Etnografie Amazzoniche Volume 3
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Etnografie Amazzoniche Volume III

a cura di Paride Bollettin e Umberto Mondini

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Le traduzioni dagli originali in portoghese dei testi contenuti nel volume sono a cura di Paride Bollettin: Capitolo 1: A Refundação do Museu Maguta: Etnografia de um Protagonismo Indígena Capitolo 2: As Coleções Amazônicas: diálogo entre antropologia e museus Capitolo 3: Os Karajá de Aruanã (GO), o Estado brasileiro e a construção social do passado Capitolo 4: Os Kaxuyana e a casa tamiriki: processo de patrimonialização Capitolo 5: Território e territorialidade dos Mura do rio Preto do Igapó-Açú (AM) Capitolo 6: Educação Escolar Indígena e processos próprios de ensino aprendizagem: reflexões a partir de alguns casos Jê Capitolo 7: De plumas a moedas: objetos, ritual e mercadoria entre os índios Xikrin (Mebengokre) do Brasil Capitolo 8: Os limites do cauim e as figurações da cachaça na embriaguez guarani Tutti i testi sono stati sottoposti a referaggio anonimo prima della pubblicazione.

Prima edizione: dicembre 2013 ISBN 978 88 6787 xxx x © 2013 by Cleup sc “Coop. Libraria Editrice Università di Padova” via Belzoni 118/3 – Padova (t. +39 049 8753496) www.cleup.it - www.facebook.com/cleup Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati. In copertina: Bambino Mebengokré-Xikrin durante un rituale di nominazione nel villaggio Mrõtidjam, 2013 (foto di Paride Bollettin).

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Prefazione Paride Bollettin 1. La rifondazione del Museo Maguta: etnografia di un protagonismo indigeno João Pacheco de Oliveira 2. Le collezioni amazzoniche: dialogo tra antropologia e musei Sandra Maria Christiani de La Torre Lacerda Campos 3. I Karajá di Aruanã (Goiás – Brasile), lo Stato brasiliano e la costruzione sociale del passato Manuel Ferreira Filho 4. I Kaxuyana e la casa tamiriki: un processo di patrimonializzazione Adriana Russi

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5. Territorio e territorialità dei Mura del fiume Preto do Igapó-Açú (Amazonas, Brasile) Marta Amoroso

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6. Educazione Scolastica Indigena e processi propri di insegnamentoapprendimento: riflessioni a partire da alcuni casi Jê Odair Giraldin

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7. Dalle piume alle monete: oggetti, rituale e merci tra gli indigeni Xikrin (Mebengokre) del Brasile Cesar Gordon

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8. I limiti del cauim e le figurazioni della cachaça nell’ubriacatura guarani Guilherme Orlandini

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Bibliografia

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Prefazione

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Prefazione Paride Bollettin

Universidade de São Paulo

Questo terzo volume della serie “Etnografie Amazzoniche” vuole dare continuità ad un’opera di divulgazione in Italia di alcune tra le più recenti ricerche etnografiche ed antropologiche sviluppate in e sull’Amazzonia. Il volume deriva dalla Tavola Rotonda “Amazzonia Indigena: 2011, stato attuale della ricerca sul campo” che è stata realizzata nel maggio del 2011 presso il Dipartimento di Studi Storico Religiosi della Sapienza, Università di Roma, nell’ambito del XXXIV Convegno Internazionale di Americanistica, organizzato dal Centro Studi Americanistici “Circolo Amerindiano”. Ringraziamo entrambe le Istituzioni per l’appoggio dato alla realizzazione sia dell’evento che del presente volume. Alcuni dei contributi sono stati presentati in quella sede, altri sono stati rivisti alla luce degli sviluppi delle ricerche, altri ancora sono stati inclusi (nonostante l’autore non fosse potuto intervenire personalmente alla Tavola Rotonda) per dare una maggiore organicità al volume. Il fine di questo, infatti, è di non dirigersi solamente ad un pubblico di specialisti dell’ambito amazzonico, ma più in generale esso intende proporre originali ricerche che stimoleranno sicuramente l’interesse di tutti coloro che portano avanti ricerche in ambito antropologico, per la densità e la varietà dei contributi. In questo senso, vale la pena di menzionare come questo terreno etnografico, che storicamente ha visto sorgere fondamentali riflessioni antropologiche a partire dalla esperienze di campo che vi sono state realizzate, in Italia è ancora poco studiato. I motivi di questa situazione possono essere i più diversi e non è sicuramente questo il luogo per affrontare una questione di questo tipo, che per la sua complessità meriterebbe ben altro spazio. Ciò che è interessante sottolineare in questa sede è la varietà dei temi affrontati, che possono, come detto, dialogare in maniera proficua e produttiva con ricerche svolte anche in Italia. Il tema della musealizzazione e del lavoro antropologico coi beni culturali, nei musei o con i musei, ad esempio, rappresenta un fertile terreno di indagine anche per la riflessione italiana, che può vantare

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studi importanti in questo ambito. Anche i processi di territorializzazione, o di resignificazione dei beni industrializzati da parte di gruppi indigeni, o ancora una riflessione sul cosiddetto “sviluppo”, rappresentano una significativa possibilità di dialogo foriera di interessanti approfondimenti. In questo senso, il presente volume pretende stimolare un dialogo che può favorire entrambi i lati dell’Oceano, permettendo una conoscenza reciproca che sicuramente può incentivare ulteriori letture incrociate delle diverse realtà. Ragione per cui, in questa breve introduzione non vogliamo indagare tutte le possibili connessioni, ma semplicemente proporre al lettore di trovarle e approfondirle. I diversi capitoli che compongono il volume affrontano una vasta gamma di temi che permette di evidenziare la complessità dell’esperienza delle comunità indigene amazzoniche contemporanee, le quali, ben lungi dallo stereotipo esoticizzante del “buon selvaggio” o dall’ingiusto marchio del “cattivo selvaggio”, affrontano quotidianamente sfide complesse, con una capacità di adattamento, di resignificazione e di mimesis che permette loro di proporre il proprio sguardo sul mondo come elemento centrale per una comprensione della complessità delle esperienze umane. Il primo capitolo, “La rifondazione del Museo Maguta: Etnografia di un protagonismo indigeno”, di João Pacheco de Oliveira, affronta l’esperienza della creazione del Museo Maguta da parte dei Tikuna, come parte di un più ampio processo di richiesta di riconoscimento di diritti da parte di questo gruppo. Ripercorrendo le tappe del processo di demarcazione della Terra Indígena, l’autore mette in evidenza la mobilitazione politica e le fratture che ne hanno contraddistinto lo sviluppo. In questo quadro il Museo si inserisce come una creazione originale e diretta dagli stessi Tikuna, nel tentativo di rompere un “regime della memoria” che utilizza la differenza culturale come marco di subalternità. In questo senso, esso rappresenta la capacità di questo gruppo di rileggere il proprio percorso storico nella proiezione verso il proprio futuro. Sandra Maria Christiani de La Torre Lacerda Campos, nel capitolo: “Le collezioni amazzoniche: dialogo tra antropologia e musei”, propone anch’essa un dialogo tra la pratica antropologica e l’esperienza museale. L’autrice sostiene che l’antropologia è nata nei musei e che con essi sempre convivrà, per quanto riguarda l’aspetto fondatore della diversità culturale, per il quale i musei etnografici si caratterizzano in quanto spazi di produzione e diffusione della conoscenza sui referenziali materiali e simbolici delle loro collezioni. Anche le collezioni amazzoniche del Museu de Arqueologia e Etnologia della Universidade de São Paulo, e tra queste quella di disegni prodotti dalla società Waurá, organizzata da Vera Penteado Coelho, riproducono alcuni aspetti della vita materiale e immateriale, come fonte di “cultura tradizionale” di questi

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popoli. Lo studio sta favorendo un interscambio con la comunità Waurá, rendendo possibile una curatela condivisa di questo ricco patrimonio indigeno, ampliando le prospettive di indagine e di curatela scientifica all’interno del museo, ponendo in risalto gli oggetti nel loro contesto culturale più vasto. Il capitolo: “I Karajá di Aruanã (Goiás – Brasile), lo Stato brasiliano e la costruzione sociale del passato”, di Manuel Ferreira Filho, presenta una riflessione antropologica a riguardo della demarcazione di un territorio indigeno brasiliano: quello dei Karajá di Aruanã, a Goiás. Si tratta di un gruppo ceramista, piscicoltore e orticoltore che vive lungo la regione del fiume Araguaia fin dal 1658. Il fiume attraversa la regione centrale del Brasile, nella direzione nord-sud e si distingue per il suo potenziale turistico. A partire dalla Costituzione del 1988, è iniziato un complesso processo di demarcazione delle terre indigene brasiliane. Come antropologo responsabile della perizia che ha dato inizio al processo di regolarizzazione fondiaria del gruppo fin dal 1997, l’autore ripercorre la traiettoria dei Karajá, l’uscita dalla posizione di esotici verso quella di disturbatori, dato che il villaggio e l’antico cimitero si trovano nel centro di Aruanã, una città turistica che è cresciuta attorno al villaggio indigeno. Le ceramiche incontrate nell’antico cimitero sono divenute oggetti giuridici fondamentali ed hanno messo in moto la memoria collettiva del gruppo, le cui narrative sono entrate in conflitto con altre versioni degli abitanti della città. Nella composizione dei dati giuridici e antropologici, gli artefatti etnoarcheologici e lo stesso sito archeologico sono stati rilevanti nella presa di posizione antropologica a favore del gruppo che così ottenne il riconoscimento ufficiale della terra indigena. Il contributo di Adriana Russi, “I Kaxuyana e la casa tamiriki: un processo di patrimonializzazione” affronta l’esperienza del popolo Kaxuyana prendendo come momento paradigmatico la riappropriazione delle terre e come questa si è oggettivata nella edificazione della casa tamiriki. I Kaxuyana, indigeni del gruppo Karib, localizzati nella regione del Basso Rio delle Amazzoni, furono quasi decimati dalle epidemie nel XX Secolo. Nel 1968, un piccolo gruppo di sopravvissuti accettò di lasciare le proprie terre per vivere nel lontano Parque Indígena do Tumucumaque, dove abitò per più di trent’anni assieme ai Tiriyó. Ciononostante i Kaxuyana non hanno mai abbandonato il sogno di tornare nelle proprie terre, lungo il fiume Kaxuru o Cachorro (un affluente del fiume Trombetas). Alcuni di loro, dal 2000, vi tornarono e fondarono il villaggio Santidade dove edificarono una casa comune, la tamiriki, “casa grande” o “del capo”, con le risorse derivate da un premio. Il testo presenta i dati preliminari della ricerca condotta dall’autrice sulla tamiriki, vista come un processo di patrimonializzazione tra i Kaxuyana e la partecipazione di differenti agenti in questo processo.

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Il capitolo di Marta Amoroso, “Territorio e territorialità dei Mura del fiume Preto do Igapó-Açú (Amazonas, Brasile), approfondisce il tema delle topofilie, che ha avvicinato l’antropologia e l’archeologia delle terre basse sud-americane all’inizio del XX Secolo e dalla cui approssimazione è sorta la definizione dei Mura come un caso paradigmatico di popolo cacciatore-raccoglitore della foresta tropicale. Nell’articolo, l’autrice segue il dialogo interdisciplinare, prendendo in considerazione la caratterizzazione del regime di relazioni dei Mura con l’ambiente. Partendo dai risultati delle perizie di identificazione e delimitazione delle Terre Indigene Mura, si indaga il modello più adeguato di politica pubblica rivolta ai Mura, tenendo conto della particolarità della loro territorialità come anche della loro lunga storia di contatto con la società non indigena. Il successivo capitolo: “Educazione Scolastica Indigena e processi propri di insegnamento-apprendimento: riflessioni a partire da alcuni casi Jê”, di Odair Giraldin, affronta la tematica dell’educazione scolastica, la quale, fin dall’inizio degli anni Novanta, si va diffondendo tra le diverse popolazioni indigene del Brasile, con una maggiore o minore universalizzazione dell’accesso a seconda dei contesti politici degli Stati e dei Municipi che organizzano l’offerta. Il precetto costituzionale e le determinazioni legali secondo cui l’educazione scolastica indigena dovrebbe essere specifica, differenziata, interculturale e bilingue, si confrontano con la barriera socio-culturale della poca comprensione, da parte dei non-indigeni responsabili, di quello che è il processo di insegnamento e di apprendimento proprio di ogni popolo. Nel testo, questa riflessione sul contesto viene realizzata a partire dalle esperienze di ricerca e dai lavori sull’educazione scolastica indigena a partire dai popoli Xerente, Krahô, Pyhcopcatiji, Ràmkokamekrá-Canela e Apinaje. La proposta è che una comprensione chiara dei processi di insegnamento e di apprendimento propri di ogni popolo sia una condizione sine qua non per l’effettivazione del precetto costituzionale dell’educazione scolastica indigena. Cesar Gordon, nel capitolo: “Dalle piume alle monete: oggetti, rituale e merci tra gli indigeni Xikrin (Mebengokre) del Brasile”, analizza in maniera ampia il valore degli oggetti rituali e degli oggetti industrializzati nell’economia degli Xikrin del fiume Cateté. Di fronte al “consumo inflazionario” che caratterizza l’appropriazione da parte di questo specifico gruppo di beni ed oggetti provenienti dal mondo non-indigeno, l’autore enfatizza come sia possibile riconoscere un parallelo con il consumo di beni fondanti il prestigio. In questo senso, conclude l’autore, i beni industrializzati generano una simultanea duplice dinamica: da un lato sono beni che devono circolare in maniera ristretta per mantenere un potere distintivo e dall’altro lato devono circolare in maniera diffusa per poter rinforzare i legami comunitari e di parentela. Ciò

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che si viene generando, così, è un’accelerazione del sistema di acquisizione di beni esogeni, con la conseguenza che se anticamente si incontrava una distinzione tra persone “belle” (portatrici di beni di prestigio) e “comuni” (sprovviste di tali beni), oggi sembra sovrapporsi a questa una nuova distinzione: “ricchi” e “poveri”. L’ultimo capitolo: “I limiti del cauim e le figurazioni della cachaça nell’ubriacatura guarani”, di Guilherme Orlandini, propone una lettura del consumo della cachaça tra i Guarani come se questa tendesse verso la stessa funzione del cauim consumato da altri gruppi amazzonici. Partendo dalla proposta di una lettura dell’etnografia con i Guarani che dialoghi con il recente dibattito sulla predazione proprio della letteratura etnografica amazzonista più recente, l’autore sostiene che sia possibile immaginare l’ubriacatura con la cachaça e i balli guarani, nei quali questa diviene più accentuata, come l’apertura di una relazione tra i vivi e i morti. Pur riconoscendo le evidenti differenze tra i due consumi, la conclusione dell’autore è che sia possibile osservare l’ubriacatura guarani con la cachaça come la possibilità di assumere la posizione di nemico, una posizione specchio attraverso la quale si costituisce l’interno della società. Per concludere questa breve introduzione vogliamo ringraziare tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione della Tavola Rotonda “Amazzonia Indigena”, oltre a tutti coloro che hanno creduto e sostenuto, ed ancora continuano a sostenere, questo progetto di diffusione in Italia della conoscenza delle popolazioni amazzoniche, in particolare il Centro Studi Americanistici “Circolo Amerindiano”, il Dipartimento di Studi Storico-Religiosi della Sapienza-Università di Roma, la Casa Editrice Cleup e gli autori dei singoli volumi. Un ultimo ringraziamento, infine, lo vogliamo rivolgere a queste popolazioni, senza le quali questo volume non sarebbe possibile, e per questo a loro viene dedicato questo lavoro.

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1. La rifondazione del Museo Maguta: etnografia di un protagonismo indigeno

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1. La rifondazione del Museo Maguta: etnografia di un protagonismo indigeno ~ Pacheco de Olivieira Joao

I musei etnografici sono il risultato della confluenza di processi politici e cognitivi molto complessi, che li costituiscono come espressioni cristalline di “regimi della memoria”1, che favoriscono la formazione di stati nazionali, l’espansione coloniale e la traiettoria ascendente di una ragione occidentale. Gli indigeni non sono coloro che li organizzano o dirigono, né il pubblico che li visita e stimola la creatività di curatori e museologi. Gli indigeni sono “gli altri”, quelli distinti da “noi”, parcelle dell’umanità che definiamo precisamente per la distanza (spaziale o geografica) e per opposizione. Loro sono i grandi assenti, allo stesso tempo in cui sono coloro sui quali molto si parla. Per generare le illusioni che permettano loro di costruire tali significati, i musei funzionano come ingranaggi affascinanti, integrati da complessi filtri e specchi, che cercano giustamente di creare la presenza e riempire di significati queste assenze. I nativi non appaiono come persone reali e in contesti vivi, ma come rappresentazioni, cioè come oggetti, immagini e registrazioni realizzate da terzi. Simili a animali impagliati, previamente privati delle interiora, della carne e totalmente rifatti, i “nativi” vengono fatti decantare e trasformati letteralmente in oggetti da museo (“museificati”). A volte vengono estetizzati e glorificati, altre volte presentati come testimoni della primitività. Ad ogni modo, attentamente spogliati delle loro proprietà effettive e potenzialmente letali, non rappresentano più un pericolo reale. Il posto che compete loro in questa interazione simulata e controllata è lo stesso fin dagli antichi gabinetti di curiosità, risvegliando l’interesse dei visitatori, costituiscono “trofei di guerra” dell’espansione coloniale, esempi concreti

1 L’espressione “regime della memoria” è utilizzata da Johannes Fabian per riferirsi ad una architettura della memoria, internamente strutturata e limitata, che renderebbe possibile a qualcuno raccontare storie sul passato (Fabian, 2001).

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di uomini e collettivi “esotici” che furono vinti dall’avanzare della civilizzazione occidentale, mediata dal capitalismo e dal cristianesimo. Il visitatore guarda l’intimidatrice ascia di guerra di un capo tribale come chi passeggia tra le curiosità di un antiquario, sicuro che tutto ciò si riferisce appena al passato. Se il discendente di chi lo portava fosse ancora vivo sarebbe un nativo “pacificato”, occidentalizzato e cristiano. L’indigeno che il museo presenta al visitatore è un puro ricordo, godimento sensoriale o estetico, evocazione di orrore o di pietà, ma che non ha niente a che fare con la sua contemporaneità né con qualsiasi prospettiva di futuro a cui partecipi. Negli ultimi decenni, con l’influsso del multiculturalismo e in un momento in cui le agenzie della cosiddetta cooperazione internazionale preconizzano forme di sviluppo che prevedano la partecipazione e l’utilizzo dei saperi indigeni, sono apparsi molti musei che si proclamano indigeni, basati su criteri molto diversi. Quali forme e funzioni un museo deve assumere perché possa essere descritto come effettivamente indigeno? Questa è la questione cui cercheremo di rispondere in questo lavoro, prendendo come fulcro il Museo Maguta, localizzato nella città di Banjamin Constant (Amazonas), creato dagli indigeni Ticuna nel 1991, esattamente due decenni addietro2. Differenza culturale e subalternità Gli indigeni Ticuna abitano la regione dell’Alto Solimões, alla frontiera tra Brasile, Perù e Colombia. Fin dagli ultimi decenni del XIX Secolo raccoglitori di caucciù e commercianti li coinvolsero in reti clientelari e li misero a lavorare nella produzione della gomma, bene allora fortemente richiesto dal mercato internazionale. Le tecniche che permisero la trasformazione di famiglie che vivevano in una economia indigena in raccoglitori della gomma inclusero diversi metodi, dalla seduzione delle merci e dal riconoscimento dato dal battesimo fino a modalità di incorporazione molto violente, con la distruzione degli antichi villaggi, la dispersione delle famiglie lungo i canali in piccole unità di raccolta e l’instaurazione di un regime di lavoro forzato3.

2 Data l’assenza di fonti sulla storia più recente dei Ticuna che comprendano gli eventi dagli anni Settanta fino ad oggi, dovremo in qualche momento sopperire a tale lacuna descrivendo fatti e personaggi non direttamente collegati al Museo Maguta che è però necessario siano a conoscenza del lettore per permettergli l’indispensabile contestualizzazione. 3 Le fonti bibliografiche qui utilizzate sono Pacheco de Oliveira (1987a; 1999; 2001).

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1. La rifondazione del Museo Maguta: etnografia di un protagonismo indigeno

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Tali commercianti, chiamati nella regione “patrões”, mediavano tutte le relazioni economiche e politiche tra gli indigeni Ticuna e la società nazionale, monopolizzando la produzione di gomma realizzata dagli indigeni e imponendo loro la fornitura di merci, stabilendo prezzi e livelli di consumo, dislocando famiglie indigene da una piantagione all’altra, da un fiume all’altro, secondo solo gli interessi dell’impresa. I patrões erano anche gli unici operatori della legge all’interno dei loro domini, agendo simultaneamente come giudici e poliziotti, imponendo agli indigeni la soggezione più completa che sia possibile immaginare. La crisi nella produzione brasiliana della gomma, se trasformò i patrões in una elite locale decadente e senza altre prospettive per il futuro, non cambiò radicalmente la forma di sfruttamento dei lavoratori indigeni e delle loro famiglie, che prima vivevano dell’estrazione della gomma e adesso cominciarono a realizzare attività più varie (come la fornitura di pesce, di pelli di animali, di frutta, di noce del Brasile e la produzione di manioca, alimento di base nella regione). Le relazioni di produzione si mantennero esattamente le stesse. Un cambiamento avvenne a partire dall’attuazione del Serviço de Proteção ao Índio (Spi) nell’Alto Solimões, con l’installazione nel 1943 di un Posto Indígena nella località di Tabatinga. Per la prima volta furono riconosciuti agli indigeni alcuni diritti elementari, come la libertà di commercio e la proibizione di punizioni corporali. Un movimento messianico ritirò molte famiglie indigene dalle piantagioni di gomma e le portò ad installarsi in una fattoria acquisita dal Spi, che cominciò a funzionare come una terra “libera” dal dominio dei patrões, la prima riserva indigena della regione. Per un momento ciò mise in crisi il potere dei proprietari delle piantagioni di gomma, che subito dopo mobilitarono le loro reti politiche, ottenendo il trasferimento dell’indigenista in un’altra regione e lo strangolamento delle iniziative economiche e politiche del Posto Indígena. I nuovi occupanti l’incarico mantennero una politica di non intervento nelle piantagioni di gomma, limitandosi ad amministrare un Posto Indígena che senza risorse e progetti attendeva solamente un decimo della popolazione ticuna, mentre l’immensa maggioranza delle comunità continuava dipendente dai patrões e si identificava come meticcia4. Negli anni Settanta, la nuova agenzia indigenista brasiliana, la Fundação Nacionl do Índio (Funai), aspettandosi di ottenere risorse per la riduzione degli impatti della costruzione della strada Perimetral Norte in quella regione, richiese agli antropologi un ambizioso programma di protezione e assistenza

4 In questo contesto, “indigeni” sarebbero stati solo gli abitanti della riserva e, quindi, i tutelati dal Governo Federale.

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ai Ticuna5. Il punto centrale di questa pianificazione era di portare nelle piantagioni il riconoscimento dei diritti indigeni, perché l’azione indigenista potesse finalmente arrivare all’insieme della popolazione ticuna in Brasile. Furono installati nell’area sei nuovi Postos Indígenas, creati nei maggiori agglomerati esistenti, a cominciare dalle località dove si trovava la più forte piantagione della regione. Questa volta, però, in virtù di una presenza ben più accentuata di organismi federali nella regione, i patrões non disposero dei mezzi politici per invertire o paralizzare completamente le azioni indigeniste. Nel 1980, il capo del villaggio di Vendaval, Pedro Inácio Pinheiro (Ngematucu), invitò tutti i capitani delle comunità per una assemblea generale del popolo Ticuna, indicando che l’obiettivo era costituito dalla definizione delle terre di cui avevano bisogno e dalla azioni di protezione della lingua e, implicitamente, della cultura ticuna. Durante la visita preliminare ai villaggi per la distribuzione degli “inviti”6, sorsero le prime mappe (parziali) di ogni località, risultato di discussioni con i leader locali. Il nipote di Pedro Inácio, che lo accompagnava per aiutare nella manutenzione del motore, era anche un abile disegnatore e durante le conversazioni cominciò a tracciare le terre di ogni villaggio in fogli di carta inseriti negli appunti che l’antropologo portava con sé. Alla fine di questo lungo viaggio in canoa già c’era un insieme di disegni che, nella prima riunione dei capitani, realizzata a Campo Alegre il 01/11/1980, furono raccolti e consolidati, risultando nella prima pianta di delimitazione delle terre ticuna. Una commissione di tre capitani7 fu formata e incaricata di recarsi a Brasilia per consegnare al Presidente della Funai la proposta dei Ticuna, il che avvenne nel gennaio successivo. Una informativa sulla prima assemblea dei capitani, così come la mappa che era stata lì disegnata, fu organizzata dai leader del Comando Geral da Tribu Tikuna e distribuita nei villaggi sotto forma di un piccolo giornale, intitolato Maguta8 (la cui copertina Si veda Pacheco de Oliveira (1976). L’azione pilota sviluppata con la creazione del Posto Indígena Vendaval è descritta in Pacheco de Oliveira (1987b). 6 Gli inviti erano piccoli pezzi di carta, in cui si poteva leggere, dattilografati, in alto la parola “invito” e nella linea sotto “prima riunione generale dei capitani ticuna”, seguita ancora sotto, dall’indicazione del luogo (il nome del villaggio) e dalla data dell’evento. Bisogna evidenziare che l’istituzione dell’“invito” non è estranea alle abitudini ticuna, dato che ha luogo frequentemente in occasione delle cosiddette “feste della ragazza giovane” (worecu), quando lo zio paterno ed il padre di questa visitano i parenti e gli amici e, suonando una tromba speciale, fanno oralmente l’invito al rituale. Nimuendaju aveva già osservato negli anni Quaranta l’utilizzo di biglietti e lettere con la stessa finalità di avviso. 7 Composta da Pedro Inácio Pinheiro, capo di Vendaval, Adércio Custódio, capo di Campo Alegre, e José Demétrio, capo di Feijoal. 8 Erano chiamati così i primi uomini, pescati con vara da Dyoi nel canale Evare. Letteralmente significa insieme di persone pescate con vara. Non corrispondeva strettamente ad una 5

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1. La rifondazione del Museo Maguta: etnografia di un protagonismo indigeno

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riproduceva in un disegno l’episodio mitico della creazione dei primi uomini da parte di Dyoi). Questo fu il primo numero di una serie di trentatre giornali Maguta che, stampati nei mimeografi delle scuole indigene, circolarono per circa tredici anni, sempre con la stessa forma e finalità, in quanto veicoli di informazione tra i capitani e i collaboratori del Cgtt, accompagnando ogni assemblea, viaggio a Brasilia o conflitto avvenuto nell’area. Tali episodi marcarono l’inizio della mobilitazione dei Ticuna per la demarcazione delle loro terre tanto sul piano locale quanto a livello nazionale. La mobilitazione per la terra La mobilitazione dei Ticuna per la demarcazione delle loro terre è un processo che si estende per tutti gli anni Ottanta. Esso risulta tanto nelle molte azioni locali e nell’estremo acuirsi dei conflitti tra gli indigeni e gli invasori delle loro terre, quanto negli eventi occorsi al fuori della regione (comitive, riunioni con le autorità, interviste con la stampa, ecc.). Non è mia intenzione fare qui un registro etnografico accurato di questo processo, ma appena indicare alcune delle sue caratteristiche con l’obiettivo di contribuire ad una comprensione delle condizioni di creazione del Museo Maguta e del suo vero significato politico. Un gruppo di lavoro della Funai fu inviato nell’Alto Solimões per vistare le aree ticuna e produrre una proposta di delimitazione delle loro terre. Viaggiando per la regione in compagnia di alcuni dei principali leader indigeni e appoggiando la propria argomentazione antropologica su di una tesi di laurea magistrale allora recente9, il gruppo di lavoro elaborò una proposta molto simile a quella incamminata dagli indigeni. I dirigenti della Funai di allora non dettero continuità alla relazione basandosi sulla giustificativa che il sistema di definizione delle terre sarebbe stato in futuro modificato dal Governo e che il processo avrebbe dovuto essere totalmente rivisto. Nel 1983, il Decreto

auto designazione, perché secondo i miti questi uomini erano ancora immortali (proprietà che perderanno in seguito, diventando così uguali ai Ticuna attuali). È importante notare però che i leader del Cgtt la utilizzano in questa maniera, recuperando la grandezza dei loro antepassati e applicandola ad un progetto politico contemporaneo. 9 Pacheco de Oliveira (1977). Nonostante si trattasse di uno studio localizzato, i due capitoli iniziali, che contavano quasi cento pagine, tracciavano un ampio panorama della distribuzione della popolazione indigena nell’Alto Solimões, fornendo uno storico delle relazioni interetniche e presentando dati demografici, descrizione della formazione dei villaggi principali, con mappe e genealogie, oltre a presentare il trasferimento di famiglie tra differenti villaggi e canali.

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88.118 modificò l’stanza di decisione per la creazione delle terre indigene10. Un secondo gruppo di lavoro formato dalla Funai presentò un’altra proposta di delimitazione, che implicava comunque solo una piccola riduzione della proposta anteriore. Solamente alla fine del 1984, alla vigilia della Nova Republica, la Funai prese la decisione finale, appoggiata su una commissione di specialisti che aveva convocato. Nella seconda riunione dei capitani, realizzata a Belém do Solimões, nel 1982, fu creato il Comando Geral da Tribo Ticuna (Cgtt) e scelta la sua direzione, presieduta dall’allora capo del villaggio Vendaval. Sul piano locale gli indigeni, già dopo il passaggio del primo gruppo di lavoro, assunsero la delimitazione come realizzata, espulsando gli invasori stabilitisi dentro tali limiti e proibendo le incursioni di tagliatori di legname e pescatori all’interno delle loro terre e laghi. Duri scontri avvennero nelle località di Cajari, Acaratuba e Ourique, dove motori e reti da pesca vennero sequestrati dagli indigeni. Come rappresaglia vari leader furono minacciati, feriti da terzi in circostanze non chiarite e altri anche arrestati nelle stazioni della polizia di São Paulo de Olivença e di Tabatinga11. Un conflitto di maggior gravità avvenne nella domenica di carnevale del 1985, quando l’allora Presidente della Funai, Nelson Marabuto, visitò il villaggio di Umariaçu e, in presenza del comandante della guarnigione di frontiera (Cf-Sol), comunicò ai leader indigeni lì riuniti che la Funai aveva concluso i suoi studi di delimitazione e che la proposta di creazione delle aree ticuna era già stata ufficialmente incamminata alle istanze superiori del Governo. La riunione terminò festosamente perché, oltre alle notizie ricevute, era la prima volta che un Presidente della Funai visitava i villaggi ticuna. La barca che portava i leader di ritorno ai villaggi pernottò a Benjamin Constant, dove alla notte l’arresto da parte della Polícia Militar di un indigeno e il suo pestaggio pubblico finirono per portare ad un confronto aperto tra il distaccamento di polizia e i parenti della vittima. Il saldo finale furono dodici indigeni colpiti da colpi di armi da fuoco e due poliziotti feriti, in un conflitto A partire da questo Decreto, la decisione, prima di essere rimessa a livello ministeriale e alla Presidenza della Repubblica, non sarebbe stata di competenza solo del Presidente della Funai, ma di un gruppo tecnico integrato da rappresentanti della Funai, del Ministério do Interior e del Conselho de Segurança Nacional. Il criterio per la definizione dei limiti di una terra indigena non sarebbe stato più solo l’occupazione immemore da parte degli indigeni, ma si sarebbero considerati anche altri fattori (come gli interessi di sviluppo e di sicurezza nazionale) e rispettati i diritti risultanti dalla “situazione attuale” (cioè proprietà, possedimenti e benefici dei non indigeni). Si veda Pacheco de Oliveira (1998). 11 Data la debolezza e l’assenza della Funai, gli indigeni diverse volte cercarono l’appoggio di entità come la Oab, di commissioni del Congresso Nacional, delle Università e delle Ong. 10

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che solo non acquisì proporzioni maggiori grazie al rapido intervento degli agenti della Polícia Federal (che facevano parte della comitiva del Presidente della Funai) e alla presenza dei militari del Cf-Sol. Il fatto, però, rese evidente la forte reazione di commercianti, sfruttatori di legname, pescatori e delle autorità locali di fronte alla possibilità di demarcazione di terre per i Ticuna, qualcosa che fino ad allora era stato oggetto di discredito e ironie (come politica pubblica) e di minacce e rappresaglie (per ciò che riguarda le relazioni concrete con gli indigeni). Cercando di richiamare l’attenzione sulla ricchezza del patrimonio culturale dei Ticuna, ricercatori del Museu Nacional, attraverso un piccolo progetto del Ministério da Cultura, pubblicarono nel 1985 il mito di origine di questo popolo in portoghese e nella propria lingua. Il libro, intitolato Toru Duu Ugu (“Il nostro popolo”), coinvolse alcuni giovani professori ticuna12, che realizzarono la trascrizione e la traduzione di lunghi miti raccontati da vecchi narratori, il testo fu illustrato con disegni realizzati dagli indigeni. In un discorso forte, collocato nella quarta di copertina, i dirigenti del Cgtt, Pedro Inácio Pinheiro e Adércio Custódio, rispettivamente Presidente e Vicepresidente, annunciavano che in quel libro veniva registrata la “vera storia” del popolo ticuna, comparandolo all’importanza della Bibbia e associandolo alla lotta per il loro “territorio tradizionale”. Cambiamenti nella politica indigenista avvenuti nel secondo semestre del 1985 tornarono a paralizzare il processo di delimitazione delle terre ticuna. Il progetto Calha Norte fu annunciato come una delle priorità del governo di José Sarney per la regione amazzonica ed in esso veniva esplicitamente considerata inadeguata la demarcazione di terre indigene come aree continue nella fascia di frontiera. Si raccomandava invece di questo la creazione di “colonie indigene” che ospitassero appena piccole comunità locali, in cui le terre riservate agli indigeni avrebbero dovuto essere associate ad altre porzioni destinate allo sfruttamento da parte dei non indigeni. Nell’anno successivo, il 1986, solamente quattro aree minori e nelle vicinanze della città di Benjamin Constant13 furono riconosciute dal governo, costituendo un segnale chiaro che la proposta di delimitazione delle terre ticuna sarebbe stata ancora una volta riformulata. Nel maggio di quell’anno una equi-

12 Furono fondamentali in questo lavoro i professori Nino Fernandes (Nova Filadélfia), Reinaldo Otaviano do Carmo (Vendaval), Quintino Emílio Marques (Campo Alegre), Miguel Firmino (Campo Alegre) e José Tenazor (Belém do Solimões). 13 Erano le terre indigene Bom Intento (un’isola), Santo Antônio, Porto Espiritual e São Leopoldo.

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pe di ricercatori del Setor de Etnologia e Etnografia del Museu Nacional14, con l’appoggio dei leader indigeni, creò il Maguta: Centro di Documentazione e Ricerca dell’Alto Solimões, entità civile senza fini di lucro, installata in una piccola casa a Benjamin Constant, affittata ed equipaggiata con risorse di un progetto del Ministério da Justiça dedicato alla protezione dei diritti umani nelle comunità carenti. Ciò fornì un luogo di articolazione tra i leader indigeni nelle loro visite alla città. Nel secondo semestre di quell’anno una delegazione di leader del Cgtt inviata a Brasilia riuscì ad ottenere una udienza alla Presidenza della Funai e lì ascoltò da un rappresentante del Conselho de Segurança Nacional che le aree considerate dagli indigeni come cruciali e strategiche, ossia Evare I e II, che costituivano il loro territorio tradizionale e dove si trovavano insediate circa l’ottanta percento delle loro comunità, non sarebbero state in nessun caso demarcate dal Governo. Allegate “ragioni di stato” rendevano impossibile il riconoscimento delle proposte di delimitazione, nonostante queste rispettassero religiosamente tutte le norme legali e i sistemi vigenti. Il portavoce massimo del Governo lasciò chiaro che le proposte sarebbero state ri-tradotte in piccole colonie15 o semplicemente non sarebbero state portate avanti, correndo il rischio di essere invalidate e soffrire il deterioramento delle loro risorse ambientali. La proposta fu rifiutata dalla comitiva indigena a Brasilia e più tardi dall’insieme dei capitani convocato dalla Funai a Tabatinga con il fine di ascoltare i piani degli emissari del Conselho de Segurança Nacional. La strategia definita dai leader fu che, nell’interazione con i rappresentanti del Governo, tutti avrebbero parlato solamente nella propria lingua, enfatizzando la propria condizione di monolingue e lasciando solo al capo generale e al segretario del Cgtt il compito di tradurre le loro risposte. Portato in un sorvolo sui canali, Pedro Inácio indicò che le case e le occupazioni indigene arrivavano fino a vicino la frontiera, dove iniziava il territorio sacro di Evare, luogo di creazione dei Ticuna, ancora oggi abitato dagli immortali. Le riunioni dei capitani furono intensificate in maniera da evitare spaccature nell’unità esistente tra i leader delle molte comunità locali. 14 Integravano la prima presidenza dell’ente João Pacheco de Oliveira (Presidente), Maria Jussara Gomes Gruber (Vicepresidente), Vera Maria Navarro Paoliello (Segretaria) e Luiz Cezar Bartolomeu (Tesoriere), rispettivamente Professore e stagisti del Museu Nacional. Subito dopo anche altri vennero a partecipare in questa equipe, come Ellen Tostes Figueredo e Paulo Roberto de Abreu Bruno, negli anni Novanta si associarono Fabio Almeida e Regina Erthal. 15 Proposte in questa stessa direzione venivano in quel momento già rese operative nell’Alto Rio Negro e per il Parco Yanomami (che si sarebbe trasformato in un arcipelago di diciotto aree).

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Con il fine di “rafforzare la presenza degli organismi pubblici nella fascia di frontiera” (una delle finalità di base del progetto Calha Norte), la Funai Tabatinga nel 1986 ricevette ottanta posti di professore per le scuole indigene. In una riunione avvenuta a Paranã do Ribeiro, capitani e professori crearono la Organização Geral dos Professores Ticunas Bilíngues (Ogptb), la cui direzione, coordinata da Nino Fernandes, cominciò a mediare la contrattazione dei nuovi professori. In molti incontri successivi si vennero a definire collettivamente le finalità e la metodologa di azione dei professori indigeni contrattati, stabilendo un parametro di ciò che avrebbero dovuto essere le scuole ticuna, dirette da loro stessi e senza l’intervento di professori bianchi. Invece di frammentare l’unità degli indigeni e creare interessi e voci dissidenti, la contrattazione ampia di monitori bilingue contribuì ad una rapida consolidazione della Ogptb, che stabilì una agenda di proposte e dette un significato positivo all’attuazione dei nuovi funzionari16. Alcuni anni dopo la creazione della Ogptb fu fondata la Osptas, entrambe chiaramente in riferimento alla Cgtt, alle cui assemblee i loro direttori e principali leader partecipavano regolarmente. Nel 1990 iniziò in Perù una epidemia di colera che subito di estese al Brasile, raggiungendo Manaus e altre capitali. Le autorità allertarono per l’enorme rischio sofferto dalle popolazioni fluviali e urbane marginalizzate dal sistema sanitario, enfatizzando specialmente la vulnerabilità delle popolazioni indigene. Con l’orientamento tecnico e l’appoggio finanziario di Medicins Sans Frontières, il Cdpas montò uno schema di vigilanza e attenzione primaria nei villaggi attraverso monitori indigeni specialmente preparati, con un rapido trasferimento dei casi di colera confermati agli ospedali della città vicine (Benjamin Constant, Tabatinga e São Paulo de Olivença): Il sistema di radio e barche utilizzati nella protezione delle terre fu ampliato e incorporato a queste nuove finalità. Da queste iniziative risultò la creazione della Organização de Saúde do Povo Ticuna do Alto Solimões (Osptas), che nei decenni successivi sarebbe divenuto la base del Distrito Sanitário Especial Indígena (Dsei) do Alto Solimões. Nonostante fossero delimitate, le quattro aree indigene continuavano ad essere invase da sfruttatori di legname e possidenti di fronte all’omissione della Funai Tabatinga e con il tacito stimolo della Municipalità di Benjamin Constant. I leader indigeni, nel frattempo, continuavano a chiedere provvedimenti alla Funai di Brasilia e alla Polciícia Federal. Il 25 marzo del 1988 la trasmittente della Radio Nacional a Tabatinga cominciò a divulgare un avviso

16 Sulla formazione e la traiettoria della Ogptb si veda Bendazzoli (2011). Per una inserzione dei processi educativi nelle strategie e progetti dei giovani ticuna, si veda Paladino (2006).

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della Funai perché i possidenti residenti in quelle aree comparissero presso la sua sede locale muniti dei documenti per ricevere gli indennizzi a cui avevano diritto per i possedimenti esistenti in quelle quattro aree. Il lunedì, 28, ci furono dei tumulti e molti litigi nella sede della Funai perché molti possidenti non erano d’accordo con i calcoli degli indennizzi e minacciavano i funzionari. La reazione più silenziosa e terribile però ebbe luogo nel canale Capacete, dove un antico patrão dovette ritirare velocemente centinaia di tronchi di legno tagliato presso le sorgenti del canale. In una vendetta di sangue, contando con la complicità di commercianti e politici locali, circa venti dei suoi uomini attaccarono gli indigeni in processione in una celebrazione religiosa nel Capacete. Erano uomini, donne, vecchi e bambini. Furono uccise venti persone e ne furono ferite altre venti a colpi di armi da fuoco, evento che divenne conosciuto nella stampa nazionale come il Massacre do Capacete. Presi di sorpresa, i leader del Cgtt accorsero al Centro Maguta, dove ottennero una barca per recarsi sul luogo, cominciando al ritorno a prendersi cura delle vittime, a divulgare la notizia alla stampa e ad esigere l’intervento della Funai e della Polícia Federal. Le uniche immagini dei morti vennero riprese da uno di questi leader, Pedro Mendes Gabriel, che con una telecamera riuscì a registrare scene del funerale di due delle vittime. Un numero del giornale Maguta, basato sulla relazione del professore indigeno Santo Cruz Clemente Mariano sulle violenze a cui aveva assistito, presentava anche la lista delle vittime, inclusi vecchi e bambini, stilata con le persone delle comunità. Nonostante la Funai di Tabatinga confermasse le morti, il Presidente della Funai e la Sovrintendenza di Manaus negarono per vari giorni ciò che era avvenuto, attribuendolo a informazioni distorte fornite dagli antropologi e dal Conselho Indigenista Missionario. Tre professori ticuna vennero sommariamente licenziati17. La Polícia Federal si recò sul luogo il giorno dopo, incontrando solamente quattro corpi (gli altri erano stati gettati nel fiume Solimões) e realizzando l’arresto degli assalitori (che erano ancora nelle vicinanze e fortemente armati). Nonostante le reazioni nazionali e internazionali, dopo neanche trenta giorni tutti gli accusati erano nuovamente fuori di prigione, rispondendo in libertà al processo (realizzato solo più di dieci anni dopo). Uno di questi, identificato dagli indigeni come uno dei più violenti, giunse a farsi eleggere consigliere comunale.

17 Erano Nino Fernandes, Alírio Mendes de Moraes e José Tenazor, tutti molto più tardi integrati dalla Funai locale.

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I precedenti del Museo Maguta I tre anni che seguirono furono abbastanza difficili per gli indigeni. Le famiglie della quattro comunità dichiarate e liberate dagli intrusi poterono infine prendere possesso delle loro terre, ma il prezzo da pagare fu molto alto. L’intensificazione dell’antagonismo con la popolazione regionale arrivò ad un livello estremo18. Ad una carovana di indigeni evangelici che proveniva dal Perù per una celebrazione nella Chiesa Battista di Nova Filadélfia fu proibito di sbarcare dalla Polícia Militar e rispediti indietro. In questo quadro di paranoia dei regionali e delle autorità locali, il Cgtt evitò di promuovere nuove riunioni di capitani. Altre azioni importanti per gli indigeni erano in corso in questo periodo ed ebbero continuità. Nel 1987 il Centro Maguta ricevette l’appoggio di due agenzie filantropiche, la Icco, dell’Olanda, e la Oxfam, Brasile, per i suoi progetti, uscendo dalla sua antica sede e acquisendo un terreno su cui edificò un ampio ufficio ed un alloggiamento in legno, in cui erano realizzate le riunioni minori del Cgtt e della Ogptb. Una entità italiana, Amici della Terra, finanziò l’installazione di quindici radiotrasmittenti, distribuite dal Cgtt tra i villaggi più minacciati dagli invasori, in un sistema in cui operavano esclusivamente i leader indigeni e che aveva la sua sede a Benjamin Constant, nella sede del Centro Maguta, dove Nino Fernandes si manteneva in contatto quotidiano con il capitano generale e i capitani della Cgtt. Una canoa di alluminio con motore da quaranta hp ed un motore da cento cavalli completavano così un programma di protezione e vigilanza delle terre indigene controllato dai dirigenti del Cgtt. Se la prevenzione delle invasioni funzionava con una relativa efficacia, l’ostilità contro gli indigeni a Benjamin Constant cresceva sempre più, rendendo necessari meccanismi per invertire efficacemente la tendenza. Utilizzando le proprie risorse, il Cdpas costruì nella parte davanti del terreno una casa di mattoni destinata ad ospitare un museo della cultura ticuna. Per evitare che l’animosità di alcuni abitanti di Bejamin Constant, aggravata dagli avvenimenti del canale Capacete, rendesse impossibile l’apertura di questo museo, già nel 1988 fu inaugurata in questo edificio una biblioteca che disponeva di libri, riviste e fotocopie con un’ampia documentazione sui Ticuna e la regione dell’Alto Solimões. Molto lentamente professori e studenti delle scuole superiori di Benjamin Constant cominciarono a vincere i propri preconcetti Varie volte vennero sporte denunce secondo cui i Ticuna avrebbero avvelenato la stazione di rifornimento idrico di Benjamin Constant e che avrebbero messo dei vetri grattugiati nei cesti di farina che vendevano al mercato. 18

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e timori, recandosi a realizzare le proprie ricerche scolastiche utilizzando le informazioni ed i materiali didattici della biblioteca del Centro Maguta, unica in funzione nell’Alto Solimões. Il disegno delle istallazioni e l’itinerario di visita fu progettato dai ricercatori del Cdpas seguendo le concezioni più classiche in materia di musei, andando dalla storia alla tecnologia e terminando nella mitologia. L’obiettivo era soprattutto la valorizzazione della cultura ticuna di fronte al suo pubblico preferenziale, gli abitanti di Benjamin Constant. Varie volte leader e professori indigeni si recarono in visita al Museu Nacional, a Rio de Janeiro, percorrendo le sue esposizioni e conoscendo la sua riserva tecnica, esperienze valorizzate da indigeni e ricercatori, il che si rifletteva, è chiaro, nelle soluzioni di montaggio adottate. Oggetti della cultura materiale ticuna furono portati dai leader di diversi villaggi, sistemati con foto dell’archivio dei ricercatori del Cdpas e con descrizioni contenute nella letteratura antropologica19. Furono aggiunte anche illustrazioni disegnate dai professori indigeni. Un professore ticuna che desiderava stabilirsi nella città di Benjamin Constant, Constantino Ramos Lopes, fluente in portoghese, fu contrattato inizialmente per attuare nel servizio della biblioteca e venne incaricato anche della ricezione dei futuri visitatori del museo. Per evitare reazioni avverse il museo entrò in funzione all’inizio del 1991, senza grandi clamori e senza inaugurazione formale. Il museo ticuna di Benjamin Constant non si distingueva in alcun modo dalle altre attività del Cdpas e ricevette una targa molti anni dopo. Parallelamente a ciò, importanti cambiamenti avvennero nella politica indigenista brasiliana. Nell’attesa di ospitare la Conferenza Mondiale sullo Sviluppo e l’Ambiente, che si sarebbe tenuta a Rio de Janeiro nel 1992, il Governo mise alla presidenza della Funai un sertanista molto conosciuto (Sidnei Possuelo); promosse la ritirata dei minatori dall’area yanomami e firmò la creazione di decine di terre indigene i cui processi si trovavano paralizzati da molti anni. Tra queste c’erano anche le terre ticuna. Il Governatore dello Stato di Amazonas e i politici della regione si mobilitarono contro la demarcazione di terre indigene. Questo ebbe delle ripercussioni nella città di Benjamin Constant, dove furono realizzate varie manifestazioni che avevano come target il Centro Maguta, alla presenza di deputati federali, consiglieri comunali e sindaci. Esigevano la revoca dei recenti decreti, ma i più esaltati chiedevano la chiusura del Centro Maguta e circolavano minacce di una sua distruzione e incendio. Tutti gli indigeni si allontanarono dalla città e l’istituzione rimase chiusa fino a che si calmarono gli animi.

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In particolare Nimuendaju (1952) e Cardoso de Oliveira (1964).

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Se il Governo federale non ritirò i decreti però anche non dette loro il procedimento amministrativo usuale, ordinando la demarcazione delle terre ticuna. Pressato da una comitiva indigena in visita a Brasilia, il Presidente della Funai lasciò chiaro che, dato il costo di questa demarcazione, non disponeva delle risorse finanziarie che gli permettessero di farla eseguire. I leader indigeni esigevano come prova della veridicità di ciò che gli studi per la demarcazione venissero consegnati loro, il che di fatto avvenne. Durante la Conferenza a Rio de Janeiro (Eco-92), dirigenti del Cgtt e del Cdpas riuscirono a far arrivare al Primo Ministro austriaco il progetto di demarcazione delle terre ticuna, sollecitando il suo appoggio a questa misura concreta di protezione degli indigeni dell’Amazzonia e dell’ambiente. Il Governo austriaco accettò di finanziare il progetto, annunciandolo pubblicamente già nella Eco-92. Una complicata ingegneria istituzionale venne intessuta con un accordo trilaterale, che coinvolgeva una agenzia austriaca di cooperazione internazionale, il Vidc, il Cdpas, che si sarebbe occupato di tutte le attività relative alla demarcazione, incluso il bando e la scelta dell’impresa esecutrice, la fiscalizzazione e l’accompagnamento dei lavori, il pagamento e il rendiconto; e la Funai, che si sarebbe incaricata appena di verificare la correttezza dei procedimenti tecnici e di preparare il decreto di omologazione delle demarcazioni. Assumere tutte le responsabilità legali, finanziarie, contrattuali, civili e penali, per la demarcazione fisica di quasi un milione di ettari di terre ticuna, in un progetto che ammontava a mezzo milione di dollari, fu una sfida immensa per il Cdpas, realizzata grazie alla contrattazione temporanea di quadri tecnici. Ciò che bisogna metter in risalto qui è specialmente la conduzione politica locale di questo processo, tutta realizzata in completa sintonia tra i dirigenti del Cgtt e i capitani dei villaggi coinvolti nella demarcazione. Una commissione di trenta capitani ticuna venne formata, la quale visitava sistematicamente i sentieri aperti nella foresta, fiscalizzando gli sviluppi dei lavori di demarcazione. Furono realizzate due riunioni di capitani, con l’impresa contattata e i tecnici della direzione fondiaria della Funai di Brasilia, per chiarire tutte le questioni in relazione alla demarcazione. Si produsse una estesa documentazione di foto e video sulla demarcazione ticuna. Nel novembre del 1993 tutta l’area finale demarcata venne percorsa dai dirigenti del Cgtt e del Cdpas e questa importante vittoria degli indigeni venne celebrata con feste nei villaggi. Il contesto post demarcazione Osservando il funzionamento del Cgtt durante il suo periodo di esistenza più attivo è possibile notare che esso venne concepito dai Ticuna secondo il

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modello di un parlamento indigeno, avendo come modalità di funzionamento le assemblee di “capitani”20 dei villaggi, convocati a seconda delle necessità date da ogni congiuntura. Nonostante fossero elette “direzioni”21 che variavano riflettendo l’importanza politica delle comunità e il loro grado di compromesso con i compiti del Cgtt, il riferimento maggiore era il suo Presidente, Pedro Inácio Pinheiro, chiamato significativamente “capitano generale” e sempre rieletto per acclamazione. Il suo mandato era principalmente quello di lottare per la demarcazione delle terre, esercitando un comando carismatico e quasi messianico, il che non entrava in conflitto in alcun modo con il potere locale dei capitani, che costituivano l’autorità massima nelle attività di routine di ogni villaggio. Un obiettivo secondario ma sempre presente nelle riunioni del Cgtt22 era la lotta per la valorizzazione della cultura ticuna. Questo era chiaramente segnalato in ogni assemblea realizzata nei villaggi, che sempre quando possibile veniva accompagnata dalla celebrazione parallela di un rituale di iniziazione femminile (worecu), che è la maggiore celebrazione della cultura ticuna. Alcuni capitani vincolati alle chiese evangeliche preferivano solamente accompagnare e assistere al rituale, perché la loro religione proibiva loro di ingerire bevande forti (caiçuma e pajauaru), di ballare e di realizzare “scherzi con gli spiriti” (la danza con i “mascherati”). Accettavano però il rituale perché vedevano l’importanza emblematica che aveva per gli invitati esterni (i loro alleati bianchi). È stato questo che ha gettato le basi e giustificato successivamente la formazione di un museo ticuna, che subito ha acquisito molta visibilità, oltre al fatto che le persone delle comunità vi ricevevano regolarmente studenti di Benjamin Constant, visitatori colombiani e turisti stranieri. Dato che anche dopo che venne conclusa la demarcazione restavano anco20 Si trattava di incarichi non remunerati liberamente scelti dalle comunità, che venivano ricoperti da persone con una parentela coesa e doti di comando (condotta esemplare, riconosciuto prestigio, capacità di convinzione e retorica da leader). 21 Procedimento con il quale i Ticuna avevano una certa familiarità, perché erano comuni nell’organizzazione religiosa di ogni comunità vincolata al movimento della Santa Cruz, la cui azione si strutturava mediante fratellanze locali. 22 Vale la pena di mettere in risalto che il Cgtt fu la prima organizzazione indigena su scala locale a funzionare in Brasile. L’enfasi a rispetto delle peculiarità di ogni comunità locale, assumendo il carattere di una federazione, viene espressa nel termine “generale”, usato anche in altre associazioni tra i Ticuna. La caratterizzazione dei popoli indigeni come “tribù”, fortemente criticata dagli antropologi e dal movimento indigeno in quel periodo, esplicita la loro interlocuzione locale, si trattava di affermare la propria autonomia e specificità di fronte ai funzionari della Funai, la cui azione si estendeva anche alle “tribù del (fiume) Javari”. La sigla, allora, faceva ricordare curiosamente una entità pan-sindacale, la Confederação Geral dos Trabalhadores, proibita dal governo militare e che fu molto citata dai mezzi di comunicazione.

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ra alcune piccole situazioni locali che dovevano essere risolte23, il Cgtt mantenne ancora per alcuni anni la sua importanza e la sua funzione aggregatrice. Ma nuove forze cominciavano a configurarsi, delineando progetti alternativi di incorporazione dei Ticuna alla vita regionale e nuovi schemi amministrativi, il che faceva affiorare con più forza le rivalità tra i villaggi e tra gruppi di villaggi di uno stesso comune, le forti differenze negli orientamenti religiosi, le formazioni corporative specifiche. Sorsero progressivamente altre associazioni indigene, come la Omitas (di pastori evangelici), la Focit (anch’essa iniziata da leader evangelici, ma che finì per riunire capitani dissidenti del Cgtt, oltre ad ammettere professori, pastori e consiglieri comunali indigeni), associazioni di donne di differenti terre indigene e organizzazioni municipali (come quella delle comunità indigene del comune di São Paulo de Olivença). Una rottura che ha lasciato il segno Nella misura in cui tutte queste aree di attuazione si diversificavano cominciarono a sorgere orientamenti divergenti, dispute per il comando e il controllo delle risorse dei progetti. Due fatti avvenuti nel 1992 indicano in questa direzione. Il primo fu l’elezione della nuova direzione del Cdpas24, il secondo la concessione di una licenza remunerata ad un indigeno che lavorava al Cdpas e che concorreva all’incarico di consigliere comunale25. L’opposizione 23 Fu il caso di tre comunità più lontane, localizzate nel fiume Içá e nei comuni di Amaturá e São Paulo de Olivença, oltre alla regolarizzazione fondiaria della comunità Lauro Sodré e dell’antica riserva di Umariaçu. 24 In una riunione di capitani avvenuta nel Centro Maguta nel 1992, João Pacheco de Oliveira, come Presidente di questa istituzione, annunciò la decisione dell’equipe di ricercatori di abbandonare tutti i posti di direzione del Cdpas, che avrebbero dovuto essere scelti dagli stessi indigeni in una votazione da fare in quella occasione. I ricercatori sarebbero rimasti solo nella condizione di “consulenti” di specifici progetti. Nell’ultimo giorno della riunione si formalizzarono due schieramenti, uno rifletteva il consenso della maggioranza ed era guidato da Pedro Inácio, e l’altro composto da indigeni che lavoravano nel Cdpas. Sorpreso con l’inusuale disputa e l’allegata maggiore scolarizzazione dei suoi oppositori, Pedro Inácio minacciò di ritirare la sua candidatura se João Pacheco de Oliveira non l’avesse integrata come Vicepresidente, giustificandosi con la “necessità di firmare molte carte”. Vincente con un’ampia maggioranza (circa tre quarti dei votanti), la nuova direzione, con la “testa” e la maggioranza indigene, assunse l’incarico e fu molto festeggiata. 25 Questa richiesta fu presentata da Constantino Ramos Lopes, che era in quel momento incaricato della biblioteca del Cdpas e di seguire le eventuali visite al museo, e fu molto criticata da Pedro Inácio e altri capitani, che vedevano in ciò un segnale dello scarso compromesso con i compiti collettivi e con le conseguenze pubbliche delle azioni realizzate. Alla fine, conside-

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tra capitani e indigeni che, per diverse ragioni, erano contrattati per lavorare nei progetti regolari del Cdpas, chiamati “funzionari” dai capitani, erano una forza centrifuga latente. Con la demarcazione già conclusa, le agenzie che prima appoggiavano le attività del Cdpas cominciarono a ridurre i propri finanziamenti, il che esigeva una diminuzione sensibile del quadro delle persone contrattate. Il fatto fu visto con grande preoccupazione da parte della direzione del Cdpas, che per la sua importanza portò l’argomento ad una riunione del Cgtt. Nel dibattito sorsero alcune critiche ai “funzionari”. Alla fine i capitani autorizzarono la direzione a discutere con le agenzie la possibilità di una riduzione, lenta e progressiva, dei quadri. La reazione degli assessori e della direzione della Ogptb, che in quel momento contavano con proprie fonti di finanziamento al di fuori del controllo diretto del Cgtt o del Cdpas, possedendo anche un ampio centro di formazione recentemente costruito a Nova Filadélfia, fu molto forte e sproporzionata. Si ritirarono immediatamente dallo spazio fisico del Centro Maguta, portando via da lì tutte le cose che consideravano proprie e portandole alla loro nuova sede. Oltre ai materiali didattici, archivi e mobili che avevano al Cdpas, furono rimossi anche tutti i libri dalla biblioteca. Secondo il racconto di alcuni capitani, la collezione del museo non ebbe la stessa sorte a causa del loro intervento. A partire da quell’anno, il 1996, ci fu una completa rottura politica tra le due organizzazioni, che non mantennero più attività in progetti comuni, operando in luoghi e contesti distinti. L’impatto di questa rottura sulle due organizzazioni ticuna fu molto diverso, in un caso acuto e destrutturante, nell’altro abbastanza mediato ma con ripercussioni strutturali e croniche. I funzionari indigeni e non indigeni del Cdpas, inclusi quelli che erano vincolati a progetti in andamento della Obptb, fecero cause presso la giustizia del lavoro che ammontavano ad un valore molto elevato. In città si speculava sull’imminenza del pignoramento e della vendita dell’edificio e di tutto il patrimonio mobiliare. In nuove negoziazioni della direzione del Cdpas con la Icco, questa agenzia concordò nel collaborare finanziariamente alla soluzione del problema, dovendo però chiudere il suo appoggio ai progetti dell’istituzione. Fu inviato nella regione un avvocato specializzato in cause del lavoro che riuscì a fare accordi con ognuno dei litiganti, pagando rando la situazione legale, l’esistenza di un contratto firmato dal Cdpas come funzionario e di un chiaro orientamento in questo senso della giustizia elettorale, la licenza venne concessa e venne collocato temporaneamente un altro giovane a eseguire i compiti nella biblioteca. Dato che Constantino non riuscì a farsi eleggere, tornando cominciò ad occuparsi solamente della ricezione dei visitatori del museo.

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immediatamente i nuovi valori concordati e saldando in maniera definitiva i debiti registrati in nome di Pedro Inácio e della direzione del Centro Maguta. Per altro verso, tale allontanamento implicò il rafforzamento di una tendenza corporativa e depoliticizzante della Ogptb, i cui membri avevano già relazioni lavorative con la Funai e i municipi e che soffrivano naturalmente un controllo ed una valutazione da parte di questi organismi26. Senza la presenza del Cgtt nei corsi e nelle assemblee dei professori, i materiali didattici prodotti e le auto-affermazioni identitarie cominciarono ad essere riferite solamente alla cultura tradizionale ed al passato mitico, senza alcun riferimento alle mobilitazioni politiche degli ultimi due decenni e alle istituzioni, fatti e personaggi politici che vi erano sorti27. Anche l’articolazione locale tra professori e capitani, fondamentale per la difesa della terra e per lo sviluppo di progetti comunitari, si indebolì e non furono rari i casi in cui i professori si presentavano come leader concorrenti dei capitani, con l’incarico di professore che serviva da trampolino di lancio per concorrere all’incarico di consigliere comunale o per ottenere altri lavori salariati nel municipio. La rifondazione del Museo Maguta Nonostante nei circuiti vincolati alla Ogptb l’informazione che circolava era che il museo fosse chiuso ed abbandonato, non era questo ciò che di fatto avveniva. Al contrario, nella prospettiva dei capitani l’uscita della Ogptb e degli antichi funzionari indigeni implicava l’obbligo per il Cgtt di assumere infine la totale responsabilità del Centro Maguta, anche se ciò avveniva in un momento in cui l’entità si trovava totalmente senza risorse. Fu stabilita una alternanza tra i capitani per mantenere aperta la sede del museo, ognuno doveva rimanere lì alcune settimane, portando a Benjamin Constant la propria famiglia e tutti gli alimenti necessari. Pedro Inácio e la sua famiglia, tra gli altri Le orientazioni delle segreterie municipali e statali di educazione per molto tempo furono in conflitto con la prospettiva di una educazione differenziata per gli indigeni, le cui scuole erano frequentemente invase da materiale didattico inappropriato, distribuito in maniera impositiva. 27 Un incidente grottesco avvenne durante una visita di Pedro Inácio e Adércio Custódio, rispettivamente Presidente e Vicepresidente del Cgtt, al villaggio di Betânia. Ascoltando i leader parlare della “demarcazione delle terre”, il direttore della scuola e i suoi professori chiesero di cosa si trattava, perché non avevano mai ascoltato tale espressione. Non sapevano neanche del Cgtt, né delle recenti mobilitazioni, pensando che si trattasse di “progetti dell’Instituto Nacional da Reforma Agraria”. I capitani raccontarono molte volte con rabbia questo episodio e si chiesero alla fine: “cosa questo professore insegnerà ai suoi alunni?”. 26

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capitani, si recarono diverse volte a Benjamin Constant, “a prendersi cura del museo”. Molti mesi dopo, un altro capitano, Silvio, della comunità Paranã do Ribeiro, sollecitò e ottenne l’autorizzazione del Presidente dal Cgtt per stabilirsi lì in maniera permanente. Alcuni anni dopo, alla sua morte, un altro capitano della stessa area, Paulino, occupò lo stesso alloggio di legno, dove risiede ancora oggi con la sua famiglia. È importante notare che entrambi appartenevano alla rete di alleati più vicini al capitano generale Pedro Inácio ed erano anche riconosciuti per la loro forza spirituale e per le conoscenze religiose della tradizione ticuna. Dal punto di vista indigeno, l’esercizio della curatela degli oggetti esigeva non solo una conoscenza profonda dei loro usi e significati, ma anche una speciale capacità di gestire gli spiriti dei loro “signori”. Per altro verso, da molti anni Nino Fernandes frequenta quotidianamente il Centro Maguta, dove lavorava alla radio, assisteva gli indigeni di passaggio per Benjamin Constant, preparava documenti e per telefono restava in contatto con altre organizzazioni indigene (come la Coiab). Anche dopo l’uscita della Ogptb, ciò continuò come prima e più tardi egli venne indicato dal Cgtt per la funzione di Direttore del Museu Maguta, che occupa ancora oggi28. Per la popolazione di Benjamin Constant il museo cominciò ad avere una utilità molto limitata. Senza la biblioteca, che non fu riattivata in un altro luogo e di cui sembra si sia persa la collezione, le visite di studenti e professori delle scuole municipali divennero rare. Ma i visitatori colombiani, generalmente accompagnati da guide turistiche, non hanno mai smesso di vistare il museo. Il reddito proveniente dagli ingressi è però insufficiente per mantenere il pagamento delle bollette (luce, acqua, telefono, tasse), i cui servizi sono stati varie volte interrotti. A partire dal 1998 un progetto di ricerca del Museu Nacional collaborò nel recupero dell’edificio e delle esposizioni, addestrando alcuni giovani indigeni in informatica e nelle tecniche di custodia e conservazione degli oggetti (il che ha permesso loro di fare alcuni nuovi interventi nelle esposizioni precedenti). Un progetto di sostegno al Museo Maguta, sussidiato dal Programa de Desenvolvimento dos Povos Indígenas (Pdpi)29 e coordinato da Nino Fernandes, ha realizzato alcune ristrutturazioni e adattamenti all’edificio di mattoni, installando ventilatori e computer, rendendo possibile la costruzione di una sala di informatica (climatizzata) e di una sala per riunioni, come anche facendo Dopo che fu ricontrattato dalla Funai, Nino lavorò per molti anni come professore e direttore della scuola indigena di Nova Filadélfia, concentrando progressivamente le sue attività al Centro Maguta, senza che gli amministratori locali della Funai intervenissero in ciò. 29 Vincolato al Ministério do Meio Ambiente e che conta con risorse della Gtz e Dfid. 28

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erigere all’entrata del terreno un ampio ufficio per la Associação das Mulheres Indígenas Ticuna (Amit), nel quale si vendeva artigianato per assicurare la sostenibilità del museo. Dal 2002 al 2006 fu creato il Distrito Sanitário Especial Indígena do Alto Solimões e il suo coordinamento fu affidato al Cgtt, con Nino Fernandes che venne indicato per la funzione di gestore. Dato l’ammontare delle risorse e dei compiti affidati al Cgtt, la sede del Desi non funzionò al Museo Maguta, ma in un altro edificio affittato e preparato specificatamente per questo. Una valutazione più approfondita dell’impatto dei Dsei e della loro estinzione nell’empowerment dei popoli indigeni non è ancora stata fatta, ma esistono alcuni elementi forniti da ricercatori che collaborarono con questo processo tra i Ticuna30. La chiusura delle attività del Dsei nell’Alto Solimões, come in altre aree del paese, ha lasciato debiti finanziari e amministrativi che hanno inciso sul Cgtt, rendendo impossibile la presentazione di progetti in suo nome. La tendenza attuale è che lo spazio fisico e le installazioni dell’antico Centro Maguta comincino ad operare primariamente come luogo di attività culturali, associate alle istituzioni di quest’area e utilizzino più specificatamente il nome del Museo Maguta. Considerazioni finali Come si può dedurre dal racconto precedente, è possibile pensare ad un protagonismo indigeno in materia di musei solo partendo dalle forme e funzioni che tale istituzione assume all’interno delle strategie politiche delineate da una collettività nel corso della sua storia. L’utilizzo di criteri statistici e esterni porta a reificare concezioni e pratiche, causando l’incomprensione del processo come un tutto. Ciò che ha garantito la singolarità di questo museo e che fin dalla sua apertura già annunciava la sua assoluta originalità era la sua relazione con il Cgtt. Ossia, con un progetto politico indigeno, creato e diretto esclusivamente da indigeni (anche se, chiaramente, contando su appoggi esterni). La forma in cui fu inizialmente montato ha riflesso appena le vicissitudini del momento, con le limitazioni di mezzi e una urgenza dettata da un canone di convivenza interetnica marcato dalla intensificazione del conflitto. La formazione di un museo con oggetti della cultura materiale ticuna a Benjamin Constant non fu opera di un artista indigeno e non esprime una mu-

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Si vedano Regina Erthal e Paulo Roberto de Abreu Bruno.

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seografia puramente autoctona (nonostante siano lì esibiti con grande risalto propri canoni grafici e artigianali). È corrisposto ad una mimesis di soluzioni espositive e montaggi visti in istituzioni di riferimento nazionali31, avendo come obiettivo finale il contribuire agli obiettivi politici che portarono alla fondazione del Cgtt, la conquista della terra e il rispetto della cultura ticuna. L’associazione tra questi due obiettivi (territorio etnico e tradizione culturale) fu stabilita in maniera organica e emblematica fin dalla creazione del Cgtt attraverso atti simbolici che significarono una profonda rottura con un “regime della memoria” che considera la differenza culturale come un segno di subalternità, qualcosa che deve essere nascosto e appena possibile superato. Tentando di far coincidere le assemblee con processi culturali, all’istituire la lingua ticuna come mezzo ufficiale di comunicazione in questo contesto politico cruciale, chiamandosi “Maguta” il veicolo di informazione scritta dell’entità, riproducendo sulla copertina di ogni giornale l’episodio centrale della sua creazione, in tutti questi atti simbolici tradizione e politica furono intessute come un pezzo unico, come qualcosa di indissociabile. I leader e intellettuali indigeni che formarono il Cgtt rifiutarono non solo l’ideologia regionale del “meticciaggio”, ma anche il suo presunto superamento attraverso una identificazione primaria con schemi cognitivi offerti dalle religioni dette universali. Assumendosi come “maguta” nelle loro iniziative politiche e più tardi chiamando “Maguta” il loro museo, essi crearono una nuova relazione con il passato, valorizzandolo e portandolo vicino a loro nella costruzione dei loro progetti per il futuro. È perché la sua funzione, forma e necessità sono state qualcosa di internalizzato e pienamente condiviso dai leader indigeni che i capitani si mobilitarono per preservarlo, insistendo nel mantenerlo in funzione anche senza soldi e persone per farlo. È stato questo che ha propiziato la sua ri-fondazione e che lo rende oggi uno spazio libero in cui gli indigeni possono realizzare la loro creatività, dialogando gli uni con gli altri, cercando percorsi nelle polarizzazioni tra le generazioni, i differenti orientamenti religiosi e le alternative economiche e le forme di cittadinanza concretamente offerte. Ossia, continuare ad affrontare le loro sfide contemporanee. 31 Questa mimesis e i suoi giochi adattativi sono certamente molto distanti dai grandi musei coloniali europei e dalle strategie espositive che essi elaborarono per il pubblico al quale erano destinati. Al contrario, la museografia del Maguta dialogava con l’uso dato agli indigeni nel contesto museologico nazionale, non oggetti d’arte o di esotismo, ma pensati secondo il motto “un museo contro il preconcetto”, coniata da Darcy Ribeiro per l’antico Museu do Índio. Nonostante la sua inquestionabile utilità politica, essi continuano a essere appoggiati su rappresentazioni indianiste e sul paternalismo indigenista e non smettono di produrre una visione culturalista e passatista degli indigeni.

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Introduzione La curatela scientifica delle collezioni etnografiche richiama l’attenzione su vari campi e approcci, principalmente quando si trovano in una situazione di rimpatrio, senza che siano uscite dalla propria patria. Può sembrare una esperienza strana, o perfino inusuale, ma che sicuramente resterà nella storia, incentivando un esercizio etnografico degli utilizzi metodologici nell’analisi delle collezioni museali. La traiettoria inizia il 19 agosto del 2022 con la donazione della collezione personale di Vera Penteado Coelho al Museu de Arqueologia e Etnologia (Mae) della Universidade de São Paulo, attestata in un accordo firmato da Celina Penteado Coleho, madre ed ereditiera. Vera Penteado Coelho, ricercatrice del Museu Paulista e del Mae, portò avanti ricerche archeologiche con le popolazioni andine e, negli ultimi anni della sua carriera, anche etnografiche con il gruppo etnico brasiliano Waurá, nel Parque Nacional do Xingu, nel Mato Grosso. Per motivi di salute, lavorava a casa sua negli intervalli di tregua di una malattia degenerativa. Così, tutto il materiale accumulato durante anni di ricerca sul campo e nei laboratori del museo, è stato portato a casa sua con l’obiettivo di dare una continuità alle sue analisi, visto che la ricercatrice non si dava per vinta, anche se ciò durò poco. Due anni dopo la sua morte avvenuta nel 2000, la famiglia, che aveva raccolto e custodito i suoi averi nella casa della madre, sua erede, decise di donare l’archivio personale di Vera Coelho all’istituzione di ricerca a cui questa si era dedicata. La donazione fu mediata anche dalla ricercatrice del Museu Paulista e amica di famiglia Dottoressa Maria José Elias, responsabile per il suggerimento della donazione al Mae, e seguita da una specialista in etnologia

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indigena brasiliana del Mae1, designata dal Professor José Luiz de Marais, Vice-Direttore del Mae, incaricata di redigere un parere scientifico di interesse all’accoglimento della collezione. In base a questo parere, il materiale fu trasferito al Laboratório de Etnologia del museo, ma continuava a restare di proprietà della famiglia una collezione di oggetti e disegni organizzata dall’antropologa. La donazione fu accettata unanimemente in una riunione del Conselho Deliberativo dell’istituzione, l’11 aprile del 2003, e il Direttore del Mae, Professor Murlio Marx, inviò una lettera alla Signora Celina, in cui si dichiarava che: “il Mae si sentirebbe molto onorato se potesse riunire il materiale raccolto dalla illustre ricercatrice, costituendo così la meritata Collezione Vera Penteado Coelho”.

Archivio personale di Vera Coelho al Laboratório de Etnologia del Mae.

Dopo la formalizzazione dell’accettazione della collezione iniziò il processo di curatela al Laboratório de Etnologia del museo. La ricercatrice era stata molto sistematica e meticolosa nell’organizzazione del materiale, però quando fu ritirato dalla sua residenza venne disordinato, a causa della mancanza di conoscenza delle attenzioni necessarie con gli archivi di ricerca. Si trattava di un grande volume di cartelle, raccoglitori e fotografie, raccolti in casse e sacchetti di plastica con molto insetticida. Fu necessaria una prima selezione per riordinare il materiale. Il criterio di selezione fu stabilito rispettando le due aree delle conoscenze coinvolte e il materiale fu organizzato

1 Sandra Lacerda Campos, specialista in Etnologia Brasiliana, responsabile del Laboratório de Etnologia del Mae/Usp.

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in due grandi gruppi: archeologia e etnologia, e la corrispondenza personale fu raccolta in un altro segmento. Avendo come obiettivo principale quello di comprendere l’archivio per creare una metodologia di organizzazione, cercammo informazioni nella corrispondenza personale, in cui con grande sorpresa scoprimmo che ci trovavamo di fronte ad una situazione di doppia donazione. Tra gli innumerevoli documenti c’era una lettera che la ricercatrice aveva inviato al Direttore del Museo di Etnologia di Basilea in Svizzera, il Professor Gehrard Baer, in cui confermava la donazione della collezione degli indigeni Waurá dopo la sua morte. La donazione Esprimendo le sue ultime volontà, il 19 maggio del 1993 Vera Penteado Coelho scrisse nel suo testamento il lascito che sarebbe stato di diritto del Museo di Basilea dopo la sua morte, che consisteva: “nella collezione etnografica degli Indigeni Waurá, comprendendo, oltre agli oggetti, quaderni di campo, note, diapositive, archivi, cassette registrate e la biblioteca dell’intestataria, composta da libri e periodici specializzati in antropologia, inclusi gli oggetti pre-colombiani e quelli delle tribù Bororo, Aguaruna e Chavantes”2.

La famiglia, non conoscendo il trattamento e i procedimenti relativi all’archivio di ricerca, giudicò che solamente i disegni e gli oggetti sarebbero andati in Svizzera e, non distinguendo i documenti dell’archivio dalle schede di riferimento documentale della collezione materiale, senza la quale gli oggetti perderebbero di senso, finì per creare involontariamente una situazione che andava contro l’accordo firmato nel testamento, ossia parte dell’eredità donata al Museo di Basilea era stata donata anche al Mae. Questo fatto creò una disputa giuridica tra i due paesi, che richiese un parere della Consultoria Jurídica della Universidade de São Paulo, che si pronunciò prontamente indicando le linee guida applicabili. Prima che la situazione diplomatica divenisse più complessa, Il Mae fu informato dell’arrivo in Brasile di un rappresentante legale del Museo di Basilea, con l’intento di trovare una soluzione per la donazione in questione. Quando morì Vera Coelho, il Museo di Basilea aveva cambiato la direzione ed era passato attraverso un lungo processo di ristrutturazione. Cominciò a 2

Testo estratto dal suo testamento.

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chiamarsi Museum der Kulturen Basel, Mkb, e la nuova direzione voleva risolvere tutte le questioni pendenti ereditate dal passato, tra queste la donazione della collezione brasiliana. L’andamento delle questioni relative alla donazione fu gestita in maniera molto obbiettiva da parte delle due istituzioni, coscienti delle norme internazionali che riguardano l’esportazione di beni culturali e che avrebbero reso difficoltoso il trasferimento della collezione in Svizzera, che condividevano la stessa posizione secondo cui la collezione non sarebbe dovuta uscire dal Brasile. Si aggiungeva anche il fatto che la comunità Waurá si era manifestata in disaccordo con l’espatrio del loro patrimonio culturale, principalmente dei disegni che sistematizzavano l’arte e il grafismo waurá, molti dei quali contenendo rappresentazioni di figure e scene relative all’universo mito-cosmico di questa cultura. Condividendo la decisione che seguiva gli interessi e gli accordi tra i soggetti coinvolti, Mae, Mkb e Waurá, si stabilì un contratto di comodato in cui il Mae sarebbe divenuto depositario della collezione di Vera Penteado Coelho mentre si portava avanti il processo di donazione da parte del museo svizzero a favore dell’Universidade de São Paulo, risolvendo con questa misura le questioni legali aperte dai termini del testamento. Si dava inizio ad un processo di rimpatrio di una collezione, senza che questa fosse uscita dal suo paese di origine. D’accordo con la famiglia e gli interessi coinvolti, si stabilì che i pezzi che si trovavano sotto la sua custodia sarebbero stati trasferiti al Mae, dove avrebbero avuto l’immagazzinamento e i procedimenti adeguati per la loro preservazione fisica e documentale. Il passo seguente fu quello di organizzare il trasferimento e furono designati come responsabili del processo l’antropologo Alexander Brust del Mkb e l’antropologa e specialista in etnologia brasiliana Sandra Lacerda Campos e lo specialista in conservazione e restauro Gedley Belchior Braga del Mae. Adempiuti i procedimenti assistiti, di inventario, registrazione fotografica, imballaggio e trasporto, che durarono tre giorni dato che esigevano un trattamento giudizioso, la collezione di disegni e di artefatti etnografici fu depositata al Mae nell’agosto del 2003, dopo la firma dell’accordo di comodato tra le due istituzioni il 24 giugno del 20033.

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Informazioni dettagliate si trovano nel fascicolo che compone il processo di donazione al

Mae.

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Composizione della collezione e criteri metodologici e della curatela La Collezione Vera Penteado Coelho è composta di diapositive, libri, documenti artefatti e disegni. Si tratta di duemila e ottantadue diapositive, su un totale di tremiladuecentoottantacinque, che riguardano l’area dell’etnologia indigena e sono suddivise in una classificazione tematica. Inoltre c’è un insieme minore sui popoli indigeni non brasiliani. La maggior parte di queste diapositive riguarda gli indigeni Waurá, soprattutto in riferimento alla ceramica, e tali immagini sono state ottenute principalmente nei viaggi di Vera Coelho al villaggio Piulaga, nel Parque Nacional do Xingu. A partire dalla raffinatezza della selezione documentale, i materiali sono stati organizzati in categorie: libri, stampe, cataloghi, diapositive, ritagli di giornali, fotografie, corrispondenza istituzionale e personale, documenti testuali, schede catalografiche e documentazione fotografica della collezione materiale, creando un inventario del contenuto dell’archivio che è stato sommato all’inventario degli oggetti e dei disegni, prodotto prima del trasferimento degli artefatti al museo. Appena giunti al Mae, i 420 disegni sono stati disimballati e immagazzinati in un armadio climatizzato, avvolti in un gherone non gommato con pH neutro, nel Setor de Documentação Museológica. I 459 pezzi della collezione materiale, dato che sono confezionati con materia prima organica, sono stati sottomessi ad un processo di disinfestazione in una camera di fumigazione, perché erano stati immagazzinati in maniera inadeguata e soggetti a infestazione biologica. Questo trattamento è stato supervisionato dalla equipe del Laboratório de Conservação e Restauro. Dopo questo processo, gli oggetti sono stati organizzati in imballaggi adeguati alla preservazione e immagazzinati nella Reserva Técnica, in condizioni adeguate e sotto il controllo del Serviço Técnico de Curadoria. Nell’agosto del 2003, con l’unione degli sforzi delle equipe tecniche del Serviço de Curadoria e con l’ausilio temporaneo dei suoi stagisti e collaboratori, iniziò il processo di igienizzazione e immagazzinamento delle diapositive, coordinato dal fotografo del Mae Wagner Souza e Silva. A partire dai primi procedimenti di riconoscimento, l’archivio cominciò ad essere lavorato, a partire dal settembre del 2003, con l’organizzazione delle diapositive da parte di Francisca Figols, alunna del corso di specializzazione in museologia del Mae, che ha scelto di fare le sue attività di tirocinio in tale collezione, con la supervisione di Sandra Lacerda Campos. L’insieme delle diapositive della Collezione Vera Coelho è stato igienizzato e organizzato in imballaggi appropriati e oggi è immagazzinato nel settore di documentazione e disponibile per la consultazione.

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Simultaneamente, l’Mkb, attraverso l’antropologo e conservatore del settore americano, Alexander Brust, elaborò il progetto: “Incontro con il passato e la cutlura materiale”, dando inizio all’interscambio di conoscenze tra il Mae e l’MKB. Il progetto è durato due anni e sviluppato in tre parti: la prima in Brasile, la seconda nel villaggio Waurá nello Xingu e la terza a Basilea. Con tale interscambio è stato possibile fare una curatela condivisa tra i musei coinvolti e la comunità indigena produttrice della collezione. Gli artefatti I 459 artefatti che formano la Collezione Vera Coelho, dopo essere stati igienizzati, attribuiti e organizzati, sono stati imballati in contenitori adeguati alla loro preservazione e immagazzinati nella Reserva Técnica del Mae, sotto il controllo del Serviço Técnico de Curadoria4, rispettando l’identificazione e la numerazione attribuite dalla collazionatrice.

Una parte di questi oggetti proveniva dal Perù, soprattutto dagli Aguaruna, che vivono nelle regioni dell’Amazzonia peruviana, ed erano composti da frammenti di tessuti, pezzi provenienti da scavi archeologici e sculture in pietra. Ciononostante la maggior parte degli oggetti, composti da cesti, ceramiche, piumaggi, sono di diversi popoli indigeni del Brasile, come i Karajá, i Il Serviço Técnico de Curadoria è composto dai settori di Documentação Museológica, Laboratório de Arqueologia, Laboratório de Etnologia e Laboratório de Conservação e Restauro. 4

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Krahó, i Waimiri Atroari, gli Xavante, i Bororo, i Wai-Wai e i Terena, anche se l’insieme degli artefatti della Collezione Vera Coelho è composto principalmente da oggetti della cultura waurá. La ceramica waurá, di riconosciuta singolarità, era realizzata tradizionalmente dalle donne, ma con il tempo e l’aumento della commercializzazione anche gli uomini cominciarono a produrla. L’ornamento plastico è presente tanto nella ceramica quanto negli artefatti in legno. Esso consiste principalmente in figure zoomorfe, “rappresentate in maniera elegante: omettendo dettagli non necessari e mettendo in risalto sempre le caratteristiche più marcanti dell’oggetto rappresentato” (Coelho, 1986: 40). Ogni artefatto possiede determinate figure zoomorfe che vengono utilizzate tradizionalmente nei loro adorni, ad esempio l’avvoltoio è usualmente rappresentato in bianco e altri uccelli appaiono nei giratori del beiju. I disegni di animali dimostrano, oltre all’abilità artistica dei Waurá, la vasta conoscenza che essi possiedono della fauna locale. Nell’articolo “Figuras zoomórfas na arte Waurá” (Coelho, 1995), Vera Coelho affronta i motivi che portano alla scelta di alcune figure zoomorfe per ornare un oggetto, secondo l’autrice le ragioni tecniche molte volte si sovrappongono a quelle simboliche. Nello stesso articolo, Vera Coelho conclude: “La varietà di animali che appaiono nell’arte Waurá e la flessibilità dei criteri di selezione mostrano che l’artista ha una grande libertà nella scelta e che può esercitare la sua creatività con molta più ricchezza che in altre tribù. Un oggetto non sarà considerato meglio realizzato se l’artista lo orna con una figura zoomorfa inedita. Ciò che conta è se l’oggetto è tecnicamente ben rifinito. Il buon artista fa opere complesse come grandi maschere e vasi di argilla” (Coelho, 1995).

Durante le sue permanenza tra i Waurá, Vera Coelho ricevette innumerevoli regali e realizzò diversi scambi, registrando in uno dei suoi quaderni di campo ogni articolo acquisito, come anche la sua origine. Tra gli artefatti waurá risaltano: ceramiche, giratori di beiju, strumenti musicali, pali per scavare la manioca, pettini, collane e pendenti, piumaria e cesti. I disegni I disegni possono essere considerati la parte più significativa della Collezione. Vale la pena di mettere in risalto che oltre ai disegni fatti dai Waurá, essa ne conta quarantadue realizzati da Kanajó, un indigeno bororo del villaggio Meruri. Questo insieme, che integra la Collezione Vera Coelho, attualmente si

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trova nel settore documentazione del Mae5, perché si tratta di materiale sensibile che richiede un trattamento differenziato dagli oggetti. Durante il tirocinio realizzato da Flávia Marques de Azevedo al Laboratório de Etnologia del Mae, con l’orientamento di Sandra Lacerda Campos, i disegni sono stato organizzati seguendo la numerazione corrispondente alle schede informative su ognuno elaborate da Vera Coelho. La documentazione relativa ai disegni waurá si trova in due raccoglitori organizzati dalla ricercatrice, in cui c’è una scheda per ognuno nella quale si può verificare: foto del disegno, nome dell’autore, nome della figura, materiali e colori utilizzati, data di produzione e osservazioni. Presenta anche descrizioni dei significati simbolici e analisi di alcune delle relazioni tra i grafismi presenti nei disegni, negli artefatti e nella pittura corporale tradizionalmente usata da questo popolo. Le schede sono divise per autore e organizzate in ordine alfabetico. Dopo le divisioni tra le schede si trovano una o più schede con i dati biografici dell’autore e osservazioni a riguardo del talento di ogni artista. La maggior parte dei disegni sono stati prodotti nel 1978 o 1980, però ci sono disegni del 1982 e del 1983 che sono stati realizzati durante le visite di alcuni Waurá a São Paulo che sono stati ospitati a casa della ricercatrice. Oltre alle schede riguardanti i disegni è possibile incontrare anche informazioni sugli stessi quaderni di campo. Sono sette quaderni con relazioni quotidiane sulla vita nella comunità waurá e anche con informazioni sui processi di realizzazione dei disegni. I quaderni datano dal 10 al 24 agosto del 1978, dal 26 agosto al 12 settembre del 1978, dal 14 al 23 di settembre del 1978, dal 27 settembre al 15 ottobre del 1978 (nel retro di questi quaderni si trovano disegni, nomi e descrizioni dell’uso di alcuni oggetti), dal 5 luglio all’1 agosto del 1980, dal 2 agosto al 20 settembre del 1980 e dal 21 settembre al 19 ottobre 1980. Per mezzo dei disegni waurá, dalle informazioni contenute nelle schede e nei quaderni di campo si constata che i colori utilizzati variano dall’acrilico e le penne a sfera fino ad un tinta fabbricata da un disegnatore waurá con materia prima vegetale. La maggior parte dei disegni è fatta in carta artigianale di fibra di cotone e alcuni su cartoncino. I disegni su carta sono stati realizzati solo su richiesta di Vera Coelho, però secondo quanto racconta la ricercatrice nei suoi quaderni di campo, i Waurá si sarebbero divertiti molto con l’uso della nuova tecnica. I disegni preservano le caratteristiche dell’arte tradizionale: gli animali rappresentati in due dimen-

5 I disegni in carta artigianale sono già stati digitalizzati dal fotografo del Mae, Wagner Souza e Silva, e dallo stagista Coseas, Macelo Lemos Corrêa.

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sioni sono gli stessi utilizzati negli oggetti di ceramica e nella pittura corporale e l’uso dello spazio della carta è ordinato e armonico, riflettendo il gusto per la geometria. Anche l’utilizzo dei colori è stato realizzato secondo i precetti tradizionali di alternanza. La pittura corporale è una delle manifestazioni più importanti della cultura waurá, viene praticata da uomini e donne, ognuno rispettando regole determinate dalla distinzione sessuale. Così come le arti plastiche esigono dai Waurá conoscenze di zoologia, le arti grafiche esprimono una vasta conoscenza di geometria. Il grafismo waurá è composto da poche figure (punti, circoli, linee, triangoli, quadrati e losanghe) che si ripetono formando belli e complessi motivi. Un’opera è considerata deficiente quando il suo autore non è stato capace di calcolare lo spazio e ha dovuto diminuire o distorcere le dimensioni delle figure della serie finale del suo disegno. Abbellirsi è un compito costante tra i Waurá, però non esiste una preoccupazione per la scarsa durabilità di una pittura corporale, perché l’attività artistica è ludica. Al dipingere un amico o un parente si sente il piacere del convivio sociale, quando un artefatto è usurato dall’uso se ne fa un altro con la stessa dose di maestria e divertimento. Oltre alla pittura corporale le arti grafiche si manifestano anche nella ceramica e negli artefatti di legno. “Considero i Waurá un popolo che ha raggiunto alti livelli di espressione artistica. Oltre che eccellenti musicisti, le loro opere nel campo delle arti grafiche dimostrano di essere parte di un corpus di conoscenze estremamente sofisticato” (Vera Coelho, 1986: 30).

Nei quaderni di campo si trovano relazioni sul processo di esecuzione dei disegni, come il fatto che erano preceduti da una bozza tracciata sulla sabbia. I dettagli venivano discussi in gruppo e i giovani erano abituati a chiedere ai più anziani informazioni sulle figure che stavano disegnando. Al passare alla carta, le matite erano attentamente appuntite e i pennarelli forniti furono rifiutati per la loro cattiva qualità. Dopo aver disegnato i Waurá aspettavano un pagamento che poteva essere dalle perline di vetro a coltelli o ami da pesca, a seconda delle necessità dell’artista. I disegni fanno anche innumerevoli riferimenti alla mitologia di questo popolo. I miti waurá raccontano storie che affrontano temi come: il comportamento assurdo di alcuni animali, attitudini condannabili come l’incesto tra fratelli, l’origine dei beni culturali, la vendetta che un Waurá può soffrire se uccide inutilmente un animale, ecc. Nelle schede della Collezione Vera Coelho ci sono un gran numero di dettagliate osservazioni, nelle quali vengono stabilite relazioni tra i disegni e i miti waurá. Attraverso lo studio della mitologia,

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delle analisi contenute nelle schede e dell’osservazione dei disegni è possibile scoprire una vasto e interessantissimo campo di ricerca. Questo patrimonio culturale diventa ancora più prezioso con i quaderni di campo, nei quali l’autrice racconta le sue relazioni con i Waurá e fornisce i dettagli di come è stato il suo lavoro tra loro. La Collezione Vera Coelho racconta la storia di una vita e i disegni sono testimoni di uno dei momenti di maggiore maturità professionale. “Tra le priorità più urgenti ci sono la restaurazione delle collezioni e la loro documentazione. Per questo, converrebbe contare sugli stessi indigeni, che ancora producono questi beni culturali, o hanno informazioni su di essi (…) L’importante è che noi ci coscientiziamo del significato dell’eredità culturale indigena di cui ci siamo impossessati, tanto per noi stessi, quanto per gli indigeni. E, in funzione di questo, della responsabilità di cui siamo investiti di preservarla” (Ribeiro, 1989: 120).

L’interscambio di conoscenze tra il MAE e il MKB Con il fine di accompagnare il processo di curatela della collezione, o di donazione al Mae, oltre a stabilire e approfondire l’interscambio di conoscenze tra le istituzioni coinvolte e con la comunità waurá, così come il fatto che entrambi i musei possiedono collezioni della stessa natura, l’Mkb propose lo sviluppo del progetto: “Incontro con il passato e la cultura materiale”, che si sviluppava in tre fasi. Nel 2004 al Mae Il progetto sviluppato dal Museo di Basilea iniziò nel giugno del 2004 quando arrivò il proponente in Brasile, Alexander Brust, antropologo e conservatore responsabile del settore America. In questa occasione parte del lavoro è stata portata avanti nel Laboratório de Etnologia potendo contare con l’assistenza di Sandra Lacerda Campos, come controparte del Mae, e sulla venuta dei Waurá per il riconoscimento del loro materiale. Vennero tre indigeni, tra loro il capo Atamai con altri due capi della comunità, che dettero un grande contributo al processo di curatela e riconoscimento della collezione, principalmente con l’identificazione e descrizione del significato dei disegni. In questa occasione si stabilì un accordo tra le parti coinvolte, secondo cui la collezione sarebbe rimasta in comodato al Mae fino alla fine dei tramiti per la donazione finale.

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Nel 2005 nel villaggio Piyulaga – Waurá, nel Parque Nacional do Xingu Per cercare riferimenti alla collezione nel contesto della sua produzione assieme ai testimoni culturali che la avevano prodotta, rappresentanti del Mae e dell’Mkb si recarono al villaggio waurá. Tale procedimento permise di stabilire connessioni tra il vussuto culturale, i disegni e gli oggetti della collezione. Il villaggio Piyulaga si trova all’interno del Parque Nacional do Xingu, nel nord dello Stato di Mato Grosso, nella foresta amazzonica. Considerata la maggiore e una delle più famose riserve del genere al mondo, con più di 27 mila ettari che concentrano una popolazione di più di 5.500 indigeni di 14 etnie diverse appartenenti alle 4 grandi famiglie linguistiche del Brasile: Karibe, Aruak, macrotupi e macrojê. La creazione del Parco è stata una conseguenza della “Expedição Roncador Xingu” e del movimento “Marcha para Oeste”, iniziati negli anni ’40 con l’intento di pacificare e conquistare il cuore del Brasile. Con il grande sforzo politico dell’antropologo Darcy Ribeiro e dei fratelli Villas Boas, il Parco fu creato negli anni ’60, con un decreto federale, in una regione in cui c’era una concentrazione di vari gruppi culturali, con due obbietti principali: preservare e garantire la sopravvivenza delle numerose popolazioni indigene della regione e mantenere al centro del paese una ampia riserva naturale. Si tratta di una regione antropogeografia, con una occupazione secolare comprovata di molto anteriore all’omologazione della riserva. I Waurá parlano una lingua Arawak e sono famosi per avere una complessa mito-cosmologia simbolizzata nella propria produzione materiale e nei disegni, oltre ad essere riconosciuti come ceramisti di prestigio, tanto che i loro artefatti vengono utilizzati nel sistema di scambi tra i gruppi non ceramisti della regione. Con questo contatto fu possibile stabilire alcune relazioni tra i disegni e le pratiche culturali waurá.

Rappresentazione del Kuarup, cerimonia dedicata ai morti, molto importante nella religiosità waurá

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Rappresentazione grafica tradizionale, impressa su oggetti ceramici.

Rappresentazione di giratori di beiju, utilizzati in una delle cerimonie della manioca.

Rappresentazione del mitocosmo.

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Nel 2006 allo MKB – Svizzera Nel mese di giugno, un rappresentante del Mae e tre indigeni della comunità waurá (gli stessi della tappa precedente) sono stati ricevuti all’Mkb con l’obiettivo di divulgare il processo di curatela condivisa, portato avanto al Mae assieme all’Mkb e alla comunità indigena, oltre a fare una visita alla Riserva Tecnica dell’Mkb con l’intenzione di identificare oggetti waurá di collezioni antiche e di pezzi donati al museo svizzero da Vera Coelho. In questa occasione la comunità waurá e il Mae sono stati omaggiati in una sessione del Parlamento di Basilea, giustificando di fronte alla comunità svizzera l’appoggio finanziario. Per i Waurá si trattò una esperienza gratificante, perché ebbero l’opportunità di verificare l’esistenza di collezioni immagazzinate ed esposte in musei internazionali, valorizzando e divulgando aspetti della diversità culturale indigena brasiliana. Per il Mae fu il riconoscimento di una esperienza innovatrice, che coinvolgeva la curatela di collezioni della stessa natura, ampliando le frontiere della conoscenza e favorendo l’interscambio di conoscenze tra le istituzioni coinvolte e la comunità waurá. Questa esperienza cristallizzò un interscambio internazionale di divulgazione della cultura amerindia brasiliana, oltre a stabilire un lavoro innovativo di curatela condivisa. Esiste una previsione di dare continuità al lavoro, con l’allestimento di una esposizione fotografica con i disegni e i pezzi delle collezioni waurá, seguendo lo stesso metodo di curatela condivisa, che verrà divulgata a Basilea, in Brasile e nella città di Canarana, località prossima all’accesso ai villaggi del Parque Nacional do Xingu. Alla fine i pannelli fotografici verranno donati alla comunità waurá perché vengano esposti nella scuola del villaggio, dando l’opportunità a tutta la popolazione waurá di conoscere tale lavoro, principalmente ai più giovani. Senza dubbio questo processo evidenzia l’importanza e la dinamica del lavorare con le collezioni dei musei antropologici, estendendo la ricerca a condividendola con i popoli coinvolti. Si tratta di un ritorno in un doppio senso, ossia un museo amplia la propria conoscenza a riguardo delle collezioni e le comunità amerindie stabiliscono un contatto con gli artefatti, che molte volte non vengono più prodotti, così come conoscono in maniera sistematica parte della loro storia e della loro cultura.

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3. I Karajá di Aruanã (Goiás – Brasile)

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3. I Karajá di Aruanã (Goiás – Brasile), lo Stato brasiliano e la costruzione sociale del passato

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I Karajá Il nome di questo popolo nella propria lingua è Iny, ossia “noi”. Le prime fonti del XVI e XVII Secolo, anche se incerte, già presentavano le grafie “Caiaúnas” o “Carajaúna”. Ehrenreich (1948) nel 1988 propose la grafia “Carajahí”, ma Krause (1940/43) nel 1908 consacra la grafia “Karajá”. Secondo il linguista Aryon dall’Igna Rodrigues (Rodrigues, 1986), la famiglia karajá appartiene al tronco linguistico Macro-Jê e si divide in tre lingue: Karajá, Javaé e Xamboiá. Ognuna di esse ha forme differenziate di parlare a seconda del sesso di chi parla. Nonostante queste differenze, tutti si comprendono. In alcuni villaggi, come a Xamboiá (Tocantins, TO) e a Aruanã (Goiás, GO), a causa del contatto con la società nazionale, il portoghese è divenuto dominante (Lima Filho, 1994; 1999). I Karajá hanno il fiume Araguaia come asse di riferimento mitologico e sociale. Il territorio del gruppo è definito da una estesa fascia della valle dell’Araquaia, l’isola di Bananal, che è la maggiore isola fluviale del mondo, misurando circa due miglioni di ettari. I loro villaggi sono preferenzialmente vicini ai laghi e affluenti del fiume Araguaia e del fiume Javaés, così come all’interno dell’isola di Bananal. Ogni villaggio stabilisce un territorio specifico di pesca, caccia e pratiche rituali, demarcando internamente spazi culturali conosciuti da tutto il gruppo (Lima Filho, 1994; Rodrigues, 1993; 2008). Ciò mostra una grande mobilità dei Karajá, che presentano lo sfruttamento alimentare del fiume Araguaia come una delle loro caratteristiche culturali. Essi hanno, ancora oggi, l’abitudine di accamparsi con le loro famiglie alla ricerca dei migliori punti di pesca di pesci e tartarughe, nei laghi, nelle spiagge e negli affluenti del fiume, dove in passato facevano villaggi temporanei, anche con la realizzazione di feste nell’epoca di secca dell’Araguaia. Con l’arrivo delle piogge, si trasferivano nei villaggi situati al riparo dalla crescita delle acque,

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dove in alcuni luoghi ancora oggi fanno i loro orti familiari e collettivi, luoghi di abitazione e cimiteri. L’alimentazione della comunità è abitualmente l’ittofauna del fiume Araguaia e dei laghi. Apprezzano alcuni mammiferi e dimostrano una speciale predilezione per la cattura di ara, cicogne jabiru e spatole bianche per gli ornamenti piumari. Gli orti sono fatti nelle foreste rivierasche, con la pratica del debbio. I registri etnografici e storici citano la coltivazione del grano, della manioca, della patata, dell’anguria, del pane degli ottentotti, delle arachidi e dei fagioli. Con le facilitazioni della città, questi prodotti si riducono oggi al grano, alla banana, alla manioca e all’anguria. Essi approfittano anche della frutta della savana, come l’oiticica e il pequi, oltre alla raccolta del miele silvestre (Lima Filho, 1994; 1999). Il mito di origine dei Karajá racconta che essi abitavano in un villaggio, nel fondo del fiume, dove vivevano e formavano la comunità dei Berahatxi Mahadu, o “popolo del fondo delle acque”. Soddisfatti e grassi, abitavano uno spazio ristretto e freddo. Interessato nel conoscere la superficie, un giovane Karajá trovò un passaggio, inysedena, “luogo della madre delle persone” nell’isola di Bananal. Affascinato dalle spiagge e dalle ricchezze dell’Araguaia e dall’esistenza di molto spazio per correre e abitare, il giovane riunì altri Karajá e salirono fino alla superficie (Donahue, 1982; Lima Filho, 1994; Toral, 1992; Pétesch, 1986). Tempo dopo, incontrarono la morte e le malattie. Provarono a tornare, ma il passaggio era chiuso e custodito da un grande serpente, per ordine di Koboi, capo del popolo del fondo delle acque. Con Kynyxiwe, l’eroe mitologico che è vissuto tra loro, conobbero i pesci e molte altre cose buone dell’Araguaia (Lima Filho, 1994). Dopo molte peripezie, l’eroe si sposò con una ragazza Karajá e andò ad abitare nel villaggio del cielo, il cui popolo, i Biu Mahadu, insegnò ai Katajá a fare gli orti (Lima Filho, 1994). Esiste una corrispondenza simbolica tra la distribuzione verticale di tali popoli mitici e gli attuali villaggi karajá lungo la valle dell’Araguaia. Gli Xamboiá sono gli Iraru Mahadu, il Popolo di Sotto, a nord dell’Araguaia. I Karajá della punta sud dell’isola e quelli di Aruanã sono alcuni rappresentanti del Popolo di Sopra, o Ibóó Mahadu, e gli Javé, secondo alcuni autori, solo il Popolo di Mezzo o Itua Mahadu (Petesch, 1993 e Rodrigues, 1993). Questa distribuzione dei villaggi lungo l’Araguaia ha una corrispondenza con la disposizione delle case in un unico villaggio, come Santa Isabel do Morro, nell’isola di Bananal, ad esempio, le cui case formano due linee rette parallele. Se immaginiamo queste due rette di case come tagliate da due trasversali si formano tre segmenti: le

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case di sopra (sorgente del fiume), le case di mezzo e le case di sotto (foce del fiume) (Lima Filho, 1994; 1999). Anche nel rituale di iniziazione maschile, conosciuto come Hetohoky, o Casa Grande, gli uomini si dividono in uomini di sopra, uomini di sotto e uomini di mezzo e, nella disposizione spaziale delle case rituali, ugualmente ci sono la casa piccola (sorgente del fiume), la casa grande (foce del fiume) e la casa di Aruanã, che si trova sempre nel mezzo di queste. Pertanto, la localizzazione dei villaggi karajá possiede una ragione per trovarsi in questo o in quel luogo in relazione all’Araguaia, così come la disposizione delle case per le abitazioni, dei cimiteri, delle case rituali, secondo un simbolismo proprio della cultura karajá (Lima Filho, 1994; 1999). I miti affrontano temi molto variati come: l’origine, lo sterminio e il reinizio dei Karajá, l’origine dell’agricoltura, del cervo e del tabacco, l’origine della pioggia, l’origine del sole e della luna, tra molti altri. Normalmente, questi miti sono associati ai rituali e a temi sociali, come il ruolo dei generi, il matrimonio, lo sciamanesimo e il potere politico, le malattie e la morte, la parentela, le piantagioni, la pesca, i contatti con i non indigeni e le relazioni con le agenzie. La struttura rituale dei Karajá ha due grandi cerimonie come riferimenti: il rito di iniziazione maschile, Hetohoky, e la Festa di Aruanã, che presentano cicli annuali, che si basano sulla salita e discesa del fiume Araguaia. Tra altri piccoli riti possono essere citati la pesca collettiva con il timbó, la festa del miele, la festa del pesce, oltre ad innumerevoli altri inclusi nei grandi rituali di Aruanã e di Hetohoky. I Karajá di Aruanã sono inseriti in questo ampio contesto sociale e culturale del gruppo, con la particolarità di star vivendo in un ambiente urbano. La Fundação Nacional do Índio (Funai) li ha riconosciuti come oggetto della sua azione solamente nel 1982 installando un ufficio dell’istituzione nel villaggio. I Karajá di Aruanã, tra la tradizione e la città L’origine del popolamento della città di Aruanã, situata nello Stato di Goiás, in Brasile, è un presidio militare, costruito nel 1850, nelle vicinanze della confluenza del fiume Vermelho con il fiume Araguaia. Epoca in cui ricevette il nome di Leopoldina. Il porto fu varie volte distrutto, ma rimase il nucleo di popolazione composto da abitanti del fiume e gruppi indigeni, in particolar modo i Karajá che già abitavano la regione dell’Araguaia. Nel 1943 la toponimia della città ricevette lo stesso nome di un importante rituale dei Karajá, la Festa degli Aruanã che fu anche festeggiata dal villaggio nel 1956. Dopo, a causa del basso numero demografico del villaggio, smise di

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essere realizzato (Lima Filho, 2005: 339). Si osservano nel blasone ufficiale del municipio un paio di uomini ornati da Aruanã o Ijsòò nella lingua indigena. Il villaggio è chiamato Buridina dai Karajá ed è localizzato al centro della città, accanto a case di villeggiatura, alberghi, la scuola, il custode delle barche e di residenze. Aruanã, fin dagli anni ’50, cominciò ad essere frequentata da famiglie di Goiânia, capitale dello Stato di Goiás, che dista 330 kilometri, a causa delle attrattive della pesca e delle estese spiagge che propiziano accampamenti durante le ferie lungo il fiume Araguaia (Siqueira e Lima Filho, 1999). Le strade asfaltate dettero un impulso economico generato dal turismo e dagli allevamenti di bestiame e ciò ha guadagnato una ripercussione nazionale. La rete televisiva Globo, ad esempio, trasmise una telenovela nel 2011 denominata Araguaia che aveva la città di Aruanã come punto di riferimento della storia e un leader karajá dell’isola di Bananal fu uno degli attori. Con la crescita data dal turismo1, la città inglobò il villaggio dei Karajá che si trovò ridotto a 1000 m². Nel 199 ho coordinato un progetto di ricerca all’Instituto Goiano de PréHistoria e Antropologia della Universidade Católica de Goiás, oggi Puc-Goiás. Uno dei fronti di lavoro definito dalla comunità indigena è stato la necessità di estendere l’area del villaggio, dato che essa era confinata in un lotto della città di approssimativamente mille metri quadrati. Non c’era spazio per nuove case, né area disponibile per raccogliere la paglia per la realizzazione di abitazioni e per l’artigianato. Essi dipendevano dai favori degli allevatori e svilupparono un sistema di alleanza con i non indigeni. I Karajá a quest’epoca erano 47 persone. Attrezzata di uno studio antropologico da me realizzato, la comunità indigena entrò con una azione contro lo Stato brasiliano a sfavore della Funai presso la Procuradoria Geral da República a Goiás. Loro chiesero che la Terra Indígena Karajá di Aruanã fosse oggetto della routine amministrativa di identificazione, delimitazione e demarcazione delle terre indigene. Non sono stato contrattato dalla Funai per realizzare tale studio. Fu una attività decorrente dal progetto di ricerca realizzato in collaborazione con i Karajá. Queste informazioni sono necessarie per fare la connessione con il tema di questa riflessione che si concentra sul sito archeologico come centrale nel lento e difficile processo che inizia in quel momento. Spiego. Nei miei studi ho intervistati pionieri non indigeni, gli ex sindaci della città, ex funzionari del Serviço de Proteção ao Índio (Spi) e della Funai. Tutti atte-

1 La popolazione urbana di Aruanã è di 6.182 persone e il municipio ha una popolazione di 7.506 secondo i dati del censimento del 2010 (Ibge, 2011).

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stavano la presenza di indigeni karajá fin dalla nascita della città. Ho ascoltato anche i più anziani della comunità indigena. Ho realizzato una dettagliata ricostruzione storica ed etnografica tra loro. Lo studio che l’archeologa Irmihild Wust pubblicò nel 1975 a rispetto di un antico cimitero indigeno racconta che una delle abitanti più anziane del villaggio indicò il luogo dove i genitori erano stati interrati. Questo sito è stato registrato dall’Instituto do Patrimônio Histórico e Artístico Nacional (Ipahn) come sito Go-Ju-41 e poi registrato nel Cadastro Nacional de Sitios Arqueológicos (Cns) dell’Instituto Nacional do Patrimônio Histórico, Artistico Nacional (Ipahn) con il registro Go0021 (Ipahn, 2011). In quella occasione, Wust fece un importante lavoro di raccolta di artefatti e interviste con questa anziana del villaggio (Wust, 1975). I limiti che i Karajá mi indicavano come perimetro di abitazione del villaggio coincidevano esattamente con la mappa dell’archeologa, con la differenza che all’epoca della sua ricerca l’area non era occupata.

Mappa del sito del cimitero, Go-Ju-41, che mostra tra i due ruscelli l’area dell’attuale e dell’antico insediamento dei Karajá di Aruanã. Si noti che c’erano solo case di indigeni, il luogo dell’antico villaggio e l’antico cimitero (Fonte: Wust, 1975).

Il sito divenne uno strumento giuridico fondamentale, essendo anche al centro del lavoro di una antropologa che era stata contrattata dai proprietari delle ville per contestare in tribunale i limiti dell’area identificata e ufficializzata dalla Funai come parte del processo di identificazione condotto dall’organo. Il processo attraversò vari livelli di giudizio: locale, regionale e federale

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e le terre indigene furono omologate nel 2001 come appartenenti all’Unione e di usufrutto dei Karajá. Le terre omologate furono: una terra abitata, una terra per le coltivazioni della secca e una terra per le coltivazioni nelle terre in alto: Karajá de Aruanã I (Area abitata, Go, di 11,04 ettari), Karajá di Aruanã II (Coltivazione di secca, MT, 769 ettari) e Karajá III (coltivazione nelle terre in alto, Go, 586 ettari). Il processo è fermo oggi nel Supremo Tribunal Regional a Brasilia a causa di una contestazione da parte degli occupanti. Sono già vent’anni che tutto è cominciato. La popolazione del villaggio conta più di 300 persone. Seguendo un principio strutturante del gruppo, si osserva attualmente una divisione interna. Si nota un momento di rottura tra le famiglie, in occasione del processo di creazione di un altro villaggio. Tale processo è osservabile in altri villaggi karajá come Santa Isabel do Morro, con la creazione dei villaggi JK e Wataú nell’isola di Bananal. Ad Aruanã sono state osservate rivalità tra due famiglie pioniere del luogo almeno fin dal 1992. Con la morte dei più anziani, principalmente dell’allora capo e sciamano Mauri Karajá, le nuove domande arrivate con la regolarizzazione fondiaria, con l’allevamento di bestiame e la legittimità o no dell’affitto dei pascoli, ad esempio, catalizzarono la tensione. Così, ci sono due capi: Raul Hawakati, che ha assunto il comando dopo la morte del suo ziononno Maurehi, e Tohobare, più giovane, capo del nuovo villaggio Bdè-Bure. Nonostante queste dispute interne, il gruppo cominciò a visitare i propri parenti nel villaggio Santa Isabel do Morro nell’Isola di Bananal, ha una scuola bilingue e porta avanti progetti culturali finanziati da varie agenzie. In un processo di sintesi di questa mia partecipazione, che ha coinvolto diverse agenzie e attori sociali, presento una riflessione sulla portata sociale del sito archeologico su delle terre indigene che si trovano in un processo di delimitazione ufficiale nell’ambito di ciò che gli archeologi hanno chiamato “archeologia sociale” o “archeologia pubblica” (Santos, 2011). E i Karajá presentano una narrazione particolare sul sito ed i loro antenati. Il valore sociale del sito archeologico Sono varie le tendenze concettuali che hanno segnato la traiettoria storica del pensiero archeologico: le direttrici storico-culturali; i presupposti della nuova archeologia, dell’archeologia processuale e anche di quella postprocessuale. Quest’ultima è affezionata ad un certo relativismo a riguardo dell’oggetto, ponendo l’enfasi nella qualità di ciò che viene trovato e non solo nelle misurazioni quantitative. Tuttavia, in maniera generale, l’archeo-

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logia brasiliana si è focalizzata su una positività e neutralità a riguardo degli artefatti incontrati2. Con l’avanzamento degli studi sul patrimonio in Brasile, notoriamente a partire dalla Costituzione del 1998 e da normative come la Resolução della Conama/001-1986 e dalle circolari dell’Ipahn che regolamentarono le azioni dell’archeologia in appalto e dell’educazione patrimoniale, si ampliano i dibattiti sulla ricerca archeologica e sulla maniera in cui i siti archeologici vengono studiati. Come ha riflettuto l’archeologo Diogo Menezes Costa, il sito e l’archeologo si collocano in una posizione dialettica nella costruzione di una nuova narrativa sulla conoscenza prodotta in un contesto di archeologia patrimoniale (Costa, 2004). Ciò nonostante, ciò che è più importante per il caso studiato è di guardarlo in prospettiva attraverso l’ottica di quella che si è denominata “archeologia sociale” o in maniera particolare ciò che ho preferito chiamare una ermeneutica della cultura materiale a partire dalla narrazione indigena. La cultura materiale è pensata e ci viene presentata come un elemento costituente dell’auto-rappresentazione o dell’identità etnica. Il sito è un artefatto che ci indica la trasformazione della natura in paesaggio culturale, come ci ricorda Ulpiano Bezerra Meneses (1998). Egli ci avverte che se la memoria sfrutta la dimensione temporale umana, il sentimento di “appartenenza” rimanda al contenuto spaziale dell’esistenza. In questo modo, memoria, appartenenza e analisi delle narrazioni invitano l’archeologia a trattare nella maniera più appropriata con le relazioni sociali, la cittadinanza, l’etica e i diritti umani. Da ciò, considero che l’archeologia in Brasile dovrebbe avere lo stesso statuto identitario di una antropologia brasiliana che non slega il rigore accademico dalla natura politica del saper fare professionale come ci mette in guardia Alcida Rita Ramos secondo cui fare antropologia in Brasile è fare politica (Ramos, 1990). Le narrazioni etnografiche di coloro che si identificano nel tempo e nello spazio con i siti archeologici studiati hanno la stessa legittimità delle conclusioni positive sugli artefatti che esistono in quanto beni culturali solamente perché qualcuno gli ha dato e gli dà un significato. Per questo, preferisco chiamare l’analisi di tali narrazioni un esercizio ermeneutico della cultura materiale. Tale opzione concettuale si allinea con il pensiero di Johannes Fabian che ci ricorda che lo statuto che la cultura materiale ha guadagnato negli studi post-

2 Sulle ricerche archeologiche in Brasile si veda Schmitz (2001). In relazione ai topici teorici dell’archeologia suggerisco gli articoli di Pyburn (2005) e Costa (2004).

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coloniali è tanto importante quanto la svolta letteraria che ha caratterizzato gli studi post-moderni in antropologia (Silva, 2002; Fabian, 2010). Alcuni esempi possono essere presentati: i Wajãpi che resignificarono il forte di São José nella città di Macapá come il luogo del mito di origine del gruppo (Gallois, 1993); i siti ricovero con inscrizioni rupestri nel sertão di Seridó nel Rio Grande do Norte come case della memoria per i sertanejos che abitavano lì (Cavignac, 2009); la reinterpretazione del Grande Zimbawe in Africa del Sud (Henrika, 1991) o la trasformazione dell’antico sito cimitero afroamericano in fatto politico che ha paralizzato una grande opera a Wall Street e che è risultata nella costruzione di un memoriale per rendere omaggio ai resti mortali di 417 schiavi tra uomini, donne e bambini3. Il caso dei Karajá è ugualmente emblematico. Non c’è dubbio che il sito cimitero appartiene ai Karajá. Wust (1975) ha intervistato una anziana karajá che le ha mostrato il luogo di sepoltura dei suoi genitori, luogo che poi è stato scavato e i resti mortali gettati nel fiume Araguaia. Oggi nel luogo si trova un ormeggio. Il disegno dell’archeologa, con l’iscrizione del sito Go-Ju-40 nel registro nazionale dei siti archeologici nell’Ipahan, coincise con i limiti che i Karajá indicarono all’epoca dell’identificazione della terra indigena, oggi TIKarajá I, come luogo di abitazione. Dalla prospettiva dei Karajá il luogo che abitano ha un significato impari. Il cimitero fu il primo argomento che loro utilizzarono per indicare i limiti dell’area e delle abitazioni e per loro di estrema importanza. I morti hanno un ruolo rilevante nella struttura sociale e cosmologica dei Karajá. Essi viaggiano dai villaggi di sopra e dai villaggi di sotto ad un certo villaggio che realizza l’Hetohoky, il rito di iniziazione maschile del gruppo. I morti di Aruanã vanno alle feste dei villaggi dell’isola di Bananal e in questo modo operano nel principio strutturante di coesione sociale e culturale di questo popolo indigeno concatenando le sfere dello sciamanesimo, della parentela, dei miti, dei riti, della cultura materiale, delle classi d’età e dei ruoli di genere, tra gli altri. A dispetto di ciò, l’antropologa contrattata nel 1996 dai proprietari delle ville per elaborare un giudizio con il fine di ausiliare il contraddittorio nel processo nella sfera federale, tentò di squalificare il sito archeologico e le valutazioni antropologiche. Qualche tempo dopo, un sito archeologico a cielo aperto fu incontrato nella TI Aruanã III, dove è stata costruito un nuovo villaggio chiamato Bdé-buré. In questo sito vengono visti con frequenza frammenti ceramici.

3 Si veda: http://www.africanburialground.gov/ABG_Main.htm (consultato il 28 dicembre del 2011).

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3. I Karajá di Aruanã (Goiás – Brasile)

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Una relazione tecnica fu prodotta dalla Funai avendo come base una “collezione archeologica proveniente dal sito archeologico Karajá I (…) composta da 81 pezzi, si trattava di 13 bordi, 4 basi, un unico frammento con base e bordo e 63 frammenti di pareti” (Viana e Rosa, 2009: 30). Nelle sue considerazioni, la relazione informa “che il ruolo dell’archeologo non è quello di confermare o contraddire vincoli tra le culture materiali e i gruppi etnici, ma di fornire elementi per comporre un maggiore universo di indagine” e domanda: “può l’archeologo raggiungere il passato in maniera tanto sicura e fedele agli avvenimenti passati al punto di attribuire etnicità, identificare le minuzie che compongono una determinatra cultura, con tutte le sue variabili umane, siano esse decorrenti da scambi tra i gruppi, da trasformazioni culturali o da altri elementi? E, più importante, egli deve fare ciò? (Viana e Rosa, 2009: 38, corsivo nell’originale).

Nonostante non ci si aspettasse una affermazione assoluta della connessione spazio/temporale con i Karajá, essi avrebbero dovuto essere ascoltati. Nel 2011, in una ricerca di campo, ho commentato con uno dei capi karajá che avevo visitato un nuovo sito e che forse non era in relazione con i Karajá, ma con un popolo più antico. Lui immediatamente mi rispose: “Chiaro che è dei Karajá! I miei nonni mi raccontavano che gli Aruanã danzavano in quel luogo”. Si nota che si tratta di livelli di narrazione che non possono essere disprezzati. Il sito non è qualcosa di inerte al mondo simbolico dei Karajá, come se la scienza fosse diametralmente opposta alle loro spiegazioni. La relazione archeologica perse una buona opportunità per aprire un campo di dialogo e aprì lo spazio al tono della positività/neutralità reificando il pensiero giuridico dominante nel Paese. Anche non considerando che non fosse questa l’intenzione delle archeologhe4, non si prese in considerazione il complesso terreno concettuale e politico della ricerca. In una comunicazione personale, l’archeologa Olivia Bini Pereira Rosa compie una svolta concettuale nelle sue ricerche e in un testo chiarisce: “per un lato i modi indigeni di interpretare il mondo e concepire la propria storia non sono validi per la prospettiva scientifica occidentale, per un altro lato è solo e incontestabilmente attraverso essi che diviene possibile trascendere i limiti simbolici occidentali di significazione del mondo e andare incontro ad un altro. Anche concependo tale movimento come azione che ci mette a nudo di fronte ad un universo di ordinamento simbolico e, proprio per questo, tanto difficile, non è possibile scappare dal farlo, incluso e principalmente nei lavori archeologici a causa dello stesso carattere perenne e non rinnovabile dei siti archeologici. Questa particolarità del patrimonio archeologico, che rende impossibile riscavare e, di conseguenza, nuove proposte interpretative basate su registri e contesti archeologici più ampi, impedisce per vari aspetti la contestazione delle “realtà culturali” lì recuperate. Questo fatto reitera la gravità dello sviluppo di ricerche in cui le pratiche archeologiche sono viste come aliene alle questioni politiche, sociali e, infine, di potere” (Rosa, 2011). 4

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Dopo vent’anni dall’elaborazione della perizia che dette inizio alla trama e al dramma dell’identificazione delle terre dei Karajá, mi sono imbattuto durante una ricerca di campo nel 2011 con la dichiarazione del capo del villaggio Buridina, la stessa del cimitero violato e distrutto, secondo cui il suo progetto è di costruire un museo per raccontare la storia del villaggio. Si tratta di una dichiarazione che riafferma il luogo sociale della memoria personale e collettiva o come preferisce Paul Ricoeur (2007) della memoria dichiarativa. Ciò che voglio evidenziare con questa mia riflessione è la funzione sociale del sito archeologico e il suo potere simbolico (Bourdieu, 2005). Nel caso dei Karajá, tanto del sito cimitero che è stato e ancora è tanto importante per accedere alla giustizia nel caso delle terre indigene dei Karajá di Aruanã, quanto di quello che è stato incontrato successivamente nella Terra Karajá III, essi dotano la scorta simbolica della memoria sociale collettiva per riaffermare l’identità etnica in un immenso gioco di retoriche e positività cui storicamente furono e sono assoggettati. Azioni realizzate dallo Stato brasiliano, nei suoi vari domini, il più delle volte sono state sfavorevoli ai Karajá. Le parole dei capi a riguardo dei siti lanciano ponti per una memoria del futuro (Bosi, 1995), preparandoli per nuove domande, nuovi attori e nuove azioni. I capi indigeni dimostrano saggezza e abilità per gestire parole e cose nel complesso gioco di potere che storicamente ha segnato lo Stato e i gruppi indigeni brasiliani.

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Preambolo “L’emozione di tutti è stata molto grande, perché questo era un antico sogno di tutti noi. Allora abbiamo cominciato a scambiarci pareri su come avremmo potuto fare per riprendere anche il nostro antico modo di vivere in quella regione” (Apitikatxi, 2008: 5).

È a partire da questa epigrafe, contenuta nel progetto del popolo Kaxuyana di ottenere aiuto per la costruzione della tamiriki, che comincio la mia riflessione. Ho conosciuto questi indigeni nel 2009. Io mi trovavo a Oriximiná, nello Stato del Pará, per realizzare una delle tappe del mio progetto universitario “Educação Patrimoniale em Oriximiná”1. Sono stata invitata a conoscerli dallo stesso leader del villaggio, João do Vale Tekiriruwa Kaxuyana. Lui stesso ha condotto me, alcuni membri della equipe e anche alcuni altri collaboratori a conoscere il villaggio Wahatxa Ywokuru o Santidade. È stato in quella occasione che ho visto una casa in costruzione, una casa grande e circolare, tamiriki. In quel momento non sapevo nulla dei Kaxuyana, della loro traiettoria, della loro resistenza, dei loro progetti e sogni. Ciononostante, in quei pochi giorni che ho passato a Santidade ho ascoltato le narrazioni degli anziani del villaggio a riguardo della tamiriki. Non capivo bene ciò che l’entusiasmo delle

1 In quanto docente della Universidade Federal Fluminense (Uff), coordino dal 2008 questo progetto che è finalizzato alla formazione continua di professori della rete pubblica municipale di Oriximiná, nell’area di educazione e del patrimonio culturale e ciò che abbiamo denominato “etnoeducazione patrimoniale”. Fin da quell’anno fanno parte della equipe alunni e docenti della Uff e di altre istituzioni che collaborano.

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loro parole poteva, un po’ alla volta, rivelare. Attraverso loro seppi che la costruzione della casa contava sulle risorse di un premio che avevano ricevuto, il Prêmio Culturas Indígenas. Mi raccontarono anche che avevano scritto un progetto per questo. Ma cosa fa sì che un gruppo indigeno elabori un progetto da inviare per un premio? Solo per ricevere risorse per renderlo possibile? Sui Kaxuyana e sulla tamiriki Alcuni documenti registrano che gli indigeni identificati dall’etnonimo Kaxuyana si erano quasi estinti nel XX secolo a causa, principalmente, delle epidemie. Questa società amerindia vive nella regione delle Guiane del Basso Rio delle Amazzoni. Sono un popolo Karib che abita nel municipio di Oriximiná (ovest dello Stato del Pará). L’anno 1968 viene descritto come il momento in cui un piccolo gruppo sopravvissuto concordò nell’abbandonare le sue terre per andare ad abitare in luoghi distanti. Cominciarono, allora, a convivere con indigeni diversi, anch’essi del gruppo Karib, in missioni religiose. Solo una famiglia decise di andare ad abitare tra gli Hixkaryana, localizzati nel Nhamundá (Stato di Amazonas). Gli altri optarono per andare a vivere con i Tiriyó, situati nel Paru do Oeste, Parque Indígena do Tumucumaque (nello Stato del Pará e in una piccola fascia dello Stato dell’Acre). In questo lavoro tratterò di coloro che, dopo più di trent’anni di convivenza con i Tiriyó, decisero di tornare al luogo da dove migrarono. Realizzarono, così, l’antico sogno di tornare alle loro terre, nel Rio Cachorro. Per fare ciò tornarono un po’ alla volta. Dal 2000 cominciarono a tornare al luogo dove alcuni anziani erano nati. Fondarono il villaggio Wahatxa Ywokuru (Santidade) nella stessa area dell’antico villaggio anch’esso denominato Santidade. Là edificarono una casa denominata tamiriki (kwama akani – casa grande; pataitono kwama – casa del capo, signore del villaggio), costruita con le risorse del Prêmio Culturas Indígenas. Durante il tempo in cui vissero nella Missione Tiriyó2 non avevano costruito tamiriki. Questa casa esisteva nell’antico villaggio Santidade e in altri villaggi occupati molti decenni addietro dai Kaxuyana prima di lasciare il Rio Cachorro.

2 Riferimento al principale villaggio nel Parque do Tumucumaque dove vissero questi Kaxuyana.

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I dati che qui presento si riferiscono a risultati ancora abbastanza preliminari della ricerca di dottorato che realizzo dal 2010 con questi amerindi3. In questa ricerca l’analisi ricade su questa edificazione che può essere tradotta come “casa grande” o “casa del capo” o pataiatono in kaxuyana. Considero questa tamiriki un elemento un articolante e un analizzatore simbolico in cui si incrociano ricordi, tradizioni, feste, riunioni. La tamiriki, intesa come un processo di patrimonializzazione o un patrimonio culturale4, viene interpretata come una pratica sociale e un frammento della memoria sociale di questi indigeni. Pertanto utilizzo il concetto di memoria come costruzione presente per comprendere la tamiriki come una espressione materializzata della memoria kaxuyana e di un processo di patrimonializzazione al quale partecipano diversi agenti, soprattutto gli stessi Kaxuyana. Credo che, probabilmente, la tamiriki sia uno degli elementi attraverso cui questi Kaxuyana rivendicano, a partire da questa memoria, i propri diritti. Nel mio ragionamento, la tamiriki fa parte di un processo di patrimonializzazione – da un lato istituzionalizzato dalla politica pubblica brasiliana, dall’altro portato avanti dagli stessi Kaxuyana. Così, se la costruzione di questa casa è stata finanziata da un premio – il Prêmio Culturas Indígenas – vedo che la tamiriki è concepita ed utilizzata dagli indigeni per mettere in risalto il kwetokumu (“tradizione, nostro costume, nostra cultura”) kaxuyana. Baso la mia analisi sul concetto di processo di patrimonializzazione di Gaetano Ciarcia (2003) a riguardo dei Dogon e della figura dell’antropologo Marcel Griaule. Ciarcia evidenzia il patrimonio come il risultato di un bricolage. Il processo di patrimonializzazione risulta, così, nella mobilitazione di gruppi sociali e nelle articolazioni tra gli agenti di questo processo. Per l’autore, l’idea di distruzione mette in moto una serie di agentività, azioni e risorse e riqualifica l’oggetto come valore culturale. La riflessione che faccio sui Kaxuyana e l’impresa della costruzione della tamiriki incorpora anche il contributo di Dominique Gallois (2006) e le sue critiche alle politiche pubbliche sui processi di patrimonializzazione e su ciò che suscitano tra i soggetti indigeni. Non tratto in questo testo di un altro importante contributo: quello di Regina Abreu 3 “Tamiriki, a casa grande: memória social e identidade entre os Kaxuyana de Oriximiná/ PA”. Tesi portata avanti nell’ambito del Programa de Pós-Graduação em Memória Social della Universidade Federal do Estado do Rio de Janeiro – UNIRIO – con l’orientamento della Prof.a Dott.ssa Regina Abreu. 4 L’identificazione della tamiriki come patrimonio culturale deriva dal riferimento che faccio a questo edifico come un elemento strutturante di un processo di patrimonializzazione. Tale espressione non è ricorrente tra questi indigeni, se non quando si riferiscono a tale edificazione come riferimento per la “ricostruzione” della loro cultura. Non ho identificato fin’ora l’esistenza di una espressione nativa che possa essere tradotta come “patrimonio culturale”.

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(2011) sui nuovi soggetti del patrimonio e della sua critica alla “inflazione” del patrimonio. Nella prospettiva della mia ricerca l’edificazione della tamariki è presa come un processo di patrimonializzazione in cui i Kaxuyana rinforzano l’idea della differenza, del rafforzamento di sé simultaneamente con l’apertura all’altro. In questo modo, considero la costruzione della tamiriki un caso esemplare in cui pratiche istituzionalizzate e/o azionate avvengono simultaneamente alle pratiche della memoria/identità dei Kaxuyana. Essendo i dati sui Kaxuyana dispersi, inizio questo testo con una breve sistematizzazione della bibliografia che tratta di questa etnia. Affronto, in seguito, sempre in forma riassunta, l’importante produzione bibliografica sui Kaxuyana di Protásio Frikel. Presento, quindi, alcuni dati del villaggio, momento del testo in cui indico alcune considerazioni a riguardo dell’edificazione della tamiriki. Passo, quindi, ad analizzare le politiche del patrimonio per riflettere sul Prêmio Culturas Indígenas. Infine, approccio il progetto elaborato dai Kaxuyana e oggetto di questo premio. I dati sui Kaxuyana e la costruzione della casa tamiriki vengono analizzati a partire da un panorama sulla politica culturale nazionale brasiliana enfatizzando il Prêmio Culturas Indígenas. A partire da lì, centrerò la riflessione sulla costruzione della tamiriki come un processo di patrimonializzazione. Cerco con tale discussione di comprendere la partecipazione degli agenti sociali e delle istituzioni governative e non governative nell’appoggio alla costruzione di questa casa. Tuttavia, come ho detto prima, questi dati sono ancora abbastanza preliminari. Scritti sui Kaxuyana – una breve sintesi Confrontati con altre etnie, gli scritti a riguardo dei Kaxuyana5 sono poco numerosi. Alcuni testi di viaggiatori che datano la metà del XVIII Secolo e la fine del XIX Secolo riportano brevemente l’esistenza dei Kaxuyana senza, però, descriverli o parlare più nello specifico di questo gruppo. Considerati come un insieme, i testi prodotti a partire dal XX secolo fino ad oggi sommano circa 50 lavori sui Kaxuyana. Essi presentano considerevoli 5 Ho incontrato, in diversi documenti scritti in portoghese o tedesco, innumerevoli forme di scrivere questa etnia, come: Kasuiana, Katxhuyana, Kaschuyana, Kashuiena, Kachuyana, Kashuyana o ancora Caxuiana, Cachuiana, Caxorena. Le forme contemporanee, adottate in Brasile, sono Kaxuyana – che utilizzo nel corso di questo lavoro – e Katxuyana, preferita dai linguisti.

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distinzioni, sia nella densità e profondità di analisi, sia nell’approccio all’argomento. Alcuni lavori sono specificatamente su questi indigeni, come è il caso delle pubblicazioni comprese nel periodo tra i decenni dal 1950 al 1970 di Protásio Frikel (quelle che tratto qui e altre), Gottfried Polykrates (1957, 1959, 1960), Dasha Deterting (1962) e Ruth Wallace Paula (1977) e più recentemente di Denise Grupioni (2006, 2009, 2010) e Luisa Girardi (2011). Altri trattano dei Kaxuyana all’interno di un’analisi comparativa come quelli di Herbert Baldus (1961-62), Desmond Derbyshire (1961) o John Gillin (1963). Una spedizione effettuata nel 1929 (Off. Com. Rondon) è passata dai Kaxuyana del Rio Cachorro e Rio Trombetas ed ha effettuato una raccolta di materiale etnografico. Nonostante questa spedizione, sembra che nel XX Secolo la prima pubblicazione dati al 1933, il cui piccolo testo fu scritto dal tedesco Albert Kruse. Sempre nella prima metà del XX secolo, negli anni 1940 un racconto di viaggio del giornalista brasiliano Ernesto Vinhaes, che è arrivato fino ai Kaxuyana del Rio Cachorro, racconta il breve contatto che ebbe con questa etnia. Ciononostante è stato appena negli anni 1950 che cominciarono a sorgere testi di carattere etnografico. Tra gli autori che più scrissero su questo popolo in questo periodo ci sono Frikel e Polykrates. Negli anni 1960 la produzione di lavori scientifici è praticamente raddoppiata in confronto con il decennio precedente. Oltre a Frikel e Polykrates pubblicarono anche i già menzionati Baldus, Derbyshire, Detering e Gillin. Negli anni ’70 la quantità di lavori pubblicati si mantiene quasi uguale a quella del decennio 1960. Ciononostante, c’è un approfondimento nella pubblicazione etnografica di Frikel e Ruth W. Paula che ha realizzato il suo lavoro nell’area di linguistica. Oltre a questa, merita di essere evidenziata l’opera di Roberto Cortez il quale ha prodotto un’opera assieme a Frikel sui dati demografici (1972). Oltre ai lavori etnografici, esiste anche un testo giornalistico firmato dal famoso poeta brasiliano Carlos Drummond de Andrade (1979) a partire da uno dei lavori di Frikel (1970a). Anche Lucia Van Velthen (1979) trattando del Parque Indígena do Tumucumaque fa un riferimento ai Kaxuyana che sono migrati lì nel 1968. Nel decennio 1980 c’è una trasformazione dell’interesse nelle pubblicazioni che trattavano dei Kaxuyana. Sono testi con un carattere critico verso le politiche brasiliane a riguardo delle precarie condizioni di vita delle popolazioni indigene del Parque Indígena do Tumucumaque e affrontanmo anche altre etnie che vivono assieme ai Tiriyó e agli Wayana-Aparai. Altri si riferiscono alla demarcazione della Terra Indígena Nhamundá e riguardano Wai-Wai, Hixkaryana, Katuena, Mamayano e Kaxuyana.

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Da questi si distinguono per il loro carattere etnografico e/o linguistico il lavoro di Ruth W. Paula sulla lingua Kaxuyana e il lavoro di C. Torres (1986) sugli allucinogeni. Nel 1983 c’è anche la pubblicazione del PIB (Povos Indígenas do Brasil)/Cedi (Centro Ecumênico de Documentação e Informação) che include una voce sui Kaxuyana. Chi ha pubblicato materiale negli anni ‘90 sui Kaxuyana fu Denise Grupioni, oltre alla voce Pib/Isa (Instituto Socioambiental) 1996-2000 e del testo sull’educazione indigena Tiriyó e Kaxuyana. Si nota che tra i decenni 1990 e 2010 questa autrice fu chi più produsse lavori sui Kaxuyana – sia lavori specifici come le voci per il Pib sia lavori sull’arte e l’educazione indigena tra i Kaxuyana e i Tiriyó. Nel primo decennio del 2000 la produzione bibliografica e documentale è ben variata. Di carattere etnografico c’è la voce sui Kaxuyana nel Pib e l’analisi dell’arte tiriyó e kaxuyana, come detto, entrambi firmati da D. Grupioni. Tra i documenti prodotti a partire da allora voglio mettere in risalto quelli firmati dagli stessi Kaxuyana – uno sulla rivendicazione delle loro terre e un altro che è il progetto della tamiriki inviato al Prêmio Culturas Indígenas. Analizzerò quest’ultimo documento nella parte finale del testo. In quest’ultimo periodo la produzione documentale è di vari autori. Oltre a questi, c’è un documento della Funai (Fundação Nacional do Índio), il lavoro di Ruben Queiroz (2008) sul territorio indigeno Trombetas-Mapuera dove vivono differenti etnie, inclusi i Kaxuyana e il libro di Marlui Miranda (2005) su una esperienza musicale indigena del nord del Pará e dell’Amapá con la musica classica. Di carattere etnografico sono: la voce sui Kaxuyana pubblicata nel 2006 e scritta da Grupioni, una pubblicazione organizzata da Dominique Gallois (2005) che tratta delle reti di relazioni nelle Guiane e che include i Kaxuyana, un lavoro sulla lingua Karib di Sergio Meira (2006), una tesi di Laurea Magistrale di Majoi Gongora (2007) sui miti nelle Guiane che comprende una analisi di miti kaxuyana e più recentemente la tesi di Laurea Magistrale di Luisa Girardi (2011) sulla mescolanza etnica e i Kaxuyana. A partire dal 2010 le pubblicazioni sono firmate predominantemente da Grupioni. Tra i testi di cui non è autrice c’è un articolo di Luisa Girardi (2010)6, a riguardo della demarcazione del territorio nella regione del Trombetas-Mapuera e che include i Kaxuyana tra gli altri popolui indigeni dell’area studiata.

6 Luisa Girardi ha concluso la sua Laurea Magistrale con l’orientamento di Ruben Caixeta de Queiroz.

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I Kaxuyana – contributi di Protásio Frikel e Denise Grupioni Il frate francescano e antropologo tedesco Protásio Frikel (1912-1974) è stato certamente colui che più ha fatto ricerca e scritto sui Kaxuyana. Nonostante l’esistenza di documentazione storica sparsa sui Kaxuyana, specialmente in Portogallo, l’antropologa brasiliana Denise Grupioni (2010) riconosce l’importanza del materiale prodotto da Frikel. Alla compilazione della ricerca su base documentale, che include i dati dei cronisti del XVII e del XVIII Secolo, si sommò la sua esperienza etnografica7 intrapresa con i Kaxuyana tra gli anni 1944-48 (nella regione dei fiumi Kaxuru, Trombetas, Kuhá – affluente del Trombetas) e successivamente tra il 19691972 (nell’area del Parque do Tumucumaque). Basandosi su queste ricerche, Frikel sistematizzò innumerevoli lavori, il principale dei quali intitolato “Os Kaxuyana – notas etno-históricas”, pubblicato nel 1970. Secondo Grupioni, tutto questo materiale che Frikel ha organizzato funziona oggi come fonte principale sia per i Kaxuyana attuali sia per i gruppi originari. Grupioni afferma che l’espressione Purehno8 sarebbe utilizzata come auto-denominazione dai Kaxuyana. Ho registrato tra i Kaxuyana che la parola pïrenho può essere tradotta come “gente”. Nonostante ciò furono conosciuti come Kaxuyana a causa dell’area che occupavano nella regione del fiume Kaxuru. Tanto Frikel quanto Grupioni mettono in risalto la distinzione tra i diversi gruppi che formarono gli attuali Kaxuyana come i Kaxuyana stessi e Iaskuriyana, Txuruayana, Kahyana, Yaromarï, Ingarunë, Txikiyana9. Secondo Grupioni, nel contatto di questi popoli con i non indigeni le loro differenziazioni, i distinti yana o popoli furono poco compresi e tutti divennero genericamente conosciuti come Kaxuyana.

7 Dati ricavati dall’archivio del Museu Paraense Emilio Goeldi, nella cartella curriculum di Protásio Frikel. 8 Espessione annotata da Denise Grupioni nella sua ricerca di post-dottorato a riguardo delle auto denominazioni tra i popoli di quella regione. 9 (Grupioni, 2010: 9). Questi popoli sono sati registrati da Grupioni nel 1994 in una intervista con un defunto Iaskuriyana, che alla fine degli anni ’60 ha guidato il processo di migrazione dei Kaxuyana del fiume Cachorro al Tumucumaque. A titolo di chiarimento: Kaxuyana sono gli abitanti del fiume Kaxuru, Iaskuriyana erano gli abitanti dell’Igarapé Iaskuri (affluente del fiume Trombetas), Txuruayana abitavano l’Igarapé Juruahu (affluente del fiume Cachorro), Kahyana erano gli abitanti dei margini del Trombetas o Kahu, Yaromarï abitavano nel Kaxpakuru (braccio del Trombetas), Ingarunë era un gruppo del Trombetas e anche i Txikiyana erano un gruppo trombettiero, ma dell’Igarapé Kaxpakuru.

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Frikel (1970) ha scritto a riguardo del contatto tra i Kaxuyana ed altri popoli indigeni e non. Secondo questo autore, l’apparizione dei mocambeiros, negri fuggiaschi dalla schiavitù o quilombolas come oggi sono conosciuti nella regione, è stata una delle principali ragioni per il defilarsi degli indigeni dall’alto fiume Trombetas. Il contatto con i negri è stato prolungato, alcune volte amichevole, altre no. Attraverso le narrazioni kaxuyana, Frikel (1970) scrisse sulle malattie introdotte dai mocambeiros come il raffreddore, il morbillo, la gonorrea, devastatrici per i gruppi indigeni che vivevano lì. Sembra che una epidemia di morbillo tra gli anni 1920 e 1930 fu terribile e quasi devastò i Kaxuyana. Il morbillo colpì tutta la popolazione di età matura (più di 30 anni), della quale sopravvissero tra le 6 e le 8 persone. Passata l’epidemia di morbillo restarono tra le 80 e le 90 persone. La morte degli anziani fu responsabile per la mancanza di conoscenza di molti argomenti tradizionali. Non ci fu il tempo perché le conoscenze tradizionali fossero trasmesse. Le malattie contribuirono alla diminuzione demografica della regione, la cui popolazione indigena ridotta numericamente ebbe difficoltà nelle opzioni di matrimonio. Ciò mise in pericolo la sopravvivenza dei gruppi. Per questo motivo i Kaxuyana cominciarono a legarsi con gruppi imparentati o con tribù vicine. Grupioni (2010) riporta che nel 1948 Frikel incontrò non più di 60 indigeni che, come detto in precedenza, erano conosciuti genericamente come Kaxuyana dalla popolazione non indigena della regione. In quella occasione, oltre ai Kaxuyana, che erano la maggioranza, c’erano anche i Warikyana ed i Kahyana. Nel 1965 Frikel (1970: 47-48) osservò che c’era una sproporzione tra i numeri di adulti e giovani. In quella occasione i Kaxuyana erano molto imparentati, senza alternative di matrimonio secondo le loro regole di matrimonio. L’alternativa era quella di associarsi ad altri gruppi per garantirsi una sopravvivenza. Un’altra alternativa era scendere il fiume Kaxuru e andare fino alla regione di Porteira per mescolarsi con i negri, il che secondo Frikel non aggradava i Kaxuyana perché volevano continuare ad essere yana, “gente”, cioè indigeni. L’opzione fu di cercare gruppi indigeni della parte alta dei fiumi. In quella occasione, come ho detto, alcuni scelsero i Hixkaryana ed altri i Tiriyó. È stato così che nel 1968 un gruppo maggioritario, di circa 50 individui, decise di dislocarsi per andare ad abitare tra i Tiriyó. Fu con una azione congiunta dei missionari francescani guidati da Protásio Frikel e della Força Aérea Brasileira che i Kaxuyana furono portati in altre terre. La maggioranza seguì così verso la Terra Indígena Parque do Tumucumaque.

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A riguardo del dislocamento al Tumucumaque, Frikel indicò aspetti positivi e negativi tanto per i Kaxuyana come per i Tiriyó, così come per la Missione Francescana lì installata. In quel momento la preoccupazione era la sopravvivenza di questi Kaxuyana. Se la salute dei Kaxuyana veniva assicurata con quel trasferimento, il frate antropologo aveva dei dubbi quanto alla efficacia per la sopravvivenza culturale: “Nel secondo punto, a riguardo della sopravvivenza come gruppo, i Kaxuyana forse non sono molto fortunati. Ma è ancora presto per voler fare pronostici perché lo sviluppo della situazione è ancora all’inizio (…) Come gruppo specifico, etnico, probabilmente spariranno in una o due generazioni o anche prima” (Frikel, 1970: 49). Oltre ai matrimoni misti, Frikel credeva che i Kaxuyana sarebbero stati assorbiti dai Tiriyó. Anche se avevano convissuto con i Tiriyó, nel Tumucumaque, e con i Hixkaryana, nel Nhamundá/Mapuera, non hanno mai smesso di voler tornare alle loro terre di origine. Anche Lucia van Velthen annota nella sua relazione che i Kaxuyana nel 1979 vivevano un “accelerato processo di fusione con gli indigeni Tiriyó” (1979: 3). Se Frikel ad altri temevano per la scomparsa o estinzione dei Kaxuyana, oggi è possibile affermare che i Kaxuyana del fiume Cachorro, nel villaggio Santidade, dopo tante traversie, conflitti e sfide, riaffermano la loro identità kaxuyana. Frutto di un lungo processo di formazione e rappresentazione sociale, i Kaxuyana dimostrano vigore e la costruzione della tamiriki ne è un esempio. Nel villaggio Nell’agosto del 2010, in occasione della mia recente permanenza tra i Kaxuyana di Santidade, ho registrato 10 case per un totale approssimato di 70 individui. È un villaggio la cui popolazione è ancora giovane, due terzi dei suoi membri hanno meno di 20 anni. Contabilizzare la popolazione kaxuyana, considerando i matrimoni interetnici, significa probabilmente presentare dati disparati. Secondo la Funasa (Fundação Nacional de Saúde), nel 2006 erano 230 individui. Nella banca dati informatica dell’Isa, secondo l’allora cacique, “leader”, kaxuyana João do Vale, essi sommavano circa 350 individui. Come ho detto, uno dei fattori che rende difficoltoso il conteggio della popolazione kaxuyana deriva dalla

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mescolanza interetnica risultante dai matrimoni con Tiriyó, Tikiyana, Hiskaryana e altri gruppi etnici. La forma di discendenza tra questi diversi gruppi è distinta... Una analisi della mescolanza etnica viene affrontata nel lavoro di Luisa Girardi (2011). Un esempio di ciò sono i termini che ho ascoltato nel villaggio Santidade come kaxuyanamê (Kaxuyana “vero”, non mescolato) e Kaxuyana tóskeman (Kaxuyana mescolato). La discendenza tra i Kaxuyana è matrilineare e la forma di residenza patrilocale, ma la discendenza tra i Tiriyó è patrilineare. Così, i figli di matrimoni tra loro a volte vengono presi come Kaxuyana, altre volte come Tiriyó e altre ancora come entrambi. Il dubbio sulla identificazione etnica dei figli di tali matrimoni è ricorrente e in molte circostanze è poco rilevante. Mentre vivevano nel Parque do Tumucumaque i Kaxuyana dissero di sentirsi come esiliati in un territorio che non apparteneva loro, principalmente per il fatto che la regione era predominantemente dei Tiriyó. La lingua insegnata a scuola e la maggior parte delle pratiche culturali erano dei Tiriyó. Grupioni10, che ha fatto ricerca tra i Tiriyó, ha avuto contatti con i Kaxuyana fin dal decennio 1990. Secondo lei i Kaxuyana hanno sempre messo in risalto le loro differenze con i Tiriyó e hanno sempre alimentato il sogno di tornare al territorio di origine. Si conosce poco della lingua kaxuyana, appartenente alla famiglia linguistica Karib (probabilmente del gruppo dialettale warikiyana). Uno studio fu portato avanti dalla linguista Ruth Paula (1977) che, però, non lo ha concluso. Si stima, secondo Grupioni, che siano meno di cento coloro che parlano questa lingua. Ma i capi famiglia dei Kaxuyana si stanno impegnando perché la loro lingua riprenda vigore. Sembra che il progetto di edificazione della tamiriki, in questo modo, faccia parte di un progetto più ampio di questi Kaxuyana nel senso di dare visibilità alle distinzioni della loro cultura. Penso che sia possibile inferire, in questo caso, che la politica pubblica brasiliana sulla cultura, indirizzata al rafforzamento delle culture indigene, e l’azione collettiva di questi indigeni si configurano come aspetti di un complesso processo di patrimonializzazione. La costruzione della tamiriki avviene simultaneamente al processo di demarcazione delle terre kaxuyana e può essere considerata anche come un processo politico. Secondo Gallois, la costruzione di una identità “indigena” nelle Americhe implica:

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Deposizione concessa in una intervista all’autrice il 03/11/2011.

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“(…) considerare i modi particolari in cui, storicamente, ogni gruppo ha costruito una propria concezione di indianità e come, a partire da percezioni variabili, si vengono formulando enunciati etnici che dipendono dal contesto delle loro relazioni con le società nazionali” (2005: 113).

Secondo questa autrice, nel caso delle popolazioni indigene brasiliane è fondamentale considerare che le forme dell’indianità sono prodotti della comprensione dei diritti speciali che lo Stato conferisce agli indigeni (questioni fondiarie, educazione, salute, politiche ambientali). Così, le identità indigene, che si danno in un ambiente giuridico e amministrativo (ad esempio attraverso la Funai), permettono loro di immergersi nella società brasiliana, comprendendo il luogo ambiguo che questa riserva loro, ora protagonista e conservatrice, ora omessa e negligente. La tamiriki nel villaggio assume differenti significati tra questi Kaxuyana. Se da un lato sembra essere associata ad aspetti della memoria passata e vissuta, amoretotohu (“pensare alle cose che sono già passate”), per altro lato sembra funzionare come una strategia di attualizzazione di questa memoria o tradizione, kwetókumu (il nostro modo di vivere, la nostra cultura, la nostra tradizione, “come era quella degli antichi ma che è un po’ cambiata”). Vedo, in questo, una relazione tra yatxari (il mio villaggio, il luogo dove abito) e yowu’tomu (“continuità nel tempo”).

Tamiriki: pratiche e politiche del patrimonio Per una analisi della tamiriki, considero come rilevante la critica di Gallois (2006) a riguardo delle politiche pubbliche indirizzate alla protezione dei territori e delle culture indigene che si riferiscono alle società indigene come a “totalità culturali”. Secondo lei, tali politiche sono fondate su concetti antropologicamente equivocati nei quali una società sarebbe auto-contenuta e autocentrata. Non considerando il contributo dell’antropologia verso una cultura come costruzione dinamica, istituita sul piano della comunicazione e dello scambio multietnico, queste politiche tenderebbero a reinventare le società in una specie di “incapsulamento” e “materializzazione” dei saperi immateriali. In uno dei suoi articoli Gallois mette in evidenza alcune esperienze indigene, in particolare quelle dei gruppi che abitano la Terra Indígena Parque do Tumucumaque. Nella sua relazione l’autrice affronta le trasformazioni vissute da questi gruppi indigeni all’appropriarsi degli strumenti delle politiche pubbliche di protezione del loro territorio o della registrazione del loro patrimonio. Secondo lei:

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“In questi processi, esse non solo creano nuovi oggetti come costruiscono se stesse in quanto soggetti politici e soggetti attivi di trasformazione. Se gli oggetti culturali prodotti in questi contesti tendono a generalizzare elementi culturali valorizzati in anticipo nel e per il dialogo con tali politiche, dialogo stabilito con agenzie statali o private, creando «cose degli indigeni», o di collettivi generici, i significati che vengono ad essi attribuiti continueranno necessariamente ad essere molto diversi, costruiti e interpretati localmente, per «sé»” (2006: 02-03).

Gallois propone che la produzione di oggetti culturali (e la tamiriki ne può essere un esempio) non è dissociata dalla produzione di soggetti sociali. Focalizzando la complessificazione delle trasformazioni sociali l’autrice concentra la sua analisi sul contesto delle esperienze di “patrimonializzazione” che avvengono in Amazzonia. Relativizzando gli impatti delle recenti politiche di patrimonializzazione in Brasile, Gallois mette in risalto le trasformazioni dei soggetti indigeni: “la storia indigena nella regione delle Guiane non lascia dubbi sull’impatto di queste pratiche assistenziali sulle reti di relazioni che questi gruppi indigeni mantengono storicamente tra loro” (2006: 05).

L’edificazione della tamiriki intesa come un processo di patrimonializzazione mi sembra tradurre un esercizio portato avanti dai Kaxuyana di costruzione di se stessi. Pertanto, considero opportuno descrivere brevemente le politiche culturali in Brasile e il premio che ha reso possibile la costruzione di questa casa. La Política Nacional de Cultura e il Prêmio Culturas Indígenas Per una semplice introduzione al tema della politica culturale brasiliana mi baserò sul lavoro di João Domingues (2010) a riguardo della rottura avvenuta nella politica pubblica verso quest’area, a partire dall’entrata di Gilberto Freire alla guida del Ministério da Cultura (Mec) nel 2003. Inoltre presenterò i dati descritti da Lia Calabre (2010) sulle discussioni in questo stesso periodo a proposito delle proposte focalizzate sul patrimonio culturale. Secondo Domingues, il Programa de Políticas Públicas de Cultura, idealizzato dal Partido dos Trabalhadores e sintentizzato nel documento “A imaginação a serviço do Brasil” (2003), comprende: “... proposte di politiche pubbliche orientate all’inclusione sociale e all’accesso «dei più poveri e fragilizzati alla sfera pubblica»; l’ampliamento dei meccanismi di

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incentivo …; la regionalizzazione della pianificazione delle politiche pubbliche di cultura e la riorganizzazione della pianificazione culturale, attraverso l’implementazione di un Sistema Nacional de Politica Cultural…” (2010: 228).

La novità che si mise in atto derivò dal nuovo approccio epistemologico all’area della cultura, a cominciare dal significato stesso di cultura. La difesa dell’importanza della diversità culturale per l’umanità, discussa a livello internazionale in convenzioni e conferenze come quelle promosse dall’Unesco, a partire dagli anni ’70 e ’80, parte dal riconoscimento della cultura come singolare, dotata di strutture proprie e con valori unici e insostituibili. Come bene analizza Domingues (2010: 240), sostenuto dal riconoscimento della pluralità culturale brasiliana, il progetto intrapreso da Gil e dal Mec attribuì alla cultura anche il fattore di inclusione sociale. Pertanto, una delle funzioni della cultura è la riduzione delle disuguaglianze, il superamento dei dislivelli sociali in una specie di “do-in antropologico”, espressione utilizzata da Gil e che divenne molto conosciuta nella scenario pubblico brasiliano. Questo “do-in” cercava di mobilitare grandemente e di attendere a punti vitali del corpo culturale del paese tradizionalmente disprezzati o addormentati. Per rendere possibile l’instaurarsi di forme di governo più partecipative, il Mec organizzò nel 2005 la I Conferência Nacional de Cultura. Lia Calabre (2010)11 schematizzò i dati delle discussioni politiche indirizzate al patrimonio culturale, avvenute durante questa conferenza. Tra gli aspetti che l’autrice indica, mette in risalto la necessità di una implementazione di azioni nel campo dell’educazione patrimoniale. Oltre a ciò, sintetizza le proposte per quest’area, organizzate in sottoinsiemi: educazione patrimoniale (che include questioni come la riforma dei curriculum, le campagne educative e la formazione tecnica), identificazione e preservazione del patrimonio (in cui entrarono le proposte di mappatura, riconoscimento e protezione) e infine l’asse del finanziamento e della gestione del patrimonio culturale. Metto in rilievo la proposta inclusa nel sottoinsieme di identificazione e preservazione del patrimonio, enfatizzando le azioni di protezione e rivitalizzazione. Queste ultime, destinate ad appoggiare le iniziative di recupero delle tradizioni locali, sono uno degli obiettivi del Prêmio Culturas Indígenas del

11 Calabre (2010: 12) considera che nella gestione pubblica brasiliana l’area del patrimonio possiede il migliore insieme di definizioni legali, lontano dall’ideale. Storicamente, in Brasile, fin dall’inizio degli anni ’30 gli intellettuali fecero pressione sul Governo di Getúlio Vargas affinché attuasse una legislazione diretta all’area del patrimonio culturale. Il Decreto di Legge n° 25 del 30/11/1937, come le azioni di allora cercavano di proteggere il patrimonio materiale, specialmente quello edificato.

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quale parlerò in seguito. Le strategie di preservazione del patrimonio evidenziano i molteplici attori agenti nel processo di patrimonializzazione, uno degli argomenti affrontati da Gaetano Garcia (2003), dei quali discorrerò rapidamente più avanti. Per rispondere al modello proposto fu fondamentale alterare il cronogramma del Mec e furono create direzioni e segreterie di settore, come ad esempio la Secretaria de Identidade e Diversidade Cultural – Sid. Tra le azioni di questa Secretaria furono istituiti gruppi di lavoro che avevano come incarico, tra gli altri, la diagnosi delle domande specifiche. Così, il Prêmio Culturas Indígenas, pensato per essere concesso annualmente, fu il risultato delle proposte identificate dal Grupo de Trabalho para as Culturas Indígenas12. La concezione del Prêmio, nel 2006, è stata una delle strategie create per inserire nella politica pubblica di cultura una azione destinata alla preservazione delle culture indigene. Il Prêmio è stato reso possibile con le risorse della Petrobras (Petróleo Brasileiro S.p.a.) e ricevette l’appoggio di innumerevoli collaboratori. Il Prêmio aveva tra i suoi obiettivi: la valorizzazione delle iniziative culturali dei popoli indigeni, il rafforzamento delle espressioni culturali e dell’identità culturale come forme di contribuire alla continuità delle loro tradizioni, l’interscambio con le culture non indigene in una prospettiva indigena. La partecipazione effettiva degli indigeni nell’elaborazione e nello sviluppo di progetti ed azioni è stato un altro importante obiettivo. In questo senso, vale la pena di mettere in risalto la creazione da parte dei Kaxuyana del progetto della tamiriki, che analizzo nel prossimo paragrafo. In un riconoscimento dell’importanza del lavoro intrapreso da diversi leader indigeni, ogni edizione del Prêmio omaggiava un leader. Fin’ora sono state realizzate tre edizioni: una nel 2006 denominata Angelo Cretã, un’altra nel 2007 denominata Xicão Xucuru (edizione in cui il progetto della tamiriki è stato selezionato) e una più recente, l’edizione Marçal Tupã (con un formato distinto da quelli anteriori, ha premiato progetti selezionati ma non contemplati nell’edizione del 2007). Il Progetto Tamiriki: processo di patrimonializzazione, agenti e polifonie Il progetto “Tamiriki, costruendo una casa e ricostruendo una cultura” è stato presentato dalla APITIKATXI nell’edizione del Prêmio Culturas Indí-

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Gruppo istituito attraverso il Decreto n° 62 del 18/04/2005.

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genas del 2007. La APITIKATXI è una organizzazione non governativa creata per rappresentare i popoli Tiriyó, Kaxuyana e Txikyana che vivono nella Terra Indígena Parque do Tumucumaque dove abitano circa 1200 persone. L’idea della tamiriki sorse durante un laboratorio realizzato dall’IEPÉ (Instituto de Pesquisa e Formação em Educação Indígena) con alcuni indigeni di quell’area. Il progetto (APITIKATXI, 2008), finanziato con 24.000 R$ [circa 10.000 Euro], prevedeva risorse per il noleggio di un aereo, biglietti di trasporti fluviali, alimentazione, carburante, atrezzi e materiale da costruzione, oltre che per il materiale per la confezione di ornamenti e vestiti utilizzati in occasione della festa di inaugurazione della casa. La costruzione della tamiriki, iniziata nel 2008, durò circa due anni, Per celebrare la chiusura dei lavori e inaugurare questo edificio i Kaxuyana di Santidade organizzarono una festa nell’aprile del 2010. Guidati da Juventino Pesírima Kaxuyana, presidente della APITIKATXI in quella occasione, l’iniziativa del progetto era partita dai Kaxuyana. Il disegno di Mauro Kaxuyana13 illustra il protagonismo di alcuni di questi Kaxuyana nel progetto e i suoi sviluppi nell’ambito sia di ciò che essi denominano “recupero della cultura” sia di ciò che riguarda le politiche di garanzia delle terre e dei diritti. Come ho detto sopra, questi indigeni fin dall’anno 2000, un po’ alla volta, hanno cominciato a lasciare il Parque do Tumucumaque per tornare alle loro terre sul fiume Cachorro. Questo ritorno è divenuto effettivo grazie agli stessi Kaxuyana, inizialmente senza alcun tipo di appoggio logistico. Dopo essersi installati nei loro villaggi, il già citato Santidade e il villaggio Chapéu anch’esso lungo il fiume Cachorro, secondo quanto contenuto nello stesso progetto della tamiriki, i Kaxuyana hanno ricevuto appoggio dalla Funasa, dall’amministrazione della Funai, dal

13 Schema del villaggio Santidade con in risalto al centro la tamiriki (disegno di Mauro Kaxuyana, gennaio 2010).

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Municipio di Oriximiná, dalla Coordenação dos Povos Indígenas do Pará e dall’Iepé. Ritengo che l’edificazione della tamiriki assume un significato simbolico tra i Kaxuyana, specialmente perché funziona come una iniziativa di rafforzamento e valorizzazione culturale, in un processo di formazione e rappresentazione sociale. C’è nel progetto una menzione alla riconquista delle loro conoscenze e del loro modo di vivere, abbandonati durante il periodo in cui stettero al di fuori delle loro terre. Così, la proposta di questo progetto si circoscrive ad uno degli obiettivi del Prêmio Culturas Indígenas, ossia quello di “rafforzare le espressioni culturali e l’identità culturale dei popoli indigeni, contribuendo per la continuità delle loro tradizioni” (Brasil, 2006). Il progetto della tamiriki può essere analizzato come un processo di patrimonializzazione portato avanti dai Kaxuayana, ma in cui non si può nascondere l’attuazione di diversi agenti. Se in passato la tamiriki era luogo di abitazione comune, usata dal pataitono, la sua famiglia e i suoi ausiliari con le rispettive famiglie14, oggi questo edificio viene utilizzato per altri fini. Intesa in altro modo dai Kaxuyana, sembra che essa simbolizzi ed occupi un’altra categoria, che considero il risultato di un processo di patrimonializzazione. L’iniziativa del progetto della tamiriki, ideata inizialmente nel 2003, è strettamente in relazione alla riconquista del territorio di occupazione tradizionale dei Kaxuyana. In tutto questo processo i più anziani ebbero un ruolo preponderante in quanto detentori della conoscenza necessaria. Oltre a ciò, questo edificio si configurò come seminale per altre azioni indirizzate alla cultura kaxuyana: “È tutta una cultura che deve essere recuperata, perché è molto difficile pensare come e da dove cominciare, ma dopo aver molto dialogato abbiamo avuto l’idea di cercare aiuto per costruire una casa tradizionale di riunione, chiamata tamiriki, perché è attorno a questa casa che possiamo azionare e ravvivare praticamente tutto ciò che riguarda la cultura kaxuyana. Era in questo tipo di casa che facevamo le nostre riunioni, i nostri rituali e le nostre feste e pensiamo che la riconquista della nostra terra e della nostra cultura è un buon punto di partenza” (APITIKATXI, 2008: 04).

Oltre alla costruzione della casa, che mobilita simbolicamente questo gruppo indigeno, il progetto prevedeva una festa di inaugurazione, considerata un 14 I ragazzi celibi vivevano in un’altra abitazione denominata muitaraká, dove venivano preparati dai più vecchi per la vita di un Kaxuyana adulto.

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momento per rivivere tutto ciò che riguarda la cultura kaxuyana: cibi, bibite, rituali, ornamenti e artefatti, danze e musica. La costruzione della tamiriki avvenne in un processo collettivo, tutti nel villaggio parteciparono. Manuel Gertrude, il vecchio, chiamato da tutti con l’espressione amu, “nonno”, dette alcune orientazioni su come doveva essere la costruzione della casa. Conformemente al citato progetto, parteciparono approssimativamente 12 famiglie. Ci sono relazioni secondo cui alcuni Waiwai furono invitati a collaborare in questa costruzione. Nell’aprile del 2010 avvenne la cerimonia di inaugurazione della casa, abbondantemente annunciata e attesa dagli abitanti del villaggio Santidade. In questa occasione, alcuni leader indigeni nei loro discorsi sottolinearono che si trattava della realizzazione di un sogno di tutti, quello di tornare al loro territorio, sogno questo che non era mai stato dimenticato, come si osserva in un passaggio del discorso di apertura di questa cerimonia: “Adesso stiamo tornando a conoscere come era la cultura kaxuyana. La cultura sta cambiando, noi vogliamo recuperare la nostra cultura, la nostra storia (…) La storia kaxuyana è triste (…) I Kaxuyana sono stati un po’ dominati15 quando siamo andati ad abitare con gli altri16. Stiamo parlando due lingue: tiriyó e kaxuyana. Qui impareremo la nostra lingua. Io sto lottando perché coloro che nasceranno qui apprendano kaxuyana”17.

Rappresentanti di diversi organismi nazionali erano presenti nel villaggio Santidade durante la festa di inaugurazione: oltre ai rappresentanti ufficiali della FUNAI e della Secretaria Estadual de Meio Ambiente do Pará, anche organizzazioni non governative come la Kanindé e la COIAB (Coordenação das Ogranizações Indígenas da Amazônia Brasileira) parteciparono alla cerimonia. Tra i rappresentanti internazionali c’erano: ACT (The Amazon Conservation Team), Moore Fundation e Stanford University. Anche i Kaxuyana del villaggio Chapéu, per la gran parte coloro che erano andati a vivere tra i Hixkaryana del Nhamundá ed i loro discendenti, ed alcuni Tunayana furono invitati a questa cerimonia.

Egli si riferisce alla lingua kaxuyana. Tra i Tiriyó, nel Parque do Tumucumaque. 17 Passaggio del discorso di João do Vale, in quell’occasione leader kaxuyana del villaggio Santidade, nel momento della festa di inaugurazione della tamiriki, nell’aprile del 2010. 15 16

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Appunti finali Vedo la tamiriki come immersa nella categoria di patrimonio culturale, risultato di un processo di patrimonializzazioen azionato tanto dai Kaxuyana quanto da altri agenti che vi operano. Percepisco una certa ambivalenza e possibili conflitti. Il conflitto, descritto da Ciarcia, si centra nella questione della memoria della tradizione, in cui la memoria è anch’essa qualcosa di negoziabile. Suppongo che ci sia una tensione tra il sapere ed il credere, in cui la preservazione della conoscenza (materializzata nella tamiriki) comprende la manipolazione della memoria. Riprendo il concetto di processo di patrimonializzazione di Ciarcia (2003). Osservo che gli innumerevoli cambiamenti, sfide e dispute che loro hanno vissuto negli ultimi decenni, così come la partecipazione di differenti agenti direttamente o indirettamente coinvolti può aver portato, tra l’altro, alla decisione di sottomettere un progetto ad un concorso di finanziamento. Questo processo di bricolage, per appropriarmi dell’espressione di Ciarcia, rivela che le negoziazioni sono state e sono innumerevoli. Per adesso, i dati etnografici ancora abbastanza superficiali non permettono un ulteriore approfondimento dell’analisi.

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5. Territorio e territorialità dei Mura del fiume Preto do Igapó-Açú (Amazonas, Brasile)1 Marta Amoroso

I Mura in Amazzonia Uno degli ultimi popoli amazzonici che hanno avuto le proprie terre demarcate, i Mura hanno cominciato, con il processo di territorializzazione, a ottenere una maggiore visibilità di fronte alla popolazione meticcia contemporanea che abita i bacini dei grandi fiumi, associata alla forma di abitazione riberinha nel sistema idrografico dei fiumi Madeira e Purus. Al processo di territorializzazione delle Terre Indigene Mura (T.I.) sono seguite, più recentemente, una serie di iniziative pubbliche per la creazione di unità di conservazione che incidono sulla regione e che rappresentano in alcuni casi la frontiera esterna della terra indigena. Si parte qui dai risultati di relazioni di identificazione e delimitazione delle T.I. Mura per analizzare il modello più adeguato di politiche pubbliche dirette ai Mura, tenendo in considerazione le particolarità della loro territorialità e della loro lunga storia di contatto. Dalla constatazione che ci sia un certo conservatorismo come modello del processo legale delle terre indigene Mura, si indagano le nuove negoziazioni dei Mura di fronte alle politiche ambientali che circondano e raggiungono le Terre Indigene del sistema idrografico del fiume Madeira. La popolazione mura in tutto lo Stato di Amazonas è calcolata in circa 15 mila persona (Funasa, 2010). Questa cifra però si sa essere sottodimensionata, perché si riferisce esclusivamente alla popolazione residente nelle Terre Indigene. Prendendo come riferimento il solo municipio di Borba, dati dell’Amministrazione Comunale stimano che, di una popolazione totale di trentamila

1 Questo articolo deriva da comunicazioni presentate nella XII Jornada das Ciências Sociais in omaggio a Manuela Carneiro da Cunha all’Unesp di Marília (Amoroso, 2011) e nella II Semana de Arqueologia e Etnologia, Mae/Usp (Amoroso, 2012). La ricerca si sviluppa nell’ambito del programma di sostegno accademico Procad “Paisagem ameríndias: habilidades, mobilidade e sociabilidades nos rios a cidades da Amazônia” (Usp/Ufam, della Capes).

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abitanti, il sessanta percento del segmento rurale calcolato in diciassettemila persone è costituito da Mura, Sateré Mawe e Mundurucu2. Quando due decenni addietro cominciarono i lavori per la demarcazione delle Terre Indigene Mura dell’Amazzonia, la Funai accumulava una serie di richieste delle organizzazioni indigene del fiume Madeira per una maggiore garanzia dei loro territori, come attestano le relazioni di Sílvia Tafuri negli anni Ottanta (s.d.). Alla fine delle attività dei primi gruppi di lavoro della Funai (Gt Funai), all’inizio degli anni Novanta, e dell’investimento, inedito, in ricerche sistematiche sulle condizioni di vita dei Mura nei fiumi, laghi e canali del sistema idrografico del fiume Madeira, le valutazioni presentavano temi comuni. Alcune di esse (Amoroso, 1999, 2000a; Pequeno 1999a, 1999b, 1999c, 1999d, 1999e, 1999f; Perez e Monteiro 1997; Perez 1997; Romano 1992a, 1992b; Souza 1998a, 1998b, 1998c, 1998d e 1999) alludevano ad un quadro di dispersione dei Mura lungo i fiumi e all’emigrazione verso le città che datava dai primi decenni del XX Secolo. Le relazioni registrano che l’epoca fu segnata dall’azione degli imprenditori dell’estrattivismo della noce del Brasile, in collaborazione con gli amministratori e i funzionari del Serviço de Proteção aos Índios e Trabalhadores (SPI). Nei comuni di Borba, Novo Aripuanã, Manicoré, Careiro da Várzea, Autazes, Manaquiri, Anori, Beruri e Itacoatiara, dove la Funai identificava la presenza di famiglie estese mura, la memoria degli adulti si riferiva al quadro traumatico della dispersione, che secondo alcuni autori (Romano, 1998: 161-216) corrisponderebbe al marcatore temporale dei Mura: la rottura di un tempo mitico con l’evento delle febbri epidemiche e l’inizio del tempo storico. Nelle relazioni era ricorrente anche la percezione che la collaborazione patronale tra l’industria estrattivista e lo SPI imprimeva una direzione nella lottizzazione del territorio mura (Legge n° 941 del Governo do Estado do Amazonas, del 1917), imponendo un modello di territorio indigeno circoscritto a piccoli appezzamenti di terra discontinui, molto al di sotto delle necessità di sussistenza e di riproduzione fisica e culturale dei Mura all’inizio del secolo scorso (Amoroso, 2000b)3. La revisione del processo di lottizzazione iniziò nel 1996, quando la Funai cominciò i procedimenti di identificazione e delimitazione delle Terre Indi-

2 Secondo il documento “Relação das comunidades existentes na zona rural”, a cura dell’Assessoria Administrativa para Assuntos da Zona Rural, Prefeitura Municipal de Borba, Estado do Amazonas, 2006. 3 Sul processo di identificazione e delimitazione delle Terre Indigene Mura nello Stato di Amazonas si veda: http//www.socioambiental.org.

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gene Mura dell’Amazzonia, creando cinque gruppi di lavoro che operarono inizialmente nei comuni di Carreiro, Borba, Autazes e Manicoré4. In quello che doveva essere un aggiustamento dei conti dello Stato con i Mura, però, le demarcazioni furono in molti casi orientate da un forte conservatorismo, nel senso che la definizione delle Terre Indigene rispondeva più agli antichi sistemi del passato, che costrinsero famiglie intere in aree ristrette, che non rispondere adeguatamente alle raccomandazioni del Decreto n° 14/1996 del Ministério da Justiça. Secondo quest’ultimo, dovevano essere garantiti ai Mura i diritti originari sulla terra occupata tradizionalmente. Il quadro di lottizzazione delle aree in appezzamenti incontrato dai Gruppi di Lavoro della Funai fu, in molti casi, mantenuto, senza generare neanche una più accurata valutazione delle reali necessità della popolazione mura dispersa tra i villaggi e la periferia della città dell’Amazzonia. Una eccezione onorevole deve essere fatta alla proposta di demarcazione della Terra Indigena Cunhã-Sapucaia, oggi omologata, merito dell’abilità nel negoziare dei leaders indigeni dei villaggi del fiume Preto do Igapó-Açu con l’equipe del Gruppo di Lavoro della Funai, leaders questi che seppero superare, temporaneamente, le tensioni politiche interne in nome della definizione di una proposta di demarcazione della terra indigena come area continua, che proteggesse le sorgenti dei grandi fiumi, canali e le zone circostanti i lagi che marcano il paesaggio della regione. Più recentemente, le unità di conservazione create nella regione hanno cominciato a costituire lo sfondo per qualsiasi piano di revisione delle Terre Indigene Mura. La Reserva de Desenvolvimento Sustentavel do Matupiri Quando ancora si attendeva la conclusione dei processi di omologazione di molte delle Terre Indigene Mura, investimenti dello Stato di Amazonas e del Governo Federale coinvolsero i Mura della regione del fiume Preto do

4 Le terre Indigene Mura in Amazzonia sono: Padre, Paraná do Arauató, Rio Jumas, Pinatuba, Rio Urubu, Rio Manicoré, Fortaleza do Castanho, Tracajá, Cuia, Gavião, Lago Aiapuá, Lago Capanã, Lago Jauari, Méria, Miguel/Josefa, Natal/Felicidade, Patauá, Paracuhuba, Recreio/São Félix, São Pedro, Trincheira, Cunhã-Sapucaia, Lago do Marinheiro, Tabocal, Apipica, Ariramba, Boa Vista, Itaitinga, Miratu, Murutinga, Ponciano, Sissaíma, Lago do Limão, Capivara, Muratuba, Guapenu, Vista Alegre, Jauary, Setemã, Arary, Pantaleão e Pantaleão. (Marta Amoroso, 2009). Sull’ampio processo di territorializzazione dei Mura in Amazzonia, si vedano anche: Pequeno (1999, 1999 a, 1999 b, 1999 c, 1999 d, 1999 e); Perez (1997), Perez e Monteiro (1997); Romano (1992, 1998); Tafuri (s/d); Souza (1998, 1998 a, 1998 b, 1998 c, 1999).

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Igapó-Açu. Nel marzo del 2009 furono create sei nuove unità di conservazione ambientale statali5, tra queste la Reserva de Desenvolvimento Sustentável do Matupiri, vicina della Terra Indigena di Cunhã-Sapucaia. L’iniziativa cercava, citando le parole dei rappresentanti del Ministério do Meio Ambiente, di proteggere le zone limitrofe alla BR 319 che collega Porto Velho a Manaus e che attende l’autorizzazione per la pavimentazione6. L’area protetta, che copre un totale di ventitremila km², fu una esigenza imposta dal Ministério do Meio Ambiente per l’autorizzazione ambientale al recupero della BR 319. La vecchia e intransitabile strada è una delle opere previste nel PAC (Plano de Aceleração do Crescimento) del Governo Federale; asfaltata, essa permetterà l’accesso all’area compresa tra i fiumi Madeira a Purus, una delle più significative dal punto di vista della biodiversità amazzonica, da cui provengono le sostanze nutritive del Rio delle Amazzoni. La strada si collega ad un complesso di centrali idroelettriche lungo il fiume Madeira, Santo Antonio e Jirau, altri due mega progetti dello stesso PAC, che mobilitano nella regione un contingente di trentasettemila operai, la magior parte dei quali migranti7. Per la popolazione mura, la Reserva de Desenvolvimento Sustentavel do Matupiri può rappresentare un vero e proprio “cavallo di Troia ambientale”, come è stato definito un programma simile (Albert e Le Tourneau, 2004: 372), perché entra a far parte della quotidianità dei villaggi mura che ancora non si sono resi conto appieno di ciò che sta per arrivare con l’impatto della pavimentazione della BR 319 e con l’entrata in funzione delle centrali idroelettriche di Santo Antonio e Jirau. Per i Mura, le politiche ambientali di compensazione che si sono venute a configurare con la creazione delle unità di conservazione ambientale cominciano a definire esternamente i contorni della Terra Indigena Cunhã-Sapucaia e a stabilire con i suoi abitanti un dialogo che, fino ad ora,

5 Sono: Parque Estadual do Matupiri (con 5.137 km2), Reserva de Desenvolvimento Sustentável do Matupiri (con 1.790 km2), Reserva de Desenvolvimento Sustentável do Igapó-Açú (con 3.975 km2), Reserva Extrativista de Canutama (con 1.979 km2), Floresta Estadual de Canutama (con 1.505 km2) e Floresta Estadual de Tapaua (con 8.817 km2). In tutto, saranno 28 unità di conservazione ambientale lungo la strada BR 319: 11 federali e 9 statali in Amazonas e 8 statali in Rondônia. 6 “Unidades de Conservação do Estado do Amazonas”, Manaus: SDS/SEAPE, 2007, cfr: Parque Estadual do Maturiri, AM. http: //www/socioambiental.org. 7 A riguardo degli avvenimenti recenti che hanno avuto luogo nei cantieri delle centrali idroelettriche di Jirau e Santo Antonio, nelle vicinanze di Porto Velho, e che hanno coinvolto il contingente di operai immigrati insoddisfatti con le condizioni di lavoro imposte loro, si veda: Folha de São Paulo, 18 e 19 di Marzo del 2011, Caderno Mercado.

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si presenta come distante e anche non qualificato8, però pieno di conseguenze nel quotidiano e nel futuro dei Mura. Di fronte alla paralisi che riguarda il tema della conservazione ambientale nelle Terre Indigene, il caso della Terra Indigena Cunhã-Sapucaia ci permette di interrogarci sulle politiche pubbliche più adeguate ai Mura del fiume Preto do Igapó-Açu, prendendo in considerazione le singolarità della loro territorialità da un lato e dall’altro la loro lunga storia di contatto. Ci interessa osservare assieme ai Mura quale sia il loro regime di relazioni con l’ambiente e pensare la particolarità della loro presenza in Amazzonia. Per fare ciò ci basiamo sulla critica etnologica alla ragione naturalista occidentale (Descola, 1986, 1992, 1996, 1998, 2005; Descola e Palsson, 1996; Viveiros de Castro, 2002), dato che con essa si possono ricondurre gli studi sulle popolazioni meticcie amazzoniche, campo nel quale i Mura vengono identificati, ad una chiave che li avvicini alle cosmologie amerindie per ciò che riguarda la dimensione della creatività e autonomia espresse tanto nella loro relazione con l’ambiente quanto nelle interazioni con i non indigeni, percorso seguito in precedenza da lavori come quelli di Peter Gow sul Basso Urubamba (1991), ma poco sfruttato per le popolazioni meticcie dell’Amazzonia brasiliana (Amoroso, 2007; 2011). Territorialità mura: prima dei villaggi, le “Case Private” Seguendo una ispirazione di Strathern (1998: 109-139), si assume qui che i Mura siano agenti attivi di trasformazione e che, quando riflettono sul vecchio ed il nuovo, stanno producendo marcatori della costruzione di differenze che li interessano, segnalando le differenziazioni interne rilevanti. È questo il caso, ad esempio, quando parlano di un tempo precedente ai villaggi. Secondo i Mura, si delineano due universi temporali distinti. Il primo di questi si riferisce a cinquanta anni addietro, quando raccontano che abitavano in “case private”, volendo alludere alle residenze isolate delle famiglie nucleari disposte lungo i fiumi, di fronte a canali, laghi e sorgenti. Gli adulti degli attuali villaggi mura della Terra Indigena Cunhã-Sapucaia conservano ricordi della loro prima infanzia in luoghi distanti dalle altre residenze, “in mezzo alla foresta”, come spiegano. Qualcosa di diverso, quindi, dalla vita nei villaggi e nelle comunità come abitano oggi: agglomerati di abitazioni e abitanti incentivati dallo Stato.

Si veda, ad esempio, il Plano de Gestão del Governo dello Stato di Amazonas, inteso come una delle compensazioni del governo dello Stato per mitigare l’impatto della pavimentazione della strada e l’assenza in esso di una riflessione sulle Terre Indigene Mura. 8

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La territorialità simbolizzata nell’immagine delle “case private” allude alla storia dei Mura nel paesaggio, espressione che prendiamo dall’opera di Inglod (2000: 193) per evidenziare il paesaggio come prodotto dell’interazione del cacciatore-raccoglitore con l’ambiente, relazione marcata dai grandi spostamenti. Attualmente, molti dei luoghi conosciuti e frequentati dai Mura del fiume Preto do Igapó-Açu sono rimasti al di fuori del disegno della terra Indigena, la demarcazione ha rappresentato una inevitabile limitazione ai canoni conosciuti della territorialità dei Mura, che divennero famosi nelle cronache coloniali esattamente per la loro capacità di dislocamento, largamente citata dalle autorità coloniali che facevano la guerra ai Mura, dai racconti dei viaggiatori e dei naturalisti del XIX Secolo e, nei primi decenni del XX Secolo, già in un dialogo con gli interessi accademici dell’etnologia amerindia, dalla riflessione di Nimuendaju e Tastevin. I meticci Mura di Taciua, di Matupiri e dell’Igarapé do Foles, come gli abitant adulti di Cunhã-Sapucaia si auto identificano, non hanno ricordi dell’esistenza di villaggi lungo il fiume Jutaí di Igapó-Açú oltre al Posto dello SPI di Cunhã. Ogni famiglia nucleare apparteneva ad una determinata località il cui toponimo poteva eventualmente identificare i suoi membri in quanto meticci di tale fiume, canale o lago. Al tempo delle “case private”, il cacciatore mura dedicava parte della propria attività per rispondere alle domande avanzate dai commercianti, che d’inverno percorrevano il fiume Preto do Igapó-Açu, alla ricerca dei prodotti dell’estrattivismo, come la pelle di animali silvestri: giaguaro, cinghiale, alligatore, lontra. Cacciare, oltre che una attività quotidiana che si intensifica d’inverno e nell’epoca delle piogge, quando scarseggia il pesce, era, in questa circostanza, la maniera di garantirsi una qualche merce scambiata con le pelli degli animali nelle barche dei commercianti. Ma, e principalmente dato che la sussistenza non è mai stata un problema in quelle zone ricche di fiumi pescosi e di caccia abbondante, era il mezzo dei Mura per inserirsi in una rete di relazioni nella quale apparivano come clienti di uno o più padroni di Borba e Manaus, rete nella quale il meticcio del fiume Igapó-Açu stabiliva legami di compadrio, amicizia e non raramente di parentela9. Per i Mura il peso delle configurazioni socio-commerciali complesse ed eterogenee che contano con la partecipazione attiva e intensiva della popolazione indigena può essere dimostrato attraverso l’attuazione dello stesso organo di tutela degli indigeni I cognomi Azam e Bentes, di ascendenza giudaica in Amazzonia, sono ricorrenti nelle genealogie delle famiglie degli attuali villaggi Piranha, Forno e Igapó-Açú, tutti nella Terra Indigena Cunhã-Sapucaia, dimostrando l’estensione e l’apertura di questa rete da un lato e dall’altro i meccanismi di incorporazione azionati nei villaggi. 9

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dell’Amazzonia, lo SPI, che fino alla metà degli anni sessanta contribuiva agli affari della noce del Brasile nella condizione di padrone dei Mura, adeguando l’articolazione degli indigeni al sistema, in maniera da garantire la circolazione delle merci e la civilizzazione degli indigeni attraverso il lavoro nell’estrattivismo (Moreira Santos, 2009). La nascita del villaggio mura costituisce il secondo orizzonte temporale segnalato dai Mura e in esso il tema della caccia, della pesca e della relazione con gli associati di fuori del fiume riceve nuove sistemazioni. Il villaggio viene associato ad una condizione che precede di alcuni anni i lavori di demarcazione della Terra Indigena Cunhã-Sapucaia, momento in cui l’esistenza di “villaggi” viene implicitamente raccomandata dall’organo di tutela per la composizione della Terra Indigena. Se ci atteniamo al tema della caccia e della pesca e alla rete che queste attività-assi mobilitano adesso nella nuova circostanza dei villaggi mura, in termini di circolazione di merci e persone, vedremo che nuovi dualismi si presentano e sembrano minacciare costantemente l’ideale di concentrazione urbana e di convivenza pacifica richiesti dallo Stato attraverso l’organo indigenista, dai settori responsabili per le cure sanitarie o dai responsabili per l’impiantazione ed il mantenimento del sistema di educazione differenziata indigena. Al centro del fazionalismo contemporaneo dei Mura si colloca il dibattito a riguardo del conservatorismo ambientale e del concetto di “preservazione”, che si riferisce direttamente alla pratica della caccia e della pesca nella Terra Indigena e che genera interpretazioni varie, più o meno prossime alle orientazioni dell’ambientalismo e dell’indigenismo dello Stato. Dopo che furono omologate le Terre Indigene dei Mura, furono azionati meccanismi di controllo da parte della Funai, mobilitando fiscali indigeni10. Da un lato villaggi e reti di parentela articolate ad essi furono elevate dalla Funai per ricoprire l’incarico di fiscali della Terra Indigena. Portando divise da fiscali, decine di diplomi di corsi di formazione sulla tematica ambientalista e diritti di possedere barche da pesca commerciali, molti di questi di antichi associati, questi nuovi agenti di trasformazione si oppongono ad un secondo segmento politico, formato da villaggi e reti di parentela che usano l’emblema dell’ecoturismo e della pesca ecologica per aprire varchi significativi nella blindatura della Terra Indigena, in maniera da mantenere attive collaborazioni lucrative.

10 Per una discussione delle conseguenze della strumentalizzazione degli indigeni come fiscali contro la biopirateria in Amazzonia, si veda Carneiro da Cunha (2009: 334).

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L’affare del Turismo Ecologico in Terra Indigena è un tema controverso, come si sa11. Rappresenta l’entrata di un volume considerevole di capitale nei villaggi che, in cambio, devono liberare la pesca per i turisti per sessanta giorni, proprio nel periodo di auge dell’epoca del pesce più grasso. I turisti richiedono dai villaggi mura una qualche autenticità, come artigianato indigeno ad esempio, da ciò deriva l’interesse dei villaggi di questo secondo blocco per corsi di formazione non in ecologia e sostenibilità, temi dei corsi organizzati dalla Coordenação das Organizações Indígenas da Amazônia Brasileira (Coiab) negli altri villaggi, ma piuttosto corsi di artigianato. I turisti e gli imprenditori del turismo si aspettano dai Mura anche le famose abilità come pescatori (anche se, per contratto, la preda conquistata deve essere restituita al fiume). I Mura associano gli imprenditori di ecoturismo alle festive e dispendiose cerimonie delle pratiche religiose condotte dai pastori della Chiesa Battista di Jauary (Manicoré), cerimonie (reuniões) che sono arrivate con i turisti, molti della stessa congregazione religiosa. La ricerca in corso cerca di registrare come i Mura accompagnano le attività di questa congregazione religiosa nelle Terre Indigene di Cunhã-Sapucaia. Anticipiamo che le riunioni della Chiesa Battista frequentate dai Mura tanto nella Terra Indigena Cunhã-Sapucaia come nella città di Borba, intensificarono l’attività sciamanica nei villaggi, il che ancora una volta ci porta alle conclusioni indicate da Carneiro da Cunha (2000: 102-113) a riguardo della capacità degli sciamani di riunire più di un punto di vista e, così, di divenire indispensabili nei tempi di mondi nuovi. Quanto al tema del conservazionismo ambientale nella Terra Indigena, ciò che viene messo in discussione dai leaders è, quindi, chi ha il diritto di usufruire, come i Mura, delle nicchie di caccia e pesca tradizionalmente associate a loro e oggi riservate dallo Stato per l’uso esclusivo della popolazione indigena, dibattito che oppone due gruppi identificati con i leaders e le loro rispettive reti politiche. I confronti possono portare all’apice della violenza, con giovani feriti da entrambi i lati, atmosfera da guerra sciamanica tra i villaggi e accuse di stregoneria. Suggeriamo che, per seguire come i Mura intendono e qualificano queste trasformazioni e come queste influenzano la vita di uomini e donne, è necessario cominciare dal regime che regge le loro relazioni con l’ambiente e inserire gli studi sui Mura di Igapó-Açú nel contesto delle recenti ricerche sul multinaturalismo amazzonico (Viveiros de Castro, 2002: 267-294). Ho mo11 Nell’ambito delle politiche pubbliche indirizzate alla popolazione mura, il Turismo Ecologico può essere tanto stimolato come combattuto e compete agli abitanti della Terra Indigena l’optare tra l’appoggio della Funai, che li mantiene lontani dalle imprese del turismo, o l’appoggio del Governo do Estado do Amazonas che tende a stimolare le iniziative di turismo in area indigena.

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strato in un altro momento che è possibile stabilire approssimazioni tra la riflessione oggi accumulata sui temi della predazione e del prospettivismo e il cacciatore-raccoglitore mura nei suoi scontri interpersonali con le sue prede nella caccia e nella pesca; la malattia e la cura del cacciatore traducono un piano di relazioni che assume le entità sottoacquatiche e della foresta come soggetti con cui ci si confronta (Amoroso, 2011). Cacciatore-raccoglitore e il dialogo interdisciplinare Andiamo alla categoria cacciatore-raccoglitore, di libera circolazione interdisciplinare tra la preistoria, l’archeologia e l’antropologia. L’ispirazione per questa incursione nelle categorie dell’antropologia viene da Ingold (2000), che ha affrontato sfide simili studiando i cacciatori-raccoglitori della Lapponia e ha saputo valorizzare l’importanza della tradizione di studi che si trova al di sotto di un concetto come questo. È ciò che avviene con la tradizione degli studi americanisti, che ha pensato i Mura attraverso la categoria cacciatoriraccoglitori della Foresta Tropicale (Steward, 1948: 883, 891). Per gli studi sull’Amazzonia, la categoria cacciatore-raccoglitore è servita come sfondo per una riflessione sistematica e innovatrice sui modi di vita negli ecosistemi tropicali. Ricordano che è stato a partire dal 1948 e dal progetto dell’Handbook of South American Indians (Hsai), opera collettiva organizzata da Julian Steward a partire da un’idea dell’antropologo e archeologo Nördeskiold, che furono intrapresi sforzi per l’inserimento delle popolazioni della foresta tropicale in un progetto comparativo ampio, nel quale i Mura furono identificati tra i gruppi di cacciatori-raccoglitori della foresta tropicale. Il progetto di raccolta era, come si sa, orientato dalla tesi dell’evoluzione multilineare esposta successivamente da Steward (1955: 1-82), fortemente marcata dal materialismo storico, che prendeva come asse comparativo tanto la risposta umana alle necessità imposte dall’ambiente come i condizionamenti storici derivati dalla conquista coloniale. I Mura rappresentavano, in questo contesto, l’espressione della vita sociale in bande senza la risorsa dell’agricoltura o con una agricoltura incipiente (Steward, 1948: 883, 891). La fonte di conoscenze sui Mura era, allora, la cronaca coloniale, in cui furono descritti come esempi di genti che non praticavano l’agricoltura, preferendo rifornirsi negli orti altrui, con questo tratto che diveniva il più utilizzato in questo tipo di analisi per stabilire un contrasto con le popolazioni tupi-guarani, che dimostravano di disporre di abilità agricole. Una forte enfasi nella disposizione geografica e nella ricorrenza di canoni culturali stava alla base dell’identificazione dei Mura dell’Hsai come un caso paradigmatico del

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modo di vivere in bande, con la densità maggiore o minore dei raggruppamenti condizionata dall’offerta di risorse naturali. Il capitolo sui Mura, nell’Hsai, firmato da Curt Nimuendaju, sedimentava una serie di nozioni sul gruppo che restano in vigore ancora oggi. È accertato che Nimuendaju associava i Mura con i Pirahã dei fiumi Maeci e Marmelos, utilizzando così il metodo della comparazione linguistica. Egli poneva anche una grande enfasi sulla pratica dei trasferimenti delle bande lungo le sponde dei grandi fiumi del sistema idrografico del Madeira-Purus, mettendo in risalto la forma di sussistenza basata sulla caccia, la pesca e la raccolta, oltre alla pratica dell’orticoltura, andando in questo senso, come ha percepito Robert Lowie (1948: 156), contro il senso comune che affermava che i Mura fossero radicalmente avversi alla coltivazione della terra. Quanto alla religiosità, Nimuendaju affermava che questa fosse associata al sistema sciamanico dell’utilizzo del Paricá (Nimuendaju, 1948: 255-269). Mettendo in risalto il nomadismo, l’abitare nelle canoe e la grande mobilità delle bande mura, rinforzava ad ogni modo la consensuale opposizione tra cacciatori-raccoglitori e agricoltori della foresta, lasciando di lato la questione principale, a nostro vedere, che sono le relazioni che, per mezzo delle coltivazioni e del dominio dell’ambiente, i Mura stabiliscono con la caccia. I Mura non hanno mai smesso di mantenere i propri orti di debbio, selezionare i semi, identificare specie commestibili, principalmente delle palme, e tali abilità di una storia costruita nell’ambiente dei fiumi e dei laghi consistono esattamente nel principale segreto del successo dei cacciatori-raccoglitori del fiume Preto do Igapó-Açú. Così, due aspetti possono essere sottolineati a riguardo delle categorie che l’etnologia ha eretto per comprendere la territorialità mura. La prima di queste è di “argonauti del fiume Madeira”, con la quale Nimuendaju evidenziava la caratteristica di esimi portatori di canoe e pescatori di quel sistema idrografico e ciò costituiva la differenza rappresentata dai Mura nel contesto del Progetto del Hsai. Di fatto, le popolazioni mura delle sponde dei grandi fiumi amazzonici trattano, nelle loro narrazioni, di una certa forma di relazionarsi con il sistema acquatico e in maniera complementare aggiungeremmo che, nella pratica e nella simbologia dei Mura, la foresta è legata alle sponde dei grandi fiumi dai canali, ed è nella foresta che tutto ha origine, con le entità acquatiche che si trovano, quindi, intrinsecamente associate alla foresta. La seconda categoria è quella di “Mura Ingigantito” e da questa è necessario prendere le distanze. Nimuendaju (1925: 255-269) parte da fonti storiche compromesse con le forze che mantennero i Mura nella condizione di popolazione indigena schiavizzata dal sistema coloniale. Nimuendaju, leggendo le cronache coloniali senza disporre di dati sistematizzati sui Mura, che visitò a

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Autazes (Amoroso, 2002), ma che in quella occasione rifiutò come legittimo oggetto dell’etnologia perché li considerava troppo acculturati, replicava nelle pagine dell’Hsai alla figura del “Mura Ingigantito”, resa immortale nella collezione di documenti sulla “riduzione volontaria delle genti Mura”, insieme a cui appartiene il poema epico “A Muhuraida”, di Henrique João Wilckens (1785). In tal modo, ci presenta le bande di guerrieri nomadi, argonauti che si dislocavano lungo le sponde dei fiumi in una dispersione che poteva coprire grandi estensioni, andando dall’Atlantico al Pacifico nelle loro incursioni, nelle quali utilizzavano tecniche di guerriglia, assaltando orti e imbarcazioni, rendendo impossibili abitati incipienti e i villaggi lungo il fiume Madeira (Amoroso, 1992; 1998). Fragilmente confrontate con la critica etnografica, tali immagini coloniali emergono nelle pagine dell’Hsai, rendendo difficile ancora oggi l’inserimento dei Mura nell’insieme delle analisi comparative che cominciano a riflettere sulle popolazioni del sistema idrografico del Purus e del Madeira. Richiamiamo l’attenzione, così, sulle possibilità di analisi che questo piano comparativo può rappresentare per gli studi attuali sui Mura, dopo che si renda effettiva l’operazione di “delimitazione” dei Mura, in maniera da ricondurli ad una territorialità originaria, quella dei bacini del Madeira e del Purus. In questo piano di lavoro, l’ausilio dell’archeologia sarebbe raccomandabile, informandoci sulle reti pre-coloniali che prefigurano scenari come quelli in cui appaiono i Mura, alle frontiere tra i domini coloniali. Prendiamo, adesso, l’affermazione dei Mura, secondo cui loro sono meticci di Matupiri, di Taciua e di Tupana, e che fanno alludendo ad una appartenenza che si aggrega al proprio nome. Contiamo con registri antichi sui Mura, che datano l’inizio del XX Secolo, realizzati dal missionario spiritista C. Tastevin (Faulhaber e Monserrat, 2008; Carneiro da Cunha, 2009), che alludono al tema delle località su un altro piano, quello delle cosmologie. Scrivendo sulla religiosità dei Mura del fiume Madeira, Tastevin si lamentava di non incontrare “la vera religione” dei Mura, espressione, secondo lui, totalmente sotterrata al di sotto di “strati di superstizioni e vigliaccherie degli stregoni meticci del Basso Rio delle Amazzoni” (Faulhaber e Monserrat, 2008: 68). Questi praticanti, non riconosciuti da Tastevin come rappresentanti di una autentica religiosità dei Mura, totalmente persa nell’opinione del missionario, parlavano di “pretesi serpenti incantati” che comunicavano con gli “stregoni” per mezzo delle estasi notturne degli sciamani. I serpenti erano conosciuti dai Mura, avevano dei nomi: Vittoriano, Jason e suo figlio, Inácio. Ognuno abitava uno spazio acquatico determinato, un fiume, una pozza o un lago del sistema idrografico della regione. Inolte, frequentando le profondità dei fiumi, gli sciamani dei Mura convivevano e conoscevano le abitudini dei delfini: questi sceglievano

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con chi pretendevano co-abitare ed era compito degli “stregoni” applicare nei malati le medicine e i trattamenti che potevano allontanare per sempre le entità incantate degli uomini e delle donne scelte da loro come partner sessuali. I serpenti incantati costituiscono un tema importante dei Mura oggi, che con loro segnalano località dove si addensano abitazioni, una volta nella maniera dispersa e discontinua delle “case private”, oggi nel modello dei villaggi e delle comunità, circostanze distinte che, allo stesso tempo, hanno in comune il fatto di essere situate in un ambiente nel quale i Mura marcano la propria presenza. Articolati ai serpenti incantati in passato c’erano anche i sacaca, i grandi benedicenti che intermediavano le relazioni degli umani con le entità sottoacquatiche. Così, le relazioni dei Mura con l’ambiente indicano verso differenti piani di interazione, gran parte dei queli assenti nelle riflessioni classiche sui meticci amazzonici. Dal punto di vista di ciò che Balée ha chiamato “coltivazione forestale indigena” (Carneiro da Cunha, 2009: 332), l’enfasi di lavori recenti di archeologi con gruppi di cacciatori-raccoglitori della foresta tropicale, come i Maku studiati da Gustavo Politis (2001), ci mette in guardia ancora una volta sulla validità della tesi regressiva difesa da Lévi-Strauss (1975 [1958]), quando ha scartato la possibilità di associare i cosiddetti cacciatori-raccoglitori del continente sud-americano all’arcaismo ed al modo di vita paleolitico, precedente la domesticazione delle piante e degli animali che segnerebbe la cosiddetta “rivoluzione neolitica”. La gestione e l’addomesticazione delle piante che è avvenuta in Amazzonia è stato un processo localizzato e creativo che ha contato con la collaborazione intensa dei gruppi di cacciatori-raccoglitori e con le loro pratiche di orticoltura, che hanno dato a questa regione del continente alcune delle sue caratteristiche più care: la biodiversità. Il lavoro del biologo e antropologo messicano Césear Carrillo Trueba (2004, 2006) sulla biodiversità biologica del Nuovo Mondo ha dimostrato che anche per la Mesoamerica la biodiversità si deve, in gran parte, alle pratiche controllate di gestione delle piante, specialmente quelle dei cacciatori-raccoglitori orticoltori. La combinazione di una mobilità residenziale controllata in un determinato spazio di circolazione e raccolta di frutti della foresta ha propiziato i “giardini di piante” sparsi attorno alle abitazioni e garantito la vicinanza della fauna, questa è una forma di relazione con l’ambiente che, nel caso dei Mura, si riflette nella socio-cosmologia.

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6. Educazione Scolastica Indigena e processi propri di insegnamento-apprendimento: riflessioni a partire da alcuni casi Jê

Odair Giraldin

Introduzione Quando arrivai al villaggio São José, del popolo Apinaje, nell’agosto del 1995, la popolazione di quel villaggio si aggirava attorno alle seicento persone. Esso conservava ancora la forma circolare tradizionale dei villaggi dei popoli Jê e già il giorno seguente al mio arrivo fui condotto alla piazza centrale per partecipare alla riunione mattutina e spiegare perché mi trovavo lì e quali erano i miei obiettivi. All’interno dello spazio della piazza c’era un capannone costruito dalla Vale do Rio Doce negli anni Ottanta, che serviva come garage per il camion e il fuoristrada della comunità, oltre che come piccola scuola, composta solo da due aule, senza segreteria, né cucina o altri spazi. In essa studiavano i bambini del villaggio, che avevano come professori Ana Rosa, Cassiano, Josué e Rosa. I primi tre sono indigeni, Cassiano era pagato con una borsa di studio del Centro de Trabalho Indigenista (Cti), Josué dalla Missões Novas Tribus do Brasil e Rosa era una professoressa funzionaria della Fundação Nacional do Índio (Funai). In quel caso, solo Ana Rosa era stata contrattata dal governo dello Stato del Tocantins. Convivetti con il popolo Apinaje per più di due anni, realizzando le ricerche per il dottorato e, in quel momento, l’educazione scolastica non si collocava come una questione etnografica perché essa occupava poco dell’attenzione degli stessi Apinaje, perché le attività della scuola coinvolgevano solo i bambini dalla prima alla quarta elementare. Per gli alunni e i genitori che desideravano dare continuità agli studi nelle classi successive, era necessario che questi venissero svolti nelle scuole della città di Tocantinópolis, la più vicina, a diciotto kilometri di distanza e all’interno della regione del Bico do Papagaio, nel nord dello stato del Tocantins. Dato che c’era un camion nel villaggio (avanzato da ciò che aveva dato loro la Vale do Rio Doce negli anni Ottanta), alcuni alunni venivano quotidianamente portati in città. Ciononostante, in generale, nella quotidianità del villaggio la scuola occupava ben poco tempo delle persone.

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Così, feci la mia ricerca con gli Apinaje a partire da un problema teorico suscitato dalla lettura del libro Relativizando di Roberto da Matta (1993). Essa fu inizialmente diretta alla comprensione dei discorsi costruiti dagli Apinaje sull’esperienza vissuta da questo popolo in passato a partire dall’arrivo dei non-indigeni, già che Da Matta affermava che essi “hanno una nozione di tempo e di durata del tempo, ma non una prospettiva storica” (: 121). Non avere una prospettiva storica significa, secondo Da Matta, che gli Apinaje non assumerebbero il passare del tempo come elemento definitore della loro società. Essi avrebbero solamente un passato anteriore in cui tutto si sarebbe formato e un presente attuale nel quale gli elementi di base del mondo di ripeterebbero. Questa visione discontinua del tempo implicherebbe che non ci sarebbero gruppi o segmenti che interpretino il tempo e la società, non essendoci, di conseguenza, un’avaguardia che stia avanzando nel tempo (: 121-124). Questo tema, come succede frequentemente nelle esperienze antropologiche di studio con i popoli indigeni, fu alterato dalla ricerca sul campo. Quando cominciai a fare ricerca, verificai che c’erano temi centrali delle forme di sociabilità degli Apinaje che ancora non erano state pienamente spiegate nelle precedenti etnografie. Nel corso della ricerca compresi che un tema fondamentale nelle relazioni sociali degli Apinaje era situato nell’amicizia formale. Scoprì che la maniera in cui era trasmessa questa relazione formalizzata non era stata pienamente compresa e, per questo, le derivazioni sociali di questa forma di sociabilità non erano state interpretate o erano state fraintese. L’amicizia formale era stata vista, sia nei lavori di Nimuendajú come in quelli di Da Matta, come qualcosa che coinvolgeva tre persone (Nimuendajú, 1983 [1939]: 27) o quattro persone disposte due a due (Da Matta, 1983: 138-140). Da un lato un padre (o una madre) sociali e il loro figlio sociale; dall’altro l’amico formale (o l’amica formale) e il loro figlio sociale di quel padre o quella madre. Compresi che è giusto che da un lato si situi un padre o una madre sociale e il loro figlio sociale, ma il fatto nuovo che percepì è che dall’altra parte si trovava coinvolto un gruppo di persone composto da un padre o una madre sociali e dal loro gruppo di figli sociali. Inoltre, particolarmente importante, i figli consanguinei di queste persone non erano direttamente coinvolti in questo processo di trasmissione. Non erano direttamente coinvolti, ma indirettamente sono totalmente inseriti nelle conseguenze di questa relazione sociale, dato che i matrimoni preferenziali tra gli Apinaje avvengono tra amici (amiche) formali e figli (figlie) consanguinei degli amici (amiche) formali, o tra figli consanguinei di amici (amiche) formali (Giraldin, 2000). Quando cominciai a comprendere questo processo, non sentì quella situazione di angustia e solitudine dell’anthropological blues di cui parla Roberto

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Da Matta, di quando scopriamo qualcosa sul campo e abbiamo solo il nostro quaderno di note, il nostro diario e qualche indigeno con cui condividere la nostra scoperta (Da Matta, 1993: 170). Diverse volte durante il lavoro di campo ebbi la gradevole compagnia della linguista Christiane Cunha Oliveira, che faceva la ricerca per il suo dottorato) (Oliveira, 2005). Fu con lei che condivisi le mie preziose scoperte. Però ancora ricordo che una delle volte in cui le spiegai dell’amicizia formale e della sua trasmissione, ci trovavamo in presenza di Pãxti (Rosa), vedova di Amnhimy/Katàm Kaàk (Grassinho). Dopo un po’ che ascoltava le mie spiegazioni che utilizzavano i termini in “antropologhese”, Pãxti si alzò e disse: “non ci sto capendo niente di ciò di cui state conversando!”. Confesso che non ero sicuro se la mia amica Christiane avesse compreso le mie spiegazioni1. Ma è vero anche il contrario. Le diverse volte in cui la mia amica cercò di spiegarmi i suoi dati sulla lingua apinaje, in “linguistese”, anche lei non ebbe molto successo. Alla fin fine, il campo semantico dell’antropologia si distanzia da quello degli stessi Apinaje (per questo Pãxti non capiva) e anche dalla linguistica (per questo Christiane capì poco). In questo modo, dato che il dominio della linguistica si restringe ad un semestre di studi in un corso di introduzione alla linguistica offerto dalla IEL-Unicamp, neanche io riuscì a comprendere l’ampiezza delle scoperte quando tentò di spiegarmi ciò che trovava nelle sue ricerche. La ricerca e la scuola Questi episodi mostrano che né da me, e penso neanche da Christiane, la scuola nel villaggio è stata vista come un argomento rilevante che meritasse di essere studiato in quel momento, che fosse dalla linguistica o dall’antropologia. Oggi, però, passati circa 15 anni da questa prima esperienza con gli Apinaje, mi vedo coinvolto nel tema dell’educazione scolastica per i popoli indigeni: da un lato come professore del corso di laurea indigeno per professori indigeni che vivono nello Stato del Tocantins e nel corso di laurea interculturale della Universidade Federal de Goias; dall’altro lato, porto avanti ricerche sugli effetti dell’educazione scolastica tra i popoli indigeni in Tocantins dopo il 1991 1 Il fatto è che, nonostante avessi compreso l’amicizia formale, la complessità di questa forma di sociabilità non mi ha permesso fino ad oggi di formulare un diagramma che riesca a esprimerne tutta l’articolazione. Un diagramma di questa può essere visto nella mia tesi di dottorato (Giraldin, 2000: 174), disponibile in: http://www.uft.edu.br/neai/index.php?option =content&task=view&id=33.

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e sui processi specifici di insegnamento-apprendimento secondo gli AkwẽXerente, i Krahô e gli Javé. Oggi mi indirizzo verso questa tematica perché si è venuto a creare un nuovo quadro etnografico con l’ampliamento dell’educazione scolastica nei villaggi. Ad esempio, il villaggio São José si è frazionato originando così la creazione di più di dodici villaggi, con la conseguente diminuzione della popolazione. Nonostante ciò, questo villaggio possiede oggi una scuola con tutte le fasi dell’educazione di base, avendo già formato quattro classi nell’insegnamento medio. Possiede una struttura fisica invidiabile, potendo contare anche su un laboratorio di informatica con accesso a internet, un lettore Dvd e una televisione. Il direttore della scuola è un Apinaje laureatosi in pedagogia e diversi professori (10) sono stati contrattati (alcuni con un concorso) dalla Secretaria Estadual de Educação del Tocantins. Questo quadro esiste nonostante negli altri dodici piccoli villaggi, originatisi da São José, in ben cinque di essi esistono scuole, di cui una fino al nono anno scolastico. Un autobus scolastico contrattato dalla Secretaria Estadual de Educação è responsabile per il trasporto quotidiano degli studenti più piccoli fino alla scuola del villaggio São José. Questo quadro qui rapidamente tinteggiato per il caso del villaggio São José si diffonde in tutti gli altri villaggi apinaje e, probabilmente, in tutti i villaggi dei popoli indigeni nello Stato del Tocantins. Tra i Krahô è già stato installato l’insegnamento medio regolare nei villaggi Manuel Alves Pequeno, Cachoeira, Rio Vermelho e Pedra Branca. Tra gli Xerente è stato creato un Centro de Ensino Médio Indígena Xerente (Cemix-Warã) in una area centrale del territorio, che conta anche su due corsi tecnici (informatica e infermieristica) e un altro villaggio (Rio Sono) ha recentemente impiantato l’insegnamento medio, come estensione del Cemix. Tra gli Javaé sono già stati impiantati l’insegnamento regolare medio nel villaggio São João e in forma modulata nei villaggi Txuiri e Canoanã. Oltre a questi, le università stanno creando politiche di accesso degli studenti indigeni, sia attraverso il Prouni, sia attraverso un sistema di quote, come avviene nell’Universidade Federal do Tocantins dal 2005 e, con modelli simili, come sta venendo istituito in diverse università federali o statali. Cresce anche l’accesso dei professori a differenti programmi di formazione di professori a livello superiore, come i corsi di laurea interculturale delle università pubbliche brasiliane2. Questo quadro attuale pone l’educazione scolastica come una questione che, come già ci avvertiva Aracy Lopes da Silva nel 2001, Cito come esempi i corsi della Universidade Federtal de Goiás (Ufg), della Universidade Federal de Minas Gerais (Ufmg), della Universidade Federal da Grande Dourados (Ufgd), della Universidade Estadual de Mato Grosso (Unemat), della Universidade Federal de Santa Catarina (Ufsc), della Universidade Estadual da Bahia (Uneb), tra gli altri. 2

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merita di essere studiata antropologicamente. Ossia, l’ampliamento dell’offerta dell’educazione scolastica per i popoli indigeni, negli stati e/o municipi dove ciò sta avvenendo, si pone come una situazione antropologicamente rilevante e che merita di essere studiata a partire dai referenziali metodologici propri del discorso e del sapere antropologico. L’obiettivo di questo sguardo antropologico è di contribuire per superare la predominanza del registro pedagogico del discorso scolastico indigeno. Un altro è di inserire analiticamente la scuola indigena in contesti e processi sociali più ampi e molteplici (Lopes da Silva, 2001). Oggi possiamo comprendere che la scuola viene analizzata a partire da due prospettive: una che cerca di discutere sociologicamente la scuola e l’educazione scolastica indigena come politica pubblica; e un’altra che analizza la conoscenza e l’educazione indigena e la sua relazione con la cosmologia. In quest’ultima, la nozione di corpo e di persona sono stati i principali strumenti teorici utilizzati (Seeger et altri, 1979). Lo Stato e le azioni politiche di educazione scolastica indigena Quando il Governo Federal do Brasil, con l’allora Presidente Fernando Collor, decise, nel 1991, di trasferire le azioni dell’educazione scolastica dalla sfera di competenza della Funai al Ministério da Educação (Mec), quest’ultimo assunse il finanziamento e la formulazione delle direttrici dell’educazione scolastica indigena in Brasile. Appoggiandosi nel cosiddetto regime di collaborazione tra gli enti federati (Governo Federale, Stati e Municipi), il Mec trasferì l’esecuzione dell’educazione scolastica indirizzata ai popoli indigeni agli stati ed ai municipi. Questi, a loro volta, ricevettero il compito ma non avevano le risorse umane qualificate per una sua esecuzione e il Governo Federale non creò meccanismi per formare quadri amministrativi adeguati capaci di gestire la nuova situazione. Per questo penso che, per molti casi, l’offerta dell’educazione scolastica indigena in Brasile è fallace al non prendere in considerazione effettivamente i principali precetti stabiliti sia nella Costituzione (Art. 210), sia nella Lei de Diretrizes de Bases da Educação Nacional (Ldben, 1996, Art. 32, Art. 78), nel Referencial Curricular Nacional para a Educação Indígena (Rcne Indígena, 1998) e le risoluzioni del Conselho Nacional de Educação (Resolução 03 e Parecer 14): il principio secondo cui la scuola deve essere differenziata, specifica, interculturale, bilingue e che devono essere rispettati i processi propri di insegnamento e apprendimento di ogni popolo. Questo principio rimane nei discorsi più che effettivarsi nella pratica. Non si effettiva perché persiste un

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impedimento socioculturale provocato dalla poca comprensione da parte dei non-indigeni che gestiscono l’educazione scolastica indigena di ciò che viene ad essere il processo proprio di insegnamento ed apprendimento. Secondo me, questa difficoltà nella formazione di una comunione di comunicazione e di argomentazione effettiva e democratica, come ci ha insegnato Roberto Cardoso de Oliveira (2000), nella quale i desideri della comunità e le sue specificità siano intese e rispettate, crea ostacoli per una effettiva educazione differenziata. Questa interlocuzione si mantenne asimmetrica a causa della mancanza di formazione degli interessati e della postura colonizzatrice degli amministratori pubblici di fronte ai popoli indigeni. Con questo, le Segreterie di Educazione applicarono, nel corso di quasi vent’anni, le direttrici generali dell’educazione scolastica nell’offerta di una scuola universalizatrice e ponendo come differenziale appena lo studio delle lingue materne e l’arte e la cultura nei curriculum delle scuole dei villaggi3. Così, quando questionavo i gestori dell’educazione scolastica indigena, dicendo loro che stavano violentando gli indigeni al costruire edifici per le scuole secondo gli stessi modelli delle scuole costruite fuori dei villaggi, ascoltavo la risposta che gli indigeni vogliono, rivendicano una scuola così, uguale a quella del bianco. La mia interpretazione iniziale di questa situazione era che gli indigeni volessero una scuola come quella dei bianchi perché non volevano una scuola diversa, per poter avere accesso a salari, merende, trasporti. Oggi però rivedo questa posizione. Mi rifaccio qui al ragionamento di Alcida Rita Ramos (2010)4, quando afferma che è necessario approfondire la proposta di sguardi etnologici prospettivisti per prendere sul serio ciò che pensano e dicono gli indigeni nelle loro elaborazioni teoriche su sé stessi e sul mondo dei non-indigeni. Cosa significa questo per questo lavoro? Significa che dobbiamo intendere le ragioni per le quali i leader indigeni non accettavano una scuola diversa, ma chiedevano una scuola uguale a quella dei bianchi. Sicuramente non si tratta di un processo di alienazione assimilazionista, nel senso che volessero adottare integralmente una scuola come quella dei bianchi con l’obiettivo di abbandonare la propria cultura e assumere quella dell’altro. Credo che, di fatto, essi

Si noti, però, che in Maranhão i Kríkati e i Pyhcopcatiji (Gavião) inclusero conoscenze sui diritti indigeni come disciplina insegnata a scuola. Già i Kríkati inclusero l’etica al posto della religione e stabilirono che un giorno della settimana fosse per l’arte e la cultura. Essi elessero quindi un tema ogni anno che fosse lavorato in questo giorno della settimana. 4 Testo inizialmente presentato in una tavola rotonda (MR 25 – Debates Contemporâneos sobre Etnologia Indígena) alla VII Reunión de Antropología del Mercosur (Ram) “Diversidad y poder en América Latina, Buenos Aires, Argentina, 2009. 3

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volessero una scuola come quella dei bianchi. Alla fin fine, per gli Jê i beni culturali più importanti provengono dall’esterno e vengono incorporati. Anche la conoscenza dei e sui bianchi può essere compresa in questa categoria. Ma la domanda è: cosa volevano ottenere con la scuola? Nel mio ultimo viaggio tra gli Apinaje per le mie ricerche sugli effetti dell’educazione scolastica tra i popoli indigeni del Tocantins e accompagnando anche la realizzazione di una diagnosi per la formazione del Territó Etnoeducacional Timbira, quando interrogati sull’importanza della scuola nel villaggio, la maggior parte dei professori risposero che la scuola era importante perché i bambini fossero sapienti. Questa categoria degli Apinaje significa che una persona sapiente è quella che, indipendentemente dal suo dominio della cultura apinaje, sa relazionarsi con il mondo dei bianchi, sa parlare e scrivere bene in portoghese e conosce anche la matematica, ma sempre oggettivando la conoscenza dell’Altro per difendersi. Queste conoscenze sono ancora più significative perché con esse è possibile relazionarsi in maniera più equilibrata con il mondo dei bianchi (mondo dei kupẽ). Ciò che gli Apinaje desiderano con la scuola è conoscere il mondo dei bianchi per amministrare questo Altro e sapere come relazionarsi con lui. Forse abbiamo qui una sorta di antropologia inversa (Wagner, 2010; Ramos, 2010), perché essi vogliono utilizzare la scuola per conoscere i non-indigeni, comprendere il mondo dei kupẽ e non venire da questi ingannati. Così, come vedremo più avanti, questo era il progetto anche degli AkwẽXerente per la propria scuola. In questo loro progetto iniziale non si prendeva in considerazione che l’installazione della scolarizzazione non-indigena implicasse necessariamente l’abbandono delle conoscenze tradizionali. Queste avrebbero continuato ad essere imparate negli ambienti tradizionali di apprendimento. Però, con la massificazione della scolarizzazione nei modelli dei contenuti universali simili a quelli delle scuole di fuori dei villaggi, ci fu una sovrapposizione delle sfere di competenza e la scuola cominciò ad occupare un tempo e uno spazio superlativi. Concomitantemente all’indebolimento delle pratiche tradizionali di formazione dei soggetti akwẽ (soprattutto degli uomini), la scuola è stata incorporata nel villaggio come uno dei principali luoghi di insegnamento, che fosse il tradizionale della cultura del popolo o che fossero le conoscenze dei non-indigeni. Questa massificazione ha portato l’imposizione di conoscenze che non erano presenti nei progetti dei popoli indigeni, come l’insegnamento di religione, geografia, storia, letteratura, fisica o chimica. Questa situazione generò la percezione che non fosse più necessario insegnare, in alcuni casi, le conoscenze tradizionali. Un argomento utilizzato per pensare la formazione e l’ampliamento dell’offerta di una educazione scolastica indigena, e perché questa fosse differenzia-

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ta, considerava che si dovessero portare nella scuola le conoscenze tradizionali con l’obiettivo del recupero culturale e, molto spesso, nel senso di salvare queste conoscenze attraverso una loro registrazione scritta. Questa è una posizione totalmente equivocata. Gersem Baniwa argomenta5 che la maggior parte delle conoscenze tradizionali, che formano la base dei modelli di vita dei diversi popoli indigeni, non sono fatte per essere trasmesse collettivamente, quanto piuttosto individualmente. Come ho potuto percepire tra gli AkwẽXerente, ci sono conoscenze che sono beni di proprietà clanica e questi non vengono trasmessi dai e neanche ai membri di altri clan. Allo stesso modo, conoscenze esoteriche sono segreti dei loro conoscitori e vengono trasmesse individualmente e solamente a quelli che vengono scelti attentamente all’interna della parentela prossima dallo stesso detentore della conoscenza. Per questo alcuni anziani a volte preferiscono morire con le loro conoscenze piuttosto che trasmetterle in un contesto o a qualcuno che possa indebolirle. Così, questa difficoltà nella gestione dell’educazione per i popoli indigeni ha spiragli dipendendo dal contesto di azione dei gestori dell’educazione e dalla posizione dei popoli indigeni di fronte allo stato colonizzatore. Nello Stato del Maranhão, la Segreteria di Educazione non è mai riuscita ad attuare in maniera effettiva nell’impiantare un’educazione scolastica indigena. Il Conselho Estadual de Educação Escolar Indígena è stato formato solo nel 2007 e non si riunisce con frequenza, in maniera tale che le decisioni amministrative vengono prese dai gestori della Segreteria e con un basso controllo sociale. In questo modo, la gestione segue i principi universalistici della Segreteria, applicabili a tutte le scuole. Così, le costruzioni seguono il sistema degli appalti e gli altri rituali burocratici e l’infrastruttura degli edifici è sempre molto precaria e costruita sul modello delle scuole non indigene. In poche scuole esistono laboratori di informatica, biologia, chimica, fisica o di qualsiasi altro tipo di insegnamento. I professori (indigeni e non-indigeni) vengono contrattati con un processo selettivo realizzato annualmente, processo che inizia in febbraio e si conclude solamente (con la firma del contratto) alla fine del primo semestre. Il che porta al compromettimento dell’intero periodo scolastico. Ma, a causa di questa “assenza” della gestione dei non-indigeni, di questa “inefficienza”, dei gestori, i popoli indigeni che vivono in quello Stato hanno un maggiore controllo sui contenuti e sul calendario delle scuole e sull’istituzione scolastica.

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Comunicazione personale.

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Azioni di educazione scolastica e Educazione Scolastica: i Timbira Vediamo alcuni esempi. I Pyhcopcatiji (Gavião), i Kríkati, i Krahô e i Canela (Ramkòkamekra e Apànyekra) hanno diversi rituali interconnessi che sono associati alla formazione del corpo e della persona (e della personificazione) dei soggetti. Si tratta di rituali di reclusione chiamati Ihcrere (Kríkati), Ihkreré (Pyhcopcatiji) e i Pẽpjê e Pẽpcahac dei Canela, che sono due differenti periodi di reclusione per i quali devono passare i ragazzi, oltre al Catyti (tra i Krahô, Pyhcopcatiji, Kríkati) e anche al Ketuwajê. In questi periodi i ragazzi ricevono l’iniziazione non solo attraverso l’accesso teorico a conoscenze, ma passano per un processo di trasformazione corporale, perché è in questo momento che essi apprendono a realizzare le restrizioni alimentari che sono fondamentali per una serie di future attività di questi giovani, sia per la corsa coi tronchi, sia per lo sviluppo delle abilità venatorie, che passano per l’apprendimento dei meccanismi di interlocuzione con gli animali e gli altri esseri dell’universo con cui cercano di avere una buona relazione, perché sono considerati, di fatto, come altri soggetti (Soares, 2010). È anche il processo che permette ad un ragazzo di iniziarsi negli studi sullo sciamanesimo. Questi periodi sono applicabili tanto ai ragazzi come alle ragazze. Alla fin fine, anche il lavoro negli orti implica la necessità di sapersi relazionare con gli altri soggetti di questo ambiente, perché la relazione con le piante può essere tanto pericolosa per le donne come gli animali lo sono per gli uomini e, quindi, è necessario stabilire con loro relazioni adeguate. In questi popoli timbira, i gruppi cerimoniali e politici che ancora continuano presenti e attivi e rinforzati politicamente (come i Prohkam dei Ràmkôkamekra) o le riunioni degli uomini nella piazza dei Kríkati e degli Pyhcopcatiji, riescono a porsi politicamente di fronte alle posizioni dei gestori delle Segreterie di Educazione. Le attività della scuola, così, vengono sospese e le ferie avvengono quando i bambini e le bambine passano per il processo di reclusione. Tra i Kríkati, ad esempio, le ferie sono di tre mesi e avvengono nei mesi di aprile, maggio e giugno per coincidere con l’IIhcrere e il Catyti. Così, anche con l’amministrazione dell’educazione scolastica sotto il controllo della Segreteria, che dispone solamente di non-indigeni per questi compiti, i ritmi delle attività scolastiche nei villaggi si adeguano ai tradizionali ritmi di vita. La formazione ed i processi propri di insegnamento/apprendimento, se non osservati e seguiti nelle pratiche pedagogiche delle scuole, almeno vengono utilizzati nella formazione tradizionale attraverso i rituali di iniziazione e di formazione di nuovi corpi e di nuovi esseri. Già nei casi in cui i gestori non-indigeni dell’educazione scolastica indigena sono più attivi e amministrano l’offerta più efficacemente (dal punto di vista

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amministrativo delle Segreterie) e ciò coincide con un popolo che non ha più le sue istituzioni etiche e morali rafforzate, allora si finisce per avere l’imposizione di un ritmo nella scuola che detta il tempo anche alla vita nella comunità. Vediamo il caso degli Apinaje. Questi, como popolo timbira, realizzavano tradizionalmente la formazione di nuovi ragazzi come gli altri popoli di questo gruppo, attraverso il Pẽpkaàk e il Pẽpkumrenx. Questi due momenti corrispondevano al Pẽpjê e al Ẽpcahac (Canela) o al Ketuwajê e al Pẽpcahac (Krahô). Però negli anni Trenta o Quaranta del XX Secolo questi rituali furono abbandonati6. Una epidemia di vaiolo (Nimuendajú, 1983 [1939]: 06) ha diminuito drasticamente la popolazione, restando pochi ragazzi in condizione di partecipare al Pẽpkaàk. Uno di questi era apprendista di uno sciamano e era sposato. Anche così egli fu messo in reclusione, nonostante le sue proteste. Avvenne che l’istruttore di questo gruppo morì (probabilmente per il vaiolo) senza completare gli insegnamenti. L’accusa per la morte fu attribuita alla stregoneria e l’accusato fu il giovane apprendista dello sciamano. Da allora i padri (o madri) sociali non si arrischiarono più a stabilire un altro gruppo. Le principali attività rituali degli Apinaje sono attualmente le feste associate alla fine del lutto: Mẽôkrepoxrundi e Pàrkapé7. Oltre a ciò ancora conservano fortemente l’istituto dell’amicizia formale, presente in tutti i villaggi8 e le persone sanno associare gli amici formali alle situazioni di liminarità provocate dalla situazione della morte. Quando ciò avviene, dopo una settimana dalla sepoltura, avviene una visita dei parenti consanguinei al tumulo del sepolto. In questa occasione, queste persone vengono bagnate con una mistura di acqua e corteccia di sucupira o gatingoso (legni duri e con un odore forte) dai loro amici formali. Sono questi momenti in cui, anche senza il rituale della consegna degli ornamenti, avviene la trasmissione dell’amicizia formale. Un’altra situazione rituale in cui gli amici formali vengono trasmessi è il Mẽ amjên. Si tratta del rituale in cui un fratello della madre (gêt) o una sorella del padre (tyi) di una persona tenta di infliggere, al proprio corpo, un danno sofferto da un nipote (tamxwà). Ad esempio, nel caso di un bambino che si è scottato con dell’acqua bollente il gêt o tyi ripete l’atto cercando di bruciarsi anche lui, o 6

Nimuendajú assistette e descrisse questo rituale nel 1937 (Nimuendajú, 1983 [1939]: 34-

46). 7 Per una descrizione di queste due feste si veda la mia tesi di dottorato (Giraldin, 2000: 225-245). 8 Nei villaggi della regione di São José si trovano ancora persone che praticano il rituale della consegna degli ornamenti che esplicitano pubblicamente le relazioni tra gli amici formali, lo stesso si verifica con frequenza nel villaggio Botica, che si trova nella regione del villaggio Mariazinha.

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ancora il caso di un bambino che si rompe una gamba giocando a calcio e il suo gêt cerca di ripetere l’atto tentando si soffrire lo stesso danno. In questa situazione gli amici formali di queste persone vengono avvisati e si presentano per impedire il consumarsi dell’atto. Un altro momento importante è il taglio dei capelli dei parenti in lutto, in occasione della realizzazione del Pàrkapê o del Mẽ okre poxrundi. Questo è il momento di chiusira del ciclo della vita della persona che è morta. È l’atto che provoca la separazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti, facendo sì che i mẽ karõ si dirigano verso il villaggio dei morti e i vivi si rafforzino. Ho potuto assistere ad uno di questi rituali nel mese di agosto del 20109. Le madri dei bambini aspettavano che la scuola dispensasse gli alunni dal periodo pomeridiano nell’orario dell’intervallo per la merenda (15:00) perché gli stessi potessero avere tagliati i capelli. Però ci si avvicinava già alle 16:00 quando le madri si recarono alla scuola per ritirare i loro figli dall’aula perché i professori non-indigeni non volevano interrompere le attività, con la scusa che dovevano compiere i 200 giorni scolastici definiti dalla legislazione e richiesti dalla Secretaria de Educação e dalla Supervisão Indígena della Direitoria Regional de Ensino. Fu necessario l’intervento del capo (anche lui un professore) e del direttore della scuola (anche lui un indigeno, panhẽ) perché le lezioni fossero sospese e tutti potessero seguire questa e le altre feste che stavano avvenendo. Momenti rituali come questi sono parte delle attività di trasmissione di conoscenze tradizionali attraverso le musiche che vengono cantate durante tutto il giorno nella casa che patrocina la festa; i cibi rituali che vengono preparati; i cesti che sono confezionati e le relazioni sociali che vengono stabilite o riaffermate dagli atti di presentare le persone che stanno eseguendo i canti o tagliando i capelli. Valori etici e morali vengono trasmessi in questi rituali e non lo saranno mai nelle aule scolastiche. Quando sono stato la prima volta tra gli Apinaje, nella metà degli anni Novanta, le riunioni nella piazza avvenivano quasi quotidianamente e le decisioni venivano prese in questa arena di discussione. Oggi quasi non ci sono più queste riunioni nella piazza, forse a causa anche della grande scissione che ha avuto luogo nel villaggio São José (come ho detto anteriormente). Questa istituzione politica si trova così indebolita e per questo gli Apinaje non riescono a contrapporsi al potere della Secretaria de Educação dello Stato e a nessuna altra agenzia statale.

9 Ricevetti in quell’occasioni richieste di ogni sorta di perline di vetro e di tessuti per gli altri che avvennero nell’anno seguente a causa delle morti occorse in quell’anno.

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Azioni di educazione indigena e educazione scolastica: gli Akwẽ-Xerrente Tra gli Xerente, l’istituzione formatrice delle basi etiche e morali dei giovani era il warã. Forse gli ultimi tentativi per formare un nuovo gruppo nel warã sono avvenuti negli anni Trenta o Quaranta. C’è oggi solo un anziano (Sr. Severo) nel villaggio Porteira che è stato iniziato, ma non ha concluso gli studi nel warã. Questo, per gli Xerente, si riferisce alla casa delle riunioni maschili nel centro del villaggio e anche all’istituzione responsabile per la formazione educativa degli uomini xerente. Dalle ricerche che porto avanti tra gli Xerente, contando con la partecipazione e la collaborazione di tre studenti universitari xerente che sono borsisti10, l’insegnamento tradizionale di quel popolo tradizionalmente avveniva in due luoghi: il warhĩzdare e il warã. Nel warhĩzdare (lo spazio della casa e dei suoi dintorni) bambini e bambine apprendevano indistintamente nell’ambiente domestico con i parenti consanguinei e gli affini. Raggiungendo la categoria di sipsa (giovane vergine), il ragazzo veniva portato al warã dove passava per diversi stati di apprendimento che i giovani ricercatori xerente attuali comparano agli stati di formazione non-indigena che vanno dall’educazione elementare alla superiore. Dovevano passare per sei fasi e solamente dopo averle completate tutte i giovani erano pronti per la vita e per il matrimonio (Nimuendajú, 1942: 53). Il Sr. Severo racconta che, per il fatto di non aver completato il warã, i suoi genitori realizzarono il suo matrimonio quando era ancora giovane (attorno ai vent’anni). Però lui trascorse un mese senza avere relazioni sessuali con la sposa e il matrimonio fu sciolto. La spiegazione che lui fornisce oggi è che non si sentiva pronto per sposarsi perché non aveva terminato gli studi nel warã. Solamente attorno ai quarant’anno egli soccombette alla situazione che non avrebbe mai terminato il warã e allora si sposò. Sia nell’ambiente domestico (warhĩzdare) o nel cerimoniale (warã), il processo di insegnamento e apprendimento si basava sui criteri di interesse, osservanza e ripetizione, mettendo così il centro del processo di apprendimento principalmente sull’alunno e sulle sue interazioni sociali. Nello spazio del warã anziani istruttori realizzavano attività con gli iniziandi per propiziare loro l’accesso alle conoscenze. I giovani permanevano nel warã sprovvisti di un qualsiasi ornamento o indumento. Portati in un ambiente al di fuori del villaggio in attività pratiche (caccia, pesca e raccolta), apprendevano a sopportare il freddo, a vincere il calore e a superare fame e sete. Il livello di apprendimento Borsisti del Programa Institucional de Iniciação Ciêntifica - Ações Afirmativas (Pibic - Af) del Conselho Nacional de Desenvolvimento Cientifico e Tecnológico, del Ministério de Ciência e Tecnologia (Cnpq). 10

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di ognuno si dava per l’interesse dimostrato da ogni giovane, a seconda delle sue condizioni11 e della sua capacità di osservazione e per la ripetizione delle attività. Per questo si trattava di più di un processo di apprendimento che non di insegnamento, poiché il centro del processo si situava nell’apprendista e nella sua dedicazione ad apprendere. Questa caratteristica del processo di insegnamento/apprendimento akwẽxerente contrasta con il processo di insegnamento/apprendimento dei nonindigeni, il quale si riflette nella predominanza di una educazione centrata sulla scuola12. In questa, il centro del processo viene collocato nella figura del maestro che deve insegnare. Egli viene considerato l’agente attivo mentre all’apprendista resta il ruolo di coadiuvante e passivo dell’apprendere. L’ambiente suppostamente adeguato per questo processo è la scuola. Il privilegio dello spazio scolastico deriva in funzione dell’enfasi sull’aspetto teorico della conoscenza in detrimento del pratico. Nello stesso processo di apprendimento degli Akwẽ-Xerente la centralità è nel pragmatismo, perché è nell’osservazione dell’esperienza pratica che gli apprendisti cominciano a conoscere. A partire da allora passano ad ascoltare con attenzione i discorsi, le canzoni, le conversazioni dei più anziani. Questo processo di ascoltare implica l’assimilare attraverso l’oralità e con l’esercizio della memorizzazione delle conoscenze acquisite. È in questo senso che un anziano (Srênomri, 59 anni) afferma che per conoscere è necessaria molta attenzione. Secondo lui: “gli antichi insegnavano che per imparare qualcosa oltre ad avere «buone orecchie» è necessario dormire tardi e svegliarsi presto, perché è fondamentale portare il visto e l’ascoltato più volte alla memoria” (Melo, 2010: 78). Il processo di insegnamento/apprendimento Akwẽ è, in questo modo, centrato sul protagonismo dell’apprendista. Nonostante sia espresso nella categoria dell’interesse, è in relazione direttamente con il processo di cognizione nella pratica di cui tratta Lave (1988, apud Codonho, 2007: 20). Questo apprendistato è frutto di una comunità di pratica, essendo socialmente contestualizzato e in relazione direttamente al contesto storico e sociale di ogni popolo. Oltre a ciò, questo apprendimento si fonda anche sulle capacità cognitive dei bambini, che sono considerate qualitativamente differenti da quelle degli adulti (Toren, 1993, apud Codonho, 2007: 20). Si capisce, quindi, che tra gli Xerente l’attitudine del maestro sia più nel senso dell’orientazione verso l’acquisizione Bisogna qui ricordare che c’era una grande variazione di età tra i membri dello stesso gruppo nel warã. 12 Mi ispiro qui in Jean Lave (1982) per questa nozione di educazione centrata sulla scuola tipica della società occidentale. 11

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della conoscenza attraverso la pratica, ma rispettando il desiderio di apprendere dell’alunno. Attualmente i miei orientandi xerente hanno mostrato che gli anziani criticano molto l’educazione scolastica esistente nel villaggio, perché il progetto degli anziani nel passato non era la sostituzione delle conoscenze tradizionali con quelle dei bianchi. L’intenzione era di accedere alle conoscenze dei bianchi per poterle così comprendere meglio e avere in questa conoscenza un’arma contro gli stessi. Però con l’interferenza inizialmente dei missionari battisti e poi dello Stato nell’offerta dell’educazione formale e universalizzatrice, oggi gli anziani riconoscono che hanno perso nei confronti dei bianchi perché la scuola ha incorporato appena gli insegnamenti che venivano trasmessi nel warhĩzdare e ha lasciato di lato le conoscenze etiche e morali che venivano trasmesse ai giovani maschi nel warã. Con ciò, secondo i più anziani, ci fu un rafforzamento delle conoscenze dei non-indigeni e un indebolimento delle conoscenze e della cultura tradizionali akwẽ. Secondo un orientando akwẽ, i corsi di formazione dei professori sono stati cruciali in questo processo, perché i professori indigeni che prima si approssimavano agli anziani per poter insegnare nella scuola i valori culturali xerente, cominciarono a ricevere la formazione nelle conoscenze dei non-indigeni e sono stati indirizzati a trasmettere queste nelle classi. Velocemente i professori si allontanarono dagli anziani e rimasero solamente con le conoscenze non-indigene. Cito testualmente: “Con la presenza dei non «indigeni» gli Xerente persero i loro propri processi di insegnamento che erano insegnati nel warhĩ e nel warã. Nel periodo dal 1930 al 1960 gli Xerente smisero l’insegnamento nel warã e continuarono l’insegnamento solo nel warhĩ. Con l’arrivo della missione evangelica battista i missionari studiarono la cultura e la lingua materna e elaborarono un fascicolo nella lingua materna senza lasciare che gli Xerrente perdessero l’insegnamento nel wahrĩ. I professori (e le professoresse) xerente insegnavano quello che imparavano nel warhĩ e i professori non-indigeni insegnavano in lingua portoghese per preparare gli alunni per frequentare la scuola dei non-indigeni fuori del villaggio. Quando i wawẽ13 avevano i loro ruoli di leader tradizionali rispettati, le conoscenze della cultura continuavano ed erano praticate da tutti. Ma gli invasori non-indigeni, per rompere il potere dei leader tradizionali, crearono un nuovo sistema di leader denominato cacique. Con ciò sono riusciti a interrompere la tradizione e la forza della forma di organizzazione sociale e a rompere la leadership tradizionale affinché gli Xerente potessero integrarsi alla comunione nazionale. Gli anziani xerente riconoscono che hanno fallito al permettere che gli invasori impiantassero il nuovo sistema. Nelle interviste loro dicono che i caciques oggi 13

Anziani.

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sono in gran parte giovani e inesperti, che non hanno il dominio della cultura xerente. Sostengono anche che è per questo che hanno difficoltà nelle discussioni pedagogiche per la costruzione di una proposta di educazione scolastica che offra la trasmissione delle conoscenze della cultura xerente. Tutti gli intervistati credono che i professori lavorano solo nella parte della scrittura della lingua materna e che loro non hanno il dominio della conoscenza della cultura xerente” (Xerente e Giraldin, 2010).

In questa maniera, per giungere alla condizione di poter insegnare elementi della cultura tradizionale, esiste la necessità di una maturazione prodotta dall’età e dal passaggio per i processi di apprendimento (come il warã). Per questo è previsto un tempo di maturazione che presuppone tutto il processo di memorizzazione, di osservazione dei discorsi tradizionali eseguiti dagli anziani e il tempo per partecipare all’organizzazione e alla realizzazione delle attività tradizionali e anche per stabilire dialoghi con i vari anziani al fine di ampliare sempre più le conoscenze. Uno degli aspetti osservati dai ricercatori xerente è che gli anziani indicano che i professori indigeni, oltre ad essere troppo giovani per insegnare (e ci sono anche le professoresse che avrebbero modo di insegnare le conoscenze che erano della sfera della casa degli uomini), oggi essi non hanno il tempo per fare ricerche. Uno dei ricercatori xerente intervista e registra da più di due anni i discorsi degli anziani per poter comprendere in maniera adeguata quali erano gli insegnamenti tradizionali che esistevano nel warã per cercare di capire cosa è successo dopo l’arrivo dell’educazione e della scuola non-indigene. Questa situazione rappresentata dal caso Akwẽ-Xerente ci aiuta a riflettere sull’educazione scolastica e sul ruolo delle consulenze alle scuole indigene. Da un lato possiamo percepire che l’educazione offerta ugualmente ai giovani (maschi e femmine) rimette immediatamente la scuola nella sfera del wãrhĩzdare dove i bambini e le bambine ricevevano gli insegnamenti dei loro familiari, con distinzioni di genere di sicuro, perché maschi e femmine imparavano cose differenti, ma senza che le conoscenze fossero definite come adeguate a solo uno dei generi. Ci sono conoscenze destinate ai bambini ed ai ragazzi nel warã, questi hanno smesso di essere offerti nella scuola e anche nello stesso warã. Allora, al lavorare con le conoscenze e i processi propri di insegnamento e apprendimento degli Akwẽ, perché la scuola sia differenziata e specifica dovrebbero essere rispettate le distinzioni tradizionali allora esistenti. Allo stesso modo, al lavorare con la produzione di materiale didattico per la scuola, quando si eleggono miti e narrazioni delle origini, ad esempio, possiamo contribuire per raggiungere solamente le conoscenze della sfera del wãrhĩzdare (destinate ad entrambi i sessi) e non le conoscenze specifiche per

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i generi. È sicuro che nelle prime fasi dell’insegnamento fondamentale i bambini akwẽ di entrambi i sessi possono avere accesso a conoscenze che sono della sfera del wãrhĩzdare. Ma nelle fasi seguenti, a partire dai 9 o 10 anni, per rispettare i processi propri di insegnamento e apprendimento degli Akwẽ, i libri didattici specifici dovrebbero essere differenziati per genere, con contenuti differenziati a seconda delle condizioni di ogni alunno. O almeno i libri per i bambini di questa fase (corrispondente alla classe d’età sipsà) dovrebbero avere contenuti in accordo con le conoscenze che i sipsà ricevevano nel warã. Ma, ad ogni modo, è necessario prendere sul serio ciò che dicono gli Akwẽ-xerente sulla scuola che vogliono e perché la vogliono. La loro scelta deve essere attesa con la migliore qualità possibile. Conclusione L’educazione scolastica offerta ai popoli indigeni, come presentato qui, dopo vent’anni di modello universalizzatore basato sull’inserimento dell’educazione scolastica nei villaggi, ci ha portato alla constatazione che affinché possa effettivarsi una educazione specifica e differenziata, diviene necessario creare un proprio sistema di educazione scolastica indigena. Alla fin fine, nonostante le orientazioni per l’offerta di una educazione differenziata, nella pratica l’educazione scolastica deve arrendersi alle esigenze dei tre sistemi esistenti fino ad ora: i sistemi municipale, statale e federale. In ognuno di essi, si segue lo stesso principio di avere un curriculum minimo di conoscenze dette universali. Così, il movimento indigeno ha stabilito nella risoluzione della I Conferencia Nacional de Educaçã Escolar Indígena, realizzata nel 2009, la necessità di creare un sistema proprio di educazione scolastica. Il primo passo è stato fatto con l’edizione del Decreto 6861/2009 della Presidência da Republica do Brasil, che ha istituito i Territórios Etnoeducacionais come una nuova forma di organizzare l’offerta scolastica indigena. Si spera che con questa nuova politica i diritti dei popoli indigeni vengono ad essere rispettati più attentamente.

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7. Dalle piume alle monete: oggetti, rituale e merci tra gli indigeni Xikrin (Mebengokre) del Brasile1 Cesar Gordon

Introduzione Questo testo riunisce alcune riflessioni sul tema degli oggetti all’interno del sistema rituale degli indigeni Mebengokre (più conosciuti pubblicamente con l’etnonimo Kayapó) dell’Amazzonia brasiliana. Tali riflessioni ricorrono a materiali etnografici da me raccolti sul campo, tra il 1998 e il 2006, con gli Xikrin del Cateté – uno dei sottogruppi Mebengokre – che vivono nella regione tra i fiumi Tocantins e Araguaia, nello stato del Pará. Gli Xikrin del Cateté formano una popolazione di circa mille persone. Questi dati verranno confrontati in maniera sistematica con altri materiali provenienti da altre etnografie sui gruppi Mebengokre (ad esempio: Turner, 1996, 1979a-c, 1984, 1991a-c, 1992, 1993b, 1995b; Dreyfus, 1963; Lea, 1986, 1992, 1995; Verswijver, 1983, 1992; Vidal, 1977, 1981; Giannini, 1991; Fisher, 1991, 1996, 1998, 2000, 2001) per comporre un’immagine generale della socio-cosmologia di questo popolo amerindio. Tali riflessioni sono parte di un programma di ricerca più generale, il cui obiettivo è di comprendere, da un punto di vista antropologico, il ruolo e il significato degli oggetti nel contesto etnografico amerindio. Il punto di partenza della ricerca è stato la constatazione del grande interesse dimostrato dagli Xikrin del Cateté per gli oggetti prodotti dai “bianchi”, in particolare il denaro e i beni industrializzati, così come la notevole pregnanza di questi oggetti in tutti i domini della vita indigena: parentela, economia, politica e rituale. Sono stato portato a capire che non era possibile parlare dell’uso del denaro e del consumo di beni senza parlare di una questione di fondo: la relazione degli Xikrin con i “signori” o gli inventori di tali cose: cioè i bianchi o kuben Una prima versione di questo testo è stata presentata al Séminaire Les Raisons de la Pratique del Laboratoire d’Anthropologie (Collège de France, Ehess), a Parigi. Ringrazio immensamente l’invito e i commenti di Philippe Descola e Dimitri Karadimas. 1

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(termine in lingua mebengokre che designa lo straniero e specialmente il non indigeno). Ciò conduce ad una discussione più generale sul regime simbolico mebengokre, che prenda in considerazione i loro modi di relazionarsi con l’alterità (Gordon, 2006). Il ruolo costitutivo dell’alterità, espresso nei processi di predazione o di appropriazione di potenze esterne – al gruppo locale, all’universo dei parenti e alla persona – è stato dimostrato in maniera consistente dall’etnologia americanista negli ultimi due decenni (si vedano ad esempio: Albert, 1985, 1988; Descola, 1987, 1993; Erikson, 1986; Fausto, 2001; Menget, 1985; Kaplan, 1984; Vilaça, 1992; Viveiros de Castro, 1992). Ciononostante i materiali etnografici dei popoli di lingua jê, come i Mebengokre, non sembravano contribuire gran che a queste formulazioni. L’etnografia dei gruppi jê è stata molto marcata dalla problematica dualista o dialettica e dall’influenza delle analisi del gruppo Harvard Museu Nacional Brasil Central (Maybury-Lewis, Terence Turner, J.c. Melatti, Roberto da Matta, Manuela Carneiro da Cunha, Anthony Seeger; si veda Maybury-Lewis, 1979). Allo stesso tempo, alcuni lavori sui Kayapó-Mebengokre – come quelli di Gustaaf Verswijver (1992), Vanella Lea (1986) e Isabelle Giannini (1991) – indicavano che una approssimazione con la problematica della predazione amazzonica sarebbe stata produttiva. Nel caso Mebengokre, la mitologia e le pratiche di guerra corroboravano l’idea che la costituzione e la riproduzione della società dipende dall’acquisizione di elementi ottenuti all’esterno, cioè originariamente posseduti da non umani o da stranieri. Ma, diversamente da altri gruppi amazzonici, l’espressione empirica della predazione come forma prototipica della relazione tra “io” e “altro” non si esprime, tra i Mebengokre, con il cannibalismo, con la caccia delle teste o con lo sciamanesimo, ma con la cattura di oggetti e espressioni oggettivate che potremmo chiamare artistiche, tecniche o estetiche – e con l’inserimento di questi oggetti nel sistema rituale. L’analisi del luogo degli oggetti nel sistema rituale kayapó ha reso possibile l’avvicinare questo gruppo al modello della “predazione ontologica” ed ai sistemi guerrieri-cannibali amazzonici, contribuendo ad un tentativo di riconfigurare la distinzione tra popoli jê del Brasile Centrale e popoli della foresta densa, il cui contrasto è stato analizzato da Viveiros de Castro nella sua elaborazione di un modello amazzonico (Viveiros de Castro, 1992) e successivamente ridefinito da Fausto (2001) nei termini di regimi centripeti e centrifughi. Il sistema mebengokre presenta tanto una logica appropriativa (più caratteristica dei regimi guerrieri, cannibali e predatori), quanto una logica di circolazione interna (più caratteristica dei sistemi pacifici, come quelli dell’Alto Xingu o dell’Alto Rio Negro). Il contributo principale del mio lavoro

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è stato la formulazione di una ipotesi che possa spiegare l’articolazione tra questi due modi di agire, simultaneamente presenti nella riproduzione sociale mebengokre. Produzione materiale e produzione di persone Per cominciare è interessante situare tali questioni nel quadro di una discussione sulla persona mebengokre e la sua costituzione. Per fare ciò è necessario parlare del regime di produzione in questa società indigena. In forma schematica, ci sono basicamente due modi di produzione materiale: da un lato una economia domestica, realizzata a livello di famiglie nucleari ed estese uxorilocali, finalizzata alla produzione degli alimenti quotidiani; dall’altro lato, una economia rituale, indirizzata alla produzione degli alimenti necessari per le performance rituali, ossia per la produzione di un tipo specifico di alimenti, denominati àkjêre o djàkjêre (“cibo rituale”). Queste due modalità di produzione attivano relazioni sociali differenziate: la prima si basa su relazioni di “sostanza” e coresidenza; la seconda su relazioni di parentela reale o presunta (ka’àk) che ritagliano differenti unità residenziali. È sempre importante osservare che questi modi di produzione materiale sono al servizio e possono essere compresi solo dentro un processo generale di produzione di persone. Non c’è altro obiettivo nella produzione materiale che non sia il suo consumo indirizzato alla produzione del corpo e della bellezza delle persone. Questo processo di produzione del corpo e della bellezza delle persone deve essere distinto analiticamente in due componenti. Il primo è associato in maniera generale alla fabbricazione della parentela: costituzione del corpo come un corpo umano, riconosciuto come uguale o simile a quello dei parenti, e costituzione della comunità stessa come un corpo. Il secondo è in relazione a una dinamica di trasformazione rituale, il cui significato è di creare o ristabilire differenze interne, funzionando come meccanismo propriamente riproduttivo. Pertanto abbiamo qui due momenti, direzioni o vettori dell’azione sociale kayapó: il primo che costituisce identità, il secondo che ripone le differenze necessarie per ricominciare il processo di produzione della parentela (Coelho de Souza, 2002). La mia tesi è che la riposizione di queste differenze sia qualcosa di più di una affermazione di differenze di tipo clanico o totemico (ossia differenze tra gruppi “equistatutari”), ma costituisca differenze di valore, bellezza e prestigio tra persone e tra famiglie o case. Tornerò su questo punto. Adesso descriverò brevemente queste due linee di azione sociale – identificazione e differenzia-

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zione – cominciando dalla costituzione corporale e in seguito concentrandomi sull’abbellimento della persona. Corporeità e maturazione Per i Mebengokre, lo sviluppo affettivo-corporale di una persona, dalla nascita alla morte, può essere visto come un processo di indurimento, associato a un determinato bilancio sanguineo e che culmina in un processo di abbellimento. Per ogni individuo, questo processo è costituito da una serie di trasformazioni di vari ordini (corporale, sociologico, psichico, metafisico), mediate, nelle diverse tappe del loro ciclo di sviluppo, da differenti relazioni sociali – che includono relazioni con i loro genitori, con i parenti paralleli, con i parenti incrociati, nominatori, amici formali, affini, oltre agli esseri della natura e del sovrannaturale, come animali e spiriti. Il feto in gestazione viene visto inizialmente come un volume liquido (kangô) e informe, i cui organi prendono forma attraverso iniezioni dello sperma paterno – e secondo alcuni informatori anche del sangue materno. Così, sono necessarie innumerevoli relazioni sessuali per formare e definire le parti del corpo del bambino (‘i = ossa e nhi = carne), il suo interno (kadjwöj) e la sua pelle o involucro (kà). È solamente durante questo stadio liquido o embrionale che i genitori devono avere relazioni sessuali. Inoltre solo in questa fase è possibile l’esistenza di altri genitori, o genitori collaboratori (co-genitori) che, avendo avuto relazioni sessuali con la madre, contribuiscono con il loro sperma alla formazione del corpo del bambino. Una volta che il feto passa per il primo processo di indurimento, cioè il passaggio da uno stato liquido e informe al corpo con ossa, organi, interno e involucro (pelle), divenendo un essere che già presenta “discrezionalità”, il che coincide approssimativamente con il primo trimestre di gestazione, solo allora lo sperma smette di essere il principale costituente del corpo del feto ed è necessario che si interrompano le relazioni sessuali, per il rischio di pregiudicare il bambino o di causare la generazione di un secondo feto, gemello (kra-bibo) del primo. A partire da allora, si crede che il latte materno (a ancora anche il sangue) sia responsabile per la buona crescita del feto. Il bambino si trova in uno stato pre-corporeo, per così dire, e estremamente suscettibile agli spiriti. Si noti che, anche senza il contagio fisico diretto, il vincolo del padre con il feto rimane, perché tanto lui quanto la madre devono obbedire a restrizioni alimentari, con il fine di non mettere a rischio la vita del bambino. A sua volta, un altro componente della persona, il karõ (anima, spirito o doppio) sembra essere

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presente dalla fase post-embionale, contenenuto nel sangue e nella carne, cioè all’interno (kadjwöi) del corpo del bambino. Dalla nascita fino allo svezzamento il bambino è ancora considerato fragile o molle (kà rerekre). Dopo questa età, in cui cammina da solo e viene alimentato e curato dai genitori, si dice che egli abbia già la pelle dura (kà töjx), non dura come quella di un adulto o di un vecchio, ma il sufficiente per poter partecipare agli importanti rituali che gli confermeranno pubblicamente l’insieme di nomi e prerogative rituali che riceverà dai suoi parenti (zii e nonni). Questo significa che essa è già dura il sufficiente per sopportare il potere trasformativo e la bellezza dei grandi nomi senza correre rischi di vita. I grandi nomi cerimoniali, cioè i nomi belli (idji mejx o idji kati) sono pericolosi e considerati àkrê (feroci, violenti, selvaggi) e non possono essere trasmessi ad un bambino molto piccolo. Bisogna notare che tutti i gruppi mebengokre possiedono tradizionalmente un insieme di beni simbolici, che includono nomi personali e prerogative cerimoniali (nêkrêjx), che funzionano come segni distintivi individuali e collettivi. Secondo quanto ha indicato Lea (1986), nomi e nekrejx sono proprietà di certe persone o famiglie e vengono trasmessi da individuo a individuo e da una generazione all’altra per mezzo di una regola fissa, coinvolgendo le categorie della parentela2. È possibile che l’insieme di nomi e prerogative abbia costituito in passato un sistema di tipo clanico-totemico, come li conosciamo in altri gruppi di lingua jê e bororo. Ma, per qualche ragione, nomi e prerogative divennero oggetto di dispute per il fatto che costituiscono una ricchezza simbolica. Essi divennero strumenti per stabilire differenze gerarchiche e di prestigio all’interno del gruppo. Famiglie e individui tentano di accumulare questi beni, controllando rigidamente il meccanismo di trasmissione, mediante prestiti e restituzioni, perché così si evita una dispersione dell’oggetto o del nome, come ha ben mostrato Lea (1986). L’obiettivo dei grandi rituali mebengokre è quindi quello di conferire o confermare, pubblicamente e collettivamente, i nomi e le prerogative cerimoniali che sono state trasmesse ai bambini dai loro nominatori. In principio, i bambini possono partecipare alla vita cerimoniale solo dopo aver acquisito una certa maturità o consistenza corporale, fisica, comportamentale e affetti2 Un tale meccanismo di circolazione verticale è ben documentato nell’etnografia dei popoli jê ed è sufficiente qui ricordarlo brevemente. Un ragazzo riceve nomi e nêkrêjx da uno o più parenti maschili della categoria ngêt, che include MB, MF, MM, FF, ecc. Una ragazza li riceve da una o più parenti femmine, della categoria kwatyj, che include FZ, MM, FM, ecc. In relazione a tali parenti, “ego” in entrambi i sessi (cioè chi riceve) fa parte della categoria tàbdjwö.

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va, che si esprime con la capacità di parlare (kaben), di comprendere (mari), di camminare (mrãnh), oltre all’indurimento della pelle che ho detto più sopra. Un aspetto della potenza e della bellezza dei nomi proviene dalla loro origine “esterna” e “animale”, come si deduce dalla mitologia. Per i Mebengokre, i grandi nomi sono originari da esseri sovrannaturali associati al dominio acquatico (pesci mitici). Gli indigeni li avrebbero ottenuti attraverso sciamani che li rubarono ai pesci. Ma la forma presente di apprendere i nomi belli continua avvenendo alla stesso modo del tempo mitico: è sempre necessaria una trasformazione sciamanica che permetta il contatto con gli animali o altri esseri della natura, come piante, alberi, che si presentano, quindi, come persone agli occhi dello sciamano, conversano con lui e gli insegnano i nomi3. Ugualmente la potenza e bellezza delle prerogative cerimoniali proviene anch’essa da una origine esterna. Molti ornamenti piumari, oggetti cerimoniali, canti e anche intere cerimonie sono state ottenute da altri popoli stranieri nel corso della storia mebengokre. Oltre a ciò, la stessa origine dell’arte piumaria è pensata ed espressa nel mito come il risultato di una azione predatoria degli indigeni contro un gigantesco uccello sovrannaturale e cannibale. Proprio per questo è importante la maturazione e l’indurimento corporale, che rendono la persona adatta ad entrare in contatto con la potenza dei nomi, senza i rischi di una metamorfosi letale (malattia e morte). La maturazione del corpo è in relazione diretta con ciò che ho denominato equilibrio sanguineo. Di fatto, la questione della proporzione e della qualità del sangue nel corpo è importante fino alla fine della vita di una persona. “Il sangue è considerato duro (toi) [töjx] e deve essere mantenuto in una giusta quantità: se l’individuo possiede poco sangue diventa molle (rerek) e giallo, incapace di sostenere il karon; se possiede troppo sangue diventa pigro (kangare)” (Giannini, 1991: 148).

È necessario anche mantenere la qualità giusta del sangue, perché lasciarsi contaminare dal sangue degli altri (animali, nemici) può essere tanto mortifero quanto la perdita del sangue stesso. Ciò perché il sangue è il veicolo e il supporto materiale del karõ, come ho detto prima. Il contatto immediato con sangue esogeno implica l’assorbimento di un karõ esogeno, risultando in una malattia e eventualmente nella morte.

La differenza è che questo viene fatto oggi in maniera attenuata in confronto agli eroi mitici. Gli sciamani contemporanei sono solo un’ombra degli sciamani mitici in termini di potere e capacità di trasformazione. 3

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Le donne sono considerate meno dure (töjx) degli uomini, perché sono più piene di sangue (tàb, che può essere tradotto come “impregnato” ed è esattamente la stessa parola per “crudo”). Nel corso della vita le donne non passano, ad esempio, per le successive scarificazioni e altri atti di indurimento come gli uomini. Gli anziani, a loro volta, dopo lunghi anni di dedicazione e di attenzione verso i propri parenti (figli e nipoti) diverranno rinsecchiti e con poco sangue nel corpo, saranno fisicamente “deboli” (rerekre), ma con la pelle “secca” o “dura”. Fino a quando arriverà, infine, la liberazione del suo karõ e la morte. Anche così, sarà necessario ancora un ultimo atto di essiccazione totale del sangue e della carne, che si ottiene con la sepoltura. Questa è come una “cottura” finale del corpo umano, perché il karõ lo abbandoni definitivamente. Resteranno solo le ossa, la parte più dura dell’organismo umano. I morti mebengokre vengono sepolti in tumuli che ricordano il forno di terra denominato ki e la putrefazione del cadavere viene pensata come un processo di graduale trasformazione della persona morta dalla sua forma sociale corporea alla forma incorporea di un fantasma, pura bianchezza, come ossa o ceneri (Turner, 1988: 203). Tutto questo può essere meglio capito con l’aiuto del grafico di sotto che mostra lo svolgersi del ciclo di vita, lungo due assi di analisi. L’asse verticale si riferisce ai gradi dell’incarnazione. L’asse orizzontale si riferisce al processo di maturazione corporale.

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Si riconoscono, quindi, due piani nel ciclo di vita di una persona. Il primo può essere visto come un processo continuo di maturazione, stagionamento o indurimento corporale, cominciando dallo stato fetale liquido e culminando con la dissoluzione di tutte le parti molli dell’organismo nella morte e nella sepoltura (quest’ultima associata all’essiccatura o cottura finale del corpo), perché restino solo le ossa. Simultaneamente c’è un movimento di costituzione e scioglimento corporale che può essere rappresentato da una curva come una parabola inversa. La prima fase della vita di una persona è quella in cui, a partire da uno stato informe, ella comincia a guadagnare un corpo e letteralmente si incarna. Questa fase culmina con l’iniziazione dei giovani menõrõnyre (uomini iniziati, ma ancora senza figli) che, con la loro controparte femminile (le giovani della pubertà e post-pubertà, mekurerere) sono l’epitome del corpo mebengokre. I menõrõnyre occupano una posizione simbolica di risalto e vengono associati allo strumento musicale maracas e alla società come un tutto (Vidal, 1977), proprio perché essi sono il punto alto, lo zenit per così dire, della corporeità mebengokre. Essi sono la più perfetta traduzione corporale, la forma più piena di un corpo umano. Essi sono ciò che c’è di più corporificato e, per questa ragione, sono anche considerati belli, attraenti e sessualmente desiderabili. Ma questo non significa che i loro corpo siano pienamente duri e maturi. I menõrõnyre non possono, ad esempio, manipolare certe materie prime considerate pericolose (Silva, 2000); non possono ripartire la carne di caccia; non possono realizzare certe attività sciamaniche, per il rischio di invecchiare rapidamente e morire. Se loro, da un lato, sono l’apice dell’ideale di corpo, dall’altro ancora non hanno raggiunto la maturità e durezza necessarie per stabilire e operare diversi tipi di relazioni e azioni, soprattutto quando queste relazioni coinvolgono contagi con agentività o soggettività non umane, animali, spiriti, nemici. Per altro verso, gli adulti con figli (mekare) sono più maturi e capaci di fare queste operazioni, però non stanno più all’auge corporale. Essi è come se si decorporificassero progressivamente nel corso della vita, facendo figli e trasferendo la loro sostanza corporale ai figli e ai nipoti. Gli anziani, a loro volta, possiedono un grado maggiore di maturazione e allo stesso tempo un grado maggiore di “decorporificazione”, trovandosi di fatto in uno stato propizio alle attività sciamaniche, di cura, e per tutte quelle che riguardino il contatto con altre agentività e soggettività spirituali non umane. Il processo di scioglimento del corpo si completa con la fine della vita e con la disgiunzione corpo-spirito, come ho descritto. La morte è pensata come l’allontanamento definitivo del karon. Senza il suo componente attivo e agentivo, il corpo umano diventa solo materia inerte e morta (metyk), pronta a

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decomporsi. Ma se il corpo scompare e il karõ si perde, adesso inutile per dare prosecuzione alla produzione e riproduzione della vita umana (divenendo al contrario una minaccia), un’altra cosa resta oltre alle ossa: i nomi, le prerogative e gli oggetti cerimoniali, che potranno continuare a circolare tra i vivi abbellendoli. Torniamo così alle cerimonie e all’abbellimento. Abbellimento rituale I bambini omaggiati o onorati durante i rituali sono denominati mereremejx, espressione che denota un significato vicino a “coloro a cui si da/concede la bellezza”, “coloro che diventano belli”. I genitori dei bambini celebrati vengono chiamati mekrareremejx, cioè “coloro i cui figli divengono beli”. L’importanza del rituale per l’ottenimento di questa qualità bella (mejx) è abbastanza chiara: i nomi vengono detti kajgo, ossia inutilmente belli, falsamente belli, senza un vero effetto di valorizzazione o bellezza, se non vengono confermati durante un rituale adeguato4. I rituali di nominazione seguono quasi tutti la stessa struttura di base. I genitori dei bambini omaggiati patrocinano la festa, fornendo alimenti ai partecipanti e garantendo le condizioni materiali della cerimonia. Nel momento del rituale, essi sono solo spettatori e non danzano con i loro figli. I ballerini e cantanti passano di fronte alle case dei bambini celebrati, da dove essi escono, interamente ornati, con i loro nominatori (zio materno o nonno, nel caso di un ragazzo; zia materna o nonna, nel caso di una ragazza). I rituali si fondano sulla metamorfosi degli indigeni in animali, a cui viene attribuita la proprietà originale mitica della bellezza e dell’agentività. Così, attraverso una serie di metamorfosi rituali, i nomi e gli oggetti cerimoniali sono simbolicamente riconnessi ai loro signori originari, sono revivificati, acquisendo allora nuove capacità rigenerative e differenziatrici. Il rituale, quindi, procede a una risoggettivazione di nomi e e oggetti, dotandoli di un valore sacro. Questa risoggettivazione avviene nella misura in cui i partecipanti al rito si trasformano in quegli esseri da cui hanno catturato nomi e nêkrêjx. Si trasformano in uccelli e giaguari, diventano pesci, armadilli e scimmie. Ma divengono ugualmente stranieri e nemici umani, da cui si appropriano di canti (che intonano in alcuni rituali), di artefatti e ornamenti (che portano e con i

Si osservi che ogni insieme di grandi nomi è associato a un tipo di rituale specifico. Così, c’è un rituale per il nome maschile Bep, diverso dal rituale per i nomi Takàk (maschile) e Nhàk (femminile) e così via. Per una descrizione più dettagliata si veda, ad esempio, Lea (1986). 4

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quali ricoprono il corpo durante le cerimonie). Turner indica che nei momenti rituali: “la piazza centrale del villaggio è piena di esseri coperti di piume, denti e artigli di animali [ma anche di ornamenti e elementi presi da altri popoli] e pitture che rappresentano specie di animali, uccelli o pesci, eseguendo passi di danza e canzoni che furono apprese da questi a da altri esseri «naturali» [ma anche presi da altri popoli] e molto spesso, ancora, pronunciate in prima persona, come se l’autore dei versi, animale o pesce, stesse lui stesso lì a cantare” (Turner, 1991: 18).

Certamente questa animalizzazione rituale si propone, alla fin fine, la distinzione tra umani (mebengokre) e non umani, il rituale sta lì per raccontare come, giustamente, gli animali erano i proprietari di questi elementi e capacità nel tempo passato (mitico) e che li hanno persi a favore dei mebengokre, che sono i loro signori nel tempo presente. Però, oltre a questo, le trasformazioni rituali funzionano anche per riaffermare le differenze interne agli stessi mebengokre. L’aspetto clanico o totemico è in certa misura presente ed è messo in risalto per il fatto che i rituali forniscono il contesto perché gli oggetti cerimoniali siano visualizzati e esplicitati di fronte a tutta la comunità come emblemi di determinate persone e famiglie. Le performance rituali stesse possono essere viste come un ordinamento temporale e spaziale di differenti beni cerimoniali. Di fatto, la corretta distribuzione degli insiemi di ornamenti, ruoli, funzioni e canti durante la festa, il loro apparire nel mezzo della piazza del villaggio seguendo la sequenza corretta e nella corretta disposizione o posizionamento, indica armonia, simmetria e bellezza. In un certo senso, ciò rende bella la festa. Ciononostante, c’è un altra forma di differenziazione rituale, che è l’acquisizione individuale e non più collettiva della bellezza. Io suggerisco che la conversione di oggetti e nomi cerimoniali in ricchezza simbolica è strettamente associata all’aspetto animista o prospettivista del rituale. Forse questo può diventare più chiaro se facciamo un esercizio: avvicinare o adattare il rituale mebengokre allo schema del sacrificio proposto da Viveiros de Castro per il cannibalismo araweté e tupinambá (Viveiros de Castro, 1986; 2002). Ispirato da Lévi-Strauss (in particolare dalla dissoluzione del totemismo, realizzata dall’antropologo francese in “Il Totemismo Oggi” del 1962), Viveiros de Castro propone che si tratti il fenomeno sacrificale come uno schema generico di relazione tra termini la cui cristallizzazione in determinate forme, uomini o dei (o animali sovrannaturali), ad esempio, sia contingente. Secondo lui, lo schema generico del sacrificio nel caso delle cosmologie amazzoniche è il prospettivismo.

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Così, se come sto suggerendo la predazione mebengokre non è una predazione cannibale, se essa non è destinata a divorare effettivamente nemici (come i Tupi), o morti (come gli dei araweté), ma è una predazione che cattura parti oggettivate di altri esseri del cosmo, espressioni estetiche e tecniche, come nomi, canti, ornamenti, oggetti, allora quale sarebbe l’equivalente mebengokre del rituale cannibalico tupinambá o del cannibalismo escatologico araweté? Questo equivalente mi sembra essere giustamente la confermazione cerimoniale di nomi e nêkrêjx. Se il rituale di confermazione onomastica può essere visto come un sacrificio, è possibile portare avanti l’ipotesi con un esercizio analitico. In maniera schematica e aiutandomi delle posizioni sacrificali messe in risalto da Viveiros de Castro (2002: 461), suggerisco che i soggetti del sacrificio (cioè del rituale di confermazione) sono coloro che passano per il processo di abbellimento: i nominati o celebrati, cioè coloro che risulteranno belli, mereremejx. L’oggetto del sacrificio, ciò che viene consumato ritualmente, non è nessun prigioniero o vittima, ma possono essere solo nomi e nêkrêjx che sono stati ottenuti da non umani (co-soggetti del sacrificio), sia nei tempi mitici, sia nei tempi storici. Risoggettivati, nomi e nêkrêjx sono, allora, incorporati negli individui (e nel corpo collettivo), cominciando a comporre una parte bella o un aspetto bello della persona stessa e dell’umanità mebengokre in generale. Questa incorporazione può essere vista come un consumo di nomi e nêkrêjx, perché essi vengono riconosciuti collettivamente come parte degli individui che li portano, non potendo circolare incondizionatamente, la circolazione indebita viene considerata un furto. Come è stato visto, perché l’oggetto del sacrificio permetta il cambiamento della condizione della persona, che emerge veramente bella dal processo, è necessaria la sua risoggettivazione; è necessario che questi oggetti prendano vita e siano riconnessi alla loro origine. Ciò viene raggiunto con le trasformazioni rituali attraverso cui passano tutti i partecipanti del rituale. Queste trasformazioni, a loro volta, richiedono i segni della relazione con l’Altro che è stata stabilita sia con la mediazione sciamanica, sia con la mediazione guerriera, in altre parole gli oggetti cerimoniali: nomi e nêkrêjx. Le piume e le uova degli uccelli, i denti del giaguaro, le pitture, i pezzi di conchiglia sono necessari per metamorformizzare i mebengokre in uccelli, pesci, giaguari. Simultaneamente, all’eseguire i passi della danza e i canti degli uccelli, dei pesci e dei giaguari, i mebengokre fanno una metamorfosi (risoggettivano) dei propri nomi, degli ornamenti e delle stesse parole che un tempo erano state estratte da questi esseri e, adesso, sono parte dell’umanità mebengokre, in maniera che essi rivivano nuovamente in tutte le loro qualità potenti e belle, vestigi del tempo delle origini, del tempo passato.

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Il rituale è un momento di risoggettivazione del cambiamento controllato di prospettive, nel quale, per mezzo dei segni della relazione con l’Altro, i Mebengokre divengono ritualmente questi Altri, permettendo che i celebrati e il corpo collettivo escano belli dal processo. Utilizzando una analogia, i rituali funzionano come una specie di “ricarica delle batterie”. L’oggetto (nome o ornamento) è come una batteria, che rimane in certa misura inerte (senza agentività) fino a che non sia “ricaricata” per mezzo delle metamorfosi rituali, che reinscenano la connessione mitica, originale, tra tali oggetti e i loro proprietari primordiali. Così, per ottenere gli effetti della bellezza non basta che un bambino riceva nomi e prerogative da alcuni parenti. È necessario che questi beni siano revivificati (o sacralizzati) nel rituale. Ma, se il rituale è il momento della risoggettivazione, la nostra analisi permette di mostrare che esso è anche, allo stesso tempo, un momento di oggettivazione massima di tutte le relazioni sociali, presenti e passate, che possono propiziare lo stesso momento rituale: tanto le relazioni interne, cioè tra parenti (delle quali i celebrati, i loro nomi e nêkrêjx sono oggettivazioni, nel ruolo di figli reali, figli ka’àk, nominati e amici formali), quanto le relazioni esterne, cioè le relazioni di cattura tra i mebengokre e altri tipi di persone, non umani (dei quali nomi e nêkrêjx sono oggettivazioni). Gli stessi oggetti sono segni di differenti tipi di relazioni sociali, che si stabiliscono su due assi di azione: differenziazione e identificazione, o per utilizzare i termini di Fausto (2001): predazione e familiarizzazione. I belli e i comuni Una caratteristica interessante del sistema è che i rituali mebengokre, nonostante siano attività collettive, possiedono una dimensione privata. Essi devono essere patrocinati dai genitori e familiari dei bambini. Così, le famiglie hanno sempre speso grandi sforzi produttivi per promuovere le cerimonie di nominazione dei loro figli, attivando certe relazioni di parentela con l’intento di provvedere agli alimenti rituali necessari all’organizzazione della festa e garantire ai bambini la condizione di persone belle (me mejx). Il problema è che non tutti riescono a farlo. Secondo Vanessa Lea (1986: 162), una coppia riusciva a realizzare, in media, solo due cerimonie di nominazione per i suoi figli nel corso della vita. Ciò motivava anche i nonni coresidenti dei bambini a svolgere il ruolo che spetta ai mekrareremex, aiutando nel pagamento delle feste dei loro nipoti. Gli Xikrin dicevano a Lux Vidal, con drammaticità e una punta di orgoglio, che quando facevano una cerimonia di nominazione Bep, “la madre dei bambini Bep di-

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ventava molto magra da quanto lavorava” (Vidal, 1977: 111). Terence Turner è stato il primo a osservare che, tra i Kayapó-Gorotire, non tutti i bambini passavano per la festa di nominazione, dato che non tutti i genitori avevano “l’energia necessaria o le connessioni di parentela estese a sufficienza per mobilizzare il lavoro e la produzione di alimenti, la cui fornitura è responsabilità dei genitori in quanto patrocinatori delle cerimonie di nominazione” (Turner, 1966: 173). Gustaaf Verswijver (1992: 78) notava che, nel 1980, solo il 28% degli adulti kayapó-mekrañoti avevano partecipato a cerimonie di nominazione, diventando me mejx. Orfani o bambini i cui genitori consanguinei e adottivi (ka’àk) erano poco numerosi, poco attivi o non erano abbastanza prestigiosi per sostenere la quantità di cibo necessaria non riuscivano a realizzare debitamente l’iniziazione e dovevano passare per procedimenti differenti dagli altri che li completavano in maniera adeguata. La situazione era imbarazzante, perché si considerava vergognoso e indesiderato venire iniziato in questa maniera. Il sistema cerimoniale creava, di conseguenza, una divisione interna espressa esplicitamente nel discorso degli indigeni: una differenza tra persone belle (me mejx) e persone comuni (me kakrit). Alcuni autori tendevano a minimizzare l’importanza di questa differenza, tanto nel proprio contesto rituale, quanto al di là di esso. Ma considerando tutta l’importanza morale e estetica contenuta nel concetto di mejx e considerando il grande sforzo produttivo speso da genitori e parenti, risulta chiaro che la divisione tra persone belle e comuni (persone con nomi ritualmente confermati e persone senza nomi confermati) possedeva un lato politico, perché era associata a parentele forti, legami politici riconosciuti, ecc.; relazioni queste che stavano alla base anche della scelta di determinate posizioni di leadership. Esiste una congiunzione di diversi aspetti a costituire quelle persone considerate piene di “capacità sociali”, cioè i me mejx, la “gente buona”. Esse sono persone con parentele forti o grandi, la cui importante capacità produttiva assicura loro la partecipazione alle cerimonie, la confermazione dei nomi cerimoniali, l’apprendimento delle loro prerogative cerimoniali, l’acquisizione di status, posizioni di prestigio, funzioni di comando, ecc., attualmente denaro e merci. La manutenzione delle posizioni di prestigio e di potere politico dentro il gruppo implica una ricerca per l’abbellimento rituale e quindi il controllo di segni e oggetti che lo rendono possibile. Così, il punto cruciale è comprendere i beni cerimoniali e il diritto di trasmetterli come marcatori di prestigio, status e distinzione personale e collettiva.

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La perdita di valore degli oggetti cerimoniali Fino a qui ho parlato di come gli oggetti cerimoniali acquisiscono una qualità differenziatrice straordinaria, espressa nella nozione di bellezza. Voglio menzionare adesso un altro aspetto, che è la possibilità degli oggetti cerimoniali di perdere valore. Questo aspetto è associato alla questione della circolazione. Se la confermazione rituale ricarica l’energia delle batterie (gli oggetti), conferendo loro un valore eccezionale, la trasmissione generazionale li scarica. La circolazione eccessiva funziona come un meccanismo inverso a quello della risoggettivazione rituale, ossia essa causa la svalorizzazione e l’oggettificazione di un bene. Oggettificato, esso diventa qualcosa di comune, qualcosa che può essere di uso generalizzato nel gruppo, però meno interessante per quelle persone e famiglie che ambivano il prestigio e la distinzione. Pertanto, perché questi oggetti siano capaci di conferire bellezza e prestigio è necessario simultaneamente controllarne la trasmissione (evitando che si spargano troppo, svalorizzandosi e diventando meri oggetti) e garantire la loro risoggettivazione rituale. Per comprendere questa affermazione, possiamo avvalerci, metaforicamente, di una dicotomia resa celebre da Lévi-Strauss (1971) e considerare gli aspetti belli (straordinari) e comuni (ordinari) di nomi e nêkrêjx come aspetti crudi e cotti. Evoco qui un recente lavoro di Fausto (2002) in cui l’autore discute la distinzione tra cannibalismo e alimentazione nei sistemi amazzonici e il problema posto dal consumo di cacciagione in un universo trasformativo in cui gli animali sono “persone” e il contagio, in generale, derivante dall’ingestione di carne o sangue ha la capacità di effettuare metamorfosi. Secondo lui: “ci sarebbero (…) due modalità di consumo: una, cotta, il cui obiettivo è di alimentare in senso stretto; l’altra, cruda, il cui fine sarebbe di appropriarsi della capacità animica della vittima” (Fausto, 2002: 18). L’autore propone di ridefinire il cannibalismo come “consumo della parte attiva dell’altro” (: 33). In questa maniera: “è cannibale ogni divorare (letterale o simbolico) dell’altro nella sua condizione (cruda) di persona, condizione che è il valore default. Già il consumo non cannibale [alimentare] presuppone un processo di desoggettivazione della preda” (Fausto, 2002: 19).

Trasportando il modello al caso mebengokre, siamo adesso nelle condizioni di comprendere meglio l’apparente paradosso di una appropriazione animica (“cannibale” nei termini analitici di Fausto), che si fonda sulla “predazione ontologica”, ma che non si presenta empiricamente come cannibale. Ho so-

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stenuto che ciò che Fausto chiama “parte attiva” dell’Altro è, nell’universo mebengokre, appropriata nella forma di oggetti, nel senso stretto dell’oggettivazione tecnica e estetica dell’Altro (nomi, cerimonie, canti, ornamenti, armi, materie prime, ecc.), che vengono consumati “crudi” nel momento rituale. In altre parole, ho suggerito che la confermazione rituale di nomi e nêkrêjx è un momento in cui essi sono risoggettivati e consumati nel loro aspetto crudo. Nell’universo mebengokre non possiamo parlare di cannibalismo rituale ma di ritualismo cannibale. Voglio soffermarmi adesso sull’idea di cottura come desoggettivazione. È necessario comprendere, come nota Fausto (2002: 17-18), la soggettivazione come un processo complesso, che richiede differenti operazioni, delle quali la cucina è appena una tappa. Ad ogni modo, possiamo dire che la cottura è il processo che permette di fare dell’animale cacciato un cibo: qualcosa che, desoggettivato, si presta alla circolazione universale tra i Mebengokre. Per altro verso, come contraltare, anche la stessa circolazione può essere vista come un tipo di cottura o un processo di desoggettivazione. È così che intendo la svalorizzazione dei nêkrêjx che circolano troppo e divengono “cose di tutti”, smettendo di essere veramente belli, divengono comuni. Apertura all’esterno: i bianchi, il denaro e le merci Questo gioco che produce valore ma allo stesso tempo permette una possibile svalorizzazione, conferisce al sistema una dimensione dinamica e aperta. Storicamente, ciò si è riflesso nel carattere centrifugo della società mebengokre, che ha sempre praticato la guerra con l’obiettivo di ottenere nuovi elementi per la sua economia politica del valore e della bellezza. Adesso, quando i bianchi sono sorti nella vita dei Mebengokre, tra la fine del XIX e l’inizio del XX Secolo, portando una quantità tanto affascinante di novità e oggetti, essi sono diventati il centro delle motivazioni di cattura e di rinnovamento degli insiemi di distintività. Le merci sono diventate i nuovi nêkrêjx. Adesso siamo nelle condizioni di affrontare la questione dell’incorporazione delle merci, riprendendo i dati etnografici xikrin. Attualmente gli Xikrin mantengono una relazione con il denaro e con i beni industrializzati che, per mancanza di un termine migliore, ho chiamato “consumo inflazionario”5. Ossia, c’è una domanda sempre crescente di denaro Il mio utilizzo dell’espressione “inflazione” per parlare dell’economia xikrin non è propriamente l’uso corrente del termine nella teoria economica, dove indica, grosso modo, la perdita di valore di mercato o il declino del potere di acquisto del denaro. Ciò che voglio dire 5

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e beni industrializzati. L’impressione del visitatore che arriva al villaggio è che ci sono troppi oggetti che mediano le relazioni tra le persone e che gli indigeni sembrano troppo materialisti o consumisti. Beni industrializzati si trovano ovunque nel villaggio e sono in relazione con tutte le attività quotidiane. Gli indigeni non si interessano solo degli oggetti destinati alla produzione materiale o di sussistenza. Al contrario, c’è un gran desiderio di beni industrializzati che noi siamo abituati e vedere come beni “di lusso” (bibite gasate, vestiti e accessori, televisioni, frigoriferi, elettrodomestici, antenne paraboliche, lettori Dvd, automobili, ecc.). Questo desiderio sembra non trovare soddisfazione. Dal 1988, anno in cui per la prima volta sono stato con gli Xikrin, al 2006, la mia visita più recente, i cambiamenti nel livello di consumo sono impressionanti. Nel 1988 non c’erano case di mattoni, né elettricità, né automobili. Nel 2005, tutte le case erano di mattoni, il villaggio era stato interamente elettrificato, c’era quasi una decina di veicoli. È comune vedere parcheggiata accanto alla casa degli uomini al centro del villaggio una luccicante macchina rossa, con i vetri scuri e i cerchi in lega, che appartiene al figlio del capo. Il denaro sta nella testa di tutti. Molte conversazioni nella casa degli uomini o nell’ambiente domestico della periferia delle case ruotavano attorno al denaro (piôkaprin)6. Tanto a livello individuale quanto collettivo, gli Xikrin perdono molto tempo e molte energie elaborando strategie di aumento del loro potere acquisitivo e di consumo di oggetti manifatturati. Quando la bellezza diventa ricchezza In questo senso, stiamo assistendo in ciò che avviene con le merci e con il denaro degli Xikrin ad un movimento che, credo, è sempre avvenuto con gli oggetti cerimoniali e che ha a che fare con la forma in cui essi concepiscono la relazione con l’alterità e come processano ritualmente gli elementi che incarnano questa relazione. Tuttavia, esistono alcune differenze importanti. Per cominciare, la maggior parte delle merci che circolano nel quotidiano xikrin non è vincolata alla sfera cerimoniale e al sistema di trasmissione verticale. Come ho detto, ci le troppe merci, ovunque, e quindi non c’è modo di restrinè che nell’economia xikrin esiste una domanda sempre crescente, e virtualmente infinta, di denaro e beni che sembra in relazione con la perdita relativa di valore di certi beni cerimoniali tradizionali. 6 La parola è un neologismo della lingua kayapó per designare il denaro (carta o foglia di carta grigia, pallida, consumata).

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gere la loro circolazione per mezzo di una regola di eredità, come nel caso di nomi e nêkrêjx. In passato è stato così. I primi beni industrializzati ottenuti dagli ikrin tramite i Kayapó furono trattati esattamente come i nêkrêjx, divennero prerogative di certe persone e famiglie e furono trasmessi all’interno della regola di parentela incrociata cui ho fatto riferimento sopra. Tuttavia, con lo svolgersi della storia e con l’intensificazione delle relazioni con la società brasiliana, l’accumulazione e la quantità crescente di beni industrializzati (molti dei quali manifestavano una qualità utilitaria che sembrava superare l’esclusivo uso ritualistico) ebbero l’effetto di modificare il modo di circolazione. Di fatto, denaro e merci hanno cominciato a circolare a partire dal sistema di gruppi politici maschili, incontrando un meccanismo di distribuzione orizzontale e generale. Tuttavia, anche la distribuzione connessa con il sistema politico mostra una forte tendenza alla concentrazione ed all’esclusività, come se anche fuori dal sistema di distribuzione rituale, le merci continuassero a servire per creare (o aiutare a comporre) differenze di valore interne. Prima la differenza importante era tra persone belle e comuni, adesso è tra chi ha molto o poco denaro e beni. Conclusione Per concludere, possiamo tornare al problema del “consumo inflazionario”, fecando una sintesi di ciò che abbiamo discusso fino a qui. Nella dinamica sociopolitica e culturale xikrin, il meccanismo di produzione di valore e istintività, espresso nell’idea di bellezza (mejx), si basava su di un certo processamento di beni simbolici (nomi e nêkrêjx) che funzionavano come segni della relazione esterna (con ciò che è definito dagli ikrin come alterità). Diversamente da altri beni considerati comuni e la cui condivisione è obbligatoria (come il cibo, ad esempio), questi beni simbolici ottenevano il loro valore distintivo mediante due processi: una regola di trasmissione verticale, che garantiva una circolazione ristretta identificando con una certa nitidezza una linea familiare, e un processo simbolico che ho chiamato “risoggettivazione” rituale, che ripotenziava il carattere esogeno e le capacità rigenerative e differenziatrici di tali beni. Il sistema come un tutto presentava una tendenza dinamica, appoggiandosi su un costante gioco di valorizzazione e svalorizzazione, associato alla forma in cui tali beni potevano divenire più o meno comuni, di accesso più o meno ristretto a tutta la comunità. L’entrata degli oggetti e valori del mondo capitalista industriale, anche se promossa dagli stessi Xikrin e per le proprie finalità, è risultata in alcune modi-

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ficazioni importanti in questo sistema. Al traboccare dal modo tradizionale di processamento (trasmissione verticale e vincolamento rituale risoggettivante), le merci costituirono un certo paradosso sociologico: esse divennero simultaneamente oggetti che dovrebbero circolare in maniera ristretta (seguendo la logica della distintività) e oggetti che dovrebbero circolare ampiamente (furono utilizzati per intensificare i vincoli comunitari e di parentela tra le persone). Per questo, esse causarono una accelerazione in tutta la dinamica, nella misura che la pressione per condividerli genera tentativi di renderli privati da parte dell’insieme di individui e famiglie con pretese di comando e prestigio, tentativi che si concretizzarono nell’impulso verso nuove forme di consumo e un accesso a maggiori quantità di beni, ma che sono sottomesse a nuove esigenze di condivisione e così via. Per intensificare ancor più la questione, l’incremento delle attività rituali (risultato delle nuove condizioni tecnologiche e materiali) sembra promuovere una condivisione dello statuto cerimoniale della bellezza, dissolvendo la distinzione tra persone belle e comuni e condividendo il diritto all’uso di vari oggetti rituali visti come esclusivi di certe persone e famiglie. Così la differenza belli x comuni è cancellata in favore di una nuova formula: ricchi (con denaro) x poveri (senza denaro). Come ho già detto, il denaro non viene accumulato, ma serve come mezzo di accesso immediato a maggiori quantità e varietà di merci. Ciononostante, nella misura in cui il sistema acquisisce velocità e accelerazione, anche la capacità di risoggettivare e valorizzare le merci per la quantità o varietà comincia a dare segnali di esaurimento: i successivi aumenti della Verba Mensal e il meccanismo organizzato e costante di distribuzione garantisce un accesso relativamente universale alle merci dentro la comunità, che si diversifica nel tempo. Esempi: i capi furono i primi a comprare apparecchi televisivi, ma in poco tempo tutte le case del villaggio cominciarono a contare un apparecchio; i capi furono i primi a possedere frigoriferi, ma in poco tempo i frigoriferi si disseminarono in tutte le famiglie; così i capi devono scoprire nuovi beni e acquisirono lettori Dvd, e così di seguito. Tutto ciò risulta in una pressione crescente per l’aumento del volume delle risorse finanziarie. Da ciò deriva la dimensione espansiva o “inflazionaria” dell’economia xikrin.

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8. I limiti del cauim e le figurazioni della cachaça

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8. I limiti del cauim e le figurazioni della cachaça nell’ubriacatura guarani1

Guilherme Orlandini

Abitanti di un territorio circondato da fattorie, città e strade costruite dagli invasori di esso, i Guarani stabilirono diversi villaggi in questo continuum che va dal Paraguai alla costa brasiliana, passando anche per la Bolivia e l’Argentina. Attualmente i Guarani sono più di duecentomila persone e, nella letteratura antropologica classica, sono abitualmente divisi in tre sottogruppi o parti: Mbya, Ñnandeva (Xiripá) e Kaiowá. L’identificazione di ogni porzione di questa divisione, però, è problematica, principalmente perché le denominazioni non si riducono a queste tre, ma ce ne sono altre, come Avakatu-ete e Päi-tevyterã, ad esempio. Oltre a ciò, esse vengono usate in maniera strettamente relazionale e, così, l’evocazione di parti dipenderà dalla relazione stabilita. Fin dalla fine del 2005 realizzo un lavoro di campo tra i Guarani nel Sud del Brasile e, nonostante la maggior parte dei Guarani con cui conversavo fossero abituati a dirsi Mbya, manterrò il generico “Guarani” nel corso di questo lavoro2. La letteratura antropologica sui Guarani è vasta e, nel corso del XX Secolo, ne formò una immagine abbastanza specifica, ossia quella di un popolo dedicato quasi esclusivamente alla propria religione. Come hanno mostrato alcuni lavori3, la forma in cui la religione guarani appare nei classici e in alcuni contemporanei finisce per sovra-codificare tutta l’analisi: nulla fuggirebbe dalle divinità e dal desiderio di essere/stare con gli dei. In una rassegna recente di articoli antropologici sui Guarani, Calavia-Saez (2004) indica la relativa assenza di studi influenzati dall’etnologia brasiliana e francese contemporanee, nelle quali l’alterità e i “vincoli sociali negativi” sono aspetti centrali. Questo articolo deriva da una relazione di sei anni con i Guarani nell’estremo sud del Brasile, il quale si materializzò in una Tesi di Laurea Magistrale, difesa nel Programa de Pós-Graduação in Antropologia Social al Museu Nacional dell’Universidade Federal do Rio de Janeiro. 2 Sicuramente quelli che abitano l’estremo sud del Brasile non sono Kaiowá. Ciononostante, la distinzione tra Xiripá e Mbya non è di facile definizione. Per questo motivo mantengo il termine più ampio, anche se corro il rischio di generalizzare. 3 Monteiro (1992), Calavia-Saez (2004), Fausto (2005) e Pissolato (2007). 1

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“Si continuano a sentire meno gli echi di quest’altra tendenza dominante nell’etnologia delle terre basse ed in particolare dell’etnologia brasiliana e francese, che si concentra sul ruolo della guerra, dell’alterità o in generale dei vincoli sociali negativi. L’etnologia guarani trasuda pacifismo, però è precisamente questo pacifismo ciò che dovrebbe farci meditare quando si prende in considerazione l’aspetto molto diverso, conquistatori di vaste regioni, guerrieri e cannibali, che i Guarani offrirono ai loro primi osservatori; la persistenza guarani, che una lunga serie di abbondanti fonti, da Cabeza de Vaca e Ruiz de Montoya fino alle numerosissime ricerche attuali, ci permette di calibrare è anche una mostra immemorabile di questi cambiamenti radicali di cui è piena qualsiasi persistenza indigena nel continente americano” (Calavia-Saez, 2004: 12-13).

Recentemente, alcuni lavori sono andati nella direzione di una visione non religiosa dei Guarani, analizzando dimensioni come la mobilità, gli scambi e la parentela. Mello (2006), Assis (2006) e Pissolatto (2007), ad esempio, hanno messo in relazione gli spostamenti e la produzione della parentela con l’etnologia prodotta su altri popoli delle terre basse sudamericane. Ho preso conoscenza di questa riflessione contemporanea sull’eccessiva religiosità della bibliografia classica non solo attraverso la lettura dei testi ma, principalmente, durante il mio lavoro di campo, visto che il tema qui trattato tendeva a fuggire dalle interpretazioni che presentavano la religione come punto cardine. Esistono due tipi di rifermenti ai balli ed alla cachaça nella letteratura: da un lato, vari autori ne fanno rapidi cenni, senza approfondire il tema; da un altro lato, ci sono ricerche il cui obiettivo è anche quello di eliminare l’alcolismo tra gli indigeni4. A causa della scarsità di analisi dei primi e del carattere correttivo dei secondi, sono andato avanti. La mia domanda era: qual è il luogo simbolico che la cachaça5 occupa tra i Guarani? Così sono andato alla ricerca di altre alternative per comprendere

Si trovano riferimenti ai balli in Nimuendaju (1914 [1987]: 91), Schaden (1954 [1974]: 134-5; 178; 179), Larricq (1993: 82-3; 94), Ciccarone (2001: 117; 118), Assis (2006: 129-130) e Pissolato (2006: 39). Gli studi di Ferreira (2001a; 2001b; 2003a; 2003b; 2004; s/d) e Ferreira & Coloma (2005), a loro volta, differiscono da questi per l’obiettivo di “eliminare i problemi dell’alcolismo tra la popolazione indigena” (Ferreira & Coloma, 2005: 181). Si veda Caux (2011) per una analisi approfondita dell’ampia bibliografia dell’epidemiologia dell’alcolismo indigeno ed anche della letteratura antropologica sul consumo di bibite tra gli indigeni. 5 Cachaça e pinga sono le parole che ho scelto per riferirmi a tutte le bevande industrializzate, ed alle loro possibili mescolanze. Avrei potuto, allo stesso modo, scegliere cerveja [birra] e caipirinha, se non fosse per la maggiore quantità di pinga che viene consumata se confrontata con altre bevande. Ad ogni modo, l’enfasi qui è la forma del consumo, non ciò che viene consumato. 4

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i balli e l’ubriacatura guarani, trovando un aiuto nella letteratura sulla cauinagem6 indigena. L’obiettivo di questo articolo è di dimostrare che i balli realizzati dai Guarani, nei quali è frequente l’uso della cachaça, possono “soffrire” una svolta qualitativa grazie all’antropologia della cauinagem degli altri popoli. Il cauim appare qui come un limite: qualcosa verso cui tende la cachaça, ma a cui non arriva mai7. Questo lavoro propone un tentativo di visualizzare un possibile luogo per la cauinagem e la predazione tra i Guarani contemporanei: i balli e i morti, evidentemente, non attraversano la totalità della vita sociale di questo popolo, ma forse ci dicono qualcosa sui Guarani8. Cadogan garantisce che gli Mbya “non usano né hanno mai usato il kagüy – bevanda spirituale fermentata; come anche l’antropofagia è ed è sempre stata loro sconosciuta” (1950: 234). Schaden pondera le informazioni che ha ricevuto dagli Mbya sul Rio Branco, i quali gli “parlarono del cauim di grano e del cauim di miele utilizzati nelle grandi feste religiose”, mentre quelli di “Yróysa, a loro volta, mi negarono categoricamente di conoscere una qualche bevanda fermentata” e avventa l’ipotesi “possibilmente temeraria, che l’uso di bevande fermentate da parte dei Mbya possa essere stato ricevuto da altri gruppi guarani” (1963: 91). Tassativa, per altro verso, è l’etnografia di Padre Franz Muller, realizzata nella provincia di Missiones, in Argentina: “tra gli Mbya, nella abitazione del leader, tra i Pañ e i Chiripá, nella abitazione del curandeiro (paí) si trova frequentemente un trogolo di legno di Hyary di fino a 3 metri di larghezza, dai 40 ai 60 centimetri di larghezza ed una profondità tra i 30 e 40 centimetri chiamata yvyra ñã-ê per contenere il cangûî, una bevanda alcolica preparata con grano, patate, manioca e canna da zucchero che viene colato da una schiumarola di zucca, mbonguaha, per eliminare i frammenti più grandi. Il cangûî è il componente imprescindibile ed essenziale delle feste indigene completate con canti e balli” (Muller, 1930 [1989]: 73).

Propongo un esperimento e procedo, quindi, “come se” la cachaça fosse cauim. Un esperimento che è di mia completa responsabilità: i Guarani non dicono che la cachaça è come il cauim, né che è come se lo fosse. Anzi, loro stessi

6 Cauim è il nome generico che viene dato alle varie bevande alcoliche indigene sudamericane. L’origine del nome, anche se esiste ancora un acceso dibattito, sembra essere dal tupinambá “ca’o-y”, che significa “l’acqua dell’ubriaco” (Fernandes, 2011). 7 Sulla nozione di limite si veda Deleuze (1981). 8 Dati i limiti di questa pubblicazione, ci sono diversi punti che semplicemente menziono senza dare loro la dovuta elaborazione. Per questi, rimetto il lettore a Orlandini (2011).

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dicono che non hanno mai fatto il cauim alcolico, solamente il cauim dolce9. È curioso che, anche dicendo che non lo fanno, molti conoscono il tempo e i procedimenti necessari per fare il cauim alcolico. Se questo non è sufficiente per avvicinare etnograficamente la cachaça al cauim, mi sembra sufficiente per rafforzare l’ipotesi qui delineata10. Ritengo che le cauinagens offrono una serie di elementi che possono aiutare nella comprensione dei balli e, per questo motivo, suggerisco che il luogo simbolico occupato dalla cachaça tra i Guarani è il luogo che il cauim occupa in diverse sociocosmologie indigene. Così, prima di avvicinarmi alle riflessioni guarani sui balli e al significato dell’essere ubriachi, vorrei presentare gli elementi presenti in altre cauinagens, le quali costituiranno gli strumenti dell’esperimento che qui si delinea. L’ipotesi menzionata poco sopra ha avuto come ispirazione diretta i lavori di Eduardo Viveiros de Castro (1986; 1992) sugli Araweté, di Tânia Stolze Lima (1986; 1995; 2005) sui Yudjá, di Aparecida Vilaça (1992) sui Wari’ e di Renato Sztutman (2003; 2006) sulla regione delle Guiane: la centralità dell’inimicizia e della guerra nelle parole altrui del cantante araweté, le quali distanziano il cauim alcolico dalla sfera dello sciamanesimo; l’allegria e la rabbia che traspaiono durante le celebrazioni collettive yudjá e che indicano verso l’ubriachezza come il significato privilegiato di ogni forma di alterazione; e la relazione predatore/preda come aspetto centrale delle feste wari’. La morte e i morti sono centrali in queste cauinagens: l’identificazione progressiva tra l’uccisore e la vittima, tra gli Araweté, la morte (ubriachezza) che causa il cauim yudjá; i morti, nostalgici dei vivi, vengono visti come nemici dai Yudjá; l’associazione tra la chicha consumata nelle feste e la carne consumata durante il rituale funerario wari’. Inimicizia, rabbia, alterazione e predazione in quanto significati dell’ubriachezza amerindia: la morte e, principalmente, i morti come soggetti di questo significato. Tra gli Araweté, ad esempio, le cuinagens presentano un forte idioma di guerra e ci portano la figura del nemico, principalmente nella sua apparizione durante il canto araweté: chi canta è il nemico, non il cantante. In questo processo, tutto il gruppo sperimenta un “processo di «divenire-nemico»” 9 Eccezion fatta per i Kaiowá (Mura, 2006) e i Pãï-Tevyterã (Meliá e altri, 1976), la cui produzione di chicha è abbastanza conosciuta. 10 Ladeira (1992: 14) curiosamente traduce kagijy con “chicha” quando parla della festa di battesimo del grano, ma immagino che sia appena una traduzione equivocata. Curioso è anche il commento di Pissolatto: “le informazioni sulla preparazione del kaguijy lasciano alcuni dubbi sull’uso, nei villaggi mbya (o di popolazioni mista Mbya e nhandeva?), del cauim fermentato. Lo stesso pajé Augustinho, presentandomi la bevanda, disse che si trattava del “vino del grano”, che mi avrebbe ubriacata e mi avrebbe fatto ballare tanto il xondáro” (2006: 309, nota 39).

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(Viveiros de Castro, 1992: 140). Le parole altrui del cauim alcolico rimettono ai morti e a questo processo di divenire-Altro sperimentato intensivamente dall’uccisore, ma anche da tutta la collettività. La morte e i morti appaiono, nelle cauinagens yudjá, come significati di questa ubriachezza che arriva al culmine della socialità, rappresentando così questa difficile imbricazione tra l’allegria in quanto motivatrice delle feste e la rabbia in quanto limite sempre possibile. I morti si associano alle feste della chicha realizzate dai Wari’, nelle quali l’ubriachezza è un analogia del cannibalismo funerario. Chi riceve la chicha viene predato dai visitatori, ma allo stesso tempo sperimenta questa posizione di divoratore di cauim. Così, l’offerta della chicha e il pasto funerario richiamano l’attenzione sulla relazione predatore/preda in quanto posizioni sperimentate e sulla intercambiabilità di questa relazione. Infine, i cauinagens guianesi suggeriscono che uno dei pericoli possibili nelle feste di ubriacatura è la perdita della posizione di soggetto, cioè che l’alterità invitata riesca ad imporre il proprio punto di vista, facendo sì che la celebrazione delle differenze abbia gravi conseguenze per color che, prima della festa, cercavano di pensarsi come umani. I morti sono Altri, nel senso più forte dell’espressione, come già diceva Carneiro da Cunha (1978), secondo cui i morti sono la massima alterità tra i Krahó. L’autrice riprende l’analisi di Helene Clastres sui rituali funerari guayaki, nei quali l’inimicizia è la caratteristica fondamentale della relazione tra vivi e morti: “Tra i vivi e i morti le distanze devono essere mantenute, ma anche le relazioni, e l’ambiguità è ciò che caratterizza il più delle volte il pensiero della morte e i sentimenti per i morti. Non c’è nessuna ambiguità tra i Guayaki dove i morti sono esplicitamente e inequivocabilmente indicati come nemici del gruppo” (Helene Clastres, 1968: 72)11.

Nei balli realizzati dai Guarani e nella loro esperienza dell’ubriachezza, la relazione tra vivi e morti è fondamentale. Un ballo si fa con invitati, venuti dai villaggi della regione e per questo i campionati di calcio, che riuniscono diversi villaggi, finiscono sempre in feste: nella veranda di qualche casa, adulti e giovani si animano al suono di ritmi come il forró e il brega-melody12. “È un’allegria fare i balli”, dicono. Suona la musica e chi è attorno alla piazza si avvicina al centro e comincia a ballare: alcuni ancora piccoli, con circa 5 o 6 anni, già Si veda Clastres e Sebag (1966) per un’altra analisi della morte e del cannibalismo tra i Guayaki. 12 Si tratta di due ritmi popolari brasiliani [n.d.t.]. 11

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provano alcuni passi, ma sono i giovani quelli che compongono il numero maggiore di coppie. Finisce la musica e tutti escono dal centro, rapidi come ci sono andati. Nel frattempo, si scommette forte vicino al fuoco: ci sono quelli che non si allontanano mai da lì, che non ho mai visto ballare, perché passano tutta la notte continuando a giocare a carte13. Durante i balli, oltre alla danza, l’ubriacatura proporzionava momenti di intensa trasformazione: alcuni, fortemente ubriachi, passavano da uno stato di allegria ad una rabbia intensa. Chi è ubriaco può avvicinarsi agli spiriti dei morti e, così, rivoltarsi contro i suoi parenti vivi: la persona dimentica i parenti. La centralità dell’inimicizia in questa relazione, indicata dalla rabbia che traspare durante l’ubriacatura guarani, indica anche verso un’altra diensione dell’alterità, ossia la relazione con i bianchi. Le musiche dei balli, la forma di ballare e la cachaça rimettono ai bianchi: l’ubriachezza favorisce, perfino nei vecchi sciamani, una propensione a parlare in portoghese. Non c’è dubbio che i Guarani parlino di più in portoghese quando sono ubriachi. La notte si grida come morti ma si parla in portoghese negli intermezzi. Quindi, prima di parlare dei morti affronterò i bianchi. Sempre più gli spazi della città vengono gradualmente occupati dai Guarani. Gli uffici della Funadação Nacional de Saúde, della Funadação Nacional do Índio, del Ministério Público Federal e del Conselho Estadual dos Povos Indígenas, dove si recano a rivendicare qualcosa; le case di amici dove possono dormire; mercati dove espongono cesti e artigianato su panni stesi per terra. Un’arte come quella della scultura di cui tanto si inorgoglisce Acóta: di fatto vari Guarani riconoscono l’esimia abilità di questo signore nell’intagliare pezzi di legno. È stato lui che, una volta, mi ha raccontato un po’ di questi jurua (non indigeni) che abitano le città ed i campi: questi che hanno dimenticato, anzi, di abitare solo i campi ed hanno invaso le foreste dei Guarani, perché all’inizio le divinità distribuirono le foreste ai Guarani e lasciarono i campi agli jurua14. Oltre agli jurua, Ladeira afferma che i Guarani si riferiscono ai bianchi come a “tutti quelli che sono stati generati nel proprio mondo” (1992: 26) e anche come “quelli che sono tanti nel mondo” (Id.: 27). Questi sono i “molti” che si oppongono ai “pochi”, i Guarani, i quali “giustificano il fatto 13 Il gioco principale è il “monte”, nel quale si scommette sulla ripetizione delle carte che escono dal mazzo. È importante mettere in risalto che questo gioco occupa un ruolo particolare nei balli, situato vicino al fuoco ed al chimarrao. Come scrive un autore: “gli uomini giocano appassionatamente con una resistenza ed una dedicazione degni della migliore causa, il gioco di carte preso dalla civilizzazione, con scommesse relativamente alte. Avviene con una certa frequenza che un indigeno perda, in una sola notte, tutti i suoi beni: fucile, machete, i suoi vestiti e la sua donna” (Muller, 1930 [1989]: 84). 14 Diversi autori trattano questo mito: Cadogan (1960; 1971), Ladeira (1992; 2001), Larricq (1993), Garlet (1997), Assis (2006) e Pradella (2009).

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di essere pochi come se fosse una prerogativa delle origini” (Id.: 27). Emerge, qui, una particolare versione del mito della cattiva scelta, ampiamente diffuso tra le società indigene (Hugh-Jones, 1988), nel quale la scelta dei Guarani fu la pipa, mentre i bianchi scelsero il sacco di soldi e cominciarono a proliferare intensamente (Macedo, 2009). Alcune versioni di questo mito della cattiva scelta associano espressamente i bianchi e gli spiriti anhã15. Popolando la foresta, gli anhã sono esseri eminentemente terrestri e, così, vengono associati anche agli spiriti dei morti e ai signori spirituali dei diversi altri esseri. È possibile, allora, come suggerisce Macedo (2009: 263), associare questi che “sono della terra” con quelli che si pensano come coloro che hanno la terra nelle proprie mani, ossia i bianchi. “è ricorrente l’associazione di una maggiore vulnerabilità alla malattia con la prossimità dei bianchi o delle cose e delle abitudini dei bianchi, come giocar molto a carte o a biliardo nei bar, bere cachaça, vivere nella città, andare solo ai forrós e non agli opy16, o tralasciare l’opy a favore della farmacia, tra gli altri commenti che ho ascoltato nel tempo” (Id.: 279).

I morti, oltre ai bianchi, vengono associati anche agli anhã. Però, chi sono i morti? “Il problema è che loro vogliono sempre aumentare il loro numero”, mi dicevano i Guarani sugli spiriti dei morti. Tali spiriti vagano di notte e la loro forma di agire cerca di influenzare i viventi. I balli, sempre notturni, producono così una serie di persone che vagano anch’esse di notte e si trovano, in questo modo, più suscettibili all’influenza di questi spiriti. La cachaça appare lì come un veicolo di approssimazione, rendendo visibile questa relazione tra ubriachi e morti: anche la cachaça non ha parenti qui, non ha nessun amico e, così, la persona che beve finisce per agire allo stesso modo. Al bere troppo, ci si dimentica dei propri parenti e ci si approssima agli spiriti dei morti: agendo come loro, si vuole aumentarne il gruppo, ossia portare i vivi dal lato dei morti. L’ubriaco “diviene” morto: per questo sente rabbia, per questo vuole uccidere. Morendo, il Guarani lascia qui una delle sue anime, quella denominata ã, e questa diventa ãgue, cominciando a vagare sulla terra. I rituali funerari includono, oltre ai canti perché l’anima del defunto incontri il cammino delle

15 Gli anhã sono “spiriti perversi che popolano la foresta, la cui unica ragione di esistere è perseguitare gli indigeni e votare al fallimento le loro iniziative. È a loro che si attribuisce la responsabilità tanto dell’infelice risultato di una spedizione guerriera o dell’insufficienza di un raccolto come anche le disavventure individuali” (Helen Clastres, 1978: 26). 16 L’Opy è la casa cerimoniale dei Guarani.

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divinità (Schaden, 1954 [1974]: 133), la sepoltura in maniera da evitare il contatto del cadavere con la terra e la costruzione di una piccola baracca di paglia sopra la sepoltura (Helene Clastres, 1968: 65). “[per ciò che riguarda la] seconda anima (di origine tellurica, ma non anima animale), i Mbya la designano con il nome teko achy kue, la cui traduzione è «il prodotto della vita imperfetta» (…) Tra gli Mbya, il teko achy kue si converte in mbogua, anch’esso un fantasma molto temuto, chiamato anche angue, nome dell’anima del defunto nel nostro guarani classico” (Cadogan, 1952: 33).

Ogni otto giorni, mi raccontava Daniel, è necessario verificare la sepoltura, con l’obiettivo di percepire qualsiasi alterazione della terra, perché la presenza di una fessura o di un qualsiasi tipo di apertura è un segnale che il morto si sta trasformando, in giaguaro, in cervo o in un essere acquatico, e, in questo caso, è necessario aprire la sepoltura, ritirare il cadavere e bruciarlo. “Se muore un membro della famiglia, si prega per qualche giorno a Tupã, sopra la tomba, perché non avvengano altri casi di morte e perché l’anima [anguer, anche: ñê-ênguer (che è stata ombra, o meglio parola che è stata)] del morto non molesti i sopravvissuti. Sulla tomba si alimenta un fuoco e per circa una settimana si collocano cibo e bevande sopra la tomba” (Müller, 1989 [1930]: 30).

Dato che fa freddo, conviene accendere un fuoco al suolo e, durante un certo periodo, è necessario mettere dell’acqua su un contenitore vicino alla sepoltura, nel caso al morto venga sete. Non ci si deve ricordare del morto, meno ancora dirne il nome, anche se tali preoccupazioni si riferiscono solamente ai parenti più prossimi, i quali, colpiti dalla tristezza che causa loro la morte dei parenti, a volte decidono di trasferirsi. La dimenticanza comprende anche l’abbandono di tutti gli oggetti che si riferiscono ai morti: “perché lo mboguá (spirito del morto), che continua ad essere il signore degli oggetti, potrebbe causare la morte” (Schaden, 1963: 86), e può anche “travestirsi da animale e attirare le persone” (Garlet, 1997: 173), il che rimanda al commento di Daniel sulla necessità di tenere d’occhio la sepoltura. Assis (2006) riporta il racconto di un capo che, allo stesso tempo in cui veniva riconosciuto come un grande sciamano, beveva molto e, così, le persone dubitavano dei suoi poteri, perché pensavano che stesse ottenendo i suoi poteri dagli angue. Egli afferma anche che “l’acqua ferma è un’acqua morta, che attrae gli angue e può causare malattie” (2006: 126), perché gli “angue hanno invidia del corpo dei vivi e faranno di tutto per tornare ad avere un corpo” (Id: 126-127).

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“Tra i pericoli dell’angue c’è quello che tenta di attirare i suoi parenti verso la morte. Il pericolo della tristezza e della nostalgia proviene dalla premessa che tali sentimenti non sono generati dalla persona stessa che li sente. Il ricordo del morto è l’angue che agisce sui suoi parenti perché essi abbiano tali sentimenti e desiderino morire” (Assis, 2006: 142).

Quando ho presentato le cauinagens di altri amerindi ho enfatizzato che: l’inimicizia è fondamentale e indica nella direzione di una relazione con i morti; l’ubriachezza è ricercata e produce stati di allegria ma può scivolare in momenti di rabbia; la relazione predatore/preda indica verso l’importanza simbolica dell’antropofagia nelle cauinagens. In relazione al primo punto, abbiamo visto come non solo i morti, ma anche i bianchi appaiono nelle feste guarani. I balli sono fondamentalmente celebrazioni differenti da quelle realizzate dagli sciamani, perché ciò che è in gioco non sono le divinità: le connessioni sono altre. C’è una grande differenza, enfatizzata dai Guarani, tra le celebrazioni realizzate nella casa cerimoniale per approssimarsi alle divinità – in cui il veicolo primordiale è il fumo della pipa – e le feste realizzate per ballare il forró, cantare come i bianchi e approssimarsi ai morti – in cui la cachaça propizia la comunicazione17. I balli, oltre a ciò, occupavano lo spazio che gli sciamani guarani erano soliti occupare la sera e, alcune volte, ho ascoltato comparazioni tra le attività dello sciamano e quelle di coloro che sono ubriachi. Ad esempio, il racconto dell’iniziazione sciamanica che ho raccolto mette in evidenza che l’allontanamento dai balli e dalla cachaça è fondamentale per l’apprendistato. Non si rescono ad ascoltare i canti inviati dalle divinità quando si frequentano intensamente i balli e ci si ubriaca. Distinzione questa che evoca la dualità tra sciamanesimo e guerra, così come la abbiamo esplicitata nelle cauinagens araweté: la musica delle divinità e quella dei nemici si collocano in poli distinti: entrambe parole altrui, ma con una origine e un tema distinti (Cfr. Viveiros de Castro, 1986). In questo senso, in quanto contrappunto dello sciamano, lo stato di ka’u rimanda giustamente ai morti, ai nemici e alle loro armi18. Se i balli proporzionano intensi momenti di allegria e festa, la comunicazione che si stabilisce con gli spiriti dei morti può finire in rabbia e aggressività 17 Questa opposizione tra il ballo e la casa delle preghiere appare anche nei lavori di Ferreira, nei quali l’autrice mette in risalto che bere è ammalarsi, dato che l’uso delle bevande alcoliche – termini dell’autrice – è in contrapposizione ai rituali sciamanici realizzati nella Opy, che è concepita come uno spazio distinto (Ferreira, 2001a: 134-140; s/d; 2003b: 15). 18 Per una comprensione della posizione ontologica che assumono i bianchi, prendendo lo sciamanesimo come spazio primordiale, si veda: Albert ((2002) per gli Yanomam; Gallois (2002) per i Wayãpi; e Carneiro da Cunha (1998) per una riflessione sulla relazione con i bianchi nello scimanesimo dell’Amazzonia Occidentale (bacini dei fiumi Juruá e Purus).

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contro i propri parenti. Dimenticando i parenti, la persona pensa di essere sola e, così, i suoi parenti non la ascoltano, ignorando le sue azioni finché è possibile, ma evitando che succeda qualcosa di peggio. La rabbia e l’aggressività in quanto comportamenti antisociali sono, è chiaro, anche comportamenti antiumani. Da un lato si distanziano dall’atteggiamento appropriato tra i parenti – come accennato in precedenza – e sono una forma di mancanza di rispetto. Per altro lato, si avvicinano alla forma di agire che è propria dei morti, così come è conosciuta dai vivi: allo stesso tempo, ubriacandosi, la persona può dimenticare che i vivi sono suoi parenti. Di fronte a sua madre, il figlio non la vede come parente: prendendola per un nemico, tenta di aggredirla. Tra gli esseri che incarnano la giaguarità, i morti, ãgue, sono coloro che frequentemente si insinuano nei balli. È qui fondamentale dimenticare coloro che se ne sono andati, perché il ricordo e la nostalgia farebbero sì che desiderassimo di partire con i morti. È necessario cancellare i loro segni, come se fosse possibile azzerare la memoria, distruggere il passato proprio di coloro che se ne sono andati. Voglio richiamare l’attenzione su due forme di traduzione del suffisso gue della parola ãgue: è possibile tradurlo come “ex” o come “fuori dal contesto”. La traduzione usuale per ãgue come “ex-ã” vincola temporalmente il morto con una esistenza previa specifica, però la traduzione di ãgue come “forma astratta di parlare di ã” o come “ã estratto dal suo contesto” permette di fare una piccola torsione. La trasformazione mi sembra importante perché disloca la comprensione del luogo simbolico che occupano i morti nel villaggio nella misura in cui passiamo da un registro temporale ad uno topologico o geografico19. Parlando dei morti, come ho detto, i Guarani non specificano se tale spirito che si è avvicinato apparteneva ad un vivo in particolare, perché al contrario ai morti ci si riferisce in forma generica e depersonalizzata: gli ãgue. L’ubriachezza, nel suo auge, è una forma di alterazione, nella quale la persona si avvicina agli spiriti dei morti e vede i suoi parenti al contrario. Dal punto di vista dei nemici, vede i suoi stessi parenti come nemici e, così, cerca di predarli. Se questa predazione raramente si consuma durante le cauinagens, ossia sono pochi quelli che muoiono, credo che il punto sia delineare lo spazio simbolico in cui essa si presenta. I nemici non sono appena una forma di alterità specchio a partire dalla quale si costituisce l’interno della società, ma sono collettivi con cui avviene anche uno scambio simbolico. Uno scambio di posizioni che è proporzionato dall’ubriacatura.

Oltre a ciò, questo cambiamento nella traduzione di gue, e di correlati come kue, è importante nella formazione dei collettivi guarani (cfr. Orlandini, 2011: Capitolo 2) e possibilmente di altri gruppi tupi-guarani. 19

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8. I limiti del cauim e le figurazioni della cachaça

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Che i morti e la rabbia siano costitutivi di questa esperienza dell’ubriachezza non implica tanto la necessità di combatterla o chiuderla, ma di mantenerla riservata ad alcuni momenti speciali, evitando che divenga quotidiana. Desiderare la fine delle alterazioni personali e della celebrazione delle differenze tra vivi e morti è qualcosa che, a mio avviso, fugge dalla forma in cui i Guarani pensano i balli e la cachaça: mantenere la distanza dei vivi, imporre il rispetto ai morti, chiaro, ma mai sradicare la relazione. Insomma è fondamentale evitare di pensare la cachaça dal punto di vista concettuale dello Stato. Come ho detto all’inizio di questo articolo, utilizzo il cauim come limite della cachaça. Ma questo cosa significa? Primo, indica che di fronte alla cachaça c’è sempre il cauim: non solamente di fronte, ma, giustamente, sempre prima. Il cauim è come un limite che la cachaça non raggiunge mai. Da un lato perché non si identifica mai totalmente con esso, ossia l’ipotesi che ho sostenuto fino a qui, che la “cachaça è cauim”, possiede un correlato necessario che è l’esatto contrario. La cachaça, pertanto, in un certo senso, non è cauim. Ossia, anche se abbiamo trovato un luogo simbolico per la cachaça tra i Guarani, questo non significa che ci sia una sostituzione automatica, del cauim con la cachaça, e che questo processo sia scevro di conseguenze. Credo che sia possibile stabilire una certa continuità tra le forme del consumo di cauim e la maniera di bere la cachaça. Le alterità coinvolte nella comunicazione che si stabilisce durante le cauinagens e anche nei balli è simile, però quando osserviamo le forme della produzione dei due prodotti le differenze cominciano ad apparire. E qui dobbiamo entrare in una questione, quella del genere, la cui assenza immagino debba essere saltata agli occhi dei lettori. La produzione del cauim è legata all’universo femminile e il consumo, in diversi casi, è esclusivamente maschile20. Come detto, nei balli sono presenti tanto uomini come donne, entrambi bevendo, mentre la produzione è relegata ai bianchi. I Guarani, come si sa, non sono produttori di cachaça. Che tipo di modificazioni, in termini di relazioni di genere, potrebbero qui intervenire? Questa è una questione che, per adesso, posso solo accennare. Un’altra questione che mi sembra renda evidenti le differenze tra cauim e cachaça è una certa decantazione del consumo. La ritualità delle cauinagens e la sporadicità della loro produzione rendono impossibile il consumo al di fuori delle feste per un motivo abbastanza semplice: dopo alcuni giorni l’acidità estrema impedisce il consumo del cauim. La disponibilità quotidiana della cachaça, che si trova in diversi luoghi, fa che la festa possa essere permanente. Nonostante l’allegria che motiva la festa, il consumo quotidiano non è genera-

20

Cfr. Fernandes (2011) e Dietler (2006).

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Guilherme Orlandini

lizzato: le feste possiedono una temporalità rituale che fugge dal quotidiano. Anche così, alcuni potrebbero bere tutti i giorni e, così, continuare la festa da soli, senza sapere che essa è già terminata.

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Sandra Maria Christiani de La Torre Lacerda Campos

Stampato nel mese di dicembre 2013 presso C.L.E.U.P. «Coop. Libraria Editrice Università di Padova» via G. Belzoni 118/3 - Padova (t. 049 8753496) www.cleup.it - www.facebook.com/cleup

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