cetacei, i nuovi Arriani e Pelagiani; vi sono politici erasmici, epicurei machiavellisti» (cfr. M. Olivari, Senso della possibilità e osservazione della realtà in Erasmo politico, in «Intersezioni», VII, 1988, pp. 455-475). 2 Cfr. H. Puigdomench Forcada, Maquiavelo en España. Presencia de sus obras en los siglos XVI y XVII, Madrid, Fundación Universitaria Española, 1988.

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Luca D’Ascia

colo di una comunione politico-militare fra principe e popolo. A quell’ideologia avevano dato un contributo decisivo umanisti iberici di formazione italiana: Juan Ginés de Sepúlveda, con il Gonsalvus, l’antierasmiana Exhortatio alla crociata (1529) e soprattutto con la precoce polemica antimachiavellica del Democrates primus (1535); e Gerónimo Osorio, con l’ideale aristocratico del De nobilitate christiana (1552), che rivendica al cattolicesimo la “ferocia” machiavelliana3. Furió Ceriol, contemporaneo di Osorio, rappresenta invece la tendenza opposta: prendere da Erasmo e da Machiavelli quanto poteva servire ad una politica nazionale spagnola, nutrita di valori civili e anche militari, ma priva di rigidità controriformistiche, guidata da laici religiosamente consapevoli (perché lettori della Bibbia) anziché da religiosi intransigenti pronti a subordinare il merito alla conformità. La fusione di erasmismo e machiavellismo, così come si compiva nell’opera del Ceriol, poteva diventare esplosiva per l’incipiente Controriforma ispano-tridentina. Erasmismo rigoroso significava autonomia religiosa del laicato, inutilità della teologia (e dei teologi) per l’interpretazione delle Scritture. D’altra parte l’aspirazione machiavelliana ad una politica fondata esclusivamente sugli interessi “laici” dello stato entrava in contrasto con l’Inquisizione e gli statuti di limpieza de sangre 4. 3 Cfr. A. Prosperi, La religione, il potere, le élites. Incontri italo-spagnoli nell’età della Controriforma, in «Annuario dell’Istituto storico per l’età moderna e contemporanea», XXIX-XXX, 1977-1978, pp. 501-529. 4 Su Ceriol cfr. A. Schott, Hispaniae Bibliotheca, Francofurti, apud C. Marnium, 1608, p. 615; V. Ximeno, Escritores del reyno de Valencia, Valencia, Dolz, 1747, I, coll. 188-190 (che menziona un’indagine promossa da Filippo II sull’ortodossia di Ceriol dopo la morte di questi, che si concluse senza averne provato l’eresia); E. Toda y Güell, Bibliografia Espanyola de Italia, Castell de Sant Miquel d’Escornabou, s. e., 1928, II, pp. 141-142; A. Palau y Dulcet, Manual del librero hispano-americano, Barcelona, Palau, 1951, V, pp. 536537; J. M. Semprún Gurrea, Fadrique Furió Ceriol, Consejero de Príncipes y Príncipe de Consejeros, in «Cruz y Raya», XX, 1934, pp. 9-65; M. A. Galino Carrillo, Los tratados sobre educación de príncipe (siglos XVI y XVII), Madrid, Bolaños y Aguilar, 1948, pp. 56, 68; D. Sevilla Andrés, Introducción a F. Furió Ceriol, El Concejo y Consejeros del Príncipe y otras obras, Valencia, Institución Alfonso el Magnànimo-Diputación Provincial de Valencia, 1952; M. Bataillon, Erasmo y España, México, Fondo de Cultura Económica, 1950, pp. 552-554, 630-631; D. W. Bleznick, Las Instituciones Rhetoricas de Fadrique Furió Ceriol, in «Nueva Revista de Filología Hispánica», XIII, 1959, pp. 334-339; Id., Los conceptos políticos de Fadrique Furió Ceriol, in «Revista de Estudios Políticos», CXLIX, 1966, pp. 25-46; J. A. Maravall, La oposición politica bajo los Austrias, Barcelona, Ariel, 1972, pp. 60, 125-126, 179-180, 215; Id., La cultura del Barroco, Barcelona, Ariel, 1975, pp. 250-251; Id., Antiguos y modernos. La idea de progreso en el desarrollo inicial de una sociedad, Madrid, Alianza Universidad, 1986, pp. 525-526; J. Rico Verdú, La retórica española en los siglos XVI y XVII, Madrid, Fundación Universitaria Española, 1973,

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Furió Ceriol tra Erasmo e Machiavelli

Proprio questi temi erano al centro di un intenso confronto politico-ecclesiastico negli anni di formazione di Furió Ceriol. Sullo scorcio degli anni Quaranta si addensano i contatti personali fra il partito riformatore a Trento, che si riconosce in Bartolomé Carranza, nel cardinale “imperiale” Morone e soprattutto in Reginald Pole – ammirato e celebrato da Ceriol5 – ed un gruppo di eterodossi spagnoli che, dopo la repressione del 1557-60, assumeranno nell’esilio posizioni decisamente protestanti. La Bibbia volgare, difesa con particolare energia dal cardinale Madruzzo6, è motivo ricorrente delle discus-

pp. 120-123; A. Risco, El empirismo politico de Fadrique Furio Ceriol, in «Cahiers du monde hispanique et luso-bresilien», XXIX, 1977, pp. 123-155; H. Méchoulan, Raison et alterité chez Fadrique Furió Ceriol, philosophe politique espagnol du XVIème siècle, ParisLa Haye, Mouton, 1973, con edizione del Concejo y consejeros del Príncipe (traduzione spagnola a cura di D. Chamorro, Madrid, Editora Nacional, 1978); G. Colón, L’humanista Furió Ceriol i la unitat de la lengua, in Homenatge a Josep M. de Casacuberta, Montserrat, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, 1980, pp. 117-130; C. Gilly, Spanien und der Basler Buchdruck bis 1600. Ein Querschnitt durch die spanische Geistesgeschichte aus der Sicht einer europäischen Buchdruckerstadt, Basel-Frankfurt a. M., Helbing-Lichtenhahn, 1985, pp. 192-200; J. Gómez, El diálogo en el Renacimiento español, Madrid, Cátedra, 1988, pp. 22, 24, 36, 50, 56, 99-100, 152, 154; G. Bedouelle, Le débat catholique sur la traduction de la Bible en langue vulgaire, in Théorie et pratique de l’éxégèse, textes réunis par I. Backus et F. Higman, Genève, Droz, 1990, pp. 39-59; F. Bouza Álvarez, La majestad de Felipe II. Construcción del mito real, in J. Martínez Millán, dir., La corte de Felipe II, Madrid, Alianza Universidad, 1994, pp. 39-41; E. Cantarino, Tratadistas político-morales de los siglos XVI y XVII (Apuntes sobre el estado actual de la investigacion), in «El basilisco / Proyecto filosofia en español», XXI, 1996, pp. 3-11; F. Furió Ceriol, El concejo y consejeros del principe, Obra completa, tomo I, edd. H. Méchoulan y J. Pérez Durà, Valencia, Institució Alfons el Magnànim, 1996; L. Gil Fernández, Panorama social del humanismo español, Madrid, Tecnos, 1997; Fadrique Furió Ceriol, El concejo y consejeros del príncipe, Prólogo y notas para gubernantes del siglo XXI de A. Calderó y Cubré, Barcelona, Estrategia Local, 1998. Ad altri contributi più specifici si farà riferimento nelle rispettive note. 5 Cfr. Bononia sive de Libris Sacris in vernaculas linguas traducendis libri duo (d’ora in poi Bononia), Basileae, Oporinus, 1556, p. 171: «Neque ignoro, permultos esse pontifices, abbates, curiones, qui suum munus diligentissime obeant: sed horum parvus est numerus. Utinam omnes essent similes Reginaldo Polo, Angliae integerrimo cardinali: aut Francisco Mendozio, burgensi cardinali: aut Martinio Siliceo, archiepiscopo toletano; aut Thomae Villanovano, archiepiscopo valentino: nec esset nobis tanta dolendi oblata occasio: et speraremus brevi fore, ut quicquid superiori aetate in hanc partem peccatum est, corrigeretur et emendaretur». 6 Cfr. la testimonianza del Grechetto in G. Buschbell, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des XVI. Jahrhundertes, Paderborn, Schöningh, 1910, p. 260: «Più volte il reverendissimo di Trento in sacro sinodo ha voluto obtenir che non fosse prohibita la Biblia volgarizata al populo et hebe contradiction, perché saria fomento grandissimo d’heresie, sì come è stato in Alemagna per questa causa et per li tempi passati de li heretici val-

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sioni tridentine. Intanto, sul versante intransigente, ad attaccare le traduzioni della Bibbia in volgare era quello stesso Ambrogio Catarino Politi cui si deve una delle prime confutazioni cattoliche di Machiavelli7 . Bibbia volgare, arte del governo juxta propria principia: nella discussione intorno a queste due frontiere ideologiche maturano le basi di una proposta politique di tolleranza pratica che Ceriol, amico di Castellione e di Arias Montano, difese con tenacia nei Paesi Bassi, meritandosi l’apprezzamento di De Thou8. Il teorico della lettura personale della Bibbia (Bononia) e dell’autonomia di giudizio del consejero laico tentava così di risolvere su base strettamente politica una crisi complicata dall’intransigenza religiosa. A differenza di un altro grande difensore della tolleranza, l’eretico radicale Antonio del Corro, Ceriol si illudeva di poter agire come rappresentante ufficiale della diplomazia spagnola, tenendo avanti agli occhi la linea “erasmiana” dell’Impero sotto Massimiliano II. Ambiguità, senza dubbio, ma anche sensibilità politica concreta di un umanista sui generis, non giurista togato, bensì gentiluomo «de capa i espada», osteggiato dai sussiegosi burocrati dell’amministrazione felipina9, esponente di una piccola nobiltà “rinascimentale” che, valendosi degli strumenti intellettuali erasmiani e machiavellici, conferiva nuovo decoro alla propria professione cortigiana. Nella personalità di Ceriol i problemi della diplomazia e delle istituzioni spagnole si congiungono alla più ampia discussione culturale europea.

densi et altri assai; però bisogna aprir li occhi e non dormir, perché habiamo molti intrinsechi inimici, il che pochissimi advertunt». Sul dibattito tridentino cfr. V. Coletti, Parole dal pulpito, Casale Monferrato, Marietti, 1983; G. Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura, 1471-1605, Bologna, Il Mulino, 1997. 7 Cfr. Enarrationes R. P. F. Ambrosii Catharini Politi Senensis Archiepiscopi Compsani In quinque priora capita libri Geneseos. Adduntur plerique alij Tractatus et Quaestiones rerum variarum ac scitu dignissimarum, Romae, apud Antonium Bladum, 1552, pp. 330339 (Quaestio an expediat Scripturas in maternas linguas transferri); p. 340 (Quam execrandi Macchiavelli discursus et institutio sui principis). 8 L’ammirazione di Ceriol per Castellione è testimoniata dall’epigramma in lode della Bibbia latina del savoiardo («En tibi Castalio tentat, coelo auspice, idipsum: / Successit. Ponunt Biblia barbariem») che si legge in Bononia, p. 326 e che venne ristampato in Sebastiani Castalionis Defensio suarum translationum Bibliorum, Basileae, Oporinus, 1562, pp. 236-237. Arias Montano commentò con un distico l’incisione di Philippe Galle raffigurante Ceriol in Virorum doctorum de disciplinis benemerentium effigies XLIIII, Anversae, Plantinus, 1572. Il giudizio elogiativo di De Thou in Historiae sui temporis, Londini, Buckley, 1733, V, p. 180. 9 Si veda la «Risposta alle obiezioni contro la cappa e spada», inviata da Ceriol al segretario regio Mateo Vázquez il 13 gennaio 1582 (Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 219, doc. 19, 1), su cui ritorneremo.

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Furió Ceriol tra Erasmo e Machiavelli

1. Molti particolari della biografia di Ceriol ci sono noti dagli scritti stessi del valenziano. Particolare importanza rivestono i due curricula che Furió stese per sostenere la propria candidatura alla carica di vicecancelliere d’Aragona nel 1581. Il primo di essi è contenuto nella Petición a Filippo II del 7 ottobre 1581, mentre il secondo venne inviato il 16 dicembre dello stesso anno a Mateo Vázquez, allora il più importante segretario del Rey Prudente. La Petición, che si conserva in due copie manoscritte dell’Instituto Valencia de Don Juan e dell’Archivo Heredia Spínola di Madrid, venne pubblicata da Sevilla Andrés e in seguito da Méchoulan, mentre il carteggio con Vázquez di cui fa parte il secondo curriculum, pure depositato all’Archivo Heredia Spínola, non è stato finora utilizzato. La lettera al Vázquez, più dettagliata, fornisce numerose notizie sugli antenati di Ceriol integrando l’informazione offerta dal proemio autobiografico delle Institutiones Rhetoricae. Furió discendeva da una famiglia catalana «del valle de Querol», stabilitasi a Valencia in occasione della conquista aragonese del regno musulmano nel 1238, i cui membri avevano ricoperto uffici civili10 e militari. Gli ammiragli Neu e Ramón Ceriol sconfissero un pirata saraceno al largo della costa siciliana e ottennero perciò come insegna una testa di re moro. Quelle armi erano ancora visibili nel 1581 nella cappella maggiore della chiesa di Santa Lucia a Valencia. I Ceriol erano ricchi proprietari terrieri, possessori di una alqueria sul cammino reale di Xátiva: il fratello di Fadrique, Vincente, poteva così sottrarsi all’alternativa «Iglesia o mar o casa real» per vivere «callada i honestamente» delle sue rendite. Senz’altro le fortune della famiglia dovevano essersi appannate con il padre di Fadrique, Gerónimo, che consumò gran parte delle sue facoltà in processi e morì nel 1530 lasciando il figlio orfano a soli tre anni11.

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La lettera citata al Vázquez ci informa anche che «este Ramon fue hijo de una hermana de St Vincente Ferrer, del qual desciendo io por via de esta matrona». 11 Per la data di nascita di Ceriol cfr. Petición, in H. Méchoulan, Raison et alterité, cit., p. 191: «Primeramente ofresco cinquenta i quatro años de mi etad, que los hize i cumpli a veinte i quatro dias del proximo pasado mes de maio», dunque 24 maggio 1527; e per la morte del padre cfr. Institutiones Rhetoricae, Lovanii, apud S. Gualtherum, 1554, proemio (cc.n.n.): «Nihil dicam de modestissimo viro Hieronymo patre, qui me vix secundum aetatis annum agente, quarto et vicesimo ab hinc anno e vita discessit, quique et in ocio, et negocio eum vitae cursum tenuit, ut multis commodarit, laeserit neminem». L’analisi più esauriente delle Institutiones Rhetoricae è la tesi di dottorato di D. Puerta Garrido, Estudio de las figuras de dicción en la retórica de Fadrique Furió Ceriol con especial atención al problema de sus fuentes, Madrid, Universidad Complutense, 2003 (recursos digitales).

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Furió iniziò i suoi studi a sette anni12. Il proemio delle Institutiones Rhetoricae suggerisce che egli abbia goduto dell’incoraggiamento e del patronato di Giorgio d’Austria, figlio naturale di Massimiliano I, il quale, dopo aver amministrato per diversi anni la sede di Bressanone, resse fra il 1539 e il 1541 la diocesi di Valencia13. Giorgio, notevole figura di diplomatico imperiale, verrà poi trasferito a Liegi, dove accorderà la sua protezione al polemico umanista (ed erasmiano) valenziano Pedro Juan Olivar, amico di Alfonso de Valdés e al tempo stesso (contraddizione non infrequente in quest’epoca) censore ecclesiastico della sua opera. Ceriol cercherà nuovamente il favore dell’autorevole principe-vescovo, dedicandogli le Institutiones Rhetoricae composte a Lovanio nel 1553 14. Non sappiamo quanto a lungo Furió si sia trattenuto nella città natale15. Certo i riferimenti alla vita religiosa valenziana assumono nel Bononia notevole importanza. Il problema della traduzione della Bibbia in volgare, che

12 Cfr. Petición, cit., p. 191: «Mas ofresco quarenta i siete años continuos, que los he empleado en varias lenguas, en diversas artes, i diversos generos de siencias»: dunque dal 1534 al 1581. 13 Cfr. Institutiones Rhetoricae, cit., proemio (c.n.n.): «Has ergo institutiones, Princeps illustrissime, cum vellem in apertum dare, cui potissimum dedicarem, nunquam dubitavi [...] Nam ut nihil dicam de tuis singularibus virtutibus, quae me imprimis ad id moverunt: (hoc enim qui volet persequi multa dicet, nec tamen totum) quod dum tu esses archiepiscopus valentinus, ego tyrocinium in literis fecisse: idcirco has a me tibi dicari oportebat, tamquam ab eo qui rationem studiorum pastori suo redderet: quod erat usitatum in primis Ecclesiae temporibus». Già quest’insistenza sulla funzione del vescovo come responsabile dell’educazione – non solo religiosa, ma generalmente umanistica – dei giovani ed il richiamo alla Chiesa antica tradiscono l’ispirazione erasmiana di Ceriol. 14 Su Giorgio d’Austria cfr. Allgemeine Deutsche Biographie, Leipzig, Duncker u. Humblot, 1878, VIII, pp. 637-638. Figlio naturale di Massimiliano d’Asburgo, Giorgio d’Austria venne educato nei Paesi Bassi e a 21 anni, nel 1525, divenne vescovo di Bressanone. Impiegato da Carlo V in diverse missioni diplomatiche in Italia e in Fiandra, nel 1539 venne trasferito a Valencia dove risedette due anni. Nel 1541, mentre si recava a prendere possesso della sua nuova sede di Liegi, venne arrestato in Francia su ordine di Francesco I e tenuto prigioniero per 22 mesi. Finalmente liberato, poté assumere il governo della diocesi che resse fino alla morte, avvenuta nel 1557, distinguendosi nella lotta all’anabattismo. 15 Il panorama più recente e completo sull’ambiente della giovinezza di Ceriol è F. Pons Fuster, Erasmistas, mecenas y humanistas en la cultura valenciana de la primera mitad del siglo XVI, Valencia, Institució Alfons el Magnánim, 2003. Vedi pure H. Ransell Guillot, Una aproximación al erasmismo valenciano, tesi di dottorato della Universidad Complutense de Madrid, 2003.

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Furió Ceriol tra Erasmo e Machiavelli

avrebbe catturato l’attenzione del giovane Ceriol nei Paesi Bassi, era da tempo materia di conflitto nella vita sociale della sua città d’origine. La generazione di Gerónimo Ceriol aveva conosciuto un’esplicita proibizione dei volgarizzamenti biblici ad opera dell’inquisitore Joan de Monasterio. L’editto inquisitoriale (10 marzo 1498) obbligava a consegnare tutte le versioni volgari della Scrittura entro un termine di quindici giorni perché fossero bruciate, sotto pena di scomunica. Queste misure draconiane causarono una forte opposizione nella popolazione, appoggiata anche dai vicari generali. Infine l’Inquisizione decise di affidare ad una commissione di teologi l’esame di bibbie e libri religiosi in volgare, salvando dal rogo quelli che fossero «bien sacados». Direttamente o indirettamente, Ceriol deve aver conosciuto gli argomenti di Joan de Monasterio, del resto molto comuni (inadeguatezza linguistica del volgare, pericolo dell’eresia), e che il personaggio “Furius” saprà brillantemente confutare nel Bononia 16. A differenza dell’inquisitore, il giovane umanista studente a Lovanio simpatizzerà con l’aspirazione degli ebrei convertiti valenziani a leggere nella lingua “moderna” la loro antica storia. Proprio la familiarità del popolo ebreo con la Scrittura nella sua lingua originale e insieme “volgare” costituisce il punto di forza dell’esegesi rabbinica, una familiarità che i cristiani – senza distinzione fra “vecchi” e “nuovi” – devono emulare. La conoscenza della comunità marrana di Anversa sicuramente rinfrescava nel valenziano Furió notazioni tratte dalla vita quotidiana di una città in cui era molto sentito il problema converso. Ad ogni modo l’azione inquisitoriale, non sempre intransigente, non impediva la diffusione a Valencia di volgarizzamenti biblici ed opere erasmiane. Furió non manca di ricordare nel Bononia la traduzione autorizzata 16

Si veda l’editto inquisitoriale in R. García Cárcel, Orígenes de la Inquisición española. El tribunal de Valencia, 1478-1530, Barcelona, Península, 1976, pp. 219-220: «presumint mes de lo quels convenia contra la doctrina del glorios apostol sent Pau actentaren y han actentat de sacar e trasladar la dita sagrada scriptura en pla y en nostra lengua moderna en algunes parts de la qual alguns dels tals trasladors han errat i era dificil y casi imposible trasladarla sin herror perque los vocables y termens de la lengua moderna en que fonch treta segons la gramatica no basten pera comprendre ni comprenen lo verdader seny ni sentencia de la dita sagrada escriptura. De lo qual se an seguit e segueixen molts grans inconvenients y dagnys en las animes dels catholics christians, y en la religió christiana y per experiencia en nostre temps haven vist que molts homens lechs e ydiotes legint per les tals escriptures han caygut y cauen de cada dia en herror y en dupte de les coses de la fe y de altres que no les conven duptar majorment alguns christians novells y decendents de linage de jueus que per la afectió que a las coses de sos passats tenian legint les ystories y coses de moyses y de la ley vella han caigut y cahuen en lo dit herror y dupte de la fe». La severità inquisitoriale causò il rogo di tutti gli esemplari stampati della Bibbia catalana (1478) di Bonifacio Ferrer.

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delle epistole paoline (Epistoles de Sanct Pau arromancades en rims valencians), senza aggiungere, beninteso, che era di uso esclusivo dei domenicani17. Intanto fra il 1528 e il 1535 apparivano a Valencia ben sette edizioni erasmiane in volgare castigliano, mentre dal 1524 è attestata la penetrazione di dottrine “luterane”. Fra i traduttori di Erasmo, il baccelliere Juan de Molina prendeva esplicitamente posizione in favore dei volgarizzamenti biblici nella sua prefazione del 1520 alle Epistolae di S. Girolamo in castigliano, mentre il dottor Bernardo Pérez de Chinchón, autore di un Antalcorano, poneva la riforma della Chiesa come condizione preliminare indispensabile per evangelizzare i morischi dolcemente e senza violenza. In questo contesto religioso estremamente mosso ed aperto, fra criptogiudaismo e tendenze “riformiste” e “riformatrici”, trascorse l’adolescenza di Ceriol. Gli anni valenziani possono aver contribuito al primo sviluppo di quella sensibilità religiosa anticonformista che l’esperienza dei Paesi Bassi porterà a maturazione. In un momento imprecisato dopo il 1541 Furió dovette comunque lasciare Valencia per Colonia, se davvero, come afferma una lettera del 1575 del governatore dei Paesi Bassi Requesens, egli «se crió en servicio de un arzobispo de Colonia»18. Se questa notizia è attendibile (come sembra probabile, visto il successo come giurista e cortigiano che Ceriol ebbe a Colonia negli anni 1561-63), il giovane valenziano entrò precocemente in contatto con un ambiente permeato di erasmismo. Elettore di Colonia era negli anni dell’adolescenza di Ceriol il principe Hermann von Wied, una figura chiave della storia tedesca dell’età della Riforma. Von Wied si schierò contro Lutero alla Dieta di Worms e partecipò attivamente alla repressione dell’anabattismo. Allo stesso tempo, però, l’arcivescovo seguì una linea di riforma nazionale delle istituzioni ecclesiastiche, indipendente dalle esitazioni della politica romana. Dopo il fallimento dell’ipotesi di un Concilio nazionale tedesco alla Dieta di Norimberga del 1524, questa prospettiva riformistica trovò espressione nella sinodo provinciale di Colonia del 1536. I Canones della sinodo, più volte ristampati non solo in Germania, ma anche nella Verona del vescovo riformatore Gian Matteo Giberti (ammiratore e corrispondente del Gropper, di cui raccomandava l’Encheiridion christianae religionis come manuale

17 Cfr. Bononia, p. 329: «Vidi etiam ac legi epistolas Pauli carmine interpretatas, tum mea, tum castellanica, ut vocant, lingua». Su questa versione cfr. J. Rubió i Balaguer, La cultura catalana del Renaixement a la decadencia, Barcelona, Ariel, 1964, pp. 113-129. 18 Cfr. Archivo Nacional de Simancas, E. 563, 1, citato in R. W. Truman, Fadrique Furió Ceriol’s Return to Spain from the Netherlands: Further Information on its Circumstances, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XLI, 1979, pp. 359-366.

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per la formazione del clero) 19, sono un documento irenico e conciliatore di respiro europeo 20, fondato sul principio dell’unità della Chiesa nella diversità dei riti21. Anche sul piano teologico, però, il catechismo coloniense mostra una singolare apertura al solafideismo riformato. In esso si ritrova il linguaggio sfumato, ricco di litoti e di incisi, spesso imbarazzato del De libero arbitrio di Erasmo22. La prospettiva riformatrice coloniense dovette lasciare la sua impronta sulla formazione religiosa di Ceriol, anche dopo che il valenziano ebbe abbandonato la città renana. Ignoriamo fino a quando Furió si trattenne a Colonia23. La mancanza di testimonianze impedisce di valutare l’impatto che dovettero avere su di lui gli eventi degli anni 1541-47. Molto probabilmente poté leggere o sentir parlare del secondo grande testo della riforma nel Basso Reno: l’Einfältiges Bedenken, abbozzo di riforma per l’archidiocesi di Colonia preparato da Melantone e Bucero e sottoscritto dal von Wied, che lo faceva pubblicare a Bonn nel settembre 1543. Rompendo con l’irenismo dei Canones, il Bedenken afferma, pacatamente ma senza margini di ambiguità, l’autorità esclusiva della Bibbia, la centra-

19 I Canones e l’Encheiridion del Gropper, collaboratore di Hermann von Wied, furono editi a Verona da Antonio Putelleto nel 1541 e ristampati nel 1543: cfr. A. Prosperi, Fra evangelismo e Controriforma: G. M. Giberti (1495-1543), Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1969, pp. 253-255. 20 Cfr. la lettera prefatoria di Hermann von Wied «omnibus ac singulis parochis, aliisque divini verbi ministris, per nostras civitates atque dioeceses constitutis», in Canones Concilii provincialis coloniensis. Encheiridion christianae institutionis, Antverpiae, in aedibus Ioannis Steelsii, 1554, c. 1v: «Quidam denique erunt qui in sententiam nostram non ubique discedent, quinetiam quaedam veluti ab eorum paradoxis nuperius invectis dissonantia suo more reprehendent. Qui tamen ut spes est, nos mitius excipient: tum quod toto opere nullum hominem, cuiuscumque tandem sectae sit, nominatim perstrinxerimus [...] nihil magis optantes, quam ut pacatis dissidiis, omnes in unitatem catholicae fidei ac professionis in Christo Iesu quandoque coalescamus». 21 Cfr. Encheiridion, cit., c. 26v: «Iam neminem offendet, quod singulae ecclesiae suos interdum ritus non admodum consentientes habeant»; e c. 54r, dove si cerca di sdrammatizzare il problema della comunione con il calice ai laici: «Sub altera tamen specie totus sumitur Christus, nec plus sub utraque nec minus sub altera tantum sumitur». 22 Cfr. ivi, c. 146v: «Item quia tanta est dei erga nos benignitas, ut opera quae ipse in nobis facit vere sua malit appellare nostra, idque tantum propter imbecillem illum assensum et conatum, quem tamen non sine eo adhibemus, idcirco ipse non indigne feret, etsi dicamus (modo ad pium sensum) bonis operibus nostris vitam aeternam nos promereri». Anche lo spiritualismo nella teologia della preghiera (cfr. ivi, cc. 203v-204r: «Id autem doceri omnino et ante omnia oportebat, atque adeo semper inculcari, quod in affectu spiritus seu cordis tota orationis vis consistat») ricorda il trattatello di Erasmo del 1524, De modo orandi Deum. 23 Non è escluso che la sua partenza sia connessa con le vicende della guerra della Lega di Smalcalda, in seguito alla quale Hermann von Wied venne privato della sua diocesi (1547).

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lità nella vita cristiana di una predicazione fondata sul Vangelo, la giustizia imputata senza proprio merito e la salvezza per fede a prescindere dalle buone opere. Nell’ambiente ormai non più riformista, ma decisamente riformatore della Colonia del Bedenken Ceriol incontrava così quel classico nucleo di dottrine della “riforma magisteriale” che si ritrova nel Bononia 24. Il biblicismo di Ceriol, tuttavia, è di altro stampo rispetto a quello delle Kirchenordnungen riformate. Protagonista della lettura della Bibbia sarà nel Bononia il popolo cristiano, che non ha bisogno della mediazione dei predicatori. Proprio quella mediazione, invece, costituisce il momento centrale del Bedenken, che identifica di fatto l’efficacia salvifica della parola di Dio con la sua “corretta” presentazione istituzionale 25. La polemica assume nel testo di Melantone e Bucero un chiaro significato politico, a difesa della weltliche Regierung contro il radicalismo sociale spiritualista e anabattista. Anche Ceriol nel Bononia porrà in primo piano la dimensione “politica” della Bibbia, concepita anzitutto come testimonianza di un “patto” fra Dio e il popolo cristiano. Egli non condivide, però, le riserve nutrite dagli stessi riformatori nei confronti della lettura diretta della Bibbia come potenziale fattore di sovversione sociale. Mentre per gli anni di Colonia siamo costretti a ricorrere a congetture, è lo stesso Ceriol ad informarci di un periodo di studio a Parigi, interrotto nel 1551 dallo scoppio della guerra fra Enrico II e Carlo V. A Parigi si trovava in quel momento il dottor Juan Morillo, che aveva fatto parte del seguito di Pole al Concilio di Trento ed era stato in rapporto anche con Carranza26. Presso Morillo risiedeva Felipe de la Torre, futuro cappellano di Filippo II, che diventerà una figura di rilievo nell’ambiente lovaniense eterodosso 27. In con24 In particolare per la contrapposizione fra la certezza della Bibbia come espressione della volontà di Dio e la debolezza dell’intelletto umano e quindi della tradizione ecclesiastica fondata su argomentazioni teologico-giuridiche. 25 Cfr. ad esempio H. von Wied, Einfältiges Bedenken. Reformationsentwurf für das Erzstift Köln von 1543, übersetzt und herausgegeben von H. Gerhardts und W. Borth, Düsseldorf, Presseverband der evangelischen Kirche im Rheinland, 1972, p. 19: «Wenn nun die rechtschaffenen Prediger die Leute eindringlich auf die Heilige Schrift verweisen, und es kommen dann solche Verführer, so wird ihr Irrtum von den einfältigen, schlechten Menschen nur desto eher angenommen; denn sie sind gewohnt, der Schrift zu glauben, können aber nicht immer richtig beurteilen, welches der richtige Sinn der Schrift sei. Dann ist es nötig, dass die Pastoren und Prediger eingreifen, den Irrtum aufdecken, den Leugnern das Maul stopfen und so ihre anbefohlene Schäflein vor der Verführung erretten». 26 Cfr. A. Gordon Kinder, Juan Morillo. Catholic Theologian at Trent, Calvinist Elder in Frankfurt, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XXXVIII, 1976, pp. 345-350. 27 Cfr. R. W. Truman, Felipe de la Torre and his Institución de un rey christiano (Antwerp, 1556): the Protestant Connections of a Spanish royal Chaplain, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XLVI, 1984, pp. 83-93.

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tatto con Morillo era pure Juan Pérez de Pineda, allontanatosi da Siviglia dopo il primo processo inquisitoriale del Doctor Gil. Pérez andava allora rivedendo la versione neotestamentaria di Francisco de Encinas (Dryander), edita nel 1543 ad Anversa e che già era valsa all’autore una condanna nei Paesi Bassi28. Fin d’allora l’attenzione alle versioni bibliche incoraggiava gli studenti spagnoli anticonformisti ad una riflessione critica sulla censura: il Nuovo Testamento di Encinas veniva infatti incluso nell’Indice perduto dell’Inquisizione spagnola del 1545 29. Gli interessi religiosi si intrecciavano a quelli politici in un momento in cui il partito conciliare riformatore si identificava ancora in larga misura con il partito imperiale e tollerava al suo interno frange di radicale eterodossia30. Un’altra influenza che poté esercitarsi su Ceriol nel periodo parigino era quella di Ramo, il cui cristianesimo più etico che dogmatico presenta alcune affinità con quello del valenziano. Nel suo postumo De christiana religione l’umanista francese elogia calorosamente le traduzioni della Bibbia in volgare31. La tradizione che fa di Ceriol un uditore dei corsi ramisti non è comunque suffragata da testimonianze autobiografiche; nelle Institutiones Rhetoricae Furió si presenta come franco critico di Ramo, non come suo scolaro. A prescindere dall’insegnamento di Ramo, la questione della Bibbia volgare provocava in Francia scontri non meno aspri che nell’area renano-fiam28

Cfr. A. Gordon Kinder, Juan Pérez de Pineda (Pierius): a Spanish Calvinist minister of the Gospel in Sixteenth-Century Geneva, in «Bulletin of Hispanic Studies», LIII, 1976, pp. 283-300; Id., Two previously unknown letters of Juan Pérez de Pineda, Protestant of Seville in the sixteenth Century, in «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», XLIX, 1987, pp. 111-120, che documenta il contatto fra il gruppo di filoprotestanti spagnoli in movimento tra i Paesi Bassi e le regioni riformate ed il cenacolo di eterodossi aragonesi raccolto intorno al Dr. Miguel Monterde. 29 Cfr. M. Bataillon, Erasmo y España, cit., II, p. 144; J. L. G. Novalín, El Inquisidor general Fernando de Valdés (1483-1568). Su vida y su obra, Oviedo, Universidad de Oviedo, 1968, I, p. 248. 30 Quasi certamente durante il periodo parigino di Ceriol cadde il conclave del 1549, in cui Reginald Pole, l’angelico «cardinalis Anglicus», fu a un passo dalla tiara come candidato imperiale. I rapporti fra Carlo V e Pole si raffreddarono soltanto in seguito alla legazione di pace del cardinale nel 1553-54; cfr. P. Simoncelli, II caso Reginald Pole. Ere- sia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1977. 31 I Commentariorum de Religione Christiana libri quatuor, Francofurti, apud Andream Wechelum, 1576, documentano l’insistenza di Ramo su un rigoroso «metodo» teologico antisillogistico (p. 3: «Theologum methodicum fore statuo, qui legitimam methodi sequutus doctrinam proposuerit disciplinae») e sull’utilità dei volgarizzamenti (p. 4: «Primo si conversio veteris novique foederis ex hebraeo graecoque fonte non solum in latinam, sed in vernaculam cujusque populi linguam verius et fidelius expressa sit»); motivi questi che - insieme all’aspro antiaristotelismo – accomunano il professore del Collège du Roy a Furió Ceriol.

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minga. Per gli anni trascorsi da Furió a Parigi la veemenza della polemica è testimoniata dal trattato del domenicano tolosano Esprit Rotier, De non vertenda Scriptura Sacra in linguis vulgaribus (1548). Rotier prende a bersaglio sia la lettura volgare della Bibbia che la concezione “libertina” della libertà cristiana. L’argomento fondamentale del domenicano è lo stesso impiegato da Giovanni da Bologna, rappresentante dei teologi conservatori, nel dialogo di Ceriol: la possibilità di leggere la Scrittura nella lingua materna distrugge il sacro rispetto che il volgo dovrebbe provare verso ciò che trascende la sua comprensione; è il primo passo per interpretazioni non mediate dalla cultura teologica e, dunque, fatalmente eretiche. In questa argomentazione si riconosce un’antitesi fondamentale rispetto all’ermeneutica scritturale dei riformatori: ogni appello ad una lettura diretta, facile, immediata della Bibbia presuppone l’equivoco letteralistico, la convinzione, di origine umanistica, che capire la Bibbia significhi coglierne il senso grammaticale più evidente. Rotier non esita insomma a fondare la sua difesa dell’autorità della Chiesa su un forte spiritualismo esegetico, che prende a prestito da Pico e da Erasmo la metafora dei Sileni di Alcibiade: il vero senso della Bibbia è quello che non appare. Questo intreccio di spiritualismo e tradizionalismo (denunciato a volte dai riformatori, ad esempio da Calvino nella polemica con Sadoleto) contribuisce a spiegare, per contrasto, l’impianto energicamente letteralistico dell’argomentazione di Furió nel Bononia. Questa esigenza polemica va anche tenuta presente nell’esaminare l’eventuale influsso di Juan de Valdés, che potrebbe risalire proprio a questo periodo parigino di Ceriol (non per nulla Juan Pérez de Pineda, frequentatore del circolo del Doctor Morillo, sarà l’editore ginevrino dei commenti valdesiani a san Paolo, così vicini al Bononia nel loro rigoroso fideismo). L’aspetto più radicale del pensiero valdesiano, quella “svalutazione” della Scrittura a vantaggio dello Spirito che tanto inquietava Beza32, non trova alcun riscontro nella difesa della Bibbia in volgare da parte di Ceriol: e pour cause. Come dimostra infatti lo scritto di Esprit Rotier, si sarebbe venuti così a fare il gioco dell’avversario tradizionalista. Dopo il 1551 Ceriol prese parte alle campagne della guerra franco-imperiale e, in particolare, all’assedio di Metz, che Carlo V fu costretto ad interrompere senza frutti nel gennaio del 1552. Queste esperienze militari non impedirono comunque al giovane valenziano di dedicarsi allo studio della teologia e del diritto presso l’Università di Lovanio33. Qui Ceriol fece parte del

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Cfr. M. Firpo, Fra alumbrados e spirituali, Firenze, Olschki, 1990. Cfr. Petición, in H. Méchoulan, Raison et alterité, cit., p. 192: «Mas ofresco cinco años (comprehendidos debaxo del susod[ic]ho tiempo) en los quales he estudiado en theo33

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gruppo di dissenzienti che si riuniva presso Pedro Ximénez, l’intimo amico dell’irenista Cassander. In questo cenacolo si leggevano libri riformati, si sostenevano opinioni favorevoli alla tolleranza, si ridicolizzavano gli uomini oscuri. Lo stesso Ceriol viene ricordato come pasquillante, notizia che non stona certo con la verve satirica e polemica dei suoi scritti34. Anche nei pasquilli riviveva del resto la tradizione erasmiana dei Paesi Bassi, come mostra il parsiflage rivolto contro il decano Tappart, nemico mortale dell’umanista di Rotterdam35. Ma Erasmo veniva menzionato pure in contesti molto seri, come negli Hymni Ecclesiastici di Cassander, apparsi a Colonia nel 1556, lo stesso anno del Bononia, e posti anch’essi all’Indice 36. Intanto la concezione erasmiana dello studio della Bibbia come fondamento di qualsiasi vita religiosa degna di questo nome continuava a fare progressi (favorita dall’apparente neutralità dogmatica del richiamo alla fonte della rivelazione) non solo tra i fiamminghi, ma anche fra i residenti spagnoli dei Paesi Bassi. Pochi anni prima della pubblicazione del Bononia veniva sequestrata la reportatio in lingua spagnola di una predica tenuta da Bartolomé Turlán, canonico della cattedrale di Anversa, davanti al popolo di Nonaspe. Questo documento, che si conserva negli archivi dell’Inquisizione di Spagna, testimonia una posizione vicina a quella di Ceriol: nessuna allusione ai dogmi riformati, ma ferma rivendicazione del diritto/dovere del popolo cristiano di leggere la Bibbia al di fuori della mediazione ecclesiastica37. Il

logia, i soi graduado de licenciado en ella. más ofresco siete años, q[ue] he estudiado en leies canonicas i civiles, i soi graduado de doctor en ambos derechos». 34 Cfr. J. I. Tellechea Idígoras, Españoles en Lovaina 1551-1558. Primeras noticias sobre el bayanismo, in «Revista Española de Teología», XXIII, 1963, pp. 21-45, dove si pubblica la dichiarazione resa da Fray Baltasar Pérez, domenicano, davanti all’Inquisizione di Siviglia nel corso del processo Carranza il 26 maggio 1558. Sull’amicizia fra Ximénez e Cassander cfr. M. E. Nolte, Georg Cassander en zijn oekumenisch streven, Nijmegen, Centrale Drukkery N. V., 1951, p. 203. 35 Si veda Clarissimi theologi d. Ruardi Tappart Enchusani, haereticae pravitatis inquisitoris [...] Apotheosis, in Bibliotheca Reformatoria Neerlandica, opnieuw uitgegeven door D. S. Cramer en Dr. F. Pijper, I, ‘S Gravenhage, Nijhoff, 1903. 36 Cfr. Hymni Ecclesiastici [...] cum scholijs oportunis in locis adiectis et Hymnorum indice Georgii Cassandri, Coloniae, s. e., 1556, p. 48: «Vocabulum merendi apud veteres ecclesiasticos scriptores fere idem valet quod consequi [...] Nam quod Paulus inquit I Tim., 1 Allà kaì eleéthen, quod vulgo legitur, misericordiam consecutus sum, vel ut Erasmus vertit misericordiam adeptus sum, id Cyprianus ad Iubaianum legit, misericordiam merui [...] quae vocis notio si retineatur, multa quae durius dici videntur, mitiora et commodiora apparebunt»; in altri termini, si tenta di rendere accettabile ai protestanti il concetto di merito. 37 Cfr. Madrid, Archivo Histórico Nacional, Inquisición, Legado 4480, n. 26, Que se tienen y de como se tienen de leer las Santas Escrituras, tratado de Bartholome Turlan cano-

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Bononia di Furió, con ben altra erudizione linguistica e letteraria, darà voce a una sensibilità religiosa che numerosi spagnoli di Fiandra, non direttamente esposti alle pressioni inquisitoriali e vicini al mondo riformato, dovevano tacitamente condividere. 2. La prima opera di Ceriol maturò proprio in questa Università di Lovanio che cercava invano di difendersi dal contagio ereticale, imponendo giuramenti di conformità ai propri studenti. I tre libri delle Institutiones Rhetoricae non sono un qualsiasi manuale, come molti ne producevano i letterati spagnoli all’estero (basterà ricordare Sebastián Fox Morcillo ed Antonio Llull “Balearicus”). Sono, piuttosto, la prima espressione di una vocazione politica – e di politica religiosa –, al cui servizio Ceriol intende porre la logica dell’argomentazione di tradizione umanistica. Le Institutiones di Ceriol si caratterizzano per il loro ciceronianismo lessicale, erasmismo critico e pedagogico, concezione politica dell’arte del dire, enciclopedismo oratorio, distinzione rigorosa fra dialettica e retorica, priorità dell’ordo e classicismo stilistico38. Soltanto la prima di queste caratteristiche si può considerare in qualche modo scontata. All’altezza del 1554 il lessico ciceroniano, puristico, si era nigo de la iglesia mayor Cathedral de Nuestra Señora de Escalda en otro tiempo Enveres llamada (in rasura: Enveres), cc. n.n., in duplice copia. Il destinatario del discorso si ricava dalla formula di saluto: «Bartholome Turlan canonigo de la iglesia mayor Cathedral de Nuestra Señora de Enveres, desea ha todos los del pueblo de Nonaspe corporal y espiritual bendiction». Turlan raccomanda la lettura domestica della Bibbia: «Quereys saber y conocer como las santas escrituras os seran dulces y suaves y os aprovecharan los divinos preceptos. Retiraos y apartaos alguna hora en el dia en vuestra mesma casa y de las ocupaciones que teneys del mundo, quitad algun poco de tiempo en el qual despues podays leer las santas escrituras». Inoltre polemizza espressamente contro chi vuol sottrarre la Bibbia al popolo con il pretesto dell’eresia e degli scandali: «No son malas las santas escrituras, como imprudentemente algunos dizen y hablan, que sy escrituras no huviesse, que no habria heregias en el mundo. Assi tambien se puede con verdad dezir que, sy vino no huviesse, que borrachos no abria tanpoco en el mundo. El vino bueno es y las escrituras buenas y santas son. No tomays vos al vino, syno con sobriedad y el no os danara, ny turbara, ny vencara. No leays tanpoco las santas escrituras con superbia, syno con humildad, y no serays hereje». Anche la santificazione attraverso le opere viene direttamente ricondotta alla lettura della Bibbia, senza alcun riferimento al precetto ecclesiastico: «Que bienaventurado es el hombre que dias y noches esta puesto y ocupado en las santas escrituras y en la ley del senor pensando y meditando, porque sera el tal, syn dubda ninguna, como el arbol que esta plantado cerca el arrojo de las aguas, que en su tiempo dara fruto de perpetuas y continuas alabanzas ha su dios y creador». 38 Per una trattazione recente delle Institutiones Rhetoricae nel contesto della tradizione retorica spagnola cfr. L. López Grigera, Retórica en la España del Siglo de Oro, Salamanca, Editorial Universitaria, 1994.

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ormai imposto come lingua comune dell’umanesimo europeo, da Melantone a Sturm, da Ramo a Fox Morcillo, agli eredi italiani di Bembo e Sadoleto39. L’“apuleianismo” e l’eclettismo erasmiano non trovavano più difensori nell’umanesimo del maturo Cinquecento, teso a prendere le distanze dalla filologia quattrocentesca ellenizzante. Questo atteggiamento non era determinato solo da considerazioni puristiche, ma anche dal riconoscimento di una differenza essenziale fra il latino, lingua morta e storicamente conclusa, e le lingue volgari, in cui soltanto l’uso conferisce valore ai vocaboli40. Il principio dell’uso, tuttavia, conserva il suo intero significato per un umanesimo volgare, pronto a rivaleggiare con il latino. Ceriol si rifiuta infatti di ammettere una gerarchia qualitativa fra lingua di norma letteraria e lingua di norma consuetudinaria, fra latino e volgare, e rivendica nel Bononia i pregi di una lingua evolutiva: le traduzioni della Bibbia potranno variare come varia l’uso parlato del volgare, adattandosi ai bisogni del “popolo” senza riserve puristiche. Come nel caso di Ramo, l’umanista latino moderatamente ciceroniano41 propugna un agguerrito umanesimo volgare. Di nuovo come per Ramo, poi, in Ceriol l’ammirazione per Cicerone e l’apertura al volgare si uniscono alla feroce antipatia, stilistica e religiosa insieme, per la scolastica42. 39

Una preoccupazione di europeismo linguistico-culturale è evidente nella critica di Ceriol ai neologismi: «Indicant hoc aperte barbari homines, qui cum pro suo quisque arbitrio nomina facit, id est, ut tu dicis, linguam locupletat, alius alio et barbarus videtur et ad intelligendum perdifficilis. Hispanus barbare loquens, intellige semper tuo modo, barbarus est italo, vel gallo, vel germano barbaro, atque hi vicissim illi, usque adeo ut mihi hispano hispanus barbare loquens non solum barbarus sit, sed ne interdum quidem a me intelligatur» (Institutiones Rhetoricae, cit., pp. 245-246). 40 Cfr. Institutiones Rhetoricae, cit., pp. 251-252: «At consuetudo publica multum habet iuris, quemadmodum Horatius testatum reliquit: Multa renascentur, quae nunc cecidere, cadentque quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus. Olim istud, olim, cum erat communis lingua latina doctis cum indoctis, patricio cum plebeio, magistratui cum homine privato, denique cum populus erat qui latine loqueretur [...] Tum ista illis fortasse licuere, nunc vero quoniam Gothorum, Alanorum, Unnorum infestissimis bellis cum imperio pariter corruit latina lingua, sit autem haec non a vulgi consuetudine, sed ab eruditorum monumentis petenda, non est eadem consuetudinis authoritas». 41 Cfr. ivi, p. 62: «Nunc vero, quoniam qui latine populus loquatur est nullus, pro latinis illa putantur quibus utitur Cicero, quibus Caesar, quibus Terentius, et quibus caeteri utuntur omnes qui se ad horum loquendi formam composuerunt. Neque id eo dixerim, ut quod vocabulum apud hos authores non reperitur, protinus explodendum putem. Neque enim illi de rebus omnibus scripserunt, ut ab eis orationem semper petamus». 42 Cfr. ivi, pp. 241-242: «At isti audacia quadam incredibili, ne dicam ridicula ignoratione, verbum unum in plures quam cera possit formas molliunt, ducunt, formant. Ut quicquid in buccam venit, ita effertur. Huius generis homines fecerunt illa nescio an dicam vocabula, realitates, substantialitates, prioritates, posterioritates, incomprehensibilitates [...] Dij

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Questo ciceronianismo più vicino a Valla che a Bembo (per non parlare dei simii Ciceronis romani)43 si accorda senza difficoltà con una teoria dell’imitazione di stampo erasmiano. Nel III libro delle Institutiones Rhetoricae Ceriol tratta le due parti dell’exercitatio: composizione (effectio) e critica (censura). L’imitazione viene discussa come parte della composizione. Senza la guida dei modelli su una via regia e comune non è possibile progredire negli studi. Ceriol esige però una imitatio eclettica, insistendo sull’esempio di Zeusi, sulla selezione critica dei pregi anziché sulla fedeltà ad un singolo optimus. Furió mette in caricatura l’atteggiamento pedissequo, che si sforza di considerare virtù i vizi del modello. Come aveva insegnato Erasmo, diversi autori, egualmente perfetti, possono eccellere con caratteristiche diverse ed anche i non optimi meritano di esser letti: la variabilità del gusto rende infatti indispensabile il cambiamento44. Libertà di giudizio, dunque, appresa da Erasmo ed impiegata anche contro Erasmo, e rifiuto del conformismo stilistico ben consentaneo all’attacco mosso nel Bononia al tradizionalismo religioso. Arte retorica e vita religiosa, difatti, sono territori contermini per un umanista del Cinquecento. In entrambe le sfere si propone uno stesso problema strutturale: la difficile conciliazione di precetto ed esperienza, norma oggetti-

facerent ut nobis tam ignota essent, quam esse deberent: certe essemus meliore conditione. Quid enim referam quot quantaque mala per haec politioribus literis adportata fuerint, quantam disciplinae artesque omnes plagam acceperint? Acceperint autem? Imo corruerunt, imo funditus perierunt. Sed quid ego quaeror? Aspirat fortuna melior deploratis his rebus iamdiu: extiterunt multi viri docti, et sunt hodie qui ruinam instaurant, et mortuas literas quasi in vitam revocant». Questo passaggio basta ad assegnare a Ceriol un posto notevole, accanto a Juan Luis Vives, fra i difensori spagnoli del rinnovamento metodologico umanistico: in entrambi i casi, il linguaggio combattivo presuppone l’ambiente culturale dei Paesi Bassi, ben diverso da quello della penisola iberica. 43 Nota la formulazione, che ricorda decisamente l’anomalismo valliano: «aliud est grammatice, aliud latine loqui. Grammatice loquitur, quicumque ex regula loquitur: at latine, non nisi is qui verbis utitur proprijs et usu receptis: tametsi grammaticae praeceptionibus repugnet» (Institutiones Rhetoricae, cit., p. 248). 44 Cfr. Institutiones Rhetoricae, cit., pp. 219-220: «Quanquam enim ij, quos ante posui, in suo sunt genere prestantissimi et perfectissimi, ideoque maxime imitandi, verum non soli. Nec loquor hic tam de verbis, quam de rebus, earundemque situ et collocatione, in qua alij alijs diverso in genere praestiterunt, et perfectissimi cum sint, dissimiles tamen reperiuntur [...] Quare imitemur prudentem illum pictorem, qui cum pulcherrimum simulacrum depingeret, quinque civitatis Crotoniatarum pulcherrimas virgines elegit, ut ex singulis formosissimas quasque particulas de viva in mutam imaginem transferret [...] Nec sunt audiendi hi, qui authorem quem imitantur, per omnia sequuntur sive perfecta, sive imperfecta, et quod turpissimum est nec sine dolore referre possum, vicia quae in eo deprehendunt, partim ridiculis ac anilibus fabulis defendunt, partim pugnant pro eo tamquam pro aris et focis, citiusque patientur erui sibi oculum, quam vitium aliquod in authore suo notari».

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va ed assimilazione soggettiva, modelli tradizionali (Cicerone, i Padri) e giudizio individuale. Il proemio del III libro delle Institutiones Rhetoricae, con il suo elogio dell’exercitatio, si può leggere anche in chiave religiosa come anticipazione del Bononia: basta sostituire al formalismo retorico, obbiettivo polemico di Furió, l’analogo formalismo teologico45. Il pragmatismo di Ceriol esclude un sapere disinteressato: le dispute metafisiche dei teologi sono “oziose”. Le fatiche dell’apprendimento, ricordate con accento autobiografico, vanno remunerate dall’impiego sociale concreto della dottrina accumulata: altrimenti il sapere diventa follia, morosofia, come aveva affermato Erasmo. Questo principio vale anche per lo studio della Bibbia, materia pratica e non speculativa. La necessità di unificare precetto ed esercizio comporta l’insufficienza di un’“arte della vita religiosa” ridotta al semplice apprendimento di innumerevoli precetti (la “lettera” della Scrittura) senza exercitatio etica personale. La Scrittura come testo materiale oggettivo, come Lettera, assomiglia a un corpus di regole retoriche mai impiegate, un “alfabeto” – secondo la metafora valdesiana – con cui non si scrive nulla. La retorica religiosa culmina non nella regola, bensì nell’usus, nella comprensione per esperienza del testo sacro. Lo spiritualismo del Bononia, estraneo al formalismo cattolico e riformato, vicino a Castellione ed a Valdés, trova le sue radici anche in una riflessione “laica” sull’ars rhetorica. Non priva di significato religioso è inoltre l’insistenza sul terzo fattore dell’apprendimento retorico (accanto ad ars ed exercitatio): la natura o ingegno naturale. L’esaltazione delle capacità innate – basata sul principio platonico che discere est reminiscere 46 – ridimensiona l’importanza del precetto formale. L’arte retorica non è un sistema di norme astratte, ma lo sviluppo di 45 Cfr. ivi, pp. 211-214: «Constat autem artium praeceptiones nisi diligentissime exerceantur, nullos fructos posse ferre, ac propterea posse damnari [...] Hoc loco inveherer gravissime in quorundam hominum detestandam inertiam, qui artium praeceptionibus toto vitae cursu invigilant, laborant, sudant, exercitationem nullam adhibent [...] Hos admoneamus erratorum, colligant sese aliquando et quod ab arte intellexerunt, opere promant: alioqui enim nec illa quidem artium praecepta, quae tenere se gloriantur, intelligent. Nullus enim magister, nulla ars aeque rem docet ac exercitatio [...] Quare velim cum in caeteris omnibus tum in eloquentia non solum accuratissime praecepta edisci, verumetiam diligentissimo usu exerceri: nam ars consopita quaedam et quasi mortua membra sunt, quae nisi animentur exercitatione, exsanguia et sine vita iacent». 46 Cfr. ivi, pp. 2-3: «Impressit enim natura parens in animis nostris, tamquam in cera, omnium rerum imagines, atque formas [...] Hinc videas passim, a rudibus hominibus, rerum ignaris et nulla scientiarum cognitione praeditis, multa subtiliter dici, ornari dicendo non pauca [...] Novi et ego Valentiae meae senem quendam, hominem nullis literis et lectione nulla, qui usque eo acute de naturae obscuritate, de vita atque moribus disputabat, ut vel scholarum magistros saepenumero ignorantiae convinceret».

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una disposizione congenita: ovvio insegnamento umanistico, che veniva però facilmente dimenticato dal “pedantismo” della manualistica in quel medio Cinquecento che costituisce l’epoca d’oro dell’ermogenismo. L’intelligenza naturale è però anche il punto di forza del consejero ingegnoso e, soprattutto, dell’idiota nella sua lettura personale della Bibbia. Questi elementi di contatto fra la riflessione retorica e quella religiosa di Ceriol trovano la loro ragion d’essere nel motivo centrale dell’utilità sociale, che richiede un impiego adeguato della parola sacra e profana. La peroratio che conclude il III libro riafferma in pieno la funzione pubblica dell’oratoria. Il vero oratore è rex in senso etimologico, rettore della città, ed il vincolo del linguaggio è fondamento di un potere consensuale, che lega con mutuo rispetto principe e popolo (mentre tirannide è forza senza parola, relegata pertanto alla costrizione fisica)47. Le Institutiones Rhetoricae abbozzano così i contorni del costituzionalismo dell’opera politica di Ceriol: il Concejo. Contro la concezione “epidittica” della retorica, privata e letteraria, intesa al piacere estetico, Ceriol riafferma con forza i motivi, già un po’ démodés, del proemio ciceroniano al De inventione: l’intera società nasce dall’oratoria. Perciò la cultura viene anche considerata superiore alla vita militare, non perché Furió posponga l’azione alla contemplazione, ma, al contrario, proprio per la sua superiore utilità civile48. La funzione politica del vero oratore, esaltata nella perorazione, include anche una conoscenza certa e chiara delle cose divine, opposta ai dubbi della teologia disputatoria49. L’ispirazione politica porta Ceriol ad accettare senza riserve l’enciclopedismo oratorio sostenuto da Cicerone nel De oratore 50. L’orator di Furió 47 Cfr. ivi, pp. 277-278: «Quod si fecerint saepe et multum, cerno iam animo huiusmodi homines non oratores, sed principes esse evasuros [...] Adde quod si verum regnum et dominatus in mutuo amore regis et populi inter se positus est, quid tam regale aut excelsum, quam oratione iratos mitigare, tristes consolari, aflictos [sic] excitare, hominum voluntates ad arbitrium suum moderari, denique recusantium animos, id ipsum quod nolebant, sua sponte ac libentissime ut faciant, adducere? [...] Nullum autem violentum perpetuum, et hoc ipso magis est regale nomen oratoris, quod de sententia aliorum regnet, non sua». 48 Cfr. Institutiones Rhetoricae, cit., Epistola nuncupatoria, c.n.n.: «Ergo ego cum viderem, homines nos ea lege natos, ut alij alijs auxilio simus et communicando, et consulendo, et commodando: hanc urbanam militiam meditandi, scribendi, vigilandi, cavendi, prospiciendi rerum abditissimas causas, plenam solicitudinis et stomachi secutus sum: non modo quod omnium sit nobilissima, sed etiam quod haec eadem, ut ijs, qui in ipsa versantur, honori: sic etiam patriae ornamento, amicis utilitati, reipublicae maxime emolumento esse soleat». 49 Cfr. ivi, c.n.n.: «Quid difficilius rerum divinarum cognitione? Quid difficilius quam ea quae captum nostrum excedunt, tam subtili cogitatione comprehendere, ut non modo percipiantur, sed etiam quasi manu tractentur?». 50 Cfr. Institutiones Rhetoricae, cit., pp. 209-210: «Nanque vis oratoria professioque ipsa bene dicendi, hoc suscipit ac pollicetur, ut omni de re, quaecunque sit proposita, ab ea apte, ornate, copioseque dicatur [...] Itaque non est rhetorica seposita ab ulla rerum dictione,

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Ceriol ricorda da vicino l’ideale valliano, che era all’origine della tradizione “antibarbara” dell’umanesimo nordico. Ma, se il modello è simile, il metodo è diverso: non riassorbimento della logica dei “filosofi” nell’eloquenza, bensì rigorosa distinzione fra dialettica e retorica, fra ricerca degli argomenti (inventio) ed uso oratorio efficace di ragionamenti già logicamente strutturati (dispositio). Ceriol appartiene ad una cultura umanistica con aspirazioni enciclopediche, preoccupata di costruire un sistema equilibrato di discipline metodologicamente autonome. Le tecniche si mescolano nell’uso, ma non nei principi51. Ceriol promette un ripensamento dell’intera filosofia52, ma intanto comincia con l’escludere dalla sua retorica i problemi propriamente logici; maltratta i predecessori, non risparmiando le auctoritates, ma intanto raccomanda una trattazione asseverativa, “dogmatica”, puramente espositiva senza polemiche, digressioni, discussioni dialettiche53. Intende attaccare Aristotele, maestro di coloro che dubitano, e le quaestiones scolastiche; e finisce così, da buon ramista, per rivendicare la chiarezza didascalica con il rischio inerente dell’“utile” semplificazione manualistica54. L’affinità con Ramo, però, si ferma a questo punto: per Ceriol la retorica non è scienza dell’espressione, elocutio-pronuntiatio, ma scienza dell’ordine, dispositio-elocutio 55, con il primo termine classicamente sovraordinato56. nec in forensibus disceptationibus iudiciorum, aut deliberationum tantum versatur, sed universa et generalis ars in universum rebus omnibus accommodari potest». Ceriol critica espressamente la definizione ciceroniana dei Topica, che fa della retorica una parte del diritto civile. 51 Cfr. ivi, pp. 5-6: «Neque enim, quod orator argumenta invenit, ob eam causam oratoris partes erunt de inventione argumentorum [...] agere [...] Alioqui aut una dicendi facultas caeteras omnes artes sub se subiectas comprehenderet, et de illis praecepta traderet, aut sub singulas quasque artes, reliquarum omnium praecepta cadant necesse est. Usus enim aliarum artium ex alijs pendet, nec, nisi coniungerentur, fructus ab illis percipi posset». 52 Cfr. ivi, Fridericus Furius Caeriolanus lectori, c.n.n.: «[Aristoteles] semper sui similis confundit quaestiones cum rerum praeceptionibus, coelum terrae miscet. Sed de hac re, et de hoc genere toto, multis a me disputabitur in Philosophicis Quaestionibus meis, quarum schidulas inchoatas, et rudes, ubi per tempus et ocium licuerit, perficiam, perpoliam, publicaboque». 53 Cfr. ibidem: «His ego respondebo, fecisse me id ipsum de industria, quod permiscere quaestiones cum artium praeceptis sit maxime perniciosum [...] Hoc ergo nos consilium secuti, rhetoricae artis praecepta, firma, certa et sine ulla quaestione posuimus». 54 Nota, ancora, l’attacco ad Erasmo (ivi, Epistola nuncupatoria, c.n.n.): «Quidam etiam rhetoricam dilaniant misere, dum tractant seorsum copiam et verborum et rerum, quae tota elocutionis est». Ceriol nega anche l’utilità dei vari trattati De conscribendis epistolis (ne avevano scritti, fra gli altri, Erasmo e Vives), perché un buon rhétoricien non ha bisogno di precetti specifici per comporre lettere. 55 Cfr. ibidem: «Omnes enim veteres quinque eius (quae duo sunt modo) faciebant partes: unus Petrus Ramus duas tantum fecit, numero duas recte constituit: nominatim tamen eas assignando, pace dixerim tanti viri, erravit». 56 Per una retorica di ispirazione quintilianea, priva di elementi «manieristici», è abbastanza ovvio insistere sul fatto che il ricorso continuo ai lumina orationis produce noia e

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Furió indica nella trattazione della dispositio oratoria (che prende il posto delle regole dell’inventio nella tradizione della logica oratoria) l’aspetto più originale della sua opera. In realtà possiamo definire brevemente le Institutiones Rhetoricae come una retorica dell’ordine e della prudenza57 – non del mero praeceptum –, antiformalistica e proiettata sulla vita civile58. 3. A un anno di distanza dalle Institutiones Rhetoricae Ceriol ebbe occasione di mettere in pratica la sua dottrina in una causa controversa e dalle immediate conseguenze pratiche. Un vir obscurus, in realtà teologo rispettato e autorevole, il rettore lovaniense Giovanni da Bologna (Bononia), rettore dell’Università di Lovanio59, si lasciò trascinare da Furió in un’aperta discussione sulla traduzione della Bibbia. Questo problema, come si è visto, rivestiva un’importanza fondamentale nella vita religiosa dei Paesi Bassi, regione fortemente urbanizzata e, quindi, ad alto tasso di alfabetismo. Per il periodo 1520-1566 si calcolano circa 136 edizioni della Bibbia in neerlandese di orientamento riformato, che corrispondono circa a un esemplare ogni venticinque abitanti60. Di fronte a questa produzione dilagante si spiega la preoccupazione delle autorità, riflessa dall’editto del 1529 (che comminava la pena di morte ad editori e librai responsabili della diffusione di versioni eretiche) e dall’Indice di Lovanio del 1546, che proibiva ben 48 edizioni bibliche. L’atteggiamento di Carlo V verso la Bibbia in volgare non era però esclusivamente negativo. Negli anni 1547-1550 si assiste ad un’iniziativa ufficiale, promossa dalla corte e sostenuta dalla città ed anche dall’Università di Lovanio, per sostituifastidio. Ceriol ravviva il precetto con un efficace richiamo alla tecnica pittorica del chiaroscuro (Institutiones Rhetoricae, cit., p. 198). 57 Cfr. ivi, p. 170: «Nam edocere oratorem, quod multi conati sunt, quae argumentorum genera, quibus causis accommodari debeant, id non ex artis institutione, sed ex sola hominum non dicam prudentiam, sed mediocri animadversione patet». 58 Si veda la bella descrizione della retorica, che si adatta assai bene anche all’impegno oratorio-religioso del Bononia: «Vagatur iam longe lateque: non angustioribus continetur finibus quam usus rationis» (Institutiones Rhetoricae, cit., p. 109). 59 Giovanni da Bologna apparteneva al ramo siciliano della famiglia bolognese dei Beccadelli, figlio del barone di Cefalù. Si addottorò nel 1550 a Lovanio e la protezione di Carlo V gli assicurò numerose dignità ecclesiastiche: arcidiacono della cattedrale di Palermo, priore della congregazione di S. Trinità Delia, abate commendatario di Sant’Angelo di Brolo presso Messina. Cfr. A. Mongitore, Bibliotheca Sicula, Panormi, Ex typographia D. Bua, 1708-1714, I, p. 340. 60 Cfr. A. G. Johnston, L’imprimerie et la Réforme au Pays-Bas, 1520-c. 1555, in J.-Fr. Gilmont, éd., La Réforme et le livre. L’Europe de l’imprimé (1517-v. 1570), Paris, Cerf, 1990, p. 170.

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re le traduzioni eterodosse con altre autorizzate, condotte sotto la direzione di teologi ortodossi come Rouard Tappart e Pierre de Corte. L’editore Barthélemy de Grave, lui stesso autore di scritti antiriformati, faceva così seguire alla sua Bibbia latina del 1547 una versione fiamminga (settembre 1548) ed una francese (1550). L’iniziativa non aveva nulla di rivoluzionario. La prefazione del traduttore francese, Nicolas de Leuze, prende fermamente le distanze dalla tesi protestante della facilità, chiarezza ed evidenza della Bibbia, insistendo sulla necessità dell’interpretazione ecclesiastica e su una concezione restrittiva dell’illuminazione dello Spirito Santo61. Per quanto ben lontana dal radicalismo con cui Ceriol rivendica i diritti del “popolo cristiano”, tuttavia, l’edizione del Grave poteva rivelarsi un precedente importante nella polemica contro gli integralisti. La sua pubblicazione autorizzata implicava, infatti, che l’editto del 1529 non si riferisse indiscriminatamente a tutte le versioni bibliche. I teologi più conservatori dell’Università di Lovanio tentarono perciò nel 1552 (o gennaio 1553, visto che il termine di riferimento è il «due anni fa» del Bononia, ultimato nel gennaio 1555) di conseguire un divieto totale62. Consultati da Carlo V, essi fecero proprio il punto di vista dell’autorità civile di Courtrai, che aveva sollevato il caso: visto il turbamento che provocavano nel popolo, le versioni bibliche in volgare andavano proibite senz’altro. Questo parere della Facoltà di teologia di Lovanio costituisce l’occasione immediata del Bononia. Ad esso si richiama il rettore conservatore Bologna63. D’altra parte l’insoddisfazione che il parere doveva aver suscitato fra

61 Cfr. l’edizione della lettera prefatoria del de Leuze al «fidele, humble, et devot liseur» in P.-M. Bogaert-J.-Fr. Gilmont, La première Bible française de Louvain (1550), in «Revue Théologique de Louvain», XI, 1980, pp. 275-309 (edizione pp. 304-307). 62 Cfr. la Consultatio S. Facultatis ad Carolum V Imp. de lectione Scripture in lingua vulgari edicto interdicenda, conservata in un copialettere della Facoltà di teologia di Lovanio (cfr. Bogaert-Gilmont, La première Bible française, cit., p. 292), c. 22r.: «Postulare sane nobis ratio horum temporum, imo et cogere clementissimum et religiosissimum principem Caesarem semper Augustum videtur ut ad extremum remedium confugiat et publico edicto imperite et indocte ac instabili multitudini [...] lectionem tam Veteris quam Novi Testamenti prorsus interdicat. Sapienter quidem religiosissimus princeps ante annos aliquot, cum intelligeret propter corrupta et contaminata ab hereticis Biblia que passim extarent suos subditos seduci et pertrahi ad hereticos errores, edicto publico severe statuit ut, abiectis et in exilium missis universis suspectis Bibliis presertim vulgaribus, certa quedam retinerentur que a viris doctis excussa et approbata essent [...] Verum moderatum hoc optimi et clementissimi principis consilium adeo non opem attulit labenti Ecclesiae ut ex quo tempore eius permissione Biblia quamvis correcta passim versari in manibus laicorum impune ceperunt, res in deterius abierit». 63 Cfr. il passaggio chiave (Bononia, pp. 90-92): «et nostra hac tempestate cum multis ex rebus, tum ex hoc ipso colligi potest, quod duobus abhinc annis a decano totoque theolo-

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gli studenti giustifica l’impegno con cui Ceriol si sforza di interpretare in senso liberale la legislazione imperiale, sostenendo che essa si riferiva solo a specifiche traduzioni “eretiche”. Furió, comunque, non si limita alle prudentissime considerazioni di un traduttore come de Leuze (che Bologna avrebbe senz’altro approvato), ma cerca palesemente di spostare l’equilibrio nella direzione opposta: quella di un pieno riconoscimento del rapporto diretto fra comunità cristiana e testo sacro. Nel suo dialogo Ceriol provvede a stilizzare il contrasto come pacato dibattito umanistico, sottolineando l’amicizia che lo lega al Bologna. Il dispaccio già ricordato di Fray Baltasar Pérez, mentre conferisce verisimiglianza alle circostanze narrate nel prologo (il gruppo di studenti spagnoli a Lovanio che, riunito a casa del rettore, discute vivacemente problemi religiosi), lascia intuire una sotterranea tensione. Lo stesso Ceriol riconosce di aver posto in bocca al Bologna argomenti deboli e perfino insulsi, non perché questi se ne sia realmente servito nella conversazione, ma per non trascurare nessuna delle ragioni a cui gli avversari delle traduzioni possono far ricorso. Il valenziano, in altri termini, tradisce un intento irrisorio neppure troppo coperto, che ben si accorda con l’asprezza polemica dell’interlocutore “Furius”. Probabilmente Ceriol intese smorzare i toni tenendo conto del dedicatario del dialogo, il moderato arcivescovo di Burgos Francisco de Mendoza y Bobadilla (che sarà un accusatore di Carranza, Morone e Contarmi, così come Diego Hurtado de Mendoza lo era stato di Pole). La data di composizione del Bononia, sive de libris sacris in vernaculas linguas convertendis libri duo è indicata precisamente dall’autore con il terminus ante quem della lettera dedicatoria: «Lovanij, secundo Nonas Ianuarij, Anno a natali die Christi 1555». L’opera fu edita a Basilea da Martinus Stella, tipografo alle dipendenze di Johannes Oporinus: la stampa venne ultimata nel marzo 1556. In seguito alla pubblicazione del Bononia, mentre il confessore

gorum collegio Lovaniensium decretum est atque sancitum. Nam, cum literas a Carolo Quinto Caesare accepissemus (eram enim et ego una) quibus significabat gratissimum sibi futurum, si diligenter examinaremus utrum esset rationi consentaneum, Sacras Literas in nativam certae cuiusdam provinciae, quam honoris causa nominatim non appello, ad eius nationis usum quae iam erant versae, retineri nec ne [...] conveneramus igitur frequentes theologi, qui, ubi multa ultro citroque verba fecissemus, tandem de communi omnium consilio decretum est eam nationem interdictam iri debere Sacrarum Literarum in vernaculam linguam traductione, quod videremus, id quod res est, decipi eius nationis populum per talem Bibliorum lectionem, quod apertius erat quam ut negari possit [...] Ex quo intelligi poterat, civilem magistraturam, cum ex quotidiano hominum sermone, tum ex ministrorum ecclesiasticorum relatu, intelligere haereses, quae multae brevi tempore spacio apud se ortae fuerant, ab solis Bibliis extitisse».

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di Felipe II Bernardo de Fresneda e Bartolomé Carranza, in aspro contrasto fra loro, si ripartivano la responsabilità del controllo delle pubblicazioni “eretiche” che si erano diffuse in Spagna nel periodo immediatamente anteriore64, Ceriol venne imprigionato; riuscì comunque ad ottenere il rilascio senza che gli fosse imposta alcuna ritrattazione. Furió poté così continuare fruttuosamente gli studi, conseguendo la licenza in teologia e il dottorato in diritto civile e canonico. L’importanza del suo dialogo latino nella storia religiosa del Cinquecento è notevole e richiede un’analisi approfondita. 4. Il Bononia è un caratteristico esempio di dialogo polemico in utramque partem in cui gli interlocutori non riescono a mettersi d’accordo. Bologna ammette la forza degli argomenti di “Furius”, ma rinvia per una presa di posizione definitiva all’assemblea dei teologi lovaniensi ed al consenso dell’intera Chiesa: una provocatio con cui riesce ad esimersi dalla funzione di giudice che gli era stata affidata. La soluzione del dibattito si proietta allora oltre la finzione dialogica, con l’invito a giudicare la questione rivolto dall’autore al cardinale di Burgos (in persona propria, non di “Furius”). Il Bononia si distingue così dai tipi più consueti di dialogo rinascimentale: il tipo didattico, con definizione statica dei ruoli di maestro e discepolo ed accordo iniziale su una verità precostituita, ed il tipo circostanziale, con accordo conclusivo fra gli interlocutori ugualmente autorizzati a contribuire all’avanzamento della verità. Nel dialogo di Ceriol il punto di vista dell’autore si identifica senza ambiguità con quello del personaggio omonimo, portavoce di un’opinione estrema. Il valenziano rinuncia senza rimpianti alla dissociazione cautelativa fra autore ed interlocutore resa possibile dalla tecnica dialogica (anche se, proprio per il personaggio Bologna, si richiama topicamente al decorum personarum). Il dialogo è in forma storico-narrativa con impiego di verba dicendi; l’esposizione delle circostanze del dialogo risulta però assai ridotta rispetto alla parte argomentativa. Ciò nonostante, la preferenza accordata al discorso indiretto su quello diretto contribuisce alla rappresentazione incisiva e vivace dell’ambiente di Lovanio. La scelta “storico-narrativa” anziché “mimetica” non porta, comunque, a frantumare il dialogo negli andirivieni di una conversazione verisimile. Furió adopera invece con rigore l’oratio continuata, senza interruzioni, che consente (come nei dialoghi filosofici di Cicerone) lo svolgimento più logico e coe-

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Cfr. H. Pizarro Llorente, El control de la conciencia regia in José Martínez Millán (dir.), La corte de Felipe II, cit., p. 158.

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rente delle tesi contrapposte. Malgrado questa decisa preponderanza della componente oratoria su quella teatrale del dialogo, Ceriol fa uso, soprattutto nella praeparatio, di procedimenti visualizzanti come l’osservazione della mimica dei personaggi. Egli sa poi impiegare con finezza una figura di pensiero efficace soltanto nella prospettiva relativistica del dialogo: l’ironia involontaria (distinta da quella intenzionale, di cui il locutore monologico è ben consapevole). Ironia intenzionale, di buona qualità retorica, si ha nel Bononia quando “Furius” afferma che le lingue sacre non sono necessarie per comprendere la Bibbia perché i teologi scolastici, che ignorano greco ed ebraico, possono prescinderne. Ironia involontaria (dal punto di vista del personaggio) compare invece quando Bologna afferma che profanare le Scritture (traducendole in volgare) è un sacrilegio ben peggiore della violazione di chiese e sacri arredi, perché, si sottintende, la parola di Dio è ben più sacra di qualsiasi luogo materiale. Proprio il teologo conservatore assume così una posizione spiritualistica ed erasmiana, che ricorda il Diálogo de Lactancio y del arcediano composto da Alfonso de Valdés per giustificare il “sacrilego” sacco di Roma. Ma per lo più Giovanni da Bologna, che mantiene la parola nell’intero primo libro, si esprime senza ironia, bensì con greve tradizionalismo. I suoi argomenti sono quelli tipici della “destra” tridentina: notevole, in particolare, la coincidenza con la trattazione del gesuita Ledesma, cui rimanderà espressamente Bellarmino nelle Controversiae. Decisivo è il timore che la divulgazione dei “misteri” della religione possa privare il popolo del sacro rispetto: tutte le eresie nascono da erronee (perché letteralistiche) interpretazioni “popolari” della Bibbia. Bologna adduce l’esempio classico dei valdesi e manifesta una preoccupazione tipicamente ispanica per le correnti giudaizzanti (mentre Ceriol, che pur non risulta cristiano nuevo, esprime nel corso della discussione una grande considerazione per l’esegesi rabbinica). C’è, inoltre, la difesa dell’universalismo culturale latino di fronte alla mancanza di norma ed alla rapida mutabilità delle lingue volgari. C’è, ancora, l’esigenza della necessaria mediazione dottrinale di predicatori e teologi. In Bologna (ma, significativamente, non più in Ledesma) questo tessuto di argomentazioni è suggellato dal ricorso al tema erasmiano dell’illotis manibus: per interpretare la Bibbia occorre un regolare tirocinio linguistico e “filosofico”, cioè enciclopedico. Il rettore lovaniense invoca inoltre l’autorità censoria del magistrato civile (gli stati generali) ed ecclesiastico (le cui proibizioni – come ricorda Furió nel prologo al Bononia – erano però disattese dal popolo). “Furius” apre la sua replica criticando lo scetticismo “accademico” e rivendicando la legittimità dell’atteggiamento assertivo. La validità oggettiva del metodo sembra garantire la forza delle conclusioni in un’auspicata unione

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di fondamento scritturale autoevidente, rigore dialettico ed impegno personale. Oltre e contro il probabilismo esegetico di Erasmo, Furió si riallaccia alla tradizione umanistica riformata: l’applicazione di una methodus semplice ed economica autorizza interpretazioni chiare ed univoche a partire dalle premesse scritturali indimostrabili, evitando il ricorso evasivo alla polisemia e all’allegorismo. “Furius”, ironicamente, dà atto al Bologna di aver soddisfatto questi requisiti formali. Affronta poi con decisione l’argomento d’autorità. I volgarizzamenti biblici possono richiamarsi all’esempio della legge mosaica, rivelata al popolo ebraico nella lingua comunemente parlata, e dello stesso Vangelo, oltre che all’uso del greco bizantino nella liturgia ortodossa. Questi esempi storici acquistano peso perché illustrano una concezione generale della funzione religiosa del linguaggio. Lasciando cadere la sacralità intrinseca della Lettera, Ceriol sottolinea con forza il processo di adattamento del contenuto della rivelazione a sempre nuovi uditori, che produce sempre nuove traduzioni. Apostoli ed evangelisti hanno cercato anzitutto di riuscire comprensibili sul piano linguistico ed efficaci su quello retorico, evitando ogni esoterismo. Come Erasmo e Castellione, Ceriol considera l’adattabilità formale della Bibbia un punto di forza del cristianesimo anziché ritenerla, come i conservatori, una porta spalancata all’anarchia religiosa. Scrittura e predicazione, contrapposte dal Bologna, rappresentano per questa theologia rhetorica due gradi diversi di uno stesso “colloquio” con il pubblico devoto. In questo “colloquio”, però, il libro costituisce la norma universale cui la tradizione orale deve conformarsi. Ceriol è attento testimone di una “rivoluzione avvertita”. Grazie alla stampa il sapere, che prima era alla portata di pochi in tarda età, è divenuto patrimonio di molti: i giovani “moderni” conseguono risultati migliori degli anziani di un tempo. Questa insistenza sulla comunicazione e sulla comunicabilità del sapere non è episodica. Tutte le scienze, nel pragmatismo di Ceriol, sono strumenti per il buono svolgimento della vita sociale: l’oscurità dei libri è dunque un peccato contro la societas humana. Aristotele viene criticato non perché troppo assertivo (come avrebbe fatto lo “scettico” Castellione), ma perché predica chiarezza senza praticarla. L’oscurità deriva dall’incapacità di una buona dispositio o da una volontà di mistificazione, che non possono attribuirsi allo Spirito Santo. Proprio perché chiaro, il libro rivelato può e deve disciplinare concretamente la prassi religiosa quotidiana. Ceriol riprende quindi il motivo, centrale nella Riforma, del diritto-dovere della comunità di esaminare il fondamento biblico della dottrina dei predicatori e, anche, di smascherare l’impostura soggiacente a presunte “rivelazioni” dal pulpito. Se si rispetta questo principio, lezione orale pubblica e “ripetizione” privata del corrispondente testo scritto si integrano a vicenda nell’i-

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struzione religiosa come in quella profana. Anche qui Ceriol introduce un motivo economico: la lettura della Bibbia in volgare non è superflua per il discente, ma neppure per il docente, il futuro predicatore, che studiando il testo nella lingua materna risparmia tempo, fatica e denaro. Il valenziano può inoltre appoggiarsi al dato di fatto della vistosa insufficienza della predicazione, soprattutto nelle campagne. Ceriol parla ora il linguaggio di un riformatore tridentino, come pure quando sottolinea l’utilità di catechismi fondati sul minimalismo dogmatico erasmiano (e si pensa subito al Doctor Constantino, a Bartolomé Carranza, a Juan de Zumárraga) per prevenire gli errori dottrinali indotti dalle traduzioni. Posizioni di questo tipo, duttili e flessibili, sopravviveranno a lungo all’interno del mondo cattolico e della stessa Congregazione dell’Indice. Anche dopo Trento, la massima istituzione censoria della Chiesa non presenta una posizione unitaria sulla Bibbia volgare. Emerge, invece, un’antitesi netta fra transigenti e intransigenti, preoccupati, i primi, dell’inevitabile confronto fra la vita religiosa popolare dei paesi cattolici, impastoiata dalle diffidenze ecclesiastiche, e quella più ricca, perché più vicina alle fonti, delle regioni “corrotte” dall’eresia65. In realtà egli è già andato oltre, come mostra la lucidità con cui viene posta una questione decisiva: quando la Chiesa disattende i propri obblighi didattici e pastorali (ad esempio – vide malitiam – quando le grandi eresie si diffondono nella gerarchia ecclesiastica), ha diritto il fedele di procurare da sé, per quanto possibile, la propria salvezza, leggendo la Bibbia ed implorando da Dio lo Spirito per interpretarla? Ceriol risponde senz’altro di sì. L’illuminazione dell’individuo, abbandonato dall’istituzione, non può mancare: non tanto come imprevedibile rigenerazione gratuita, quanto come conseguenza «naturale e ordinaria» della promessa di Cristo di abitare sempre la comunità dei fedeli. Ceriol, difatti, associa l’universalità della “promessa” cristiana (il fedele diventa “co-erede” di Dio attraverso Cristo) all’universalità della lettura diretta della Bibbia, dove quella promessa viene rivelata. La salvezza è offerta a tutti: tutti, perciò, devono leggere la Bibbia. Era un argomento tipico dei translatistae criticati da Esprit Rotier, che implicava un concetto di teologia come apprensione di un volere trascenden65 II conflitto fra la linea dura del Sant’Uffizio e quella più flessibile dei padri tridentini e della stessa Congregazione dell’Indice è ampiamente documentato da G. Fragnito, La Bibbia al rogo, cit. Cfr. inoltre S. Seidel Menchi, La Congregazione dell’Indice, estratto da Accademia nazionale dei Lincei-Congregazione per la Dottrina della fede, L’apertura degli archivi del Sant’Uffizio romano, giornata di studio (Roma, 22 gennaio 1998), Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1998, pp. 31-45.

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te (Deus erga nos, che riguarda tutti), opposto alla concezione scolastica della teologia come sistema (Deus quid sit, che riguarda pochi). Furió parte da Erasmo: teologia è conoscenza della norma del bene beateque vivere contenuta nella Scrittura66. Il valenziano, tuttavia, non si arresta a un pacificato “umanesimo cristiano” (l’Erasmo attenuato dell’“erasmismo”), ma assorbe la linfa polemica fideista della teologia umanistica, che si era potentemente espressa in Valla prima di riaffiorare con la Riforma: da una parte i filosofi e i teologi tradizionali, con le loro incertezze di pensiero e i loro compromessi opportunistici; dall’altra san Paolo con il suo linguaggio chiaro e tagliente, senza margini di ambiguità. La rigorosa separazione tra “filosofia” e “teologia” si accompagna ad un’interpretazione essenzialmente etica della Scrittura, per principio accessibile a tutti in base al “buon giudizio” naturale. A prima vista prevale la componente negativa, polemica. La filosofia è scuola di dubbio e di disputa e perciò incompatibile con la teologia, autoevidente ed assertoria. Come Lutero, Ceriol non crede alla “concordia” di Platone e Aristotele, buona intenzione programmatica destinata a far bella figura sui frontespizi. L’incertezza della filosofia è dovuta alla totale corruzione della natura umana. Come Juan de Valdés, il valenziano respinge appassionatamente il tentativo di costruire una teologia naturale sulla base dell’Epistola ai Romani 67. Egli nega senza mezzi termini l’appetitus naturalis Dei caro alla tradizione ficiniana ed all’apologetica cattolica. L’uomo è di per sé un animale circoscritto in un orizzonte terreno, per orientarsi nel quale dispone di discipline “tecniche” altrettanto terrene, come la concretissima retorica. L’amore di Dio, che segna una cesura radicale nella sua esistenza, può venire solo dall’esterno, per rivelazione non suffragata da ipotesi metafisiche. La fermezza con cui Ceriol ribadisce questa concezione aspra e antinomistica impedisce di continuare a ritenerlo un cattolico erasmiano. Non solo: nell’ambito della teologia riformata la posizione di Furió ricorda il commento di Valdés all’Epistola ai Romani (che probabilmente aveva letto) ancor più dell’Institutio calviniana (che ammette, su base ciceroniana,

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Cfr. Bononia, p. 308: «Vera theologia nihil aliud est, quam divina voluntas nobis divinitus patefacta: quam nisi Deus per benignitatem suam nobis aperuisset, eam nullo modo intelligere potuissemus». 67 Cfr. Bononia, pp. 310-311: «Est enim humana mens contagione peccati primi parentis in tantas tenebras coniecta, ut piane quid tenendum sit, non videat omnino. Hinc fit ut, si in alijs rebus allucinatur, in divinis prorsus caecutiat [... ] Ita humana mens et philosophia nihil, nisi quod a natura proficiscitur, intelligit: in rebus denique naturalibus consistit, ultra non progreditur, tametsi maxime velit».

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una certa conoscenza naturale di Dio, pur opponendosi alle speculazioni zwingliane sulla salvezza dei pagani virtuosi). I due eterodossi spagnoli coincidono nell’impostazione generale, anche se non mancano differenze significative, dovute ai diversi obbiettivi e soprattutto al carattere non tecnicamente teologico della trattazione di Ceriol. Il valenziano accentua l’antitesi fra rivelazione e conoscenza filosofica, ma non si preoccupa di determinare più precisamente la grazia divina come causa della volontà di credere ed il rapporto fra “rigenerazione” per fede e predestinazione, espressamente riconosciuta da Valdés 68. In cosa consiste dunque il “merito della fede”, che Ceriol contrappone con veemenza tutta protestante all’incertezza della filosofia e della teologia speculativa? Evidentemente, nella conoscenza chiara ed evidente degli articoli di fede morali, necessari alla salvezza. Al di là di questa conoscenza (o meglio assimilazione etico-psicologica), richiesta ad ogni cristiano, esiste forse un contenuto più profondo della Bibbia, che soltanto pochi illuminati possono scorgere? Su questo punto fondamentale Furió diverge dalla tradizione valdesiana e in generale spiritualista. Nel Bononia non si trovano accenni ad una dottrina esoterica, a un livello superiore di perfezione “spirituale” rispetto alla vita religiosa quotidiana di una comunità che legge assiduamente la Bibbia. All’interno di un’argomentazione tutta fondata sulla chiarezza e semplicità del “senso letterale” non manca, è vero, un passaggio dissonante. Anche se tutti possono e devono leggere la Bibbia, osserva Ceriol, rimangono pur sempre diversi livelli di comprensione secondo i diversi gradi dell’illuminazione divina. La lettura si prolunga in uno scambio di conoscenze con i “confratelli” più o meno “approfonditi” nella Scrittura69. A prima vista si potrebbe intravvedere qui un influsso a

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Cfr. Bononia, pp. 312-313, dove Furió cita ampiamente Gal. 2, 13-14: «Animalis homo non capit quae sunt divini spiritus, quippe quae sunt ei stultitia: itaque non potest ea cognoscere, quae sunt spiritualiter examinanda», e commenta: «Quod nisi ita esset, frustra praedicaretur ac laudaretur meritum fidei, et per hanc quasi ianuam frustra esset nobis in coelestem patriam ingrediendum. Haec cum videret sanctissimus Paulus, profitetur se non humanis rationibus et philosophia, sed divino quodam afflatu, quem per fidem consequebatur, dum his quae viderat et audierat credebat, coelestem se philosophiam intelligere». Segue la deprecazione di stampo erasmiano: «Verum nos nihil minus curamus; huiusmodi Dei consilia, si non verbo, re tamen vera negligimus». 69 Cfr. Bononia, pp. 258-260: «Nam deus dum alijs quaedam per beneficium aperit, alijs patefacta non vult: ij quibus clarius Spiritus sancti lumen illuxit, habent in quo Christi talenta augeant, fraternaeque charitatis officium praestent [...] Possunt multa legere, multa disputare, modo pie et citra curiositatem: possunt de singulis sciscitari, causas accipere atque reddere».

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distanza dell’alumbradismo, premessa – ancora una volta – a esiti radicali: la “setta” è depositaria di un senso più profondo, mistico-spirituale, del testo biblico, che non deve essere divulgato imprudentemente. In realtà Ceriol intende soprattutto ribattere un argomento dell’avversario cattolico, secondo cui l’oscurità della Bibbia la rende veneranda. Per Furió, invece, l’indefinita possibilità di illuminazione non ha nulla a che vedere con l’oscurità (ricchezza infinita di senso, che richiede però un’autorità interpretativa) chiamata in causa dalla parte avversa, sulla scorta di sant’Agostino e di Gregorio Magno. La Bibbia non è così evidente da escludere le discussioni “pie”, ma non per questo diventa necessario introdurre un’autorità censoria: le dispute non investono, infatti, il senso fondamentale della Scrittura, che resta chiaro e palese a tutti. Il valenziano si guarda, insomma, dal concedere troppo a una tendenza spiritualistica che potrebbe ridurre notevolmente l’importanza di una conoscenza diretta della “lettera” biblica (come avveniva nello scritto controversistico di Esprit Rotier). Vicino a Valdés nella polemica fideista, ma non nel gradualismo spiritualistico e tendenzialmente esoterico, Furió tende a concepire la Bibbia come codice etico e giuridico della società cristiana, lex che occorre studiare a fondo per applicarla poi correttamente. Questa legge, per riuscire efficace, esige chiarezza ed essenzialità, senza astrusità mistiche, e deve restare a disposizione di chiunque abbia interesse a consultarla. La dottrina di Ceriol sembra un’estensione dell’immagine erasmiana della Bibbia “pugnale” del soldato cristiano nella lotta contro i vizi. Nello spirito della Riforma, soprattutto svizzera e renana, Furió sviluppa in senso sociale e “democratico” l’individualismo religioso elitario dell’umanista di Rotterdam. La sua posizione, però, non coincide pienamente con quella della Riforma cosiddetta magisteriale. A volte, infatti, si fa strada nel Bononia un’intuizione ben diversa del ruolo della Bibbia nella società: non Bibbia di tutti, ma Bibbia di pochi; naturalmente non dei pochi teologi, che nascondono la Bibbia al popolo cristiano, bensì dei pochi veri fedeli, che vengono perseguitati dalla maggioranza, nemica del libro sacro malgrado l’ipocrita ossequio ai sacerdoti. Le Scritture sono il libro di una minoranza, non perché oscure e quindi comprensibili soltanto ai dotti, ma perché il loro contenuto, semplice ed evidente, contrasta con le inclinazioni naturali dell’uomo corrotto (rafforzate e apparentemente giustificate dalla cultura come opera della “prudenza umana”). La Bibbia diventa quindi la pietra dello scandalo, destinata a separare gli uomini “carnali” dai veri cristiani. Ceriol si accosta così allo spiritualismo in un punto decisivo: la negazione del concetto oggettivo di eresia, che fondava teoricamente la richiesta di tolleranza. Le eresie che nascono dalla lettura della Bibbia – insinua il valen-

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ziano – non vanno considerate un male a cui ovviare, bensì una necessità: i punti di vista dei “carnali” e degli “spirituali” sono incompatibili e gli apparenti eretici possono essere i cristiani autentici. Soltanto dopo il Giudizio, una volta separato il grano dalla zizzania, si può sperare nella “concordia”, prima non c’è che “tolleranza”: nella storia umana, anche ecclesiastica, bene e male sono complementari. Ceriol procede con molta prudenza, distinguendo fra offesa data e ricevuta. Solo l’offesa fatta con intenzione può essere perseguita penalmente: chiunque, infatti, può “sentirsi offeso” e “ricevere offesa” da azioni per sé ineccepibili70. Come aveva affermato un celebre riformato italiano con una battuta di sapore luterano, voler “evitare gli scandali” significa voler essere superiori a Cristo. Lo scandalo provocato da una versione biblica è una reazione soggettiva: se la si volesse prevenire, eliminandone l’occasione, tanto varrebbe proibire la Scrittura senz’altro. Siccome non vi è alcun bene di cui non si possa abusare, non ha senso richiedere per la traduzione della Bibbia un popolo assolutamente ortodosso, che non è mai esistito. Seppur con cautela, Ceriol suggerisce che, se si vuol godere dei benefici della Bibbia, occorre mettere in conto scandali ed eresie anziché affrettarsi a condannare quelli che possono essere i veri cristiani71. L’analogia con l’argomentazione di Castellione contro la persecuzione degli eretici è palese. Per prudenza, comunque, Ceriol accosta all’apologia della tolleranza una medicina più tradizionale contro l’eresia: corredare i testi biblici volgarizzati di glosse ortodosse per prevenire errori dottrinali72. Ceriol è molto vicino a Castellione anche su un altro punto, legato indirettamente alla questione della tolleranza: l’interpretazione spiritualistica dell’Antico Testamento. La “Lettera” mosaica, e in particolare i precetti giudiziali, possiedono autorità solo come “prefigurazione” della verità evangelica73.

70 Cfr. Bononia, p. 342: «Nam si accepta scandala arcere Christianorum hominum esset, nihil boni, honestum ac laudabile facere vel auderent vel deberent: immo vero cultus Dei et eiusdem praedicatio atque doctrina esset nobis deserenda, propterea quod etiam olim, quum Christum et Apostolos scribae, Pharisaei, Pontifices audirent, offendebantur». 71 Cfr. Bononia, pp. 348-350: «Nam quum scandalum quod per haereses quae a sacris literis oriuntur hominibus datur non eius generis sit, ut ponatur earum offensionum numero quae datae vulgo nominantur: hinc fit, ut scandalo versiones Bibliorum non debeant a Pontificibus arceri». 72 Tale soluzione è ammessa anche dal Catarino (Enarrationes, cit., p. 339): «secundum indulgentiam ad duritiam cordium, non secundum consilium». 73 Cfr. Bononia, p. 241: «Quapropter, si quae fuerunt olim caerimoniae occultandi vel mysteria vel libros sacros, eas abolitas (quod revera sunt) putemus et eas in exemplum ducere hoc tempore erubescamus». Poco prima aveva affermato: «Haec a me ideo dicuntur, ut

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L’atteggiamento autoritario di Giovanni da Bologna viene accusato di fariseismo. Gli idiotae sono gli autentici destinatari del messaggio evangelico, troppo paradossale per essere compreso dai sapientes huius mundi. Castellione contrappone alla Chiesa ginevrina, che lascia predicare soltanto i dotti, il modello protocristiano, in cui a chiunque rivendicasse uno “spirito” era consentito alzarsi in piedi e parlare davanti alla comunità. Questo aspetto del pensiero del savoiardo non trova eco in Ceriol. La posizione di Furió, più sobria e pragmatica, si richiama all’idea, presente anche in Castellione, del giudizio naturale comune a tutti, del bon sens come norma d’interpretazione biblica (beninteso una volta che l’autorità della rivelazione è stata accettata per fede). Le donne possiedono questo giudizio naturale (più importante dell’“artificio” retorico e dell’erudizione linguistica) non meno degli uomini e, forse, in misura ancora maggiore, perché il loro corpo è meglio proporzionato. Come già Erasmo nel colloquio Abbas et erudita, Ceriol mette in burla l’arcigna misoginia dei monaci tradizionalisti74: la lettura della Bibbia è compatibile con qualsiasi condizione e professione sociale, compreso il lavoro domestico della donna75. Mettere la Scrittura in mano ai bambini è consigliato dal principio fondamentale della pedagogia umanistica: insinuare precocemente, con dolce persuasione, abitudini salutari. Idiotae in senso stretto, poi, sono soltanto coloro che non hanno ancora iniziato lo studio di una determinata materia. Ciò, tuttavia, non ha importanza per la Bibbia, che è lex, non disciplina, e non conosce “consigli” riservati a un particolare ceto, ma solo “precetti” universali76.

Dei summum beneficium agnoscamus, qui et nos a servitute caeremoniarum gravissimo onere (taceo interim beneficium reconciliationis) in libertatem vendicarit, et ab umbris ac quasi tenebris in lucem deduxerit» (ibidem). 74 Cfr. Bononia, p. 285: «En tibi argumentum tuum, id est superiori quam simillimum: Mulier quae sapit, bis stulta est [e cfr. Encomion Morias, in Desiderii Erasmi Roterodami Opera omnia, Amsterdam, North Holland Publishing Company, 1969, IV, 3, p. 90]. Cur non dixisti, aut cur mihi dicere non liceat, Vir qui sapit, bis stultus est?»; ivi, p. 7: «Vidi ego Lutetiae matronam quandam honestam, quae me praesente, cum doctore Theologo, et quidem Parisiensi, hac eadem de re, id est, de interpretatione Bibliorum, multis verbis contenderet: cui ille ne verbum quidem ad ea quae proponebantur, sed illud pro responso dabat: Colus et fusus arma muliebria. Hic mulier scite ac derepente inquit: Clitella et capistrum arma mulorum» (e cfr. Abbas et erudita, in Erasmi Opera omnia, cit., I, 3, pp. 403-408). 75 Cfr. Bononia, p. 283: «Si ob eam causam, quod liberos educare et familiam gubernare quispiam debeat, ob id non debet sacras litteras legere, non video cur non prives omne genus hominum divinorum voluminum lectione». 76 Logicamente, Ceriol respinge la distinzione fra consilium e praeceptum. Cfr. Bononia, p. 207: «Consilium esse vis? Consilium esse dico atque concedo. Sed heus tu, qui in aula Caesaris diu multumque versatus es [...] num ignoras quae a Caesare consilia dantur,

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Ceriol, insomma, avverte con forza il motivo sociale della Riforma: la legge divina concepita come unità, senza meriti sovrabbondanti; il cristianesimo evangelico, semplificato, come punto di raccordo delle diverse “vocazioni” mondane, che superi il particolarismo anche morale dei ceti. Per Giovanni da Bologna la sacralità è circoscritta in un oggetto, il Libro, che riflette nella sua inaccessibilità l’inaccessibilità del «deus absconditus». Ceriol ignora completamente il «deus absconditus» e si sofferma sul Dio rivelato. Agli astratti sillogismi sull’unità di Dio e l’unicità della lingua sacra, con cui Gerson combatteva i valdesi e che Bologna riprende per proprio conto, contrappone l’abbondanza e varietà delle versioni bibliche come vincolo sociale, che permette a diversi popoli di condividere una sola legge. Non comunicare la norma etica suprema, violando il valliano «sacramentum linguae», è per Furió quasi un sacrilegio. Si comprende quindi la fusione fra polemica linguistica e polemica teologica, così tipica del Bononia: nell’idioma volgare si esprime la maturità religiosa della società. Proprio il dialogo di Ceriol esemplifica la dimensione antropologica in senso ampio, anziché tecnicamente grammaticale, assunta dalla discussione cinquecentesca sulle lingue volgari. Nulla più della lingua illustra l’assioma machiavelliano che «tutte le cose umane sono in moto»; vecchi testi diventano illeggibili, l’innovazione continua vanifica l’esigenza di una norma sicura. Cosa rimane dell’universalità immutabile della religione, immersa in questo flusso? Giovanni da Bologna immagina perciò una gerarchia immobile delle lingue sacre, ebraico, greco e latino, “lingue della rivelazione” per la loro maggiore perfezione intrinseca. L’argomentazione può sembrare arcaica, ma il conservatore ha pronto in riserva il principio umanistico dell’inscindibilità di forma e contenuto e della necessità di rispettare le peculiarità idiomatiche di ciascuna lingua (proprietas)77. Quel principio aveva svolto un ruolo importante nell’esegesi di Erasmo78. Diventato patrimonio comune dei filologi sacri, però, poteva prestarsi facilmente a un’interpretazione tradizionalista. Il illa in mandatorum et praeceptorum potius numerum referri solere?». Questo motivo, comune nella Riforma, era stato trattato con particolare ampiezza da Erasmo nelle Adnotationes ad Novum Testamentum, 1 Cor., VII, 39 (Opera omnia, cit., VI, col. 697E-698B). 77 Cfr. Bononia, p. 70: «Lege omnes authores, quicumque aut in sacram scripturam commentarios ediderunt, aut seorsum et separatim tractarunt aliquod argumentum [...] cognosces certe, quo maiorem quisque habuerit Graecarum et Hebraeorum disciplinarum cognitionem, eo in divinis litteris magis floruisse. Nec mirum: habent enim singulae quaeque linguae quasdam nativas vires et proprietates in rebus explicandis, ut in peregrinam linguam transferri nequeant commode». 78 Cfr. J. Chomarat, Grammaire et rhétorique chez Erasme, Paris, Puf, 1981, II, pp. 803- 814, in particolare pp. 805-806.

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letteralismo veniva impiegato come antidoto contro versioni innovative che, scalzando il lessico consacrato, erano gravide di conseguenze per l’esegesi. Su questo punto aveva fatto leva la critica di Beza a Castellione, singolarmente vicina a certi passi del Ciceronianus di Erasmo79. Ceriol invece, ammirava la traduzione latina della Bibbia eseguita dal savoiardo, nel cui classicismo scorgeva una rottura di fondo con la “barbarie” conservatrice. Contro i difensori a oltranza della Vulgata, ma anche contro i grecisti ed ebraisti propensi a identificare competenza filologica ed autorità magisteriale, Furió nega recisamente che l’espressione della Scrittura sia ispirata. Egli crede, anzi, che questa forma si possa continuamente perfezionare mettendo a frutto le risorse del volgare80. L’obbiettivo della critica filologica spregiudicata, che sottolinea erasmianamente gli ebraismi del greco apostolico e i “barbarismi” della Vulgata, non è quello di avvicinarsi il più possibile all’autorità dell’archetipo. Ceriol condanna l’eccessivo letteralismo della traduzione di «Pagninus cognomine Santes», condotta sul testo ebraico. L’umanesimo volgare di Furió guarda in avanti, alla possibilità di versioni “moderne” della Bibbia nelle lingue volgari, più eleganti e scorrevoli di quelle antiche. Gli idiomi sacri, infatti, non sono altro che volgari cristallizzati, di cui Ceriol riafferma polemicamente la storicità: cos’erano, all’origine, la Vulgata o i Settanta, se non volgarizzamenti destinati all’intero popolo cristiano? Erasmo, per ammorbidire gli avversari, aveva insistito sul fatto che la sua versione latina del Nuovo Testamento era destinata solo alla lettura privata dei dotti. Furió non conosce questo rispetto (sia pure strumentale) di fronte alla tradizione. Umanista “moderno”, privo di nostalgia per l’antico, propende a tessere un’“apologia del presente”. L’elogio della fioritura culturale a lui con79 Cfr. S. Castalionis Defensio suarum translationum bibliorum, cit., p. 130, dove il savoiardo riporta per esteso la critica di Beza: «veluti si pro angelis Genios dicas, pro baptismo lotionem, pro fide confidentiam, pro Ecclesia rempublicam vel civitatem, pro presbyterio senatum et caetera id genus prophane et falsis rationibus innovata, de quibus hodie sibi placent nonnulli, qui tamen utinam intra verba peccarent»; ivi, p. 29: «delicati certe homines, qui neque perpetua tot saeculorum authoritate commoveantur, neque quotidiana vulgi consuetudine adduci possunt, ut Theologis licere putent [...] ut quae longo usu et optima fide possiderint tamquam sua retineant». Nei classicisti come Castellione, secondo Beza, l’arbitrarietà del linguaggio porta con sé l’errore dogmatico. 80 Cfr. Bononia, pp. 202-203: «Omnibus linguis vulgaribus sua est copia, suus ornatus, sua elegantia, suus lepos ob eamque rem, si fideliter, nec sordidis verbis scriptura interpretetur, non poterit non culta et ornata apparere. Satis ornata scriptura fuerit, si eam multi legant et multa cura, atque ita legant, ut et sibi et Reipublicae prosint, quamquam in vertendo velim, ut ne emendatae orationis ac elegantis cura abijciatur»; ivi, p. 289: «Ac ut de linguis primum agam, hae omnium consensu nihil aliud sunt, quam instrumenta, quibus cogitata mentis explicamus. Haec autem animi sive sensa sive cogitata quacumque lingua vel loquendo exprimi possunt, vel scribendo».

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temporanea e dell’abilità dei traduttori, soprattutto italiani, si unisce ad un atteggiamento pratico nei confronti del linguaggio, che privilegia il criterio dell’uso e l’istanza comunicativa rispetto alla ricerca di una norma estetica perfetta e immobile. Così, mentre rifiuta il diffuso pregiudizio di una gerarchia qualitativa delle lingue, accoglie senza problemi la necessità di un periodico aggiornamento lessicale dei volgarizzamenti biblici (anche ogni dieci anni, se necessario). Con altrettanta disinvoltura viene superato lo scoglio costituito dalla varietà geografica del volgare. Riallacciandosi alle discussioni italiane sulla questione della lingua, Ceriol riconosce che si tratta di un problema di stilistica (quale sia il “miglior volgare”), non di comprensibilità 81. Perché sia assicurata la possibilità teorica del volgarizzamento basta, in definitiva, che toscani, lombardi e apuli, oppure valenziani, catalani e abitanti delle Baleari riescano a comprendere una versione rispettivamente italiana o catalana82. Una volta ammessa la chiarezza concettuale della Scrittura, è sempre possibile ovviare con una parafrasi all’eventuale oscurità espressiva. 81

Cfr. Bononia, p. 332: «Nam utcumque loquatur Hetruscus, vel Apulus (utor enim tuo exemplo) vel Ligubardus, bene inter se intelligunt: neque de eo contentio inter ipsos est, quod non alius alium bene et perfecte intelligat, sed quod unus alium tamquam minus elaboratum et cultum reprehendat: unusquisque sibi elegantis locutionis palmam sibi dari vult. Quare, quod ad intelligendum id quod scriptum istis Italicis literis fuerit attinet, nihil interest: ista varietas linguarum ab omnibus Italis bene intelligetur. Traducitur autem in vernaculam linguam scriptura sacra, ut ab omnibus eius populi hominibus, in cuius sermonem vertitur, intelligatur: eaque re nullo nobis impedimento ista varietas fuerit». Ceriol conosce almeno una versione italiana della Bibbia (Bononia, p. 111: «Habet enim Italia providens iam in suam linguam versos libros sacros»), probabilmente quella di Antonio Brucioli, apparsa nel 1530 (Nuovo Testamento) e 1532 (Antico e Nuovo Testamento) presso l’editore Zanetti di Venezia e poi ripetutamente ristampata, la cui prefazione riproduceva un celebre passo della Paraclesis erasmiana sull’utilità dei volgarizzamenti biblici. Cfr. G. Spini, Tra Rinascimento e Riforma: Antonio Brucioli, Firenze, La Nuova Italia, 1940; A. Brucioli, Dialoghi, a cura di A. Landi, Firenze-Chicago, Sansoni-Newberry, 1982. Successivamente a quella del Brucioli vennero pubblicate le versioni dei domenicani Zaccheria da Firenze e Sante Marmochino e la traduzione del Nuovo Testamento dell’«Anonimo della Speranza» (1545), nonché numerose riedizioni della Bibbia quattrocentesca del benedettino Niccolò Malerbi (cfr. E. Barbieri, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento. Storia e bibliografia ragionata delle edizioni in lingua italiana dal 1471 al 1600, vol. I, Milano, Editrice bibliografica, 1992). Autori ortodossi ed eterodossi contribuivano dunque ad alimentare una produzione in lingua volgare che fece dell’Italia uno dei paesi di più diffusa e tenace cultura biblica popolare (cfr. G. Fragnito, La Bibbia al rogo, cit.). Nelle pagine del Bononia l’ammirazione per l’Italia umanistica (Valla, Trapezunzio, Poliziano che avevano dato la misura delle possibilità espressive della traduzione) si fonde, senza soluzione di continuità, con quella per il più recente «evangelismo» e «valdesianismo». 82 Per il riferimento di Furió alla Bibbia valenziana di Bonifacio Ferrer, edita nel 1471, cfr. G. Colon, L’humanista Furió Ceriol, cit. Il passo (Bononia, p. 329) è notevole anche per

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La concezione plastica e dinamica della lingua rivendicata nel Bononia si inserisce nella grande tradizione dell’umanesimo iberico. Già Nebrija aveva congiunto la filologia biblica di impronta valliana, insofferente dell’eccessivo tradizionalismo del gruppo complutense intorno a Ximénez de Cisneros, con l’interesse per la lingua volgare e la codificazione della grammatica spagnola. Alfonso de Valdés unisce l’“erasmismo politico” e l’invito a tradurre la Bibbia nell’idioma della gente comune in un’opera, il Diálogo de Mercurio y Carón, che è essa stessa un modello di atticismo volgare 83. Il fratello Juan de Valdés, nel suo Diálogo de la lengua, propone al pubblico italiano uno spagnolo concepito come idioma imperiale, linguaggio unificante della monarchia transnazionale di Carlo V. All’interno di quella monarchia il rinnovamento religioso dapprima erasmiano, poi “luterano” e spiritualista, aperto agli influssi della più radicale cultura basileese, venne insomma concepito come “invenzione” di un nuovo linguaggio religioso, per cui non si poteva prescindere dal volgare. L’invito a dare la Bibbia ai laici nella loro lingua materna proviene dalla Fiandra e dalla Germania urbanizzate, dove un certo equilibrio confessionale indebolisce le pretese simmetriche della Chiesa cattolica (escludere la Bibbia dalla cultura religiosa in volgare) e delle Chiese riformate (imporre le proprie versioni ufficiali e bloccare sul nascere ogni deviazione umanistica e ogni individualismo teologico-letterario). Passando da Erasmo e Castellione agli autori spagnoli, però, la tematica della “Bibbia in volgare” assume uno spiccato colorito nazionale. Diventa un fattore di unificazione, legittima l’egemonia politica spagnola sulla base di un’autentica superiorità morale e religiosa dell’elite di governo (“principi cristiani” che rispondono solo alla propria coscienza, senza lasciarsi plagiare da teologi e confessori; devozione lucida e pragmatica, indifferente alle sottigliezze teologiche). Questi ideali sono evidentemente in contrasto con la forma esclusiva e repressiva che andrà sempre più assumendo nel corso del Cinquecento l’identità nazionale ispanica. Basterà ricordare il giudizio molto positivo che Ceriol esprime sull’ebraismo: gli ebrei leggono il testo sacro nella lingua materna e,

l’attacco esplicito all’Inquisizione di Spagna: «quae nisi essent fideliter translata, nunquam esset per Pontifices et Inquisitores Hispaniarum concessum ut imprimerentur: utpote qui in hujusmodi negotijs diligentissimi sunt, severissimi et paene dixerim superstitiosi maxime». 83 Cfr. A. de Valdés, Diálogo de Mercurio y Carón, ed. J.F. Montesinos, Madrid, La Lectura, 1929, p. 223: «Anima [del vescovo esemplare]: [...] Determinado, pues, qué libros se havían de leer y qué de vedar y dexar [...] hize imprimir de todo ello una muy grande multitud de libros, assí en latín como en vulgar, hize transladar el Testamento Nuevo y otras cosas latinas que me parecieron provechosas para el vulgo».

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per loro, la legge è, senza possibilità di dubbio, Legge di tutto il popolo. Tutta l’attività di Furió dopo il 1556 si caratterizza come ricerca di un punto d’incontro fra l’ideale etico-religioso esposto nel Bononia e la realtà concreta della monarchia di Filippo II: tra potere centrale e tendenze autonomistiche, tra Spagna e Fiandra, tra cattolicesimo nazionale e “pietà” laica di impronta spiritualistica. La conoscenza della varietà dei linguaggi e dei mores, fondamentale per diffondere un cristianesimo “purificato”, è richiesta anche per amministrare con efficacia un complesso politico composito e potenzialmente conflittuale. Il punto d’arrivo del Bononia è anche il punto di partenza degli scritti politici e delle missioni diplomatiche di Furió Ceriol. 5. Come abbiamo visto, facendo proprie suggestioni della Riforma cattolica, ma anche e soprattutto dello spiritualismo basileese di Sebastiano Castellione, Ceriol aveva fuso cultura linguistico-retorica e teologia eterodossa in un’opera provocatoria. Appena liberato, Furió si era dedicato ad approfondire le implicazioni politiche di quella prospettiva religiosa e culturale, secondo l’ideale di eloquenza civile enunciato con forza nelle Institutiones Rhetoricae (1554). Egli si inseriva così nella tradizione spagnola di riflessione sul rapporto fra potere civile e autorità ecclesiastica, ma anche fra principe e corte, fra istituzioni burocratiche e individualismo cortigiano. Riflessione “morale”, questa, che si intreccia alla discussione, fra estetica e antropologica, sulle forme espressive della “discrezione”, la virtù che assicura all’ingenio successo sociale ed efficacia persuasiva. L’opera di Ceriol si inscrive nel contesto del “machiavellismo” spagnolo e dell’«opposizione politica sotto gli Asburgo» (per riprendere un’espressione di J. A. Maravall), ma anche della fortuna di Castiglione e delle teorie sull’«esame di ingegni», secondo la celebre formula di Huarte de San Juan. Come numerosi moralisti spagnoli del Siglo de oro, Ceriol è anche un politico pratico, punto di riferimento di una linea politica nettamente divergente da quella della Controriforma ispanica. Nel complesso gioco di partiti alla corte di Filippo II Furió non giunse mai ad ottenere una posizione di primo piano, ma seppe sfuggire a una condanna definitiva per eresia e, almeno per un certo periodo – il governatorato fiammingo del moderato Requesens –, poté comunque svolgere un ruolo significativo. Mentre non riusciva a conseguire un posto di governo importante nella sua regione natale, il regno di Aragona dove Filippo II conduceva una politica centralista, non veniva dimenticato dall’Europa colta. Il pensatore politico spagnolo, scomparso senza onori nel 1592, riceveva gli elogi di grandi scrittori politiques, Michel de Montaigne e Gustave-Auguste de Thou: simbolo, quasi, di una “Spagna

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alternativa” che guardava all’Europa, proprio perché cominciava a sentirsi oppressa e limitata nella madrepatria. Tre anni dopo il Bononia Ceriol pubblicava il suo terzo libro: il Concejo y consejeros del Príncipe, frammento di un gigantesco progetto di scienza politica con cui presentava le proprie credenziali per ottenere un posto non subalterno fra i consiglieri di Filippo II. Un attacco all’Inquisizione, per quanto in sordina, ed una energica affermazione di “laicismo” politico non erano i mezzi migliori per ottenerlo. Nel 1559 l’indice romano e quello spagnolo di Fernando de Valdés condannavano il Bononia insieme ai Comentarios del catecismo cristiano (1558) di Bartolomé Carranza84, pubblicati, come il Concejo, dalla casa anversana di Martin Nuncio. Con l’imprigionamento dell’arcivescovo di Toledo, mentre proseguiva la severa repressione del cenacolo eterodosso di Valladolid, si concludeva il periodo d’auge della devozione recogida, favorita dalla principessa reggente Giovanna d’Asburgo e condivisa dai gesuiti. Il nuovo gruppo cui Filippo II, rientrato a Bruxelles dopo la morte di Maria Tudor, aveva concesso la propria fiducia, capeggiato dal regio confessore Bernardo de Fresneda, non tardò a manifestare le proprie tendenze repressive. In questo clima di sospetto e di irrigidimento si apriva un nuovo capitolo nelle traversie giudiziarie di Ceriol. Il valenziano doveva esserne ben consapevole quando, con senso quasi barocco dello stravolgimento, scriveva: «Malicia i iñorancia se dan priessa / Por su vano intesse que por frio / Se tenga el sol». Ma anziché sottomettersi «hasta despertar» ad una morale provvisoria, preferiva riaffermare con orgoglio umanistico: «El mundo hace historia». Per il momento a fare storia era l’intolleranza dei potenti. Nella primavera-estate del 1559 Furió veniva nuovamente imprigionato su ordine espresso di Filippo II e, benché rilasciato dal rettore dell’Università di Lovanio, non riusciva ad ottenere la desiderata sentenza di assoluzione piena. La governatrice Margherita di Parma invitava anzi il rettore a sospendere l’azione giudiziaria contro gli accusatori del valenziano (13 ottobre 1559). Infine nel gennaio 1560 Margherita fece ancora una volta imprigionare Ceriol, che prima di settembre era comunque riuscito a fuggire: dapprima a Liegi e poi (dal novembre 1561) a Colonia, dove conseguì un impiego alla corte dell’elettore arcivescovo Friedrich von Wied.

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Sull’importanza di quest’opera in rapporto al problema della traduzione della Bibbia in volgare cfr. J.I. Tellechea Idígoras, Bible et théologie en langue vulgaire. Discussion à propos du catechisme de Carranza, in L’humanisme dans les lettres espagnoles. Etudes réunis et présentées par A. Redondo, Paris, Vrin, 1979, pp. 219-231.

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Colonia, dove già in precedenza Ceriol era entrato in contatto con le correnti riformiste, era in quegli anni il centro d’irraggiamento della propaganda irenistica di Cassander. Dopo il De officio pii viri (1561) e la conseguente polemica con Calvino, l’azione mediatrice dell’umanista di Bruges culminava nel 1564. In quell’anno Ferdinando I invitava Cassander a Vienna come consultore teologico con uno stipendio di 300 fiorini e quest’ultimo, pur declinando l’offerta per motivi di salute, accettava di commentare la Confessione d’Augusta sottolineando i punti di convergenza fra cattolici e riformati. Cassander assume il consenso unanime della Chiesa dell’età patristica come norma vincolante di tradizione, ammette la possibilità di modificare le costituzioni ecclesiastiche posteriori (ad esempio quelle relative al celibato e alla comunione) e manifesta rispetto per Melantone, persino per il primo Lutero. La limitata tolleranza che Furió proporrà negli anni Settanta per i Paesi Bassi (né culto calvinista pubblico, né Inquisizione) costituisce certo anche un’eco della Consultatio di Cassander. Quando l’umanista fiammingo pubblicava il suo manifesto irenico, tuttavia, Ceriol già non si trovava più a Colonia. Dopo aver minacciato di comporre pamphlets contro Granvelle e lo stesso Filippo II, ai primi del 1563 il valenziano accettava infine l’amnistia offertagli dal re attraverso i suoi agenti Alonso del Canto e fray Lorenzo de Villavicencio, incaricati di riportare in Spagna eretici e sospetti eterodossi85. Ai primi di marzo 1564 Furió sbarcava infine a Barcellona. Onori e ricompense, che gli erano stati promessi durante le trattative per il rimpatrio, si fecero penosamente attendere. Dapprima Ceriol venne addirittura affidato alla custodia dell’arcivescovo di Valencia: una forma di prigionia non dichiarata. Negli anni seguenti Furió non fece mancare a Filippo II il suo “consiglio” politico nella forma del memoriale; ma soltanto nel 1574 il “nuovo corso” di Requesens nei Paesi Bassi schiudeva al valenziano, con il provvisorio consenso del monarca, una nuova fase di intensa attività politica. Quell’attività cercava di tradurre in pratica i principi enunciati quindici anni prima nel Concejo sul cui contenuto sarà ora opportuno soffermarci. 6. Il Concejo è, propriamente, un frammento. Si tratta, infatti, dell’introduzione al trattato conclusivo di un’opera che avrebbe dovuto comprenderne 85 Del Canto e Villavicencio agivano come longa manus del segretario personale di Filippo II, Francisco de Eraso, interessato a diffondere notizie allarmanti sulla diffusione dell’eresia nei Paesi Bassi per screditare il Granvelle, ministro della reggente, a cui lo opponeva un’antica rivalità. Cfr. C.J. de Carlos Morales, El poder de los secretarios reales: Francisco de Eraso, in J. Martínez Millán, dir., La corte de Felipe II, Madrid, Alianza Universidad, 1994, pp. 107-148, in particolare p. 139.

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cinque e passare in rassegna i loci fondamentali della politica: l’origine del potere (I trattato), l’educazione del principe (II trattato), l’obbligazione politica fra sovrano e sudditi e la definizione della tirannide (III trattato), il modo in cui si acquistano e amministrano gli stati (IV trattato). Il piano del secondo trattato ricorda da vicino la struttura degli specula principum: la materia viene distribuita in sette libri che corrispondono alle sette età dell’uomo. Per quanto vedremo in seguito, si può presumere che nell’esecuzione del progetto Ceriol avrebbe ripensato a fondo i presupposti moralistici di quella tradizione, non diversamente da Machiavelli nei capitoli XV-XIX del Principe. La struttura della prima parte (capitoli I-XI) dell’opera machiavelliana sembra invece il modello del quarto trattato, ordinato secondo i diversi generi di principati acquisiti per eredità, elezione, forza o inganno. Il primo e il terzo trattato si richiamano alla tematica filosofica platonico-aristotelica. Il quinto trattato, riservato all’apparato di governo, avrebbe dovuto includere un libro introduttivo, appunto il Concejo, e sette libri specifici corrispondenti ai sette Consigli enumerati nel I libro. Il Concejo si divide in quattro capitoli: I. struttura dei Consigli; II. qualità morali del consigliere; III. qualità fisiche; IV. criteri di scelta del consigliere. Dal piano generale dell’opera si indovina un’ambizione sistematica ed esaustiva. Ceriol evita il genere del “commento” umanistico (Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio), troppo poco organico, ma aspira anche a colmare i vuoti lasciati dalla stringatezza oratoria del Principe. Come nel Principe, però, un obbiettivo politico immediato interferisce con l’intento scientifico e accademico. Come Machiavelli “manda avanti” le considerazioni sul principato per influire sulla nuova situazione italiana dopo la restaurazione medicea del 1512, anche Ceriol è mosso a scrivere dalla conclusione dell’esperienza inglese di Filippo II e dall’inizio effettivo del suo governo in Spagna. Il Concejo viene incontro alle esigenze di un sovrano giovane, ancora alla ricerca dei propri ministri. Lo scritto di Ceriol è l’annuncio di un programma di governo cui l’autore intende contribuire, candidandosi a far parte della nuova amministrazione. È anche, però, un prolegomeno ad una nuova teoria ancora da costruire nelle sue articolazioni sistematiche, ma che già si annuncia come uno svolgimento e un approfondimento di quella machiavelliana. A differenza del fiorentino, Ceriol procede con rigoroso ordine deduttivo dal problema astratto e generale dell’origine e limiti del potere (appena accennato nei capitoli iniziali dei Discorsi), che sarà poi al centro del dibattito politico nel tardo Cinquecento e nel Seicento. Ma questo vasto progetto non venne mai portato a termine: la reazione del diretto interessato, Filippo II, alla partezilla esposta nel Concejo fu abbastanza negativa per indurre Ceriol a desistere dall’impresa.

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L’influsso di Machiavelli, il cui nome non compare mai nel Concejo, si manifesta fin dalle prime pagine del trattato. Le parole orgogliose con cui Ceriol afferma la propria competenza politica suonano come una parafrasi un po’ magniloquente della machiavelliana «lunga esperienza delle cose moderne e continua lezione delle antique»86. Come Machiavelli, Ceriol è persuaso che guerra e politica siano cose troppo importanti per lasciarle in mano ai generali e agli statisti empirici. Umanista e studioso di retorica, Furió non ignora la classica difesa dell’esperienza dalle prevaricazioni della teoria astratta: il discorso di Antonio contro Crasso nel De oratore ciceroniano. Da quel discorso egli riprende il corrosivo apologo di Annibale e Formione, il filosofo greculo che voleva insegnare al grande generale a far la guerra87. L’exemplum viene però citato per essere respinto quasi stizzosamente: l’ultima parola in fatto di arte del governo spetta al trattatista, non al politico pratico. La politica è infatti un’“arte”, che può essere insegnata come ogni altra tecnica o disciplina. Davanti all’alternativa fra apriorismo machiavelliano ed empirismo guicciardiniano, Furió adotta senz’altro la posizione dell’autore del Principe: la “scienza nuova” della politica può dominare la complessità degli eventi («tutte le cose umane sono in moto»). Come per Machiavelli, anche per Ceriol il principale strumento di questa scienza è una lettura pragmatica ed utilitaristica, non evasiva e letteraria delle opere storiche 88.

86 Cfr. F. Furió Ceriol, El Concejo y consejeros del príncipe (Obra completa, I, edd. H. Méchoulan-J. Pérez Durà, Valencia, Edicions Alfons el Magnanim, 1996), p. 89: «desde mis tiernos anos siempre me empleé en saber i entender formas i modos de buen govierno; a cuia causa he rebuelto muchos libros por entender el govierno antiguo de los Assirios, Tebanos, Atenienses, Cartaginenses, Romanos, i también de los de nuestros tiempos [...] I para la esperiencia me aprovechava de saber lo que en mis dias ha passado en la concurrencia de las guerras entre los Príncipes de Europa, i cotejarlo con las antiguas historias»; N. Machiavelli, Principe, in Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, p. 257: «la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga esperienzia delle cose moderne e una continua lezione delle antique». 87 Cfr. Cicero, De oratore, II, xviii, 75: «Nec mihi opus est Graeco aliquo doctore, qui mihi pervolgata praecepta decantet, cum ipse numquam forum, numquam ullum iudicium aspexerit; ut Peripateticus ille dicitur Phormio [...] locutus esse dicitur homo copiosus aliquot horas de imperatoris officio et de re militari. Tum, quom ceteri qui illum audierant vehementer essent delectati, quaerebantur ab Hannibale quidnam ipse de illo philosopho iudicaret. Hic Poenus non optime Graece, sed tamen libere respondisse fertur multos se deliros senes saepe vidisse, sed qui magis quam Phormio deliraret vidisse neminem; neque mehercule iniuria». 88 Cfr. El Concejo, cit., pp. 102-103: «La quarta calidad que muestra la suficiencia en el alma del Consejero es que sea grande historiador [...] Basta, en conclusión desto, que las

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Si tratta di un motivo aristotelico, chiaramente enunciato in quel capitolo IV del I libro della Rhetorica a cui, come vedremo, Ceriol si ispira per il I libro del Concejo 89. Machiavelli aveva conferito a quel motivo nuova attualità, ripromettendosi da un diverso approccio alla storia una radicale riforma della “cattiva politica” contemporanea. Furió condivide la critica del fiorentino al mancato ricorso alla storia nell’amministrazione degli stati, non compensato dall’interesse puramente edonistico per la «varietà degli accidenti»90. L’imperativo machiavelliano dell’“imitazione degli antichi”, però, è del tutto assente dal Concejo. Senza polemizzare espressamente con coloro che «allegano ad ogni passo» l’esempio degli antichi, il valenziano dà per scontata la pari dignità delle «historias antiguas i modernas», anzi invita a studiare «principalmente las de su Príncipe, las de sus aliados, las de sus vezinos, i las de sus enemigos»91. Ceriol approfondisce così la posizione del Bononia, in cui aveva affermato l’eguaglianza intrinseca di lingue antiche e volgari moderni. Nutrita di conoscenza storica, la politica di Furió e Machiavelli presuppone anche la filosofia etica, configurandosi come “dottrina delle virtù” dell’uomo di governo. Entrambi seguono la tradizionale concezione umanistica per cui exemplum storico e precetto etico si integrano reciprocamente. L’opera teorica di Ceriol, però, non vuole aver nulla in comune con l’enciclopedismo Leies no son más de una historia que contiene las sentencias i paresceres de los antiguos i sabios varones, con que ordenaron sus ciudades i mantuvieron los habitadores dellas en concordia i egualdad, i al presente nos ensenan cómo podamos hazer lo mismo. La Medicina también es historia de las esperiencias que hizieron los médicos antiguamente, sobre la cual fundan nuestros médicos sus juizios i curas»; N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, in Tutte le opere, cit., p. 76: «E tanto più quanto io veggo nelle diferenzie che intra cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati; perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a’ presenti nostri iureconsulti giudicare insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienzia fatta dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e’ medici presenti e’ loro iudizii». 89 Cfr. Aristoteles, Rhetorica, I, iv, 1360a: «È chiaro perciò che libri di viaggio sono utili per la legislazione, poiché ci aiutano a capire le leggi di altre nazioni, ed opere storiche per i dibattiti politici». 90 Cfr. El Concejo, cit., p. 104: «Esto entienden poco, i assí vemos que pocos saben governar: no hai dellos, digo de los governadores, quien lea las historias; i si alguno las lee, no saca el fruto dellas, porque solamente passa el tiempo con aquel plazer que se toma con la variedad de los acidentes que consigo trahe la historia, i no mira cómo se podrá aprovechar dellos en casa i fuera, en público i particular, poniéndolos por obra en todos sus negocios i deliberaciones [...] No es la historia para passatiempo, sino para ganar tiempo». 91 Cfr. El Concejo, cit., pp. 103-104. Anche gli esempi forniti da Ceriol sono presi tutti dalla storia più recente (cfr. ivi, p. 104).

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moralistico degli specula principum. Il valenziano aspira ad educare il principe come persona pubblica e non come individuo singolo, a descrivere i modi dell’esercizio della sovranità anziché riproporre un consunto modello di perfezione etica 92. Ceriol doveva trovare in Machiavelli una potente conferma al proprio disprezzo per il moralismo ipocrita93. Su questo punto, del resto, poteva richiamarsi anche ad Erasmo. L’umanista di Rotterdam, nei suoi scritti più incisivi, aveva sempre ammonito a non giudicare le virtù secondo l’opinione corrente, a sforzarsi di andar oltre l’apparenza, a non confondere l’oro con l’orpello. Come, per Erasmo, soltanto l’“uomo spirituale” comprende i veri beni eticoreligiosi, così per Ceriol soltanto l’uomo politico comprende i veri beni politici. Entrambi gli autori suggeriscono una contrapposizione radicale fra due sistemi di valori: quelli del “volgo” e quelli dell’uomo “saggio” e “prudente”. Questa riflessione viene stimolata anche dalla consapevolezza retorica dell’interscambiabilità dei predicati etici a seconda del punto di vista, come suggerisce l’insistenza di Ceriol sulle circumstantiae 94. Naturalmente il discorso platonizzante di Erasmo, incontrandosi con l’opera di Machiavelli, riceve un’accentuazione politica del tutto nuova. Come il fiorentino, Ceriol si preoccupa di determinare la virtù propria dell’uomo di 92 Cfr. El Concejo, cit., p. 86: «La institución del Príncipe, en quanto Príncipe, es darle regla, precetos, o avisos tales, con que sepa i pueda ser buen Príncipe. Estas palabras – buen Príncipe – son de mui pocos entendidas, i assí vemos sobre ello que muchos hombres dizen razones en aparencia buenas, pero en efeto vanas i fuera de propósito: porque ellos piensan que buen Príncipe es un hombre que sea bueno, i este mesmo que sea Príncipe; i assí concluien que el tal es buen Príncipe». 93 Cfr. El Concejo, cit., p. 88: «El tercero, que virtudes morales le sean más necessarias, i cómo ha de usar dellas, que esta es una parte que pocos entienden, i es el quieto en que estriba el govierno». Corsivo nostro. 94 Cfr. El Concejo, cit., pp. 104-105: «La quinta calidad que muestra la suficiencia del alma en el Consejero, es que sepa bien i perfetamente el fin, la materia, el cómo, quando, i hasta quanto se estienda cada virtud. Porque es cosa en que se ierra a cada passo i, si el Consejero sigue el vulgo en ello, dará terribles porradas. Porque, por inorancia de los que digo de las virtudes, muchos, mui muchos i casi todos los hombres, al que es hombre reposado, llaman medroso; al astuto, traidor [...] al supersticioso, santo; al mui doto, curioso; al curioso, loco; i de la mesma manera en todas las otras virtudes i vicios, dándoles a bien o mal su contrario nombre como a cada uno se le antoja». Corsivo nostro. Cfr. B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di B. Maier, Torino, Utet, 1955, p. 102 (I, xiii): «dico che in ogni cosa tanto è difficil il conoscer la vera perfezion, che quasi è impossibile; e questo per la varietà de’ giudìci [...] e così ciascuno lauda e vitupera secondo il parer suo, sempre coprendo il vicio col nome della propinqua virtù, o la virtù col nome del propinquo vicio; come chiamando un prosuntuoso, libero; un modesto, àrrido; un nescio, bono; un scelerato, prudente; e medesimamente nel resto».

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stato come “virtù tecnica”, capacità di esercitare con successo un’arte o professione, le cui regole specifiche non possono essere sostituite da precetti generici o eterogenei95. La virtù del principe può esser senz’altro distinta dalla sua morale privata. La rottura con la tradizione moraleggiante è esplicita: l’intelligenza politica può essere compatibile con il vizio96. Il principe non va giudicato come uomo, bensì per il suo agire politico: Ceriol, evidentemente, è interessato a definire una capacità d’azione efficace, che diventa bene o male (o, meglio, viene giudicata bene o male) a seconda del suo impiego contestuale. Questa premessa chiarisce che le qualità morali del consigliere vanno intese in senso prettamente politico. Il suo caso è certo diverso da quello del principe machiavelliano: disinteresse e abnegazione personale fanno parte della sua professione, corruzione e intrigo annullano il valore politico del consiglio. L’onestà del consejero, però, non consiste nella bontà o devozione personale, bensì nel coraggio di proclamare «invidiosi veri» quando è in gioco la salvezza dello stato. Il concetto di Ceriol è chiarito dall’esempio di Quinto Fabio Massimo: meglio sacrificare la propria honra, passando per vili, che persuadere scelte vantaggiose per la propria reputazione, ma dannose per lo stato97. L’utilità razionalmente intesa passa dunque avanti al prestigio personale e all’onore cavalleresco. Honestum si separa da honos 98. Per di più l’hone-

95 Cfr. El Concejo, cit., p. 86: «De manera que en la institución de las artes, cada una terná sus precetos distintos de las otras; i mesclarlos, es contra razón i orden [...] De manera que el buen Príncipe es aquel que entiende bien i perfetamente su profesión, i la pone en obra agudamente i con prudencia». Sul concetto di «virtù tecnica» in Machiavelli cfr. L. Russo, Prolegomeni a Machiavelli, Bari, Laterza, 1935. 96 Cfr. El Concejo, cit., p. 86, dove si distingue con particolare chiarezza fra giudizio dei sapienti e giudizio del volgo: «Io digo que la mejor pieca del arnés en el Príncipe, la más senalada, i aquella en que más ha da poner toda su esperança es la bontad; pero no se habla entre hombres de grande espíritu i de singular govierno, dessa manera, sino como de un buen músico, el qual (aunque sea grand vellaco) por saber perfetamente su profesión de música, es nombrado mui buen músico». Corsivo nostro. 97 Cfr. El Concejo, cit., pp. 110-111: «A este propósito, no puedo acabar con migo de no traher un par de exemplos: i aunque en ellos haga contra lo que muchas vezes he protestado, todavía meresco escusa por ser los exemplos de mucha dotrina, i en cosa que ordinariamente por los grandes Príncipes i senores totalmente se ierra [...] Calicrátidas más quizo pelear con desventaja suia, que retirarse con sospecha de su honra; Fabio más quizo huir con infamia (hablo según la opinión de inorantes) que pelear con peligro del bien público». Corsivo nostro. 98 Cfr. El Concejo, cit., p. 105: «Porque en todos los consejos i deliberaciones, lo primero que se consulta es si es contra honestidad o no aquello de que se trata con todas sus circunstancias». Corsivo nostro.

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stum, a cui il consejero deve ispirare i suoi pareri, è concepito come categoria retorica («ciò che può essere persuaso come bene»), non come norma morale assoluta. Anche qui Furió si incontra con Machiavelli, che introduce la discussione sulle virtù dei paragrafi XV-XIX del Principe come analisi delle qualità che normalmente si attribuiscono ai governanti, cioè come topica del discorso politico anziché come teoria etica sistematica. Tanto Ceriol quanto Machiavelli si inseriscono in una tradizione di relativismo etico umanista (inaugurato dal De vero bono di Lorenzo Valla) che resta programmaticamente estranea all’alternativa astratta di moralismo e immoralismo99. La differenza fondamentale fra Machiavelli e Ceriol non consiste nel presunto idealismo politico del valenziano, bensì nel diverso obbiettivo e prospettiva sociale della loro opera. Il consejero di Ceriol è senz’altro un discendente diretto del segretario del principe machiavelliano. I capitoli XXII e XXIII del Principe, che trattano dei consiglieri, costituiscono un sicuro punto di partenza per il Concejo, come confermano numerosi riscontri testuali. Furió riprende la tipologia machiavelliana (in realtà esiodea) dei “cervelli” per definire il rapporto fra conoscenza politica dei ministri ed autorità di governo che resta al sovrano100. Egli 99

Cfr. ibidem, dove viene enumerata una serie di loci dell’honestum: «De quantas cosas tiene necesidad un hombre para alcanzar la cumbre de perfeta gloria en esta vida? En quantas maneras puede hazer un hombre que sea amado por el pueblo? Con qué cosas se acredita en el pueblo un hombre de tal manera que se le dé fe a todo quanto dixere? Qué cosas mueven el pueblo a que juzgue una persona ser digna de todo honor i gloria? En quántas maneras se peca contra fortaleza? Quántas cosas pide la justicia?». Si noti, per inciso, che questa dimensione retorica del Concejo sfugge a Méchoulan, il quale attribuisce anacronisticamente a Ceriol un universalismo etico di stampo illuminista. 100 Cfr. N. Machiavelli, Principe, in Tutte le opere, cit., p. 293: «E perché sono di tre generazione cervelli: l’uno intende da sé, l’altro discerne quello che altri intende, el terzo non intende né sé né altri; quel primo è eccellentissimo, el secondo eccellente, el terzo inutile; conveniva pertanto di necessità, che, se Pandolfo non era nel primo grado, che fussi nel secondo: perché, ogni volta che uno ha iudicio di conoscere el bene o il male che uno fa e dice, ancora che da sé non abbia invenzione, conosce le opere triste e le buone del ministro, e quelle esalta e le altre corregge; e il ministro non può sperare di ingannarlo, e mantiensi buono»; El Concejo, cit., p. 101: «Porque vemos que hai tres maneras de entendimientos: uno entiende, comprehende i sabe por sí solo; otro siendo amonestado, o ensenado; otro ni con lo uno, ni con lo otro. Este postrero es inútil i nasció esclavo en perpetua servidumbre. El segundo es bueno, pero el primero es divino, i nasció derechamente para mandar i governar. La suficiencia del segundo se entiende en esto que tiene juizio para discernir el bien del mal, i aunque no tenga de sí invención, todavia conosce las malas palabras i obras de su adversario; en sus consejeros cala las voluntades, sus buenas obras loa i recompensa, i las malas reprehende i castiga; i por tanto el Concejo no tiene esperança de echarle dado falso, i assí le sirve bien i lealmente».

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condivide la preoccupazione machiavelliana di consolidare il legame reciproco fra principe e consigliere. Come Machiavelli, si limita a riproporre lo scambio “feudale” fra servizio e dono, fondato sulla fedeltà personale anziché su una qualche forma di retribuzione istituzionalizzata101. Comune è poi l’esigenza di trovare un equilibrio fra il rispetto dovuto al principe ed il suo bisogno di informazione non preconfezionata, che impone di concedere ai consiglieri un margine di libera critica. Passando da Machiavelli a Ceriol, però, le proporzioni mutano. La figura marginale del segretario balza in primo piano e viene accreditata di una preparazione sufficiente a prendere parte alle autentiche decisioni politiche. Al centro del discorso non è più il potere del principe per se stesso, bensì il Consiglio come garanzia di esercizio efficace di quel potere nella società. L’opera di Machiavelli è dominata dalla dialettica fra il “saggio” legislatore – principe nuovo o dittatore repubblicano secondo i contesti –, creatore o “rinnovatore” di istituti, e il “volgo”. Quest’ultimo è inteso come principio d’inerzia, ma anche come necessario fattore di consolidamento dei nuovi ordini grazie alla forza dell’abitudine. All’interno di questa dialettica, il ministro si riduce a mero strumento del saggio. In casi estremi, il principe può integrarlo nella sua strategia “retorica” ad uso del volgo: come quando gli affida compiti repressivi, per poi condannarlo a sua volta ed apparire clemente senza veramente esserlo (il celebre esempio di Cesare Borgia e Remirro de Orco). Per Machiavelli il consigliere è segno del principe: dal comportamento del ministro si inferiscono le qualità del principe che lo ha prescelto. Furió 101

Cfr. N. Machiavelli, Principe, in Tutte le opere, cit., p. 293: «Ma come uno principe possa conoscere il ministro, ci è questo modo che non falla mai; quando tu vedi el ministro pensare più a sé che a te, e che in tutte le azioni vi cerca drento l’utile suo, questo tale così fatto mai fia buono ministro, mai te ne potrai fidare: perché quello che ha lo stato di uno in mano, non debbe pensare mai a sé, ma al principe, e no li ricordare mai cosa che non appartenga a lui. E dall’altro canto, el principe, per mantenerlo buono, debbe pensare al ministro, onorandolo, faccendolo ricco, obbligandoselo, partecipandoli gli onori e carichi; acciò che vegga che non può stare senza lui, e che li assai onori non li faccino desiderare più onori, le assai ricchezze non li faccino desiderare più ricchezze, gli assai carichi li faccino temere le mutazioni»; El Concejo, cit., p. 115: «El avariento [...] continuo atrahe para sí, piensa más en sus cosas que no en el servicio del Príncipe, en todos sus tratos busca su provecho, siempre pide i da memoriales para sí i para los suios; es importunamente pedigüeno, lo qual es fatiga i falta mui grande, porque el que tiene el govierno de un Príncipe entre manos, nunca devría pensare en sí, sino en el provecho i gloria de su Príncipe. I por otra parte el Príncipe, por mantener su Concejo bueno, leal, i diligente, devría pensar en sus Consejeros de honrarlos, enriquezerlos, ensancallos con cargos, estados, i preminencias; porque desta manera, ellos no dessearán nada, i trabajarán de conservar su Príncipe, por conservarse a sí mismos, visto que sin él, no lo podrían».

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riprende questo motivo, che resta però secondario102. Preferisce, invece, soffermarsi sui segni del consigliere: l’insieme di qualità apparenti che possono guidare il sovrano nella scelta, “dando indizio” di preparazione politica. Machiavelli si pone dal punto di vista del “popolo” che giudica il principe (perché, come affermato nel proemio, per giudicare i potenti «bisogna essere populare»); Furió da quello del principe che giudica (“esamina”) il consigliere. Per Machiavelli è un singolo a sapere (nel senso forte della scienza politica) e a decidere: il “popolo” può, semmai, giudicare bene nelle cose particolari. Ceriol, al contrario, scinde i due aspetti della “saggezza” e dell’autorità legislativa, rivolgendo la sua attenzione a un gruppo di “saggi” – i consiglieri – la cui volontà non ha forza di legge. Furió condivide senz’altro i presupposti individualistici della tradizione umanistica e machiavelliana. Il volgo inconsapevole imita il principe; la società si modella sull’immagine del sovrano, la cui educazione diventa il problema politico per eccellenza. Il valenziano cerca però di fondere l’institutio del principe con quella dei “consiglieri”, istanza mediatrice permanente fra principe e volgo. A differenza del “ministro” machiavelliano, il consejero di Ceriol possiede dignità e valore intrinseci: la sua prudenza politica, in linea di principio, non è diversa da quella del monarca. Per questo l’uomo di corte può permettersi di dire la verità al principe, anche se quest’ultimo conserva sempre l’iniziativa della discussione. Machiavelli aveva insistito sul “timore” che deve emanare dal potere. Furió riprende il tema in versione mitigata, mettendo l’accento sulla “maestà” sovrana che non sopporta critiche fuori posto103. Inoltre 102

Cfr. N. Machiavelli, Principe, in Tutte le opere, cit., p. 293: «E la prima coniettura che si fa del cervello di uno signore, è vedere gli uomini che lui ha d’intorno; e quando e’ sono sufficienti e fideli, si può sempre reputarlo savio, perché ha saputo conoscerli sufficienti e mantenerli fideli. Ma quando sieno altrimenti, sempre si può fare non buono iudizio di lui; perché el primo errore che fa, lo fa in questa elezione»; El Concejo, cit., p. 125: «Vemos primeramente que el primer juizio que se suele haser sobre el Príncipe i de su habilidad, es de la reputación de los de su Concejo; porque, quando son sabios i suficientes, siempre es reputado sabio el Príncipe, pues supo entender quáles eran los suficientes, i después conservarselos fieles i leales. Pero quando no son tales, no se puede esperar buena reputación en el Príncipe, pues ierra en lo principal: i el que ierra en lo que más importa, es casi necessario que en todo lo otro ierre». 103 Cfr. N. Machiavelli, Principe, in Tutte le opere, cit., p. 293: «Perché non ci è altro modo a guardarsi dalle adulazioni, se non che gli uomini intendino che non ti offendine a dirti el vero; ma quando ciascuno può dirti el vero, ti manca la reverenzia. Pertanto uno principe prudente debbe tenere uno terzo modo, eleggendo nel suo stato uomini savi, e solo a quelli debbe dare libero arbitrio a parlargli la verità; e di quelle cose sole che lui domanda, e non d’altro. Ma debbe domandarli d’ogni cosa, e le opinioni loro udire; e poi deliberare da sé, a suo modo; e con questi consigli, e con ciascuno di loro, portarsi in modo che ognuno

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Furió, assumendo la prospettiva del consigliere, accentua più di Machiavelli l’esigenza della verità e la prevenzione della lisonja. Il tema della veracità assume in lui un’importanza centrale. Potrebbe sembrare un ritorno a quel moralismo tradizionalista programmaticamente bandito dal proemio del Concejo, se non si riconoscesse una chiara istanza erasmiano-riformatrice. Il consigliere “verace” enuncia le “autentiche” virtù del principe, molto diverse da quelle che il volgo immagina e non troppo lontane da quelle machiavelliche, quando difende gli interessi prioritari dello stato anche contro le eccessive pretese del “braccio ecclesiastico”. Fatta salva la reputación del principe, Ceriol tenta insomma di ottenere un riconoscimento ufficiale a un tipo di critica etico-politica che Erasmo aveva esercitato dall’esterno, dalla posizione di forza di un’autorità culturale innegabile anche se spesso contrastata104. Questa critica oltrepassa le competenze del segretario, cui Machiavelli nega sostanzialmente autonomia di pensiero politico di fronte al principe105; ma non trova riscontro neppure nei Discorsi, che conoscono semmai il diretto confronto oratorio con l’assemblea popolare. Prendendo le mosse dal principe machiavelliano e dalle sue “virtù”, ben diverse da quelle che crede il volgo, Ceriol finisce così per incontrare un altro “eroe” della cultura cinquecentesca: il perfetto “cortigiano” e servitore di grandi, l’educatore del principe, colui che in tutti i suoi giudizi e azioni si fa guidare da un’«acutezza recondita» inaccessibile alla massa106.

conosca che, quanto più liberamente si parlerà, tanto più li fia accetto: fuora di quelli, non volere udire alcuno, andare drieto alla cosa deliberata ed essere ostinato nelle deliberazioni sua»; El Concejo, cit., p. 126: «Porque oír verdades senzillas i desnudas no lo pueden los Príncipes a causa de la muchedumbre de lisonjeros que los rodean por todas partes. Pero, en dezir estas verdades, corre peligro de perder su reputación i autoridad, i ser tenido en poco el Príncipe, si qualquier hombre se le atreve a se las dezir: porque no es bien que quienquiera se las diga. Portante es menester tenga sus consejeros de aquellas calidades que io en los otros capfítulos dixe, para que sepan entender verdades i dezirlas a su tiempo; i a estos deve encargar grandíssimamente que hagan el tal oficio en todo i por todo». 104 Cfr. ibidem: «Portante el Consejero fuerte no sólo dirá las verdades al Príncipe, más aún deshará la vanidad de aquellos que trabajan de corromperlo con mentiras lisonjeadas, o lisonjas mentirosas». 105 Cfr. N. Machiavelli, Principe, in Tutte le opere, cit., p. 294: «Però si conclude che li buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla prudenzia del principe, e non la prudenzia del principe da’ buoni consigli». 106 Al di là della retorica, merita di essere citata la conclusione del capitolo III, dove una chiara ispirazione erasmiana e valdesiana si intreccia originalmente all’esaltazione dell’eroismo intellettuale: «porque tenemos por cosa divina al grande ingenio, al que aprendió i supo tantas i tan diversas artes, como io digo; al que no estima nada las cosas desta vida, i menosprecia aquello en que los otros hombres ponen su felicidad. De manera que este tal,

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7. Il prologo al Concejo parlava il linguaggio di Machiavelli; nello svolgimento del trattato si avverte palese l’influenza di Castiglione. La teoria politica annunciata da Ceriol, si sviluppa, anziché per assiomi, attraverso la descrizione di un modello sociale. Ciò che per Castiglione era il cortigiano diventa in Ceriol il “consigliere”. Entrambi gli autori intendono ribadire con un testo precettistico l’esemplarità sociale di un’istituzione (la Corte, il sistema dei Consigli) messa in discussione da abusi evidenti e largamente noti 107. La struttura del Concejo ricorda quella del Cortegiano. Il libro II e III del Concejo corrispondono al I libro dell’opera castiglionesca e trattano delle qualità morali e fisiche dell’uomo di corte; il libro IV del Concejo, come il libro II del Cortegiano, si sforza di precisare l’impiego sociale di queste qualità secondo le circumstantiae. Resta fuori dallo schema il libro I del Concejo, che ha una fonte aristotelica. Al di là della corrispondenza strutturale, Castiglione e Ceriol si accordano nel tracciare una linea divisoria assai netta fra l’uomo di corte che intendono “formare” e le distinzioni tradizionali della gerarchia aristocratica. Certo viene dato per scontato il monopolio aristocratico delle cariche politiche, ma all’interno del ceto nobiliare vige un’apparente eguaglianza108. Né il cortegiano né il consejero possiedono uno status sociale definito una volta per tutte: la loro origine sociale e geografica può ed anzi deve essere estremamente differenziata. Più dell’ambiente d’origine conta il possesso di una particolare qualità di “ingegno” e di un modo retoricamente efficace di porgerlo. Il consigliere non è qualificato dal rango né da una funzione tecnicamente definita, ma da una superiorità intellettuale che si esprime nel modo stilistico dell’acutezza. Perciò la definizione di un modello sociale tende a coincidere con l’affermazione di un particolare gusto: politica ed estetica si identificano. Il concetto d’“ingegno” viene introdotto al principio del II libro del Concejo, dedicato all’esame delle qualità dell’anima del consigliere109. Esso

quienquiera que él fuere, es verdaderamente noble [...] i se puede igualar con los maiores Príncipes del mundo» (El Concejo, cit., p. 121). 107 Cfr. El Concejo, cit., p. 135: «Luego se hará la corte una escuela de virtud i sabiduría». 108 Cfr. El Concejo, cit., p. 128: «Los hombres honrados i nobles, grandes i pequenos, trabajarán noche i dia en aprender las artes necessarias al govierno i en mantenerse honradamente, sin vanidad, la reputación en el pueblo, i a esta causa se retirarán de vicios, seguirán virtud, huirán escándalos afín que puedan ser nombrados a un tal efeto [i.e. consiglieri]». Corsivo nostro. 109 Cfr. El Concejo, cit., p. 100: «Los dichos del grande ingenio son estravagantes, fuera de la opinión del vulgo; porque como concibe las cosas mui diferentemente de los otros, assí habla dellas con modo i palabras mui de otra manera de lo que suele el común de los hom-

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presenta vari aspetti: libertà di pensiero che non rifugge dai paradossi e tende a suscitar meraviglia, rispetto per la varietà dei costumi, curiosità ed una certa “apertura al vizio” o almeno neutralità etica, appena accennata, che traccia un confine netto fra “bontà” consapevole e “semplicità” e suggerisce la capacità, propria del politico “prudente” e machiavelliano, di scorgere nel “male” apparente il vantaggio reale110. Questo motivo risente del proemio al libro II del Cortegiano, dove la grandezza dell’ingegno si manifesta nel male come nel bene: Castiglione si riferisce a diverse epoche storiche, ma Ceriol riporta il discorso al piano individuale. La concezione dell’ingegno come eccesso, rottura iperbolica della mediocrità, costituisce a metà del Cinquecento un’interessante innovazione “manieristica”. Un’altra caratteristica fondamentale del cortigiano castiglionesco è l’atteggiamento positivo verso la diversità dei costumi e delle tradizioni. Questa apertura è, insieme, causa ed effetto della mobilità geografica e sociale del ceto cortigiano111. Ceriol, che non perde mai di vista l’esempio concreto della composita monarchia spagnola, vede in questa apertura al “diverso” un fattore di superamento dei particolarismi locali e religiosi e, in definitiva, di rafforzamento politique dell’autorità statale112. Tale obbiettivo

bres, i viene a dar i parar donde no lo esperavan [...] sábese acomodar a aquellos con quienes trata (servando pero virtud) aora sean buenos, aora malos. Nunca el grande ingenio se va al hilo de la gente, nunca habla popularmente, nunca tiene la boca llena de agua, no es pesado, no se corre, no es confuso en su razonamiento, ni está mal con alguna nación del mundo [...] Este mismo ingenio en su mocedad es algo verde, da toda manera de frutos [...] i assí no se lee de ningún gran Capitán, Príncipe o Filósofo de los que están en el pano de la fama, sino que en contrapeso de sus admirables virtudes tuvieron algunos vicios senalados. Pero este mismo ingenio, viniendo a madurar [...], da fruto bueno i saludable i, por dezirlo en una palabra, es divino». 110 Per l’affinità fra Machiavelli e Castiglione su questo punto cfr. B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, cit., p. 226: «Vero è che molte cose paiono al primo aspetto bone, che sono male, e molte paiono male, e pur son bone. Però è licito talor per servicio de’ suoi signori ammazzare non un omo, ma diece milia, e far molt’altre cose, le quali, a chi non le considerasse come si dee, pareriano male, e pur non sono». 111 Alcuni esempi presi a caso: II, xxii (Il libro del Cortegiano, cit., pp. 223-224): «Ma sia il cortigiano, quando gli vien in proposito, facundo e nei discorsi de’ stati prudente e savio, ed abbia tanto giudicio, che sappia accommodarsi ai costumi delle nazioni ove si ritrova»; II, xxvii (ivi, p. 232): «Non parlo io – disse messer Federico – più della Lombardia che degli altri lochi, perché d’ogni nazion se ne trovano e di sciocchi e d’avveduti». 112 Si veda il passaggio chiave di El Concejo, cit., p. 112: «Portanto el buen Consejero se deve despojar de todos los intereses de amistad, parentesco, parcialidad, bandos, i otros qualesquier respetos [...] Porque otro es ser persona publica, otro particular [...] Todos los buenos, agora sean Iudíos, Moros, Gentiles, Cristianos, o de otra secta, son de una mesma tierra, de una mesma casa i sangre: i todos los malos, de la misma manera».

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politico fa tutt’uno con la descrizione di un tipo umano e di uno stile retorico. Si potrebbe quasi parlare di “amore del più lontano”, tanto il valenziano si indigna quando i pregiudizi patriottici intervengono a viziare il confronto relativistico dei diversi mores 113. Furió dà voce, con la consueta energia assertiva, ad una communis opinio dei “gentiluomini letterati” del Cinquecento, che l’abitudine del viaggiare e la necessità di intrecciare rapporti sociali nelle circostanze meno prevedibili aveva distaccato dalla sicurezza abitudinaria delle «origini municipali»114. L’indifferenza di Montaigne per l’eventualità di morire in viaggio assurge a cifra di una generazione: laicizzando la metafora cristiana dell’homo viator, il cortigiano si sforza di trarre partito dalla riconosciuta instabilità delle cose. Quanto più si riconosce nell’abitudine e nel costume la radice del comportamento, tanto più si legittima un confronto aperto fra le varie “consuetudini” (e magari riti religiosi!) locali e nazionali. Questo relativismo si intreccia con il metodo machiavelliano, che tende a fondere l’analisi delle situazioni politiche con lo studio della psicologia dei diversi popoli e gruppi sociali. La concezione della guerra nel Concejo si ispira al principio – ben machiavelliano – che la conoscenza dell’“altro” (il potenziale nemico) è potere. La ricerca di informazioni sui paesi stranieri è necessaria per suggerire riforme politiche sul modello estero, ma anche per preparare azioni militari efficaci: il viaggiare del consejero oscilla così tra Bildung e spionaggio, tra formazione di sé e rigido utilitarismo. Questa oscillazione corrisponde alla natura anfibia del consigliere ceriolano, che deve criticare alla maniera di Erasmo, esibire ingegno e acutezza come in Castiglione, dominare con prudenza la fortuna come in Machiavelli115, ma in definitiva, oltre ogni possibile autonomia, anche «bene e perfettamente servire». Strettamente legata all’“ingegno” del consigliere è la capacità oratoria. Il passaggio dalla funzione mista, politica e d’intrattenimento, del cortigiano a quella schiettamente politica del consejero porta con sé l’eliminazio113

Cfr. El Concejo, cit., p. 100: «Mui cierta senal es de torpe ingenio, el hablar mal i apasionadamente de su contrario, o de los enemigos de su Príncipe, o de los que siguen diversa secta, o de peregrinas gentes; agora sean Iudíos, agora Moros, agora Gentiles, agora Cristianos: porque el grande ingenio vee en todas tierras siete leguas de mal camino, en todas partes hai bien i mal; lo bueno loa i abraça, lo malo vitupera i deshecha sin vituperio de la nación en que se halla». 114 Cfr. G. Mazzacurati, Il Rinascimento dei moderni, Bologna, Il Mulino, 1985; C. Ossola, Dal «Cortegiano» all’«uomo di mondo». Storia di un libro e di un modello sociale, Torino, Einaudi, 1987. 115 Cfr. El Concejo, cit., p. 94: «Unos se quexan de la fortuna; i ellos no veen, que la fortuna mui ruin lugar tiene donde está la prudencia».

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ne della teoria del comico, così importante nel II libro dell’opera castiglionesca. Ceriol riprende comunque il motivo dell’“acutezza recondita” di ascendenza quintilianea116. La sovrapposizione fra il cortegiano e il consejero si osserva, però, soprattutto nel III libro del Concejo, dedicato alle qualità fisiche del buon consigliere. Le singole menudencias enumerate da Ceriol coincidono spesso alla lettera con le raccomandazioni del Castiglione117. Come lo scrittore italiano, Furió considera le caratteristiche esteriori a partire dalle loro connotazioni sociali positive o negative, pur sforzandosi di oggettivare su base medica e fisiognomica le osservazioni di Castiglione basate esclusivamente sull’esperienza. Proprio questa tendenza oggettivante rivela però, accanto alle somiglianze, la grande differenza fra i due autori. Castiglione si rifiuta di precisare le qualità richieste al cortigiano, accontentandosi di rinviare alla corte ideale che sta descrivendo. Per Ceriol invece la scelta del consigliere deve basarsi su criteri che si possono definire con rigore ed addirittura quantificare. Mentre Castiglione insiste sulla forza irrazionale e imponderabile della «prima impressione», Ceriol si cura di non lasciare

116 Fra i numerosi esempi della semantica dell’ingegno e dell’acutezza nel Concejo scegliamo alcune formulazioni caratteristiche: p. 86: «De manera que el buen Príncipe es aquel que entiende bien i perfetamente su professión, i la pone por obra agudamente i con prudencia»; p. 88: «Materia es ésta de la institución de Príncipe que requiere un hombre de mui grandes dones de Naturaleza, de estremado saber, de mucha lición, curioso, observador, i de mucha esperiencia, el qual pueda bien i agudamente tratar tantas, tan diversas, i tan importantes materias, como son las sobredichas»; p. 94: «[El Concejo de Guerra] todo lo qual bien visto i esaminado, mirará agudamente i con prudencia, cómo i en qué manera se podría hazer no sólo que nos defendiéssemos, mas aun fatigássemos i venciéssemos al enemigo, pues es cosa manifiesta que más vale ingenio que fuerça»; pp. 116-117: «El afable es hombre alegre [...] es amigo de dichos agudos i graciosos, ama una honesta libertad, aborréscese con todo género de hipocresía»; p. 117: «I a éste propósito dixo bien i agudamente un filósofo». Corsivi nostri. Sull’«acutezza recondita» nel Cortegiano cfr. M. Hinz, Rhetorische Strategien des Hofmannes, Stuttgart, Metzlar, 1992. 117 Cfr. ad esempio Il libro del Cortegiano, cit., p. 115: «Vegnendo adunque alla qualità della persona, dico bastar ch’ella non sia estrema in piccolezza né in grandezza, perché e l’una e l’altra di queste condicioni porta seco una certa dispettosa maraviglia e sono gli omini di tal sorte mirati quasi di quel modo che si mirano le cose monstruose, benché, avendo da peccare nell’una delle due estremità, men male è l’essere un poco diminuto, che ecceder la ragionevol misura in grandezza»; El Concejo, cit., pp. 121-122: «La tercera calidad que muestra la suficiencia del Consejero en quanto al cuerpo, es su tamano, digo que sea de mediano talle en el altor i grossura; porque qualquier extremo en esta parte paresce mal, i quita de la autoridad pertenesciente al Consejero. Porque del sobradamente largo todos los filósofos i astrólogos con buenas razones prueban que es mal templado [...] En el hombre mui pequeno no se hallan tantas faltas para el govierno como en el sobradamente de largo, sino que son airados, presuntuosos i el pueblo búrlase de ellos i los tiene en poca estima».

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nulla al caso. La conclusione più minuta, il dettaglio più insignificante vengono affermati con la stessa sicurezza apodittica dei principi primi della scienza politica: Furió è convinto, infatti, che fra gli uni e gli altri ci sia un’ininterrotta catena deduttiva. Le categorie retoriche del Castiglione hanno subito un processo di razionalizzazione inteso a conferire loro consistenza “scientifica”. Sintomo eloquente di questo processo è il rovesciamento di un topos ciceroniano: il rifiuto del tecnicismo e della minuziosità118. Indicativa è anche la diversa semantica della “grazia”. Questo «ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue e prometta nella fronte quel tale esser degno del commercio e gracia d’ogni gran signore»119 viene ricondotto da Ceriol alla sua componente materiale: la proporzione gradevole del volto e dei gesti120. Pur riprendendo numerosi spunti dal Cortegiano, Ceriol rompe insomma con quella tradizione umanistica cui Castiglione ancora apparteneva: la sintesi di trattazione ed esemplificazione, rhetorica docens e rhetorica utens, che subordina la validità teorica della prima all’efficacia oratoria della seconda. L’oscillazione fra “scienza politica” rigorosa e tradizione retorico-cortigiana non è però una “debolezza” del Concejo, ma il suo preciso luogo storico. La tendenza “prerazionalista” all’oggettivazione schematica è una caratteristica generale del tardo umanesimo rispetto alle origini soggettivistiche, letterarie ed eclettiche della renovatio antiquitatis. Ceriol, inoltre, intendeva combinare il relativismo castiglionesco e in parte anche machiavelliano con la volontà assertiva (pure presente in Machiavelli) e con i suggerimenti concreti della realtà politica spagnola. Queste varie influenze fanno del consejero qualcosa di molto diverso da una delle numerose repliche dell’ideale cortigianesco. La «principale professione» del protagonista del Concejo non è l’esercizio delle armi, come nel I libro del Cortegiano, né un’“educazione del principe” idealizzante e generica, come nel IV libro, ma proprio il consiglio assiduo su questioni di stato. Il consejero si distingue così dalla figura di coperto dissimulatore, camaleontico imitatore del principe e maestro di difficile soprav-

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Cfr. El Concejo, cit., p. 123: «Pienso, antes tengo por mui cierto, que algunos reprehenderán mi diligencia como a cosa sobrada, en querer io tratar estas menudencias del Consejero. Respondo, i digo, que el que emprendiere de tratar una cosa bien i perfetamente, es necesario passe por todo sin dexar nada». 119 Cfr. Il libro del Cortegiano, cit., p. 105. 120 Cfr. El Concejo, cit., p. 123: «La quinta i postrera calidad que muestra la suficiencia del Consejero en quanto al cuerpo, es que sea bien carado i de buena gracia; porque los que son dotados desta calidad, con sola ella, son respetados, amados i ganan autoridad [...] En fin sea gracioso i de buen ademán».

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vivenza sempre più dominante nella trattatistica di corte. L’“acutezza” cortigiana, come vedremo, non è ancora caduta sotto l’influsso introverso di Saturno ed il suo teorico non si vede costretto a dissimulare più di tanto le proprie scelte anticonformiste in materia politica e soprattutto religiosa. La posizione di Ceriol sembra a prima vista piuttosto isolata nella Spagna del Cinquecento. In realtà esistono notevoli punti di contatto fra la concezione dell’intelligenza acuta e sottile in Ceriol ed uno dei più fortunati scritti sull’ingegno del medio Cinquecento: l’Examen de ingenios para las ciencias di Huarte de San Juan. L’argomento dell’Examen è ovviamente diverso da quello del Concejo. Il politico Ceriol descrive il tipo d’ingegno richiesto per una particolare funzione, il servizio nei Consigli; il medico Huarte si pone il problema generale di distinguere scientificamente le qualità intellettuali adatte alle diverse discipline. La questione di metodo è però simile: si tratta di giustificare la possibilità dell’augmentum scientiarum o, per dirla con Huarte, della «nueva invención de los que ahora vivimos»121. L’uomo d’ingegno è per Ceriol un politico e cortigiano, mentre in Huarte assume i tratti del filosofo naturale. Tanto Ceriol quanto Huarte, però, traducono nelle rispettive sfere d’interesse il concetto d’ingegno elaborato dalla poetica manierista. Ingegno significa originalità, magari capriccio, comunque libertà e spregiudicatezza di pensiero122. Sia nel Concejo che nell’Examen esso si congiunge alla maturazione dell’esperienza assicurata dai viaggi, superiore al “pedantismo” accademico123. L’assenza d’ingegno, viceversa, si identifica per entrambi con caratteri121

Cfr. J. Huarte de San Juan, Examen de ingenios para las ciencias, edicción preparada por E. Torre, Madrid, Editora Nacional, 1976, p. 131. 122 Per Huarte cfr. Examen, cit., pp. 131-132: «A los ingenios inventivos llaman en lengua toscana caprichosos, por la semejanza que tienen con la cabra en el andar i pacer. Esta jamás huelga por lo llano; siempre es amiga de andar a sus solas por los riscos y alturas, y asomarse a grandes profundidades [...] Tal propiedad como ésta se halla en el ánima racional cuando tiene un celebro bien organizado y templado: jamás huelga en ninguna contemplación, todo es andar inquieta buscando cosas nuevas que saber y entender [...] Ambas diferencias de ingenio son muy ordinarias entre los hombres de letras. Unos hay que son remontados y fuera de la común opinión; juzgan y tratan las cosas por diferente manera; son libres en dar su parecer; y no siguen a nadie. Otros hay recogidos, humildes y muy sosiegados, desconfiados de sí y rendidos al parecer de un autor grave a quien siguen». 123 Cfr. Examen, cit., p. 75: «Esto de salir el hombre de su natural para ser valeroso y sabio es de tanta importancia que ningún maestro hay en el mundo que tanto le pueda ensenar». Si tratta in definitiva di un motivo legato al superamento delle «origini municipali». Huarte sottolinea come Furió che il viaggiare presuppone la buona qualità dell’ingegno: «todo esto se entiende supuesto que el hombre tenga buen ingenio y habilidad, porque si no, quien bestia va a Roma bestia torna».

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stiche “malinconiche” di passività e timidezza. Se Huarte, razionalista di stampo pomponazziano, adopera il vocabolo recogido in un’accezione decisamente negativa (propria del linguaggio corrente, non del vocabolario mistico), anche Ceriol sa distinguere fra il rigoroso fideismo, ereditato da Juan de Valdés, e la falsa religiosità rinunciataria caratteristica di ingegni passivi. Il valenziano non esita a ironizzare sui “segretari di Dio”, che si illudono di sottrarsi alla loro responsabilità umana e politica chiamando in causa arbitrarie ragioni teologiche124. Lo smascheramento degli zelanti, che confondono interessatamente il mito religioso con l’argomentazione politica, è di origine machiavelliana125. Ceriol congiunge però la polemica contro le intromissioni delle fazioni religiose nelle decisioni del principe con un tentativo di spiegazione medico-scientifica della superstizione. La degenerazione del cristianesimo dall’originaria purezza evangelica viene ricondotta al carattere malinconico, che corrompe le religioni con le sue fantasie arbitrarie e la sua meschinità invidiosa126. Ceriol resta fedele alla caratteriologia di tradizione medioevale, sfavorevole a Saturno: la grandezza politica non si fonda sull’instabile emotività malinconica, ma sulla stoica constantia sapientis. La polemica di stampo riformato contro la devozione popolare e la “tirannide” dei teologi assume così nel Concejo un’impronta naturalistica, che la avvicina alla posizione di Huarte. Nella metodologia di Huarte l’ingegno è caratterizzato dal proposito di spiegare i fenomeni juxta propria principia senza chiamare in causa fattori 124 Cfr. El Concejo, cit., p. 94: «Otros dizen, que Dios es servido de hazerlo assí; io no entro en el poder de Dios, pero sé bien dezir, i digo con San Pablo, si son ellos secretarios de Dios, o si han recibido cartas dello firmadas de mano de la Trinidad, con que se asseguren que assí sea, como dizen». 125 Cfr. ibidem: «Otros dizen que nuestros pecados lo causan; i esto es mui gran verdad, porque los ierros i faltas del Príncipe i de sus ruines Consejeros, son pecados que nos acarrean la perdición nuestra i suia»; N. Machiavelli, Principe, in Tutte le opere, cit., p. 275: «E chi diceva come e’ n’erano cagione e’ peccati nostri, diceva il vero, ma non erano già quelli che credeva, ma questi ch’io ho narrati: e perché elli erano peccati dei principi, ne hanno patito la pena ancor loro». 126 Cfr. El Concejo, cit., p. 121: il malinconico «es malicioso, es bote de veneno, es supersticioso, tanto que los desta complissión han gastado i destruido todas las religiones del mundo con sus suenos i nescias fantasmas». Furió fa riferimento a un episodio della vita di Apollonio di Tiana narrato da Filostrato: Apollonio smaschera un demonio che, sotto figura di vecchio, aveva provocato una pestilenza nella città di Efeso e persuade gli efesini a lapidarlo (cfr. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, a c. di D. Del Corno, Milano, Adelphi, 1988, p. 182). L’essere demoniaco della narrazione antica diventa nel Concejo un individuo atrabiliare che avrebbe infettato l’intera città. Sulla problematica del temperamento malinconico in Ceriol cfr. F. Gambin, Azabache. Il dibattito sulla malinconia nella Spagna dei secoli d’oro, Pisa, ETS, 2005, pp. 21-27.

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trascendenti127. Entrambi gli autori insistono sulle cause prossime: il machiavellismo di Ceriol si accorda con il naturalismo di Huarte. Furió respinge le ingerenze politiche della teologia in nome di un fideismo rigoroso ma sereno, che non è troppo lontano, con la sua insistenza sulla chiarezza e sulla facilità della Bibbia, dall’appello di Huarte al giudizio naturale. Per il valenziano la causa fondamentale degli errori politici è il misconoscimento delle qualità specifiche dell’ingegno del sovrano e dell’uomo di stato. Un pensiero analogo esprime Huarte a proposito della teologia e della medicina128. L’Examen de ingenios para las ciencias rende abilmente accettabile da un punto di vista controriformistico la netta distinzione fra scienze della memoria, dell’immaginazione e dell’intelletto attribuendo all’indebita intromissione dei “grammatici” (come Erasmo) in campo teologico una significativa responsabilità nell’origine della Riforma. D’altra parte, la ricerca della giusta mistura di umori per il perfetto predicatore induce Huarte alla parziale riabilitazione di una forma “nobile” di malinconia, che Ceriol non potrebbe condividere. Ma, al di là delle pur notevoli differenze, i due scrittori documentano con le loro riflessioni sull’ingegno una linea di pensiero pragmatica e naturalistica, senza dubbio minoritaria, ma non trascurabile nell’analisi di una delle categorie culturali più importanti del Siglo de Oro. 8. Il razionalismo politico machiavelliano e l’esaltazione dell’“acutezza” spregiudicata dell’uomo di corte acquistano il loro pieno significato dal confronto con la realtà sociale e istituzionale spagnola. I libri “castiglioneschi” del Concejo, il secondo e il terzo, sono preceduti dal libro I: prima di “formare” il modello esemplare del consigliere, Ceriol si preoccupa di analizzare in dettaglio le competenze dei diversi Consigli. Questa attenzione alle istituzioni per sé prese resta estranea ai modelli italiani di Furió, Machiavelli e Castiglione. Anche se l’impostazione di Ceriol resta, come abbiamo visto, essenzialmente individualistica, l’interesse per l’apparato amministrativo rappresenta qualcosa di nuovo rispetto alla tradizione umanistico-cortigiana. Il consejero non è soltanto un perfetto servitore del principe grazie alle sue qua-

127 Cfr. Examen, cit., p. 84: «El judicio de que yo más me aprovecho para descubrir si un hombre no tiene el ingenio que es apropiado para la filosofía natural, es verle amigo de echar todas las cosas a milagro, sin ninguna distinción, y por lo contrario, los que no se contentan hasta saber la causa particular del efecto, no hay que dudar de su buen ingenio». 128 Cfr. Examen, cit., p. 62: «Por no hacer hoy día esta diligencia, han destruido la cristiana religión los que no tenían ingenio para teología, y echan a perder la salud de los hombres los que son inhábiles para medicina».

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lità personali, ma anche un corretto amministratore grazie alla sua competenza specifica. Il nobile dilettantismo enciclopedico, tipico del Castiglione, viene integrato da solide cognizioni tecnico-empiriche in campo militare, finanziario, giuridico. Questo diverso atteggiamento si spiega tanto con ragioni di storia della retorica quanto con ragioni di storia politico-sociale. Da un lato, Castiglione resta legato alla tradizione ciceroniana che sottolinea l’unità e la concatenazione di tutte le “virtù” e le “discipline”, mentre Furió, nelle sue Institutiones Rhetoricae del 1554, si preoccupa di accentuare ramisticamente la specificità metodologica delle singole tecniche e discipline. D’altra parte, la natura dell’amministrazione spagnola portava ad accentuare la “virtù tecnica” del ministro (e non più, come in Machiavelli, del solo principe-legislatore). La trattazione di Ceriol rispecchia la ben diversa complessità della burocrazia spagnola in confronto alla corte rinascimentale italiana. Il Concejo, trattato frammentario di politica teorica ed insieme manuale di comportamento sul genere del Cortegiano, è anche uno scritto riformista pratico, che espone varie proposte di miglioramento amministrativo e che si direbbe arbitrista ante litteram. Naturalmente il Concejo non è l’opera di un economista e “tecnico” seicentesco: gli spunti di riforma restano per lo più indicazioni di massima, che Ceriol enuncia apoditticamente, senza porsi il problema di realizzarli in un contesto ed una situazione data. Di fatto non è difficile rintracciare una fonte classica, come vedremo, anche per le osservazioni economiche che sembrerebbero più legate alla situazione concreta dei dominii spagnoli. Questa genericità è una conseguenza necessaria dell’impostazione del Concejo come repertorio di topica politica. Furió vuole descrivere il consigliere; ma consigli politici si danno sempre e soltanto in un particolare contesto. Il contenuto del consiglio, ovviamente, non si può enunciare a priori, ma è possibile fornire alcuni “esempi”, a partire dai quali il discreto consigliere, “inventando” per analogia nuovi pareri, saprà trovare il rimedio adatto alle circostanze. Exempla retorici di buoni consigli politici, suggerimenti per un’ulteriore invenzione sono appunto tutte le proposte di riforma pratica contenute nel Concejo. Il modello strutturale per l’esposizione del sistema dei Consigli è fornito dalla Rhetorica di Aristotele. Ceriol si guarda bene dal citare la propria fonte nel Concejo, ma la riconosce espressamente in una lettera al conte di Chinchón129. Aristotele distingue nel primo libro della Rhetorica cinque grandi set-

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Cfr. Archivio Heredia Spínola, 219-19, lettera di Fadrique Furió Ceriol al conte di Chinchón del 24 ottobre 1581, c. 2v: «Los Concejos en un imperio, reino, i principado bien

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tori di oratoria deliberativa: risorse, guerra e pace, difesa dello stato, importazione ed esportazione, legislazione. Quest’ultimo settore si scinde in Ceriol nei tre Consigli di leies, castigo e mercedes, mentre il Concejo de mantenimientos corrisponde alla categoria aristotelica di póroi (“risorse”), che concerne «natura ed estensione delle risorse statali, in modo che si possa incrementare ciò che è sufficiente, e conoscenza delle spese dello stato»130. Da Aristotele Ceriol riprende anche il nesso fra interessi economici e scelte politiche131. Il panorama dei Consigli è completato da quelli di hazienda (finanze), guerra e pace. Questo schema di origine classica si mostra molto adatto a descrivere la struttura amministrativa spagnola dopo le riforme di Carlo V. Domina in Ceriol il principio della razionalizzazione burocratica, della precisa corrispondenza fra organo e funzione132. Si tratta senz’altro di una applicazione del distinzionismo ramista, trasferito dalla classificazione delle discipline alla macchina burocratica; ma anche di una concreta misura contro la corruzione, l’accentramento del potere nelle mani di pochi ed il prevalere di interessi particolaristici133. Si nota insomma la tendenza a distinguere la competenza amministrativa dalla struttura di potere personale e clientelare e dalle distinzioni di rango dell’Ancien régime 134. constituido no pueden ser mas, ni menos de siete, como Aristoteles lo disse, i io lo muestro ansimismo [sic] en un librito mio que agora veinte i dos anos saque a luz, intitulado El Concejo, i consejeros del Príncipe». Corsivo nostro. 130 Cfr. Aristoteles, Rhetorica, I, iv, 1359-1360; e si veda la definizione del Concejo de mantenimientos in Ceriol, El Concejo, cit., p. 94: «Este deve tener cargo de proveer i bastecer el principado de mantenimientos i vituallas en tiempo de paz i de guerra; i para esta causa es menester que sepa i tenga por lista las cosas tocantes a su oficio por todo el principado». Questo Consiglio di provvigioni è anche competente per la regolazione delle esportazioni. 131 Cfr. Aristoteles, loc. cit.: «Bisogna badare che i cittadini si mantengano irreprensibili verso due categorie di persone: i più potenti e quelli che sono utili in vista di contratti e accordi commerciali». 132 Cfr. El Concejo, cit., p. 96: «Estos son los siete Concejos que son necesarios al govierno de todo i qualquier principado; i esto, entre otras muchas i mui buenas causas, por ésta, principalmente, que con tal distinción o división de Concejos, más negocios, mejor, i más facilmente se despacharon». 133 Cfr. ivi, p. 97: «Lo que mui mucho deve mirar a guardar el Príncipe, es que no se permita diversidad de Concejos en un Consejero. Declarar me quiero: digo que el Consejero que fuere de la hazienda, esse tal, por ninguna vía del mundo, se deve permitir que pueda ser de alguno otro de los seis Concejos [...] Porque de otra manera, sería possible en breve espacio de tiempo reduzirse los Concejos en tal punto, que serían siete nombres vanos, i en verdad no más de un Concejo». 134 Cfr. El Concejo, cit., p. 131, che congiunge il legalismo giuridico medioevale con il pragmatismo di origine machiavelliana: «Como quiera que ello sea, una de las más ciertas

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L’insistenza sull’effettiva autonomia reciproca dei Consigli si unisce coerentemente ad una volontà di allargamento della ristretta oligarchia degli eleggibili. Ceriol intende ricorrere a tutte le forze della nobiltà, grandes e caballeros, riducendo al minimo le discriminazioni di casato e di reddito135. Si sforza anche di distinguere fra l’“obbligazione” feudale del sovrano verso determinati casati (il sostegno economico e sociale all’aristocrazia titolata, caratteristico delle monarchie europee del secondo Cinquecento) e la scelta del personale politico, che non deve essere influenzata da un preteso criterio d’onore136. A parte la decisa polemica contro la concezione delle cariche pubbliche quali onorificenze sine cura, l’identificazione dei singoli Consigli non apporta novità di rilievo. Furió propone l’istituzione di un “Consiglio di ricompense” (mercedes) come misura per conseguire maggiore trasparenza nell’assegnazione delle cariche ed anche per riequilibrare, nella tradizione della politica umanistica, i due attributi fondamentali della giustizia sovrana: premiare e punire. L’aspetto più interessante è però l’attenzione riservata alla componente economica della potenza. La struttura delle relazioni commerciali condiziona in maniera decisiva la politica estera: viene infatti stabilita la regola che le alleanze del sovrano non possono mai ledere l’interesse economico dei sudditi137. Il motivo machiavelliano della “sicurezza” della vita e dei beni dei sudditi come fattore di consenso, che il governo deve saper utilizzare 138, riceve

reglas para diferenciar un buen Príncipe de un tirano es ésta: que el Príncipe da los cargos por suficiencia, i el tirano solamente los da por favor o poder. También se deve notar que el Príncipe que por favor i poder dará los cargos, esse tal o el perderá su estado, o no lo posseerá hasta su tercera generación». Va notato però che la suficiencia non è intesa in senso tecnico, «moderno» e «weberiano», bensì come manifestazione dell’ingegno complessivo del consejero. 135 Nella preoccupazione per la formazione adeguata dei giovani nobili destinati alla «Casa Real» egli precorre i progetti educativi di Olivares. 136 Cfr. El Concejo, cit., p. 134: «Otro dirá que los cavalleros i senores han de ser galardonados según la autoridad de su casa i servicios de sus personas. Respondo que también digo io esso mesmo, pero que no es todo uno galardonar i hazer uno del Concejo: porque bien se puede hallar otra vía de galardonar (como las hai muchas) sin que sean elegidos Consejeros». 137 Cfr. ivi, p. 95: «Pierde la reputación el Príncipe para con los estrangeros, i con su pueblo se enemista: porque dos cosas son las que hazen que un pueblo quiera bien su Príncipe: la una, el defenderlo de la opresión de los que mucho pueden; la otra, si está aliado con aquellos pueblos i tierras sin las quales no puede bien hazer su trato i mercaduria». 138 Cfr. N. Machiavelli, Principe, in Tutte le opere, cit., p. 292: «Appresso debbe [il principe] animare li sua cittadini di potere quietamente esercitare gli esercizi loro, e nella mercanzia e nella agricultura e in ogni altro esercizio degli uomini; e che quello non tema di

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qui una precisazione ispirata alla situazione fiamminga. L’aspirazione dei ceti mercantili dei Paesi Bassi alla tolleranza religiosa è dovuta all’interdipendenza commerciale che la lega al mondo protestante (Inghilterra e Baltico): un elemento di cui Ceriol terrà conto nei suoi “consigli” degli anni Settanta. La “ricchezza nazionale” è però una variabile che si può accrescere con una politica di intervento statale. Ceriol pensa, in concreto, all’amministrazione centralizzata di scorte di vettovaglie in tempo di pace per sostenere lo sforzo bellico e ad un uso oculato delle esportazioni come strumento di pressione diplomatica139. Questo protomercantilismo del valenziano, suggerito come rimedio al fiscalismo di Carlo V (e poi di Filippo II), non è isolato nel pensiero spagnolo dell’epoca140. Le infelici vicende finanziarie di Carlo V e Filippo II – la sospensione di pagamenti del 1557 precede di appena due anni la pubblicazione del Concejo – stimolavano la riflessione empirica sul rapporto fra economia e potenza politica. In Ceriol, tuttavia, la preoccupazione istituzionale risulta particolarmente organica: non si tratta di suggerire al re singole riforme, bensì di indicare sistematicamente per ciascun Consiglio economico il modo di funzionamento più efficiente, mantenendo un rigoroso controllo tanto sulla spesa pubblica quanto sull’esportazione “selvaggia” di risorse. La proposta di rendere obbligatoria l’autorizzazione dei Consigli per le spese141 lega naturalmente le mani al principe (e alla corte) come “persona privata”. Ma le critiche del valenziano, pur mettendone in luce problemi strutturali (eccesso di spesa, esportazione dell’oro americano che transita per la penisola senza arricchirla), non potranno influire sulla storia finanziaria spagnola. Esse diventeranno, invece, costanti della tradizione arbitrista. Ma quello che nel Seicento si guadagna in precisione tecnica ed empirismo metodologico142 ornare le sue possessioni per timore che le gli sieno tolte, e quell’altro di aprire uno traffico per paura delle taglie; ma deve preparare premi a chi vuol fare queste cose». 139 Cfr. El Concejo, cit., pp. 94-95: «Si se formare un tal Concejo [de provisiones] como es menester, en tiempo de paz i de guerra ternemos en abundancia lo necessario a la vida humana, i daremos parte de lo nuestro a aquellos pueblos cuia amistad i favor huviéremos más menester». 140 Cfr. ivi, p. 93: «porque la hazienda del Príncipe no sólo se aumenta en buscar modo de sacar moneda, sino también en que se quiten los gastos demasiados». 141 Cfr. ibidem: «porque el Concejo de la hazienda será como un vaso para recoger i conservar la moneda, cuia distribución se hará por commissión i poder deste Concejo de paz, sin la autoridad del qual no se deve gastar ni un solo dinero» (corsivo nostro); ivi, p. 94: «Qualquier género de saca remitirá el Príncipe a este Concejo [de mantenimiento], i sin su voluntad o parescer nunca se deve dar saca a ningún hombre». 142 Cfr. Mathei Lopez Bravi De rege et regendi ratione libri tres, Matriti, apud viduam Ludovici Sanctij, 1627, c. 13r: «Adeo necessaria experientia politicis, ut ea, potius quam mente, Reipublicae salus doceatur».

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si perde in libertà di discussione politico-religiosa. La prospettiva ben più angusta del riformismo dell’età di Olivares rispetto al radicalismo di Ceriol si intravvede nell’osservazione incidentale di Mateo Lopez Bravo sulla funzione sociale del latino: «Ad hoc tantum utilis peregrina eloquutio, ut a sacris religionis et imperij arcanis multitudinem arceat»143. 9. Riqualificazione del personale di governo e riordinamento amministrativo fanno parte di una concezione politica complessiva. La contrapposizione erasmiano-machiavelliana fra le “vere” e le “false” virtù del principe, chiaramente enunciata nel proemio, si precisa nel Concejo in tre punti fondamentali: costituzionalismo, federalismo, separazione di politica e religione. Parlare di costituzionalismo può sembrare fuori luogo, perché i Consigli non hanno carattere rappresentativo. La responsabilità di scegliere i consiglieri ricade per intero sulle spalle del principe. Ceriol insiste sull’unità della sovranità nella “persona pubblica” del monarca, non certo sulla sua frammentazione, come facevano i trattatisti repubblicani 144. Ma il rapporto fra monarca e Consiglio non è puramente strumentale: il Consiglio appartiene al principe come “membro” del suo corpo pubblico, non come semplice meccanismo esecutivo. Sembra anzi che Ceriol consideri il “sovrano” come una persona politica e giuridica divisa solo empiricamente in due parti: il principe come individuo concreto e l’insieme dei consiglieri. Parafrasando la nota formula della sovranità del “re in parlamento”, si potrebbe dire che Furió (che ignora Cortes e stati generali) rivendichi la piena sovranità del “re in Consiglio”. Il Concejo viene accreditato di quegli attributi teologici del potere che Erasmo riservava al suo modello platonizzante di re-“cristiano filosofo” 145. Non solo: la tendenza “scientificizzante” di Ceriol, la definizione di criteri rigorosamente oggettivi nella scelta dei consiglieri pare fatta apposta per limitare l’arbitrio del principe e di fatto anche la sua autorità assoluta146. La nomi143

Cfr. ivi, c. 22v. Sull’embrionale divisione dei poteri in Donato Giannotti, contemporaneo di Ceriol, cfr. R. von Albertini, Das fiorentinische Staatsbewußtsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern, Francke, 1955, pp. 146-166. 145 Cfr. El Concejo, cit., p. 91: «Es el Concejo para con el Príncipe como casi todos sus sentidos, su entendimiento, su memoria, sus ojos, sus oídos, su boz, sus pies i manos: para con el pueblo es padre, es tutor i curador: i ambos, digo, el Príncipe i su Concejo, son Tenientes de Dios acá en la tierra». 146 Ceriol lo nota espressamente: «Otro dirá que el Príncipe es libre, i ha de dar los oficios a quien bien le paresciere. Respondo que la libertad del Príncipe no lo es quando va 144

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na a consejero, infatti, è riconoscimento di una competenza indipendente da eventuali favori resi al monarca147 e viene preceduta da un dibattito pubblico. Ceriol, perseguitato lui stesso per il Bononia, si pone con forza il problema di come escludere censure e pressioni sotterranee. Per conseguire questo obbiettivo, trasferisce consapevolmente al principato un procedimento di selezione dei candidati alle cariche pubbliche che era stato impiegato nella Roma repubblicana e riproposto da Machiavelli nei Discorsi: libertà ufficiale d’accusa e di critica, regolata dalla legge e fondata su prove e testimonianze, prima dell’elezione come antidoto alle calunnie. La verifica della fondatezza delle accuse spetta poi al principe, che deve intervenire in prima persona. Ceriol riesce cosi ad escludere una selezione negativa, non autorizzata ma socialmente assai efficace, da parte dell’Inquisizione, di capitoli cattedrali, ordini religiosi e cavallereschi148. La più significativa, fra queste norme di esclusione di fatto vincolanti, erano evidentemente gli statuti di limpieza de sangre, imposti nel 1554 dall’arcivescovo Siliceo per il capitolo toledano e accolti da quasi tutti gli ordini (malgrado l’opposizione dei gesuiti) e dai principali collegi universitari. La discussione pubblica sui meriti del singolo candidato, con giudizio finale riservato al re, aggira la mediazione delle prestigiose istituzioni che avevano avallato il criterio della limpieza de sangre e supera il pesante pregiudizio popolare che gravava sui gruppi minoritari dei marrani e dei morischi149. La volontà di riaprire alle minoranze dei neoconvertiti l’accesso alle funzioni di governo si accorda bene con l’atteggiamento politique di Ceriol e con il principio di un’equilibrata rappresentanza geografica e sociale del Consiglio. Si può dunque concordare con Méchoulan, che legge in un passaggio solo apparentemente generico del Concejo una precisa critica agli statuti di lim-

fuera razón [...] i dezir que el Príncipe ha de dar los oficios a quien se le antojare o bien le paresciere, es motejarlo honestamente de tirano» (ivi, p. 134). 147 Ceriol contempla quest’ultimo caso come eccezione, non come regola (ivi, p. 131). 148 La formulazione di El Concejo, cit., p. 129: «I no se engañe un Príncipe con dezir: O, díxomelo un Duque, un obispo, un prelado doto, un padre santo, o un tal, o un qual, porque tras la cruz está el diablo, quiero dezir, que todos somos hombres, i podemos engañar i ser engañados. Pertanto no lo crea, ni lo dexe de creer, sino que lo encomiende (si el caso lo pidiere) a la justa pesquiza i juizio de su tribunal», per quanto intenzionalmente generica e ambigua, non implica un riferimento all’Inquisizione: concordiamo in questo con l’interpretazione di Méchoulan. 149 Mentre il gruppo sociale musulmano aveva perso la propria élite dopo le conversioni forzate ed espulsioni del 1502 e 1522, ebrei e marrani avevano una lunga tradizione di collaborazione con la casa reale, che era continuata perfino sotto Ferdinando il Cattolico.

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pieza 150. Ceriol si spinge anzi al punto da fare una notevole concessione ai morischi, raccomandando al consejero di imparare l’arabo in un contesto che esclude l’ovvio riferimento ai rapporti diplomatici esterni151. Il valenziano sembra insomma riconoscere implicitamente il diritto dei “vassalli” di lingua araba ad un’autonoma identità culturale se non religiosa; che era poi la richiesta chiave del celebre memoriale di Francisco Nuñez Muley, energica reazione morisca all’assimilazione forzata alla vigilia della rivolta del 1568 152. L’esclusione dell’arbitrio del re e dei privilegiati – insieme al pregiudizio popolare che a quell’arbitrio forniva un alibi –, sostituito da una procedura di selezione formalizzata e uniforme, investe l’intera concezione dei rapporti fra

150 Cfr. El Concejo, cit., p. 112: «Portanto el buen Consejero se deve despojar de todos los intereses de amistad, parentesco, parcialidad, bandos, i otros qualesquier respetos [...] Porque otro es ser persona pública, otro particular [...] Todos los buenos, agora sean iudíos, moros, gentiles, cristianos, o de otra secta, son de una mesma tierra, de una mesma casa i sangre: i todos los malos, de la misma manera». Corsivo nostro. 151 Cfr. ivi, p. 102: «La tercera calidad que muestra la suficiencia del alma en el Consejero, es que sepa muchas lenguas i principalmente las de aquellos pueblos que su Príncipe govierna, o tiene por aliados, o por enemigos. Esto se entenderá mejor con un exemplo. Sea pues un Rei de españa, según está el presente. El Consejero deste Rei, allende de su lengua natural, es bien que sepa Latín, Italiano, Arávigo, Francés i Alemán; i esto porque los vassallos huelgan mucho de entender i ser entendidos de aquellos con quienes negocian». Corsivo nostro. 152 Il Memorial si legge in A. Gallego Burín-A. Gamir Sandoval, Los Moriscos del Reino de Granada según el sínodo de Guadix de 1554, Granada, Universidad de Granada, 1968; nueva edición, Granada, Universidad de Granada, 1996, Estudio preliminar de B. Vincent, pp. XXXV-LII. Merita notare che il problema della traduzione volgare della Bibbia discusso nel Bononia si ritrova nel confronto fra due diverse strategie missionarie, entrambe presenti nella questione morisca: quella gradualista, che mette l’accento sulla predicazione nella lingua materna del gruppo da convertire, rappresentata soprattutto da Fray Hernando de Talavera, e quella brutalmente assimilatrice che privilegia le conversioni in massa e riconosce il proprio fallimento consentendo alle espulsioni. La posizione teorica di Ceriol è in sintonia con il primo approccio. Egli avverte l’esigenza di integrare la cultura araba nella Spagna cristiana, come tenterà di fare in anni successivi il morisco granadino Alonso del Castillo, che fra il 1568 e il 1573 operò come interprete e mediatore al servizio delle truppe spagnole nella guerra delle Alpujarras, fu poi curatore della sezione araba della biblioteca dell’Escorial e traduttore ufficiale di Filippo II nella corrispondenza con il sultano del Marocco, svolgendo anche un ruolo importante nella vicenda delle iscrizioni plumbee pseudocristiane del Sacromonte (cfr. D. Cabanelas Rodríguez, El morisco granadino Alonso del Castillo, Granada, Patronato de la Alhambra, 1965). Sulla questione morisca si segnalano, in particolare, i recenti contributi di L. Bernabé Pons: Una visión propicia del mundo: España y los Moriscos de Granada, in Averroes dialogado: un seminario interdisciplinar, coordinación y edición A. Stoll, Kassel, Reichenberger, 1998, pp. 89-137; El texto morisco del Evangelio de San Bernabé, Granada, Universidad de Granada, 1998.

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sovrano e sudditi. Ceriol presuppone costantemente l’opposizione fra principe e tiranno, motivo ben radicato nella tradizione giuridica medioevale, ma che l’erasmismo aveva rinverdito di nuove implicazioni critiche. «Consensus populi facit principem», aveva scritto Erasmo; ed anche Furió contempla la possibilità di una destituzione legittima del monarca153. Di ispirazione erasmiana è il rifiuto della concezione patrimoniale dello stato: l’umanista olandese aveva nettamente contrapposto dominium (“possesso” e “signoria”) e administratio (“amministrazione” e “servizio” reso alla collettività). Ceriol riprende la polemica contro gli adulatori che ispirano al principe sentimenti assolutistici. L’autore del Concejo invita addirittura il monarca a “tentare” il consigliere, chiedendogli l’assenso a decisioni ispirate alla ragion di stato, ma che non rispettano i diritti dei sudditi154. Se Erasmo aveva messo l’accento sugli obblighi morali del principe verso i sudditi, Ceriol, più precisamente, sottolinea il vincolo reciproco fra sovrano e popolo155. È un contrattualismo di ascendenza feudale e più specificamente aragonese, in cui si avverte l’eco dell’antica formula dei Fueros: obbedienza al sovrano, nel rispetto di certe condizioni, «y si no, no». Il tema è particolarmente attuale nei Paesi Bassi all’inizio del regno di Filippo II, dove era sopravvissuto il contrattualismo borgognone di Erasmo e dove un testo centrale del “costituzionalismo” ispanico, il postumo De regia potestate di Bartolomé de Las Casas, incontrerà grande fortuna di pubblico 156.

153 Si legge infatti nell’esposizione del piano del trattato politico di cui il Concejo costituisce un frammento: «El primero Tratado terná tres libros: uno en que se declare que cosa es Príncipe, como se inventó, i porque se inventó, que poder tenga, quien se lo dió i quien lo pueda quitar» (El Concejo, cit., p. 117). Corsivo nostro. 154 Cfr. El Concejo, cit., pp. 112-113: «Esta suficiencia conoscerá el Príncipe en su Consejero por esperiencia. Es tal: finja de pedirle consejo en cosas que son del todo contra el bien público diziéndole que, aunque sean tales, todavía importan al real servicio por ciertos deseños como serían romper leies importantes, privilegios grandes, poner tributos ecessivos i otras cosas semejantes [...] Esta es regla certissima i sin ecepción, que todo ipócrita i todo avariento es enemigo del bien público, i también aquellos que dicen que todo es del Rei, i que el Rei puede hazer a su voluntad, i que el Rei puede poner quantos pechos quiziere, i aun, que el Rei no puede errar». 155 Cfr. El Concejo, cit., p. 88: «El Tratado tercero terná dos libros: uno que diga por estenso todo aquello en que un vasallo es obligado a su Príncipe; el otro, todo quanto el Principe es obligado a sus vassallos; donde se verá claramente la regla cierta de conoscer un traidor i leal vassallo, i tambien de saber qual es Príncipe i qual tirano». Ceriol è intenzionato a far luce su un argomento che Castiglione lascia volutamente in ombra. 156 Cfr. B. De Las Casas, De regia potestate o Derecho de autodeterminación, edicción crítica bilingüe por L. Perena, J. M. Prendes, Madrid, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, 1969 (Corpus Hispanorum de pace, 8).

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Il “machiavellista” Ceriol sottolinea a tutti i livelli l’importanza del consenso popolare: nella politica economica, che deve evitare il fiscalismo; nella scelta del consigliere, che deve avere sufficiente rappresentatività sociale, prendere in considerazione l’intera aristocrazia e non farsi condizionare da criteri etnico-religiosi; nell’azione del consigliere, che può urtarsi ad una legittima resistenza popolare157. Anche Machiavelli si era richiamato all’utilità del popolo e alla necessaria coesione del corpo politico, reclamando durezza nei confronti delle forze particolaristiche. Ma, per assicurare il consenso nel “principato misto” di Filippo II, occorreva anzitutto stabilire su base equa i rapporti fra le diverse “corone” della monarchia spagnola. Lettura di Machiavelli e osservazione concreta convergono nel “federalismo” di Ceriol. L’autore del Principe aveva invitato a rispettare “leggi e dazi” delle province assimilabili per lingua e costumi. La condanna delle innovazioni arbitrarie, che poteva invocare l’autorità di Machiavelli, diventa nella seconda metà del Cinquecento un argomento centrale dei politiques, contrari a mettere in discussione precari equilibri di forze, introducendo il tribunale dell’Inquisizione o proclamando crociate antiereticali. Ceriol condivide questa posizione. Il valenziano non propugna l’unificazione del diritto ad opera del sovrano, bensì l’applicazione delle leggi vigenti in ciascuna regione 158. Un lettore a lui contemporaneo doveva cogliere immediatamente l’allusione a quanti volevano introdurre un “tribunale straniero” come l’Inquisizione spagnola in province come i Paesi Bassi, ma anche il Regno di Napoli. Altra concessione notevole alla diversità interna è l’accenno alla conoscenza delle lingue, che – come si è visto – non concerne solo le relazioni diplomatiche e di spionaggio, ma anche il rapporto con i sudditi. Furió auspica una monarchia sovranazionale, radicata storicamente nell’universalismo imperiale di Carlo V, che si è però evoluto nel senso dell’equilibrio fra diverse culture regionali autonome 159. Raccomanda, quindi, che le varie province 157

Cfr. El Concejo, cit., p. 132, dove Ceriol sottolinea i vantaggi di richiedere al consigliere un giuramento: «El pueblo todo, por otra parte, ha miedo de pedirle cosa injusta; i toma osadía para pedirle cosas justas, i para irle a la mano si las negare, o si quiziere hazer algo contra derecho». Corsivo nostro. 158 Cfr. ivi, pp. 95-96: «Juro santísimamente que de cien pleitos, los noventa i cinco nascen de la impertinencia de muchas leies, las quales en nuestros días ia no son nada [...] i, por no haver un Concejo qual io digo, ni se mudan, ni se enmiendan [...] [El Concejo de pena] conoscerá i sentenciará de todos los males i crímenes según las leies de la tierra en que se cometiere el delito». Corsivo nostro. 159 Si veda sul rapporto fra lingua e cultura la seguente affermazione, caratteristica del difensore del volgare contro l’universalismo ecclesiastico nel Bononia: «Más, que el que habla muchas lenguas, necessario es haia visto, leído o hablado con hombres diversos, i sepa

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siano rappresentate proporzionalmente nel Consiglio160. Egli vuole inoltre evitare che intorno ai principali consiglieri si formino fazioni contrapposte, che possano catalizzare gli antagonismi regionali e indebolire l’autorità regia. Pochi anni dopo le guerre di religione in Francia daranno esempio della gravità di questo pericolo. Ma Ceriol ha in mente soprattutto i Paesi Bassi, che Filippo II stava per abbandonare al governo “straniero” di Margherita di Parma e del cardinal Granvelle senza assicurar loro adeguata rappresentanza. “Costituzionalismo” e “federalismo”, rinuncia a introdurre nuovi tributi e nuovi tribunali saranno infatti i capisaldi della politica suggerita da Ceriol nei confronti delle province ribelli. Questi due aspetti della concezione del valenziano sono però inscindibili da un terzo, che abbiamo già sottolineato a più riprese: l’atteggiamento politique verso la religione, il rifiuto di sottomettere l’autorità dello stato a finalità ed esigenze confessionali. La polemica contro le ingerenze ecclesiastiche nella politica serpeggia in tutto il proemio del Concejo, con la sua insistenza machiavelliana sulla separazione fra la persona privata e la persona pubblica del principe, fra morale (e devozione) individuale e lungimiranza politica. Nel sarcasmo erasmista contro il volgo, che non sa distinguere le vere virtù di un regnante, si avverte chiaramente il rifiuto di un’interpretazione bigotta e formalista dei doveri del principe cristiano. Questo atteggiamento critico si ritrova nella descrizione del carattere malinconico e nell’accenno ai “segretari di Dio”, che pretendono di scusare con la volontà dell’Altissimo precisi (e interessati) errori politici. L’osservazione di Ceriol rivela tutto il suo veleno in rapporto alla prassi di consultare juntas de teólogos prima di prendere decisioni politiche con implicazioni religiose, come avverrà nel 1566-1567 quando Filippo II, messo alle strette dalla rivolta iconoclasta, dovrà esaminare la richiesta di mitigare la legislazione contro gli eretici nei Paesi Bassi. Il passaggio più esplicito in questo senso, però, è un trasparente attacco all’Inquisizione: trattando della doverosa imparzialità del consigliere, Ceriol condanna quanti «aman tanto el braço eclesiástico que, por aprovecharle a tuerto o a en todo o en parte las costumbres de aquellos pueblos cuia lengua sabe; i esto es una cosa mui necessaria al Consejero para todas las concurrencias sobre que fuere consultado» (El Concejo, cit., p. 102). 160 Cfr. ivi, p. 127: «El tercero aviso es que el Príncipe que tuviere imperio en muchas i diversas provincias, deve elegir Consejeros de todas ellas, i no de una o dos tan solamente [...] Digo ser necesario que un Príncipe sigua este aviso, si quiere tener buen govierno i los pueblos contentos; porque haziendolo de otra manera, todo va borrado. Porque los pueblos se resienten en ver que ellos son desechados de la administración i govierno principal, pues no veen en el Concejo ningún hombre de su tierra, piensan (i no sin causa) que el Príncipe los tiene en poco».

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derecho, rebolverán todo un reino, porque los tales hombres son mui peligrosos i destruien el principado»161. La posizione di Ceriol (a parte l’affermazione naturalista dell’autonomia metodologica della politica) è coerente con il cristianesimo fideista del Bononia. Furió interpreta la Bibbia come rivelazione immediata della volontà divina circa l’agire pratico dell’uomo, anziché come sommario metafisico per eruditi. Essa vale pertanto come norma morale assoluta tanto per il laico quanto per il chierico. Proprio perché questa norma è chiara, autoevidente, alla portata di tutti, non c’è bisogno di un ceto di interpreti privilegiati, che la applichino con mille distinzioni ai casi concreti della vita sociale. Il tentativo di fondare una «política de Dios», ponendo la coscienza del regnante sotto tutela, è per Ceriol un aspetto particolare della hybris della ragione. Le spiegazioni razionali della Bibbia abbassano la volontà divina a un livello “umano”, confondendola con interessi e interpretazioni discutibili e contingenti. La ragione riferita alla Bibbia crea i conflitti religiosi. Questi ultimi, a loro volta, generano una politica strumentale al temporalismo ecclesiastico. La lettura diretta e fideistica della Bibbia (che il principe può eludere meno di ogni altro) assicura invece il consenso su pochi punti eticamente fondamentali. Anziché dedicarsi a sterminare presunti eretici, il principe può dunque concentrarsi su una politica orientata al bene esclusivo dello stato. Questa, in sintesi, l’originale fusione di erasmismo (ripreso e approfondito da Sebastiano Castellione) e di machiavellismo che si può ricostruire a partire dagli accenni, necessariamente cauti e sfumati, del Bononia e del Concejo. L’impostazione politique di Ceriol non si fonda sulla ragion di stato, e tanto meno sulla ragion di Chiesa, ma proprio sulle sue convinzioni religiose eterodosse. 10. Con la sua franca critica al “braccio ecclesiastico”, che non a caso verrà espunta dalla traduzione italiana di Ludovico Dolce, Furió aveva toccato il limite estremo a cui gli era consentito arrivare, se aspirava seriamente a incarichi politici in Spagna o nei Paesi Bassi. Uscito rafforzato dal braccio di ferro con i tradizionalisti dopo la pubblicazione del Bononia, il valenziano, che aveva ormai raggiunto l’età prevista nel Concejo per la piena maturità 161

Cfr. ivi, p. 113. Cfr. anche ivi, pp. 114-115, dove Ceriol, senza menzionare l’Inquisizione, critica fermamente le confische arbitrarie di beni, che colpivano massicciamente le vittime di quel tribunale: «El avariento siempre es aborrescido [...] Este mismo, estando en el Concejo, a tuerto o a derecho haze confiscar bienes agenos, sólo que le quepa su parte; por do nascen mui grandes dificultades inconvinientes en el principado».

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politica del consigliere (trent’anni), poteva sperare che fosse giunto il suo momento. In parte si trattava dell’illusione individuale di un orgoglioso anticonformista. In certa misura, invece, i motivi centrali della sua opera – atteggiamento contrattualista e costituzionalista con lo scopo di escludere la corruzione e di far prosperare l’economia, separazione di potere ecclesiastico e secolare, richiamo della politica a una morale biblica erasmiana e valdesiana – sono comuni a un più vasto gruppo di «oposición política bajo los Austrias», che si potrebbe chiamare la generazione lovaniense del 1556 e che include, oltre a Ceriol, Felipe de la Torre ed il filosofo platonico Sebastián Fox Morcillo. Felipe de la Torre, cappellano di Filippo II, polemizza, per quanto copertamente, con l’Inquisizione quando, descrivendo con perfetto parallelismo le due categorie alle quali si estende l’autorità coercitiva circa sacra del magistrato, eretici e ipocriti, afferma a proposito di questi ultimi: finalmente son tales, que no se hartan de matar y derramar sangre. Pertanto no sea el Rey ministro de la crueldad ni passiones de nadie: sino de sola la justicia [...] Ará mui buena orden [...] si los que sienten mal de la verdadera religion, despues de ser ello muy bien examinado, fueren castigados: y si a los hypocritas no se les diere entrada en las audiencias, ni en los juizios: si se castigaren rigurosamente los falsos acusadores y falsos testigos, lo qual será con la pena del talión162.

Quella di Felipe de La Torre è una posizione “erasmiana”: riforma della scuola e dell’università; moderazione e carità; riforma conciliare che il monarca deve mettere in pratica nel proprio regno anche contro l’opposizione del papa163; politica di pace dopo le lunghe guerre di Carlo V. Manca, inve162

Cfr. Institución de un rey christiano, colegida principalmente de la santa Escritura, y de sagrados Doctores, por el Maestro Felipe de la Torre, en Anvers, en casa de Martin Nucio, 1556, c. 29rv. Cfr. anche ivi, c. 34rv: «pero so especie de religion infamar al proximo, quitar sus bienes al Christiano, y buscar la muerte a quien Iesu Christo dio vida, no es justicia sino tyrania: no es piedad, sino crueldad; no es religion, sino falta de temor de Dios». Sul contesto storico dell’opera di Felipe de la Torre cfr. J. L. Sánchez-Molero, El erasmismo y la educación de Felipe II, Madrid, Universidad Complutense, Servicio de Publicaciones, 2003. Sull’influsso esercitato dall’umanista di Rotterdam ancora al principio del regno di Filippo II cfr. da ultimo AA.VV., Erasmo en España: la recepción del erasmismo en el primer renacimiento español, Madrid, Sociedad Estatal para la Acción Cultural Exterior, 2002. 163 Cfr. Institución, cit., c. 95v: «y si [la Chiesa] universalmente no pudiere [essere riformata dagli scandali] por los estorvos que pone siempre su perpetuo enemigo, hagalo V. M. en sus provincias y reynos, guardando en esto la orden y Cánones Eclesiásticos que convienen, sin nadie impedirselo» (Felipe de la Torre scrive sotto il pontificato dell’anticonci-

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ce, la dimensione “laica” dell’arte di governo così forte in Ceriol e che proprio la diffusione della Bibbia al di fuori della cerchia ecclesiastica tende a favorire: ogni cristiano che conosca seriamente la legge divina può ambire, in buona coscienza, ai requisiti profani del “buon consigliere”, ma non certo surrogarli con le genericità predicatorie di una «política de Dios». Più generoso di Ceriol, Felipe de la Torre non trascura di menzionare gli scrittori a lui contemporanei, primo fra tutti Sebastián Fox Morcillo: Muchos libros se han escrito assí en nuestros tiempos, como en los passados, de instituciones de reyes y de republicas: y postreramente escrivió muy bien Morzillo criado de V. M. cuya leción tambien será util, teniendo cuenta que se ha de coger de todo lo bueno, y huir lo malo164.

L’opera cui è affidato il pensiero politico di Fox Morcillo, il De regni regisque institutione libri tres, è un dialogo a tre interlocutori: Aurelio, che sostiene la superiorità del regno, Antonio, che rivendica quella della repubblica, e Lucio, che porge a entrambi materia di discussione. Di fatto prevale l’oratio continua 165. L’idea dell’ottimo principe si concreta per Aurelio in Filippo II, di cui approva entusiasticamente la politica di restaurazione cattolica in Inghilterra. Sulla questione della tolleranza, dunque, il filosofo spagnolo non condivide neppure e silentio (una presa di posizione esplicita non sarebbe stata praticamente possibile) la tesi castellionista. Al contrario, l’imposizione della dottrina religiosa approvata dallo stato è per lui un’esigenza della ragione politica giustificata filosoficamente dal platonismo. Sulla scorta della Repubblica e delle Leggi, Morcillo accentua la funzione della religione

liare Paolo IV). La base teologica di questa affermazione è un cristocentrismo che esclude implicitamente la dottrina dei «duo capita» della Chiesa, terreno e celeste: «la qual yglesia como esté fundada sobre Christo, que es la firme piedra, y sobre sant Pedro confessor d’esta piedra» – modo ambiguo per dire: sopra la confessione di fede, non sopra l’autorità personale e istituzionale di Pietro – «y sobre la doctrina de los Apostoles y Profetas, y tras esto ninguno puede poner otro fundamento, d’el que ya está puesto, que es Christo Iesu [...] conviene [...] que sea finalmente el mismo la piedra angular» (ivi, c. 98v). 164 Cfr. Institución, cit., c. 24r. 165 Cfr. Sebastiani Foxii Morcilli Hispalensis De regni, regisque institutione libri tres, Antverpiae, apud Ioannem Latium (ma nel colophon: typis Io. VVitagij), MDLVI, c. F viii r: «Quamobrem institutum, Aureli, tuum persequere, nec istius respondeas nunc obiectionibus: quae contentione plenae, lucem eripiunt, et cursum orationis apte leniterque fluentis interrumpunt». La discussione non vuole essere puramente accademica, ma significativa per l’attualità: «Tota porro de Regno sententia ab Aurelio sic explicatur, ut quoniam optimum quendam regem non qualem philosophi veteres in angulis scholarum per otium depinxere, sed quem nostra desiderent tempora [...] exquirimus» (c. A iii rv).

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anche come sanzione ultraterrena della legislazione civile, per cui non ha dubbi nell’affermare lo ius magistratus circa sacra: Constituta igitur legibus religione, ac firmata imperio, tantum a principe curae in ea tuenda adhibebitur, ut ne occasionem quidem illius praetermittendae, aut negligendae permittat, aut impios homines impunitos per negligentiam relinquat166.

Risulta chiaro, quindi, che l’unità della “generazione del 1556”, certo reale se considerata in una prospettiva storica di lungo periodo (si tratta, in effetti, dell’ultima grande espressione di cultura spagnola maturata in Fiandra prima della rivolta del 1566), si frantuma, osservata più da vicino, in una serie di posizioni spesso contrastanti: né l’autore del Bononia, né Felipe de la Torre avrebbero condiviso l’esplicito elogio dell’intolleranza religiosa da parte di Fox Morcillo. D’altro canto, la posizione del filosofo sulla questione religiosa non si limita al momento repressivo, ma comporta un serio impegno di riforma cattolica. L’insistenza sulla responsabilità dei vescovi per l’istruzione religiosa del popolo richiama senz’altro il Bononia, ma anche la battaglia condotta – e persa – dai padri conciliari spagnoli a Trento per ottenere che la residenza episcopale fosse proclamata di diritto divino167. Di tradizione erasmiana è anche la polemica contro i teologi scolastici 168. L’aspetto più interessante e originale dell’opera di Fox Morcillo è però il confronto con l’Utopia di Moro. Come Ceriol si sforza nel Concejo di adattare alla realtà spagnola considerazioni politiche e intuizioni antropologiche di origine italiana, così Morcillo si sforza di mitigare il comunismo di tradizione platonica resuscitato dall’umanista inglese, senza rinunciare, però, al risultato 166

Cfr. ivi, c. N v r. Il giudizio sull’azione di Maria Tudor e Filippo II in Inghilterra si legge alle cc. A v r-A vii r. 167 Cfr. cc. I i v-I iii r: «Qua in re mirari equidem satis nequeo turpissimam huius aetatis Episcoporum vel negligentiam, vel ignorantiam potius cum avaritia, ambitioneque coniunctam, ut antiquissimum, ac utilissimum imbuendae Christiana religione iuventutis morem tota in Ecclesia veteri usitatum obsolevisse permiserint, nec, ut in percipiendis possessionum ac decimarum fructibus diligentes sunt, ita eundem nunc etiam, cum est maxime opus, renovare studeant [...] Quotusquisque hodie quacunque in civitate sic est institutus, ut quid sit christianismus, in quove consistat, aut quid ea poscat professio, intelligat? Quem tam studiosum huiusce rei episcopum cernimus, ut ambitione deposita, fastu, simulatione virtutis, avaritia, ignoratione muneris sui, se sua in diocoesi semper continens uni civium institutioni operam navet?». 168 Cfr. ivi, I v rv: «Docebuntur praeterea pure ac sincere artes [...] si demum Theologi sacra scripta, veteribus tantum patribus, et ecclesiae institutis adhibitis, reliqua fere, vulgoque Theologastrorum novorum neglecta, capiant».

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conseguito nel I libro dell’Utopia: integrare la proposta utopica in un concreto riformismo economico-sociale, concepito “su misura” per l’Inghilterra del secolo XVI 169. Il De regni regisque institutione si inserisce così nella tradizione della politica erasmiana, che rivendica una certa autonomia della società civile produttiva rispetto alle pretese autocratiche del re e della corte 170. Nel contesto spagnolo questa rivendicazione si manifesta come difesa dei fueros: tre anni prima del Concejo, anche il valenziano Morcillo propone una soluzione “federalista” ai problemi della monarchia iberica. Non a caso l’opera si conclude con una celebrazione della storia spagnola, a cui la tirannide è sempre rimasta estranea. Nel complesso Fox Morcillo si rivela più accademico e “metafisico” di Ceriol171, assai più chiuso sul terreno religioso, più

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Come Ceriol, Fox Morcillo può considerarsi per certi aspetti un precursore degli arbitristas. Insiste sulla stabilità della moneta e sulla necessità di regolarne il valore rispetto a quella degli stati esteri per prevenire esportazione di valuta «quod saepe usu venit, nostris praesertim, quibus ex tanta auri et argenti copia ab Indis advecti perparum relictum est» (De regni, cit., c. O iv v); propone la soppressione del maggiorascato come misura contro l’eccessiva concentrazione della ricchezza, ma anche per evitare il più radicale rimedio platonico di una limitazione legale della proprietà: «Atqui hoc sane remedium multo est utilius, ac levius eo quod a Platone affertur, qui certum eam ob causam bonorum ac possessionum cuique modum praescribi voluit ne, si hoc statueretur, multis iniuria fieret, dempta bonorum parte, iniusteque id alijs daretur quod esset ademptum alijs»: con allusione alla guerra dei contadini in Germania (c. P ii v); Morcillo suggerisce una politica annonaria che, favorendo la piccola proprietà contadina, accresca il numero dei produttori accedenti al mercato e consenta così la formazione di riserve cerealicole, escludendo l’incetta: «Iam vero carnium copia abunde cunctis civitatibus suppetet, si, quod aliquando in Britannia factum a Thoma Moro homine et doctissimo et probatissimo fertur, lege statuatur, ne quisquam ultra certum aliquem numerum pecudum, aut armentorum habere possit» (c. Q i v); si fa avvocato di misure protezioniste e caldeggia una limitazione dell’immunità fiscale della nobiltà e del peso tributario che grava sui ceti inferiori (c. S vii v). 170 Notevole l’affermazione, presente anche in Ceriol, che i consiglieri devono possedere cultura generale e non puramente giuridica ed essere reclutati anche al di fuori dell’alta nobiltà: «Admitti autem huiusmodi in coetu consiliariorum non tantum principes viros, sed inferioris etiam fortunae homines censeo, ut hi quoque reipublicae usui esse se intelligant» (De regni, cit., e. I vii v). 171 La superiorità del regno viene dimostrata con argomenti platonici. Morcillo insiste sulla naturale socialità dell’uomo, che fa parte integrante della sua razionalità: «Mihi autem veram hominum originem intuenti ab ipso statim exordio, natura ingenij nostri, sermonis rationisque vi atque appetitu nos instigante, coetus fuisse hominum videntur» (De regni, cit, c. C iv r). Introduce inoltre la dottrina del «principio» che plasma una materia sociale – il popolo – per sé inerte: «Item cum universae societatis humanae finis commune sit bonum, in quod ipsa referatur, necesse profecto est, principem esse causam aliquam eique praesidentem, quae illam possit propositum ad finem deducere: cum ipsa sese societas nequeat ad illum comparare, quando nec singulae illius partes possunt atque id etiam omne, quod quid

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sistematico e anche più aperto sul terreno sociale, dove comunque i due autori concordano ampiamente. Entrambi condividono infatti un’ottica “aragonese” che mette l’accento sull’autonomia dei singoli “regni”. Felipe de la Torre e Sebastián Fox Morcillo non posseggono la vigoria stilistica, l’energia polemica e l’aspro individualismo di Ceriol. Tutti e tre, però, agiscono in un contesto storico e culturale che assicura un margine di opposizione legittima o comunque tollerata. Una volta emarginata la dissidenza religiosa, i grandi temi suggeriti da quella generazione non tardarono a ridursi ad esercizio accademico, alieno da ogni velleità critica. La storia della fortuna del Concejo illustra la vitalità di un libro che aveva messo a fuoco una tematica estremamente attuale, ma anche la progressiva scomparsa dello spirito critico e della tensione riformistica associata alla forte influenza, anche letteraria172, di Erasmo. Lo illustra con evidenza un’imitazione che risale alla seconda metà del regno di Filippo II. Il Tractado del Conseio y de los consejeros de los Principes, compuesto por el Doctor Bartolomeu Felipe (En Coimbra, Impresso en casa de Antonio de Mariz, 1584) contiene numerosi riferimenti al Concejo 173. Lo scrittore portoghese cerca di di-

ad aliud instituat, eo sit semper praestantius, quod referatur» (ivi, cc. B vii v-B viii r). Questa posizione implica una visione rigidamente gerarchica dei compiti specifici di ciascuna classe. 172 Su quest’ultimo aspetto cfr. il recente A. Rallo Gruss, Erasmo y la prosa renacentista española, Madrid, Ediciones del Laberinto, 2003. 173 L’autore portoghese cita Furió alle cc. 15r-16v (Consiglio di mercede); 17v-18r (dissente da Ceriol a proposito dell’età del consigliere, che questi vorrebbe compresa fra i trenta e i sessant’anni); 28r (prova del valore del consigliere: chiedergli qualcosa di contrario al bene pubblico); 33v (imparzialità); 34r (esperienza di pace e guerra); 38r (cultura storica); 42rv (riassume le osservazioni di Ceriol sul temperamento atrabiliare e commenta: «Aun que la complession melanchonica no sea tam [sic] buena como la colerica y sanguinea, los authores comunmente la llaman complesion heroica, porque no recelan dezir la verdad sin tener cuenta con peligro alguno [...] y muchas vezes adevinan y dizen lo que ha de succeder, muchos excellentes varones fueron, como dize Aristotiles, melancholicos», soggiungendo poi che le inclinazioni astrali non infirmano il libero arbitrio); 43r-44r (contro il peso dato da Ceriol alle qualità fisiche del consigliere); 44v (priorità della «prudenza» sull’ingegno, contro Ceriol); 100r (funzioni del Consiglio di stato). Felipe si oppone a Ceriol sulla questione centrale dell’Inquisizione, e proprio per ragioni politiche: «Mudan las Respublicas el govierno con las nuevas religiones i sectas, porque ninguna cosa más las sustenta que la religión. Por esto los que quieren usurpar alguna monarchia se valen dela religión porque con ella atrahen los pueblos a su obediencia: con que inquietan las Respublicas y se mudan las costumbres, introduziendo en ella bandos, parcialidades y dissensiones, como se ve en aquellos que han introduzido nuevas sectas y alterado las costumbres so pretexto de religion [...] Quanto importe a la Republica guardare la catholica y verdadera religión se vee claramente en Espana, que por amor dela gran vigilancia y cuidado que la sancta inquisición tiene en no permitir que en ella se introduzcan nuevas y falsas sectas, vive en paz y concordia y

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stinguersi dal predecessore, accentuando la propria identificazione con la monarchia nazionale e cattolica. Malgrado queste pretese di originalità, l’opera di Bartolomeu Felipe non riesce ad essere altro che un centone pedantesco. Nulla è rimasto dell’ampiezza di prospettive di Ceriol, per cui la riforma del “Consiglio” voleva essere un ripensamento globale della politica spagnola. Trascorsi altri trent’anni, l’esordio del Concejo echeggia in un trattato dedicato al duca di Lerma174. Il nesso, così stretto in Ceriol, fra l’aspetto retorico e quello attivamente politico dell’educazione del consigliere si scioglie nell’enciclopedismo barocco e negli eleganti arabeschi di una «buena i cortesana filosofia». i porque a la lengua añadió freno naturaleza, quizá de despecho de verse atada i encerrada, buscó [sc. la buena i cortesana filosofía] tal instrumento [sc. la pluma], para volar donde no podia, i el mas ligero175.

Perché questa leggerezza non finisca per diventare socialmente pericolosa, Ramírez Prado si affretta a consigliare: «los teologos asistan en aconsejar a los Príncipes»176. Che senza conformismo religioso non fosse possibile salvaguardare la struttura sociale era del resto convinzione diffusa nella Spagna del Siglo de Oro. La posizione intollerante si ritrova brillantemente formulata in una nuova metamorfosi dell’ideale del consigliere, assai più vicina allo spirito di Ceriol di quanto non fosse il trattato di Ramírez Prado. Mateo López Bravo descrive l’intelligenza anticonformista del consigliere in termini analoghi a

florece el culto divino» (cc. 143r-l44r). Come Ceriol, è un buon conoscitore di Machiavelli, di cui cita i Discorsi e le Istorie fiorentine, criticando lo scrittore fiorentino per quanto afferma sulla pericolosità del mutare le «ordinanze» istituzionali di uno stato (cc. 103v-105r) e rifiutando la sua massima del ritorno ai principi (c. 107r). La prima di queste due critiche potrebbe anche riferirsi ai Paesi Bassi e alla questione del «Gobierno Antiguo» delle province borgognone, di cui i politici spagnoli più moderati raccomandavano il mantenimento. 174 Cfr. Lorenzo Ramírez De Prado, Consejo i Consejero de Príncipes, en Madrid por Luis Sanchez, 1617, Introdución, cc. 9v-10v: «Qu’el Principe tiene dos personas, una, hechura de la Naturaleza; comunicasele un mismo ser con los demas Onbres. Otra, por favor d’el Cielo, para gobierno, i amparo d’el bien publico [...] Seneca consideró tres diferencias de ingenios. Los que pueden hazer examen de medios convenientes, i aprobar el mejor. Los que tienen buena elecion, i se aplican a lo que se les propone más conveniente. Los que como forcados van por donde se les aconseja. Estos nacieron en perpetua servidunbre, i casi inutiles, aunque mejores que los que ni por si saben, ni obedecen a quien vale a guiarlos. De los primeros es propio el gobierno, i mando». 175 Cfr. ivi, c. 206r. 176 Cfr. ivi, e. 230r.

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quelli di Furió177. Ma López, teorico degli arcana imperii, è ben convinto dell’importanza politica del pregiudizio178 e ne trae una conclusione diametralmente opposta a quella del Concejo: Raro fidus, qui exclusus: africo ideo, aut hebraeo sanguine infectos procul a reipublicae arcanis princeps noster repellat 179.

Mentre Ceriol scorge nell’educazione politica razionale del consejero una norma infallibile di condotta, López Bravo esprime un realismo disincantato e conservatore, che prende congedo senza rimpianti dal moralismo utopico, polemizzando contro il comunismo di Platone e Moro180. L’autore del De rege non è affatto un apologeta del presente: nel terzo libro del trattato viene sviluppato un incisivo programma di riformismo empirico che implica limitazione del numero di monaci e chierici celibi, protezione dell’attività mercantile e della pastorizia, lotta ai monopoli e fidecommissi. Ma quello che possiamo definire il “riformismo del 1556” rinasce nei primi anni del governo di Olivares su una base tecnicamente più “discreta” e circostanziata, ma anche culturalmente più angusta, fortemente condizionato da un tradizionalismo religioso che ribadisce una volta per tutte la barriera sociale innalzata nei confronti dei “cristiani nuovi”. Mentre per quasi un secolo, fra la stampa anversana nel 1559 e l’epoca degli arbitristas, il Concejo veniva largamente discusso ed imitato nella patria dell’autore, numerose traduzioni documentano la notevole fortuna che il trattato conobbe a livello europeo. Nel 1560 uscivano, in concorrenza, due versioni italiane dell’opera, curate una da Lodovico Dolce, l’altra da Alfonso de Ulloa. Dolce, interpolando, attenua il testo del valenziano dove questo poteva

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Cfr. Mathei Lopez Bravi De rege et regendi ratione libri tres, cit., p. 49: «Veraci erit ingenio, non quia dicat, sed quia vera capiat: huiusmodi erit, si fabulis, ut vulgus, non capiatur; eas vero corde rideat [...] Omnium rudissimi, mendaci ingenio [...] qui Batavum aut Afrum odio habent, ex eo tantum quod Batavus aut Afer». 178 Cfr. ivi, pp. 3-4: «Dei cognitioni eius cultus, aut veneratio succedit certis maiorum legibus caeremonijsque devincta: quibus religari ita debet Princeps, ut subditis religiosissimus saltem appareat [...] Nec Socrates, si nova tulerit, ferendus aut dissimulandus. Dura haec lex philosophis, sed servanda, quia utilis: tutius namque, ut pereat unus, quam ut pereat unitas». Notevole il machiavellismo di cui dà prova, in questo contesto, un autore altrimenti avverso allo scrittore fiorentino. 179 Cfr. ivi, pp. 53-54. 180 Cfr. ivi, p. 45: «nam vitia tollere, ni homines tollas, rudes hominum vires excedit»; ivi, libro II, p. 32: «Labores alit amor divitiarum [...] haec igitur verba meum et tuum (quicquid Plato aut Morus somniarint) toleranda; utilitas enim eorum noxa superior».

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risultare più offensivo per orecchie controriformistiche181. Ulloa, meno accorto, più raffazzonatore, traduce invece fedelmente182. Pochi anni dopo uscì una versione latina del giurista Simon Schardius (1563, ristampata nel 1588 e 1597) 183. Prima della fine del secolo lo scritto di Ceriol venne ancora tradotto in latino dal polacco Christophorus Varsevicius, con intento celebrativo e

181 Cfr. El Concejo, cit., p. 113: «Otros aman tanto el braço eclesiástico que, por aprovecharlo a tuerto o a derecho, rebolverán todo un reino, porque los tales hombres son mui peligrosos i destruien el principado»; II Concilio, ovvero Consiglio et i Consigliere del Principe. Opera dotissima di furio Ceriolo [...] tradotta di lingua Spagnuola nella volgare italiana per Messer Lodovico Dolce, Vinegia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1560, pp. 66-67: «altri amano tanto il bene Ecclesiastico (il quale veramente si dee amare, havendo alla Romana Chiesa quel rispetto, quella riverenza, et quella obedienzia, che si conviene) che per fare ad alcuni utile, volgerebbero sossopra tutto un regno: percioche questi si fatti huomini sono molto pericolosi, e distruggono il Prencipato». La traduzione del Dolce è, per il resto, assai fedele. Un esemplare manoscritto di questa traduzione, del tutto identico alla stampa, si trova a Praga nella biblioteca del monastero premonstratense di Strahov (segnatura D.E. IV 10). 182 Cfr. Il Concilio et consiglieri del Principe. Opera di Federigo Furio Ceriol, tradotto fedelmente di lingua spagnuola secondo il testo originale dell’autor per Alfonso d’Ulloa, Venezia, Francesco Bindoni, 1560, p. 50: «Altri amano tanto il braccio Ecclesiastico, che per giovarlo, a torto o con ragione, metteranno sossopra tutto un regno, percioche i tai huomini sono molto pericolosi, et distruggono il Principato». Sulla personalità dell’Ulloa, che fu coinvolto in oscuri affari di spionaggio e venne condannato a morte dal Consiglio dei Dieci nel 1568 (condanna poi tramutata nel carcere a vita) cfr. A. Rumeu De Armas, Antonio de Ulloa, introductor de la cultura española en Italia, Madrid, Gredos, 1973. 183 Per la fortuna della traduzione di Schardius cfr. Speculi aulicarum atque politicarum observationum Libelli quinque nimirum 1. De Conciliis et Consiliariis principum Fridericus Furius [...] Denuo ob penuriam exemplarium omnes conjunctim correctius in usum Aulicorum atque Politicorum omnium concinnati atque editi, procurante Andrea Hoffmanno, Bibliopola VVitenbergensi, anno MDXCIX, s.n. (lettera dedicatoria di Simon Gronenbergius al consigliere aulico di Sassonia Heinrich Abraham von Scharffenstein und Fensberg): «In quorum numero cum Fridericus Furius est Ceriolanus, Iureconsultus praestantissimus, qui libellum de concilijs et consiliarijs praeclarum, idiomate Hispanico, conscripsit et edidit: non inutilem operam interpretem impendisse constat, qui hanc Consiliarii ideam Hispanico sermone primo expressam ac deinde in Italicum transfusam, in linguam quoque latinam, ut a multis et legi et intelligi possit, convertit. Qui tractatus cum magno desiderio Germaniae hactenus expectatus, datus et divenditus sit: ego nunc denuo eum [...] typis meis novo modo describere atque in unicum libellum cogere institui». A p. 64 di questa edizione si legge l’energica traduzione di Schardius del passo «censurato» da Dolce: «Hi ut brachij Ecclesiasticj potentiam augeant, quo iure quave iniuria totum regnum destruerent. Id vero genus hominum, cum regnum facile pessundare possit, cumprimis fugiendum est». Le edizioni cui allude Gronenbergius nella prefazione alla ristampa del 1599 sono: De consiliariis eorumque qualitatibus, Basileae, Oporinus, 1563; Idea consiliarii, Francofurti ad Moenum, Ioannes Spies, 1588. Entrambe vennero curate dallo Schardius.

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apologetico nei confronti della monarchia spagnola184. Malgrado l’attesa suscitata dai trattati promessi nel Concejo e gli sporadici riferimenti all’attività letteraria di Ceriol contenuti nella corrispondenza di Matalio Metello185, tale fortuna editoriale europea rimase senza seguito. La prosecuzione ideale del Concejo è costituita però dall’attività politica diretta che ora ci resta da esaminare, riprendendo il filo della trama biografica di Furió. 11. Due anni dopo il rimpatrio, nell’estate del 1566, nella situazione tesa che precede immediatamente lo scoppio della rivolta iconoclasta nei Paesi Bassi186, Furió offre a Filippo II una prima riflessione sulla crisi politica187. Si sofferma anzitutto sulle conseguenze della separazione dei dominii fiamminghi dall’area politica dell’impero, a cui erano appartenuti de iure fino a vent’anni prima. L’antico legame politico si perpetua nell’osmosi matrimoniale fra l’aristocrazia fiamminga e quella dell’impero, in larga parte riformata; nelle rivendicazioni territoriali e nelle giurisdizioni ecclesiastiche di numerosi principi tedeschi; nella diffusa opposizione al progetto regio di ridisegnare i confini delle diocesi, istituendo nuovi vescovadi. A ciò si aggiungono la struttura costituzionale dualistica dei Paesi Bassi, con la forte autonomia degli stati generali rispetto al sovrano, e le pressanti motivazioni commerciali che sostengono la richiesta di libertà religiosa. Per tutti questi motivi Ceriol invi-

184 Cfr. De concilio et consiliariis principis liber, ex F. Furii Ceriole Hispanico in Latinum versus inque lucem editus, Cracoviae, In officina Lazari, MDXCV, p. 196: «[Ceriol] ab Hispanico nomine tyrannidis suspitionem falsam, quam alienae felicitatis comes invidia et civiles, inciviles admodum, inter Christianos discordiae gignere consueverunt, quantum in eo fuit amovisse, quis ignorat? Quae una (pace aliarum dixerim) natio inter tot tantasque alias, haud scio si obtinuerit in multis principatum, sive imperij quam habet amplitudinem sive religionis spectes constantiam, sive denique morum prae aliis firmiorum et monetae (licet id minimum fuerit) non suspectae cudendae intueare rationem». 185 Cfr. ad esempio una lettera di Johannes Hervagius allo Amerbach del 1563: «Autor ille, Magnifice Domine Rector, qui tot libris de principis institutione promittit, est Fridericus Furius Ceriolanus, cuius librum de conciliis et consiliariis ad te mitto, quem Schardius nunc ex italica lingua in latinam transtulit; utinam et reliqui libri, si modo ab authore absoluti sunt, aliquando in lucem proderent» (Universitätsbibliothek Basel, C VIa 35, c. 201r, citato in C. Gilly, Spanien und der Basler Buchdruck, cit., p. 196). 186 Nella vasta bibliografia sulla rivolta nei Paesi Bassi ci limitiamo a segnalare G. Parker, The Dutch Revolt, London, Routledge, 1977; J. Israel, The Dutch Republic. Its Rise, Greatness and Fall 1477-1806, Oxford, University Press, 1995; A. van der Lem, Opstand! Der Aufstand in den Niederlanden, Berlin, Koerner, 1996. 187 II testo degli Avisos si legge in D. Lagomarsino, Furió Ceriol y sus «Avisos acerca de los Estados Bajos», in «Bulletin Hispanique», LXXX, 1978, pp. 88-107.

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ta il monarca a tollerare il male, anziché aggravare la crisi ricorrendo alla mano forte. Occorre, insomma, rispettare il «gobierno antiguo»: questo leitmotiv degli scritti di Furió sul problema fiammingo congiunge la saggezza machiavelliana (ogni mutazione lascia «lo addentellato» per la successiva) con la tolleranza politique di Erasmo e di Montaigne. L’arte di governare è arte del minor male relativo, non del bene assoluto. Sette anni dopo, nel novembre 1573, di fronte al fallimento della politica del duca d’Alba, Benito Arias Montano esclamerà: «se avian de observar las leyes de las provincias, por qué las leyes humanas tienen esto que todas no convienen para todas partes; allende que es dificil y apar de muerte mudar costumbre»188. Quando scriveva queste parole il dotto Montano, che Filippo II raccomandava come autorevole consigliere al nuovo governatore Luis de Requesens, era già caduto sotto l’influenza anche politica della Familia charitatis, che proseguiva nei Paesi Bassi la tradizione irenica del cassandrismo. La Familia professava la possibilità di salvezza all’interno di tutte le confessioni positive: occorreva conformarsi esteriormente ai comandi del magistrato civile, ma anche praticare una devozione esoterica dei “perfetti” ben distinta dalla religiosità popolare. Il gruppo cercava di conservare lo status quo delle libertà borgognone contro il calvinismo dogmatico e rivoluzionario, ma anche contro le pericolose “innovazioni” di Filippo II 189. Quando, nel 1574, gli viene concesso di accompagnare in Fiandra il moderato Requesens, rompendo dieci anni di forzata inattività, Furió si inserisce in questo ambiente politico e spirituale, di cui già facevano parte antichi amici del periodo di Lovanio: Matalio Metello e Aggaeus van Albada190. Ceriol doveva condividere l’obbiettivo principale di Montano e dei familisti: distinguere nella rivolta fiamminga l’elemento religioso (la lotta all’eresia,

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Cfr. Advertencias del Doctor Arias Montano sobre el remedio de las cosas de Flandes, Genève, Bibliothèque Publique et Universitaire, Coll. Favre XL, e. 277v. 189 Cfr. B. Rekers, Benito Arias Montano (1527-1598), London-Leiden, The Warburg Institute, University of London-E. J. Brill, 1972; A. Hamilton, The Family of Love, Cambridge, Cambridge University Press, 1981; A. Hamilton, The Apocalypse within: some inward interpretations of the Book of Revelation from the sixteenth to the eighteenth Century, in Tradition and Re-Interpretation in Jewish and Early Christian Literature, ed. by J. W. van Henten-H. J. de Jonge-P. T. van Rooden-J.W. Wesselius, Leiden, Brill, 1986, pp. 268-283. 190 Albada, giurista frisone, divenne nel 1561 assessore nel Reichskammergericht e nel 1579 fu rappresentante degli stati generali ai negoziati di pace di Colonia. Seguace di Schwenckfeld, ammiratore di Pico e Paracelso, era un deciso difensore della tolleranza. Cfr. W. Bergsma, Aggeus van Albada (c. 1525-1587), schwenckfeldiaan staatsman en strijder voor verdraagzaamheid, Meppel, Krips Repro Meppel, 1983.

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pretesto chiamato a giustificare una politica repressiva e opprimente) dalle rivendicazioni sociali e giuridiche che potevano essere legittimamente soddisfatte. Tali rivendicazioni comprendevano il rispetto delle prerogative fiscali degli stati generali, la fine della guerra economica con l’Inghilterra e il rimpatrio delle truppe d’occupazione spagnole, «por que qualquiera mediana guarnición de milicia con los corazones de los súbditos sería bastantísima, y sin ella ninguna basta»191. Nei primi mesi del nuovo governatorato la ricetta di Ceriol per i Paesi Bassi sembra coincidere con quella di Montano. Il Comendador Mayor Requesens mostrava sensibilità per l’istanza di riforma cattolica propugnata da Arias Montano nei suoi memoriali192. Ceriol poteva inoltre contare su potenti protettori, come il duca di Francavilla, principe di Melito e presidente del Consiglio d’Italia193, e Don Pedro de Cabrera y Bobadilla, secondo conte di Chinchón, tesoriere generale della corona di Aragona a partire dal 1558, che divenne uno dei personaggi più influenti a corte dopo la morte del principe di Eboli nel 1573 194. Furió espone le sue opinioni in due memoriali, indirizzati l’uno a Filippo II (Remedios para el sosiego de las alteraciones de los paises Vajos de los Estados de Flandes), l’altro a un «ilustrísimo y excelentísimo señor» (Discurso de Furió Ceriol sobre el apaciguamiento de estos estados). Se si prescinde dalle amplificazioni retoriche presenti nel memoriale per Filippo II, il contenuto dei due testi è quasi identico. I Remedios, però, aggiungono ai tredici punti del Discurso altri due “consigli”: relazioni non apertamente ostili con 191

Cfr. Advertencias del Doctor Arias Montano, cit., c. 277v. Requesens restò fedele a questa impostazione anche dopo il fallimento delle trattative di Breda: cfr. la lettera del 17 agosto 1575 a Filippo II: «verá vuestra mag[esta]d lo que en esta villa he tratado sobre el crecer las parrochias y sobre q[ue] aya sermones de todas las lenguas y q[ue] se enseñe en la flamenca la doctrina cristiana a la gente moza en diversos monasterios de frayles y monjas y la dificultad que en ello ay por la tibieza del obispo y aún delos frayles» (Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 94, doc. 31). 193 Sull’atteggiamento aperto di questo personaggio, che per certi versi lo accomuna a quel Ceriol che «se juntaba siempre con alemanes», cfr. il giudizio di Requesens nella lettera a Filippo II del 23 agosto 1575: «me dava los avisos q[ue] dezía tener de Alemania de los muchos amigos q[ue] el dize q[ue] le quedan de los años q[ue] en ella estuvo [...] por una parte no he visto en el cosa mala, y alg[un]os avisos de los que da no dexan de ser buenos, aunque no llegan muy temprano [...] y por otra parte es extrañissimo modo y Ingenio el suyo, y la vida, q[ue] en estas provincias en su mocedad ha traido» (Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 94, doc. 33). 194 Cfr. S. Fernández Conti, La nobleza cortesana: Don Diego de Cabrera y Bobadilla, tercer conde de Chinchón, in J. Martínez Millán, dir., La corte de Felipe II, cit., pp. 229-270, in particolare pp. 229-233. 192

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l’Inghilterra e presenza personale del sovrano nei Paesi Bassi. Si può dunque supporre che i due pareri siano contemporanei. I Remedios furono composti fra il maggio 1573 (ascesa di Enrico d’Anjou al trono di Polonia) e il 30 maggio 1574 (morte di Carlo IX di Francia)195. Ceriol allude alla battaglia di Lepanto (settembre 1571) come avvenuta «due anni or sono»: ma tale espressione potrebbe ancora riferirsi ai primi mesi del 1574 196. Punto di partenza è l’immagine machiavellica del Centauro, di cui Furió respinge l’implicita apologia della forza: nelle nuove circostanze il principe non deve stare «in sulla bestia», visto che le armi del duca d’Alba hanno fatto così cattiva prova, ma imboccare la via umana, anzi regia e divina, della clemenza neostoica197. Come Montano, Ceriol pretende un’amnistia quasi generale (mentre quella concessa effettivamente da Requesens il 5 giugno 1574 escluderà gli esponenti più in vista della rivolta). Il valenziano esige inoltre una severa repressione degli abusi della soldatesca, l’abolizione del «tiende penning» («porque esto es lo que les llega al alma») e la restaurazione del «gobierno antiguo». A queste concessioni se ne aggiunge un’altra, che Montano non aveva preso in considerazione: offrire all’aristocrazia fiamminga possibilità di servizio in altri territori della monarchia spagnola, comprese le Indie 198. Questa originale proposta rivela l’insof195 Si vedano i testi editi in appendice a El Concejo y consejeros del principe, ed. H. Méchoulan, trad. sp. a cura di D. Chomorro, Madrid, Càtedra, 1978 (d’ora in poi El Concejo [1978]), rispettivamente pp. 205-213 e 217-221, in particolare p. 213 per «el décimo quarto remedio» («que Vuestra Magestad no rrompa por agora guerra pubicamente en Inglaterra») e per il machiavellico «décimo quinto remedio» («que para usar de tan altos grados y actos de prudencia, liberalidad y misericordia, como son los sobre dichos, no ay persona que lo pueda hazer, ni aunque lo deva hazer, porque los prudentes príncipes cometen a sus ministros la justicia y reservan para sí la gracia»). L’ipotesi di Gilly (Spanien und der Basler Buchdruck, cit., p. 200) che i Remedios siano contemporanei agli Articuli Pacis si scontra con l’evidenza cronologica. Leggiamo infatti (El Concejo [1978], p. 206): «La segunda rrazón es porque el nuevo rey de Polonia, estando como está muy obligado al Turco, moverá guerra cada y quando se lo pidiera [...] Su hermano el rey de Francia le ayudará a ello o a lo menos travajarán de enajenarlo [sc. el imperio] de la casa de Austria [...] y podría ser que diesen todos sobre los Estados Vaxos». 196 Cfr. El Concejo (1978), p. 205: «hallándole desarmado y roto agora dos años». 197 Cfr. El Concejo (1978), p. 207: «Pero los savios y grandes gobernadores tiénenla [sc. la potencia] por bestia fiera y no se quieren aprovechar della, mientras pueden echar mano del buen gobierno. De aquí es que los poetas figuraron antiguamente el principado con la efigie de minotauro, de medio arriba hombre, que es el buen govierno, que a de ser superior y primero, y de medio avajo vestia, que es la potencia con las armas, que a de ser la ymferior y postera». 198 Cfr. El Concejo (1978), p. 211: «El sétimo remedio es que los naturales della [sc. tierra] Vuestra Magestad los emplee en cargos de paz y guerra, allá y fuera de allá como en

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ferenza del suddito della corona di Aragona per il monopolio castigliano, ma anche una notevole sensibilità per le alleanze economiche “naturali” (come quella, pericolosissima per la monarchia spagnola, fra le province fiamminghe e l’Inghilterra). D’altra parte, né Ceriol né Montano prendono in esame l’aspetto religioso della rivolta. Il primo passa l’intera questione sotto silenzio, mentre il dotto biblista si limita a parlare di riforma ecclesiastica nel linguaggio ambiguo proprio della Familia charitatis. Con evidente machiavellismo, Furió tenta infine di conciliare la politica transigente di Requesens con l’eventuale permanenza delle truppe spagnole nei Paesi Bassi. Il valenziano doveva ben sapere che la volontà di pace del suo sovrano non era incondizionata. Ben diversa è la posizione degli Articuli pacis composti dopo il fallimento delle trattative di Breda e tramandati dal De bello civili belgico dello storico irenista Richard Dinoth199. Il 14 marzo 1575 Requesens aveva offerto amnistia plenaria, ritiro delle truppe spagnole e possibilità di emigrare per gli anticonformisti religiosi. I ribelli, in risposta, avevano sottolineato il danno economico che l’esilio degli “eretici” avrebbe procurato al paese. Inoltre gli orangisti ritenevano del tutto insufficienti le garanzie fornite dal governatore riguardo alla convocazione degli stati generali nella pienezza delle loro prerogative borgognone ed al ritiro degli occupanti: vaghe promesse della controparte non valevano la rinuncia alle armi. Il 1° aprile Requesens ampliava le offerte, cedendo sul terreno istituzionale, ma non su quello religioso. Agli eretici esiliati veniva comunque riconosciuto il diritto di continuare a godere i propri beni attraverso la mediazione di amministratori cattolici. Le reazioni furono fredde e Requesens perse presto la fiducia nella volontà di trattare degli orangisti200. las Yndias, en Ytalia, Cicilia y en otros cabos de los muchos que Dios ha dado en govierno a Vuestra Magestad». 199 Cfr. Richardi Dinothi Normanni Constantinatis, De bello civili belgico Libri VI, Basileae, per Conradum Vvaldkirch, MDXXCVI, pp. 171-173, che attinge a Michael Aitzing, De leone Belgico, Coloniae Ubiorum, Campensis, 1583, p. 207 (cfr. C. Gilly, Spanien und der Basler Buchdruck, cit., pp. 197-199). È merito di Gilly aver identificato il testo degli Articuli. Per le tendenze ireniche di Dinoth cfr. De bello civili belgico, cit., lettera dedicatoria: «Qui itaque de causae suae aequitate non dubitant, liberi concilij decretis lubentissime se submittent; et haec via transigendi de doctrina controversa tutior erit, quam ea est, quae ex armorum insolentia quaeritur. Haec enim, ut ad componenda dissidia et dirimendas lites quibus ecclesia misere divexatur hucusque nihil profuit, ita in posterum odia magis accendet et omnia tum in ecclesia, tum in republica perturbatiora reddet». 200 Cfr. la lettera di Requesens a Filippo II del 6 aprile 1575: «Con un correo que partío de aquí a los xv del passado di quenta a V[uestra] mag[estad] de lo que hasta entoncens se avia hecho en la communicación que se ha tenido con los Comissarios de los Rebeldes, y

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A questo punto Ceriol si inserì nella discussione facendo pervenire un proprio piano di pace al principe di Orange attraverso l’amico Matalio Metello. Furió riconosceva espressamente che, dopo la pacificazione dei Paesi Bassi, non si sarebbe dovuta introdurre l’Inquisizione di Spagna; confermava la necessità, già affermata nei Remedios, di abolire le imposte straordinarie introdotte dal duca d’Alba; chiedeva inoltre che le leggi repressive in materia religiosa promulgate fra il 1521 e il 1566 venissero mitigate di comune accordo, una volta ristabilito un clima di reciproca fiducia201. Per quanto avesse potuto essere castellionista in passato, ora Ceriol si inchinava realisticamente al principio del cuius regio eius religio. La minoranza non conformista avrebbe dovuto prendere la via dell’esilio, vendendo i propri beni o dandoli in affitto. Si trattava di una cautela tattica, sapendo che Filippo II non si sarebbe mai spinto troppo innanzi sulla strada della tolleranza? Oppure una riflessione di tipo neostoico, affine a quella di Giusto Lipsio202, aveva persuaso il valenziano che minoranze religiose apertamente anticonformiste comportassero un costo troppo alto in termini politici? Oppure la posizione di Ceriol coincideva con quella dell’élite familista delle città fiamminghe, che accetterà la parità di diritti fra le confessioni in lotta, come soluzione interinaria, solo nella ben diversa situazione creata dal sacco di Anversa (pacificazione di Gand, 8 novembre 1576)? Tutte queste componenti si ritrovano negli Articuli pacis, opera di un diplomatico tenuto a rispondere ai propri mandanti, non di un baccelliere battagliero e individualista come era stato il giovane Furió. Ad ogni modo, la novità della proposta rispetto a quanto già accettato da Requesens consisteva soprattutto nel triplice sistema di garanzie (da parte di Filippo II e dei grandi di Spagna, dei principi dell’impero e delle maggiori città fiamminghe), che avrebbe dovuto dissipare le giustificate preoccupazioni degli orangisti. Questi ultimi, invece, lasciarono cadere l’offerta (aprile 1575), confidando sulla po-

como los n[uestros] les avían offrecido de una vez todo lo que yo les avía permitido por la Instrución que llevaron, viendo que todo lo q[ue] se trataba por parte dellos seran dilaciones y desverguenças. Como se ha parecido bien por la respuesta que despues dieron [...] y en ella acabaron de vomitar su ponçoña» (Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 94, doc. 13). 201 Cfr. C. Gilly, Spanien und der Basler Buchdruck, cit., p. 198 (Articuli pacis, VI): «Iis vero, qui huiusmodi de religione conditionibus contenti non erunt, optio detur, nimirum: Ut se catholicae Religioni reconcilient; vel alio (quemadmodum in Imperio subiectis Provinciis ac locis Lege de Pace in Religione lata praescribitur) habitatum concedant, extra quidem regiam ditionem, salva tamen ipsis re familiari. Quam ad fructus inde percipiendos ipsi vendere aut aliis locare possint». 202 Cfr. G. Guldner, Das Toleranz-Problem in den Niederländen am Ausgang des 16. Jahrhunderts, Lübeck und Hamburg, 1968.

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polarità della propria causa fra gli abitanti delle quindici province (escluse Olanda e Zelanda) apparentemente sottomesse. Il conte di Chinchón si preoccupò di far valere i meriti che il suo protetto Ceriol si era procurato come diplomatico in questa occasione. Ormai stanco e a corto di denaro, Furió desiderava tornare in Spagna. L’atteggiamento di Filippo II nei confronti dell’autore del Concejo, che aveva saputo interpretare – anche se con scarso successo – il “nuovo corso” transigente della monarchia spagnola nei Paesi Bassi, appare improntato a un cauto riserbo, come sarà anche negli anni successivi203. Ceriol restava comunque a disposizione di Requesens: il contatto fra i due era mediato dal principe di Melito, con l’autorizzazione del sovrano204. Intanto la parola tornava alle armi: nella stessa corrispondenza di Requesens si percepisce un tono da guerra santa205. In una lettera da Anversa al principe di Melito (26 giugno 1575) Ceriol appare ormai rassegnato a prose203 Cfr. il memoriale di Mateo Vázquez, segretario di Filippo II, al sovrano, datato Aranjuez 26 aprile 1575 (Madrid, Instituto Valencia de Don Juan, Envío 67): «El Conde de Chinchón me ha dicho la historia de Ceriol, y que avía [...] visto ayer una su carta para el duque de Francavilla, diómela y quiso se la leyese, y aunque dixo la avía visto antes, le pareció, tornando a pensar en ella, de mas satisf[aci]on [?], yala verdad buenas señas da de lo de allá, pero mas encarece el provecho de su dilig[enci]a de lo q[ue] muestra el estado del trato de Breda. Da Ceriol a entender quererse venir en España, y q[ue] está gastado, y oya[?] q[ue] se le dieron 600 [?] para yr, y que ha andado y está por allá, y q[ue] tiene habilidad para poder hazer algún buen efecto, parece al conde q[ue] le podria el duq[ue] de Francavila responder q[ue] hablase y advirtiese al c[omendador] m[ay]or de lo q[ue] fuese menester [...] y q[ue] yo podría al proposito scrivir algo al c[omendador] m[ay]or, para q[ue] le oyese, y aun creo q[ue] sería menester para q[ue] le diese algo con q[ue] se pudiese entretener por alla el t[iem]po que tuviese necessidad del». 204 Cfr. la lettera di Ceriol allegata dal Vázquez al documento precedente: «Van aquí abiertas las dos cartas [...] Ay mas un pliego q[ue] deve ser del Ceriol para Beltran de Guevara aposentador de la Capilla, y no se representa inconve[nient]e de darseles, en todo mandará Vuestra Magestad [?] su voluntad». Il contenuto del «pliego» è il seguente: «Yo Fadrique Furió Ceriol para que su Excelencia scriva al C[omendador] M[ay]or q[ue], si allá tubiere necessidad del, le comuniq[ue] y ordene lo q[ue] convenga y le dé con q[ue] se pueda entratener [parole cancellate] el t[iem]po q[ue] allá fuere menester y, en no lo siendo, le diga q[ue] se podrá bolver». 205 Cfr. la relazione del governatore sulla presa di Oudewater (lettera a Filippo II del 17 agosto 1575, Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 94, doc. 30), dove «solo escaparon el governador della y un capitan balon y el predicante, que con cudicia de sus rescates les avían ciertos capitanes salvada la vida. Pero yo embié a mandar luego que se aorcasen, y la dicha tierra quemó toda el mismo dia [...] y creo q[ue] ha sido permission de Dios el hazerse este castigo». Il fallimento delle trattative di Breda lascia comunque uno strascico di polemiche fra gli stati di Brabante, che lo attribuiscono al rifiuto di espellere l’esercito spagnolo, e il governatore, che lo imputa all’ostinazione eretica degli orangisti (lettera di Requesens a Filippo II del 24 dicembre 1575, Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 94, doc. 57).

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guire la guerra, quanto meno per ottenere dai ribelli un atteggiamento meno intransigente nelle trattative. Accanto all’osservatore realista, che analizza con disincantata lucidità la dimensione economica del conflitto, affiora in lui il Projektmacher, che immagina l’esistenza di ignote risorse minerarie nel sottosuolo spagnolo. La lettera documenta inoltre il patetico declino di Requesens206. Nella primavera del 1577 l’esercito spagnolo, incapace di dominare gli ammutinamenti della truppa e la ribellione generale delle Fiandre, lasciava i Paesi Bassi per l’Italia: Furió lo seguiva. Filippo II, comunque, non aveva rinunciato a servirsi dell’intelligenza del valenziano che, malgrado il suo tempestoso passato, restava un conoscitore di prim’ordine degli umori fiamminghi e un lucido teorico della conciliazione. Per non mostrare direttamente il proprio interesse, dialogava a distanza con Ceriol attraverso l’inquisitore Gaspar de Quiroga: un bizzarro gioco delle parti. In un parere dell’estate 1578 Furió anticipava la soluzione autonomista che il re farà propria negli anni Novanta: il conferimento dei Paesi Bassi a una figlia del re come bene dotale, con l’impegno a sposare un Asburgo del ramo austriaco207. La presenza di un principe di sangue reale in ciascun territorio

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Cfr. El Concejo, cit., pp. 197-204. Sullo sfruttamento delle miniere spagnole cfr. ivi, p. 201: «La riqueza de las minas que hai debaxo de la tierra en España es cosa inestimable [...] Andando io mui solicito en como se podría desenterrar, he benido a dar en un gentilhombre conoscido mío [...] el qual sin banidad se obliga a estas cinco cosas. La primera, que el ha hallado, sabe i tiene ciertos instrumentos, ciertos ingenios nunca ante vistos, ni oidos, por los quales con mucha facilidad se descubre, conosce i sabe ciertamente en una montaña, o en qualquier otro territorio, si hai mina, o no». Su Requesens cfr. ivi, p. 200: «Es lástima ber quan fatigado anda este pobre caballero, lo mucho que trabaja continuamente i quan gran falta tiene de hombres alrededor del sí». 207 Cfr. A.W. Lovett, Some Spanish Attitudes to the Netherlands (1572-1578), in «Tijdschrift voor Geschiedenis», LXXXV, 1972, pp. 17-30; J. Perernau i Espelt, Un tercer informe de Frederic Furio i Ceriol a Felip II sobre els Paisos Baixos (1578), in «Arxiu de textes catalans antics», II, 1983, pp. 361-364; Madrid, Archivo Histórico Nacional, Inquisición, libro 284, cc. 156r-158r, lettera di Gaspar de Quiroga Inquisidor General a Filippo II: «El conde de Chinchón me dixo V. Md mandava q[ue] yo oyesse a Furio Ceriol cerca de las cosas de Flandes; yo le oy bien de espacio, y despues de averme contado muy particularmente su peregrina[ci]ón y stada en los stados baxos y lo q[ue] trató con el de Orange y otros, me dixo q[ue] la causa de la rebellión ha sido el descontento q[ue] todos los de aquellos stados tienen dela manera q[ue] se ha tenido en tratarlos y governarlos y el mal tratam[ient]o q[ue] los ministros y gente de guerra de V. Md les han hecho, como el lo dize con un papel q[ue] sera con esta, yo le dixe q[ue] la causa de su rebellión es su maldad y traición y las offensas q[ue] a Dios y a V. Md han hecho; por[que] es condición de los hombres malos aborrecer a quien ellos han offendido y assí dize el refrán castellano: despues q[ue] te erre nunca bien te quise; y esto y la libertad de consciencia q[ue] los mas dellos desean les a hecho rebellar y no otra cosa. Dize q[ue] para reducir aquellos sta stados [sic]

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della monarchia spagnola sembrava garantire il rispetto delle autonomie regionali. Diffidando di questo orientamento “federalista”, Filippo II non volle Ceriol né alle Cortes di Monzón nel 1578 né, tre anni dopo, vicecancelliere di Aragona. Presentando la propria candidatura a quell’importante carica di governo208, Ceriol non mancò di ribadire la propria critica, franca e a volte sarcastica, all’impreparazione del personale amministrativo della monarchia. Al cen-

bay solos dos medios: el uno es q[ue] V. Md los ceda en uno de los S[eño]res infantes y q[ue] se le embie luego, para q[ue] ellos le crien y se haga a sus costumbres y condi[ci]ón el segundo q[ue] V. Md los de en dote a una de las S[eño]ras infantes para q[ue] se case con el Emperador o con alguno de sus her[ma]nos y q[ue] fuera destos dos medios el no halla otro. Díxele q[ue] mediesse todo lo q[ue] me avia dicho por escrito, por pedirlo assí la materia. Dixo q[ue] lo haría, aunq[ue] hasta agora no lo a hecho, aviendo ya passado siete o ocho dias q[ue] lo prometió. V. Md me mandara avisar si fuese servido q[ue] yo haga otra diligencia. 30 de Julio 1578». Poiché la lettera dell’inquisitore Quiroga a Filippo II del 18 agosto 1578, segnalata dal Perernau (The British Library, ms. Egerton 1506, c. 85rv) menziona tre «medios» proposti da Ceriol per risolvere la crisi fiamminga, si potrebbe essere tentati di identificare il documento con l’anonimo memoriale Tres puntos principales y utiles para la buena dirección del estado de las cosas del Pais baxo (Genève, Bibliothèque Publique et Universitaire, Collection Favre XL, cc. 217-220), che Gilly propone di attribuire al valenziano (Spanien und der Basler Buchdruck, cit., p. 200, nota 273). Uno sguardo più ravvicinato al testo, però, sembra imporre una diversa datazione. L’autore propone, infatti, «que se granjeen las voluntades de los Inobedientes», «tratándolos bien en nuestros puertos para atraerles y divertirles de la navegación de las Indias» e si conquistino gli animi «de los Vezinos» «procurándoles utilidad y provecho con esta Tregua». Tutto ciò pare riferirsi alla tregua dei dodici anni. 208 II vicecancelliere presiedeva il Consiglio di Aragona, composto da cinque «reggenti», giuristi che dovevano essere nati nel territorio della Corona, un protonotario e un avvocato fiscale. Il solo membro non aragonese del Consiglio era il tesoriere generale. Nel 1581 questa carica era ricoperta da Don Diego de Cabrera y Bobadilla, terzo conte di Chinchón, che ai primi del 1577 aveva preso il posto del padre scomparso nell’agosto dell’anno precedente. Chinchón era fautore di una difesa intransigente delle prerogative di Filippo II nelle diverse vertenze aragonesi: disarmo dei morischi, attività dell’Inquisizione, scelta di un forestiero (il vescovo di Teruel) come viceré in deroga ai fueros, petizione di Teruel e Albarracín, che chiedevano di essere sottoposte alla legislazione fuerale, questione della contea pirenaica di Ribagorza, di vitale importanza strategica, i cui abitanti esigevano di sottostare alla giurisdizione regia anziché al dominio feudale del duca di Villahermosa. Si trattava, evidentemente, di un indirizzo politico assai diverso da quello di Furió Ceriol. La detenzione di Antonio Pérez a Saragozza e la conseguente rivolta autonomista, repressa nel sangue (settembre-novembre 1591), segnarono il trionfo della linea dura di Chinchón, divenuto a partire dalla metà degli anni Ottanta uno dei membri più autorevoli della Junta de Noche di Filippo II. Con l’avvento di Filippo III e del duca di Lerma, però, Don Diego perse tutta la sua influenza e venne perfino sottoposto a un umiliante processo: cfr. Fernández Conti, La nobleza cortesana, cit., pp. 233-270.

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tro della polemica è il valore dell’educazione umanistica (che non si limita alle discipline del linguaggio, ma include anche la cultura storica e geografica), contrapposta all’angusta formazione giuridica dei funzionari di Filippo II 209. Furió, che si ispira a un ideale quasi platonico di filosofo-legislatore («juntando Palas con Marte»), avverte un profondo disprezzo per un tirocinio puramente empirico e utilitario, chiamato a soddisfare nel più breve tempo possibile la sete di impiego di una burocrazia plebea210. Come già ai tempi del Concejo, l’ambizione politica personale di Furió sembra fondersi con l’intento di rinnovare le istituzioni, non tanto attraverso nuove disposizioni di legge, quanto attraverso un addestramento alla discreción. L’universalismo del consejero viene contrapposto a un tecnicismo limitato a «lo civil»: Ceriol, evidentemente, concepiva la funzione del vicecancelliere come ufficio politico e non puramente amministrativo. Tale atteggia209 Cfr. la lettera di Furió Ceriol al conte di Chinchón del 24 ottobre 1581 (Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 219, doc. 19,4), c. 1rv: «La otra cosa es (aunque no se puede dezir en pocos ringlones) q[ue] es tan grande el abuso, falta, i ignorancia en general de quasi todos los letrados de Espana, i vienen a aprender las leies tan faltos de las lenguas, artes i doctrinas necessarias para la verdadera cognición de las Canónicas i Civiles, q[ue] despues de haber passado sus cursos ordinarios en uno o en ambos derechos, aunque haian mui bien estudiado en ellos, han de quedar i quedan por fuerza tan coxos, mancos i tullidos, q[ue] ninguno dellos puede ser idoneo para ningún Concejo antes de pasados mui muchos años despues de sus cursos i grados [...] Porque quanto a lo primero, quasi todos ellos tienen en poco, i menosprecian las artes logicas (que ansi las nombran los Griecos) es de saber, Grammatica, Dialectica i Rhetorica, sin las quales, i principalmente sin la Dialectica i Rhetorica bien aprendidas i bien puestas en uso juzgaron las doctas i prudentes Grecia i Italia, q[ue] no podian ser bien entendidas las demás artes, ni disciplinas, ni menos ser bien puestas por obra [...] Carescen ansimismo de las divinas artes de filosofia natural i moral, de la Política, Economía i de la Historia, las quales quasi todos los dichos letrados las tienen por impertinentes, siendo ellas, como son, el cimiento i techumbre de las leies [...] De las quatro mathematicas tambien se burlan los mismos, i mas de la Geographia, las quales son necessarias a un consejero de Estado, Guerra, Hazienda i Vitualla para infinitas ocasiones q[ue] se ofrescen i siquiera porq[ue] no venga a dar en dezir, q[ue] un hombre imbiado de España a gran priesa para Ungría, q[ue] el tal podra hazer ciertos negocios de paso en el reino de Napoles». 210 Cfr. ivi, c. 2r: «Pues bolviendo a los susodichos letrados, suelen estos en su tierna edad salir de una rica, o pobre casa de sus padres, con buena o mala institución domestica; con alguna facultad o sin ninguna para estudiar; i estudian bien, o mal sus cursos ordinarios; graduanse en su mocedad, i como su principal fin dellos es (como dicen) de pane querendo, i de mandar, dexan de aprender las lenguas, las artes, i las disciplinas susodichas, quedando, como quedan, de lo todo inhabiles para poder abogar, i mui menos para poder governar, i assí es necessario, q[ue] vaian a tomar por los tribunales, i canchillerías solo aquello, que va dirigido al dicho fin, q[ue] es un poquito de habilidad, i otro poquito de práctica grossera, q[ue] in poco a poco aprenden, i a veces a costa i daño del bien publico».

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mento non era fatto per suscitare entusiasmo nel Rey prudente: ma Furió non si rassegnò facilmente alla sconfitta. Il 16 dicembre 1581 inviava il proprio curriculum a Mateo Vázquez, che si trovava allora a Lisbona211. Quel curriculum, per quanto brillante potesse apparire, presentava però un grave difetto: tranne durante il breve soggiorno a Colonia alla corte di Friedrich von Wied, Ceriol non aveva mai svolto mansioni propriamente giuridiche. Agli occhi dei letrados così duramente attaccati nella lettera al Chinchón, Furió restava un soldato e un diplomatico senza competenza nel campo del diritto: un uomo di “cappa e spada”, non di “toga”. Al solito, il valenziano cercò di rialzare il livello della polemica e compose con la consueta foga una «respuesta a cierta obieción puesta centra la capa i espada», che inviò a Mateo Vázquez in data 13 gennaio 1582. L’argomento poteva sembrare frivolo, ma Ceriol non era uomo da sottrarsi alla polemica212. La Respuesta è anzitutto un vivace documento di costume: difendendo il proprio abito, Furió illustra anche il suo ideale di gravitas. II documento burocratico si trasforma quasi in una tela del Greco, mentre affiorano, forse senza volere, la malinconia di una vita consumata nell’attesa di grandi compiti politici, in una preparazione baldanzosa quanto vana, e magari il rimpianto per la corte di Colonia, tanto più prodiga di onori di quella del Rey prudente 213. Con grande veemenza Ceriol si batte per il posto di 211

Cfr. Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 219, doc. 19,5. Cfr. Respuesta a cierta obieción puesta contra la capa i espada (Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 219, doc. 19,1), cc.n.n.: «Fingen los poetas que Momo dios de la reprehensión, no hallando en q[ue] poner falta a la diosa Venus, se la puso en los chapines que llevava [...] por todo eso parece sobrar en mi la suficiencia para el cargo de Vicecanciller; los ciertos hombres susodichos, no pudiendo ponerme falta en la suficiencia, han inventado, dicho, i publicado, que no es bien sea Vicecanciller un hombre de capa i espada, como io. Esta opinion es mui falsa, inventada por hombres ignorantes, o maliciosos, i aunque io me corra de responder a opinión tan baxa i torpe, todavia soi obligado a confutarla i destruirla, puesto hombres en aparencia graves han pensado dezir, que no era del todo mala. Esto haré con toda la brevedad possible. // La capa i espada, quanto a lo primero, no quitan a nadie su ingenio subtil, ni el firme juicio, ni la tenaz memoria, como tampoco por no llevar las dichas capa i espada ni el ingenio grueso se adelgaza, ni el debil juicio se rehaze, ni la flaca memoria se adobia [...] El necio en qualquier traje es siempre necio, i el discreto tanbien; i que a este la capa i espada no le podran quitar su discreción, ni darsela al necio, ni tanpoco quitarle su necedad dexando de traherlas». 213 Cfr. ibidem: «En diez i siete años i medio que resido en esta corte, siempre he vestido de negro [...] mi saio llano, corto de talle, las faldas largas, ni hai Oidor en estos Concejos q[ue] las lleve tan largas como las mias. Mi capa llana [...] De mas de un año a esta parte con el luto que traigo por la Reina nuestra señora q[ue] haia gloria, llevo un capuz hasta los tobillos [...] Tal es, i ha sido mi habito, honesto, decente, i digno de qualquier varón grave. Mi espada en una guarnición imperial, llana, negra, sin oro, i sin plata. Ando con ella, i soi 212

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vicecancelliere, accusando i detrattori di essere facile preda del favoritismo personale e familiare. La questione personale è anche una questione di principio. Contro la casta chiusa degli ecclesiastici e dei giuristi, incline a perpetuarsi per cooptazione, Furió rivendica i diritti di chi si introduce nell’élite dall’esterno: «soy hombre meramente seglar, sin oficio, sin cargo». Si rifà a modelli ancora “rinascimentali”, senza accorgersi di guardare al passato 214. Un passato, però, che può essere anche futuro, almeno a livello europeo: l’ultima parola di Ceriol è una solenne riaffermazione di razionalismo funzionalista 215. Vázquez provvide a trasmettere il documento al sovrano, invitandolo a leggerlo con attenzione 216: ma la tenacia di Ceriol si rivelò inutile. Il posto di vicecancelliere d’Aragona venne infine assegnato a un altro. Proprio l’alta Aragona, arcaica provincia afflitta dal bandolerismo, doveva conoscere negli ultimi anni del Rey prudente l’intervento repressivo del potere centrale, che tanti disastri aveva provocato nei progrediti Paesi Bassi. Per una curiosa coincidenza, Furió moriva a Valladolid nel 1592, solo un anno dopo l’infelice rivolta del Justicia aragonese Juan de Lanuza217. Il suo ultimo atto pubblico era stato il parere favorevole alla stampa dei Commentarios della guerra di Fiandra scritti da Bernardino de Mendoza, ammiratore del Duca d’Alba. Il patronato concesso a tale narrazione storica non implica, evidentemente, che Ceriol sconfessasse il proprio operato, ispirato a ben diversi valori politici. Ma che l’“eretico” prigioniero a Bruxelles, il minaccioso pamphlettista di Colonia terminasse la propria vita come regio censore aggiunge un’ulteriore sfumatura al quadro – ben noto nelle sue linee fondamentali – delle straordinarie ambiguità politiche e culturali della monarchia di Filippo II. forcado a llevarla, porq[ue] soi gentilhombre de la casa de Su Majestad i por orden de Su Majestad me sacaron de la corte del Príncipe Elector de Colonia, donde tanbien era io gentilhombre de aquella casa, i andava con ella, i vine con ella, i heme quedado con ella, i es este señal (afuera vanidad) de prudente perseverancia, porq[ue] es habito indiferente, io estoi con el aguardando en q[ue] querrá Su Majestad emplearme, pues me lo tiene ofrescido, i no sé quando, ni en que será, i es bien hallarme en habito conveniente para todo». 214 Cfr. ibidem: «El Rey nuestro señor de la capa y espada sacó a Honorato Juan i le hizo Obispo de Osma. Paulo quarto de la capa i espada sacó a Carlos Garrafa i le hizo Cardenal i luego legatus a latere, q[ue] es casi ser otro Papa». 215 Cfr. ibidem: «Todos los accidentes accesorios sin la suficiencia no valen nada, i la suficiencia sin ellos vale infinito». 216 Cfr. la copia della Respuesta con nota autografa di Mateo Vázquez (Madrid, Archivo Heredia Spínola, Caja 219, doc. 19,2). 217 Dalle disposizioni testamentarie di Ceriol risulta che emancipò il figlio della propria schiava, Diego Furió: cfr. M. Almenara Sebastián, Documentación testamentaria del humanista valenciano Fadrique Furió Ceriol (1527-1592). Edición y comentario (I), in «Estudis», 21, 1995, pp. 88-112.

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Il 1592 è anche l’anno della morte di Montaigne. Con la sua fede nel metodo, nella chiarezza della Bibbia e della politica, Ceriol resta assai lontano dal problematico scetticismo del moralista francese. Fra i due autori non mancano, però, importanti punti in comune. Entrambi avvertono il bisogno di rispettare quella solidificazione concreta dei diversi mores che sono le costituzioni degli stati, su cui si fonda il potere condizionato del principe. Ceriol si accosta a Montaigne anche nell’invito a “temporeggiare” per evitare catastrofi politiche, nell’atteggiamento tollerante che significa, anzitutto, “lasciar tempo al tempo”. Non spetta agli uomini accelerare il giudizio, aveva ammonito il pio Castellione: il ritmo del tempo è dimensione divina per eccellenza. Seguendo il savoiardo sul terreno religioso, Ceriol si manteneva fedele alla lezione di “tolleranza” impartita dallo stesso Machiavelli: «spesso a ciò a cui la ragione non ci induce ci induce la necessità»218. La necessità coincideva con la stessa “discrezione” del politico: lucida, razionale nello sforzo di prevedere le situazioni con un’implacabile “divisione” logica dei casi, ma anche interamente relativistica, priva di una legittimazione trascendente. La necessità politique rifiuta di sottomettersi ai dettati dei teologi. Un cristianesimo semplificato, che non imprigiona Dio in tradizioni e istituzioni terrene, è il più consono al senso di responsabilità del politico, che deve muoversi tra quelle istituzioni senza rigidità ed apriorismi. Anche la concordia civile, però, può trarre vantaggio da questo cristianesimo inteso come norma morale, che non offre un modello del mondo, bensì un invito chiaro e comprensibile all’amore e all’ordine, mentre nasconde gelosamente allo sguardo ordinario, come possesso individuale, il suo aspetto più inquietante: la devozione spiritualistica e “aconfessionale”. «Non c’è nulla di meno nocivo di questo genere di uomini», aveva scritto Castellione a proposito degli eretici219. Sospetto eretico, Ceriol è anche un buon servitore di sua maestà cattolica. In lui risuona ancora una volta il forte accento politico, imperiale, cosmopolita dell’erasmismo spagnolo: ma con un’apertura alle minoranze religiose, ai mori e agli ebrei, che ne fa un auten-

218

Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 6, in Tutte le opere, cit., p. 86. 219 Cfr. S. Castellion, De haereticis an sint persequendi, reproduction en fac-similé de l’édition de 1554 avec une introduction de S. van der Woude, Genève, Droz, 1954, p. 123 (lettera dedicatoria della Bibbia latina di Castellione a Edoardo VII d’Inghilterra, 1551): «Ut interim non dicam, quod nullum hominum genus minus metuendum est [...] Atque equidem illud mihi persuasi, nullos esse principibus et magistratibus oboedientiores quam eos, qui simpliciter Deum metuunt et in eo quod sciunt, fideles sese praestant».

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tico rappresentante della “Spagna delle tre culture”. La sua biografia e la sua opera, le amicizie cassandriane e familiste, il grande successo del Concejo e la stessa sopravvivenza del Bononia a dispetto dell’Indice si inseriscono, viceversa, nella lunga storia dell’idea di tolleranza nell’Europa del Nord.

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IL LIBRO

Mio padre è un uomo che afferma di essere più libero che il libero arbitrio; congedandosi mi disse: «Figlio mio, adornati delle mie armi e del mio arnese. Malizia e ignoranza si sforzano per suo vano interesse che freddo si creda il sole; e perciò il mondo tutto ci obbliga a delirare. Pertanto dieci mila colpi continui scaricheranno su di te fuor di misura per eliminarti dal mondo, i maledetti. Saranno fieri colpi; ma conservati forte, Che essendo di virtù la tua armatura, ti preoccuperanno meno che zanzare. Dovranno affrontare per te infiniti conflitti e fatiche; ma ricordati che dove non c’è fatica, non c’è gloria. Il mondo fa la storia; scomparsi gli interessi, comprendiamo che un solo vale mille, e mille men che un solo. Ti considereranno importuno o sciocco o pazzo o tonto. Non importa; il ferro brunito risplende. Il volgo perde pregio». Mio padre terminò così di parlarmi; termino anch’io ripetendovi le sue stesse parole. F. A.

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FADRIQUE FURIÓ CERIOL AL GRAN RE CATTOLICO DI SPAGNA, DON FILIPPO SECONDO

Ogni principe è composto, per così dire, da due persone. Una è l’opera uscita dalle mani della natura, in quanto condivide la stessa essenza con tutti gli altri uomini. L’altra è un dono della fortuna e un favore del cielo, costituita como governo e protezione del pubblico bene: per questo la chiamiamo persona pubblica. Restringendo l’impiego di questo termine generico per applicarlo a contesti più specifici, ha ricevuto vari nomi, il più comune dei quali, nell’idioma parlato comunemente in Spagna, è “re”. Io chiamo la persona pubblica “principe”, e in questo libro userò costantemente questo vocabolo. Perciò, qualsivoglia principe si può considerare in due modi diversi e distinti: come uomo e come principe. Come uomo, possiede corpo e anima. Il corpo deve essere preservato non solo perché possa sussistere, ma anche perché sia meglio disposto per servire da strumento all’anima. L’anima deve aver ricevuto un’educazione conveniente nelle discipline particolarmente necessarie all’attività specifica, debita e gloriosa della seconda persona; perché corpo e anima (ossia l’essere umano nella sua complessità) sono lo strumento del principe. Come un pittore, un argentiere, uno scrivano non possono fare bene il loro mestiere se non dispongono degli utensili necessari, così anche il principe sprovvisto di strumenti non potrà né governare, né difendere, né tanto meno espandere e rafforzare la sua nazione. Pertanto grandi e valenti spiriti si sono sforzati in tutti i modi di educare bene il principe, sapendo che dalla sua formazione buona o cattiva dipendono il bene e il male, la vita o la morte della società. Però vediamo che tutti, fino ad oggi, si sono sbagliati, dato che, pur rendendosi conto (come credo) che all’interno del principe ci sono due persone distinte e diverse, hanno fatto confusione tra loro al momento di insegnarle. La causa di questa confusione, penso, è che non si resero conto che le discipline sono come numerosi anelli, ognuno dei quali si fabbrica a parte, ognuno ha un suo contorno preciso e distinto dagli altri, però, messi insieme,

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tutti formano una catena. La stessa cosa vale per le discipline: quando si insegnano, ogni settore specifico possiede limiti ben definiti e non si confonde con gli altri, ma nella pratica sociale (che è quando si concretano in azioni) si presentano tutte allo stesso tempo e operano in forma concertata. Pertanto, quando si insegna una disciplina, i precetti dell’una sono diversi da quelli delle altre, e confonderli è un grave errore di metodo. Pochi, però, sono quelli che si rendono conto di questo principio e quasi nessuno sa metterlo in pratica. Perciò nella formazione del principe si danno precetti di teologia, di filosofia naturale e morale, di leggi, di matematica, di medicina e altre discipline e ciò implica un duplice errore: il primo è quello di considerare il principe come essere umano e non come principe; il secondo è quello di confondere le discipline. Passo sotto silenzio altre conseguenze negative di questi sbagli principali. L’educazione del principe come principe implica dargli regole, precetti e consigli che lo dispongano ad essere buon principe. Ben pochi capiscono il significato di queste parole “buon principe”: vediamo, perciò, che molti adducono ragioni buone in apparenza, ma in realtà vuote e fuori di proposito, perché pensano che “buon principe” sia un uomo buono, che è anche principe e così concludono che tizio è un buon principe. Io dico che la parte più bella dell’armatura del principe, la più distinta e quella in cui più di tutto deve riporre la propria speranza è la bontà. Ma fra uomini di grande spirito e straordinaria intelligenza politica non si parla in questi termini, bensì come di un buon musico che viene detto ottimo musico perché conosce la sua tecnica alla perfezione anche se, magari, è un’autentica canaglia. Nella stessa accezione parliamo anche di un buon diamante, un buon cavallo, un buon pittore, un buon timoniere, un buon medico; e questo volle far capire il sottile Sannazaro quando, riferendosi a un papa dei suoi tempi, disse che era una persona malvagia ma un ottimo principe. Buon principe, insomma, è colui che intende alla perfezione la sua funzione sociale e la svolge con acume e prudenza; in altre parole, che sa e può con la sua abile operosità mantenere una tale relazione con i sudditi da poter non solo conservare il proprio stato e trasmetterlo ai suoi discendenti, ma anche ampliarlo e trionfare sui nemici ogni volta che lo desidera o ne ha bisogno. Per farla breve, dico che buon principe è chi è capace di prendere buone decisioni da solo o di trarre vantaggio dai suggerimenti altrui e che sa eseguire brillantemente una cosa e l’altra (le scelte proprie, i consigli ricevuti) secondo le diverse situazioni, persone, luoghi e tempi. Constatiamo, infatti, che ci sono tre tipi di ingegni: il primo intende, capisce e sa con le sue proprie forze, senza bisogno d’aiuto; il secondo quando riceve una spiegazione; il terzo mai. Quest’ultimo non vale nulla ed è nato per essere schiavo in eterno. Il secondo è buono, ma il primo è divino e fu concepito specificamente per

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governare. Il secondo è all’altezza dei suoi compiti nella misura in cui possiede buon giudizio per distinguere il bene dal male e, anche se non partorisce grandi idee, sa riconoscere il valore delle azioni dei suoi avversari e ponderare il comportamento dei suoi consiglieri, premiando le loro azioni virtuose e castigando quelle malvage; pertanto il Consiglio non può illudersi di ingannarlo e lo serve bene e fedelmente. Guai al regno, guai al regno il cui principe si sia abituato a dire al proprio Consiglio: “Rifletteteci su e fate come meglio vi sembra, perché lo lascio nelle vostre mani”! Un regno così non potrebbe mai essere ben governato. In un caso del genere infatti i pareri non saranno mai conformi, ognuno prenderà la sua strada, ognuno penserà ai propri interessi, diventeranno tutti completamente cinici ed è impossibile che questo non avvenga a meno che una energica costrizione non li obblighi a tirare dritto; e chi pensa il contrario è un gran illuso. E ciò dipende dall’inettitudine dei principi, perché gli uomini sono naturalmente avidi di ricchezze e di potere e i consiglieri non vogliono perdere l’occasione di avvantaggiarsi; l’occasione è che ciascuno può fare i propri interessi, camuffandoli di affari di stato, senza che il principe possa rendersene conto e ancor meno porvi rimedio. Ciò produce licenza, la licenza produce disordine e il disordine produce rovina. Infine è cosa manifesta che la prudenza e rettitudine del buon governo e del consiglio consiste nell’abilità del principe, e non la prudenza del principe nel suo consiglio. Per queste ragioni ho detto prima e torno a dire che il buon principe è colui che è capace di prendere decisioni da solo ed al tempo stesso di trarre vantaggio dal consiglio altrui e di eseguire brillantemente entrambi i consigli (il proprio e l’altrui) secondo le situazioni, persone, luoghi e tempi. L’educazione del principe non è altro che un’arte di precetti buoni, sicuri, approvati, tratti dalla vasta esperienza di molte epoche, forgiati dall’intelletto dei più nobili spiriti, confermati dalla parola e dalle azioni di quelli che per il loro eccellente governo e le loro imprese memorabili ebbero fama e reputazione di ottimi principi. Questi precetti sono via e sentiero battuto, per il principe che li leggesse e mettesse in opera, per giungere con sicurezza e senza sforzo al vertice del potere e della gloria. Quest’arte o istituzione del principe (a quanto mi sembra) dev’essere divisa in cinque parti o trattati perché si spieghi bene e perfettamente. Il primo trattato sarà costituito da tre libri. Nel primo si definisce che cos’è il principe, come si inventò e perché si inventò, qual’è il suo potere, chi glielo ha conferito e chi può toglierglielo. Il secondo discute quali discipline indispensabili per governare deve imparare il principe e come deve servirsene. Il terzo libro esamina quali virtù morali siano più necessarie al principe. Questa è una parte della politica che pochi intendono, ma saper giudicare questo punto è di vitale importanza per l’arte di governare. Il secondo trattato si riferisce alla formazione del principe, ai suoi

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maestri, precettori, servitori, amici, intimi consiglieri, ed in generale alla sua corte. Questo trattato, conforme alle sette età che distinguono nell’uomo filosofi e medici, deve essere diviso in sette libri: il primo riguarda l’infanzia, il secondo la puerizia, il terzo e i successivi, le cinque età restanti. Il terzo trattato sarà composto da due libri: uno espone in esteso tutte le obbligazioni di un vassallo nei confronti del proprio principe; il secondo tutte quelle di un principe nei confronti dei sudditi. Qui si scorgerà un criterio sicuro per distinguere un traditore da un vassallo leale e anche per non confondere principe e tiranno. Nel quarto trattato si insegna al principe a regnare superando tutte le difficoltà che possano offrirsegli; e questo, poiché non si può dare a intendere se non si tiene conto delle specificità dei diversi regni o principati che si acquistano in quattro modi, cioè per eredità, elezione, forza o astuzia, per tanto questo trattato dev’essere diviso in quattro libri, consacrando un libro a ognuno di questi quattro modi di acquisizione. Ma considerando che il principe non è in grado di ascoltare tutto, capire tutto, passare ovunque e provvedere a tutto in ogni dettaglio, il quinto trattato è dedicato al “Consiglio e consiglieri del principe” e vi si insegna a formare un consiglio e a scegliere consiglieri all’altezza dei loro compiti. Questo tema dell’educazione del principe richiede un uomo di grandi doti naturali, di vasta erudizione, curioso, osservatore, che possa trattare bene e con acutezza tante, così importanti e così svariate materie come quelle che abbiamo enumerato. Questa difficoltà risulta evidente se si pensa che greci, latini, italiani, tedeschi, francesi e spagnoli, per quanto si siano sforzati, non hanno saputo commentarla adeguatamente, né farla progredire. Tutti la prendono dal verso sbagliato, la frammentano, nulla si trova al suo posto e la cosa peggiore è che promettono di esporre l’intera educazione del principe, che comprende tutte le problematiche che ho passato in rassegna, e non ne trattano che una infima parte. Questo difetto è proprio di persone imprudenti e poco sagge. Infatti, una volta scelto un titolo, si è obbligati a trattare tutti gli argomenti che quel titolo implica. Io, avendo sempre pensato che la grandezza di un nobile spirito consiste in cose assai grandi e nel realizzare imprese che persone di prim’ordine non seppero o non poterono compiere (in ogni caso constatiamo che non le hanno compiute), in mezzo ai miei altri studi e occupazioni, soprattutto di ambito giuridico, ho voluto affrontare questo tema dell’educazione del principe. Pertanto invio a Vostra Maestà il primo degli otto libri in cui deve articolarsi il trattato sul Consiglio del principe, in cui, quasi in forma di memorandum, espongo le mie idee senza argomentare né dimostrare, per non stancare le delicate orecchie di chi ha sempre qualcosa da fare. Non mi spaventa pensare che molti forse mi tacceranno di sconsiderato, osato o superbo, poiché presumo esporre una materia così importante e difficile, visto che l’in-

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flusso della mia buona stella mi incoraggia e quasi mi forza a farlo. E così, seguendo quell’ottima guida, fin dalla prima giovinezza mi preoccupai sempre di conoscere e capire forme e modi di buon governo. Per questa ragione ho consultato molti libri per studiare il regime politico degli Assiri, dei Tebani, degli Ateniesi, dei Cartaginesi, dei Romani, e anche quello delle nazioni contemporanee come la Turchia, Italia, Germania, Francia, Spagna e altre province. Per quanto riguarda il sapere empirico, traevo vantaggio dalla conoscenza di quanto si è verificato ai giorni d’oggi nelle guerre tra i sovrani europei e confrontarlo con gli eventi della storia antica. A parte ciò, i miei contatti con personaggi impiegati dai loro principati e repubbliche nelle più difficili missioni politiche mi hanno aiutato molto trasmettendomi informazione di prim’ordine. Mi sento qualificato per nascita, formazione e educazione; non temo le critiche di nessuno. Molti non terranno in conto quanto sono venuto dicendo, ma, da inetti, chiameranno in causa il detto di Annibale che diede del pazzo al filosofo Formione per essersi messo a disquisire di teoria militare in sua presenza1. A costoro e al loro esempio si può rispondere ricordando molti personaggi eminenti, colti, prudenti e santi, di cui alcuni a parole e tutti a fatti hanno condannato il giudizio di Annibale su Formione giudicandolo barbaro e scortese. Richiamandomi al loro autorevole parere, potrei ribattere che chi mi critica in questi termini è ancora più barbaro di Annibale. Costui, infatti, peccò di superbia: non accettava che un puro teorico potesse comprendere l’arte militare meglio di un empirico e pratico come lui. Ma quelli a cui mi riferisco sono l’ignoranza personificata e hanno la sfacciataggine di censurare le persone davvero competenti. La loro colpa è temerarietà, perché sanzionano sconsideratamente le male trame di altri. Sottoscrivere di propria mano un’assurdità è molto peggio che limitarsi ad enunciarla. A ben vedere, Annibale merita scusa per il proprio detto, ma i nostri avversari si meritano un’energica riprensione. É probabile infatti che uno stratega illustre come Annibale, carico di vittorie e di trofei, si sia improvvisamente adirato ascoltando le ordinanze di Formione e che la rabbia gli abbia fatto usare parole pesanti. Ma i miei calunniatori sono mossi soprattutto da malizia, poiché, sprezzando le fatiche altrui, vogliono dissimulare e difendere la loro ignoranza oziosa, avida, ambiziosa, affettata, inutile e fiacca. Ma ammettiamo pure che il rimprovero di Annibale a Formione fosse giustificato. Qual’è la conseguenza? Una soltanto: chi insegna a chi ne sa più di lui fa una sciocchezza. Potrei anche riconoscere, per compiacere i miei detrattori, che commette uno sbaglio pure chi insegna a chi ne sa quanto lui, e ancor di più se insegna ciò

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Cfr. Cicerone, De oratore, II, 18, 75.

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che ignora. Affermo però che in questo caso non porgo il destro a nessuno di questi due giustificati rimproveri. In primo luogo, perché, lasciando da parte il mio istinto naturale, mi sono impegnato a fondo per conoscere seriamente gli argomenti che tratto: se ci sono riuscito o no si potrà giudicare dai libri che scrivo. Ma, così come esiste una tecnica di cavalcare bene, di parlare bene e di usare bene tutti i tipi di armi, tecniche inventate per coloro che non le conoscono e hanno bisogno di apprenderle, esiste pure un’arte del buon governo, chiamata educazione del principe, di cui, in questo libro, espongo una minima parte per chi la ignora ed ha bisogno di apprenderla. Infine, per completare la difesa del mio giusto proposito e conferire alla mia opera maggiore autorità, mi è parso conveniente inviarla a Vostra Maestà, scuola e perfezione di buon governo. Se potesse ricevere la grazia di essere rivista ed esaminata da Voi, non dubito, sono anzi certissimo, che vi sarebbe modo di emendare gli eventuali errori, mentre i suoi aspetti positivi sarebbero posti in risalto diventando specchio in cui tutti i principi del mondo potrebbero mirarsi, per il solo fatto di provenire dalla corte e dalle mani del prudentissimo e grande Filippo.

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Opera di Fadrique Furió Ceriol che è il libro primo del quinto trattato dell’educazione del Principe

CAPITOLO I SUI CONSIGLI

Il Consiglio del principe è un insieme o congregazione di persone scelte per consigliarlo in tutte le situazioni della guerra e della pace per aiutarlo a ricordarsi del passato, capire il presente e prevedere il futuro con maggiore facilità, perché abbia buon esito nelle proprie imprese, eviti gli inconvenienti o per lo meno (dato che non sempre si possono evitare) trovi il modo di limitare le loro conseguenze negative. Questo insieme o congregazione molti lo chiamano Consejo (Consiglio), denominandolo dalla finalità per cui fu istituito. E fanno bene: io però, per ragioni che non espongo per non essere prolisso, preferisco l’ortografia Concejo 1. Comunque sia, ognuno può adottare la forma ortografica che ritiene più appropriata senza che cambi il senso che attribuisco al termine. Torno all’argomento principale. Il Consiglio rappresenta per il principe, per così dire, l’insieme dei suoi organi di senso, il suo intelletto, la sua memoria, i suoi occhi, i suoi orecchi, la sua voce, i suoi piedi e le sue mani; per il popolo è un padre, un tutore e un curatore ed entrambi, principe e Consiglio, sono luogotenenti di Dio in terra. Se ne deduce che il buon Consiglio dà perfetto essere e reputazione al suo principe, sostenta e fa prosperare il popolo ed entrambi, principe e consiglio, sono buoni e leali ministri di Dio. Al contrario, il cattivo Consiglio disonora e rovina il suo principe, lo trasforma in una pietra simile a quella con cui gli antichi romani rappresentavano il loro dio Termine, il popolo si distrugge ed entrambi, principe e Consiglio, si ribellano contro Dio e diventano sudditi e schiavi del diavolo. Questi temi sono di tale serietà e importanza, che non so se ne potrebbero 1 Abbiamo rinunciato a cercare un equivalente per l’oscillazione spagnola Concejo/Consejo, poiché il corrispondente italiano Concilio/Consiglio risulterebbe equivoco in questo contesto.

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immaginare di maggiori, per lo meno nella vita terrena. Penso perciò che i principi dovrebbero passare notti insonni pensando come formare un Consiglio adeguato, senza eccessi né difetti. Altri esporranno il loro pensiero su questo punto, e forse benissimo; ma io (seguendo la ragione, l’esperienza e le regole indicate dai grandi governanti) dico che, benché il Consiglio del principe sia un organismo unitario perché ha un solo capo (il principe), deve necessariamente suddividersi in varie parti, che staranno con il principe nella stessa relazione delle gambe, delle braccia e degli altri membri del corpo che, pur distinti per collocazione, forma e funzione, costituiscono un solo organismo umano. Così anche il Consiglio, se si dividesse (come dev’essere) in molte parti, costituirà un solo corpo, cioè un buon governo e protezione, di cui il principe rappresenta il capo e i vari Consigli le diverse membra. Pertanto chi volesse organizzare bene il Consiglio di un qualsiasi principe dovrebbe dire anzitutto di quanti consigli ha bisogno per poi aggiungere di quanti consiglieri, di quanti presidenti, di quanti segretari, di quanti scrivani c’è bisogno per ciascun consiglio e che qualità devono avere questi uomini per essere all’altezza del loro compito, che garanzie devono offrire, che meriti specifici, che ragioni d’autorità; come devono riunirsi, dove, quando, a che ora, come si prepara l’ordine del giorno, a chi si danno i memoriali, a chi si richiedono, chi vota e come e molte altre cose. Infine dovrebbe definire bene i rapporti dei Consigli fra loro perché non si producano confusioni inopportune. Bisogna poi indicare in che forma tutti i Consigli devono inviare le loro relazioni al principe prima che vengano prese decisioni definitive. Seguendo quest’ordine, è bene che cominci con la prima parte, stabilendo di quanti Consigli ha bisogno un principe. Dico che devono essere sette, non uno di più né uno di meno, e che (per parlare con chiarezza su un punto di grande importanza) il principe deve istituire sette Consigli completamente diversi per mansioni, attribuzioni, ministri, potere e autorità, se vuole governare e difendere il proprio Stato bene e facilmente. I Consigli sono i seguenti: il primo è Consiglio delle Finanze, e così si chiama. Si occupa delle entrate del principe, tanto ordinarie quanto straordinarie, di riscuoterle, amministrarle, conservarle e incrementarle. Considererà dove, come e quando si possono esigere contribuzioni straordinarie, come si possa o debba imporre un tributo. Se un tributo o tassa rende poco, il Consiglio considererà in che modo si può riformare o accrescere senza danno per il bene pubblico. Procurerà inoltre che si sopprimano i tributi superflui, dannosi o ingiusti. Avrà pure a suo carico tutte le spese del principe in pace e in guerra, in modo che si sopprimano le spese inutili e che eventualmente se ne aggiungano altre necessarie, poiché le finanze del principe non si consolidano solo cercando nuove entrate, ma anche tagliando le spese eccessive. Infine,

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questo Consiglio sarà il Tesoro o, per dirlo alla romana, l’“erario” del principe. In uno Stato in cui questo Consiglio non è all’altezza dei suoi compiti si vede sempre il principe povero e indebitato, le tasse insopportabili, la moneta scarseggia e la popolazione è ridotta pelle ed ossa. Il secondo Consiglio è quello di Pace, che comunemente viene detto “di Stato” perché costituisce il centro del governo. Ognuno può chiamarlo come preferisce, io preferisco il termine “Consiglio di Pace”. Desidero che le sue mansioni siano “civili” (come ci esprimiamo nel linguaggio giuridico). In altre parole, si tratta di controllare l’operato dei viceré, governatori, amministratori provinciali, sindaci, colonnelli, maestri di campo, castellani, capitani, consiglieri ed altri ministri e funzionari del principe, tanto in pace come in guerra, per accertare se fanno il loro dovere o no; se concludono il loro mandato o no; se vanno cambiati o no; e quali meritano una promozione e quali no. Dovrà anche impedire che si verifichino nomine sotto banco. Disporrà inoltre che gli ordini di pagamento del principe si eseguano a tempo debito, sia in pace che in guerra, e darà cedole a questo scopo, facendole pagare dal Consiglio delle Finanze. Il Consiglio delle Finanze, infatti, sarà come un vaso per raccogliere e conservare la moneta, la cui distribuzione si farà per commissione e disposizione di questo Consiglio di Pace, senza l’approvazione del quale non si dovrà spendere neppure un solo quattrino. Questo stesso Consiglio dovrà considerare con quali Stati si debba mantenere la pace e con quali, invece, sia opportuno entrare in guerra, con chi ci si debba alleare, con chi sia opportuno conservare l’amicizia, con chi bisogna impiegare buone parole senza opere e con chi opere; e in tutto questo si considera il come, quanto, quando, in segreto e in pubblico. Insomma, il Consiglio di Pace sarà il più importante e il principale fra i Consigli. Il terzo si occupa di guerra e, pertanto, lo chiamo Consiglio di Guerra. Si occuperà di sapere come si possa fortificare una piazza bene e perfettamente, come difendere le frontiere, come organizzare l’esercito in pace e in guerra e altre questioni del genere. Esaminerà e conoscerà approfonditamente le armi, gli esercizi militari e il modo di combattere degli antichi e tutto ciò lo confronterà con i metodi contemporanei mettendo in luce le differenze. É necessario che sappia anche ordinare e formare fanteria e cavalleria e che conosca quale nazione abbia maggiore rinomanza nell’una e nell’altra arma e quali mezzi o modi siano stati o possano essere ritrovati per danneggiare o avvantaggiare i nostri eserciti. Prenderà in considerazione la grandezza delle forze del suo principe e dei suoi avversari e quale possa essere l’ammontare delle une o delle altre sommate a quelle degli alleati o senza considerare questi ultimi. Conoscerà la potenza attuale e quella di cui si potrà disporre nel futuro. Ricorderà anche tutte le guerre del suo principe e dei suoi predecessori, vale

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a dire, come si mossero, come trattarono, come si accordarono, che patti stipularono e che fu ciò che indusse entrambe la parti a dare o a ricevere determinate condizioni. Anche a proposito del nemico si richiede una conoscenza analoga per quanto riguarda il suo sovrano, i suoi vicini, i suoi alleati e tutti i loro potenziali amici e avversari. In questa maniera potremo scegliere la pace invece della guerra, se le forze del nemico fossero maggiori, e fare la cosa contraria nel caso opposto. Se fossimo inferiori, occorrerà analizzare in che consiste questa inferiorità, se in numero di soldati, in esercizio, in armi, in denaro, in reputazione, in vettovaglie, in amici e alleati eccetera. Una volta esaminate accuratamente tutte queste circostanze, il Consiglio considererà acutamente e con prudenza come e in che maniera si potrebbe riuscire non solo a difendersi, ma anche a spossare e vincere il nemico, poiché è cosa nota che l’ingegno vale più della forza. Negli Stati che non possiedono un simile Consiglio il principe commette errori in tutte le sue iniziative militari, sbaglia i tempi, non sa portarle avanti, meno ancora concluderle, tutto è questione di fortuna; quando vince è superbo e non sa approfittare del successo; se invece perde, afflitto e depresso perde il senso della realtà, si strappa le vesti come una donnicciola, se non in pubblico, per lo meno in segreto, e per conservare il potere e la sua pessima reputazione commette mille bassezze, piegandosi a condizioni umilianti di pace o di tregua. Fa ridere udire i pareri o gli spropositi, per essere esatti, che gli imbecilli tirano fuori in queste circostanze. Alcuni si lamentano della fortuna e non si rendono conto che il ruolo della fortuna è infimo quando c’è la prudenza. Altri dicono che Dio approva certe scelte; io non mi metto a discutere la potenza divina, ma posso ben chiedermi, e di fatto mi chiedo con San Paolo2, se sono segretari di Dio o se hanno ricevuto lettere sue firmate di mano della Trinità per essere sicuri che le cose stanno proprio così. Altri dicono che le cause sono i nostri peccati: e hanno proprio ragione, perché gli errori e sbagli del principe e dei suoi cattivi consiglieri sono i peccati che portano con sé la sua e la nostra rovina. Insomma, sostengo che, se un principe non possiede un Consiglio di Guerra con le qualità che abbiamo descritto, non c’è da stupirsi se si fa la guerra male; e perciò bisogna considerare attentamente questo punto. Il quarto Consiglio è quello di Vettovaglie o Provvigioni. Ha il compito di provvedere e approvvigionare il principato di vettovaglie in tempo di pace e di guerra. A questo fine deve conoscere e tenere annotati tutti i dati necessari al compimento del suo ufficio in tutto il principato: di quali risorse disponga, quali sovrabbondino, quali scarseggiano, che merci vengano trasportate per terra e per mare, da dove si ricavano, dove si dirigono, per quali

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Cfr. Rom., 11, 34.

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vie e come, quanto e quando, e molte altre cose analoghe. Il principe rimetterà a questo Consiglio qualsiasi tipo di distribuzione, senza permettere alcun prelievo senza la sua esplicita autorizzazione. Se si formasse un simile Consiglio, come è necessario, in tempo di pace e di guerra avremo mezzi di sussistenza in abbondanza e daremo parte degli eccedenti a quei paesi della cui amicizia ed alleanza avessimo particolarmente bisogno. Senza tale Consiglio, tutto si perde: ciascuna provincia soffre mille strettezze, la cupidigia e malvagità di pochi commercianti trasferisce all’estero i prodotti più necessari, non possiamo aiutare economicamente i nostri amici mentre i nostri nemici si avvalgono delle nostre risorse grazie al loro denaro, per cui le nostre amicizie si indeboliscono e spesso si rompono. Vediamo pure che, per l’assenza di un Consiglio di Provvigioni, spesso si fa guerra in territori dove non c’è da mangiare né per gli uomini né per i cavalli; appena entrano in campagna cominciano a fare la fame o soffrono una grande carestia o intollerabili privazioni. Per questa ragione sono costretti a ritirarsi vergognosamente o a stipulare paci, guerre e alleanze fuori tempo o con chi non dovrebbero. Il principe perde la sua reputazione con gli stranieri e diventa nemico del suo stesso popolo; perché due cose sono quelle che garantiscono a un principe l’affetto del suo popolo: la prima, che lo difenda dall’oppressione dei più potenti; la seconda, che sia alleato di quelle nazioni la cui ostilità pregiudicherebbe le relazioni commerciali. Il quinto è quello che designo come “Consiglio di Leggi”. Assumerà il compito di considerare quali incarichi, quali governatori, quali magistrati, quali ufficiali e con che tipo di autorità e potere siano necessari per amministrare il principato. Tale Consiglio aggiungerà quelli che eventualmente mancassero e sopprimerà quelli che gli sembrassero superflui. Avrà inoltre il compito di formulare leggi, promulgarle, sopprimere quelle che sembrassero inadeguate e rifare quelle che fossero necessarie. Sarà il padre e protettore delle leggi e porrà tutto il suo impegno perché si conservino e ottemperino scrupolosamente, senza alcuna irregolarità. Per l’assenza di un tale Consiglio vediamo in molte città e regni meno uffici e magistrati di quelli che sarebbero richiesti dal pubblico bene, mentre in altri sono pletorici. La cosa peggiore è che il più delle volte le istituzioni pubbliche operano una contro l’altra, del tutto o in parte, e ciò produce fazioni, conflitti, scandali, furti e infinite contese, che si concludono solo attraverso congiure, attentati alla persona del principe, rivoluzioni e cambi di sovrani. Molti passano accanto a questo stato di cose senza preoccuparsene e non pensano che quel che si semina oggi si raccoglie domani. Ma perché enfatizzare la necessità dei regni di fare e disfare leggi? Me la sento di affermare questo: su cento cause, novantacinque nascono dall’inadeguatezza di molte leggi che ai giorni nostri non significano più

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nulla e non possono né devono essere rispettate e, siccome manca un Consiglio come quello che sto descrivendo, non si cambiano né si emendano, ma continuano a favorire l’ambizione di avvocati e azzeccagarbugli che ne traggono un sicuro vantaggio al margine dell’onestà e della legalità. Il sesto Consiglio stabilisce i castighi e lo chiamo Consiglio di Pena. Assumerà a proprio carico tutti gli affari criminali, di quanto alla persona del principe si riferisca, qualunque ne sia la provenienza; conoscerà e sentenzierà tutti i delitti e le malefatte secondo le leggi della terra in cui si commette il delitto. Il settimo Consiglio si occupa delle remunerazioni e lo chiamo Consiglio delle Ricompense. Si preoccuperà di conoscere meriti e demeriti di tutti i sudditi, informandosi bene della vita, dei costumi, delle capacità e delle azioni di coloro che, senza farne richiesta, meritano una ricompensa per le loro rare ed eccellenti virtù e, in particolare, di quelli che chiedono qualche grazia. Infatti, se si castigano i malvagi, è ragionevole anche che si premino i buoni ed i virtuosi. Tutte le remunerazioni concesse dal principe devono essere esaminate da questo Consiglio e nessuna deve essere fatta senza che lui lo decida. A causa dell’assenza di un simile Consiglio osserviamo che nelle corti dei principi si ignora la virtù, che tutte le grazie si concedono per favoritismo e in cambio di denaro. L’uomo virtuoso ed abile viene ignorato o scartato e le sue qualità ricevono un riconoscimento tardivo e insufficiente. Al contrario l’incapace, l’ipocrita, il malvagio, il ruffiano è tenuto in grande stima, viene amato, gode il favore del principe, riceve ricompense e ottiene i maggiori premi della virtù. Che ne consegue? Che le persone virtuose si indignano, che l’indignazione cerca vendetta, che la vendetta produce fazioni, le fazioni provocano tumulti, assassinii e perfino la rovina totale del principe e dello Stato. Questi sono i sette Consigli che sono necessari per il governo di tutti gli Stati; e ciò, fra altre molte ed ottime cause, soprattutto per questa, che con tale distinzione o divisione di Consigli si possono trattare un maggior numero di affari meglio e più speditamente; il principe sarà più riposato perché non dovrà esaminare tanti memoriali e lagnanze; i sudditi non sprecheranno energia, tempo e beni in faccende di scarsa importanza e i membri del Consiglio saranno meno occupati perché i temi da trattare verrano ripartiti senza sovrapposizioni. Mi rendo conto che è una morte caricare su tre, quattro o sei persone gli affari di pace e di guerra, di castigo e di remunerazioni, di finanze e di provvigioni e di mille altre cose, grandi e piccole, importanti e banali, di pianto e di risa, di ricchi e di poveri; e che è impossibile (come insegnano la ragione e l’esperienza) poter tener medianamente in conto la maggior parte di loro. Perciò tutti i membri del Consiglio di un principe che non vedono queste difficoltà sono, a mio parere, davvero ciechi, mentre coloro che le vedono e non

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procurano con il loro principe che si formino molti Consigli, in cui gli affari si ripartono della manera che siamo venuti esponendo, questi tali sono avidi, sono ambiziosi, sono vani, nuocciono al bene pubblico, perché vogliono essere adulati, vogliono promuovere i propri interessi e, pur di soddisfare questo obbiettivo, non gli importa affatto che lo paghi il bene comune. Si tratta di una materia di estrema importanza e se la volessi discutere dettagliatamente, non finirei tanto presto: mi basta che questi accenni diano un’idea del resto. Il principe deve stare molto attento che nessun consigliere faccia parte di più di un Consiglio alla volta. Intendo dire che, per esempio, una persona che sia membro del Consiglio delle Finanze non deve assolutamente appartenere a nessun altro degli altri sei Consigli. Ciò che dico in particolare del Consiglio delle Finanze si applica a tutti gli altri: insomma, un consigliere servirà un solo Consiglio, non molti. Se si procede diversamente, i sette Consigli potrebbero ridursi facilmente a parole senza significato, dietro le quali si nasconderebbe la realtà di un unico Consiglio. Di conseguenza, il principato si troverebbe ad affrontare quelle difficoltà e pericoli che ho già avuto occasione di menzionare. E a parte questo, si producono altri inconvenienti, di cui non parlo per non essere prolisso. A questo punto, per organizzare bene e perfettamente questi Consigli, devo cominciare dal primo e passarli in rassegna tutti fino all’ultimo, mostrando e ordinando in ciascuno di loro tutte quelle parti e qualità o circostanze di cui ho fatto menzione al principio di questo capitolo che, per chiarezza d’esposizione, è necessario dividere in sette libri, dedicando un libro per spiegare il funzionamento di ciascuno dei Consigli. Ma, dato che in ognuno di tali libri occorre esporre le qualità dei consiglieri, che (per quanto esistano delle differenze) sono più o meno le stesse in tutti i casi (sicché ripeterle sarebbe un gravissimo errore espositivo), adesso descriveremo in generale le qualità richieste a un buon consigliere. Con ciò porrò termine a questo libro, che sarà il primo de “Il Consiglio e i consiglieri del principe” e si applicherà di ugual maniera al contenuto dei sette restanti, che porterò avanti quando Dio vorrà.

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CAPITOLO II SUL CONSIGLIERE E IN PRIMO LUOGO SULLE SUE QUALITÀ SPIRITUALI

Il consigliere è una persona preparata eletta per eseguire i compiti di uno dei Consigli che abbiamo enumerato in precedenza. Pertanto si deve osservare con attenzione che il consigliere possieda due qualità: una è la sua abilità e capacità nelle faccende politiche e competenza nell’eseguire le sue mansioni; l’altra, che venga effettivamente prescelto, e ciò spetta al principe. Sicché la preparazione è responsabilità del consigliere, la scelta oculata del principe. Tratteremo entrambi gli aspetti, cominciando con la competenza. La buona disposizione di un essere umano implica una dimensione fisica e una spirituale. Nel capitolo successivo mostrerò come si può giudicare la buona disposizione di un consigliere per quanto riguarda il corpo; in questo capitolo, invece, giudicherò se possiede adeguate doti morali e psicologiche. Il criterio di giudizio è costituito da quindici qualità, che sono quelle che sto per elencare. La prima è che il consigliere sia di ingegno alto e poco comune; perché il grande ingegno è principio, mezzo e fine di imprese grandissime e sovrumane. Tutte le virtù che si trovano e possono trovarsi in un essere umano, se non è di grande ingegno, sono basse, mancano di vigore e non significano quasi nulla. Per esperienza vediamo che tutte le arti, tutti i maestri, tutti i libri, tutti i pedagoghi, tutti i precetti e i consigli sono di poca virtù ed efficacia per chi è di ingegno mediocre, tanto che costoro, con molte avvertenze, continuo sforzo e molto tempo, purtuttavia non capiscono nulla o pochissimo, mentre un grande ingegno, con pochissime indicazioni e poco sforzo, capisce al volo tutto quello che vuole. L’intelligenza ottusa è come un campo naturalmente sterile che, anche se si coltiva molto, rimane sempre esausto: produce poco, di cattiva qualità e non nel momento opportuno. Sicché dove non vi è un’in-

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telligenza d’eccezione non vi può essere alcuna virtù segnalata e, pertanto, si tratta della prima qualità che mostra la buona disposizione morale e psicologica di un consigliere. Voglio che il principe riconosca il grande ingegno per esperienza propria e non fidandosi del giudizio di altri. Proporrò tali regole per conoscerlo che, se il principe non è cieco, lo discernerà con la stessa chiarezza con cui si riconosce il sole a mezzogiorno. Con lo stesso rigore descriverò le restanti qualità. Affermo, insomma, che il principe deve saper riconoscere il consigliere per pura esperienza. L’esperienza consiste nella capacità di osservare i detti e i fatti di ognuno. I detti del grande ingegno sono stravaganti, contrari agli stereotipi, poiché dal momento che concepisce le cose ben diversamente dagli altri, così si esprime in termini assai distinti da quelli che impiega la gente comune e trae spesso conclusioni inaspettate. Così il principe vedrà che un consigliere intelligente è acuto nel parlare, pronto nell’afferrare i problemi, di rapida comprensione, risoluto e chiaro nell’esposizione, spiritoso nelle battute e ponderato nelle affermazioni serie; sa adattarsi alle persone con cui parla (però mantenendo sempre la propria onestà), che siano buone e cattive. Il grande ingegno non segue mai le opinioni vulgate, non dice mai banalità, non parla mai a vanvera, non è lento e faticoso, non perde il filo, non si confonde nei suoi ragionamenti, non ha pregiudizi nazionali di nessun tipo. È un segno sicuro di stupidità, parlare male e senza obbiettività di un avversario o di un nemico del proprio principe o di chi appartiene a una confessione religiosa diversa o a un popolo straniero, Ebrei, Mori, Pagani o Cristiani che siano. Il grande ingegno, infatti, vede ovunque sette leghe di mal cammino, ovunque ci sono cose buone e cattive: loda e fa suo il bene, condanna e respinge il male senza per questo inveire contro la nazione in cui si trova. Le opere del grande ingegno sono molto vive, molto attive: sempre si concentra su qualche problema, vuole vedere tutto, udire tutto, è curioso, diligente, legge molto, sa parlare con gente di tutti i tipi e registrare opinioni, vuole conoscere il passato, interpretare il presente, giudicare il futuro; intende molte discipline, non si accontenta di una, quattro o sei, vuole sapere più degli altri e per questo si impegna particolarmente. Da giovane, questo tipo di ingegno è un po’ verde, produce frutti di tutti i tipi e (come dice benissimo Platone 1) è come un campo assai fertile in cui, per la grassezza della terra, nascono e crescono alcune erbacce in mezzo alle piante utili e pregiate; e perciò non si legge di nessun generale, principe e filosofo famoso che non abbia avuto qualche notevole vizio accanto alle sue ammirevoli virtù. Ma questo stesso tipo di intelligenza,

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Cfr. Respublica, 410 bc.

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quando giunge a maturazione intorno ai trent’anni, dà frutto buono e salutare e, per dirlo in una parola, risulta divino. L’uomo fiacco e senza energia, negligente e trascurato, che non fa altro che mangiare, bere, giocare e andare a spasso, che non conosce molte scienze e discipline, che ignora molti segreti della natura e molte ardue questioni politiche, che rifugge dalla conversazione e dalla comunicazione con molte nazioni straniere, costui è ottuso e incapace o, per lo meno, di mediocrissimo ingegno. La seconda qualità che dimostra la buona disposizione dell’anima del consigliere è che conosca l’arte di parlar bene, poiché, come noi uomini ci distinguiamo da tutti gli altri animali per il fatto di possedere la ragione e il linguaggio, dobbiamo pensare che fra gli uomini i più eccellenti sono quelli che sanno parlare e ragionare meglio e con più grazia. Pertanto voglio che il consigliere abbia appreso ed esercitato le arti di parlar bene e che le conosca così approfonditamente da eccellere in questo campo. Infatti capita continuamente che un re debba inviare uno dei suoi consiglieri in un regno forestiero o, nel suo stesso principato, in qualche città o provincia per persuadere o dissuadere, accusare o difendere, lodare o vituperare, felicitarsi o condolersi ed altre cose. Per il vantaggio e l’onore del suo principe è necessario che esegua perfettamente questi incarichi, perché, se non sa farlo, sbaglia vergognosamente e il più delle volte fa un gran danno. Invece, se l’esercito si ammutina, se i comuneros si ribellano e in altre circostanze analoghe quanto più uno è esercitato nella tecnica del discorso persuasivo, tanto è più probabile che riesca a pacificare il tumulto. Questa sua capacità gli serve anche per dare eccellenti risposte di parola e per scritto agli ambasciatori che venissero a negoziare con il principe. Voglio che il principe sia capace di accertare per esperienza che il suo consigliere possiede tale buona disposizione. La capacità oratoria del consigliere si mostra anzitutto nei suoi detti, occorre quindi considerare come si esprime nella conversazione di tutti i giorni. Il principe deve perciò farlo chiamare per esaminarlo su questo punto, parlandogli un giorno per un’ora, un altro per due e così variando, invitandolo a narrare storie ed episodi per valutare come amplia o sintetizza il racconto secondo le circostanze, come propone l’argomento, come lo organizza, come lo svolge, come lo conclude, e giudicando oltre a ciò la sua grazia nel porgere, la sua mimica, la sua precisione lessicale. Altro criterio di valutazione sono le opere: che maestri di retorica ha avuto, quanto tempo ha avuto a disposizione e quanto si è impegnato per perfezionarsi nelle arti del linguaggio. Se ha scritto qualcosa, bisogna procurarselo ed esaminarlo. Serve pure invitarlo in forma riservata e, facendo finta di occuparsi d’altro, simulare che bisogna scrivere una lettera di condoglianze o di rallegramento o qualche messaggio per un destinatario qualsiasi e farglielo scrivere sui due piedi alla presenza del principe.

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La terza qualità che mostra la buona disposizione dell’anima del consigliere è che sappia parlare molte lingue e soprattutto quelle dei popoli che il suo principe governa o che sono suoi alleati o suoi nemici. Questo assioma si potrà intendere meglio con un esempio. Facciamo il caso di un re di Spagna, come l’attuale. Il consigliere di questo re, oltre al suo idioma materno, è bene che sappia latino, italiano, arabo, francese e tedesco, poiché i sudditi si compiacciono molto di capire ed essere capiti da quelli con cui hanno a che fare. Una persona spiega meglio la propria intenzione e si fa capire meglio parlando la stessa lingua dei suoi interlocutori che quando c’è bisogno di interpreti. Una persona ha meno remore a raccontare i suoi problemi o a rivelare i segreti di grandi principi e signori (come capita con enorme frequenza) a un consigliere solo in via confidenziale in assenza di terzi. Che vantaggio non rappresenta poi la conoscenza delle lingue per ascoltare le ambascerie degli Stati confinanti, tanto in caso di alleanza quanto di guerra? Se si tratta di amici, udire il proprio idioma in bocca ai consiglieri viene ritenuto un atto di cortesia e affezione che cementa le buone relazioni. Anche se in ciò si ingannasse, l’inganno riesce utile. Se si tratta invece di un nemico, parlando la sua lingua ci si assicura almeno in parte la sua benevolenza o, quanto meno, dall’intonazione delle sue parole, dal modo di dirle, da un aggrottare la fronte, da un cenno del sopracciglio in un momento determinato si può dedurre approssimativamente l’intenzione del nemico. Il consigliere non potrà conseguire gli stessi risultati per mezzo dell’interprete se ignora la lingua dei suoi interlocutori. Non bisogna poi tacere che è assai difficile trovare interpreti che sappiano spiegare e riprodurre esattamente il discorso dello straniero: distorcono, cambiano, aggiungono in molti modi. Viene una spia, dal cui rapporto può dipendere la salvezza e l’onore di un regno, e magari non c’è proprio tempo da perdere: in questi casi è un problema dover cercare l’interprete, perché a volte non si trova oppure la spia ha paura a parlare davanti a lui, oppure l’interprete rivela ciò che non dovrebbe o ci sono altri inconvenienti. Inoltre chi parla molte lingue deve per forza aver visto molto, letto molto e parlato con le persone più svariate e conoscere più o meno bene i costumi dei popoli di cui sa la lingua e ciò è assai necessario al consigliere in tutti i casi in cui occorra consultarlo. Tralascio altre ragioni e prove per non essere troppo prolisso perché mi ricordo che si tratta di un memoriale senza esempi né ornamenti. Voglio che il principe sia capace di giudicare personalmente se il consigliere possiede o no questo tipo di competenza. Bisogna che lo faccia parlare e scrivere in sua presenza e non si fidi di quello che riferiscono gli altri, che quasi sempre si sbagliano. La quarta qualità che rivela nel consigliere un’adeguata preparazione (dal punto di vista morale e intellettuale) è che sia un grande storico, vale a dire

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che abbia visto e letto con grande attenzione ed esaminato sottilmente le storie antiche e moderne e soprattutto quelle del suo principe, dei suoi alleati, dei suoi vicini e dei suoi nemici. Il consigliere che fosse un grande storico e sapesse assimilare l’autentica lezione della storia, dirò senza alcuna esitazione che rappresenta il consigliere ideale, non gli manca nulla, è pratico in tutte le faccende del principato, anzi, è l’esperienza e la pratica personificate! Le storie, infatti, non sono altro che una raccolta di varie e diverse esperienze di tutti i tempi e di ogni tipo di uomini. Datemi un conoscitore della storia e che sappia cogliere il frutto delle sue cognizioni: costui è più pratico ed esperto in qualsiasi faccenda politica di chiunque altro, senza eccettuare il suo campo d’azione specifico per un periodo mettiamo di vent’anni. Infatti, se prendiamo come esempio l’arte militare, un vecchio guerriero (generale, capitano o quello che è) in vent’anni avrà potuto prendere parte al massimo a quattro battaglie, cento scaramucce, cinquanta assedi, dodici ammutinamenti, cinque guerre, cinque tregue ed altrettante paci. L’autentico conoscitore della storia, invece, ha potuto assistere e sperimentare infinite battaglie, scaramucce, assedi, ammutinamenti, campagne, tregue e paci. Infatti, che proporzione ci può essere fra il finito e l’infinito? Inoltre quest’uomo, con la sua ventennale esperienza, solo conosce le tendenze e la disposizione di una, due, tre o al massimo quattro nazioni, anziché di quasi tutte, come il conoscitore della storia. Quest’uomo, con la sua ventennale esperienza, non poté intendere la decima parte dell’arte militare, poiché in vent’anni non si può fare esperienza di tutte le dimensioni della guerra. Chi conosce la storia, invece, conosce tutti gli aspetti della milizia, intende tutte le sue implicazioni, non ha trascurato alcun dettaglio. Quest’uomo, con la sua ventennale esperienza, anche se risulta coinvolto in una guerra, non ne capisce le ragioni, non ha saputo perché è stata dichiarata, con che mezzi e a che fine; non ha compreso le tattiche, le astuzie, le difficoltà e gli inconvenienti con cui è stata condotta; neppure si è reso conto delle preghiere, delle lacrime, dei finti sdegni, delle doppiezze e necessità con cui sono venute a concertarsi entrambe le parti. Il conoscitore della storia sa che tutto questo è, per così dire, l’anima della guerra. Lo stesso dico di tutti gli altri discorsi e circostanze del principato nel governo e nella difesa. Si intende facilmente perché abbia detto questo: diffondermi maggiormente sarebbe contro lo spirito del memoriale che (come ho dichiarato altrove) mi sono proposto di scrivere. Mi basta sottolineare, per concludere, che le leggi non sono altro che una storia che contiene i giudizi e i pareri di uomini illustri e saggi, con cui diedero ordine alle città e mantennero in concordia e uguaglianza i loro abitanti, per insegnarci al giorno d’oggi come possiamo fare altrettanto. Anche la medicina è storia delle esperienze che fecero gli antichi medici, su cui i medici moderni fondano le loro diagnosi e terapie. Infatti

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per ordinare una repubblica, governare un principato, condurre una guerra, sostenere uno Stato, accrescere il potere, procurare il bene, fuggire il male, cosa c’è di meglio della storia? Pochi si rendono conto di questo e così vediamo che pochi sanno governare: fra i governanti non sono molti quelli che possiedono una cultura storica. Chi le legge, poi, non ne trae il frutto adeguato, poiché si limita a intrattenersi con il piacere che procura il racconto dei diversi avvenimenti e non considera come si potrebbe trarre vantaggio dalla lezione che offrono in politica interna e in politica estera, in pubblico e in privato, ponendola in pratica nelle decisioni e nella condotta degli affari. La storia non è un passatempo, ma un modo per guadagnare tempo, che permette a uno di sapere e intendere perfettamente in un giorno ciò che per esperienza o non comprenderebbe mai anche se vivesse cent’anni o comprenderebbe tardi e male. La storia è una rappresentazione della vita umana, una descrizione dei costumi e delle tendenze degli uomini, un memoriale di tutti gli affari pubblici, un’esperienza certa e infallibile delle azioni umane, un consigliere prudente e fedele nei dubbi, maestra in pace, generale in guerra, bussola in mare, porto e riposo per tutti i tipi di esseri umani. L’elogio della storia sono in tanti a pronunciarlo, ma quanto pochi intendono ciò che implica! Per questa ragione voglio che il consigliere sia un gran conoscitore di storia. Voglio che il principe si accerti personalmente se esiste questa capacità. Dovrà fare al consigliere molte domande di argomento storico; fornisco qui alcuni esempi. Quante volte (non voglio allontanarmi dalla realtà spagnola) ci sono stati cambi nelle monarchie inglese, francese e spagnola? Che dinastie vi hanno regnato? A che titolo? Per quanto tempo? Quale fu la causa dei cambiamenti? Quanti furono i sovrani di ogni dinastia? Fra loro, chi fu il più illustre? Quale il meno prestigioso? Che guerre ha condotto ciascuno di loro? Con chi, quando, per che ragioni, come si condussero e come si giunse alla pace? Da mille e cinquecento anni ai giorni nostri, quante battaglie hanno combattuto gli Spagnoli e quante i Francesi e quante hanno vinto o perso gli uni e gli altri? Quali sbagli hanno fatto perdere le une, quali cause hanno fatto vincere le altre? Da duemila anni ai giorni nostri, quante rivolte popolari ci sono state in Francia, in Spagna e a Roma? Quale fu la causa delle sollevazioni, che mali e che beni provocarono, come furono pacificate? Chi rispondesse bene a queste e a simili domande, non c’è bisogno di aggiungere altro se non che è un gran conoscitore della storia e questo tale, a tempo debito, saprà trarre profitto dalle sue conoscenze. La quinta qualità che mostra la buona preparazione morale e intellettuale del consigliere è che conosca bene e perfettamente il fine, la materia, il come, il quando e i limiti precisi di ciascuna virtù. È un punto questo su cui si

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commettono continui errori e, se il consigliere segue l’opinione volgare, cadrà in gravissimi equivoci. Infatti, visto che non conoscono l’autentico significato delle virtù, moltissimi e potrei dire quasi tutti chiamano paurosa la persona calma e serena, traditore chi possiede astuzia e accorgimenti, buono l’incapace, mansueto lo stupido. Uno incapace di sottigliezza e di sfumature per mancanza d’intelligenza o di applicazione lo definiscono schietto e sincero; una persona irritabile la dicono franca; un superbo, splendido e generoso; un agitato e impulsivo, forte; uno spendaccione, liberale; un avaro, preveggente; un baciapile, sant’uomo; un erudito, pedante; uno studioso sottile, pazzo; e così si comportano con tutte le altre virtù e vizi, dando alla qualità il nome del difetto corrispondente e viceversa nel modo più arbitrario. Questo è un vizio enorme e diabolico e se mette radici nell’anima del consigliere (come avviene necessariamente se non si sa distinguere il compito specifico di ciascuna virtù) conduce alla rovina il principe e tutto il suo principato. Poiché in tutti i consigli e deliberazioni la prima cosa che si considera è se va o no contro l’onestà ciò che si sta discutendo con tutte le sue circostanze. Per provvedere e conferire cariche e uffici occorre possedere un criterio per non prendere bianco per nero. Al momento di concedere ricompense il consigliere prenderà abbagli se gli manca una cosa così importante come il giudizio morale. Concludo, quindi, che si tratta di una qualità assolutamente necessaria al consigliere. Voglio che il principe se ne renda conto personalmente, basandosi anzitutto sulle sue risposte quando gli fa le seguenti domande: di quante cose ha bisogno un essere umano per giungere in vita al vertice della gloria? In quante maniere può farsi amare dal popolo? Come ottiene tanto favor popolare che si crede tutto ciò che dice? Cosa muove il popolo a giudicare uno degno di tutti gli onori? In quanti modi si pecca contro la virtù della fortezza? Che cosa esige la giustizia? Ed altre cose simili con cui metterà alla prova la sapienza del consigliere a questo rispetto. Fonderà il suo giudizio anche sulle sue opere, informandosi che libri ha letto, che maestri ha avuto, dove ha studiato, con chi ha avuto rapporti e fatto amicizia, di cosa si occupa. La sesta qualità che mostra la sufficienza dell’anima del consigliere è che sia politico, vale a dire, che sia pratico nell’arte di governare in pace e in guerra e nelle cose che ad essa si riferiscono. Infatti, dato che il compito e il dovere del principe consistono nel governo e nella difesa dello Stato, l’uno e l’altro si riferiscono alla pace e alla guerra, ma più propriamente il governo è associato alla pace e la difesa alla guerra e se non si intende in che modo si suole condurre queste due cose, è impossibile che il consigliere faccia nulla di buono. Perciò è necessario che il consigliere sappia che lo Stato, cioè l’intera comunità umana che vive associata, è composta, per così dire, di corpo e

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anima. Il corpo sono gli edifici, a proposito dei quali si considera anzitutto se il clima è caldo o freddo o temperato, se l’ubicazione è vicina o lontana dal mare, se è presso a qualche fiume o lago, se è alto, basso, secco, umido, pantanoso, fertile, sterile, tenendo conto anche dell’esposizione ai venti, perché secondo tutti questi fattori si decide se costruire o no, se fare le case larghe o strette, chiuse a un vento e aperte a un altro, se preferire gli edifici alti o bassi e dove collocare le piazze e le costruzioni di uso pubblico e come dar loro la forma più conveniente, rotonda, triangolare, quadrata o poligonale secondo le circostanze. Poiché si ignora quest’arte, vediamo che il più delle volte si costruisce a caso e così molti insediamenti sono malsani, altri mal pianificati, altri brutti, altri inadeguati e perciò si vanno progressivamente spopolando. Ancora ai miei tempi ho visto spendere venti o trentamila ducati in edifici pubblici e due anni dopo ci si rendeva perfettamente conto che la spesa era stata sbagliata e gli edifici inutili, perché non si aveva fatto caso alle circostanze di cui parlavo. Ciò non accadrebbe se i consiglieri conoscessero la struttura di questa parte dello Stato che io chiamo corpo. L’anima è il governo. In primo luogo si considera la sua forma, cioè se è governo di una sola persona, detto re, che io chiamo principe, come in Spagna, in Portogallo e in Castiglia. Se è un governo puramente di nobili, come a Venezia e anticamente a Sparta. Se è un governo di soli plebei, come ai nostri tempi i Cantoni o Confederazione Elvetica, detti impropriamente Svizzeri. Se è un governo misto monarchico e aristocratico, come il regno di Danimarca e Roma all’epoca dei re fino a Tarquinio. Se è un governo misto di re e di plebei, come fu per un certo tempo l’impero persiano. Se è un governo misto di nobili e plebei, come Roma dopo aver cacciato i re, Sparta, Atene e com’erano ai nostri tempi Firenze e Siena e come sono tuttora le altre repubbliche che rimangono in Italia. Se è un governo misto di re, nobili e plebei, come l’impero di Germania, il regno di Polonia e il regno di Aragona in Spagna. In ciascuno di questi governi il consigliere deve sapere come si acquisisce, come si ingrandisce, come si conserva e si perde lo Stato; che pericoli corre, come si può provvedere che non si logori e come si possano promulgare leggi e nominare magistrati adeguati. É impossibile che il consigliere che ignora tutto ciò possa suggerire rimedi opportuni in tutte le occorrenze del principato o che possa consigliare al principe come comportarsi nei confronti di un determinato amico, nemico o alleato, come potrà trarne vantaggio o danneggiarli ed un’infinità di altre cose. Per quanto riguarda l’altra parte della scienza politica, che consiste nella guerra, deve sapere di quali qualità ha bisogno un buon soldato, un capitano, un generale, come devono armarsi, come formarsi, come marciare, come alloggiarsi, come combattere, come ritirarsi, come continuare a avanzare; e in ognuna di queste cose in quanti modi si

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sogliono commettere errori, poiché, in caso contrario, non so che potrebbe consigliare un consigliere. Infine è mia opinione che un buon consigliere deve essere un eccellente politico. Desidero che il principe faccia esperienza diretta di tale qualità del suo consigliere. In altri termini: gli faccia domande sugli affari di Stato, approssimativamente in questi termini: “Cos’è meglio, edificare in terra fertile o sterile? Contro quali venti si devono innalzare ripari in un’abitazione? In quanti modi si può perdere il principato? Come si logora un regime? Come si ribellano le città e come si domano queste sommosse? In che consiste il potere del principe, nelle ricchezze o nei buoni soldati? In quanti modi si può muovere guerra onestamente a un principe che non ha dato alcun pretesto per attaccarlo? Cosa è meglio, aspettare il nemico nel nostro territorio o andarlo a cercare nel suo? Quante cose deve considerare un principe prima di muovere guerra, quante dopo averla mossa, quante prima di cominciare la battaglia, quante dopo essere risultato vincitore o vinto?” Dalla risposta a queste e a simili domande si può concludere fino a che punto il consigliere è un buon politico. La settima qualità che dimostra la buona disposizione morale e intellettuale del consigliere è il fatto di aver visitato molti paesi fra cui quello del proprio principe, dei suoi nemici, dei suoi alleati e dei suoi vicini. Questi viaggi devono essere fatti con attenzione e prudenza, non in una maniera frivola e superficiale, propria degli oziosi e dei perdigiorno, che si comportano come chi visita una fiera godendosi lo spettacolo. Il tipo di viaggio richiesto al consigliere implica che si informi minuziosamente delle condizioni politiche interne e dei rapporti internazionali, delle rendite ordinarie e straordinarie, del rispetto e dell’affetto dei sudditi verso il principe, dei luoghi favorevoli e sfavorevoli per entrare o uscire dal suo territorio, delle piazzeforti, della disposizione dei soldati, dei loro costumi ed altre cose di questo genere, con cui acquista prudenza, torna a casa reso migliore ed ha fatto grandi progressi per consigliare e arrecare beneficio al suo principato in tutte le situazioni possibili. Chi non si comportasse così perde il proprio tempo, dissipa il suo patrimonio, sacrifica il proprio corpo e arrischia la vita mille volte senza alcuna prospettiva di utile proprio o altrui. Mi si racconta di un principe napoletano, uomo prudente, che a un suo vassallo che gli chiedeva licenza per visitare il mondo rispose che andasse prima a Roma e tornasse e che al suo ritorno gli avrebbe concesso il permesso che gli chiedeva. Il giovane agì in conseguenza e quando fu tornato il principe, che si rese conto che mancava d’ingegno e che perciò non avrebbe tratto beneficio dalla sua esperienza, gli disse: “Figlio mio, hai visto prati, pianure, montagne, colline, valli, campi seminati, pascoli, terreni arbustivi, boschi, rocce, fonti, ruscelli, alberi, villaggi, città, anima-

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li, uomini e donne; in tutto il mondo non c’è nulla di più, perciò resta a casa tua e stattene tranquillo”. Senz’altro questo virtuoso cavaliere disse tutto ciò che si poteva dire in un caso del genere, ci dette una regola su come viaggiare e criticò velatamente il comportamento sbagliato dei più. Il consigliere, dopo aver viaggiato nella maniera giusta, cioè osservando, analizzando e confrontando gli Stati forestieri fra loro e con il proprio, ne trarrà un grande vantaggio: miglior informazione e giudizio per conoscere qualità e difetti del proprio paese; un criterio per conservare le cose buone e correggere quelle cattive, estirpare i comportamenti negativi e introdurre nuovi e migliori costumi; saprà ospitare e trattare amabilmente gli stranieri, saprà riconoscere amici, nemici e neutrali in forma più sottile e, secondo le esigenze della situazione politica, saprà adattare le sue parole, scritti e opere alle esigenze del contesto e del principe. Conoscerà infine vantaggi e svantaggi dei diversi territori e delle diverse epoche; nessuno potrà manipolare il Consiglio con false informazioni e per lo meno non parlerà per sentito dire. Voglio che il principe metta alla prova personalmente il consigliere per vedere se possiede questa buona qualità. In altre parole, deve fargli domande sui suoi viaggi in questi termini: quanto è grande Francia da Nord a Sud e da Est a Ovest? Qual’è la sua circonferenza? Quante piazzeforti possiede? Da dove si può invadere con maggior facilità? Quanti fiumi vi sono che non si possano guadare? Qual’è la miglior qualità dei Francesi? Quale il loro peggior difetto? Cosa ambiscono di più? Che differenza c’è fra l’aristocrazia francese e quella spagnola? E fra il popolo francese e quello spagnolo? Che differenza c’è fra la loro maniera di costruire e la nostra? Quale di questi due monarchi è un signore più assoluto? Come si comporta il popolo nei confronti del re? In che differisce il loro sistema di vassallaggio dal nostro? Come reclutano i Francesi il loro esercito, come lo addestrano, come lo organizzano? Al marciare per le proprie terre, come provvedono per evitare che i contadini risultino danneggiati? Ciò che dico di un solo popolo si può applicare a tutti gli altri: il principe deve invitare il consigliere a fare confronti, perché l’esempio della Francia e della Spagna, che ho prescelto, non è altro che un esempio, voglio dire che la materia da trattare non è limitata a un solo regno, bensì che, essendo questo libro di ordine generale ed applicabile a qualsiasi principato, ognuno saprà applicare il caso qui discusso al proprio Stato e territorio cambiando quello che c’è da cambiare. Lo stesso vale per tutti gli esempi addotti in questa mia opera. La regola che sto per enunciare è un criterio certo e comprovato per stabilire se una persona ha tratto vantaggio dai suoi viaggi: senza farle le domande che ricordavo prima, basta osservare cosa dice dei paesi per cui ha viaggiato. Se censura tutto ciò che è straniero ed elogia continuamente i costumi del suo paese, è una persona prevenuta o superficiale o un cattivo

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osservatore o un imbecille o un pazzo, che non ha senso delle distinzioni e delle sfumature. Senza capacità di distinguere non c’è la possibilità di scegliere le cose buone e respingere quelle cattive; senza questa scelta oculata, non si può parlare di prudenza; dove manca la prudenza manca tutto. L’ottava qualità che garantisce l’adeguata preparazione morale e psicologica del consigliere è che sappia stimare le forze e la potenza del proprio principe, dei suoi alleati, dei suoi nemici e dei suoi vicini. Poiché come la prima cosa che un medico esamina in un organismo umano è a che livelli possa giungere il suo temperamento e virtù naturale, allo stesso modo il consigliere deve sapere quante sono, di che tipo e di cosa sono capaci le forze e la potenza del proprio principe, dei suoi nemici e dei suoi alleati poiché, altrimenti, non darà mai un consiglio di valore. Per non sapere questo, i consiglieri inducono a volte i loro principi a muovere guerra a coloro con cui dovrebbero vivere in pace e li incoraggiano a vivere in pace con quelli a cui dovrebbero far la guerra. Lo stesso vale per le alleanze: in tutto ciò, nella maggior parte dei casi, brancolano al buio. Il buon consigliere si sforza di conseguire un’informazione adeguata tanto rispetto al proprio principe che ai suoi avversari ed alleati: a quanto ammontino le rendite ordinarie e straordinarie, da dove si ricavino, come e quando, quanti fanti si possano arruolare e mantenere e per quanto tempo, come sia il loro armamento ed il loro addestramento, quale il livello degli ufficiali, quanto solide o vacillanti siano le loro alleanze, di cosa possiedano eccedenti nel loro territorio e cosa invece scarseggi ed altre cose del genere, poiché è questo il criterio per stimare la forza e la potenza di un principe. Voglio che il principe faccia personalmente esperienza di questa capacità del suo consigliere, facendogli domande su tutti i temi che sono venuto enumerando. É una regola generale, assai pratica e sicura, che la persona che conversando non parla con rispetto del nemico del proprio principe, bensì loda spropositatamente quest’ultimo, vanta le sue forze e magnifica le sue imprese, mentre con il suo avversario si comporta in maniera opposta, cioè ne dice male e non fa caso alla sua potenza ed alle sue imprese, una persona così non va bene come consigliere, perché, se lo fa per ignoranza, questa stessa ignoranza mette a nudo la sua mediocrità, poiché il consigliere dev’essere saggio e capire i problemi che ha di fronte. Se invece agisce così per ipocrisia, è un adulatore e non parlerà mai con competenza di causa, ma, per fare il proprio interesse e quello dei suoi parenti e amici, dirà ciò che il principe vuole ascoltare e non ciò che sarebbe bene per lui che udisse. La nona qualità che dimostra l’adeguata preparazione morale e intellettuale del consigliere è che non si limiti ad amare il pubblico bene, ma che,

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quando si tratta di difenderlo, scordi il proprio interesse e la propria reputazione al punto che, quando si può giovare al bene comune, il consigliere deve impegnarsi totalmente a tale scopo, anche se dovesse risultarne danneggiato in termini di fama, vita e beni. E questa è una delle qualità che Platone maggiormente apprezza e loda in un consigliere ed in qualsiasi altro uomo di Stato. É certo e dimostrato che il vero amore dell’interesse pubblico è desto e solerte e che la solerzia non si concede alcun riposo, osserva tutto, vede tutto, non si distrae mai ed in questo modo provvede a tutto ciò che è necessario. Pertanto l’amore, come lo descrivo, è una delle buone qualità del consigliere. Questo stesso amore, se è autentico, di necessità stima e procura molto più il bene pubblico che l’interesse egoistico, poiché ripone tutte le sue speranze, il suo profitto e la sua reputazione nella pubblica utilità: se quest’ultima mancasse, ne verrebbero pregiudicati i suoi stessi interessi particolari. Perciò preferirà uno svantaggio privato, nella persona o nei beni, a un pubblico danno. Quando ci si comporta così il poco si accresce, si conserva ciò che si è acquisito e si vive serenamente. Quando invece si adotta il principio contrario, le conseguenze sono diametralmente opposte, come dimostra la storia universale. Fino al giorno d’oggi nessun impero è riuscito a raggiungere una grande potenza e a conservarla se non in virtù di uomini che possedevano questa nona qualità di cui parlo. Reciprocamente, questi stessi imperi cominciarono a declinare, fino alla completa rovina, a partire dal momento in cui vennero ad essere governati da uomini che non conoscevano questo tipo di disinteresse personale. A questo proposito non posso trattenermi dall’addurre un paio di esempi, anche se ciò va contro la regola che ho annunciato più di una volta: merito di essere scusato poiché da questi esempi si possono trarre succosi insegnamenti in un campo dove di solito i grandi principi e signori si equivocano totalmente. Callicratide, che fu generale dei Lacedemoni nella guerra del Peloponneso, avrebbe potuto salvare la propria flotta se solo fosse stato disposto ad allontanarsi dalle Arginuse e non ingaggiare battaglia con gli Ateniesi, come avrebbe potuto fare senza problemi, e non volle dicendo che gli Spartani, persa quella flotta, avrebbero potuto costruirne un’altra, mentre lui non poteva lasciare quel luogo senza macchiare la propria reputazione. Attese i nemici, venne alle mani con loro, la sua flotta fu sbaragliata e fatta prigioniera: una vera catastrofe per i Lacedemoni. Quinto Fabio Massimo si comportò in modo completamente diverso da Callicratida. Sopportò con pazienza le ingiurie dei suoi e dei nemici che lo chiamavano il Temporeggiatore per burlarsi di lui e così stancò e logorò tanto Annibale che fu causa della libertà della propria terra e dell’oppressione della repubblica cartaginese. E così lo loda altamente il grande poeta Ennio in versi che (dal momento che sono degni di essere scritti in lettere d’oro negli appartamenti dei principi) mi sforzerò di tradurre in volgare castigliano come meglio posso:

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Dobbiamo la nostra salvezza alla tattica temporeggiatrice di un uomo che pospose la propria fama al bene comune; e perciò abbiamo visto, in un secondo momento, / maggiore e più illustre la sua memoria 2.

Callicratide non volle ritirarsi una volta per non perdere un po’ della sua reputazione; Fabio si ritirò e fuggì molte volte, non tenendo conto della propria reputazione, poiché, facendo ciò, avvantaggiava il proprio Stato. Callicratide preferì combattere in condizioni svantaggiose che ritirarsi mettendo in dubbio il proprio onore; Fabio preferì fuggire in maniera disonorevole (dico secondo l’opinione volgare) che dare battaglia mettendo a repentaglio la cosa pubblica. Callicratide combatté, perse e così mandò in rovina il proprio Stato, la propria vita e il proprio onore e perciò acquistò fama di temerario. Fabio evitò costantemente lo scontro, salvò il proprio Stato e, insieme a quello, la vita e l’onore, ottenendo per questo motivo l’onorevole soprannome di “Massimo”. Ciò che dico delle grandi imprese si applica anche alle meno importanti e perfino ai dettagli minori della vita politica. Apprendano, dunque, i consiglieri a consigliare i principi in tutti gli affari pubblici e i principi facciano grandissima attenzione a scegliere consiglieri che posseggano questa nona qualità. Il principe potrà rendersene conto personalmente, per esempio fingendo di chiedergli consiglio in cose diametralmente opposte al pubblico bene, adducendo come pretesto che, pur essendo tali, tuttavia sono importanti per servire il sovrano: per esempio, infrangere leggi importanti, privilegi di prim’ordine, imporre tributi eccessivi ed altre prevaricazioni dello stesso genere. In base alla sua risposta si può valutare il suo senso dello Stato. Ci sono altri modi di sapere se il consigliere è ben preparato sotto questo aspetto, ma di proposito non ne parlo, in primo luogo perché sono facili da capire, e in secondo luogo perché forse, e anche senza forse, molti se ne sentirebbero offesi. Chi ha orecchi intenda. Questa è una regola certissima e senza eccezioni: tutti gli ipocriti e coloro che sono cupidi di arricchirsi sono nemici del pubblico bene e anche quelli che affermano che tutto appartiene al re e e che il re può agire a proprio arbitrio e che può imporre tutti i tributi che vuole e addirittura che è infallibile. La decima qualità che dimostra la buona preparazione morale e intellettuale del consigliere è che sappia curare tutto il corpo del principato e che non trascuri una parte per curare un’altra, come se un medico, involontariamente, per far bene a un organo ne danneggiasse un altro. Perciò il buon consigliere 2

Cfr. Ennius, Annales, XII, 370-372 Vahlen.

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si deve spogliare di tutti gli interessi di amicizia, parentela, fazione, partito e di ogni forma di considerazione per convenienze particolaristiche e vestirsi di una retta e prudente bontà, che non sa, non può e non vuole favorire se non la giustizia e la virtù. Questa onestà gli fa le veci di famiglia, parentela, partito e interesse ed è la sola cosa che si senta tenuto a rispettare. Pertanto, il consigliere dev’essere di tutti, dare ascolto a tutti, favorire tutti senza alcuna parzialità, riconoscendo come solo criterio di discriminazione la maggior benevolenza per quanti più si avvicinano a un ideale di razionalità e di virtù. Mettiamo che uno sia buono e prudente, o magari nemmeno, ma che chieda comunque una cosa giusta, e poniamo che sia nato a casa del diavolo, fra i Garamanti o gli Indiani o dove sia; costui è connazionale, concittadino, parente, compagno di partito, è per il consigliere “uno dei suoi” e, in quanto tale, è tenuto a favorirlo con amore, con tutte le sue forze e tutta la sua diligenza. Facciamo invece il caso di un altro che sia malvagio o che, pur non essendolo, chieda qualcosa di ingiusto, e magari è un cliente del consigliere o un suo amico o un suo parente; costui non è né connazionale, né concittadino, né compagno di partito, né amico, né parente del consigliere e pertanto non solo non lo deve favorire, ma ha l’obbligo di rimproverarlo e correggerlo. Perché altro è avere un ruolo pubblico e altro difendere interessi particolari. Ci sono due soli paesi al mondo: la terra dei buoni e la terra dei malvagi. Tutti i buoni, Ebrei, Musulmani, Cristiani, Pagani o d’altra setta, appartengono a una stessa terra, a una stessa casa e a uno stesso sangue, e così pure i malvagi. Si può riconoscere, tuttavia, che se i piatti della bilancia sono in equilibrio, la legge divina e umana vogliono che pensiamo prima a chi ci è più vicino e preferiamo chi ci è obbligato, il nostro vicino e il connazionale allo straniero. Ma, se i meriti dello straniero pesano di più, viene prima di tutti quelli del nostro paese. Questo tipo di imparzialità è una delle qualità che più si richiedono al consigliere. Il principe deve verificarla personalmente, osservando se chiede favori per i suoi parenti, amici, clienti e servitori, anche se non se li meritano, o se, ammettendo pure che se li meritassero, per innalzare costoro ha procurato che non si concedessero ad altri più qualificati di loro: chi si comporta in questa maniera, infatti, contravviene a questo decimo requisito. Bisogna considerare anche se mostra un particolare affetto per certe persone piuttosto che per altre. Ci sono infatti certuni che per star bene con i grandi aristocratici sono ostili ai cavalieri, altri che per compiacere i cavalieri si mettono contro i plebei. Alcuni sono così devoti del braccio ecclesiastico che, per favorirlo a torto o a ragione, manderebbero in rovina un regno: costoro sono molto pericolosi e distruggono lo Stato. Non bisogna assolutamente permettere che entri nel Consiglio il capo di una fazione o chi si sia scontrato violentemente con un regno, una città o una provincia appartenenti al principe di cui è consiglie-

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re, innanzitutto poiché tutti noi esseri umani siamo di una natura così cattiva che, quando abbiamo la possibilità di farlo, non rinunciamo a vendicarci e, quando abbiamo in mano il potere, ci vendichiamo inevitabilmente con il pretesto di fare giustizia, compiendo con armi pubbliche una vendetta particolare; in secondo luogo, perché lo schieramento opposto si risente e la sua indignazione non investe solo il consigliere suo nemico, ma si estende anche al principe che, in qualche modo, si è trasformato in capo di una fazione, dandole autorità, potere e comando. In casi di questo genere leggiamo che molti principi sono stati malamente uccisi dalla fazione opposta a quella del consigliere o ministro che godeva il loro favore. L’undicesima qualità che dimostra la buona disposizione dell’anima del consigliere è che sia giusto e onesto. Chi possiede queste qualità, infatti, retribuisce secondo i meriti, cioè castiga i cattivi e compensa i buoni, conservando tanto nei castighi come nelle ricompense la dovuta moderazione senza essere crudele o troppo indulgente nel punire, né premiare in difetto, in eccesso o fuori luogo. Un consigliere di questo tipo ama la guerra e la pace a tempo debito, secondo le circostanze e l’interesse pubblico. L’uomo giusto è anche leale e questo è il principio fondamentale del Consiglio. Vediamo che una persona così è amata e apprezzata da tutto il popolo e da tutti i ceti, potenti e umili, ricchi e poveri, uomini e donne, tanto che, secondo l’opinione comune, la persona giusta possiede tutte le virtù. A una persona così affidiamo serenamente i nostri beni, le nostri mogli, i nostri figli, il nostro onore, insomma la nostra vita e la nostra morte. La giustizia, insomma, ha un posto privilegiato fra le virtù: tutte le altre, senza di lei, valgono poco e lei, da sola, possiede un gran pregio. Affermo, pertanto, che il principe deve preoccuparsi grandemente che il suo consigliere sia una persona buona e giusta. Deve assicurarsi di persona che sia proprio così, applicando questi criteri: le parole del giusto hanno peso, sono sempre virtuose; il giusto è veritiero, non è intrigante, dice ciò che pensa, è schietto nelle sue faccende, critica gli sbagli con simpatia ed energica mitezza, elogia le opere buone, è tutto amore, tutto generosità e benevolenza, è di una franchezza a tutta prova, non desidera né chiede nulla più di ciò che si merita, appoggia i buoni, critica i malvagi ed in tutte le cose favorisce la virtù. Una persona siffatta non può essere ciarliera né parlare a sproposito, non è bugiardo, non falsifica la propria opinione, non dice una cosa di fronte e una alle spalle, non è ipocrita, non conosce la doppiezza, detesta i pettegolezzi, propri di persone meschine e chiaro indizio di scarsa sincerità (non si è visto mai, fino ai giorni nostri, che un tipo pettegolo fosse leale); non critica i difetti degli assenti, quando può rimproverare gli altri in loro presenza; non affer-

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merà nulla di cui non sia assolutamente sicuro per averne fatto diretta esperienza; per farla breve, una persona così non è adulatrice e neppure può ascoltare parole adulatrici o dar retta a persone maldicenti, pettegole o che inventano continuamente storie inattendibili. Le opere del giusto sono facilmente riconoscibili: vive in pace e in riposo, si contenta del suo, cerca di procurarsi onori e ricchezze con energici e virtuosi sforzi, la sua casa e residenza sono ordinate e ben tenute, i suoi servi sono educati, la sua vita è trasparente, paga i propri debiti, evita i litigi e le discussioni. Non può assolutamente esser giusto chi ama le risse, le coltellate, le fazioni e i tumulti. Non può esser giusto chi non si contenta della propria condizione, ma cerca di accrescere la propria reputazione e arricchire il proprio casato con tutti i mezzi, con l’inganno o con la forza o con il favore dei potenti. Non può essere giusto chi non si impegni a fondo per conseguire virtuosamente prestigio e sostanze. Non può essere giusto chi, avendo meriti e capacità, trascura di chiedere adeguata ricompensa e riconoscimento. Chi si comporta così, infatti, danneggia sé stesso e i suoi, oscura la virtù e compromette lo Stato: domandare il giusto premio è conforme alla legge divina e alla morale filosofica. Non ci si lasci ingannare stoltamente dagli sprovveduti che, simulando una falsa umiltà, chiamano ambizione ciò che io raccomando. Ambiziosi sono coloro che, incapaci, insufficienti, privi di virtù o meriti propri, per puro favoritismo, violenza, frode o arti illecite vogliono avere prestigio e vantaggi materiali. Ma chi desidera ricevere beni e riconoscimento sulla base della propria abilità, virtù e continui sudori merita di chiamarsi giusto, magnanimo e generoso; e se eventualmente non chiedesse il riconoscimento che spetta alla sua virtù, sarebbe ingiusto, meschino e pusillanime. Torno in argomento. Chi avesse la casa disordinata e mal tenuta, servi maleducati e rissosi, si pavoneggiasse con fatiche altrui, facesse imbrogli, fosse amico di contese e rivolte, omicida, crudele, ingrato, non potrebbe esser giusto. La dodicesima qualità che indica che l’anima del consigliere è all’altezza dei propri compiti è che sia generoso e liberale, perché al popolo piace molto la generosità, la ama e addirittura la adora. L’avaro è sempre impopolare e, per soddisfare la propria sete di denaro, fa tutto a fini di lucro, non dice nulla se non ci guadagna, e lascia le porte aperte a qualsiasi tradimento, purché lo possa commettere senza rischio. Inoltre, come membro del Consiglio, fa confiscare i beni degli altri, che ci sia o no motivo per farlo, e ciò produce in un principato grandi difficoltà e conseguenze negative. Chi è invece prodigo e spendaccione non tarda a dilapidare le proprie facoltà e una volta impoverito commette una quantità di atti poco convenienti che lo rendono spregevole e producono conseguenze non meno negative di quelle dell’avarizia.

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Bisogna, perciò, che il consigliere sia schietto e liberale perché sia capace di trovare il giusto mezzo fra questi due estremi. Voglio che il principe sia in grado di riscontrare personalmente se il suo consigliere possiede questa qualità. Si possono adottare questi criteri: la persona generosa aiuta a sposare le donne oneste, soccorre i poveri, redime i prigionieri, paga i debiti degli amici (se sono onesti) e con la propria generosità favorisce in tutto e per tutto le persone di valore, che si sa (o ci si aspetta) che servono o serviranno al bene pubblico. Il prodigo lo si riconosce per i suoi eccessi nei banchetti, nelle vesti, nelle giostre, nei tornei, nelle danze, nei balli, nelle cacce, per i regali che fa ai ciurmadori e a quelli che raccontano barzellette volgari, perché mantiene garzoni inutili, o altre cose di questo genere, esagerate, inopportune e fuori luogo. L’avaro si riconosce per le sue meschine economie nel mangiare, bere, vestire e abitare; coglie al volo ogni minima possibilità di guadagno, si dedica a fare il suo più che al servizio del principe, sempre chiede e consegna memoriali per sé e per i suoi; presenta richieste nel momento sbagliato e ciò stanca molto il principe ed è un gravissimo errore, perché chi amministra un principato non dovrebbe pensare mai al proprio particulare, bensì agli interessi e alla gloria del proprio principe. E d’altra parte il principe, per mantenere il Consiglio sulla retta via, leale e diligente, dovrebbe preoccuparsi di onorare, arricchire e innalzare i propri consiglieri con cariche, proprietà e privilegi, poiché in questo modo i loro desideri saranno soddisfatti e si daranno da fare per mantenere il potere del principe per conservare il loro stesso potere, che sarebbe nulla senza quello di lui. La tredicesima qualità che indica che l’anima del consigliere è adeguata alle sue responsabilità è che sia benefico, cioè che gli piaccia fare il bene. Questa virtù è quella che in latino si chiama “beneficenza”: non si tratta di elargire denaro o altri beni materiali (ciò spetta piuttosto alla generosità) bensì di aiutare la società (dico l’interesse comune) e tutti i suoi membri particolari consigliando, ammonendo, lodando, vituperando, criticando, consolando, sforzando, procurando e favorendo con la loro autorità e responsabilità di protettori non solo chi chiede loro favori e aiuto, ma tutti quelli che se lo meritano senza chiederlo. Sicché l’uomo benefico, vedendo che bisogna fare o rifare i cammini reali, le fonti, i fiumi, i ponti ed altre opere pubbliche, si impegna a fondo per stimolare il principe e tutti i suoi funzionari a provvedervi e, inoltre, ad abbattere o restaurare tutto ciò che si trova in cattivo stato. La persona benefica dà la mano e risolleva i caduti, fa camminare quelli che ha risollevato, fa correre quelli che camminavano e fa riposare piacevolmente quelli che correvano. Inoltre, stando nella corte di un principe, anima i virtuosi, li

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presenta al sovrano, fa in modo che lo omaggino, procura loro onesto intrattenimento e aiuta in tutti i modi quelli che cercano di far carriera onestamente e basandosi sui propri soli meriti, rintuzzando invece chi ci prova per vie traverse. Ferma la mano dei giudici disonesti e si dà da fare perché si promulghino buone leggi e si eseguano quelle che già lo sono. Infine, il “filantropo” è protettore della giustizia, difensore del popolo, bastione della nobiltà, regola del Consiglio, padre della patria, onore del principe e quasi un essere divino sulla terra. Infatti per far male ci vuole poco, ma per fare del bene ci vuole una virtù simile a quella di Dio. Concludo pertanto che il consigliere deve possedere la virtù della filantropia o beneficenza e che il principe deve saperla riconoscere in lui: non mi soffermo sui segni che permettono di identificarla, perché dovrebbero risultare ovvi dal contesto della precedente esposizione. La quattordicesima qualità che dimostra l’adeguata preparazione morale e psicologica del consigliere è che sia mansueto e affabile. Infatti chi possiede queste qualità dà udienza a ricchi e poveri, umili e potenti, li riceve con un atteggiamento aperto e cordiale, ascolta attentamente le loro ragioni, risponde con amabilità, le sue promesse contano, dice di no e toglie senza asprezza, riprende senza ingiuriare, congeda in maniera rispettosa e senza prepotenza. Ne consegue che quelli che ricevono qualche favore dal suo principe lo lodano e magnificano mille volte più del giusto; e chi non ottiene ciò che desiderava si accontenta, almeno in parte, della soddisfazione che gli procura l’umanità e la mancanza di arroganza del consigliere, il suo atteggiamento aperto e cordiale, i suoi discorsi soavi, cose queste che commuovono una persona generosa più di tutti i benefici materiali. Al contrario, leggiamo e vediamo tutti i giorni che molta gente è stata indotta a perdere la vita e i beni più da una leggera mancanza di considerazione che da mille offese di altro tipo. Il consigliere deve aprire le proprie porte di giorno e di notte a ogni tipo di persone; bisogna che ascolti tutto senza perdere la pazienza e che non induca nessuno alla disperazione; deve dare animo a tutti e non lo potrà fare se non è affabile e per questo non deve esser privo di questa virtù. Voglio che il principe verifichi personalmente se il consigliere possiede questa qualità. I segni possono essere questi: la persona amabile è allegra, padrona di sé, non è trascurata, si controlla, cura il proprio abbigliamento, conversa volentieri, non è faziosa, parla con tutti, comunica con tutti, non insulta nessuno, potrebbe spaccare la faccia a uno prima di dirgli un’ingiuria; gli piacciono le battute intelligenti e spiritose, ama la franchezza nei limiti del rispetto, detesta tutte le forme di ipocrisia. La persona irosa o collerica non potrà mai essere affabile; è bilioso, scontento, tutto gli fa problema, non dà mai udienza, ascolta e parla poco e

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acidamente, fa perdere la pazienza a un santo, rovina gli affari di Stato e crea ostilità fra il principe e i sudditi. Gli stessi danni li produce la persona superba. Per questo dico che costoro sono inadatti per natura a far parte del consiglio. La quindicesima e ultima qualità che dimostra l’adeguatezza dell’anima del consigliere è che sia forte. Non parlo di forza fisica, ma di quell’energia morale che rende le persone eroiche, cioè sovrumane; la forza fisica, infatti, ce l’hanno anche quelli che vivono d’espedienti e quelli che vendono la loro persona per quattro reali. La forza di cui parlo è propria degli amici della verità, sanno riconoscerla e battersi per lei senza guardare in faccia a nessuno disprezzando ciò che per i più è il supremo valore: godere o non godere del favore del principe, essere ricco o povero, comandare o obbedire, faticare o passarsela bene, vivere o morire, e che accettano la fortuna e la disgrazia con la stessa serenità. La peggior sventura, a corte e nei palazzi dei principi, è che la verità si dice di rado o si dice così abbellita e cammuffata che diventa difficile riconoscerla; l’atmosfera è ovattata e ipocrita; a questo riguardo è verissimo il detto di un filosofo: “I principi sanno far bene una cosa sola, tutto il resto no; questa cosa è andare a cavallo, perché il cavallo non sa adulare e sbalza di sella il re come chiunque altro” 3. Con questa battuta fece capire quanto poco i re riescono a udire affermazioni sincere a causa dell’adulazione. Pertanto il consigliere energico non solo dirà la verità al principe, ma darà una lezione a quelli che si sforzano di corromperlo con lusinghiere menzogne o con lusinghe menzognere. In qualsiasi circostanza, che perda i propri beni, città, province, mogli, figli, onore o qualsiasi altra cosa, il forte mantiene il controllo, non si turba, è signore della propria ragione, e pertanto può provvedere anche nell’ora della sventura a tutto ciò che il servizio del principe richiede, udire, parlare, rispondere, comandare, animare, incoraggiare il principe ed il popolo tutto. È anche chiaro che una persona così non si corromperà e non si allontanerà dalla ragione e dalla lealtà al principe né per oro, né per amicizia, né per obbligazione con altri, né per preghiere, né per minacce o qualsiasi altro interesse terreno.

3 Cfr. Erasmo, Institutio principis christiani in Desiderii Erasmi Roterodami Opera Omnia, Amsterdam, North Holland Publishing Company, 1969-, IV/1, p. 176: «Atque utinam saltem apud Christianos minus verum esset illud Carneadis apophthegma, qui negavit quicquam recte disci a regum filiis praeter artem equitandi, quod caeteris in rebus omnibus omnes obsecundent et assententur. At unus equus quoniam haud intelligit patricius insideat an plebeius, dives an pauper, princeps an privatus, tergo excutit, quicumque parum scite insederit»; Plutarco, Moralia, 58 f.

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Voglio che il principe riconosca questa qualità nel proprio consigliere per esperienza. Il criterio è questo: la persona forte ama la sincerità, odia profondamente l’adulazione, non si lega con gli impostori, è severo, equilibrato e costante, nemico dei pettegoli e dei calunniatori, franco, remoto dalla superstizione; non è trasognato né estatico, le sue parole contano, dice la sua al principe come a chiunque altro e non sa dissimulare. I principi devono stare molto attenti a non scegliere come consigliere una persona che mostrasse inclinazione per gli ipocriti e gli adulatori e neppure un dissimulatore o uno che nasconde la verità. Non scelgano neppure chi ama troppo il denaro, poiché costui non venderà solo la propria libertà, ma anche quella degli altri. Evitino di nominare uno che piange e si dispera eccessivamente per aver perso i propri beni o la moglie o un figlio, perché costui non è forte, è una donnicciola senza carattere e non possiede la stoffa del consigliere. Qui si concludono le quindici qualità che permettono di esaminare se il consigliere è adatto all’ufficio dal punto di vista morale, psicologico e intellettuale. Ovviamente chi possiede tutte e quindici le qualità è più che idoneo e chi ne possiede un numero maggiore o minore è più o meno qualificato per l’incarico. È chiaro anche che chi riunisse tutte le quindici qualità avrebbe un’ottima base per capire e farsi capire, fare il bene ed evitare il male, trattare sempre gli affari pubblici con fermezza e energia. Una persona del genere, infatti, sarebbe di necessità prudente, buono e forte. La persona buona non inganna, la persona prudente non si fa ingannare e il forte vince e supera tutte le difficoltà. Un consigliere così è adorato dal popolo poiché non c’è nulla che piaccia più della generosità, della beneficenza, dell’affabilità e della buona fama. Gode, inoltre, di un grande credito e si dà fede a tutto quanto fa o dice. Infatti abbiamo fiducia e affidiamo tutti i nostri beni e la nostra buona reputazione a quanti vediamo pienamente competenti, onesti e giusti. Un consigliere che possieda queste qualità, secondo il giudizio comune, è considerato persona che merita magnifici e straordinari onori e riconoscimenti pubblici. Consideriamo infatti una cosa divina il grande ingegno, che ha appreso e conosciuto tutte le importantissime scienze e discipline di cui ho parlato, che non stima affatto le cose di questa vita e disprezza ciò in cui gli altri uomini fanno consistere la loro felicità. Pertanto un consigliere con queste caratteristiche, chiunque sia e da qualunque famiglia discenda, è davvero nobile, onorevole, illustrissimo, eccellentissimo, assai grande e potente, serenissimo e può dirsi alla pari con i maggiori principi e sovrani.

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CAPITOLO III SULLE QUALITÀ FISICHE DEL CONSIGLIERE

La natura e il valore di un essere umano, ma anche di qualsiasi altra cosa, si conosce in qualità o quantità o per esperienza o per congettura. La via dell’esperienza è la migliore, la più certa e la più necessaria e pertanto deve avere sempre la priorità. La congettura è come una guida o segnale che può a volte (ma non spesso) indurre in errore. Non perciò deve essere svalutata: semplicemente, viene in secondo luogo come cosa meno certa e si ricorre prima all’esperienza e poi a lei. Conforme a questa dottrina, per illustrare la preparazione di un uomo che già sia o debba esser nominato consigliere ho preso le mosse dall’esperienza che consiste nelle parole e fatti di ciascuno; e queste due cose le ho chiamate buona disposizione e adeguatezza dell’anima perché sono inerenti all’anima e non si possono né devono esser concepite al di fuori di quella. Come si è visto, nel libro precedente ho descritto tale buona disposizione analizzando quindici qualità. Ora resta da trattare la congettura, cioè esaminare se il consigliere possiede una costituzione fisica adeguata al suo incarico basandoci su certe qualità e segni esteriori. Ciò costituisce la seconda parte dell’esposizione il cui piano avevo tracciato al principio del capitolo anteriore. Non avrebbe senso che indugiassi a mostrare l’importanza e le conseguenze dei segni fisici, che effetti possano produrre, dove si manifestino e altre questioni che si potrebbero enunciare al riguardo. In questa sede è sufficiente sapere che come ci sono segni per riconoscere se un prato è sterile o fecondo e se un cavallo è buono o cattivo, allo stesso modo gli esseri umani possiedono certe qualità, accidenti o segnali nel proprio corpo che rivelano la disposizione della loro anima, se è capace o no ed in che misura. Stabiliti questi principi, senza diffondermi oltre, passo a illustrare l’adeguata costituzione fisica del consigliere.

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La prima qualità che dimostra l’idoneità fisica del consigliere è che non abbia meno di trent’anni né più di sessanta, perché sotto i trenta l’intelletto non ha ancora trovato assetto ed equilibrio, l’esperienza è poca, grande la presunzione, la testa è calda, le aspirazioni eccessive, le debolezze troppe, non si può mantenere il contegno che ci vorrebbe e la gente non dà fiducia, anzi mormora. Quando invece si sono superati i sessant’anni si perde la memoria, s’indebolisce l’intelligenza, l’esperienza diventa ostinazione, le occasioni si sciupano per freddezza e indifferenza, i pensieri sono meschini, i corpi logori e si muovono senza scioltezza: insomma, gli anziani sono un peso e un fastidio per la corte. Certo, non ignoro che ogni regola generale ha le sue eccezioni e che ci sono giovani sotto i trenta e vecchi sopra i sessanta che possono essere più che validi come consiglieri; ma sono casi rari e io mi attengo alla media. Credo perciò che sia opportuno nominare consiglieri di età compresa fra i trenta e i sessant’anni che potranno rimanere in carica per trent’anni, se non si presenta qualche inconveniente. Costoro, così come stanno quasi a metà fra l’estrema giovinezza e l’età decrepita, presentano anche il miglior temperamento umorale. Sono calmi, sperimentati, di buona memoria, sono svegli e dotati, sanno parlare, non sono frigidi, ma neppure si accalorano troppo, sono ragionevoli, hanno ben poche debolezze, sono dignitosi, sanno agire con la dovuta rapidità; la gente li rispetta ed ha fiducia in loro. Pertanto il principe sceglierà i propri consiglieri all’interno di questa fascia d’età. I giovani sotto i trent’anni pensino a studiare, a viaggiare, a conoscere costumi e forme di governo, imparino le lingue, partecipino a campagne militari e a spostamenti della corte e, insomma, si sforzino di apprendere tutta la materia trattata nel secondo capitolo di questa mia opera. Chi ha più di sessant’anni torni alla propria casa, viva, riposi, sgravi la propria coscienza, pensi a morir bene, godendo gli onori, i privilegi, le preminenze e le rendite che il principe ha concesso loro secondo i meriti, come si conviene a quelli che i Romani chiamavano “emeriti”. La seconda qualità che rivela l’adeguata disposizione fisica del consigliere è la sua complessione. Certi temperamenti, infatti, possiedono per natura abilità, capacità e grazia, mentre altri sono privi di abilità, incapaci e oscuri. Questi ultimi, per quanto si sforzino notte e giorno di migliorare la propria natura con l’arte e con l’impegno, finiscono sempre per mostrare le toppe e ricadere in quello che sono. Ai capaci di cui parlavamo prima basta invece un po’ di arte e di impegno per ottenere quello che vogliono e perfezionarsi sempre più. Pertanto ritengo che il buon consigliere debba essere sanguigno o collerico, mai malinconico o flemmatico. I sanguigni e i collerici, infatti, sono ingegnosi, hanno buona memoria, buon giudizio e sanno parlare, sono natu-

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ralmente giusti, calorosi, affabili, leali, benefici, generosi, magnanimi ed energici e, per quanto riguarda il fisico, agili, sciolti, sani e di buona costituzione. Il modo di riconoscere le persone siffatte si può intendere da ciò che ho appena detto, tanto più che, essendo cosa assai facile ed avendo il principe buoni medici a sua disposizione, potrà chiedere il loro parere quando si tratta di scegliere il consigliere. Il principe dovrà fare molta attenzione a non scegliere per il proprio consiglio una persona di temperamento malinconico o flemmatico, poiché costoro sono naturalmente poco idonei a qualsiasi mansione politica e soprattutto ad essere consiglieri. Infatti il malinconico, essendo di natura fredda e secca, è terrestre, cioè della stessa complessione della terra. Di conseguenza è basso e meschino, appena si alza due dita dal suolo, è ottuso, triste, taccagno, vanitoso, nemico dei nobili pensieri, malizioso, velenoso, superstizioso, tanto che le persone di questo temperamento hanno rovinato e distrutto tutte le religioni del mondo con i loro sogni e le loro insulse immaginazioni. È, inoltre, estremamente sospettoso, quanto più invecchia meno sa, è l’invidia personificata e, se lo si contraria, o viene alle mani senza motivo, o va su tutte le furie vomitando insulti su insulti. Infine i malinconici sono sottoposti al pianeta Saturno e fa veramente paura l’antipatia di tutti i filosofi ed astrologi per i saturnini, tanto che si ritiene certo che il grande Apollonio di Tiana nella città di Efeso trovò un malinconico che con la sua sola presenza aveva corrotto tutta la città, causando una grande pestilenza 1. Il flemmatico è stolido, lento, semplicione, inetto e non possiede nessuna dote particolare, riesce mediocre in tutto. La terza qualità che mostra la buona costituzione fisica del consigliere sono le sue dimensioni: dev’essere di statura intermedia, né grasso né magro, perché da questo punto di vista ogni eccesso sembra male e toglie autorità. Infatti tutti i filosofi e gli astrologi pensano con buone ragioni che una persona troppo grande non ha una buona costituzione; concludono pure di comune accordo che è raro che una persona troppo alta sia saggia e prudente, soprattutto se fosse molto magro ed avesse il collo lungo: una persona così, infatti, non esitano a chiamarla inadatta e poco dotata e considerano verissimo il proverbio “grande, grosso e scemo”. Una persona troppo piccola non è così inetta a governare come una troppo grande, ma tende a essere collerica e presuntuosa e il popolo se ne fa beffe e la stima poco. Questa tendenza a burlarsi dei

1 Cfr. Filostrato, Vita di Apolonio di Tiana IV 10, in Philostrati Lemnii senioris Historiae de vita Apolloni libri VIII, Alemanno Rhinuccino florentino interprete, Coloniae 1532, pp. 154-155.

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piccoli è del tutto naturale e non si può reprimere e perciò il principe, nella misura del possibile, deve evitare di nominare consiglieri persone di bassa statura. Per la stessa ragione si deve scartare chi è troppo grasso e chi è troppo magro, perché è impossibile non morire dalle risa quando si vedono un barile o un’acciuga di quelle che si mangiano in Quaresima, per non parlare di altri inconvenienti che causa una costituzione troppo grassa o magra, che rende incapaci di governare le persone che la posseggono. Pertanto il consigliere dev’essere di statura intermedia, né grasso né magro. La quarta qualità che dimostra la buona disposizione fisica del consigliere è la proporzione naturale, simmetria e corrispondenza fra le sue membra, senza eccesso né difetto; infatti ogni sproporzione è un indizio di un’anima non buona e offende la vista di chi la osserva. La buona proporzione in tutte le parti del corpo è una simmetria ordinaria secondo la quale la testa non è né più grande né più piccola di ciò che esige il corpo di cui fa parte. Alle altre membra si applica lo stesso criterio. La sproporzione significa invece il contrario, vale a dire, un braccio più lungo dell’altro, una mano piccola ed una grande, una spalla alta e l’altra bassa; e lo stesso vale per le altre parti del corpo. L’integrità delle membra implica che non abbia alcun difetto dalla nascita, cioè che non sia orbo, gobbuto, zoppo, privo di un braccio, di una gamba o di un piede o con qualche altra deformazione per eccesso o per mancanza. Infatti, come provano tutti i fisiologi ed in particolare Ippocrate e Galeno, coloro che nascono così (non dico quelli che lo diventano dopo per qualche disgrazia) hanno sempre diecimila difetti morali e intellettuali e conducono una vita non buona; perciò dicono che Aristotele ripeteva continuamente questa massima: “Dio mi liberi da un uomo marcato dalla natura” 2. Per tutte queste ragioni e soprattutto perché le persone con questi difetti il più delle volte vengono detestati, sono del parere che chi non possedesse questo quarto requisito non potrebbe essere considerato idoneo come membro del consiglio. La quinta e ultima qualità che dimostra la buona preparazione del consigliere dal punto di vista fisico è che abbia un volto gradevole, perché chi possiede tale qualità per questo solo è amato, rispettato e acquisisce autorità. 2

Cfr. Jean de Hayn (Indagine), Chiromantia. Physonomia ex aspectu membrorum hominis. Periaxiomata de faciem signorum. Canones astrologici, Argentorati 1534, p. 68: «De signatis illud nullibi non celebratissimum est, quod Aristoteli tribuunt: cavendum esse ab his quos natura signavit». La frase proviene dal trattato pseudo-aristotelico Secretum secretorum.

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Pertanto occorre che il consigliere abbia la testa né troppo grande né troppo piccola, rotonda e non a punta. Il contorno del viso dev’essere ovale, non tondo, non troppo piccolo, ma neppure eccessivamente carnoso. La fronte dev’essere grande o media, non piccola né angusta. Gli occhi di media grandezza, chiari, vivi e sereni; non troppo grandi, né troppo piccoli, né torbidi, né pesanti, né inquieti. Il naso dev’essere lungo e fine, non corto, né troppo grande né all’insù. Le labbra grandette, ma non troppo piccole o troppo spesse e men che meno flaccide e pendenti all’ingiù. Insomma, il consigliere deve avere un aspetto piacevole e presentarsi bene. Con ciò pongo fine alla descrizione delle qualità e dei segni che rivelano la buona costituzione fisica del consigliere e la sua idoneità all’incarico. Penso, anzi sono sicuro, che non mancheranno critiche per essere stato troppo dettagliato e prolisso nell’occuparmi anche di piccolezze. Rispondo affermando che chi si propone una trattazione esauriente e sistematica deve esaminare tutti i temi senza alcuna omissione. Non solo: queste cosiddette “piccolezze” sono indissolubilmente congiunte alle cose di riconosciuta importanza. Ci si ricordi che per comprare una casa non prendiamo in considerazione solo le fondamenta e le pareti, ma anche le stalle e altri luoghi che è sconveniente menzionare; quanto più siamo tenuti a considerare tutte le qualità e le caratteristiche di chi è destinato a governare province e regni? Per comprare un cavallo che vale dieci, cinquanta, cento o duecento ducati, cosa non andiamo a vedere? Il pelo, la criniera, la coda, il sottocoda, le ossa, la mandibola, la consistenza della carne, la postura, l’eleganza, il passo, il galoppo, la posizione di sosta, il modo di mangiare e di bere; il principe in persona gli palpa la groppa e gli apre la bocca con le sue stesse mani solo per vedergli i denti. Se è vero tutto questo, perché chiamiamo minuzzerie o dettagli superflui ciò che ci insegna a riconoscere la perfezione di una persona destinata a tenere nelle proprie mani i beni, l’onore, la vita e la morte di tutto un principato?

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CAPITOLO IV SULLA SCELTA DEL CONSIGLIERE

Due cose solamente (come ho detto al principio del secondo capitolo) sono quelle che è necessario sapere a proposito del consigliere. Una è la sua adeguata preparazione, di cui ho trattato nei due capitoli precedenti. Ora bisogna trattare della scelta, che compete al principe. Ciò equivale a far capire al principe come deve comportarsi ogniqualvolta desidera nominare un consigliere. Comincio affermando che il principe deve riflettere in primo luogo che dalla scelta dei consiglieri dipendono l’onore e il benessere oppure il disonore e la catastrofe sua e del suo popolo. Per non estendere all’infinito questa trattazione mi limiterò ad esporre solamente qualcuna delle ragioni che giustificano questa mia affermazione. Notiamo anzitutto che il primo giudizio che si suole fare sulla capacità di governo di un principe coincide con la stima in cui sono tenuti i suoi consiglieri: quando sono saggi e capaci anche il principe è considerato saggio perché ha saputo sceglierli bene e poi mantenerseli fedeli e leali. Ma quando non lo sono non ci si può aspettare che il principe sia stimato e apprezzato, perché ha commesso un errore di capitale importanza e da ciò si desume che sbaglierà in tutto. Perché come corrompendo la scaturigine di una fonte tutta l’acqua si perde, così pure quando il Consiglio, che è cosa santa, si corrompe tutta la politica va male. Notiamo perciò che il popolo all’unisono, quando vuole elogiare un principe, dice che ha dei consiglieri veramente saggi; se poi fra loro c’è qualcuno particolarmente abile, la voce pubblica proclama i suoi meriti ed il popolo si sente estremamente soddisfatto. Nel caso contrario tutti mormorano e sono scontenti. Se si comincia una guerra, si dice: “Non abbiamo consiglieri validi, mentre il tale re ha i tali uomini”. Quando si tratta di stipulare accordi di pace o di altro genere l’opinione pubblica mormora e si

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impensierisce dicendo: “Saremo noi quelli che ne usciremo ingannati ed a condizioni svantaggiose, perché non abbiamo un buon Consiglio”. Non c’è dubbio: tutto dipende dall’energia e dalla virtù del buon Consiglio. Se ne rendeva perfettamente conto Davide che nella guerra che ebbe con Assalonne pregava Dio che si degnasse di accecare il principale consigliere di Assalonne perché temeva più i buoni consigli di Achitofel (così si chiamava) che tutta la potenza militare del nemico 1. Se il principe ha un buon Consiglio, anche se commette errori nessuno se ne accorge; e se il Consiglio non è buono, quando vediamo eccellenti risultati politici non crediamo ai nostri occhi o pensiamo che è prodotto del caso o della negligenza degli avversari, che li abbiamo trovati belli e fatti e non che li abbiamo causati noi. Di conseguenza, avere buoni consiglieri assicura al principe successo nelle imprese ed inoltre gli dà fama e buona reputazione fra i suoi e con gli stranieri; i suoi, per questa ragione, lo amano e gli obbediscono, gli stranieri lo rispettano; e tutti concordano nel tributargli grandi elogi. Sia questa dunque la prima considerazione del principe al momento della scelta del consigliere: riflettere a fondo su tutto ciò che ho detto finora. La seconda raccomandazione è che il principe tenga sempre presente che un consigliere come quello che ho descritto gli è più necessario del pane che mangia; ciò perché abbia la possibilità di ascoltare il vero. Infatti i principi non possono udire la pura verità senza abbellimenti di nessun genere per il gran numero di adulatori che li circondano da ogni parte. Ma, se si dice la verità, il principe corre il rischio di perdere la sua reputazione e autorità ed essere tenuto in poco conto, se chiunque si azzarda a parlargli con franchezza. Non è bene, infatti, che il primo venuto possa dirgli il vero. Perciò è necessario che abbia consiglieri con le caratteristiche che ho descritto nei capitoli precedenti perché sappiano capire come stanno le cose, ma anche parlare a tempo e luogo. A costoro il principe deve raccomandare che facciano sempre il loro dovere. Questo è un ottimo metodo per conoscere la verità e riconoscere l’adulazione senza farsene ingannare. Si può cercare quanto si vuole, non si troverà un metodo migliore. La terza raccomandazione è che un principe la cui autorità si estende su molte e diverse province deve scegliere consiglieri di tutte e non solo di una o due. Illustreremo questo punto con un esempio: per non andare a cercare lontano, sarà quello del re di Spagna. Costui possiede, fra l’altro, le corone di

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Cfr. 2 Sam., 15, 31.

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Aragona, Castiglia, Sicilia, Napoli, Milano e dei Paesi Bassi che appartenevano alla casa di Borgogna. Affermo e raccomando che i consiglieri di questo principe non devono essere solo aragonesi e castigliani, ma anche siciliani, napoletani, milanesi e borgognoni. Poiché questo esempio è sufficiente a elucidare il senso della mia raccomandazione, lasciamo stare il re di Spagna e parliamo del principe in generale. Affermo che è necessario che il principe si attenga a questo precetto se vuole assicurare il buon governo e soddisfare i popoli soggetti: se si segue la politica opposta, si scatena una crisi generale. Infatti la popolazione si risente al vedersi trascurata dall’amministrazione centrale e, poiché gli abitanti delle regioni periferiche non vedono nel Consiglio alcun rappresentante del proprio paese, pensano (e non a torto) che il principe non li tiene in considerazione o che li considera degli schiavi o non si fida di loro. La prima eventualità genera odio, la seconda incoraggia il desiderio di liberazione, inducendo a cospirare e chiamare principi stranieri, la terza conferisce il coraggio e l’ostinazione per tradire il proprio principe naturale. È evidente che tutti noi conosciamo meglio i costumi, le inclinazioni, i desideri, le virtù, i vizi, le famiglie, i meriti, i demeriti, i vantaggi e gli svantaggi del paese in cui siamo nati e cresciuti che quelli dei paesi stranieri; perciò, se il principe ha consiglieri di tutte le sue province (cioè che vi siano nati), potrà provvedere nel modo migliore a tutte le necessità. È pure cosa naturale che noi uomini amiamo più i nostri concittadini che gli estranei; perché con i nostri compatrioti c’è sempre una corrispondenza e obbligazione per via di sangue, alleanza, amicizia, servizi, grazie, vicinato; e fra persone perbene nascere e ricevere la propria educazione sotto le stesse leggi è una garanzia sufficiente. Con gli estranei manca tutto questo. Constatiamo inoltre che nel Consiglio e fuori dal Consiglio gli affari di quelli che sono nati nello stesso paese si trattano meglio e più rapidamente di quelli degli stranieri. Questi ultimi devono sudar sangue per ottenere qualcosa, spingere in continuazione e pagare in contanti come i buoni commercianti. Com’è disgraziata la provincia che non ha in Consiglio un proprio figlio! Il principe che si obbliga ad avere consiglieri tutti dello stesso paese o che predilige questa soluzione, secondo me, non è affatto imparziale e incoraggia la costituzione di partiti e fazioni; perché se una sola regione riceve tutti gli onori e i favori, è inevitabile che si insuperbisca. Le altre, che non la possono soffrire, invidiano, imprecano, calunniano, si risentono, provocano litigi e vengono alle mani. Ogni provincia ha le sue virtù e i suoi difetti, comprende persone buone e cattive, colte e incolte, intelligenti e stupide, capaci e incapaci, leali e sleali: quanto affermo è fuori discussione, chi ha orecchi intenda, io so bene quello che dico. Il principe per diritto è persona pubblica: non adotti senza alcuna giustificazione comportamenti particolaristici. È per natura cittadino di tutte le sue province e di tutti i suoi ter-

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ritori: non diventi straniero di sua propria volontà. È il padre di tutti: non c’è motivo che si comporti ingiustificatamente da patrigno nei confronti di qualcuno. Concludo pertanto che, poiché il Consiglio è fatto per governare tutte le province del principe, occorre nominare consiglieri che provengano da tutte le province. La quarta raccomandazione è che, quando bisogna nominare un consigliere, il principe non può accontentarsi di quelli che frequentano il suo palazzo e la sua corte, né di quelli che conosce di udito o di vista, anche se sono buoni e prudenti: ma deve informarsi accuratamente in tutti i modi riguardo al maggior numero possibile di candidati ed in particolare deve dar ordine ai suoi luogotenenti in ciascuna provincia di cercare diligentemente all’interno della propria giurisdizione le persone più capaci e idonee all’ufficio di consigliere e che gli mandino tre o quattro nomi in una lista. Una volta esaminata la lista, potrà convocare quelli che vuole, per lo meno quelli che non fossero conosciuti a corte. Verranno loro provvisti viatici ragionevoli e si metteranno in marcia sapendo solo che il re desidera conoscerli. In questo mio memoriale non posso descrivere che una minima parte del vantaggio straordinario che potrebbe assicurare mettere in pratica questo consiglio. Basti sapere che è più facile scegliere una persona eccezionalmente valida fra molti buoni che fra pochi. Fra pochi c’è poco da scegliere. La popolazione si rallegrerà ed avrà caro il proprio principe vedendo che, come autentico padre, di tutti si ricorda e a tutti vuole porgere aiuto. Le persone nobili e distinte, i potenti e gli umili si daranno da fare notte e giorno per imparare le tecniche di governo e mantenere la propria reputazione sociale, senza ostentazione, e a questo fine schiveranno i vizi, si comporteranno virtuosamente, eviteranno scandali per poter essere nominati come candidati al Consiglio. Inoltre il principe potrà conoscere il valore delle persone di cui può disporre nelle sue province e così in qualsiasi situazione difficile o pericolosa, di fronte a qualsiasi problema o decisione da prendere saprà a chi rivolgersi. Fra i tanti che saranno convocati o nominati in vista dell’elezione ovviamente si sceglieranno soltanto uno o due (o di più o di meno secondo la necessità del Consiglio o Consigli); con tutti gli altri il principe si mostrerà affabile e riconoscente, loderà la loro vita esemplare, li animerà a continuare sulla buona via dando loro buone speranze: agli uni conferirà incarichi, agli altri elargirà ricchezze, altri sovvenzionerà, ad altri offrirà una dimora a palazzo, alcuni verranno invitati a fermarsi a corte, altri verranno rispediti a casa; il principe si comporterà saggiamente e oculatamente con ciascuno secondo il suo merito ed autorità. Così tutti saranno soddisfatti e si sarà provveduto bene al Consiglio.

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La quinta raccomandazione è che il principe non si dia troppa premura di nominare il consigliere, ma che proceda lentamente concedendosi il tempo di prendere molte informazioni sulla preparazione e idoneità dei candidati. Stabilirà un periodo adeguato durante il quale chiunque avrà diritto di accusare oralmente o per iscritto e di enunciare senza ambagi gli eventuali difetti o macchie di ciascuno di coloro che sono stati inseriti nella lista. A questo scopo concederà una serie di garanzie e darà il permesso di criticare a chi desiderasse farlo, ma in modo tale da sbarrare la porta a insinuazioni maliziose e false testimonianze; per ottenere questo risultato sarà necessario applicare con gran rigore la cosiddetta pena del taglione ed anche far pesare l’indignazione del principe sui possibili calunniatori. Si provvederà anche, minacciando pene severe, che nessuno dei candidati possa bloccare o far bloccare i memoriali e le accuse che venissero redatti o formulati contro di loro in tali circostanze. Questo metodo permetterà di conoscere meglio i candidati con tutte le loro qualità, impedire che si diffondano false informazioni, incoraggiare ancor più i virtuosi e capaci ad offrirsi per il servizio del principe e distogliere invece gli incapaci e i malvagi dalla tentazione di presentarsi per il rischio di perdere ogni credibilità. Questo stesso criterio si applicava all’elezione dei magistrati nella repubblica romana e, finché si rispettò rigorosamente e senza eccezioni, quello Stato fu prospero; il giorno in cui cadde in desuetudine, cominciò una decadenza che lo fece scomparire. La sesta raccomandazione è che il principe ascolti attentamente e senza risentirsi tutte le informazioni e accuse che gli si presentassero a favore e contro i candidati, ma che non creda a nessuno, riservandosi invece di esaminare e provare tutto di persona. Se si tratta di accuse infamanti, consideri che possono essere vere o false. Rifletta che ci sono persone malvage, maliziose, invidiose, ignoranti, sciocche, prevenute che possono muovere false accuse. E non si inganni pensando che glielo ha detto un duca, un vescovo, un dotto prelato, un padre santo, o Tizio, o Caio, perché dietro la croce può esserci il diavolo: voglio dire che tutti siamo esseri umani e possiamo ingannare ed essere ingannati. Pertanto non creda e neppure rinunci senz’altro a credere, ma affidi il caso, se occorre, alla giusta indagine e giudizio del suo tribunale. Se invece si tratta di una testimonianza a favore del candidato, come quando si garantisce che è idoneo a un determinato incarico, anche in questo caso deve sospendere il giudizio finché non ha esaminato la questione, come chiarirò in seguito. Non mi sembra neppure bene che dica il principe: “Questo tal cardinale, questo tal marchese, questo tal cavaliere, questo tal religioso buono e santo mi ha dato questa informazione”. Poiché tutti siamo uomini, ci inganniamo ed abbiamo l’abitudine di ingannare gli altri. Creda il principe e tenga

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per certo che tutti quelli che gli danno simili informazioni, buone o cattive che siano, si muovono in favore dei propri interessi e della propria utilità, le quali, anche se non si manifestano chiaramente, purtuttavia si nascondono con certezza dietro il pretesto del servizio del principe. Sono infine come pillole dorate: da fuori non si vede l’amaro. Limitarsi a credere ciò che si può verificare non è mai stato considerato saggio. Desidero che in questo campo il principe faccia come San Tommaso e creda solo a ciò che può vedere con i suoi occhi e toccare con mano. La settima raccomandazione è che non si scelga assolutamente un consigliere senza aver prima comprovato la sua capacità e preparazione per rivestire l’incarico. Mi ricordo che in passato, per eleggere un confettiere del re di Spagna, si procedette così: si fece un concorso e si scelse quello che sapeva preparare le migliori conserve. Una volta che conversavo con il cardinale Luigi di Borbone per ottenere un salvocondotto che mi permettesse lasciare senza problemi la Francia allo scoppio della guerra del 1551, il cardinale rispose a certa gente che voleva vendergli dei cani da caccia che li avrebbe messi alla prova e poi avrebbe deciso se comprarli o no. Ho scelto questi esempi perché si intendano lontano un miglio: se non si scelgono senza provarli né i confettieri né i cani da caccia, a maggior ragione sarà necessario esaminare i candidati al Consiglio. In questo esame il principe dovrà vagliare attentissimamente se il candidato possiede le qualità che ho indicato ed insegnato a riconoscere nel secondo e nel terzo capitolo, seguendo il metodo che ho illustrato, poiché chi manca di tutti i requisiti è inadatto in assoluto, chi li ha tutti risulta idoneo senza discussione, mentre chi ne ha di più o di meno sarà più o meno idoneo e pertanto più o meno degno di essere eletto. Di conseguenza, il principe avrà due criteri per valutare se il candidato possiede un’adeguata preparazione. Il primo sono quindici palmi, cioè le quindici qualità che costituiscono la sua idoneità morale e intellettuale; il secondo sono cinque palmi, cioè le cinque qualità che rivelano la sua idoneità fisica. Chi ha più palmi sarà il prescelto e tutti gli altri verranno posposti a lui. Per esempio, se uno avesse dieci qualità ed un altro solamente otto o nove, quello con dieci qualità sarà selezionato e quello con otto o nove no. Questo criterio si deve applicare a ogni categoria di persone senza la benché minima eccezione, siano ricchi o poveri, potenti o umili, cittadini privati o meno: infatti, se un duca potente, un ricchissimo cavaliere o un gran ministro entrassero in competenza con un altro che non possa paragonarsi a loro per condizione sociale, ricchezze e favore, però che li supera per quanto concerne le qualità richieste al consigliere, deve essere prescelto quest’ultimo e non gli altri. Ovviamente questo criterio si applica quando c’è una differenza di merito. Gli incarichi,

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infatti, devono essere conferiti solamente per meriti, non per favore, servizi o potere. Ben è vero che favori, servizio e potere hanno il loro peso a parità di meriti, come nel caso in cui due competitori fossero alla pari per qualità. Allora, secondo la volontà del principe, il posto potrebbe essere per quello fra i due che risulti superiore in termini di favori, servizi o potere. Ma anche in questo caso il principe è tenuto a preferire chi abbia reso maggiori servizi allo Stato e alla sua reale persona. Vi è infatti un principio assolutamente sicuro: gli incarichi si danno in uno di questi tre modi, per merito, per favore o per influenza. Il primo modo è meritorio, il secondo è un abuso, il terzo è anch’esso un abuso ma non così grave come il secondo. In ogni caso, uno dei criteri più validi per distinguere un buon principe da un tiranno è che il primo distribuisce i posti in base ai meriti mentre il tiranno tiene conto solamente del favore e dell’influenza. Va pure osservato che il principe che assegna le cariche in base al favore o all’influenza perderà lo Stato o quanto meno i suoi discendenti non rimarranno in suo possesso per più di due generazioni. Ometto intenzionalmente di parlare di altre molte e validissime ragioni che si potrebbero addurre a questo proposito. Da tutto ciò si desume che si faccia l’esame e che si scelga, solo fra tutti, chi venisse giudicato maggiormente idoneo in base ai criteri enunciati nel secondo e nel terzo capitolo. Tale esame deve essere condotto personalmente dal principe e non delegato ad altri. L’ottava raccomandazione è che, due o tre giorni dopo l’esame e la nomina nei termini previsti dal precedente capitolo, senza alcun indugio o pretesto il principe faccia chiamare il consigliere già eletto e gli comunichi concisamente a porte aperte, in presenza dei cortigiani, come sia stato prescelto per i propri meriti. Gli farà presente la fiducia che ispira al popolo tutto e il credito di cui gode presso di lui. Aggiungerà che la sua bontà e prudenza alimentano tali aspettative che è indispensabile la soddisfaccia con azioni virtuose per non sfigurare completamente. In seguito gli raccomanderà il prestigio e il benessere dello Stato e gli chiederà, anzi gli ingiungerà che non si astenga dall’ammonirlo ed anche criticarlo con la dovuta modestia ogniqualvolta si rendesse conto che ne ha bisogno. Infine porrà termine al suo discorso affermando che promette e assicura al consigliere che, come lo castigherà in proporzione ai suoi sbagli se non esegue bene e lealmente le sue mansioni, così avrà premi e ricompense secondo i suoi meriti. Mettendo in pratica questo precetto il principe si procura il consenso popolare, le persone competenti e di valore si animano non solo a perseverare, ma anche a brillare sempre di più ed il consigliere eletto impegna tutte le sue forze non solo a conservare la propria reputazione, ma anche ad accrescerla.

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La nona e ultima raccomandazione è che, concluso il discorso di cui sopra, il principe deve far giurare con grande solennità e promettere a Dio che sarà buono e fedele suddito e consigliere del proprio principe, che si adopererà per il prestigio ed il benessere dello Stato e che nessuna preoccupazione per la propria vita, per i propri beni, i parenti, gli amici, i congiunti per matrimonio potrà impedirgli di agire secondo giustizia e ragione. Una volta preso questo giuramento, non vi sarà altro da fare che metterlo in pratica. Non si potrebbe sottolineare abbastanza il profitto che si trae da questo giuramento: basta dire per il momento che grazie ad esso il principe può godere di maggiore tranquillità e che, se il consigliere è cattivo e sleale, ha più giusto motivo di manifestargli la sua indignazione, come a persona che disprezza la propria fede e lo stesso Dio. Il consigliere, per la stessa ragione, si controllerà di più, non passerà i limiti ed avrà una giustissima scusa e un eccellente pretesto per dire di no ai suoi clienti, amici, congiunti per matrimonio e servitori che gli chiedessero cose irragionevoli o per lo meno non molto ragionevoli. Il popolo tutto, d’altra parte, non si azzarda a chiedergli cose ingiuste, mentre si sente incoraggiato a chiedere cose giuste e a reagire se dice di no o se desidera far qualcosa di ingiusto.

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CONGEDO DELL’INTERA OPERA

Questo è tutto quanto avevo da dire in questo primo libro degli otto in cui deve essere suddivisa la materia del trattato sul Consiglio e i consiglieri del principe. Si è data la definizione del Consiglio e si è anche spiegato come ogni principe è obbligato (se vuole governare bene) ad avere sette Consigli completamente differenti per incarichi, ministri, gerarchia e autorità. Ho mostrato pure che cos’è il consigliere e che per essere all’altezza del compito occorre che possieda venti qualità: quindici morali e intellettuali e cinque fisiche. Ho dato anche nove raccomandazioni al principe, di cui deve tener conto ogniqualvolta desidera nominare un consigliere. Tutto ciò è quanto penso di sapere e promisi di trattare al principio di questo libro, a scrivere il quale mi ha indotto la legge divina e quella umana che ci obbligano ad aiutarci gli uni con gli altri nella misura del possibile e ci suggeriscono che dobbiamo aiutarci specialmente in quelle cose che riguardano più da vicino il bene comune, come in questo caso del Consiglio e dei consiglieri del principe. Se potessi formare un Consiglio come quello di cui parlo, così come posso ordinarlo per iscritto, preferirei offrire al mondo un esempio di buon Consiglio formato e visibile, anziché scritto e intelligibile. Ma poiché non possiamo fare la prima cosa, facciamo la seconda. Resta l’obbligazione di metterlo in pratica per coloro che possono e debbono farlo per la pace della loro coscienza, per il loro onore ed il loro utile. Da parte mia, finché ho vita, non smetterò di chiedere a Dio due grazie: la prima è che voglia aprire gli occhi ai principi perché vedano che gran necessità hanno di riformare i loro Consigli e i loro consiglieri; o che per lo meno ponga nel loro animo qualche piccolo scrupolo perché riflettano sui loro Consigli e consiglieri. Saremmo già a metà del cammino se i principi cominciassero a chiedersi se hanno un Consiglio adeguato o no. Non c’è peggior male di quello che si ignora. L’altra cosa che chiederò a Dio è che quelli che stanno intorno ai principi, posposto il loro interesse e le loro passioni, vogliano aprire le porte ai consigli buoni e

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utili, preferiscano il profitto comune e quello del loro principe al proprio particolare e non vogliano persuadere con false ragioni che il bianco è nero e il nero bianco. Sono costoro che mandano in rovina tutti i principi. Sono costoro che tagliano le gambe alle persone competenti perché non vadano avanti. Costoro accecano il principe perché non veda. Parlo, ovviamente, dei malvagi e non dei buoni. So che i buoni loderanno la mia opera, non per essere mia, perché io non sono nessuno, ma per essere di per sé buona e utile. I malvagi, però, che critiche non le rivolgeranno? Uno dirà che non è bene che il principe si affatichi tanto per scegliere personalmente i propri consiglieri. Rispondo che non si tratta di fatica, bensì di riposo, perché avrà meno cose da fare e impegni ben definiti tanto in pace quanto in guerra. Un altro dirà che il principe è libero di conferire gli incarichi a chi meglio crede. Rispondo che la libertà del principe non può contravvenire alla ragione, poiché in tal caso si chiama abuso e servitù. È libero quando sa usare la propria ragione, perché altrimenti è tiranno e dire che il principe deve assegnare le cariche a chi meglio crede o a chi gli sembra bene è dargli del tiranno senza offenderlo. Un altro dirà che i cavalieri e i signori devono essere ricompensati secondo l’autorità della loro casa e il servizio delle loro persone. Rispondo che sono d’accordo, ma che ricompensare e nominare membro del Consiglio non è la stessa cosa: infatti si può trovare facilmente un’altra maniera di premiare (ce ne sono tante) senza fare uno consigliere. Altri diranno che in tutto il mondo sarà impossibile trovare consiglieri simili a quelli che descrivo. Rispondo che ce ne sono tanti, ottimi e assolutamente competenti, se i principi li vogliono scegliere per virtù e meriti e non per favore o potere. E quand’anche non ci fossero, se i principi li vogliono creare (com’è loro dovere) faranno nascere dalle pietre esseri umani. Quando il principe è poeta, tutti recitiamo versi; quando è musicista, tutti cantiamo e suoniamo; quando è un guerriero, tutti vogliamo combattere; quando è amico di intrattenitori, tutti facciamo sfoggio delle nostre spiritosaggini; quando gli interessa l’astrologia, abbiamo tutti in bocca le sfere e altri strumenti. Allora, se è amico di consiglieri simili a quelli che ho descritto, mi gioco la testa che in quattro anni tutti i Grandi di Spagna e i cavalieri saranno idonei a questo ufficio. Se il principe ripete e mette in opera ancora qualche volta questi miei precetti, vedrà subito cambiata la corte e tutta l’aristocrazia del suo principato, dico cambiata a tal punto che tutto il tempo che si perde malamente in un ozio inerte o in giochi blasfemi o in adulteri ed altri mille vizi si impiegherà bene e onestamente in pratiche virtuose e nell’imparare le scienze e tecniche necessarie. In questo modo la corte diventerà una scuola di virtù e di sapere. Non voglio rispondere alle altre questioni, perché sono tutte vane: torno a rivolgermi in particolare ai principi e dico loro che, se eleggeranno i loro Consigli ed i loro consiglieri nella maniera che ho

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detto, finché saranno vivi avranno pace e riposo, non solo conserveranno i loro Stati, ma li accresceranno pure, avranno in loro mano la pace e la guerra, saranno amati dai loro sudditi, temuti dai loro avversari, onorati e lodati da tutti in generale, lasceranno ai propri discendenti uno Stato solido e durevole e otterranno il titolo e la rinomanza di grandi, buoni e invincibili principi quando si sarà conclusa la loro vita terrena.

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Finito di stampare nel mese di giugno 2007 dalle GRAFICHE TEVERE Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)