Saggi sul romanzo di formazione. Autocoscienza e autoinganno

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Saggi sul romanzo di formazione. Autocoscienza e autoinganno

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M.Bertini, G. Cavaglià, A. Chiarloni,

G. Gigli Ferreccio, A. Giubertoni, L. Mancinelli

AUTOCOSCIENZA El AUTOINGANNO Saggi sul romanzo di formazione

o

>

= LIGUORI EDITORE

|

Mariolina Bertini, Giampiero Cavaglià, Anna Chiarloni, Giuliana Gigli Ferreccio, Anna Giubertoni, Laura Mancinelli

Autocoscienza e autoinganno: Saggi sul romanzo di formazione

Liguori Editore

Pubblicato da Liguori Editore via Mezzocannone 19, 80134 Napoli © Liguori Editore,

S.r.l, 1985

Prima

edizione italiana Maggio 1985 Bugo si Cisa ze AO 1990 1989 1988 1987 1986 1985 Le cifre sulla destra indicano

il numero

e l’anno

dell’ultima ristampa I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo (compresi microfilm, microfiches e riproduzioni fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi Quest'opera è stata pubblicata con il contributo del Ministero della P. I. (cfr. nota 1 p. 7) Printed in I‘aly, Tipografia Glaux, Napoli ISBNBSS4S820780861 41708055,

Indice

7

Premessa degli autori

9

La nascita del Bildungsroman di Laura Mancinelli

29

61

nella letteratura tedesca medievale,

Goethe e il pietismo. Memoria e rimozione, di Anna Chiarloni Le radici massoniche del Bildungsroman,

di Anna Giubertoni

83

Lo spettatore imparziale. Considerazioni sul romanzo di formazione in Inghilterra, di Giul'ana Gigli Ferreccio

119

Il romanzo storico come Bildungsroman: di Miklés Jésika, di Giampiero Cavaglià

139

Goethe in Proust,

di Mar'olina Bongiovanni Bertini

l’Abafi,

Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/autocoscienzaeau0000unse

Premessa degli autori

Un noto critico inglese scriveva qualche anno fa’ che il Wilhelm Meister non è certo il genere di romanzo che i ragazzi si portano di nascosto a letto. E la cifra interiore, tipica di questo testo, andrebbe in fondo a scapito dell'immagine del mondo che, con ben altra nitidezza emerge invece dalla narrativa realistica ottocentesca. Tutto questo è indubbiamente vero, resta tuttavia il fatto che il Wibelm Meister — e in generale il romanzo di formazione ebbe un’enorme influsso sulla letteratura europea dell’ottocento e novecento. E non solo europea. In un recente convegno tenuto a Basilea un germanista di Tokyo presentò un intervento intitolato: « Cosa abbiamo imparato noi giapponesi dal Bildungsrormzan tedesco? » La risposta può essere così riassunta: « Tutto ». Il fatto è che il romanzo di formazione è una struttura aperta, che indica una tendenza, piuttosto che descrivere il raggiungimento di una meta definita e la Bildung si fonda su una precisa virtù del protagonista, quella « curiosità epistemologica » che — secondo Martin Swales — innalza questo genere letterario agli apici della cultura europea settecentesca e ne determina l’onda lunga di un influsso che arriva fino al novecento. Nel romanzo di formazione infatti, l’apprendere è sempre sentito come un processo precario e instabile, espressione di una mobilità continua e dissonante, generata da una concezione della vita che innalza a valore inoppugnabile l’esperienza interiore. Nel corso della sua storia il 1omanzo di formazione è rimasto fedele

alle sue origini, e qui arriviamo all’arco dei problemi affrontati dat contributi di questo volume !. Laura Mancinelli analizza il contesto storico culturale in cui nasce il Bildungsroman medievale, mettendo in luce la conti-

1 Il volume

nell'AA. è stata

è nato

1982-83, finanziata

da un

sul tema con

fondi

seminario

«Etica

interdisciplinare

e tempo

ministeriali

60%.

tenuto

all’Università

di Torino

storico nel Bildungsroman ». La ricerca

8

Premessa

degli autori

nuità tra il tessuto narrativo della vita dei santi e la successiva letteratura laica, attraverso il Parzival e il Tristano, fino al romanzo

moderno.

L'importanza della vita interiore e il suo costituirsi come luogo del racconto si manifesta, come è noto, in Germania — ma altrettanto si può dire dell'Inghilterra, si pensi a De Foe e al puritanesimo — in una vasta produzione di stampo pietista. Va a Bernd Neumann il merito di aver

curato la ristampa di un serie di autobiografie pietiste che meglio chiariscono quale intimo lavorio sottenda il formarsi del soggetto borghese tra il °600 e il ’700. Ma un aspetto che ancora non è stato studiato a fondo è il ruolo della donna nella cultura pietista: in questo senso si muove ia ricostruzione dei rapporti tra Goethe e la Klettenberg, proposta da Anna Chiarloni, al di sotto della « rimozione » operata nei Lebrjabre. Perché la Bildung, maturata nell'ambiente pietista, rispecchiasse il complesso affermarsi del soggetto borghese fu necessario un nuovo impulso, laico e terreno:

la diffusione degli ideali massonici che, non a caso, avevano

costituito uno degli elementi fondanti della struttura liberale inglese. Anna Giube:toni mette a fuoco l’innesto massonico nella tradizione pietista e la conseguente secolarizzazione della Bi/dung, ripercorrendone anche il potenziale rovesciamento in Verbildung: da Mozart a Goethe, da Jean Paul a Schiller. In Inghilterra l’origine del romanzo moderno si inscrive in un processo pedagogico di vaste dimensioni sociali, fondato sulla secolarizzazione della cultura e su un’ampia diffusione del pensiero scientifico. All’interno di questa evoluzione Giuliana Gigli Ferreccio esamina la tipologia del gertlezzan addisoniano come matrice di caratteri romanzeschi europei e il romanzo sentimentale, alla Richardson, come luogo in cui il rapporto autore/iettore si configura come paritario, con un progressivo e problematico occultamento del narratore tradizionale in quello che si suol chiamare il « punto di vista ». Al Bildungsroman come genere letterario di esportazione si è già accennato. Il contributo di Gianpiero Cavaglià esplora una zona ai margini della Weltliteratur — l'Ungheria — dove la presenza di tracce più remote (italiane e francesi, le suggestioni dell’orientalismo tardo-settecentesco) mediano l’aprirsi della letteratura magiara alle nuove tematiche del sentimentalismo europeo, determinando innesti di sorprendente modernità. Infine, indizi di una lettura sommersa emergono dal saggio di Mariolina Bertini su Proust come lettore di Goethe: dall’orizzonte della memoria della cultura europea il Wilhelm Meister preme, con perentoria autorità, interrogando la coscienza

contemporanea.

Laura

Mancinelli

La nascita del Bildungsroman nella letteratura tedesca medievale

La politica culturale di Carlo Magno Se la peculiarità del « Bildungsroman » tradizionale è da individuarsi nel prospettare una vita come modello esemplare, e la sua finalità nel proporsi l'educazione morale e sentimentale dei lettori, l’origine di questo genere appare chiaramente nella tradizione narrativa medievale, o almeno in un certo filone di essa, importante al punto da caratterizzarne alcuni periodi. E i periodi in cui il romanzo di formazione è tald da costituire l’asse pottante della letteratura tedesca, sono spesso i periodi storici dominati da una politica culturale molto precisa ed evidente. Gli inizi della letteratura tedesca sono strettamente connessi con la politica culturale che Carlo Magno esplicitò nella Adrzonitio Generalis del 789, vero programma di educazione dei sudditi del futuro impero, e che già aveva avviato a realizzazione fondando la Scuola Palatina e chiamando a dirigerla Alcuino di York, erede del programma educativo e didattico di Beda Venerabilis. Carlo sapeva bene che l’unico principio di coesione tra popoli diversi pet origine, storia e cultuta, quali erano quelli che andava raggruppando sotto il suo dominio, non poteva essere che la religione cattolica, l’unica forza morale rampollata dal mondo classico che fosse sopravvissuta alla profonda trasformazione operata in Europa dalle invasioni germaniche. La rigida organizzazione gerarchica della chiesa di Roma fa del cattolicesimo lo strumento più idoneo a sorreggere la vasta e complessa macchina di quell’impero universale che Carlo voleva richiamare in vita. Non a caso la struttura feudale del regno franco prima, dell'impero carolingio poi,

ripete la struttura piramidale della gerarchia ecclesiastica, realizzazione

in

terra di quella concezione piramidale dell'universo inculcata dalla mistica neoplatonica e diffusa in Occidente soprattutto dalle opere di Dionigi 1’Areopagita circolanti nella traduzione latina di Scoto Eriugena. Dal vertice di questa piramide, pur nella duplicazione attuata da Carlo Magno — struttura del potere spirituale con a capo il papa, del potere

10

Laura Mancinelli

temporale con a capo l’imperatore — emanano tutte le direttive atte a regolare la vita e il pensiero dei sudditi: il perfetto e ideale accordo tra i due vertici doveva ridurre la distanza tra le due strutture e garantire il funzionamento di entrambe. Se questo è forse il punto più debole della roncezione politica di Carlo Magno e fu causa di precarietà per l’impero stesso, fu tuttavia geniale intuizione l’aver capito che, per avere sudditi obbedienti ad ogni livello della piramide sociale, fino a quella vastissima base umana costituita in prevalenza da contadini, occorreva formare dei cattolici ortodossi e consapevoli. Carlo aveva capito la necessità che i suoi sudditi fossero convinti nel profondo delle coscienze per essere rispettosi delle due somme autorità che ricevevano prestigio e potere l’una dall’altra. Ma Carlo sapeva anche che il cattolicesimo non aveva radici abbastanza profonde presso le popolazioni germaniche, più o meno recentemente convertite al cristianesimo, quasi sempre per imposizione dell’autorità politica e qualche volta persino con la violenza, come era avvenuto per i Sassoni. Sapeva che sopravvivenze pagane erano presenti un po’ ovunque

negli strati più umili, contadini,

e potevano

soprattutto

diventare focolai di rivolta

contro l’autorità e contro l’imperatore, come dimostrarono proprio le continue turbolenze dei Sassoni, i quali fecero del paganesimo germanico la bandiera della resistenza alla dominazione franca. Occotreva quindi una massiccia opera di propaganda ed educazione religiosa per trasformare le popolazioni soggette in sudditi fedeli. Questo fu lo scopo della politica culturale di Carlo Magno; e Chiesa e religione ne furono lo strumento. Il primo passo nella realizzazione di questo programma culturale fu la fondazione della scuola palatina, la scuola di corte in cui veniva educata la classe dirigente delle generazioni future e che nell’intendimento di Carlo

doveva essere frequentata anche dai giovani destinati al mestiere delle armi. In realtà fu la fucina dei nuovi educatori,

tutti ecclesiastici, e soprattutto

degli abati che andarono a dirigere le scuole dei conventi — bano

Mauro,

allievo di Alcuino,

che fu abate

del convento

si pensi a Radi Fulda, il

primo grande centro culturale in Germania. In queste scuole, oltre a preparare i futuri maestri e predicatori, venivano tradotte dal latino in volgare opere di letteratura religiosa, vite di Cristo, vite di, santi, genesi e giudizi universali; queste opere, lette e spiegate dal pulpito ai fedeli, erano insieme veicolo di propaganda religiosa e di istruzione morale e civile. La predica dal pulpito, in una società pressoché totalmente analfabeta, fu strumento di persuasione e « formazione » dei sudditi dell’impero, e in questa attività didattica parte privilegiata avevano, accanto ad episodi della vita di Cristo, le vite dei santi.

La nascita

del Bildungsroman

nella letteratura

tedesca

medievale

11

A queste vite in volgare fornivano materiale in abbondanza le Vitae Patrum di Gregorio di Tours insieme ad altri scritti, spesso anonimi, della bassa latinità. Mentre si moltiplicavano le traduzioni dal latino, che dovevano fornire materiale per prediche anche a sacerdoti di media e scarsa cultura, e a destinatari incolti, sulle fonti latine la fantasia, stimolata dallo spirito d’avventura che spesso accompagnava le vicende dei martiri e dei santi, riproduceva e moltiplicava i modelli in prodotti letterari autonomi in lingua volgare. Fu così che il IX secolo vide in Germania una grande fioritura letteraria sorta su un terreno che non aveva mai conosciuto una tradizione scritta, e le cui opere erano però di carattere rigorosamente re-

ligioso e finalizzate alla istruzione dei fedeli: i modi che presiedettero all’origine della letteratura tedesca spiegano insieme e il grande anticipo che questa ebbe rispetto agli altri popoli dell'impero, e la totale emarginazione del paganesimo autoctono, emarginazione che cancellò dalla letteratura tedesca persino i nomi degli dei pagani — noi li conosciamo solo dalla letteratura scandinava del XIII secolo —; spiegano anche lo spazio ridottissimo lasciato alla tradizione epica, che sopravvisse solo in forma orale — l’unico frammento scritto è lo Hildebrandslied di età carolingia — fino alle soglie del Duecento Non può sfuggire a questo punto la singolarità del fatto che la politica culturale di Carlo Magno influì sulla cultura tedesca in misura molto maggiore che non sugli altri popoli dell'impero, Francia e Italia segnatamente, le cui letterature in volgare nascono

più tardi ma in forme più variamente

articolate, con prevalenza di produzione lirica e epica. Come le letterature francese e italiana — per rimanere entro i confini storici dell'impero carolingio — non conobbero alle origini una produzione religiosa così vasta da esserne dominate e caratterizzate per almeno tre secoli, così la cultuta di Italia e Francia si sottrasse in parte a quel tipo di educazione religiosa che derivava dalla politica di Carlo Magno e dall’opera di istruzione e persuasione che si attuava attraverso i pulpiti; sfuggiva in altre parole al programma di « formazione » voluto dalla autorità politica ed ottenuto per mezzo dell’autorità religiosa. La differenza negli effetti della politica carolingia si spiega con alcune circostanze storiche tra le quali due emergono con particolare evidenza. Malgrado la tradizione epica fraacese abbia fatto di Carlo Magno il simbolo della douce France, l’imperatore che riuniva i suoi paladini alla corte di Francia, egli fissò invece la sua sede prevalentemente in città della Germania, e la sua corte, notoriamente itinerante come quella leggendaria di Artù, si spostava secondo le necessità militari dell’imperatore. Le regioni

12.

Laura Mancinelli

della Germania erano quelle in cui maggiormente si rendeva necessaria la presenza dell’imperatore, perché erano terra di conquista e di recente conversione al cristianesimo, perché in esse covava ancora la rivolta e perché i confini orientali erano tutt'altro che tranquilli. E anche, forse, perché Carlo aveva coscienza della sua germanicità e considerava la Germania il cuore dell'impero. L’altra ragione è che sul suolo tedesco la politica dell’imperatore operava su un terreno vergine o culturalmente più debole e, non trovando resistenza in tradizioni antiche e radicate come in Francia e, in misura ancora maggiore, in Italia, poteva imporsi con quell’impronta totalitaria che spazzò via, emarginandola, ogni forma di cultura diversa, ottenendo quella omogeneità morale e spirituale che si riflette nella letteratura dei primi tre secoli.

II modello

delle vite dei santi

Nell’ambito della Jetteratura religiosa delle origini ebbe particolare fortuna quel genere che doveva essere considerato minore, in quanto vato allo strato più umile e incolto della popolazione: le vite dei In confronto alle vite di Cristo, alle genesi e ai giudizi universali, le di questi eroi ed eroine della fede avevano il vantaggio di suscitare

risersanti. storie maggiore interesse stimolando la fantasia e di chi le scriveva e di chi le ascoltava, anche perché nessun vincolo di fedeltà ai fatti condizionava la penna degli scrittori. Capostipite di questo genere è, sullo scorcio del IX secolo, il Georgslied, una vita di San Giorgio in versi, che racconta la ferma sopportazione dei martìri da parte del santo e il suo rinascere da morte ogni volta che i suoi persecutori lo uccidevano. Il protagonista non è fl cavaliere che conosciamo dalla tradizione più recente, colui che uccide il drago e libera la principessa — figura di stampo cortese e cavalleresco — ma un indomabile predicatore, plurimartire e taumaturgo. Il tono del racconto, pur nella corretta successione metrica dei versi, è ingenuo e popolaresco, dominato dallo stupore che provocano le audaci resurrezioni del santo e la sua impertetrita predicazione pur in mezzo ai tormenti. Non è difficile scorgere in questa vita, e in quelle che sul suo modello verranno composte, la versione cristianizzata della fiaba popolare: l’eroe è il santo, l’antagonista il demonio, o i nemici della fede, o i malvagi potenti; le prove da superare sono le tentazioni e le torture, il dono magico è la groria divina che permette di superare le prove, il successo è la testimonianza della fede e la glorificazione di Dio. Se già lo schema, pur così

La nascita

del Bildungsroman

nella

letteratura

tedesca

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semplice ed elementare, del Georgslied, lascia spazio alla fantasia nella moltiplicazione delle morti del santo, altri esempi di vite dilatano il tessuto del racconto con l’introduzione di avventure inverosimili atte a catturare l’attenzione dell’uditorio, realizzando lo scopo di istruire dilettando: non c'è dubbio infatti che le folle di fedeli che udivano raccontare dal pulpito le storie di questi eroi, erano avvinte soprattutto dalla ricchezza fantastica del racconto, ma ne assorbivano contemporaneamente la morale e l'insegnamento. Né le vite dei santi venivano meno a questo loro assunto principale, inalienabile per altro, come non alteravano mai quello schema narrativo che ne era la base. Un secolo citca più tardi, sul finire del X, questo schema ricompare in alcuni dei pezzi teatrali della monaca Rosvita (Hrosvith) del convento di Gandersheim. Molte circostanze cambiano: Rosvita scrive in latino e scrive per le sue consorelle chiuse in convento,

quindi per un pubblico

d'élite;

la forma è quella della commedia breve e molto probabilmente questi pezzi venivano recitati dalle monache stesse. Ma gli elementi fondamentali restano invariati: scrive per istruire dilettando, e istruire anche nella conoscenza del latino; ciò che propone è sempre un esempio, un modello da imitare, e all’interno di questo exerzplum si ripete lo schema base della fiaba trasformata in vita di santo. Spesso l’eroe è nella sua commedia una donna, una fanciulla che si è votata alla verginità e che qualche potente tiranno vuole costringere al matrimonio o al concubinato: la vergine si rifiuta, affronta le torture e la morte e viene santificata. Qualche volta emerge

una

vena

comica

che serpeggia

più o meno

latente

in molte

vite

di santi e che è spia di un gusto popolaresco che spesso le accompagna: è il caso, nel teatro di Rosvita, del Dwlcizio, il cui protagonista, preso d’amore per tre bellissime vergini cristiane, si introduce di notte nelia loro stanza e, credendo abbracciarle, bacia e abbraccia pentole e padelle sporche di fuliggine. Malgrado la vena comica che può affiorare in queste commedie, il finale è sempre tragico, identificandosi con la morte del martire la sua

testimonianza

della

fede, e quindi

la sua

vittoria

sull’antagonista,

ed implicitamente la sua glorificazione. Qualche volta 11 protagonista è un giovane condottiero, come l’eroe del l'anonimo Ludwigslied, Ludovico III, vincitore dei Normanni a Saucourt: ma anche in questo caso l’autore si preoccupa di fare di lui un difensore della fede che combatte guidato da Dio stesso, assimilando la sua vittoria sui nemici ad una vittoria sul inale e lasciando trapelare un intento apologetico sconfinante in territorio epico e laico. D'altra parte qualcosa di analogo

farà più tardi, nella seconda

metà

del XII

secolo e in clima cul-

14

Laura Mancinelli

turale già molto diverso, quel prete Konrad che « rifece » nel Rolandslzed la Chanson de Roland: nel rifacimento tedesco infatti il paladino viene caratterizzato insistentemente come difensore della fede e della parte del bene contro le milizie del male; l’agguato di Roncisvalle è la vendetta del male sul bene e la morte dell’eroe viene descritta con gli stessi tratti della morte di Cristo: un tuono tremendo scuote la terra, il cielo si oscura e gli angeli scendono ad accogliere l’anima di Rolando. Se non si può parlare a rigore di termini di letteratura religiosa, è tuttavia evidente in questi casi la volontà di presentare anche eroi laici come modelli ideali di guerrieri che combattono contro le forze del male: sono i predecessori del cavaliere ideale dell’età cortese, e nel caso di Rolando abbiamo un predecessore anche cronologicamente assai vicino.

L’opera dei ministeriali e l’utopia cortese

Il mito del perfetto cavaliere, che sarà alla base della grande narrativa in versi dell’età cortese, sarà anche il nucleo del romanzo di formazione propriamente detto, il quale dilata al massimo lo schema della « vita » in-

*troducendovi una grande varietà di avventure, senza tuttavia alterario nelle linee fondamentali. La trasformazione più notevole sta però nel passaggio dalla sfera della letteratura religiosa a quella laica, nel duplice senso che l’eroe è un cavaliere di mondo e di corte, e che il romanzo non viene prodotto nei conventi per l'istruzione dei fedeli, ma nelle corti per il diletto dei cortigiani. Oltre alle linee fondamentali dello schema permane in esso l’intento educativo secondo una precisa direttiva morale. Dopo il Mille i conventi perdono la loro prerogativa di centri culturali, nel senso che la letteratura che in essi si continua a produrre non è più né divulgazione dei contenuti della fede, né opera di propaganda religiosa o di educazione. Benché la politica culturale carolingia sia sopravvissuta a lungo ai suoi ideatori, essa tuttavia si disgrega nell’età degli imperatori sassoni: la letteratura che si produce nei conventi non è più rivolta al popolo, né ad esso trasmessa dai pulpiti in forma didattica, bensì letteratura di altissimo livello teologico e filosofico destinata ai maestri delle scuole «dei conventi stessi.

In questo periodo si attua quella trasformazione sociale che sarà determinante per la grande letteratura cortese: se il convento non è più centro di istruzione rivolta alle masse di contadini, è tuttavia ancora dal convento che parte il più grande movimento culturale del secolo XII, sotto forma di

La nascita del Bildungsroman

nella letteratura

tedesca

medievale

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scienza filosofica e teologica che dalle scuole dei conventi viene trasmessa alle scuole delle università, dove questo sapere, che era patrimonio esclusivo del clero, sia pure tra dispute e accuse di eresia con conseguenti

processi, lentamente si laicizza. Questo è nel XII secolo fenomeno prettamente francese, e fa capo alle due grandi scuole universitarie di Parigi e Montpellier. Il XII secolo vede contemporaneamente diffondersi una categoria di letterati incerta tra il chierico e il laico: sono i cosiddetti « chie*ici vaganti », che rifiutano la loto matrice clericale in nome di una difficile libertà e indipendenza: sia che fossero monaci fuggiti dal convento o studenti laici che vagavano da una scuola all’altra, sono certamente gli eredi di una grande cultura teologica e filosofica che tende ad esprimersi in forme laiche, poesie d’amore, satiriche o d’occasione. La struttura del mondo feudale non lascia spazio di vita sufficiente a questi letterati, che si riducono per lo più a mendicare un posto a tavola o un tetto sotto cui ripararsi, ma non c'è dubbio che con loro nasce la nuova Jetteratura laica — il che non vuol dire che sia affrancata da ogni sovrapposizione religiosa, ma semplicemente che è espressione più individuale e autonoma. Come la loro vita, anche la loro produzione letteraria soffre i limiti imposti dall’emarginazione, è breve, frammentaria e discontinua, pur essendo generalmente

di altissimo livello — si pensi ai Carzzina Burana. Il fenomeno dei « vaganti », più ridotto in Germania rispetto alla Francia per la maggior rigidità della struttura sociale, sarà di breve durata e verrà ben presto reinserito nell’ordo wzedievalis, nella categoria dei ministeriales, letterati laici assunti alle dipendenze delle corti come segretari, cancellieri o semplicemente scrivani. La dipendenze da un signore, imperatore, re o feudatario di campagna che fosse, garantisce loro agio e tranquillità per studiare e scrivere, al prezzo di quella libertà che il mondo medievale non concedeva che agli emarginati. Rientrare nell’ordine non voleva dire asserire il proprio talento letterario, ma utilizzarlo entro quell’ambito stesso che garantiva la vita al letterato, nell’ambito della corte. I ministeriali vivono a corte e scrivono per la corte, qualche volta su commissione del loro signore, molto più spesso seguendo il loro personale talento, ma sempre finalizzando la loro produzione ad esprimere cosa che fosse gradita al gusto della corte. Essi sono i portavoce di quella idealizzazione della realtà che è l’utopia cortese. Le radici di questa utopia vanno ricercate in teorizzazioni più antiche, elaborate dopo il Mille in ambito ecclesiastico. Quando nell’Europa occidentale la società già accenna a trasformarsi allontanandosi dai rigidi schemi feudali, in una serie di opere scritte — tra le quali emergono quella

16

Laura

Mancinelli

commissionata da Gerardo vescovo di Cambrai e il poemetto di Adalberone di Laon! — viene teorizzata la tripartizione dell'umanità in quei « tre stati » la cui denominazione sopravviverà anacronisticamente fino alla rivoluzione francese: l’umanità viene divisa in oratores, il clero, gli uomini che hanno il compito di pregare per tutti, Sellatores, la nobiltà, quelli che portano le armi e devono combattere per tutti, e laboratores, i contadini e artigiani, la sterminata moltitudine di quelli che devono lavorare per tutti e su cui grava l’obbligo di procurare il sostentamento delle altre due classi, cui è attribuito il compito di pregare e combattere anche per loro. In questo estremo tentativo di conservazione di un ordo medievalis che la storia già stava incrinando, la ripartizione dei tre stati viene presentata come voluta da Dio, quindi intoccabile e inalterabile. Vedremo che ancora alla fine del XIII secolo il poema di Werner der Gattenaere, Mejer Helmbrecht, prospetta come punizione divina l’atroce fine di un contadino che ha voluto diventare cavaliere. Ma prescindendo dal totale anacronismo di questa tripartizione, non v'è dubbio che senza di essa non sarebbe stata possibile l’idealizzazione della figura del cavaliere che è alla base del romanzo cortese e che è, per quanto interessa il problema qui trattato, il nucleo del Bi/durgsrozzan medievale.

L’utopia cortese e il ciclo arturiano

Nella trasformazione della società feudale, che ha come momenti fondamentali l’ereditarietà dei feudi, anche minori, e l’applicazione spesso rigida del diritto di primogenitura, uno degli aspetti più drammatici a partire dall’XI secolo fu il problema dei cavalieri diseredati, quelli che, essendo cadetti di famiglie feudali, erano esclusi dall’eredità delle terre. Erano, come è facile intuire, un numero considerevole. La tripartizione della società non consentiva loro di fare altro lavoro che quello delle armi: l’unica alternativa era entrare nel clero, secolare o regolare; ma era una alternativa che, pur prescindendo dalla vocazione — cosa di cui non si teneva alcun conto — raramente un cavaliere accettava. Il mestiere delle armi, d’altra parte, esercitato al servizio di un altro signore, un feudatario più fortunato, era faticoso, rischioso e poco remunerativo. Le circostanze spingevano quindi

1 Si veda Bari 1980.

a questo

proposito

di G.

Duby,

Lo

specchio

del feudalesimo,

Laterza,

La nascita del Bildungsroman

nella letteratura

tedesca

medievale

17

i cavalieri cadetti, privi di mezzi di sussistenza, ad prganizzarsi in bande armate per procacciarsi di che vivere.

Campagne e foreste pullulavano di queste bande, che costituivano un gravissimo rischio per viaggiatori e mercanti + proprio quando commerci e traffici di ogni specie cominciavano a rifiorire nell'Europa occidentale —, ma anche per i villaggi dei contadini inermi e persino per i castelli che si trovassero sguarniti per ragioni militari. Lo scopo delle imprese di questi cavalieri-banditi era il bottino, ma quasi bempre la spedizione si concludeva con stragi orrende e incendi di villaggi e di castelli. Soprattutto le azioni rivolte contro i castelli erano origine di vendette a catena, quelle « faide » tra signori rivali che divennero un vero e proprio diritto, ancora vivo in zone periferiche o montuose, come il Tirolo, nel XV e XVI secolo. La piaga dei cavalieri-banditi era grave soprattutto in Francia, dove il dititto di primogenitura

veniva

applicato

senza

eccezioni,

ma

costituiva un

problema anche per la Germania. Tra i motivi che presiedettero alla vasta propaganda per le crociate in Terra Santa è presente, certo non ultimo, anche il tentativo di convogliare le energie esuberanti e pericolose dei cavalieri in un impiego che doveva, almeno nelle aspettative, risolvere anche le loro esigenze economiche. Lasciare i covi briganteschi delle foreste europee per ottenere un feudo in Oriente era una prospettiva che non poteva non allettare i nobili diseredati, soprattutto se aggiunta alla possibilità di sistemare nello stesso tempo i conti con il buon Dio e con l’autorità che lo rappresentava in terra. A questo si aggiungeva anche la speranza, molto più realistica, di un lauto bottino, che i villaggi immiseriti non potevano certo offrire e i castelli offrivano a prezzo di troppo grande rischio. La parte più attiva e vigile del clero, i cui interessi non potevano andare disgiunti dall'ordine nel vivere civile, si fece portavoce di questo programma a cui era per altro interessata anche da profonde e intrinseche ragioni. Si può dire anzi che nel XII secolo, nell’ambito della propaganda per le crociate, il clero riassume quel ruolo direttivo che aveva già avuto nel passato: e ancora una volta il centro di questa iniziativa, che possiamo senz'altro definire culturale, sono i conventi di Francia, quelli in particolare che attraverso la riforma cluniacese e cistercense si sono posti all’avanguardia della vita religiosa e morale dell’Occidente. Ma la voce dei predicatori francesi non si arresta al confine del Reno e penetra in Germania con tutta la carica persuasiva ed emotiva che poteva acquistare su un suolo particolarmente fertile, un suolo che da secoli era ormai avvezzo ad accogliere

e far propri i fermenti religiosi che provenivano dalla Francia. Tale è la pre-

18.

Laura Mancinelli

dicazione di San Bernardo di Chiaravalle, il massimo portavoce dell’ideologia delle crociate e il maggior artefice di quella idealizzazione della figura Ael cavaliere che fa del diseredato vagante nella foresta alla ricerca di bottino l’immagine del perfetto miles Christi. Se da un lato questa idealizzazione del cavaliere era dettata dalla necessità di invogliare una vasta categoria di nobili ad intraprendere l’evventura delle crociate, d’altra parte non faceva che riproporre una immagine ideale già nota alla cultura occidentale, un modello di perfezione a cui adeguarsi. La differenza tra il santo dei secoli precedenti e il cavaliere del XII e XIII secolo è tuttavia grandissima, e diverso è anche il destinatario di questa propaganda, non più rivolta a tutto il popolo dei fedeli cristiani, ma solo ad una classe di questo popolo: e infatti tutta la letteratura prodotta nell'ambito di questa ideologia sarà destinata esclusivamente all’aristocrazia feudale. La classe dei laboratores, quel terzo stato che continua a iavorare per mantenere gli altri due, non rientra nell’ottica di questa propaganda che si sviluppa sotto l’urgenza di diversi problemi sociali, determinati a loro volta da particolari circostanze storiche. Il terzo stato rientrarà solo marginalmente nell’ottica delle crociate, quando attraverso i movimenti ereticali rappresenterà anch’esso una minaccia all’ordine costituito: allora il significato della crociata si dilaterà fino a comprendere ogni tipo di lotta e persecuzione contro chi esce dall’ortodossia, contro chi pensa e crede differentemente da quanto stabilisce la legge di Dio interpretata dalla chiesa cattolica. Ma si tratta di un altro problema. In questo clima e con questi scopi nasce una delle più grandi falsificazioni della storia, che condizionerà per secoli gran parte della letteratura e della stessa vita sociale: la figura del cavaliere perfetto, dotato di tutte le virtù,

nobiltà,

coraggio,

spirito

d’avventura,

giustizia

e

magnanimità,

il

guerriero che mette la sua spada al servizio della fede, dei deboli e delle donne, che cerca l’avventura per provare a sé e agli altri il suo valore, l’uomo in cui ogni aspetto dell’esistenza, e in particolare l’amore, rag giunge livelli ideali. Vero capovolgimento della realtà storica, la figura del cavaliere errante diventa il centro catalizzatore della letteratura cortese, il nucleo intorno a cui si organizza tutto un cosmo ideale: accanto al cavaliere la dama perfetta, tra i due un vincolo d’amore perfetto, che si realizza in un mondo perfetto. L’armonia assoluta di questo cosmo è garantita da una morale che non conosce incrinature né dubbi ed è vegliata e protetta dalla sublime perfezione della chiesa cattolica. Un mondo utopico, che non ha rapporti con la realtà, e che anche nell’ambito religioso tende ad escludere gran parte del pensiero cristiano: esso è partorito infatti dalla mi-

La nascita del Bildungsroman

nella letteratura

tedesca

medievale

19

stica bernardiana e viene eretto a difesa di una ortodossia di parte contro il vivace razionalismo che si andava affermando nelle scuole universitarie e che nel XII secolo ha il suo massimo rappresentante in Abelardo. La corrente razionalistica sopravviverà con alterne vicende, ma sempre in sospetto di eresia, fino al compromesso tomistico. All’espressione di questa ideologia offre il mezzo più idoneo il ciclo anturiano, quel complesso di leggende di antichissima origine celtica che, rimaste per secoli confinate in tradizione orale nelle regioni più periferiche della Gran Bretagna, Galles, Cornovaglia, Irlanda, per vie non ancora chiare nel XII secolo approdano in Bretagna e di lì si diffondono in Francia. È ancora da indagare il motivo per cui queste leggende, note globalmente come 7zatibre de Bretagne, conquistarono così rapidamente il favore dei letterati d’oltre Manica e divennero la materia prediletta di quei romanzi che in Francia ed in Provenza vennero composti ad uso delle corti, destinati cioè alla pubblica lettura a corte, alla presenza delle dame e dei cavalieri che ne componevano la popolazione. Una delle ragioni è certamente il fatto che queste leggende sono un tessuto estremamente elastico, in cui possono

venire inseriti ampliamenti

alla storia contemporanea nersino

stiana —

e variazioni, nonché

significati relativi

che erano in origine del tutto estranei. Possono

accogliere contenuti religiosi e trasformarsi in exemzpla di vita cri-

si pensi alla « cerca » del Graal —

o excursus avventurosi itera-

bili all’infinito. La loro origine fiabesca è testimoniata dagli elementi magici ancota presenti nelle rielaborazioni francesi e tedesche — incantesimi, maghi, fate, oggetti prodigiosi — le quali rivestono questa antica materia delle forme di vita delle corti del XII e XIII secolo. Centro di questo mondo è la corte di re Artù e della regina Ginevra, una corte itinerante secondo modelli antichi, a cui fanno capo tutti i cavalieri e le dame che popolano queste avventure, da Lancillotto del Lago, amante di Ginevra, al misterioso Perceval destinato a diventare il re del Graal — ma una diversa tradizione riserva questo privilegio a Galahad, figlio di Lancillotto —, a suo cugino Gawan, a Tristano e alla sua bellissima amante Isotta. Nei romanzi francesi del XII secolo, i cui artefici sono Chrétien de Troyes, Thomas e altri, il ciclo arturiano è il mezzo per dar vita ad una immagine di esistenza avventurosa, in cui protagonista è il cavaliere perennemente in cerca di avventure nelle quali aflermare le proprie capacità e testimoniarle alla sua dama e al mondo intero. Amore e avventura è il binomio che regge tutta questa narrativa, così come i luoghi in cui si svolge sono la corte, sede dell'amore, e la foresta, sede dell’avventura: in

20

Laura Mancinelli

un processo di iniziazione sempre iterato il cavaliere parte dalla corte per la foresta — il luogo del mistero, dove civiltà e cultura non giungono, e dove ogni incontro è possibile, anche col soprannaturale — e alla corte ritorna per ricevervi il premio d’amore che si è conquistato.

I grandi romanzi cortesi Se il ciclo arturiano diventa la materia prediletta del romanzo cortese per la sua suscettibilità di dilatazione mediante l’inserimento di avventure fantastiche e la capacità di soddisfare il gusto delle corti sempre in cerca di novità esotiche, esso si presta anche ad esprimere il nuovo modello ideale che andrà a sostituire il santo delle vite dei secoli precedenti. Non che il romanzo cortese prenda il posto dell’agiografia, ma per il gusto raffinato di quei nuovi centri di cultura che sono le corti è indubbiamente più efficace e funzionale il modello di miles Christi che si esprime nelle vesti del cavaliere elegante, che è insieme perfetto uomo di mondo e perfetto cristiano, guerriero senza macchia e senza paura ed amante fedele, che non l’eremita lacero che si ciba di radici o il santo predicatore che risorge dalle sue ceneri. D'altra parte i destinatari della nuova propaganda religiosa non sono i contadini, ormai usciti dall'obiettivo della politica culturale, ma i nobili, i cavalieri da mandare in Terra Santa, i signori feudali da piegare ad una più ordinata disciplina, anche ad una più fedele obbedienza al pro-

prio sovrano.

E’ per loro che si costruisce il nuovo

modello di vita, è

per il loro mondo che si elabota quel paradiso in terra che è l’utopia cortese: un mondo in cui regna armonia perfetta tra la sfera umana e quella divina, in cui la perfezione terrena e mondana — nobiltà, bellezza, lealtà, coraggio — è condiicne alla perfezione dell’anima, che si esprime secondo i canoni mistici nell’accettazione della legge di Dio come viene formulata dall’autorità della Chissa. E questa accettazione passiva e totale comporta la rinuncia alla volontà di giudicare secondo la ragione umana, la rinuncia a voler indagare e comprendere con gli occhi della razionalità i

misteri della fede, e l’abbandonarsi quindi alla volontà di Dio che può, se vuole; compensare questa dedizione con la sua grazia. Come un sovrano dispotico e insindacabile, Dio dispensa questo suo dono gratuitamente, né l’uomo può chiederlo come compenso delle sue azioni. All’uomo compete l'obbedienza e la penitenza, che non sono però pregiudiziali in sé della salvezza: se questa viene, è dono insindacabile di Dio. Questo ideale umano,

La nascita

del Bildungsroman

nella letteratura

tedesca

medievale

21

conforme alla propaganda che parte da San Bernardo, si incarna con esattezza nella figura di Parzival, l’eroe di Wolfram von Eschenbach. Se già il Perceval di Chrétien de Troyes, per essere destinato a portare a termine felicemente la ricerca del Graal, incarnava i caratteri del cavaliere ideale, il Parzival del romanzo tedesco assomma in sé tutti gli ingredienti dell’exerzplum da imitare, e in lui si sottolinea quella Entwicklung che lo porta dall’iniziale condizione negativa alla perfezione prima cortese, poi cristiana. In questa dimensione c'è un altro romanzo tedesco che lo precede di qualche anno, ed è il Gregorius di Hartmann von Aue, vita leggendaria e assolutamente apocrifa del papa Gregorio Magno. Anche per lui c'è una situazione iniziale negativa, poiché è nato dall’incesto di due fratelli; abbandonato in fasce sulle acque come Mosé, viene accolto in un convento, dove viene allevato e indirizzato alla vita monastica. Ma il sangue di cavaliere non si smentisce e, diventato giovinetto, lascia il convento malgrado i consigli dell’abate che già vedeva in lui il suo successore, e va nel mondo in cerca di avventure. E il mondo subito lo coglie nelle sue reti facendo sì che sposi, senza saperlo, sua madre. Alla mascita incestuosa si aggiunge un matrimonio incestuoso: la situazione iniziale non potrebbe essere più negativa, anche se il protagonista è all’oscuro di entrambe le colpe. Quando le conoscerà si autocondannerà ad una penitenza senza fine facendosi incatenare ad uno scoglio, e la sua penitenza gli varrà, dopo diciassette anni, la chiamata al soglio pontificio. L’exemplum è perfetto in tutti i suoi ingredienti, ma non è totalmente nello spirito di San Bernardo. Anzitutto il mondo cortese è connotato come mondo degli inganni e quindi viene meno l’ideale armonizzazione delle due sfere, umana (cortese) e divina, che è presupposto dell’ideologia bernardiana. Ma soprattutto il termine con cui Hartmann costantemente definisce Gregorio — il « peccatore innocente » — problematizza la condizione del protagonista: è peccatore o è innocente dal momento che non ha consapevo-

lezza di commettere il peccato? secondo la morale bernardiana è peccatore perché ha violato, sia pure inconsapevolmente, la legge di Dio; secondo l’etica razionalistica di Abelardo è innocente perché «non est peccatum nisi contra conscientiam ». Di fronte al dubbio teologico Hartmann non prende partito: che Gregorio faccia penitenza è tuttavia bene, perché altrimenti la sua umanità non avrebbe pace. La storia di Gregorio, peccatore innocente, viene presentata come storia edificante, modello da imitare, ma più nell’ottica delle vite dei santi che non del Bil/dungsroman, a cui si può assimilare piuttosto l’altro romanzo breve di Hartmann, Der arme Heinrich. Questo

« povero

Enrico » è già in partenza

un

perfetto cavaliere, no-

22.

Laura Mancinelli

bile, bello, gentile, ricco e magnanimo come vuole la sua condizione, ma non

riconosce da Dio i doni della vita. Per questo Dio lo punisce con la lebbra ed egli si trova nella condizione « di necessità » come l’eroe delle fiabe popolari all’inizio della sequenza: diventa povero e reietto, e tocca il fondo Aell’abiezione quando deve partire per Salerno con la speranza di riacquistare laggiù la salute. Il romanzo non parla di una sua riflessione sulle sue manchevolezze e restringe la trasformazione psicologica in un momento magico,

il momento

in cui vede la fanciulla, che per lui si è votata

al

sacrificio della vita secondo i dettami della scuola di Salerno, pronta al sacrificio, distesa nuda sul tavolo anatomico. In quel momento si ravvede, capisce i suoi errori, si innamora della fanciulla e chiede che il sacrificio sia sospeso. E per miracolo viene mondato della lebbra. Siamo in una posizione intermedia tra la fiaba, le vite dei santi e il romanzo esemplare secondo le intenzioni di San Bernardo. Alla realizzazione del perfetto modello bernardiano si giunge con il Parzival di Wolfram von Eschenbach, composto nei primi vent’anni del XIII secolo: esempio di come si possa da una condizione negativa, attraverso una graduale maturazione, giungere alla massima perfezione mondana e cristiana, sì da ottenere il regno mistico del Graal. Condizione indispensabile è la più cristallina nobiltà di nascita, garanzia di ogni possibile sviluppo futuro. E questa condizione pregiudiziale è significativa di come l’ottica dell’autorità religiosa si sia ristretta a quella classe della popolazione cui è affidato il potere temporale, in un progetto sociale che si rivela conservatore e regressivo persino nei confronti della politica di Carlo Magno. Non ci si cura più infatti della « educazione » del popolo, non ci si preoccupa più di avere sudditi fedeli perché convinti: l’ordine è ormai affidato alle armi e a chi le possiede, e solo a questa classe si rivolge la propaganda. E come non mai questa propaganda è necessaria, perché la classe dei bellatores vacilla e si sgretola, e i piccoli feudatari, non più in grado di fronteggiare i pericoli cui sono sottoposti i loro castelli isolati e sempre più insidiati, tendono ad inurbarsi e a confondersi con quel ceto non ben definito e per il momento non utilizzabile in alcun modo, che è la popolazione cittadina. Non passerà molto tempo che la categoria dei bellatores sarà sostituita da milizie mercenarie, stipendiate con il soldo, quei « soldati » che saranno i veri protagonisti di tutte le guerre. Ma ai tempi di Wolfram questa trasformazione non era ancora ipotizzabile, e la necessità di avere nei cavalieri dei validi tutori della fede e dell’ordine giustifica l’idealizzazione utopica della loro figura e di tutto il loro mondo. Parzival diventa nelle mani di Wolfram il prototipo di questi ca-

La nascita del Bildungsroman

nella letteratura tedesca medievale

23

valieri: la negatività del momento iniziale è rappresentata dalla sua stultitia, categoria che diventerà molto importante nella letteratura tedesca. Egli è uno stolto perché la madre Herzeloide lo ha allevato lontano dalla corte, ai margini di una foresta, tenendolo all’oscuro di tutto ciò che è la cavalleria: ella non vuole che suo figlio divenga un cavaliere come era stato suo padre, Gahmuret l’Angioino, che in una impresa cavalleresca aveva perso la vita. Nella figura di Parzival fanciullo, nato già orfano e privato dell’educazione e dell'onore che gli spetterebbero, si può individuare l’archetipo junghiano del fanciullo divino; inoltre la prossimità della foresta, il cui significato simbolico non era certo ignoto allo scrittore medioevale, accenna già alla futura iniziazione del protagonista. L’intento della madre di tenere il figlio lontano dalla cavalleria e dall'avventura non riuscirà: anche in Parzival il sangue non si smentisce, e la prima volta che vedrà passare dei cavalieri li seguirà, abbandonando la casa e la madre, che morirà di dolore. Incomincia la lunga iniziazione del giovinetto,

quell’iter dello

sprovveduto

?477p,

lo stolto, che non

conosce

il

senso delle cose più elementari, verso la compiutezza morale e cortese del cavaliere. Non è senza significato il fatto che, quando chiede alla madre di lasciarlo partire per il mondo, ella gli confeziona un vestito di sacco quale portavano i folli e gli dà per cavalcatura un misero ronzino; dietro la giustificazione logica che viene data di questo particolare — ella tenterebbe con questo estremo mezzo di impedirgli il successo nel mondo e di indurlo quindi a ritornare — c’è una ragione profondamente radicata nella cultura medioevale: Parzival per il mondo è un folle, e da folle deve essere vestito, poiché l’abito deve rivelare la condizione di chi lo porta. Gli splendidi abiti di cavaliere deve conquistarli insieme alla dignità. Alla perfezione cortese Parzival giunge anche mediante gli insegnamenti che gli impartisce il buon cavaliere Gurnemanz, e allora sarà festeggiato alla corte di Artù, i suoi atti saranno improntati a saggezza e giustizia e coronerà

questa prima fase della sua esistenza con un felice matrimonio. Ma quando il cavaliere perfetto sarà avviato a sua insaputa, perché a ciò è predestinato, sulla strada del Graal, e sarà accolto con ogni onore nel regno di Munsalvaesche, la perfezione cortese si rivela insufficiente per attingere il supremo onore di essere accolto nel regno mistico del Graal. Si giunge così ad un momento chiave del racconto, uno dei più problematici e nello stesso tempo il più ricco di implicazioni teologiche e religiose. Parzival viene scacciato dal Graal perché, pur vedendo Amfortas soffrire per una ferita inguaribile, non gli rivolge la domanda che lo avrebbe risanato miracolosamente. Ma Parzival non sa che la sua domanda avrebbe avuto

24

Laura Mancinelli

questo potere e che tutti la attendevano: a lui nessuno l’aveva detto. D'altra parte l’educazione che egli ha acquisito gli suggerisce di non essere indiscreto e reprimere la sua curiosità. Ma il suo silenzio gli viene imputato a colpa. Non solo viene scacciato ignominiosamente dal regno del Graal, ma aspramente redarguito dalla misteriosa Kundrie per questa sua « colpa », che egli non vuol riconoscere perché al momento di compierla non ne aveva consapevolezza. Tenta di ritrovare la strada del Graal, ma invano, perché essa si sottrae alla sua ricerca, sì che alla fine precipita nello sconforto e dispera dell’aiuto di Dio. Il primo problema che si impone è: perché è colpevole Parzival? Il razionalismo abelardiano direbbe che non è colpevole, perché egli non sa di dover fare quella domanda, e non c'è colpa senza la coscienza della trasgressione. Ma la mistica bernardiana, che per giustificare moralmente le crociate afferma che la trasgressione della legge di Dio è colpa anche in assenza di consapevolezza, vede nell’omissione di Parzival un peccato. Se Parzival non accetta la condanna e si ribella perché vuol giudicare con la sua ragione umana, è perché egli non ha ancora raggiunto la perfezione cristiana, in senso mistico e bernardiano. La raggiungerà nel momento

in cui si sotto-

porrà alla penitenza. Allora, abbandonate le briglie sul collo del cavallo, ritroverà senza cercarla la strada del Graal. La grazia di Dio lo avrà salvato e glorificato. L’altro problema riguarda l’oggetto della domanda: perché deve chiedere al re Amfortas la causa della sua sofferenza? Perché deve costringerlo a « confessare » la colpa che sta all’origine della ferita? Qui probabilmente è un riflesso delle discussioni teologiche sulla confessione, quel rito già in uso presso le comunità cristiane in forma pubblica, e che in quei tempi si avviava a trasformarsi in sacramento in forma di confessione privata e segreta. E questo può essere un indice dell’attenzione di Wolfram per le contemporanee dispute teologiche. Questo momento centrale del Parzival, il problema della domanda, che separa le due fasi della Bildung dell'eroe e insieme le congiunge, non è comprensibile senza il ricorso alla concezione mistica del peccato, né la condanna del protagonista dopo il primo soggiorno nel regno del Graal, la condanna per il peccato di omissione, avrebbe un senso se non si tenesse presente che nell’etica di San Bernardo il peccato, e di conseguenza la colpevolezza del peccatore, esiste anche in assenza della coscienza di peccare. Peccato è la violazione della legge di Dio, e chi la viola è colpevole anche se le circostanze della sua vita non gli hanno consentito di conoscerla. Questo è il fondamento della condanna di tutti gli « infedeli », maomettani, ebrei,

La nascita del Bildungsroman

nella letteratura

tedesca

medievale

25

eretici, senza discriminazioni, ed è la giustificazione morale delle crociate. Se l’intelletto umano a questo si ribella, sbaglia. Come sbaglia Parzival quando ritiene ingiusta la condanna che l’ha colpito. Solo quando rinuncerà a giudicare con la ragione umana, che Bernardo non esita a chiamare « cieca », Par-

zival otterrà la grazia, che gli dà insieme la salvezza dell’anima e il massimo riconoscimento mondano e temporale. Non può sfuggire che le due cose sono nel romanzo sempre accoppiate. Anche il fratellastro Feirefiz, pagano, otterrà insieme il battesimo, l’amore di Repense de Schoie e un posto di primo

piano nella corte del Graal. Questa identificazione di salvezza dell'anima e potere, o semplicemente successo nella vita, sarà una delle categorie più resistenti nel Bi/dungsromzan, soprattutto dopo la riforma di Lutero, come sarà uno dei fondamenti della morale borghese e calvinista. Chi è buono è premiato: sarà la morale della favola

nell’ultima

redazione

delle fiabe tedesche

dei Grimm,

la più stru-

mentalizzata a fini educativi e moralistici, e insieme la più lontana dalla tradizione orale. Non è pensabile che in un clima di accese discussioni filosofiche e teologiche, quale è quello dell’inizio del Duecento, un modello morale venisse proposto senza che contemporaneamente allo stesso pubblico venisse offerto un antimodello, un ideale di vita opposto: non l’ascesa verso la grazia di Dio e il potere, non la perfezione mistica con il plauso della corte, ma la realizzazione dell’individuo nelle sue intime aspirazioni anche contro la mo. rale e il costume correnti, la ricerca di ciò che è bene nella realtà contingente e non in un modello di vita ideale, l’uso costante della razionalità contro ogni schematismo precostituito. In poche parole, la realtà contro l’utopia;

ed ecco il Tristano di Gottfried von Strassburg. Definirlo un « Antiparzival » è esatto, ma non nel senso che sia un romanzo anticortese e anticristiano, bensì nel senso che all’interno del mondo cortese e cristiano l’uomo si muove seguendo il proprio giudizio. Che anche il Tristano prospetti un modello di vita è fuori di dubbio: lo dice il poeta stesso nel prologo; d’altra parte gli ingredienti della Bildurg ci sono tutti: la nascita del protagonista già orfano, l’educazione che gli viene impartita dal fedele vassallo Rual, l’allontanamento dalla famiglia adottiva in seguito al rapimento, l’iniziazione attraverso la foresta e la caccia fino all’arrivo alla

corte di Marke. Il tema dell’iniziazione sarà iterato ogni volta che Tristano vatcherà il mare per andare in Irlanda, l’isola della magia e del destino, dove due immagini di Isotta, madre e figlia, gli dispenseranno la vita e l’amore avvian-

dolo alla realizzazione

di se stesso.

Questa però non

è il successo

nella

26

Laura Mancinelli

corte né il paradiso dopo la morte. Nei rapporti col mondo della corte e nella concezione dell'immortalità — o meglio, sconfitta della morte — sta la peculiare divergenza del Tristano rispetto al Parzival. La corte non è il regno di Utopia, non viene presentata nel romanzo come un mondo perfetto e ideale, bensì molto realisticamente come un luogo dove si può avere successo e cadere in disgrazia, dove molti tendono nell’ombra insidie da cui occorre difendersi, dove si può essere felici ma anche terribilmente infelici. È una realtà con cui bisogna fare i conti. Ma non è affatto una realtà negativa cui si contrapponga,

come

realtà positiva, la na-

tura vergine, la « grotta d’amore », la fuga dal mondo. Tant'è vero che, quando Tristano e Isotta avranno la possibilità di lasciare la grotta d’amore per tornare alla corte, non se la lasceranno sfuggire. Perché tornano a corte, dove sanno che saranno nuovamente vittime dell’invidia e del sospetto, che non potranno amarsi tranquillamente, che ogni gioia sarà pagata a prezzo di sofferenze e umiliazioni? L’episodio della Minsmegroffe è sommamente simbolico. Essa è il luogo ideale dell’amore, l’utopia, la non-realtà; ed essi scelgono la realtà con tutti i suoi aspetti negativi. Se già non risultasse da ogni pagina del Tristano, questo episodio distruggerebbe ogni dubbio: il romanzo di Gottfried è anzitutto il rifiuto dell’utopia, il rifiuto dell’idealizzazione della realtà in una armonia perfetta in cui ogni persona e ogni sentimento

ha il

suo posto giusto, e lo trova se non sbaglia, se cioè non commette un peccato come aveva fatto Amfortas, come Parzival stesso. Il mondo del Tristazo è un mondo complesso, dove le persone non si dividono in buoni e cattivi, dove c'è un Marke che ama e distrugge il suo amore, l’oggetto del suo amore e se stesso, dove i protagonisti, Tristano e Isotta, non sono né buoni né cattivi perché sfuggono a ogni categoria intesa in senso assoluto; come sfuggono ad ogni legge che non sia l’esigenza di realizzare se stessi attraverso il loro amore. Questo non vuol dire che non ci sia un ethos nel Tristazo: c'è una morale molto insistita ed è l'imperativo di vivere realizzando se stessi in qualcosa che sia utile agli altri, gli amanti nel realizzare il loro amore esemplare anche a costo della morte, il poeta nell’affidarlo alla memoria dei posteri. Così gli uni e gli altri compiono il loro dovere nella vita secondo la reciproca vocazione e nella loro opera fanno qualcosa che va al di là della morte. Questo è il margine di « immortalità » che all'uomo è consentito nell’esistenza: se poi ci sia altra forma di sopravvivenza alla morte, Gottfried non lo dice e non lo nega. Ma la sua etica sta nell’esigenza di operare in questo mondo e per questo mondo, non in base a principi assoluti che stabiliscano aprioristicamente che cosa è bene e che cosa è male, ma secondo le circostanze

contingenti. Né questa etica è anticristiana pur escludendo ogni rimando alla

La nascita del Bildungsroman

trascendenza:

neila letteratura

tedesca

medievale

27

Cristo è invocato più volte in aiuto dell’uomo, ed anche lui

« come manica a vento » si muove secondo le circostanze, avallando anche un giuramento falso se questo è necessario per salvare una persona. Ed è giusto

che Cristo si comporti così dal momento che è amico degli uomini. Tutto questo Gottfried lo dice chiaramente nel prologo e nella scena del giudizio di Dio a cui viene sottoposta Isotta. Certo la sua è una morale intellettualistica e razionalistica, non promette beatitudini perfette e senza fine, non promette neppure la vita eterna: egli sa che tutto ciò che riguarda l’uomo è relativo e frammisto sempre con il suo contrario, la gioia col dolore, la vita con la morte, e che ogni bene al mondo si acquista a prezzo di fatica, anche l’amore. Una morale poco atta ad affascinare le menti di chi vuol sognare che in una vita futura gli sia dato tutto ciò che gli è stato negato in terra. Per questo, e soprattutto perché la morale di Gottfried si scontrava con la ideologia allora trionfante nella Chiesa, il Tristano non divenne un modello ideale di Bildung e fu, in questa dimensione, oscurato

dal Parzival;

non

fu neppure

terminato, e nell’assoluta

as-

senza di informazioni storiche possiamo anche ritenere che il poeta sia stato ostacolato nel suo lavoro, se non addirittura perseguitato.

Il modello della Bildung, quale risulta dal romanzo medioevale Se vogliamo ora cogliere l’elemento comune ai due maggiori romanzi cortesi del Duecento, Parzival e Tristano, lo troviamo nella Entwicklung dei protagonisti: essi infatti si evolvono, benché in modi diversi e orientati verso fini diversi. Parzival si evolve secondo la linea che si è individuata, dalla stultitia alla perfezione, prima cortese e poi cristiana; la meta di questa evoluzione è, come si è visto, il trono del Graal, che riunisce in sé il duplice aspetto di affermazione mondana e apoteosi mistica. L’evoluzione di Tristano e Isotta — perché entrambi sono protagonisti — è un continuo affina-

mento nella capacità di realizzazione dell’individuo, capacità di comprendere e godere la vita in tutti i suoi aspetti; capacità di affrontare anche le situazioni negative, dolore, pericoli, umiliazioni, persino la morte, per realizzare quell’amore che Gottfried intende come condizione di tutto ciò che di bene è nella vita, l’eros greco. Nell’evoluzione dell’eroe sta quindi la cifra caratteristica del romanzo di formazione del Duecento, ed è un elemento che si conserverà nella struttura del romanzo tradizionale fino a tempi vicinissimi a noi, ed è cosa affatto nuova

28

Laura Mancinelli

in confronto al romanzo epico, in cui i personaggi non manifestano una evoluzione — si pensi al Sigfrido dei Nibelunghi. Ma una differenza non può sfuggire tra i due modelli considerati: mentre nel Tristano l'evoluzione dei protagonisti si protrae indefinitamente, dura cioè tutto il tempo della loro vita perché non esiste un termine prestabilito — come non esiste a priori un modello ideale — nel Parziva! la Bildung del protagonista ha un punto d’arrivo, raggiunto il quale non è possibile un ulteriore miglioramento, perché quel punto d’arrivo è la « perfezione » umana in terra. Questa perfezione corrisponde ad un modello preconfezionato che è lo schema delle vite dei santi o, se vogliamo risalire più addietro, la fiaba e il rito di iniziazione. Raggiunto un certo livello di evoluzione, che coincide con il successo dell’eroe, il protagonista non è più suscettibile di miglioramento: la Bildung è compiuta e la Entwicklung è terminata. Questa idea di compiutezza perseguibile nell’esistenza, raggiunta la quale il protagonista non è più suscettibile di evoluzione, è un altro tratto fondamentale e costante del romanzo di formazione tradizionale, modello imperante ancora nella narrativa dell'Ottocento: dal seicentesco Simplicissimus al Wilbelm Meister e, sconfinando in area inglese, ai romanzi di Dickens. In tutto questo genere il Parzival ha fatto scuola come prototipo, anche là dove il modello viene presentato in negativo, quale storia della tragica fine che attende colui che devia dalla retta via: a partire dal medioevale Mejer Helmbrecbt al Till Eulenspiegel, a certi complessi personaggi di Hoffmann, e in area francese al protagonista dello stendhaliano I/ rosso e il nero. Sono exempla in negativo, anche se la simpatia dell’autore va spesso, se non sempre, al protagonista peccatore e sfortunato. Il Tristano, messo

nell’ombra

dal modello

vincente, presenta invece uno

schema aperto: non esiste un limite alla formazione ideale dell’uomo; l’evoluzione, la maturazione non è un segmento lineare che va dalla stoltezza alla perfezione, ma un continuo adeguamento alla realtà, un confronto quotidiano con i casi della vita. E fondamentale in questo tipo di evoluzione, anziché l'imitazione di un modello ideale, è la comprensione della realtà oggettiva e l’acquisizione della capacità di convivere con essa, anche accettandone gli aspetti negativi. A questo esempio di Bil/dung non conclusa, di evoluzione che non si ferma ad un limite prefissato, è più vicino il romanzo maoderno — penso al Tor/ess di Musil — così come è fondamentale nel romanzo moderno l'impatto del protagonista con la realtà oggettiva, spesso riassunto nella prima esperienza amorosa od erotica: si pensi al Werzber di Goethe o al Malte di Rilke, che in questo senso si configurano anch'essi come romanzi di formazione.

Anna

Chiarloni

Goethe e il pietismo. Memoria e rimozione.

Goethe e il pietismo. Memoria e rimozione

1. Definire con precisione l’esperienza pietista del giovane Goethe non è semplice. Manca uno studio esauriente dell’ambiente religioso ortodosso e delle relative

tensioni

con

le cerchie pietiste,

essenzialmente

morave,

con

cui Goethe venne in contatto al suo ritorno a Francoforte. In attesa di un’analisi analoga a quella che H. Lehmann ha operato sui rapporti tra il pietismo e la cultura politica e religiosa nel Wiirttemberg! non possiamo che utilizzare i pochi documenti disponibili — prevalentemente lettere — per tentare una ricostruzione che deliberatamente non tenga conto delle descrizioni successive, che lo stesso Goethe ci ha lasciato sia nei Lebrjabre che in Dichtung und Wabrbheit, di quell’esperienza giovanile. Giacché, con quanta prudenza possa essere per esempio utilizzata l’autobiografia, ce lo insegna la retrodatazione di quattro anni che il Goethe maturo opera a proposito della sua partecipazione al sinodo pietista di Marienborn ?, quasi a indicare un interesse adolescenziale ed effimero per un ambiente che, non solo a nostro giudizio, determinò un momento significativo nella formazione del giovane poeta. Retrodatazione che, valutata nell’ottica complessiva in cui il Goethe maturo guardava — com’è noto — alle intemperanze giovanili, ci induce a chiederci se e quanto i Lebrjabre, e in particolare il libro VI, Beken. ntnisse einer schònen Seele, costituiscano quella « stupenda rievocazione » del pietismo che si suol loro assegnare? o non rivelino invece una rivisitazione drasticamente riduttiva di quell’esperienza.

1 Hartmut Lehmann, Pietismus und weltliche zum 20. Jabrbundert, Stuttgart, Berlin 1969.

2 A. Grosser,

p. 203.

«Le

jeune Goethe

3 Si veda per esempio rino 1964, p. 527.

L. Mittner,

Ordnung

in Wiirttemberg

et le piétisme », in Etudes Storia della Letteratura

vom

Germaniques

Tedesca

17. bis

1949/2,

(1700-1820),

To-

30

Anna Chiarloni

2. Ma andiamo con ordine, cercando prima di tutto di capire che cosa significava nella seconda metà del ’700 frequentare una riunione pietista. Quello che occorre rilevare subito è la carica di trasgressione che la cosa implicava. A Francoforte come a Halle partecipare a una qualsiasi riunione religiosa, non prevista dalla chiesa ortodossa, costituiva di per sé fonte di sospetto. Ma i pietisti soprattutto, animati da quel misticismo che non a caso proprio Balzac definirà come implicitamente anarchico *, continuamente sospettati di voler costituire una loro ecclesiola in ecclesia, erano

di fatto considerati

degli Unrubestifter®. Resisteva nella memoria il peso delle accuse mosse fin dal primo sorgere dei collegia pietatis, le stesse con le quali il potere costituito si è, da sempre, difeso da qualsiasi minaccia d’innovazione ®. Ed è pur vero che la concezione di un Dio che parla direttamente ai singoli era di fatto pericolosa: Gerard Winstanley udì nel 1648 una voce che gli diceva di fondare la colonia comunistica che avrebbe risolto i problemi politici dell’Inghilterra”. Ed erano proprio le comunità pietiste a preoccupare le autorità civili e religiose tedesche nel secolo dei lumi, così che le ordinanze restrittive nei loro confronti continuarono a susseguirsi lungo tutto il settecento È Quale fosse la situazione a Francoforte intorno al 1760 lo possiamo dedurre da alcuni passi dell’autobiografia di Johann Andreas Claus’, opera preziosa in quanto ci restituisce dall’interno l’atmosfera delle conventicole religiose di quegli anni e ci introduce nella cerchia di persone che frequentavano Frau Rat Goethe. Rievocando gli anni in cui era stato predicatore a Francoforte, tra il 1757 e il 1768, Claus scrive: « Il gran numero di cri-

4 «... le Mysticisme ne comporte ni gouvernement, ni sacerdoce; aussi fut-il toujours l’objet des plus grandes persécutions de l’Eglise Romaine: là est le secret de la condamnation de Fénelon; là est le mot de sa querelle aver Bossuet ». in Préface du « Livre mystique », La (e Humaine, Bibl. de la Pléiade, vol. XI, 1980, p. 505. L’influsso di Fenclon si estende, attraverso Poiret su tutto il pietismo europeo. ° Lehmann, op. cit., p. 96. 6 Si notano degli stereotipi ricorrenti, anche se corretti a seconda delle circostanze storiche, nelle accuse mosse alle minoranze religiose nel corso del tempo. La più resistente, si pensi al nazismo, è quella di « orgia sessuale ». ? Interessanti osservazioni sulla portata rivoluzionaria del misticismo si trovano nell’intervento di Christopher Hill sul tema Religione e società, in « History Workshop », 1983/2. 8 Lehmann, op. cit., p. 93. ? Redatta nel 1802 venne pubblicata a puntate nel 1839 in un settimanale evangelico. I passi più interessanti sono stati ripresi da J. M. Lappenberg in Reliquien der Friulein Susanna Katharina von Klettenberg, Hamburg 1849, p. 235 e sg.

Goethe

e il pietismo.

Memoria

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stiani risvegliati !" che venivano alle mie prediche m’infondevano coraggio e fiducia nella benedizione del Signore: la gente cominciò ad accorrere in folla in tutte le chiese, sia in città che in campagna, anime che io consideravo avide di redenzione e che pertanto speravo di condurre sempre più numerose al Signore. Così facendo non mi lasciavo frenare da timore alcuno, nè mi curavo di quello che si diceva di me o di quali conseguenze la cosa potesse avere » !. Ma i guai per Claus non tardano a venire. Citiamo per esteso il passo perché, oltre alla Schore Seele riguarda tre personaggi che sotto le spoglie del Oberbofprediger, del Apostel e di Philo — rispettivamente Fresenius, von Bilow e von Moser — compariranno anche nei Bekenntnisse: « A quel tempo abitava a Francoforte, e vi si trattenne fino al 1763, L. Friedrich von Bilow, uomo retto ed esperto delle vie della fede. Costui teneva riunioni domenicali con probi giovani di ogni stato sociale. Poiché io per un’intima affinità di spirito entrai subito in confidenza e in contatto quasi quotidiano con questo signore, così presi a frequentare anche quelle riunioni, ascoltando come uno scolaro e lasciando che la grazia agisse sempre di più nel mio cuore. Questo atteggiamento, insolito in un aspirante teologo, doveva necessariamente causarmi dei rimproveri. Proprio in questo tempo fiorì un legame particolare tra alcuni pii cristiani delle classi più elevate, a cui appartenevano la moglie del pastore Griesbach, nata Rambach, la signorina von Klettenberg con altre fanciulle, il menzionato von Bilow, il consigliere di corte Moritz e von Moser. Tutti noi inclinavamo dalla parte della comunità pietista, cantavamo i loro inni, leggevamo i loro scritti e riflettevamo spesso su come giudicarli, come comportarci nei loro confronti e su come all’occorrenza avremmo potuto difenderci. Chi conosce la situazione di quegli anni mi capirà perfettamente (...). Il mio superiore di allora, il dottor Fresenius, e altri cristiani che la pensavano come lui, presero a diffidare di me. Soprattutto erano ostili al fatto che io frequentassi un tale di Francoforte, persona ragionevole e assai devota alla comunità pietista; il dottor Fresenius colse il pretesto di parlare con me della faccenda per proibirmi seduta stante quel rapporto, rinviandomi ai recenti scritti polemici che egli ebbe cura di farmi avete (...). Le sue pretese indignarono il mio cuore e il mio spirito sensibile alla libertà repubblicana, ma la pena più grande me la inflisse togliendomi in parte la possibilità di predicare in pubblico, sospendendomi così dalle mie funzioni » !. Questa ricostruzione del clima di sospetto e di diffidenza verso i pietisti è tanto più interessante se si considera che ci viene da persona legata a Freî Erweckte Christen, I! op. cit., p. 236. 12 Lappenberg, 237.

coloro che avevano

sentito la voce

del Signore.

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senius da vincoli di riconoscenza! e rientrata in seguito nei ranghi della chiesa ortodossa. D'altra parte che Fresenius fosse un nemico acerrimo di Zinzendorf e che vedesse nelle conventicole pietiste una minaccia latente, dalla quale difendersi usando all’occorrenza anche la diffamazione, sembra essere un fatto storicamente accertato !. Né dobbiamo dimenticare che il settecento è il secolo in cui l’alfabetizzazione cominciava a scendere la scala sociale e tanto più la bibbia veniva letta quanto maggiore era il pericolo che si prendessero alla lettera i brani più sovversivi. Così non ci deve stupire se proprio a Fresenius e ad un altro teologo del quale riparleremo a proposito dei Bekenntnisse — Johann Georg Walch — i principi tedeschi si rivolgessero per ottenere una « riflessione sul come bandire dai propri territori e tenere lontani dai propri confini i seguaci di Herrnhut » !.

3. Torniamo ora alla cerchia pietista intorno a casa Goethe. La cronologia è nota: nel settembre del 1768 il giovane poeta torna malato da Lipsia. Qualche settimana più tardi all’amico Langer scrive: « tutto è pressapoco come m’immaginavo. Mia madre parteggia apertamente per la comunità, mio padre lo sa e non è contrario (..). La raccolta di canti di Ebersdorf qui ha molto

successo (...). Scrivetemi dunque in che rapporti sono i vostri amici Mellin e Muller con la grande comunità dei fratelli motavi; perché ora ho il tempo e il modo di studiare la cosa e ho bisogno del vostro aiuto ...». Qualche mese dopo, in una lettera in cui descrive una riunione di pietisti in casa della madre, Goethe dice tra l’altro: « Grazie a Mellin e a qualche altro fratello ora abbiamo un po’ più di libertà per gli esercizi religiosi ». Giustamente Grosser sottolinea la forma plurale come indice di un maggior coinvolgimento religioso e riconosce nei passi successivi il tono e la terminologia dei pietisti. Ma, essendo questa lettera l’unico documento sul quale ci si potrebbe fondare per stabilire una « conversione » di Goethe, Grosser ne deduce che non è lecito parlare di una vera e propria esperienza pietista ma piuttosto di un interesse transitorio, legato allo stato di debilitazione fisica di quel periodo. Non stupisce che nel 1949 — il saggio di Grosser fa parte di un numero di « Etudes Germaniques » pubblicato nel secondo centenario della nascita di Goethe — si fosse portati ad avallare la riduzione che il Goethe maturo opera del pietismo. Il perché è chiaro: nel primo dopoguerra la germanistica

13 Fresenius era stato il suo confidente penberg, 234. 14 Lappenberg, 230. 15 Lappenberg, 229.

e padre spirituale fin dal gennaio. Cfr. Lap-

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francese guardava alla Germania sconfitta e suddivisa in zone d’occupazione come a una nazione lacerata da una tragica storia di antagonismi religiosi e politici e a Goethe come ad un classico 4u-dessus de les mélées, a un homme universel!° nel quale tutti gli uomini di buona volontà potessero riconoscersi. Non era certo il momento per rispolverare oscuri frazionamenti religiosi quanto piuttosto di individuare in Goethe il citoyer du monde capace di catalizzare gli spiriti dopo la sinistra lezione nazista. Ma oggi il problema, crediamo, non sta tanto nello stabilire se, e quanto a lungo, si debba parlare di un Goethe « convertito », quanto piuttosto nel chiarire l'apporto pietista nella cultura di quegli anni. Dobbiamo dunque avvicinarci alla cerchia descritta da Claus, ricostruire le relazioni tra i vari personaggi, cercare di dar loro un volto. La figura più interessante che emerge da questa indagine archeologica è certamente Susanna Katharina von Klettenberg, passata alla storia come la schone Seele dei Lebrjahre". 4. La formazione di Susanna Katharina von Klettenberg, nata a Francoforte nel 1723, rispecchia in modo emblematico le grandi intersezioni razionaliste, teosofiche e religiose del ’700. Il padre, medico come il nonno paterno !, le instilla la passione per le scienze naturali, mentre la madre la educa alla lettura della Bibbia, ma sarà poi il già menzionato Fresenius, confessore di casa Klettenberg a impattirle una rigida educazione religiosa. Ma c’è ancora un altro aspetto che riaffiora nella terminologia delle lettere! anch’esso caratteristico per questo secolo di transizione: è l’interesse per l’alchimia — disciplina instabile tra scienza e magia — mutuato da un prozio, autore della Alchymia denudata, testo ristampato ancora nel 1769 con grande successo ”°. Una famiglia di agiata e colta aristocrazia cittadina dunque, che impartisce alle figlie — Susanna ha due sorelle minori — una solida formazione. La primogenita soprattutto, cagionevole di salute e costretta per lunghi mesi a 16 J. F. Angelloz, Actualité de Goethe, « EG» 1949, 2, p. 98. 17 Non a caso anche il testo più utile sulla Klettenberg indica già nel titolo questa uguaglianza: Die schone Seele. Bekenntisse, Schriften und Briefe des Susanna Katharina von Klettenberg, hrsg. von Heinrich Funck, Leipzig 1911. 18 Non ci risulta che questo aspetto del pietismo, il suo germogliare in ambiente scientifico, o più spesso medico, sia stato studiato. Fu appunto un medico, J. Samuel Carl, che diede grande prestigio al movimento filadelfico tedesco pubblicando tra il 1730 e il 1744 la « Geistliche Fama ». Cfr. F. Ernest Stoeffler, German Pietism during the eighteentb century, Leiden 1973, p. 210. 19 Un esempio: «Ich habe ein aurum potabile empfangen ..», Funck 282, passo che indica assai bene la radice mistico-alchemica del pietismo. 2 Lappenberg, 166.

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letto, cresce tra libri, provette e pezzi anatomici dello studio paterno. È accanto al francese, allora indispensabile per il debutto in società, Susanna studia attingendo così al retaggio culturale classico. il latino, il greco e l’ebraico Un tipo di educazione che, come si sa, non è eccezionale per quella ristretta élite di donne aristocratiche o alto-borghesi del primo settecento, tanto più in una città aperta come Francoforte, dove era ancora vivo l’influsso pedagogico di Comenio e quello teologico - mistico di Arnold ?. E dove Carlo VI aveva sancito di fatto, per la prima volta nella storia degli Asburgo, la possibilità di una successione al trono per via femminile ?. Un contesto dunque che consente o addirittura sollecita e premia la donna colta come la donna che scrive — si veda la lunga teoria di donne incoronate poetesse durante il regno di Carlo VI — e una struttura sociale che prevede anche forme laiche di esistenza al femminile, alternative al dilemma preluterano « matrimonio o convento »: Susanna diventerà appunto Stiftsfraulein*, resistendo all’invito dei « fratelli » a entrare nella comunità pietista di Marienborn e affermando così quello spiccato spirito d’indipendenza che la caratterizza. La cultura della Klettenberg non si configura, si è detto, come eccezionale, tanto più nell'ambiente pietista, per sua natura colto, animato com’è da quella straordinaria voglia di sapere che, secondo l’ottica del tempo, si fonda sulla conoscenza diretta delle sacre scritture. Così ad esempio, nella cerchia indicata da Claus, la moglie del pastore Griesbach, figlia di un accademico seguace di Francke, ha studiato greco e latino per leggere i sacri testi in originale e partecipa attivamente alla discussione teologica allora in corso, mentre la sorella, Charlotte Elisabeth scrive con successo inni religiosi. E, ancora,

21 L’ebraico veniva allora studiato come lingua contenente i calchi della nominazione prima, come lingua comune a Dio, ad Adamo e agli animali della prima terra. Cfr. Foucault, Le parole e le cose, Milano

1980, p. 46.

2 Sull’importanza di Die Mutterschule (1636) di Comenio sulle teorie pedagogiche relative alla donna v. Adalbert von Hahnstein, Die Frauen in der Geschichte des dt. Geisteslebens, 1. vol. Lipsia 1899, p. 44. L’influsso di Arnold è più complesso anche perché sviluppa una concezione, in parte derivata da J. Boehme, fondata su di una femminilizzazione del divino. Questo aspetto, fondamentale per capire la posizione privilegiata che la donna ha nel pietismo e che non è ancora stato analizzato in modo esauriente, è evidente sia in Das Gebeimnis der gòttlichen Sophia del 1700, che nella più famosa Unpartheysche Kirchen - und Ketzer-Historie, dove l’autore dedica un capitolo alle donne come «testimoni di verità ». 23 Hahnstein, 247. 2 Il Frauleinstifit era una fondazione religiosa per fanciulle nubili, provenienti prevalentemente dall’aristocrazia.

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l’amica e poetessa Sophie Eleonore Walther, coetanea della Klettenberg, oltre alle lingue classiche conosce anche l’inglese e collabora con le sue traduzioni a un settimanale letterario ?. È in quest’ambiente dunque che Susanna, dopo un fidanzamento infelice con un ambizioso aspirante cortigiano matura la sua vocazione religiosa, distaccandosi da quella pratica meccanicamente ortodossa di Fresenius che essa congeda con quest'immagine lapidaria: « All’inizio del mio risveglio mi sono servita dei consigli del beato Fresenius, ma alla lunga non giovarono più. La mia anima non era certo come un orologio re-

golabile al passo di un altro”. La ricerca di un’interiorità più autentica, di una religiosità più calda, in un certo senso più mariana *, unita ad una istintiva gioia di vivere e a una grande capacità comunicativa, spinge Susanna a scrivere. Dapprima sono lettere che, con la sorella Maria Magdalena, essa indirizza a FrAulein von

Oelsnitz di Wernigerode. Non è questa la sede per diffonderci sulla funzione della comunicazione epistolare nella cultura pietista. Diremo solo che questa forma, soggettiva per sua natura, costituisce un prezioso momento di socializzazione di quella esperienza intima che sta alla base del pietismo. La lettera è in altre parole la descrizione di un percorso: il Weg des Glaubens, per usare una metafora di Claus che lascia intuire la portata umanistica di un

processo squisitamente individuale, contrario

a qualsiasi mediazione

istitu-

zionale, ha un suo ritorno nel sociale attraverso il w2itteiler, la lettera appunto. Ma la partecipazione non si chiude nell’arco breve tra mittente e destinatario, bensì continua il suo cammino tra i Gleichgesinnte?. Vediamo infatti che intorno al 1750 le lettere delle Klettenberg vengono lette alle riunioni pietiste, tenute appunto a Wernigerode dal conte zu Stolberg e, raccolte poi come Treffliche Briefe, diventano un testo di edificazione morale. E, dalle

25 Una dettagliata descrizione dell'ambiente pietista intorno alla madre di Goethe si trova in Hahnstein, 250 e segg. 26 Johann Daniel von Ohlenschlager, il Narciso dei Bekerntnisse. Cfr. Funck, 5. 2î Funck, 52. 28 «Lasst mir mein Marienteil...» è l’inizio di un Lied della Klettenberg. Il recupero degli aspetti mariani, espunti dalla teologia luterana, si ricollega d'altra parte all'opera di Bihme che, attraverso Arnold, ebbe una diffusione europea. V. Serge Hutin, Les disciples anglais de Bobme aux XVII et XVIII siècles, Parigi 1960. 29 Dal diario di Auguste F. zu Stolberg, 25-9-1774: «Tornando a casa lessi in catrozza la posta, tra le altre una lettera della Klettenberg che mi parve come se giungesse da una sfera superiore a quella in cui viviamo; il mio cuore venne energicamente attratto verso il cielo e io non potei fare a meno di leggere la lettera, piangendo, anche

alle mie tre compagne

di viaggio ». Funck,

12.

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testimonianze dei contemporanei, intuiamo un progressivo profilarsi di Susanna come figura di riferimento nell’ambiente pietista. 5. A questi anni risale anche l’amicizia con Friedrich Carl von Moser, che nel 1751 si era trasferito con la moglie a Francoforte. Hahnstein — probabilmente condizionato dai tratti negativi di Philo nei Bekenntnisse — definisce questo rapporto una St0rung® nella vita di Susanna, benché non esistano testimonianze in questo senso. Nella mappa pietista Moser rappresenta, secondo Funck, una mediazione tra il pietismo di Halle — improntato da un’ascesi fondata sulla mortificazione del corpo e quindi estraneo all’indole di Susanna — e la « teologia del cuore » di Zinzendorf. Che la personalità della Klettenberg fosse appunto caratterizzata da un tratto tipicamente urbano di socievolezza — una dote che essa aveva in comune con Frau Rat Goethe — lo rivelano gli stessi titoli dei suoi saggi contenuti in un libricino anonimo del 1754, Der Christ in der Freundschaft, che riunisce le riflessioni morali di Susanna, della sorella Maria Magdalena e di Moser, che funge da editore *. Ma è soprattutto il sereno equilibrio e la totale assenza di ogni forma di fanatismo che ci lasciano intuire come questa donna, diversa per età, concezione della vita e classe sociale, possa essere diventata die einzige Freundin ®° del giovane Goethe. Si consideri per esempio quanta tolleranza e quanto potenziale laicismo contenga un passo come il seguente, che non sapremmo se definire un’affermazione di fede o un’osservazione scientifica: « Ci sono invero diversi cristianesimi; ogni cristiano evangelico ne possiede uno suo — egli è come una sorgente. Ci si può davvero rallegrare delle innumerevoli sorgenti e non ci si deve lamentare se un’analisi chimica dimostra grandi e varie differenze » *. Un passo questo che rivela una concezione aperta, dinamica, vorremmo dire storicistica dell’esperienza religiosa. Tanto che la Klettenberg non tralascia di denunciare l’arretratezza dell’apparato ecclesiastico: « Perché la sofferenza venga introdotta come parte necessaria alla nostra redenzione, questo non lo capisco (...). Nella conduzione del cristianesimo i tempi cambiano rapidamente, allo stesso modo deve cambiare il tipo di predica » *. I tempi cambiano, ci dice Susanna Katharina von Klettenberg nel 1765. E 30 Hahnstein, 250. 31 Gioia, fedeltà, gentilezza e amicizia sono i temi prediletti di Susanna. 32 La definizione, certo un po’ patetica, è di Lavater. Sta di fatto però che la Klettenberg rimase fino alla morte in rapporti di profonda amicizia con Goethe. 33 Funck, 14. 3 Funck, 228.

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il pietismo è espressione di questo cambiamento: le comunità che si formano in tutta la Germania si asserrano solitamente intorno all’aristocrazia, l’unica classe in grado di assicurare uno spazio e una protezione efficace, ma sono formazioni aperte, tanto più pericolose quindi, proprio perché tendono a costituire un raccordo verticale in una società a struttura rigidamente gerarchica. Una società, non dobbiamo dimenticarlo, assolutamente normativa, in cui le differenze « volute da Dio » tra le classi sociali erano ribadite da una legislazione che — suddivisa la popolazione in varie classi — regolamentava anche i minimi dettagli dell’essere individuale, fino al permesso (o divieto, a seconda della classe di appartenenza) di portare le calze di seta o di ornare

le vesti con oro e argento *. È dunque in questo contesto che dobbiamo valutare la descrizione di Claus dalla quale risulta che l’aristocratico von Biilow teneva riunioni domenicali con giovani von allerlei Stand. Di più: le « visioni » di Christian Friedrich Lucas, un bottonaio figlio di un pescatore di Halle che nel 1755 entra nella cerchia di Bulow e della Klettenberg, sono simili a quelle di Susanna. Il sangue del Cristo crocifisso scorte sul credente « dissolvendo ogni timore, ogni paura, ogni affanno » *: l’immaginario religioso attraversa dunque la scala sociale, stabilendo linguaggi e codici comuni, istituendo nuovi rapporti. È in questo spazio d’ordine — che la coscienza laica ha finora definito come regressivo, impregnato com’è di figure « deboli », imploranti con la spasmodica sollecitudine dell’estasi — che si cela una tassonomia tendente a ricreare uno spazio alternativo a quello istituzionale. Uno spazio difensivo, perciò ridotto, diminutivo ” ma anche ostinatamente autonomo, dotato di un linguaggio e di una sua cronologia interna, negazione impertetrita del tempo civile *. A ben guardare insomma la Stille pietista rivela una vena anarchica che necessariamente si oppone al principio cuius regio eius religio e che, nelle sue forme più radicali, si esprime come utopia non solo « mistica », bensì attenta al jetz: del vivere terreno e quotidiano ‘. Pietismo come portatore di

35 Si veda per esempio la Chur-Sachsische Kleider-Ordnung von Anno 1750, in Herbst des alten Handwerks, hrsg. von Michael Stiirmer, DTV-Dokiimente, 1979, pp. 94-99. 36 Funck, 22. 37 Ci riferiamo all'uso dei diminutivi che, come si sa, caratterizza il linguaggio pietista. 38 I pietisti usavano computare il tempo partendo dal loro « risveglio » religioso. 39 Fetu Rissanen, Kristillinen Palvelu. N. L. von Zinzendorfin Teologiassa, Helsinki 1959, p. 212, sottolinea il fatto che i pietisti provenivano da confessioni diverse e che le comunità si dichiaravano indipendenti dal potere politico. 40 Stoeffler, 214. Anche la Klettenberg, pur cautamente: «... ma perché non posso vederne i frutti? devono essere tutti risparmiati per l’eternità ...?» Funck, 253.

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alterità dunque, spesso — secondo una costante della storia tedesca — più teorica che organizzata “, e tuttavia, come quella ebraica #, osteggiata dal potere come potenzialmente eversiva. La storia, anche recente, lo dimostra:

le ultime comunità pietistc polacche furono disperse da Hitler negli anni ‘40.

6. Abbiamo cercato di rintracciare, attraverso la figura di Susanna Katharina von Klettenberg, quei fermenti pietisti che, se pur dispersi, mobili e variegati, costituiscono un tratto importante della cultura tedesca nel ’700, non semplicemente riconducibile a un fenomeno di ordine psicologico ma che, al contrario, incorpora una carica nettamente libertaria e quindi politica. Vediamo ora di reperire le tracce dell’esperienza pietista di Francoforte nella storia immediatamente successiva del giovane Goethe. Anche a Strasburgo Goethe frequenta i pietisti. Ma questi praticano una religiosità troppo kirchlich und piinktlich e il giovane irrequieto, avvezzo alla statura intellettuale della Klettenberg, ne è irritato: « Sono talmente noiosi quando ci si mettono, che la mia vivacità non riesce a sopportarli », si sfoga in una lettera a Susanna ‘. E a questo proposito Grosser avanza l’ipotesi che se nel 1768 Goethe avesse avuto la stessa vivacità — leggi: non fosse stato malato — non avrebbe frequentato l’ambiente pietista di Francoforte. Ma questo significa interpretare di nuovo il pietismo come un « dolce torpore religioso » * ignorando non solo gli aspetti che abbiamo cercato di mettere in luce ma anche i dati concreti della biografia goethiana. Sappiamo infatti che Goethe approfondisce a Strasburgo la sua conoscenza della cultura pietista leggendo Poiret e Arnold, autori certamente suggeriti dalla Klettenberg, e che ci riconducono al filone radicale e alla dimensione europea del pietismo. Di Arnold, passato alla storia come il difensore delle minoranze religiose, abbiamo già detto. Con Poiret Goethe ripercorre le intersezioni francesi del pietismo tedesco. Lettore di Tauler e di Tommaso da Kempis, di cui traduce la Teologia tedesca, Poiret esprime l’insofferenza per la burocrazia ecclesiastica e s’inserisce nella corrente del quietismo francese. Ma sono soprattutto 41 Rispetto al pietismo filadelfico inglese Stoeffler definisce quello tedesco come espressione del « more impractical teutonic temper, which preferred to keep the emphasis on theory » (p. 212). 4 I pietisti radicali, accanto agli ebrei, sono i soli a dichiararsi indipendenti dal corpus di leggi scritte e non, che tradizionalmente governano la vita religiosa e secolare di una comunità. Stoeffler, 217. 4 Lappenberg, 275. 4 Grosser riprende una definizione di E. Vermeil (1932), condivisa da A. Fuchs (1946), citati a p. 208.

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la lettura delle opere di Bòhme e l’amicizia con Antoinette Bourignon prima, e in seguito con Mme Guyon *, a determinare il precisarsi di quella T4éologie du coeur che, rifluendo in Germania attraverso la mediazione di Tersteegen ‘, contribuirà a mettere in discussione il rigido dogmatismo luterano. Goethe ritrova dunque in queste letture quel nesso tra spirito e materia

che, fondamento della tradizione teosofica, egli stesso andava praticando: legge i pietisti e nello stesso tempo scrive alla Klettenberg: «La chimica resta ancora la mia amante segreta » #*. Il fatto è che questa è un’epoca in cui la cultura scientifica e quella religiosa non sono ancora scisse, come la formazione della Klettenberg ci dimostra, non a caso è da un mistico come Lavater che Goethe mutua l’interesse per la fisiognomica. Solo tenendo presente questo dato di fatto si capisce perché nel 1733 Goethe, improvvisandosi teologo, quando ormai — gli amici lo sanno — la sua fede è assai tiepida, pubblica il Brief des Pastors zu * * an den neuen Pastor zu * *, ergendosi a difensore dei pietisti. 7. Il Brief, pubblicato a Francoforte nel gennaio del 1773, è anonimo e reca l'indicazione Aus dem Franzòsischen, forse un omaggio a Poiret. Giustamente Grosser ravvisa nel Brief l’etica di ur Aufklirer *, ma a ben guardare il tono rivela una distanza emotiva che si traduce nell’impertinenza giovanile di chi sente il cosmopolitismo settecentesco come un valore ormai acquisito, sul quale si può appuntare una giocosa ironia: « Che delizia pensare che il turco, che mi considera un cane, e l’ebreo, che mi considera un maiale, si rallegreranno un giorno di essere miei fratelli » scrive il sedicente pastore”. Ma col procedere dell’argomentazione l’irriverenza delle prime pagine lascia il posto ad una appassionata richiesta di tolleranza. Come Arnold, il 4 Non ci risulta l’esistenza di uno studio sull’influsso e la vastissima diffusione scritti di Antoinette Bourignon (1616-1680) e di M.me Guyon (1647-1717), train diverse edizioni anche in tedesco e in inglese. È il titolo di una serie di scritti pubblicati da Poiret nel 1690. Poiret s'inserisce tradizione mistica di Miguel de Molinos e di S. Teresa ripubblicandone i testi in compendi che verranno poi tradotti dai pietisti tedeschi. 4 Gerhard Tersteegen (1697-1769), anch'egli medico, è il più mistico dei pietisti radicali. Nelle Auserlesene Lebenbeschreibungen heiliger Seeler che nel 1784 erano alla terza edizione, riprende autobiografie di santi, tra gli altri Angela da Foligno, traducendole da Poiret. # Lappenbetg, 275. 4 Grosser, 210. 30 HA, XII, 232. 51 Si veda l’inizio: «La campana a morto per il Vostro predecessore mi ha portato nel sangue un’onda gioiosa ...», HA, XII, 228. degli dotti 4 nella

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Goethe pietista chiede tolleranza per tutti. Per i cattolici: « Perché li metrete sotto accusa per la loro messa? strafanno, lo so, ma lasciate che facciano

cosa vogliono » *; per i razionalisti: « Ci sono persone in cui la testa prevale sul cuore... » 3; dunque per chiunque « poiché (...) ognuno ha una sua propria religione » *. C'è un agnosticismo di stampo umanistico che ricorre nel Brief e che sottende il rifiuto di qualsiasi forma di dogmatismo *. Omologare, unificare le varie forme religiose significherebbe mutilare il profilo prezioso dell’individuo: «Sono ben lontano dal desiderare una riunificazione, che anzi ritengo quanto mai pericolosa; chiunque dovesse rinunciare anche a un solo capello si farebbe un torto ° Una tolleranza che deriva dalla constatazione — ecco la saldatura tra illuminismo e pietismo, tra ragione e sentimento — che Dio è amore e che la baetitudine dell’uomo discende dalla fede nell'amore divino fattosi uomo in terra. Ed è da questo Dio che il giovane Goethe si sente erwischt 9, così che la rivendicazione di tolleranza lo conduce ad assumere posizioni che sono assimilabili sia al pietismo sia al radicalismo politico degli Stirzzer. Non va quindi imputato a una pretesa « confusione religiosa che regnava in quegli anni » * il fatto che il Brief sia stato interpretato come proveniente da frazioni avverse, quanto piuttosto alla complessità di quella humus culturale in cui si annunciava, filtrata dalla componente irenico-pietista, una sensibilità nuova. Vediamo per esempio come Goethe, ripercorrendo l’otigine dei sacramenti, assegna spregiudicatamente al corpo un ruolo di primo piano nel rapporto con il divino: « Il Signore, si era appena dipartito dalla terra che già tenere e amorevoli persone anelavano a un’intima unione con lui e poiché noi siamo sempre solo soddisfatti a metà se la nostra anima ha goduto, così essi chiesero qualcosa anche per il corpo, e non avevano torto perché il corpo resta sempre una parte dell’uomo degna di considerazione e in questo senso i sacrameneti davano loro la più desiderabile delle occasioni. Forse il loro corpo, toccato dall’azione sensibile del battesimo o dall’imposizione delle S28FLANEXT1 233) SFERA TRITI 234 #4 HA, XII, 232. 5 «Non so se si può dimostrare l’origine divina della Bibbia, comunque mi sembra del tutto inutile», HA, XII, 230. # HA, XII, 233. 5 « Acchiappato », HA, XII, 229. * O. Guinaudeau, Les rapports de Goethe et de Lavater, « ÉG », 19404828 N25) L’autore anonimo fu preso per pietista, razionalista e persino ortodosso.

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mani, dava all'anima proprio quell’accento che è necessario per simpatizzare

con il soffio dello Spirito Santo che ci circonda incessante. Dico forse e posso

dire certamente »®. Ora la rivalutazione del corpo non è un’immissione personale del giovane Stiirmer travestito da pastore protestante, ma deriva da Bòhme e dalla tradizione teosofica ed è uaa costante della letteratura pietista. Ma su questo aspetto torneremo a proposito del raporto tra Goethe e Lavater.

Proseguendo l’analisi dei motivi principali che informano il Brief vorremmo ora rilevare come la rivendicazione del diritto a una fede individuale si carichi di una connotazione più scopertamente radicale, che riporta alla memoria il concetto di democrazia mistica di un Thomas Miintzer: « E una volta per tutte: una gerarchia è in tutto e per tutto contraria alla concezione di una Ch'esa autentica. Giacché, mio caro fratello, se considerate il tempo degli apostoli subito dopo la morte di Cristo, dovrete riconoscere che mai

ci fu una chiesa visibile sulla terra » ®. Goethe rivendica dunque un atto di disubbidienza stùrmeriana all’autorità costituita, fino alla conclusione esplicitamente filo-pietista, in cui dichiara tutta la sua insofferenza verso la censura che la chiesa ortodossa andava esercitando in quegli anni sulla raccolta pietista dei canti di Ebersdorf. Riassumendo: quello che attira il giovane Goethe è la mobilità spirituale, l’insofferenza ai lacci ecclesiastici e la mozione degli affetti nella pratica pietista. Perché quello che conta è die Lage des Herzens®: è di qui che nasce un’alternativa a un esercizio della religione ormai irrigidito da una teologia occhiuta, intenta a « rivedere a tavolino » quei lieder che soli consentono « il volo » con il poeta ®. D'altra parte sono proprio le cerchie pietista che costituiscono in questi anni un attento uditorio per l’irrequieto Wanderer, che continuamente si sposta da Francoforte a Darmstadt, a costituire una zona di resistenza all’alleanza tra assolutismo politico, razionalismo wolffiano e dogmatismo luterano. Ed è attraverso l’esperienza dell’introspezione interiore, d’impronta pie-

SFILA 235: 0 HA, XII, 234. Ci sembra inspiegabile, anche se riconducibile al desiderio di minimizzare l’esperienza pietista, il fatto che Grosser isoli dal contesto di un discorso sulla tolleranza il seguente passo, interpretandolo come la risposta a un preteso tentativo, da parte dei pietisti, di convertire Goethe presque de force (« ÉG », 207): « costringere una persona a pensarla in un certo modo è già crudele, ma pretendere che essa debba sentire ciò che non può sentire questa è un’assurda 61 «La disposizione del cuore», p. 238.

6 HA, XII, 238.

tirannia », HA, XII, 236.

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Anna Chiarloni

tista e empfindsam, che Goethe si lascia alle spalle i trastulli anacreontici della prima giovinezza. In questo senso il Pilgers Morgenlied rappresenta una testimonianza di questa evoluzione, qualcosa di più quindi di un semplice omaggio alla convenzione #. C'è infatti un raccordo non solo cronologico tra l’identificazione di Dio come amore, contenuta nel Brief, e quella allgegenwédrtige Liebe che infiamma il poeta nei versi dedicati a una dama di corte della cerchia empfindsam di Darmstadt *. È dunque in questa Lage des Herzens, pet riprendere ancora il Brief, che s’innesta il superamento del tindlender Anakreon, sancito in un altro canto di quello stesso anno

(1772), il Wardrers

Sturmlied. Una cesura che, se nella splendida immagine degli ultimi versi rivela ancora l’oscillante interrogarsi dell’io lirico in un orizzonte transitorio, ma contenuto nella meta finale della Httte, dieci anni dopo, nella prosa della Theatralische Sendung, sarà oggetto di bonario ricordo, rivissuto da una prospettiva ormai weimariana ®. 8. Sebbene Empfindsamkeit e pietismo siano di fatto fenomeni contigui, vogliamo ora tentare di isolare un aspetto relativo alla biografia goethiana, che ci riconduce al nostro problema di fondo e che ci pare sia stato finora trascurato: il rapporto con la Klettenbeerg nei primi anni ’70 fino alla morte di lei nel 1774. L’intensità del dialogo tra Goethe e Susanna, malgrado 1’ungeduldiges Streben © del giovane giurista, i suoi amori e interessi sempre nuovi e diversi, è sorprendente. Dialogo che sembra condurre, malgrado la differenza di età e di condizione, a una sorta di travaso reciproco di esperienze interiori, così che l’aristocratica cinquantenne e il giovane borghese si trovano a percorrere quel tratto di un cammino comune, che opportunamente 6 Così Baioni, peraltro attento osservatore delle implicazioni laiche della Gefib/skultur settecentesca, nel commento agli Iw7i di Goethe, Torino 1967, p. 108. 6 Si può aggiungere che questi versi rivelano anche la consapevolezza del rinnovamento vissuto per mezzo dell’amore onnipresente: « Hast mir gegossen/ins friih welkende Herz/doppeltes Leben,/Freude, zu Leben und Mut.» (Mi hai versato nel cuore/che anzitempo appassiva/doppia vita,/gioia di vivete/e coraggio). Trad. Baioni, 61. 6 «Da ragazzo (Wilhelm) aveva avuto una speciale predilezione per le parole e le sentenze grandiose e splendide; se ne adornava l’animo come d’una veste preziosa, provava un puerile compiacimento di questi ornamenti esteriori, come se gli appartenessero realmente. In seguito, quando l’adolescente cominciò a proiettare all’esterno le proprie sensazioni e la sua anima fu tutta movimento e lavoro, egli disdegnò le parole, poiché considerava inesprimibile quello che sentiva nascere in sé». (Trad. Bignami, Milano 1977, p. 69). Passo che riprende la convinzione pietista secondo la quale il sentimento non può trovare un’adeguata espressione nella parola. # Così Goethe in un'interessante poesia dedicata alla Klettenberg su cui ritorneremo.

Goethe e il pietismo. Memoria

e rimozione

43

filtrato e modificato, costituirà in seguito la relazione tra la schòre Seele e Wilhelm nei Lebrjabre. Delle frequenti visite alla Klettenberg, del suo ardore giovanile nel raccontare, nell’afterrare la matita per tracciarle paesaggi incontrati lungo contrade lontane, Goethe ci dà una calda rievocazione in Poesia e verità. Ma poiché ci siamo proposti di stare alla documentazione di quegli anni vogliamo ora ricostruire i contorni di quel dialogo esaminando le lettere disponibili. Si diceva di un percorso comune, vediamone i termini. C'è innanzitutto un’analogia di atteggiamenti, che può essere letta paradossalmente come il risultato di una differenza: Susanna ha la sicurezza e l'indipendenza economica di una aristocratica ma, in quanto donna, è esposta a una norma

sociale che tende a censurare

soffre dell’emarginazione borghese —

un’autonomia

eccessiva; Goethe

si pensi a Werther —

ma ha tutta la

carica, e la fretta, del maschio ventenne: « Veloce arriva una sera, di corsa come un ladro ...» scrive la Klettenberg del giovane poeta che vuol mandare a spron battuto un manoscritto a Merck, corre da lei, le dice quel che le deve dire, « e subito scappa via ». Una vivace istantanea, che ci restituisce anche la schiettezza del loro rapporto. E lei? La fede libera perché libera da se stessi, si potrebbe osservare a proposito della Klettenberg. Ancora convalescente, in una lettera a Wenzel Neisser, pietista di Herrnhut, figlio di un coltellinaio moravo, Susanna si dichiara disposta a partire per la Groenlandia: « ... se Lui mi vuole là, e così a me ancora appare, cosa sono i mari di ghiaccio, cos'è il polo nevoso se sono con Gesù, Lui che non è solo un Dio delle vette ma anche un Dio degli abissi, saprebbe come proteggermi anche laggiù, se, come mi ha annunciato, è là che mi vuole » ®. E qualche anno dopo, in un passo che potrebbe essere di Goethe, essa scrive: « Un sentimento che

le forze bastino per agire ... che si possa agire con slancio, in caso di bisogno spostare anche le montagne, che si possano superare le difficoltà, spia» nare le montagne, e così infondere fede perché si ha fede in se stessi, sentire,

sentendo se stessi » ®. Difficile, ci pare, vedere in questa Frau That, come la chiamava affettuosamente Goethe, una figura statica, che ha esercitato un influsso a senso unico, intenso ma limitato a una breve iniziazione religiosa, circoscritto a un pe-

riodo di crisi fisica e spirituale del giovane titano. Attraverso questo rapporto passano viceversa elementi di un fermento culturale europeo, che coin6 A

Moser, 21-1-1774,

68 Funck, 242. 69 A. Lavater, 1774,

Funck

Funck

252.

260.

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Anna Chiarloni

volge e modifica non solo il poeta borghese ma anche la sua aristocratica guida spirituale. Perché, come abbiamo visto, nella Klettenberg non c’è l’introspezione commossa e fine a se stessa, c'è invece una voglia concreta di fare,

un lavorio interno che chiede di essere secolarizzato. Già nel 1768 Susanna, che dopo la morte della sorella era stata calorosamente esorttata a entrare nella comunità di Herrnhut, aveva declinato l’invito, forse troppo pressante ”, descrivendosi come appartenente a quel genere di « pianticelle che non si prestano a essere coltivate dall’uomo » ”. Questa rivendicazione a un percorso autonomo, che la Klettenberg acutamente individua come una caratteristica del suo tempo, trova in una lettera del 1773 espressioni molto vicine al Brief di Goethe. La missiva è destinata

a Moser che, come si è detto, aveva

a suo tempo

fatto da tramite tra la Klettenberg e le comunità pietiste fondate da Zinzendorf, ed è la prima dopo un lungo silenzio, dovuto probabilmente al trasferimento di Moser a Vienna. È lei a farsi viva per prima con una lettera fremente di palpiti e di candide astuzie, in cui essa rievoca l’antica amicizia. Ma Susanna sa di essere cambiata e si sente in dovere di mettere le carte in tavola: « Penso di poterLe dire fiduciosamente: sono molto cambiata. Come e in cosa questo lo insegnerà presto un breve incontro ... scriverne è difficile. Sono un liberto spirito cristiano. Tutto ciò che è formale o modellato è scom-

parso. Tutti gli uomini sono miei fratelli e lo specifico vincolo dell’amicizia, nel quale — ad eccezione di colui al quale scrivo — stanno pochi o forse a ben guardare nessuno, lo considero una benedizione che non ha connessione alcuna con l’essenza della religione, e i miei migliori amici sono addirittura non cristiani. Vivere in una nazione papista, qui o a Costantinopoli, sarebbe per me del tutto uguale, fin tanto che mi si lasciasse la mia libertà » 2, Sono, come si vede, manifestazioni di una tolleranza che ci sembra assai vicina a quella espressa da Goethe nel Brief”.

9. Ma ci sono ancora almeno due aspetti che conviene mettere in luce per precisare il percorso comune a Goethe e alla Klettenberg. Il primo è la ricezione della cultura inglese, ben più moderna e aggiornata di quella tedesca, cultura che, come si sa, costituisce in questi anni un punto di riferimento per la nuova letteratura borghese. Anche questo aspetto, come già quello 70 L’invito prevedeva

anche una

lt Fenck, 33. 2 Funck, 37. 7 Funck, 38, vi legge invece

« sistemazione » sul piano matrimoniale.

un’affinità

con

Zinzendorf.

Funck,

33.

Goethe e il pietismo.

Memoria

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libertario e antigerarchico di cui abbiamo parlato, conferma l’interpretazione del pietismo come elmento propulsore tendenzialmente affine al movimento laico borghese. È infatti attraverso le opere di Tane Leade, carismatica figura di donna londinese, fondatrice di varie società filadelfiche e molto nota in Germania ‘*, che i pietisti attingono alla cultura inglese ?. Una mediazione religiosa dunque, che approda agli stessi interessi dei laici: si vedano per esempio i riferimenti a Shakespare o i frequenti passi in inglese nelle lettere della Klettenberg. Il secondo aspetto in comune tra Goethe e la Klettenberg è l’entusiasmo per Lavater. Il teologo svizzero si era guadagnato fin dal 1770 una fama europea con la pubblicazione delle Aussichten in die Ewigkeit, che lo stesso Goethe aveva recensito con un commento anonimo sulle « Frankfurter Gelehtten Anzeigen ». Lavater loda il Brief e alla lettura del Gòtz, che Goethe gli manda in omaggio, prova un entusiasmo « indescrivibile ». Susanna legge a sua volta le Aussichtez e, con un gesto che ben esprime la sicurezza della donna colta — una sicurezza che si riversa anche nella fede, sentita spesso come accesso a un rapporto privilegiato e esclusivo ?? — prende la penna e scrive una lunga, vibrante lettera a Lavater, firmandosi con un nome cifrato: Cordata”. Abbiamo già parlato della funzione della corrispondenza nella cultura pietista. Con Lavater ne vediamo i riflessi formali: il gesto di Susanna è infatti una risposta alla struttura stessa del testo, epistolare appunto. Una risposta all’esortazione dell’autore ai suoi lettori, in cui si incoraggiava a partecipargli singole esperienze religiose, instaurando così una sorta di reticolo epistolare di portata europea. Con questa lettera Susanna s'inserisce nel dialogo tra Goethe a Lavater non tanto « come una santa » 8 quanto come un’interlocutrice alla pari, tant'è vero che le missive successive di Lavater vengono indirizzate ad entrambi”. Ma sono le proposte di Susanna che ci sorprendono per la loro spregiudicatezza. Nelle lettere a Lavater essa avanza delle richieste precise, che tendono a orientare la speculazione religiosa sulla vita terrena, sul vivere piuttosto 7 Lehmann,

mutuava

33. L’influsso

della

Leade,

interessante

anche

perché

essa

a sua

volta

diversi elementi dalla mistica di Bòhme, non è stato ancora stato studiato.

75 Vedi Der Briefwechsel Carl Hildebrand von Cansteins mit August Hermann Francke, hrsg. von P. Schicketanz, Berlin 1972, passim. 76 «Lui! che non ha bisogno di essere nominato, mi ha assicurato un tempo in un'ora di beatitudine: che Egli mi avrebbe sempre dato molto di più di quanto io potessi supporre, in maniera indescrivibile Egli ha finora mantenuto le sue promesse ». Funck, 261. TT Lo pseudonimo rimanda a klettern (arrampicarsi, anche con la corda) e al cor latino.

8 Funck, 79 Elenco

39. in Fundk,

340 e segg.

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che sul morire. Riemerge quell’interesse vitale, positivo, concreto che le è caratteristico: già nel 1763, in una lettera a Sebastian Friedrich Trescho, autore della Sterbebibel in Poesie und Prosa, essa aveva espresso il desiderio che « dopo aver descritto così degnamente l’arte di morire » l’autore « si accingesse una volta, o meglio ben presto, a descrivere anche l’arte di vivere felici » ®. Certo questa terrestrità, questo bisogno di esperienza religiosa tangibile, che coinvolge i sensi dell’uomo, è un'esigenza diffusa in un secolo di tensioni apparentemente contraddittorie, che intersecandosi continuamente anche all’interno dell'individuo singolo, costituiscono la ricca dialettica del settecento tedesco. Tanto che proprio Lavater, malgrado « tutti i suoi ideali », per dirla con Goethe *, ritiene che non ci sia fede possibile, se non fondata sui sensi: « Le Scritture non portano esempio alcuno che non sia fondato sull'esperienza sensibile; perciò ti prego così spesso: esisti, allora mostrami che esisti » ®° scrive a Goethe e alla Klettenberg. E Susanna dal canto suo lo rassicura, prospettandogli come imminente il recupero di una completa sensibilità del corpo: « Verrà donata ancora al Suo corpo la capacità di vedere ... di sentire ... di gustare... l’ora dipende dal Signore *. 10. Il carteggio tra Goethe, la Klettenberg e Lavater illumina inoltre aspetti meno noti della cultura pietista. Emerge per esempio un'opposizione tra pensiero e sentimento, parola e silenzio, maschile e femminile, che prelude al romanticismo e che, per certi versi, è possibile rintracciare fin nel pensiero contemporaneo. Un’opposizione che nasce da una sicurezza interna di Susanna, che impronta la sua scrittura pur così serena e spontanea, e che non

può essere semplicemente ricondotta all’estrazione sociale: « Mi perdoni se incomincio a criticare ma...» %“; «So apprezzare e leggere con utilità e diletto i Suoi scritti ma non per questo L’ammiro incondizionatamente dicendo di ogni cosa va bene e amen » ©. Come valutare dunque questa sicurezza?

Richard Critchfield ci indica in un recente articolo una possibile risposta *. Egli interpreta il ruolo di guida ispirata, caratteristico della donna pietista 80 Funck,

223.

81 Guinaudeau, 218. & 8 € 85 86 von PE

Funck, 40. Funck, 251. Funck, 223. Funck, 250. Prophetin, Fiibrerin, Organisatorin: Zur Rolle der Frau im Pietismus, in: Die Fran der Reformation zur Romantik, htsg. von Barbara Becker-Cantarino, Bonn, 1989, RIIZS1S7A

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nel secondo Seicento, come una conseguenza dell’esaltazione del sentimento da una parte, e del rifiuto della rigidità teologica luterana dall’altra. Per i pietisti la donna sarebbe cioè per sua natura più disposta ad accogliere la grazia divina: una concezione questa che, a nostro giudizio, rivela un riaffiorare di elementi tipici di quel culto mariano che la chiesa protestante aveva accuratamente depennato e che per strade diverse, talvolta iconografiche ”, rieinerge come spia di un bisogno diffuso. L'indagine di Critchfield meriterebbe di essere approfondita, anche perché indica per sommi capi le radici di un rapporto tra l’istituzione ecclesiastica e la donna, la cui attuale esclusione è,

come si sa, oggetto di una vertenza tuttora in corso *. Nelle lettere della Klettenberg, che Critchfield non considera essendo il saggio centrato sul primo Settecento, questo nesso tra femminilità e sfera del divino, tra sentimento e fede, è espresso con una consapevolezza straordinaria. Particolarmente emblematica è la lettera del 9 gennaio 1774 a Lavater, sulla quale vogliamo soffermarci prima di concludere la nostra indagine sull’ambiente pietista intorno al giovane Goethe. La Klettenberg ha appena letto la terza parte delle Aussichten «e subito afferra la penna per testimoniare l’indescrivibile delizia che le ha penetrato l’anima » #. A questa dichiarazione entusiasta segue tuttavia un passo che rivela non solo la divaricazione tra sentimento e ragione, ma anche l’orgogliosa consapevolezza di possedere, in quanto donna, la capacità di « sentire »: « Ciò che Lei dice nelle Aussichten io l'ho spesso e intensamente sentito, più che pensato, in soave solitudine e indisturbata quiete. Io sono una donna, il dono deila speculazione e dell’espressione calzante e precisa è senza dubbio proprio del sesso maschile ... noi però siamo tanto più sensibili ». « La beatitudine non si può descrivere », scrive Susanna. E allora, se il vero sentire è talmente intenso da condurre necessariamente all’afasia, ne consegue un implicito disprezzo per tutto ciò che è articolazione logica e quindi linguistica del pensiero. L'elaborazione intellettuale, la traduzione della Empfindung in categorie filosofiche non può che essere un pallido succedaneo della comunicazione tra Dio e il gefiibliges Herz. E, per converso, la formulazione è sì appannaggio dell’uomo ma rivela, proprio in quanto di-

87 La rappresentazione della divinità con tratti femminili ricorre a partire almeno da Bohme, attraverso Arnold fino a Jeane Leade, per diventare poi con Runge un aspetto centrale della pittura romantica. 88 Si veda, tra le tante pubblicazioni, Elisabeth Gossmann, Die streitbaren Schwestern, Freiburg 1981. 89 Funck, 250.

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scorso organizzato, un’assenza di sentimento: « Quando un cuore sensibile legge le prediche di Lavater si scioglie... scommetto che lo stesso Lavater non ha sentito così intensamente, e come avrebbe potuto, non sarebbe stato in grado di parlare... quando la nostra anima è tutta sentimento, l’espressione viene meno ... essa non ama pensare .. Nulla, ci pare, esprime così radicalmente la differenza verso l’universo ordinato e geometrico del razionalismo settecentesco quanto l’andamento an-

sante di questa scrittura, in cui ortografia e sintassi vengono meno, sino al dichiarato balbettio finale: « Questo Le scrivo balbettando ... Lei lo esprima il più precisamente possibile in termini filosofici . . . ». L'esperienza religiosa tende dunque a ricostruire l’uomo totale, istintivo, in un processo di conoscenza che non si accontenta di Verstand ma che necessita di un sentimento che coincide con i sensi: « fiiblen und Empfinden ist seben... wie Leiblich sehen ein iusserst zartes gefiibl ist...» Come per Hamann, il « nostro vecchio #24gus del nord », — così lo definisce Susanna discutendone con Merck in un salotto di del esprits®, — il linguaggio umano è inadeguato e fallace perché razionale e quindi del tutto incapace di rendere la lingua del cuore. E analogamente la teologia cristocentrica, comune a entrambi, esprime un’opposizione —

non a caso maturata per

Hamann proprio nella capitale dell'Europa mercantile? — al razionalismo imperante. Ma nel rifiuto di un arido principio di ragione astratta, il vero protagonista diventa per la Klettenberg il pazzo e il fanciullo. Essi solo sono i depositari di quel bleibendes Geftibl che consente di resistere alla jezige Oeconomie. L’emarginato totale diventa dunque la cifra della sopravvivenza, il portatore dell’antico messaggio cristiano, che trapassa, per analogia, in rivendicazione libertaria: « Questo, caro Lavater, è il punto in cui dobbiamo diventare pazzi o fanciulli... Dobbiamo credere alla leggenda di Cristo come i vostri felici fanciulli confederati credono alla leggenda di Guglielmo Tell e portandola con sé crescono con la fede dei padri, con l’esperienza di-

ventano consapevoli di ciò che è libertà, sentendo così col cuore essi credevano ». Donne, pazzi e fanciulli sono dunque gli anelli deboli della nale - assolutista e l’esperienza religiosa diventa uno spazio tazione individuale, appartato come si è detto in un linguaggio

quello in cui catena raziodi rappresene in una cro-

% Funck, 257. La lettera è interessante perché ci restituisce l’atmosfera del salotto letterario di quegli anni. % È noto che Hamann conobbe la « rinascita » mistica a Londra, nel 1757.

Goethe

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nologia diversi, ma aperto tuttavia alla Erfabrung concreta e vitale. A pochi mesi dalla morte, con una metafora che emblematicamente riprende da una parte la simbologia alchemica e dall’altra salta a piè pari l’asfittica cultura rococò, che pure impregna l’immagine, Susanna scrive a Moser: « ... l’oro diventa puro nell’ardore della fusione e oro è la nostra amicizia e lo rimane a dispetto dell’inferno. Non c’è bisogno di alcuna campana di vetro, anzi m’imbarazzerebbe molto ... la mia statuina di porcellana deve poter sopportare aria e polvere » ? E con la spregiudicatezza della donna pietista essa prosegue: « Le lettere per me potranno sempre essere spedite al mio indirizzo — e chi dovrei temere — anzi, me ne faccio un onore, quindi nessuna indiscrezione, tutte le lettere verranno stampate. Volevo scrivere una prefazione — e non mi dispiacerebbe trovare un editore. EccoLe una prova della mia libertà di coscienza ». Libertà di coscienza che pretende all’occasione — lei benché così malata nel corpo — gioia terrena: « Non immaginare la beatitudine dei dolci sentimenti come troppo celeste, caro Lavater, la capanna di Dio è proprio qui,

sotto le tegole del tetto ... lì! » #. Sono espressioni che segnalano la concezione di un cristianesimo gioioso, avverso alla mortificazione dell’individuo. Si veda in questo senso il commento lapidario alla notizia che « Madame von La Roche ha sposato la giovane, dolce figlia (Maximiliane) a un Brentano di queste parti, un vedovo con cinque figli: quella madre non ha senso cristiano » *. Una religiosità attenta alla vita terrena, quella della Klettenberg, e sempre meno bisognosa di ricorrere a segni soprannaturali: « Ho buoni occhi per natura ma non riesco a sa spiriti e non riuscirei mai a rendere la mia vista capace di vederli » ? Siamo nell’autunno del 1774. Susanna si prepara ad indossare « le bianche vesti della morte » per ricevere «il sublime Medico taumaturgico » ®. Per Goethe, dopo il viaggio sul Reno con Basedow e Lavater, l’esperienza pietista sta ormai esaurendosi e a nulla valgono le sollecitazioni sempre più pressanti del teologo zurighese ”. Intanto i principi di Weimar invitano Goethe a Ma-

9 Funck,

255.

B Funck, 9 Funck,

265. 258.

8 Funck,

282.

% Funck, 282. A Significativo che di fronte a una lettera in cui Lavater gli chiede tassativamente di dichiararsi

o ateo o cristiano, Goethe

passi la penna

alla Klettenberg.

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gonza. Ma prima che l’amica si spenga il Weltkind®, riandando con la memoria alle ore trascorse con lei, ne disegna un ultimo ritratto. L'immagine è andata perduta ma tra le carte di Herder è stata trovata un copia dei versi che l’accompagnavano: Sieh in diesem Zauberspiegel Einen Traum, wie lieb und gut Unter ihres Gottes Fligel Unsre Freundin leidend ruht. Fiihle, wie sie Aus des Lebens Sieh dein Bild Und den Gott,

sich heriiber Woge stritt; ihr gegeniber der fiir euch litt.

Fiihle, was ich in dem Schweben

Dieser Dimmrung all gefuhlt, Als mit ungeduld’ gem Streben Ich die Zeichnung hingewihlt ”. II

1. Quando nel 1795 Goethe pubblica i Lehrjahre le reazioni, a proposito dei Bekenntnisse einer schonen Seele, sono discordi. Non ci interessa ricostruire

qui la polemica sull’originalità del testo che si è trascinata fino al ’900!®: il carteggio con Schiller dimostra ampiamente che si tratta di un’elaborazione goethiana del pietismo, centrata sulla figura della Klettenberg. Tuttavia i commenti di quei contemporanei che vi hanno intravisto una fonte o addirittura, come la Stein, una scopiazzatura di Goethe !, ci fanno intuire che la x

% Vorace e profano si descrive Goethe in quei versi, frizzanti di vis comica, nati durante il viaggio con i due « profeti ». Vedi Zwischen Lavater und Basedow, HA, I, ? HA, 1, 89, con il titolo Mi einer Zeichnung. I versi vennero poi pubblicati da Goethe in Dichtung und Wabrbeit con poche, ma per noi significative varianti: 5, Schaue, wie sie sich hiniiber; 9, weben; 10, Dieser Himme!sluft. 10 Funck, 5,9. 101 Al figlio Fritz: «Quando leggerai il Meister fai attenzione alle confessioni di un’anima bella; giurerei che non è roba sua, Goethe deve aver messo insieme dei passi che presumibilmente qualcuno gli aveva dato e lui, che come la lumaca tira dentro nel suo guscio tutto quello che gli può servire, ha introdotto la faccenda, come caduta dal

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letteratura pietista, e in particolare l’autobiografia femminile, era ancora un genere assai diffuso negli anni ’90, fatto d’altra parte confermato dalle numerose edizioni degli scritti di Antoinette Bourignon, Madame Guyon o Jane Leade lungo tutto il ’700. Evidentemente,

se le tendenze

rousseauviane

avevano

rimosso

la donna

colta dalla sua funzione di guida spirituale, sospingendola sulla sponda della naturalità inconscia (persino la Klettenberg sigla una delle ultime lettere ringraziando Dio per la propria « semplicità incolta » !) persisteva tuttavia una familiarità con quella letteratura femminile edificante che col pietismo aveva trovato diffusione europea. I Bekenntnisse si presentano dunque con una verosimiglianza gestuale che rivela la capacità di Goethe di immettersi nell'orizzonte precostituito del genere autobiografico, a lui ben noto non solo grazie alle letture della maturità !# ma anche a quelle più remote, degli anni giovanili ‘#. E d’altra parte si rivolgono a un pubblico che dispone di un bagaglio culturale ancora impregnato di cultura pietista: ne fanno fede gli accenni, le allusioni, l’uso di termini specifici disseminati nel testo, che oggi il lettore medio non sarebbe più in grado di decodificare senza l’apparato filologico che accompagna le edizioni delle opere di Goethe. Ed è proprio questo apparato critico che, costituendosi a sua volta come parte integrante della canonizzazione di Goethe a Fwrstendichter ha contribuito nel corso del tempo a fare del libro VI dei Lebrjahre un « documento di valore scientifico », ovvero una fonte di conoscenza sul pietismo !°. Pietismo che, come si è detto, in quanto espressione di una dissidenza minoritaria e destinata a essere

riassorbita dalla chiesa ortodossa — salvo qualche sporadico riemergere in situazioni di alta conflittualità sociale — non ha trovato una sua storiografia esauriente. La comprensione del pietismo è quindi in gran parte affidata a rivisitazioni letterarie, anche perché non si è ancora provveduto a un’analisi completa del materiale giacente negli archivi, relativo ai risvolti economici, sociali e politici di una manifestazione non solo religiosa. Il testo letterario viene dunque usato come griglia per leggere la storia. Nel nostro caso per esempio J. M. Lappenberg struttura la sua ricerca sulla Klettenberg, peraltro densa di interessanti dettagli, sulla falsariga dei Bekencielo, nella compagnia dei commedianti, tanto anche queste pagine gli vengono pagate ». Funck, 6. Nello stesso senso scrive Béttiger, in Bode. Goethe in vertraulichen Bric

fen, #3 13 #4 15

n. 859. Funck, 99. Baioni, 95. Trunz, HA, VII, 599. Hahnstein, 247.

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ntnisse e il risultato è un libro sulla schòne Seele. D'altra parte l’identità Klettenberg = schòne Seele ha retto si può dire fino ad oggi, anche se Grosser ha avanzato la necessità di un confronto puntuale, inteso a meglio valutare la ricezione del pietismo da parte di Goethe negli anni novanta !*. 2. Vogliamo dunque rilevare dapprima le coincidenze e le divergenze tra i Bekenntnisse e la biografia della Klettenberg così come emerge dalle lettere e dal materiale pubblicato da Lappenberg e da Funck per arrivare poi ad una riflessione sul senso delle opzioni operate da Goethe, alla luce anche di altri testi goethiani risalenti allo stesso periodo. La sovrapposizione della schore Seele alla figura della Klettenberg è indubbiamente giustificata dalle numerose coincidenze fattuali tra la vita dell’aristocratica francofortese e l’anima bella di Goethe, coincidenze che formano il sistema di riferimento con il reale che struttura il libro VI: dalla malattia infantile al primo amore, dal fidanzamento con Narciso ai rapporti con le comunità pietiste di Marienborn e di Herrnhut, tutto trova un riscontro talmente preciso nella biografia della Klettenberg da lasciar supporre che Goethe disponesse di documenti in seguito perduti !”. C’è inoltre tutta una serie di vicende familiari che riproduce l’ambiente domestico intorno a Susanna, nell’arco di anni che va dal 1723 al 1774. Non staremo qui a soffermarci su questi dati che sono già stati puntualmente scandagliati !*. Né vogliamo avventurarci sul rischioso terreno delle omissioni — manca per esempio qualsiasi cenno al rapporto con Lavater — giacché sarebbe del tutto illegittimo mettersi a confrontare la realtà con un testo letterario, che presenta per di più tratti fortemente simbolici. Limitiamoci invece per ora alle divergenze, che sono di varia natura. Cominciamo con due constatazioni di fatto, che riguardano la situazione iniziale e quella finale del personaggio: a) mentre la Klettenberg era vissuta a Francoforte, città aperta ai più vasti influssi europei, in cui il pietismo st era diffuso con una larga partecipazione di strati borghesi fin dai primi collegia pietatis', l’anima bella gravita intorno a una corte minore, improntata a una cultura francesizzante, con un orizzonte quindi ben più ristretto ri-

106 Grosset, 207, nota ‘5. 107 La narrazione del litigio tra Narciso e il capitano, per esempio, corrisponde quasi letteralmente al verbale del processo. Funck, 39. 108 Accurata ricostruzione d’ambiente soprattutto in Lappenberg. 109 Sulle origini del pietismo a Francoforte v. J. Wallmann, Sperer und die Anfinge des pietismus, Tiibingen 1970, p. 278 e segg.

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spetto alla città imperiale; b) alla morte della sorella, Maria Magdalena von Triimbach, i figli erano stati affidati alla Klettenberg, fatto del tutto consono al suo profilo di guida spirituale. Viceversa l'educazione dei nipoti dell’anima bella !!, che nel romanzo costituiscono l’anello di congiunzione tra Wilhelm e la Società della Torre, ossia tra borghesia e aristocrazia, viene affidata allo zio, personaggio demiurgico che la critica è concorde nel definire portavoce dello stesso Goethe. I Bekenntrisse si chiudono infatti con l’immagine della donna pietista del tutto esautorata ed emarginata dalla vita, ossia dall’azione del romanzo. Alla prima divergenza si ricollegano tutta una serie di fattori che comportano un graduale slittamento, ovvero una riduzione dell'ambiente culturale in cui nasce il pietismo. L’arretratezza elitaria del milieu sociale in cui è immessa la schòne Seele si manifesta con un esplicito segno linguistico: il francese che, come uno scenario rococò da cui la natura è rigorosamente espunta, sottende nel romanzo la formazione della giovane donna. Intendiamoci: non si vuol con questo negare che il francese non fosse la lingua aristocratica per definizione ma, considerato il nostro assunto di fondo, non si può non rilevare che le lettere della Klettenberg scoppiettano di termini inglesi, quando non sono addirittura interi passi che essa, con una certa civetteria, o forse con l’intento di dichiararsi dalla parte della cultura del sentimento, appone

in calce alle sue missive !!!. Si potrebbe obiettare che la schone Seele rifiuta mit minnlichem Trotz !* proprio il mondo frivolo e francesizzante, tanto che essa per così dire somatizza,

ammalandosi,

il disagio di condurre

un’esistenza

in Galalivree !!8.

Ma nell’economia del testo questa fase cortigiana, costellata di tratti arcadici 4, ha un peso notevole, che grava su buona parte dell’enunciato narrativo e sulla stessa erziblte Zeit !!5. C'è tuttavia un altro elemento che dob110 Lotario, Natalia, Friedrich e la Gràfin. La sorella della Klettenberg aveva avuto solo due figli: della femmina non conosciamo il nome, il maschio si chiamava Friedrich. Lappenberg, 254. Ill Funck, 241, 242, 244. Lo stesso Hamann viene definito «uno dei miei favorit authors » (Funck, 258). 113 HA, VII, 379. 113 HA, VII, 385. 114 Si veda la riflessione, romanzata e in francese, che l’anima bella opera sulla prima esperienza sentimentale, assegnando ai protagonisti i nomi di Phillis e Daphne. 115 La descrizione dell’ambiente di corte si estende infatti per buona metà del capitolo VI, mentre l’esperienza pietista avviene, stando alle indicazioni cronologiche sparse nel testo, quando l’anima bella ha 39 anni. Secondo le lettere della Klettenberg invece «il risveglio » avviene quando essa ba 29 anni.

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Anna

Chiarloni

biamo considerare: l’inserzione funzionale dell’aspetto patologico — la permanenza a corte si conclude infatti con un’emottisi — conduce alla connessione tra pietismo e malattia. Questo innesto del « risveglio » religioso in una situazione morbosa, che informa la rivisitazione dell’esperienza

giovanile da

parte del Goethe « classico », emerge fin dalle prime pagine dei Bekenntnisse. È infatti nella malattia infantile che l’anima bella individua il Grund (ibrer) Denkart !!9 e bisogna aggiungere che, con una rotazione continua intorno al termine B/ut — cupo filo rosso che otdisce tutto il libro VI — Goethe situa la Empfindung, qualità squisitamente pietista, che consente il rapporto immediato con il divino, in una zona oscura, in cui /eiden e lieben, Leidenschaft e Krankbeit, emottisi e epistassi s’intrecciano !!”, così che la Beschdftigung mit Gott risulta ambiguamente collegata alla irdische Liebe. Privato del suo humus culturale il pietismo viene dunque ridotto a cifra

individuale di un eccesso di comunicazione emotiva, a gioco regressivo !!5 che surroga una vita non vissuta. La sequenza è chiara. Philo, al secolo Friedrich Carl von Moser !!’, personaggio non del tutto limpido nel romanzo perché ha Geist, Herz und Talent ma anche una geftibllose Deutlichkeit nelle cose profane ‘, un certo cinismo che lo assimila a Narciso, Philo, dicevamo, funge da tramite fra l’anima bella e la comunità di Herrnhut. Ma per l’anima bella, che ancora non conosceva il peccato !, le conversazioni con Philo, impregnate di un erotismo ambiguo, in quanto non vissuto, bensì chiaccherato e per così dire di riporto, la gettano improvvisamente nell’angoscia di avere in fondo al cuore una tendenza al male che potrebbe condurla al delitto. Questa Geistesbeschaffenheit è di conseguenza sentita come Krankheit e Dio è invocato in quanto grosser Arzt !2. C'è dunque una sorta di medicalizzazione del

USHFTARMILT 558. 17 HA, VII, 358, 362, 365, 366, 368, 369, 373, 385. Non siamo tuttavia d’accordo con Mittner quando afferma che la Klettenberg / schòmne Seele «spesso colpita da emottisi, anelava ad assaporare il sangue divino versato per la propria redenzione e vide subito un possibile fidanzato in un bel giovane sconosciuto, per il solo fatto che ebbe a curare la ferita che egli aveva riportata per caso durante un ricevimento mondano ». In Storia della Letteratura Tedesca (1700-1820), p. 57, n. 11. Ci pare invece che questa scena, indipendentemente dal nostro problema, riveli, con la allusione a una verginità sociale, pubblicamente segnata dal sangue di Narciso, una straordinaria finezza psicologica. 118 FIA, VII, 408. 119 Cfr. p. 9. IRE ASVIL39r 124 HA, VII, 390. 122 FIA M303.

Goethe

e il pietismo.

Memoria

e rimozione

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pietismo che sembra derivare da una concezione della religiosità come surrogato dell'amore sensuale: « Sì, chi potrebbe mai descrivere quello che sentii! Uno slancio portò la mia anima verso la croce su cui Gesù un giorno impallidi; uno slancio, non posso definirlo diversamente, completamente uguale a quello per cui la nostra anima viene condotta verso un amante assente...» 1. Né manca l'ironia, rafforzata da una piccola astuzia cronologica, a proposito dell’atto mancato: Philo, ossia Moser, aveva conosciuto Susanna nel 1751, quando ambedue avevano 29 anni. Nel romanzo invece l’anima bella si avvicina al pietismo organizzato quando ne ha 39, e infatti di Philo si dice che è schon in gewissen Jabren!*. Tanto più comica quindi la sua reazione al matrimonio della sorella, quando ambedue sono ormai quarantenni e Philo, con un profondo sospiro, dichiara: « Quando ho visto la sorella dare la sua mano mi sono sentito come se mi avessero bagnato con dell’acqua bollente ». « Perché? chiesi io. ‘ Mi succede semprecosì, sposalizio (Kopulation)” rispose lui » !.

3. Con scano una Katharina monia di

tutte le volte che vedo uno

queste osservazioni non vogliamo dire che i Bekenntnisse costituiliquidazione radicale del pietismo e della sua ispiratrice, Susanna von Klettenberg. Riteniamo piuttosto che si tratti di una cerisepoltura condotta con tutti gli onori. Perché l’ostinata, oscillante

ricerca di un’autonomia interiore, la tolleranza e l’inerme innocenza dell’anima

bella sostengono indubbiamente tutto il libro VI, tanto che la madre di Goethe scrive al figlio ringraziandolo per il literarisches Denkmal'!% eretto in memoria della comune amica. Si tratta dunque di un monumento che ha consentito al pietismo il salto nel gran mondo della rappresentazione goethiana e alla Klettenberg un posto nei manuali di storia letteraria — chi altrimenti ricorderebbe oggi questa donna, di cui non si è conservata nemmeno un'immagine? !” — un monumento costruito tuttavia secondo una logica interna, che ubbidisce all’ottica del Goethe maturo, deformando i tratti dell’amica in funzione di un disegno culturale che le è estraneo. Ancora una volta la reazione dei contemporanei può essere utile per regi-

13 HA, 124 « Già

125 126 127 vesti

VII, 394. in quella

certa

età»,

HA,

VII,

390.

HA, VII, 402. Funtk, p. 5. Secondo Funck non è possibile identificare con sicurezza l’immagine di donna monacali nella quale si è soliti riconoscere la Klettenberg.

in

56

Anna Chiarloni

strare a distanza ravvicinata alcune sfumature che oggi possono sfuggire. Particolarmente interessanti ci sembrano in questo senso i commenti provenienti dall'ambiente ortodosso, istituzionalmente ostile al pietismo. Ed è proprio da questo pulpito che viene il plauso benedicente al libro VI: è infatti l’agguerrito Johann Georg Walch !*, l’esperto in bolle antipietiste che, recensendo i Bekenntnisse per i « Theologische Annalen » !, definisce Goethe come « toccato dal dito di Dio ». Il ché ci fa intuire che la riduzione del pietismo a fenomeno meramente psicologico, e quindi marginale, operata da Goethe, fosse per molti contemporanei del tutto evidente, oltre che benvenuta. D’altra parte, che il VI libro comportasse una semplificazione del problema religioso sembra averlo notato anche Schiller che, in una lettera dell’agosto 1795, esprime cautamente il timore che a Goethe siano sfuggiti pasci che a « un’indole cristiana sarebbero potuti sembrare superficiali » 9%, AI ché Goethe risponde tranquillizzandolo che la religione cristiana sarebbe poi comparsa in tutto il suo significato, attraverso la generazione successiva, nell’ottavo libro. Ecco perché la ricchezza interiore della Klettenberg non può essere reperibile nell'anima bella e sarà semmai in altri personaggi che potremo rintracciare tracce della complessa fucina pietista. Così è per esempio nel medico che riconosciamo quell’intreccio di conoscenze fondate sull’esplorazione della natura, connesse con nozioni derivate dalle pratiche della magia e dell’alchimia, che come si è detto faceva parte del sotrato pietista. E che già il giovane Goethe fosse colpito da questo tipo di personaggio lo si deduce dal fatto che tratti di Metz, il medico curante della Klettenberg, affiorano

nelle prime scene del Faust !°, Tra i contemporanei chi si rende conto con grande lucidità che l’inconsistenza della schòne Seele deriva da un'esigenza ideologica di Goethe è Wilhelm von Humboldt. Nel dicembre del 1759, dopo aver riletto il romanzo,

egli scrive a Schiller: « A quanto pare Goethe ha scelto assai oculatamente un’anima meschina, sciocca e limitata, che solo molto impropriamente può chiamarsi bella, un’anima che ha ben pochi lati grandiosi. Un carattere più forte gli avrebbe preso la mano nel trattare questa religiosità trapiantata nel personaggio, apportandovi troppi elementi personali. Ci voleva un certo grado di passività nel momento in cui si trattava di descrivere — e questo

LMR, o 12 È la madre di Goethe che segnala la recensione sia al figlio che a Bettina Brentano. Die Briefe der Fran Goethe Rath Goethe, hrsg. von A. Késter, Leipzig 1956 p. 51 130 H. G. Gràf, Goethe iiber seine Dichtungen, Erster Teil, II, Darmstadt 1968, p. 778. 131 Funck, 39. Interessante capitolo su questo aspetto in Lappenberg, pp. 262-273.

Goethe e il pietismo. Memoria

e rimozione

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sembra essere stato lo scopo di Goethe — uno stato d’animo individuale e il relativo influsso nel tutto, piuttosto che un singolo personaggio. Certo solo da questo dipende il fatto che la santa scada progressivamente al livello di uno scheletro arido e più o meno ripulsivo » !°. 4. Quale disegno persegue dunque Goethe con la « freddezza » — sono ancora parole di Humboldt — e « la calma grandiosa della maturità? » !*. Siamo nel 1795: dobbiamo guardare all'Europa per capire la Weimar di questi anni. In Francia la carestia è fonte di agitazioni continue. Rebespietre terrorizza Parigi, tra gli altri vengono giustiziati anche Chénier e Lavoisier. Intanto il vecchio equilibrio delle potenze europee vacilla: i contrasti tra Russia, Prussia e Austria di fronte all’insurrezione polacca del ’94 conducono la Prussia a firmare la pace di Basilea, lasciando alla Francia le terre a sinistra del Reno. Weimar vive in una sorta di stasi miracolosa, come una monade

al di sopra degli eventi che insanguinano l’Europa !*. È in questo contesto che Goethe scrive Uber literarischen Sanculottismus, il saggio in cui il timore dei rivolgimenti rivoluzionari informa quell’deale di Humanitit che sottende il classicismo di Weimar. Il desiderio di pace e di sicurezza sociale conducono Goethe a una poetica della mediazione e della sospensione dei conflitti, un processo che con il passar degli anni si farà sempre più astratto e normativo.

È in forza di questa ricerca di conciliazione, di ricomposizione sociale, che la dissidenza individuale — empfindsam o wertheriana, mistica o giacobina — viene espunta dal tracciato artistico di questi anni. Nei Bekenntnisse è il personaggio dell’Obeizz a rivelarci meglio come Goethe si vedesse costretto, per perseguire il suo disegno, a ridurre al minimo la tassonomia pietista. Abbiamo visto quanto leiblich voleva essere la religiosità della Klettenberg, con quanta competenza essa sapesse suggerire diete e infusi e rimedi agli amici malati !5. Nel dialogo con la schone Seele è viceversa l’Oheim a rivendicare la conoscenza del sinzlicher Mensch, assegnando alla interlocutrice un ascetico interesse di ordine morale e una pratica religiosa che rischia facilmente di scadere, insidiata com’è da una « fantasia sfrenata » !', in baloccamenti di cattivo gusto. Ed è il medico a insegnarle il percorso che dall’anima

132 4-12-1795, 138 25-8-1795,

a Schiller. Graf, 790. a

Schiller.

Gràf,

781.

13 Cfr. G. Baioni, Classicismo e Rivoluzione, Napoli 1969, p. 101 e segg. 135 Si veda la lettera del 27-8-1774 a Lavater malato. Funck, 299. 1386 HA, VII, 408.

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Anna Chiarloni

conduce al corpo, alla natura, a Dio !”. Ma l’anima bella resta ancorata a una concezione dell’uomo che lo vede costantemente minacciato da quel Ungeheuer'* che gli si cela nel petto. Essa pertanto non può che avallare la sua subalternità, anche narrativa ! con l’esclusione dal testo. Relegata in un anonimato che tende a dissolverne i contorni, questa figura, che non a caso

non incontrerà mai il protagonista, non può che avere un’ultima, emblematica funzione: quella di accompagnare verso la morte un’altra figura femminile perdente, quella di Aurelia. Nel 1795 la religione del sentimento è ormai inadeguata, forse ingombrante, comunque troppo vicina a quella zona oscura, irrazionale, incontrollabile, a cui per contro si appellerà il romanticismo. Solo la gesunde Vernunft !° dell’Obeizz può consentire il superamento dello spazio chiuso, intimistico e potenzialmente anarchico della Hiitfe, e la fondazione di un saldo Turm ** sociale, atto a rinforzare i vincoli della comunità umana e a salvarla dalla barbarie. Per questo nei Bekenntrisse i contrasti vengono smorzati: le tensioni politiche che il pietismo comporta — si pensi al già descritto contrasto con Fresenius —

vengono riassorbite attraverso una serie di lievi mu-

tamenti e di sottili allusioni !# che si dispongono nel testo convergendo verso un obiettivo preciso, quello della equidistanza. Ne nasce una narrazione che tende a dimostrare

come

la realtà politica, sociale, religiosa, sia composita,

risultante di una serie di spinte eterogenee, sì, ma tutte in definitiva concordi o destinate a essere riassunte nell’epica e armonica cornice della società umana. 5. Questo aspetto, propriamente ideologico, ha una sua valenza formale che è presente nel libro VI e che trova una sua corrispondenza nelle Unterbaltungen deutscher Ausgewanderten, anch'esse del 1795. Se già i Lebrjahre costituiscono rispetto alla Sendung un recupero del re-

ITRRIA VIN 157 18 HA, VII, 420. 139 Ci riferiamo al contrasto tra il tono ingenuo e dimesso dell’anima bella e quello pontificante e benevolo dell’Obezrr. 10 Schiller a Goethe, agosto 1795. Graf, 778. 141 La significativa contrapposizione tra Hiitte e Turm emerge da una battuta dell’Oheim. HA, VII, 406. 14 Citiamo due movimenti significativi: a) riduzione dei contrasti fra Fresenius e

l’ambiente pietista francofortese; comunità di Herrnhut.

b) accentuazione

della distanza

tra l’anima

bella e la

Goethe e il pietismo. Memoria

e rimozione

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ticolo familiare — così che l’azione non si costituisce più come movimento unidirezionale dell'individuo che, stiirmerianamente, procede in opposizione all'ambiente d’origine — nei Beekenntnisse in particolare, Goethe immette l’anima bella in un contesto domestico denso di riferimenti larici. In questo senso le Unzerbaltungen, alle quali Goethe lavora contemporaneamente, possono essere utilizzate come sottotesto per meglio chiarire la portata ideologica di questi elementi formali. Le Unterbaltungen hanno infatti luogo nello spazio domestico di una famiglia di aristocratici tedeschi in fuga di fronte agli orrori della rivoluzione francese. Sono tempi in cui, come

dice il narratore,

è particolarmente

ne-

cessaria la virtù della Unparteilichkeit !*. La famiglia si costituisce quindi come struttura portante che media le tensioni emergenti dall’interno, come microcosmo in cui convivono il vecchio e il nuovo, la conservazione e il progresso, il pianto e il riso, il tutto in equilibrio armonico, stabile, perenne. Equilbrio che è però fondato su di una programmatica esclusione della politica, sull’autecontrollo delle proprie passioni, sulla rinuncia. Nella propria stanza ognuno la pensi come vuole, dice la baronessa, ma in società è necessario sacrificare i propri moti individuali !*. Il Familiengemalde diventa quindi l’archetipo di una società capace ancora di Geselligkeit e la sua rappresentazione si struttura in una forma che per sua natura esprime una mediazione: il dialogo. Analogamente, la « confessione » dell’anima bella si trasforma, nel corso del racconto, in un dialogo con l’Oheizz, ossia in quella sintesi di due mondi opposti che consente l’evoluzione dei libri successivi. Gradualmente essa

passa dal monologo al trasferimento di contenuti nuovi nel suo orizzonte linguistico — si noti l’uso ripetuto del verbo #bersetzen — fino alla dichiarata omologazione dei linguaggi !. All’interno di questa metafora sociale rappresentata dal Gespréch si collocano, in ambedue i testi, i teneri segni e i simboli di una continuità generazionale !4 che, nelle Urzterbaltungen, già prelude a una continuità civile, fondata su di un patrimonio weltliterarisch. È infatti la narrazione di episodi

OUR, Na 28 14 HA, VI, 141. 15 HA, VII, 405. 146 Dolce è il pensiero, per l’anima bella, che gli oggetti di famiglia - la collana o il vecchio fucile - passino ai giovani nipoti (p. 418). Nelle «conversazioni » invece, il vecchio nonno reazionario è definito un archivio insostituibile di atteggiamenti, esperienze

ecc.

(p. 135).

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Anna Chiarloni

desunti dalle varie letterature che, al di là di ogni violenza contingente, ci riconsegna la misura di un’urbaritas minacciata dalla storia. Come il Gespréch riassume le forme della civile convivenza, sia nei suoi modi più intimi che — secondo la miglior tradizione umanistica — terapeutici !”, così l’intessersi di analogie e corrispondenze tra i diversi racconti francesi e tedeschi narrati nelle Unterbaltungen rivela il tentativo goethiano di conservare un patrimonio letterario che esprima prima di tutto l’orrore per il conflitto. Il testo si configura dunque come « un’amnistia » !, uno spazio sospeso sulla storia, in cui possono finalmente regnare « pace, unità e finezza di tratto » !#. La metafora pottante diventa quindi la Samzzlung: i dipinti di famiglia nei Lebrjabre e la raccolta di racconti delle Unterbaltungen costituiscono un archivio prezioso di conoscenze e di tradizioni, di individualità e di differenze, che si pongono e si dispongono secondo una tipologia della mediazone. E, se vogliamo, un omaggio alla principessa Gallitzin, intatta esponente della Geselligkeit settecentesca, che nel divampare delle rivolte rivoluzionarie, aveva affidato al poeta la preziosa collezione di cammei di Hemsterhuis !°, Ecco dunque che negli anni post-rivoluzionari l’opera letteraria diventa una sorta di biblioteca universale, un palinsesto in cui i contrasti si attutiscono nell’avvicendarsi perenne delle generazioni, una riflessione retrospettiva in cui « ogni storia richiama l’altra » !!. E tutte le vicende sono virtualmente parallele in quanto, decantate dal daizzon individuale, non sconvolgono l’ordine oggettivo del cosmo bensì rientrano nella ruota polifonica della comunicazione estetica.

147 Interessante

accenno

14 HA, VI, 138.

149 Ibidem. 150 Cfr. Baioni, 104. 151 HA, VI, 629.

nel libro VI, HA, VII, 366.

Anna

Giubertoni

Le radici massoniche del Bildungsroman.

1) Dal pietismo alla massoneria. Jean Paul:

« La loggia invisibile ».

Bildung: una parola chiave, uno dei poli magnetici intorno ai quali si raggruma l’insieme eterogeneo di tensioni, utopie e speranze che contraddistinguono il XVIII secolo. L’ideale della Bildung, lo sviluppo organico del soggetto, ha una forza semantica paragonabile a quella di un altro termine, anch’esso pressocché intraducibile, la parola Stimzzzung, entrata nel lessico tedesco nella medesima epoca e oggetto di un celeberrimo saggio di Spitzer !. Espressione dell’armonia universale, consonanza dell’anima col paesaggio, accordo del più fugace stato d’animo con tutta quanta la gamma dei sentimenti, la Stizzzzung reca in sé una valenza musicale. Dal canto suo la parola Bildung ha invece implicito un valore plastico, tattile addirittura. Una accezione di cui era ben consapevole Goethe quando tra il 1798 e il 1800 teorizzava, sulla sua rivista « Die Propylien », una formazione culturale conseguita attraverso la « bildende Kunst » ?, il canone scultoreo dell’arte figurativa. Se la Stimmung rappresenta lo specchio dell’orizzonte cosmico barocco, del cui ordine l’assolutismo politico si poneva come lo speculare riflesso, la Bildung prende invece le parti dell’individuo che nel dispotismo trova non già l’armonia del cielo stellato, quanto piuttosto una soffocante prevaricazione. È nella Bildung che, in ultima analisi, la nuova classe borghese esprime le pro-

prie istanze. Un ideale che si afferma nella Germania del Settecento, polverizzata in una miriade di staterelli dominati dalla sovranità assoluta del principe che non lasciava al suddito altro spazio di libertà se non quello interiore della coscienza. A patto di rinunciare alla politica e di accettare l’ortodossia religiosa, la borghesia tedesca è padrona di coltivare in tutta tranquillità i

1 I. Spitzer, L'armonia del mondo. Storia semantica di un'idea, tr. it. di V. Poggi, Il Mulino, Bologna 1967. 2 L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1964, vol. I, p. 551.

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Anna

Giubertoni

propri ideali. Il suo motto sarà infatti « die Gedanken sind frei », con l’implicita condizione di tenerseli per sé quei pensieri e di guardarsi bene dall’esprimerli pubblicamente. Ma proprio questa condizione, che a tutta prima sembra

sancire una netta

inferiorità, finisce col ribaltarsi

in un

elemento

di forza culturale e morale: « l’intellighenzia borghese nasce nella spazio privato in cui lo Stato relegava i suoi sudditi » $. In Germania questo spazio interno i borghesi se lo ritagliano, insieme agli aristocratici estromessi dal potere, nella semiclandestinità dei Collegia pietatis, collegati ad un movimento di edificazione religiosa fondato nel 1670 da Jakob Spener per rivendicare, in contrapposizione all’ormai sclerotizzata ortodossia luterana, l'aspirazione alla calda intimità della fede o, per dirla in termini laici, il « diritto alla peisona » £. Per dare un nome all’esigenza di sviluppare i germi intellettuali e sentimentali posti da Dio nell’individuo singolo, viene introdotta nel lessico pietista una nuova parola: Bildung è il termine che le conventicole boeme coniano per indicare il riscatto individuale che si può cogliere solo negli ar cana della sfera meta-politica, contrapposti agli arcana imperii dello Stato

assoluto °. Tenendosi nell'ombra, dichiarando di essere null’altro che una « ecclesiola in ecclesia », il pietismo si diffonde capillarmente in tutta la Germania e con esso il Bildungsideal diventa un riferimento essenziale per la cultura borghese. Per soddisfare le nuove istanze sorgono, a partite dal 1702, efficientissimi istituti di educazione e nel 1722 il conte Zinzendorf fonda le colonie affidate alla « protezione del Signore » (Herrrbut) che raggiungono una notevole prosperità e si diffondono fuori dalla Germania, fino in Russia e in America. Ispirandosi ad esse Johann Gottfried Schnabel scriverà nel 1731 una celebre Robinsonade, il romanzo Die Insel Felsenburg, la cui tematica è imperniata su quel dissidio tra pietismo e ortodossia che in Germania contrassegna lo stadio embrionale della sensibilità borghese 9. Un dissidio in cui viene coinvolto anche il grande ortodosso, Johann Sebastian Bach”.

3 R. Koselleck, Critica illuminista © crisi della società borghese, tr. it. di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna 1972, p. 69. 4 K. Storck, Storia della letteratura tedesca, tr. it. di G. Lesca, Loescher, Torino 1908, p. 1833. 5 M. Freschi, L’Utopia nel Settecento tedesco, AION, Napoli 1979, p. 85. 6 C. Magris, Le Robinsonaden fra la narrativa barocca e il romanzo borghese, in AA VV., Arte e Storia, Giappichelli, Torino 1965, p. 283. ? A. Basso, Frau Musika, La vita e le opere di ]. S. Bach (1723-1750) vol. 2, EDT Torino 1968, Parte VI, L'ambiente di Lipsia, pp. 4-66.

Le radici

massoniche

del

Bildungsroman

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È a questo punto, che l’ideale pietistico della Bildurg entra in contatto con un evento che ne provoca ad un tempo il potenziamento e la laicizzazione: la diffusione in terra tedesca della massoneria, la società segreta che costituiva una diretta emanazione della classe borghese e che aveva giocato un ruolo fondamentale nella costituzione del nuovo Stato liberale in Inghilterra. Nel 1737 viene fondata ad Amburgo — la città tedesca più direttamente collegata alla cultura inglese — una prima loggia, destinata a proliferare in breve tempo in tutta la Germania. Ben lungi dall’assumere atteggiamenti antireligiosi, la massoneria tedesca si inserisce nel solco della tradizione mistica ed è pronta a far confluire in sé l’aura di intensa partecipazione delle cellule pietiste con gli ideali illuministici della tolleranza e dell'Humanitàt*. Il punto di più intimo contatto e la diretta eredità che i massoni rilevano dai pietisti è proprio il Bildungsideal, che si carica ora di una valenza pedagogica non più intimisticamente rivolta al chiuso mondo delle conventicole ma esteso all’ideale universalistico dell’umanità. Rinunciando all’attività politica diretta, proclamando anzi la propria impoliticità, la massoneria punta le sue carte sull’azione formativa da esercitare sul genere umano. Un’azione che nel 1773 il massone Herder teorizzerà in un celebre saggio °. Ne nasce un ideale di Bildung che non è luogo di conciliazione o di risoluzione immanente delle antitesi, ma è lo spazio di un’energia capace di destare il concreto già esistente !°. È ben l’innesto della Bi/dung pietista nell'ambiente massonico a dar lo spunto a Jean Paul per il suo primo romanzo, Die unsichtbare Loge"!, scritto nel 1793 ed oggi pressocché dimenticato: soltanto l’appendice, Leben des vergniigten Schulmeisterlein Maria Wuz in Auentbal, estrapolata dal contesto, gode di una fama autonoma e ben consolidata. Il romanzo di Jean Paul racconta la storia di un rampollo dell’aristocrazia, Gustav, la cui educazione e la cui formazione si compie grazie agli sforzi congiunti di un precettore pietista e dei membri della « Loggia invisibile », la società segreta di stampo massonico da cui prende nome il romanzo. In una trama quanto mai ingarbugliata da continui colpi di scena, inquietanti rassomiglianze, ritratti persi e ritrovati, amori interrotti sulla soglia di incon-

Ì 8 M. Freschi, Op. cit., ed. cit., p. 90. 9 J. G. Herder, Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità, tr. it. } i di F. Venturi, Einaudi, Torino 1981. 10 G. Carchia, La tradizione come critica. Figure dell'estetica illuministica, in «Ri vista di Estetica », Rosenberg & Sellier, n. 11, Torino 1982, p. 15-39. ll J. P. Richter, Die unsichtbare Loge, Reimer, Berlin 1826, Bd. III.

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Giubertoni

sapevoli incesti, il protagonista persegue la sua problematica formazione al l'insegna del segreto e del mistero. Non appena svezzato Gustav viene affidato a un precettore, Genius, un eminente pietista (« der beste Herrnhuter », vol. I, p. 28) disposto a starsene chiuso per ben otto anni col suo pupillo in una caverna, con l’unica compagnia di un piccolo cane. Ciò al fine di conservare il fanciullo sensibile alle bellezze della natura e per preservarlo dalle deformazioni che affliggono gli uomini. È una soluzione educativa che se convince pienamente la madre lascia però perplesso il padre, uomo vigoroso e portato all’azione, del tutto insofferente di quello che per sua bocca Jean Paul definisce il « dizzinuendo pietista » (« das herrnhutische diminuendo », vol. I, p. 30). Tutte e due i genitori si trovano però d’accordo nell’affidare il fanciullo al Genius perché costui sembra immune dai Kramzpfen des Herrnhbutismus (vol. I, p. 30), dalle convulsioni, dall’accesso di zelo dei pietisti da cui sembra aver preso soltanto la dolcezza e la semplicità. L’intento pedagogico del Genius è la Bildung des Herzens (vol. I, p. 32), « la formazione del cuore » in vista della quale si rende consigliabile isolare Gustav in una specie di serra morale (mzoralisches Treibbaus, vol. I, p. 33), la caverna scavata nel giardino paterno. Qui il precettore veglia su Gustav come uno Schutzengel (vol. I, p. 31), un angelo custode che si preoccupa soprattutto di soffondere su ogni cosa un’aura di segreto. Nella caverna grazie a un gioco di lampade la notte è scambiata col giorno, la morte con la vita, la terra col cielo, il sotto col sopra. La morte viene vagheggiata come un premio avente per posta le gioie del Paradiso, gioie che però altro non sono che quelle terrene. L’amorevole inganno del precettore farà sì che Gustav attenda con impazienza la morte, persuaso di gustare in essa delizie che sono invece della vita. In una calda notte d’estate, preannunciato da un inebbriante profumo di gigli, il presagio di morte sapientemente orchestrato dal Genius sembra avverarsi e Gustav credendo di morire davvero si affaccia trepidante alla soglia della caverna. Convinto di essere in Paradiso egli contempla incantato e commosso il giardino che sullo sfondo del cielo stellato gli appare come un'isola inghiottita dal mare. Di fronte all’intensità

di questa emozione il precettore considera esaurita la sua funzione. Egli è dunque riuscito ad estrarre la personalità del pupillo dalla Demzanssgrube (vol. I, p. 40), dalla caverna

silenziosa in cui si forma, in una trasparenza

pura e cristallina, il diamante del cuore. La missione del Genius è compiuta ed egli, con un gesto pieno di mistero, lacera in due un foglio di musica per poi scomparire dagli occhi del fanciullo. Non senza avergli prima consegnato la metà della pagina in cui sono scritte le dissonanze della melodia e le domande del testo, serbando per sé l’altra metà con le consonanze e le

Le radici

massoniche

del Bildungsroman

65

risposte. Il segreto celato in quelle risposte e in quelle consonanze

sarà

svelato a Gustav se e quando, ben più avanti nella vita, essi si incontreranno

di nuovo

nel brulicante deserto del mondo.

Il fanciullo ha ora dieci anni e si apre per lui una sorta di tregua pedagogica. È il narratore adesso che, con un artificio letterario, dichiara di volersi prendere egli stesso cura di lui per poter meglio farsene biografo, seguendo una traccia educativa che svilupperà poi nel Levana ’, il trattato di pedagogia che Jean Paul scriverà di lì a qualche anno. Imperativo assoluto sarà la gaiezza. Ci si dovrà istruire giocando. Avranno via libera le storielle divertenti mentre saranno tenuti alla larga i libri edificanti. Saranno inoltre rigorosamente vietati i classici greci e latini. Qualcosa di non molto diverso dalla Abbazia di Télème del Rabelais o da quello che sarà poi il Paese dei Balocchi del nostro Collodi. L’adolescenza di Gustav se ne volerà via allegramente tra idilli campestri e palpitanti emozioni al contatto con la natura. Ma le cose si complicano nel secondo decennio di vita. Finora per Gustav la Bildung des Herzens è stata una ascesa ininterrotta dal fondo del mondo sotterraneo verso l’edificio maestoso dell’universo (vol. II, p. 114). Adesso in-

vece il percorso si fa tortuoso. Gustav si iscrive ad una scuola per cadetti e frequenta un castello principesco dove cade facile preda della gente di mondo. Il punto è che per il pupillo del Genius «il mondo esteriore non è che il satellite, il pianeta accessorio di quello interiore » (vol. II, p. 110). Il che equivale a dire che Gustav è il protagonista-tipo del Bil/dungsroman: egli ha infatti quanto mai bisogno di quel processo di integrazione tra l’Io e il mondo, in cui consiste essenzialmente la Bildung. Il soggiorno re'la caverna ha sì conservato Gustav puro di cuore e pronto ad entusiasmarsi per le bellezze della natura, con lo scotto però che egli « non vede il mondo esteriore se non quando lo interiorizza nel ricordo » (i0.). In breve, egli è un giovane che « osserva soltanto ciò che pensa e non ciò che percepisce » (/b.). Ed ecco che a questo punto si delinea un nuovo intervento non più direttamente pedagogico ma occultamente formativo. Entrano in scena, per apparire e subito dopo sparire, due strani individui tonsurati, di cui uno ha sei dita in una mano. Salta fuori un nuovo personaggio, Ottomar, che intrattiene inusitati rapporti con la morte, pronto a farsi seppellire vivo per incontrarsi più da presso con essa, convinto com'è che niente esiste fuori di lei. Codeste persone si incaricheranno di vegliare sulla Bildung di Gustav. Se prima il Genius era per lui uno Schutzengel, ora essi saranno per il giovane i suoi

12 J. P. Richter, Levana, tr. it. a cura

di S. Darchini, UTET, Torino

1944, p. 364,

66

Anna Giubertoni

Engel des Freundschaft (vol. III, p. 114), gli angeli dell’amicizia. Lo si saprà da ultimo: questi strani angeli, cui Jean Paul dedica un entusiastico elogio, sono i membri di una « unterirdisce Verbindung » (vol. III, p. 120), una società sotterranea e segreta la cui funzione formativa è totalmente filtrata attraverso la morte, il cui mistero pervade ogni incontro e ogni evento sullo sfondo funereo della piramide massonica che si staglia bianca nel cielo notturno. La vicenda, sempre più ingarbugliata, si interrompe con l’arresto di Gustav nel corso di una riunione segreta. Come e se la sua Bildung sarà portata a compimento non è dato sapere. Il romanzo finisce, o meglio non finisce, lasciando Gustav alle soglie di un’età virile che si preannuncia quanto mai oscura e la cui problematica maturazione è affidata alla sorveglianza alata dei suoi occulti pedagoghi.

2) Dalle logge al Singspiel. Mozart « Il flauto magico ».

Emancipata dal contesto pietista e divenuta parte integrante dell’ideologia massonica, la Bildung ha le carte in regola per attecchire anche in quei paesi di lingua tedesca e di religione cattolica che non hanno nulla da spartire col pietismo ma in compenso dispongono di una ben ramificata rete di canali massonici. È attraverso questi canali che il Bildurgsideal penetra in Austria, una nazione cattolica in cui la massoneria è tanto radicata da schivare persino le scomuniche papali. Ma la recezione dell’ideale di Bildung avviene proprio nel momento in cui la Libera Muratoria austriaca sta attraversando una grave crisi: imputate di connivenza con i fatti di Francia le logge perdono il favore della corte e devono far fronte all’aperta avversione di Leopoldo I, il nuovo imperatore succeduto nel 1790 al filomassone Giuseppe II. In simili circostanze il Bildungsideal si rivela tanto più prezioso perché sembra testimoniare la radicale divergenza tra l'ideologia massonica e la prassi rivoluzionaria: la formazione dell'umanità non si realizza attraverso salti improvvisi e brusche cesure bensì con un’azione pedagogica costante e progressiva. È dunque quanto mai urgente ed opportuno portare fuori dal chiuso mondo delle logge l’ideale della Bildung e diffonderne il messaggio. A patto beninteso di non venir meno

al segreto massonico che proprio in questo particolare momento

è chiamato ad assolvere una delle sue funzioni, quella di proteggere i confratelli dall’ingerenza ostile dello Stato. Un’antinomia, questa tra segreto e divulgazione, che viene risolta affidando il messaggio della Bi/dung al teatro. Ad un tipo di teatro, però, del tutto speciale.

Le radici

massoniche

del Bildungsroman

67

Circa un secolo prima in Austria era attecchito un particolare genere di teatro teso a promuovere l’edificazione del pubblico mediante situazioni meravigliose e fiabesche, tali da occultare sotto un intrico di simboli la propria essenza misterica. Intendiamo qui riferirci agli Zauberstiicke creati dai Gesuiti sul finire del Seicento, spettacoli corredati da macchinari in grado di produrre effetti strabilianti, tempeste, apparizioni di divinità e di fantasmi e quant’altro poteva far presa sugli spettatori al fine di accaparrarsi il maggior numero di anime !*. Con la soppressione della Compagnia di Gesù (1773), lo Zauberstiick era confluito, svuotato dei suoi ideali, nel Singspiel, quel genere di spettacolo tipicamente tedesco, allegro e da ridere, popolare quant’altri mai. Ed è nel Sirgspiel che si offre alla Libera Muratoria un’ottima occasione per propagandare i suoi ideali formativi, come già a suo tempo avevano fatto i Gesuiti, rovesciandone però il segno, in modo da sostituire all’universalismo religioso e trascendente della pedagogia gesuitica quello laico e terreno della Bildung massonica. A differenza però dello Zauberstick, il Singspiel non è solo recitato: esso è invece un misto di parole e musica, qualcosa di paragonabile, sia pur da lontano, alla nostra operetta. È in questo territorio artistico che l’ideale massonico della formazione si manifesterà in Austria — in un primo e altissimo momento — quasi a rivendicare alla Bi/dung una connotazione musicale che fino a quel momento pareva esserle estranea. Ci voleva però un musicista che avesse dimestichezza col Singspiel e che fosse nel contempo infervorato dagli ideali massonici. Un tipo così, in grado di soddisfare queste esigenze c’era: si trattava del confratello Wolfgang Amadeus Mozart. Affiliato alla loggia « Zur Wohltatigkeit » nel dicembre 1748 ed elevato al grado di Geselle nel gennaio dell’anno successivo presso la « Zur gekrònten Hoffnung », la celebre loggia viennese di cui faceva parte anche Haydn, Mozatt aveva compiuto per intero il suo tirocinio massonico. Quanto al Singspiel egli vi aveva avuto a che fare fin da quando, dodicenne, aveva composto il Bastien und Bastienne (1768). Nel 1782 poi con la Entfubrung aus dem Serail, Mozart aveva elevato questo genere di spettacolo ad altissimo livello artistico e ai fasti del teatro di corte. Fasti dai quali però il Singspiel era in breve tempo scaduto, proprio in concomitanza con l’ascesa al trono di Leopoldo I, avverso non solo alla massoneria ma anche del tutto indifferente alle sorti della musica e di quella tedesca in particolare. Una delle iniziative del nuovo

13 R. Fiilop-Miller, Segreto e potenza dei Gesuiti, tr. it. di C. De Poli Clerici, Dall'Oglio, 1963, pp. 474-485.

68

Anna

Giubertoni

imperatore sarà infatti quella di estromettere da corte i musicisti che prima vi avevano accesso. Privato del sussidio imperiale Mozart è dunque ridotto ad una estrema povertà, tanto che si può notare con amara ironia come egli « fosse ormai maturo pet accettare di musicare non già un’opera vera e propria per il teatro di corte, bensì un Sirgspiel fantastico e puerile per 1’Auf der Wieden, il teatro di periferia nel grande caseggiato della Freibaus, dove Schikaneder teneva i suoi spettacoli » !#. Ed è proprio lì infatti, in quel teatrino da quattro soldi, che nell’autunno del 1791 viene messa in scena la Zauberflote 5. Quel Flauto magico che, grazie all’iniezione degli ideali massonici, rompe il disimpegno che aveva fino ad allora contraddistinto il genere del Singspiel, per farne una cosa tutta diversa, il capolavoro che inaugura la grande stagione dell’opera tedesca. Interamente concepito nel mondo delle logge è anche il libretto che i confratelli Schikaneder e Giesecke traggono dalla fiaba Lulu oder die Zauberflote, pubblicata a cura del Wieland, Gran Maestro alla loggia di Weimar, cui essi mescolano altri spunti desunti dal Sethos, un romanzo iniziatico scritto nel 1731 dal francese Terrasson e divulgato in Germania nella traduzione del massone Matthias Claudius. Potenziata dalla musica di Mozart la fiabesca vicenda « rispecchia con inconsapevole trasparenza momenti del processo di formazione della nascente identità borghese » !. Ma fu vera Bildung? Non mancano autorevoli conferme che indicano questo Sirgspiel non solo come l’antesignano dell’opera tedesca ma anche come il prototipo del Bildungsroman: « il romanzo di educazione o di formazione è la versione narrativa di quel che il Flauto magico propone nei modi di un lirismo fiabesco e solenne » !". Ciò che a noi però preme rilevare è la qualità massonica della Bidung che dal territorio del Singspiel conduce a quello del Bildungsroman. Innanzitutto notiamo che il protagonista, principe Tamino, ha i requisiti essenziali per essere un soggetto/oggetto di formazione: egli è un giovane di vent’anni che tende a confondere le cose con le loro ombre e non sa porre tra esse il giusto rapporto. Il mondo esteriore si sfuma in lui con quello interiore

14 M. Mila, Il Flauto Magico di Mozart, Giappichelli, Torino 1974, !5 Mozart-Schikaneder, I/ flauto magico, testo a fronte, tr. it. di zoli, Milano 1975. 16 R. Musto e N. Napolitano, Una favola per la ragione, Miti e magico di Mozart, Feltrinelli, Milano 1982, p. 13. 17 J. Starobinski, 1789. I sogni e gli incubi della Ragione, tr. it. Garzanti, Milano 1981, p. 122.

p. 9. G. P. Bona,

storia

Riz-

nel. Flauto

di S. Giacomoni,

ua

Le radici

massoniche

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69

ed egli non ci si raccappezza. È in questo senso emblematica la domanda che Tamino si pone dopo che la Regina della Notte si è allontanata: « Reale e vero è ciò che vidi? O sono abbagliato dai miei sensi? » (Atto I, scena VII).

E qui il termine Wirklichkeit rivela tutta la sua ambiguità: la realtà non è un oggetto afferrabile ma si forma con un moto di azione. Noterà Hofmannsthal in un suo aforisma: «Che noi tedeschi designamo il mondo che ci circonda con un termine che indica attività — Wirklichkeit — mentre i latini lo designano con uno che significa oggettività, dimostra la fondamentale diversità dello spirito, e che quelli e noi stiamo di casa nel mondo in tutt'altra maniera » !. Il termine che in tedesco designa la realtà deriva infatti dal verbo wirken, agire, mentre in altre lingue europee esso risale al latino res, oggetto. E questa non è una considerazione irrilevante se si tien conto che il Bildungsroman tende a porsi come un genere tipicamente tedesco, quasi che il problema di adattamento alla realtà che la Bi#ldung compotta sia mo-

nopolio di chi a quella realtà si avvicina con l’azione della forza plasmante. Tamino dunque ha con la realtà un rapporto ambiguo e complesso e ciò trapela anche dal coup de portrait con cui egli si innamora di Pamina, non in un incontro tra persone in carne e ossa ma contemplandone l’immagine in un ritratto. Il problema di Tamino non è dunque tanto diverso - non dimentichiamo però che è il Singspiel a precedere di due anni il romanzo - da quello che già abbiamo visto caratterizzare il protagonista dell’Unsichtbare Loge di Jean Paul. Anche per Tamino si tratta di trovare l’equilibrio tra mondo interiore e mondo esteriore. E anche lui non riesce o non può cavarsela da solo. Non a caso Tamino entrerà in scena al levar del sipario invocando: «Zu Hilfe! Zu Hilfe!» (Atto I, scena I). Un aiuto che sul momento gli verrà dato dalle tre Dame della Regina della Notte ma che in ben altro modo gli verrà porto dai Sacerdoti del massonico Tempio di Sarastro, personaggio in cui come si sa è raffigurato Ignazio von Born, insigne geologo e Gran Maestro della loggia cui Mozart era affiliato. Ed è qui che si chiarisce la qualità massonica della Bildung di Tamino. Solo con la guida dei Sacerdoti egli potrà rimuovere il velo che lo separa dal mondo: « Allora il velo quando svanirà? » (Atto I, scena XV). Sarà il Custode del Tempio a rispondergli: « Quando la mano dell’amicizia ti guiderà nel sacrario del legame eterno » (ib.). La mano dei Sacerdoti guiderà Tamino in un percorso iniziatico che avrà come fine non tanto il superamento quanto il potenziamento dell’anti-

18 H. von Hofmannsthal, 1980, p. 91.

lano

Buch

der Freunde,

tr. it. di G. Bemporad,

Adelphi,

Mi-

70

Anna

Giubertoni

tesi luce-ombra, Sole-Notte, perché è proprio dalla polarità che scaturiscono le forze di cui la Bildung ha bisogno per poter esplicare la sua funzione plasmante. E le energie sprigionate dalla polare tensione tra gli opposti si concentrano fino a rapprendersi in un punto: il topos non della parola ma del silenzio. Invano Tamino sulla soglia del Tempio chiederà al Sacerdote: « Non ingannarmi, svelami l’enigma » (Atto I, scena XV). Non gli si potrà

che rispondere: « Dovere e giuramento mi legano la lingua » (i0.). L’imperativo assoluto della sua formazione sarà Schweigen! (Atto II, scena XIII). Un imperativo, questo del silenzio, che ripropone il precetto della ontologia massonica già formulato da Lessing: « L'uomo saggio non può dire ciò che è meglio passare sotto silenzio » !°. Sarà la forza concentrata nel silenzio a dar modo a Tamino di affrontare gli arcana della morte, attraverso gli elementi: « Chi cammina su questa terra piena di dolori, fuoco, acqua e terra lo purificano; se vincerà il terrore della morte

si librerà dalla terra al cielo » (Atto II, scena

XXVIII).

Ed

era, questo della morte, il significato iniziatico che a Mozart più stava a cuore. Egli renderà grazia a Dio, in una lettera al padre, per aver potuto, grazie all’iniziazione massonica, entrare in dimestichezza con essa fino a vincerne l’ortore e a considerarla una amica ?° Vincere la paura della morte è infatti il significato ermetico della prova degli elementi ed è anche uno dei criteri fondamentali della B:/d4ung massonica. I futuri eletti devono morire alla loro vita precedente per poter rinascere poi alla nuova: « ogni ciclo di prove presuppone una completa trasformazione della persona » ‘2. Anche per Pamina è prevista una Bildung, anch’essa deve affrontare le prove: «in tutte le sue opere Mozart è straordinario per la verità delle pitture e dei caratteri (...) ma in nessuna prima di questa egli aveva mostrato la mathrazione graduale di una personalità come lo vediamo fare per Tamino e Pamina » 2. Infatti all’inizio della vicenda Pamina non è che una ingenua e credula adolescente che confida, senza dubbi di sorta, nella perfida madre. Sotto l’influsso dei Sacerdoti, essa sarà indotta a cercare non tanto la Wirklichkeit, come Tamino, quanto la Wuabrbeit, la verità: «La verità! La verità! Fosse

anche

un

crimine»

19 G. E. Lessing, Ernst und Bd. III, Cotta, Stuttgart 1886, Religione, Storia e Società, La 2 W. A. Mozart, Briefe und

(Atto

I, scena

XVII).

Superate

le prove

Falk. Gespriche fiir Freimiurer, in Gesammelte Werke, p. 801, Tr. it. a cura di N. Merker, in G. E. Lessing, Libra, Messina 1963, p. 222. Aufzeichnungen, Barenreiter, Kassel, 1963, pp. 40-42.

21 J. Chailley, La Fldte enchantée. Opéra magonnique, Laffont, Paris 1969, p. 135. 2 E. Dent, Il Teatro di Mozart, tr. it. di L. Ferrari, Rusconi, Milano 1979, p. 366.

Le

radici massoniche

del Bildungsroman

71

la verità è finalmente appresa, la realtà svelata e la Bildung compiuta. Nell’autoconsapevolezza così perigliosamente raggiunta i due giovani saranno am-

messi nel Tempio e si uniranno nell’apoteosi finale. Terminato pochi mesi prima di morire il Sigspie/ mozartiano segna il conseguimento non soltanto della Bildurg dei personaggi ma anche del suo stesso compositore: « Il Flauto magico si era risolto per Mozart in un’operazione di chiarimento interiore, il cui reale contenuto poteva essere comunicato solo per il tramite dell’allegoria, di un simbolismo apparentemente favolistico e universale, ma in concreto concepito come un messaggio di cui solo gli iniziati potevano impadronirsi » 3.

3) Dal Singspiel al Bildungsroman. Goethe:

formazione e segreto.

Tra gli iniziati in grado di cogliere quel messaggio in tutta la portata dei suoi significati esoterici, viene a trovarsi il 16 gennaio del 1794 Wolfgang Goethe. Quella sera a Weimar va in scena la Zauberflote e tale è l’entusiasmo del Consigliere Aulico che lo spettacolo tornerà in scena per ben ottantanove volte nell’arco di tempo in cui, fino al 1817, egli gestirà il Teatro di Corte. Nel momento in cui entra in contatto col Singspiel mozartiano Goethe ha già percorso per intero l’itinerario iniziatico alla loggia « Amalia » di Weimar, quella stessa del Wieland, ed ha anche dato una sia pur temporanea adesione all'Ordine degli Illuminati, la società segreta che spingeva all’estremo gli ideali egualitari e i rituali esoterici della Libera Muratoria. Nella Zauberflote dunque Goethe vede riflesse esperienze iniziatiche vissute in prima persona. Ma non si tratta soltanto di questo. C’è un altro più immediato e profondo motivo di affinità. Il fatto è che Goethe, proprio in quel periodo sta lavorando ai Lebrjabre (1791-1796), il romanzo della formazione

di un giovane, Wilhelm,

la cui vocazione

teatrale già era stata

oggetto della Theatralische Sendung, il cosidetto Urmeister, scritto tra il 1777 e il 1784, andato perduto fino al 1910. Il legame che corre da Mozart a Goethe è ormai patrimonio assodato sia dall’esegesi musicale che da quella letteraria. E d’altronde esso si coglie esplicitamente nel Die Zauberflòte Zweiter Teil, il libretto nel quale Goethe abbozza una continuazione al Sirgspiel mozartiano, scritto tra il 1790 e il 1798 e pubblicato poi allo stato di Fragmzent nel 1802. 23 A. Basso, La musica rino 1980, p. 207.

massonica,

in Quaderni

dell’Assessorato

per la cultura,

To-

72.

Anna

Giubertoni

Il filo che lega Goethe a Mozart è proprio la Bildung massonica: il Bildungsideal che Goethe focalizza su un singolo individuo e persegue nel romanzo dei Lebrjahbre e in quello successivo dei Wanderjabre (1807-1829) e che nel libretto di proseguimento alla Zauberflòte estenderà fino a conferirgli la dimensione della Bildung des Mensch”, la formazione che dal singolo si estende all’umanità. Come già quella di Mozart anche la Bildung di Goethe si fonda sul fascino dell’arcano, sul mistero considerato come il più alto strumento formativo. La radice massonica della Bildung sia del Tamino di Mozart che del Wilhelm di Goethe affonda nell’aura fascinosa e segreta con cui la Libera Muratoria avvolgeva i suoi rituali. Ed era, questa del segreto, un’aura che rispondeva a precise esigenze tattiche: « fin dall’inizio e con piena consapevolezza i massoni hanno circondato col segreto lo spazio interno spirituale extrastatale che condividevano con altre associazioni borghesi e lo hanno elevato a mistero » ©. Il potenziamento del segreto, la sua elevazione a mistero segna tra l’altro — l’abbiamo visto nel romanzo di Jean Paul — il trapasso dalla Bildung pietista a quella massonica. Non soltanto c’era nel segreto, la garanzia dall’ingerenza dello Stato e dell’unione tra i fratelli. Il segreto rispondeva anche a ben precise istanze morali: l’impegno volontario alla segretezza implicava un costante « autocontrollo della coscienza » (op. cit., p. 97). L’autocoscienza raggiunta attraverso il mistero: questo il senso della Bildung massonica. E tal quale la ritroviamo sia in Mozart che in Goethe. Vero è che Mozart si avvicina ai rituali misterici non pet intima vocazione, ma vincendo anzi una certa riluttanza, facendo forza a se stesso. Tut-

tavia la motivazione più profonda della sua adesione alla massoneria sta non tanto — o non soltanto — nel culto solare per l’amore e l’amicizia, quanto in, quello notturno in cui cercava la dimestichezza con la morte proprio per poterne vincere l’ortore. Non così Goethe, il quale aveva una connatutata propensione al mistero, una tendenza che costituiva un dato caratteriale da lui stesso ammesso senza falsi pudori: « provo piacere a nascondere i miei atti, i miei scritti. Per la stessa ragione viaggio volentieri in incognito » 2°. Se Mozart cerca nella massoneria una dimensione metafisica della morte in accordo con la sua fede religiosa cattolica, Goethe in % H. G. Gadamer, Die Bildung zum Menschen. Der Zauberflòte andere Teil, in: Vom geistigen Lauf des Menschen, Studien zu unvollendeten Dichtungen Goethes; Godesberg 1949, pp. 28-55. 5 Koselleck;j Op: cif., p. 85. 26 Goethe-Schiller, Carteggio, tr. it. di A. Santangelo, Einaudi, Torino 1946, p. 108.

Le radici massoniche

del Bildungsroman

73

vece persegue in essa l’ultima sopravvivenza della pietas pagana conciliata con l’antica tradizione misterica”. Il yzemento mori diventerà per Goethe il Gedenke zu leben, il memento vivere scolpito come epitaffio sul sarcofago di un alto esponente massonico dei Lebrjabre. Il tono differente dell’approccio al rituale iniziatico si rispecchia — pur nella consonanza — nella diversa valenza che il mistero assume nella Bildung di Wilhelm rispetto a quella di Tamino. Nel Singspiel l'iniziazione è affrontata per una ben precisa scelta di Tamino. È in piena consapevolezza che egli si affida alla guida dei Sacerdoti, accetta il vincolo del silenzio e supera le prove degli elementi. Non così il Wilhelm di Goethe. Egli è sì un giovane portato, come Tamino, a inseguire i fantasmi del proprio mondo. interiore e a confonderli con la realtà. Ma Wilhelm non sospetta neppure che sulla sua Bi/dung aleggi la mano massonica dell’Abate, di Jarno e di quanti altri membri della Società della Torre vorranno prendersi cura di lui. Egli è tenuto accuratamente all’oscuro dei retroscena che sottendono la sua formazione. La consapevolezza di ciò egli la raggiungerà solo quando i suoi pedagoghi lo riterranno opportuno. Scoperte finalmente le carte, Wilhelm si sentirà preso in giro, gli parrà di essere lo zimbello di oscure potenze e sbotterà irritato e pungente: « ci danno rotoli contenenti sentenze magnifiche, misteriose, di cui in verità comprendiamo pochissimo, ci rivelano che finora siamo stati solo degli scolaretti, ci dichiarano ormai liberi e alla fine . .. alla fine ne sappiamo quanto

prima » 33. Il fatto è che nella Bi/durg goethiana il mistero non si concentra in un punto né si squaderna in un rituale da affrontarsi per libera scelta, ma aleggia su ogni gesto e su ogni esperienza di Wilhelm a sua totale insaputa. Tanto più è fitto il mistero, tanto più è potente la sua spinta alla Bildung. L’imperativo al silenzio, lo Schweigen! cui rispondeva la formazione di Tamino, rimane per Wilhelm inespresso. Non ci sono parole per comandare il silenzio e il mistero: «le parole sono buone, ma non sono il meglio. Il meglio non si manifesta con le parole. Lo spirito con cui agiamo è la cosa più alta. L’azione è compresa e rappresentata solo dallo spirito » (op. cit., pp. 786-787). Una sentenza, questa della pedagogia massonica goethiana, che riecheggia il precetto formulato da Lessing pet i Fratelli Muratori: « Le

2? L. Magnani,

rino

Goethe

e Mozart,

in:

Goethe,

2 W. Goethe, Wilbelm VOLMELLIMap 825)

Meisters

Beethoven

e il demonico,

Lebrjabre,

tr. it. di B. Arzeni,

Einaudi,

To-

à

dii

1976, pp. 93-116.

in W.

G., Opere,

74

Anna Giubertoni

loro vere azioni sono il loro segreto » ?. E la propensione al mistero è anche il criterio con cui i membri della Società della Torre scelgono i giovani sui quali operare la loro occulta sorveglianza. Solo chi ha propensione al mistero promette di essere un buon soggetto di Bildurg: «Il giovane pieno d’intuizioni e di presentimenti crede di trovar molto in un mistero, di mettervi molto e di dover agire per suo mezzo » (op. cit., p. 835). L'abilità e il talento degli occulti pedagoghi starà appunto nell’orchestrare il mistero, riccorrendo anche a ciarpami quali un vecchio velo, fruste parole, polverosi rotoli, una tenda nera e così via. Sul rituale iniziatico e sul suo arcaico cerimoniale Goethe è il primo — per bocca di Jarno — ad ironizzare. E in questo è ben diverso da Mozart. Tuttavia mai, neanche per un momento mette in discussione la valenza pedagogica del mistero, che serve a risvegliare « tutte le forze che risiedono nell’uomo e che possono, ciascuna a suo modo, venir sviluppate » (op. cit., p. 838). È il mistero infatti ciò che spinge l’uomo all’azione. Questo Goethe lo dirà in forma poetica proprio nella sua Zauberflote: « Corre l’uomo, ma il fine mutevole fugge davanti a lui. Lui tira e s’aggrappa invano

alla tenda che copre pesante i misteri della vita,

che riposa sui giorni e sulle notti » °°. L’intervento della mano massonica non farà altro che orientare la corsa dell’uomo secondo fini nobilmente umanitari e consoni alla ragione umana. Per far questo dovrà sostituirsi al destino, che è sì un buon precettore ma fa pagar caro il suo intervento. L’occulta guida massonica non farà che « reggere, dirigere e usare a suo vantaggio ciò che è il prodotto del caso » (op. cit., p. 380). La realtà — la Wirklichkeit — in Goethe è più che mai il contrario di una res, prodotto di un a priori statico, ma è il frutto di una struttura formale dinamica in cui la ragione e il caso sono in egual modo chiamati ad intervenire. Solo nell’interreazione tra il mistero e la ragione si esplica l’azione formativa e si coglie la coincidenza del mondo interiore con quello esteriore in un’unica Wirklichkeit: 2. G. E. Lessing, Op. cit., p. 218. ® W. Goethe, Die Zauberflòte zweiter Teil, tr. it. di M. T. Galluzzo, Novecento, lermo, p. 59.

Pi

Le radici

massoniche

del Bildungsroman

75

« solo nell’attività si è in grado di osservare e di scoprire se stessi » (op. cit., p. 836). Ed è questo il punto in cui Goethe si congiunge alla Bildung del Singspiel di Mozart, per riprenderla e svilupparla nel senso dell’azione. Così il Sarastro di Goethe: « Fra queste mura silenziose l’uomo impara a conoscere se stesso. Egli si prepara a capire la parola degli Dei; ma la lingua della natura, la voce dell’umanità bisognosa, impara a conoscerla soltanto il viandante che vaga per le vie del mondo. Per questo la nostra legge, ci obbliga a mandare ogni anno uno di noi come pellegrino nel mondo travagliato » (Z.z.T., ed. cit., pp. 43-44).

Di qui i Warderjahre, gli anni di peregrinazione che Wilhelm deve affrontare una volta entrato lui stesso a far parte della Società della Torre. Anche in quest’ultima sezione del Meister si tornerà a ribadire la centralità del mistero nella Bildung massonica: « La segretezza presenta grandissimi vantaggi: poiché quando all’uomo si dice sempre e subito da che cosa tutto dipenda, egli è portato a credere che non ci sia nulla dietro » *. La Bildung massonica deve dunque, per Goethe, restare occulta: per non perdere la propria efficacia deve agire dietro le quinte alla maniera di una complicata macchina scenica. E come tale infatti la designerà Schiller nella lettera in cui ringrazia Goethe per avergli mandato in lettura '’VIII libro dei Lebrjahbre: una Machinerie*® che deve agire nascostamente per non compromettere il suo potere d’azione, la sua Wirkung. Per Schiller però la vera « prova di autocoscienza », quella che attesta il conseguimento della Bildung, Wilhelm la darà nella Selbstgeftibl, nella coscienza di sé raggiunta nel sentimento anziché nella razionalità astratta di cui le potenze della Torre si considerano depositarie. Soltanto emancipandosi dalla loro imponente autorità Wilhelm potrà portare a compimento una formazione che sembra a Schiller conseguita non tanto grazie al mistero quanto womostante il mistero.

31 W. Goethe, Wilbelm Meisters Wanderjahre, tr. it. di B. Arzeni, in W. G. Opere, ed. cit., p. 744. i 32 F. Schiller, Schillers-Briefe, Aufbau-Verlag Berlin und Weimar, 1982, Bd. II, p. 102.

76

Anna Giubertoni

4) Dal Bildungs l’autorllusione.

- al Verbildungsroman.

Schiller:

dall’autocoscienza

al-

Il segreto, la guida occulta, tutto ciò ripugna a Schiller che nel mistero vede un ambiguo e temibile strumento, atto più che alla Bi/durg alla Verbildung, non alla formazione ma alla corruzione dell’uomo. Il rapporto tra formazione e segreto già era stato al centro della sua attenzione nel Don Carlos, la Dramatische Geschichte scritta tra il 1783 e il 1787. Nel dramma infatti l’amicizia tra il Marchese di Posa e Don Carlos,

l’erede di Filippo II, nasconde il proposito di intervenire sulla Bildung del Principe secondo l’ambizioso progetto dell'amico: un piano di liberazione dell’umanità, destinato a fallire proprio per l’astrattezza del suo occulto disegno. Il Marchese è un Cavaliere di Malta. Non è massone solo perché i limiti cronologici — siamo nella seconda metà del Cinquecento — non glielo consentono. Ma del pedagogo massone egli ha tutte le caratteristiche. Ciò d’altra parte è esplicitamente ammesso da Schiller nei suoi Briefe tiber Don Carlos, le lettere pubblicate nel 1788 sul « Deutsche Merkur », la rivista del Wieland. Così Schiller: « Non sono un Illuminato né un massone, ma se entrambe queste confraternite hanno in comune uno scopo morale, e se questo scopo è il più importante per la società umana, allora esso deve per lo meno essere strettamente imparentato con ciò che il Marchese di Posa si proponeva » *. Il fatto è che Posa sa di aver tra le mani un

principe

destinato

ad un

immenso

potere:

« Io ebbi una fortuna come non l’ebbero che pochi: io, consacrato ad uno solo, abbracciai tutto il mondo! Nel cuore del mio Carlo io creai

un Paradiso di milioni! » *. Nel Don Carlos si delinea infatti una scorciatoia attraverso la quale arrivare alla Bidung dell’intera umanità mediante la formazione di un Principe. Un proposito che si ricollega all’ideale greco, certamente noto a Schiller, della Ciropedia, cioè della felicità dei sudditi ottenuta attraverso l'educazione del Principe. Ancora nei Briefe: « Ciò che quelli (massoni e Illuminati) cercarono di operare attraverso il segreto collegamento di molti membri attivi sparsi in tutto il mondo, egli (Posa), più perfettamente e

38 F. Schiller, Briefe ber Don Carlos, in: Simmtliche Werke, Bd. X, pp. 68-150. 34 F. Schiller, Don Carlos, tr. it. di N. De Ruggero, Sansoni, Firenze 1925, p. 134.

Le radici

massoniche

del Bildunesroman

‘77

più brevemente vuole eseguirlo attraverso un singolo soggetto: ossia attraverso un Principe destinato a salire sul più grande trono del mondo » (Lettera

IX, p. 192). Eppure,

nonostante

gli si prospetti un’eccelsa possi-

bilità il Marchese fallirà i suoi scopi. E questo non per cause fortuite ma perché il fallimento è implicito nell’ideale occulto e astratto di quegli stessi disegni. Non vale l’altezza degli ideali a riscattare la modalità segreta dell’intrigo. Apposta Schiller conferisce al Marchese i tratti più nobili e le finalità più elevate, proprio per mostrare nel modo più evidente come la pretesa di sostituirsi al destino, di plasmare l’individuo a sua insaputa, tutto ciò non può che portare alla perdizione: «egli vuol sciogliere il destino del suo amico, vuole salvarlo come un dio, e appunto a questo modo lo condanna » (Lettera IX, p. 194). La pretesa di sostituirsi al destino e di plasmare il carattere del Principe, la sua vita e i suoi casi, già era stata enunciata da Posa con espressioni che denotano tutta la forza scultorea im-

plicita nel Bildungsideal: « Che altro è il caso che la pietra grezza, che dalla man dello scultor riceve vita? Il caso lo dà la Provvidenza... l’uomo deve formarlo allo scopo » (Atto III, scena IX). È questo un ideale formativo che Schiller denuncia come distruttore e corruttore. Tutto l’opposto è l’ideale schilleriano di formazione: « con ben maggior sicurezza l’uomo si affida ai suggerimenti del proprio cuore o agli immediati sentimenti di giusto e di ingiusto che non alla pericolosa guida di universali idee razionali che egli si è procurato artificiosamente, perché nulla conduce

al bene che non

sia naturale » (Lettera IX, p. 195). Anche

Goethe aveva ben presente la possibilità mistificatoria del segreto: la figura di Cagliostro era in quel senso per lui emblematica ®. Ma ciò è visto da Goethe solo come un caso estremo, come la possibilità degenerativa di un corpo sano. In questo senso egli tratterà la mistificazione del segreto massonico, l’abuto che di esso aveva fatto Cagliostro nel cosidetto « scandalo della collana », la trama ordita ai danni della Regina di Francia. Di ciò sarà argomento

anche il lavoro teatrale Der GroB-Cophta,

scritto da Goethe

nel 1791: « Gli uomini amano la penombra più della luce del sole e appunto nella penombra appaiono gli spettri » (Atto II, scena IV, in op. cit, Das85): 35 W. Goethe, Die Mysthifizierten, in Dramatische

Dichtungen, Bd. III, Leipzig, 1920,

78.

Anna

Giubertoni

Proprio questa penombra è l’atmosfera del Geisterseher, il romanzo che Schiller pubblica a puntare sulla rivista « Thalia », tra il 1787 e il 1789, e che non porterà peraltro mai a compimento. La vicenda si svolge a Venezia in tempo di carnevale, nell'anno 17 * ed ha per protagonista un giovane principe che viaggia in incognito in compagnia di un amico. La particolarità del carattere del protagonista è la predisposizione a diventare un visionario, uno che — come dice il titolo del romanzo — vede gli spettri. Venezia è il luogo ideale per la Verbildung di un giovane: è la città perturbante dove la gente è quasi sempre in maschera e dove le calli strette si intrecciano in uno spaesante labirinto. In questa stessa accezione di Verbildung, Venezia sarà, più di un secolo dopo, la città dell’Andreas oder die Vereinigten, il romanzo scritto da Hugo von Hofmannsthal tra il 1912 e il 1929, ambientato nel Settecento e di cui sarà protagonista un giovane aristocratico austriaco in viaggio di istruzione *°. Sullo sfondo di una Venezia fine Settecento il Principe schilleriano cadrà totalmente irretito nelle trame che una società paramassonica, il « Bucentauro », ordisce per attuare una specie di plagio del giovane. Egli infatti è una preda appetibile per i Gesuiti infiltrati nella loggia poiché, se anche non è Don Carlos, è pur sempre un principe destinato a regnare su un piccolo stato della Germania protestante. Attraverso il giovane erede al trono i Gesuiti si propongono di infiltrarsi nello stato e di imporre la loro religione, cacciando via i protestanti. Intenzioni delle quali il Principe è tenuto accuratamente allo scuro. Nella fanciullezza egli ha ricevuto un’educazione di impronta pietista che l’ha predisposto ad una schwéarmerei Melancholie, ad una esaltata malinconia #”. Ora vive chiuso in una Phantasieenwelt (ib.) e si sente uno straniero nel mondo

reale. La sua tipologia è

dunque ancora una volta quella del protagonista del Bildurngsroman. Ma il giovane è anche altrettanto predisposto alla Verbildung: «egli non era un debole ma nessuno era più incline di lui a lasciarsi dominare » (op. cit., p. 28). Se il Marchese di Posa voleva conseguire attraverso la Bildurg di Carlos il dominio del mondo e la formazione dell’umanità, qui le mire criptocattoliche dei Gesuiti intendono, mediante l’irretimento del giovane, imporre il loro dominio

8 A. Giubertoni, Il mito di Venezia nella letteratura austriaca moderna, in AA.VV., Venezia Vienna, Il mito della cultura veneziana nell'Europa asburgica, Electa, Milano

1983, pp. 105-126.

87 F. Schiller, Geisterseber, tr. it. di M. P. Arena, Theoria, Roma 1983, DL ZO, Ed. ted., F. Schiller, Der Geisterseher, in: Sdr:mtliche Werke, Bd. 10, S. 69.

Le radici

massoniche

del Bildungsroman

79

religioso sul principato. A tal fine tessono una intrincatissima rete di intrighi, in cui il giovane cade senza subodorare minimamente ciò che si trama ai suoi danni. L’aura di mistero è qui enfatizzata e trivializzata in trucchi da baraccone, lotterie, lanterne magiche azionate per evocare gli spettri. E agli spettri il Principe crede. Così come sente una potenza superiore che lo perseguita: « Un essere invisibile a cui non posso sfuggire mi sorveglia ad ogni passo » (op. cit., p. 35). Ciò che più opprime il Principe è la continua e occulta presenza della unsichtbare Hand, la mano invisibile che guida i suoi passi (op. cit., p. 86). Invano egli medita a proposito di questa potenza: «tutto il suo credito crolla se io scopro il segreto della sua onniscienza » (0p. cif., p. 105). Ma è questo un segreto che al Principe, a differenza di Tamino o di Wilhelm, non verrà mai svelato. Egli resterà fino in fondo una semplice pedina della trama occulta in cui è rimasto invischiato. Farà sì parte della società del Bucentauro ma ignorerà sempre la gerarchia segreta che in essa detiene un occulto potere. A questi gradi alti il Principe non sarà mai ammesso: « che io sappia — dice l’amico incaricato di stendere il suo memoriale — egli non era mai stato massone » CODEC

ND= 09).

Queste potenze superiori invece di svelare gli intenti da cui sono animate, si limiteranno perfidamente a palesare al Principe i trucchi con i quali gli spettri sono stati evocati. Tutto ciò per provocare in lui una amarissima disillusione: invece di raggiungere la Selbstgefiibl, la coscienza di sé, egli cadrà in uno sconsolato pessimismo che lo spingerà a rifugiarsi — con estremo tentativo di autoillusione — tra le braccia del cattolicesimo.

Conclusione.

Se la cultura del neoclassicismo — quella degli anni in cui si articola la nostra ricerca — ha come topos lo « spazio neutro » *, il luogo in cui gli opposti entrano in una tensione che non vuole essere risolta né conciliata, la Bildung massonica si rivela come uno di questi spazi. Essa ha pertanto una specificità che non si può liquidare come ciarpame o gusto deteriore dell’epoca. Il Bildurgsideal massonico si forma potenziando nel senso del mistero l’aura del segreto, già propria dell’educazione pietista. Ciò

38 G. Carchia,

Op. cit.

80

Anna

Giubertoni

darà luogo ad una paideia anamnestica che assolve, o pretende di assolvere, la problematica mediazione tra l'ombra e la luce, tra la ragione e il mistero, senza annientare nessuno degli elementi contrari, perché proprio sulla polarità essa fonda la sua forza formativa e plasmante. Il clima dell’idealismo tedesco annienterà questo equilibrio alterando la relazione tra gli opposti nel senso di un loro superamento dialettico. Già Schiller aveva segnalato il rischio che il ricorso alla ragione venisse a cadere in un astratto razionalismo pronto paradossalmente

a servirsi di quanto c’è

di più irrazionale pur di perseguire i suoi fini. Quando nel 1800 Johann Gottlieb Fichte, affiliato alla Libera Muratoria dal 1793, traccia la sua Filosofia della Massoneria il processo degenerativo del Bildungsideal diventa evidente. In queste lezioni, tenute alla loggia « Royal York » di Berlino, Fichte espone il progetto di « un’educazione riflessa e calcolata » ’ che deve essere appannaggio della massoneria e che ha come scopo quello di « dominare interamente la natura priva di ragione » (i0.) La massoneria è infatti

per il filosofo dell’idealismo un «istituto per l’esercizio pratico della versatilità » (op. cif., p. 40) che anziché proporsi di inserire i suoi membri organicamente nel mondo, prescrive ad essi di prevaricarne la naturale consistenza considerandola nient’altro che il prodotto dell’attività inconscia del-

l'Io, un ostacolo che esso stesso si pone per operare, nel suo superamento, la propria istanza morale. La dichiarata intenzione di Bildung si rovescia dunque in piena Verbildung. O almeno così la interpretano Ludwig Tieck e Jean Paul. Il Tieck, nel William Lowell (1793-1796) già aveva immaginato un filosofo pseudofichtiano intento a plagiare il suo pupillo fino ad indurlo a credere che l’Io sia il principio costruttore del mondo, padrone pertanto del bene e del male, rovesciando il principio fichtiano di un mondo posto dall’io in funzione della propria istanza morale nel senso della corruzione. Una preoccupazione — questa della Verbildung — che è anche al centro della Clavis fichtiana (1800), in cui Jean Paul fa una dissertazione in veste

comica della visione fichtiana del mondo. Qui viene in piena luce il capovolgimento del potere plasmante della Bi/dung, la sua qualità scultorea di dar forma, in quello disgregatore della Verbildung: «La statua di cui io sono il Pigmalione posso, indifferentemente distruggerla come animarla, appena mi accorgo di essere io il suo scalpellino » ‘° . 39 J. G. Fichte, Philosophie der Maurerei Libraio

Editore,

Roma

(1800), tr. it. di S. Caramella, Documento, :

1945, p. 107.

40 Jean Paul, Clavis Fichtiana, in: Sémtliche pp. 1014-1132.

Werke,

Hauser

Verlag, Miinchen,

1960,

Le radici

massoniche

del Bildungsroman

81

Il rovesciamento della Bildung massonica in Verbildung — connesso al clima dell’idealismo tedesco — è anche presente allo Hélderlin quando, nell’Hyperion (1792-1799) delinea su tratti fichtiani la figura di Alabanda, il « pedagogo » che spingerà Iperione agli esiti di una disperata disillusione: Alabanda è affiliato ad una lega paramassonica che non si propone affatto scopi umanitari bensì terroristici ed è pronta ad uccidere chi tra i suoi membri venga meno al giuramento e al segreto *. Per non rovesciarsi in Verbildungsroman, il romanzo di formazione si emanciperà, nel corso dell’Ottocento, dalle sue radici massoniche. Ma quanto sia problematico questo processo si può giudicare dall’ultimo grande Bildungsroman della letteratura tedesca. Nello Zauberberg, il romanzo di formazione scritto da Thomas Mann negli anni della Grande Guerra, le vecchie radici tornano ad affiorare. Ancora una volta il protagonista sarà un giovane che tende a scambiare le cose con le loro ombre e la sua Bildung sarà oggetto di disputa tra due pedagoghi dei quali, guarda caso, uno è il gesuita Naphta, l’altro il massone Settembrini che, in una delle sue prime apparizioni, andrà incontro al suo pupillo fischiettando il motivo dell’Uccellatore dal Flauto magico di Mozart. Anna Giubertoni 21 gennaio-8 aprile 1984:

In Memoriam.

41 F. Holderlin, Iperione o l’Eremita in Grecia, tr. it. di G. V. Amoretti, Feltrinelh, Milano

1981, pp.

157-159.

Giuliana Gigli Ferreccio Lo spettatore imparziale. Considerazioni sul romanzo di formazione in Inghilterra. « Il romanzo di formazione, integrando il processo della vita sociale nello sviluppo di un personaggio, procura la giustificazione più debole che si possa immaginare agli ordinamenti che determinano quel processo: la loro legittimazione fa a pugni con la loro realtà ». W. Benjamin

1.

Presupposti della formazione:

sentimento

e spettatore

Il 1760, anno convenzionale per le storiografie letterarie, traccerebbe i confini tra classicismo e pre-romanticismo. La pubblicazione simultanea della Nouvelle Heloise e dell’Ossian ne certificherebbe l’autenticità. Arduo, come

sempre,

stabilire

delimitazioni

(a quale mezzo

secolo apparterrebbe

Dide-

rot?), l’anno rimane comunque ad indicare un punto di incrinamento, un emblema che immobilizza nella figura pietrificata di una transizione, il prima e il dopo in una compresenza di opposti !. Inutile forse cercare di separare

il prima e il dopo quando si allarghino di poco i confini nazionali dell’emblema: nel 1759 escono la Theory of Moral Sentiments (d’ora in poi TMS) di Adam Smith ? e i primi due libri del Tristramz Shandy di Laurence Sterne: ragione e passione, volontà e sentimento, letterario e vissuto, vi si articolano in modo inestricabile*. Ciò non significa che una periodizzazione, che vada al di là della pubblicazione delle opere, non possa contribuire ad illuminare le ragioni della grande fortuna che il genere romanzesco formativo ebbe tra gli anni ‘40 e ’60 nonché le ragioni del suo declino quale forma d’arte problematica negli anni seguenti, fino alla ripresa ottocentesca. Le origini del « sentimentalismo » e, in particolare, del romanzo basato

1 Si veda in proposito G. Cerruti, Le paradoxe sur le comédien et le paradoxe sur Diderot et Sade, in « Revue des Sciences Humaines », XXXVII, 146, avri! juin 1972. le libertin,

2 A cura

di D. D. Raphael,

A. L. Macfie, Clarendon

Press, Oxford,

1979.

3 L’influsso dell’opera di A. Smith sul movimento sentimentalista è sottolineato da J. V. Price, Religion and Ideas, in The XVIII Century, a cura di P. Rogets, Methuen, Londra, 1978.

84

Giuliana Gigli Ferreccio

sull’idillio, vengono storicisticamente fatte risalire alle teorie del senso morale innato e della benevolenza, elaborate dalla saggistica morale di Shaftesbury prima e di Hutcheson poi, con ciò non tenendo conto dei conflitti e delle tensioni che pur si muovono all’interno della corrente anti-hobbesiana, solo apparentemente omogenea nella sua visione ottimistica di una natura umana aprioristicamente buona e virtuosa. Non vi è dubbio che la discriminante generale del sentimento separi la produzione di questi anni dal romanzo di Defoe, nel quale l’idillio assume, nel migliore dei casi, una funzione del tutto strumentale (Moll Flanders non di rado dimentica amori e mariti, né pare eccessivamente preoccuparsi di aver sposato il proprio fratello); e non v'è dubbio che l’impegno estetico-morale, che al sentimento si accomuna, distanzi, d’altro canto, tale produzione dal genere sentimentale che, nel secondo settecento, verrà ad assumere i toni manieristici di The Man of Feeling. Nell'arco di questi vent’anni l’analisi del sentimento e del sentimentale, nonché l’indagine degli atteggiamenti che ad essi si accompa-

gnano, segnano un percorso che si apre all’insegna dell’ormai consolidata concezione razionalistica di una natura umana benevola e fondata sul 7z0ral sense (ma essenzialmente modellata nel suo funzionamento sulle leggi meccanicistiche della fisica newtoniana, all’origine delle quali sta il grande modello del saggio lockiano) e che si conclude — almeno momentaneamente — con la maturazione di una nuova concezione, psicologistica ed autoriflessiva che trova, nella forma romanzo, ancora così malleabile e non impedita dalla convenzione, il proprio mezzo espressivo più idoneo a rappresentare, della natura umana, l’interno dinamismo; e in quanto tale idonea a sostituirsi, in quel periodo e in certa misura, presso il pubblico colto, ai più tradizionali supporti della argomentazione filosofica. Per citare l’esempio più noto basti qui soltanto ricordare l’enorme successo incontrato a Londra, alla fine del periodo in esame, dalla TMS, vera e propria summa dell’analisi del sentimento (ma anche apertura sul soggetto autoriflessivo), laddove il Trattato sulla natura umana di Hume, di pochi anni precedente, si rivelerà un fiasco editoriale . Nel periodo che separa la comparsa delle opere dei due grandi scozzesi, l'educazione dell’uomo sentimentale troverà nel romanzo, e in particolare la troverà in Richardson, la propria forma espositiva 4 Cfr. G. S. Rousseau, Science, in P. Rogers, cit., p. 207. G. S. Rousseau sostien (in contrasto con le ipotesi sostenute da R S. Crane nel suo saggio del 1934, Suggr stions Towards a Genealogy of the « Man oj Feeling») che «mentre le teorie della benevolenza e naturale inclinazione al bene possono essersi sviluppate prima del 1740, ai tempi dei romanzi di Richardson una teoria della personalità autoriflessiva non avrebbe potuto darsi poiché non ne esistevano le basi scientifiche ». i

Lo spettatore imparziale

85

più incisiva nello stabilire i codici narrativi e caratteriali della mitica ricerca del sé e la troverà nello sdoppiamento uomo/donna. Per caratterizzare questo ventennio (1740-1760) proponiamo qui di esten-

dere, per poterlo usare in quest'ambito di analisi, il termine « romanzo di formazione », assumendolo nella sua più generalizzata accezione di educazione/autoeducazione del soggetto borghese fondata sullo scambio sentimentale; mettendone peraltro in evidenza due valenze costitutive, anche se non esaustive, nel carattere mondano della meta perseguita (e delle forze che ne consentono il perseguimento) e nelle configurazioni letterarie della particolare forma di rapporto che si viene a stabilire, nell’ambito di tale perseguimento, tra autore e destinatario. Per la storia e la teoria del concetto di formazione e in particolare sull’analisi di tale rapporto, rimandiamo agli

studi di Fritz Martini e di Lothar Kéhn: «Lo si definirà Bildungsroman, in primo luogo e soprattutto per il suo contenuto, poiché rappresenta la formazione dell’eroe nel suo inizio e sviluppo, fino ad un certo grado di perfezionamento [...] ma anche, in secondo luogo, poiché esso permette, proprio attraverso questa rappresentazione, la formazione del lettore in modo più vasto ed approfondito di qualsiasi altro tipo di romanzo »*. Non va peraltro dimenticata Dilthey:

la più nota formulazione

che proviene da

« Vorrei definire i romanzi che appartengono alla scuola del Wilhelm Meister (poiché la forma d’arte roussoviana, pur essendovi collegata, non ebbe su di essa influssi continuativi) romanzi di formazione. L’opera di Goethe mostra la formazione dell’uomo in stadi, forme, epoche della vita » °. Si potrebbe obbiettare che tale descrizione si applica poco sia alla spre5 « Bildungstoman wird es heissen dirfen, erstens und vorziiglich wegen seines Stoffs, weil er des Helden Bildung in ihren Anfang und Fortgang bis zu einer gewissen Stufe der Vollendung darstellt [...] zweytens aber auch, weil er gerade durch diese Darstellung des Lesers Bildung, in weiteren Umfange als jede andere Art des Romans, Forschungsbericht, ein - und Bildungsroman, férdert ». L. Kéòhn, Entwicklungs « Deutsches Vierteljahrschrift », 1968, III agosto-IV ottobre, p. 431. (Le traduzioni dagli originali

tedeschi

6 Ibidem, p. 427.

sono

mie).

86

Giuliana Gigli Ferreccio

giudicatezza di Moll Flanders, che l’anima la misura a iarde di fiandra, sia al moralismo interessato di Pamela, la cui virtù produce ascesa sociale. Occorre tuttavia sottolineare che Richardson, già nel suo primo romanzo e al di là delle ambiguità opportunistiche del suo personaggio, utilizza la forma epistolare con l’obbiettivo privilegiato di analizzare le motivazioni dei personaggi attraverso l’esercizio autoriflessivo. In Clarissa poi, lo scambio epi stolare avrà la funzione esplicita di conciliare l’elemento lirico-introspettivo con l’azione drammatica, in una ricerca di tipicità esemplare dei personaggi (menschlich) che oltrepassa l’empiria spregiudicata dell’uomo economico primo-settecentesco orientandosi verso la raffigurazione compiuta di un ideale morale di cittadino. Da Richardson in poi conviene dunque datare gli esordi del romanzo di formazione in Inghilterra, poiché solo a partire da allora inizia a porsi il duplice problema: quello di conciliare all’interno del nuovo genere il carattere mondano della meta con le motivazioni psicologiche e morali degli agenti finalizzate al perseguimento dell’equilibrio finale della « giustizia poetica », nonché quello di fornire narrabilità a tale esperienza attraverso la nuova forma di rapporto che il genere romanzesco stabilisce con il destinatario, sulla base dell’identificazione sentimentale. Poiché la scoperta del sentimento porta con sé anche la presa d’atto della sua scissione dalla volontà, il romanzo di formazione può considerarsi espres-

sione dell’esigenza di conciliare sul piano estetico elementi strutturalmente e logicamente

contradditori,

direttamente

filiati dalla incrinatura,

nel frat-

tempo prodottasi, della nozione di armonia diretta tra uomo e provvidenza; e ciò tanto nella forma teista di disegno immanente, quanto in quella deista di orologio dell’universo o in quella dell’armonico « conservatorismo cosmico » del Pope di Essay on Man. Più in generale, e a buon titolo, si può dunque sostenere che tale incrinatura rappresenti una non irrilevante complessificazione della precedente, relativamente semplice, concezione giusnaturalistica della natura umana. L’atteggiamento sentimentale aggira felicemente il disagevole rigore dello scetticismo filosofico humeano (pur derivandone in parte), ciò che gli è consentito in pro dell’assunzione di un presupposto imprescindibile: quello della possibilità di fondere il mito sentimentale dell'origine prerazionale della natura umana con la pratica razionale della propria autoeducazione, di cui il libero sfogo del sentimento è mezzo privilegiato. Il conflitto di ragione e passione, nella sua metamorfosi sentimentale, non solo perde tragicità, ma diviene anzi requisito indispensabile della formazione, nella misura in cui risulti superabile, sormontabile ?. Alle radici ? Su questo punto e per il paragrafo III del presente lavoro, cfr., l’importante studio

Lo spettatore imparziale

87

del sentimentalismo puritana, anche se dola, la concezione benefica occasione

richardsoniano va inoltre ricondotta la sua formazione non strettamente confessionale, che ripropone, laicizzandella felix culpa che nel Paradise Lost veniva letta come di redenzione. Che il romanzo dovesse avere un fine educativo era chiaro anche a Defoe, il quale non coglieva tuttavia le contraddizioni interne all’etica puritana di cui i suoi personaggi sono concretizzazione. Le contraddizioni diventano al contrario manifeste in Pazzela: or, Virtue Rewarded*, le cui motivazioni sentimentali non bastano a dignificare la meta economica. Eroina sentimen-

tale del secolo e prototipo History of a Young Lady” morale diventando un polo tino. I due protagonisti in

romanzesco, la protagonista di Clarissa: or, The assume invece credibilità psicologica e profondità dello scontro insanabile di sentimentale e liberconflitto, il libertino e la fanciulla virtuosa, ri-

mettono in scena la lotta di volontà e sentimento, affinché il lettore si im-

medesimi nell’esperienza formativa della virtù insidiata, ma trionfante. Nonostante le buone intenzioni dell’autore, l’universo di Clarissa non offre possibilità di conciliazione neppure sul piano estetico poiché permette di assumere come polo di identificazione sia il reprobo sia la fredda, inespugnabile tentatrice. Solo nella TMS verrà affrontato e risolto, a livello teorico, attraverso il concetto di syrpathy, il problema del « punto di vista morale unificato », che permetterà allo « spettatore » di trovare una identificazione formativa all’interno dell’opera. La relazione di scambio che sta alla base del sistema in cui, secondo Smith, la facoltà umana

di scambiare

ruoli (tale per cui ciascuno è in grado di mettersi al posto dell’altro) produce essa stessa valori morali, sta anche alla base, a nostro giudizio, del rapporto che il romanzo stabilisce fra autore e lettore. È soltanto attraverso tale forma di rapporto paritario, infatti, che il lettore è messo in condizione di espetire come giustizia poetica i rapporti umani egualitari di cui si compone l’universo romanzesco. La relazione speculare degli uomini tra di loro è il presupposto stesso dell’esperienza formativa, laddove la sua narrabilità in tanto si realizza in quanto riesce a costruite, localizzandolo all’interno dell’opera, uno spazio etico-drammatico entro cui il lettore si riconosce spettatore.

L’opera di Smith, individuando con ricchezza sociologica più che non proponendo con intenti normativi un punto di vista simbolicamente prospet-

di A. O. Hirschmann, Le passioni e gli interessi, Feltrinelli, Milano, 1979. In particolare, il primo capitolo Come si fece ricorso agli interessi per fronteggiare le passioni.

88°

Giuliana Gigli Ferreccio

tico che rappresenti lo « spettatore imparziale », unitario nel giudizio sulle azioni altrui ma anche, e necessariamente, sdoppiato nell’autogiudizio, favorisce la stessa individuazione del secondo elemento che caratterizza l’economia complessiva del moderno romanzo di formazione: quello di permettere, attraverso la rappresentazione della Bildung dell’eroe nel suo farsi, l’autoeducazione del lettore « in modo più vasto e approfondito di qualsiasi altro tipo di romanzo » !°. Spettatore e lettore si sovrappongono nella figura del destinatario della nuova forma romanzesca. Ed è proprio lo spettatore la figura sociale e simbolica che Addison nel suo « Spectator » tematizza e in molti suoi aspetti teorizza, pur essendo lettore, in concreto, il suo destinatario. Ma già nel romanzo del primo settecento, non va dimenticato, il lettore viene spesso coinvolto nel dramma che si svolge all’atto della lettura. L’asserzione secondo la quale « ogni opera letteraria porta in sé l’immagine del suo lettore che divieneun personaggio di quest'opera » !, assume la valenza di preciso riferimento storico se la si applica al romanzo sorto e sviluppatosi nel periodo in esame. In esso si viene codificando un comportamento di ricezione « realistica » (immedesimazione come condizione necessaria per recuperate verità che l’arte può trasmettere in quanto si neghi come finzione) a sua volta puntualmente contraddetto e criticato dalle opere che questo stesso propongono quale oggetto di riflessione: il lettore di Sterne e di Diderot non riesce mai a consumate il proprio privato (e inconfessato) godimento della vicenda rappresentata perché continuamente e alternativamente ricondotto alla propria duplice condizione di attore e di

spettatore della propria esperienza !. L’intreccio dell’analisi del sé, esposta nel TMS attraverso la figura teorica dello spettatore imparziale, con i modelli contenuti nei primi esempi di romanzo di formazione contribuisce ad evidenziare i presupposti di quest’'ultimo, configurando la formazione

8 A cuta

di M. Kinkead-Weekes,

? A cura

di John Butt, Everyman,

IO

ohne

del lettore non tanto quale risultato

Everyman,

Londra,

Londra,

1972.

1967.

an

!! Cfr. H. Weinrich, Alla ricerca del lettore, in Sociologia della letteratura, a cura di G. Pagliano Ungari, Il Mulino,. Bologna, 1972, p. 238. 12 Lettore e nartatote come protagonisti a confronto sono l’argomento di Ceci n'est pas un conte, di D. Diderot, che l’autore stesso definisce « un mauvais conte ». La riflessione sul rapporto con il lettore collega Diderot e Sterne, autori di anti-romanzi, agli albori del genere settecentesco, ai metaromanzi che ne decretano la morte storica come l'Ulisse joyciano, oppure alla pittura autoriflessiva di un Magritte in Ceci n'est pas une pipe.

Lo spettatore imparziale

89

dell'avvenuto perfezionamento dell’eroe quanto piuttosto quale risultato della sua disponibilità alla formazione stessa, della sua « familiarità con questa categoria letteraria » ®. Se di fronte alla tragedia è la compassione a muovere lo spettatore e se primo compito dell’oratore è la captatio benevolentiae, quali saranno i presupposti che indurranno il lettore a lasciarsi « formare »? Mutare e vedersi mutare, essere al contempo agito ed agente, scambiare i ruoli come in uno specchio; che questo processo termini con un perfezionamento o con una testarda asserzione di immutalbilità, dipenderà soltanto dai tempi e dalle modalità dell’irruzione della coscienza storica. Il periodo che ci interessa (1740-1760)

rimane

sospeso a questo proposito;

in

esso i termini stessi delle complesse relazioni che si vengono a produrre si manifestano in maniera così innovativa, ma al tempo stesso così contradditoria, da prefigurare lo sviluppo di quasi tutte le possibilità, sovente presenti all’interno della stessa opera. Il punto di vista morale e la giustizia poetica restano in ogni caso e per ciascun autore uno scopo da raggiungere o da negare: la formazione del destinatario rimane una questione

aperta. 2.

Dalla religione alla morale, dalle passioni agli interessi

L’origine del romanzo di formazione in Inghilterra s’inscrive in un generale processo di autoeducazione della nuova élite post-rivoluzionaria, sia essa da definirsi borghesia o aristocrazia imborghesita, che si articola in diverse aree del sapere e dell’espressione artistica. La produzione di cultura, valori, comportamenti si sposta dagli ambiti curiali e confessionali alla società civile in un crescente quanto rapido processo di secolarizzazione al cui affermarsi contribuiscono in maniera determinante la diffusione e la divulgazione del pensiero scientifico (in particolare del newtonianismo) nonché il nuovo assetto costituzionale sancito dalla rivoluzione del 1688 !. Tolleranza religiosa e compromesso politico sono conquiste civili (ed economiche) da salvaguardare, anche a prezzo di rinunce, silenzi e coperture teoriche, in nome dell’agio, della stabilità politica e religiosa che sole possono consentire allo individuo di perseguire il proprio interesse (unico mezzo per controbilanciare il conflitto della passione ideologica) senza danneggiare gli altri, in

: 13 H. Weinrich, cit., p. 240. 14 Su questo punto cfr. lo studio di M.C. Jacob, I Newtoniani e la rivoluzione inglese,

Feltrinelli, Milano,

1980.

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Giuliana Gigli Ferreccio

uno scambio « eguale », ragionevole, « disinteressato », discorsivo, garante di una perfetta comunicazione. Shaftesbury lamenta il decadimento del dibattito filosofico, mentre si impegna, fra le righe, a confutare le accuse di libertinismo e di ateismo. Addison, più prudente, costruisce sulle pagine dello « Spectator » una nuova figura di gentleman tollerante, ironico, distaccato. Spettatore, appunto, di

intrighi politici che non scalfiscono, a patto che li si eviti, la sostanziale compattezza dello spazio privato interno entro cui la nuova élite si sta dando una identità civile e culturale. Come sottolinea Luhmann, è la morale a costituire, in questa fase, il sapere privilegiato degli strati ascendenti e la funzione formativa, che arriverà poi al romanzo, proviene ormai da ambiti di potere diversi da quello ecclesiastico che sta perdendo, nella formazione delle nuove élites, quella preminenza esclusiva che aveva occupato fino alla rivoluzione gloriosa. La tolleranza religiosa porta con sé anche l'indifferenza al dogma: «. . .l’esclusione della religione, della politica, della scienza specialistica, dell'economia, della vita familiare lascia un vuoto nel riferimento sociale della interazione, nel quale si versa la morale. Questa morale non è più investita del compito di cosimbolizzare l’eccellenza degli strati elevati: essa è ampliata alla generalità degli uomini ed è allo stesso tempo tolta dalle capacità funzionali [...]. Il XVIII secolo cerca nuovi equilibri tra la religione e la morale, coltiva tendenze verso una religione ridotta alla morale (per esempio nella massoneria) o colloca, infine, la morale al di sopra della religione. Si apprezza e si ritiene necessaria la religione per la sua funzione di conservazione della morale; del resto, ci si distanzia volentieri dalla camicia di forza e dalle contese dell’ortodossia, che possono corrispondere ai bisogni particolari della casta sacerdotale, ma non, come la morale, a bisogni universali a livello sociale » !. Mentre l’anglicanesimo cerca, nelle sue figure più progressiste di teologi e di predicatori latitudinari, di adattarsi al meccanicismo newtoniano, l’ana-

lisi del gusto e la scienza della morale si sostituiscono al dibattito politico sulle forme di governo, che si devono considerare tanto più definitivamente assestate quanto più ferocemente la satira le prende di mira. Con il gra

15 N. Luhmann, Struttura della società e semantica, Laterza, Bari, 1983, p. 126.

Lo spettatore imparziale

91

fluale assorbimento della fede religiosa nel campo morale, la diffusione dei principi dottrinali finisce con l’essere soppiantata dalla produzione di saggistica moraleggiante e di costume il cui compito diventa ora quello di fornire figure simboliche e modelli di interazione all’interno degli strati elevati tali da sancire l’universalità di un rapporto umano e sociale paritario, ma anche tali da garantire al contempo il controllo gerarchico verso il basso. La forma del saggio che, fin dai primi numeri dello « Spectator », assume la fisionomia che conserverà fino in pieno ottocento, allude già ad un doppio livello rappresentativo: da un lato offrendo modelli comportamentali paritari, dall’altro stabilendo con il lettore un rapporto gerarchico e didattico, con ciò ricollegandosi alla tradizione del trattato morale seicentesco e del sermone, ma, nello stesso tempo, anticipando, nella costruzione di una caratteriologia laica, il romanzo. Benché i caratteri delineati da Addison contribuiscano a fornire i futuri modelli compositivi dei personaggi romanzeschi, manca tuttavia alla saggistica lo spazio della coscienza individuale, proprio per quel distacco gerarchico che lo spettatore non solo caratterizza ma anche isola dai suoi lettori. In altre parole, manca ai generi letterari cui il romanzo fa seguito (si pensi, oltreché alla saggistica, alla commedia della Restaurazione), la possibilità di configurare, all’interno della forma stessa, un processo di costruzione di un’autonoma identità basato sulla sfera interiore della coscienza, su un senso interno che preceda la natura ragionevole ma non corra i peri-

coli innatistici del pensiero (troppo vicino ai neoplatonici) di uno Shaftesbury. Identificazione e immedesimazione sono quindi necessari per il lettore che si colloca, rispetto alla realtà dell’opera, su un piano di parità; che si vede nell’opera rappresentato e non più semplice testimone di un’azione drammatica trascendente o discepolo di norme comportamentali e neppure fruitore di una narrazione basata sulla comunicazione diretta di esperienza. Il romanzo delinea un percorso formativo esemplare che può trasmettere modelli di comportamento solo a condizione che i suoi contenuti vengano comunicati attraverso una forma di rapporto fra autore e fruitore che si deve ormai configurare come rapporto tra eguali. L'acquisizione di identità (sociale, spirituale ecc.) viene quindi demandata ad un genere letterario che non può che garantirla attraverso l’immedesimazione affettiva personale; solo in quanto tale può instaurare la possibilità di identificazione emotiva dell’individuo empirico nella sua privatezza. L’agire come privato, che precedentemente presagiva disordine e squilibrio sociale ed etico (si pensi all'errore tragico di Re Lear che consiste precisamente nel rinunciare agli attributi pubblici del suo

ruolo di re, padre, ecc.) costituisce nel romanzo

92

Giuliana Gigli Ferreccio

il presupposto stesso della collocazione personale conforme legge di natura. Nei primi romanzi

settecenteschi

tuttavia

all'ordine della

è proprio il carattere

smacca-

tamente economico del processo formativo, privo com’è di qualsiasi mediazione interna all’opera rispetto all’acquisizione dell'io come proprietà privata (il caso di Defoe è evidente), a caratterizzare vicende e personaggi in senso realistico, senza dar luogo però a un punto di vista morale autonomo. Si può invece individuare l’origine di una struttura formativa, in cui per la prima volta l’azione rappresenta il compiersi di una giustizia poetica, nel romanzo sentimentale e psicologico. Qui, a differenza dei generi letterari affini che precedono (narrative di viaggio, biografie ecc.), viene posta come presupposto, oltre all’immedesimazione, la comunicabilità dell’esperienza morale, quindi l’individuazione di un luogo, fondante per la struttura stessa dell’opera, in cui avvenga lo scambio informativo-formativo fra autore e fruitore. La carica realistico-critica che comunque informa i primi esperi menti di « novels » deve stemperarsi nel carattere ideologico del discorso romanzesco se il nuovo genere letterario vuole trovare legittimazione nella sfera colta del sapere borghese. Pur tenendo conto che il romanzo di formazione che si sviluppa in Inghilterra nella prima metà del settecento si orienta in modo esplicito verso la coesione e il consenso all’interno del gruppo, più di quanto non accada altrove (si confronti in Goethe, per esempio, la funzione eccezionale, sacrale e per nulla realistica, rispetto all’economia drammatica del Meister, della Società della Torre, accettabile e comprensibile come volontà di «illuminati », non come legge naturale e sociale), si possono tuttavia ritenere qualità distintive di tale genere « l’integrazione del processo della vita sociale nello sviluppo di un personaggio » !° e «la morale interazionale ampliata alla generalità degli uomini » !”, di cui il lettore privato nella sua veste di pubblico spettatore (cittadino) si fa rappresentante all’interno dell’opera. Il rapporto paritario che collega narratore e spettatore, pone peraltro l’autore in una situazione contradditoria: quella di essere al contempo al posto

del pubblico e di fronte al pubblico !*. Contraddizione,

questa, che il ro-

16 W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 239. 17 N. Luhmann, ibidem. 18 Per questo concetto cfr. L’ormai classico, J. Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica, Laterza, Bari 1967, soprattutto l’excursus La fine del carattere pubblico rap-

presentativo

consultare:

illustrata

Nascita

dal Wilbelm

dell'opinione

Meister.

pubblica

Sulla

situazione

in Inghilterra,

inglese,

« Quaderni

sono

anche

da

storici », 42, An-

Lo spettatore imparziale

93

manzo formativo tenta di mediare ma che, non riuscendovi, rimuove, privilegiando come essenziale uno solo dei suoi elementi costitutivi (ad esempio l’idillio, il mistero ecc.), perdendo però in spessore conoscitivo. Di qui il suo progressivo specializzarsi, la perdita delle sue precedenti potenzialità universalistiche. Nel caso opposto, la contraddizione viene bensì rappresentata, ma in termini tali da far perdere al romanzo, oltreché la coesione del discorso ideologico, anche la sua funzione produttrice di valori !°, Perché la forma romanzo, come si configura agli inizi del settecento, acquisisca e conservi valore conoscitivo, deve inoltre affermarsi (o riaffermarsi)

la sua completa autonomia rispetto al fondamento religioso-mitico che per secoli aveva accompagnato l’espressione artistica 2°, Il carattere paradossale di tale autonomia sta però nel fatto che l’esclusione dell’ambito religioso-politico-economico che in essa si registra implica poi la costruzione di una nuova cosmologia morale, ad essa necessaria per dare « forma drammatica all’esperienza epica » dell’« individuo nel suo isolamento » ?!. Essa implica l'esclusione dall'ambito della socialità, quindi anche del rapporto sociale attraverso l’arte, di momenti conflittuali legati alla politica e alla religione. AI contrario della tragedia, che celebra di fronte alla corte e al pubblico « popolare » la grandezza politico-morale del principe, la forma romanzo si limita a rappresentare se stessa celebrando il vivere civile, oggetto della sua narrazione e al tempo stesso presupposto della sua autonomia. Essa non rinuncia in realtà al momento celebrativo solo per il fatto di essere letta e non rappresentata: essa celebra le virtù borghesi, condizione ineludibile di quel vivere civile, obbligando il lettore a farsi spettatore, a dibattere in

cona, sett.-dic. 1979 e, più in generale, R. Sennett, I/ declino dell’uomo pubblico, Bompiani, Milano, 1982. 19 In questo gruppo si possono far rientrare quei romanzi che presentano il processo formativo in termini di una autoriflessione. Nel caso inglese basti qui ricordare il Tristram Shandy che a sua volta influenza e richiama Jacques le fataliste, Le neveu de Rameau, ecc. Questa problematica, soltanto accennata nel testo, richiederebbe per essere correttamente impostata di essere nel suo complesso differenziata dalla « Verbildung », con la quale, a mio avviso, essa ha ben poco a che spartire. Prioritariamente importante, in questa sede, si è ritenuto l’evidenziare la stessa genesi storica di un nuovo tipo di formazione, cioè l’aspetto dinamico del suo farsi, anziché tentare di dare un quadro esauriente dei suoi possibili esiti. 20 Su questo punto si veda G. Carchia, Dall’apparenza al mistero. La nascita del ro-

manzo,

Celuc, Milano,

1983.

21 G. Lukacs, L'estetica del romance, Il Mulino, Bologna, 1982, p. 93.

in Scritto sul romance,

a cura

di M. Cometa,

94

Giuliana Gigli Ferreccio

pubblico la sua funzione, a mostrare in società gli effetti della propria autorappresentazione ”?. Rimane irrisolto il problema del punto di vista. Chi assiste alla tragedia non può confondersi con i personaggi, le cui vicende, segnate dal destino, inducono riflessione, timore ecc., ma mai identificazione; il romanzo al contrario la pretende: lettore privato e pubblico spettatore si alternano continuamente nello spazio dell’opera. Il rapporto paritario fra privati di cui il romanzo formativo deve essere tangibile testimonianza (e che si può intendere come esemplificazione concreta della nascita e del radicamento dell’« opinione pubblica ») richiede la costituzione di uno spazio interno, autonomo, chiuso alle intromissioni autoritarie esterne. Tale spazio si viene a sovrapporre, ma più sovente la soppianta, ad una funzione indispensabile del romanzo precedente e dei generi ad esso affini: la voce narrante. Si può a questo proposito sostenere, con Benjamin, che la figura del narratore declini, con la nascita del romanzo, « alle soglie dell’età moderna », ovvero che la metamorfosi del narratore in romanziere si risolva nell’occultamento del « personaggio » narratore di cui non rimane che l’impersonalità della funzione narrante”. È come se Orazio pretendesse di narrare la storia di Amleto. Il narratore tradizionale, mediatore e produttore, al tempo stesso, di esperienza, si riduce qui ad impersonale registratore dei fatti o del dramma, separandosi dai suoi personaggi per occupare uno spazio incorporeo che si articola bensì all’interno del testo, ma che non si deve percepire. Il progressivo abbandono della dedica non indica solamente la sostituzione del mercato al mecenate, ma anche l’appiattimento della persona narrante sull’autore il quale, non potendo più assumere la parte pubblica del narratore, si cela nei fatti (funzione informativa) o nell’intreccio (analisi psicologica delle motivazioni). Tale metamorfosi della presenza del narratore risponde al problema (sociale e morale) relativo alla conoscibilità dell’esperienza altrui. Occorre evitare al massimo le interferenze interpretative: il soggetto narrante si nega come tale per riproporsi nell’impersonalità della sua narrazione, così come la religione sopravvive alla crisi delle mediazioni istituzionali instaurando il diretto contatto con Dio. Occultandosi dietro la fun2 La commozione simpatetica provata alla lettura di Clarissa diventa nell’Héloge de Richardson di Diderot una pubblica. presa di posizione a favore della sensibilità immediatamente espressa. È noto che successivamente Diderot capovolgerà le sue posizioni rispetto alla funzione della sensibilità nel Paradoxe sur le comédien. 2% W. Benjamin, ibidem.

Lo spettatore imparziale

95

zione narrante, l’autore può produrre un punto di vista in cui possa avvenire l’incontro con il destinatario: sarà quest’ultimo a riprodurre in sé stesso le contraddizioni del narratore nascosto. Spettatore e narratore si « tirano indietro » per permettere alla coscienza oggettiva (imparziale) di prendere ad oggetto della propria riflessione non più soltanto il dominio della natura, ma anche quello dell’uomo in società *.

3.

La formazione dello spettatore.

Lo « Spectator », il cui apparire istituzionale come periodico (1711) allude già, al tempo stesso, ad una pratica intellettuale e ad un ideale formativo, estetico, morale, dà il via a quella particolare « rivoluzione culturale » che nei caffè produce l’inizio e l’evolversi di una opinione pubblica ?. Fu in seguito al successo del « Tatler » e dello « Spectator » che i periodici acquistarono, verso la fine del regno della Regina Anna, enorme popolarità e diffusione, legata indiscutibilmente all’esistenza dei caffè. Centri di incontro e di scambio di opinioni, di formazione di gruppi, si calcola ce ne fossero tremila nella sola Londra; né la loro attività si limitava alla discussione: si fondavano società, nascevano iniziative editoriali, accademie artistiche e logge massoniche; frequentati dalla società in vista, colta, raffinata, promuovevano quella « public intimacy » che costituiva la partecipazione attiva alla vita pubblica della « civil society » °°. Lo spettatore diviene in questo periodo, oltreché modello di comportamento morale e arbitro del gusto, anche un carattere sociale, un atteggiamento pubblico da assumere, dal quale Addison, dopo l’esperienza in un certo senso fallimentare del « Tatler », bandisce rigorosamente la cronaca e la politica. Ideale di un equilibrato ed imparziale osservatore e giudice morale, lontano dalle passioni, ma non per questo meno partecipe: la funzione educativa dei valori addinsoniani è fondata sulla nuova scienza e sul suo derivato, la religione naturale e consiste nell’educare l’uomo (e soprattutto la donna, alla quale vengono dedicate numerose opere di divulgazione scientifica) all’uso della « ragione ». I

24 Cfr su questo del consenso

punto, M. Di Matteo

in A. Smith,

in Il politico,

Rapporti

economici,

II, a cura

di M.

funzione statale e teoria

Tronti,

Feltrinelli,

Milano,

1982, e Morale dei sentimenti e Ricchezza delle nazioni, a cura di V. Dini e I. Cappiello,

Guida, Napoli, 1974. 25 P. Rogers, The Writer and Society, 26 P. Rogers, ibid., p. 48.

in The

XVIII

Century,

cit., p. 46.

96

Giuliana Gigli Ferreccio

discepoli sui quali Addison sa di poter contare sono figure sociali con radici già solide, risultato della rivoluzione borghese riuscita senza spargimento di sangue, per i quali, nelle parole di Koselleck, « il giudizio morale diviene critica politica non soltanto in quanto emette sulla politica il proprio severo verdetto, ma appunto anche all’inverso, in quanto, come istanza giudicante, si pone fuori dell'ambito della politica » ?°. Tali figure trovano la propria ragion d’essere contrapponendosi alle altre due opzioni possibili, caratterizzate entrambe da quella natura politica che lo spettatore deve accuratamente evitare: quella del libertino e quella dell’entusiasta. Secondo recenti indagini storiche ?, questi primi decenni del settecento inglese, quell’aureo periodo di pace all'insegna del compromesso liberale che la storia delle idee, pur all’altissimo livello di B. Willey e A.O. Lovejoy, tendeva a tramandare, si rivelano percorsi da conflitti oltreché sociali anche e soprattutto politico-ideologici, il cui esito rappacificante, solo a posteriori risultò poi scontato e assicurato dalla vittoria della « ragione » sulle passioni di parte ?. Le conquiste civili e culturali del periodo debbono considerarsi risultato non tanto dei progressi della scienza (puritana o realista), quanto piuttosto di un compromesso culturale (e, in quanto tale, anche politico) di stampo intelligentemente conservatore (per non perdere le conquiste di libertà della rivoluzione gloriosa) che, prima del consolidarsi del predominio Whig, rimane instabile e sovente passibile di ridefinizioni, soprattutto da parte delle correnti libertine-ateo-repubblicane. L’equilibrio viene mantenuto, secondo M.C. Jacob, dai fautori anglicani della muova scienza: essi trovano nella religione naturale la versione cristiana della filosofia naturale newtoniana che a sua volta svolge la funzione di puntello indispensabile per la versione latitudinaria del protestantesimo. La religione non viene quindi combattuta, ma sostenuta dalla scienza. Furono gli ecclesiastici latitudinari, che partecipavano alle discussioni scientifiche della Royal Society, a servirsi della nuova filosofia meccanicistica contro l’ateismo, compiendo al tempo stesso la duplice funzione di divulgare la nuova scienza, allontanando

2" R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese. Il Mulino, Bologna, 1972. Cfr. soprattutto la sezione II L’aurocoscienze degli illuministi e lo stato assoluto. 28 M. C. Jacob, cit., in particolare i capitoli 6 e 7. 2 Sul versante della storia sociale, E. P. Thompson affronta il problema della definizione dei conflitti sociali del periodo, soprattutto nel capitolo: La società inglese del secolo XVIII. lotta di classe senza classe?, nel volume Società patrizia, cultura plebea, Einaudi, Torino, 1981.

Lo spettatore imparziale

da essa timorosi sospetti di simpatie libertine,

97

e di creare consenso su un

ideale formativo e sociale attraverso l’influente attività dei loro sermoni (a

partire dal 1692 le Boyle Lectures diventarono volgarizzazione della filosofia newtoniana per un pubblico piuttosto ampio). Una pratica culturale e politica tutt’altro che pacifica, come tutt’altro che passiva era l’attività dello spettatore addisoniano, poiché il conflitto fra newtoniani e radicali durò per tutto il regno della Regina Anna né si spense del tutto finché i Whigs non si affermarono al potere. Vissuti e formatisi nel clima della Restaurazione come minoranza dissidente, gli ecclesiastici anglicani, divenuti fautori di Newton, erano stati costretti dalla rivoluzione puritana a formulare una versione di cristianesimo adeguata ad essere funzionale alla società civile, allo stesso modo in cui l’universo newtoniano aveva fornito un modello per un’organizzazione sociale stabile e prospera, governata dall’interesse privato che assolveva alla funzione di migliorare il benessere pubblico, possibile ora anche senza il costante intervento divino. La tolleranza religiosa divenne indifferenza religiosa, ma consentì nel massimo della libertà di scelta, di ancorare l'ordinamento sociale ad una forma religiosa. Non per nulla l’assillo costante di puritani e realisti, durante il periodo rivoluzionario, fu sempre quello di legittimare la funzione statale della religione: a ciò si arrivò soltanto con il sottrarre alla religione l’elemento ideologico-politico. Lo stesso scontro fra teorie « benevole » ed « egoistiche » (Mandeville) della natura umana, che si esplica in un generalizzato attacco alle posizioni materialistiche hobbesiane, è sintomo di un atteggiamento difensivo nei confronti di nemici più reali, rinvenibili fra le file stesse del clero anglicano: l’ateismo e il libertinismo. Sono essi i nemici principali (di derivazione radicale), legati come sono all’ideologia politica derivante dalla tradizione re-

pubblicana e rivoluzionaria ®. Il pericolo quindi per il liberalismo non è tanto esterno, nelle sette, peraltro al momento poco attive, degli « entusiasti », quanto piuttosto interno; esso è stigmatizzato in modo indifterenziato come deista, libertino, ateo, panteista. Lo stesso Shaftesbury che, secondo alcuni, sarebbe la connessione di pensiero fra neoplatonismo cantabrigense e sorgente liberalismo, se considerato sotto il profilo di personaggio storico, fu spesso accusato di essere libertino ed ateo. Riesce quindi problematico, se si prescinde dalla storia delle idee, mantenere saldo quel filo idealistico che, respinti gli attacchi di Hobbes, trionfa nel liberalismo illuminato settecentesco, fino al romanticismo. Pare piuttosto che vi siano interruzioni e inversioni di rotta, e pare convincente l’interpretazione di Tre30 Cfr. M. C. Jacob,

IMlurmzinismo

radicale.

Il Mulino,

Bologna,

1983.

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Giuliana Gigli Ferreccio

vor-Roper che vede le correnti preromantiche nascere dal moralismo scozzese, quindi da una situazione sociale, politica e culturale nuova (la corrente neoplatonica essendosi interrotta per vicende storiche e generazionali, ed essendo stata solo in parte in seguito recuperata in Germania per riapparire

in Inghilterra soltanto come un effetto di ritorno) *. Il carattere sociale dello spettatore, personificazione della opinione pubblica, affonda quindi le proprie radici in un fortunato compromesso la cui durata avrebbe felicemente superato le crisi settecentesche. Addison lo elabora come protagonista per eccellenza della vita pubblica, « gentleman » distaccato e acuto osservatore, proprio nel momento in cui dal personaggio pubblico viene espunto l’elemento politico. Lo « spettatore » costituisce il rito di passaggio tra il libero pensatore e l’uomo di sentimento che negli anni quaranta diverrà figura egemonica di un’instabile mediazione.

4.

Dramatick narrative: formazione

la coscienza autonoma

come punto d'arrivo deila

« It will be seen by this time that the author had a great end in view. He has lived to see scepticism and infidelity openly avowed, and even endeavoured to be propagated from the press: the great doctrines of the gospel brought into question: those of self-denial and mortification blotted out of the catalogue of christian virtues; and a taste even to wantonness for out-door pleasure and luxury, to the general exclusion of domestic as well as public virtue, industriously promoted among all ranks and degrees of people ... He was resolved therefore to attempt something that never yet had been done. He considered that the tragic poets have as seldom made their heroes true objects of pity, as the comic theirs laudable ones of imitation, and still more rarely have made them in their deaths look forward to a future hope » *.

81 L’apporto dell’illuminismo scozzese alla cultura inglese settecentesca viene rivalutato, oltre che da H. R. Trevor-Roper, L’illuminismo scozzese, in Interpretazioni del. l’illuminismo, Il Mulino, Bologna, 1979, anche da studi più recenti di impostazione storico-sociale come per esempio The Enlightenment in Its National Context, a cura di R.

Porter, M. Teich, Cambridge U. P., 1980, in particolare nel saggio di N. Phillipson The Scottish Enlightenment. 2 S. Richardson, cit., vol. IV, p. 553. « Deve essere chiaro ormai che l’autore si proposto uno scopo di grande elevazione morale. A questo punto della sua vita, egli Dr ni

Lo spettatore imparziale

99

Con chiara coscienza delle innovazioni apportate alla forma letteraria moderna per eccellenza, Richardson, nel postscritto al suo secondo romanzo, tenta di esporne il principio di stilizzazione, ricollegando la sua « history » al genere drammatico piuttosto che a quello epico (come aveva fatto Fielding) e proponendolo come superamento di entrambi. Dalla tragedia, la « narrativa drammatica » dovrà mutuare l’intreccio di azione e carattere che conferisce al protagonista dignità morale e profondità psicologica; dovrà tuttavia superare la catarsi tragica in un’identificazione simpatetica, possibile solo grazie alla trasformazione della passione tragica in educazione sentimentale, dell’astrazione del conflitto tragico nella concretezza psicologica dell’esistenza empirica, la cui verosimiglianza non convince tanto per approssimazione alla verità quanto per l’intensità dell’effetto che provoca. La commedia, a sua volta, dovrà fornire esempi di virtù premiata e di nefandezze punite, secondo il principio del lieto fine che ristabilisce la « giustizia poetica ». Infine, la registrazione immediata dell’esperienza nella forma del romanzo epistolare dovrà ovviare alle implausibilità del pur grande maestro, Marivaux, i cui 7orzances costringono i protagonisti a faticosi ed improbabili sforzi di memoria nel riportare, a distanza di anni, i dettagli più minuziosi di un’emozione, di un gesto appena percepible, di una conversazione elaborata. Le questioni affrontate nel postscritto all’ultimo volume di Clarissa denunciano una problematizzazione del nesso che unisce formazione dell’« uomo economico » e valori morali; questa stessa, scopre i primi impedimenti al processo lineare di identificazione della coscienza borghese. Senza voler affermare che Clarissa sia un romanzo mal riuscito, non si può tuttavia ignorarne la struttura ibrida, la mescolanza dei generi che la allontanano dall’etica mercantile di un Defoe come pure dalla saggezza autoironica di un Fielding.

Rappresentare un percorso di autoeducazione del sentimento non è per Ri-

stato costretto a farsi testimone del pubblico incoraggiamento di scetticismo e irreligione, dei tentativi di propagarli attraverso la stampa; egli ha visto mettere in discussione le grandi dottrine del Vangelo e i principi dell’abnegazione e della mortificazione ha visto cancellati dal catalogo delle virtù cristiane. Ha persino dovuto assistere alla propagazione alacre, fra persone di ogni ceto e rango, di comportamenti che spingono alla ricerca smodata di pubblici piaceri e di lussi sfrenati ad esclusione di pubbliche e private virtù [...]. Egli ha quindi deciso di avventurarsi in un'impresa mai tentata prima d’ora. Ha riflettuto sul fatto che i poeti tragici sono stati così inefficaci nel rendere i loro eroi oggetto di pietà, quanto quelli comici hanno fallito nel rendere i loro oggetto di imitazione. Soprattutto, essi hanno raramente offerto loro la possibilità, in punto di morte, di guardate ad una speranza futura ». (Le traduzioni da Clarissa sono mie). nonché

100

Giuliana Gigli Ferreccio

chardson, come per altri autori settecenteschi, una convenzione letteraria di copertura, bensì l’estrinsecazione stessa dell’etica protestante che Clarissa incarna nella sua insolubile doppiezza. La sua formazione si deve attuare attraverso il superamento di prove che dimostrino sia l’ineluttabilità del conflitto uomo-natura, sia la possibilità del suo scioglimento attraverso. il lavoro della coscienza individuale, in un percorso di caduta e redenzione che ricorda in parte la felix culpa dell’Adamo miltoniano:

« And who that are in earnest in their profession of Christianity, but will rather envy than regret the triumphant death of CLARISSA; whose piety, from early childhood, whose diffusive charity; whose steady virtue; whose Christian humility; whose forgiving spirit; whose meekness, and resignation, Heaven 0n/y could reward? * L’accostamento a Milton illumina il problema formale di Clarissa oltre a quello morale: come Milton, Richardson è animato da una passione civile che lo spinge verso la chiarezza utopica del destino tragico; tuttavia ad entrambi la filosofia cristiana della « redenzione » impedisce di assumere la tragicità a concetto fondamentale. La fine tragica di Clarissa non rappresenza quindi una scelta formale costitutiva della sua concezione del mondo, bensì un epilogo tragico in tono minore che l’autore si trova costretto a giustificare agli occhi di un pubblico reclamante « giustizia poetica » con l'inserimento incongruente di future ricompense celesti, compensatorie al sacrificio della virtù. L’insistenza dell’autore sulla positività formativa della dolorosa fine di Clarissa, lo spazio esteso che la sua morte trionfante occupa nell’opera (e soprattutto l’orchestrazione della cerimonia e il disporre delle proprietà, dai merletti al proprio corpo), se non si vogliono interpretare come semplice

lapsus autoriale, possono essere ricondotte ad unità stilistica a partire da una lettura storica della teoria lukacsiana del romance come forma di dramma non tragico, all’interno della quale Clarissa potrebbe intendersi quale punto di sospensione tra dramma luttuoso e possibilità progressiva di formazione. Se la si considera come opera di transizione fra romance e romanzo formativo, tenendo anche conto del debito di Richardson nei con3 «E chi non invidierebbe, se fosse sincero

nel professatsi cristiano, la morte

trion-

fante di Clarissa, la cui devozione fin dalla prima infanzia, la cui salda virtù, la cui umiltà

cristiana, lo spirito magnanimo, compensare? ». Ibid., p. 558.

la dolcezza e la rassegnazione, solo il cielo potrebbe ri-

Lo spettatore imparziale

101

fronti del dramma (il conflitto tra fanciulla virtuosa e libertino licenzioso trae spunto dalla tragedia di Rowe The Fair Penitent (1703), a sua volta

rifacimento della Fata! Dowry, di Massinger e Field), si potrà coglierne la logica compositiva nella rappresentazione di un esito « tragico » del processo formativo il cui opposto speculare è costituito dalla « comicità » del Tristram Shandy®. La trasformazione di Clarissa verso una figura di martire elude gli scopi di Richardson che vorrebbe invece presentarne la morte come trionfo anche terreno: la fusione di commedia (laudable objects of imitation) e tragedia (true objects of pity) nella forma epica del narrabile

porta infatti al conflitto insanabile della perpetua luttuosità, il cui rovescio obbligato è la comicità del Tristram Shandy, che al romance si rifà esplicitamente resuscitando il matto Yorick, personaggio emblematico, controfigura romanzesca del protagonista. Che il conflitto cui Clarissa allude sia insanabile non rientra tuttavia nella prospettiva intenzionale e cosciente del suo autore, né emerge dalle reazioni contemporanee più note, come quella di Diderot nell’Hé/oge de Richardson, la cui partecipata immedesimazione emotiva e larmoyante copre a malapena l’atteggiamento ben diverso che il fine secolo assumerà verso l’oltraggio alla virtù femminile. Non vi sono dubbi sul fatto che l’autore presenti il lento suicidio di Clarissa come un finale, se non lieto, senz’altro positivo: all’opposto dell’altrettanto nota, ma meno rigorosamente casta Presidentessa di Tourvel, Clarissa trionfa moralmente e intellettualmente sul persecutore, il cui ricorso alla violenza fisica non è che un'ulteriore ammissione di sconfitta. È però altrettanto cetto che egli imposti la grandezza di Clarissa sul conflitto tragico piuttosto che sulla conciliazione finale, che aveva costituito la notorietà da feuilleton del suo romanzo precedente, Pamela. La scelta stessa della seconda protagonista indica il tentativo di innalzare il personaggio sul piano estetico-morale risalendo le gerarchie sociali: Clarissa lascia i panni della cenerentola fiabesca per assumere quelli, già suggeriti dalla versione goldoniana di Pamela, della ricca e rispettabile borghese. Lo scontro fra borghese e libertino non viene presentato come essenzialmente ineluttabile, ma lo diventa soltanto a partire dallo stupro (a una buona metà dell’opera), la soglia oltre la quale il destino cancella pet la protagonista ogni

possibilità di conciliazione, come se la tragedia fosse diventata necessità di

pari passo con la progressiva

incompatibilità delle due facce di Clarissa,

3 Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturzo e la melanconia, Einaudi, Torino, ÎEKS) ib ZIO

102

Giuliana Gigli Ferreccio

quella puritana e quella borghese *. Tale conflitto tuttavia non è essenziale al collegamento degli eventi cui i protagonisti prendono parte e che determinano il loro carattere: al contrario, ciò che ne determina lo scatenamento è un evento irrazionale rispetto all’io intelligibile dei personaggi in conflitto. Se la tragedia si può definire come «la forma concreta di una razionalità che deve accentuare la tensione fino all’estremo di un conflitto che segue la propria dialettica fino alla catastrofe finale » #, lo scontro fra l’etica rappresentata dalla virtù aristocratica di Lovelace (il potere, il puro esercizio della volontà) e quella rappresentata dalla virtù borghese di Clarissa( il diritto di natura basato sul sentimento) dovrebbe fin dall’inizio seguire il proprio corso logico nella direzione della tragedia; ciò che è impedito dall’irrazionalità del conflitto che, rendendo ambigua la concezione dei caratteri. conferisce loro, accanto a quella drammatica, una dimensione empirica terrena che tende bensì verso la forma epica senza peraltro lasciarla prevalere. L’assenza della dialettica necessaria ad un esito formativo compiuto è evidenziata dall’ambiguità dei due protagonisti: Lovelace, rinnegando una genealogia facilmente rintracciabile, che attraversa la commedia della Restaurazione e che ha come referente tragico il « politick villain » elisabettiano, è diventato un Machiavelli degradate al salotto, deprivato della dignità tragica di forza cosmica da patte di un autore che si premura di assicurarci nella prefazione che il suo libertinaggio non tocca i principi della morale, ma soltanto alcuni individui empirici (le donne); da parte di un autore che non appare particolarmente colpito dalla esclusione del « fait sex » dai diritti di cittadinanza:

« the gentlemen, though professed libertines as to the femal sex [....] are not, however, either infidels ot scoffers, nor yet such as think themselves freed from observance of those other moral duties which bind man to man » ””. % C. Hill propende per l’interpretazione « tragica » rifacendosi a A. Kettle: « Clarissa bas to fight her family and Lovelace; they for their part cannot let her win without undermining all that is to them necessary and even sacred ». « Clarissa deve combattere contro la famiglia e Lovelace; essi, a loro volta, non possono permetterle di vincere senza mettere a repentaglio tutto ciò che è per loro sacro e necessario ». C. Hill, Puritanism and Revolution, Panther, London, 1969, p. 373.

3 G. Lukacs, Scritti sul romance,

cit., p. 95 segg.

87 S. Richardson, cit., vol. I, p. 13: «i gentiluomini, benché apertamente libertini verso il sesso femminile [...] non sono tuttavia miscredenti o sprezzanti, né fra coloro che si ritengono esentati dall’osservanza di quegli altri doveri morali che legano gli uomini fra loro ».

Lo spettatore imparziale

103

Per entrare nella cosmologia romanzesca il libertino deve scindere da sé la volontà politica, né può ritrovarla in un alter ego drammatico semplificato a corrispondente epistolare, copia sbiadita e suscettibile di commuoversi e di pentirsi (Belford). Lovelace è un Dongiovanni senza Commendatore e senza Leporello, la cui inessenzialità rende scontata la vittoria morale di Clarissa al punto da capovolgere continuamente la simpatia del lettore che va in egual misura sia al persecutore che alla perseguitata, richiedendogli continui spostamenti di prospettiva: la sapiente e prolungata macchinazione culminante nello stupro occupa quasi tutta la parte centrale del romanzo e sdoppia il lettore da sentimentale partecipe alle sventure della virtù in voyeuristico estimatore di situazioni sadiche. La degradazione del libertino (a muoverlo non è la passione pura, il puro desiderio di conquista, bensì il possesso di una donna particolare, empirica,

quasi che il feticismo merceologico robinsoniano si sia insinuato anche nell’aristocratica virtù; pensiamo poi alla versione hogarthiana dello stesso tema: il « rake » si è trasformato in credulone, arruffone e vanitoso) sposta l’interesse drammatico dall’essenza del conflitto al personaggio del protagonista, contribuendo a darne una caratterizzazione epica anziché tragica: la passione di Clarissa non è che un’occasione per superare le prove cui questa viene sottoposta e non già una via da seguire per conoscere

il proprio

destino e innalzarsi all'essenza umana attraverso il confronto con esso. D’altra parte la caratterizzazione dell’io empirico di Clarissa non si svolge nemmeno nella direzione della forma epica romanzesca; essa si svolge piuttosto in quella della fiaba, per l'accumulo un po’ schematico di virtù e lo scarso approfondimento psicologico che la contraddistinguono. Come Lovelace, anch’essa è controbilanciata da un alter ego speculare in tono minore che non ne accresce la problematicità cancellandone ogni dialettica (Miss Howe). Riassumendo, gli elementi discordanti che convergono nella « narrativa drammatica » danno luogo ad una forma letteraria ibrida che, ponendo le basi della versione moderna del genere romanzesco, ne rivela con particolare chiarezza i procedimenti costitutivi. Se assumiamo che il « lieto fine » consiste nel trionfo della virtù (ipotesi questa avvalorata dalla struttura fiabesca e schematica del carattere di Clarissa), diventa poi problematico definirne l’essenza; essendo ciò che trionfa a coronamento del tutto non già la virtù di Clarissa quanto piuttosto la sua fiducia incrollabile nell’infallibilità della propria coscienza (puritana), la sua assolutamente unitaria concezione del sé inteso quale oggetto controllabile, proprietà privata. Così come il libertino aveva feticizzato il fine della caccia erotica soccombendo non all’innamoramento sentimentale (come il Valmont delle Lizisons), bensì al

104

Giuliana Gigli Ferreccio

possesso della donna, la borghese trasforma la virtù da rapporto a cosa identificabile con il dominio sul proprio corpo e sulle proprie cose. In ciò consiste il motivo principale per cui il punto di partenza della stilizzazione non diventa mai la presa di coscienza della frantumazione dell’io, benché la commistione di tragedia e lieto fine ne fornisca tutti i presupposti. Clarissa non potrebbe d’altronde attardarsi a riflettere o ad approfondire la conoscenza di sé e delle proprie motivazioni perché il personaggio e la vicenda si esplicano come fondazione del mito romanzesco basato sulla equazione natura-ragione e sulla possibilità del sentimento di garantire lo scambio eguale. Tale equazione e tale possibilità costituiscono il nucleo della cosmologia borghese basata sull’individualismo possessivo; questa stessa, alla struttura fiabesca delle precedenti figure mitologiche secolarizzate (Moll, Roxana, Pamela ecc.) che ai desideri terreni ottenevano esaudimenti di « tipo terreno privi di sacralità », deve aggiungere, come approfondimento spirituale, una psicologia e un’etica che alle prime facevano difetto *. L’oscillazione tra la forma epica e quella drammatica è conseguenza degli stessi presupposti ideologici di Richardson. Con l’autore, la protagonista non diviene mai consapevole della scissione costitutiva dell’individuo borghese poiché, essendo ormai forza dominante, non è più in grado di pervenire ad una plausibile mediazione fra individuo empirico e ideale umano universale. Non contiene, Clarissa, spinte utopistiche entro di sé, il principio etico rivoluzionario della società borghese fondato sul potenziamento idealmente illimitato dell’individualità essendo entrato ormai in conflitto con se stesso, seppure in maniera ancora non del tutto manifesta. Che Richardson, pur rappresentando tale contraddizione, non sia cosciente della sua origine, è dimostrato dal fatto che l’antagonista del suo personaggio venga identificato con il nemico esterno, con l’aristocratico ateo portatore di scepticism and infidelity e non venga già colto all’interno degli stessi valori che pure è sua intenzione affermare, ormai divenuti comuni ad entrambi. Lo sforzo utopistico sostenuto da Clarissa al fine di far prevalere la pienezza della

propria individualità si scontra con una concezione dell’individuo « borghese » che ha già trionfato e che già da lei è stata interiorizzata; esso cozza contro una concezione che ha già permeato di sé le relazioni sociali ed umane entro cui la protagonista si muove senza peraltro vedervisi rispecchiata. Ine vitabile conseguenza del tentativo di conciliare in un lieto fine consolatorio un conflitto i cui poli vengono confusi, lo sforzo di giustificare la giustizia

SEGRlukacst

ibid p.io97.

Lo spettatore imparziale

105

poetica agli occhi del pubblico reale e fittizio risulta vano, quasiché giustizia si possa dare senza individuazione del colpevole. Al di là della giustificazione a posteriori, tuttavia, le ambiguità

stilistiche indicano che la contrad-

dizione borghese non è rappresentabile in forma epica se non attraverso la presa di coscienza della scissione dell'io. Se viene rimossa e spostata all’esterno, sull’« altro » (in questo caso, sopravvivenza del passato aristocratico), il carattere della protagonista ne viene contaminato in senso patologico; la sua crescita risulta anomala, la sua formazione, non già sviluppata sull’esperienza, come i presupposti del romanzo darebbero ad intendere, ma deviata su quella sopravvenuta rimozione, risulta interrotta. Inutile ricordare che l’accumulazione formativa di esperienza attraverso il superamento di ostacoli casuali necessita, per rappresentarsi, di una concezione progressiva del tempo che rimane estranea al nostro autore. Sarà il Tristramz Shandy ad evidenziare la centralità della tematizzazione del tempo storico e individuale quale problema essenziale da risolvere per impostare il superamento dell’impasse formale incontrata dal romanzo in quel momento. Lovelace e Clarissa sono la stessa persona, le due facce del borghese. La caratterizzazione del libertino nei termini di un gigionesco mariuolo, può risultare credibile solo per chi, conquistato ormai il potere, non riesce a raffigurarsi il nemico che in forma di motto di spirito, con ciò tradendo il proprio desiderio latente di rassomigliare all’aristocrazia spodestata, di far parte del suo mondo, di essere ricompreso nella sua visione del mondo. Il libertinaggio e la virtù si affrontano come immagini contrapposte di uno stesso universo borghese, entrambe irrapresentabili, in quanto l’una desiderio inconfessato, l’altra dover essere astratto. La scelta di una psicologia femminile a pro-

tagonista dell’ideale rivoluzionario borghese della parità giuridico-privata dei cittadini assolve qui alla stessa funzione cui vengono piegati i popoli visitati da Gulliver: come quelli, essa deve essere un mondo lontano e sconosciuto per poter essere legittimata a mettere in scena la nequizie della società contemporanea. Se il libertino troverà la propria esaltazione estetizzante nei perfidi protagonisti del romanzo gotico (The Castle of Otranto è un iperbolico divertissement che, a giudizio di alcuni, dà inizio a tal genere, nel 1764), Clarissa rimarrà un carattere di transizione, figura letteraria sospesa fra dramma ba: rocco ed epica romanzesca. In maniera non dissimile dai personaggi del romance essa non acquisisce conoscenza del proprio destino nel dispiegamento della passione, qui ridotta a semplice occasionale mezzo di superamento delle prove cui è sottoposta. Il suo carattere si manifesta attraverso

priva di spiritualità metafisica;

il suo slancio empirico

verso

una passione

la vita non

106

Giuliana Gigli Ferreccio

esprime che il privato desiderio dell’uomo di darsi una propria identità al solo scopo di garantire la propria semplice sopravvivenza. È la passione, quella di Clarissa, di chi attiva i propri valori indirizzandoli verso l’autoconservazione. L'individuo patadigmaticamente rappresentato da Clarissa esalta se stesso in quanto individuo empirico, significato ultimo e autosufficiente, cui il destino non aggiunge nulla se non una minaccia esterna ed estranea. Contrariamente all’eroe del romance tuttavia, egli non raggiunge la saggezza che emancipa dalla passività nei confronti delle passioni e che sola consente di viverle con il distacco dell’attore sulla scena, anche se la rassegnazione e la concretezza con la quale Clarissa si accinge ad allestire i fasti della propria cerimonia funebre possono, in questo caso, suggerire barocche reminiscenze « metafisiche » negli aspetti di estasi mistica che sovente vi affiorano. Non la saggezza o, se si vuole, l’autoriflessività, conferiscono grandezza al suo carattere, ma l’esatto loro contrario: è la sua determinazione a mutare la sua sofferenza passiva, la sua situazione costrittiva (anche nel senso con-

creto della casa-carcere in cui è tenuta inconsapevole prigioniera), capovolgendola in un dominio sul proprio corpo e sulle proprie cose, bensì reale anche se differito nel tempo, nella forma del proprio funerale diligentemente organizzato e del proprio testamento minuziosamente compilato. È in virtù di questa conclusione « positiva » che essa entra in possesso della sua più intima essenza, forzosamente conciliando natura e ragione, faticosamente ma ferreamente controllando la disposizione del proprio sé e delle cose proprie. Ma di qui anche la genesi e il necessario sviluppo di un processo perverso il cui esito non può che portare a un tipo particolare di follia. La passione

di Clarissa, come quella del romance, anziché crescere sull’essenza del suo carattere, si manifesta qui nella patologia, in quella particolare disposizione già ai suoi tempi definita « english malady »: la melancolia ”. E i riferimenti seicenteschi e « idolatri » di questa passione patologica non sfuggivano certamente nemmeno ai più accaniti e razionalistici sostenitori dell’educazione sentimentale (pensiamo al noto episodio di John Donne fattosi ritrarre in

giovane età nel proprio sudario). La morte trionfante di Clarissa troneggia su tutto il quarto volume come un’estasi controriformistica (il cui rovescio è l’altro topos seicentesco di Giuditta trionfante e truculenta); la protagonista trionfa sulla morte trovando la propria ricompensa celeste in un controllo

? Cfr. R. Klibansky, E. Panofsky, accentuata coscienza di sé.

F. Saxl, cit., p. 215

seggi:

La melanconia

come

Lo spettatore imparziale

107

minuzioso e realistico quanto fobico ossessivo dei propri averi terreni e del proprio corpo ‘°. La giustizia poetica cui tende il romanzo formativo di Ricardson vuole dimostrare che la forza distruttiva della passione viene smussata ed incivilita dal sentimento quale specifica forma di identificazione del sé borghese; l’esito tuttavia ne capovolge l’assunto poiché: o la giustizia poetica punisce Clarissa per la sua virtù oppure la poesia registra un difetto di giustizia. In entrambi i casi l'immaginazione sentimentale, in assenza di dimensione trascendente, costruisce le proprie « carceri di Piranesi », espressione parallela e contemporanea al romanzo di Richardson. La protagonista (e l’autore con lei), inconsapevole della propria scissione ed immemore del proprio passato puritano e rivoluzionario, pensando di poter conciliare utopia e realtà storica, scambia la contraddizione di oggi con il nemico esterno di ieri, e tradisce nella psicopatologia della morte trionfante ciò che la sua virtù monomaniacale pretendeva di tenere nascosto. L’individualismo possessivo del personaggio rifiuta ed espelle dalla propria sfera privata l’immagine dell’altro da sé, con ciò negando quello stesso contratto che avrebbe altrimenti potuto consentire il prodursi dello scambio sentimentale fra individui giuridicamente uguali, condizione questa che solo in seguito, esplicitamente individuata, acconsentirà alla ben diversa crescita autoformativa del nuovo protagonista del Bildungsroman. In Clarissa coesistono dunque due concezione del carattere, quello epico e quello drammatico (io empirico / io intelligibile), senza che l'uno prevalga mai sull’altro, con la conseguente produzione di uno sdoppiamento di prospettiva nel destinatario. L’ambiguità che ne deriva non è voluta dall’autore che, fin dall’inizio, si propone di formare il giudizio morale attraverso l’immedesimazione sentimentale del lettore. Perché Clarissa si possa considerare personaggio tragico — lo si è visto — la sua passione dovrebbe essere l’unico strumento di conoscenza del mondo tragico e di se stessa, mentre il suo slancio la spinge nella direzione opposta all’accettazione del destino, verso il superamento non già della propria passione, che mai viene verbalizzata, quanto piuttosto degli ostacoli che le si frappongono dall’esterno. Il superamento della prova sta al contrario alla base di una concezione epica del carattere, in cui il lieto fine rappresenta la possibilità di figurarsi razionalmente il divino (l’esempio del Pi/grimz’s Progress di Bunyan è fonda-

mentale per i romanzieri settecenteschi benché il suo carattere confessionale

40 Cfr. N. Fusini, La passione

dell'origine,

Dedalo,

Bari, 1981.

108

Giuliana Gigli Ferreccio

puritano ne ufficializzi l’influsso in America piuttosto che in Inghilterra). Nel nostro caso tuttavia il dualismo e il collasso hanno già contaminato a tal punto il mondo interiore (ed esteriore) del romanzo che il lieto fine non può che essere ormai imposto dall’esterno, da una trascendenza metafisica che contraddice di fatto sia il tentativo di fondare il punto di vista morale sul perseguimento delle naturali inclinazioni del personaggio positivo, sia la concezione (di derivazione non solo puritana, ma genericamente legata ad un ottimistico individualismo economico) secondo la quale in un mondo razionale il bene non può produrre che ricompense anche e soprattutto terrene. Clarissa dunque non acquisisce mai coscienza di sé, né come figura di « martire» né tantomeno di « saggio » ‘; essa rimane personaggio d’azione. In quanto tale essa è presa nell’inestricabile groviglio del senso e del non senso, vede le proprie azioni capovolgetsi nel loro opposto, ma non è in grado di penetrarne la ragione profonda. Nella soluzione, paradossalmente, Richardson, intento com'è nel riaffermare l’intima religiosità del mondo che rappresenta, dimostra che solo l’intervento di significati esterni può sopperire all’assenza di significati immanenti. La coesistenza di due principi di stilizzazione del carattere pone ostacoli al processo di immedesimazione del destinatario che sta alla base della produzione romanzesca e che costituisce la forma di rapporto essenziale alla parità contrattualistica dei diritti di cui l’universo romanzesco vuole essere rappresentazione.

Contrariamente ai generi del passato, il nuovo genere letterario si basa sul presupposto di un naturale rapporto paritario fra autore e lettore, il modello cui l’autore si ispira essendo la vita stessa di chi legge e non già quella dei grandi uomini della storia o della tragedia per rappresentare i quali egli si è sempre valso di intercessioni sovrannaturali, mitiche, teologiche. Come sostiene il dottor Johnson, « la narrativa oggi di moda espone la vita nei suoi aspetti più veri diversificandola soltanto con gli eventi che quotidianamente si danno nel mondo e con passioni e qualità che effettivamente si riscontrano nella conversazione con il prossimo ». La finzione romanzesca si fonda sulla propria negazione e si giustifica in quanto trasparenza, veridica esposizione di ciò che è, la cui funzione formativa consiste nel far dimenticare al lettore di star leggendo un libro perché si abbandoni alla storia narrata come se la stesse vivendo, e ne presuppone l’immedesimazione fiduciosa poiché l’autore fa semplicemente le sue veci; si pone al suo

4 G. Lukacs, ibid., p. 105.

Lo spettatore imparziale

109

posto per rappresentarlo a sé stesso in un gioco di specchi che riproduce a livello immaginario l’effettivo rapporto paritario fra uomini nella società incivilita, libera da legami assolutistici. Perché l’immedesimazione avvenga, occorre tuttavia, formare un tipo di destinatario che accetti questa visione del mondo, per il quale l’opera assolva alla sua funzione in quanto lo educhi a mettersi

in rapporto con il prossimo

operando

un immaginario

scambio

di situazioni. Diventa quindi fondamentale per il romanzo costruire al proprio interno un punto di vista morale unitario, nel quale il lettore possa specchiarsi e identificarsi. La costante ricerca di un « punto di vista » che Richardson trasmette alla propria opera, indipendentemente dagli esiti cui questa perviene, è a questo proposito il sintomo di un effettivo fenomeno di slittamento del concetto di pubblico che nel romanzo, in particolare, trova la sua espressione più chiara. Basta un confronto con tale concetto, implicito ed esplicito, quale emerge dalle pagine dello « Spectator », grande precedente del romanzo formativo nella funzione di educatore dei sentimenti e del comportamento, per rilevare ciò che il romanzo apporta alla sua ridefinizione. Sul piano storico, certamente, la produzione del concetto di opinione pubblica è legata indissolubilmente all’affrancamento politico e giuridico della borghesia, di cui la formazione di un io pubblico borghese è necessario corollario; ma è soltanto con il romanzo di formazione che la sintesi formativa verrà tentata in modo esplicito attraverso la configurazione di uno « spettatore » il cui compito sarà quello di incarnare l’interiorizzazione della legge come premessa alla sua applicazione all’esterno *. L’educazione sentimentale rappresenta l’opposto di quell’educazione curiale che ancora caratterizza il romanzo francese del sei/settecento da cui pure Richardson trae la propria ispirazione. In Crébillon fils, per esempio, la norma

è seguita, mai interiorizzata;

anzi è necessario che un’accorta scis-

sione fra apparenza ed essenza domini il carattere per soffocare, non già pet educare, le passioni: il governo di sé viene esercitato tramite un’autorità convenzionale, estranea alla naturale inclinazione, poiché natura e ragione non devono coincidere. Il romanzo formativo al contrario non tollera autorità esterna che imponga regole morali; deve essere la vita stessa che, esplicandosi, si autogoverna; l’interiorizzazione completa l’esito del processo formativo. Il dominio dell’economia pulsionale è infatti lo scopo e il presup-

4 Su questo punto cfr. R. Esposito, Politica e tecnica nel ‘600, in Divenire della ragione

moderna,

Liguori,

Napoli

1981.

110

Giuliana Gigli Ferreccio

posto della morte trionfante di Clarissa poiché i vincoli etico-teologici sono stati interiorizzati

e i controlli, precedentemente

5. Lo spettatore

imparziale.

vissuti in maniera

esterna,

vengono ora assunti nella nuova configurazione del sé. La virtù borghese di Clarissa consiste in un autocontrollo che è condizione di controllo sugli altri e sulle cose.

La costituzione laica (non metafisica) del punto di vista morale, cui il romanzo di Richardson allude senza risolverne le contraddizioni, costituisce la risposta che Adam Smith col TMS suggerisce alla crisi del concetto di

coscienza individuale. L’etica del moral sense di derivazione hutchesoniana si dimostra tuttora ancorata alle idee innate, che pure dichiara di volere abbandonare seguendo il versante del sentimento; Smith si impegna a superarne la dottrina servendosi del concetto teorico di simpatia e della figura teorica (ma anche mitopoietica) dello spettatore imparziale. Sul versante del romanzo la stessa crisi viene tematizzata da L. Sterne nella Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman (d’ora in poi TS) #, che con la TMS ha in comune, oltre alla data di pubblicazione, l’indagine sull’autonomia dell’uomo sentimentale, seppure gli esiti siano diametralmente opposti *. Il riferimento al TS è essenziale per ricostruire in senso dinamico la genealogia del romanzesco, la nascita « dell’autocoscienza del soggetto empirico come storia narrabile » a partire da Clarissa fino al romanzo di formazione « classico » (Werther,

Nouvelle

Heloîse,

Ortis,

ecc.);

l’opera

sterniana

infatti

svi-

luppa al proprio interno quella dialettica di « romanzesco e libertino » cui Clarissa aveva soltanto alluso #. Il TS è la registrazione puntuale di una crisi, la consapevole presa d’atto dell’impossibilità di marrare l’esperienza, la disamina di una formazione impossibile (la vita e le opinioni di Tristram ci vengono esposte da un narratore-protagonista che per buona metà del libro

4 A cura di G. Saintsbury, Everyman, Londra, 1978. 4 Nel suo saggio Imagination and Sympathy: Sterne and Adam

Smith, « Journal of the History of Ideas », III, 1949, K. Maclean ritiene invece che vi sia una sostanziale con-

tinuità da Shaftesbury a Smith e Sterne guage of the imagination » (la comune maginazione). 4 E. Sanguineti, Introduzione a Ugo Fagnani Arese, Serra e Riva, Milano,

per « their consideration oi morality in the lan. riflessione sulla moralità nel linguaggio dell’imFoscolo, Lacrime 1981, p. 16.

d’amore,

Lettere a Antonietta

Lo spettatore imparziale

111

non è ancora nato). Tale orizzonte tematico viene capovolto e riproposto in

positivo dalla scoperta teorica di Adam Smith per il quale lo sdoppiamento del soggetto in attore e spettatore imparziale al tempo stesso risulta essere presupposto imprescindibile perché si possa riprendere a narrare in modo autoriflessivo la propria storia, quella storia cioè « che genera il romanzo romantico e che sopra le strutture del romanzo romantico si articola come esperienza, come esistenza sensata, salda e confonde il letterario e il vissuto, li rimescola in un interminabile, e non ancora oggi terminato, giuoco di specchi » ‘. Letterario e vissuto vengono tenuti distinti nel TS dall’assoluta parzialità della voce narrante così che Sterne, capovolgendo la « menzogna romanzesca » della trasparenza, mette in primo piano la stessa interazione drammatica tra autore e lettore nonché l’assoluta adialettica parzialità dei punti di vista dei diversi protagonisti. Ragione e sentimento sono qui personificati da due distinti personaggi, Walter Shandy e Uncle Toby, che non arrivano mai a dare un significato immanente al loro interagire, limitandosi a coesistere grazie all’ironia shandiana, ossia alla mediazione dialettica cui l’autore ricorre per porsi qui all’esterno del mondo che il romanzo rappresenta. La figura del parroco Yorick, unico, ricomposto futuro protagonista del Senti mental Journey rappresenta, nel TS, la semplice, occasionale controfigura dell’autore: vi appare solo inizialmente pet morire subito, lasciando però il proprio testamento spirituale (in quanto tale opposto a quello di Clarissa) nel sermone sulla coscienza, la cui lettura costituisce uno degli episodi chiave del romanzo di cui occupa tutto il primo volume: « When old age comes on, and repentance calls him to look back upon this black account, and state it over again with his conscience — Conscience looks into the Statutes at Large —; finds no express law broken by what he has done; — perceives no penalty or forfeiture of goods and chattels incurred; — sees no scourge waving over his head, or prison opening his gates upon him; — What is there to affright his conscience? — Conscience has got safely entrenched behind the Letter of the Law; sits there invulnerable, fortified with Cases and Reports so strongly on ali sides; — that it is not preaching can di-

spossess it of its hold ». Here Corporal Tri: and my uncle Toby exchanged looks with eachother. — Aye, Aye, Trim! quoth my uncle Toby, sha-

#6 Ibidem.

112

Giuliana Gigli Ferreccio

king his head, — these are but sorry fortifications, Trim, — O! very poor work answered Trim, to what your Honour and I make of it *.

Il personaggio sentimentale, lo zio Tobia, interessa qui particolarmente. Egli, come Clarissa, non arriva mai alla coscienza di sé ma al contrario dell’eroina borghese, accetta questa menomazione, questa impossibilità a prendere posizione attiva nei confronti della vita (la ferita all’inguinaia ricevuta in guerra simbolizza tale impossibilità insinuando il dubbio dell’impotenza) e la capovolge in un rapporto « sentimentale » con il proprio prossimo, in particolare con il suo ex aiutante di campo, caporale Trim. Un’inversione paradossale collega le resistenze maniaco-depressive della virtuosa Clarissa alle fortificazioni ludiche dello zio Tobia: per entrambi la comunicazione con gli altri, ma soprattutto l’identificazione sentimentale attraverso il rapporto con l’altro sesso, è preclusa per struttura caratteriale; la differenza sta nel punto di vista che l’autore costruisce per lo spettatore del dramma. In Clarissa questi si trova di fronte ad una concatenazione di conflitti non mediabili, il cui esito non può che essere la melanconica passività luttuosa; Shandy Hall, al contrario, lo pone attivamente di fronte alla scena di un dramma dello straniamento che gli impone un distacco autoriflessivo, sostituto affabulante della mancanza di comunicazione razionale, costituito da un’ironica saggezza

47 TS, p. 94. Le traduzioni che seguono sono tratte da: La vita e le opinioni di Tristano Shandy, trad. Ada Salvatore, Formiggini, Modena, 1922. L’edizione più recente, a cura di A. Meo, La vita e le opinioni di l'ristram Shandy, gentiluomo, si avvale dell’eccellente introduzione di G. Melchiori e mostra maggiore accuratezza nella terminologia. L’edizione Formiggini conserva tuttavia il fascino particolare della scoperta (fu la prima t‘aduzione italiana) e di uno stile fedele alla giocosa ambiguità del testo originale: «Quando finalmente la vecchiaia sopraggiunge e lo invita a dare un’occhiata a questo abominevole conto di dare ed avere per mettersi in regola con la coscienza, la Coscienza dà uno sguardo sommario allo Statuto e non vi trova alcuna legge che sia stata espressamente violata da ciò che egli ha fatto; sicché l’individuo, che non è incorso così in nessuna penalità non vedrà alcuna spada sospesa sulla sua testa, né alcuna porta di prigione aperta per lui... Cosa c'è dunque, che possa spaventare la sua coscienza? Trincerata dietro la lettera della legge, la Coscienza vi rimane invulnerabile, e così ben fiancheggiata di diritti e di doveri che non vi saranno mai prediche capaci di farla

capitolare ». A questo punto il caporale Trim e mio zio scambiarono uno sguardo. — Sicuro, Trim, sicuro! — Fece mio zio Tobia —. Sono queste delle gran brutte forvificazioni! — Oh, certamente! È un lavoro ben poco importante —, rispose Trim — special mente in confronto a ciò che Vossignoria ed io sappiamo fare », vol. I, p. 154,

Lo spettatore imparziale

113

che continuamente relativizza e capovolge le verità. Il feticistico autocontrollo di Clarissa trionfa nel possesso o nell’ascetica ma inarrendevole rinuncia (ben diversa dalla Enfsagung roussoviana o goethiana), mentre il gioco delle fortificazioni dello zio Tobia rende queste stesse innocue, punto di partenza per la costruzione di rinnovati rapporti sociali. Il confronto fra Clarissa e zio Tobia si precisa ulteriormente quando si consideri, ad esempio, la funzione simbolica che il trattato di Utrecht (irruzione nell’universo shandiano della storia e del principio di realtà) assume nel romanzo, fornendo un aggancio storico ad un’opera per lo più letta in termini di astoricità. Utrecht stabilisce i confini degli stati nazionali euorpei, conclude il processo di formazione delle identità nazionali; ristabilendo la pace impedisce alla zio Tobia di continuare la sua fittizia guerra fortificata, peraltro ripetizione non ossessiva, perché consapevole, della reale menomazione subita in battaglia. La caduta delle fortificazioni ludiche e il realistico stabilimento di precisi confini nello stato-persona, costringono Toby a confrontarsi, del tutto sprovveduto com'è di concetti oggettivistici della realtà, con l'educazione sentimentale e a corteggiare la vedova Wadmann. Tale confronto consente inoltre di cogliere il modo in cui l’interiorizzazione della norma deve avvenire: con Clarissa il destinatario deve stabilire una identificazione immediata che poco permette di fermarsi ad indagarne le motivazioni; il personaggio di Toby gli richiede al contrario di farsi lettore di un romanzo che si dispiega come un dramma di cui lui stesso è al contempo attore e spettatore; gli richiede dunque di assumere la scissione del sé come un dato dell’esperienza umana, non più tragico e non ancora

epico, da accettarsi con

partecipata

ironia.

In questo capovolgimento

dell’assunto romanzesco Sterne sembra anticipare il giudizio di AdornoHorkheimer sull’illuminismo, definito come il pensiero che « dissolve il torto della vecchia ineguaglianza, il dominio immediato, ma lo eterna nell’universale mediazione che rapporta ogni ente ad ogni altro » ‘; con la differenza che Sterne rimane all’interno della prospettiva da lui stesso criticata.

4 T. W. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1977, cit. da P. Berlanda, La simpatia e lo spettatore imparziale in Adam Smith: dalla filosofia morale alla filosofia della società civile, « Rivista critica di storia della filosofia », 1982, I, p. 93. Per le interpretazioni del TMS accennate nel testo, cfr. oltre all’importante contributo sopra citato, lo studio fondamentale di G. Preti, Alle origini del l'etica contemporanea, Adam Smith, La Nuova Italia, Firenze 1957. Fra gli studi in campo anglosassone, sono a mio avviso essenziali: T. D. Campbell, Ada Smith's Science of Morals, Allen & Unwin, Londra, 1971 e la Introduction al TMS a cura di D. D. Raphael, A. L. Macfie, cit.

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Giuliana Gigli Ferreccio

Ciò che Sterne mette in ridicolo nel sermone di Yorick è la concezione di uomo naturale astratto che sta alla base sia del rigido razionalismo giusnaturalistico sia delle altrettanto razionalistiche teorie hobbesiane dell’amor di sé, le quali, propugnando le pubbliche virtù che accrescono la ricchezza della nazione, finiscono per diventare, per prassi sociale che va consolidandosi, virtù anche private, dunque fondamento di una forma di utilitarismo morale. Ma soprattutto, Sterne prende di mira l’assimilazione del funzionamento dell’intelletto umano a quello delle leggi della fisica. È impossibile conoscere immediatamente le cause di un comportamento umano senza fare ricorso all’immaginazione, sostiene Sterne prendendo le distanze dall’altrimenti lodato maestro Locke e criticando la sua sottovalutazione del « wit » nel processo conoscitivo: « — Here stands wi — and here stands judgment, close beside it, just like the two knobs I’m speaking of, upon the bask of this self-same chair on which I am sitting. —You see, they are the highest and most ornamental parts of its frame — as wit and judgement are of ours — and like them too, indubitably both made and fitted to go together, in order, as we say in all such cases of duplicated embellishments — fo answer one another [...] it was his (Locke’s) glory to free the world from the lumber of

a thousand vulgar errors; — but this was not the number; so that instead of sitting down coolly, as such philosophers should have done, to have examined the matter of fact before he philosophised upon it — on the contrary he took the fact for granted, and so joined in with the cry, and halloo’d it as boisterously as the rest » ‘. Con questa posizione concorda A. Smith il quale, per superare le apparenze della « lettera della legge », dietro le cui fortificazioni si trincera la 4 TS, pp. 144-145. « Da un lato abbiamo dunque l’ingegro e dall’altro il buon senso; proprio tale e quale come i due pomi sulla spalliera della mia sedia. Lo vedete: essi sono la parte più elevata e il più bell’ornamento della sua struttura, come l’ingegno e il buon senso lo sono della nostra; come questi, anche quelli sono indubbiamente costruiti per fare un doppio abbellimento, cioè per formare sizzzzetria [...]. Certo è stata gloria di Locke l’aver liberato il mondo da un'infinità d’errori volgari; ma l’errore in cui cadde egli allora non era nel numero. E quella volta, invece di porsi tranquillamente, come un così gran filosofo avrebbe dovuto fare, ad esaminare il fatto prima di ragionarvi sopra, egli tenne, ai contrario, il fatto per certo, e si unì alle grida degli altri con altrettanta violenza ». Tristano Shandy, cit., p. 233.

Lo spettatore imparziale

115

coscienza, nonché per riabilitare il ruolo attivo dell’immaginazione, intraprende nel TMS una revisione dei fondamenti normativi dell’etica tradizionale e della morale sentimentalistica, ricercando i principi sui quali si fondano empiricamente i giudizi morali. Smith cerca di determinare non tanto l’aspetto normativo del problema (cosa si debba approvare), quanto piuttosto di individuare empiricamente le leggi che presiedono al meccanismo dell’approvazione morale ®. Situata, come i primi grandi romanzi inglesi, nel punto in cui convergono molti indirizzi di pensiero, l’opera di Smith rappresenta la conclusione delle vicende del « moral sense » e affronta la crisi del concetto di coscienza individuale, ridefinendo quest’ultima non più come un insieme di regole, ma come ciò che si consolida al termine di un processo, seguendo un percorso non dissimile da quello praticato dal romanzo di formazione (dinamicizzazione dei caratteri morali e sociali dello « Spectator »). Inventando la figura teorica dello « spettatore imparziale » e complessificando il concetto di simpatia, Smith mostra che la coscienza si costruisce sui dati che emergono nel corso di un processo basato sui rapporti sociali, non essendo data a priori °”. Con ciò recupera elementi della passionalità umana senza esorcizzarli e riduce l’antinomia tra individuo e società. Ai teorici del self-love (Mandeville e, di conseguenza, Hobbes) che considerano viziosa ogni passione e ogni virtù raggiungibile solo a costo di ascetiche rinunce, Smith coittappone la socialità dell'io nonché la sua valenza armonizzante che ricompone gli effetti disgreganti dello scontro tra interessi individuali in un equilibrio tendenzialmente stabile. La coscienza forma negli uomini l’impegno per una cooperazione sociale che non potrebbe darsi come conseguenza di semplici imposizioni esterne. Con ciò Smith riesce a costruire un punto di vista morale unitario fortemente dinamico. Caratteristica essenziale di tale dinamismo è l’immaginazione. Tale facoltà viene ridefinita e ripotenziata in contrasto con la versione del razionalismo letterario settecentesco per il quale questa era sovente assunta quale sinonimo di goticismo, quindi di cattivo gusto e di barbarie di cui erano considerati tipica espressione i romanzi cavallereschi. Smith al contrario ne fa il presupposto essenziale della fondazione empirica del giudizio morale. Egli ha assimilato la lezione humeana sull’impossibilità di conoscere immediatamente le cause di un comportamento; nella sua ricerca sulle strutture logiche, psicologiche e sui moventi che danno origine alla valutazione

50 P. Berlanda, cit., p. 41 51 Ibid., p. 52.

116

Giuliana Gigli Ferreccio

morale egli esclude pertanto in partenza la possibilità di determinare il movente delle azioni in maniera immediata. La simpatia è per Smith quella particolare sfumatura del sentimento che rende possibile il processo di formazione della valutazione morale, un criterio dinamico di approvazione, una capacità cioè di con-sentire con qualsiasi passione, senza prioritariamente va-

lutarla, senza cioè ricondurla a l'immaginazione è essenziale. AI words appropriated to signify a che un tempo vi corrispondevano, notare « our fellow feeling with Non

si tratta qui, come

valori statici prestabiliti. Qui il ruolo delcontrario della « pity and compassion [...] fellow feeling with the sorrow of others » la simpatia può ora essere impiegata per deany passion whatever » ®.

nel caso del senso

morale hutchesoniano,

della

naturale (e divina) disposizione dell’intelletto a ricevere idee piacevoli o spiacevoli e cioè della possibilità di un'immediata determinazione di bene o male, bensì di una capacità di scambiare ruoli che l’uomo sociale acquisisce mettendosi « al posto dell’altro ». La partecipazione simpatetica supera la. reazione emotiva immediata evidenziando la funzione attiva del soggetto simpatizzante, la sua capacità di immaginare la situazione altrui, di individuarne la genesi, di riviverne gli sviluppi come se si trattasse della propria. Tale processo di scambio imma. ginario assume qui quella funzione di trascendenza che verrà poi potenziata e ampliata dal romanticismo. La simpatia può ricostruire le passioni altrui; e lo può in quanto vi si immedesima; ma vi si immedesima solo in quanto le ricostruisce in modo consapevolmente illusorio. La rivalutazione della funzione morale e conoscitiva della immaginazione è parte costitutiva di un clima artistico e culturale che vede il successo di opere come l’Ossian e la Ricerca sul sublime di Burke, nonché la diffusione dell’interesse per le origini mitico-popolari della poesia e della musica; essa rappresenta negli anni cinquanta una svolta culturale di matrice prevalen. temente scozzese (Burke stesso si era profuso in lodi incondizionate del TMS)®. Smith tuttavia si distacca dalla concezione preromantica dell’immaginazione propria di quella cultura, dotando tale facoltà di una conno. tazione psicologica e sociale costruttiva e progressiva, opposta alla sfuma. tura malinconica e nostalgica che essa andava assumendo nella moda poe. tica delle « rovine ». L’assunto che sta alla base del TMS è il piacere naturale che si ricava dalla constatazione della corrispondenza dei sentimenti in-

2ISIMISTE 53 TMS,

RAR IR Introduction,

Tp ORIO: cit., p. 28.

Lo spettatore imparziale

117

tercorrenti tra sé e gli altri. La società, come è noto, non esprime per Smith conflitti insanabili; al contrario, il presupposto del « pleasure of mutual sympathy » gli permette di scoprire un nuovo ambito del sapere che indaga sulla possibilità di integrare le passioni individuali in un sistema sociale di valori e di formulare una diversa concezione della morale che non ricorra alle esortazioni alla virtù o all’imposizione di modelli prestabiliti ma che si configuri come « anatomia » della società civile, analisi dei meccanismi del consenso sociale. Lo spettatore imparziale è la figura teorica che permette tale passaggio rappresentando non contenuti particolari di virtù (di nuovo illuminante è il confronto con gli esempi francesi dell’« honnéte homme ») ma la realizzazione concreta di valori sociali; e tale rappresentazione in tanto è consentita in quanto egli si faccia imparziale osservatore della propria e dell’al. trui condotta. Egli, in quanto individuo storicamente consapevole, non si confronta con un potere metafisico o secolarmente dispotico (passione tragica, universo lacerato del « romance », rapporto suddito-potere assoluto) ma con quello di cui egli stesso è espressione, raccogliendo e unificando in sé stesso gli stessi conflitti di potere. Tale scissione dell’io risulta essenziale in Smith, per il superamento di questi stessi conflitti, per l’incivilimento della società. Lo spettatore imparziale peraltro non si limita ad un passivo ade-

guamento al giudizio altrui, essendo in ciò impedito dal momento

autova-

lutativo: divenendo spettatore imparziale delle sue stesse azioni, egli cercherà di essere degno dell’approvazione altrui e non semplicemente per amore del consenso generale. È questa la risposta di Smith all’individualismo economico puritano di Robinson, Moll, Pamela ecc. L’autocoscienza del soggetto empirico qui non si costruisce più attraverso il dialogo con la divinità, ma si struttura sulla base dei giudizi espressi dai suoi simili (gli uomini in generale) sulle sue azioni; i suoi simili diventano lo

specchio di cui egli ha bisogno per riconoscere la sostanza stessa della propria condotta. L’esperienza sociale qui si sostituisce a quella mistica o religiosa ed è essa stessa a spingerlo ad anticipare immaginativamente il giudizio altrui sulle proprie azioni. La coscienza individuale diventa un prodotto sociale, luogo di conciliazione di conflitti sociali interiorizzati. Come il protagonista del romanzo di formazione si costruisce sull’acquisizione di un principio di realtà, così lo spettatore imparziale forma le proprie capacità di autogiudizio acquisendo la capacità di rappresentare il sé a sé medesimo. Al pari del primo egli si sdoppia attraverso l’esperienza sociale: esce immaginativamente da sé stesso non per aspirare ad un modello ideale astratto bensì per assumere il libero punto di vista di chi sviluppa le pro-

118

Giuliana Gigli Ferreccio

prie embrionali, concrete risorse umane. La contraddittorietà del punto di vista morale emersa nel romanzo di formazione, in Smith si risolve nella ca-

pacità di sdoppiarsi illusoriamente come in un romanzo: « When I endeavour to examine my own conduct, when I endeavour to pass sentence upon it, and either approve or condemn it, it is evident that, in all such cases, I divide myself, as it were, into two persons; and that I, the examiner and judge, represent a different character from that other I, the person whose conduct is examined into and

judged *.

*

TMS, III, 1, 6, p. 113: «Quando cerco di esaminare la mia condotta, di formulare un giudizio, per approvatla o condannarla, è evidente che in tutti questi casi, mi divido, per così dire, in due persone; e quell’io, scrutatore e giudice rappresenta un personaggio diverso dall’altro io, la persona la cui condotta viene esaminata e giudicata ». (Ta traduzione dall’originale inglese è mia).

Gianpiero Cavaglia Il romanzo storico come Bildungsroman: l’Abafi di Miklos Josika

Peculiarità della situazione ungherese. Il romanzo settecentesco inglese, francese e tedesco è l’espressione di un radicale rinnovamento storico-sociale e al tempo stesso contribuisce a generare tale rinnovamento, in quanto è una delle forme in cui si attua una profonda rivoluzione nella coscienza di strati sociali emergenti. In Ungheria — un paese che solo all’inizio del secolo era riuscito a liberarsi degli ultimi resti dell'occupazione ottomana, avviando una lenta opera di ricostruzione — non esistevano le premesse necessarie alla nascita del romanzo moderno. Parafrasando un famoso passo di Henry James !, potremmo dire che se c’erano in Ungheria qualche castello e molte capanne, vi mancavano però grandi università, scuole pubbliche, una società politica e insomma quella pluralità di poli sociali capaci di produrre cultura e di esserne destinatari, che è nell'Europa occidentale al tempo stesso tema e pubblico del romanzo moderno. Questo non compare in Ungheria nel Settecento, nel secolo cioè in cui le grandi letterature nazionali creano i loro capolavori narrativi, dalla Parzela (1741) alla Nouvelle Héloîse (1761), al Werther (1774). La letteratura ungherese vede la sua prima fioritura romanzesca, accompagnata da successi di pubblico e di critica, soltanto a Ottocento avanzato e anche allora la variante prediletta non sarà quella del romanzo sentimentale, di costume o di formazione, ma quella del romanzo storico, che da quel momento avrebbe costituito il genere — se non predominante — certo più di frequente coltivato da tutti i grandi narratori ungheresi, fino a tempi relativamente

recenti ?.

1 Nella sua biografia di Hawthorne Henry James a un certo punto elenca una serie di cose che mancano alla società americana e sono presenti in quella inglese e spiegherebbe“o la sostanziale differenza fra il romanzo americano e quello inglese. Il passo in ques:ione è citato da Lionel Trilling in Le maniere, i costumi, il romanzo [1947], compreso nella raccolta di saggi La letteratura e le idee, Einaudi, Torino 1962, p. 78.

2 Da Jésika un

filo ininterrotto

conduce

attraverso

i romanzi

storici di Mér Jékai

120

Gianpiero Cavaglià

Se il romanzo sentimentale favorisce nel pubblico un’identificazione incondizionata con i personaggi della finzione (che è molto vicina per ambienti e temi all'esperienza quotidiana dei lettori) e con la loro lotta contro un mondo antiquato, le sue convenzioni e i suoi pregiudizi, ne' romanzo storico l'ambientazione « antichizzante » sembra opporre un diaframma all’identificazione lettore-personaggi. Si tratta però di un diaframma molto labile, perché anche il romanzo storico propone dei modelli di destini, che si dipanano in mezzo a una serie di eventi apparentemente caotici, dal cui seno si esprime però una ratio. E anche il romanzo

storico è quindi mimesi

di quel gioco di ombre e luci, di senso e mancanza di senso che è la vita quotidiana del lettore e in ciò sta il segreto del suo successo ?. Rousseau pensava in questi termini

agli bonrétes

gens di provincia,

ipotetici lettozi

della sua Julie: « Comment s’attendriront-ils sur le charme de l’union conjugale, méme privé de celui de l'amour [e cioè l’unione di Julie e Wolmar], sans que la leur se resserre et s’affermisse? En quittant leur lecture . .. tout semblera prendre autour d’eux une face plus riante ... Ils rempliront fes méme fonctions; mais ils les rempliront avec une autre ame, et feront en | vrais patriarches ce qu’ils faisaient en paysans » *. E anche Jésika, molti decenni dopo, nella prefazione del suo secondo romanzo storico A csebek Magyarorszigon [I cechi in Ungheria] (1839) non auspicava una ricezione molto diversa della sua opera: « Se il lettore, letto il mio libro, dirà: ’ho trascorso questi due anni all’epoca del re Mattia, l’ho vista dal trono alla capanna, nel suo splendore e nei suoi orrori” — allora la mia opera si sarà avvicinata al suo fine. Ma se l’animoso giovane esclamerà: ’voglio essere come quell’uomo, così perfettamente risoluto, nelle imprese e nella forza, voglio essere come lui fedele alla patria e al re, il mio onore deve essermi

(1825-1904) e Kalman Mikszath

(1847-1910)

sino a Ferenc Herczeg

di una fortunata trilogia di romanzi storici Pogsnyok

porta della vita] (1919) e Fogyé bold (Rizzoli, Milano, rispettivamente

(1863-1954) —

autore

[Pagani] (1902), Az é/et kapuja [La

[Luna calante]

1958, 1960 e 1961) —

(1922), tradotti anche in italiano e a Dezso Kosztoldnyi

(1885-1936)

che' con il suo Nero, a véres kolto [Nerone, il poeta sanguinario] (1922, trad. it. Genio, Milano 1933), piegò questo flessibile genere alle esigenze di una moderna parabola sugli arbitrî del potere. 3 Cfr. l'ipotesi interpretativa di Franz Altheim, Roman und Dekadenz, Niemeyer, Tiubingen 1951, che mette in rilievo la componente religiosa in senso lato di ogni scrittura romanzesca. Cfr. anche il saggio di Gianni Carchia, La wmascita del romanzo, in « Rivista di Estetica », n. 13, 1983, pp. 15-31. * Jean-Jacques Rousseau, Julie ou la Nouvelle Héloise, a cura di Michel Launay, Flammarion, Paris 1967, pp. 508-1.

Il romanzo

storico come

Bildungsroman:

l’Abafi di Miklés

Josika

121

sacro come lo è il suo a lui; sarò uomo come lui!” — oppure se la giovane patriota dirà: "Come quella dama saprò conservare pura la mia virtù, nutritò un amor proprio altrettanto nobile, sarò altrettanto fedele alla mia religione e riflessiva nella morale e nell’umore’ — allora il mio romanzo avrà raggiunto il suo scopo » ?. Anche qui non ci si attende altro dai lettori che un’identificazione con i personaggi spinta a un punto tale che la vita degli uni diventi mimesi di quella degli altri. C'è comunque un’indubbia differenza di valori fra il mondo del romanzo sentimentale e quello del romanzo storico: opere come la Nouvelle Héloise o il Werther si fondano sull’idea che esista un legame occulto fra gli uomini: la legge del cuore, che serve ad armare la polemica contro la società o le Istituzioni ostili al dispiegamento di tale legge. Il romanzo storico è meno radicale nei suoi assunti di fondo: i suoi protagonisti non si affidano alla sola legge del cuore ma il loto destino entra in un disegno più vasto, le cui coordinate fondamentali sono campite dagli eventi che la storia ha già dotato di un senso organico, riverberantesi sulla vita dei personaggi stessi. Il romanzo sentimentale libera i suoi protagonisti da ogni legame con la tradizione e le convenzioni: la tensione verso il nuovo, verso la patria perduta del cuore si esprime assai spesso nel prevalere del tema idillico. È nell’idillio che la vita di Julie e di Werther viene riscattata dalla caducità del quotidiano, è l’idillio che dà pienezza di senso alle più elementari realtà

umane:

« vivere innocentemente significa solo non sapere altro che di man-

giare e bere, e anche ciò solo con cibi e bevande molto semplici, ad esem-

pio di maggi pagine sobrio

latte di capra o di pecore ... inoltre erbe, radici, ghiande, frutti, for» °. Erbaggi e latticini sono i cibi preferiti da Julie e Rousseau dedica e pagine a descriverci il sistema di alimentazione di Clarens (il più Goethe immortalò con contorni da statua greca Carlotta che affetta

5 «Ha az olvasé, k6nyvemet ftolvasvin, mondja: ’két évet éitem Matyés kordban, littam ezt a tr6nt6él a kunyhdig, fényében s borzalmaiban!, munkàm céljihoz kòzelftett. De ba a leikes fit felkidlt: Mint eme férfiti, oly eltòkelt szilàrd akarok lenni, tettben s erében, mint amaz, oly hu honomhoz s kirilyomhoz, becsiletem oly szent lesz elottem, mint 6vé; férfii leszek mint 6! — Vagy a hon leAnya szél: ’mint e hélgy, oly tisztàn orizem erényemet szert oly nemes Gnérzetre teszek; oly hu leszek vallisomhoz, s higgadt erkélesben s kedélyben' — akkor a regény célt ért». — citato da Antal Wéber nella sua

introduzione

a Miklés

Jésika, Abafi —

Mdsodik

Rékéczi

Ferenc

[Abafi —

Ferenc

Rakéezi II], Szépirodalmi kényvkiad6, Budapest 1960, p. 15. 6 G. W. F. Hegel, Estetica, Einaudi, Torino 1967, trad. it. di Nicolao Merker e Nicola Vaccaro, p. 1221.

122

Gianpiero Cavaglià

il pane e Werther che sbuccia i piselli) ”. Il romanzo storico colloca invece il protagonista in una cornice già dotata di senso e deve ricorrere meno di frequente alla artificiale dilatazione del quotidiano attraverso l’idillio. Nella letteratura ungherese settecentesca l’idillio non compare in veste romanzesca, non costituisce il polo di attrazione di un’opera narrativa di grande respiro (come la Julie o il Werther), anche se è alla base dell’ispirazione di un’opera come Fani bagyomanyai [Il testamento di Fanni] (1794), tentativo di trapiantare in lingua ungherese il romanzo sentimentale, attuato da uno scrittore appartenente alla piccola cerchia degli innovatori il luministi, Jézsef Karman®. Il romanzo ebbe pochissimi lettori: pubblicato sulla rivista « Urania » fondata e diretta dallo stesso KArman, non venne poi ristampato per molti decenni. Il panorama del Settecento letterario ungherese non è affatto sguarnito, ma è questo un secolo di grandi creazioni poetiche e le rare opere di narrativa non entrano nella coscienza dei lettori, per lungo tempo appartengono esclusivamente a quella dei critici e degli scrittori. Per un singolare e avverso destino poi, alcuni dei migliori testi in prosa rimangono inediti per molto tempo: il caso del romanzo utopistico di Gyéòrgy Bessenyei Tarimzénes utazisa [Il viaggio di Tariménes] è il più clamoroso: scritto nel 1804 viene pubblicato solo nel 1930°. Del resto questo tardivo Staatsroman, il cui protagonista visita un regno immaginario governato dalla regina Arténis (che ricorda da vicino la figura storica di Maria Teresa), era

7 Michail Bacthin sottolinea l’importanza dell’idillio come una delle voci della polifonia romanzesca; cfr. Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, in Estetica e romanzo, trad. it. di Chiara Strada Janovic, Einaudi, Torino 1979, soprattutto le pp. 372-390. 8 Jozsef

Karmin

(1769-1795)

è

ricordato

dalle

storie

della

letteratura

soprattutto per il suo scritto polemico A wermzet csinosodasa

[L'ingentilimento

zione]

letteratura

(1794),

in cui lamentava

la mancanza

di una

grande

ungherese

della na-

nazionale,

indi-

spensabile per risollevare le sorti della civiltà magiara. ? Gyéòrgy Bessenyei (1747-1811), appartenente alla media nobiltà, si era formato a Vienna nella guardia reale - istituita da Maria Teresa - che accoglieva i figli della nobiltà magiara. A Vienna egli assimila le idee dell’illuminismo moderato e cerca di diffonderie in patria con la sua opera di scrittore. Secondo la storiografia letteraria tradizionale è con Bessenyei che inizia nella letteratura ungherese l’età del « rinnovamento » (felujulas) e precisamente con il 1772, anno in cui fu pubblicata la Agis sragédidja [Tragedia di Agide]; nella storia del re spartano Agide (che fornì materia per una tragedia anche al nostro Alfieri), osteggiato dalla nobiltà nella sua volontì di riforme a favore degli schiavi, Bessenyei adombrava la realtà ungherese, dove i sovrani riformatori (prima Maria Teresa e poi Giuseppe II) dovettero scontrarsi con ie resistenze dell’aristocrazia latifondista.

Il romanzo

storico come

Bildungsroman:

l’Abafi di Mikl6s Jésika

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ancora legato a una concezione voltairiana del romanzo e non avrebbe potuto influenzare in senso zzoderno la narrativa ungherese. Più grave è forse il ritardo con cui vengono pubblicate le Torokorszigi levelek [Lettere dalla Turchia] di Kelemen Mikes!°, uno dei più bei testi in prosa del Settecento ungherese. L'autore — seguace del principe Ferenc Rakéczi, che, ribellatosi agli Absburgo, dovette trascorrere in Turchia, in esilio, l’ultima parte della sua vita — relegato per più di quarant’anni in una cittadina sul mar di Marmara, scrisse dal 1717 al 1758 duecentosette lettere a un’immaginaria cugina di Costantinopoli; esse sono una singolare e interessante commistione

di décor orientaleggiante, di esprit francese e di meditazioni edificanti (ché Mikes, come molti dei suoi conterranei transilvani, era calvinista ...).

Ma neppure da questi testi esclusi dal contatto con un vasto pubblico di lettori emergono tematiche davvero moderne, affini a quelle della grande narrativa sentimentale europea. In Ungheria del resto, più che altrove, il nuovo si manifesta in modo indissolubilmente intrecciato con l’antico: la stessa ciirusione del sentimentalismo (e del gusto per la poesia cimiteriale) non è disgiunta da un perdurare dell’influenza di Metastasio che si intreccia, in modo torse impensabile nelle letterature occidentali, con quella di Rousseau !, E così il tema dell’idillio penetra nella letteratura ungherese, più che attraverso i grandi romanzi sentimentali europei, grazie a una figura di

10 Kelemen Mikes (1690-1761) nobile di Transilvania, entrato giovanissimo, come paggio, nella cerchia del principe Rakéczi, fu al seguito di questi nelle peregrinazioni che — dopo la sconfitta subita da parte degli Absburgo — lo videro in Francia, in Polonia e infine in Turchia. A Parigi i nobili esuli si fermarono due anni, e alla corte del Re Sole, dove erano ricevuti, ebbero modo di accostarsi a quella che era la cultura dominante nell’Europa dell’epoca. Qui Mikes lesse i carteggi dei nobili francesi, che erano allora di moda nell’alta società e nelle Lettere dalla Turchia si sente spesso l’eco della civiltà francese, del suo culto della vita sociale e della conversazione, soprattutto quando l’autore lamenta la povertà della vita associata fra gli orientali, con accenti che fanno pensare alle Leztres persanes di Montesquieu, che pure sembra egli non conoscesse —. La prima edizione delle Torokorszigi levelek si ebbe solo trent'anni dopo la morte dell’autore, nel 1794, soprattutto per ragioni di censura, perché Mikes, in quanto seguace di Rakéczi, era pur sempre un ribelle per gli Absburgo. Nell’Ottocento esse ebbero una sola ristampa (a cura di Ferenc Toldy, Budapest 1861); numerose sono invece le edizioni nel nostro secolo, fino a quella critica del 1978 a cura di Lajos Hopp, Szépirodalmi k6nyvkiadé, Budapest. 1! Cfr. Tibor Kardos, Rapports européens de la littérature hongroise du sentimentali sme, in AA.VV., Littérature hongroise — Littérature européenne, a cura di Istvin Sotér e Otto Siipek, Akadémiai kiad6, Budapest 1964, pp. 219-257 e Jézsef Szauder, Csokozai és Metastasio [Csokonai e Metastasio] in Olasz irodalom — Magyar irodalom [Letteratura italiana —

Letteratura ungherese], Eur6pa k6nyvkiadé, Budapest

1963, pp. 388-434.

124

Gianpiero Cavaglià

poeta, che oggi za sulla cultura ungherese da «x orientalismo

potrà apparire marginale, ma che ebbe all’epoca grande influeneuropea !: Salomon Gessner, le cui Idyllew furono tradotte in Ferenc Kazinczy nel 1788. Metastasio, Rousseau, Gessner, » del secondo Settecento, ma anche le suggestioni dell’Ar-

cadia, di Tasso e Guarini si fondono

a costituire la base della poetica del

più grande scrittore ungherese settecentesco: Mihdly Csokonai Vitéz 5. Poeta per molti aspetti già moderno e propenso a superare gli assunti dell’estetica classicistica in direzione di un culto romantico dell’« originalità » !, Csokonai crea agli inizi degli anni Novanta un idillio in prosa A csékok [I baci], che non è soltanto una nuova dislocazione spirituale dell'Arcadia ma adombra già quel culto della frugalità e della semplicità che è la premessa dell’idillio borghese. A questo risultato Csokonai giunge certamente grazie alla lettura di Gessner, che aveva trapiantato la Grecia felice fra le Alpi svizzere, ma nel poeta ungherese il rimpianto per la perduta età dell’oro diventa in modo più spiccato speranza di un futuro incontaminato *. Il vagheggiamento di questa età beata è il filo conduttore dell’idillio di Csokonai, il cui contenuto può essere così descritto sommariamente:

12 Cfr. Rosario Assunto,

L’antichità come

futuro, Mursia, Milano

1973, passim.

13 Mihaly Csokonai Vitéz (1773-1805) ha lasciato una vastissima produzione che comprende opere teatrali come A wéla Tempefoi [Il malinconico Tempefoi] (1795) (atto d’accusa contro la nobiltà magiara rozza e ignorante che non si cura delle sorti della letteratura nazionale), un poemetto eroicomico come Dorottya [Dorotea] (1803) (che riprende i temi della tradizionale letteratura misoginica al fine di tracciare un affresco della vita della nobiltà di provincia), bellissime canzoni d’amore per la donna. amata (Lilla dalok) [Canti per Lilla], anacreontiche alla maniera dell’orientalismo del secondo Settecento. 14 La poetica dell’originalità è proclamata da Csokonai nei bei versi della poesia A maganyossaghoz [Alla solitudine]: « In te si schianta il poeta, / come il rapido lampo nella notte buia, / quando crea cose nuove / e dal nulla interi mondi...» / (« Tebenned ugy csap a poéta széjjel, / Mint a sebes villim setétes éjjel; / Midon teremt ij dolgokat / S a semmibol vilagokat »), citiamo da Csokonai Vitéz Mihaly minden munkéija [Tutte le opere di M. Csokonai] Szépirodalmi kònyvkiadé, Budapest 1981, Versek [Poesie], p. 412. Da ricordare anche questo passo della prefazione alla Dorotea: « Preferisco essere un mediocre originale che un eccelso traduttore » («... jobban szeretek kézépszeru original lenni, mint elsorangù fordìtò ») in Csokonai Vitéz Mihàly minden munkdja, Versek, cit., p. 430. Sull’originalità della poetica di Csokonai cfr. Jézsef Szauder, Csokonai poétikéjihoz [Intorno alla poetica di Csokonai], in Az éj és 4 csillagok — Tanulmanyok Csokonaird! [La notte e le stelle — Saggi su Csokonai], Akadémiai kiad6, Budapest 1980, pp. 339-367. 5 Il culto dell’antichità si colora quindi di venature utopiche, aprendo le porte al neoclassicismo. Cfr. ancora R. Assunto, L’anzichità come futuro, cit.

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storico come

Bildungsroman:

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Josika

125

Il protagonista, il pastorello Melites, vaga di sera in un boschetto, si addentra in una fitta macchia per cercare un paesaggio consono alla disperazione che l’affligge. Giunto alle soglie di un terribile abisso pieno di paurose immagini (che rivelano il debito di Csokonai verso la poesia cimiteriale), Melites decide di togliersi la vita e si getta nelle acque volticose, dopo aver implorato il nome dell’amata Rozalia. Lo salvano però ninfe e folletti che lo rianimano e lo esortano a recarsi dal sacerdote di Venere pet averne conforto. A questi Melites racconta la storia del suo amore infelice e da essa noi veniamo a conoscenza delle gioie semplici e naturali del mondo dei pastorelli. Melites ha conosciuto Rozalia durante le feste della primavera ed era riuscito a strapparle un bacio con un inganno. La fanciulla offesa l’aveva da allora stuggito e si ritorna così alla situazione iniziale dell’idillio. Il sacerdote di Venere spiega a Melites le ragioni remote delle sofferenze d’amore, narrandogli la fiaba dell’età mitica in cui vivevano al mondo soltanto creature androginiche che — sopravvenuto il regno di Saturno — si rifugiarono su una stella, da cui scendono nel nostro cuore

ogni volta che l’innocenza e la giustizia sono minacciate !°.

Il travestimento è classicheggiante, i nomi dei pastorelli sono greci, ma la sensibilità del poeta è settecentesca, perché dietro quell’antichità di maniera si nasconde il sogno di un mondo incorrotto, il desiderio di naturalezza che aveva già creato le oasi felici di Clarens e di Wahlheim. L’ultima parte della fiaba che viene narrata a Melites ha un’intensa coloratura rousseauiana e rivela che l’idillio arcadico è in Csokonai strettamente connesso con i temi della meditazione filosofica, nel tentativo di fondere l’Arcadia, il rococò, con il neoclassicismo. Csokonai non varca ancora la soglia che separa il classicismo maturo dal complesso di problemi che emerge con la deutsche Klassik; egli è ancora molto legato all’antico e anche per questo il suo idillio in prosa non si dilata in una tessitura polifonica di temi, non diventa cioè un romanzo. Ma a tradire la vocazione romanzesca di questo testo è la sua stessa appartenenza al genere idillico: è nell’idillio che il poeta può attuare una sorta di azzeramento spazio-temporale e affrontare quegli aspetti della realtà umana — l’amore, l’unione di uomo e natura, il cibo — che sono il materiale precipuo del romanzo sentimentale europeo. 16 Per

muvek

il testo

dell’idillio

cfr. Csokonai

[Opere in prosa], pp. 31-51.

Vitéz

Mihdly

minden

munkdja,

cit., Prozai

126

Gianpiero Cavaglià

Dall'esame dell’idillio di Csokonai risulterà forse chiaro che neppure dalla letteratura ungherese erano assenti le istanze che presiedono altrove alla nascita del romanzo moderno (l’effusione dei cuori, l’amore per la natura selvaggia

e incontaminata,

la nostalgia per l’età dell’oro), ma

esse

trovano

sbocco perlopiù nella poesia, o al massimo in brevi creazioni prosastiche di carattete ibrido, come è appunto il caso dei Baci. Probabilmente tali istanze erano nella cultura ungherese troppo deboli perché gli scrittori potessero superare le difficoltà formali poste dal genere romanzesco !; la stessa realtà sociale ungherese era troppo poco articolata e differenziata per poter dar luogo all’universo polifonico del romanzo. Esso nasce per così dire soltanto qualche decennio dopo l’idillio di Csokonai, con l’Abafi di Jésika.

Le premesse del romanzo storico ungherese. L’Ungheria della fine del Settecento continuava a essere nel complesso una società fortemente conservatrice e in essa era certo scarso il « bisogno di romanzi », dato che la maggior parte degli strati della società non cercava in questo genere letterario argomenti per confortare e legittimare la propria identità. La classe sociale alla guida del paese continuava a essere la nobilità, con le sue molteplici differenziazioni interne, che vedevano al vertice una aristocrazia di corte cosmopolita e alla base una piccola nobilità rutale, tenacemente nazionalistica e spesso xenofoba. Il bisogno di romanzi diventa maggiore con il volgere del secolo, in un clima di società in trasformazione o che almeno aspira a trasformarsi: con il 1825 si inizia la cosiddetta « età delle riforme » (reformzkor), che vede gran parte della nobilità impegnata contro la corona nell’opeta di svecchiamento delle strutture feudali. E con il nuovo secolo si creano le basi per superare in letteratura il divario tradizionale fra poesia e prosa, che relegava quest’ultima in una posizione vicaria. Il primo successo

nazionale di un’opera romanzesca

di buon

livello artistico, l’Abafi, spetta infatti a uno scrittore appartenente alla nobilità progressista, Miklés Jésika. Con il suo Abafi Ungheria recupera in un certo senso il ritardo rispetto alle letterature dell'Europa occidentale, perché anche in queste il romanzo storico compare soltanto nel periodo successivo alla caduta di Napoleone !, o almeno è solo in questo periodo che !? Cfr. Michal Bachtin, La parola nel romanzo, in Estetica e romanzo, cit., pp. 67-230. 18 Cfr. Gy6rgy Lukdcs, Il romanzo storico, Einaudi, Torino 1965, p. 9. Lukes osserva che il capostipite del genere, il Waverly di Walter Scott, è del 1814.

Il romanzo

storico come

Bildungsroman:

l'Abafi di Mikl6s Jòosika

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nasce il romanzo storico « classico » e cioè quello che deriva il modo di agire dei personaggi dalle caratteristiche storiche dell’epoca in cui vivono !. La nascita di questa variante del genere romanzesco èx preparata in Ungheria — oltre che dall’esperienza, comune a tutti i popoli europei, di trasformazioni socio-storiche di vasta portata — dai risultati dello storicismo filosofico del secondo Settecento, che aveva insegnato alle varie culture nazionali l’amore e l’interesse per il loro passato, interpretato spesso come un’età felice e incorrotta — i cui fasti dovevano essere ripristinati con l’azione politica — o comunque come una fonte preziosa di insegnamenti per il presente. Si comprende facilmente come per il barone Miklés Jésika l’attività letteraria e l’interesse per le riforme sociali costituissero due aspetti di uno stesso programma ideologico °°. Ma anche nel mutato clima culturale e sociale dell’età delle riforme Jésika non avrebbe forse potuto costruire i suoi romanzi storici sulla base di antecedenti letterari tanto scarni, e va infatti ricordato che nei primi decenni del nuovo secolo la prosa ungherese si era già arricchita di un genere narrativo di grandissimo rilievo per la preistoria del romanzo moderno: il racconto umoristico ?!, grazie a scrittori come An-

Daga

10

20 Miklés Jésika (1794-1865), iniziò la sua carriera letteraria con alcuni drammi, che mostrò a Raimund durante un soggiorno a Vienna nel 1815. Avutone un parere nega-

tivo, li distrusse e si dedicò da allora alla sola narrativa. Si avvicinò alla vita politica soprattutto a partire dalla Dieta del 1832-36, come molti altri esponenti della sua classe, ed entrò appieno nel clima culturale dell’Ungheria dell’epoca, contraddistinto dall’entusiasmo per il passato storico nazionale, che nel 1825 il poeta romantico Mihaly Vòròsmarty aveva fatto rivivere nel poema epico Zaldn futisa [La fuga di Zalàn]. L'interesse per le antichità nazionali aveva radici abbastanza remote nell’Ungheria del primo Ottocento: già nel 1746 era stata pubblicata la cronaca medievale anonima (scritta alla corte del re Béla III, 1172-1196) Gesta Hungarorum, e nel 1788 era stato pubblicato un romanzo di Andràs Dugonics, Efelka, ambientato in un mitico medioevo magiaro e che aveva avuto grande successo (pur essendo un’opera artisticamente molto scadente). Il passato nazionale rivive nei romanzi di Jésika, come nel già citato I cechi in Ungheria, in Mdsodik Rékéczi Ferenc [Ferenc Rakéezi II] (1861); ma egli scrisse anche racconti umoristici (Ifjabb Békesi Ferenc kalandjai [Le avventure del giovane Ferenc Békesi], 1845) e persino un romanzo giallo che risente dell'influenza di Eugène Sue (Egy Rétemzeletes héz Pesten [Una casa a due piani a Pest], 1847). Dopo la sconfitta della lotta per l’indipendenza nel 1849, Jésika, che si era schierato sulle posizioni radicali antiabsburgiche di Lajos Kossuth, si trasferì all’estero, prima a Bruxelles e poi a Dresda, dove morì. 21 Sull’importanza dello stile umoristico nel processo di costituzione della plurilinguisticità romanzesca cfr. M. Bachtin, La parola nel romanzo, in Estetica e romanzo, cit., pp. 116 ss.

128.

Gianpiero Cavaglià

drfs Fiy ? e Karoly Kisfaludy 2. La novella comica costituisce un precedente importante sul cammino che conduce alla polifonia e alla pluralità di valori dell’universo romanzesco; per suo tramite il lettore incontra personaggi che vivono in una zona di massimo contatto * con il suo presente quotidiano e l’approccio umoristico serve ottimamente al fine di avvicinare il mondo della narrazione a quello dei lettori, e ciò soprattutto in una letteratura, coine quella ungherese, caratterizzata da una forte persistenza della « lontananza » epica. Il fatto che la strada che conduce al romanzo moderno passi in Ungheria attraverso il racconto umoristico non è del resto per nulla eccezionale: basti pensare all'importanza che ebbero per la nascita del romanzo inglese le scenette abbozzate dall’Addison nel suo « Spectator ». L’eroe di Jésika, il giovane Olivér Abafi, sebbene collocato sullo sfondo dell’ultimo Cinquecento transilvano, è un personaggio moderno, con il quale potevano identificarsi in maniera quasi immediata i lettori dell’epoca: come ogni personaggio della narrativa moderna Abafi unisce in sé aspetti « alti » e « bassi » ® e — quel che più conta a qualificarlo come moderno — non è immutabile, non passa. attraverso fantasmagoriche peripezie restando indenne nell’animo e nel corpo, come fanno invece i protagonisti dei romanzi tardo-antichi e dei romzances di ogni epoca. Abafi subisce una radicale trasformazione nel corso del romanzo, durante il quale egli viene educato alla vita. Anche se le vicende di cui è protagonista Abafi rievocano la storia tormentata della Transilvania in procinto di perdere la propria indipendenza, il punto da cui l’autore guarda a quel passato è collocato nel presente, è ben radicato nell’età delle riforme e con Abafi — che da giovane dissoluto diventa un valido combattente per la libertà della patria — potevano identificarsi i lions dei salotti budapestini a cui il romanzo veniva principalmente offerto con dichiarati intenti pedagogici‘. Poiché favorisce una sorta di 22 Andrés

nell’Ungheria

Ffy (1786-1864)

dell’epoca

dal titolo A kU/0n0s

è autore,

(Bélteky

testamentum

oltre che di un

biz [Casa Bélteky], [Lo strano

farraginoso

1832)

testamento]

di une

romanzo

novella

ambientato

umoristica

(1818).

2 Karoly Kisfaludy (1788-1830) scrisse molti drammi storici e commedie, che ebbero fortuna presso il pubblico, e un racconto in tre parti Tollagi J6nds viszontagsàgai [Le avventure di Jénis Tollagi] (1827-31), che ha per oggetto le comiche vicende di un nobilotto di provincia trasferitosi nella capitale. 2 Cfr. M. Bachtin, Epos e romanzo, in Estetica e romanzo, cit., pp. 445-482, soprattutto pp. 464 ss. 25 Ivi, p. 451. 26 L’intento pedagogico — esplicitamente affermato nella già citata prefazione a I cechi in Ungheria — è presente in tutti i romanzi storici di Jésika. Cfr. l’introduzione di Antal Wéber a Miklòs Jésika, Abafi..., cit., pp. 5-36.

Il romanzo

storico come

Bildungsroman:

l’Abafi di Miklés

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identificazione « simpatetica » ” con i protagonisti, anche l’opera di Jésika ricade nell’ambito di quel fenomeno di scambio fra letteratura e vita che contraddistingue la vita spirituale europea dal secondo Settecento in poi ®. Inoltre, poiché le vicende storiche narrate si proponevano per certi aspetti come specchio dell’esperienza quotidiana del lettore ottocentesco, anche Abafi si colloca in una zona di contatto con la quotidianità del pubblico, di cui ingloba una serie di istanze, diventando così talvolta predicazione morale, talaltra discussione politico-filosofica e assorbendo in sé una serie di generi extra-letterari.

L'intreccio di ’ Abaf”.

Poiché di questo romanzo non esistono traduzioni, ci pare indispensabile ripercorrere i nuclei della trama che ne attraversa i trentacinque brevi capitoli: Abafi è ambientato nella Transilvania del 1594. in una casupola della valle del Maros una vecchia si dispera perché il piccolo Zsiga — il bimbo che una giovane sconosciuta le ha affidato in custodia e che viene adibito a sorvegliare le pecore al pascolo — non è rientrato dai boschi e ormai scende la notte. Sulla strada che porta a Fehérvar (uno dei due grossi centri urbani della regione e sede della corte) galoppa un giovane, Olivér Abafi, che appartiene a una famiglia di nobili possidenti. L’aspetto trasandato e malaticcio tradisce le nottare passate in gozzoviglie. Zsiga, smarritosi nei boschi, incontra Olivér e lo scongiura di ricondurlo a casa. Dopo qualche esitazione egli acconsente a fare la breve deviazione che lo conduce a casa di Zsiga, dove lo

2î Per il concetto di identificazione simpatetica cfr. Hans Robert Jauss, Aesthezische Erfabrung und literarische Hermeneutik I, Fink Verlag, Minchen 1977, pp. 237 ss. 28 Si tenga presente il seguente passo di Madame de Staél: « De toutes le fictions les romans étant la plus facile, il n’est point de carrière dans 'aquel'e les écrivains des nations modernes se soient plus essayés. Le roman fait pour ainsi dire la transition entre la vie réelle et la vie imaginaire. L’histoire de chacun est, à quelques modification près, un roman assez semblable è ceux qu’on imprime, et les souvenirs personnels tiennent souvent à cet égard lieu d’invention. Je ne dissimulerai pas cependant que les romans, méme les plus purs, font du mal; il nous ont trop appris ce qu'il y a de plus secret dans les sentiments. On ne peut plus rien éprouver sans se souvenir presque de l’avoir lu, et tous les voiles du coeur ont été déchirés ». in De l’Allemagne (1813), parte II, cap. 28: Des romans, Flammarion, Paris 1968, vol. II, pp. 41-2.

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Gianpiero Cavaglià

attende la gratitudine della madre, che casualmente si era recata dalla vecchia ed era ormai disperata per la scomparsa del bambino. Olivér torna alla vita di sempre, ma una sera, schernito dai cattivi compagni che gli rinfacciano di non saper controllare le proprie passioni, scommette che riuscirà a condurre vita sobria per almeno tre mesi. Frattanto a Kolozsvir — città dove la corte risiede d’estate — il principe Zsigmond Béthory fa condannare a morte alcuni ragguardevoli cittadini, accusati di cospirazione. Sulla « gran piazza » viene innalzata la forca. AI balcone di una delle case più belle ci sono alcune dame: una di esse è la giovane vedova Margit Mikola, accanto a lei è Gizella Csàki, una nobile fanciulla, orfana, sua parente e ospite. Le dame osservano Olivér che attraversa la piazza a cavallo e si stupiscono della sua trasformazione: ora sembra un serio e posato cavaliere. Il principe assiste alle esecuzioni dalla sua casa; gli è accanto, fra gli altri, il consigliere italiano Buccella, emissario papale e responsabile, secondo l’autore, delle simpatie di Bthory per gli Absburgo e i Gesuiti. Olivér è il primo a reagire alle condanne a morte che il principe ha comminato senza consultare l’assemblea degli stati cittadini: di ciò egli chiede ragione a BAthory, che lo mette in guardia contro la sua audacia ma al tempo stesso cerca di tranquillizzare gli stati, assicurandoli che i condannati avevano davvero cospirato contro di lui e chiedendo il loro appoggio per l'imminente campagna militare contro i turchi. La borghesia cittadina è scontenta del rovesciamento di alleanze che la politica di Bithory implica per la Transilvania: l’amicizia con i turchi e la pace sono infatti più propizi ai commerci e al benessere del paese. Olivér una notte, uscito da una locanda di Kolozsvar e avviatosi verso casa, viene aggredito da tre sicari. Lottando riesce ad avere la meglio: da un balcone vicino echeggia un grido femminile. Sopraggiunge ir tanto un giovane dai tratti orientali, che vorrebbe portare aiuto a Olivér, ma questi rifiuta. — Margit Mikola appartiene a una delle famiglie più ragguardevoli della Transilvania; sposatasi a sedici anni con Balint Gyulafi, era rimasta vedova assai presto e anche il figlio nato da quel matrimonio era morto in tenera età. Olivér è imparentato con i Mikola e ne frequenta la casa; ammira Margit, la quale lo ama segretamente, ma ancor più che da Margit Olivér sembra attratto da Gizella. Questa pensa invece che il giovane non abbia interesse per lei e finge pertanto di detestarlo, sebbene ne sia innamorata. La notte in cui Olivér viene aggredito Gizella assiste al fatto dal balcone e, credendo che egli sia rimasto ucciso, getta un grido e perde i sensi. Da allora la tormenta una forte febbre e Margit, che l’assiste amorevolmente, apprende da Gizella in delirio che ella è innamorata di Olivér. Margit rinuncia in cuor suo al giovane. La scena si sposta fra le mot:

tagne del confine, dove vive una banda di masnadieri, capeggiata da

Il romanzo

storico come

Bildungsroman:

l’Abafi di Mikl6s

Josika

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Marké, la cui figlia Izadora è, in vesti maschili, uno dei più valorosi combattenti contro i turchi. Abafi vive ora nel suo castello e amministra le sue terre; con lui è il piccolo Zsiga. Una volta la settimana a mezzanotte un misterioso cavaliere fa visita a Olivér. A corte si fanno i preparativi per il matrimonio di Bathory con la principessa austriaca Cristierna. Si parla del prossimo torneo, a cui l’autore dedica alcuni capitoli. Nel torneo Olivér, vestito di bianco e su un cavallo bianco, riporta alcune clamorose vittorie, indossando i colori di Cristierna. Il torneo si conclude con un ballo. Olivér sente di amare Cristierna ma questa, parlando con Margit, osserva invece che Olivér € Gizella formano una bellissima coppia. Fervono i preparativi per la campagna antiturca. Il principe, dopo il torneo, ammira molto Olivér e lo vuole accanto a sé nelle cacce e nelle esercitazioni. Frattanto nell'accampamento dei masnadieri — che saranno alleati di Bathory nella guerra — Izadora, appartatasi in una radura per bagnarsi in un ruscello, viene aggredita da Danddr, suo antico amante, che cerca di usarle violenza. Izadora si ribella e rinfaccia all'uomo di aver partecipato all’aggressione contro Olivér. I due lottano e Izadora riesce a fuggire dopo aver ferito leggermente Dandar. Nel frattempo la guerra volge a favore di Bathory; Olivér viene mandato in città con alcune ambascerie. Cristierna ha capito che Gizella, sua dama di corte, ama Abafi. Quest’ultimo ritorna al campo e da un suo colloquio con Bfdthory apprendiamo che Izadora è l’amante di Olivér e la madre di Zsiga. Il principe rivela a Olivér di desiderare di trasferirsi in Italia. In battaglia Olivér è leggermente ferito e Izadora, nell’atto di curarlo davanti alla sua tenda, viene colpita da una freccia. L’ha scagliata Dandar che intendeva uccidere Abafi e viene subito catturato. Izadora è morente, Olivér non ha neppure il tempo di unirsi a lei in matrimonio, come vorrebbe. Marké, disperato per la morte della figlia, rivela un segreto a Olivér: il piccolo Zsiga non è figlio di Izadora ma, a causa di uno scambio di neonati, è figlio di Margit Mikola e di Balint Gyulafi (pertanto il presunto figlio di Margit, morto in tenera età, era invece figlio di Izadora). Olivér torna a Kolozsvér e rivela la verità a Margit. Cristierna gli chiede di sposare Gizella, che ella ha scelto per lui. Il romanzo si conclude con questo matrimonio. L’autore aggiunge che di lì a qualche anno il principe Zsigmond avrebbe ceduto al fratello la corona di Transilvania per accettare la porpora cardinalizia, una volta ottenuto l’annullamento delle nozze con Cristierna.

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Magiarità ed europeità di * Abaft?.

L’Abafi'’ può interessare ancor oggi chi si occupa di storia del genere romanzesco per due ordini di ragioni: perché è lo specchio della sensibilità di un’epoca e non conosceremmo a fondo la cultura e il gusto dell’età delle riforme magiara se non tenessimo conto del significato che ebbe a suo tempo questo testo ?. Ma si tratta qui di un ordine di questioni che coinvolge naturalmente un ambito di interessi abbastanza ristretto; più ampia è invece la prospettiva che dischiude il secondo modo di guardare a questo romanzo: considerarlo come la variante — periferica ma non per questo meno significativa — di un genere che ebbe grande fioritura in tutta Europa (poco prima di Jésika il Cinquecento era stato lo sfondo di due piccoli capolavori del romanzo storico: la Cronique du règne de Charles IX (1829) di Mérimé e il Tarass Bulba (1835) di Gogol), e spiegare le ragioni che fanno di essa un’opera di buon livello artistico e ciò — nei limiti del possibile — senza riferi. menti troppo ravvicinati al contesto socio-culturale da cui è emerso. Se è vero che al primo ordine di questioni ha già risposto in maniera esauriente la critica ungherese, l’analisi dell’Abaf come testo romanzesco emblematico della cultura ottocentesca europea è ancora un terreno pochissimo esplorato. Ma le due questioni — che abbiamo riassunto nei termini di « magiarità » ed « europeità » di Abafi — non sono sempre separabili. Anche mettendoci subito nell’ottica più ampia, è pur sempre necessario un rapido excursus pet chiarite il significato stesso della scelta da parte di Jésika dell’ultimo Cinquecento transilvano come sfondo per il suo romanzo ”. Oltre che sua terra natìa, ricca di testimonianze del passato nazionale (cancellate o distrutte altrove dall’anarchia feudale e dalla dominazione turca) la Transilvania era la terra d’elezione della cultura magiara, che le doveva tutto ciò che nel Cinque e Seicento si era prodotto nel campo della memorialistica (alla quale si rifanno in Ungheria — in mancanza di una tradizione roman-

29 Cfr. l'introduzione di Antal Wéber a M. Jésika, Abaf - II Rékéczi Ferenc cit., PRZIA 3° La Transilvania cinque-seicentesca è lo sfondo preferito dagli autori ungheresi di romanzi storici; due delle migliori opere di Zsigmond Kemény (1814.1875) - scrittore che godé sempre dell’apprezzamento della critica (che lo considera ancor oggi uno dei migliori narratori ottocenteschi) e mai di quello del pubblico, perché i suoi romanzi sono improntati a un cupo pessimismo - Pdl Gyulai (1847) e A rajongék [Gli entusiasti] (1859) sono ambientate in Transilvania nella stessa epoca di quella di Jésika. Anche Mér Jékai sceglie il Seicento transilvano come tema del suo Erdély aranykora [L'età d’oro della Transilvania] (1851).

Il romanzo

storico come Bildungsroman:

l'Abafi di Miklés Josika

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zesca — i narratori ottocenteschi). Jésika ambienta il romanzo nel 1594, una data cruciale nella storia transilvana, l’anno in cui il giovane principe Zsigmond fa condannare a morte alcune alte personalità di Kolozsvir e con la sua politica filoabsburgica si espone all’ostilità dell'opinione pubblica, favorevole a scendere a compromessi con il potente vicino turco piuttosto che a stringere alleanze con l'Occidente. È quindi un momento storico in cui l'Ungheria (di cui la Transilvania è il simbolo nel romanzo) deve scegliere fra l'Oriente e l’Europa, deve decidere se puntare sulle proprie sole forze o ricorrere all’aiuto esterno: una situazione che si sarebbe ripresentata più volte nella storia del paese. Nell’epoca in cui scrive Jésika alle frontiere orientali dell'Ungheria non c'erano più i Turchi ma i Russi, e nell’immagine della Transilvania incerta se volgersi verso Vienna per sfuggire dalle mani di Costantinopoli il pubblico ottocentesco avrà facilmente colto le analogie con la situazione contemporanea: troppo debole per essere indipendente, l'Ungheria paradossalmente aveva forse più da temere dalla Russia (a cui guardavano le numerose « minoranze » slave che vivevano sul suo territorio)

che dall'Austria *, L’abilità di Jésika nel costruire il suo romanzo — che si articola in brevi capitoli introdotti sempre da un titolo e da un motto, in omaggio all’esempio di Scott (seguito forse un po’ troppo pedissequamente, perché spesso i motti sono assai insignificanti) — balza agli occhi sin dalle prime pagine: si co mincia infatti, secondo i precetti dello stile epico, in mzedias res. In un ca solare della valle del Maros una vecchia si dispera per la scomparsa di un bambino; quest’ultimo avrà una parte importante negli sviluppi della trama, ma il lettore non ne ha per il momento alcun sentore. Vale la pena di ri-

3 È soprattutto dopo il fallimento della guerra di indipendenza del 1848-49 che gli gli intellettuali e gli scrittori ungheresi in gran parte abbracciano posizioni moderate e riconoscono che il nazionalismo eccessivo finirebbe per essere pericoloso per gli interessi stessi dell'Ungheria (una volta ottenuta l’indipendenza dall'Austria si innescherebbe un moto centrifugo anche all’interno delle nazionalità che compongono il regno di Ungheria: croati, romeni, slovacchi ecc.). Ed è sulla base di queste posizioni moderate che si creano le possibilità del « compromesso » (stipulato nel 1867) con l’Austria, che riconosce una parziale indipendenza all’Ungheria nel quadro della Gesamtzionarchie. Per questi problemi - che solo di recente la critica ungherese ha cominciato ad affrontare in modo scevro da pregiudizi nazionalistici, ridimensionando Ja sopravvalutazione agiografica della rivoluzione del 1848, cfr. Kristéf Nyîri, A Monarchia szellemi életérol. Filozbfiatòrténeti tanulminyok [Sulla vita spirituale della Monarchia. Saggi di storia della filosofia], Gondolat, Budapest 1980, in particolare il saggio Forradalom utin [Dopo la rivoluzione], pp. 35-65.

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Gianpiero Cavaglià

cotdare che Jésika scriverà più tardi un vero e proprio romanzo giallo ® e che fu un estimatore di Sue; tutto ciò si riflette indirettamente

sulla strut-

tura di Abafi, intricata e ricca di colpi di scena, di progressivi svelamenti di misteri e di identità nascoste, che erano passati inavvertiti sotto gli occhi del lettore ignaro. La presenza di tematiche da romanzo nero o d’appendice è molto frequente nella letteratura narrativa ungherese dell’Ottocento, anche in quella destinata — come è il caso di Abaf — a un publico colto: il romanzo unghetese presenta quindi spesso forti venature da rozzarce ® fino alle soglie del Novecento, le sue trame indulgono a espedienti narrativi di facile effetto a scapito dell’approfondimento psicologico. Tanto più sorprendente è quindi il fatto che alle soglie del nuovo secolo, sulla base di una tradizione così imbevuta di facile « romanticismo » si abbia una vera e propria rivoluzione nel romanzo con le figure di Gyula Kridy e Margit Kaffka *. La scomparsa del piccolo Zsiga serve a J6sika per introdurre la figura del protagonista: Olivér Abafi. L'incontro fra Zsiga e Olivér, che avrà poi tante conseguenze sugli sviluppi successivi della trama, è opera del caso. Quest’ultimo ha nell’Abafi un ruolo importante, come accade spesso nei romanzi storici °; l’intervento del caso è tipico del romanzo di avventure, del romance, che è strutturato sul principio dell’and ther (mentre il zovel, con la sua pretesa alla verosimiglianza, si basa sulla conseguenza logica, sullo berce). Un motivo tipico del romzazce è appunto quello dell’incontro casuale, che diventa un nodo dell’intreccio, come accade in Abafi. Ciò non vuol dire

3 V. sopra nota n. 20. 3 Nel caso della letteratura ungherese ottocentesca non vale l'ipotesi interpretativa di Roger Caillois (in La forza del romanzo [1941], Sellerio, Palermo 1980, pp. 131 ss.) — applicabile invece assai bene alle « grandi » letterature — e secondo cui a poco a poco si delinea nella storia del romanzo europeo ottocentesco una bipartizione fra « romanzo popolare », ingenuo nella tecnica e nel contenuto, pieno di colpi di scena, e « romanzo colto », il cui interesse è posto sul mondo interiore dei personaggi, sulla loro psicologia. Gran parte della narrativa ottocentesca ungherese « colta » presenta caratteristiche che secondo Caillois vanno attribuite al genere « popolare ». % Di questi due innovatori della prosa novecentesca ungherese si possono otra leggenere alcune traduzioni italiane: di Krddy, Via della Mano d'oro [1916], La Rosa, Torino 1982 e La carrozza cremisi [1914], Marietti, Casale Monferrato 1983; di Ma:git Kaffka, Colori e anni [1912], Marietti, Casale Monferrato 1984. 8 Cfr. M. Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo, in Estetica e romanzo, cit., pp. 242 ss., dove si richiama l’attenzione sul legame fra il caso, il motivo dell'incontro e il cronotopo della strada. % Cfr. Northrop Frye, La scrittura secolare, Il Mulino, Bologna 1978, p. 59.

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che questo romanzo sia tutto strutturato sulla base del « tempo d’avventura » ”; se così fosse al protagonista non spetterebbe iniziativa alcuna, egli sarebbe passivo e immutabile e non si potrebbe certo parlare di una Bildung di Olivér. Le concezioni del tempo a cui un romanziere si rifa nel disegnare le vicende dei suoi personaggi possono essere molteplici anche all’interno di una stessa opera: in Abafi accanto al «tempo d’avventura » interviene un’altra « serie temporale »: quella in cui il tempo lascia tracce indelebili sulla vita dell’uomo *. Olivér, che dopo qualche esitazione acconsente a soddisfare le preghiere di Zsiga, grazie a questa azione generosa e casuale, si trova inserito in uno sviluppo di vicende che muteranno la sua vita, e noi possiamo così guardare all’Abafi come a una sorta di ibrido fra il romance e il zovel. Quando Olivér ricompare nel romanzo sulla gran piazza di Kolozsvir deturpata dalla forca, è ormai trasformato e ravveduto. È in tale occasione che Jésika ha modo — oltre che di indulgere al gusto per la ricostruzione d’ambiente, descrivendoci le case e i costumi della Kolozsvàr cinquecentesca — di introdurre una delle figure principali del romanzo, quella del principe Bàthory, giovane tiranno, guastato — ci fa capire l’autore — soprattutto dai cattivi consiglieri italiani. La personalità del principe non è fra le meglio delineate del romanzo: a Jésika mancava del resto una visione davvero profonda della storia e dei suoi problemi e il giovane Bathory, che ci viene presentato dapprima come un crudele tiranno, nella seconda parte del romanzo civenta un personaggio assai sfocato, si avvicina a Olivér, di cui diventa incomprensibilmente amico. Inoltre nel romanzo non ha che un’eco pallidissima la realtà scottante della multiconfessionalità della Transilvania tardo-cingquecentesca (in gran parte protestante); ma la visione, superficiale, che Jésika ha del passato storico vuole far leva sull’orgoglio nazionale dei lettori (e vi riesce) senza sollevare problemi. Proprio in tale superficialità risiedono del resto le ragioni del successo del libro (il modo di affrontare il passato storico proprio di Jésika fu continuato per tutto l’Ottocento dai romanzi storici di Mér Jékai, che fu un beniamino del pubblico). Se la vis'one j6sikiana della storia è un po’ semplicistica ed encomiastica, ciò è dovuto in parte anche al fatto che, come si accennava prima, l’occhio

37 Cfr. M. Bachtin, romanzo,

cit., pp. 233

Le forme del tempo

e del cronotopo

nel romanzo,

in Estetica

e

ss.

38 Ivi, pp. 258 ss. Bachtin ravvisa nell’Asiro d’oro di Apuleio il primo esempio clas-

in cui accanto al tempo d’avventura compare il « tempo di costume », e in questa unione i due tempi si modificano a vicenda, creando la possibilità di una trasformazione del protagonista. sico di romanzo

136

Gianpiero Cavaglià

che guarda al passato è in Josika — come in ogni buon romanziere — tutto radicato nel presente: la storia di Olivér, giovane dissoluto che si ravvede, si proponeva immediatamente come modello ai giovani nobili ungheresi del-

l’età delle riforme. Questo radicarsi del romanzo nel presente — che potrà parere un difetto dal punto di vista della ricostruzione storica dei problemi socio-ideologici del Cinquecento transilvano — è poi un gran pregio dal punto di vista della riuscita artistica dell’opera. È proprio il coilocarsi del romanzo in un punto di massimo contatto con il presente dei suoi lettori che permette l’identificazione di questi con i personaggi e quindi il successo del romanzo siesso. Prprio !o sfondo antichizzante dell’Abaf era fatto per piacere al pubblico ottocentesco, per sollecitare il suo gusto per l’avventura e l’esotico e i ricordi di un passato glorioso. Ma Abaf faceva appello anche a componenti più profonde della coscienza dei lettori: nella storia di Olivér, della sua metamorfosi che lo vede diventare da eroe maudit byroniano un assennato e sobrio patriota, si delinea un’idea erergetica * di sviluppo biografic>, secondo cui la vita umana è un dispiegarsi di potenzialità date sin dall’inizio e culminanti in una serie di azioni che hanno valore di tappe di un cammino organico (è la concezione della vita propria del Goethe maturo ed è quella che presiede all'idea di Bildung negli Anni di noviziato di Wilhelm: Meister). Olivér è, nei primi capitoli del libro, l’eroe eccentrico rispetto al mondo in cui vive, l’eroe che il pubblico europeo — e anche quello ungherese — aveva imparato ad amare attraverso il culto della figura di Byron. Sempre a Byron si doveva anche la diffusione nella sensibilità primottocentesca dell’idea di un dairzon che governa la vita dell’individuo e la spinge verso il suo inevitabile epilogo. Un’idea questa che contribuì certo grandemente ad accrescere nel pubblico la propensione per un genere come il romanzo, in cui tutte le vicende dei protagonisti si riallacciano in una rete organica di rapporti, immagine trasfigurata e idealizzata dell’esperienza quotidiana dei lettori. Il modo in cui tutti questi fattori entrano nella struttura dei romanzo di Jésika è foriemente condizionato dalla presenza — tipica, come si è detto, della narrativa ottocentesca ungherese — di molte (e forse eccessive) concessioni al gusto pet l’avventuroso: nel corso della lettura l’infittirsi del mistero ci distrae spesso — e distrae anche l’autore — dal guardare all’evoluzione interiore di Abafi, tratteggiata in modo un poco sommario. Sin dall’inizio però Jésika ci fa capire che Olivér, nonostante le vesti de-

39. Ivi, pp. 287 ss.

Il romanzo

storico come

Bildungsroman:

l’Abafi di Miklés Josika

137

gradate con cui ci compare davanti la prima volta, è buono e di animo forte e quindi è predestinato a diventare un eroe « positivo ». Il suo accondiscendere alla preghiera di Zsiga non è che l’inizio di una serie di azioni generose: prende le difese del piccolo Tobis nel capitolo ambientato nell’osteria *, in un empito di affetto vorrebbe sposare Izadora morente ‘ e accetta infine la mano di Gizella per amore di Cristierna. el resto quasi tutti i personaggi principali sono veri e propri esempi di viltù e generosità: lo è Margit, che rinuncia a Olivér non appena sa che Gizella lo ama, e a suo modo virtuosa è anche Izadora, personaggio che incontriamo più volte nel romanzo sotto mentite spoglie (è lei la giovane donna, madre di Zsiga, che compare nei primi capitoli, è lei il giovane dai tratti orientali che cerca di soccorrere Olivér aggredito, è lei il misterioso cavaliere che fa visita a Olivér nel suo castello):

è fedele fino alla morte

ad

Abafi e la sua bravuta in combattimento è pari a quella dei migliori guerrieri. Si potrebbe dire che l’intreccio serve ai protagonisti per dispiegare la loro virtù, messa alla prova da chi — come Bfathory, come Dandàr — è malvagio. Olivér è l’unico fra i personaggi a evolversi nel corso del romanzo: soltanto lui vive una crisi che lo trasforma radicalmente; gli altri, uguali a se stessi dall’inizio alla fine, accompagnano il processo della sua formazione e, nel caso che egli esiti a scegliere per il meglio, decidono per lui (come fa Cristierna imponendogli dolcemente di sposare Gizella). Con l’Abaf la Transilvania e il suo passato storico, i suoi paesaggi romantici (a cui Jésika riserva alcune liriche descrizioni) entrano nella narrativa ungherese per occuparvi da questo momento un posto di primo piano, come uno dei luoghi privilegiati attraverso cui la coscienza dei lettori coltiva la propria identità nazionale. La Transilvania fra Cinque e Seicento, dove gli ungheresi (insieme ai sassoni) erano la nazione dominatrice, costituiva in piccolo quel che il regno di Ungheria avrebbe potuto essere se gli fosse stata risparmiata l’invasione turca: una patria ideale in cui era dato a molte nazioni e religioni (oltre ai calvinisti c'erano cattolici, ortodossi ed ebrei) di convivere in un clima di tolleranza e prosperità. O almeno questo era quel che amava credere la generazione di Jésika, a cui lo scrittore offre, più che una rievocazione fedele del passato storico, lo specchio in cui ammirare il proprio futuro. Perché, come osserva un grande critico ungherese, « il passato è una strana cosa. Sta in mezzo fra la realtà e il sogno; il suo

4 M. Jésika, Abafi - II Rakéczi Ferenc, cit., pp. 100-105. 4 Ivi, pp. 198-206.

138.

Gianpiero Cavaglià

aspetto reale si insinua edifici, annotazioni, nel sinua nel paesaggio in rono con tragore strani

concretamente nella nostra epoca, in ricordi, oggetti, nome e nelle tradizioni di famiglie storiche, si inmezzo a cui camminiamo e in cui un tempo passaeserciti. Al tempo stesso è sogno che si accosta mi-

temente alla mia fantasia, indossa l’abito di ogni mio desiderio: non esiste fatto storico che non si possa trasfigurare per ogni verso. La storia è il regno della vera menzogna » ©. E infatti i valorosi guerrieri transilvani dai bellissimi costumi ‘che devono molto alle fogge turche), le dame virtuose e pronte al sacrificio sono la variante romantica, moderna e centroeuropea dell’Arcadia. In fondo alle quinte cinquecentesche dell’Abaf par di veder brillare di nuovo la luce dell’idillio: di Olivér e Gizella Jésika saggiamente ci dice soltanto che furono miolto felici; come tali essi non appartengono più al romanzo ma soltanto al mondo senza eventi e senza storia, che non sa altro « che di mangiare e bere e anche ciò solo con cibi e bevande molto semplici »: l'idillio, punto di partenza e di arrivo di molta narrativa moderna.

* Antal Szerb, Magyar irodalom tòrténete [Storia della letteratura ungherese] (1935), Magveto, Budapest 1972, p. 316. Consapevole della « letterarietà » e dell’illusorietà del passato rievocato da Jésika, Gyula Krtidy apre una delle novelle della raccolta Aranykézutcai szép napok [I bei giorni di via della Mano d’oro] (1916), ambientata nel Biedermeier budapestino, con un’allusione all’Abaf: «... La bufera inseguiva gli spiriti della notte che urlavano sul grande Danubio, come nell’Abafi di Miklés Jésika...» (in Via della Mano

d’oro, cit., p 10).

Mariolina Bongiovanni Bertini Goethe

in Proust

« Refaire ce qu'on aime »; l’opera e i suoi modelli

In una delle ultime pagine del Temps retrouvé il narratore, ormai consapevole dell’immensa fatica che lo attende, della sproporzione tra le sue forze in declino e l’energia richiesta dal suo disegno di gettarsi nella trascrizione di un universo da ridisegnare per intero, si arresta per un attimo, quasi sgomento, e rivolge lo sguardo alle sue letture passate, interrogandosi sul loro rapporto con il suo libro futuro. Scritto sotto la minaccia incombente della morte, mentre il tempo incalza, il suo libro gli pare destinato a riprendere il modello della narrazione di Sharazad che fa da filo conduttore alle Mille e una notte; d’altro canto, gli pare apparentarsi anche ad un’altra opera scritta per lo più di notte, ai Mérzoires di Saint-Simon, altra sua lettura prediletta. Per il lettore del Tezps retrouvé, che ha appena percorso tutta la Recherche, questa duplice affermazione ha una conseguenza immediata: gli mostra di colpo in una luce nuova l’opera che sta finendo di leggere e tutta una serie di allusioni al mondo delle Mille e una notte e alla corte di Luigi XIV, disseminate in zone lontane del testo, vengono a formare d’un tratto un disegno coerente. Ora il lettore è in grado di comprendere perché dietro al microcosmo cerimonioso e pettegolo della zia Léonie traspaia la reggia di Versailles, perché certe parole crudeli di Albertine, che schiudono alla passione ed alla sofferenza il cuore serrato del protagonista, vengano presentate come una formula magica, un nuovo « sesamo apriti » !: il romanzo che tiene tra le mani è una nuova versione delle Mille e una notte, una riscrittura dei Mérzoîres di Saint-Simon, che vivono nelle sue pagine come modelli presenti e segreti, non perseguìti attivamente, in uno sforzo mimetico deliberato, ma accolti nel loro emergere dagli spazi 1 Marcel Proust, A la recherche Clarac et André Ferré, Gallimard,

tiferiremo

du temps perdu, texte établi et présenté par Pierre Paris 1954, vol. II, p. 1127. A questa edizione ci in seguito con la sigla RTP.

140

Mariolina Bongiovanni Bertini

della memoria, nel loro riaffiorare dalla fertile e remota passività di antiche « giornate di lettura ». La presenza paradossale — efficace in quanto non voluta, non cercata — di questi modelli, si collega strettamente alla nozione proustiana di ricordo involontario: essi vivono nel vuoto instaurato dall’assenza dell’intenzione imitativa, come le immagini del passato resistono ben nascoste nel rifugio di un’impressione sensibile che la sua stessa insignificanza protegge, al pari di un solido guscio, dallo sguardo medusico dell’intelligenza, della memoria volontaria. Per questo il narratore non può nominarli se non addentrandosi in un labirinto di circospette negazioni, predisposte per difenderlo da ogni sospetto di mimesi diretta e positiva: « Non pas que je prétendisse refaire, en quoi que ce fùt , les Mille et une Nuits, pas plus que les Mérzoires de Saint-Simon (...), pas plus qu’aucun des livres que j’avais aimés, dans ma naiveté d’enfant, superstitieusement attaché è eux comme

à mes amours, ne pouvant sans

horreur imaginer une oeuvre qui serait différente d’eux. Mais, comme Chardin, on ne peut refaire ce qu’on aime qu’en le renongant. Ce serait un livre aussi long que les Mille et une Nuits peut-étre, mais tout autre. Sans doute, quand on est amoureux d’une oeuvre, on voudrait faire quelque chose de tout pareil, mais il faut sacrifier son amour du moment, ne pas penser à son goùt, mais à une vérité qui ne vous de-

mande pas vos préférences et vous défend d’y songer. Et c’est seulement si on la suit qu’on se trouve parfois rencontret ce qu’on a abandonné, et avoir écrit, en les oubliant, les « Contes arabes » ou les

« Mémoires de Saint-Simon » d’une autre époque » ?. Quel che avvicina uno scrittore al suo modello è dunque, in definitiva, una fuga dal modello stesso; se i ricordi possono accedere alla luce della resurrezione soltanto dopo aver attraversato l’oscurità dell’oblio, i modelli, analogamente, possono rinascere, tornare a reincarnarsi in una soltanto se sono stati abbandonati, sacrificati, dimenticati.

scrittura

altra

Si intravede, dietro a questo brano, in negativo, l’esperienza del Proust autore di pastiches, divertite e perfette contraffazioni stilistiche: se la massima vicinanza al modello, raggiunta attraverso la mimesi diretta, conduce inevitabilmente al pastiche cioè al calco, alla statua da museo delle cere, alla riproduzione meccanica, l’artista che vorrà fat rivivere un’opera del passato

2 RTP, III, pp. 1043-1044.

Goethe in Proust

141

non potrà che tentare la strada opposta, scegliere di rispettare l’aura del suo modello e incorporare alla propria creazione, come dimensione irrinunciabile, la dimensione della distanza. Soltanto l’intenzione parodistica potrà giustificare l’assenza di questa dimensione: è il caso, ad esempio, del pastiche del Journal dei Goncourt che Proust inserisce nel Temps retrouvé? con l’intento di suscitare nel narratore, e nei lettori, un senso d’insofferenza nei confronti dell’écriture artiste, smascherata nella sua compiaciuta insincerità, nel suo asservimento alla finzione mondana. Ma là dove il rapporto con il modello è un rapporto d’amore, all’interno dell’opera d’arte, ogni mimesi diretta e volontaria non può che essere rigorosamente bandita: sarà l’amore stesso per il modello a riemergere, in base a una legge naturale e segreta, in forma di oscura, imprevedibile somiglianza tra i due testi, non nella prossimità soffocante del pastiche, ma nella lontananza dell’aura preservata. È in questa prospettiva che la Recherche si pone nei confronti dei suoi modelli, siano essi citati esplicitamente, come i Mémoires di Saint-Simon e le Mille e una notte, ricordati incidentalmente, in allusioni marginali, come le Pensées di Pascal o la Comédie humaine, o passati del tutto sotto silenzio, come Wilhelm Meister.

Proust lettore di Goethe

Il 22 ottobre 1896 Proust, in vacanza per qualche giorno a Fontainebleau con Léon Daudet, fervente goethiano, scrisse alla madre di spedirgli al più presto, insieme a qualche altro libro, «il primo volume del Wilhelm Meister » 4. Questo primo volume comprendeva, nella bella traduzione di Théo-

phile Gautier fils, uscita da Charpentier nel 1861 e in seguito più volte ristampata, i primi sette libri dei Lebrjabre. Sappiamo che il mese precedente, tra i libri presi a prestito da Proust al Cabinet de lecture a cui era abbonato, c'era la Correspondance entre Goethe et Schiller®; è probabile che le

3 RTP, III, p. 709-717. Sui rapporti tra la pratica del pastiche e la teoria proustiana dello stile si veda Jean Milly, Les Pastiches de Proust, Colin, Paris 1970 e soprattutto Gérard Genette, Palimpsestes, La littérature au second degré, Seuil, Paris 1982, pp. 107-130 e passim. 4 Marcel Proust, Correspondance, Texte établi, présenté et annoté par Philip Kolb, tome II, 1896-1901, Plon, Paris 1976, p. 144.

5 Ib., p. 123. Si tratta della Correspondance

entre Goethe et Schiller, traduction de

Mme la baronne de Carlowitz, revisée et annotée par Saint René Taillandier, Charpentier,

142

Mariolina Bongiovanni

Bertini

lettere dedicate da Schiller all’analisi dei Lebrjabre avessero contribuito a destare in lui il desiderio di conoscere il romanzo goethiano. Terminata la lettura — non solo del primo ma anche del secondo volume, contenente l’ultimo libro dei Lebrjabre e i Wanderjahre — Proust redasse una sorta di breve saggio che rimase incompiuto e fu pubblicato per la prima volta solo più di trent'anni dopo la sua morte °. È un saggio che non può sostenere il confronto con la grande critica proustiana, quella che smonta la sintassi di Flaubert come un meraviglioso giocattolo o che, partendo da qualche scelta lessicale, ridisegna le costellazioni dell'immaginario baudelairiano; non si tratta però nemmeno di casuali, disordinati appunti di lettura perché, isolando certi temi ricorrenti del Wilbelrz Meister e delle Wablverwandischaften, e identificando gli artifici compositivi che gli sembrano più tipicamente goethiani, Proust ha sempre presente un problema che gli sta particolarmente a cuore e che funge da elemento unificatore: il concetto di ispirazione. È una nozione che sta al centro delle sue riflessioni sulla scrittura tanto nel Jear Santeuil — il romanzo incompiuto redatto tra il 1895 e il 1900 — quanto in molte pagine sparse degli stessi anni”: l’ispirazione è la prima forma in cui gli si presenta quella che sarà la sua concezione dell’involontario, della necessità, da parte del soggetto, di abbandonare le vie dell’intenzione e della buona volontà per aprirsi alla violenza della verità, alla voce irriducibilmente altra delle cose. Per questo è un’ispirazione che non ha mai il turgore affermativo della creatività, è piuttosto un dissolvimento

Paris 1863. A questa data Proust conosceva inoltre, verosimilmente, il Faust nella traduzione di Gérard de Nerval, uno dei suoi poeti prediletti, e certamente gli Entreziens de Goethe aver Eckermann che erano stati presentati al pubblico francese nel 1863 nella traduzione di Délerot con introduzione di Sainte-Beuve. Prima del 1900 egli lesse inoltre Dichtung und Wabrbeit, non sappiamo se nella traduzione di Henri Richelot o in quella della baronessa di Carlowitz. Si veda in proposito il saggio molto documentato di Annie Barnes Proust et Goethe, in « Oxford German Studies », VIII, 1973, pp. 128-148. 6 Accogliamo come data di composizione quella proposta da Annie Barnes nell’articolo citato. La prima pubblicazione del breve scritto di Proust, intitolato dal curatore Sur Goethe, è quella in Contre Sainte-Beuve suivi de Nouveaux Mélenges, Gallimard, Paris 1954, avec une préface de B. de Fallois, pp. 403-406. Ora esso è compreso in Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve précédé de Pastiches et melanges et suivi de Essais et articles, édition établie par Pierre Clarac avec la collaboration d’Yives Sandre, Gallimard, Paris 1971, pp. 647-650. A questo volume ci riferiremo d’ora in poi con la sigla CSB. ? Cfr. La création poétique, in CSB, p. 412; La poésie ou les lois mystérieuses, Ib., p. 417, Le declin de l’inspiration, Ib., p. 422. Su questi testi mi permetto di rimandare a Mariolina Bertini, Marcel Proust, della poetica: dalle «leggi misteriose » della poesia alla «legge crudele » dell’arte in « Belfagor », gennaio 1981, pp. 1-21.

Goethe

in Proust.

143

delle resistenze autoconservative, una momentanea sospensione del principiur individuationis, un «... renouvellement de la téte où toutes les cloisons semblent tomber et où aucune barrière, aucune rigidité n’est plus en nous,

où toute notre substance semble une sorte de lave préte à étre coulée, è recevoir telle forme qu’on voudra, sans que rien de nous ne subsiste » *. Perseguendo un disegno ingenuo e ambizioso, seducente e chimerico, Proust si propone di comprendere a quali oggetti e a quali temi fosse legata, per il Goethe romanziere, l’ispirazione, e in quali punti del Wilhelm Meister e celle Wablverwandischaften se ne possano scorgere le tracce, le impronte. Il suo progetto è esposto già nelle prime righe del saggio: « Les choses dont parlent habituellement nos livres disent ce qui excitait en nous l’inspiration et on voit bientòt ce qui s’imposait è no-

tre esprit avec force. Le site a una extréme importance dans Goethe. On arrive souvent dans un endroit où la vue est étendue et variée. On voit les choses du haut d’une petite montagne, et devant nous s’ouvrent des vallées, avec des villages et un beau fleuve, sur lequel éblouit la lumière matinale. Les divers cabinets d’amateurs y plaisent aussi, cabinets de tableaux, cabinets d’histoire naturelle. On sent que toutes ces choses ne sont pas mises simplement pour le plaisir, mais qu’elles furent dans un rapport extrémement sérieux avec sa vie intellectuelle, que l’affaire de son intelligence, son objectif le plus réel était de voir ce qu’il y avait de réel dans ce plaisir qu’elles lui faisaient éprouver (...) et de déterminer leur influence sur l’esprit » ?. Ci sono almeno due paesaggi goethiani che s’intravedono con chiarezza dietro queste righe: quello della radura dove Wilhelm e i suoi compagni saranno aggrediti dai banditi, e dove apparirà a Wilhelm ferito la figura dell’Amazzone, apportatrice di salvezza immediata e promessa di un’ancor più preziosa salvezza futura, e quello che si scorge dalle impalcature della casa in costruzione delle Wablverwandtschaften, nel nono capitolo della prima parte, anch’esso carico di promesse ma di promesse ingannevoli, che alludono ad una serenità già internamente minata dalla tragedia. Quanto ai cabinets d’amateurs, l’elenco completo sarebbe lungo: nei Lebrjabre ricordiamo la collezione del nonno di Wilhelm, il cui miracoloso riapparire nel palazzo di

8 M. Proust, Le déclin de l’inspiration, in CSB, p. 422. ? M. Proust, Sur Goethe, in CSB, p. 647.

144

Mariolina Bongiovanni Bertini

Natalia sarà per il giovane eroe una sorta d’insperata riconquista della propria infanzia, e la raccolta di piante, insetti, ossa e mummie del padre dell’« anima bella », raccolta definita, nella traduzione di Gautier, « joli cabinet »; nei Wanderjabre troviamo la galleria di quadri dello zio di Ersilia e Giuletta,

quella di ritratti di personaggi storici che compare nella novella Wer ist der Verriter?, la bizzarra congerie di oggetti del passato accumulata dal vecchio cui Wilhelm affida in custodia la sua cassetta, le pitture murali della provincia pedagogica, la raccolta di pezzi anatomici artificiali su cui Wilhelm perfeziona la propria conoscenza dell’anatomia. Nelle Wablverwandtschaften il capitano promette a Carlotta di mostrarle interessanti esperimenti sulle affinità degli elementi appena disporrà di un gabinetto chimico; l’architetto, per parte sua, custodisce con cura gelosa una collezione di pezzi archeologici che è ad un tempo una testimonianza della sua pietas verso il passato e — come nota Ottilia nel suo diario !" — il risultato di una crudele profanazione da lui compiuta su antichi tumuli. Spostata su di un piano diverso — nella dimensione del destino e della memoria individuale — la dolorosa inscindibilità di pietas e profanazione sarà uno dei temi più enigmatici della Recherche e percorrerà tanto il destino del musicista Vinteuil quanto quello del narratore, che avrà l’impressione di aver sfruttato per la propria opera le sofferenze degli esseri che ha amato e di aver consumato, prima dei suoi lettori sconosciuti, la profanazione dei propri ricordi !!. Il fatto che l’attenzione di Proust si sia soffermata in modo particolare sui cabinets de tableaux di Goethe ci permette inoltre di rintracciare la matrice letteraria di un vezzo di Swann, che Lucien Daudet attribuiva anche allo

stesso Proust ‘’; quello di rintracciare nei quadri dei maestri del passato i lineamenti di persone del presente 5. È quanto fa Wilhelm nella galleria dello zio di Ersilia (citiamo dalla traduzione nota a Proust):

« Ce qui surprenait surtout notre ami, c’était la ressemblance de plusieurs de ces personnages éteints depuis longtemps avec d’autres hommes vivants qu’il avait connus et vus de ses propres yeux, la res-

10 Cfr. Die Wablverwandtschften, parte II, cap. II; in Goetbes Werk in 2wolf Binden, Aufbau-Verlag, Berlin und Weimar 1966, vol. V, p. 306; trad. it. di C. Baseggio Le affinità elettive in Goethe, Opere, a cura di V. Santoli, Sansoni, Firenze 1970, p. 1000. LGS RII PARA R9028 12 Cfr. Lucien Daudet, Autour TISM1929RPPAI8-197 ISECRSR TP pp222:224,

de soixante

lettres

de Marcel

Proust.

Gallimard,

Pa-

Goethe in Proust

145

semblance de ces personnages avec lui-méme! Et pourquoi des ménechmes-jumeaux ne naitraient-ils que d’une seule mère? La grande mère des dieux et des hommes ne peut-elle faire sortir de son sein fécond deux images semblables, simultanément ou à des intervalles éloignés? »14

Lo stupore di Wilhelm lo ritroveremo, delia Recherche, a Balbec:

d’altronde,

anche nel narratore

« Esthétiquement, le nombre des types humains est trop restreint pour qu’on n’ait pas bien souvent, dans quelque endroit qu’on aille, la joie de revoir des gens de connaissance, mème sans les chercher dans les tableaux des vieux maîtres, comme faisait Swann. C'est ainsi que dès les premiets jours de notre séjour à Balbec, il m’était arrivé de rencontrer Legrandin, le concierge de Swann, et Mme Swann elle-méme, devenus, le premier, un gargon de café, le second, un si de passage que je ne revis pas, et la dernière, un maître Baloneur a

Ma la misteriosa facoltà di ripetersi della natura, che si manifesta nelle somiglianze, non interessa soltanto la sfera estetica: pensiamo all’elemento intensamente perturbante che diventano, nelle Wablverwandtschaften, gli occhi bellissimi di Ottilia nel volto del bambino di Edoardo e Carlotta, nato da un amplesso che è stato una sorta di profanazione. Nella somiglianza, la profanazione si fa visibile, trova un segno che l’esprime, viene alla luce; quando Proust accennerà, in un appunto del 1908, al « visage maternel dans un petit fils débauché » !° o, in Sodome et Gomorrbe, ai figli che consumano nel loro volto la profanazione del volto materno !, farà propria quella costellazione goethiana di fatalità e di colpa che nel piccolo Ottone trova la sua muta immagine, segnata da una disarmonia profonda per la quale non c'è salvezza su questa tetra. 14 Wilbelm Meister par Goethe, traduction complète et nouvelle par M. Thèophile Gautier fils, Charpentier, Paris 1868, Deuxième partie, Anzées de voyage, t. II, p. 212; in Goe. thes Werke cit. vol. VII, pp. 82-83; trad. it. di B. Arzeni Anni di pellegrinaggio di Guglielmo Meister in Goethe, Opere, a cura di L. Mazzucchetti, Sansoni, Firenze 1963, vol. IV, pp. 674-675. 15 RTP, I, pp. 684-5. 16 M. Proust, Le Carnet de 1908, établi et présenté par P. Kolb, Gallimard, Paris 1976, p. 56. RIE, BE go SO

146

Mariolina Bongiovanni Bertini

Se i vari cabinets d’amateus occupano uno spazio così grande nei romanzi di Goethe, è perché le arti stesse sono per Goethe un oggetto privi. legiato di riflessione; quando Proust affronta questo tema ci troviamo veramente al centro del suo piccolo saggio, in un punto che segna a un tempo la sua massima prossimità e la sua massima distanza rispetto al pensiero goethiano. « Les arts, et les moyens par lesquels on s’y perfectionne, occupent beaucoup les romans de Goethe. L’art de l’acteur, l’art de l’architecte, l’art du musicien, l’art du pédagogue y jouent un grand ròle, et en tout ceci ce qui est vraiment l’art. La difficulté d’obtenir un ensemble où chacun soit prèt, le frappe évidemment comme faisant partie de l’essence mème de l’effort artistique. D’où la part faite aux comédies de société, aux comédies impro: visées !, à cette première représentation où Wilhelm Meister veut jouer et ne sait quoi dire !, à cette cérémonie des magons où chacun veut jeter qulque chose dans les fondations, mais pris au dépourvu ne sait quoi y jeter?. Dans Les Affinités électives l’art des jardins, des constructions tient une grande place. Et il est montré combien de vie entières sont sacrifiées inutilement à ces arts, le point de vue auquel on s’est placé étant faux, la fagon de comprendre le ròle de la perspective ou la disposition des tombes dans un cimetière pouvant pour un esprit, nous en avons pour Goethe l’exemple, se trouver un de ces faits où la réalité profonde nous est sensible ...»?. Partito alla ricerca degli elementi che suscitavano e cristallizzavano l’ispitazione goethiana, Proust si trova qui di fronte a un ideale etico ed esietico al tempo stesso: l’ideale di un ordine supremo in cui confluiscono tutte le arti e tutte le attività specializzate, un ideale che liquida tutti i tentativi imperfetti, tutti gli sforzi individuali dispersi e dispersivi, tutti i faticosi errori in cui si sono consumate intere esistenze. Dall’alto di questo ideale — quasi materializzato dai paesaggi montani dei Wanderjabre che sovrastano da altezze vertiginose il mondo del discrdine e delle passioni — ogni atto colpevole, ogni errore umano mostra di non esser altro che la violazione di una legge scritta nella natura stessa delle cose: Wilhelm ragazzino che pretende di recitare un dramma che non ha scritto né preparato, saltando a piè pari

18 Si vedano il nono capitolo del secondo libro e il secondo capitolo del quarto libro dei Lebrjabre; e il quarto, il quinto e il sesto capitolo della seconda parte delle Wabl. verwandtschaften. 19 Si veda il settimo capitolo del primo libro dei Lebrjabre. 20 Si veda il nono capitolo della prima parte delle Wablverwandtschaften. 21 M. Proust, Sur Goethe, in CSB, p. 648.

Goethe

in Proust

147

tutto il lavoro che una rappresentazione necessariamente presuppone, Carlotta che sacrifica a un sogno di astratta eguaglianza la disposizione delle

tombe consacrata dalla tradizione, peccano nello stesso modo, sono entrambi prigionieri di un desiderio unilaterale, di un sogno soggettivo che rifiuta di

venire a patti con l’intima legalità del reale, con la sua multiforme complessità. Cè in Proust un’evidente adesione a questo aspetto dell’etica goethiana: la situazione del narratore della Recherche, che per anni coltiverà il proprio astratto desiderio di scrivere senza trovar nulla da dire, è perfettamente parallela a quella del giovanissimo Wilhelm, che tenta di mettere in scena un dramma senza aver prima pensato a comporlo e si ritrova ad annaspare sul palcoscenico senza saper da che parte cominciare. Tuttavia l'ideale goethiano di ordine e armonia, alla luce del quale diventano evidenti le insufficienze delle aspirazioni individuali generiche e dilettantesche, nel momento in cui trova la sua compiuta espressione nelle prospettive utopiche dei Warderjabre non può che respingere Proust con la sua ingombrante positività, con la sua ingenua pienezza. Alla dignità uniforme della provincia pedagogica, all’esaltazione del collettivo che serpeggia nei canti e nei discorsi dei futuri coloni, Proust non può che reagire rifugiandosi in quello che è per lui lo spazio della poesia, cioè quel margine minimo, trascurato, insignificante dell’esperienza individuale che è il solo terreno da cui possa nascere

il ricordo involontario.

Per questo, proseguendo

la sua ricognizione sulle tracce dell’ispirazione goethiana, egli difende il diritto di Goethe a ritrarre, se glielo impone la sua visione interiore, « paesi modello » e « bizzarri templi », ma gli contrappone la figura di un poeta che si ispira invece alle sensazioni più umili e fuggitive, che decifra la ferrea legge della necessità nell’impressione appena percepibile che lo pone sulla via della creazione artistica:

« Il semble (...) que le besoin de symboliser par des cérémonies ce gui est pour nous l’invisible, l’essentiel, cérémonies allégoriques qui nous semblent si froides et de si peu d’importance? ait eu une grande

2 Proust allude qui verosimilmente alla cerimonia che conclude il settimo libro dei Lehrjabre, ai funerali di Mignon e alla coreografia della Sala del Passato, all’accentuata ritualità che permea tutta la vita nella provincia pedagogica, alla festa dei minatori nel capitolo IX del libro II dei Wanderjabre. Quanto alle Wablverwandtschaften, pensa evidentemente ai festeggiamenti per la prima pietra della nuova casa, che ha già ricordato, all’inaugurazione della casa stessa (cap. XV della prima parte) e alle sfilate dei ragazzi giardinieri (cap. XVIII della prima parte e cap. VII della seconda parte).

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importance aux yeux de Goethe. Point sur lequel il serait absurde de chicaner d’une facon abstraite, chacun de nous étant asservi aux faits par lesquels l’esprit de vérité et d’inspiration se communique è lui. Pour tel les odeurs qui lui remémorent le passé, pour d’autres autre chose » #.

D'altronde, l’ideale d'ordine di Goethe non è certo presente nei suoi romanzi come mero elemento tematico; permea profondamente tutta l’organizzazione del racconto, presiede ai parallelismi e alle simmetrie, governa le appartizioni e le sparizioni dei personaggi. Proust annota a questo proposito: « Le monde est assez arrangé dans ces romans comme un théàatre de marionnettes, tant on sent que Goethe tient dans un but mystérieux le fil qui les amène. Du reste tel est le charme de ses personnages. Dans les chambres, il y a des petits théAtres d’enfant. Dans les cabinets, des tableaux et des outils. Dans l’intérieur du récit, il y a un autre récit raconté par un des personnages et interrompu par le récit véritable (...). Les personnages apparaissent au début du récit, mais pour revenir à la fin ou è un ou deux entroits du drame (...). Et enfin divers incidents sont des présages de ce qui doit arriver » 4.

C'è in questo brano un misto di ammirazione e di sospetto nei confronti della perfezione, a volte un po’ meccanica, degli intrecci goethiani. Interrogandosi, con l’aiuto delle sue letture, su quel che destava in Goethe l’ispirazione, Proust ha incontrato temi e oggetti enigmatici e disparati, ma non è giunto a una risposta che lo soddisfi completamente. L’intreccio di caso e necessità, il gioco dei presagi, cui darà un certo spazio nella Recherche, l’oscurità intermittente che avvolge i personaggi del grande burattinaio lo affascina, ma l’esito dei Wanderjahre, che è tutto un inno all’azione utile e alla socialità, non può che respingerlo, non tanto per le sue ingenue coreografie settecentesche, quanto per il suo vigoroso ottimismo, per la sua positività senza incrinature. Su questa perplessità, su questa irrisolta tensione si chiude il breve saggio del 1896. Otto anni dopo, in una recensione, Proust torna a sfiorare, molto marginalmente, il Wilhelm Meister e le Wablverwandtschaften, formulando un giudizio piuttosto negativo. Al mondo dei due romanzi applica in-

2 M. Proust, Sur Goethe, in CSB, p. 649. % Ib.

Goethe in Proust

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fatti, stornandone il senso, il titolo di Nietzsche « umano, troppo umano »; la natura vista da Goethe, — in contrapposizione a quella di Ruskin — gli pare priva di mistero, troppo antropomorfizzata, troppo asservita a fini etici, didattici, razionali ?. Se nel ’96 il futuro autore della Recherche si era messo baldanzosamente sulle tracce dell’ispirazione goethiana, ora ritiene di aver acquisito in proposito una certezza negativa: l’ispirazione, tanto nel Wilhelm Meister quanto nelle Wablverwandtschaften, è troppo spesso surrogata dall’intelligenza; da un'intelligenza immensa, atta a svolgere tutte le funzioni, anche quella dell’immaginazione, ma non capace di sostituire quel fertile abbandono al mondo che è proprio del pensiero ispirato. Negli anni che seguono — gli anni dell’ultima traduzione ruskiniana, dei pastiches, del Contre Sainte-Beuve, della lunga maturazione della Recherche — Wilbelm Meister e le Wablverwandtschaften sono apparentemente lontani dalle preoccupazioni di Proust. Se Goethe viene incidentalmente ricordato, i romanzi che intorno al 1896 Proust ha letto con tanto interesse sembrano entrati nel limbo delle letture dimenticate, sulle quali è inutile tornare. Le Wablverwandtschaften saranno citate come oggetto di studio di un personaggio minore della Recherche, geniale artista d’avanguardia dietro una maschera di fatua mondanità ’; di Wilhelm Meister Proust non parlerà mai più.

Marcels Lebrjahre Sarebbe vano cercare nella Recherche singoli episodi che abbiano un rapporto di esplicita intertestualità con Wilhelm Meister. È piuttosto in Jean Santeuil, anche per ovvie ragioni di vicinanza cronologica con le letture del °96, che si può riscontrare con certezza almeno un riferimento diretto. In un episodio redatto sicuramente nel 1897, o poco dopo ”, Jean Santeuil, il giovane eroe del romanzo, dopo un litigio violento con i genitori, estenuato da una lunga crisi di lacrime, si getta sulle spalle un vecchio mantello da sera della madre, pescato a caso in un armadio. È un mantello ornato di aiguillettes,

cioè di cordoncini intrecciati tipici dell’abbigliamento militare; ha quindi, no-

25 Cfr. CSB, pp. 478-481. In Proust et Goethe cit. Annie Barnes individua i riferi. menti a Goethe, Emerson, Carlyle presenti in queste pagine e le commenta in modo estremamente pertinente. 20 tr. VRIP: III pi 606, 21 Cfr. G. D. Painter, Marcel Proust, Feltrinelli, Milano 1965 (1959), p. 226 e M. Proust, Correspondance cit., t. II, pp. 160-162.

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nostante il colore vivace della fodera, un che di mascolino. Avvolgendovisi, Jean rivede la madre com’era qualche anno prima, elegante e radiosa; dalla collera, passa ad uno stato d’animo di tenerezza struggente:

« Pour que cette tendresse ne l’abandonnàt pas, et sans rougir d’implorer l’aide d’une chose qui avait déjà tant fait pour lui, il jeta le petit manteau de velours sur ses épaules » ?. Questo gesto di Jean, con il suo valore evocativo, con la sua aura emotiva, non è nuovo al lettore del Wi/belzz Meister. Anche Wilhelm ha incontrato sulla sua strada un mantello di foggia mascolina indossato da una leggiadra figura femminile; anche lui, tra le pieghe del mantello lasciatogli dall’Amazzone, ha cercato l’immagine della « sposa del padre »:

« Aux soins extrémes qu’il prenait de ce vétement se joignait le plus vif désir de s’en couvrir. Dès qu'il se leva il le jeta sur ses épaules, et craignit toute la journée de le voir endommagé par une tache ou de quelque autre facon » ?. Nella Recherche non si danno riscontri precisi di questo tipo; ma dietro il destino del narratore, di Marcel, traspare, come il ritratto di un antenato, il destino di Wilhelm, il suo itinerario verso la sua vocazione vera — la chi-

rutgia — attraverso quel labirinto di seducenti illusioni che è il mondo del teatro. Dapprima vagheggiando il mondo teatrale, poi penettandovi, Wilhelm si abitua alla finzione,

a mentire non tanto agli altri, quanto a se stesso;

è

vittima di costanti miraggi, da quello che al primo incontro gli mostra l’attore Melina e la sua futura moglie aureolati di nobilità morale, a quello che gli raffigura Lotario come un vile seduttore, ch’egli ha il diritto di guardare con disprezzo dall’alto della sua coscienza immacolata. Alla base di tutte queste illusioni c'è un autoinganno originario: la sua fittizia vocazione di attore e di poeta drammatico, che non ha fondamenti reali, ma è soltanto una delle tante forme in cui può presentarsi la tentazione narcisistica, che tutto deforma e trasfigura. La storia della formazione di Wilhelm sarà pro%® M. Proust, Jean Santeuil précédé de Les plaisirs et les jours, édition établie pat P. Clarac avec la collaboration d'Y. Sandre, Gallimard, Paris 1971, p. 422. 9 Wilhelm Meister, trad. francese cit., Première partie, Années d’apprentissage, t. I, p. 266; in Goethes Werke cit. vol. VI, pp. 244-245; trad. it. di B. Arzeni, Il noviziato di Guglielmo Meister, in Goethe, Opere, Sansoni, Firenze 1970, p. 703.

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in Proust

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prio la storia della sua liberazione dal cerchio magico in cui l’illusione narcisistica costringe l’individuo: grazie all’aiuto di Jarno, Wilhelm prenderà coscienza dei propri errori e giungerà finalmente a vedere se stesso e la realtà che lo circonda in una luce non mistificante. Contemplato con gli occhi del disincanto, il mondo del teatro altro non è che una miniatura del « mon-

do » tout court, in cui gli uomini schiavi del narcisismo e del desiderio di affermarsi si agitano sterilmente. Wilhelm, che comincia ad aprire gli occhi, così lo descrive a Jarno: « On parle beaucoup du théatre, mais celui qui n’y a pas vécu ne peut s’en faire une idée juste: combien ces hommes s’ignorent absolument eux-mémes, combien ils font leur besogne sans réfléchir, combien leurs prétentions sont énormes, on ne peut se l’imaginer. Chacun veut étre non seulement le premier, mais le seul; il excluerait volon: tiers tous les autres, et ne voit pas qu’il n’est quelque chose que pat leur concours; chacun croit étre merveilleusement original, et il est incapable de rien trouver en dehors de la routine; avec cela une continuelle inquiétude et une recherche incessante du nouveau. Avec quelle violence ils agissent les uns contre les autres! Ce n’est que par suite du plus mesquin amour-propre, de l’interét personel le plus étroit,

qu’ils restent unis » °°. La risposta di Jarno dice esplicitamente quello che il lettore ha già intuito: « Savez-vous bien, mon ami (...), que ce que vous venez de décrire là, ce n’est pas le théatre! c’est le monde, et que je trouverais dans toutes les classes de la société bien des modèles et des sujets pour vos rudes pinceaux? » *. Quando nell’episodio teatrale di Le co de Guermantes Proust sottolineerà la continuità tra palcoscenico e commedia mondana ed affermerà che il mondo non è che un teatro di dimensioni più grandi *, riprenderà il con-

30 Wilhelm Meister, trad. francese cit., Première partie, Années d'apprentissage, t. I, pp. 493-494; in Goethes Werke cit. vol. VI, pp. 453-454; trad. it. Il noviziato di Guglielmo Meister cit., pp. 802-803. 31 Ib, (Gi UU 0 Se aree

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tenuto di questo dialogo, pur soffermandosi soprattutto su di un altro aspetto, cioè sull’illusione scenica come momento in cui viene alla luce con la massima evidenza la soggettività e la precarietà di ogni bellezza. Anche quest’altro aspetto è comunque presente nel Wilhelm Meister, in particolare nella scena in cui vediamo Wilhelm aggirarsi dietro le quinte e rendersi conto della povertà degli scenari e della bruttezza delle ballerine non trasfigurate dalla magica prospettiva del palcoscenico *. Sino a che Wilhelm resta chiuso nella corazza del proprio autocompiacimento, si diffonde volentieri in lunghi monologhi, in cui può esprimere senza tema di smentita le sue più care illusioni. Sotto l’influsso dell’amore nascente per la contessa, declama tra sé e sé una tirata magniloquente sulle virtù dell’aristocrazia *; quando riceve il compenso per le rappresentazioni al castello del conte, effonde la propria soddisfazione in una lettera ai familiari non meno baldanzosa e insincera:

«Il prit la plume avec confiance pour écrire une lettre qui tirerait sa famille de toute inquiétude et mettrait sous le meilleur jour la conduite qu'il avait menée jusqu’è ce moment. Il évita de donner des détails et enveloppa

sous

des expressions

majestueuses

et mystérieuses

le récit de ce qui lui était arrivé. Le bon état de sa caisse, le gain qu’il devait è son talent, la faveur des grands, l’affection des femmes, l’extension du cercle de ses connaissances, le perfectionnement de ses facultés physiques et morales, ses espérances pour l’avenir, formaient un si étrange mirage, que la Fata Morgana elle-mèéme n’en eùt pas composé un plus merveilleux. Dominé par cette heureuse exaltation, il poursuivit en lui-méme,

lorsqu’il eut fermé sa lettre, un long monologue où il récapitulait le contenu de sa missive et se tracait un avenir plein d’activité et d’honneut » 35.

Dello stesso genere sarà l’esaltazione in cui Wilhelm si cullerà preparando il patetico discorso destinato a confondere Lotario dopo la motte di Aurelia, da lui sedotta. Il rovesciamento di questa esaltazione fittizia, il suo smasche33 Si veda il quindicesimo capitolo del primo libro dei Lebrjabre. 3 Si veda il secondo capitolo del terzo libro dei Lebrjabre. 3 Wilhelm Meister, traduzione francese cit., Première partie, Années d’apprentissage, t. I, pp. 232-233; in Goetbes Werke cit., vol. VI, pp. 214-215; trad. it. I/ moviziato di Guglielmo Meister cit., p. 688.

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tamento non avverrà senza sofferenza: Jarno metterà a nudo la mancanza di talento di Wilhelm per il teatro, mentre le lettere postume di Marianna, da lui abbandonata ad un destino atroce, lo costringeranno a capire che, prima di accusare Lotario, deve rovesciare l’immagine soddisfatta che aveva della propria vita, leggere nel fondo di se stesso non le parole consolanti e rassicuranti che stigmatizzano la colpa altrui ma quelle, crudeli e salutati, che tolgono all’Io, una dopo l’altra, tutte le sue maschere. Wilhelm, alle soglie della maturità, deve dare un’interpretazione tutta nuova della propria vita passata; solo inducendolo a questo il destino e Jarno, provvidenzialmente alleati, possono guidarlo verso la salvezza. Ma questa lettura a rovescio del passato, attraverso la quale Wilhelm si riscatta decifrando i segni della colpa non più nell’altro ma nell’Io, i lettori di Proust la conoscono bene: è il punto d’arrivo del narratore dopo gli anni dispersivi dello snobismo e dell’amore egoistico, degli sterili sogni di scrittura sostenuti non da un’autentica vocazione ma dal desiderio, astratto e lusinghiero, di diventare un grande scrittore. Il narratore della Recherche non è guidato verso la consapevolezza da una figura che abbia ‘una funzione analoga a quella di Jarno; tuttavia le grandi figure di artisti che ha conosciuto, soprattutto Elstir e Vinteuil, lo hanno aiutato a liberarsi da ogni visione estetizzante o edonistica dell’arte facendogliene intuire il valore conoscitivo,

il contenuto di verità. È anche grazie a loro che, approdando alla scrittura dopo la rivelazione del Temps retrouvé, il narratore comprenderà che il vero contenuto del libro che deve scrivere è la lettura controluce della sua esperienza passata, dei suoi anni d’apprendistato: « Ce travail de l’artiste, de chercher à apercevoir sous de la matière, sous de l’expérience, sous des mots quelque chose de différent, c'est exactement le travail inverse de celui que, à chaque minute, quand nous vivons détournés de nous méme, l’amour-propre, la passion, l’intelligence, et l’habitude aussi accomplissent en nous, quand elles amassent au-dessus de nos impressions vraies, pour nous les cacher entièrement,

les nomenclatures, les buts pratiques que nous appelons faussement la vie. En somme, cet art si compliqué est justement le seul art vivant. Seul il exprime pour les autres et nous fait voir è nous mémes notre propre vie, cette vie qui ne peut pas s’« observer », dont les apparences qu'on observe ont besoin d’étre traduites et souvent lues à rebours et péniblement déchiffrées » *.

3% RTP, III, p 896.

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Ma questo rovesciamento interpretativo che è il cuore stesso della nozione proustiana di scrittura, e al quale abbiamo visto sottoporsi anche Wilhelm Meister, non sarebbe possibile senza gli errori che l’hanno preceduto; a differenza dei monologhi dell’amor proprio, delle vocazioni fittizie, esso fa i conti con lo spessore del reale. Per questo nell’ottica ch’esso istituisce nulla va perduto, né per Wilhelm né per Marcel: « ... Tout ce qui nous arrive — dice il saggio abate a Wilhelm — laisse des traces, tout sert, sans qu’on s’en apergoive, à nous parfectionner; mais il est dangereux de chercher à s’en rendre compte; cela nous rend ou bien orgueilleux et négligents, ou découragés et pusillanimes, et ces deux alternatives sont aussi fàcheuses l’une que l’autre pour la

suite » 3”. A questa rivelazione fa eco l’improvvisa intuizione che Marcel ha, nel Temps retrouvé, dei contenuti del suo libro a venire:

« Et je compris que tous ces matériaux de l’oeuvre littéraire, c’était ma vie passée; je compris qu’ils étaient venus à moi, dans les plaisirs frivoles, dans la paresse, dans la tendresse, dans la douleur, emmagasinés par moi, sans que je devinasse plus leur destination, leur survivance méme, que la graine mettant en réserve tous les aliments qui nourriront la plante (...). Ainsi toute ma vie jusqu’à ce jour aurait pu et n’aurait pas pu étre résumée sous ce titre: Une vocation » *.

Vocation: ai tempi della sua lettura di Wilhelm Meister nella traduzione di Théophile Gautier fils, Proust aveva incontrato questo vocabolo chiave in una

scena

molto

importante dei Warderjabre;

nella

scena,

narrata

nell’ul-

tima lettera di Wilhelm a Natalia, in cui il giovane descrive il colloquio con Jarno che ha deciso il suo destino futuro. Nel cotso di quel colloquio, Jarno ha notato che Wilhelm ha sempre con sé, come una sorta di feticcio, la borsa del chirurgo che lo soccorse al momento del suo primo incontro con Natalia, dopo. l’assalto dei briganti. « Je ne trouve rien de mal — dice Jarno a Wilhelm — è ce qu’on garde un pareil fétiche en souvenir de quelque bonheut imprévu, de conséquences importantes résultant d’un événement inattendu; cela nous élève en ce que 3 Wilhelm Meister, traduzione francese cit., Première partie, Années d’apprentissage, t. I, p. 480; in Goethes Werke cit. vol. VI, p. 441; trad. it. Il noviziato di Guglielmo Meister cit., p. 796.