Etnografie militanti. Prospettive e dilemmi 9788855192415

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Etnografie militanti. Prospettive e dilemmi
 9788855192415

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Biblioteca / Antropologia 44

Direzione Andrea Staid (Naba, Milano) Comitato editoriale Andrea Staid (Naba, Milano); Massimiliano Guareschi (Naba, Milano); Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera, Milano) Comitato scientifico Marco Aime (Università degli Studi di Genova); Bruno Barba (Università degli Studi di Genova); Piero Zanini (École Nationale Supérieure d’Architecture de Paris la Villette); Franco La Cecla (Naba, Milano); Vincenzo Matera (Università degli Studi di Milano-Bicocca); Matteo Meschiari (Università degli Studi di Palermo); Valentina Porcellana (Università degli Studi di Torino); Giuseppe Scandurra (Università degli Studi di Ferrara); Emanuele Fabiano (Pucp, Pontificia Universidad Católica del Perú); Stefano De Matteis (Università degli Studi Roma 3)

Stefano Boni, Alexander Koensler, Amalia Rossi

Etnografie militanti Prospettive e dilemmi

MELTEMI

Meltemi editore www.meltemieditore.it [email protected] Collana: Biblioteca / Antropologia, n. 44 Isbn: 9788855192415 © 2020 – meltemi press srl Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 – 20124 Milano Sede operativa: via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 22471892 / 22472232

Indice

7 Ringraziamenti Introduzione 9 La stagione delle etnografie militanti? I. Relazioni e ricerca Capitolo primo 21 Dalla “crisi della rappresentazione” all’etnografia militante, pubblica e applicata Capitolo secondo 33 Verso un’autocritica dell’antropologia critica e dell’etnografia militante Capitolo terzo 65 Un delicato equilibrio tra distanziamento e coinvolgimento Capitolo quarto 89 Ricerca e militanza: un’imperfezione inevitabile II. Dilemmi e pratiche Capitolo quinto 105 Relazioni, motivazioni, dubbi

Capitolo sesto 135 La moltiplicazione delle modalità di restituzione Capitolo settimo 155 I dilemmi della ricerca collaborativa Capitolo ottavo 169 La prassi della restituzione tra istituzionalizzazione e militanza III. Casi ed esperienze di restituzione 187

Capitolo nono Il “Peasant Activism Project”: restituire attraverso documentari etnografici di Alexander Koensler

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Capitolo decimo Metodo militante nel contrasto alla dispersione scolastica dei minori sinti di Amalia Rossi

Capitolo undicesimo 217 Dubbi, collaborazioni e sperimentazioni di Stefano Boni Appendice 231 Questionario 233 Bibliografia

Ringraziamenti

Gli autori desiderano ringraziare, per il loro supporto e per la condivisione di idee e riflessioni, Andrea Staid, Cristina Papa, Fabrizio Loce Mendez e gli attivisti del “Peasant Activism Project”, Giuseppe Bolotta, Giorgio Bezzecchi e la comunità Sinti di Pavia. Un particolare ringraziamento va inoltre a Nadia Breda, Agata Mazzeo, Irene Peano, Giacomo Pozzi, Andrea Staid, Alessandro Senaldi, Claudio Sopranzetti e Mauro Van Aken, che hanno accettato di rispondere alla nostra intervista-questionario e il cui contributo è riportato nel testo in forma di “comunicazione personale”.

Ad eccezione degli ultimi tre capitoli, firmati dagli autori, le pagine con i multipli di 3 sono state redatte da Stefano Boni, quelle seguenti, (4, 7, 10 etc.) da Alexander Koensler, quelle successive (5, 8, 11 etc.) da Amalia Rossi.

Introduzione La stagione delle etnografie militanti?

Le stagioni della militanza intellettuale ritornano, sempre. Dopo l’inverno arriva la primavera, dopo il disimpegno a favore di una scienza che si presenta come neutra, si torna ad intrecciare sapere e politica. La militanza prende spunto dalla voglia di capire, di provocare, di cambiare. Oggi i ricordi dei lunghi anni Settanta sembrano sfumare, ma quegli anni hanno segnato la storia della militanza intellettuale contemporanea: Hans-Markus Enzensberger e Jean-Paul Sartre in viaggio di solidarietà a Leningrado, quest’ultimo e Michel Foucault che si alternano ad un megafono durante le manifestazioni parigine del Sessantotto, Said di ritorno in Palestina, gli insegnanti che si presentavano al confine afgano con tesserino del PCI sono alcune immagini delle pose degli intellettuali engagé. Che cosa è rimasto oggi, o meglio, che forme ha preso oggi l’impegno nelle scienze sociali? Passata la grande stagione in cui sembrava quasi che si potesse scrivere soltanto per cambiare il mondo e impegnarsi sul presente, Umberto Eco, nell’introduzione del 1980 a Il nome della rosa, tira un sospiro di sollievo: “[…] è ora consolazione dell’uomo di lettere (restituito alla sua altissima dignità) che si possa scrivere per puro amore di scrivere. Sono finiti i tempi in cui per poter scrivere serviva la militanza” (2012, p. 14). Negli anni Ottanta si faceva spazio anche il cinismo e il ripiegamento su sé stessi. Ma più di recente il disinteresse e l’in-

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differenza sembrano attenuarsi in molti progetti intellettuali. Sembrano emergere nuove scintille di indignazione, di impegno, di militanza. In Italia, solo per menzionare le più note, la voce di Zerocalcare in difesa degli spazi autogestiti e per la democrazia partecipativa nelle zone curde della Siria, quella di Michela Murgia per il salvataggio dei migranti o quella di Roberto Saviano per l’affermazione della legalità e dello stato di diritto sono soltanto alcuni dei possibili esempi di una nuova generazione di intellettuali e artisti in cui si mescola l’esplorazione in prima persona di situazioni critiche, con il desiderio di capire e di provocare un’indignazione in grado di scuotere le coscienze e attivare reazioni concrete. Queste posizioni dimostrano che la militanza in prima persona, sul campo, non è morta, non lo è mai stata. All’interno di quel vasto mondo dell’impegno intellettuale, la ricerca sul campo in antropologia, l’etnografia, assume un ruolo centrale. Probabilmente nessun’altra pratica scientifica come l’etnografia si espone così profondamente al coinvolgimento in prima persona. Probabilmente anche per questo motivo questioni di posizionamento e responsabilità sono emerse con particolare forza in campo antropologico. Infatti, la consapevolezza che ogni indagine e riflessione viene condotta a partire da uno specifico posizionamento del ricercatore ha decretato da tempo il definitivo abbandono della pretesa oggettività del sapere. La rilevanza della soggettività di chi fa ricerca è particolarmente evidente nell’elaborazione di etnografie, sia per ciò che concerne la scelta del tema che per l’impostazione dell’indagine. Ogni percorso di approfondimento etnografico è condotto da una specifica collocazione assunta dal ricercatore, una collocazione necessariamente soggettiva: cosa muove il ricercatore? Cosa si aspetta dalla sua ricerca? Come interagisce la sua specifica identità con quella della collettività che studia? Che dinamiche di potere presuppone e scatena la presenza dell’etnografo? Le complesse interazioni tra ricercatore e contesto hanno conseguenze innegabili e rilevanti sulle dinamiche investigative, sui risultati della indagine e spesso anche sul

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circuito studiato: non esistono quindi etnografie politicamente asettiche, la stessa dichiarazione di imparzialità è un posizionamento politico. Con l’abbandono della pretesa di offrire rappresentazioni neutre e oggettive si è riconosciuto che ogni ricerca è prodotta dall’incontro tra soggettività con proprie motivazioni e tensioni che generano relazioni politiche sia durante la ricerca che nel corso della sua diffusione. La storia della disciplina, con i risultati in termini di elaborazione teorica e produzione di documentazione, è innestata sugli specifici (e spesso controversi) posizionamenti degli antropologi. Solo per fare alcuni esempi, alcuni classici dell’antropologia (ad esempio Evans-Pritchard 1975; Benedict 1993) sono stati il risultato di ricerche condotte in ambito militare; i testi (anche quando non lo riconoscono) testimoniano le preoccupazioni e le conseguenze delle attività belliche o coloniali. Altre indagini invece (Mead 2009; Clastres 2003) hanno avuto l’esplicito intento di rappresentare la diversità culturale come modo per innescare trasformazioni nella società in cui gli antropologi stessi sono cresciuti. Più recentemente alcune antropologhe hanno selezionato temi di indagine inediti per contribuire a riconoscere il protagonismo femminile e rafforzare le rivendicazioni di parità dei generi (Campani 2016). L’intenzione che soggiace alla ricerca è centrale per capire come è stata applicata la metodologia etnografica e i risultati che ha prodotto. L’etnografia militante, oggetto di questo testo, è un peculiare posizionamento che emerge con prepotenza negli antropologi e nelle antropologhe che si formano all’inizio del terzo millennio, parte di una più ampia tendenza alla ricerca attivista che investe altri ambiti delle scienze umane e sociali quali la pedagogia, la sociologia e la geografia. In un recente testo Berardino Palumbo (2018) sostiene che uno dei tratti caratterizzanti la storia degli studi demoetnoantropologici nazionali sia stata una prospettiva critica che ha alimentato un impegno pubblico, a tratti esplicitamente politico. Questo tratto costitutivo della disciplina subisce una battuta di arresto dalla metà degli anni Ottanta fino ai primi

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anni del nuovo millennio ma, come mostriamo in questo testo, la pausa è stata momentanea. Nella seconda metà della prima decade del terzo millennio prende forma, nell’ambito dell’antropologia italiana, una nuova ondata di politicizzazione della pratica etnografica di notevole interesse. Essa si nutre di una genealogia intellettuale e di impegno pubblico, di un particolare intreccio tra rigore scientifico e vocazione morale (vedi capitolo 2). Si tratta di una prospettiva di pratica e azione rafforzata e legittimata dai dibattiti epistemologici dell’antropologia mondiale che avevano chiarito non solo la rilevanza ma anche l’ineludibilità del posizionamento del ricercatore: […] la recente ricerca antropologica nel nostro paese ha infatti fatto propria la consapevolezza del nesso costitutivo tra poteri, saperi, critica etnografica e posizionamenti politici degli stessi studiosi che connota la scienza sociale nella scena globale della tarda modernità […] Spesso la ricomparsa di un’attitudine impegnata e politica tra gli antropologi italiani, pur inscrivendosi negli scenari globali della disciplina, si lega ad esigenze di comprensione e di critica di dinamiche proprie della contemporaneità, anche nazionale […] si iscrive [nella] problematizzazione spesso radicale dell’economia politica e della economia morale del tardo capitalismo neoliberista (Palumbo 2018, pp. 180, 181, 243)

Abbiamo partecipato a questo rinnovato interesse per ricerche finalizzate anche ad intervenire sugli equilibri politici esistenti, spesso condotte con, per, e su movimenti sociali o mobilitazioni informali dal basso. Questi canali emergenti di agency politica sono stati sperimentati negli ultimi anni in buona parte da giovani studiosi che riflettono il mutato contesto dell’azione politica con una crescente sfiducia nelle forme di rappresentanza istituzionale. Molti di quelli che non si rassegnano a concepire la propria dimensione politica nella passività della delega, hanno trovato nelle scienze umane la possibilità di coniugare studio e impegno. In questo quadro, crediamo che nell’ambito delle scienze umane, l’interesse per l’antropologia non sia tanto legato all’acritica ricezione

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di un insieme di teorie critiche, ma alle possibilità offerte dalla metodologia etnografica, per la sua capacità di narrare storie minute, marginali, dimenticate ma significative. L’etnografia può essere uno strumento potente nel contrastare le mistificazioni e banalizzazioni delle rappresentazioni massmediatiche e le semplificazioni e virtualizzazioni dei social network, attraverso una forma narrativa in grado di restituire la complessità dell’attivismo politico, l’umanità delle ragioni delle mobilitazioni e la potenziale forza trasformativa di chi si muove al di fuori degli steccati istituzionali. La sinergia tra lotte politiche non istituzionalizzate e ricerca qualitativa è ulteriormente consolidata dal fatto che il posizionamento prevalente dei giovani antropologi si orienti tra la sinistra informale e la galassia anarchica: attivismo e sapere accademico condividono una sensibilità controcorrente che risponde alla deriva neo-autoritaria globale con un paziente lavoro di relazioni, riflessioni e divulgazione. Il posizionamento politico degli etnografi militanti, spesso ma non sempre, miscela in dosi diverse marxismo e anarchismo nella simpatia mostrata per forme di orizzontalità libertaria elaborata nei margini, nel sostegno alla sperimentazione culturale e alle lotte degli oppressi, nella diffidenza verso organizzazioni gerarchiche, nella condanna della disuguaglianza e della mercificazione. Sebbene sia diffuso tra gli etnografi militanti uno scetticismo verso la burocrazia e il tecnicismo istituzionale, la pratica di trasformazione politica spesso passa per lavori svolti per l’università o nella offerta di servizi. Inevitabilmente, in Italia come altrove, si crea un’affinità tra studiosi e attivisti che sperimentano modelli di azione collettiva e spunti di riflessione critica contro la dilagante miscela tra sfruttamento neoliberista e muscolare xenofobia caratteristica della congiuntura politica istituzionale odierna. All’interno di questo quadro, emerge una proposta, quella della etnografia militante, che si nutre di decenni di dibattiti sul ruolo e sulla responsabilità pubblica dell’antropologia, ma che aggiorna annose questioni, presentando caratteri inediti (cfr. Severi 2019, pp. 161-167).

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L’idea di questo volume è nata dal nostro coinvolgimento in prima persona a vario titolo non soltanto in ricerche etnografiche, ma anche nell’organizzazione di una serie di eventi accademici e non che hanno segnato questa rinnovata attenzione per una etnografia impegnata. Ricordiamo, senza la pretesa di essere esaustivi, i seguenti: due convegni Engaged Voices? Ethnographic approaches toward social movements (Münster 2009 e Milano 2010); il seminario Movimenti Sociali in America Latina (Modena 2010); il Workshop Anthropology and social movements (Perugia 2013); il convegno Ricerca Attivista ed Etnografia militante: Nuove sperimentazioni nello studio socio-antropologico dei movimenti sociali, promosso da LEMS-Laboratorio di Etnografia dei Movimenti Sociali (Modena, 2014) e altri convegni successivi1. Oltre ad una molteplicità di articoli scientifici pubblicati su riviste e a vari saggi usciti per Ombre Corte, alcune delle riflessioni di questi convegni si trovano in Comprendere il dissenso. Etnografia e antropologia dei movimenti sociali (a cura di Koensler e Rossi 2012) e nel numero monografico dell’Archivio Antropologico Mediterraneo, Leggere la protesta. Per un’antropologia dei movimenti sociali (a cura di Matera 2015). L’obiettivo del presente volume è anche quello di offrire una lettura sintetica di alcuni filoni di discussione emersi in questi eventi. Sebbene questo elenco di eventi e pubblicazioni, tutti in ambito accademico, testimoni che il nesso tra ricerca etnografica e attivismo si sia sviluppato in buona parte in seno 1 Tra cui, il seminario organizzato da studenti e giovani ricercatori Esplorare politiche. Per una comprensione delle produzioni politiche dal basso: approcci, metodologie e apporti teorici (Bologna, 2014); il seminario Sguardi e riflessioni sui movimenti sociali odierni in America Latina (Modena 2015); l’incontro Riflettere e coordinarsi. Giornata di studio per la tutela della libertà di ricerca e dell’etnografia (Modena 2016); le tre edizioni del Political Imagination Laboratory. Visualizing and Contextualizing Ethnographies of Social Movements (Perugia 2016, 2017 e 2019); il panel Abitare le crisi. Cittadinanza attiva, dissenso e nuove forme di welfare al convegno SIAA (Trento 2016); i convegni Il fallimento dell’efficacia, l’efficacia del fallimento. Per una comprensione delle produzioni politiche dal basso (Milano 2016), Emancipatory Social Science Today (Parma 2019).

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alle attività universitarie, il fenomeno, come vedremo, rispetto ad altri ambiti di indagine antropologica, si proietta con più decisione al di fuori delle istituzioni del sapere ufficiale. L’etnografia militante viene elaborata in una cruciale interazione politica con il contesto osservato: la documentazione raccolta è utilizzata non solo in ambito universitario ma viene restituita in sinergia con pratiche sociali e politiche extra-accademiche. Inoltre tracce di etnografia militante sono portate avanti da persone che si sono formate in università ma che lavorano nel sociale, spesso con i migranti, portando lo sguardo etnografico nelle relazioni in cui si trovano ad agire come attivisti o professionisti. Questo testo intende approfondire le dimensioni e i dilemmi di questa esplicita e recente trasformazione nella politicizzazione della disciplina che ha generato quelle che abbiamo chiamato etnografie militanti. Ci rendiamo conto che stiamo introducendo in Italia una denominazione che sembra voler designare un sotto-campo della ricerca etnografica. Questa etichetta, che peraltro rispecchia l’esplicito posizionamento di molti dei lavori qui discussi anche se non di tutti, è riduttiva e si può prestare a malintesi. Non vogliamo costringere tutti i lavori che citiamo sotto un marchio che dia una falsa idea di omogeneità, né catalogare in maniera banale e schematica esperienze irriducibilmente peculiari, né classificare ricerche con modalità che i protagonisti delle stesse non sentono proprie. Anzi uno degli obbiettivi di questo testo è riconoscere appieno la varietà possibile del connubio tra militanza ed etnografia, mostrando i molteplici modi in cui essa può essere intesa e praticata, per questo nel titolo abbiamo usato il plurale: le etnografie militanti convergono nell’affrontare certi dilemmi anche se sono differenziate nelle risposte. Abbiamo bisogno di un termine generalizzante perché ci pare che molti degli interrogativi e delle problematiche che emergono in percorsi di ricerca etnografica che hanno un elevato tasso di coinvolgimento politico sia per il ricercatore che per il contesto studiato, siano ricorrenti; sebbene le soluzioni adottate siano a volte

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divergenti. Proporre una rassegna ragionata, come facciamo in questo testo, permette quindi di sfatare la presunta omogeneità di questo stile di ricerca etnografica: gli autori discussi formano un campo di riflessione polifonico, che prende posizioni diverse su questioni che emergono con frequenza dall’intreccio etnografia-militanza. Proprio perché il nesso tra impegno etnografico e politico offre uno spettro di posizionamenti possibili, ha senso confrontarli in modo che ciascun ricercatore possa scegliere come collocarsi, consapevole delle scelte di chi ha fatto un percorso simile. Una precisazione terminologica è necessaria. C’è chi ritiene il termine militanza sia “legato […] ad un modo di fare politica, anche se antagonista, vecchio e […] superato” (Braun 2013, p. 35). C’è invece chi tende a distinguere in maniera netta i termini attivista e militante, in base alla radicalità della collocazione politica e alla intensità dell’impegno. In questo scritto non adottiamo una distinzione netta tra i due concetti perché ci interessa mettere a confronto l’intera gamma di posizionamenti tra impegno politico e ricerca. Usiamo quindi attivismo e militanza come sfumature diverse, dai confini imprecisi, di un unico campo, caratterizzato da una tensione trasformativa. Crediamo anche che la fluidità delle azioni dal basso contemporanee richieda di evitare classificazioni nette. Il titolo del volume avrebbe potuto essere Etnografie Attiviste o Etnografie Partigiane. Ad esempio l’antropologa Cinzia Greco (2016) leva una voce in favore di diverse forme di impegno antropologico: come quelle espresse dall’etnografia militante (in cui la ricerca risulta politicizzata a priori e comunque già durante l’indagine su campo), da quella attivista (orientata all’azione emancipatoria in senso più situazionale) e da quella che lei stessa definisce “partigiana” (orientata all’advocacy politica dei soggetti studiati specialmente in fase di analisi e restituzione). La studiosa, le cui ricerche sono caratterizzate da un approccio partigiano, invoca una progressiva estensione degli spazi di legittimazione disciplinare che conduca ad una maggior tutela di quelle ricercatrici e

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di quei ricercatori che decidono di “prendere le parti” dei soggetti delle proprie investigazioni. Gli approcci militanti, attivisti e partigiani, secondo la studiosa, andrebbero incoraggiati in quanto permettono di illuminare le asimmetrie di potere che portano al perpetrarsi di ingiustizie nel mondo contemporaneo. Questi approcci, inoltre, sono parte integrante della pratica antropologica e contribuiscono come altri orientamenti, allo sviluppo di questa disciplina e delle altre scienze sociali, come altresì dimostrato dall’esistenza di approcci sociologici politicamente impegnati già dagli anni Sessanta in poi (Hillyard 2004). Il presente volume non ha l’obiettivo di essere esaustivo. Le etnografie militanti assumono tante sfumature e la letteratura negli ultimi anni è diventata sterminata. Di seguito esaminiamo il processo di immersione etnografica – la ricerca, le relazioni, la restituzione – di un insieme consistente di indagini senza avere la pretesa o l’illusione di essere completi. Per delimitare un campo che rischia di sfuggirci di mano per la sua vastità, si darà priorità alle ricerche svolte in Italia o da ricercatori italiani nell’ambito della esperienza etnografica2. Prendiamo in rassegna le pubblicazioni che ci paiano al contempo esemplificative e intriganti nel suscitare interrogativi importanti per comprendere le tendenze recenti della rinnovata politicizzazione delle scienze sociali. Nella relazione tra etnografo e contesto attivista, sebbene le due figure come vedremo diventino spesso poco distinguibili, nel complesso privilegiamo la prospettiva del ricercatore, anche perché le pubblicazioni adottano prevalentemente tale posizionamento. Riteniamo peraltro fondamentale evidenziare che l’etnografia militante si nutre dei contributi di ricercatrici donne quanto di ricercatori e che molte etnografie “di genere” si fondano su prospettive militanti, affrontando criticamente la questione della par2 Abbiamo scelto di offrire soltanto accenni fugaci, per ragioni di spazio e di opportunità, su riflessioni analoghe in corso in altri contesti; ad esempio nel mondo anglosassone e in America Latina.

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tecipazione femminile e dei soggetti LGBT alla forgia dei movimenti sociali, politici e religiosi contemporanei (Koensler e Rossi 2012, Mattalucci 2012, pp. 7-11, Viola 2015)3. Il fatto che i lavori riconducibili a questo ambito abbiano una spiccata sensibilità per una auto-riflessione sulle implicazioni epistemologiche, metodologiche e politiche del lavoro, discusse minuziosamente in diverse pubblicazioni, permette questa operazione di analisi comparativa. Il vaglio della letteratura è stato accompagnato da interviste ad alcuni colleghi e colleghe che hanno condotto indagini che rientrano nella nostra definizione di etnografia militante; il loro contributo è stato determinante per il consolidamento della riflessione su questi temi nel panorama intellettuale italiano degli ultimi venti anni, così come lo è stata la loro collaborazione alla realizzazione di questo lavoro con le loro risposte al nostro questionario semi-strutturato che abbiamo loro proposto tra la primavera e l’estate del 2019 e che compaiono nel testo come “comunicazione personale” (si veda il questionario alle pp. 231-232). L’intento principale di questo volume è quello di illustrare le questioni epistemologiche e metodologiche emerse nel corso degli ultimi due decenni ma, allo stesso tempo non ci limitiamo a discutere i lavori altrui: in alcuni passaggi prendiamo posizioni su come, secondo noi, vadano intese le etnografie militanti e su quali siano le conseguenze e i limiti delle diverse scelte metodologiche.

3 Riguardo alla questione del gender, è doverosa una precisazione di natura stilistica. In fase di stesura del volume abbiamo pensato di adottare forme di scrittura gender-sensitive (ad esempio utilizzando asterischi per evitare di connotare in modo rigido il genere degli autori e autrici trattati). Tuttavia, alla fine si è deciso di attenerci agli usi della lingua italiana (ad esempio, ove il plurale maschile sussume anche il femminile), perché le soluzioni alternative ci sembrava rappresentassero un ostacolo alla lettura fluida del testo.

I. Relazioni e ricerca

Capitolo primo Dalla “crisi della rappresentazione” all’etnografia militante, pubblica e applicata

Le crepe nella fiducia di una presunta oggettività delle ricerche antropologiche hanno dato vita ad un profondo rinnovamento nel modo in cui si intende la missione antropologica. Il positivismo, con la sua autorevolezza e fiducia in chi “scopre i fatti” oppure “descrive le realtà” è stato largamente superato e soppiantato da approcci più autocritici e relazionali. In questo primo capitolo partiamo dalla crisi della rappresentazione etnografica per mostrare come una parte dell’antropologia risponda rafforzando il connubio tra pratica etnografica e impegno etico e politico. Inoltre, distinguiamo l’etnografia militante da altre forme di coinvolgimento pubblico. A partire dagli anni Ottanta, alcuni limiti della scrittura dell’antropologia classica sono stati discussi, attraverso una riflessione critico-letteraria, a partire dai saggi editi da James Clifford e George Marcus (1986) in Scrivere le culture. Politiche e poetiche in etnografia. Attraverso una critica letteraria di testi chiave dell’antropologia classica, gli autori mettono in luce le strategie di costruzione dell’autorità etnografica che tende a nascondere la soggettività e la fragilità delle analisi. In questa prospettiva, la monografia classica di Evans-Pritchard I Nuer. Un’anarchia ordinata (1940) offrirebbe più spunti sulla vita personale di chi scrive che non sulla gente e le situazioni di cui parla. La presunta oggettività, l’analisi distaccata e l’uso della terza persona nelle monografie classiche

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occultano e mascherano quindi gli intrecci personali con la biografia dell’autore e la sua soggettività alla base dell’analisi. Note in antropologia come “crisi della rappresentazione”, queste riflessioni critiche sui tentativi di oggettivare gli stessi soggetti della oggettivazione nei testi antropologici aprono un nuovo spazio di sperimentazione che assorbe la certezza delle verità positiviste delle scienze sociali classiche. In altre parole, la critica al modus operandi dell’antropologia classica evoca il comportamento di Nan-in, maestro Zen, quando fu visitato da un professore universitario per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì del tè, ma continuò a versarlo anche quando la tazza era già ricolma. Il tè traboccò. “Come questa tazza, disse il maestro al professore, tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se non vuoti la tua tazza?” (Sensaki e Repo 1973, pp. 67-70). In modo analogo al tè che traboccò, le conseguenze della “crisi della rappresentazione” hanno quindi stimolato un rinnovamento delle questioni epistemologiche relativo a come il sapere si intrecci con la soggettività della ricercatrice o del ricercatore. In breve, lo slittamento dei paradigmi conoscitivi dell’antropologia classica è diventato inevitabile. 1. Dalla “crisi della rappresentazione” a nuove sperimentazioni Questo slittamento ha dato vita a varie risposte e modi di intendere l’impresa antropologica. In primo luogo, esso ha portato a una serie di esperimenti di scrittura con approcci riflessivi, autobiografici o dialogici (Behar 1996; Crapanzano 1980), che hanno posto in risalto le relazioni intersoggettive in atto durante la ricerca sul campo. Nate negli spazi interstiziali tra letteratura e ricerca qualitativa, e dallo sfondamento dei confini tecnici e ideologici della rappresentazione – grazie agli sviluppi dell’antropologia visuale e al consolidarsi e rinnovarsi dell’antropologia femminista e di genere –, l’etnografia narrativa si basa sulla consapevolezza che l’esperienza di indagine implichi anche, o soprattutto, relazioni vissute, una

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conoscenza intima quanto un sapere incorporato. Tra i lavori più conosciuti, Vincent Crapanzano (1980, p. 108) sceglie di trascrivere i suoi lunghi ed intimi colloqui con Tuhami, un uomo del Marocco, invece di spiegare una volta per tutte il funzionamento della cultura marocchina in generale: “Dobbiamo rispettare nell’Altro lo stesso mistero che vorremmo gli altri rispettassero in noi. E questo è anche un fatto sociale”: così l’antropologo di Chicago spiega la sua scelta. Approcci come questo cercano di intendere la ricerca sul campo come un’esperienza umana totale, che coinvolge oltre le capacità analitiche anche le emozioni, l’intuizione e la biografia della ricercatrice o del ricercatore. Un approccio narrativo può contribuire ad approfondire o a rendere più complessa la dimensione intima della conoscenza e dell’identificazione reciproca tra sé e gli altri (Rossi 2008), ma l’abbandono completo di ogni pretesa di scientificità ha lasciato perplessi molti. La fortuna che ha avuto l’antropologia di carattere interpretativo e riflessivo non può essere compresa senza riconoscere il ruolo giocato della crisi della rappresentazione. L’antropologia interpretativa offre una teorizzazione dei rapporti intersoggettivi largamente assente negli approcci narrativi, ma condivide con essa l’enfasi sulla complessità delle relazioni sul campo. La celebre definizione di cultura come testo da interpretare proposto da Clifford Geertz (1987), il padre fondatore dell’antropologia interpretativa, costituisce probabilmente l’esempio più lampante. Per Geertz, l’uomo è “sospeso tra ragnatele di significato” e impegnato in un continuo esercizio di interpretazione della realtà; di conseguenza, l’antropologia non può essere una scienza in grado di scoprire delle leggi immutabili, ma è piuttosto una scienza ermeneutica o “semiotica”, in cerca di significati da decifrare e tradurre. Questi approcci hanno preparato il terreno anche per l’avvento del pensiero postmoderno, che più radicalmente rifiuta quadri di riferimenti totalizzanti e rimane caratterizzato, nell’espressione di uno dei suoi massimi esponenti, Jean-François Lyotard (1991), per il suo costante scetticismo nei confronti delle “grandi narrazioni”. In un certo senso, molte di queste pro-

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spettive dell’antropologia venivano criticate da autori come Robert Borofsky (2010) e dai promotori dell’antropologia pubblica negli Stati Uniti e altrove in quanto troppo incentrate su aspetti della vita quotidiana largamente irrilevanti. In questa ottica, l’enfasi sulla specificità delle “ragnatele di interpretazioni” porterebbe ad un eccessivo peso conferito alle dinamiche locali, considerate in qualche modo relativamente distaccate dai grandi processi che danno forma al mondo contemporaneo globalmente intrecciato. Come abbiamo visto, questo tentativo di leggere i fenomeni locali indagati etnograficamente in relazione a grandi quadri interpretativi, per così dire, è caduto in disuso con l’affermazione degli schemi dell’antropologia interpretativa e riflessiva, ma non è del tutto sconosciuto nella storia dell’antropologia. L’antropologia ha sempre avuto, almeno in alcuni suoi rappresentanti, di cui la storia della disciplina è punteggiata, una dimensione etica oltre che scientifica. Per esempio, ai tempi in cui predominavano in antropologia gli schemi interpretativi dell’antropologia marxista ortodossa si cercava di relazionare fenomeni locali al determinismo strutturale, in cui ogni elemento specifico assumeva una sua funzione in un grande disegno unitario di trasformazione politica. Con lo sgretolarsi delle speranze di trasformazione di stampo socialista e l’affiorare dello scetticismo postmoderno, nei confronti della validità e dell’universalità delle grandi narrazioni, l’etnografia, non soltanto quella ispirata alle correnti interpretative e riflessive, si è spesso limitata a descrivere situazioni o vicende sconnesse dalle grandi dinamiche socio-politiche, di sovente rafforzando l’immagine di una scienza ripiegata su sé stessa. Fare etnografia con un intento militante non deve essere necessariamente soltanto una semplice espressione soggettiva di uno sdegno di fronte alle prevaricazioni e ai drammi del mondo contemporaneo. La connessione tra un focus su situazioni ordinarie e spesso periferiche, osservata dal basso con una sensibilità per le auto-rappresentazioni degli agenti, coniugata con un inquadramento delle macro-dinamiche che

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generano violenza, disuguaglianza e marginalità, porta la pratica etnografica a interrogativi e impegni morali che hanno accompagnato in diversi modi l’ottica più propriamente accademica, centrata sulla descrizione e sull’analisi. In un certo senso, l’etnografia militante qualifica l’antropologia come pratica di vita piuttosto che come mero ambito disciplinare caratterizzato da una neutralità e da un distacco oggettivo nei confronti dei soggetti coinvolti nella ricerca. La ricerca, sentita e partecipata, di risposte a ingiustizie e violenze cerca così di relazionare nuovamente le vicende quotidiane e le micro-politiche a dinamiche di potere in atto a livello più generale. 2. Il connubio tra pratica etnografica e impegno politico La stagione delle etnografie militanti, in questo contesto, rappresenta un nuovo slancio, un tentativo di inserire le esperienze di ricerca in quadri più ampi, anche se i suoi riferimenti sono decisamente meno chiari rispetto agli anni Settanta e Ottanta in cui predominavano gli schemi interpretativi marxisti classici. Dopo un lungo periodo di scetticismo verso le grandi narrazioni, si fanno sentire con più forza, nelle parole di Franco La Cecla (2005, IX) nell’introduzione a Cocaina: Per un’antropologia della polvere bianca di Michael Taussig, una “disciplina capace di narrare i piccoli mondi quotidiani nel loro rapporto con i grandi sistemi di potere”. Michael Taussig, così come Nancy Scheper-Hughes (1995) e Anna Tsing (2005), appartiene agli esponenti più conosciuti di questa corrente di antropologia che si intende come attivista e militante in quanto inquadra la realtà osservata in considerazioni etiche. Secondo Hale (2006, p. 100) il processo è una logica conseguenza del ripensamento teorico complessivo degli ultimi decenni del Novecento: Una volta che mettiamo da parte l’oggettività e affermiamo il carattere intersoggettivo della ricerca delle scienze sociali, ci si potrebbe attendere che si aprano a un interesse crescente ver-

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so metodologie di ricerca attivista e il loro riconoscimento nella disciplina come attività accademica legittima. Per quelli che affermano che la conoscenza è prodotta da un dialogo tra attori situati politicamente, dovrebbe essere un passo relativamente semplice e logico incorporare questo processo più integralmente all’interno dei propri metodi di indagine, specialmente se ci si condivide un allineamento politico con i soggetti studiati.

L’applicazione di un bagaglio teorico di ampio respiro nell’etnografia militante, sicuramente più eclettico rispetto agli anni della predominanza marxista classica, si potrebbe inserire in un quadro che Erik Olin Wright (2010) ha disegnato nel suo progetto di vita sulle “utopie reali” che cerca di estendere gli spazi di alternative, delineando gli elementi di una “scienza sociale emancipatoria” in cui la diagnosi si combina con la critica alle condizioni dell’esistente per elaborare e promuovere una società o, più semplicemente forme di vita, caratterizzate da un maggior livello di giustizia sociale e politica. 3. Etnografia militante, pubblica e applicata: distinzioni e sfumature Il concetto di etnografia militante e attivista, così come è stato definito nel corso dell’ultimo decennio da alcuni esponenti dell’antropologia contemporanea, si sovrappone ad altre dimensioni dell’antropologia che l’hanno preceduta e con cui convive. In alcuni casi, etnografi che sostengono di fare ricerca-azione, antropologia pubblica, ricerca attivista fanno etnografia militante nella nostra accezione, almeno in alcuni passaggi della loro ricerca, quelli in cui intervengono autonomamente in un campo di poteri conflittuale applicando nel concreto la metodologia e il sapere antropologico con, per o contro il tessuto sociale studiato. Ci sono evidenti analogie con modi di fare etnografia classificati sotto altre denominazioni. Quello che si può fare in poche pagine è accennare alle linee di continuità e discontinuità rispetto a queste altre modalità applicative dell’antropologia.

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Due evidenti discordanze distinguono le etnografie militanti dall’antropologia applicata: la ricerca di una marcata autonomia e le finalità meno istituzionalizzate. Buona parte delle ricerche dell’antropologia applicata da un lato definiscono in maniera stringente i confini e le modalità della ricerca attraverso il mandato al ricercatore e i suoi terms of reference stabiliti dal committente, dall’altro lato l’antropologo spesso delega alle istituzioni per cui ha lavorato l’applicazione della sua ricerca. Come spiega bene Herzfeld (2005): Non voglio dire che l’antropologia applicata rappresenti ideologie contrarie all’antropologia stessa, però l’idea è che quando un antropologo lavora per un’impresa o per un governo sarà costretto ad accettare l’autorità di quell’ente. Quando invece lavora da accademico, con tutto quello che l’idea dell’indipendenza accademica implica, ha anche la libertà di arrivare a quel tipo di coinvolgimento che potrebbe consentire di scegliere l’approccio eticamente e praticamente più adatto alla situazione.

Nell’antropologia “coinvolta” di Herzfeld come nell’etnografia militante, la direzione e l’obbiettivo della ricerca dovrebbero scaturire autonomamente nella relazione tra etnografo e contesto studiato e l’impatto del rapporto dovrebbe essere immediatamente tangibile ed esercitato direttamente ovvero, senza deleghe a strutture istituzionali. Rispetto all’antropologia applicata che è spesso gestita in maniera gerarchica e pre-determinata, le etnografie militanti mirano esplicitamente ad essere collaborative, dialogiche e polifoniche. Nonostante l’impegno chiaramente militante di molti antropologi che lavorano con e per i richiedenti asilo e sebbene tale impegno porti una tensione politica nel lavoro istituzionale, la militanza, quando è sovrapposta ad un ruolo istituzionale non accademico va necessariamente contenuta, per lo meno nel periodo dell’impiego retribuito (cfr. AA.VV. 2017). Spesso si rimanda un approccio più esplicitamente militante a momenti della quotidianità extra-professionale. Alcune etnografie militanti assomigliano a quel filone della ricerca-azione – ad esempio la participatory action research –

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che prevede la centralità del confronto fra ricercatori e attori, sia nella fase di pianificazione dell’indagine che nella sua conduzione; che si riconosce come agente di una emancipazione sociale; che prevede una circolarità fra sapere astratto e pratica. Le divergenze, in questo caso, consistono nella metodologia di indagine di tipo prevalentemente sociologico o pedagogico della ricerca-azione lontane dalle dinamiche che emergono quando si utilizza il metodo etnografico; inoltre, di fatto, molte indagini che si descrivono come ricerca-azione lavorano in stretto rapporto con finanziamenti e finalità del committente (spesso istituzionale), riproponendo, in quei casi, le discordanze illustrate sopra per l’antropologia applicata. Il concetto di etnografia militante differisce anche da come è stata recentemente definita l’antropologia pubblica, ovvero un’antropologia che dimostra l’abilità dell’antropologia e degli antropologi di affrontare efficacemente i problemi oltre la disciplina, illuminando su questioni sociali rilevanti dei nostri tempi nonché incoraggiando confronti pubblici e di ampia portata su questi con la finalità esplicita di stimolare il cambiamento sociale (Borofsky 2004).

È noto che molti antropologi hanno preso posizioni pubbliche controcorrente, finalizzate a “produrre conoscenza emancipatoria” (cfr. Fassin 2013, 2015). Rispetto a posizionamenti certamente politici che hanno investito diversi ambiti delle scienze umane, tra cui, come ricorda Hale (2006, p. 103), la critica culturale, l’etnografia militante si differenzia per una più decisa impronta pratica. Il posizionamento nel dibattito intellettuale espresso principalmente nella partecipazione a incontri pubblici o in interventi scritti o orali, pur importante, non esaurisce la tensione politica di molti degli etnografi più giovani. Ciò non vuol dire ripudiare la possibilità di parlare al grande pubblico tramite libri, riviste, blog, documentari o interventi su quotidiani come hanno fatto nomi importanti dell’antropologia italiana intervenuti, ad esempio, contro il razzismo, in difesa del relativismo (Remotti 2008) o di una

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idea delle interazioni culturali che trascenda schemi riduttivi, come il multiculturalismo (Aime 2006). La restituzione della etnografia militante spesso coinvolge l’etnografo in maniera più profonda e poliedrica rispetto allo sguardo speculativo dell’antropologia pubblica; sperimenta forme di intervento eterogenee e immediate (capitoli dal 5 in poi). Per questo anche l’invito ad una antropologia di testimonianza, indipendente e disinteressata che produce narrative di “sofferenza, vittimizzazione e ingiustizie […] testimoniare nel nome del danno provocato alle vittime e a chi è relativamente senza potere, ed è attivismo solo per questo aspetto, senza essere attivismo” (Marcus 2005, p. 43), appare lontano dalle intenzioni immanenti, contingenti e concrete dell’etnografo militante. A metà tra l’antropologia pubblica e l’etnografia militante è la proposta di Herzfeld (2005, p. 54) di una antropologia, ritenuta “disciplina politica per eccellenza”, che pratichi una via media militante […] non applicata, ma coinvolta, nel senso che l’antropologia possa influire con il suo coinvolgimento nei processi politici della quotidianità e sia capace di dare risposte formate alla [sic] base dell’esperienza dell’etnografo a certe generalizzazioni fatte da politici della nostra epoca.

Le etnografie militanti possono avere una dimensione pubblica ma possono prevedere anche forme di restituzione privata, riservata: l’utilizzo dell’indagine può essere calibrato su dibattiti di nicchia o essere inteso come strumento per offrire alternative alle narrazioni egemoniche. Rispetto alla idea di “intellettuale organico” che ha a lungo interessato l’antropologia italiana, ci sono affinità in particolare con la visione di una intellettualità diffusa, non separata dal contesto in cui si muove politicamente il ricercatore (cfr. Koensler e Papa 2011, p. 16). Ad esempio, Gramsci (1975, pp. 1550-1551) sostiene: Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente

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alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanente” perché non puro oratore e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).

In linea con la visione gramsciana, nelle etnografie militanti l’intellettuale combina spesso tecnica-lavoro (sebbene intellettuale e non operaia), tecnica-scienza e una concezione umanistica storica realizzando l’auspicio gramsciano. In molti contesti di lotta sociale il ricercatore, soprattutto i giovani etnografi militanti, non sono né oratori, né l’élite, né sono gli unici “intellettuali” attivi ma condividono per molti versi il vissuto degli ambienti in cui si muovono (Apostoli Cappello 2017; Koensler 2015; Olmos Alcaraz e altri 2018). Tra le diverse discontinuità, tre invece appaiono particolarmente rilevanti per mettere a fuoco la distanza tra l’odierna etnografia militante e la visione gramsciana. Primo, Gramsci crede che l’intellettuale debba stringere una sinergia con una classe, mentre la nozione appare desueta per rappresentare gli attuali rapporti di forza (infatti Graeber propone con successo lo slogan “siamo il 99%” per indicare un attivismo che miscela identità molteplici). Secondo, nella prospettiva gramsciana la mediazione partitica è centrale (l’intellettuale dovrebbe esserne un dirigente) mentre oggi le forme di militanza gerarchica e istituzionalizzata vengono spesso vissute con crescente scetticismo. Gli etnografi militanti spesso rigettano esplicitamente ogni avanguardismo del ricercatore rispetto al contesto attivista (vedi ad esempio Colectivo Situaciones 2001; Olmos Alcaraz e altri 2018, p. 142). Melucci (1982, p. 145) aveva già messo in guardia dall’assumere un ruolo di “missionario da parte del ricercatore […] [che] entra nel campo dell’azione per portare agli attori una coscienza che essi non sono in grado di produrre”. Terzo, se ad inizio Novecento rappresentare implicava l’esercizio di potere e autorità nel terzo millennio questo “monopolio della narrazione” si sta perdendo anche a causa della molti-

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plicazione dei canali di rappresentazione in mano agli stessi attivisti (canali social, libri autoprodotti, siti internet, documentari, blog). L’intellettuale semplicemente non ha più il modo, in contesti di movimento, di agire da avanguardia offrendo rappresentazioni esclusive e quindi più apertamente autoritarie: produrre narrazioni non è più un privilegio elitario. Come sostengono Juris e Khasnabish (2013b, pp. 370, 376; cfr. Braun 2013): […] piuttosto che essere un arbitro di ‘verità’, l’etnografo è uno di vari produttori di conoscenza in un ‘campo affollato’ […] tanti altri partecipanti al movimento portano avanti la loro ricerca quasi-etnografica e scrivono, pubblicano e distribuiscono le loro riflessioni e analisi orientate dal movimento.

Van Aken esemplifica un sentire diffuso quando illustra la sua relazione con gli ambienti politicamente attivi con cui ha collaborato: “ho certamente portato il mio sguardo di antropologo in quei contesti, ma accanto al falegname, all’agricoltore, o altri attivisti. Artigiano o cittadino tra altri” (comunicazione personale, Mauro Van Aken, luglio 2019). Queste discontinuità rispetto alla prospettiva gramsciana permettono oggi una maggiore libertà di azione, un posizionamento metodologico e politico da costruire con il contesto studiato. Foucault aveva delineato modi di intendere il rapporto tra investigatore e contesto studiato che rivelano una sensibilità più vicina a quella degli etnografi e delle etnografe militanti. Alla domanda su quale sia “il ruolo dell’intellettuale nella pratica militante”, Foucault risponde (1977, p. 144): L’intellettuale non deve più svolgere il ruolo di colui che dà consigli. Spetta a coloro stessi che lottano e si dibattono di trovare il progetto, le tattiche, i bersagli che bisogna darsi. Quel che l’intellettuale può fare è dare strumenti di analisi, e questo è oggi essenzialmente il ruolo dello storico. Si tratta infatti di avere del presente una percezione spessa, di lunga durata, che permetta di individuare dove sono le linee di fragilità, dove i punti forti, a cosa si sono legati i poteri […], dove si sono impiantati. In altri termini, fare un rilievo topografico e geologico

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della battaglia. È questo il ruolo dell’intellettuale. Ma quanto a dire: ecco cosa dovete fare, questo certamente no.

Le intuizioni di Foucault sulle dinamiche relazionali feconde tra attivismo e ricerca formano il presupposto di molte relazioni di etnografia militante, sebbene non supportino la credenza che il contributo sia possibile principalmente da una prospettiva storica. L’etnografia, nell’analisi sociale e culturale della contemporaneità, offre una documentazione abbondante e intima su dinamiche non documentabili altrimenti che costituisce una ricchezza specifica nella mappatura delle complesse topografie delle relazioni di potere contemporanee.

Capitolo secondo Verso un’autocritica dell’antropologia critica e dell’etnografia militante

È utile, quando si riflette sui limiti e le possibilità della tensione politica connaturata alla pratica etnografica, interloquire con autori che hanno cercato di mettere a nudo le contraddizioni di un’antropologia, e più in generale, di una “scienza”, di un’”attività intellettuale” militanti. Per chi, nel fare ricerca etnografica, si accorge di (volere, potere, essere costretto a) rivestire un ruolo anche apertamente politico, tale riflessione vuole essere funzionale a incoraggiare i praticanti ad una più profonda introspezione, ad una accresciuta consapevolezza dell’esercizio esplorativo e di quello sperimentale, ad una maggiore sofisticatezza dell’analisi e dell’intenzione etnografica. Un critico culturale deve saper fare autocritica e ponderare il valore delle obiezioni di intellettuali più moderati o conservatori scettici rispetto all’approccio militante, per lasciarsi ispirare, correggere, consigliare. È particolarmente stimolante, volendo prendere la questione – per così dire – alla lontana, interpellare intellettuali progressisti-moderati come il politologo statunitense Michael Walzer (1988) che, alle soglie della caduta del muro di Berlino, con la pubblicazione del volume L’intellettuale militante: critica sociale e impegno politico nel Novecento proponeva una riflessione sulla costante alienazione, lontananza, incomprensione reciproca tra gli intellettuali militanti del Novecento e “il popolo”, le masse che questi stessi intellet-

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tuali avevano inteso emancipare. Significativamente, almeno per il nostro discorso, tra gli intellettuali citati e discussi nel volume di Walzer spiccano Antonio Gramsci e Michel Foucault, a cui molti antropologi critici ed etnografi militanti contemporanei si riferiscono in modo quasi rituale nei loro lavori e nei loro ragionamenti teorici. La critica sostanziale di Walzer a questi due intellettuali – che può risultare a tratti tendenziosa e discutibile in termini storiografici – prende spunto dalla rilettura delle loro biografie e delle concrete forme di contatto e co-implicazione che questi hanno, o non hanno, effettivamente intrattenuto con i lavoratori e la classe operaia, nel caso di Gramsci, e con i soggetti detenuti e psichiatrici, nel caso di Foucault. Gramsci era, e promuoveva l’emergere storico di, un “nuovo tipo di filosofo” che ambisce a guidare le masse alla loro emancipazione fino a che queste non siano sufficientemente preparate, formate e istruite su come farlo da sé. Tuttavia tale visione impone un distacco esistenziale del filosofo stesso dalla massa proletaria. Walzer (1988, p. 119) è quasi provocatorio, e pare talvolta dimenticarsi del fatto che il rivoluzionario sardo passò la vita in carcere, quando scrive: Egli sembra aver conservato per tutta la vita tanto una salda concezione dei compiti del proletariato quanto una scarsa stima dei suoi membri. Essi non avevano lesioni cerebrali, ma erano culturalmente ritardati, e l’arretratezza era conseguenza pratica della subordinazione. […] Egli credeva che “il ruolo dell’intellighenzia è quello di rendere superflui i capi speciali provenienti dalle fila dell’intellighenzia stessa” . Per il momento però niente era più necessario dei capi speciali. […] Dal momento che la classe operaia non produce tali persone al suo interno, esse possono provenire soltanto dal corpo degli “intellettuali tradizionali”, reclutati in gran parte, come Gramsci stesso, dalle fila della piccola borghesia.

Walzer (1988, p. 131) sostiene che Gramsci sognasse una “avanguardia legata alla retroguardia, non con la forza dell’acciaio, ma con la persuasione delle parole. Un sogno da

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intellettuale, messo in pericolo, tuttavia, dalla sicurezza da parte dell’intellettuale di marciare, quando marciava, sempre in testa alla fila”. Per Walzer, il distacco paternalistico dai soggetti delle sue più intense speculazioni rende inefficace e irraggiungibile la dimensione dell’immedesimazione con le classi subalterne per Gramsci, rendendo così incompiuto il suo intento rivoluzionario. Una critica aspra quella di Walzer, ma non aspra come quella formulata nei confronti dell’atteggiamento intellettuale militante di Foucault. In Foucault tale immedesimazione con “gli oppressi” risulta altrettanto incompiuta, ma è conseguente ad un atteggiamento morale diverso da quello di Gramsci, ideologo di un movimento e di un partito di cui si presumeva rappresentante d’avanguardia. Foucault, secondo Walzer, assume un atteggiamento anarchico e nichilistico verso i destinatari dei suoi discorsi di liberazione ed emancipazione. Gli scritti di Foucault suggeriscono […] qualcosa di più simile all’insubordinazione che al dissenso politico. Non esiste alcun riferimento duraturo ad idee morali o a un impegno prolungato per sostenere persone e istituzioni, in base al quale si potrebbero misurare dei risultati. Il suo distacco favorisce l’impotenza; quando la distanza del critico si allunga all’infinito, l’impresa critica fallisce (Walzer, 1991, p. 263).

Foucault viene rappresentato da Walzer come radicale, abolizionista, disinteressato ai sovvertimenti di sistema sulla base della sua concezione del potere. Il potere, secondo il filosofo francese, si esprime in relazioni diffuse, ramificate e avvolgenti; e in effetti secondo tale concezione le resistenze locali, la lotta di “intellettuali specifici”, in particolari snodi delle reti del potere e delle istituzioni, possono produrre parziali sovvertimenti. A questi però lo stesso Foucault si sarebbe per gran parte della sua vita clamorosamente disinteressato nella vita pubblica cercando, solo verso la fine della sua carriera, di sperimentare pratiche intese a rimodellare le relazioni di potere. Inoltre, questi esperimenti sono rimasti poco conosciuti nella rappresentazione di Foucault, noto

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prevalentemente come teorico astratto. Pur avendo favorito dibattiti su possibili riforme e avendo criticato i modelli carcerari e psichiatrici, incoraggiando l’effettivo cambiamento di alcune prassi, protocolli procedure nelle istituzioni pubbliche francesi, Foucault “ha poco da dire su questo tipo di cose ed è ovviamente scettico sulla loro efficacia. Nonostante il risalto da lui dato alla disciplina e alla lotta locale Foucault si disinteressa ampiamente alla vittoria locale” (ibidem: 256). Le osservazioni di Walzer sono di una certa utilità per comprendere i limiti dell’attività critica e delle ricerche militanti. Fino a che punto i percorsi esistenziali degli intellettuali devono mostrare una coerenza con quanto predicato pubblicamente? Fino a che punto la discontinuità, il disimpegno, l’incoerenza privata possono vanificare la tensione politica dell’esercizio critico? Secondo Walzer, atteggiamenti paternalistici spesso non permettono di ripensare il rapporto tra lavoro intellettuale e cambiamento storico in senso simmetrico e consensuale. Si tende a riprodurre una scissione intellettule-massa sia interpretando l’avanguardia intellettuale, con Gramsci, come un agente necessario affinché il popolo riemerga dalla nebbia del senso comune e venga instradato verso i sentieri della propria emancipazione, sia nel vedere il ruolo dell’intellettuale, con Foucault, come quello di chi formula una critica distaccata. Torniamo ora al problema dell’antropologia come scienza critica e della ricerca etnografica come pratica intellettuale militante. Se, come mostrato da Walzer, i principali filosofi di riferimento per la teoria radicale in antropologia (Gramsci e Foucault) hanno mostrato eccessivo distacco e disengagement pratico nei confronti dei soggetti per cui hanno preteso di prendere la parola, abbiamo recentemente assistito ad una inversione di tendenza: gli antropologi radicali vengono criticati dai loro stessi colleghi per la loro eccessiva vicinanza ai soggetti della ricerca, accusati di indulgere nella fusione degli orizzonti della indagine con le istanze e rivendicazioni degli informatori. La questione, come messo in luce dal professore statunitense Herbert

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Lewis (2009) non è indolore nel panorama scientifico internazionale, tanto che alcuni ambienti accademici hanno sollevato preoccupazione per il radicalizzarsi della teoria antropologica. Prendendo in rassegna i convegni e le pubblicazioni dell’Associazione Antropologica Americana (A.A.A.) dagli anni 50 in poi, Lewis traccia una genealogia del pensiero radicale nell’antropologia statunitense presentando in ordine cronologico i titoli e i programmi delle conferenze del convegno annuale del A.A.A. e commentando il progressivo slittamento da approcci funzionalisti e strutturalisti ad approcci radicali, critici, militanti; la trasformazione a cui la disciplina sarebbe andata incontro viene illustrata come una deriva dai temi istituzionali (e apolitici/ depoliticizzanti/ depoliticizzati) che contraddistinguevano gli studi classici. Scrive Lewis (2009, p. 201): Gli antropologi prima degli anni Sessanta sono stati criticati per aver fallito nel rendere conto delle dimensioni del conflitto e dell’inuguaglianza; ma l’antropologia contemporanea è ossessionata da questi temi. Il prevalere di discorsi sulla dominazione, l’oppressione, la resistenza, la condizione delle vittime, la violenza e il dolore è un fatto inevitabile in antropologia al giorno d’oggi. […] L’accusa ai discorsi e alle discussioni egemoniche sulla razza, il genere, la sessualità, il corpo, l’identità, risultando nello smascheramento del dispiacere e della felicità, è stata elevata a posizione dominante. L’ubiquità di dominazione ed oppressione è divenuta fondazionale per buona porzione dell’antropologia sociale e culturale; così il nostro campo di studi si presta a divenire un nuovo spazio per l’”ermeneutica del sospetto”, accanto ad altre analoghe tendenze nei campi della teoria letteraria, della teoria critica, degli studi culturali, degli studi post-coloniali, così come certe forme di teoria femminista.

Secondo l’emerito studioso statunitense, l’ostinata ricerca del “male” nelle società contemporanee sembra orientare buona parte del lavoro etnografico nord-americano degli ultimi 30-40 anni e, in questa polemica ininterrotta con gli establishments (stati, istituzioni, organizzazioni economi-

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co-finanziarie) di mezzo globo, gli etnografi U.S.A. tendono ad appoggiarsi sull’autorità di pensatori radicali europei, a cominciare da Foucault appunto. A giustificare la progressiva radicalizzazione dell’etnografia nord-americana vi sarebbe il puro e semplice fatto che alcuni temi fondamentali come la guerra del Vietnam, la lotta per l’emancipazione degli afro-americani, la crescita ipertrofica degli slums e delle periferie delle metropoli, la definitiva marginalizzazione e assimilazione dei nativi americani dalla fine degli anni Sessanta in poi hanno coinvolto l’intero ceto intellettuale statunitense; Lewis crede che tale trasformazione per certi aspetti non si potesse scongiurare perché inevitabilmente in quegli anni gli antropologi furono considerati veri e propri esperti, chiamati in molti casi a posizionarsi negli accesi dibattiti pubblici che infiammavano la società nord-americana. Prosegue Lewis (2009, p. 219): La sollevazione, in antropologia è stata motivata da preoccupazioni politiche ed etiche […]. Fin dall’inizio, la maggior parte di questa ribellione si diresse contro quelli che erano percepiti come fallimenti etici e politici della disciplina stessa, così come contro i mali più generali della società americana, come il razzismo, la guerra in Vietnam, il trattamento iniquo delle donne, il capitalismo e la piaga dei lavoratori migranti e dei poveri. Le più significative influenze esterne su questa fase iniziale della grande trasformazione arrivò dalle teorie marxiste e femministe, ma poco dopo ci sarebbe stata una profusione di nuove idee tratte direttamente dall’Europa o dall’importazione di queste nozioni da altri campi delle università americane, e in modo particolare dagli studi letterari. Entro la fine degli anni settanta le preoccupazioni “coltivate in casa” dagli antropologi furono fertilizzate da influenze dall’estero e dal “literary turn”, dalla svolta letteraria, in un’atmosfera di accettazione di generi sfuocati; era cominciata l’era dei “post” in antropologia. Un discorso dopo l’altro era sospinto a sfidare l’”establishment” e tutte le istituzioni. Gli approcci iniziali, irruenti ed arrabbiati, del discorso anticoloniale e antirazzista furono succeduti da idee più formali: marxiste, struttural-marxiste, antropologia critica, teoria della dipendenza, e dei sistemi globali.

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L’oblio delle radici dell’antropologia, del lavoro di autori classici come Malinowski e Boas, è quanto secondo Lewis andrà progressivamente a verificarsi attraverso la “grande trasformazione” radicale dell’antropologia statunitense. L’imperare delle correnti marxiste e neo-marxiste e degli approcci materialisti allo studio delle culture rappresenta l’aspetto più controverso della deriva che, con il radicarsi degli ex-studenti ribelli nelle posizioni universitarie come docenti e ricercatori, si traduce in quei decenni in una forma di istituzionalizzazione dell’antropologia radicale, qualcosa che Lewis saluta con malumore e sospetto. Infatti, dall’antropologia radicale all’antropologia militante e ad altre forme partigiane della ricerca, il passo non è poi troppo lungo, perché la teoria antropologica radicale – e questo è forse uno dei timori degli studiosi più conservatori – dischiude un ampio spazio di legittimazione epistemologica e deontologica delle ricerche etnografiche orientate alla trasformazione politica dei contesti studiati. Lo dimostra il dibattito post-moderno suscitato da Scheper-Hughes (1995) nel suo duello con Roy d’Andrade, dove la prima promuove la necessità impellente, incontrovertibile, di un’antropologia militante, ove l’etnografa/o si possa configurare senza mezzi termini come “compagna/o” (compañera/o) della lotta quotidiana dei gruppi marginalizzati del “Terzo Mondo”, mentre d’Andrade propone un atteggiamento più distaccato in nome dell’oggettività scientifica del lavoro etnografico, che deve ispirarsi al metodo delle scienze esatte. Il problema dell’utilità, della funzione sociale e morale del sapere antropologico costituisce il fulcro della discussione condotta in modo quasi aggressivo da Scheper-Hughes; non si può lasciare il “campo” a sé stesso, non si possono lasciare i propri informatori al proprio destino, non si può costruire una carriera sulla comprensione dei dilemmi senza spendersi per la loro risoluzione, ancora una volta “sul campo”1. In questa prospettiva la ricerca deve, 1 Addirittura, nel pathos della descrizione, Scheper-Hughes assimila l’antropologo militante ad un antropologo “a piedi-scalzi” (bare-foot anthropo-

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e non può non essere così, costituire un mezzo per l’emancipazione degli oppressi, deve essere strumento per l’azione politica. Provocanti e suggestive (ma i critici dell’antropologia critica non esiterebbero forse a definirle patetiche) le parole conclusive di Scheper-Hughes (1995, p. 420) in The Primacy of the Ethical, dove parafrasando il Franco Basaglia di Crimini di pace (1975), asserisce: Il lavoratore negativo è una specie di traditore di classe – un medico, un insegnante, un avvocato, uno psicologo, un social-worker, un manager, o anche uno scienziato sociale – che collude con chi non ha potere per identificare i suoi bisogni contro gli interessi dell’istituzione borghese: l’università, l’ospedale, la fabbrica […] Anche gli antropologi possono essere lavoratori negativi. Noi possiamo praticare un’antropologia con un piede a terra, un’antropologia impegnata, fondata sul terreno, addirittura “a piedi scalzi”. Possiamo scrivere libri che vanno controcorrente evitando la prosa impenetrabile (che sia post-moderna o lacaniana) in modo da essere accessibile alle persone che diciamo di rappresentare. Possiamo disgregare i ruoli e gli status accademici attesi nello spirito carnevalesco brasiliano. Possiamo renderci disponibili non solo come amici o “patroni” nel vecchio senso colonialista, ma come compagni [comrades](con tutte le responsabilità che questa parola implica) alle persone che sono l’oggetto della nostra scrittura e dalle cui vite e miserie traiamo noi stessi di che vivere.

Il contributo di Scheper-Hughes mostra peraltro debolezze che verranno messe a fuoco solo nel nuovo millennio: l’appello rimane confinato in buona parte alla denuncia pubblica, non contempla una collaborazione pratica; le relazioni con il contesto militante con cui l’autrice interagisce rimangono sullo sfondo della rappresentazione; il posizionamento morale dell’etnografa viene sussunto dalle rivendicazioni portate avanti dal basso e ciò non permette di problematizzare la pologist), un’immagine che evoca la Cina maoista, dove medici rivoluzionari assistevano nelle risaie e dunque a piedi scalzi la popolazione rurale. Un’immagine forte, rivendicata da Scheper-Hughes anche in recenti interviste (Klepal, Szénássy 2016; Brice 2017).

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tenziale fecondità della distanza, anche politica, che si trova in molta etnografia militante tra etnografo e contesto studiato. 1. La critica dell’antropologia critica in Italia Per certi versi le tensioni tra approcci critici post-moderni e approcci interpretativi classici conosce repliche anche nell’antropologia italiana. Volendo esplorare le declinazioni nostrane della critica di Lewis, dobbiamo rivolgerci ad un recente contributo di Fabio Dei, che, con la sua critica dell’antropologia critica, fornisce nuovi spunti agli etnografi militanti interessati alla critica pratica dell’ingiustizia sociale. Nella Premessa e nel primo capitolo dell’opera collettiva curata con Caterina di Pasquale Stato, Violenza Libertà. La critica del potere e l’antropologia contemporanea (pubblicato a seguito di un convegno organizzato presso l’Università di Pisa nel 2017), Dei afferma, citando la filosofa Barbara Carnevali, che buona parte delle scienze umane sono oggi sproporzionatamente influenzate da quell’insieme eterogeneo di teorie che viene definita a volte Theory, ovvero da stili e argomentazioni univocamente ispirate ad alcuni autori radicali (come Marx, Nietzsche, Lacan, Foucault, Deleuze, Bourdieu, Said, Spivak, Butler, Žižek, Benjamin, Latour), delle cui nozioni – conviene Dei (2017, pp. 11,12), estendendo la riflessione di Carnevali all’antropologia – sono permeati anche i caotici bricolage intellettuali dell’antropologia radicale, incentrata oltremodo sulla critica dello stato e delle sue istituzioni, e su temi come il genere, il potere, la violenza, il desiderio, la soggettività, lo spettacolo. L’antropologo sta dalla parte dei dannati della terra e dei gruppi che vivono qualche condizione di subalternità, come il dominio coloniale e neo-coloniale, l’oppressione di classe e di genere la discriminazione etnica e quella di orientamento sessuale. Ha bisogno dunque di una teoria critica del sistema di dominio di cui i suoi interlocutori (i colonizzati, i migranti, i proletari, le donne, i neri, le persone Lgbt) sono vittime: un sistema

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identificato da etichette come ‘neoliberismo globale’, ‘capitalismo finanziario’, ‘impero’ e analoghe. Il ragionamento di Dei ricalca per certi aspetti quello di Lewis quando riassume il repertorio di autori e tematiche imperanti nell’antropologia critica. Dei è certo che l’impostazione dell’antropologia critica fallisca nel rendere conto – con linguaggio chiaro e piano – della complessità storica e simbolica dell’oggetto che si va criticando, perché troppo impegnata a smontarlo e contestarlo. Secondo questa visione, se è vero che l’analisi del potere e delle istituzioni costituisce parte significativa del progetto conoscitivo della disciplina antropologica (e dunque un percorso comune tra antropologie classiche – funzionalista, strutturalista, interpretativa – e antropologia militante di fatto già sussiste), la deriva anti-sistemica, iper-politicizzante e antagonista degli approcci radicali distanzia l’antropologia critica da quella interpretativa. Scrive Dei (2017, p. 28): “Da queste premesse l’antropologia critica ricava un determinismo economico politico che riporta la disciplina ai tempi precedenti la svolta interpretativa e riflessiva”. Gli approcci interpretativi anziché concentrarsi sulla dimensione repressiva e violenta dello stato, la cui indagine impone agli antropologi radicali di sconfinare continuamente nell’ambito degli studi politici ed economici, ne indaga anche e soprattutto la dimensione costitutiva, scongiurando la possibilità di lasciar precipitare nel riduzionismo politico ogni fenomeno culturale e riservandosi un ambito epistemologico che Dei (2017, pp. 11, 22-31) ritiene più netto di quanto non faccia l’antropologia critica, poiché privilegia l’analisi simbolica e testuale del reticolato culturale rappresentato dal potere statale. Il linguaggio criptico, esoterico e la tendenza all’abuso di neologismi, impiegati spesso a sproposito e senza sensibilità epistemologica né etimologica, secondo Dei (che nella sua discussione esamina l’emergere e l’imporsi di termini come forclusione e nuda-vita), non fanno che danneggiare ulteriormente la disciplina, rendendola

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opaca, distante dai contesti studiati, difficilmente intellegibile ai soggetti della ricerca, autoreferenziale, sterile, fine a sé stessa in quanto sostanzialmente anti-dialettica. È questa l’impronta di molte ricerche fondate su misture epistemologiche ispirate a quella che viene chiamata “Theory”, di molte tesi di laurea e di dottorato di recente passate tra le mani e sotto gli occhi dei professori di antropologia nelle università italiane (Dei 2018, p. 4). Il fastidio, la stizza di Dei nei confronti: […] dell’esibizionismo ultraradicale di piccoli gruppi distintivi che si riconoscono in un gergo esoterico, disdegnano ogni mediazione col linguaggio comune e l’opinione pubblica e sono privi di ogni rapporto organico (in senso gramsciano) con i gruppi che dovrebbero difendere (Dei 2017, p. 31)

sono difficili da nascondere. Ad esempio, quando si approfondisce la riflessione sulle conseguenze della deriva radicale nell’antropologia medica, vede una minaccia nell’atteggiamento “antagonista e ‘romantico’ (che bello lo sciamano, che brutto il medico) che ha attratto verso l’antropologia un po’ di militanti e fricchettoni ma che tanto ha nuociuto alla sua immagine pubblica e alla possibilità di stabilire un rapporto reale con la scienza medica, quella seria” (Dei 2017, p. 35). Argomentazioni come questa non intendono necessariamente scoraggiare la militanza “interclassista” dei giovani praticanti della disciplina, piuttosto si dimostrano fortemente sensibili e mettono in guardia verso gli atteggiamenti ipocriti, opportunisti, “di facciata” o semplicemente verso l’ingenuità di certi studi militanti. Indubbiamente molte questioni sollevate da questo tipo di critica all’antropologia critica sono utili al consolidamento della stessa; due appunti appaiono particolarmente fecondi da verificare nella nostra rassegna di etnografie militanti. La prima concerne il tipo di relazione e il grado di vicinanza tra etnografo e contesto studiato (capitoli 3, 4 e 5); la seconda il rapporto con le cornici istituzionali, in particolare il sapere universitario dello stato

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democratico–liberale, che favoriscono e fanno da garanti alla possibilità di una critica delle istituzioni stesse (capitolo 3, 8). Va specificato che nella nostra rassegna di testi di etnografia militante, engagé ed attivista in realtà l’uso della Theory risulti nel complesso marginale, ma non le tensioni anti-istituzionali. Di certo, ciò non toglie che molti degli etnografi militanti nutrono la loro passione politica con un vissuto empatico in contesti politicamente densi. È forse utile tentare di rievocare sommariamente le diverse fonti di legittimazione, nell’Italia contemporanea, del pensiero critico e della prassi militante tout court per rendersi conto che i giovani studiosi italiani sono forse ancora più ispirati, nel loro lavoro, dalla curvatura dell’esperienza di altri intellettuali che hanno contribuito alla forgia della storia patria e della società civile italiana contemporanea. Sebbene le modalità di impegno e coinvolgimento delle figure prese in rassegna si discosti parzialmente dalle pratiche degli etnografi militanti in termini sia metodologici che politici, l’opera di questi intellettuali che hanno sistematicamente intrecciato riflessione teorica e impegno politico, genera una preziosa genealogia di precursori a cui ispirarsi. Ripercorrendo, in modo evocativo e assolutamente non esaustivo, la genealogia del pensiero critico e militante e della riflessione sulle trasformazioni della società di massa da parte di alcuni autorevoli intellettuali italiani del novecento, che hanno fatto riferimento alla teoria antropologica sposandone il potenziale critico e i metodi di indagine in modo di volta in volta originale e funzionale alla difesa di gruppi marginalizzati e fragili, si paleserà meglio il peso che possono aver avuto specifiche variabili storiche ed identitarie nell’orientare la tendenza dei giovani antropologi e antropologhe italiani a concepire le proprie ricerche etnografiche in modo militante, indipendentemente dalla morsa della Theory. È ciò che si proverà a fare nelle pagine che seguono, riflettendo su alcune logiche comuni alla sensibilità di molti ricercatori e delle ricercatrici militanti in questo paese.

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2. Note per una genealogia morale dell’antropologia militante in Italia La società italiana si confronta molto presto con lo scaturire di percorsi ed esperienze di ricercatori e ricercatrici militanti che, dentro e fuori dall’accademia, hanno utilizzato il pensiero, la sensibilità e la teoria antropologica per dare forza al proprio lavoro critico e al proprio impegno civile, rivoluzionario o radicalmente riformista. Tra questi sperimentatori, capaci di muoversi a cavallo tra diverse discipline e correnti del pensiero umanistico e scientifico nonché interessati a porre in atto (o anche a scongiurare) cambiamenti radicali nelle società in cui vivevano, vanno ricordati almeno quelli che hanno goduto del maggior riconoscimento anche da parte degli ambienti intellettuali e scientifici europei e internazionali: Maria Montessori, Ernesto De Martino, Pier Paolo Pasolini e Franco Basaglia. Questo elenco estremamente riduttivo, che potrebbe essere ampliato e dettagliato, comprende studiosi accomunati dalla capacità (coltivata più o meno esplicitamente per mezzo di approcci socio-antropologici ed etnografici) di raggiungere una profonda intimità e complicità con i gruppi per cui volevano prendere la parola e che intendevano emancipare. Questi pensatori, tra cui l’unico antropologo di professione era De Martino, avevano la comune propensione a spaziare, a non recludere all’ambito scientifico accademico il sapere pratico acquisito mediante tecniche di osservazione e la rilevazione di dati sul campo, con la collaborazione dei propri pazienti, allievi, compagni di viaggio, informatori. Esperienze restituite sempre con l’intenzione di produrre un cambiamento radicale nel sistema ma in diverse forme: l’inchiesta, il reportage, il film etnologico, la ricerca-azione, la ricerca partecipata, la sperimentazione terapeutica, l’insegnamento e l’azione pedagogica, la formazione, il lavoro tecnico e sociale, l’intervento in dibattiti pubblici attraverso mass media ed editoria ad ampia diffusione. In questo modo, e a prescindere dai complessi e contraddittori rapporti biografici e politici che questi intellettuali hanno spesso intessuto con

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l’establishment politico nazionale e internazionale della loro epoca, l’antropologia, i suoi metodi e i suoi problemi, sono stati filtrati da questi e altri intellettuali militanti italiani, affinché certe fondamentali intuizioni, insieme scientifiche e politiche, potessero avere ricadute pratiche sulla storia del paese e della sua gente. In tutti questi autori la critica allo stato e alle istituzioni è una critica che per quanto possa assumere toni aspri, è stata generalmente costruttiva, appassionata, incessante, intrisa di sacrificio. Essi, infatti, hanno sempre pagato il prezzo altissimo, delle loro scelte. 2.1 Maria Montessori. Dall’antropologia pedagogica alla pedagogia militante La pedagogia militante ha visto, in Italia, un forte riconoscimento istituzionale, diversamente da quanto auspicato da intellettuali più moderati come Lewis. Come mai gli ambienti accademici dei pedagogisti sono stati così aperti versi gli approcci militanti? All’origine di tutto questo entusiasmo non è possibile non intravedere il lavoro di Maria Montessori, antropologa e pedagogista marchigiana, femminista precorritrice di una visione impegnata, riformista della scienza che ne ha caratterizzato tanto l’opera di insegnamento che quella di ricerca, fino all’elaborazione ed implementazione di un metodo pedagogico inserito in una visione antropologica improntata alla progressiva liberazione dell’umanità attraverso l’ampliamento pratico degli orizzonti dell’apprendimento e della liberazione degli individui attraverso l’alfabetizzazione di massa (Babini, Lama, 2003). Docente di pedagogia antropologica (Montessori, 1910), allieva di Giuseppe Sergi e membro assiduo della scuola romana di antropologia, che nel periodo evoluzionista e positivista si contraddistingueva per l’enfasi posta sulle determinanti ambientali e culturali dello sviluppo umano anziché su predisposizioni di carattere biologico (Pesci, 2002), la Montessori contribuì a testimoniare la condizione dell’infanzia nelle aree sottosviluppate dell’Italia rurale e sub-urbana. Con l’intento di offrire ai

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bambini socialmente, economicamente e culturalmente deprivati opportunità di crescita e di sviluppo adeguati, Montessori ha progressivamente riconosciuto come i loro limiti nell’apprendimento avessero carattere strutturale e fossero causati dall’incidenza dell’ambiente d’origine e dal carattere rigido e gerarchico degli apparati amministrativi che dovevano occuparsi di rendere questa piccola umanità marginale un bacino di cittadini mansueti. La studiosa si è avvicinata senza mediazioni agli ambienti popolari, alle scuole, alle famiglie, agli insegnanti facendo di questa rete di incontri ed esperienze una base operativa e il laboratorio per la propria ricerca. La restituzione delle conoscenze ricavate dall’osservazione, interazione, sperimentazione metodologica sul campo in centro Italia e altrove, si tradusse nella fondazione di scuole e corsi per l’insegnamento del metodo. La sua relazione ambigua con il regime fascista, che inizialmente aveva appoggiato e sponsorizzato il suo lavoro, dimostra non soltanto alcune delle difficoltà in cui possono inciampare intellettuali con intenzioni militanti, ma anche il confine fluido tra militanza e opportunismo istituzionale. Ai fini del nostro ragionamento è però interessante osservare come l’esempio montessoriano abbia permesso una stretta connessione tra teoria, osservazione e sperimentazione su campo in ambito pedagogico, tale da consentire anche a bambini appartenenti alle classi marginali di raggiungere livelli di apprendimento analoghi a quelli a cui avevano accesso i bambini delle classi più elevate. Sorta già negli anni Sessanta come sapere teorico sotteso alla democratizzazione istituzionale, alla scolarizzazione delle masse e alla formazione della coscienza civile e politica dei cittadini, il successo di questo approccio delle scienze pedagogiche ha conosciuto una fase “acuta” con il ’68 e negli anni settanta, per essere poi progressivamente – e solo parzialmente – metabolizzato dall’apparato statale della scuola dell’obbligo. Tra lotta, ricerca e sperimentazione, i pedagogisti militanti e di comunità, in qualità di progettisti, formatori, insegnanti, autori, coordinatori di servizi educativi, hanno portato la pedagogia critica

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dentro le istituzioni, oltre che nelle case, per strada e negli spazi della marginalità urbana e rurale, in Italia e in tutto il mondo. Negli ultimi anni tali approcci conoscono un significativo revival, che si arricchisce di una nuova fusione degli orizzonti pedagogici e antropologici in contesti toccati dalle migrazioni transnazionali e dal contatto interculturale, tanto da meritare tutta l’attenzione della Società Italiana di Pedagogia (SIPED), che ha patrocinato la recente organizzazione del Convegno Nazionale di Catania, intitolato: Pedagogia militante. Diritti, culture, territori (Tomarchio, Ulivieri 2015 ). 2.2 Ernesto de Martino, “antropologo compagno” La storia intellettuale di Ernesto de Martino – l’unico vero antropologo ricordato in questa breve rassegna – insegna come, molto facilmente e molto precocemente, la ricerca antropologica (i suoi interrogativi di fondo, i suoi metodi, i suoi prodotti) rifletta le condizioni etiche e motivazionali di colui (o colei) che la concepisce e la svolge. A ricordarcelo sono anche Dei e Fanelli (2015, p. X), nella loro introduzione ad una recente edizione di Sud e Magia in cui insistono su come de Martino riconoscesse come doppiamente scandaloso l’oggetto delle sue ricerche. Scandaloso, precisa Dei, nel senso “che nel momento in cui cerchiamo di comprenderlo, scardina le nostre certezze e ci costringe a mettere in discussione le categorie usuali del nostro pensiero”. Gli oggetti scandalosi della riflessione di de Martino sono da una parte la Questione politico-economica del Mezzogiorno, e dall’altra quello della magia come pratica irrazionale onnipresente nelle comunità rurali del Sud Italia. Scandalo politico, quello del Mezzogiorno, perché arretrato e condizionato da forme del potere e della produzione arcaiche; scandalo epistemologico, invece, quello relativo al sostrato psico-sociale delle comunità del meridione, perché determinato dall’anacronistico persistere presso le stesse del pensiero magico. In de Martino, l’urgenza di esplorare queste due dimensioni e il loro legame profondo e latente ai fini della liberazione politica e culturale dei con-

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tadini meridionali è il motore della missione etnografica ma anche e soprattutto della missione politica come militante del partito socialista prima, e di quello comunista poi. L’incontro di de Martino col Sud, o per meglio dire, con i contadini poveri della Lucania e della Puglia, avviene attraverso un percorso molto diverso da quello della speculazione filosofica. È il percorso dell’impegno politico che lo fa transitare negli anni successivi alla guerra da una militanza azionista ad una socialista ed infine ad una comunista, con esperienze di dirigenza che lo portano a diretto contatto con le plebi rustiche del Mezzogiorno. Tra l’inizio degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta de Martino sembra rendersi improvvisamente conto che questi due aspetti del suo pensiero e della sua vita non sono separati […] la magia, come vuole Gramsci, e per dialettica con la riflessione di Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli, lungi dal ridursi ad un elemento di arretratezza, “è indicatore dell’oppressione morale delle ‘plebi rustiche’, ma proprio per questo studiarla e comprenderla è un aspetto della lotta – tutta storica – per la loro emancipazione (Dei, Fanelli 2015, pp. IX-X).

E infatti de Martino faticherà a scindere il contadino lucano dal “compagno” di movimento, perché è nel cuore del “folklore progressivo”, dell’istanza emancipatoria secolare delle “plebi rustiche” e nella sua progressiva coscientizzazione all’ombra dei movimenti partigiani, socialisti, comunisti, che affonda l’attenzione dell’intellettuale napoletano e si condensa l’interazione con i soggetti della sua ricerca (Dei, Fanelli, 2015, pp. XVIII-XXIII). Mentre nella restituzione, l’attenzione di de Martino alla divulgazione come mezzo di sensibilizzazione e pedagogico mostra la volontà di innovare il modo di diffondere i risultati del proprio lavoro al di là dei canali specialistici e delle cerchie di addetti ai lavori, tramite pubblicazioni su testate di propaganda, di viaggio, di attualità così come mediante la produzione di documentari e registrazioni audio poi divulgate in trasmissioni radio e televisive. Tutto ciò, secondo Dei e Fanelli (2015, p. XXXI), ha costituito “uno dei lasciti più attuali –e purtroppo meno seguiti – dell’opera demartiniana”.

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Gli autori della prefazione a “Sud e Magia”, non esitano, a chiamare de Martino, etnografo “compagno”, come anche fantasticato da Scheper-Hughes (1995) nel saggio già citato dove l’autrice auspica che l’antropologo si faccia anche “compagno” di militanza per i soggetti della ricerca. In effetti, peraltro, la stessa Scheper-Hughes vede nell’antropologia italiana e in quella francese un’inclinazione alla militanza e un’apertura critica più marcate che nella tradizione intellettuale anglosassone. Commenta l’antropologa statunitense: L’idea di un’antropologia attiva, politicamente impegnata, colpisce molti antropologi, apparendo disgustosa, corrotta, addirittura spaventosa. Questo è meno evidente in alcuni parti dell’America Latina, in India, ed Europa, (Italia e Francia, per esempio), dove il progetto antropologico è allo stesso tempo etnografico, epistemologico e politico, dove gli antropologi comunicano con “la polis”, e con “il pubblico” (Scheper-Hughes 1995, pp. 415-416).

La parabola demartiniana non le dà di certo torto, anche perché essa ha dato spazio a una generazione di antropologi accademici impegnati, pur con connotazioni diverse rispetto a una parte delle etnografie militanti contemporanee. Per esempio, la scuola di pensiero di Tullio Seppilli, comunista, attivista e figura intellettuale che sapeva muoversi tra la politica istituzionale e quella dal basso (Minelli, Papa, Seppilli 2008; Pizza 2020). L’interesse nazionale per l’impegno politico degli antropologi è segnata, ad esempio, dal convegno “Un antropologia per capire, agire, impegnarsi. La lezione di Tullio Seppilli” (Perugia, 14-16 giugno 2018), la cui organizzazione dimostra le ripercussioni di questa linea di attivismo accademico inaugurata da de Martino e proseguita da alcuni suoi allievi ”incardinati” nelle università. Sulla scia dell’antropologia demartiniana si è affermata in Italia una generazione di antropologi che hanno interpretato la relazione tra azione politica e sapere accademico in modo originale.

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2.3 Pier Paolo Pasolini, antropologia poetica e militanza disorganica Il lavoro etnografico, come mostrato in de Martino, dà slancio alla critica sociale e il merito della nascente antropologia italiana nell’introdurre e mettere a frutto le tecniche della ricerca sul campo è ampiamente riconosciuto da intellettuali militanti come Pier Paolo Pasolini. Il ruolo dell’antropologia nella parabola intellettuale, cinematografica e letteraria pasoliniana è vasto e si articola in modo originale, poiché si manifesta nel saper parlare con gli altri, nel saper scovare l’Altro, abbracciarlo filosoficamente ed umanamente, proiettarsi verso la sua emancipazione (Sobrero, 2015). Come ricorda da Alessandro Barbato (2017) Pasolini riconosce all’antropologia il pregio di fornire un linguaggio universale per parlare di fatti umani articolati nelle storie particolari delle nazioni, dei territori umani. Egli non promuove la disciplina solo ricordando spesso nei suoi interventi il lavoro di Raffaele Pettazzoni e il suo allievo, Vittorio Lanternari, che dalla materia dotta della storia della religione trassero gli elementi per forgiare un’antropologia delle religioni, insieme con gli intellettuali europei e statunitensi (da Mircea Eliade allo stesso de Martino). La sponsorizza anche attuandone i metodi e le tecniche di rilevazione, come durante i sopralluoghi “etnografici” nel Mediterraneo, in India, Palestina, Italia e in altre regioni del mondo o nel documentario Comizi d’Amore. Il poeta-etnografo Pasolini biasima gli intellettuali suoi contemporanei che non completano il loro bagaglio con studi di carattere antropologico e di storia delle religioni (da cui nasce l’antropologia accademica italiana). Non si può dimenticare che Pasolini osserva, descrive e commenta, restituendone poeticamente ed etnograficamente i connotati, una vera e propria “mutazione antropologica” della società italiana, conseguente alla deriva consumistica dell’Italia del boom economico. La “mutazione antropologica” è un’espressione netta che Pasolini ha coniato e che utilizza più volte nei suoi interventi (e in primis in Scritti Corsari, 1975)

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per restituire in termini teorici l’irreversibile estinzione culturale generata dal mutarsi della società rurale e sub-urbana /proletaria in un’estensione della società del consumo di stampo nord-americano (un tema affrontato in modo acuto da antropologi italiani come Boni, 2011). La “mutazione antropologica italiana” costituisce un argomento struggente della sua poetica; è ciò che motiva buona parte della critica e della militanza pasoliniane, che si scagliano contro l’ipocrisia di intellettuali e politici italiani sedicenti anti-fascisti, sebbene incoerenti e incapaci di evitare la sottomissione al consumismo e la subordinazione alla tracotanza del modello politico ed economico statunitense (Pasolini, 2018). Critica e militanza tese a scongiurare la selezione spietata, a favorire la conservazione e diversificazione culturale, a promuovere la diversità esistente, anche quella “autentica”, “originaria”, volutamente e romanticamente ricercata e coraggiosamente difesa da Pasolini. Il suo stretto legame con l’antropologia filosofica, oltre che fare da sfondo alla sua riflessione storica e storicistica (in senso demartiniano), costituisce anche la premessa per trarre da questo sapere nuove e più immediate strategie di narrazione delle nuove forme di marginalità, delle emergenti forme di resistenza culturale e della diffusione di una coscienza collettiva nel nascente ceto medio italiano. Tale atteggiamento porterà Pasolini a inaugurare e fomentare tendenze del giornalismo contemporaneo – quello d’inchiesta e video-documentaristico – debitrici alla duplice concezione dell’etnografia come metodo e come prodotto della ricerca intellettuale. Un modo disorganico di essere intellettuale quello di Pasolini, come ricorda il suo collega Toti: un piccolo borghese affezionato alla piccola umanità delle borgate, alla miseria della periferia, e che come portatore di una diversità radicale – e di quella che ai tempi veniva perbenisticamente considerata una diversità sessuale – non si stancava di indagare l’Altro (Toti, 1978, p. 91-120). La militanza di Pasolini sgorga dalla sua critica transculturale, nel senso che egli rileva e compara/ confronta, rappresenta e ripresenta letterariamente e cinematograficamente il farsi e il

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disfarsi delle strutture sociali e culturali che hanno forgiato la società in cui era immerso. Il linguaggio poetico e quello antropologico in Pasolini si incontrano nella profondità extra-temporale di molti suoi lavori, nel linguaggio della perdita, della dissoluzione dell’umano, la critica invettiva scevra di linguaggio ideologico marxista (che i suoi colleghi e interlocutori contemporanei, invece, ostentavano). La militanza in Pasolini non si traduce nell’impegno per una particolare causa, ma nel causare (sollecitare), attraverso una ricostruzione etnografica ed una speculazione filosofica in grado di integrare riflessione antropologica e immaginario poetico, forme di impegno tese al recupero e alla conservazione di alcuni valori universali e di ciò che è “umano” a fronte dell’omologazione dei costumi e di un’erosione programmatica, volontaria e dunque inesorabile, dell’identità e dei mondi contadini, rurali, suburbani, periferici2. 2.4 Franco Basaglia, la ribellione dei tecnici Un ultimo personaggio della storia intellettuale italiana del novecento che vale la pena qui richiamare anche per il riconoscimento goduto dal suo lavoro all’estero, è Franco Basaglia, revisore e contestatore del sistema clinico-psichiatrico. Va detto che il rapporto di Basaglia con l’antropologia 2 Va detto che sulla strada di Pier Paolo Pasolini cammina un altro giovane scrittore italiano, Roberto Saviano, il cui approccio etnografico al fenomeno della camorra a Napoli, è andato di pari passo con la sua militanza intellettuale contro questo fenomeno, a favore della popolazione campana e meridionale in generale. Questo è stato di recente messo in evidenza da diversi studiosi (Perrotta 2008, Marvaso 2009). Sebbene la presenza dichiarata dell’etnografo sul campo sia per molti un requisito scientifico fondamentale perché una ricerca venga condotta in trasparenza e con il consenso dei soggetti coinvolti, questo non toglie che un approccio profondo e intimo ai contesti culturali sia sicuramente favorito dagli strumenti di rilevazione etnografica anche quando l’osservatore non dichiara – come ha spesso fatto Saviano – le proprie intenzioni investigative e letterarie agli informatori. Gli esiti possono essere universalmente riconosciuti, anche dagli ambienti universitari, come significativi per la storia della società civile italiana, sebbene certe riflessioni militanti, come quella di Saviano, non cerchino la legittimazione accademica.

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e la sua dimestichezza con il metodo e la scrittura etnografica non sono assolutamente evidenti come negli altri intellettuali qui ricordati, ma ha carattere strumentale. Il medico militante ha intrecciato rapporti e intavolato dibattiti con un audience di intellettuali sconfinata in termini geografici e disciplinari. Prendendo ispirazione dagli studi di de Martino e dal lavoro etnografico di Tullio Seppilli sulla medicina popolare nel meridione italiano,3 lavorando egli stesso con sociologi e antropologi sia in Italia che in Brasile per confrontarsi sugli aspetti relazionali e sociali delle psico-patologie, la ricerca di Basaglia è costantemente mirata alla realizzazione di un ideale, di una visione. Questa visione trovava fondamenti epistemologici e politici nel discorso marxista, in quello sui diritti umani e sulla deontologia medica, negli studi delle scienze sociali sulle istituzioni totali e le determinanti sociali della malattia e, per molti aspetti, non necessitava della legittimazione dello stato per essere realizzato, ma solo dei tecnici e dei loro pazienti “volontari”, ai fini di una liberazione con, dentro e per mezzo delle istituzioni e dei suoi apparati, e non a prescindere da questi. Il suo insegnamento è di particolare valore per chi si occupa di antropologia applicata. La traiettoria basagliana è di per sé una risposta secca alla provocazione intellettuale di Walzer (1988, 1991), che infatti non lo ricorda tra gli intellettuali militanti del novecento: eppure per la vicinanza con i soggetti delle sue ricerche, per la sua costanza, per il coraggio e il realismo con cui afferma la possibilità di uno sforzo interclassista per l’emancipazione degli oppressi, Basaglia sembra incarnare perfettamente il modello di intellettuale militante di Walzer. Il suo insegnamento è sicuramente una fonte di legittimazione per le prati3 Tullio Seppilli, fondatore degli studi italiani sull’antropologia medica presso l’Università di Perugia, fu anch’egli, come de Martino, antropologo marxista militante nei partiti della sinistra, impegnato sul fronte anti-psichiatrico, sebbene non perfettamente allineato con la visione basagliana. Vedi “Non solo Basaglia. Intervista sul movimento anti-psichiatrico in Italia, Intervista a Tullio Seppilli a cura di Lara Iannotti, Zapruder, pp.96-103 (Visionato online: www. academia.edu/34869840/Zapruder_n._6_Frontiere_della_scienza_online).

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che militanti del sapere scientifico all’interno delle istituzioni, e fornisce uno schema etico, epistemologico e metodologico di interazione e confronto con le istituzioni nell’impresa riformista dell’intellettuale militante. Probabilmente è in virtù di tale esemplarità – che di per sé legittima ogni sforzo creativo-sperimentale, interdisciplinare, collaborativo improntato alla liberazione delle “utenze” – che anche Scheper-Hughes (1995), nella sua difesa agguerrita dell’imperativo militante, approfitta per citarlo diffusamente, come abbiamo visto qualche paragrafo sopra. Di fatto, però, l’impresa antipsichiatrica in Italia ha avuto efficacia anche grazie alla capacità di discostarsi dall’ideologia di irriducibile opposizione tra dominanti e dominati, egemonia e subalternità. Che gli intellettuali e i tecnici di una società borghese, così come tutte le sue istituzioni, esistano per salvaguardare gli interessi, la sopravvivenza del gruppo dominante e i suoi valori, è cosa ovvia. Ma non è altrettanto automatico riconoscere e individuare, nella pratica quotidiana, quali siano i processi attraverso i quali gli intellettuali o i tecnici continuano a produrre – ciascuno nel proprio settore – ideologie sempre nuove che mantengono inalterata la loro funzione di manipolazione e di controllo. […] Capire, insieme a coloro che sono oggetto di questa manipolazione (pur con le ambiguità presenti in chi è contemporaneamente soggetto di manipolazione e ne rifiuta l’uso nel senso della delega), e rendere praticamente espliciti i processi attraverso i quali un’ideologia scientifica riesce a far accettare alla classe subalterna misure che apparentemente rispondono ai suoi bisogni e che, di fatto, la distruggono (in questo consistono le ideologie) può essere forse politicamente più efficace, anche se meno avventuroso, del fingersi gli operai che non siamo, o del prendere a prestito da loro le motivazioni alla lotta, quando il terreno in cui agiamo ci coinvolge in una serie di complicità, la cui natura non è esplicita né riconoscibile da chi le subisce (Basaglia, Basaglia Ongaro, 1974, corsivo nostro).

L’onestà di queste parole, che si confrontano con un linguaggio marxista militante con la realtà borghese da cui proviene e in cui vive il tecnico, lascia intendere come il lavoro

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intellettuale non si debba tradurre per Basaglia in un esercizio neutro. Si tratta di un lavoro militante, che può e deve prescindere dal fatto che il subalterno e il suo difensore, il suo intellettuale di riferimento appartengano alla stessa classe socio-economica. Accettare la realtà dell’asimmetria della relazione non implica rinunciare a cooperare ai fini della liberazione, l’assenza di una comprensione reciproca e di una lotta unitaria per l’emancipazione e la trasformazione del sistema “dal suo interno”. La riflessione di Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro mostra come l’intellettuale maggiormente consapevole delle criticità di un sistema di cura gestito dallo stato ai fini della prevenzione, cura, isolamento, controllo dei soggetti patologici sia il ‘tecnico’ strutturato. Il tecnico (anche altamente specializzato – come un medico psichiatra) è inquadrato in un ambiente istituzionale, secondo il quale egli dovrebbe eseguire passivamente protocolli e procedure dettate dall’alto. Il lavoro sul campo di un intellettuale radicale come Basaglia, e la riflessione che fa da sfondo a Crimini di pace, raccolta di saggi comprendente i contributi di Erving Goffman, Michel Foucault, Noam Chomski, illustra programmaticamente le aspirazioni di un tecnico che si è ribellato al protocollo per cercare la vicinanza con i propri pazienti. Il lavoro psichiatrico e psicanalitico, oltre a essere fondato sul monitoraggio bio-medico e farmacologico, doveva necessariamente passare attraverso la riabilitazione relazionale e sociale del paziente. Dove questo non è stato possibile, l’aperto confronto con le istituzioni è stato imperativo. Sicuramente senza un ragionamento marxista tanto spregiudicato da investire la scienza stessa e l’intera professione e missione medica, senza un linguaggio capace di sfidare le mode e i perbenismi dei borghesi-comunisti suoi pari, la visione di Basaglia non avrebbe avuto la risonanza e gli esiti (anche istituzionali) di cui ha goduto. Declinata nell’ambito dell’antropologia applicata, l’esperienza basagliana mostra quanto l’ambiente di lavoro possa costituire un’arena di militanza, con implicazioni politiche e deontologiche che si esprimono in sordina, in conflitti a bassa tensione, spesso

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anonimi, ma pervasivi. La ricerca può essere simultanea al lavoro tecnico, orientata a perfezionarlo, anche in termini sperimentali, e tesa a produrre ricadute immediate e con il coinvolgimento dell’utenza e delle istituzioni politiche o amministrative. È uno stile e una condizione, che, ad esempio, ricorda il lavoro di molti antropologi nel mondo dell’accoglienza dei migranti e dei richiedenti asilo in questi anni. 3. Perché perdonare gli antropologi militanti? È vero che pensatori critici nelle scienze sociali e politiche hanno portato all’estremo, talvolta sclerotizzandola, la descrizione del fluidificarsi globale delle relazioni di potere, delle forme intrusive e abusive dell’incorporazione e della governamentalità post-moderne. Questo atteggiamento ha portato alcuni antropologi autorevoli a stigmatizzare l’antropologia critica (e forse anche l’etnografia militante?) ritenuta espressione di una recente deriva minoritaria, settaria post-moderna, post-ideologica e neo-marxista della disciplina capace sempre più di contaminare il mainstream accademico. Sia Walzer e Lewis che Dei, come abbiamo visto, rilevano giustamente potenziali criticità negli automatismi della catena di produzione del sapere critico in antropologia e in altre scienze sociali, come il ripetersi di schematismi marxisti e post-marxisti, la critica sterile allo stato e l’imbarazzo di una partecipazione ostentata ma non organica alle classi e ai movimenti degli oppressi. A tutto questo si può abbozzare una risposta. Se Walzer guardasse alla declinazione antropologica del pensiero critico dagli anni novanta in poi, si renderebbe conto che l’alienazione che contraddistingueva alcuni dei principali intellettuali radicali del novecento, ovvero la loro alterigia avanguardistica o il loro snobismo antiriformista, sono esattamente quelle forze oscure contro cui molti antropologi e antropologhe militanti hanno già vinto la battaglia. E questo in virtù dello stesso metodo etnografico che impone

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allo scienziato di partecipare alla quotidianità dei soggetti, favorendo il processo di immedesimazione e transfert “controllato” che conduce un semplice osservatore esterno a “sentirsi come si sentirebbe” un membro stesso della collettività studiata. L’antropologo militante raramente è un soggetto alienato, nel senso in cui Walzer intende questa condizione in riferimento all’attivismo incompiuto di Gramsci e Foucault. L’etnografia e l’antropologia sono un prezioso antidoto contro l’alienazione dello studioso dai bisogni e dalle istanze dei soggetti delle loro indagine e per questo molti intellettuali, non antropologi di formazione, hanno finito per interessarsi alla disciplina o per diventarne imprescindibili ispiratori. Credo sia utile rilevare come nell’ottica di Walzer, sicuramente Franco Basaglia, tra tutti quelli commentati, è l’intellettuale che meglio interpreta le tensioni e gli slanci dei giovani antropologi e antropologhe che anziché intraprendere la carriera accademica si trovano ad essere dei tecnici della loro disciplina in ambiti in cui la padronanza di questo sapere è vincolata a finalità di analisi ed intervento a stretto giro, e dove il confronto con la morsa burocratica (il “burosauro” come lo chiamano gli stessi burocrati) costituisce una sfida quotidiana e condivisa. Spesso questi tecnici antropologi, questi lavoratori negativi, sono incompresi e fraintesi dagli stessi giovani antropologi strutturati e “di sinistra”, che hanno cercato e trovato una collocazione nell’accademia. Infatti alcuni antropologi accademici talvolta scoraggiano l’engagement professionale degli antropologi nel mondo dell’accoglienza dei rifugiati, appiattendo tale coinvolgimento sugli affari torbidi dello stato (si pensi alla critica di Saitta agli antropologi che prestano il loro servizio come coordinatori dei centri di Accoglienza Straordinaria nella ancora recente fase acuta dell’emergenza profughi in Italia; AA.VV. 2017). Non è azzardato insinuare che gli ambienti culturali italiani degli anni Sessanta e Settanta, incendiati da intellettuali ibridi, capaci di essere simultaneamente attivisti politici e poeti,

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giornalisti e registi, terapeuti ed insegnanti, hanno in qualche modo legittimato le fantasie militanti dei giovani antropologi contemporanei, i quali tendono a porre come cruciali nel lavoro documentario la vocazione interdisciplinare, la qualità etica del rapporto con il soggetto dell’inchiesta e l’interazione costruttiva – seppur talvolta apertamente anti-sistemica – con le istituzioni. Questo atteggiamento, insomma, è in parte frutto di una continuità storica, politica e morale. “La vicinanza con il popolo” per personaggi come de Martino e Pasolini – sedotti dalle tecniche cinematografiche in pieno sviluppo in quegli anni – è stata favorita dalle tecniche di osservazione partecipante e immersione linguistico-simbolica implicate nella rappresentazione mediatica delle “culture” italiane (di quelle contadine del Sud, studiate da de Martino, quelle delle periferie urbane, corteggiate da Pasolini). Nella generazione di antropologi ispirati a de Martino e Pasolini, la ricerca-azione basata su metodi cinematografici ha avuto un ruolo centrale, per esempio anche nel “Festival dei popoli” fondato nel 1959 da un gruppo di studiosi di scienze umane, antropologi, sociologi, etnologi e mass-mediologi con l’intenzione di portare avanti il tipo di documentazione sociale inaugurata da de Martino. Mediante l’antropologia, e in particolare, mediante l’etnografia visuale – sono maturati i posizionamenti e lo stile di militanza di questi intellettuali, impegnati nell’orientare la sensibilità delle classi dirigenti e della sinistra italiana del dopo-Guerra, affinché queste non distogliessero lo sguardo dalla cultura e dalla quotidianità delle masse, dalla loro sofferenza. I casi di Montessori, de Martino, Pasolini e Basaglia mostrano che il problema della motivazione e della volontà dell’etnografo di co-generare il mutamento (e di non ridursi ad essere un agente osservatore fortuitamente calato in un dato contesto) stia fortemente alla base di percorsi di militanza. Questo vale anche per molti antropologi militanti contemporanei che riconoscono in sé la volontà di fondere la propria vita e i propri orizzonti con quelli dei “compagni” informatori (Sopranzetti 2018, p. 271):

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L’azione, e come sua premessa, la volontà e la scelta dell’antropologo militante, sono parte (o ambiscono ad essere parte) della volontà, delle scelte e della azione collettiva di chi viene studiato. Il percorso motivazionale del soggetto conoscitore non si distingue nettamente da quello del soggetto indagato, e non è un caso che l’atteggiamento militante sia caratteristico soprattutto di quelle etnografie che studiano l’attivismo, i movimenti sociali e le forme di mobilitazione collettiva.

Se si guarda agli etnografi partigiani, attivisti e militanti come a un particolare tipo di intellettuali, vediamo che il loro puntuale e rinnovato riferimento alla teoria dell’oppressione offre l’occasione di ragionare sul ruolo del ricercatore come occupante i posti di retroguardia delle iniziative sociali dal basso, o di quelle coraggiosamente tentate all’interno delle istituzioni dai lavoratori-negativi, a difesa e sostegno delle categorie marginali. Retroguardia, scevra di atteggiamenti paternalistici e saccenti (come quelli ostentati dagli intellettuali di avanguardia) verso i co-autori del sapere antropologico e delle trasformazioni co-prodotte con i propri informatori della società circostante. Tanto che in molti casi gli sforzi degli antropologi-tecnici non conoscono uno sfogo nell’editoria accademica, bensì in altre forme di restituzione e pubblicizzazione dei risultati della ricerca. Nell’abbozzare alcuni possibili nodi tematici del pensiero e della pratica della ricerca militanti ci interessava, invece, mostrare che l’etnografia militante come metodo e come produzione intellettuale costituisce da decenni una possibilità intrinseca, un orientamento spesso inevitabile, nella “pratica della teoria” antropologica dentro e fuori dall’accademia, anche in Italia. Come abbiamo visto, inoltre, in Italia molte discipline si sono interrogate e continuano ad interrogarsi sugli aspetti militanti della prassi intellettuale sottesa al lavoro di giuristi, medici, psichiatri, scrittori poeti e critici letterari, giornalisti, video-documentaristi e registi, psicologi e pedagogisti, lavoratori del sociale, educatori, insegnanti soprattutto quando il loro programma di lavoro e ricerca si cala in contesti critici, si muove in territori normativi e simbolici contesi, trattan-

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do forme di marginalità, fragilità e vulnerabilità. Allo stesso modo gli ambienti antropologici dell’Italia contemporanea sono particolarmente inclini a percepirsi come “impegnati”. Il ruolo pubblico e la sensibilità civica dell’antropologo sono aspetti salienti dell’identità di questi umanisti, sia dentro che fuori dall’accademia. La nascita, negli anni recenti, della Società Italiana di Antropologia Applicata (SIAA), e la appassionata partecipazione del pubblico di ricercatori più o meno strutturati, più o meno incardinati nelle Università, ne è stata una recente e chiara testimonianza. La professione antropologica non si vuole esaurire nelle aule degli atenei, nelle biblioteche e nelle sale convegni. La sua deontologia non si riduce sempre e semplicemente ad una critica super partes, al “non fare”, “non intervenire”, non interferire con il lavoro di politici, amministratori, imprenditori, ma si sbilancia verso possibilità di intervento sociale, politico, economico, ecologico, culturale mirato e mediato da diverse forme di professionalizzazione degli antropologi stessi, e da diverse forme di ibridazione e interazione con altri tipi di professionalità. La professionalizzazione dell’antropologia al di fuori degli ambienti accademici di recente ha indubbiamente favorito l’espandersi, come era già avvenuto in altri ambiti disciplinari delle scienze umane e sociali-come la pedagogia e la psicologia, appunto, degli approcci militanti. 4. Contro l’inconcludenza antropologica Si potrebbe allora concludere questo capitolo con un ultimo insegnamento offerto dal padre dell’antropologia interpretativa, cioè con una riflessione sulla valutazione che Clifford Geertz offre dell’utilità, dell’efficacia pratica e del potere consultivo e risolutivo del sapere antropologico. Geertz (2001, pp. 35-56), in un saggio intitolato Il pensare come atto morale: dimensioni etiche del lavoro antropologico sul campo, le cui parole hanno anche il sapore di un’auto-critica, è pessimista e cinico a riguardo. “Una delle più inquietanti

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conclusioni cui lo studio dei nuovi stati e dei loro problemi mi ha portato, è che tale studio si rivela più efficace nell’esposizione dei problemi che non nella scoperta delle loro soluzioni (2001, p. 38)”. L’antropologo americano osserva con sarcasmo che i suoi colleghi, in fondo, si comportano verso i soggetti della loro indagine come fa Lucy nei confronti dell’amico Charlie Brown in una striscia di Peanuts. Lucy dice a Charlie Brown: ‘Sai qual è il tuo problema Charlie Brown? Il tuo problema è che tu sei tu’. Dopo una muta valutazione della forza di questa osservazione, il ragazzino chiede all’amica: ‘Bene, che cosa ci posso fare allora?’ e Lucy replica ‘Io non do consigli. Indico solo le radici del problema.” (Geertz, 2001, p. 38).

Sebbene Geertz metta in guardia contro il bias tautologico di molte descrizioni antropologiche del suo tempo, e contro la loro inconcludenza, la sua presa di coscienza del rischio che l’etnografia si riduca ad un esercizio intellettuale sterile non lo porta a contemplare la possibilità che l’attivismo e la militanza degli antropologi possano costituire un correttivo deontologico a tale insensatezza. Nel saggio, invece, improvvisamente Geertz evoca la dimensione virtuosa del distacco come uno degli atteggiamenti più faticosi da apprendere e sostenere durante la ricerca sul campo: l’antropologia interpretativa riflette in modo acuto su questa postura, e ciò è ragionevole. Tuttavia, anziché descrivere una via media, un rischio sembra quello di limitarsi a criticare gli esiti infausti di due opposte tendenze della ricerca su campo: da una parte l’antropologo americano rileva l’inconcludenza delle ricerche iper-analitiche, mentre dall’altra si dichiara sospettoso verso condotte che enfatizzano una forte partecipazione alla vicenda umana degli informatori, negando implicitamente che vi sia la possibilità di posizionamenti intermedi tra i poli dell’osservazione distaccata e dell’immedesimazione assoluta, e tra quelli dell’accuratezza scientifica e dell’utilità immediata della ricerca. La questione dell’impegno politico e morale dell’intellettuale e dello scienziato nella risoluzione

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dei problemi studiati, che potrebbe essere addotta come soluzione per stemperare le dicotomie distacco/immedesimazione e obiettività/utilità non viene lontanamente presa in considerazione da Geertz. La naturale conclusione di questo ragionamento, riportata al problema della ricerca partigiana, è che le qualità che rendono un intellettuale veramente militante (la vicinanza con gli emarginati e i ribelli) sono anche quelle che lo rendono meno scienziato. L’attitudine che lo rende più scienziato – ovvero il distacco che consente analisi obiettive come quelle di Lucy – lo rende, tuttavia, anche più inutile, sterile e inconcludente. In effetti è paradossale che gli intellettuali radicali vengano criticati da Walzer per il loro distacco, mentre gli antropologi classici come Geertz facciano di questo distanziamento una risorsa, anche morale. Crediamo che l’arte del distacco costituisca realmente la prerogativa dell’osservazione antropologica, ma l’antropologia non è solo osservazione. La temperanza nel calcolo delle distanze è un fatto di onestà verso i propri informatori, oltre che di opportunità euristica e di esperienza: in queste pagine si è cercato di mostrare come mai in Italia i giovani studiosi possano assumersi il rischio etico di non condurre ricerche inutili (almeno in certe fasi della loro carriera); questo, però, richiede un impegno che trascende la lealtà assoluta agli ambienti e agli stili accademici ‘puri’. Quel che è certo è che coloro che decideranno di abbracciare un certo tipo di antropologia radicale, pur restando costruttivamente connessi agli ambienti accademici, in generale affronteranno il problema di Charlie Brown in un modo diverso da quello tautologicamente proposto da Lucy al suo leggendario amico. Più precisamente non si limiteranno ad evidenziare le radici del problema, né a costruire la propria carriera come un nido sicuro in cima ai rami del problema stesso, ma aiuteranno Charlie Brown, se lo vorrà, a conoscersi meglio, a migliorare sé stesso, ad affermare la propria visione del mondo o anche solo ad accettarsi per come è.

Capitolo terzo Un delicato equilibrio tra distanziamento e coinvolgimento

Nel secondo capitolo abbiamo illustrato l’intreccio tra ricerca sociale qualitativa con una sensibilità etnografica e impegno politico in Italia tra il secondo dopoguerra e gli anni Settanta. Le etnografie militanti del terzo millennio si ispirano più o meno esplicitamente ad alcune figure carismatiche di intellettuali che hanno costruito il loro sapere in un’intima interazione con gli emarginati e con quelle che venivano chiamate le “classi subalterne”. Accanto ad evidenti continuità nelle finalità e nell’orientamento etico degli etnografi militanti contemporanei rispetto alle figure discusse sopra, esistono anche, come argomentiamo in questo capitolo, palesi discontinuità. Per esempio, per quanto riguarda l’impegno all’interno delle istituzioni rispetto a forme attivismo informale e “dal basso”, ma anche per ciò che concerne la specifica preparazione nella metodologia etnografica e il posizionamento assunto nel corso della ricerca. Ogni etnografo ha proprie motivazioni e assume specifiche posture rispetto all’oggetto della sua indagine; quelli che fanno etnografia militante hanno una curiosità e una collocazione, che muove da un impegno etico e politico. L’etnografia diventa quindi militante quando si genera un intreccio particolarmente denso di posizionamenti politici nella relazione tra etnografo e contesto studiato. I ricercatori, magari insoddisfatti di un ruolo esclusivamente contemplativo e accademico,

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usano il sapere etnografico a scopi anche politici, attraverso un coinvolgimento personale, nel senso che la pratica di ricerca è mossa da una tensione politica, ovvero finalizzata a contribuire, almeno nelle intenzioni iniziali, a una trasformazione effettiva e concreta delle dinamiche di potere osservate: “la ricerca diventa uno strumento politico per intervenire nei processi” (Casas-Cortés e Cobarrubias 2007, p. 114). Il posizionamento politico di chi fa etnografia risuona ed interagisce con le dinamiche politiche del contesto indagato che avrà, anch’esso, una tensione etico-politica come tratto caratterizzante la sua identità collettiva, sebbene questa possa essere espressa in diverse maniere. Per intenderci, lo studio della parentela – anche se condotto da un etnografo particolarmente militante – difficilmente produrrà una etnografia militante se discendenza e affinità non sono, nel contesto studiato, temi carichi di tensioni associate al potere e al tentativo di alterarne i dispositivi. All’inverso, una questione politicamente densa, ad esempio la costruzione della TAV in Val Susa, anche se indagata attraverso metodi partecipativi, se non suscita nel ricercatore una qualsivoglia intenzione trasformativa ma si limita al distaccato sguardo scientifico non è, per come la intendiamo, etnografia militante. All’interno di questa volontà di intervenire sullo stato delle relazioni di potere, esiste, come vedremo, una variegata gamma di potenziali impatti desiderati dai ricercatori. L’influenza più ovvia e usuale auspicata dall’etnografo riguarda il consolidamento del soggetto collettivo studiato rispetto alle entità con cui questo è in conflitto o attrito (il tessuto sociale egemone, le istituzioni statali, le potenze economiche). L’impatto prodotto dall’etnografo può però riguardare anche perturbazioni all’interno del circuito studiato, ad esempio proponendo percorsi di riflessività e consapevolezza, offrendo inediti strumenti culturali a chi fa politica dal basso, analizzando criticamente la forma organizzativa del movimento sociale o dell’associazione con cui si fa ricerca (capitoli 6-8). Se nell’ultimo decennio l’etnografia militante è diventata un posizionamento che desta crescente fascino e aspettative,

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in cosa consista esattamente fare una etnografia militante è ancora in corso di definizione, o meglio di specificazione, visto che i tratti caratterizzanti definiti inizialmente sono stati aggiornati e ripensati in un intenso dibattito polifonico. Juris (2007, p. 165) è tra i primi a tentare una definizione di etnografia militante in senso stretto: L’etnografia militante cerca di superare la divisione tra ricerca e pratica. Piuttosto che produrre direttive politiche e/o strategiche generalizzanti, la conoscenza etnografica prodotta in modo collaborativo intende facilitare le (auto-)riflessioni in corso tra gli attivisti riguardo agli obiettivi, tattiche, strategie e forme organizzative del movimento. Al contempo c’è spesso una evidente contraddizione tra il momento della ricerca e quelli della scrittura, pubblicazione e distribuzione. La logica orizzontale della rete associata ai movimenti contro la globalizzazione aziendale contraddice la stessa logica accademica. Gli etnografi militanti devono quindi costantemente negoziare tali dilemmi, muovendosi tra differenti siti di scrittura, insegnamento e ricerca.

Rispetto a questa definizione pionieristica sono necessarie alcune precisazioni e approfondimenti. Una breve rassegna di come gli etnografi abbiano connotato la loro ricerca militante ci permette di integrare considerazioni successive alla proposta iniziale di Juris, di illustrare le diverse sfumature del concetto e di chiarire l’originalità della nostra proposta. 1. Posizionamenti politici Un primo punto su cui si soffermano praticamente tutte le riflessioni sul tema è il denso intreccio di posizionamenti politici tra ricercatore e contesto sociale studiato. Una complicata miscela a lungo percepita come metodologicamente scorretta perché si sosteneva che la serietà della ricerca prevedesse un posizionamento etnografico nettamente distinto da quello degli agenti attivi nel contesto studiato. Melucci (1982, pp. 142, 145, 146, corsivo nostro), ad esempio, elen-

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cando i “problemi” metodologici associati alle “inchieste sul militantismo” lamentava che “la relazione osservatore-osservato […] viene raramente messa a fuoco in modo esplicito e non diventa oggetto di riflessione metodologica”; invitava a fare di tale relazione “un oggetto esplicito di osservazione, di negoziazione e di contratto, nell’assunto della non identificazione tra analisti e attori”. Melucci (1982, p. 148) sul posizionamento che ritiene lecito, è categorico: I ricercatori […] come specialisti hanno il compito di svolgere una funzione professionale all’interno di istituzioni che producono conoscenza. Hanno dunque la responsabilità, etica e politica, della produzione e della destinazione di risorse cognitive; ma non hanno il privilegio di orientare i destini della società come consiglieri del principe o ideologi della protesta.

Sebbene ci sia un filone di studi anche sui movimenti sociali, ad esempio i preziosi lavori di Della Porta e del suo gruppo di ricerca (Della Porta e Piazza 2008; Della Porta e Diani 2009) che assumono tuttora un posizionamento che potremo definire politicamente distaccato, le preoccupazioni di Melucci, in questi quattro decenni, sono state largamente affrontate e ripensate. Da allora il posizionamento del ricercatore ha suscitato un’estrema attenzione, tanto che in molte etnografie militanti è riservato un passaggio, un paragrafo, o un capitolo alla complessa relazione politica e metodologica che si è innescata tra etnografo e contesto studiato. Al contempo, molti ricercatori hanno di fatto preso le distanze dall’invito di Melucci ad una chiara distinzione dei ruoli senza peraltro voler assumere né il ruolo di “consiglieri del principe” né quello di “ideologi della protesta”. L’orientamento di molti etnografi militanti dell’ultimo decennio è che non solo i posizionamenti di ricercatore e attivista siano ineluttabilmente intrecciati, ma che ci si debba “assicurare che si sta conducendo ricerca come un soggetto orientato dalla lotta, piuttosto che un ‘accademico’ che produce informazioni disincarnate – ‘morte’ – sui movimenti” (Russell 2014, p. 6). Prendiamo ad esempio la spiegazione che dà del

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proprio posizionamento Alessandro Senaldi, etnografo del movimento NO-TAV: […] ero lì in prima istanza come compagno e, solo dopo, come ricercatore – cosa che peraltro, non poteva darsi diversamente, non siamo ad uno zoo e i rapporti fiduciari con i soggetti si costruiscono su solidarietà e mutualismo reciproci […] mi sono sentito particolarmente coinvolto e vicino al movimento (comunicazione personale, luglio 2019)

Le pratiche etnografiche del terzo millennio hanno mostrato che è possibile praticare una ricerca esplicitamente militante senza assumere un ruolo di guida o di rappresentante pubblico di una mobilitazione politica: fare etnografia militante richiede piuttosto di entrare in un campo intenso e ambivalente di collaborazioni pratiche e teoriche. Per il Colectivo Situaciones (2001, p. 37) “non si tratta di ‘dirigere’ o ‘appoggiare’ le lotte ma di abitare attivamente la nostra situazione”. In questo senso l’etnografia militante si configura come una forma di attivismo o meglio di ricerca attivista che ha recentemente suscitato interesse non solo in ambito antropologico ma anche in altre aree delle scienze umane (Russell 2014; Pusey 2017). Il gruppo di ricerca interdisciplinare Emidio di Treviri (2018, p. 21), esprime bene la tensione e l’intenzione di una ricerca dichiaratamente militante sulle conseguenze del terremoto che ha colpito l’Italia centrale tra il 2016 e il 2017: “sin dal suo esordio, la volontà del gruppo è stata orientata a costruire un percorso militante, basato su un continuo confronto e un attento lavoro sul campo al fianco di coloro che erano coinvolti nei processi del post-disastro”. Rispetto a tecniche di ricerca che privilegiano legittimamente l’elaborazione di inventari di pratiche o la sistematizzazione comparativa, la metodologia etnografica, proprio per la profondità dell’immersione richiesta al ricercatore, è particolarmente propensa a generare un groviglio multiforme e composito di relazioni e tensioni politiche. La ricerca attivista riconosce la complessità delle dinamiche di potere in cui sia il ricercatore che il

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soggetto studiato si muovono e intende svolgere un ruolo da protagonista in queste. Svirsky (2010, pp. 169, 175) sostiene che il ricercatore-militante assume una logica “interventista e operativamente iper-attiva”; non solo, secondo l’autore, il suo compito è definito in maniera più puntuale come un attivismo rivoluzionario finalizzato non a cambiare il mondo ma a generarne un altro. Sebbene tutti insistano sulla centralità della vocazione etico-politica, altri autori sono più cauti nel definire la direzione e l’intensità del cambiamento politico che la ricerca militante immagina e contribuisce a costruire. Juris e Khasnabish (2103a, pp. 8-9), ad esempio, spiegano: “il nostro interesse per l’attivismo rappresenta un impegno per una etnografia politicamente impegnata, che non solo genera sapere che speriamo possa essere utile per quelli con i quali studiamo ma che potenzialmente costituisce una forma di attivismo in sé”. Russell (2014, p. 2) si sofferma soprattutto sulla capacità di trasformazione stimolata dall’auto-riflessività (vedi capitolo 6): Intendo l’etnografia militante – una forma della ricerca militante – come il processo attraverso il quale si identifica gradualmente e ci si sofferma su una contraddizione, incoerenza o paradosso all’interno di un milieu dichiaratamente politicizzato, e quindi ci si impegna per capire e contribuire al superamento collettivo di questo paradosso – una combinazione di pensiero e azione orientata verso la comprensione e la modifica di una pratica collettiva, identificando e superando i limiti di ciò che siamo ora.

Si può osservare quindi come le etnografie militanti nascano da incontri etnografici che hanno come tratto cruciale per entrambi le parti in causa – etnografi e soggetti studiati – una esplicita carica di interrogativi che non sono solo contemplativi o accademici ma finalizzati ad una trasformazione pratica degli equilibri politici. Un buon esempio di come intendiamo la prospettiva etnografica militante è la presentazione che fa Alliegro (2014, pp. 25-26) della sua ricerca:

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Probabilmente la realtà descritta, fortemente partecipata negli ultimi due anni dal sottoscritto molto dal di dentro, ha in parte assorbito le istanze dello stesso antropologo indigeno movimentista, abbattendo le solite barriere erette tra campo di studio e campo di dimora […]. Un campo, dunque, quello di studio, colto nelle sue dimensioni etiche, civili e soprattutto politiche.

È importante sottolineare che il protagonista della trasformazione politica desiderata non è solo l’etnografia, intesa come scritto accademico, né l’etnografo, ma la prassi etnografica. Nel fare ricerca e nel mobilitarsi agisce un soggetto situato nelle dinamiche politiche come ricercatore e attivista. In questa duplice veste entra nelle dinamiche del contesto studiato, propone analisi e progetti, collabora nella promozione di eventi, divulga e rende accessibili dibattiti scientifici, offre una legittimazione e una protezione al movimento sociale tramite appelli e l’uso dei mass-media, a volte viene incaricato di interagire con le istituzioni (governative, legali, enti locali, sindacati) per conto del soggetto studiato. L’etnografia militante si realizza in questo complesso e delicato intreccio relazionale che vede il ricercatore in campo in molteplici vesti. Queste preoccupazioni hanno implicazioni profonde su come la ricerca viene pensata e pianificata. Prendiamo ad esempio la posizione di Irene Peano: Penso sia politicamente (e quindi eticamente, dove la politica implica l’etica e viceversa) scorretto, o perlomeno problematico, entrare nel contesto attivista per ragioni esclusivamente accademiche, così come ritengo molte forme di ricerca etnografica (quelle non posizionate) puramente estrattive. Nonostante si senta spesso dire, soprattutto dagli/dalle antropolog*, che il rapporto tra ricercatrice/ricercatore e soggetti della ricerca dovrebbe essere reciproco, ma penso che nella pratica raramente lo sia. Per me, quindi, adottare una postura militante rispetto al terreno in cui faccio ricerca è il modo di rendere la ricerca realmente reciproca, o meglio di annullare, quanto più possibile, la distinzione tra ricercatrice e soggetti e quindi fare sì che i nostri interessi tendano sempre di più alla convergenza. Cioè, non intendo tanto ‘studiare un movimento sociale’ quanto piuttosto

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calibrare la ricerca come metodo per immaginare e costruire un futuro possibile, diverso dal presente, insieme ai soggetti interessati (comunicazione personale, giugno 2019).

La vita politica della ricerca di Sopranzetti (2018, p. 170) esprime in modo emblematico un posizionamento con intenzioni chiaramente militanti. Nell’illustrare l’interesse che può suscitare la sua indagine sull’attivismo politico dei moto-tassisti legati alle camicie rosse protagoniste delle mobilitazioni avvenute in Thailandia nel 2010, spiega che il suo lavoro vada inteso in senso pratico, come un tentativo, analogo a quello di altri intellettuali “non interessati solo ad una analisi del mondo interno a loro ma impegnati a cambiarlo”. Prende le distanze da “intellettuali politici che si accontentano di usare le teorie radicali nelle loro analisi piuttosto che vivere una pratica radicale, fatta sia di parole che di azioni”. La ricerca si innesta in dinamiche politiche in molti modi. Alcuni paiono tesi a contribuire ad un immaginario del lettore come ad esempio i passaggi in cui riconduce le specifiche rivendicazioni delle camicie rosse thailandesi all’interno di motivazioni in cui molti lavoratori di altre parti del globo si possono riconoscere; oppure quando illustra l’efficacia dell’azione diretta finalizzata a interrompere il flusso. Nel caso dei moto-tassisti thailandesi si tratta di un blocco stradale ma esistono altri tipi di interruzione degli scambi come il blocco telematico, portuale o della logistica, che si rivelano terreni di lotta percorribili e promettenti in contesti capitalistici fondati sulla mobilità. Sopranzetti (2018, p. 171), come quasi tutte le etnografie militanti, pone l’attenzione su azioni collettive che producono un conflitto significativo quando attuate nei posti giusti […] Omettere di riconoscere ed esplorare questi tratti pone dilemmi che vanno oltre la dimensione etnografica e intellettuale […] Alla lunga saremo messi sul banco degli imputati come quelli che avrebbero potuto aiutare ma hanno deciso di non fare nulla. Come disciplina abbiamo già fatto questo sbaglio imperdonabile nel passato, rimanendo silenziosi e girando la testa agli orrori del colonialismo. Ripeteremo lo stesso errore?

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2. Il coinvolgimento come metodologia Un recente intervento di Favole e Allovio (2018) su un noto quotidiano ha come titolo La militanza radicale nuoce all’antropologia. Diversi etnografi militanti, tra cui nomi illustri, la pensano diversamente. Herzfeld (2010, p. 261), ad esempio, nella sua ricerca sulla comunità di Pom Mahakan a Bangkok suscita lo scetticismo di scienziati sociali positivisti, membri del pubblico, e numerosi funzionari pubblici, che, tutti, sollevavano dubbi sul fatto che avrei avuto dati buoni, incontaminati. Come, mi chiedevano in vari modi, potevo essere oggettivo quando ero così appassionatamente coinvolto? … Ho risposto loro accettando la loro impostazione – sulla qualità dei dati. Innanzitutto, il coinvolgimento mi ha permesso di accedere ad informazioni (una parola molto migliore di dati) che altrimenti non avrei mai acquisito, soprattutto dopo che mi sono unito a loro nella comunità barricata il giorno che pensavano che le autorità avrebbero “invaso”, con ripercussioni potenzialmente violente e anche fatali.

Un posizionamento “interno” al contesto studiato, e quindi un coinvolgimento nelle mobilitazioni, è difeso dagli etnografi militanti come scelta metodologica cruciale e proficua. Su questo punto c’è una convergenza generalizzata di chi conduce ricerca in ambienti politicamente densi; l’immersione attiva è giustificata non solo da un punto di vista morale ma metodologico: un posizionamento schierato (una postura dichiarata e manifesta non necessariamente appiattita sulle posizioni del soggetto studiato) è indispensabile per avere accesso a informazioni chiave. Juris e Khasnabish (2103a, p. 4) sostengono: […] analisi e descrizioni etnografiche, particolarmente se impegnate politicamente e condotte da dentro piuttosto che da fuori movimenti dal basso per il cambiamento sociale, sono in grado di svelare importanti questioni empiriche e generare importanti stimoli teorici che sono semplicemente inaccessibili attraverso i metodi tradizionali oggettivisti.

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Le etnografie militanti si basano sull’impegno diretto in una particolare lotta attraverso attività quali l’organizzazione di azioni ed eventi, la partecipazione a riunioni, illustrare e difendere posizioni durante discussioni e dibattiti, e rischiare la propria incolumità durante le azioni di massa. Questo porta ad una comprensione più intima e profonda e offre anche un senso delle emozioni prodotte dalla pratica politica. Juris definisce l’etnografia militante come “metodo per studiare dall’interno i movimenti sociali dal basso. Il ragionamento è che per capire la prassi quotidiana ed esperire la logica dei movimenti sociali, in pratica devi partecipare come attivista; quel tipo di conoscenza genera un sapere migliore”1. Senaldi (2016, p. 9) spiega che sulla adozione del metodo etnografico nello studio del movimento No Tav “hanno pesato due fattori che sono ascrivibili al mio percorso biografico”: uno è l’intenzione di svolgere una ricerca con “espliciti fini ‘etico-politici’”, l’altro è riferibile ai benefici metodologici del suo “particolare status di militante politico […] [che] ha ridotto […] la gran parte delle difficoltà che un etnografo sperimenta, come quelle relative alla familiarità con il tema e il contesto trattato, all’accesso al campo”. Altri autori sono più cauti. Agata Mazzeo ha cercato di mantenere un delicato equilibrio tra coinvolgimento e distanza ma nota, come altri etnografi, che un posizionamento, se non attivista, per lo meno chiaro e schierato sia cruciale nella raccolta della documentazione. Mi sono sempre presentata ai miei interlocutori come ricercatrice e mai come attivista. Tuttavia sono consapevole che non avrei avuto accesso al campo se non fossi stata riconosciuta come una sostenitrice del movimento per la proibizione dell’amianto […]. Mai avrei avuto accesso al campo se le mie opinioni circa la pericolosità dell’amianto non fossero state chiare e la mia posizione in merito inequivocabile.2 1 Real Democracy in the Occupy Movement: No Stable Ground di Anna Szolucha pp. 56-57; researchmatters.ssrc.org/between-scholarship-and-social-movements-in-conversation-with-jeffrey-juris/ 2 Agata Mazzeo, “Amianto mata: um outro mundo sem amianto é possível” Le implicazioni di una ricerca etnografica condotta con gli attivisti del

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La controversa partecipazione dell’etnografo ai movimenti sociali ci pare una conseguenza necessaria di tecniche di ricerca etnografiche. Ciò non vuol dire presupporre che sia un percorso lineare e facile; nel caso di Sopranzetti è stata una “esperienza forte, specie negli ultimi anni, e piena di difficoltà, conflitti etici e personali, e ripensamenti” (comunicazione personale, Claudio Sopranzetti, dicembre 2019). Una presenza partecipante, come richiesto dai canoni della etnografia ormai da un secolo, in un contesto di attivismo politico implica prendere posizione, fare parte delle dinamiche di gruppo, collaborare e quindi rinunciare ad un posizionamento esterno, esclusivamente contemplativo. Nadia Breda racconta il suo coinvolgimento, notando come il contesto di movimento sia una feconda fucina di elaborazioni e riflessioni, in cui l’etnografa si inserisce, come ricercatrice e attivista. A fine anni Ottanta solo il WWF si occupava dei residui di questi ambienti, oggi fondamentali per la lotta contro i cambiamenti climatici, e da un trafiletto letto su un opuscolo del WWF ho scoperto che esisteva una palude […] e sono andata a studiarla. Per i palù, li conoscevo io di persona, abitandoci vicino; ho segnalato al WWF […] che vi sarebbe passata sopra un’autostrada e loro hanno identificato subito i posti come “zona delle risorgive” [vedi Breda 2001, 2010] e da quel momento ci siamo attivati insieme, io sono diventata WWFina e il WWF ha attivato una politica di salvaguardia dei palù che è stata forse una delle cose più intense che abbia fatto (6 avvocati, 3 ricorsi, innumerevoli studi e azioni…). Come potevano essere disgiunte le ragioni accademiche, cioè di studio e ricerca, da quelle di attivismo? E non è esattamente ciò che deve fare l’antropologia, quello di cercare le voci marginali, moltiplicare i punti di vista, ascoltare ciò che di solito nessun altro ascolta? Nei fatti che ho seguito come antropologa c’è stato il fatto totale: familiare, individuale, personale, generazionale, politico, intellettuale, sociale e culturale, ambientale (comunicazione personale, Nadia Breda, luglio 2019) movimento anti-amianto in Italia e Brasile, lV Convegno Nazionale SIAA, Panel 1: Anthropology of Disasters between Public Commitment and Collaboration, Catania 14-17 dicembre 2017; cfr. Mazzeo (2014).

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La chiusura della narrazione indica un altro punto ben noto a diversi etnografi ed etnografe, l’impossibilità di scindere esistenza e indagine. Questa sensazione di impatto totalizzante è ulteriormente accentuata dalla sensibilità politica. Il coinvolgimento quindi è una logica conseguenza dell’applicazione di una metodologia di osservazione partecipante in modo non dissimile da quello che avviene in altri ambiti, con la specificità che l’etnografia militante è particolarmente impegnativa per ciò che concerne le relazioni politiche. Il posizionamento attivo per molti etnografi infatti non è solo una collocazione metodologicamente irrinunciabile se si vuole fare una etnografia di qualità, ma nasce anche da un desiderio di agire concretamente sulle dinamiche osservate come etnografo. Russell (2014, p. 5) spiega la complessità del “collasso” della distinzione ricercatore/ militante: […] prendeva forma un processo riflessivo di analisi del discorso, osservazione partecipante e consapevolezza affettiva che – ricordando che la dicotomia ricercatore/ oggetto di ricerca era collassata attraverso l’orientamento militante della ricerca – poteva essere considerato un tipo di ‘autoetnografia collettiva’. Uscendo dal linguaggio specialistico, questo voleva dire che mentre ascoltavo, cospiravo, leggevo, pianificavo, scrivevo, ridevo e festeggiavo con amici e compagni del movimento, stavo al contempo elaborando una comprensione, sia mia che degli altri, di una ‘collocazione problematica’. Ciò era evidente sia per ciò che concerne come mi comportavo e parlavo, sia quello che facevo (o non facevo) e perché provavo a portare avanti le decisioni o i processi in certi modi.

Interrogativi simili legati alla impossibilità di definire i ruoli in maniera univoca sono frequenti nelle etnografie militanti. Casas-Cortés, Osterwill e Powell (2013, p. 214, corsivo in originale) raccontano Nel corso della nostra ricerca abbiamo avuto difficoltà a distinguere quando stavamo facendo ricerca sul ‘nostro oggetto di studio’ o quando noi e il nostro oggetto di studio ci stavamo

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interrogando e stavamo producendo sapere circa un particolare problema o congiuntura, situandoci tutti in un comune campo politico e spazio di dubbio.

Questo ambivalente intreccio tra motivazioni e obbiettivi accademici e politici spesso si innesta nella poliedrica esistenza dei ricercatori, amplificandone la complessità: Quando mi chiedevano di espandere la parte della mia tesi di dottorato su quello che avevo fatto come ricerca, ho esitato, mi sono bloccato e a volte mi sono chiesto se avessi in effetti fatto tanta ricerca o mi preoccupavo che avessi fatto ‘abbastanza’ ‘ricerca corretta’, qualunque cosa possa voler dire. Dove erano le ‘valigie di documenti’ che le persone si aspettavano da me? Quali parti del mio coinvolgimento con la ROU [Really Open University] erano utili per la tesi e quali superflue? Tutte queste domande e altre alimentavano la mia ansia e intorbidivano le acque di un processo già disordinato (Pusey 2017, p. 3)

3. Superamento della distinzione tra ricerca e attivismo o sdoppiamento? Apoifis (2017, p. 519; cfr. Juris 2007, p. 165) sottolinea la necessità di una partecipazione politica in linea con quella del soggetto studiato: “gli etnografi militanti dovrebbero sforzarsi di adottare un coinvolgimento partecipativo e politicamente schierato in modo che la logica degli attivisti diventi accessibile”. Tali posizionamenti portano alcuni a teorizzare il superamento della distinzione tra indagine e pratica politica, un “collasso della dicotomia ricercatore/ oggetto di ricerca” (Russell 2014, p. 4) o un “appannarsi della distinzione tra ricercatore e attivista politico”, nel senso che l’etnografia militante combina “una osservazione partecipante politicamente impegnata e l’etnografia” (Apoifis 2017, p. 50). Viola (2015, pp. 24, 20) nel raccontare la sua ricerca, torna sui medesimi temi ma parla di “dialogo” piuttosto che di “coinvolgimento schierato”.

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L’esperienza di essere sia militante sia antropologa è stata talmente pervasiva da andare ben oltre il periodo di campo condizionando anche il rapporto con la scrittura. Potrei dunque dire che l’attivismo e la condivisione sono stati i semi con cui ho coltivato il terreno di rispetto e fiducia reciproca che mi ha lentamente portata ad accedere ai dati di campo […] l’etnografia come pratica di attivismo vede la discesa in campo del ricercatore che sappia dialogare con un dato gruppo sia nella propria pratica politica sia nella stessa formulazione della ricerca.

Oltre a Viola, che si definisce “sia militante sia antropologa”, diversi autori si presentano coniugando un ruolo professionale-accademico e uno etico-politico: “ricercatori e attivisti” (Peano 2017, cfr. Apoifis 2017), “orientamento di ‘ricerca militante’” (Russell 2014, p. 2), “ricerca-militanza” (Saitta 2018, p. 15), “studioso-attivista” (Alliegro 2014), “antropologa e persona coinvolta nella lotta” (Braun 2013, p. 25). Breda chiarisce: “Ricerca-attivismo-accademia sono stati da subito coincidenti per me […] volevo che i miei studi contribuissero a salvare concretamente e materialmente i palù dalla distruzione totale. Come avrei potuto esimermi da questo?” (comunicazione personale, luglio 2019). I due ruoli, quello accademico e quello militante, possono però essere intesi come sovrapposti o come affiancati, e la scelta ha conseguenze rilevanti. L’esperienza descritta da molti degli etnografi militanti è quella di una assenza di distanza tra contesto di partecipazione politica e campo di ricerca, di mancato estraniamento etnografico, di aver individuato già prima della ricerca un chiaro nesso tra interessi intellettuali e politici. Esaminando la varietà di ricerche condotte con/sui movimenti sociali in Italia, pare però che in diversi casi la tensione tra studio e impegno rimanga irrisolta: i due ruoli non vengono trascesi in una figura indistinta di militante-etnografo ma combinati in maniera a volte schizofrenica. Come nota Van Aken: “Ci sono piani diversi ma non distinti: non partendo da un’idea di dicotomia di ricerca pura e applicata, oggettiva/attivista, i piani si mescolano continuamente […] questa tensione, è inevitabilmente etica

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e politica, con tutto ciò che comporta in termini di negoziazioni, distinzioni di ruoli, ricerca di spazi di manovra” (comunicazione personale, Mauro Van Aken, luglio 2019). Gli attriti e le contraddizioni tra la dimensione attivista e quella accademica emergono continuamente e forse necessariamente perché le due polarità dell’azione hanno metodi, orizzonti, obiettivi, tempi, linguaggi distinti e, a tratti, inconciliabili. Inoltre, anche i movimenti e le reti di attivismo sono incessantemente in evoluzione, attraversati da frizioni, tensioni e divisioni. L’identità attivista, anche quella dell’etnografo, è sfaccettata e dinamica. La ricerca di Koensler (2015) su forme di attivismo e solidarietà tra israeliani e palestinesi nel deserto del Negev (Israele) dimostra che non è sempre scontato assumere un posizionamento chiaro in contesti di attivismo in cui gruppi nascono, si sciolgono, si dividono, muoiono e rinascono in nuove forme. Il caso di studio di reti di solidarietà e attivismo contro la demolizione di case di cittadini beduini arabo-palestinesi, il contesto del conflitto e delle forme di identificazione collettiva in costante evoluzione richiedono la capacità di manovrare costantemente tra frizioni e contraddizioni se non si vuole ripiegare l’etnografia su una fazione particolare. Contesti del genere richiedono quindi un riposizionamento costante. Non di rado al momento della pubblicazione, il gruppo non esiste più nella forma in cui è stato studiato. Di fronte al carattere fluido di molte reti di attivismo, è quindi difficile se non impossibile mantenere un’unica posizione con coerenza e senza incontrare tensioni. A nostro avviso, l’etnografia militante non dipende tanto dal fare o non fare l’attivista durante la ricerca o comunque non si può limitare alla sintonia politica del ricercatore con il gruppo studiato o alla indistinzione dei ruoli tra ricercatore e attivista: riguarda il tipo di relazioni che si instaurano, la scelta delle metodologie di indagine e l’uso pubblico della ricerca. L’intensità della reciproca simpatia politica tra ricercatore e gruppo è spesso irriducibile alla dicotomia tra essere completamente estraneo e una identificazione completa negli obbiettivi e nelle modalità di azione del movimen-

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to. L’etnografo, come d’altronde anche gli altri attivisti, nutre spesso una parziale simpatia: sente una sintonia di massima ma non una totale coincidenza e su alcuni temi dissente dalla linea prevalente. Inoltre, l’affinità politica va contestualizzata rispetto al tipo di partecipazione: ogni militante, e anche l’etnografo, ha un posizionamento soggettivo, ovvero si dedica prevalentemente a certi ambiti o attività all’interno del contesto di movimento. Quello dell’etnografo è spesso un posizionamento fluido, indistinto e per certi versi ambiguo; più che un superamento della distinzione ci troviamo di fronte allo sdoppiamento della persona tra partecipazione e ricerca: l’etnografo è al contempo immerso nel contesto attivista e osservatore analitico (cfr. Hale 2006, p. 104). Rispetto al mondo accademico, alle sue dinamiche di potere, alle sue tradizioni epistemologiche emerge frequentemente tra gli etnografi militanti una esigenza di autonomia, per scegliere percorsi metodologici e teorici eterodossi, sforzandosi, al contempo, di difendere da un diffuso scetticismo universitario la dignità scientifica della documentazione raccolta. Olmos Alcaraz e altri (2018, pp. 150, 143) colgono l’occasione di una ricerca collettiva con un movimento spagnolo contro gli sfratti per sperimentare non solo una immersione ma una ibridazione analitica e conoscitiva tra etnografi e contesto di militanza che stimola a mettere in discussione sia “la gerarchia di poteri della indagine classica […] che parla in nome delle persone che studia” sia “la dicotomia tra ‘saperi esperti’ e le condotte ‘disciplinate’ delle metodologie egemoniche per far spazio ad un ‘pluriversalismo metodologico’ e alla soggettivizzazione politica” (vedi capitolo 7). Senaldi si impegna in un analogo tentativo di trasformazione del senso della produzione accademica, da un lato attraverso ricerche che svolgano “un compito pubblico – non solo nei confronti di una sterile deontologia professionale” e dall’altro affermando la validità scientifica di un sapere militante:

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[…] sul versante accademico-universitario, significa combattere anche una battaglia sullo statuto del sapere e della ricerca, un rinnovamento epistemologico contro una datità tecnico-razionale. Significa veicolare forme di sapere e di conoscenza che altrimenti nessuno veicolerebbe, significa dare conto del pluralismo della realtà, significa riuscire ad instillare all’interno dell’insegnamento un sapere critico volto all’emancipazione individuale. L’idea che ciò non si possa fare in modo rigoroso e scientifico – per quanto questi termini siano carichi di ambivalenze – è una pura mistificazione, dei cui effetti è la stessa datità tecnico-razionale che si nutre.

Questa posizione si scontra però con le logiche accademiche, con cui molti etnografi militanti, hanno necessariamente a che fare, spesso in un prolungato limbo di precariato. C’è quindi quello che Senaldi chiama il “rischio del riassorbimento”, ovvero la difficoltà nel mantenersi coerenti con quello che è il senso assegnato alla propria militanza. Dovrai lottare contro l’ostracismo dei più, che non vedendo come spendibile la tua figura – come potrebbe esserlo elaborando un sapere disfunzionale e non commercializzabile? – faranno in modo di escluderti, nel frattempo ti prenderanno come il ragazzino un po’ ideologizzato che sta provando ad infilarsi goffamente tra gli illuminati. Il vero problema, che poi invece si riversa sul versante militante, è che in questo processo di attacco e difesa è assai difficile rimanere uguale. Nell’assumere l’habitus accademico, volente o nolente, cambi schemi di pensiero e stili di scrittura, si produce quasi una mimesi, una strategia di adattamento – fatta di ponderazione, avalutatività, pacatezza e moderazione – volta a garantirti la sopravvivenza […] Si produce così quel distacco e disimpegno […] in cui ti sembra di non essere più in grado di pensare e parlare una lingua che conoscevi. Questa cosa di per sé è abbastanza lacerante perché, nonostante questo distacco, un militante sul crinale tra organizzazione radicale e accademia, conserva l’orizzonte a cui sta tendendo – banalmente: la trasformazione radicale del presente – ma si dota di strumenti ibridi che non sono considerati, dal mondo militante, sempre adatti per raggiungere quell’orizzonte. Insomma forse la difficoltà principale, anche morale forse, è

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proprio questa, che su entrambi i fronti devi nuotare controcorrente (comunicazione personale, luglio 2019).

Per l’etnografo la gestione dell’intreccio tra università e militanza non genera un ibrido sereno ma ricorrenti tensioni in entrambi i contesti. Si potrebbe quindi sostenere che idealmente, la ricerca extra accademica è più libera sia nelle intenzioni sia nelle modalità; quindi “la ricerca militante non ha nell’università il referente” (Russell 2014, p. 2; cfr. Colectivo Situaciones 2001), eppure l’autonomia extra-accademica è spesso penalizzata dalla scarsezza di fondi e limitata nell’impatto istituzionale. Di contro, in termini materiali, è più libera l’indagine universitaria in quanto dispone di maggiori risorse economiche però qualsiasi finanziamento comporta anche un condizionamento più o meno incisivo. Il più delle volte si tratta di navigare in contesti complessi con restrizioni molteplici, sebbene diverse, in un caso come nell’altro. Quando innestata in un ambiente accademico la ricerca deve rispondere a canoni universitari. Juris e Khasnabish (2013a, p. 26) sostengono che “Per essere presa sul serio, la ricerca attivista di qualsiasi genere si deve giustificare in base agli standard e criteri accademici”. Pusey (2017, pp. 4, 6) mette in guardia dalla convinzione che si possa cancellare l’influenza del mondo universitario “quando si adottano metodi di ricerca militanti a partire da un contesto accademico, e per quanto ‘irrilevante’ la ‘componente accademica’ possa apparire […] è ancora evidentemente rilevante”. Andre Pusey, un docente strutturato e geografo militante che adotta metodi etnografici, così come Bertie Russell, fa notare ad esempio il peso della collocazione delle pubblicazioni e l’individualismo competitivo che regola la valutazione accademica; infine mette in guardia che “la macchina di recupero accademico ha l’abilità potenziale di assimilare […] con la sua logica sempre più commerciale, recuperando e mercificando la ricerca militante come uno tra i vari modi accademici di generare ‘prodotti’”. Alcuni come Staid (comunicazione personale,

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giugno 2019) ritengono che “i problemi morali dell’oscillazione tra contesto etnografico e mondo universitario sono troppi” e scelgono quindi di investire il loro sforzo professionale prevalentemente in altri ambiti. 4. La relazione tra etnografo e contesto militante Se i partiti erano uno dei principali focus di analisi della etnografia politica fino al nuovo millennio (vedi ad esempio Kertzer 1981, Gribaudi 1980), negli ultimi due decenni l’attenzione è stata concentrata su partiti neo-autoritari ma soprattutto su movimenti sociali e iniziative dal basso. A destare l’interesse degli etnografi militanti europei e nordamericani sono “formazioni più diffuse tra cui collettivi informali e gruppi di affinità” (Juris e Khasnabish 2103a, p. 10); secondo Staid (comunicazione personale, giugno 2019), e molti altri, perché sono più interessanti per esplorare “le possibilità di mutazione culturale che si muovono proprio negli interstizi informali della società” o con Mazzeo (comunicazione personale, giugno 2019) perché sono “più radicati nei contesti locali e nelle esperienze quotidiane della vita socio-politica” mentre c’è stato nelle parole di Sopranzetti (comunicazione personale, dicembre 2019) un “fallimento dei partiti tradizionali come forme di aggregazione e identificazione collettiva”. Van Aken spiega il cambiamento di focus di indagine dai partiti tradizionali ai movimenti sociali con la perdita di rappresentanza e di legame degli stessi partiti, la loro incapacità di leggere le forme di cambiamento sociale e culturale, il loro non farsi più connettore. I “movimenti” o forme di condivisione di lotte a partire da territori e vicinati emergono proprio per il vuoto di rappresentanza e per il pieno di contraddizioni dei processi locali della globalizzazione neoliberale, per la vulnerabilità sociale crescente che si “snoda” appunto nelle contraddizioni sui territori per la necessità di condividere bisogni comuni (comunicazione personale, luglio 2019)

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Rispetto alla definizione dei contesti studiati, intendiamo il campo della etnografia militante non limitato ai “movimenti sociali” o ai movimenti “anti-corporazioni e anti-capitalisti” (Apoifis 2017, p. 50) né agli “spazi reticolari dell’attivismo trans-nazionale” o agli “incontri ribelli” (Juris e Khasnabish 2103). Lo riteniamo molto più ampio. In questo adottiamo un posizionamento eretico rispetto alla maggior parte della letteratura fin qui prodotta, principalmente in contesto anglosassone. Sebbene i contesti sopra citati siano il campo di studio più emblematico della etnografia militante, per noi l’intreccio politicamente denso si può sviluppare anche, come vedremo, in tutte le azioni dal basso che non suscitano il clamore e l’attenzione dei movimenti più reclamizzati, quindi quell’attivismo che privilegia la paziente pratica silente sulla rivendicazione esplicita, sulla semantica identitaria della contrapposizione, sulla retorica rivoluzionaria. Ci convince la riflessione di James Scott (2014) in Elogio all’anarchismo, che i movimenti più radicali e maggiormente in grado di generare trasformazione sono spesso quelli che agiscono nell’ombra. Si può fare quindi etnografia militante anche nell’estenuante lavoro pratico, ma non per questo politicamente meno impegnato, nelle relazioni con le istituzioni, ad esempio nella gestione dei richiedenti asilo; oppure in indagini su soggetti politicamente distanti dalla posizione del ricercatore, per illustrare l’ideologia minacciosa e per smascherare le ipocrisie, contraddizioni e mistificazioni di forze come la Lega o i partiti neofascisti (vedi ad esempio Dematteo 2007, Cammelli 2015). L’attenzione privilegiata che c’è stata per gli imponenti movimenti di piazza, per i grandi raduni, per le fasi più partecipate o coreograficamente appetibili all’interno della genealogia egemonica del movimentismo nord-atlantico nel XXI secolo3 sono a nostro 3 I momenti più eclatanti della genealogia movimentista tra fine del secondo ed esordio del terzo millennio nel Nord Atlantico comprendono, a partire dalle mobilitazioni a Seattle nel 1999 contro il WTO (World Trade Orgnanization), le varie azioni di disturbo condotte da quello che è stato denominato movimento contro la globalizzazione che darà vita ai Social Forums del Global Justice

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avviso solo una parte dei contesti in cui si può assumere una modalità etnografica militante (Graeber 2009, Juris e Khasnabish 2103). Van Aken nota giustamente: […] dove finisce o inizia un movimento? Dalla consapevolezza e dalla presa di coscienza nelle dinamiche di conflitto certo, da un’autorappresentazione. Ma anche questa definizione è labile. Il lavoro sui conflitti dell’acqua nella valle del Giordano erano un classico movimento “tacito”, silente, invisibile, di manipolazione e distorsione per accaparrarsi più acqua nell’agrobusiness da parte di gruppi sociali più diversi: si “muovevano” molto, mi hanno mostrato la dimensione politica dell’acqua nelle loro pratiche, ma certo non potevano manifestare né ribaltavano il sistema irriguo e di disciplina di potere: erano tattiche tacite ma certo non assumevano la dignità o esposizione di movimento. Sovvertivano di nascosto (comunicazione personale, luglio 2019)

Van Aken rileva altresì che, il contesto dell’azione militante e attivista non riguarda solamente attori “umani”; è infatti necessario ripensare la dimensione attivista e le categorie per leggerla, rispetto ad un “ambiente in movimento” dove i soggetti in azione son sempre più, minacciosi, non-umani ed in gioco ci sono le nostre interdipendenze. Proprio dentro le forme di attivismo e di ricerca che partono dal pensarsi nella crisi climatica, pratiche, immaginari e relazioni esplicitano e sperimentano politiche e rapporti “altri” con il non-umano. È un punto critico questo urgente, etico, politico, dello stesso senso dell’attività antropologica, che ha bisogno di riscoprirsi meno antropocentrica (comunicazione personale, novembre 2019).

Inoltre, la relazione tra etnografo e contesto militante approfondita nel capitolo 5 ci pare molto più complessa e ambivalente della “collaborazione” individuata come tratto Movement (2001-2018). Più recentemente l’attivismo globale, pubblico e di massa si intreccia con l’ondata di grandi mobilitazioni iniziata nel 2011 nota come Primavere Arabe in Nord Africa e Medio Oriente, come movimento Occupy (soprattutto in USA e Europa) e 15M – Indignados (in Spagna).

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caratterizzante da Juris e Apoifis (2017, p. 50). Russell (2014, pp. 3, 4) crede che l’etnografia militante debba avere “uno specifico orientamento che è basato sull’impegno a rafforzare e trasformare i movimenti di cui fanno parte […] ad allinearsi con una prospettiva antagonista”. Hale (2006, p. 97) nella sua caratterizzazione della “ricerca attivista” è forse ancora più drastico, si tratterebbe di un metodo attraverso il quale dichiariamo un allineamento politico con un gruppo organizzato di persone in lotta e permettiamo che il dialogo con loro plasmi ogni fase del processo, dalla concettualizzazione del tema di ricerca alla raccolta delle informazioni fino alla verifica e divulgazione dei risultati.

Il coinvolgimento emotivo, politico e sociale, ovvero l’affinità almeno parziale costruita tra etnografo e circuito attivista richiede per quasi tutti gli etnografi militanti la tutela della riservatezza delle informazioni, o meglio richiede al ricercatore in fase di scrittura di selezionare solo il materiale etnografico che può essere usato, senza danneggiare il contesto studiato (vedi ad esempio Braun 2013, pp. 27, 28). A noi pare però che presupporre un allineamento o una identificazione totale del ricercatore con il soggetto studiato, che pure in alcuni casi c’è inizialmente o si viene a creare con il tempo, non sia necessario (si può fare ricerca con i movimenti senza sposarne in toto le posizioni) e che possa essere fuorviante (nel senso che raramente gli etnografi militanti hanno avuto una posizione politica sovrapponibile in maniera aproblematica a quella del movimento). Ci pare un modo per trascurare sia la specifica e autonoma soggettività politica del ricercatore (appiattita senza distingui su quella del movimento) sia la fluida diversità di posizioni interne ai movimenti (ridotti a monoliti omogenei). Ancora meno realistico, ci pare, ipotizzare come fa Hale (2006), il venir meno della autonomia metodologica dell’etnografo: il fatto che le modalità di raccolta della documentazione siano negoziate (come avviene in qualsiasi altro campo investigato)

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non significa necessariamente dover subordinare la ricerca alle indicazioni del movimento. L’idea di una organicità del ricercatore rispetto al contesto ci pare derivi da un modo di intendere la partecipazione ai movimenti in termini di affiliazioni ben definite, stabili, esclusive. Questa idea è ben lontana da buona parte delle pratiche dell’attuale fase dell’attivismo che non richiede adesione univoche, totalizzanti, dogmatiche e assolute. L’attuale coinvolgimento nei movimenti è spesso transitorio e si dispiega in una sovrapposizione ibrida di appoggio a diversi contesti; non richiede, anzi spesso rifugge affiliazioni identitarie escludenti e permanenti. Quindi non è solo l’etnografo ma sono gli stessi attivisti a non allinearsi completamente tra loro ma a ragionare in termini di obbiettivi comuni e convergenze parziali frutto di accordo tra identità molteplici (vedi ad esempio Saitta 2018). Presupporre che all’etnografo sia richiesta una fedeltà assoluta al movimento studiato è la proiezione sull’attivismo contemporaneo di paradigmi di mobilitazione ormai in buona parte desueti. In conclusione, un posizionamento politicamente impegnato dell’etnografo non significa necessariamente un appiattimento, né metodologico né politico, sulle posizioni del movimento. La piena e pacifica collaborazione è un possibile legame tra ricercatore e movimento, frutto del riconoscimento nel corso della indagine di una notevole affinità. Più spesso la relazione avrà sintonie e discordanze, che l’etnografo sbaglierebbe a occultare o dissimulare, proprio perché è dalla diversità delle funzioni e dei posizionamenti che sorge il processo maieutico di approfondimento riflessivo che beneficia sia l’etnografia che il contesto politico studiato. Di seguito vedremo in modo più dettagliato come si possano articolare convergenze, sintonie e discordanze.

Capitolo quarto Ricerca e militanza: un’imperfezione inevitabile

Non a caso L’etnografo imperfetto, di Leonardo Piasere (2002) apre con il racconto L’etnografo perfetto di Jorge Luis Borges: Un giovane etnografo dell’Università di Yale, molto devoto alla sua professione, riesce ad integrarsi alla perfezione nei nativi americani che studia. Sogna nella loro lingua, apprende i loro segreti. Si integra talmente bene che non riesce più a comunicare ciò che osserva: infatti, decide di non rivelare mai i segreti dei suoi informatori. Più si “impregnava” dei “suoi ‘indiani’”, scrive Piasere (2002, p. 188), “meno aveva da dirne”. Così l’etnografo perfetto è costretto a rimanere in silenzio; alla fine diventa bibliotecario. In questo capitolo si indagano alcuni delle assunzioni di base date frequentemente per scontate nell’ambito delle etnografie militanti svolte su e con i movimenti sociali. Come nel caso dell’etnografo perfetto, la sovra-identificazione con i soggetti della propria ricerca può portare a un maggiore “silenzio” piuttosto che ad una più intensa capacità di comunicazione, ma questo non deve essere sempre un male. Questo cortocircuito paradossale diventa particolarmente importante per una comprensione accurata dei fattori che portano alla nascita o all’esaurimento di una certa forma di mobilitazione, al significato della trasgressione e alla funzione che assume l’identità di un certo movimento o rete di attivismo. Le etnografie militanti, infatti, possono trarre un grande beneficio dal

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campo di studi consolidato degli studi sui movimenti. Un confronto con l’orizzonte interdisciplinare di questo campo infatti può attingere ad una storia di dibattiti proficui. Tuttavia, essa viene spesso ignorata oppure considerata irrilevante per la pratica etnografica, ma in questo modo si tende a riprodurre il cortocircuito dell’etnografo perfetto ripreso da Piasere. L’etnografo imperfetto, invece – per Piasere –, è quello che è costretto ad elaborare interpretazioni in grado di comunicare tra mondi diversi, passare le soglie delle traduzioni e dei limiti della comprensione altrui. Questa tensione tra distanza e perdita completa qualifica l’antropologia come una pratica di vita, ma rinvia anche ad alcuni problemi metodologici specifici. In questo contesto, è fondamentale fare alcune considerazioni preliminari sull’uso di alcuni concetti. Per esempio, il concetto forme di mobilitazione è applicato nel campo di studio sui movimenti sociali non come qualcosa di equivalente all’attivismo in generale, ma sposta l’attenzione alle modalità e alle pratiche con cui agiscono i movimenti all’interno del loro contesto (Della Porta 2009). Si tratta quindi di un concetto utile per discernere questioni di strategia o le strategie di azione ed i loro effetti, da questioni di tipo identitario e simbolico. Il termine azione collettiva1, invece, si riferisce all’insieme delle azioni intraprese da un determinato gruppo oppure una rete con obiettivi politici. Proposto in origine da Mancur Olson (1965), il termine ha portato nel corso dei decenni ad una comprensione approfondita delle motivazioni e delle dinamiche dell’attivismo. Rispetto ai termini più generici di attivismo o militanza, una distinzione tra forme di mobilitazione e azione collettiva aiuta a collocare l’analisi in maniera più specifica, spostando l’attenzione per esempio alle singole modalità (forme di mobilitazione) in cui si evolve l’attivismo oppure alle trasformazioni delle dinamiche di gruppo (azione collettiva). 1 In questo caso, il termine azione collettiva è utilizzato dagli studi sui movimenti, ma a volte è anche usato come una traduzione di class action che invece si riferisce più specificamente all’azione legale condotta da uno o più soggetti che chiedonola soluzione di una questione comune.

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1. Sofferenza e disagio: una spiegazione incompleta Una delle semplificazioni più comuni è quella di cercare le cause della nascita di un certo movimento esclusivamente nel disagio, nella sofferenza oppure nell’ingiustizia a cui il movimento conferisce voce; in questo modo il ricercatore prende alla lettera quella che è l’auto-rappresentazione degli attivisti in prima fila. L’etnografo perfetto piaseriano, in questo modo, tende ad assumere il ruolo di “megafono” delle cause del movimento stesso. Questo non deve necessariamente essere un problema, ma nel campo di studi sui movimenti esiste un raffinato dibattito decennale sui fattori, le condizioni necessarie e quelle non necessarie che contribuiscono alla formazione di movimenti, che ripensano profondamente le dinamiche di come vediamo la nascita o l’esaurimento di forme di attivismo. Uno dei paradigmi interpretativi più in vista al riguardo è quello delle cosiddette “opportunità politiche”. In una delle accezioni originarie, quella di Sidney Tarrow (2011) formulata nel volume classico Power in Movement, i soggetti si mobilitano in risposta a delle opportunità politiche apertesi nel contesto in cui agiscono. Ma successivamente, attraverso l’azione collettiva, si creano nuove opportunità politiche, innescando una dinamica che può portare alla nascita di un movimento di larga scala. Questa prospettiva, nota anche come teoria dei processi politici, cerca innanzitutto di esaminare i fattori che spiegano “quando” piuttosto che “perché” un certo movimento sorge o sparisce. Uno dei dibattiti su questo paradigma si articola intorno al problema di come definire esattamente le opportunità politiche. Da un lato, una definizione troppo ampia diventerebbe tautologica, dall’altro una troppo ristretta si limiterebbe ai fattori politico-istituzionali e quindi decisamente non esaurirebbe il quadro. Doug McAdam (1996, pp. 26-27) considera i quattro fattori seguenti come le dimensioni centrali delle opportunità politiche: (1) la relativa apertura o la chiusura di un sistema politico; (2) la stabilità o instabilità dell’alli-

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neamento delle élite nei circuiti del potere sovrano; (3) la presenza o l’assenza di alleati nelle élite; (4) le abilità o le propensioni degli apparati statali alla repressione quando prende corpo l’azione collettiva. È ovvio che questa definizione richiede una specificazione caso per caso. Per esempio, con “abilità di repressione” qui non è inteso il semplice scontro con le forze di polizia, che di fatto in molti casi contribuisce alla creazione di ulteriori opportunità politiche di mobilitazione, come è accaduto per esempio nelle mobilitazioni con cui si è innescata la cosiddetta primavera araba al Cairo (Rutland 2013). Gli scontri con la polizia, in questo senso, riguardano l’instabilità dell’allineamento delle élite. Nell’insieme, la prospettiva delle opportunità politiche ha sostituito a sua volta il paradigma della “mobilitazione delle risorse” che ha posto l’accento sulla capacità di un movimento di attingere a delle risorse economiche, sociali e culturali necessarie per la sua creazione (McAdam, McCarthy e Zald 1996; Tarrow 2006). Gli studi che ponevano l’attenzione sulle dinamiche materiali e immateriali legate alle abilità di mobilitare delle risorse hanno messo chiaramente in evidenza che la disponibilità di queste è una condizione necessaria senza la quale un movimento non può nascere. Per esempio, i movimenti del ‘68 non sono stati soltanto una risposta alla staticità culturale e politica delle società del dopoguerra, ma rimangono inevitabilmente intrecciati con gli effetti del boom economico che ha prodotto una generazione che aveva accesso alle risorse culturali ed economiche per organizzarsi. Da molti studiosi questa formula viene considerata ai giorni nostri troppo limitata (Diani 2003) e si è sviluppato un ampio dibattito su come mettere in relazione la disponibilità delle risorse con le forme di mobilitazione (Goodwin e Jasper 2004). È quindi importante tenere presente che né la presenza di un certo livello di disagio o sofferenza, né la disponibilità di risorse sono delle condizioni sufficienti oppure necessarie per la nascita di un certo movimento. In questa prospettiva,

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diventa possibile evitare il corto-circuito dell’etnografo perfetto. Per esempio, considerare il movimento No-Tav come una mera conseguenza meccanica del disagio prodotto dai lavori della linea ad Alta Velocità nella valle limiterebbe notevolmente l’indagine delle dinamiche del movimento. Invece, l’attenzione alle opportunità politiche offerte dal contesto, dalla relativa incapacità delle autorità di affrontare il dissenso, costituirebbe uno studio di carattere più relazionale, e anche molto meno scontato. In modo simile, Aime (2016) mette l’enfasi sulla decennale costruzione di comunità resistente come una risorsa cruciale per capire la tenacia del movimento. Inoltre, la ricerca di Caruso (2010) mette in luce come una certa incapacità di gestire la protesta da parte delle autorità locali abbia dato vita a processi di aggregazione che hanno coinvolto ampi strati di cittadini solitamente poco inclini alla protesta. È utile, quindi, recuperare la classica distinzione bourdieuana tra “categorie di prassi” e “categorie di analisi” (Bourdieu e Wacquant 1992). Questa distinzione raffina quella che in antropologia viene si definisce come distinzione tra “emico” e “etico”, cioè la separazione tra il punto di vista e i valori degli attori sociali e quello “esterno”, attinente alle scienze sociali, coniata in origine dal linguista Pike (1982). È attraverso lo studio della dialettica tra categorie di prassi attraverso le quali emerge l’esperienza dei soggetti di ricerca e categorie di analisi distinte da tali esperienze che si svelano i processi di oggettivazione dei saperi e delle pratiche di dominio. Questa distinzione ha avuto una certa fortuna negli studi sull’etnicità e ha il pregio di smascherare il funzionamento delle dinamiche che portano alla costituzione di identità collettive e alla loro naturalizzazione (Brubacker 2004). In breve, considerare l’esperienza di disagio o di sofferenza come una condizione non necessaria per la nascita di una certa forma di azione collettiva può costituire una lente euristica particolarmente proficua per la comprensione dei processi politici retrostanti (cfr. Aime 2016).

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2. L’ambivalenza della trasgressione Il corto-circuito dell’etnografo perfetto può investire anche la valutazione di che cosa sia considerato trasgressivo e che cosa invece no. Molte forme di mobilitazione sembrano in apparenza trasgressive, ma di fatto tendono a riaffermare lo status quo. In Francia, per esempio, le forme di mobilitazione degli agricoltori assumono spesso forme violente, ma le loro richieste non sono necessariamente trasgressive (Jordan 2003). Spesso si tratta di appelli collocabili perfettamente all’interno delle relazioni di potere esistenti, come la richiesta dell’estensione temporale di un certo tipo di sovvenzioni agrarie oppure l’aumento delle quote di produzione. Alcune forme di mobilitazione possono portare a scontri di piazza violenti e a eventi mediatici spettacolari, ma in fin dei conti tendono ad esercitare soltanto una pressione su questo o quel rappresentante del governo, senza richiedere un cambiamento nella struttura del governo stesso. Dall’altro canto, la tradizione di azione diretta non violenta applica spesso forme di mobilitazioni assolutamente non trasgressive, ma mira ad un cambiamento profondo delle relazioni di potere. Gandhi era indubbiamente un maestro di questa strategia: marciare collettivamente per le strade non è trasgressivo in sé, ma l’obiettivo di archiviare il dominio coloniale britannico nel cestino della storia lo era. La trasgressione, inoltre, è di solito considerata un ingrediente indispensabile per la costituzione di un movimento, come è evidente in molte definizioni in uso negli studi sui movimenti sociali. Secondo alcuni studiosi esiste un ampio consenso nell’individuare la capacità di estendere lo spazio di ciò che sembra fattibile e pensabile come uno degli elementi indispensabili nella definizione di movimento (Della Porta e Diani 2009; Edelman 2001). La propensione a rompere in qualche modo con l’esistente è iscritta nell’azione collettiva, ma non sempre ciò che si propone di trasformare richiede cambiamenti politico-sociali profondi. Si tratta quindi di un’ambiguità che

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percorre molte storie di mobilitazioni. In Azione diretta, Tim Jordan (2003, p. 38) analizza le richieste avanzate dal movimento zapatista in Messico. Il movimento proclama la sua opposizione alle politiche economiche neoliberiste come la privatizzazione dei sistemi di produzione pubblica, ma richiede anche un adeguato accesso alle strutture sanitarie e formative. Jordan individua qui la co-presenza di due registri diversi: uno che chiede cambiamenti alle istituzioni esistenti (per esempio, l’accesso adeguato a servizi terapeutici ed educativi), e quindi implicitamente accetta la legittimità di tali istituzioni. Su un altro livello invece, il movimento zapatista avanza richieste che puntano a una completa ristrutturazione dei sistemi sociali (per esempio, l’opposizione alle politiche neoliberiste). In linea con questo esempio, Jordan (2003, p. 37) definisce l’azione collettiva trasgressiva quella che si colloca “in contraddizione con le strutture sociali esistenti, le istituzioni e l’etica attuali. L’etica del futuro potrà nascere soltanto dalla trasgressione, dal travalicamento delle modalità correnti di negoziazione del conflitto sociale e di risoluzione delle divergenze”. Si può facilmente osservare come molte forme di attivismo si collocano su vari registri allo stesso tempo. Ciò che si presenta come trasgressivo di fatto può risultare poco pericoloso per le strutture esistenti e, viceversa, ciò che si presenta come innocuo e accomodante può risultare di fatto sovversivo. Vale quindi la pena di andare oltre l’auto-rappresentazione. È questa una delle distorsioni in cui rischiano di imbattersi molte ricerche etnografiche militanti: considerare trasgressivo ciò che di fatto non lo è o viceversa. È quindi utile partire da una distinzione analitica tra forme di mobilitazione e obiettivi della mobilitazione: le forme possono essere trasgressive (ad esempio distruggere proprietà privata), ma gli obiettivi non necessariamente lo sono (ad esempio, un aumento delle quote latte). In ogni caso, le dinamiche dell’azione collettiva sono spesso imprevedibili, come peraltro ha mostrato la recente ondata nota come “primavere arabe”.

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2.1 Le conseguenze molteplici dell’attivismo Un altro azzardo comune è quello di limitare la comprensione delle conseguenze di un certo tipo di azione collettiva a quanto dichiarato dagli stessi attivisti come obiettivo della mobilitazione. Molte etnografie sono tentate dal rendersi interpreti di questo approccio. Tuttavia, limitando lo sguardo a quegli obiettivi, difficilmente si può dimostrare che essi riescano a cogliere gli effetti indiretti, le ripercussioni culturali di lunga durata oppure l’impatto sulle bibliografie individuali dei protagonisti. Se giudicassimo il movimento operaista degli anni settanta in base al suo obiettivo dichiarato, ovvero di abbattere il capitalismo, la valutazione di quell’insieme di azioni collettive risulterebbe inevitabilmente in un misero fallimento. Tuttavia, ricerche recenti dimostrano come il patrimonio culturale dei movimenti operai ha potuto dare un contributo centrale alla cultura e consapevolezza dei diritti civili, oltre ad avere un impatto sulle biografie dei protagonisti (Beckwith 2015). Dall’apparente fallimento, quindi, possono nascere varie conseguenze: gli attivisti potrebbero consolidare le proprie convinzioni, riformulando strategie di azione con più successo nel futuro. Studi longitudinali con una profondità storica sulla mobilitazione a piazza Tahir al Cairo all’inizio della cosiddetta “primavera araba” hanno messo in evidenza come l’azione collettiva nella piazza centrale della città sia stata anche il risultato di anni di mobilitazioni nelle fabbriche che erano rimaste invisibili (Sika 2015). Kalb e Mollona (2019) mostrano come è in parte anche l’eredità del movimento operaio ad aver dato una linfa di vita alle mobilitazioni che portarono ai cambiamenti di regime in Tunisia e Egitto. È stato un cambiamento di strategia dopo un primo fallimento, quindi, a portare al clamoroso impatto successivo. Inoltre, in particolare durante una ricerca di lunga durata è normale che gli attivisti si defilino, cambino direzione; coalizioni nascono per poi frammentarsi; spesso una ONG o rete di attivismo si scioglie anche prima che la ricerca sia stata pubblicata (ad

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esempio, Edelman 1999, Saitta 2018). È ovvio che gli etnografi con il loro contatto immediato sono molto più esposti a queste dinamiche rispetto ad altri studiosi che intrattengono un rapporto molto più indiretto con i soggetti dell’attivismo. Questa fluidità e fragilità viene prevalentemente considerata una debolezza. Invece, in molti casi sarebbe ben più proficuo spingere l’analisi oltre la misurazione del raggiungimento o meno rispetto agli obiettivi dichiarati degli attivisti. Nella sua rassegna della letteratura sulle pratiche delle ONG e delle loro reti, Fischer (1997) osserva che, da una prospettiva antropologica, è inappropriato considerare la costante evoluzione delle reti dell’azione collettiva come una semplice debolezza: “Sarebbe preferibile cercare le tracce della continuità del processo di ribellione dal quale molte ONG emergono e nel quale alcune ONG rimangono impegnate. ONG e movimenti sociali vanno e vengono, ma lo spazio che hanno creato nel loro transitare potrebbe contribuire a nuove forme di attivismo” (Fischer 1997, p. 459; cfr. Edelman 1999). È anche la capacità di mettere in luce queste traiettorie complesse che può aggiungere prospettive importanti alla ricerca militante che rimangono a volte invisibili agli attivisti stessi. In una recente rassegna di studi interdisciplinari sul tema, The Consequences of Social Movements, Bosi, Giugni e Uba (2016, pp. 4-5) distinguono tre grandi ambiti nello studio delle conseguenze dell’azione collettiva: (1) conseguenze personali e biografiche del coinvolgimento in movimenti; (2) cambiamenti di carattere culturale oppure trasformazioni a lungo o breve termine nelle norme sociali e nei comportamenti all’interno dei quali gli attori operano; (3) trasformazioni politiche oppure gli effetti delle attività dell’azione collettiva sul contesto politico circostante. L’ultima dimensione è ovviamente quella che suscita spesso il più grande interesse pubblico (Uba 2009), ma non si può dare per scontato che sia quella più significativa. Uno studio approfondito sui percorsi biografici che incrociano certi movimenti può offrire comprensioni più profonde sulle dinamiche di successo e fallimento dell’azione collettiva. Un’analisi delle conseguenze

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delle mobilitazioni femministe degli anni settanta incentrata esclusivamente sugli obiettivi al tempo dichiarati risulterebbe estremamente limitante; tale prospettiva manterrebbe all’oscuro le più ampie e ben più importanti conseguenze socio-politiche di tale ondata di mobilitazioni. A distanza di più di cinquanta anni sono diventate evidenti le profonde trasformazioni nelle relazioni di genere al quale le mobilitazioni femministe hanno contribuito in maniera sostanziosa. Nel suo interessante studio sul coinvolgimento biografico negli scioperi contro la chiusura di miniere britanniche negli anni ottanta, Beckwith (2015) mette in evidenza l’importanza di alcune conseguenze indirette ed inaspettate. Mentre gli scioperi sono finiti con un evidente fallimento e la chiusura delle miniere è stata inevitabile, il suo sguardo dietro le quinte degli obiettivi dichiarati (“mantenere aperte le miniere”) mette in luce l’impatto di lunga durata della partecipazione agli scioperi sui soggetti coinvolti e sulle loro comunità. L’autrice mostra che si sono creati nuovi legami di solidarietà che nei decenni successivi hanno portato una serie di cambiamenti positivi negli assetti locali. Sono anche queste visioni dietro le quinte degli obiettivi dichiarati che permettono ad una ricerca di produrre uno sguardo che potrebbe rifuggire una prospettiva di militanza immediata. 3. Identità, pluralità, individualità Esistono ovviamente una serie di altre dinamiche in cui una maggiore distinzione nel senso bourdieuano tra categorie di prassi e categorie di analisi può diventare proficua al fine di evitare il cortocircuito dell’etnografo perfetto borgesiano. In questo paragrafo si accenna brevemente ad alcune delle altre semplificazioni più frequenti. Una di queste è quella di intendere il movimento studiato come una comunità tendenzialmente ripiegata su se stessa piuttosto che come una rete aperta. In altri ambiti della ricerca antropologica, lo studio di comunità ha esaurito il suo dinamismo esplicati-

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vo. Il modo in cui si intende l’ambito di ricerca etnografico si è infatti modificato notevolmente sotto l’influenza degli studi sul transnazionalismo e del loro tentativo di superare il “nazionalismo metodologico” (Wimmer e Schiller 2003; Koensler 2016). Questa prospettiva ha dato luogo a una serie di stimoli di rinnovamento noti come la “ricerca multisituata” (Coleman e Collins 2007; Marcus 1995) oppure, più recentemente, lo studio di “connessioni parziali” e frizioni articolate su scale diverse (Tsing 2006; Strathern 2005). Applicando quindi uno studio che non dà per scontata l’esistenza di una comunità, ma insegue flussi di persone, oggetti o relazioni all’interno del campo di tensione tra socialità e località, come afferma Nieswand (2007), queste prospettive cercano di evitare una concezione culturalista e statica delle rappresentazioni sociali. In questo senso l’etnografia militante multi-situata si può coniugare con forme di collaborazione esistenti o incipienti tra vari contesti di mobilitazione uniti dalla resistenza ad un problema comune. Agata Mazzeo (2018) ha condotto ricerca in vari contesti (Bari e Casale Monferrato in Italia e Osasco in Brasile) che, avendo subito i danni dell’inquinamento da amianto, hanno visto emergere un attivismo finalizzato alla chiusura degli stabilimenti contaminanti e al riconoscimento del danno subito da residenti e lavoratori esposti. La ricerca di valorizzazione delle biografie di sofferenza e di restituzione pubblica, ha permesso da un lato una scrupolosa illustrazione delle motivazioni dell’attivismo, il rafforzamento dei legami tra le diverse associazioni, grazie alla mobilità dell’etnografa, alla circolazione delle informazioni e alla organizzazione di convegni internazionali. Nell’ambito degli studi sui movimenti sociali, uno dei suoi esponenti più celebri, Diani (2003; Diani e Crossely 2018), ha sviluppato un intendimento dell’azione collettiva come formazione reticolare. Tale prospettiva permette di comprendere in particolare le interazioni esterne al contesto ed adottare così un approccio focalizzato sulle relazioni tra gruppi. Partendo da questi presupposti l’analisi

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va decisamente oltre le categorie di prassi usate da molti settori dell’azione collettiva stessa e oltrepassa anche molte interpretazioni proposte dai soggetti stessi della ricerca. In questo modo diventa possibile comprendere come l’attivismo non faccia necessariamente leva su identità collettive pre-esistenti, ma contribuisca attivamente alla formazione di nuove identità comunitarie e soggettività, come hanno messo in evidenza Donatella della Porta e Giovanni Piazza (2008) e una serie di altri studi sulla soggettivazione e sulla nascita di nuovi modelli di cittadinanza; studi promossi in maniera esemplare anche da autori come Engin Isin (2008, 2002) e Aihwa Ong (2005) in riferimento alle trasformazioni dell’attivismo migratorio. Irene Peano (2017, p. 45) illustra gli interessanti effetti identitari dell’intreccio tra manifestazioni antirazziste, mobilitazioni per la salvaguardia della dignità sul luogo di lavoro, lotte per i diritti dei migranti e lotte per l’allargamento della cittadinanza. Queste inedite alleanze generano un “movimento [che] destabilizza tutti i confini – simbolici, materiali, sociali, culturali, politici, compresi quelli della lotta e dei codici della lotta sociale”. Ciò rivitalizza l’attivismo politico e genera campagne di lotta, culminate con lo sciopero dei migranti del 2010, che costituiscono ed esprimono queste emergenti ibridazioni. Si intrecciano identità che si nutrono vicendevolmente mettendo a punto inedite pratiche sindacali di resistenza, miscelando rivendicazione pubblica e sovversione occulta, rilanciando l’autogestione piuttosto che la delega istituzionale a partiti e sindacati. Le pratiche individuano obiettivi comuni a prescindere da identità ascritte (dai media o dalla legge) che distinguono migranti e cittadini generando invece nuove identità comuni, fondate sulla rivendicazione dei diritti e su una comune umanità. Altre volte, inoltre, si tende ad ascrivere alla forza dell’identità collettiva dell’attivismo la capacità di generare nuove opportunità politiche, di muovere la presunta staticità del sistema. Invece, lo studio singolare di Phillip Reemtsma (2008) , in modo non convenzionale, ha esaminato le mo-

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tivazioni che stavano alla base delle mobilitazioni di persone che si sono opposte agli ordini del regime nazista in Germania. L’autore mette in luce come a generare forme di resistenza non sia il senso di solidarietà e di appartenenza a gruppi di resistenza e alla loro ideologia universale, come quella dei diritti umani. Al contrario, spesso si tratta di convinzioni etico-personali radicate profondamente ad un livello soggettivo che hanno spinto le persone ad agire, afferma l’autore. Lo studio dimostra l’utilità euristica di superare alcuni presupposti dati per scontati nell’azione collettiva. È indubbio che un’analisi accurata dell’azione collettiva può contribuire a una comprensione più sofisticata, anche oltrepassando molte delle prospettive di carattere emico proposte dagli stessi attori sociali. L’obiettivo di questo capitolo è stato quello di illustrare il valore euristico di un approccio in grado di svelare potenziali semplificazioni proposte in rappresentazioni egemoniche, anche grazie a molti studi interdisciplinari sui movimenti sociali e alla distinzione tra categorie di analisi e quelle di prassi.

II. Dilemmi e pratiche

Capitolo quinto Relazioni, motivazioni, dubbi

Le motivazioni che spingono ad intraprendere quella che diventerà una ricerca attivista sono varie come sono variegati i rapporti che si generano nella indagine militante. La rassegna che segue è centrata sulle molteplici modalità con cui etnografe ed etnografi si sono relazionati e hanno interagito con i contesti osservati, sia per offrire esempi concreti a chi si avvicina ad una ricerca analoga, sia per contrastare l’idea di una compattezza delle etnografie militanti per ciò che concerne le motivazioni e le simpatie. In questo capitolo diventerà evidente la complessità e imprevedibilità con cui possono a volte evolvere i legami tra ricercatori e attivisti. Il processo che porta un etnografo a selezionare un ambito di interesse, a decidere le modalità con cui entrare in relazione, a posizionarsi nelle dinamiche generate dalla ricerca e a restituire il proprio sapere in un modo utile per il contesto studiato implica sempre e comunque scelte complicate che intrecciano questioni metodologiche ed etico-politiche. Quando l’etnografia assume una dimensione militante, le interazioni tra ricercatore e contesto assumono spesso una intensità peculiare, dando luogo a riflessioni esplicite che si ritrovano in diverse pubblicazioni. Questo ampio spazio di interrogazione sulle implicazioni etiche, metodologiche e teoriche della ricerca è anche giustificato dal fatto che relazioni rese intense dal coinvolgimento politico, generano

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spesso sperimentazioni e proposte innovative. In questo capitolo si prendono in rassegna le parti delle pubblicazioni che trattano le motivazioni iniziali, i dubbi, le simpatie che accompagnano la ricerca. I lavori pubblicati dai ricercatori permettono, è bene ricordarlo, uno sguardo alle relazioni generate dalla etnografia militante nell’ottica del ricercatore piuttosto che da quella dei suoi interlocutori. Come questi ultimi valutino la sua presenza e il suo lavoro non è trattato esplicitamente, se non quando emergono evidenti e gravi dissonanze (ad esempio Saitta 2018) e potrebbe essere oggetto di una ricerca specifica. La sensazione provata come etnografi spesso comprende, tra le altre, quella descritta da Sopranzetti: “la problematicità di questa posizione, davvero di traduttore/traditore, è la frequenza con cui […] persone con cui conduciamo ricerca scherzano sul nostro ruolo da spione, osservatore, o più semplicemente persona che naviga nei pettegolezzi” (comunicazione personale, dicembre 2019). Una sensazione che ricorda la distinzione dei ruoli ma che scema quando si accentua una partecipazione attivista. 1. Entrare in relazione Spesso si presuppone che l’etnografia militante sia prodotta da una viscerale e totale identificazione tra ricercatori e movimento studiato, riproponendo l’immaginario di un intellettuale organico, connesso integralmente al contesto su cui scrive. Ciò comprometterebbe o perlomeno perturberebbe l’autonomia analitica del ricercatore. Sebbene alcune indagini contemporanee siano leggibili in quest’ottica, le motivazioni che avvicinano gli etnografi alle dinamiche politiche oggetto di indagine sono spesso complesse e cangianti così come può essere varia l’accoglienza accordata dal contesto di lotta al ricercatore. La sintonia non è sempre scontata, soprattutto all’inizio della indagine. A volte infatti gli attivisti negano l’accesso all’etnografo e la relazione sfuma prima di iniziare. Il contesto a cui

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si chiede l’entrata per condurre l’indagine si può mostrare riluttante perché nel gruppo di militanti ci sono posizioni contrarie alla presenza di un ricercatore o semplicemente perché ci sono questioni più urgenti da affrontare e quindi la discussione slitta ripetutamente, rendendo i tempi di attesa incompatibili con la ricerca. Alcuni ambienti si oppongono esplicitamente alla ricerca o perché percepiscono una scarsa stima del posizionamento politico del ricercatore oppure, soprattutto in alcuni settori libertari, perché si rifiuta l’idea di delegare all’etnografo la descrizione del gruppo, anche se si tratterebbe soltanto di una tra le molteplici rappresentazioni circolanti. In atri casi, come quello di Irene Peano, la difficoltà è dovuta alla sfiducia degli interlocutori verso modalità ritenute “estrattiviste” o paternaliste: “Conquistarsi la fiducia dei soggetti con cui portiamo avanti la lotta [lavoratori agricoli, prevalentemente migranti in Italia meridionale] in quei contesti è stato molto difficile, proprio perché sono sottoposti a pratiche di ‘safari’ da parte di ricercatori, giornalisti, organizzazioni umanitarie etc., da cui loro giustamente si sentono sfruttati” (comunicazione personale, Irene Peano, giugno 2019). Entrare non è sempre facile, soprattutto se non si hanno credenziali e contatti fidati attraverso cui passare. La maggior parte dei contesti attivisti non ha preclusioni a priori rispetto alle indagini etnografiche. Una volta stabilita, la relazione che si crea può generare la progressiva assunzione di un ruolo esplicitamente politico da parte dell’etnografo: ciò può essere indotto da un progetto ritenuto inquinante o inquietante nei pressi del proprio domicilio, come, nel caso di Alliegro (2014, p. 25) che si interessa delle trivellazioni petrolifere del ENI e delle resistenze dei residenti nelle prossimità delle località estrattive. A partire da una frequentazione diretta di molti degli eventi e dei luoghi descritti, prima in qualità di semplice residente, poi di persona interessata dei fatti, poi di studioso-attivista dei comitati civici di protesta, le pagine che seguono rappresentano il prodotto di un percorso di studio che è anche concepibile

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come itinerario ‘politico’ […] vale a dire di concorso alla definizione simbolica del campo di discussione e delle contese.

Un processo simile, di progressiva politicizzazione dell’etnografo, è raccontato da Herzfeld (2005) riguardo la sua ricerca sugli sfratti a Roma: ho dovuto riflettere su quale avrebbe dovuto essere il mio atteggiamento. Sono arrivato al punto di allearmi con loro [gli sfrattati] perché credevo (e continuo a credere) che il diritto alla casa sia un diritto fondamentale, per cui l’evoluzione del mio pensiero da un atteggiamento seccamente accademico a un coinvolgimento etico, pratico e politico ha più valore piuttosto che se avessi voluto fare dell’antropologia applicata.

La prassi etnografica può essere mossa da motivazioni personali, intime o scientifiche, piuttosto che politiche; assume una dimensione più chiaramente militante quando entra esplicitamente e praticamente nelle interazioni di potere che riguardano il contesto studiato. Questa assonanza tra ricercatore e attivismo può avvenire gradualmente, man mano che le pratiche di mobilitazione prendono corpo e che l’etnografo prende confidenza con il contesto. Mimmo Perrotta, ad esempio, racconta come la sua ricerca abbia contribuito a produrre una trasformazione politica dal basso rafforzando l’autonomia del lavoro agricolo migrante liberato dal controllo del caporalato: Siccome non riesco a separare il lavoro di ricerca dal lavoro di intervento sociale e politico, insieme ad altri abbiamo messo su l’associazione Fuori dal Ghetto Venosa, che fra le varie attività organizza una scuola d’italiano… Ci siamo accorti che per coinvolgere davvero i braccianti in un progetto produttivo bisognava fare più sul serio, cercando di organizzare la produzione in modo da dare almeno due mesi di lavoro […] Così nella stagione 2015 è nato il progetto Funky Tomato.1 1  Cfr. www.lamacchinasognante.com/intervista-a-mimmo-perrotta-del-progetto-funky-tomato-a-cura-di-elena-cesari

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Ci sono quindi percorsi etnografici che non partono da una volontà trasformativa ma questa prende corpo gradualmente spesso in seguito alla constatazione delle sofferenze, del disagio, della marginalità, della discriminazione subite dal circuito che si mobilita. È il caso, ad esempio, della ricerca di Agata Mazzeo (2013, pp. 11, 12) sull’attivismo delle vittime da amianto. La vicinanza con le esperienze di coloro che fanno parte delle associazioni di chi è stato o rischia di essere danneggiato dall’esposizione all’amianto si consolida, da un lato, attraverso interviste che trasudano malattia e morte, dall’altro, con il riconoscimento del rischio subito dalla stessa ricercatrice, accentuato dal fare ricerca nei siti contaminanti. Il posizionamento schierato di Mazzeo è anche dovuto, come quello di molti altri etnografi ed etnografe, al fatto che la ricerca in un contesto caratterizzato da forti tensioni tra vittime dell’amianto e aziende produttrici non ammette posizionamenti intermedi o ambigui. Ciò innesca una crescente consapevolezza della irresponsabilità del sistema produttivo, una progressiva empatia con le ragioni della mobilitazione e infine un esplicito sostegno alla lotta, fino a sostenere che: “lavoro risolutamente per rendere i risultati della mia ricerca accessibili e in linea [attached] con il contesto osservato”. A volte il ricercatore ha già un ruolo operativo nel contesto attivista che diventerà oggetto di riflessione (Graeber 2009; Russell 2014; Olmos Alcaraz e altri 2018). In tali situazioni l’inizio dell’indagine aggiunge un nuovo piano operativo, quello appunto legato alla raccolta di documentazione, a quelli di pratica militante. Quando il ricercatore è già attivo nella mobilitazione è in genere scontato il consenso alla ricerca. Ad esempio il gruppo che scrive sul movimento, Stop Desahucios, contro gli sfratti a Granada ha un interesse che “sorge da motivazioni, impegni ed esperienze di militanza varie di quelli che scrivono queste pagine”. Alcuni del gruppo di ricercatori non solo sono già conosciuti ma hanno una marcata identità attivista, si parla di “persone con le quali stiamo lottando/facendo ricerca”:

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di conseguenza l’intento della indagine è di sperimentare una “etnografia collaborativa” (Olmos Alcaraz e altri 2018, pp. 150, 143, 142, vedi capitolo 7). Gli etnografi e le etnografe militanti nella maggior parte dei casi entrano nel contesto di studio senza avere già sviluppato e senza neanche cercare un allineamento così totale ed intimo con gli attivisti. In alcuni casi si intensificano relazioni pregresse (Saitta 2018), in altri c’è bisogno di una presentazione politica che passa, in alcuni circuiti, dalla illustrazione del progetto di ricerca all’assemblea degli attivisti (ad esempio Olmos Alcaraz e altri 2018) o da contatti con alcune figure di spicco della lotta (ad esempio Semenzin 2019, p. 178). L’atteggiamento dell’etnografo all’inizio della ricerca spesso combina una disponibilità alla collaborazione militante con la salvaguardia dell’autonomia metodologica ed analitica. Per molti giovani ricercatori l’avvicinamento ad un particolare contesto attivista significa innanzitutto aprire un campo, immergersi in un ambiente per cui si nutre spesso interesse e simpatia ma su cui si hanno notizie frammentarie. L’eventuale immersione militante dell’etnografo deve quindi tener conto sia di questioni metodologiche (l’attivismo in che modo facilita e danneggia la ricerca?) e politiche (man mano che l’indagine prosegue la sintonia politica prospettata all’inizio si consolida o si sfalda?). L’estraneità dell’etnografo rispetto al contesto di indagine che è stato uno dei presupposti della etnografia, si trova quindi anche in molte ricerche militanti. Viola (2015, p. 21) parte da un chiaro posizionamento politico: “ciò che più profondamente mi ha spinta a studiare l’omofobia è stata l’urgenza, personale e politica, di comprendere a fondo il ‘nemico che opprime’ con il fine di decostruirlo, problematizzarlo e così contribuire in qualche modo alla lotta contro l’omofobia”. Nonostante una sintonia con gli attivisti clandestini LGBT che studiava in Africa Orientale, il progetto di ricerca prevedeva inizialmente di confrontare due ambienti: da un lato l’ottica di “interlocutori supposti eterosessuali” sarebbe stata vagliata tramite interviste semi-strutturate; dall’altro sarebbero stati presi “con-

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tatti con il mondo semi-clandestino del movimento LGBT” grazie all’osservazione partecipante e a colloqui informali. All’inizio della indagine, l’intenzione era di evitare il coinvolgimento in attività militanti per motivate ragioni metodologiche ed epistemologiche. Due omicidi, tentativi di linciaggio e minacce di morte contro attivisti LGBT generavano una paura generalizzata e quindi una mancanza di fiducia verso l’etnografa. Quando però un membro ha urgente bisogno di appoggio il gruppo chiede alla ricercatrice un posizionamento attivo e non solo contemplativo. Così, solo dopo diversi mesi di indagine Viola diventa militante, attivista di una piccola associazione LGBT […] divenni parte del gruppo, condivisi con loro i successi e soffrii le sconfitte, elaborai strategie e tentai di imparare a essere parte di qualche cosa di molto delicato e complesso […] finché la mia posizione restava quella di ricercatrice esterna al movimento non potevo sentire quella condivisione data dal vivere esperienze comuni, dal militare per la stessa causa andando insieme incontro a simili (ma non identici) rischi (Viola 2015, pp. 22, 23).

Una dinamica analoga coinvolge Portelli (2015, p. 122) nella sua immersione etnografica presso i residenti di un quartiere sotto sgombro a Barcellona. In una ricerca finanziata dalla Ethnological Heritage Inventory of Catalonia (IPEC), la dimensione militante prende forma compiuta ad un certo punto, quando si crea, come nel caso di Viola, una collaborazione politica. I ricercatori appoggiano alcuni residenti che erano in difficoltà nel contrastare gli sgombri. Non avremmo più potuto mantenere il ruolo di osservatori oggettivi e imparziali, un ruolo che probabilmente non avevamo avuto neanche nei primi contatti con Bon Pastor [il quartiere studiato]. Questo, dall’inizio, ha posto la nostra ricerca in linea con quello che viene definito globalmente come antropologia impegnata [engaged]: uno stile di ricerca che non pretende di simulare imparzialità – che ormai da un po’ di tempo è ritenuta impossibile – ma invece rende esplicito il posizionamento che si prende e il ruolo che si ha nel contribuire a rafforzare le relazioni

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nel quartiere […] La collaborazione, germogliata dal conflitto, è servita a ridurre la distanza che ha storicamente separato i quartieri delle Casas Baratas [l’edilizia popolare del quartiere sotto sgombro] dai posti dove si produce il discorso sulla città.

L’intenzione di praticare un tipo di etnografia che possa essere una risorsa offerta agli attivisti oggetto di indagine è quindi presente anche in chi non ha inizialmente intenzione di politicizzare la ricerca ma, avvicinandosi, trova una spiccata, seppur a volte problematica, sintonia con alcune azioni, strategie o pratiche. Ad esempio Pitzalis (2015, p. 37) racconta: “Sono stata mossa verso questo progetto di ricerca dal desiderio (forse irrealistico) che la mia etnografia potesse dare un contributo pratico alla causa promossa dal Comitato [Sisma 12 in Emilia]”. Breda (2017, p. 42, corsivi in originale), in modo analogo, presenta la sua ricerca, finalizzata, tra l’altro, a fermare la costruzione di una autostrada in Veneto, sollevando questioni tipiche di un posizionamento militante caratterizzato da una forte identificazione con le motivazioni dell’attivismo. La sua antropologia si propone come “ascolto delle voci che sono messe a tacere dall’esterno da coloro che hanno maggior potere”, come modello di impegno critico con il mondo e non come modello di distanziata e accademica spiegazione del mondo, poiché era con quel mondo che provavo a costruire la convivenza. Ho spinto verso direzioni di ricerca al cui apice c’era (ma sia chiaro, non è affatto obbligatorio) una posizione di dichiarato e legittimo “amore” per il proprio oggetto di studio, c’era tensione etica, dedizione totale, posizionamento politico dichiarato e rivendicato.

Gli stimoli emersi nel corso della ricerca trasformano gli etnografi e le etnografe a volte spingendoli verso una spiccata empatia con il contesto studiato. Nella sua ricerca su movimenti neorurali e reti di produzioni alimentari di piccola scala, Koensler (2018, p. 65) riconosce la dimensione di crescita personale che l’etnografo ha immergendosi nel contesto di movimento: “mediante la mia partecipazione, ho fatto espe-

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rienza, seppur parziale, della importanza di pratiche emotive quotidiane che implicano tuttavia degli elementi utopici in una società basata sulla codificazione e standardizzazione”. Nel caso di Claudio Sopranzetti e Giacomo Pozzi è l’immersione etnografica a generare l’impellenza morale che sfocia in un posizionamento attivista più esplicito. Secondo Pozzi Paradossalmente nella mia esperienza la militanza è strettamente accademica, o meglio, nasce da un interesse accademico […] Iniziando a lavorare in Portogallo sui movimenti per la casa è iniziata una forma diversa di partecipazione e quindi di militanza vera e propria… c’è stato un cambiamento radicale nella mia percezione dell’attivismo politico nel momento in cui ho cominciato a lavorare con i movimenti sociali per studiarli […] [Entrare come etnografo] costruisce una forma molto peculiare di attivismo che […] è sicuramente attenta ad entrambi i posizionamenti perché li costruisce insieme […] ti forma sia in quanto etnografo, antropologo, accademico, sia in quanto attivista […] (comunicazione personale, dicembre 2019):

Altre volte è proprio la distanza morale o politica ad essere la molla per addentrarsi in un contesto “ostile”: la constatazione della lontananza, anche radicale, di posizionamenti tra ricercatore e soggetto studiato è una consapevolezza con cui si inizia il percorso di indagine (Barnao e Saitta 2014). Cammelli (2015) sceglie di far ricerca tra gli attivisti di Casa Pound: Quando ho deciso di spostarmi a Roma per incontrare gli attivisti [di Casa Pound], la prima questione che ho dovuto affrontare è stata come entrare in contatto con loro in modo sicuro […] Sia per ragioni etiche sia per proteggere la mia incolumità personale, ho deciso di non occultare il fatto che le mie convinzioni politiche non erano in linea con l’ideologia fascista […] Come un pugile sul ring, negli incontri con i fascisti del terzo millennio […] avrei dovuto imparare a non reagire quando avrei ascoltato commenti che avrei fatto difficoltà a condividere […] Dovevo imparare ad ascoltare, evitare di reagire, cambiare la mia espressione o esprimere un giudizio. Dovevo imparare ad andare oltre la mia paura (comunicazione personale, marzo 2020)

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Per chi cerca di trovare spazi per dare un senso militante a lavori nelle istituzioni, come ad esempio nella recente ondata di assunzioni di antropologi nell’accoglienza e gestione dei richiedenti asilo o anche per chi è coinvolto in progetti di cooperazione allo sviluppo, l’accesso alle relazioni etnografiche è vincolato da incarichi professionali. In tali contesti la sovrapposizione dei ruoli (lavoratore dipendente, etnografo, militante) appare ancora più marcata: il protagonismo politico del ricercatore si gioca sulla sottile linea, faticosamente conquistata, della parziale autonomia permessa dal proprio ruolo professionale. Questi margini di indipendenza possono essere usati per trovare spazi e crepe per piegare, modificare, adattare, evitare la macchina progettuale-istituzionale o usarla per finalità che prescindono da quelle intese, restituendo così protagonismo a chi è concepito come passivo bersaglio delle politiche (migranti, utenti dei progetti di sviluppo). In questo caso l’etnografia militante permette a chi dovrebbe seguire procedure burocratiche o offrire servizi, di sviluppare, anche in ambiti professionali, una parziale agency (AA.VV. 2017). 2. Gradi di identificazione e allineamento In questi ultimi anni gli etnografi militanti hanno mostrato un variegato grado di identificazione con il contesto studiato. Staid vede l’eccessiva vicinanza come un problema difficilmente sormontabile: “Non ho mai lavorato come etnografo nel mio mondo di attivista perché credo che il coinvolgimento profondo non mi avrebbe fatto orientare al meglio sul campo” (comunicazione personale, marzo 2020). Per Dematteo (2007), Gretel Cammelli (2015), Barnao e Saitta (2014) l’interesse non nasce dalla sintonia ma dalla distanza. Per altri il processo di identificazione è stato mutevole, ovvero in diverse fasi della ricerca si è stretto o allentato, e ambivalente, generando simpatie ma anche tensioni o incomprensioni. Viola (2015, pp. 19, 20-21) ad esempio racconta la problematicità della

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scelta, da me compiuta durante il dottorato, di divenire attivista LGBT mentre svolgevo una ricerca sulla violenza omofoba e la discriminazione delle minoranze sessuali in Africa orientale […] divenire militanti sul campo non è l’esito scontato di un percorso personale di attivismo politico o di una vicinanza empatica con la lotta dei propri interlocutori, ma piuttosto una scelta complicata e altamente problematica, soprattutto da un punto di vista etico.

Per altri ancora, al contrario, la preferenza per un posizionamento schierato è apparsa non solo proficua ma ovvia, frutto di una comune visione di militanza, che prevede una sintonia anche sull’operato del ricercatore, teso a far avanzare la lotta. La ricerca dovrebbe confermare e rafforzare la sintonia morale, risultando in quello che Hale (2006) chiama “allineamento” tra ricercatore attivista e soggetto studiato (Sergi 2011; Pitzalis 2015; Senaldi 2016). Quando ciò avviene la ricerca viene spesso concepita innanzitutto come una cassa di risonanza delle voci di militanti le cui ragioni, va detto, vengono spesso sistematicamente ignorate o travisate dai media egemonici. Pitzalis (2015, p. 30) ritiene la sua condivisione con la “ideologia politica dei partecipanti” una scelta metodologica proficua, “dovuta alla necessità di mettere l’antropologia al servizio degli obbiettivi degli interlocutori”. La scelta metodologica in questi casi cade, quasi naturalmente, sulle interviste piuttosto che sull’osservazione e il ricercatore tende a organizzare, spiegare, assistere un percorso narrativo su cui non interviene più di tanto, anche perché lo condivide politicamente (vedi anche, ad esempio, Sitrin 2006, Sergi 2011). Lo sguardo critico è rivolto quasi esclusivamente alla controparte del movimento: lo Stato, la polizia, le grandi imprese, i media, le procedure giudiziarie (Senaldi 2016; Chiaramonte e Senaldi 2015). Intendere la ricerca militante in questo modo, sebbene legittimo, ha delle conseguenze che sono state già affrontante nelle riflessioni sull’etnografo imperfetto nel capitolo 3. La prima è una sorta di auto-limitazione delle relazioni di ricerca: queste sono comunque inquadrate in un allineamento, e quindi bisognose

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di un’approvazione del contesto studiato. In termini di posizionamento politico, il ricercatore si trova a voler, che rischia di diventare un dover, riprodurre quello dell’ambiente in cui fa ricerca. Così l’etnografo guadagna in empatia, ha accesso ad una maggiore intimità ma si preclude quella discrasia, che in alcuni casi appare feconda, tra ottica critica del ricercatore e contesto che permette analisi e riflessioni innovative sia per l’indagine che per l’attivismo. Juris e Khasnabish (2013b, p. 373) che pur si schierano per un posizionamento “allineato” ai movimenti sociali si chiedono: […] è possibile che ci sovra-identifichiamo con i movimenti che studiamo, che facendo collassare la distanza tra soggetto e oggetto non lasciamo spazio ad un approccio critico rispetto ai nostri interlocutori e collaboratori? In altre parole, palesiamo una mancanza di distanza analitica che genera resoconti che sono acritici, e che quindi non permettono di affrontare complessità e contraddizioni? Se così fosse, ciò avrebbe una ricaduta sulla qualità della nostra analisi e condurrebbe a etnografie meno utili politicamente e strategicamente per gli stessi movimenti.

La relazione tra etnografo e militanza quando non parte da un marcato allineamento politico può far sorgere interrogativi e prassi di restituzione inedite; se invece si presuppone una totale identità di vedute si useranno gli strumenti di ricerca principalmente per amplificare la rappresentazione che il movimento da di sé. Il testo o il filmato etnografico si soffermeranno su particolari, elaboreranno concetti, valorizzeranno tracce sommerse di una narrazione che ribadisce nei tratti complessivi la costruzione identitaria prevalente tra gli attivisti. La rappresentazione sarà attenta ad omettere tensioni interne, divergenze, dubbi o potenziali fonti di imbarazzo. In termini di contenuti una ricerca allineata tenderà a replicare posizioni già note in quanto mira ad approfondire argomentazioni già proposte dagli attivisti e disponibili, seppur in maniera più spicciola, nella propaganda divulgativa del movimento. Le chiavi di lettura del fenomeno, i temi discussi nelle interviste, i concetti cruciali della etnografia saranno

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almeno in parte già selezionati prima di iniziare la ricerca in quanto parte dell’auto-rappresentazione del movimento. Un posizionamento relazionale alternativo all’allineamento mira invece a sviluppare una sorprendente riflessività, adoperando strumenti critici anche quando ci sentiamo parzialmente affini con le dinamiche politiche studiate. Melucci (1982, pp. 145-146) credeva che l’attore sociale, nel nostro caso il militante, fosse capace di definire il senso di ciò che faceva ma non può essere contemporaneamente attore e analista di sé stesso […] Occorre questa distanza che permette di assumere il punto di vista della relazione e di meta-comunicare sui vincoli e possibilità che la caratterizzano […] [La] ricerca sociale […] perde l’illusione di essere una forma di rispecchiamento della ‘vera’ realtà e si avvicina […] [ad] un processo auto-riflessivo […] [che] introduce nel campo delle relazioni sociali nuovi input cognitivi derivati dall’azione stessa e dall’osservazione dei suoi processi e dei suoi effetti.

La volontà di contribuire al rafforzamento del movimento può quindi essere intesa come offerta di un’ottica esterna, “esperta”, critica in grado di interrogare e di stimolare una trasformazione di dinamiche interne al contesto attivista. Si delineano due diversi percorsi e intenzioni: l’amplificazione del messaggio del movimento o la riflessività critica, che condizionano le modalità di entrata nel contesto attivista, l’oggetto di interesse, la metodologia di indagine e le modalità di divulgazione della indagine come vedremo nei capitoli 6 e 7. Il fatto che la restituzione sia intesa principalmente come la produzione di stimoli finalizzati a generare nuova consapevolezza, attraverso l’ottica analitica del ricercatore, presuppone un posizionamento per certi versi opposto a quello dell’etnografo allineato. Se quest’ultimo mira ad entrare sempre più nell’ottica degli attivisti fino alla piena identificazione, chi cerca di generare consapevolezza vede, al contrario, nella specificità della visione del ricercatore, che si discosta e riesce a sottoporre a critica alcuni aspetti del contesto studiato, la risorsa da valorizzare. La metodologia di ricerca tende quindi a non limitarsi

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alle interviste in grado di convogliare principalmente l’auto-rappresentazione dei militanti, quella che Semenzin (2019, p. 179) chiama “narrazione preconfezionata”, ma adoperando osservazioni e note di campo, si mette a fuoco la distanza tra ciò che si dice e ciò che si fa in contesto militante (cfr. Saitta 2018). Esempio di quest’ultima prospettiva sono le motivazioni che muovono Semenzin (2019, p. 184) a far ricerca presso una fabbrica occupata argentina: […] il mio intento era quello di favorire la consapevolezza sulla partecipazione democratica dei lavoratori e delle lavoratrici al processo di autogestione fornendo loro qualche spunto di riflessione con la speranza di dare vita a qualche proficua discussione e confronto soprattutto con il management amministrativo.

3. Illusioni e frizioni I lavori che non si limitano a riproporre l’auto-rappresentazione del circuito attivista ma spostano l’attenzione sulle relazioni che investono il contesto di indagine, per esempio tra soggetti locali e internazionali oppure tra “interni” ed “esterni” fanno emerge un quadro più complesso (Damascelli 2019). Koensler e Papa (2011, p. 16) non danno per scontata la sintonia tra accademici, attivisti e popolazione palestinese e riflettono piuttosto sul carattere spesso effimero e fugace dell’attivismo politico nel conflitto israelo-palestinese, mettendo in luce l’idealizzazione della società palestinese e le intersezioni tra turismo e attivismo. Gli autori si interrogano sugli effetti indiretti che l’attivismo politico di breve durata ha sugli attivisti, in quanto contribuisce a marcare uno status sociale cosmopolita funzionale più agli attivisti che ad una adeguata comprensione delle complesse dinamiche locali in Palestina: La questione non sono tanto le precise relazioni tra ‘verità’ indigene in Palestina e le loro rappresentazioni straniere, ma il modo in cui gli incontri ridefiniscono i conflitti che le reti di

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attivisti cercano di rappresentare. Quando le narrazioni degli attivisti incontrano diverse esperienze personali possono emergere distorsioni e frizioni. Al contempo, le idee che gli attivisti hanno delle realtà locali funzionano come legittimazioni delle pratiche degli stessi attivisti, e quindi come vettori motivazionali per la riproduzione della nuova élite globale [speed elite].

Se la ricerca allineata non crea tensione, conferma i ruoli che il movimento si è dato, l’etnografia militante che intende sollevare consapevolezza riflessiva rischia invece di innescare dinamiche politiche trasformative interne al movimento, alterazioni degli equilibri di potere facendo leva su ciò che è emerso nel corso della ricerca, con un prevedibile aumento della irrequietezza interna al contesto studiato e verso l’etnografo. Aggiungiamo così una terza dimensione politica della etnografia militante: non riguarda solo la tensione tra movimento e sue controparti, il posizionamento dell’etnografo, ma anche le dinamiche di potere all’interno del contesto di movimento, che possono riguardare sia l’assetto di autorità e leadership nei gruppi attivisti che tensioni tra questi. La diversità di posizionamenti, all’interno dei gruppi e tra mobilitazioni affini, è evidente in qualsiasi ambito di attivismo dal basso, soprattutto quando non ci sono gerarchie precise e stabili, dando luogo a continui confronti. Apostoli Cappello (2013, p. 17, cfr. 124-126) rivela che l’etnografa rischia di trovarsi in una situazione scomoda coinvolta, suo malgrado, in tensioni latenti tra schieramenti in un contesto attivista fortemente frammentato in identità spesso conflittuali: La scelta di dedicare la maggior parte dell’attenzione a uno o più gruppi selezionati, scelti all’interno dell’eterogeneo bacino di antagonisti europei [che appoggiavano la lotta zapatista in Chiapas], ha comportato che gli attivisti tendessero a dare per scontata una mia adesione nei confronti delle rivendicazioni di legittimità politica e di egemonia culturale messe in atto dai gruppi stessi rispetto ad altri. Questo ha comportato talvolta la diffidenza nei miei confronti di altri attivisti di diverse affiliazioni politiche. In ogni caso, inserita in dinamiche di competizione all’interno del ‘villaggio virtuale’ degli attivisti

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europei, mi sono ovviamente trovata nella posizione di ricevere, e si presume di diffondere, parole di legittimazione o di discredito reciproco di una ‘fazione’ verso l’altra.

L’etnografo spesso si deve muovere con estrema circospezione nelle relazioni tra i diversi gruppi attivi. Agata Mazzeo racconta: […] in alcune circostanze mi sono trovata coinvolta in situazioni di tensione dovute alle diverse posizioni politiche assunte dalle associazioni con le quali ho fatto campo. In un’occasione, ad esempio, la mia interpretazione di un dato particolarmente delicato è stata colta da un’associazione come sostegno alla posizione assunta da un’altra e divergente dalla propria (comunicazione personale, marzo 2019)

Con riferimento ai movimenti messinesi legati alla lotta per la casa, Saitta (2018, pp. 17, 34) mostra come si sia trovato invischiato in “divisioni presenti all’interno del campo antagonista” che nel corso della ricerca producono rilevanti conflitti e tensioni che riverberano inevitabilmente e costantemente sulle pratiche adottate dai movimenti. L’etnografia illustra le “tensioni e attriti che producono […] prevedibili competizioni tra individui e sigle, personalizzazioni degli scontri e dolorosissimi attacchi al Sé degli individui coinvolti”. Da notare, e il caso narrato da Saitta è emblematico, che soventemente gli scontri, con rotture e perdita di efficacia delle lotte, sono dovuti a sedimentate ostilità personali tra leader che si riflettono su gruppi informali, sindacati, associazioni. L’etnografo militante spesso si trova a vivere una spiccata vicinanza all’oggetto di ricerca, nel senso che è un contesto prossimo non solo da un punto di vista geografico e culturale ma solitamente condivide con il contesto un precariato esistenziale e una tensione politica (Juris e Khasnabish 2013b, p. 376). In relazione al suo posizionamento nella ricerca con gruppi filo-zapatisti, Elena Apostoli Cappelli (2017, p. 138) spiega:

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Avendo lavorato con comunità che trovano nella riflessività una delle loro raisons d’etre, non è stato sempre facile districare l’ambiguità tra le dimensioni emiche ed etiche della teoria sociale. Per esempio, in conseguenza di questa prossimità culturale con certe parti delle scienze umane e sociali e alcuni attivisti che studiavo, considero autori come Antonio Negri, un importante riferimento intellettuale e militante per le contro-culture europee e statunitensi, come “intellettuali organici”, piuttosto che come riferimenti teorici esterni, consapevole che è impossibile separare completamente queste due posizioni.

Nonostante questa vicinanza, sono diversi i casi in cui, nonostante si sviluppi una affinità, a volte anche una profonda complicità, nella relazione tra etnografi e contesti studiati si generano tensioni, divergenze, a volte della ostilità per molteplici ragioni. Viola (2015, p. 24) che fa ricerca-militante con un gruppo LGBT dell’Africa orientale da un lato insiste nel notare i piccoli meccanismi di potere che agivano sotto la superficie della nostra relazione e che si alimentavano di ideali, pregiudizi e convinzioni costruiti negli anni e, in buona parte, al di fuori del nostro controllo. Nel rapporto tra un ricercatore europeo e i propri interlocutori africani ovviamente pesano le problematiche connesse agli stereotipi coloniali e ai malcontenti postcoloniali.

Questi comportano ad esempio aspettative sulla capacità dell’etnografa di attrarre finanziamenti, generando “invidie, gelosie e sospetti. Non mi trovavo affatto nella posizione di potere scegliere liberamente e incondizionatamente come gestire la mia pratica politica e i miei rapporti”. Un’altra causa di frizione ben nota alla ricerca etnografica in generale che si trova ad affrontare Viola è la domanda di schierarsi, di prendere posizione tra le fazioni, i gruppi, gli schieramenti che compongono il contesto attivista. In alcuni casi, come quello descritto da Viola (2015, p. 25) è legata alla richiesta di mostrare fedeltà al soggetto con cui si è entrati in intimità che prevede di sposare esclusivamente l’ottica degli attivisti. Inizialmente venivano mal viste le sue conversazioni con i

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“leader dell’omofobia cittadina che intervistavo ai fini della mia ricerca. Questo mio continuo ‘dialogo con il nemico’ tendeva a rinforzare degli evidenti timori di tradimento legati anche all’indecifrabilità del ruolo dell’antropologo, visto spesso come una spia, un impiccione”. Su quanto l’etnografo debba tentare di comprendere anche la controparte istituzionale del movimento in/con cui fa ricerca, ci sono posizioni discordanti. Sopranzetti crede che “La creazione del nemico, spesso in termini piuttosto schizzati e semplicistici, è infatti una strategia fondamentale per la riuscita di un movimento politico ma è controproducente, a mio parere, per un buon documento etnografico” (comunicazione personale, dicembre 2019). Senaldi crede invece che il ricercatore “non deve abbandonare mai il proprio punto di vista di parte” ed è scettico sulla opportunità e possibilità di guardare entrambi i campi in conflitto (comunicazione personale, luglio 2019). Altri invece ritengono il rapporto con la controparte del movimento un potenziale punto di osservazione importante. Van Aken vede una ricerca ad ampio spettro come un antidoto rispetto a letture univoche e pre-determinate: […] lavorando anche con tanti dubbi con la cooperazione del ministero Francese, con ONG, con apparati amministrativi giordani, con saperi duri ed esperti, ho capito veramente la gradualità e sfumature di grigio che prendono piede nelle dinamiche di potere e di esclusione. La dinamica di comprensione delle lotte, e dei conflitti sta per lo più nel mezzo, nascosta se si guardano due ideali antipodi (comunicazione personale, marzo 2019)

Sebbene non sia sempre possibile entrare in relazione con la controparte sia perché – come evidenzia Agata Mazzeo (comunicazione personale, giugno 2019), questa rifiuta l’incontro con il ricercatore, percepito come troppo vicino agli attivisti, sia perché i militanti possono sospettare che le relazioni intessute dall’etnografo con la parte loro avversa sia il preludio di un tradimento, c’è chi ha è riuscito ad entrare in

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entrambi i campi di relazioni conflittuali. Giacomo Pozzi, ad esempio, interagisce con i collettivi che promuovono le occupazioni di immobili, resistenze agli sfratti e difese di quartieri auto-costruiti a Lisbona prima e a Milano poi. Ad un certo punto dell’indagine, decide di volgere lo sguardo etnografico anche alle figure istituzionali, mettendo a rischio l’empatia con gli attivisti. Ritiene però indispensabile un’analisi delle istituzioni che si relazionano con i movimenti. La vedo assolutamente militante da un lato per scardinare quella banalità o quella semplicità dei posizionamenti dicotomici che poi uno trova a livello retorico sul campo quando lavora sui movimenti sociali. Si tratta di restituire una complessità analitica ad un ambiente che è complesso e che vogliamo leggere come complesso […] Andare a vedere l’altro lato significa mettere in dubbio quello che ti viene detto dal movimento. Ti rendi conto che [nelle istituzioni] ci sono degli esseri umani che non sono dei mostri e che in fin dei conti ti trovi in una arena in cui la precarietà, la mancanza, il bisogno, l’incertezza caratterizza tutti. Diventa complicato capire da che lato stare. Questo non toglie che rimangono degli ideali di giustizia sociale che sicuramente almeno nel mio caso per ora, sono molto più vicini a quelli dei movimenti rispetto a quello di un ufficiale giudiziario o di un poliziotto. Questo non toglie che la responsabilità degli etnografi è non accontentarsi di una delle due posizioni ma cercare di capire cosa si può cogliere dalla effervescenza quotidiana della loro relazione (comunicazione personale, dicembre 2019).

Di fronte al rischio che andare dal nemico possa essere visto come un tradimento, Pozzi da un lato adotta una strategia di “trasparenza assoluta” con gli attivisti spiegando loro che vuole vivere gli sfratti anche a lato degli operatori istituzionali, dall’altro lato, sceglie di interagire con ufficiali giudiziari solo in quartieri in cui non sono attivi i militanti che ha conosciuto nel corso della ricerca. Alcune delle figure istituzionali da contattare sono indicate dagli attivisti che comprensibilmente, nonostante non lo evidenzino nella retorica pubblica, hanno contatti con alcuni di loro. La relazione con la controparte è un ambi-

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to in cui il percorso dell’attivista e quello dell’etnografo possono scindersi andando potenzialmente a minare la rappresentazione di una conflittualità irriducibile spesso proposta dal circuito di lotta. 4. Turismo o attivismo politico? Un’altra caratteristica ricorrente della auto-rappresentazione dei movimenti sociali è l’enfasi sulla dedizione alla causa politica. Alcuni etnografi hanno però notato che alcune forme di attivismo internazionale si intrecciano con attività ludiche e ricreative che vengono spesso minimizzate nel verbale pubblico che tende ad enfatizzare l’abnegazione finalizzata alla trasformazione politica. Nel caso dell’attivismo internazionale i confini tra solidarietà, viaggio e svago sono spesso poco chiari. Per esempio, Koensler e Papa (2011, pp. 13, 14) sostengono, con riferimento alla Palestina che c’è il “rischio che la partecipazione e circolazione attivista diventino essi stessi delle finalità”. I viaggi di piacere che si miscelano alla esperienza di attivismo “appaiono in contraddizione con i discorsi dell’attivismo che sottolineano l’importanza di mantenere un coinvolgimento rigido e idealmente esclusivo con i mondi palestinesi”. Gli etnografi, professionalmente predisposti ad una immersione di lunga durata, attenti a comprendere le minuzie del contesto culturale, teoricamente ostili a semplificazioni, stereotipi e generalizzazioni spesso notano una comprensibile superficialità degli attivisti internazionali nel comprendere le reali dinamiche del contesto in cui si inseriscono, che spesso è ben più complesso delle rappresentazioni a fini propagandistici promosse nel loro contesto di partenza. Koensler e Papa (2011, pp. 13, 14, 16; cfr. Herzfeld 2010, p. 261) parlano di “pratiche discorsive e categorie interpretative che spesso rimangono ancorate ad atteggiamenti relativamente statici e inflessibili, spesso in contrasto con

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le sensibilità locali”. Un esempio è “la frizione e l’ambivalenza” che si creano tra un mondo attivista spesso attento alla parità di genere, a volte radicalmente femminista, e uomini beduini, oppressi dal governo israeliano, ma al contempo patriarchi poligami. Apostoli Cappello (2013, pp. 84, 87, 88, 92) riprende e rilancia la nozione di “zapaturisti” per descrivere la dimensione ludica della militanza di alcuni attivisti filo-zapatisti in Chiapas. Discute la commercializzazione di gadget ‘etno-resistenziali’ per attivisti internazionali e il gioco di specchi generato da un “essenzialismo strategico” che investe sia la costruzione identitaria zapatista che la coerenza politica dei sostenitori europei: le interazioni tra attivisti e resistenza indigena si nutrono di “sete di esotismo e di mitologia delle origini”. Questo immaginario si riflette, ad esempio, in un manuale per chi intende visitare gli accampamenti di appoggio agli zapatisti, ritenuto dalla etnografa, in alcuni passaggi, romanzesco e esagerato. Rilevare il margine di discrepanza tra immagine pubblica e pratiche quotidiane è importante soprattutto al fine di mettere in luce come la costruzione di una identità locale, quella zapatista, sia fortemente condizionata dalla percezione che gli attori esterni e specificatamente internazionali hanno di tale società.

L’indagine rivela che la condivisione che gli attivisti che si recano in Chiapas dichiarano di voler raggiungere spesso è acquisita in modo parziale e superficiale per ragioni linguistiche, di genere e di sistemazione degli ‘ospiti’ nelle comunità zapatiste. 5. Svelamenti A volte, man mano che la ricerca progredisce, il ricercatore perde l’iniziale sensazione di affinità che lo aveva mosso e si rende conto di divergenze tra i suoi ideali politici e

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le pratiche del soggetto studiato (Koensler 2015; Ravenda 2018; Semenzin 2019); in certi casi ricerche iniziate come forma di collaborazione militante portano prima a tensioni, quindi a contrasti che sfociano in aperto conflitto (Saitta 2018). La riflessione sulla effettiva orizzontalità delle prassi adottate dal movimento costituisce uno delle potenziali fonti di tensione tra ricercatore e militanti, mostrando la distanza tra auto-rappresentazione e analisi etnografica. A differenza di quanto emerge dall’approccio di Juris (2008, pp. 63, 68; 2012, pp. 266, 268, 273), crediamo che non si possa dare per scontato che i contesti movimentisti e/o “di sinistra”, ad un attento scrutinio, siano caratterizzati da prassi prevalentemente e coerentemente orizzontali sebbene, quasi sempre, si presentino come rigidamente egualitari ed inclusivi. L’etnografia militante può generare frizioni mettendo in discussione la distribuzione del potere e le modalità di decisione interne ai gruppi: un’analisi paziente può rivelare dinamiche di accentramento del potere simbolico e organizzativo o forme escludenti di affiliazione politico-ideologica (cfr. Apostoli Cappello 2013, pp. 119-129). In questi casi lo svelamento riguarda un assioma centrale del contesto attivista, l’orizzontalità organizzativa, e spesso anche una delle principali rivendicazioni di discontinuità degli attivisti rispetto alla controparte istituzionale. Un’analisi sull’uguaglianza effettivamente praticata in contesti che si proclamano “egualitari” genera un’inevitabile cesura tra la posizione militante e quella di chi fa ricerca. Nel corso della ricerca su una fabbrica recuperata in Argentina, Semenzin (2019, pp. 111-112, 194-195; cfr. 173) si rende conto che la pratica assembleare, “uno dei principi cardine dell’autogestione”, aveva assunto un carattere “residuale […] una sorta di rito confermativo della leadership”, sovrastata dall’autorità di una figura carismatica. Ciò genera una profonda disillusione: Nel momento in cui a Impa [la fabbrica recuperata] ho percepito la scarsa presenza e lo scarso utilizzo di pratiche

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decisionali effettivamente partecipative e democratiche, ho ricevuto una forte delusione sul piano politico. Non è possibile negare infatti che il mio interesse per il fenomeno studiato abbia radici politiche e che la possibilità di descrivere le pratiche di autogestione operaia in organizzazioni produttive definite su base cooperativa fosse uno degli aspetti che più mi interessava. Il disinganno e lo sconforto che ne è seguito sono stati molto forti […] provavo antipatia e risentimento verso la stessa organizzazione e in particolare verso la sua dirigenza che ogni giorno mi mettevano davanti alla distanza tra la rappresentazione pubblica di Impa all’interno del movimento politico argentino […] e le pratiche quotidiane sia di partecipazione collettiva sia nelle attività produttive e di gestione sovente distanti dai principi dell’autogestione.

Sopranzetti racconta gli effetti della sua ricerca, tesa allo “scavo” del dato etnografico, sull’armonia del gruppo. Più di una volta il mio lavoro da etnografo, volto a discutere e ridiscutere, analizzare e rianalizzare, spesso in dialogo con attivisti è stato percepito, e forse anche a ragione, come una volontà di rivangare e far emergere conflitti interni, così facendo indebolendo la coesione del movimento. Francamente, non riesco a considerare questa critica completamente errata. Ho visto più di una volta persone usare le conversazioni con me come uno spazio in cui esprimere e riorganizzare le proprie insoddisfazioni nei confronti del movimento (comunicazione personale, dicembre 2019).

La ricerca di Pietro Saitta (2018, pp. 13, 14, 15) presso il Sindacato Autonomo Popolare di Messina, gruppo dinamico e informale di sostegno a sfrattati e occupanti abusivi, rivela come possa deteriorare velocemente un rapporto nato con curiosità. L’etnografo finisce “per essere cooptato… i cinque mesi di osservazione sono stati … contrassegnati da frequenti picchi emotivi, sfociati in violentissimi scontri verbali così come in altrettanti forti sentimenti di vicinanza”. Gli “screzi” che portano ad un aperto conflitto, e alla fine della esperienza etnografica, sono dovuti alla

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mia resistenza ai tentativi di produzione di un settarismo comunista di matrice monocratica. Una relazione perciò contrassegnata da una tensione emotiva fortissima e da una lotta per il dominio interno al gruppo che si è giocata sui fronti del genere, del desiderio, della prossimità e dei tentativi, puntualmente contrastati, di affermare spazi personali, distaccati dall’impegno politico.

Un altro ambito di svelamento etnografico che può risultare ostile agli attivisti o ad alcune frange di questi, in particolare al vertice, riguarda la denuncia di dinamiche di cooptazione di quelle che erano state lotte condotte dal basso, da parte dei governi, nonché di organizzazioni nazionali e internazionali, con il conseguente ridimensionamento, riorientamento, deviazione della partecipazione e dello slancio iniziali della protesta (Edelman 1999; Rossi 2008, 2017). Dinamiche simili si intensificano quando le istituzioni sono occupate da ‘amici’ delle mobilitazioni, come ad esempio i governi ‘di sinistra’. Nella sua ricerca sugli attivisti di quartiere in Venezuela, Boni (2017) si trova a constatare una coerenza con quanto professato dalle politiche chaviste per ciò che riguarda il tentativo di trasformare le istituzioni secondo un modello organizzativo più orizzontale e a provare sia simpatia politica che personale con diversi attivisti della base del PSUV, il Partido Socialista Unido de Venezuela. L’etnografia rivela però anche evidenti contraddizioni: l’azione degli attivisti di quartiere era inserita e limitata dal loro rapporto, spesso salariale, con il partito attraverso gli enti locali controllati dal PSUV. Gli ideali degli attivisti si scontravano, da un lato, con la richiesta di attivare pratiche clientelari finalizzate a consolidare il consenso elettorale, dall’altro con dinamiche di cooptazione sia istituzionale (promozione nelle gerarchie politiche di alcuni di loro), sia culturale (alcuni attivisti replicavano dinamiche di affermazione personale tanto criticate quando coinvolgevano personaggi di spicco del partito a livello regionale). L’etnografia permette di svelare e documentare la persistenza di quelle che Wilde (2017) chiama “disgiunture utopiche” ovvero la presenza di robuste dinamiche gerarchiche nelle sfere alte

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ma anche in quelle basse del PSUV; incoerenze di cui peraltro i militanti di base erano ben coscienti. Come ogni contesto sociale, anche i circuiti attivisti tendono a salvaguardare e a riprodurre la loro struttura organizzativa e le loro dinamiche relazionali. La ricerca etnografica permette, a differenza dello sguardo turistico o giornalistico di svelare ipocrisie, deformazioni, semplificazioni nelle strategie di narrazione pubblica dei soggetti politici che possono turbarne la riproduzione. A volte quello che colpisce negativamente l’etnografo, quando inizia ad entrare in confidenza con il contesto militante, è la distanza tra come questo si rappresenta all’esterno, ovvero la retorica pubblica promossa dai suoi canali di divulgazione, e come agisce nella pratica. Se il ricercatore mette a fuoco, attraverso la paziente e prolungata osservazione partecipante, una discrepanza accentuata tra la propaganda e le prassi emerse, può scegliere se discuterla confidenzialmente con il soggetto studiato, ovvero raccontarla nella sua etnografia. Riflessioni su dinamiche occultate o solo parzialmente problematizzate raramente trovano spazio in chi intende l’etnografia militante come un allineamento politico con il movimento e l’etnografia come un servizio reso agli attivisti: se l’etnografo sposa il punto di vista del movimento difficilmente il focus dell’analisi sarà su questioni che possono produrre frizioni interne al contesto. Anche etnografe ed etnografi che rivendicano l’autonomia della ricerca e interpretano il proprio ruolo come produttrici e produttori di un sapere critico possono comunque decidere di non affrontare temi scottanti né all’esterno, né nella discussione interna per non danneggiare il movimento, per ragioni di opportunità o perché sentono che non è il momento giusto. La maggior parte degli svelamenti sono rimandati alla pubblicazione accademica e al dibattito pubblico a fine ricerca. Sul campo l’etnografo tendenzialmente mantiene un riserbo anche perché la constatazione delle strategie di mis-rappresentazione alimenta una distanza tra la propria tensione etica e quella del soggetto studiato che non genera quel clima di collabo-

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razione trasparente che è indispensabile affinché affrontare questioni spinose possa avere un effetto costruttivo. Eppure i processi di svelamento che permettono di problematizzare la retorica pubblica, la coerenza delle forme organizzative interne sono potenzialmente tra le risorse più preziose che la ricerca può offrire all’attivismo politico. Chi fa etnografia deve tener conto che l’indagine è stata possibile grazie ad una intimità concessa, un dono di accoglienza di un contesto che accetta di lasciarsi osservare. Anche per riconoscenza, l’operazione di svelamento, quando si sceglie di intraprenderla, deve essere ben ponderata nella sua formulazione; frutto di una raccolta di documentazione consistente e non di impressioni fugaci; condotta con modalità e tempi appropriati. Affinché la riflessione su aspetti potenzialmente problematici sia costruttiva ci vuole estrema cautela da parte dell’etnografo e la volontà da parte del contesto studiato di mettersi in discussione. Se fatta con queste accortezze può essere un proficuo innesco di dinamiche di auto-riflessione, spesso già latenti nel ambiente osservato, di cui beneficiano sia il circuito attivista che la ricerca etnografica; altrimenti si rischia di generare sterili tensioni, fraintendimenti, conflittualità. È preferibile, se si ha una simpatia seppur parziale con l’ambiente in cui si conduce l’indagine, discutere con i diretti interessati gli aspetti più delicati prima della divulgazione. Lo svelamento non va formulato come pettegolezzo né deve essere finalizzato a screditare particolari gruppi o figure ma come contributo teso a migliorare l’efficacia delle mobilitazioni politiche dal basso. Va inoltre sottolineato che le frizioni che emergono possono costituire un potenziale euristico per la ricerca, che offre un ritorno all’attivismo. In Israeli-Palestinian Activism: Shifting Paradigms, Koensler (2015) documenta in una ricerca etnografica di lunga durata come nell’arco di un anno e mezzo un villaggio arabo-beduino nel deserto del Negev (Israele) diventi il centro di mobilitazioni contro le demolizioni di case della popolazione arabo-beduina e palestinese. Dopo una fase di identificazione con i movimenti per i diritti

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umani, l’autore e un gruppo di altri attivisti osservano come il luogo al centro delle mobilitazioni sia di fatto disabitato. Si tratta di un “villaggio fantasma”, un’illusione appositamente costruita per attirare l’attenzione dei media e dell’attivismo internazionale. Nel periodo della ricerca sul campo, l’insediamento viene demolito più di dieci volte dalla polizia israeliana e ricostruito da reti di attivismo solidale. Nella spirale tra demolizione e ricostruzione, solo pochi sono al corrente che si tratta di un villaggio fittizio. Giornalisti e attivisti, anche di ONG transnazionali e reti come Al-Jazira, diffondono le notizie della presunta perdita di case senza verifiche dettagliate. In alcuni casi, gli attivisti capiscono che il villaggio è disabitato e si sentono ingannati, mentre altri tendono a giustificare l’uso strategico della retorica beduina. In questo caso limite, la ricerca di Koensler decide di approfondire i flussi delle interpretazioni e re-interpretazioni degli stessi eventi da parte di attori diversi come attivisti per i diritti umani, islamisti, popolazione locale, ONG e polizia. Manifestazioni, incontri con le amministrazioni, sopralluoghi di diplomatici e visite di gruppi di attivisti si susseguono, proponendo costantemente nuove occasioni per malintesi, idealizzazioni e illusioni. La notevole distruzione di materiali edili ma anche dei paesaggi, l’incommensurabile frustrazione, rabbia e umiliazione vissuta da molti protagonisti di questa storia possono lasciare perplessi. L’esperienza del caso e il coinvolgimento diretto per più di un anno ha indubbiamente non soltanto cambiato il posizionamento del ricercatore nell’arco della indagine, ma ha anche chiarito il valore di proporre un’interpretazione più astratta delle relazioni intorno alle mobilitazioni. In questo senso, il seguito della ricerca di Koensler (2015) propone una riflessione sull’uso delle categorie interpretative dell’attivismo: attivisti e istituzioni portano avanti, spesso con grande impegno e sostegno internazionale, la costruzione di un quadro interpretativo basato sull’idea di un riconoscimento dei diritti collettivi, riproducendo categorie del senso comune come “cultura”, “viaggio”, “comunità” i cui significati perpetuano malintesi e illusioni fino a sfociare, a volte, in quello

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che Spivak ha definito “essenzialismo strategico”, ovvero l’utilizzo di categorie identitarie essenzializzate da parte di gruppi associati ad identità minoritarie e/o marginalizzate per legittimare e promuovere le proprie lotte e richieste (Spivak 1999). Altri gruppi, spesso poco numerosi e meno visibili, promuovono attività di carattere sperimentale che si situano in modo trasversale rispetto alle categorie identitarie del senso comune e delle istituzioni, eludendo con successo molte delle illusioni createsi (Koensler 2016). In questo senso, l’etnografia militante, quando non si limita a riprodurre le auto-rappresentazioni facilmente disponibili, offre una possibilità unica di approfondire la complessità delle relazioni intorno alle mobilitazioni politiche e comprendere in profondità il processo di formazione delle rivendicazioni. L’etnografo militante può decidere, proprio per l’intimità e l’intensità delle relazioni tra ricercatore e contesto studiato, di sollevare questioni scomode o sottaciute durante la ricerca, magari proprio come tecnica di indagine. Per un etnografo addentrarsi in uno svelamento critico è espressione di stima per il contesto attivista, che evidentemente ritiene abbia gli strumenti di auto-riflessività che consentono di affrontare positivamente questioni imbarazzanti e problematiche e di attivare così una forma di restituzione immediata e spesso potenzialmente molto preziosa. Al contempo è anche un processo molto delicato perché va ad interferire sugli equilibri interni al gruppo e mette in pericolo la stessa continuazione della ricerca: se le dinamiche attivate dal processo di svelamento non generano dinamiche feconde di crescita riflessiva, l’etnografo verrà spesso individuato come causa di tensioni interne. La rassegna delle dinamiche relazionali nelle etnografie militanti e attiviste in questo capitolo dimostra i molteplici posizionamenti possibili all’interno dei quali si evolve il rapporto tra movimenti e ricercatori. L’etnografia militante lungi da essere un rassicurante posizionamento chiaro, stabile e predefinito, genera relazioni etnografiche imprevedibili: è possibile che l’accesso al contesto di studio sia minato con ostacoli insormontabili; è possibile che eventi inaspettati

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mettano a dura prova il senso etico del ricercatore; è possibile che l’etnografo si perda nella militanza non riuscendo più a trovare gli spunti per stimolanti approfondimenti analitici; è possibile che l’evoluzione della relazione possa risultare proficua o fonte di sterili conflitti. Come in altri contesti, anche in quello militante, o forse più che in altri contesti in quello militante, in cui alle normali problematiche di costruzione del campo etnografico si aggiunge una spiccata tensione politica, non ci sono ricette metodologiche preconfezionate. Non solo, come vedremo nel prossimo capitolo l’etnografia militante richiede un ulteriore problematico sforzo al ricercatore: quello di una restituzione pratica e politica che raramente gli stili etnografici connotati da altre sensibilità compiono con analoga intensità.

Capitolo sesto La moltiplicazione delle modalità di restituzione

Sebbene recentemente Dei (2017), Allovio e Favole (2018) abbiano caratterizzato l’antropologia radicale, intesa come studi accademici di illustri cattedratici, per una certa impostazione teorica a loro avviso ingiustamente iper-critica verso lo Stato e “non così ingenua da avanzare linee di azione” (Allovio e Favole 2018, p. 7), dalla rassegna di lavori di etnografi militanti italiani emerge invece una convergenza non tanto nell’apparato teorico quanto su questioni eminentemente pratiche, legate alla volontà di implementare “linee di azione” intese come restituzione, una delle dimensioni più cruciali della relazione tra etnografo e contesto militante. A differenza degli approcci critici astratti, la tensione politica che nutre la ricerca militante genera un coinvolgimento personale tra ricercatore e soggetto studiato che si instaura nella fase di ricerca ma non si esaurisce durante la raccolta della documentazione: investe le forme in cui l’esperienza di indagine viene resa fruibile, innanzitutto a chi l’ha resa possibile accettando la collaborazione con l’etnografo. Pubblicazioni accademiche o frequentazioni di ambienti ‘alternativi’ non sono spesso viste dal contesto di movimento come forme di restituzione sufficienti: la ricerca deve ‘tornare’ in termini di benefici tangibili. La dimensione politica della relazione amplifica le aspettative rispetto alle possibili applicazioni del sapere prodotto su entrambi i fronti, quello del ricercatore

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(a sua volta etnografo e attivista) e quello del contesto. È un momento particolarmente delicato perché la prospettiva del ricercatore viene esplicitata pubblicamente e gli attivisti possono valutare sintonie e divergenze rispetto alla raffigurazione che viene data di loro; il sodalizio che spesso si crea nelle etnografie militanti viene messo alla prova dalla divulgazione. Melucci (1982, p. 152) aveva colto la rilevanza degli usi pubblici delle esperienze di ricerca soffermandosi sulla necessità di stabilire equilibri nel potere di rappresentazione tra il ricercatore, suo produttore, e il contesto studiato che rischia di essere estromesso dalla costruzione della narrazione: In un mondo in cui ‘nominare’ equivale sempre più a ‘far esistere’, la debolezza degli attori è una privazione o deformazione della parola. Difficilmente ci può essere contratto [tra ricercatore e contesto studiato] senza restituzione/ riappropriazione della parola.

Oggi gli attivisti hanno canali accessibili e competenze per adoperare la parola indipendentemente dall’etnografo. La salutare perdita del monopolio accademico della narrazione pubblica – che gli scienziati sociali in molti casi hanno esercitato fino alla esplosione della comunicazione in rete – ha moltiplicato i discorsi prodotti sui contesti politici, eppure le rappresentazioni e la documentazione esposta dall’etnografo continuano ad essere soggette ad un attento scrutinio. La restituzione richiesta all’etnografo in contesto militante non è intesa esclusivamente come produzione di narrazioni. La forma e il modo in cui l’etnografo rende un servizio al circuito attivista è frutto di un continuo processo di negoziazione costruito insieme mentre si progettano iniziative, si partecipa a riunioni, si collabora su questioni intellettuali e pratiche, si stilano e fanno circolare appelli, si discutono e rivedono documenti. È l’intimità quotidiana del rapporto, consolidata dalla affinità politica, a permettere di immaginare e realizzare scambi che il contesto attivista può ritenere benefici. Come fa notare Pozzi, quando l’etnografia cerca

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una valenza militante la restituzione tangibile diventa quasi ineludibile, a differenza di modalità politicamente più neutre di condurre indagine sociale. La richiesta che avanza l’etnografo di un’ospitalità collaborativa per permettere la raccolta dei dati, viene in genere contraccambiata con iniziative tese a rendersi utile agli interlocutori, in maniera concreta. Probabilmente non si realizza davvero la ricerca militante se non restituisci. Il cuore della ricerca militante è esattamente la restituzione. Se no il meccanismo rimane un po’ inceppato. Se non restituisci non riesci neanche a fondarlo e migliorarlo questo lavoro militante; nel senso che se le persone con cui lavori poi non ti dicono cosa ne pensano di questa cosa […] cosa lo stiamo facendo a fare […] Se restituiamo solamente all’accademia non parliamo di ricerca militante (comunicazione personale, aprile 2019)

Apoifis (2017, p. 4, 50) esemplifica una sensibilità diffusa quando sostiene che l’etnografia militante richiede ai ricercatori di dimostrare partecipazione e solidarietà politica con i loro soggetti di studio, oltre ad un impegno a condividere i risultati della ricerca una volta completata, in uno stile attento alle implicazioni politiche […] l’obiettivo è quello di produrre conoscenza politicamente implementabile dai movimenti. La sua dimensione militante deriva dalla ricerca e diffusione di suggestioni partigiane […] Oltre a questo libro ho vigorosamente condiviso, in forme diversificate, la mia esperienza e suggestioni Ateniesi con numerosi anti-fascisti, anarchici, anti-autoritari.

In questo capitolo e in quello successivo, partendo dalle esperienze degli autori ci chiediamo: Come fare (in termini di linguaggio usato e canali di comunicazione) a rendere non solo interessante ma comprensibile (contenendo la complessità concettuale e analitica) e quindi praticamente usufruibile la ricerca etnografica? Quali tensioni può creare l’asimmetria di potere generata da una rappresentazione ‘esperta’ e ‘accademica’ dell’attivismo? Che succede quando ciò che emerge dalla indagine non è quello che il contesto studiato

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si aspettava? Quanto si può discostare la rappresentazione dell’etnografo da quella che il movimento fa di se stesso? Se ci si discosta eccessivamente si corre il rischio di tradire o di compromettere lo sforzo profuso da un movimento con cui il ricercatore può anche sentire una discreta sintonia? Quanto quindi si deve dimostrare un appoggio entusiasta, un allineamento simpatetico con il movimento o quanto si può esercitare liberamente la critica culturale? Come caratterizzare la rappresentazione etnografica del movimento rispetto alle altre che circolano? Infine, quali sono i potenziali rischi per l’etnografo di un atteggiamento schierato? 1. Restituzioni pratiche Se in diversi ambiti di ricerca universitaria, la restituzione è spesso limitata alla divulgazione dei risultati, spesso attraverso pubblicazioni con un taglio scientifico, in molti contesti in ci si svolge ricerca militante, le pubblicazioni sono solo una delle possibili forme di resa: l’uso pubblico delle indagini prende forme molteplici e complesse che accompagnano tutte le fasi dalla ricerca militante. Il ricercatore quando assume pienamente un ruolo da attivista diventa una risorsa che interagisce nel gruppo offrendo abilità e tempo, portando avanti progetti e contribuendo a definire strategie e tattiche. Come altri attivisti, l’etnografo ha competenze specifiche che possono essere utili già nel corso della ricerca; ad esempio spesso condivide materiali di potenziale interesse per il gruppo studiato quali documenti e filmati prodotti o rintracciati dal ricercatore che, visionati dal contesto attivista, possono essere ripresi e fatti circolare per pubblicizzare il movimento (vedi ad esempio Ravenda 2018, p. 47). Casas-Cortés, Osterwill e Powell (2013, pp. 212-213) raccontano come delle note stilate come documentazione finalizzata ad una tesi di dottorato comincino a circolare, vengano modificate per finire stampate e diffuse sul web. Ad un gruppo di ricercatori che promuove una etnografia collaborativa con i

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gruppi di resistenza agli sfratti a Granada, vengono avanzate in assemblea due richieste che esulano dalle loro competenze universitarie: un approfondimento di ordine legale e un corso di formazione politica (scelgono di accettare la seconda ma non la prima) (Olmos Alcaraz e altri 2018; cfr. Sebastiani e Cota 2018). Irene Peano rispetto alla ricerca condotta con la mobilitazione dei lavoratori agricoli migranti, spiega che una parte della nostra militanza è volta proprio a creare strumenti di disseminazione della conoscenza acquisita (ad esempio sulle leggi che regolano il lavoro, l’immigrazione, il sex work; sull’accesso ai servizi; sul funzionamento delle questure…). È appunto attraverso la conoscenza raccolta e poi ri-disseminata che è stato possibile organizzare momenti di lotta collettiva.

La restituzione più rilevante avviene, in genere, a ricerca avanzata o terminata, quando alcuni risultati o spunti vengono divulgati o resi fruibili nel contesto attivista per stimolare una riflessione condivisa. In genere l’etnografo quando si esprime in pubblico, con i suoi scritti ma anche in dibattiti, presentazioni, documenti esprime simpatia e sostegno al circuito studiato, come d’altronde tendono a fare gli etnografi anche in contesti meno militanti, e al contempo prova a capire come il sapere generato nella ricerca possa essere concretamente reso utile per gli obiettivi politici che condivide con il movimento. In alcuni contesti l’etnografo è coinvolto nelle strategie giuridiche del gruppo studiato sia per validare, come professionista, diritti consuetudinari “indigeni” sia in contesti più militanti per smontare analiticamente la repressione giudiziaria dei movimenti (vedi ad esempio Hale 2006 ma anche Chiaramonte e Senaldi 2015). Nadia Breda spiega bene, esemplificando dinamiche ricorrenti tra gli etnografi militanti, i molteplici impatti imprevisti che può avere l’indagine sull’uso sociale di alcune zone paludose in Veneto. La mia ricerca è sempre stata restituita, da subito, in tempi rapidi, attraverso libri, articoli, interventi pubblici, ma soprattutto attraverso la mia presenza sul campo, partecipazione a

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riunioni, assemblee, dalle raccolte di firme sulle piazze […] In realtà, dopo 25 anni dall’inizio della storia, e dopo 9 dall’uscita del mio libro che racconta questo conflitto […], credo che la mia ricerca abbia avuto una doppia utilità: 1. Il libro Palù [Breda 2001] serve per conoscere questo territorio, che nelle sue parti più belle e non coinvolte dall’autostrada oggi è valorizzato. I palù di Polcenigo sono patrimonio Unesco, e altri sono dei SIC (Siti di Interesse Comunitario) per l’Europa. Molti dei soggetti coinvolti […] leggono i miei studi e li usano. Vari studenti universitari e dei licei hanno fatto ricerche su diversi aspetti di questo paesaggio. 2. Il libro BIBO [Breda 2010] costituisce una sublimazione per molti cittadini che sono stati vittime del processo di violenza al territorio e che si riconoscono nelle mie parole, come mi hanno testimoniato. Vari hanno pianto riconoscendo in ciò che descrivo cosa sia successo a loro stessi e sentendo legittimato per la prima volta questo dolore sociale […] Il mio lavoro è stato ripreso da varie scuole che hanno dedicato degli studi storici/ botanici/ biologici/ geologici/ artistici ai territori da me esplorati. Hanno fatto mostre e manifestazioni, hanno partecipato ai concorsi e segnalato i palù al FAI [Fondo Ambiente Italiano], per esempio. Ma la cosa più notevole è il gruppo di musicisti che ha tradotto il libro BIBO in uno spettacolo che stanno portando in tournée in vari paesi. Ne hanno scelto delle parti, ne fanno lettura, musica e recitazione. Il pubblico è sempre caloroso e le testimonianze a fine spettacolo sono significative: la gente comprende, si interroga su cosa sia successo nella nostra Regione, sul valore dell’ambiente…. La vicenda che ho narrato è ripresa anche in altri due libri, da due narratori che la incorporano nei loro romanzi […] Più di una volta i colleghi hanno anche firmato appelli e preso posizioni. Abbiamo portato questa storia anche in musei francesi e svizzeri e raccolto le firme lì (comunicazione personale, luglio 2019).

Per Staid risulta addirittura sorprendente come i prodotti di una ricerca possano essere spontaneamente adottati dagli attivisti come strumenti di formazione e di lotta: È imprescindibile la restituzione ai soggetti studiati, non capisco come possa essere giusto il contrario. Mi ha stupito molto come i miei due libri sul mondo delle migrazioni siano

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stati usati negli anni non solo in università ma da collettivi, scuole di italiano per migranti e gruppi di discussione militante. Una cosa molto bella per il mio lavoro sul meticciato (Staid 2011) è stata la scoperta che parte del mio testo era diventato un manifesto collettivo per dei gruppi che si occupavano di antirazzismo. Altra cosa curiosa ma bella, a Berlino il giornale che esce in 12 lingue Daily resistance ha utilizzato le nostre tavole (Francesca Cogni e me) per illustrare le pagine del loro giornale di lotta per i diritti dei rifugiati. Oppure mi capita spesso quando presento Abitare illegale [Staid 2017] di trovare persone e anche piccoli collettivi che mi dicono che dopo aver letto quel libro hanno cambiato il loro modo di abitare e hanno rivoluzionato la loro vita quotidiana nello spazio abitativo (comunicazione personale, giugno 2019).

2. La moltiplicazione degli stili e dei canali divulgativi Restituire fuori dall’università pone immediatamente la necessità di alterare in profondità i registri comunicativi per rendere comprensibili il senso e i risultati della ricerca a chi non è addentro ai tecnicismi formali, lessicali ed analitici praticati in università. Una delle questioni che si è posta quindi con insistenza agli etnografi militanti è come divulgare in un linguaggio accessibile analisi che sono spesso impostate secondo canoni accademici. Se questo è un problema di qualsiasi esposizione pubblica dell’antropologia, la particolarità della restituzione per l’etnografo militante è che la rilevanza data alla implementazione politica del sapere rende la capacità di divulgare la ricerca in modo appetibile, una dote cruciale. Nel tentativo di diffondere i risultati dell’indagine, il ricercatore si trova a sperimentare molteplici e nuove tecniche narrative per tradurre – avendo ben presenti i pericoli che la semplificazione pone – ricerche complesse in messaggi tarati per un ampio pubblico. L’autore sceglie quindi di differenziare i registri, gli stili, la lunghezza delle rappresentazioni, cercando di generare o di collaborare nel generare testi caratterizzati da una complessità linguistica e

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teorica compatibile con una divulgazione non specialistica. Herzfeld (2005) ragiona su come rendere accessibile una presenza antropologica schierata nel dibattito pubblico. Dobbiamo provare a scrivere in vari modi senza abbandonare la nostra devozione fondamentale allo studio rigoroso e accademico. Dobbiamo dimostrare il valore di quello che facciamo e che il contributo che un antropologo può dare al dibattito pubblico è sempre una prospettiva alternativa a quella generalizzante, favorita da burocrati e da gestori della vita pubblica.

Per la maggior parte degli etnografi non si tratta di scegliere se produrre o meno un testo redatto secondo i canoni universitari, ma di affiancare agli scritti con un taglio accademico, altri stili di scrittura e registri narrativi più agili, digeribili, ammiccanti. Rimanendo nell’ambito della restituzione attraverso le pubblicazioni divulgative, si può dare un breve assaggio delle possibili opzioni per esemplificare dinamiche ricorrenti. Sergi (2009a, 2009b) dopo anni di attivismo e ricerca presso le comunità zapatiste in lotta nel sud-ovest messicano cura una voce enciclopedica che da dignità scientifica ad una narrazione che mostra una evidente sintonia con il contesto attivista di cui si parla. I blog curati da antropologi permettono di divulgare in modo accessibile riflessioni che spesso hanno una sensibilità morale, ecologica o politica sugli eventi in corso1. Il taglio accademico e militante caratterizza Interface: una rivista per e sui movimenti sociali che rivendica un ruolo operativo: “abbiamo riunito persone che fanno ricerca ed elaborano teorie sui movimenti per contribuire alla produzione di conoscenza che può aiutarci a imparare dalle rispettive lotte”2. In Italia la rivista Zapruder in ambito storico e il 1 Vedi ad esempio, Fuori tempo massimo. Un blog in ritardo di Piero Vereni o La giusta distanza. Piccolo osservatorio etnografico sull’isolamento a cura di Antro Day Milano. 2 www.interfacejournal.net

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sito lavoroculturale.org hanno assunto un ruolo analogo, quello di offrire uno spazio aperto, approfondito ma non settario, per ricerche, anche etnografiche, politicamente schierate e allo stesso tempo comprensibili ed utili per il contesto studiato e per lettori generici. Sulle finalità delle pubblicazioni, Staid è molto esplicito: ho cercato di costruire ricerche profonde e con metodologie appropriate, ma non ho mai pubblicato o cercato di pubblicare con editori accademici; il mio primo interesse è farmi leggere anche e forse soprattutto da non antropologhe/antropologi, cercare di fomentare pensiero critico, fornire degli occhiali da vista per vedere meglio la realtà […] preferisco pubblicare sul Tascabile della Treccani o sul Corriere della sera o su A rivista dove ho una rubrica mensile o sul settimanale Left con il quale collaboro, come altre riviste online con un pubblico vario (comunicazione personale, giugno 2019).

Staid, come Sopranzetti, si cimenta in una graphic novel proprio nel tentativo di raggiungere lettori che rifuggono la complessità accademica (Staid e Cogni 2018; Sopranzetti, Fabbri, Natalucci 2019). Abbandonate le strettoie della pubblicazione esclusivamente ‘scientifica’, si aprono spazi di manovra per pianificare un impatto rilevante nel tessuto sociale. Ogni progetto di ricerca che porto avanti viene immaginato per tre pubblici distinti: uno prettamente accademico, uno di persone interessate nell’area di studio ma non accademiche, e infine un pubblico più ampio e generale […] scrivo pezzi diversi con linguaggio e forme narrative diverse per ognuno di questi pubblici […] Onestamente penso che la mia scrittura accademica abbia avuto poca rilevanza per i movimenti che ho studiato ma molta più ne abbiano avuti i pezzi che scrivo regolarmente per giornali internazionali. Per esempio lo scorso anno una serie di articoli che ho scritto sulla scomparsa di dissidenti Thailandesi in Laos sono stati usati da alcuni dissidenti, in particolare un gruppo punk Thailandese, per supportare le loro richieste di asilo politico (Claudio Sopranzetti, comunicazione personale, dicembre 2019).

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Koensler, Loce-Mendes e Zappa (2018) presentano una conversazione circolare e collaborativa tra la squadra del Peasant Activism Project [un progetto universitario che vede coinvolti i primi due autori] e Andrea Zappa che rappresenta una rete italiana di piccoli produttori e trasformatori alimentari [Terra Terra]

L’oggetto della riflessione (Chi ha il diritto di certificare il cibo?) è ripreso da una delle campagne degli attivisti e lo scritto è organizzato a più voci, dandogli il taglio informale di una chiacchierata. Un’altra commistione tra voci accademiche e più prettamente politiche riguarda una pubblicazione sul primo sciopero auto-organizzato dai braccianti migranti contro il caporalato che affianca analisi di sociologi con interventi di militanti italiani e leader migranti (Nigro e altri 2012). La pubblicazione dialogica e collaborativa è un’espressione di una più ampia riflessione su quanto il circuito attivista, normalmente considerato oggetto di indagine ricerca, possa e debba essere coinvolto come soggetto attivo. 3. L’ombra del tradimento La tensione che l’etnografo sente al momento della divulgazione della ricerca in un circuito politico con cui sente una affinità, più o meno pronunciata, è spesso legata al giudizio del contesto studiato sulla rappresentazione che viene resa pubblica, in forma orale (durante le discussioni pubbliche o in seminari), in forma scritta (in quotidiani o riviste), o in forma audio-visiva (se si è prodotto un documentario o filmati). Per il circuito che è stato oggetto di scrutinio e interlocutore dell’etnografo durante il periodo di ricerca, la restituzione è l’atteso frutto di una relazione che, a volte in modo problematico, si è deciso di percorrere. Il contesto che viene rappresentato guarda con estrema attenzione la descrizione etnografica con l’aspettativa che ci sia un giovamento compensatorio dello sforzo profuso nell’accogliere il ricercatore

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e della fiducia che gli è stata accordata. Ci si attende inoltre una trattazione rispettosa degli intimi segreti a cui gli o le è stato concesso l’accesso. I rapporti che si instaurano durante il periodo di ricerca possono essere vissuti da entrambe le parti come più o meno piacevoli e proficui ma sono comunque intimi e privati; la restituzione, invece, nella sua forma divulgativa investe in maniera decisiva l’immagine pubblica del circuito oggetto di indagine. La circolazione di rappresentazioni su un movimento, un gruppo, un’associazione diventa particolarmente delicata se è frutto di ricerca universitaria. Rispetto alle immagini dell’attivismo politico che circolano sui giornali, in rete o nel senso comune, in cui può trasparire un posizionamento partigiano ritenuto legittimo o perlomeno comprensibile, la certificazione scientifica della ricerca richiede e prevede una accresciuta autorevolezza e credibilità, una validità superiore della rappresentazione. La diffusione dei risultati della indagine, soprattutto in un contesto come quello odierno di potenziale propagazione rapida e capillare di parole o scritti o – come succede più spesso – della semplicistica messa in rete di alcune sue parti, in genere quelle più clamorose, possono rafforzare le rivendicazioni del gruppo, amplificandone la visibilità e i contatti, evidenziare la fondatezza delle motivazioni della mobilitazione (Aime 2016) o, al contrario, minarne la credibilità, metterne in discussione la trasparenza, rivelare aspetti che il gruppo studiato aveva deciso di segretare (De Matteo 2011, Cammelli 2015). I movimenti promuovono la circolazione di varie narrazioni di sé, dai documenti pubblicati alle immagini fatte circolare su internet, dalla presentazione di eventi alla raccolta di firme. A questo mosaico di frammenti narrativi di un sé collettivo e militante, l’etnografo può contribuire con il suo sapere specifico, facendo emergere l’importanza della quotidianità e dei dettagli, illustrando la costruzione simbolica dell’esistenza, lasciando spazio all’auto-rappresentazione informale degli agenti, inquadrando le prassi e le parole degli attivisti in un contesto culturale di cui l’etnografo riesce a

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rendere la ricchezza e la densità. Le rappresentazioni etnografiche hanno spesso il vantaggio, rispetto ad altra documentazione prodotta internamente al movimento, di avere un maggiore spessore documentario e complessità analitica: il quadro che emerge non è sempre immediatamente digeribile dal contesto rappresentato ma quasi sempre stimola riflessioni e approfondimenti. I resoconti etnografici, se non altro, hanno, nell’ottica degli attivisti, il pregio di contribuire a scalfire rappresentazioni quasi invariabilmente negative proposte dai media egemonici. Etnografi e circuito studiato in genere sentono entrambi la necessità di diversificare la rappresentazione pubblica del movimento, smontando stereotipi e pregiudizi mediatici. Questo obbiettivo è una prima forma di restituzione condivisa: “l’obiettivo del volume è quello di gettare luce in un terreno molto denso di voci e di opinioni, talvolta dominato da letture superficiali troppo tendenziose, non rispettose della complessità e della problematicità proprie di un oggetto in continuo divenire” (Alliegro 2014, p. 25). Mazzeo afferma che: Il successo [di una etnografia militante] risiede nella capacità di trasmettere e dare spazio a narrazioni che esprimono un punto di vista critico e differente rispetto a quello dominante. Il fallimento consisterebbe nell’incapacità e/o impossibilità di rendere fruibile sul piano pubblico e sociale il contributo che uno studio etnografico può dare alla comprensione di una problematica (comunicazione personale, aprile 2019).

Il problema dell’impatto della pubblicazione sul gruppo rappresentato in alcuni casi si pone già in fase precoce, ad inizio ricerca: il contesto studiato cerca di valutare cosa e come scriverà l’etnografo, con quali tratti e toni verrà descritto il circuito attivista. A volte, se si sente sintonia, si ipotizzano e vagliano eventuali momenti in cui divulgare o applicare delle parti del lavoro etnografico in corso. Quando invece ci sono attriti o non si sviluppa simpatia reciproca, la rappresentazione che verrà restituita può diventare fonte di tensione prima ancora che venga formulata. Gretel Cammel-

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li (2015) spiega, ad esempio, che già nelle prime settimane della sua indagine presso Casa Pound a Roma, il movimento, ora partito, ha richiesto di visionare le note di campo. Il rifiuto della ricercatrice è stata una delle cause che ha esacerbato la tensione che ha portato alla precoce interruzione del coinvolgimento etnografico. Altri studiosi che si erano invece resi disponibili a farsi correggere durante la fase di ricerca quelli che venivano presentati come errori di comprensione da parte della leadership neofascista e, successivamente, a concordare con Casa Pound la versione da divulgare, hanno avuto un accesso al contesto più agevole e prolungato. Dinamiche meno autoritarie ma comunque individuabili come un controllo indiretto sul ricercatore da parte del gruppo studiato possono prendere la forma di richieste di schierarsi pubblicamente, ad esempio chiedendo al ricercatore di intervenire in momenti pubblici. Se questo può non essere problematico in molte relazioni etnografiche, in altre costringe il ricercatore a capire quale tipo di narrazione ha senso proporre, in modo da non compromettere la relazione etnografica. Il ricercatore, a osservazione ancora in corso, tendenzialmente è più a suo agio a presentare le sue riflessioni preliminari in contesti accademici in cui sente di poter esporre dubbi e perplessità senza incorrere nel rischio di ritorsioni da parte del contesto studiato o, in casi estremi, nella interruzione della disponibilità del gruppo ad accogliere il ricercatore. Se quindi durante la ricerca si intravedono già, in alcuni casi, potenziali tensioni queste tendono ad emergere in modo più pronunciato con le pubblicazioni, a indagine ormai chiusa. Non a caso molti articoli, tesi di dottorato, pubblicazioni contengono passaggi che spiegano ai lettori, ma spesso sembrano scritti con una particolare attenzione a quelli che sono stati gli interlocutori nella fase di indagine, perché l’autore ha scelto una certa impostazione nella narrazione. Queste dichiarazioni di posizionamento rispetto al contesto studiato possono variare dalla piena ed entusiastica adesione alla motivata presa di distanza su certi aspetti, dalla dichiarazione della importanza di adottare una postu-

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ra critica anche in contesti di cui si condivide la tensione etica alla aperta divergenza. A volte quindi prendono la forma di attestazioni di stima, altre di spiegazioni, rassicurazioni o giustificazioni, altre ancora di preventiva difesa da accuse, in particolare quella di aver ‘tradito’ la familiarità e l’amicizia del circuito degli attivisti. La preoccupazione per eventuali “disturbi” che potrebbe provocare la ricerca, blocca, per ora, Senaldi da condurre una indagine etnografica sulla realtà politica a lui più prossima: Ho avuto in mente per brevi periodi di studiare l’organizzazione di cui faccio parte [un centro sociale bolognese]. Quello che mi interessava mettere in luce sono i principi che la sorreggono, i linguaggi e le culture che la strutturano, i passaggi comunicativi e relazionali che la attraversano. Non escludo di farlo in futuro, ma per ora ho preferito accantonare la cosa per questioni di opportunità, non so come rendere fruibile la cosa senza arrecare il benché minimo disturbo ad un progetto politico (comunicazione personale, luglio 2019).

Losardo (2018, pp. 49, 46), spiega, in uno di questi passaggi autobiografici-metodologici, come la creazione di una familiarità etnografica, nel suo caso concessa dalla RIVE (Rete Italiana Villaggi Ecologici), si trasformi in una richiesta implicita di allineamento e come questa, a sua volta, faccia sorgere nell’etnografa una particolare cautela per non tradire le aspettative. In generale […] una maggiore familiarità crea un vincolo di fiducia più stretto tra l’antropologo e il suo informatore, poiché si basa su una comunanza socio-culturale e/o emozionale che non prevede tradimenti […] Accade spesso infatti che dal ricercatore, essendo questi considerato un “locale”, ci si aspetti un coinvolgimento politico e morale maggiore con le tematiche rinvenute sul campo, e che un’eccessiva imparzialità scientifica o un’osservazione poco partecipata siano percepite come forme di noncuranza o tradimento […]

In modo simile, Viola (2015, p. 24) racconta che “l’inclusione all’interno dell’attivismo lgbt [in Kenya] è stata in

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qualche modo ‘pilotata’ e ‘decisa’ dai miei interlocutori che mi hanno posta davanti a delle scelte etiche e a delle prove di fedeltà”. A volte emergono tensioni e sia l’onestà intellettuale che il rigore scientifico impongono di narrarle come parte dell’esperienza etnografica. Con delle ovvie accortezze, come ricordano Juris e Khasnabish (2013a, p. 4) Per l’etnografo impegnato, l’obiettivo di produrre testi non è mai finalizzato solo a svelare conflitti interni e tensioni; l’etnografo produce anche comprensioni critiche che possono aiutare gli attivisti a sviluppare strategie per superare ostacoli e barriere che limitano una organizzazione efficiente.

Anche Boni (2017, p. 7) si sofferma sulla nozione di tradimento, conseguenza di una intimità permessa ad un ricercatore che però nel corso della ricerca si rende conto di provare simpatie rispetto a degli ideali e obbiettivi politici ma anche evidenti e profonde divergenze su come ottenerli. L’autore presuppone che la resa pubblica della indagine non sposi le aspettative degli attivisti e quindi usa preventivamente i ringraziamenti come risposta a potenziali accuse. Boni giustifica quella che può essere percepita dagli attivisti di quartiere del PSUV come una rappresentazione compromettente con la necessità di far avanzare, attraverso l’individuazione di incongruenze, un sapere critico indispensabile rispetto a finalità che ricercatore e attivisti condividono, il consolidarsi di poteri orizzontali ed inclusivi. Distanziarsi dalle auto-rappresentazioni rassicuranti degli attori sociali e metterne in rilievo le ipocrisie può essere visto come il tradimento di una amicizia concessa, ma sono fermamente convinto che sia invece un passaggio imprescindibile nel faticoso percorso di costruzione di una coerenza tra l’orizzontalità proclamata e quella effettivamente praticata. La costruzione di un sistema politico in cui ognuno detiene una uguale dignità e una pari importanza richiede una continua messa a punto di critiche costruttive e necessita di sincerità e trasparenza. Questo libro è un dono sincero anche se può essere visto come un dono avvelenato.

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Per capire il valore di svelamenti e critiche si deve intendere la restituzione in modo più complessivo rispetto ai benefici che può generare nello specifico contesto dove è stata condotta la ricerca: le riflessioni e gli stimoli critici possono contribuire ad un processo di ripensamento, e quindi acquisizione di consapevolezza ed efficacia, che cerca risonanze politiche in mobilitazioni dal basso varie e disperse, trovando però nuove insidie. La questione principale per me è stata quella di come affrontare i “limiti” e le “contraddizioni” del movimento di cui faccio parte non attraverso le lenti della frustrazione personale o del tentativo di cambiamento interno come attivista ma della ricerca accademica. Chiaramente questa tensione ha a che fare con il fatto che l’etnografia, in quanto forma di scrittura, presuppone un pubblico di lettori, un pubblico che nella maggior parte dei casi è altro rispetto ai gruppi che studiamo. Nel caso di movimenti sociali […] fare ricerca con quel pubblico in mente, invece che esclusivamente con referenti interni al movimento può facilmente creare una forte tensione tra la sensazione di “lavare i panni sporchi in piazza” da un lato, e venire meno ad una forma di onestà intellettuale verso i miei lettori e lettrici dall’altro (Claudio Sopranzetti, comunicazione personale, dicembre 2019).

4. Rischi della etnografia militante Un aspetto legato alla restituzione militante che purtroppo è diventato di attualità nell’ultimo decennio sono i pericoli che genera per gli etnografi e le limitazioni a cui è soggetta. Prendere una posizione politica esplicita, come attivista o anche solo simpatizzante di un movimento, espone l’etnografo a dei rischi. Spesso i movimenti con cui si muovono gli etnografi hanno relazioni tese con la controparte (principalmente istituzioni e poteri economico-finanziari) che può reagire in modo più o meno minaccioso. L’impegno antifascista di Gretel Cammelli (2015) significa che le presentazioni della etnografia su Casa Pound possono attirare le attenzioni in-

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desiderate e potenzialmente violente dei neofascisti. Senaldi racconta che nel corso della ricerca in Val Susa, mi sono imbattuto spesso nelle maglie del controllo poliziale e giudiziario, in un mese sono stato fermato dalle Forze dell’Ordine una quantità spropositata di volte considerato che ero un libero cittadino che girava, senza commettere delitti, all’interno della propria nazione […] [con il rischio che] sequestrassero tutto il materiale raccolto durante l’etnografia (comunicazione personale, giugno 2019).

Mazzeo, che, a differenza di Senaldi, mantiene un profilo da ricercatrice più che da attivista dei movimenti contro l’amianto in Brasile, è stata confrontata con ostilità da chi era legato alla industria.3 Boni è stato convocato in questura dove è stato interrogato sulla identità delle persone che lo avevano invitato a presentare un libro in uno spazio occupato. Sono fastidi più o meno grandi, comunque preferibili al coinvolgimento giudiziario, fenomeno emerso con clamore negli ultimi anni. Ci sono stati recentemente occasionali ma significativi episodi di repressione giudiziaria di ordinarie pratiche di osservazione partecipante in contesti ritenuti sovversivi. Non viene perseguitata tanto la ricerca in generici contesti illegali quanto quella presso forme di antagonismo ritenute pericolose dalle istituzioni: si può far ricerca etnografica tra i venditori ambulanti o gli spacciatori senza timore di essere coinvolti nelle inchieste ma la partecipazione ai movimenti sociali nel 2016 ha attirato l’attenzione delle autorità giudiziarie. Per essere catalogati come attivisti, e criminali, basta essere presenti nel corso di mobilitazioni che evadono i rigidi canoni legislativi sull’attivismo lecito. Una volta identificati tramite filmati e fotografie che immancabilmente 3 Agata Mazzeo, “Amianto mata: um outro mundo sem amianto é possível”, Le implicazioni di una ricerca etnografica condotta con gli attivisti del movimento anti-amianto in Italia e Brasile, V Convegno Nazionale SIAA, Panel 1: Anthropology of Disasters between Public Commitment and Collaboration, Catania 14-17 dicembre 2017.

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documentano le presenze ai cortei, scatta la denuncia. A Torino, nell’ambito delle iniziative giudiziarie contro il movimento No-Tav, viene celebrato un processo che vede, tra gli altri, imputate Roberta Chiroli e Franca Maltese due etnografe denunciate per avere presenziato, nel corso del loro periodo di ricerca sul campo in Val di Susa, a una manifestazione conclusasi con l’occupazione di un cantiere. Roberta Chiroli (2017) verrà condannata per “concorso morale” in quanto nella sua tesi, a differenza degli scritti di Maltese, appare il “noi partecipativo”, ovvero una opzione stilistica di narrazione comunemente usata: la prima persona plurale serve per indicare congiuntamente l’etnografa e i soggetti del contesto in cui si conduce la ricerca. Sempre nel 2016 Enzo Vinicio Alliegro viene rinviato a giudizio (si ipotizza il concorso nel reato di interruzione di servizio pubblico) per essere stato presente alla occupazione dei binari di una stazione da parte del movimento pugliese contrario alla rimozione coatta degli ulivi. Alliegro è immortalato da una fotografia fuori dai binari, con macchina fotografica e taccuino, strumenti di ricerca che non lo hanno tutelato. Nei casi menzionati quello che da fastidio agli organi di controllo dello Stato è la sinergia tra liberi percorsi di ricerca e mobilitazione politica condotta al di fuori dei canali istituzionali. Non ci pare moralmente corretto invocare l’immunità giudiziaria per gli etnografi; chi si immerge in indagini partecipate dovrebbe essere pronto a condividere le responsabilità dei manifestanti. Il discernimento dovrebbe operarlo il giudice, distinguendo chi ricerca da chi lotta (anche se a volte come abbiamo spiegato non è semplice); se non è in grado o non vuole operare distinzioni, la conseguenza è un evidente e rilevante danneggiamento della libertà di ricerca. Da evidenziare che nei casi citati sopra, gli effetti più rilevanti non riguardano tanto le vicende giudiziarie dei singoli etnografi ma le dinamiche, più o meno consapevoli, di auto-censura che generano in colleghi, ricercatori e studenti: gli organi dello Stato impongono così una distinzione tra temi di ricerca legittimi e illeciti che viene almeno in parte interiorizzata.

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I rischi a lungo termine a cui è soggetta la ricerca etnografica militante sono però legati oltre che alle implicazioni giudiziarie, al diffondersi del precariato, alla privatizzazione delle università, alla progressiva burocratizzazione della ricerca e al discredito pubblico gettato sulle indagini militanti. La graduale ma decisa trasformazione dell’università da istituzione finalizzata a generare e diffondere sapere scientifico per un beneficio pubblico in ente di ricerca soggetto alle norme della produttività economica ha delle conseguenze enormi sulla libertà di ricerca. I fondi di ricerca vengono destinati sempre più verso progetti condotti in sinergia con grandi istituzioni che hanno un evidente beneficio in termini di ritorno economico (Fumagalli 2017; Palumbo 2018). La scarsità di risorse, soprattutto per discipline come l’antropologia ritenute poco redditizie secondo i canoni di produttività contemporanea, soprattutto se fiancheggiano soggetti marginali, genera un diffuso ed esteso precariato dei ricercatori che consente di prolungare i dispositivi di controllo della produzione accademica in modo da favorire indagini su temi più facilmente finanziabili e inibire così un esplicito posizionamento politico dei ricercatori. Le emergenti politiche di capillare rendicontazione delle attività accademiche che investono un numero crescente di università, soprattutto nel mondo anglosassone, richiedono complicati procedimenti burocratici parte di una dilagante audit culture (Van Aken 2017). Queste hanno ripercussioni anche sulla ricerca etnografica ed in particolare su quella politicamente sensibile. In alcune università il protocollo impone all’etnografo di comunicare, prima di partire, i luoghi che frequenterà e le persone con cui parlerà. Al ritorno è tenuto a mostrare una liberatoria firmata che certifichi il consenso informato dell’interlocutore per ogni “dato” prodotto, anche un fugace colloquio. Se implementate sistematicamente queste direttive segnerebbero la fine della spontaneità ed informalità della ricerca etnografica così come è stata praticata finora ma sarebbero particolarmente penalizzanti per chi fa ricerca in contesti politicamente sensibili dove la garanzia

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dell’anonimato e l’immediatezza non burocratizzata della relazione sono indispensabili per favorire il flusso comunicativo che nutre l’etnografia. Un ultimo pericolo da segnalare è il discredito pubblico per l’etnografia che assume toni militanti. Questa tendenza può essere esemplificata brevemente prendendo in esame le reazioni a due ricerche. Barnao e Saitta (2014) pubblicano un saggio sull’addestramento delle forze armate e i processi di trasmissione culturale nell’esercito. Veterani delle forze armate e quotidiani di destra iniziano un prolungato attacco a base di articoli, blog dedicati al saggio e petizioni per il licenziamento dei due studiosi. Negli USA l’indagine di una ricercatrice che rivelava, con intimi ed empatici dettagli etnografici, il contributo del sistema giudiziario e della polizia nella produzione della criminalità tra gli afro-discendenti, viene attaccata pesantemente, arrivando a metterne in dubbio la veridicità e sollecitando provvedimenti giudiziari. Nonostante la Goffman (2014) sia stata acclamata e premiata per la qualità della indagine, i critici si sono basati sul resoconto etnografico dell’autrice, come nel caso Chiroli, per accusarla di aver preso parte a crimini. Il dibattito che segue la pubblicazione è teso a screditare l’attendibilità della etnografia, in particolare di quei passaggi che per ragioni di salvaguardia dell’anonimato e di sensibilità della tematica trattata, come in molte etnografie militanti, si fonda sul coinvolgimento personale dell’etnografo e omette precisi riferimenti fattuali.

Capitolo settimo I dilemmi della ricerca collaborativa

Il lavoro etnografico, soprattutto in contesto militante, implica e richiede sempre una collaborazione con il circuito studiato. A volte, soprattutto quando la sinergia personale e politica tra ricercatore e contesto è accentuata, si elaborano forme di condivisione del progetto di ricerca di una intensità inusuale, mettendo in discussione alcuni degli assunti epistemologici fondamentali del processo di indagine, in primis la distinzione tra un soggetto che conduce la ricerca dalla posizione di ‘esperto’ competente nelle metodologie delle scienze umane ed un contesto sociale oggetto della indagine. La dicotomia tra un soggetto ricercante attivo e un gruppo studiato passivo diventa particolarmente problematico nella etnografia militante principalmente per due ragioni. La prima è che questa contrapposizione riproduce un’evidente e incolmabile disparità di autorità nella generazione di rappresentazioni tra chi scrive e chi viene descritto che può essere ritenuta inaccettabile da chi è politicamente impegnato nel promuovere una gestione del potere orizzontale. Lo studio condotto da un cattedratico indisponibile a negoziare metodologie e forme di restituzione è, in contesti politicamente densi, spesso metodologicamente impraticabile e politicamente sospetto, in quanto nega dignità agli interlocutori della ricerca. La seconda problematicità è che la divisione tra etnografo ed oggetto di indagine è già stata superata attra-

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verso il posizionamento ibrido, ricercatore e militante, che se non fa collassare del tutto le distinzioni tra i due ruoli, le ibrida: la figura del ricercatore che pretende di essere il detentore esclusivo della narrazione oggettiva è stata estremamente rara nelle ricerche politicamente dense dell’ultimo decennio. L’esplorazione di produzioni di sapere frutto di una coinvolgente collaborazione tra ricercatore e circuito attivista non offre facili soluzioni; apre piuttosto questioni epistemologiche, politiche e metodologiche affrontate dagli etnografi militanti con diverse strategie e finalità di cui si darà conto in questo capitolo. 1. Produzioni collaborative di sapere Avallone (2017, p. 13) nel presentare la sua ricerca su migrazioni e agricoltura nella Piana del Sele, ragiona su come il vissuto etnografico e politico abbia trasformato la sua concezione della produzione scientifica. Quella che ho vissuto è stata un’esperienza complessiva che mi ha permesso di iniziare a superare visioni precostituite e pregiudizi, entrando in contatto più da vicino con la vita quotidiana, le opinioni, i sentimenti di tante persone, mentre, mano a mano, si è ridotta la separazione tra oggetto e soggetto di ricerca. La critica epistemologica a questa separazione, che riproduce un rapporto asimmetrico e di potere tra chi fa ricerca (il soggetto che parla) e chi è oggetto della ricerca (l’insieme delle persone e delle relazioni su cui si parla), mi ha aiutato a mettere in questione tale gerarchia, almeno a controllarne alcuni effetti, considerando quanto il dualismo cartesiano di oggetto-soggetto ha attraversato la mia formazione all’interno delle discipline sociali.

Queste considerazioni portano alcuni ricercatori a sperimentare percorsi di ricerca che sconvolgono le usuali distinzioni di ruoli. Il presupposto della collaborazione è ben spiegato da Peano: “gli obiettivi e gli strumenti di

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una ricerca militante non possono essere elaborati da un individuo ma devono essere il prodotto di relazioni e riflessioni collettive, questo è il discrimine” (comunicazione personale, luglio 2019). La volontà di condividere non solo i risultati ma la pianificazione della ricerca, sorge in genere quando l’identificazione tra etnografo e contesto militante è più forte; l’indagine, come nel caso di Senaldi, viene concepita come una “con-ricerca”: La ricerca non può aiutare a colmare la distanza tra intellettuali/attivisti e coloro per cui questi dicono di lottare, semplicemente perché non c’è distanza, l’essere militante è una questione che, se vista in modo coerente e genuina, sovrasta il resto. Non è la ricerca a colmare la distanza, ma sono impegno, dedizione e una scelta reiterata nel quotidiano (comunicazione personale, luglio 2019)

Olivieri (2016, pp. 4-5) nella sua ricerca su SOS Rosarno, una campagna per promuovere la sovranità alimentare come obiettivo e l’autogestione mutualistica della produzione come strategia d’azione, propone, in linea con altri etnografi collaborativi, una “co-produzione di sapere portata avanti con gli attori implicati nel progetto [in quanto] la scelta più coerente rispetto al tema di studio”. La partecipazione dei soggetti di indagine alla ricerca consiste principalmente nell’impegno del ricercatore a tenere un dialogo costante tra visione dei protagonisti e ipotesi analitiche. Per co-produzione intendo la verifica incrociata tra ipotesi teoriche e categorie analitiche […] Da un lato, utilizzo le ipotesi teoriche per collocare le pratiche e i discorsi degli attori in una prospettiva sistematica, facendone emergere le assunzioni implicite. Dall’altro lato, impiego i documenti pubblici e l’autocomprensione dei protagonisti stessi per confermare la validità delle categorie analitiche assunte.

La co-produzione di Olivieri (2016) è limitata, rispetto ad altre forme di ricerca collaborativa, in quanto rimane un’evidente impostazione autoriale e una finalità scientifica.

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Il coinvolgimento può diventare più intimo se la selezione delle narrazioni è frutto di un paziente lavoro di negoziazione come nel caso della ricerca di Staid e Cogni (2018) finalizzata ad una ethnographic novel. […] abbiamo fomentato la discussione politica con i nostri interlocutori e interlocutrici sul campo, abbiamo creato una forte condivisione dei temi e della costruzione delle loro storie, non abbiamo intervistato, sbobinato e pubblicato, ma per quattro anni abbiamo frequentato diciotto persone, ci siamo raccontati vissuti, emozioni, lotte, immaginari; lo abbiamo fatto durante cene, presidi, manifestazioni, traslochi, case del rifugiato, laboratori e insieme abbiamo deciso come rappresentarci “noi” e “loro” nel libro […] Per essere ancora più chiaro non siamo stati noi ricercatori a decidere cosa raccontare, lo abbiamo capito tutti insieme (Andrea Staid, comunicazione personale, giugno 2019).

Anche Olmos Alcaraz e altri (2018, pp. 154, 155) parlano di “co-investigazione” corale e di “etnografia collaborativa” in termini impegnativi in quanto l’inchiesta, sia nei contenuti che nelle metodologie, viene negoziata continuamente con il circuito studiato, i comitati contro gli sfratti di Granada. Si tratta di un processo che si fonda sulla democratizzazione della produzione di sapere […] consiste nel creare sentieri comuni tra ricercatori e gruppi studiati, camminando e lavorando insieme per la ricerca e l’azione […] Questa forma di produzione di sapere implica un impegno a realizzare gli obiettivi fissati dai movimenti sociali mettendo al loro servizio la pratica della ricerca, la diffusione del sapere e l’insegnamento (Sebastiani e Cota 2018, p. 57).

Questo allargamento del protagonismo nella conduzione dell’indagine richiede che il ruolo dell’antropologo come detentore di un “sapere esperto” sia messo in discussione fino al suo dissolvimento a favore di una costruzione polifonica di un programma di ricerca e azione mediante pazienti processi assembleari. Il gruppo di ricercatori parte dalla convinzione

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che la “nostra responsabilità politico-epistemica richieda di non anteporre né progettare a priori una scaletta (piano di lavoro, anche se pensato e rappresentato come una mera ‘tabella di marcia’) senza conoscere e condividere prima ciò che è più appropriato e risponde meglio a ciascun gruppo” (Olmos Alcaraz e altri 2018, pp. 154, 155, 158). La ricerca collaborativa viene contrapposta ad un’altra condotta nello stesso contesto di movimento e finalizzata a documentare l’impatto psicologico degli sfratti mediante oltre duecento questionari esaminati da cattedratici; sebbene abbia “obbiettivi rispettabili” quali “rendere pubbliche le conseguenze drammatiche degli sfratti e di rinvigorire la legittimità della lotta” viene criticata sia per i risultati, in quanto produce “narrazioni un pò ‘vittimizzanti’”, sia per l’impianto teorico, in quanto si fonda su “una conoscenza compresa e istituita dallo stesso ordine egemonico” ovvero “le relazioni di potere esistenti in università” e su “modelli scientisti di produzione di sapere”; quindi genera “un interesse limitato per ciò che concerne la democratizzazione della produzione della conoscenza” (Sebastiani e Cota 2018, p. 60). Il gruppo di ricerca militante propone invece di coniugare la produzione di “conoscenza utile” per il movimento contro gli sfratti con una modalità di produzione del sapere “più collettiva e orizzontale possibile, cercando di mettere in discussione la dicotomia tra ‘soggetti’ e ‘oggetti’ della ricerca” (Sebastiani e Cota 2018, p. 62). Nel caso in questione, si decide di focalizzarsi sulla registrazione delle narrazioni e la pubblicazione di storie relative agli sfratti per generare “materiali creativi, aperti e collaborativi” in vari formati (archivi visuali, documenti sonori, interventi pubblici, siti internet) di facile utilizzo. Lo scopo principale non è stata la produzione di discorsi da essere analizzati unilateralmente da noi come accademici ma piuttosto la produzione di materiali sui quali il gruppo stesso potesse riflettere […] in modo da migliorare l’efficacia organizzativa/ politica del gruppo e anche generare una ‘contro-storia’ dello stesso movimento, sorretta dalle voci dei protagonisti. Una idea, quindi, diametralmente opposta

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all’approccio estrattivista che aveva caratterizzato la ricerca psicologica (Sebastiani e Cota 2018, pp. 62, 63).

Questa impostazione si prefigge l’obiettivo di sostituire il protagonismo di un sapere etnografico esperto con un’alleanza tra partners epistemici e politici con l’intenzione di massimizzare la restituzione: “il minimo grado di collaborazione richiede di ‘restituire i risultati’ e il massimo grado è quando la ricerca appartiene a quelli che conducono le pratiche collaborative e orizzontali in tutti gli stadi del processo di indagine” (Sebastiani e Cota 2018, p. 65). 2. Dissoluzione del sapere esperto? In una prospettiva di etnografia militante allineata senza riserve sulle dinamiche del contesto studiato, la ricerca collaborativa è non solo una opzione pensabile ma coerente con la volontà di passare da subito, anche nella produzione del sapere, da una logica specialistica e verticale ad una partecipata e orizzontale. La ricerca collaborativa militante è anche una risposta epistemologica e politica alla concentrazione di potere associata all’autorialità (Geertz 1990; Clifford e Marcus 1997), sperimentando rese etnografiche che, rispetto alle etnografie postmoderne (Behar 1996; Crapanzano 1980; Dweyer 1982), evitano derive personaliste permettendo di mantenere un saldo orientamento su dinamiche collettive (se sono biografie, sono un mosaico biografico) e di affrontare, al contempo, gli squilibri di potere non solo nella scrittura ma in tutte le fasi del processo di costruzione del sapere. Sebbene teoricamente accattivante e politicamente coerente, l’etnografia collaborativa, intesa come dissoluzione del sapere esperto, rischia, se condotta come unica modalità di indagine, di cancellare le competenze specifiche, le intuizioni personali del ricercatore e la conoscenza approfondita di studi comparativi su contesti analoghi (vedi capitolo 3): Quale è il ruolo e l’apporto dell’etnografo nel corso di una indagine

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se non quello di detentore di un “sapere esperto”? Se non agisce in base alle sue competenze specifiche, acquisite con un apprendistato pluriennale, quale è il suo contributo? Si limita ad essere un attivista tra gli altri anche quando è in corso una ricerca qualitativa? Ci si da il turno nella conduzione delle interviste o nella stesura delle note? Chi cura il materiale raccolto per renderlo divulgabile? In breve, quanto ha senso pianificare e condurre la ricerca con il soggetto studiato e quanto invece è opportuno lasciare ambiti di autonomia metodologica al ricercatore? Non ci sono risposte univoche ma esperimenti in parte convergenti in parte peculiari in quanto innestati in contesti, sensibilità e relazioni variegate. Nel percorso di indagine che affianca la lotta contro gli sfratti a Granada si fa difficoltà a non immaginare un qualche tipo di “sapere esperto” attivato dai ricercatori nel proporre possibili temi di riflessioni, nel ragionare sulla adeguatezza delle scelte metodologiche, nel tagliare, ordinare e sistematizzare la documentazione raccolta. Il fatto che i processi di indagine siano condotti in una continua relazione con il contesto studiato non fa venire meno le specifiche competenze incorporate dai ricercatori e utili per il movimento. L’impressione è che il rifiuto del “sapere esperto” in quanto di per sé autoritario non tiene conto del fatto che in realtà le mobilitazioni dal basso delegano e utilizzano in continuazione le capacità esperte degli attivisti o di professionisti: c’è chi è più portato a redigere documenti, aprire pagine web, girare documentari, attivare contatti, facilitare e mediare il lavoro del gruppo, gestire seccature legali, comprendere dati tecnici. In tutti questi casi mi pare che si possa tranquillamente ammettere competenze specialistiche senza che ciò comporti l’instaurarsi di gerarchie: un “sapere”, anche quello etnografico, può essere esperto ma prestarsi comunque ad essere discusso e negoziato orizzontalmente. L’obiettivo del collasso della distinzione tra ricercatore e attivisti, fin dalla fase di indagine, è un posizionamento di una parte relativamente minoritaria nel campo della etnografia militante. Juris e Khasnabish (2013b, pp. 27, 374; cfr. Russell

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2014) che pur auspicano “etnografie radicalmente collaborative”, dichiarano “vogliamo sfidare e sconvolgere la relazione tra soggetto [ricercatore] e oggetto [movimento sociale] ma non far collassare questa divisione”. Difendono infatti la specificità delle competenze del ricercatore, e quindi un suo ruolo. Non concepiscono il lavoro etnografico come guidato interamente dalle esigenze del movimento: “rinunciando alla loro autonomia, i ricercatori possono compromettere la loro abilità di produrre analisi etnograficamente documentate che possono essere sia critiche come analisi che rilevanti strategicamente”. Tutelano quindi l’utilità di un sapere esperto nella forma di un “traduttore” e “tessitore”: colui che può “assumere vari ruoli partecipativi come quello di facilitatore, colui che mette in rete, mediatore, accompagnatore, produttore attivista di conoscenza, media-attivista indipendente, o interlocutore empatico” (Juris e Khasnabish 2013b, pp. 370, 372). 3. L’etnografo militante come traduttore, facilitatore e mediatore Casas-Cortés, Osterwill e Powell (2013, pp. 214, 199, 224225) si chiedono “se i movimenti sociali (e potenzialmente altri oggetti di ricerca) producono una buona mole di conoscenza ed analisi anche su loro stessi (e forse anche sul ruolo della ricerca), come contribuisce l’etnografo?”. E si rispondono: il ruolo della etnografia va concepita non in termini di spiegazione o rappresentazione, bensì di traduzione e tessitura, processi in cui l’etnografo è una voce o un partecipante in un campo affollato di produttori di sapere […] faremo bene a valutare come gli specifici punti di forza delle nostre pratiche etnografiche possano contribuire al lavoro dei movimenti sia nel quotidiano che sulla lunga durata […] questo può voler dire agire come esperto in una procedura giudiziaria sui diritti fondiari esplicitamente a favore di un movimento sociale; in altre occasioni può voler dire creare, definire e generare concetti; destabilizzare l’egemonia o l’apparente solidità dei saperi degli

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esperti; aiutare a sostenere la pluralità dei saperi; o essere il tessitore che costruisce conversazioni dentro conversazioni, allargando la partecipazione e approfondendo la comprensione.

In modo simile, Breda scrive: Non so immaginare un etnografo militante che lavori da solo e che sia lui a ispirare nuove pratiche. Le pratiche dovrebbero essere ‘performative’, cioè ‘prefigurare’ ciò che si vuole attuandolo, così diventano ispirazione. Ciò che fa da ponte in certi contesti, tra attori in conflitto, non sono tanto le persone, quanto le scelte dei movimenti (un’assemblea, un ricorso, uno sciopero) (comunicazione personale, giugno 2019)

Pozzi converge nel proporre per l’etnografo un ruolo di connessione e impulso per alternative possibili in un contesto di collaborazione con gli attivisti: […] l’etnografo militante dovrebbe fare […] il facilitatore. Dovrebbe, da un lato, cercare di trasmettere nella pratica quegli strumenti che promuovono il cambiamento (e non l’autoconversazione del sistema del movimento) e dall’altro avere l’accortezza di costruire questi strumenti con il movimento stesso e quindi costruire, se non la trova, la disponibilità da parte del movimento. Costruire quella relazione di fiducia che è alla base dell’etnografia, ti permette di fare questo.

Agata Mazzeo cerca un risvolto applicativo instaurando un dialogo interdisciplinare con “tecnici” della salute (medici del lavoro, epidemiologi e professionisti della salute pubblica), avvocati e ingegneri che si occupano dei disastri provocati dall’amianto, finalizzato alla pubblicazione di articoli scientifici su riviste openaccess, pensati per essere fruiti principalmente da attivisti e ricercatori impegnati nella lotta per la proibizione dell’amianto1. Inoltre, ritiene cruciale per la restituzione 1 A. Mazzeo, “Amianto mata: um outro mundo sem amianto é possível”, Le implicazioni di una ricerca etnografica condotta con gli attivisti del movimento anti-amianto in Italia e Brasile, V Convegno Nazionale SIAA, Catania dicembre 2017.

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mettere in rete e divulgare saperi tecnici mediante “progetti educativi e percorsi di cittadinanza attiva presso scuole pubbliche” e convegni intesi come occasione d’incontro fra ricercatori, amministratori, rappresentati sindacali e attivisti di varia provenienza nella lotta per la proibizione dell’amianto: Inteso come assemblea pubblica, aperta a tutta la cittadinanza, il convegno ha rappresentato non soltanto un momento in cui si è riconosciuto il ruolo dell’attivismo nella formazione del sapere biomedico e dell’evidenza epidemiologica riguardanti la cancerogenicità dell’amianto e la pervasività del disastro. L’incontro è stato esso stesso un momento di lotta, per il luogo in cui si è svolto (appartenente ad un’istituzione pubblica) e per il coinvolgimento di esponenti di tale istituzione a cui, una volta in più, è stata ribadita la necessità di affrontare un disastro che spesso permane non riconosciuto e avvolto dal silenzio e dall’invisibilità (Agata Mazzeo, comunicazione personale, aprile 2019)

Come illustra il caso di Mazzeo, il ruolo dell’antropologo militante come facilitatore del dialogo e della relazione tra attori e agenzie in conflitto tra loro enfatizza il lavoro costruttivo e non necessariamente anti-istituzionale e anti-autoritario della militanza antropologica. Mettere in luce le conseguenze dell’assenza di comprensione antropologica nelle logiche tecnocratiche è un compito fondamentale dell’etnografia militante. A maggior ragione, illuminare politici, tecnici e amministratori sui pregi di interventi e politiche inclusive, collaborative e antropologicamente informate costituisce un diretto riflesso dell’etnografia militante. Ovunque sia possibile, il ruolo dell’antropologo militante non è quello di proporre soluzioni di contrasto, lesive dei rapporti con le istituzioni anche perché generalmente questo non avvantaggia coloro che con queste istituzioni sono entrati in conflitto. La soluzione degli attriti non necessariamente prevede che ci siano vincitori e vinti, come sembrano presupporre alcune azioni sociali di stampo antagonista, o viceversa, reazionario. Come verrà meglio illustrato nel capitolo 10, un contributo

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significativo dell’antropologo sia sotto il profilo della ricerca collaborativa che sotto quello della militanza può essere quello di mediatore culturale in contesti di azione pubblica (con minoranze etniche come i rom, o anche nel lavoro con migranti, richiedenti asilo e rifugiati) per portare gli attori coinvolti nel conflitto a definire obiettivi e orizzonti comuni. 4. La restituzione come riflessività Molti lavori di etnografia collaborativa contemplano e incoraggiano un posizionamento riflessivo, ovvero sono tesi ad un’analisi critica del soggetto politico per individuare contraddizioni, limiti e blocchi in modo da poterli trasformare e superare. Pitzalis (2015, p. 36) solleva anche alcune problematiche comuni alla restituzione militante. L’antropologia […] come sapere critico, può essere usato come strumento auto-riflessivo dalle diverse soggettività rappresentate. Sviluppando una narrazione “partecipante” il ricercatore impegnato deve essere cosciente del potere delle sue parole e deve essere in grado di usare la sua abilità di essere ascoltato per promuovere cambiamenti in alcune strategie con l’obbiettivo di rendere più efficace il processo performativo condotto dagli attori.

In modo simile Braun (2013, p. 34) crede che “l’etnografo militante ha come obiettivo principale quello di […] scrivere un testo […] per le persone con cui sta costruendo un percorso” donando loro “i suoi strumenti teorici, oltre a quelli pratici, che ha costruito negli anni, perché li reputa fondamentali per poter migliorare e ridiscutere il contesto in cui partecipa attivamente”. Questi tentativi di stimolare la riflessività tornano però a mettere al centro l’autorialità e le competenze esperte dell’etnografo in quanto promotore di ottiche, letture, interpretazioni, critiche, frutto proprio delle conoscenze specialistiche acquisite, che potrebbero e dovrebbero contribuire alla crescita del movimento non solo in termini di forza ma anche di coerenza, efficacia, capacità di coinvolgimento.

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I contesti militanti vengono descritti da diversi autori come “altamente riflessivi” (Juris e Khasnabish 2013b, p. 372) ma non si può dare per scontata la loro capacità e volontà di cogliere stimoli finalizzati a mettersi in discussione, ripensarsi, alterare dinamiche relazionali a volte sedimentate e sclerotizzate. Russell (2014, pp. 2, 5) ad esempio spiega che la ricerca militante è il conscio e intenzionale tentativo di far muovere i movimenti attraverso una critica riflessiva (addirittura dialettica?) delle loro pratiche […] Il processo è stato finalizzato a capire e costruire questa posizione-problema – interrogare e costruire una comprensione dei limiti della ‘nostra’ pratica – con l’intenzione di superarli e liberarsene. In altre parole, l’intenzione della ricerca è stata di contribuire alla interpretazione e trasformazione della pratica del movimento […] Per gli attivisti dei movimenti che intendono andare avanti con le stesse modalità, il contributo della ricerca può essere una scocciante o potenzialmente distruttiva distrazione dagli obbiettivi prefissati e quindi forse da respingere come ciarle intellettuali o una perdita di tempo. Dall’altro lato, ci saranno attivisti che saranno ricettivi rispetto ai contributi riflessivi, condivideranno la posizione-problema e collettivamente cercheranno nuove pratiche che permettano di rispondere e oltrepassare la questione.

L’etnografia collaborativa tende ad essere riflessiva in modo più indulgente, rispetto a quello proposto da Russell che prevede che uno sguardo esperto ed esterno possa sollevare questioni anche scomode. La riflessività è una risorsa potenzialmente feconda ma anche pericolosa perché rimette in discussione forme organizzative, modi di fare ormai dati per scontati, gerarchie formali e informali. Van Aken ritiene importante portare le critiche, spesso non in modo diretto, alle pratiche e strumenti che utilizzano gli attivisti. Il rischio è smontare un lavoro […] ma mostrare cosa non vedono con certe chiavi di letture, senza la presunzione di dare verità e giudizi, spesso è stato utile per ripensare le pratiche: spesso, facendo il giro più largo dell’antropologia, mostrandogli dei casi di lotta altrove per riflettere sulla propria (comunicazione personale, luglio 2019)

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Questo approccio, per quanto condotto con tatto, rischia di scatenare reazioni che inevitabilmente coinvolgono l’etnografo che lo propone. Per molti ricercatori, la propensione alla riflessività del gruppo studiato è indispensabile per generare una collaborazione reciprocamente feconda. Il percorso di ricerca e restituzione di Giacomo Pozzi (2017) è particolarmente interessante per capire i meccanismi virtuosi che possono innescarsi quando c’è una volontà riflessiva. Giacomo si reca in un quartiere auto-costruito e sotto sfratto nella periferia di Lisbona su richiesta di un collettivo di attivisti-ricercatori che, una volta valutata la sua pratica etnografica, gli chiede una analisi critica e riflessiva sul fallimento delle strategie di resistenza gli piaceva come lavoravo, hanno capito quale era il mio posizionamento. Mi hanno detto: ‘Perché già che lavori non fai l’uomo sul terreno del collettivo? Lavora per la gente [sotto sfratto] ma anche per il collettivo. Porta la voce delle persone ma riporta anche la nostra prospettiva alle persone’ […] La mia presenza ha rinvigorito le relazioni. Richiedevano di fare questo tipo di lavoro per rispondere alla domanda: ‘Dove abbiamo sbagliato? Perché abbiamo fallito se sono quindici anni che ragioniamo di questa cosa?’

Una volta terminata l’indagine, il collettivo traduce le parti della tesi ritenute rilevanti e distribuisce il testo sia agli altri movimenti sociali portoghesi per il diritto alla casa sia agli abitanti dei quartieri sotto sfratto “mostrandosi nudi: ‘Noi abbiamo questi limiti che una persona che veniva da fuori ha notato. Ragionate con noi su questa cosa’”. Vengono organizzate presentazioni pubbliche all’interno di una carovana per il diritto all’abitare che passa per quartieri auto-costruiti in fase di demolizione con l’intento di capire, a partire dall’etnografia, cosa non avesse funzionato per non ripetere gli stessi errori: “È stato molto emozionante Dopo quasi quattro anni dalla mia ricerca ho visto chiudere il cerchio. Ho capito che quel tipo di ricerca aveva avuto successo, mi è sembrato che avesse avuto successo”. Quando Pozzi passa a

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far ricerca sui movimenti contro gli sfratti a Milano le dinamiche che si instaurano sono meno propense alla riflessività A Lisbona io sono stato invitato a farla [un’analisi scomoda e riflessiva], a Milano mi hanno segnalato che se avessi […] fatto un’analisi critica della relazione tra il movimento e le persone con cui lavoravano, non avrei potuto più operare con il movimento. Due posizioni molto diverse del movimento di pensare se stesso e di voler crescere o di voler tenere quel poco che hai per farne qualcosa. Da un lato a Lisbona la volontà di cambiare strategia […] a partire anche dall’aiuto di una persona che viene da fuori e che pensi ti possa dare una mano, dall’altra un’idea di movimento molto più chiuso in se stesso, molto più conservatore […] [La fecondità dell’etnografia militante] non è forte quanto potrebbe essere se il movimento fosse disposto a ragionare criticamente su certe questioni, ad accettare il fatto che ci siano delle questioni. È questo dal punto di vista del movimento, secondo me, la cosa più complessa: accettare il fatto che le stesse dinamiche che tu problematizzi all’esterno del movimento, che critichi e che lotti, le riproduci.

Se l’etnografia militante con più decisione rispetto ad altri settori dell’antropologia si apre a forme di collaborazione queste rimangono ancora estremamente variegate e sperimentali. Piuttosto che offrire una direzione chiara, la co-ricerca nelle etnografie militanti rimane un dilemma che ha visto risposte diverse sia per ciò che concerne l’intensità della cooperazione (e quindi quanto vada collettivizzato il processo di ricerca), sia per il ruolo dell’etnografo nel circuito attivista (azzerare dislivelli di potere; agire da facilitatore o mediatore; innescare pratiche riflessive). In questo decennio ci sono stati tentativi che offrono possibili opzioni, ciascuna con le sue potenzialità e i suoi limiti, su come mettere in discussione una distinzione tra soggetto che conduce la ricerca e oggetto che viene passivamente indagato, una dicotomia che in diversi ambiti di ricerca etnografica, ma con una particolare enfasi per quello militante, è sempre più difficile difendere e legittimare.

Capitolo ottavo La prassi della restituzione tra istituzionalizzazione e militanza

La “torre di avorio” è sempre stata la metafora usata per indicare un mondo accademico auto-referenziale. Pare però che nell’ultimo decennio l’idea di un sapere accademico “puro”, pensato senza applicazioni immediate, viene sempre più frequentemente screditata in nome di una logica imprenditoriale di investimento e ritorno finanziario o di immagine. Considerare la ricerca accademica come uno “spreco di risorse” è diventato un luogo comune. Queste richieste di “utilità” e di “applicabilità” non sempre si distinguono in modo netto dalle pratiche di restituzione attivista militanti. Si tratta di una sovrapposizione di concetti e ruoli che può portare a una certa confusione. In questo capitolo si cerca di sfatare alcuni miti in relazione all’accostamento tra richiesta di utilità e prassi accademica militante, distinguendo tra forme di restituzione più istituzionale e quelle più militanti o attiviste che implicano un potenziale emancipatorio. Il politologo Marcelo Svirsky (2010, p. 163), nel suo tentativo di definire attivismo, pone l’accento alla capacità di “generare nuovi enunciati collettivi che erodono il senso comune e fanno muovere le strutture dalle loro identità sedentarizzate”. La sua enfasi deleuziana, per così dire, sulla potenzialità generatrice ritorna particolarmente significativa anche per le pratiche di restituzione. Per Svirsky, queste

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sperimentazioni assumono un valore se tendono a infrangere l’equilibrio dello status quo invece di perpetuare, nell’uno o nell’altro modo, l’equilibrio di potere egemonico. In questa ottica diventa però anche necessario sfatare il mito secondo il quale la restituzione in sé costituisca già un’attività progressista o liberatoria. È quindi possibile riflettere su diverse forme di restituzione e l’importanza di una distinzione tra “utilità” e “necessità” accademica. 1. Il sapore sciapo dell’accademia? Uno degli auspici di molti studiosi con intenti attivisti è quello di contrastare l’apparente inerzia autoreferenziale del mondo accademico. Molti attivisti e militanti cercano di contrastare la delegittimazione della etnografia militante considerata non abbastanza distante o critica nei confronti dell’oggetto di ricerca. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, tale posizione impegnata prende la sua forza in gran parte dall’onda post-positivista e post-strutturalista nelle scienze sociali. È in questo quadro in cui si collocano molti giovani studiosi che aspirano a conferire importanza, valore e sapore alla propria attività. Ci si immagina l’utilità e una applicabilità più o meno immediata del proprio lavoro. È senz’altro seducente immaginare di lavorare in prima fila, a fianco di attivisti, organizzazioni non governative o movimenti impegnati su temi urgenti e drammatici. Non mancano cause per cui lottare: attuare politiche migratorie più umane; organizzare l’opposizione ad un qualche mega-progetto, sia esso una diga, un treno ad alta velocita o una base militare; difendere uno spazio auto-gestito; fermare conflitti e soprusi di carattere militare e poliziesco in zone remote del piane. Tuttavia, anche attivisti non proprio alle prime armi, di fronte alla sfida di mettere a frutto la ricerca, si trovano non di rado travolti da ostacoli inaspettati. Si trovano in mezzo a tensioni imprevedibili oppure calcoli sbagliati sulla platea di soste-

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gno. Altre volte l’interesse da parte dei soggetti alla propria ricerca viene sopravvalutato: si scopre che in realtà agli altri attivisti importa relativamente poco della rassegna di lettura o delle riflessioni astratte che caratterizzano spesso la scrittura di una tesi di dottorato o di laurea. Altre volte ancora, invece si scopre una “utilità” inaspettata della ricerca, in modi imprevisti. Ad un ricercatore viene richiesto di mediare tra diversi frangenti di un movimento oppure viene chiesto, qualche volta ad anni di distanza, di conferire legittimità alla causa di una lotta dal basso di fronte alle istituzioni. Il ri-orientamento politicamente impegnato sui veri drammi della vita, a prima vista, sembra in grado di offrire una soluzione alle tendenze di de-politicizzazione dell’accademica, denunciato non a caso come un problema molto contemporaneo. A prima vista, la critica militante alla “distanza” può quindi sembrare un atto dovuto: quanti ricercatori si rifuggono in attività che abbiano perso ogni slancio di vita, quanti manuali emanano un’asetticità che mortifica? Tuttavia, proprio la richiesta di utilità e applicabilità può coincidere con gli obiettivi imposti dalle recenti politiche di finanziarizzazione e managerizzazione del mondo universitario, mettendo in luce una certa ambiguità. I governi della maggioranza dei paesi “avanzati” hanno infatti introdotto negli ultimi vent’anni sistemi di valutazione che rendono visibili alcune delle contraddizioni di fondo tra ricerca e restituzione. La richiesta di utilità diventa quindi facilmente assimilabile alla logica che misura un possibile “ritorno” tangibile. Si introduce così una logica investimento-ritorno mirata alla promozione della “innovazione”, comunque meglio se tecnologica. In questo modo, il potenziale del cambiamento politico si esaurisce in piccole migliorie allo stato attuale delle cose. Imbevuta di una retorica manageriale anglofila come “leadership”, “best practices” e “policy-oriented” tale concezione del valore applicato di una ricerca mira ad accumulare prestigio nelle classifiche internazionali o a stimolare “nuovi mercati”.

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2. L’istituzionalizzazione della restituzione In questa ottica, l’accostamento tra utilità e attivismo tende a sovrapporsi invece che ad opporsi, facilitando una istituzionalizzazione della restituzione poco problematizzata. È quindi molto importante conoscere gli effetti delle tendenze attuali della manageralizzazione della ricerca attraverso procedure che valutino l’impatto della prassi accademica. Istituzionalizzando le pratiche di restituzione, si restringe notevolmente il campo di azione in dei canali precostituiti, misurabili e limitati nel tempo. La crescente necessità di dover giustificare investimenti nel mondo accademico ha facilitato la nascita di un mondo di amministratori e valutatori impegnati nella dimostrazione della utilità degli investimenti nella ricerca pubblica. Per esempio, in Italia la VQR (“Valutazione della qualità della ricerca”) è una procedura nazionale periodica gestita dall’ANVUR (“Agenzia per la valutazione del sistema Universitario e della ricerca”) che di recente ha introdotto la valutazione della “Terza Missione” intesa come capacità della ricerca di produrre un ritorno economico dell’investimento accademico. Da alcuni anni, nei sistemi di valutazione della ricerca nel Regno Unito l’”impatto” (da non confondere con il “fattore di impatto” delle riviste scientifiche) è diventato una voce fondamentale che pesa sulla distribuzione dei finanziamenti ai singoli dipartimenti. Mentre in passato la valutazione si è limitata ai “prodotti di ricerca”, la valutazione dell’impatto socio-politico della ricerca delle procedure di valutazione nel Regno Unito prevede che ogni unità disciplinare di un singolo dipartimento proponga dei casi di studio sull’impatto socio-politico di quelle che vengono definite “ricerche migliori” in relazione al loro potenziale trasformativo. Questi casi di studio vengono valutati in base al sistema di attribuzione di stelle, già applicato alle strutture alberghiere. È noto come, nella loro concezione attuale, queste procedure di valutazione producano innanzitutto una notevole burocratizzazione. Viene richiesto di documentare, rendere misurabile e comparabile il potenziale trasformativo

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sulla società; vengono prodotti documenti caratterizzati spesso da un linguaggio tecnocratico e un approccio opportunistico. Quello che a una lettura superficiale potrebbe apparire come il paradiso della militanza accademica, riduce tuttavia le complesse ricadute a unità misurabili e comparabili tra di loro. Il potenziale trasformativo, per essere misurato, deve diventare visibile in un arco di tempo limitato. Nel mondo universitario del Regno Unito, una valutazione positiva dell’impatto di ricerche precedenti è diventata un prerequisito per gli scatti di carriera. L’allocazione di fondi in bandi internazionali si basa anche sul criterio di selezione “value for money” (“valore per i soldi”): la entità di fondi investita dovrebbe essere proporzionale al vantaggio per la società. È un criterio che si basa sul presupposto che qualsiasi utilità sia misurabile anche in termini economici. Questa operazione di riduzione favorisce una concezione della ricerca come uno strumento per elaborare soluzioni a problemi circoscritti e risolvibili all’interno delle cornici delle dinamiche di potere esistenti. Si tratta di una tendenza che quindi rende impensabili e irrealizzabili forme più sperimentali di ricerca, erodendo le possibilità di porre problemi e critiche radicali, cioè quelle che vanno alla radice dei problemi socio-politici. La richiesta di un coinvolgimento più immediato della ricerca accademica, sia nel nome della militanza sia nel nome dell’utilità sociale, deve quindi distinguersi nettamente dalla erosione della libertà di ricerca portata avanti da molte politiche contemporanee di finanziamento accademico. Paradossalmente, proprio la capacità di mettere in discussione la diffusione del senso comune che enfatizza l’utilità potrebbe costituire un primo passo per liberare la ricerca militante e attivista dalle catene ideologiche dell’utilitarismo. Soltanto superando l’impostazione dell’utilitarismo diventa possibile un percorso di ricerca che può permettersi di nuovo di rischiare, di sperimentare e di prendere posizioni scomode ma necessarie; soltanto fuori da processi valutativi burocratici diventa di nuovo possibile esercitare la fantasia e la sperimentazione avventurosa.

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3. “Il design ha sostituto la rivoluzione” “Qui ci sono dei colleghi che si ammazzerebbero per un impatto da quattro stelle. Devi mirare all’impatto da quattro stelle!”, con queste parole concludeva il nuovo “impact officer”, assunto appena qualche mese fa, il suo primo colloquio con me (Alexander Koensler). Nata di recente, la professione di “Impact Officer” è una delle conseguenze più contradditorie dell’introduzione di procedure di valutazione della restituzione della ricerca. Con un tono di voce vagamente cocainomane, la donna condivideva un moderno ufficio “open space” con gli altri impiegati della nuova unità “Ricerca & Impresa” dell’università di Belfast. L’obiettivo era quello di “generare entrate” per l’università in quanto sono le entrate a determinare lo status. Ogni volta che un impiegato doveva condurre un colloquio con un accademico, doveva prenotare una delle salette senza finestre predisposte al centro del ”open space”. La porticina di plastica della saletta si poteva aprire e chiudere soltanto con una carta elettronica. In questo modo rimaneva rintracciabile quanto tempo duravano i colloqui individuali tra impiegati e accademici per definire le strategie di restituzione. Un sistema di incentivi per i “successi” ottenuti completa il quadro di una misurazione il più possibile dettagliata delle spese e del ritorno economico legato alla restituzione della ricerca. Questo sistema, probabilmente ispirato a quello dei mediatori immobiliari, rende evidente alcune delle contraddizioni più insidiose della richiesta che la ricerca accademica non sia fine a sé stessa. Le procedure di valutazione dell’impatto nel Regno Unito si basano sulla compilazione di una scheda in cui il ricercatore è invitato a presentare un “caso di studio di impatto”, descrivendo la sua “strategia di impatto” attraverso risposte da inserire in una serie di caselle preconfezionate. Questa relativa rigidità deriva dalla necessità di comparare tipologie di impatto che di fatto sono molto diverse tra di loro. L’istituzionalizzazione della restituzione pone non pochi problemi: come si possono paragonare forme di ricaduta tanto diverse tra loro? Come si possono misurare e documentare le ricadute in tempi relativamente brevi?

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Che non sia facile eludere le trappole della restituzione istituzionale lo dimostra il caso dell’antropologo e attivista anarchico David Graeber della Goldsmiths, University of London, una delle voci più iconiche dell’attivismo radicale contemporaneo. Nel suo modulo relativo al “caso di studio di impatto” pubblicato sul sito dell’università, Graeber afferma in relazione all’impatto del suo lavoro: “È un contributo fondamentale che sollecita discussioni in tutto il mondo e attraverso tutti i settori della società, un risultato singolare per un’opera antropologica. Un profilo pubblico così ampio per un testo antropologico merita un confronto con gli impatti di Mead, Lewis e Levi-Strauss”.1 Una descrizione che certamente non si distingue per modestia e che mira chiaramente ad ottenere il massimo del punteggio (“quattro stelle”) in quanto si configura come un impatto ottenuto con una forte dimensione internazionale. Il linguaggio enfatico e manageriale può sorprendere, ma dimostra la capacità incisiva della ristrutturazione del mondo nel nome dell’ontologia imprenditoriale. Una dinamica a cui non può sfuggire neanche l‘icona dell’anarchismo contemporaneo. Il caso della codificazione in stelle dell’impatto del lavoro militante di David Graeber offre un prisma per alcune domande importanti: è possibile trasmettere idee e concetti radicali nella società in generale attraverso canali mainstream? Oppure dobbiamo pensare che l’icona dell’attivismo contemporaneo si sia venduto completamente al sistema? Forse entrambe gli aspetti sono parzialmente veri: I canali istituzionali non sempre precludono a priori la formulazione di idee sovversive, come alcuni attivisti radicali sembrano a volte lamentare, ma sicuramente richiedono l’inquadramento del discorso in certi digeribili dalle istituzioni e il loro inserimento nei quadri interpretativi dominanti. Senza tale inquadramento il discorso radicale rimarrebbe inascoltato, invisibile alla burocrazia valutativa. Al di là delle con1 Vedi: Impact case study (REF3b): Goldsmith: Graeber, David impact. ref.ac.uk/casestudies2/refservice.svc/GetCaseStudyPDF/42646 (consultato il 2 marzo 2019, traduzione degli autori).

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traddizioni ovvie che tale dinamica di istituzionalizzazione della restituzione può sollecitare, le implicazioni più assurde si trovano sul piano dei tentativi di misurare oggettivamente l’impatto della ricerca, prerequisito per la sua comparazione e valutazione. La comparazione richiede innanzitutto la standardizzazione della descrizione delle varie pratiche di restituzione. Le impegnative procedure periodiche di valutazione non prendono in considerazione la possibilità che alcune forme di attivismo accademico si basino su decenni di attività organica e non su “progetti” limitati nel tempo. Questo esempio mette in luce anche un altro problema cruciale: il concetto mainstream di restituzione si basa su una concezione meccanicista ed estremamente riduttiva tra input e output. Al fine di poter essere misurata, la restituzione è concepita in maniera piuttosto lineare, e limitata ad un certo arco temporale. Effetti indiretti, conseguenze inaspettate e risultati che si manifestano soltanto dopo tanto tempo oppure in forma difficilmente misurabile passano quindi inosservati, non trovano spazio nella forma ufficiale di valutazione delle forme di restituzione. La concezione della restituzione come una valvola idraulica, in cui un dato input produce immediatamente un dato output, si pone in diretta contraddizione alle concezioni in uso nelle scienze sociali sul funzionamento dei processi socio-culturali e politici. Questi processi non possono mai essere intesi come se fossero uni-direzionali e lineari. Le ricorrenti forme di istituzionalizzazione della prassi di restituzione, invece, favoriscono largamente una concezione e prassi che non rispecchia più la profondità e la qualità densa dei saperi accademici esistenti nelle scienze sociali. Su un piano più astratto, un crescente numero di ricerche negli studi sulle organizzazioni dimostrano come le pratiche di valutazione della ricerca abbiano portato al dilagare di “comportamenti opportunistici” visibili in atteggiamenti da “giocatore” nel tentativo di massimizzare gli esiti della valutazione (Martin 2008). Le conseguenze indirette e non intenzionali di meccanismi di valutazione presentati come oggettivi sono stati analizzati da una prospettiva antropologica come “cul-

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tura dell’audit” che naturalizza delle scelte politiche precise, presentandoli come inevitabile (Strathern 2000; Shore 2008; Van Aken 2017). Una dinamica che porta a uno spostamento della capacità decisionale dai soggetti stessi ad una nuova élite dell’audit composta di valutatori e policy makers. In questo contesto, la speranza in cambiamenti più sostanziosi o la creazione di impulsi utopici sembra diventata un sogno con sfumature antiche oppure, come ha affermato Bruno Latour (2008) in una felice formula, “il design ha sostituto la rivoluzione”, riferendosi alla diffusione della progettazione di specialisti come forma di sublimazione dello spazio politico (Koensler e Papa 2015). È quindi evidente che le trasformazioni immaginate nelle forme di restituzione favoriscono un servilismo accademico camuffato da un linguaggio di marketing. Tutto questo quindi non è molto militante e neanche accademico. Diventa quindi importante andare oltre una tale visione riduttiva della relazione tra ricerca ed impegno. 4. Necessità etica, marginalità politica? È diventato evidente come un’enfasi sull’importanza di una generica restituzione possa rivelarsi un’arma a doppio taglio. Ma in che modo è quindi possibile evitare gli aspetti problematici legati all’istituzionalizzazione della prassi di restituzione e recuperare il potenziale emancipatorio della militanza nell’accademia? Quali sono gli strumenti che ci possono aiutare ad eludere quelle falle? Di seguito si evidenziano alcuni elementi che servono per concepire una visione emancipatoria delle pratiche di restituzione. Come abbiamo visto, l’appiattamento delle pratiche di restituzione si colloca in contraddizione ad una concezione humboldtiana del sapere come forma aperta di sperimentazione e critica. È quindi chiaro che una forma di restituzione non istituzionalizzata dovrebbe trascendere i tentativi di ridurre le ricadute ai suoi effetti misurabili e codificabili in termini direttamente o indirettamente meccanicistici e monetarizzati. Le dinamiche di

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restituzione possono assumere un’altra qualità se riescono ad andare più a fondo in una duplice direzione. In questo senso, ricercatori o ricercatrici interessati a pratiche di restituzione più appropriatamente militanti e attiviste, ma anche sperimentali in un senso lato, di solito non temono di rivolgersi ad ambiti della società ben più limitati o marginali. È in questo modo che la logica della restituzione istituzionalizzata si sovverte: attraverso l’enfasi sulla centralità dei margini (Malighetti 2012) che si sostituisce, per così dire, al focus marginale sulla centralità. Inoltre, forme di restituzione non istituzionalizzate si caratterizzano per l’impossibilità di farsi incasellare negli schemi predispostiti, nelle formule di quantificazione e misurazione del loro impatto, benché questa comparabilità rimane costruita artificialmente e con grande difficoltà. La dimensione sperimentale e indefinita assume quindi un ruolo centrale nella restituzione che intende essere parte non soltanto di “miglioramenti” cosmetici della società, ma di quella che ha il coraggio di lanciarsi verso sperimentazioni in grado di erodere il senso comune e la staticità dell’esistente. Tuttavia, la relazione tra militanza e sapere si configura ben più complessa di quanto spesso si crede. Essa può spaziare dalla militanza praticata fino al ripensamento di concetti di base della realtà. Oltre la militanza esplicita, come evidente nella figura di David Graeber, strategie di restituzione possono mirare a fornire strategie interpretative intrecciabili con una qualche forma di prassi, come continuano a fare studiosi nella tradizione post-operaista e gramsciana come Toni Negri e Michael Hardt, oppure, in altri campi, figure come David Harvey o Judith Butler. Una forma di restituzione ancora più mediata, ma non meno importante, è evidente nei lavori di figure come Michel Foucault o Karl Marx, che soltanto marginalmente hanno interagito con i soggetti interessati, ma tuttavia hanno segnato la storia dei movimenti sociali grazie alla capacità di ribaltare le categorie interpretative date per scontate. Non del tutto da trascurare, quindi, è il lavoro di approfondimento intellettuale apparentemente fine a sé stes-

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so che tuttavia può rivelare una dimensione militante, per esempio attraverso la destrutturazione di alcuni concetti del senso comune, oppure attraverso la fornitura di strumenti interpretativi che eludono l’ideologia dominante. Si pensa per esempio al lavoro lacaniano di Slavoj Žižek (2016) sulla cosiddetta “fine dell’ideologia”: in breve, egli scava dietro la retorica della fine dell’ideologia che presenta le scelte politiche contemporanee come “inevitabili” o “razionali”. Smascherando l’oggettivazione dell’ideologia in luoghi e concetti dove meno ce la si può aspettare, è un compito intellettuale permeato da una forte necessità militante, ma, allo stesso tempo, non ha nessun valore immediato applicativo per i militanti, non offre esplicitamente risposte su che fare, ma rimane una diagnosi estremamente importante per comprendere il mondo in un’ottica critica. 5. Elogio dell’inutilità, elogio della necessità Nelle sue molteplici sfumature, il termine “utilità” merita un approfondimento. Quale è l’utilità immaginata? Utile per chi? La richiesta di utilità si inserisce spesso in un’ottica ideologica che tende a sottoporre tutti gli aspetti della vita umana a vincoli pratici, commerciali, quantificabili, misurabili. Nel suo manifesto “L’utilità dell’inutile”, Nuccio Ordine (2013, p. 21) ribatte questa tendenza con un’ispirazione di stampo umanistico: È nelle pieghe di quelle attività considerate superflue, infatti, che possiamo percepire lo stimolo a pensare un mondo migliore, a coltivare l’utopia di poter attenuare, se non cancellare, le diffuse ingiustizie e le penose diseguaglianze che pesano (o dovrebbero pesare) come un macigno sulle nostre coscienze.

Impiegando un’ampia gamma di riferimenti letterari ed artistici, lo studioso e attivista per la libertà accademica smantella radicalmente la genesi dell’ideologia dell’utilitarismo. In un passaggio chiave, riportando il pensiero dei due psicotera-

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peuti Miguel Benasayang e Gerard Schmidt, Ordine (2013, p. 21) suggerisce che “l’utilità dell’inutile è utilità della vita, della creazione, dell’amore, del desiderio”. In quest’ottica, l’affermazione dell’inutilità può diventare un primo elemento per una concezione attivista della ricerca in quanto trascende e mette in crisi l’approccio utilitaristico dominante. Anche senza possedere una particolare vocazione di militanza politica, è possibile rendersi conto che molte delle più “utili” tra le grandi invenzioni tecnologiche della vita contemporanea, non sarebbero state possibile se avesse prevalso soltanto la ricerca utilitaristica e applicata. Nell’ambito delle scienze naturali, questa dinamica è stata approfondita da Abraham Flexner (Ordine 2013), fondatore dell’Institute for Advanced Studies di Princeton. Nel suo istituto, l’autore mira a ricostituire proprio quel clima di libertà necessario allo spirito dei suoi ospiti, un clima in grado di dispiegare la loro creatività senza vincoli materiali. Egli dimostra come molti dei lavori scientifici considerati a prima vista non finalizzati a uno scopo pratico, infatti, hanno poi avuto un’applicazione inattesa. Per esempio gli studi nell’Ottocento di Heinrich Rudolf Hertz, condotti per pura curiosità, hanno portato a importanti sviluppi dell’elettricità e delle onde radio. Molte di queste figure oggi considerate dei geni della scienza hanno coltivato i loro interessi senza fini pratici o per profitto. Un esempio sono i lavori di Michael Faraday, condotti nel campo del magnetismo e dell’elettricità. Scrive Flexner (2013, p. 240): “Mai nella sua eccezionale carriera mostrò interesse per l’eventuale utilità dei suoi esperimenti. Era completamente assorbito dalla ricerca di una spiegazione degli enigmi dell’universo”. La coltivazione dell’inutilità non è ovviamente un segno in sé di un’attività progressista. Non tutte le ricerche che si sottraggono all’utilitarismo sono necessariamente emancipatorie, militanti oppure rivoluzionarie. La propensione etica a “pensare un mondo migliore, coltivare l’utopia”, indicato da Nucci (2013, p. 21), rinvia a qualcosa di più, a una sorta di “necessità” intrinseca di condurre una determinata

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ricerca, da non confondere con la sua utilità. Una necessità vissuta a un livello soggettivo come uno stimolo interiore, una intuizione, forse anche come entusiasmo. In questo senso quindi un’impresa di ricerca può sembrare inutile, ma tuttavia necessaria. Nelle sue lettere a un giovane poeta, il poeta romantico Rainer Maria Rilke (1980, p. 14) consiglia proprio di pensare alla “necessità” della poesia come criterio per valutare la qualità di una poesia. Se un’attività poetica, afferma il poeta, scaturisce da una sentita necessità interiore, essa per forza può essere considerata buona al di là dei giudizi di critici. Consiglia il poeta: Penetrate in voi stessi. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estende le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretti a morire, quando vi si negasse di scrivere. Questo innanzitutto: domandatevi nell’ora più profonda della notte: devo io scrivere?

In un certo senso, questo consiglio che si affida a considerazioni altamente soggettive, forse può essere anche adattato a chi si imbarca in ricerche sociali. Se lo stimolo di condurre una certa impresa di ricerca piuttosto che un’altra derivi da una necessità sentita, essa avrà un senso, anche se non è individuabile un fine utilitaristico immediato. Ispirandosi a questo principio, le ricadute della ricerca possono assumere un’ampia gamma di forme e attività che trascendono nettamente quelle immaginate di solito come restituzione nei termini di quello che sembra realisticamente fattibile e pensabile. In Realismo capitalista, Mark Fisher (2018) sottolinea l’importanza di decostruire l’”ontologia imprenditoriale” che si impone come buon senso, invadendo sempre più ambiti della vita contemporanea. La richiesta di una “restituzione” al mondo accademico può essere parte di questa ontologia, se non fa riferimento a idee emancipatori. Nell’appiattamento istituzionalizzato delle pratiche di restituzione, questo realismo rende “semplicemente ovvio” che sempre più ambiti della vita sociale, dalla salute, all’educazione e alla

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ricerca, debbano essere condotti come un’azienda, seguendo una logica imprenditoriale di investimento e profitto. In un senso più astratto, la critica di Fisher diventa fondamentale in quanto definisce i margini ed i contorni di ciò che viene considerato “realistico”, quello che sembra fattibile e plausibile. Al contrario dell’ontologia imprenditoriale, il ruolo fondamentale dei movimenti sociali è stato storicamente quello di estendere ciò che sembra pensabile e fattibile (Buecher 2000). Per esempio, le grandi ondate di privatizzazioni di aziende statali sarebbero state considerate impossibili negli anni Sessanta. Allo stesso tempo, ciò che una volta sembrava possibile in termini di politiche di welfare ad esempio negli anni Novanta (visite mediche gratuite e sussidio di disoccupazione prolungato), oggi viene ritenuto impossibile oppure utopiche. Se l’ontologia imprenditoriale tenta di ristringere il campo di ciò che sembra fattibile e pensabile, ogni pratica militante, intesa in un senso lato, dovrebbe essere mirata alla creazione di produzioni culturali, spirituali o socio-politiche che trascendono tali margini. In questo modo si rischia di perdere una delle capacità più distintive della ricerca etnografica, cioè la sua enfasi sull’apertura ontologica grazie all’osservazione di pratiche fuori dalle aspettative precostituite, rimane quello di scavare dietro le ovvietà di quel buon senso comune. Robert Musil (1958) nel suo libro L’uomo senza qualità descrive un personaggio che trascorre il tempo fantasticando sui modi diversi in cui potrebbe essere organizzata la vita. Il suo “senso di possibilità”, questo sapere scivoloso, è caratterizzato dall’abilità di vedere le abitudini, i valori e le esperienze come attraverso una “quarta dimensione”, in cui svaniscono le certezze e le pretese e in cui emerge la vulnerabilità di tutte le regole del regime della verità. Esso si definisce in contrapposizione ad un netto “senso di realtà”. L’idea del “senso di possibilità” può essere vista come una caratteristica fondamentale dell’impresa antropologica (Carrithers 2005) perché può sensibilizzare la capacità di comprensione di modi di vita diversi dai nostri.

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L’apertura inerente al “senso di possibilità” del percorso etnografico offre quindi anche la possibilità di ricontestualizzare il potenziale innovativo e sperimentale delle pratiche di restituzione. Ed è proprio quello che nella visione riduttiva dell’utilità viene messo a tacere. Nelle grandi tradizioni dei pensatori radicali, siano essi Michel Foucault, Alain Badiou o Slavoj Žižek ogni progetto di emancipazione politico deve decostruire il senso comune di ciò che sembra fattibile e pensabile entro i limiti ideologici stabiliti dal sistema dominante. In questo senso, una militanza più profonda consiste nella capacità di afferrare questi elementi, per parafrasare Judith Butler (1993), di mettere in discussione ciò che non può essere messo in discussione, di assumere posizioni scomode e di superare slogan politici del senso comune. Sulla base di questi presupposti diventa quindi possibile discernere la mera utilità dalla necessità etico-politica di un progetto di ricerca. È la capacità di movimentare la staticità dell’esistente, di rilanciare la scintilla utopica di un mondo migliore. Questa necessità non è da confondere con i fini utilitaristici o applicativi spesso evocati sia nel nome dell’istituzionalizzazione della restituzione, sia sotto lo slogan di una “ricerca applicata”. Nei prossimi capitoli, nell’ordine Koensler, Rossi e Boni, gli autori congiunti di questo testo, raccontano le loro esperienze di restituzione, mirando a far dialogare le loro ricerche etnografiche con i percorsi di presa di coscienza già in atto nei gruppi con cui si sono trovati ad interagire, che fossero o meno gli “oggetti” della ricerca, in momenti di riflessione comune applicabile direttamente o indirettamente al loro percorso politico.

III. Casi ed esperienze di restituzione

Capitolo nono Il “Peasant Activism Project”: restituire attraverso documentari etnografici di Alexander Koensler

Del resto le farò una confessione: i film etnologici mi annoiano. Claude Lévi-Strauss, 2005, pp. 19-20

La noia di uno degli più autorevoli antropologi di fronte ai film etnografici è forse oggi ancora più comprensibile: la noia qui deriva probabilmente dalla rappresentazione statica di pratiche esotiche fuori da una dimensione temporale che creano un senso di ripiegamento su sé stesso. Qui si trovano pochi spunti di una necessità etico-politica. Diversamente stanno le cose con quei film che le cui storie incidono direttamente nelle nostre vite. In questo capitolo propongo una riflessione critica sulla prassi di forme di restituzione realizzate insieme ad alcuni attivisti neo-rurali nell’ambito del progetto triennale di ricerca “Peasant Activism Project”1 ospitato alla Queen’s University Belfast, dove al tempo avevo lavorato. Vorrei mettere in evidenza qui come il percorso della collaborazione ha portato sia i membri del team della ricerca che i protagonisti di essa alla realizzazione di risposte che 1 Il “Peasant Activism Project” (www.peasantproject.org, codice ES/ M011291/1) è stato finanziato dall’Economic and Social Science Research Council (ESRC), uno dei principali finanziatori di ricerche nel Regno Unito.

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trascendevano i vincoli diretti e indiretti imposti dagli enti di finanziamento istituzionale e ha portato a un percorso di formazione reciproca. Insieme, abbiamo lavorato a un progetto che è si è inciso nelle nostre vite. Tuttavia, sono emersi anche alcuni limiti della prassi di restituzione in relazione al lavoro di ricerca. In breve, il progetto è stato concepito come una ricerca sul campo di lunga durata con reti di attivismo neo-rurale in Italia Centrale per indagare le politiche della trasparenza e l’evoluzione della governance neoliberalista attraverso il prisma delle pratiche e tecniche di certificazioni alternative dei prodotti agro-alimentari elaborate dalle reti di attivismo come una forma di resistenza all’agribusiness dominante. Quello che propongo qui è riflettere sugli imprevisti e le contraddizioni emersi nella traiettoria di implementazione di tale progetto, ma anche sul potenziale della sperimentazione che ha caratterizzato il processo di restituzione militante. 1. La militanza vincolata Concepire una forma di restituzione militante all’interno dei vincoli che impongono la maggior parte dei finanziamenti pubblici disponibili in Europa può diventare una sfida, un percorso ad ostacoli caratterizzato da opportunità ma anche dal rischio di creare delle distorsioni della libertà accademica. Come strumento di restituzione, il documentario etnografico continua ad esercitare un grande fascino; esso costituisce anche una modalità di restituzione che si presta particolarmente ad interagire con il mondo dell’attivismo. A differenza di documentari di stampo giornalistico oppure prodotti da cineasti, esso permette un’attenzione alla complessità delle pratiche quotidiane, alla dimensione processuale (Faeta 2011), offrendo in un certo senso uno sguardo dietro le quinte di ciò che sembra ovvio nell’attivismo. Il film etnografico, in questo senso, non è inteso come uno strumento per dare semplicemente voce, per riportare il punto di vista dei soggetti della ricerca, ma per “fondere orizzonti interpretativi con

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l’effetto di creare immagini inedite del sé e dei protagonisti a tutti i livelli” (Padiglione 2008, p. 101). Per questi motivi, come coordinatore del progetto ho immaginato di utilizzare il documentario etnografico per sessioni di proiezione e dibattito come uno strumento sia auto-riflessivo che divulgativo-critico. In questo modo era possibile combinare il lavoro di ricerca sul campo con una restituzione ritenuta utile dai soggetti della ricerca, mantenendo tuttavia la possibilità di una certa distanza e autonomia accademica. Tuttavia, i vincoli del finanziamento, un bando con una selezione altamente rigida e competitiva richiedeva un particolare intreccio in cui la “eccellenza” scientifica si applica in maniera immediata in una cosiddetta “strategia d’impatto” nell’arco del progetto (vedi capitolo 8). È questo il concetto che sta alla base della maggior parte dei finanziamenti importanti. Così penetra una logica mercantilista nella ricerca in quanto essa è concepita come una forma di investimento della società. L’effetto di questa dinamica è che ogni prassi di restituzione, necessariamente, si riduce a una trasformazione socio-politica immaginata in termini piuttosto meccanicistici. Per poter vincere un finanziamento, quindi, diventa preferibile concepire la restituzione come un “miglioramento misurabile” oppure la soluzione di un dato problema socio-politico entro un certo arco di tempo. A questo proposito, l’ente finanziatore mette a disposizione una cosiddetta “scatola degli attrezzi” virtuale (Impact Toolkit) al fine di “potenziare l’impatto” con l’obiettivo di tradurre l’eccellenza scientifica in applicazioni rivolte al mainstream del policy-making e concepito in termini tecnocratici di best practices etc. Inoltre, l’implementazione del progetto veniva misurata in base ad un certo equilibrio tra le risorse richieste e le ricadute previste; bisognava quindi anticipare in un certo senso il valore delle ricadute applicative, prima di aver di fatto iniziato la ricerca. La diffusione di un documentario etnografico in cineforum che coinvolgono attivisti, consumatori e produttori è stato una delle poche soluzioni possibili in quanto lascia una certa libertà di movimento. La cosiddetta “strategia di

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impatto” del progetto è quindi stata concepita intorno a una serie di proiezioni e dibattiti in vari luoghi in Europa, spaziando dai centri sociali fino ai festival di film etnografico. Il cineforum in questo senso non è inteso come un semplice strumento di “diffusione”, ma si inserisce invece in una tradizione militante di forme di formazione informale al fine di creare spazi di autonomia in cui diventa possibile formare la coscienza politica dei partecipanti (Freire 1973). Il format del cineforum, quindi, aspirava a sensibilizzare la coscienza critica di tutti i soggetti coinvolti negli eventi, mirando a creare uno spazio di pensiero libero e creativo come avviene soltanto in un contesto di relazioni umane dirette. Inoltre, le relazioni tra attivisti e soggetti interessati non si sarebbero de-personalizzate. Il progetto stesso, infatti, si incentra sul ricupero di relazioni personali in un mondo standardizzato e quindi pareva poco compatibile con discussione via social media, se non per attirare l’attenzione. Il format del cineforum rimane anche estremamente flessibile e in grado di evolversi, adattandosi a situazioni e contesti molto diversi tra loro, sia in eventi grandi come festival che piccoli come i gruppi di lavoro in un determinato centro sociale. Curiosamente, nella fase di approvazione un valutatore del progetto aveva criticato l’impiego esclusivo dei cineforum come divulgazione-formazione in quanto secondo lui una pratica “troppo limitata” per poter coinvolgere un’ampia audience mainstream, come invece richiesto dai criteri di finanziamento. Egli auspicava la pubblicazione di “brevi video clip di 3-4 minuti in modo da poter raggiungere un’audience più ampia”. Egli quindi, non del tutto a caso, cercava di portare il progetto in una direzione che avrebbe svuotato la ricerca della sua capacità di impegnarsi in maniera più critica e approfondita, invitandoci a concentrarci sugli aspetti più futili, riducendo la comunicazione del progetto a frasi ad effetti che sarebbero circolati a vuoti nell’etere. Al tempo avevo respinto questa proposta sulla base che l’enfasi del progetto era sul ricupero della relazionalità intersoggettiva oltre i format standardizzati di massa; fortunatamente questa obiezione venne

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riconosciuta dalla commissione di selezione dell’ESRC che ha approvato il design del progetto nonostante questa critica. 2. Sul campo, un percorso ad ostacoli Con la realizzazione dei nostri due documentari, ovviamente, tutto è diventato diverso da come era stato immaginato. Nel percorso della ricerca si sono rivelati molte sorprese, sicuramente utili per riflettere sulla prassi militante della restituzione. Fin dalla concezione, l’obiettivo non era quello di produrre un documentario che esaltasse semplicemente gli obiettivi politici del movimento. Immaginavo un lavoro più complesso, in grado di offrire uno sguardo dietro le quinte. Un lavoro di antropologia visuale, come spiega Padiglione (2008, p. 105) in grado di “contrastare le illusioni di trasparenza e neutralità del medium e di lasciare tracce per rendere riconoscibile le mediazioni”. In questo modo non ci sarebbe stato il rischio di cadere in lotte settarie all’interno del movimento neo-rurale. Per esempio, alcuni nodi territoriali appartenenti alla rete “Genuino Clandestino” interagiscono con i produttori di prodotti biologici certificata dagli enti accreditati, mentre altre se ne oppongono. È quindi facile, per un etnografo militante cadere nella trappola etnografica e politica di essere identificato con una corrente particolare, col rischio di precludere l’interazione con altre fazioni del movimento. Inoltre, gli esponenti dei movimenti contemporanei raramente hanno bisogno di un sostegno per farsi sentire, avendo a disposizione strumenti tecnologici e professionali come mai prima. I nostri documentari, quindi, non avevano il compito di fare da megafono alle cause dell’attivismo. Infatti, esisteva già prima che noi iniziassimo la ricerca un bellissimo documentario sul movimento “Genuino Clandestino” e la problematica dell’agricoltura industriale. Nel 2016, un gruppo di attivisti prevalentemente bolognesi ha prodotto un impressionante libro fotografico affiancato da testi. Inoltre, durante la fase di ricerca un gruppo di giovani

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attivisti pugliesi ha iniziato un viaggio per l’Italia per creare un altro documentario su alcune delle esperienze più significative della rete nazionale (“Scarpe grosse, cervello fino”). Tutti questi documenti assolvevano benissimo al compito di ampliare e far conoscere la voce del movimento; noi come etnografi, per quanto militanti, non ci potevamo quindi limitare a ripetere le posizioni del movimento stesso. Inoltre, un aspetto particolare della ricerca è stata la partecipazione alla vita quotidiana degli attivisti che permetteva di documentare le dinamiche micro-politiche della loro (e della nostra) ricerca di autonomia, libertà e individualità in un mondo sempre più standardizzato. Sul fondo di questa visione, il compito del nostro documentario era inteso come quello di offrire uno stimolo di riflessione in più, una voce anche critica che fosse in grado di situare le rivendicazioni della rete a fronte delle dinamiche neoliberiste di potere. Per questo motivo avevo deciso nel momento della concezione del progetto di focalizzare l’attenzione sulla tensione tra attivismo e pratiche quotidiane. Ci siamo limitati a seguire soltanto quattro personaggi chiave attraverso una minuziosa osservazione partecipante, ponendo l’accento sui modi in cui le loro vite si intersecavano con l’attivismo neo-rurale. I primi mesi della ricerca erano dominato dal tentativo di gestire le pratiche dell’assunzione di un post-dottorando in Antropologia Visuale che poi è stato coinvolto nel lavoro di ricerca in modo orizzontale, anche se ovviamente il progetto aveva già il suo impianto di base. Abbiamo quindi insieme partecipato a molti mercati alternativi nell’Italia centrale, ma anche a molti eventi in centri sociali o spazi alternativi. La partecipazione ai ritmi della vita in campagna, ai festival nazionali e la condivisione del lavoro hanno creato un particolare intreccio in cui la ricerca non era distinguibile dalla militanza; si sono create delle relazioni di amicizia in cui le dimensioni personali, politiche e professionali si sono intersecate su molteplici livelli. In questo quadro, il nostro compito di creare uno o due documentari ci conferiva un certo ruolo riconoscibile, distinto da quello di semplici simpatizzanti del movimento. La telecamera in mano,

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in questo senso, ha funzionato come un veicolo per aprirci la strada. Frequentando in maniera sistematica tutti i mercati alternativi, diventava possibile tracciare una mappa relazionale dei soggetti neo-rurali. Man mano che passava il tempo, sempre più attivisti e contadini ci invitavano a casa loro. Ma non di rado la pesante grande camera del mio collaboratore non sempre ispirava fiducia. Quindi nei primi mesi la abbiamo accesa piuttosto raramente. Se invece ci fossimo presentati in primo luogo come quelli che semplicemente cercavano di amplificare le ragioni del movimento, l’”entrata sul campo” sarebbe stata ben più facile, ma l’insistenza veniva ripagata non soltanto da uno sguardo più profondo dietro le quinte dell’attivismo, ma anche da amicizie più durevoli in quanto eravamo interessati, per così dire, alla vita nella sua completezza. 3. Convivere con la tensione tra prassi e ideali L’individuazione dei quattro personaggi del principale documentario è stato un processo graduale, non sempre facile, anche perché avevo una certa debolezza per le persone più eccentriche e pittoresche che non necessariamente erano rappresentative, portando in luce anche una certa diffidenza del postdottorando per delle scelte forse troppo stravaganti. Per esempio, in un mercato a Roma abbiamo incontrato Pedro. Emanava l’aura di chi aveva vissuto intensamente, di qualcuno che aveva qualcosa da dire. Nel suo viso scuro brillavano due occhi vivaci, pieni di entusiasmo. Non ci saremmo pentiti di averlo contattato. Aveva una bancarella piena di piccoli oggettini colorati, bottiglie di olii essenziali e cuscini profumati con etichette in stile psichedelico disegnate a mano. Il suo banco trasmetteva una poesia tutta sua; era ricavato da una cassa di legno antico decorato con varie stoffe indiane ed era talmente pesante che Pedro doveva chiedere aiuto a qualcuno, in genere a me, per rimettere la cassa nel suo vecchio furgoncino scassato. Come era da immaginare, Pedro è stato subito disposto ad accoglierci

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a braccia aperte a casa sua. “Venite quando volete, anche domani” ci diceva sempre. Ma quando lo chiamavamo il giorno dopo non rispondeva al telefono per ore; era uscito in campagna per cercare delle erbe selvatiche dimenticando il suo telefono sul tavolo della cucina. La nostra insistenza era ripagata, quando riuscivamo ad incontrarlo con la sua generosità e singolare apertura. Anche per queste qualità è diventato uno dei personaggi chiave del film. Abbiamo incontrato per caso anche altre persone centrali per la ricerca. Per esempio, un giorno abbiamo girato in un piccolo mercato di provincia: una serie di bancarelle piuttosto abituali, verdure, conserve, formaggi, qualche forma di pane. Ad un certo punto notavamo un piccolo tavolo in fondo alla fila delle bancarelle. Sul tavolo c’era esposto soltanto un piccolissimo cesto che conteneva quattro uova; niente altro. Ma come era possibile? Anche stimando l’idealismo e la trascendenza dalle logiche di profitto su cui si fonda il modello dell’agribusiness dominante, la bancarella con quattro uova sembrava al limite. Così cercando il proprietario o la proprietaria, abbiamo conosciuto un altro personaggio chiave della nostra ricerca. Soltanto dopo ore qualcuno ha saputo indicarci una ragazza seduta su una panchina a fumarsi una sigaretta. Era immersa in una conversazione fitta e, a differenza di molti degli espositori e venditori neo-rurali, era vestita in maniera abbastanza comune: non portava nessun segno di appartenenza al mondo alternativo né a quello rurale, sembrava una qualsiasi giovane cittadina. Lei, Martina, per anni aveva promosso una radio alternativa incentrata su questioni neorurali. Da poso, insieme al suo compagno Gerolamo, avevano preso da poco in affitto una stalla precedentemente abbandonata in cui gestivano una quarantina di capre. La stalla si trovava in una zona di montagna molto isolata al termine di un sentiero dissestato; era perfino difficile arrivarci in macchina. “Minimo 200 capi, altrimenti non c’è la fai mai a vivere”, commentava incredulo un esperto agrario quando gli ho racconto del nostro incontro. Negli anni successivi siamo

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diventati amici stretti con Martina ed il suo compagno; frequentavamo la loro stalla con insolita insistenza: lei ed il suo compagno si rivelavano dei veri avventurieri inarrestabili. Durante la nostra presenza, dovevano affrontare delle difficoltà inimmaginabili: trattare con dei soggetti loschi e para-mafiosi, affrontare epidemie animalesche dei loro animali e gestire volontari ancora più eccentrici dei nostri soggetti di ricerca. Diverse volte sono stati intenzionati a lasciare perdere il loro progetto di costruirsi un’esistenza neo-rurale. Ad un certo punto Martina aveva iniziato a lavorare in una pizzeria e ragionava su come rivendere il gregge delle capre. Ma molti capi erano malati e quindi valevano una piccolissima parte di ciò che i due allevatori avevano investito nel loro acquisto. Quando erano disperati, parlavano di come cambiare strada, iniziare qualcosa di diverso. Peresempio si immaginavano di trasferirsi in un altro comune che permetteva l’utilizzo di pascoli gratuiti ai residenti il pascolo gratuito in delle zone montuose e ancora più isolate. Ma queste idee mi sembravano campate in aria. A volte capitava di discuterne insieme al postdottorando e perfino insieme ai genitori che cercavano di spingere i loro figli a scelte meno idealiste. Nei tre anni della ricerca abbiamo assistito insieme alla giovane coppia alla realizzazione della loro utopia neo-rurale. Ad un certo punto riuscirono a dominare il gregge, ad imporre la loro volontà. Non erano più loro che correvano dietro alle capre, gridando, aggrappandosi ai cespugli dei versanti rigidi della montagna per tornare esausti a casa. Ora erano le capre che seguivano loro e ci potevamo permettere anche di portarci panini e vino per una pausa. Si era istaurato un certo ritmo. Mesi dopo la loro crisi, abbastanza inaspettatamente, erano riusciti ad acquistare perfino un piccolo appartamento trasandato pagando un piccolo mutuo pur potendo offrire ai creditori poche garanzie. Abbiamo quindi assistito all’esperienza straordinaria di superamento della crisi e ora la coppia si colloca tra i protagonisti neo-rurali della zona con un’esperienza faticata sul terreno.

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È stato quindi quell’interesse alla vita quotidiana, alle persone nella loro dimensione completa che ha portato a una comprensione più profonda e meno presuntuosa di quello che significa mettere in pratica l’attivismo neo-rurale. Una limitazione ai momenti di attivismo politico in sé avrebbe portato a una visione più parziale. In questo periodo ho potuto osservare come gli ideali neo-rurali potessero essere usati anche, per esempio, per un avanzamento di carriera oppure si limitavano a un gesto vuoto contraddetto dalle pratiche quotidiane. Un’attivista particolarmente atroce, per esempio, attaccava verbalmente nelle riunioni chiunque non fosse abbastanza “alternativo”, ma scoprimmo con stupore che si faceva mantenere dal marito dentista, spaziando con non chalance tra la sfera dei valori alto-borghesi e la vita attivista dei centri sociali. Un’altra attivista proclamava discorsi ad alta voce sulla coerenza attivista, attaccando persone in tono polemico che avevano a sua opinione fatto troppi “compromessi con il sistema”, ad esempio mettendosi in regola come azienda agricola oppure accettando finanziamenti pubblici. Pochi mesi dopo notavo come la stessa attivista si presentasse in altri contesti come vincitrice di un concorso pubblico da funzionario al ministero dei beni culturali in veste ufficiale e poco critica rispetto a prima. Sicuramente si tratta di un caso estremo, ma queste tensioni tra coerenza idealistica e pratica quotidiana sono ovviamente una questione più universale e sono ritrovabili in molti ambiti. La ricerca di lunga durata con attivisti quindi ci ha insegnato come quasi nessuno può fuggire alle contraddizioni e alle vie inaspettate della vita. Quindi un atteggiamento più umile appare spesso più utile rispetto a pose politiche e retoriche di coerenza. Molti attivisti neo-rurali, come Martina e Gerolamo erano impegnati in un costante tentativo di costruirsi una sfera di autonomia gestionale e economica, ma era una sfera di autonomia contingente, a volte effimera, che tuttavia aveva il suo fascino e il suo potenziale innovativo nei sensi della svolta post-anarchismo (Newman 2015). A proposito della tensione tra ideali e pratica, scrive l’attivi-

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sta neo-rurale e scrittore Sergio Cabras (2016, p. 35): “La vita neo-contadina è una realtà che si costruisce giorno per giorno, non un discorso astratto, non una teoria da applicare sic et sempliciter all’esistente”. Cabras (2016, p. 139) individua come “antagonismo velleitario” l’atteggiamento rivoluzionario che rimane in contrapposizione alle basi materiali dell’esistenza: “[G]li spazi autogestiti ‘liberati’ vivono questa ‘liberazione’ essenzialmente sul piano, in senso ampio, culturale. Mentre ciò che è strutturale nella vita di chi li frequenta (come ci si guadagna da vivere o come si spende il proprio denaro) è ancora quasi sempre tutto all’interno del sistema rispetto al quale si rivendica un’alterità”. Questa tensione rinvia, in un senso più astratto, al rapporto tra ribaltamento e continuità, rottura e riproduzione. Il filosofo Slavoj Žižek (2005) ci ricorda che ogni ricerca di un ribaltamento dell’esistente rimane intrinsecamente connessa a ciò che già esiste: le società non si trovano mai di fronte a una “tabula rasa” in cui è possibile re-inventare la società da zero. 4. La multidimensionalità delle pratiche di restituzione Una simile tensione ha anche caratterizzato la prassi della restituzione del nostro lavoro di ricerca. La produzione dei due documentari è stata soltanto uno dei risultati della ricerca, anche se forse quello più intensamente vissuto, ed era affiancato dalla pubblicazione di articoli su riviste accademiche secondo gli standard britannici. Inizialmente, mi è sembrato che i documentari fossero lo strumento che esprimeva meglio il carattere militante del progetto. Ma riflettendoci alla conclusione dei lavori, è probabilmente principalmente il lavoro di analisi che ha avuto una portata militante più ampia. In altre parole, senza il lavoro accademico in senso stretto, la militanza sarebbe rimasta una scatola vuota. Le riflessioni astratte sulle politiche della trasparenza a partire dalle esperienze di persone come Martina e Gerolomo sono servite come una chiave di lettura delle riper-

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cussioni della governance neoliberalista. Attraverso la documentazione delle loro difficoltà a stare all’interno degli schemi dell’agricoltura ufficiale, è diventato evidente come l’imperativo della trasparenza ufficiale si fondi sul rapporto tra standardizzazione e finanziarizzazione. L’alternativa neo-rurale, in questo contesto, è diventata un laboratorio di resistenza di straordinaria attualità. Abbiamo potuto mettere in luce come il concetto di trasparenza sia diventato uno strumento funzionale alla ristrutturazione della governamentabilità in chiave neoliberista, svalutando la professionalità, le competenze e l’autonomia di molti lavori come quello di contadina, di infermiere, di docente e trasferendo il potere decisionale nelle mani di tecnici, valutatori, standardizzatori e certificatori. La ricerca quindi ha messo in evidenza la necessità di un nuovo linguaggio critico in grado di restaurare relazioni più umanistiche di fiducia. Le pubblicazioni accademiche specializzate, invece, raramente sono state discusse in modo approfondito dai soggetti di ricerca, riproducendo involontariamente una divisione tra “applicazione” e “astrazione”. Molte delle riviste, almeno quelle accreditate su cui spingevano a pubblicare i finanziatori del progetto, seguono una certa logica mainstream, soprattutto nella forma di presentazione e nei rigidi standard metodologici, ma non pongono limiti in relazione ai contenuti. Invece, il lato più apparentemente “militante”, quello dell’organizzazione dei cineforum, non sempre ha avuto ripercussioni così profondamente critiche nei confronti del paradigma della trasparenza. Nelle numerose discussioni serali dei cineforum gli aspetti più astratti, più radicali e più travolgenti hanno trovato raramente spazio esaustivo. Per esempio, l’interesse per riflettere sul rapporto tra finanziarizzazione e trasparenza dei processi di produzione è stato raramente approfondito nelle discussioni pubbliche. A volte gran parte dell’interesse dell’audience verteva sulle questioni più pratiche oppure più romantiche, per esempio come è possibile produrre reddito in campagna etc. Questioni quindi che non necessariamente in sé comprendono un

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potenziale sovversivo o trasformativo. In questo senso, non mi sembra che i canali più accademici e in qualche modo più istituzionali abbiano compromesso il carattere “militante” dei contenuti della ricerca. Al contrario, queste riflessioni costituivano nelle loro reti internazionali un formidabile forum per la discussione dei contenuti più radicali della ricerca, conferendo nuovi stimoli che sarebbe stato più difficile suscitare attraverso un documentario. In ogni caso, il progetto di ricerca “ufficiale” costituiva una maglia stretta, ma era una maglia che ci aveva permesso di lanciare un processo di impegno etico-politico su molti piani che senza il finanziamento pubblico non ci sarebbe stato possibile. 5. Il “cineforum” come luogo di coscienza critica emergente La realizzazione dei cineforum come luogo di produzione di coscienza critica non era andata esattamente come immaginato. Con l’aiuto di molti attivisti, nel corso di due anni quindi abbiamo potuto organizzare una serie di eventi di proiezione e dibattito in contesti molto diversi tra di loro, in cui abbiamo cercato di mettere sempre l’enfasi sui rapporti personali e di includere almeno uno degli attivisti stessi. I protagonisti stessi hanno proposto sessioni di proiezione e dibattito in una serie di occasioni. Abbiamo quindi realizzato un viaggio insieme al documentario e i suoi protagonisti che ci ha portato nelle situazioni più differenti. Per esempio, durante un festival delle economie alternative nella periferia di Roma abbiamo presentato il film di fronte a un singolo ospite, discutendo per ore il retroscena e le motivazioni politiche della ricerca. Un’altra volta abbiamo presentato il film a un piccolo festival di documentari etnografici a Kratovo, una piccola e arroccata cittadina nei monti tra la Macedonia e la Bulgaria. Mentre una banda folklorica suonava durante il pranzo nell’unico albergo della città, siamo scesi sudati e esauriti da un pullman con una delegazione di ben quattro persone. Il pubblico, composto da film-maker e antropologi visuali cosmopoliti, sembrava

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sopratutto affascinato dalla bellezza delle campagne più che dai contenuti. Un’altra volta abbiamo partecipato a una cena sociale del centro culturale “Cubo Libro”, al centro di un gigantesco parcheggio abbandonato nel quartiere svantaggiato di Tor Bella Monaca nella periferia di Roma. Dopo una cena sociale, sono venute alla luce molte difficoltà che frequentemente costringono, di fatto, gli agricoltori neo-rurali ad integrare il proprio reddito con altri lavori e lavoretti. Soltanto il nostro protagonista Mario, un apicoltore marxista, rivendica l’impegno e la capacità di aver conquistato la libertà attraverso i propri mezzi di produzione, una serie di alveari sparsi nel Lazio orientale. Un’altra volta abbiamo presentato il film a Belfast di fronte a un unico studente anarchico che diceva di andare semplicemente a “tutti gli eventi” dell’università; inoltre era troppo timido per fare molte domande. Un’altra volta abbiamo presentato il film al Belfast Film Festival, in una grande sala del cinema piena di gente. Avevamo organizzato una tavola rotonda a cui partecipavano anche esponenti di una rete che promuove nel Regno Unito delle cooperative che superano la logica della competizione. Erano venuti molti agricoltori indipendenti, persone che avevano appena fondato una cooperativa e altri che avevano difficolta a stare nei rigidi regimi legislativi. Il dibattito ha continuato nel foyer del cinema fino alla tarda serata e verteva soprattutto sulle differenze tra l’Italia e il Regno Unito. Avevamo affittato un piccolo appartamento per noi quattro, due protagonisti del film e due ricercatori e produttori del film. In questi giorni di “convivenza densa” abbiamo avuto occasione di comprendere fino in fondo le aspettative e le visioni del mondo di ciascuno e soprattutto di superare molti pregiudizi che si erano venuti a formare implicitamente sul lavoro degli altri: gli agricoltori immaginavano che il lavoro di ricerca scorresse tranquillamente senza vincoli e pressioni esterne e noi immaginavamo la vita in campagna comunque più bucolica di quella che non fosse. Nella diversità di queste esperienze di una restituzione impegnata si è realizzato una collaborazione stretta, basata su una condivisione degli eventi e della loro organizzazione all’in-

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terno della quale imparavano molto uno dall’altro. Ma quello che rendeva “militante” le pratiche di restituzione, ai nostri occhi, era quello che trascendeva i vincoli istituzionali, era quello che non era possibile se non avessimo messo in gioco la nostra vita privata senza badare tempo e i limiti previsti dalle tabelle di marcia Excel su cui si era basata il finanziamento. Altre volte invece il nostro ruolo da ricercatori si limitava a trasportare e far funzionare il proiettore. Inoltre, verso la fine della ricerca dovevamo costatare che due dei protagonisti già avevano cambiato la loro vita notevolmente; non partecipavano più alla parte movimentista dell’attivismo neo-rurale. Uno aveva polemizzato con la relativa staticità ideologica della rete neo-rurale, l’altro era sparito in ambienti più underground. Nelle situazioni più apertamente “militanti” era sempre difficile rendere chiara la relativa “indipendenza” del nostro lavoro di ricerca e la sua vocazione euristica rispetto agli obiettivi piuttosto concreti dei movimenti (“accesso alla terra”, “sovranità alimentare”). Altre volte invece era possibile lanciare delle idee in qualche modo utili al movimento. Per esempio, il tentativo di decostruire il concetto di trasparenza ufficiale ci ha portato a delle riflessioni più approfondite sul funzionamento della governamentabilità contemporanea attraverso il dispositivo della trasparenza, spingendoci tutti ad essere più consapevoli delle falle del senso comune. In questo senso, i canali classici dell’accademia offrono spazi vitali per interrogare temi di interesse etico-politico e uno spazio per la realizzazione di un contributo teorico che in fin dei conti può risultare più militante di quanto non siano contesti dichiaratamente militanti in senso stretto. 6. Conclusioni Il processo di restituzione del progetto sull’attivismo neo-rurale raccontato in questo capitolo mette in luce le dimensioni molteplici della militanza, spaziando dalla partecipazione attiva fino al tentativo di fornire nuovi strumenti in-

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terpretativi per la costruzione di una coscienza critica. Dove si era immaginato il fulcro della militanza, a volte, poteva riemergere l’ombra della cooptazione del sistema. Per esempio, durante una proiezione del film in un centro sociale ci eravamo perso in lunghe discussioni sulla qualità del latte di capra, dimenticando le implicazioni più astratte del nostro lavoro. Altre volte, invece, dove ci si sarebbe aspettata una tendenza di cooptazione del sistema, come per esempio nelle pubblicazioni accademiche, era possibile che scintillassero momenti di una militanza più radicale. Al contrario di quanto comunemente ci si immagina, la pubblicazione dei risultati in riviste accademiche specializzate o la presentazione dei risultati in convegni non è un atto che svuota la militanza del suo senso, ma può contribuire a sostenere una profondità che la militanza immediata non avrebbe mai potuto raggiungere. La maggiore difficoltà nei cineforum era costituita dalla sfida di non fare ridurre noi ricercatori a dei meri facilitatori, per così dire, e ai trasportatori del proiettore. In breve, il carattere militante diventa più esplicito quando si intreccia con la dimensione soggettiva piuttosto che rimanere limitata alla produzione accademica e alla distanza professionale.

Capitolo decimo Metodo militante nel contrasto alla dispersione scolastica dei minori sinti di Amalia Rossi

Molti antropologi attivisti e militanti rilevano nell’assenza/carenza/mancanza di sapere antropologico nelle prassi amministrative delle istituzioni democratiche un male più grande di quelli che si cerca di sanare con politiche sociali, misure di welfare o mediante forme di assistenzialismo. La problematica generata dalla presenza di comunità sinti e rom sul territorio italiano è uno di questi fenomeni critici, ed è nota al pubblico di sociologi specialisti così come al comune cittadino. Meno nota, nel senso di troppo scontata e dunque sottovalutata nella ricerca qualitativa, è la cultura “amministrativa” che permea le politiche pubbliche rivolte alla gestione della diversità linguistica, culturale, abitativa dei rom. La personale esperienza di etnografa militante presso gli insediamenti della minoranza sinti nella città di Pavia si è rivolta soprattutto allo studio dell’impatto della cultura “amministrativa” (in particolare l’apparato della pubblica istruzione) sulla quotidianità delle persone (gli studenti), e si è spinta alla sua critica e revisione. Si tratta di una ricerca inizialmente iscritta entro una cornice piuttosto banale e apparentemente apolitica e neutrale di azione sociale: il lavoro di mediazione culturale ed il volontariato, che sono stati la chiave di accesso al campo e allo stesso tempo i principali fenomeni ricaduti sotto l’osservazione etnografica, insieme al lavoro delle amministrazioni e al posizionamento degli studenti e delle famiglie sinte.

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L’etnocentrismo delle burocrazie del welfare tende ad assumere i tratti di un tic nervoso degli apparati della governamentalità e a ignorare i saperi antropologici. Ciò conduce spesso all’aggravarsi delle problematiche sociali: queste, anche quando sono già oggetto di politiche, misure amministrative e progetti di sviluppo, tendono a ripresentarsi, o anche a degenerare proprio in ragione della superficialità dei saperi e degli interessi puramente “amministrativi”, tecnocratici e securitari che nel tempo hanno preteso di risolverle. In Italia esiste abbondante letteratura sui rom e i sinti italiani (per citare solo alcuni contributi nell’ambito delle scienze sociali, Calabrò 1992, Vitale, 2009; Piasere, 1991, 2004, 2005), anche sui rom e sinti pavesi (Membretti, Scarpelli 2006, Membretti Vancheri 2007) ed esiste pure letteratura sull’infanzia rom nelle scuole pubbliche (si vedano le pubblicazioni di Arci Milano, 2013; Sorani 2004): ma a Pavia le istituzioni scolastiche non si erano mai affidate alle conoscenze di altri social workers, pedagogisti, antropologi che in precedenza avevano già esplorato il fenomeno della dispersione scolastica e dell’intervento socio-istituzionale in altre città italiane ed europee. Come ho potuto osservare nel corso di un’esperienza durata più di un lustro, tale ignoranza era una delle concause che avevano portato alla altissima dispersione scolastica dei giovani sinti pavesi (ammontante a circa 75% degli iscritti alla scuola secondaria di primo grado) nel corso di un paio di decenni. La mia prima esperienza di osservazione nel principale insediamento sinti della mia città (localizzato in Piazzale Europa, a est del centro storico) è iniziata nell’inverno del 2011 con la somministrazione, per conto dell’Università Bicocca, di un questionario sui consumi delle famiglie sinte e rom lombarde, e con la successiva frequentazione del campo in compagnia dell’educatore dei Servizi Sociali a partire dai primi mesi del 2012. Non passò molto tempo da questi primi contatti perché mi convincessi che certe storie e specifiche dinamiche socio-culturali che tendono a prevenire l’integrazione dei minori sinti nelle scuole pavesi andassero studiate

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e raccontate. Ho poi compreso che sarebbe stato poco utile aspettare di pubblicarle, attendendo magari anni prima che la mia etnografia – che non sapevo comunque come finanziare – avesse qualche ricaduta sul presente delle persone che ormai incontravo quotidianamente. Queste storie, non andavano raccolte tanto per essere raccontate agli accademici e ai colleghi antropologi, ma ai volontari, agli insegnanti, agli assistenti sociali, agli assessori, ai presidi, ai neuropsichiatri, ai miei amici che facevano parte delle associazioni e cooperative sociali del territorio. Le storie potevano essere raccolte, analizzate e ripresentate a questi attori sotto forma di reports e relazioni etnografiche di carattere “tecnico” (restituite in forma orale o scritta) su casi individuali o su situazioni generali di particolare gravità o urgenza e che richiedevano un rapido esame ed intervento. Non solo le storie dei bambini e delle famiglie e le osservazioni della vita quotidiana nel campo potevano e dovevano essere riportate e ridiscusse con le agenzie dell’intervento. Il lavoro di restituzione doveva comprendere il raccontare ai sinti il senso del mondo dei gagi 1 (del lavoro di un’insegnante o di un’assistente sociale, della storia delle istituzioni scolastiche, dell’impreparazione di molti docenti sulla cultura sinta). I giovani sinti dovevano farsi spazio facendosi conoscere, perché gli amministratori e gli insegnanti non andavano considerati “razzisti e cattivi”, solo in molti casi si trovavano impreparati di fronte ai diversi orientamenti e posture culturali dei ragazzini e delle ragazzine sinti: ad esempio quando un bambino si alza per andare a cercare suo cugino nella classe di fianco, o comincia a fare rumore in un momento di silenzio, o non prova interesse per la lingua italiana e per la scrittura. 1 I gagè, o gagi (come li chiamano a Pavia, che al singolare si declina come gagio al maschile, gagia al femminile) sono le persone “non rom”che non parlano e non vivono come i rom/sinti. Al termine i rom tendono ad attribuire una connotazione dispregiativa. L’alterità dei gagi (la loro cultura sedentaria, urbana, altamente tecnologica, colta e fondata sulla lingua scritta, militarista, statalista, tecnocratica…) rappresenta storicamente e strutturalmente una minaccia per l’indipendenza di queste popolazioni nomadi e seminomadi.

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Prendo atto dell’atteggiamento differenzialista che ha contraddistinto la mia scelta di ricerca come mobilitazione, e che questo differenzialismo è reciproco, ovvero i rom non ci tengono ad essere trattati come gli altri, ma come rom e questa loro volontà va rispettata e tenuta da conto nell’intervento sociale e nell’interpretazione culturale del loro agire e pensare. Ritengo che una certa forma di differenzialismo sia doverosa a fronte della necessità di conservazione della specificità etnica e linguistica in un contesto tendenzialmente uniformante come quello della scuola pubblica; possibili accuse di etnocentrismo nel concepire e portare avanti progetti di emancipazione con i sinti pavesi in un tentativo condiviso di rimettere in discussione il confine tra questi ultimi e i gagi, tra la città e l’insediamento nomade, non vanno affrontate con imbarazzo. Non sono rom, e credo profondamente – come molti altri gagi – nel diritto dei minori all’istruzione e nel dovere degli adulti di garantirlo: alcuni genitori sinti mettono in dubbio questo dovere di cittadini, pur sentendosi a pieno titolo cittadini italiani. Questo differenzialismo costruttivo e dialogico è diverso a quello che fa da sfondo all’ideologia “di governo” (indipendentemente dal colore e dal simbolo), quello, ad esempio, che ha reso possibile il fatto che nel 2011 attraversassi per la prima volta i confini del campo in qualità di ricercatrice universitaria scortata da un vigile urbano, a bordo di un’auto della polizia locale previ accordi tra l’Università Bicocca e il Comune di Pavia. Questa ideologia, ovviamente, sottintende che il confine è pericoloso e che la diversità dei sinti è un problema di ordine pubblico. Esiste una dimensione sperimentale della ricerca militante, e questa è stata duplice nell’esperienza a cui si accenna qui. Da una parte si è trattato di guardare alla relazione tra cultura rom-sinti e cultura statalista dei gagi con gli occhi di un etnografo: isolare gli spazi simbolici del contatto tra i due mondi (gli incontri “strutturati” con l’assistente sociale, con l’insegnante, con lo psicologo, con l’educatore…), distillarne il senso, tradurlo, spiegarlo alle parti in modo che emergessero più possibile elementi chiari e condivisi.

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Dall’altra parte –avendo scelto di restare a fianco dei sinti e delle istituzioni– mi impegnavo a intervenire insinuando i saperi antropologici nelle prassi comunicative, nelle procedure istituzionali, nelle arene del confronto sulle politiche pubbliche in quell’aquis governamental-amministrativo in cui inevitabilmente i cittadini sinti (come tutti gli altri cittadini) sono catturati. Dunque seguendo simultaneamente tali orientamenti si perviene a una conoscenza profonda del contesto relazionale; si può giungere a rendere i sinti e i rappresentanti delle istituzioni consapevoli delle distorsioni e dei pregiudizi reciproci e favorire la riformulazione di una relazione storica che, negli anni, sta progressivamente implicando l’esclusione sistematica dei sinti pavesi dalla scuola e dal mondo del lavoro. 1. Tradurre e mediare come azioni militanti Nonostante la diversità dei punti di vista, e i conflitti che di tanto in tanto potevano sorgere nella trattazione dei casi di dispersione o nell’organizzazione delle attività, il progressivo coinvolgimento e integrazione del lavoro del terzo settore, dei rappresentanti delle istituzioni scolastiche e delle specialiste della neuro-psichatria infantile dell’ ASST ex- ASL di Pavia, ha rappresentato il naturale sfogo delle conoscenze che andavo accumulando frequentando assiduamente il campo e sottoponendo i suoi abitanti a continue sollecitazioni e incontri con l’ambiente esterno. Era evidente che i sinti pavesi fossero pressoché completamente disarticolati dal network di militanti rom italiani ed europei, con cui io stessa non avevo contatti all’inizio delle mie esplorazioni. L’unico aggancio, in termini di sostegno alle famiglie e tutela degli interessi del villaggio di piazzale Europa, è la chiesa cattolica, presente nella persona di un frate e di un prete missionario praticamente residenti nel villaggio sinti, mentre nel più piccolo insediamento di Viale Bramante una piccola chiesa evangelica costituisce il fulcro degli incontri tra gli abitanti.

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La saldatura tra la realtà dei sinti pavesi e la rete nazionale e internazionale per i diritti dei rom ha rappresentato un passo significativo nell’impresa di emancipazione di questa minoranza urbana negli anni della mia frequentazione. Avevo pensato di reclutare volontari tra gli universitari pavesi e tra le mie amicizie, per dare una mano agli studenti nello studio e nella preparazione dei compiti. Ne avevo parlato all’assistente sociale del Comune, Marco Greppi, che sin dalla sua entrata in servizio a Pavia si era preso a cuore la situazione degli insediamenti sinti e aveva voluto pubblicare un annuncio sul quotidiano locale. Tra i primi volontari a rispondere all’appello, ho conosciuto Martina Belloni, studentessa di Scienze Politiche, che insieme ad altre ragazze e ragazzi dell’Università, hanno per diversi anni fornito un servizio di aiuto-compiti che abbiamo svolto nelle chiesette (costruite a mano dai residenti e fulcro delle relazioni tra le famiglie allargate) dei due campi di Pavia, collaborando anche a tutte le altre iniziative. Presto abbiamo chiesto e trovato il supporto di altre cooperative e associazioni pavesi, come Coop Progetto Con-Tatto, Centro Interculturale La Mongolfiera, Coop Finis Terrae e Associazione Babele ONLUS. Su iniziativa di Martina, già nel 2013 abbiamo preso contatti con Giorgio Bezzecchi2 vice-presidente di Opera Nomadi e Coop. Romano Drom di Milano, che ha accompagnato me e Martina alla fondazione di una piccola Organizzazione di Volontariato – La Scuola di Mafalda – che abbiamo deciso di dedicare alla fondatrice dell’insediamento di piazzale Europa3. 2 Giorgio Bezzecchi, rom harvato italiano, è nato a Pavia nel 1961. A seguito di una lunga collaborazione con il Comune di Milano, oggi è consulente del Consiglio di Europa per il programma Romact di inclusione dei rom. Mediatore culturale, formatore, autore di libri e articoli, è uno dei maggiori attivisti per i diritti delle minoranze romanì in Italia. Il campo di Rogoredo a Milano è la casa di suo padre, rom abruzzese sfuggito alla persecuzione nazi-fascista, e qui Giorgio ha fondato il Museo del Viaggio dedicato al cantautore di Fabrizio De Andrè, suo amico e collaboratore, e alla cultura romanì. 3 Aveva un forte valore simbolico e strategico riferirci esplicitamente alla regina Mafalda nell’intestazione della nostra OdV. Mafalda Navone era la leader storica dei sinti lombardi, convinta sostenitrice della scolarizzazione della propria gente. Come ricorda il quotidiano locale “La provincia Pavese” in occasione del sopralluogo del fotografo Oliviero Toscani per un suo

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L’incontro con Giorgio ha rappresentato un punto di svolta per la sorte dei campi di Pavia: la sua decennale esperienza nella cooperazione locale a favore delle comunità romanì di tutta Italia è stato fondamentale per sollecitare la simultanea adozione di più strategie di negoziazione, concertazione e inclusione. Nella fase in cui il lavoro di volontariato andava consolidandosi, ovvero lungo tutto il 2014, Giorgio ha insistito sul fatto che nessun progetto poteva prescindere da forme di mediazione culturale che includessero mediatori sinti, residenti presso il campo. Per questo si era mosso affinché ogni piccolo progetto approvato dal Comune per contrastare la dispersione scolastica si servisse di mediatrici culturali residenti nei campi, formate da lui e incaricate di affiancare operatori istituzionali e del terzo settore nella gestione dei progetti. In questa fase ho potuto apprezzare il ruolo fondamentale della mediazione linguistico culturale (MLC) nei nostri tentativi di contatto, coinvolgimento, partecipazione della minoranza sinti alla vita della società locale. Quel che avvertivamo era soprattutto il consenso dei bambini e delle famiglie a farsi supportare in questo percorso che, nelle intenzioni di tutti, doveva portare soprattutto al riconoscimento di alcuni habitus culturali, radicati presso le comunità sinte, da parte delle agenzie dell’intervento (scuole, servizi sociali, neuro-psichiatria infantile). La traduzione culturale auspicata dagli antropologi interpretativi non va confusa con la mediazione culturale: si tratta di due imprese diverse, la prima di carattere più cognitivo e semantico, l’altra di carattere pratico-comunicativo; la prima neutrale, avalutativa, la seconda determinata da specifiche reportage su Mafalda (2017): “Pavia, sino a una ventina di anni fa, ospitava la regina Mafalda, punto di riferimento per tutti i Sinti della Lombardia. […] I Sinti di piazzale Europa, infatti, sono discendenti da Mafalda Navone, chiamata regina Mafalda, e da Guarino Casagrande e si sono stanziati definitivamente a Pavia nel 1986, in piazzale Europa […]. È soprattutto grazie alla sensibilità di Mafalda Navone che tutti i bambini del campo di piazzale Europa […] da anni frequentano, tutti, regolarmente le scuole dell’obbligo. […] Fu proprio Mafalda, infatti, ad aprire il dialogo con l’amministrazione comunale […]” (laprovinciapavese.gelocal.it/pavia/cronaca/2017/05/19/ news/oliviero-toscani-dai-sinti-per-il-reportage-su-mafalda-1.15359972).

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politiche culturali. Nel caso qui discusso, d’altra parte, che si riferisce all’uso militante dei saperi antropologici al fine di promuovere micro-politiche inedite e sperimentali del rapporto tra istituzioni locali e famiglie sinte, la mediazione culturale ha rappresentato il telaio mediante cui si è progressivamente intessuto il rapporto tra i diversi attori in campo, garantendo che la qualità “antropologica” della relazione che si andava costruendo fosse determinata dalla costruzione di un campo di conoscenze condivise, dalla revisione dei pregiudizi reciproci, da una ricognizione collettiva della storia generale e locale, dalla visualizzazione di orizzonti culturali e codici comunicativi (spesso di natura artistica) comuni, consentendo una migliore comprensione degli interessi delle parti coinvolte e la definizione di obiettivi compatibili e la progressiva produzione di un intreccio culturale inedito. Traduzione culturale e MLC, se asserviti a micro-politiche sperimentali negoziate e costruite con governanti e beneficiari dei progetti, possono essere l’uno lo strumento dell’altra, ovvero possono integrare il momento conoscitivo e quello trasformativo della realtà. L’essenza del lavoro di mediazione sta nel decodificare la realtà, ricodificarla, spiegarla con concetti vicini all’esperienza degli interlocutori a chi ne è distante. Il tutto nello spazio di pochi giorni, poche ore, in forma di report o comunicazioni di carattere tecnico-descrittivo oppure informale, non desinati ad essere pubblicati e resi noti (in quanto coperti da privacy), ma a divenire strumento di interlocuzione tra attori diversamente posizionati Raffinare le tecniche di reporting, la facilitazione del dialogo attraverso una traduzione culturale incessante e tempestiva, è stata l’essenza dell’esperienza di militanza etnografica: raccogliere dati, analizzarli, riportarli al preside, al neuropsichiatra , all’amministratore e ai familiari per salvare la situazione di questo o quell’altro studente, che rischia di “perdere l’anno”, spesso perché vive una situazione familiare difficile. Se avessimo implementato strategie di mediazione culturale “tout court” si sarebbe imposta la visione della controparte egemonica, la visione dei gagi. Normalmente, infatti,

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la MLC nasce e viene utilizzata dalle autorità, dagli amministratori e dai tecnici per facilitare il processo di adesione del destinatario della mediazione ai protocolli istituzionali. Se avessimo seguito questa tendenza, con Giorgio, avremmo chiesto alle mediatrici sinte di intervenire sulle famiglie per far comprendere l’importanza della conoscenza della lingua italiana, la gravità delle assenze non giustificate, dei compiti non svolti, che i bambini dispongano dei materiali scolastici necessari, la gravità dei comportamenti indisciplinati degli alunni “nomadi”. Invece si è concordato con le mediatrici, a loro volta madri di studenti sinti inseriti nelle scuole pavesi, che il loro lavoro – nei colloqui con gli attori istituzionali – fosse quello di spiegare a docenti, assistenti sociali, educatori e neuro-psichiatri infantili cosa impediva agli studenti del campo di avere prestazioni da “primi della classe”. Ovvero di raccontare quanto avviene nel campo: che i bambini sinti sono bilingui; che la cultura romanì tende a privilegiare la comunicazione orale; che i genitori di molti bambini sono quasi analfabeti; che le molte assenze erano spesso dovute a obblighi comunitari, come la partecipazione funerali e a veglie notturne per i defunti ed i malati, alla condizione di grave disagio di alcune famiglie, alla paura che il mondo dei gagi ispira ad alcuni di loro, letteralmente angosciati dall’entrare in rapporto con i coetanei non sinti; che i loro bambini crescono all’aria aperta, con un vago senso della proprietà privata e di regole ferree a scandire le attività del giorno, e condividono spazi ristretti con altri adulti, anziani il che conduce, nonostante il rispetto dovuto, a non dover mettere in scena particolari atti di deferenza nei confronti di chi è più grande di loro. In quest’ottica si sono promossi diversi laboratori di lingua sinta nelle classi delle scuole elementari e medie, concorsi musicali a cui gli studenti hanno partecipato cantando canzoni della tradizione musicale contemporanea dei sinti italiani, come loro la definiscono, scelte da loro e nella loro lingua madre. La mediazione culturale è stata biunivoca, si è tentato allo stesso modo di rendere intellegibili ai genitori e agli studenti

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le specifiche esigenze degli attori istituzionali, il valore formativo ed inclusivo della scuola, la difficoltà degli insegnanti, neuro-psichiatri e assistenti sociali – causato dalla routine burocratica e tecnocratica dell’organizzazione scolastica e non dalla loro cattiveria – a mettere in atto soluzioni adeguate e culturalmente “informate”; si è cercato di coinvolgere le famiglie in eventi pubblici e di renderle edotte rispetto alle misure sociali dedicate all’intera cittadinanza, invitandoli a candidarsi per ricevere sussidi scolastici e borse di studio. Continuamente ci si è preoccupati di informare e invogliare gli studenti a fantasticare su possibili sbocchi di studio e carriera che il loro sforzo avrebbe reso possibili. Con i fondi messi a disposizione dal Comune, abbiamo garantito per tre anni di seguito l’acquisto di libri e materiali scolastici per 30 studenti del campo e organizzato diversi servizi di aiuto-compiti e mediazione scuola-famiglia. Le famiglie, le scuole e gli studenti sono stati messi simultaneamente nelle condizioni di affrontare con maggiore serenità e sostegno le situazioni di difficoltà legate all’inserimento e al rendimento scolastici. Un esito fondamentale di questo processo è stata la sperimentazione di soluzioni che prevenissero la segnalazione degli studenti ai servizi di neuro-psichiatria infantile e la promozione di adattamenti “in situ”, direttamente a scuola, con programmi didattici personalizzati, piccole agevolazioni, e variazioni della routine scolastica (che comprendessero laboratori su lingua e cultura sinte per le classi degli studenti del campo, uscite anticipate per i bambini affetti – secondo il gergo specialistico – da disturbi dell’attenzione, la partecipazione sistematica a progetti d’istituto, la gratuità delle visite di istruzione, la possibilità di andare a trovare i cugini sinti nelle altre classi in orari determinati e di essere affiancati da mediatrici del campo e volontari esterni anche durante le ore di lezione). In questo processo abbiamo insegnato agli insegnanti a leggere le doti linguistiche, di socialità, motricità e predisposizione all’arte e alla musica dei bambini sinti, e a far sì che tali capacità divenissero seriamente oggetto di positiva valutazione scolastica.

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2. Restituire “in sordina” Nel lavoro con la comunità dei sinti pavesi restituire la comprensione etnografica del contesto ha significato semplicemente donare molto tempo alla mediazione e alla facilitazione della comunicazione tra diversi gruppi di interesse in cui mi riconoscevo e a cui volevo insegnare a dialogare. Buona parte di questo lavoro passa inosservato, ma è forse la componente più incisiva dell’antropologia come sapere performante, capace di ispirare nuove condotte, eventi, relazioni. Tornando dunque ai Sinti pavesi, con la collaborazione di molti, negli anni si sono ideati e riproposti eventi pubblici informativi sulle storie e la cultura dei sinti e dei rom italiani, nelle scuole e fuori. Nella restituzione attraverso la mediazione è sempre stato utile spiegare ai gagi, fossero questi volontari, educatori, psicologi o amministratori, che si poteva guardare a quella dei rom e dei sinti come a una forma culturale generata dalla resistenza a secoli di cooptazione e accentramento, che certi tratti del loro fare e sentire collettivo non erano dovuti a “ignoranza”, “barbarie” e “cattiveria” ma ad una tendenza strutturale che andava conosciuta e anche apprezzata. Infatti, quella di non essere governati – come ricorda James Scott (2008) riguardo alle popolazioni nomadi del Sud Est Asiatico continentale, così simili per struttura organizzativa e concezione del potere, ai gruppi di lingua romanì europei – è un’arte al cui apprendistato i bambini sinti non si potevano facilmente sottrarre. A parte questa versione ironica ma tremendamente lucida della storia “anarchica” dei gruppi nomadi e seminomadi, restituire il prodotto della ricerca militante ai sinti è stato semplicemente naturale, fisiologico, perché noi eravamo gli stessi fruitori dei servizi e degli eventi di ciò che andavamo organizzando. Ciò avveniva, ad esempio, contribuendo all’ideazione e realizzazione di eventi come la commemorazione del Porrajmos (“il grande divoramento”, come viene definito l’olocausto delle minoranze Romanì in Europa durante la II guerra mondiale) presso il palazzo del Broletto nel pieno centro città: organiz-

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zato per tre anni consecutivi, l’evento – che cade a fine gennaio – ha coinvolto musicisti e testimoni, attivisti sinti e rom da tutta Italia ed Europa, con la proiezione di filmati etnografici distribuiti da Opera Nomadi. Altro evento sollecitato dalla rete emersa dal lavoro militante è stata la celebrazione della giornata mondiale delle Comunità Sinti Rom e Camminanti l’8 di aprile: anche qui si è coinvolta la comunità sinta nell’auto rappresentazione di sé stessa, e autocelebrazione, con interventi pubblici, musiche e balli. In tutte queste occasioni i rappresentanti delle istituzioni scolastiche sono stati invitati come pubblico e, tra gli altri relatori sinti e gagi sono regolarmente intervenuta come attivista e antropologa per spiegare la sostanza della problematica e dei progetti in atto sul fronte della dispersione scolastica dei minori sinti. La maggiore soddisfazione l’ho avuta nel restituire la mia conoscenza antropologica e del contesto a Simone Pavanati, un giovane volontario del Servizio Civile laureando in Scienze dell’Educazione presso l’Università Bicocca, che ha deciso di scrivere una tesi di carattere etnografico sulla cultura musicale dei sinti pavesi (2016), il cui correlatore era il collega Mauro Van Aken, professore associato presso la stessa Università. Inevitabilmente, e data la stretta collaborazione che già avevamo instaurato per portare avanti i progetti, mi sono trovata ad accompagnare Simone e a supportarlo informalmente come consulente sui metodi etnografici e sulla vita quotidiana dei sinti pavesi; proveniente da una lunga esperienza con gli scout cattolici, e introdotto nell’entorurage da Giorgio, Simone in poco tempo è divenuto amatissimo dalla comunità, impegnandosi in progetti musicali con i bambini e gli adulti. La sua tesi è un prodotto originalissimo, che raccoglie molti dati attuali sulla comunità sinti di Pavia in una chiave inedita e considero il tempo passato a discutere con Simone della tesi un gesto di militanza etnografica spassionata e gratuita, peraltro proprio per questo estremamente appagante. Un’altra interessante occasione di restituzione “indiretta” è stata la visita dell’amico e collega antropologo Andrea Staid per la definizione di un capitolo di uno dei suoi ultimi libri (Staid,

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2017). In quell’occasione con Andrea abbiamo avuto il privilegio di intervistare una delle nostre mediatrici sinte, Linda “Sendy” Casagrande, che ci ha mostrato foto storiche dell’insediamento, raccontandocene la storia. Anche qui, la personale restituzione pubblica è avvenuta in sordina, mediata e accompagnata da altre voci che hanno approcciato il campo attraverso la mia conoscenza e familiarità con il contesto. Ancora più emozionante è stato vedere che per la prima volta i ragazzi sinti sceglievano il tema dell’identità sinta o del popolo sinto come argomento per la tesina dell’esame di terza media e proprio loro ci sollecitavano ad affrontare una ricerca storiografica, letteraria ed etnologica. Aiutati dai volontari, hanno studiato e ricostruito la storia europea e italiana dei sinti per presentarla davanti ai professori. In altri casi abbiamo coinvolto i bambini in rappresentazioni teatrali sulla cultura sinta (anche su nodi problematici della stessa, come la questione dei matrimoni precoci, affrontata in un piccolo spettacolo ideato dalle mediatrici e dai bambini sulla scia del progetto europeo Marry When You Are Ready, la cui promotrice è un’attivista rom italiana) e in manifestazioni musicali di cui non è possibile riscostruire qui il dettaglio ma che hanno rappresentato momenti di riflessione interculturale in atmosfere di condivisione e festa tra sinti e gagi nel segno della riscoperta antropologica della cultura romanì a Pavia. Per gli antropologi partigiani non è produttivo uno scontro con le istituzioni, anche se si ritiene di dover far leva, nel riferire le proprie osservazioni agli attori in gioco, sul disvelamento di scomode verità, come nel nostro caso è stato il progressivo smantellamento dei pregiudizi dei gagi sulla comunità sinta e viceversa. A volte ho forse infastidito qualche preside, insegnante o qualche educatore facendo loro notare la mancanza di attenzione per il problema del bilinguismo e per i bisogni educativi speciali dei ragazzi4, e forse ho infasti4 In molti casi si è riusciti ad adottare, senza che si passasse per i servizi di neuro-psichiatria infantile, i modelli didattici riassunti dall’acronimo BES, bisogni educativi speciali, un modello di origine britannica impostosi negli ambienti educativi pubblici come alternativa alla patologizzazione dei distur-

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dito, rimproverandole, alcune madri sinte, che per protesta contro i richiami della scuola manifestavano la volontà di non voler più mandare i bambini a scuola. La collaborazione con le istituzioni, alla fine, è stato il mezzo e il fine del lavoro, così come l’atteggiamento degli amministratori, insegnanti, ecc. è stato uno dei principali oggetti della ricerca militante e uno dei principali target dell’intervento formulato con Giorgio, le mediatrici e gli altri operatori della rete che avevamo creato. L’apertura riscontrata nella maggior parte dei casi ha mostrato che, radunando e interpretando le singole volontà, la definizione di un progetto che potesse soddisfare gli interessi di tutti era percorribile. Si è trattato di un percorso di chirurgia culturale, volto all’adattamento ed implementazione delle soluzioni rivendicate dai rom nel movimento nazionale e internazionale; un intervento di saldatura tra il movimento per i diritti dei rom e la minuscola realtà pavese non ancora terminato, in cui le istituzioni scolastiche e l’amministrazione si sono messe in gioco riconoscendo il problema e supportando la sperimentazione di nuove prassi contro la dispersione scolastica.

bi dell’apprendimento connessi a situazioni di svantaggio socio-ambientale ed economico. Bisogna però mettere in guardia anche sulla possibilità che certi schemi alternativi vengano abusati e si trasformino in nuove etichette atte a distinguere i soggetti “normali” da quelli che, agli occhi dei rappresentanti della cultura amministrativa, non lo sono.

Capitolo undicesimo Dubbi, collaborazioni e sperimentazioni di Stefano Boni

Da quando ho iniziato a studiare antropologia ho ascoltato amici e conoscenti che non avevano intrapreso studi universitari o li avevano abbandonati precocemente, criticare la ricerca universitaria come sostanzialmente slegata da implicazioni pratiche, una volontaria disconnessione intellettuale dal mondo e una rinuncia alla sua trasformazione simbolizzata dalla metafora della torre di avorio. L’università che ho frequentato era scettica rispetto alla antropologia applicata, tiepida rispetto ad esposizioni pubbliche che potessero essere controverse, ostile a contaminazioni militanti. Le pubblicazioni frutto della mia ricerca condotta in Ghana mi hanno fornito le credenziali per l’entrata professionale nel mondo accademico: lavori puntigliosi, scritti secondo i canoni richiesti dalle riviste scientifiche e letti probabilmente da un massimo di qualche decina di specialisti. Mentre proseguivo diligentemente sul tracciato di chi aspirava ad un profilo accademico ragionavo sulla perversa relazione inversa tra l’apprezzamento universitario delle indagini, da un lato, e il numero di lettori della pubblicazione, dall’altro: più la pubblicazione era accademicamente meritoria più era ignorata da chi era fuori dal ristretto circolo degli specialisti. Mi stavo preparando a riprodurre un sapere non solo settario ma riservato a pochi iniziati?

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1. La difficile restituzione di un sapere specialistico Le prime forme di restituzione della ricerca hanno preso la forma del ritorno nell’area della mia ricerca in Ghana con articoli e libri accademici distribuiti tra gli interlocutori che avevano dato vita alla ricerca oppure donati alla libreria e al college in cui venivano formati i maestri, unici centri di diffusione di un sapere in qualche modo congruente con lo stile dei testi che avevo prodotto. Il contenuto li riguardava ma i tecnicismi rendevano molti passaggi difficilmente decifrabili a chiunque non fosse stato formato in antropologia all’università. Sentivo il bisogno di riportare le pubblicazioni universitarie dove era stata svolta la ricerca nonostante fossi ben consapevole che sarebbero state incomprensibili a quasi tutti (alcune erano scritte in italiano!). Erano sicuramente più gratificanti forme di restituzione a cui venivo invitato dai miei interlocutori: accompagnare malati in ospedale, offrire passaggi in automobile o piccoli aiuti finanziari ad amici, catalogare e sistemare i documenti presenti nel palazzo del sovrano locale. Ho provato a concepire la consulenza in progetti di cooperazione come una possibile restituzione ma nei due casi in cui ho lavorato come “esperto” mi sono presto reso conto che le trasformazioni desiderabili, che pure erano possibili, venivano ritardate e bloccate. Le istituzioni, sia quelle delle cooperazione che quelle locali (lo Stato e la struttura del potere politico ‘tradizionale’ dei capivillaggio), rallentavano e impedivano misure finalizzate a distribuzioni più eque delle risorse e del potere, condizioni indispensabili per rendere gli interventi appetibili alle comunità contadine (Boni 2012). I numeri di download delle pubblicazioni scientifiche da un sito web aperto può rappresentare un buon indicatore della circolazione delle pubblicazioni e quindi dell’interesse per le ricerche svolte. Gli scaricamenti delle mie pubblicazioni sul Ghana sono scarsi, con la sola eccezione, inaspettata, di un articolo sulla storia politica precoloniale

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Sefwi (la mia area di ricerca) tra il sedicesimo e il diciannovesimo secolo (Boni 2001); è uno scritto marginale rispetto al percorso di ricerca ma di gran lunga il più richiesto. L’interesse per la storia politica in Ghana si spiega con la continua attualità del passato: soprattutto per ciò che concerne le dinamiche politiche ciò che è stato, con le sue innumerevoli interpretazioni, rappresenta il quadro entro cui muoversi nel presente. Una passione fine a se stessa ma anche stimolata da interessi materiali in quanto, a tutt’ora, le rappresentazioni di ciò che è stato sono usate nei tribunali per negoziare lo status dei capivillaggio e per stabilire l’attribuzione dei diritti sulla terra. Con l’agognata assunzione all’università ho cercato di immaginare e praticare un uso della mia formazione che avesse un impatto al di là dei contesti universitari e di affrontare così le giuste critiche di auto-referenzialità che venivano rivolte alla ricerca accademica. Essere pagato come intellettuale pubblico permetteva e richiedeva, per i miei canoni etici, una restituzione intesa come impegno a mettere a disposizione un sapere che fosse anche in grado di relazionarsi con le preoccupazioni di parti consistenti del tessuto sociale, anche di quelle che non avevano intrapreso studi avanzati, con cui sentivo una affinità etica e politica. Per certi versi il mio percorso è stato analogo alla dinamica generata dalla ricerca di Viola (2015, p. 25) sulla omofobia, sebbene fosse mia intenzione volgere l’attenzione sulle molteplici espressioni della dialettica eguaglianza/ diseguaglianza: La mia ricerca divenne in qualche modo uno strumento di approfondimento teorico delle dinamiche di oppressione e violenza […] In fondo avevamo un obiettivo comune, capire i meccanismi che sottostanno alla violenza omofoba: io per studiarli e loro per opporvisi. Il nostro dialogo si alimentò per mesi di riflessioni sui motivi che muovevano l’odio, sempre e comunque alla ricerca di un modo per disinnescarli.

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2. Politica, sapere, militanza Come molti colleghi ho cercato di rendere accessibile un sapere pensato come disciplinare alternando registri di scrittura, affiancando lo stile scientifico con testi più leggibili, pensati per un pubblico ampio. Il primo passaggio è stata l’applicazione delle tecniche etnografiche, ovvero la descrizione del quotidiano, ad un percorso collettivo e politico in cui ero immerso con Vivere senza padroni (Boni 2006). La mia intenzione era di illustrare come la tensione politica si potesse tramutare in organizzazione della quotidianità, forme di mutuo appoggio, di evasione dalla legalità, narrando principalmente la prassi della casa comune dove vivevo. Si trattava di mostrare come fosse possibile radicare la politica nel quotidiano, applicare valori sperimentandoli in modo anche contraddittorio e parziale, ma concreto. Questo permetteva da un lato di neutralizzare la pretesa inevitabilità del conformismo egemonico, dall’altra di mostrare la vacuità dei proclami ideologici e astratti di una parte della élite movimentista di sinistra, che bene predicava ma poco (e male) praticava. Il testo era teso a mostrare che i cambiamenti desiderati sono implementabili partendo da un protagonismo diffuso ed informale piuttosto che passando per le istituzioni o per gruppi antagonisti specifici (e i loro leader): il focus si spostava dagli slogan e dalle azioni eclatanti alla organizzazione della quotidianità. Il libro è stato pensato come corto e leggibile e volutamente ignorava gli obblighi stilistici della scrittura accademica, ad esempio non aveva bibliografia. Vivere senza padroni aveva come oggetto un micro circuito culturale; è stata quindi una etnografia militante atipica perché non focalizzata su un agente collettivo riconoscibile (un movimento, un gruppo organizzato, un progetto) o su una lotta capace di mobilitazioni clamorose. I protagonisti erano i miei amici abituali e in molti casi conviventi: era il nostro vissuto ad avere una valenza trasformativa piuttosto che un impegno esplicitamente politico. Prima della pubblicazione il testo è stato letto e discusso nel circuito che descrivo da quelli che

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ne avevano desiderio: sono state richieste alcune modifiche, o meglio la rimozione di alcuni passaggi, che ho accolto nel preparare la versione pubblicata. A parte un’eccezione (Boni 2017b), a differenza di molti altri etnografi, ho scelto di non studiare un particolare movimento, gruppo, evento, lotta: la restituzione non ha quindi preso la forma della divulgazione pubblica dei risultati di fronte a chi era stato studiato. La ricerca in Venezuela sulle forme assembleari promosse dallo Stato (Boni 2017), mi ha permesso di prendere coscienza della distanza irriducibile tra la mia tensione politica verso l’autonomia autogestita del tessuto sociale e la logica del socialismo venezuelano del XXI secolo. Non solo questo mostrava spinte autoritarie e una dilagante corruzione (a tutti i livelli), ciò che sentivo come più problematico era che il rapporto tra istituzioni e cittadini fosse improntato in buona parte su dinamiche clientelari: queste, sebbene permettessero l’accesso a servizi sociali e generassero consenso elettorale fino a quando la rendita petrolifera ha permesso generose elargizioni, vincolavano sempre più la cittadinanza ai sussidi statali, sclerotizzando la dinamica politica e neutralizzando l’autonomia dal basso. In un contesto di forte tensione politica, non è stato facile restituire le mie impressioni ai militanti più radicali della base del partito socialista, con cui si era creata una intima affinità nei valori dichiarati e negli scopi da raggiungere. Erano loro stessi a vivere delle disgiunzioni utopiche tra quello che avrebbero voluto dal governo socialista e quello che effettivamente calava dall’alto (Wilde 2017): eppure sebbene fossero estremamente critici nelle conversazioni private, in pubblico esprimevano un appoggio incondizionato al governo. Ci trovavamo spesso d’accordo sulla diagnosi dei limiti del processo in corso ma non nella soluzione: se io auspicavo una dissoluzione del potere centrale, un allontanamento da leader carismatici, un’evasione dalla gerarchia partitica, loro invece insistevano nel cercare di migliorare gli assetti dall’interno delle strutture istituzionali del Partito-Stato. Le divergenze dipendevano anche da ruoli diversi: i militanti di base socialisti, a differenza di me, si muovevano in

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una precarietà economica in cui il salario e i sussidi del partito erano vitali. Quando sono stato invitato da radio comunitarie ad esprimermi sulla “rivoluzione bolivariana” mi son trovato a pesare le parole e a fare riferimenti indiretti, sia per non scontentare gli attivisti socialisti con cui lavoravo, sia per cautela rispetto ad un contesto politico a cui non appartenevo. In pratica non mi sono mai allineato politicamente al contesto studiato. O ci vivevo dentro, nel caso di Vivere senza padroni e quindi non c’era bisogno di allinearsi, oppure man mano che scoprivo le ambivalenze del funzionamento istituzionale, come in Venezuela, mi sembrava importante condividere riflessioni critiche piuttosto che mostrare un appoggio incondizionato. Questa collocazione mi ha permesso di eludere molti dei dilemmi che gli etnografi dei movimenti sociali si trovano ad affrontare, illustrate nei capitoli precedenti. Di conseguenza, ho inteso l’impegno a restituire non tanto come il sostegno ad un particolare movimento, ma come un contributo a processi auto-riflessivi da portare avanti con chi aveva voglia di svilupparli, offrendo spunti emersi nell’antropologia in generale, e nel mio percorso di ricerca in particolare, che credevo potessero tornare utili a tanti, se epurati da tecnicismi (vedi ad esempio Boni 2014). La mia restituzione è quindi indiretta, ovvero ho cercato di rendermi utile non sostenendo un particolare segmento dell’attivismo, ma mettendo a disposizione spunti di sapere antropologico ad un’ampia area di mobilitazione per capire insieme come potessero facilitare una tensione trasformativa che interessava il ricercatore come il contesto che lo ospitava. Ricerca e politica sono stati ambiti che si sono alimentati vicendevolmente: attraverso la ricerca spero di contribuire a potenziare e divulgare una critica culturale; tutti i miei principali temi di ricerca (la disuguaglianza, l’autonomia tecnologica, le assemblee) sono stati ispirati da riflessioni e prassi con una valenza politica del mio circuito di vita ed amicizie. Le tracce di indagine universitaria sono state quindi stimolate da vissuti e dibattiti in contesti di movimento: la politica ha forgiato i miei interessi scientifici, fornendo non solo ambiti di indagine ma

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chiavi analitiche. La sfida è stata quella di costruire un discorso credibile e documentato su riflessioni indotte, o perlomeno innescate, dalle parole e dai gesti di chi mi era vicino. 3. Il sapere universitario in piazza Per rendere le competenze acquisite accessibili a un pubblico ampio dovevo abbandonare le sicurezze della dettagliata ricerca esoterica circolante esclusivamente nella élite accademica. La resa pubblica di un sapere specialistico aveva implicazioni evidentemente problematiche: si doveva spiegare riflessioni scientifiche semplificando alcuni passaggi argomentativi senza banalizzarli; era necessario usare un linguaggio meno specialistico senza tradire la complessità. L’operazione era stimolante proprio perché richiedeva un continuo ripensamento delle modalità e del senso della divulgazione di riflessioni complesse. Al contempo tale operazione offriva l’opportunità di interagire con settori del tessuto sociale interessato a promuovere iniziative culturali e politiche con cui sentivo affinità. La dimensione militante della restituzione risiedeva nella tensione politica che si creava intorno alla tematica discussa e prescindeva quindi dallo specifico contesto. I contesti in cui si è innescata tale dinamica sono stati occupazioni universitarie, associazionismo istituzionale e non, circoli anarchici, fiere dell’editoria, strade e piazze, feste di sindacati, “giornate di culture minoritarie”, momenti di auto-formazione di gruppi di acquisto solidale, cicli di presentazioni di libri del movimento NO-TAV, circoli culturali e di lettori, eno-librerie, centri sociali, seminari residenziali di auto-formazione di filosofi e insegnanti, iniziative promosse dai docenti delle scuole superiori, seminari universitari autogestiti e non. Sarebbe insensato distinguere contesti in cui la divulgazione della ricerca è stata militante o meno: la diffusione di sapere teso alla critica trasformativa, reso accessibile, generava stimoli individuali e collettivi in modi e intensità diverse.

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Nelle presentazioni in sedi istituzionali o in contesti accademici più formali prevaleva però una rigidità che prendeva principalmente la forma della separazione degli ambiti e dei campi: ovvero, la richiesta era di limitarsi ad un compito intellettuale, astenendosi dal discutere il potenziale trasformativo del sapere illustrato. Il presupposto implicito era che il servizio che mi veniva richiesto doveva rispondere a certi canoni formali che lo rendevano innocuo in quanto inteso esclusivamente come arricchimento teorico: dovevo rinunciare a riflessioni sulla dimensione applicata che era evidentemente compito delle istituzioni politiche competenti. I tentativi di sovvertire queste regole inespresse ma palesi, magari anche solo mostrando le implicazioni necessarie ma disattese dei principi etici su cui pareva ci fosse sintonia, suscitava in genere rifiuti preconcetti, accuse di partigianeria. Apoifis nota (2017, p. 6) che “forse per la sua stessa natura, l’etnografia militante rimane particolarmente vulnerabile a critiche di faziosità politica e soggettivismo puro, soffocando potenzialmente l’acutezza dei risultati della ricerca”. Una ricerca, anche se non particolarmente militante ma comunque caratterizzata da una chiara proposta trasformativa, spesso si scontra con l’indisponibilità delle istituzioni potenti a mettere in discussione le politiche intraprese, come peraltro già emerso in maniera evidente nell’ambito della “cooperazione allo sviluppo”. La dimensione militante della ricerca funziona lì dove c’è polifonia espressiva e volontà di interrogarsi sui contributi che ciascuno può offrire rispetto alla trasformazione sociale; spesso si schianta irrimediabilmente di fronte a detentori di potere poco disponibili a rinunciare al monopolio della direzione. Nei contesti in cui la dimensione trasformativa del sapere è una risorsa che non passa attraverso la gestione elitaria e trascendente delle istituzioni ma attraverso processi immanenti e accessibili, una forma comune di restituzione della ricerca sono interventi pensati per alimentare un confronto pubblico. Temi, tempi e taglio venivano concordati con gli organizzatori ma la modalità più frequente è quella di brevi relazioni o presentazioni. I temi che ho trattato sono vari

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ma invariabilmente sono stati il frutto di attività di ricerca riconosciute come rilevanti dagli organizzatori degli eventi: il razzismo e la discriminazione; la critica al consumo e allo sviluppo; le conseguenze delle innovazioni tecnologiche degli ultimi secoli ed in particolare degli ultimi decenni; i movimenti sociali italiani e latino-americani; i possibili usi dell’antropologia fuori dall’università; caratteristiche delle forme politiche autoritarie, del populismo e del fascismo; i limiti del socialismo venezuelano; la differenza tra democrazia rappresentativa e diretta; la ristrutturazione neoliberista dei poteri; i beni comuni; l’azione diretta; implicazioni politiche dell’allargamento dell’obbligo vaccinale. Le discussioni che seguivano le presentazioni pubbliche spesso mi hanno offerto stimoli per ripensare la ricerca: consentivano di individuare punti di scarsa chiarezza nella analisi; di mettere a punto la relazione tra concetti accademici e quelli di uso comune; di addentrarsi in riflessioni impreviste che permettevano di ampliare gli esempi, le declinazioni pratiche, le applicazioni quotidiane delle tematiche discusse. Spesso le presentazioni facevano parte dell’offerta cultural-politica di gruppi autogestiti e auto-finanziati che intendevano stimolare riflessioni pubbliche che non trovavano spazio nella offerta culturale egemonica. Al relatore non si chiedeva di presentare una linea decisa dalla dirigenza di un gruppo politico omogeneo ma piuttosto di sviscerare temi di attualità in modo autonomo dalla loro rappresentazione mass-mediatica per sollecitare sia una critica delle forme occulte di oppressione e controllo sia delle alternative possibili o pensabili, nell’immediato e nel lungo periodo. Anche nei rari casi in cui gli organizzatori avevano una posizione ben definita, il pubblico aveva spesso orientamenti variegati ed aperti al confronto. Spesso il mio intento era quello di spiazzare, suscitare domande, proporre percorsi di lettura inediti e provocanti, distanti da quelli insistentemente ribaditi dai poteri allineati: l’allontanamento dalla rappresentazione usuale, conformista non offriva illusorie certezze ma si nutriva della varietà delle condotte umane per tratteggiare alternative utopiche da svi-

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luppare nei propri percorsi esistenziali, come avevano già fatto ad esempio Clastres (2003), Graeber (2012) e Scott (2006, 2014). In questo senso la ginnastica della critica che offre il sapere universitario, debitamente ripensata come strumento accessibile, costituiva una risorsa utile e apprezzata. La dimensione militante risiede quindi in una irrisolta tensione etica e politica dei temi e di come vengono affrontati che si ripercuote sulle modalità di organizzazione dell’incontro, lontano dalla lezione cattedratica. Gli organizzatori e il pubblico richiedono che le tematiche affrontate abbiano un carattere comprensibile e applicabile, ovvero che siano, seppur spesso indirettamente, uno stimolo per pensare e agire altrimenti. Rispetto ai contesti accademici, è evidente la necessità di utilizzare un linguaggio meno improntato a disquisizioni astratte e più alle implicazioni in termini di scelte concernenti l’esistenza quotidiana. L’informalità costituisce una garanzia di accessibilità; in un caso l’evento è stato pubblicizzato come “chiacchiere con l’autore del libro”. Le presentazioni vanno contenute entro un’ora sia per evitare di annoiare che per lasciare spazio al dibattito; l’uso di immagini e di materiale audio-visivo permette di differenziare gli stimoli percettivi. L’incontro spesso si conclude con domande al relatore che si trasformano in prese di posizione variegate e discussioni generalizzate tra i presenti a cena o davanti ad un bicchiere. Alcune presentazioni richieste al ricercatore erano collocate all’interno di eventi che prevedevano un’ampia eco pubblica a cui a volte erano invitati rappresentati delle istituzioni, che tuttavia erano quasi invariabilmente assenti. Sebbene in modo indiretto, data l’impossibilità di un confronto dialogico, il ricercatore era chiamato ad illustrare di fronte ad interlocutori immaginari, con la precisione e raffinatezza che compete al discorso universitario, temi su cui stava lavorando il circuito politico ospitante. In questi casi al ricercatore veniva chiesto di inquadrare certe tematiche ad esempio l’importanza e i benefici collettivi dei beni comuni o l’importanza di spazi accessibili di sperimentazione autogestita per il consolidamento di dinamiche comunitarie.

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Si trattava spesso di dare sostanza accademica, e quindi legittimità scientifica, a posizioni eretiche rispetto alla cultura dominante, in alcuni casi ai margini della legalità. Oltre ad azioni legali, alla pressione pubblica esercitata con manifestazioni di piazza, l’attivismo politico dal basso ha cercato di legittimarsi di fronte alle istituzioni mediante l’appoggio di parte del mondo scientifico. La presenza di un ricercatore come risorsa in un contesto di lotta è ben esemplificata dal coinvolgimento di Herzfeld (2010, pp. 262, 263) con la comunità sotto sgombero di Pom Mahakan di Bangkok: “Sono stato invitato a Pom Mahakan dopo che qualche attivista di una ONG, sapendo che c’era un certo professore di Harvard nelle vicinanze, aveva deciso che coinvolgermi avrebbe potuto portare un p’ di peso simbolico dalla loro parte”. Il coinvolgimenti dell’etnografo faceva parte di una strategia di amplificazione del conflitto, tanto da ottenere dei risultati tangibili: “Pom Mahakan era riuscita a galvanizzare l’opinione pubblica e attivare una quantità impressionante di appoggio accademico al punto che le autorità si sono sentite obbligate a passare per vie legali piuttosto che per il sentiero relativamente più semplice della violenza diretta”. Ovviamente il potenziale effetto benefico della partecipazione di un accademico è proporzionale alla fama del professore; il coinvolgimento di Herzfeld è difficilmente generalizzabile ma esemplifica una modalità ricorrente di interazione tra contesto attivista ed etnografo. Questa esposizione pubblica del movimento, tramite l’accademico, avviene spesso in momenti di particolare fragilità delle politiche del basso, ovvero di fronte ai presagi di sgombero o di incipiente repressione. In un paio di occasioni sono stato coinvolto in collaborazione con altri colleghi nella redazione di documenti per raccogliere firme nel mondo universitario per movimenti sociali minacciati. In questi casi la relazione tra accademici e movimenti prendeva spesso la forma di una divisione di compiti, in cui gli universitari stilavano l’appello con un linguaggio appetibile ai colleghi ma i contenuti e il taglio venivano decisi dall’assemblea della realtà in pericolo, che modificava il testo

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prima della sua diffusione. Ho spesso avuto la sensazione che fosse sopravvalutato il peso del mondo scientifico, ovvero che gli attivisti pensassero che l’accademia avesse una influenza sulle istituzioni maggiore di quanto in realtà eserciti. Rari ma interessanti sono i casi in cui il sapere che ho sviluppato, tramite esperienza personale e ricerca antropologica, sulle forme di gestione assembleare veniva utilizzato non solo come strumento di divulgazione ma come consulenza, alla pari di quella proposta da facilitatori, counselors ed esperti di comunicazione ecologica, per cercare di sciogliere, nell’atmosfera intima della riunione, alcuni nodi dei processi decisionali interni al circuito attivista. Il sapere antropologico sviluppato per pubblicazioni scientifiche (Boni 2015), permetteva di affrontare le difficoltà relazionali mostrando da un lato la ricorrenza di alcune delle tensioni emerse in quel particolare contesto e dall’altro di offrire un’ampia gamma di tecniche pratiche per ripristinare armonia, prendendo spunto dalle dinamiche di risoluzione dei conflitti usate in altri contesti culturali. In questo caso come in altri, la competenza trans-culturale dell’antropologo permette di ispirare soluzioni innovative illustrando le soluzioni adottate altrove per risolvere problemi analoghi. Come si ha cura di spiegare, la diversità culturale offre suggestioni feconde ma queste non sono applicabili in maniera meccanica attraverso il mero trapianto di pratiche che hanno una genealogia elaborata altrove: lo stimolo va ri-elaborato e ripensato per essere efficacemente usufruibile.

Appendice

Questionario

Primavera 2019

1. Perché le giovani generazioni di etnografi sono meno interessate a fare ricerca sui partiti tradizionali e si dedicano maggiormente allo studio dei movimenti sociali? 2. Partecipavi come attivista a qualche movimento sociale prima della ricerca e dell’esperienza accademica? Se sì, ti è mai capitato di fare ricerca con/sul contesto attivista a cui partecipavi? Come ti vedevi /ti sentivi nel momento in cui dovevi documentare una lotta in cui ti sentivi coinvolto anche politicamente (quale intenzionalità – attivista e accademica – guida, nei diversi momenti, il lavoro sul campo)? 3. Secondo te che differenza fa entrare nel contesto attivista per ragioni esclusivamente accademiche rispetto a coniugare preoccupazioni scientifiche e militanza “pratica”? 4. Se sei entrato nel movimento attraverso uno specifico gruppo di attivisti, è stato perché avevi simpatia per loro o per altre ragioni? Se hai fatto ricerca in un contesto attivista, hai mai sentito la necessità di allinearti con le posizioni politiche del movimento con cui /su cui facevi ricerca? 5. Ci sono stati momenti di distanziamento o la relazione con il movimento è sempre stata armoniosa? Sei mai stato coinvolto o hai generato tensioni interne al contesto studiato? Se ci sono state tensioni, vuoi descrivere le ragioni dell’attrito? 6. Nel momento in cui si fa ricerca su attivismo, movimenti sociali, lotta politica è possibile, consigliabile – e militante – il fatto di documentare (comprendere, descrivere, analizzare) anche il posizionamento di coloro che rappresentano la controparte del conflitto (rappresentanti dell’ordine istituzionale ed economico dominante etc.) ?

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7. È importante restituire la conoscenza etnografica ai soggetti studiati, che hanno contributo a produrla? Quale utilità ha avuto la tua ricerca per coloro per i quali si intende promuovere una qualche forma di giustizia sociale? 8. Ritieni la restituzione scientifica sufficiente? Hai restituito la tua ricerca in modalità che esulano dal contesto specificatamente scientifico-universitario? Se si, dove, come, perché? 9. La ricerca può aiutare a colmare la distanza tra intellettuali/ attivisti e coloro per cui questi dicono di lottare attraverso percorsi di riflessione sulle modalità della lotta? 10. Il rapporto con il movimento sociale è proficuo solo quando questo è disposto a mettersi in discussione, o esistono altre possibilità? 11. L’etnografo militante può presentarsi come facilitatore, ponte, mediatore tra contesti? Può trasmettere, ispirare nuove pratiche? 12. Quando una ricerca militante ha successo? Quando fallisce? Successo e fallimento possono essere letti a più livelli? 13. Quale problemi morali implica l’oscillazione tra contesto etnografico e mondo universitario? Ritieni legittimo costruire una carriera accademica sullo studio dei movimenti sociali e dell’attivismo?

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Biblioteca / Antropologia 1 2 3 4 5

Marco Aime, Fuori dal tunnel. Viaggio antropologico nella val di Susa Tim Ingold, Ecologia della cultura David Le Breton, La pelle e la traccia. Le ferite del sé David Le Breton, Antropologia del dolore Massimo Canevacci, La linea di polvere. La cultura bororo tra tradizione, mutamento e auto-rappresentazione 6 Marc Augé, Perché viviamo? 7 Ferdinando Fava, In campo aperto. L’antropologo nei legami del mondo 8 Bruno Latour, Il culto moderno dei fatticci 9 Franco La Cecla, Jet-lag. Antropologia e altri disturbi da viaggio 10 Francesca Nicola, Supermamme e superpapà. Il mestiere di genitore fra gli Usa e noi 11 Jean-Loup Amselle, Il museo in scena. L’alterità culturale e la sua rappresentazione negli spazi espositivi 12 Valentin Y. Mudimbe, L’invenzione dell’Africa 13 Ng ˜ug ı˜ wa Thiong’o, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali 14 Michael Taussig, La bellezza e la bestia. Il fascino perverso della chirurgia estetica 15 Jean-Loup Amselle – Elikia M’Bokolo, L’invenzione dell’etnia 16 Paolo S.H. Favero, Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea 17 Stefano De Matteis, Le false libertà. Verso la postglobalizzazione 18 Zaira Tiziana Lofranco – Antonio Maria Pusceddu (a cura di), Oltre Adriatico e ritorno. Percorsi antropologici tra Italia e Sudest Europa 19 Marjorie Shostak, Nisa. La vita e le parole di una donna !kung 20 Luisa Accati, Apologia del padre. Per una riabilitazione del personaggio reale 21 Harold Barclay, Senza governo. Un’antropologia dell’anarchismo 22 Jonathan Friedman, Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime 23 Jean-Loup Amselle, Islam africani. La preferenza sufi 24 Carlo Capello – Giovanni Semi (a cura di), Torino. Un profilo etnografico 25 Matteo Meschiari, Disabitare. Antropologie dello spazio domestico 26 Giacomo Casti, Sardi, italiani? Europei, conversazioni con Giulio Angioni, Francesco Abate, Michela Murgia, Gigliola Sulis, Omar Onnis, Alexandra Porcu, Frantziscu Medda Arrogalla, Alessandro Spedicati Diablo, Jacopo Cullin, Pinuccio Sciola, Giancarlo Biffi, Elena Ledda, Marcello Fois 27 Roberta Bonetti, Etnografie in bottiglia. Apprendere per relazioni nei contesti educativi 28 Moreno Paulon (a cura di), Il diavolo in corpo. Sulla possessione spiritica, scritti di Aihwa Ong, Jean-Pierre Olivier de Sardan e Janet McIntosh

29 Alpa Shah, Marcia notturna. Nel cuore della guerriglia rivoluzionaria indiana 30 Valentina Porcellana, Costruire bellezza. Antropologia di un progetto partecipativo 31 Rodolfo Maggio, I Kwara’ae di Honiara. Migrazione e buona vita alle Isole Salomone, prefazione di David Graeber 32 Silvia Stefani, Sujeitu omi. Antropologia delle maschilità a Capo Verde 33 Serge Latouche, Marcello Faletra, Hyperpolis. Architettura e capitale 34 Simone Ghiaroni, Il disegno selvaggio. Un’antropologia del disegno infantile 35 Alberto M. Cacopardo, Chi ha inventato la democrazia? Modello paterno e modello fraterno del potere, presentazione di Luciano Canfora 36 Tim Ingold, Antropologia. Ripensare il mondo 37 Jean-Loup Amselle, Psicotropici. La febbre dell’ayahuasca nella foresta amazzonica 38 Evelyn Reed, La liberazione della donna. Un approccio marxista 39 Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico 40 Manuela Vinai, I giocatori. Etnografia nelle sale slot della provincia italiana 41 Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, prefazione di Gianni Vattimo, introduzione di Andrea Staid 42 Giuseppe Scandurra, Ibridi ferraresi. L’antropologia in una città senza antropologi 43 Claudio Sopranzetti, La fragilità del potere. Mobilità e mobilitazione a Bangkok

Finito di stampare nel mese di settembre 2020 da Geca Industrie Grafiche – San Giuliano Milanese (MI)