Rwanda: etnografie del post-genocidio
 8883536924, 9788883536922

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copertina
collana
copyright
frontespizio
Indice
Introduzione
Cap. 1
Cap. 2
Cap. 3
Cap. 4
Cap. 5
Cap. 6
Cap. 7
Bibliografia
Autori
quarta di copertina

Citation preview

meltemi.edu 119

antropologia / etnografia

Copyright © 2009 Meltemi editore, Roma Il volume è stato pubblicato con un contributo del Dipartimento di Studi Internazionali Università degli Studi Roma Tre ISBN

978-88-8353-692-2

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata.

Meltemi editore via Merulana, 38 – 00185 Roma tel. 06 4741063 – fax 06 4741407 [email protected] www.meltemieditore.it

a cura di Michela Fusaschi

Rwanda: etnografie del post-genocidio

MELTEMI

Indice

p.

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Introduzione Itinerari etnografici nelle conseguenze dell’agire genocidario Michela Fusaschi

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Dopo il genocidio. Note di viaggio José Kagabo

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Etnicità e discorsi anti-tutsi nella polveriera del Kivu Luca Jourdan

101

Murambi: memoria e prevenzione del genocidio Philibert Gakwenzire

116

Tradizione e menzogne: il rituale matrimoniale rwandese nel post-genocidio Ilaria Buscaglia

135

A Kigali e momentaneamente in Belgio. «Dialogue»: fra nuova identità nazionale ed etnismo negazionista Silvia Cristofori

156

Il detto e il non detto. Violenza e memoria tra le vittime tutsi (1959-1994) Francesca Polidori

175

De-centrare la collina, ritualizzare la memoria, costruire lo spazio del dopo Francesco Pompeo

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Bibliografia

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Gli autori

A Jacques, grande impfúra*, a Luc, mio fratello per scelta, a Dominique, grande amico bon vivant, a Fiacre, dalla sua maaséenge**, a tutti gli amici e amiche rwandesi che mi hanno fatta sempre sentire a casa, mai sola, anche quando a essere rimasti davvero soli erano loro.

* Si dice di una persona che si distingue per la grandezza d’animo e per la sua condotta morale. ** La zia paterna, la sorella del padre che nella società patrilineare rwandese godeva nella tradizione di prerogative superiori a quelle della madre.

Introduzione Itinerari etnografici nelle conseguenze dell’agire genocidario Michela Fusaschi

Ricordi… qualche premessa Sono trascorsi quindici anni da quei cento giorni del 1994 in cui il Rwanda sprofondò nell’abominio del genocidio, in quello che O. B.1 mi descrisse attraverso un’immagine assolutamente efficace, anche per chi come me non è credente: “ho visto la vera faccia di Satana”. Era una domenica di aprile, avevamo deciso di fare una passeggiata lungo le rive del Lago Muhazi,2 uno specchio d’acqua molto suggestivo, circondato dalle onnipresenti colline, oggi luogo simbolico del potere essendo la residenza estiva del Presidente della Repubblica, nonché piccolo polo turistico della regione del nord-est. Ci eravamo seduti a bere birra e a mangiare pesce alla griglia, quando O., pronunciando quelle parole, ruppe, in qualche modo, l’incanto del lago e la magia di quei riflessi del sole che calava, in uno di quei tramonti che fanno brillare la superficie delle acque e il cielo si tinge di colori tenui ma intensi, fra l’arancio e il rosa. Con grande pacatezza, e apparente serenità, cominciò un racconto terribile, che generò in noi un vago sentimento di inquietudine, fino a non farci più sentire a nostro a agio, seduti sulle rive di quel lago che era stato teatro di avvenimenti drammatici. Una narrazione lenta, via via arricchita di dettagli sempre più macabri attraverso cui ci veniva descrivendo come quelle tranquille acque si fossero tinte, nella primavera del ’94, di un rosso denso e cupo a causa delle migliaia di persone che, una volta trucidate, vi erano state gettate. Fu così che, anche per noi, Satana, comunque si



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voglia raffigurare, venne a combaciare con l’immagine di quel genocidio. Questa è stata solo una delle tante volte in cui le/i rwandesi hanno cercato di raccontare per fotogrammi e metafore il genocidio. Vorrei provare a sintetizzarne qualcuna a partire da racconti, molto lunghi e drammatici, fattimi da alcuni sopravvissuti rwandesi tutsi: V. R. che fugge dalla furia dei miliziani, si nasconde in un campo di sorgo e si convince che il machete gli farà meno male sulla testa visto il “casco di capelli” che si è, volutamente, lasciato crescere; M. C., all’epoca quattordicenne, che, dopo aver assistito all’uccisione del padre insegnante per mano di uno dei vicini, per lo più suo giovane allievo, conserva la sua camicia, imbrattata di sangue, sotto il materasso; L. B., che assiste alla furia del suo professore che si scaglia contro i suoi compagni di corso al seminario e si salva, fingendosi morto, sotto i corpi straziati; D. K., un amico prete, il quale riesce a sfuggire alla mattanza perché convince il miliziano, che gli tiene la pistola puntata alla nuca, che quelle 5.000 lire italiane, regalategli da una fervente cattolica durante i suoi studi nel nostro paese, hanno un valore talmente alto da riuscire, in futuro, a risolvere tutti i problemi di quel “pover’uomo”, come lui stesso lo definisce. Altri ricordi mi rinviano a immagini sempre molto vive, al contempo personali e pubbliche. Le prime due risalgono al 2004, anno del decennale3: una è lo stadio Amahoro di Kigali con gli spalti gremiti, dove spiccavano, sotto gli ingressi laterali, due enormi striscioni su cui era scritto Nerver more. Plus jamais. Ancora oggi non so quante persone contenga questo stadio, ma non credo più di alcune migliaia; eppure, in quella situazione, mi sono più volta sforzata di visualizzarne un altro, questa volta smisurato, che fosse in grado di contenere un milione di persone, i morti della primavera dell’94 (Fusaschi 2004). La seconda immagine, per me più difficile sul piano emotivo, è di Butare durante la rappresentazione teatrale Rwanda 944, che poi avrei contribuito a portare in Italia5 (ib.). Aver assistito a questa tragedia insieme a un migliaio di sopravvissute e so-

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pravvissuti, immersa in un dramma in cui si fondevano la testimonianza, il vissuto del trauma e la sua messa in scena, rimane un’esperienza indimenticabile e, per alcune delle sensazioni provate, anche irraccontabile; per altri versi ha segnato un ulteriore impegno del mio lavoro di ricerca e una forma di catarsi che un giorno spero i/le rwandesi possano trovare in queste poche righe6. Altre immagini, invece, mi rimandano al qui e, in particolare, ad alcune conferenze, mie e di colleghi, durante le quali qualcuno prendeva scompostamente la parola per sostenere la non esistenza del genocidio scagliandosi vergognosamente contro i sopravvissuti e inveendo contro di loro attraverso epiteti intrisi dei peggiori stereotipi della razziologia coloniale. Erano sempre le stesse persone a negare il genocidio, e credo che lo facciano tuttora, essendo pervicacemente convinte della veridicità di un racconto della realtà rwandese che è sempre e solo quella dei colonizzatori. L’obiettivo del ricercatore non sono facili letture, né tanto meno la produzione di quel “senso comune” che caso mai in sé diviene oggetto di studio, quanto piuttosto il confronto difficile con il “terreno” e poi la sua scrittura. Nel caso in questione, questo significa provare a interpretare universi di senso densi e intricati che fanno riferimento a realtà sociali altrettanto dense e intricate nelle quali le persone hanno visto e vissuto ciò che è, e resterà, un genocidio. Questa operazione interpretativa del genocidio, come quella del post-genocidio, va peraltro condotta nella consapevolezza della sua estrema complessità, generale e specifica, a partire da realtà locali diverse che, ancora oggi, comprendono una vasta area geografica che si spinge fino al Congo. Nel suo conosciuto Dans le nu de la vie, non a caso, Jean Hatzfeld (2000, p. 9) ci ricorda che il “genocidio non è una guerra particolarmente omicida e crudele. È un progetto di sterminio (…) è un’impresa inumana immaginata da degli umani, troppo folle e troppo metodica per essere compresa”. Un breve cenno ai fatti solo per ritessere le fila: com’è tristemente noto, sul piano internazionale tutto ebbe inizio il 6 aprile del 1994, quando l’attentato contro l’aereo del

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presidente Habyarimana, grande orchestratore del genocidio e della politica etnista che aveva caratterizzato il suo regime dagli anni Settanta, innescò la violenza genocidaria; tanto più sanguinaria perché non riconosciuta subito come tale e presentata come lo scatenamento incontrollato dell’ira popolare della componente hutu contro la minoranza tutsi, in seguito all’uccisione del capo di Stato. Tardivamente, dai vicini Uganda e Tanzania arrivarono le immagini dei corpi che andavano alla deriva nei laghi o galleggiavano in fondo alle scenografiche cascate di Rusumo, oppure quelle che rappresentavano l’esodo massiccio di quei rwandesi hutu, in cui si nascondevano molti genocidari, i quali, per sottrarsi alle rappresaglie, fuggivano soprattutto verso la Repubblica Democratica del Congo. Una litania infinita, quella dei mezzi di comunicazione di massa che diffondevano unanimemente la rappresentazione delle “lotte tribali”, dei “massacri interetnici” e degli “odi razziali e atavici”, non spiegando mai adeguatamente le vere e complicate ragioni del conflitto. A distanza di poco più di cento giorni, a luglio, circa un milione di rwandesi, tutsi e hutu moderati, aveva perso la vita alle “barriere”, nelle case, nelle chiese e in tutti quei luoghi nei quali aveva cercato rifugio. Poco dopo, anche le rappresaglie nei campi profughi7, insieme ad altri crimini compiuti da alcuni tutsi contro molti hutu per vendetta, vennero da taluni additate, in maniera impropria, come “doppio genocidio” o “i genocidi rwandesi” per relativizzare la nozione stessa di genocidio (Vidal 1999), sminuendo, e rigettando, la logica di pianificazione dello sterminio, l’ideologia e la messa in pratica genocidaria. Se l’analisi di origini e modalità del genocidio ha dato vita a un’ampia letteratura, anche per il contestuale fiorire di uno specifico dei genocide studies, che cosa accade dopo un evento così drammatico? Sono molte le domande a cui dare risposta, a partire dalla difficoltà di trovare un nome alla barbarie quando nel dizionario locale, come vedremo, la parola genocidio non esiste. Che tipo di esperienza socioculturale è sopravvivere? Come si gestiscono i morti, la memoria e i sopravvissuti? Che fare rispetto ai rifugiati e agli esiliati che

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rientrano? Come occuparsi dei prigionieri e dei militari? L’impatto del genocidio sui paesi vicini? E le donne stuprate? E i bambini nati da queste violenze? E gli orfani? Come costruire una memoria se non condivisa, almeno negoziata, per non ripiombare nell’oblio? Quali processi di riconciliazione? E la giustizia? Quali basi, infine, sono necessarie per ricostruire un paese, già fortemente provato nei decenni, dopo la mattanza dei cento giorni? E infine, dove trovare le risposte? Fiumi di inchiostro sono stati versati sul Rwanda del ’94 – e a dire il vero anche su quello precedente –, almeno nell’ambito degli specialisti, visto che questo piccolo paese è certamente uno dei più studiati del continente africano8. Lo testimoniano le due voluminose enciclopedie bibliografiche curate da Marcel d’Hertefelt e Danielle De Lame, presto aggiornate fino ai tempi più recenti, le quali riportano l’indicazione di più di cinquemila titoli dedicati al Rwanda nonché più di quattrocentocinquanta riferimenti di riviste, in un lasso di tempo che va dal 1863 al 1987, data, quest’ultima, di pubblicazione dei due volumi. A queste si aggiungano tutti gli articoli successivi, scientifici e non, le testimonianze di alcuni sopravvissuti e dei rifugiati, da una parte come dall’altra, i racconti di militari locali e non, fra cui Romeo Dallaire9. Se prendiamo in considerazione anche quella che – mutuando l’espressione di Primo Levi “zona grigia” – definiamo “letteratura grigia” (Vidal 1999, p. 131), o per meglio dire la lettura e la letteratura negazioniste, vediamo che la bibliografia sul genocidio, su come è stato preparato e attuato, sulle sue modalità, sulle responsabilità e così via, è decisamente imponente. Meno rilevanti – e non c’è da stupirsi, in fondo quindici anni sono pochi per eventi di questa portata – sono invece i contributi scientifici che provano a descrivere la società rwandese del post-genocido e quindi un presente sociale complesso, profondamente segnato e disgregato nelle sue fondamenta. Un presente che si caratterizza anche per una forma di strabismo che immediatamente balza agli occhi del ricercatore: una dinamicità dai ritmi impensabili nel centro, ossia nella capitale Kigali, città in continua espan-

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sione, sempre più omologata al modello della “città globale”, dove arrivano anche i flussi finanziari più rilevanti, dove si organizzano le ONG e dove si cogitano tutte le ri-forme (Pottier 2002; 2008b). Un presente che segue diverse velocità storiche nelle periferie, sulle colline (De Lame 1996) e, ancor più, lungo e al di là delle frontiere (Malkki 1995), che risentono di problemi connessi con la fragilità e la drammaticità di situazioni locali in tutta l’area dei Grandi Laghi. Area che da decenni vive i cosiddetti “conflitti etnici”, per meglio dire una vera e propria etnicizzazione del sociale10 (Amselle 2007), se non di una sua progressiva razzializzazione, come quella del vicino Congo qui ricostruita da Luca Jourdan (infra, pp. 84), teatro di scontri violentissimi che in una decina di anni hanno fatto milioni di vittime. Scendendo poi sul terreno della ricerca etnografica, diciamo innanzitutto che in questi anni non è stato, e non è tuttora, facile muoversi nei meandri di racconti tragici e nelle pieghe di un tessuto sociale così fortemente provato – tenendo anche conto del fatto che nel mio caso il ricercatore è una ricercatrice (Fusaschi 2009) –, laddove incomprensioni e contraddizioni non sono sempre evidenti, e differenti possono essere i livelli dei discorsi, pubblici e privati. L’approccio e la riflessività della disciplina antropologica e una sua sempre più importante ridestinazione sociale mal si coniugano con le dilaganti analisi “mordi e fuggi” di altre professioni engagées – dal giornalista all’umanitario – che ci sbattono in faccia, come dice Susan Sontag “il dolore degli altri” (2003): assistere da spettatori a calamità che avvengono in un altro paese è una caratteristica ed essenziale esperienza moderna, risultato complessivo delle opportunità che da oltre un secolo e mezzo ci offrono quei turisti di professione altamente specializzati noti come giornalisti (p. 21).

Questi ultimi, come del resto certi umanitari, con immediatezza e con quel tanto di supponenza che li contraddi-

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stingue, sviluppano “argomentazioni svelte” riuscendo, talvolta, a fare presa in quel ristretto pubblico incuriosito dalle vicende africane, il quale tende a privilegiare letture e facili denunce piuttosto che darsi il tempo di analizzare dinamiche sociali complesse. L’elaborazione dei nostri saperi antropologici richiede tempo, periodi lunghi di osservazioni e dialoghi, formali e informali, analisi di strategie comunicative che tentino di cogliere senso e significati di universi simbolici, per di più lacerati e annientati come quelli rwandesi, percorrendo, insieme a chi ha vissuto e vive quelle realtà, le irte strade di possibili ri-costruzioni. In fondo il dono dell’etnografo resta una particolare combinazione di attenta descrizione, testimonianza oculare e radicale giustapposizione, basata su un giudizio culturalmente trasversale. (…) Che tipo di “osservazione partecipante”, quale sorta di testimonianza oculare è adatta alle scene di genocidio e alle sue conseguenze? (Scheper-Hughes 2002, p. 293).

Sono passati molti anni dal mio primo soggiorno rwandese, così come dalla pubblicazione del mio primo lavoro sulle origini del genocidio (2000) e, in qualche modo, mi sia consentito ripartire da lì, perché da allora le mie discese sul terreno in questo paese si sono andate progressivamente intensificando dandomi modo, fra l’altro, di conoscere alcuni degli autori presenti in questo libro e di stringere con loro rapporti di stima e di amicizia. Questo volume si caratterizza, soprattutto, per la scelta etnografica, e anche per la scelta di posizionamenti “politicamente” difficili. Mentre redigo queste pagine selezionando dalle mie note, trascritte su innumerevoli quaderni, molti dei quali acquistati nello spaccio di Kibungo, insieme a insetticida e candele, sono grata a tutte le autrici e gli autori che hanno accettato di scrivere in questo volume a testimonianza e in ragione delle loro ricerche che, per taluni, sono ancora in corso. Se il mestiere dell’antropologo deve trovare oggi, più che un tempo, una sua ridestinazione sociale che contempli anche una dimensione etica e politica (Scheper-Hughes

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2002), questa può e deve essere per “noi” come per “loro”, perché nella sua pratica di “osservatore osservato” (Bourdieu, Wacquant 1992, p. 172) proprio il ricercatore: pone se stesso nel proprio oggetto di studio distanziandosi da una pratica di ricerca oggettivante; dall’altro lato, in quanto parte dell’oggetto di studio; il soggetto-ricercatore prende posizione nel dispiegarsi di azioni-interpretazioni che caratterizzano la pratica quotidiana nel contesto sociale e culturale in cui è inserito. Ciò non significa che l’etnografo debba trasformarsi in un attivista (De Lauri 2008, p. 14).

Scrivere, testimoniare la ricerca in questo senso si traduce in un desiderio di interpretare, anche insieme agli attori e alle attrici sociali, un universo come quello del postgenocidio rwandese che, lungi dal presentarsi univoco e monolitico, si contraddistingue, oggi come un tempo, per un forte regionalismo dalle grandi differenze, esplicite e sottese, difficili da indagare, come emerge dai contributi che seguono questa introduzione. Si tratta, infatti, di ritessere tele dai fili intricati di memorie disperse e frammentate, di voci deboli e assertive, di pratiche tradizionali riformulate e reinventate, di paure e di nascondimenti. Nominare l’orrore Il genocidio, di fatto, ha un’esistenza paradossale: come insieme di pratiche sfugge a una definizione immediata e proprio per quella sua ampiezza programmatica che prevede la distruzione totale di coloro che potrebbero raccontarlo. Questo in Rwanda si è verificato con un’inedita rapidità, i famosi cento giorni della primavera ’94. Dunque esiste generalmente a posteriori, in questo caso colpevolmente, solo dal momento in cui viene riconosciuto come tale e lo si nomina11. Questo stesso processo di nominazione trasferisce quindi le logiche del conflitto su un piano interpretativonormativo, alimentando nuove divisioni e partigianerie.

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Come afferma anche Claudine Vidal, una delle autrici aspramente critiche nei confronti di alcune politiche della memoria gestite dal nuovo regime (2004), impegnata sul terreno già dagli anni Sessanta e fra le prime a denunciare le derive genocidarie a cui stava andando incontro il paese (1985) sotto il regime di Habyarimana: “molte vite si sarebbero potute salvare se la qualificazione di genocidio fosse stata riconosciuta più rapidamente” (1999, p. 130). È storia il fatto che sul piano internazionale il riconoscimento del ’94 attraverso il termine genocidio abbia originato un colpevole ritardo sul piano dell’intervento e, parimenti, un notevole imbarazzo. All’epoca, il problema principale derivava dal richiamare in causa un concetto come quello di genocidio dopo l’aberrazione della Shoah, quando si è riconosciuto nella soluzione finale nazista un segno indelebile sulla coscienza dell’intero genere umano. Rispetto al genocidio degli ebrei esiste innegabilmente un prima e un dopo perché “qualche cosa è avvenuto nel calderone di Auschwitz, una sorta di alchimia ineluttabile che ha foggiato la nostra post-storia” (Amselle 2001, p. 194)12. Gli sforzi compiuti all’epoca per punire e prevenire il crimine che si era appena consumato contro gli ebrei erano ispirati proprio a quel mai più, citato in apertura, affinché eventi analoghi non si ripresentassero sulla scena della storia. Sulla scorta di tale principio, a fondamento della nuova organizzazione internazionale, l’ONU, si stabilì che, in ogni caso, laddove un avvenimento simile si fosse ripresentato, l’impegno della comunità a livello mondiale avrebbe dovuto essere totale e senza ambiguità. In Rwanda l’innominabile si è invece riaffacciato sulla scena della storia e questa volta, a dispetto delle dichiarazioni e delle promesse altisonanti, la comunità internazionale ha assistito, pressoché senza intervenire o, di più, sottraendo energie ai Caschi Blu dell’ONU presenti all’epoca sul territorio, alla consumazione di quello che tardivamente è stato riconosciuto come il terzo genocidio della storia dell’umanità. Per i nostri fini è importante recuperare il punto di vista degli attori sociali per tentare di ricostruire anche su

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un piano semantico il processo di definizione del genocidio, inteso come processo politico-sociale “glocale”. In effetti, sul piano interno c’è voluto tempo per definire ciò che era successo in quei terribili giorni. Si sa che tutsi e hutu non erano delle “etnie”: hanno sempre parlato il kinyarwanda, hanno condiviso le medesime istituzioni culturali come matrimoni misti e appartenenza clanica, sulla quale torneremo. Se è vero che, da anni, molti antropologi e storici rilevano l’inesistenza “oggettiva” delle etnie tutsi e hutu, è altrettanto vero che questo ha creato non pochi problemi rispetto all’impiego del termine stesso di genocidio, come illustra anche Silvia Cristofori nel caso della rivista «Dialogue» (infra, pp. 137). In effetti, nella sua definizione usuale questo concetto si dovrebbe applicare esclusivamente a minoranze etniche o religiose, ma poiché hutu e tutsi in quanto etnie esistono “soggettivamente” nella coscienza degli attori sociali – e soprattutto in seno all’apparato dello stato che fa figurare sulle carte di identità le menzioni hutu e tutsi – si impone la necessità di estendere il concetto di genocidio ad ogni gruppo sterminato in quanto tale, sia che si tratti di una minoranza o della maggioranza (Amselle 2000, p. 8).

Il termine genocidio13 non trova corrispondenza alcuna nel dizionario locale e, anzi la creazione di neologismi ha anche dato vita a dibattiti accesi e fornito spunti di ambiguità. Per ricostruire questo percorso faremo riferimento all’analisi, sintetica, della produzione di vocaboli nelle occasioni di ritualità “civile” legate alla memoria e alla commemorazione che sappiamo aver suscitato ampie critiche nel dibattito politico scientifico (De Lame 2003; Vidal 2004). Nel 1995 la prima commemorazione si svolse in un clima alquanto caotico: occorreva stabilire una data adeguata per le cerimonie commemorative; bisognava trovare nella lingua kinyarwanda un termine che traducesse quello di genocidio, facendo attenzione al rispetto per le vittime; era necessario gestire possibili conflitti di attestazione, a

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partire dalla scelta della data, che diede luogo a “un dibattito burrascoso”, come ebbe a dire Kagabo sulle pagine de Le Monde diplomatique (2004). La discussione si polarizzò su due date criticamente emblematiche: il 6 aprile e il 4 luglio. La prima, il 6 aprile, indicava al contempo il giorno in cui erano iniziati i massacri, dei rwandesi tutsi e degli hutu moderati, e quello della morte del Presidente Habyarimana, grande istigatore del genocidio medesimo. La seconda, il 4 luglio, faceva riferimento alla data ufficiale legata alla fine del genocidio per opera degli inkotanyi, letteralmente “i rudi combattenti”, cioè il nome, autoattribuito, del FPR (Fronte Patriottico Rwandese), in altre parole l’esercito dei cosiddetti “ribelli”, composto dalla seconda generazione degli esiliati tutsi in Uganda, con a capo Paul Kagame, che sarebbe divenuto qualche anno dopo Presidente della Repubblica. È facile intuire come un’eventuale decisione in favore di una di queste due date avrebbe causato non pochi problemi. Il dibattito terminò con l’individuazione del 7 aprile: data ritenuta adeguata perché consentiva di associare nel ricordo sia le vittime della componente tutsi, che quelle della componente hutu moderata che si era schierata contro l’impresa genocidaria. La seconda difficoltà stava nel trovare un termine o un’espressione utilizzando il dizionario locale per nominare la barbarie. Anche su questo tema si traspose sul piano meramente semantico un certo grado di confusione, che ha fatto trasparire, a detta di alcuni, un vero e proprio “conflitto di memoria” (ib.). Pasteur Bizimungu, il primo capo di Stato del post-genocidio, facendo riferimento alla tragedia impiegava due termini: rispettivamente ishyano e itsembatsemba. Il primo termine possiede, come molto spesso in questa lingua, la caratteristica della polisemia, perché come “cosa sorprendente”, da un lato, può far riferimento all’accidente e alla catastrofe, alla cattiva sorte e alla sventura se non alla punizione (dal verbo guhana); dall’altro, rinvia all’idea della bellezza straordinaria e meravigliosa (Jacob 1983, p. 149, tomo III). Il secondo vocabolo, itsembatsemba, è un’onomatopea che dal verbo gutsemba, letteralmente de-

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vastare, perdere tutto, traduce l’azione della decimazione, dell’annientamento, dello sterminare e dello sradicare anche in termini visivi; si usa infatti anche per riferirsi al lisciare o al limare un oggetto (p. 385, tomo III). Questi due vocaboli che furono impiegati nei discorsi pubblici nei primi anni delle commemorazioni evocano entrambi lo sterminio, ma in maniera generica e comunque indeterminata, non precisando mai l’oggetto specifico del genocidio. Sulla scena fecero, allora, la comparsa altri due nomi composti per tentare di precisare i contorni del tragico avvenimento: itsembabatutsi e itsembabwo¯ ko. In questo modo si aggiungevano al termine generico itsemba, inteso come sterminio e annientamento, quello di abatutsi e quello di úbwo¯ ko. Nel primo caso ci troviamo di fronte a una composizione attraverso la quale si designa l’eccidio di un gruppo, gli abatutsi. Nel secondo caso la parola úbwo¯ ko, che potrebbe tradursi nei termini generici di “categoria” o di “specie”, in realtà tradizionalmente, e quanto meno fino ai primi anni Trenta del secolo scorso, stava a indicare l’organizzazione di tipo clanico che, vedremo, da un certo periodo in poi sarà impiegata per indicare la presunta “etnia” se non, addirittura, la “razza” di appartenenza. Occorre precisare, fra l’altro, che l’espressione “itsembabwo¯ko n’itsembatsemba” è stata ufficialmente usata, ad esempio, nella normativa di istituzione della giustizia partecipativa attraverso i tribunali popolari conosciuti come gacaca14, sottintendendo attraverso questa espressione sia l’uccisione di una particolare tipologia sociale, leggi i tutsi, sia i massacri diretti contro la componente hutu moderata. Volendoci fermare a questo punto, potremmo dire che il neologismo itsembabwo¯ko stia a significare l’eliminazione sistematica di un particolare tipo di persone o meglio di un particolare gruppo sociale. A ben vedere, il significato di úbwo¯ko non è così immediato e univoco; soprattutto, ha subito nel corso del tempo uno slittamento semantico anticipato, per comprendere anche la dimensione “oggettiva” e la percezione “soggettiva” delle appartenenze, alle quali si richiamava anche Amselle.

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Come accennato, il termine úbwo¯ ko nella semantica kinyarwanda trova una sua corrispondenza nel termine “clan”, cioè un gruppo di discendenza che fa risalire la sua genealogia a un capostipite comune, anche se non conosce precisamente i vincoli che lo legano a esso. Prima dell’arrivo dei colonizzatori, con úbwo¯ko si faceva riferimento a un gruppo di consanguinei più largo del patrilignaggio: i suoi membri riconoscevano una linea tradizionale di discendenza comune nel lignaggio paterno, ma erano completamente incapaci di seguire la loro relazione con l’antenato che era, forse, mitico. L’organizzazione clanica rwandese non costituiva tanto un gruppo corporato quanto una vera e propria categoria, ovvero “un denominatore sociale comune a lignaggi separati gli uni dagli altri per stratificazione sociale” (d’Hertefelt 1971, p. 3). Il clan, a sua volta, era diviso in sottoclan, mashanga, che comprendevano l’umulyaango, l’unità di lignaggio maggiore e quella minore, l’inzu (che vuol dire anche casa), a loro volta ulteriormente distinti in gruppi famigliari più o meno nucleari, gli ingo. Il clan così composto non costituiva un insieme residenziale; i suoi membri, infatti, potevano essere dispersi in tutto il paese. L’appartenenza clanica era ciò che definiva l’identità di un rwandese, determinandone anche lo status economico e sociale; era proprio il clan a rappresentare “l’identità fondamentale nella coscienza delle persone” (Chrétien 2000, p. 74), trascendendo in questo senso la questione etnica, così come si sarebbe venuta a conoscere durante e dopo la colonizzazione. L’identità etnica, infatti, non costituiva un principio di organizzazione sociale statico. Non solo, la struttura clanica comprendeva, in proporzioni variabili, tutte le componenti, come ricorda anche Gakwenzire (infra, pp. 105). In uno studio classico degli anni Settanta, Marcel d’Hertefelt aveva repertorializzato diciotto clan15, cinque dei quali – Abanyiginya, Abasinga, Abazigaba, Abasindi, Abagesera –, da soli, raggruppavano più della metà della popolazione. Ognuno di questi vedeva un’affiliazione molto alta della maggioranza hutu, per circa i due terzi, fatta eccezione per il clan degli Abanyiginya che ne associava

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un po’ di meno (circa il 60 per cento); in clan di dimensioni più ridotte era presente anche una percentuale di twa. Questo elemento di coesione sociale che accomunava i gruppi all’interno di un medesimo clan è spiegabile sia attraverso l’istituto del matrimonio (per interesse e/o comunque misto), che non costituiva un’interdizione sociale, sia attraverso il contratto ubuhake, che faceva transitare il capitale bovino, e quindi economico, da un gruppo all’altro, per cui poteva accadere che il “cliente” adottasse il clan del “padrone” (Fusaschi 2000, pp. 88-93). Quando ho chiesto a G. B., settantotto anni, e a F. R., settantasette, originari del Bugesera: “qual è il tuo úbwo¯ko?”, hanno subito richiamato il proprio clan di appartenenza, non facendo alcun riferimento alle categorie hutu-tutsi in senso etnico e rispondendo quasi all’unisono, ridacchiando fra loro, che “l’etnia l’hanno introdotta i belgi” e che loro quel periodo se lo ricordavano proprio bene perché le loro famiglie avevano perso molte vacche, simbolo di prestigio e ricchezza, ancora oggi. Durante interminabili conversazioni serali su questo tema, E. M. e J. R., due miei cari amici sulla sessantina sopravvissuti alle azioni genocidarie dal 1959 al ’94, oggi importanti imprenditori di Kigali, hanno sempre fatto riferimento al proprio clan con grande orgoglio. E. appartiene agli Abanyiginya, letteralmente “principi di sangue regale”, il clan regale per eccellenza; J. a quello degli Ababega, il clan cosiddetto matridinastico, cioè datore di mogli al mwami, il re. Per entrambi l’appartenenza clanica ha giocato un ruolo considerevole dato che si è sempre tradotta nel riconoscere una linea patrilineare di un antenato comune, nel ricorrere a un animale protettore definibile come un segno totemico (una rana – igikeri- nel caso dei Bega o una gru coronata – umusambi – nel caso dei nyiginya), ma anche nel dover rispettare interdizioni particolari legate alla scelta del coniuge (esogamia clanica), nonché alla possibilità di poter ritrovare sul territorio amici appartenenti allo stesso clan e beneficiare, in questo modo, del loro sostegno e del loro aiuto ovunque.

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Il riferimento così esplicito all’organizzazione clanica ha perso progressivamente di significato nel corso dei decenni, soprattutto nelle nuove generazioni, unico vero rammarico per E. M. e J. R.. Anzi, il termine úbwo¯ko ha subito nel corso del tempo uno scivolamento semantico verso i significati di “razza/etnia”, introiettati, in altre parole assunti progressivamente a livello cognitivo dagli attori sociali sotto forma di habitus, direbbe Bourdieu, con conseguenze davvero drammatiche. Porre la stessa domanda sull’úbwo¯ko a un giovane si traduce, nel migliore dei casi, in un silenzio, nel peggiore in una contro domanda del tipo: “perché lo vuoi sapere? Che ti importa, non sta nemmeno più scritto sulla carta di identità!”. Pertanto si capisce subito che per questi attori sociali il rinvio non è al clan ma all’“etnia”. Durante la situazione coloniale i belgi, negli anni Trenta, decisero di risolvere in maniera definitiva il problema delle categorie hutu e tutsi attraverso un censimento che avrebbe portato all’elaborazione di carte di identità con l’indicazione della menzione etnica ricavata secondo un metodo altamente arbitrario legato al possesso, in quel momento, di un certo numero di vacche (si era/diventava tutsi con più di dieci vacche, con meno si era/diventava hutu; Fusaschi 2000, p. 120). La scrittura dell’appartenenza così dedotta forzava in categorie etniche i rwandesi, dividendo verticalmente e inesorabilmente la società, facendo violenza su un tessuto di relazioni sociali che era complesso e fortemente differenziato. Non stupirà che i colonizzatori impiegassero sui documenti proprio úbwo¯ ko, d’ora in avanti trascritta inesorabilmente come “etnia”. Senza alcuna corrispondenza nel vocabolario tradizionale kinyarwanda, probabilmente questa traduzione di úbwo¯ko, che forzava e non poco il campo semantico, fu ricavata dal dizionario, di matrice missionaria, nel quale il termine, insieme a quello di umulyaango, veniva trascritto sia come “etnia”, sia come “razza” (Jacob 1983, p. 502 tomo II). In questo modo l’aver scritto su tutte le carte di riconoscimento le qualità (hutu ou tutsi) non ha fatto che contribuire a fissare nelle generazioni, in maniera assoluta-

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mente impropria ma cognitivamente efficace, proprio il senso e il significato di “etnia” o di “razza”, a detrimento dell’uso anteriore. Questo uso del linguaggio come azione sociale ha favorito ulteriormente un’etnicizzazione polarizzata della società che così, ineluttabilmente divisa, si preparava ad andare incontro a un futuro tragico destino: le carte di identità con la menzione etnica, abolite solamente dopo il 1994, divenivano in quei tragici mesi dello stesso anno l’elemento attraverso cui il possessore identificato con l’úbwo¯ko tutsi veniva messo a morte. Non c’è dubbio che l’eliminazione della menzione etnica non sia ancora oggi sufficiente per superare le profonde ineguaglianze da essa prodotta; anzi, per certi versi, l’istanza medesima del genocidio e delle forme di commemorazione collettiva che vengono negli ultimi anni organizzate dal governo in certi periodi dell’anno ha comportato un “indurimento” delle identità hutu-tutsi in chiave strategico-politica. Su alcune cerimonie, infatti, anche l’associazione Ibuka (letteralmente “Ricordati”), che raggruppa la maggior parte delle associazioni dei sopravvissuti, ha segnalato al governo in carica alcune criticità connesse con la festa dell’eroe nazionale e le commemorazioni del genocidio. Come fa osservare De Lame (2003, p. 47): le commemorazioni imposte riproducono simbolicamente la separazione che hanno subito altre volte gli esiliati ritornati come vincitori e vengono a costituire la loro rivincita su coloro che sono rimasti nel paese degli antenati dal quali essi stessi sono stati cacciati. Queste commemorazioni sul piano internazionale costituiscono un drenaggio di fondi per le “riparazioni”.

Se i rischi di simili tendenze sul piano interno sono ancora da valutare nel lungo periodo, non è possibile non ricordare come oggi, nel nostro mondo così disugualmente interconnesso, una visibilità, giustappunto, globale si possa ottenere solo trovando quelle vie che, spesso, il gergo dell’umanitario ha tradotto e legittimato. Luc Boltanski nel

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suo libro sulla morale umanitaria dice che quella forma di “sofferenza a distanza” che giunge fino a noi – spettatori – tramite i media ha a che vedere con la politica della pietà, che a sua volta deve far fronte a due esigenze: in quanto politica mira alla generalità. Il suo ruolo è di ancorarsi al locale e, di conseguenza, alle situazioni necessariamente locali, nelle quali degli avvenimenti compassionevoli possono prodursi. (…) Ma nel suo riferimento alla pietà essa non può liberarsi completamente dalla presentazione di casi singolari (2003, p. 35, corsivo dell’autore).

Da questo punto di vista i rwandesi hanno compreso evidentemente molto bene questa dinamica: in occasione, infatti, della “Conferenza Mondiale sul razzismo” del 2001, Gasana Ndoba, Presidente della Commissione Nazionale dei Diritti dell’uomo in Rwanda, si esprimeva in favore di un riconoscimento del genocidio dei rwandesi tutsi dicendo: Olocausto o Shoah sono oggi i nomi universalmente conosciuti che designano il genocidio perpetrato dai Nazisti contro gli ebrei d’Europa nel corso della Seconda guerra mondiale. Apartheid è l’unico nome che designa il sistema ufficiale della discriminazione razziale in vigore nell’Africa del Sud dal 1948 al 1994 (…) è giunto il momento per familiarizzare con un altro nome dell’orrore: itsembabwo¯ko, una parola che in kinyarwanda, la lingua nazionale del Rwanda, formato a partire dal verbo gutsemba che significa sterminare e úbwo¯ko che significa “clan, etnia, razza, specie, sorte” e molte altre cose. Una parola polisemica che la razziologia coloniale e i suoi avatar post coloniali hanno delimitato per esprimere la prigione dell’“appartenenza razziale o etnica” nella quale questi voleva imprigionare ogni rwandese, a detrimento di tutte le altre sfaccettature della sua identità, forzatamente multiple e come quella di ogni altro essere umano16.

Nel post-genocidio, itsembabwo¯ ko sembra presentarsi come quel neologismo che, coniugando due espressioni dotate di un senso autonomo, prova ad adeguare al conte-

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sto rwandese un concetto di genocidio che è sempre declinato in una forma unica e singolare, esattamente come l’espressione Shoa traduce inequivocabilmente la singolarità del genocidio degli ebrei. Da questo punto di vista, attraverso itsembabwo¯ko si verrebbe a mostrare l’intenzione di ri-costruire un’identità, in particolare quella della vittima di un genocidio, riutilizzando un termine che aveva, come abbiamo avuto modo di vedere, una complessa stratificazione semantica, al punto tale che, su un piano interno, il neologismo presenta alcune problematiche di chiarezza interpretativa, testimoniate anche in alcune interviste; su un piano esterno, invece, presenta difficoltà di comprensibilità, probabilmente imputabili a una marginalità del contesto di origine sullo scacchiere internazionale. Negli ultimi anni, occorre rilevare che anche il neologismo itsembabwo¯ ko e l’espressione itsembabwo¯ ko n’itsembatsemba stanno, per certi versi, progressivamente perdendo terreno nelle commemorazioni pubbliche, in favore di un’altra, vale a dire jenoside, che a questo punto potremmo provare a definire come una parola “creola”. Si potrebbe dire che si tratti di una pidginizzazione di una parola che fra le lingue occidentali parlate nell’ambito delle grandi organizzazioni internazionali, come l’inglese e il francese, viene scritta quasi nello stesso modo, rispettivamente genocide e génocide e che, nel contesto rwandese, è stata adattata alla fonetica del kinyarwanda sostituendo la lettera iniziale g con j e la lettera c con s per dare vita appunto alla nuova voce jenoside. Questo nuovo vocabolo consente a livello globale un riconoscimento e una comprensione immediati di una voce che, contestualmente, fornisce un’attestazione universale di ciò che è accaduto, che viene così riflesso anche su un piano interno locale, come riconoscimento delle vittime, senza possibilità di equivoci, con importanti risvolti politici che però non possono essere sottovalutati e che restano, per certi versi, ancora da indagare. Se è vero, come afferma Amselle (2001, p. 54) in riferimento alle lingue dell’Africa occidentale, che ogni lingua “è un composto instabile di elementi e, in quanto tale, of-

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fre dunque una struttura di accoglienza di altri elementi”, è altrettanto vero che la nuova formulazione linguistica che si concretizza in jenoside, nella ricezione del lessico umanitario, mette in comunicazione la dimensione locale con quella mondiale, realizzando un fenomeno di triangolazione ovvero di ricorso a un terzo elemento per fornire le condizioni necessarie all’enunciazione di un’identità rwandese post genocidaria. La manifestazione delle identità contemporanee passa sempre, secondo l’antropologo francese, attraverso un utilizzo di significanti globali; in questo senso, l’identità implica innanzitutto una traduzione e una conversione in quanto è un essere per gli altri. È operando la trasmutazione di schemi inglobanti, vicini o lontani, che una cultura riesce a fare sentire la sua voce. L’espressione di un’identità qualsiasi presuppone dunque la conversione di segni universali nella propria lingua o, al contrario, di significati propri in un significante planetario al fine di manifestare la propria singolarità (pp. 55-56).

La concorrenza delle vittime e dei testimoni: rescapés, esiliati e rifugiati Luglio 1994: siamo appena entrati nel post-genocidio, e quelle che ci arrivano sono le immagini di un’apocalisse. Dagli schermi televisivi e dai giornali si capisce che lì, in Rwanda, un paese grande come una nostra regione, per cento giorni si è venuto consumando un genocidio. Migliaia, centinaia di migliaia, sembrano tante formiche, più di due milioni, si dirà, tutti in fila, una massa indistinta di uomini, donne, bambini, scalzi, con qualche residuo di abito o ciò che ne resta, in fuga con l’orrore dipinto sul volto e con l’angoscia di chi si sta lasciando dietro tutto, la casa, i campi, la famiglia, tutta una vita17. Tutti scappano, fuggono tra indistinzione e anonimato; è la disgregazione di una società che ha lasciato sul terreno

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almeno un milione di morti uccisi nelle maniere più atroci, vittime di un teatro della violenza di massa che rispondeva a meticolosi preparativi e a precisi ritualismi (Taylor 1999; Fusaschi 2000; Chrétien 2000; Vidal 2006). Lo spettatore occidentale è ignaro, non ha elementi per capire da chi sia composta questa processione infinita, persone deprivate delle cose materiali ma soprattutto della dignità. Il pensiero immediato e ricorrente è quello dell’identificazione con la vittima, di cui parleremo, in una visione universalista della sofferenza troppo comune quando si parla di Africa. Una rapida associazione di idee porta probabilmente a pensare che coloro che scappano siano quelli che hanno subito il genocidio, quindi i rwandesi tutsi, i quali si danno alla fuga per sopravvivere e non morire sotto i colpi del machete. L’occhio freddo della telecamera riprende questo fiume interminabile non distinguendo le persone, ma soprattutto, e lo scopriremo solo in un secondo momento, confondendo vittime e carnefici in un’unica immagine – non a caso molti genocidari si sono mescolati con i rifugiati hutu, quelli che più avanti saranno indicati come i “nuovi”. È la rappresentazione vittimista del profugo, che viene così completamente decontestualizzato; quando si tratta di rifugiati, la società in cui si consumano i drammi non è mai adeguatamente rappresentata, quasi si trattasse di una condizione avulsa da ogni dimensione politica. Nel caso rwandese, a ben guardare nei meandri della sua storia, la definizione di vittima e la questione dei rifugiati, quelli che spezzano “la continuità fra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità [mettendo] in crisi la finzione originaria della sovranità moderna” (Agamben 1995, p. 145, corsivo dell’autore), sono davvero complicate. In quei mesi ad andare in scena era solo l’ultimo tragico atto di un conflitto che lacerava il paese da decenni, a cui nessuno era riuscito a rimanere estraneo e che nella sua “soluzione finale” perseguiva il disegno ideologico di un’omogeneità nazionale fondata su una “finzione etnica” che, in quarant’anni di regime hutu estremista, aveva già visto migrazioni forzate, violenze atroci, eccidi ed uccisioni.

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Ai sopravvissuti dell’interno, i rescapés, si aggiungevano i rifugiati “storici”, ovvero i tutsi dell’esilio (1959, 1973, 1994), i returnees, come li chiamano le organizzazioni internazionali (Mamdani 2001, p. 266), i quali da tempo avevano cominciato a rientrare andando ad occupare le terre abbandonate. Allo stesso tempo, si creavano i “nuovi” rifugiati, che Pottier chiama i missing refugees (2002; p. 131), ovvero quelli della componente hutu che andavano a insediarsi per lo più in quei campi congolesi che sarebbero divenuti, a loro volta, dei teatri del terrore nei mesi immediatamente successivi. L’esodo di costoro, più due milioni, costituì proprio quella massa ripresa dalle telecamere occidentali e rappresentò la diretta conseguenza della disfatta sul piano militare delle ex FAR (Forze Armate Rwandesi) e dei miliziani estremisti, gli interahamwe, così come degli altri autori del genocidio e dei massacri, dopo la vittoria del FPR. Le ex FAR e i miliziani, nella loro ritirata, provocarono la fuga in massa della componente hutu e anzi si mescolarono a essa, grazie anche alle “protezioni” internazionali più o meno esplicite, come fu nel caso della Francia e del suo ambiguo ruolo nella tristemente nota “operazione Turquoise”. Questo spostamento di persone dalle dimensioni inimmaginabili fu ritratto, dall’intera stampa mondiale, come un “esodo biblico”, le cui proporzioni scatenarono una delle più gravi catastrofi umanitarie della fine del secolo scorso, con gravissime conseguenze (Jourdan, infra, pp. 84), nel medio e lungo periodo, sul piano del diritto internazionale e sul ruolo e al mandato delle grandi organizzazioni. Se questo succedeva alle frontiere e al di là di esse, sul piano interno, nei primi mesi del post-genocidio, non ci giunsero molte immagini quanto, piuttosto, le testimonianze frammentarie di chi provava a raccontare il dramma di cercare parenti e amici, consapevole, il più delle volte, che avrebbe trovato solo ossa. José Kagabo, amico e collega storico, nel saggio che apre questo libro prova così a trasmettere l’esperienza del ritorno nel paese nata-

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le, già nell’agosto di quell’anno, mettendoci di fronte a dolorose e, quasi, insopportabili realtà. Una realtà che mette in crisi il suo presente e il suo essere-nel-mondo che, dopo l’apocalisse, diventa un anti-mondo (De Martino 1977): rwandese di origine, Kagabo è costretto a fuggire nel 1973, acquisisce la cittadinanza francese qualche anno dopo, consapevole del ruolo dubbio della Francia nella vicenda genocidaria. Pertanto, egli si definisce “testimone indiretto” e “vittima” franco-rwandese perché nell’insieme è davvero complicato qualificarsi “testimone indiretto di fronte a una memoria inebetita” e scegliere, infine, di non cercare di “fare una teoria del testimone” quanto piuttosto di delineare il proprio statuto in quanto testimone (Kagabo 1999, p. 71). La scrittura dello storico/uomo Kagabo disarticola, in qualche modo, le retoriche della testimonianza restituendoci quella densità umana che ritrovo insieme alle persone sul terreno e che restituisce senso alla ricerca. Densità che possiamo incontrare, ulteriormente, fra le righe di memorie inconsolabili e memoriali che provano a costruire una memoria in chi il genocidio l’ha vissuto, venendo a configurare la figura del testimone e vittima diretta, definizione sulla quale torneremo e che in questo volume è, peraltro, rappresentata dal giovane storico rwandese Philibert Gakwenzire. Stratificazioni dense, quindi, che non possono non mettere in crisi il ricercatore rispetto alle rigidità di metodologie troppo formalizzate e strutturate, comuni a molte pratiche della cooperazione e a un certo modo di “fare antropologia” che a esse si ispira, e che per alcuni restano, ancora oggi, uniche garanzie di “scientificità”. In questi anni di ricerca in Rwanda, il tema del testimone e della vittima, spesso a torto associati nella stessa figura, è sempre stato centrale nelle conversazioni con i miei interlocutori. L’area che più conosco, quella di Kibungo e delle colline che la circondano, viene a costituire quella che, dopo la riforma amministrativa del 2005, è la Provincia dell’Est, storicamente – dagli anni Cinquanta – considerata come luogo di confinamento di una parte della com-

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ponente tutsi. Molti, infatti, erano costretti a vivere in quelle che potremmo chiamare “parcelle dell’esilio interno”, luoghi che nel post-genocidio si ritrasformano anche in “nuove parcelle” che il governo riassegna a molti esuli di ritorno, anche non originari di Kibungo18. Il politologo Mahmood Mamdani, nel suo conosciuto, e anche criticato (cfr. Bernault 2004), lavoro When Victims Become Killers (2001), seguendo il linguaggio delle grandi organizzazioni internazionali e del gergo umanitario divide la popolazione del post-genocidio in cinque categorie: i returnees, facendo riferimento in particolare ai rientrati del e con l’FPR; i rifugiati, comprendendovi sia quelli “storici”, gli esiliati tutsi del 1959 e del 1973, sia quelli “nuovi”, gli hutu del ’94; le vittime, ovvero coloro su cui si è scagliato il genocidio (tutsi e hutu moderati); i sopravvissuti al genocidio; infine, i perpetratori, ovvero coloro che hanno ucciso (2001, pp. 266-267). Guardando a questo tema attraverso l’ottica di genere, alcune autrici hanno definito le donne rifugiate che si sono salvate da conflitti, in questo come in altri contesti africani, come delle “vere sopravvissute” (Schafer 2002), perché vittime-sopravvissute ai crimini più efferati che si sono consumati sui loro corpi e che, nonostante ciò, hanno usato tutte le loro abilità per restare in vita, e sulle quali torneremo nel capitolo che segue. Sul piano dell’indagine di terreno, è opportuna un’iniziale distinzione per macro categorie fra i sopravvissuti – i rescapés – cioè le vittime/testimoni diretti e i testimoni indiretti. All’interno di questa seconda categoria, piuttosto articolata, si possono rintracciare molti attori e attrici sociali che si autorappresentano come vittime per il fatto di identificarsi con le ragioni del sopravvissuto, pur presentando condizioni storico-materiali diverse, come avremo modo di vedere. Nella categoria generica del testimone19, andrebbero anche inseriti tutti i responsabili, sia quelli che Mamdani chiama i perpetratori, che hanno effettivamente compiuto l’atto di genocidio, sia i grandi orchestratori che, pur non avendo sempre imbracciato le armi, hanno alimentato le ideologie e le pratiche genocidarie.

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I rescapés sono i sopravvissuti del ’94, quegli attori e attrici sociali che hanno visto e vissuto una quotidianità di longue durée, seppure con gradi diversi, sotto forma di quel continuum genocida definito da Scheper-Hughes (2002, p. 282), secondo cui vi è una “capacità umana di ridurre gli altri alla status di non-persone, di mostri o di cose, meccanismo che dà una struttura, un significato e una logica alla quotidiane pratiche della violenza” (ib.). I testimoni indiretti sono coloro i quali, pur facendo parte della compagine che ha subito il torto irreparabile, non erano presenti perché esiliati, rifugiati “storici” dai tempi della Rivoluzione sociale del 1959, tanto nei paesi limitrofi quanto in Europa, ovvero quella che viene chiamata, in questo caso peraltro a giusto titolo, la diaspora. Questa prima grande distinzione non è di poco conto soprattutto da un punto di vista etnografico e dell’analisi delle dinamiche identitarie e di potere. I/le réscapés rivestono uno statuto davvero particolare in quanto testimoni oculari di ciò che è avvenuto. Si tratta di persone che sono rimaste, esperendo per decenni il processo della loro progressiva inferiorizzazione e che hanno letteralmente incorporato (Fusaschi 2008, p. 29-42) l’umiliazione e il trattamento disumanizzante, magari per un’intera vita, come espressione della “violenza simbolica” di cui parla Bourdieu (Bourdieu, Wacquant 1992, p. 129). Non a caso questi sopravvissuti si autodefiniscono e vengono, a loro volta, definiti attraverso l’espressione abacíitse ku icúmu, letteralmente “coloro che si sono salvati dalla lancia”. Questa terminologia si compone del verbo gucíika, che si traduce con salvarsi, evadere e scampare (yacíitse amaze kwiica umuntu significa “si è salvato dopo aver ucciso un uomo”; Jacob 1983, p. 182) e il termine icúmu, che si traduce con lancia, ossia ciò che, nella tradizione, costituiva l’arma per eccellenza degli scontri in guerra, a differenza del machete, oggi eletto a simbolo del genocidio dei rwandesi tutsi (Vidal 2006). L’espressione abacíitse ku icúmu, infatti, un tempo veniva intenzionalmente impiegata per indicare i superstiti delle battaglie; essa richiama,

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come ricordato da L. e V., altri modi di dire come guheta icúmu, “uccidere molte persone in battaglia” oppure guhama icúmu, per indicare i riti di purificazione delle lance atti a preservare dalle conseguenze funeste che potevano derivare dall’uccisione di qualcuno in combattimento. Dire, pertanto, abacitse ku icúmu significa oggi indicare una particolare tipologia di sopravvissuti, ponendo l’accento sulla sopravvivenza e non sull’“essere stato salvato”, per cui si impiegherebbe l’espressione uwarokotse (Karegeye 2003, p. 756). Ma non solo: non si tratta nemmeno di scampati per “fatalità”, bensì di sopravvissuti al genocidio all’interno di una logica di conflitto. In effetti, non è possibile dire a un rescapés del ’94 che è un umucikacumu (plur. abacikacumu), cioè un sopravvissuto generico, ad esempio da un incidente, come mi aveva fatto notare un offeso N. che mi aveva quasi rimproverata spiegandomi di non comprendere il senso di quella espressione, visto che mi riferivo al ’94. L’uso dell’espressione abacíitse ku icúmu si comprende meglio se inseriamo il suo significato proprio nel processo storico di progressiva incorporazione della “svalutazione di alcune forme di vita umana” e del “rifiuto di attenzione umana” (Scheper-Hughes 2002, p. 290), nella logica di tutte quelle forme di inferiorizzazione e disumanizzazione, tipiche dell’agire genocidario rwandese, che per mezzo secolo hanno caratterizzato la vita socio-politica in un contesto che gli attori sociali hanno sempre vissuto come in conflitto perenne. In questa direzione un’esemplificazione etnografica può fornire delle delucidazioni: un pomeriggio dell’aprile 2007, qualche giorno prima delle commemorazioni, un periodo estremamente difficile di vita in comune che potremmo definire nei termini di una “sospensione dell’ordinario”, anche per i ricercatori con una certa esperienza, ero seduta in una piccola stanza della Caritas locale per intervistare due anziani, amici fra loro da decenni, che hanno lo stesso nome, E. A un certo punto, uno dei due mi disse: sin da quando ero piccolo, venivo umiliato [in quanto tutsi]. Ero riuscito a entrare nelle quote ed avevo frequentato la

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scuola primaria, ogni giorno il maestro appena entrato mi diceva che dovevo restare in piedi (…), in modo che gli altri vedessero come ero diverso. (…) ho continuato a subire mortificazioni (…), al punto che mi ero convinto che, prima o poi, sarei stato ucciso, anzi io stesso avrei voluto porgere il collo per farmelo tagliare. A un certo punto della mia vita [il riferimento è all’inizio degli anni Novanta, quando ci fu la prima discesa dell’FPR] non avevo nemmeno più paura di morire. Avrei preferito mille volte morire perché in fondo è da quando sono piccolo che cammino, ma sono morto da sempre. Poi durante la guerra, nel ’94 mi sono salvato e [quindi] oggi faccio parte degli abacíitse ku icumu.

Il racconto di E. mette in luce proprio la progressiva incorporazione della violenza simbolica, come riconoscimento di una violenza che viene esercitata proprio nella misura in cui non la si riconosce come violenza; è il fatto di accettare quell’insieme di presupposti fondamentali, preriflessivi, che gli agenti sociali fanno entrare in gioco per il semplice fatto di prendere il mondo come ovvio, e di trovarlo naturale così com’è perché vi applicano strutture cognitive derivate dalle strutture di quello stesso mondo. Dal momento che siamo nati in un mondo sociale, accettiamo un certo numero di postulati, di assiomi, che vengono assunti tacitamente e che non hanno bisogno di venire inculcati (Bourdieu, Wacquant 1992, p. 129).

Gli e le abacíitse ku icumu con i/le quali ho interagito a lungo in questi anni portano con e su di loro i segni, fisici, ma soprattutto quelli non visibili, della perdita della dignità umana come conseguenza appunto del continuum genocida e della regressione alla “nuda vita” (Agamben 1995). Al di là dei, sottovalutati, traumi di lungo periodo, come allucinazioni, insonnia e disturbi della memoria, frequentemente ho avvertito in loro un grande senso di frustrazione, di colpa, nonché di vergogna per essere sopravvissuti a parenti, amici e, ancor di più, ai figli, al quale spesso corrisponde un certo “cinismo” che tende a banalizzare la morte naturale. Del resto – lo diceva già Primo Levi in relazione al periodo duran-

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te e dopo la liberazione dal lager – un senso di colpa, ovvero di “vergogna”, “è un fatto accertato e confermato da numerose testimonianze. Può sembrare assurdo, ma esiste” (1986, p. 55). Se lo guardiamo dal punto di vista del genere è ancora peggio. Alcune donne vittime e sopravvissute ad atti di abuso sessuale e di stupro, come vedremo, profondamente segnate nel corpo e nella mente dalle atrocità subite, sono state spesso incapaci di raccontarle, consapevoli che esse segneranno anche il loro futuro: è difficile che si accetti di sposare una donna violentata o che ha avuto un figlio come conseguenza dello stupro. Anche per questo, probabilmente, non parlano, e quando riescono a farlo hanno sempre molti, comprensibili, pudori e paure (Polidori, infra, pp. 164). A questo proposito è giusto far presente che stiamo parlando di una società che ha riformato il diritto di famiglia, come ci ricorda Ilaria Buscaglia (infra, pp. 131), dando dopo il genocidio la possibilità alle donne di ereditare la terra e dove in Parlamento esse sono rappresentate, per quota, attraverso una percentuale non inferiore al 30 per cento. Nonostante ciò, non possiamo negare quanto questa stessa società sia storicamente segnata da forme di dominazione maschile: la discendenza patrilineare, in effetti, strutturava tutto l’insieme delle questione di potere (De Lame 1996, 1999). Le donne più anziane, per mancanza di mezzi economici ma anche per vergogna, sono rimaste a vivere nelle case dove hanno subito ogni sorta di violenza, scontando una marginalizzazione molto forte; di loro si dice che “sono diventate matte e basta”, sia per essere rimaste vedove, sia per il fatto di essere state violentate. Per quanto riguarda i sentimenti di vendetta, certo ne ho inteso parlare, in contesti privati, ma, considerando gli eventi, piuttosto di rado. Si è trattato, per lo più, di riferimenti fatti da uomini che avevano perso la moglie o, soprattutto, la madre. Non c’è dubbio che il perdono sia difficile, ma “ci siamo dovuti rassegnare” è la risposta che ho sentito di più: insomma, si è in qualche modo accettata la possibilità di vivere accanto a coloro che sono si sono macchiati di efferati delitti.

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I rescapés suscitano spesso imbarazzo, trovandosi proprio su quella soglia dell’essere e del non essere; ho avuto non di rado la sensazione che loro stessi si percepissero come dei “fuori luogo”, direbbe Bourdieu. Talvolta rassegnati per essere rimasti nel paese, prima, durante e dopo il genocidio, talvolta arrabbiati nei confronti degli esuli di ritorno che si considerano come loro vittime e “alla pari”. Agli occhi dei superstiti quelli che erano fuori del paese non hanno esperito “sulla loro pelle” gli anni del regime genocidario di Habyarimana e quando sono rientrati hanno combattuto ma, dice in privato uno di loro, sono i salvatori, loro? Sì lo sono, anche se sono arrivati in ritardo, quando molti di noi erano già morti (…) noi non avevamo armi (…) non ci hanno protetto più di tanto (…) molti di noi si sono salvati da soli. Adesso loro sono i vincitori (…) si sentono i salvatori di tutti. (…) loro dicono che sono vittime, esattamente come noi, ma noi, solo noi siamo le vere vittime.

Ciò che entra in gioco, in questo come in altri racconti simili, è in fondo il tema della “cittadinanza” nel Rwanda post ’94: i rescapés si percepiscono una “minoranza” fra le “minoranze”, sacrificati, in certe circostanze, al gioco della politica in quanto, come diceva Primo Levi (1986, p. 64), “noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo”. E ciò va di pari passo con un senso di mancanza di riconoscimento, con tutte le ambiguità che questo tema porta con sé. Non essere riconosciuti in maniera adeguata è sintetizzabile nelle parole di Speciosa Mukayiranga (2003, p. 784) secondo la quale “il mondo si è abbattuto sul rescapé proprio il giorno in cui è sopravvissuto”. Questo mancato riconoscimento di uno statuto, fondato sulla condivisione di un’esperienza storica, ha portato anche alla creazione di associazioni di rescapés, prima fra tutte Ibuka, per intervenire nei confronti del governo; non a caso sul piano prettamente personale

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il sentimento di essere riconosciuto dagli altri è inseparabile dall’essere umano. Questo riconoscimento gli è, anzi, così essenziale, che, secondo Hegel, ciascuno è disposto per ottenerlo a mettere in gioco la propria vita. Non si tratta, infatti, semplicemente di soddisfazione o di amor proprio: piuttosto è soltanto attraverso il riconoscimento degli altri che l’uomo può costituirsi come persona (Agamben 2009, p. 71).

Forse anche in questo senso va letto il sentimento, se non la consapevolezza, di essere figure imbarazzanti, anche sul piano politico. Ritenere di creare imbarazzo o per lo meno avvertire una sensazione di mal à l’aise, non sentirsi a proprio agio, come più di una volta ho sentito dire, deriva dal fatto di percepire una certa strumentalizzazione da parte del potere politico e di essere considerati, allo stesso tempo, come potenzialmente pericolosi su due fronti: per i genocidari che temono di essere individuati; per coloro che, una volta rientrati, sono andati a occupare, come alcuni rescapés ricordano, posizioni di potere in una sorta di linea di continuità con il pregresso: Noi siamo in mezzo fra questi che arrivano [da fuori] e portano il potere e che accettano anche di far ritornare alcuni genocidari sul territorio assegnandogli anche posti fra i militari. Di fatto questi nuovi capi si alleano con i vecchi. Noi siamo una minoranza, quindi perché ci si dovrebbe occupare di noi?

Esther Mujawayo, psicoterapeuta, sopravvissuta al genocidio e fondatrice di AVEGA, l’Associazione delle Vedove del genocidio di Aprile, creata nel gennaio del 1995, nel suo libro dal titolo evocativo SurVivantes 2004 scrive: siamo proprio incastrati, noi sopravvissuti, tra gli hutu, nostri vicini di sempre che ci hanno uccisi, e i tutsi, nostri fratelli che sono rientrati dall’esilio dopo più di trent’anni, dopo le ondate dei massacri dal 1959 al 1973, che hanno sempre sognato di rientrare in Rwanda ma che non si aspettavano certo di ritornare camminando sui cadaveri (…) essi hanno fatto un mito di questo paese, adesso finalmente ci sono. Ma ci sono dopo un genocidio… (p. 77).

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Il sentimento di insicurezza e di isolamento vissuto dai rescapés è un tratto piuttosto comune anche perché, stando ai numeri, le uccisioni non sono poi infrequenti: l’ultimo rapporto del 2007 dell’associazione Ibuka dichiara che fra il 2000 e il 2006 sarebbero stati assassinati ben centosessantadue sopravvissuti e più di centoventi sarebbero scampati alla morte. Mi è capitato più volte, soprattutto nel mese emblematico di aprile, di percepire con chiarezza fra i sopravvissuti di mia conoscenza un aumento di inquietudine e una paura a spostarsi con tranquillità (Pompeo infra, p. 186) o, ad esempio, a bere da contenitori già aperti, che potrebbero essere avvelenati. Così succede anche ad altri attori sociali, i quali, non smetteremo mai di ricordarlo, messi insieme, a torto, nel contenitore dell’hutu=genocidario, raccontano di subire, per questa riprovevole simmetria, atti di intimidazione. Come ricorda a giusto titolo Kagabo (infra, pp. 69): “c’è stato un genocidio, commesso da una frazione degli hutu, e ci sono stati dei poveri imbecilli che ci sono caduti dentro. Bisognerà chiarire tutto ciò, per evitare il rischio di una criminalizzazione collettiva”; così come, dall’altra parte, occorre continuare a vigilare sui rischi della banalizzazione del genocidio, perché questa porta dritta al negazionismo. Queste inquietudini e alcuni discorsi fanno emergere nei racconti dei sopravvissuti certe contraddizioni del nuovo regime, composto per la maggior parte di ex esiliati, anche riguardo agli eventuali indennizzi che dovrebbero percepire quelle persone che, pur non essendo individuate come vittime tout cour (i rwandesi tutsi), lo sono nel senso che non appoggiarono il regime di Habyarimana ma lo subirono, e proprio per questo motivo persero a loro volta dei cari. Per quanto riguarda gli ex esiliati che rientrano, essi vengono chiamati generalmente ibiciìbwa: il singolare igicìibwa traduce sia la persona esiliata, bandita, sia colui che è maledetto o dannato20. Con il termine ibiciìbwa si indicano quindi gli esuli, del 1959 e del 1973, coloro che sono stati compresi nella categoria dei testimoni e le vittime

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indirette. Nel suo saggio Francesca Polidori (infra, pp. 156) rintraccia le memorie di coloro che nel 1959 hanno subito le prime azioni genocidarie, sono stati quindi testimoni diretti di quella stagione dell’odio e sono rientrati in Rwanda dopo il 1994, mettendo quindi in relazione i loro ricordi con quelli degli abacíitse ku icumu, cercando di analizzarne le differenze affrontando il rischio “culturalista” che analisi di questo tipo possono nascondere. Nei discorsi fra amici, così come nel linguaggio di strada – quello che Luca Jourdan a proposito del Congo chiama radio trottoir, la radio del marciapiede (infra, pp. 97), e che a Kigali, nella mia esperienza, sono stati i dialoghi informali con i tassisti che si dicevano rwandesi di origine – gli ex esuli rientrati in patria sono spesso stati nominati attraverso l’impiego di soprannomi. Questi nomignoli, dall’apparenza innocua e anche divertenti in qualche modo, sono in realtà attribuiti applicando elementi caricaturali assolutamente peggiorativi. Vi sono i Dubai, cioè i ritornati dal Congo, che vengono chiamati così perché paragonati alle auto provenienti dalla capitale degli Emirati Arabi, che sono assemblate malamente, noi diremmo “taroccate” e, quindi, di scarsa qualità, ancorché imponenti. Sono, infatti, visti come degli arricchiti, rwandesi di serie b, perché spesso non di nascita. Ci sono i TZ, quelli che arrivano dalla Tanzania e sono chiamati come la sigla automobilistica nazionale; seguono gli Ugandesi, i mains gauches, letteralmente la “mano sinistra” perché, essendo stati colonizzati dagli inglesi, guidano dall’altra parte della strada. Infine i burundesi, definiti in due modi: GPS, le gens sans personalité, persone senza “classe”; o GP quando, ritenuti potenzialmente pericolosi, sono assimilati alla temibile Guardia Presidenziale di Habyarimana. Una categoria a parte è quella cui appartengono le donne usate e abusate, pura carne per “alleviare” le fatiche della guerra: sono nominate come una marca di distributori di benzina, poiché – questa la drammatica metafora –, come le pompe di benzina, erano in grado di “rifornire in continuazione con le loro prestazioni i soldati che le avvicinavano”.

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L’attribuzione di questi soprannomi non è dunque neutra, come si può intuire, e, fatta eccezione per quello terrificante attribuito ad alcune donne21, mette in luce quanto la percezione di un certo disordine portato da fuori tenda a volersi trasformare in ordine in riferimento a una piena “rwandesità” acquisibile solo in “patria”. Del resto, dovremmo domandarci se l’opportuna riflessione di Remotti (1989, p. 126) riferita alla stessa zona, anche se in epoca precoloniale, secondo cui “il potere non è di qui, viene da fuori” non possa nel caso specifico trasformarsi in: “venire da fuori crea le condizioni per fare potere”? Quello che in questa situazione appare più certo è che essa costruisce una sottile linea di tensione, talvolta ambigua, tra chi da “estraneo” ricerca l’“intimità culturale” della nazione (Herzfeld 1997) e, in suo nome, prova a realizzare un preciso inserimento sociopolitico e chi, invece, condividendo un’intimità storica, percepisce ancora un’“estraneità relativa” in questa presenza e le assegna un nome, sia pur sotto forma di soprannome. L’attribuzione di epiteti risente, non a caso, di un misto di diffidenza, sospetto e derisione che corrisponde in fondo anche a una strategia che tende a riaffermare una propria presunta superiorità. Taluni, in particolare quelli che hanno avuto modo di costituire all’estero un certo capitale, una volta rientrati hanno messo in piedi un’attività economica anche di successo, o sono andati a occupare posizioni di rilievo all’interno dell’amministrazione, suscitando non poche invidie. Sia questi sia coloro i quali, con meno mezzi, sono vissuti per anni nei campi profughi (Fusaschi, Pompeo 2005; Pottier 2002; Royer 2006) hanno sperimentato un’esistenza “sospesa”, dando vita a vere e proprie “nazioni immaginate” (Anderson 1991) e coltivando il desiderio ricorrente di un ritorno in patria. In questo senso il campo era diventato la “nazione in esilio”, riproponendo l’organizzazione dei poteri e lo schema ideologico del nazionalismo hutu, dinamica già osservata da Malkki (1995), per cui si può parlare di una costruzione collettiva delle identità in esilio.

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Da questo punto di vista, una coppia di amici ritornati in Rwanda dal Burundi, una deputata e un funzionario ministeriale, racconta come entrambi avessero sempre desiderato intensamente ritornare “a casa”, anche se nei fatti erano nati e cresciuti in Burundi: “sì, siamo di fatto cresciuti fuori, ma non abbiamo mai pensato al Burundi come al nostro paese perché il nostro paese è solo il Rwanda, un paese davvero bellissimo”. Prima, durante, dopo: le violenze sul corpo delle donne Secondo Veronique Nahoum-Grappe, antropologa esperta della guerra nella ex Iugoslavia, il 1996 è l’anno in cui le grandi organizzazioni internazionali esplicitano l’“uso politico degli stupri” che “sembra essersi generalizzato nel nostro mondo contemporaneo in casi molto differenti come in Rwanda, ad Haiti, in Algeria, a Kaboul” (1997, p. 164). In effetti, il 29 gennaio 1996 nel Report on the situation of human rights in Rwanda submitted by Mr. René DegniSégui, Special Rapporteur of the Commission on Human Rights, sotto il paragragrafo 20 della resoluzione S-3/1 of 25 May 1994, al punto 16 troviamo che: “Lo stupro è stato sistematico ed è stato utilizzato come un’arma da parte degli autori dei massacri. (…). Lo stupro era la regola e la sua assenza l’eccezione” (p. 41). Ci sono voluti quasi due anni per confermare quanto già nei primi mesi successivi al genocidio il medico Catherine Bonnet, in una delle prime missioni effettuate fra il dicembre ’94 e il gennaio ’95, aveva avuto modo di constatare sul campo e cioè che la violenza sessuale aveva assunto “un’ampiezza tale che supera e di gran lunga l’immaginazione” (2000, p. 18). Era, in effetti, possibile a distanza di poco tempo affermare che pressoché ogni donna, dall’adolescenza se non prima, e fino all’età più avanzata, era stata violentata e, spesso, orribilmente mutilata. Già da qualche tempo le grandi organizzazioni internazionali avevano con-

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fermato come questa pratica, in direzione soprattutto delle donne tutsi ma anche di quelle hutu sposate con moderati o che avevano in qualche modo abbracciato la causa tutsi opponendosi al genocidio, fosse stata programmata e perpetrata in tutte le regioni dove i miliziani avevano deliberatamente massacrato i civili. È bene ricordare che solo nel 1998, e precisamente con la sentenza del 2 settembre, il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda, con sede ad Arusha in Tanzania, nel giudizio Procuratore contro Jean-Paul Akayesu22, ha per la prima volta riconosciuto che gli atti di violenza sessuale possono essere perseguiti come elementi costitutivi di un programma genocidario e che quindi lo stupro, in Rwanda, è da considerarsi un vero atto di genocidio23. I terribili trattamenti riservati al corpo delle donne non avevano che tradotto in azione quelle che erano “delle vere politiche sessuali, complesse, che hanno preceduto il genocidio e che si sono manifestate durante il suo svolgimento” (Taylor 1999, p. 193, corsivo dell’autore). Queste, senza alcun dubbio, diremmo noi, si sono consolidate anche nel post-genocidio, soprattutto nelle zone più fragili del paese, in particolare sulle frontiere e nel vicino Congo. Nella conferenza stampa tenutasi a Kinshasa il 27 luglio del 2007, Yakin Erturk, la relatrice speciale dell’ONU sulla violenza contro le donne, in visita nell’Est del Congo aveva detto che “la situazione dei due Kivu per quanto riguarda la violenza sulle donne è la peggiore che abbia mai riscontrato”. In uno degli ultimi rapporti di Human Rights Watch (HRW)24 viene esplicitamente riportato che, solo nella zona dell’Ituri, sono stati riscontrati abusi sessuali inimmaginabili perpetrati da tutte le parti in guerra, ma per le “ritualità”, le tipologie, l’intensità e la continuità essi sarebbero ascrivibili, anche se ciò non ne attenua la gravità, soprattutto agli ex miliziani interahamwe, come tristemente testimonia anche il film documentario di Myriam Lanotte e Elisabeth Burdot da titolo Congo. Viols sur ordonnance (2008), facilmente reperibile anche in Rete. Non volendo entrare nella “pornografia della violenza” che spesso ritroviamo in questi

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casi, per rispetto anche delle donne tutte e di quelle che ho conosciuto, mi esimerei dal fornire dettagli illustrando, sinteticamente, gli abusi sessuali in quest’area. Essi fanno riferimento allo stupro con o senza grave mutilazione per mezzo di utensile o arma, al matrimonio forzato, alla prostituzione e schiavitù coatta e protratta, all’obbligo ad avere rapporti sessuali con parenti prima di essere uccise. Se dovessimo tracciare un terrificante bilancio dal 1994 al 2008, anno in cui viene adottata la risoluzione n. 1820 del consiglio di Sicurezza dell’ONU del 19 giugno che identifica e punisce questi crimini, è possibile affermare che in tutta l’area tremendamente martoriata da conflitti non meno di otto donne su dieci abbiano subito una o più forme di violenza alle quali è sempre stata associata una violenza sessuale. Per spiegare questo fenomeno attraverso lo strumentario antropologico è bene partire da lontano, ovvero dall’etimologia della parola stupro che, richiamandosi al latino “stuprum”, significa onta, disonore, e in relazione alla radice “tup”, “stup”, affine a “stud”, può assumere il senso di ottundere, urtare. Viol in francese è un termine che compare per la prima volta nel 1647, e si richiama anch’esso a quello latino “violare” ovvero trattare con violenza, oltraggiare e in particolare profanare. Alcune autrici e autori hanno provato a ricostruire la storia dello stupro (Vigarello 1998; Bourke 2007) e tentato insieme di fornirne una definizione: Susan Brownmiller, in un classico del femminismo della metà degli anni Settanta (1975), aveva detto che la violenza sessuale consiste in un processo consapevole attraverso cui tutti gli uomini tengono tutte le donne in uno stato di paura. Si tratta di una definizione molto discussa, nella quale l’autrice chiaramente ritiene che l’aspetto biologico sia una spiegazione sufficiente, dice Ruth Seifert (2007, p. 56), attraverso cui “gli uomini manifestano il loro potere sociale per mezzo dello stupro”. All’inizio degli anni Novanta, dalle pagine di Anthropology Today, Cathy Winkler (1991) parlava dello stupro come un “assassinio sociale” e come un atto attraverso cui si realizza una completa deper-

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sonalizzazione della donna e della sua femminilità. Qualche anno più tardi, quando i cosiddetti conflitti etnici hanno raggiunto il loro apogeo, se ne è parlato come di un fattore della “guerra del terrore” (Nordstrom, Robben 1995); la stessa Seifert, analizzando gli scritti sullo stupro, disse che in tutti lo stupro è visto non come un atto sessuale bensì come un atto aggressivo (2007). Più di recente Appadurai (2005, p. 56) ha scritto che la violenza sessuale costituisce la “forma più violenta di penetrazione, investigazione ed esplorazione del nemico”; infine, per Johanna Bourke (2007, p. 5) lo stupro non è altro che una forma di rappresentazione sociale estremamente ritualizzata. Se per un solo istante lasciamo da parte gli scontri degli ultimi decenni, vedremo come purtroppo la storia non conosce guerra senza violenza sulle donne. Gli abusi sessuali che si consumano sui corpi femminili istituiscono i terribili teatri della guerra stessa, divenendo i palcoscenici principali della messa in scena della peggiore delle violenze. Basta guardare indietro, verso la fine degli anni Trenta, per vedere come durante il primo mese dell’occupazione dell’armata giapponese a Nanchino siano state stuprate e uccise decine di migliaia di donne; o al 1943, quando l’esercito francese che aveva invaso il nostro paese durante la guerra si era visto garantito il diritto di saccheggiare e stuprare nei territori occupati; per non parlare poi delle donne stuprate durante la seconda guerra mondiale da parte dei soldati dell’armata rossa, così come della creazione del “bordello di Smolensk”, dove furono deportate le donne russe, o delle femmes de reconfort della guerra in Vietnam, degli stupri in Corea e altri infiniti esempi. Analizzando il binomio guerra e violenza sessuale vedremmo che quest’ultima è stata concepita, per lo più, come un corollario della guerra medesima, se non una conseguenza quasi inevitabile. Questa profonda convinzione per cui la violenza sessuale “sia un fattore inevitabile della guerra moderna ha incoraggiato reazioni passive” (Bourke 2007, p. 440). Come ricorda opportunamente Karima Guenivet (2001), una banalizzazione e una sottovalutazio-

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ne del fenomeno hanno contribuito nel tempo alla sua messa in atto in forma sistematica e su larga scala, di cui probabilmente il caso dell’ex Iugoslavia è forse solo un punto di partenza a noi più vicino. Del resto “la sorte delle donne nelle guerre ha sempre sofferto del non detto, trovandosi in qualche modo nascosta, banalizzata nel destino generale dei civili dal momento che esse non erano dei combattenti” (Donnard 2007, p. 210). La situazione dei Grandi Laghi e con essa gli altri episodi di epurazione etnica delle “nuove guerre per l’identità”, direbbe Mary Kaldor (1999), hanno, di fatto, cambiato questo paradigma: “le violenze sessuali sono sempre meno una conseguenza della guerra e sempre più un’arma utilizzata a fini di terrore politico, di sradicamento di un gruppo, di un disegno di genocidio e di una volontà di epurazione etnica” (Guenivet 2001, p. 24). Secondo Appadurai (2005, p. 42) “il corpo umano è la sede delle azioni più terrificanti di violenza etnica” compiute per potersi sbarazzare del nemico (p. 57). Lo stupratore umilia, viola e “dissacra” il corpo della donna non per mezzo di un’arma qualsiasi ma per tramite del suo corpo, che diventa strumento di tortura. Questi atti di “effrazione dell’intimità” (Donnard 2007, p. 214) sono ovviamente diretti a colpire il “nemico” nel suo insieme. Non a caso, lo vedremo, l’obiettivo è la donna nella sua essenza simbolizzata, il ventre, che diviene così un obiettivo militare, conferendo all’azione violenta il senso e il significato dell’arma. Un’arma che è, allo stesso tempo, politica e di guerra, attraverso cui non si mira primariamente alla morte fisica della vittima. Come racconta lo stesso Appadurai riprendendo, a sua volta, i rituali macabri della morte descritti da Malkki e compiuti nei campi profughi in Tanzania (1995), nel nostro caso l’aggressore non vuole eliminare fisicamente il suo nemico ma vuole renderlo inoffensivo e umiliarlo profanando la donna e il suo corpo. Brutalmente torturate e abusate, le donne sono infatti spesso lasciate in vita. Una vita non-vita, come le vittime raccontano, che resti come monito e attraverso cui, paradossalmente, ricostituire, viste

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le devastanti conseguenze, un certo ordine e un corpo “nuovo” dal punto di vista dell’aggressore. Quando parliamo di tortura, nel nostro caso facciamo riferimento a una serie di pratiche che hanno come scopo reale non quello di “far parlare, ma di fare tacere” (Sironi, Branche 2002, p. 591) e di provocare, soprattutto, una deculturazione, sicché “attraverso una singola persona che si tortura, nei fatti è il suo gruppo di appartenenza l’obiettivo” (ib.). Si ha quindi a che fare con azioni di tortura che realizzano omicidi senza cadaveri. In questo senso la vasta gamma delle azioni di violenza sessuale per ampiezza e modalità riscrive e ridisegna l’idea stessa della guerra in una forma, se è possibile, drammaticamente nuova. Fra le varie novità non possiamo non segnalare il coinvolgimento stesso delle donne come istigatrici e quindi come complici della brutalità. A questo riguardo basti citare la vicenda dell’ex ministro della condizione delle donne e degli affari famigliari rwandesi, Pauline Nyiramasuhuko, condannata dal Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda-TPIR per aver ordinato ai miliziani di assicurarsi che tutte le donne fossero stuprate prima di essere uccise25. Gli abusi e le violenze sessuali sono quelli perpetrati su un corpo femminile “nemico” o “del nemico” (Grundfest Schoepf 2006, p. 126) considerato non tanto come un bottino di guerra ma, in quanto “etnicizzato” e “razzializzato”, come un corpo da sporcare e, soprattutto, da non rispettare e su cui lasciare un segno indelebile perché intimamente diverso. Un’immagine della corporeità che, nel caso rwandese, abbonda di stereotipi sessuali venutisi a creare già nella situazione coloniale: la donna tutsi sarebbe considerata più bella, più “desiderabile” e anche più “disponibile” (Chrétien 1995a, Mallki 1995; Grundfest Schoepf 2006; Taylor 1999). Agli occhi dello stupratore non solo si può, ma si deve, violare e dissacrare perché il suo corpo non è altro che un bersaglio politico, per fare politica, quella dell’annientamento. Proprio in questo senso abusi e violenze si trasformano in strumenti dell’azione e della comunicazione politica. Veronique Moufflet, nella sua ricerca su

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questo tema nell’Est del Congo (2008), ha messo, in effetti, in evidenza come il particolare sistema degli aiuti internazionali alle vittime da stupro in questa regione abbia determinato una strumentalizzazione delle stesse violenze sessuali da parte delle associazioni locali, le quali sono riuscite a trasformare questi atti in veri e propri strumenti della comunicazione, dando vita a nuove forme neocoloniali di dipendenze umanitarie e dall’umanitario. Le poche donne che riescono a raccontare, con grande fatica e dolore, le loro esperienze ci conducono a dire che effettivamente le forme di violenza sessuale in quest’area hanno progressivamente dato vita a quella pratica sociale di cui parla Bourke (2007) come forma di una rappresentazione del sociale. Una rappresentazione che, passando attraverso l’oltraggio, ha assunto connotazioni sempre più ritualizzate nelle forme e nelle pratiche di “trattamento” del corpo. Come dimostrano le ricerche, le espressioni di violenza nella zona dei Grandi Laghi sono fortemente caratterizzate da precisi ritualismi e da un’“estetica” della violenza traducibile nella necessità di una dimostrazione della crudeltà stessa (Fusaschi 2000). È in questo senso possibile parlare di una vera e propria tortura sessuale che spesso non porta all’omicidio, ma anzi a lasciare in vita le donne perché la stessa violenza agisce sulla base di un’immagine e di una percezione sociale del corpo femminile che ha a che vedere con un immaginario collettivo e un discorso razzista più ampio che si è costruito anche in relazione alla sessualità. Vorrei aprire una parentesi in merito alla sessualità e al corpo in Rwanda; in altre occasioni, ho avuto modo di evidenziare come l’incorporazione del genere, traducibile nelle modalità per mezzo delle quali in questo paese si diventa donna, passi anche attraverso una serie di pratiche di manipolazione dei genitali come il gukuna (Fusaschi 2003, 2009). Il termine gukuna fa riferimento al gesto attraverso il quale si “allungano le piccole labbra per mezzo di una manipolazione (per prepararsi al matrimonio)” (Jacob 1983, p. 294); al singolare si utilizza kwíisuura, verbo che

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ha diversi significati e che si può tradurre sia attraverso l’espressione “assicurarsi che non si è nudi”26 sia con “prendersi cura del proprio corpo” (Fusaschi 2009). Attraverso il gukuna si realizza un modellamento del corpo femminile indispensabile nella tradizione per contrarre matrimonio; un tempo, se veniva accertato che la giovane donna prima del matrimonio non aveva effettuato questa pratica non poteva sposarsi, se si scopriva che l’aveva fatta male, addirittura il marito poteva cacciarla, come ricorda C., anziana ex-esiliata in Tanzania di ritorno. Questa progressiva incorporazione del genere, simboleggiata dall’avere un organo genitale allungato attraverso un lento apprendimento di tecniche di massaggio che si realizza mutualmente fra donne, va intesa come costruzione sociale del medesimo in una società patrilineare (ib.). Questa patrilinearità si traduce in un forte legame con la terra, intesa sia nei termini di proprietà – che diventava anche proprietà della donna – da parte degli uomini, sia in relazione al mondo circostante, cioè agli altri elementi della natura, in particolare i fluidi, e alla loro circolazione continua anche in relazione ai generi, maschile e femminile. In Rwanda, come in alcuni paesi limitrofi, il bene per eccellenza è costituito dalla proprietà della terra, alla quale si connettono praticamente tutte le simbologie che hanno a che vedere con la vita, in primo luogo la fertilità e la prosperità. I liquidi come l’acqua, il latte, la birra e il miele circoscrivono senza dubbio l’idea della socialità rwandese e ne costituiscono i simboli principali. Come hanno più volte rilevato Christopher Taylor (1988, 1990, 1992), Danielle De Lame (1999), più recentemente Koster e Leimar Price (2008), insieme agli esiti della mia ricerca, nella società rwandese i liquidi consentono una produzione e, allo stesso tempo, una riproduzione sociale delle relazioni fra il mondo circostante della natura e quello collettivo socioculturale. La birra per gli uomini, il latte per entrambe i sessi rappresentano propriamente la fluidità sociale consentendo di intrattenere i rapporti con gli amici e i visitatori, anche nelle occasioni ufficiali come il matrimonio, come conferma la ricerca di

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Ilaria Buscaglia in questo volume (pp. 118). L’amata, il latte di mucca, costituisce l’elemento di base nella tradizionale dieta (caldo o cagliato); quello materno, l’amashéreka, è l’alimento trasmesso dalla madre ai figli27, così come l’acqua sotto forma di pioggia è l’elemento della fertilità per il suolo. Al tempo stesso l’acqua, amazi, sotto forma di secrezioni vaginali abbondanti, che si producono, per i rwandesi, prima e durante il rapporto sessuale come conseguenza del gukuna, è la garanzia di un buon matrimonio inteso come “buona moglie” prima e “buona madre” poi. La donna è tale se, come la terra resa fertile dall’acqua piovana, è in grado, prima da sola grazie al gukuna, poi insieme al marito, di scambiare fluidi abbondanti che la rendano necessariamente fertile, adatta a fornire al patrilignaggio quei figli, si spera maschi, che a loro volta garantiranno la trasmissione del bene più prezioso. È in questo senso che le mie interlocutrici più anziane interpretano il fatto di aver concepito figli, ad esempio, con il fratello del marito: “il bambino è della famiglia”, dice C., “non è mio e di mio cognato, ma della famiglia”, e non a caso impiega il termine umulyaango, che in precedenza abbia visto significa appunto lignaggio maggiore. Potremmo dunque dire che nella società rwandese l’“armonia sociale è mantenuta attraverso un continuo scambio di fluidi, ivi compresi quelli del corpo” (Koster, Leimar Price 2008, p. 194). Come abbiamo già ricordato, in questa società rigidamente patrilineare, la terra, fino agli anni Novanta, prima della riforma del diritto di famiglia, era di esclusiva proprietà maschile, al punto che le donne non la ereditavano nemmeno in caso di vedovanza. La donna come moglie e madre diviene, come la terra, proprietà del marito e, al contempo, è la sola a garantire la perpetuazione del patrilignaggio. Il suo corpo, allora, ne diventa il simbolo per eccellenza, al punto che esso è la personificazione tanto dell’abitazione quanto del terreno circostante. Non c’è dubbio che i fluidi corporali – le secrezioni femminili in primis e lo sperma maschile poi – come quelli connessi alla terra debbano necessariamente circolare in quantità adeguate fra l’uno e

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l’altra in modo da garantire fecondità e perennità alla terra così come al patrilignaggio tutto. Non è un caso, quindi, che i torturatori, come aveva osservato anche Taylor, abbiano dimostrato di avere una certa ossessione nell’attaccare parti del corpo “produttori di fluidi della fertilità” (1999, p. 176). Alla base dei conflitti di questa zona ci sono certamente interessi economici, considerando le ricchezze di quella parte del Congo che da anni è in guerra. Ci sono anche conflitti connessi alla terra e al suo possesso: il periodo che dal 1959 arriva al ’94 rwandese, letto nei termini di processo nazionale, ha avuto a che vedere proprio con il motivo simbolico dell’appropriazione dello spazio e con l’ideale della “purezza” e, quindi, del “corpo della nazione”; da qui l’eliminazione del “diverso”, che si è trasformata nell’ideologia genocidaria. Se prendiamo in considerazione le azioni militari ma anche dei civili, come i vicini di casa, vediamo che sono tese, fra l’altro, a eliminare dal paesaggio i nemici che impediscono la “purezza” del gruppo; l’azione assassina, e quindi anche lo stupro, è indiscriminata verso altri civili e le loro famiglie nella misura in cui il nemico è l’Altro e rappresenta nell’immaginario un’altra “razza”, che va eliminata. La donna, il “nemico senza armi”, spesso non ha di che difendersi, viene attaccata quando è da sola al lavoro nei campi, diventando il bersaglio dell’azione violenta e il simbolo principale di una “profanazione” che passa per l’umiliazione estrema inflitta al suo corpo. Lei deve “morire” prima simbolicamente per ri-vivere tragicamente, attraverso la sua corporeità, come ricordo ossessivo, e per restare, con il suo corpo profanato, violato, torturato a testimonianza di un’umanità non più umana, vittima di un duplice processo di disumanizzazione, tanto individuale quanto della sua comunità di appartenenza. In quanto donna, rappresentante della comunità nemica, diviene la testimone e il simbolo di un’appropriazione e di un possesso da parte del violentatore. Non è un caso che, attraverso la violenza sessuale, l’aggressore colpisca il corpo della donna come il

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simbolo nel e del privato. Egli mina i legami famigliari e di discendenza nonché, come simbolo della comunità, attenta all’identità e all’appartenenza comune. Come ricorda ancora Veronique Nahoum Grappe (1997, p. 5): l’epurazione etnica produce un tipo specifico di crimine, che si può chiamare profanazione e che necessita che la vittima non sia morta immediatamente perché è così che la profanazione prende senso. Lo stupro è pertanto l’esempio stesso del crimine di questa profanazione.

In questo senso non è solo una tipologia di donna a diventare il bersaglio dell’azione violenta – ad esempio la donna giovane che violentata può divenire “datrice” dei figli della “nazione” – ma tutte le donne a prescindere dall’età. L’azione violenta lo è ancor di più quando va oltre l’idea della profanazione e del controllo della sfera procreativa: l’importante è appropriarsi del corpo, del simbolo della terra e, quindi, della nazione stessa. I casi di violenze commesse in Rwanda e in Congo vanno ben al di là dell’oltraggio del simbolo della fertilità e della procreazione: essi mirano a simboleggiare, anche attraverso l’azione estrema, la potenza e il controllo totale dei vincitori, la debolezza e l’impotenza dei vinti. I presupposti antropologici, scrive Karima Guenivet (2001, p. 29), fanno sì che l’umiliazione, il terrore e le violenze inflitti dal violentatore mirino non solo a degradare la donna, ma anche a privare di umanità la comunità alla quale appartiene. Quando viene commesso un atto di violenza sessuale contro una donna, si colpisce l’onore del nemico più di quello della vittima. La donna non è vista come sposa, madre o sorella, ma come simbolo della comunità, un simbolo che bisogna distruggere per arrivare alla vittoria, un bersaglio strategico. Lo stupro, quindi, diventa strumento per umiliare il nemico, al quale viene negato il ruolo originario di protettore.

Il corpo così profanato non ha più età e neanche parentele – tanto meno le potrà più avere – e anzi queste ultime

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devono essere a loro volta oltraggiate: le testimonianze sul terreno confermano che fratelli e padri, spesso, vengono forzati ad assistere se non a partecipare. Questa forma di “incesto coatto” rappresenta, nella simbologia dei fluidi, una “risalita dei fluidi, sperma e sangue, all’interno del circuito familiare. Le vittime di questi trattamenti erano violentate e allo stesso tempo trasformate in esseri asociali” (Taylor 1999, p. 177, corsivo nostro). In società come queste, dove la parentela si costruisce sui legami patrilineari, la violenza sessuale tende ad annichilire le reti di solidarietà fondamentali e a distruggere la sessualità che rende possibile la riproduzione di un gruppo. Lasciare in vita donne sterili, come conseguenza diretta della violenza, significa lasciare sulla terra corpi sterili. Nella tradizione rwandese, abbiamo detto, la terra è di proprietà degli uomini: essi la possiedono, così come possiedono le mogli; le donne però, a loro volta, con le prerogative attribuite anche al loro corpo, sono la terra medesima: “la donna è incarnazione della terra, della madre e della patria, custode della tradizione e dei valori (…). Sporcare la sua immagine vuol dire distruggere il paese” (Guenivet 2001, p. 29). Le donne, profanate nell’intimità, attraverso lo stupro sono private della loro essenza e allora non sono solo esseri asociali ma non sono più. Percepii questa sensazione del non-essere delle donne rwandesi la prima volta durante una visita a un’associazione di donne vedove del genocidio nei pressi di Kigali. Ricordo molto nitidamente di avere incontrato una giovane donna, O., che nel ’94 poteva avere appena una quindicina d’anni. Mi era stata presentata dal presidente dell’associazione, la quale mi aveva detto che O. sarebbe stata disponibile a raccontarmi la sua esperienza di violenza: ci accomodammo nella sala adibita a sartoria, io di fronte alla vecchia Singer, la famosa macchina da cucire a pedali, mentre O. prese posto come se dovesse cucire e guardando sempre in basso. Passammo in silenzio molti minuti, io non osavo fare domande, anche perché in quei momenti non me ne veniva nessuna, lei, dal canto suo, non proferiva verbo. A un

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certo punto si alzò, mi si parò davanti e mi buttò le braccia al collo, senza mai piangere, e batté le braccia sulla mia schiena così forte da farmi quasi male; poi mi guardò negli occhi, e i suoi mi sembravano privi di una qualsiasi luce… In Rwanda si è venuta in effetti a costituire una forma nuova di logica genocidaria, connessa all’interdizione biologica e sociale del gruppo presentificato in un corpo svuotato della sua dignità, spesso contaminato da malattie gravi come l’Aids, altrettanto spesso destinato a cure ripetute – per le conseguenze estremamente gravi che derivano dallo stupro – e a entrare così nei gironi infernali dell’aiuto umanitario che di umano non ha proprio nulla. E poiché abortire è pressoché impossibile, laddove una donna violentata dia alla luce figli della mixité (migliaia nei primi mesi successivi il ’94), quasi sempre non riesce ad accettarli: essi vengono a loro volta abbandonati, esclusi inevitabilmente dalla comunità della madre e spesso anche da quella dell’aggressore, il padre. L’insieme di questi fenomeni di violenza estrema costituisce una novità attraverso cui si vengono a minare ulteriormente gli habitus di intere società che sono e diventeranno sempre più fragili. La battaglia contro la violenza sulle donne è urgente e indispensabile28 ma non è, purtroppo, sufficiente perché, come testimoniano le ricerche più recenti, la novità del conflitto nell’area del Kivu29 sta anche nel fatto che gli stupri non cessano con il cessare della guerra. Spesso, sostiene Veronique Moufflet (2008), la violenza sessuale diviene uno scopo in sé stesso, uno strumento e un affare privato e non più un solo messaggio alla collettività. Questi problemi si iscrivono sempre di più all’interno di una dinamica storica delle “identità armate” che agiscono in nome di quelle omogeneità culturali presunte tali. Intervenire sui singoli fattori può essere utile solo se si cerca di prendere anche in carico i problemi che hanno indebolito quest’area. La vera sfida, certamente di lungo periodo, è tentare di contribuire alla ricostruzione di un tessuto sociale fortemente compromesso. Mi trovo d’accordo con chi critica il

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pensiero secondo cui lo stupro in queste aeree vada combattuto di per sé senza comprenderne tutte le implicazioni di natura socioculturale e politica. Comprendere la sofferenza di queste migliaia di donne significa farsi carico di un loro reinserimento nel tessuto familiare e sociale in cui vivono, della gestione del rapporto fra i sessi e quindi delle costruzioni sociali del riequilibrio fra i generi. Kigali-Kibungo… frammenti conclusivi In questo capitolo introduttivo abbiamo voluto indicare solo alcuni degli itinerari etnografici possibili nelle conseguenze del post-jenoside rwandese. I temi che abbiamo affrontato sono quelli che hanno caratterizzato il mio terreno o, per meglio dire, che il terreno stesso ha suggerito: nominare la violenza; provare a delineare i contorni di definizioni antropologicamente difficili come quelle di vittima; analizzare e denunciare le costanti di crimini efferati, che nulla hanno di atavico, e che continuano a iscriversi indelebilmente sul corpo delle donne in uno scempio che sembra non avere fine. Tutti questi argomenti hanno implicazioni politiche rilevanti che, certamente, in queste righe sono riuscita solo a sfiorare e sulle quali c’è ancora tanto spazio per la ricerca e la riflessione. Il terreno ha quindi forse scelto anche un andirivieni, discontinuo, fra il centro e una periferia: Kigali e Kibungo, in favore del secondo. Di Kigali ho potuto vedere, anno per anno, i cambiamenti, connessi con una ricostruzione non sempre felice e politicamente problematica, che la stanno rendendo una città globale con il proliferare di supermercati, di internet point e di bancomat nonché con la costruzione di un’imponente Ambasciata americana, impensabile prima del ’94 (Pompeo infra, p. 175). Quest’ultima, per i più ingenui, è il simbolo del senso di colpa di noi occidentali, ma in fondo questa sua imponenza rappresenta bene gli interessi del vento che spira da Kacyiru, la collina su cui è costruita, fino al Congo. A Kigali ho certamente

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vissuto meno quei rapporti “faccia a faccia” che hanno caratterizzato la mia “vita quotidiana” in quel locale, che per me è Kibungo, dove ho compreso quelle esperienze sensoriali e corporee “di tipo speciale” di cui parla Hannerz (1996, pp. 35-36). La strada che porta dalla capitale a Kibungo e viceversa, oggi più velocemente di solo tre/quattro anni fa, in qualche modo già visivamente rappresenta bene quelle linee di tensione politica che spesso caratterizzano i rapporti centroperiferia. Percorrerla durante il giorno dei gacaca, o delle commemorazioni, ad esempio, può tradursi nell’incrociare molti meno visi, occhi, piedi nudi e spalle sovraccariche di vari materiali – dalle fascine di legno alle onnipresenti taniche di acqua –, emblemi di una quotidianità sospesa. È la strada che mi ha portato innumerevoli volte a Kibungo – un piccolo centro che si distingue non poco dalle colline (Rukira, Sakara, Ndamira ecc.) – e che arriva più lontano, fino a Sake, Zaza e Rusumo, luoghi che mi rimandano a colloqui, interviste, ma anche a matrimoni, feste, pranzi e cene con amici che amano la pasta e ti chiedono di cucinarla per loro, e a gite “fuori porta”, di domenica. Scampagnate in cui è possibile incrociare, in cima a una collina lontana e difficile da raggiungere ma dalla quale puoi ammirare la distesa di laghi che arrivano fino all’Akagera, una giovane donna che ti si avvicina al fuoristrada e ti chiede un passaggio verso il villaggio più vicino, mentre due compagne che sono con lei ti porgono una bacinella di plastica da cui spicca un fagotto di tessuti, e che l’amico religioso rwandese al volante vorrebbe mettere nel bagagliaio. Sollevo appena un po’ un lembo di tessuto e scorgo una testolina ancora umida e sporca di erba. Padi29, O., l’autista della domenica, Silvia, Francesco e io ci guardiamo, con occhi sgranati e senza proferire verbo, capiamo che la donna ha appena partorito e ci spiegherà di averlo fatto proprio lì accanto, durante il lavoro nel campo. In quel momento, pensiamo solo di correre per accompagnarla al primo dispensario dove saranno entrambe visitati e per consentire alla neo mamma di registrare il nome del suo bambino ap-

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pena nato, adagiato su quel letto di pagne30, in quella bacinella di plastica che tengo stretta stretta fra braccia e gambe provando una certa ansia ma anche una grande gioia per questa vita. E il pensiero taglia davvero corto: spero che la vita potrà un giorno far cambiare tutto.

1 La scelta di indicare le sole iniziali dei miei interlocutori e interlocutrici si motiva con le difficoltà sociali ancora presenti in questo paese, soprattutto per chi vive situazioni delicate: testimoni in processi, vittime di stupro, e così via. O. B. è un anziano responsabile dell’ente dei trasporti pubblici di Kigali, appartiene a quella parte della popolazione hutu moderata che, opponendosi al regime dell’epoca, ha visto morire gran parte della sua famiglia nella capitale Kigali, dove oggi risiede con la moglie e i figli avuti dopo il 1994. I riferimenti etnografici di questo capitolo introduttivo comprendono soggiorni di ricerca che variano dalle quattro alle otto settimane annuali degli ultimi nove anni, con particolare riferimento a Kibungo e alle colline circostanti, l’attuale Provincia dell’Est. Alla ricerca si è andata associando una collaborazione con l’Unatek di Kibungo, piccola università comunitaria, e la supervisione di un progetto di cooperazione locale decentrata sostenuto dall’amministrazione provinciale di Roma. 2 Eravamo io, mio marito Francesco Pompeo, Silvia Cristofori e altri amici rwandesi. Ho già avuto modo di dire altrove che da qualche anno io e il mio compagno conduciamo insieme una ricerca sui temi della sessualità e dell’incorporazione del genere. In particolare, l’obiettivo è quello di comprendere le dinamiche di genere, femminili e maschili, in relazione alla simbologia connessa con una manipolazione genitale femminile, conosciuta come gukuna, di cui farò qualche cenno nei paragrafi seguenti in relazione alla violenza sessuale. Cfr. Fusaschi 2009. 3 Fui chiamata a prendere parte alla delegazione ufficiale della Provincia di Roma. 4 Il monologo di apertura è di Yolande Mukagasana, sopravvissuta al ’94, “scrittrice-non-scrittrice”, come lei stessa si definisce, di libri sul genocidio e co-autrice del dramma. Devo ammettere che a Butare, davanti alla sua gente, non è stato certamente facile ri-vivere il ruolo della testimone e della vittima diretta. In effetti, proprio lì, di fronte a molte altre vittime quanto lei, questa donna dall’apparenza dura e sicura non ce l’ha fatta e più volte si è disperata in scena. Su Yolande e sulla sua consacrazione come personaggio pubblico del testimone è stato scritto molto: cfr. Coquio 2004, pp. 111-116; Delculvellerie 2001, Tomiche, Zard 2002, Bonnet 2005. 5 Ringrazio Antonio Calbi, all’epoca direttore artistico del Teatro Eliseo di Roma, curatore del progetto Italy for Rwanda 1994-2004, per avermi voluta come sua collaboratrice insieme a Joshua Massarenti. Grazie alla sua tenacia il dramma Rwanda ’94 è stato portato, con non poche difficoltà anche di natura economica, in ben cinque città italiane. Ringrazio anche Rosa Rinaldi

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all’epoca vice Presidente della Provincia di Roma, e l’instancabile amica Roberta Reali, responsabile in quel periodo della comunicazione della vice presidenza. Un giorno di anni fa, oramai, Roberta mi donò il suo biglietto aereo per Kigali, consentendomi, fra l’altro, di raccogliere anche alcune delle considerazioni di questo capitolo. Le devo moltissimo. 6 Vengo costantemente sollecitata dai rwandesi a scrivere, lo sono anche quando parliamo settimanalmente al telefono e se, fino a qualche anno fa, mi si chiedeva di continuare a scrivere solo sul genocidio, sulle sue cause, sul perché ecc., devo dire che sempre più spesso gli amici e le amiche rwandesi oggi mi chiedono di scrivere di antropologia in un senso un po’ più “classico”, mi si lasci passare questa espressione; in particolare, sono le donne a chiedermi un’attenzione nei confronti delle violenze che le riguardano ma anche della loro emancipazione e del loro “nuovo protagonismo”, così come del corpo, della famiglia e dei rituali che investono in una forma nuova questi temi. 7 Sul tema dei campi profughi nell’area dei Grandi Laghi esiste una corposa letteratura antropologica; solo a titolo di esempio, per i rifugiati a Goma cfr. Pottier 2002 pp. 130-150, Jourdan infra, p. 86; per il caso burundese dei rifugiati hutu in Tanzania cfr. Malkki 1995. 8 Stando al solo dossier bibliografico redatto da Chrétien sulla crisi rwandese, nei soli tre anni, dall’estate del 1994 allo stesso periodo del 1997, sono stati pubblicati non meno di cinquanta libri. 9 Oggi è Senatore in Canada, sua terra di origine; all’epoca era responsabile dei caschi blu presenti in Rwanda, comandava la Minuar per conto dell’ONU, e tentò invano di sensibilizzare un intervento internazionale. È autore di un libro, tradotto in molte lingue, e di un documentario: cfr. www.romeodallaire.com. 10 L’etnicizzazione del sociale fa riferimento a quel processo di longue durée che ha portato gli attori e le attrici sociali a percepire e a introiettare nel tempo una differenza etnica non rilevante prima della colonizzazione, e a costruire l’idea del “nemico interno” e di un suo annientamento in nome della ricostruzione di una identità nazionale e quindi di una “purezza della nazione”. 11 Questo paragrafo amplia e aggiorna considerazioni sviluppate in precedenza, cfr. Fusaschi 2007. 12 Rielaborando, infatti, il motivo del génos, il termine genocidio nasce nel 1944 per mano del giurista di origine polacca Raphael Lemkin, docente di diritto internazionale all’Università di Yale negli stati Uniti, che in tal modo spiegava il disegno di sterminio sistematico del nazismo. La definizione di genocidio come “una serie di atti (che inizia con l’omicidio dei membri di un gruppo) commessi con l’intenzione di distruggere, interamente o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale, religioso in quanto tale” fu approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite e dalla Convenzione per la Prevenzione e la Punizione del crimine di genocidio nel 1948. 13 Secondo la definizione illustrata da Helen Fein, per il quale il genocidio è “un’azione o una serie di azioni perpetrate coscientemente al fine di distruggere direttamente o indirettamente una collettività attraverso l’interdizione della riproduzione biologica e sociale dei suoi membri e senza riguardo

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per la resa o per l’assenza di minaccia da parte della vittima” (1990, p. 48; corsivo nostro). Nell’ambito delle scienze sociali questa nuova definizione ha permesso di comprendere meglio le logiche del genocidio, così per come sono state vissute dagli attori sociali. 14 Letteralmente significa “tappeto di erba”, tradizionalmente indicava il luogo nel quale si riunivano i tribunali popolari che soprintendevano alle dispute familiari e di villaggio, istituiti, anche sulla scorta dell’esperienza sudafricana, per favorire il processo di riconciliazione. Si tratta di raduni settimanali, di norma il martedì, a livello di cellula (la più piccola realtà amministrativa): tutta la popolazione è invitata a partecipare, tanto che in quel giorno tutte le attività lavorative sono sospese. Gli abitanti si raccolgono in cerchio in un luogo definito e si avviano le confessioni pubbliche: chi confessa un crimine viene condannato alla metà della pena e spesso non va in carcere ma è obbligato a svolgere una serie di “lavori socialmente utili” e seguire un percorso di reinserimento sociale. Sono previsti quattro gradi di accusa che vanno dall’istigazione al genocidio e dai crimini contro l’umanità ai delitti di secondo grado (omicidio volontario), al terzo grado per le lesioni personali gravi e l’omicidio preterintenzionale, fino al quarto grado che riguarda il furto e i danni alle cose. Sul tema dei gacaca esiste una discreta letteratura; a titolo di esempio e fra i più recenti, da un punto di vista giuridico, cfr. il bell’articolo di Lollini 2004; da un punto di vista più storico-antropologico Polidori 2004, Rosoux, Shyaka Mugabe 2008, Dumas 2008. 15 Stando alla ricerca di Nyagahene (1997) sarebbero invece ventisette. 16 Cfr. sito delle Nazioni unite alla pagina http://www.un.org/WCAR/statements/rwanda_hrF.htm, ultima consultazione il 7 giugno 2009. 17 Per motivi personali in quel periodo mi trovavo già da mesi a vivere in Kenya e ho un ricordo molto preciso dei rifugiati hutu che arrivavano, così come di coloro, hutu e tutsi, che, avendo mezzi economici, avevano trovato lì un luogo per proteggersi dal genocidio. Secondo le stime dell’HCR dell’agosto ’94, i nuovi rifugiati si distribuirono così nell’aera dei Grandi Laghi: 850.000 a Goma, 332.000 a Bukavu, 62.000 a Uvira (Repubblica Democratica del Congo); 577.000 in Tanzania; 270.000 in Burundi e 10.000 in Uganda. 18 È il racconto fatto, nell’estate del 2008, da A. R. e V. R., un’anziana coppia originaria di Butare, rifugiatasi negli anni Settanta, a seguito di una delle ondate di agire genocidario del regime Habyarimana, in Congo, dove aveva di fatto costruito una nuova vita, ma costretta nel 1998 a rientrare in Rwanda per gli atti di razzismo anti tutsi. Non trovando nella zona originaria di Butare un luogo adatto, il governo ha affidato ai due una parcella di terreno sulla collina di Rukira, a pochi kilometri da Kibungo, dove essi si sono trasferiti con l’intera famiglia allargata. 19 Sul tema del testimone esiste un’ampia letteratura e in particolare dopo la pubblicazione del libro di Annette Wievorka (2002). Nel caso specifico rwandese cfr. l’introduzione di Le Pape, Siméant, Vidal (2006). 20 Il verbo a cui rinvia gucà ha una moltitudine di significati per cui traduce l’atto del tagliare, del sezionare, del rompere, ma in riferimento a qualcuno può tradurre esiliare ma anche lo scartare da un gruppo e maledire qualcuno (Jacob 1987, p. 163, tomo I).

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21 Nel paragrafo che segue tratteremo a lungo della questione degli abusi sul corpo femminile. Vorrei solamente ricordare che molte donne durante il genocidio furono rese schiave dai perpetratori e divennero delle “mogli”, come ho spesso sentito dire; come ricorda anche Brooke Grundfest Schoepf (2005), in molti ambienti religiosi queste stesse donne sono assimilate alle “prostitute” e, quindi, marginalizzate. 22 All’epoca del genocidio era sindaco del comune di Taba, nella Prefettura di Gitarama; fu arrestato nell’ottobre 1995 a Lusaka, nello Zambia, e trasferito nel penitenziario delle Nazioni Unite ad Arusha, Tanzania, il 15 maggio 1996. Per la sentenza completa http://www.un.org/ictr/english/judgements/akayesu.html, ultima consultazione 29 maggio 2009. Cfr. anche Weitsman 2008. 23 Nella sentenza si legge che: “Lo stupro e la violenza sessuale (…) costituiscono genocidio analogamente a qualunque altro atto, a condizione che vengano commessi con l’intento specifico di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo particolare, preso di mira in quanto tale (…). La violenza sessuale era parte integrante del processo di distruzione, avendo come obiettivo specifico le donne tutsi, e contribuendo in modo specifico alla loro distruzione e alla distruzione del gruppo dei tutsi nel suo insieme”. 24 Si vedano i rapporti di Human Rights Watch, in particolare, quello di marzo 2005, vol. 17, No. 1(A), www.hrw.org, ultima consultazione 29 maggio 2009. 25 Procuratore v. Nyiramasuhuko, n. ICTR 98-42 del 2007, cfr. www.ictr.org 26 Nella tradizione solo un organo genitale modificato era ritenuto socialmente adatto in quanto “vestito” e non naturalmente nudo, quindi inaccettabile. Questa credenza è attribuita ad entrambi gli organi: infatti, anche il pene non è circonciso e si ritiene infatti che sia “vestito” (cfr. Bigirumwami 1964; Musabyimana 2006). 27 Una donna che dopo il parto non ha il latte si dice igihama che, a sua volta, ha anche il significato di “donna che non ha secrezioni vaginali durante i rapporti sessuali” (Jacob 1983, p. 437). Il termine igihama deriva dal verbo guhaama che si traduce con l’espressione “coltivare un campo indurito dal sole”, e nel caso di una donna “che non ha secrezioni” (ib.) 28 Da questo punto di vista a Roma, il 29 maggio del 2009, al Senato si è svolta una giornata di riflessione sul tema La violenza sessuale come arma di guerra nella Repubblica democratica del Congo a seguito dell’audizione della comunità delle donne congolesi; ringrazio Suzanne Diku per avermi chiesto di prendervi parte e soprattutto per l’incoraggiamento di molte amiche congolesi nel continuare a cercare di comprendere dal punto di vista antropologico il tema della violenza di genere. 29 È la contrazione di páadiri che sta ad indicare il nostrano don, riferito a un prete. 30 Si tratta di un tessuto dalla forma rettangolare che le donne impiegano in molte parti del continente africano come una gonna per cingersi i fianchi ma a differenza di quest’ultima non è cucita bensì fermata all’altezza della vita da un risvolto o dall’inserimento di un lembo sull’altro.

Dopo il genocidio. Note di viaggio1 José Kagabo

Agosto 19942 Sono partito sapendo che c’erano stati dei morti nella mia famiglia, in quella di mia moglie, ma ignoravo quanti e chi fossero. Come avrei reagito? A Bujumbura, luogo da cui sarei partito con un’équipe umanitaria del Soccorso Popolare Francese (SPF), ero completamente invaso dall’angoscia. Provavo a immaginare che cosa avrei visto e mi immaginavo davvero molte cose. Alla frontiera dell’Akanyaru – Alto Kanyaru –, davanti ai giovani militari di guardia, comincio a comprendere la mia situazione: come conciliare il mio sentirmi francese, il mio essere rwandese, l’alleanza momentanea con i francesi della Missione SPF nel momento in cui la Francia sta occupando militarmente una parte intera del Rwanda (la zona turchese) e le idee semplificatrici di alcuni soldati del Fronte Patriottico Rwandese (FPR)? Ho l’impressione di essere intrappolato tra le ideologie e la storia reale. L’ideologia dell’umanitario che occulta il dibattito sulla tragedia, l’ideologia liberatrice del FPR che dissimula il dolore, l’ideologia della nazionalità, tutte queste ideologie nello stesso momento, visto che non sono francese, non sono rwandese, sono solamente un uomo venuto a vedere chi sia potuto sopravvivere nella sua famiglia e in quella di sua moglie: chi sia sopravvissuto a Butare3, quali amici e conoscenti siano ancora in vita. Ci affidano, finalmente, a un militare che deve accompagnarci dall’ufficiale incaricato dell’informazione. È trop-

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po giovane, probabilmente non ha che l’età dei miei fratelli più piccoli nati dopo la mia partenza. A vedere dei giovani che si sono battuti contro il regime del presidente Habyarimana, un apparato oppressivo che interdiva loro di ritornare nel proprio paese, si prova un sentimento misto di ammirazione e inquietudine. Inquietudine perché la giovinezza può spingere all’irresponsabilità, ammirazione perché il regno del generale Habyarimana era un sistema che triturava le persone nella loro stessa carne e quindi nessuno immaginava la possibilità di un suo crollo. Persino quelli che, come me, hanno potuto realizzare dei progetti che permettessero loro di vivere altre realtà all’estero hanno, in effetti, risentito crudelmente l’oppressione di quel sistema. Quando mia madre morì sarei voluto andare alle sue esequie; avevo appena avuto la nazionalità francese e potevo dunque ottenere un visto come qualsiasi altro cittadino straniero. Mi avrebbero potuto rifiutare il visto ipotizzando intenzioni ambigue e disegni poco chiari, ma l’ambasciatore dell’epoca mi disse testualmente: “non ti concedo il visto, così saprai che vi facciamo soffrire e vi lasceremo in questo stato per sempre”. Trovai queste affermazioni davvero gratuite, tanto più che non mi conosceva affatto. Era un tempo di “pace”, in altre parole, solo cinque anni prima dell’attacco del Fronte Patriottico Rwandese! Butare Mi trincero nell’istituzionale, sono come paralizzato. Incontriamo le autorità alla Prefettura, il militare incaricato dell’informazione che poi ci ospiterà. La sera vado a bere una birra nell’unico posto aperto, giusto di fronte all’Hotel Faucon, e là vedo il dottor M. Fino a quel momento avevo avuto l’impressione che nessuno potesse dirmi qualcosa. Ma il suo comportamento diverso dagli altri attira la mia attenzione. In effetti, è l’unico a parlare della morte. Dice che la città sa ancora di morte. Penso allora che potrà dirmi cose importanti; gli domando notizie di suo figlio Paul che ho

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conosciuto durante l’internato. Mi dice che l’hanno ucciso. “Il giorno che l’hanno ucciso, sono rientrato a casa e ho visto insieme a lui altri due ragazzi morti a terra, colpiti dalle pallottole”. Comincia allora a fare delle digressioni: “Durante tutto quel periodo, siamo rimasti come degli imbecilli, passavamo il tempo a pregare, domandando la pace, ma a chi?... questo Théodore Sindikubwabo4 è un collega, ha vissuto a Butare, dove ha studiato; è lui, il Presidente della Repubblica, diceva alla radio che bisognava ammazzare a Butare, che conosceva bene le persone di Butare e non bisognava fidarsi di loro, bisognava solo ammazzarle…”. Il dottor M. e Sindikubwabo appartenevano alla stessa generazione di assistenti medici dell’epoca coloniale: una frazione dell’élite che aveva condotto il paese all’Indipendenza. Nel 1963, M. è uno dei primi rwandesi a occupare la funzione di direttore all’ospedale, mentre Sindikubwabo, che aveva già fatto un po’ di politica, era diventato per un certo periodo ministro della Salute. Si erano poi ritrovati alla Facoltà di Medicina dell’Università Nazionale del Rwanda, poi come medici all’Ospedale universitario di Butare. Mentre il dottor M. mi parla, mi viene a poco a poco in mente che suo figlio Paul mi aveva detto, nel 1962, mentre facevamo il nostro internato, che aveva paura del padre, perché temeva potesse cacciare lui e sua madre, tutsi. Lo ascolto con interesse, perché la sua testimonianza per me è preziosa, cerco di capire che cosa sia potuto accadere, ma sono del tutto assente. Non comprendo come le persone possano vivere durante quei momenti e non voglio andare oltre. Improvvisamente mi sorprendo ad aver paura di scoprire che le persone che conoscevo sono morte. Passo una buona parte della serata con lui e, non volendo di fatto restare troppo tempo a Butare, il giorno dopo vado direttamente a Kigali. Kigali Hotel di Mille colline: le sole camere che restano sanno di morte. Non ho alcuna intenzione di rimanere da solo e

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porto con me un amico che avevo incontrato il pomeriggio al Tam-Tam, unico bar ristorante che esiste. Si tratta di un amico originario di Brest che è venuto come me a contare i suoi morti. Passiamo l’intera notte a discutere e mi racconta delle circostanze in cui si è consumata la morte di un comune amico, F. Mwumvaneza. Era un amico di Kigali che lavorava alla Telecom e che accoglieva i miei genitori in casa per potermi far parlare con loro al telefono. Quando i miliziani si sono presentati alla sua porta, Felix mi dice che si è “difeso”. Questo, nel gergo, significa che ha pagato una certa somma perché sparassero a lui, alla moglie, a suo figlio e alla sua nipotina. Si dice che così sono morti “lussuosamente”, perché François ha, in effetti, ottenuto che lo uccidessero con le pallottole. Aveva dato ai miliziani tutto il denaro che possedeva. Questa idea che potesse esistere una morte “lussuosa”… Ci si immagina soprattutto come abbiano potuto essere assassinati coloro che non avevano nemmeno un soldo. Penso prima di tutto a mio padre, del quale non so ancora se sia morto o vivo, e a mia suocera, alle famiglie povere, insomma. Per chi non ha nulla, è con il machete, e basta! Nella mia testa passano tutte queste immagini; non dormo, perché in quella camera sento solo la morte, e allora si parla della morte. Il giorno dopo incrocio un tipo che dice di conoscere un po’ Kigali e discutendo passeggiamo insieme per la città. Nel frattempo vengo a sapere che mio fratello è vivo ma non so come localizzarlo. A Kigali non riesco a riconoscere più nessuno. Al Tam Tam, il solo luogo di incontro, c’è moltissima gente ovvero coloro che arrivano da fuori, in particolare rwandesi. Ne conosco davvero molti, tutti incontrati in Europa, in Burundi, in Zaire e per la maggior parte in Kenya. Nessun rwandese del Rwanda. Ed è così che mi rifugio in un comportamento da etnologo e da analista: non cerco più di sapere le cose che mi riguardano. Trovo tranquillizzante interpretare la storia degli altri, la storia dei vecchi rifugiati che rientrano. Perché rientrano? Quali sono i loro progetti? Mi domando che cosa ci faccio

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là: sono fisicamente in Rwanda ma in realtà il mio spirito è altrove, all’esterno. Infine, il caso. Arriva un amico che, nella prima versione degli accordi di Arusha5, doveva essere un deputato dell’FPR, e con il quale avevo discusso a lungo scoprendo di avere molte idee in comune. È accompagnato da un prete, che mi presenta. Costui deve aiutarmi a ritrovare un altro prete di Rutongo (una quindicina di chilometri da Kigali) che era riuscito a farmi avere, all’inizio di luglio, un messaggio in cui si annunciava che la famiglia di mia moglie era stata interamente massacrata. Non lo troviamo, ma in compenso riesco ad andare con lui da una cugina di mia moglie dove si trova una giovane cognata, l’unica, in effetti, sopravvissuta. Sono stati uccisi tutti, ma non avevo osato chiederlo anzitempo. Mio padre è vivo, la giovane l’ha visto ma non sa esattamente dove sia. Mi rendo conto che non oso affrontare le situazioni reali perché non mi fido del modo in cui vengono raccontate. Si amplifica, si inventa, trovando alla tragedia delle spiegazioni che vanno al di là della mia comprensione (la Santa Vergine, dice il mio amico prete, avrebbe previsto il male); ho soprattutto paura di sapere ciò che viene in effetti raccontato con una precisione assolutamente insopportabile. Esempio? Paul non è stato ucciso dai miliziani; sarebbe morto qualche giorno prima dell’inizio dei massacri di una malattia che è meglio tacere. I vicini non credono che i due bambini del dottor M. siano stati uccisi dai miliziani. L’uno, mi assicurano, avrebbe ucciso l’altro maneggiando maldestramente un’arma che gli era stata lasciata in mano dai miliziani medesimi. Dunque assassini, complici? Mi sforzo per non ascoltare, voglio risparmiarmi questi racconti troppo ben fatti o esatti per non crollare prima di aver liquidato la mia storia personale; perché nei fatti ho una missione da compiere: stabilire un bilancio completo, per me e per mia moglie. Un breve soggiorno in Burundi mi permetterà di riprendere un po’ di forze. Ritorno in Rwanda. Il giorno della partenza prendo il volante in mano, comincio a tremare, vedo la morte. D’un

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tratto davanti a me avviene un piccolo incidente, che vivo come un presagio: se continuo a guidare andrò incontro alla morte. Chiedo allora a un amico di guidare e, durante tutto il tragitto, non dico una parola. Mi faccio un’idea di ciò che potrei vedere e immagino davvero tante cose. Quando avevo ritrovato mio fratello a Kigali eravamo partiti per Butare e avevo scoperto che era stato un militare di Butare a salvargli la vita riuscendo a rifugiarsi a Bujumbura. Da Butare, la mattina seguente raccogliamo in autostop un militare dell’FPR che riconosce mio fratello. Anche lui sembra riconoscerlo, ma solo vagamente. Nelle discussioni che seguono le presentazioni, ci racconta certe storie… “Tu sai”, dice a mio fratello, “i tuoi due fratelli sono stati uccisi”. Lo sapevo anch’io, ma nulla di più. Ci spiega come li hanno uccisi: “Ce n’era uno… sono arrivati al mattino e gli hanno detto: ‘Ma guarda un po’, hai visto quanto sei alto?’”. Era autista di mezzi pesanti, un vero energumeno. “E gli dicono ancora: ‘Prendi i tuoi figli’ e lui risponde ‘ma che cosa hanno fatto i miei figli?’. Gli hanno sparato, mentre la moglie e i figli sono stai uccisi a colpi di machete. Dopo sono andati dall’altro fratello più giovane: ucciso. Sono andati ancora da un altro e gli hanno detto: ‘Non lo uccidiamo perché gli vogliamo fracassare la testa, torturarlo fino a farlo diventare matto e solo allora lo uccideremo’. Infatti è morto folle esattamente come avevano programmato i suoi assassini. Qualche giorno prima, l’avrei potuto ritrovare ancora in vita perché si era rifugiato a Butare. Era diventato completamente matto, dormiva sotto un camion davanti alla guardiola della Prefettura. Ed è proprio là che lo hanno ucciso a fine giugno”6. Questa storia ci viene raccontata con una precisione terribile, ma mio fratello non reagisce. Ci fermiamo a Nyanza, la destinazione finale del giovane militare, un ragazzo del Rwanda che aveva raggiunto l’FPR. Proseguiamo il nostro viaggio fino a Kigali, dove ritroviamo una sorella salvata dall’Ambasciata della Tanzania, che aveva recuperato circa duemila fuggitivi. I tanzaniani facevano questo ricatto: “Se toccate i rifugiati della nostra ambasciata, caccia-

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mo i rifugiati hutu dal campo di Benako.” Sa che tutti i nostri fratelli sono stati uccisi ma non sa né quando, né come. Veniamo così a conoscenza della morte di sua madre (lei era nata da un nuovo matrimonio di mio padre) e le descriviamo il giovane militare che ci è servito da informatore, un “cognato” che era uscito con un’altra sorellastra ma che non aveva osato presentarsi. Ho i capelli bianchi e avrei potuto “reclamargli la dote”! Vengo così a sapere una storia completamente folle. Le persone vengono sterminate ma i sopravvissuti non sanno come questo sia accaduto. Sono ancora completamente soggiogate dalla paura, acquisiscono le notizie ma allo stesso tempo le rimuovono e di colpo, quando si comincia a parlare, ci sono delle cose che si chiariscono. Mia sorella, pensando che io appartenga all’FPR, mi chiede: “Ma José, adesso ci imporrete delle elezioni? Dimmelo, perché se lo fate, io me ne vado, non vale la pena che io resti in questo paese. Chi voterà? E per chi?”. Poi snocciola tutta una lista di nomi: “Ci hanno sterminati”. Da parte mia non ho mai avuto l’attitudine a considerare la “grande famiglia”, ma lei, invece, teneva un conto regolare dei cugini, degli zii ecc. Tutti i nostri cugini, tutti i nostri zii di Nyaruguru, nel sud del Rwanda, tutti sterminati. Ed è proprio là che viene a intersecarsi la storia rurale con quella urbana. Infatti, l’80 per cento dei membri della famiglia allargata era formato da contadini; ora non ce ne sono più. Con loro non ho neanche mai vissuto, ma sapevo della loro esistenza. Nello stesso giorno in cui mi racconta la morte di questo fratello ucciso a Butare, vengo a conoscenza delle circostanze della morte del mio amico Claver: lo hanno denudato, lasciato in slip per un’intera settimana, lasciato in vita ma sempre picchiato, riempito di colpi, infine ucciso lasciando il suo cadavere davanti a una “barriera”, ovvero un posto di blocco, di Butare per una quindicina di giorni. Cerco allora anche di conoscere il destino di un amico di nome Vincent che lavorava all’Università di Butare. Finisco per trovare un certo Pasteur che lo conosceva bene. Mi spiega che Vincent aveva creduto che si trattasse del vecchio sistema: si uccide-

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va solo in campagna e quindi era possibile rifugiarsi in città. Aveva una moglie e dei bambini: alcuni miliziani in machete lo hanno sorpreso lungo la discesa di Tumba, di fronte all’Università. Di Joseph, un altro amico, vengo a sapere abbastanza facilmente che è stato ucciso quasi subito, per fortuna a colpi di arma da fuoco, dalla guardia presidenziale; ho visto la sua casa completamente distrutta. Sono gli stessi che hanno ucciso la famiglia di Munyambo, quella di Nturo: questi due erano identificati come dei “gran tutsi”, storicamente conosciuti, e proprio per questo erano stati liquidati molto velocemente. Lo slogan era: “Noi, noi sì conosciamo le cose del passato. Altre volte, 1959-1961, si lavorava7. Noi forniamo il modo di impiego e voi regolate la questione dei Tutsi. Tocca a voi di fare il lavoro ora” dicevano i capi miliziani agli assassini ai loro ordini. Ma quello che per me è più duro sono i silenzi. Anche con gli amici, non è per niente facile parlare. Quando si trovano dei punti di riferimento in comune, una volta spazzata via la diffidenza, si può cominciare a raccontare. Ma non si hanno più parole, tutto è frammentato, pieno di dettagli dolorosi che fanno piangere, e non si osa andare tanto lontano. Le persone sono assolutamente disorientate. Malgrado tutta la mia simpatia per l’FPR, ho la netta sensazione, elementare, ne convengo, che alcuni rwandesi abbiano pagato e altri abbiano preso il potere. Questo mio stesso sentimento l’ho chiaramente percepito anche in altri. Non capisco come questo sia stato accettato e penso che ci sarà un dibattito in merito, o meglio degli scontri. Condividevo il tempo con i miei compagni che venivano da fuori, che rincontravo e che conoscevo bene, dei quali avevo sentito parlare e che, a loro volta, avevano sentito parlare di me. Era una vita di diaspora ritrovata, ma loro non stavano contando i morti come me. Alcuni non conoscevano nessuno e quindi non avevano perduto nessuno: costoro non erano realmente in lutto. Questo, senza dubbio, spiega perché quando ponevo delle domande sulle persone per sapere se erano morte, ottenevo questa risposta: “Ascolta, bisognerà vedere in futuro”.

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Ritorno a Kigali, verso la fine del mio soggiorno, vi ritrovo il mio amico prete che doveva condurmi dai parenti di mia moglie e di cui sapevo già un po’ tutta la storia. Alcuni vicini avevano attaccato, saccheggiando tutto, una sua sorella, quella più piccola, si era salvata. Non ho avuto la forza di fare domande e mi sono limitato a fare semplicemente il giro della casa. Considerate le circostanze, delle domande mi assillano: potrò ritrovare delle ossa? Li avranno sepolti? Soprattutto, una volta vista la casa dall’esterno interamente distrutta, che cosa sarà stata all’interno, bruciata…? Potrò ritrovare al suo interno delle spoglie carbonizzate? Frugo un po’, scatto alcune foto. Improvvisamente vedo un cranio, grande come un pugno. Si tratta con grande probabilità di un lattante, scatto ancora delle foto. Vedo delle tracce che non mi dicono nulla. La storia reale non è là, io non la conosco, non so in alcun modo che cosa sia successo. Accumulo delle prove, tutte le tracce e gli indizi ma… niente, niente mi spiega il passato, nonostante sia un passato recente. Queste sono le cose che si vivono quando si cerca da sé. Mi continuo a ripetere che è impossibile che non se ne sappia niente. La sorella più piccola di mia moglie ha solo quattordici anni e non mi parla, mi consegna solo una lettera per la mia consorte, dalla quale in seguito apprenderemo che un’altra sorella è stata uccisa, durante la fuga, da due tipi della collina a Gitarama. È il genere di storie folli, una fra le tante che verremo a sapere ma che nulla conferma. Bisognerà attendere senza dubbio molto tempo. I colpevoli L’operazione è stata preparata. Dei leader hanno messo tutti i mezzi dello Stato – fondi, radio-televisione, esercito, ecc.. – al servizio del loro progetto e hanno pensato a tutto. Quanto ai miliziani, taluni sono stati pagati per eseguire gli ordini dall’alto, altri – poveri diavoli! – si sono trasformati

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in assassini perché bisognava uccidere. Tutto ciò rinvia alla psicoanalisi. Non c’è altra razionalità che tenga. Ma sono senza dubbio pochi quelli che potrebbero accreditare la tesi del genocidio popolare. Quelli che hanno agito erano ben conosciuti e operavano in una struttura di inquadramento della quale potremmo tracciare i contorni, con orari certi, liste che peraltro sono state ritrovate. Le persone erano al “lavoro”, come si diceva, sapevano esattamente da chi si andava a “lavorare” e in quale momento. La sola difficoltà che mi pare rimanga è quella di dividere tra grandi e piccoli colpevoli. I primi, se rimaniamo nella logica delle analisi occidentali della razionalità, sono quelli che hanno pensato il genocidio, che lo hanno organizzato ecc… Ma quando andiamo a esaminare il modo in cui i piccoli colpevoli lo hanno eseguito, la teoria della grande e della piccola colpevolezza non regge più. Quando penso a Claver trascinato in strada per giorni, massacrato di colpi… mi dico che negli ordini impartiti da chi ha concepito il genocidio non c’erano anche le indicazioni sul modo di metterlo in atto. La persona che ha pensato di fare una barriera con il suo corpo nudo e mutilato lo ha fatto da solo, non gli è stato imposto di farlo. Cosa si giudica, lo spirito di organizzazione o anche la raffinatezza nell’esecuzione? Se uno ha messo tutta la sua intelligenza nella concezione, l’altro non ha aguzzato tutto il suo ingegno per trovare la forma di morte che intendeva dare? E ancora, si può dire che Claver fosse un notabile e che dovesse subire le sorti riservate al suo rango, che egli abbia, diciamo così, suscitato del risentimento in chi era solo in parte riuscito nella vita. Conoscevo una coppia di anziani istitutori protestanti. Secondo gli stereotipi rwandesi, erano due persone dalle condizioni piuttosto modeste e avevano una figlia che si era da poco iscritta alla facoltà di medicina di Butare. Conoscevo anche bene il giovane che l’ha ammazzata prima di uccidere anche i suoi genitori, il quale disse loro: “Sembrerebbe che vostra figlia faccia degli studi di medicina….”. E ordinò ai suoi piccoli miliziani: “Bisogna aprirle il cranio per vedere effettivamente a

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che cosa assomiglia un cervello di una ragazza tutsi che fa medicina”. E così, davanti ai genitori, le hanno aperto il cranio, hanno tirato fuori il suo cervello e lo hanno mostrato a tutti… Poi hanno ucciso anche i genitori, tagliando dapprima i piedi della moglie e mettendoli sotto il naso del marito. “Senti, senti la morte” continuavano a ripetergli. In questa storia non ha più senso la distinzione fra grandi e piccoli colpevoli. Ci sono diverse tipologie di azione da giudicare nello stesso fenomeno. È certo il genocidio, che taluni hanno pensato e organizzato e che altri hanno eseguito secondo il loro intendimento. O si considera il genocidio semplicemente nei suoi aspetti teorici, privilegiando le categorie del pensiero di coloro che lo hanno pianificato, o lo si considera come un atto concretamente compiuto che implica non solo gli attori, ma anche le modalità del suo compimento. Se si vuole spingere lontano la comprensione, è importante allora aggiungervi la dimensione personale: quest’uomo che ha ordinato ai miliziani di aprire la testa della sua vittima forse prima viveva come tutti noi. Come è allora possibile che (improvvisamente o progressivamente?) si sia rivelato così crudele da arrivare fino a quel punto? Io del resto conoscevo i suoi genitori. Quando ho lasciato il Rwanda, suo padre, che aveva allora una sessantina di anni, e sua madre avevano vissuto come delle persone che non avevano affatto problemi di identità nei confronti dei tutsi. Erano persone che non vivevano più sulle colline da molti anni, erano diventati dei cittadini puri, che non avevano mai avuto né vacche, né campi. La madre aveva un’attività commerciale, come molti del resto… Improvvisamene, i loro figli si scoprono di una crudeltà estrema, in nome di un’ideologia alla quale non hanno mai creduto. Ciò che voglio dire è che avendo scelto la città dall’epoca coloniale, i suoi parenti non erano mai stati implicati verosimilmente nei rapporti sociali hutu-tutsi. Sfortunatamente, non si conoscono tutti coloro che hanno agito ma, con il beneficio di inventario, penso che si possano costituire delle serie di assassini, casi emblematici di figure che permetteranno di individuare i differenti livel-

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li di responsabilità. Per me si è trattato di un genocidio popolare tanto quanto di un genocidio hutu; c’è stato un genocidio, commesso da una frazione degli hutu, e ci sono stati dei poveri imbecilli che ci sono caduti dentro. Bisognerà chiarire tutto ciò, per evitare il rischio di una criminalizzazione collettiva. La violenza Ogni volta che penso alla violenza del Rwanda, mi viene in mente la storia di un certo Elias, un uomo pieno di galloni ricevuti dalle autorità coloniali e di medaglie di anziani combattenti, cristiano come Dio il Padre e il Figlio riuniti insieme non potevano essere, e sempre a messa. Una delle sue figlie aveva avuto un bambino senza essere sposata, vale a dire in condizioni assolutamente inaccettabili per la tradizione rwandese e cattolica riunite insieme. Secondo la tradizione, una ragazza-madre veniva esposta alle bestie feroci nella foresta. Ma siccome non c’era più la foresta, e la legge dei Bianchi, la polizia e la Chiesa avevano nei fatti soppiantato il costume, bisognava inventare un altro supplizio. Si pensò dunque di accecare il bambino perché non vedesse i campi e le vacche. Costui era un hutu di città e non aveva vacche, non aveva pascoli; nonostante ciò, suo nipote illegittimo costituiva una minaccia per la mandria. Ecco una violenza accettata, o meglio ecco come i comportamenti diventassero passivi, complici della violenza. Questa storia è degli anni Cinquanta, se la racconto è per dire a che punto, e che prezzo anche, la società rwandese allontana il reale. I massacri degli anni Sessanta sono stati confinati in due o tre parole: “gli avvenimenti”, “novembre ’59”. Ho incontrato molte persone che avevano perso i loro bambini, fratelli, famiglia. Quando ne parlavano, dicevano “in novembre, quando uccidevano”, tutto qui. Nel momento in cui si leggono testi di rwandesi sui massacri, i differenti cicli divengono: “gli avvenimenti del ’59”, “gli avvenimenti del ’73”… La violenza è là, la si vive,

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ma non la si dice. Nel 1994 viene sterminata una parte della popolazione e si dice “è la rivolta popolare”, il “malcontento” di un popolo che amava il suo Presidente… Ottobre Alloggiare a Kigali si rivela un percorso a ostacoli: il posto è pieno di gente, di ONG. Provo davvero un sentimento aggressivo: che cosa fanno là tutte queste ONG? La sera stessa discuto con un membro di una di queste e sono stupefatto per la sua disinvoltura e per la rapidità delle sue analisi. Gli dico: Bisognerà comunque pensare che avete a che fare con qualche rwandese e che non sono tutti degli imbecilli. Perché figurati (eravamo arrivati a darci del tu in qualche secondo), ci si interroga, ci si domanda chi farà uscire un primo bilancio. Da un lato ciò che voi dispensate, dall’altra, ciò che voi realizzate. Faremo il bilancio. Perché in fondo la vostra presenza è troppo urlante e non si vedono i risultati.

Sono profondamente disgustato, c’è qualcosa di assolutamente rivoltante nel vedere qualche piccolo “eroe” dell’umanitario. Ho visto delle ONG fare effettivamente un buon lavoro, in particolare negli ospedali, ma, in molti casi, ci si domanda a che cosa servano tutti gli “umanitari” che sfrecciano nelle Mercedes, nelle loro jeep e in altre 4x4 all’ultimo grido, quando lo Stato rwandese – al quale peraltro si chiede di produrre prove per meritare l’aiuto umanitario – non ha di che pagare i funzionari. I ministri, i direttori illuminano i loro uffici con le candele, ma i Bianchi circolano dappertutto, la “quarta etnia”8 alle calcagna. Le ONG presenti sono centotrenta: tutta una batteria dispiegata dai paesi ricchi che non hanno fatto nulla per fermare il genocidio, ma che vengono qua per forgiarsi una buona coscienza. Che gli “umanitari” dispensino poi i loro soldi, solo questo interessa loro. Ma quando si permettono

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di dare lezioni su ciò che il Rwanda debba essere, ho voglia di cacciarli. Non provo altro sentimento. Perché tutto questo schieramento di ONG occupa uno spazio dove avrebbe dovuto istaurarsi un dibattito fondamentale: per esempio, come fare per far ricominciare il paese? Queste persone non si pongono la domanda, persuase come sono di essere lì per riparare i danni parlando di vedove, di orfani, per aiutarli tutti psicologicamente. Che cosa sanno della psicologia di chi sopravvive a un genocidio tutte queste brave persone che si presentano come dei “logisti”, conduttori di camion, distributori di coperte, di fagioli? I rwandesi sono in fondo così traumatizzati da non poter fare questo da soli? Le ONG introducono una specie di virtualità economica, un’ambiance di progetti, una ripresa di attività artificiale, e la quarta etnia – ovvero chi poteva discutere delle condizioni della riconciliazione nazionale – è presa in quel circuito. Improvvisamente comprendo la mia brutale reazione nei riguardi di questo membro di ONG. Attraverso di lui, volevo regolare i conti con quei rwandesi che lavorano con gli “umanitari” e che quando si chiedono cose sulla morte rispondono con tono seccato “No, ora non se ne parla, bisogna lavorare, lavorare per sopravvivere”. Tutto questo rinvia nei fatti a un dibattito più ampio, relativo a tutto ciò che una certa diplomazia fa per nascondere il discorso sul genocidio, per dare una forma contorta al tribunale penale internazionale, o alla procedura da seguire per arrestare i colpevoli. In nome dell’urgenza, degli imperativi della riabilitazione, della ragione economica, ci spingono a dimenticare. È chiaro che è in corso una manovra per sfumare il dibattito. E ci si lascia così incastrare perché ogni rwandese pensa di poter fare qualche cosa per gli orfani. Nei fatti io stesso accompagno un’associazione umanitaria, penso di mobilitare, al mio ritorno a Parigi, amici e colleghi nella problematica della ricostruzione, impedendomi di pensare alla tragedia, e sarà anche per questo che reagisco male. In confronto al mio primo viaggio, nonostante tutto, ragiono un po’ di più. Ma quando i sentimenti vengono a galla, sono violenti.

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Mio padre abita in una valle di Kigali dove l’FPR aveva potuto salvare degli abitanti, evacuandoli verso i suoi campi di rifugio; nel mio ultimo viaggio non lo avevo percepito, ma ora mi accorgo che mio padre delira completamente. Mi dice: “Eh sì, ma questi selvaggi, questi animali, vengono a prenderci tutto, che cosa posso fare… è colpa degli animali se ci sono degli orfani, i miei figli sono stati mangiati dagli animali”. Molte immagini sono confuse, perché quando dice che i suoi figli sono stati “mangiati” dagli animali si potrebbe pensare che dica frasi razziste anti-hutu. Questo può essere, ma le sue parole potrebbero anche significare qualche altra cosa, perché uno fra quelli che lui chiama i suoi figli – e che in realtà è un nipote – è stato effettivamente divorato dai cani, dopo essere stato ucciso. Era stato riconosciuto molti giorni dopo solo dalle scarpe e da un brandello della cintura. E quanti altri! Questa immagine confonde il racconto e dà l’impressione di un delirio, soprattutto quando non se ne conoscono bene tutti gli elementi. Occorre sempre molto ascolto, un ascolto prolungato, controllato, verificato, per fare la tara delle cose tra ciò che è testimonianza e ciò che è sofferenza, e ciò che è un vero delirio; perché dentro, infatti, c’è un po’ di tutto. Questa volta mi dice che sapeva che Nahimana, uno dei grandi orchestratori del genocidio, aveva parlato di me alla radio, come per dirmi “Tu sei stato militante dalla parte buona, puoi proteggermi?”. C’è davvero un po’ di tutto. Questo rappresenta un sentimento molto comune tra quasi tutti i rwandesi dell’interno. Essi provano malessere di fronte a ciò che arriva dall’esterno, una sorta di colpevolezza. Sono stati dalla parte sbagliata, cattiva, hanno passivamente partecipato al regime che ha ucciso e non si sono opposti; e i pochi che hanno potuto captare in anticipo l’aria che tirava hanno lasciato che i figli entrassero nell’FPR, anche se tardivamente. Allo stesso tempo, sono coscienti di essere i perdenti, hanno perduto i loro e non accettano che quelli che arrivano siano anch’essi “dei loro”. Questi sono dinamici e molto intraprendenti. Gli altri pensano che essi abbiano preso il posto dei morti, anche se non era colpa lo-

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ro. Un sentimento del genere l’ho provato io stesso, già dall’aeroporto, ma con un po’ più di distacco, a proposito dei rwandesi dell’interno, perché quelli che arrivano li conosco già dall’esterno, dall’Uganda, dal Burundi, dallo Zaire. Razionalmente, mi dico che ci vuole ben qualcuno che risollevi il paese. Ma quando penso alla mia famiglia decimata provo un sentimento che impone una postura rigorosa. Durante un seminario a Kigali, si discuteva di tutti questi problemi chiedendo che tutta questa storia fosse rispettata. Possono anche mancare i mezzi, ma bisognerà che ci sia una volontà politica affinché questa memoria sia custodita. Questo perché l’atto fondatore dell’impunità è la banalizzazione nell’oblio. C’è senz’altro qualcosa di straziante da discutere rispetto a questo problema in Rwanda. Si incontrano sovente degli interlocutori che, pur non essendo in malafede, mancano dei mezzi intellettuali che permettano loro di accedere a questo genere di riflessioni. Abbiamo a che fare con delle povere persone che vi parlano della morte di loro padre come se oltre non ci fosse altro. Ho visto delle vedove, sopravvissute, con uno o due bambini, dire ai figli: “Non c’è problema, siete degli orfani come tutti”. Ecco come si banalizza, per mancanza di mezzi intellettuali; ma ciononostante il bisogno esiste. L’unica cosa che si può fare è non smettere di dire, di raccontare e di ricordare ciò che è passato; solo questo può salvare le persone. Quando si crede di poterci mettere una croce sopra, di seppellire il passato, i danni sono spesso considerevoli. Così l’alcol… ho finito per capire perché tanti giovani dell’FPR si ammazzano in macchina. Guidano completamente ubriachi ma con un’idea in testa; dicono: “ci siamo battuti, ma perché? Mi sono battuto per proteggere la mia famiglia ma non c’è più nessuno…”. Ho avuto molte discussioni con giovani militari che mi dicevano: “Voi politici, che cosa ci venite a raccontare? Che bisogna far rientrare i miliziani, che occorre imparare a vivere con loro. Non posso. Io potrei uccidere, e voi mi dite che non bisogna uccidere, che occorre dimenticare e che è necessario imparare a vivere con questo ricor-

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do. Ma datemi un’altra spiegazione, aiutatemi a vivere con questo ricordo. Ma se non ci riesco mi prendo un camion….”. Era la prima volta che sentivo un giovane rwandese parlare apertamente di suicidio. Tutto questo fa parte di una memoria del genocidio che è là e che nessuno ha i mezzi per strutturare, costruire, socializzare. Non è solo mio padre a delirare, è anche quello di qualcun altro. Il problema non è solo il fatto che Nahimana ha chiamato a uccidere. La questione essenziale è che occorre riflettere sul perché delle risposte alla chiamata a uccidere. Occorre riflettere su questo tipo di rapporto con la morte. La morte che ci si può donare in totale buona coscienza, crudelmente. Ciò che preme è tutta questa riflessione, ma non abbiamo i mezzi per affrontarla e le ONG vengono francamente a soffocarla. Per loro bisogna pensare all’avvenire, perdonare, non indugiare sul passato. E le ONG cristiane rigiocano il tema del perdono. Mi sembra che molti rwandesi sappiano a mala pena che hanno fatto le spese di un genocidio. Hanno perduto i loro cari, ma non hanno per nulla coscienza che tutto questo sia passato attraverso una modalità politica, sistematica e preparata. Dicono solamente: “Si è ucciso!” e sono là, e per un po’ raccontano di un cugino lontano che viene dal Burundi, dall’Uganda, e provano una certa compensazione, una solidarietà di tipo clanico. I clan, in effetti, cominciano a ricostituirsi. Ho la sensazione che la fase genocidaria non sarà che una parentesi poiché si torna ora alla memoria dell’esilio, alle strategie che si erano costruite dopo il 1959 per sopravvivere in Uganda e in Burundi, strategie claniche di ricomposizione. È tutto questo che rende la situazione attuale così fragile nella sua configurazione sociologica e nella sua espressione simbolica. Ancora non parlo che dei tutsi visto che mi è stato più facile intrattenermi con loro. Ho incontrato qualche hutu e appena si parla di genocidio capisco che non sono a loro agio: anche loro hanno avuto dei morti e pure per loro la situazione è difficile da gestire. Reagiscono a questo afflusso massiccio dei rientri e a tutti i comportamenti che induce, soprattutto per diffi-

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denza. Dal momento in cui non si parla di genocidio, la colpa sarebbe collettiva. Gli hutu che non hanno partecipato al massacro non hanno avuto l’occasione di smarcarsi dai responsabili, né tanto meno di vivere in maniera solidale con le vittime dei massacri. Ancora una volta il discorso delle ONG cattoliche sul perdono alimenta questa situazione del non detto, garantisce questa impossibilità di dire, questa impossibilità voluta, trattenuta. Come lavorare su questo tipo di memoria? Penso che occorra considerare che si tratta di una foresta nella quale si raccoglie qua e là e poi progressivamente si vedrà che cosa c’è dentro. Io stesso mi trovo nell’incapacità di essere del tutto esplicito. Esempio: abbiamo localizzato una persona, una di quelle che ha tolto il tetto dalla casa della famiglia di mia moglie. La copertura è stata recuperata nella sua casa, quindi si tratta di una prova materiale, anche se lui dichiara di non essere mai salito sul tetto. Deve saperne molto di più di quanto sembri ed è per questo che ho preferito non vederlo subito, perché non sono certo della reazione che avrei vedendolo di persona. Non è il caso di affrettarsi ora, perché costui ci potrebbe condurre, in effetti, ad altri fatti, ad altri saccheggi, ovvero fino agli autori dei crimini. Ho saputo che la madre di mia moglie è stata uccisa nel momento in cui portava da mangiare ai nipotini, bambini di soli tre, quattro anni. Era proprio nel momento in cui quel tipo stava sottraendo il tetto di lamiera. Ho ipotizzato che non abbia potuto non vederla e che l’abbia lasciata andare per farla uccidere da altri, continuando così il suo saccheggio del tetto e di altre cose della casa. Ci sono davvero tante cose da sapere e le possiamo conoscere con precisione. Sono assolutamente determinato a ottenere dei dati precisi sui luoghi dove hanno ucciso i miei fratelli, in quali circostanze, o meglio, chi sia stato, voglio dire proprio chi ha operato, perché penso che ora si possa sapere. Se mi si dice “un tale ha ucciso”, vorrei saperne di più: come ha ucciso, chi testimonia. Bisogna stabilire dei fatti, anche se dovrà avere un’amnistia. Ammetto, in realtà, di essere d’accordo con l’amnistia ma usata con una certa mi-

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sura: sulla base dei fatti stabiliti, identificati, e sulla scorta di indagini rigorose. Penso che queste inchieste debbano essere svolte. Ma da chi? Noi, rwandesi tutsi, siamo presi dalla preoccupazione di fare in modo che il genocidio non diventi un atto nullo. Ma c’è la paura che il tutto possa capovolgersi e che il rifiuto dell’aiuto internazionale complichi le cose. I militari, i funzionari non sono pagati e l’esperienza della giustizia potrebbe interrompersi bruscamente. C’è effettivamente questa paura. Ci troviamo incastrati tra l’urgenza e la necessità di un lavoro in profondità, non è ancora tutto chiaro. Parlo per me ma dubito fortemente che anche per altri sia più chiaro. Il tribunale penale internazionale Una delusione in Rwanda. Si chiede un tribunale internazionale9, nella forma che si conviene, che ci fornisca i mezzi per passare attraverso procedure chiare, moralmente accettabili. Ma quando si decodificano i segnali inviati da certi partner europei, i più avvertiti non si fidano. Le persone dei partiti che ho incontrato, del PSD, del PL e del MDR, sono coscienti che tutto questo non è che letteratura. Sanno che cosa si cerca di ottenere da loro, ovvero l’impiccagione di qualche figura simbolica, pensando che sarà sufficiente. Ma per l’FPR impiccare qualche testa non renderà ragione. “Non è quello che chiedono i rwandesi. Essi vogliono, anche comprendendo il perdono, che i responsabili siano individuati. Non vogliono un tribunale da parata. Certo, se si impicca qualche colpevole, la comunità internazionale applaudirà, dando eventualmente anche un po’ di denaro, ma noi non avremo mai i mezzi per impedire che vengano commessi atti di vendetta. Se non ci si vuole chiudere in quella strategia, bisogna pensare a un tribunale nazionale che non sarà perfetto ma, almeno, ci saremo intrappolati da soli.” A tal riguardo, i quadri influenti dell’FPR che ho incontrato vogliono un tribunale riconosciuto che renda giustizia, altrimenti non ne vale nemmeno la pena. E in questo senso ri-

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tengo che ci sia un cammino politico interessante da fare, perché si pensa che una vera giustizia sia il solo modo per liberarsi definitivamente dell’idea che i tutsi vogliano massacrare gli hutu. Numerosi responsabili politici vogliono questa garanzia: è per questo che non possono affrettarsi ed è proprio qui che il dibattito si avvia. Dicembre In questo terzo viaggio non ho avuto le medesime reazioni. Nel primo viaggio non volevo assolutamente entrare nella questione del genocidio e per questo non ho cercato immediatamente di incontrare le persone che conoscevo. Nel secondo ho cominciato a prendere contatto con i sopravvissuti. Ma questa volta, ho adottato uno stile intellettuale: mi sono fatto raccontare ciò che è passato da testimoni che lo hanno vissuto, mentre prima mi accontentavo solo di alcuni frammenti. Butare: mi reco a vedere che cosa stia succedendo al Centro dei bambini che avevamo messo in piedi con il Soccorso Popolare. La pedopsichiatra che è passata per vedere come stanno i bambini è convinta che questi stiano elaborando il lutto. Bambini e adolescenti rwandesi non sono certamente a loro agio nel comunicare con un medico europeo. C’è una tale insufficienza di risorse linguistiche per parlare di una questione così delicata e terribile. Vedo una ragazza che mi pare un po’ assente; mi siedo accanto a lei, le chiedo come si chiami e dove abitasse prima di venire a vivere al Centro. Mi dice il suo nome e cognome, che abitava sulla “strada di Kansi” e che ha diciotto anni. La tranquillizzo assicurandole che può parlare con me in tutta tranquillità e che conosco molto bene la regione, Butare, Sahera e Tumba, e che ci abitano degli amici. Per esempio T. M., lo conosceva? Mi dice di sì e mi racconta che T. M. e la sua famiglia sono fuggiti insieme e che hanno ucciso tutti a Akanyaru. In effetti, le persone si raggruppavano per salvarsi per affinità o anche per vicinato; sembra che in fondo non ca-

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pissero ciò che sarebbe poi accaduto loro. Vedevano bene il pericolo e capivano bene che li cercavano per ucciderli. Ma perché? Chi li cercava? Non riuscivano a capire come potessero essere localizzati con tale precisione. Solo al momento della loro esecuzione arrivavano a comprenderlo. Sono fuggiti nel panico, un “si salvi chi può”; sono riusciti a superare molte barriere erette da persone che non li conoscevano ed è solo verso la frontiera che sono stati trovati da coloro che invece li conoscevano, che nei fatti non erano altro che i loro vicini, le persone che hanno sempre vissuto con loro: li hanno legati e poi li hanno uccisi con armi da fuoco. T. M. è morto proprio così, come il padre di questa povera ragazza e molti altri vicini. Nella loro fuga avevano lasciato le mogli in una fossa prima di andare a esplorare le piste di uscita. Quando hanno visto che i mariti non tornavano, alcune delle donne hanno iniziato a fuggire, altre, disperate, hanno ripreso la strada delle colline. La ragazza è stata legata e come altri colpita con il martello e con il machete; a un certo punto l’hanno creduta morta, e per questo l’hanno gettata nel fiume Akanyaru. La corrente l’ha spinta verso delle piante di papiro che l’hanno trattenuta. Sulla riva burundese, c’erano delle donne che lavoravano in una risaia; sentendola gridare, l’hanno tirata fuori dall’acqua. Siccome era ancora legata, una donna ha preso un machete per tagliare la corda, e la ragazza si è messa a urlare pensando che questa la volesse “tagliare”, impiegando il verbo gutema, che nel genocidio assunse il significato di “uccidere” (Fusaschi 2000). Hanno infine tagliato le corde e l’hanno condotta in un dispensario, e da lì è stata trasportata in un ospedale in Burundi. In seguito è stata rimpatriata in Rwanda e reinserita in un gruppo di orfani fino a quando non è stata portata a Butare. Le domando notizie su sua madre e lei mi risponde: “Mia madre è stata uccisa, l’ho vista nella latrina, tagliata a pezzi, e l’hanno poi gettata là dentro”. Ed è così che la giovane non va più nella latrina, perché sa che ogni volta che ci rivedrebbe sua madre. Questa storia mi ha fatto scoprire un’altra dimensione di questo genocidio. Una dimensione che era ancora poco

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chiara nel mio animo. Nell’ultimo viaggio, pensavo soprattutto alla questione della responsabilità, che non poteva limitarsi ai soli investigatori politici del genocidio, perché mi rendevo conto che ciascuno aveva ucciso con le sue risorse, con il suo odio. La storia di questa ragazza mi ha aiutato a capire che una buona parte della comprensione di questo genocidio passa anche per la descrizione dell’orrore. Bisogna conoscere come si è ucciso. Ho appreso che R. era stato interrato vivo e che la stessa sorte era stata riservata a molti altri tutsi. Se non si affronteranno descrizioni come questa, non si riuscirà mai a comprendere. Partendo quindi da questo punto, mi sono sentito rassicurato, convinto che bisogna parlare dell’orrore, nelle sue manifestazioni, nei suoi gesti e nella sua forma più cruda, dal momento che le persone non si sono accontentate solo di uccidere. Così finisco per apprendere quello che è accaduto alla madre di un amico: è stata uccisa dai vicini, da persone che lei stessa aveva sistemato sul suo pezzetto di terra visto che era anziana e che i suoi figli oramai erano usciti di casa. L’hanno uccisa nello stesso identico modo della madre della ragazza: l’hanno tagliata a pezzi e gettata nella latrina. Che le stesse scene e le stesse tecniche si riproducano a Butare o a Gitarama è una coincidenza che non può lasciare indifferenti. Ci sono, in effetti, altre scene di orrore che mi sono fatto raccontare. Un anziano: gli massacrano i bambini, sua moglie, li fanno a pezzi e glieli danno da mangiare, poi lo accecano prima di ucciderlo. Il racconto che mi fa Vincent degli orrori del vescovo di Kabgayi assomiglia a quello di Dominique a proposito dei suoi genitori, domiciliati nella prefettura di Byumba. Le liste delle vittime di cui mi parla Vincent presentano la stessa precisione di quella che mi ha fornito Sorella Joséphine di Kigali. Globalmente, bisogna descrivere finemente le ideologie, il comportamento degli attori, porre la questione della prevedibilità del genocidio. Ma l’orrore? La crudeltà? Com’è possibile? Che cosa è passato nella testa di qualcuno per fargli interrare vivo un uomo che conosceva, in quella di una moglie che ha dormito con un uomo, ha avu-

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to dei bambini con lui e poi l’ha ucciso, e infine in quella di un uomo che taglia a pezzi sua moglie? Non è una semplice risposta agli appelli di Nahimana. Come gestire questa memoria genocidaria con tali orrori? E poi, se questi stessi orrori non fossero raccontati? La banalizzazione consisterebbe nel considerare che non significa nulla per un’adolescente di diciotto anni sapere che la madre è stata fatta a pezzi e gettata nelle latrine. Non pretendo di conoscere che cosa passi nella testa di chi ha commesso questo atto ma so con certezza che cosa significano le latrine per un rwandese: significa gettare i morti ai vermi. C’è il gesto cosciente di consegnare la carne della vittima ai vermi. Chi lo fa sa bene che cosa sta facendo. Il simbolo è il medesimo per lui e per i parenti della vittima. C’è in tutto questo qualcosa di irrimediabile che non può essere abolito da alcuna strategia di oblio. Ci troviamo in un contesto definito dalle politiche – per ragioni diverse, con una buona fede più o meno dimostrata, più o meno accettabile o difendibile – di “riconciliazione nazionale”. Ma se deve esserci un’amnistia bisognerà che i beneficiari siano conosciuti, identificati e che essi stessi spingano in questa direzione. Non può esistere un perdono senza perdonabili. Questa riconciliazione implica l’impegno di un ritorno dei rifugiati di Goma, dalla Tanzania ecc., ritorni spontanei, di nascosto, ritorni organizzati, canalizzati dall’Alto commissariato dei Rifugiati e con delle negoziazioni. Ma in questi ritorni ci sono anche degli interahamwe, degli assassini che i membri delle famiglie possono identificare. Io stesso, con l’aiuto di mia moglie, ho compilato una lista plausibile di chi ha “lavorato” nel quartiere dove abitava la famiglia di mia moglie. Ho assistito ad altre ricostruzioni che permettevano ai sopravvissuti di identificare alcuni assassini. Le persone sono traumatizzate: ecco gli assassini che sono in libertà. Esiste, infatti, un nuovo clima di psicosi: “Ricomincerà presto”. Ho discusso molto con dei militari subalterni, dei quadri rwandesi tutsi e altri per i quali un altro genocidio appariva imminente e possibile. Su che cosa si basano? La loro risposta è presso-

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ché invariata: “Vedete, ritornano. Hanno ucciso, sanno che noi lo sappiamo, alcuni sono addirittura dei vicini; io so chi ha ucciso mio padre ma è là, intoccabile, chi gli impedirà di uccidermi? Già ci qualificavano come minoranza prima del genocidio. Oggi, in un niente potrebbero regolare le nostre sorti. Hanno verificato che l’opinione internazionale si disinteressa completamente di ciò che accade in Rwanda, un piccolo paese come il Rwanda. Perché non dovrebbero ricominciare?”. La paura è qui, onnipresente, e si nutre di questi traumi che non sono risolti. Per fortuna ci sono persone come questo prete, M., che ne ha viste tante, ma si batte perché niente sia più come prima. Investe il suo campo, la Chiesa, l’insegnamento e mobilita tutto ciò che può contro l’oblio e contro una cattiva percezione del genocidio. Ma le persone come lui sono rare. Ne conosco che non fanno analisi, costruzioni intellettuali, ma agiscono per ricostruire materialmente il nuovo Rwanda. Altri provano a riflettere ripiombando nel pessimismo e dicono: “Qualsiasi cosa facciamo, siamo fregati. Ritorneranno in massa”. Ci sono degli hutu che formalmente aderiscono all’FPR ed escludono di ritornare alle condizioni di prima degli accordi di Arusha, come se nulla fosse stato. Ma pensano anche che occorrerà affrettarsi ad andare verso le elezioni perché scommettono sulla nozione di maggioranza etnica. Questa nozione della maggioranza etnica resta molto attiva ed è alimentata sia dai pessimisti che la vivono nella paura, sia dagli altri. Bisogna parlare e su questo punto mi unisco ad alcune marginali correnti di pensiero. Ci si siede, si discute davanti a un bicchiere e improvvisamente il mio interlocutore mi dice: “Ah! Ci hanno uccisi” quando vede venirci incontro un hutu. E poi: “Ci avete uccisi, ma bisogna vivere insieme. Non so bene come ma non mi lascerò certo uccidere. Ne avete già ammazzati tanti di noi”. E l’hutu replica: “Non bisogna prendere tutti gli hutu per assassini ecc…”. Ho avuto la netta sensazione che la discussione spingesse l’hutu a mostrarsi determinato a smarcarsi dagli assassini.

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Per poterne uscire bisognerà che tutti possano parlare, dire ciò che hanno visto, parlare dei corpi fatti a brandelli, gettati nelle latrine, senza pudore. E raccontando ciò che è stato le persone non liquidano solo ogni tentativo di negare il genocidio; mi sembra che esse si liberino anche dei falsi pudori, delle inibizioni socioculturali, cattoliche ecc… Oggi i rwandesi cominciano a parlare e questo costituisce le basi di un’altra storia che non ha ancora i mezzi per esprimersi. Ma due questioni di fondo sussistono: la memoria del genocidio e il ruolo dei quadri hutu nell’attuale situazione politica. Il progetto concepito dal ministro dell’Insegnamento superiore e della Ricerca è quello di costruire un Museo del Genocidio10 che dovrebbe essere sostenuto con ogni mezzo. Condannare senza riserva è l’ultima cosa che si può rifiutare ai sopravvissuti. Bisogna simboleggiare la portata della condanna. Se chi lavora contro l’oblio potrà continuare a farlo, in questo modo contrasterà le tendenze all’assegnazione identitaria. Nella generazione che è qui, all’opera, nessuno oserà reclamare apertamente l’esistenza di un’ideologia hutu o tutsi. Quando un’associazione rwandese mi ha chiesto di partecipare a una conferenza sui partiti politici, sui loro echi, ho subito dichiarato: “Ma oggi il Manifesto dei Bahutu è pensabile? La lettera dei grandi Bagaragu del mwami è pensabile?11”. La mia risposta era che tanto l’uno quanto l’altro potevano riprodursi se non si fosse fatto un duplice lavoro. Innanzitutto bisogna cessare di fare come se certe prese di posizione non fossero mai esistite. In seguito, essere capaci di andare oltre le costruzioni collettive perché ciascuno si faccia carico delle proprie responsabilità. Gli hutu sono capaci di riconoscere che i loro padri, che difendevano le posizioni del Manifesto, sostenevano, a torto, un’ideologia etnista? Siamo noi tutsi capaci di dire che alcuni dei nostri padri, che aderivano ai discorsi dei grandi vassalli di Corte, avevano un comportamento inaccettabile? Gli uni e gli altri, noi, dovremo essere disposti a riconoscere che i nostri padri, nonostante tutto, comunque

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sbagliavano: ora, infatti, tocca a noi condannare il razzismo, altrimenti tutto può ricominciare. (Traduzione di Michela Fusaschi)

1 Traduzione dell’articolo pubblicato nel 1995 su «Les Temps modernes» dal titolo Après le génocide. Notes de voyage, pp. 102-125, n. 583. 2 Ho compiuto tre viaggi in Rwanda, nell’agosto e nel settembre del 1994, e da metà dicembre 1994 a fine gennaio 1995. Qui riprendo alcune delle mie note, alle quali ho aggiunto alcune riflessioni. I lettori e le lettrici vogliano scusarmi per il tono personale di questo racconto: ritornando nel mio paese, dopo essere stato costretto a fuggire nel 1973, mi è ancora impossibile parlarne estraniandomi rispetto a ciò che è stato il passato. 3 Sono originario di Butare, e durante i dieci primi giorni della tragedia mi ero tenuto in strettissimo contatto con Jean-Baptiste, il Prefetto arrestato il 19 aprile dalla Guardia Presidenziale e assassinato poi con tutta la sua famiglia. 4 Fu il Presidente del governo ad interim durante il genocidio, dal 9 aprile al 19 luglio ’94; circa la sua morte non c’è una data certa (N.d.T.). 5 Gli Accordi di Arusha furono firmati il 4 agosto 1993 dai rappresentanti dell’FPR e dell’allora in carica governo di Habyarimana. Attraverso questi patti si sarebbe dovuto porre fine alla guerra iniziata nel ’90 con la prima discesa dell’FPR dall’Uganda. Come è noto, la loro applicazione fallì e nell’aprile dell’anno successivo ebbe inizio il genocidio dei rwandesi tutsi (N.d.T.). 6 Poco prima della presa di Butare da parte dell’FPR. 7 In kinyarwanda si usava la parola gukora, ripresa dal vocabolario mortifero dell’epoca e reso popolare in aprile dal Presidente della Repubblica Théodore Sindikubwabo. 8 Prendo a prestito questa espressione da Claudine Vidal. La “quarta etnia era costituita dai rwandesi che, quale che sia la loro origine, non appartenevano al mondo agricolo, esercitando o tentando di esercitare delle attività fondate sulle conoscenze e dei savoir-faire occidentali”. Cfr. Vidal 1991, pp. 28-35. 9 Il TPIR fu creato l’8 novembre del 1994 dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU per giudicare i responsabili del genocidio rwandese e altri crimini contro l’umanità. Cfr. http://www.ictr.org/. I lavori del TPIR hanno suscitato un dibattito e molte critiche, soprattutto relative alla tempistica dei procedimenti e ai relativi finanziamenti (N.d.T.). 10 Nel 2004, in occasione del decennale del genocidio è stato inaugurato a Gisozi, una collina alle porte di Kigali, il Memoriale del genocidio, i cui lavori erano iniziati qualche anno prima. Il memoriale si compone di una parte museale dedicata alla ricostruzione storica del genocidio, una parte di archivio e un’ultima che ospita più di 250.000 vittime del ’94. Cfr. www.kigalimemorialcentre.org (N.d.T.). Cfr. Pompeo infra, p. 176. 11 Si tratta di due testi molto conosciuti che contenevano i primi germi dell’etnismo e che furono pubblicati nel 1959. Cfr. Fusaschi 2000.

Etnicità e discorsi anti-tutsi nella polveriera del Kivu Luca Jourdan

Introduzione Secondo le stime dell’International Rescue Comittee (IRC), un’organizzazione non governativa statunitense, nella Repubblica Democratica del Congo1, dal 1998 a oggi, sarebbero morte circa 5.400.000 persone a causa della guerra (2008)2. Il calcolo dei decessi nei diversi conflitti non è certo una cosa semplice e, immancabilmente, solleva delle polemiche: i morti, infatti, hanno un peso politico e il loro numero non può che essere oggetto di contesa. Tuttavia, se per estrema prudenza volessimo dimezzare le stime dell’IRC, ottenendo così una cifra di 2.700.000, la guerra in Congo risulterebbe pur sempre una delle pagine più drammatiche e cruente degli ultimi cinquant’anni di storia del nostro pianeta. In questo capitolo ripercorreremo dapprima la storia di questo conflitto per poi concentrarci sulla questione dei banyarwanda e dei banyamulenge, due popolazioni di lingua kinyarwanda che vivono nell’est del Congo e che sono state al centro degli eventi bellici. In seguito analizzeremo più da vicino le retoriche che alimentano l’odio etnico e, a partire dalle osservazioni e dai dati raccolti durante il mio lavoro di campo3, ci soffermeremo sui discorsi anti-tutsi che circolano a livello popolare nelle regioni orientali del Congo. Da un lato vedremo come i vari “imprenditori delle identità” (Banégas 2008, p. 4) – leader politici, signori della guerra, capi miliziani e di ONG, ecc. – fomentano l’odio etnico allo scopo di mobilitare la popolazione ai propri

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fini; dall’altra, però, emergerà che gli stereotipi etnici sono profondamente radicati fra la popolazione poiché forniscono un quadro esplicativo a una guerra estremamente complessa e difficile da decifrare. I due piani, di fatto, sono difficilmente distinguibili: se la manipolazione dell’etnicità in Congo è divenuta uno strumento della politica è anche perché questo tipo di propaganda e di azione trova un ampio riscontro e consenso nelle masse popolari. La prima guerra mondiale africana4 Il genocidio rwandese è l’evento che ha infiammato la regione dei Grandi Laghi. L’aereo del presidente rwandese Juvénal Habyarimana venne abbattuto nei cieli di Kigali il 6 aprile 1994, un atto che segnò l’inizio dei massacri. Da quel giorno, le milizie filo-hutu, gli interahamwe, entrarono in azione e in quattro mesi sterminarono circa 800.000 persone, fra tutsi e hutu moderati. Ma l’assassinio di Habyarimana non fu che il detonatore di una carneficina programmata ormai da tempo5. Sin dai primi anni Novanta, il Fronte Patriottico Rwandese (FPR), il movimento armato che si era organizzato fra i profughi tutsi in Uganda sotto la guida di Paul Kagame e Fred Rwigema, aveva iniziato ad attaccare il Rwanda da nord. La guerra aveva esasperato l’odio nei confronti della minoranza tutsi, sospettata di essere una quinta colonna dell’FPR. D’altra parte l’odio etnico serviva al regime di Kigali per dare sfogo al malcontento popolare in un paese dove le disuguaglianze economiche fra le classi sociali e fra le diverse regioni erano cresciute vertiginosamente. Questa crisi, che ho appena abbozzato, sfociò dunque nel genocidio che ha destabilizzato l’intera regione. Le forze del FPR riuscirono a conquistare il Rwanda nel luglio 1994, mettendo fine ai massacri. Allo stesso tempo, però, più di due milioni di hutu lasciarono il paese per paura di subire la rappresaglia dei guerriglieri tutsi. La maggior parte dei profughi si diresse in Congo, nella regio-

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ne frontaliera del Kivu, e insieme ai civili fuggirono anche le milizie interahamwe, responsabili del genocidio, che trovarono riparo nei campi profughi nei dintorni di Goma e Bukavu, rispettivamente capoluoghi del Nord e del Sud Kivu. Ma l’area in cui giunsero era tutt’altro che pacifica: nella regione, infatti, i conflitti fra popolazioni “autoctone” e gruppi di origine rwandese – un misto di tutsi e hutu denominati banyamulenge e banyarwanda6 – si erano in quegli anni trasformati in guerra aperta, combattuta con mezzi sempre più moderni. L’arrivo dei profughi hutu dal Rwanda non fece altro che inasprire ulteriormente il conflitto. All’interno dei campi rifugiati, allestiti dalle Nazioni Unite e dalle numerose ONG intervenute sul posto, le milizie genocidarie iniziarono a riorganizzarsi e a reclutare nuovi membri. Ben presto riuscirono ad assumere il controllo degli aiuti umanitari e a riarmarsi, grazie anche ai traffici con l’esercito congolese (Human Rights Watch 1995). Dalle loro basi nei campi profughi, le milizie iniziarono a lanciare incursioni all’interno del Rwanda e a perseguitare la popolazione tutsi del Congo. Ma il nuovo governo di Kigali non poteva certo accettare la presenza di un’enclave hutu bellicosa a ridosso del confine: Paul Kagame, divenuto primo ministro, fece più volte richiesta di chiudere i campi profughi, ma di fronte al silenzio delle Nazioni Unite optò per la soluzione militare. Il casus belli non tardò ad arrivare. I rapporti fra rwandophones e autoctoni continuavano a degenerare al punto che, nell’ottobre del 1996, il governatore del Sud Kivu, Lwasi Ngabo, intimò alla popolazione banyamulenge di lasciare il Congo. La reazione fu immediata: i banyamulenge formarono un proprio movimento armato, che sul terreno venne tempestivamente affiancato dai militari rwandesi, e diedero inizio alla ribellione contro l’esercito congolese. Kigali ambiva innanzitutto a rendere sicuri i propri confini e questo obiettivo poteva essere raggiunto attraverso il rimpatrio forzato dei rifugiati hutu. Per contro, questi ultimi erano sotto il giogo delle milizie interahamwe, che si opponevano a ogni tentativo di rientro allo scopo di pre-

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servare lo scudo umano in cui agivano. Nel novembre del 1996 un’importante offensiva dell’esercito rwandese prese di mira il campo di Mugunga, nei pressi di Goma: attraverso una manovra di accerchiamento circa 600.000 profughi hutu furono costretti a fare rientro in patria. Contestualmente a questa azione, venne creato un nuovo movimento ribelle, l’Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo/Zaïre (AFDL), una coalizione di forze voluta e sostenuta da Uganda e Rwanda con l’obiettivo di mettere fine al regime di Mobutu, il dittatore che “regnava” sul Congo dal 1965. Con la creazione dell’AFDL la ribellione in Kivu assumeva un carattere transnazionale e ampliava i suoi obiettivi: bisognava ora conquistare l’intero paese. A capo della coalizione fece la sua comparsa Laurent-Désiré Kabila, un vecchio rivoluzionario che aveva già combattuto in Congo a fianco di Che Guevara all’inizio degli anni Sessanta (Guevara 1999): evidentemente al movimento serviva un leader congolese per non palesare troppo le mire espansionistiche di Kigali e Kampala. Le forze ribelli iniziarono ad avanzare verso la capitale Kinshasa e i rifugiati hutu rimasti in Congo, circa mezzo milione, cominciarono a fuggire verso ovest nel tentativo di raggiungere i paesi confinanti. Le truppe dell’AFDL, composte in buona parte dagli ex-soldati del FPR, approfittarono di questi spostamenti per compiere numerosi massacri in cui morirono più di centomila persone (Kisangani 2000). L’ascesa al potere di Kabila si compiva nel sangue, ma per il momento in molti sembravano disponibili a chiudere un occhio aspettando il suo arrivo a Kinshasa e la fine del regime di Mobutu. Il sottosuolo del Congo faceva gola a molti e ben presto numerosi paesi africani iniziarono a interessarsi alla guerra. La ribellione assunse così un carattere continentale: da un lato Kabila poteva contare sull’appoggio di Uganda, Rwanda, Burundi, Angola, Etiopia, Eritrea, e sul sostegno finanziario dello Zimbabwe; dall’altro il regime di Mobutu era affiancato dai ribelli angolani dell’União Nacional para a Independêcia Total de Angola (UNITA), da numerosi mer-

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cenari, e sul piano internazionale poteva contare sulla “simpatia” della Francia. In questo quadro sembra aver avuto un peso determinante il sostegno fornito dagli Stati Uniti all’AFDL: crollato il regime sovietico, l’Africa centrale diventava così il teatro di una nuova rivalità che vedeva questa volta opporsi gli Stati Uniti alla Francia, i primi decisi ad allargare la propria area d’influenza attraverso il sostegno al Rwanda e all’Uganda, la seconda intenzionata a conservare un po’ della sua grandeur d’oltremare che trovava in Mobutu uno degli ultimi paladini. La bilancia pendeva però dalla parte di Kabila (e quindi degli USA). Le forze ribelli conquistarono dapprima Goma e Bukavu, attestandosi saldamente nelle regioni orientali. Pochi mesi dopo l’AFDL conquistava Kisangani, crocevia del commercio di diamanti, e si apriva la strada verso la capitale. Nel luglio del 1997 le truppe dell’ AFDL occuparono Kinshasa, e Kabila si autoproclamò presidente della Repubblica Democratica del Congo. Ma le speranze in un futuro migliore furono immediatamente deluse. Ben presto Kabila iniziò a osteggiare i suo alleati, Uganda e Rwanda, accusandoli di saccheggiare il paese. Nel luglio del 1998 il neo-presidente intimò a tutti i rwandesi di lasciare il Congo, mossa che fece precipitare nuovamente il paese nella guerra. Pochi giorni dopo, infatti, scoppiò una seconda ribellione nel Kivu, capitanata dal Rassemblement Congolais pour la Démocratie (RCD), un movimento armato sostenuto ancora una volta dai governi rwandese e ugandese che cercavano in questo modo di riposizionarsi sullo scacchiere congolese. In poco tempo i ribelli occuparono l’area di Goma e Bukavu. Allo stesso tempo il Rwanda tentava una manovra militare audace: con un ponte aereo, un corpo armato d’élite, comandato da James Kabarebe, venne trasportato a Kitona, un’ex-base NATO nel Bas Congo, la regione a sud di Kinshasa. Da Kitona, Kabarebe diresse i suoi uomini verso nord e occupò la centrale elettrica di Inga, lasciando al buio la capitale. Kabila fece appello alla mobilitazione generale e a Kinshasa numerosi tutsi (o presunti tali), sospet-

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tati di collaborare con il nemico, furono massacrati dalla popolazione inferocita per via della ripresa delle ostilità. L’intervento dell’esercito angolano bloccò l’avanzata di Kabarebe, e fu così evitata la capitolazione di Kinshasa. Kabila ottenne anche il sostegno di Namibia, Chad, Sudan e Zimbabwe; tuttavia, alla fine di agosto anche Kisangani cadeva in mano ai ribelli. Nel mese di ottobre nella regione dell’Equateur prese piede un nuovo movimento ribelle sostenuto dall’Uganda, il Mouvement de Libération du Congo (MLC), che andava ad allargare ulteriormente il fronte anti-Kabila. Nel maggio 1999 all’interno dell’RCD scoppiò una dura battaglia per la leadership che portò alla scissione del movimento ribelle in due fazioni: da un lato l’RCD-Goma, sostenuto dal Rwanda; dall’altro l’RCD-Kisangani, appoggiato dall’Uganda. I due gruppi non tardarono a scontrarsi. Nel mese di agosto Kisangani divenne teatro di un cruento scontro fra l’esercito ugandese e quello rwandese che affiancavano le due fazioni ribelli: più di seicento civili persero la vita durante il conflitto esploso nella città. I rwandesi prevalsero, e gli ugandesi furono costretti a ritirarsi a nordest nella città di Bunia, capoluogo dell’Ituri7. Dopo anni di guerra, che non videro sostanziali cambiamenti di fronte ma una proliferazione incessante dei movimenti ribelli, dediti al saccheggio e al traffico di minerali e altre risorse naturali, nel 2003 si insediò a Kinshasa un governo di transizione, frutto di lunghe trattative condotte sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il nuovo governo era composto da rappresentanti del governo e dei principali movimenti ribelli e comprendeva un presidente e ben quattro vice-presidenti, ai quali si aggiungeva una pletora di ministri, deputati e senatori. Tuttavia gli scontri nell’est del paese continuarono, talvolta ferocissimi come nell’Ituri. Nel 2006 in Congo si sono tenute le elezioni che hanno visto trionfare Joseph Kabila, divenuto presidente del paese8. Secondo molti osservatori si è trattato di “elezioni democratiche”, che si sono tenute in un clima pacifico. Eppure la guerra non è ancora terminata: nell’autunno del 2008

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una nuova ribellione ha preso piede nel Nord Kivu, con la solita sequela di morti e distruzione. A guidare il movimento era Laurent Nkunda, un generale tutsi membro della comunità banyarwanda, che affermava di combattere per proteggere la popolazione di origine rwandese nell’est del Congo. Ancora una volta è stata giocata la carta etnica in una guerra che sembra non conoscere fine. I banyarwanda Uno dei fattori al centro della guerra congolese è la contesa fra banyarwanda e “autoctoni”9. Cerchiamo quindi di tracciare una breve storia di questa popolazione per fare luce sulla genesi del conflitto che continua a travagliare le regioni orientali del Congo. Banyarwanda significa “originari del Rwanda”; nel Nord Kivu tale termine viene utilizzato per indicare la popolazione di lingua kinyarwanda – un misto di hutu e tutsi – insediatasi a più riprese nella regione. La presenza di questa popolazione è riconducibile ai flussi migratori dal Rwanda verso il Congo, incentivati nel periodo coloniale e proseguiti sino ai giorni nostri (Mathieu, Mafikiri Tsongo 1998). Per sfruttare le regioni orientali del Congo, al tempo scarsamente abitate, il Belgio necessitava di manodopera da impiegare nelle miniere e nelle piantagioni. Per questa ragione nel 1937 l’amministrazione coloniale creò la Mission d’Immigration des Banyarwanda (MIB), un’istituzione adibita a gestire i flussi di migranti dal vicino Rwanda. In breve tempo si creò nel Kivu una comunità di origine rwandese la cui presenza produsse qualche attrito con le comunità locali. Una delle ragioni della contesa era che migranti e autoctoni erano portatori di due concezioni diverse della terra (Laurent 1999, p. 63): da un lato il MIB concedeva degli appezzamenti ai nuovi arrivati che sviluppavano così un’idea privatistica dei loro possedimenti; dall’altro i capi locali, i cosiddetti bami, si vedevano espropriati di una loro prerogativa fondamentale, ovvero la ge-

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stione della terra, che erano soliti concedere alle famiglie in cambio di un affitto pagato in natura (un pollo oppure una capra a seconda della grandezza dell’appezzamento). Gli attriti di epoca coloniale non portarono a conflitti aperti, ma la situazione si aggravò nel periodo post-coloniale durante la dittatura di Mobutu. In particolare nel 1973 il governo di Kinshasa emanò una legge, la famosa Bakajika, che prevedeva la nazionalizzazione del suolo e del sotto-suolo congolese (cfr. Mathieu e A. Mafikiri Tsongo 1998). La terra divenne così proprietà dello Stato, ma paradossalmente questo cambiamento portò a un aumento vertiginoso della disuguaglianza fra le comunità del Nord Kivu: gli appezzamenti, infatti, vennero ridistribuiti secondo linee clientelari e ad approfittarne furono soprattutto gli esponenti vicini al dittatore – uomini d’affari, militari, politici ecc. – che entrarono in possesso di enormi latifondi spesso lasciati incolti. La competizione sulla terra finì ben presto con l’esacerbare il conflitto fra autoctoni e banyarwanda, una rivalità cavalcata dallo stesso regime che faceva leva sulla questione della cittadinanza, divenuta oggetto di un “opportunismo legislativo” (Mugangu 1999, p. 202). Nel 1972, infatti, lo Stato congolese aveva concesso in massa la cittadinanza ai banyarwanda, permettendo l’ascesa politica di alcuni esponenti di spicco della comunità. Ma a partire dagli anni Ottanta l’atteggiamento di Mobutu si era fatto sempre più ostile: di fronte alla profonda crisi politica ed economica del suo regime, il dittatore iniziò a fomentare i contrasti interni alle comunità nella speranza che le divisioni locali finissero con il rafforzare il ruolo dello stato centrale. Alla fine degli anni Ottanta, Mobutu iniziò a proporre apertamente la questione, ponendo una domanda chiara: “Qui est Zaïrois et qui ne l’est pas?”. Di lì a poco, nel 1991, fu revocata la cittadinanza ai banyarwanda, lasciando questa comunità in una posizione di “confusione identitaria” che ben presto sarebbe sfociata nella violenza (Pourtier 1996). All’inizio degli anni Novanta nel Nord Kivu iniziarono a crearsi le prime milizie su base etnica: i capi autoctoni, i

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particolare gli hunde, cominciarono a mobilitare i giovani delle proprie comunità contro la popolazione banyarwanda; quest’ultima, per contro, iniziò a organizzarsi attraverso alcune ONG locali che reclutavano i giovani e davano vita a formazioni per l’auto-difesa. Nel 1993 una decina di banyarwanda vennero massacrati al mercato di Ntoto, nel Masisi (Nord Kivu), un evento che segnò l’inizio degli scontri: si trattava di una guerra fra poveri, frutto della miseria rurale e di un Stato totalmente assente se non nel suo apparto repressivo (Amnesty International 1993). Quando i profughi hutu giunsero nel Kivu dal Rwanda, nell’estate del 1994, si inserirono in un contesto esplosivo; il loro arrivo non fece altro che aggravare la situazione. In breve tempo, come abbiamo detto, all’interno dei campi rifugiati le milizie genocidarie interahamwe si riorganizzarono e strinsero un’alleanza con le milizie autoctone congolesi, che all’epoca si erano date il nome di Mayi-Mayi (Vlassenroot 2002). Si trattava di alleanze fluide, caratterizzate da repentini cambiamenti di fronte, ma che trovavano un coagulante nell’individuazione di un nemico comune: la popolazione tutsi presente fra i banyarwanda. Il vento d’odio che soffiava dall’est trovava nel Congo un terreno fertile e il sentimento anti-tutsi poteva dilagare senza freni. Ma fu sopratutto il nuovo regime di Kigali, guidato da Paul Kagame, ad approfittare della situazione: facendo della difesa dei tutsi la sua bandiera, il governo rwandese aveva, infatti, trovato un modo per legittimare le sue ambizioni egemoniche sull’est del Congo. Come abbiamo visto, l’esercito rwandese penetrò per la prima volta in Congo nel 1996, e in seguito Kigali ha sostenuto gran parte dei movimenti ribelli sorti nel Kivu, in primo luogo il Rassemblement Congolais pour la Démocratie (RCD) nel 1998. Ancora nel 2008 una nuova e sanguinosa ribellione ha preso piede nel Nord Kivu con il beneplacito di Kigali: il movimento ribelle, con il nome di Congrès National pour la Défense du Peuple (CNDP), era comandato da Laurent Nkunda, un tutsi–munyarwanda che dichiarava di lottare per la sopravvivenza del suo popolo (Scott

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2008)10. La volontà di difendere i banyarwanda e i banyamulenge, di cui parleremo, continua quindi a essere una delle giustificazioni utilizzate dal governo rwandese e dai movimenti ribelli a esso legati per legittimare una politica interventista e di guerra continua. D’altra parte tale retorica non manca di agganci nella realtà: nelle foresta congolese, infatti, continuano a trovare riparo le milizie genocidarie interahamwe, che si sono riunite in un nuovo movimento, le Forces Démocratiques de Libération du Rwanda (FDLR), con l’ambizione di riconquistare il Rwanda. Dal canto suo, il governo congolese non ha fatto un granché per risolvere la questione delle FDLR, al contrario le ha sostenute militarmente per contrastare le mire espansionistiche di Kigali. In questo ginepraio i caschi blu delle Nazioni Unite, presenti in modo massiccio nella regione, non sono riusciti a imporre la fine delle ostilità: alla complessa situazione politica si aggiunge la scarsa organizzazione delle forze ONU, indebolite anche da numerosi scandali interni che ne hanno minato la credibilità agli occhi della popolazione congolese. Quest’ultima continua a barcamenarsi fra i villaggi e i campi profughi allestiti dalle ONG in un mare di violenza che ancora non conosce fine. Banyamulenge Spesso le ribellioni nell’est del Congo sono state presentate come “ribellioni dei banyamulenge”. Anche qui, ci troviamo di fronte a un caso in cui è difficile, se non impossibile, scindere la realtà storica dalla manipolazione politica, ed è in questa confusione che i diversi attori in guerra possono facilmente produrre un proprio discorso sulla realtà – potremmo definirlo un “regime di verità” – a giustificazione del loro operato. Banyamulenge significa “originari di Mulenge”, una collina situata a Sud di Uvira nel Sud Kivu. Molto probabilmente questo appellativo ha fatto la sua comparsa verso la metà degli anni Settanta per indicare la popolazione tut-

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si, di lingua kinyarwanda, della regione (Willame 1999). Le ragioni dell’adozione di questo etnonimo sono probabilmente legate alla volontà di questa comunità di affermare la propria autoctonia e smarcarsi dalla beghe che coinvolgevano i banyarwanda nel vicino Nord Kivu. Secondo alcuni storici la migrazione di un gruppo tutsi dal Rwanda al Sud Kivu risalirebbe al diciannovesimo secolo, ma non tutti concordano con questa datazione. Con la ribellione dei Simba del 1964, si parlò per la prima volta dei “rwandesi degli altopiani”, un popolo fino a quel momento ignorato dal governo centrale. Ma a differenza dei banyarwanda, i banyamulenge rimasero piuttosto marginali nella vita politica del paese e solo pochi esponenti di questa comunità riuscirono a introdursi nelle rete clientelare di Mobutu. Gli attriti con le popolazioni del Sud Kivu si presentarono puntualmente a ogni elezione amministrativa locale. Nei primi anni Novanta nella capitale Kinshasa si apriva la Conférence Nationale Souveraine, un’assemblea che aveva l’obiettivo ambizioso di trasformare il Congo in un paese democratico. Ma questo processo, ben presto naufragato, portò a un peggioramento dei rapporti fra le popolazioni autoctone e i rwandesi del Sud Kivu: la posta in gioco era ancora una volta la cittadinanza, ovvero la possibilità di votare e di essere votati. Sempre in quegli anni molti giovani banyamluenge lasciarono gli altipiani del Sud Kivu per recarsi in Uganda e arruolarsi nel Fronte Patriottico Rwandese che si stava organizzando fra i rifugiati tutsi. In quel periodo, però, la posizione della comunità banymulenge divenne ancora più delicata: il regime di Mobutu, infatti, soffiava sugli odi etnici nel tentativo di fare esplodere il conflitto nell’est del paese per cavalcare la crisi e riaffermare il proprio potere. Il genocidio in Rwanda, nel 1994, diede un’accelerata agli eventi. L’arrivo nel Kivu dei rifugiati hutu costituiva un’ulteriore minaccia per i banyamulenge, che si erano ormai organizzati militarmente per rispondere agli attacchi. In effetti, la guerra del 1996 fu dapprima presentata come una ribellione dei banyamulenge, cui si aggiunsero l’inter-

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vento dell’esercito rwandese e successivamente quello dell’AFDL di Kabila. D’altra parte, nell’AFDL vi erano numerosi soldati banyamulenge che dopo aver combattuto nelle file del FPR si ritrovavano ora a combattere in Congo, il loro paese natio. Dal 1996 la comunità banyamulenge, per via della sua delicata posizione, è stata oggetto di continue manipolazioni. La svolta anti-tusi intrapresa da Kabila una volta al potere costrinse molti giovani banyamulenge ad aderire alla ribellione dell’RCD nel 1998. Inoltre, secondo numerose testimonianze Kigali era intenzionata a trasferire buona parte di questa comunità in Rwanda per aumentare il peso demografico dei tutsi (Vlassenroot 2000). Paradossalmente, quindi, se da un lato il governo rwandese si presentava come il paladino dei banyamulenge, giustificando così le sue azioni militari in Congo, non erano certo questi ultimi i maggiori beneficiari di questa politica. Ne è la prova il fatto che in seno ai banyamulenge, nel 2002, prese piede un movimento di ribellione anti-rwandese comandato dal generale Patrick Mazunzu. In definitiva, la questione banyamulenge è “facile da manipolare” e verosimilmente continuerà a esserlo anche nel futuro. L’incitamento degli odi etnici e la sobillazione sono quanto mai agevoli in un contesto dove la violenza si è radicata a ogni livello della società; e la creazione dell’insicurezza, perseguita attraverso l’assenza e la sospensione del diritto, è il meccanismo principale di una politica xenofoba e razzista. Nilotici contro bantu Cerchiamo ora di analizzare le rappresentazioni locali della guerra, così come sono emerse dal mio lavoro sul campo. Per “rappresentazioni locali” intendo i rumuors, ovvero le voci, che circolano a livello popolare intorno alle cause della guerra. Queste voci, che nel linguaggio popolare del Congo vengono definite radio trottoir, la radio del

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marciapiede, circolano in ogni occasione di incontro pubblico, dalle chiese ai bar, e hanno facilmente presa dal momento che le fonti di informazione alternative (stampa, televisione, internet, ecc.) sono rare e difficilmente reperibili, oltre che essere guardate con estrema diffidenza (cfr. Maindo 2001). In linea generale, fra la popolazione dell’est del Congo è radicato il convincimento che la guerra sia un qualcosa proveniente dall’esterno, che il popolo congolese è costretto a subire suo malgrado. Si tratta in sostanza di una guerra voluta da altri per saccheggiare il Congo delle sue enormi risorse preziose (Jackson 2001). I responsabili principali del conflitto sarebbero i tutsi, una popolazione considerata subdola e malvagia, che grazie al sostegno del mondo occidentale, in particolare degli Stati Uniti, sono riusciti a conquistare e a depredare il paese. Questo schema interpretativo, nella sua semplicità, è emerso in ogni intervista che ho fatto in merito alle cause della guerra: i congolesi si auto-rappresentano perlopiù come vittime innocenti di un ampio complotto internazionale che ha fatto dei tutsi il braccio armato dell’Occidente in Africa. La stessa categoria tutsi ha qui un’eccezione piuttosto allargata: vengono compresi, infatti, i tutsi rwandesi, gli hima ugandesi, e gli hema dell’Ituri. Più in generale, quindi, si tratta di un conflitto fra cosiddetti “bantu” e “nilotici” in cui l’Occidente, un po’ per interesse e un po’ perché indotto in errore, interviene a favore di quest’ultimi. Le stesse ONG internazionali, presenti capillarmente in Congo, vengono spesso annoverate fra gli attori del conflitto: la guerra, infatti, gioverebbe loro, dal momento che ricevono un’enorme quantità di denaro per realizzare i loro progetti umanitari e possono altresì partecipare segretamente al saccheggio del risorse. Da questo punto di vista è molto indicativo un documento che mi fu consegnato da un comandante MayiMayi del Nord Kivu durante un soggiorno sul campo nel 2004. Si trattava palesemente di un falso, con numerosi errori di ortografia, che pretendeva di essere la copia di un

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accordo fra il presidente ugandese Yoweri Museveni, il rwandese Paul Kagame, e il comandante del movimento ribelle RCD Bizima Karamuheto. Secondo questo documento, dal titolo Procedure de la guerre de conquete des tutsi ‘bahema’ au Zaire/Congo, i tre leader si sarebbero accordati per regnare sul Kivu e creare l’impero tutsi-hima in Africa Centrale. L’intesa si articolava in trentadue punti, fra i quali spiccavano i seguenti: sterminare gli hutu che vivono in Congo; sterminare i capi tradizionali congolesi; organizzare il saccheggio delle risorse; indebolire demograficamente le popolazioni congolesi attraverso la distruzione del sistema sanitario; perseguitare gli intellettuali congolesi e favorire gli studenti tutsi con borse di studio; occupare tutti i posti politici chiave; imporre la lingua inglese come lingua internazionale. Non bisogna sottovalutare l’importanza che radio trottoir e questo genere di documenti hanno nell’alimentare il clima di odio etnico in Congo. Bisogna quindi riflettere sulle ragioni del loro successo e della loro popolarità. In primo luogo essi forniscono uno schema interpretativo molto semplice a una guerra che è caratterizzata, per contro, da un’estrema complessità. Come molti autori hanno sottolineato, la società congolese ha sperimentato negli ultimi anni una “crisi del senso” (De Boeck 2000): l’accavallarsi senza sosta di eventi drammatici – guerra, malattie e violenze di ogni genere – si traduce nell’impossibilità di conferire un senso alla realtà. Domande semplici – perché tutto questo? Chi sono i responsabili? – non trovano più risposta nel turbinio di eventi atroci che caratterizzano il conflitto congolese. In un contesto del genere, l’odio etnico e il suo corollario di stereotipi riescono a dare un senso a una realtà divenuta incomprensibile. A ciò si aggiunga che queste visioni della guerra non sono totalmente fantasiose, ma trovano un certo riscontro nei fatti: è innegabile, in effetti, che il Rwanda ha intenzione di esercitare un’egemonia politica nell’est del Congo; è altresì innegabile che l’Occidente ha perlomeno tollerato l’operato del regime di Kigali; infine le ONG, così come l’ONU, dopo più di un de-

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cennio di guerra, si sono dimostrate incapaci di affrontare le cause strutturali del conflitto. Tuttavia l’atteggiamento della popolazione congolese nei confronti della guerra è caratterizzato da un’ambiguità di fondo (Maindo 2008); la situazione di violenza non genera solo sofferenza ma anche opportunità a ogni livello della società: a prevalere, alle spese del prossimo, sono sempre i più facinorosi e più scaltri. Se da un lato vi è una condanna generale della guerra, vista come un qualcosa di estraneo e di imposto dal di fuori, dall’altro sono in molti ad approfittare della situazione di caos. Vendette, stupri, ruberie sono all’ordine del giorno e non sono esclusivamente i militari a commettere questi crimini, ma anche semplici cittadini11: si tratta di un opportunismo diffuso, radicato in un certo habitus congolese e che dà vita ad atteggiamenti di sopraffazione diffusi tutti le classi sociali12. Il Congo, in effetti, sembra essere diventato un’enorme “zona grigia” in cui non sempre è facile distinguere il perpetratore dalla vittima. Conclusioni Nei loro lavori sull’etnicità gli antropologi hanno spesso abbracciato una posizione strumentalista, volta cioè a considerare le identità etniche come il prodotto dell’azione di particolari attori politici in competizione per il potere e per le risorse. Inoltre, è anche prevalsa una posizione costruttivista che pone l’accento sul carattere relazionale delle identità etniche le quali, lungi dall’essere un qualcosa di unico e di fisso nel tempo, sono il frutto di connessioni e di particolari rapporti che talvolta possono portare a degli irrigidimenti. Questi due approcci hanno di fatto screditato le teorie primordialiste, di stampo evoluzionista, che consideravano l’etnia come una caratteristica innata, di natura biologica, e per questo durevole nel tempo al di là dei processi storici e politici che coinvolgono le società. Il caso congolese, però, dimostra che la teoria strumentalista non è del tutto sufficiente a inquadrare il fenomeno.

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Se è vero che le identità etniche sono un prodotto di epoca coloniale, che i regimi post-coloniali hanno continuato a sfruttare, bisogna aggiungere che il loro successo e la loro affermazione vanno ricondotte al fatto che le masse africane hanno partecipato con fervore alla produzione di queste identità (Banégas 2008). Non si tratta, quindi, semplicemente di un processo che va dall’alto verso il basso: al contrario, ci troviamo di fronte a un incontro sinergico in cui il potere esercita la propria egemonia non solo attraverso l’imposizione, ma anche attraverso la ricezione di istanze ben radicate a livello popolare. A questo si aggiunge che le identità e gli stereotipi etnici, che si costruiscono attraverso processi di contrapposizione e mistificazione, forniscono una chiave di lettura a delle guerre estremamente intricate: è nell’incomprensibilità e nella crisi del senso che trionfano queste visioni schematiche e semplicistiche, cariche di violenza e di odio, la cui logica di fondo è quella dello sterminio. La guerra in Congo, così come altri conflitti africani, non è certamente una “guerra etnica”: non si tratta di nilotici che tramano e si scontrano contro popolazioni bantu, non sono identità irriducibili e fisse a entrare in conflitto. Ma questa visione è pur sempre un modo per dare senso a una guerra talmente intricata e violenta che agli occhi della maggior parte dei congolesi appare ormai indecifrabile.

1 Sino al 1997 il paese si chiamava Zaire, ma per chiarezza nel testo utilizzerò sempre il nome Congo. Con il termine Kivu, invece, mi riferisco all’area che comprende il Nord Kivu e il Sud Kivu, un tempo una sola regione. 2 Le stime comprendono i “morti diretti”, ovvero quelli causati dagli scontri, e i “morti indiretti”, vale a dire i decessi dovuti alle distruzioni della guerra (crollo del sistema sanitario, malnutrizione ecc.). 3 Ho condotto la ricerca sul campo nell’ambito della Missione etnologica italiana in Africa Equatoriale per molti anni diretta da Francesco Remotti, ora da Cecilia Pennacini. Ho trascorso in Congo più di due anni nell’arco di tempo 2001-2007. Le aree principali della ricerca sono state: la regione dell’Equateur, il Nord Kivu e Bunia (Ituri). 4 L’espressione “prima guerra mondiale africana” venne utilizzata da Madeleine Albright per sottolineare la grandezza e la gravità del conflitto congolese. Per una storia di questa guerra cfr. Prunier 2009 e Turner 2007.

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5 Sul genocidio rwandese la letteratura è vastissima. Mi limito a segnale i lavori di Prunier 1995, Uvin 1998, e Gourevitch 1998. Sulla genesi delle identità etniche cfr. Fusaschi 2000 e Chrétien 1985. 6 I primi sono i discendenti della popolazione tutsi immigrata nel Sud Kivu secoli addietro; i secondi sono una collettività piuttosto eterogenea composta da hutu, tutsi, giunti dal Rwanda in diverse fasi, e dai nativi bwisha. 7 In questa regione l’esercito di Kampala si impelagò nella contesa fra hema e lendu, i due gruppi etnici maggioritari della regione. Il conflitto fra hema e lendu era esploso tempo prima per questioni legate alla distribuzione della terra e si era inasprito nel 1996, quando la caduta del regime di Mobutu aveva lasciato il paese nel caos, senza alcuna istituzione in grado di dirimere le contese. I grandi commercianti hema avevano tratto vantaggio dal disordine generale ed erano riusciti a entrare in possesso di ampi appezzamenti, approfittando della corruttibilità dei funzionari pubblici che in cambio di qualche “mazzetta” fornivano loro i certificati di proprietà terriera. Alcuni gruppi lendu erano stati così espropriati e il malcontento si era rapidamente trasformato in guerra aperta. L’ingerenza dell’Uganda, alla quale seguì anche quella del Rwanda, non fece altro che inasprire il conflitto. In una classica logica del divide et impera, le diverse fazioni in lotta vennero addestrate e armate dai generali ugandesi: la guerra in Ituri si trasformò così in una sequela di massacri e orrori, segnando una delle pagine più sanguinose e drammatiche del conflitto congolese. 8 Joseph Kabila è il figlio di Laurent-Désiré Kabila, ucciso da una sua guardia del corpo nel gennaio 2001. 9 È proprio la distinzione fra autoctoni e alloctoni a essere oggetto di contesa e di continue manipolazioni. Sulla questione dell’autoctonia in Africa cfr. Geschiere 2009. 10 Attualmente Laurent Nkunda si trova agli arresti domiciliari in Rwanda. 11 Cfr. l’introduzione di Fusaschi, infra, pp. 39-54. 12 Jewsiewicki riconduce l’opportunismo diffuso all’“habitus mobutista”, ossia a una serie di disposizioni, incorporate attraverso l’esperienza e plasmate dai decenni della dittatura rapace di Mobutu, che spingono gli individui ad agire sulla base del guadagno personale, della definizione simbolicamente violenta dell’altro e della paura di subire a propria volta questa violenza (Jewsiewicki 1998, p. 632).

Murambi: memoria e prevenzione del genocidio Philibert Gakwenzire

La memoria del genocidio di cui sono state vittime i tutsi del Rwanda nel 1994 può essere ricostruita a partire da fonti diverse: testi, film, opere artistiche e, soprattutto, i luoghi dei massacri. È su questi ultimi che qui ci soffermeremo, affrontando, più in particolare, il caso del Centro di memoria e di prevenzione del genocidio di Murambi, attualmente uno fra i più importanti memoriali del Rwanda (Gakwenzire 2006a, p. 31). La località di Murambi è situata nel distretto di Nyamagabe, territorio anticamente noto con il nome di Ubufundu. Dal 1959, e in particolare fra il 1963 e il 1964, in questa parte del Sud del Rwanda, come ovunque nel resto del paese, contro i rwandesi identificati come tutsi sono stati perpetrati massacri che per veemenza e atrocità sono paragonabili agli atti genocidari del 1994 (Desforges 1999). Il genocidio dei tutsi ha avuto luogo sulla collina di Murambi, il 21 aprile del 1994, quando più di cinquantamila persone, uomini, donne e bambini sono state sterminate. Su questa collina, in realtà, le vittime avevano cercato rifugio negli edifici di una scuola tecnica secondaria ancora in costruzione (African Rights 1994). Le attività memoriali sono iniziate in questo luogo alla fine del genocidio. Il primo atto di memoria è stata quello di fornire una degna sepoltura alle vittime che vi avevano qui trovato la morte. Questa inumazione è stata promossa dall’associazione senza fini di lucro Amagaju, creata da alcuni sopravissuti e dagli ex rifugiati tutsi che erano dovuti partire per l’estero in seguito alle violenze periodiche che ebbero ini-

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zio in Rwanda alla fine degli anni Cinquanta (1959). Fra gli obiettivi di questa associazione vi era quello di interrare decorosamente le vittime del genocidio e di rispettare e preservare la loro memoria. Purtroppo, a un certo punto queste attività non sono potute continuare per mancanza di mezzi finanziari e, così, l’associazione ha sollecitato gli attori politico-amministrativi perché si facessero carico di questo luogo pregno di storia. È bene ricordare che la seconda commemorazione ufficiale del genocidio, organizzata ogni anno il 7 aprile dal Governo nazionale, ha avuto luogo proprio a Murambi. In quella occasione, fu inaugurata altresì un’esposizione permanente di oltre 1860 cadaveri e da allora non sono cessati gli interventi su questo sito emblematico. Attraverso questa progressiva messa in opera, il memoriale di Murambi è divenuto un luogo articolato che si compone di tre parti principali. La prima è costituita dalle tombe, che custodiscono più di trentaquattromila corpi, che qui hanno trovato sistemazione all’interno di sepolture dignitose. La seconda è costituita da un museo nel quale è possibile ripercorrere le tappe del genocidio con didascalie degli eventi in ordine cronologico, accompagnate da fotografie. L’ultima parte è composta di padiglioni-ossari in cui sono esposti alcuni corpi mummificati, ossa, crani e vestiti indossati dalle vittime; questi ultimi, a loro volta, sono appesi su diversi stenditoi. Dal 2004, questo centro memoriale è cogestito dal ministero preposto alla memoria del genocidio e da un’organizzazione britannica chiamata Aegis Trust1. È importante osservare come l’interesse nei confronti del memoriale di Murambi sia cresciuto nel tempo, sia da parte dello Stato rwandese che della società civile. In quest’ultimo caso non si può non tenere presente quanto le tracce del genocidio abbiano lasciato segni profondi nella società civile: i corpi delle vittime portano questi segni come simbolo dei supplizi subiti. Alla luce di ciò proveremo a capire cosa sia un memoriale. E tenteremo di farlo non solo prendendo Murambi come caso esemplare ma anche illustrando le relazioni che

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legano questo particolare centro memoriale ad altre istituzioni, quali il ministero rwandese che si occupa della memoria del genocidio, l’associazione Ibuka2 e gli organismi internazionali che hanno per mandato la prevenzione del genocidio e delle stragi di massa, come anche il rispetto delle vittime. Il filo conduttore di questa riflessione risiede nel principio che “tutte le attività previste in questo centro condividono il duplice obiettivo della memoria e della prevenzione del genocidio”. La prima missione del Centro, dunque, è quella di dedicarsi alla memoria. A questo proposito, quando si vogliono prendere delle decisioni sui programmi che più specificamente riguardano il dovere di memoria, è importante fare attenzione e partire da alcune considerazioni essenziali, che qui elencherò sotto forma di punti: - Il genocidio è agito contro l’umano. Esso è eseguito dagli individui con la condiscendenza del potere. Il genocidio non si improvvisa. Sono necessarie una formazione e un’ideologia dell’odio. Un odio a lungo alimentato prima che possa compiersi. Il genocidio dei tutsi del ’94 è l’esito di un progetto di trentacinque anni. - Nel corso di questo lungo periodo, prima dell’aprile di quell’anno, un’odiosa discriminazione associata a una liquidazione sistematica e progressiva dei tutsi è divenuta politica di governo. L’esaltazione, la distinzione e la gerarchizzazione delle “etnie” sono state gli obiettivi intenzionalmente perseguiti da un potere politico che ha agito considerando una parte della società superiore all’altra. In questo senso è stata condotta un’ampia politica di incitazione all’odio contro i tutsi. Questi ultimi sono stati disumanizzati e si è venuta affermando l’idea che essi fossero molto “malvagi” e costituissero un problema per la società (Ugirashebuja 1996). Per questo motivo i tutsi sono stati considerati una “razza” di secondo ordine e dunque sono stati privati dei loro diritti di cittadini sino a perdere il diritto alla vita, senza che, all’epoca, fosse prevista alcuna persecuzione nei confronti degli autori di crimini contro di essi. In questo scenario, i tutsi sono stati arbitrariamente

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deportati in regioni lontane dal loro luogo di origine. Come nel caso dello spostamento forzato dei tutsi da Gikongoro, Ruhengeri Gisenyi e dalla zona rurale di Kigali verso il Bugesera e il Rukumberi. Queste regioni di confinamento erano famigerate per la presenza della mosca tze-tze, vettrice della malattia del sonno (Fusaschi infra, p. 28). Dopo l’attacco del primo ottobre del 1990, sono state commesse, un po’ ovunque nel paese, delle azioni genocidarie dirette contro la componente tutsi. Ne sono testimonianza i massacri degli abagogwe, quello dei tutsi di Kabirira e del Bugesera, come anche degli hima del Mutara. Questi crimini non sono stati altro che esercitazioni su scala regionale dello sterminio generale e definitivo dei tutsi, previsto in tutto il paese (Ndayambaje 2004); - Condurre un lavoro di memoria porta gli individui a confrontarsi con la “crudeltà” disumana. Su questo cammino la coscienza dell’uomo non può che cercare di conservare la memoria delle vittime. Nel percorrerlo, ci si confronta con le forme atroci di messa a morte immaginate ed eseguite dalla “crudeltà” estrema di altri uomini. Non ci sono altri modi di tenere viva e di onorare la memoria delle vittime se non ricordando che il loro solo crimine è di essere stati ciò che erano per nascita. Avere memoria delle vittime significa restituire valore alla loro esistenza non solamente per loro stesse, ma anche per lo spazio umano o ciò che si considera lo rappresenti. Perché l’uomo comprenda la profondità dell’odio e la sofferenza atroce inflitta alla componente tutsi in Rwanda, devono essere evidenziati gli elementi che indicano come il legame di sangue non abbia avuto la stessa forza di identificazione di quella inscritta sulla carta d’identità. L’atto di memoria deve restituire valore all’uomo ricordandogli le forme che sono state usate per sottrarglielo, benché lo spazio umano sia inviolabile. Nella memoria dell’evento genocidario consumato contro i tutsi, è opportuno mostrare come un rwandese possa essersi spogliato della sua coscienza e della sua identità nazionale per uccidere un altro rwande-

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se in nome di un’appartenenza etnica che gli era stata imposta in precedenza dal colonizzatore. Quest’atto di memoria deve essere fondato su una storia costruita su prove certe, che mostri come un rwandese abbia potuto privare un altro rwandese del suo valore, sulla base di una politica ispirata a un’ideologia coloniale che a sua volta aveva deformato gli elementi incontrovertibili dell’identità del popolo rwandese (Gakwenzire 1999). - La legittimazione di questa identità deformata del popolo rwandese ha costituito la pietra angolare di una politica dell’odio diretta contro i tutsi, nel momento in cui il Rwanda si preparava a recuperare l’indipendenza. Questa politica ha posto al centro della scena tutto ciò che era atto a dividere invece di dare risalto a quei valori che potevano unire gli individui, come la cultura, la lingua, le appartenenze claniche3, le credenze, ecc… (Mugesera 1996). - Il Centro di memoria e di prevenzione del genocidio di Murambi dovrà essere allestito in modo che sia mostrato il processo di preparazione e di attuazione del genocidio, così come gli attori principali dell’ideazione del piano genocidario. Il percorso proposto dal memoriale deve fare in modo che un visitatore non abbia bisogno di una guida che gli spieghi come il genocidio abbia avuto luogo, e che egli, uscendo dal centro, sia sufficientemente persuaso a non prestare più alcun credito alla propaganda dei negazionisti e dei revisionisti. - Ovunque il genocidio si sia verificato, sono stati compiuti degli sforzi per negarlo occultandone le prove. Per perseguire l’obiettivo di riabilitare l’onore delle vittime alle quali i carnefici attribuiscono cinicamente la responsabilità della loro morte, facendo ricadere la colpa del loro massacro sulla presunta natura della loro “etnia”, il centro dovrà mobilitare tutto ciò che può dimostrare la verità e combattere la negazione del genocidio. Esistono documenti scritti nei quali gli autori legittimano ed esaltano la causa del genocidio, ci sono testimonianze degli esecutori di questo crimine, come anche dei sopravvissuti e di altri che, non sentendosi oggi minacciati, manifestano

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l’intenzione di dichiarare la verità sullo svolgimento del genocidio. - Il genocidio dei tutsi è stato commesso in diretta davanti alle telecamere. Alcuni media stranieri hanno seguito il genocidio del Rwanda tanto quanto le elezioni in Sudafrica. Questo materiale consente di provare alcuni degli episodi di cui si compone il genocidio del 1994 in Rwanda (Gakwenzire 2006b). - Commemorare il genocidio significa fare attenzione ai seguenti fattori: la storia delle relazioni sociali, le ragioni del conflitto, la storia, la politica e gli obiettivi del genocidio, il ruolo delle vittime, dei sopravvissuti, dei “giusti” e degli osservatori indifferenti davanti all’esecuzione di un crimine di una crudeltà senza precedenti, come anche quello di chi ha preso parte attivamente al compimento di questo crimine; - In ogni realizzazione ispirata alle linee guida indicate nei punti precedenti, l’equivoco, o ogni altro fatto che può prestarsi a generare confusione, non deve essere permesso. A tal fine tutto ciò che verrà affermato deve essere accompagnato dal maggior numero possibile di riferimenti alle fonti. Nello spazio espositivo, ad esempio, tutto ciò che verrà mostrato sarà corredato, nel modo più accurato possibile, dalle indicazioni del luogo e del momento dei fatti, dalla foto dell’autore e dalla presentazione del documento originale (articolo di giornale, citazione testuale, resoconto e ogni tipo di documento ufficiale). - La memoria del genocidio dei rwandesi tutsi sarà onorata anche attraverso la valorizzazione degli atti di coraggio di chi ha tentato di salvare delle persone minacciate. Rientrano in questa categoria i rwandesi che hanno nascosto i loro vicini minacciati, i militari dell’FPR-Inkotanyi e gli stranieri che sono riusciti a salvare dei tutsi perseguitati. - Il Centro di memoria e di prevenzione del genocidio dovrà ugualmente mostrare come la comunità internazionale abbia abbandonato i rwandesi alla loro sorte, nonostante essa fosse stata testimone dei preparativi del genocidio e avesse vissuto sul posto anche la sua messa in atto

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(Dallaire 2003). In compenso la comunità internazionale, che aveva ignorato gli appelli di chi chiedeva aiuto per arrestare il genocidio, ha prestato con facilità soccorso ai carnefici. Attività I programmi delle attività da prevedersi nel memoriale di Murambi devono essere concepiti come supporti, pedagogici e divulgativi, sufficientemente chiari per il visitatore che in questo modo comprenderà con facilità come il genocidio dei tutsi sia stato preparato ed eseguito, così come le conseguenze che esso ha comportato (Forges 2003). Il memoriale sarà composto di sezioni autonome ma complementari, che rispondano in profondità al bisogno di memoria. Le parti che costituiranno il percorso nello spazio del memoriale avranno per oggetto la storia politica del Rwanda, il progetto e gli atti genocidari secondo il punto di vista delle vittime del genocidio, dei sopravvissuti, dei resistenti (morti e superstiti), così come di chi ha portato soccorso alle persone minacciate (gli hutu, gli stranieri, i militari dell’FPR-Inkotanyi), e dei testimoni passivi o indifferenti degli atti di genocidio (rwandesi e stranieri). La seconda missione principale del Centro di Murambi è la prevenzione del genocidio, che è da considerarsi complementare alla conservazione della memoria (memoria dell’unità secolare dei rwandesi, della storia della segregazione, del modo in cui i cittadini hanno fatto proprie le discriminazioni per farne il fondamento della gestione politica del paese fino ad arrivare allo sterminio ignominioso dei tutsi). Questa sezione riporterà i casi di genocidio che hanno avuto luogo in altre parti del mondo. In essa si esporranno somiglianze e divergenze, come anche le differenti strategie adottate per prevenire il ripetersi del genocidio. Questo centro dovrà essere un pilastro della ricostruzione della famiglia nazionale rwandese, rispettosa dei diritti e delle libertà fondamentali della persona umana, in

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opposizione alla politica dell’esclusione che ha prodotto il genocidio. La prevenzione dovrà essere orientata su tre temi guida: ricostruire la storia dell’introduzione dell’ideologia divisionista nel paese, a partire da quando lo Stato ha iniziato a non considerare la propria popolazione come composta da cittadini uguali fra loro; stabilire delle strategie di denuncia, di lotta e di prevenzione del genocidio; promuovere la giustizia come strumento di prevenzione del genocidio. La prevenzione percorrerà le vie della ricerca, dell’educazione e della denuncia (Gakwenzire 2005). Progettare un programma di ricerca L’unità di ricerca dovrà essere costituita da equipe stabili, che saranno composte da ricercatori specializzati nei differenti domini d’interesse propri del Centro. Nell’ambito della ricerca destinata alla prevenzione del genocidio, il centro avrà cura di raccogliere, organizzare e pubblicare tutti i fatti e i documenti in grado di fare luce sulle fasi di preparazione e di esecuzione del genocidio in Rwanda come altrove, come anche sulle sue conseguenze. Questi documenti possono essere di natura audiovisuale o scritta, e possono altresì essere costituiti tanto da oggetti materiali, quanto dalla ricostruzione di comportamenti. Raccogliere i fatti Esistono oggi molti fatti e testimonianze condannati all’oblio progressivo perché dispersi e conservati in modo inadeguato, o custoditi da individui, famiglie e associazioni, un po’ ovunque all’interno del paese come all’estero. Si dovrebbe avere una strategia formalmente stabilita per recuperarli e riunirli. Vi sono testi scritti di diversa natura relativi alla maniera in cui il genocidio è stato pianificato, impartito, ed eseguito. Ve ne sono degli altri che trattano invece delle sue conseguenze. Alcuni documenti sono già a

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disposizione, in particolare le analisi realizzate da differenti specialisti, come ad esempio i testi dei giornalisti. Si dovrebbe avere una strategia appropriata per repertorializzarli. L’unità di ricerca lavorerà alla raccolta delle testimonianze dei sopravvissuti e di altre persone informate sul genocidio, cominciando dai più anziani, dai malati e dagli invalidi. L’unità farà tutto il possibile per identificarli e localizzarli al fine di raccogliere le loro testimonianze. La giurisdizione gacaca4 costituisce da questo punto di vista una vera e propria miniera d’informazioni sul genocidio, che deve essere esaminata al fine di spiegare il modo in cui il genocidio è stato preparato ed eseguito nelle differenti zone del paese. Il lavoro dell’unità di ricerca consisterà anche nel collezionare, organizzare e archiviare questo insieme d’informazioni come anche tutte le testimonianze provenienti della giurisdizione gacaca, in modo da renderle disponibili e utili per la ricerca e l’educazione. Il Centro di memoria e di prevenzione del genocidio lavorerà in stretta collaborazione con le istituzioni dello Stato che si occupano di seguire il reinserimento sociale dei colpevoli di genocidio. Esso condurrà delle ricerche approfondite sul comportamento di questi ultimi nella società al fine di esaminare in quale misura la loro condotta contribuisca a prevenire il genocidio e ad attenuarne le ripercussioni. Saranno condotte ricerche sulle molteplici implicazioni dei traumi conseguenti al genocidio nel vissuto delle persone, che siano queste sopravvissute o che abbiano partecipato o solo assistito al genocidio. I risultati della ricerca aiuteranno i decisori a prendere misure adeguate nell’assistenza dei bisognosi. Murambi, come centro di memoria e di prevenzione del genocidio, dovrà avere una statura accademica di livello internazionale. Dovrà dunque beneficiare di mezzi materiali e di poteri istituzionali che gli permettano di raccogliere, conservare e utilizzare tutte le informazioni e i documenti raccolti dal TPIR (Tribunale penale internazionale per il Rwanda). Il TPIR avrebbe dovuto concludere i suoi lavori alla fine del 2008. Fra gli imputati figurano in particolare i

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vertici militari, politici e amministrativi responsabili di avere concepito, pianificato ed eseguito il genocidio. Questo tribunale ha potuto raccogliere tutte le informazioni che riguardano il periodo del genocidio, come quello precedente e quello successivo. È venuto, dunque, a conoscenza di documenti autentici che provano l’acquisto delle armi, la loro provenienza e il modo in cui sono state distribuite alla popolazione. Il tribunale ha a sua disposizione i verbali delle riunioni dedicate alla preparazione del genocidio, della corrispondenza delle autorità, delle indicazioni destinate ai vertici militari e alla popolazione, come anche dei documenti che provano la complicità internazionale. Presso il TPIR è reperibile, inoltre, la lista delle persone che hanno creato la milizia Interahamwe5, i documenti che mostrano come quest’ultima fosse addestrata, e come fossero organizzate le manifestazioni pubbliche degli Interahamwe e degli Impuzamugambi6. Il TPIR dispone delle registrazioni delle trasmissioni nelle quali giornalisti e uomini politici propagandavano l’ideologia genocidaria sulle frequenze di Radio-Rwanda e di RTLM, come anche delle comunicazioni telefoniche dell’epoca7. Il TPIR dispone dei documenti di tutti i processi passati ad Arusha in forma scritta, audio e video. La maggior parte di questi è disponibile nelle tre lingue ufficiali del Rwanda. Tutto ciò consente di conoscere bene il modo in cui il genocidio è stato perpetrato ed è nostro patrimonio nazionale. La fruibilità e la conservazione dei dati La documentazione sul genocidio sarà organizzata e conservata attraverso le tecnologie più aggiornate, in modo da renderla disponibile e intelligibile anche per le generazioni future. Il centro deve rendere fruibile in modo sistematico e operativo tutti i dati disponibili sul genocidio. Deve mettere a disposizione cataloghi aggiornati e classificati secondo l’indice dei temi, dei nomi propri, della cronologia, delle regioni ecc., con lo scopo di facilitare l’uso di questi dati.

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Diffusione delle realizzazioni del Centro L’unità di ricerca del Centro dovrà dotarsi degli strumenti necessari a portare le proprie realizzazioni a conoscenza del pubblico rwandese e internazionale: una sala di documentazione e una biblioteca distinta dagli archivi, una sala multimediale dedicata ai genocidi perpetrati in Rwanda e altrove; sono previste anche la pubblicazione di libri, la creazione di un bollettino del centro e una campagna di informazione sugli strumenti internazionali di prevenzione e di repressione del crimine di genocidio, come anche su quelli relativi al contrasto di ogni forma d’esclusione. Il Centro deve dotarsi di un sito web interattivo che permetta uno scambio con l’esterno, e di ogni mezzo di comunicazione possibile grazie alle tecnologie di informazione. Deve in questo senso realizzare trasmissioni radiofoniche e televisive, organizzare e animare conferenze e dibattiti, produrre manifesti, progettare e girare film, allestire esposizioni di foto e di tutti gli altri documenti che possono servire a far conoscere il genocidio e a prevenirlo. Il Centro merita di avere delle proprie equipe di ricercatori specializzati in diverse discipline, incaricati di dirigere la ricerca e di organizzare e tenere corsi su tematiche relative al genocidio. Educazione Il Centro di memoria e di prevenzione del genocidio di Murambi ha la responsabilità di preparare e impartire corsi sul genocidio. In effetti, il miglior modo di prevenire il genocidio consiste nell’insegnarne in modo approfondito la nozione giuridica così come la storia. In particolare, l’insegnamento verterà sul genocidio che si è consumato in Rwanda articolandosi essenzialmente sulla sua storia e tematizzando il modo per prevenire accadimenti simili in futuro. Gli argomenti delle singole lezioni saranno costruiti sulla base di fatti provati.

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La pertinenza della scelta del Centro di Murambi in materia di educazione sul genocidio risiede nella particolarità della sua storia e della sua collocazione geografica. Il centro è situato nell’antica regione del Bufundu, l’epicentro del genocidio dei tutsi, e merita a tale riguardo un’attenzione particolare, soprattutto per quel che riguarda l’insegnamento finalizzato alla memoria e alla prevenzione del genocidio. Questa regione è stata teatro di una storia di continui massacri di tutsi a partire dall’Ognissanti del 1959, passando per il Natale del 1963 e la Pasqua del 1973 sino al 1994. Ancora oggi, si possono trovare sul posto a Murambi gli elementi che possono servire da autentica prova del genocidio; fra questi si possono citare in particolare i resti dei corpi di migliaia di vittime del genocidio del 1994. Durante il genocidio, Murambi è stato il quartier generale dei militari francesi dell’operazione “Turquoise”. Come è tristemente noto e documentato, questo gruppo di militari, che aveva per missione di proteggere i genocidari, ha costruito un campo da basket sulle fosse comuni dove erano interrate le vittime. In tal senso, a Murambi si trovano le prove che mostrano la complicità internazionale nella preparazione e nell’esecuzione del genocidio. Questo sito, su cui era in costruzione una scuola tecnica secondaria e che è stato trasformato in mattatoio umano, servirà da ambiente di apprendimento della gravità del crimine commesso e sarà fermento della volontà di lotta contro il genocidio. Gli edifici che vi si trovano sembrano sufficienti perlomeno per l’avvio delle attività. Ad esempio, gli ex dormitori e le aule scolastiche possono essere trasformate e utilizzate per la nuova missione del Centro. Inoltre, Murambi è a 29 chilometri a ovest del centro urbano di Butare nel Distretto di Huye, dove sono presenti istituti di insegnamento superiore come l’Université nationale du Rwanda, il Gran Seminario di Nyakibanda e altri enti di ricerca come l’IRST (Istituto di ricerca scientifica e tecnologica) e l’ ISAR (Istituto di agronomia del Rwanda). La collina di Murambi sulla quale si situa il

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centro è a un chilometro dall’arteria viaria Butare-Cyangugu. È un luogo pertanto facilmente accessibile. Il Centro si assumerà il compito di preparare moduli e materiali didattici. Nella messa a punto dei moduli, individuerà differenti obiettivi: rendere comprensibili le dinamiche storico-sociali del genocidio; mostrare percorsi di lotta contro la sua ideologia, avendo come destinatari tutti i livelli d’istruzione, tutte le categorie sociali della popolazione; affrontare il genocidio come un crimine contro l’umanità commesso certamente verso le vittime, ma anche verso i carnefici; analizzare la storia delle relazioni sociali fra i gruppi rwandesi, stravolte dalla politica dell’esclusione tanto prima quanto durante e dopo la colonizzazione, fino ad arrivare a comprenderne l’assetto attuale; far comprendere cosa siano il negazionismo e il revisionismo e, se possibile, mostrare i gruppi che ne sono responsabili. Uno dei modi per combattere queste retoriche consiste nel denunciarle come forma di diffusione dell’ideologia del genocidio. Questi corsi saranno un incoraggiamento per i giovani, le generazioni future e tutti quelli che non sono a conoscenza di ciò che è accaduto in Rwanda a intraprendere ricerche sul genocidio al fine di prevenirlo. Conclusione Il Centro di memoria e di prevenzione del genocidio di Murambi deve assumersi la missione di creare una coscienza critica e una capacità di rilevare per tempo tutti i segni che denunciano l’ideologia genocidaria, al fine di essere in grado di prendere misure di prevenzione tempestivamente. La ricerca che vi si compie ha, fra i suoi obiettivi, quello di risvegliare la coscienza dei rwandesi e del mondo intero perché restino vigili contro l’oblio e per la prevenzione. Il Centro deve dotarsi di mezzi efficaci d’informazione al fine di conoscere i contesti a rischio dove l’ideologia genocidaria è in gestazione o dove sono presenti dei segni precurso-

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ri. Coloro che saranno informati saranno in grado di prendere misure preventive in tempo. Al fine di raggiungere questi obiettivi, il Centro organizzerà un’equipe di ricercatori con il compito di rilevare ovunque e in ogni tempo i segni della segregazione, dell’odio, dell’esclusione e del genocidio. L’obiettivo ultimo è, in effetti, quello di fare in modo che un genocidio non si riverifichi né in Rwanda né altrove. Il Centro sarà dotato di dispositivi operativi di lotta contro il negazionismo e il revisionismo in modo che vi siano un servizio e del personale disponibili permanentemente a rintracciare le parole e i testi che diffondono tali idee. Inoltre, lavorerà in stretta collaborazione con le altre istituzioni che hanno la stessa responsabilità, le associazioni e le organizzazione non governative al fine di far conoscere l’orribile natura del crimine di genocidio. Faranno parte di queste organizzazioni i responsabili delle istituzioni religiose, gli attivisti dei diritti umani, le associazioni culturali nazionali e internazionali. Il Centro lavorerà in stretta collaborazione con le associazioni dei sopravvissuti nelle ricerche destinate a riabilitare la dignità delle vittime di genocidio e nella creazione di luoghi di memoria nei siti dove sono stati perpetrati massacri di massa. Allo stesso tempo sosterrà la difesa dei diritti dei sopravvissuti duramente provati dalle conseguenze del genocidio con lo scopo di assisterli adeguatamente. Questo Centro deve avere potere istituzionale d’intervento affiancando le diverse autorità del paese con lo scopo di mobilitare la popolazione e i decisori perché possano sviluppare gli anticorpi necessari a impedire il diffondersi dell’ideologia genocidaria. Infine, il Centro di Murambi dovrà avere come scopo quello di far comprendere ai rwandesi che il dovere di memoria non è riservato ai soli sopravvissuti, ma è una responsabilità di tutti nel processo di ricostruzione dell’unità nazionale. (Traduzione di Silvia Cristofori, revisione di Michela Fusaschi)

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1 Aegis Trust è un’organizzazione non governativa britannica che ha per scopo la prevenzione del genocidio e la preservazione della memoria delle vittime. È la stessa che gestisce il Memoriale di Kigali (Pompeo infra, p. 175). 2 Ibuka, che significa “ ricordati”, è un ente che riunisce le associazioni dei sopravvissuti al genocidio dei tutsi, come anche singoli individui e organizzazioni sociali che si occupano delle conseguenze del genocidio compiuto in Rwanda, della perpetuazione della sua memoria, della promozione della giustizia, della riabilitazione dei sopravvissuti in particolare e della società rwandese in generale. 3 In Rwanda un medesimo clan può comprendere tanto hutu che tutsi e twa. Cfr. a questo proposito l’introduzione di Fusaschi (infra, pp. 19). 4 Gacaca: giurisdizione tradizionale riattualizzata e modernizzata al fine di giudicare i genocidari rei confessi. Tali tribunali sono stati istituiti da una legge del 2001. Il loro obiettivo è di accelerare il percorso della giustizia. I membri della corte sono eletti dalla popolazione dei villaggi. Cfr. l’introduzione di Fusaschi (infra, pp. 18) 5 Interahamwe: milizia del MRND (Movimento repubblicano per la democrazia e lo sviluppo), il partito presidenziale che ha organizzato il genocidio. Negli interahamwe, il reclutamento sulla base dell’adesione all’ideologia genocidaria era la regola. 6 Impuzamugambi: Milizia della CDR (Coalizione democratiche e repubblicana), partito hutu con posizioni assai estremiste. 7 RTLM: Radio televisione delle mille colline, nota con il nome di “radio dell’odio”, a causa del carattere etnista della sua propaganda.

Tradizione e menzogne: il rituale matrimoniale rwandese nel post-genocidio Ilaria Buscaglia

Rituale e cambiamento Le pratiche rituali costituiscono un crogiolo di mezzi espressivi (parole, musica, simboli, oggetti, alimenti), di cui gli individui si servono per dare forma alla realtà circostante e al suo cambiamento. Il risultato è di solito opaco, ambiguo, spesso disorientante e lontano dall’astrazione argomentativa cui siamo abituati nell’espressione verbale, ma è pur sempre un “discorso”: il punto decisivo è riconoscere che modalità di riflessione sugli esseri umani [e quindi sulla storia, sul cambiamento] sono diffuse praticamente in tutte le società, anche se non è detto che tutte si premurino di definire mediante una categoria apposita questo tipo di riflessione e quindi di tenerle distinte e separate da altre (Remotti 2001, p. 17).

L’antropologo è poi chiamato a interpretare questo discorso: ci troviamo, quindi, di fronte a una doppia interpretazione, ovvero a un’interpretazione, quella dell’antropologo, di un’interpretazione, propria di una cultura umana. Volendo andare oltre, la stessa interpretazione fornita da un universo culturale è a sua volta il frutto delle varie interpretazioni elaborate dagli informatori e condivise con l’antropologo, attraverso continui dialoghi, che sono gli spazi intersoggettivi in cui questa “cultura” è di fatto creata (Fabietti 1999, p. 45). Il rituale, quindi, non è solo un “testo”: la celebre metafora geertziana, associando la cultura alla scrittura, può

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forse suggerire un’idea di staticità e fissità, mentre, come scrive Fabietti, “gli slittamenti sono continui e non possono essere colti in un testo scritto” (p. 243). Esso è piuttosto un dialogo, continuamente modificato e reinterpretato; è bene che un antropologo tenga presente questa continua rielaborazione, nella consapevolezza che le società umane e gli individui stessi non restano inerti di fronte al movimento, ma si relazionano sempre con esso, ridefinendosi continuamente. Partendo da questo presupposto, ho cercato di considerare il rituale matrimoniale rwandese come spia del grande sconvolgimento socio-culturale conseguente agli avvenimenti del 1994, facendo riferimento a quelle novità che, più di altre, hanno trovato in esso uno spazio di riflessione, e in particolare: il nuovo status della donna; il rientro di molti rwandesi della diaspora; l’accresciuta percentuale di membri delle Chiese indipendenti di matrice pentecostale; l’elevato numero di orfani e vedove e la conseguente destrutturazione delle famiglie; il problema della riconciliazione hutu-tutsi. Prima di cominciare l’analisi, è opportuno descrivere brevemente come si svolge oggi un matrimonio1, tenendo ben presente due considerazioni: la grandissima importanza che l’unione matrimoniale riveste per i rwandesi e la natura “processuale” del rituale che la suggella. Il matrimonio in Rwanda, infatti, rappresenta tutt’oggi una tappa centrale nella vita di ciascun individuo, come ben riassume l’esclamazione di Yves, universitario di Kigali: Devo sposarmi! Cioè… Voglio sposarmi! Insomma, devo e voglio insieme.

I dati tratti dal censimento dell’agosto 2002 parlano chiaro: il celibato definitivo è sempre molto raro e soltanto il 3,5 per cento degli uomini e il 2,6 per cento delle donne oltre i cinquant’anni non è sposato (Service National de Recensement, 2005).

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Osservare i matrimoni, quindi, significa studiare un aspetto veramente centrale nella società rwandese: proprio per la sua importanza, è lecito pensare che esso costituisca uno spazio privilegiato di interpretazione del cambiamento e di rimodellamento culturale. Non bisogna dimenticare, poi, che siamo molto lontani dalla nostra “concezione istantanea” di rito matrimoniale, secondo la quale basta un momento, quello del “fatidico sì”, per “trasformare” due individui in marito e moglie. In Rwanda, infatti, si tratta di un vero e proprio “processo rituale”, costituito, almeno nel suo modello ideale, da più tappe che è necessario percorrere prima che il legame coniugale sia socialmente riconosciuto a tutti gli effetti. Benché la legge nazionale definisca ufficialmente valido esclusivamente il rito civile e nonostante le varie fasi del rituale abbiano subito una netta contrazione sul piano temporale nel corso degli ultimi quindici anni2, i rwandesi continuano ad attribuire la massima importanza all’insieme di tutte le cerimonie: non a caso, in kinyarwanda si continua a parlare al plurale di imisaango yo gushyingira, cioè, letteralmente, di “rituali matrimoniali”. Gli imisaango oggi Il rituale matrimoniale attuale può essere scomposto in otto tappe principali3: 1. Gufat’irembo 2. Riunioni prematrimoniali 3. Gusaba no gukwa 4. Matrimonio civile 5. Matrimonio religioso 6. Grande réception 7. Gutwikurura 8. Guca mw’irembo La prima tappa, quella del gufat’irembo, letteralmente: “afferrare la porta”, è preceduta attualmente da un periodo più o meno lungo di libera frequentazione fra un ragazzo e

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una ragazza (copinage), di solito tenuta nascosta ad amici e famigliari. In questo periodo, i giovani intraprendono una ricerca di informazioni sul proprio partner con l’aiuto di amici fidati, di fratelli e cugini: si indaga riguardo al passato del/la proprio compagno/a, alla sua provenienza, al livello di ricchezza della famiglia, all’appartenenza “etnica” e a eventuali coinvolgimenti durante la guerra e il genocidio. Il gufat’irembo è la prima visita ufficiale alla famiglia della ragazza da parte di una delegazione della famiglia di lui; durante questo primo incontro, l’umuranga (un intermediario, scelto di solito fra gli zii o gli amici di famiglia) annuncia le intenzioni matrimoniali del ragazzo e si accorda con i genitori di lei relativamente alla data del matrimonio e all’ammontare dell’inkwano, vale a dire della ricchezza della sposa. Il periodo che intercorre fra il gufat’irembo e la domanda ufficiale con consegna pubblica dell’inkwano è occupato dalle cosiddette riunioni prematrimoniali, finalizzate a organizzare il matrimonio fin nel più piccolo dettaglio. I parenti e gli amici del futuro sposo da un lato, quelli della sposa dall’altro si ripartiscono compiti, ruoli e spese, liberando i fidanzati da qualsiasi incombenza. Terminate le riunioni, comincia ora il rituale pubblico, definito “triplo” dai rwandesi stessi. Ci si sposa “tre volte”: la prima volta davanti alle famiglie (mariage coutumier), la seconda davanti alla legge (mariage civil) e la terza davanti a Dio (mariage religieux). Il mariage coutumier consiste nella grande cerimonia del gusaba no gukwa, letteralmente “domandare (la sposa) e consegnare l’inkwano”. Essa si svolge di solito all’esterno della casa della famiglia della ragazza e può essere attualmente suddivisa in tre momenti: i discorsi dei rappresentanti dei lignaggi (a), la consegna pubblica dell’inkwano (b) e l’uscita degli sposi (c). Gli invitati presenti sono divisi in due gruppi che corrispondono ai due lignaggi, spazialmente opposti l’uno di fronte all’altro e rappresentati ciascuno dall’ umukwe mukuru, di solito uno zio anziano o un amico di famiglia con buone capacità dialettiche.

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La prima parte della cerimonia (a) si incentra sugli imisaango, cioè sui discorsi fra i due abakwe bakuru, intrisi di humour e di ironia. Essi suonano più o meno così4: U.M.a5: Siamo venuti fin qui da Gisaka6 per portarvi la birra prodotta con le banane dei nostri bananeti. Vogliamo dividere con voi la nostra úrwa¯gwa [birra di banana]. Il nostro intento è quello di rinnovare le relazioni di sangue che ci legano. Ero già venuto da voi qualche tempo fa, da solo, per chiedere in sposa una delle vostre figlie per conto di un ragazzo della mia famiglia. Ora sono tornato con la famiglia al gran completo per la domanda ufficiale. U.M.b: Vi ringrazio per la vostra visita. Come vedete, qui da noi c’è in corso una festa e voi siete i benvenuti. Però devo dirvi una cosa: non si approfitta di una festa privata per portare avanti simili richieste. Non siamo pronti a consegnarvi nostra figlia. Inoltre, avete parlato di relazioni di sangue: in questo caso sappiate che il matrimonio non è possibile, si tratterebbe di incesto. U.M.a: Mi sono espresso male. Non si tratta di relazioni di sangue, bensì di amicizia. Qualche tempo fa, infatti, le nostre famiglie si sono già scambiate una donna [e indica un’anziana in seconda fila, tra le risate del pubblico. Comincia poi a enumerare e a riferire gli scambi di donne avvenuti fra le due famiglie]. U.M.b: Molto bene, storico! Però adesso siete degli invitati alla festa come tutti gli altri e la birra che ci avete portato non vi consente certo di approfittare della situazione per chiederci la ragazza. Tornate un’altra volta e ne riparliamo. U.M.a: In effetti, quando sono venuto in visita dalla tua famiglia l’ultima volta, non ho parlato direttamente con te, ma con lui [indica un anziano seduto di fianco a U.M.b]. Con lui ci eravamo messi d’accordo che sarei tornato oggi per la ragazza. Anziano b: in effetti è così. Oggi le sedie sono state disposte qui fuori per loro, li aspettavamo come ospiti. Avevo dimenticato di dirtelo.

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U.M.b: in tal caso, va bene. Se è così, siamo d’accordo.

Una volta accordatisi gli abakwe bakuru, è il momento di sentire il parere degli altri familiari della ragazza. Alcuni fra questi si alzano in piedi e raccontano storie di vario genere, che esprimono tutte un’idea di fondo: qualcuno appartenente alla famiglia del ragazzo viene accusato di aver mancato verso una persona della famiglia di lei e, in Rwanda, l’esistenza di un qualsiasi conflitto (di solito un passaggio rifiutato o una presunta mancanza di rispetto), persino inventato ad hoc sul piano rituale, renderebbe impossibile un matrimonio. Gli accusati della famiglia del ragazzo hanno poi la possibilità di spiegarsi e difendersi, riportando la pace e la concordia fra le due famiglie. Segue poi la seconda fase (b), cioè la consegna pubblica dell’inkwano, tradizionalmente costituito da una o più vacche, oggigiorno sostituite sempre più spesso da denaro: in questo secondo caso, però, si preferisce parlare di “vacca in busta” o di “vacca in banca” piuttosto che di soldi, e non si rinuncia a declamare gli amazina y’inka, poemi che celebrano la bellezza della vacca, le sue qualità e il suo valore militare (Vansina 1962, p. 34). Terminata la consegna dell’inkwano, si passa alla presentazione degli sposi (c). Per primo viene chiamato lo sposo che, fino a questo momento, ha assistito alla cerimonia seduto nelle ultime file: si alza in piedi e, accompagnato da un padrino e da due o tre garçons d’honneur, prende posto sotto una tenda predisposta per i fidanzati. Subito dopo esce la sposa, rimasta fino a ora nella sua stanza, con un lungo corteo formato dalla madrina e dalle filles d’honneur. Si siede di fianco al suo fidanzato: segue un brindisi e la consegna dell’anello di fidanzamento. Musica, danze e bevande alcoliche accompagnano la partenza della delegazione del ragazzo: si chiude così il gusaba no gukwa. La fase successiva è il matrimonio civile, che si svolge sul modello europeo, in presenza dell’ufficiale dello stato civile: paradossalmente, pur essendo l’unico rituale ricono-

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sciuto come valido dalla legge, si nota una scarsa partecipazione di familiari o amici. Segue il matrimonio religioso che viene celebrato nel luogo di culto corrispondente alla confessione degli interessati. Si passa poi alla grande réception, una sorta di ricevimento degli ospiti a casa dello sposo (o in una grande sala affittata per l’occasione), in cui avviene simbolicamente la consegna della sposa alla famiglia del ragazzo. In questo caso, gli imisaango sono caratterizzati da un tono di pace e concordia e sono privi di quella sottile ostilità che li aveva caratterizzati durante il gusaba. Gli sposi possono ora trasferirsi insieme nella nuova casa. Il riconoscimento ufficiale della nuova coppia avviene durante la cerimonia post-nuziale del gutwikurura, che si svolge la sera delle nozze o il giorno seguente. Giungono a casa degli sposi le delegazioni delle due famiglie. Il corteo della ragazza arriva carico degli ibirongoranywa, cioè di tutti quei beni alimentari e non, con cui la famiglia della ragazza intende aiutare la giovane coppia: fagioli, farina di sorgo, bevande, piatti, decorazioni per la casa e così via. Mentre nella parcella gli ospiti bevono, ballano e danzano, nella stanza degli sposi si svolge il gutwikurura, letteralmente “togliere il velo”. Gli sposi sono seduti sopra il letto e la ragazza ha la testa coperta da un velo: il marito provvede a toglierlo, poi, con un paio di forbici, le taglia una piccola ciocca dei capelli. Una zia della ragazza, di solito la zia paterna, la maaséenge, dà loro un icyansi7 colmo di latte. Lo sposo e la sposa ne bevono un po’, aiutandosi reciprocamente; danno poi quello che resta a due bambini seduti ai piedi del letto, un maschietto e una femminuccia. Marito e moglie escono, accompagnati dagli anziani. Le famiglie accordano pubblicamente pieno riconoscimento e piena libertà agli sposi: possono uscire, mostrarsi pubblicamente e lavorare. Il rituale vero e proprio può considerarsi concluso qualche giorno dopo, al momento del guca mw’irembo, la prima visita ufficiale alla famiglia di lei da parte dei novelli sposi.

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Vedremo come il rituale appena descritto dia forma alle mutate condizioni socio-culturali elencate alla fine del primo paragrafo, attraverso cambiamenti recentissimi nei ruoli, nei simboli e perfino nel tono dei discorsi in pubblico. La parola alle donne Determinate contingenze storiche hanno reso urgente una rivisitazione del ruolo della donna dopo il 1994. La componente femminile è arrivata a costituire quasi il 70 per cento della popolazione totale nell’immediato dopoguerra (Pottier 2002, p. 190). Nonostante questo, però, le donne rimanevano comunque escluse da alcuni diritti, ad esempio quelli relativi all’eredità8: a loro, così come agli orfani, veniva precluso l’accesso alle terre del lignaggio (Rose 2005, pp. 922- 923). Tali diritti vennero riconosciuti nel 1999, quando la legge N. 2/99 estese il diritto di proprietà alle donne e alle ragazze all’interno della famiglia di nascita: i figli di genitori defunti avrebbero così potuto beneficare di una spartizione equa dell’eredità, senza alcuna discriminazione di genere (ib.). Anche la costituzione del 4 giugno 2003 ha esplicitamente consacrato vari principi di eguaglianza di genere; attualmente, poi, il Rwanda può vantare la percentuale più alta di donne parlamentari nel mondo9. Tali posizioni10 non possono che riflettersi negli imihango: scompare l’opposizione tradizionale fra fase maschile/pubblica e fase femminile/privata del rituale. La seconda si assottiglia sensibilmente e le donne cominciano a ritagliarsi nuovi ruoli con mezzi e in spazi un tempo riservati esclusivamente agli uomini. Tradizionalmente, infatti, esisteva una vera e propria fase “femminile” (i riti post-nuziali) che, prima del 1994, poteva durare diversi giorni (addirittura mesi) e si svolgeva in prevalenza all’interno delle mura domestiche. Vi era un periodo di reclusione della moglie (gutinya), una cerimonia in

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cui la sposa otteneva il permesso di cucinare per suo marito (gutekesha), e il gutwikurura, dopo il quale otteneva il permesso di uscire di casa e mostrarsi pubblicamente. I personaggi più importanti di questa fase erano esclusivamente figure femminili: la sposa, le sorelle dello sposo, la suocera e la madrina. Nel corso degli anni si è verificato un notevole assottigliamento di questa fase del matrimonio: il gutinya è scomparso completamente, il gutekesha è stato “riassunto” nel taglio della torta nuziale da parte degli sposi durante la grande réception, mentre il gutwikurura è attualmente il momento di riconoscimento pubblico della nuova coppia e non solo della sposa come donna-moglie (umugore). Oggi le donne, private della loro scena rituale tradizionale, provano a ritagliarsi un certo spazio all’interno di quella che un tempo era una “fase maschile” (il gusaba e la grande réception), appropriandosi del mezzo verbale, riservato esclusivamente agli uomini fino ad anni molto recenti: i ruoli femminili “escono” al di fuori delle mura domestiche e non sono più “muti”. Mi è capitato di assistere a interventi in pubblico di alcune donne le quali, utilizzando il tono scherzoso proprio degli imisaango, adducevano pretesti di vario genere per cui la famiglia della ragazza non avrebbe dovuto accettare la proposta di matrimonio, come storie d’amore terminate con un tradimento da parte di un membro della famiglia del futuro sposo. Diaspora e “tradizione” All’indomani del genocidio, con l’insediamento del nuovo governo rappresentato, per lo più, dagli uomini del FPR, molti rwandesi tutsi, emigrati nei paesi confinanti e in Occidente (Europa, USA, Canada) durante i regimi precedenti11, hanno fatto ritorno in patria, portando con sé simboli e pratiche gelosamente conservati e coltivati durante gli anni dell’esilio. Per questo motivo, François, rientrato nel 1994 dal Congo, mi dice:

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Molti dei rwandesi che sono rimasti qui in Rwanda ci dicono che abbiamo riportato dei pezzi di cultura e tradizione che non ricordavano più. “Si fa davvero così?” mi chiedono.

Durante i matrimoni dei rwandesi della diaspora è evidente una maggiore ricercatezza del rituale (gli imisaango durano di solito più giorni) e una maggiore ricchezza nella decorazione, ispirata al Rwanda precoloniale. Nulla a che vedere, quindi, con le tendenze moderniste e occidentalizzanti degli anni di Habyarimana. L’élite a maggioranza hutu che governava in quel periodo fondava il proprio potere su un accesso a un sistema simbolico tipicamente “bianco”: i suoi membri adottavano uno stile di vita europeo e praticavano la religione cristiana (Vidal 1991, pp. 28-29). La stretta associazione fra potere politico e modernità aveva reso estremamente accattivante per le masse tutto quanto provenisse da una sfera genericamente “occidentale”: per questo motivo si riteneva, più di quanto non avvenga oggi, che un bel matrimonio dovesse essere caratterizzato da tutto un insieme di elementi europeizzanti, come le bibite in bottiglia e il cibo solido, tradizionalmente assente nelle cerimonie pubbliche rwandesi (de Lame 1996, p. 209). Attualmente, invece, si può parlare di una vera e propria insistenza su simboli e pratiche che possono riferirsi al repertorio monarchico precoloniale: le decorazioni degli ambienti durante il gusaba riprendono gli interni delle capanne regali12, le acconciature degli sposi sono simili a quelle dei sovrani (bami) e dei nobili di alto rango, lo sposo indossa anch’egli l’imikenyero13, prima riservato solo alla sposa, la presenza di troupes di intore14 ci ricollega a un genere di danza guerriera propria dell’epoca, così come l’utilizzo di tutto un insieme di strumenti tipici della musica di corte15. Tutto ciò non risponde esclusivamente al desiderio un po’ ingenuo di conservare una tradizione che rischia di perdersi, ma anche a una precisa volontà ideologico-politica di riabilitare un passato monarchico, non più denigrato dal potere in vigore, come accadeva invece sotto Habyarimana, quando veniva globalmente interpretato come pe-

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riodo di oppressione della minoranza tutsi sulla maggioranza hutu. La versione ufficiale della storia elaborata nel post-genocidio è fortemente decostruzionista e colloca le origini della “questione etnica” in epoca coloniale, mentre il periodo precedente viene presentato come un momento di originaria convivenza pacifica e di unità del popolo rwandese (Pottier 2002, pp. 110-111). Riferirsi a esso attraverso simboli significa alludere a un passato felice, quasi idilliaco, nonché a un momento di straordinaria floridezza musicale e culturale del Rwanda, con il quale si cerca di riallacciare oggi quel legame di continuità sul piano simbolico che era stato rotto all’indomani dell’indipendenza. Lo stesso programma politico di Unità e Riconciliazione viene presentato, nei discorsi ufficiali, non tanto come costruzione di una “rwandesità” ex novo, ma come il recupero di una coscienza nazionale già presente in epoca precoloniale. Il “matrimonio modello” della Kigali del post-genocidio è quindi un rituale denso di richiami simbolici alla tradizione, o meglio, a una reinterpretazione della stessa effettuata dalla nuova classe dirigente, costituita in gran parte dai rwandesi della diaspora rientrati in patria. Gli imisaango sono menzogne! Il terzo grande cambiamento che trova uno spazio di rappresentazione negli imisaango è il recente aumento dei membri delle Chiese indipendenti, in particolar modo dei pentecostali: dal 1994 al 2001 è raddoppiato il numero dei membri dell’ADEPR (Association Des Eglises Pentecôtistes Rwandaises), arrivando a comprendere quasi il 5 per cento della popolazione (Corten 2003, p. 36). I motivi di questo recente successo sono diversi e meriterebbero un’indagine approfondita. Corten interpreta l’“esplosione” del pentecostalismo presentandolo come una dottrina in grado di “dare forma” ai tragici eventi della

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storia recente del paese e collegandolo alla crisi delle istituzioni religiose già presenti sul territorio. L’autore scrive: In Rwanda oggi, la violenza del millenarismo pentecostale traduce anche nell’immaginario collettivo l’incomprensibile e l’impensabile dell’ecatombe del genocidio. Dal 1994, il pentecostalismo si sviluppa in modo molto accelerato. Lo fa in un contesto di crisi di legittimità non solamente delle Chiese cattoliche, episcopali, avventiste e anche pentecostali ( ADEPR) ma, più globalmente, delle istituzioni politiche. Questa crisi di legittimità deve essere analizzata in una prospettiva generale del rapporto fra pentecostalismo e delegittimazione politica in Africa e, più in generale, nel Terzo Mondo. Ma questa prospettiva ha un rilievo tutto particolare nella storia recente del Rwanda (p. 42).

Questa “traduzione dell’impensabile” è possibile grazie alla condivisione dell’idea protestante dell’esistenza di un’omologia male-peccato: la povertà o la malattia (ma potremmo aggiungere anche la guerra e il genocidio) diventano le conseguenze dell’impurità degli uomini, che non rispettano la legge e gli insegnamenti divini (Corten, Mary, a cura, 2000, p. 66). Il 1994 diventa quindi leggibile come il frutto del peccato degli uomini che da troppo tempo si sono allontanati da Cristo. All’indomani del 1994, i rwandesi sono alla ricerca di spiegazioni sicure e di insegnamenti morali che mettano ordine nella vita di tutti i giorni. Questa esigenza, che l’atteggiamento contradditorio e compromissorio del cattolicesimo non sembra accontentare, può essere vista come una comprensibile reazione al disordine e al caos dei terribili mesi del genocidio. A ciò va anche aggiunto un sentimento di sfiducia generalizzato nei confronti della Chiesa cattolica, la quale può contare diversi membri del clero coinvolti nei massacri nonché una mancata presa di posizione chiara e definita sulla tragedia accaduta. Bisogna ricordare, inoltre, che nelle Chiese pentecostali si insiste molto sul carattere prioritario e trasversale dell’“essere mulokole”16 rispetto alle categorie hutu-tutsi17, mentre la reli-

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gione cattolica risulta più restia ad affrontare di petto la problematica “etnica”. Se il cattolicesimo può essere considerato la religione che fino a oggi ha influito più di tutte sul matrimonio (in termini di rituale, di forme possibili e di concezione), attualmente, invece, è la rigida morale delle nuove confessioni di matrice protestante a imporre nuovi mutamenti. La prima novità è il divieto di consumare bevande alcoliche, rispetto al quale i pentecostali sono molto intransigenti. Questa regola diventa problematica in Rwanda, dove la birra (di sorgo, di banana o in bottiglia) accompagna tutte le relazioni sociali: a questo proposito, numerosi sono i conflitti che sorgono tra le varie generazioni durante le riunioni prematrimoniali, quando i più giovani decidono di offrire anche agli ospiti più anziani birra non fermentata o bevande analcoliche di produzione industriale. La seconda questione riguarda l’intrattenimento degli ospiti: durante i matrimoni fra pentecostali, mancano completamente le danze tradizionali che accompagnano di solito il gusaba o la grande réception, così come le soirées danzanti all’occidentale. Sono concessi esclusivamente quei movimenti del corpo che accompagnano una canzone di lode a Dio: al posto delle troupes tradizionali, si preferiscono i cori religiosi. Un altro elemento proprio della dottrina pentecostale è la condanna della falsa testimonianza, nel rispetto letterale dei dieci comandamenti biblici. Gli imisaango, lo spazio per eccellenza della finzione e dello scherzo, vengono interpretati come semplici menzogne e quindi, come tali, diventano contrari alla parola divina. Alla domanda del delegato della famiglia di lui, l’umukwe mukuru pentecostale risponde subito affermativamente: “sì, la ragazza è qui. Come da accordo, la concediamo in sposa al vostro ragazzo”. Questa brevità dei dialoghi fra abakwe bakuru suscita una certa delusione nei più anziani, abituati alla ricchezza e allo humour propri degli imisango tradizionali. Questa “spia” sul piano rituale corrisponde anche a una visione sempre più rigida del legame matrimoniale: del resto, relegare sempre più la forma di tale unione in un ambi-

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to sacro, quindi “separato” dagli uomini, secondo l’etimologia propria del termine 18, significa sottrarla, almeno idealmente, a una revocabilità tipicamente umana19. Gli orfani e la costruzione rituale della famiglia Tra le conseguenze più evidenti del 1994 vi è senz’altro l’altissima percentuale di orfani tra i ragazzi sotto i 18 anni (21 per cento secondo la Demographic and Health Survey20 del 2005), e di donne vedove (15,8 per cento secondo il censimento del 2002). I tragici avvenimenti della guerra e del genocidio hanno portato a cambiamenti profondi per quanto riguarda le strutture familiari. Sono diventate più numerose le donne capofamiglia (famiglie matrifocali), le coppie di coniugi sopravvissuti che si incaricano di badare agli orfani dei propri collaterali e, infine, le famiglie costituite esclusivamente da siblings o cugini, in cui il capofamiglia è di solito un ragazzo adolescente. Non solo la guerra e il genocidio hanno stravolto la situazione familiare: non va dimenticata, infatti, l’alta percentuale di orfani a causa dell’Aids, in un paese dove si calcola che il 3% totale della popolazione dai 15 ai 49 anni è sieropositivo, secondo i risultati della Demographic and Health Survey. Una destrutturazione simile della parentela non può non avere un certo impatto sul matrimonio stesso che, nonostante tutti i cambiamenti, continua a presentarsi come un’alleanza fra lignaggi oltre che come un contratto fra individui. La mancanza di un genitore (o di entrambi) si fa sentire in modo particolare al momento delle riunioni prematrimoniali: una grande famiglia aiuta, in termini economici e organizzativi. Gli orfani, inoltre, riescono a trovare con più difficoltà un compagno, come mostrano le parole di Damien, sposato a una ragazza orfana: Era orfana di madre e di padre [parla della moglie]. Gli altri dicono di non apprezzare delle persone simili, ma io ero atti-

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rato da questo. La compativo. Ci sono persone che hanno bisogno d’affetto. Ma ce ne sono altre che non apprezzano queste persone e dicono che bisogna sposarsi con qualcuno che abbia una grande famiglia.

Che accade, invece, in termini di rituale? Globalmente, non mi è parso di individuare differenze significative, se non il fatto che, in mancanza di parenti collaterali, la scelta dei garçons, delle filles d’honneur, della madrina e del padrino ricade prevalentemente sulla cerchia degli amici intimi. Bisogna partire innanzitutto da un presupposto ben preciso: in ogni matrimonio, tutti i presenti “diventano” membri dei lignaggi coinvolti, quello della sposa o quello dello sposo. La famiglia, in questo senso, è costruita “ritualmente”, in una sua versione alquanto semplificata: l’umukwe mukuru è il rappresentante, una sorta di “padre rituale” o di capo-lignaggio dei presenti21. Questi ultimi sono tutti collocati sullo stesso piano, in un reciproco rapporto di parentela collaterale, forgiato per l’occasione: l’umukwe mukuru si rivolge al pubblico con l’espressione kinyarwanda “abavandimwe bacu”, che indica propriamente i fratelli, le sorelle e i cugini germani nel loro complesso ma che, in questa sede, si riferisce per estensione a tutti gli invitati, senza distinzione alcuna tra amici e membri della famiglia vicini o lontani. Nel rituale si costruisce l’umulyaango: questo termine, che esprime un concetto di lignaggio già di per sé piuttosto flessibile e ampio, include ora anche quelle figure che, al di fuori del contesto rituale, sarebbero “solo” degli amici. In Rwanda, del resto, capita molto spesso di sentire che due amici si chiamano l’un l’altro con il francese “soeur” o “frère”, cioè “fratello” e “sorella”. Nel caso degli orfani, quindi, la situazione non cambia molto sul piano rituale. La famiglia dell’ubukwe (“la festa matrimoniale”) è per tutti i rwandesi estremamente ampia e i genitori non ricoprono affatto un ruolo di primaria importanza in essa, delegando il ruolo di rappresentante all’umukwe mukuru.

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La questione “etnica” Come era lecito aspettarsi, anche il clivage hutu-tutsi ha conosciuto una rielaborazione negli imisaango del post-genocidio. Due sono gli aspetti presi in considerazione a questo proposito: il declino della zappa come inkwano e la scomparsa di qualsivoglia riferimento all’“etnia” degli sposi. Durante gli anni del governo Habyarimana venne redatto l’art. 162 del codice civile nel quale, dopo aver fornito delle indicazioni generali sulla forma del gusaba no gukwa, si invitava il delegato del futuro sposo a consegnare alla famiglia della sposa una zappa (isuka), come simbolo dell’impegno reciprocamente preso. Negli stessi anni, inoltre, fu avanzata anche la proposta ufficiale, rimasta completamente inascoltata, di sostituire con tre zappe la vacca dell’inkwano (de Lame 1996, p. 236). Questa insistenza si caricava in quegli anni di forti significati simbolici: alla vacca, simbolo dei pastori tutsi e della loro monarchia ritenuta oppressiva, si voleva sostituire l’attrezzo agricolo per eccellenza, la zappa, emblema dei contadini hutu. L’opposizione fra simboli inerenti alla pastorizia e altri legati all’agricoltura era evidente già negli anni dopo la Rivoluzione, quando la birra tradizionale di sorgo (ikigage) venne ribattezzata amata y’isuka, letteralmente “il latte della zappa”, definizione che intendeva attribuire al sorgo la stessa nobiltà del latte di vacca (p. 207). Durante gli anni del suo governo, Habyarimana promosse una vera e propria politica economica basata sulla produzione agricola, accompagnata da un’“ideologia dell’orgoglio contadino”, tanto che il 1974 venne dichiarato anno nazionale dell’agricoltura e dei lavori manuali (Verwimp 2005, p. 1). In un libello divulgativo, apparso in occasione del venticinquesimo anniversario della Repubblica, gli stessi eventi del 1959 vennero descritti come una “rivoluzione contadina” durante la quale “il potere della vacca fu sostituito dal potere della zappa” (p. 23). Il fatto che la zappa stia oggi scomparendo nei rituali matrimoniali della capitale può essere ragionevolmente at-

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tribuito a una volontà di opposizione simbolica ai precedenti regimi, che della zappa avevano fatto, almeno idealmente, uno dei simboli più rappresentativi del potere hutu. Per quanto riguarda il secondo aspetto, invece, bisogna ricordare che, prima dell’inizio della guerra (1990), secondo i miei intervistati, capitava che negli imisaango trovassero spazio battute o scherzi sull’appartenenza “etnica”. Nel caso di matrimoni fra hutu e tutsi, ad esempio, l’umukwe mukuru della sposa poteva fingere di rifiutare la ragazza a una famiglia di “etnia” diversa. Il tutto, chiaramente, nel clima scherzoso e finzionale proprio di questa fase del rituale. Oggigiorno, unioni tra hutu e tutsi sembrano essere più rare che in passato22. Secondo alcuni non è solamente il matrimonio a livello ufficiale a diventare quasi impossibile, ma qualsiasi tipo di sentimento amoroso. Christine, studentessa di Butare, rimasta orfana a causa del genocidio, dice lapidaria: ad ogni modo, non potrei mai innamorarmi di un hutu.

Una riflessione a riguardo è anche formulata da Généreuse, ventotto anni, hutu, che ha perso la famiglia durante la fuga verso il Congo nel 1995: Molti ragazzi pensano che io sia tutsi perché sono alta. Vengono da me, mi chiedono di uscire e poi mi mostrano le ferite da machete degli interhamwe. Io non li richiamo più.

Ciò che emerge da queste parole non è tanto un sentimento di appartenenza a un’“etnia” in quanto tale, ma un’identità formulata a partire dalla memoria del genocidio e dell’esilio. Altri, e direi la maggior parte fra i miei interlocutori, si dichiarano possibilisti riguardo all’eventualità di innamorarsi di un ragazzo o una ragazza di “etnia” diversa, mentre ritengono difficile che tale sentimento si possa concretizzare in un’unione matrimoniale. Il problema che sorge a questo proposito è proprio l’importanza che i lignaggi continuano

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a rivestire nel matrimonio dei figli: se i ragazzi scelgono più liberamente il proprio partner, i genitori e i familiari, tuttavia, possono esprimere ancora un veto. I motivi possono variare (ricchezza o livello di istruzione del partner del figlio/a); fra questi, però, troviamo in prima linea proprio la “questione etnica”. In alcuni casi, non si tratta di un rifiuto basato esclusivamente su una mentalità razzista o su una volontà di non “mescolare” il sangue, ma sul timore che il partner della figlia possa aver partecipato direttamente ai massacri o appartenere a una famiglia di génocidaires. Queste resistenze mostrano chiaramente come le categorie “hutu” e “tutsi”, benché decostruite e bandite dal linguaggio ufficiale, siano ancora operative nel Rwanda di oggi. I matrimoni “misti” sono senz’altro l’indicatore principale del “livello di decostruzione effettiva raggiunto”: percentuali crescenti di unioni di questo genere dimostrerebbero una diminuzione della pregnanza di tali fattori identitari. Sposarsi senza l’appoggio familiare è comunque possibile per la legge rwandese, anche se questo vorrebbe dire tagliar via la fase del mariage coutumier, che inscena l’alleanza fra due lignaggi. La legislazione, quindi, costituirebbe un mezzo importante per le coppie che decidano di sposarsi nonostante le opposizioni esterne ed è auspicabile che sempre più spesso i giovani vi facciano ricorso.

1 Le osservazioni qui proposte si basano su una ricerca da me condotta a Kigali fra novembre del 2007 e il febbraio 2008. 2 A Kigali i matrimoni sono diventati un tour de force: tutte le varie cerimonie, che un tempo richiedevano giorni o mesi, vengono spesso concentrate in un’unica giornata. 3 I rwandesi ritengono auspicabile che si possano svolgere tutti i passaggi indicati. Capita spesso, però, che questo non sia possibile, come nel caso, ad esempio, della regolarizzazione successiva di un’unione libera. L’assenza di uno di essi, però, è di solito percepita con disagio tanto dagli sposi quanto dagli osservatori esterni e ci si sente in dovere di fornire una spiegazione a questa mancanza: povertà, disapprovazione del proprio partner da parte della famiglia o fedi diverse dei due fidanzati. 4 Si tratta della ricostruzione dei dialoghi avvenuti durante uno dei matrimoni a cui ho assistito nel gennaio 2008.

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5 L’abbreviazione U.M.a indica il rappresentante del lignaggio dello sposo, U.M.b quello della sposa. 6 Si tratta della zona di Kibungo nell’Est del paese. 7 È il contenitore tradizionale del latte, di solito in legno. 8 Cfr. l’introduzione di Fusaschi (infra, pp. 39). 9 Il 56 per cento all’indomani delle elezioni del settembre 2008. 10 Senz’altro esiste ancora un décalage fra discorso ufficiale da un lato, e la società civile dall’altro, soprattutto in ambito rurale, dove un’inchiesta realizzata nel 2005 mostra l’esistenza di una grande disparità tra uomini e donne a livello di potere decisionale nella gestione delle risorse famigliari (Twese hamwe-Pro femmes 2005, pp. 48-59). 11 Sono detti “i rwandesi della diaspora”. 12 Alcune ricostruzioni sono visibili al Musée National du Rwanda di Butare. 13 Abito tipico delle cerimonie rwandesi, formato da un drappo di stoffa legato in vita e da un altro annodato sopra una spalla. 14 Questo tipo di danza faceva parte originariamente della formazione prevista nell’itorero, una scuola di preparazione militare, frequentata dai giovani reclutati fra le famiglie tutsi di alto rango durante il periodo monarchico. Venivano preparati alle armi, alla musica, alla danza e all’eloquenza (Nkulikiyinka 2002, pp. 170- 171). 15 Nelle grandi réception dei matrimoni di Kigali è possibile anche assistere a esibizioni con strumenti tradizionali, come l’amakondera, un ensemble musicale composto da diverse trombe di forme differenti e due o tre tamburi, che venivano suonati alla corte del mwami (Gansemans 1988, pp. 110-116). 16 Letteralmente “salvato”, indica in generale i membri delle Chiese pentecostali. 17 Uno dei miei informatori pentecostali mi raccontò che nella sua Chiesa sono molti i pastori che si pronunciano a favore dei matrimoni “misti”. 18 Il latino sacer indicava originariamente lo spazio rituale destinato al divino, completamente separato da quello umano. 19 La proporzione dei divorziati/separati, già bassa nel 1978 (1,5 per cento), è ulteriormente diminuita nel corso degli anni, arrivando allo 0,7 per cento per gli uomini e 2,2 per cento per le donne nel 2002. Anche il numero di poligami è in netta diminuzione: nel 1978 il 12,5 per cento degli uomini in unione aveva più di una moglie, mentre nel 2002 solo il 4,5 per cento. 20 Sito web: www.measuredhs.com. 21 Tradizionalmente, i genitori non erano mai presenti sulla scena rituale (Kagame 1954, p. 126). Ancora oggi essi tendono a rimanere in disparte, non prendendo mai la parola in pubblico. 22 Questa osservazione deriva dalle impressioni raccolte sul campo, ma non esistono dati quantitativi a riguardo.

A Kigali e momentaneamente in Belgio. «Dialogue»: fra nuova identità nazionale ed etnismo negazionista Silvia Cristofori

«Dialogue», una rivista contesa “Quale «Dialogue»?”, questa è la domanda che in più di un’occasione mi è stata rivolta nel corso di questa ricerca1, quando parlando con alcuni intellettuali rwandesi il riferimento è andato a uno o più articoli recentemente pubblicati sulla rivista che porta questo nome. La questione posta con tale interrogativo non rivela però una sorta di oblio o di damnatio memoriae che avrebbe colpito quella che è stata storicamente una delle riviste più prestigiose e longeve del panorama editoriale rwandese: fondata a Kigali nel 1967, essa ha costituito difatti, insieme al quotidiano «Kinyamateka»2, l’organo di quella stampa cattolica non controllata, almeno non direttamente, dal regime politico che a partire dal ’59 ha progressivamente messo in scena il genocidio del ’943. In realtà, con tale domanda, mi veniva richiesta una maggiore precisione di riferimenti dato che nelle librerie rwandesi sono attualmente disponibili ben due riviste dal nome «Dialogue. Revue d’information et de réflexion». A complicare ulteriormente quello che solo in apparenza sembra un bizzarro caso di omonimia editoriale vi sono la veste grafica e le voci delle rubriche in tutto identiche nei due periodici, mentre il frontespizio di entrambe recita in lingua francese che la rivista ha come scopo quello di affrontare i “problemi sociali, economici, politici, culturali, religiosi, e non solo, che interessano soprattutto il Rwanda”.

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SILVIA CRISTOFORI

A uno sguardo più attento è tuttavia possibile scorgere sin dalla copertina come si tratti di due false gemelle: a segnalarlo è difatti il sottotitolo “momentaneamente in Belgio” che contraddistingue una delle due riviste, cui l’altra risponde con la puntualizzazione polemica “pubblicata dall’ASBL Dialogue a Kigali”. La redazione di Kigali (DK)4 e quella di Bruxelles (DB), l’una contro l’altra, rivendicano dalle proprie colonne di essere la “vera” «Dialogue», in quanto legittime eredi del patrimonio simbolico dell’originaria rivista (DS). Si tratta di una questione minore d’identità che però, se si analizzano i termini in cui questa contesa d’eredità viene posta, si mostra profondamente connessa con le ben più drammatiche tensioni identitarie che pervadono lo spazio sociale rwandese nel post-genocidio. In questo senso l’analisi degli articoli, e in particolare di alcuni passi scelti, vuole qui essere il tentativo, attraverso il riferimento alla letteratura storico-antropologica sul Rwanda, di individuare, senza pretesa di esaustività, taluni elementi della posta in gioco culturale dello scenario inedito inaugurato dal genocidio. In effetti, come si vedrà, è possibile attraverso l’analisi dei rimandi, espliciti o meno, ad altri testi riscontrare come gli autori padroneggino e s’inseriscano, in maniera spesso divergente, in un dibattito internazionale sulla storiografia rwandese e sul concetto giuridico di genocidio. Ed è proprio a partire dalle divergenti interpretazioni del ’94 che le due versioni della rivista «Dialogue» si contrappongono mostrandosi inconciliabili. Difatti, a quattro mesi dalla fine del genocidio, compare in Belgio un nuovo fascicolo di «Dialogue» (DB), il primo stampato fuori dal Rwanda: è il numero 175, e, nonostante si sia in novembre, in copertina è riportata la datazione di aprilemaggio 1994, vale a dire i primi e più feroci mesi delle stragi genocidarie. A tiepido commento dell’immensa catastrofe rwandese è dedicato il capoverso iniziale dell’editoriale firmato dalla redazione, che nelle prime righe spiega come:

A KIGALI E MOMENTANEAMENTE IN BELGIO

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Questo numero di DIALOGUE sarebbe dovuto apparire, a Kigali, nel mese di aprile del ’94. Non è stato possibile fare ciò per le ragioni che sono note (Editorial 1994a, p. 1).

Tali ragioni risiedono in quelli che vengono definiti poco oltre i più “grandi massacri della storia del Rwanda” (ib.), che sono seguiti all’abbattimento del 6 aprile dell’aereo che trasportava il presidente rwandese Juvenal Habyarimana, rimasto ucciso nell’attentato. La scelta editoriale è dunque quella non solo di non dedicare il numero al genocidio, ma anche, almeno in questo primo momento, di non nominarlo: definire ciò che è avvenuto a partire dall’aprile del ’94 come “i più grandi massacri della storia del Rwanda” significa difatti inserire queste stragi all’interno di uno scenario di guerra, ben diverso da quello aperto dal genocidio, lasciando nell’ambiguità la distinzione fra vittime e carnefici, visto che non risulta in questi termini chiaramente individuabile chi abbia perpetrato e chi subito tali massacri. Questo primo diniego della frattura storica introdotta dal genocidio è rintracciabile nella connessione con un “prima” del genocidio, operata tanto attraverso una datazione che si sovrappone, come abbiamo visto, ai mesi iniziali delle stragi, quanto nella scelta di dedicare il numero alla pubblicazione degli atti di un seminario tenuto a Kigali nel mese di marzo sul tema del “ruolo della stampa nel processo di democratizzazione” (ib.). A quest’operazione di diniego che, come vedremo, si articolerà in maniera complessa all’interno di alcuni articoli comparsi sulla “versione belga” di «Dialogue» ( DB) nel corso di questi ultimi quattordici anni, risponde la comparsa della “versione rwandese” (DK). Nel 2004, nell’anno del decennale del genocidio, la pubblicazione della rivista riprende infatti a Kigali con un numero, significativamente datato aprile-giugno, dedicato al Genocidio dei tutsi del Rwanda: dieci anni dopo. Con questo titolo la redazione intende contrapporre un’individuazione chiara delle vittime del genocidio (DK), al-

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l’intenzionale ambiguità contenuta a tale proposito in alcuni articoli pubblicati sulle pagine della sua “falsa gemella” (DB). Così denuncia la redazione di Kigali nelle pagine di apertura: Vi sono anche degli articoli che ci provocano decisamente vergogna: quelli che racchiudono una dose di revisionismo e di negazionismo. Per noi la rivista ‘DIALOGUE’, per quello che attualmente è, in Belgio, è diventata la via dell’onta (Editorial 2004a, p. 1).

Oltre a denunciare la “via dell’onta” perseguita dalla «Dialogue» belga, l’atto rifondativo intende anche porre fine a quella che viene percepita come una sorta di espropriazione: secondo l’editoriale, dal titolo DIALOGUE. Ricomincia, infine! (DK), lo spostamento della rivista a Bruxelles assume i contorni di un’appropriazione indebita di un bene che, per la sua stessa storia, “è diritto rwandese”(ib.). Questa rivendicazione appare non scontata se si considera che per alcuni5 denunciare il negazionismo della rivista belga (DB), corrisponde a mettere sotto accusa le posizioni oggi prevalenti nell’ordine missionario dei Padri Bianchi rispetto al genocidio, come anche assumere in una prospettiva quanto meno critica il decisivo ruolo svolto da questi ultimi nella storia rwandese, anche attraverso l’influenza esercitata, sin dalla sua fondazione, sulla rivista «Dialogue» (DS). In effetti lo storico Chrétien non esita ha definire il periodico (DS) come “l’organo dei Padri Bianchi” detentore quasi esclusivo sino al ’94 del monopolio del “mercato [editoriale] delle idee”, la cui effettiva libertà d’espressione risultava essere assai limitata se non illusoria (Chrétien 1995b, p. 20), visto che la rivista “si è distinta con perseveranza nell’arte di combinare un certo liberalismo di pensiero con un rispetto accordato ai poteri che si sono avvicendati”; mantenendo cioè verso questi ultimi un atteggiamento di critica “‘costruttiva’, limitata a considerazioni tecniche, sociali, educative e morali” (1997b? pp. 240-241). In effetti, storicamente il ruolo di «Dialogue» (DS) è stato quello di rispondere alla necessità di riaffermare un’ege-

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monia cattolica sull’élite, nello scenario profondamente mutato dagli sconvolgimenti socio-politici seguiti alla decolonizzazione. In questa sua funzione, i fascicoli usciti fra il 1967 e il 1994 costituiscono attualmente una fonte preziosa per ricostruire il trentennio che precede il genocidio, e poter così riannodare quei profondi legami che uniscono la storia nazionale post-coloniale e quella della Chiesa cattolica rwandese. Sullo sfondo di quel processo che vede, a partire dagli anni Sessanta, da un lato un ampliamento e una diversificazione dell’apostolato cattolico e dall’altro il formarsi di una “Chiesa divisa” nella radicale spaccatura fra clero tutsi e clero hutu (Linden 1999), «Dialogue» ( DS) rappresenta uno straordinario archivio che documenta l’ambiguità dell’istituzione ecclesiastica nei confronti del potere statuale, che metteva progressivamente in scena i dispositivi ideologici del genocidio. Con l’intenzione di fornire uno strumento di animazione del clero autoctono, la fondazione della rivista nel 1967 rientrava a pieno nello spirito di rinnovamento espresso dall’enciclica Fidei donum6 e dal Concilio Vaticano II. La nuova teologia missionaria, di sostegno alla Chiesa locale e al protagonismo del clero indigeno, si tradusse in un radicale cambiamento della strategia delle Missione all’interno del conflitto di potere fra élite tutsi ed élite hutu, che caratterizzava in quel momento il campo etnopolitico rwandese. Negli anni della decolonizzazione, come osserva in più occasioni Vidal (1985, 1991), la società rwandese appare in effetti ossessionata dalla rivalità fra hutu e tutsi appartenenti a quella minoranza istruita che si distingue, o ambisce a distinguersi, dalla maggioranza rurale del paese, attraverso l’accesso alle attività professionali. Si tratta di una fascia minoritaria della popolazione che, attraverso l’istruzione, di qualsiasi livello, ha incorporato un capitale culturale specifico che viene agito in un comportamento che denota l’appartenenza al contesto sociale “europeizzato”. Gli attori, tanto tutsi che hutu, di questo medesimo capitale e di queste aspirazioni sociali costituiscono una vera e propria

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entità sociologica che Vidal ha denominato provocatoriamente “quarta etnia”, evidenziando così quanto la frontiera di questo gruppo fosse rigidamente tracciata (ib.). Ed è proprio all’interno di questo contesto sociale omogeneo che innanzitutto si esprime, a riprova della sua “dimensione culturale”, il conflitto etnopolitico fra hutu e tutsi: “la belligeranza più determinata, più violenta, si trova nel settore più istruito della popolazione, il più adatto a far valere la propria conoscenza per l’ottenimento dei beni e delle posizioni ‘moderne’” (Vidal 1991, p. 75). In questo scenario conflittuale, una nuova generazione di missionari, proveniente dall’esperienza della contemporanea lotta di classe europea, trova una profonda corrispondenza fra i propri ideali progressisti, legati al cristianesimo sociale, e le rivendicazioni espresse da quegli esponenti della giovane élite hutu, che, perlopiù cresciuti nei seminari, si autoproclamavano i rappresentanti “evoluti” (evolués) della società contadina rwandese. Se il mondo rurale veniva difatti in questo discorso rappresentato come omogeneamente hutu, era in nome di questa massa contadina oppressa che gli hutu istruiti reclamavano – per sé – la possibilità di mobilità sociale e l’accesso al potere politico. Come portatrice di questa rappresentazione della società, quest’élite non faceva che rielaborare, senza alcuna prospettiva critica, il discorso razziologico coloniale. L’ideologia coloniale aveva infatti visto nei tutsi una minoranza conquistatrice per sua “natura” votata al comando, e negli hutu una popolazione autoctona, appartenente a una “razza” inferiore e dunque per destino condannata a essere dominata. La nuova rappresentazione sociale “pro-hutu” non faceva che rovesciare l’iconografia dell’etnologia coloniale: ora si trattava di riconoscere nella popolazione hutu l’autentica nazione rwandese oppressa dalla tirannia di una minoranza tutsi, straniera e razzialmente diversa. La frazione hutu della “quarta etnia” compiva così un’operazione, che rimaneva all’interno del quadro manicheo del periodo coloniale, di invenzione di una “storia- risentimento” (Vi-

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dal 1991, p. 26, Fusaschi 2000), ponendo così le basi ideologiche dell’agire genocidario. «Dialogue» a Kigali: l’enunciazione di una nuova unità dei banyarwanda7 Il “ritorno a Kigali” di «Dialogue» nel 2004 si configura, nell’intento del nuovo gruppo redazionale, come una restituzione dovuta al pubblico rwandese del diritto di pubblicare e di leggere la storica rivista, che, “creata per essere al servizio innanzitutto di un pubblico intellettuale rwandese, non può che realizzare la sua ragion d’essere in Rwanda per i rwandesi” (Editorial 2004a, p. 2). Tenendo presente l’atteggiamento ambiguo della vecchia rivista dei missionari Padri Bianchi nei confronti del regime genocidario, quest’affermazione può apparire per certi aspetti paradossale se si considera come essa maturi all’interno di un gruppo redazionale che non solo denuncia il negazionismo quale “via dell’onta”, ma che, composto nella sua maggioranza da docenti dell’Université nationale du Rwanda, non rientra nella sfera di influenza della Missione. Lo scioglimento di questa apparente contraddizione può essere rintracciato nel ruolo determinante svolto durante il processo di decolonizzazione dallo “spazio simbolico delle élite” (Vidal 1991) nella fabbricazione di un’identità nazionale hutu. In questa luce risulta forse maggiormente comprensibile la rivendicazione di un “rientro in patria”, in un contesto post-genocidario attraversato da profonde tensioni identitarie, di una rivista come «Dialogue» (DS) che ha avuto come sua ragion d’essere proprio quella di costituire uno strumento di formazione per gli intellettuali rwandesi. Si tratta, ancora un volta, di formare un’élite perché possa prendere corpo un nuovo nazionalismo. A conferma di questa ipotesi è possibile osservare, già solo scorrendo l’indice del primo fascicolo, come la riaffermazione della profondità e del radicamento storico nel

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periodo precoloniale di un nazionalismo rwandese non su base etnica sia uno dei temi cardine intorno a cui si articola la nuova linea editoriale. A tale riguardo, è necessario fare riferimento a un quadro più ampio in cui questa operazione non risulta un esperimento isolato alla sola rivista qui oggetto d’analisi: altri esempi sono, solo per citarne alcuni, il seminario sulla storia rwandese tenuto già nel dicembre del 1998 presso l’Université nationale du Rwanda, i cui interventi sono raccolti nel volume dal titolo significativo di Le sfide della storiografia rwandese. I fatti controversi (Byanafashe, a cura, 2004); oppure il ciclo di convegni, tenuto nella medesima sede nel 2003 di cui si dà conto nella curatela Rwanda. Identità e cittadinanza (Rutembesa, Semujanga, Shyaka, a cura, 2003), che, vede fra gli autori, come già nel libro del 2004, anche alcuni redattori di «Dialogue» (DK). È dunque proprio nell’intento della redazione di Kigali di dare continuità al ruolo svolto dalla rivista nella formazione degli intellettuali che emergono le principali linee di frattura con la vecchia edizione. Questo non solo perché la ricostruzione di un nuovo nazionalismo si deve necessariamente basare su un’operazione storiografica e sulla mobilitazione di un immaginario radicalmente diverse da quelle dell’ideologia etnista proprie dell’ex-regime genocidario, ma anche perché il “ritorno” di Dialogue matura, a dieci anni dal genocidio, fra le trame di un tessuto sociale profondamente mutato, in cui trova espressione il protagonismo di una nuova élite culturale. Un ruolo centrale, in questo senso, è svolto da alcuni degli ex esiliati rientrati in Rwanda, dopo il genocidio, dai paesi limitrofi dove si erano rifugiati in seguito alle persecuzioni perpetrate nei confronti della popolazione tutsi sotto le “due repubbliche hutu”. Il più evidente riflesso di tale cambiamento nella rivista è percepibile nella scelta di pubblicare, accanto a quelli in lingua francese, anche articoli in inglese, al fine di includere fra i propri lettori quegli ex esiliati che hanno lungamente vissuto o sono nati in paesi anglofoni quali l’Uganda, la

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Tanzania e il Kenia. Allo stesso tempo l’introduzione di una lingua alternativa a quella francese testimonia la graduale perdita di centralità di quest’ultima all’interno della nuova classe dirigente del paese8. Sulle pagine della rivista «Dialogue» (DK), le implicazioni identitarie del plurilinguismo della nuova élite sembrano rintracciabili nella peculiarità che caratterizza i riferimenti al kinyarwanda: I termini rwandesi per dire l’esilio evocano l’idea di “rottura”. Guca significa, nello stesso tempo, tagliare ed esiliare; gucibwa, essere tagliato ed essere separato. Quando si è in esilio si è tagliati in due, poiché una parte è rimasta in Rwanda; si è allora abitati dalla nostalgia, vale a dire il “sentimento doloroso del ritorno” (dal greco “nostos”, ritorno e “algein” soffrire) (Sebasoni 2004b, p. 9).

In questo passo nel kinyarwanda, ovvero nella lingua nazionale parlata da tutti i rwandesi, che siano francofoni o anglofoni, viene individuata la possibilità di rintracciare i termini comuni per nominare un sentimento d’appartenenza condiviso. La nostalgia, tramite il riferimento al kinyarwanda, è connessa a una separazione dolorosa che letteralmente taglia, smembra ciò che per sua natura costituirebbe un corpo unico, quasi a rievocare la violenza subita dall’agire genocidario, trovando così una similarità con essa: il vocabolo guca trova assonanza in quello di gutema, con il quale, nei mesi delle stragi del ’94, si indicava l’azione di sterminio, ma che etimologicamente, come ha ricostruito Fusaschi (2000), piuttosto che significare “uccidere”, si riferisce all’atto del tagliare e dello sradicare, rientrando nella sfera semantica delle attività legate alla coltivazione dei campi. Nel caso in questione, quella inferta è una ferita identitaria che si cerca di rimarginare attraverso l’affermazione di un radicamento nella terra d’origine: La terra del Rwanda fa parte del patrimonio comune di tutte le generazioni, passate, presenti e future del nostro paese.

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(…) Il Rwanda, l’immortale terra dei nostri antenati che sono sotto terra, restando su questa terra dei viventi. Sono viventi con noi. Noi siamo il loro germoglio, la loro gemma, la loro ramificazione (Editorial 2004b, pp. 1-2).

L’esigenza di enunciare nei termini della naturalità il legame con il suolo rwandese risponde al tentativo di istituire il “noi” dell’unità nazionale, rimarginando la frattura storica dell’esilio attraverso il riferimento simbolico al territorio come patrimonio che unisce una generazione all’altra. Il carattere, in tutti sensi, ancestrale del “territorio-patria”, e del legame con esso, assume ulteriore valenza, se considerato sullo sfondo dei profondi sconvolgimenti demografici che hanno interessato il Rwanda in seguito al genocidio. Difatti, fra le conseguenze socio-politiche di tali mutamenti, sembra trovare eco, in questo discorso, la rottura dei legami personalistici e clientelari fra la vecchia élite filogovernativa e il mondo rurale, che caratterizzavano il tessuto sociale rwandese sotto le due repubbliche hutu (de Lame 1996; 2003, pp. 44-45). È possibile, così, ipotizzare che, insieme alla ferita identitaria dell’esilio, sia anche questa frattura sociale, che la nuova élite stenta a rimarginare, a motivare la necessità di affermare il legame “ancestrale” e “naturale” con il territorio della nazione, in quanto in esso è ricercato il luogo simbolico in grado di contenere le contraddizioni che caratterizzano l’attuale spazio sociale rwandese: Il Rwanda (…) offriva un’identità in più, l’identità rwandese che federa, a livello superiore, le identità particolari di tutti quelli che venivano in Rwanda, come federava già gli hutu, i twa e i tutsi (Sebasoni 2004b, p. 12).

Come nel brano appena riportato, nelle pagine di «Dialogue» (DK) prende corpo la “singolarità immaginaria” della nazionalità rwandese, nella quale “l’unità essenziale del popolo”(Balibar 1998, pp. 118-127), propria della forma ideologica del nazionalismo, non è esibita sulla base di

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un’originaria omogeneità etnica. Ma, al contrario, per essa è ricercato un fondamento in una costitutiva capacità assimilatrice dell’identità rwandese che, secondo questo stesso discorso, “si basava sulla scelta libera degli immigrati”, iscrivendosi così non nella “concezione etnica” ma in quella “elettiva” (ib.) della nazionalità: [Le abitudini secolari del popolo rwandese] si sono anche molto arricchite dagli apporti nuovi provenienti da fuori. Anche supponendo che gli hutu e i tutsi si siano preliminarmente insediati (il che non è vero), il flusso degli immigrati è stato molto importante nel corso dell’intera storia del Rwanda. (…) Questi differenti immigrati (…) non sono mai stati infastiditi; sono stati integrati alle comunità che hanno trovato sul posto e non portano più l’etichetta delle proprie origini. Oggi queste popolazioni sono interamente rwandesi e non c’è niente di male in questo (Sebagabo 2004, pp. 25- 26).

La “possibilità” e la legittimazione dello spazio sociale post-genocidario sono formulate attraverso la proiezione in uno spazio/tempo originario differente da quello attuale, ma rispetto a cui si tenta di affermare una continuità profonda: il “Rwanda immemore” sembrerebbe costituire il potenziale latente in cui l’attuale e contraddittorio contesto è immerso: Tutto ciò si perde nella notte dei tempi, ma chi conosce le notti che riposano nel fondo dell’inconscio dei popoli! E soprattutto chi oserà dire che queste notti non abbiano influenza sul destino di questi popoli?! (Sebasoni 2004b, 15).

Nella narrazione della storia rwandese, compiuta dagli autori di «Dialogue» (DK), è possibile rintracciare quella forma di racconto che attribuisce alla nazione la continuità di un soggetto e che Balibar riconosce come propria dei nazionalismi (1998, pp. 117-143). Nella configurazione di questo racconto particolare, tuttavia, si tratta di riannodare il “destino” di una nazione che ha attraversato l’esperienza della lacerazione estrema del genocidio.

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Essere rwandesi. Tutto avviene come se, alle origini, i rwandesi nel trovarsi faccia a faccia e nello scoprirsi differenti, abbiano provato il bisogno di essere in qualche modo gli stessi. Essi erano (kuba); essi erano là in quel momento (kubaho); non gli restava che organizzare la coesistenza (kubaho) (Sebasoni 2004a, p. 6).

L’enunciazione dell’unità dei banyarwanda si compie così attraverso una straordinaria mobilitazione del capitale simbolico che vede implicati, come si è visto, la lingua, il territorio e la storia nazionali, in un costante e insistente riferimento che rende evidente quanto questa identità venga istituita in contrapposizione alle minacce dell’etnismo, insite anche nel fatto che il ruolo di guida assunto in parte dagli ex rifugiati rievoca la concezione, dalle profonde radici storiche, di un potere che proviene dall’esterno e che secondo l’ideologia genocidaria sarebbe incarnato dalla “razza” tutsi, dominatrice straniera della nazione hutu. In effetti, nelle tradizioni orali della Regione dei Grandi Laghi, ricorre la figura di un nuovo detentore del potere che per certi aspetti può essere considerato estraneo al contesto sociale in cui si impone. Secondo Chrétien in questa estraneità andrebbe rintracciato il segno dell’istituzione di un ordine sociale e politico innovativo rispetto al precedente, piuttosto che vedervi, come ha fatto la storiografia coloniale, una traccia delle presunte invasioni hamitiche da cui sarebbero scaturita la dominazione tutsi sugli hutu (2001). L’unità dei banyarwanda deve partire dalla (…) analisi [delle] affermazioni [che fondano la divisione delle etnie nei miti storici] per dar loro un contenuto reale, visto che continuano a influenzare profondamente i comportamenti (Sebagabo 2004, p. 17).

Così in alcuni articoli, contenuti in particolare proprio nel primo numero della rivista9, è rimesso in scena il mito dei fratelli Gatwa, Gahutu e Gatutsi, nei quali trovano personificazione i tre omonimi gruppi sociali10.

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Se nell’interpretare questo mito l’etnografia coloniale aveva trovato una conferma della differenza “razziale” fra hutu, tutsi e twa, gli autori di «Dialogue» (DK) vi rintracciano invece quei comportamenti che, secondo i pregiudizi popolari, marcano la distinzione fra le componenti socioeconomiche di una medesima società. Quello di Gatwa e dei suoi fratelli è dunque un mito che unifica, pur istituendone le diseguaglianze, una società composta da gruppi a base economica e non “razziale”: È bene evidente come i nostri antenati abbiano eretto una nazione dalle basi solide cementate da miti unificatori. Per degli interessi politici e coloniali egoistici, i politici hanno eretto un sistema di fattori separatisti e hanno realizzato un genocidio nel nome di questi stessi miti (Sebagabo 2004, p. 34).

In questa critica storiografica della tradizione orale, operata nei testi qui presi in analisi, è possibile ravvisare come sia fatta propria e rifunzionalizzata al fine di istituire un nuovo nazionalismo quella letteratura che, decostruendo la concezione essenzialista delle etnie, le ha riconsiderate nella loro dimensione storico-politica, evidenziando il ruolo del colonialismo e dei regimi post-coloniali nell’irrigidimento delle identità sociali dell’Africa dei Grandi Laghi. «Dialogue» momentaneamente in Belgio: un nuovo etnismo? Come sottotitolo di una rivista in esilio, la condizione spazio-temporale designata con la formula “Momentaneamente in Belgio” risulta particolarmente evocativa: essa sembra accennare alla condizione di provvisorietà duratura che dà forma alla presenza peculiare del migrante, sospeso nella condizione giuridico-esistenziale di una doppia assenza fra società di partenza e quella d’arrivo della traiettoria migratoria (Sayad 1999). Come definizione auto-attribuita, quella dell’“essere momentaneamente in Belgio” risuona

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però anche come un atto d’accusa nei confronti dell’attuale governo rwandese, responsabile, secondo la redazione di Bruxelles, di una politica repressiva in materia di libertà d’espressione che motiva il prolungarsi dell’assenza della rivista dal Rwanda11. Nello stesso tempo non appare assente una sfumatura di minacciosità insita in un ritorno sempre imminente, che sembra evocare uno degli elementi di maggiore instabilità della regione dei Grandi Laghi dopo il ’94, vale a dire la questione dei campi nelle zone della Tanzania e del Congo (ex- Zaire) limitrofe ai confini rwandesi, dove molti dei responsabili del genocidio hanno trovato rifugio, facendosi scudo della popolazione profuga12. Come rivista esiliata, la “versione belga” di «Dialogue» intende dichiaratamente non rinunciare ad affrontare le questioni di attualità che riguardano il proprio paese di origine, costituendo così un ponte informativo verso di esso. Il mantenimento del legame con la terra di origine, tuttavia, non sembra teso a creare fra gli esiliati un senso di appartenenza a una comunità, immaginata come coerente e ben distinta rispetto alla società d’accoglienza. E in questo senso, sebbene sulle sue pagine vi trovino prevalentemente voce rwandesi emigrati in Belgio, la rivista non sembra rientrare nel variegato panorama della stampa cosiddetta “etnica”, che condivide, come convenzione letteraria, la specificità di definire la comunità a cui si rivolge in modo che questa possa essere riconosciuta come tale dalla società d’arrivo (Deschamps 2007). Il mensile si rivolge, inoltre, a un pubblico di lettori più diversificato rispetto alla tipologia specifica e circoscritta dei fruitori dei giornali “etnici”: con la tiratura di 1.900 copie, la rivista raggiunge tramite abbonamento un pubblico appartenente ai diversi contesti migratori rwandesi, come anche fondazioni e biblioteche, ed è inoltre direttamente acquistabile nelle librerie di Kigali e di Bujumbura. Intercetta così lettori solo in parte di nazionalità rwandese, a diverso titolo interessati alle questioni sociali e politiche rwandesi: In Belgio, come in altri paesi occidentali, sono fornite numerose informazioni e riflessioni sul Rwanda, in televisione, alla

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radio, nei quotidiani e nelle riviste ecc… Ma alcune persone richiedono, per comprendere la situazione, degli articoli che analizzino gli avvenimenti e affrontino le questioni di fondo. La rivista “DIALOGUE”, mensile di informazione e di riflessione, esiste dal 1967. Ed è il solo periodico rwandese che, in francese, “affronta i problemi sociali, economici politici e culturali, religiosi e non solo” e che ha numerosi abbonati fuori dal Rwanda. È il più appropriato a rispondere a questa domanda (Editorial 1994b, p. 3).

Rivolgendosi dunque a una pluralità di contesti, la rivista (DB) mostra, a un’attenta analisi, di saper parlare in modo diverso a più soggetti, attraverso un linguaggio che sembra accentuare la propria capacità polisemica proprio in quegli articoli in cui sono esposte tesi revisioniste. La particolarità di questa operazione risiede nel fatto che essa si inscrive, facendone un uso ambiguo, nell’idioma internazionale del genocidio, come categoria storico-giuridica. Negli articoli in questione le forme e i gradi di diniego conoscono sfumature diverse quasi quanto lo sono la pluralità delle voci che in maniera ricorrente si esprimono in questo senso sulle pagine della rivista. Tuttavia, nonostante le prime esitazioni che abbiamo visto nel numero 175 (DB), la scelta editoriale di fondo, a partire già dal numero successivo, è quella di dare agli eventi del ’94 il nome di genocidio. Le uniche esitazioni nelle applicazioni di questo termine sono espresse nel merito della sua capacità di restituire l’eccezionale atrocità delle stragi: Due anni…! Già due anni dopo l’accadere dell’innominabile. Il termine genocidio è quasi indecentemente insipido per qualificare l’abominio che si è prodotto due anni fa… già due anni (Editorial 1994c, n. 190, pp. 1-2).

L’operazione, sottesa nei contributi in questione, si svolge in un’articolazione complessa e diversificata che trova la propria maturazione nella definizione dei tragici avvenimenti nei termini di un “genocidio rwandese”. Questa tesi intende smentire l’evento di un “genocidio dei rwande-

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si tutsi”, affermando l’idea di un massacro subito dalla popolazione nel suo insieme: sebbene i tutsi siano stati vittime di un genocidio, anche i rwandesi hutu, a loro volta, ne avrebbero subito uno da parte dei tutsi stessi, e in particolare dalle forze armate dell’ FPR13. L’intento non è tanto quello di riconoscere i massacri subiti dagli hutu, a partire da quelli considerati “moderati” dal regime genocidario, quanto quello di introdurre un uso ambiguo della nozione di genocidio che rende oscura l’individuazione dei responsabili e delle vittime: Quattro anni… quattro anni già sono passati da quando il genocidio e i massacri si sono abbattuti sul Rwanda. Quante vittime? 500.000? Un milione? Di più? Nessuno lo sa. Ciò che è certo, è che il lutto ha ferito in profondità la maggior parte delle famiglie dentro e fuori il Rwanda. (…) In mancanza del fatto di aver potuto stabilire chiaramente le responsabilità, alcuni accusano un gruppo politico, un’etnia se non addirittura una regione. (…) “L’inferno sono gli altri! In ogni caso certamente non io…” (Ntampaka 1998, p. 1).

Secondo questa logica è necessario innanzitutto dissipare quei malintesi che spingono alcuni a ritenere che sia “impossibile parlare del genocidio rwandese senza prendere le parti dell’uno o dell’altro campo” (Karemano 2002, p. 1). Dopo averne manipolato i due termini, questa “equidistanza”, tende a eliminare la distinzione fra vittima e carnefice: Bisogna andare più lontano e neutralizzare la tendenza a costituirsi in altri gruppi che non sono etnici in apparenza ma che funzionano secondo la stessa logica di esclusione: il gruppo dei sopravvissuti da una parte e il gruppo dei cosiddetti “genocidari” (Ntezimana 2007, p. 16).

La logica, da cui è abitata la nozione di “genocidio rwandese”, viene proposta nel corso del tempo con una ripetitività quasi ossessiva sulle pagine di «Dialogue» (DB), che contrasta con le esitazioni e le problematiche sollevate

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in Rwanda negli stessi anni dai diversi tentativi di dare un nome, in grado di riconoscerne la specificità, al genocidio del ’9414. Tuttavia la rilevanza di questo discorso revisionista non si limita all’affermazione di un duplice genocidio che caratterizzerebbe il caso rwandese. Ciò appare evidente laddove viene affermata la necessità del riferimento alla distinzione etnica fra “hutu”, “tutsi” e “twa”, per un effettivo processo di riconciliazione: L’esistenza degli hutu dei tutsi e dei twa è una realtà socio-storica rwandese. Negare questa evidenza è giocare la politica dello struzzo. Si può in effetti parlare di genocidio o dei massacri interetnici e nello stesso tempo negare l’esistenza dei protagonisti? Si tratta di pura ipocrisia (Ndereyehe 2007, p. 80).

Prima con una certa esitazione poi con sempre maggiore forza, come logica conseguenza della nozione di “genocidio rwandese”, si riaffaccia su «Dialogue» (DB) l’ideologia etnista. E questo proprio nel momento in cui si auspica un effettivo processo di riconciliazione identitaria, che viene a coincidere con una sorta di progetto multiculturalista “alla rwandese”, a riprova del legame fra questa politica delle identità e l’ideologia socio-razziale etnista15: I problemi etnici in Rwanda devono essere risolti attraverso il ricorso a delle soluzioni appropriate che permettano il rispetto dei diritti di ciascuno e la protezione dei diritti collettivi. Le soluzioni prospettate fino ad oggi non sono mai state appropriate. La negazione dell’etnia non regolerà i problemi. È necessario assumere queste ultime e permettere a tutti di sentirsi protetti da uno Stato di diritto (Ntampaka 1996, p. 12).

O ancora: Ciò che è grave (…) è che [attualmente] il Rwanda non offre agli hutu e ai tutsi uno spazio di abnegazione verso il loro paese nella tolleranza, nella complementarietà e il rispetto delle loro differenze (Karemano 1999, p. 2).

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“Osare dire etnia”: questo è difatti il titolo dell’ultimo numero del 2007. Nell’editoriale questa esortazione viene motivata in maniera alquanto prudente: si tratta difatti, di superare quei tabù che si sarebbero creati in Rwanda intorno alla nozione di “etnia”16. Nonostante questa prudenza, i contributi proposti all’interno del numero rivelano come attraverso questo argomento la logica negazionista penetri all’interno delle contraddizioni proprie del concetto di genocidio. Se, infatti, l’etimologia stessa del termine presuppone la nozione di génos, la definizione, data nel 1948 dalle Nazioni Unite, del crimine di genocidio sembra assumere l’esistenza dell’etnia, come realtà astorica. Essa stabilisce in effetti che il genocidio consiste in “una serie di atti (che inizia con l’omicidio dei membri di un gruppo) commessi con l’intenzione di distruggere interamente o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale, religioso in quanto tale”. Questa definizione sembra vedere nella nozioni di “etnia” e di “razza” delle categorie oggettive piuttosto che sociali, disconoscendo come esse siano interiorizzate e agite dagli attori all’interno di un processo storico (Fusaschi 2007, pp. 109-110). L’analisi del discorso negazionista rwandese mostra come lo stesso lessico internazionale del genocidio racchiuda la possibilità di narrazioni etniste che rendono opaco e ambiguo il riconoscimento dell’evento genocidario stesso. E in questo senso proprio il caso rwandese pone in evidenza un aspetto ulteriore della problematica costruttivista insita nel concetto di genocidio. Come osserva infatti Amselle (2001, p. 199), il genocidio in quanto paradigma poststorico “non ha storia”: sebbene sia stato forgiato a partire da un evento fondatore del contemporaneo, quale quello della soluzione finale nazista, esso costringe a ripensare l’intera storia sociale dell’umanità. Un ripensamento radicale necessario che però non può non tenere conto della specifica ambiguità dell’apporto semantico della categoria di génos a una storia dei gruppi sociali. La criticità di tale operazione risiede nel fatto che in essa viene paradossalmente incorporata l’intenzionalità geno-

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cidaria stessa che è quella, nel distruggerlo, di definire i contorni del gruppo perseguitato: “Se il genocidio si definisce prima di tutto come lo sterminio sistematico dei gruppi interi, tale distruzione ha, allo stesso tempo, l’effetto di costruire questi gruppi in quanto tali” (p. 197). L’etnismo, di derivazione coloniale, è stato per la regione africana dei Grandi Laghi lo strumentario simbolico con cui si è fabbricato l’altro, il tutsi nel caso rwandese; e nello stesso tempo, nella dialettica costruzione/distruzione, esso ha costituito il dispositivo ideologico dell’agire genocidario. Se in tal senso l’evento del ’94 rwandese risulta inesplicabile senza l’ideologia socio-razziale che lo ha abitato, quest’ultima costituisce anche la logica stessa della sua negazione che riesce ad affermarsi insinuandosi nelle pieghe della problematica costruttivista propria della categoria di genocidio. Il discorso negazionista presente in «Dialogue» (DB), proprio attraverso l’enunciazione del genocidio, si riconnette infatti a quella narrazione etnista del contesto socioculturale rwandese che ha reso possibile le stragi del ’94: Il negazionismo e il revisionismo non nascono dopo il genocidio, ma… prima, perché fanno parte della logica dell’olocausto (Dupaquier 1995, p. 123).

Il contesto rwandese, come ogni particolare contesto, si rivela esemplare proprio nelle dinamiche più specifiche che lo caratterizzano. Nell’occultare la dialettica fra specificità ed esemplarità, l’interpretazione etnista mostra, oggi come un tempo, tutta la sua “astuzia”. Traducendosi, di volta in volta, in un linguaggio internazionale e riconoscibile da un pubblico più ampio di quello degli specialisti del Rwanda17, l’etnismo cerca di legittimarsi come lettura e al contempo soluzione delle tensioni che attualmente abitano il contesto rwandese. Come si è visto, nella decolonizzazione l’etnismo era riuscito a tradursi nel lessico allora globale della lotta di classe. Si diceva infatti che gli hutu, secondo questa logica che occultava la complessa realtà sociale, fossero la maggioranza contadina oppressa da una minoranza

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aristocratica. Anche oggi l’etnismo, dando veste nuova ai suoi vecchi contenuti, strumentalizza le ambiguità di un orizzonte semantico globale, ed enuncia così un messaggio semplicistico ma immediatamente comprensibile: se c’è stato un genocidio, allora le etnie oggettivamente esistono e vanno riconosciute in quanto tali da una politica multiculturalista di gestione delle differenze.

1 Il presente testo è il frutto di un lavoro che si è basato principalmente sulla lettura e l’analisi della rivista «Dialogue. Revue d’information et de réflexion». Nell’indagine si sono quindi scorsi i fascicoli editi in Rwanda fra il 1967 (anno della sua fondazione) e il 1994. Per quanto concerne il periodo post-genocidario, sono stati consultati sia quelli che a partire dal numero 175 sono stati pubblicati in Belgio, sia quelli che a partire dall’aprire del 2004 (n.178) sono stati editi a Kigali. Per meglio comprendere il ruolo svolto dalla(/e) rivista(/e) si è ritenuto inoltre opportuno intervistarne alcuni lettori rwandesi sia a Roma fra gennaio e maggio del 2008 che a Kibungo (Rwanda), fra agosto e novembre del 2008. 2 Il bimensile «Kinyamateka», fondato nel 1933 e tuttora edito, è di proprietà della conferenza episcopale rwandese ed è scritto in kinyarwanda (a differenza di «Dialogue» che invece è in francese). Tale rivista ha seguito con la decolonizzazione una linea editoriale favorevole alla cosiddetta “rivoluzione sociale” del 1959. L’orientamento politico di «Kinyamateka» mutò fra il 1980 ed il 1985, quando Sylvio Sindambiwe ne assunse la direzione, aprendo le pagine della rivista alla denuncia sociale e alla critica intransigente del regime di Habyarimana. Costretto alle dimissioni, Sindambiwe è scomparso nel 1987 in circostanze poco chiare. 3 Per una ricostruzione del panorama editoriale rwandese di questo periodo si rimanda a Chrétien 1995b. 4 Da qui in poi, per rendere più immediata la distinzioni fra le tre «Dialogue» si utilizzerà nel testo la sigla DK per la rivista oggi pubblicata a Kigali, DB per quella edita in Belgio, e DS per lo storico periodico, stampato in Rwanda fra il 1967 e il 1994. 5 Si venda ad esempio Bizimana 2001 e Gouteux 2002. 6 L’enciclica Fidei donum di papa Pio XII del 1957 indicava alle missioni cattoliche in Africa di incoraggiare le vocazioni da parte delle popolazioni locali e suggeriva un ruolo dell’apostolato in Africa di sostegno rispetto ad un maggiore protagonismo del clero locale. 7 Il termine “banyarwanda” in kinyarwanda indica l’intera popolazione del Rwanda, e quindi può essere tradotto in italiano con il termine “rwandesi”; in alcune situazioni la parola “banyarwanda” può assumere una valenza ulteriore: quella dell’identità nazionale che supera le distinzioni etniche. In questo senso l’enunciazione di tale termine vuole evocare un’identità che non solo si ritiene storicamente precedente a quella etnica, ma che si vorrebbe implicasse un sen-

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timento di appartenenza più vincolante, rispetto a quella designata dagli etnonimi “hutu”, “tutsi”. In tal senso, si potrebbe forse tradurre il termine con l’espressione “noi rwandesi”. Ma “banyarwanda” è anche la parola con la quale si indica la minoranza rwandofona delle regioni occidentali del Congo (ex-Zaire), assumendo così il senso di un etnonimo. Per questo recente caso di “invenzione” dell’etnia si rimanda a Jourdan (infra, pp. 90-93). 8 Elemento che riflette anche il sottrarsi da parte del Rwanda dopo il ’94 alla sfera geo-politica d’influenza della Francia in Africa sub-sahariana. Sul tema degli ex esiliati cfr. anche l’Introduzione di Fusaschi (infra, pp. 7-57) 9 Mugesera 2004; Sebagabo 2004; Sebasoni 2004a. 10 Nella versione de Lacger 1939, a cui si fa riferimento, i tre fratelli sono messi alla prova da Imana, il Dio unico che gli aveva dato vita. Il pieno successo di Gatutsi motiva la scelta di Imana di porlo al comando, in quanto riconosce che nel superare la prova egli abbia dimostrato di essere maggiormente affidabile rispetto ai suoi fratelli: avendogli dato, Imana, in affidamento un vaso di latte, Gatwa berrà d’un colpo il contenuto del recipiente, Gahutu lo rovescerà addormentandosi, mentre solo Gatutsi lo riconsegnerà al suo legittimo proprietario. Secondo la classificazione delle diverse tipologie di tradizione orale proposte da Vansina (1962, pp. 17-41) questo mito rientra nella categoria degli Imigani, termine del kinyarwanda che l’autore traduce come “fonte popolare, proverbi di cui alcuni hanno un interesse storico”; per una ricostruzione delle diverse interpretazioni del mito in questione rimandiamo a Fusaschi 2000. 11 Si veda ad esempio l’editoriale dal titolo La revue Dialogue restera à Bruxelles (2004c, pp. 1-4). 12 A questo proposito va ricordato che uno dei principali promotori del rilancio della rivista rwandese in Belgio è stato François Nzabahimana, che ne coprirà il ruolo di presidente del comitato esecutivo sino al ’95. Uomo vicino al presidente Habyarimana, ministro dell’economia fra 1990 e il 1992, poi segretario generale dell’Unione delle Banche Popolari, Nzabahimana nel ’95 lascerà il suo incarico nella redazione di «Dialogue» per ricoprire il ruolo di presidente dell’R.D.R. (Raggruppamento per il Ritorno e la Democrazia in Rwanda) costituitosi in Congo per favorire il rientro in Rwanda dei rifugiati. 13 Questo aspetto del negazionismo rwandese è stato ampiamente analizzato da Chrétien (1997b, pp. 245-305). 14 In si veda a tale proposito Fusaschi 2007. 15 Nell’evidenziare tale legame nel caso del negazionismo rwandese, si fa qui riferimento alle riflessioni sul multiculturalismo proposte da autori quali Amselle (2001) e Pompeo (2007). 16 Il riferimento implicito è qui al Referendum del 2003 che ha sancito l’introduzione di una nuova Costituzione che abolisce qualsiasi criterio etnico nella definizione dell’identità nazionale, come qualsiasi discriminazione nei diritti di cittadinanza. 17 L’intreccio fra linguaggio globale e fenomeni locali si rivela anche, seppur con intenzioni e esiti molto differenti, nel caso del neologismo “jenoside”, come mostrano le indagini di Fusaschi (cfr. infra, pp. 14-25). Per una riflessione al riguardo più generale, al di là del caso rwandese, ci si rifà qui alle riflessioni di Amselle 2001.

Il detto e il non detto. Violenza e memoria tra le vittime tutsi (1959-1994) Francesca Polidori

Il genocidio del 1994 rappresenta soltanto l’ultimo episodio di violenza a sfondo etnico avvenuto in Rwanda a partire dall’indipendenza che trova origine nelle pratiche e nei discorsi dell’epoca coloniale. Infatti, durante la colonizzazione belga è stato esteso il potere del regno centrale, dove un lignaggio tutsi era dominante, e i capi hanno cominciato a essere selezionati esclusivamente tra i tutsi, elemento che ha contribuito alla cristallizzazione delle identità etniche e alla nascita della loro successiva conflittualità. Dal momento che i tutsi che avevano lavorato nell’amministrazione coloniale spingevano per un’indipendenza più rapida, all’alba della decolonizzazione i belgi hanno deciso di sostenere un’élite hutu appena formata dalle scuole missionarie. Tra il novembre del 1959 e il luglio del 1962, quando il Rwanda diventa indipendente dopo aver abolito la monarchia e proclamato la repubblica, i militanti del partito Parmehutu1, appoggiati da parte della popolazione civile, si rendono responsabili di numerosi attacchi e uccisioni di tutsi, che sono costretti a fuggire verso i paesi limitrofi. I governi post-coloniali a maggioranza hutu continueranno a organizzare ciclicamente epurazioni, persecuzioni e massacri contro la minoranza tutsi, utilizzandola come capro espiatorio nei momenti di crisi interna (1963, 1973, 1990). Gli esuli tutsi potranno quindi fare ritorno in Rwanda soltanto nel 1994, dopo la presa di potere del Fronte patriottico rwandese, un movimento politico militare nato tra gli stessi rifugiati in Uganda che costituisce ancora oggi la principale forza governativa del paese.

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In questo saggio analizzeremo la diversa configurazione delle memorie tra i tutsi sopravvissuti al genocidio del 1994 e i tutsi fuggiti alle persecuzioni avvenute tra il 19591962 per comprendere come le violenze, e in particolare le loro forme estreme, possano essere incorporate nella memoria collettiva di coloro che le hanno vissute direttamente e delle generazioni successive2. Durante le mie ricerche in Rwanda, quando domandavo ai sopravvissuti del 1994 di raccontarmi le loro esperienze non ho mai incontrato reticenze di alcun tipo. Persone di diversa estrazione sociale si dimostravano disponibili a fornire un resoconto ampio e dettagliato del proprio vissuto personale e la prima domanda scatenava spesso un flusso inarrestabile di parole nel quale risultava difficile inserirsi per chiarire i punti oscuri. Inoltre i sopravvissuti erano soliti includere nei racconti molti particolari macabri sulle modalità d’esecuzione dei massacri: non si limitavano a raccontare che si uccidevano i tutsi, ma descrivevano dettagliatamente come li si uccideva. Al contrario, quando chiedevo ai rimpatriati di raccontarmi le circostanze nelle quali avevano abbandonato il Rwanda nel 1959-1962, questi avevano la tendenza a rispondere alle domande con frasi brevi e concise, impedendo così alle interviste di decollare. Quasi tutti iniziavano la narrazione con l’arrivo degli assalitori sulla collina e la finivano con l’attraversamento della frontiera senza soffermarsi sui fatti accaduti tra questi due momenti. I racconti apparivano poveri di dettagli personali e seguivano un intreccio narrativo fisso che evidenziava i medesimi elementi: le minacce di morte, le proprietà bruciate, la possibilità o meno di evacuare il bestiame e l’aiuto ricevuto dai vicini hutu che potevano custodire le vacche, avvertire dell’arrivo delle bande di assalitori, nascondere i tutsi e portare cibo, raccolto e bestiame al di là della frontiera. La narrazione delle violenze appare quindi centrale nelle testimonianze dei sopravvissuti del genocidio, che tendono a intervallare la descrizione delle torture subite o viste con i ricordi di quelle inflitte ai propri cari e con le voci riferite da altri, finendo per costruire per astrazione una

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sorta di inventario delle tecniche di crudeltà impiegate dagli interahamwe 3. Invece, nei ricordi dei rimpatriati la descrizione delle violenze occupa un posto secondario e piuttosto ridotto. Tutti dicono che “i tutsi venivano – o dovevano – essere uccisi” ma poi non raccontano chi e come è stato ucciso sulla propria collina; e anche coloro che hanno perso alcuni membri della famiglia minimizzano le uccisioni e specificano che “non è stato come il 1994”. L’utilizzo di racconti di persone che hanno vissuto e sono state vittime di episodi di guerra e di violenza comporta molteplici rischi per un etnografo che, non potendo osservare direttamente i fenomeni indagati, deve prestare particolare attenzione al contesto di produzione delle testimonianze. Infatti, le vittime di violenze possono assumere diversi atteggiamenti e registri discorsivi e modificare il racconto in modo più o meno cosciente: talvolta è il carattere epico degli episodi a essere sottolineato, altre volte il tono può essere accusatorio e apertamente politico, altre ancora può prevalere un atteggiamento vittimistico oppure può essere dato maggiore spazio alla descrizione della sofferenza personale. Avere accesso a dati empirici verificabili e intraprendere una ricostruzione etnografica o storica è molto difficile, poiché le narrazioni risultano essere sempre costruite socialmente e politicamente. Le difficoltà aumentano anche perché la “verità” è spesso evocata come principio di ricostruzione sociale in molti contesti post-bellici – e il Rwanda rappresenta un caso esemplare – oppure come fondamento della protezione giuridica dagli organismi internazionale che si occupano di assistenza alle popolazioni in fuga dalla guerra (Agier 2006; Declich 2006). Per evitare di cadere in una rischiosa opposizione tra “sofferenza realmente vissuta” e “sofferenza retorica e fittizia”, è quindi analiticamente più proficuo considerare “l’espressione della sofferenza come una costruzione sociale e narrativa, che si è creata a partire da rappresentazioni, interpretazioni e norme sociali diverse ma che ha sempre un rapporto con la realtà” (Fresia 2005, p. 49). In altri termini, un discorso sulle violenze subite non è semplicemente un gioco di pa-

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role e di immagine ma esprime sempre una certa relazione con un’esperienza oggettivamente data4. Narrare la violenza La prima considerazione che può essere fatta è quindi che i racconti riproducano la “verità storica”: nel 19591962 le uccisioni sono state rare e le forme di violenza estrema avvenute trentacinque anni dopo non erano ancora diffuse su larga scala. Tuttavia, la crudeltà e la totale dissoluzione del tessuto sociale sulla quale si sono interrogati a lungo molti studiosi rispetto al genocidio dei tutsi (Kagabo 1995; Vidal 1995, 1998; Sémelin 2005; Dei 2005) hanno radici storiche e antropologiche più profonde di quanto si sia soliti immaginare (Fusaschi 2000). Molte delle pratiche di crudeltà impiegate dalle milizie in Rwanda nel 1994 appaiono infatti simili a quelle descritte da Malkki (1995, pp. 86-98) riguardo ai massacri di hutu compiuti dall’esercito a maggioranza tutsi nel 1972 in Burundi. La “mitico-storia” sviluppatasi tra i rifugiati hutu in Tanzania e analizzata dall’antropologa include anche le atrocità commesse dall’esercito, che sono descritte attraverso elenchi delle pratiche di violenza estrema impiegate per uccidere. Risalendo ancora più indietro nel tempo, le stesse tecniche si ritrovano a Gikongoro nel 1963, come confermano persone intervistate durante la mia ricerca che hanno assistito a tali eventi. Una donna che all’epoca aveva dieci anni ricorda di aver assistito, dalla finestra della chiesa nella quale si era rifugiata con la sua famiglia, a una scena che avrebbe potuto svolgersi nel 1994: un bambino al quale avevano tagliato un braccio col machete aveva implorato gli assalitori di non ucciderlo offrendosi di danzare per loro, gli assassini avevano accettato, ma, una volta terminata la danza, lo avevano ucciso ugualmente. Tali analogie potrebbero aprire molte piste di ricerca, alcune delle quali sono già state abbordate da studiosi che si sono occupati dell’uno o dell’altro evento, ma che meri-

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terebbero di essere approfondite prendendo come riferimento un campo geografico e cronologico più ampio. Un tema interessante, in parte già sviluppato da Malkki (1995) e Taylor (1999), è l’analisi simbolica e antropologica delle pratiche di crudeltà estrema e la relazione che esse intrattengono con le concezioni tradizionali del corpo e dello Stato e con quelle importate dai colonizzatori in un’ottica biopolitica. Questa prospettiva prettamente antropologica potrebbe fornire un punto di vista inedito sul genocidio rwandese, perché complementare alla ricostruzione storica delle cause della conflittualità etnica e allo studio delle modalità di organizzazione dei massacri, argomenti già ampiamente trattati negli ultimi anni, apportando un contributo fondamentale alla questione irrisolta sul “perché” della perversione del tessuto sociale e della diffusione sistematica della crudeltà. L’interesse principale di questo articolo non è tuttavia quello di rintracciare le origini storiche della violenza contro i tutsi avvenuta in Rwanda, né di intraprenderne un’analisi simbolica attraverso la comparazione delle diverse forme che ha assunto nel corso degli anni, ma di comprendere il posto che occupa nelle memorie e nei discorsi di coloro che l’hanno vissuta direttamente e che si trovano oggi a raccontarla e a descriverla. Per fare ciò, occorre prestare attenzione ai meccanismi di selezione della narrazione e trasmissione dei ricordi che mutano in relazione ai luoghi e alle circostanze sociali in cui i testimoni/vittime prendono la parola. In questa prospettiva, anche i silenzi, spesso considerati come effetto del trauma subito e trattati in maniera patologica, possono essere letti e compresi attraverso uno sguardo antropologico. Memoria ufficiale e strategie del ricordo e dell’oblio Il genocidio del 1994 è il primo episodio di violenza avvenuto nella ragione dei Grandi Laghi che ha trovato uno spazio legittimo di espressione pubblica interno al

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paese e che è stato diffuso sulla scena internazionale. I tutsi sopravvissuti sono quindi abituati a dare le loro testimonianze ripetutamente e in ambienti diversi. Ad esempio, in occasione delle commemorazioni organizzate annualmente tra aprile e luglio; durante le assemblee gacaca; nelle riunioni delle loro associazioni nate dopo la guerra e infine sotto richiesta dei molti stranieri e rwandesi (giornalisti, ricercatori, studenti, attivisti dei diritti umani) interessati all’argomento. Chiunque abbia una certa familiarità con il Rwanda conosce ormai le orrende torture alle quali erano sottoposti i tutsi e non si stupisce neanche più della naturalezza con la quale tali dettagli sono forniti nelle manifestazioni pubbliche, durante le interviste e nei colloqui privati della vita quotidiana. Quando, verso la fine del mio ultimo soggiorno in Rwanda, un’amica mi ha raccontato che la madre di un nostro comune conoscente era stata uccisa “come si faceva con le donne incinte durante il genocidio”, cioè tagliando la pancia con il machete ed estraendo il feto, mi sono sorpresa a chiedermi dove e quante altre volte avessi già sentito questa storia. Nonostante l’atrocità dell’episodio non riuscivo a ricordare se lo avessi ascoltato per la prima volta durante un’occasione pubblica, in un’intervista o in un colloquio informale, poiché tale tecnica è parte integrante dell’inventario delle modalità di tortura e morte attuate dai génocidaires. Il moltiplicarsi delle occasioni in cui viene trasmessa la memoria dei massacri del 1994 procede di pari passo con la diffusione di un’interpretazione storica ufficiale il cui fine ultimo è promuovere la riconciliazione nazionale e che può essere sintetizzata nell’idea che il genocidio rappresenta il frutto di una cattiva ideologia nata durante la colonizzazione e ripresa dai governi post-coloniali. A questo proposito Ricoeur nota che quando ci troviamo di fronte alle più grandi tragedie del nostro secolo all’interno della società si avverte una sorta di dovere di ricordare, che nasce dal desiderio di giustizia e dall’idea di debito verso le vittime e le generazioni future. Come dimostra l’esperienza rwandese, questi casi rappresentano il massimo del

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buon uso e dell’abuso della memoria, poiché la memoria storica di tali aventi può essere mobilitata da parte di coloro che detengono il potere per soddisfare domande politiche e di natura identitaria e ciò comporta “una scaltra forma di oblio che risulta dallo spossessamento operato sugli attori sociali sul loro potere di raccontare se stessi” (Ricœur 2000, p. 636). In questo senso, le narrazioni storiche sul genocidio del 1994 continuano a oscillare tra due interpretazioni opposte, delle quali si fanno portavoce le associazioni dei sopravvissuti e il governo e che possono mescolarsi e contaminarsi vicendevolmente nei resoconti di coloro che lo hanno vissuto in prima persona. Da una parte emerge una rappresentazione del genocidio come male e orrore assoluto, idea veicolata durante le cerimonie commemorative e ripresa nella costruzione di alcuni siti memoriali dove sono esposti ossa e corpi delle vittime e nell’inventario delle forme di crudeltà descritto in precedenza; dall’altra persiste una lettura politically correct centrata sul perdono e sulla riconciliazione in vista della coesistenza pacifica tra hutu e tutsi, che appare prevalente nella legislazione giuridica per punire i crimini di genocidio5 e nelle prese di posizione politiche ufficiali. A mio avviso, la dialettica tra queste due concezioni non sembra essere stata ancora risolta nell’immaginario collettivo del Rwanda postgenocidio, esattamente come è successo nelle società occidentali riguardo all’Olocausto, e gli stessi testimoni diretti privilegiano un’interpretazione secondo il contesto in cui prendono la parola. La memoria dei fatti del 1959 è rimasta invece a lungo confinata in un ambito relativamente ristretto perché limitato alle comunità della diaspora, le cui possibilità di “presa di parola” erano ridotte nei paesi di esilio e sulla scena pubblica internazionale e praticamente inesistenti in Rwanda. Oggi, gli stranieri e i ricercatori con cui hanno a che fare i rimpatriati sono legati alle agenzie internazionali di sviluppo che li interrogano su problemi relativi all’inserimento dopo il ritorno più che sulle esperienze passate di fuga. Quando domandavo ai rimpatriati di raccontarmi

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cosa fosse successo al momento della partenza per l’esilio, questi si stupivano del mio interesse nei confronti del loro passato e mi chiedevano per quale motivo non mi occupassi, come la maggior parte degli abazungu, i “bianchi” in kinyarwanda, del più recente genocidio. I fatti del 1994 non hanno soltanto catturato l’attenzione dei media e monopolizzato quella del mondo accademico, impedendo talvolta il dibattito e l’apertura verso altri temi di ricerca, ma hanno finito per rappresentare un punto di riferimento imprescindibile sulla cui base vengono letti e interpretati tutti gli episodi passati della storia rwandese. Durante le loro narrazioni i rimpatriati si confrontano quindi costantemente con il genocidio del 1994, utilizzandolo come metro di paragone e applicando agli avvenimenti del 1959-1962 alcuni temi del discorso ufficiale sulle sue origini e spiegazioni. Ad esempio, la tendenza a minimizzare la violenza subita e l’accento posto sull’aiuto ricevuto dai vicini hutu nascono dalla comparazione con gli orrori del 1994 e dal tentativo di riprendere il leitmotiv sulla colpa delle autorità e della cattiva politica. La mancanza di uno spazio di legittima espressione nel passato, l’influenza del presente discorso storico dominante e l’effetto catalizzatore della memoria del genocidio non bastano però a spiegare del tutto la scarsa importanza attribuita nelle testimonianze dei rimpatriati alle violenze avvenute durante il processo di decolonizzazione. Infatti, spesso i rifugiati di seconda generazione sanno che i propri genitori sono partiti perché i tutsi erano perseguitati ma non conoscono nel dettaglio le circostanze nelle quali la fuga è avvenuta. Alcuni fatti sembrano quindi essere stati trascurati nei racconti familiari e si ha l’impressione di trovarsi di fronte a dei silenzi nella trasmissione della memoria. A questo proposito vorrei riportare due esempi riguardo a forme di violenza che hanno un’importanza centrale nelle rappresentazioni discorsive del genocidio del 1994 ma che sono menzionate soltanto raramente nei ricordi dei rimpatriati del 1959-1962: l’utilizzo del machete e le violenze sessuali sulle donne.

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L’uso del machete e la violenza sessuale Il machete è diventato senza dubbio il simbolo del genocidio dei tutsi all’interno del paese e sulla scena internazionale: basti pensare all’uso dilagante di questa immagine nelle pubblicazioni di ogni genere – ricostruzioni storiche e politiche, inchieste giornalistiche, libri di testimoni diretti, romanzi – comparse negli ultimi quattordici anni e al costante riferimento fatto a questa modalità di uccidere negli articoli, documentari e dibattiti sulla questione. L’impiego delle armi bianche, il machete in primis ma anche altri attrezzi come lance e randelli chiodati, durante lo svolgimento dei massacri è un fatto innegabile e storicamente provato, anche se un ruolo altrettanto importante è stato assunto dall’esercito che utilizzava armi da fuoco. Gli impressionanti massacri collettivi avvenuti nelle chiese, nelle scuole e in tutti i luoghi dove si sono rifugiati o sono stati indotti a raggrupparsi i tutsi hanno seguito sempre il medesimo copione, attestato da innumerevoli testimonianze e pubblicazioni: i primi ad attaccare con granate e armi da fuoco erano i militari e i poliziotti, e in seguito veniva il turno dei miliziani e della popolazione civile che dovevano “finire il lavoro” con il machete. La formula “un genocidio al machete” consolidatasi nell’opinione pubblica internazionale riconduce a un’idea esotizzante di violenza tribale associata alle guerre africane e, attraverso il sentimento di orrore e timore che suscita, corre il rischio di abolire la volontà di un’analisi storica e sociale più approfondita6 (Vidal 2006). Il machete non è quindi considerato un semplice strumento per uccidere, ma è diventato, anche nei racconti di vittime e testimoni, il simbolo della crudeltà con la quale le uccisioni venivano compiute. Lungi da costituire un’arma neutra, ha assunto un ruolo di primo piano nella costruzione sociale della memoria collettiva sul genocidio rwandese in quanto la sua evocazione è sempre associata alla spietatezza dei massacri: l’assunto neanche troppo implicito è che uccidere à la machette rappresenti di per sé una per-

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versione, la prima delle forme di crudeltà estrema sperimentata durante il genocidio. Il nostro scopo non è quindi quello di smentire l’impiego del machete nel 1994 ma di cercare di spogliarlo della sua componente più emozionale e ricontestualizzarlo in una prospettiva storica più profonda per comprendere come la sua assunzione a icona del genocidio abbia in qualche modo influenzato le stesse vittime che tendono ormai a assimilarlo all’atrocità e inumanità dei massacri e ad assegnarli un ruolo centrale nelle narrazioni. Infatti, i rimpatriati non si soffermano sulle modalità con le quali i tutsi venivano uccisi nel 1959-1962, e anche se le uccisioni sono avvenute con armi bianche non sembrano considerarlo un fatto rilevante. Durante un colloquio con un rimpatriato originario di Gitarama nato in Burundi incentrato sui racconti dei suoi genitori, questo mi ha spiegato come “non si era arrivati allo stadio di uccidere con il machete come nel 1994” ma che i tutsi erano stati minacciati dai paracommando belgi e dai militanti del Parmehutu ed erano fuggiti perché “i rwandesi non conoscevano le armi da fuoco e ne avevano paura”. Poco dopo la stessa persona mi ha raccontato come, secondo le narrazioni familiari, “gli assassini più grandi” sulla sua collina nel 1959-1962 erano gli hutu originari di Butare, a dimostrazione del fatto che gli ordini delle autorità erano stati eseguiti dalla popolazione del luogo e delle colline vicine, che quindi non possedevano né sapevano utilizzare fucili e armi da fuoco. A questo punto la contraddizione si fa evidente e sorge una domanda: ma allora come sono stati uccisi i tutsi nel 1959-1962? In realtà, nelle testimonianze in cui i rimpatriati di prima generazione descrivono meglio i fatti che hanno causato la loro fuga, risulta chiaro che il machete era un’arma già ampiamente utilizzata durante i disordini avvenuti con la decolonizzazione. Ecco l’esempio abbastanza indicativo di una donna che nel 1960 viveva a Gitarama. Quando la guerra è cominciata, tutti i tutsi dovevano essere uccisi. C’erano degli hutu che venivano a cercarci con il ma-

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chete allora ho preso i bambini e li ho nascosti in un campo di sorgo, tranne il neonato che mi sono messa sulla schiena, e poi sono tornata in casa. Dopo poco (gli assalitori) sono arrivati vicino agli ibiraro7, hanno bruciato la nostra casa e rubato le nostre mucche. Gli hutu sono arrivati armati di machete e hanno cominciato a bruciare tutto. Io e mio marito ci eravamo nascosti nel bananeto vicino a casa. Un vicino ci ha visto e ha colpito mio marito con il machete, l’ha ferito8 alla testa e lui è cascato immediatamente a terra.

D’altronde, l’amministrazione coloniale belga aveva proibito l’utilizzo delle lance a partire dal 19309 per cui, anche se queste erano state verosimilmente nascoste e conservate, il machete era una delle poche armi a disposizione della popolazione10. In definitiva, anche se già nel 19591962 i tutsi sono stati uccisi con il machete, tale fatto non sembra aver assunto un’importanza capitale nei racconti dei rifugiati di prima generazione perché questa tecnica non era ancora stata incorporata in un discorso sociale più ampio sulla violenza etnica e assimilata nell’immaginario collettivo a un atto di estrema crudeltà, mentre le narrazioni della seconda generazione hanno finito per omettere e tralasciare questo particolare per essere maggiormente conformi alla lettura storica ufficiale. Per quanto riguarda le violenze sessuali, la questione appare ancora più complessa poiché, anche se durante il genocidio lo stupro è stato largamente praticato dai génocidaires, la permanenza di alcuni modelli femminili dominanti rende difficile l’esternalizzazione degli abusi subiti da parte delle vittime, che per vergogna e per paura di non essere credute o condannate preferiscono tacere. Nel 1994 donne, ragazze e ragazzine potevano essere violentate da singoli o da interi gruppi di interahamwe prima di essere uccise, oppure tenute prigioniere per giorni a casa dei miliziani che le proteggevano e abusavano sessualmente di loro ripetutamente (Bonnet 1995; Human Right Watch 1996; Guenivet 2001; Fusaschi infra, pp. 39-52). Nel corso dei miei soggiorni in Rwanda, mi è quindi capitato molto spesso di sentire parlare degli stupri avvenuti

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ma soltanto una volta ho assistito alla testimonianza diretta di una donna vittima di violenza sessuale. Nel 2002, una ragazza tutsi, che chiameremo Liberata, era venuta a testimoniare durante una seduta gacaca di essere stata violentata da un gruppo di interahamwe che abitavano sulla sua stessa collina. Liberata durante il genocidio aveva soltanto dodici anni e, secondo il suo racconto, gli uomini erano arrivati a casa di un vicino hutu che la stava nascondendo, le avevano chiesto del denaro minacciandola di morte e dicendole di scavarsi una buca per seppellirsi viva, e poi l’avevano portata in una casa dove avevano abusato di lei a turno. Dopo qualche ora, l’avevano abbandonata in fin di vita in una latrina nelle vicinanze. Secondo le voci che circolavano sulla collina, Liberata era riuscita miracolosamente a soppravvivere anche a mille altre sevizie, di cui portava ancora le cicatrici su varie parti del corpo. Poiché tutta la sua famiglia era stata sterminata durante i massacri, dopo la guerra si era trasferita in un comune vicino, aveva tagliato ogni relazione con la collina natale e aveva avuto il coraggio di denunciare tutti i suoi persecutori, alcuni dei quali erano morti, altri fuggiti in Congo e altri ancora erano stati imprigionati. Durante la fase istruttoria di raccolta delle testimonianze dei gacaca, Liberata era stata chiamata per ripetere la deposizione di fronte ai giudici in un’assemblea pubblica alla quale avrebbero partecipato tutti gli abitanti della cellula e due degli uomini da lei accusati che, seppur detenuti nel carcere comunale, avevano il diritto di fornire la loro versione. Inizialmente Liberata non voleva partecipare ai gacaca per paura di ritorsioni da parte delle famiglie dei detenuti, per vergogna di dover ripetere la storia di fronte a tutti e per non trovarsi faccia a faccia con i suoi stessi carnefici11, ma alla fine aveva trovato il coraggio di presentarsi. Nel corso della riunione aveva parlato a voce bassa, rivolgendosi ai giudici e tenendo le spalle all’assemblea: senza spendersi in troppi particolari aveva ripetuto la testimonianza e precisato che i due detenuti presenti l’avevano violentata. I detenuti, che pure avevano ammesso di far parte del gruppo degli interahamwe che aveva prelevato

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la ragazza e ucciso altre persone, si ostinavano invece a negare la loro implicazione nella violenza sessuale e le si rivolgevano direttamente dicendole che stava mentendo. Soltanto una volta Liberata aveva risposto alle provocazioni di un detenuto che l’accusava di dire il falso, e, con lo sguardo a terra e la testa rivolta altrove, aveva ribadito di essere sicura che anche lui l’aveva violentata. Nonostante l’esistenza di casi eccezionali come quello appena descritto, la violenza sessuale, pur essendo stata integrata a pieno nell’inventario delle forme di crudeltà del genocidio, viene il più delle volte evocata in maniera impersonale e costituisce una sorta di tabù del quale è lecito parlare soltanto in determinati contesti e tramite specifiche locuzioni allusive che mascherano e attenuano una sua completa esplicitazione. Generalmente nelle assemblee gacaca i sopravvissuti raccontano di essere a conoscenza delle violenze sessuali avvenute ma le vittime prendono raramente la parola. Dal canto loro, i detenuti confessano di aver fatto parte di gruppi di interahamwe che compivano gli stupri negando la loro partecipazione attiva12. A Butare il ministro della Famiglia e degli Affari Femminili del Governo ad interim Pauline Nyramashuko e suo figlio Arsene Shalom, uno dei capi delle milizie interahamwe nella città, sono sotto processo ad Arusha per aver incitato i miliziani agli stupri collettivi e nel 2005; nei gacaca di una cellula centrale della cittadina, l’argomento veniva dibattuto spesso. Molti testimoni ricordavano come durante il genocidio i camion di militari e di miliziani si recassero al comune, dove si erano rifugiati i tutsi, per scegliere e prelevare le giovani ragazze delle quali volevano abusare ma, nei sei mesi in cui ho seguito settimanalmente le assemblee, nessuna donna ha testimoniato direttamente la violenza subita. Dal momento in cui il verbo violentare non possiede una traduzione specifica in kinyarwanda13, vengono usate altre perifrasi per definire questo atto, generalmente l’espressione neutra ma allusiva secondo il contesto “avere rapporti sessuali”, oppure quella, riferita ai caso specifici nei quali la donna tutsi veniva tenuta in ostaggio, “diventare la mo-

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glie” di qualcuno14. Talvolta i sopravvissuti evocano la mancata violenza per sottolineare l’eroicità e il valore delle donne che sono riuscite a opporvisi: una vedova di genocidio, hutu, mi ha raccontato come durante i massacri una parente del marito tutsi le avesse detto che preferiva “morire che sposarmi senza consenso per salvarmi la vita”. In definitiva, a causa della posizione sociale che spetta tradizionalmente alla donna nella società rwandese, è molto difficile incontrare donne che osino raccontare la violenza subita in prima persona. Infatti, ancora oggi in Rwanda, nonostante le politiche di gender promosse dal governo che riguardano una piccola minoranza appartenente alle élite cittadine istruite e la riforma agraria che teoricamente ha dato il diritto di ereditare la terra anche alle figlie femmine, la donna continua a essere sottomessa all’autorità del padre e del marito, e relegata nello spazio domestico al ruolo di buona moglie e madre. In passato il valore della donna si fondava essenzialmente sulla fecondità – e nelle classi più povere, sulla forza lavoro –, intesa come possibilità di assicurare la continuità del patrilignaggio del marito, nel quale questa si annullava e identificava completamente: in un’epoca non troppo remota, ad esempio, per una donna sposata era buona condotta non rifiutare le proposte sessuali di un membro qualsiasi della famiglia (Fusaschi infra, p. 47) e del lignaggio del marito e il proverbio rwandese “se ti piace una ragazza, dalla a tuo fratello”, testimonia di questa abitudine (Crepeau, Bizimana 1979). D’altronde, è opportuno chiedersi quale spazio d’espressione possa avere la violenza sessuale all’interno di una società in cui lo stesso rituale nuziale si basava sulla finzione di una lotta in cui la sposa aveva il dovere di opporsi alle pretese dello sposo. Secondo un’interpretazione non troppo lontana da quella diffusa ancora oggi nella nostra società, il rifiuto veniva letto come modo di salvaguradare il proprio valore e come segno di desiderio. La posizione della cannuccia nella calebasse di birra inviata ai genitori della sposa dopo il rito del matrimonio indicava se la ragazza era stata trovata vergine dal marito e, quando non avveniva, la famiglia ne usciva disonorata

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e dovevano essere compiuti rituali specifici alla nascita del primo figlio. In passato le ragazze che restavano incinte prima del matrimonio venivano ripudiate e la credenza che un figlio illegittimo potesse con un solo sguardo annientare tutti i beni di un lignaggio era ancora diffuso in epoca recente sulle colline (Kagabo infra, p. 69). D’altra parte, secondo studi compiuti prima negli anni Ottanta, il tasso di violenze sessuali era molto alto in ambiente rurale prima della guerra ma rappresentava un tabù del quale non si osava parlare poiché l’interpretazione comune restava che se la donna non rifiutava era consenziente (de Lame 1999). Tutto questo può aiutare a comprendere perché nei racconti sui fatti del 1959-1962 la violenza sessuale non sia quasi mai menzionata: al contrario, i rimpatriati ci tengono a specificare che le donne, a differenza di cio che è avvenuto nel 1994, non venivano uccise. Durante le ricerche ho quindi preso per buona tale rappresentazione comune e per mesi non mi sono posta la questione se le donne fossero state vittime di altre forme di violenza, come quella sessuale. Come spesso succede, è stata una causalità a spingermi a riflettere nuovamente sull’argomento, e in particolare un colloquio avuto con una delle mie “informatrici privilegiate”, Ancille, una donna di sessant’anni che era partita per l’esilio in Burundi insieme al fratello maggiore. Durante una delle molte visite che ero solita farle, alla quale non erano presenti né suo marito né il mio interprete, Ancille è tornata casualmente sul tema della sua fuga dal Rwanda e mi ha spiegato che i genitori l’avevano affidata al fratello perché all’epoca le ragazze giovani venivano violentate. Per pudore e discrezione, e perché troppo influenzata dalla versione dominante dei fatti, inizialmente non ho preso la faccenda sul serio e ho creduto che si trattasse di voci o episodi isolati. In seguito, sempre più persone mi hanno accennato alle violenze sessuali di cui erano vittime le ragazze nel 1959-1962, ma parlandone in modo impersonale e senza fare riferimento a fatti specifici. Ad esempio, ricordo ancora come un testimone degli avvenimenti di Gikongoro del 1963 abbia liquidato la questione dicendo che “le

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donne non venivano toccate, salvo le giovani ragazze per essere violentate”. È stato soltanto verso la fine della mia ricerca che ho avuto l’occasione di raccogliere una testimonianza più dettagliata sugli stupri avvenuti nel 1959-1962. Jacqueline, una donna anziana facente parte di un’associazione di vedove del genocidio, mi ha raccontato che nel 1960 a Gitarama si era rifugiata per giorni in una chiesa insieme a molte ragazze che erano state violentate e a altri tutsi che fuggivano dai massacri. Come è facile immaginare, seppure all’epoca dello svolgimento dei fatti lei stessa avesse venti anni, Jacqueline non ha specificato se anche a lei fosse stata violentata e io non ho reputato opportuno porle la domanda direttamente. Al termine dell’intervista, il mio interprete, un giovane rimpatriato dal Congo di seconda generazione, mi ha detto di essere rimasto molto sorpreso perché i suoi genitori non avevano mai raccontato storie simili e lui pensava che nel 1959-1962 le donne non fossero state toccate. In definitiva, anche se la possibilità di espressione delle violenze sessuali da parte delle donne continua a essere problematica, quelle avvenute durante il genocidio sembrano essere state incorporate nelle memorie dei sopravvissuti tutsi, mentre lo stesso non è successo per gli abusi sessuali compiuti durante la decolonizzazione, che forse in passato potevano essere espressi in ambienti esclusivamente femminili ma che oggi rischiano di essere dimenticati. Note conclusive In conclusione, il divario esistente tra le narrazioni dei sopravvissuti e dei rimpatriati non può risolversi nella ricerca della verità storica – i fatti del 1959-1962 sono stati meno gravi e più circoscritti – né essere ridotto a problemi di natura temporale – le violenze del 1959-1962 sono ormai così lontane che è difficile ricordare – o psicologica – i sopravvissuti del 1994 sono talmente traumatizzati da avere il bisogno di parlare – ma deve essere situato adeguata-

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mente nell’attuale contesto sociale rwandese. Infatti, analizzando le memorie dei tutsi vittime del genocidio del 1994 e delle uccisioni del 1959, appare chiaro che le narrazioni di violenza vengano costruite, al pari di ogni altro resoconto storico, attraverso una complessa strategia del ricordo e dell’oblio non immune alle finalità politiche del presente. Declich (2006), nella sua ricerca sui rifugiati somali zigula, nota inoltre che le narrazioni collettive sulla guerra nascondono ciò che non deve essere detto e danno importanza a ciò che è considerato lecito da dire in base a un “fondamento logico” e a un “archivio culturale” condiviso dal gruppo perché devono servire da modelli di comportamento. Ad esempio, la violenza sessuale verso le donne, seppure sia avvenuta spesso e desti grande preoccupazione nel gruppo, stenta e trovare una giustificazione e una rappresentazione nelle memorie collettive della fuga mentre le violenze di cui sono stati vittime gli uomini possono essere raccontate poiché sono già state incorporate e giustificate nel passato degli zigula. Un ragionamento simile può essere fatto anche nel caso rwandese poiché l’“archivio culturale” e i modelli di comportamento a esso inspirati sono mutati profondamente dal 1959 a oggi. Ciò che un tempo non era lecito dire ed esprimere, e che quindi era tralasciato nella memoria collettiva, può adesso essere incorporato nei racconti e tramandato alle generazioni successive. In altre parole, l’intreccio narrativo che caratterizza le testimonianze dei sopravvisuti del 1994 si distanzia da quello seguito dai rimpatriati non soltanto perché è influenzato dalle attuali circostanze politiche e dall’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, ma perché fa riferimento a modelli culturali e simbolici molto diversi da quelli esistenti durante l’epoca coloniale e pre-coloniale.

1 Partito hutu fondato nel 1957 dal futuro primo presidente del Rwanda Grégoire Kayibanda. 2 Questo articolo è frutto di dodici mesi di ricerche sul terreno condotte nella provincia di Butare (parte dell’attuale regione del Sud) tra l’ottobre

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2002 e il dicembre del 2005 in ambito sia urbano che rurale. Oltre ad avere effettuato interviste aperte e semi-strutturate ai sopravvissuti e ai rimpatriati tutsi, ho assistito ad alcune cerimonie commemorative e a numerose assemblee gacaca, i tribunali popolari istituiti in ogni piccola unità amministrativa del paese per giudicare i crimini di genocidio. 3 Nome delle milizie del partito dell’ex presidente Habyarimana, utilizzato oggi per estensione per definire tutti coloro che hanno partecipato al genocidio. 4 Ad esempio, la menzione dell’aiuto ricevuto dagli hutu non costituisce una pura rappresentazione retorica. I rapporti dell’Amministrazione Coloniale e della Commissione di inchiesta inviata dall’ONU nel 1960 riferiscono come in molti casi gli hutu aiutassero a ricostruire le capanne bruciate dei tutsi. 5 La legislazione gacaca sui crimini di genocidio si basa sulla formula confessione/perdono e sulla distinzione tra i grandi colpevoli, cioè i pianificatori, che rischiano pene elevate, e gli esecutori, ai quali sono concessi grosse riduzioni. 6 Oggi in Rwanda il verbo kinyarwanda gutema, che in origine significa “tagliare”, “ferire con uno strumento tagliente”, “abbattere un albero” e “disboscare”, è usato come sinonimo di uccidere. Secondo alcuni autori e l’opinione corrente, tale slittamento di significato è avvenuto a causa dell’abitudine di ammazzare i tutsi con il machete (Vidal 1995). Privilegiando i significati di “tagliare” “abbattere un albero” e “disboscare”, l’utilizzo di gutema viene letto come segno della matrice agricola del genocidio rwandese e dell’incorporazione degli stereotipi fisici importati dai colonizzatori poiché gli alti tutsi venivano accorciati, cioè colpiti col machete all’altezza delle caviglie durante i massacri (Fusaschi 2000). Ciò che non viene mai specificato è che il significato di “ferire” è ben anteriore al genocidio ed è indipendente dall’impiego del machete (Coupez et al. 2005). 7 Ricovero per le mucche. 8 Il verbo utilizzato in kinyarwanda e gutema. 9 Danielle de Lame, informazione personale. 10 Nel rapporto dell’Amministrazione territorio di Astrida a proposito dei disordini verificatisi tra il 5 e il 14 novembre del 1959, si segnala l’incendio di alcune capanne tutsi a Save, nel corso del quale vengono uccisi 6 uomini e a uno di questi vengono tagliate le mani, verosimilmente con il machete o un’arma simile. 11 Secondo la legge gacaca, le vittime di violenza sessuale hanno il diritto di testimoniare di fronte ai giudici “a porte chiuse”, senza la presenza della popolazione. A questo proposito, vedere anche il rapporto pubblicato da Human Right Watch (2004) sui problemi di giustizia e le vittime di violenza in Rwanda. 12 La violenza sessuale è stata inserita nella prima categoria di colpevolezza nella legge che punisce i crimini di genocidio, che prevede quindi pene molto alte, tra le quali era compresa fino al 2006 anche quella capitale, abolita recentemente con un decreto presidenziale. Per questo motivo, anche se le confessioni permettono delle riduzioni di pena molto forti, è raro trovare anche tra gli stessi detenuti persone che ammettano di avere compiuto uno stupro in prima persona.

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13 Ricordo ancora una confessione pubblica ascoltata nel 2002 a Butare, nella quale un detenuto raccontava di essersi portato a casa la ragazza tutsi di un vicino e che, dopo aver passato tutta la notte con lei, la mattina seguente l’aveva uccisa. Non riuscendo a capire se la violenza sessuale fosse avvenuta, avevo chiesto delucidazioni alla mia interprete, la quale mi aveva spiegato che il detenuto aveva detto di aver avuto rapporti sessuali con la ragazza, ma che l’espressione usata non spiegava se fossero stati consensuali o meno, anche se, considerato il contesto, le probabilità che la ragazza fosse consenziente erano alquanto remote. 14 Anche in questo caso, la traduzione kinyarwanda-francese, che durante le ricerche di terreno non può sempre essere rigorosa, pone dei problemi poiché l’espressione rwandese kubaka urugo, letteralmente “costruire il recinto della casa”, significa sia “sposarsi” che “avere rapporti sessuali” (Coupez et al. 2005).

De-centrare la collina, ritualizzare la memoria, costruire lo spazio del dopo Francesco Pompeo

Prima volta a Gisozi: cosa conservare All’inizio del nuovo millennio arrivare a Kigali significava attraversare una città silenziosa, difficile da rappresentare, senza immagini. Il centro sulla collina di Nyarugenge, disegnato dal grande round point, la piazza dell’unità nazionale, era l’unico spazio aperto, accanto alla cattedrale in mattoni rossi, allora ancora segnata dagli eventi del ’94, mentre l’unico altro segno era costituito dal centro culturale francorwandese. Da quello snodo, una circolazione sporadica si disperdeva in una trama viaria abbastanza schematica che, in poco più di ottocento metri, racchiudeva tutte le strutture commerciali e ricettive della capitale. Intorno, una città bassa costruita seguendo il movimento della collina: perlopiù abitazioni a un solo piano circondate da muri, che ancora oggi disegnano la continuità del fronte strada, interrotta solo da cancelli anch’essi pensati come altrettanti muri, che nulla lasciano intravedere al di là. Una città-giardino, come la raccontavano le guide turistiche, con fiori e piante tropicali dalla bellezza violenta che crescevano a lato di strade sorprendentemente tranquille, persino silenziose, dai colori scuri. Non molto diversa la realtà del quartiere commerciale, appena più vivace, in cui i camion scaricavano direttamente la merce in piccolissime botteghe. Accanto alle zone residenziali, l’altra realtà era quella dei quartieri ad alta densità, a degradare verso il basso fino alle zone industriali e di passaggio. Gli avallamenti erano e sono attraversati dalle strade che collegano le diverse colline tra loro: un andamen-

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to a saliscendi con dislivelli fino a settecento metri. Così, poco più in là, a Kacyiru, le sedi istituzionali, i ministeri e, sulla collina accanto, il parlamento, che portavano ancora i segni della guerra, come il grande sventramento proprio della sede dell’assemblea nazionale. A Kigali, nel 2003, c’è stato anche l’impatto con alcuni luoghi del genocidio, primo fra tutti il memoriale sulla collina di Gisozi. Percorrendo una strada, allora ancora in terra battuta, si arriva alla costruzione dai colori chiari, dallo stile vagamente orientaleggiante. Il primo difficile confronto, rispetto ai molti successivi, è stato con le grandi fosse comuni dove sono sepolti più di 250.000 corpi recuperati nei dintorni. Subito dopo, attraversando il giardino, l’impatto più duro: in una grande teca in cemento, dietro grandi vetrine, centinaia di crani allineati recavano i segni della morte violenta; accanto, altre ossa, femori, le uniche conservate, con una serie di oggetti quotidiani, abiti, scarpe e altri effetti “personali”, tracce delle brutalità assoluta che aggredisce il quotidiano, emblemi del ripetersi della banalità del male. La prima volta è difficile da raccontare, perché “non ha parole”, perché la negazione radicale dell’umano colpisce direttamente, mette in crisi, è inaccettabile. Uno sdegno la cui elaborazione chiama in causa un primo lavoro di analisi e interpretazione della realtà, per quanto assurda essa appaia: il confronto con il crimine di massa sfugge a una intelligibilità immediata, piuttosto mobilita un’“emozione morale”, un silenzio pieno di domande che ti porti sempre dietro in Rwanda, e che ti spinge a confrontarti costantemente con gli altri, per capire come è stato possibile. Su un piano più articolato, la riflessione investe la rappresentazione della morte e della violenza genocidaria, in particolare attraverso i resti e le ossa. Questa modalità, che a un primo sguardo potrebbe richiamare modelli europei, i memento mori del mondo cattolico, peraltro così presente nel piccolo paese africano, fornisce diversi elementi di riflessione, a partire dalla scelta di cosa conservare: femore e cranio, elementi questi che non facevano parte del trattamento tradizionale del cadavere, per arrivare a considerare la finalità e il significato del mostrare. Su questo punto si sono in-

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terrogati alcuni autori, come di recente Assayag (2007), secondo cui la nuova politica della memoria su scala globale assolve almeno a tre funzioni che investono essenzialmente il simbolico: fornire un’immagine al disastro, rendere giustizia alle vittime, mostrare la violenza e l’abiezione, senza tuttavia di per sé riuscire a renderla intellegibile. In parziale controtendenza con questo assunto, le ripetute visite negli anni seguenti ci hanno fornito l’occasione di seguire la trasformazione del sito di Gisozi, rappresentabile come un progressivo slittamento semantico, da cimitero-ossario a sacrario, fino all’attuale memoriale leggibile come crescita di un apparato interpretativo e di comunicazione. Oggi si tratta, infatti, di un vero e proprio centro museale e di documentazione, con un itinerario didattico su pannelli graficamente elaborati, con foto, testi, riproduzioni, e supporti video, che illustra le premesse e le modalità del genocidio. Al centro della costruzione uno spazio di riflessione fortemente evocativo, con vetrate colorate e stilizzazioni che alludono alla morte, distribuisce l’accesso alle stanze della memoria, a partire da quella con migliaia di fotografie, particolarmente significativa, per giungere quindi alla sala con i crani e a quella successiva con abiti e altri resti del quotidiano. Un piano superiore progettato a fini didattici ospita uno spazio davvero di forte impatto con testimonianze di bambini vittime del genocidio, quasi una pedagogia peer to peer per le scuole1. Accanto e per finire un’esposizione che in chiave storico-comparativa inserisce quello rwandese nella genealogia dei genocidi, dagli armeni agli herero, alla Shoa, fino a Cambogia e Bosnia, categorialmente più discutibili. Tornando alla scelta di cosa conservare, anche le testimonianze degli antropologi forensi intervenuti subito dopo il ’94 raccontavano i luoghi dei massacri come spazi in cui erano concentrate le ossa e i resti, lasciati lì come testimonianza. Una modalità che avrebbe tecnicamente reso difficile il lavoro di identificazione. Lo stesso trattamento dei resti da parte di estranei aveva generato fantasmi e paure: correva voce che sarebbero stati portati ad Arusha, nella sede del Tribunale Penale Internazionale, o usati per espe-

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rimenti. Alla base di queste dinamiche è possibile individuare un nesso tra la presenza dei resti e un bisogno di sacralizzazione di luoghi in cui si è realizzata un’esperienza collettiva della morte. In molti casi, poi, si trattava già di siti sacri, poiché i genocidari, com’è noto, operando un sovvertimento radicale di simboli già condivisi, hanno compiuto i massacri più sanguinosi proprio in quegli spazi che sino ad allora avevano protetto le vittime: le scuole, ma soprattutto, le chiese. Tra queste ultime, il simbolo più significativo è quella sulla strada che porta a Kibuye, rasa letteralmente al suolo per ordine del parroco sui fedeli che vi avevano trovato rifugio e oggi ridotta ad ammasso indistinguibile di mattoni, oggetti, persone, vite. I luoghi del genocidio hanno riscritto la geografia degli spazi di culto secondo il modello del sacrario nel senso non solo religioso del termine; in altre parole, come spazio in cui sono custoditi elementi simbolici forti che hanno dato vita a forme specifiche di devozione. La concentrazione dei corpi dispersi in luoghi definiti rappresenta, infatti, un elemento nuovo, estraneo a una tradizione che legava l’inumazione del cadavere al recinto familiare. I molti sacrari locali con le grandi camere mortuarie comuni rispondono propriamente a questa esigenza e lo fanno con una certa essenzialità, pressoché senza simboli. I corpi e i resti non sono più gestiti in un qualsivoglia legame con la discendenza, tanto rilevante nell’orizzonte della patrilinarità rwandese, ma, essendo radunati in un solo luogo, vengono a costituire un elemento centrale della pratica della memoria collettiva del genocidio: questo elemento di ri-significazione di luoghi, spazi e corpi in relazione alla morte certamente passa per la dimensione politica legata ai fatti del ’94, ma non appare tuttavia esclusivamente riducibile a essa. Una circostanza che può dire molto della capacità di cogliere questi fenomeni è stata quella di un “incidente diplomatico” intervenuto in occasione del Summit Mondiale dei Premi Nobel per la Pace tenutosi a Roma nel novembre del 2005. In una sessione dedicata al Rwanda, il super magistrato elvetico Carla Del Ponte, evocando il suo operato come

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procuratore del Tribunale Penale Internazionale2, presentava come specifica problematicità proprio il rapporto con quei resti “lasciati lì ammucchiati, buttati in un garage (…) mentre noi volevamo identificarli (…) come avevamo fatto in Bosnia”. L’identificazione sarebbe servita anche per stabilire “responsabilità” e “colpe”, riferimenti di grande ambiguità che alludevano persino a una dimensione della discendenza (capire chi ha fatto che) ricollegabile all’etnicorazziale. Queste affermazioni, come sovente accade nel cosiddetto mondo dell’umanitario, in nome di presunti primati giuridici e materiali, non solo assumevano un tono di superiorità morale, legittimando l’ennesima violenza simbolica ai danni dei sopravvissuti presenti in sala, ma soprattutto continuavano a veicolare rappresentazioni sbagliate e schematiche della realtà del genocidio rwandese, tornando al vecchio modello del conflitto etnico o “razziale”. I giardini del presidente e altri modernismi stradali Negli anni successivi, viaggiare verso Est, fino a Kibungo, non ha solamente segnato il passaggio dal mondo della città a quello della collina ma, progressivamente, ha consentito di seguire le trasformazioni del territorio e, soprattutto, quelle delle strutture politico-amministrative con il decentramento, manifestatesi visivamente prima con il rifacimento della strada, quindi con la costruzione di svincoli come quello di Rwamagana, divenuta capoluogo dell’intera nuova provincia, o quello che conduce al lago Muhazi e alla casa del Presidente. L’elemento che tuttavia su scala ridotta ha segnato l’immagine di questi cambiamenti è propriamente la cura e la manutenzione del fronte strada, dai sentieri che vi corrono paralleli, fino a vere proprie aiuole che con fiori e piante disegnano motivi a losanga, scrivono frasi di benvenuto o il classico amahoro (pace). Questo arredo “naturale-urbano”, insieme alla presentazione delle abitazioni sempre molto curate, contribuisce a dare una percezione di questo spazio come fortemente ordinato.

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L’allineamento delle abitazioni ai bordi delle strade, come ha rilevato Danielle de Lame (1996), rappresenterebbe una riscrittura dello spazio collinare in funzione modernista, con una forte tendenza alla concentrazione intorno agli assi viari che, peraltro, ospitano le attività commerciali e gli altri poli della vita sociale – chiese, scuole, uffici amministrativi, ecc. Questa tendenza risponde anche a una politica che dal 1996 ha incentivato il raggruppamento di quelli che, in precedenza, erano soprattutto abitati dispersi in nuove agglomerazioni di villaggio, per le quali è stato utilizzato il termine già in uso di imidugudu. Addentrarsi a piedi oltre la zona immediatamente circostante la strada, nelle diverse deviazioni secondarie che costituiscono gli itinerari quotidiani di gran parte della popolazione, significa entrare ancora in un altro universo: è tutto un articolarsi di sentieri e linee di divisione vegetali, che restituisce a quello che è in realtà un vicinato di insediamenti familiari l’apparenza di un giardino. Un’alternanza di spazi abitativi, piccole coltivazioni e zone residuali di foresta, cioè il mondo della collina, unità di riferimento del mondo tradizionale e rurale: la collina, spazio geograficamente visibile, è percepita, prima di tutto, nello spirito dei rwandesi, come uno spazio di vita: è l’unità percettibile immediatamente superiore al recinto domestico e nella quale si sono inseriti dei lignaggi che intrattengono tra di loro legami tessuti nel corso del tempo (de Lame 1996, p. 87).

In questo senso la collina è un ambiente eco-sociale fondamentale, un preciso riferimento economico di un’agricoltura di sussistenza, che ha saputo sfruttare le diverse altimetrie e nicchie ambientali. In realtà, la sua organizzazione spaziale risponde a un mosaico di relazioni sociali stratificato e complesso che ha al centro proprio l’abitazione familiare, l’urugo (plurale ingo), che, come spazio di terreno recintato, non designa solamente la materialità dell’insediamento ma anche la famiglia che lo occupa e il lignaggio, inteso co-

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me perpetuazione della discendenza. In questo senso si spiega anche il fatto che l’espressione kubaka urugo, letteralmente “costruire il recinto familiare”, significhi anche avere relazioni sessuali (p. 93). In generale, l’immagine dell’urugo si ricollega più propriamente alla nozione di focolare, dove con questa espressione s’intendono materialmente il fuoco e il gruppo domestico che se ne serve. Come racconta J. B. in un pomeriggio della scorsa estate, “la famiglia potente è quella numerosa che si espande anche attraverso la terra”. Se dunque il mondo della collina storicamente ha rappresentato la scala di riferimento della gran parte della popolazione rwandese, esso ha anche costituito lo scenario dell’orrore genocidario, anzi, a detta di alcuni autori, persino una delle ragioni collaterali. Taluni hanno messo in relazione l’esplosione genocidaria con la crisi agricola del 1989; a questo proposito, pur evitando spiegazioni economiciste riduttive, esistono diverse attestazioni del fatto che il progetto ideologico dell’eliminazione del nemico interno tutsi, a livello di vicinato, abbia tratto sostegno opportunistico dalla spinta a regolare conflitti ereditari e di proprietà e dall’idea di impossessarsi dei beni dell’altro (Van Hoyweghen 1999, Pottier 2002). In quest’ottica, dove “per espandermi, devo eliminare l’altro”, l’uccisione diviene una sorta di sacrificio di ri-fondazione: il suo sangue bagna la terra che diverrà la mia. Questo stesso universo è oggi al centro di una serie di tensioni e di interrogativi che investono la sfera politica: la prima questione è la redditività della piccola proprietà agricola, la seconda riguarda il cambiamento demografico connesso al rientro dei vecchi rifugiati. Negli anni Novanta, sostiene Saskia Van Hoyweghen (1999), il 50 per cento della produzione agricola era ancora legato alla piccola e piccolissima proprietà. Lo sfruttamento delle terre aveva raggiunto i suoi limiti, non essendo più sostenibile sul piano economico per l’estrema frammentazione, a cui si aggiungevano la crescente dipendenza dai fattori climatici e la mancanza di risorse investibili. In poche parole, la piccola agricoltura di sussistenza, per la sua fragilità, veniva a costituire

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un elemento di impoverimento del paese. Secondo queste valutazioni il sistema doveva essere ri-orientato in direzione di un mercato più ampio. Questa lettura delle prospettive di sviluppo del piccolo paese nel post-genocidio si è quindi tradotta in una prima riforma agraria nel 2005, nella scelta di una strategia non indenne da rischi, cioè nell’adozione di una politica agricola che prevede che i proprietari di terre scarsamente o per nulla utilizzate debbano rinunciare alla loro terra, così che anche i coltivatori più ricchi possano acquistare più terra, accrescere i propri latifondi e ‘razionalizzare’ la propria gestione (Pottier 2008b, p. 138).

La capitalizzazione delle terre è, infatti, collegata direttamente con l’altro aspetto del problema, quello del rientro dei vecchi rifugiati, e del conseguente riequilibrio di risorse e disponibilità a livello locale (cfr. infra introduzione, p. 29, e Jourdan, p. 85). Da questo punto di vista, peraltro, proprio la zona di Kibungo rappresenta un caso interessante, essendo stata destinata, come ricorda anche nell’introduzione Fusaschi, dal regime di Habyarimana a “ospitare” rifugiati interni tutsi, così da divenire dopo il ’94 un vero e proprio luogo di neo-insediamento. Oggi il 78 per cento della popolazione vive negli imidugúdu, le nuove aggregazioni costituite in larga parte da vecchi rifugiati rientrati, insieme ad altri rescapé già rifugiati interni che precedentemente vivevano negli abitati dispersi. Ma torniamo ancora ai giardini, che in antropologia vantano una consistente letteratura – da Coral Gardens di Malinowski (1935) fino a I giardini di Lussemburgo di Marc Augé (1985) – come modelli di organizzazione dello spazio in base a temi mitologici e sociali: dagli incontri e dalle testimonianze sulle colline, da Ndamira a Rukira, il tema della cura di questi spazi è apparso inscindibile dalla pratica e dagli scenari dell’umuganda, la tradizionale corvée in onore del sovrano, il mwami, che è stata reintrodotta per la ricostruzione dopo il genocidio e oggi rappresenta una giornata di lavoro collettivo volontario a beneficio delle comunità locali. Quale ulte-

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riore ritualità pubblica a livello territoriale, essa chiama in causa anche dimensioni politiche: forte è il richiamo al messaggio presidenziale della costruzione di un nuovo Rwanda, che passa anche attraverso le numerose immagini diffuse dalla televisione e dai giornali, che ritraggono Paul Kagame con altri rappresentanti dell’élite che mettono mano all’umuganda, secondo un sapiente copione di rappresentazione del mito presidenziale. Accanto alle corvée volontarie dell’umuganda, un contributo assai rilevante, anche sul piano simbolico, a questi interventi di riscrittura dello spazio è quello dei prigionieri che si vedono lavorare proprio ai bordi delle strade; fino a qualche tempo fa in divisa rosa, più recentemente in arancione “stile Guantanamo”. La “mobilitazione locale” per lo sviluppo non si ferma qui; nello scorso autunno girare per il paese significava confrontarsi con un paesaggio inatteso: su molte abitazioni e immobili commerciali, soprattutto ai bordi delle strade, figurava, scritta con la vernice, la lettera K, che letteralmente sta per kuvúgurura, cioè immobili da abbattere e da ricostruire a spese del proprietario, oppure altre sigle che invece indicano che gli immobili vanno ristrutturati radicalmente. Osservando gli immobili destinati alla demolizione si ha l’impressione che si vogliano rimuovere le tracce del passato, giungendo però anche a esiti controversi, laddove è evidente il nesso tra abbattimenti e condizioni socio-economiche dei proprietari: si finisce infatti per impoverire ancora di più chi, com’è evidente dalle condizioni delle case, già in partenza possiede di meno. Celebrazioni e pompe di benzina Il lutto nazionale, istituito subito dopo il ’94, aveva inizialmente la durata di una settimana, tra il 7 e il 13 aprile, scelta perché simbolicamente rilevante sul piano nazionale (Fusaschi infra, p. 17). In realtà le pratiche genocidarie si sono protratte almeno fino al mese di luglio con diverse storie locali. La diffusione quasi capillare delle celebrazioni, come afferma anche Célestin Kanimba Misago (2007),

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ha così determinato numerose riproposizioni e un loro prolungamento fino a quasi a tre mesi; seguendone la successione è possibile riattraversare l’intera geografia del genocidio. Questa sorta di ri-presentificazione ciclica del trauma, in un periodo definito dell’anno, interviene su un terreno ancora sensibile, ed è ulteriormente amplificata dalla televisione nazionale i cui programmi, in quell’arco di tempo, sono completamente occupati dal racconto delle diverse iniziative. Apre il lutto nazionale la celebrazione presidenziale, che si svolge ogni anno da un sito memoriale diverso, in cui il discorso del Capo dello Stato fa il punto sulla memoria del genocidio, talvolta con una specifica destinazione politica profondamente criticata da autori come Vidal (1999) e de Lame (2003). Nonostante questi elementi suggeriscano l’esistenza di un apparato, il periodo del lutto nazionale non è riducibile solo a una serie di appuntamenti ufficiali, con finalità insieme di pedagogia della memoria e di legittimazione politica: osservando le cose dal terreno, nel nostro caso da Kibungo, se ne ricava infatti un’altra visione che ha al centro gli attori sociali. Quello che si inaugura il 7 aprile è un periodo la cui durata varia a seconda della località e degli attori coinvolti: si tratta dell’attualizzazione di un vissuto traumatico, sovente indicibile, e insieme della riproposizione di un preciso quadro di responsabilità e ruoli. In questo senso la sospensione temporale del lutto funziona anche da meccanismo evocativo richiamando in forma appena attenuata quegli elementi della paura e del sospetto propri dei racconti del ’94. Così, ad esempio, per quanto riguarda la sfera immediatamente esterna al gruppo domestico, il vicinato della collina, si ripresenta tutta una serie di elementi di minaccia che potremo riassumere attraverso l’espressione “rumori nei bananeti”. Racconta, infatti, a questo proposito J. B. nell’aprile del 2007: questa notte a qualche chilometro dall’inizio del paese sono venuti nei campi, hanno tagliato via con il machete interi campi di banani, (…) è come dire: “guardate cosa siamo capaci di fare, veniamo di notte e vi tagliamo ancora”.

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Questo riferimento è importante perché, come racconta poi E.: tagliare i banani è stata la maniera in cui hanno addestrato i contadini ad uccidere in fretta con il machete, perché c’è sempre la paura anche a uccidere (…) oggi il rescapé è ricercato, quando ha intenzione di rivelare o testimoniare è in pericolo di morte. Il testimone che sta nel bananeto, lì, vicino ai suoi assassini e non parla neanche francese e non ha più nessuno dei suoi: è difficile per l’amministrazione proteggerci.

In queste testimonianze il bananeto è un elemento costante; si tratta infatti di uno spazio familiare e domestico che sta dietro l’abitazione, luogo di riciclaggio e produzione per il sostentamento che, soprattutto nell’area dei Grandi Laghi, presenta una straordinaria valenza simbolica: definisce il vicinato e insieme il rapporto con il tempo, in quanto luogo della continuità di vita che vince anche sulla morte (Remotti 1993, 1994). In questo periodo il bananeto torna a essere quello che è stato nel ’94: lo spazio del pericolo per eccellenza, il luogo dell’insidia, dell’agguato e della solitudine. Si tratta di un’inversione completa di un elemento culturale che struttura lo spazio della collina e il vicinato tutto. Nell’aprile del 2006, in una conferenza dedicata alla sicurezza dei sopravvissuti, si rincorrono voci circa aggressioni ai rescapé e ritorsioni nei dintorni di Zaza. Elementi preoccupanti, soprattutto per i possibili richiami all’autodifesa che possono indurre alla crescita di un clima di pericolosità; così, ad esempio, un poliziotto locale: “sulle colline queste cose continuano e c’è paura (…) la popolazione deve apprendere anche a proteggersi da sé, ci vuole l’occhio del vicino”. In questo periodo di celebrazioni abbiamo potuto osservare una dimensione particolare, ovvero una paura diffusa, in particolare per chi ha vissuto il ’94 anche nei diversi ruoli. Così gli ex genocidari, per J. B., temono ritorsioni, e c’è gente che scappa, che ancora va via dal paese, e molti oltrepassano la frontiera, raggiungono quel-

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li fuori; anzi, proprio questi fanno girare le voci e si infiltrano nel paese per agitare le acque e attrarre fuori il maggior numero dei loro, così anche per attrarre le organizzazioni internazionali, in particolare la Croce Rossa, che porta soldi e risorse, in questo periodo hanno paura (...) poi magari tornano.

Il periodo del lutto nazionale costituisce tuttavia un momento critico soprattutto per i rescapé, tanto sul piano individuale, quello del trauma, quanto su quello sociale del riconoscimento, come ricorda anche Fusaschi (infra, pp. 25). Nelle testimonianze e nei racconti essi sono ancora oggetto di una serie di offese sul piano simbolico e materiale: dicono che vengono tirati sassi sui tetti di notte, che il cibo degli animali viene avvelenato o inseriti chiodi, fino alla recrudescenza di atti di violenza sessuale. Certe volte vengono derisi anche nei cortei e nelle veglie funebri e affermano che maiali o cani vengono fatti gironzolare con i fazzoletti viola delle celebrazioni. Tutto concorre a definire un tono psicologico particolare, che a sua volta trova nelle ritualità commemorative un momento di espressione, secondo uno schema di cui proponiamo di seguito una ricostruzione schematica. I rituali delle celebrazioni costituiscono un insieme eterogeneo di pratiche che impegnano istituzioni e organizzazioni locali a tutti i livelli. In generale, si tratta di un dispositivo cerimoniale abbastanza articolato, fondato sull’alternanza tra momenti rappresentativi e discorsi formalizzati nei tempi e nei ritmi. Nella fase iniziale gli organizzatori introducono la cerimonia, presentando partecipanti e ospiti, prima di cedere la parola alle autorità, per una lunga serie di discorsi di riconferma del senso della circostanza. La commemorazione segue poi un modello che nel corso degli anni si è venuto stabilizzando, il cui centro è “l’inumazione dei cadaveri”. Questa pratica di riportare alla visibilità le bare si ricollega storicamente alle prime immagini del dopo, allora legate all’idea di “dare giusta e adeguata sepoltura alle vittime”, obiettivo non semplice visto che i corpi sono stati dispersi rapidamente e su un territorio molto ampio. Attraverso questa ritualizzazione, quella che si realizza

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non è solo la circostanza del cordoglio, ma in qualche modo un’assegnazione dei corpi ai luoghi, secondo quello schema visto in precedenza che fonda una nuova e specifica dimensione di culto. A questa fase sono quindi associate le “veglie funebri”, altro elemento di forte impatto e di chiara derivazione cattolica, anch’esse originariamente svolte in prossimità o in presenza dei cadaveri, oggi largamente reinventate e reinterpretate. Un terzo elemento sono le “testimonianze dei sopravvissuti”, che da una parte si ricollegano alle pratiche dei gacaca, cioè al racconto delle atrocità da parte dei rei confessi, mentre dall’altra costituiscono anche un terreno di ibridazione espressiva. In questo senso sono in relazione con altri elementi performativi, in particolare la riattualizzazione della poesia tradizionale, dei canti e della musica. Queste singole parti trovano sviluppo soprattutto nella durata della veglia: testimonianze, interventi, poesia e poi di nuovo testimonianze, interventi per l’intera nottata in un clima di intensificazione emotiva crescente, che giunge a esplodere in violentissime crisi di pianto, spesso con esiti convulsivi. Il trauma rivive nel racconto e diventa elemento catalizzatore dei traumi individuali, che riemergono con la forza di eventi presenti nelle emozioni. Così, ad esempio, anche per la forma della poesia, racconta E., anziano poeta: è il poema ibisigo che viene da gusiga declamare: il poema parla meglio, è più ascoltato, tutti ascoltano il ritmo (…) i poemi parlano di nomi, di famiglie che non ci sono più, decimate; quando leggo questi nomi tutti piangono, e la gente mi chiede di inserirne altri; io per fare il poema ripeto i nomi, insisto, sottolineo; ma non bisogna solo parlare di morte ma anche della vita ! (…) Il poema è così, insieme ferisce e guarisce; posso raccontare come è morto qualcuno, così ad esempio quando racconto di quello morto schiacciato dalla macchina dei militari, con la gente che si lamentava perché non aveva potuto ucciderlo “bene”; quando lo racconto la moglie piange, si dispera, ma poi mi chiede di ripeterlo (…). Io ero cattolico e scrivevo molti poemi sulla Vergine Maria e su Dio; io credo ancora, e se mi sono salvato scappando nel bananeto

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è solo grazie a lui, ma non scrivo più, non posso più scrivere poemi sulla Vergine, ho smesso definitivamente.

Diversi autori che hanno studiato le commemorazioni ne hanno sottolineato molteplici aspetti contraddittori, in primo luogo per il peso e l’implicazione diretta dei poteri pubblici nella costruzione di un dispositivo ideologico complesso non indenne da ambiguità (de Lame 2003, Vidal 2004). In questo senso, tuttavia, il confronto con queste esperienze consente di leggerne i rituali come un dispositivo a due facce, che da una parte assolve a finalità politico-istituzionali, ma dall’altra convive con un livello differente, quello per i sopravvissuti della presentificazione del trauma, inteso con De Martino (1977) come esperienza di “risoluzione del rischio della crisi della presenza”, in cui le apocalissi individuali trovano uno scenario di espressione, rappresentazione, legittimazione e riconoscimento. Peraltro i dispositivi della memoria rwandesi rivelano un altro aspetto tragicamente paradossale, quello dell’attaccamento dei sopravvissuti alla testimonianza del trauma come ultimo momento di contatto con la propria storia, con i familiari, gli amici: con il mondo del prima. La memoria dei sopravvissuti è insieme una ferita e un simbolo, ma nonostante questo una certa idea di modernità è lì pronta a passarci sopra, a lasciarla da parte in nome dello sviluppo. Così a Kibungo, accanto allo spazio dove sono stati inumati i resti di circa ventimila vittime, era prevista la costruzione di una grande e moderna pompa di benzina, lungo la strada in via di rinnovamento sulla direzione Sake-Zaza. Se la strada è il simbolo e l’esigenza fondamentale di questo spazio del dopo e della sua ansia di cambiamento, essa racconta anche il vuoto: è così lungo la nuova strada che da Kigali va verso il Bugesera. Il nastro d’asfalto attraversa paesaggi spettacolari, campi aperti e zone umide, passando per la magnifica valle del fiume Nyabarongo. Dinanzi ai nostri occhi estranei quello che si apre è un vero spettacolo della natura, con grandi spazi aperti. Qui non ci sono insediamenti, almeno fino a Nyamata, luo-

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go della memoria, simbolo ed epicentro di quella che in realtà è stata tutta un’altra storia e che emerge però solo progressivamente, prima nei silenzi, sempre più lunghi, quindi nel cambiamento di umore poi, finalmente, nelle parole dell’anziano imprenditore J. che riportano alla luce quello che non c’è più: qui c’era un sacco di gente, lungo la strada che non era bella come ora, era tutto un continuo di villaggi, uno di seguito all’altro; sì, certo, con quelle case di prima, basse, piccole, perché qui non arrivava niente dallo Stato, che qui ci aveva mandato un sacco di persone (rifugiati interni) (…) ma oggi cosa rimane di tutto questo, di tanti amici, conoscenti, famiglie, non c’è niente, non c’è più niente; solo qualche casa nuova (…) questa è gente nuova che è venuta dopo. Qui la pulizia (il massacro) ha funzionato bene (…) davvero non è rimasto nulla. Lo stesso proprio a Nyamata, dove le case sono ancora vecchie, non le hanno ridipinte, perché non c’è più nessuno (…) non ci sono più gli abitanti, il paese è fantasma; solo intorno alla chiesa c’erano settantamila morti, quelli avevano messo le barriere sul ponte del Nyabarongo, la zona era isolata, facevano quello che volevano (…) qualcuno l’aveva detto, ad Arusha se firmano sarà apocalipsis.

Kigali-Shangai Viaggiare oggi verso Kigali tornando da Kibungo significa partire presto per evitare di arrivare in prossimità della città nelle ore di punta, nel momento in cui il traffico intasa i grandi assi viari in lunghe code che con gli scarichi peraltro avvelenano l’aria. Una dimensione caotica aggravata dal passaggio di mezzi pesanti, in ragione dei numerosi cantieri aperti. Nell’estate del 2008 solo a Nyarugenge era possibile contarne almeno dieci, mentre arrivando al round point non si può evitare di notare la massa imponente di un grande centro commerciale, l’Union Trade Center, il primo di tutta una serie di grandi edifici verticali, come il Century House, sulla stessa piazza l’imponente Plaza building, ac-

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canto il Kigali City Tower, più in là il Top Hill Hotel con la sua cupola, sulla strada che risale la collina la Rama Tower, quindi l’Eco Bank, infine la Banque of Kigali e così via. La città dal 2003 ha conosciuto un’espansione straordinaria, passando da una superficie di 314 kmq a più di 730 kmq, e da 600.00, a 850.000 nel 2005, fino a circa un milione di residenti oggi. Si tratta peraltro di una popolazione giovanissima, circa il 60 per cento è compreso tra 0 e 14 anni e il 30 per cento tra 15 e 29, mentre solo il restante 10 per cento comprende le fasce da quaranta fino a sessanta e oltre. Secondo recenti rapporti delle Nazioni Unite, il Rwanda presenta uno dei tassi più alti a livello mondiale di migrazioni dalle campagne verso le città, paragonabile solo con modelli asiatici. Il censimento del 2002 mostrava che almeno il 40 per cento dell’attuale popolazione di Kigali in realtà vi è arrivato proprio in seguito a movimenti migratori interni3. Questa massa di popolazione che dalle zone rurali si è riversata in città è andata a insediarsi per l’85 per cento in due tipologie abitative: da una parte negli insediamenti informali densamente popolati, costruiti sulle pendici delle colline e dunque sensibili alla topografia e alla geologia, senza infrastrutture, ovvero rete fognaria, rete stradale ecc.; dall’altra hanno adattato alla città e alle sue nicchie residuali un modello derivato dagli insediamenti dispersi. Accanto a questi quartieri sono sorti nuovi spazi residenziali con standard e finanziamenti internazionali. È il caso delle villette di stile vagamente inglese di Kagugu, nel distretto di Gasabo, con parcheggio privato, giardinetto davanti e dietro, circondate da mura, situate in prossimità di un centro commerciale europeo dove è possibile persino gustare pane fresco e dolci tedeschi. Queste nuove residenze sono peraltro pubblicizzate on line sul sito della previdenza sociale, soprattutto, non a caso, nella versione anglofona, destinata ai rifugiati di ritorno o a imprenditori internazionali, attraverso lo slogan Retire with Dignity, insieme alle offerte per l’acquisto di terre dove realizzare nuove costruzioni .

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Negli anni la vita della città ha cambiato ritmo e itinerari: oltre all’incremento dei residenti, un intenso pendolarismo giornaliero porta nella zona urbana almeno altre seicentomila presenze; le strade sono invase da una circolazione sempre più caotica di persone e autovetture. In questi luoghi di passaggio e scambio ci sono tuttavia precise modalità di ordinamento e controllo, esercitate da nuove figure della strada, rigorosamente inquadrate e perlopiù in divisa: i primi, già dal 2003, sono stati i venditori di schede per telefoni cellulari, che di solito portano con sé un apparecchio a uso pubblico, poi sono arrivati gli incaricati dell’arredo urbano, affidato a un’associazione di “vedove” (per cui è abbastanza consueto vedere anziane curve pareggiare aiuole utilizzando il machete), infine i parcheggiatori di strada, che rilasciano regolare tagliando di un’associazione di ex combattenti, anche se sembrano troppo giovani. La finalità generale sembra quella di non avere in giro gente che chiede l’elemosina, ovvero di offrire una certa immagine della città. Anche il commercio ambulante è appena tollerato e si concentra nelle zone di passaggio dei turisti, ma non è infrequente assistere a scontri con l’ultima e più presente e temibile categoria dei nuovi mestieri della città, quella dei sorveglianti privati, molto presenti e ostentatamente armati, davanti alle banche, ai supermercati, agli alberghi, a certe abitazioni o uffici. Kigali in questi anni è divenuta il punto di snodo di tutti i flussi economico-finanziari della regione dei Grandi Laghi, tanto come polo di mediazione con l’Africa orientale quanto come sede di investimento dei proventi delle vicine attività di sfruttamento minerario nelle limitrofe aree del Congo, ancora caratterizzate da un’instabilità politico-militare, in cui gli stessi rwandesi hanno un ruolo strategico complesso(v. infra, Jourdan, pp. 84-100). Questa vocazione è stata prefigurata ufficialmente nel documento Vision 2020, in cui il Rwanda viene immaginato come hub, ovvero snodo tecnico della new Africa, come leader nello sviluppo e centro regionale di connessione e vitalità economica, che attraverso l’innovazione tecnologica spingerà l’intera area nel secondo millennio.

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Gli stessi obiettivi sono ribaditi con toni ancora più enfatici nel Kigali Conceptual Master Plan3, laddove: il futuro è quello di una regione che può competere con successo nel panorama dell’economia globale che potrà creare opportunità e prosperità per i suoi cittadini; dove affari e industrie potranno prosperare e crescere; in cui i settori pubblico e privato lavorano in partenariato, e dove gli individui e le famiglie godranno di un livello di vita garantito (p. 26).

Il Master Plan propone una visione a largo spettro dello sviluppo della città che “ha il potenziale per divenire un centro per la sanità, la formazione e l’educazione, la cultura, gli affari , il turismo e città la più vivibile e sostenibile in Africa” (p. XV), prevedendo per i prossimi cinquanta anni di accogliere in un nuovo tessuto urbano altri due o tre milioni di persone. Il confronto tra queste aspettative e il contesto urbano attuale è disarmante: “oggi Kigali non ha edifici, infrastrutture, servizi sociali, opportunità lavorative, per supportare la popolazione esistente, abbandonata a se stessa per affrontare adeguatamente il futuro” (p. 28). L’analisi dei tecnici dello sviluppo qui è lucida e dettagliata, il tessuto urbano è cresciuto spontaneamente, senza progetto e con profondi squilibri: tuttavia, la risposta si concretizzerà in una vasta campagna di ridefinizione del disegno della città attraverso una serie di abbattimenti dei quartieri popolari e successive lottizzazioni dei terreni così resi disponibili. A questo riguardo, dal punto di vista di un operatore del sociale réscape che bada a molti orfani della sua famiglia sterminata nel ’94 e che, oggi, lavora nel centro della capitale: lo sgombero dei vecchi quartieri è stato brutale e solo una parte degli abitanti era stata preparata ed è stata indennizzata, altri invece sono stati colti di sorpresa; quando si sono riuniti in assemblea per discutere, nello stesso momento le ruspe cominciavano ad abbattere tutto! E poi hanno detto che avrebbero rimborsato, ma come fare, dal momento che tutto era stato distrutto? Ci sono state proteste da parte degli ex

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abitanti (…) i terreni li avevano già venduti agli investitori (…) per i rimborsi poi hanno attribuito valori vecchi, anche di dieci anni. (…) il problema è che poi qui la vita è diventata difficile, per via del traffico e dell’inquinamento ma soprattutto per i soldi, che non bastano più (…) allora c’è gente che va a vivere più lontano e viene in città ogni giorno (…). Loro comunque lo hanno detto cosa vogliono fare, il modello non è neanche africano, vogliono fare come a Shangai.

Kigali-Shangai: il modello è la città globale per come è stata definita da Saskia Sassen, quel centro dei flussi che diviene anche il catalizzatore delle disuguaglianze, dove ricchezza e povertà, entrambe estreme, vivono l’una accanto all’altra. L’obiettivo più generale è quello che Pottier (2008b) ha identificato come la de-agricolizzazione, cioè la costruzione di uno sviluppo economico svincolato dalla dipendenza dal settore agricolo, puntando su servizi e innovazione. La domanda di fondo è se sia possibile sconfiggere i fantasmi del passato attraverso la corsa verso la globalizzazione, senza prendere in considerazione i contraccolpi sociali e le linee di frattura tra i diversi mondi che strutturano il piccolo paese africano. Queste dinamiche sul piano più spiccatamente antropologico hanno a che fare anche con uno specifico uso simbolico del tempo, ora rallentato, ciclicamente ricondotto a un passato insostenibile, ora accelerato verso un futuro di cui non si conosce la sostenibilità, con un presente che ha il fiato corto, quello di un’aspettativa di vita di quarantadue anni. È una sera di inizio primavera… Al rientro da una giornata di lavoro ci troviamo, io e la mia compagna, in una residenza dell’École Normale Superièure a Lione. Lasciati libri e computer sul letto, decidiamo di accendere la televisione: diversamente dal solito questa volta lo facciamo subito, per vedere le immagini dall’Italia. Proprio in quel momento dalla giacca appena

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appoggiata sulla sedia suona il cellulare; rispondo lievemente infastidito e la mia insofferenza cresce quando dall’altra parte non sento nessuno. Alzo la voce, fino a che, un istante prima di chiudere, sento arrivare da lontano una voce incerta, che parla in un francese che riconosco immediatamente dall’intonazione: è J., dal Rwanda. È molto agitato e mi dice: “è terribile, abbiamo visto le immagini è tutto distrutto (…) vi siamo vicini, i vostri morti sono i nostri morti (…) noi lo conosciamo questo dolore”. Era il giorno dei funerali per il terremoto dell’Aquila trasmessi in tutto il mondo: l’allineamento delle bare, l’emozione collettiva. Tragiche analogie con il ’94, per un rescapé come J., con le sue celebrazioni, l’idea della morte di massa, i funerali collettivi. Poche parole deformate dall’eco di linee telefoniche incerte sono sufficienti a instaurare quel clima comunicativo, quella “emozione morale” che è un punto di incontro tra codici culturali e percorsi di vita diversi e che negli anni ci lega in rapporti unici, a momenti davvero indimenticabili, a silenzi condivisi dinanzi all’orrore. Quell’orrore che io non ho vissuto e che pure mi lascia una traccia dentro, mette in questione l’umano, genera domande, ricerche e impegni che non si esauriscono.

1 Questo sito è concepito come quello di Murambi di cui parla Gakwenzire (infra, pp. 101-115). 2 Già celeberrimo Procuratore del Tribunale Penale Internazionale per la Iugoslavia, Carla Del Ponte fino al 2003 ha svolto contemporaneamente lo stesso ruolo nel Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda. Il magistrato ha dovuto rinunciare al mandato in seguito alle accuse del Procuratore generale Gerald Gahima e del governo rwandese di rallentare l’iter giudiziario considerando quello ruandese un “part-time job”. Altri osservatori ritengono che la magistrata elvetica si sia inimicata le autorità locali perché avrebbe orientato le sue indagini sulla teorie revisioniste del doppio genocidio. 3 Per una panoramica dei dati statistici si vedano i documenti ufficiali pubblicati sul sito del comune www.kigalicity.gov.rw, ultima consultazione 17/6/2009. 4 Cfr. Kigali Conceptual Master Plan, The Rwanda Ministry of Infrastructure, November 2007.

Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento. AA.VV.,

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Gli autori

Ilaria Buscaglia è dottoranda in Antropologia, Etnologia e Studi Culturali all’Università di Siena e membro della Missione Etnologica Italiana in Africa equatoriale dell’Università di Torino. Dal 2007 svolge attività di ricerca di terreno in Rwanda sul rituale matrimoniale, in particolare nell’area urbana di Kigali. Silvia Cristofori è dottoranda in antropologia presso l’Università Sapienza di Roma, con una ricerca sulle nuove forme di religiosità nel contesto postgenocidario rwandese che svolge prevalentemente nella Provincia dell’Est (Kibungo). In qualità di membro corrispondente, collabora inoltre alle ricerche che hanno per tema le dinamiche socio-culturali della migrazione, svolte dall’Osservatorio sul razzismo e le diversità M. G. Favara (Università Roma Tre). Michela Fusaschi insegna Antropologia Culturale e Sociale presso la Facoltà di Lettere dell’Università Roma Tre. Ha insegnato all’Ecole Normale Superiore di Lione, all’Unatek di Kibungo, Rwanda. Da anni è impegnata in attività di ricerca in Africa sub-sahariana, (Rwanda e Mali) e in Italia sui temi delle migrazioni, dell’antropologia politica e dell’identità, anche in riferimento alle questioni del corpo e del genere. Fra le sue pubblicazioni: HutuTutsi. Alle radici del genocidio rwandese (2000, Premio Iglesias, XXXV edizione); I segni sul corpo. Per un’antropologia delle modificazioni dei genitali femminili (2003, Premio Amelia Rosselli, Sessione speciale sui diritti umani);

GLI AUTORI



Corporalmente corretto (2008, Premio Letterario Internazionale Feudo di Maida). Philibert Gakwenzire insegna storia all’Unatek, Università dell’Agricoltura, Tecnologia e dell’Educazione di Kibungo, dove è direttore di dipartimento nella Facoltà di Educazione. Dirige il Dipartimento Memoria e documentazione nell’Associazione Ibuka, che raccoglie le altre associazione dei sopravvissuti del genocidio del ’94. Luca Jourdan è ricercatore in Scienze Antropologiche presso l’Università di Bologna dove insegna Antropologia Culturale e Antropologia Politica. Ha lavorato nell’ambito della cooperazione in Chad, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo e Vietnam. A partire dal 2001 ha condotto una ricerca di terreno nel Nord Kivu (Repubblica Democratica del Congo) sul rapporto giovani/guerra, la crisi dell’infanzia, l’economia informale e la frontiera. Nel biennio 2004-2005 è stato coordinatore di un progetto di ricerca (“Re-imaging peace after massacres”) realizzato dal CERI (Parigi) e finanziato dalla Ford Foundation (USA). Membro della Missione etnologica italiana in Africa Equatoriale, sta attualmente conducendo una ricerca in Uganda, finanziata dal Corus (Francia), sull’impatto della crisi ambientale fra le società isolane del lago Vittoria. José Kagabo, docente e storico all’EHESS di Parigi, si occupa di storia sociale e politica del Rwanda e di fenomeni religiosi. È impegnato nell’analisi del Tribunale Penale internazionale per il Rwanda e le giurisdizioni rwandesi nonché nelle pratiche memoriali e nel tema della riconciliazione nazionale. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli e la monografia L’islam et les ‘Swahili’ au Rwanda (1988). Francesca Polidori, dopo la laurea presso l’Università di Siena con una tesi sul ruolo della memoria e della giustizia nel processo di riconciliazione in Rwanda che ha otte-

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GLI AUTORI

nuto il premio “Gianni Statera” (2003), ha proseguito gli studi e la ricerca sul campo in Rwanda, concentrandosi in particolare sui processi di integrazione e costruzione identitaria presso popolazioni rifugiate e rimpatriate, conseguendo il titolo di dottore di ricerca in Metodologie della Ricerca Etnoantropologica. Ha pubblicato Rwanda dieci anni dopo. I tribunali gacaca e le sfide della riconciliazione sulla rivista «Sociologia e Ricerca Sociale» (2004). Francesco Pompeo insegna Antropologia Culturale e Sociale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Roma Tre, dove coordina anche l’Osservatorio sul Razzismo e le Diversità “M. G. Favara” del Dipartimento di Scienze dell’Educazione. Da anni è impegnato sui temi dell’identità, delle migrazioni e dei conflitti e su questi svolge ricerca in Italia, Africa Subsahariana e Caraibi. Ha insegnato all’EHESS di Parigi, all’Università dell’Avana, Cuba. Ha pubblicato numerosi saggi e articoli. Per la Meltemi: Il mondo è poco. Un tragitto antropologico nell’interculturalità (2002); La società di tutti. Multiculturalismo e politiche dell’identità (2007), Autentici meticci (2009).

Stampato per conto della casa editrice Meltemi nel mese di settembre 2009 presso Arti Grafiche La Moderna, Roma Impaginazione: www.studiograficoagostini.com