Saggi sul paesaggio
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Georg Simmel

Saggi sul paesaggio a cura di Monica Sassatelli

ARMANDO EDITORE

SIMMEL, Georg Saggi sul paesaggio / di Georg Simmel a cura di Monica Sassatelli; Roma : Armando, © 2006 112 p. ; 17 cm. - (Classici di sociologia) ISBN 88-8358-960-2 I. Sassatelli, Monica 1. Filosofia CDD 304

Titolo originale: Philosophie der Landschaft, pubblicato nel 1913. Ora in Gesamtausgabe, Vol. 12, pp. 471-482. Traduzione di Lucio Perucchi. Die Alpen, pubblicato nel 1911. Ora in Gesamtausgabe, Vol. 14, pp. 296-303. Traduzione di Monica Sassatelli. Die Ruine, pubblicato nel 1907. Ora in Gesamtausgabe, Vol. 14, pp. 287-295. Traduzione di Monica Sassatelli. Böcklins Landschaften, pubblicato nel 1907. Ora in Gesamtausgabe, Vol. 5, pp. 96-104. Traduzione di Lucio Perucchi. © 2006 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa 06/5894525 Direzione editoriale e Redazione 06/5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti 06/5806420 Fax 06/5818564 Internet: http://www.armando.it E-Mail: [email protected] ; [email protected] 02-04-030 I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), in lingua italiana, sono riservati per tutti i paesi. L’editore potrà concedere a pagamento l’autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate a: Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’ingegno (AIDRO); [email protected]

Indice

Presentazione L’esperienza del paesaggio (Monica Sassatelli) Saggi sul paesaggio (Georg Simmel) Filosofia del paesaggio Le rovine Le Alpi I paesaggi di Böcklin Nota bio-bibliografica

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Presentazione

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L’esperienza del paesaggio

Mi trovavo sulla riva di un laghetto congelato e assistevo agli esercizi di un pattinatore. Aveva cominciato già da un certo tempo e, con una abnegazione come viene messa in pochi sforzi della vita per amore di obiettivi ideali, si sforzava in mutevoli giravolte e serpentine, circonvoluzioni e curve all’indietro. Ma non gli riuscivano ancora né facili né sicure. Le ginocchia si piegavano e si irrigidivano in una ingloriosa inclinazione, le braccia si aggrappavano all’aria tutto intorno come a un immaginario contrappeso […] dopo un certo tempo, tornando indietro trovai la pista libera e vi scesi anch’io. Vidi che le tracce incise da quel pattinatore sul ghiaccio erano le più incantevoli e aggraziate forme, di uno slancio e di una libertà come quella delle linee che traccia un uccello nell’aria. A quel punto sopraggiunse in me come una felicità per il fatto che qualcosa del genere fosse possibile: che noi pur con la goffaggine, l’inettitudine, l’oscillazione del nostro movimento possiamo tuttavia realizzare con un’estrema propaggine acuminata una linea la cui traccia sottile e leggera non sa nulla del nostro aspetto d’insieme. G. Simmel1

Tra i tanti modi con cui si cerca di cogliere la modernità vi è anche il descriverla come particolare tipo di esperienza, o come enfasi sull’esperienza, declinata in riferimento agli attributi più comunemente ac7

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costati al moderno: razionale (ma nel caso dell’esperienza sarebbe meglio dire: intellettualizzata), differenziato (frammentata), individualizzato (interiore). Questa visione, che si discosta dalle grandi sistematizzazioni del canone più consolidato, o meglio lo ripropone da una prospettiva inusuale, deve molto al più inusuale, fino a qualche tempo fa, dei fondatori della sociologia: Georg Simmel. Oggi Simmel non ha più bisogno di essere riscoperto2; ma a maggior ragione la sua opera resta una fonte tutt’altro che esaurita, un’opera da leggere direttamente. In questa piccola raccolta vengono riproposti alcuni saggi dedicati al tema dell’esperienza del mondo esterno, nella sua forma più propria, e insieme tipicamente umana e moderna: il paesaggio. Pubblicate tutte attorno al 1911-13, ad eccezione di I paesaggi di Böcklin (1895), queste riflessioni spaziano dal tentativo di definire il paesaggio (Filosofia del paesaggio, 1913), all’analisi di alcune manifestazioni specifiche, di visioni artistiche come il saggio sulle opere del pittore svizzero, o naturali come Le Alpi (1911), sino ad interrogarsi sul rapporto tra l’attività creatrice dell’uomo e quella della natura, che nel paesaggio assume forma visibile e cristallizzata nelle rovine (Le rovine, 1911)3. Il tema dell’esperienza sottende, in modo più o meno esplicito, tutti e quattro i saggi, attraverso un trattamento originale di alcuni temi che Simmel ha contribuito a rendere classici nel discorso sul paesaggio, come il rapporto tra quello reale e quello dipinto, e la relazione di questi con la natura e la modernità. Questi saggi, normalmente pubblicati in raccolte dedicate all’arte o alla cultura filosofica e quindi di rado considerati tra le opere 8

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maggiori, sono tuttavia percorsi dalla stessa tensione che percorre queste ultime, comprese quelle di carattere più specificamente sociologico. Ossia la tensione – sempre in bilico tra conflitto e conciliazione – tra vita e forma; tra totalità o unità ineffabile e presintetica, e sintesi culturale; tra soggettivazione dell’oggettività e oggettivazione della soggettività. Non a caso, anche in Filosofia del denaro (1900; seconda edizione accresciuta 1907) il paesaggio ritorna come una delle analogie cui Simmel fa ricorso per illuminare il particolare modo di stare al mondo dell’uomo4 moderno. Che, per accennare al dibattito, in gran parte sterile e superato, su Simmel filosofo o sociologo, è chiaramente un problema sia filosofico che sociologico. Perché se così posta, in termini generali, la questione può apparire tipicamente filosofica, essa rimanda anche alla dinamica tra forme sociali e contenuti vitali, a quell’azione reciproca (Weschselwirkung)5 tra mondo della soggettività e dell’oggettività, dell’individuo e delle forme sociali nelle quali è solo parzialmente incluso, punto di intersezione di numerosi cerchi mai perfettamente concentrici, che costituisce il nucleo della sociologia simmeliana. A prima vista può apparire strano far parlare Simmel di modernità attraverso il paesaggio. Egli stesso uomo profondamente metropolitano, Simmel è riconosciuto come l’autore che ha individuato mirabilmente la costellazione specifica della vita della grande città e che, nel suo saggio forse più noto, La metropoli e la vita dello spirito (1903) ha istituito una corrispondenza biunivoca tra esperienza metropolitana e modernità. Ma, appunto, Simmel, si inserisce 9

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nella tradizione che fa di quella per il paesaggio una sensibilità tutta moderna: seguendo Jacob Burckhardt e la sua osservazione della scoperta moderna, rinascimentale in particolare, della dimensione estetica del paesaggio6, Simmel sviluppa il tema, romantico, del paesaggio come compensazione rispetto a una natura da cui siamo ormai estraniati. Ma se la visione passiva della natura, e la relativa scissione dalla «cultura» sono tra i tratti giudicati tipici di una (certa) prospettiva occidentale7, Simmel mostra che questa è una semplificazione, e che percezione del mondo esterno e azione su di esso sono insieme e contemporaneamente creatori e creature del paesaggio. È semmai nelle specifiche modalità in cui questa sensibilità si dispiega che la modernità (occidentale) mostra se stessa. La natura vissuta come paesaggio, come «un’immagine lontana, che persino nei momenti di vicinanza fisica sta davanti a noi come qualcosa di intimamente irraggiungibile, come una promessa mai completamente mantenuta»8 è frutto della lacerazione che il vivere moderno porta con sé. Il fatto che soltanto nell’epoca moderna si sia sviluppata la pittura paesaggistica – che, in quanto arte, può sussistere soltanto se c’è distanza dall’oggetto e rottura dell’unità naturale con esso – e il fatto che soltanto l’epoca moderna conosca il sentimento romantico della natura, è conseguenza dell’esistenza astratta a cui ci ha condotto la vita urbana basata sull’economia monetaria9.

Lo stile di vita moderno impone variazioni nella «distanza tra l’io e le cose»10 e, con questo, tutta una 10

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configurazione mentale che permette all’uomo di adattarsi senza però «venir livellato e dissolto all’interno di un meccanismo tecnico-sociale»11. La metropoli è sì, allora, il luogo dove questo nasce e si manifesta più chiaramente, ma l’esperienza del paesaggio è la promessa, per quanto necessariamente mai mantenuta, di conciliazione e fine della frammentazione. Che la promessa non possa essere mantenuta, che il senso di totalità debba venire da ciò che è solo un frammento, che questo sentimento profondo della natura sia già la risposta nostalgica e romantica alla sua perdita, tutto questo non è che un’ulteriore conferma del carattere tragico delle forme culturali, uno dei temi di fondo dell’intera opera simmeliana. Al di là di qualsiasi nostalgia, assente in Simmel, la riflessione sul paesaggio va quindi inserita nell’ambito della lucida analisi del rapporto moderno individuo-società, tema sociologico fondativo e che in Simmel, come dimostrano anche i saggi qui proposti, viene affrontato in modo ricorrente e da una varietà di prospettive. Nelle osservazioni sul paesaggio tale analisi è chiamata in causa perché l’esperienza del paesaggio presuppone, oltre alla lacerazione della comunione con la natura, un carattere fondamentale della modernità sociologica, ossia l’individualizzazione. Fuoriuscito dai legami premoderni che lo avviluppavano, l’uomo moderno è una parte che vuole essere un tutto, proprio mentre allo stesso tempo la differenziazione e il relativo sovrapporsi delle cerchie sociali cui appartiene lo rendono più che mai parte, frammento, di una realtà rispetto a lui emergente. Così anche il paesaggio, che deve il suo fascino alla nostra capacità di percepire in que11

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sto frammento un’immagine del tutto naturale, capacità che si genera, per affinità elettiva potremmo dire, con la frammentazione moderna. Con una profonda differenza però, dalla quale il paesaggio trae il suo senso: ciò che nella vita appare indifferente o antitetico (come l’anonimato delle distese naturali e l’inconciliabilità delle aspirazioni concorrenti delle parti e del tutto), ci appare sotto forma di conciliazione nel paesaggio. Guardare all’esperienza moderna a partire dal paesaggio non è però una questione di opposti, di definizione per opposizione e da una posizione di marginalità. Come spesso in Simmel, non siamo in presenza di una distinzione interno/esterno, ma un ben più complesso gioco di vicino/lontano. Seguire lo sguardo che Simmel fa scorrere sul paesaggio fa emergere un’esperienza limite, certo, ma proprio per questo tanto più centrale in un’epoca che fa del limite, del mutamento, del superamento, la propria essenza e rappresentazione. Non a caso parlando di paesaggio entrano nell’orizzonte quelle figure liminali per cui Simmel è famoso, come l’avventuriero e, soprattutto, lo straniero. Proprio il celeberrimo Excursus sullo straniero meglio di qualsiasi altro mostra la capacità di Simmel di situare in ciò che è marginale e frammentario il nucleo più profondo, per quanto a volte posto in superficie, delle cose. La lontananza che lo straniero porta vicino è quella stessa che presuppone il paesaggio. Va forse ricordato che l’excursus citato, assieme ad altri due – sul concetto di limite e sulla sociologia dei sensi – è incluso nel fondamentale capitolo della Sociologia (1908) dedicato allo spazio. Simmel è considerato tra i pionieri della sociologia 12

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dello spazio, ossia dello studio dello spazio sociale come dimensione fondamentale dell’interazione e delle forme culturali12. Ma lo studioso berlinese fa dello spazio ancora uno dei temi nel quale dispiegare la propria poliedrica capacità di minuziosa analisi: lo studio delle relazioni spaziali non è quindi solo materia della sua opera maggiore di sociologia, ma si ritrova anche, in una varietà di approcci, in saggi come Ponte e porta (1909), Estetica sociologica (1896), nello stesso Le metropoli e la vita dello spirito13, e chiaramente, nei saggi qui presentati sul paesaggio. Le categorie dello spazio sono per Simmel un ulteriore strumento per trattare, per via analogica, attraverso l’immagine del lontano e del vicino, contenuti che vanno ben al di là di quelli spaziali, poiché, per dirlo con le sue stesse parole: «Noi dobbiamo relegare innumerevoli volte nell’immagine spaziale del vicino e del lontano la relazione di contenuti spirituali, la cui essenza interiore è del tutto estranea alla esteriore misurabilità di questo simbolo»14. L’analisi del paesaggio per Simmel è allora un modo per cercare di avvicinarsi a tali contenuti. Il paesaggio nasce con il limite, laddove «Il limite non è un fatto spaziale con effetti sociologici, ma un fatto sociologico che si forma spazialmente»15. La sua rilevanza, come le altre entità spaziali sottoposte allo sguardo del nostro, va ben al di là di «effetti sociologici». Il paesaggio è molto di più di una metafora evocativa per parlare della società – il paesaggio sociale – come suggerisce anche il rinnovato fascino per questo tema che è oggi, come quasi un secolo fa quando scriveva Simmel, al centro di una vasta riflessione, non più solo teorica ma spesso mirata al13

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l’intervento. Dal paesaggio si irradia una luce soffusa che illumina – come dall’interno, per riprendere il giudizio di Kracauer sul maestro16 – molti dei temi cari a Simmel17.

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Dalla natura al paesaggio È bene partire da dove parte Simmel: il paesaggio non è qualcosa di già dato nell’immediatezza del mondo naturale. Un «frammento di natura», un bosco o un ruscello, un monte o una spiaggia, non sono ancora «paesaggio». Semplicemente, un paesaggio non è natura. Perché la natura non è data di frammenti, ma della «infinita connessione delle cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere, che si esprime nella continuità dell’esistenza temporale e spaziale»18. Solo l’attività spirituale umana, dell’essere che separa e che collega, e che valuta, poteva fare della natura paesaggio. Ma non si pensi di attribuire a Simmel una vulgata costruttivista che dicotomizza, tanto quanto approcci «ingenuamente» realisti, natura e cultura, oggettivo e soggettivo. Perché se non è Natura, il paesaggio è nondimeno naturale. Tra queste due affermazioni si dispiega la raffinata analisi simmeliana del paesaggio e, tramite essa, del complesso rapporto, assai poco descrivibile in termini dicotomici, tra gli esseri umani e il mondo che li circonda, esterno e per questo raggiungibile, ma fino a un certo punto19. Seguendo Simmel nel suo percorso di scoperta del paesaggio, occorre iniziare osservando che, per 14

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diventare paesaggio alcuni frammenti di natura (in questa prospettiva, una contraddizione in termini) devono venir percepiti come una totalità, da parziali che sono. Se per natura si intende il coestendersi ininterrotto degli elementi, una continuità indivisa e dinamica le cui «parti» sono vincolate dalla loro connessione reciproca e non possono quindi venir considerate autonomamente, qui ci troviamo di fronte a un frammento che, divenuto emergente rispetto alla somma e alla giustapposizione delle parti, forma una nuova e diversa unità: in quanto tale essa, al di là della naturalità degli elementi, non ha nulla a che vedere con l’unità della natura. Ecco perché il paesaggio non è natura, ed anzi il suo costituirsi segna piuttosto un allontanamento dal concetto di natura stesso. È dunque un processo mentale che ritaglia, dallo sterminato susseguirsi degli elementi naturali, il «paesaggio». Nondimeno esso si costituisce a partire da alcuni elementi naturali – ogni volta specifici e portatori di una loro alterità rispetto al soggetto – non è un mero riflesso dello sguardo umano, sebbene solo per questo abbia senso e valore. Se all’origine del paesaggio vi è un atto costitutivo che ha sede nel soggetto, infatti, questo non è creazione arbitraria, ma bensì il saper riconoscere un’unità, per quanto essa non si dia al di fuori e prima dell’atto percettivo. Sottrarre alcuni fenomeni al «naturale anonimato» è atto eminentemente soggettivo, ma questo è solo un momento della creazione del paesaggio. Perché se solo per l’essere umano ciò che in natura è frammento può venir individualizzato da un’attribuzione di senso, questa facoltà del soggetto si esplica grazie 15

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ad una proprietà insita in ciò che diventa paesaggio sotto lo sguardo umano, una proprietà inerente all’oggetto percepito che ha bisogno della percezione, soggettiva, per essere riattivata: la Stimmung. La Stimmung è appunto ciò che fa il paesaggio, la sua specifica tonalità spirituale – questa la traduzione italiana più vicina di un termine che non ha equivalente diretto – l’atmosfera, se vogliamo, che scaturisce dall’insieme dei suoi elementi, che per questo vengono recisi dal resto e riallacciati più strettamente al centro. Quindi, la Stimmung è qualità oggettiva del paesaggio, laddove questo è prodotto soggettivo. La Stimmung è ciò che un insieme di oggetti naturali esprime solo quando una soggettività vi esplica la sua attività, e solo per questa soggettività, non prima e al di fuori di essa. Il paesaggio è dunque un’unità, non imposta d’impero da un’idea o forma prestabilite ed esterne, ma che pure nasce simultaneamente al vissuto stesso. Esso non precede l’esperienza soggettivamente incarnata né può prescindere dall’esteriorità oggettiva. È più semplice, anche per Simmel, dire cosa la Stimmung non sia piuttosto che definirla, perché essa è una sorta di idea regolatrice che ci serve per descrivere qualcosa che contiene elementi inspiegati e ineffabili: così possiamo dire che la Stimmung non è sentimento soggettivo, ma nemmeno carattere tipico – Simmel sente la pericolosa contiguità delle banalità generalizzanti per le quali parliamo di paesaggi tristi, melanconici, tempestosi, e così via. Il paesaggio vive nello sguardo, ed insieme dà forma a questo nel momento in cui poggia su una realtà esterna; esso mostra così come questa dinamica sempre conflittuale e in bilico tra 16

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soggetto e oggetto è solo la tribolata analisi di quell’unità preanalitica cui Simmel spesso rimanda, affermando anche però che noi la possiamo solo avvicinare come sintesi di opposti e mai veramente cogliere in quanto tale. Per questo non si può descrivere soddisfacentemente il paesaggio tramite una distinzione tra soggettivo e oggettivo (o anche interno/esterno; spirituale/concreto; ecc.). Se è vero che ogni descrizione del paesaggio è sempre manchevole, Simmel riesce a fare di questo un argomento a favore della tesi centrale: del paesaggio non può mai darsi una definizione generale astratta adeguata, perché non esiste il paesaggio, ma solo specifici paesaggi. E se si sarà tentati di dire che questo è vero quasi per tutto, si starà andando proprio là dove Simmel ci vuole portare: a mostrare come il paesaggio esemplifichi perfettamente, per via sensibile più che concettuale, le modalità tipiche dell’attività spirituale umana in un mondo dove tutto è infinita interconnessione (Weschselwirkung). Non ci è mai dato conoscere la «cosa in sé», ma solo ricostruire questi rapporti di relazione reciproca. Tuttavia, per farlo, siamo costretti a rescindere alcune di queste relazioni, per poterne osservare altre: come è efficacemente sintetizzato in Ponte e porta (1909), «in senso immediato, come in senso simbolico, in senso corporeo, come in senso spirituale, siamo noi, in ogni momento, coloro i quali separano ciò che è collegato e collegano ciò che è separato»20. Così il paesaggio: possiamo fissarlo quanto vogliamo, con gli occhi e con la mente nel tentativo di definirne l’essenza, ma esso si costituisce solo come relazioni reciproche dei suoi elementi, da 17

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esse emerge un’unità significativa che si fa tale nella delimitazione di un intorno che ha reciso le connessioni con il resto, e che pure deriva il proprio significato nel farsi simbolo di quell’unità originaria che sta negando. È un’unità, che però rimanda sempre al fatto che il suo centro è fuori di sé, così che anche la soggettività che vi si esplica non lo fa nei termini di un arbitrio solipsistico, come invece sostengono le critiche al paesaggio come mero costrutto soggettivistico21. L’unità che fa il paesaggio non si trova in nessuna delle parti concrete, in nessun albero, ruscello, prato, ma risiede nella sintesi unitaria che essi, per l’occhio umano che li incornicia, formano. Senza l’incorniciamento non ci sarebbe né Stimmung né paesaggio perché non vi sarebbe l’individualizzazione di una parte che si fa totalità; nondimeno la totalità che così si ottiene è appunto ritagliata, non arbitrariamente creata. Tramite questa delimitazione di confini – che è già una lacerazione dal sapore moderno – alcune parti vengono individuate (individualizzate) e separate dal resto. Alla parte così isolata viene attribuito un rilievo che di fatto non ha in natura: [I]l mare e i fiori, le Alpi e il cielo stellato, proprio questo ha ciò che si può chiamare il suo valore soltanto per i suoi riflessi nelle anime soggettive. Infatti, se prescindiamo dalle sue antropomorfizzazioni mistiche e fantastiche, la natura è una totalità interdipendente senza soluzione di continuità, le cui leggi indifferenti non concedono a nessuna parte un accento fondato sulla sua fattualità, anzi nemmeno un’esistenza oggettivamente delimitata nei confronti 18

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delle altre. Soltanto le nostre categorie umane distinguono nella natura singole parti, a cui noi colleghiamo reazioni estetiche, commoventi, simbolicamente significative: che il bello naturale sia «felice in se stesso» è giustificabile soltanto come finzione poetica […] non vi è in esso alcun’altra felicità se non quella che provoca in noi22.

Va notato che Simmel tiene a precisare che per paesaggio non si intende solo quello che il pittore cristallizza in un dipinto, ma anche la forma spirituale che nasce già nella percezione del paesaggio: entrambi sono prodotti dell’attività umana. Se vogliamo, la visione del paesaggio è già un punto intermedio tra la natura e l’arte o, più in generale, la cultura. Nei suoi numerosi saggi sull’arte Simmel ha sviluppato un’analisi dell’opera d’arte come risultato particolare della costante mediazione tra la soggettività creatrice e la sua oggettivazione in una forma. In L’ansa del vaso (1911) si spiega come questo sia da leggersi in relazione all’idea di azione reciproca: «ogni frammento dello spazio reale viene sentito come parte di un’infinità, mentre lo spazio del quadro è sentito come un mondo in sé chiuso: l’oggetto reale è in rapporto d’interazione (Weschselwirkung) con tutto ciò che fluttua o permane intorno a lui, mentre il contenuto dell’opera d’arte ha reciso questi fili e fonda soltanto i suoi propri elementi in un’unità autosufficiente»23. Il paesaggio, tuttavia, come forma spirituale è in una posizione più incerta, poiché qui da un lato la soggettività non è strettamente creatrice e dall’altro l’oggettivazione vive solo nell’istante soggettivo della percezione24. I fili, come si è visto, 19

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non sono affatto del tutto recisi, il mondo in sé chiuso è qui assai più fragile, ed infatti non possiamo esperirlo se non a distanza: dice Simmel, non si può attraversare, toccare, un paesaggio. Ma proprio questo statuto incerto del paesaggio, né prodotto culturale, né fenomeno naturale in toto, fa sì che esso renda evidente il processo dell’attività spirituale, mostrandocelo nel suo farsi, in statu nascendi. L’ambivalenza del paesaggio evidenzia come tale attività spirituale, sia quella più lucida e unitaria del pittore, sia quella comune a tutti noi, non sia né mero riflesso né creazione dal nulla, ma in parte entrambe. In altre parole, come l’attività umana si dia tanto nella forma dell’agire che in quella dell’esperire, e come queste siano solo in parte separabili. È stato osservato che, tra le peculiarità del Simmel sociologo, vi è quella di aver considerato non solo l’agire, ma anche l’esperire o, detto altrimenti, non solo il lato attivo, il fare, l’esteriorizzazione, ma anche quello passivo, il patire, l’interiorizzazione. In questo schema l’esperire viene quindi visto come «interiorizzazione di influssi ambientali»25. Eppure proprio il caso del paesaggio qui analizzato, mostra come l’attività spirituale che porta a percepirlo è già atto creativo e, viceversa, che il paesaggio è già forma spirituale, in breve, che l’agire non è solo attivo e l’esperire non solo passivo. Questo è il punto; agire ed esperire sono in interazione reciproca, sono interazione reciproca. L’esperienza del paesaggio ci mostra un esperire (Erleben) che non è passivo ricettacolo di influssi ambientali. Capire il paesaggio è allo stesso tempo un agire (il paesaggio, semplicemente, non c’è, se non per «l’anima creatrice»), e un patire, il risuonare del20

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la particolare Stimmung di quel particolare paesaggio. Ecco anche la modernità dell’esperienza del paesaggio o, viceversa, l’esperienza moderna tutta esemplificata dalla sensibilità per il paesaggio: l’esperire come da lontano. Vibrare in accordo con un’armonia (ormai) lontana. Il linguaggio è portato a metafore sonore e musicali perché proprio la musica è, secondo Simmel, esempio perfetto di superamento del dualismo, essa «non è più qualcosa che esprime e qualcosa che viene espresso, ma completamente e soltanto espressione, soltanto, senso, solo Stimmung»26. E se il dualismo di attivo e passivo, agire ed esperire è una distinzione analitica di un processo in realtà unitario, ma proprio per questo inaccessibile direttamente, l’esperienza del paesaggio è tra quelle che ci avvicinano a questa unità sempre negataci: ecco perché, conclude Simmel, «di fronte al paesaggio siamo uomini interi»27. © ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

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L’albero da frutto e l’albero maestro Essere uomini interi è anche, per Simmel, ciò che la cultura dovrebbe rendere possibile, se fedele al suo concetto28. Nell’analisi di quest’ultimo egli spesso ricorre a immagini naturali e al paesaggio stesso, perché questo, situato al limitare tra cultura e natura, ci mette di fronte alla questione del loro rapporto. Come si è visto, infatti, il paesaggio non può essere né oggettivo né soggettivo, né naturale né culturale, se ciò significa essere l’uno o l’altro, se cioè ci basiamo su una dicotomia che nega la compresenza dei due termini. Perché, come si diceva, se non è natu21

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ra, il paesaggio è senz’altro naturale, in un modo però che già contiene la cultura. C’è un’immagine, che a Simmel doveva essere molto cara, perché la riprende ogni volta che tenta di definire la cultura, e che è molto rilevante per comprendere ciò che rende possibile intendere il paesaggio in questo modo. Ed è significativo che essa ricorra a un elemento che spesso fa paesaggio, l’albero da frutto. Diciamo che la frutta, che l’opera del giardiniere ricava dalla frutta dura e immangiabile di una pianta selvatica è stata coltivata fino a farne un albero da frutto. Ma se con la stessa pianta si costruisce l’albero di una nave, compiendo un lavoro non meno finalizzato, non diciamo affatto che il tronco è stato coltivato per farne un pennone. Questa sfumatura della lingua indica chiaramente che il frutto, pur non giungendo a completa maturazione senza l’opera dell’uomo, in ultima analisi si sviluppa per la forza che ha l’albero di farlo maturare e realizza soltanto la possibilità prefigurata nella sua stessa costituzione iniziale, mentre la forma del pennone viene imposta al tronco da un sistema di finalità che gli è completamente estraneo, senza alcuna preformazione delle sue tendenze essenziali29.

Si vede bene che la distinzione rilevante non è tra ciò che è naturale o culturale tout court, che pure vengono distinti con precisione, come da un lato ciò che può essere raggiunto attraverso un processo di causazione interna e senza supporto esterno, e dall’altro ciò che invece ha bisogno dell’intervento esterno di una nuova energia evolutiva, che chia22

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miamo cultura. Proprio perché la cultura così definita si lega ad uno sviluppo «naturale», la distinzione tra natura e cultura è meno rilevante che non quella, per cui non abbiamo termini specifici, tra ciò che per via esterna è portato ad un compimento di se stesso già insito nella propria natura, e ciò che, invece, è fatto uscire da sé in virtù di finalità non solo esterne ma propriamente aliene, tra albero da frutto e albero maestro insomma. Natura e cultura, afferma Simmel, sono solo due modi differenti di guardare alla stessa cosa. Le difficoltà derivano in parte dal fatto che il termine natura viene usato in due sensi diversi, da un lato per indicare quella totalità interconnessa e ininterrotta fin qui richiamata, dall’altro nel più limitato senso ora introdotto di una fase di sviluppo raggiunta sulla base delle sole energie interne30. Far uscire da questa fase, verso uno sviluppo non più spontaneo ma pur sempre latente e tutt’altro che arbitrario, è cultura, o meglio ancora «natura “culturalizzata”»31. A Simmel, chiaramente, interessa non tanto l’albero coltivato, quanto l’essere umano colto, di cui il primo è solo una metafora32. Ma così facendo ci ha fornito una distinzione che è utile per una lettura del paesaggio. Alcuni frammenti di natura stanno al paesaggio, come l’albero selvatico sta a quello da frutto coltivato. Questo non tanto perché, il che pure è vero, di rado i paesaggi sono «selvatici», quasi sempre mostrando segni fisici della coltura/cultura33, ma anche perché, come si è tentato di richiamare sin qui e come si leggerà in Simmel, il paesaggio non nasce da un atto arbitrario, ma piuttosto dalla capacità di cogliere la forma oggettiva in qualche modo intrinseca 23

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a quel paesaggio (nel dipinto o anche solo nell’attimo della soggettivazione dell’oggettività), esso è quindi dato da quella sintesi di oggettivo e soggettivo di cui la cultura è la chiave. Tuttavia, resta presente il pericolo che ciò verso cui siamo diretti sia diventare legno per un albero maestro, piuttosto che prepararci a dare i nostri frutti: fuor di metafora, l’oggettivazione in forme culturali, che dona forma stabile, inserendosi nella vitalità di un’esperienza e rendendola unitaria, conforme, contiene sempre anche una misura di violenza. Come si diceva, a Simmel la metafora dell’albero serve soprattutto per definire l’uomo colto. Per dire che colto è quell’uomo in cui supporti oggettivi esterni sono mezzi per il suo sviluppo soggettivo, per la sua «unità personale», piuttosto che per finalità proprie degli oggetti culturali stessi, come spesso avviene nel caso degli sviluppi più raffinati dell’arte, orientati a finalità interne all’arte stessa, ma anche nel caso dei saperi tecnici o specialistici, che da meri mezzi diventano fini34. Il divario tra cultura oggettiva e cultura soggettiva non è solo da collegarsi al divenire fini dei mezzi, qui è in gioco un altro paradosso, che di quel divenire è l’origine più profonda, ossia la lotta tra la vita e la forma: la vita crea forme, oggettive, che sono la via esterna al suo proprio sviluppo ed espressione, ma che si autonomizzano proprio grazie alla loro oggettività, accumulandosi e inseguendo uno sviluppo proprio che non ha niente a che vedere con, e che anzi per la sua stessa immane dismisura tende ad ostacolare quello soggettivo. Il dualismo di oggettivo e soggettivo, che in linea di principio la cultura riconcilia sintetizzandoli, non di rado riemer24

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ge come conflitto nei molteplici e specifici contenuti empirici dell’esperienza umana. Ciò è particolarmente evidente nei prodotti che nascono dalla divisione del lavoro, per cui a maggior ragione non sono i singoli soggetti produttori che in esso esprimono la propria unità, infondendovi finalità e significato. Questi prodotti, dice Simmel, che abbiano un’origine unitaria e intenzionale, come nella catena di montaggio o in un’orchestra, o meno, come la città – il paesaggio urbano – che si sviluppa senza un piano, esprimono in modo radicale ed evidente una condizione comune: vi è sempre nei nostri prodotti culturali qualcosa che non vi abbiamo messo. «[N]ella maggior parte delle nostre opere che si presentano in modo oggettivo è contenuto qualcosa del significato che può essere tratto da altri soggetti e che noi non abbiamo posto in esse. Ciò non è mai valido in senso assoluto, ma sempre in senso relativo: nessun tessitore sa che cosa tesse»35. Ma questo, si badi bene, non viene condannato da Simmel, come la contiguità con le teorie dell’alienazione può far pensare. Non lo è perché così come i prodotti non ci appartengono mai del tutto, possiamo far nostri quelli che non lo erano affatto, al pari di quelli naturali. Proprio perché vi sono sempre possibilità non saturate dall’intenzionalità che mettiamo nei nostri prodotti, nemmeno la teleologia dell’oggettività esclude mai del tutto una nuova appropriazione soggettiva. Quel qualcosa che non abbiamo o non sappiamo di aver messo, come nel caso del goffo pattinatore dell’epigrafe o la soluzione non prevista ma giusta di un indovinello36, dispossessa e apre a nuove riappropriazioni allo stesso tempo: in que25

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sto stanno, appunto, concetto e tragedia, insieme, della cultura. Ma si vede bene, allora, come nel carattere tragico che Simmel attribuisce alla cultura, forse sin troppo enfatizzato dai commentatori, vi è sempre uno spiraglio di riscatto che, come la tragicità stessa, non è accessorio, ma emanazione intrinseca di una stessa origine. Tanto che, come è stato osservato, si potrebbe forse parlare di «quasi tragicità» del giudizio simmeliano sulla condizione umana moderna, dove «il “quasi” non limita il potere del tragico, ma dice che l’esistenza può anche venir spesa al di fuori della dimensione tragica»37. Questo spiraglio, così arduo da scorgere in ambito sociale dove dominano conflitto e lacerazione, in rapporto alla natura rende possibile il paesaggio, dove la lotta può farsi conciliazione e la lacerazione ricchezza. Non solo nel paesaggio divenuto arte, ma già nell’esperienza del paesaggio. Proprio la lacerazione moderna ha compensato gli uomini moderni con la particolare sensibilità per il paesaggio, dove il conflitto è superato e, seppure sotto forma di un’immagine lontana, abbiamo un pegno di quell’equilibrio di istanze opposte che nella vita risulta sempre, nel migliore dei casi, oltremodo precario. Proprio lo statuto precario e instabile del paesaggio rende quest’esperienza particolarmente struggente o, per usare la categoria estetica rilevante, sublime, mettendoci davanti a una forza più grande di noi, ma da una prospettiva tale che ci permette di esperirla al di là dell’atteggiamento pratico, di paura o oppressione, che un contesto di vita reale renderebbe necessario. Nel paesaggio ciò che è frammento diventa sì un tutto, ma senza sradicarsi, continuando a rimandare al 26

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tutto più grande di cui fa parte, e soprattutto senza imporre un principio teleologico formale avulso dalla particolare Stimmung di quel paesaggio38: nel paesaggio non ci sono alberi maestri, ma alberi da frutto. E nel paesaggio vi sono anche, tipicamente, le rovine. È in particolare nel saggio Le rovine infatti che si articola il tema della pacificazione di forze contrastanti, da cui deriva il loro fascino sottile. Un fascino paradossale, e che si tinge di una tonalità malinconica, dal momento che sorge con l’immagine di distruzione, tragica – ancora una volta – perché inesorabile, cui sono destinate le opere dell’uomo per opera dell’azione corrosiva della natura. Eppure, questo è solo il primo sguardo, e Simmel ci invita ad andare oltre. Se dal punto di vista di una lotta tra forze conflittuali, naturale ed umana, le rovine non sono che ciò che resta dopo la battaglia, è possibile guardare ad esse anche in termini di complicità. Ecco che allora l’azione naturale non è più solo vista come corrosiva, ma si rivela attiva: non tanto distruzione, ma riappropriarsi attivo della natura, e quindi amalgamarsi di opera dell’uomo e della natura, soggetto e oggetto; il divenire naturale, un po’, di un’opera dell’uomo. Se la cultura ha soggettivato la natura, qui la natura oggettiva la cultura, si riprende i suoi diritti e così facendo, reinnesca il circolo, ci dà una nuova opportunità. Forse il fascino delle rovine sta allora anche nel senso di continuità e nuovo inizio insieme che ne deriva: al di là dell’eccesso di cultura oggettiva che ci opprime divenendo quasi una seconda natura irrigidita39, proprio la fragilità delle nostre creazioni ci mostra una via d’uscita dal loro ipertrofico 27

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sviluppo moderno. Le rovine ci dicono che non tutto è perduto, stiamo ancora forgiando la nostra storia, e la natura è parte di essa, parte attiva. Certo a discapito delle nostre forme, ma non ci stanno forse queste un po’ troppo strette, e sempre di più? Come dalle tracce sul ghiaccio dell’epigrafe, forse proprio da quel qualcosa che non mettiamo intenzionalmente possiamo aspettarci i risultati migliori. Non si tratta affatto di un inneggiare allo spontaneismo40 – i frutti spontanei restano selvatici – semmai di saper vedere nell’estraniazione il riscatto. A questo sembra alludere Simmel anche nei saggi sui paesaggi urbani di Roma, Firenze e Venezia. In Roma (1898) in particolare si sofferma sul risultato unitario e organico della stratificazione, che nasconde l’intenzionalità originaria, ma per sovrapposizione ne fa emergere una nuova con il sorgere, né prima né dopo ma contemporaneamente, del risultato stesso. «[A Roma] innumerevoli generazioni hanno costruito una accanto all’altra, una sopra l’altra, e ognuna senza preoccuparsi di ciò che le preesisteva, senza neppure comprenderlo […] E poiché tuttavia l’insieme si è sviluppato in modo talmente unitario, come se una consapevole ricerca della bellezza ne avesse guidato gli elementi, la forza del fascino di Roma nasce appunto da questo ampio e tuttavia conciliato distacco tra la casualità delle parti e il significato estetico del tutto»41. Questa è la Stimmung del paesaggio romano: e se per descriverla ricorriamo all’idea della conciliazione di elementi in contrasto, così come per le rovine più in generale, è solo perché a noi, uomini-prisma, l’unità non si dà che come sintesi di opposti.

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Uomo-prisma e sentimento della distanza Il paesaggio è dunque simbolo dell’esterno visto dall’interno, di una lontananza che si manifesta proprio mentre ci avviciniamo. Nel paesaggio si trova così dispiegato un elemento chiave del pensiero di Simmel, per alcuni anzi quello che può unificarlo, mostrando la continuità tra la sua filosofia della forma e quella della vita: la distanza42. È il destino delle forme della cultura che il loro tentativo di apprendere l’esterno provochi anche allontanamento dall’immediatezza delle cose, che è inavvicinabile. Tale immediatezza, come l’unità del vissuto che per esprimersi deve prima scindersi, rimane distante, anzi si allontana ancora di più poiché avvicinandoci alle cose lo facciamo sempre in mondo mediato. Si comprende così come per distanza non si intenda semplicemente il lontano in senso assoluto, ma una più complessa compresenza di vicino e lontano. L’immagine più chiara e struggente di questo è forse proprio quella dell’uomo-prisma, contenuta nel saggio I paesaggi di Böcklin qui pubblicato: noi siamo come prismi, non ci è dato vedere la luce bianca che scomposta, e non possiamo concepirla che come sintesi dei raggi colorati che comunque vediamo, sebbene sia invece l’unità il dato originario, che ci è negato e che noi dobbiamo separare per poi riconnettere. Se questa è la condizione umana in generale, si capisce bene come l’esperienza estetica, che presuppone distanza, fisica e non solo, abbia costituito per Simmel sempre un terreno fertile per sviluppare riflessioni di ampia portata. E si capisce anche la centralità del paesaggio. Il paesaggio è di29

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stante per definizione, proprio intendendo per distante la tensione di lontano e vicino: un paesaggio non comincia mai con elementi dello spazio che occupiamo; troppo vicini, essi sono sfocati. Solo ciò che è sufficientemente lontano può diventare paesaggio, e per ciò stesso, avvicinarsi. Simmel istituisce un’analogia tra un fenomeno di superficie come quello delle modificazioni percettive a seconda della distanza e quello invece profondo del rapporto tra oggetto e soggetto. In questo metodo del far «scendere uno scandaglio nelle profondità della psiche a partire da un punto qualunque della superficie dell’esistenza»43 Simmel è forse insuperato, e non si tratta chiaramente di un mero trucco metodologico, ma è un portato dell’idea centrale che tutto sia in interazione reciproca e quindi si debba cercare di riallacciare il più possibile quelle trame di influenza, che pure siamo costretti a recidere per poter analizzare qualcosa. Il che significa in particolare cercare di mostrare sempre come ogni tendenza porti sempre con sé quella opposta, senza che ve ne sia una più vera o più «giusta». Risulta quindi evidente che la categoria della distanza, tensione continua di vicino e lontano che si respingono e implicano reciprocamente, sia lo strumento più adatto. Relazionale e dinamica, la distanza, non è analizzata come dato statico e fisso, ma in termini dei meccanismi di attiva presa di distanza. Questo sia che si stia parlando della sfera estetica che di quella sociale: in effetti il rapporto tra figura e sfondo è uno dei temi preferiti di Simmel, sia nei suoi saggi sull’arte sia nel descrivere il rapporto tra individuo e società. Questo mostrano i vari excursus 30

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simmeliani sulla distanza fisica, attraverso i quali arriva al tema della distanza sociale, nel cui ambito possono essere ricondotti molti se non tutti i processi e tipi sociali per cui Simmel è noto, primo fra tutti il già menzionato straniero44. Il bisogno di distanza nella sfera estetica è infatti simbolo di più ampie e cariche di conseguenze prese di distanza nella vita sociale, tanto che è possibile riconoscere segni di somiglianza tra il concetto simmeliano di distanza e quello di alienazione. Simmel rende tuttavia quest’ultima allo stesso tempo meno univoca e meno superabile rispetto alle formulazioni ereditate dalla generazione precedente. Come la distanza, l’alienazione (e l’oggettivazione) non è semplice tappa dialettica; l’oscillazione di vicino e lontano continuerà, ma proprio nel loro implicarsi vicendevole si rivela che il lontano non è mai assoluto né assolutamente negativo, l’uomo non è mai solo passivo e straniato. Qui la distanza non è misura di ciò che ci separa da una meta, dal superamento del dualismo, ma invece simbolo permanente per quanto dinamico che anche il dualismo è insuperabile45. La specificità della modernità è allora anche nel fatto che l’uomo-prisma ormai sa di esserlo, forse perché la vita moderna lo porta a frammentarsi esso stesso come i raggi luminosi che lo attraversano: la presa di distanza diventa sentimento della distanza. Simmel infatti utilizza il concetto di distanza in particolare nell’analisi del rapporto individuo-società che caratterizza l’epoca dell’economia monetaria, sviluppando questo tema attraverso la discussione della distanza tra l’io e le cose46. Simmel riconosce 31

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come, ricondotta alla categoria della distanza, l’economia monetaria appare innanzitutto come aumentata vicinanza: la libera circolazione di merci e denaro, e la struttura di rapporti sociali correlata, scioglie vincoli personali e particolaristici (legati alla vicinanza), permettendo quindi l’avvicinarsi di ciò che è lontano. Questo spiega, dice Simmel, come ciò che è lontano attiri sempre i moderni, «l’immenso fascino che esercitano gli stili artistici più remoti, temporalmente e spazialmente […] il fascino del frammento, oggi così vivamente sentito, della mera allusione, dell’aforisma, del simbolo, degli stili artistici non sviluppati. Tutte queste forme… ci parlano “come da lontano”»47. Ciò che è remoto infatti ci permette di esplicare questa nostra nuova capacità di avvicinarlo, senza però incombere troppo da vicino sui nostri sensi resi ipersensibili proprio dal potenziale contatto con un numero eccessivo di stimoli. Il fascino della distanza è dunque il portato dell’uomo tipico metropolitano, il blasé, delineato nel saggio Le metropoli e la vita dello spirito. Sottoposto a troppi stimoli, l’uomo blasé per difesa smette di reagirvi, di accordare loro importanza, di farsi sorprendere, come chiudendosi a un’esperienza fattasi troppo incombente e appunto ravvicinata. Corollario di ciò è però che il blasé ha bisogno di ricevere stimoli sempre più forti, in un circolo vizioso che Simmel ha ben fotografato nel breve scritto Berliner Gewerbeausstellung [L’esposizione industriale di Berlino] (1896): «La prossimità estrema in cui i prodotti più eterogenei sono ammassati paralizza i sensi – una vera e propria ipnosi in cui un solo messaggio arriva alla coscienza: qui ci si deve divertire»48. 32

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Ma l’analisi di Simmel non ha nessuna coloritura moralistica o nostalgica, anche perché questa non è che una faccia della sua analisi: sappiamo ormai che ce ne sarà un’altra. Il superamento della distanza è in un certo senso solo un effetto ottico, il denaro è altrettanto, e forse a un livello più profondo, veicolo della tendenza opposta. La lontananza aumenta, perché tutto è mediato dal denaro, che riesce a farci avvicinare cose prima lontane, allontanando quelle vicine. Ogni tentativo di ridurre una lontananza oggettiva la distanza, come nel caso del ponte che certo ci fa superare un ostacolo, ma lo rende tanto più visibile e persistente. Avvicinarci alle cose ci mette di fronte al fatto che sono, e in ultima analisi restano, lontane. Ecco che il blasé è riuscito nel suo intento, è riuscito a prendere distanza da ciò che è vicino e troppo incombente, permettendosi invece di essere sensibile solo verso ciò che è lontano: «Il quadro complessivo di tutto questo significa tuttavia prendere le distanze nei rapporti propriamente intimi, e diminuirle in quelli più esterni. […] ciò che è più remoto diventa più vicino, al prezzo di aumentare la distanza verso ciò che è già vicino»49. La sensibilità per il paesaggio è tra quanto abbiamo acquisito pagando questo «prezzo». Non sorprende che Simmel chiuda la sua analisi della distanza e del ruolo del denaro nel doppio processo di allontanamento e avvicinamento, tornando alla natura e al paesaggio. Tutta la nostra vita è caratterizzata dall’allontanamento dalla natura a cui ci costringe la vita economica e la vita cittadina che ne dipende. Però, forse, 33

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solo mediante questo allontanamento è possibile che emerga il vero e proprio sentimento estetico e romantico della natura. Chi è abituato a vivere a contatto immediato con la natura può certo goderne soggettivamente le virtù, ma gli manca quella distanza da essa a partire dalla quale soltanto è possibile una visione estetica50.

Nella distanza si genera la Sehnsucht romantica: la nostalgia, il volgersi malinconicamente alla natura come a un paradiso ormai perduto. Per questo particolare fascino hanno proprio quei luoghi dove questa lontananza è resa ancor più evidente dal dispiegarsi delle forze naturali che ci respingono, in particolare quando ormai cristallizzate nella forma stessa del territorio, come nei picchi alpini. L’attrazione per questi luoghi del sublime non si deve solo, ricorda Simmel, al fatto che l’uomo moderno ha bisogno di stimoli forti per i suoi nervi logorati, ma perché questo è il carattere proprio del nostro modo di vivere la natura, come qualcosa di irreparabilmente lontano, ma che grazie a questo riusciamo a collocare al di là dei nostri interessi e conflitti immediati, trovandovi un’istanza pacificata degli opposti altrimenti destinati a contrastarsi. Non si tratta di fuga o rifugio nell’interiorità che nella natura riflette solo se stessa, come l’affinità, almeno di linguaggio, tra Simmel e i romantici, ha spesso fatto credere. Uscito dalla metropoli, il blasé sembra recuperare parte di quella capacità di aprirsi all’incontro con un esterno, o meglio di meravigliarsi – qui come nell’avventura, altro tema simmeliano, conquista e arresa, massima attività e massima passività si fondono, mostrando l’arbitrarie34

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tà della loro separazione – che in città ha dovuto sospendere per non disintegrarsi.

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Paesaggio, esperienza, modernità Eccoci quindi tornati al punto di partenza: l’esperienza moderna illustrata attraverso il paesaggio, che appunto è esperienza, con il carico di ambivalenza che questo concetto porta con sé. Ma l’ambivalenza non è inane oscillazione o indecisione, è invece una qualità che il pensiero simmeliano colloca nel profondo dei fenomeni, tracciandone a ritroso il moto a partire dalla superficie visibile. Descrivendo con precisione i poli dell’oscillazione, Simmel ci fornisce gli strumenti per analizzare non solo tali estremi ma tutti i possibili punti intermedi che li collegano, e che altrimenti potrebbero sembrare, in effetti, strani composti di elementi contraddittori. Che la distanza moderna dalla natura si redima, per così dire, nell’esperienza del paesaggio, è allora ciò che mostra come facilmente le analisi e i giudizi sull’esperire moderno siano invece semplificatori. Grazie alla distinzione natura/paesaggio si può parlare della modernità del secondo come venir meno della prima, concessa, si ritiene, solo all’esperire più diretto e ingenuo degli antichi. Ma è chiaro quindi che si tratta di una modernità relativa, come solo relativo può essere qualsiasi discorso sulla spontaneità degli antichi. La differenza è una differenza di percezione, di distanze, non di essenze o di esclusioni. Se i concetti correnti di paesaggio, e di esperienza, mostrano quindi la loro derivazione romantica51, Simmel, toglie ad essi la 35

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carica di nostalgia e li trasforma in contrappesi che sono parte integrante della modernità stessa. Non vi sono qui i catastrofismi in cui è facile cadere, come quelli della «fine dell’esperienza», o, che è in parte lo stesso, fine dell’esperienza autentica. Se una lettura (semplificata) delle analisi di Simmel sull’esperienza metropolitana, può sembrare sostenere questa tesi, i saggi sul paesaggio, completando l’analisi del moderno da un lato spesso ignorato, mostrano proprio come egli abbia sempre evitato questo pericolo. In essi ritroviamo le principali caratteristiche dell’esperienza moderna, da Simmel stesso delineate nelle sue opere maggiori – frammentata, intellettualizzata e interiore – come estremi che richiedono e generano compensazioni specifiche. È a entrambi i lati che si deve guardare per ottenere una visione più completa del moderno come tipo di esperire, e di agire. Così la frammentarietà riscontrata nel turbinio della metropoli con le sue esposizioni industriali e divisione del lavoro esasperata, trova nel paesaggio non tanto un’altra faccia, un opposto, ma la conciliazione che la sfera estetica consente. Come ha scritto a proposito de L’avventura (1911), Simmel non considera queste esperienze, perché isolate da una «vita vera», inautentiche o superficiali, eccezioni che confermerebbero la «regola» moderna della frammentazione. Le avventure sono sì rese possibili dalla frammentazione, ma, proprio come il paesaggio, sono frammenti in cui brilla la totalità, la loro stessa separatezza dà loro il valore, come suggeriscono le espressioni di senso comune per parlarne, di una vita intera, perché possono raggiungere la coerenza interna che raramente la vita, moderna in particolare, 36

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concede. La liminalità temporale dell’avventura – come quella sociale dello straniero, e quella spaziale del paesaggio – è come se costituisse, per utilizzare una metafora percettiva, un punto di vista che deve alla distanza la chiarezza e ampiezza di visione. Ecco che il frammentarsi è il presupposto di una ritrovata, certo diversa, unità: «L’avventura è …diversa da tutto quel che si può dare di semplicemente casuale o di estraneo, da ciò che sfiora la superficie della nostra vita. Ponendosi al di fuori di questo insieme concatenato, essa vi rientra, per così dire, proprio con questo movimento»52. Non vi è quindi fine dell’esperienza a causa della frammentazione, la totale trasformazione dell’esperienza che si ha nell’esperienza che si fa. Si riconosce piuttosto che esse si presuppongono a vicenda e che le trasformazioni, che certo vi sono, vanno ricercate nella loro articolazione specifica. Questo vale anche per il carattere intellettualizzato come tratto tipico moderno. Se la descrizione corrente del moderno come razionalizzazione prevede la frammentazione non solo delle tradizioni consolidate, ma la estende anche ai luoghi più profondi della riproduzione della soggettività, Simmel dice invece qualcos’altro. Il denaro, causa, effetto e simbolo contemporaneamente del vivere moderno, protegge questo nucleo più intimo: «In quanto il denaro è tanto simbolo quanto causa del livellamento e della esteriorizzazione di tutto ciò che si fa livellare ed esteriorizzare, diventa anche il custode del massimo livello di interiorità che può svilupparsi solo all’interno dei confini più personali»53. E questo nucleo più intimo è quello che si esprime e insieme si ritrova davanti 37

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al paesaggio (e non solo), che ci fa essere uomini interi. Si capisce quindi che per Simmel l’altro dell’intelletto non è il sentimento o peggio ancora il sentimentalismo, ma è l’unità di sentimento e intelletto, che il paesaggio richiede. Perciò le infinite antitesi della vita moderna, che solo l’intelletto può affrontare senza disgregarsi, possono trovare qui un’immagine di totalità e pacificazione. Non a caso una delle esposizioni più chiare del carattere intellettualistico moderno si trova proprio in chiusura al saggio I paesaggi di Böcklin: essi funzionano su tutt’altri registri, sono al di là del tempo e dello spazio e quindi di ogni calcolo comparativo, collocandosi così nello spazio vuoto che si crea al di là dell’atteggiamento intellettualistico – il calcolo continuo e l’indifferenza per ciò che, come questi paesaggi, è propriamente individuale – con il sorgere di tale atteggiamento stesso54. Si potrebbe obiettare, come è stato fatto, che in fondo quella nel paesaggio è una sorta di fuga, estetizzante o meno. E che, quindi, il carattere frammentato e intellettualizzato viene sì superato in una nuova sintesi ma solo a prezzo di rendere totalmente interiore l’esperienza. L’enfasi su alcune forme di esperienza interiore individuale sarebbe quindi la via cercata da Simmel per preservare o persino ricostituire l’individualità schiacciata dalla crescente espansione della cultura oggettiva55. Ma proprio l’analisi del complesso statuto del paesaggio mostra che esso non può essere ridotto a proiezione di un vissuto totalmente interiore, che l’esperienza non può essere solo interiore. L’uomo blasé è lo stesso che di fronte al paesaggio «ritorna» intero, non più solo intelletto, 38

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frammento e nemmeno puro riflesso dell’interiorità. Simmel è tra i pochi a non scivolare nella critica neoromantica alla società moderna e nella denigrazione dell’esperienza moderna definita come un «non più» (autentica, profonda, ecc.)56. Non per questo la sua posizione è neutra, egli anzi cerca di indagare la specificità del moderno, tracciandone il preciso campo e poli di forze in conflitto. Ricordando anche, però, che vi è una dimensione di continuità e che conflitto e contraddizioni moderne sono appunto specifiche, ma non uniche; anzi, forse la modernità rendendo molto più esplicito ciò che è sempre stato ricondotto a forme di contenimento è un’epoca più tragica certo, ma più sincera. Del resto «è un pregiudizio da pedanti ritenere che tutti i conflitti e i problemi siano là, a bella posta per venire risolti […] il futuro non dissolve il conflitto appianandolo, ma solo dissolve le sue forme e i suoi contenuti mediante altri…»57. Allora, semmai, la questione è come far in modo che all’uomo contemporaneo non venga a mancare la possibilità dell’esperienza di paesaggio così intesa, tema che non a caso sta sollevando negli ultimi anni sempre maggior interesse accademico e istituzionale58. Quando scriveva Simmel la modernità aveva già assunto i principali caratteri che tuttora mantiene, e che proprio Simmel ha saputo cogliere nelle sue sfumature culturali e individuali. Essa non mostrava ancora, forse, un carattere: il suo essere diffusa, la sua penetrazione capillare che si rivela non solo nel concentrato di modernità che la metropoli rappresenta, rendendo per questo utili oggi le descrizioni ormai centenarie di Simmel, ma anche nello spazio 39

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fisico al di fuori di essa. Il corrispettivo a corto raggio, se vogliamo, della globalizzazione. Di questa vedeva Simmel tuttavia i primi rampanti segni, come mostra il breve scritto Alpenreisen [Viaggio alpino] (1895), stimolato dalla inaugurazione di una linea ferroviaria che per prima si inoltrava su vette delle Alpi svizzere sino ad allora accessibili solo con lunghe escursioni a piedi. Ma proprio laddove molti hanno trovato i primi appigli per la critica dell’esperienza moderna come inautentica59, Simmel, dispiegando ancora una volta la sua capacità di creare prospettive insolite, saluta come positivo l’estendersi dell’accesso alla natura, smascherando piuttosto l’ideologia romantica dell’esperienza solitaria ed edificante: «Non sono d’accordo con lo sciocco romanticismo che riteneva le vie difficili, il cibo preistorico e i letti scomodi come una parte essenziale dello stimolo dei bei tempi andati del viaggio alpino»60. L’esperienza del paesaggio non è fuga dalla modernità, se vi è redenzione non è dalla modernità ma della modernità (che quasi nessuno concede). Ma a maggior ragione la modernità può misurarsi anche, quindi, dalla capacità di diffondere e proteggere la sensibilità per il paesaggio, come parte integrante di essa stessa, e non nei termini di accessoria compensazione, mera riduzione d’impatto o recupero di un idillio premoderno che è, questo sì, solo una proiezione tutta moderna.

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NOTE

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G. Simmel Tracce nel ghiaccio (1900), trad. it. in «Aut Aut», Vol. 257, 1993, pp.15-6. Questo testo fa parte delle «Istantanee sub specie aeternitatis», che Simmel ha pubblicato come brevi contributi, spesso anonimi o semplicemente siglati G. S., sulla rivista di Monaco «Jugend». Cfr. O. Rammstedt, On Simmel’s Aesthetics: Argumentation in the Journal Jugend. 1897-1906, in «Theory, Culture & Society», vol. 8, 1991, pp. 125-144. 2 Questa collana di Classici di Sociologia ne è buona testimonianza. Per questa ragione non si è voluto riproporre qui un’introduzione generale, e per forza riduttiva, del pensiero di Simmel, preferendo rimandare a quelle ottime già esistenti. Si vedano ad esempio in questa collana P. Jedlowski, Introduzione, in G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito (1903), trad. it. Roma, Armando, 1995 e V. Cotesta, Introduzione, in G. Simmel, Sull’intimità, Roma, Armando, 1996. Pietre miliari nell’interpretazione italiana di Simmel restano, tra gli altri, V. D’Anna, Georg Simmel. Dalla filosofia del denaro alla filosofia della vita, Bari, Laterza, 1982; A. Cavalli e L. Perucchi, Introduzione, in G. Simmel, Filosofia del denaro (19072), trad. it. Torino, Utet, 1984; A. Dal Lago, Il conflitto della modernità, Bologna, Il Mulino, 1995. Per notizie sulla vita e le opere di Simmel, e sulle traduzioni italiane si veda la Nota bio-bibliografica in appendice a questo volume. 3 Böcklins Landschaften e Philosophie der Landschaft sono stati pubblicati dapprima in rivista, e poi inseriti in raccolte postume, rispettivamente Philosophie der Kunst (1922) e Brücke und Tür (1957). Le traduzioni italiane, I paesaggi di Böcklin e Filosofia del paesaggio sono state precedentemente pubblicate nella raccolta Il volto e il ritratto (Bologna, Il Mulino, 1983; trad. di Lucio Perucchi). Die Ruine e Die Alpen fanno parte del volume Philosophische Kultur. Gesammelte Essays del 1911, tradotto in italiano come La moda e altri saggi di cultura filosofica, Milano, Longanesi, 1985, trad. it. di Marcello Monaldi. Versioni precedenti leggermente diverse erano

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Presentazione state pubblicate da Simmel in rivista rispettivamente con il titolo Die Ruine. Ein ästhetischer Versuch (1907) e Zur Ästhetik der Alpen (1911). 4 Scrivendo qui dell’autore di Cultura femminile (1911; trad. it. in La moda e altri saggi di cultura filosofica, Milano, Longanesi, 1985) sembra doveroso accennare al fatto che non c’è modo di sfuggire, linguisticamente, al vizio androcentrico, alla riduzione di ciò che è generalmente «umano» a ciò che è «maschile». Usare termini più politicamente corretti, ma solo apparentemente più neutrali, come essere umano o umanità – le uniche alternative, ma poco più che goffe perifrasi attorno ad una stessa etimologia – è assai meno utile del riconoscere questo, come Simmel ha fatto nel saggio appena ricordato. 5 Per l’analisi di questo concetto chiave in Simmel, e difficilmente traducibile in Italiano, si veda A. Cavalli, Introduzione, in G. Simmel, Sociologia (1908), trad. it. Milano, Comunità, 1989. 6 J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia (1860), trad. it. Milano, Newton Compton, 1994. Il tema della sensibilità moderna per il paesaggio è successivamente stato sviluppato anche da A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti (1903), trad. it. Bologna, Nuova Alfa, 1990, e più direttamente, dopo Simmel, da J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna (1963), trad. it. Milano, Guerini, 1994. Per un’analisi critica di questa tradizione si vedano M. Venturi Ferriolo, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano, Roma, Editori Riuniti, 2002; R. Milani, L’arte del paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2001. Per una storia sociale del paesaggio nell’arte si veda anche A. Cauquelin, L’invention du paysage, Paris, Plon, 1989. La letteratura sul paesaggio è piuttosto vasta e soprattutto multidisciplinare; in particolare abbondano studi filosofico-estetici da un lato e di impianto urbanistico o geografico più mirati all’intervento, dall’altro, con integrazione molto scarsa. Tuttavia le scienze sociali, che potrebbero contribuire a colmare lo scarto, solo molto di recente, e tendenzialmente non nella tradizione italiana, hanno cominciato a riflettere sul paesaggio, in particolare in termini di relazioni so-

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Monica Sassatelli ciali e per il suo ruolo nella costruzione delle identità (cfr. ad esempio D. Gregory e J. Urry (a cura di), Social Relations and Spatial Structures, London, Macmillan, 1985 e, per un’analisi più generale sulla costruzione sociale della natura, pervasiva ma contestata, P. Macnaghten e J. Urry (a cura di), Contested Natures, London, Sage, 1998). In italiano si veda anche F. Lai, Antropologia del paesaggio, Roma, Carocci, 2000. 7 Cfr. B. Bender (a cura di), Landscape: Politics and Perspectives, Oxford, Berg, 1993. Sul modo di abitare e percepire il paesaggio che caratterizza culture non occidentali si veda anche E. Hirsch e M. O’Hanlon (a cura di), The Anthropology of Landscape, Oxford, Oxford University Press, 1995. 8 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 673. Si noti qui quanto sia debitrice da Simmel la nota definizione di aura di Walter Benjamin, «apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina» (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1936], trad. it. Torino, Einaudi, 1991, p. 25), esemplificata proprio dalla visione di oggetti naturali: «Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa…» (Ibid.). 9 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., pp. 673-4. 10 Ibid., pp. 663-82. 11 G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit. p. 35. 12 Cfr. D. Frisby, Introduction to the texts, in D. Frisby e M. Featherstone (a cura di) Simmel on Culture, London, Sage, 1997. 13 Un accostamento messo in evidenza da David Frisby che, sottolineando come il saggio sulle metropoli sia stato scritto lo stesso anno di quello sulla sociologia dello spazio (prima della versione rielaborata per la Sociologia), suggerisce una lettura del primo non solo alla luce della Filosofia del denaro come è comunemente accettato (e come lo stesso Simmel ha indicato in una nota finale al testo), ma anche nel quadro dell’analisi simmeliana dello spazio sociale e del suo impatto sull’individuo e la sua vita psicologica e sociale (Cfr. D. Frisby, Ibid., p.11).

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Presentazione

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G. Simmel Il cristianesimo e l’arte (1907), trad. it. in Saggi di estetica, Padova, Liviana, 1970, p. 43 15 G. Simmel, Sociologia, cit. p. 531. 16 S. Kracauer, Georg Simmel (1920), trad. it. in La massa come ornamento, Napoli, Guida, 1982, p. 63. 17 Come ha sottolineato L. Boella nella sua monografia su Simmel, che fa del paesaggio il filo rosso per un percorso di lettura dell’intera opera simmeliana, anche in relazione alla sua influenza sulla generazione dei suoi allievi – Benjamin, Bloch e Lukács in particolare – per l’interpretazione dell’esperienza moderna (L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, Milano, Unicopli, 1988). 18 G. Simmel, Filosofia del paesaggio, cit, infra, p. 54. 19 Sulla concezione di Simmel del mondo naturale, nel tentativo anche di ricollegarlo alle teorie e pratiche ecologiche moderne, si veda M. Gross, Unexpected Interactions. Georg Simmel and the Observation of Nature, in «Journal of Classical Sociology», Vol. 1, 3, 2001, pp. 395-414. 20 G. Simmel, Ponte e porta (1903), trad. it. in Saggi di estetica, cit., p. 3. 21 L’analisi di Simmel dell’esperienza di paesaggio deve molto alla sua interpretazione dell’esperienza estetica in Kant (cfr. G. Simmel, Kant. Sedici lezioni berlinesi (1904), trad. it. Milano, Unicopli, 1986). Anche questo dovrebbe mostrare che non si può certo relegare Simmel in una visione meramente soggettivistica del paesaggio, come alcuni sostengono pur continuando a utilizzare espressioni coniate dallo stesso Simmel per esprimere il precario equilibrio di oggettivo e soggettivo che il paesaggio rende visibile (Cfr. ad esempio P. D’Angelo, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Roma-Bari, Laterza, 2001). 22 G. Simmel, Concetto e tragedia della cultura (1911-12), trad. it. in Arte e civiltà, Milano, Isedi, 1976, p. 90. 23 G. Simmel, L’ansa del vaso (1911), trad. it. in La moda, cit., p.101. Per una famosa critica a questo saggio si veda T. Adorno, Manico, brocca e prima esperienza (1965), trad. it. in Note per la letteratura 1961-1968, Torino, Einaudi, 1979.

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Ecco perché «L’alba e il dipinto sono entrambi presenti come realtà, ma mentre la prima trova il proprio valore soltanto nel continuare a vivere in soggetti psichici, in ques’ultimo, che ha già assorbito in sé una tale vita e le ha dato forma in un oggetto, la nostra sensibilità per il valore si ferma come in qualcosa di definitivo, che non ha bisogno di soggettivazione.» (G. Simmel, Concetto e tragedia della cultura, cit., p. 91). 25 B. Nedelmann, Erleben ed Erlebnis in Georg Simmel, in V.E. Russo (a cura di), La questione dell’esperienza, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991, p.104. Nedelmann propone questa visione del pensiero di Simmel in particolare in riferimento a Forme e giochi di società (1917), trad. it. Milano, Feltrinelli, 1983. Questa schematizzazione, che pure l’autrice si premura di definire analitica, sembra pericolosa e potenzialmente semplificatrice. Ad esempio, essa sembra fondamentale per le conclusioni che Nedelmann e altri traggono a proposito dell’artificiosità e inautenticità delle esperienze contemporanee, costruite appositamente, dalle industrie culturali e turistiche in particolare, in cui il soggetto che esperisce viene sempre descritto come totalmente passivo, mero imbuto interiorizzante; conclusioni che non tengono conto della posizione assai meno deterministica e univoca di Simmel, come mostra anche il breve saggio Alpenreisen (vedi ultima sezione di questa introduzione). 26 G. Simmel, I paesaggi di Böcklin, cit., infra, p. 102. 27 G. Simmel, Filosofia del paesaggio, cit., infra, p. 69. 28 E nonostante la sua tragedia, cfr. Concetto e tragedia della cultura, cit. 29 Ibid., p. 85. Passaggi simili si ritrovano anche in Il concetto di cultura (sezione di Filosofia del denaro, cit., pp. 63033); dove l’immagine è quella dell’albero selvatico e poi coltivato, paragonato al blocco di marmo grezzo da cui si ricava la statua, senza che si possa dire che è stato coltivato, non essendovi nel blocco nessuna tendenza intrinseca a divenire statua. Nel saggio Vom Wesen der Kultur (1908, contenuto in Brücke und Tür, Stuttgart, 1957) la metafora si specifica, arri-

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Presentazione vando a una formulazione assai simile a quella di Concetto e tragedia della cultura: si parla già di un pero selvatico coltivato ad albero da frutto e di come questo non sia paragonabile al ricavare dal legno un albero maestro. 30 Cfr. G. Simmel, Vom Wesen del Kultur, cit. 31 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 630. 32 In tedesco, come in molte altre lingue, non esiste una distinzione tra coltura e cultura (entrambe Kultur), e quindi nemmeno tra i loro derivati, come invece coltivato e colto in italiano. È alla luce di questo che si comprende in che senso Simmel afferma che «solo metaforicamente le cose impersonali si possono definire coltivate» (Filosofia del denaro, cit., p. 631) e che parlandoci dell’albero innestato ha sempre continuato a pensare a questo come immagine dell’essere umano. 33 Sul significato che quindi assume il paesaggio come «stratificazione della memoria», ossia dell’interazione tra natura e cultura, mostrandone la profonda commistione, e come ciò non costituisca uno snaturamento o svilimento, ma anzi la sua ragion d’essere si veda S. Schama, Paesaggio e memoria (1995), trad. it. Milano, Arnoldo Mondadori, 1997. 34 Su questo tema fondamentale per l’analisi della società dell’economia monetaria in Simmel si veda N. Squicciarino, Introduzione: il fine non esclude i mezzi, in G. Simmel, Il denaro nella cultura moderna, Roma, Armando, 1998. 35 G. Simmel, Concetto e tragedia della cultura, cit., p. 101. 36 Ibid. 37 R. Bodei, Tempi e mondi possibili: arte, avventura, straniero in Georg Simmel, in «Aut Aut», 1993, p. 65. 38 Si veda in particolare il saggio su Böcklin, infra. Chiaramente il punto non è questionare sul fatto che questi paesaggi raggiungano davvero questo ideale – e che il giudizio in proposito sarà sempre un giudizio soggettivo, o meglio, inter-soggettivo – ma aver individuato questa costellazione. 39 Si tratta di un tema baudelariano, ampiamente ripreso in particolare da W. Benjamin (Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1984). Simmel si distacca tuttavia dalla condanna categorica

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Monica Sassatelli che in genere segue queste osservazioni: «per Simmel, nel mondo della reificazione le cose non sono ridotte a pure maschere […] È qui che si gioca l’attualità dell’idea simmeliana della cultura moderna come fortemente produttiva, capace di liberare nella tensione che la caratterizza figure dell’ombra, immagini, forme della sensibilità non certo ridotte a intimismo, ma frutto dell’elaborazione attiva di una realtà frammentaria» (L. Boella, Dietro il paesaggio, cit., p. 20.). Sulla questione del carattere intimistico, o meno, dell’esperienza moderna, si veda anche l’ultima sezione di questa introduzione. 40 Simmel era piuttosto scettico riguardo ai risultati di movimenti artistici miranti all’espressione «spontanea» e immediata, come l’espressionismo, senza però negare che questi fossero mossi «da un impulso vitale assolutamente positivo» (G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna (1918), in Il conflitto della cultura moderna e altri saggi, Roma, Bulzoni, 1976, p.108). 41 G. Simmel, Roma (1898), trad. it. (parziale) in M. Cacciari (a cura di), Metropolis. Saggi sulla grande città di Sombart, Endell, Scheffler e Simmel, Roma, Officina, 1973, p. 189. Questo testo contiene anche traduzioni dei saggi Firenze (1906) e Venezia (1907), anch’esse parziali. 42 Si veda a questo proposito in particolare D. Solies, Natur in der Distanz. Zur Bedeutung von Georg Simmels Kulturphilosophie für die Landschaftsästhetik, St. Augustin, Gardez Verlag, 1998. 43 G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, cit., p. 41. 44 Sia lungo la direttrice dentro-fuori (come appunto lo straniero, ma anche il povero, e la società segreta) che quella sopra-sotto (dominazione e subordinazione, l’aristocratico e il borghese). Cfr. D. Levine, The Structure of Simmel’s Social Social Thought, in K. Wolff (a cura di), Georg Simmel 18581918, Columbus, Ohio State University Press, 1958; M.S. Davis, Georg Simmel and the Aesthetics of Social reality, in «Social forces», Vol. 53, 1973, pp. 320-29. 45 L’elevazione della distanza a fine in sé è tema che Sim-

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Presentazione mel sviluppa a partire da Nietzsche. Sulla relazione tra il pensiero dei due autori, in particolare riguardo al «pathos della distanza», si veda K. Lichtblau, Das «Pathos der Distanz». Präliminarien zur Nietzsche-rezeption bei Georg Simmel, in H.J. Dahme e O. Rammstedt (a cura di), Georg Simmel und die Moderne, Frankfurt, Suhrkamp,1984. 46 A. Dal Lago ha scritto che «Se il mondo sociale si presenta come un paesaggio, in cui profondità, prospettive, tonalità di luce, singole figure e contorni mutano relativamente alla posizione dell’osservatore, anche la figura principale in campo, l’attore, è esposta alla mutevolezza delle immagini» (A. Dal Lago, Introduzione, in G. Simmel Forme e giochi di società, cit., p.23). Dal Lago sottolinea come non si tratti solo di una questione di metodo appunto (relativa all’unità di analisi che la distanza dell’osservatore consente di cogliere), ma riflette una visione in cui l’individuo «è divenuto un oggetto divisibile […] è il prodotto passivo dell’intersezione delle cerchie sociali» (Ibid.). Eppure, sviluppando la metafora del paesaggio – che è assai più di questo – si può notare che l’individuo non è affatto al suo interno, anzi suo è lo sguardo che fa nascere il paesaggio, rendendo molto meno perentoria e definitiva la sua passività. 47 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 668. 48 G. Simmel, Berliner Gewerbeausstellung, in «Die Zeit» 7, 1896, p. 204; trad. mia. 49 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., pp. 670-71. 50 Ibid., p. 673. 51 Sulla storia del concetto di esperienza, in particolare per il rapporto tra le due accezioni di Erfahrung, l’esperienza accumulata della tradizione (l’esperienza che si ha) ed Erlebnis, l’esperienza vissuta (quella che si fa), e sul progressivo prevalere della seconda sulla prima in molte analisi della modernità, si veda P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Milano, Il Saggiatore, 1994. 52 G. Simmel, L’avventura, cit., p. 15. 53 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 662. 54 Vedi G. Simmel, I paesaggi di Böcklin, cit., infra pp. 98-99.

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Il tema dell’esperienza moderna come interiorizzata e quindi del moderno in generale come psicologismo come chiave di lettura del pensiero simmeliano si deve in gran parte all’interpretazione di David Frisby, uno dei protagonisti del revival simmeliano inglese. Frisby si sofferma in particolare su un passaggio del saggio Rodin (1911), poi ripetutamente citato, spesso decontestualizzato, nella letteratura secondaria: «L’antica plastica cercava, per così dire, la logica del corpo, Rodin ne cerca la psicologia. Perché l’essenza del moderno è lo psicologismo, il vivere e lo spiegare il mondo in base alle reazioni della nostra interiorità, intendendolo propriamente come un mondo interiore, la dissoluzione dei contenuti saldi nell’elemento fluido dell’anima, che viene depurata da ogni istanza e le cui forme sono soltanto forme di movimenti» (G. Simmel, Rodin, trad, it. in Il volto e il ritratto, cit. p. 213). Collocato nell’ambito dell’intera riflessione simmeliana in materia, ed in particolare quanto contenuto nella parte finale di Filosofia del denaro, il senso di quel passaggio appare tuttavia assai poco univoco. Lo stesso saggio su Rodin, che contiene anche un accenno al paesaggio come propriamente moderno in quanto espressione di un état d’âme in cui la varietà dei frammenti prevale sulla struttura formale totalizzante, si chiude affermando che l’opera di Rodin «Facendoci vivere ancora una volta la nostra vita più profonda nella sfera dell’arte ci libera proprio dal modo in cui la viviamo nella sfera della realtà» (Ibid., p. 215). 56 Cfr. P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, cit., e M. Berman, L’esperienza della modernità (1982), Bologna, Il Mulino, 1985. 57 G. Simmel, Il conflitto della cultura moderna, cit., p. 134. 58 Basti pensare alla recente Convenzione Europea del Paesaggio ad opera del Consiglio d’Europa (entrata in vigore a marzo 2004), sintomo e a sua volta fattore di un’accresciuta attenzione non solo accademica. Da notare che la Convenzione si basa su una concezione piuttosto articolata di paesaggio come realtà che necessita di una percezione consape-

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Presentazione vole e che a sua volta può giocare un ruolo importante nella costruzione delle identità, rendendo evidente quanto sia necessaria una più marcata presenza dell’approccio delle scienze sociali negli studi sul paesaggio, anche a partire da una riscoperta dei saggi di Simmel. 59 Il riferimento è agli studi sulla cultura di massa e più recentemente sulle pratiche turistiche e del tempo libero in generale, solitamente descritte nei termini di esperienze superficiali e manipolate dall’«economia dell’esperienza» (J. Rifkin, L’era dell’accesso, Milano, Mondadori, 2000). La questione, chiaramente, non è quella di un aut aut, ma piuttosto la capacità, come quella dispiegata dall’impostazione simmeliana, di cogliere tendenze e significati opposti all’interno di uno stesso fenomeno. 60 G. Simmel, Alpenreisen, in «Die Zeit», 4, 1895, pp. 2224; trad. mia.

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Filosofia del paesaggio

Infinite volte il cammino ci porta attraverso la libera natura e percepiamo, con i più diversi gradi d’attenzione, alberi e acque, prati e campi di grano, colline e case, e tutti i mille cambiamenti della luce e delle nuvole – ma, per il fatto che osserviamo questi singoli particolari o anche vediamo insieme questo e quello di loro, non siamo ancora convinti di vedere un «paesaggio». Anzi, un tale singolo contenuto del campo visivo non può continuare ad avvincere i nostri sensi. La nostra coscienza ha bisogno di una nuova totalità, unitaria, che superi gli elementi, senza essere legata ai loro significati particolari ed essere meccanicamente composta da essi – questo soltanto è il paesaggio. Se non mi inganno, raramente si è capito che il paesaggio non è ancora dato quando cose di ogni specie si estendono, una accanto all’altra, su un pezzo di terra e vengono viste immediatamente insieme. Cercherò di spiegare qui, a partire da alcune delle sue premesse e delle sue forme, il vero e proprio processo spirituale che solo trasforma tutto questo e produce il paesaggio. Innanzitutto: il fatto che le cose visibili su un pezzo di terra siano «natura» – certo insieme alle opere dell’uomo, che tuttavia si inquadrano nella natura – e 53

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Saggi sul paesaggio

non tratti di strada con grandi magazzini e automobili, non fa ancora di questo pezzo di terra un paesaggio. Per natura intendiamo l’infinita connessione delle cose, l’ininterrotta nascita e distruzione delle forme, l’unità fluttuante dell’accadere, che si esprime nella continuità dell’esistenza temporale e spaziale. Se definiamo natura un elemento della realtà, intendiamo riferirci ad una sua qualità interna, alla sua differenza rispetto all’arte e ai prodotti artificiali, all’ideale e alla storia; oppure al fatto che la sua funzione è di rappresentare e simboleggiare quella totalità dell’essere, la cui corrente sentiamo rumoreggiare nell’elemento. «Un pezzo di natura» è, propriamente, una contraddizione interna; la natura non ha parti, è l’unità di una totalità e nell’attimo in cui ne viene separato qualcosa, non è più in assoluto natura, proprio perché può essere «natura» solo all’interno di quell’unità priva di contorni, come onda di quella corrente totale. Per il paesaggio, invece, è assolutamente essenziale la delimitazione, l’essere compreso in un orizzonte momentaneo o durevole; la sua base materiale o le sue singole parti possono avere semplicemente il valore di natura, ma, rappresentate come «paesaggio», richiedono un essere-per-sé che può essere ottico, estetico, legato a uno stato d’animo, reclamano un rilievo individuale e caratteristico, rispetto a quell’unità indissolubile della natura, nella quale ogni pezzo può essere soltanto il punto di passaggio delle forze universali dell’esistenza. Vedere un pezzo di terra con quel che ci sta sopra come un paesaggio, significherebbe considerare una sezione della natura come unità specifica – il che si allontana completamente dal concetto di natura. 54

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Georg Simmel

L’atto spirituale, con il quale l’uomo forma una cerchia di fenomeni nella categoria «paesaggio», mi sembra il seguente: una visione in sé compiuta, sentita come unità autosufficiente, ma intrecciata tuttavia con qualcosa di infinitamente più esteso, fluttuante, compreso in limiti che non esistono per il sentimento – proprio di uno strato più profondo – dell’unità divina, della totalità naturale. Da questo sentimento i confini autonomi di ogni paesaggio vengono continuamente sfiorati e allentati, e il paesaggio, benché separato e indipendente, viene continuamente spiritualizzato dall’oscura coscienza di questa connessione infinita. Anche l’opera dell’uomo esiste come struttura obiettiva, autonoma e tuttavia resta intrecciata, in modo difficilmente esprimibile con tutta l’anima, con tutta la vitalità del suo autore, vi ha la propria sorgente e ne è sensibilmente pervasa. La natura, che nel proprio essere e nel proprio senso profondo, ignora l’individualità, viene trasformata nella individualità del «paesaggio» dallo sguardo dell’uomo, che divide e configura in forma di unità distinte ciò che ha diviso. Si è spesso sostenuto che l’autentico «sentimento della natura» è nato solo nell’epoca moderna, derivandolo dal suo lirismo, dal romanticismo, ecc.; non senza superficialità, mi sembra. Proprio le religioni più primitive mi sembrano infatti rivelare un sentimento particolarmente profondo della «natura». È solo la sensibilità per la particolare forma «paesaggio» che si è sviluppata tardi, e proprio perché la creazione del paesaggio richiedeva una lacerazione rispetto al sentimento unitario della natura universale. L’individualizzazione delle forme interiori ed esterio55

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Saggi sul paesaggio

ri dell’esistenza, la dissoluzione dei legami originari e delle unioni in entità particolari differenziate, questa grande formula del mondo successivo al Medioevo ci ha anche fatto vedere per la prima volta il paesaggio nella natura. Nessuna meraviglia che l’antichità e il Medioevo non avessero il senso del paesaggio; l’oggetto stesso non aveva ancora quel netto carattere spirituale e quell’indipendente struttura formale, il cui guadagno finale in seguito fu rafforzato e, per così dire, capitalizzato dalla nascita della pittura di paesaggio. Che la parte divenga un tutto indipendente, diventando troppo grande per l’intero cui apparteneva e pretendendo particolari diritti rispetto ad esso, è forse la più radicale tragedia dello spirito, che nell’epoca moderna ha raggiunto il massimo effetto, arrogandosi la direzione del processo culturale. Dalla molteplicità delle relazioni nella cui trama son compresi gli uomini, i gruppi, le strutture, si leva contro di noi quel dualismo provocato dal fatto che il singolo desidera essere una totalità, mentre la sua appartenenza ad una totalità più grande gli concede soltanto un ruolo secondario. Noi sperimentiamo il nostro centro contemporaneamente fuori di noi e in noi, perché noi stessi, e la nostra opera, siamo meri elementi di totalità che richiedono una specializzazione unilaterale in conformità alla divisione del lavoro, mentre noi vogliamo essere e creare qualcosa di compiuto e indipendente. Mentre sulla base di questo motivo si profilano infinite lotte e lacerazioni nell’ambito della società e della tecnica, dello spirito e della morale, la stessa forma produce in rapporto alla natura la ricchezza e 56

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Georg Simmel

la conciliazione espresse dal paesaggio, che pur essendo qualcosa di individuale, di chiuso, di pago, resta legato senza contraddizioni alla natura e alla sua unità. Anche se è innegabile che il «paesaggio» sorge solo quando la vita pulsante nella visione e nel sentimento si strappa dall’unità della natura, e la struttura particolare così creata si apre nuovamente, per così dire da se stessa, a quella della vita totale, accogliendo nei propri confini inviolati l’illimitato. Quale legge, continuiamo tuttavia a chiederci, determina questa scelta e questa composizione? Perché ciò che abbracciamo con uno sguardo o all’interno del nostro orizzonte momentaneo non è ancora paesaggio, ma tutt’al più materiale per esso – come una quantità di libri accatastati non è «una biblioteca», ma lo diventa piuttosto, senza che se ne aggiunga o se ne tolga alcuno, solo quando un concetto unificante li ordina secondo il proprio criterio formale. Tuttavia, la formula inconscia, ma efficace, che produce il paesaggio come tale, non si può dimostrare altrettanto semplicemente, anzi, in linea di principio, non si può dimostrare affatto. Il materiale del paesaggio, quale è fornito dalla mera natura, è così infinitamente molteplice e variabile volta per volta, che anche i punti di vista e le forme, che nel singolo caso producono con questi elementi l’unità dell’impressione, saranno molto vari. Mi sembra che la via per giungere perlomeno a dei valori approssimativi, conduca al di là del paesaggio come opera d’arte della pittura. Infatti la comprensione del nostro problema si collega allo sviluppo del seguente motivo: il paesaggio come opera d’arte sorge come continuazione, intensificazione e 57

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Saggi sul paesaggio

purificazione del processo in cui il paesaggio, nel senso linguistico abituale, sorge in tutti noi dalla mera impressione di singole cose della natura. Quel che fa l’artista: delimitare nella corrente caotica e nell’infinità del mondo immediatamente dato una parte, concepirla e formarla come un’unità, che ora trova il proprio senso in se stessa, tagliando i fili che la collegano al mondo e riallacciandoli nel proprio punto centrale – proprio questo facciamo anche noi, in misura minore e con meno coerenza, in modo frammentario e con limiti incerti, non appena invece di un prato, di una casa, di un ruscello, di un movimento delle nuvole, vediamo un «paesaggio». Si manifesta qui una delle più profonde determinazioni di tutta la vita spirituale e della sua produttività. Tutto ciò che chiamiamo cultura contiene una serie di strutture dotate di legge propria, che con autosufficiente purezza si sono poste al di là della vita quotidiana, della trama complessa della vita pratica e soggettiva; intendo dire la scienza, la religione, l’arte. Certo, esse possono pretendere di venir coltivate e comprese in base alle proprie idee e alle proprie norme, esistenti di per sé, separate dalla torbidezza della vita accidentale. Nondimeno c’è anche un’altra via per la loro comprensione, o meglio, una via per una loro diversa comprensione. Vale a dire che la vita empirica, e quindi non quella, per così dire, in linea di principio, contiene continui accenni ed elementi di quelle strutture, che dalla vita si staccano per tendere verso quel loro sviluppo autonomo, che si cristallizza soltanto intorno alla propria idea. Non, dunque, come se tutte queste sfere creatrici dello spirito esistessero separatamente, e la nostra vita, che 58

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scorre guidata da determinati istinti e da determinate mete, si impadronisse di alcune loro sezioni e le adattasse a sé. Non è questo, che pure accade di continuo, che si intende qui, ma il fenomeno inverso. Si può dire che la vita produca nel suo corso continuo sentimenti e i tipi di comportamento, che devono essere chiamati religiosi, benché non vengano assolutamente vissuti in base al concetto della religione e non gli appartengano: l’amore e le impressioni della natura, gli slanci ideali e l’abnegazione verso le più ampie e le più ristrette comunità dell’umanità, hanno abbastanza spesso questa coloritura, che tuttavia non viene irradiata da una «religione» definita in modo autonomo e compiuto. La religione, invece, sorge in quanto questo elemento particolare, concresciuto con tutti i vissuti e codeterminante il modo del loro venir vissuti, si pone in rilievo fino a giungere ad esistenza indipendente, abbandona il loro contenuto, si condensa con un autonomo atto di creazione nelle pure strutture che ne sono espressione: nelle divinità. Ed è del tutto indipendente da ciò quale verità e significato possiedano ora queste strutture nella loro vita particolare, separate da tutte quelle forme preliminari. La religiosità, nella cui tonalità particolare viviamo infiniti sentimenti e destini, non deriva – o deriva, per così dire solo successivamente – dalla religione come particolare ambito della trascendenza; al contrario, è la religione che si sviluppa da quella religiosità, nella misura in cui la religiosità si crea da sé dei contenuti, invece di limitarsi a formare o a caratterizzare quelli che le vengono assegnati dalla vita o che sono ulteriormente intrecciati nella vita. 59

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Saggi sul paesaggio

Con la scienza non è diverso. I suoi metodi e le sue norme, nonostante tutta la loro imperturbata altezza e la loro intatta sovranità, sono pur sempre le forme del conoscere quotidiano divenute autonome e giunte a un potere assoluto. Certo, queste prime forme sono semplici mezzi della prassi, elementi utili, ma in qualche modo accidentali, intrecciati con tanti e tanti altri alla totalità empirica della vita; nella scienza, invece, il conoscere è diventato fine a se stesso, è un regno dello spirito amministrato secondo una propria legislatura – ma, nonostante lo straordinario spostamento di centro e di senso, si tratta soltanto del sapere disperso nella vita e nel mondo quotidiano che ha acquisito purezza e carattere di principio. Invece di basarsi sulla banalità illuministica che vuole assemblare le province ideali del valore ricavandole dalle bassure della vita: la religione dalla paura, dalla speranza e dall’ignoranza, la conoscenza dalle accidentalità sensibili e utili soltanto nell’ambito del sensibile – varrebbe piuttosto la pena di considerare che delle energie determinanti della vita fanno parte a priori quelle ideali; e solo nella misura in cui, invece di adeguarsi al materiale estraneo, diventano legislatrici dei propri regni, creatrici di contenuti propri, i nostri ambiti di valore si sviluppano intorno alla purezza della loro rispettiva idea. Questa è, del pari, la formula essenziale dell’arte. È completamente assurdo farla derivare dall’istinto di imitazione, dall’impulso al gioco o da altre fonti psicologiche estranee, che possono certo mescolarsi alla sua pura fonte e codeterminarne l’espressione: in quanto arte, l’arte può derivare soltanto dalla dinamica artistica. Non come se avesse inizio con il prodot60

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to artistico finito. L’arte deriva dalla vita – ma solo perché e in quanto la vita, nel modo in cui viene vissuta quotidianamente e dovunque, contiene quelle forze formatrici il cui puro sviluppo, divenuto indipendente e in grado di determinare di per sé il proprio oggetto, si chiamerà poi arte. Certamente non interviene alcun concetto di «arte» nei discorsi quotidiani dell’uomo o nei gesti con cui si esprime, o quando la nostra visione dà forma ai suoi elementi secondo un proprio senso ed una propria unità. Ma in questi fenomeni sono presenti e attivi dei modi di dar forma che, in un certo senso successivamente, dobbiamo chiamare artistici; se infatti, nella legalità che è loro propria, separati dall’intreccio delle loro funzioni nella vita, formano un oggetto per sé, che è soltanto il loro prodotto, allora questo è, appunto, un’«opera d’arte». Solo per quest’ampia via si giustifica la nostra interpretazione del passaggio a partire dai fondamenti ultimi della nostra formazione dell’immagine del mondo. Dove effettivamente vediamo un paesaggio e non più una somma di singoli oggetti naturali, abbiamo un’opera d’arte nel momento del suo nascere. Se capita tanto spesso, proprio nei confronti di impressioni di paesaggio, di sentir dire che si vorrebbe essere pittori per fissarne l’immagine, quest’esclamazione non esprime certo soltanto il desiderio di fissare un ricordo, desiderio che potrebbe verosimilmente indirizzarsi a tante altre impressioni di tipo diverso. Con quella visione la forma artistica, pur vivendo in noi in modo embrionale, ha acquistato forza, ma, incapace di giungere ad una creazione propria, vibra perlomeno nel desiderio, nel preludio interiore di un tale atteggiamento creativo. 61

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Saggi sul paesaggio

Che in generale le nostre possibilità figurative siano stimolate a giungere alla loro realizzazione dal paesaggio piuttosto che dalla visione di individui umani, ha delle motivazioni. Innanzitutto il paesaggio ci sta di fronte ad una distanza che è fonte di obiettività, e giova all’atteggiamento artistico – una distanza non così facilmente e immediatamente raggiungibile nella visione dell’uomo. Qui ci sono d’impaccio le inclinazioni soggettive determinate dalla simpatia o dall’antipatia, gli intrecci pratici e soprattutto quei presentimenti a cui spesso non si fa gran caso e che riguardano il possibile significato di un uomo se divenisse un fattore della nostra vita – sensazioni evidentemente molto oscure e complesse, che tuttavia mi sembrano decidere del nostro modo di considerare anche l’individuo più estraneo. Alla difficoltà di prendere tranquillamente le distanze dall’immagine dell’uomo, difficoltà palese se la si paragona alla situazione che si verifica nei confronti dell’immagine del paesaggio, si aggiunge quel che si potrebbe chiamare la resistenza che l’immagine umana oppone al processo di configurazione artistica. Elementi di paesaggio il nostro sguardo può coglierli ora in questo, ora in quel raggruppamento, può spostare spesso gli accenti tra loro, far variare centro e confini. Ma la struttura umana è determinante di per se stessa, ha realizzato con le proprie forze la sintesi intorno al proprio centro, e in questo modo si delimita con assoluta chiarezza. Pertanto, già nella sua forma naturale, si avvicina in qualche modo all’opera d’arte, e questa può essere la causa per cui, da uno sguardo poco esercitato, la fotografia di una persona può essere confusa con quella del 62

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suo ritratto più facilmente di quanto la foto di un paesaggio possa essere confusa con la riproduzione del dipinto di un paesaggio. La nuova formazione della figura umana nell’opera d’arte è certo indiscutibile; ma essa deriva, per così dire immediatamente, dalla datità di questa figura, mentre prima del dipinto di un paesaggio c’è ancora uno stadio intermedio: la formazione degli elementi di natura in «paesaggio» nel senso usuale del termine, formazione in cui dovettero già cooperare categorie artistiche, e che dunque, in questa misura, si trova già sulla via dell’opera d’arte, ne rappresenta la prefigurazione. Le norme della sua realizzazione possono perciò venir comprese sulla base dell’opera d’arte, che è la conseguenza pura, divenuta autonoma di queste norme. Certo, lo stato attuale della nostra estetica a stento consentirà di far qualcosa di più che stabilire questi elementi di principio. Poiché le regole che la pittura di paesaggio ha stabilito per la scelta dell’oggetto e del punto di vista, per la luce e l’illusione spaziale, per la composizione e l’armonia dei colori, si potrebbero senz’altro indicare, ma esse riguardano, per così dire, quel tratto dello sviluppo svolgentesi dalla prima singolare impressione della cosa fino al quadro del paesaggio, tratto che si trova al di là dello stadio della visione generale del paesaggio. Ciò che conduce fino a questo stadio, da quelle regole è accettato e dato per scontato, e perciò, benché si trovi nella stessa direzione del processo di configurazione artistica, non può essere dedotto da esse, che costituiscono le norme del fatto artistico in senso stretto. Certo, uno di questi motivi di formazione impone la profondità della sua problematica in un modo che 63

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Saggi sul paesaggio

non è affatto trascurabile. Il paesaggio, diciamo noi, sorge in quanto alcuni fenomeni naturali, che si estendono l’uno accanto all’altro, vengono raccolti in un particolare tipo di unità, un’unità diversa da quella in cui questo campo visivo si costituisce per il dotto che pensa secondo il principio di causalità, l’adoratore della natura dotato di sensibilità religiosa, l’agricoltore o lo stratega che perseguono i loro fini. Il più rilevante fondamento di questa unità è certo ciò che chiamiamo «Stimmung»1 del paesaggio. Infatti, come intendiamo per Stimmung di un uomo il quid unitario, che continuamente o provvisoriamente tinge la totalità dei suoi singoli contenuti spirituali, senza essere in se stesso qualcosa di singolo, quel quid che, pur non essendo collegato in modo preciso al particolare, è tuttavia l’universale in cui tutti i particolari si incontrano – così la Stimmung del paesaggio pervade tutti i suoi singoli elementi, spesso senza che si possa stabilire quali di essi ne sia la causa; in un modo difficilmente definibile ciascuno ne fa parte – ma essa non esiste al di fuori di questi apporti, né è composta da essi. Questa particolare difficoltà nel localizzare la tonalità spirituale di un paesaggio continua, in uno strato più profondo, con la domanda: in quale misu1 Stimmung è parola «intraducibile», per l’ampiezza e le sfumature del suo campo semantico. Simmel cerca di precisarne il senso in rapporto al paesaggio. È stata resa perciò in modi lievemente diversi (tonalità spirituale, stato d’animo, sentimento, atmosfera) a seconda del contesto, ma non è stata tradotta quando il contesto aveva la funzione diretta di spiegarla, o quando tradurla significava distruggerne completamente il fascino e il valore evocativo.

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ra la tonalità spirituale del paesaggio ha il proprio fondamento oggettivo in se stessa, dato che è pur sempre una condizione spirituale, e può quindi trovarsi solo nel sentimento riflesso dell’osservatore, e non nelle cose esterne, prive di coscienza? Questi problemi si incrociano con l’oggetto specifico del nostro interesse: se la tonalità spirituale è un momento essenziale, o forse il momento essenziale che traduce la frammentarietà degli elementi del paesaggio in un sentimento di unità – ci si chiede come questo sia possibile dal momento che il paesaggio possiede una «tonalità spirituale» solo quando viene visto come un’unità, e non prima, nella mera somma di elementi disparati. Queste difficoltà non sono inventate, ma inevitabili, sono difficoltà che si presentano, come in moltissimi altri casi dello stesso tipo, non appena il semplice vissuto, in se stesso indiviso, viene scisso in elementi dal pensiero e deve venir compreso solo attraverso i rapporti e le connesioni di questi elementi. Ma forse proprio questa considerazione può aiutarci a proseguire. Infatti, non potrebbero in realtà la tonalità spirituale del paesaggio e la sua unità visiva esser una sola cosa, soltanto vista da due lati? Essere cioè entrambe lo stesso mezzo (solo esprimibile in due modi) mediante il quale di un accostamento di parti la visione dell’anima fa appunto il paesaggio, creando di volta in volta questo paesaggio determinato? Questo atteggiamento non sarebbe del tutto privo di analogie. Quando amiamo qualcuno, crediamo di possedere già la sua immagine compiuta, a cui poi si indirizza il sentimento. In realtà, la persona amata non 65

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Saggi sul paesaggio

viene mai vista obiettivamente; la sua immagine nasce insieme all’amore, e proprio chi ama non saprebbe dire se il trasformarsi dell’immagine abbia provocato l’amore, o l’amore abbia provocato questa trasformazione. È come quando ricreiamo in noi il sentimento che si trova in una poesia lirica. Se questa sensazione non fosse immediatamente presente nelle parole che recepiamo, esse non rappresenterebbero una poesia, ma una banale comunicazione – e, d’altra parte, se non le recepissimo interiormente come una poesia, non potremmo far vivere quel sentimento dentro di noi. Detto questo, la domanda se venga prima la nostra rappresentazione unitaria della cosa o il sentimento che l’accompagna, è evidentemente mal posta. Non esiste, tra loro, un rapporto di causa ed effetto; entrambi, invece, potrebbero valere sia come causa che come effetto. Così, l’unità che il paesaggio realizza come tale, e lo stato d’animo che si origina dal paesaggio e con il quale lo percepiamo, sono solo la scomposizione successiva di un solo atto spirituale. In questo modo si apre uno spiraglio di luce nell’oscurità del problema precedentemente accennato: con quale diritto la Stimmung, che è esclusivamente un processo psichico umano, è una proprietà del paesaggio, cioè di un complesso di cose facenti parte della natura inanimata? Questo diritto sarebbe illusorio se davvero il paesaggio consistesse soltanto in un accostamento di alberi e colline, corsi d’acqua e pietre. Ma il paesaggio è già una forma spirituale, non si può toccarlo all’esterno o camminarci attraverso, vive solo in grazia della forza unificatrice dell’anima, come intreccio del dato con la nostra creati66

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vità, una trama che non è esprimibile con un paragone meccanico. In quanto il paesaggio possiede tutta la sua oggettività di paesaggio all’interno della sfera d’azione della nostra attività formatrice, lo stato d’animo, che è una particolare espressione o una particolare dinamica di questa attività, ha la propria piena oggettività in esso. Forse che nella poesia lirica il sentimento non è una realtà indubbia, indipendente da ogni arbitrio e umore soggettivo come il ritmo e la rima stessa, anche se nessuna traccia di questo sentimento è reperibile nelle singole parole, che il processo naturale di formazione linguistica ha prodotto per così dire senza rendersene conto e nella cui sequenza la poesia consiste esteriormente? Ma è proprio perché la poesia, essendo appunto questa formazione obiettiva, è già un prodotto dello spirito, che il sentimento è una formazione obiettiva è tanto poco separabile da quella realtà, quando il tono con il quale le oscillazioni delle particelle d’aria divengono realtà effettiva in noi, è separabile da esse una volta che abbiano raggiunto il nostro orecchio. Come Stimmung non può venir inteso nessuno dei concetti astratti, a cui per amor di definizione riportiamo il carattere generale di disposizioni d’animo e atmosfere molto varie: diciamo che il paesaggio è sereno o triste, eroico o monotono, tempestoso o melanconico, lasciando in questo modo che il fluire della tonalità spirituale, che gli è immediatamente propria, si dislochi in uno strato, che è anche spiritualmente secondario, e che della vita originaria conserva soltanto gli echi aspecifici. Invece ciò che qui si intende per tonalità spirituale di un paesaggio è 67

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Saggi sul paesaggio

assolutamente e soltanto la tonalità di questo paesaggio, e non può mai essere quella di un altro, anche se forse si possono raggruppare entrambe sotto un concetto generale, per esempio sotto quello della malinconia. Tali tonalità spirituali tipiche nella loro delimitazione concettuale si possono certo attribuire al paesaggio una volta che sia già stato definito; ma la Stimmung che gli è immediatamente propria e che con il mutamento di qualsiasi linea diventerebbe diversa, gli è connaturata, è indissolubilmente legata al sorgere della sua unità formale. Fa parte dei comuni errori che ostacolano la comprensione delle arti figurative, anzi della visibilità in generale, il fatto che si cerchi la tonalità spirituale del paesaggio soltanto in quei concetti generali di sentimenti letterari e lirici. La tonalità spirituale realmente e individualmente propria di un paesaggio non si può definire con tali astrazioni, come non può essere descritta con concetti la sua visibilità stessa. Seppure la tonalità spirituale non fosse altro che il sentimento suscitato dal paesaggio nell’osservatore, anche questo sentimento nella sua reale determinatezza sarebbe legato esclusivamente a questo preciso paesaggio, senza possibilità di sostituzioni, e solo cancellando l’immediatezza e la realtà del suo carattere, potrei riportarlo al concetto universale del malinconico o del lieto, del triste o del tempestoso. In quanto dunque la tonalità spirituale significa il carattere generale di questo paesaggio, quel carattere, cioè, che non è fissato in nessun singolo elemento di questo paesaggio, ma non l’elemento generale di molti paesaggi, la tonalità spirituale e il farsi di 68

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Georg Simmel

questo paesaggio, cioè la formazione unitaria di tutti i suoi singoli elementi, possono definirsi come un solo e medesimo atto, come se le molteplici facoltà della nostra anima, quelle visive e quelle del sentimento, esprimessero ciascuna nel suo tono, all’unisono, la medesima parola. Quando, come nei confronti del paesaggio, l’unità dell’essere naturale cerca di inserirci nella sua trama, la scissione in un Io che vede e in un Io che «sente» si dimostra doppiamente sbagliata. Di fronte al paesaggio siamo uomini interi, sia di fronte al paesaggio naturale che a quello che è divenuto artistico, e l’atto che lo crea per noi è, immediatamente, un atto della visione e un atto del sentimento, scisso in queste due parti separate solo dalla riflessione successiva. L’artista è solo colui che compie quest’atto di formazione del vedere e del sentire con tale purezza e forza da assorbire completamente in sé la materia data dalla natura, ricreandola in se stesso. Mentre noi restiamo più legati a questa materia e siamo soliti percepire ancora questo e quell’elemento particolare, l’artista vede e forma solo «paesaggio».

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Le rovine

La grande lotta tra la volontà dello spirito e la necessità della natura è pervenuta ad una pace effettiva, in cui la tensione tra l’anima che tende verso l’alto e la gravità che tende verso il basso è arrivata ad un preciso equilibrio, in un’unica arte: l’architettura. Nella poesia, nella pittura, nella musica, la materia, con le sue leggi proprie, deve servire muta l’ispirazione artistica; questa ha assorbito in sé nell’opera compiuta la materia, rendendola come invisibile. Perfino nella scultura il tangibile blocco di marmo non è l’opera d’arte: ciò che la pietra o il bronzo aggiungono di proprio a quest’ultima agisce solo come un mezzo espressivo dell’intuizione creatrice dell’anima. L’architettura invece utilizza e ripartisce precisamente il peso e la resistenza della materia in base ad un piano possibile solo nell’anima, facendo sì che seppur all’interno di questo piano la materia operi con la sua essenza immediata, in certo modo portandolo a termine con le sue proprie forze. Questa è la più sublime vittoria dello spirito sulla natura: come quando si è in grado di far sì che una persona che stiamo guidando realizzi la nostra volontà non attraverso una violenza esercitata sulla sua propria volontà, ma grazie a quest’ultima, in modo che la dire70

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Georg Simmel

zione verso cui questa esercita la sua autonomia sorregga il nostro piano. Questo equilibrio unico fra la materia meccanica, inerte, che resiste passivamente alla pressione, e la spiritualità formatrice che tende verso l’alto si spezza però nel momento stesso in cui la costruzione va in rovina. Infatti ciò non significa altro se non che le forze meramente naturali cominciano a sopraffare l’opera umana: l’equilibrio fra natura e spirito, che l’edificio rappresenta, si sposta a vantaggio della natura. Questo spostamento si risolve in una tragicità di dimensioni cosmiche che al nostro sentire ammanta le rovine di un’ombra di malinconia. Ora infatti la decadenza appare come la vendetta della natura per la violenza che lo spirito le ha fatto subire formandola a propria immagine. Tutto il processo storico dell’umanità costituisce una progressiva affermazione del dominio dello spirito sulla natura, che esso incontra al di fuori di sé ma in un certo senso anche dentro di sé. Se nelle altre arti lo spirito piega le forme e gli eventi di questa natura al suo comando, l’architettura dà forma invece alle masse e alle forze inerenti alla natura fino al punto in cui esse esprimono visibilmente l’idea come se essa forse emersa da loro stesse. Ma solo fino a quando l’opera sussiste nella sua compiutezza le necessità della materia si adattano alla libertà dello spirito, e la vitalità dello spirito si esprime integralmente attraverso il peso e la resistenza di tale materia. Nell’istante, però, in cui la decadenza della costruzione distrugge l’armonia dell’insieme, le parti si separano di nuovo e rivelano la loro originaria inimicizia universale, come se la formazione artistica non fosse stata altro che un atto di 71

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Saggi sul paesaggio

violenza dello spirito cui la pietra si è sottomessa con riluttanza ed ora questa si sbarazzasse poco a poco di tale giogo e ritornasse alla autonoma legalità delle proprie forze. Ma in questo modo le rovine risultano un fenomeno più significativo e importante che non i frammenti di altre opere d’arte distrutte. Un quadro da cui si sono staccate particelle di colore, una statua con membra mutilate, un antico testo poetico di cui si sono perse parole e versi interi, tutte queste opere hanno un effetto solo in rapporto a quanto ancora sussiste in loro della forma artistica, o a quanto di essa l’immaginazione può ricostruire in base ai resti. Esse non offrono immediatamente l’aspetto di una unità artistica, ma quello di un’opera d’arte privata di alcuni elementi decisivi. Le rovine di un edificio, invece, mostrano che altre forze e altre forme, quelle della natura, sono cresciute nelle parti scomparse o distrutte dell’opera d’arte; e così, da ciò che dell’arte in esse vive ancora e da quella parte di natura che già vive in esse è scaturita una nuova totalità, un’unità caratteristica. Certamente, dal punto di vista del fine che lo spirito ha incorporato nel palazzo e nella chiesa, nel castello e nel portico, nell’acquedotto e nella colonna commemorativa, l’andare in rovina della loro forma è un fatto accidentale privo di senso. Ma questo accidente è investito di un nuovo senso che comprende in uno esso e l’attività creatrice dello spirito, un senso fondato non più nella finalità umana, bensì in quella profondità dove tale finalità e l’intreccio delle forze inconsapevoli della natura scaturiscono dalla loro comune radice. Per questo a certe rovine romane, per quanto interessanti, manca lo 72

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specifico fascino delle rovine, nella misura in cui in loro si percepisce la distruzione ad opera dell’uomo, e questo contraddice infatti l’antitesi fra opera dell’uomo e azione della natura, sulla quale riposa il significato delle rovine in quanto tali. Tale contraddizione è prodotta non soltanto dall’agire positivo dell’uomo, ma anche dalla sua passività, se e perché l’uomo opera come mera natura. È questa una caratteristica di quelle rovine urbane che ancora sono abitate, come non di rado accade di vedere in Italia fuori dalle strade principali. Qui l’impressione specifica non è tanto che gli uomini distruggano l’opera umana – è piuttosto la natura a realizzare ciò – ma che la lascino andare in rovina. Tuttavia considerato a partire dall’idea di uomo, questo lasciar accadere è per così dire una passività positiva: in questo modo l’uomo si rende complice della natura, di una sua direzione d’azione che è volta in senso opposto a quella dell’essenza propria dell’uomo. Questa contraddizione fa vacillare nelle rovine abitate l’equilibrio fra sensibile e sovrasensibile, quale risulta invece dalle tendenze conflittuali dell’esistenza nelle rovine abbandonate, e conferisce loro un carattere problematico, inquietante e spesso insopportabile: questi luoghi che la vita ha abbandonato tuttavia si mostrano come la cornice di una vita. In altri termini, il fascino delle rovine è che un’opera dell’uomo viene percepita alla fine come un prodotto della natura. Le stesse forze che danno alla montagna il suo aspetto – le intemperie, l’erosione, le frane, l’azione della vegetazione – qui hanno agito sui ruderi. Già il fascino delle forme alpine, che pure sono perlopiù pesanti, casuali, insulse dal pun73

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Saggi sul paesaggio

to di vista artistico, riposa sulla rivalità percepibile fra due tendenze cosmiche: un sollevamento vulcanico o una stratificazione graduale hanno innalzato la montagna verso l’alto, pioggia e neve, erosioni e cadute, decomposizione chimica e imporsi della vegetazione, hanno frastagliato e svuotato l’estremità superiore, fatto precipitare in basso parti di ciò che era stato sollevato, e dato così la sua forma attuale al profilo della montagna. In questa noi avvertiamo perciò la vitalità di energie che spingono in direzioni opposte e, sentendo risonare istintivamente in noi stessi questi contrasti, riusciamo a cogliere, al di là di ogni dimensione formale ed estetica, l’importanza della conformazione nella cui quieta unità essi si sono raccolti. Ora, nel caso delle rovine si fronteggiano due parti dell’esistenza ancor più distanti fra loro. Ciò che ha diretto la costruzione verso l’alto è la volontà umana, mentre ciò che le dà il suo aspetto attuale è la forza meccanica della natura, che trascina verso il basso, corrode e distrugge. Tuttavia essa non fa crollare l’opera nell’assenza totale di forma della pura materia, almeno finché si parla di rovine e non di un mucchio di sassi; nasce una nuova forma che, dal punto di vista della natura, è totalmente significativa, comprensibile, differenziata. La natura ha fatto dell’opera d’arte il materiale della sua creazione, proprio come in precedenza l’arte si era servita della natura come materia prima. Tuttavia, seguendo l’ordinamento cosmico, vi è una gerarchia di natura e spirito che solitamente presenta la natura come la sottostruttura, la materia o il prodotto incompiuto, e lo spirito invece come l’elemento che rifinisce e dà una forma definitiva. Le ro74

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vine capovolgono quest’ordine, poiché quanto lo spirito aveva innalzato diviene oggetto di quelle stesse forze che hanno formato il profilo della montagna e la riva del fiume. Quando per tale via nasce un significato estetico, esso si dirama in un significato metafisico accostabile a quello rivelatoci dalla patina sul metallo e sul legno, sull’avorio e sul marmo. Anche qui un processo puramente naturale ha aggredito la superficie dell’opera umana, facendovi crescere sopra una pelle che copre completamente quella originaria. La misteriosa armonia, per la quale l’opera umana diviene più bella grazie ad un’azione chimico-meccanica e il prodotto di una volontà grazie ad un processo libero e involontario si trasforma in qualcosa di nuovo, spesso più bello e con una sua unità: ecco il fascino fantastico e impalpabile della patina. Conservando questo fascino, le rovine ne conseguono però anche un secondo dello stesso genere: la distruzione della forma spirituale ad opera delle forze naturali, quel rovesciamento dell’ordine usuale, viene percepito quale un ritorno alla «buona madre», come Goethe definisce la natura. Il fatto che tutto ciò che è umano «viene dalla terra e alla terra deve tornare» si eleva qui oltre il suo triste nichilismo. Fra il non ancora ed il non più vi è un momento positivo dello spirito, la cui strada ora certo non porta più alla sua vetta ma, sazia della ricchezza di essa, ridiscende alla sua patria, facendo in certo modo da pendant al «momento fecondo», il momento in cui quella ricchezza, che le rovine hanno ormai alle spalle, è davanti agli occhi. Che la violenza inflitta dalla forza della natura a un’opera della volontà umana possa avere un effetto estetico si deve al fatto che in 75

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Saggi sul paesaggio

quest’opera, per quanto essa sia stata formata dallo spirito, la natura non abbia mai del tutto perso i suoi diritti. Nella sua materia, nei suoi caratteri effettivi, l’opera è sempre rimasta natura; quando quest’ultima se ne riappropria non fa che riattivare in tal modo un diritto, sospeso fino ad allora, al quale però, per così dire, essa non ha mai rinunciato. Per questo le rovine fanno così spesso un effetto tragico – ma non triste –, poiché la distruzione in esse non è qualcosa di assurdo che proviene dall’esterno, ma è la realizzazione di una tendenza collocata nello strato d’esistenza più profondo di ciò che viene distrutto. Perciò, quando definiamo un essere umano come una «rovina», manca così spesso l’impressione esteticamente soddisfacente che si connette alla tragicità, o alla segreta giustizia della distruzione. In questo caso, infatti, se anche s’intende che quelle dimensioni psichiche più strettamente naturali, come le pulsioni o le inibizioni legate al corpo, le inerzie, gli accidenti, ciò che rinvia alla morte, s’impadroniscono degli strati specificamente umani e razionalmente pregevoli, non per questo sentiamo che queste inclinazioni stiano realizzando un diritto latente. Anzi, un diritto di questo genere non esiste neppure. Noi riteniamo – a torto o a ragione – che tali svilimenti di natura contraria allo spirito non siano inerenti alla natura umana nel suo senso più profondo; essi posseggono un diritto su ciò che è esteriore e che è nato con essa, ma sull’uomo no. Perciò, a prescindere da considerazioni in altri contesti, la rovina dell’uomo è spesso più triste che tragica e priva di quella metafisica compostezza che deriva alla decadenza dell’opera materiale da un profondo a priori. 76

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Il carattere di ritorno a casa è solo uno dei modi per esprimere quell’atmosfera di pace che è il tono spirituale (Stimmung) che circonda le rovine. Ad esso se ne accosta un altro, secondo cui le due potenze universali, l’aspirazione verso l’alto e lo sprofondare verso il basso, concorrono nelle rovine a formare l’immagine rasserenante di un’esistenza puramente naturale. Esprimendo questa pace, le rovine s’iscrivono nel paesaggio circostante formando con esso un’unità, divenendo una cosa sola con esso come l’albero e il sasso, mentre il palazzo, la villa e persino la casa colonica, anche dove meglio si adeguino alla Stimmung del paesaggio, discendono sempre da un altro ordine di cose e soltanto a posteriori si accordano con quello della natura. Spesso negli edifici molto vecchi in aperta campagna, ma ancor più nelle rovine, si nota una caratteristica uguaglianza di colore con le tonalità del terreno circostante. La causa deve essere in qualche modo analoga a quella che dona fascino ai tessuti antichi: per quanto eterogenei fossero i loro colori appena nuovi, le lunghe vicende comuni, secchezza e umidità, caldo e freddo, logorio esterno e disfacimento interno, li hanno colpiti tutti insieme nel corso dei secoli e hanno generato una tonalità uniforme, una riduzione allo stesso denominatore comune cromatico che nessun tessuto nuovo può imitare. All’incirca nello stesso modo gli influssi della pioggia e dei raggi solari, della vegetazione, del caldo e del freddo devono aver fatto somigliare la costruzione in loro balia al colore della terra abbandonata ai medesimi destini. Questi influssi hanno ricondotto il primitivo risalto dei contrasti alla pacifica unità della mutua appartenenza. 77

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Saggi sul paesaggio

Ancora sotto un altro aspetto le rovine emanano l’impressione della pace. Da un lato di quel conflitto tipico si situava la forma e la simbolica puramente esteriore della pace: il profilo della montagna creato da sollevamenti e frane. Ma se si guarda all’altro polo dell’esistenza, tale conflitto vive completamente all’interno dell’anima umana, questo campo di battaglia fra la natura, che è essa stessa anima, e lo spirito, che pure è anima. Alla costruzione della nostra anima lavorano di continuo forze, che si possono designare solo con la metafora spaziale dell’aspirazione verso l’alto, forze di continuo interrotte, deviate, sopraffatte da altre che operano in noi come il nostro elemento oscuro e ordinario, «soltanto naturale» nel senso deteriore del termine. La forma della nostra anima è data ad ogni istante dalla proporzione e dal modo in cui queste due forze si mescolano tra loro. Ma tale forma non perviene mai ad uno stato definitivo, che sia la vittoria decisiva di una delle parti o un compromesso fra di esse. Infatti, non è soltanto il ritmo inquieto dell’anima a impedirlo, ma soprattutto questo: dietro ogni singolo evento, dietro ogni singolo impulso dell’una o dell’altra direzione, c’è qualcosa che continua a vivere, ci sono pretese che la decisione attuale non mette a tacere. Per questo l’antagonismo dei due principi assume un aspetto informe, che non può trovare conclusione e che fuoriesce da qualunque inquadramento. In questa interminabilità del processo morale imposta all’anima dalle esigenze infinite delle due parti, in questa mancanza profonda di una configurazione compiuta, pervenuta a quiete plastica, risiede forse la ragione formale ultima dell’ostilità che oppone le nature este78

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tiche a quelle etiche. Dove intendiamo le cose da un punto di vista estetico, noi esigiamo che le forze contrastanti dell’esistenza siano giunte a un qualche equilibrio, che la lotta fra l’alto e il basso sia cessata; ma il processo spirituale etico con la sua incessante fluttuazione, con i suoi continui spostamenti di confine, con l’inesauribilità delle forze che si fronteggiano in esso, si oppone a questa forma che non concede che una visione. Ma la pace profonda che, come un cerchio sacro incantato, circonda le rovine, è sostenuta da questa costellazione: l’oscuro antagonismo che condiziona la forma di ogni esistenza – agendo una volta nell’ambito delle mere forze naturali, un’altra nell’ambito della vita spirituale, una terza volta, come nel nostro caso, dispiegandosi fra la natura e la materia –, un tale antagonismo nemmeno qui si risolve in un equilibrio, bensì esso lascia predominare una parte ed annientare l’altra, offrendo tuttavia un’immagine sicura nella forma e che perdura quietamente. Il valore estetico delle rovine unisce la disarmonia, l’eterno divenire dell’anima in lotta con se stessa e l’appagamento formale, il saldo contorno dell’opera d’arte. Perciò dove delle rovine non rimanga abbastanza da rendere percepibile la tendenza che punta verso l’alto, viene a cadere la loro attrattiva metafisico-estetica. I frammenti di colonna del Foro romano sono semplicemente brutti, mentre una colonna sgretolata fino a metà può avere un massimo di fascino. Certo, l’impressione di pace che emana dalle rovine si potrà attribuire ad un altro motivo: al loro carattere di passato. Esse sono un luogo fatto per la vita da cui la vita si è allontanata – ma ciò non è nul79

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Saggi sul paesaggio

la di semplicemente negativo o di costruito dal pensiero, come per le innumerevoli cose che un tempo nuotavano nel fiume della vita, per caso vengono gettate sulla sua riva, ma per loro natura possono sempre venire riafferrate dalla sua corrente. Piuttosto, il fatto che la vita con la sua ricchezza e le sue vicissitudini un tempo abbia abitato qui, costituisce una presenza immediatamente percepibile. Le rovine creano la forma presente di una vita passata, non restituendo i suoi contenuti o i suoi resti, bensì il suo passato in quanto tale. Questo è anche il fascino delle antichità, delle quali solo una logica ottusa può affermare che una imitazione assolutamente esatta da un punto di vista estetico avrebbe lo stesso valore. Non importa se siamo ingannati in un caso specifico – col frammento che reggiamo in mano noi dominiamo spiritualmente tutto il lasso di tempo a partire dalla sua creazione, il passato con i suoi destini e le sue vicissitudini è raccolto in questo punto di presente intuibile esteticamente. Qui, come di fronte alle rovine, nelle quali s’intensifica al massimo e si compie la forma presente del passato, entrano in gioco energie così profonde e globali della nostra anima che la separazione netta fra percezione e pensiero diviene completamente insufficiente. Qui è all’opera una totalità spirituale che, così come il suo oggetto fonde insieme i contrari, presente e passato, in una forma unificata, comprende tutta l’estensione della visione fisica e di quella spirituale nell’unità del godimento estetico, godimento per altro sempre radicato in un’unità più profonda di quella estetica. Così intenzione e caso, natura e spirito, passato e presente risolvono in questo punto la tensione delle 80

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loro opposizioni o meglio, pur mantenendo questa tensione, la conducono all’unità dell’immagine esterna e dell’effetto interiore. È come se una parte dell’esistenza dovesse prima andare in rovina per divenire così priva di resistenza nei confronti di tutte le correnti e le forze che provengono da ogni angolo della realtà. Forse è questo il fascino del declino, della decadenza in generale, che va oltre il suo momento meramente negativo e degradante. La cultura ricca e molteplice, l’illimitata impressionabilità e l’intelligenza aperta a tutto, tipiche delle epoche decadenti, significano proprio tale incontrarsi di tutte le tendenze antagonistiche. Una giustizia distributiva connette l’insieme di tutto ciò che cresce senza freni e in direzioni divergenti con il declino di quegli uomini e di quelle opere umane che ormai possono solo cedere, ma non più creare e conservare le proprie forme con le proprie forze. © ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

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Le Alpi

Il generale predominio dell’idea secondo cui l’impressione estetica del visibile dipende dalla sua forma, troppo spesso ci nasconde un altro fattore che determina quest’impressione: la grandezza in cui essa si offre. Noi non siamo assolutamente in grado di godere di una forma pura, ossia del mero rapporto di linee, superfici e colori; per la nostra natura intellettuale e sensibile, questo piacere è legato piuttosto a una quantità data di tali forme. Questa quantità ha un certo margine di gioco, ma è sempre ricompresa tra una grandezza spesso determinabile con esattezza, in cui la forma, di per sé totalmente invariata, perde il suo valore estetico, e una piccolezza che ha il medesimo risultato. Molto di più e molto più nel profondo di quanto ci rendiamo conto, le forme e la grandezza creano un’unità inseparabile dell’impressione estetica; e una forma rivela la sua intima essenza estetica per il modo in cui il suo significato cambia in rapporto al variare della misura. Poiché è soprattutto nella trasposizione delle forme naturali in opere d’arte che ciò diventa visibile, ecco che viene a crearsi una scala di forme, a partire da quelle che hanno valore estetico nelle dimensioni più varie, fino a quelle in cui tale valore è legato ad una precisa grandezza. In cima alla scala sta la figura umana. Quando, per il fatto di es82

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sere partecipe della sua esistenza, l’artista comprende il significato di una figura dall’interno, egli sa intuire meglio quali spostamenti, accenti, riduzioni siano necessari perché il giusto significato e l’unità della forma possano fare effetto anche con misure diverse: l’uomo – e solo lui, dal momento che non conosciamo nessun altro essere nel profondo quanto lui – è sicuramente rappresentabile nell’arte sia come figura colossale che in miniatura. All’estremo opposto della scala ci sono le Alpi. Anche se l’opera d’arte non deve riprodurre naturalisticamente l’impressione dell’oggetto reale, è tuttavia necessario che l’essenza dell’oggetto, per quanto trasformato, viva in essa, in modo che essa sia associata proprio a quell’oggetto e non a un altro qualsiasi. Ma le Alpi sembrano negare questo: nessun quadro che le ritrae riesce a evocare l’impressione della loro massa schiacciante, e i più grandi pittori delle Alpi, Segantini e Hodler, con le loro stilizzazioni raffinate, gli spostamenti d’accento e gli effetti coloristici, cercano di sottrarsi a questo compito piuttosto che risolverlo. Qui diventa evidente che le forme non hanno quel valore estetico autonomo che sopravvive all’alterazione del loro quantum, e sono invece legate alla grandezza naturale di quest’ultimo. Anche in altri oggetti l’effetto della forma non è mai indifferente alle dimensioni, ma è solo quando esso viene meno del tutto per l’assenza di una determinata misura che ci rendiamo conto che questi due fattori costituiscono una immediata unità di impressione; solo l’analisi posteriore divide l’unità in una dualità. Lo speciale significato del momento della massa è basato sulla peculiarità della conformazione alpina. In generale, questa è come inquieta, casuale, priva di 83

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Saggi sul paesaggio

un’unità formale vera e propria, il che spiega perché per tanti pittori, che guardano alla natura solo dal punto di vista della qualità della forma, le Alpi risultano difficili da sopportare. Questa irritazione provocata dalla forma è però dominata e resa piacevole dal carattere massiccio, dall’enorme pesantezza della quantità materiale. Quando le forme sono connesse da un significato si sostengono a vicenda, ciascuna trova nell’altra una risposta, un preludio, un diminuendo, e così forma un’unità stabile in sé, che non ha bisogno di sostegni esterni ai suoi elementi costitutivi. Quando però le forme vengono messe insieme del tutto casualmente, senza che una linea globale le ricomprenda, come nel caso delle Alpi, allora anche la singola linea non troverebbe la sua collocazione nel complesso e rimarrebbe perciò isolata, se non fosse avvertibile la massa della materia, che si stende uniformemente sotto le vette e trasforma il loro isolamento senza senso in un corpo unitario. La materialità informe deve qui dominare l’impressione in modo schiacciante, per far sì che il caos dei profili rocciosi che si guardano indifferenti trovi un centro e un punto d’unione. L’inquietudine lacerante delle forme e la pesante materialità della mole creano, con la loro tensione e il loro equilibrio, un’impressione satura di agitazione e di pace allo stesso tempo. La questione della forma pone l’impressione procurata dalle Alpi tra le categorie psicologiche ultime. Vi sono elementi di questa impressione sia al di qua sia al di là della forma estetica. Da una parte, le Alpi danno l’impressione del caos, di una massa informe che solo accidentalmente ha acquisito un profilo anche se privo di un proprio senso formale. Le Alpi rac84

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chiudono quel mistero del creato che la configurazione delle montagne mostra assai più intensamente di ogni altro paesaggio. Qui le cose terrene, le cui forme sono ancora lontane dall’avere un significato e una vita autonomi, si percepiscono con forte intensità. D’altra parte, però, ci sono le immense rocce, i ghiacciai trasparenti e luccicanti, le cime innevate, così distanti dalle bassezze della terra: tutti questi sono simboli del Trascendente e fanno alzare lo sguardo dell’anima verso regioni in cui risiede ciò che non si può più raggiungere con la sola forza di volontà. Perciò, quando il cielo sulle vette si copre, insieme all’impressione estetica scompare anche l’impressione mistica che ne è parte indissociabile; con il cielo coperto le cime sono imprigionate nelle nuvole, schiacciate a terra e riunite alle cose terrene. Solo quando non vi è nient’altro che cielo sopra loro, esse rinviano all’ultraterreno senza soluzione di continuità e possono rientrare a far parte di un ordine di cose diverso da quello terreno. Se si può definire trascendente un paesaggio, questo è il paesaggio di nevai, in cui esiste soltanto ghiaccio e neve, niente verde, niente valli, nessuna pulsazione di vita. E poiché il Trascendente, l’Assoluto, a cui innalza la tonalità spirituale (Stimmung) di questo paesaggio, è al di là delle parole, per non umanizzarlo in modo infantile dobbiamo anche dire che esso è al di là di ogni forma. Tutto ciò che ha una forma è, per ciò stesso, qualcosa di limitato – sia quando una pressione e una materia meccanicamente formative tracciano il confine di una parte nel punto in cui ne comincia un’altra; sia quando l’essenza organica, pur determinando positivamente la propria configurazione con le proprie forze interiori, non può che raggiungere una 85

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Saggi sul paesaggio

forma delimitata proprio per la limitatezza di queste stesse forze. Per questo il Trascendente è senza forma: forma significa limite, e quindi l’Assoluto, essendo senza limiti, non può essere formato. Esiste pertanto un non-formato al di sotto di tutte le forme e uno al di sopra di tutte le forme. L’alta montagna, con la cupa violenza della sua massa puramente materiale e il suo anelito ultraterreno, con le sue regioni nevose trasfigurate al di là delle tensioni della vita, unisce tutte e due in un unico accordo. La sua forma priva di un significato vero e proprio fa sì che il sentimento e il simbolo delle due grandi potenze dell’esistenza, ciò che è meno di ogni forma e ciò che è più di ogni forma, trovino un luogo comune. In questo distacco dalla vita risiede forse il segreto ultimo dell’impressione procurata dalle cime alpine. È il contrasto con il mare a rendere questo evidente. Comunemente il mare è ritenuto il simbolo della vita: il suo continuo movimento trasformatore, l’inscrutabilità delle sue profondità, l’alternarsi di calma e agitazione, il suo perdersi nell’orizzonte e il gioco senza meta del suo ritmo – tutto questo fa sì che l’anima possa trasporre nel mare il proprio sentimento della vita. Poiché tuttavia ciò è possibile solo grazie a una certa uguaglianza simbolica di forme, e poiché il mare rispecchia la forma della vita in uno schematismo stilizzato, sovraindividuale, la sua vista dona quella liberazione, che la realtà riesce a darci con la forma visiva del suo senso più puro, più profondo, per così dire più reale. Il mare ci libera dalla condizione immediata e dalla mera quantità relativa della vita grazie alla sua dinamica travolgente che trascende la vita con le sue stesse forme. In alta montagna, 86

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la liberazione dalla vita intesa come casualità, oppressione, isolamento e meschinità, ci perviene dalla direzione opposta: non dalla pienezza stilizzata della passione della vita, ma dal distacco da quest’ultima; qui la vita è come intessuta e presa in qualcosa che è più silenzioso e più immoto, più puro e più alto di quel che potrebbe essere essa stessa. Per utilizzare le espressioni che Worringer ha coniato per definire la contrapposizione tra i principi degli effetti artistici, potremmo dire: il mare fa effetto per l’empatia della vita, le Alpi per l’astrazione dalla vita. E questo effetto aumenta progressivamente passando dal paesaggio roccioso a quello nevoso. Nelle rocce avvertiamo ancora la presenza di forze opposte: le forze costruttive che tutto hanno ingrandito, e quelle corrosive, detritiche che tutto disperdono; nella forma momentanea, questa compenetrazione e opposizione di forze è come bloccata e si rianima nella ricostruzione spirituale intuitiva dello spettatore. Il paesaggio nevoso però non ci fa più sentire il gioco di fattori dinamici. Ciò che sta alla base è tutto ricoperto di neve e ghiaccio. Il lungo processo di costruzione della forma attraverso le nevicate, i disgeli e la formazione dei ghiacciai non si riconosce più. Poiché qui gli effetti della forza non si possono rivivere interiormente, perché nessun moto latente rifiorisce nell’anima, per quanto debole, queste forme acquistano il loro essere atemporale, sottratto al flusso delle cose. Oltre a simbolizzare quella duplice mancanza di forma di cui ho detto sopra, le Alpi sono, per così dire, prive di forma anche rispetto al tempo; esse non sono l’immagine della negazione della vita – perché una tale negazione è sullo stesso piano della vita, dovendo ancora presup87

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porla – ma del suo vero e proprio «Altro», del rimanere inalterati dal passare del tempo, che è invece la forma della vita. Le zone nevose sono per così dire il paesaggio assolutamente «astorico»; qui, dove nemmeno con l’estate o l’inverno l’immagine cambia, le associazioni con il divenire e lo svanire del destino umano, che accompagnano in varia misura tutti gli altri paesaggi, vengono sospese. L’immagine spirituale del nostro ambiente prende sempre la forma della nostra esistenza spirituale; solamente nell’atemporalità del paesaggio nevoso questo prolungamento della vita non trova un appiglio. E così il contrasto assoluto con il mare, simbolo della continua agitazione del destino umano, trova anche un’espressione storica. Il mare è intimamente legato alla sorte e alle evoluzioni della nostra specie; esso ha dimostrato infinite volte di essere non una frontiera, ma una via di comunicazione fra i paesi. Le montagne invece, a seconda della loro altezza, hanno avuto nella storia umana un effetto essenzialmente negativo, isolando la vita dalla vita e ostacolando gli impulsi reciproci, allo stesso modo in cui il mare li ha favoriti. E ancora una volta l’impressione delle Alpi nega quel principio della vita che è fondato sulla diversità dei suoi elementi. Noi siamo esseri della misura; ogni fenomeno che passa per la nostra coscienza ha una qualità, ha un più o un meno di qualità. D’altra parte però tutte le quantità si determinano solo reciprocamente; c’è il grande solo perché c’è il piccolo e viceversa, c’è l’alto grazie al basso, c’è il frequente perché c’è anche il raro, e così via. Ogni cosa si misura con l’altra, ognuna è polo per un polo contrario, e quindi ogni realtà può provocare in noi un’impressione in 88

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quanto è un’impressione relativa, cioè solo in quanto si differenzia da qualcosa che le è contrapposto sullo stesso ordine dell’essere. Sono ovvie le ragioni per cui proprio il paesaggio montano è decisamente caratterizzato in questo senso e deve la sua unità a quell’impressione. La cima è possibile solo grazie al fondo, e questo – come tale – solo grazie alla cima, e così le sue parti si condizionano molto di più degli elementi caratteristici della pianura, che continuerebbero a esistere autonomi e inalterati anche se isolati uno dall’altro. È tramite la loro relatività che gli elementi del paesaggio montano giungono all’unità dell’immagine estetica che è simile alla forma organica, data dall’interazione (Wechselwirkung) vitale delle sue parti. Ma la cosa più meravigliosa è che la grandezza e la sublimità delle Alpi si fa sentire quando nel paesaggio nevoso non esistono più né valli né vegetazione né abitazioni umane, quando non si vede più niente di basso, anche se proprio da quest’ultimo derivava l’impressione dell’alto. Tutte queste altre forme tendono di per sé al basso, in particolare la vegetazione, in cui sempre avvertiamo la presenza delle radici che tendono a scendere; in altri paesaggi sentiamo ovunque le profondità che stanno alla base di tutto. Qui invece il paesaggio è perfettamente «concluso»: poiché essendo privo di rapporti, per così dire, per la mancanza di qualsiasi elemento correlativo, non chiede di essere perfezionato o liberato dallo sguardo o dalla forma dell’arte; a ciò contrappone piuttosto l’insormontabile forza della sua mera esistenza. Può esser questa, insieme a quanto detto prima, la ragione profonda per cui le Alpi non sono diventate soggetto di rappresentazione artistica al pari degli altri paesaggi. Ma sembra 89

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Saggi sul paesaggio

certo che solamente nel puro paesaggio nevoso il basso abbia perso i suoi diritti sulle cose. Una volta scomparsa la valle, si crea un rapporto esclusivo verso l’alto, cioè siamo «in alto» non più relativamente ma assolutamente, non più a una determinata altezza sopra il basso. La mistica sublimità di quest’impressione non è paragonabile con quello che solitamente s’intende per «bel» paesaggio alpino: in questo le montagne nevose non sono che il coronamento di un paesaggio più piano e più agevole che coinvolge nella sua serenità prati e foreste, valli e baite. Solo quando si è abbandonato tutto ciò, si può acquisire qualcosa di concettualmente, metafisicamente nuovo: un’altezza assoluta, senza una profondità corrispondente; un lato di una correlazione che di solito non può esistere senza l’altro trova qui un’espressione visivamente autonoma. È questo il paradosso dell’alta montagna: l’altezza si basa sulla relatività di cima e fondovalle, si determina con la profondità – ma qui sembra come l’assoluto, che non ha bisogno della profondità e che anzi solo quando quest’ultima è scomparsa si dispiega nella sua piena altezza. Qui si fonda la sensazione di salvezza, che il paesaggio nevoso ci trasmette in alcuni momenti solenni, del sentirsi con la massima energia difronte-alla-vita. Perché la vita è la relatività continua degli opposti, la determinazione dell’uno attraverso l’altro e dell’altro attraverso l’uno, il moto fluttuante, in cui ogni cosa può esistere soltanto in dipendenza di un’altra. L’impressione che ci fa l’alta montagna è per noi presentimento e simbolo del fatto che la vita si innalza e potenzia al massimo in ciò che non entra più nella sua forma, ma che piuttosto la sovrasta e le sta di fronte. 90

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Non luogo intorno ad esse e meno ancora tempo1.

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I paesaggi di Böcklin

Il fascino del meriggio estivo sta nel sentirsi cullare e calmare dal sonno e dall’immobilità intorno a noi; è la natura in noi che in quest’ora vive il destino di tutto ciò che è naturale, condividendone il riposo. E, contemporaneamente, la sensazione di essere vivi, del cuore che batte, sente, del suo ritmo su tutta questa pace della natura. Dorme il grande Pan, e dormiamo anche noi, con lui e in lui, – eppure siamo qualcosa che gode, un soggetto nei confronti di tutta questa oggettività. Questo è lo stato d’animo, la tonalità spirituale che attingiamo dai paesaggi di Böcklin. Pur intrecciando intimamente l’anima nella trama di questo essere naturale, con le piante e gli 1 È la citazione del verso 6214 del Faust, parte II, atto I (qui nella traduzione di Franco Fortini, Milano, Mondadori, 1970), che allude ad un antichissimo mito mediterraneo, già presente in Plutarco. «Sono le Madri!» – come esclama Mefistofele nei versi seguenti – il loro regno non ha luogo né tempo, è quello delle «forme possibili», del «formarsi, trasformarsi, eterno gioco dell’eterno senso»; Faust deve penetrarvi per evocare Elena.

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Saggi sul paesaggio

animali, con la terra e la luce, i paesaggi la svincolano da esso, trasformandola in un sentimento della personalità con tutta la sua anima e la sua libertà, che quel mondo meramente contemplato ignora, facendone un Io vivente, pulsante, che assorbe nella sua unità tutto ciò che la natura presenta in un mero rapporto d’accostamento, trovando così la propria segreta antitesi nella natura con la quale un momento prima sembrava fondersi. Ma nemmeno questo intervallo esiste; le due dimensioni sono contemporanee, e in questa tensione, in questa oscillazione, in questa compresenza di legame e separazione nei confronti della natura spaziale nasce la tonalità sentimentale dei suoi paesaggi. È come se con essi avesse trovato riparo nel fenomeno un momento di quella unità originaria delle cose, a partire dalla quale soltanto si sono sviluppati lo spirito conscio e la natura inconscia su versanti opposti; come se l’anima, oscillando tra i due poli, si sforzasse di reintegrarli nella perduta unità. Spinoza pretende dal filosofo che consideri le cose sub specie aeternitatis, cioè puramente in base alla loro interna necessità e significatività, separate dall’accidentalità del loro essere qui ed ora. Se si può interpretare un’opera del sentimento con le stesse parole con cui si interpreta l’opera dell’intelletto, i quadri di Böcklin agiscono come se ne vedessimo il contenuto tradotto nella sfera di quest’atemporalità; come se davanti a noi stesse il contenuto puramente ideale delle cose, separato da ogni momentaneità storica, da ogni rapporto con un prima e con un poi. Tutto è come negli istanti del meriggio estivo, quando la natura trattiene il respiro, quando il corso del 92

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tempo si coagula. La sfera nella quale ora ci sentiamo non è l’eternità nel senso di una durata immensa, dunque non è l’alterità in senso religioso; ma è semplicemente il cessare delle relazioni temporali. Allo stesso modo diciamo eterna una legge di natura, non perché esista già da gran tempo, ma perché la sua validità non ha assolutamente nulla a che fare con il problema del prima e del poi; l’atemporalità nella quale Böcklin ci trasporta è il non essere toccati dal passato e dal futuro, – la stessa atemporalità che può spiegare l’impressione ridestata dai paesaggi dell’Italia meridionale e che in quel caso sorge dall’assenza di rilevanti differenze di temperatura e vegetazione. Nel paesaggio tedesco aleggia come elemento di fascino, come esigenza o ricordo, l’immagine opposta, dell’estate in rapporto all’inverno, dell’autunno speculare alla primavera, il paesaggio viene sentito come un momento di una serie di cambiamenti obbligati. Guardando gli alberi di Böcklin, non si pensa che in un’altra stagione saranno più o meno folti, che inverdiranno o perderanno le foglie; il momento della loro rappresentazione può essere quello del loro primo coprirsi di gemme, del loro pieno fulgore o del loro declino autunnale, è la loro eternità. Le rovine, che Böcklin dipinge, non ricordano ciò che erano prima del crollo e del disfacimento. Sint ut sunt aut non sint. Nell’irrealtà delle sue creature favolose questa sovratemporalità delle sue visioni, questo contrasto con tutto ciò che nel senso più ampio si potrebbe chiamare storico, giunge soltanto all’espressione più rapida. Ma se, tuttavia, una determinazione di tipo temporale dev’essere indicata, è quella della gioventù. 93

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Saggi sul paesaggio

Fra tutte le età della vita la gioventù è quella che per il suo modo di sentire più si avvicina all’atemporalità, dato che non conosce ancora l’importanza del tempo, non considera ancora il tempo come una potenza e un limite con cui fare i conti. Perciò la gioventù è così eminentemente astorica, commisura le cose all’infinito, è così libera dal condizionamento dei limiti dell’effettiva realtà temporale; solo la gioventù conosce quei giorni turgidi, traboccanti, nei quali si crede di sperare ancora ogni passato, di ricordare già ogni gioia futura: questa è la Stimmung2 del paesaggio di Böcklin. Come si parla di intemporalità, si potrebbe parlare perfino di una aspazialità del suo paesaggio. In altri paesaggi lo spazio appare come la forma che tiene unito il tutto, schema che costringe in sé ogni contenuto, e lo determina in base a se stesso; lo spazio nettamente articolato, la forma spaziale, permarrebbe anche se tutto il contenuto materiale, colorato, svanisse; e grandi paesaggisti hanno portato proprio questa costrizione logica dello spazio, questa autonomia della sua configurazione ad un’espressione accentuata, e sulla base di essa, concepita come centro di interesse da mantenere saldamente, hanno costruito l’insieme del paesaggio. Questa violenza della forma spaziale sul contenuto dell’immagine del paesaggio è comple2

Stimmung, come si è già visto e si vedrà più avanti, è un termine essenziale del lessico simmeliano. Può significare: stato d’animo, tonalità spirituale, atmosfera, ecc. Qui è sembrato opportuno non tradurlo per mantenerne il particolare alone semantico.

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tamente scomparsa in Böcklin. Nel complesso di sensazioni che i suoi paesaggi suscitano, lo schema spaziale non gioca un ruolo dinamico. Kant disse che lo spazio non sarebbe che la possibilità delle cose di stare una accanto all’altra. Analogamente in Böcklin, in contrasto con i paesaggi «classici», appare come il modo puramente esteriore della coesistenza delle cose, il medium nullo in se stesso, e la mera «possibilità» di far pervenire ad espressione visibile le loro relazioni interne essenziali. Come i nostri sentimenti, amore e odio, gioia e dolore, si svolgono certo nello spazio, ma in quanto processi psichici, intensivi, non hanno per nulla a che fare con lo spazio, al quale, in un certo senso, solo successivamente vengono riferiti, così i paesaggi di Böcklin, quanto all’effetto prodotto dalla loro atmosfera, dalla loro essenza, sono al di là delle tre dimensioni dello spazio, come sono al di là dell’unica dimensione del tempo. Questo sottrarsi a tutte le mere relazioni, ad ogni condizionamento, ad ogni legame e ad ogni confine con l’esterno, produce il sentimento di libertà che proviamo di fronte ai suoi quadri, quell’emergere, respirare, scuotersi di dosso il giogo che i condizionamenti e i riguardi, gli affetti prossimi e lontani della vita ci impongono. Certo, questa azione liberatrice, questo senso di redenzione non è solo di Böcklin, ma di ogni elevata opera d’arte. Ma non credo che la si sperimenti con la stessa forza in un altro paesaggista. Chi plasma un’opera d’arte prendendo le mosse dal mondo degli uomini, si allontana, più o meno consapevolmente, dall’immediatezza, dal mutamento, dalla casualità del singolo momento dato; anche nell’ambito del cosiddetto realismo sentiamo che ci 95

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Saggi sul paesaggio

si allontana dalla comune realtà dell’uomo – altrimenti non si capirebbe il perché della duplicazione della realtà sulla tela, dato che una sola realtà è già più che sufficiente. Il processo della sublimazione, della catarsi, dell’astrazione, agisce nella raffigurazione dell’uomo con grande sicurezza e chiarezza, perché in questo caso conosciamo già bene la base su cui si eleva e da cui ci libera. Conosciamo troppo bene l’esteriorità, la caducità, il carattere involuto della realtà umana, per non sentire la sua idealizzazione – se per brevità posso usare una parola così problematica – come liberazione e come slancio che riscatta. Questo bisogno che spinge verso la rappresentazione artistica dell’umano, non si avverte, in generale, in rapporto alla natura non umana. Da essa pretendiamo meno che dall’uomo, perciò può deluderci meno; poiché non parliamo la sua lingua e non sappiamo interpretarla come l’uomo, non ci appare nemmeno passibile della stessa idealizzazione, altrettanto bisognosa di redenzione attraverso l’arte. Il paesaggio contiene, piuttosto, già nella sua realtà immediata, un elemento affine all’arte, un tratto di autosufficienza e di intangibilità, con il quale ci libera interiormente, scioglie le nostre tensioni, ci trasporta oltre i limiti di un destino momentaneo, – come del resto l’essere naturale è in misura molto superiore all’uomo, già in sé e per sé, un tipo della propria specie. Così, di fronte al paesaggio, sentiamo in misura minore l’esigenza della rappresentazione artistica e la sua attuazione non ci eleva e non ci libera, come fa la rappresentazione dell’uomo grazie all’enorme distanza tra il suo livello e la realtà della vita. Poiché tuttavia questo a Böcklin riesce, noi respiriamo con 96

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lui un’aria libera e liberatrice, entriamo in una cella purissima, ci sentiamo sollevati con slancio sicuro oltre la cupa realtà. Egli ha ottenuto con il paesaggio l’effetto psicologico che altrimenti spettava soltanto all’immagine dell’uomo. Certo, anche Poussin e Claude Lorrain si sono proposti nel paesaggio il processo d’astrazione e di idealizzazione, che, per così dire, ne esprime puramente il contenuto di idee e si allontana consapevolmente dalla singolarità e dalla tangibilità del reale. Ma hanno pagato l’acquisto con la perdita di ogni intimità dei loro paesaggi. Ci sollevano in ogni modo al di sopra della realtà, ma in uno spazio senz’aria, mentre Böklin ci conduce nel profondo del nostro cuore. Il riscatto e la liberazione dall’angustia e dal grigiore della realtà ha ottenuto un vero valore sentimentale solo nei suoi paesaggi.

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Georg Simmel

Se il prisma potesse vedere, gli sarebbe negata la luce bianca che potrebbe piuttosto ricevere soltanto nelle sue componenti distinte; l’unità interna, nella quale esistono per un altro modo di vedere, potrebbe solo supporla, ma per la conoscenza sarebbe continuamente rimandato alla successiva combinazione degli elementi nei quali, in base alla propria costituzione, ha già scomposto quell’unità. Questa è la sorte del nostro occhio spirituale; mai nell’affissarsi al fare umano e al proprio sentimento, alle impressioni e alle sensazioni, gli è concesso di comprenderli, se non afferrandoli nella loro mescolanza con molti elementi del sentimento, mentre noi siamo compenetrati dalla loro unitarietà. Con le proprietà più contraddittorie, che propriamente si escluderebbero a vicenda, descriviamo ciò che sentiamo immediatamen97

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Saggi sul paesaggio

te come uno, come compenetrazione reciproca di quegli elementi, e se il profondo filosofo medievale definiva la più alta unità divina come coincidentia oppositorum3, come ciò in cui si incontrano e si unificano tutti gli opposti delle cose, spesso non si potrà definire l’unità dell’opera umana e del suo risultato, se non dicendo che in essa si provoca l’incontro di elementi contraddittori. Non saprei definire l’atmosfera assolutamente unitaria dei maggiori paesaggi di Böcklin, se non come una malinconia felice di vivere – al modo stesso in cui, viceversa, si potrebbe caratterizzare il sentimento di Chopin come una gioia di vivere malinconica. Per noi uomini moderni la vita, la sensibilità, le valutazioni, la volontà, si sono scisse in infinite antitesi; siamo sempre divisi tra il sì e il no, e afferriamo la nostra vita interiore come il mondo esterno mediante categorie nettamente differenziate: ci sembra quindi essenziale che ogni grande arte unifichi i contrari, senza essere toccata dalla necessità di un aut aut. Anche nella prassi immediata il nostro criterio di valutazione di ogni uomo è se sia intelligente o sciocco. L’intelletto è la categoria in base alla quale giudichiamo ciascuno, e anche nell’impressione che la rappresentazione artistica di un uomo desta in noi, interviene in modo determinante il manifestarsi delle sue caratteristiche intellettuali. Al contrario, le figure della scultura greca sono al di là di questa opposizione: non capiamo se sono intelligenti o sciocche, le troviamo simmetriche rispetto al sì e al no, oserei dire indifferenti. Così molti nudi femminili del3

Il filosofo è Nicola Cusano (1401-1464).

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l’antichità non rientrano nella categoria della fanciulla o in quella della donna, non sono toccati da questa distinzione che la sensibilità moderna opera, innanzitutto, nei confronti di ogni figura femminile. Anche le figure femminili di Michelangelo sono in una certa misura al di là dell’appartenenza al genere maschile o femminile, rappresentano semplicemente l’umanità, che non conosce ancora la differenziazione dei sessi, o che si è innalzata al di sopra di essa. L’arte di Böcklin mostra un nuovo al di là, l’al di là del vero e del falso. La domanda con la quale ci accostiamo ad ogni rappresentazione dell’oggettività – coincide con la realtà o no? – vien taciuta. Non c’è in Böcklin un consapevole allontanamento dalla verità, nessuna fuga dalla comune realtà delle cose; il fascino di un tale atteggiamento, dell’opposizione al reale, è innegabile, e Schiller, con la sua esaltazione di ciò che non è mai accaduto, ha costruito il suo monumento a questo timido idealismo che vuole soltanto volgere gli occhi dalla realtà e che, coscientemente, non vuol sapere nulla. Ma questa negazione del reale è pur sempre un positivo rapporto con il reale stesso, come quello che intrattiene il realismo – solo di segno opposto. Tuttavia, nei confronti di Böcklin, l’alternativa: è realistico, o non è realistico? – è falsa. Alla domanda se le sue opere vivano soltanto in uno spirito, oppure abbiano un riscontro nella realtà, esse rispondono come farebbe il tono, qualora gli si volesse chiedere se è nero o bianco. Infiniti colori, forme, essenze che Böcklin ci mostra, non sono certo mai esistiti, e nessuna rinascita interiore di esperienze visive è la fonte del loro significato per la nostra sensibilità. 99

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Appartiene alla loro interna perfezione, alla completa rinuncia del sentimento ad ogni ulteriore rinvio a qualcosa sopra di sé, che i suoi paesaggi, più di tutti gli altri che io conosco, siano delle solitudini. Anche in questo caso non si tratta del consapevole, intenzionale rifiuto della realtà esterna, che è pur sempre un tenerne conto, anche se nel senso di una negazione. Che questi prati e questi precipizi, questi boschi e queste rive siano stati animati da uomini diversi da quelli che egli eventualmente vi introduce, non è affatto in questione; ognuno sta in una dimensione a sé, alla quale non si può giungere da altre dimensioni, per quanto ampiamente ci si muova in esse. La loro solitudine non è, come in altri paesaggi, un casuale essere-così, che potrebbe anche essere diversamente, ma una proprietà interna, essenziale, inseparabilmente connessa ad essi. Sono come quegli uomini il cui destino immutabile, impresso nella loro natura, è di essere «soli». La solitudine perde il suo carattere meramente negativo, di esclusione; è una tonalità di questi paesaggi, riconoscibile in se stessa, alla quale ora, in mancanza di un’espressione specifica immediatamente comprensibile, possiamo accennare con la parola negativa solitudine. In questa autosufficienza della sua arte sta forse il motivo per cui giudichiamo le stranezze e le imperfezioni, possibili sul piano del disegno, delle sue figure meno severamente di quanto faremmo nei confronti di qualcun altro. Esse sono «legge a se stesse». Il suo mondo tiene tutto ciò che si trova fuori della cornice ad una tale distanza che non li si può afferrare insieme con un solo sguardo. Perciò il loro con100

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trollo reciproco è meno ovvio che in altri quadri. Con questa eliminazione di ogni riferimento a tutto ciò che è esterno – un’eliminazione completa almeno per il sentimento immediato – l’arte di Böcklin incontra la musica. Anch’essa, certo, come quella, ha le radici della propria forza in realtà tangibili e nelle sensazioni immediate che vi si collegano; ma, come quella, anch’essa ha eliminato ogni riferimento e aleggia ad un’altezza del sentimento non più collegata da una mediazione afferrabile ai dati della percezione e della sensazione, di cui ora si limita a rappresentare la più fine sublimazione. Nessuno può più seguire le vie, attraverso le quali la facoltà del sentimento, dalla sensibilità primitiva e dalla bassezza dei suoi stimoli, è salita al godimento della musica più evoluta, troncando ogni filo di collegamento con la realtà sensibile della vita. Questa separatezza dell’essere-per-sé della musica è un segreto così grande che si capisce come Schopenhauer potesse toglierla dall’ordine di ciò che è indagabile e spiegabile, anzi delle arti in generale, e farne il simbolo immediato e l’espressione dell’essenza metafisica del mondo. Forse mai, prima di Böcklin, un’altra arte è penetrata a tal punto in questa enigmatica essenza della musica, che, come dice Schopenhauer, la fa scorrere davanti a noi come un paradiso completamente familiare e tuttavia eternamente lontano. Forse mai, se non nella musica, lo stato d’animo ha consumato a tal punto la sua materia. Dove un sentimento poggia su strutture visibili, dato che sono pur sempre qualcosa per sé, esse hanno ancora un’esistenza percepibile e un senso al di là dell’atmosfera che da loro promana e ci viene incontro. Solo nella 101

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musica è scomparsa quest’indipendenza del materiale; qui esso non esprime più qualcosa che possa ancora essere separato, accanto a cui condurre un’esistenza, anche se solo come spoglia terrena. Il dualismo è stato superato dalla musica, che non è più qualcosa che esprime e qualcosa che viene espresso, ma completamente e soltanto espressione, soltanto senso, solo Stimmung. E come non si può cercare la sua verità nel senso proprio alle altre arti, così questa ricerca non riguarda i paesaggi di Böcklin. Perché queste fonti e queste rocce, questi boschetti e questi prati, persino questi animali, questi centauri e questi uomini, non hanno alcun essere, alcuna realtà effettiva oltre a quella di essere il veicolo di una Stimmung, in cui sono trapassati completamente come il combustibile nella fiamma; accanto ad essa non hanno nulla che sia commensurabile ad una realtà esterna. Perciò vivono in noi come l’immagine di una persona amata, che ci ha lasciato da molto tempo, da molto tempo ha perso ogni ombra di realtà e si è trasformata completamente nel sentimento di cui ci riempe.

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Nota bio-bibliografica

Il testo di riferimento per una nota bio-bibliografica esauriente su Simmel in italiano si trova in G. Simmel, Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi (Torino, Utet, 1984, pp. 51-81). Utili anche le note contenute nel libro di A. Dal Lago, Il conflitto della modernità. Il pensiero di Georg Simmel, Bologna, Il Mulino, 1994. Si vedano inoltre, in tedesco, M. Landmann, Bausteine zur Biographie, e K. Gassen, Georg Simmel-Bibliographie, in K. Gassen e M. Landmann (a cura di), Buch des Dankes an Georg Simmel. Briefe, Erinnerungen, Bibliographie, Berlin, Dunker & Humblot, 1958, pp.11-33 e pp. 309-366. A partire dal 1991, l’Università di Bielefeld pubblica la Simmel Newsletter, dal 2000 divenuta Simmel’s Studies, contenente, oltre a saggi originali, recensioni e aggiornamenti bibliografici relativi a nuove traduzioni di opere di Simmel e alla critica contemporanea internazionale.

Vita e opere 1858

Georg Simmel nasce il primo marzo a Berlino, settimo figlio di genitori di origine ebraica convertiti (il padre al cattolicesimo e la madre al culto evangelico). Nel 1874, alla morte del padre, Georg viene adottato dall’editore musi-

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cale Julius Friedländer. L’eredità lasciatagli da quest’ultimo (morto nel 1889) costituisce per un certo tempo la principale fonte di reddito di Simmel. 1876

Si iscrive all’Università Humboldt di Berlino. Segue i corsi di storia di Theodor Mommsen, studia psicologia con Moritz Lazarus e Heymann Steinthal, fondatori della Völkerpsychologie, filosofia con Friedrich Harms ed Eduard Zeller, storico del pensiero greco. Studia inoltre storia dell’arte con Hermann Grimm e l’italiano del Trecento. Nel 1881 si laurea in filosofia, summa cum laude, con una tesi dal titolo Das Wesen der Materie nach Kant’s Physischer Monadologie (L’essenza della materia secondo la monadologia fisica di Kant). L’anno precedente la facoltà aveva respinto un suo primo lavoro presentato come tesi di laurea, Psychologisch-ethnographische Studien über die Anfänge der Musik (Studi psicologici ed etnografici sugli inizi della musica).

1885

Consegue l’abilitazione come Privatdozent (libero docente) presso l’Università di Berlino, ed inizia l’attività d’insegnamento. I suoi corsi, innovativi, attirano molti più studenti dei corsi dei docenti ufficiali.

1890

Pubblica il suo primo libro, Über soziale Differenzerung. Soziologische und psychologische Untersuchungen (La differenziazione sociale. Ricerche sociologiche e psicologiche). Lo stesso anno sposa Gertrud Kinel, autrice di saggi

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Georg Simmel

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filosofici con lo pseudonimo di Marie Luise Enckendorff. Dal matrimonio nasce un figlio, Hans. Simmel avrà anche una figlia, Angi, da Gertrud Kantorowicz. Quest’ultima ed entrambi i figli di Simmel subiranno persecuzioni naziste. 1891

Pubblica Die Probleme der Geschichtsphilosophie. Eine erkenntnistheoretische Studie (I problemi della filosofia della storia. Uno studio di teoria della conoscenza), e Einleitung in die Morlawissenschaft. Eine Kritik der ethischen Grundbegriffe (Introduzione alla scienza della morale. Una critica dei concetti fornamentali dell’etica).

1894

Pubblica il saggio Das Problem der Soziologie (Il problema della sociologia), presto tradotto in francese, inglese, russo, polacco e, nel 1899, in italiano.

1898

La proposta di promozione di Simmel a professore straordinario avanzata da alcuni professori della Facoltà di filosofia di Berlino, tra cui Wilhelm Dilthey e Gustav Schmoller, è respinta dal Ministero. La diffidenza nei confronti della nuova disciplina della sociologia, ma anche il diffuso antisemitismo, ostacolano la carriera accademica di Simmel. In questo periodo si avvicina al circolo del poeta Stefan George e conosce Rainer Maria Rilke.

1900

Pubblica l’opera fondamentale Philosophie des Geldes (Filosofia del denaro), che verrà poi ri-

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pubblicata in edizione riveduta ed ampliata nel 1907. 1901

Viene nominato professore straordinario di filosofia all’Università di Berlino. I suoi corsi sono molto frequentati, anche da studenti provenienti dall’est e da donne (è tra i primi ad ammetterle alle lezioni come uditrici), fatti non graditi negli ambienti accademici conservatori berlinesi. La sua popolarità è alimentata anche dall’assidua collaborazione con i principali quotidiani tedeschi.

1904

Pubblica Kant. 16 Vorlesungen gehalten an der Berliner Universität (Kant. 16 lezioni berlinesi).

1907

Pubblica Schopenhauer und Nietzsche.

1908

Pubblica Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung (Sociologia. Ricerche sulle forme dell’associazione), una delle sue opere principali. Viene chiamato a insegnare negli Stati Uniti, ma rifiuta l’invito. In patria invece, nonostante l’aiuto di Alfred e Max Weber, non riesce ad ottenere la cattedra di filosofia resasi disponibile a Heidelberg. Tra le motivazioni, il relativismo religioso e il carattere ritenuto «distruttivo» del suo pensiero, oltre al costante antisemitismo.

1909

Con Weber, Tönnies e Sombart fonda la Deutsche Gesellschaft für Soziologie (Società tedesca di sociologia); è membro del comitato direttivo.

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1910

Tiene il discorso di apertura al primo congresso della Società tedesca di sociologia, a Francoforte, con un intervento sulla Soziologie der Geselligkeit (Sociologia della socievolezza). Pubblica Hauptprobleme der Philosophie (I problemi della filosofia), primo libro poi tradotto in italiano, da Antonio Banfi suo allievo a Berlino.

1911

Pubblica la raccolta di saggi Philosophische Kultur (tradotta in italiano con il titolo La moda e altri saggi di cultura filosofica). Riceve la laurea honoris causa in scienze politiche dall’Università di Friburgo.

1913

Si dimette dalla Società tedesca di sociologia, con la motivazione di avere ormai interessi prettamente filosofici. Pubblica la monografia Goethe e il saggio Das individuelle Gesetz. Ein Versuch über das Prinzip der Ethik (La legge individuale. Saggio sui principi dell’etica).

1914

Viene chiamato come professore ordinario di filosofia all’Università di Strarburgo. Lascia Berlino malvolentieri, ma anche Berlino risente della sua partenza, tanto che un giornale pubblica un articolo dal titolo «Berlino senza Simmel». All’inizio della guerra abbraccia posizioni nazionalistiche e si impegna sul «fronte interno», tenendo conferenze ai soldati. Quest’atteggiamento, poi abbandonato, porta alla rottura definitiva con i suoi allievi prediletti G. Lukàcs ed E. Bloch.

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Saggi sul paesaggio

1916

Pubblica la conferenza Das Problem der historischen Zeit (Il problema del tempo storico) e Rembrandt. Ein kunstphilosophischer Versuch (Rembrandt. Un saggio di filosofia dell’arte).

1917

Pubblica Grundfragen der Soziologie (Individuum und Gesellschaft) (tradotto in italiano con il titolo Forme e giochi di società), sintesi del suo pensiero sociologico.

1918

Pubblica il testo della conferenza Der Konflikt der modernen Kultur (Il conflitto della cultura moderna) e Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel (Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici). Il 28 settembre muore a Strasburgo per una malattia al fegato.

Traduzioni italiane in volume (In ordine cronologico, sono escluse le traduzioni in riviste e in antologie di autori vari) I problemi fondamentali della filosofia, (Hauptprobleme der Philosophie, 1910), trad. e intr. di A. Banfi, Vallecchi, Firenze, 1922. Ristampa a cura di F. Papi, Milano, Isedi, 1972 e a cura di F. Andolfi, Roma-Bari, Laterza, 1996 Il relativismo, (saggi vari), a cura di G. Perticone, Lanciano, Carabba, 1922 Schopenhauer e Nietzsche, (Schopenhauer und Nietzsche. Ein Vortragszyklus, 1907), trad. e intr. di G. Perticone, Torino, Paravia, 1923. Nuova traduzione integrale a cura di A. Olivieri, Firenze, Ponte alle Grazie, 1995

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Georg Simmel

Frammento sull’amore, (Fragment über die Liebe, 192122), a cura di E. Sola, Milano, Athena, s.d. (1927). Nuova traduzione di S. Belluzzo, Milano, Anabasi, 1995 Rembrandt. L’arte religioso-creatrice, (Rembrandt. Ein kunstphilosophischer Versuch, 1916), trad. parziale di E. Goldstein, intr. di A. Banfi, Roma, Doxa, 1931. Nuova traduzione integrale di G. Gabetta, con il titolo Georg Rembrandt. Un saggio di filosofia dell’arte, Milano, SE, 1991 © ARMANDO EDITORE. La fotocopia non autorizzata è reato.

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Il conflitto della civiltà moderna, (Der Konflikt der modernen Kultur. Ein Vortrag, 1918), trad. e pref. di G. Rensi, Torino, Bocca, 1925. Ripubblicato in Il conflitto della cultura moderna e altri saggi, a cura di C. Mongardini, Roma, Bulzoni, 1976, e con il titolo Il conflitto della civiltà moderna, a cura di G. Rensi, Milano, Se, 1999

Intuizione della vita. Quattro capitoli metafisici, (Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel, 1918), trad. it. F. Sternheim, intr. di A. Banfi, Milano, Bompiani, 1938. Nuova traduzione a cura di G. Antinolfi, Napoli, ESI, 1997 Kant. Sedici lezioni tenute all’Università di Berlino, (Kant. Sechzehn Vorlesungen gehalten an der Berliner Universität, 1904), a cura di G. Nirchio, Padova, Cedam, 1953. Nuova traduzione di A. Marini e A. Vigorelli con il titolo Kant. Sedici lezioni berlinesi, Milano, Unicopli, 19992 L’etica e i problemi della cultura moderna, (Georg Simmels Vorlesung «Ethik und Probleme der modernen

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Saggi sul paesaggio

Kultur», [1913] 1949), trad. it. P. Pozzan, intr. di G. Calabrò, Napoli, Guida, 1968. Saggi di estetica, (saggi vari), a cura di M. Cacciari, Padova, Liviana, 1970

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Arte e civiltà, (saggi vari), a cura di D. Formaggio e L. Perucchi, Milano, Isedi, 1976 Il dominio, (Soziologie der Über- und Unterordnung, 1907), a cura di C. Mongardini, Roma, Bulzoni, 1978 La differenziazione sociale, (Über soziale Differenzierung. Soziologische und psychologische Untersuchungen, 1890), a cura di B. Accarino, pref. di F. Ferrarotti, Bari, Laterza, 1982 I problemi della filosofia della storia, (Die Probleme der Geschichtsphilosophie. Eine erkenntnistheoretische Studie, 1907), trad. it. G. Cunico, intr. di V. D’Anna, Casale Monferrato, Marietti, 1982 Forme e giochi di società. Problemi fondamentali della sociologia, (Grundfragen der Soziologie. Individuum und Gesellschaft, 1917), trad. di C. Tommasi, intr. di A. Dal Lago, Milano, Feltrinelli, 1983 Filosofia del denaro, (Philosophie des Geldes, 1900; 19072), a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, Torino, UTET, 1984 Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, (saggi vari), a cura di L. Perucchi, Bologna, Il Mulino, 1985

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Georg Simmel

La forma della storia, (Das Problem der historische Zeit, 1916, Die historische Formung, 1917-18), a cura di F. Desideri, Salerno, Edizioni 10/17, 1987 Sociologia (Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, 1908), trad. di. G. Giordano, intr. di A. Cavalli, Milano, Comunità, 1989

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La moda, (Zur Psychologie der Mode. Soziologische Studie, 1895), a cura di D. Formaggio e L. Perucchi, Roma, Editori Riuniti, 1985. Altra traduzione di M. Monaldi, in La moda e altri saggi di cultura filosofica, (Philosophische Kultur. Gesammelte Essays, 1911), Milano, Longanesi, 1985, scritti ristampati con il titolo Saggi di cultura filosofica, Parma, Guanda, 1993; nuova traduzione del saggio La moda, a cura di L. Perucchi, Milano, Mondadori, 1998

Il segreto e la società segreta, (Das Geheimnis und die geheime Gesellschaft, 1908), trad. di G. Quattrocchi, intr. di A. Zhok, Milano, Sugarco, 1992 Saggi di sociologia della religione, (saggi vari), trad. di M. Marroni, intr. di R. Cipriano, Roma, Borla, 1993 La religione, (Die Religion, 1906), trad. e intr. di C. Mongardini, Roma, Bulzoni, 1994 La legge individuale altri saggi, (saggi vari) trad. di G. Barbolini, intr. di F. Andolfi, Pratiche, Parma, 1995. Il saggio La legge individuale (Das individuelle Gesetz. Ein Versuch über das Prinzip der Ethik) è stato ripubblicato, a cura di F. Andolfi, Roma, Armando, 2001

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Saggi sul paesaggio

La metropoli e la vita dello spirito, (Die Grosstädte und das Geistesleben, 1903), trad. e intr. di P. Jedlowski, Roma, Armando, 1995 L’educazione in quanto vita, (Schulpädagogik. Vorlesungen, 1922), trad. it. di F. Coppellotti, intr. di A. Erbetta, Torino, Il Segnalibro, 1995

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Kant e Goethe, (Kant und Goethe, 1906), trad. di A. Iadicicco, Como, Ibis, 1995 Sull’intimità, (saggi vari), trad. di M. Sordini, intr. di V. Cotesta, Roma, Armando, 1996 La socievolezza, (Die Geselligkeit, 1917), trad. di E. Donaggio, intr. di G. Turnaturi, Roma, Armando, 1997 Il denaro nella cultura moderna, (Psychologie des Geldes, 1889, Das Geld in der modernen Kultur, 1896), trad. it. di P. Gheri, intr. di N. Squicciarino, Roma, Armando, 1998 Tecnica e modernità nella Germania di fine Ottocento, a cura di N. Squicciarino, Roma, Armando, 2000 Forme dell’individualismo, a cura di A. Andolfi, Roma, Armando, 2001 Il povero (Der Arme, 1908), a cura di G. Iorio, Roma, Armando, 2001 Sulla guerra (Der Krieg und die geistingen Entscheidungen, 1917), trad. e intr. di S. Giacometti, Roma, Armando, 2003

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