Roma contemporanea
 9788842081333

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i Robinson / Letture

Di Vittorio Vidotto nelle nostre edizioni:

Guida allo studio della storia contemporanea Italiani/e. Dal miracolo economico a oggi (con Renata Ago)

Storia moderna (con Giovanni Sabbatucci)

Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi Storia contemporanea. L’Ottocento Storia contemporanea. Il Novecento

A cura di Vittorio Vidotto nelle nostre edizioni:

Storia di Roma dall’antichità a oggi. Roma capitale (con Giovanni Sabbatucci)

Storia d’Italia (6 voll.)

Vittorio Vidotto

Roma contemporanea

Editori Laterza

© 2001, 2006, Gius. Laterza & Figli In «Storia e Società», nella serie «Storia delle città italiane» Prima edizione 2001 Nei «Robinson/Letture» Prima edizione riveduta e aggiornata 2006 Ricerca iconografica di Manuela Fugenzi

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’ottobre 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 88-420-8133-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

a Federica, Anna e Carlo

Premessa

Nella storia di una città rimane sempre qualcosa di troppo complesso e di inafferrabile e questa condizione si complica nel caso di Roma, capitale laica e insieme capitale ecclesiastica. Il problema non è risolto dal tradizionale approccio della storia politica, chiamata a indagare prevalentemente le vicende dell’amministrazione cittadina e le risposte via via fornite ai singoli problemi dello sviluppo urbano. Per questi motivi il tentativo di questo libro è quello di intrecciare il filo degli avvenimenti politici con tutti i momenti cruciali di cambiamento sociale e culturale e con il vario presentarsi, riproporsi o affievolirsi delle funzioni simboliche: dal momento che la ricostruzione dei rituali, dei miti e delle autorappresentazioni di una città capitale, e di una capitale come Roma, costituisce un punto di vista decisivo per comprenderne meglio la storia in tutte le sue articolazioni. Pur offrendo un tracciato lineare di questa Roma contemporanea dal 1870 ad oggi, ho voluto mettere in luce soprattutto le emergenze che caratterizzano ogni singola fase e ne definiscono il senso. E quindi il lettore non vedrà riproporsi, in ogni capitolo, la stessa scala di problemi, le stesse forze e gli stessi protagonisti. Inoltre, diversamente che in altre opere, il nesso fra speculazione edilizia e controllo politico della città, cui peraltro ho dato largo rilievo, non è svolto qui in chiave di «controstoria» di Roma: una chiave semplificatrice che riflette ancora il clima e le contrapposizioni politiche emerse negli anni Cinquanta e che soprattutto non riesce a dar conto della complessità dei bisogni e delle forze operanti nell’espansione urbana. VII

Il volume si apre con una descrizione della città alla vigilia del 1870: un quadro necessario per misurare l’entità della cesura rappresentata dalla conquista italiana rispetto al precedente regime pontificio. Ma anche per valutare la varietà delle immagini e il peso delle tradizioni ideologiche legate al mito di Roma. Tutti elementi del bagaglio culturale della classe politica e del mondo intellettuale già operanti prima della presa di Porta Pia e destinati a condizionare in seguito la dimensione simbolica della nuova capitale. Proprio la rilevanza della componente mitica stabilisce un rapporto complesso e irrisolto fra le suggestioni del passato e le nuove ambizioni, fra il peso della storia e le ansie di modernità. La rivoluzione laica, con la secolarizzazione della città e l’introduzione del libero confronto politico ed elettorale, rappresenta la prima tappa di un lungo itinerario, più che secolare, scandito da alcuni momenti forti che segnano e consolidano trasformazioni durature. La classe dirigente liberale raccoglie consapevolmente la sfida che le viene dal passato, riconverte un grande monumento come il Pantheon a memoria delle glorie sabaude e si impegna nella costruzione dei simboli dello Stato nazionale innalzando con l’Altare della Patria un nuovo Campidoglio per tutti gli italiani: è un processo lungo che si definisce, pur senza completarsi, con le celebrazioni del 1911. Si tratta di un grande rinnovamento di immagine che contiene però numerosi elementi di debolezza resi evidenti dalla permanente incompiutezza, dal fallimento del progetto crispino per la costruzione di un nuovo Parlamento fuori dai palazzi storici della Roma barocca, dal carattere di parte proprio di molti monumenti. Fattori emblematici che illustrano il ritardo della nazionalizzazione italiana e l’artificiosità del suo repertorio simbolico. Nel frattempo la città subisce profonde trasformazioni dovute al forte incremento della popolazione, all’espansione e alla speculazione edilizia, che cancellano larghe parti di ville e parchi suburbani. Coagulo delle sparse identità italiane, Roma registra la crescita dei nuovi ceti burocratici, di una nuova mondanità con suoi specifici caratteri e una sua tradizione letteraria. Nel grande esperimento riformatore di Nathan convergono i frutti maturi della cultura massonica, la tradizione mazziniana, il nuovo protagonismo dei tecnici dell’amministrazione statale insieme a un diffuso sentire anticlericale: un’alleanza spazzata via dal radicalismo VIII

socialista e dal nascente nazionalismo alleato della forte componente cattolica cittadina. Un altro momento cruciale è rappresentato dalla mobilitazione interventista del 1915, quando la città si impone, per la prima volta, come centro politico della nazione. Dai contrasti del dopoguerra esce vincente una soluzione politica nazional-liberale che si consolida nell’alleanza con un fascismo privo a Roma di radici profonde, mentre i ceti burocratici ad ogni livello beneficiano di una favorevole politica della casa anche a ricompensa del loro impegno patriottico. Tra le forze politiche si aprono fratture insanabili che coinvolgono i simboli della capitale: lo stesso Altare della Patria viene inserito in un processo di appropriazione rituale nazionalista e poi fascista. Collocati, anche cronologicamente, al centro della ricostruzione, gli anni del fascismo rappresentano la fase più importante nelle trasformazioni della capitale. E ad essi ho guardato, abbandonando l’usuale registro delle deprecazioni (ancora diffuso in alcuni settori della storia urbana, ma ormai superato in altri ambiti culturali), cercando di analizzare i caratteri del progetto mussoliniano per Roma e la costruzione del consenso, fino al disorientamento dell’opinione pubblica e alla sotterranea ostilità degli anni della guerra. Con l’avvento del fascismo si assiste a una dilatazione delle funzioni simboliche della capitale insieme a una grande stagione di realizzazioni architettoniche, a trasformazioni urbanistiche e a invenzioni monumentali che elevano la città al rango di metropoli europea al prezzo della distruzione di alcuni quartieri fra i più caratteristici del centro storico. Ma con la caduta del regime crolla anche il mito di una Roma imperiale e conquistatrice, insieme all’illusione di un nuovo primato italiano. Ne derivano un permanente svuotamento simbolico e una perdita di identità non controbilanciati dai deboli riti dell’Italia repubblicana. Le sofferenze della guerra e l’occupazione tedesca restituiscono forza all’autorità alternativa del pontefice, mentre il progetto di affermazione della «città sacra» si arena nel dopoguerra di fronte a una diffusa modernizzazione e alle resistenze presenti nello stesso mondo cattolico. Con il ritorno alla democrazia, Roma è coinvolta in una crescita velocissima e senza regole che si compie sotto la spinta di tutte le forze incontrollate della società civile. Si conferma, come in quasi tutta la storia della capitale, la difficoltà IX

dell’amministrazione di dotarsi di un piano regolatore e di garantirne l’applicazione. Il grande fenomeno dell’abusivismo è il tratto più sintomatico e insieme più vitale della diffusa ostilità a una regolamentazione pubblica dello sviluppo urbano. Il ’68 ha un ruolo importante a Roma nell’innescare il vario articolarsi delle nuove forme di mobilitazione politica e sociale dei primi anni Settanta. La fase di aspra conflittualità che segue, accompagnata dagli esiti drammatici del terrorismo, coincide temporalmente con la conquista comunista del Campidoglio. La sinistra, oltre a dare prove diffuse di buongoverno, dà vita ad alcune iniziative fortemente innovative, ma rimane per gran parte prigioniera di una visione tradizionale della cultura urbana. Dopo un nuovo declino della vita pubblica cittadina dalla metà degli anni Ottanta, il rinnovamento si avvia, a partire dal 1993, con l’elezione diretta del sindaco e le nuove amministrazioni di centro-sinistra guidate da Rutelli e Veltroni. La ricostruzione si chiude con le elezioni del 2006, adottando per gli ultimi anni un passo più spedito e riproponendo alcune valutazioni d’insieme non solo sull’amministrazione capitolina ma anche, e di nuovo, sul ruolo simbolico della città riesaminato nel lungo periodo repubblicano. In questa prospettiva, agli inizi del nuovo secolo, in una fase di significative trasformazioni politiche e di fronte a un Vaticano consapevole del proprio prestigio e della propria influenza, appare ancora cruciale definire le funzioni e l’immagine di Roma capitale. La storia di questa città è anche un fitto mosaico di vicende memorabili e drammatiche: dalla battaglia per il monumento a Giordano Bruno al giubileo del 2000, dallo scandalo della Banca romana al delitto Moro, dalla caduta del fascismo a via Rasella e alle Fosse Ardeatine. È il palcoscenico su cui si stagliano protagonisti come Crispi e Mussolini, Pio XII e Giovanni Paolo II. Grande città di immigrazione, Roma è anche lo scenario che ha visto milioni di individui costruire e sperimentare la loro nuova identità urbana. V. V. Settembre 2006

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Nota all’edizione 2006 La novità maggiore di questa edizione consiste nell’apparato illustrativo, curato da Manuela Fugenzi, mirato a visualizzare le principali tappe della trasformazione della città. Salvo il decimo capitolo, che è stato largamente ampliato e riscritto, gli altri capitoli hanno subito correzioni e integrazioni marginali. Le note e i rinvii bibliografici danno conto dei numerosi studi pubblicati negli ultimi anni.

Roma contemporanea

I

Alla vigilia del 1870

1. Immagini e miti Il sistema urbano è uno degli elementi di maggiore continuità nella storia d’Italia e nessuna città più di Roma può rivendicare una forte continuità con il proprio passato. Le radicali trasformazioni intervenute dopo l’Unità hanno tuttavia modificato profondamente il ruolo delle città italiane, in particolare di quelle che erano state capitali di Stati. Fra queste Roma rappresenta un caso particolare e anomalo: quello di una città che passa improvvisamente da capitale di uno Stato ecclesiastico a capitale di uno Stato laico conservando però il ruolo e le funzioni di centro della maggiore istituzione religiosa mondiale. E la dinamica delle relazioni fra la dimensione laica e quella ecclesiastica conferirà alla capitale italiana connotazioni tutte speciali. In più la rottura con il periodo precedente è maggiore che altrove: nel 1870, l’immagine ufficiale di Roma in Europa era infatti quella di uno degli ultimi baluardi contro il progresso, contro la società liberale e democratica, contro la modernità e la modernizzazione. E non solo sul terreno delle ideologie e delle visioni del mondo, ma anche esplicitamente su quello dei costumi e dei modi di vita. Al contrasto fra modernità e tradizione si affiancava il richiamo allo sconfinato patrimonio di memorie della Roma antica che le parti impegnate in questo aspro confronto culturale rivendicavano ognuna con una specifica coloritura. L’idea di una missione da secoli affidata alla città era uno degli elementi portanti dell’idea di Roma: un mito che si nutriva della certezza di un rapporto pri3

vilegiato con il passato. Ciò si traduceva concretamente nella necessità di definire il legame con la tradizione e con l’antico. Non si trattava, come potrebbe sembrare a tutta prima, di un ambito puramente ideologico. Era invece una realtà concretamente e visibilmente presente nella struttura e nell’immagine della città. Roma è stata sempre una città capitale. Capitale della repubblica e poi dell’impero romano; capitale della cristianità, quindi del cattolicesimo, infine anche di uno Stato ecclesiastico. Nella memoria dei posteri – e in qualche misura fino ad oggi – non ha mai perso interamente questo carattere. Elemento decisivo per comprenderne il ruolo è l’immagine della città quale si è venuta stratificando e mitizzando nei secoli, e soprattutto dal Settecento in poi, da quando il Grand tour diviene un passaggio obbligato della formazione e dell’opinione colta europea. Senza voler percorrere lo sterminato catalogo di impressioni dei viaggiatori e memorialisti che colgono la cifra di singoli aspetti della città – talora con illuminanti riflessioni comparative – alcuni temi ricorrenti meritano di essere ricordati, anche per la loro capacità di stratificarsi in un repertorio consolidato1. Innanzitutto il giganteggiare delle memorie e il peso della Storia. Si trovano – scriveva Goethe – vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l’una e l’altro, la nostra immaginazione [...]. Quando si considera un’esistenza simile, vecchia di duemila anni e più [...] e si pensa che è pur sempre lo stesso suolo, lo stesso colle, sovente perfino le stesse colonne e mura, e si scorgono ancora nel popolo tracce dell’antico carattere, ci si sente compenetrati dei grandi decreti del destino [...]2.

E insieme l’immenso spettacolo della decadenza e della morte. Se per Byron Roma è «la desolata madre d’Imperi estinti (lone mother of dead empires!)», se per Shelley l’Italia è «the habitation of departed greatness», Roma è «la città dei morti, anzi di coloro che non possono morire, dei sopravvissuti». E così per Chateaubriand, Stendhal, Humboldt e per numerosi altri. Herzen ne parla come del cimitero del mondo e Renan, nel 1850, confrontandola a una certa modernità di Firenze, scrive che a Roma «on se console d’habiter avec les morts»3. 4

Ma il complesso delle notazioni su Roma come realtà e insieme di simboli, che ogni epoca rilegge con il suo schermo interpretativo, si accompagna immancabilmente a una riflessione sui romani. E i temi oscillano dalla constatazione della schiavitù del popolo romano, al vagheggiamento romantico di un prossimo riscatto, alla compiaciuta riscoperta dei tratti antichi di un carattere mai domo. Sono i francesi, nel 1798, ad avvertire e celebrare l’evento grandioso del risveglio del popolo romano, che già Napoleone, nel 1796, si era posto come obiettivo accanto al ritorno del Campidoglio alle antiche glorie. E i giacobini romani festeggiano «questa felice rivoluzione di cose» accaduta «sotto gli auspici d’un popolo sublime che ci ha rigenerati»4. Il tema, anch’esso ricorrente, della rinascita, del risveglio, della rigenerazione di Roma e del suo popolo trova un suo corrispettivo anche in una chiave più individuale. È l’esperienza diretta della classicità e della storia – che Roma consente in modi ineguagliabili – a modellare le sensazioni di un arricchimento profondo e di una rinascita personale. Se molti dunque, e innanzitutto i democratici dopo la Rivoluzione francese, vivono l’aspettativa e l’auspicio di una nuova Roma, per altri invece il popolo romano appare antropologicamente costretto in una sua peculiarità che è retaggio del passato e non sembra prestarsi al mutamento. Di qui le notazioni, per tutti quelle di Stendhal, sulla fierezza del carattere, sull’energia che si esprime nei volti e nello stile delle relazioni interpersonali, così lontano dalla falsità della civilisation di stampo francese5. Sono i soprassalti di orgoglio e una certa vitale «ferocia», ma soprattutto il disincanto di sudditi protetti che si esprime in un sistematico intreccio di servilismo e di arroganza, a connotare il tipo romano quale si viene definendo fra Settecento e Ottocento. C’era infine un altro elemento in chi dall’esterno guardava a Roma cercandovi la conferma di un’alternativa alla modernità. Aristide Gabelli, alla fine del 1880, ha riassunto in modo chiarissimo questo atteggiamento. I forastieri e gli artisti propensi alle novità erano pochi. I più erano beati di trovar qui un mondo tutto diverso da quello di casa loro. Questo pezzettino di medio evo ospitale e pacifico, discretamente ben conservato, dava loro un diletto simile a quello che proviamo nel contem5

plare un castello feudale, che colle sue torri merlate, colle sue scale segrete e co’ suoi trabocchetti, ci permette da una parte di pensare con gioia che non c’è più il pericolo di cascarvi dentro, e dall’altra di vivere con l’immaginazione in tempi lontani, pittoreschi e differenti dal nostro. Le stesse cose, ch’essi avrebbero biasimato a casa propria come un disordine intollerabile, qui parevano loro una necessità dell’armonia, un fondo indispensabile al quadro6.

Si trattava per gran parte, come è evidente, di un ennesimo stereotipo, tanto più forte e strutturale quanto più codificato e atteso era il rapporto con Roma. Chi è convinto che nei confronti delle diversità, anche quelle più prossime a noi, sia sempre operante uno schema di pre-giudizi non sarà sorpreso di individuarlo anche in questo contesto. Del resto, a differenza del viaggio come avventura nell’ignoto, che è anche scoperta di un ignoto interiore, il viaggio a Roma è per molti tratti, paradossalmente, una verifica del già noto, una conferma diretta di qualcosa che era già – grazie alle diffusissime, seppure frammentate rappresentazioni – visivamente noto. Giacché – è ancora Goethe che scrive – si può dir davvero che abbia inizio una nuova vita quando si vedono coi propri occhi tante cose che in parte già si conoscevano minutamente in ispirito. Tutti i sogni della mia gioventù li vedo ora vivere; le prime incisioni di cui mi ricordo (mio padre aveva appeso ai muri d’un vestibolo le vedute di Roma) le vedo nella realtà, e tutto ciò che conoscevo già da lungo tempo, ritratto in quadri e disegni, inciso su rame o su legno, riprodotto in gesso o in sughero, tutto è ora davanti a me; ovunque vado scopro in un mondo nuovo cose che mi son note; tutto è come me l’ero figurato, e al tempo stesso tutto nuovo7.

Nuove e sorprendenti le sensazioni, ma nuovo e sorprendente è soprattutto l’ambiente, lo sfondo: non più solo le singole vestigia del passato, ma la città intera, con la sua gente e il suo paesaggio urbano. Di qui l’emergere di uno schema interpretativo definito dal binomio e dal contrasto tra la memoria visibile delle antiche grandezze e la visibile rappresentazione delle miserie presenti. È proprio questa antinomia che sorprende e che appassiona. Un contrasto che per il pubblico colto, soprattutto straniero, diviene un modello di lettura della città, non solo allora, ma ben 6

oltre il crinale dell’unificazione, e fin dentro al Novecento e per molti aspetti ancora oggi. L’immagine della città presenta anche altre dimensioni sostanzialmente legate al suo disegno urbano. La percezione consapevole di questi elementi si fa strada lentamente e la capacità di una visione urbanistica d’insieme non appartiene all’epoca dei grandi viaggiatori. Eppure la città presentava, e presenta ancora, un insieme di simboli urbani non confondibili, e tali da suggerire immediatamente il segno del suo carattere e delle sue funzioni. L’ansia dell’arrivo e la scoperta da lontano sono motivi tipici e ricorrenti dell’avvicinarsi a Roma. E fin da queste prime impressioni non è difficile ricostruire una visione d’insieme della città premoderna. A chi giungeva da nord – da Firenze e Siena, lungo la Cassia – la città appariva, dalle alture sopra Ponte Milvio, preceduta, nella piana del Tevere, da distese di vigne, cui seguiva il verde più scuro delle ville, poi le mura e al di là le cupole, le masse compatte dei palazzi patrizi, e, nell’ansa del fiume, la Mole Adriana e la grande cupola di S. Pietro8. Cupole e chiese rinascimentali e barocche. Pochi i campanili e le torri, e neppure un duomo cittadino: ma la grande basilica del cattolicesimo ai margini, quasi fuori della città. Il passato antico e medievale non immediatamente visibile, ma riassorbito dalla città rinascimentale e barocca. Visibili e forti nel paesaggio tutti i segni del potere ecclesiastico e di quello della sua controparte laica. Debole e manieristico, anche se vistoso e retorico, il segno della magistratura cittadina, il Campidoglio. Alto sulla città, ma isolato. Proprio la specifica caratteristica di città sacra aveva determinato nei secoli una particolare debolezza, se non inesistenza, del potere civico. I segni stessi della tradizione civica, peraltro così evidenti e tipici di tutte le altre città italiane, fossero o no capitali di Stati, erano del tutto assenti non solo dal tessuto urbano, ma anche dalle tradizioni di vita associata a Roma. Non un palazzo, né una piazza che esprimessero le forme di autogoverno della città e il loro abituale legame con le funzioni del potere reale, con la vita quotidiana, i traffici, i mercati, le relazioni sociali. Non vi era luogo che mescolasse le occasioni di incontro, di riunione alla contiguità con il potere politico. Non una piazza del Comune vis7

suta al di fuori di una pura rappresentazione dell’autorità, bensì come espressione dei vari momenti della vita cittadina. Non può sorprendere tutto questo se si pone mente alla debolezza e alla impossibilità di sviluppo della tradizione civica a Roma. Lo stesso Campidoglio e il Palazzo Senatorio, la figura stessa del senatore di Roma, le funzioni stesse del Comune erano poco più di una parvenza ammantata di retorica. Alla grandiosità e alla pompa degli apparati non corrispondevano adeguati poteri. La dimensione universalistica di valori retoricamente rappresentati – il Campidoglio, la romanità, la missione di Roma consegnata nelle sue vestigia monumentali – corrispondeva simmetricamente all’assenza di poteri reali. Anche dopo l’Unità il Comune sarà in genere un interlocutore debole in confronto agli altri poteri politici presenti in città, salvo affiancarli nei casi in cui lo Stato e il governo prenderanno l’iniziativa. I momenti di trasformazione profonda della città sono quelli in cui è forte il rapporto con il potere esecutivo nazionale. Sono gli anni di Crispi per una Roma più progettata che costruita, e sono gli anni di Mussolini in cui si registra il più alto tasso di progettazione e realizzazioni. Gli stessi anni della giunta Nathan non sono immaginabili al di fuori di una forte relazione con il potere centrale. Di converso i fallimenti della progettualità avviata dalle giunte di sinistra nel decennio 19761985 sono da collegare anche al debole rapporto con il governo. Accanto a questi elementi costitutivi, eredità di una tradizione secolare che aveva segnato la città nel suo tessuto e definito la sua immagine, si vengono sviluppando nel corso dell’Ottocento, e in uno strettissimo rapporto – di sostegno o di antitesi – con il processo risorgimentale, concezioni e utopie in cui Roma gioca un ruolo fondamentale. Roma veniva sganciata dalla tradizionale dimensione cosmopolita e da quell’idea universale in cui la collocavano la sua posizione e le sue funzioni di centro del cattolicesimo per assumere una nuova missione, specificamente italiana, a cui la destinavano i campioni del nostro Risorgimento, Gioberti e più di ogni altro Mazzini. Per Gioberti il «primato degli italiani» era fondato essenzialmente [...] su Roma e la gloria cristiana di Roma, con l’appello al Campidoglio, eterna cittadella delle nazioni, con l’ammonimento che senza Roma l’Europa occidentale e australe sarebbe aperta alle alluvioni dei nuovi barbari. 8

Posizioni che non mancarono di suscitare i duri rilievi di Cesare Balbo contro la superbia e la stoltezza che avevano contagiato l’Italia con l’idea «della sua superiorità naturale e riconquistabile, su tutte le altre nazioni europee»9. Toni di alta emozione accompagnavano gli scritti e le perorazioni di Mazzini che ricordava così, nel 1864, il suo arrivo a Roma da Firenze nel 1849. Roma era il sogno de’ miei giovani anni, l’idea-madre nel concetto della mente, la religione dell’anima; e v’entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma era – ed è tuttavia malgrado le vergogne dell’oggi – il Tempio dell’umanità; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, unità morale all’Europa. Io avea viaggiato alla volta della sacra città coll’anima triste fino alla morte per la disfatta di Lombardia, per le nuove delusioni incontrate in Toscana, pel dissolvimento di tutta la parte repubblicana in Italia. E nondimeno trasalii, varcando Porta del Popolo, d’una scossa quasi elettrica, d’un getto di nuova vita10.

E nel 1859 in un appello Ai giovani d’Italia aveva additato, in pagine di fascinosa e visionaria scenografia romantica, il destino e la missione della Terza Roma, la Roma del Popolo, dopo quella dei Cesari e quella dei Papi. Venite meco. Seguitemi dove comincia la vasta campagna, che fu, or son tredici secoli, il convegno delle razze umane, perch’io vi ricordi dove batte il core d’Italia. Là scesero Goti, Ostrogoti, Eruli, Longobardi ed altri infiniti, barbari o quasi, a ricevere inconsci la consecrazione dell’italica civiltà, prima di riporsi in viaggio per le diverse contrade d’Europa; e la polve che il viandante scote dai suoi calzari è polve di Popoli. Muta è la vasta campagna, e sull’ampia solitudine erra un silenzio che ingombra l’anima di tristezza, come a chi mova per camposanto. Ma chi, nutrito di forti pensieri, purificato dalla sventura, s’arresta nella solitudine a sera, poi che il sole ha mandato dalla lunga ondeggiante curva dell’orizzonte l’ultimo raggio sovra essa, sente sotto i suoi piedi come un murmure indistinto di vita in fermento, come un brulichio di generazioni che aspettano il fiat d’una parola potente, per nascere e ripopolare quei luoghi che paiono fatti per un Concilio di Popoli. E io intesi quel fremito e mi prostrai, però che mi pareva un suono profetico dell’avvenire. Sostate e spingete, fin dove vale, lo sguardo... Di mezzo all’immenso, vi sorgerà davanti allo sguardo, come faro in oceano, un segno di lontana grandezza. Piegate il gi9

nocchio e adorate: là batte il core d’Italia: là posa eternamente solenne, Roma. E quel punto saliente è il Campidoglio del Mondo Cristiano. E a pochi passi sta il Campidoglio del Mondo Pagano. E quei due mondi giacenti aspettano un terzo Mondo, più vasto e sublime dei due, che s’elabora fra le potenti rovine. Ed è la Trinità della Storia, il cui Verbo è in Roma. [...] E come alla Roma dei Cesari, che unificò con l’Azione gran parte di Europa, sottentrò la Roma dei Papi, che unificò col Pensiero l’Europa e l’America, così la Roma del Popolo, che sottentrerà all’altre due, unificherà nella fede del Pensiero e dell’Azione congiunti l’Europa, l’America e le altre parti del mondo terrestre11.

L’idea di missione non sembra separabile dall’idea di primato: e quest’ultima è un’idea, anzi una categoria, che connota nel profondo la cultura italiana di quegli anni. È una scorciatoia ideologica che assolve e giustifica, stravolgendo in positivo tutta la permanente diversità e arretratezza italiana. Al di là delle loro risonanze retoriche, queste idee avrebbero avuto e avrebbero continuato ad avere, in virtù proprio della loro valenza mitica, una rilevante capacità di scuotere le coscienze, mobilitare adesioni e sollecitare entusiasmi. Del resto, come notò acutamente lo storico Alberto Aquarone, «il processo di autocoscienza nazionale, che non trovava ancora sufficiente supporto nelle strutture economico-sociali del paese, si aggrappava, per vitalizzarsi, al sentimento, al mito, in una sorta di elefantiasi della dimensione ideologica»12: un meccanismo destinato a rimanere una costante del rapporto con la politica in Italia. Dal versante opposto, quello della difesa della tradizione, se non del clericalismo, si alzava contemporaneamente la rivendicazione dell’unicità di Roma, come «voce della verità», e della superiorità del suo sistema politico, sociale ed economico, rispetto a quello di altri paesi «vittime» del progresso. Il ritardo rispetto al resto dell’Italia e dell’Europa che contrassegnava Roma e gli Stati del papa era ben presente alla maggioranza degli osservatori italiani e stranieri. Ma proprio questo ritardo e questa diversità erano tenacemente e combattivamente difesi dai propagandisti e in fondo ben tollerati, se non apprezzati, dalla maggioranza dei romani. Non tutti gli interpreti di queste posizioni erano egualmente dotati di capacità persuasive. Infatti la scrittura e le argomentazioni di uno Stefanucci Ala appaiono alquanto faticose quando si chiede «Qual è il popolo che abbia in sé manifestato maggiori at10

titudini a costituirsi centro di universale sociabilità?» per poi rispondere «è il romano; che primo ne assunse, senza più discontinuarla, la forte intrapresa. La storia di Roma è la storia del mondo» e concludere che «mentre la stampa, il telegrafo, il vapore vanno somministrando ali nuove ed eccelse allo spirito consociatore dei popoli, la mens, che agitat molem, avrà ognora in Roma il suo tacito quo sistam»13. Ma la sostanza non era poi troppo diversa anche nelle pagine di un polemista ben più brillante come il sacerdote Giacomo Margotti, direttore del giornale clericale l’«Armonia», impegnato ad affrontare il tema davvero epocale di un confronto fra Roma e Londra. Roma e Londra richiamano a memoria due sistemi, due dottrine, che cozzano fra loro in punto di religione, di morale, di politica, di economia, di civiltà. Roma è la città della fede, la sede dell’autorità, la fonte degli oracoli. Londra è il paese dell’indipendenza, l’ara del libero esame, la dea del parlamentarismo. Roma la Città di Dio, il santuario dell’Universo, chiama i popoli, in nome del cielo, al godimento dei beni morali, considerando come un semplice accessorio i vantaggi terreni. Londra, la città del mondo, l’emporio del commercio universale, invita le genti a goder sulla terra, e della terra, a studiare l’aumento di questi gaudi, a inebbriarsene come se fossero l’ultimo termine della loro vita. [...] Roma è eterna come Cristo che la elesse per sede del suo Vicario, e Cristo non muore. Londra è labile come il fumo a cui dee la sua ricchezza, e passerà come il naviglio che è la fonte della sua potenza. Roma è un miracolo di Dio, e Londra un miracolo dell’uomo14.

Il confronto non si fermava qui. Con dovizia di dati, tratti dalle statistiche coeve e dalla copiosa pubblicistica anti-industrialista, Margotti argomentava la superiorità di Roma anche dal punto di vista della sicurezza sociale, dell’ordine pubblico, dei livelli di assistenza ai poveri e agli ammalati, e si spingeva a sottolineare le migliori condizioni di lavoro. Anche in Roma e negli Stati Pontificii sono fabbriche e manifatture. Ma non vi si trova e non vi si troverà mai né lo snaturato padrone, né l’infelice operaio dell’Inghilterra15.

L’insistenza su queste diversità non era dettata solo da motivi propagandistici, ma era il riflesso di un meccanismo di governo e 11

di una struttura sociale per molti aspetti unici, dove la specificità dello Stato ecclesiastico si univa alla deliberata volontà di conservare il passato. 2. I poteri in città Il 1° ottobre 1847, sull’onda del processo riformatore avviato all’inizio del suo pontificato, Pio IX aveva emesso un motu proprio che attribuiva a Roma – «quest’inclita Città Capitale, ch’è la primogenita fra quelle, alla di cui felicità è a Noi dolce vegliare affannosi li giorni e le notti»16 – una vera e propria amministrazione comunale con poteri non diversi da quelli delle altre città dello Stato e con un’autonoma capacità finanziaria e impositiva17. Questa struttura amministrativa non ebbe il tempo di consolidarsi. Le vicende successive, soprattutto quelle legate all’esperimento democratico della Repubblica romana, indussero il governo pontificio a varare, con la legge edittale del 25 gennaio 1851 firmata dal cardinale Antonelli, una normativa del tutto nuova che riduceva drasticamente le competenze del Comune. L’istruzione elementare e superiore, la beneficenza, gli ospedali, l’assistenza, lo stato civile e altri servizi pubblici che erano stati attribuiti al Comune vennero avocati dal governo unitamente alle entrate destinate a finanziarli. Questo esproprio non ebbe tuttavia riflessi positivi sul bilancio del Comune che dovette sempre ricorrere a integrazioni governative per importi oscillanti fra il 30 e il 40% circa delle entrate18. La particolare attenzione del governo per la capitale aveva dettato misure specifiche anche per la composizione del Consiglio comunale. Dai cento consiglieri del 1847 (di cui quattro ecclesiastici) si era scesi ai 48 del 1851, cui si aggiungevano due rappresentanti ecclesiastici e il senatore, la carica più alta dell’amministrazione, scelto direttamente dal papa fra le «famiglie romane più cospicue per nobiltà e possidenza»19. Dalle quattro classi da cui attingere i membri del Consiglio – tre di proprietari, divise esclusivamente in base alla rendita per un totale di 64 consiglieri, e una composta di 32 fra funzionari, professionisti delle arti liberali, professori, letterati, artisti e poi banchieri, negozianti e «capi di arti, o mestieri, purché non vili, né sordidi» – si era passati nel 1851 a due sole classi. La prima comprendeva, a scanso di equivoci, solo i possidenti no12

bili, mentre la seconda affiancava i possidenti non nobili a tutti gli altri. Di fatto, nella composizione del Consiglio del 1847, su 96 membri laici gli elementi di estrazione borghese, attinti a tutte le classi salvo la prima dove la rendita richiesta era superiore ai seimila scudi, erano 60 rispetto ai 33 nobili. Nel 1851 i borghesi erano 22 su 48, riducendo così la loro presenza dal 62,5 al 45,8%20. Appare quindi evidente che la riduzione del numero dei consiglieri, unita alla compressione dei possidenti non nobili e delle professioni liberali in un’unica classe, riduceva l’ampiezza della rappresentanza borghese21. Al Consiglio non si accedeva per elezione. La prima nomina era effettuata direttamente dal papa, mentre i successivi rinnovi triennali della metà dei consiglieri erano compiuti, sempre dall’autorità sovrana, traendo i nominativi da un elenco doppio preparato da una speciale adunanza del Consiglio, allargato nella circostanza a due rappresentanti per ognuno dei quattordici rioni e a due membri della Camera di commercio, tutti di nomina governativa22. La lista degli eleggibili, ossia di quanti rispondevano ai requisiti per poter entrare nell’elenco dei cooptabili, conteneva nel 1867 2112 nominativi23. Si trattava di un significativo campione della società romana, per quanto costruito dall’alto con molte probabili esclusioni nelle ultime due classi24. Ogni parvenza di autonomia della rappresentanza comunale, anche nei margini ristretti previsti per la cooptazione dei consiglieri, era sostanzialmente vanificata. La tutela governativa era, nella capitale, spinta al massimo. Se poi guardiamo alla riduzione delle competenze del Comune ci rendiamo facilmente conto che la magistratura cittadina era una rappresentanza esteriore svuotata di ogni reale potere. Gli interventi del senatore riguardavano prevalentemente norme di viabilità e di igiene, imponevano il rispetto di una serie di divieti – relativi ad esempio al transito dei carri di fieno o allo scozzonare cavalli in città – con una reiterazione delle minacce di sanzioni rivelatrice della sostanziale impotenza delle autorità25. Una delle più significative attribuzioni sottratte al Comune, che l’aveva ricevuta solo nel 1847, era quella relativa all’organizzazione della beneficenza e del soccorso agli indigenti. La beneficenza e in genere l’assistenza erano, come è già stato osservato, uno degli aspetti più esaltati dalla pubblicistica pontificia. Ma costituivano 13

anche il maggiore, e più consapevole e articolato, strumento di controllo sociale. Non è poi quindi troppo sorprendente che lo Stato si riprendesse, dopo le trasgressioni del 1848-1849, quello che era stato imprudentemente affidato al Comune. A un Comune che, secondo un osservatore coevo, non mancava – come «corpo morale laico» – di suscitare qualche ostilità nel pontefice26. Il sistema assistenziale romano si fondava su un numero assai elevato di istituzioni. Alcuni elenchi ne registrano oltre 30027. Queste comprendevano gli ospedali generali per gli infermi fra i quali primeggiava per tradizioni e dimensioni quello di S. Spirito in Sassia; seguivano alcune strutture sanitarie specialistiche come il S. Gallicano per le malattie della pelle e il manicomio di S. Maria della Pietà. Si aggiungevano le opere pie e le confraternite con specifiche funzioni: tutela degli orfani, delle donne «traviate», delle vedove, delle giovinette di famiglie povere o impoverite28; gli oltre 220 monti di maritaggio e sussidi dotali. Annessa al S. Spirito, la Pia Casa degli esposti risaliva al 1198 ed era la più antica istituzione di questo tipo. Nate per ostacolare l’infanticidio, le «Case» lo avevano di fatto istituzionalizzato, oltre a divenire col tempo un sussidio temporaneo per le famiglie povere. Mentre molte città italiane si avviavano a chiudere la ruota o la avevano appena chiusa (come Milano nel 1868), a Roma nel 1869 si contarono 1107 esposti (o «proietti»), e la Pia Casa ne accudiva in quell’anno 3046, registrando 952 morti, pari al 31,2%29. La ruota fu definitivamente soppressa a partire dal 187230, mentre le confraternite e le opere pie subirono profonde modificazioni amministrative dopo l’unificazione e, a partire dal 1890, radicali trasformazioni ad opera della legge che disponeva l’indemaniamento dei beni. Al di là della frammentazione, il sistema assistenziale romano era senza dubbio imponente, assolveva a una rilevante funzione economica e alimentava una complessa e ricchissima rete di relazioni sociali e clientelari. Diffusissima era fra i contemporanei la convinzione, confermata più recentemente dagli storici, che un’aliquota assai rilevante della popolazione romana, circa il 30% nel 1871, vivesse «di sussidi pubblici, di elargizioni benefiche, di elemosine»31. Giustificata era quindi la moderata ostentazione dei meriti del sistema compiuta da Carlo Luigi Morichini, prelato e poi cardinale, che ne fornì, nel 1835 e poi di nuovo nel 1842 e nel 1870, un’accurata descrizione32. Uno degli elementi di maggior 14

vanto era l’ampiezza e, soprattutto, la qualità dell’assistenza ospedaliera. Al di là della propaganda, la supposta superiorità degli ospedali romani si fondava su una serie di statistiche coeve, in primo luogo quelle sui tassi di mortalità dei ricoverati, che appaiono singolarmente bassi. Secondo il Morichini la percentuale oscillò fra l’11,6 e il 5,4% per il decennio 1823-1832, e in particolare per il maggiore degli ospedali, il S. Spirito, fu del 7,1%33, mentre salì all’8,3 per il decennio 1831-1840, contrassegnato da un’impennata dovuta al colera del 183734. Nel 1837 la letalità del colera a Roma (ossia la percentuale dei deceduti sul numero dei casi registrati) fu lievemente inferiore a quella di Napoli, 57,8 rispetto a 60,6; più alta la letalità a Milano, 66,6, inferiori quelle di Genova, 53,8 e di Ancona, 46,035. Nel 1854 la letalità sale al 76,8%. Rimane tuttavia difficile sostenere, sulla base di questi dati, una migliore capacità di difesa del sistema sanitario romano36. E in genere appare arduo, e non consentito dallo stato delle ricerche, stabilire confronti attendibili e significativi non solo per le crisi epidemiche, ma anche per gli anni di normalità, sia a causa della diversità delle rilevazioni nosologiche, sia per le differenti tipologie delle malattie, sia infine per le condizioni ambientali della città dove era diffusa la malaria. Le ricostruzioni storiche forniscono indicazioni sparse e contraddittorie. Fasi critiche dei secoli precedenti, come la peste del 1656, testimoniano una notevole capacità dell’organizzazione sanitaria romana nel circoscrivere il contagio e nell’approvvigionare la città37. Se invece si pone mente al fatto che negli anni Sessanta dell’Ottocento negli ospedali di Roma, come del resto altrove, «le cause della mortalità vanno fatte in gran parte risalire a malattie contratte all’interno degli istituti»38, grazie anche al modello tipicamente romano (e largamente diffuso) delle enormi sale per accogliere i malati, il tasso relativamente basso di mortalità intraospedaliera potrebbe essere messo in rapporto con un più largo ricorso al ricovero anche per malati di minore gravità e insieme collegato con l’analogo andamento della mortalità per la popolazione complessiva39. Tutto ciò suggerirebbe non migliori condizioni igieniche, ma più ampie risorse ospedaliere e più ricche disponibilità alimentari. L’approvvigionamento era uno dei punti nodali del governo della città40. Una delle preoccupazioni fondamentali del governo centrale era stata sempre quella di fornire farina o pane e carne in 15

misura sufficiente alla popolazione. Le amministrazioni preposte a questo scopo, l’Annona e la Grascia, l’una per i grani, l’altra per le carni, con il loro sistema di obblighi alla produzione e di vincoli al commercio – largamente deprecati dai riformatori illuministi – avevano sostanzialmente assolto alle loro funzioni per secoli, fino alla fine del Settecento. Anche il sistema successivo – caratterizzato pur sempre dall’«illusione di poter raggiungere, mantenere e paternalisticamente governare un equilibrio fra domanda e offerta»41 – consentì di mantenere, nella capitale, una sostanziale «pace alimentare». Di fatto è lo Stato il protagonista del sistema di potere in città. Ha prima brevemente concesso una serie di autonomie al Comune salvo riprendersele pochi anni dopo. Il suo controllo continua a deprimere la vita civile secondo i meccanismi tipici di un sistema privo della vigilanza di un’opinione pubblica e di una rappresentanza politica elettiva. Un sistema dove la scarsa presenza politica era o imposta e sollecitata dall’alto o clandestina. Forme di inevitabile razionalizzazione, anche per la pressione delle potenze europee, avevano toccato, già dagli anni della Restaurazione, alcuni settori, ma ne avevano lasciato scoperti innumerevoli altri. In epoca più recente, nel 1850, erano stati riformati gli accessi e lo stato giuridico degli impiegati statali, chiave di volta di una burocrazia moderna. «Sulla carta almeno – e per la verità, a sentire parecchi osservatori, soltanto sulla carta – al completo arbitrio e paternalismo in questa materia si sostituivano criteri mutuati dagli schemi napoleonici di organizzazione amministrativa»42. Non si immagini tuttavia l’affermarsi di un sistema monoliticamente e razionalmente accentrato. Nei confronti della società continuavano a sopravvivere una serie di doppi controlli legati del resto alla duplicità particolare di uno Stato ecclesiastico. Se la polizia dipendeva dal ministero dell’Interno, se i rappresentanti rionali erano di nomina governativa, contemporaneamente il più significativo ruolo di disciplinamento e di controllo sociale era esercitato dai parroci. Oltre a continuare ad assolvere alle funzioni di stato civile, registrando nascite e morti, matrimoni e battesimi, redigevano gli stati delle anime, l’equivalente di un censimento della parrocchia e dei parrocchiani43. Una straordinaria fonte demografica e sociale per gli storici proprio perché capillare strumento di ispezione casa per casa, strada per strada, delle strutture fami16

liari, delle convivenze, delle attività e delle relazioni sociali. Un altro controllo esercitato era quello sul rispetto del precetto pasquale, ossia l’adempimento della confessione e della comunione. A quanti non assolvevano l’obbligo del precetto pasquale veniva intimato l’interdetto e successivamente la scomunica. L’annuale verifica del comportamento religioso era forse l’aspetto più rilevante del controllo sociale e amministrativo della città. La lista degli scomunicati veniva affissa il 25 agosto nel portico di S. Bartolomeo all’Isola Tiberina. La diminuzione – significativa anche se non drastica – della pratica del precetto pasquale44, proprio negli anni immediatamente precedenti la presa di Roma e dunque prima che intervenissero radicali mutamenti nella composizione demografica della città, lascia intravedere come anche in questo particolarissimo contesto si facessero strada forme di secolarizzazione45. E insieme tali comportamenti sembrano suggerire l’inevitabile allentamento delle forme di controllo ecclesiastico. Un’indicazione in questa direzione viene anche dal contemporaneo ridursi, di fronte al tribunale del Vicariato preposto alla tutela del buon costume, dei processi intentati alle coppie «irregolari» sorprese a dormire insieme (ad cubandum): dai 46 casi del 1834, si passa ai 26 del 1854, per scendere a un caso soltanto nel 1864 e a due nel 187046. Nel 1870 Roma appariva ancora per molti aspetti, economici e sociali, come una città dell’ancien régime. Gli abituali squilibri nei livelli di reddito erano compensati largamente dalla tradizionale politica assistenziale intesa come cardine delle relazioni con i ceti popolari, in generale impostate secondo un sistema di tipo paternalistico. In questo non vi era niente di radicalmente diverso rispetto ai modelli dell’antico regime. Quello che faceva di Roma una città diversa erano altri aspetti, alcuni immediatamente evidenti, altri meno. Innanzitutto il rapporto totale e avvolgente con l’istituzione ecclesiastica. Nella capitale dello Stato ecclesiastico i vertici della burocrazia e del governo, ossia le trame portanti del potere e i gangli significativi della vita cittadina, erano appannaggio di uomini di Chiesa. Cardinali e prelati avevano spesso una connotazione non locale, talora una formazione e una mentalità cosmopolita. Accanto ad essi la nobiltà svolgeva un ruolo prevalentemente economico, non di governo. Una nobiltà in parte antichissima, in parte nata e rafforzatasi con la politica nepoti17

stica dei pontefici, e ora dedita prevalentemente al consumo della rendita e marginalmente chiamata più che a gestire il potere a partecipare alla sua rappresentazione. A Roma né l’esercito, né gli alti gradi laici dell’amministrazione, né gli elementi più rappresentativi delle professioni e delle attività economiche si ponevano come alternativa a un sistema che fondava le ragioni della sua esistenza e della sua durata su motivi e valori insieme storici e soprannaturali. Si aggiunga infine la sostanziale stabilità della struttura economica e sociale, cui corrispondeva peraltro una relativa mobilità nei livelli più alti del potere politico, strettamente legati al variare dei titolari del potere sovrano. Si trattava di una serie di specificità non da poco, alle quali ne va aggiunta una più significativa ancora e più generale: quella ferma volontà, politica e ideologica, di essere e di mantenersi diversi rispetto alla dilagante modernizzazione europea.

3. L’economia e la società I canali di promozione sociale erano ancora per gran parte quelli legati alla struttura ecclesiastica e alla insufficiente laicizzazione del potere. Questo carattere, se da un lato consentiva anche rapide ascese familiari grazie a singole figure di prelati, cardinali e pontefici e potenziava le strutture clientelari e di protezione, dall’altro ostacolava i fattori – al tempo stesso di continuità e di trasformazione – dipendenti dall’affermarsi di una stabile burocrazia negli alti gradi dell’amministrazione statale. Gli elementi di maggiore continuità ai livelli alti del tessuto sociale urbano erano costituiti dalla grande nobiltà terriera e dal complementare ceto dei mercanti di campagna. Fra questi ultimi i nomi di maggior spicco alla metà del secolo erano quelli dei Ferri, Silvestrelli, Tittoni, De Angelis, Alibrandi, Calabresi, Mazzoleni47. Cerniera indispensabile del sistema agricolo laziale, i mercanti di campagna erano i grandi affittuari delle tenute laiche ed ecclesiastiche e commerciavano in cereali, derrate alimentari e bestiame. Subaffittavano gran parte delle terre e dei pascoli presi in affitto48. Erano dal Cinquecento i garanti e insieme i beneficiari di un sistema condannato come immobilista e in effetti caratterizzato da una marcata staticità. Tuttavia all’interno di questo sistema 18

i mercanti di campagna svolgevano un ruolo sostanzialmente dinamico, anche se questo contrasta con la diffusa interpretazione di tutta la realtà economica e sociale del Lazio alla metà del secolo. Solo abbandonando lo schema usuale, secondo cui la realtà economica va valutata in termini di sviluppo delle attività industriali e di nascita di forme moderne di capitalismo agrario, è possibile riesaminare il Lazio ottocentesco. Il modello economico romano prevedeva innanzitutto che fossero tenute alte le rendite della proprietà latifondista nobile ed ecclesiastica, obiettivo largamente raggiunto nel corso del secolo e fino agli anni Ottanta49. I mercanti di campagna erano gli unici (salvo pochi casi di conduzione diretta) a poter garantire questo risultato lasciandosi aperte possibilità limitatamente ampie di ascesa sociale e di progressivo accesso alla proprietà, nonostante le difficoltà di un mercato della terra protetto per gran parte dalle primogeniture e dalla manomorta ecclesiastica. Le testimonianze di ascesa e sviluppo della proprietà borghese sono incontrovertibili e datano a partire dagli anni Ottanta del Settecento, con marcati incrementi nel periodo napoleonico50. Che questo ceto stentasse a divenire ceto politico, con ambizioni diverse e più alte, si spiega con la sua costante dipendenza dalla nobiltà latifondistica. A Roma operavano del resto alcune logiche precise, più che secolari, largamente accettate e subite: la tutela degli approvvigionamenti e della pace sociale in una – e per questo aspetto tipica – capitale di ancien régime (una tutela che determinava, per chi operasse in questo ambito, un insieme di vincoli e la garanzia di un ruolo); la commistione della borghesia proprietaria e di parte della nobiltà – certamente di quella nuova – nelle attività bancarie e nel mercato internazionale delle derrate; la chiusura della mobilità verticale per i ceti borghesi, salvo che nelle professioni liberali o nella carriera prelatizia; la relativa aleatorietà delle relazioni clientelari e le insufficienti solidarietà di gruppo; l’insoddisfacente politica matrimoniale e gli antagonismi non superabili con il ceto nobiliare. Benché apparisse qualche segno di fusione fra i due ceti, di matrimoni, che la suggellassero, ne avvenivano assai di rado51. Il pregiudizio d’incanaglirsi fu l’ultimo a sparire [...]. Sobri nella vita domestica, quando loro se ne offriva l’occasione si mostravano romanamente grandiosi; le loro donne, sfoggianti vistose acconciature e ricchi gioiel19

li, formavano, insieme alle mogli degli alti impiegati, quello che chiamavasi il generone. Nei più di essi si notavano tendenze liberali, o meglio antipretine. [...] I più doviziosi fra i mercanti di campagna costruivano palazzi, forse non sempre eleganti; davano pranzi, i quali, se non poteano per la loro magnificenza gareggiare con quelli di Borghese, di Piombino e di Doria, non ne erano vinti per sfarzosità; frequentavano i maggiori teatri, e all’Apollo avevano barcacce in comune coi signori52.

In realtà nella borghesia dei mercanti prevaleva una mentalità di servizio, nei confronti della nobiltà e degli enti ecclesiastici, legata strettamente alla funzione tradizionale e originaria di intermediari, di mediatori svolta dai suoi membri. Roma era una città di consumatori, innanzitutto di alimenti base garantiti alla stragrande maggioranza della popolazione, in secondo luogo di beni di lusso richiesti dagli strati superiori della società, dalla corte pontificia, dai viaggiatori e forestieri più ricchi. Le attività manifatturiere non erano ovviamente assenti, ma non caratterizzavano la città, che era soprattutto una città amministrativa e di servizi, nella chiave tutta particolare di capitale di uno Stato e della Chiesa cattolica. L’industria riguardava soprattutto alcune trasformazioni della produzione agricola e dell’allevamento e alcune attività tessili. Ma il settore laniero, che utilizzava la larga produzione locale, era ormai nettamente in crisi, e i prodotti locali venivano scalzati da quelli di importazione, mentre l’esportazione era in difficoltà e il numero degli addetti era sceso, nel 1870, a 1.200 dai 12.000 degli inizi del secolo53. Maggiore slancio avevano altri settori come quello tipografico e quello dei laterizi, legati allo sviluppo delle attività editoriali ed edilizie. Un ruolo di grande importanza conservava l’artigianato di prodotti di lusso: alla vigilia del 1870 si contavano 1500 orefici, mentre 18 officine producevano i richiestissimi e imitati piccoli oggetti e monili in mosaico. Molto diffusi erano il commercio delle opere d’arte e la riproduzione in copia di pitture e sculture54. Per quanto legati a tale struttura produttiva, lontana da ogni innovazione, Roma e lo Stato del papa non avevano potuto sottrarsi all’iniziativa più tipica del secolo. Con Pio IX le ferrovie, fortemente osteggiate dal suo predecessore Gregorio XVI, giunsero finalmente anche a Roma, mentre i pali del telegrafo segui20

vano il percorso degli acquedotti nella Campagna romana55. Nel 1867 fu raggiunta la massima estensione delle ferrovie pontificie con linee che si spingevano fino a Civitavecchia e Orbetello, a Orte, a Ceprano, a Frascati: la prima, questa, ad essere inaugurata, nel luglio 1856. Roma era quindi collegata con Bologna, Ancona e Napoli. I capitali impiegati erano prevalentemente stranieri, francesi soprattutto, ma fra gli amministratori della Società generale strade ferrate romane sedevano anche alcuni esponenti della vecchia e nuova nobiltà romana, come il principe Marcantonio Borghese e il conte Filippo Antonelli, fratello del segretario di Stato56. Sempre dal 1867 le stazioni erano state concentrate in quella centrale a Termini, nei pressi delle Terme di Diocleziano, sui terreni della villa Massimo. La scelta dell’Esquilino per la nuova stazione centrale avrebbe da allora condizionato lo sviluppo urbanistico della città, soprattutto per la necessità di collegare con un asse viario il centro a Termini. Questo progetto fu avviato, già negli anni Sessanta, da monsignor Francesco Saverio de Mérode. Di grande famiglia belga, dopo aver militato nella Legione straniera, nel 1848 si fece sacerdote. Nel 1860 era divenuto ministro delle Armi e sostenitore di una autonoma politica militare per il piccolo Stato pontificio. Temperamento difficile e aspro, cadde in disgrazia presso Pio IX, nel 1865, per un’aperta conflittualità con l’Antonelli, politicamente più prudente. Da allora accentuò l’attività di speculatore e imprenditore. L’obiettivo di de Mérode era quello di urbanizzare ed edificare i terreni che aveva acquistato intorno all’esedra delle Terme di Diocleziano con il dichiarato intento, come egli stesso diceva, di «hausmaniser Rome», ossia di seguire l’esempio del barone Haussmann57. Ma la realizzazione del suo sogno avrebbe avuto un’impronta decisamente più limitata e provinciale – sia per la ristrettezza delle aree investite dalle trasformazioni che per la scala urbana proposta – rispetto al grandioso modello di Parigi. Ulteriori iniziative in parte pubbliche in parte private, ma assai più modeste, vennero intraprese dalla fine degli anni Cinquanta per dotare di nuove case i quartieri più poveri della città, a Trastevere, Monti e fra il Colosseo e S. Giovanni58. Le nuove zone edificate confermavano la tendenza a distinguere la tipologia degli edifici e i quartieri in base ai ceti a cui erano destinati. Così si era venuto ampliando il rione di Campo Marzio con palazzi e 21

case di affitto per i ceti più elevati, nobili e borghesi. Si riduceva in questo modo la tipica mescolanza sociale caratteristica dei rioni centrali. Le liste elettorali del 1867 confermano questo aspetto attribuendo a Campo Marzio una percentuale di eleggibili superiore di almeno un terzo a quella di rioni come Ponte, Parione, Regola, Colonna. Questa stessa distribuzione individua come rioni più popolari, con un bassissimo numero di eleggibili, Ripa, Monti, Trastevere e Borgo. Un quartiere a sé e, in qualche misura, un quartiere a parte, era quello di Sant’Angelo, che comprendeva il ghetto. La presenza a Roma degli ebrei, di una comunità che era la più ampia e più antica d’Italia, rappresentava agli occhi della Chiesa una sorta di memoria e di giustificazione della confessione vincente. Due religioni sono sparse su tutta quanta la superficie della terra: la cattolica e la giudaica, cioè la vera e la prova della vera. Quindi non è maraviglia se anche in Roma per disposizione di Provvidenza vi sieno Ebrei, i quali vi vennero fino dai tempi di Pompeo, e discacciati da Claudio vi tornarono, e vi stettero sempre, sotto il paterno reggimento de’ pontefici, assai più tranquilli che in altre contrade dell’Europa, dove soffersero angarie e discacciamenti.

Così scriveva il cardinale Morichini presentando, con un misto di verità e reticenza, le condizioni della comunità ebraica romana59. Certamente migliori rispetto a quelle riservate agli ebrei in altri paesi cristiani (ma non in quelli musulmani), anche se gli ebrei avevano allietato il carnevale dei romani correndo nudi lungo il Corso fino al 1667; e avevano subito i reiterati attacchi dei popolani di Trastevere e degli altri rioni nel 1793, nel 1798 e ancora fino al 1848. Non persecuzioni, ma umiliazioni, anche se col passare dei secoli sempre più ridotte in cambio di tributi pagati da parte della comunità60. Gli ebrei, che originariamente risiedevano a Trastevere, si erano gradatamente trasferiti anche al di qua del Tevere. Nel 1555 il piccolo spazio che abitavano di fronte all’Isola Tiberina era stato chiuso e trasformato in ghetto61. Circondati da chiese e da cappelle, subivano settimanalmente prediche forzate volte a convertirli. La comunità contribuiva inoltre al funzionamento della Casa dei catecumeni, preposta alle conversioni. Conversioni volon22

tarie sempre presenti, lungo i secoli, ma mai particolarmente numerose. Tuttavia anche dopo il caso del fanciullo Mortara, sottratto a Bologna ai genitori e convertito a forza nel 1858 – una vicenda che aveva commosso l’opinione internazionale –, a Roma, ancora nel 1864, si dovette registrare il rapimento di un fanciullo undicenne, Giuseppe Coen, e quindi il suo battesimo forzato62. In questo caso mancava persino il pretesto, fatto valere per il Mortara, di un precedente battesimo impartito di nascosto da una domestica in occasione di una sua gravissima malattia. La vicenda Coen aveva avuto un minor risalto, dato il modesto livello della famiglia di provenienza, ma non aveva mancato di suscitare le proteste della Francia, che teneva le sue truppe a Roma, e una certa eco sulla stampa italiana e francese. In passato i fanciulli condotti a forza ai Catecumeni erano in genere restituiti ai genitori. Queste due vicende ottocentesche testimonierebbero invece l’esaurirsi di una secolare politica nei confronti delle conversioni e la ricerca del caso esemplare da parte di una Chiesa accerchiata dalla modernità. Gli ebrei a Roma non erano ammessi agli studi superiori e alle professioni liberali, ma con un’autorizzazione del vicario potevano frequentare i corsi di medicina. Il diploma conseguito non aveva la stessa validità degli altri, abilitava all’esercizio della professione solo a vantaggio dei correligionari e vietava di prendere in cura i cristiani63. Proverbiale era la competenza dei medici ebrei e molti figuravano fra i premiati per l’opera svolta durante il colera del 186764. Nonostante l’affollamento del ghetto, la comunità ebraica era stata in genere percentualmente meno colpita dalle epidemie, grazie al rispetto delle prescrizioni igieniche. Inoltre nel ghetto operava per gli ebrei poveri un efficace sistema di assistenza. Comunità popolosa e popolare, gli ebrei romani erano dediti prevalentemente ad attività nel campo tessile e dell’abbigliamento, del ricamo, della raccolta degli stracci e del commercio degli abiti dismessi. Non mancavano ovviamente altre attività tradizionali come il commercio e il prestito. In genere, e dagli stessi ebrei, la comunità veniva presentata come molto povera. L’analisi delle liste elettorali amministrative per le elezioni del 13 novembre 1870, all’indomani dell’Unità, getta un po’ di luce sulla situazione economica degli ebrei romani, o almeno di una parte di essi. Il loro numero oscillava fra i 4700 e i 5000 individui. 23

4711 ne calcolavano le fonti pontificie per il 1870, mentre un censimento della comunità israelitica del 1868 ne aveva registrati 493865. La stragrande maggioranza degli ebrei abitava ancora in quello che era stato il ghetto e costituiva almeno il 60% della popolazione del rione Sant’Angelo: la densità per ettaro edificato del «claustro israelitico» – uno spazio ristrettissimo compreso fra il Tevere, le attuali via del Portico d’Ottavia, piazza Mattei e piazza delle Cinque Scole, che ne costituivano allora i confini esterni – era 6 volte quella della media della città nel 1860 (2980 contro 481)66. A partire dal 1847, e dopo l’abbattimento delle mura e delle porte del ghetto (il 17 aprile 1848)67, era stato consentito agli ebrei di abitare nei rioni confinanti. Le liste elettorali danno 270 ebrei su 420 elettori dell’intero rione Sant’Angelo; 29 ne registrano a Regola, 21 a Campitelli, 9 a Sant’Eustachio, 5 a Ripa ecc.: 347 aventi diritto al voto in tutta la città68. Questa cifra rappresenta il 7,34% dell’intera popolazione ebraica, una percentuale più che doppia rispetto a quella del 3,41% di elettori amministrativi rapportati agli abitanti dell’intera città69. La circostanza poi che nel rione Sant’Angelo, dove come abbiamo visto si concentravano gli ebrei, gli elettori per censo raggiungessero i tre quarti degli aventi diritto in quella zona, mentre erano quelli per capacità70 ad essere in maggioranza in città e in otto dei quattordici rioni, lascia supporre l’esistenza di uno strato abbastanza ampio di agiatezza concentrato nelle attività mercantili e artigiane, affiancato a quello delle professioni mediche e liberali. Un livello di ricchezza che, se non smentisce, attenua l’immagine tante volte ripetuta di una complessiva povertà degli ebrei romani. Questi dati sono confermati ulteriormente dal numero degli elettori politici ebrei che sono a Sant’Angelo 255 sul totale di 407, pari al 94,4% di quelli iscritti alle amministrative nonostante l’incremento del censo richiesto da 25 a 40 lire di imposizione. Indica inoltre – a livello di ulteriore ipotesi – che la percentuale più elevata di ebrei iscritti alle liste elettorali poggiasse su una maggiore disponibilità a mobilitarsi, dal momento che l’iscrizione prevedeva un’iniziativa personale, e suggerisce altresì una maggiore visibilità fiscale degli ebrei legati al pagamento delle tasse di esercizio per le loro attività mercantili. Non sono molti gli studi sulla percezione della diversità ebraica, così come sugli attacchi al ghetto appartenenti a fasi di reazio24

ne popolare collettiva su cui non è stata fatta molta luce: in genere rimangono nell’ombra le dimensioni antropologiche dei comportamenti popolari. L’attenzione per il popolo romano, i suoi atteggiamenti, la sua cultura ha individuato un tipo sociale che è il risultato di una somma di caratteri individuali, più che una mentalità dai tratti e confini definiti. Ci si deve accontentare di sparsi elementi di valutazione che non compongono un disegno completo, anche se sembrano acquisire validità dall’essere costantemente ripetuti da viaggiatori, storici, osservatori del costume. Ne emerge l’immagine di un popolo disincantato, disimpegnato, acuto e mordace, sostanzialmente scettico. E violento: di una violenza di immediato e incontenibile scatenamento, talora causata da futili motivi, spesso conclusa dal gesto maschio di una coltellata. Elevato il tasso di criminalità in alcuni quartieri, e il numero degli omicidi. Si tratta in parte di luoghi comuni confortati, però, dai dati statistici, e reciprocamente incrementati dal mondo colto e da quello popolare71. A cui si aggiungeranno come veicoli di trasmissione le rappresentazioni in versi delle imprese dei bulli romani: un particolare genere letterario di grande successo alla fine del secolo e negli anni Venti del Novecento. Sul carattere del popolo romano, o della «plebe» – come si ha ancora il vezzo di scrivere condensando nella scelta del termine, in modo insieme drastico e allusivo, un giudizio e un’interpretazione storica – innumerevoli sono le impressioni: tutte si fondano più o meno su elementi di colore e sulla costruzione di uno stereotipo che ruota intorno ad alcuni caratteri: energia, orgoglio, fierezza, violenza, generosità, scetticismo. Caratteri che ritroviamo descritti sia dai contemporanei che dagli storici successivi. «Il popolo romano era amante delle feste e rissoso, dall’istinto fiero o feroce, ma in pari tempo proclive al perdono, generoso, prodigo...»72. Non che gli stereotipi siano privi di una loro forza interpretativa o che addirittura non siano introiettati e si rendano manifesti in comportamenti e agire collettivi. Accanto alle connotazioni positive, frutto dell’ingenua certezza di ritrovare l’originario romano antico, si susseguono anche i giudizi negativi, come quelli che ricorrono nei ricordi di Massimo d’Azeglio. Il servilismo, la duplicità, divengono un istrumento del saper vivere, ed il vivere alla giornata e di transazioni diventa la trista e inevita25

bile condanna di una parte così numerosa e rispettabile della popolazione. [...] pei mestieri dell’anticamere si trova il Romano: pei mestieri di fatica si chiama il forestiere.[...] Se i Romani vorranno far di Roma una capitale salubre che dia vita forte ed energica al Governo italiano, dovranno cancellare le tradizioni della plebe de’ Cesari e diventare un popolo moderno, che stimi onorato il lavoro non l’ozio73.

Alcuni storici si avvalgono, citandolo a profusione, di quello straordinario poeta che fu il Belli, scambiandolo per un cronista, quasi un fotografo, della realtà e del carattere popolare, interpretando i suoi sonetti come spaccati di vita quotidiana e trascurando così la dimensione risentita e la chiave morale della sua poesia. Un contributo diverso per la conoscenza degli strati popolari può venire dall’analisi delle forme di partecipazione alla Repubblica romana del 1849 nella capitale. In assenza di studi specifici sull’argomento, una serie di indicatori possono derivare dalla elaborazione quantitativa dei nominativi degli inquisiti dal tribunale della Sacra Consulta, nominativi dei quali – nei registri descrittivi dei processi – sia indicata la professione: di essi sappiamo inoltre quasi sempre l’età e nella maggioranza dei casi lo stato civile. Questi dati ci dicono che degli oltre 500 inquisiti per attività illecite o eversive compiute a Roma (esclusi i protagonisti politici principali e senza tener conto di una impossibile distinzione fra reati comuni e reati politici) tre quarti appartenevano agli strati popolari propriamente detti, mentre il residuo quarto era costituito dalla borghesia piccola e media e da esponenti delle professioni: si contavano, fra le categorie più rappresentate, 19 impiegati, 16 possidenti e altrettanti studenti, 6 architetti e legali, 5 medici. Oltre un terzo degli appartenenti agli strati popolari e più di un quarto del totale era rappresentato da artigiani con laboratorio o a domicilio, fra i quali si contavano 16 calzolai ed ebanisti, 12 sarti, 11 falegnami, 9 cappellari. Metà circa del totale non rientra nelle due categorie indicate (artigiani e piccola borghesia) e comprendeva gli altri lavoratori manuali, gli addetti ai servizi, gli ex militari. Dall’amplissimo ventaglio di denominazioni professionali (complessivamente sono oltre 130) spiccano 17 muratori, 16 scalpellini, 12 osti, 11 carrettieri. Solo il 25-26% aveva un’età superiore ai 35 anni: la grande maggioranza aveva meno di trent’anni e solo il 16-17% del totale era coniugato. Le donne erano 1774. Tutto questo, oltre a 26

darci uno spaccato della composizione della popolazione attiva maschile, ci indica la filigrana degli strati sociali e delle figure professionali per i quali sia possibile parlare se non di partecipazione politica, almeno di disponibilità alla mobilitazione. In conclusione la popolazione «ribelle» di Roma era composta da giovani maschi scapoli (ben diversa dai sanculotti parigini o lionesi dove l’età media superava i quarant’anni e il 65-80% erano sposati)75 con una forte presenza di lavoratori artigiani nelle professioni tradizionali. Fra gli inquisiti non sono registrati addetti alle attività tessili né salariati industriali: di questi due dati, il primo segnala, in via di prima ipotesi, che un settore lavorativo, già penalizzato dalle importazioni di manufatti tessili e dall’introduzione delle macchine76, non rimase coinvolto nella mobilitazione repubblicana (o non fu penalizzato al momento della Restaurazione); il secondo certifica le particolarità e l’arretratezza imprenditoriale della situazione economica romana. Nella frammentazione dei mestieri operavano figure e gerarchie particolari. Come ricordava ancora d’Azeglio «fra questo popolo stesso si distingue poi una specie d’oligarchia gelosa più dell’altre di mantener puro il sangue romano, e quest’oligarchia sta principalmente ne’ due mestieri di selciarolo e di carrettiere del vino»77. Una serie di attività avevano invece una tradizionale specializzazione regionale. I pizzicagnoli erano umbri di Norcia e Cascia, i fornai friulani, i pasticcieri svizzeri, i vetturini abruzzesi, gli osti genovesi o abruzzesi78. Una struttura molto meno articolata era quella degli strati borghesi, dove, accanto agli impiegati, nelle professioni prevalevano gli avvocati e i medici. A Roma tuttavia il ceto medio intellettuale incontrava molti ostacoli alla sua ascesa sociale, avendo avuto modo «di constatare da vicino come agl’impieghi si pervenisse per eredità; come per eredità si giungesse ai posti migliori della gerarchia ecclesiastica, come per protezione si occupassero le cariche meglio retribuite e più in vista»79. Questo quadro pessimistico, tracciato da uno storico del Novecento, riprende le analisi più aspre dei polemisti antipontifici come Desanctis e Pianciani, nonché di molti osservatori stranieri80. Tuttavia, più che sull’ereditarietà, bisognerebbe insistere sul patronage e il clientelismo come chiave di ingresso e di sviluppo delle carriere. Nella sostanza le ricostruzioni più recenti non smentiscono questa immagine. «L’am27

missione alla prelatura (in quello che oggi chiameremmo il ruolo direttivo) teoricamente era subordinato non alla condizione nobiliare, ma agli studi di diritto e a un reddito annuo di 1.500 scudi; in realtà le persone di ‘civile condizione’ (non nobili) erano accettate solo in via eccezionale [...] l’elemento decisivo [...] era l’appoggio di un personaggio influente»81. I dipendenti dello Stato rappresentavano ormai un’aliquota importante nella capitale, pari al 5-6% della popolazione. Con i familiari, circa il 25% viveva degli stipendi governativi. Le retribuzioni, seppure inferiori, non erano distanti da quelle corrisposte agli impiegati nel Regno di Sardegna e nel Lombardo-Veneto82. La presenza del clero era ovviamente uno degli aspetti più caratterizzanti della città. Elemento di mobilità, da un lato, per l’ampio reclutamento dei singoli, il clero rappresentava anche uno dei fattori più potenti di tutela dell’assetto sociale e culturale. Secondo gli stati delle anime, alla Pasqua del 1869, i religiosi e le religiose presenti in città erano 7480, suddivisi fra 2265 secolari e 5215 regolari, di cui 2959 maschi e 2256 femmine. La percentuale media nel decennio sul totale della popolazione era intorno al 5%83. Il clero contribuiva inoltre a tenere elevato il tasso di mascolinità che nel 1870 era di 1164 maschi per 1000 femmine. La prevalenza maschile era da secoli uno dei dati strutturali della demografia romana (e lo rimarrà anche nel periodo postunitario fino agli anni Trenta). Questo esubero maschile era legato all’arrivo in città di servi, artigiani, militari e religiosi, un’immigrazione che si dilatava o restringeva in rapporto all’incremento o alla riduzione delle funzioni tipiche di una città capitale84. Ma soprattutto la presenza religiosa era dominante nel campo dell’istruzione, da quella elementare alla superiore e anche universitaria: e lo era sia per il personale insegnante che per i contenuti dell’insegnamento. A questo si accompagnava un livello qualitativamente modesto degli studi, con qualche eccezione nel campo della archeologia e dell’antiquaria grazie anche ai contributi dei numerosi stranieri presenti a Roma. La religione cattolica aveva particolare rilevanza non solo per il modo in cui caratterizzava le mentalità e la cultura dominanti, ma anche per la sua presenza massiccia nella vita quotidiana, nella scansione dei tempi di lavoro e di svago. Si trattava in realtà di una religiosità in larga misura esteriorizzata, abituale, tradiziona28

le. Un comportamento religioso che nel popolo si caratterizzava per «una totale incoerenza tra la fede e la vita»85. Il comportamento religioso rispondeva inoltre a una forte esigenza di stabilità e di riconoscibilità sociale. Le «ricorrenze sacre, più di ogni altra festività, offrivano a ciascuno l’opportunità di esprimere e rafforzare la sua identificazione con il proprio gruppo sociale». Una società così fortemente integrata nell’ordine religioso e sociale «lasciava pochissimo spazio a chi non voleva conformarsi all’uno o all’altro ordine di cose». Era quindi particolarmente difficile «stabilire una precisa linea di confine fra convinzioni religiose e convenzioni sociali». Del resto «rimosse certe forme di controllo esterne, si manifestavano casi non isolati di resistenza passiva se non addirittura di aperto dissenso rispetto alle disposizioni ecclesiastiche in materia di pratica rituale»86. Paradossalmente l’assenza di forme secolarizzate, di festività civili e profane (salvo l’esplosione del carnevale), determinava nel rapporto, ormai più che millenario, con l’istituzione e con l’evento religioso atteggiamenti disincantati: quella stessa «sclerotizzazione della vita religiosa e dell’azione liturgica, risolta in cerimonialismo»87 individuata come tratto specifico della religiosità romana può apparire come un’embrionale disponibilità alla secolarizzazione che attraversa diversi ceti sociali, in particolare quelli borghesi e popolari. La società e il comportamento religioso consentivano e tolleravano anche le numerose espressioni di quella doppia morale forse inevitabile in una città dove erano sicuramente in molti ad aver scelto il celibato senza convinzione e per necessità di carriera. Per limitarsi all’episodio più noto e senza voler cercare, fra le molte ricostruzioni, la prova definitiva che anche il cardinale Antonelli avesse una figlia naturale e avesse subito, profondendo denari e protezione, i ricatti della madre, rimane il fatto che alcuni suoi prudenti difensori smontano il caso con l’argomento che tutta la vicenda avrebbe fatto torto all’astuzia del segretario di Stato, non già alla sua morale88. I costumi cittadini e, secondo alcuni, una diffusa naïveté nei confronti del sesso lasciavano ampi spazi a un’interpretazione lassista del celibato. La vita sociale era espressione di una realtà statica che viveva il suo momento di rottura delle convenzioni durante il carnevale. In questo periodo si consumavano i tradizionali riti di trasgressione. E tornavano continui gli ammonimenti delle autorità volti 29

a prevenire le violenze contro gli ebrei e gli scatenamenti nei cortei mascherati e in particolare durante la festa dei «moccoletti» che concludeva il carnevale. Ed era questa soprattutto che colpiva i viaggiatori e gli stranieri, da Goethe a Dickens. Il pomeriggio e la sera del martedì grasso, lungo il Corso, si svolgeva una festosa e trasgressiva gara volta a spegnere i moccoletti degli altri – candele o lumini spesso innalzati su lunghi bastoni – e innanzitutto quelli portati dalle donne e dalle ragazze. «Sia ammazzato chi non porta moccolo!» ci si grida a vicenda, e intanto ciascuno cerca di spegnere con un soffio il lume dell’altro. Il continuo accendere e spegnere, intercalato da grida sfrenate di «sia ammazzato», eccita e movimenta la folla strabocchevole, accrescendone l’animazione89.

Ma al risuonare dell’avemaria tutto tornava gradatamente nei confini e nelle gerarchie di sempre. Unico elemento significativo di mobilità nel decennio 18611870 fu il costante incremento demografico. In questo periodo la popolazione passò da 194.587 a 226.022 abitanti90. Ma in una città dove le morti superavano le nascite, l’aumento della popolazione non poteva essere affidato che ai nuovi venuti. E in effetti la crescita fu interamente legata alla immigrazione, con una punta molto elevata nel 1860-186191. Si trattava in una certa misura di profughi politici, soprattutto borbonici al seguito della corte napoletana in esilio e di altri che rifiutavano il nuovo assetto politico creatosi con la proclamazione del Regno d’Italia. Assai più significativa fu l’immigrazione dalla provincia verso Roma, non solo in quanto capitale, ma per l’ineguagliabile capacità di attrazione che la città esercitava nei confronti di una regione improvvisamente privata di altri sbocchi in seguito alla drastica riduzione del territorio statale.

4. Prima della fine La situazione romana appariva alla fine degli anni Sessanta in sostanziale equilibrio sul terreno economico e sociale. Anche sul piano politico non vi erano tensioni se non quelle indotte dalla 30

pressione esterna del Regno d’Italia e dalla irrisolta questione romana. Una pressione frenata – dopo la Convenzione di settembre, il rientro delle truppe francesi in patria e il passaggio della capitale a Firenze – dai rapporti con la Francia e ulteriormente indebolita dopo la sconfitta dei garibaldini a Mentana (3 novembre 1867) e il ritorno dei francesi. Il duplice insuccesso alle porte di Roma e in città con la repressione delle sollevazioni interne (a Porta S. Paolo, al lanificio Ajani) chiudeva l’epoca delle iniziative popolari e democratiche del Risorgimento. «La questione romana sembrava aggiornata a tempo indeterminato, in stato di imbalsamazione eseguito a regola d’arte»92. A questa immobilità politica corrispondeva il quadro tracciato dal De Cesare per le ultime estati della Roma pontificia. Le abitudini erano sempre le stesse, oggi come ieri, domani come oggi, singolarmente nella stagione calda, da giugno a ottobre. Deserto il Corso; chiuse le botteghe nella canicola; chiusi i palazzi signorili, perché i proprietarii andavano all’estero, o nelle proprie ville; chiusi i grandi alberghi e i grandi appartamenti per i forestieri, e solo, fra mezzogiorno e il tocco, s’incontravano per le vie gl’impiegati laici, che tornando a casa portavano le frutta in un panierino, o nel fazzoletto. Gl’impiegati non avevano il mese di vacanza, perché le vacanze erano tante in tutto l’anno; né i ministri si muovevano, e il cardinale Antonelli non lasciò mai Roma in nessuna stagione. [...] A rendere morta la vita cittadina, concorreva l’assenza degli artisti che quasi tutti tornavano nei loro paesi. Gli altri erano assidui e rumorosi frequentatori delle capanne di Ripetta, per fare il bagno nel Tevere, o di quelle più primitive fuori porta del Popolo. [...] E nelle sere estive i borghesi sedevano fuori i caffè a prendere il mezzo gelato, o giravano intorno ai limonari nelle piazze, o andavano a Capo le Case a bere una detestabile birra. Roma estiva era addirittura la città morta93.

Una città ferma, immobilizzata, che non voleva essere disturbata, che non voleva ascoltare: «seguitava l’abitudine di mettere la stoppa nei campanelli, perché il silenzio non venisse turbato»94. Anche dopo Mentana il destino di Roma e gli sviluppi della questione romana erano in mano solo all’Italia, dato che il potere temporale non trovava che pochi e minori sostenitori nell’opinione internazionale. Del resto la scelta di Pio IX e del Concilio Vaticano di proclamare l’infallibilità del pontefice contribuì all’iso31

lamento definitivo della S. Sede. Sulla questione, Giovanni Lanza, alla guida del governo italiano dal dicembre 1869, manifestava tuttavia non poche preoccupazioni. L’infallibilità sembrava restituire forza a un pontefice territorialmente indebolito, e la conservazione anche di un piccolo Stato gliela avrebbe accresciuta. Il regno italiano sarebbe per certo il primo a sentire i colpi di questa nuova possanza data al Papa. Non sarebbe a maravigliarsi se alla proclamazione del nuovo dogma, si volesse pure associare la necessità del potere temporale, come condizione indispensabile all’esercizio sicuro di quel nuovo attributo, e così portare al colmo l’antagonismo tra l’Italia e il Papato, e tra il clero e gli italiani95.

In realtà i ruoli erano ormai assegnati. Pio IX doveva lasciarsi sopraffare dalla forza, ma questa doveva essere in qualche momento esercitata, anche se era abbastanza chiaro che non vi sarebbe stata resistenza96. Toccava al governo italiano l’iniziativa. Sperare in una mobilitazione dell’opposizione politica interna alla città era inutile. Alla fine sarebbe bastata una piccola spinta, in fondo un episodio modesto. Eppure per l’Italia e per la Chiesa si aprì una nuova epoca97.

II

La capitale laica

1. Roma italiana «Le Regie truppe sono entrate in Roma questa mane per una breccia laterale a Porta Pia...». Con queste parole il presidente del Consiglio Lanza telegrafava ai prefetti per annunciare la presa di Roma del 20 settembre 18701. Si chiudeva così una vicenda legata a una contraddizione insanabile. Per un decennio si erano confrontate, da un lato, l’aspirazione all’unità nazionale congiunta al recupero di tutte le tradizioni e le memorie della storia d’Italia, dall’altro la difesa del ruolo universale del papato radicato nel possesso di uno Stato regionale italiano. Venuta meno, dopo la sconfitta di Sedan, la tutela esercitata sui domini pontifici da Napoleone III, che aveva fondato gran parte del suo consenso interno sull’appoggio dei cattolici, la classe politica italiana non aveva più alternative per evitare la conquista di Roma. Così per merito della «prudenza» del Visconti Venosta, dell’ardire del Sella, dell’equilibrata audacia del Minghetti, delle incitazioni e delle minacce della Sinistra, del buon senso del Lanza, e del concorso di cause esterne favorevoli si compié l’occupazione di Roma2.

Soluzione in larga misura scontata, ma non per questo meno carica di aspettative, tensioni, emozioni. Dal 17 settembre le truppe del Corpo di osservazione dell’Italia centrale (una denominazione di sconcertante eufemismo) al comando di Cadorna erano giunte sotto le mura di Roma e si at33

tendeva il contingente di Bixio proveniente da Civitavecchia per completarne l’accerchiamento. Sul lato est della città, in un tratto dove la cinta muraria non era difesa da fossati e bastioni, convergevano a Porta Pia e a Porta Salara, separate da poche centinaia di metri, le vie Nomentana e Salaria. Più indietro «quella specie di terrapieno compreso fra le due strade – largo poco più di un chilometro – era tagliato da due sole strade e da parecchi sentieri [...] Molte ville occupavano allora quel tratto di campagna», ville principesche notissime insieme ad altre minori. Queste ultime quasi tutte dello stesso stile un po’ borrominesco; con avanzi di antichi giardini all’italiana, rimpiccoliti dalle esigenze industriali del secolo per far posto alle viti e agli alberi da frutto; con statue manomesse e vecchie balaustre di pietra coperta di muffe e di finissimo musco che le chiazzavano di nero e di giallo; con qualche albero secolare, e mortelle rasate a misura e siepi di cipressi condannati a rimaner nani3.

Questo tipico paesaggio del suburbio romano finemente descritto da Ugo Pesci, uno dei giornalisti al seguito delle truppe, sarebbe stato teatro dell’episodio decisivo per la conquista di Roma. Artiglieria, truppe di linea, bersaglieri attendevano l’ordine di attacco. Che questo sarebbe stato sferrato la mattina del 20 settembre lo sapevano tutti, dentro e fuori la città. Il cannoneggiamento doveva iniziare alle 5.30. L’ora si avvicinava. Istintivamente, per uno di quei fenomeni che il ragionamento non vale a spiegare, tacevamo, trattenevamo il fiato, per timore che qualunque rumore ci distraesse. A qualche distanza da noi sentivamo il rumore sordo delle pedate di molti cavalli per le viottole erbose, e più lontano ancora quella specie di rombo cupo prodotto dalle artiglierie quando muovono a lento passo: neppure un suono di voci. Il distacco tra il colore bruno delle mura e quello del cielo fattosi roseo appariva sempre maggiore: la nostra trepidazione solenne. Uno, poi due, poi tre, poi altri orologi di chiese e di campanili batterono il primo tocco delle cinque e mezzo: poi il secondo, poi il terzo [...]. Al terzo colpo delle cinque rispose un colpo di cannone, poi un secondo, dalla parte di porta San Lorenzo e al di là di porta Salara. Oramai cosa fatta capo ha! Non si torna più indietro! L’aria era pura, 34

odorosa; la mattinata bellissima, senza una nuvola in cielo. Moviamoci! andiamo a Roma4.

Pio IX aveva riunito per quella mattina all’alba il corpo diplomatico per renderlo testimone dell’oltraggio che il papa stava per subire. La sera prima aveva modificato il suo iniziale intendimento che la durata della difesa dovesse «unicamente consistere in una protesta atta a constatare la violenza», come aveva scritto testualmente al comandante pontificio Kanzler. Ma le insistenze di quest’ultimo erano riuscite a convincerlo di prolungare la resistenza per testimoniare l’onore e il valore – peraltro mai messi veramente alla prova – dei soldati pontifici, molti dei quali stranieri (belgi, olandesi, irlandesi, canadesi), accorsi a difendere il papa. Questa decisione costò agli italiani 49 morti e ai pontifici 195. Cinque ore dopo l’inizio dell’attacco e dopo che si era accertata l’apertura della breccia a Porta Pia fu issata sulla cupola di S. Pietro la bandiera bianca. Intanto le truppe italiane entravano a Roma mentre i soldati pontifici ripiegavano nella città leonina (ossia a Borgo, il rione intorno al Vaticano), la cui occupazione non era stata inizialmente prevista dallo strumento di resa. Ma il giorno successivo, per timore di disordini, anche questa parte della città venne occupata. Pio IX si rinchiuse in Vaticano e non ne sarebbe più uscito. Nei ricordi e nelle testimonianze dei contemporanei l’accoglienza della popolazione fu festante e un nuovo clima sembrò instaurarsi da subito in città. Di questa nuova atmosfera si ritrova traccia in un osservatore critico e risentito come lo storico della Roma medievale Ferdinand Gregorovius che, di ritorno dalla Germania, era molto colpito dai cambiamenti. La violenta rivoluzione della città mi appare come la metamorfosi fatta da un giocoliere. [...] Cento cattivi giornali sono cresciuti come funghi e sono strillati in tutte le strade. Un’invasione di venditori e ciarlatani riempie le piazze. Tutti i momenti si innalzano bandiere, si fanno dimostrazioni. [...] Roma perderà l’aria di repubblica mondiale, che ho respirato 18 anni. Essa discende al grado di capitale degli italiani, i quali per la grande situazione in cui li hanno posti le nostre vittorie, sono troppo deboli. È una fortuna che io abbia quasi completato il mio lavoro, oggi non potrei più sprofondarmi in esso. Il me35

dio evo è come spazzato via dalla tramontana con tutto lo spirito storico del passato. Roma ha perduto il suo incanto6.

Un quadro tutto negativo e nessun rimpianto per la Roma dei papi, invece, in un’aspra pagina rievocativa del Carducci accompagnata da un giudizio sprezzante per quei sostenitori stranieri del passato cosmopolitismo irrimediabilmente perduto dopo la conquista italiana. [...] una borghesia di affittacamere, di coronari, di antiquari, che vende di tutto, coscienza, santità, erudizione, reliquie false di martiri, false reliquie di Scipioni, e donne vere; un ceto di monsignori e abati in mantelline e fogge di più colori, che anch’esso compra e vende e ride di tutto; un’aristocrazia di guardiaportoni; una società che in alto e in basso, nel sacro e nel profano, nel tempio e nel tribunale, nella famiglia e nella scuola, vive in effetto quale è tratteggiata nelle satire di Settano e del Belli, come la più impudicamente scettica, la più squisitamente immorale, la più serenamente incredula e insensibile a tutto che di sublime, di virtuoso, d’umano possano credere, vagheggiare, adorare o sognare le altre genti; una società che per trovarle una tinta d’eleganza o d’idealizzazione bisogna ricorrere alla tisi o alla pletora europea dantesi convegno intorno alle ruine de’ Cesari a ballare, a tirare alla volpe, a comprar la dispensa di mangiar grasso il venerdì, a giudicare la musica sacra dei castrati e portare a spasso i suoi amori, bisogna ricorrere alla sensualità delle elegie e della ragazza del Goethe, alla sentimentalità fastosa del Chateaubriand seppelliente nell’ombra dell’urbe l’adulterio con l’egoismo; a Niebuhr, a Gregorovius, a Mommsen, dotti uomini in vero, e stillanti eloquentemente disprezzo per gl’italiani7.

Un entusiasmo senza freni si rifletteva nelle pagine dei nuovi giornali pubblicati subito dopo la presa di Roma. «Qui dove da secoli immemorabili signoreggiava lo straniero; qui dove erasi accampato un potere sorto in onta a Dio e per castigo degli uomini; qui dove da ultimo si annidavano le più stolte idee di superstizione e di tirannide [...] qui sventola finalmente il vessillo della libertà, la bandiera del progresso!»: così «La Capitale» del 21 settembre; e «Il Tribuno», il 23: «Dopo quindici secoli di tenebria, di lutti, di miserie e di inenarrabili dolori, Roma, un dì regina del mondo, ritorna la metropoli di un grande Stato»8. 36

Nei primissimi giorni Roma italiana rimase affidata al Cadorna e, per l’ordine pubblico, al comandante militare della piazza. Contemporaneamente si erano aperti colloqui e trattative per la nomina della giunta provvisoria di governo per la città. Un’iniziativa avviata dai democratici Mattia Montecchi e Nino Costa (ex ministro della Repubblica romana l’uno, garibaldino a Mentana l’altro) mirava ad ottenere per un’ampia lista di nomi – fra cui molti moderati – l’approvazione di un comizio popolare convocato al Colosseo. La procedura e il comizio dai chiari echi repubblicaneggianti non potevano piacere al Cadorna. Il comizio si tenne il 22 con ampio concorso di popolo (si parlò di diecimila presenze) e nonostante qualche rumoroso dissenso su alcuni candidati, liberali dell’ultima ora, tacciati di «caccialepre»9 e qualche protesta contro i mercanti di campagna, si giunse alla designazione di 42 membri. Ma alla giunta così nominata fu impedito l’accesso al Campidoglio e Cadorna provvide a nominarne una più ristretta. Non erano tanto i nomi contenuti nella prima a destare preoccupazioni – vi prevalevano i moderati e anch’essa era presieduta dal cattolico-liberale Michelangelo Caetani duca di Sermoneta –, quanto l’esautoramento delle autorità governative10. Della giunta nominata da Cadorna facevano parte sei nobili, un medico, tre avvocati e otto fra possidenti e mercanti di campagna11. Ne erano ovviamente esclusi il Montecchi e il Costa. Fra i compiti della giunta vi era quello di preparare il plebiscito e le liste elettorali per le consultazioni politiche e amministrative12. Per quanto composta da elementi di grande moderazione la giunta si oppose a che venisse premessa alla formula del plebiscito «Vogliamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il governo costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori» la frase «Colla certezza che il governo italiano assicurerà l’indipendenza dell’autorità spirituale del papa». Su questo punto le forze politiche romane, moderati e democratici, concordavano pienamente. L’accettazione della premessa sembrava infatti porre dei limiti ad una netta cesura nei confronti del papato e condizionare il trasferimento della capitale13. Il governo, per parte sua, continuava a procedere nei confronti del papa con grande cautela e aveva a più riprese raccomandato al Cadorna di tenere un contegno «sommamente benevolo e conciliativo»14. Prudenza e tentativi di conciliazione si rivelarono 37

del tutto inutili e il risultato del plebiscito non contribuì certo ad ammorbidire il pontefice. Il voto era a suffragio universale maschile, ma gli iscritti non superavano i due terzi dei maschi maggiorenni. Il 2 ottobre l’87,6% dei romani iscritti si presentarono alle urne: 40.875 furono i sì, 46 i no. L’astensione non fu molto elevata, anche se è da ritenere che la mancata iscrizione della maggioranza del clero e dei militari pontifici contribuì a tenerla bassa. Votarono anche gli abitanti della città leonina, pronunciandosi all’unanimità per l’annessione. La giornata fu particolarmente festosa – a tratti solenne – in un susseguirsi di piccoli e grandi cortei di persone agghindate che in famiglie, in gruppi, per associazioni si recavano alle urne15. Il 9 ottobre nel decreto di accettazione del plebiscito si faceva cenno alla necessità di fornire al papato le guarentigie, le garanzie anche territoriali al libero esercizio del potere spirituale. Tale decisione divenne inevitabile dopo che l’enciclica Respicientes del 1° novembre protestava per la «cattività» imposta al pontefice che poneva gravi limiti alla sua autorità pastorale, e riconfermava le scomuniche per quanti, a ogni livello, si erano macchiati dell’usurpazione del potere temporale16. Il 9 ottobre, divenuta Roma ufficialmente italiana, al Cadorna era subentrato il generale La Marmora, con la carica di luogotenente generale del re per Roma e per le province romane. Si trattava ancora di una fase transitoria nella quale cominciò a realizzarsi l’unificazione giuridica e amministrativa con il Regno d’Italia. La scelta di La Marmora, moderato e notoriamente tiepido nei confronti di Roma capitale, doveva valere come garanzia agli occhi delle potenze internazionali di cui si continuavano a temere le minacce. Fra i compiti del luogotenente vi fu quello di nominare una giunta municipale. La Marmora vi riuscì con qualche difficoltà17, a testimonianza dell’esistenza di un’area non troppo esigua di tensione fra politici e notabili romani da un lato e autorità centrali dall’altro: era solo l’inizio di una vicenda destinata a protrarsi nei decenni successivi. Per definire il destino di Roma rimanevano ancora aperti due problemi, quello delle guarentigie al papa e quello del trasferimento della capitale. Due problemi affidati alla nuova legislatura apertasi dopo le elezioni del 20-27 novembre che avevano rinnovato la Camera. 38

Roma era stata designata capitale il 27 marzo 1861 al termine di un dibattito parlamentare in cui la politica di Cavour aveva toccato uno dei momenti più alti sia sul terreno dei princìpi che su quello delle soluzioni proposte. Erano grandi ragioni morali che attribuivano a Roma un ruolo unico fra le città italiane indicandola capitale d’Italia. Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze storiche, intellettuali, morali che devono determinare le condizioni della capitale di un grande Stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali; tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi è la storia di una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio; di una città, cioè, destinata ad essere la capitale di un grande Stato (Segni di approvazione su vari banchi). Convinto, profondamente convinto di questa verità, io mi credo in obbligo di proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione [...] la necessità di aver Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intiera nazione18.

Ma a Roma si doveva andare previo accordo con la Francia e dopo aver garantito l’indipendenza della Chiesa. Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni: noi dobbiamo andarvi di concerto con la Francia; inoltre senza che la riunione di questa città al resto d’Italia possa essere interpretata dalla grande massa dei cattolici d’Italia e fuori d’Italia come il segnale di servitù della Chiesa. Noi dobbiamo, cioè, andare a Roma senza che per ciò l’indipendenza vera del Pontefice venga a menomarsi [...]. Noi riteniamo che l’indipendenza del pontefice, la sua dignità e l’indipendenza della Chiesa possano tutelarsi mercé la separazione dei due poteri, mercé la proclamazione del principio di libertà applicato lealmente, largamente, ai rapporti della società civile colla religiosa19.

Roma era ormai la capitale inevitabile. Come ha scritto lo storico Rosario Romeo: [...] v’era, al di là di tutte le ragioni pratiche immediate, l’essenziale valore che il nome di Roma aveva acquistato per tutto il patriottismo italiano dopo trent’anni di predicazione mazziniana, così da porre seriamente in questione la legittimità nazionale di qualsiasi atto di rinuncia 39

a Roma da parte di chi non volesse escludersi dal movimento risorgimentale. [...] Certo, Roma significava anche altro: significava ideali di grandezza e aspirazioni di gloria staccate dalla realtà del paese e cariche di pericoli. Ma [...] a ciò concorreva non solo il nome di Roma ma l’ispirazione di fondo di gran parte del patriottismo italiano20.

Nel tornare a discutere, fra il dicembre del 1870 e il gennaio 1871, del tema della capitale nuove voci critiche, spentasi ormai quella dell’Azeglio, si erano levate a mettere in luce i rischi e tutta la retorica legata a Roma. In particolare dal conservatore cattolico Stefano Jacini venne l’opposizione più argomentata, in un celebre discorso pronunciato a Firenze in Senato. L’idea di Roma sede di governo non è un’idea essenzialmente liberale e patriottica; essa è un’idea da antiquari adottata dai patrioti e dai liberali in buona fede, ma senza rendersene ben ragione; essa non risponde ai bisogni dell’Italia nuova; è il belletto di un’Italia decrepita e che ha fatto il suo tempo, e non l’ornamento di quell’Italia che vagheggiamo e che deve percorrere le vie della libertà e del progresso se vuole assidersi da pari a pari colle nazioni più incivilite del mondo21.

Ma già prima alla Camera, il 23 dicembre, e poi anche al Senato il 26 gennaio 1871 (dove i voti a favore furono 94 e ben 39 i contrari) si decise che il trasferimento doveva avvenire «non più tardi del giugno 1871»22. Si trattava di trasferire in primo luogo la capitale legislativa e l’esecutivo, quindi il Parlamento, la presidenza del Consiglio, i gabinetti dei ministri ecc.: solo in seguito si sarebbe interamente trasferita la capitale burocratica23. Questa decisione comportò l’accelerazione di tutte le operazioni di ricerca degli edifici per i ministeri, per le Camere, per i tribunali, e degli alloggi per gli impiegati. Terminato il periodo della luogotenenza i poteri centrali furono rappresentati a Roma dal commissario per il trasferimento, il ministro dei Lavori pubblici, Giuseppe Gadda24. La legge delle guarentigie (del 13 maggio 1871) completò gli adempimenti istituzionali che consentirono a Roma di divenire la capitale effettiva mettendo al riparo il governo da ogni eventuale complicazione nelle relazioni internazionali. Con essa venivano attribuiti unilateralmente al pontefice onori sovrani, l’inviolabilità della persona, l’immunità della residenza con il godimento dei palazzi del Vaticano, del Laterano, della Cancelleria, della villa di 40

Castelgandolfo, la facoltà di tenere guardie addette alla sua persona, la libertà di corrispondenza con la facoltà di istituire comunicazioni postali e telegrafiche. Veniva riconosciuto il diritto di ricevere e inviare rappresentanze diplomatiche e concessa una dotazione annua di 3.225.000 lire pari a quella iscritta nel bilancio dello Stato pontificio. Pio IX respinse la legge e la dotazione, ma si avvalse di fatto di tutti i privilegi concessigli. Da allora e fino ai Patti lateranensi del 1929 i rapporti fra Stato e Chiesa sarebbero stati regolati dalle guarentigie del 1871. Il governo e le istituzioni del Regno si trasferirono a Roma entro la data prevista. Il re entrò ufficialmente nella capitale il 2 luglio 1871, mentre sin dal febbraio il principe ereditario Umberto con la moglie Margherita di Savoia risiedevano al Quirinale, designato come residenza dei sovrani. Vittorio Emanuele era già stato a Roma in occasione della devastante inondazione provocata dal Tevere che, dalla mattina del 28 dicembre 1870, aveva sommerso parti molto estese della città bassa con le principali strade centrali. Giunto nella notte del 31, visitò la città e il Campidoglio acclamato da una folla riconoscente e commossa e ripartì il pomeriggio dello stesso giorno25. Tornò solo il 2 luglio successivo arrivando in città alle 12 e mezzo. Dopo aver aver assistito all’apertura, nel pomeriggio, di una gara di tiro a segno all’Acqua Acetosa, la sera offrì un pranzo di gala al Quirinale e assisté ad una rappresentazione al teatro Apollo a Tordinona. Il giorno dopo passò in rivista nel pomeriggio le guardie nazionali di Roma schierate al Pincio, salutò poi dal balcone del Quirinale i cortei delle società operaie, dei circoli e i cittadini giunti ad acclamarlo, presenziò per mezz’ora a una grandiosa festa in suo onore in Campidoglio e immediatamente dopo ripartì, alle 11 di sera26. Ritornò a Roma qualche giorno prima dell’inaugurazione della sessione parlamentare che si tenne nella nuova aula di Montecitorio il 27 novembre. Saranno stati scrupoli religiosi, sarà stata quell’irrequietezza che gli faceva preferire le battute di caccia alla residenza stabile a corte, Vittorio Emanuele non amò mai molto la nuova capitale. L’atteggiamento del re non era nella sostanza diverso – seppure con diverse manifestazioni – da quello di molta parte della classe politica nazionale. Un misto di accettazione e ripulsa nei confronti di una capitale che rivendicava privilegi costosi e un trattamento 41

diverso da quello delle altre città. La «missione» di Roma era pur sempre condivisa sul piano delle enunciazioni retoriche, ma ostacolata nei fatti quando doveva tradursi in spese atte a trasformare la città. E tuttavia questa missione, questa consapevolezza dei nuovi destini di Roma continuò a infiammare molti animi agli esordi della capitale e anche in seguito, come ricostruì in pagine famose Federico Chabod27. Fra i più conseguenti sostenitori di una missione di Roma, la figura di maggiore spicco fu certamente quella di Quintino Sella. Il ministro delle Finanze non solo si era adoperato con determinazione per favorire la conquista della città, ma coltivava ed esternava una sua sistematica visione di Roma come nuovo faro della scienza. E in questa direzione cercò di favorire a più riprese le facoltà scientifiche dell’Università romana e l’Accademia dei Lincei. Non meno visionario delle affabulazioni mazziniane, questo disegno, che non poggiava su alcuna tradizione locale, doveva rigenerare la città e caratterizzarne la missione. Come raccontò dieci anni dopo lo stesso Sella a Teodoro Mommsen, che nel 1871 gli chiedeva «in tuono concitato: ma che cosa intendete fare a Roma? Questo ci inquieta tutti; a Roma non si sta senza avere propositi cosmopoliti» aveva risposto che «sì, un proposito cosmopolita non possiamo non averlo a Roma; quello della scienza». Ora in questa situazione io credo, o signori, che l’Italia non solo è interessata per sé come nazione, ma ha un debito d’onore verso l’umanità: essa deve adoperarsi in tutti i modi perché appaia bene la verità, la quale risulta incontestabile dalle indagini scientifiche; la scienza per noi a Roma è un dovere supremo. Fuori i lumi! fari elettrici anzi devono essere; imperocché abbiamo a fare con gente che si chiude gli occhi e si tappa le orecchie [...]. Dunque io dico: fuori i lumi! Questo deve essere il nostro intendimento, né solo a Roma, ma in tutto il paese [...]28.

Sella, cui non mancavano le certezze, pronunciava questo discorso nel 1881 nell’ambito di una discussione parlamentare sui destini della capitale allora in piena fase di trasformazione. Ma in generale non era facile per i sostenitori della nuova Roma misurarsi con il passato. E l’aveva anticipato con felice immagine Gino 42

Capponi nel dicembre 1870 in Senato, quando aveva ammonito «nella città dei palazzi, voi siete costretti a cercare dei palazzi, ma tutti saranno più bassi del Vaticano, alzato da secoli con quella leva possente sopra tutte, che è la religione». Anche La Marmora, in una delle sue prime impressioni da Roma, aveva scritto al Lanza «E il famoso Campidoglio come mi apparve piccino!»29. Difficoltà e inadeguatezze apparivano ai contemporanei difficilmente superabili. A un progetto articolato e scandito nel tempo si preferirono enunciazioni di princìpi ad alto contenuto ideologico e simbolico. Un’abitudine, un vezzo al quale non si sono sottratti anche molti storici successivi. Ai critici appartenenti a un più recente passato il limite dello sviluppo della capitale è apparso quello di non essere riuscita a divenire un centro economico propulsivo, una città industriale e produttiva. Invece di imputare a Roma l’incapacità di ricoprire il ruolo di città borghese-industriale (che fra l’altro sarebbe stato interamente artificiale) perché non tenere come punto di riferimento la capacità della classe dirigente locale e nazionale – e della cittadinanza nel suo insieme – di assolvere il compito propostosi: quello di creare una capitale che assolvesse in pieno il suo ruolo politico e simbolico di elemento unificante del nuovo Stato? Infatti, come sottolineava Romeo, «una capitale non è tale soltanto e neanche principalmente per la sua capacità produttiva: ma per ciò che rappresenta nella coscienza del paese, per la sua azione di centro politico e culturale»30. L’attenzione andrà allora spostata per individuare se e quando questo ruolo fu raggiunto, in quali modi mantenuto e difeso, in che misura disatteso e tradito.

2. La nuova politica Il trasferimento della capitale comportò il trasferimento a Roma non solo del governo e dell’amministrazione statale, ma significò anche lo spostamento di tutte le strutture della vita politica. Il Parlamento in primo luogo con tutti i suoi membri, poi anche molti giornali fra i più importanti – governativi e non, come «L’Opinione», «Il Diritto», «La Riforma»31 –, circoli e associazioni, in una parola tutto quello che ruotava intorno al sistema politico 43

rappresentativo ormai in vigore da oltre vent’anni ma sostanzialmente sconosciuto a Roma. Una certa tradizione democratica aveva già fatto le sue prove a Roma, ma il suffragio ristretto non le lasciava grandi possibilità di successo. Gli elettori amministrativi iscritti, per le prime consultazioni del 13 novembre 1870, furono 7721, pari al 3,41% della popolazione complessiva – una percentuale non lontana da quelle di Torino (3,53) e di Milano (4,16) – e la metà circa di essi prese parte alle elezioni32. Gli elettori politici ammessi alle urne nelle prime elezioni politiche del 20 novembre 1870 furono 7170 (circa il 3% della popolazione), ma solo 3115, pari al 43,4% degli iscritti, si presentarono ai seggi33. Il maggior numero di elettori amministrativi dipendeva dai criteri più larghi di ammissione al voto e innanzitutto dall’età più bassa, 21 anni rispetto ai 25 richiesti per le politiche. La distribuzione dell’elettorato amministrativo, diviso per rioni e in base ai requisiti di ammissione al voto, censo o capacità, conferma alcune indicazioni sul carattere delle diverse zone della città. Campo Marzio, iscrivendo nelle liste oltre il 6% dei suoi abitanti, è il rione più ricco e più colto: prevale in cifre assolute sugli altri tanto con gli elettori per censo che con gli elettori per capacità. Questi ultimi sono la larga maggioranza (65-70% circa) a Ponte, Trevi e Pigna, mentre gli elettori per censo raggiungono la percentuale più elevata nei quartieri popolari di Borgo, Ripa, Trastevere e infine a Sant’Angelo, dove gli ebrei accedono al voto in virtù soprattutto del reddito34. Le liste amministrative, apprestate in gran fretta, furono corrette l’anno successivo ammettendo altri 1151 elettori per censo e solo 52 per capacità35. Una correzione indispensabile, dato che la legge imponeva il rinnovo annuo di un quinto del Consiglio comunale. Per sostituire i dodici consiglieri sorteggiati (che erano rieleggibili) e reintegrare anche gli eventuali dimissionari e i deceduti, la lotta elettorale si riaccendeva ogni anno nei mesi estivi. Dopo un lungo susseguirsi di consultazioni parziali, solo nel 1889 si tennero nuove elezioni generali. Con la legge del 30 dicembre 1888 erano stati allargati i criteri di ammissione al voto, esteso ora a tutti i cittadini maschi che sapessero leggere e scrivere, che avessero superato i 21 anni e pagassero almeno 5 lire di imposte l’anno. Gli elettori aumentarono in tutta Italia del 65% rag44

giungendo la cifra di 3.343.875, pari all’11% degli abitanti. A Roma gli iscritti passarono da 34.418 a 45.563, raggiungendo il 10,96% dei 415.498 abitanti al 31 dicembre 188936. L’elettorato amministrativo tornava così a superare nettamente quello politico aumentato dopo la riforma del 1882, riforma che aveva introdotto anche lo scrutinio di lista e, per quanto riguarda Roma, concentrava in uno solo i cinque collegi uninominali della capitale37. Fino al 1882 nelle elezioni politiche, dopo un iniziale prevalere della Destra che conquistò tutti e cinque i collegi nel 1870, la Sinistra prese rapidamente il sopravvento. Nelle prime elezioni risultarono eletti Vincenzo Tittoni, appartenente a una grande famiglia di mercanti di campagna, nel I collegio (Monti e Colonna), Giuseppe Cerroti, generale ed esule pontificio, nel II (Trevi e Campo Marzio), l’avvocato Raffaele Marchetti nel III (Ponte, Parione e Sant’Eustachio), il principe Emanuele Ruspoli nel IV (Campitelli, Sant’Angelo, Regola e Pigna), il duca Michelangelo Caetani nel V collegio, il più popolare (Trastevere, Ripa e Borgo)38. Nel 1874 in due collegi (I e V) prevalse Garibaldi, candidato dal giornale democratico «La Capitale», in uno vinse il clinico Guido Baccelli, tendenzialmente della Sinistra, mentre il partito «liberale moderato» ottenne due seggi con l’anziano banchiere israelita Samuele Alatri e – dopo una rettifica dei risultati – con Augusto dei principi Ruspoli39. Dal 1876 la Sinistra prevalse in almeno quattro collegi su cinque. Le elezioni politiche non furono caratterizzate da un’elevata affluenza al voto. Fra il 1874 e il 1880 la partecipazione oscillò fra un massimo nel 1876 del 51,7% nel V collegio, dove fu eletto Luigi Pianciani, a un minimo nel 1880 del 21,3% nel I collegio, quando Garibaldi fu rieletto per la terza volta. I voti necessari per essere eletti, nello stesso periodo, andarono da un minimo di 297 a un massimo di 1375. Nel 1880 gli iscritti al voto erano 10.939, mentre dopo la riforma del 1882 avrebbero raggiunto la cifra più che doppia di 26.176, pari all’8,7% della popolazione complessiva di 300.467 al 31 dicembre 1881. Frequentissimi furono i ballottaggi per l’assegnazione dei seggi. Questi, come del resto le votazioni al primo turno, erano seguiti dai giornali con grande attenzione, accompagnata spesso da qualche asprezza polemica inevitabilmente legata ai meccanismi del sistema e alla personalizzazione dei confronti fra i candidati. 45

Le prime elezioni comunali del novembre 1870 portarono in Campidoglio 60 consiglieri. In grande maggioranza si trattava di esponenti della Destra, mentre una dozzina appartenevano al partito «avanzato», ossia alla Sinistra. Fallito il tentativo di vari circoli politici di presentare un unico elenco di candidati, espressione di tutte le tendenze filoitaliane, si confrontarono due liste, presentate l’una dal giornale moderato «La Gazzetta del Popolo», l’altra dal quotidiano democratico «La Capitale». Dodici erano i nomi comuni alle due liste, ma si trattava quasi esclusivamente di moderati. Gli esponenti più marcatamente democratici, come Montecchi e Costa, furono fra quelli che raccolsero meno voti: poco più di 800 rispetto ai 2600-2500 dei primi eletti40. Il Consiglio comunale costituiva, dal punto di vista sociale, una rappresentanza fedele dei ceti superiori cittadini. Vi sedevano, fra i più giovani, alcuni elementi delle famiglie aristocratiche41. Giovani anche o nella prima età matura alcuni mercanti di campagna di spicco, come Felice Ferri, Achille Gori Mazzoleni, Augusto Silvestrelli. Quest’ultimo risultava, dopo i nobili Doria Pamphili, Pallavicini e Odescalchi, il più cospicuo per valore degli immobili posseduti in città. Fra gli anziani, tutti sessantenni, Pianciani, gli architetti Camporesi e Cipolla, e Diomede Pantaleoni, medico, commissario dell’ospedale S. Spirito, un tempo uomo di fiducia del Cavour nei rapporti con la S. Sede. Vi erano poi avvocati (almeno sette), professori universitari, medici, archeologi ecc., in uno spaccato socialmente ma non politicamente rappresentativo42. Non erano presenti infatti le forze antisistema come i repubblicani, ma in primo luogo i cattolici. Uno degli elementi caratterizzanti la dinamica politica di quegli anni in tutta Italia era, come è noto, l’autoesclusione dei cattolici dalla partecipazione alle elezioni politiche, una scelta che non si estendeva in linea di principio alle elezioni amministrative. Per Roma, come sede del papato, questa scelta fu particolarmente significativa, anche per il consistente impianto propagandistico – di giornali innanzitutto – del quale il fronte cattolico disponeva oltre al tessuto dell’organizzazione ecclesiastica. E, prima di cercare e realizzare una stabile alleanza con i liberali moderati, i cattolici si presentarono, qui sta la novità, in prima persona nelle elezioni amministrative parziali del 1872 e del 1877. Ciò avvenne – anche con qualche contrasto con la gerarchia – quando i gruppi 46

cattolici ritennero di potersi confrontare ad armi pari con le forze liberali. Per comprendere gli avvenimenti di quegli anni va tuttavia ricordato che all’interno dello schieramento cattolico vi furono due opzioni: quella di un confronto-scontro e quella di un’alleanza fra le forze conservatrici. La scelta di uno scontro diretto fu adottata nel 1872 e nuovamente nel 1877. Ma mentre nel primo caso la battaglia fu condotta dalla Società primaria romana per gli interessi cattolici, nel secondo entrò in campo l’Unione romana per le elezioni amministrative, un’organizzazione destinata a dominare la lotta politica locale negli anni successivi43. All’inizio dell’estate del 1872 la Chiesa, per bocca dell’arcivescovo di Napoli cardinale Riario Sforza e dello stesso Pio IX, aveva invitato i cattolici a partecipare alle elezioni amministrative. «Uno dei mezzi onde impedire i progressi dell’empietà e il pervertimento della gioventù, potrebbe anche essere il concorrere alle elezioni amministrative e municipali [...]»: così si era espresso il pontefice in un discorso riportato dalla «Civiltà cattolica»44. E il principale quotidiano cattolico, l’intransigente «Voce della Verità», pubblicava la lista dei nomi proposti dal Comitato elettorale cattolico facendola seguire, il 4 agosto, dal pressante appello Cristiani accorriamo alle urne. Bisognava partecipare alle votazioni per lottare contro «il liberalismo che domina il mondo moderno, l’empia massoneria che si è impadronita dei governi e dei Re». Chi sente di essere cristiano a Roma deve pur sentire il dovere di accorrere domani alle elezioni amministrative. Abbiamo adoperato la più generale parola di cristiani perché nei giorni, che corrono, possono esistere soltanto o cristiani e perciò stesso cattolici, o increduli qualunque sia la gradazione di tinte con le quali l’incredulità vien mascherata, dal sedicente cattolico-liberale fino all’ateo45.

La mobilitazione dei cattolici aveva determinato non poche apprensioni nello schieramento liberale e nel governo. Lanza inviò una circolare ai prefetti perché vigilassero sull’adempimento del «sacro dovere» del voto, mentre anche i giornali moderati lanciarono una violenta campagna di stampa contro il pericolo clericale. Ai cattolici fu contrapposta una lista liberale sostenuta anche dagli elementi più progressisti: ne rimanevano fuori tuttavia i democratici «puri» che si presentarono separatamente sotto la guida del Cairoli. 47

Il fronte moderato vinse abbastanza agevolmente, distanziando di oltre 2000 voti quello cattolico che non riuscì a eleggere alcun consigliere. Più indietro ancora si piazzarono i democratici. I votanti furono 7120, pari al 46,3% dei 15.374 iscritti46. «La Voce della Verità» che aveva fatto leva sulla contrapposizione fra i romani e i non romani (i buzzurri)47, fra i cattolici e romani in antitesi ai laici italiani usurpatori, dovette incassare una dura sconfitta, attribuita da un lato al voto compatto degli impiegati, dei militari ecc. convogliati dal governo alle urne, dall’altro alle astensioni. Il 6 agosto deplorava gli scrupoli degli astensionisti e «le loro paure, poco giustificate e in ogni caso indegnissime di un cattolico». E il giorno successivo48, dopo aver ripreso la distinzione di Jacini fra paese legale e paese reale, attaccava polemicamente il presidente del Consiglio. Voi Giovanni Lanza, vinceste legalmente ma non realmente; e neppure la vittoria legale avreste avuta, se Roma reale avesse combattuto; perché voi vincete sempre quando i vostri avversari non si battono. [...] Contro i nostri 7000 romani cattolici, stavano i vostri 5000 cosmopoliti. Ma se da queste lanze spezzate, togliete i più che 3000 impiegati, questurini, uscieri, carcerieri, regii mozzi di stalla [...] sarà molto se restano per voi 1500 romani. Realmente adesso che è l’epoca delle maggioranze, potete dire sul serio di avere vinto con 1500 su 7000 romani?

Nei cinque anni successivi i cattolici non uscirono più allo scoperto. Oggetto di sorveglianza continua da parte delle autorità di polizia, nel 1876, secondo un rapporto del prefetto, il «partito clericale» appariva in declino49. Non era così, perché proprio fra maggio e giugno di quell’anno erano in corso una serie di consultazioni riservate fra esponenti politici e all’interno della curia. Esclusa nuovamente la partecipazione alle elezioni politiche, veniva affrontata l’ipotesi di presentare una lista a quelle amministrative e il questore informava dell’impegno dei parroci per mobilitare l’elettorato, dei propositi di sorveglianza e di presenza ai seggi50. Sembrano i chiari segni di quella che poi sarebbe stata l’Unione romana. Del resto il mutato atteggiamento della Chiesa, o almeno della parte più autorevole dell’organizzazione ecclesiastica, testimoniava la disponibilità a riconoscere un ruolo ai cattoli48

ci liberali transigenti: liberali «politicamente, in quanto desiderano liberiorem administrationem, ma non moralmente né religiosamente in quanto vogliono mantenersi cattolici, apostolici, romani», come scriveva la «Civiltà cattolica» nel maggio 187651. Il nuovo tentativo cattolico innescò uno degli scontri politici più significativi di quegli anni. Non tanto per gli esiti, quanto per le modalità rivelatrici del carattere e delle forme assunte dalla lotta politica amministrativa nella capitale52. L’avvio del contrasto mise in luce da un lato le profonde divisioni in campo liberale, dall’altro l’efficacia della linea adottata – anche se non interamente messa a punto – dall’Unione romana, una linea volta a coinvolgere nelle proprie liste, con una chiara operazione trasformista, gli elementi più moderati dello schieramento liberale. Questa iniziativa non riuscì a realizzarsi anche se sembrò incrinare la sempre più difficile unità d’azione delle forze laiche. Le tensioni si riaccendevano puntualmente in occasione delle elezioni sulla mai risolta questione dei nomi degli esponenti progressisti o democratici da inserire nelle liste. Nel 1877 i giornali furono ancora una volta fra i protagonisti del dibattito. Le discussioni trovavano anche un’altra platea nelle riunioni dei circoli, nei quali in qualche caso si svolgevano delle «votazioni di esperimento», ossia delle primarie. Le trattative sui nomi avevano anche – com’è naturale – aspetti riservati, spesso decisivi. «La Capitale» protestava non solo perché la lista era il risultato di un accordo fra i due giornali moderati, «Il Popolo Romano» e «La Libertà», ma perché questa veniva imposta a tutto lo schieramento laico: «[...] ci sono venuti dinanzi con un mosaico di nomi, combinati coll’alchimia dalla prefettura: hanno fuso insieme l’onestà e l’affarismo, il broglio e la lealtà, poi ci han detto: la lista unica è questa: o accettatela, o fate largo ai clericali»53. Le dispute interne e la sottovalutazione delle capacità di mobilitazione cattolica portarono, nella mattinata del 10 giugno – giorno delle votazioni –, ad una scarsa affluenza dei laici alle urne. Mentre si prospettava un trionfo clericale «La Libertà» usciva, nel pieno delle votazioni fra il primo e il secondo appello, richiamando i liberali a compiere il dovere elettorale54. Alle urne! Mentre scriviamo, la lotta ferve accanita. Organizzati come non lo è nessun partito, compatti sotto la condotta dei loro capi, 49

disciplinati e concordi, i clericali sono scesi in campo armati di tutto punto, pronti ad una lotta ad oltranza. Fin da questa mane prestissimo, le sezioni erano letteralmente assediate da una folla compatta di clericali, che hanno tentato di impadronirsi dei seggi. E ci sono in parte riusciti [...]. Vadano dunque subito alle loro regioni, approfittino del secondo appello [...].

L’intervento si sarebbe rivelato decisivo per il successo laico; l’intera lista liberale risultò eletta. Seguirono festeggiamenti e scherni ai danni dei clericali. Nei ricordi di Pesci «la sera stessa in piazza Colonna fu chiesta la Marcia reale; un centinaio di studenti che, prima di lasciare Roma per le vacanze, si erano riuniti a banchetto in un’osteria fuori di Porta del Popolo, tornati in città acclamarono, secondati dal pubblico, al Re, alla patria, all’avvenire d’Italia»55. L’atmosfera era di baldanzosa sicurezza. Due giorni dopo, un corteo per celebrare il successo era aperto da «un’insegna, sulla quale era dipinto un gran fiasco coll’iscrizione: Unione romana – 10 giugno 1877» e in seguito il sindaco Venturi, parlando ai dimostranti disse che «quello di ieri l’altro era un secondo plebiscito»56. In seguito alle elezioni del 1877 tutti i consiglieri comunali appartenevano esclusivamente a quello che veniva definito lo schieramento liberale nelle sue varie gradazioni, che era sostanzialmente diviso fra moderati e progressisti. Secondo la prefettura 28 erano i liberali moderati, 19 i liberali progressisti, 7 si collocavano nella categoria «abbastanza noto» ed erano politici di livello nazionale, 4 erano i moderatissimi, 2 i liberali senza altri aggettivi57. Già nelle elezioni dell’anno successivo entrarono in Consiglio due cattolici, i principi Placido Gabrielli e Camillo Aldobrandini58, e del resto l’Unione romana aveva dominato le elezioni provinciali suppletive del 1877. Nel 1879 la lista dell’Unione, rafforzata da alcuni consiglieri uscenti di parte moderata, riuscì a imporre 9 candidati su 13 grazie alle divisioni fra le due abituali tendenze dell’elettorato laico. Alla vittoria dei clericali, scriveva «La Capitale», «hanno voluto contribuire moderati, progressisti, deputati di Roma e ministero»59. I clericali si avvantaggiavano del «fascino che esercitano tuttavia alcuni nomi illustri per antica prosapia e più ancora considerati per gli averi che li accompagnano, non che per la costituzione potente del partito della reazione», mentre i liberali erano vittime delle continue «gare e rivalità»60. 50

Nel 1880 ben 13 candidati dell’Unione romana risultarono eletti su 14 eleggibili61. E nel 1881 la linea conciliarista dell’Unione ottenne un grande successo politico, riuscendo a presentare una lista comune con l’Associazione costituzionale, espressione dei liberali moderati. Il giornale liberale «La Libertà» riconosceva che l’Unione romana, nella scelta dei candidati, «ha dimostrato anche quest’anno di molta moderazione, evitando, con somma cura, di proporre candidati che avessero significato di provocazione [...] mentre i progressisti con meravigliosa ostinazione s’incocciano a voler fare inghiottire al pubblico candidati che esso non vuole»62. Inutili si erano rivelati anche i tardivi tentativi del Depretis, capo del governo, di combinare una lista di liberali e progressisti da contrapporre a quella mista dell’Unione romana63. E lo schieramento laico mostrò, a questo punto, un’inedita passività. «Il partito liberale in massa si ritrae sdegnato, e delibera l’astensione. I giornali, che sono il primo nucleo delle forze militanti di un partito, si racchiudono nel completo silenzio»64. Tutti gli 8 candidati comuni della lista si piazzarono ai primi posti della graduatoria. Fra di essi vi erano Leopoldo Torlonia e Paolo di Campello, uno dei leader dell’Unione romana e dei conservatori nazionali. Risultarono eletti altri tre esponenti cattolici e solo due liberali progressisti, Luigi Pianciani e Biagio Placidi. L’anno successivo, il 16 luglio 1882, ricomposte le divisioni, il fronte liberale di moderati e progressisti riusciva a imporre tutti i suoi candidati e i cattolici rimanevano esclusi65. Nell’interpretazione dei protagonisti della lotta politica municipale l’astensionismo degli elettori tornava a più riprese, talora genericamente deprecato, più spesso usato come giustificazione di una sconfitta degli uni o del successo di altri. Anche gli storici hanno sottolineato questo aspetto come uno degli elementi caratterizzanti la vita pubblica italiana. E il tema si è in seguito inserito nella riflessione sulla permanente separazione fra Italia reale e Italia legale e insieme sulla necessità di superare questa dicotomia con l’allargamento del suffragio. Se riportiamo il problema al concreto svilupparsi della vita politica nell’Italia della seconda metà dell’Ottocento, e in particolare agli anni Settanta e Ottanta, sarebbe forse opportuno abbandonare preliminarmente un criterio valutativo che appare fortemente segnato dai trionfi della partecipazione politica di massa 51

del XX secolo. Sgombrato così il campo potrà apparire nei suoi effettivi contorni una società che si è appena affacciata alla politica e ai suoi riti elettorali. In questo ambito la politicizzazione risulta alquanto rapida e, tenuto conto del relativo ritardo, soprattutto a Roma, nell’avvio del sistema, la partecipazione piuttosto alta. Del resto, per quanto ristretto, l’elettorato nel suo insieme – e soprattutto quello amministrativo – era ben più ampio dell’esiguo strato sociale facilmente mobilitabile66. Nella valutazione dei comportamenti politici va preso in considerazione il meccanismo elettorale in vigore in quegli anni, con la richiesta d’iscrizione alle liste, con la presenza ai seggi e la risposta agli appelli nominativi. Tutta la procedura era più visibile, in un certo senso più pubblica di quella alla quale ci hanno abituato il suffragio universale e la larghissima partecipazione del secondo dopoguerra. Andare a votare era già di per sé una manifestazione politica, anche se a rimorchio delle direttive del governo. Inoltre, la preparazione delle liste, la nascita dei comitati, talora le elezioni primarie su alcuni nomi, infine le ricorrenti polemiche sui giornali, tutto sembra restituirci il quadro – almeno per la capitale – di una politicizzazione in qualche misura rivoluzionaria. A Roma numerosissimi erano gli interlocutori in campo, in primo luogo i giornali. Non solo quelli liberali e democratici, ma anche i numerosi giornali cattolici. Secondo le autorità, nel 1877 si contavano a Roma e nel circondario 102 giornali e periodici, di cui 44 liberali, 28 clericali, 1 repubblicano e 30 di «nessun colore»: 22 erano quelli strettamente politici. I più importanti erano: «L’Opinione», «Il Bersagliere», «Il Fanfulla», «Il Popolo romano», «Il Diritto», «La Capitale», «La Libertà», «L’Osservatore romano», «L’Italia», «Il Dovere»67. A questi vanno aggiunti «La Voce della Verità» e, dal 1878, «Il Messaggero», a lungo portabandiera dell’opinione democratica, incisivo nella cronaca cittadina, rimasto nel lungo periodo il più importante quotidiano romano68. Né questa politicizzazione della città si limitava alle forze ufficialmente presenti nelle contese elettorali. In virtù della sua immagine di città capitale Roma divenne presto sede di convegni, meeting, comizi delle forze antisistema, come repubblicani e anarchici internazionalisti. Il reclutamento locale di queste forze non era forse numericamente rilevante, ma per i suoi più radicali oppositori era indispensabile rendere visibile la loro presenza nel 52

centro del potere politico. Questi oppositori disporranno tuttavia di giornali – come «Il Dovere» e, su un piano di repubblicanesimo meno intransigente, «La Lega della Democrazia»69 – nonché di una discreta capacità di mobilitazione in determinate occasioni, come i congressi e il meeting repubblicano del 31 maggio 1877 tenuto al teatro Apollo, con circa 5000 presenze, in contrapposizione alla celebrazione del giubileo episcopale di Pio IX. Uno dei momenti culminanti delle manifestazioni democratiche a Roma fu il Comizio dei comizi che nel febbraio 1881 raccolse democratici, radicali e repubblicani di varie tendenze ed ebbe come promotori, fra gli altri, Giovanni Bovio, Felice Cavallotti, Alberto Mario. La riforma elettorale e l’allargamento del suffragio erano all’ordine del giorno del Parlamento e «i delegati di cento comizi e di mille e duecento associazioni popolari» invitarono il popolo a «riconquistare il suffragio universale come uno dei diritti costitutivi di quella sovranità, da cui sorge la legge della nuova vita italiana». Ma non mancarono pronunciamenti contro la monarchia, contro l’Austria e a favore del voto alle donne. L’intero ventaglio delle posizioni radicali e repubblicane fu in quei giorni presente a Roma, ma, osteggiata dall’autorità pubblica, non riuscì a portare in piazza e sotto il Quirinale i suoi argomenti70. Un altro livello di presenza politica fu quello legato alle prime forme di agitazione operaia, ai primi scioperi, all’attività delle prime organizzazioni dei lavoratori. In quest’ambito – e in rapporto all’importanza e al significato politico della stampa – non sorprenderà il ruolo di rilievo assunto fin dall’inizio dagli operai tipografi71. Parlamento e governo, elezioni comunali, provinciali e politiche, circoli, convegni, meeting, giornali e dibattiti, manifestazioni e cortei. Roma viene progressivamente invasa dalla politica. Una politica che giunge in gran parte dall’esterno sia per i contenuti che per gli uomini, ma che diviene presto parte integrante della città. In questo contesto dalle molte facce – alle quali va aggiunta quella rappresentata dalla massoneria e dal suo graduale rafforzarsi in città – i contrasti fra liberali e cattolici e soprattutto quelli fra clericali e anticlericali rappresentano per il primo decennio e oltre l’aspetto più significativo, quello in cui anche la partecipazione dell’elemento popolare è più forte. 53

Gli episodi di anticlericalismo iniziarono ben presto. E la risposta dei clericali fu decisamente aggressiva. L’8 dicembre 1870, in occasione della festa dell’Immacolata, fu organizzata a S. Pietro una dimostrazione in onore di Pio IX; gli anticlericali risposero con una controdimostrazione che non fu adeguatamente frenata. «Ne nacquero gravi conflitti; furono sparati molti colpi di rivoltella, furono parecchi i feriti, molti gli arrestati fra cui due ufficiali della guardia svizzera»72. Fra il 1870 e il 1881 si possono contare, fra grandi e piccoli, oltre una trentina di casi gravi di intolleranza, di provocazione, talora accompagnati da scontri fisici73. Ma l’episodio più noto fu quello accaduto nella notte del 13 luglio 1881. Per assecondare le volontà di Pio IX, morto tre anni prima (il 7 febbraio 1878), fu deciso di traslare nottetempo la salma del pontefice da S. Pietro a S. Lorenzo fuori le Mura. Il trasporto, previsto inizialmente in forma riservata, venne presentato dalle organizzazioni e dalla stampa cattolica come una prova di forza che inevitabilmente innescò la mobilitazione anticlericale. Quando alla mezzanotte del 12 luglio il carro con il feretro cominciò a muoversi dalla porta di S. Marta molte migliaia di persone erano raccolte in piazza S. Pietro. Già nella contigua piazza Rusticucci il corteo, che avanzava accompagnato da fiaccole e canti, fu fatto segno da grida e cori ostili. A Ponte S. Angelo si udirono minacciose voci che gridavano «Al fiume! Al fiume!». I clericali usavano le torce, gli anticlericali i bastoni, insufficientemente ostacolati dalla truppa disposta a protezione del corteo. Scontri si ebbero anche a Magnanapoli e a Termini. Poi il carro funebre accelerò la corsa lasciandosi alle spalle i dimostranti, ma anche parte del suo seguito. Evidentemente la situazione sfuggì al controllo della forza pubblica che non aveva adeguatamente calcolato l’ampiezza del concorso di folla e la vulnerabilità di un corteo che doveva percorrere un lunghissimo tragitto malamente illuminato. Al di là delle difese d’ufficio e del processo ai sei arrestati fra gli anticlericali – cinque dei quali poi condannati a pene minori – la vicenda si tradusse in una inutile prova di forza fra i tradizionali schieramenti contrapposti. Le responsabilità dell’accaduto, che suscitò qualche pesante eco internazionale, ricadono sul governo, responsabile di non aver accolto le richieste di un maggior spiegamento di forze avanzate dal questore e dal commissario di Borgo, 54

Manfroni74. È forse anche possibile immaginare un ruolo tiepido delle autorità governative di recente scavalcate nella capitale dal convergere di moderati cattolici e di liberali nelle elezioni comunali, e forse tutt’altro che propense ad accettare operazioni politiche compiute al di fuori del controllo dei vertici nazionali. L’episodio diede notevole slancio alle organizzazioni anticlericali e già nell’agosto successivo sorsero numerosi circoli popolari di questo orientamento75. Su questo specifico terreno si era realizzata una convergenza fra «un preesistente radicalismo romano, in buona parte nutrito di profonda avversione alla curia papale e al governo dei preti, che si era sviluppato in modo sotterraneo, ma che era talora emerso alla superficie, per esempio nel 1848-49»76 e un radicalismo importato dal Nord, convergenza che aveva trovato la sua voce e il suo organo nel battagliero quotidiano «La Capitale». L’avanzante politicizzazione si manifestava anche nella trasformazione della dimensione simbolica che modificava i luoghi e introduceva nuovi itinerari nell’uso della città e nella percezione urbana. Non erano certo né la rivoluzione denominativa nella toponomastica con le nuove vie e piazze intitolate alle battaglie risorgimentali, ai principi di casa Savoia o alle città e regioni italiane, né l’insistita vocazione epigrafica del Comune, impegnato ad apporre lapidi commemorative delle recenti o più remote memorie patrie in Campidoglio e sui muri degli edifici cittadini77, a dare interamente il segno di questa trasformazione quanto altri momenti di grande visibilità, anche se effimeri. La manifestazione popolare che accompagnò in Campidoglio il busto di Mazzini dopo la sua morte, il 17 marzo 1872, o il funerale di Vittorio Emanuele II, il cui corteo andò dal Quirinale al Pantheon, passando per piazza del Popolo e il Corso, il 17 gennaio 187878. Il grande apparato scenico delle esequie del re nella piazza del Pantheon e il recupero del grandioso edificio antico a ricettacolo dei grandi (in analogia al modello francese) erano inevitabilmente racchiusi in una dimensione urbana inadeguata per le difficoltà di declinare l’antico nella nuova dimensione monumentale della modernità. Che questo rimanesse uno dei problemi di fondo della città era presente, seppure in modo confuso e teoricamente inadeguato, a molti e segnò i limiti – allora e in seguito – della progettazione della nuova capitale. 55

3. La secolarizzazione Roma non perse immediatamente i suoi caratteri esteriori. Per questo ci volle del tempo, molto tempo, non anni ma decenni. Quello che cambiò da subito fu invece l’uso di parte rilevante della città. Cambiarono le insegne e gli stemmi perché in poco tempo la destinazione di moltissimi edifici era mutata, così come erano mutati i loro utenti. Molti fra gli edifici pubblici più importanti assunsero un nuovo ruolo, e moltissimi conventi vennero svuotati e destinati a nuova funzione. Tutto ciò avvenne innanzitutto in virtù dell’occupazione e della sostituzione di sovranità, per il resto in seguito alla soppressione delle corporazioni religiose. Questi passaggi inevitabili consentirono il trasferimento delle istituzioni più importanti da Firenze a Roma in tempo relativamente breve: del resto indugiare avrebbe indebolito la posizione internazionale dell’Italia. Il palazzo del Quirinale fu destinato al sovrano e alla corte, nel palazzo Madama, sede delle finanze pontificie, si istallò il Senato, nel palazzo di Montecitorio, che ospitava i tribunali e il senatore di Roma, andò la Camera dei deputati dopo che il cortile, su progetto dell’ingegner Comotto, fu trasformato in aula parlamentare. Nel palazzo della Sacra Consulta di Stato, in piazza del Quirinale, si sarebbe trasferito il ministero degli Esteri. Palazzo Braschi fu acquistato79 per farne sede della presidenza del Consiglio e del ministero degli Interni. Per gli altri ministeri e le altre amministrazioni pubbliche, per le caserme si attinse al vasto patrimonio immobiliare delle case religiose che possedevano grandi edifici nelle zone centrali della città. La legge del 3 febbraio 1871 per il trasferimento della capitale, che dava ampia facoltà di esproprio, offrì la necessaria strumentazione giuridica a questa operazione. Il convento dei filippini di S. Maria in Vallicella (la Chiesa Nuova) fu destinato ai tribunali, quello dei domenicani di S. Maria sopra Minerva al ministero delle Finanze e poi a quello della Pubblica istruzione, gli edifici dei gesuiti al Gesù furono trasformati in caserma e poi in sede dell’Archivio di Stato e dell’Archivio Centrale del Regno, mentre il Collegio Romano ospitò il liceo Visconti e dal 1876 la Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele II. Nei conventi dei SS. XII Apostoli dei minori conventuali andò il ministero della Guerra, in 56

quello dei SS. Silvestro e Stefano in Capite delle clarisse i Lavori pubblici, in S. Agostino degli agostiniani la Marina, in S. Andrea della Valle dei teatini l’Ufficio del registro, in S. Maria in Campo Marzio delle benedettine la prima sede degli archivi di Stato e del Regno, in S. Maria Regina Coeli delle carmelitane scalze il carcere giudiziario, in S. Marcello dei serviti la questura, in S. Pietro in Vincoli dei canonici lateranensi la facoltà di Ingegneria, in quello dei SS. Domenico e Sisto delle domenicane la Corte dei conti e poi il Fondo per il culto. Fra il 1871 e il 1875 circa cinquanta80 conventi vennero espropriati, interi isolati che caratterizzavano la trama urbana cambiarono di mano cancellando presenze religiose ormai secolari. Questo processo di trasformazione avviato sotto l’urgenza del trasferimento delle amministrazioni centrali fu integrato con l’estensione a Roma e provincia della legislazione sulla soppressione delle corporazioni religiose in virtù di un’apposita legge, quella del 19 giugno 1873. Pur condotta con criteri volti a tutelare la presenza di case generalizie straniere e con una deliberata cautela onde ridurre gli attriti e le inevitabili tensioni che le chiusure comportavano con tanti religiosi che godevano di prestigio e protezioni, questa politica portava a compimento un disegno insieme ecclesiastico e finanziario su cui tutta la classe dirigente del nuovo Stato, nonostante le sparse differenze sulle modalità di esecuzione, sostanzialmente concordava. In un discorso del 1865 anche un moderato come Bonghi aveva sostenuto, interpretando il sentire comune, che le corporazioni andavano soppresse «perché più non hanno vita, non esercitano più nessuna funzione nella società civile, anzi nella società religiosa stessa»81. E qualche decennio dopo il Digesto italiano sintetizzava così il significato dell’operazione e dei princìpi ispiratori di quelle leggi che oltre a quello di restaurare la finanza del nuovo regno, ebbero lo scopo principalissimo, morale, politico e religioso di sopprimere corporazioni e fondazioni religiose non più rispondenti al loro fine e non necessarie all’organismo della Chiesa82.

Anche Roma fu quindi inserita in quel grande processo di secolarizzazione dei beni ecclesiastici, considerati per radicata convinzione ideologica equivalenti a beni nazionali, che vide in tutta 57

Italia circa 60.000 prese di possesso, provenienti da enti soppressi o da corporazioni conservate, e un passaggio al demanio di beni per un valore di oltre 875 milioni di lire con vendite che, al 30 giugno 1889, assommavano a 653.420.369 lire83. Su 221 case religiose di Roma 134 furono soppresse. Delle 93 case maschili 79 erano di ordini possidenti, 14 di ordini mendicanti. Le 41 femminili soppresse erano tutte possidenti. Le case maschili ospitavano 1036 sacerdoti e 783 laici. Nelle femminili risiedevano 719 coriste e 350 converse84. Se si tiene conto che per grandissima parte i conventi soppressi erano situati a Roma, il numero dei religiosi coinvolti dalla soppressione fu vicino al 60% del clero regolare maschile e al 45% di quello femminile presente nella capitale85. Si trattò di un grave trauma per il clero romano. Ma un trauma che poteva rivelarsi in fondo benefico perché le persecuzioni fanno del bene, in quanto che danno occasione a conoscere i difetti, che possono essere in un Ordine [religioso], come avviene nel muovere i mobili di quattro gambe, i quali se ne hanno una sconnessa, nel muoverla la rivelano e zoppicano.

Questo era il parere riservato dello stesso Pio IX86. Gli enti regolari furono interamente soppressi, mentre furono conservate quelle istituzioni religiose che svolgevano attività di assistenza e beneficenza o avevano compiti di missione. Oltre che allo Stato e al Comune87 gli edifici degli enti religiosi furono destinati a ospedali, a opere pie, a scuole elementari e ad altri istituti di istruzione secondaria e superiore, alla Congregazione di carità del Comune, infine al Fondo speciale per gli usi di beneficenza e di religione della città di Roma. L’operazione portò in mano pubblica non solo gli edifici utilizzabili o vendibili, ma una serie cospicua di chiese monumentali. S. Andrea della Valle, S. Andrea al Quirinale, la chiesa del Gesù, i XII Apostoli, S. Maria sopra Minerva, S. Maria del Popolo, S. Maria in Aracoeli, S. Sabina sono le più note e più importanti fra le settanta chiese romane che sono oggi di competenza del Fondo edifici di culto controllato dal ministero dell’Interno italiano88. Passarono al pubblico servizio le biblioteche Casanatense dei domenicani, Angelica degli agostiniani e Vallicelliana dei filippini, mentre con i volumi sequestrati nei conventi e con quelli del Collegio Romano dei gesuiti si costi58

tuì la nuova Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele II: ma la fusione avvenne in modo talmente caotico, in particolare nella presa in carico e nella catalogazione delle opere, nella eliminazione dei duplicati, che si manifestarono presto difficoltà tali da costringerla alla chiusura dalla fine del 1879 agli inizi del 188289. Nonostante le numerose destinazioni pubbliche, anche a Roma, come altrove, gran parte dei beni degli enti religiosi vennero posti all’asta e venduti. Già nel 1878 era stato tracciato un consuntivo che attestava come al 31 dicembre 1877 fossero stati venduti, in poco più di quattro anni, 711 lotti per 27.107.684 lire con un incremento d’asta del 19,3% e come, a quella data, i beni disponibili, escluse le terre concesse in enfiteusi, avessero un valore di circa 6 milioni. L’80% almeno del patrimonio alienabile era stato quindi collocato nonostante le polemiche e opposizioni del mondo cattolico, superate anche in virtù degli espedienti approntati onde consentire di evitare la scomunica di quegli acquirenti che avessero sottoscritto l’impegno a restituire i beni in caso di restaurazione del potere papale. La classifica per valore dei beni venduti, che era anche una graduatoria di ricchezza, vedeva primeggiare fra gli enti soppressi i benedettini di S. Paolo seguiti dalla congregazione di S. Filippo Neri e dal monastero dei SS. Domenico e Sisto; fra gli enti conservati il capitolo di S. Pietro, la Pia Casa del Sant’Uffizio e il capitolo di S. Giovanni in Laterano. Tuttavia gli effetti e il significato della liquidazione dell’asse ecclesiastico a Roma non sono stati interamente accertati se si guarda all’identità degli acquirenti più che al risultato complessivo delle alienazioni, che alla data del 1° ottobre 1884 aveva fruttato 34.423.159 lire90. Si sono infatti studiati più gli acquisti dell’Agro che quelli compiuti in città. Dei 48 acquirenti delle tenute agricole ben 25 furono i mercanti di campagna, che acquistarono 23.154 su 29.497 ettari, pari al 78,5% del totale, confermando il loro ruolo di protagonisti dell’imprenditoria agricola e della scena economica romana91. Per quanto riguarda la città è possibile farsi un’idea dei caratteri e delle dimensioni dei trasferimenti di proprietà utilizzando i dettagliati rendiconti che la commissione di vigilanza della giunta liquidatrice pubblicò annualmente a partire dal 1875. Già entro il 1874, ossia in poco più di un anno, si erano venduti beni rurali e urbani per 15.969.822 lire, quasi il 60% di quello che risulterà alienato alla fine del 1877 e il 46% del valore complessivo dei be59

ni proposti all’incanto. Questo andamento testimoniava, dopo un avvio prudente, il crescente interesse degli acquirenti, che si aggiudicarono nel primo anno alcuni dei lotti migliori. Le maggiori tenute dell’Agro furono infatti vendute tutte nel 187492 e 46 proprietà del suburbio su 75 passarono di mano nello stesso anno. Anche sul fronte degli immobili urbani si registrò un vivace interesse: mutò, come è naturale, il ventaglio degli acquirenti, fra i quali tuttavia si ritrovano nominativi di mercanti di campagna. Vennero vendute case e porzioni di case, granai, fienili, più raramente interi casamenti, come quello di via Vittoria 22-37, già dei chierici regolari di S. Lorenzo in Lucina, il lotto più cospicuo del 1873-1874, acquistato per 243.300 lire da Sabato Di Porto e dalla ditta Leone Tagliacozzo. Si avvicinarono a questa cifra solo altri due lotti di case situate rispettivamente a S. Carlo al Corso e alla Chiesa Nuova. Accanto ad alcuni altri acquisti di commercianti ebrei, i più facili da individuare in virtù del cognome, troviamo, fra i nominativi noti, monsignor de Mérode acquirente di un granaio, l’ingegner Comotto, il progettista dell’aula parlamentare che comprò alcune case in proprio e per conto della Società di lavori pubblici, Bernardo Tanlongo, Michele Pantanella che acquistò gli edifici di via dei Cerchi sede dei mulini dell’impresa omonima93. Negli anni Settanta si compì a Roma un’imponente operazione di secolarizzazione immobiliare dagli evidenti significati ideologici e simbolici. E la situazione rimase tale, salvo parziali recuperi attuati grazie ad acquisti compiuti da prestanome, fino alla salda ripresa della proprietà ecclesiastica seguita ai Patti lateranensi del 1929. Fin qui la misura fisica e spaziale di una rivoluzione laica che, come è ovvio, investì inevitabilmente anche i settori della formazione e trasmissione della cultura. E dunque insieme organizzative, ideali e ideologiche furono le innovazioni introdotte nei vari gradi dell’istruzione dopo la presa di Porta Pia94. Per quanto vi fossero stati degli eccessi nel descrivere l’arretratezza dell’università romana nel 187095, era evidente che la Sapienza aveva scelto, fino allora, di sottrarsi alle insidie del progresso. Come scriveva Emilio Morpurgo, professore di statistica a Padova e deputato del centro-destra, i codici giustinianei, il diritto canonico, l’archeologia della scienza giuridica, non altri, erano gli studii che tenevano il maggior posto nella fa60

coltà di giurisprudenza; le scienze naturali, perché insidiatrici della cosmogonia giudaica, eran tenute in sospetto; [...] la medicina e la chirurgia si trattavano a guisa di alleate del materialismo; poverissima e deliberatamente angusta vi si teneva l’anatomia umana e comparata; non si teneva insegnamento di istologia; alla fisiologia mancavano gli esperimenti, cioè la parte più indispensabile più vera della scienza [...]96.

Soppressa la facoltà di Teologia, l’antica Università della Sapienza venne parificata alle altre università del regno e radicalmente trasformata con l’istituzione di nuove lauree e nuove facoltà e con la modernizzazione di quelle tradizionali. Queste trasformazioni erano sollecitate dalla necessità di un confronto serrato con la Chiesa e ispirate alla convinzione – in qualche misura ingenuamente propagandistica – che a Roma si decidessero i destini della scienza italiana97. Nacque il corso di Filosofia e si incominciò a insegnare la storia moderna a Lettere98. Ampio fu il rinnovamento degli studi a Giurisprudenza con l’introduzione della statistica, dell’economia politica, della scienza delle finanze, della filosofia del diritto, delle procedure civile e penale, del diritto costituzionale. Ancora più esteso fu l’ampliamento dei corsi a Medicina99. Cospicui furono gli investimenti per laboratori, musei e nuove sedi. I docenti passarono dai 46 del 1869 (esclusa Teologia) agli 85 del 1878-1879 e alcune personalità di grande spicco della cultura italiana (il filosofo Antonio Labriola, il chimico Stanislao Cannizzaro, lo statistico Angelo Messedaglia, il matematico Luigi Cremona, l’anatomopatologo Corrado Tommasi-Crudeli) furono chiamate ad insegnarvi. All’inizio la Sapienza registrò un calo delle iscrizioni, non solo per la perdita degli studenti di teologia e per l’istituzione di un parallelo ateneo pontificio con studi giuridici, matematici e fisici (chiuso d’autorità nel 1876), ma anche – si sostenne polemicamente – perché, divenuta un’università alla pari con le altre italiane, aveva perso quella fama di università facile che attirava studenti da altre parti d’Italia. Di grande significato simbolico fu uno dei primi atti della politica dell’istruzione a Roma. Il 3 dicembre 1870 si inaugurava il ginnasio-liceo Ennio Quirino Visconti che apriva i suoi corsi nel Collegio Romano, la «casa madre» del sistema educativo della Compagnia di Gesù. Un liceo presto chiamato a rendere testimo61

nianza della superiorità e dell’alto livello della cultura laica e nazionale100. L’educazione rimase, nei primi anni di Roma italiana, un terreno privilegiato di scontro con la Chiesa e le tradizioni ecclesiastiche. Come testimoniò nel 1873 il prefetto di Roma Gadda, qui le scuole private non hanno un carattere di rivalità, ma di ostilità; qui non vi è una gara, ma una guerra. Qui non si può attendere dagli avversari un giudizio spassionato e leale, ma bensì una sistematica denigrazione, uno sforzo a demolire tutto ciò che è istituto nazionale. Nelle scuole clericali qui si vogliono preparare non dei cittadini, ma dei soldati della reazione101.

Le scuole superiori, soprattutto in provincia, continuarono ad essere espressione delle istituzioni religiose, in particolare dei seminari che offrivano i fondamenti dell’istruzione classica. Ma lo Stato fece valere, seppure con gradualità, il suo diritto al controllo sui programmi e sulla preparazione degli insegnanti: così le scuole che volevano consentire ai propri allievi l’accesso all’università dovettero uniformarsi. A poco servì l’istituzione delle «scuole paterne», frutto dell’iniziativa di gruppi di genitori che si organizzarono per fornire un insegnamento tradizionale a guida religiosa, presto costrette a chiudere102. Le istituzioni religiose conservavano il predominio nell’educazione femminile in tutti i gradi e in particolare in quello superiore; e proprio in chiave evidentemente antagonistica fu fondata nel 1874 la scuola superiore femminile a pagamento di via della Palombella, diretta da Erminia Fuà Fusinato103. Un grande sforzo di rinnovamento investì fin dall’inizio l’istruzione di base, quella elementare innanzitutto. La scolarizzazione primaria, grazie alla capillare presenza educativa delle istituzioni religiose, era piuttosto estesa nella Roma pontificia, e l’alfabetizzazione diffusa, con valori di analfabetismo in città – il 42% al censimento del 1871 – fra i più bassi dell’intera penisola104. La consapevolezza di questa situazione indusse il Comune, sollecitato dal confronto col periodo precedente, a un grande e consapevole impegno. Si trattava di trovare nuovi spazi e di reclutare insegnanti. Maestri e maestre vennero prevalentemente da fuori, dal Piemonte soprattutto, attratti, oltre che dagli stipendi più alti che 62

il Comune offriva, dal fascino di poter adempiere a una missione nazionale nella nuova capitale105. Dal 1872-1873 al 1880-1881 le scuole passarono da 41 a 82, le classi da 169 a 354, gli alunni iscritti da 7132 a 11.857. Ma nel 1880-1881 gli iscritti complessivi nelle 237 scuole elementari private, 90 maschili e 147 femminili, erano 19.104. Per numero di alunni la situazione cominciò a equilibrarsi solo alla fine degli anni Ottanta106. La vocazione moderatamente laica della nuova scuola elementare era testimoniata anche dalle decisioni prese in materia di insegnamento religioso. Il tema venne discusso in Consiglio comunale dopo l’adozione della legge Coppino sull’obbligo scolastico, che non prevedeva più l’insegnamento del catechismo ma non lo escludeva esplicitamente, e la decisione adottata, seppure a lieve maggioranza, fu quella di limitare in omaggio «alla libertà di coscienza [...] l’insegnamento religioso nelle proprie scuole a quegli alunni per i quali i genitori ne facciano richiesta ed in ore speciali»107. Avviata la nuova normativa, nel 1879-1880 su 12.473 alunni i non iscritti a religione furono 1475, l’11,8%, suddivisi in 532 israeliti, 52 acattolici, 891 cattolici108. Il pluralismo religioso era in fondo il risultato della secolarizzazione della città. Un pluralismo che si consolidava non solo nella definitiva emancipazione degli ebrei, ma nel libero ingresso in città delle confessioni protestanti, che cominciarono subito il loro proselitismo, con risultati peraltro assai limitati, dotandosi di edifici e locali di culto. Il tempio evangelico della Chiesa libera italiana fu inaugurato nel marzo 1877 in un edificio posto di fronte all’imbocco di Ponte S. Angelo, un punto cruciale lungo l’itinerario dei devoti e dei pellegrini verso S. Pietro, nel luogo dove erano stati giustiziati numerosi «eretici» nel XVII secolo. Nel 1876 era stata inaugurata la chiesa episcopale americana di S. Paolo posta poco oltre l’imbocco di via Nazionale, la strada che per il nome e le funzioni rappresentava ormai l’asse principale del rinnovamento urbano.

4. La trasformazione della città La conquista italiana impose un ritmo più accelerato alle trasformazioni urbanistiche della città. Ma la decisione di fondo, desti63

nata a condizionare l’intero sviluppo urbano, era già stata presa pochi anni prima. Con la concentrazione delle linee ferroviarie a Termini e la costruzione della stazione a partire dal 1867, l’espansione urbana, in questa fase, non poteva che collocarsi nella zona est della città. La struttura urbana della capitale non aveva subito sostanziali modifiche negli ultimi due secoli e l’ampliamento del tessuto edilizio si era collocato senza difficoltà nella griglia definita dagli interventi di Sisto V. Il centro «direzionale» si era consolidato lungo l’asse del Corso e intorno a piazza Colonna e l’impianto esistente si era rivelato, come abbiamo visto, in grado di assorbire, nel breve periodo, le nuove funzioni grazie agli espropri e alla soppressione delle case religiose. In più la città mancava di percorsi agevoli di collegamento fra il centro e la stazione ferroviaria. Quelli esistenti erano stretti e tortuosi, privi di quella ampiezza e monumentalità che lo sviluppo dei trasporti imponeva. La stazione a Termini e l’urbanizzazione di de Mérode intorno alle Terme di Diocleziano non avevano solo la forza del fatto compiuto: ad essa si sommò presto quella degli interessi di investitori e speculatori – banche e finanzieri – che avevano cominciato ad acquistare in quella zona109 e si affiancò la scelta politica, sostenuta innanzitutto da Sella, di costruire la nuova città dei ministeri lungo l’asse da Porta Pia verso il Quirinale. Modernità ferroviaria e modernità degli assetti burocratici e statali dovevano concentrarsi nella città alta. Terreni a ville, giardini, orti e vigne punteggiati di ruderi grandiosi e modesti: tutto il quadrante est e nord-est – l’altipiano romano entro le mura aureliane e oltre –, non disabitato ma non ancora o non più urbano110, si offriva come lo spazio più naturale per lo sviluppo della città. La collocazione dei ministeri rafforzava la necessità di completare la direttrice, già implicita e immaginata da de Mérode, lungo la valle di S. Vitale che separava Quirinale e Viminale, fino al piano e alla saldatura con il Corso. Saldatura rimasta a lungo incerta nel suo punto finale, ma inevitabile e mai messa in discussione. La reggia al Quirinale, la stazione e i ministeri di via XX Settembre determinano in questa fase uno sbilanciamento a est della città. Seguiranno dieci anni dopo due altre decisioni volte a riportare l’equilibrio al centro e poi a ovest, sotto la spinta anche 64

qui della politica e degli interessi speculativi, ma questa volta divaricati. Politica la decisione di collocare il grande monumento a Vittorio Emanuele sul versante nord del Campidoglio di fronte al Corso. Speculativa quella del nuovo quartiere Prati di Castello al di là del Tevere, reso attraversabile solo a partire dal marzo 1879 con il ponte provvisorio di Ripetta. Per quanto definita precocemente nelle sue linee generali – una commissione si mise già al lavoro alla fine di novembre 1870 – la politica urbanistica manifestò incertezze e perplessità nel dotarsi di un piano regolatore generale, che l’autorità della legge avrebbe trasformato in strumento operativo per eccellenza. La storia e le tradizioni particolari di Roma, la non cancellabile dimensione religiosa che attribuiva alla città una duplicità tutelata da poteri forti e diffusi, i vincoli di un passato grandioso e mitizzato, tutto congiurava a rendere culturalmente e idealmente ardua la progettazione di una nuova capitale. Si aggiunga il fatto che Roma non aveva conosciuto quelle trasformazioni che l’assolutismo aveva imposto nelle altre grandi capitali europee nei secoli XVII e XVIII: non esisteva quindi «un disegno unitario degli interventi più recenti, su cui potessero inserirsi con continuità gli ulteriori sviluppi ottocenteschi»111. Allora, e più volte in seguito, le decisioni più forti furono prese dal potere esecutivo centrale offuscando e scavalcando il Comune, luogo in cui gli interessi contrastanti – impliciti ed espliciti – si esprimevano spesso in modo reciprocamente paralizzante. A ciò si aggiunse il sistematico mancato collegamento delle iniziative fra Stato e Comune. Come ricordava Marcello Piacentini tracciando un bilancio delle vicende edilizie nel 1952, «ogni Ministero, ritenendosi superiore all’autorità del Comune, ha voluto scegliere la sua sede [...] senza tener conto delle necessità generali». Un esempio tipico di questa «indisciplina edilizia è la costruzione delle carceri alla Lungara, precludenti l’accesso al parco Gianicolo e collocate proprio allo sbocco del Ponte Mazzini, ma 4 metri più in basso e neppure in asse»112. Pur in assenza di un piano regolatore vennero prese una serie di decisioni destinate a caratterizzare l’espansione della città sia con lo strumento delle convenzioni fra il Comune e privati costruttori per l’edificazione di nuovi quartieri, sia con alcuni grandi interventi pubblici. Il più importante fra questi fu la costruzio65

ne del ministero delle Finanze. Il progetto di Raffaele Canevari venne approvato l’8 febbraio 1872, l’appalto fu vinto dalla Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche meno di un mese dopo, i lavori iniziarono il 1° aprile, i primi impiegati cominciarono a lavorarvi nell’ottobre 1876, ma l’edificio venne inaugurato ufficialmente il 3 settembre 1877 e si poté considerare completato nel settembre 1878. L’imponente edificio (330 per 116,50 metri) che dominava allora dall’alto tutta la città – era posto a una quota superiore di una decina di metri a quella del Quirinale – fu costruito in tempi relativamente brevi, ma comunque largamente superiori ai due anni previsti inizialmente113. Più lunga e complessa la vicenda del ministero della Guerra i cui lavori, iniziati nel 1876 in un’area di via XX Settembre prossima alle Quattro Fontane dove insistevano chiese e conventi, furono terminati solo nel 1889. Negli stessi primi anni Settanta vennero definite le convenzioni per i nuovi quartieri. La prima fu quella con monsignor de Mérode relativa alle aree intorno a Termini e al primo tratto di via Nazionale, stipulata già nel marzo 1871. Del novembre è quella dell’Esquilino. Seguirono fra il 1872 e il 1873 quelle relative al Celio, a Castro Pretorio, alla zona di S. Maria Maggiore. Le convenzioni venivano stipulate con i proprietari dei terreni e/o con le imprese costruttrici: il Comune otteneva una cessione di aree destinate a strade o piazze che si impegnava a urbanizzare, fornendo i servizi essenziali e le fognature; proprietari e imprese vedevano approvati i loro piani, acquisivano il diritto di edificare e, in virtù di una dichiarazione di pubblica utilità, quello di espropriare114. Con il largo consenso delle forze rappresentate nel Consiglio comunale l’espansione della città procedeva sotto la spinta dell’iniziativa privata: nel quadrante est, ma anche in Prati, operavano banche e investitori italiani (torinesi, toscani, veneti e romani) ed esponenti della finanza internazionale (belgi, francesi, austriaci e tedeschi), tutti attratti dal prevedibile sviluppo della ormai definitiva capitale del Regno e dalla agevole possibilità di penetrazione nella realtà locale. Era il trionfo della «speculazione»115. Termine connotato da sempre da un’aura negativa, la speculazione è linfa vitale per ogni sviluppo urbano, soprattutto in un’epoca in cui non era prevista né prevedibile una sistematica alternativa della mano pubblica, soluzione del resto contraria ai princìpi ispiratori dell’economia politica del tempo. La questione era allora ed 66

è rimasta in seguito quella dei modi di disciplinare, coordinare e talora pianificare le forme dell’inevitabile speculazione. Il Comune, salvo la velleitaria e fallita iniziativa del sindaco Pianciani di costituire un demanio di aree comunali, non si poneva il problema di porre dei vincoli agli interessi economici nell’edilizia. Lo Stato, per parte sua, dava vita, come s’è visto, ad iniziative non coordinate al disegno urbano complessivo e contemporaneamente forniva forza di legge alle pratiche di intervento nella città. La ricostruzione del ruolo di questi due momenti istituzionali, Stato e Comune, e della loro spesso conflittuale relazione, consente di leggere tutta la storia di Roma contemporanea, nelle sue accelerazioni e nei suoi ritardi. I nuovi quartieri nati con le convenzioni definivano già i contorni di un piano e si allineavano del resto alle scelte elaborate in previsione del piano regolatore generale. Tanto la prima commissione della fine del 1870 che una seconda, del giugno 1871, avevano individuato una serie di direttrici poi confluite in un progetto di massima di piano regolatore pronto nel novembre 1871. L’attenzione principale, oltre ai nuovi quartieri ad est, si concentrava sui problemi degli assi di attraversamento e del contenimento del Tevere con muraglioni di sponda; erano previsti molti grandi viali alberati, una passeggiata archeologica, altre zone residenziali al Pincio, al Gianicolo, ai Prati di Castello, e un quartiere operaio lontano dal centro, a Testaccio, destinato a depositi, magazzini e officine, ossia alle «arti clamorose», le attività industriali116. Affidato ad Alessandro Viviani, ingegnere ferroviario e responsabile dell’ufficio tecnico del Comune, il progetto definitivo del piano regolatore fu presentato nel luglio 1873 e discusso in Consiglio comunale nell’ottobre successivo. Il sindaco Pianciani dovette impegnare tutta la sua oratoria, su cui ironizzava la cattolica «Voce della Verità», per sostenere il piano nella sua completezza e integrità come strumento da cui i proprietari avrebbero in ultima analisi tratto dei vantaggi, come si era verificato ovunque terreni e case fossero stati inseriti in piani analoghi. C’era in effetti, fra i personaggi di spicco in Consiglio comunale, chi era ostile a qualunque piano regolatore, come Pietro Venturi, e chi, come Samuele Alatri, non credeva nell’avvenire della capitale («Roma non sarà mai la Parigi dell’Italia») e negli aiuti promessi dal Parlamento per lo sviluppo della città117. Ma l’energia del sindaco, che ricordava a tutti 67

come la giunta si fosse pronunciata contro un piano debole e «eunuco», portò all’approvazione del progetto. Pianciani aveva, da patriota e mazziniano, una visione alta della nuova Roma. Roma non è una città come ogni altra: alle esigenze della moderna civiltà, ai bisogni, conseguenza del progresso sociale, ai calcoli degl’interessi diretti da sani principii economici, ai suoi doveri verso la nazione si aggiungono i doveri verso sé stessa che discendono dal suo passato. È veramente il caso di ripetere noblesse oblige: essa non può contentarsi di non avere a monumento di grandezza se non che memorie da museo. La Roma degl’Imperatori, quella dei Papi hanno lasciato un’impronta che il mondo ammira. La Roma degl’Italiani deve sentirsi umiliata di quelle glorie insino a ché non si senta capace di imitarle; essa non può accamparsi nell’archeologia, deve affermarsi in modo diverso per la mutata condizione dei tempi, ma più gloriose se sia possibile.

Così scriveva nel 1874 Pianciani poco dopo le dimissioni da sindaco118. Pochi condividevano le sue idee, molti erano tiepidi e prudenti su un’espansione ad alti costi per le esangui finanze comunali. E pochissimi auspicavano la trasformazione di Roma in città industriale, come era invece negli intendimenti di Pianciani e di altri esponenti del movimento democratico. Per Pianciani una città moderna non poteva che essere anche una città industriale e operaia, come le altri grandi capitali europee, Parigi in primo luogo119: non è forse una vergogna per noi che, mentre tutte le grandi città hanno delle industrie proprie, che fanno vivere in una relativa agiatezza gli operai, il cui numero si conta a decine di migliaia, Roma ne manchi pressoché intieramente può dirsi?

Ma l’ipotesi di una città industriale, più che attrarre spaventava. Proprio Parigi poteva essere anche un modello negativo. Il ricordo della Comune era vicinissimo e Roma aveva la fortuna di non essere già una città industriale. Sella espresse, in un discorso del 1876, con nitida chiarezza questa diffusa opinione. In una soverchia agglomerazione di operai in Roma io vedrei un vero inconveniente, perché credo che qui sia il luogo dove si debbono 68

trattare molte questioni che vogliono essere discusse intellettualmente, che richiedono l’opera di tutte le forze intellettuali del paese; ma non sarebbero opportuni gli impeti popolari di grandi masse di operai. [...] io penso che debbasi spingere la produzione e il lavoro, sotto tutte le forme, nelle altri parti del regno120.

I disegni di Pianciani erano destinati a fallire, così come l’ipotesi di una rapida approvazione governativa del piano regolatore. Alla carica di sindaco andava un oppositore del piano, Venturi, mentre passava la soluzione di risolvere una per una le emergenze cittadine. Il piano era ancora uno strumento troppo nuovo, troppo vincolante, troppo costoso. L’esclusione del nuovo quartiere di Prati, che pure Viviani aveva disegnato, lo rendeva incompleto. Rimase il progetto e sarebbe tornato dieci anni dopo. Un progetto che aveva molti limiti: innanzitutto la miopia di prevedere per Roma un’espansione ridotta, solo 150.000 abitanti in venticinque anni, mentre mancava completamente una distribuzione ragionevole dei ministeri nella città. Non era prevista un’espansione oltre le mura e il disegno delle strade interne, come quello dei collegamenti esterni, era largamente insufficiente121. Tanto il piano di Viviani che i progetti alternativi puntavano a definire il percorso delle vie di attraversamento e a trovare soluzioni per il centro della città. Nessuno metteva in discussione il ruolo di piazza Colonna, ma quel centro appariva troppo angusto, gli spazi troppo ristretti. Si trattava da un lato di rendere più ampia la piazza, di allargare tratti del Corso a nord e a sud, di scegliere e progettare nuove ampie strade verso il Tevere e il Vaticano e verso i nuovi quartieri alti. Allargamenti, allineamenti per costruire nuovi rettifili (Viviani ne proponeva uno di 1800 metri in prosecuzione di via Condotti fino al ponte in ferro posto accanto alla chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini) davano inizio alla lunghissima, e per lungo tempo incontestata, pratica degli sventramenti che sarebbe proseguita fino alla demolizione della spina dei Borghi e al completamento di via della Conciliazione nel 1950. Per piazza Colonna vi era chi, come il Mengoni, riproponendo e modificando quanto aveva fatto a Milano, progettava una grande «galleria-salone» fino a piazza di Trevi e un porticato lungo il Corso allargato da piazza Sciarra a via Condotti122. Nessuna delle proposte riuscì né allora né a lungo in seguito a trovare i consensi per 69

essere realizzata, come spesso per i progetti affidati al Comune123. Contribuì nei fatti a rallentare la soluzione di piazza Colonna il modo con cui fu risolto il problema dello sbocco di via Nazionale, reso altrimenti complicato dalle difficoltà di tracciare un percorso di non eccessiva pendenza, dato il dislivello di quasi 20 metri fra la quota di Magnanapoli e quella del Corso. Viviani e molti altri pensavano a uno sbocco o a piazza Sciarra o a piazza di Trevi ampliata, attraverso i giardini di palazzo Colonna all’incirca lungo il tracciato di via della Pilotta, per collegare direttamente la principale strada della nuova Roma al centro. Con la decisione di arrivare a piazza Venezia, adottata nel 1875 anche per ragioni di minor costo124, lo snodo di piazza Colonna e tutte le ipotesi collegate caddero in secondo piano di fronte alla necessità di completare via Nazionale oltre la chiesa del Gesù e fino al Tevere, attraverso i quartieri rinascimentali, con quello che sarebbe diventato corso Vittorio Emanuele. L’altro grande problema, quello del disciplinamento del Tevere, cominciò a trovare soluzione dopo le sollecitazioni di Garibaldi. Anche in questo caso le proposte furono innumerevoli e molte arditissime se non fantasiose, dal raddrizzamento del corso urbano del fiume alla sua deviazione ad est della città come suggeriva proprio Garibaldi. Ai fini della storia della città conta la soluzione adottata, quella dei muraglioni e dei viali alberati lungo il fiume, i lungotevere: la città avrebbe cominciato a guardare verso il fiume, a non volgergli più le spalle. Fino allora infatti c’era una sola piazza sul Tevere, quella di Ponte S. Angelo, mentre quasi tutto il resto, fatta eccezione per i due scali di Ripetta a nord e di Ripa grande a sud, era costituito dal retro di case, casupole, palazzi: un trionfo del pittoresco, ma anche «sfogo di cloache, raccolta di immondezze, mostra di luridume»125. Fu una svolta epocale che si realizzò gradatamente con tempi molto lunghi: cambiò il ruolo del Tevere privandolo della sua marginale funzione di via commerciale, ma aprì squarci, visuali e prospettive, inserì il fiume, o meglio i lungofiume, nella città e nel tessuto vitale della percezione urbana. Roma veniva cambiando: si era aperto un cantiere permanente nel centro storico di cui, a distanza di decenni e a lavori compiuti è difficile trasmettere il lungo senso di provvisorietà e la durevole incompiutezza simbolica, anche per il sovrapporsi degli 70

esordi vistosi e modernizzanti della città fascista ai tardivi completamenti della città liberale. Questo lungo percorso fu accompagnato fin dagli inizi da un problema rimasto costantemente aperto, spesso irrisolto: quello del confronto fra il Comune e lo Stato sul «governo» della città capitale. Spesso il Campidoglio fu presidiato da personalità minori o da politici in debole sintonia con il potere centrale. I grandi lavori furono accompagnati da una costante conflittualità fra gli ingegneri del Comune che rivendicavano un ruolo sistematicamente negatogli dagli organi dello Stato, dal Genio civile126. Presto, già dopo la metà degli anni Settanta, gli elevati costi delle trasformazioni urbane e l’accumularsi delle difficoltà nel completamento dei progetti intrapresi imposero un terreno di incontro. Questo passaggio fu favorito da Emanuele Ruspoli: come sindaco, nel 1878, avviò il Comune a stipulare quella convenzione con lo Stato – auspicata da Depretis e Cairoli – che con la legge speciale del 1881 diede nuovo slancio e respiro alle trasformazioni della città127.

III

Tra due secoli

1. Sviluppo urbano e crisi edilizia Durante il carnevale del 1882 si tennero per l’ultima volta le corse dei barberi. Senza sella e senza fantino, i cavalli barberi venivano lanciati da piazza del Popolo e percorrevano sfrenatamente al galoppo tutto il Corso, assiepato di pubblico, fino a piazza Venezia, arrestandosi contro un tendone posto in una viuzza chiamata, appunto, via della Ripresa dei barberi. Come accadeva sovente, anche quell’anno si verificarono una serie di incidenti, con cavalli caduti e spettatori travolti: ma questa volta si ebbero anche due morti a S. Lorenzo in Lucina, per di più sotto gli occhi dei sovrani. Vi fu un’interpellanza alla Camera e il presidente del Consiglio Agostino Depretis chiese al sindaco la soppressione delle corse1. Nell’estate di quello stesso 1882 venne deciso di collocare il grande monumento a Vittorio Emanuele II sul versante settentrionale del Campidoglio, proprio sull’arce capitolina antica, sbancando il colle di una massa di edifici posti uno sull’altro e dominati dalla massiccia torre di Paolo III che affiancava e sovrastava la chiesa dell’Ara Coeli. Troncando un dibattito che si protraeva da mesi e superando l’ostilità del Comune e di archeologi come Rodolfo Lanciani, Depretis impose una soluzione destinata a condizionare gli assetti urbani e la dimensione simbolica della città2. Piazza Venezia, dove dal 1877 sboccava la via Nazionale destinata ad essere prolungata fino al Tevere, avrebbe dovuto ampliarsi e divenire una grande platea per il monumento. Non più, quindi, la piazza stretta e lunga fra i palazzi Torlonia e Venezia do72

ve giungevano sfiancati i barberi e facevano capolinea gli omnibus, ma il cuore monumentale della nuova Roma aperta verso i Fori e collegata con le vestigia della Roma antica. Due decisioni, diverse per importanza ma emanazione della stessa fonte di potere, cancellavano le antiche tradizioni e imponevano una nuova immagine della città. Una città che appariva ai contemporanei ormai avviata a percorrere con ritmo accelerato le tappe della modernità. Moderno voleva dire allora ordine urbano, vie ampie e diritte, igiene e aria salubre, uniti a una nuova operosità. Una città radicalmente diversa da quella del 1870 descritta sulla «Nuova Antologia» dal perugino Coriolano Monti, amico del Pianciani, ingegnere e architetto capo del Comune di Bologna: a Roma «fuori delle chiese, dei musei, dei monumenti» tutto gli sembrava «lurido ed abbandonato; negletta l’edilizia sin nelle parti più ovvie e comuni; degradati persino i più sontuosi palagi ed edifizi». Agli occhi del tecnico i selciati delle strade romane apparivano una ignominia per chicchessia [...] colpa la nessuna livellazione, la mancanza di marciapiedi, di margini regolari [...]. Le acque pluviali scorrono ancora per mezzo le vie, e passano a rivi per giungere ai così detti boccacci! Le piazze, dalle principalissime in fuori, seguono la condizione delle strade, senza liste che ne spartiscano e ne regolino l’area e lo scolo3.

Di qui la ricorrente contrapposizione di due diverse città descritta anche dallo scrittore e giornalista piemontese Giovanni Faldella in un popolare reportage pubblicato nel 1882 e ristampato nel 1885. Il suo protagonista, un giornalista trasferito nella capitale, si aggira fumando un sigaro nei nuovi quartieri della Roma alta, dove si prova quel senso gradito dell’aperto, soleggiato e modernissimo, che fa così bene quando si è stufi delle macerie [...]4.

A Castro Pretorio, al Macao, all’Esquilino, le nuove vie si spalancano e si allungano con giovialità meneghina, frescura ginevrina, dirizzura torinese e fasto parigino, di cui la dirizzura torinese è minore sorella [...]. I quartieri nuovi dell’alta Roma si accampano come una consolazione, un rimprovero e un insegnamento a 73

certi quartieri della bassa Roma confusi, addossati, lerci, affatto ciechi o appena leccati dal sole, ricchi di pulci [...]5.

Questa nuova grande Roma non solo ambiva a una rinnovata dimensione europea e cosmopolita, ma si proponeva, nel sogno «ad occhi aperti» di Faldella, come la città in cui si rispecchino e si ripercuotano tutte le sparse bellezze e gagliardie italiane; l’attica Firenze, la benestante Milano, la fantastica Venezia, Napoli frequente, Genova superba, Bologna dotta, Palermo, Modena, Parma, ecc. e la soda Torino, con grandi viali che aprano diritto il cammino da San Pietro in Vaticano a San Giovanni in Laterano, dalla Stazione Termini a Montecitorio, – viali sbalorditoi che spaventino la memoria del più largo, ardito, feroce e fulmineo edile che fu Sisto Quinto, – viali che purghino la stipa della poveraglia dalle empietà antiigieniche, – viali brulicanti di tranvai, che correndo, quasi volando a fior di terra, diano a tutto quanto il piano stradale l’aspetto di un nastro svolto rapidamente6.

Insomma la capitale come sintesi moderna di tutte le città d’Italia. Al di là delle immagini ad effetto si coglie nelle pagine di Faldella l’illusione di superare di slancio con le grandi strade e i nuovi trasporti tutti i vincoli del passato. Rifiutata la modernità industriale, in fondo anche questo poteva essere, pur con qualche ingenuità, un progetto per la trasformazione di Roma. Le stesse tesi, integrate dall’irriverente proposta di spalancare le Terme di Diocleziano in «una michelangiolesca Galleria Vittorio Emanuele»7, Faldella sostenne alla Camera, dai banchi della Sinistra, durante la discussione che dall’8 al 18 marzo 1881 coinvolse deputati e governo sulla legge per il «concorso dello Stato nelle opere edilizie della città di Roma». Quella di Faldella non era che una delle molte voci impegnate alla Camera nel grande dibattito parlamentare sul significato e i destini della capitale, l’unico della sua storia8. I numerosi altri intervenuti si possono classificare in tre tipologie. I difensori ad ogni costo dell’idea e del primato di Roma, con toni che oscillavano tra retorica e concreta progettualità; i nemici di ogni trattamento privilegiato per la capitale e di ogni deprecabile «accentramento», interpreti di un diffuso municipali74

smo; infine i mediatori prudenti, inclini a una visione pratica e ragionevole del problema. Fra i primi vi era ovviamente il relatore della legge, Quintino Sella, che argomentò in un lungo e articolato intervento le ragioni ideali e politiche del sostegno statale ai progetti per la capitale9. Accanto agli impegni per le grandi opere, a Sella stava particolarmente a cuore il collegamento fra Termini e il nuovo grande quartiere ai Prati di Castello, «congiunzione che deve aver luogo mediante una larga via dove si possano applicare i regoli in ferro», ossia le rotaie per i tram10. Ma Sella insisteva soprattutto sull’importanza dell’istituzione di un’Accademia delle scienze dotata di grandi risorse librarie, paragonabili a quelle della British Library e della Library of Congress di Washington. Così venivano ricordate le grandi spese che si venivano facendo in Europa e negli Stati Uniti per le città capitali e la relativa esiguità degli impegni proposti per Roma. E contro i dubbiosi e gli oppositori della legge esclamava: «Accentramento! Ma che razza di accentramento volete fare con 50 milioni?»11. Il dibattito registrò molte incertezze concettuali e dunque anche propositive, condensate nei termini antagonisti di attrazione e repulsione, che appena occultavano il timore di un troppo accelerato sviluppo di Roma e delle spese che questo avrebbe comportato e insieme inevitabilmente sottratto ad altre realtà urbane e regionali. Lo stesso Sella aveva precisato che la commissione della Camera, esaminando il progetto di legge, non sente affatto l’ambizione di una capitale troppo grande, e tanto meno desidera accentrare in essa quella vita che per essere sana, durevole e feconda, vuole essere diffusa per tutta Italia12.

Così, fra gli oppositori alla legge, argomentava Saladino Saladini-Pilastri, democratico romagnolo dell’estrema sinistra: [...] la civiltà italiana non vuole né l’isolamento municipale, né l’accentramento; l’isolamento municipale distrugge la vita pubblica, l’accentramento ferma il sangue al cuore, e lascia le membra irrigidite; la civiltà italiana non vorrebbe che Roma fosse un centro di repulsione, né esclusivamente un centro di attrazione, ma bensì un centro distributore fra tutte le parti della nazione di nuova vita morale13. 75

Mentre, tra i favorevoli, Antonio Di Rudinì, cercava di riportare la discussione e la riflessione su Roma a una dimensione pratica: [...] qui si confonde la capitale antica, la quale [...] imperava su tutto lo Stato, e la capitale moderna, la quale ha una missione infinitamente più umile. La polizia urbana, la sanità, la viabilità, l’illuminazione, l’insegnamento elementare. Questa è l’utile e modesta missione della città capitale. Ora, come mai lo sviluppo di questi servizi, come mai la costruzione di un policlinico, di un ospedale, di una caserma... o il prolungamento della via Nazionale e della via Cavour possono determinare l’accentramento?14

E dopo aver ricordato la vicenda di Parigi, da sempre centro di attrazione politica e culturale di tutta la Francia, concludeva: [...] non temerei, se Roma centro antico di civiltà, se Roma centro intellettuale, scientifico, politico, artistico del nostro paese dovesse esercitare una grande forza di attrazione su tutta l’Italia15.

Per quanto fosse chiaro a tutti che l’intervento dello Stato sarebbe stato inevitabile, la perplessità, i dubbi, la sfiducia nel municipio di Roma erano diffusi fra molti deputati. Fra le voci più autorevoli, Bonghi ammoniva che «noi non potremmo [...] far nulla che in questa Roma emulasse quello che i nostri padri ci hanno lasciato in questa città», ma ammetteva che tutti quelli che hanno questo desiderio [di dare un sussidio a Roma] non potendo soddisfarlo altrimenti che con questo aborto di legge, si contenteranno forse di adottare questo figliuolo così deforme, che è stato loro messo innanzi, non avendo modo di procrearne un altro16.

Malumori che nemmeno il ricorso al pedale del patriottismo e a una visione super partes di Roma riuscì interamente a placare. Sella ricordò il debito verso l’antica Roma: Chi dunque ci ha fatto quali siamo, chi c’insegnò a volere una patria? Roma, nient’altro che Roma [...] tutto ciò che sappiamo, tutto ciò che pensiamo, tutto ciò che sentiamo in fatto di patriottismo, lo dobbiamo all’antica Roma [...]17. 76

Mentre il vecchio difensore della Repubblica romana e reduce di tante altre battaglie risorgimentali, Nicola Fabrizi, ammoniva sui rischi, anche internazionali, di un voto negativo. Io non parlo a favore della legge, che pienamente non mi soddisfa. Parlo a favore di un voto che non debba rappresentare la negazione di una legge che si intitola al decoro, al rispetto, all’amore verso questa nostra capitale, oggetto delle secolari nostre aspirazioni. Negazione e rifiuto che pronunciato da un voto del parlamento, correrebbe sulle ali del telegrafo annuncio all’interno di desolazione (Benissimo! Bravo!), all’estero correrebbe conforto alla gelosia dei nostri competitori (Benissimo! Bravo!)18.

Il dibattito mise in luce l’assenza di un progetto complessivo per Roma che andasse al di là del tributo alle memorie o degli investimenti in singoli edifici e istituzioni, contrassegnati talora da un forte profilo simbolico, come suggerivano con forza Sella e Crispi. Il confronto con altre realtà europee ed extraeuropee era condotto sul versante della spesa – per dimostrare che all’estero si era speso di più – e non su quello del disegno urbano e della qualità edilizia. Si riaffacciava del resto in molti quella sensazione di impotenza del nuovo di fronte al peso incomprimibile del passato. In realtà la legge sul concorso dello Stato, pur avendo sollecitato una riflessione collettiva sulla capitale, mirava essenzialmente a dare una risposta politica a un problema politico locale. Questo era il disegno di Cairoli e soprattutto quello di Depretis, presentatore, come ministro degli Interni, del disegno di legge. Il contributo dello Stato introduceva e rafforzava poteri di controllo dell’esecutivo in una situazione che rischiava di essere dominata dalla presenza cattolica negli organi dell’amministrazione locale. Lo Stato, e per esso il governo, decise di controllare la sua capitale attraverso i finanziamenti, la loro destinazione e il loro impiego, sovrapponendosi all’autorità debole e inaffidabile del municipio. Ma intorno alla legge si giocava anche una partita più sottile, quella degli equilibri all’interno della Sinistra al potere e degli antagonismi dei suoi leader19. Al di là dei giochi politici, e strettamente intrecciati ad essi, erano comunque decisivi gli interessi concentrati intorno allo sviluppo edilizio di Roma. 77

La legge, approvata alla Camera il 18 marzo 1881 con 194 voti favorevoli e 72 contrari, confermava una serie di interventi in opere pubbliche già definiti nella convenzione fra il Comune e lo Stato, del 14 novembre 188020. Dovevano essere realizzati: «1° il palazzo di giustizia; 2° il palazzo dell’Accademia delle scienze; 3° il policlinico; 4° i quartieri militari per l’alloggiamento di due reggimenti di fanteria e di un reggimento di artiglieria; 5° uno spedale militare della capacità di mille letti; 6° una piazza d’armi». Inoltre erano previsti «almeno due nuovi ponti sul Tevere, coordinati al piano regolatore e alle grandi vie da aprirsi lungo le rive del fiume, nonché il palazzo dell’esposizioni di belle arti»21. Infine era disposto il «proseguimento della via Nazionale alla larghezza di 20 metri dalla piazza di Venezia ai ponti sul Tevere»22. La legge finanziava queste realizzazioni con 50 milioni da restituirsi in venti anni e le inseriva all’interno dell’attuazione del «piano edilizio regolatore e di ampliamento» di cui il Comune doveva dotarsi rapidamente. Questa prima legge speciale per Roma fu integrata di lì a poco, nel 1883, con un’altra che approvava due nuove convenzioni fra il Comune e lo Stato, destinate a fornire garanzie e a introdurre criteri di controllo sull’emissione e sul rimborso di un prestito di 150 milioni con un ammortamento in 75 anni. Il nuovo piano regolatore ricalcava quello, rimasto sulla carta, del 1873: del resto era redatto sempre dal Viviani. Approvato dal Consiglio comunale e poi dal governo ottenne la sanzione di legge con il decreto reale dell’8 marzo 1883, oltre un anno dopo la scadenza fissata dalla legge del 1881. Rispetto a quello del 1873, il nuovo piano prevedeva, questa volta in modo definitivo, il quartiere dei Prati di Castello, dove le costruzioni erano del resto già iniziate. Vi collocava, a ridosso del Tevere, il Palazzo di Giustizia; prevedeva, al suo margine nord, due caserme (poi divenute quattro) e la grande spianata della piazza d’armi; ne disegnava la trama viaria introducendo «diversi trivi, che varranno a renderlo variato e grandioso». La trama a scacchiera veniva così movimentata dai tracciati a tridente23. Il fulcro del piano regolatore era costituito ancora una volta dagli attraversamenti della città. Prioritario appariva il completamento di via Nazionale fino al Tevere, dove rimase tuttavia irrisolta la strettoia fra la chiesa del Gesù e palazzo Altieri, la cui in78

tegrità fu strenuamente difesa dai consiglieri cattolici in Comune. A questo asse est-ovest se ne aggiungevano due nord-sud come integrazione dell’antico tridente. Il più importante era quello da piazza del Popolo a S. Francesco a Ripa «con una percorrenza di metri 2700» non rettilinei, proseguendo e allargando via di Ripetta e via della Scrofa, «ritagliando tutti i prospetti postici delle case e dei palazzi» di via Monterone per giungere e superare il Tevere dopo aver costeggiato l’Argentina: questo asse e via Nazionale «tagliano in croce la vecchia città, e possono considerarsi come la base del provvedimento edilizio per la viabilità nell’interno e più popoloso abitato»24. Ma il progetto rimase nella sostanza irrealizzato, anche se rimangono visibili tracce di allargamenti fra la Scrofa e piazza S. Eustachio. Fu completata invece la prosecuzione di via del Babuino e di via Due Macelli con il Traforo sotto il Quirinale e la via Milano fino a Panisperna, collegando con un rettifilo di 2000 metri piazza del Popolo a via Nazionale e al nuovo quartiere dell’Esquilino25. Veniva prolungata anche via del Tritone secondo un progetto presto realizzato, mentre rimase sulla carta l’indicazione di una grande via da piazza di Trevi al Pantheon: un tema – quello della galleria e dell’ampliamento intorno a piazza Colonna, al centro pulsante della vita politica, dei giornali e dei commerci – destinato a tornare a più riprese anche in seguito26. Era previsto infine il completamento di via Cavour fino ai Fori con un nuovo e più ampio collegamento con piazza Venezia allargata e resa simmetrica dall’arretramento di palazzo Torlonia. Secondo Marcello Piacentini, il maggiore architetto romano del Novecento, il piano del 1883, rimasto in vigore fino al 1909, non solo fu interamente attuato, ma diede a Roma «un’impronta indelebile con i quartieri a scacchiera dell’Esquilino e di Prati, con la Via Boncompagni e la Via Nomentana e, nel centro, con il Corso Vittorio, la Via Nazionale e il Tritone»27. A parte l’imprecisa menzione delle vie Boncompagni e Nomentana, non previste dal piano, è lecito chiedersi se l’impronta alla città non sia più equamente da attribuire ad alcune decisioni prese prima del piano regolatore, con le convenzioni per i grandi quartieri, e successivamente al 1883 e contro le indicazioni del piano, con la lottizzazione di Villa Ludovisi e la nascita del quartiere Pinciano e, oltre le mura, di quello Nomentano, per non dire che dei maggiori interventi. 79

La distruzione dei giardini di Villa Ludovisi, fra i più belli e famosi di Roma, fu una delle operazioni speculative più criticate di quegli anni, ma non trovò opposizione in Consiglio comunale. Tante ville erano già state lottizzate e molte altre lo sarebbero state in seguito28. L’ideologia e le consuetudini dominanti non ponevano vincoli ai diritti dei proprietari. Letterati e artisti di ogni paese rimpiansero il danno irreparabile arrecato alla città e indicarono nella lottizzazione dei 24 ettari della Villa Ludovisi il simbolo negativo della nuova Roma. L’operazione immobiliare, nata dall’accordo fra i principi Rodolfo e Ugo Boncompagni Ludovisi29, padre e figlio, e la Società generale immobiliare, trasferitasi nel 1880 da Torino a Roma, trovò l’avallo del Comune che varò un’ennesima convenzione nel febbraio 1886: i proprietari cedevano le aree delle strade, ma due, fra cui la futura via Veneto, furono dichiarate di pubblica utilità e rimasero a carico del Comune anche se eseguite dall’Immobiliare, che curava la vendita dei lotti. Nel nuovo quartiere – che affiancava quello degli Orti Sallustiani deliberato nel 1883 sui 10 ettari del barone Spithoever – avrebbero trovato posto ville, villini, grandi casamenti d’affitto con alloggi di qualità, grandi alberghi. Si trattava del primo grande quartiere di lusso di Roma e vi accorsero molti esponenti dei ceti superiori, nobili e imprenditori30. Fra i primi villini costruiti entro il 1888, prima della pausa indotta dalla crisi edilizia, vi furono quello di monsignor Enrico Folchi, amministratore dei beni della S. Sede31, posto in via Marche angolo via Boncompagni e, poco più avanti, quello di Urbano Rattazzi, nipote del più noto uomo politico piemontese, amministratore dei beni del sovrano, influente consigliere e futuro ministro della Real Casa. Il quartiere Ludovisi era entro le mura, fra Porta Pinciana e Porta Salara. Al di là delle mura, e oltre Porta Pia, vennero lottizzate ad opera della Banca Tiberina le ville Albani e Patrizi. L’intero settore di nord-est si veniva sviluppando fuori piano regolatore, così come il quartiere popolare di San Lorenzo, a est lungo la Tiburtina. Egualmente estranea alle previsioni del piano regolatore, anche se coeva, fu la già ricordata decisione di collocare il monumento a Vittorio Emanuele sul Campidoglio, decisione certamente politico-simbolica e tuttavia urbanisticamente inconsape80

vole, destinata a concentrare l’immagine della nuova capitale in un simbolo fortissimo e ridondante – indebolito tuttavia non solo dalle polemiche relative alla sua costruzione, ma anche dalla lunga invisibilità e incompiutezza determinate dal suo incontrollabile gigantismo. Quella dei tempi della trasformazione di Roma fra i due secoli è una questione decisiva, soprattutto per quel che attiene alle realizzazioni pubbliche32. Piazza Venezia cominciò a prendere le dimensioni attuali solo dopo il 190733. La prima pietra al monumento a Vittorio Emanuele progettato da Giuseppe Sacconi fu posta nel 1885, ma al momento dell’inaugurazione nel 1911 era ancora largamente incompleto. Le operazioni di isolamento del Vittoriano, rese inevitabili dalla sua mole, si prolungarono oltre la metà degli anni Venti e l’intero impianto monumentale non poté dirsi concluso se non alla metà degli anni Trenta. Il Palazzo di Giustizia, iniziato nel 1889, fu inaugurato nel 1911. Il Policlinico, inizialmente previsto tra viale Manzoni e Porta Maggiore, fu iniziato nel 1888 nella nuova sede al di là di Castro Pretorio e poté dirsi completato solo nel 1906. La città umbertina, che dava a molti contemporanei la sensazione esaltante del nuovo, è apparsa in seguito banale e ripetitiva negli assetti urbanistici e nei partiti decorativi e stilistici. La bassa qualità era legata sia alle limitate risorse investite che all’eclettismo architettonico dell’epoca. Camillo Boito, mentore e censore dell’architettura italiana, non amava la nuova città e temeva che gli antichi monumenti «cacciati nel mezzo delle brutte vie moderne o dei quartieri nuovi» venissero «schiacciati dalle brutte fabbriche dei nostri architetti». Di Roma gli architetti, secondo Boito, avevano paura, sembravano «sgomentati e che tremino loro le mani»34. Ma in fondo proprio Roma era in grado di offrire tutti gli elementi per comporre uno stile moderno, creando parimente un organismo nuovo ed una estetica nuova. Tra il Bramante e il Bernini si trova, senza uscire da Roma e senza allontanarsi dalle derivazioni classiche, un mondo intiero di concetti artistici e di forme ornamentali. V’è l’arte che serve con grazia al Villino raccolto e modesto; l’arte sontuosa, che si presta al Teatro, al Palazzo, alla Reggia; l’arte grave, che s’addice alla sede del Parlamento, ai Tribunali [...] la gaia dei Padiglioni e dei 81

Chioschi, la semplice degli Ospedali e degli Ospizii, la speculatrice degli Alberghi e delle Case Private, quella che si acconcia al ferro e quella che si piega volentieri allo stucco: l’arte insomma di tutta la società civile d’oggi, e anche della religiosa, se occorre. Non c’è bisogno di chiamare in aiuto nessuno dei garbi delle architetture moderne straniere, e nessuna delle bellezze del Medio Evo; poiché il passato di Roma e la fantasia ricreatrice dell’artista possono bastare a ogni cosa35.

Anche Boito sembrava confermare le resistenze del mondo ufficiale dei colti nei confronti di una libera interpretazione della città. Individuava nitidamente i vincoli della tradizione, consapevole della sfida che derivava dal misurarsi con la nuova Roma raccogliendo e rielaborando la lezione dell’antica. Nell’edilizia corrente non rimaneva molto spazio all’innovazione, perché i nuovi progetti erano attentamente sorvegliati onde evitare ogni linguaggio estraneo o poco consono alla città. A distanza di alcuni decenni gli edifici di allora ricordavano, secondo la felice immagine di Ludovico Quaroni, uno dei maggiori architetti della Roma contemporanea, «un’adunata di veterani rimminchioniti, allineati e fermi per mancanza d’energia vitale»36. Si può forse ritenere che la qualità edilizia fosse inversamente proporzionale alla quantità degli edifici che cominciavano ad allinearsi nei nuovi quartieri e al grande numero delle sopraelevazioni realizzate nei vecchi rioni. Per oltre un quindicennio vi fu un’attività operosa, in qualche caso frenetica. Ne troviamo traccia di nuovo in una felice pagina di Faldella, ricca di corretti particolari costruttivi. Intanto sorgono a riempire i lati delle vie le muraglie delle nuove case in costruzione; rassomigliano ad enormi torroni di sassi cretosi strizzanti l’intonaco roseo, da cui sono reticolati; si veggono qua e là mucchi di pozzolana rossa che si mescola colla calce, come il caffè con la panna montata; lastre di travertino segato, su cui colano gocce calcaree e scopronsi tarlature geologiche [...] spranghe di ghisa si posano da una parete all’altra, perché vi poggino gli economici voltini bucati e aereggiati dalla avarizia e dalla leggerezza moderna; si lanciano e si acciuffano al volo mattoni biancastri con un ritmo di acrobatica meccanica; si scarrucolano massi, secchie, secchioni; si odono comandi in piemontese e in lombardo, ubbidienze in umbro, piceno, calabro e viceversa37. 82

Nuovi imprenditori, nuova manodopera e dietro questi le banche e prima ancora i vorticosi passaggi di proprietà delle aree su cui si era avviata, come abbiamo visto, una fortissima speculazione. Protagoniste su tutti si rivelarono le banche. Le banche avevano in questo periodo una spiccata caratterizzazione speculativa: l’espansione edilizia di Roma e poco dopo il risanamento di Napoli apparvero una delle più appetibili forme di impiego dei capitali. Si giuocò al rialzo delle aree come alla borsa si giuoca sul rialzo dei fondi pubblici e si posero in opera tutti quegli espedienti artificiosi e non sempre corretti che potessero in qualche modo determinarlo. E in questo giuoco s’ingolfarono non soltanto i privati, ma anche dei pubblici istituti [...] Fu una ubriacatura generale a cui parteciparono non solo i speculatori della capitale, ma di tutta Italia.

Così scriveva l’economista Ghino Valenti nel 189038. E aggiungeva: Gli è che molti si sono gettati nelle grandi speculazioni senz’averne i mezzi, gli è che il solo acquisto dell’area ha spesso assorbito tutto il capitale disponibile e il resto si è dovuto domandarlo al credito; gli è che questo credito sventuratamente si è trovato larghissimo. Molti costruttori non appena fatte le fondazioni o costruito un piano l’ipotecavano onde avere il danaro occorrente a costruirne un secondo. Molte volte non si facevano nemmeno vere operazioni fondiarie, ma sconto di cambiali a corta scadenza con impegno espresso o tacito di rinnovazione39.

Si trattava di una ricostruzione convincente quanto alla dinamica, assai meno nell’individuare le cause che Valenti attribuiva essenzialmente al monopolio delle aree da parte della proprietà privata. Solo la proprietà pubblica delle aree avrebbe infatti evitato l’innesco della speculazione e della crisi. Al di là dell’assenza di ogni prospettiva concreta per realizzare condizioni di questo genere, l’accelerazione speculativa derivava dalla concentrazione di tante risorse – si calcolavano in circa 300 milioni i capitali investiti nelle costruzioni a Roma fra il 1882 e il 1887 – che si autoalimentava secondo un meccanismo di aspettative crescenti40. L’artificiosità del processo, fondato su un’imprudente e sconsiderata euforia, risultava tanto più evidente di fronte all’assenza di 83

una reale capacità di assorbimento di alloggi in proprietà o in affitto in grado di sostenere l’offerta nel medio periodo. Come sarebbe avvenuto altre volte in seguito, si dimostrava la difficoltà di modulare l’offerta nei confronti dei destinatari, in questo caso ceti popolari e piccola borghesia impiegatizia che alimentavano il rilevante incremento demografico degli anni Ottanta. Al pari di ogni processo speculativo, anche la febbre edilizia si fondava su alcuni fattori tecnici, come la larga disponibilità di credito favorita da una organizzazione del sistema bancario in cui anche le banche di emissione, spesso irrispettose dei vincoli alla circolazione, erano direttamente coinvolte nelle operazioni immobiliari41. Altre banche come la Tiberina, in cui si sussurrava fossero presenti anche interessi della Corona, si erano buttate a capofitto nella speculazione romana. La Tiberina non solo finanziava le imprese, ma operava direttamente concedendo prestiti al Comune, dal quale, oltre agli interessi, otteneva lotti edificabili e si avvantaggiava delle opere di urbanizzazione42. Questo fu il criterio adottato, in base a una convenzione del 1885, per la demolizione del ghetto e la costruzione di un nuovo quartiere sull’area liberata43. Nei primi mesi del 1887 la Tiberina, giovandosi dell’incremento dei prezzi delle aree, distribuiva dividendi superiori al 10% del valore nominale delle azioni44. Ma nello stesso anno crollarono le vendite dei terreni e il fallimento dell’impresa Moroni, debitrice per 6 milioni, mise in crisi la banca45. Quando si manifestarono le difficoltà della Tiberina, e di altre protagoniste della scena romana come la Società dell’Esquilino e la Società generale immobiliare, risultarono evidenti gli intrecci, i legami, gli investimenti incrociati e una catena di crediti e di debiti divenuti inesigibili che partiva dai piccoli costruttori e si chiudeva con le banche di emissione come la Nazionale o la Banca Romana46. La crisi edilizia ebbe immediati effetti sociali: un centinaio di cantieri chiusero nel 1887 e altri 149 nel luglio 1888; i disoccupati si contavano a migliaia, mentre serpeggiava la protesta47. La questura segnalava 3270 licenziati nell’ottobre 1887, di cui 1200 della ditta Moroni che operava fuori Porta Pia e Porta Salara48. Alla fine di febbraio 1888 si ebbero i primi disordini e nei giorni successivi i dimostranti depredarono i cascherini e diedero l’assalto ai forni. Una distribuzione di pane e l’impiego dei disoccupati in lavori di sterro a carico del Comune, promossi dal sindaco 84

Guiccioli, placarono l’agitazione, che era sfuggita al controllo di leader operai come Andrea Costa49. Ma la mobilitazione dei lavoratori continuò nel corso dello stesso anno e in quello successivo. La guida delle manifestazioni passò agli anarchici, che assecondarono forme diffuse di vandalismo. Il ciclo di lotte si concluse con centinaia di arresti e il rimpatrio forzato di moltissimi lavoratori50. Gli operai immigrati, e in particolare i romagnoli, rappresentavano infatti il tradizionale serbatoio del sovversivismo romano.

2. La Roma di Crispi: conflitti e celebrazioni L’emergere improvviso e inevitabile della crisi sociale e le modalità tradizionali adottate per tamponarla mettevano in luce le contraddizioni dello sviluppo urbano e ponevano sul tappeto problemi fino allora rimasti al margine. La questione sociale non fu che uno degli aspetti di una stagione di accelerazione conflittuale che si sviluppò su molti versanti della vita cittadina: tensioni fra Comune e governo, fra candidati e schieramenti in occasione delle competizioni amministrative e politiche, infine fra le maggiori personalità della politica nazionale in occasione del grande scandalo bancario. Vicende tutte segnate da alte valenze politico-simboliche e ruotanti in un modo o nell’altro intorno a Francesco Crispi, la figura politica di maggiore spicco di quegli anni. Molti momenti di queste vicende erano legati non solo al temperamento dell’uomo – autoritario e giacobino –, allo stile del suo fare politica – incisivo e in qualche misura sbrigativo –, al suo – consapevole – collocarsi nella storia51, ma anche al chiudersi di un’epoca, quella dominata dagli ultimi artefici del Risorgimento nazionale, dal peso delle memorie e dagli insistiti richiami a quel passato. Crispi non è solo il protagonista eponimo di questo periodo, ma il traghettatore della compagine nazionale in una transizione, rimasta incompiuta, nella riorganizzazione dello Stato e nell’individuazione coerente e consensuale degli obiettivi internazionali dell’Italia. Del resto c’era sempre nelle affermazioni di Crispi qualcosa che lo collocava al di fuori e al di sopra del proprio tempo e insieme lo rendeva incapace di governare interamente il nuovo. L’idea che Crispi aveva di Roma portava in sé molti germi del futuro. 85

In Roma [...] non bisogna esservi solo materialmente, e la nuova missione d’Italia qui comincia, e se insediatici nella città eterna abbiamo abolito il principato civile dei pontefici, abbiamo proclamato liberi i culti e le coscienze, è incompleta l’opera nostra finché con gli studi e con le armi, con la scienza e con la forza, non avremo provato allo straniero che noi non siamo minori dei padri nostri52.

L’embrionale, ma esplicito, nazionalismo di Crispi si univa ad una concezione che contemplava il reciproco rafforzarsi della monarchia e del Parlamento. Nella traduzione simbolica di questa convinzione già nel 1881, nel corso della discussione della legge per Roma, aveva sostenuto l’opportunità di edificare in luogo del Palazzo di Giustizia «il Palazzo del Parlamento, destinando ai tribunali e alle Corti Monte Citorio, dove erano prima che noi fossimo giunti in Roma». La Camera gli sembrava inadatta e l’aula inadeguata ad ospitare le sedute reali: Noi in Roma stiamo a disagio. È una locanda per noi piuttosto che una città; (Benissimo!) e guardando quest’Aula dovete tutti sentire un grave rammarico nel riflettere che, dopo dieci anni, siamo ancora in una casa di legno coperta di tela e di carta, (Si ride) quasi che stessimo qui provvisoriamente e non nella capitale definitiva dello Stato. (Bene! Bravo!) Io sono un uomo all’inglese; e (mel permettano di dirlo coloro dei miei amici i quali hanno idee più avanzate) tutte le volte che v’è una seduta reale, e che vedo disfare il seggio del Presidente per costruire al suo posto un trono di legno, io mi sento umiliato! A Londra le sedute reali si tengono nella Camera dei Pari, dove il seggio reale, di bronzo e d’oro, è permanente: e nessuno ha mai potuto sospettare che colà vi sia provvisoriamente, perché il trono, come lo Stato, devono essere saldi e sembrar tali. (Bravo!)53

La costruzione di un nuovo Parlamento, dove fossero riuniti Camera e Senato, era una questione di immagine intesa in senso forte e dunque una questione politica. Crispi riuscì a far inserire nella legge del 1881 una disposizione che stanziava 50.000 lire per premiare i migliori progetti per il palazzo del Parlamento e attribuiva a un futuro decreto l’avvio della procedura concorsuale. Un primo concorso54 si tenne nel 1883 per un edificio di cui si fissarono le dimensioni (250 per 180 metri) ma senza indicare la loca86

lizzazione, anche se alcuni pensavano alla zona dell’ex convento dei cappuccini presso piazza Barberini, caratterizzata da molti dislivelli e poi resa inutilizzabile dalla lottizzazione di Villa Ludovisi, mentre Crispi puntava su via Nazionale, all’area dove sarebbe stato costruito il palazzo della Banca nazionale (poi Banca d’Italia). Nel 1888, quando Crispi era da un anno presidente del Consiglio, venne bandito un nuovo concorso, questa volta dopo aver individuato per la costruzione la zona di Magnanapoli, un’area segnata anch’essa da forti dislivelli55 al termine del tratto rettilineo di via Nazionale, in corrispondenza dei giardini di Villa Aldobrandini e del grande convento espropriato dei SS. Domenico e Sisto (oggi l’Angelicum), sul crinale sovrastante i fori e i mercati traianei che separava la città nuova da quella antica. Per la relazione «sulla scelta e proposta di Magnanapoli», una sorta di piano di fattibilità, redatta dall’autorevole architetto Luca Beltrami e dall’ingegnere Francesco Bongioannini, l’area, equidistante dalle porte della città, è quindi veramente nel cuore di tutto il recinto di Roma, s’innalza fra le alture del Quirinale e del Campidoglio, prospetta da una parte la vecchia città, dall’altra la città moderna e i ruderi dell’antica. Posizione storicamente più caratteristica, topograficamente più centrale e modernamente più comoda non può certo essere contrapposta a questa56.

Il palazzo avrebbe avuto un fronte principale di 250 metri su via Nazionale e i fianchi avrebbero guardato da un lato verso la Banca nazionale, dall’altro verso la Torre delle Milizie. Da tale disposizione – concludeva la relazione – risulta che Via Nazionale all’estremo della sua tratta principale avrà un edificio d’una importanza capitale il quale formerà il vero obbiettivo della Via e giustificherà il suo percorso rettilineo per più di mille metri e il suo risvolto in quel punto: il vasto piazzale fornirà il modo di correggere le pendenze difettose in quella località [...]; gli avanzi stessi di Roma antica e medievale che formeranno lo sfondo del piazzale non contribuiranno unicamente all’effetto pittorico d’assieme, ma costituiranno un vero elemento, diremmo quasi, essenziale ed indispensabile per completare l’edificio, giacché sarebbe veramente anormale che in Roma l’edificio più importante della nazione avesse a sorgere senza formare contrasto cogli avanzi delle passate grandezze57. 87

Il progetto rispondeva in pieno ai problemi della visibilità configurandosi come un Campidoglio alternativo che si stagliava in faccia a S. Pietro collegato da una grande piazza al Quirinale e stabilendo un nesso evidente fra la monarchia e le istituzioni rappresentative, in piena sintonia con le concezioni di Crispi. L’intervento – per dimensioni e rilevanza urbanistica analogo a quelli compiuti in altri paesi europei e negli Stati Uniti – avrebbe sollevato d’un colpo il livello di visibilità e rappresentatività simbolica del Parlamento e della città politica nel suo insieme, ma si fermò allo stadio del concorso architettonico (1888-1890). Se i costi per l’area di Magnanapoli oscillavano fra 6,7 e 8,3 milioni, assai meno dei 27 ipotizzati, in caso di ampliamento della Camera, per l’esproprio degli edifici restrostanti Montecitorio58, le spese per la costruzione del Parlamento crispino sarebbero state invece rilevantissime. Del resto lo Stato si era già impegnato per altri edifici monumentali e, mentre Crispi rilanciava il progetto di Magnanapoli, il 14 marzo 1889 veniva posta la prima pietra per il Palazzo di Giustizia ai Prati di Castello. Crispi, come s’è visto, anteponeva la maestà del Parlamento a quella della giustizia, ma il suo disegno era stato sconfitto. Così il Senato sarebbe rimasto sempre nella prima sede di palazzo Madama e la Camera si sarebbe in seguito ampliata nel nuovo edificio di Ernesto Basile59 alle spalle di Montecitorio senza che questo ampliamento e la piazza antistante e le consuetudini d’uso avessero la forza urbanistica e architettonica per imporsi all’edificio barocco. La novità del progetto crispino non stava solo nella concezione di una sede unitaria per il Parlamento, immaginato come un nuovo Campidoglio, ma nell’aver inserito le istituzioni rappresentative all’interno di un percorso simbolico e celebrativo, in sintonia – e in qualche misura in dissonanza – con la pedagogia monumentalistica in atto allora a Roma e in tutta Italia60. Quanto potente e trainante fosse l’ansia celebrativa si può misurare dalla rapidità con cui fu eretto a Roma il monumento ai caduti di Dogali. All’indomani dell’eccidio, compiuto il 26 gennaio 1887 in Eritrea dalle truppe di ras Alula – ma la disfatta fu dovuta all’improvvida condotta del colonnello De Cristoforis e alla sua sottovalutazione degli abissini –, l’emozione e il rimpianto per gli oltre 500 soldati che si erano battuti sino alla fine61 si tradussero in un’iniziativa monumentale promossa dal Comune, anche come 88

risposta alle violente polemiche anticoloniali. E dal momento che nel 1883 era stato rinvenuto dal Lanciani tra S. Ignazio e la Minerva un obelisco perfettamente conservato si pensò di utilizzare il reperto62. A differenza di tanti altri progetti comunali, questa volta si procedette con grande sollecitudine: il monumento, disegnato da Francesco Azzurri, fu inaugurato, seppure in una versione provvisoria, nella piazza antistante la stazione Termini il 5 giugno 1887, giorno della festa dello Statuto, con una grande cerimonia a cui parteciparono i sovrani, tutte le autorità politiche e 150 sindaci63. Il sindaco Leopoldo Torlonia pronunciò in quell’occasione alcune alate parole: indicando l’obelisco, «questo trofeo di antiche vittorie, questo granito egizio, che simboleggia la saldezza dei combattenti a Dogali», ricordò che i nostri soldati «insegnarono come gli italiani sappiano morire, quando l’onore della bandiera nazionale impone il sacrificio della vita»64. Sottolineò poi il ruolo della nuova capitale. «La città immortale, che temprò la spada nelle guerre puniche, consegna alla storia, alla pietà ed all’esempio dei presenti, e dei futuri, questo monumento»65. Ma il monumento non piacque molto: intanto per la tipologia funeraria conferitagli dall’obelisco poggiato sulle edicole recanti le targhe con i nomi dei caduti, poi per le esigue dimensioni. «È un bel monumentino!» fu il freddo commento del re66. Primo e più visibile monumento della città nuova, l’obelisco ai caduti di Dogali non ebbe grande fortuna. L’operazione celebrativa conservava inevitabilmente un carattere di ambiguità. Dogali, simbolo del nuovo valore italico, era pur sempre il ricordo di un’umiliante sconfitta. L’8 maggio 1937, dopo la conquista dell’Etiopia, in una sorta di rivalsa, fu posto ai suoi piedi il Leone di Giuda, emblema dell’impero etiopico67. Ma dal maggio 1925 il monumento era stato spostato, per ragioni di ostacolo al traffico, nei contigui giardinetti di via delle Terme di Diocleziano68. Rimaneva alla piazza la denominazione, decisa nel 1887 ma col tempo sempre più incomprensibile, di piazza dei Cinquecento, mentre nel 1916, in un’epoca in cui era più opportuno dimenticare le sconfitte, la strada del nuovo quartiere Ludovisi cui era stato dato il nome di Dogali veniva ridenominata via Romagna69. La sollecitudine dell’iniziativa per Dogali rispondeva anche alla necessità per il duca Torlonia di rafforzare la sua posizione agli occhi dell’esecutivo. Per quanto indicati dal Consiglio comunale, 89

i sindaci erano di nomina regia e il Torlonia, dopo cinque anni come facente funzione, avrebbe ottenuto l’investitura ufficiale solo nell’aprile 1887. L’impegno per un obiettivo così evidentemente patriottico consentiva inoltre di ritardare le decisioni relative al monumento a Giordano Bruno: favorirne l’erezione avrebbe messo il sindaco in difficoltà di fronte ai suoi sostenitori cattolici dell’Unione romana in Consiglio e nella giunta. Il monumento a Bruno era ormai divenuto una questione politica70. Promosso nel 1876 da un’iniziativa nata nel mondo universitario e in particolare dagli studenti, era stato rilanciato nel 1884 anche con l’appoggio di un comitato internazionale d’onore nel quale spiccavano i nomi di Hugo, Renan, Spencer, Ibsen, Gregorovius. Per i promotori, per la massoneria guidata da Adriano Lemmi che aveva un forte radicamento in città71, e per la diffusa opinione pubblica anticlericale, era evidente la condensazione simbolica racchiusa nel monumento a una vittima dell’oscurantismo religioso da erigere nel centro della città storica, a Campo dei Fiori, nel luogo stesso dove era stato bruciato vivo il 17 febbraio 1600. Né valse ad attenuare questo significato la scelta di ridurre il carattere anticattolico a favore della dimensione filosofico-scientifica e di trasformare il bozzetto originario da una figura di tribuno col braccio levato a quella del frate corrucciato a capo chino irremovibile nella sua determinazione, entrambi opera di Ettore Ferrari, scultore fra i maggiori, massone e futuro gran maestro. L’inciampo maggiore alla messa in atto del progetto fu rappresentato nel 1887 dalla difficoltà di ottenere dal Comune la piazza di Campo dei Fiori. Ma dai primissimi del 1888 non sarebbe stato più il sindaco Torlonia a gestire la questione. Il 30 dicembre 1887, infatti, un decreto reale sollecitato da Crispi lo aveva rimosso dalla carica. Il pretesto immediato era stato l’omaggio che il sindaco, in un incontro con il cardinale vicario, aveva reso a Leone XIII per i suoi cinquant’anni di sacerdozio. Più in generale Crispi, succeduto in luglio al Depretis, irritato dal fallimento di una prospettiva conciliarista e scottato dalla sconfitta dei suoi uomini nelle elezioni per il rinnovo parziale del Consiglio comunale tenute nel giugno 1887, dove ancora una volta era uscita vincitrice la lista dell’Unione romana, aveva voluto usare la mano forte contro uno dei principali interlocutori del trasformismo depretisino in città. Torlonia infatti era il garante in Comune di una po90

litica che si era venuta consolidando negli anni finali del governo Depretis72. Una politica tendente a ridurre i contrasti con l’elemento cattolico e in larga misura rispettosa di una scelta a favore dell’«amministrazione» intesa come contrapposta alla «politica»: a livello di Comune e Provincia doveva prevalere l’amministrazione sulla politica e dunque potevano tacere le grandi contrapposizioni. Si trattava di una alternativa ambigua, spesso revocata e sempre revocabile, che conferiva ai cattolici un salvacondotto per essere presenti ed esercitare dagli organismi amministrativi un controllo sulla città e le sue trasformazioni. Era il riflesso anche dei complessi intrecci che legavano il patriziato romano alla S. Sede non solo in virtù di una opzione politico-religiosa, ma anche per gli innumerevoli fili rappresentati dai crediti concessi dall’amministrazione finanziaria pontificia alle grandi famiglie e a loro singoli esponenti e parallelamente per i ricorrenti investimenti vaticani nelle istituzioni finanziarie romane e nelle società immobiliari operanti a Roma. Sotto la spinta di una convergenza politica e della tutela degli interessi, l’Unione romana si era venuta rafforzando non solo lasciando aperte le sue liste, come si ricorderà, agli esponenti del liberalismo moderato, ma anche proponendo banchieri come Bernardo Tanlongo, governatore della Banca romana, e Giacomo Grillo della Banca nazionale. Inoltre durante l’amministrazione Torlonia alcuni fra i maggiori esponenti dell’Unione erano stati chiamati in giunta. Tutto questo, per Crispi, doveva finire: e per scardinare questo assetto il monumento a Bruno era un efficace grimaldello. Al successore di Torlonia, il marchese Guiccioli, uomo vicino alla corte, moderato e prudente, spettò portare in Consiglio la questione. Ma nel dibattito prevalsero, con 36 voti contro 29, gli oppositori all’assegnazione dell’area: non si poteva pretendere «che la rappresentanza legale d’una città eminentemente cattolica si associ ad una manifestazione che la legge non le impone, e che offende i sentimenti generali della popolazione»73. E agli sconfitti che si rivolsero a Crispi, il presidente del Consiglio suggerì di coalizzarsi per vincere la successiva tornata elettorale per il rinnovo parziale del Consiglio. Tutte le forze anticattoliche si raccolsero allora sotto la bandiera di Giordano Bruno e il 17 giugno 1888 ottennero una vittoria nettissima. In quella occasione, con il 68,2% si registrò la percentuale più alta di votanti dal 1870, segno di una larghissima mobilitazione74. La nuova maggioranza 91

in Consiglio comunale concesse l’area di Campo dei Fiori e il monumento a Bruno venne inaugurato il 9 giugno 1889 con una grande manifestazione, dopo che un corteo di 20.00075 persone partito dalla stazione Termini aveva raggiunto la piazza. Una celebre fotografia di quella giornata ci ha conservato l’immagine di un Campo dei Fiori affollato, con le tribune delle autorità e migliaia di bandiere76. Pur in assenza di Crispi e del governo, che tennero un profilo defilato, dato il carattere privato dell’iniziativa, la presenza ufficiale dei parlamentari eletti a Roma, di oltre 150 deputati, della rappresentanza municipale con il sindaco e di 3168 altre rappresentanze conferirono all’inaugurazione un carattere politico nazionale. La vicenda del monumento a Bruno offre non solo uno spaccato delle dinamiche e delle divisioni interne allo schieramento liberale, ma anche del complesso intreccio che legava i moderati romani alle forze cattoliche e insieme gli inconciliabili punti di rottura quando si giungeva sul terreno delle questioni di principio. Si trattava anche di un ulteriore segnale forte e visibile di un processo di trasformazione della città compiuto attraverso l’appropriazione simbolica dei luoghi all’interno di un vero e proprio rito di rifondazione: come era avvenuto per il Pantheon al momento delle esequie di Vittorio Emanuele, ma soprattutto in occasione del grandioso pellegrinaggio nazionale alla tomba del Gran re il 9 gennaio 188477. Anche quando era settoriale e di parte, il processo di simbolizzazione conferiva tuttavia nuova identità e nuovo carattere alla città capitale. La dimensione monumentale era ormai il linguaggio corrente di tutto un ceto dirigente e si era imposta come un itinerario obbligato, soprattutto dopo l’avvento della Sinistra storica alla guida del paese. Non sorprenderà quindi che le celebrazioni del giubileo di Roma capitale si incentrassero, nel 1895, essenzialmente nell’erezione e nell’inaugurazione di una serie di monumenti, dopo che era fallita, per le resistenze del Comune e per l’opposizione del Parlamento, l’ipotesi di un’Esposizione generale italiana e internazionale di Belle Arti e di Elettricità78. Il matrimonio fra Roma e l’Italia, efficacemente riproposto in una litografia commemorativa delle «nozze d’argento»79, voleva come testimoni gli eroi del Risorgimento. 92

Ma il concetto del monumento a Roma è superiore a qualunque altra considerazione. Roma è la capitale d’Italia. Roma colle sue due civiltà, col suo doppio passato, deve raccogliere tutte le grandi memorie dei suoi eroi, di coloro che si sono battuti ed hanno cooperato alla formazione dell’unità italiana; Roma è la sede necessaria di tutti questi monumenti.

Così aveva sentenziato Crispi nel 1883 intervenendo nella discussione sul monumento nazionale a Garibaldi80. Se poi guardiamo alle celebrazioni del 20 settembre – divenuto festa nazionale proprio nel 1895 – e all’elenco dei monumenti inaugurati in quella circostanza, ma non tutti originariamente previsti per la festività giubilare, scorgiamo il realizzarsi delle indicazioni di Crispi e insieme il riflesso delle diverse prospettive in cui la storia recente sembrava collocarsi. Immaginare una monumentalistica consensuale e unitaria non sarebbe in sintonia con gli orientamenti prevalenti nell’Italia d’allora. Ogni tendenza e ogni tradizione voleva trovare in questo campo visibilità e legittimazione. Solo nel caso della colonna con Vittoria alata innalzata a Porta Pia in ricordo della breccia si può parlare di un monumento dal significato unitario. Gli altri, quelli per Garibaldi, Cavour, Minghetti, il drammaturgo Pietro Cossa e la colonna di Villa Glori, rispecchiano la varietà dell’arco politico rappresentato. Sebbene la presenza del sindaco Emanuele Ruspoli assicurasse un tratto unificante alle diverse cerimonie tenute fra il 20 e il 27 settembre, il carattere differente delle singole occasioni è messo in luce dalla presenza dei reali alle inaugurazioni del monumenti statali, quelli a Garibaldi e Minghetti, e a quella del monumento a Cavour patrocinato dal Comune. Si tennero poi una serie di manifestazioni alternative in città e fuori, come quella dei gruppi dell’estrema sinistra, radicali e irredentisti al monumento di Garibaldi il giorno successivo all’inaugurazione ufficiale, o il pellegrinaggio all’ossario di Mentana81. Il contrasto fra le due diverse tradizioni che dividevano il mondo politico ufficiale si misurò in occasione della inaugurazione dei monumenti di Garibaldi e di Cavour. Sulla sommità del Gianicolo ai piedi della grande statua equestre dell’eroe dei Due mondi, il presidente del Consiglio Crispi, di fronte ai sovrani e a una grande folla, pronunciò un discorso dagli accesi toni antivaticani: so93

stenne l’assenza di fondamenti religiosi del potere temporale e sottolineò, in chiave di legittimazione definitiva delle imprese garibaldine, il legame forte fra Garibaldi e Vittorio Emanuele, astri e artefici del Risorgimento82. Soprattutto non fece menzione di Cavour, fra lo scandalo della stampa moderata, né partecipò alla cerimonia che si tenne due giorni dopo – sotto tono e con scarsa partecipazione di pubblico – nella piazza antistante l’erigendo Palazzo di Giustizia e intitolata allo statista piemontese, occupata allora dalle baracche e dai materiali del cantiere. In questa ripresa delle antiche conflittualità risorgimentali, Crispi era l’attore inconsapevole di una scena finale che vedeva per l’ultima volta presenti insieme, di persona o in effigie, i protagonisti dell’epopea nazionale. Crispi giocava sulla piazza romana anche l’ultima partita vincente della sua carriera politica. Di lì a poco la sconfitta italiana all’Amba Alagi avrebbe messo in moto la valanga che avrebbe spazzato via le nostre truppe ad Adua, il 1° marzo 1896, travolgendo anche Crispi. Riformatore dello Stato e dell’amministrazione, fautore della nazionalizzazione del Risorgimento e della nuova Italia con fulcro a Roma, Crispi diede un contributo decisivo alla personalizzazione della lotta politica. Non solo, per limitarci agli ultimi anni, con il confronto/scontro vincente con Giuseppe De Felice Giuffrida nel IV collegio di Roma in occasione delle elezioni politiche del maggio-giugno 1895, ma anche nel lungo conflitto, palese e occulto, che lo oppose a Giolitti durante gli strascichi dello scandalo della Banca romana. Dal dicembre 1892, in seguito alla denuncia di Napoleone Colajanni, era venuto gradatamente alla luce un diffuso sistema di irregolarità bancarie – eccesso di emissione, crediti non garantiti, doppie serie di biglietti – unito al finanziamento occulto di innumerevoli politici e giornalisti che era all’origine di un complesso intreccio di complicità inconfessabili. La vittima più illustre dello scandalo parve inizialmente l’uomo nuovo della politica di quegli anni, il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, mentre Crispi, le cui responsabilità erano pari se non maggiori, era riuscito ad evitare il coinvolgimento nella vicenda, tanto da essere chiamato a succedere a Giolitti nel dicembre 1893. La cronaca politica rimase dominata per tre anni dalle indiscrezioni e dai pettegolezzi. Alla fine del 1894 Giolitti, messo alle strette dalle iniziative di Crispi volte a distruggerlo politicamente, consegnò al presidente del94

la Camera una serie di documenti riservati che presto divennero di dominio pubblico. La guerra delle indiscrezioni e dei dossier, fino allora combattuta sui giornali, giungeva così in Parlamento. Nel «plico Giolitti», divenuto subito famoso, c’erano le prove dei larghissimi debiti di Crispi nei confronti della Banca romana e di alcuni altri finanziamenti illeciti. Ma c’era anche una collezione di lettere e biglietti che la dispendiosa moglie di Crispi, Lina Barbagallo, aveva inviato al maggiordomo di casa. L’anziano uomo politico siciliano ne risultava non solo politicamente screditato ma anche ridicolizzato. Per quanto secretato, il contenuto di quelle missive circolava liberamente e fu oggetto anche di una divertente lettera di Antonio Labriola a Friedrich Engels del 15 dicembre 1894. Le 120 lettere di D. Lina (che non saranno pubblicate, ma che tutto il mondo conosce!) sono deliziose, Aristofane e Plauto ne sarebbero entusiasti. In una scrive al suo maggiordomo D. Achille, da Napoli: «Vi ordino di non portare puttane a D. Ciccio. Se tornando a Roma mi accorgo che gli avete portato femine, vi darò un calcio nel culo e vi manderò fuori dai coglioni». La borghesia italiana finisce nel Dreck [= m....] (parola tanto cara a M. Lutero)83.

Labriola coglieva un aspetto significativo, il discredito della classe dirigente e politica. Un discredito che coinvolgeva anche la città capitale, istituendo accanto all’immagine idealizzata quella di una Roma reale profondamente corrotta negli intimi meandri del potere. Si affermava un’equivalenza fra corruzione e città politica. Caratteri destinati a divenire permanenti e a istituzionalizzare un giudizio negativo su Roma e la vita politica, rafforzato in quegli anni dalla contrapposizione con Milano, «il nazionalismo patriottico contro il municipalismo cosmopolita, il mito di Roma contro la modernità di Milano»84. Tutti elementi che concorrevano ad alimentare il nascente antiparlamentarismo. Il paradosso era che fosse Crispi ad aver incarnato entrambe queste immagini. La mobilitazione intorno ai temi della politica monumentale, una partecipe e articolata ritualità pubblica, la stessa spasmodica attenzione per gli scandali politici confermavano l’esistenza a Roma di una più mobile struttura sociale caratterizzata da aggregazioni complesse e di un pubblico nuovo disposto a interagire e a giudicare. Roma era profondamente cambiata e non solo nella sua dimensione urbana. 95

3. Popolazione e articolazioni della società Roma contava, al censimento del 31 dicembre 1881, una popolazione presente di 300.467 abitanti con un aumento del 22,9% rispetto al 1871. Nel 1901 la popolazione era passata a 462.437 registrando nel ventennio un incremento del 54%85. Per numero di abitanti era la terza città italiana dopo Napoli e Milano. Lo sviluppo demografico e la costruzione dei nuovi quartieri determinarono una diversa distribuzione della popolazione sul territorio cittadino. In seguito alla suddivisione del rione Monti nacque l’Esquilino, che da una densità di 84 abitanti per ettaro nel 1881 passò a 344 nel 1901. Una crescita della densità si registrò anche a Trevi, Colonna e Campo Marzio, lungo il Corso e nell’immediato Est della città vecchia, mentre diminuì a Ponte, Parione, Pigna, Regola e Sant’Eustachio, rioni che avevano visto crescere i loro abitanti nel primo decennio postunitario, quando gli immigrati si erano stipati nel centro storico. Nel 1901 Parione e Ponte avevano perso, rispetto al 1881, il 20 e il 24% dei loro abitanti. Dopo la distruzione del ghetto si era dimezzata la popolazione di Sant’Angelo, mentre quella di Trastevere crebbe nel trentennio in misura costante con un incremento finale del 60%86. I ritmi di sviluppo erano stati sensibilmente diversi nel 18811891, con un aumento del 36,8%, rispetto al 1891-1901, quando invece la crescita era stata solo del 12,5%. L’andamento demografico confermava, seppure con qualche anno di ritardo, la crisi economica e produttiva derivante dal crollo delle attività edilizie che assorbivano una elevata quantità di manodopera, spesso costretta a rientrare nei luoghi d’origine, e in qualche caso espulsa per motivi di ordine pubblico. Fra il 1889 e il 1896 si ebbe un significativo rallentamento dello sviluppo demografico con aumenti di poche migliaia di unità annue e con una diminizione della popolazione presente nel 1892 e nel 1895. L’eccedenza degli immigrati, principale fattore di crescita soprattutto negli anni 18841888, diminuì vistosamente a partire dal 1889. In generale l’immigrazione adulta rimaneva un elemento strutturale della demografia romana confermato dalla forte presenza dei gruppi di età fra i 15 e i 50 anni, 60% nel 1881 e 57% nel 1901. Roma conservava ancora alla fine del secolo quella prevalenza dei maschi sulle femmine che era una sua caratteristica secolare, 96

ma il divario si era grandemente ridotto. Si era passati infatti da un tasso di mascolinità di 1323 su 1000 nel 1871, risultato immediato della conquista italiana con la sua forte presenza di burocrati e militari, al 1255 del 1881, per giungere al 1079 del 1901. Strettamente legata a questa struttura della popolazione erano la bassa nuzialità, la altrettanto bassa natalità e insieme l’elevato numero di nascite illegittime, rimaste sempre superiori, dal 1877 al 1896, a 200 per mille nati vivi. A questo riguardo conviene però ipotizzare una minore rilevanza di questo fenomeno, probabilmente legato anche alla registrazione come illegittimi di tutti i figli di matrimoni religiosi non perfezionati dalla cerimonia civile87. Per quanto concerne la composizione regionale della popolazione romana, nel 1901 i nati a Roma erano il 46,4%: non erano quindi maggioranza, ma non lo erano neanche nel 1881. Dal Lazio proveniva il 12,9%, dalle Marche il 7,6, dagli Abruzzi il 6,6, dall’Umbria il 5,2, dalla Campania il 4,2; il maggior contributo settentrionale era dal Piemonte con il 2,1% (ma era il 3,2 nel 1881). Nell’insieme dal Centro, escluso il Lazio, veniva l’11,4% degli abitanti, dal Nord l’8% e dal Sud il 6,8%88. Si possono evincere ulteriori elementi per l’analisi delle provenienze regionali da un’inchiesta del 1907 sulle abitazioni degli impiegati d’ordine e subalterni. I nati a Roma erano il 19,3% degli impiegati d’ordine governativi e il 68% di quelli municipali, i nati nel Lazio rispettivamente il 6,6% e il 12,2%; alla stessa categoria la Campania forniva il 14,3% dei primi, la Toscana l’8,9, il Piemonte il 7, l’Emilia il 6,8, le Marche il 4,1, mentre ben diverse erano, per le stesse regioni, le percentuali relative agli impiegati comunali: 3,4, 1,6, 0,4, 1,6, 3,289. Un’analisi dei principali settori lavorativi consente di individuare, per il 1901, alcuni caratteri specifici di Roma soprattutto se confrontati con quelli di altre grandi città come Napoli, Firenze, Genova, Milano e Torino90. La popolazione attiva era il 55,8%, tasso lontano da quello di Milano, dove era al 67,5%, ma distante anche dal 49,4% di Napoli. La rilevanza a Roma degli addetti all’agricoltura con il 6,4% della popolazione complessiva, di due o tre volte maggiore di quello delle altre città, derivava dall’ampio territorio agricolo del comune. Si mantenevano così alcune usanze tipiche piuttosto di un grosso borgo rurale che di una città capitale: si pensi solo al frequente transito di greggi attraverso l’abitato e al 97

mercato della manodopera agricola stagionale che si svolgeva a piazza Montanara, alle pendici del Campidoglio. Nell’insieme piuttosto ridotto il numero degli addetti alle attività industriali salvo che nei settori poligrafico, alimentare e del vestiario. Superiore a quella delle altre città la percentuale dei lavoratori dell’edilizia, 3,4% a Roma rispetto al 2,6 di Milano e Torino, e quella degli impieghi nella pubblica amministrazione con il 4,1%, mentre a Milano e Torino erano rispettivamente dell’1,1 e del 1,5. Più numerosi che altrove erano, come è ovvio, gli addetti al culto: già nel 1895 si contavano circa 2000 religiosi, divenuti 3600 nel 1907, segnale di forte ripresa dopo le leggi eversive91. Un certo peso aveva anche la presenza dei militari, più rilevante a Roma che a Milano, Napoli e Firenze, ma inferiore a Genova e a Torino. Lo sviluppo della città burocratica e la riorganizzazione religiosa erano tra i fattori che, oltre alla già alta scolarizzazione, contribuirono a ridurre l’analfabetismo dal 42% del 1871 al 22% del 1901: riduzione più sensibile per la componente maschile, scesa dal 39 al 17%, che per quella femminile, passata dal 47 al 27%92. Nel trentennio 1871-1901 la popolazione era aumentata dell’89%. Gli addetti al settore agricolo aumentarono solo del 20% in cifre assolute: quindi videro diminuito il loro peso relativo nella vita sociale. Nell’industria si passò invece da 32.797 addetti a 71.479, con una crescita di oltre due volte, mentre nel terziario l’incremento fu del 70%, da 44.084 a 74.667. In entrambi i settori vistoso fu l’aumento della manodopera femminile, cresciuta di tre volte e mezza nell’industria, da 5783 a 20.587, e quasi raddoppiata nel terziario, da 10.995 a 20.474. Va ricordata tuttavia la diminuzione percentuale degli impieghi industriali nel ventennio 1881-1901, legata prevalentemente alla crisi del settore edilizio e delle attività collegate. Nella pubblica amministrazione l’incremento, tanto per gli impieghi maschili che per quelli femminili, fu di oltre due volte e mezza, da 11.691 a 33.21293. Nell’insieme era cresciuto il tasso di attività, grazie anche alla forte immigrazione di individui in età lavorativa. Se guardiamo poi ad alcuni settori professionali tradizionali, utilizzando la ricchissima fonte rappresentata dalla Guida Monaci, possiamo notare che i mercanti di campagna crebbero da 108 a 144 fra il 1875 e il 1900 con una significativa continuità delle ditte più importanti94. Anche una categoria tipica del panorama artistico 98

romano, quella dei «pittori di genere, figura, paesaggio, prospettiva, storia», passò dai 180 circa del 1872 ai 240 del 1895. Invece un settore in fortissima crescita, in diretto rapporto con lo sviluppo edilizio della città, fu quello degli ingegneri-architetti, che contava nel 1895 circa 640 presenze rispetto alle 170 del 187295. È significativo che la Guida Monaci, nel presentare le istituzioni cittadine, partisse dalla Gerarchia pontificia, dagli ordini religiosi e dalle chiese, facendola seguire dalla Famiglia reale, dalla Real corte e infine dal Parlamento; in coda era inserita l’amministrazione comunale che precedeva quella della giustizia. Erano anche elencati i nobili residenti a Roma, il patriziato e i possidenti: una rappresentazione e una scala di precedenze rispettose delle tradizioni più consolidate. Sostanzialmente diversa era la gerarchia della ricchezza mobiliare e imprenditoriale, riflesso di alcuni aspetti innovativi, soprattutto nell’edilizia e nella finanza, ma anche specchio delle attività economiche più consolidate. Fra i contribuenti iscritti nei ruoli delle imposte per oltre 10.000 lire erano annoverati 24 fra banche e banchieri (fra cui spiccavano, accanto a molti stranieri, Moisè Bondi ed Enrico Maraini), 15 appaltatori (di cui molti nell’edilizia come la ditta Marotti e Frontini), 12 proprietari o gestori di fornaci da laterizi, 11 mercanti di campagna (con imponibili che andavano dalle 10.695 lire dei fratelli Franconi alle 24.000 di Achille Gori Mazzoleni, alle 104.542 di Felice e Camillo Ferri). Seguivano albergatori, negozianti e grossisti (di materiali edilizi, di ferro, di tessuti), tipografi, e infine il liquorista Giacomo Aragno, l’orefice Augusto Castellani e l’industriale Michele Pantanella degli omonimi molini96. Sarebbe quasi troppo ovvio notare come gli indici della modernità convivessero, nella Roma di fine secolo, con quelli della tradizione. Basti appena un cenno al settore caratteristico delle consuetudini alimentari: alle antiche normative di ancien régime e agli assetti produttivi della Campagna romana sono da imputare la perdurante scansione dei consumi di carne durante l’anno. Il mercato degli agnelli si teneva dal giovedì avanti Pasqua fino a tutto giugno, quello dei suini dal 1° novembre a tutto marzo. Tutti i processi di modernizzazione erano intralciati dagli innumerevoli fili di congiunzione col passato. Nella capitale l’accelerazione del mutamento si manifestava in modo più vistoso in 99

rapporto ai freni frapposti dal precedente regime. Le trasformazioni erano il risultato di un insieme di decisioni politiche, non germinavano da nuove condizioni sociali ed economiche. Queste derivavano invece dal nuovo ruolo e dalle nuove funzioni attribuite alla città e al concentrarsi in essa, in virtù della forte immigrazione, di una serie di esperienze organizzative e di stili di vita maturati altrove. Se il divario con le altre grandi città italiane si veniva per molti versi riducendo, Roma appariva svantaggiata sul terreno dei trasporti pubblici urbani: nel 1890 non aveva tram a vapore, presenti a Milano, Torino, Napoli, e neppure elettrici, in servizio solo a Firenze. I servizi telefonici, affidati a due società che operavano con il 50% di personale femminile, erano invece all’avanguardia. Roma contava 2769 abbonati nel 1892, mentre Napoli ne aveva 976 e Torino 857. Anche il confronto internazionale, tenuto conto di una popolazione assai inferiore, non era a svantaggio della capitale italiana: a Parigi, nella stessa epoca, gli abbonati erano 6153, a Vienna 3664. Berlino ne aveva invece oltre 15.00097. I servizi postali erano molto efficienti e la levata della posta si faceva, nel 1895, sette volte al giorno dalle 4 del mattino alle 21.4098. Roma manteneva il primato nella disponibilità d’acqua per abitante con 420 litri giornalieri rispetto ai 132 di Firenze e ai 110 di Londra99. Gli affitti non erano più cari a Roma che nelle altre grandi città italiane ed erano sensibilmente inferiori a quelli di Parigi, in linea con Londra, ma superiori a quelli di Berlino. Le pigioni medie mensili oscillavano a Roma, dove erano diminuite dopo il 1888, fra le 60 e le 110-150 lire, a Milano fra 50-67 e 125-160, a Napoli fra 60 e 150 negli anni 1888-1891. In particolare a Roma per appartamenti di sei stanze «ciascuna illuminata da finestra, compresa la cucina, ma escluso l’ingresso quando non fosse una stanza abitabile», si pagavano in centro, al Corso, via Nazionale o al Tritone, dalle 150 alle 200 lire mensili; all’Esquilino dalle 54 alle 90, una cifra analoga in Prati e 75 lire a Ludovisi. A Testaccio, nelle case popolari costruite dalla ditta Marotti, Frontini e Geisser, alloggi formati da «una stanza grande (20 metri quadrati e 75 metri cubi), di una più piccola (16 metri quadrati e 35 metri cubi), di una cucina con focolare, lavandino e rubinetto d’acqua potabile (300 litri per famiglia al giorno) con piccolo andito e la latrina, resa inodora con chiusura idraulica» si pagavano 9 lire a vano, in totale 27 lire100. 100

Accanto ai divertimenti usuali, teatro e melodramma – dal 1880 Roma aveva un nuovo grande teatro dell’opera il Costanzi –, dalla fine degli anni Ottanta si aprono i café-chantant e i varietà. Cantanti, come Lina Cavalieri, soubrette come M.lle Suzanne Duvernois, la «rivale di Venere», Rose Belmont, Chiquita e tante altre, trasformisti, come Leopoldo Fregoli, si esibivano all’Olympia, al Salone Margherita, all’Eldorado, al Giardino d’Eden101. Erotismo e un pizzico di trasgressione conquistavano la scena pubblica della città. Lo spettacolo sportivo più popolare a Roma, come in molta parte dell’Italia centrale, era stato a lungo il gioco del pallone col bracciale i cui incontri si tenevano allo sferisterio Barberini alle Quattro Fontane. I nobili praticavano la caccia e fin dagli anni Quaranta la caccia alla volpe102. Verso la fine del secolo si era diffusa soprattutto tra i nuovi ceti la passione per la bicicletta. La Società velocipedistica romana nel 1895 contava 120 soci, divenuti 350 nel 1900, che potevano disporre di una pista propria. La sezione di Roma del Touring club ciclistico italiano, fondata nel 1895, nel 1900 aveva 1200 soci. Fra i circoli sportivi, due erano intitolati al lawn-tennis e altri due si dedicavano alla «cultura del colombo viaggiatore». Un Club pedestre organizzava marce e passeggiate, quattro erano le società di canottaggio e fra queste la Tevere contava 200 soci, mentre l’Aniene ne aveva 93. La Società del tiro a segno nazionale, espressione del patriottismo istituzionalizzato103, contava 3500 iscritti. Nei primi anni Novanta si diffonde e rafforza organizzativamente la pratica della ginnastica con la Società ginnastica Roma, cui seguirono la Borgo-Prati e l’Audace104: nella capitale aveva sede anche la Federazione nazionale. Con la Società podistica Lazio si cominciò a diffondere il gioco del football. Le società sportive riflettevano, soprattutto nei settori della ginnastica, del canottaggio, del ciclismo, una dimensione più articolata delle relazioni sociali e una notevole capacità di coinvolgimento e di mobilitazione. Nella ginnastica, la più chiaramente pedagogica e formativa, le iniziative di ispirazione massonica e repubblicana si confrontarono presto con quelle delle associazioni cattoliche: i ginnasti cattolici si esibivano nel cortile del Belvedere sotto gli occhi del papa. Il diffondersi delle nuove associazioni per il tempo libero è un indicatore certo di modernizzazione. Rimane tuttavia arduo valu101

tarne l’impatto nelle trasformazioni e nelle dinamiche, anche politiche, della vita cittadina. L’analisi di possibili intrecci è stata trascurata dagli storici in omaggio allo statuto prevalentemente politico della propria disciplina. Così come rimane nell’ombra il peso complessivo dell’associazionismo nella realtà romana anche sul versante delle forme della sociabilità. Il panorama dei circoli e delle società era comunque ricchissimo e aveva avuto una fortissima espansione dopo il 1870. Le associazioni regionali – quella degli abruzzesi con 350 soci nel 1895, quella «fra gl’italiani del Mezzogiorno» con 222, quella dei piceni, per non fare che pochi esempi – consentivano di mantenere in vita e riproporre circuiti sociali di protezione riagganciandosi in qualche caso alle antiche rappresentanze delle «nazioni» e alle loro chiese. Le associazioni e i circoli politici continuarono a mantenere il loro ruolo soprattutto in occasione delle tornate elettorali. Alcuni avevano vita breve, altri si erano consolidati. Fra questi troviamo nel 1895 l’Associazione Giordano Bruno, la Sempre Avanti Savoia, i circoli Savoia, Camillo Cavour, Giuseppe Mazzini, il Circolo radicale presieduto da Ettore Ferrari con 300 soci, l’Unione monarchica liberale guidata da Ruggiero Bonghi, infine la cattolica Unione romana. Questi erano quelli che ottenevano dalla Guida Monaci il crisma dell’ufficialità. Ma si pensi che nel 1892 il solo movimento repubblicano contava 28 fra circoli e associazioni105. Due sembrano essere le cifre caratteristiche del fenomeno associativo romano, l’estrema frammentazione e la rionalizzazione, soprattutto per le organizzazioni a sfondo politico. L’insediamento a base rionale rifletteva la suddivisione dei cinque collegi elettorali cittadini per la rappresentanza politica ed era operante soprattutto per lo schieramento dell’Estrema106. È il caso dell’Associazione elettorale operaia del rione Borgo e Prati di Castello e del Circolo elettorale operaio di Trastevere con 300 soci; coinvolgeva invece due collegi l’Associazione elettorale liberale fra i rioni di Trastevere, Borgo, Prati, Ripa, Sant’Angelo, che contava 540 associati nel 1895. Una forte connotazione rionale rimase anche ad alcune candidature politiche alla Camera. Guido Baccelli, grande clinico, professore universitario, più volte ministro dell’Istruzione pubblica fra il 1880 e il 1900, la personalità di maggiore spicco espressa dalla Roma umbertina, fu eletto nel III collegio, il più borghese della città, ininterrottamente, e spesso trionfalmente, 102

dal 1874 al 1913. Baccelli era interprete di un progressismo moderato garantito dalla dimensione scientifica e culturale della sua professione, anche se il suo romanismo era considerato altrove piuttosto «retorico e gonfio»107. Salvatore Barzilai, avvocato e giornalista triestino, ebreo, massone, irredentista, radicale e poi repubblicano, oratore appassionato, fu eletto dal 1892 al 1913 nel V collegio, talora dopo aspri confronti, grazie ai suoi stretti legami con l’associazione repubblicana Giuditta Tavani Arquati108 e all’abilità di far convergere sul suo nome democratici, radicali, socialisti (e nel 1892 persino i cattolici). Barzilai era già stato eletto nel 1890 nel collegio unico previsto per lo scrutinio di lista e in quell’occasione aveva cominciato a raccogliere voti a Trastevere e a Borgo superando in quei rioni Baccelli che risultò primo degli eletti. Fra il ’92 e il ’95, Baccelli e Barzilai vennero eletti con un numero di voti oscillanti per il primo fra 1200 e 1700 circa, per il secondo fra 900 e 1000. Nel collegio «borghese» di Baccelli i votanti non superarono i 1926 su un totale di iscritti che variò in quel periodo fra 7005 e 5172. Nel collegio «popolare» di Barzilai i votanti furono non più di 1559 su un massimo di 3822 iscritti. Anche il rione Monti rimase un bacino di voti e di tradizioni democratiche e repubblicane, mantenendo a lungo la sua connotazione politica109. Sul versante delle organizzazioni operaie, la fondazione da parte di radicali e repubblicani della Camera del lavoro nel 1892 rappresentò un tentativo di superamento delle divisioni e di unificazione delle iniziative: vi confluirono 32 fra cooperative e società di mutuo soccorso, ma nel frattempo queste ultime avevano raggiunto in città il numero di 250110. Nel 1895 dei 63 mestieri in cui erano suddivisi i 9479 iscritti alla Camera del lavoro, quelli più rappresentati erano nel settore dei servizi i vetturini (1525); nell’edilizia i muratori e manovali (774), i terrazzieri (769) e gli scalpellini (542); nell’arte del libro i tipografi compositori (635); nelle arti decorative i pittori decoratori (216); in quelle manifatturiere i sarti (182) e infine i falegnami ebanisti (306)111. Per molti anni ancora sarà difficile, nonostante tutti gli schematismi interpretativi, individuare un movimento operaio e più ancora una classe operaia. L’articolazione dei mestieri, le tradizioni e le gerarchie artigianali, l’assenza di una realtà di fabbrica, le suddivisioni di gruppi, singole individualità, tradizioni politiche, tutto congiurava a rallentare forme organizzative e identità politiche 103

unitarie. Singole fasi di lotta, momenti di mobilitazione e di protesta, contribuirono ad accelerare fasi di crisi e a favorire nuove aggregazioni. La giornata del 1° maggio 1891 rappresentò, in questo senso, un passaggio cruciale. Nel corso di un grande comizio a piazza S. Croce in Gerusalemme, nonostante un discorso prudente del leader anarchico Amilcare Cipriani, altri interventi incitarono i manifestanti ad agire. L’attacco degli anarchici alla forza pubblica fu seguito da una serie di scontri e dalle cariche della cavalleria. Si ebbero due morti, una guardia di città e un giovane carrettiere, molti feriti e moltissimi arresti. L’evento diede avvio alla crisi dell’egemonia anarchica, fino allora fortissima in città. Segnò anche il personale fallimento di Antonio Labriola nel ruolo, rivestito in quegli anni, di educatore a nuove esperienze politiche. Soprattutto rese sempre più netta la distanza fra sovversivismo e mobilitazione economica e politica112. Contemporaneamente dimostrò una capacità di repressione da parte delle autorità di cui menò vanto alla Camera il ministro degli Interni Nicotera, pronto ad avvalersi nell’occasione anche di agenti provocatori capaci di incendiare gli animi dei manifestanti e giustificare l’intervento della forza pubblica. Una linea repressiva destinata ad accentuarsi negli anni dell’ultimo Crispi e in quelli a lui successivi. In queste condizioni l’avvio dell’esperienza socialista, con la fondazione, nel 1893, di una sezione romana ad opera di Ezio Marabini, ebbe un successo assai limitato: pochi gli iscritti, per gran parte immigrati, poco inseriti in città e dispersi nei vari rioni, con prevalenza a Campo Marzio, con un tasso di militanza piuttosto basso113. L’improvvisa e imprevedibile esplosione dei tumulti di protesta per l’eccidio di Aigues-Mortes in Provenza (dove, il 17 agosto 1893, gli operai italiani reclutati a salari più bassi per il lavoro nelle saline furono aggrediti dai francesi) sfuggì inizialmente al controllo della forza pubblica. I disordini culminarono nell’assalto all’ambasciata di Francia di palazzo Farnese e nelle barricate innalzate nelle vie adiacenti. Caratterizzati da una confusione di accenti che mescolava propensioni filocrispine e tripliciste ai proclami filofrancesi degli anarchici e alle rivendicazioni dei disoccupati, i tumulti confermarono lo stadio arretrato della mobilitazione operaia in città e la diffusa componente ribellistica che la caratterizzava114. 104

Da allora l’obiettivo della tutela dell’ordine pubblico nella capitale fu perseguito con grande determinazione. Le disposizioni repressive adottate da Crispi del 1894, in seguito anche a un attentato anarchico di cui fu fatto oggetto, lasciandolo illeso, in via Capo le Case nei pressi della sua abitazione, colpirono, a Roma, solo la sezione socialista e un circolo repubblicano, su un totale di 348 associazioni sciolte in tutta Italia115. Nel maggio 1898 la piazza romana rimase tranquilla, mentre la protesta sociale a Roma negli anni a cavallo del secolo vide protagoniste singole categorie di lavoratori con l’obiettivo di tutelare l’occupazione e di ottenere miglioramenti salariali. Gli scalpellini, un settore specializzato nei lavori edilizi, impegnati nei grandi cantieri governativi del monumento a Vittorio Emanuele e del Palazzo di Giustizia furono fra i più attivi: le loro richieste, proprio per motivi di ordine pubblico, vennero spesso accolte, come nel luglio 1900116. Anche i vetturini e i tipografi, che erano assistiti da associazioni più organizzate, registrarono qualche successo. Ma nel 1902 uno sciopero generale di sostegno ai tipografi fu prima bocciato dalla Camera del lavoro a marzo e, quando fu indetto ai primi di aprile, ebbe esito modesto, scarsa risonanza e si tradusse in una dura sconfitta117. Anche il grande sciopero generale promosso in tutta Italia nel settembre 1904 ebbe a Roma un assai minor rilievo che altrove. Indetto per le 12 di sabato 17, fu accompagnato da un comizio che si tenne al Foro Boario con 5000 partecipanti. Al comizio seguirono alcuni scontri fra dimostranti e forza pubblica alla Bocca della Verità. Alla mezzanotte del giorno successivo lo sciopero fu revocato. Avevano scioperato quasi tutti i giornali e poi muratori, falegnami, panettieri, macellai, tranvieri, vetturini, spazzini. Lo sciopero era riuscito soprattutto nei servizi, mentre in alcune fabbriche come ai molini Pantanella e nello stabilimento tipografico Staderini, si era lavorato118. Era un successo a metà che fotografava la specifica combattività del movimento operaio romano e il ridotto sostegno che poteva offrire alle battaglie nazionali. Diverso era l’apporto che Roma poteva fornire alle organizzazioni politiche: la stampa, quotidiani e settimanali rimanevano ancora gli strumenti più efficaci in questo periodo. La mobilitazione delle piazze era invece debole e inefficace. La dimensione nazionale al Partito socialista veniva affidata all’«Avanti!», il quoti105

diano che si stampava a Roma dal dicembre 1896. E sempre nella capitale, dal novembre 1892, si pubblicava «L’Asino», il settimanale socialista e anticlericale fondato dai giovani Podrecca e Galantara119. L’anticlericalismo rimase a Roma per molti anni il vero collante trasversale di tutti i movimenti e i partiti di sinistra. La satira pungente e il disegno moderno di Galantara aggiungevano forza ai diffusi stereotipi anticlericali. Roma restava una città radicalmente divisa sul terreno dei simboli ideali e ideologici. La Chiesa cattolica si era riorganizzata sul territorio cittadino, si era insediata nei nuovi quartieri e alcuni ordini religiosi vi avevano costruito nuovi conventi. Nel 1887 erano state inaugurate le chiese del Sacro Cuore dei salesiani a via Marsala e di S. Antonio a via Merulana con annesso convento. Nel 1891 si contavano 309 chiese cattoliche (17 erano quelle acattoliche)120. Negli anni successivi furono inaugurate molte altre chiese: nel 1900 S. Anselmo all’Aventino, nel 1902 S. Teresa al corso d’Italia, nel 1904 S. Giuseppe a via Nomentana, nel 1908 S. Maria Liberatrice a Testaccio, nel 1910 S. Camillo a via Sallustiana e S. Lorenzo da Brindisi a via Sicilia, nel 1911 S. Gioacchino a Prati121. La presenza religiosa nel settore educativo e assistenziale rimaneva capillare. Un’inchiesta promossa da Crispi nel 1895 aveva messo in luce l’esistenza di 267 fra conventi e associazioni cattoliche: alcuni erano delle mere sopravvivenze, piccoli cenacoli, ma la maggior parte erano impegnati nell’istruzione e nell’apostolato122. L’inchiesta mirava con tutta evidenza a mantenere un controllo sulle istituzioni di riferimento di quel «partito clericale» che dimostrava di conservare una notevole vitalità123. La visita apostolica iniziata nel 1904 fu il punto di partenza per un rilancio organizzativo e pastorale, una missione evangelizzatrice in città, e soprattutto nelle periferie, in cui il pontefice volle coinvolgere maggiormente gli ordini regolari. Sul comportamento religioso, la frequenza ai sacramenti, la «regolarizzazione» dei matrimoni celebrati solo civilmente le risposte dei parroci appaiono spesso generiche e reticenti, statisticamente inaffidabili. Ma emergono con chiarezza una serie di problemi come quello del recupero alla prima comunione dei giovani di estrazione popolare o quello della tutela della visibilità pubblica di alcuni riti tradizionali, come il trasporto del viatico agli infermi o anche le processioni, talora oggetto di dileggio da parte degli elementi anticlericali124. 106

L’altra antichissima componente religiosa, e insieme etnica, quella ebraica, puntò alla visibilità nell’assimilazione. Così la nuova sinagoga costruita sul lungotevere, nell’area dove fino al 1885 si erano accatastate le misere case del ghetto, e inaugurata dopo una visita del re nel 1904, divenne il simbolo vistoso del nuovo patto con l’Italia liberale ed emancipatrice125. Gli israeliti di spicco nel panorama politico e giornalistico non si presentavano in quanto tali, erano semmai gli avversari politici, anche dello schieramento laico, a ricordare la loro origine alla vigilia delle consultazioni elettorali e ad ammonire i loro «correligionari» dal vincolare il voto all’appartenenza religiosa. Toccò a Samuele Alatri nel 1880 e a Salvatore Barzilai nel 1890 essere attaccati soprattutto da parte del «Popolo Romano»126. Gli ebrei, pur rimanendo legati ad alcune tradizionali loro attività, come il commercio all’ingrosso e al minuto dei tessuti, migliorarono la qualità delle imprese commerciali e potenziarono la loro presenza nelle libere professioni. 4. Giornalisti, tribuni, artisti: figure sociali e autorappresentazioni La varietà delle articolazioni sociali, politiche e religiose come tratto dominante della città e l’assenza di un gruppo politico o sociale egemone non riescono ad occultare il contributo di Roma alla trasformazione del canone dell’Italia contemporanea. Negli anni di fine secolo possiamo individuare – sulla scorta delle testimonianze coeve – l’emergere e il consolidarsi di una serie di tipologie sociali che si intrecciano in sequenze di rappresentazioni e autorappresentazioni. Roma è la città della politica, è la città della burocrazia e dell’amministrazione. Intorno a questi ruoli, alla fine del secolo, e già negli anni Ottanta si sono stratificati giudizi e convinzioni in chiave negativa. Questa immagine non è solo veicolata dagli scandali, ma nasce dall’interno della politica stessa, nel Parlamento, ed è alimentata dalla stampa di opposizione cattolica, socialista e repubblicana. Protagonisti di questa costruzione sono i giornali e la stampa in genere. Ma spesso sono i giornalisti stessi e i proprietari di giornali – talora le due figure coincidono – a farsi protagonisti in prima persona: legati ai finanziamenti illeciti, asserviti a singoli politici, in vivace concorrenza tra loro. 107

Il caso di Chauvet è al riguardo esemplare. Costanzo Chauvet, piemontese delle Langhe, condannato per frode mentre era furiere dell’esercito ad Alessandria, entrò nel giornalismo grazie a Cavallotti. Fra i primi a giungere a Roma, fondatore del «Don Pirloncino», nel 1874 divenne proprietario e direttore del «Popolo Romano», trasformatosi presto nel quotidiano ministeriale per eccellenza. Chauvet fu un vero e proprio avventuriero. Arrivato a Roma era riuscito a farsi nominare tutore della figlia naturale del cardinale Antonelli e a curarne a lungo gli interessi127. Fu costantemente al servizio dei presidenti del Consiglio, di Depretis soprattutto e in seguito di Giolitti. Trattava le candidature politiche e amministrative, e per conto di Giolitti il salvataggio e le proposte di fusione della Banca romana. Nelle discussioni alla Camera seguite allo scandalo bancario si gridò a più riprese in aula contro il «governo Chauvet», ma Giolitti, significativamente, non lo menzionò mai nelle sue memorie. Svolgeva il lavoro sporco e spesso quello riservato della politica e usava spregiudicatamente il suo giornale, per il quale aveva fatto costruire una sede bella e moderna a via Due Macelli. Dopo gli scandali bancari cadde in disgrazia, fu processato e condannato a una breve detenzione. Il suo giornale continuò ad uscire fino al 1922 anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1918. Al mondo del giornalismo e della libellistica appartengono le figure dei due «tribuni» che animarono la scena politica romana all’inizio degli anni Ottanta. Francesco Coccapieller, ex dragone pontificio, interprete del garibaldinismo popolare, sfruttò la spregiudicatezza di Depretis e il desiderio di Ricciotti Garibaldi di avere un suo proconsole in città per arrivare alla Camera, nel 1882 e di nuovo nel 1886, con il sostegno dei voti popolari del rione Monti. Vittima di attentati politici, carcerato, fondò il suo successo sulla denuncia del malcostume e i tradimenti della nuova politica128. Se Coccapieller appartiene al populismo di strada, Pietro Sbarbaro esprime invece un populismo colto e verboso, e soprattutto s’iscrive nella corrente antiparlamentare e antidemocratica. Arrestato alla fine del 1884 per offese alle pubbliche autorità, Sbarbaro trascinò nell’insuccesso anche l’editore Angelo Sommaruga che gli aveva affidato il giornale «Le Forche caudine», giunto a tirare 150.000 copie129. Sbarbaro, professore universitario di economia, psicologicamente instabile, non aveva d’altronde il 108

senso del limite e delle opportunità. In Regina o repubblica?, un libello di oltre 400 pagine del 1884, sosteneva che «la Famiglia bene ordinata, il cui simbolo sta nelle virtù domestiche della nostra Regina, è il fondamento dello Stato prospero e bene governato» e che «se la Corona non vigoreggia in mezzo alla tempesta della nostra società democratica, questa precipita in fondo ai disordini del Parlamentarismo»130. Ma accanto a queste anche giustificate considerazioni politiche, nel corso del volume l’autore sviluppava, con una scrittura prolissa e irrefrenabile, ridondante e irriverente perfino nei confronti della regina, una serie di attacchi personali, in particolare contro Guido Baccelli che lo aveva destituito nel 1883. Di lui scriveva, contrapponendolo al primo ministro dell’Istruzione del regno sabaudo: Un Cesare Alfieri non avrebbe favorito il proprio genero in modo scandalosamente sfacciato facendogli fare una rapida carriera contro giustizia. Non avrebbe nominato Ispettrici le proprie ganze, né i mariti delle sue drude Segretari, o Capi di Divisione131.

Sbarbaro fu condannato, poi liberato in virtù dell’immunità parlamentare ottenuta dopo aver conquistato un seggio a Pavia. Anche per le reminiscenze del passato, personaggi come questi si prestavano ad essere inquadrati nel cliché del tribuno. E in questo senso ne scrisse Lombroso, associando entrambi a Cola di Rienzo, nel suo Tre tribuni studiati da un alienista del 1887132. Scandali e tribuni, ma anche mondanità. La capitale umbertina si costruisce come palcoscenico della nuova mondanità nazionale. Protagonisti sono i nobili e gli stranieri ricchi e colti, ma anche il demi-monde che cerca conferme alla sua ascesa in una serie di riti: le feste, il carnevale, le corse alle Capannelle descritti da uno stuolo di penne brillanti riunite nella «Cronaca bizantina» del Sommaruga133. Sono Matilde Serao, Giustino Ferri, lo stesso Sommaruga e Gabriele D’Annunzio. Si guarda con lieve dileggio e superiorità ironica all’ingresso in politica dei giovani della nobiltà romana, o alla politica come intrigo, come ingarbuglio di cui sorridere, proponendone insolite metafore. Immaginando l’Autobiografia di una sigaretta D’Annunzio racconta la trasformazione in trinciato di una foglia di tabacco, divenuta quindi da «una» 109

molteplice, come la maggioranza del Ministero. Io dunque sentiva me in ciascun frammento separato e nella riunione di tutti i frammenti. Avete capito? La posizione mia era eminentemente parlamentare. Dopo poco, fui bene impacchettata e fui spedita all’estero. Quanti paesi io vidi, prima di giungere a Roma! [...] Tre mesi dopo l’arrivo [...] m’accorsi che mi vendevano. Così nella mia terra natale si vendono le donne al gran Soldano e ai ricchi pascià. Così a Londra si vendono le immature verginelle ai Pari, per conto della Pall Mall Gazette. Così per servire alla stabilità dell’onorevole Depretis e alla eloquenza dell’onorevole Cavallotti, in Italia si vendono i voti.

In questa favola mondana la sigaretta è testimone di una scena di tentata seduzione: passa dalla bocca della marchesa Mariana a quella del barone Gustavo prima di finire in un portacenere per apprendere solo nel «purgatorio delle sigarette» che la marchesa aveva alfine ceduto134. Mondanità ed erotismo, secondo modelli mutuati d’oltralpe, serpeggiano insistentemente sulle pagine della «Cronaca bizantina» e in seguito sulla «Tribuna», dove approderanno la Serao e D’Annunzio. D’Annunzio sperimenta in prima persona l’intreccio fra letteratura e vita e conferisce, grazie a un modellabile talento, stile e qualità di scrittura alle fantasie e al voyeurismo del pubblico. Io ne ’l tuo seno fresco di cipria / ahi, strofe, strofe mando: il triangolo / fatato elle scopran, ne ’l dolce/ mister de’ pomi tessano il nido; / sì come armille d’oro ti stringano / le braccia i versi, le braccia parie / splendenti a traverso il fiorame / de ’l tulle; girino il collo quali / duplici anella d’oro i quinarii / filigranati, l’enneasillabo / con furia gentile ti strisci / pel solco niveo de le reni [...]135.

L’occasione era una giornata di corse delle Capannelle. Ma D’Annunzio seppe spingersi anche oltre e Sommaruga gli pubblicò nel 1884 una breve raccolta di poesie erotiche dove rendeva esplicito il suo amore per Maria Hardouin, con cui sarebbe fuggito quello stesso anno, spingendosi a rappresentare l’orgasmo femminile: «nulla è più bello che quel repentino / allungarsi e restare irrigidita / con un supremo riso entro ne li occhi»136. D’Annunzio portava all’estremo, fra lo scandalo dei suoi stessi ammiratori, quel gusto della trasgressione che, su un registro meno esplicito, attraversava tutta la cronaca mondana del tempo. 110

Anche il romanzo parlamentare partecipa in qualche misura di questa esperienza contribuendo alla costruzione dell’immagine di una «Roma affascinante e divoratrice, indifferente e corrotta»137, rafforzando il cliché dell’antiparlamentarismo e dello stereotipo del politico che si muove all’interno di un triangolo i cui vertici sono il successo, il denaro, l’adulterio138. L’adulterio del resto aveva il suo più autorevole rappresentante nello stesso Umberto I, il cui legame con la contessa Litta era largamente conosciuto. Il coevo moralismo borghese era politicamente all’opposizione e si concentrava piuttosto nell’ideologia della piccola borghesia. Anche se il modello del travet nasce altrove ed è inizialmente espressione degli impieghi privati, il centro del travettismo, travettopoli, divenne poi Roma. Rispettabilità e frugalità ne sono i tratti distintivi e più affettuosamente tramandati, secondo un’etica della operosità e del sacrificio. Un ritratto partecipe e puntuale della Roma umbertina, della vita dei suoi impiegati e dei molti cambiamenti, anche antropologici, intervenuti con l’età del benessere rispetto a quegli anni grami, è quello lasciatoci da Arturo Carlo Jemolo, avvocato, storico e studioso di diritto ecclesiastico, che visse nella capitale l’infanzia e la prima adolescenza a cavallo del secolo. In Anni di prova compare una piccola borghesia attentissima alle distinzioni sociali. Gli uomini del popolo portano cappelli tondi a caciotta, o berretti (nessuno ancora va senza cappello), sicché già la lobbia è una promozione al ceto della piccola borghesia; per le donne c’è una netta divisione tra quelle che portano e non portano cappello: anche nella più povera borghesia è uno choc non facilmente superabile, una decadenza, il disparagium del matrimonio per cui ci s’imparenti con una famiglia dove «non si porta il cappello»139.

La piccola borghesia, a differenza del popolo, mangia a una tavola apparecchiata, ma la sua mensa è modesta: a mezzogiorno l’uomo ha diritto a due uova al tegame, fritte nello strutto o nell’olio (nel burro se sia in famiglie piemontesi o lombarde), una lattuga od un’insalata; le donne e i ragazzi, un solo uovo; per dessert, d’inverno modestissime melucce [...] o castagne; la sera minestra in brodo, l’immancabile lesso di manzo (tagli che oggi non trovano più acquirenti), un legume; la domenica pasta asciutta, condita con incre111

dibili salse di pomodoro, dense ed all’attuale gusto nauseabonde. Il caffè che si usa è mescolato abbondantemente di cicoria140.

Ma c’è un agio al quale la famiglia piccolo-borghese non può rinunciare: la domestica, costretta a dormire in certi camerini intorno ai due metri quadri, «uno dei ricordi – è ancora Jemolo – veramente penosi delle case della Roma umbertina»141. La percentuale di domestici a Roma è tuttavia più bassa che a Milano e a Napoli, confermando le difficoltà economiche del ridondante ceto degli impiegati pubblici142. Non rientrano nella rappresentazione di questa piccola borghesia le frustrazioni e le ambizioni di un ceto che cercava altre visibilità e riconoscimenti. Un ruolo che avrebbe raggiunto solo in parte attraverso la tutela corporativa negli anni del riformismo giolittiano e parallelamente con la militanza politica e la mobilitazione ideologica nel socialismo, nel sindacalismo, nel nazionalismo. Ideologie e programmi politici che non portavano tuttavia al riconoscimento di una specifica identità sociale. La piccola borgesia, pur divenendo gradatamente sempre più numerosa, rimase uno stile di vita, un’opzione inespressa, una connotazione residuale. Un aspetto particolare della Roma in questo scorcio di secolo fu oggetto dell’attenzione della nuova scienza sociologica. Nel 1898, infatti, due giovani studiosi, discepoli di Lombroso, pubblicarono La mala vita a Roma. Alfredo Niceforo e Scipio Sighele143 muovevano da alcune considerazioni sul ruolo della capitale che erano espressione di un diffuso sentire. L’Italia non è abituata a guardare a Roma quale il suo faro luminoso [...] la nostra nazione non s’inchina a Roma come alla città da cui le debbano venire gli insegnamenti e gli esempi [...].

Di conseguenza «Roma non è lo stampo [...] su cui si modellino, in proporzioni minori, le forme della delinquenza di tutto il paese»144. La capitale presenta infatti tanto lo spettacolo di delitti eminentemente moderni che scoppiano quasi scintille dal fuoco latente della mala vita delle alte e basse classi sociali, – quanto lo spettacolo di delitti individuali ancora medioevali e selvaggi145. 112

Dopo aver descritto un delitto a sfondo omosessuale perpetrato in vicolo dei Canneti, fra Castro Pretorio e San Lorenzo, ai danni di un nobile decaduto, l’inchiesta dei due sociologi passa a un inventario dei quartieri dove si annida la malavita per chiudere con un’analisi dei gerghi malavitosi. Al centro della loro descrizione troviamo sorprendentemente non i rioni della vecchia Roma, teatro delle scene dei bulli e delle sfide al coltello, ma i nuovi quartieri degli immigrati. Su tutti San Lorenzo in un nesso inscindibile fra povertà e delinquenza, fra miseria ambientale e malcostume. A chi passi per quelle strade non si presenta, a dire la verità, una tinta generale e nauseabonda di sudiceria, come accade a chi attraversa tutte le strade di Napoli, ma nota facilmente un’aria triste e melanconica di povertà diffusa dovunque, qualche cosa di pallido, di emaciato che emana da ogni facciata di palazzo, da ogni negozio, da ogni gruppo di femmine e di bambini che lavorano o giuocano sotto l’atrio dei grandi portoni146.

Oltre la ferrovia verso l’Esquilino, intorno a piazza Guglielmo Pepe, si addensano i cabaret popolari, i baracconi per il ballo: qui operano i dritti e i borsaioli. Nei dintorni ricevono le «streghe», cartomanti e fattucchiere. Niceforo e Sighele tracciano la geografia malavitosa dei quartieri e insieme completano un inventario del vizio. Segnalano così non solo l’apparire del «terzo sesso» individuato da Guglielmo Ferrero, ma intitolano un capitolo alle «mezze vergini», le demi-vierges descritte nel romanzo di Marcel Prévost: sono le famose sartine, il «frutto acerbo» preferito dai «vecchi depravati»147. Alle origini della «mala vita» sta la povertà, ma anche, per le mezze vergini, l’aspirazione a un’ascesa sociale, la garanzia di una dote impossibile da ottenere altrimenti. In fondo segnali di modernità, seppure nel traviamento dei costumi. Moderno era anche il comportamento «criminale» della «folla parlamentare» messo in luce dagli scandali bancari, secondo Ferrero e Sighele148. Alla visione modernizzante dei nuovi psichiatri-psicologi-sociologi, si contrapponevano la durevole rappresentazione dei riti della plebe romana e la celebrazione delle gesta dei bulli di Trastevere o di altri rioni popolari del centro affidate ai famosi monolo113

ghi di Americo Giuliani (Er fattaccio, La passatella) di un’epoca appena successiva. La contrapposizione e il confronto tra romani e non romani sono una costante che si rafforza in questo periodo. La troviamo, con gli stilemi suoi propri, ancora nelle pagine della «Cronaca bizantina». Mio dio confessiamolo pure: la colonia buzzurra non è bella. Sono ragazze pallide, maturità stecchite, rotondità flosce: tutte queste donne della nuova Roma, della Roma italica, hanno nel viso e nella persona come una tristezza melensa, una sofferenza studiosamente ma invano nascosta: paiono le Sabine appena rapite e non ancora consolate dagli abbracciamenti gagliardi dei nostri padri augusti – ahi! quanto diversi da noi! [...] Le signore dell’aristocrazia grande sono belle, affascinanti, intelligenti, colte, eleganti, ma non sono romane; sono giunte di Francia, d’Inghilterra, d’America, di Spagna, dall’altre parti d’Italia. [...] L’aristocrazia è quasi tutta straniera, la plebe è brutta. Coi denti striati, colle labbra cadenti, i fianchi rientranti, la pelle viscida, i capelli opachi, queste donne del popolo mostrano di avere assorbito la malaria: sono animali di paludi. Ma nella borghesia c’è ancora, grande, vivo, solenne come un’epopea, lo splendore della venustà antica – venustà, è la parola che rende la cosa. La dea Roma così doveva essere: colle anche arcuate, colle braccia rotonde, la figura ampia e il petto capace; così erano le consolatrici sufficienti dei vecchi quiriti149.

Su un piano diverso anche Jemolo traccia le divisioni tra vecchi e nuovi romani. La fusione non si compiva ancora. Non si può dire che la ostacolassero proprio le passioni politiche, giacché alla più gran parte dei vecchi romani il potere temporale interessava poco, se pure affermassero che allora si viveva assai meglio [...] tuttavia c’era una divisione ideologica; ché alla più gran parte dei vecchi romani sarebbe ripugnato il distacco completo dalle pratiche religiose, e, peggio, certe forme di violento anticlericalismo, certe fedi scientifico-materialiste che ostentavano parecchi immigrati [...]. Ostava poi alla fusione anche la differenza di gusti e di abitudini; i vecchi pranzavano alle quattordici ed alle ventuno (alle due ed alle nove; mai si sentivano pronunciare quei nuovi termini per indicare le ore pomeridiane [...]); gl’immigrati alle dodici ed alle diciannove, ed in genere erano assai sobri150. 114

Giggi Zanazzo, poeta e studioso delle tradizioni popolari, è solo uno dei molti che contribuiscono a definire lo stereotipo del romano vero o verace: lo fa in romanesco nel quadro di una descrizione degli usi e costumi della città, divulgando e consolidando una già diffusa rappresentazione. Er vero romano de Roma, è strafottentissimo e sse ne... sgrulla artissimamente fino (e ppuro un po’ ppiù ssu), de li sette cèli! Nun pô ssofri’ la lègge: tutto quello che je sa d’ubbidienza, nu’ ló pô ignótte [...] Eppoi, dico, ohé [...] ciavemo un proverbio antico che dice: «Noi Romani l’aria der mé né frego l’avemo imparata a Ccristo». E mmentre Cristo, bbontà ssua, ha avuto ’sta degnazzione, d’imparalla da noi, quarche ccosa ne saperà151.

La varietà di queste rappresentazioni riflette l’articolazione complessa della capitale e poggia sulla tradizionale autorappresentazione dei vari gruppi sociali. È una società di ceti che si definiscono per identità differenziali, talora su base storico-temporale: i vecchi e i nuovi romani, i romani veri. Del resto siamo in un’epoca in cui della borghesia prevale una visione etico-politica, non sociale. «Non si deve [alla borghesia] se, da parecchi secoli, studiando, operando, ha risoluto i più gravi problemi dell’umana società?» esclamava Crispi in una polemica parlamentare del 1894152. Per i gruppi operai la connotazione corporativa rimane dominante, e di classe operaia in senso proprio è forse corretto parlare a partire dalla Grande guerra e fino agli anni Sessanta. Mancano le forze egemoni e anche i riti collettivi in grado di rappresentare momenti unitari. Un ruolo svolto invece, in una programmata decontestualizzazione, dal carnevale e dalle grandi feste religiose nella Roma preunitaria. La Roma originaria si difende con gli strumenti di chi la contempla compiaciuto dall’interno – è sorprendente come le voci critiche siano spente – e di chi invece la osserva complice dall’esterno. È come un nocciolo inattaccabile che ha nel popolo e nel generone una sua forza primigenia. La nobiltà, più cosmopolita che italiana, più cattolica che nazionale, è pronta, prontissima al compromesso istituzionale e a quello degli interessi. Il compromesso, esplicito o sottaciuto, rimane il criterio di governo della città. Ma in quest’ambito, dal momento che erano in gioco distribuzioni cospicue di risorse e l’immagine stessa della 115

capitale, il controllo non poteva sfuggire a chi, all’interno della città, occupava il centro del potere. 5. Municipio e Stato Dopo il successo elettorale del 1888, che aveva permesso all’alleanza laica di formare una nuova maggioranza in Campidoglio e di consentire l’erezione del monumento a Bruno, lo stesso schieramento vinse anche le elezioni comunali generali del novembre 1889. Una nuova legge varata da Crispi alla fine dell’anno precedente aveva allargato il suffragio e introdotto l’elezione diretta del sindaco da parte del Consiglio comunale. A Roma l’elettorato era cresciuto di un terzo, passando da 34.418 a 45.563 aventi diritto. Ma la partecipazione al voto era scesa di nuovo dopo il picco del 1888, attestandosi al 37%, segno di una ripresa del tradizionale disimpegno e del riemergere delle divisioni nello schieramento laico153. Di lì a qualche mese il Comune fu messo sotto inchiesta: Crispi non si sentiva garantito da un Consiglio espressione di forze troppo composite, con un’eccessiva presenza di esponenti dell’Estrema, mentre i grandi lavori stagnavano e il bilancio era gravato di debiti. Si aprì un conflitto. Crispi intendeva usare la mano forte e il Consiglio si sentì umiliato dalla presentazione di una legge su Roma che esautorava il Comune dalle questioni relative alle trasformazioni della città trasferendole allo Stato. Seguirono le dimissioni e lo scioglimento del Consiglio comunale, la nomina di un commissario, Camillo Finocchiaro Aprile, fedelissimo di Crispi, e alla fine del 1890, nuove elezioni. I cattolici, che si erano sottratti al confronto nei due anni precedenti, tornarono in campo e riportarono i loro uomini in Consiglio. Tornarono a riproporsi gli schemi degli anni precedenti con la maggioranza laica divisa, i ricorrenti successi parziali dell’Unione romana e delle sue liste miste cattoliche e liberali-moderate. Nelle elezioni generali del 1895 l’Unione riuscì a far eleggere al completo la sua lista di 32 nominativi su 80154, confermando le sue capacità di vincere senza stravincere. Un copione che si mantenne inalterato nel decennio successivo155. I consiglieri cattolici avevano talora incarichi in giunta e alcuni di loro erano in primo luogo membri del consiglio di amministrazione del Banco di Roma (presieduto da Ernesto Pacelli) 116

che non solo tutelava parte cospicua degli interessi finanziari della S. Sede, ma controllava la Società romana tramways e omnibus e l’Acqua Marcia, di vitale importanza nei servizi pubblici cittadini. Una serie di sindaci «governativi» si succedettero alla guida della città: il principe Onorato Caetani dal 1890 al 1892, il principe Emanuele Ruspoli fino al novembre 1899, quando morì mentre era in carica, il principe Prospero Colonna fino al 1904. La connotazione clerico-moderata attribuita a queste amministrazioni sottolinea troppo il carattere clericale, che non ne fu, nonostante quanto tramandato in seguito, la dimensione dominante: l’accento andrebbe spostato sul moderatismo, che a Roma significava allora incontro e mediazione con gli interessi cattolici. Dopo la legge speciale del 1890, però, nelle questioni essenziali il potere spettava ormai allo Stato. Questa normativa e le numerose disposizioni successive, che ne precisarono ma non ne modificarono gli intenti, avevano attribuito al Comune di Roma un ordinamento differente da quello degli altri Comuni del Regno156. La legge Crispi stabiliva in primo luogo la sostituzione dello Stato, o meglio del «Governo del Re», al Comune nel compimento delle grandi opere pubbliche, Policlinico e Palazzo di Giustizia. Inoltre il governo avrebbe eseguito «per conto dello Stato» i lavori per la prosecuzione di via Cavour fino a piazza Venezia, nonché due ponti sul Tevere, uno dei quali, il ponte Umberto, per il collegamento col nuovo Palazzo di Giustizia ai Prati di Castello. Per l’esecuzione di tali opere la legge istituiva un apposito ufficio tecnico-amministrativo alla dipendenza del ministero dei Lavori pubblici. A garanzia di questa politica interventista lo Stato assumeva «la riscossione non soltanto del dazio consumo governativo, ma anche dei dazi addizionali e comunali della città di Roma» impegnandosi a corrispondere al Comune 14 milioni annui. Oltre a questo controllo sulle principali entrate comunali, previsto fino al 1900 e prorogato in seguito fino al 1905, la legge stabiliva l’indemaniamento dei beni delle «confraternite, confraterie, congreghe, congregazioni romane» destinando le loro rendite ad istituti di beneficenza della capitale157. Più o meno negli stessi anni, con l’iscrizione nel bilancio della Pubblica istruzione, lo Stato diede un contributo decisivo alla definizione della nascita della zona archeologica. La prima legge del 1887, fu seguita da un’altra del 1889 e da una terza del 1898, 117

quando era ministro dell’istruzione Baccelli, il maggiore ispiratore dell’iniziativa. Quest’ultima ridefiniva i confini e gli espropri di 280.757 metri quadri necessari a costituire la «zona monumentale riservata». Essa comprendeva tutto il perimetro del Foro romano, l’area che lo congiungeva al Colosseo, parti estese del Colle Oppio e del Celio, le aree del Circo Massimo e delle terme di Caracalla. Erano le premesse di quella Passeggiata archeologica che si sarebbe compiuta soltanto il 21 aprile 1917. Sotto la spinta dell’intervento pubblico proseguiva dunque il rinnovamento della capitale, arricchitasi nel 1903 con il passaggio al Comune di Villa Borghese. Ma molte iniziative erano agli inizi del secolo ancora in una fase progettuale. Per la permanente commistione di interventi distruttivi e diradamenti del tessuto antico uniti alla costruzione dei nuovi quartieri, in molti casi interrotta e rallentata dalla crisi edilizia, il paesaggio della città era ben lungi dall’essere compiuto. Un contributo decisivo alla ripresa dello sviluppo urbano venne anche in questa fase se non dal pubblico, da una serie di iniziative che discendevano da un’originaria decisione pubblica. In seguito a salvataggi bancari e liquidazioni societarie la Banca d’Italia aveva acquisito 506 edifici e 532.458 metri quadri di terreni fabbricabili. Una serie di convenzioni autorizzavano la banca a operare direttamente o d’intesa con il Comune nell’opera di urbanizzazione nei quartieri Tiburtino, Nomentano, Salario, al Trionfale, al Gianicolo. La cessione di aree al Comune consentì la realizzazione del largo viale alberato di via Nomentana da Porta Pia a S. Agnese, una delle strade più belle della Roma d’inizio secolo. La banca era tuttavia tenuta per legge a smobilizzare l’ingente patrimonio immobiliare. Tale operazione ebbe inizio a partire dal 1903 con la costituzione dell’Istituto romano di beni stabili, cui vennero ceduti beni per un valore di 50 milioni. Altre cessioni vennero nei confronti della Società italiana per imprese fondiarie e della Immobiliare, ricostituitasi grazie a capitali ebraici, che ottennero edifici ed aree soprattutto nei quartieri Nomentano e Salario158. Tornavano in campo le grandi imprese immobiliari, fra le principali responsabili della crisi edilizia, ma ora con comportamenti più prudenti alla vigilia di una stagione riformatrice che cercherà con nuove normative e un nuovo piano regolatore di disciplinare ed equilibrare lo sviluppo della città. 118

IV

Gli anni di Nathan

1. Anticlericalismo e riforme Il 25 novembre 1907 il Consiglio comunale eleggeva sindaco Ernesto Nathan, ebreo, figlio di un agente di cambio londinese, inglese di nascita di modi e di accento, mazziniano benché non più repubblicano1, massone (era stato gran maestro dal 1896 al 1903). Rispetto alla sequela di principi romani che lo avevano preceduto si trattava di una vera e propria rivoluzione. Secondo «L’Osservatore romano» l’elezione di Nathan alla guida di una giunta espressione del nuovo blocco laico e popolare costituiva per Roma l’espressione sintetica e brutalmente oltraggiosa per essa, del programma bloccardo, che si riassume nella lotta non solamente politica, ma religiosa, nella guerra aperta e dichiarata alla sua fede, alle sue tradizioni, al sentimento prevalente nei suoi veri figli2.

«Il Messaggero» era invece apertamente schierato per Nathan e il suo editore Luigi Cesana ne era stato uno dei grandi elettori. L’entusiastico accordo che tutte le frazioni della democrazia rappresentate nella maggioranza consiliare hanno trovato nel nome di lui, dimostra come esso sia veramente superiore ad ogni minuscola competizione di partiti: superiore non perché Ernesto Nathan non sia, nel significato bello e virile della frase, uomo di parte... ma perché egli intese sempre esser patrimonio di ogni partito l’onestà dei propositi, la correttezza dell’azione e, soprattutto, la impeccabile nobiltà dell’ideale3. 119

«La Tribuna», il più diffuso giornale liberale di Roma, esprimeva dal canto suo un chiaro compiacimento. L’uomo, non esitiamo a dirlo, ha la nostra fiducia. Singolare miscela di riflessione nordica e di entusiasmo italiano, Ernesto Nathan ha molte delle caratteristiche dell’apostolo, staremmo per dire: dell’asceta. È un credente del Bene: è un soldato dell’Azione [...]. Il genio di Mazzini, che lo tenne a battesimo intellettuale e politico, lo ha improntato tutto al culto della libertà4.

Come mai una nuova coalizione era riuscita a scalzare un equilibrato sistema di potere che, salvo qualche interruzione, aveva controllato il Campidoglio per oltre un ventennio? E perché era stato scelto come sindaco Nathan, una figura così fortemente simbolica di un’altra Roma, anzi della Terza Roma? Le maggioranze succedutesi al Comune si erano rette su un compromesso che metteva a tacere le contrapposizioni di principio, subendo senza frapporre troppi ostacoli l’egemonia di fatto del potere centrale. Ma la componente politica cattolica che faceva capo all’Unione romana era divenuta ormai sinonimo di affarismo, mentre il movimento cattolico dimostrava una capacità di iniziativa in molti settori, soprattutto in quello sociale, e un dinamismo tali da suscitare diffuse apprensioni. Si era venuto raffreddando l’appoggio del governo, troppo spesso costretto a intervenire per risolvere i problemi della sua capitale di fronte ai quali l’amministrazione locale appariva inadeguata. Come ricordava, nel 1904, il ministro del Tesoro Luzzatti al presidente del Consiglio Giolitti a proposito delle difficoltà che continuava a presentare la capitale, Roma è una città sacra, cioè terribile. Non scherziamo con essa. Atterrati questi amministratori, ne troveremo di peggio, mi hai detto tu più volte. Essa non può dare le virtù che non ha [...]5.

C’era inoltre, e su scala non solo italiana, la ripresa di tensione con la Chiesa (impegnata in quegli stessi anni nella lotta contro le istanze riformatrici del movimento modernista): un confronto politico-ideologico che aveva in Francia e nel radicalismo francese il suo modello6. 120

A questi fattori di potenziale mutamento si aggiungeva il disegno politico giolittiano di un incontro delle forze liberal-democratiche con quelle dei partiti popolari e del socialismo riformista per realizzare un progetto di buona amministrazione volto ad attenuare le tensioni che si erano venute accentuando a Roma a partire dal 1903. Nella capitale si era consolidato un tessuto sociale formato da impiegati e burocrati statali – in parte corporativamente organizzati – consapevoli della necessità di rivendicare un proprio specifico ruolo e disponibili a riconoscersi in nuovi progetti politici amministrativi. La cultura nazionale laica e massonica aveva una forte presa e un largo seguito presso questi ceti. Nei primi anni del secolo, si erano moltiplicate le iniziative a sfondo sociale e umanitario: questo «andare verso il popolo» era in sintonia con l’adesione al vocabolario socialista e contribuiva ad alimentare nuove forme di coinvolgimento e partecipazione. Igiene, sanità ed educazione erano obiettivi da mettere concretamente in pratica. Maria Montessori, con l’appoggio dell’Istituto romano beni stabili, apriva il suo primo asilo per i bambini poveri al quartiere San Lorenzo. Per iniziativa di Angelo Celli, medico igienista e malariologo, deputato repubblicano, della moglie Anna Fraentzel, di Giovanni Cena, capo redattore della «Nuova Antologia», della sua compagna, la scrittrice femminista Sibilla Aleramo, del maestro Alessandro Marcucci, i «garibaldini dell’alfabeto», come amavano definirsi, erano state istituite le prime scuole dell’Agro romano per alfabetizzare una popolazione solo parzialmente stabile che viveva in casali isolati o in villaggi di capanne7. Il caro-pigioni aveva determinato in città già nel 1903 una protesta organizzata che faceva capo a numerosi circoli della sinistra. Il problema della casa rimaneva per i ceti operai e impiegatizi un elemento centrale di mobilitazione anche in relazione al diffondersi delle cooperative e alla costituzione, nel 1903, dell’Istituto delle case popolari (Icp)8. Questa articolata mobilitazione della società civile non attendeva che di essere convogliata verso precisi obiettivi politici. Fu proprio il presidente dell’Istituto romano per le case popolari, il valdese Giovanni Antonio Vanni, fondatore del Partito democratico costituzionale italiano, a farsi promotore del Blocco popola121

re (l’Unione liberale popolare) che comprendeva, oltre all’Unione liberale romana guidata dallo stesso Vanni, repubblicani, radicali, socialisti. Il primo confronto avvenne nelle elezioni parziali del 30 giugno 1907. I seggi in palio erano 29 e l’affluenza fu quel giorno elevatissima per i tempi, il 66,6%. Il Blocco mostrò subito la sua forza conquistando la presidenza nella maggioranza dei seggi e ottenendo a fine giornata 24 consiglieri. Il successo provocò una situazione di stallo in Consiglio e il sindaco Enrico Cruciani Alibrandi, presidente dell’Associazione proprietari di case, fu di lì a poco costretto a dimettersi mentre il Comune veniva commissariato. Alle elezioni generali del 10 novembre i cattolici dell’Unione romana e di altri gruppi non si presentarono e «L’Osservatore romano» invitò perentoriamente all’astensionismo. Il Blocco vinse senza difficoltà, ma l’affluenza alle urne fu, come è ovvio, sensibilmente inferiore, 10.000 votanti in meno, 17.268 rispetto ai 27.447 di giugno. La grande vergogna, titolò il settimanale cattolico intransigente «La Vera Roma», deprecando il risultato delle elezioni e l’astensionismo dell’Unione romana, considerato come «un vero delitto di alto tradimento»9. I 64 seggi della maggioranza furono divisi fra 32 liberali costituzionali, 12 repubblicani, 11 socialisti e 9 radicali. Nathan si piazzò al 43° posto, a 400 voti dal primo eletto, il rettore dell’Università Alberto Tonelli10. Per Camille Barrère, l’ambasciatore francese in Italia, eleggere sindaco Nathan fu «une certaine coquetterie», una sorta di civetteria, tanto più che si vociferava fosse figlio naturale di Mazzini. In realtà, continuava Barrère, erano prevalse ragioni politiche e il largo apprezzamento per la sua integrità morale e le capacità amministrative11. Nathan, accanto ad una notorietà e autorevolezza ormai consolidate – aveva sessantadue anni – era da tempo in buoni rapporti con Giolitti e il re12. Garante e tutore dell’alleanza, nell’accettare la carica di sindaco ammise di rappresentare «la temperatura media a cui si è operata la fusione del blocco» e in seguito si attribuì il ruolo di «réclame» della coalizione13. Per «Il Corriere d’Italia», quotidiano cattolico, l’elezione di Nathan, cui si attribuivano un’indole autoritaria e forte determinazione nel perseguire le sue convinzioni, significava forse che i consiglieri avevano «compreso che occorreva un cocchiere robusto per guidare la quadriga cui avevano aggiogati cavalli di quattro razze diverse»14. Nella giunta 122

entravano «tecnici» di grande competenza come Giovanni Montemartini ai Servizi tecnologici, Tullio Rossi Doria all’Igiene e assistenza sanitaria, Cesare Salvarezza al Piano regolatore, ma anche un politico di rilievo nazionale come Ivanoe Bonomi alla Ragioneria, mentre un altro tecnico come Meuccio Ruini sedeva in Consiglio. Il principio ispiratore del Blocco e il suo comune denominatore era l’anticlericalismo, di cui Nathan era interprete rigoroso e consapevolmente aggressivo. Ne fanno fede i suoi discorsi in occasione delle celebrazioni del 20 settembre. Grande scandalo e le vibrate proteste del pontefice suscitò quello del 1910, quarantesimo anniversario della presa di Roma15. Parlando di fronte alla breccia di Porta Pia, da dove la Roma della Terza Italia aveva ripreso «il cammino dal destino assegnatole», Nathan sottolineò la diversità di un’altra Roma prototipo del passato [che] si rinchiude in un perimetro più ristretto delle mura di Belisario, intesa a comprimere nel brevissimo circuito il pensiero, nella tema che, come gli imbalsamati cadaveri del vecchio Egitto, il contatto con l’aria abbia a risolverla in polvere. [...] Come nella materia cosmica in dissoluzione, quella città, alle falde del Gianicolo, è il frammento di un sole spento, lanciato nell’orbita del mondo contemporaneo.

Propose poi un confronto con il passato. Ritornate, o cittadini, alla Roma di un anno prima della breccia; il 1869. Convennero allora in pellegrinaggio i fedeli da tutte le parti del mondo, qui chiamati per una grande solenne affermazione della cattolicità regnante. S. Pietro, nella monumentale sua maestosità, raccoglieva nell’ampio grembo i rappresentanti del dogma, in Ecumenico Concilio; vennero per sancire che il Pontefice, in diretta rappresentanza e successione di Gesù, dovesse, come il Figlio, ereditare onniscente illimitato potere sugli uomini, e da ogni giudizio umano i decreti suoi sottrarre, in virtù della infallibilità proclamata, riconosciuta, accettata. Era l’inverso della rivelazione biblica del Figlio di Dio fattosi uomo in terra; era il figlio dell’uomo fattosi Dio in terra! [...] Ponete a riscontro negli atteggiamenti materiali e morali la Roma di allora, con la Roma di oggi, e poi ditemi se voi, se le rappresentanze qui convenute non devono festeggiare questo giorno memorando, se il di123

sfacimento di poche pietre non si trasformi in un altare della Patria e della civiltà mondiale?!

A questa esplicita invasione di campo, papa Pio X replicò con un rescritto al cardinale vicario, reso pubblico dalla stampa, in cui lamentava che il sindaco di Roma non pago di ricordare solennemente la ricorrenza anniversaria del giorno in cui furono calpestati i sacri diritti della Sovranità Pontificia, ha alzato la voce per lanciare contro la dottrina della Fede Cattolica, contro il Vicario di Cristo in terra e contro la Chiesa stessa lo scherno e l’oltraggio [...] arrivando impunemente a denunziare al pubblico disprezzo perfino gli atti del Nostro Apostolico ministero.

Ma Nathan non arretrò, e ai giornali chiarì il senso alla sua missione. Come il Sommo Pontefice dall’alto della cattedra di S. Pietro ha il dovere di dire la verità quale a lui appare ai credenti, così il minuscolo Sindaco di Roma dinnanzi alla Breccia di Porta Pia, per lui iniziatrice di una nuova auspicata êra politica e civile, ha uguale dovere innanzi alla cittadinanza16.

Se l’anticlericalismo era il collante del Blocco popolare, lo sviluppo dell’istruzione elementare pubblica ne era il naturale corollario. Già nel discorso di insediamento Nathan sostenne che, pur restando il pareggio del bilancio «la legittima preoccupazione di ogni prudente amministratore», [...] sino a quando vi sia un solo scolaro entro la nostra cerchia amministrativa, il quale non possa ricevere istruzione ed educazione civile, in ambiente sano ed adatto, le considerazioni del bilancio finanziario devono cedere il passo alle imperative esigenze del bilancio morale e intellettuale. Le scuole devono moltiplicarsi, allargarsi, migliorarsi; rapidamente, energicamente, insieme al personale scolastico [...]17.

Negli anni dell’amministrazione popolare si aggiunsero dieci nuovi edifici scolastici, cifra tanto più significativa se si considera che in tutto il periodo dal 1870 al 1907 ne erano stati aperti otto18. Gli alunni passarono, fra il 1907 e il 1912, da 35.963 a 42.925, le 124

scuole nell’Agro da 27 del 1907 divennero 43 nel 1911, mentre si contavano 154 sezioni nei giardini d’infanzia. Aumentò la spesa per la refezione scolastica e in alcuni asili si protrasse l’orario fino alle sette di sera19. A partire dal 1910 furono istituiti a Palestrina e nei Castelli campi estivi dove 180 ragazzi fra i più bisognosi delle classi finali trascorrevano all’aria aperta un mese e mezzo con la garanzia di un’alimentazione sana e controllata. Un così rilevante impegno si poneva anche come risposta alla riorganizzazione territoriale della Chiesa, con nuove parrocchie e istituti religiosi. Ma fu nel settore dei servizi pubblici che si misurò più nettamente lo slancio riformatore della giunta Nathan. L’assessore ai servizi tecnologici, l’economista lombardo Giovanni Montemartini, socialista, direttore dell’Ufficio del lavoro al ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio si impegnò con energia, inventiva e competenza nel progetto di municipalizzazione dei trasporti urbani e dell’energia elettrica20. Si trattava di ridurre il monopolio detenuto dalla Società romana tramways e omnibus (Srto) e dalla Società anglo romana (Sar) con l’obiettivo di abbassare i costi per i singoli e per la collettività. Il progetto contemplava la nascita di due nuove linee tramviarie con maggiore frequenza, ogni quattro minuti rispetto agli otto-nove della Srto, tariffe più basse e unificate. Per l’energia elettrica si prevedeva, attuando il dispositivo della legge speciale per Roma del 1907, di impiegare l’acqua dei fiumi Aniene e Nera per ottenere una «forza motrice di 25.000 cavalli dinamici nominali da trasportarsi [...] nel territorio di Roma, per servizi pubblici e per servizi municipalizzati», e di costruire un impianto termico di produzione dell’energia in città. È necessario – sosteneva Montemartini – che il Municipio si trasformi in industriale, metta in vendita l’energia a mite prezzo, costituisca un vero calmiere contro il monopolio imperante [...]. Lo scopo sociale dell’impresa municipale si è quello di democratizzare il consumo della luce elettrica, ottenendo contemporaneamente di democratizzare il consumo del gas, il quale sarà costretto ad offrirsi a prezzi minori e per nuovi usi, dovendo ora sostenere la concorrenza dell’energia elettrica21.

Una volta approvati, i progetti, dopo una lunga serie di pareri vincolanti delle autorità di controllo, dovevano essere sottoposti 125

a un referendum per il quale erano chiamati a votare gli elettori amministrativi: questo stabiliva la legge del 1903 che autorizzava le municipalizzazioni dei pubblici servizi. A Roma il referendum fu fissato per il 20 settembre 1909 in sintonia, come disse Nathan, con lo «svolgimento delle libertà compiute colla breccia di Porta Pia»22. Questa volta l’Unione romana non si astenne e diede indicazione di votare per il sì. I votanti furono 21.460, una partecipazione superiore a quella che aveva portato alla vittoria il Blocco: il referendum passò quasi all’unanimità, con poco più di 300 no. Anche Roma, come molte altre città, soprattutto del Nord, dell’Emilia e della Lombardia, aveva le sue aziende municipalizzate23. La Srto cominciò gradatamente ad uscire di scena cedendo nel 1929 l’ultima linea, il 16, che collegava S. Pietro e S. Giovanni. Nel frattempo si rafforzava l’azienda comunale che vide decuplicati, in un decennio, i propri passeggeri e i km di esercizio passare dai 18 del 1911 ai 131 del 192024. Il Comune si impegnò anche in altri settori. Nel controllo dei prezzi dei generi alimentari l’Annona municipale non fu mai competitiva, mentre risultati convincenti derivarono dalla costruzione della Centrale del latte. Nel settore sanitario si profusero molte energie soprattutto per garantire la guardia ostetrica e per attivare stazioni di sanità nelle borgate e nell’Agro25. Con il Blocco popolare modernità, impegno, efficienza e nuove tecnologie si concentravano, come non era mai accaduto, intorno e all’interno dell’amministrazione municipale, divenuta motore principale di trasformazione, determinando risultati durevoli oltre la durata della coalizione. 2. Il piano regolatore e il problema della casa I 25 anni di validità del piano regolatore approvato nel 1883 stavano per scadere. L’amministrazione Nathan cominciò presto a preparare un nuovo piano. Un progetto, apprestato dall’ingegnere capo dell’Ufficio tecnico comunale Rodolfo Bonfiglietti, era già disponibile alla fine del 190626. Ma il piano non convinceva la nuova amministrazione. Per Nathan raddoppiava «la estensione della città senza esattezza di tracciato e senza la scorta indispensabile di provvedimenti atti a salvare il nuovo vastissimo demanio 126

fabbricabile dalle sapienti astuzie dell’aggiotaggio edilizio»27. Anche il disegno urbano proposto non piaceva: un tessuto viario arabescato, un eccesso di impianti a stella. Il sindaco si rivolse allora a Edmondo Sanjust di Teulada, ingegnere capo del Genio civile di Milano, tecnico di grande esperienza, estraneo all’amministrazione romana28. Con grande professionalità Sanjust preparò in tempi brevi un piano che, riprendendo molti suggerimenti da quello del Bonfiglietti, risultava inappuntabile dal punto di vista tecnico e per il rispetto delle risorse preventivate. A differenza di quello del 1883, che sottostimava lo sviluppo demografico della città, qui la crescita era lievemente sovrastimata con la previsione di una popolazione di oltre un milione nel 1933. L’abitato era chiuso da un largo viale di circonvallazione su un percorso a tratti non dissimile da quello della futura via Olimpica. I maggiori nuclei di espansione dell’abitato, tutti al di fuori del vecchio piano regolatore, erano situati a Piazza d’Armi; fra la via Flaminia e il Tevere; fra Villa Borghese e viale della Regina Margherita, e da questo fino a piazza Verbano; a piazza Bologna; nella zona fra piazza S. Croce e piazza S. Giovanni e oltre le mura fuori Porta S. Giovanni e Porta Metronia; infine a Porta Portese, Monteverde e dietro S. Pietro, lungo via delle Fornaci. La caratteristica più importante del piano era l’individuazione precisa di tre tipologie edilizie, gli edifici intensivi, i villini e i giardini, corrispondenti a differenti zone della città. Un successivo regolamento edilizio del 1911 sanzionerà questa distinzione. In particolare i villini dovranno essere isolati dalle vie, con rientranze dal filo stradale non inferiori a 4 metri, composti di non più di due piani oltre il piano terreno sopraelevato dal suolo. Potrà essere ammessa qualche parziale sopraelevazione quando questa contribuisca al decoro del fabbricato. La costruzione dovrà avere vedute e prospetto su tutte le fronti [...].

Nelle zone previste a parchi e giardini la costruzione era riservata a fabbricati isolati con carattere di abitazioni di lusso29. Questa zonizzazione era inevitabilmente destinata a suscitare le resistenze dei proprietari che consideravano punitivi i vincoli imposti alle aree destinate a villini e giardini. Le zone a villini erano presenti in tutti i settori di espansione dell’abitato, ma in particolare 127

nei quadranti di nord-est Pinciano, Salario e Nomentano, e di ovest-sud-ovest Aventino e Monteverde. L’urbanistica di sinistra ha sempre molto apprezzato il piano del 1909 per la chiarezza d’impianto e per il rispetto dell’ambiente. Sanjust stabiliva fra i criteri fondamentali del suo piano quelli di seguire possibilmente la configurazione del terreno, evitando riempimenti e spianamenti di soverchia altezza, profittando della configurazione stessa per ricavarne partiti estetici; [...] evitare per quanto è possibile le demolizioni; [...] mantenere la fisionomia locale [...] e rispettare i monumenti artistici e storici di reale valore a qualsiasi costo.

L’obiettivo di Sanjust era quello di servirsi di tutti gli elementi della città attuale per costruire la città futura: perciò egli si ispirava «al precetto tecnico del massimo effetto utile (che comprende l’effetto artistico) ottenuto con la spesa minima»30. In realtà si trattava di un piano timido e poco innovativo soprattutto per quanto riguardava il centro della città. Il punto nodale era la sistemazione di piazza Colonna. Per Sanjust la piazza non poteva essere solo un centro di affari politici o industriali. Essa è qualcosa di più elevato: è, e deve restare, il centro dell’eleganza ove pure convengano talora gli uomini politici o gli uomini d’affari, ma dove essi non debbano essere costretti a passare [...] per cui il Corso con piazza Colonna a Roma possono paragonarsi ai Boulevards di Parigi, o alla Ringstrasse di Vienna; ma non già, per esempio, alla City di Londra31.

Il confronto era ambizioso ma poco proponibile se non altro per l’enorme diversità di scala. Anche Sanjust pensava a una galleria a piazza Colonna e proponeva una strada di collegamento da Montecitorio al ponte Vittorio Emanuele con l’allargamento di via delle Coppelle e via dei Coronari. Prevedeva inoltre una via dei Fori imperiali fino al Colosseo e la prosecuzione di via Milano con sventramenti nel rione Monti e una galleria fino a S. Giovanni. Il piano appariva inadeguato nella definizione della zona industriale al Portuense e fuori Porta S. Paolo, lungo la via Ostiense dove erano già numerosi impianti industriali, fra cui alcuni chimici, e dove sarebbero sorti il gasometro e una centrale elettrica 128

della Sar e la centrale dell’azienda comunale. Egualmente insufficiente era l’organizzazione degli accessi stradali dalle vie consolari alla città, come avrebbe sottolineato Piacentini, nonostante il prevedibile incremento del traffico automobilistico32. Ed anche la più volte progettata espansione di Roma verso il mare rimaneva fuori dalle previsioni del piano33. Non era prevista una metropolitana sotterranea, nonostante fin dal 1885 si avanzassero ipotesi in questo senso, ed era escluso l’esercizio di una metropolitana lungo la cintura ferroviaria. Al riguardo Sanjust si esprimeva in modo poco lusinghiero nei confronti dei propri connazionali. Riteneva infatti che non fosse «prerogativa delle organizzazioni italiane quella precisione» che connotava le «organizzazioni nordiche», pertanto: una ferrovia di città esercitata profittando dei binari di corsa dei grandi treni sarebbe esposta a continui e periodici disastri per lo scontro probabile di qualche diretto con il piccolo treno di servizio interno.

Era quindi più opportuno realizzare una tranvia speciale con binari propri lungo la grande circonvallazione34. Il piano del 1909 e il regolamento del 1911, operativi dal 1912, avevano di fronte una situazione edilizia profondamente mutata sia sul versante della domanda che su quello dell’offerta. Dai primi anni del secolo l’uscita dal tunnel della crisi grazie alla costituzione di alcune grandi imprese legate alla Banca d’Italia aveva consentito, come abbiamo visto, una ripresa delle costruzioni e il completamento di molti edifici lasciati incompiuti. Anche l’attività delle fornaci per laterizi, misuratore affidabile dello stato di salute dell’edilizia romana, aveva ripreso slancio produttivo soprattutto nella zona denominata Valle dell’Inferno35. In quegli stessi anni, grazie anche a una nuova mobilitazione politica e sociale e in sintonia con la riflessione di studiosi ed economisti come Maggiorino Ferraris e Giovanni Montemartini, cominciava a definirsi in tutte le sue coordinate il «problema casa». Proprio a Roma nel 1901 era stata pubblicata la traduzione del saggio di Engels del 1872 dedicato alla questione delle abitazioni (Wohnungsfrage). La casa come diritto per i ceti popolari, la casa come compenso e riconoscimento di un ruolo sociale per i ceti medi impiegatizi. 129

La protesta popolare contro il rincaro delle pigioni iniziata nei primi mesi del 1903 si era tradotta, l’anno successivo, nella richiesta di principio di mantenere gli affitti «nei confini indicati dalle condizioni economiche e generali della popolazione» e nella parola d’ordine della «sospensione generale dei pagamenti» dal momento che non era lecito «violentare le leggi dell’umanità e costringere una popolazione ad abbrutirsi in ambienti insufficienti, malsani, contrarii all’igiene e alla moralità»36. La penuria di case a costi accettabili in rapporto alla qualità appariva come uno dei problemi principali per il diffuso ceto degli addetti all’amministrazione pubblica. Nel 1908 veniva pubblicata un’inchiesta sulle abitazioni degli impiegati pubblici d’ordine e subalterni promossa dall’Ufficio del lavoro del ministero dell’Agricoltura. I dati raccolti fra 5000 impiegati dimostravano l’alto indice di affollamento, le deplorevoli condizioni igieniche, la diffusa promiscuità nell’uso delle latrine e nella disponibilità dell’acqua potabile, la modesta qualità della vita consentita nella grande maggioranza di quegli alloggi. Il gas era utilizzato per l’illuminazione in una percentuale oscillante dal 3 al 6% delle case del personale d’ordine costituite da tre a quattro vani, per salire invece al 52% in quelle da otto vani, ma solo il 21% delle stesse case di grandi dimensioni disponeva del riscaldamento a gas37. La straordinaria minuzia dell’inchiesta metteva in luce non solo la competenza statistica dell’Ufficio del lavoro, ma rivelava quale livello di consapevolezza del proprio ruolo avesse ormai raggiunto la burocrazia statale nell’età giolittiana e quale importanza l’amministrazione attribuisse alla conoscenza delle condizioni di vita dei propri impiegati a Roma. Ben peggiori erano le condizioni abitative nei quartieri popolari di San Lorenzo e di Testaccio. Testaccio era ormai da anni un quartiere operaio che forniva manodopera all’edilizia e alle attività industriali dislocate al Circo Massimo (pastificio Pantanella, officina del gas), sul lungotevere (vetrerie), all’Ostiense (materiali edili, energia elettrica) e a Trastevere (Manifattura tabacchi)38. Mentre la situazione di San Lorenzo rimane solo indirettamente nota, per il quadro in negativo tracciatone da Niceforo e Sighele e per l’opera di risanamento compiutavi in seguito dai Beni stabili, quella di Testaccio è invece minutamente conosciuta grazie alla grande ricerca di Domenico Orano. Autore di studi sugli ereti130

ci, uomo di vaste letture, benefattore e igienista dilettante, Orano aveva organizzato a Testaccio l’educatorio «Roma». Nel 1912 pubblicò un grosso volume intitolato Come vive il popolo a Roma. Saggio demografico sul quartiere Testaccio,, risultato di un’indagine demografico-statistica compiuta da solo per molti mesi nel corso del 1908. Con alcuni tratti di ingenuità, ma con un impegno ammirevole, Orano censì minutamente le 455 famiglie che facevano capo al suo educatorio. Senza porsi problemi teorici sull’uso della categoria «popolo», esponeva alcuni presupposti della sua analisi: Il popolo è, malgrado tutto, più buono di quello che noi crediamo. Nessuno di noi può rimproverargli quello che fa, perché la società e il suo regime sono i responsabili della sua esistenza. [Una] società ancora dominio di pochi e non dei migliori, che prevale sopra la grande massa con una organizzazione politica i di cui estremi tangibili nel popolo sono il carabiniere e il parroco. Si comprende allora il perché dell’azione anarchica – che al Testaccio ha entusiasti sostenitori [...]. Nell’esistenza promiscua dei sessi, nella convivenza di esseri sani e malati – sifilitici e tubercolosi, vecchi e giovani – ho compreso il dramma misterioso di questo popolo, al quale lo Stato impone leggi morali e sanzioni penali, ma lo lascia nell’abbrutimento e nell’asservimento economico39.

Con un dettaglio e una minuzia sbalorditivi Orano raccolse una quantità di dati impressionante: numerò persino i lampioni, contò i chiusini e gli orinatoi stradali (erano 19). Gli abitanti erano 9262. I quartieri o appartamenti censiti 1324, di cui 513 composti da una camera, 395 da due, 331 da tre40. Nelle 625 camere di proprietà dei Beni stabili vivevano 2200 inquilini, con una densità di 3,5 a stanza; nelle abitazioni della Cassa di risparmio, l’altro grande proprietario insieme al Banco di Napoli, l’affollamento saliva a 4,35 per stanza, ma scendeva a 2,45 nell’unico immobile dell’Istituto case popolari. Gli edifici presi in considerazione erano situati lungo via Marmorata e immediatamente dietro ad essa. L’Istituto case popolari aveva acquistato nel 1909 altri terreni per nuove costruzioni (37.925 metri quadrati) più a ridosso del Tevere. Orano lamentava la promiscuità (si contavano casi con oltre dieci persone a stanza), la inevitabile coabitazione con i subaffittuari, le deplorevoli condizioni delle latrine, situate in un vano 131

annesso alla cucina. I fitti prevedevano un costo dalle 150 alle 200 lire annue per gli alloggi di una stanza, mentre a Milano si pagavano alla stessa data fra le 60 e le 80, a Torino fra 120 e 17041. Veniva affrontato poi un problema fondamentale delle case popolari, quello delle devastazioni. I capitalisti costruiscono generalmente case per la piccola e grande borghesia e non case per le classi operaie, perché queste ultime sono soggette a spese enormi di manutenzione e perché il popolo è spesso devastatore. [...] Il popolo è ben lontano dall’avere la coscienza di quello che una casa pulita sia. Sgretola le abitazioni, quando non le danneggia per brutale malvagità. I ragazzi possono di continuo e indisturbati rimanere ore e ore per le scale del casamento, scrostare i muri, rompere i gradini delle scale, togliere i mattoni dai pianerottoli, spezzare le ringhiere, quando non danneggiano gli infissi, le serrature, le tazze dei cessi, le cassette per l’acqua42.

Per cercare di arginare le pratiche vandaliche di queste «cavallette umane», erano stati istituiti nei cortili le «case dei bambini», un esperimento tentato dal direttore dei Beni stabili Edoardo Talamo. Questi asili scuola non erano visti con simpatia da Orano, che li considerava una sorta di «pollaio umano a totale beneficio – retorica a parte – del capitalismo»43. Era anche ostile, in nome di un’organizzazione etica della famiglia operaia, al lavoro non domestico delle donne che da Testaccio erano impiegate in gran numero alla Manifattura tabacchi (dove si ottenevano i salari più alti), in fabbriche di cartonaggi, in lavori di sartoria, ma anche come domestiche e inservienti. Il lavoro femminile era in sostanza un’inevitabile aggravante sociale al quale era d’uopo rassegnarsi, mentre invece occorreva accettare una qualche forma di malthusianesimo, di controllo della procreazione. Il «moral restraint» sarà causa di prostituzione monogamica, il matrimonio perderà ogni scopo, quando il piacere sarà voluto e ricercato soltanto per se stesso senza la responsabilità e le conseguenze della progenitura; ma di fronte al crescente disagio economico della famiglia operaia, al pericolo di veder venir su scrofolosi e deficienti i figliuoli, che nella vita non saranno vincitori ma vinti, io penso essere cosa migliore non farne44. 132

La mortalità infantile, nel primo anno di vita, era a Testaccio del 33%, valori doppi rispetto a quelli medi del Lazio nello stesso periodo; la mortalità sotto i cinque anni il 44,9%45. Piuttosto che affidarsi alla selezione naturale, non era meglio, si chiedeva Orano, «usare piuttosto la selezione artificiale, che avrebbe il vantaggio di impedire il dissesto economico e morale delle famiglie?»46. La soluzione del problema della casa si correlava quindi con un insieme di questioni demografiche e sociali. Non si trattava solo di rispondere ad un bisogno, ma di progettare forme più equilibrate di convivenza. Significativa a questo riguardo è la discussione che si aprì nel 1908 sulla proposta dell’assessore all’Igiene Rossi Doria di dare avvio a una serie di insediamenti, costituiti da casette temporanee47, per sanare almeno in parte la piaga delle baracche presenti in alcune zone periferiche della città. I baraccamenti e i «villaggi abissini», prodotti di un’edificazione spontanea, erano una forma di residenza diffusa per gli immigrati più poveri e per i lavoratori con minori risorse. La soluzione di Rossi Doria, dettata da un realismo pragmatico e dall’obiettivo di garantire un tetto e livelli minimi di igiene ad almeno 5000 abitanti, non piacque allo schieramento politico più di sinistra: le casette sembravano niente più che baracche legali. La parola d’ordine dei socialisti, ma anche di uomini come Orano, fu quindi «case, non baracche». Testaccio riuscì a sottrarsi ai nuovi insediamenti, che furono invece realizzati altrove, come a Porta Metronia e fuori S. Giovanni. Il Comitato per il miglioramento economico e morale di Testaccio ottenne invece che nel quartiere i Beni stabili costruissero altre case per i ceti meno abbienti con la garanzia di fitti contenuti. Un altro consistente intervento fu quello dell’Icp con le case progettate da Giulio Magni48. La vicenda di Testaccio e delle casette rapide metteva in luce un modello di relazioni destinato a ripetersi a più riprese in seguito. Il Comune rispondeva ai bisogni dettati dall’emergenza – sfrattati, senza casa, baraccati –, gli istituti per l’edilizia pubblica risolvevano il problema degli alloggi soprattutto a vantaggio dei gruppi sociali più organizzati. Negli anni di Nathan si assisté dunque al decollo dell’edilizia residenziale pubblica, un fenomeno destinato a caratterizzare tutto il successivo sviluppo di Roma, soprattutto a partire dagli anni Venti, conferendo un’immagine riconoscibile e uno stile a interi 133

quartieri della città. Cominciarono allora a operare le cooperative dei ferrovieri e dei postelegrafonici e, ancora su piccola scala, l’Istituto case popolari. L’Icp costruì un primo nucleo di casette a uno o due piani a viale Manzoni e diede inizio al quartiere San Saba sul «piccolo Aventino», progettato da Quadrio Pirani e Giuseppe Bellucci ad imitazione dei villaggi operai di tipo centroeuropeo. Ma dopo le prime abitazioni a schiera e a villino, i costi troppo elevati per le fondazioni imposero un aumento della densità49. Questa attività era sostenuta dalle disposizioni della legge Giolitti del 1907, che prevedeva un finanziamento all’Icp di tre milioni corrisposti dal Comune su anticipi dello Stato. La stessa legge concedeva mutui fino a dieci milioni all’Istituto delle case per gli impiegati dello Stato. Negli anni di Nathan si registrò dunque una decisiva inversione di tendenza: dal 1910 al 1912 venne autorizzata la costruzione di 14.941 vani per le case economiche e popolari rispetto a 14.884 vani per le case borghesi50. Lo strumento finanziariamente più rilevante e politicamente più vistoso messo a disposizione dalla legge del 1907 per sostenere l’intervento pubblico a favore dell’edilizia popolare era quello che devolveva all’Icp il 50% dei proventi della tassa sulle aree fabbricabili. Ma il meccanismo si rivelò nella sostanza quasi totalmente inefficace e l’Icp dovette trovare altrove altri finanziamenti. La tassazione sulle aree era congegnata in modo da garantire un vantaggio certo alla mano pubblica. La base imponibile era fissata dallo stesso proprietario con un’autodenuncia: se fosse stata troppo bassa il Comune poteva essere invogliato ad espropriare; se troppo alta, al fine di scongiurare l’esproprio, il Comune la tassava con un’aliquota che la legge Giolitti aveva innalzato per Roma dall’1 al 3%51. I proprietari considerarono queste disposizioni come un attentato alla proprietà e si organizzarono in una lega di resistenza sommergendo il Comune con una valanga di ricorsi. In poco tempo la questione delle aree diventò un’arma contro la giunta Nathan, già indebolita dalle defezioni dei repubblicani e dei socialisti. Politica locale e politica nazionale si intrecciavano in Campidoglio. I dissidenti lamentavano una troppo timida politica nelle municipalizzazioni, mentre le divisioni sulla guerra di Libia si ripercuotevano nella coalizione. Più in generale, lo schieramento delle forze di sinistra presentava da tempo radicali, e non ricom134

ponibili, diversità di orientamento politico soprattutto fra socialisti da una parte e anarchici e sindacalisti rivoluzionari dall’altra. Dal 1910 il Blocco di Nathan aveva perso gran parte del sostegno delle organizzazioni operaie52. Un primo segnale della durevole forza dirompente di queste divisioni venne dalle elezioni politiche dell’ottobre-novembre 1913. Nel I collegio il nazionalista Luigi Federzoni prevalse al ballottaggio sul sindacalista dei postelegrafonici, il socialista Antonino Campanozzi, deputato uscente. Anche nel IV collegio vinse un nazionalista, Luigi Medici del Vascello, superando Leone Caetani al ballottaggio. Negli altri tre collegi i candidati che facevano riferimento al Blocco popolare – Bissolati, Baccelli e Barzilai – vinsero invece al primo scrutinio53. A dicembre la giunta si dimise e in Comune tornò il commissario. Qualche mese prima, a luglio, era morto Montemartini, principale artefice della politica riformatrice dell’amministrazione comunale. Nelle successive elezioni comunali del giugno 1914 l’alleanza che vedeva insieme i liberali moderati, l’Unione romana e i nazionalisti sconfisse con un significativo scarto di 5500 voti quel che rimaneva del Blocco popolare guidato da Nathan54. 3. Roma nel 1911 Il 27 marzo 1911 si aprirono, con una seduta reale in Campidoglio, le celebrazioni del cinquantenario del Regno d’Italia. Quello stesso giorno venne inaugurata sui terreni di Vigna Cartoni la mostra internazionale di Belle arti a Valle Giulia. Il 21 aprile si aprì la mostra etnografica a Piazza d’Armi. Se l’ingresso principale in città fosse stato ancora quello da nord, attraverso Ponte Milvio e lungo la via Flaminia, il viaggiatore sarebbe piombato in mezzo alle esposizioni celebrative. Ma ormai i viaggiatori arrivavano in ferrovia, scendevano a Termini e all’uscita dalla stazione si trovavano di fronte una Roma profondamente cambiata. Nell’immaginare un percorso nei luoghi della Roma nuova, della «Roma vivente», con l’aiuto della guida ufficiale della città preparata per le feste del cinquantenario da Ugo Fleres, direttore della Galleria nazionale d’arte moderna55, un ipotetico turista 135

uscito dal settore arrivi della stazione, quello prospiciente l’inizio di via Cavour e il collegio Massimo dei gesuiti, trovava alla sua destra la piazza dei Cinquecento e il monumento a Dogali, di fronte il prospetto delle Terme di Diocleziano, appena liberate da un ammasso di casupole, antri, grotte, e riportate alla loro grandiosa monumentalità. Qui, negli spazi adibiti a museo, si apriva la mostra archeologica, una delle iniziative per le celebrazioni del 1911. Appena più avanti, la piazza delle Terme (o di Termini) presentava l’ingresso scenografico e trasgressivo della città nuova56. Una grande fontana lanciava i suoi zampilli a modellare le prosperose nudità delle Naiadi dello scultore Rutelli, prima che lo sguardo, guidato dalle esedre ricurve dei porticati di Koch, s’incanalasse per via Nazionale fino a spingersi al monumento a Vittorio Emanuele, lontano sullo sfondo. Alle spalle un modesto portale immetteva in S. Maria degli Angeli, trasformazione michelangiolesca del tepidarium delle terme, chiesa ufficiale dello Stato dal 1896, quando vi si erano celebrate le nozze del principe di Napoli, poi re Vittorio Emanuele III. Poco sopra, lasciando a sinistra l’esedra e superato il Grand Hotel, inaugurato nel 1894, si raggiungeva la «strada dei ministeri», via XX Settembre. A sinistra, superati il ministero della Guerra e le Quattro Fontane, prima di giungere alla reggia del Quirinale, si costeggiava il giardino con il monumento a Carlo Alberto inaugurato nel 1900. Prendendo invece a destra si superava il cantiere del ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio prima di affiancare il lungo Palazzo delle Finanze che aveva di fronte al suo ingresso principale il monumento a Quintino Sella, opera di Ettore Ferrari, inaugurato nel 189357. Più avanti, oltre Porta Pia si apriva la grande via Nomentana alberata. Sulla piazza erano in costruzione il ministero dei Lavori pubblici e la Direzione delle ferrovie. A sinistra, lungo corso d’Italia, di fronte alla breccia, svettava a ricordo della presa di Roma la colonna sormontata da una vittoria alata. Questa leggiadra figura femminile, leggermente discinta, col manto svolazzante lungo la gamba distesa nella corsa, appena equilibrata dal braccio proteso ad offrire una palma o una corona di gloria, si era affermata come il logo della nuova Italia di inizio secolo. La vittoria, copia o replica della Nike di Pompei, aveva allietato gli addobbi all’imbocco di via Nazionale in occasione delle visite ufficiali di Edoardo VII d’Inghilterra e dell’imperatore di 136

Germania Guglielmo II nel 190358. Sul monumento a Vittorio Emanuele II si potevano individuare – su colonne, basamenti e rostri e in attesa delle due poste alla guida delle grandi quadrighe – ben diciannove Vittorie alate in marmo o in bronzo dorato compresa quella recata in mano dalla Dea Roma. E il tema, scolpito e dipinto, graficizzato a colori o in nero, sarebbe tornato innumerevoli volte nel corso di quel 191159. Con l’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele, il 4 giugno, si poteva considerare conclusa la principale operazione politico-simbolica dell’Italia liberale. Pur con i limiti più volte sottolineati – un monumento «condannato a essere, rispetto ai quartieri su cui sembra incombere, una massa estranea»60 – svolgeva un ruolo decisivo rispetto agli assetti preesistenti. Rappresentava lo sfondo conclusivo del Corso, dove si concentrava ancora (bastino le considerazioni di Sanjust o i ricordi di Jemolo)61 tutta la visibilità pubblica della politica e della mondanità. Il monumento realizzava una traslazione simbolica dal Pantheon al Campidoglio, dalla tomba del re alla celebrazione del re a cavallo e insieme a lui di tutta una complessa allegoria del processo risorgimentale. La durevole incongruità del monumento, intelligibile più per la ridondanza monumentale che per le simbologie rappresentative dei valori e delle componenti del processo di unificazione, deriverà, oltre che dalle polisemie via via attribuitegli ma mai compiutamente sedimentate, dagli ancora lunghi anni necessari per completarne l’inserimento nel tessuto della città. Al momento dell’inaugurazione permanevano alcune quinte laterali, rappresentate da edifici in seguito abbattuti, in netto contrasto dimensionale e scenografico con l’imponente costruzione. A sinistra con le due vie Cremona e Alessandrina era garantito il collegamento a via Cavour, ma già si pensava a una grande via dei Fori imperiali. A destra vi era continuità del tessuto urbano fra il piano e il colle e una scala viaria anche qui sproporzionata alla nuova scala dimensionale, mentre era ancora in corso la ricostruzione del palazzetto Venezia che chiudeva originariamente la piazza. Destinato a sollevare infinite dispute fino ai nostri giorni (fra i giudizi più velenosi si ricorda quello di Papini che nel 1913 lo definì un «bianco ed enorme pisciatoio di lusso»), il monumento appariva a molti contemporanei come una sintesi felice dello stile classico italiano. Proprio questo carattere lo rendeva superiore, nel 137

confronto di civiltà avviato con lo scoppio della guerra mondiale, al monumento nazionale tedesco eretto a Lipsia in ricordo della vittoria su Napoleone nella «battaglia delle nazioni» del 1813. Un articolo dell’«Idea nazionale» polemizzava nell’estate 1915 con la «Frankfurter Zeitung» che aveva individuato come sintomo di assenza di ogni valore intellettuale e spirituale della nostra cultura il fatto che a rappresentarla fossero D’Annunzio come poeta, Ferrero come storico e il monumento a Vittorio Emanuele per l’arte. Benissimo! Lasciando in pace il D’Annunzio e il Ferrero, contro ai quali è naturale che dalla cute verdastra dei rospi teutonici sempre più gonfii di bile e di veleno spruzzino ora con maggior violenza le secrezioni intossicate della Kultur, sia concesso difendere un poco la povera nostra mole sacconiana, quella mole candida, anche troppo candida, se si vuole, magari uggiosamente candida, ma pur viva di armonica bellezza e di classica nobiltà.

Con un ritorno alle «forme druidiche e barbariche» gli architetti del Reich avevano «finalmente trovato col monumento di Lipsia la loro arte, l’arte del mostruoso, l’arte spauracchio». Il «monumento-orco», continuava l’articolo, è la più caratteristica espressione dell’arte brutalmente stilizzata, come il monumento di Roma è la manifestazione del più squisito classicismo. In questo non vi sarà, ammettiamolo, un’anima nuova: ma vi è rispecchiata un’anima eternamente bella ed umana, quella di una civiltà immortale62.

Pur nella difesa si avvertivano, anche nei commentatori più benevoli, alcune delle mai sopite perplessità che il grande monumento suscitava. Sul piano della monumentalistica pubblica e della sistemazione urbana appariva forse più equilibrato l’assetto di piazza Cavour con i giardini, completati nel 1910, il monumento allo statista e il grande Palazzo di Giustizia inaugurato nel gennaio 1911. Si trattava in questo caso di un intervento compiuto per intero in un quartiere nuovo, con maggiore libertà e quindi senza vincoli di preesistenze. Ma anche il «palazzaccio» con la sua mole sollecitava molte critiche. Per lo stesso Fleres, se 138

da vicino la grandiosità rimane [...] la saldezza diventa peso, e la ricchezza diventa sovraccaricaggine. Più che nella sede della Giustizia in Italia, ci par d’essere nella sede della tirannide di una Babilonia settentrionale63.

Nel 1911 si completano, oltre a quelli già ricordati, altri interventi monumentali e celebrativi. Il Ponte Vittorio Emanuele, che chiudeva corso Vittorio, con le quattro Vittorie in bronzo, inaugurato il 5 giugno. Lo Stadio nazionale al Flaminio per 30.000 spettatori, opera di Marcello Piacentini64, costruito come uno stadio olimpico greco a forma di U delimitata verso la città da un ingresso monumentale dove tornavano ancora, su quattro colonne, le Vittorie alate. Il linguaggio celebrativo trovava così il suo stereotipo. Un linguaggio che aveva in Sacconi il suo padre ispiratore e in Marcello Piacentini l’organizzatore e il maestro di cerimonie. Quel Piacentini, figlio d’arte – il padre Pio aveva portato a termine insieme a Koch e Manfredi il monumento a Vittorio Emanuele – si trovò non ancora trentenne (era nato nel 1881) a progettare la mostra regionale ed etnografica. Unendo un grande talento organizzativo a un controllato stile scenografico scandito dalla ricorrente «sequenza propilei-pausa-fondale», mescolò Michelangelo e barocco con gli echi dello stile Beaux-Arts di derivazione franco-belga65. Questo segno si appalesava prima ancora che negli edifici della mostra, ubicata lontano dal centro, proprio in piazza Colonna, nel padiglione effimero eretto su progetto dei due Piacentini, padre e figlio, a ricoprire lo sterrato che il Comune, incapace di risolvere il nodo urbanistico della piazza, aveva lasciato dal 1889 dopo l’abbattimento di palazzo Piombino. A Piazza d’Armi Piacentini, «il giovane mago dal viso di bimbo, e dai nervi d’acciaio, che non dorme da parecchie notti, che si ciba di rugiada e di polvere di gesso, che è dovunque e non si vede mai», come lo descriveva il «Corriere della Sera» alla vigilia dell’inaugurazione66, aveva disegnato il Foro delle regioni e il Salone delle feste e tracciata la planimetria della mostra: un ampio spazio che dal Tevere giungeva fino a viale Angelico, con i padiglioni distribuiti a destra dell’attuale asse di viale Mazzini67. Al di là del fiume scavalcato dal Ponte Flaminio (ora del Risorgimento) a un’unica campata, che la società Porcheddu di To139

rino aveva eseguito in calcestruzzo armato secondo il modernissimo sistema Hennebique, si giungeva per un grande viale percorso da una linea tranviaria, dopo Villa Giulia, ai padiglioni della mostra di Belle arti e alla nuova Galleria nazionale d’arte moderna. Come si conveniva al diverso carattere dell’esposizione in questa zona, i toni erano più sobri e contenuti, con qualche esempio di qualità, oltre che nella Galleria di Cesare Bazzani, nei padiglioni d’Austria e Gran Bretagna. Lo stile si vivacizzava nuovamente con l’ingresso d’onore da Villa Borghese e soprattutto con l’ingresso al Giardino zoologico (inaugurato nel gennaio), opera di Armando Brasini, adorno di sculture di animali esotici. L’esposizione di pittura e scultura sollevò polemiche sulla stampa e fra gli artisti sulle inclusioni ed esclusioni e per la mancanza di una retrospettiva dell’arte italiana, esiti inevitabili di ogni manifestazione del genere. Ma il risultato finale dell’operazione fu l’arricchimento del patrimonio della Galleria nazionale e la destinazione di Valle Giulia a sede permanente di molte accademie straniere. Il Comitato esecutivo delle celebrazioni aveva assegnato a Roma le mostre artistiche, a Torino quelle industriali e tecnologiche. Nella capitale il restaurato Castel S. Angelo fu sede di altre esposizioni, di una mostra fotografica e di numerosi congressi tenuti in un padiglione a forma di tempio classico costruito sugli spalti. L’elenco dei congressi è impressionante per il numero e la varietà. I temi svariavano dalla musica all’educazione fisica, dall’architettura alla ginecologia, dalla pace alla sociologia, per finire alla mascalcia e all’apicultura. A Piazza d’Armi per il concorso di architettura erano stati realizzati una serie di villini lungo il Tevere, un grande edificio modello opera dell’Istituto romano Beni stabili e una casa della Cooperativa case e alloggi impiegati68. Nonostante la disorganizzazione, la polvere, le pozzanghere, la lamentata assenza di pubblico – tenuto lontano secondo i giornali cattolici dall’anticlericalismo di Nathan – le esposizioni del 1911 furono la manifestazione di una orgogliosa consapevolezza dello sviluppo in tutti i campi dell’Italia liberale, persino nella «espressione civilissima del superfluo che costituisce una delle motivazioni profonde della cultura»69. Certo il pubblico preferiva la nave romana ricostruita in un laghetto e il toboggan, le attrazioni da luna park, insieme ai risto140

ranti e alle birrerie raccolti nell’area della mostra regionale ed etnografica. Qui i padiglioni delle regioni costituivano ognuno una summa degli stili locali e una raccolta di citazioni architettoniche, con prevalenza di torri e campanili, di gusto fra il Medioevo e il Rinascimento. Seguiva poi la mostra etnografica che aveva come obiettivo di rispondere alla domanda: ma questo popolo nostro, questo popolo che chiamiamo a pagar le sue tasse e a prestare il suo servizio militare, che vediam poi scomparire, ritornare nell’ombra dond’è uscito al nostro richiamo, come vive, e, soprattutto, dove vive?70

Erano stati così costruiti diversi esempi di abitazioni e di edifici per specifiche attività lavorative, in particolare nei settori dell’artigianato e dell’industria domestica. Si andava dalla casa rustica della Sicilia e della Sardegna, al nuraghe, all’angolo di Assisi, all’allevamento di bachi delle Marche, alla fabbrica di confetti abruzzese o a quella napoletana di maccaroni, a quella di ceramiche di Faenza, alla latteria sociale piemontese, alla tessitura brianzola, alle merlettaie di Burano al lavoro lungo il canale. Non erano rappresentazioni statiche, ma vere e proprie scene di genere, tableaux vivants secondo quanto dettava la moda del tempo. Insomma un catalogo e un inventario delle permanenti diversità italiane. Quasi che il raccoglierle e rispecchiarle così diverse e separate nella capitale, rilanciasse il ruolo aggregante di Roma. Del resto l’eco e il superamento di questa varietà erano simbolicamente consolidati e richiamati nel grande monumento a Vittorio Emanuele. Ma anche l’effimero lanciava un suo messaggio non equivoco. Sul frontone del Palazzo delle feste, assisa in trono con elmo e cimiero, una lancia ben salda nella destra e la sinistra protesa a mostrare il globo con l’immancabile Vittoria alata, Roma riceveva l’omaggio delle maggiori città italiane71. Se il primato di Roma era ormai compiutamente tradotto sul terreno simbolico, avrebbe tardato tuttavia ancora qualche anno per realizzarsi anche sul piano politico.

V

Guerra e dopoguerra

1. Maggio 1915 Con le giornate interventiste del maggio 1915 Roma divenne una piazza politica pari al suo rango di capitale. Fino allora quanto accadeva in città – escludendo le funzioni istituzionali del Parlamento, del governo e della Corona – non era mai stato in grado di influenzare in modo decisivo la vita politica nazionale. Le «radiose giornate» rappresentarono invece una data periodizzante nel modificare il ruolo della ancor giovane capitale. Un ruolo che si consolidò in due altri momenti politici e simbolici: la traslazione della salma del milite ignoto nell’Altare della Patria e la marcia su Roma. Un’accelerazione nel processo di crescita politica si era comunque avuta a partire dagli inizi del nuovo secolo con l’esperienza del Blocco popolare e più marcatamente con l’affermarsi di nuove forze politiche come i nazionalisti. L’amministrazione Nathan inserì Roma in un sistema di alleanze politiche e in un progetto riformatore comune alle più avanzate forme di gestione urbana; e insieme rappresentò l’ultima e più compiuta traduzione pubblica dei diffusi e intrecciati valori risorgimentali e anticlericali. La guerra di Libia frantumò gli equilibri del sistema giolittiano, ripropose e accentuò le divisioni fra le forze politiche e soprattutto determinò «una larga confluenza della borghesia e dei ceti medi su posizioni di tipo nazionalistico ed espansionistico di diverso colore: conservatore, autoritario, liberale, cattolico»1. A Roma i 142

nuovi orientamenti furono immediatamente percepibili: è significativo infatti che dei cinque o sei deputati nazionalisti eletti in tutta Italia nell’autunno del 1913, due lo fossero nella capitale con i voti liberali e cattolici. Ancora più significativa fu la «mobilitazione d’ordine» che si realizzò a Roma in risposta agli scioperi della «settimana rossa»2. Per domenica 7 giugno 1914, festa dello Statuto, erano stati organizzati in tutta Italia manifestazioni e cortei antimilitaristi. Ad Ancona, i carabinieri spararono sui dimostranti facendo tre morti e numerosi feriti. L’8 giugno il Psi e la Confederazione generale del lavoro proclamarono lo sciopero generale. Le agitazioni presero in molte località un carattere violento e talora insurrezionale. A Roma gli incidenti e i tumulti furono numerosi, ma non particolarmente gravi, anche per il grande spiegamento della forza pubblica che riuscì a confinare le manifestazioni – e i disordini – nella zona dei fori di Traiano e della Suburra, dove aveva sede la Camera del lavoro3, senza consentire agli scioperanti di invadere il centro cittadino con cortei e comizi. A differenza di quanto era accaduto nel marzo precedente, quando gli strascichi di un grande comizio tenuto a piazza del Popolo per protestare contro i licenziamenti negli ospedali avevano determinato gravi scontri al Corso e a piazza Venezia e dintorni4, questa volta il centro rimase sostanzialmente precluso alle forze della sinistra. Di conseguenza i difensori dell’ordine, nel pomeriggio del 10 giugno, dopo essersi raccolti davanti al Palazzo delle Esposizioni, risalirono via Nazionale e via delle Quattro Fontane per congiungersi ad altri manifestanti a piazza Poli, lungo via del Tritone, proseguendo poi per il Corso e le strade adiacenti fra il plauso dei cittadini dalle finestre. Ad essi si aggiunse l’omaggio del questore, affacciatosi dalla finestra della questura in piazza del Collegio Romano, prima che il corteo giungesse prima a piazza S. Pantaleo, di fronte alla presidenza del Consiglio, per spingersi poi al Quirinale e al ministero della Guerra a via XX Settembre e tornare nuovamente a palazzo Braschi per omaggiare il presidente del Consiglio Salandra5. Vi furono violenze contro singoli esponenti politici ritenuti sostenitori degli scioperi e contro quanti si recavano a una riunione della Camera del lavoro. Secondo le fonti ufficiali 10.000 furono i manifestanti mobilitatisi per l’ordine, mentre altrettanti erano scesi in piazza sul fronte degli scioperanti. 143

Anche a Napoli, Firenze, Messina si tennero manifestazioni analoghe. Per Roma questo significò la conquista della piazza da parte della mobilitazione borghese e patriottica, guidata da nazionalisti come Federzoni e anche da cattolici come Tupini. Condizionate da questi avvenimenti, le elezioni comunali, tenute il 14 giugno al termine della «settimana rossa», registrarono a Roma l’avvenuto mutamento dei rapporti di forza e la sconfitta del blocco laico presentatosi come Unione liberale democratica. In Campidoglio tornò come sindaco Prospero Colonna. Le nuove forme di mobilitazione e l’ampliarsi del numero dei gruppi politici coinvolti furono solo la premessa del vasto rimescolamento di orientamenti e di schieramenti indotto dallo scoppio della guerra. Nei lunghi mesi che precedettero l’intervento dell’Italia la lotta politica assunse accenti nuovi e inconsueti. Neutralista era il Psi e pacifista era gran parte del mondo cattolico. I nazionalisti inizialmente sostennero la guerra in ogni caso, difendendo la Triplice, per poi allinearsi da settembre con gli altri gruppi interventisti che sostenevano la denuncia dell’alleanza con l’Austria. L’interventismo di sinistra schierava repubblicani e radicali impegnati in primo luogo a evitare una guerra a fianco dell’Austria per poi puntare alla liberazione delle terre irredente. Nella sinistra rivoluzionaria, molti fra i giovani socialisti, gli anarco-sindacalisti, gli anarchici vedevano nella guerra la premessa per accelerare il conflitto di classe. I socialisti riformisti sposavano la difesa della «causa della civiltà e della libertà» violata dalle truppe tedesche. La propaganda contro la barbarie germanica prese presto toni e frasi eccessive. Roma, con le ambasciate e la folta presenza tedesca, si prestava ad un’accentuazione delle intolleranze, mentre veniva irriso e violentemente attaccato chi solo provasse a difendere i valori della cultura tedesca e a ricordare i debiti contratti dal mondo scientifico italiano. Gli studenti universitari della Sapienza furono in prima linea nell’intolleranza verbale e culturale. Mussolini, ormai passato all’interventismo, li incitava da Milano a adoperare non i teneri muscoli delle labbra [...] ma quelli più energici delle gambe. Non fischi, pedate occorrono. Cacciateli fuori dalle tane della loro 144

Sapienza quelle mummie di cartapesta tedesca, quei parrucconi ingialliti e rammolliti6.

Partirono da Roma i primi volontari garibaldini per la Serbia e per la Francia. E si commemorarono anche i primi caduti. I funerali di Bruno Garibaldi, nipote dell’eroe dei Due Mondi, morto nelle Argonne, furono secondo un giornale repubblicano l’occasione per misurare gli intenti e ribadire i propositi. Non furono un trasporto mortuario. Furono un’apoteosi. Riuscirono come l’esperimento di mobilitazione delle forze della patria [...]. Il corteo era degno della universalità di Roma [...]. Vi era il popolo: questo popolo generoso nel suo culto dei morti e tremendo nella sua ira7.

La percezione della guerra come realizzazione di ideali superiori, come prova esemplare dei singoli e della nazione collocava gli interventisti in una rinnovata epopea risorgimentale e garibaldina. Ma l’interventismo mobilitava anche altri elementi, ormai consolidati, della cultura politica del tempo, l’antigiolittismo e l’antiparlamentarismo. A questi si aggiungeva l’esaltazione becera e goliardica della violenza fisica da esercitare contro gli avversari politici. A fondere tutti questi elementi in una grande rappresentazione mantenendo elevato il livello di emotività e di partecipazione provvidero la forza delle parole e il talento carismatico di D’Annunzio. Il linguaggio profetico del discorso pronunciato alla Sagra dei Mille il 5 maggio a Quarto nei pressi di Genova, presto noto in tutta Italia, l’aspettativa creata intorno all’arrivo del poeta a Roma e tutti i rituali di scambio con la folla messi in atto fra il 12 e il 17 maggio diedero – o così apparve – la spinta decisiva all’intervento. In realtà la partita era già per gran parte decisa. Dal 26 aprile il patto segreto di Londra stabiliva l’entrata in guerra dell’Italia entro un mese. Il 4 maggio era stata denunciata l’alleanza con l’Austria. Di fronte alla minaccia di abdicazione del re, ormai personalmente impegnato per l’intervento, le resistenze di Giolitti e dei giolittiani e tutte le ipotesi di mancata ratifica del patto di Londra erano battaglie di retroguardia. Ma la cautela del governo nel rendere noti gli accordi e le apprensioni derivanti dalle capacità 145

di Giolitti di influenzare il Parlamento, confermate dal gesto di oltre trecento deputati e cento senatori di lasciare, il 12 maggio, il proprio biglietto da visita nella residenza romana dello statista piemontese – in una sorta di irrituale voto di fiducia –, rallentarono la soluzione della crisi e accentuarono le tensioni determinando, il 13, le dimissioni di Salandra. Nello scarto temporale così creato si inserì la grande mobilitazione interventista, autorappresentazione di una nuova Italia capace di decidere e imporre il proprio futuro. Il 12 maggio D’Annunzio era arrivato a Roma accolto da una folla imponente. Da un balcone dell’hotel Regina a via Veneto pronunciò la sua prima «arringa al popolo di Roma accalcato nelle vie e acclamante». Il suo primo intento era di riagganciarsi all’epopea garibaldina. Io vi porto il messaggio di Quarto, che non è se non un messaggio romano alla Roma di Villa Spada e del Vascello. [...] Come ieri l’orgoglio d’Italia era tutto volto a Roma, così oggi a Roma è volta l’angoscia d’Italia; ché da tre giorni non so che odore di tradimento ricomincia a soffocarci. [...] Il nostro Genio ci chiama a porre la nostra impronta su la materia rifusa e confusa del nuovo mondo.[...] Che la forza e lo sdegno di Roma rovèscino alfine i banchi dei barattieri e dei falsarii. [...] Si risvegli Roma domani nel sole della sua necessità, e getti il grido del suo diritto, il grido della sua giustizia, il grido della sua rivendicazione, che tutta la terra attende, collegata contro la barbarie. «Dov’è la Vittoria?» chiedeva il poeta giovinetto caduto sotto le vostre mura, mentre anelava di poter morire su l’alpe orientale, in faccia all’Austriaco. O giovinezza di Roma, credi in ciò ch’ei credette; credi sopra tutto e sopra tutti, contro tutto e contro tutti, che veramente Iddio creò schiava di Roma la Vittoria8.

La sera del 13 maggio si rinnovò il rapporto simbiotico di D’Annunzio con il suo pubblico. Acclamato dai manifestanti, si affacciò di nuovo al balcone del Regina e pronunciò in nome della «legge di Roma» un’invettiva violentissima contro Giolitti e contro i traditori della patria asserviti ai prussiani. Ascoltatemi. Intendetemi. Il tradimento è oggi manifesto. Non ne respiriamo soltanto l’orribile odore, ma ne sentiamo già tutto il peso obbrobrioso. Il tradimento si compie in Roma, nella città dell’anima, 146

nella città di vita! Nella Roma vostra si tenta di strangolare la Patria con un capestro prussiano maneggiato da quel vecchio boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno la via di Berlino. [...] Udite. Noi siamo sul punto d’essere venduti come una greggia infetta. [...] Intendete? Avete inteso? Questo vuol fare di noi il mestatore di Dronero. [...] Stanotte su noi pesa il fato romano; stanotte su noi pesa la legge romana. Accettiamo il fato, accettiamo la legge. Imponiamo il fato, imponiamo la legge. [...] Però col bastone e col ceffone, con la pedata e col pugno si misurano i manutengoli e i mezzani, i leccapiatti e i leccazampe dell’Ex-cancelliere tedesco che sopra un colle quirite fa il grosso Giove trasformandosi a volta a volta in bue tenero e in pioggia d’oro9. Codesto servidorame di bassa mano teme i colpi, ha paura delle busse [...] io ve li consegno. I più maneschi di voi saranno della città e della salute pubblica benemeritissimi. Formatevi in drappelli, formatevi in pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli, per catturarli. Non una folla urlante, ma siate una milizia vigilante. Questo vi chiedo. Questo è necessario. È necessario che non sia consumato in Roma l’assassinio della Patria. Voi me ne state mallevadori, o Romani. Viva Roma vendicatrice!10

I gruppi più accesi degli interventisti non avevano certo bisogno di essere incitati alla violenza. In quei giorni la residenza di Giolitti, in via Cavour 71, fu costantemente protetta anche da truppe a cavallo, ma singoli esponenti giolittiani e altri neutralisti furono aggrediti. Scontri fra socialisti e interventisti si erano avuti un mese prima in occasione di due contrapposte e affollate dimostrazioni. Giolitti era il nemico numero uno e il principale imputato di tradimento. Il 14 maggio gli studenti universitari e medi, dopo essersi riuniti nel cortile della Sapienza e aver votato una mozione per dichiarare Giolitti «complice dello straniero e nemico della patria», invasero la Camera «giolittiana» rompendo a sassate la vetrata e la lanterna dell’atrio. E contro Giolitti parlarono molti in quei giorni. Fra le voci più note, quelle di Maffeo Pantaleoni, che pronunciò inviti all’uccisione, e di Gaetano Salvemini, con toni più moderati. La lotta contro il bandito è difficile perché abbiamo contro la mentalità di molti italiani. Bisogna gridare contro i giolittiani. Sembra per ora che l’uomo nefasto non tornerà al governo; ma non basterà: biso147

gna che egli esca dall’Italia! Si riprenda la sua dattilografa e se ne vada al diavolo!11

La mobilitazione interventista dei ceti medi coinvolge largamente anche gli impiegati dei ministeri che scendono in corteo il 15 maggio o improvvisano manifestazioni nei corridoi insultando i dirigenti neutralisti e giolittiani. Il tempo di queste giornate è scandito dalle arringhe dannunziane, i cui testi sono immediatamente diffusi12. La sera del 14, chiamato sul proscenio del teatro Costanzi, D’Annunzio ribadì le accuse a Giolitti: egli era informato della nuova alleanza e quindi il suo tradimento era ancora più grave. Poi celebrò il sangue versato per sconfiggere i nemici interni. Per ciò, ripeto, ogni buon cittadino è soldato contro il nemico interno, senza tregua, senza quartiere. Se anche il sangue corra, tal sangue sia benedetto come quello versato nella trincea13.

Il 16 maggio pomeriggio, dopo l’annuncio che il re aveva respinto le dimissioni di Salandra, un imponente corteo patriottico attraversò il centro cittadino, da piazza del Popolo a via XX Settembre al Quirinale. Infine il pomeriggio del 17 maggio si tenne la cerimonia finale di quelle giornate. Molte migliaia di persone si erano già raccolte nella piazza del Campidoglio mentre un grande corteo si era mosso da piazza della Cancelleria dirigendosi al colle: improvvisamente un tumulto di fischi, di «abbasso», di «a morte» si alzò dalla folla quando un grande disegno raffigurante la testa di Giolitti con un laccio al collo fu issato su una pertica14. Dalla ringhiera del Palazzo Senatorio parlarono il sindaco Colonna, Podrecca, D’Annunzio e Battisti. D’Annunzio «parlò con voce ferma e chiara, scandendo le parole meravigliosamente», consentendo al pubblico di non perdere neppure una sillaba, come riferiva «Il Messaggero»15. Iniziò riprendendo il tema delle benedizioni. Benedette le madri romane ch’io vidi ieri [...] portare su le braccia i loro figli! Benedette quelle che già mostravano su le loro fronti il coraggio devoto, la luce del sacrifizio silenzioso, il segno della dedizione a un amore più vasto che l’amore materno! 148

Data la consapevolezza della battaglia ormai vinta, in quella giornata il tono fu meno esaltato: prevalse un’atmosfera di vigilia del voto, ormai largamente scontato, che la Camera avrebbe pronunciato a favore della guerra il 20 maggio, anche se non mancarono i soliti appelli all’annientamento dell’avversario politico. Il 20 maggio, nell’assemblea solenne della nostra unità, non dev’essere tollerata la presenza impudente di coloro che per mesi e mesi hanno trattato col nemico il baratto d’Italia. Non bisogna permettere che, pagliacci camuffati della casacca tricolore, vengano essi a vociare il santo nome con le loro strozze immonde. Fate la vostra lista di proscrizione senza pietà. Voi ne avete il diritto, voi ne avete anzi il dovere civico. Chi ha salvato l’Italia, in questi giorni d’oscuramento, se non voi, se non il popolo schietto, se non il popolo profondo?

La cerimonia prese poi un andamento liturgico, con D’Annunzio celebrante del sacrificio. Qui, dove la plebe tenne i suoi concilii nell’area, dove ogni ampliamento dell’Impero ebbe la sua consacrazione officiale [...] da questa mèta d’ogni trionfo, offriamo noi stessi alla Patria, celebriamo il sacrifizio volontario, prendiamo il presagio e l’augurio, gridiamo: «Viva la nostra guerra!» «Viva Roma! Viva l’Italia!». [...] Sonate la Campana a stormo! Oggi il Campidoglio è vostro [...]. O Romani, è questo il vero parlamento. Qui oggi da voi si delibera e si bandisce la guerra. Sonate la Campana!16

Al suono della campana l’emozione raggiunse il massimo. Quando il campanone ha tuonato con la sua voce potente, quel suono che percoteva l’aria e ne faceva vibrare ogni atomo e tutti li riempiva di una musica sacra ed eroica, le ginocchia si sono piegate come se una mano titanica ci gravasse le spalle; e ci costringesse a cadere in adorazione innanzi al Gran Destino Italico.

Così uno dei protagonisti di quelle giornate, il repubblicano estremo Costanzo Premuti, rievocò quei momenti17. Il 20 maggio la Camera concesse i pieni poteri al governo. Il 24 l’Italia era in guerra. Le giornate romane non rappresentarono solo il momento culminante di una mobilitazione politica che coinvolse tutte le prin149

cipali città italiane nella prima vera grande mobilitazione nazionale, ma posero Roma come centro simbolico e reale di tutte le energie sprigionate nel paese. Roma prepara così la sua vigilia, attende così la sua grande ora. Essa è la condottiera e la sorella di tutte le città d’Italia e ha sentito che il suo sentimento è condiviso da tutte e che quest’accensione spirituale è la prova suprema dell’unità della patria.

Queste erano le considerazioni espresse in una ricostruzione dell’«Illustrazione italiana»18 che rimane anche, in virtù delle fotografie, una delle fonti principali per valutare l’ampiezza della partecipazione alle manifestazioni di quei giorni. Gli archivi non conservano valutazioni della questura o della prefettura e quindi è giocoforza servirsi dei giornali e delle immagini. I giornali danno cifre diversissime fra loro. Per l’arrivo di D’Annunzio «Il Messaggero», grande sostenitore del poeta di cui avrebbe pubblicato con molta precisione tutti i discorsi, sparava la cifra di 150.000 persone accorse alla stazione Termini. Per «L’Illustrazione italiana» gli intervenuti erano 100.000, mentre più prudentemente «La Tribuna» ne registrava 60.000. Per la grande manifestazione del 16 maggio «Il Messaggero» non forniva cifre mentre per «La Tribuna» i manifestanti erano 200.000. Per lo stesso giornale il corteo che il 17 si unì alla folla già raccolta in Campidoglio era di 20.000 persone. Il cattolico «Corriere d’Italia», che in genere non dava valutazioni numeriche, parlò questa volta di parecchie migliaia, mentre aveva descritto la manifestazione del 16 come un «immenso corteo» con la coda ancora a via Due Macelli e la testa già a via Sallustiana. Le immagini – spesso con riprese dall’alto del fittissimo mosaico delle pagliette indossate dagli uomini – confermano tutte un’altissima e inusuale partecipazione di folla19. Tenendo conto che la popolazione romana non superava allora i 600.000 abitanti è ragionevole pensare che le giornate di maggiore partecipazione non potessero vedere in piazza più di 50-60.000 persone. Quelle giornate furono in ogni caso eccezionali, come eccezionale fu la fase politica che portò all’intervento. Alcuni storici hanno parlato addirittura di colpo di Stato per riassumere le forzature imposte dal governo e dal re al paese anche sotto la spinta della minoranza interventista. 150

Indotti dall’uso del termine «giornata», è poi possibile spingersi a rintracciare elementi rivoluzionari in questi avvenimenti. Alcune modalità e alcuni rituali, per imitazione o per inconsapevole parodia, richiamavano il linguaggio e le pratiche del modello rivoluzionario. La rivendicazione della purezza per sé e la damnatio degli avversari, la sindrome del complotto e del tradimento. Infine quel parlare in nome del popolo vero, del popolo tutto che fu proprio di ogni discorso rivoluzionario dal giacobinismo in poi. Sul fondo c’era certamente, non solo in D’Annunzio, un elemento di esercizio letterario e retorico, ma allora questo carattere rafforzava il messaggio piuttosto che indebolirlo e contribuiva in modo determinante a definirne le componenti rituali. Roma si colloca non solo come palcoscenico del rito, ma diviene simbolo di conquista, di guerra conquistatrice, di valori essenzialmente militari. Madre generosa di figli audaci, il passato glorioso le impone di farsi maestra di nuove mete. In una ricorrente confusione di simboli Roma è l’Italia tutta, l’Italia per eccellenza.

2. La città e la guerra All’esaltazione dei giorni di maggio seguì una lunga fase di riflusso, di atonia. Molti interventisti erano partiti per il fronte. Anche il sindaco Prospero Colonna, cinquantasettenne, si era arruolato, lasciando la carica al prosindaco Adolfo Apolloni. La vita cercava di rientrare nella normalità. ll fronte era lontano e la città non era interessata da movimenti e passaggi di truppe. Ma molto presto si cominciarono a contare i morti, mentre dalle zone di guerra giungevano i feriti per essere curati negli ospedali romani. La guerra era insieme lontana e vicina. In ottobre il municipio decise di onorare con una tomba comune al Verano 230 caduti romani20. Il 2 novembre 1915, nel giorno della commemorazione dei defunti, una grande cerimonia patriottica si tenne all’Altare della Patria: cerimonia che si è tramutata nell’apoteosi dei figli d’Italia i quali combattendo l’antico nemico, sono caduti con il sacro nome della Patria sulle labbra, con la visione della vittoria negli occhi [...]. 151

Così riferiva la cronaca del «Messaggero»21. In breve lo spiazzo intorno all’altare venne ricoperto da innumerovoli mazzi di fiori deposti dalle madri, dalle vedove, dai bambini delle scuole, dai rappresentanti delle associazioni e dalle autorità, fiori spesso legati da nastrini con i colori italiani, francesi, belgi. L’unanimismo ufficiale di queste occasioni non deve trarre in inganno. Le divisioni tra le forze politiche rimasero per tutti gli anni di guerra quelle già definite dall’antagonismo fra interventisti e neutralisti. Questa divisione si sarebbe riprodotta anche nelle organizzazioni sindacali con la contrapposizione di una Camera del lavoro interventista e di una neutralista22. L’interventismo democratico manteneva lo stato di vigilanza e mobilitazione ergendosi a coscienza morale e a misura dell’impegno dei cittadini e delle istituzioni. Una funzione assolta dagli organi di stampa, come il settimanale «Il Fronte interno», esemplare anche nel titolo, uscito a partire dal luglio 1916 quando il peso della guerra si era fatto meno tollerabile. Ai neutralisti, man mano che il conflitto si prolungava, venivano ridotti gli spazi di espressione del dissenso. I socialisti, mai particolarmente forti e organizzati a Roma, stentavano a dare un seguito alle loro scarse inziative contro la guerra. Una manifestazione organizzata dai massimalisti con il sostegno di militanti dei Castelli che il 20 giugno 1917 doveva giungere fino a Montecitorio fu sciolta dalla polizia. Oltre ad alcuni dirigenti, in quell’occasione furono arrestate ben 200 donne23. Donne e ragazzi alimentarono in quegli anni i nuovi forti contingenti di manodopera sostitutiva dei maschi adulti partiti per il fronte. L’occupazione femminile aumentò del 60,5% durante la guerra, quella maschile diminuì del 18,6%24. I richiamati furono pari al 45% dei lavoratori censiti nel 1911. A soffrirne in particolare fu l’edilizia, con una diminuzione del 65% degli addetti e un’inevitabile stasi produttiva, determinata anche dalle difficoltà di approvvigionamento di materiali e dallo spostamento delle risorse verso altri impieghi. Si riuscì comunque a garantire una certa continuità ai grandi cantieri pubblici, anche per evitare l’accentuarsi della conflittualità sociale in un settore sindacalmente organizzato e in prevalenza vicino alle posizioni neutraliste25. Si svilupparono invece le industrie legate direttamente agli armamenti – fabbriche di proiettili, di shrapnel e granate, polverifici, spolettifici – e altre a bassa specializzazione e ad alto impiego 152

di manodopera. Il settore delle confezioni di divise militari (attivo già precedentemente con grandi ditte come la Fiorentino) assorbì il lavoro di molte donne con un’attività che si poteva svolgere a domicilio, soprattutto per le fasi di cucitura e rifinitura. Si trattava di un importante canale di sostegno per le famiglie dei richiamati, talora gestito in una prospettiva assistenziale all’interno di iniziative che facevano capo a nobildonne romane, come nel caso delle Lavoranti di palazzo Doria. L’impiego femminile più visibile, e contestato, fu quello delle donne tranviere: destava allarme, soprattutto nell’opinione cattolica e moderata, questa presenza femminile a contatto del pubblico e si sottolineavano, con toni irridenti, i rischi per i pedoni derivanti dall’inevitabile imperizia delle manovratrici. Il fenomeno, diffuso anche in altre città italiane26, vedeva impiegate, nel 1918, 304 fattorine e 109 conducenti nell’azienda municipale, 80 conducenti su un totale di 475 addette nella Srto. Con la fine della guerra, nel 1919, l’occupazione femminile venne drasticamente ridotta27. Il numero delle donne aumentò anche nel settore impiegatizio e le nuove dipendenti delle grandi banche, come la Banca d’Italia e il Banco di Roma, riuscirono per gran parte a mantenere l’impiego anche nel dopoguerra, pur costrette spesso in mansioni ripetitive e con limitate possibilità di carriera28. Alla larga mobilitazione delle risorse umane corrispondeva, nella realtà cittadina, un proliferare di comitati e iniziative, spesso macchinose e inefficienti, testimonianza evidente dello sforzo di tradurre in una dimensione organizzativa il nuovo largo coinvolgimento patriottico29. Risultato di complessi equilibri politici, come nel caso del Comitato romano di organizzazione civile, ed espressione delle diverse articolazioni della società, tutte queste iniziative erano in genere tutelate dalle autorità centrali, preoccupate di evitare ogni tipo di conflittualità garantendo la tranquillità della capitale. Anche nell’industria bellica, nella quale erano state sospese la tutela del lavoro minorile e le limitazioni di orario, la direzione militare cercò di evitare e attenuare ogni forma di tensione. Gli unici settori a conservare forme di rivendicazione tipiche dell’anteguerra furono quelli dei trasporti. Ma ogni forma organizzata di protesta venne repressa duramente, talora con l’invio degli agitatori al fronte. 153

L’assenza di una consolidata struttura di fabbrica e il ruolo di città capitale consentirono a Roma di attraversare gli anni di guerra senza manifestazioni clamorose di conflittualità economica e sociale. Ma proprio le sue funzioni di centro dell’amministrazione pubblica facevano ricadere sulla capitale le accuse di ospitare un rilevante numero di imboscati, ben nascosti nelle pieghe della burocrazia. Per i tutori della morale interventista Roma si divertiva troppo. Contraddicendo la necessaria tensione patriottica, caffè, teatri, cinema erano sempre troppo affollati e aperti fino a tardi. Tre nuove sale cinematografiche vennero inaugurate in quegli anni, il Cola di Rienzo nel dicembre 1916, il Corso e il Politeama Margherita nel marzo 1918. Un breve periodo di attenuazione dei divertimenti e della vita mondana si ebbe dopo Caporetto, poi riprese la normalità30. Una normalità che contemplava appunto svaghi e distrazioni per aiutare a superare l’incertezza e l’ansia collettiva legate alla guerra. Una guerra che si poteva guardare anche con distacco e con ironia. Come nelle strofette del sor Capanna, il più noto cantastorie romano dell’epoca: «Er general Cadorna / ha scritto alla reggina: / Si vôi vedé Trieste / compra ’na cartolina». Tutti modi per tenere lontana la guerra che pure era inevitabilmente vicina, foriera di disagi sempre più accentuati, innanzitutto per le ridotte disponibilità alimentari e i prezzi crescenti. «Patata nôva, patata bella, / come te friggevo ne la padella, / mò costi cara e a me perciò me resta / la panza vôta e la patata in testa», così stornellava ancora il sor Capanna31. La scarsità e il rialzo dei prezzi portarono al tesseramento dei generi alimentari. Il pane non doveva essere bianco e andava messo in vendita il giorno successivo alla cottura: due norme volte a ridurre il prezzo e a elevarne – allo stesso peso ma con minore contenuto acqueo – le proprietà nutritive. Negli anni di guerra il consumo di carne, aumentato nel primo decennio del secolo, si dimezzò, quello dello zucchero si ridusse del 45%, mentre si contrasse anche, ma in misura minore, quello del vino. L’indice dei prezzi per un paniere di generi alimentari, calcolato dal ministero dell’Industria per il periodo 1914-1918, registrava per Roma un aumento del 173%, inferiore comunque a quello di Milano e Napoli, dove era stato rispettivamente del 201% e del 187%. Complessivamente il costo della vita crebbe a Roma di circa il 140%32. Dal confronto con al154

tre città è possibile tuttavia sostenere, sulla scorta della ricostruzione di Alessandra Staderini, che la giunta capitolina, «spalleggiata fortemente dal prefetto», riuscì a ridurre i disagi per la cittadinanza, mentre risultò operante, soprattutto a partire dal 1917, «la decisione politica di riservare alla capitale nei limiti del possibile un trattamento privilegiato»33. Queste scelte ebbero effetti diversi a seconda delle componenti sociali. Mentre lo sviluppo delle produzioni belliche, seppure contenuto rispetto alle città industriali, aveva creato nuovi impieghi e nuovi redditi in grado di compensare quelli perduti dalle famiglie dei richiamati, i gruppi sociali più poveri e i percettori di redditi fissi furono i più penalizzati dall’aumento dei prezzi. In particolare gli impiegati dello Stato, fra il 1914 e il 1918, videro dimezzato – e nei gradi superiori più che dimezzato – il valore dei loro stipendi34. Il costo vero, drammatico e permanente lo determinò il numero dei caduti, un numero non definibile con precisione per Roma. Mentre infatti l’Albo d’oro dei cittadini caduti nella guerra registrava 4200 nomi di nati o residenti insieme a 2500 altri morti negli ospedali romani, sulle pareti del monumento ossario inaugurato nel 1931 al Verano vennero incisi 5160 nomi35. Una percentuale sul totale della popolazione romana oscillante fra lo 0,7 e lo 0,9%, mentre la percentuale nazionale fu dell’1,8%, più che doppia, quindi, a conferma del maggiore tributo delle popolazioni rurali alla guerra. A queste vittime si aggiunsero, proprio negli ultimi mesi di guerra, i morti per la spagnola, la terribile epidemia di influenza che raggiunse il suo apice nell’ottobre 1918 con una percentuale di mortalità a Roma superiore a ogni altra grande città italiana. Le cifre ufficiali parlarono di circa 4000 morti, ma un’indagine statisticamente più accurata, che teneva conto dell’eccedenza differenziale di mortalità nei mesi dell’epidemia influenzale (maggio 1918-marzo 1919) rispetto ad analoghi periodi, portò la cifra a 9010, di cui 8193 nel 1918 con un drammatico picco di 4643 morti proprio nell’ottobre. Un tributo di vittime che inevitabilmente pareva collegarsi alla guerra36. È comprensibile dunque il duplice senso di liberazione provato dalla città alla notizia della vittoria. La tensione si sciolse in grandi manifestazioni popolari. Finestre imbandierate, lanternini 155

e lampadine elettriche posti sui davanzali alla notizia della liberazione di Trento e Trieste, per rischiarare una città da tempo parzialmente oscurata per il risparmio energetico e il timore di attacchi aerei37. La mattina del 4 novembre una dimostrazione spontanea si ebbe negli stabilimenti ausiliari dove, secondo il «Corriere della Sera» 30.000 donne e 10.000 operai chiesero di interrompere il lavoro per poi sfilare in corteo fino al Quirinale e alla residenza della regina madre a via Veneto38. Nel pomeriggio la folla si raccolse a piazza del Popolo: di lì un imponente corteo si mosse lungo il Corso fino a piazza Venezia e all’Altare della Patria. Lo spettacolo è grandioso e solenne – scriveva «Il Messaggero» –; e ricorda lo spettacolo di un altro corteo: quello del maggio radioso, quando il popolo di Roma, contro i vili, volle la guerra e già cantava la vittoria di nostra gente; e la ricanta, oggi, che la speranza e l’augurio si sono gloriosamente realizzati [...].

Dalle finestre imbandierate vengono lanciati fiori sulla folla che sfila in preda all’entusiasmo, in un’atmosfera di spontanea fraternizzazione. Durante le frequentissime soste del corteo, si svolgono episodi di improvvisata intimità affettuosa. C’è chi senza essersi mai visti, si abbraccia e si bacia, gridando Viva l’Italia! [...]. All’angolo di via Lata una profuga friulana, bella, bionda e formosa abbraccia e bacia sulle guancie un bersagliere mutilato.

Al corteo partecipano le rappresentanze di innumerevoli associazioni con bandiere e labari, gli universitari con i colorati cappelli goliardici, i mutilati. Si aggiungono militari inglesi e americani, che dalle automobili pronunciano improvvisati discorsi. Il corteo sale al Campidoglio dove il sindaco Colonna tiene un discorso di esaltazione della vittoria e di ringraziamento alle forze armate. Parlano anche due mutilati inneggiando all’esercito glorioso e al popolo «che seppe resistere alle insidie di tutti i traditori», quei traditori, aggiungono in tono minaccioso, «che non dimenticheremo»39. In un’atmosfera di eccitazione emotiva, accentuata di nuovo, come nel maggio 1915, dai rintocchi del campanone, la celebra156

zione si concludeva lasciando intravedere ferite e divisioni non sanate. Iniziava l’epoca della rivendicazione dei meriti e l’attesa delle ricompense.

3. I meriti e le ricompense L’impulso primo e, direi, il colore, a queste dimostrazioni lo davano i ceti medi, professionisti, studenti, impiegati, piccoli borghesi delle attività economiche. Dopo un periodo di eclissi, di discredito, anzi di denigrazione, spesso autodenigrazione, questi ceti tornavano ad occupare il centro della scena ed a rivelarsi per ciò che effettivamentte erano cioè l’ossatura morale, più o meno robusta, della nazione.

Così scriveva, qualche anno dopo la fine della guerra, il grande storico nazionalista Gioacchino Volpe40. Si riferiva alle giornate di maggio, ma il giudizio poteva estendersi anche alle manifestazioni per la vittoria. A Roma la percezione di sé come dell’«ossatura morale della nazione» era largamente diffusa fra i dipendenti pubblici, in quella che allora si definiva e si autorappresentava come la «classe degli impiegati». Non solo, ma si era fatta strada la convinzione che gli impiegati fossero «la classe che ha sopportato e che sopporta più di ogni altra il peso della nostra guerra», come si esprimeva Barzilai in un comizio del marzo 191741. La particolare disponibilità al sacrificio degli impiegati era stata già messa in luce da Meuccio Ruini – deputato radicale, grande burocrate e sostenitore della riforma della pubblica amministrazione – alla fine del 1915 di fronte all’assemblea dell’Istituto per le case degli impiegati dello Stato di cui era presidente: un istituto che aveva da poco portato a termine a Villa Caetani, fra via Salaria e piazza Verdi, il primo importante quartiere di alloggi per i dipendenti statali42. Gli impiegati non si lamentano che si siano voluti raschiare i loro magri stipendi, e ritardar le promozioni [...]. Quando è l’ora dei sacrifici per il bene della patria, i sacrifici non si discutono, e non si commisurano con metro sospettoso ai sacrifici di altri ceti. Se ci si dovesse colpire anche più gravemente, anche più di ogni altro, ebben sia. 157

Il patriottismo degli impiegati era fuori discussione. Travet ha lasciato le maniche d’alpacâ, e si è fatto soldato, sul Carso, e dai mucchi di carta e dalle paperasses è balzato innanzi, con impeto eroico e stupendo, a dirompere col petto e col sangue le trincee nemiche43.

Rivolto ad una platea dove erano già visibili i segni delle ferite e del lutto, Ruini ammonì che il patriottismo non si misurava solo sul campo di battaglia. Il sangue purpureo dei nostri compagni di lavoro, caduti in trincea, non è il solo olocausto che faremo alla patria. La serviremo ogni dì, con più amore, con più fervore nelle occupazioni più modeste della umile vita, in ufficio, fuori d’ufficio. E dall’alveare delle nostre case, oggi come sempre, escirà un grido solo di benedizione e d’augurio: per l’Italia nostra44.

La conclusione vittoriosa del conflitto non doveva far dimenticare il sacrificio. E il grande e pervasivo fenomeno della costruzione dei monumenti ai caduti rispose all’urgenza di una rielaborazione pubblica del lutto e alla necessità di rendere permanente il ricordo di chi era morto gloriosamente per la patria. L’armistizio aveva appena certificato la fine della guerra che giornali come «Il Messaggero» mettevano in luce il particolare ruolo dei caduti e delle loro famiglie: [...] o tutti voi che avete dato alla Patria un figlio, un padre, uno sposo, un fratello, levatevi oggi in piedi; voi giganteggiate su tutti gli altri cittadini; è l’ora vostra; [...] è l’apoteosi dei vostri gloriosi estinti che si celebra da un capo all’altro dell’Italia. Un monumento di gratitudine e di ammirazione, che sfiderà i secoli, sorgerà per i nostri prodi caduti nella storia d’Italia [...]45.

Ovunque sorsero comitati e presero avvio iniziative per ricordare nel marmo e nel bronzo le gesta dei caduti e celebrare la vittoria. Ben oltre un centinaio furono le iniziative nella capitale: rioni e quartieri, associazioni, scuole, singole categorie di lavoratori vollero ricordare i loro morti46. Per quanto la mutata sensibilità patriottica e l’incuria dei posteri abbiano lasciato cadere su quei 158

monumenti il velo dell’oblio rendendoli quasi invisibili pur nella loro ostentata visibilità, il fenomeno è, se non altro per le sue dimensioni, largamente noto. Meno noti sono i monumenti e le lapidi monumentali poste nei ministeri e negli edifici della pubblica amministrazione in memoria degli impiegati caduti. A Roma questi monumenti furono i primi ad essere promossi, i primi ad essere inaugurati. Il 2 novembre 1919 nel cortile del ministero delle Finanze fu scoperta una lapide monumentale dedicata ai 187 funzionari caduti. Lo stesso ministro Filippo Meda, in carica fino al giugno precedente, ne aveva dettata l’iscrizione: Perché il ricordo si eterni / dei propri funzionari caduti / sul campo dell’onore / l’Amministrazione delle Finanze / i nomi raccoglie e consacra / in questi marmi dicenti / gratitudine gloria rimpianto.

Seguirono nel corso di un anno i monumenti nei ministeri del Tesoro, dell’Agricoltura, Industria e Commercio, dei Lavori pubblici. Una grande lapide adorna di una Vittoria alata fu posta in via del Seminario al ministero delle Poste per ricordare 556 postelegrafonici caduti. In Comune, lo stesso sindaco Adolfo Apolloni, scultore, disegnò quella per i dipendenti comunali inaugurata nel novembre 1920. Fra le primissime realizzazioni vi fu anche la lapide apposta in via Salaria su uno degli edifici di Villa Caetani dall’Associazione inquilini dell’Istituto cooperativo case impiegati dello Stato. Nell’iscrizione di Luigi Luzzatti, uno dei padri dell’edilizia residenziale pubblica, la redenzione della patria era posta a «fondamento della redenzione sociale»47. Questa precoce e vistosa esibizione dei meriti patriottici e delle aspettative degli impiegati si accompagnò ad una durevole mobilitazione sindacale dei dipendenti statali durata oltre due anni e culminata nel lungo sciopero del febbraio-maggio 192148. Un risultato incontrovertibile di queste pressioni insieme simboliche e corporative, tale da configurare una relazione stringente fra meriti e ricompense, fu la soluzione adottata a Roma al problema della casa, uno dei motivi di maggior disagio degli impiegati dello Stato. Nel giugno 1919 fu varato un decreto che consentiva l’accesso ai mutui della Cassa depositi e prestiti, la banca del Tesoro, e forniva un contributo statale per gli interessi, alle 159

cooperative che costruissero case in proprietà indivisa e inalienabile. I benefici venivano così estesi dai grandi organismi, come l’Icp, alle iniziative di base degli impiegati. Nel novembre 1919, nel testo unico sull’edilizia popolare ed economica, furono poi inseriti provvedimenti urgenti che mettevano immediatamente a disposizione della città di Roma finanziamenti per 40 milioni di lire. L’anno successivo la pressione degli impiegati organizzati, sotto la guida della cooperativa «La casa nostra», ottenne altri due importanti risultati: l’estensione dei benefici sui prestiti e gli interessi anche alle cooperative per case in proprietà individuale e la facoltà di non sottostare alle prescrizioni urbanistiche, mantenendo quindi di fatto le aree già precedentemente acquisite senza perdere le garanzie di urbanizzazione a carico del Comune. Il successo era dovuto non solo all’ampiezza del movimento di mobilitazione degli impiegati, ma anche all’efficace sistema di protezioni clientelari che le cooperative erano in grado di ottenere all’interno delle singole amministrazioni e al coinvolgimento nelle iniziative dei gradi alti e medi della burocrazia. In breve tempo oltre cento cooperative ebbero accesso ai finanziamenti. Un bilancio effettuato nel giugno 1922 attestava che i tre quarti dei finanziamenti dello Stato per le case agli impiegati erano concentrati sulla capitale. Vane, anche se insistentemente presenti su alcuni organi di stampa, furono le critiche per quello che veniva ormai definito il sistema della «casa gratis» per gli impiegati. Ma anche le opinioni critiche divergevano. Einaudi era invece perplesso di fronte alle iniziative a proprietà indivisa che non garantivano la necessaria cura degli alloggi e non favorivano investimenti duraturi. Col tempo anche uno degli antesignani del movimento come Ruini si sarebbe convertito alla diffusione della proprietà individuale. La giustificazione sociale e politica di questa gigantesca operazione a favore degli impiegati statali era quella formulata da Maggiorino Ferraris già nel 1908 nella fase iniziale e ripresa largamente anche nel dopoguerra: «a Roma risolvendo il problema degli alloggi degli impiegati si risolve il problema degli alloggi dell’intera cittadinanza»49. Gli impiegati si sarebbero trasferiti nelle nuove case, lasciando libere per i ceti popolari quelle fino allora occupate. In realtà i risultati di questa operazione non si sarebbero risolti in un vantaggio per i ceti più deboli. Anche i salariati generici dello 160

Stato ebbero difficoltà ad inserirsi nel sistema delle cooperative, mentre categorie corporativamente più organizzate come i ferrovieri e i postelegrafonici (o i tranvieri) videro meglio tutelati i loro interessi. I ferrovieri godevano già di una legislazione speciale, i postelegrafonici ottennero invece proprio in questi anni le loro case al quartiere Appio (Tuscolano) e con il complesso di Villa Riccio al Flaminio. Nel complesso fu innescato un meccanismo di rincorsa al privilegio che non sarebbe stato agevole arginare. La somma dei vantaggi particolari accumulatasi a favore delle cooperative romane era ulteriormente confermata dall’assai più elevato costo medio a vano, 24.106 lire rispetto ad altre situazioni come Milano, dove era di 14.452 lire. Un costo che si giustificava con la consistente presenza di cooperative di lusso come la Ammiraglio Del Bono ai Parioli fra via Mangili e via Mercati, la Vis Unita Fortior lungo Villa Paganini e via Capodistria50, gli stessi villini della città giardino Aniene a Montesacro e le case costruite per i propri impiegati dall’Unione edilizia nazionale, l’ente statale, sorto per la ricostruzione di Messina dopo il terremoto del 1908 e preposto alla realizzazione di molti complessi edilizi romani. Tuttavia anche le cooperative più ricche erano spesso prive di alcuni servizi moderni, come gli ascensori o il riscaldamento centralizzato che sarebbero stati installati solo in seguito. A Roma le cooperative riflettevano le articolazioni gerarchiche, di reddito, di cultura e di stili di vita presenti nell’amministrazione pubblica. Non solo, ma la forza contrattuale e corporativa dei vertici della burocrazia consentiva di aggirare i vincoli di costo fissati dalle norme, per Roma comunque più alti, e di ottenere facilmente deroghe dagli organi di controllo. Il nuovo paesaggio urbano composto di grandi palazzi, di più modesti edifici e talora di villini sparsi, distribuito prevalentemente nei quadranti nord, est e sud-est della città, si sarebbe venuto completando nel corso del decennio 1920-1930. Un paesaggio destinato a conferire un’impronta definitiva alla Roma novecentesca testimoniando dei traguardi raggiunti dalla lunga ascesa e dal riconoscimento sociale dei ceti medi, della piccola e media borghesia impiegatizia divenuta l’ossatura anche visibile della città. In un arco di tempo più breve il riorientamento politico di questi ceti avrebbe contribuito alla radicale trasformazione del paesaggio politico locale e nazionale. 161

4. Dal nazionalismo al fascismo Il 31 ottobre 1922 le camicie nere fasciste, al termine di quella rivoluzione simulata che fu la marcia su Roma, sfilarono da Villa Borghese e piazza del Popolo lungo il Corso fino a piazza Venezia dove, fra due ali di camicie azzurre nazionaliste, portarono il loro omaggio all’Altare della Patria. Fu, per Roma, una sorta di passaggio di consegne. Il riconoscimento ai vincitori e alla nuova forza egemone da parte di quanti avevano, a partire dal 1913, guidato l’offensiva contro le forze democratiche e socialiste in città. Trattare i quattro anni dal 1919 al 1922 all’insegna del passaggio dal nazionalismo al fascismo sarebbe senza dubbio una forzatura. Il panorama politico romano era certo assai più articolato. Ma la dimensione patriottica nazionalista – in un significato più ampio del semplice riferimento al movimento nazionalista – ne rappresentò l’elemento di movimentazione più importante e quello alla fine vincente. La guerra e gli atteggiamenti nei confronti della guerra erano ancora il discrimine della vita politica, il crinale su cui si misuravano diversità e antagonismi irriducibili o si costruivano accordi temporanei e alleanze durature. La situazione politica rimase a lungo instabile, così come quella sociale ed economica, disseminando incertezza, emotività e forme di aggressiva eccitazione. Nell’estate del 1919 si ebbero tumulti contro il carovita con tre vittime fra i dimostranti, una fra le forze dell’ordine, quasi 200 feriti e 892 arresti51. In una situazione fluida e conflittuale, le elezioni del novembre 1919, le prime tenute con il sistema proporzionale, consentirono di misurare e verificare i rapporti di forza in città. A Roma gli aventi diritto al voto erano 157.093, ma si presentarono alle urne solo 46.593 elettori, il 29,7%. A Milano furono il 65,0%, a Torino il 58,4%, a Firenze il 51,7%, mentre a Napoli si ebbe una percentuale ancora più bassa, il 27,252. Nel resto della regione Lazio, invece, corrispondente per intero alla provincia di Roma e riunita in un unico collegio elettorale, la partecipazione al voto fu più che doppia, il 56%, per un valore medio complessivo del 45,5%. L’astensionismo nella capitale ebbe in parte una ragione tecnica, la mancata consegna di 51.709 certificati d’iscrizione alle liste elettorali53. Ma vi fu, con ogni probabilità, anche un forte disorientamento politico dell’elettorato moderato di fronte 162

alle presenza di due liste liberali. Accanto al Partito liberale democratico si presentò infatti il Partito liberale nazionalista o Alleanza nazionale. Mentre il primo ottenne nell’intero collegio, con il 24,1%, quasi il doppio dei voti dei liberalnazionali attestati al 12,5%, a Roma questi ultimi superarono, seppure di poco, i liberaldemocratici con il 19,4% rispetto al 18,2%. Altra piccola ma significativa differenza fra il voto complessivo del Lazio e il voto di Roma si ebbe a proposito dei risultati di popolari e socialisti. I cattolici del Ppi ottennero nella regione il 25,8% riuscendo come il primo partito, mentre a Roma riportarono il 23,1%; i socialisti, invece, secondi a livello regionale con il 24,3%, riuscirono primi a Roma con il 26,4%. Anche l’ultima delle liste presenti, il Fascio repubblicano-socialista-combattenti o Fascio d’avanguardia ottenne nella capitale un risultato migliore di quello medio, il 12,9% rispetto all’11,7%54. Il maggior successo personale, per numero di preferenze rispetto a ogni altro candidato, l’ottenne Federzoni, il leader nazionalista, a conferma di una notevole visibilità e di un largo seguito sulla piazza romana. Vittoria socialista, ottimo risultato per i popolari, divisioni in campo liberale ma con un maggior dinamismo della lista innervata dai nazionalisti, sconfitta dei repubblicani, dei riformisti e dei combattenti: questo era il significato delle elezioni nella capitale, dove gli scarti relativamente modesti fra le maggiori forze politiche lasciavano una situazione indeterminata. Nel 1920 la contrapposizione politica si tradusse spesso in gravi scontri di piazza, talvolta in scontri armati con la forza pubblica. L’anno si aprì con una serie di scioperi nei servizi pubblici: tranvieri, postelegrafonici, ferrovieri. Nell’opinione pubblica moderata si diffuse una marcata insofferenza, mentre i nazionalisti e le associazioni antibolsceviche boicottarono gli scioperi organizzando servizi sostitutivi. Si manteneva elevata la mobilitazione sulla questione fiumana e dalmata. Il 24 maggio, dopo una manifestazione tenuta nel pomeriggio all’università, un corteo di 300 studenti circa cercò di raggiungere prima piazza Colonna, poi il Quirinale. Respinti e separati, in parte si dispersero, in parte si raggrupparono in via Nazionale, dove intralciarono il traffico e improvvisarono un sit-in sulla scalinata del Palazzo delle Esposizioni. Erano passate da poco le 20, i caffè erano affollati, i passanti numerosi. Dopo ripetuti ma inascoltati inviti a sciogliersi, un ufficiale della 163

Guardia regia venne colpito al volto da un corpo contundente. All’improvviso ebbe inizio una sparatoria: alcuni borghesi spararono per primi, le guardie regie risposero. Giornali come «Il Messaggero» parlarono di 300 colpi di rivoltella. «L’Idea nazionale» sostenne che le guardie regie si erano sparate reciprocamente addosso55. Si ebbero otto morti, cinque guardie e tre passanti, fra cui una ragazza sedicenne, e ventuno feriti. Pur nella confusione e nella imprevedibilità dell’episodio, le responsabilità dei dimostranti nazionalisti sembrarono evidenti. Seguirono arresti fra i dalmati e i fiumani. Nitti fu attaccato duramente dall’«Idea nazionale» per l’illegalità degli arresti e per la tesi di un complotto dalmata sostenuta dalla questura56. L’impiego o anche la semplice ostentazione delle armi da fuoco – ma non si contavano i pugnali, i bastoni, i bastoni animati – erano divenuti prassi corrente anche a Roma. A giugno e a luglio fu proclamato a due riprese lo sciopero generale. In agosto e settembre gli operai elettrici facevano mancare la luce dalle 22 alle 24. A settembre anche a Roma si ebbe qualche episodio di occupazione delle fabbriche. Il successo elettorale socialista dell’anno precedente e il massimalismo rivoluzionario imposero nel corso del 1920 una riorganizzazione delle forze moderate. L’antisocialismo e l’antibolscevismo presero toni sempre più radicali in sintonia con la radicalizzazione dello scontro politico e sociale nel paese. I direttori dei maggiori quotidiani romani si impegnarono direttamente patrocinando la formazione di un blocco di tutte le forze liberali e moderate con i nazionalisti in vista delle elezioni amministrative previste per la fine di ottobre 1920. Ai primi di settembre «Il Messaggero», «La Tribuna», «Il Giornale d’Italia», «L’Epoca», «L’Idea nazionale», «Il Tempo», «Il Giornale del Popolo» diedero vita all’Unione per le elezioni amministrative cui aderirono anche il Partito democratico-costituzionale, i radicali, i socialisti riformisti ed esponenti del combattentismo57. Olindo Malagodi, direttore della «Tribuna», presiedette il Comitato dei direttori che organizzava l’attività di propaganda dei giornali. Ordine e patriottismo erano gli obiettivi politici e le virtù civili da perseguire. Disciplina nel recarsi al voto era l’invito pressante che veniva dai quotidiani. Il significato della votazione di oggi si eleva sulle meschine competizioni di parte: la battaglia è impegnata tra gli assertori e i negatori della Patria. Cittadini, alle urne, come in un pellegrinaggio di fede! 164

Con questo titolo apriva la prima pagina «Il Messaggero» del 31 ottobre 1920. E in cronaca insisteva: «La disciplina degli elettori romani salvi il Campidoglio dall’onta bolscevica!». Rispetto alle politiche dell’anno precedente questa volta la partecipazione fu decisamente più elevata, il 47,8%58. L’Unione vinse con oltre il 46% dei suffragi superando i socialisti, che ottennero il 24,7%, di quasi 20.000 voti. Al terzo posto si classificarono i popolari con il 19%, mentre la quarta lista, quella dei repubblicani, riportò il 6%59. In virtù del sistema maggioritario l’Unione ottenne 64 seggi, mentre i 16 destinati alla minoranza andarono ai socialisti. Fra gli eletti dell’Unione c’era, oltre ad Attilio Susi, deputato laziale per la lista dei combattenti ed ex socialista, anche il filosofo Giovanni Gentile, mentre sindaco fu nominato il giurista e senatore Luigi Rava, già ministro ed esponente dei democratici costituzionali nell’anteguerra60. Le forze politiche romane si presentarono nello stesso schieramento delle amministrative anche alle elezioni politiche del 15 maggio 1921. In più c’era il neonato Partito comunista che ottenne il 5,9%, risultato che pregiudicava solo in parte quello dei socialisti: questi con il 23,1% perdevano poco più di tre punti rispetto alle politiche del 1919. Più vistoso il calo dei popolari scesi al 15,3%, mentre, con il 9,6%, i repubblicani miglioravano il risultato delle elezioni comunali. Una piccola formazione di ex combattenti riuniti nel Partito della vittoria riportò l’1,3%. L’Unione nazionale, ossia i liberali delle varie tendenze, i nazionalisti e i fascisti, con il simbolo dell’aquila col fascio dei littori sormontata dalla stella d’Italia, ottenne il 43,4% un risultato migliore di quello medio del Lazio. Dei quindici deputati della circoscrizione sette andarono all’Unione, fra i quali, oltre a Federzoni, il più votato, era il fascista Giuseppe Bottai, la cui elezione fu tuttavia annullata nel 1922 per ragioni di età. I socialisti ebbero quattro seggi, i popolari tre, i repubblicani uno61. A Roma i votanti furono 67.245, pari al 42,5% degli iscritti. Il voto rispettò la composizione prevalente dei singoli rioni e quartieri, borghesi o popolari, e le specifiche tradizioni. Il blocco liberale prevalse a Monti, Trevi, Colonna, Sallustiano, Ludovisi, Macao, Campo Marzio, Pinciano, Nomentano, Pigna, Sant’Eustachio, Prati. I socialisti al Prenestino-Tuscolano, Tiburtino (San Lorenzo), Appio-Latino, Celio, Testaccio, Ostiense e Santa Cro165

ce dove erano le case dei ferrovieri e dei tranvieri. I comunisti registrarono il numero più alto di voti al Tiburtino con il 13,7%, all’Aurelio e Gianicolense e Prenestino-Tuscolano. I liberali ottennero i migliori risultati al Sallustiano con il 67,5%, a Trevi e in Prati. I socialisti al Prenestino-Tuscolano con il 54,7%, al Tiburtino e all’Ostiense. I popolari a Borgo con il 27,6%, a Pigna e Sant’Eustachio. I repubblicani a Testaccio-San Saba con il 23,5%, Trastevere e Appio-Latino. Nelle due sezioni di via Salaria, dove votavano gli impiegati residenti nelle case dell’Iccis, l’Unione raccolse il 54,5% dei voti, i socialisti il 20,5%, i popolari l’11,2%, i repubblicani l’8,2%62. Il successo dell’Unione avvenne all’insegna del richiamo alla Patria. Un patriottismo che consentiva di riassorbire le diversità dello schieramento e di occultare le frange estremiste rappresentate dai nazionalisti e dai fascisti. Ma le tornate elettorali rappresentarono solo le tappe transitorie di una partita politica che aveva in palio, grazie al nuovo protagonismo fascista, la sconfitta militare degli avversari politici. Roma non svolse un ruolo da protagonista in queste vicende, ma rappresentò la tappa finale, e solo per questo decisiva, della conquista del potere. La conflittualità della piazza romana presentò una serie di caratteri particolari. Forse l’aspetto più originale fu la lunga, endemica mobilitazione degli impiegati, spesso articolata per categorie, tesa a recuperare valore reale agli stipendi colpiti dall’inflazione, ad ottenere l’orario di lavoro continuato, a premere per l’assunzione di un vasto precariato63. Un altro settore di spiccata combattività fu quello dei servizi pubblici, tranvieri e postelegrafonici, per tradizione uno dei più sindacalizzati. Sia gli uni che gli altri furono bersaglio delle violenze nazionaliste e fasciste. Non è un caso che via della Vite, sul retro delle Poste centrali, dove era l’ingresso degli addetti, divenisse meta ricorrente delle spedizioni punitive e luogo di scontri. Non ebbe invece grande risalto, data la modesta struttura dell’industria meccanica romana, l’agitazione dei metalmeccanici, culminata nell’occupazione delle fabbriche del settembre 1920. Anche nella capitale se ne registrò qualche caso. Fra le prime officine ad essere occupate furono la Fatme (apparati telefonici) che aveva 250 operai, la Focis (casseforti), la Sacer (costruzioni elettro-meccaniche)64. Ma l’agitazione, che si estese nel corso di quel 166

mese, non provocò gravi traumi per la vita economica e sociale né per l’ordine pubblico65. La capitale fu invece protagonista nella nascita e prima organizzazione degli Arditi del popolo. In tempo di guerra gli arditi avevano costituito reparti scelti caratterizzati da grande mobilità, abilità e spregiudicatezza nell’uso delle armi, sprezzo ostentato del pericolo, insofferenza per la disciplina militare. Nel dopoguerra furono all’origine delle prime milizie armate nazionaliste, fasciste e dannunziane e ne innervarono le formazioni fin dall’inizio. Gli Arditi del popolo furono la risposta di sinistra alle milizie di destra: ma la comune origine si conservava nei comportamenti, nei simboli, persino nei canti, che avevano la stessa musica ma parole diverse. Gli Arditi del popolo romani, guidati dal tenente Argo Secondari, un odontotecnico, raggiunsero nell’estate del 1921, a pochi mesi dalla costituzione, la loro massima forza, reclutati fra militanti anarchici, repubblicani, socialisti, comunisti. Le cronache di una grande manifestazione popolare antifascista del 6 luglio 1921 all’Orto botanico, sul Celio, parlarono della forte e confortante presenza degli Arditi del popolo: per alcuni sarebbero stati 2000, per altri 5000 – cifra data da Lenin riferendone a una riunione di delegati della Terza Internazionale – in ogni caso alcune migliaia. È tutta una giovinezza rude, magnifica, non corrotta dalla sala affumicata dei caffè e dai ritrovi notturni dai quali provengono molto spesso centurie cosiddette patriottiche; è la giovinezza temperata dal lavoro delle officine e delle impalcature, la giovinezza su cui deve basarsi l’avvenire delle nazioni e degli stati [...]66.

Di lì a poco l’ostilità dei partiti ufficiali della sinistra e la repressione del governo Bonomi avrebbero scompaginato le file degli arditi. Essi riuscirono tuttavia in più di una circostanza ad opporsi alle azioni fasciste, a rintuzzarle efficacemente e a proteggere i quartieri operai. Il quartiere che più si oppose alle squadre fasciste fu quello di San Lorenzo. La sua resistenza, sospinta e alimentata dalle tradizioni e ingigantita dalla memoria, è divenuta leggendaria e tale da costituire un elemento fondante dell’identità del quartiere. Il primo scontro avvenne nei giorni del congresso fascista all’Augusteo, 167

nel novembre 1921, quando un ferroviere fu ucciso dalle camicie nere in arrivo suscitando la risposta dei militanti di sinistra che portò alla morte di un fascista. Seguì, il 24 maggio 1922, la cosiddetta «battaglia di San Lorenzo». Quel giorno un grande corteo patriottico, nazionalista e fascista, proveniente dalla caserma Lamarmora, attraversò il quartiere verso il Verano per tumularvi le spoglie di Enrico Toti. Il passaggio dei fascisti inquadrati suonò come una provocazione. Dalle finestre partì qualche sparo, fascisti e forza pubblica replicarono, intervennero anche le autoblindo per un conflitto a fuoco che durò a lungo, fino a notte. La sezione socialista di via dei Sardi fu distrutta, si contarono tre morti e oltre quaranta feriti. Infine nei giorni della marcia su Roma, il 30 ottobre 1922 la colonna abruzzese-marchigiana guidata da Bottai proveniente dalla Tiburtina fu attaccata e si scatenò di nuovo un conflitto a fuoco alimentato soprattutto dalle guardie regie e dai fascisti, che fecero sette morti67. Altri episodi sparsi si ebbero in quei giorni, localizzati in diversi punti della città, in Prati, al Nomentano, alla stazione, in via della Croce Bianca nei pressi della Camera del lavoro, con attacchi a gruppi di operai e uccisioni indiscriminate da parte dei fascisti di supposti oppositori. Argo Secondari, assalito nella sua abitazione di via Sicilia, rimase gravemente ferito alla testa68. San Lorenzo e in minor misura Trionfale, dove erano forti nuclei di operai addetti alle fornaci di Valle Aurelia, furono i luoghi di una sistematica resistenza operaia e di sinistra. Due contrapposizioni periferiche mentre il centro della città rimaneva invece aperto alle scorrerie fasciste, grazie anche alla protezione della forza pubblica. In realtà il fascismo romano, germinato dal futurismo e dall’arditismo, stentò ad organizzarsi, percorso com’era da divisioni interne e soprattutto privo di grande seguito. L’assenza di personalità egemoni – non erano tali né Gino Calza Bini, né Ulisse Igliori, né Italo Foschi, mentre Bottai era forse ancora troppo giovane – consentiva ai nazionalisti di mantenere l’iniziativa grazie anche alla presenza di personaggi come Federzoni, un leader di livello non solo locale. Roma fu invece, e non a caso, protagonista nell’elaborazione di nuove e originali forme di ritualizzazione politica legate alla guerra, alla vittoria, al mito dei caduti. Nel 1919 i rituali della celebra168

zione della vittoria non erano stati ancora definiti. Per il 21 aprile il sindaco Colonna aveva pensato di far ripetere ai rappresentanti di tutti i reggimenti il percorso trionfale degli antichi romani dalla via Sacra al Campidoglio. Ma la cerimonia fu annullata e furono smontati i ponti in legno preparati per consentire l’ascesa69. In realtà le lacerazioni sui temi della guerra erano ancora così aperte da impedire che la ricorrenza della vittoria di novembre acquisisse grande risalto. A Roma vi furono una cerimonia al Verano e una a via Veneto, ribattezzata quel giorno col nome di via Vittorio Veneto. Si era invece mantenuta la tradizione, iniziata nel 1915, del pellegrinaggio all’Altare della Patria il 2 novembre con la deposizione dei fiori e delle corone in memoria dei caduti. L’anno successivo, alla vigilia delle amministrative del 31 ottobre, un grande corteo di sostenitori dell’Unione prese le mosse da piazza del Popolo verso piazza Venezia. Era aperto da una banda dietro la quale seguivano le società dei reduci, i mutilati, i decorati al valore, gli arditi e i Fasci di combattimento; in un secondo gruppo i cittadini che rivestivano cariche elettive e i candidati dell’Unione; quindi i rappresentanti dei partiti politici; infine gli esponenti dei sindacati, delle associazioni economiche, delle società sportive, delle organizzazioni operaie. Il corteo si concluse all’Altare della Patria con un duro discorso del senatore Alberto Bergamini, direttore del «Giornale d’Italia», contro la minaccia bolscevica e con il giuramento patriottico, la cui formula suonava: Per il vostro onore di uomini e di italiani, per le tradizioni meravigliose e pure del nostro Paese, per le glorie nuove degli eroi recenti, per le morti e i dolori di guerra, per le ansie di 40 milioni di fratelli giurate che farete salva la Patria70.

Questa manifestazione politico-patriottica precedeva di qualche giorno la prima grande celebrazione della vittoria del 4 novembre. In quella giornata una solenne cerimonia si tenne all’Altare della Patria dove, al termine di un corteo partito dal Quirinale, fu scoperta una corona in bronzo dono delle madri dei caduti e il re decorò le bandiere dei reggimenti. [...] l’Italia per mani vostre, o Maestà – disse il ministro della Guerra Bonomi –, premia il valore della sua gente, il valore dell’esercito e 169

dell’armata [...] il premio ambito consolerà nelle loro tombe i morti, conforterà nel loro lavoro i vivi. Ma più li rinfrancherà il sapere che l’Italia celebrando qui la sua Vittoria intende procedere sicura, fiduciosa di sé e del suo avvenire nel cammino che il valore dei suoi figli le ha dischiuso71.

L’atmosfera dominante fra i partecipanti e il folto pubblico fu di entusiasmo e di commozione, suggerivano le cronache. Ma l’Italia, al di là degli auspici, rimaneva lacerata e divisa, né bastavano le edulcorate prospettive disegnate da Bonomi a riconciliarla. L’assenza del presidente del Consiglio Giolitti dalla cerimonia pesava: d’altro canto la sua presenza sarebbe stata imbarazzante. Per molti l’Altare della Patria rimaneva un simbolo di parte. E lo era certamente per quanti lo avevano eletto a testimone del loro specifico patriottismo. Alla vigilia delle elezioni politiche del maggio 1921, lo schieramento di centro-destra, l’Unione nazionale, organizzò di nuovo una manifestazione all’Altare della Patria che fosse insieme un atto di fede e un giuramento. Parlarono Bottai, Dudan e altri, ma anche questa volta l’oratore principale fu Bergamini. Poco prima, durante un comizio al teatro Costanzi, aveva esaltato le nuove forze in grado di salvare l’Italia: [...] eccoci qui, liberali, nazionalisti, democratici, radicali, fascisti; tutti animati riscaldati infervorati da un solo sentimento. Le vecchie e onorate bandiere di vecchi partiti tante volte in urto fra loro [...] sono qui congiunte, intrecciate, confuse alle nuove e splendenti bandiere di quel nazionalismo ogni giorno più vigoroso e combattivo e di quel fascismo che la nostra terra, eternamente viva, sana e gagliarda, ha espresso come un miracolo nell’ora del periglio quando tutto sembrava decadere e precipitare e dissolversi72.

Più tardi parlando dall’Altare, dopo aver ricordato che «dove furono i Gracchi non vi è posto per Lenin, per Trotzki, né per i loro seguaci italiani», Bergamini rivendicò nuovamente la positività dell’alleanza con il fascismo: [...] si dice che noi difendiamo una classe, un partito: noi difendiamo l’Italia che è al di là dei partiti. Si dice che la borghesia abbia compiuto la sua missione; che è sorpassata, che è finita. Non è vero. Essa è più 170

viva che mai ed ha la coscienza della sua forza e della sua funzione. Né il popolo è ubbriaco e traviato dalle false dottrine; quando la Patria parve minacciata fu proprio dalla borghesia e dal popolo che poté prorompere quell’ondata di fascismo vera manipolazione di energia e volontà italiana che ha spaventato la dittatura socialista73.

Il monumento a Vittorio Emanuele II, divenuto ormai stabilmente Altare della Patria, tornava ad essere il palcoscenico di una rappresentazione simbolica, l’unione patriottica contro i nemici della nuova Italia, codificata in un giuramento e atto di fede. È importante notare come questa trasformazione del ruolo del monumento avvenga sotto la spinta del patriottismo nazionalista prima della nuova consacrazione culminata il 4 novembre del 1921 con la traslazione della salma del milite ignoto74 al centro dell’altare, al di sotto della statua (ancora in gesso) della dea Roma75. La scelta di quel luogo simbolo per la tomba dell’ignoto appare quindi come il risultato di due confluenti «invenzioni»: la cerimonia del ricordo e della celebrazione dei caduti iniziata il 2 novembre 1915 e il giuramento di una nuova Italia nata dall’interventismo, dall’impegno bellico e dalla vittoria. La rilevanza del richiamo alla vittoria determina anche la nascita, proprio a partire dall’estate del 1921, della nuova denominazione di «Vittoriano», in cui confluivano il nome del gran re e il ricordo della vittoria militare76. I primi ad impossessarsi, già pochi giorni dopo, della nuova più larga, e ora finalmente compiuta, dimensione simbolica in tutta la sua ricca polisemia furono i fascisti, che, terminato il loro congresso di Roma, quello della nascita del partito, il 10 novembre 1921 portarono il loro omaggio all’Altare della Patria, prima di sfilare all’Esedra davanti a Mussolini. Di nuovo, a meno di un anno, la conclusione della marcia su Roma al Vittoriano testimoniava come il fascismo si impossessasse politicamente e simbolicamente della capitale e insieme dell’Italia di Vittorio Veneto.

VI

Roma fascista

1. Ordine e amministrazione Il 30 ottobre 1922 il sindaco di Roma, Filippo Cremonesi, si recò in via Ludovisi all’hotel Savoia, dove alloggiava Mussolini, per recare l’omaggio della città al nuovo presidente del Consiglio poche ore dopo il suo insediamento1. Il 2 dicembre Mussolini ricambiava la visita in Campidoglio: in quell’occasione ebbe modo di evocare «il senso di alta riverenza» per la romanità e «la coscienza salda ed attiva che [era] in lui, del prestigio e della singolare funzione della capitale dello Stato italiano»2. Roma, nella sua funzione politica in Italia, ha un’importanza ben superiore a quella che le altre capitali hanno negli altri Stati. È un organo essenziale dello Stato e la sua amministrazione deve essere considerata né più né meno che un ministero3.

Il reciproco omaggio non prefigurava la nascita di un rapporto equilibrato fra le due figure istituzionali. Adombrava anzi, fin dall’inizio e in stretta dipendenza dall’idea di Roma coltivata da Mussolini, un cambiamento rapido e radicale dell’amministrazione capitolina. Una trasformazione fondata prima sull’esautoramento degli organi elettivi, Consiglio comunale, sindaco e giunta, poi sulla nomina di un commissario, infine sulla creazione di una nuova autorità centrale dell’amministrazione, il governatore, dotato di tutti i poteri attribuiti precedentemente al Comune e di un alto valore di immagine, ma politicamente debolissimo per la diretta dipendenza dal ministro dell’Interno, di fatto da Mussolini stesso. 172

Questa trasformazione avvenne per tappe e si concluse fra il 1925 e il 1926. Nel frattempo la conflittualità sociale e sindacale si era andata spegnendo in città, nonostante qualche episodio, anche significativo, di combattività di singole categorie: i tranvieri, i ferrovieri e soprattutto gli edili diedero vita ancora nel 1923 e nel 1925 a scioperi e forme di protesta4. Una certa vitalità mostrò in quell’anno anche il Partito comunista, ma erano gli ultimi colpi di coda di un’opposizione destinata ad essere soppressa di lì a poco. In realtà il fascismo aveva già conquistato la larga maggioranza politica del paese con le elezioni del 6 aprile 1924. Ma la sconfitta delle tradizioni liberali e democratiche era avvenuta ancora prima, quando fu accettato in Parlamento il principio base della nuova legge elettorale che conferiva i due terzi dei seggi alla lista che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti e quando, nella preparazione del listone nazionale, i fascisti riservarono la maggioranza dei posti ai loro esponenti. Con questo definitivo – e in parte inconsapevole – suicidio, la classe dirigente liberale consegnava al fascismo non solo l’intero controllo dei poteri legali, ma anche «la rappresentanza dell’opinione pubblica conservatrice e moderata»5. Roma non si era sottratta a questa tendenza. Anzi, come sappiamo, già dalle elezioni amministrative del 1920 aveva contribuito a fondare le premesse del nuovo corso. Le elezioni del 1924 confermarono il successo della Lista nazionale: con il simbolo del fascio littorio ed egemonizzata questa volta dai fascisti, ottenne nella capitale il 56,5% dei voti, 13 punti in più che nel 1921. Il risultato era inferiore a quello medio del 66,2% riportato nell’intera ciscoscrizione elettorale che comprendeva Lazio e Umbria uniti. Con la Lista nazionale bis, creata per poter beneficiare anche dei seggi attribuiti alle minoranze, i fascisti e i loro alleati raggiungevano a Roma il 59,7%6. Nella capitale aveva votato il 44% degli aventi diritto, con un modesto incremento dell’1,5% rispetto al 1921. Si trattava complessivamente di una partecipazione stabile, caratterizzata da una minore affluenza alle urne in alcuni quartieri, al Trionfale, Tiburtino, Trastevere, Celio, Campitelli, Borgo e Prati7. I socialisti videro più che dimezzato il loro consenso: la somma delle percentuali attribuite alle due liste, dei massimalisti (6,6%) e degli unitari (4,8%), raggiungeva appena l’11,4 rispetto al 23,1% riporta173

to tre anni prima. I popolari registrarono con l’11% una diminuzione ulteriore dei loro voti, andati evidentemente a beneficio delle liste nazionali come era accaduto anche nel 1921. I comunisti con il 4,9% mantenevano una certa presenza, e un buon risultato ottennero anche i repubblicani con il 7,9%: le più forti motivazioni ideologiche degli uni e le durevoli tradizioni degli altri garantirono loro una maggiore tenuta rispetto al Ppi e al Psi, mostratisi, dopo i successi del ’19 e del ’21, partiti incerti e divisi. Infine una residua piccola pattuglia liberale, che faceva capo alla lista di Giolitti, si attestava al 3,9%. I risultati di Roma erano sensibilmente diversi da quelli medi della circoscrizione Lazio-Umbria, dove la percentuale complessiva delle liste fasciste fu del 75,9% (e il più votato risultò Bottai), mentre i popolari non ottenero più del 5,3%, i socialisti unitari il 2,3%, i massimalisti il 5,9%, i comunisti il 4,4%. Nell’insieme, poi, i partiti «antifascisti» e non fascisti conservavano a Roma con il 40% circa dei voti una forza superiore a quella media nazionale8. Questa situazione locale contribuì a rendere vivace, ma mai veramente pericolosa per Mussolini, la mobilitazione delle opposizioni nei mesi della crisi Matteotti, determinata dal rapimento e dall’uccisione, il 10 giugno 1924, del leader del Partito socialista unitario. Deboli e divise le forze politiche antifasciste, pochi e con limitata diffusione i giornali di opposizione, rappresentati dai quotidiani dei partiti di sinistra e dal «Mondo» di Giovanni Amendola e Alberto Cianca. I grandi giornali della capitale, «Il Messaggero», «La Tribuna», «Il Giornale d’Italia» erano da tempo ormai sostenitori dichiarati o fiancheggiatori del fascismo. Il liberale giolittiano Olindo Malagodi aveva lasciato la direzione della «Tribuna» alla fine del 1923. Il liberal-nazionale Alberto Bergamini, direttore del «Giornale d’Italia», già tra i fautori più accesi di un fascismo considerato come erede della borghesia liberale, aveva mutato orientamento e il 9 dicembre dello stesso anno si accomiatava dai suoi lettori9. Con la svolta autoritaria annunciata da Mussolini nel discorso alla Camera del 3 gennaio 1925 e completata con i provvedimenti del novembre 1926 che scioglievano i partiti, sospendevano i giornali di opposizione e istituivano il Tribunale speciale, il regime fascista acquisiva anche i caratteri formali e istituzionali della dittatura. 174

A livello locale la diseguale distribuzione dell’egemonia fascista, oltre alla spiccata ostilità per le amministrazioni elettive, aveva già portato al sistematico scioglimento dei consigli comunali. A Roma dal 2 marzo 1923 era stato nominato commissario Cremonesi, il sindaco fino allora in carica, eletto da un Consiglio attraversato da insanabili divisioni e in cui i fascisti erano nettamente sottorappresentati. L’alleanza elettorale dell’ottobre 1920 aveva coinvolto nella lista nazionale esponenti del socialismo riformista e delle antiche appartenenze massoniche invisi soprattutto ai nazionalisti. Furono proprio quest’ultimi, con un minaccioso ordine del giorno mirante ad escludere dalle commissioni comunali chiunque non fosse fascista o nazionalista o liberale dichiaratamente di destra, ad aprire la crisi, ad imporre le dimissioni della giunta e a favorire la soluzione commissariale10. Le riflessioni e le proposte per dotare la capitale di una diversa struttura amministrativa erano sul tappeto dai tempi di Crispi e si erano riaffacciate più volte anche in tempi recenti, indipendentemente dai diversi orientamenti politici. Il modello ipotizzato era sempre quello di un organismo dotato di poteri speciali e di finanziamenti particolari in un rapporto di netta subordinazione al governo centrale. E i tempi erano divenuti maturi per tradurlo in atto tanto da trovare l’approvazione del Gran Consiglio del fascismo nel 192311. Il Governatorato, istituito con un decreto legge del 28 ottobre 1925, configurava un’amministrazione speciale contenente in sé i poteri, oltre che i mezzi, dell’Amministrazione statale e locale, concentrandoli in un solo alto funzionario, con opportune garanzie per ottenere da una coordinazione di fini e di mezzi la migliore fusione ed il maggior rendimento d’ogni energia cittadina.

Questi erano gli intendimenti espressi dalla relazione al decreto legge12. Il governatore era affiancato da due vicegovernatori, coadiuvato da dieci rettori e si avvaleva della consulenza di ottanta consultori, che formavano la Consulta di Roma. Ma il meccanismo sembrò troppo articolato e dispersivo: nel giro di tre anni venne radicalmente modificato ancor prima di diventare interamente operativo. Rimase un solo vicegovernatore, ma privo di poteri, scomparvero i rettori e la Consulta fu ridotta a dodici membri13. Quando fu insediata nel 1930 risultò composta, oltre che dal 175

dirigente dell’Associazione nazionale combattenti e medaglia d’oro Amilcare Rossi, da una serie di maggiorenti delle attività produttive, professionali e culturali della città14. Il governatore avrebbe potuto estendere i propri poteri e giurisdizioni fino alla corona dei comuni che circondavano la capitale entro 10 km. Queste disposizioni, che prefiguravano un’area metropolitana amministrata unitariamente, non vennero tradotte in pratica. Così come furono chiaramente inadeguati tanto le previsioni che gli investimenti nel settore dei trasporti metropolitani, nervatura delle relazioni con il territorio. Le norme istitutive precisavano che il governatore dava avvio alle opere pubbliche in base a progetti compilati dall’ufficio tecnico, ma poteva avvalersi dell’opera di professionisti privati «quando la speciale natura delle opere o particolari motivi di urgenza» lo rendessero necessario. Larghi poteri erano anche attribuiti al segretario generale, che poteva rogare gli atti e i contratti nell’interesse del governatore. Questi poteri centralizzati configuravano la supremazia dell’amministrazione sulla politica, come da tempo e da più parti si auspicava. L’amministrazione poteva fare a meno della politica: era stata la parola d’ordine dei cattolici per partecipare agli organismi locali, era l’argomento della massoneria per promuovere i propri valori, era soprattutto la modalità con cui aveva agito la burocrazia dell’età giolittiana per affermare il proprio ruolo. La scomparsa degli organi elettivi si traduceva a Roma nel trionfo della burocrazia, disciplinata nell’eseguire e garante del bene amministrare. Una burocrazia che si era consolidata nelle sue funzioni anche grazie a una serie di riforme promosse dal segretario generale del Comune Alfredo Lusignoli durante il primo decennio del secolo per razionalizzare e svecchiare l’organico, riorganizzare le attribuzioni e migliorare gli stipendi15. Negli anni della giunta Nathan si formarono poi, alla scuola di Montemartini, alcune personalità appassionate e competenti come Alberto Mancini: partito dai gradi più bassi dell’amministrazione, diresse i servizi anagrafici, organizzò l’Ufficio municipale del lavoro come centro di mediazione sociale e di studio dei principali problemi sociali cittadini, dal collocamento alla previdenza, dai rapporti di lavoro alla casa, lasciandone larga traccia in un importante «Bollettino» mensile pubblicato dal 1919 al 1922. Fu quindi segreta176

rio generale dal 1922, nel periodo del commissariamento e nel primo anno del Governatorato: nel 1925 diede avvio alla pubblicazione di «Capitolium», il mensile dell’amministrazione, caratterizzato da un’alta qualità grafica, da una ricca documentazione sui progetti e sulle realizzazioni di trasformazione urbana, corredato da analisi demografiche, statistiche e sociali16. Un’analoga carriera dal basso compì Virgilio Testa: direttore dell’ufficio lavori pubblici con Mancini, poi dell’ufficio studi dal 1927 al 1935, esperto di regolamenti edilizi e discipline urbanistiche, approdò alla segreteria generale con Bottai17. Negli uffici tecnici del Comune si formò anche lo statistico Lanfranco Maroi, che accompagnò con le sue analisi demografiche e sociali tutti gli anni del Governatorato. Mancini, dopo un breve periodo alla Direzione generale della Statistica, terminò la sua carriera come alto dirigente della Montecatini. Testa divenne presidente dell’Ente Eur nel dopoguerra e insegnò materie giuridiche alla facoltà di Architettura della Sapienza. Maroi fu presidente dell’Istituto centrale di statistica. Per l’organizzazione dei servizi e per le competenze concentrate nell’amministrazione, gli anni Venti e Trenta rappresentarono l’età d’oro della burocrazia capitolina, anche se non si può ipotizzare una conduzione lineare e priva di conflitti. Talora il contrasto fra il segretario generale e il governatore era evidente, come testimoniano le carte di Testa18. Filippo Cremonesi fu il primo governatore, insediato da Mussolini il 31 dicembre 1925. Fra i romani era noto come «Pippo Nostro» o «Pippo Pappa». Durò nell’incarico meno di un anno. Sulle sue dimissioni, presentate nel novembre 1926 e originate dai conflitti di gruppi contrapposti in cui si mescolavano interessi economici e diverse appartenenze politiche, fasciste e nazionaliste, il ministero degli Interni impose alla stampa di astenersi da ogni commento pena il sequestro19. Dopo Cremonesi furono nominati due principi romani, Ludovico Veralli Spada Potenziani dal 1926 al 1928, quindi Francesco Boncompagni Ludovisi. Fu poi la volta di Giuseppe Bottai, nominato nel gennaio 1935, che in ottobre partì volontario per la guerra d’Etiopia lasciando il Governatorato alle cure di Virgilio Testa. Tornato dall’Africa alla fine di maggio del 1936 Bottai riassunse la carica, ma in novembre fu nominato ministro dell’Educazione nazionale indicando a Mussolini il principe Piero Colonna come nuovo governatore20. Dopo la mor177

te improvvisa del Colonna subentrò il principe Giangiacomo Borghese dal settembre 1939 all’agosto 1943. Salvo Bottai, occuparono la carica di governatore quattro figure secondarie, anche se rappresentanti di forti interessi economici cittadini, interpreti di contorno su una scena approntata per altri protagonisti21. 2. La Roma di Mussolini Roma di Mussolini: non è una frase convenzionale per indicare dal nome del Duce la Roma del tempo fascista. [...] quando noi parliamo della Roma di Mussolini, adoperiamo una frase che corrisponde alla realtà nel senso più stretto e letterale.

Con queste parole iniziava il volume di Antonio Muñoz, direttore delle Antichità e Belle Arti del Governatorato22, pubblicato nel 1935 e intitolato appunto Roma di Mussolini. Poi continuava: Nella grande opera di trasformazione di Roma, che da dodici anni si va compiendo sotto i nostri occhi [...] la volontà di Benito Mussolini agisce in pieno; è quella che vigila, consiglia, comanda. [...] Pure assorto nelle grandi cure della politica, dopo aver tracciato a forti linee il piano dei lavori per la trasformazione e l’abbellimento della vecchia città, per la liberazione dei suoi monumenti gloriosi, il Duce segue giorno per giorno, ora per ora, l’attuazione del vasto programma fin nei suoi più minuti particolari. Nulla sfugge al suo occhio vigile; dal restauro di un insigne edificio [...] al cartello della pubblicità che deturpa una vecchia piazza, al fanale fuori posto, all’albero secco di un giardino. Egli tutto osserva, sorveglia, corregge; in tutto interviene con una visione sempre così pronta e precisa, che se seguirlo è fatica per i suoi collaboratori maggiori e minori, è al tempo stesso una grande gioia operare sotto gli ordini suoi. Ed è somma gioia di tutti i Romani, e orgoglio di tutti gli Italiani, vedere la città, che ancora dodici anni or sono, pigra e sonnacchiosa, seguiva a fatica la marcia dei tempi, oggi trasformata in un operoso cantiere, pulsante di vita, che circola nelle sue arterie vecchie e nuove, e avviata a divenire la più bella metropoli moderna. È giusto dunque, nella storia delle vicende edilizie dell’Urbe, registrare a grandi lettere l’epoca di Mussolini, come sono ricordate nei secoli quelle di Augusto, di Leone X, di Sisto V23. 178

Chi tracciava questo ritratto di un Mussolini demiurgo, svelato anche nel suo maniacale e minuto interventismo24, era uno dei maggiori artefici della trasformazione della città, quel Muñoz per alcuni autore delle peggiori nefandezze inflitte sul corpo della Roma antica. Non aveva alcun dubbio Muñoz sul ruolo di Mussolini come primo motore della nuova Roma. E nessun dubbio avrà Antonio Cederna nel suo Mussolini urbanista del 1979, immagine speculare e rovesciata rispetto a quella fornita dal Muñoz, nell’indicare nel duce il primo ispiratore, invece, di un vero e proprio delirio culturale e progettuale. Il suo libro, fondato su una ricostruzione dettagliata e documentata, si proponeva infatti di rievocare quel celebre delirio che portò negli anni Trenta alla distruzione integrale, sulla carta, del centro storico di Roma e, nella realtà, alla polverizzazione di alcune sue parti [...]25.

Per Cederna, guidato da un dominante risentimento morale, il movente di Mussolini era «la vanità, il desiderio di lasciare un’‘impronta’, di gareggiare con cesari e papi, e affermare con essi una ‘continuità’»26. In realtà le motivazioni erano più complesse, più articolate. Roma, l’esempio di Roma, il modello di Roma rappresentavano un elemento centrale dell’ideologia fascista e mussoliniana. Basta ripercorrere alcuni scritti e discorsi di Mussolini per misurare il peso e la precoce definizione dell’idea di Roma. Nel 1922, il 21 aprile, data di fondazione della città, era stato proposto come giornata del fascismo. Celebrare il natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa esaltare la nostra storia e la nostra razza, significa poggiare fermamente sul passato per meglio slanciarsi verso l’avvenire. Roma e Italia sono infatti due termini inscindibili. Nelle epoche grigie o tristi della nostra storia, Roma è il faro dei naviganti e degli aspettanti. [...] Il grido mazziniano e garibaldino di «Roma o morte!» non era soltanto un grido di battaglia, ma la testimonianza solenne che senza Roma capitale, non ci sarebbe stata unità italiana [...]. Certo la Roma che noi onoriamo, non è soltanto la Roma dei monumenti e dei ruderi, la Roma dalle gloriose rovine fra le quali nessun uomo civile si aggira senza provare un fremito di trepida venerazione. Certo la Roma che noi onoriamo non ha nulla a vedere con certa trion179

fante mediocrità modernistica e coi casermoni dai quali sciama l’esercito innumerevole della travetteria dicasteriale. Consideriamo tutto ciò alla stregua di certi funghi che crescono ai piedi delle gigantesche quercie. La Roma che noi onoriamo, ma soprattutto la Roma che noi vagheggiamo e prepariamo è un’altra: non si tratta di pietre insigni, ma di anime vive; non è contemplazione nostalgica del passato, ma dura preparazione dell’avvenire. Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento; è il nostro simbolo o, se si vuole, il nostro mito. Noi sognamo l’Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale. Molto di quello che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo: romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio: «Civis romanus sum»27.

Nel 1922 sono già presenti, dunque, e chiaramente esposti molti elementi di un’ideologia destinata a consolidarsi in seguito. In primo luogo l’idea di Roma si collocava consapevolmente, per scelte terminologiche e argomentazioni storiche, nel solco della tradizione risorgimentale e soprattutto mazziniana. Ma soprattutto Roma è il mito inteso come elemento costruttore di idee e mobilitatore di energie. Il nome di Roma individuava infine valori cardine ripetuti e propagandati, si poneva come esempio e modello di forza e disciplina. Toni ed emozioni mazziniane tornarono ancora nel celebre discorso di accettazione della cittadinanza romana che Mussolini pronunciò in Campidoglio il 21 aprile 192428, un discorso breve di grande chiarezza e capacità evocativa. Sino dai giorni della mia lontana giovinezza, Roma era immensa nel mio spirito che si affacciava alla vita. Dell’amore di Roma ho sognato e sofferto, e di Roma ho sentito tutta la nostalgia. Roma! e la semplice parola aveva un rimbombo di tuono nella mia anima. Più tardi, quando potei peregrinare fra le viventi reliquie del Foro e lungo la Via Appia e presso i grandi templi, sovente mi accadde di meditare sul mistero di Roma, sul mistero della continuità di Roma. [...] La critica non può dirci per quali doti segrete o per quale disegno di una intelligenza suprema un piccolo popolo di contadini e di pastori poté, grado grado, assurgere a potenza imperiale e tramutare nel corso di pochi secoli l’oscuro villaggio di capanne sulle rive del Tevere in 180

una città gigantesca, che contava i suoi cittadini a milioni e dominava il mondo colle sue legioni. Altro elemento di mistero nella storia di Roma, la tragedia di Cristo, che a Roma trova la sua consacrazione nuovamente universale e imperiale. Crolla l’impero, i Barbari valicano le Alpi [...] Roma diventa un villaggio di appena diciassettemila anime, che si aggrappano disperatamente ai ruderi, che tengono vivo il nome, poiché il nome di Roma è immortale. [...] Ecco Dante e la rinascenza, ecco Roma giganteggiare, ancora e sempre nello spirito dei popoli. L’Italia è ancora per secoli divisa, ma Roma è la capitale predestinata, poiché Roma è l’unica città d’Italia e del mondo che abbia una storia universale. Nel Risorgimento si grida «Roma o morte!» È il grido che sarà ripreso dopo Vittorio Veneto dalle generazioni delle trincee, che spezzano definitivamente ogni inciampo, disperdono ogni equivoco, frantumano i residui orgogli di un localismo, retaggio di età ingrate, e innalzano a Roma un altare splendente nel cuore di tutto un popolo. E del natale di Roma fanno il Natale della nazione che lavora e cammina29.

Nel nome di Roma era giustificata la continuità con un passato che tornava a inverarsi nel presente. L’assillo della continuità e l’ansia del primato, elementi fondanti dell’ideologia nazionale italiana e ogni volta ricorrenti quando era in gioco Roma, tornavano a proporsi nelle parole di Mussolini. Non solo il fascismo stava nella storia, ma era esso stesso il culmine della storia in quanto rappresentava il ritorno ciclico di Roma imperiale. Nell’ottobre del 1937, nel discorso inaugurale del congresso di Storia del Risorgimento pronunciato in Campidoglio, Bottai riassunse i legami fra Roma e il fascismo. Il ritorno a Roma, provocato dalla Rivoluzione delle Camicie Nere, è [...] un rinnovarsi dell’idea di Roma nella coscienza dell’italiano moderno; non una restaurazione, ma una rinnovazione, una rivoluzione dell’idea di Roma. Di Roma noi trasvalutiamo nel nostro mondo e nel nostro tempo certi valori essenziali: il valore spirituale dell’autorità, l’esigenza della disciplina, della legge, dell’istituzione e della norma, la tendenza alla semplicità, alla coerenza, alla concretezza, alla simmetria, alla chiarezza, che sono poi [...] i segni distintivi della nostra politica contro le altre politiche [...]. 181

Perciò noi sentiamo, che non è vano ardimento il nostro, ma sicura coscienza di imprimere al nome eterno di Roma il sigillo di «fascista»; perché ne accettiamo l’idea rifacendola nostra, conferendole nuova originalità nel mondo moderno30.

Mussolini, indicato come il duce – un appellativo che si voleva intriso di romanità, ma che gli era stato attribuito già negli anni della militanza socialista – incarnò, nelle parole e negli scritti dei seguaci e nell’iconografia del regime, di volta in volta la personalità di Cesare e quella di Augusto. Nella versione attualizzata di Mussolini – ha ricordato Andrea Giardina – si tentò di fondere le due immagini della Roma repubblicana e della Roma imperiale, «ricomponendo in sincronia alcuni caratteri, cronologicamente sfasati, della storia romana: il rigore morale del cittadino repubblicano e il potere del principe, l’austera sintesi della nazione e il fascino del sistema imperiale nella sua fase matura»31. Ma prima ancora di essere identificato con questo o quel personaggio, con questa o quella fase della storia di Roma «Mussolini era la reincarnazione stessa del romano»32. L’anacronismo, l’assenza di prospettiva storica non trovavano ostacoli nell’ideologia fascista, per niente turbata dal «cortocircuito tra passato e presente», dal ponte «disinvoltamente gettato su duemila anni» di storia33. Questa alterazione del tempo storico, questa compressione di passato e presente che sostanziavano il mito di Roma in tutte le sue versioni, da quella giacobina a quella mazziniana, tornavano ora nella concezione fascista. Ma è pur vero che qualche voce si pose talora fuori dal coro. Nel 1936 Giovanni Gentile prese di mira il facile bersaglio rappresentato dal quadrumviro Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, allora ministro dell’Educazione nazionale, che aveva inzeppato un discorso sull’ordinamento scolastico di continui richiami a Roma e di insistiti imperativi a rinnovarne i destini. Roma, sempre Roma, invocata e introdotta poco men che in ogni frase per le alte speranze della patria e per le umili cose o modeste dell’amministrazione ordinaria..., e il presente ritirato indietro di millenni e la più alta e veneranda antichità scambiata con la prosa quotidiana d’oggi. [...] E chi può dar torto a chi si compiace di esaltare Roma? Ma, io devo pure osservare due cose: in primo luogo, che la Roma da esaltare non è la tradizione particolare degl’Italiani, ma quella dell’Europa 182

tutta che essa creò; e in secondo luogo, e sopra tutto, che se Roma è una memoria in quanto è un ideale, gl’ideali non si servono parlandone e riparlandone a non finire, ma operando; e quindi piuttosto tacendo che parlando; come si serve Dio, che, si sa, non si deve nominare invano34.

Per quanto autorevole, il monito – che costò a Gentile il momentaneo allontanamento dalla direzione della Normale di Pisa – non era certamente in grado di arginare la tendenza dominante. «Il mito di Roma fu, insieme col mito del duce, la credenza mitologica più pervasiva di tutto l’universo simbolico fascista», ha ricordato lo storico Emilio Gentile. Il fascismo si poneva come «nuova ierofania della romanità». In una visione ciclica millenaristica la civiltà italiana si proiettava con il fascismo «verso un nuovo futuro di grandezza e di potenza»35. Nessun altro movimento politico aveva dato un peso così rilevante al culto di Roma. In più il fascismo affiancava alla dimensione storico-ideologica la reinvenzione della romanità con tutta una serie di simboli e rituali: il fascio littorio, il saluto romano, l’aquila, i labari, in seguito il passo da parata, oltre alle denominazioni utilizzate per le milizie fasciste. Non si trattava di una superfetazione secondaria e irrilevante né, peggio, di un insieme di banali pagliacciate. Non possiamo misurare il ruolo del mito della romanità solo sulla rapidità della sua scomparsa col crollo del regime e sui nostri giudizi a posteriori. Il comunista Rosario Bentivegna, classe 1922, uno degli autori dell’attentato di via Rasella, avrebbe ricordato come «il richiamo ai colli fatali di Roma non poteva non colpire la fantasia di un ragazzo»36. Infine, proprio la retorica fascista della romanità fu «uno dei principali motivi della popolarità che Mussolini ebbe nel mondo, almeno fino alla guerra d’Etiopia»37. Questo imponente bagaglio ideologico, simbolico e figurativo, questa specificità del fascismo, questo vero e proprio sistema di valori che si costituiva in tradizione si contrapponeva inevitabilmente ai valori storici e simbolici rappresentati dalla monarchia, legata a un altro passato, a un’altra tradizione. Quello che per il fascismo era un elemento di forza rischiava di dividere le coscienze e di riproporre un dualismo lungamente tenuto sotto controllo, ma mai sanato. Il mito di Roma espungeva e indeboliva la monarchia, lasciando tuttavia aperta un’alternativa al regime. 183

Per quanto consolidata nella dimensione rituale la romanità fascista aveva bisogno di ulteriori convalide: si presentava quindi come un processo in itinere, come una costruzione incompiuta, tanto più forte quanto più indefinita fino alla verifica della guerra e al confronto di potenza con le altre nazioni, e in primo luogo, nei tardi anni Trenta, con l’alleata Germania. Ma tornando alla prima metà degli anni Venti, per tutti i motivi finora illustrati le proposte di Mussolini per Roma non possono essere inquadrate all’insegna dell’arbitrio e della vanità: esse rispondevano a una logica propagandistica e simbolica. Le prime indicazioni vennero dal discorso pronunciato il 21 aprile 1924. I problemi di Roma, la Roma di questo ventesimo secolo, mi piace dividerli in due categorie: i problemi della necessità e i problemi della grandezza. Non si possono affrontare questi ultimi, se i primi non siano stati risoluti. I problemi della necessità sgorgano dallo sviluppo di Roma e si racchiudono in questo binomio: case e comunicazioni. I problemi della grandezza sono d’altra specie. Bisogna liberare dalle deturpazioni mediocri tutta la Roma antica, ma accanto all’antica e alla medievale, bisogna creare la monumentale Roma del ventesimo secolo. Roma non può, non deve essere soltanto una città moderna, nel senso banale della parola; deve essere una città degna della sua gloria, e questa gloria deve rinnovare incessantemente per tramandarla, come retaggio dell’età fascista, alle generazioni che verranno. Non è questo il momento per scendere a dettagli. I buoni artieri non mancano [...] né fra qualche tempo mancheranno gli ingenti mezzi necessari. Basti il dirvi che il problema di Roma sarà afffrontato e risolto38.

Mussolini tornò su questi temi nel discorso di insediamento del primo governatore, Cremonesi, pronunciato nella sala degli Orazi e Curiazi il 31 dicembre 1925. Qui l’interlocutore principale era appunto il nuovo governatore. Le mie idee sono chiare, i miei ordini sono precisi. Sono certissimo che diventeranno una realtà concreta. Tra cinque anni Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo: vasta, ordinata, potente, come fu ai tempi del primo impero di Augusto. 184

Voi continuerete a liberare il tronco della grande quercia da tutto ciò che ancora l’aduggia. Farete largo attorno all’Augusteo, al teatro Marcello, al Campidoglio, al Pantheon. Tutto ciò che vi crebbe attorno nei secoli della decadenza deve scomparire. Entro cinque anni, da piazza Colonna, per un grande varco, deve essere visibile la mole del Pantheon. Voi libererete anche dalle costruzioni parassitarie e profane i templi maestosi della Roma cristiana. I monumenti millenarî della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine. Quindi la terza Roma si dilaterà sopra altri colli, lungo le rive del fiume sacro, fino alle spiagge del Tirreno. Voi toglierete dalle strade monumentali di Roma la stolta contaminazione tranviaria, ma darete modernissimi mezzi di comunicazione alle nuove città che sorgeranno, in anello, attorno alle antiche. Un rettilineo che dovrà essere il più lungo ed il più largo del mondo, porterà l’empito del mare nostrum da Ostia risorta sin nel cuore della città dove veglia l’Ignoto. (Ovazione prolungata). Darete case, scuole, bagni, giardini, campi sportivi al popolo fascista che lavora. Voi, ricco di saggezza e di esperienza, governerete la città nello spirito e nella materia, nel passato e nell’avvenire. Volgono, per questa vostra grande opera, i fati specialmente propizî. Da tre anni Roma è veramente la capitale d’Italia. I municipalismi sono scomparsi. Il fascismo ha, fra gli altri, questo non ultimo merito: di avere dato moralmente e politicamente la capitale alla nazione. Roma è oggi altissima nella nuova coscienza della patria vittoriosa39.

La forza delle prescrizioni mussoliniane non stava solo nell’autorità indiscussa e indiscutibile del duce, ma anche nel fatto che esse esprimevano una serie di convinzioni largamente condivise. 3. La città nuova del fascismo Nel primo discorso sui problemi della città Mussolini aveva pronunciato due parole: case e comunicazioni. Non era un approccio particolarmente originale per una città sottoposta ad un costante incremento demografico. La domanda di alloggi, già elevata, si era ulteriormente accresciuta, mentre cominciava a porsi la questione dei trasporti per una popolazione lavoratrice distribuita in un territorio sempre più esteso e con accentuate differenze funzionali. 185

Al censimento del 21 aprile 1931 la popolazione presente a Roma raggiungeva 1.008.083 abitanti. Cinque anni dopo era salita a 1.179.037. Rispetto ai 462.783 abitanti del 1901 la popolazione era più che raddoppiata: l’aumento era stato del 117,8% per il 1931, del 154,8 per il 193640. Nessuna altra grande città italiana aveva avuto lo stesso incremento. Roma superava ormai il milione e si poteva annoverare fra le metropoli europee. Il maggiore contributo a questo sviluppo l’aveva fornito come sempre l’immigrazione che nel 1932 aveva registrato un picco di 46.366 nuovi arrivati41. Un’immigrazione da tutta Italia, ma che affluiva a Roma secondo modalità già consolidate alla fine dell’Ottocento. Il maggior contributo veniva dal Lazio seguito da Marche e Abruzzi. Salvo che dal Veneto, da dove proveniva molto personale femminile di servizio, si erano fortemente ridotti i flussi dall’Italia settentrionale, mentre erano in aumento quelli dall’Italia meridionale. Nel 1926 il 40% circa degli immigrati era composto da operai e artigiani con un forte assorbimento nell’edilizia; il 23% erano amministrativi e militari; il 9% liberi professionisti e artisti e oltre il 10% domestici e soprattutto domestiche. Nel 1936-38 gli operai erano scesi a poco meno del 30%, amministrativi e militari erano saliti al 26%, domestici e domestiche erano raddoppiati. In ascesa era anche l’immigrazione dei religiosi, in rapporto al consolidamento delle istituzioni ecclesiastiche, e quella dei possidenti, soprattutto dalla Toscana, per l’attrattiva che la capitale esercitava sui ceti superiori42. I nuovi arrivi tendevano a distribuirsi in città secondo i caratteri sociali prevalenti delle singole zone. I ceti impiegatizi nei quadranti nord, nord-est e in Prati; i ceti popolari al Trionfale e in tutto l’arco meridionale e orientale, dall’Ostiense al Tiburtino. Un così imponente aumento demografico complessivo non comportò modifiche significative nella struttura della popolazione attiva. Nel 1936 si ritrovavano, espresse in percentuale, più o meno le stesse articolazioni per settori del 1911. L’agricoltura scende dall’8,9% al 7,8%, l’industria dal 36,7% al 35,0%, mentre nel 1921 era il 30,5%. Il terziario passa nell’insieme dal 54,3 al 57,2% e al suo interno la pubblica amministrazione cresce dal 19,9% al 20,5%43. Gli scarti più rilevanti confermano la tendenza allo sviluppo delle attività terziarie accompagnata dalla diminuzione degli addetti all’industria e all’agricoltura secondo un an186

damento ormai permanente. La vocazione terziaria della città dipendeva, per la parte più significativa, dalla presenza degli organismi della pubblica amministrazione che per dimensione degli edifici e concentrazione degli impiegati rappresentavano le vere «fabbriche» della capitale. Nel 1936 erano 101.368 gli addetti a tutti i settori dellla pubblica amministrazione, suddivisi in 75.006 uomini e 26.362 donne44. Un altro settore ad alta densità d’impiego e di concentrazione era quello dei trasporti urbani, che assorbiva 35.600 addetti nel 193645. Secondo il censimento industriale del 1927 le fabbriche private con oltre 1000 addetti erano solo due: la Viscosa, che produceva sete artificiali con 2200 dipendenti e la fabbrica d’armi Breda con 1125. Nel settore alimentare il pastificio Pantanella occupava 350 persone, la Birra Peroni 200. Alla stessa data la Manifattura tabacchi aveva 629 addetti, per lo più donne46. Ma il più grande complesso industriale romano era destinato a divenire il Poligrafico dello Stato: se nel 1927 contava 1226 dipendenti, nel 1936 aveva superato i 4000, per giungere poi nel 1942 a 732547. Nella seconda metà degli anni Trenta la riorganizzazione dall’alto dell’industria cinematografica romana, che aveva già consistenti tradizioni, e la nascita di Cinecittà nel 1937, diedero lavoro a numerosi addetti, non solo maestranze e tecnici, ma artisti, scrittori, giornalisti. Nel 1943 lavoravano a Cinecittà 2000 unità fisse48. Per quanto i contemporanei, autorità pubbliche e studiosi come il Maroi – lo statistico ufficiale del Governatorato –, insistessero sulla dimensione industriale della capitale per sottrarla all’immagine di una città di consumi, il carattere prevalente rimaneva quello di una città di servizi49. Il censimento del 1936 segnalava anche un incremento della componente femminile della popolazione attiva, passata dal 24,0 al 26,1%. Più significativo ancora era il fatto che le donne avessero aumentato la loro presenza nel settore terziario, passata dal 50,6 al 73,4% del totale degli impieghi femminili, mentre in quello industriale scendevano dal 42,3 al 22,0%. Nella pubblica amministrazione le donne erano il 26% di tutti i dipendenti50. Nel 1931 la componente femminile aveva quasi pareggiato quella maschile e nel 1936 l’aveva superata nettamente annullando una delle caratteristiche più antiche della struttura demografica romana: se nel 1901 il rapporto maschi-femmine era di 187

107,98/100, nel 1936 era divenuto 95,76/100. L’analfabetismo era sceso ancora: nel 1931 era in totale il 7,8% (5,3% maschi e 10,3% femmine) rispetto al 22% del 1901 e al 10,9% del 192151. Il numero medio di 4,03 componenti per unità familiare collocava Roma in una posizione intermedia fra Milano e Napoli dove erano rispettivamente 3,3 e 4,5952. Infine la diminuzione del tasso di attività della popolazione, sceso dal 45,8% del 1911 al 41,9% del 1936, era il risultato di molti fattori: la ripresa della natalità negli anni Venti, il graduale riequilibrio fra le classi di età a vantaggio di quelle più giovani in età non lavorativa, l’aumentata presenza femminile e la diffusione di un «benessere impiegatizio» a bassa densità di impieghi femminili: un benessere confermato dall’aumento delle addette ai servizi domestici. Non solo per il rilevante incremento demografico, ma anche per l’approssimarsi della sua naturale scadenza dopo venticinque anni, appariva indispensabile affrontare la redazione di un nuovo piano regolatore. Anche in questa occasione Mussolini ci tenne a svolgere un ruolo da protagonista. In occasione dell’insediamento in Campidoglio della commissione incaricata di preparare il piano, il 14 aprile 1930, il duce aggiunse le sue indicazioni dopo il discorso del governatore. Sostenne che bisognava guardare avanti, pensare non alla Roma del 1930, ma a quella del 1950 e con «qualche anticipata visione» alla Roma del 2000. Continuando l’attuale ritmo di incremento demografico conseguente specialmente all’esubero di nascite dovuto alla mirabile fecondità del suo popolo, Roma avrà nel 1950 due milioni di abitanti; e, con ogni probabilità, 150.000 autoveicoli. Onde la necessità nel tracciare il nuovo piano regolatore, di «vedere le cose in grande».

Sottolineò anche che andava rispettato il vario carattere architettonico della città, ma non il «colore locale, talvolta di pessimo gusto, antigienico e antiestetico»53. La commissione presentò il progetto del nuovo piano regolatore nel termine prescritto di sei mesi, il 28 ottobre 1930, con una relazione redatta da Marcello Piacentini54. In realtà il dibattito e le proposte per un nuovo disegno urbanistico della città erano all’ordine del giorno da alcuni anni55. L’amministrazione comunale, sollecitata dall’avvicinarsi delle celebra188

zioni per il giubileo del 1925, aveva nominato nel luglio 1923 una commissione, in cui sedevano fra gli altri Piacentini e Giovannoni, per studiare una revisione e un aggiornamento del piano di Sanjust. La commissione pervenne, con la proposta nota come «Variante generale 1925-26», ad una trasformazione radicale del piano. La città veniva suddivisa in tre zone ognuna circondata da un anello stradale, venivano disegnati attraversamenti in galleria – uno sotto il Pincio e uno sotto il Campidoglio –, erano previsti la liberazione dei Fori imperiali, lo spostamento della piazza d’armi ai Prati Fiscali e un centro sportivo sotto Monte Mario. Le costruzioni private erano suddivise in estensive (villini), semintensive (palazzine), e intensive56. La variante non venne mai approvata, ma continuò ad influenzare la redazione dei piani successivi. Il progetto più innovatore di quegli anni, caratterizzati da un susseguirsi di proposte, fu quello presentato nel 1929 dal Gruppo urbanisti romani guidato da Piacentini. Riprendendo le vecchie idee del Sella, il centro veniva spostato nei quartieri alti «come soluzione radicale per evitare la distruzione» del centro storico. La stazione ferroviaria veniva arretrata al di là di Porta Maggiore e sulla vasta area liberata dai binari si costruiva un vasto asse attrezzato, un viale monumentale largo 100 metri (viale della Vittoria o viale Mussolini) con grandi edifici pubblici. Ma come scrisse in seguito lo stesso Piacentini «le difficoltà di una radicale modifica del sistema ferroviario persuasero presto che l’idea non era attuabile»57. Di orientamento opposto fu il piano degli architetti del gruppo «La burbera»58 che riprogettavano il centro cittadino, con una grande piazza nell’area di S. Lorenzo in Lucina. Il tema del centro e di un nuovo foro tornava nei disegni visionari di Armando Brasini, che immaginava un gigantesco spazio pubblico, intervallato da enormi porticati, con una visuale libera da piazza Colonna al Pantheon. Questo grande spazio era presente da tempo nei progetti sull’area centrale, un’ipotesi consolidata ripresa dallo stesso Mussolini. Mentre si affollavano queste proposte ed era in redazione il piano regolatore, aveva preso avvio quella grande operazione urbanistica destinata a «liberare» il Campidoglio, a isolare il Vittoriano, ad aprire un grande viale da piazza Venezia al Colosseo che corresse attraverso i Fori imperiali riesumati59. Una grande ope189

razione di scenografia urbana, l’invenzione di una nuova monumentalità che aveva pochi oppositori – semmai solo critici marginali –, mentre per i critici successivi sarebbe divenuta la dimostrazione della più volgare incultura archeologica e urbanistica60. Mussolini volle esserne il protagonista. Tutto il pittoresco sudicio è affidato a Sua Maestà il piccone, tutto questo pittoresco è destinato a crollare e deve crollare in nome della decenza, della igiene e, se volete, anche della bellezza della capitale61.

Non solo il tema del piccone demolitore tornava a più riprese nei suoi discorsi, ma il duce volle farsi ritrarre, ora in divisa, ora borghesemente in maglione sportivo, nell’atto di dare il primo colpo di piccone delle più importanti campagne di demolizione62. Alla destra del Vittoriano, le pendici del Campidoglio, prima e dopo la scalinata d’accesso, erano coperte di edifici e chiese di varia scala e importanza: il tessuto urbano caratteristico di una città dalle molte stratificazioni. La Rupe tarpea si poteva ammirare dal basso al di là di un arco. Il quartiere aveva il suo centro vitale e caratteristico, vera epitome del colore locale e del pittoresco della vecchia Roma, in piazza Montanara, che fiancheggiava il teatro di Marcello63. Le costruzioni continuavano fino alla chiesa della Consolazione. Il Foro romano, a sud del Palazzo Senatorio, era già stato tutto scavato alla fine dell’Ottocento64, ma non era immediatamente visibile se non dall’alto del Campidoglio. Un primo sguardo sugli scavi si poteva dare da via Marforio all’altezza della chiesa dei SS. Luca e Martina. Percorrendo invece via Cremona e via della Salara vecchia si raggiungeva l’ingresso del Foro alla fine di via Cavour. Fra queste strade e via Alessandrina, che correva al margine dei mercati traianei fino e oltre via Cavour per finire contro le mura della Basilica di Massenzio, vi era un ampio quartiere popolare costruito a partire dalla seconda metà del Cinquecento sui ruderi dei Fori imperiali. I resti erano qua e là visibili, inseriti negli edifici o visitabili dalle cantine di alcuni stabili. Al Colosseo non si arrivava direttamente, ma con un percorso laterale e dall’alto. Nel 1924 scavi parziali erano già in corso nel Foro di Traiano e lungo via Alessandrina, per portare alla luce il Foro di Augusto. «Non v’ha certo chi non vegga che l’impresa più bella e più completa per la ‘liberazione dei fori’ sarebbe quella di scoprirli del tut190

to abbattendo interamente le case vecchie e recenti» dell’intero quartiere, aveva scritto nel 1911 Corrado Ricci, direttore generale delle Antichità e Belle Arti, corredando le sue idee con le prospettive del futuro paesaggio archeologico disegnate con grande effetto da Lodovico Pogliaghi. Ma, aggiungeva, il sogno appariva irrealizzabile per l’enormità dei costi65. Ora invece tutto era divenuto possibile. Demolizioni e scavi continuarono sull’altro versante intorno alla chiesa dei SS. Luca e Martina, poi le operazioni vennero accelerate per isolare la Basilica di Massenzio. Il 1932 fu l’anno decisivo per sgombrare tutta l’area, tagliare la collina Velia e procedere verso il Colosseo. Così il 28 ottobre Mussolini, impennacchiato a cavallo, poté inaugurare, nel decennale della rivoluzione fascista, la nuova via dell’Impero. Un grande viale da parata, direttamente affiancato dai ruderi nel punto più stretto, da ampie aiuole e passeggi nei tratti più ampi, una passeggiata archeologica aperta sull’intrico fascinoso (e per molti versi incomprensibile) delle vestigia di Roma antica. Ottobre 1932: da oltre un anno era stato approvato il nuovo piano regolatore che prevedeva un diverso tracciato per gli sventramenti. Il principale intervento della Roma fascista avveniva dunque fuori dalle prescrizioni del piano. Egualmente fuori da ogni indicazione di piano era stato compiuto l’altro e simmetrico sventramento alla destra del Campidoglio, inaugurato, per il tratto fino al teatro di Marcello, il 28 ottobre 1930, proprio il giorno in cui fu presentata a Mussolini la relazione per il nuovo piano regolatore66. Per via dell’Impero il piano prevedeva un tracciato in due tronconi. Fu invece realizzato un rettilineo continuo «contro fibra» rispetto ai monumenti antichi, avrebbe notato Piacentini, «con livellette sopraelevate in modo che da piazza Venezia viene nascosta la vista del piano terreno del Colosseo»67. Per ridurre l’eccessivo isolamento del Vittoriano dopo gli sventramenti erano previsti due porticati marmorei: furono invece realizzate due esedre arboree proposte da Ricci e disegnate dall’architetto di giardini Raffaele De Vico. Riletto a distanza di decenni il piano del 1931 appare come un elenco impressionante di indicazioni inattuate68. Non fu costruito il viale a mezza costa sotto il Pincio che partiva in galleria da 191

piazzale Flaminio per continuare lungo via Due Macelli, il Traforo, via Milano e con nuovi sventramenti giungeva fino a Colle Oppio e quindi a S. Giovanni; e neppure la variante che distaccandosi in galleria sotto Trinità dei Monti giungeva a via Ludovisi e poi a Termini. Stessa sorte anche per l’altro grande collegamento nord-sud dal lungotevere Arnaldo da Brescia per l’Augusteo e il Pantheon che, con opportuni allargamenti delle strade e nuove piazze, giungeva a corso Vittorio. Né furono realizzati l’allargamento di via Vittoria destinato a collegare questi due assi, la parallela al Corso da via Belsiana fino a piazza SS. Apostoli e neppure la trasversale dal Pantheon a via Minghetti a via in Arcione fino a piazza Barberini69. Più significativa fu la mancata realizzazione della nuova struttura ferroviaria prevista entro la città. Termini doveva arretrare e trasformarsi in stazione sotterranea collegata a sud con una stazione Casilina e a nord, con un passante sotterraneo, ad una stazione Flaminia collocata a campo Parioli, dove era l’ippodromo e fu poi edificato il Villaggio olimpico70. Un grande viale di 100 metri di larghezza avrebbe dovuto congiungere l’Esedra alla nuova stazione «e lungo di esso tre altri grandi piazze moderne dovranno palesare ai posteri la rinnovata architettura italiana»71. Né si pose mano alla costruzione del sistema di trasporti urbani, fondato su quattro linee di ferrovie rapide metropolitane, destinato a decongestionare il traffico e a favorire lo sviluppo e i collegamenti dei quartieri periferici. Non fu realizzato il congiungimento Trastevere-Gianicolo attraverso uno scenografico percorso di viali e giardini che prendeva le mosse da ponte Mazzini passando nel varco lasciato aperto dalla demolizione del carcere di Regina Coeli. Si cominciò invece, ad opera di Piacentini e Attilio Spaccarelli, a progettare lo sventramento della spina dei Borghi per allargare l’accesso a S. Pietro, mentre il piano regolatore prevedeva altri ampliamenti in quella zona. Il primo colpo di piccone della futura via della Conciliazione fu dato il 28 ottobre 1936. Nel 1938 il varco era completato, con il compiacimento della S. Sede, alla ricerca di una maggiore visibilità e di un diverso rapporto spaziale con la città, ma l’opera fu conclusa solo per il giubileo del 195072. Non si procedette all’allontanamento dalle piazze del centro storico delle statue ottocentesche (Minghetti, Cossa, Mamiani 192

ecc.) ricollocandole nei giardini pubblici, come la commissione per il piano regolatore unanimemente proponeva. Come non si liberò il ponte Vittorio Emanuele II dei «colossali e inutili gruppi di travertino» e delle quattro torri delle testate sovrastate dalle vittorie alate. Nella nuova età della conciliazione fra Stato e Chiesa l’accesso a S. Pietro – nelle intuizioni della commissione – non poteva più essere evidentemente un ponte trionfale adorno di simboli del Risorgimento73. Un numero così elevato di mancate attuazioni era destinato a snaturare completamente il piano non solo nel centro storico. Nessuna delle indicazioni relative alle nuove collocazioni di teatri, auditorium, biblioteche, ospedali, cimiteri ebbe mai seguito74. Nessuno dei quartieri periferici, soprattutto nei quadranti orientali75, dove era prevista la nuova tipologia edilizia delle casette a schiera su due piani, ripresa di modelli tedeschi, fu mai costruito secondo il disegno del piano. E in genere non venne rispettato quell’«organico e proporzionato avvicendarsi e intrecciarsi dei vari sistemi di costruzione», villini, ville e villette di lusso, palazzine e intensivi in rapporto all’altimetria e alla planimetria delle singole zone76. Il piano del 1931 prevedeva la redazione di una serie di piani particolareggiati. Ma «nonostante i metodi sbrigativi allora in vigore» – scriverà Piacentini –, la compilazione procedé con molta lentezza e molte zone «furono completamente sfigurate dietro pressioni più o meno interessate» destinate ad «ottenere uno sfruttamento più intensivo dei terreni»77. Tuttavia altri interventi, oltre a quelli intorno al Campidoglio, lasciarono un segno forte nell’impianto del centro cittadino. Fra questi il nuovo collegamento da piazza Barberini e da via Veneto a piazza S. Bernardo con via Regina Elena (poi via Barberini) e via XXIII marzo (poi via Bissolati) secondo un disegno di Piacentini più volte rimaneggiato, interessante testimonianza dell’evoluzione verso lo stile moderno da lui compiuta in età matura78. Altra operazione di rilievo fu quella realizzata nel tessuto rinascimentale della città con il tracciato di corso Rinascimento e la ricostruzione della testata nord di piazza Navona, prevalentemente opera di Arnaldo Foschini. Un intervento che si collegava con quello di largo Argentina, dove in seguito alla demolizione di un complesso di edifici, fra il 1927 e il 1929, era emersa un’area archeologica con templi dell’età repubblicana, e con l’ampliamento di 193

via delle Botteghe oscure compiuto nel 1938. Questi nuovi e più ampi percorsi rispondevano all’esigenza di un agevole collegamento con il «Foro italico»: così veniva chiamato il complesso monumentale di piazza Venezia «dove convergono (con i resti imperiali, il Palazzo Venezia, il Campidoglio, e il Monumento a Vittorio Emanuele) tutte le civiltà che hanno impresso a Roma la sua fisionomia di eternità», come recitava la relazione-programma di Piacentini79. Indipendentemente dal maggiore o minore ossequio alle prescrizioni del piano, dalla metà degli anni Venti fino agli inizi degli anni Quaranta si aprì a Roma un’età d’oro per l’architettura80. Il fascismo era in piena sintonia con le istanze modernizzatrici e con le nuove tendenze dell’architettura razionalista, ma manteneva aperti anche i canali con le scuole più tradizionali. Gli architetti facevano a gara per ottenere il patrocinio del partito e i più innovatori apparivano anche i più determinati e i più convinti nel collocare la loro opera nell’orbita dell’ideologia dominante. Il duce conferiva poi il suo sigillo al primato del fare: «le grandi opere pubbliche attesteranno nei secoli la nostra volontà costruttiva», aveva esclamato Mussolini nel decennale della marcia su Roma81. E più tardi affermerà, in un colloquio con Yvon De Begnac a proposito delle trasformazioni della capitale: «Ho avuto grandi maestri i quali hanno realizzato quel che volevo»82. Certo erano secoli che l’architettura italiana non poteva esibire un così alto numero di talenti e una produzione qualitativamente e quantitativamente così elevata. Pietro Aschieri, Enrico Del Debbio, Mario De Renzi, Mario Ridolfi fra i maggiori; Adalberto Libera e Luigi Moretti i più geniali. Sono solo alcuni dei nomi che è impossibile non ricordare. Su tutti svettava il principe degli architetti romani di quell’epoca straordinaria, Marcello Piacentini. Principe in tutti i sensi, come ideatore e mediatore, come artefice e come politico. La testimonianza più visibile di queste capacità è la Città universitaria, il cui progetto generale era appunto di Piacentini. L’opera pubblica più compiuta degli anni del fascismo, iniziata nel 1932 e inaugurata il 31 ottobre 1935, raccoglie diverse opzioni stilistiche in un insieme equilibrato83. Piacentini stesso moderò certa sua ridondanza e monumentalismo nella versione finale del rettorato, per il quale era originariamente prevista un’alta torre 194

centrale. Gli istituti di Botanica di Giuseppe Capponi, di Mineralogia e geologia di Giovanni Michelucci, di Fisica di Giuseppe Pagano, la Scuola di matematica di Gio Ponti sono fra gli edifici di maggiore valore architettonico. La Città mantiene a distanza di anni la sua qualità nonostante sia stata snaturata dall’affollamento (originariamente pensata per 15.000 studenti, la Sapienza ha raggiunto i 180.000 iscritti) e in molti casi dalle modifiche e dagli «ammodernamenti» degli interni, particolarmente distruttivi nel caso della Biblioteca Alessandrina84. Istituzione culturale pensata come complesso monumentale, deve la sua tenuta formale e stilistica proprio al suo carattere di cittadella recintata più che di campus permeabile al tessuto urbano circostante. Negli stessi anni un altro grande intervento si veniva realizzando, su disegno di Del Debbio, nella periferia nord della città: il Foro Mussolini, l’ampio complesso sportivo voluto dall’Opera nazionale balilla e dal suo capo Renato Ricci. Centro di formazione sportiva con numerosi impianti per l’atletica, il nuoto, il tennis, la ginnastica (e solo in seguito il calcio), accoglieva anche gli edifici dell’Accademia di educazione fisica e l’Accademia di musica, nonché foresterie e uffici. Era dotato di due stadi, quello dei Cipressi, trasformato nello Stadio Olimpico agli inizi degli anni Cinquanta, e quello dei Marmi, cinto da grandi statue di atleti. Uno scenografico percorso segnalato dall’obelisco in marmo di Carrara con la scritta «Mussolini dux» portava dal nuovo ponte sul Tevere attraverso un piazzale pavimentato a mosaici affiancato da parallelepipedi con incise le gesta del fascismo fino alla grande fontana a sfera, punto di convergenza e di distribuzione di tutto l’impianto. Questo assetto veniva realizzato nel 1937 da Luigi Moretti, nuovo progettista generale del Foro e artefice del collegamento fra il monolite e la sfera preesistenti. Lo stesso Moretti, oltre ad essere l’autore di due gioielli architettonici, la Casa delle armi e la meno nota «palestra del duce», aveva ridisegnato il piano urbanistico del Foro Mussolini progettando, sull’esempio del Parteigelände nazista di Norimberga, una grande platea per le manifestazioni e i riti di massa, l’arengo della nazione, sormontato dalla gigantesca statua del fascismo alta 90 metri85. La qualità della progettazione non si manifestò solo nei grandi complessi monumentali, ma si affermò anche, in una felice rincorsa imitativa, nel linguaggio medio dell’epoca, spingendosi fino 195

ai dettagli, ai particolari, ai partiti decorativi, configurando uno stile e una qualità non più ripetuta86. Questi caratteri sono facilmente individuabili in quelli che, con una certa forzatura, possiamo chiamare i «quartieri del fascismo», per una coincidenza temporale oltre che per una deliberata politica edilizia. Hanno un chiara riconoscibilità, non perché riflettano uno stile unitario ma per la regolarità degli impianti, l’uniformità conferita ad ampie zone della città e un diffuso rispetto della qualità ambientale. Sono quartieri che per gusto e tipologia affondano le radici nello stile eclettico ottocentesco, corretto da interventi decorativi più o meno accentuati87. È il caso del quartiere per impiegati costruito dall’Incis (Istituto nazionale case impiegati dello Stato) e dall’Ircis (Istituto romano cooperativo per le case degli impiegati dello Stato) intorno a via Chiana e piazza Verbano al Salario, completato fra il 1924 e il 1931. Grandi casamenti intensivi a più scale, in qualche caso con oltre 100 e fino a 157 appartamenti complessivi, grandi cortili o giardini interni, decoro misurato e una ben calcolata gerarchia sociale legata al taglio variabile degli alloggi88. Ma anche edifici di dimensioni più contenute (semintensivi) nella stessa zona, a corso Trieste e di fronte al Parco Virgiliano, e altrove, ai Parioli e a Monteverde, mentre gli intensivi tornavano al quartiere Prati-Delle Vittorie intorno a piazza Mazzini. I quartieri per gli impiegati e per i ceti medi avevano anche altre tipologie: è il caso soprattutto della città-giardino Aniene a Montesacro edificata a partire dal 1920, su disegno di Giovannoni, con una prevalenza di villini in tutte le varianti, anche quella unifamiliare. A Montesacro si costruì cercando deliberatamente di ricreare, nei gruppi di edifici più consistenti e raggruppati, con ricorso al pittoresco, al vernacolare, lo spontaneismo dell’architettura minore urbana, un misto fra paese e presepe considerato così tipicamente italiano. Questo «barocchetto», come fu chiamato lo stile propugnato soprattutto da Giovannoni, tornò anche nell’ampio quartiere operaio della Garbatella costruito dall’Icp al margine dell’Ostiense. L’Icp fu il maggiore protagonista dell’edilizia residenziale pubblica in questi anni. La popolazione complessiva degli alloggi delle case popolari passò da 22.000 nel 1922 a 85.000 nel 1934 a 102.800 nel 193889. L’Icp adottò praticamente tutte le tipologie edilizie consentite, dall’intensivo alle casette a schiera. I suoi com196

plessi, per dimensioni, riuscirono a connotarsi come veri e propri quartieri. Alla Farnesina, alla ex Piazza d’Armi (fra via Sabotino e via Oslavia), al Trionfale, al Flaminio (piazza Melozzo da Forlì), a S. Ippolito (Villa Narducci), all’Appio, a Monteverde, a Testaccio, alla Garbatella, alle case minime per gli «sbaraccati», l’offerta copriva un ventaglio socialmente assai ampio di destinatari, dai nullatenti al ceto medio delle case a riscatto di viale delle Milizie90. Una elevata qualità progettuale garantita dai suoi progettisti, fra i quali spiccava Innocenzo Sabbatini, riuscì a conferire dignità architettonica anche ad alcuni interventi anomali come gli alberghi per gli sfrattati alla Garbatella91. Guidato da Alberto Calza Bini, segretario generale del Sindacato fascista architetti, l’Icp fu un elemento formidabile di controllo politico e di costruzione del consenso. La domanda di alloggi rimaneva elevata, né poteva essere altrimenti dato il costante aumento della popolazione. Accanto all’intervento pubblico, consistente ma di gran lunga inferiore a quello realizzato in altri paesi europei come Francia, Germania e Inghilterra92, una soluzione per accrescere l’offerta fu quella delle case convenzionate: il Governatorato concedeva un contributo di 1000 lire a vano alle imprese per la realizzazione di alloggi a fitto bloccato per cinque anni riservandosi anche la facoltà di assegnare parte degli appartamenti. Era una risposta all’abolizione del blocco degli affitti, in vigore dal 1917, decretata nel giugno 1928 e operativa dal giugno 1930, ma costituiva anche un rilancio dell’iniziativa privata. Le grandi imprese avevano ascolto al Governatorato e anche più in alto. Era un’iniziativa politica e il duce non mancò di mostrarsi nei cantieri e fra gli operai delle case convenzionate. Gli assegnatari erano suddivisi in cinque categorie: minorati di guerra o della rivoluzione fascista; famiglie numerose; ex combattenti e decorati; dipendenti e pensionati del Governatorato; sfrattati, ma non per morosità o moralità. L’operazione, avviata nel 1929, rese visibili i primi risultati agli inizi del 1931 e la pubblicazione ufficiale del Governatorato, «Capitolium», li illustrò ampiamente: erano tutti edifici imponenti dove era evidente lo sforzo di alleggerire l’inevitabile pesantezza con qualche alternanza volumetrica e di movimentare i prospetti con la variazione dei partiti decorativi. Fra i costruttori troviamo al Flaminio l’impresa Adriani e l’Istituto nazionale delle assicurazioni, al Prene197

stino l’impresa De Fonseca e la Centrale immobiliare, all’Appio di nuovo l’Ina, a piazza Bologna e a viale Eritrea la Società generale immobiliare93. Prodotti architettonicamente più significativi si vedranno in seguito soprattutto con il grande edificio con 442 alloggi, 70 negozi, un cinema e un garage, progettato da De Renzi per l’impresa Federici a viale XXI Aprile94. A Roma, grazie anche a questi interventi vi fu un rilancio delle imprese di costruzioni, fra cui l’Immobiliare, rafforzatasi con un nuovo innesto di capitali della S. Sede, provenienti, con ogni probabilità, dalle disposizioni finanziarie dei Patti lateranensi95. L’Immobiliare era già molto attiva nel settore della residenza per i ceti medi per i quali aveva costruito importanti complessi di palazzine al quartiere Trieste (via Postumia, via Arno) e al Salario nella zona di Villa Anziani (via di Trasone, via Nemorense, via Lago di Lesina)96. Più che dall’edilizia diffusa, dunque, il carattere e l’identità derivavano ai singoli quartieri dai grandi complessi abitativi, a cui si aggiungevano i molti edifici pubblici costruiti in quegli anni. Scuole in primo luogo, disseminate in tutti i quartieri intermedi. Spesso di uno stile tradizionale, di un eclettismo citazionistico, non ancora rinnovato dal contatto col razionalismo architettonico, ma con connotati esplicitamente romani: le scuole di Vincenzo Fasolo, dal liceo Mamiani alle elementari di via Acireale e di Tor di Nona, gli imponenti edifici della Pistelli al Delle Vittorie, della Garbatella e la Italico Sandro Mussolini (poi Mazzini) al Nemorense97. Con qualche edificio più moderno come le elementari di via Vetulonia o di viale delle Medaglie d’Oro e il ginnasio-liceo Giulio Cesare al quartiere Trieste. La modernità rivoluzionaria del razionalismo e dei nuovi linguaggi architettonici giunse nei quartieri con i nuovi uffici postali: pensiamo ai capolavori di Ridolfi a piazza Bologna e di Libera e De Renzi a via Marmorata. Un ruolo analogo svolsero gli edifici della Gioventù italiana del littorio, come quello di Moretti a Trastevere e quello di Gaetano Minnucci a Montesacro. Anche i molti nuovi giardini – parco Virgiliano, Villa Paganini, Villa Fiorelli, Colle Oppio, il parco della Vittoria a Monte Mario, il parco della Rimembranza a Villa Glori – o i minori innesti di verde, come a piazza Mazzini, gli uni e gli altri progettati dalla mano di De 198

Vico, distribuirono attraverso la città un decoro studiato, uniforme e piacevole98. L’insieme della Roma novecentesca aveva un carattere piuttosto armonico, grazie anche alla equilibrata dislocazione dei ceti sociali fra nord e sud. Tanto più che la città aveva provveduto a nascondere al suo interno, dietro gli assi di attraversamento ottocenteschi e a quelli appena tracciati, la povertà dei ceti inferiori o aveva provveduto a espungerli relegandoli al suo margine e anche più in là. La popolazione dei vecchi rioni, salvo Trastevere, era in costante diminuzione e gli sventramenti avevano accelerato questo processo. La Roma postunitaria, sottoposta come sappiamo ad un’intensa pressione demografica, aveva sempre nascosto nelle pieghe – potremmo dire – del suo territorio, al fondo delle sue curve di livello, un sistema di residenze precarie, di baracche, funzionale al mercato della sottoccupazione e filtro all’immigrazione. Le baracche di Porta Metronia costituivano l’esempio più noto. Gli sventramenti nel centro storico e il tracciato di nuove strade imposero una soluzione a un problema sempre deprecato, ma mai risolto. Nacquero così le borgate ufficiali: Acilia, Trullo, Primavalle, Tufello, Val Melaina, San Basilio, dei Gordiani, Acqua Bullicante, Tor Marancio, Sette Chiese, Donna Olimpia, collocate a raggiera intorno alla periferia. Case minime, casette «rapidissime» in muratura con servizi propri, altre con servizi in comune, in seguito costruite anche con materiali autarchici deteriorabili. Talora con qualche qualità architettonica, come nel caso del Trullo con gli edifici a loggia, ma tutte espressione di un marcato riduzionismo stilistico. Non è chiaro quanti siano stati gli abitanti, vittime degli sventramenti, ad essere «deportati» nelle borgate. Un calcolo presuntivo basato sui vani distrutti porta a valutare in 5500 le persone coinvolte. Ma molti, soprattutto nei ceti artigianali e piccolo-borghesi, oltre ovviamente nella media e alta borghesia, trovarono altre soluzioni in città tanto nei vecchi rioni, che non registrano un calo così drammatico di abitanti, che nei nuovi quartieri99. La costruzione delle borgate rimane un’operazione politica di «pulizia» sociale giustificata anche col propagandato beneficio di riportare le classi popolari a contatto con le attività rurali. Esistevano allora e avrebbero continuato ad esistere in seguito, al mar199

gine delle vie di accesso alla capitale, le borgate spontanee, con costruzioni di risulta ma via via più durevoli, inevitabili punti di insediamento nelle prossimità di un grande centro circondato solo a distanza da una corona di paesi e privo di un abitato diffuso nella campagna circostante. Il fascismo conferiva dunque a un vecchio fenomeno, quello della città nascosta e provvisoria, una dimensione istituzionale e un nuovo ordine. L’allontanamento e il controllo del disagio economico e sociale, inevitabile prodromo del conflitto, erano anche strumenti per rafforzare e definire la città visibile e riconoscibile. Una città che si autorappresentava secondo un codice consolidato: la continuità con il passato unita alla modernità del presente. Si veda come Muñoz giustificava la sintonia fra antico e contemporaneo e la sua visione dell’urbanistica: [...] gli edifici classici che vengono a scoprirsi nel mezzo di una città moderna, se hanno in sé stessi la somma importanza che deriva dal loro significato storico, e dalla loro antichità, assumono necessariamente un valore artistico e decorativo (se si vuole diciamo pure urbanistico) in rapporto al carattere del luogo in cui sorgono e agli edifici nuovi che ad essi fanno cornice. Non sono insomma morti oggetti da museo, ma elementi di bellezza della città vivente, che intorno ad essi si agita e cammina. Di ciò va necessariamente tenuto conto, e occorre perciò che i ruderi antichi, con metodo rigidamente controllato, si presentino in una forma che ne renda meno stridente il contrasto con le fabbriche nuove che li circondano. Un tempo i gruppi monumentali della Roma antica sorgevano tutti in località appartate, dove regnava il silenzio, dove le costruzioni circostanti erano modeste, e qualche volta, diciamolo pure, anche povere e sudicie: ciò corrispondeva al concetto romantico dell’Ottocento. Oggi con le grandi trasformazioni del Piano Regolatore le zone monumentali, come il Foro romano, i Fori Imperiali, il Colosseo, si son venute a trovare nei centri dove maggiormente pulsa la vita cittadina, e malgrado le proteste di qualche vecchia miss inglese, si è visto che i monumenti classici non hanno niente da temere dal contatto con il movimento moderno, né gli uomini nuovi sono impiccoliti dall’avvicinarsi a quelle rovine venerande100.

Consapevole del lavoro compiuto nell’opera di isolamento e reinserimento dei monumenti antichi, Muñoz aggiungeva: 200

Un mezzo per attenuare il trapasso tra il rudero e l’edificio nuovo, tra gli ossami gloriosi e i corpi viventi, è quello di larghe piantagioni di alberi, che infatti fu praticato tanto nella zona dell’Argentina che in Via dell’Impero, intorno al Campidoglio, intorno al Palatino, all’Aventino, alle Terme di Caracalla, al Circo Massimo101.

Con l’inaugurazione della via dei Trionfi, dal Colosseo e dall’Arco di Costantino al Circo Massimo il 28 ottobre 1933 e con quella di via del Circo Massimo, lungo il fianco dell’Aventino, l’anno successivo, si completò l’invenzione del paesaggio monumentale della Roma contemporanea. Muñoz, con la sistemazione degli spazi, il disegno dei terrapieni, dei muraglioni, delle fontane, degli arredi verdi, ne fu l’ideatore principale. E fu con Mussolini l’artefice del centro monumentale della Roma fascista. Un paesaggio inteso come fondale, per una visione cinematografica della realtà. Un paesaggio fermo percorso dallo sguardo di chi si sposta in automobile, rapidamente, come l’occhio della cinepresa, lungo grandi arterie di scorrimento. Di qui il tono trionfalistico di Mussolini per il gran traffico lungo via dell’Impero «dove passano da venticinquemila a trentamila autoveicoli nelle ventiquattro ore»102. Le altre realizzazioni nel centro storico, come la liberazione del mausoleo di Augusto, risultarono come minori complementi. L’Augusteo era allora una grande sala da concerto, dove suonava l’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, e aveva ospitato il congresso di fondazione del Partito fascista nel novembre 1921. L’auditorium era poggiato come una sorta di ampio copricapo sulla sommità del monumento antico, circondato da un denso tessuto edilizio che si arrampicava sui suoi fianchi. Fare largo intorno all’Augusteo era una delle prime prescrizioni di Mussolini, inoltre si voleva ricomporre e dare un’adeguata visibilità all’Ara pacis augustae, i cui ultimi frammenti erano stati appena ricuperati, conferendo a tutta la zona una nuova monumentalità103. Ma il mausoleo denudato, pur nella sua imponente circolarità, apparve inferiore alle attese, un rudere cariato a cui le aggiunte arboree di Muñoz non restituivano l’immaginata grandiosità dell’originale, mentre nella grande corte urbana progettatagli intorno da Vittorio Morpurgo rimaneva un che di incompiuto e di irrisolto. 201

Con l’invenzione della nuova Roma fascista la città rafforzava decisamente il suo ruolo di capitale. Era questo un risultato indubbio, un successo per il regime, un elemento duraturo per Roma. E così l’avvertivano i contemporanei anche se l’adozione di toni eccessivamente celebrativi tendeva a fornirne una rappresentazione ridondante. Lo storico Gioacchino Volpe, anch’egli coinvolto in questa atmosfera, ne coglieva puntualmente la novità. La città antica rivisse nella città moderna, il senso della continuità nella vita storica del popolo italiano ne fu alimentato. Roma, su cui, negli anni prima e dopo la guerra, era invalsa l’abitudine di gettare a piene mani l’ironia e il sarcasmo, come città parassitaria, vera passività della nazione, tornò ad elevarsi a grande altezza davanti agli occhi degli Italiani ed acquistò importanza anche come città di lavoro, città produttiva. Ogni anno o stagione, adunate imponenti: ex-combattenti, ex-militari dell’una e dell’altra arma, mutilati di guerra, operai, cooperatori, rurali, figli di Italiani all’estero ecc. La nazione tutta faceva la sua marcia su Roma, la conquistava veramente a sé104.

Il nucleo di questa Roma era quello raccolto nel «Foro italico» di piazza Venezia. Proprio questo nuovo centro forniva finalmente una percezione più unitaria della città. Bottai, nel rievocare i suoi anni giovanili nelle ampie strade del nuovo quartiere Macao agli inizi del secolo, si domandava: Ma era, poi, Roma quella? C’era da dubitarne. Si diceva comunemente: «andare a Roma», quando ci si muoveva da quelle «alture» verso i rioni acquattati intorno al Tevere.

Nel 1935, invece, «Roma ha la forza integratrice, che allora non aveva. Roma oggi è l’Italia»105. Dimensione simbolica e dimensione monumentale, rituali patriottici e rituali fascisti, culto del littorio e ierofania del duce, il balcone, il pulpito e l’arengo della nazione, tutto si addensava in un unico luogo con uno stravolgimento storico e metaforico delle memorie monumentali del passato106. Quella sinergia fra spazi e monumenti non sarà più recuperabile al di là del tempo del fascismo. La piazza monumentale della nazione, consumata nelle due dimensioni, diurna e notturna, dalle cerimonie del fascismo, veniva inevitabilmente sottratta alla 202

continuità della storia nazionale. Anche l’Altare della Patria ne risultò coinvolto. E i 31 anni di chiusura del Vittoriano, dagli attentati del 12 dicembre 1969 al 4 novembre 2000, ne hanno offerto sicura testimonianza107. Alla metà degli anni Trenta l’addensamento simbolico del «Foro italico», consacrato dalle adunate di piazza Venezia, aveva trovato la sua configurazione definitiva. Grandi adunate, numerose ma non frequentissime, così come i discorsi del duce dal balcone, 64 in tutto, 61 dopo l’insediamento a palazzo Venezia come suo luogo di lavoro. I momenti più importanti, le adunate «oceaniche», tenute spesso di sera, coincisero con le grandi decisioni di politica estera: dalla guerra contro l’Etiopia (2 ottobre 1935), alla proclamazione dell’impero (9 maggio 1936), al ritorno dalla conferenza di Monaco (30 settembre 1938), alla dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra (10 giugno 1940), a quella agli Stati Uniti (11 dicembre 1941). Il numero maggiore di discorsi, dodici, fu pronunciato nel 1936; dieci nel 1937, tre nel 1941, nessuno nel 1942, uno solo nel 1943, segnando la parabola declinante del regime108. In realtà le ambizioni monumentali del fascismo non si fermavano a piazza Venezia. Bisognava trovare una sede adeguata al partito e la collocazione non poteva che essere lungo via dell’Impero, dall’angolo di via Cavour fino a fronteggiare la Basilica di Massenzio. L’architettura, l’arte di Stato per eccellenza, fu chiamata a misurarsi con il grande tema. Ne risultò un confronto fra tutte le personalità artistiche di maggiore spicco, mentre i più anziani Brasini e Piacentini erano nella commissione giudicante. La vulgata architettonica dell’epoca, così come Mussolini stesso la espresse qualche mese dopo, prevedeva un’adesione incondizionata al razionalismo. Un razionalismo generico che genericamente coincideva con il moderno: volumi netti, linee essenziali, facciate scandite da aperture regolari, decorazioni ridotte al minimo. Parlando agli architetti di Sabaudia e della stazione di Firenze nel giugno 1934, il duce tenne a precisare in modo inequivocabile che io sono per l’architettura moderna, per quella del nostro tempo... Sarebbe assurdo pensare che noi, oggi, non potessimo avere il nostro pensiero architettonico; è assurdo il non volere una architettura razionale e funzionale del nostro tempo. [...] 203

Darò ordini a tutti gli enti, a tutti i ministeri, a tutti gli uffici, perché si facciano costruzioni del nostro tempo. Non voglio vedere case Balilla o case del fascio con l’architettura del tempo di Depretis109.

L’architettura razionalista mediata da Piacentini sembrava dunque il linguaggio più adatto alla modernità del fascismo110. I vari progetti per il Palazzo del Littorio si adeguavano a questo nuovo monumentalismo razionale, vuoi per le dimensioni e per la collocazione dell’edificio, vuoi per l’ossequio dovuto ai giudici del concorso111. Molte furono le proposte premiate: la più audace sembrava quella di Libera, un edificio curvo preceduto da un’imponente torre littoria da cui si protendeva arditamente il balcone per i discorsi del duce. Ma la collocazione apparve presto non più soddisfacente e si pensò di spostare il grande edificio a viale Aventino, la prosecuzione di via dei Trionfi verso Porta S. Paolo. A viale Aventino, adeguatamente allargato, sarebbe dovuto sorgere anche l’Auditorium e fu poi costruito il ministero dell’Africa Italiana. Con queste decisioni, abbandonati gli itinerari originariamente previsti dal piano del 1931, via dei Colli verso San Giovanni e via del Mare verso l’Ostiense, la zona nevralgica dell’espansione monumentale era diventata ormai quella intorno all’imbocco della passeggiata archeologica. Lì convergevano via dei Trionfi da un lato e via del Circo Massimo dall’altro, che con via del Mare e via dell’Impero racchiudevano il nucleo centrale della Roma antica. Nella zona non vi erano gli impedimenti di un tessuto urbano popolare e industriale, non mercati generali né gasometri, solo la scenografia della Roma imperiale per un percorso che, costeggiate le Terme di Caracalla e perforate le mura, poteva proseguire liberamente riportando simbolicamente la nuova città imperiale verso il suo mare. Lì, all’inizio del nuovo percorso, venne collocato il 31 ottobre 1937 l’obelisco di Axum, preda di guerra e testimone della conquista dell’impero. Questi intendimenti maturarono congiuntamente alla decisione di tenere a Roma, nel 1942, una grande Esposizione universale e alla scelta dell’area nella zona delle Tre Fontane. La via Imperiale, tracciata secondo un’idea di Piacentini, rappresentava l’asse di raccordo fra la città storica e un nuovo centro monumentale. Quattro piazze lungo il suo percorso e una serie di palazzi per ministeri, uffici pubblici e per enti di Stato, un’edilizia di 204

qualità ai suoi lati insieme a molte zone a verde costituivano il nuovo asse direzionale della città112. L’esposizione, concepita, diversamente da altre del passato, con una serie di edifici permanenti, avrebbe ospitato una piazza Imperiale, il Palazzo della Civiltà italiana, un Palazzo delle feste e dei congressi, il Palazzo delle Forze armate, alcuni musei. I tipici dislivelli della Campagna romana che caratterizzavano l’area suggerivano la realizzazione di un lago artificiale prima del rilievo verso il mare alla cui sommità si sarebbe innalzato un grande arco metallico di 330 metri di apertura e di 170 metri di altezza113. L’E42 si proponeva come un’ostentazione consapevole e matura della civiltà italiana, romana e fascista in tutti i suoi aspetti114. Ma era anche finalmente quella città nuova, sottratta ai vincoli e alle strettoie dell’antico, che molti, ma in primo luogo Piacentini, avevano a più riprese vagheggiato e progettato. L’E42 avrebbe conferito compiutamente a Roma quella dimensione del grandioso che le mancava come città moderna. Roma non ha il tipo di grande città capitale. La si vuol sempre considerare tale, ma di fatto non lo è. Ha carattere pittoresco, e non grandioso. Sono grandiosi i suoi monumenti, è grandioso San Pietro ed il Colosseo, ma non il taglio della città115.

Così scriveva Piacentini nel 1916. Ora poteva nascere la metropoli moderna in grado di confrontarsi con le altre grandi capitali. In un grande fervore di iniziative – l’occasione era sotto ogni rispetto unica per gli architetti, i costruttori, gli imprenditori – furono avviati i concorsi per i singoli edifici e messo a punto più volte il progetto generale. All’industriale Vittorio Cini si affiancò il talento organizzativo e progettuale di Piacentini, dal 1938 come sovrintendente all’architettura116. Espletati i concorsi per l’E42, fu avviata la costruzione dei primi edifici, mentre sorgeva nei pressi una cittadella per gli operai. Ma la guerra avrebbe prima imposto un freno all’enorme cantiere e poi interrotto l’impresa. Al momento dell’interruzione era compiuto il palazzo degli uffici dell’esposizione, innalzati ma non completati il Palazzo della Civiltà italiana, il «colosseo quadrato», e quello dei Congressi, realizzata in parte la piazza Imperiale. 205

All’inizio della guerra, dunque, la scenografia del consenso di massa era ancora quella definita intorno al 1932, alla vigilia degli anni di maggior successo del regime. Mentre la città nuova del fascismo, che alcuni vedevano articolata nei tre fori, Foro Mussolini, Foro italico, E42, lasciava appena avviata la sua maggiore realizzazione. A testimoniare della ricorrente ironia della storia, il compimento di quel progetto sarebbe invece toccato alla Roma democratica e repubblicana117.

4. La costruzione dell’egemonia, le tappe del consenso Roma nei suoi monumenti, nei suoi simboli, nella rappresentazione del potere fascista va considerata come una delle principali fabbriche del consenso al regime. Un consenso che per giudizio pressoché concorde dei contemporanei e degli storici ebbe il suo culmine alla metà degli anni Trenta e il suo momento più spettacolare con la proclamazione dell’impero il 9 maggio 1936. Quell’avvenimento fu vissuto, non solo dai fascisti, ma da molti che fascisti non erano, con un’intensa emozione. Il patriottismo si confuse con l’adesione al fascismo. Quel giorno Gioacchino Volpe era sulla scalinata del Vittoriano con un gruppo di storici trentenni, allievi della Scuola di storia moderna e contemporanea da lui diretta. Nella tarda serata del 9 maggio 1936, una diecina di noi, Chabod, Morandi, Ghisalberti, Maturi, Sestan e altri [...] ci trovammo raccolti in gruppo su la grande scalea del monumento al Padre della Patria. Gremita fino all’inverosimile era la piazza sottostante. Gremite nell’ultimo loro tratto le vie che sboccavano in essa. Ad un certo momento, comparve nel balcone di Palazzo Venezia l’uomo che sapete. Fece il discorso che voi, o alcuni di voi, ricorderete: vittoria in Etiopia, proclamazione dell’impero... Un rumore come di tuono si levò dalla grande folla. La commozione prese anche noi. E tutti, su quella scalinata, ad abbracciarci l’un l’altro. Quel regime poteva più o meno piacere, o a chi più ed a chi meno, a nessuno del tutto sì, a nessuno o a pochi del tutto no, per un motivo o per l’altro. Ma quella vittoriosa prova dell’Italia di fronte al Negus e, più ancora, alla falsamente virtuosa Europa delle sanzioni; quella solidarietà fraterna che allora parve riscaldare tutta la Nazione, 206

come mai era avvenuto nel nostro paese, riempivano noi di commossa e un po’ orgogliosa gioia, non senza riflessi in taluni anche sull’atteggiamento nei riguardi del fascismo118.

Scritta nel 1964, la memoria di quella giornata si proponeva come ammonimento etico-politico per quanti, superati quegli anni, avevano cancellato anche il proprio passato. E per gli storici che avevano dimenticato di ricordare le dimensioni del consenso al regime. Il consenso rimane tuttavia per molti aspetti inafferrabile nelle sue dimensioni, oscillanti fra adesione e passività. In questo senso è rivelatrice la considerazione di un fiduciario romano dell’agosto 1934119: Situazione politica afona [...]. Si nota la stanchezza e l’assenza di discussione politica quasi da indicare un adattamento, e quindi assenso alla politica del Regime.

Più evidente l’ampiezza dell’egemonia esercitata dal fascismo su Roma e in nome di Roma. Accanto alla piazza simbolica e ai riti che ciclicamente vi si celebravano, Roma si era dotata di una serie di centri di propaganda, veri moltiplicatori della comunicazione, che ne facevano il principale centro propulsore della politica culturale fascista. Sotto il controllo del ministero della Cultura popolare (Minculpop) operavano, accanto ai quotidiani e alla stampa periodica, i più efficaci e più moderni strumenti di comunicazione, la radio con l’Eiar e i cinegiornali dell’Istituto Luce, entrambi istallati a Roma. A Roma lavorava una buona parte dei numerosi impiegati e addetti dell’Eiar: nel 1939 nelle 20 sedi di tutta Italia si contavano 28 dirigenti e 1368 fra impiegati e addetti; con gli artisti fissi il personale toccava le 2016 unità, a cui si aggiungevano 4792 collaboratori esterni120. Gli addetti allo specifico compito della propaganda costituivano un settore d’impiego per gran parte nuovo e in espansione. Figure incardinate nel regime, intellettuali e tecnici di vario livello e responsabilità, affiancavano alla competenza l’ambiguità connaturata al loro ruolo, in cui al maggiore livello di informazione e di conoscenza del pubblico corrispondeva l’obbligo della rinuncia a ogni manifestazione palese dello spirito critico. 207

Questi nuovi centri di produzione culturale affiancavano i settori più tradizionali della pubblicistica, anch’essi in forte espansione nel corso degli anni Trenta. Dai 553 fra quotidiani e periodici degli anni Venti si passò ai 1894 del decennio successivo. L’aumento riguardò soprattutto i periodici, rappresentativi di innumerevoli ambiti specialistici, ed espressione del generale potenziamento dello Stato amministrativo le cui ampliate competenze cercavano nuove forme di comunicazione121. Questo proliferare corrispondeva al diffondersi di un linguaggio nazionale e di un sistema di comunicazione «normalizzato» operanti in funzione di una modernità tecnica e burocratica che trovava nel fascismo la sua realizzazione. Tutto quello che promanava allora da Roma acquisiva una valenza e una caratura nazionale e fascista. A Roma si accentrarono le avanguardie letterarie e artistiche in cerca di consolidamento e legittimazione dopo la fase costitutiva. Nella capitale si trasferirono, dopo aver iniziato altrove la loro attività, periodici come «Il Selvaggio» e «Quadrante», e altri più tradizionali come «La Fiera letteraria». E sempre a Roma si sperimentò, con «Omnibus», il primo esempio di rotocalco, in cui l’intrattenimento si proponeva al grande pubblico adottando una nuova e aggressiva interazione fra parola e immagine122. Infine, negli anni della guerra, Bottai raccolse sulle pagine di «Primato» quasi tutta la giovane e men giovane élite intellettuale italiana. Se a Milano e a Firenze rimase la supremazia della produzione editoriale e libraria, Roma acquisì e consolidò quella della produzione intellettuale: si affermava così una netta separazione dei ruoli. Anche l’Enciclopedia italiana, la maggiore iniziativa editoriale di quegli anni, aveva la direzione e la redazione a Roma pur essendo pubblicata con capitali lombardi e stampata a Milano. L’Enciclopedia rappresentò la cerniera fra l’alta cultura, quella accademica, e il pubblico colto di formazione liceale e universitaria. Con tempi ed efficienza non inferiori alle grandi realizzazioni del regime, i 35 volumi uscirono fra il 1929 e il 1937. Progettata da Giovanni Gentile, che la diresse fino al 1943, come sintesi ed epitome di tutta la cultura italiana tornata a nuovi splendori con la «nuova Italia» del fascismo, chiamava a raccolta tutti gli intellettuali italiani. Pochi si sottrassero e fra questi Benedetto Croce. In208

fatti l’intento nazionalpatriottico, unito alle capacità di mobilitazione di Gentile e alla sua tolleranza ideale e ideologica, consentì all’Enciclopedia di aprirsi alla collaborazione di molti che fascisti non erano e di alcuni antifascisti. Di qui i reiterati attacchi dell’intransigentismo fascista. Ma questa apertura culturale non impedì che in alcune voci chiave di argomento storico-politico l’adesione al regime fosse voluta ed evidente123. La voce Fascismo comparve a firma di Mussolini ed era stata per gran parte redatta dallo stesso Gentile. La grande voce Roma, di 339 pagine, di poco inferiore a quella dedicata a Italia, celebrava, e non poteva essere altrimenti, le grandi realizzazioni compiute sotto la guida del duce124. Gli anni Trenta videro nella capitale una notevole riorganizzazione e un potenziamento delle istituzioni culturali. La dotazione cittadina in questo campo era già amplissima, ospitando Roma, oltre agli istituti italiani, le accademie, le scuole e gli istituti stranieri (francesi come l’Ecole française e l’Accademia di Francia, tedeschi come l’Archäologisches Institut e la Biblioteca Hertziana, l’American Academy, per non dire che di alcuni) e quelli che facevano capo al Vaticano, come la Pontificia Università gregoriana, il Biblico, il Pontificio Istituto orientale e numerosi altri. Nel 1935 l’Università, contemporaneamente alla costruzione della nuova sede, riuniva in un unico organismo didattico e amministrativo le varie scuole superiori fino allora autonome: ingegneria, architettura, scienze economiche, magistero, che divenivano facoltà universitarie della Sapienza. Nell’istruzione superiore operavano anche l’Accademia di Belle Arti, quella di Arte drammatica, quella di Educazione fisica, il Conservatorio di Santa Cecilia, le scuole di Paleografia, diplomatica e archivistica, di Telegrafia e telefonia, quella superiore di Polizia. Nel settore delle scienze storiche una Giunta centrale era stata istituita nel 1934 per coordinare i quattro istituti storici nazionali, per la Storia antica, il Medioevo, l’Età moderna e contemporanea, il Risorgimento. Infine l’Istituto di studi romani, fondato nel 1925 e votato al culto di Roma, con larghe aperture alla cultura cattolica, curava l’organizzazione di congressi, lezioni, conferenze, iniziative celebrative. Su un versante più manifestamente politico l’Istituto nazionale fascista di cultura, anch’esso fondato nel 1925, tutelava e diffondeva, con pubblicazioni di libri e riviste e corsi di lezioni, l’ideolo209

gia fascista in Italia e all’estero. Legate in maggiore o minore misura a obiettivi privilegiati della politica estera italiana erano anche gli Istituti per l’Europa orientale, per l’Oriente, per il Medio ed Estremo Oriente e l’Istituto di studi germanici fondato nel 1932125. L’Accademia d’Italia, infine, fondata nel 1926 ma operativa dal 1929, conferiva il sigillo fascista all’alta cultura, fornendo ai suoi membri una divisa e il titolo di eccellenza. I primi trenta accademici furono indicati da Mussolini, i successivi venivano scelti dal duce su proposta dell’Accademia. Nel 1939 l’antica Accademia dei Lincei scompariva per fondersi nell’Accademia d’Italia. A differenza delle precedenti accademie, la costituzione dell’Accademia d’Italia si giustificava, come scriveva Volpe, con la necessità di dar vita a un organo più capace di influire sulla massa della gente colta, più vario e pieghevole e sollecito nella sua azione, più disposto a veder la scienza in funzione politica e nazionale; [che] concorresse alla formazione di una specie di fronte unico intellettuale italiano, perché fosse meglio affermata l’individualità morale della nazione e, insieme, agevolati i necessarî e benefici rapporti di scambio con gli altri paesi.

Si era infatti affermata la convinzione che lo Stato come interveniva nella vita economica e nei rapporti fra le categorie, poteva e doveva intervenire, più efficacemente che non facesse, nel campo della cultura, specialmente della cultura libera, dalla quale esso era assente126.

In quasi tutti i campi di quella che potremmo chiamare, col linguaggio del tempo, la vita morale e intellettuale e con tutte le variabili allora consentite da un regime autoritario, Roma aveva acquisito un primato definitivo e l’indiscussa egemonia nell’organizzazione culturale e nella comunicazione di massa. Veicolo transitorio, ma di notevole impatto per la costruzione del consenso e per la definizione dell’egemonia, furono le grandi mostre che il regime tenne nella capitale. Il fascismo amava mostrarsi e l’ostensione era connaturata al suo rapporto con le masse. Le mostre furono numerose, troppe per alcuni: «mostre madri di mostri» come si sussurrava polemicamente con un gioco di parole. 210

Dal punto di vista politico due furono le più significative, la mostra della rivoluzione fascista e la mostra augustea della romanità. Il 28 ottobre 1932, decennale della marcia su Roma e della presa del potere, si aprì nel Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale la mostra della rivoluzione fascista. Quattro fasci littori in rame, alti 25 metri, spiccavano contro un volume puro, color rosso cupo, che inscatolava, occultandolo, tutto l’edificio ottocentesco. Una grande scritta a caratteri netti con il titolo della mostra e due enormi X ai lati per ricordare il decennale attraversava tutta la facciata incombendo sulla scalinata d’accesso. L’effetto era di una modernità meccanica e industriale, orgogliosamente aggressiva e vagamente minacciosa. Il progetto di Libera e De Renzi rispondeva in pieno alle indicazioni di Mussolini di «far cosa d’oggi, modernissima dunque, e audace, senza malinconici ricordi degli stili decorativi del passato»127. L’interno, affidato agli architetti e pittori più vicini al regime, si disponeva lungo un percorso in cui per gli anni dal 1914 al 1922 erano scandite le vicende che avevano portato al trionfo fascista. La sala del duce precedeva, al termine del percorso, il sacrario dei martiri fascisti: in uno spazio circolare, lungo le cui pareti tornava ripetuta e ossessiva la parola «presente», nasceva al centro dalla fiamma una croce con l’iscrizione «per la patria immortale». Suoni luci e colori, con un’insistita contrapposizione di rosso e di nero, miravano a coinvolgere il visitatore nel passaggio dal caos del dopoguerra al nuovo ordine fascista e ad accentuare la componente sacrale del culto del duce e dei martiri. Nelle sale erano raccolti, e quasi compressi nelle bacheche, numerosissimi ricordi, cimeli, immagini e reliquie del movimento fascista e della sua lotta per la conquista del potere. Il linguaggio espositivo delle sculture, decorazioni e pannelli alternava il monumentalismo novecentesco di Sironi a un espressionismo di derivazione futurista. Particolarmente efficace nella sala del 1922, progettata da Giuseppe Terragni, un gigantesco pannello dove le pale di tre grandi turbine convogliavano il popolo italiano in una selva di mani protese nel saluto fascista128. Quasi quattro milioni furono i visitatori della mostra, che rimase aperta per due anni esatti, mentre ne era inizialmente prevista la chiusura dopo sei mesi, il 21 aprile 1933. Destinata ad essere accolta nel futuro Palazzo del Littorio, la mostra e i suoi materiali furono provvisoriamente trasferiti nella Galleria nazionale 211

d’arte moderna a Valle Giulia. Nel settembre 1937 fu riaperta nell’ala sinistra della Galleria, dove venne allestita una facciata posticcia che celebrava la nuova periodizzazione 1922-1936. Nelle trenta sale prevaleva ora un intento didattico più che artistico-celebrativo; mancava il sacrario dei martiri, previsto anch’esso nel Palazzo del Littorio. Costantemente rinnovata, la mostra ebbe due altre edizioni, nel 1939 e nel 1942. Nel 1939 quattro nuove sale erano dedicate alla conquista dell’impero, alla guerra di Spagna, al duce, a Guglielmo Marconi e si aggiunse anche una sala del cinema. La mostra si istituzionalizzò, da effimero duraturo divenne permanente, trasformandosi in centro di studio e di raccolta di materiali per la storia del fascismo e della sconfitta dei suoi avversari politici129. La riapertura del 1937 avvenne il 23 settembre, data del bimillenario di Augusto, in contemporanea con l’inaugurazione nel Palazzo delle Esposizioni della mostra augustea della romanità. Promossa dall’Istituto di studi romani per il bimillenario, celebrava la rinascita della Roma imperiale nell’Italia fascista. L’occasione era particolarmente propizia per sostenere il parallelismo fra Mussolini e Augusto, un’analogia che si aggiungeva a quella altre volte proposta fra il duce e Giulio Cesare. Conquista militare e pacificazione erano i motivi che giustificavano ora l’assimilazione fra le due figure, espressione di un culto della personalità ormai senza freni, frutto di un processo di sempre maggiore personalizzazione del regime. Al culmine di questo processo la divaricazione e il dualismo fra il fascismo e la monarchia, fra Mussolini e Vittorio Emanuele III, erano destinati a riproporsi con forza. Nella nuova mitologia storica v’era poco posto per il re, anche se il Quirinale continuava a conservare un potenziale potere alternativo. Sminuito nel ruolo e sovrastato in tutti i sensi dalla presenza dilagante del duce, il re rappresentava tuttavia il presidio di poteri, simboli e tradizioni, diffusi nel paese e racchiusi nel corpo ufficiali dell’esercito, non riconducibili all’universo mitico fascista. A questo dualismo strutturale si aggiungeva, soprattutto sulla scena romana, la presenza via via più visibile delle istituzioni ecclesiastiche. La S. Sede e le organizzazioni cattoliche, rafforzate dalla nuova legittimazione derivata dai Patti lateranensi, potevano presentarsi senza remore come espressione di un potere com212

piutamente alternativo. Alternativo ma anche attento a ricercare una tutela giuridica al carattere sacro della città di Roma. Preoccupazione che si era tradotta nella norma del secondo comma del primo articolo del Concordato, che impegnava il governo italiano, «in considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e mèta di pellegrinaggi», ad aver cura d’impedire in Roma tutto ciò che potesse essere «in contrasto con detto carattere». Una richiesta che nasceva dai pericoli di una diffusa immoralità che la Chiesa vedeva serpeggiare nella città. Certa, nel segnalare questo allarme, di un’identità di vedute con il progetto di una rinnovata civiltà romana promosso dal fascismo. Ma dall’ipotesi di una cattolicizzazione della città prese subito le distanze Mussolini, sottolineando che Roma non sarebbe diventata «una città tetra dove non ci si potrà più onestamente divertire» e ricordando, con qualche ironia, che anche nella città dei papi «ci si divertiva benissimo»130. Pur nell’accordo venivano ribadite alcune distanze non superabili fra due visioni di Roma. Da un lato gli anni Trenta coincidono con le attese di una restaurazione cattolica che sembra potersi realizzare in sintonia con il regime131. Dall’altro la Chiesa mantiene e accelera una presa sulla società che risponde a una grande articolazione di iniziative. Iniziative che talora entrano in contrasto con quelle del regime nonostante la perdurante prudenza delle gerarchie, sollecite nell’evitare e ridurre le occasioni di attrito132. La radicata consapevolezza di una permanente diversità, il proselitismo dell’Azione cattolica, gli interventi a tutela dei ceti disagiati e del mondo operaio configurano una rete organizzativa piuttosto fitta in grado di presentarsi in determinate occasioni e di proporsi in prospettiva come alternativa al fascismo. La Chiesa era del resto impegnata ad arginare una crisi di religiosità diffusa a Roma soprattutto negli ambienti popolari dove si incontravano due varianti, «quella più antica del centro storico, venata di un anticlericalismo dalle radici antiche, e quella, più recente e più consistente, della periferia urbana, dove lo sradicamento dal centro o dal paese d’origine, provocano una trasformazione della mentalità religiosa»133. All’impegno per la catechesi corrisponde la crescita del numero delle nuove parrocchie e degli istituti religiosi: dal 1930 al 1940 le parrocchie passano da 64 a 103. Nello stesso periodo si costrui213

scono 98 nuove chiese e «71 istituti religiosi aprono nuovi centri assistenziali o pastorali»134. Inoltre, grazie al nuovo statuto giuridico definito dai Patti lateranensi, la Chiesa aveva potuto allargare la sua presenza fisica e simbolica in città avviando, a partire dal 1929, un imponente ricupero degli spazi. In virtù del trattato l’Italia riconosceva alla S. Sede la costituzione dello Stato della Città del Vaticano, la piena proprietà delle basiliche patriarcali di S. Giovanni in Laterano con la Scala Santa, S. Maria Maggiore, S. Paolo e l’attiguo monastero, la libera proprietà degli edifici di S. Callisto. Confermava il riconoscimento della proprietà degli edifici di Propaganda Fide, della Dataria, di S. Apollinare, del Vicariato a via della Pigna, dell’Università gregoriana alla Pilotta, dell’Istituto biblico e dell’Istituto orientale. Trasferiva infine alla S. Sede gli edifici ex conventuali annessi ai SS. Apostoli, S. Andrea della Valle, S. Carlo ai Catinari, utilizzati come sede di ministeri e di uffici pubblici, nonché i terreni e gli edifici di un’ampia zona del Gianicolo135. Ai fini dello statuto giuridico degli ordini religiosi, il Concordato riconosceva la personalità giuridica delle associazioni religiose, con o senza voti, rappresentate da persone in possesso della cittadinanza italiana, restituendo così alle comunità religiose il diritto a possedere immobili. Gli atti relativi ai trasferimenti degli immobili, dei quali le associazioni sono già in possesso, dagli attuali intestatari alle associazioni stesse saranno esenti da ogni tributo.

Per effetto di queste norme, enunciate nell’art. 29 (punto b) del Concordato, vennero avviate innumerevoli pratiche per la riacquisizione di beni degli ordini ecclesiastici conservati fino allora in proprietà da singoli religiosi, società o prestanome. Un parere favorevole del Consiglio di Stato concludeva la procedura di reintegro nelle proprietà136. Il rafforzamento dell’istituzione ecclesiastica percorse anche altre strade. È il caso di due ex conventi, simbolo della volontà eversiva dello Stato risorgimentale, tornati alla Chiesa in quegli anni. Il convento delle suore domenicane dei SS. Domenico e Sisto a Magnanapoli fu destinato prima a sede della Corte dei Conti e in seguito della Direzione generale del Fondo per il culto. Edi214

ficio imponente e turrito, affacciato sui Fori, occupava gran parte dell’area su cui Crispi voleva progettare il suo nuovo Parlamento. Richiesto dai domenicani del collegio S. Tommaso d’Aquino fu ad essi venduto nel 1928 per 9.000.000 di lire. Il convento dei gesuiti al Gesù, trasformato prima in caserma e adattato poi a sede dell’Archivio centrale del Regno e dell’Archivio di Stato di Roma, tornava ai gesuiti nel 1937 per 3.200.000 lire137. Era solo l’inizio di un processo di espansione della proprietà ecclesiastica, destinato ad avere una vistosa accelerazione negli anni del secondo dopoguerra. Il consolidarsi dell’articolazione, anche antagonistica, dei poteri reali e simbolici nella capitale rende forse più arduo che altrove stilare una graduatoria definitiva dei livelli del consenso al regime. Operazione comunque difficile, se non impossibile, anche per il paese nel suo insieme. Gli indicatori utilizzati dagli storici sono tutti impressionistici, e non potrebbe essere altrimenti, ma sono tutti convergenti, sia quelli interni risalenti alle relazioni degli informatori o alle percezioni dei contemporanei in Italia, sia quelli esterni legati alle valutazioni dei fuorusciti. Tutti concordi nel ritenere gli anni dal 1929 al 1934 e fino al 1936 se non al settembre 1938, quando Mussolini poté presentarsi come arbitro dell’Europa, gli anni del maggior consenso al regime, confermando la ricostruzione di Renzo De Felice138. L’indiscutibile popolarità di Mussolini, il diffuso culto del duce, il patriottismo nazionale sollecitato dai successi in politica estera e incrementato dalle sanzioni anti-italiane, il riconoscimento del ruolo sociale dei ceti rurali e operai, il welfare populista e il successo dell’Opera nazionale dopolavoro, oltre allo scontato appoggio della grande maggioranza dei ceti piccoli e medi, costituivano altrettanti fattori di adesione al regime139. Per Roma si possono rammentare alcune variabili specifiche: la struttura sociale e produttiva priva di grandi impianti e di consistenti agglomerati di operai di fabbrica; gli orientamenti politici dei primi anni Venti, caratterizzati da una larga presenza nazional-liberale, dalla frammentazione della sinistra socialista e repubblicana e da una bassa politicizzazione con percentuali di votanti inferiori al 45%; infine, il condizionamento derivante dalla vicinanza al potere centrale. Era difficile che da questi elementi potessero emergere gli stimoli per una diffusa e durevole, anche 215

se latente, resistenza, tale da ostacolare il dilagare del consenso. È più facile invece ipotizzare che i successi politici, la mobilitazione permanente nelle organizzazioni del regime, gli echi vicini se non la partecipazione diretta ai riti di massa e le vistose trasformazioni della città avessero rafforzato i legami col fascismo e con Mussolini. Non sembra poter essere d’aiuto l’analisi del vario andamento del numero degli iscritti al Pnf, vuoi perché soggetto all’irregolare alternarsi delle operazioni di chiusura e riapertura delle iscrizioni, vuoi perché il consenso investiva aree e comportamenti ben più vasti di quelli definiti dalla militanza nel partito140. Gli iscritti al partito erano 49.363 nel febbraio 1930, 275.354 nel novembre 1940. Alle stesse date i balilla erano rispettivamente 25.246 e 72.797, gli universitari dei Guf 4252 e 9774, gli iscritti al dopolavoro 60.005 e 215.253141. Sul fascismo romano permaneva il tradizionale giudizio negativo delle origini: poca mobilitazione e molto opportunismo. «Il Fascismo romano – secondo una relazione fiduciaria del marzo 1931 –, forse più degli altri, è appesantito da una massa grigia di fascisti più di nome che di fatto»142. Nei grandi complessi edilizi popolari l’inquadramento era molto diffuso: su 1000 famiglie per oltre 5000 abitanti nella borgata Tiburtino III, riferiva un promemoria al segretario del Pnf dell’ottobre 1938, vi erano circa 2000 iscritti al partito e alle sue organizzazioni143. L’ulteriore dilatazione del numero degli iscritti complessivi per tutti gli anni della guerra, con il picco al 10 giugno 1943 di 4.770.770 tesserati nazionali nei fasci maschili e di 1.217.036 in quelli femminili144, testimoniava non soltanto il rafforzamento della dimensione totalitaria del regime, ma rivelava anche il meccanismo di difesa che l’iscrizione comportava in un periodo difficile («La tessera del partito, fu detto, era la tessera del pane»)145 e nella fase declinante del consenso innescata dalle reiterate sconfitte militari. Proprio l’assenza di ogni alternativa tendeva ad allargare l’inquadramento nel partito, sempre più identificato come la fonte di ogni potere e dunque la salvaguardia nelle difficoltà. Negli anni del maggiore consenso la vicinanza al potere centrale produceva a Roma due risultati in qualche misura contrastanti: da un lato l’impossibilità di sottrarsi se convocati a fare massa nelle adunate del regime, dall’altro il privilegio di parteci216

parvi e di misurare dal di dentro l’emozione e l’efficacia del rito; da un lato la precettazione, le cartoline rosse, dall’altro il nuovo protagonismo delle divise, delle sfilate. La vicinanza ai vertici dello Stato significava anche per alcuni gruppi sociali possibilità di una conoscenza minuta dei meccanismi di funzionamento del potere, dei suoi secreta, dei suoi aspetti degenerativi, la corruzione, gli abusi, il clientelismo. Inquadramento e passività, coinvolgimento e disincanto sembrano gli atteggiamenti dominanti nella capitale all’apogeo del regime. Gli storici, e in primo luogo De Felice, hanno concordemente notato la coincidenza un po’ paradossale fra gli anni del consenso e la crisi economica, accompagnata da riduzione delle retribuzioni e dei consumi. A Roma vi furono vistosi tagli di manodopera e licenziamenti nel settore dell’industria meccanica, alla Fatme, ad esempio, e alla Breda; nel chimico-tessile, alla Viscosa, gli addetti scesero, fra il 1930 e il 1932, da 2383 a 1339. Il diffuso malcontento dei quartieri popolari veniva sistematicamente registrato dagli informatori del Pnf146. Ma il disagio sociale, nonostante l’ampia disoccupazione e le estese forme di pauperizzazione147, non si tradusse mai, a Roma, in conflitto. Il sindacato fascista cercò di mediare e convogliare nelle sue iniziative una parte del risentimento operaio e talora vi riuscì, mentre gli ammortizzatori predisposti dal regime – con i controlli e le riduzioni dei prezzi – e il consolidato disciplinamento fecero il resto. Disagio senza conflitto: questo era il livello di massima tensione registrato nelle relazioni sociali della capitale in quegli anni. Del resto la fascistizzazione dei grandi complessi lavorativi era molto estesa. Già nella primavera del 1926, come riferiva «Capitolium», oltre 3000 tranvieri del Governatorato avevano giurato, vibranti di «patriottico ardore e di devozione incondizionata al Duce e al fascismo»148. Nel Poligrafico dello Stato dal 1928-29 non si era assunti se privi di tessera del fascio e nel 1934 risultavano «iscritti alle organizzazioni del Pnf quasi il 90% degli impiegati e poco meno del 70% degli operai»149. Nel 1934 su 112.117 rappresentati dal sindacato dei lavoratori dell’industria nell’intera provincia di Roma, i tesserati erano 82.289. Nel 1937 gli iscritti erano 126.339, con una presenza di 37.753 lavoratori nell’edilizia, 17.209 nel settore meccanico e metallurgico, 11.951 nell’industria chimica, 11.331 nello spettacolo, 8231 autoferrotranvieri150. 217

A Roma l’inquadramento offriva una serie di privilegi particolari e alcune funzioni di prestigio legate al ruolo della capitale come vetrina del regime. I balilla, ad esempio, montavano la guardia a palazzo Venezia nelle grandi occasioni. I ferrovieri avevano, a via Bari, un grandioso dopolavoro con albergo e cinema-teatro di 1500 posti. I dipendenti dell’Ina disponevano di eleganti locali a via Veneto151. Al Circo Massimo, liberato dagli edifici dell’officina del gas, alcune grandi esposizioni come quella delle colonie estive e dell’assistenza all’infanzia del 1937 e quella del Dopolavoro del 1938 mettevano a disposizione le loro strutture e i loro loisirs a tutti i cittadini. Promosso dal Pnf, il villaggio balneare del Circo Massimo, riutilizzando e riadattando le piscine, i campi di pattinaggio, i caffè, i cinema, il teatro della mostra del Dopolavoro, ebbe nell’estate del 1939 uno straordinario successo. Il villaggio invernale e primaverile chiuse invece in anticipo, ai primi di aprile del 1940, alla vigilia di una stagione gravida ormai di scelte drammatiche e di imprevisti152. L’estate del 1939 fu dunque l’ultima vissuta in spensieratezza dalla maggioranza dei romani. Ma per la minoranza rappresentata dagli ebrei da un anno ormai il cielo si era oscurato. 5. La persecuzione degli ebrei Il 14 luglio 1938 era stato pubblicato il manifesto degli «scienziati» sulla razza, con il quale prese avvio ufficialmente la campagna antisemita. In realtà dai primi giorni di quell’anno la stampa italiana aveva cominciato ad ospitare articoli antisemiti. Dall’estate su tutta la stampa iniziò una propaganda in grande stile. Alcune pubblicazioni, come «Omnibus», tennero le distanze con un atteggiamento ironico e snobistico153, ma la grande maggioranza dei giornali e dei periodici si allineò. Il 22 agosto venne effettuato un apposito censimento per individuare gli ebrei, raggiunti dalle schede anche nei luoghi di villeggiatura. Ai primi di settembre si decise l’arianizzazione della scuola, si organizzarono gli uffici statali e definirono gli organici preposti alla persecuzione. Quando, il 17 novembre, furono emessi i provvedimenti per la difesa della razza, i bambini ebrei avevano già dovuto lasciare le loro classi. Per gli alunni delle elementari, per i quali vigeva l’obbligo scola218

stico, furono allestite sezioni speciali; per le medie e le superiori le comunità dovevano provvedere con i loro mezzi. Era iniziata la fase della «persecuzione dei diritti» degli ebrei154. Come ha sottolineato De Felice «l’antisemitismo e il razzismo mancavano in Italia di qualsiasi reale consistenza e tradizione di massa»155. Lo sbalordimento e lo smarrimento che colpirono allora gli ebrei si traducono nella sensazione di un salto di qualità illogico e irrazionale, oltre e al di là delle spiegazioni che sono state date alla svolta della politica razziale: la necessità di un più stretto accordo con la Germania, l’obiettivo di preservare la cultura tradizionale dai germi dissolvitori della modernità, la lotta ingaggiata contro il perbenismo, l’attendismo, le ipocrisie borghesi per plasmare l’italiano nuovo. Per Mussolini era insopportabile il lassismo italiano in Etiopia e la promiscuità sessuale con le belle abissine. Appariva poi indispensabile competere alla pari con Hitler. Infine le residue incertezze sull’opportunità di dare avvio all’antisemitismo di Stato, ha ricordato ancora De Felice, erano destinate a cadere di fronte all’irritazione del duce «contro la borghesia, la Chiesa e la monarchia e alla sua convinzione che la politica della razza avrebbe costituito il più potente ‘cazzotto’ che egli poteva loro sferrare»156. Era l’implicito riconoscimento di quanto gli ebrei fossero radicati e intrecciati nella realtà nazionale e insieme il segnale di come la politica italiana fosse ormai drammaticamente legata alle scelte sempre più isolate di Mussolini. Si cominciava a incrinare il rapporto di fiducia fra gli italiani e il dittatore, incapace di cogliere il significato politico dei segnali di irritazione e di ansia che le sue scelte provocavano. Ne possiamo trovare traccia anche in un’imbarazzata pagina di Gioacchino Volpe, scritta alla fine del 1938, volta a illustrare il malessere suscitato dal nuovo razzismo fascista. Di fronte ad esso, un certo disagio e qualche reazione dell’opinione pubblica italiana non mancarono, sebbene nessuno disconoscesse la legittimità di talune esigenze razziste. Quasi improvvisa come essa fu, la politica della razza non trovò il terreno molto preparato. Certe solidarietà fra ebrei e cristiani, cioè fra «semiti» e «ariani», create dagli studî e dalla colleganza accademica, dalle due guerre insieme combattute, dalla comune appartenenza al partito e anche dagli affari, non fu agevole spezzarle d’un colpo. Molti si chiesero se, per tenere un po’ 219

indietro l’elemento ebraico, certo invadente e assorbente, fosse necessario metter in piedi quella grossa costruzione teoretica di incerto valore scientifico e mal rispondente a tradizionali concezioni storiche italiane. Ci si ricordò che l’antico irredentismo triestino aveva avuto tra gli ebrei molti assertori, anche col loro sangue. [...] Si affacciò il dubbio che, in un momento di grave tensione internazionale, come era quello, convenisse proprio moltiplicare e invelenire ancor di più i nemici dell’Italia. Un altro segreto timore era questo: che il fascismo potesse mettersi sulla scia del nazismo, in fatto di dottrina della razza, e smarrire così qualche tratto della originaria e schietta sua italianità. Questi e simili dubbi, timori, obiezioni serpeggiarono quei giorni nel sottosuolo italiano [...]157.

Voce autorevole quella del maggiore storico fascista, che si piegava tuttavia nell’ossequiente accettazione del «noi tireremo diritto» di Mussolini. Con i provvedimenti adottati alla fine del 1938 gli ebrei furono esclusi da tutti gli impieghi statali e pubblici in genere, allontanati dalle scuole e dalle università, dall’esercito e dal Pnf, dagli impieghi nelle banche e nelle assicurazioni. Fu introdotta l’odiosa procedura della discriminazione, fonte di abusi e corruzione, che consentiva ad alcuni ebrei che potevano vantare speciali benemerenze patriottiche o fasciste di non sottostare alle restrizioni158. Seguì l’umiliazione dei battesimi affrettati, dei cambi di cognome, talora della ricerca di occultate paternità illegittime. Fin dall’inizio fu fatto divieto di possedere aziende con un numero di addetti da 100 in su, di esserne direttore, amministratore o sindaco. Era vietato possedere terreni per un valore superiore alle 5000 lire di estimo e alle 20.000 lire di imponibile se fabbricati urbani: i beni eccedenti andavano conferiti a un Ente di gestione e liquidazione immobiliare. Le famiglie ebraiche non potevano avere personale di servizio ariano, una norma che colpì in particolare i ceti borghesi, i malati e gli anziani non autosufficienti. Fu abolita la macellazione rituale. Gli ebrei furono cancellati dagli elenchi telefonici, fu fatto divieto di inserire necrologie e pubblicità sui giornali, infine furono loro sequestrati gli apparecchi radio. Nel 1939 furono esclusi dagli albi professionali: i medici, gli avvocati, gli ingegneri, i geometri ecc., se non discriminati, potevano avere solo clienti ebrei159. Molte altre restrizioni in campo lavorativo fu220

rono adottate in seguito, soprattutto nel settore delle attività commerciali, con la graduale cancellazione delle licenze160. Dopo l’Unità l’ebraismo italiano si era andato concentrando nelle grandi città, mentre si era accentuata l’assimilazione. Negli anni Trenta un terzo dei matrimoni erano misti e il 70-75% dei figli di queste unioni non erano più ebrei; nel 1938 furono contate 5011 coppie miste su una popolazione totale di 58.412, composta da 48.032 italiani e 10.380 stranieri. A Roma gli ebrei erano circa 11.000 secondo il censimento del 1931, condotto in base alla pratica religiosa; nell’agosto 1938, in base ai criteri «razziali», ne furono censiti 12.799161. Pur essendo più che raddoppiata, la popolazione ebraica romana era passata dal 2% circa sul totale degli abitanti della capitale nel 1868 all’1% di settant’anni dopo. Roma rimaneva di gran lunga la comunità più numerosa e anche qui si era verificato un forte incremento di stranieri. Nella capitale si era conservata una forte presenza nelle attività commerciali: le ditte ebraiche rappresentavano il 6,5% del totale, mentre mantenevano il tradizionale predominio nel settore della vendita all’ingrosso e al dettaglio di tessuti e abbigliamento162. Negli anni si erano ampliate le attività di rappresentanza e intermediazione, le libere professioni, gli impieghi pubblici nell’aministrazione e nell’insegnamento. L’articolata struttura sociale e professionale della comunità romana presentava un ampio ventaglio di redditi e di livelli culturali con differenti capacità di risposta e di resistenza alla persecuzione. I primi ad esserne colpiti furono gli impiegati e i dirigenti pubblici e i docenti. Dall’Università di Roma furono allontanati sette professori ordinari: Roberto Almagià di geografia politica ed economica;, Gino Arias e Riccardo Bachi, entrambi di economia politica e corporativa; Umberto Cassuto di ebraico e lingue semitiche comparate; Giorgio Del Vecchio di filosofia del diritto; Alessandro Della Seta di etruscologia; Federigo Enriques di geometria superiore; Tullio Levi Civita, di meccanica razionale. Del Vecchio che era stato fascista e rettore dell’Università, dopo esser stato reintegrato nell’insegnamento, dovette subire nel 1945 anche l’onta dell’epurazione163. Nel settore commerciale si approntarono presto una serie di soluzioni difensive con la trasformazione delle ditte in società anonime o con l’intestazione ad amici, a soci ariani, a prestanome. Già nel 1939 grandi aziende come i magazzini Coen al Tritone, 221

con 350 dipendenti, o Piperno al Corso si presentavano al pubblico con le nuove denominazioni di Saita (Società anonima italiana tessuti abbigliamento) e Tecoel (Tessuti confezioni eleganti) e, secondo le carte della polizia che le teneva strettamente sorvegliate, stavano prendendo in considerazione l’ipotesi di vendere164. Da subito si prospettò a molti l’ipotesi dell’emigrazione. Fino alla primavera del 1940 vi furono 5424 emigrati da tutta Italia e più di un migliaio da Roma165. Fuggirono molti stranieri, e poi i giovani con meno legami, gli studiosi e gli scienziati le cui risorse intellettuali erano più facilmente spendibili all’estero. Per quanti avevano un’attività commerciale ben radicata la fuga era più difficile. Spaventava il rischio di abbandonare tutte le proprie risorse e tagliare le antiche radici con Roma. Con la drammatica sensazione di una vita interrotta, della perdita di ogni certezza e della cancellazione di ogni futuro, a molti si presentò l’alternativa di una nuova diaspora. Il diario del rappresentante di commercio Mario Tagliacozzo restituisce una misurata descrizione di questi sentimenti166. Rafforzando tutte le reti di parentela e i legami con gli amici ariani, cui spesso vennero affidate case, beni e gioielli, furono avviate complesse strategie di sopravvivenza. Alcune iniziative degli ebrei riuscirono talora a mettere in difficoltà le autorità, come si evince da un episodio marginale dell’estate 1940, a guerra ormai iniziata contro la Francia e la Gran Bretagna. Il quotidiano razzista «Tevere» aveva denunciato la circostanza che alcune ditte ebraiche ostentavano nelle loro vetrine manifesti, stampe e simboli nazionalisti, segnalando in particolare che in un negozio nei pressi della stazione compariva un manifesto raffigurante il pugnale fascista che colpiva a morte l’Inghilterra. Il questore di Roma, con mirabile manifestazione di ossequio burocratico, in una lettera al prefetto, datata 17 luglio 1940, dopo aver chiarito che il manifesto in questione era stato pubblicato dalla rivista «Autarchia e commercio» alla quale l’israelita titolare del negozio era abbonato e che la pubblicazione era regolarmente autorizzata, gradiva conoscere «se il manifesto stesso debba essere o meno rimosso»167. L’ingenua ostentazione di patriottismo era una delle illusioni residuali per tentare di sottrarsi alle persecuzioni e ritrovare la perduta eguaglianza. Anche la zelante amministrazione dello Stato non sapeva come procedere di fronte alle strategie difensive messe in atto dagli ebrei in quegli anni. 222

Non si hanno sufficienti informazioni sugli atteggiamenti dell’opinione pubblica romana e sulle reazioni della popolazione in seguito alle leggi razziali, salvo gli episodi di singole solidarietà registrati dalla memorialistica. Anche su altre città italiane la documentazione non è molto ricca, e in genere gli informatori segnalano perplessità o indifferenza tali da far risaltare un rifiuto generalizzato alimentato dall’atteggiamento negativo della Chiesa168. Non piaceva che la politica razziale fascista apparisse come un ossequio alla Germania e a Hitler, dopo che era stato a lungo deprecato il razzismo tedesco. Né l’antico antigiudaismo cattolico riusciva a giustificare la persecuzione. Per gran parte degli italiani gli ebrei erano un’entità sconosciuta, ma per quanti erano in relazione con loro la normativa razziale rappresentò un’incrinatura nella legittimità morale del regime, fino allora per molti indiscussa. La campagna razziale fu certamente un aspetto della accelerazione politica di quegli anni. Diede contenuti nuovi alla mobilitazione giovanile di un nuovo fascismo rinverdito negli obiettivi rivoluzionari. Ma si scontrò anche con la diffusa insofferenza per l’alleato tedesco. Proprio dalla fronda giovanile fascista convinta della propria autonomia e superiorità ideologica vennero alcuni episodi di ribellismo goliardico. La contestazione di Virginio Gayda, direttore del «Giornale d’Italia», quando difese all’Università di Roma la positività dell’Anschluss, e quella messa in atto di lì a poco, nel maggio 1938, quando durante le giornate romane della visita di Hitler, accolto da grandi scenografie effimere, gli stessi giovani accompagnati da alcune ragazze, con temperini e punteruoli, si dedicarono «a bucare i pneumatici delle lussuose macchine tedesche in sosta davanti a alberghi e locali»169. L’insofferenza per l’irrigidimento e la burocratizzazione del regime e il nuovo impegno politico profuso dalle frange giovanili romane erano segnali della progressiva perdita di consenso del fascismo in stretta connessione con l’intensificazione totalitaria. Il 3 agosto 1939 un fiduciario di Roma scriveva: «La piccola gente se lo sente addosso, il Fascismo, come un pesante fardello. Essa non vede l’ora di liberarsene»170.

VII

Dalla guerra fascista alla democrazia

1. La guerra e la caduta del fascismo Erano le quindici. Un’afa pesante opprimeva gli spiriti degli uomini e pesava sulla città da un cielo immobile. Tornai a Villa Torlonia.

Domenica 25 luglio 1943. Mussolini rientrava da una rapida visita a San Lorenzo duramente colpito dai bombardamenti americani del 19 luglio1. Quel giorno era a Feltre per incontrare Hitler e al ritorno gli era stato sconsigliato di presentarsi nel quartiere bombardato, un quartiere di nFote tradizioni antifasciste. Vi erano già stati il papa e il re a portare solidarietà e ad ascoltare le grida dei popolani che reclamavano la cacciata del duce. La gerarchia della popolarità si era rovesciata e nessuno credeva più che Mussolini potesse salvare l’Italia. Nemmeno lui stesso. Mussolini non si era ancora recato nei quartieri bombardati e la voce popolare diceva che non si volesse confrontare con la rabbia e lo sconforto dei cittadini. Quella visita tardiva cercava di dimostrare che il duce non si sottraeva al confronto con il quartiere colpito. E forse rispondeva all’ansia di misurare da vicino l’avvenimento che aveva imposto la svolta decisiva al suo destino. Nella notte il Gran Consiglio l’aveva sfiduciato, i suoi gli si erano rivoltati contro. Di lì a poco, rassegnato, si sarebbe recato dal re. Dopo un breve colloquio, in cui ricevette l’annunzio della sua sostituzione con Badoglio, fu arrestato sui gradini di Villa Savoia. Erano da poco passate le 17. Alle 22.45 la radio annunciò le dimissioni di Mussolini con un proclama del re. Seguì quello di Badoglio che comunicava di as224

sumere il governo militare del paese con pieni poteri. Nella serata estiva, dalle finestre aperte la notizia si diffuse rapidamente. La ascoltarono anche gli ebrei ai quali l’apparecchio era stato requisito. Non ne distinguiamo le parole – ricorderà Mario Tagliacozzo, che abitava al quartiere Delle Vittorie –, ma [...] ci affacciamo con curiosità alla finestra. Ad un tratto mi pare di afferrare le parole re, Badoglio. [...] Ma ora che avviene? La radio suona la Marcia reale e non è seguita da Giovinezza... Dò un balzo, afferro la giacca e semisvestito sono già sulla strada. [...] In via Monte Zebio vi sono gruppi di gente che discorrono animatamente: [...] se ne sono andati... Mussolini è stato arrestato... [...] Siamo tutti come matti, siamo tutti esaltati2...

Si intrecciano le telefonate, i vicini si riuniscono e brindano. Intanto in centro si forma qualche corteo, i simboli fascisti vengono abbattuti. La mattina dopo sempre in centro gran movimento, grande animazione, gran gioia, che trapela da tutti i volti. Le prime bandiere sventolano dalle finestre, i primi fasci sono demoliti dagli uffici pubblici e dalle caserme. I metropolitani non hanno più i fasci al bavero della giubba, non si vede più un milite. Davanti alle sedi dei fasci vi è ancora la traccia di qualche falò notturno ed il lastrico è coperto di distintivi [...] nel complesso il popolo di Roma è composto, non passa ad eccessi e la rivoluzione è incruenta. Qualche scritta di abbasso appare sulle mura delle case qua e là, qualche fotografia del duce ha frasi di vilipendio o riceve gli sputi della plebaglia, dei camion passano trascinando nella polvere del selciato un’effigie in bronzo di Mussolini, ma nulla di più, poco è il sangue versato. Alle 11 è dichiarato lo stato d’assedio e tutto rientra verso la normalità, perché le dimostrazioni sono invitate a sciogliersi ed i gruppi di cittadini, fermi sui marciapiedi, a circolare3.

Anche padre Libero Raganella, che si spinge fuori dal quartiere di San Lorenzo distrutto e lasciato senza aiuti quella mattina, registra le stesse impressioni. Le strade sono affollate di gente che esulta per la caduta del fascismo. Sorpasso oratori improvvisati che commentano l’avvenimento, capannelli di gente che discute animatamente, piccoli cortei dietro una bandiera che inneggiano e cantano4. 225

Fra il popolo e nei quartieri popolari quello che stava avvenendo aveva un solo significato, la fine della guerra. Assaltate e depredate le sedi del fascio, i gerarchi eclissati o in fuga, i militi consegnati nelle caserme, il fascismo crollò in modo rapido e indolore. Sono le considerazioni di tutti gli osservatori e anche quelle di un grande giornalista, Paolo Monelli, il più acuto (e ironico) interprete di quell’anno drammatico a Roma. Gente prova ad imprecare ad alta voce, a Mussolini, al fascismo, con la soddisfatta esperienza che non gli succede nulla. È davvero la caduta dell’albero intarmolito, mangiato dalle termiti, che sembrava di così salde radici, di così vasta corona. Sul mezzogiorno escono i primi reparti di forza pubblica, e manifesti che invitano il popolo alla calma. Ma per dodici ore – pare per accorto disegno del capo della polizia Senise – il popolo abbandonato a sé stesso ha dimostrato che il suo sentimento è un grande, un enorme, un pacifico sollievo; si è visto che nessuna reazione seria si è avuta dalle milizie fasciste [...] si è visto, insomma, che il fascismo si è dissolto come nebbia5.

Senza la congiura e senza il colpo di Stato il fascismo non sarebbe caduto, anche se nella coscienza degli italiani la guerra aveva definitivamente incrinato il rapporto con il regime e con il duce. Il paese, ostile e riluttante all’entrata in guerra, l’aveva in parte accettata quando l’intervento italiano era sembrato destinato a raccogliere rapidamente, insieme ai tedeschi, i frutti di una facile vittoria. Ma presto aveva prevalso di nuovo l’avversione, salvo il breve periodo dell’estate 1942, quando una serie di successi militari in Africa settentrionale e in Russia erano riusciti a restituire una qualche fiducia nelle sorti dell’alleanza italo-tedesca. Le perplessità sul conflitto erano diffuse ancor prima che la partecipazione dell’Italia fosse stata decisa. I rapporti dei fiduciari fascisti non lasciavano dubbi al riguardo. Già nel gennaio 1940 segnalavano a Roma un «grave e diffuso malcontento». Il razionamento dello zucchero aveva suscitato proteste diffuse. «Il Regime sta minando in questo modo sempre più le sue basi». La direttiva di fondere il bronzo dei monumenti ai caduti della Grande guerra per donarlo alla patria non piaceva affatto: sarebbe, si diceva, finito in mano tedesca. Il 18 aprile 1940 un rapporto riferiva che «gli otto decimi, almeno, degli italiani sono violentemen226

te turbati poiché sentono che è in una guerra contro natura che verrebbero lanciati»6. Altre informative segnalavano una diffusa sensazione di allarme fra la popolazione cittadina. Tutte le notizie, vere o soltanto verosimili, che facciano credere alla possibilità di un regolamento pacifico dei problemi italiani, sono accolte come un balsamo dal popolo che ha l’animo ulcerato dalla lunga attesa. [...] non accenna menomamente a cessare l’avversione verso la Germania, professata apertamente da molti. [...] comunque lo stato d’animo della maggioranza della popolazione romana perdura nella tendenza contraria al nostro intervento perché ancora non si riesce a comprendere i motivi che dovrebbero costringerci alla guerra7.

Monelli ricorderà sempre di quel 10 giugno mentre Mussolini annunziava la guerra dal balcone di palazzo Venezia, lo sbigottimento, i visi gravi, gli occhi a terra di gente che s’era radunata in via dell’Impero, presso gli altoparlanti collocati ai Mercati trajanei, mentre veniva dalla piazza il clamore imposto ed incomposto degli inquadrati, radunati con la solita costrizione, tenuti d’occhio e spronati all’applauso da attenti capisquadra. Là c’era la gazzarra irresponsabile e isterica; qui i visi accigliati di gente che prevedeva tutto il male avvenire8.

E un informatore di lì a poco registrava un mormorio sordo ma diffuso; che mi dà l’impressione dell’assenza di ogni spirito di sacrificio e di avversione alla situazione. Tali sentimenti si manifestano non solo nelle classi operaie ma anche in quelle borghesi e a dire il vero anche se fasciste9.

Tutti i rapporti successivi, tanto quelli al partito che quelli alla polizia, continuarono a riferire dell’avversione alla guerra. Certo, scriverà Monelli, «la guerra non piace mai a nessun popolo, credo nemmeno al popolo tedesco», ma questa «apparve ostica fin dal primo giorno». Impressione che coincideva con quella riferita all’Ovra l’11 giugno: la cittadinanza romana accettava la nuova guerra come una calamità, «con la convinzione che la si poteva evitare»10. L’atteggiamento dei romani non si distingue in modo significativo da quello degli abitanti delle altre grandi città. Nel settem227

bre 1941, mentre era in pieno sviluppo l’offensiva tedesca contro l’Urss, si registrava a Roma la malcelata apatia che regna nella gioventù la quale dimostra poco interesse per le attività del Regime e scarso entusiasmo per la guerra antibolscevica11.

Allo smarrimento dell’opinione pubblica corrispondeva del resto quello dello stesso Mussolini di fronte all’iniziativa tedesca, considerata, in una confidenza telefonica alla sua amante Claretta Petacci, come l’inizio della «parabola discendente»12. La guerra aveva imposto il razionamento dei generi alimentari, iniziato da quelli voluttuari (zucchero, caffè), per estendersi poi a quelli di prima necessità. La razione di pane era scesa a 200 grammi il 30 settembre 1941, a 150 grammi il 15 marzo 1942. Tutti lamentavano l’alto costo degli alimentari: ne fanno fede i rapporti di polizia e le lettere sequestrate dalla censura13. Dati dell’Istat, relativi al 1942, registrano uno scarto che andava da tre fino a sei volte fra i prezzi del pane, della farina, dell’olio, del lardo acquistati con la carta annonaria e quelli degli stessi prodotti acquistati senza carta annonaria14. I prezzi alla borsa nera erano certamente ancora più elevati. Regolamento dei prezzi e dei consumi, tesseramento e razionamento avevano dato inevitabilmente origine a un doppio mercato, quello regolato e quello libero ancorché clandestino e illegale. Nei primi tempi tuttavia, secondo la testimonianza di Monelli, la borsa nera aveva stabilito i prezzi ad un livello abbastanza accessibile ai più; c’era anzi una borsa nera dei poveri ed una borsa nera dei ricchi, che funzionavano con rudimentale e misteriosa giustizia15.

Le cose però tendevano a peggiorare col passare degli anni, e i più colpiti erano gli strati cittadini a reddito fisso, impiegati, salariati, pensionati. Il razionamento riguardava anche altri prodotti, come quelli dell’abbigliamento e le calzature, acquistabili in base a un complesso punteggio fissato dal ministero delle Corporazioni e pubblicato dalla stampa. Nell’autunno del 1941, per un cappotto ci volevano 80 punti se da uomo, 65 da donna, 48 per i ragazzi e 39 228

per le ragazze. Le scarpe di pelle variavano da 80, quelle da uomo, a 15, quelle per bambini. L’obiettivo era quello di scoraggiare e scaglionare i consumi. Non erano soggetti a tesseramento molti altri prodotti del settore, dalla biancheria per il culto, ai polsini e alle cravatte, ai reggipetti e guaine, alle bretelle. Deroghe erano concesse per i matrimoni e per i neonati16. Alla fine del 1942 un rapporto della polizia sulla situazione politica ed economica constatava che la vita si svolge assai grama per le famiglie modeste, di veri stenti per le modestissime. Vi è poi una categoria, che, dovendo conservare un minimo di decoro e non potendo sempre sottostare alle esose pretese del commercio clandestino, deve subire le più dure privazioni: è quella degli impiegati a minimi e medî stipendi, nei quali è tutto l’accoramento di non poter assicurare alle famiglie lo stretto indispensabile17.

Una constatazione nata dalla conoscenza diretta dei problemi dall’interno dell’amministrazione statale e particolarmente calzante per la realtà romana, caratterizzata da un’alta presenza di strati impiegatizi piccoli e medi. La situazione si stava ulteriormente aggravando in tutto il paese, e soprattutto nelle grandi città, con l’inizio dei bombardamenti sistematici che avevano tuttavia risparmiato la capitale. Al grave malessere economico si aggiungeva anche il trauma della sperimentazione diretta della guerra da parte della popolazione civile. E le reazioni dell’opinione pubblica al discorso del duce del 2 dicembre 1942 alla Camera dei fasci e delle corporazioni trasmesso via radio e dagli altoparlanti nelle piazze d’Italia, dopo diciotto mesi di silenzio, diedero la misura dello scollamento fra paese e regime. Tutti gli informatori registrarono lo stupefatto sconcerto di fronte a un discorso che si voleva positivamente realistico e combattivo, destinato a risollevare il morale del paese18. L’invito allo sfollamento, a non aspettare le ore 12 per disperdersi «per le nostre belle campagne» e lo svuotamento delle città proposto anche come espediente per procedere alla costruzione di rifugi più sicuri, aggiunti all’elenco delle cifre dei morti e dei dispersi in guerra, al grandissimo numero di prigionieri italiani di molto superiore a quelli nemici, a quella che sembrava una palese sottovalutazione delle distruzioni e delle vittime dei bombardamenti, tut229

to apparve come una conferma di incapacità, di impotenza e di leggerezza, imputabili questa volta interamente al capo del fascismo. Nel rapporto riassuntivo della polizia, di una brutale incisività, si sottolineava che l’odio invocato dal duce per il nemico era stato ormai «sostituito dall’odio verso il Regime»19. Fra il «grosso pubblico romano», si riferiva dalla capitale, l’intervento di Mussolini aveva rafforzato la convinzione che «la guerra durerà ancora a lungo e che i lutti e le distruzioni aumenteranno in misura maggiore nei prossimi mesi»20. Agli inizi del 1943 un nuovo rapporto riassuntivo del capo della polizia sulla situazione italiana al 28 febbraio si avvaleva, nella valutazione dello spirito pubblico, di tutto il registro lessicale disponibile per registrare la stanchezza l’apprensione la sfiducia del paese. Di fronte ai nuovi successi militari sovietici non vi era stata nessuna reazione, anzi si notava un incomprensibile adagiarsi in un’apatia che si traduce in un vero e proprio estraneamento per le alterne vicende della guerra: si attende la pace e soltanto la pace21.

Monelli impiegherà quasi le stesse espressioni per registrare il crollo morale degli italiani. Non si osava più ficcare gli occhi nel futuro, non si sperava più nulla. È difficile immaginare una più inerte apatia di nazione22.

Nella realtà romana si riflettevano certamente gli umori comuni a tutto il resto del paese. Ma Roma era anche lo specchio dello sgretolamento del regime, del disfacimento del potere. La progressiva solitudine del dittatore, privo del sostegno di una comunità carismatica che egli stesso aveva anzi contribuito a distruggere con i frequenti «cambi della guardia», la fronda dei gerarchi, le insofferenze del re, il disagio dei vertici delle forze armate, le trame della principessa di Piemonte, i nuovi poteri di Claretta condensati in una cricca politico-affaristica, tutti questi elementi mantenevano in un stato di fibrillazione la società politica e mondana. L’incertezza del futuro e la diffusa inquietudine davano origine a un infittirsi di voci che percorrevano la città distribuendo allarme e speranze. 230

Le continue sconfitte avevano contribuito a svuotare il grande palcoscenico simbolico del regime, incentrato sull’Altare della Patria e piazza Venezia. E la graduale fascistizzazione dei simboli aveva spostato la liturgia sulle scene minori. Del resto la nuova guerra, in assenza di vittorie, non potenziava l’Altare della Patria per la celebrazione e il ricordo dei caduti. L’ultima grande cerimonia al Vittoriano si tenne il 4 novembre 193923. E il 4 novembre passava in secondo piano per uno scivolamento delle rilevanze a vantaggio del 28 ottobre. Infine si era ormai consolidato un pluralismo dei luoghi chiamati a partecipare ai riti e ai culti del regime: l’ara dei caduti fascisti in Campidoglio, l’altare al Parco della rimembranza, il Monumento ossario al Verano a cui si erano aggiunti, nel 1941, il Sacrario dei caduti per la rivoluzione al Foro Mussolini (di Luigi Moretti) e il Monumento ossario ai caduti per Roma24. In quest’ultimo, nel giorno dell’inaugurazione, il 3 novembre, anniversario di Mentana, fu traslata la salma di Goffredo Mameli25. La voluta ed esplicita saldatura tra rivoluzione fascista e tradizione risorgimentale garibaldina giungeva inevitabilmente tardiva, ma ancor più fuori tempo apparve l’appello al patriottismo lanciato da Giovanni Gentile il 24 giugno 1943 dal Campidoglio. Alla frammentazione dei poteri e delle funzioni simboliche faceva riscontro un rilancio della mobilitazione politica in chiave critica all’interno del fascismo, con una attenzione più sistematica e rigorosa alla nascita di un nuovo ordine politico e sociale. Ma emergeva anche una presa di distanza dal fascismo se non un orientamento di vero e proprio antifascismo. Fra il 1942 e il 1943 cominciarono a riapparire e a riorganizzarsi in città i partiti antifascisti; seguirono alcuni arresti fra operai e studenti. Fra questi ultimi molti si stavano avvicinando a posizioni comuniste, e fra di essi alcuni riuscirono a definire anche un legame organizzativo26. Nella primavera del 1943, mentre si diffondevano notizie sempre più insistenti su iniziative e complotti contro il regime, si rafforzava nell’opinione popolare l’immagine del pontefice come punto di riferimento e potere alternativo, l’unico in grado di proteggere la città e addirittura promuovere la pace27. Nel rafforzamento delle organizzazioni legate alla Chiesa alcuni scorgevano le premesse del costituirsi di un partito cattolico in grado di prendere le redini del paese in caso di caduta del regime. 231

L’improvviso e imprevisto bombardamento dello scalo ferroviario e del quartiere di San Lorenzo (ma furono colpiti anche il Prenestino e il Casilino, il Verano, la Città universitaria e il Policlinico), con circa 1500 vittime28, e la sollecita visita di Pio XII nella zona devastata confermarono l’immagine di un pontefice protettore – la veste bianca e le braccia aperte sul suo popolo – tradito non tanto dagli angloamericani, ma dal fallimento del fascismo e del suo duce. La stampa insorse contro l’offesa recata dalle bombe alleate alla civiltà e alla città eterna. Roma è al di sopra di ogni conflitto e di ogni confine: offendere Roma è offendere la civiltà del mondo nei secoli. Questo i bombardieri di Roosevelt e di Churchill nella loro belluina ferocia non hanno capito. Ma la luce eterna dell’Urbe non si spegne al soffio transitorio delle eliche di aeroplano: essa brilla e brillerà ancora più viva a illuminare una data: 19 luglio 1943. E sarà questa data marchio di vergogna.

Con questa didascalia «L’Illustrazione italiana» accompagnava una fotografia a tutta pagina della basilica di S. Lorenzo distrutta29, mentre sul «Messaggero» il direttore Alessandro Pavolini sottolineava il cinico intento di colpire il morale degli italiani, «l’ennesimo tentativo di venire a capo dell’Italia per una scorciatoia sostitutiva di una campagna incerta e comunque terribilmente costosa». E poi proponeva un confronto di civiltà. Ma non basta che il bombardamento di Roma abbia rivelato a tutti – a tutti – il carattere distruttivo della cultura europea che l’impresa angloamericana sul Continente riveste. Bisogna trarne le conseguenze. [...] Le conseguenze sono che in Sicilia e dovunque in Italia si combatta contro l’incursore e l’invasore, ivi è la difesa della comune civiltà che vigoreggia e splende30.

Nelle altre città italiane, dove si era già riproposto lo stereotipo della capitale corrotta e viziosa, i bombardamenti e le distruzioni di Roma provocarono, scriveva un fiduciario da Milano il 23 luglio, in vaste masse di ogni sfera sociale un sentimento mostruoso di soddisfazione. Si direbbe che una perversione neroniana abbia invaso gli 232

animi di gran parte dei nostri concittadini [...] Ne deriva che l’avversione contro le classi dirigenti, che non risiedono soltanto a Roma, ma che in questa città hanno i loro centri propulsori, è anche superiore ad ogni avversione contro il nemico31.

Già precedentemente era parsa ingiustificata l’immunità garantita alla capitale e si erano levate voci a reclamare per Roma un trattamento analogo a quello subito dalle altre grandi città. Nemmeno l’avversione degli altri italiani, tuttavia, poteva ormai privare Roma del suo rango e privilegio di capitale. Ma con la caduta di Mussolini, di lì a qualche giorno, crollava il disegno di una Roma imperiale, vittoriosa e conquistatrice, rivelatosi un’inane utopia, una vana illusione. E trascinava con sé tutto l’insieme di valori patriottici e nazionali che vi erano stati convogliati, il recupero di un passato glorioso e il nuovo primato italiano. Non crollava solo il regime, crollava un’idea di Italia e il mito di Roma.

2. Occupazione tedesca e Resistenza L’euforia per la caduta del regime durò poco. A Roma non vi furono tuttavia le dure repressioni militari che altrove provocarono numerose vittime: non c’era spazio per la protesta sociale e politica. L’attesa della pace era vivissima. Ma tutti ora cominciavano a ricordare le parole del proclama di Badoglio «La guerra continua. L’Italia mantiene fede alla parola data...». Così il futuro restava pesantemente incerto. Anche in politica interna non era chiaro quali fossero gli intendimenti del nuovo governo. Erano stati sciolti il Pnf e la Camera dei fasci e delle corporazioni, liberati i confinati e i prigionieri politici. Ma i partiti antifascisti e prefascisti rimanevano semiclandestini. Roma fu ancora bombardata il 13 agosto, di nuovo alle 11 del mattino. Come il mese precedente, le bombe caddero sui quartieri sud-orientali a ridosso degli scali ferroviari, al Prenestino, Casilino, Tuscolano e a San Lorenzo32. Il 14 fu resa nota unilateralmente la dichiarazione di «città aperta», uno status che comportava l’allontanamento dei reparti militari operativi e dei relativi 233

comandi unitamente alla sospensione della attività contraerea in cambio della cessazione dei bombardamenti33. Fin dal 25 luglio i tedeschi, e in primo luogo Hitler, erano convinti che il re e Badoglio sarebbero usciti dalla guerra e dall’alleanza. Per questo avevano cominciato a far affluire truppe da nord, avevano impedito il rientro in Italia delle divisioni schierate nella Francia meridionale, tenevano a Roma piccoli contingenti segreti per ogni evenienza34. Di fronte all’evidenza della sconfitta il re e Badoglio miravano soprattutto a trovare una soluzione che garantisse la sopravvivenza della monarchia e la continuità dello Stato, e a questo risultato puntò in primo luogo l’armistizio del 3 settembre. Si trattava di obiettivi e interessi che era arduo far collimare perfettamente con quelli angloamericani tesi a indebolire innanzitutto la forza dell’Asse. Così dopo la firma dell’armistizio, il governo e i capi militari non emanarono le disposizioni operative contro i tedeschi, indispensabili per realizzare il cambiamento di fronte che gli accordi prevedevano. Il re, Badoglio e gli alti comandi puntavano ad un aiuto diretto degli Alleati con uno sbarco sul litorale tirrenico vicino a Roma per ridurre i rischi dello sganciamento dai tedeschi. In assenza di questo aiuto il governo era pronto a un nuovo voltafaccia e a sconfessare l’armistizio35. Il 7 settembre, alla vigilia dell’annuncio pubblico dell’armistizio, quando due alti ufficiali americani giunsero segretamente a Roma per mettere a punto l’operazione Giant 2, che prevedeva di far discendere una divisione aviotrasportata sugli aeroporti intorno a Roma, trovarono i vertici militari e politici impreparati e sostanzialmente ostili. Badoglio ricevendo nella notte in pigiama il generale Maxwell Taylor, cercò inoltre di far rinviare l’annuncio dell’armistizio, che fu comunque reso noto da Eisenhower il pomeriggio dell’8 settembre alle 18. A questo punto il doppio gioco italiano non era più sostenibile. Quando Badoglio, alle 19.45, comunicò per radio l’armistizio, i tedeschi ne erano informati da qualche ora36 e avevano già dato avvio al piano preparato da tempo per disarmare le forze armate italiane «con ogni mezzo e senza il minimo scrupolo». Le truppe italiane rimasero senza ordini operativi per fronteggiare sul terreno la nuova situazione. Il comunicato di Badoglio diceva che «ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane» doveva cessare da parte delle forze italiane e aggiungeva: «esse però reagiranno a eventuali attacchi di 234

qualsiasi altra provenienza». Tradimento della vecchia alleanza, ma senza iniziative ostili nei confronti dei tedeschi. L’irresponsabilità di questa indicazione accrebbe ulteriormente lo sconcerto dei comandi operativi. Le decisioni dei vertici politici e militari – chiaramente in imbarazzo e preoccupati per la loro sorte – non tutelavano né gli impegni presi né l’onore del paese. In questo contesto si colloca la vicenda della «mancata difesa di Roma», oggetto di innumerevoli ricostruzioni e di infinite controversie sulle responsabilità relative37. In realtà alcuni aspetti sono stati ormai definitivamente accertati. Non vi fu una difesa di Roma perché furono date disposizioni di non difendere la città. Il capo di stato maggiore dell’esercito Roatta fece ripiegare su Tivoli il corpo d’armata motocarrozzato per evitare alla città «gravi e sterili perdite», mentre le divisioni in marcia da nord vennero in parte deviate sulla zona tiburtina. Questi ordini non avevano altro significato che quello di abbandonare la difesa di Roma38 per proteggere la fuga del re e di Badoglio verso Pescara, iniziata all’alba del 9 settembre. In meno di 48 ore la città sarebbe caduta in mano tedesca. A posteriori si può dire con certezza che una battaglia combattuta veramente intorno a Roma, nonostante la superiorità numerica delle forze italiane – 70.700 uomini contro 47.00039 – si sarebbe risolta in una sconfitta, con molte vittime anche fra la popolazione civile e gravi distruzioni alla città. Gli italiani avevano ormai in mente la pace e il brusco cambiamento di alleanza non ne aveva innalzato il morale. I tedeschi, oltre ad essere meglio addestrati e organizzati, erano anche animati dalla determinazione di vendicarsi del tradimento. Ma una convinta reazione italiana avrebbe dato un segnale della compattezza dell’esercito e ridotto il discredito destinato inevitabilmente a cadere sulla monarchia e sull’intera nazione40. In più, l’arrivo della divisione aviotrasportata americana e il controllo della costa e degli aeroporti avrebbero potuto cambiare l’esito dello scontro accorciando la guerra sul fronte italiano. In ogni caso è certo che, anche perduta, una battaglia per Roma, con il re chiuso entro le sue mura, avrebbe garantito il futuro della monarchia italiana. Ma allora l’obiettivo immediato fu quello di mettersi in salvo. Nel dopoguerra si è discusso a più riprese se la fuga del re e di Badoglio verso Pescara, seguiti di lì a poco dagli alti comandi mi235

litari, fosse stata negoziata con i tedeschi che lasciarono sfilare il corteo di automobili senza intervenire, nonostante l’avessero intercettato a un posto di blocco. Di un’eventuale trattativa non è rimasta alcuna prova documentaria e tutte le memorie dei protagonisti l’hanno esclusa. Anche il generale Albert Kesselring, che comandava le forze tedesche nell’Italia centro-meridionale e aveva il suo comando a Frascati, non ne fece cenno nelle sue memorie né utilizzò la circostanza come attenuante nel processo intentatogli poi in Italia. Vi fu in ogni caso una coincidenza di interessi. Kesselring ebbe così modo di occupare senza troppe difficoltà Roma, che l’esercito italiano avrebbe difeso con ben altro impegno se vi fosse rimasto il sovrano. Una qualche difesa di Roma fu comunque attuata41. Ma i granatieri, i fanti, i carabinieri e i civili che si batterono e morirono, fra l’8 e il 10 settembre, al ponte della Magliana, alla Montagnola, sulla via Laurentina, all’Ostiense, a Porta S. Paolo, a viale Aventino, a Monterosi sulla Cassia, con pochi ordini e senza prospettive, furono vittime di uno scenario predeterminato. In città, dal pomeriggio dell’8 settembre, si erano mobilitati gli esponenti dei partiti antifascisti, mentre correva voce di un annuncio imminente dell’armistizio: si susseguirono le riunioni. Ma la percezione degli avvenimenti rimaneva insufficiente. Da alcuni comandi militari erano state fatte distribuire ai militanti antifascisti armi leggere, in qualche caso poi immediatamente requisite dalle forze dell’ordine. Mentre socialisti e azionisti insistevano per un’improbabile insurrezione popolare, le forze italiane stavano ripiegando e si sbandavano. I civili si batterono soprattutto all’Ostiense e a Porta S. Paolo. Erano per lo più operai e intellettuali: fra questi cadde Raffaele Persichetti, professore di storia dell’arte al liceo Visconti. Ma si videro anche molte donne impugnare le armi. Si ebbero 241 vittime fra i civili, 414 fra i militari; i feriti furono oltre 70042. I caduti nella difesa di Roma testimoniarono dell’incontro possibile fra l’antico patriottismo militare, risorgimentale e garibaldino e il nuovo patriottismo antifascista e internazionalista. Avevano ritrovato un comune nemico e riscoprivano una ingenua e quasi primordiale dignità. Per lo spontaneismo e la corale disponibilità al sacrificio dei civili, la pagina iniziale della Resistenza romana fu forse anche la più nitida. 236

La mattina del 10 la partita era praticamente chiusa. Enrico Caviglia, il vecchio maresciallo d’Italia, protagonista delle battaglie del Piave, a cui era stato affidato, come più alto ufficiale presente a Roma, l’inglorioso e ingrato compito di rappresentare quel che rimaneva dei poteri politici e militari, era pronto ormai ad accettare l’ultimatum di Kesselring che scadeva alle 16, nonostante la richiesta avanzata da Emilo Lussu del Partito d’azione e da altri di perseverare nella difesa della capitale. Bisognerebbe sorridere – avrebbe annotato in seguito Caviglia nel suo diario –, se non fossimo immersi nella tristezza fin sopra la testa. [...] Con quali armi e armati, con quali viveri avremmo potuto difendere Roma? Possibile che si creda ancora che in quel momento si potesse resistere, davanti all’esercito tedesco, con le barricate e i petti degli eroici cittadini romani? Romanticismi: Balilla! Le cinque giornate!43

Nella confusione di quella giornata, mentre alle porte della città le forze militari ripiegavano o si arrendevano, alle 18 a piazza Colonna si raccoglieva una piccola folla per un comizio convocato dal neonato Comitato di liberazione nazionale. Bonomi, primo ministro nel 1921-1922 e presidente del nuovo organismo, il comunista Scoccimarro, il socialista Colorni e l’azionista Lussu avrebbero annunciato la nascita del Cln e incitato alla lotta contro i tedeschi. L’atmosfera nella piazza era insieme depressa ed eccitata. Circolava già la notizia della resa e il comizio appariva ormai inutile. Alcuni imboccarono il Corso per dirigersi verso Porta S. Paolo, ma si sarebbero dispersi alla vista degli autocarri carichi di tedeschi che circolavano già in città. I politici più prudenti invitavano alla calma e, mentre la gente sfollava, i dirigenti si diressero ai loro rifugi clandestini. Era l’inizio dell’occupazione e di una clandestinità destinata a durare nove mesi. Durante l’occupazione tedesca il Cln o, più propriamente, il Ccln (Comitato centrale di liberazione nazionale) continuò ad operare a Roma come una sorta di governo ombra antifascista fino alla formazione del ministero Badoglio di unità nazionale, costituito a Salerno nell’aprile 1944. Privo di reali poteri politici e di capacità di intervento non solo nel resto dell’Italia occupata, ma anche localmente, il suo ruolo fu quello di preparare una soluzione politica per la fase successiva alla liberazione di Roma mante237

nendo un equilibrio consensuale fra le forze rappresentate al suo interno. Nel Ccln erano rappresentati sei partiti: la Democrazia del lavoro, una formazione composta da liberal-democratici, con Bonomi, Ruini e Persico; il Partito liberale, con Casati e Cattani; la Democrazia cristiana, con De Gasperi e Gronchi; il Partito d’azione, con La Malfa e Bauer; il Partito socialista di unità proletaria, con Nenni e Romita; il Partito comunista, con Scoccimarro e Amendola44. Per quanto il Ccln si fosse dotato di una giunta militare, le iniziative armate e i sabotaggi contro i tedeschi e i fascisti erano decisi autonomamente dalle singole organizzazioni. Fra i partiti del Ccln l’impegno nella resistenza armata fu una prerogativa dei comunisti, dei socialisti e degli azionisti. I comunisti, che schieravano molti giovani intellettuali, disponevano della migliore organizzazione militare e struttura clandestina. Socialisti e azionisti erano meno numerosi e meno organizzati. I democristiani non erano militarmente impegnati in città, ma erano sporadicamente presenti in Sabina, a Colleferro e nei Castelli. Svolgevano però un intenso lavoro di reclutamento quadri riuscendo a tenere, nel dicembre 1943 e nel gennaio 1944, due affollati convegni clandestini presso l’Istituto S. Gabriele. Il quadro politico romano era in realtà molto più articolato di quello espresso dai partiti del Ccln. La mobilitazione ideologica, cospirativa e militare vedeva in campo altre formazioni, spesso con un numero significativo di aderenti tenuto conto delle condizioni di clandestinità e dell’assenza di precedenti tradizioni organizzative. Il gruppo numericamente più forte e più combattivo fu quello del Movimento comunista d’Italia, noto anche come Bandiera rossa, dal nome del giornale che pubblicava. Composto da militanti di formazione anarchica, bordighista e trockista, era violentemente osteggiato dai comunisti ufficiali. Bandiera rossa fu la formazione con il più alto numero di caduti della Resistenza romana, forse perché poco rispettosa delle regole della clandestinità e del controllo sugli aderenti, reclutati prevalentemente negli ambienti operai e popolari, e aperta anche ad elementi della malavita come il «gobbo del Quarticciolo»45. Sempre nell’area della sinistra operavano anche il gruppo dei cattolici comunisti guidato da Franco Rodano e Adriano Ossicini, formato da giovani borghesi e intellettuali provenienti dall’associazione mariana La Sca238

letta ed ex allievi del Visconti e degli istituti religiosi Massimo e S. Apollinare, e il partito «cristiano-sociale» di Gerardo Bruni46. Accanto alle formazioni politiche era presente a Roma anche un’organizzazione militare, il Fronte clandestino militare della resistenza, emanazione del regio esercito, comandata dal colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. I suoi compiti non erano quelli di effettuare attentati e sabotaggi, esclusi per evitare rappresaglie, ma consistevano nella raccolta e nella trasmissione di informazioni e in un’opera di controllo politico e militare in previsione della fase di interregno che sarebbe seguita alla ritirata tedesca47. Tutti ritenevano che Roma sarebbe stata sollecitamente liberata e quindi la misura dell’impegno e delle iniziative era regolata su tempi brevi. Questo spiega la passività e il diffuso attendismo che rimasero come tratti dominanti della vita cittadina anche quando i tempi si allungarono48. Vi era poi il carattere di città aperta. Un riconoscimento formale della dichiarazione di Badoglio da parte degli angloamericani non c’era mai stato: per di più la situazione era radicalmente cambiata. E i tedeschi erano ben lontani dal rispettare gli impegni che quella connotazione prevedeva. Armamenti e truppe continuavano a transitare da Roma, punto di passaggio obbligato per i collegamenti con il fronte a sud. La città aperta era denunciata come una finzione, come una situazione di comodo per i tedeschi e per i fascisti che potevano imputare agli angloamericani i bombardamenti sulla città. Ma i bombardamenti, che pure si ripeterono fino alla vigilia della liberazione, seppure con andamento sporadico, non furono mai sistematici né particolarmente distruttivi, soprattutto se paragonati ai primi due del 1943 e confrontati con quelli subiti da altre città italiane. Continuarono ad essere colpiti gli scali ferroviari, le vie di comunicazione, e di nuovo settori circoscritti dei quartieri orientali, mentre vennero risparmiati il centro e i quadranti nordoccidentali, oltre al Vaticano. Più che quella di città aperta era la dimensione di città sacra intangibile, non limitata al Vaticano e alle basiliche extraterritoriali ma estesa a tutto il territorio urbano, che cercava di affermarsi grazie al ruolo politico e simbolico del pontefice, unico potere alternativo all’occupazione nazista. Un potere gestito con prudenza, protetto dalla neutralità politica e dall’equidistanza morale dai ma239

li della guerra, esercitato dalla S. Sede anche con un sottile doppio gioco che prevedeva la puntigliosa difesa dei propri diritti e un’ampia discrezionalità nell’iniziativa pratica. Così il duplice e ambiguo carattere di città aperta e di città sacra lasciava alla Chiesa un ruolo rilevante nella protezione dei cittadini, fedeli e non. La città aperta fu dunque la benefica finzione che consentì al Vaticano di giustificare il diritto d’asilo per tutti coloro che chiedono la protezione ecclesiastica; assicurare la libertà di transito per le autocolonne cariche di derrate alimentari che fanno la spola tra la città e le regioni del centro-nord [...]; ottenere il «lasciapassare» per le migliaia di persone arruolate nella milizia pontificia o negli uffici della Santa Sede. Senza contare la rete di complicità stesa nei commissariati di polizia [...] o la massiccia distribuzione ai fuggiaschi e ai renitenti di false carte annonarie e carte di identità da parte degli impiegati comunali.

Sono considerazioni di Enzo Forcella nel suo prezioso libro postumo La Resistenza in convento, titolo quanto mai appropriato alle vicende romane49. Di questa singolare anomalia l’esempio più macroscopico è quello rappresentato dai vari membri del Ccln (Nenni, Saragat, persino il presidente Bonomi), ospiti quasi permanenti dei palazzi lateranensi. La nuova condizione di città occupata implicava la compresenza di poteri nuovi accanto a quelli precedenti trasformati e adattati. Da un lato la struttura militare e amministrativa tedesca in funzione di egemonia e controllo nei confronti dei poteri centrali e locali della nuova repubblica fascista, espressione paradossale di rottura e di continuità con il vecchio Stato. Dall’altro il Vaticano come argine a protezione dei cittadini, affiancato da una fitta trama di relazioni con la società civile e con le strutture burocratiche periferiche impegnate in un ambiguo e costante doppio gioco, manifestazione evidente di una duplice sudditanza e di una diffusa resistenza passiva. Questo sistema, pur reiteratamente squilibrato dalla violenza della persecuzione nazista, consentì condizioni di vita meno drammatiche per la generalità della popolazione romana accresciuta da molte decine di migliaia di sfollati. Per queste ragioni la vicenda di Roma nel periodo dell’occupazione tedesca fu profondamente diversa da quella di ogni altra città italiana. 240

Con la divisione in due dell’Italia e la contrapposizione di due governi italiani, uno a sud e l’altro a nord, Roma subì uno svuotamento delle sue funzioni di capitale. In particolare aveva perso il ruolo di centro dell’amministrazione. Badoglio a sud poteva disporre di una burocrazia locale. La Repubblica sociale aveva invece trasferito al Nord i ministeri distribuendoli in varie località da Cremona a Brescia, Verona, Padova, Treviso, Venezia; gli Interni erano a Maderno sul lago di Garda, gli Esteri nei pressi di Salò. Nonostante una serie di incentivi, la burocrazia, soprattutto negli alti gradi, trovò tutta una serie di espedienti per evitare il trasferimento. Si diffusero improvvisamente forme epidemiche di malattie reumatiche, polmonari, intestinali che colpirono i precettati rendendo impossibile e sconsigliabile il cambiamento di clima. A Roma fu necessario mantenere uffici staccati, mentre una parte dei funzionari si disperdeva scegliendo varie forme di semiclandestinità50. Il nuovo fascismo repubblicano non ebbe molto seguito nella burocrazia, non solo a Roma ma nemmeno fra quanti erano stati distaccati al Nord. Nella capitale la ricostruzione del Partito fascista avvenne ad opera di vecchi squadristi come Bardi e Pollastrini, rivelatisi presto talmente violenti e corrotti che gli stessi tedeschi ne chiesero e ottennero l’allontanamento nel novembre 194351. Per i comandi militari tedeschi l’occupazione di Roma doveva assicurare una situazione tranquilla nel principale centro urbano alle spalle del fronte, senza ostacoli all’afflusso di rifornimenti e di truppe. Ma le esigenze strettamente militari non erano le uniche. Tutti i paesi occupati dovevano fornire manodopera per lo sforzo bellico: di qui gli inviti, largamente disattesi, al trasferimento in Germania, ma soprattutto le retate e i rastrellamenti di maschi adulti, temutissimi dalla popolazione civile52. Vi era poi la politica di sterminio degli ebrei alla quale anche l’Italia e Roma dovevano essere assogettate. La diplomazia tedesca mirava infine ad evitare tensioni irrimediabili con il Vaticano tali da determinare l’abbandono della neutralità da parte della S. Sede. Questi obiettivi non necessariamente convergenti smentiscono l’immagine monolitica del nazismo e confermano piuttosto quella poliarchia che solo il richiamo agli ordini attribuiti al Führer sembrava poter armonizzare. 241

In questo contesto va collocata la razzia degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. L’iniziativa proveniva dall’ufficio IV della polizia di sicurezza del Reich. Era opportuno affrontare il problema ebraico iniziando dalle zone a ridosso del fronte per poi procedere verso il Nord e si trattava, così sostenne il suo capo, generale delle SS Müller, di operare fulmineamente per evitare le proteste del papa53. Quando, ai primi di ottobre, giunse a Roma lo Hauptsturmführer (capitano) Theo Dannecker con un piccolo gruppo di specialisti per organizzare il rastrellamento, il consigliere d’ambasciata Moellhausen, rappresentante del plenipotenziario del Reich in Italia ambasciatore Rahn, cercò di impedire l’operazione antiebraica trovando anche il consenso di Kesselring e suggerendo semmai l’impiego degli ebrei validi in opere di fortificazione. Non si trattava di un soprassalto umanitario, ma di un calcolo diplomatico volto ad evitare un conflitto con la S. Sede. Ma il ministro degli Esteri Ribbentrop «arretrò di fronte alla possibilità di uno scontro con le SS» dando via libera, in virtù di una «disposizione del Führer», alla deportazione degli 8000 ebrei residenti a Roma54. Nei giorni precedenti, il 26 settembre, il capo della polizia tedesca a Roma, Sturmbannführer (maggiore) Herbert Kappler, aveva imposto alla comunità ebraica l’umiliante ricatto di consegnare entro 36 ore 50 kg d’oro pena l’arresto di 200 capifamiglia come ostaggi. La quantità non era forse esorbitante, ma il valore dell’oro era allora altissimo. Soprattutto l’estorsione violava quella riserva di ricchezza che in tempi calamitosi appariva ad ognuno, come era stata anche in passato, la risorsa estrema per salvarsi o garantirsi la sopravvivenza55. Molti, e anche i dirigenti della comunità, pensarono di aver ottenuto un salvacondotto definitivo con la consegna dell’oro. Ma già il 29 settembre Kappler fece requisire l’archivio corrente della comunità. Serviva altro materiale per individuare o confermare gli indirizzi delle abitazioni degli ebrei, già accuratamente schedati dall’amministrazione italiana. Alle 5.30 di sabato 16 ottobre 365 militari tedeschi iniziarono il rastrellamento in 26 punti diversi della città, ma in particolare nella zona circostante il vecchio ghetto, in via del Portico d’Ottavia, via della Reginella, via Arenula. Le famiglie dovevano essere pronte in venti minuti, potevano portare con sé denaro e gioielli, una valigetta con biancheria ed effetti personali, provviste e bicchieri; nessuno, nemmeno gli ammalati, doveva rimanere indie242

tro56. I 1259 arrestati furono portati al Collegio militare di via della Lungara. Oltre duecento furono rilasciati perché non ebrei o ebrei stranieri o coniugi e figli di matrimoni misti. La mattina del 18 ottobre i restanti 1023, fra cui 244 bambini (nati dopo il 1930) e 188 anziani (nati prima del 1884), furono trasportati alla stazione Tiburtina, stipati e rinchiusi in carri bestiame57. Dopo una lunga attesa, nel pomeriggio iniziò il lungo viaggio verso Auschwitz. Il giorno successivo il treno si fermò a Padova. Alle ore 12 – scriverà un’ispettrice della Croce Rossa di Padova –, non preannunciato, sosta nella nostra stazione centrale un treno di internati ebrei proveniente da Roma. Dopo lunghe discussioni ci viene dato il permesso di soccorso. Alle 13 si aprono i vagoni chiusi da 28 ore! In ogni vagone stanno ammassate una cinquantina di persone, bambini, donne, vecchi, uomini giovani e maturi. Mai spettacolo più raccapricciante s’è offerto ai nostri occhi. È la borghesia strappata alle case, senza bagaglio, senza assistenza, condannata alla promiscuità più offensiva, affamata e assetata58.

Il convoglio arrivò ad Auschwitz-Birkenau nella notte del 22 ottobre. La mattina del 23 i vagoni vennero aperti: 149 uomini e 47 donne superarono la «selezione», tutti gli altri furono avviati direttamente alle camere a gas. Solo 17 riuscirono a tornare59. Senza voler relativizzare un evento così tragico, il 16 ottobre, dal punto di vista tedesco fu un parziale insuccesso. L’obiettivo erano ottomila ebrei, mentre ne furono deportati poco più di mille. Inoltre molti maschi adulti non furono arrestati in quella circostanza. Dei 48 catturati che portavano il popolare e diffuso cognome Di Porto, 7 erano i maschi fra i 18 e i 58 anni. Questo significava che molti maschi adulti, considerati evidentemente i più minacciati, riuscirono a mettersi in salvo al momento della razzia o si erano già nascosti. In moltissimi casi furono i vicini ariani ad ospitare e nascondere gli ebrei manifestando una spontanea e improvvisata solidarietà60. In qualche caso la gente raccoltasi per strada riuscì a far fuggire le persone già fermate. Eravamo praticamente circondati da sempre più persone e a un certo punto una ragazza della mia stessa età – ha raccontato Rosetta Sermoneta, allora diciassettenne – mi prese per mano e mi portò via. Io inizialmente opposi un po’ di resistenza perché non volevo lasciare 243

la mia famiglia ma poi vidi con la coda dell’occhio che anche papà, nonno e mamma, sollecitati e protetti da queste persone stavano facendo la stessa cosa. Il tedesco intanto, circondato dalla popolazione, non reagiva perché, benché fosse armato, era terrorizzato. Alla fine riuscimmo a voltare l’angolo e a scappare tutti e quattro. Inizialmente ci rifugiammo dentro un portone, poi dopo pochi minuti, uno sconosciuto ci chiamò e ci disse «Venite, venite, c’è un tassì!» Noi allora, ancora frastornati per quanto era accaduto, salimmo su e ci facemmo portare dall’altra parte di Roma61.

Molti ebrei non furono trovati perché avvisati telefonicamente o già nascosti in città. Non è escluso neppure che si fosse diffuso nella notte o qualche giorno prima l’allarme per una prossima iniziativa tedesca62. Alcuni si erano precedentemente allontanati da Roma, riuscendo a cogliere prima di altri i segnali di minaccia che incombevano. La razzia colpì prevalentemente gli strati più poveri e popolari, quelli che ancora vivevano nel ghetto, con minori strumenti culturali e relazioni personali in grado di proteggerli. La S. Sede comunicò subito la sua sorpresa e il suo sconcerto per quanto stava avvenendo «sotto gli occhi del Padre Comune», come si espresse il segretario di Stato cardinale Maglione con l’ambasciatore tedesco Weizsäcker. Tuttavia la protesta non si spinse fino a un passo ufficiale e formale: senza dubbio un successo per i nazisti. Si cercò di salvare i convertiti e i figli dei matrimoni misti: e questa, suggerisce Forcella, potrebbe esser stata una delle ragioni della rinuncia a una protesta formale63. Ma la linea rimase anche in seguito quella di una ferma prudenza. Contemporaneamente si attivò quella grande rete protettiva rappresentata dagli istituti religiosi e dagli edifici extraterritoriali dove vennero ospitati migliaia di ebrei. La scelta politica di Pio XII è stata in seguito oggetto di innumerevoli discussioni e duramente contestata. È certo che la S. Sede era al corrente di quanto il nazismo veniva perpetrando in Europa, anche se non sono stati pubblicati documenti che lo confermano. Ma è difficile affermare con certezza che un diverso e più fermo atteggiamento del papa avrebbe potuto attenuare le persecuzioni. A Roma non vi furono altri rastrellamenti sistematici degli ebrei, ma arresti singoli o di famiglie, spesso ad opera dei fascisti 244

e talora originati da delazioni compiute da correligionari. Mario Tagliacozzo raccontò nel suo diario che evitava di passare per il lungotevere fra Ponte Sisto e Ponte Garibaldi per timore di essere riconosciuto e indicato dalle spie che si aggiravano nella zona64. Da Roma e dal resto della provincia furono deportati dopo il 16 ottobre altri 657 ebrei: in tutto 1680, un quarto di tutti i deportati dall’Italia65. La razzia degli ebrei, i cui esiti finali sarebbero stati conosciuti solo a guerra finita, non suscitò una reazione antagonistica da parte della popolazione romana. Per quanto strettamente inserita nella vita cittadina, la realtà ebraica era avvertita come un mondo a parte. Del resto, nella prospettiva della sopravvivenza e dell’attesa che guidò la vita dei più in quel periodo, la dimensione collettiva andò presto smarrita. Anche la resistenza attiva contro tedeschi e fascisti non trovò mai un’adesione e un sostegno generalizzati. Continuarono a confrontarsi iniziative, ideologie e organizzazioni separate: la tipologia e la stessa topografia delle azioni rimasero profondamente diverse. Nella cintura esterna della città, nelle periferie meridionali e orientali, talora in contatto con le bande delle prime zone collinari, prevalsero gli attentati alle vie di comunicazione, ai convogli, ai depositi militari. Non mancarono i colpi di mano spettacolari. Come quando, il 30 novembre 1943, un gruppo di partigiani di Bandiera rossa si sostituì a un plotone di militi della Polizia dell’Africa italiana destinato ad eseguire una fucilazione a Forte Bravetta e, la mattina dopo, liberò gli undici condannati a morte66. La Resistenza prese anche forme meno rischiose, tese a diffondere fra la popolazione sentimenti antifascisti e antitedeschi: reti di protezione, redazione e diffusione di stampa clandestina, volantinaggi nei luoghi pubblici, mobilitazione e dimostrazioni degli studenti universitari. Grazie a un piano ben congegnato e a complicità all’interno di Regina Coeli i giovani giuristi Vassalli e Giannini, militanti socialisti, riuscirono a liberare dal carcere Saragat e Pertini con falsi documenti di rilascio. L’impegno, il coraggio e la determinazione non corrispondevano tuttavia sempre ad un’adeguata copertura clandestina. La vulnerabilità del Partito d’azione e di Bandiera rossa diede luogo a numerosi arresti. 245

Il destino dei prigionieri era spesso drammatico. La polizia tedesca aveva sede in una palazzina di via Tasso, mentre il reparto speciale della polizia fascista, la «banda Koch», era alloggiato prima nella pensione Oltremare di via Principe Amedeo e poi in quella Jaccarino di via Romagna, luoghi tristemente noti per le sevizie e le torture inflitte agli arrestati. Alcuni si suicidarono pur di non parlare, altri furono poi fucilati. Le azioni più audaci in città vennero compiute dai Gruppi di azione patriottica del Pci. Nei Gap militavano solo membri del partito, prevalentemente studenti universitari e giovani intellettuali. Fra i comandanti romani Antonello Trombadori era scrittore e critico, Carlo Salinari studioso di letteratura. «L’addestramento era severo, essenzialmente politico e morale. Vi era, nel gruppo, un gran fervore ideale», ha ricordato Giorgio Amendola, reponsabile politico-militare del Pci a Roma67. I Gap dovevano avere una struttura rigidamente clandestina: non tutti i militanti si conoscevano fra loro e i capi dei singoli gruppi conferivano separatamente con i dirigenti politici. La loro modalità d’azione era l’attentato terroristico. I colpi più efficaci andarono a segno a partire dal dicembre 1943: la bomba gettata sotto un camion di tedeschi davanti all’uscita del cinema Barberini il 18, quelle collocate sulle finestre dell’albergo Flora a via Veneto, sede di un comando tedesco, il 19, quella lanciata, il 28 in pieno giorno, da una bicicletta in corsa, contro l’ingresso di Regina Coeli dove sostava un autocarro tedesco68. Franco Calamandrei, uno dei capi dei Gap, letterato, scrittore, traduttore, teneva un diario. Contro ogni norma di sicurezza, come se fosse un rituale di controllo della propria esistenza: questa urgenza irrinunciabile rispondeva al bisogno di analizzare la scissione fra vocazione letteraria, clandestinità e lotta armata, di dominare l’eccitazione del rischio. Dopo aver deposto le bombe al Flora corsi via, disperatamente, convinto che i venti secondi fossero per scadere, che dopo pochi metri lo scoppio dovesse raggiungermi. Invece, solo quando fui arrivato all’estremità della strada, e attraversata la breccia che si apre lì nelle mura mi ritrovai davanti alla Villa, prima l’una, poi l’altra, ma quasi simultanee, le due esplosioni avvennero. Il loro fragore si dilatò nella notte, senza nulla però di brutale e di aspro, 246

come un respiro enorme che si fosse improvvisamente levato ad animare quella buia immobilità. Ed io mi sentii pieno di una gioia elementare, infantile. Presa dal panico la gente fuggiva qua e là, i fari delle auto illuminavano gambe in corsa sull’asfalto luccicante69.

Calamandrei, Fiorentini e Salinari furono gli organizzatori dell’attentato a via Rasella del 23 marzo 1944. Per quella data, anniversario della nascita dei fasci di combattimento, era previsto in realtà un attacco dei socialisti della banda Matteotti al corteo fascista e uno dei Gap al Teatro Adriano. Ma i tedeschi avevano vietato parate fasciste nel centro cittadino dato che in una precedente occasione, il 10 marzo, anniversario della morte di Mazzini, una sfilata era stata attaccata dai Gap in via Tomacelli: quindi il programma delle celebrazioni era stato cambiato all’ultimo momento70. Contemporaneamente gli strateghi dei Gap avevano deciso un attentato contro un reparto di militari tedeschi che quasi quotidianamente attraversava il centro della città, percorrendo via del Babuino, piazza di Spagna, via Due Macelli, via del Traforo, risaliva poi via Rasella per raggiungere le Quattro Fontane e proseguire fino al Viminale dove era acquartierato. Si trattava della XI compagnia del reggimento Bozen (Bolzano) della Ordnungspolizei (Polizia d’ordine), che aveva principalmente funzioni di controllo territoriale e di ordine pubblico. Ancora in fase di addestramento, era composta da altoatesini, in genere non più giovanissimi, che in parte avevano optato per il Reich tedesco, in parte erano cittadini italiani. La colonna appariva particolarmente vulnerabile in via Rasella, una strada secondaria, stretta e in salita, con comode vie di fuga per gli attaccanti. Dopo qualche rinvio l’attentato, approvato da Amendola, fu compiuto il 23 marzo. Ad esso parteciparono, direttamente o in copertura, sedici gappisti71. Alle 15.50, con un ritardo che aveva allarmato i partigiani, la colonna imboccò cantando via Rasella. Giunta all’altezza di via del Boccaccio, Calamandrei, il comandante operativo, si levò il cappello. Era il segnale. Più in su, a due terzi della salita, davanti a palazzo Tittoni, Rosario Bentivegna, travestito da spazzino, accese la miccia della bomba di 18 kg di tritolo nascosta in un carretto della nettezza urbana. Ingiunse al portiere del palazzo di scomparire e risalì a passo veloce la strada fi247

no a via Quattro Fontane, dove Carla Capponi era pronta a proteggerne la fuga72. I tempi erano stati più volte accuratamente cronometrati nei giorni precedenti. Dopo 50 secondi la bomba prese in pieno la colonna che le sfilava a fianco. Immediatamente dopo entrarono in azione altri gappisti lanciando quattro bombe sui militari scompaginati. La fortissima esplosione fu avvertita in tutto il centro. Un autobus che percorreva via Quattro Fontane fu scagliato contro i cancelli di palazzo Barberini. I militari superstiti cominciarono a sparare all’impazzata contro le finestre della strada da dove pensavano fossero state lanciate le bombe. Da via Veneto, dove si era conclusa la celebrazione dell’anniversario fascista, accorsero il questore Caruso e alti ufficiali tedeschi. Le case della zona furono perquisite, talora saccheggiate, e molti abitanti arrestati. Il numero delle vittime tedesche, indicato prima in 32, salì in seguito a 33. Vi furono anche quattro vittime civili: due, fra cui un ragazzo tredicenne, in seguito all’esplosione e altre due dopo la sparatoria tedesca73. Nella città in ansia tutti si chiedevano quale sarebbe stata la risposta tedesca. Ma per i comandi germanici la risposta era una sola. Rimase però aperta per qualche ora la misura della rappresaglia. A caldo il comandante della piazza romana, generale Mältzer, aveva proposto di distruggere l’intero quartiere intorno a via Rasella. Una reazione analoga avrebbe avuto Hitler suggerendo in alternativa la fucilazione di 1000 abitanti. Ma dal Führer non vennero né ordini scritti né disposizioni orali. La questione fu presa in mano dai comandi della Wehrmacht: la decisione di fucilare dieci italiani per ogni tedesco ucciso fu adottata dal comandante della XIV armata von Mackensen e convalidata da Kesselring in serata74. La proporzione di dieci a uno era già stata applicata a Roma in due casi75. L’esecuzione della rappresaglia fu affidata al reparto delle SS di Kappler dal momento che il comandante del battaglione Bozen aveva rifiutato di coinvolgere i suoi uomini. L’operazione doveva essere compiuta in 24 ore: la rapidità avrebbe accresciuto il suo potere deterrente mettendo al riparo i comandi della Wehrmacht da altre richieste, come quella, di Himmler, di deportare l’intera popolazione romana. Kappler dichiarò di disporre di un numero adeguato di Todeskandidaten (candidati a morire). Non era vero. Non si trattava di 248

condannati a morte ma di semplici detenuti di cui solo a tre era già stata inflitta la pena capitale. Kappler cercò di «razionalizzare» le sue scelte escludendo donne e bambini e includendo nell’elenco solo i maschi adulti, in quanto potenziali combattenti, e gli ebrei, destinati comunque a morire76. Ma i nominativi a sua disposizione non erano sufficienti. Inoltre, di sua iniziativa, dopo la morte del trentatreesimo soldato aveva allungato la lista di altri dieci. Kappler chiese allora l’intervento del questore Caruso, che provvide con l’aiuto di Koch a fornire i 50 prigionieri mancanti77. Per le esecuzioni si cercò un luogo dove le vittime potessero essere occultate, dato che non c’era tempo per scavare una fossa comune. Lungo la via Ardeatina, poco oltre le catacombe di S. Callisto, furono individuate delle grotte abbastanza ampie utilizzate come cave di pozzolana. Nel pomeriggio del 24 cominciarono ad esservi trasportati i prigionieri provenienti da via Tasso, dalla pensione Oltremare e da Regina Coeli. Condotti a gruppi di cinque all’interno delle cave, con le mani legate dietro la schiena, furono fatti inginocchiare e uccisi con un colpo alla nuca. Per fare spazio alle nuove vittime i corpi vennero ammonticchiati gli uni sugli altri. L’operazione fu lunga e macchinosa. Alla fine, per un errore nella compilazione delle liste, le vittime furono 335, cinque in più di quelle previste78. Tutte le SS dell’ufficio di polizia, circa 70, furono obbligate a prender parte alle esecuzioni. Alcuni, e fra questi Kappler, uccidevano per la prima volta. Cominciarono gli ufficiali, seguirono poi tutti gli altri. Un tenente cercò di sottrarsi ma fu poi convinto da Kappler che lo accompagnò all’interno e sparò nuovamente con lui. Si strinse così il nodo che legava tutti gli uomini del reparto in un patto di sangue79. Al termine delle esecuzioni e nella mattinata successiva i genieri minarono le cave facendone crollare la volta per impedire il ritrovamento delle salme. Ma la notizia che il luogo dell’eccidio era nei pressi delle catacombe di S. Sebastiano e S. Callisto si diffuse dopo qualche giorno in città80. Nella tarda serata di quello stesso 24 marzo l’agenzia Stefani diffuse il comunicato tedesco che rendeva noto l’attentato e la rappresaglia. I giornali romani lo pubblicarono nel primo pomeriggio del 25. Dopo aver attribuito «la vile imboscata», i 32 morti e i parecchi feriti a elementi criminali comunisti badogliani, continuava: 249

Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quest’ordine è già stato eseguito.

La nuova categoria dei comunisti badogliani impiegata per individuare gli attentatori e i destinatari della rappresaglia era solo un espediente propagandistico. I tedeschi non sapevano nulla degli attentatori e molte vittime non avevano alcuna responsabilità politica, né ruolo nella Resistenza. Oltre 70 erano ebrei. Molti erano in carcere per reati minori, taluni per aver contravvenuto le disposizioni annonarie. Dieci erano stati arrestati nella zona di via Rasella dopo l’attentato. I gruppi politici più colpiti furono Bandiera rossa con 52 vittime, fra cui uno dei suoi capi militari, Aladino Govoni, e il Pda con il suo responsabile militare Pilo Albertelli. Il Fronte militare perse il suo comandante Montezemolo e altri alti ufficiali. Caddero anche cinque ufficiali dei carabinieri, fra cui Giovanni Frignani e Raffaele Aversa che avevano arrestato Mussolini il 25 luglio81. «L’Osservatore romano» del 26 marzo interpretò con l’abituale equidistanza l’accaduto. Di fronte a simili fatti ogni animo onesto rimane profondamente addolorato in nome dell’umanità, e dei sentimenti cristiani. Trentadue vittime da una parte: trecentoventi persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto dall’altra. Ieri rivolgemmo un accorato appello alla serenità ed alla calma: oggi ripetiamo lo stesso invito con più ardente affetto, con più commossa insistenza. Al di fuori, al di sopra delle contese, mossi soltanto da carità cristiana, da amor di patria, da equità [...], aborrendo dal sangue dovunque sparso, consci dello stato d’animo della cittadinanza, persuasi del fatto che non si può, non si deve spingere alla disperazione, ch’è la più tremenda consigliera ma ancora la più tremenda delle forze, invochiamo dagli irresponsabili il rispetto per la vita umana che non hanno il diritto di sacrificare mai; il rispetto dell’innocenza che ne resta fatalmente vittima; dai responsabili la coscienza di questa loro responsabilità verso sé stessi, verso le vite che vogliono salvaguardare, verso la storia e la civiltà82. 250

L’orientamento del Vaticano corrispondeva a quello diffuso in città. Smarrimento e deprecazione della violenza. Non c’è simpatia né consenso per l’azione dei partigiani. Nelle intercettazioni telefoniche di quei giorni «la condanna degli attentatori appare unanime» mentre in città «la paura era il sentimento più forte»83. Un sentimento colto la sera stessa dell’attentato da Calamandrei e registrato nel suo diario: «La gente commenta: alcuni, soprattutto donne, sfavorevolmente: ‘Ora che se ne stavano andando...’. ‘Sono i partigiani...’»84. La valutazione sull’opportunità dell’attentato divise il Ccln: alla fine fu trovata una soluzione di compromesso, che puntava soprattutto sulla denuncia della strage, per evitare di rendere evidente la frattura fra il Pci, il Pda, il Psiup da un lato e gli altri partiti dall’altro. Il Pci si assunse pubblicamente la responsabilità dell’attentato e incitò a continuare e intensificare la lotta85. Il Pci aveva una concezione diversa della lotta partigiana. Nella situazione contingente si era mosso con disinvoltura sottovalutando i rischi di rappresaglia, che pure rientravano fra le prospettive concrete. Già precedentemente, nei dibattiti interni ai Gap, questa eventualità era stata considerata come un fattore che non doveva e non poteva condizionare le azioni terroristiche86. Ma è pur vero che in almeno una circostanza un’azione venne sospesa perché alcuni compagni erano caduti nelle mani del nemico87. Alla vigilia di via Rasella i comunisti prigionieri di tedeschi e fascisti erano meno di altri e il Pci poteva contare su una rete di complicità nella polizia italiana. È difficile escludere che anche questi elementi siano entrati nella valutazione politica dell’opportunità dell’attentato88. Del resto l’obiettivo principale del Pci era rompere l’attendismo e alzare il livello dello scontro armato. Da questo punto di vista l’obiettivo fu interamente mancato89. Dopo la rappresaglia l’attività dei Gap si ridusse. Il 23 aprile uno dei gappisti di via Rasella, Guglielmo Blasi, un delinquente comune arruolato in quanto esponente del proletariato, venne arrestato mentre rubava in un appartamento. Blasi passò immediatamente al servizio di Koch e fece catturare dieci compagni fra cui Salinari e Calamandrei90. Capponi e Bentivegna furono fatti allontanare da Roma. Amendola fu spostato a Milano. Nel complesso tutta l’attività partigiana subì a Roma un forte rallentamento. In questo la rappresaglia aveva raggiunto il suo scopo. 251

Lo storico del Pci Paolo Spriano definì via Rasella «il maggiore episodio della resistenza romana». Per Roberto Battaglia invece erano le Fosse Ardeatine a costituirne l’«episodio chiave»91. È una differenza che merita di essere sottolineata. Nel tempo l’immagine sedimentata della Resistenza romana è rimasta offuscata dal ricordo del massacro delle Ardeatine. Così alla dimensione della lotta ai tedeschi e ai fascisti si è sostituita quella dominante del sacrificio subito. Roma città martire è divenuta nel tempo la chiave di lettura prevalente di quei nove mesi e la dimensione commemorativa ha rimpiazzato quella celebrativa92. Gli esiti postumi della rappresaglia hanno poi continuato ad alimentare una frattura nella memoria dei romani e degli italiani, a tenere divisi due mondi93. La difficoltà di distinguere razionalmente la dinamica degli eventi e di elaborare un orrore così grande contribuisce a spiegare perché si sia mantenuta viva la leggenda, anzi la menzogna, della richiesta fatta dai tedeschi agli attentatori di consegnarsi per far salva la vita agli ostaggi. Evenienza smentita dagli stessi Mackensen e Kesselring fin dal primissimo dopoguerra, ma continuamente e anche autorevolmente ripetuta fino a tempi recentissimi con chiari intenti anticomunisti. D’altro canto il martirio delle Ardeatine sembrava giustificare in blocco tutta la Resistenza impedendone una ricostruzione differenziata e un’analisi storico-politica. Senza voler attenuare in alcun modo le responsabilità tedesche è tuttavia lecito chiedersi, come hanno fatto Alberto ed Elisa Benzoni, se l’azione di via Rasella non sia iscrivibile nella categoria dell’avventurismo. Solo una nuova riflessione critica consente di sfuggire al passaggio obbligato che lega la condanna della rappresaglia alla valutazione positiva dell’attentato. E di sottrarsi alla diffusa argomentazione che proprio le Ardeatine stanno a dimostrare che esso era «non solo legittimo, ma eticamente giustificato»94. Del resto gli effetti di una decisione politica si possono e si devono misurare a posteriori, mentre, aggiungiamo, la prudenza politica si esercita prima. Con via Rasella l’epopea dei Gap poteva considerarsi conclusa. Abbandonato il centro, la resistenza armata continuò con minore slancio nelle borgate, mentre lo sciopero generale promosso per il 3 maggio si rivelò un fallimento95. Ogni ipotesi insurrezionale che precedesse l’arrivo degli angloamericani e liberasse la città venne abbandonata. L’attendismo alla fine aveva prevalso. 252

Ma il termine «attendismo» contiene una connotazione negativa che non pare applicabile alla collettività cittadina nel suo insieme se non nel senso che la maggioranza dei romani si sottrasse a un impegno politico diretto in attesa di una soluzione dall’esterno già avvertita come prossima dopo l’8 settembre e apparsa di nuovo imminente dopo lo sbarco anglo-americano ad Anzio del 22 gennaio 1944. Invece la liberazione tardava a venire, generando una diffusa esasperazione dell’attesa accentuata dalle sempre maggiori difficoltà della vita quotidiana. Data la scarsa disponibilità di generi alimentari con prezzi costantemente in ascesa era sempre più difficile sfamarsi. Se da gennaio a maggio il costo della farina era più che raddoppiato, lo stesso andamento avevano seguito tutti gli altri prezzi del mercato nero, l’unico dove fosse possibile continuare ad approvvigionarsi96. Molti che avevano conosciuto un dignitoso benessere sperimentavano ora una discesa vertiginosa del livello di vita e una perdita di status, resa forse meno drammatica solo perché largamente condivisa. Tirammo avanti – ricordò Forcella – con i 150 grammi della razione giornaliera di pane (negli ultimi mesi ridotta a 100 grammi), la cicoria dei campi, le carrube, le minestre del Vaticano e della Società immobiliare [...] che, a cominciare dal febbraio, distribuivano in parrocchia.

Roma, più che la fame vera e propria, conobbe «una penosa sottoalimentazione»97. Nei conventi dove erano rifugiati gli ebrei il cibo non mancò praticamente mai. La penuria di generi alimentari si era accresciuta con l’interruzione delle linee di comunicazione con le zone a sud di Roma, tradizionali bacini di approvvigionamento, e con l’arrivo in città di un numero sempre più alto di sfollati, sospinti dall’avanzare del fronte. E certo di poco aiuto erano state le iniziative folkloristiche delle aiuole trasformate in orti di guerra o la pesca miracolosa nei laghetti dei giardini pubblici98. Negli ultimi mesi di occupazione cominciarono a essere razionate l’acqua e l’energia elettrica. Mancava il gas e il problema del combustibile fu occasionalmente risolto «abbattendo alberature e demolendo i sedili dei parchi»99. La vicinanza del fronte, appena al di là della linea dei Castelli, teneva in costante allarme gli abitanti. E mentre continuavano i bombardamenti delle periferie sud-orientali e delle strade conso253

lari, si rafforzava il ruolo del pontefice come protettore della città e garante della pace futura. Il 12 marzo una grande folla aveva riempito piazza S. Pietro. Il papa aveva richiamato i belligeranti al rispetto di Roma e dei valori rappresentati dalla città sacra, invocando la storia a giudice dei loro atti. Che se ognuna delle città colpite, in quasi tutti i continenti, da una guerra aerea che non conosce né leggi né freni, è già un terribile atto d’accusa contro la crudeltà di simili metodi di lotta; come potremmo Noi credere che alcuno possa mai osare di tramutare Roma, – questa alma Urbe, che appartiene a tutti i tempi e a tutti i popoli, e alla quale il mondo cristiano e civile tiene fisso e trepido lo sguardo – di tramutarla, diciamo, in un campo di battaglia, in un teatro di guerra, perpetrando così un atto, tanto militarmente inglorioso, quanto abominevole agli occhi di Dio e di una umanità cosciente dei più alti e intangibili valori spirituali e morali? Onde non possiamo non rivolgerCi ancora una volta alla chiaroveggenza e alla saggezza degli uomini responsabili di ambedue le Parti belligeranti, sicuri che non vorranno legare il loro nome ad un fatto, che nessun motivo potrebbe mai giustificare dinanzi alla storia, ma piuttosto rivolgeranno i loro pensieri, i loro intenti, le loro brame, le loro fatiche verso l’avvento di una pace liberatrice da ogni violenza interna ed esterna, affinché la loro memoria rimanga in benedizione, e non in maledizione, per i secoli sulla faccia della terra100.

Dalla folla si erano alzate grida per la pace e contro i tedeschi e si era vista una bandiera rossa agitata da un sacerdote. Gesti e voci che non avevano ridotto il peso delle invocazioni del papa. Quel giorno poterono venire allo scoperto e manifestarsi in massa le ansie di una popolazione che riconosceva in Pio XII la sua guida. Ma la grande «dimostrazione» di piazza S. Pietro non poteva far dimenticare che moltissimi a Roma continuavano a vivere nascosti, a usare false generalità e falsi documenti. La scolorina per falsificare le carte di identità fu una compagna costante di quei mesi, non solo per gli ebrei. Come si sarebbe capito solo alla fine, il rischio di essere scoperti si attenuava con il passare del tempo e la stessa polizia puntava ad accumulare benemerenze per il futuro. Fascisti e tedeschi sapevano perfettamente dove si nascondevano gli ebrei, i politici, i militari, ma dopo le irruzioni del reparto di Koch al Seminario lombardo presso S. Maria Maggiore il 22 dicembre 1943 e nell’abbazia di S. Paolo il 2 febbraio 1944 non vi 254

erano state più incursioni negli edifici ecclesiastici, anche in quelli non protetti dall’extraterritorialità101. La S. Sede era riuscita a difendere puntigliosamente le proprie prerogative, lasciando larga iniziativa alle singole istituzioni religiose, e in seguito ad evitare distruzioni durante la ritirata tedesca. Il 18 maggio è conquistata Cassino, il 25 inizia la battaglia per Roma. I romani cominciano a scambiarsi cenni d’intesa e un «breve messaggio [...] a mezza voce: ‘Ce semo! Ce semo!’»102. Negli ultimi giorni di maggio, nei primi giorni di giugno la città, nella descrizione di Monelli, «vive come trasognata, in apatica stanchezza, inerte sotto guai e angherie che pare non debbano mai avere fine». Poi, il 3 giugno, la situazione cambia improvvisamente. Gli abitanti lungo i viali Margherita, Liegi, Parioli, gli abitanti lungo il Corso e la via Flaminia, vedono passare in fila ininterrotta cannoni, carri armati, autocarri tedeschi che si dirigono verso settentrione. La gente guarda, assiepata sui marciapiedi, non osa pensare che sia vero. Sfilano per tutto quel pomeriggio, per tutta la notte e il giorno seguente; pezzi di artiglieria d’ogni calibro; carri colmi di roba rubata, attrezzi, macchine da cucire, biciclette, carrozzine da bambini, poltroncine di cinematrografo, tavoli, letti, materassi, sacchi gonfi; autocarri stipati di soldati sporchi, laceri, molti macchiati di sangue, la faccia annerita, gli occhi perduti. Sfilano con un rumoreggiare continuo [...] le armi puntate contro la strada, contro le finestre. Sanno che traversano una città nemica, che nessun augurio li accompagna, nessun sorriso di ragazza, nessuna voce di pietà per la sciagura. Qualche spavaldo tende il pugno, minaccia con l’arma, grida qualcosa; ma i più hanno faccie di legno, occhi che non guardano103.

Il 4 giugno appena fuori Roma, alla Giustiniana lungo la Cassia, i tedeschi lasciano un ultimo segno fucilando 14 ostaggi fra cui il leader sindacale socialista Bruno Buozzi104. Nel pomeriggio del 4 la città sembra svuotarsi. Dal convento nel rione Monti dove è nascosto Mario Tagliacozzo, una telefonata raggiunge l’abbazia di S. Paolo per avere notizie. Qui «si stanno già fumando sigarette americane», è la risposta che giunge dalla periferia sud105. Mancano ormai poche ore. Poi nella notte i primi carri armati americani compaiono in centro e prima dell’alba la gente è già per le strade. I negozi alimentari vengono saccheggiati. Poi esplode l’entusiasmo tante volte descritto e ricordato in tante immagini. 255

Alle 8 del 5 giugno il comandante americano Clark entra in città. Gli si rimproverà di aver puntato sulla capitale senza cercare di aggirare i tedeschi. Ma quale generale avrebbe rinunciato a conquistare Roma? I reclusi escono finalmente all’aperto nella sensazione eccitante della libertà. A via Nazionale l’ebreo Tagliacozzo si sente chiamare dopo tanti mesi con il suo cognome. «È la prima volta e mi commuovo»106. La liberazione è un intreccio di piccoli episodi e di grandi emozioni.

3. Il ritorno alla democrazia Alla città liberata rivolse il 6 giugno un saluto Benedetto Croce dalle pagine del «Corriere di Roma», il giornale pubblicato a cura del Psychological Warfare Branch. Agli scontati accenti retorici aggiunse con sarcasmo: Ci voleva l’alto e nobile ed intelligente spirito nazionalistico del fascismo per rendere agevole ai tedeschi il possesso di Roma contro l’opera millenaria della Chiesa e quella della nuova Italia.

E sulla stessa pagina il letterato Francesco Flora celebrava il ritorno di Roma «che concilia in sé tutte le età; [...] Roma ‘madre dei popoli’ parla il suo antico e il suo nuovo linguaggio al nostro animo»107. Omaggi iscritti in una tradizione ormai consumata che parlava ancora alle generazioni meno giovani. L’idea di una Roma carica di storia millenaria e per questo votata a una missione nel mondo era finita forse per sempre. Nessuna delle forze politiche dell’Italia postbellica avrebbe cercato di rivendicarla o di rinverdirla. Croce e Flora, con il loro augurio, ne certificavano inconsapevolmente la fine. Al momento della liberazione Roma si presentava come una città disarticolata nelle sue funzioni di capitale per il trasferimento al Nord e al Sud dei poteri istituzionali e indebolita nella sua identità per il ritorno nelle mani del pontefice, come defensor urbis, di un grande potere politico e simbolico. Pienamente comprensibile è quindi il ringraziamento che molti romani vollero 256

portare al papa già la mattina del 5 giugno con una manifestazione spontanea a piazza S. Pietro, cui seguì, nel pomeriggio, quella affollatissima organizzata dalle parrocchie. L’omaggio al pontefice era una sorta di suggello al lungo difficile periodo iniziato con il bombardamento di San Lorenzo e insieme la legittimazione popolare all’avvio di una più incisiva politica del Vaticano volta a tutelare la città sacra negli anni successivi. Il governo Bonomi, formatosi subito dopo la liberazione della capitale, dopo un breve periodo a Salerno, si installò a Roma a partire dal 15 luglio. Nel frattempo la guida dell’amministrazione cittadina era stata affidata a Filippo Andrea Doria Pamphili, un principe romano di sentimenti antifascisti, affiancato da una giunta composta da due assessori per ogni partito del Cln. Ma ancora per due anni, fino al referendum istituzionale e alle elezioni per l’Assemblea costituente del 2 giugno 1946, la vita politica conservò un carattere anomalo legato al ruolo paritario attribuito ai singoli partiti, alla inevitabile continuità dell’amministrazione e alla condizione di paese controllato dalle forze alleate di occupazione. La vivacissima ripresa delle attività politiche, ancora per molti mesi non convogliata verso un confronto elettorale, fu accompagnata da molte fasi di tensione. Anche a Roma, come altrove, un passaggio obbligato fu quello della resa dei conti con il passato fascista e collaborazionista. I simboli furono i primi a cadere. Alla fine di luglio 1944 fu rimossa dal Campidoglio l’ara dei martiri fascisti. In seguito si provvide ad adeguare la toponomastica: piazzale Hitler, di fronte alla stazione Ostiense, dove era arrivato il Führer nel 1938, fu intitolato ai Partigiani, il contiguo viale Hitler divenne viale delle Cave Ardeatine108, via XXIII marzo via Bissolati, viale dei Martiri fascisti viale Bruno Buozzi. Sopravvisse l’obelisco dedicato al duce in quello che già dall’agosto 1943 non si chiamava più Foro Mussolini ma era stato ribattezzato Foro italico. I conti con singoli esponenti del fascismo non seguirono a Roma il drammatico percorso della giustizia sommaria e incontrollata che fece in tutta Italia circa 15.000 vittime. Il controllo sulla capitale fu molto stretto e il movimento partigiano non aveva dato luogo ad un’insurrezione cittadina. Ma non mancarono anche a Roma momenti contrassegnati da una forte violenza simbolica. Il caso più drammatico fu quello che portò al linciaggio di Donato Carretta, ex direttore del carcere di Regina Coeli. 257

Il 18 settembre 1944 si doveva celebrare la prima udienza del processo contro l’ex questore Caruso. A Palazzo di Giustizia era accorsa una grande folla, non contenuta da un servizio d’ordine insufficiente. Fra i testimoni era stato chiamato a deporre anche Carretta. Riconosciuto da alcuni spettatori (e forse scambiato per Caruso) fu aggredito. Messo provvisoriamente in salvo e di nuovo sorpreso da alcuni facinorosi, fu ripetutamente colpito e trascinato fuori dal «palazzaccio». I tentativi di sottrarlo alla violenza non ebbero successo. Carretta fu gettato sulle rotaie davanti a un tram che il conducente si rifiutò di avviare per travolgerlo, quindi sollevato e buttato nel Tevere. Ripresosi al contatto con l’acqua, fu colpito con un remo e affogato. Il suo corpo, riportato sul lungotevere, fu poi trascinato per un lungo tratto fino a Regina Coeli e appeso per i piedi all’inferriata di una finestra del carcere109. Paradossalmente Carretta, lungi dall’essersi macchiato di sevizie nei confronti dei suoi detenuti, aveva protetto molti antifascisti e favorito la fuga di Saragat e Pertini. Ma questo la folla non poteva saperlo, mentre si era mostrata disposta a dare ascolto alle grida di chi chiedeva si facesse come a Parigi, si adottassero cioè forme di giustizia drastica e immediata, senza inutili lungaggini. Una linea sulla quale si attestò anche gran parte della stampa per spiegare le ragioni dell’accaduto. Il processo a Caruso, spostato a palazzo Corsini, durò due giorni. Condannato a morte, Caruso venne fucilato a Forte Bravetta il 22 settembre. L’anno successivo sarebbe stata la volta di Koch. Il suo processo durò una sola udienza, tre ore, il 4 giugno 1945. Il giorno dopo fu giustiziato a Forte Bravetta da un plotone della polizia metropolitana110. Accanto e contemporaneamente a questi processi «esemplari» era stata avviata l’epurazione di quanti si erano più compromessi con il fascismo. Ma questa procedura, che rispondeva a un’esigenza politica sollecitata vigorosamente anche dagli Alleati, non riuscì mai a soddisfare l’ansia di giustizia dell’opinione pubblica. L’epurazione non avrebbe in ogni caso potuto toccare i vertici dello Stato e quanti nel frattempo erano stati solleciti nel cambiare casacca. Fu quindi avvertita insieme come insufficiente, inadeguata e fondamentalmente priva di una legittimità etico-politica. Si è sostenuto, allora e in seguito, che l’epurazione fu un fallimento, ma si è mancato di indicare con quale unità di misura ac258

certare questo risultato. Non era facile, del resto, districare le posizioni di quanti, distribuiti lungo la catena di comando dell’amministrazione statale, si fossero resi più o meno responsabili di reati correttamente perseguibili. Risultano tuttavia evidenti, da un controllo della continuità delle presenze negli organici dei ministeri, notevoli mutamenti nei ranghi superiori, dovuti presumibilmente a procedure di esclusione o a prepensionamenti agevolati. Tutta la vicenda, di grande importanza per il centro dell’amministrazione pubblica, rimane insufficientemente indagata anche perché ancora tutelata dalle normative sulla riservatezza111. Più visibile fu l’epurazione in altri settori, come quello dell’istruzione. Dall’Università della Sapienza furono allontanati, nell’estate 1944, 25 professori, fra i quali personaggi di spicco come Bottai e Volpe. Il tema dell’epurazione era uno dei molti elementi che tenevano la città, liberata dalla paura ma priva di prospettive concrete, in uno stato di incertezza ed eccitazione. La vita culturale sembrava trarre vitalità da questa atmosfera. Mostre d’arte, teatro, editoria, tutto appariva contrassegnato da un’accelerazione che riprendeva molti stimoli maturati nei mesi di guerra, ma si configurava come un nuovo avvio, una rinascita. Rinasce il cinema, non solo nelle sale dove si può finalmente proiettare Il grande dittatore di Chaplin. Con pochi mezzi si girano nuovi film. Ed è proprio un film, Roma città aperta, a condensare per la memoria nove mesi di occupazione. Il talento di Roberto Rossellini, già regista di propaganda fascista, riesce con una sola sequenza, la corsa della Magnani dietro al camion dei tedeschi che hanno preso il suo uomo, il suo grido disperato e la raffica del mitra che la abbatte, a restituire tutto il senso della Resistenza romana. Il film, sottolineando la violenza subita, il sacrificio, il riscatto di una «dignità che pareva addormentata», proietta in avanti il suo messaggio (come farà tutto il neorealismo)112. Roma città aperta, nonostante l’iniziale insuccesso, assurgerà ad icona della lotta al nazismo. Per molti mesi dopo la liberazione le condizioni di vita rimasero gravemente disagiate. Dal 1939 il costo della vita era cresciuto di 23 volte, i salari di 8113. Prezzi elevati, mercato nero, razionamento della luce, dell’acqua, del gas. Una povertà diffusa e una diffusa immoralità legata alla guerra e alla presenza di tanti 259

soldati delle truppe alleate. La città, come la descrive Libero Bigiaretti, ridotta a un grande mercato. Adesso Roma è davvero, e dappertutto, un paese, vige per le sue strade una perenne fiera di povero borgo. Si vende di tutto perché manca tutto: candele fatte di non si sa che sego, bullette rugginose, tacchi di finta gomma, zoccoli di legno, certi dubbi dolciumi che avremmo rifiutato da ragazzi [...]. Si nobilitano gli oggetti, i cibi più poveri, e questa è una cosa stringente: i lupini, i semi salati venduti con la parsimoniosa misura dei bocconi più rari di una volta [...]. Sì, le strade sono più animate, sono piene di popolo che vi si riversa per fuggire il caldo e le tenebre precoci delle stanze, piene di gente, di soldati di ogni aspetto e anche di ogni colore [...] marocchini senegalesi negri d’America e anche indiani e sono i soldati che animano maggiormente il mercato dei marciapiedi [...]. Gli uomini sono gelosi delle «jeeps», sono veicoli sui quali è facile vedere camicette variopinte e gambe giovani, bocche miniate, denti bianchi. Salgono sulle camionette, le ragazze, con una disinvoltura sempre meno gaia [...] il mercato all’aperto ha guadagnato ogni strada e così l’accattonaggio [...] e poi i falsi borghesi, gli impiegati che percorrono miglia a piedi con le loro scarpe di tela e la loro borsa di pegamoide destinata a nascondere con burocratica dignità l’acquisto di un mezzo chilo di frutta. Sono i poveri più maldestri e più ostinati nel nascondere la loro povertà; e sono assurdi, forse antipatici; tirano avanti vendendo quel poco che nelle loro case ha ancora un valore: residuo del corredo nuziale, coperte, qualche pezzo d’argento. Tuttavia parlano con preoccupazione del proletariato... Si vende di tutto a Roma, perché manca tutto: anche la gloria, che non è più di casa, si vende [...]114.

Nonostante le tranquillizzanti relazioni del prefetto, a Roma permaneva un diffuso stato di agitazione che esplose talora anche in manifestazioni di violenza. Il 6 marzo 1945, dopo che il generale Roatta, ex capo dei servizi segreti militari e dello stato maggiore dell’Esercito, organizzatore dell’uccisione dei fratelli Rosselli e custode di imbarazzanti segreti, fu lasciato fuggire, alla vigilia della sentenza nel processo che lo vedeva imputato, dall’ospedale militare allestito nel liceo Virgilio, un grande comizio di protesta si tenne al Colosseo. Invano trattenuti dai comunisti (che stavano al governo), ma incitati dai socialisti (che ne erano invece fuori) i manifestanti raggiun260

sero poi il Quirinale scontrandosi con le forze dell’ordine. Qui un dimostrante rimase ucciso da una bomba a mano che portava con sé, ma la sua morte fu attribuita ai carabinieri. Seguendo un camioncino trasformato in carro funebre, la folla si diresse allora al Viminale, riuscendo ad abbattere la cancellata e ad entrare nel ministero degli Interni e sede della presidenza del Consiglio. Il morto fu esibito a due riprese dal balcone e solo un discorso del comunista Spano riuscì a placare i dimostranti115. Le tensioni politiche avevano un fondamento nelle difficoltà economiche, nella disoccupazione endemica e nella permanente incertezza sull’esito del confronto istituzionale fra monarchia e repubblica. Il disagio sociale si traduceva anche in un elevato tasso di criminalità che portò la cifra media mensile di omicidi a 42,8 per il periodo giugno 1944 - aprile 1945, con un picco di 107 casi nell’ottobre 1944, rispetto alla media di 1,5 per gli anni di guerra dal giugno 1940 all’agosto 1943. Solo verso la metà del 1946 i dati si riavvicinarono alle medie anteguerra. A Roma circolavano troppe armi e ancora nel 1947 furono sequestrati 402 fucili, 78 pistole e 3209 bombe a mano116. La lunga fase di apprendistato politico favorì il pullulare di iniziative volte a creare nuovi partiti e movimenti di centro e centrodestra come il Partito progressista italiano, l’Unione giovanile indipendente, la Crociata di azione sociale, tutti destinati a vita effimera117. Durò solo qualche mese anche il tentativo di continuare l’esperienza del Movimento dei cattolici comunisti nel Partito della sinistra cristiana, sciolto già nel dicembre del 1945, dopo la implicita sconfessione della S. Sede. La maggioranza dei comunisti cattolici confluì poi nel Pci118. Ma la novità politica più importante fu quella rappresentata dal movimento dell’Uomo qualunque, legato all’omonimo settimanale diretto dal commediografo Guglielmo Giannini e pubblicato a partire dal 27 dicembre 1944. Il settimanale raggiunse presto una grande diffusione e un ampio consenso ottennero presso i ceti medi le idee del suo direttore, enunciate chiaramente fin dal primo numero. Era un chiaro messaggio populista e antipolitico. Il fascismo, che ci ha oppressi per ventidue anni, era una minoranza. Lo abbiamo combattuto con la resistenza passiva e lo abbiamo logorato, tanto che è andato in frantumi al primo colpo serio che gli an261

glo-americani gli hanno vibrato. L’antifascismo e il fuoruscitismo hanno fatto enormemente meno. [...] Dalle prigioni, dai luoghi di confino, dai grandi alberghi o dalle povere soffitte in terra straniera, questa minoranza non ha fatto, contro il fascismo, che una parte infinitesimale di quanto ha voluto e saputo fare l’Uomo Qualunque rimasto sotto il concreto giogo della tirannide fascista119.

Questa lettura della storia recente e l’irridente delegittimazione dell’antifascismo unite all’ostilità nei confronti dei politici di professione si tradusse, a Roma, in un notevole successo dell’Uomo qualunque in occasione delle due tornate elettorali del 1946: le elezioni per l’Assemblea costituente del 2 giugno, tenute nella stessa giornata del referendum istituzionale, e le elezioni amministrative del 10 novembre. Al confronto fra monarchia e repubblica si giunse al termine di una campagna elettorale sostanzialmente tranquilla anche se nei mesi precedenti si erano susseguiti diversi attentati dinamitardi, peraltro senza vittime, contro sedi dei partiti di sinistra, attentati attribuiti alla reviviscenza di organizzazioni fasciste. I comizi si tennero nei cinema, nei teatri, nelle piazze e anche fra i monumenti di Roma antica, i democristiani alla Basilica di Massenzio, i comunisti allo Stadio di Domiziano al Palatino120. Sulla questione istituzionale la capitale si divise, con una lieve ma significativa maggioranza (53,8%) a favore della monarchia. Pur essendo stata colpita più di ogni altra città dalla fuga del re dopo l’8 settembre, Roma appariva ancora legata alla casa regnante, soprattutto nei quartieri borghesi, mentre in quelli popolari dei quadranti sud-orientali prevalse nettamente la scelta a favore della repubblica121. La partecipazione al voto fu poco superiore all’80%. Una grandiosa manifestazione (i giornali parlarono di 300.000 presenze) e un discorso del ministro degli Interni, il socialista Romita, festeggiarono a piazza del Popolo la vittoria della repubblica. Nelle elezioni per l’Assemblea costituente la Dc si rivelò il primo partito in città con il 29,6% dei voti, seguita dal Pri con il 13,9%, dal Pci con il 13,4%, dal Psiup con il 10,1%. A parte i repubblicani, il cui antico insediamento cittadino era rafforzato dalla contesa istituzionale, Dc, Pci, Psiup ottenevano risultati più o meno nettamente inferiori al dato nazionale122. Si collocavano in262

vece nettamente al di sopra le formazioni di destra: l’Uomo qualunque con il 9,6%; il Blocco nazionale delle libertà, monarchico, con il 9,3%; l’Unione democratica nazionale, che riuniva le forze di orientamento liberale con esponenti come Bonomi, Nitti, Orlando e Croce, con il 7,5%. La tensione sociale si mantenne accesa per tutto il 1946. Alla vigilia delle elezioni comunali, il 9 ottobre, l’annuncio della chiusura (poi rinviata) dei cantieri del Genio civile, valvola di sfogo per la diffusa disoccupazione e dove lavoravano molti ex-impiegati chiamati scherzosamente «zappilografi», aveva dato luogo a una violenta manifestazione sotto il Viminale, duramente repressa dalla forza pubblica con quattro morti e 141 feriti123. Il risultato delle elezioni comunali del 10 novembre successivo fu radicalmente diverso da quello di giugno. Questa volta la partecipazione si ridusse al 56,9% e primo partito risultò il Fronte dell’Uomo qualunque con il 20,7% dei voti, anche se l’alleanza di comunisti e socialisti, il Blocco del popolo, ottenne il 36,9%. La Dc si fermò al 20,3%, il Pri al 7,8%; il Partito nazionale monarchico riportò il 7,0%, il Partito liberale il 5%. Il successo delle sinistre, con una percentuale complessiva non più toccata fino al 1976, e il grande risultato dei qualunquisti, ai quali si aggiungevano monarchici e liberali, testimoniavano di una polarizzazione ai due estremi dello schieramento politico. Allo svuotamento del centro corrispondeva l’incapacità del partito cattolico di coinvolgere l’elettorato moderato. Alla Dc si imponeva un cambiamento di rotta. Per quanto concerneva l’amministrazione della città non erano più percorribili né l’alleanza con le sinistre né un accordo da posizioni di debolezza con le destre. Così l’11 dicembre 1946 il sindaco appena eletto, il democristiano Salvatore Rebecchini, si dimise immediatamente. Il Comune venne commissariato e nuove elezioni furono indette per il 12 ottobre 1947. La nuova campagna elettorale ebbe toni molto accesi124. Nella primavera del 1947 si era definitivamente consumata la rottura della collaborazione fra Dc e partiti della sinistra e le elezioni di ottobre rappresentavano una prima verifica della nuova situazione, anche se la partita si giocava prevalentemente sul versante destro dello schieramento politico con la nuova Dc, fortemente anticomunista, impegnata a recuperare l’elettorato moderato. La nascita nel dicembre 1946 di un partito neofascista, il Movimento 263

sociale italiano, aveva accentuato la conflittualità sulla piazza romana, mentre la scissione socialdemocratica, del gennaio 1947, rendeva più frammentario lo schieramento di sinistra. Il 20 settembre una grande manifestazione contro il carovita si concluse con un corteo da piazza del Popolo a Porta Pia dove fu celebrata la ricorrenza della presa di Roma, piegando la protesta sociale in una connotazione anticlericale. La città era percorsa, come scriveva il questore Saverio Pòlito, da «un’attività combattiva, irrequieta e, a volte, facinorosa»125. La tensione della vigilia fu accentuata dall’omicidio di un giovane democristiano, Gervasio Federici. La campagna elettorale era stata punteggiata di scontri in occasione dei comizi e di notte fra gli addetti all’affissione dei manifesti, gli attacchini dei vari partiti. L’11 notte il Federici, circondato da giovani militanti comunisti a piazza Dante, si rifiutò di inneggiare al comunismo, «anzi al suo grido ‘Morte al comunismo’ venne violentemente percosso e poi colpito con una profonda coltellata che gli causò la morte»126. La notizia dell’uccisione, diffusasi nella giornata elettorale non giovò alle sinistre, che cercarono di attribuirne la responsabilità a un giovane missino. Il Blocco del popolo, l’alleanza di comunisti, socialisti, demolaburisti e azionisti, con il 33,3%, vedeva ridotta la propria forza dalla scissione dei socialdemocratici di Saragat che riportavano il 3,9%. La Dc realizzava un fortissimo recupero raccogliendo il 32,7%, mentre l’Uomo qualunque, con il 10,5%, vedeva dimezzata la sua quota. Scendevano repubblicani, liberali e monarchici, rispettivamente al 5,9%, 1,9% e 5,3%. Il Msi alla prima uscita riportava il 3,9%. Le nuove contrapposizioni ideologiche e la nascita di nuovi partiti definivano gli spazi politici della Roma repubblicana, mentre la formazione della giunta presieduta dal sindaco Rebecchini dava avvio alla stagione dell’egemonia democristiana.

VIII

Roma democratica e cristiana

1. La Dc al potere Per quasi un trentennio, dal 1947 al 1976, le giunte alternatesi alla guida del Comune furono tutte guidate da sindaci democristiani, mentre la Dc rimase il maggiore partito per numero di voti raccolti nelle elezioni politiche e amministrative. Ma la vera e propria egemonia democristiana in città coincide con un periodo più breve di quello corrispondente alla durata del suo controllo sui vertici dell’amministrazione cittadina. Si conferma con le elezioni politiche del 1948, si consolida nel 1952 nel quadro dell’alleanza centrista, si mantiene in un ambito di centro-destra fino all’emergere di una nuova stagione antifascista in città e al definirsi dell’opzione di centro-sinistra fra il 1961 e il 1962. L’acceso scontro politico della primavera 1948, conclusosi il 18 aprile con il trionfo della Dc e la dura sconfitta del Fronte popolare socialcomunista, si presentò all’opinione pubblica moderata e a quanti si riconoscevano nel cattolicesimo tradizionale con i contorni di un confronto di civiltà fra democrazia e totalitarismo, fra libertà occidentali e dispotismo orientale. Fu una grande battaglia mediatica in cui vennero messe largamente in campo tutte le risorse propagandistiche del tempo. La drammaticità del momento fu avvertita come potenzialmente foriera di pericoli reali, se è vero il ricordo, a più riprese tramandato, dei molti esponenti dell’uno e dell’altro schieramento, e non solo, che dormirono fuori casa a cavallo del 18 aprile. La partecipazione al voto dei romani toccò l’88,7%. La Dc ottenne il 51,2% dei voti, un risultato superiore a quello medio na265

zionale del 48,1% e in linea con quello regionale. Soprattutto decisamente migliore, di quasi il 20%, rispetto a quello riportato nelle comunali di sei mesi prima. La Dc conquistò tutti i collegi senatoriali raccogliendo i massimi suffragi (62,4%) in quello di Roma I, che comprendeva i rioni e i quartieri borghesi da Campo Marzio, ai Parioli, al Salario. Il Fronte democratico popolare si fermò invece al 27,3%, perdendo oltre il 6% rispetto alle comunali e ottenendo il miglior risultato al Prenestino e al Tuscolano. Il Msi raggiunse il 5,6% e il Pri il 5,3%, confermando il suo insediamento in quartieri popolari come Testaccio1. Il ruolo della Chiesa era stato decisivo nel favorire il successo della Dc. Il 20 gennaio 1948 Pio XII, allarmato dalla minaccia comunista, resa evidente poco più di un mese prima nella stessa Roma da uno sciopero generale di due giorni contro la disoccupazione, guidato dal Pci2, ritenne giunto il momento di far sentire in modo più pressante il peso della Chiesa nella lotta politica. Il papa trovò in Luigi Gedda, presidente degli Uomini di Azione cattolica, l’organizzatore in grado di approntare una struttura di mobilitazione e di propaganda da affiancare alla Dc. In tempi brevissimi Gedda costituì la rete dei Comitati civici, finanziata dalla S. Sede che quindi entrava direttamente nella campagna elettorale. Anche se i Comitati civici «non potevano essere né apparire come un’emanazione diretta dell’Azione cattolica»3. Ma «L’Osservatore romano» pubblicava in cronaca di Roma il calendario e gli orari delle riunioni di indottrinamento e propaganda che si tenevano nelle chiese e nelle parrocchie. L’attacco al comunismo portato dai Comitati civici si presentava anche come difesa dei valori tradizionali della famiglia e della patria. In un manifesto una giovane coppia con bambino veniva difesa dalle serpi del divorzio e del libero amore da un gladio proteso con la scritta «voto cristiano». In un altro il volto di Garibaldi, simbolo del Fronte popolare, si animava sulla scheda per rivolgersi all’elettore con le parole «Disgraziato! Ma che fai!». Se questo fu il linguaggio della parte vincente, altrettanto elementare fu quello della parte sconfitta4. L’impegno della Chiesa era in stretta connessione con l’idea di Roma cattolica intesa come baluardo della civiltà: e dunque la celebrazione del successo elettorale offriva all’«Osservatore roma266

no» l’occasione per sottolineare la missione della città sacra e del suo popolo. Che tutto ciò sia avvenuto sotto l’insegna cattolica, antica di due millenni, è gloria di Dio, soddisfazione dei credenti, quanto per i cattolici italiani il pensare che la riscossa della coscienza nazionale e la sicurtà della Patria è avvenuta intorno al simbolo del democratico Carroccio, sacro alla Religione e all’Italia. Che Roma, che l’Urbe, per la plebiscitaria votazione, appaia l’espressione massima di quest’evento, è motivo di gaudio ancor più intimo e confortevole. Non nascondiamocelo. I cattolici nel mondo han trepidato. I pericoli immediati preoccupavano meno di una possibile disfatta «romana» per quel che di civile, di grande, di augusto, di cristiano è romano ancora. Nolite timere – par che il popolo romano abbia ripetuto serenamente, fortemente a tutti –; ego sum. Son io a guardia e a difesa. Ci sono io. E tocca a me. È nei fatti, è della Provvidenza, fin da quando lo stesso segno è baciato dal sole sulla torre Capitolina e sulle Cupole di San Pietro; sin da quando alla guardia e difesa dell’ordine civile Iddio aggiunse a Roma, la guardia e la difesa dell’ordine religioso, civiltà e cristianesimo fondendo in unico patrimonio inviolabile dei popoli, del progresso, delle umane fortune5.

Nel successo democristiano e cattolico convergevano tuttavia anche altri elementi, di matrice laica e patriottica, che sembravano richiamare quasi alla lettera temi e slogan della mobilitazione antibolscevica dell’Unione nazionale del 1920-19216. Il 18 aprile «Il Tempo», quotidiano romano di centro-destra, titolava così in prima pagina: L’Italia vota oggi per la libertà nell’ordine, e in cronaca I romani accorrendo in massa alle urne daranno prova della loro coscienza nazionale. Il 20: Schiacciante affermazione nazionale, in prima pagina, e Grande esultanza a Roma per la vittoria della civiltà latina, in cronaca. Più neutri erano i toni del «Messaggero», il cui direttore, Mario Missiroli, invitava ad un voto per la libertà, auspicando una vittoria che fosse «premessa del perdono e della riconciliazione»7. Si era riaggregato, anche per l’intervento dei Comitati civici, un blocco d’ordine i cui confini, almeno nella dimensione romana, sembrò alla Chiesa di poter controllare, rafforzare ed estendere. Poco più di un mese dopo la vittoria elettorale, nel corso di una grande manifestazione religiosa, ma dagli espliciti contenuti poli267

tici, la città fu consacrata al Cuore Immacolato di Maria. L’occasione era dettata dalla celebrazione del VI centenario della liberazione di Roma dalla peste del 1348. La folla, stimata fra 300.000 e 500.000 persone, si raccolse, nel tardo pomeriggio del 30 maggio, tutto intorno alla chiesa dell’Ara Coeli, sul Campidoglio, lungo via del Mare, in piazza Venezia e fino a via dell’Impero. L’immagine di Maria scese in processione fra gli spettatori osannanti fino a piazza Campitelli, alle Botteghe Oscure, corso Vittorio, piazza del Gesù per risalire la scalinata fino al sagrato della chiesa, dove il sindaco Rebecchini pronunciò la formula della consacrazione. O Maria, su questo colle fatidico, ove da secoli presiedete alle sorti dell’eterna Città, noi figli di Roma [...] Vi riaffermiamo oggi la nostra devozione e ci consacriamo al Vostro Cuore Immacolato. Alle Vostre Materne cure raccomandiamo la nostra Città, le nostre persone, i nostri focolari, il nostro progresso civile e morale, i nostri altissimi destini di civiltà cristiana. Accettate, o Potentissima Patrona del Popolo Romano, questa nostra offerta filiale, questa nostra irrevocabile consacrazione.

Difficile immaginare tentativo di rivincita simbolica nei confronti della Terza Roma, della Roma laica, più grande di quello che si compiva su un nuovo Campidoglio cattolico fra i simboli dell’antico potere civile e il Vittoriano, l’arce capitolina dell’Italia unita. La consacrazione era stata preceduta da un discorso del più efficace oratore e propagandista religioso del momento, il gesuita padre Riccardo Lombardi, «il microfono di Dio». Lombardi aveva ricordato gli anni di guerra, la fame, i bombardamenti, che non facevano onore a chi li aveva compiuti, e la protezione esercitata dalla Madonna sulla città. Rievocò l’eccidio fratricida dell’aprile 1945, ammonendo che «un giorno verrà in cui la giustizia colpirà coloro che si sono macchiati di così grave delitto». Poi parlò della pace amara, dei confini ingiusti per la Venezia Giulia, suscitando un uragano di applausi. Auspicò infine che l’Italia imboccasse una via nuova lontana sia dal comunismo, sia dal capitalismo e dal conservatorismo sociale nemico della solidarietà cristiana8. Questa linea politico-religiosa rispondeva a una concezione organica della società e alla rivendicazione del primato indiscutibile del pontefice sull’intero popolo cristiano. Un progetto che si 268

presentava con i toni e le dimensioni di una crociata. Un progetto rilanciato dal giubileo del 1950 e rafforzato dalla promozione del culto mariano culminata nella proclamazione, il 1° novembre di quello stesso anno, del dogma dell’assunzione corporea di Maria. Per tutti gli anni Cinquanta, gli anni finali del pontificato di Pio XII, sono numerose a Roma le nuove chiese e gli edifici ecclesiastici intitolati a Maria9, in sintonia con le scelte devozionali del papa. Inoltre, per celebrare il centenario del dogma dell’Immacolata, il 1954 fu proclamato anno mariano. L’inedita presenza della Chiesa, tesa a una riconquista delle anime e degli spazi, contribuì a rendere più accentuate le contrapposizioni ideologiche in città. Nell’immediata fase post-elettorale la tensione divenne esplosiva dopo l’attentato subito da Palmiro Togliatti alle 11.40 del 14 luglio 1948. Il leader comunista fu colpito da tre colpi di pistola all’uscita dalla Camera dei deputati, in via della Missione, una stradina laterale al palazzo di Montecitorio. A sparare era stato un giovane di destra, Antonio Pallante. Ferito gravemente a un polmone, Togliatti fu operato urgentemente dal più insigne chirurgo del Policlinico, Pietro Valdoni, e giudicato fuori pericolo quella stessa sera. Alla notizia dell’attentato, e mentre già circolavano voci sulla morte di Togliatti, seguì una spontanea sollevazione delle masse popolari che prese talora aspetti insurrezionali. A Roma furono posti blocchi stradali lungo le vie consolari Casilina e Tuscolana. I militanti di sinistra marciarono verso il centro e, nel pomeriggio, a piazza Colonna e a largo Chigi vi furono durissimi scontri. I manifestanti scalzarono i sampietrini per ostacolare i caroselli della «celere» e per lanciarli contro la polizia. Vi furono violenti corpo a corpo e la forza pubblica fece in qualche caso uso delle armi. Un operaio della Cisa-Viscosa, Filippo Glionna, rimase gravemente ferito e morì qualche giorno dopo10. I Gap ripresero le armi nascoste, ma un contrordine fermò una colonna che avrebbe dovuto attaccare il Viminale11. Per allentare la tensione e dare una via d’uscita alla rabbia della folla i dirigenti comunisti diedero l’indicazione di sfilare, il 15 luglio, in silenzio lungo viale del Policlinico per portare a Togliatti il saluto del popolo di Roma. Il leader sindacale comunista Giuseppe Di Vittorio, rientrato dagli Stati Uniti, di fronte alla fer269

mezza del ministro degli Interni Scelba e alla concreta minaccia di una scissione nel sindacato, impose la sospensione dello sciopero generale di protesta previsto per il giorno 16 a mezzogiorno12. Nonostante il rapido rientro nella normalità a Roma e nelle maggiori città, la situazione semi-insurrezionale prodottasi in molte località confermò nell’opinione moderata l’immagine di pericolosità del Pci. La vicenda dimostrava inoltre l’impossibilità di modificare con il peso delle masse popolari gli equilibri politici del paese. Il Pci risultò poi direttamente colpito dai numerosissimi arresti di suoi militanti. L’attentato contribuì a diffondere il culto della personalità di Togliatti, martire sopravvissuto, celebrato al suo rientro nella politica attiva con una grande festa popolare. In una bella giornata di sole, il 26 settembre, preceduto da mille ciclisti di Terni, un corteo di carri allegorici sfilò dall’Esedra e per il Corso fino a piazza del Popolo. C’erano, fra tanti, i ciociari con le zampogne, i carretti dei Castelli, le mondariso e 200 ragazze milanesi con palloncini colorati. Al Foro italico si tenne poi la vera e propria festa, indifferente alle evidenti vestigia del recente passato o, meglio, in una vistosa e prepotente riappropriazione degli spazi fascisti. Il programma prevedeva varie esibizioni e gare. Lotta, pugilato, corse atletiche, ma anche la corsa dei camerieri. La gara di ciclismo aveva in palio la Coppa Gramsci. Alle 16, si tenne allo Stadio dei marmi la giostra del saracino e alle 17 il comizio di Togliatti. Alle 19 il ballo nell’ex piazzale dell’Impero intorno alla fontana a sfera; alle 20.30 i fuochi di artificio e alle 21.30 la proiezione del film 14 luglio, realizzato dalla Cooperativa cinematografica bolognese13. Le combattive parole d’ordine di Luigi Longo per quella giornata furono: «Tentare di piegarci è inutile, di vincerci ridicolo, di dominarci pericoloso»14. Una forza invincibile vive nel nostro popolo, titolò «l’Unità» del 28 settembre, e ancora L’Italia cammina per le vie di Roma. La grande festa presentava un’altra Italia, quella vera, che voleva conquistare Roma. Ma avrebbe potuto farlo solo occasionalmente e simbolicamente secondo un rituale, destinato a ripetersi a lungo fino alle grande marce operaie e sindacali e agli imponenti funerali di Togliatti e di Berlinguer. Questa Italia alternativa continuava ad apparire come la minaccia principale alla Chiesa se, il 15 luglio 1949, il Sant’Uffizio, 270

sollecitato dal pontefice, comminò la scomunica ai fedeli seguaci del «comunismo materialista e anticristiano» escludendo dai sacramenti «i cattolici iscritti ai partiti comunisti, o che li appoggiassero o facessero propaganda per le loro idee o collaborassero e leggessero la loro stampa»15. Per quanto promulgata anche in relazione alla realtà dei paesi dell’Est europeo, la dichiarazione del Sant’Uffizio ebbe, come scrisse il questore di Roma, «una profonda ripercussione nell’opinione pubblica e un vivo allarme nei settori colpiti». La stampa comunista cercò di trattare la questione come un fatto «storicamente sorpassato», ma la dirigenza appariva preoccupata dalle reazioni dei simpatizzanti e dalle difficoltà per l’azione di proselitismo. D’altro canto l’autorità di pubblica sicurezza era allarmata per eventuali intemperanze comuniste contro edifici ed esponenti della S. Sede, tanto da mettere in atto una più attenta sorveglianza16. Queste iniziative del pontefice, guidate da un assolutismo sempre meno tollerato anche in ambienti vaticani17, rischiavano di ridurre l’autonomia della Dc. Le modalità della politica anticomunista e le scelte di fondo della Dc, in particolare quelle relative alla possibilità di mantenere una linea di accordo con la Chiesa senza dipendere direttamente dalla Chiesa, si riproposero con forza nella primavera del 1952. La nuova legge per le elezioni amministrative prevedeva un premio di maggioranza con l’attribuzione dei due terzi dei seggi alla lista o alle liste apparentate che avessero raccolto più voti18. In questa situazione, il timore che i comunisti potessero conquistare la città indusse Pio XII e una parte delle gerarchie ecclesiastiche, quella più legata alla missione della difesa della città sacra e nota come il «partito romano», a favorire la formazione di un’alleanza della Dc con la destra monarchica e neofascista. Del resto la pregiudiziale antifascista era tutt’altro che condivisa in molti ambienti cattolici e fra i gesuiti della «Civiltà cattolica»19. Come ha ricordato Giulio Andreotti, il papa insisteva pesantemente «sulla necessità di evitare a Roma cattolica l’umiliazione di essere retta da una giunta di atei militanti»20. Intorno all’asse PciPsi era stata apprestata infatti un’alleanza laica capeggiata dall’ultraottantenne Francesco Saverio Nitti, già presidente del Consiglio nel 1919-1920 ed esponente del vecchio mondo liberale. Sul fronte cattolico venne coinvolto Luigi Sturzo per condurre le trat271

tative con le destre e guidare quella che da allora sarebbe stata ricordata appunto come l’«operazione Sturzo». Il vecchio leader popolare era convinto della necessità di evitare che in Campidoglio, «simbolo del popolo romano nella sua tradizione civica e nella sua partecipazione alle attività politiche dello Stato e a quelle religiose del Papato», fosse elevato «un contro-altare al Vaticano o al Quirinale, o ai due insieme»21. L’iniziativa della S. Sede scavalcava De Gasperi, convinto invece che fosse un errore umiliare i partiti democratici di centro e centro-sinistra imponendo un’alleanza che andava contro le loro tradizioni. De Gasperi mise in campo allora il suo prestigio, il suo ruolo, la sua prudenza e anche la sua abilità dilatoria riuscendo ad annullare l’operazione. Del resto i missini erano incerti e divisi sulle modalità dell’operazione, osteggiata in particolare dall’ala più radicale capeggiata da Giorgio Almirante. Il 23 aprile Sturzo annunciò la sua rinuncia a proseguire le trattative con le destre22. Per la prima e unica volta nella storia della capitale una vicenda relativa all’amministrazione della città aveva assunto una valenza politica e un rilievo nazionale. Nel frattempo il Pci, per sfruttare anche a Roma le opportunità offerte dal sistema maggioritario, aveva dato il via ad una mobilitazione capillare di tutte le strutture territoriali, cellule e sezioni, e aveva avviato i corsi «Campidoglio» per l’addestramento dei quadri di base sui temi della propaganda, sulle inefficienze della giunta Rebecchini e sull’importanza di convogliare il voto femminile. Per allargare il consenso fu imposta una linea moderata. «Ci dobbiamo togliere il coltello dai denti» sostenne Aldo Natoli, il segretario della federazione, «ed agire come esponenti di una organizzazione veramente democratica, veramente capace di difendere la pace e la libertà»23. L’operazione Sturzo, sosteneva Natoli, avrebbe agevolato il Pci consentendo ai comunisti «di abbandonare la posizione di sinistra alla quale siamo relegati, muovendoci alla conquista delle vaste zone dell’elettorato che la D.C. sarebbe costretta ad abbandonare, legandosi al fascismo»24. Altra forza in grande espansione organizzativa era quella del Msi. E in effetti i neofascisti raccolsero, nelle elezioni del 25 maggio, il 15,6% dei voti, ottenendo consensi non solo al Salario, a Ludovisi o all’Esquilino, ma anche nei quartieri popolari e nelle borgate25. La lista cittadina guidata da Nitti conquistò il 33,5% superando la Dc, che ottenne il 31,1%, oltre venti punti sotto il 272

risultato del 1948: ma i partiti apparentati Dc, Pli, Psdi, Pri e Fronte economico riuscirono comunque a prevalere ottenendo 370.000 voti e 53 seggi su 8026. In questa occasione la partecipazione al voto fu dell’85,1%, inferiore a quella delle politiche del 1948, ma di quasi venti punti superiore a quella registrata nelle amministrative del 1947. L’affluenza alle urne salì ancora l’anno successivo, raggiungendo il 93,1%, in occasione delle elezioni politiche, alla fine di un’accesa campagna elettorale che aveva come posta l’eventuale scatto del premio di maggioranza (il 65% dei seggi) garantito dalla cosiddetta «legge truffa» ai partiti apparentati che avessero ottenuto il 50% più 1 dei voti. Il confronto fra i partiti si svolse, secondo l’uso allora corrente, in grandi comizi di piazza. Nel darne un resoconto finale, il questore di Roma Pòlito tracciò, con l’abituale efficacia descrittiva, un profilo del pubblico presente alle diverse manifestazioni: i ceti medi e i padri di famiglia per i partiti di centro, i popolani, le donne e i «mocciosetti» ai comizi del Pci, i ragazzi delle medie a quelli del Msi. Nel comizio di chiusura di De Gasperi il 5 giugno, piazza del Popolo appariva «del tutto gremita» e ancora più affollata sarebbe stata se la manifestazione fosse stata ritardata di almeno un’ora in modo da consentire l’afflusso di vaste categorie d’impiegati privati e, soprattutto, delle varie migliaia di addetti al commercio, datori di lavoro e lavoratori che costituiscono un nucleo rilevante nel ceto medio e contano, di conseguenza, nelle proprie file, larghi strati di simpatizzanti ai partiti di centro.

Sotto il palco di De Gasperi erano presenti in gran numero persone mature d’età e di giudizio e capi famiglia in grado di esercitare l’influenza della propria opinione nel proprio nucleo domestico. Nel contempo, non si notava il pullulare di irrequieti mocciosetti che, attaccati alle gonne materne, erano stati condotti in Piazza S. Giovanni ad ascoltare Togliatti o le centinaia e, forse, migliaia di ragazzetti delle scuole medie che, come al solito, contornavano chiassosamente la tribuna degli oratori missini al Colosseo27.

Né a livello nazionale, né a livello locale la Dc e i partiti di centro raggiunsero il 50% dei voti, rendendo così impossibile l’attri273

buzione del premio di maggioranza. La Dc ottenne a Roma il 33% dei voti e nell’insieme l’alleanza di centro raggiunse il 42,9%, il 2% in più del risultato complessivo riportato nelle amministrative dell’anno precedente. Le destre missine e monarchiche raccolsero il 22,4% grazie all’8,2% del Pnm e alla tenuta del Msi con il 14,2%. Dei due partiti di sinistra, che si presentavano di nuovo da soli dopo 7 anni, il Pci vedeva contenuta la sua forza al 23,5%, il Psi all’8,5%28. Fra il 1952 e 1953 la Dc raggiunse un saldo controllo politico e sociale sulla città: rappresentava un ampio spettro di forze, ceti medi e ceti popolari, raccoglieva il voto guidato dalle gerarchie ecclesiastiche. Interpretava la «romanità cattolica, intesa in senso un po’ esteriore, una specie di ideologia del cupolone» che costituiva «l’humus culturale e ideologico dei responsabili capitolini»29. Il partito superò senza danni la crisi d’immagine legata all’affare Montesi scoppiato fra il 1953 e il 1954. Il corpo di Wilma Montesi, una bella ragazza romana ventunenne, figlia di un falegname, fu rinvenuto l’11 aprile 1953 sul bagnasciuga della spiaggia di Tor Vaianica, a due giorni da una gita solitaria a Ostia per un improbabile pediluvio terapeutico. Nella morte era stato coinvolto, dalla stampa di opposizione e da quella scandalistica, Piero Piccioni, musicista, inserito nel giro mondano, figlio del ministro degli Esteri Attilio, esponente di spicco della Dc e probabile successore di De Gasperi. Il questore Pòlito venne accusato di aver sviato le indagini e una testimone confermò le voci che nella tenuta di caccia di Capocotta, affacciata sul mare, proprietà del marchese Montagna, si tenevano festini e «partite di piacere» con uso di stupefacenti. Lo scandalo esplose nel gennaio 1954 in occasione del processo al giornalista Silvano Muto, che aveva fatto le prime rivelazioni sul caso, e di nuovo nel settembre, quando furono arrestati Piccioni, con l’accusa di omicidio colposo, e Montagna30. Un mandato di comparizione raggiunse anche l’ex questore Pòlito. Nel processo che li riguardava i tre imputati furono scagionati e il caso rimase irrisolto. Ma si era ormai nel 1957. Oltre alla Montesi, sulla cui memoria si accanì la stampa alla ricerca di particolari piccanti, vi furono vittime e benificiari politici della vicenda. Vittima Piccioni padre, costretto alle dimissioni, mentre dirigenti democristiani in ascesa, come Fanfani, si avvantaggiarono della sua uscita di scena. La sinistra e il 274

Pci cavalcarono lo scandalo usando ora le parole pesanti, ora le allusioni, in qualche caso irridenti giochi di parole31. Ma i comunisti si videro ritorcere contro il loro moralismo quando, nel novembre 1954, un esponente di spicco del Pci, l’avvocato Giuseppe Sotgiu, presidente dell’amministrazione provinciale di Roma nonché difensore di Muto, fu accusato di atti contro la morale per aver frequentato una casa di appuntamenti dove assisteva agli incontri erotici della moglie32. La partita scandalistica sembrava potersi chiudere in pareggio, espungendo da allora le tematiche a sfondo sessuale dai contrasti politici. Sesso, droga e guerre di regime avevano comunque rilanciato l’immagine di una Roma mondana e peccaminosa, in fondo un vivace contraltare alla Roma sacra e bigotta di quegli anni. Nonostante la larghissima eco data alla vicenda, la Dc romana non risentì dello scandalo: nelle tornate elettorali degli anni successivi, le comunali del 1956 e del 1960 e le politiche del 1958, il partito mantenne pressoché costante la sua quota di voti intorno al 32-34%. Egualmente stabile fu il voto al Pli, fra il 4,1 e il 4,5%, mentre una più larga oscillazione subirono i socialdemocratici, dal 3,2 al 4,8%, e i repubblicani, dal 2,5 all’1,5%. Anche i suffragi al Pci mantennero una sostanziale stabilità, fra il 24,2 e il 22,1%, mentre il Psi registrò una costante ascesa dal 10,6 del 1956 al 13,2% del 1960. Il Msi, dopo essere sceso al 12,1 nel 1956, risalì al 15,2% nel 1960 mantenendo la sua posizione di terzo partito nell’area cittadina. Se le elezioni del 1952 avevano consentito all’alleanza dei partiti di centro di ottenere due terzi dei seggi e di disporre quindi di una larga maggioranza, con il ritorno al sistema proporzionale le giunte di centro potevano contare solo sulla maggioranza relativa in Consiglio: 34 seggi nel 1956, 35 nel 1960. Si rese così inevitabile il ricorso all’appoggio esterno dei monarchici e dei missini. Dopo le elezioni del maggio 1956, uscito di scena Salvatore Rebecchini, compromesso nelle polemiche sulla speculazione edilizia, per ridare lustro alla figura del sindaco la carica fu affidata a Umberto Tupini, esponente democristiano di livello nazionale, da oltre quarant’anni presente sulla scena politica romana e già ministro dei Lavori pubblici nonché artefice di un’importante legge del 1949 sui finanziamenti agevolati alle cooperative edilizie. Per275

sonaggio di prestigio, dunque, non intaccato dall’appoggio missino grazie al suo passato antifascista. Alla fine di dicembre 1957 Tupini si dimise, preferendo il seggio al Senato all’incarico di sindaco quando fu decisa l’incompatibilità fra i due incarichi. Al suo posto fu eletto l’avvocato Urbano Cioccetti, cameriere di cappa e spada del pontefice, già assessore al Bilancio. Cioccetti era il tipico rappresentante di un ceto amministrativo strettamente legato alla nobiltà terriera e alla finanza vaticana: coerente interprete di una prassi di governo che riconosceva e favoriva gli interessi immobiliari di quel mondo. La confermata alleanza con il Msi aprì una spaccatura nella Dc romana. La sinistra interna cercò di mobilitare un fronte antifascista che, escludendo i comunisti, si presentasse come alternativo alla linea perseguita dai vertici capitolini. Gli innovatori furono sconfitti e Cioccetti perseguì nella sua politica giungendo fino al punto di giustificare la rinuncia alle celebrazioni dei quindici anni della liberazione di Roma, nel giugno 1959, con la necessità di evitare il riaccendersi degli antichi odi. Due richieste di revoca del sindaco dal suo incarico, presentate dalle opposizioni in Consiglio, furono respinte33. La deriva di destra della Dc romana si intrecciava, opponendosi, al graduale processo di avvicinamento fra democristiani e socialisti in atto nel paese dal 1958. A Roma gli accordi di centrodestra erano destinati a durare anche dopo la tornata elettorale del novembre 1960, con il ritorno di Cioccetti a capo di una giunta monocolore Dc sostenuta ancora dai voti missini e monarchici. Ma dal luglio 1960 un argine non più superabile era stato opposto all’ipotesi di una svolta politica di destra promossa da Tambroni. Anche Roma era scesa in piazza contro il governo sostenuto dal Msi. L’autorizzazione per una manifestazione antifascista a Porta S. Paolo convocata per il tardo pomeriggio del 6 luglio dal Consiglio federativo della Resistenza era stata revocata nella notte precedente, quando non era più possibile disdirla, con l’evidente intenzione di cercare lo scontro. Il corteo antifascista, formato da poche migliaia di manifestanti, si trovò così di fronte, alle 18.30, un imponente spiegamento di forze: le jeep della celere, quattro autobotti con idranti e un reparto di carabinieri a cavallo comandato dall’asso dell’equitazione Raimondo D’Inzeo. Dopo i primi 276

caroselli della celere seguirono durissimi scontri, protrattisi fino alle 21.30 in tutta la zona e anche a Testaccio, dove, nei pressi del mercato, fu eretta una barricata. Si contarono numerosi feriti: 65 fra poliziotti e carabinieri, 54 dimostranti (fra questi 8 parlamentari). I fermati furono 39234. Quella giornata, resa memorabile dalle cariche della cavalleria che fecero rivivere la brutalità delle repressioni ottocentesche, segnò la nascita di una nuova «piazza antifascista»: nuova per l’età di una parte dei suoi componenti35, giovani studenti di origine borghese, e nuova per la sua capacità di occupare, da allora, la scena cittadina romana. Una scena dominata negli anni precedenti dalle manifestazioni di stampo nazionalista egemonizzate dai missini. La maggiore mobilitazione della destra si era avuta nell’autunno del 1953 per Trieste italiana. Il 20 ottobre i dimostranti si raccolsero a piazza Colonna e largo Chigi, a via Gaeta sotto l’ambasciata sovietica, dove la polizia intervenne con gli idranti, e alle Botteghe Oscure, dove si ebbero scontri nei pressi della sede del Pci. Un’altra manifestazione con 10.000 dimostranti, in prevalenza studenti, si tenne il 6 novembre per protestare contro la sanguinosa repressione compiuta a Trieste il giorno prima. L’obiettivo questa volta fu l’ambasciata americana di via Veneto, dove si registrarono incidenti con la forza pubblica36. Nell’ottobre 1956 gli studenti erano di nuovo scesi in piazza, questa volta contro la repressione sovietica della rivolta ungherese. Con chiari intenti anticomunisti sfilarono, in 10-15.000, nelle vie del centro fino a piazza Venezia il 29 ottobre e di nuovo il giorno successivo, quando gli attivisti missini causarono incidenti cercando di sfondare i cordoni della polizia per assalire le Botteghe Oscure37. Dopo il 1960 la nuova visibilità antifascista occupò di nuovo le strade e le piazze di Roma nel febbraio 1961 per Lumumba, nell’ottobre 1962 in nome della pace e contro gli Stati Uniti nel pieno della crisi cubana, contro il franchismo il 20 aprile 1963 in occasione della condanna a morte del comunista Julian Grimau. Una mobilitazione che accompagnava la svolta a sinistra del paese. Neppure la Dc romana poté sottrarsi a questa tendenza. I fanfaniani, la sinistra interna e i giovani puntavano alla realizzazione di un accordo di centro-sinistra. La giunta Cioccetti, nell’aprile 1961, si dimise travolta anche dagli scandali legati alla costruzio277

ne dell’aeroporto di Fiumicino. Mentre la Dc cercava invano un altro candidato, comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani sconfissero il 20 giugno e il 7 luglio il candidato ufficiale della Dc, l’andreottiano Ercole Marazza, eleggendo il democristiano Alberto Canaletti Gaudenti, noto per il suo passato antifascista. In tutte e due i casi Canaletti Gaudenti si dimise, ma nella seconda elezione sul suo nome erano confluiti provocatoriamente anche i voti missini38. In una situazione ormai senza uscita il Comune rimase affidato a un commissario per oltre un anno, dal luglio 1961 al luglio 1962. Ma quando si tornò a votare, nel giugno 1962, era pronta anche per Roma una soluzione di centro-sinistra. 2. Crescita demografica e sviluppo urbano La nuova fase politica trovava una città profondamente mutata rispetto agli anni dell’immediato dopoguerra. Non tanto nella struttura della società, quanto nella dimensione quantitativa e nelle trasformazioni indotte da una fortissima crescita demografica. Nel 1961, la città contava 2.188.160 abitanti: più del doppio di trent’anni prima e un terzo in più che nel 1951 quando gli abitanti erano 1.651.70039. Ormai la popolazione di Roma distanziava nettamente quella delle altre grandi città italiane: Milano aveva, nel 1961, oltre 600.000 abitanti in meno. Fra il 1951 e il 1961 i vecchi rioni centrali registrarono una diminuzione del 34%, passando da 424.200 a 278.610 residenti, secondo una tendenza in atto già dalla fine dell’Ottocento. Nei quartieri urbani, con 1.607.200 abitanti, grazie a una crescita del 50%, risiedevano, nel 1961, i tre quarti circa della popolazione romana. Un aumento più consistente avevano avuto, nel corso del decennio, i suburbi, i quartieri marini e soprattutto l’Agro, dove gli abitanti erano più che raddoppiati, segno evidente della diffusione di forme di residenza spontanee, abusive e precarie. Come in passato, l’espansione demografica era dovuta per gran parte all’immigrazione. Fra il 1955 e il 1961 si contano 438.000 immigrati e se ne conteranno 551.000 fra il 1962 e il 1968. In tre anni, dal 1961 al 1963, arrivano 350.000 nuovi abitanti mentre sono 112.700 quelli che lasciano la città40. Si mantiene elevata l’immigrazione dal Lazio, con un contributo del 26-27%; cresce quella 278

dal Sud, dal 36% negli anni 1948-1954 al 40% nel 1955-1961. Negli anni Sessanta e Settanta aumenterà anche l’immigrazione dal Nord, dal 13% nel 1955-1961 al 16% nel 1962-1968 al 18% nel 1969-1975, con un incremento più significativo dal Nord-ovest, a segnalare provenienze più qualificate nel settore della dirigenza e delle professioni. Anche l’emigrazione da Roma si caratterizza nel tempo per le qualità professionali di chi lascia una città che è anche un importante centro di studi universitari. Il carattere dominante di Roma resta quello di una grande città terziaria, nonostante una lieve diminuzione del peso percentuale di questo settore, dal 66,8 al 65,5%, proprio nel decennio 19511961. Una diminuzione legata al calo degli addetti alla pubblica amministrazione, passati dal 28,3 al 21,7%, e non compensata dall’aumento negli altri comparti del terziario cresciuti dal 38,5 al 43,8. Nel decennio diminuisce anche la percentuale degli addetti all’agricoltura, dal 3,7 al 2,8%, e cresce invece, seppure di poco, quella degli addetti all’industria, dal 29,5 al 31,7%. Il peso dell’edilizia passa dal 10 al 10,8%. A questa sostanziale conferma delle linee di fondo degli assetti produttivi corrispondeva la tradizionale divisione sociale fra i quartieri, con la borghesia e i ceti medi superiori distribuiti prevalentemente nei quartieri a ovest e a nord, i ceti popolari e la piccola borghesia a est e a sud. Ma l’espansione dell’Eur, dalla seconda metà degli anni Cinquanta, richiama a sud, soprattutto dai quartieri Nomentano e Trieste, una parte significativa dei ceti dirigenti, mentre di grande importanza, per tutto il periodo e oltre, sono gli spostamenti di residenza fra i quartieri, spesso fra quelli contigui, in diretta relazione con lo sviluppo edilizio41. Sotto la spinta della grande crescita demografica la domanda di alloggi rimaneva elevatissima. Non si trattava solo di accogliere i nuovi arrivati, ma di risolvere diffusi problemi di affollamento e coabitazione e insieme di sanare la questione sociale rappresentata dagli alloggi precari e impropri. L’inchiesta parlamentare del 1951-1952 sulla miseria in Italia registrava per Roma 93.054 persone residenti in abitazioni improprie42. Oltre alle baracche, alle grotte e ai ruderi erano censite le borgate costituite dalle vecchie casette provvisorie degli anni del fascismo, prive di adeguati servizi igienici e largamente degradate. 9701 persone vivevano poi in alloggiamenti collettivi di 279

emergenza. Nel 1957 un’inchiesta del Comune, limitata agli alloggi precari, individuava 551 insediamenti e 54.576 abitanti43. Fra i nuclei principali quelli di Campo Parioli con 1484 abitanti, di Prato Rotondo con 957, dell’Acquedotto Felice con 906: qui, come lungo via del Mandrione, le baracche e le casette erano costruite fra gli archi o a ridosso dell’antico acquedotto, coniugando pittoresco e povertà estrema. Tutti questi nuclei erano privi di fognature e di illuminazione stradale. L’acqua era fornita solo dalle fontanelle pubbliche. Vi era tuttavia una logica funzionale di questi insediamenti: la maggior parte di essi, infatti, era collocata in prossimità dei servizi pubblici di trasporto44. La provenienza dei capifamiglia presenti negli alloggi precari rispecchiava fedelmente la distribuzione dell’immigrazione povera dal Centro e dal Sud, con una netta prevalenza dei nati nel Lazio. Spesso si trattava di immigrati a Roma da molti anni: il 47% era arrivato prima del 1940. I nuclei registravano anche una certa mobilità, nel quadro di una marginalità sociale destinata inevitabilmente a riprodursi anche grazie all’esistenza stessa di questi insediamenti. Contro gli abitatori delle grotte, i «trogloditi» del Flaminio, tuonavano i giornali benpensanti già nel primo dopoguerra, mentre ora le baracche si insinuavano persino nel parco di Villa Balestra ai Parioli45. Il problema della casa si presentava di nuovo come il nodo cruciale della vita cittadina. Intorno alla sua soluzione si giocarono le fortune politiche dei partiti e si misurarono le capacità progettuali dell’amministrazione. In questo campo iniziativa pubblica, investimenti privati, speculazione si confrontarono con le attese dei cittadini: disponibilità di alloggi, fitti contenuti e, soprattutto, l’aspirazione alla proprietà formale o di fatto della casa. Nel tempo questi obiettivi furono sostanzialmente raggiunti grazie a una serie di interventi normativi, all’azione diretta di enti pubblici o semipubblici e alla messa in opera di un complesso intreccio politico e clientelare che attraverso cooperative, mobilitazione dal basso, abusi e condoni edilizi diede luogo a un consolidato sistema di grandi e piccoli privilegi, di diffuse e articolate parzialità: mantenendo sempre precario e mai equamente risolto l’equilibrio fra aspirazioni e diritti. A Roma il ciclo dell’espansione edilizia raggiunse il suo culmine, come altrove, nel 1962. Secondo i dati ufficiali si era passati dai 280

31.300 vani costruiti nel 1951 ai 105.766 del 1955, ai 159.134 del 1962. Nel 1963 i vani progettati erano ancora 257.895, ma quelli costruiti erano già scesi a 131.026. Per tutti gli anni Cinquanta e per i primi anni Sessanta l’edilizia a Roma è in costante ascesa46. Sono gli anni dei primi grandi interventi realizzati, fra il 1950 e il 1954, dalla Gestione Ina-Casa al Tiburtino, al Valco San Paolo, al Tuscolano47. L’Ina-Casa, finanziata da una trattenuta dell’1,8% sui salari (per lo 0,6% a carico dei lavoratori), rientrava nel piano Fanfani promosso nel 1949 dall’allora ministro del Lavoro per ridurre la disoccupazione e dare una casa ai ceti popolari; assegnava metà degli alloggi in affitto e l’altra metà in proprietà a riscatto venticinquennale48. Diretta con dinamismo da Arnaldo Foschini, l’Ina-Casa affidò i nuovi quartieri ad alcuni dei migliori architetti romani: alcuni già attivi negli anni Trenta come Libera, De Renzi, Ridolfi, affiancati da Ludovico Quaroni e Saverio Muratori e dai più giovani Mario Fiorentino, Carlo Aymonino, Carlo Melograni, molti impegnati allora o in seguito nell’insegnamento universitario. Il Tuscolano, un quartiere per 18.000 abitanti, presenta tipologie articolate, a torre, in linea, spezzate, fino all’unità di abitazione orizzontale ideata da Libera con le originali case a patio. La progettazione di questi interventi si collegava alla riflessione che gli architetti italiani venivano compiendo in quegli anni sui caratteri dell’edilizia popolare, unendo teoria e impegno politico, e al tentativo, non sempre riuscito, di una rilettura dell’architettura spontanea del nostro paese. L’esempio più evidente di questa rivisitazione è il quartiere Tiburtino, al quale si attribuì una sorta di adesione al canone «neorealista»49. A distanza di un cinquantennio questi quartieri dimostrano una sostanziale tenuta di disegno urbanistico e architettonico, appena alterato dalla insufficiente manutenzione, anche se in quasi tutti appaiono inadeguate le dotazioni di servizi sociali e risulta sorprendente che in qualche caso non fosse previsto un centro urbano come la piazza, elemento tipico della tradizione italiana, forse logorato dalla sua ridondante presenza nell’architettura fascista. L’Ina-Casa scontava, non solo a Roma, la scarsa esperienza italiana nella costruzione di ampi complessi edilizi e la lentezza delle amministrazioni locali nel dotare i quartieri di servizi comuni. In un secondo settennio del piano Fanfani (1956-1962), l’InaCasa realizzò altri quartieri al Tiburtino (Ponte Mammolo), a Tor281

re Spaccata, ad Acilia, a Torre di Mezzo. Ma l’Ina-Casa non era il solo ente impegnato nella trasformazione della città. Sempre per gli anni Cinquanta vanno ricordati anche il piccolo intervento dell’Unrra-Casas a San Basilio con fondi americani, il quartiere di Villa Gordiani costruito dal Comune, le case torri dell’Istituto nazionale di assicurazioni a viale Etiopia; inoltre i complessi edilizi dell’Icp, quelli promossi per i propri dipendenti da numerose amministrazioni dello Stato e quelli per i profughi giuliani e dalmati. Un grande quartiere ad altissima densità, ispirato a un’indicazione del piano regolatore del 1931, veniva poi realizzato, alla fine degli anni Cinquanta ancora al Tuscolano su iniziativa privata, con la promozione dei salesiani. Connotato da un forte impatto scenografico, si caratterizzava per una grande piazza, scandita da palazzi porticati, chiusa da un’imponente chiesa dedicata a S. Giovanni Bosco. Fondale abbacinante dell’alienazione contemporanea, Fellini vi girò alcune fra le scene più drammatiche della Dolce vita50. Del resto lo sfondo della città in costruzione, con i palazzi appena intonacati e le finestre vuote, entra prepotentemente nel cinema di quegli anni. Un percorso diverso seguiva la domanda di nuove case proveniente dai ceti medi. La piccola borghesia priva di risorse trovava alloggio nei grandi palazzi di affitto economico, gli intensivi disposti in linea lungo le grandi strade verso le periferie dove si veniva compiendo la saldatura fra i quartieri degli anni Trenta e gli interventi della nuova edilizia popolare. Questo impianto è particolarmente evidente lungo la Tuscolana e l’Appia Nuova. I ceti medi superiori dotati di capitali e con accesso al risparmio scelsero la via dell’acquisto per sé o come investimento nei quartieri in espansione oppure ricorsero all’affitto di qualità. A una forte domanda corrispondeva un’offerta a prezzi remunerativi sia per i costruttori che per i proprietari investitori. Una fitta trama di impresari piccoli e medi era del resto largamente impegnata ad alimentare l’offerta e a rispondere alle numerose iniziative di piccole cooperative che potevano disporre di crediti agevolati. La legge Tupini del 1949 assicurava infatti esenzioni venticinquennali delle imposte sui fabbricati e contributi del ministero dei Lavori pubblici sui mutui trentacinquennali. La successiva legge Aldisio del 1950 concedeva mutui al 4% destinati a coprire fino ai tre quarti dei costi di costruzione. Dal momento che le ri282

sorse disponibili erano ampie ma comunque limitate, la possibilità di godere delle agevolazioni era inevitabilmente legata a meccanismi di tutela politico-clientelare e di patronage attivati all’interno stesso dell’amministrazione pubblica, che ne era anche la principale beneficiaria. La forza di questo meccanismo riuscì a dirottare, per ammissione degli stessi vertici democristiani, parte cospicua di queste risorse dalle case popolari a quelle per i ceti medi impiegatizi51. Per quanto non sia possibile, allo stato delle conoscenze, quantificare precisamente il fenomeno, interi quartieri dei quadranti nord della città, dall’Aurelia alla Nomentana, furono largamente caratterizzati dalla diffusione di palazzine costruite in cooperativa. La palazzina con i suoi quattro piani più l’attico – ma possono essere di più se, come accade sovente a Roma, si costruisce lungo un pendio – rappresenta la tipologia caratteristica dell’edilizia per i ceti medi52. E gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta rappresentano l’età d’oro della palazzina anche per la qualità dei prodotti, che annoverano fra i progettisti Mario Ridolfi e Wolfgang Frankl, Luigi Moretti, Ugo Luccichenti, Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, per citarne solo alcuni. Ma con l’esplosione del genere la qualità tende a perdersi e quel rigore stilistico che i maggiori controllavano con sicurezza, anche con l’uso disinvolto di riferimenti provinciali come nel caso di Ridolfi, diviene un linguaggio ripetitivo: «il rivestimento in cortina, l’infisso monoblocco con avvolgibile incorporato, la ringhiera trattata con ferro disegnato o con pannellature di vetro o eternit», segnato solo dall’individualismo progettuale di minori seguaci53. Con il boom edilizio subentrano gli uffici tecnici delle grandi imprese e si perde il controllo della qualità progettuale. Protagonista delle trasformazioni urbane della città fu in questi anni la Società generale immobiliare. Rilanciata da Eugenio Gualdi e Aldo Samaritani a partire dal 1933, dopo un periodo di gravissimi illeciti amministrativi, era una delle principali imprese italiane di costruzioni e la più importante della realtà romana. I capitali vaticani, incrementati dopo i Patti lateranensi, ne facevano uno dei puntelli delle iniziative economiche della S. Sede54. Dotata di un apparato tecnico di notevoli capacità ed esperienza, l’Immobiliare si avvaleva anche di professionisti esterni. Con un grande patrimonio di aree distribuite intorno alla città e valutate in 283

6.750.000 metri quadri nel 1952, era in grado di progettare interi quartieri o di fornire terreni, consulenza tecnica e di realizzare edifici per conto terzi, ad esempio le cooperative. Per questo aveva costituito in molte grandi città gli istituti per l’edilizia economica e popolare. Nei suoi interventi diretti, come quelli di Monte Mario (Balduina e Belsito), di Vigna Clara e nel successivo quartiere residenziale di Casal Palocco, l’Immobiliare mantenne un’elevata qualità formale fornendo agli acquirenti un prodotto contrassegnato da una felice trasposizione della modernità «americana»55. Nelle polemiche politiche di quegli anni l’Immobiliare venne indicata come il simbolo stesso della speculazione edilizia. E per chi interpretava le trasformazioni della città solo dal punto di vista della speculazione, l’Immobiliare appariva come il nemico principale, la longa manus di un potere oscurantista che condizionava e controllava l’amministrazione cittadina. Che l’Immobiliare fosse un interlocutore potente non v’era alcun dubbio e l’amministrazione democristiana non era certo disposta a porre freni alle sue iniziative. Così la giunta Rebecchini favorì il cambiamento di destinazione d’uso di un’area di oltre cinque ettari di proprietà dell’Immobiliare per consentire la costruzione su Monte Mario, in un punto panoramico affacciato sulla città, di un grande albergo della catena americana Hilton. Speculazione, asservimento al grande capitale americano, deturpazione del paesaggio furono gli ingredienti di aspre polemiche sulla stampa e in Consiglio comunale. La variante al piano regolatore, bocciata in un primo tempo nel febbraio 1956, fu approvata nel settembre 1958. Il nuovo albergo Cavalieri Hilton, circondato da un grande parco, sarebbe stato inaugurato nel giugno 196356. La vicenda dell’Hilton si intrecciò fin dagli inizi con la campagna di stampa lanciata contro l’Immobiliare e la giunta Rebecchini da un nuovo settimanale, «L’Espresso», interprete degli orientamenti della sinistra laica. Il numero dell’11 dicembre 1955 si apriva con una formula destinata a rimanere famosa: Capitale corrotta = nazione infetta. Un primo piano molto ravvicinato del sindaco era presentato con il titolo Dietro il sorriso di Rebecchini quattrocento miliardi. Sempre in prima pagina il giornale esponeva le sue tesi partendo dalla constatazione che a Roma nel 1954 i 75.127 vani costruiti dalle imprese private con intenti di specula284

zione erano stati più del doppio di quelli costruiti dall’Ina-Casa in sette anni. Se Roma non ha sviluppo industriale la colpa è di chi specula sulle aree; se ventottomila famiglie vivono nelle baracche [...] la colpa è degli speculatori delle aree; se trecentomila famiglie di professionisti, commercianti, impiegati, operai pagano affitti sproporzionati alle loro possibilità o vivono in case vecchie, sovraffollate, sprovviste di conforts moderni, la colpa è degli speculatori delle aree.

«L’Espresso» attaccava l’amministrazione comunale per non aver applicato le norme che imponevano ai proprietari di corrispondere un contributo pari al 50% dell’incremento di valore e denunciava i favori ottenuti dall’Immobiliare nell’edificazione di Monte Mario. Il direttore del settimanale Arrigo Benedetti e il giornalista Manlio Cancogni, autore degli articoli, furono querelati dall’Immobiliare. Assolti nel dicembre 1956 alla fine del processo di primo grado, i due giornalisti furono poi condannati un anno dopo in appello per diffamazione57. Contemporaneamente, dalle colonne del «Mondo», Antonio Cederna conduceva la sua battaglia contro i «vandali in casa»58. Una battaglia proseguita con esemplare determinazione e continuità nei decenni successivi. Pubblicando nel 1965 i suoi Mirabilia Urbis Cederna sintetizzava la sua visione della città. Roma non è altro oggi che l’espressione topografica della distribuzione della proprietà fondiaria, il suo paesaggio urbano la proiezione dell’abuso e dell’illegalità, traduzione puntuale dei voleri delle società immobiliari, di una banda di imprenditori improvvisati e ladri.

Le forze politiche dominanti basavano la loro fortuna «sulla rapina del suolo» provocando «sempre in nome dei sani principî dell’appropriazione indebita, il colossale fallimento delle finanze pubbliche»59. Questa linea polemica, che ebbe in Cederna il suo esponente più noto, riprese ai suoi esordi, quasi alla lettera, le tesi che Aldo Natoli, il capogruppo del Pci in Campidoglio, aveva esposto in un lunghissimo discorso pronunciato in Consiglio nel febbraio 1954, 285

poi pubblicato in un volumetto intitolato Il sacco di Roma. Si affrontavano allora i princìpi ispiratori del nuovo piano regolatore e l’intervento di Natoli era stato preceduto di qualche giorno da quello del liberale di sinistra (poi fra i fondatori del Partito radicale) Leone Cattani, già assessore all’Urbanistica e dimissionario dal febbraio del 1953. Cattani aveva avviato un’argomentata critica agli abusi della burocrazia e dell’amministrazione capitolina in tema di concessioni edilizie e aveva sottolineato che le disposizioni di legge ancora in vigore consentivano un ampio utilizzo dell’esproprio per realizzare una politica urbanistica coerente con gli interessi generali della città60. Per Natoli l’origine dei mali di Roma era «il carattere accentuatamente parassitario e sfruttatore dei gruppi dominanti della borghesia romana, dal 1870 a oggi» e la mancanza di «un adeguato sviluppo delle attività industriali o, in generale, produttive»61. Facendo abilmente leva sulle ammissioni critiche espresse dall’assessore liberale all’Urbanistica, Enzo Storoni, contro il dilagare degli interessi privati, Natoli stigmatizzava le complicità dell’amministrazione comunale nel favorire l’abusivismo, dalle borgate ai Parioli a Monte Mario. Quello che accadeva non era che la conferma di una linea di ininterrotta continuità dall’Unità in poi: una politica urbanistica contro la quale si era espresso a suo tempo anche Giolitti, suggerendo all’amministrazione di dotarsi di un patrimonio di aree edificabili. Natoli attaccava poi i profitti scandalosi degli speculatori e dei grandi proprietari di aree (oltre all’Immobiliare, i Lancellotti, i Gerini, Romolo Vaselli, Antonio Scalera)62: [...] negli anni delle amministrazioni comunali che portano il nome del sindaco Rebecchini, si sta svolgendo un vero e proprio sacco di Roma. [Il] Comune ha permesso ad un pugno di sciacalli di compiere indisturbati immonde speculazioni, di accumulare enormi profitti e di impedire lo sviluppo di un’edilizia popolare, mantenendo alle stelle i prezzi dei terreni fabbricabili. Tutto ciò costituisce un’offesa grave al senso morale ed umano della popolazione, tanto più perché ciò avviene a Roma, in una città che si dice cristiana per eccellenza63.

Nemmeno i moniti di Pio XII contro l’usura fondiaria erano riusciti a fermare lo scempio. 286

Il nuovo piano regolatore, sosteneva Natoli, non era pensabile senza una legge che avesse il potere di stabilire le linee di espansione della città e «di vincolare le aree relative per sottrarle alla speculazione dei privati». Ma condizione ineliminabile dello sviluppo della città erano lo sviluppo dell’industria e la riforma agraria dell’Agro romano. La questione delle abitazioni avrebbe trovato una soluzione con la costituzione di un demanio comunale64. Uno sviluppo industriale come lo intendevano i comunisti, promosso dall’alto e foriero della nascita di una forte classe operaia, non ci sarebbe mai stato. Come sappiamo e come sapevano anche i contemporanei la città accentuava il suo sviluppo nel terziario, ma questo aspetto continuava a essere valutato in chiave negativa, secondo un diffuso pregiudizio. Una serie di iniziative per lo sviluppo industriale di Roma furono tuttavia prese. Collegandosi infatti alle disposizioni di una legge del 1941 e sotto la spinta del segretario dell’Unione degli industriali del Lazio, l’avvocato democristiano Carlo Latini, fra il 1956 e il 1957 fu faticosamente realizzata, attraverso una serie di facilitazioni e di espropri, la seconda zona industriale di Roma (la prima era quella Ostiense-San Paolo costituita agli inizi del secolo) nel comprensorio di Tor Sapienza fra Tiburtina e Prenestina, a Grotte Celoni (dove era già la Breda) e sulla Salaria. A questa stentata industrializzazione a est all’interno del Comune (alla fine del 1959 si contavano circa 11.000 addetti) faceva riscontro l’espansione industriale a sud, fuori dai confini comunali, fra Pomezia e Latina, fin dove potevano spingersi le provvidenze della Cassa per il Mezzogiorno65. L’industria romana mantenne la sua spiccata frammentazione, corrispondente alla frammentazione delle unità locali e alla presenza di pochi grandi impianti66, mentre gli edili e non gli operai di fabbrica continuarono a rappresentare, fino alla metà degli anni Sessanta, la componente più combattiva della classe operaia. Gli sforzi per l’industrializzazione non riuscirono a modificare i caratteri di fondo della città. Se infatti la percentuale degli addetti all’industria sul totale della forza lavoro salì, come abbiamo visto, del 2,2% fra il 1951 e il 1961, nel decennio successivo registrerà una diminuzione del 4,2%. A queste tendenze così forti ed evidenti si continuava a sinistra a contrapporre un rigido schema di analisi di matrice marxista e 287

leninista incentrato sull’alternativa industrialista e sulla lettura dello sviluppo urbano in chiave di rendita fondiaria. Non vi era alcun dubbio che l’espansione edilizia era stata accompagnata da un vertiginoso aumento di valore delle aree, di cui avevano beneficiato alcuni grandi proprietari. Gli esempi più citati in quegli anni erano quelli dell’andamento dei prezzi al Prenestino e al Tuscolano dopo la costruzione di Villa Gordiani e dell’Ina-Casa: le aree circostanti e quelle situate fra i nuovi quartieri e la città avevano avuto incrementi di valore fino a 30-50 volte. I Lancellotti e i Gerini, dopo aver venduto parte delle loro proprietà per costruire i due quartieri, videro poi trasferiti i benefici dell’urbanizzazione sul resto delle aree possedute. Anche un nuovo piano regolatore non avrebbe potuto impedire che in singole zone si verificassero da un lato vistosi incrementi di valore, dall’altro gravi svalutazioni. L’assenza di un piano lasciava invece libero campo alla manifestazione degli interessi consentendo all’amministrazione un ruolo di mediazione caso per caso delle singole esigenze, grandi o piccole che fossero. Queste tensioni si sarebbero trasferite nelle lunghe fasi di elaborazione del nuovo piano regolatore, mentre rimanevano aperte le vie dell’abuso e delle sanatorie. La politica della Dc fu quella di lasciare aperte tutte le opzioni, dalla regolamentazione all’abuso, senza ostacolare i poteri forti, accogliendo le pressioni clientelari, lasciando gestire a livello nazionale i provvedimenti generali per la casa, come il blocco dei fitti, che avevano un fortissima ricaduta in una città come Roma. La proprietà della casa per i ceti piccoli e medi era un principio indiscutibile per la grande maggioranza dei democristiani e un potente suscitatore di consensi. In ossequio a questa linea, il ministro del Lavori pubblici Togni, nel gennaio 1959, fece approvare un provvedimento per la cessione in proprietà degli alloggi di tipo economico e popolare, costruiti e da costruire, dell’Incis, degli Istituti autonomi case popolari (Iacp), delle amministrazioni delle ferrovie, delle poste, dei telefoni, a condizioni estremamente vantaggiose67. La sinistra invece, priva di una visione articolata dello sviluppo urbano e pesantemente condizionata, nell’interagire con le forze reali e i bisogni diffusi, da un ricorrente moralismo populista e dalla difficoltà di tallonare la Dc sul problema della casa, scelse 288

una linea di deprecazione e denuncia. Incapace di individuare propri interlocutori sul versante delle imprese e degli interessi immobiliari mantenne toni antagonistici di pura interdizione. Nell’alternativa fra complice arrendevolezza e pianificazione punitiva risultava sconfitta ogni ipotesi di progettazione virtuosa della città. La lettura della città contemporanea, di tutta la sua storia dal 1870 in poi, nella chiave negativa della speculazione, dunque utilizzando un criterio monocausale, si irrigidì presto in una vulgata immodificabile legata anche alla duratura fortuna di un libro esemplare per chiarezza e vis polemica come Roma moderna. Un secolo di storia urbanistica di Italo Insolera, pubblicato nel 1962. Improntata a un atteggiamento di ostentata superiorità culturale (che fu avvertito da molti come fastidioso snobismo) e alla certezza di possedere una superiore cultura urbanistica, la visione di Roma proposta e riproposta da Insolera e da Cederna si è tradotta in una sostanziale incomprensione storica della città, incapace di cogliere e di volgere in positivo la complessità dei fattori della trasformazione urbana68. Ispirata a un dirigismo illuministico, priva di un reale sostegno politico, raramente una battaglia politico-culturale fu così avara di successi, praticamente fallimentare. I soli risultati furono quelli raggiunti dalle campagne a difesa del verde pubblico o delle zone archeologiche. Ma furono pure battaglie di interdizione, come quelle condotte e in alcuni casi vinte da Italia nostra, un’associazione sempre più influente e combattiva, animata da una forma inedita di populismo colto. La città nel suo insieme continuò a svilupparsi senza regole e senza rispetto delle regole, certo grazie alla forza degli avversari della pianificazione, al disinteresse del pubblico, ma anche per l’incapacità di rendere comprensibile e convincente ogni ipotesi alternativa. La pubblicistica laica e di sinistra alimentò così una lettura della città in cui praticamente tutto il nuovo e tutti i grandi interventi degli anni Cinquanta, giudicati frutto o premessa della speculazione, erano contrassegnati da un indelebile marchio negativo.

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3. L’Eur e le Olimpiadi Con i primi anni Sessanta si chiude a Roma la grande stagione dell’architettura pubblica iniziata negli anni Trenta. Da allora, se si escludono alcuni grandi interventi di edilizia residenziale pubblica progettati agli inizi degli anni Settanta, l’architettura, intesa nella sua capacità di connotare una città e in qualche caso anticiparne gli sviluppi, esce di scena. La trasformazione dell’Eur in centro direzionale, e insieme in quartiere residenziale, e gli interventi per le Olimpiadi del 1960 chiudono la fase espansiva dell’architettura romana e rappresentano i momenti più significativi del decennio. L’Eur e le Olimpiadi non investono il centro cittadino, che aveva subito invece, negli anni immediatamente precedenti, due modificazioni di grande importanza, funzionale e simbolica, con la costruzione della nuova stazione Termini e con il completamento di via della Conciliazione. Dopo l’abbandono dell’ipotesi prevista dal piano del 1931 di trasformare Termini in stazione di transito sotterranea, fu decisa la costruzione di un nuovo edificio di testa arretrato di 200 metri rispetto al precedente. Si apriva così una grande piazza sul fondo della quale nel 1950 fu completato l’edificio centrale, un corpo compatto, attraversato da una galleria e preceduto da un atrio sormontato da un’agile pensilina. La porta di ingresso nella città ne risultò radicalmente modificata. L’arrivo a Roma, dopo un percorso di avvicinamento segnato da un forte disordine urbano e dalla vista delle baraccopoli, saliva di tono nell’avvicinarsi alla stazione grazie ai nitidi manufatti ferroviari di Mazzoni, per poi tradursi in un forte impatto scenografico all’aprirsi dello sguardo dal modernissimo atrio vetrato verso la piazza chiusa dal profilo antico delle Terme69. Sul piano delle scenografie monumentali si collocava invece il nuovo accesso a S. Pietro compiuto per l’anno santo del 1950. La sistemazione di via della Conciliazione, opera di Piacentini, snaturava l’impianto berniniano ma apriva la basilica e il Vaticano, fino allora rinserrati nei Borghi, verso la città, in piena sintonia con il nuovo significato che la Conciliazione del 1929, a cui era intitolata la strada, e il pontificato di Pio XII avevano voluto attribuire al ruolo della Chiesa a Roma. 290

Anche la realizzazione dell’Eur venne compiuta all’insegna di una continuità con il tardo monumentalismo fascista. Questo fu un elemento decisivo per connotare a lungo negativamente, presso una parte dell’opinione pubblica, il nuovo quartiere. Dell’originale progetto di un’Esposizione universale di Roma, dopo la guerra e la caduta del fascismo, era rimasta solo la sigla. Rimanevano tuttavia in vigore le disposizioni speciali che attribuivano all’Ente Eur una larga autonomia e un vasto patrimonio di aree. Affidato alla competenza e alla capacità di iniziativa di Virgilio Testa, già segretario generale del Governatorato, nominato commissario dell’Ente nel 1951, nel giro di un decennio, con l’appoggio della Dc e del mondo degli imprenditori e sottraendosi ai tentativi di controllo del Comune, l’Eur fu trasformato da distesa di edifici incompiuti e abbandonati nel più moderno e organizzato quartiere di Roma. Ed era quindi comprensibile il compiacimento con cui Testa ebbe a riconsiderare la sua opera. La storia urbanistica di Roma di quest’ultimo secolo ha registrato un evento straordinario, vorremmo dire quasi fiabesco, e cioè la fulminea costruzione di un nuovo quartiere [...]70.

Secondo un piano redatto con ogni probabilità da Piacentini, fra il 1954 e il 1963 furono completati all’Eur il Palazzo dei Congressi, il Palazzo della Civiltà italiana (il «Colosseo quadrato»), la grande chiesa dei SS. Pietro e Paolo, mentre molti edifici cambiarono destinazione, come i palazzi originariamente delle forze armate destinati all’Archivio centrale dello Stato. Trovarono collocazione all’Eur il Museo della civiltà romana, quello delle Tradizioni popolari, l’Inps e la Cassa per il Mezzogiorno, il ministero delle Finanze, quello del Commercio estero, della Marina mercantile, della Sanità e nel 1964 quello delle Poste. Negli anni immediatamente successivi grandi imprese, come l’Alitalia, la Esso, l’Immobiliare, vi costruirono i loro uffici. Il «grattacielo» dell’Eni, di 21 piani, si affacciava con le sue pareti vetrate sul laghetto artificiale e poteva ospitare 1900 impiegati. All’Eur furono costruiti il nuovo collegio Massimo dei gesuiti e la sede nazionale della Dc71. Si realizzava così, seppure su scala inferiore alle necessità, quel decentramento delle funzioni pubbliche che nessun organo 291

politico o amministrativo era riuscito o sarebbe riuscito in seguito a imporre. Gli edifici direzionali furono affiancati da zone residenziali a palazzine, ville e villini, con tratti di città-giardino, destinate a un pubblico medio-alto, con una buona qualità edilizia favorita da un forte controllo centrale72. La bassa densità conferisce all’Eur, nonostante la presenza di grandi edifici, un aspetto insolitamente arioso e aperto al quale si aggiunge la cura, anch’essa inconsueta, degli spazi verdi. Pregi che derivavano certamente dall’autonomia operativa dell’Ente (trasformato nel 2000 in società per azioni). Con gli anni l’Eur si è imposto come centro di riferimento di un vasto settore nel quadrante sud-est, tanto che la sua denominazione viene impiegata per designare anche zone diverse e lontane dal quartiere. Un decisivo consolidamento funzionale e di immagine derivò all’Eur dal coinvolgimento nei progetti per le Olimpiadi, realizzati nella seconda metà degli anni Cinquanta grazie anche alla legge Pella che attribuiva finanziamenti speciali per Roma. Per le Olimpiadi furono spesi a Roma circa 64 miliardi. Allora come in seguito queste spese furono in gran parte destinate a investimenti infrastrutturali e in migliorie del contesto urbano: 31 miliardi furono destinati all’aeroporto, 6,5 al Villaggio olimpico, 7 alla bonifica delle zone baraccate, 4 alla rete stradale interna, 9 a quella esterna, 5 ai collegamenti a nord e a sud di Roma73. Gli impianti propriamente destinati alle Olimpiadi furono realizzati al Foro italico con la costruzione dello Stadio Olimpico e dello Stadio del nuoto; al Flaminio con il Villaggio olimpico per gli atleti, il Palazzetto dello Sport, lo Stadio Flaminio; all’Eur con il Palazzo dello Sport, il Velodromo olimpico, la Piscina delle rose. Alcuni impianti, in particolare il Palazzetto dello Sport di Pier Luigi Nervi e Annibale Vitellozzi e il Palazzo dello Sport anch’esso di Nervi con Piacentini, erano esempi di grande impatto e innovazione progettuale. Il Villaggio olimpico fu realizzato dall’Incis e i suoi 1800 appartamenti sarebbero stati destinati in seguito agli impiegati dello Stato: progettato da alcuni dei migliori architetti romani, è rimasto il più riuscito intervento di edilizia residenziale pubblica della città74. L’inserimento dell’Eur nel piano delle Olimpiadi e soprattutto la via Olimpica, che lo collegava al Foro italico, favorirono un 292

deciso riorientamento dello sviluppo urbano verso ovest, in contrasto con le discussioni in atto per il nuovo piano regolatore, ma in sintonia con quella variante del 1942, mai entrata in vigore, che aveva spostato verso il mare l’asse di espansione della città75. La via Olimpica, prevista inizialmente con un lungo tratto in galleria, fu costruita in superficie, con il taglio di Villa Doria Pamphilj, congiungendo tratti nuovi ad altri preesistenti con il risultato di limitare fortemente le velocità di percorrenza. Si aggiunsero altre opere di viabilità di grande importanza come il viadotto di corso Francia al Flaminio e i sottovia ai lungotevere e al Muro Torto. Le soluzioni urbanistiche adottate sollevarono le proteste dell’«Espresso», che in un editoriale intitolato Affari e Olimpiadi sottolineava come i giochi olimpici si fossero magicamente trasformati in una colossale speculazione edilizia, manovrata da pochi potentissimi gruppi e rivolta a inchiodare l’espansione della capitale agli interessi dei grandi proprietari urbani di aree76.

E l’architetto e critico Bruno Zevi avrebbe lamentato che gli impianti sportivi e la nuova viabilità comportavano «l’innesto arbitrario d’un piano settoriale in una città non pianificata»77. Alla vigilia dell’inaugurazione si aprì sulla stampa e fra le forze politiche una polemica sull’opportunità di cancellare le iscrizioni celebrative del fascismo dal pavimento a mosaico e dai cippi del piazzale di ingresso al Foro italico (l’originario piazzale dell’Impero), fra l’obelisco Dux e la fontana della sfera. Fino allora, per ragioni estetiche e politiche, non si era intervenuti adducendo anche il motivo degli altissimi costi che avrebbe comportato rimuovere il monolite intitolato a Mussolini. Si era provveduto tuttavia a modificare l’assetto del piazzale con un duplice intervento: aggiornando il percorso con tre nuove iscrizioni volte a celebrare la caduta del fascismo, il referendum istituzionale e la costituzione repubblicana; e invertendo l’ordine dei primi tre blocchi in modo da iniziare dall’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale e non più dalla fondazione del «Popolo d’Italia» nel 1914, con l’obiettivo di depotenziare il piazzale mussoliniano trasformandolo, con un ardito e paradossale revisionismo marmoreo, in un luogo di memorie nazionali. 293

Ma l’occasione del momento suggeriva di intervenire ulteriormente. Del resto era stata appena sconfitta nelle piazze italiane l’opzione filo-fascista di Tambroni ed era nato il primo governo di centro-sinistra. Appariva opportuno almeno provvedere a cancellare il giuramento al duce tracciato sul pavimento e, per riguardo ai paesi partecipanti, a imbiancare l’iscrizione che ricordava l’assedio economico di 52 nazioni all’Italia fascista durante la guerra d’Etiopia. E in questa direzione si mosse l’allora ministro del Turismo Alberto Folchi, mentre, a decisione già presa, il senatore missino Lando Ferretti, intervenuto sul luogo per timore che venissero rimosse tutte le iscrizioni, si vantava di aver impedito che «i pigmei di oggi cancellassero l’opera del gigante d’un recente, glorioso passato»78. Al tramonto del 24 agosto la fiaccola olimpica, recata dal giovane mezzofondista Giuseppe Pansarella della società sportiva Fiamma Roma, percorse la via Sacra attraverso il Foro, risalì via delle Tre Pile e fu consegnata nelle mani del sindaco Cioccetti, che accese il tripode fra i rintocchi del campanone e gli squilli delle trombe dei fedeli di Vitorchiano, non senza aver ricordato «il valore di congiungimento ideale fra i due fari della civiltà classica: Atene e Roma»79. Il pomeriggio del giorno successivo, allo Stadio Olimpico, dopo il giuramento pronunciato in nome degli atleti dal discobolo Adolfo Consolini, medaglia d’oro a Londra 1948, e il discorso del presidente del comitato organizzatore e ministro della Difesa Giulio Andreotti, il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi dichiarò aperti i giochi. L’intervento di Andreotti ebbe anche i tratti di un discorso politico a uso interno (incomprensibile agli stranieri e inutilmente prolisso, dissero i critici) volto a rassicurare i contribuenti, anch’essi protagonisti dello sforzo olimpico, che le grandi spese non erano state inutili. «Si sono [...] accelerate, e forse anticipate, quelle opere che le esigenze imperiose del progresso urbanistico e sociale avrebbero egualmente imposto [...]», sostenne, e ricordò che della costruzione del Villaggio olimpico avrebbero tratto vantaggio gli impiegati dello Stato80. La cornice monumentale, insieme alle indubbie qualità dei nuovi impianti, contribuì al successo della manifestazione. Le gare di lotta si tennero alla Basilica di Massenzio, quelle di ginnastica alle terme di Caracalla, mentre la maratona si snodò nelle zone 294

archeologiche della città. Fatta eccezione per le abituali voci critiche81, la stampa locale fu in genere entusiasta, anche per la conquista di ben 13 medaglie d’oro che collocò l’Italia al terzo posto dopo l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Alcuni momenti della competizione sportiva rimasero memorabili. La corsa leggera della nera americana Wilma Rudolph, vincitrice dei 100 e 200 metri, lo slancio di Livio Berruti proteso sul filo di lana nella vittoria dei 200 metri, l’arrivo solitario a piedi nudi sotto l’arco di Costantino dell’etiope Abebe Bikila, al termine della maratona corsa tra le fiaccole, la sera del 10 settembre82. Gesti e sequenze ripetuti infinite volte dalla televisione, l’altra grande protagonista delle Olimpiadi. Con oltre 100 postazioni sui campi di gara la Rai assicurò una copertura amplissima alla manifestazione. Che la televisione avesse cominciato a cambiare i costumi e i comportamenti degli italiani condizionandone i riti collettivi divenne manifesto in quei giorni a Roma. Ma non solo per le Olimpiadi. A Verona il 1° settembre, dopo una lunga agonia, era morto il popolarissimo presentatore televisivo Mario Riva, reso celebre dalla trasmissione Il Musichiere. I funerali si tennero a Roma nella chiesa del Sacro Cuore di Maria a piazza Euclide il 3 settembre. Fra la folla che accorse numerosissima per vederlo, toccarlo, vi furono intemperanze, isterismi collettivi, svenimenti che si ripeterono poi al Verano. Come se la morte del nuovo personaggio televisivo avesse sottratto qualcosa di vitale ad ognuno. Era il segno di una difficoltà collettiva a misurarsi con le nuove dimensioni della modernità e insieme una delle prime apparizioni della «gente», del nuovo pubblico costruito dai mass media. Su tutt’altro piano il film di Fellini, La dolce vita, uscito quell’anno fra molte polemiche83, metteva in luce gli smarrimenti, i disagi e i disorientamenti di fronte a una realtà sociale e individuale in cambiamento, disegnando il percorso irrisolto di un seduttore, curioso e incerto esploratore di quella realtà. Contemporaneamente La dolce vita consegnava alla memoria collettiva il nuovo stereotipo di una Roma mondana, leggera e amorale. Non erano che le avvisaglie di quella articolazione più ricca della società e dei valori di riferimento che nel ventennio successivo si sarebbe tradotta in un’accelerazione delle divisioni, delle diversità, delle contrapposizioni, della conflittualità. 295

IX

Disordine urbano e conflittualità

1. Il fallimento del piano Le Olimpiadi rappresentano un punto culminante nello sviluppo di Roma, le conferiscono il riconoscimento internazionale di città moderna e organizzata, sganciandola definitivamente dal passato fascista. Chiudono anche un periodo caratterizzato da un’articolazione relativamente semplice delle antinomie politiche: quelle che vedevano confrontarsi comunismo e anticomunismo, politica sociale della casa e speculazione, città sacra e città mondana, cultura cattolica e cultura laica. Contrapposizioni che corrispondevano a forme ben definite di autorappresentazione. La fase che seguì rese sempre più evidente la complessità dei bisogni in sintonia con l’esplosione del benessere e della società dei consumi, l’andamento non lineare delle esperienze politiche, la frammentazione delle opzioni spesso inserite in una non governabile conflittualità. I tentativi riformatori trovarono realizzazioni molto parziali, mentre la politica perse completamente il controllo del disegno complessivo e delle funzioni della città. Di questa vicenda un passaggio decisivo è costituito dal piano regolatore e dal suo fallimento, appunto, come piano. Di un nuovo piano regolatore si era cominciato a parlare subito dopo la guerra ma solo nel 1954 il Consiglio comunale ne aveva approvato le linee ispiratrici: tutelare il centro storico, evitare l’espansione indifferenziata tutto intorno alla città («a macchia d’olio»), non superare la densità massima di 750 abitanti per ettaro, garantire ampie zone verdi, realizzare sottopassaggi, gallerie 296

e parcheggi sotterranei per risolvere i problemi del traffico1. Tutte indicazioni generali ragionevoli e condivise, ma da tradurre in modo consensuale in un sistema di regole, in una mappa dei divieti e degli accessi come quella costituita da un piano regolatore. Nel 1957, nell’indicare i caratteri qualificanti del piano in elaborazione, Ignazio Guidi, direttore dell’Ufficio speciale per il nuovo piano regolatore, esplicitava inconsapevolmente tutti gli elementi di debolezza del nuovo strumento. Il piano andava concepito non come «schema staticamente predeterminato», ma come «programma dinamico». Il sistema dei nuovi quartieri preventivamente determinati come struttura e grandezza, ma non come numero ed ubicazione, attua ciò che si definisce: «Piano aperto e flessibile». Esso nella sua realizzazione, entro uno schema generale perfettamente individuato, consente di aderire sia a imprevedibili esigenze di sviluppo della città, come a future possibilità economiche di realizzazione. Infatti gli insediamenti potranno essere programmati in funzione di una realtà demografica, le cui attuali previsioni potrebbero anche risultare arbitrarie2.

L’idea di un piano aperto e flessibile avrebbe richiesto una fortissima capacità politica di scandire le realizzazioni nel tempo e la determinazione di ostacolare quegli interessi che proprio flessibilità e indeterminatezza mettevano contemporaneamente in moto. Doti e virtù del tutto assenti nell’amministrazione capitolina. Il piano regolatore era avvertito come un sistema vincolistico e punitivo al quale tendevano a sottrarsi non solo i poteri forti, ma anche tutte quelle reti politico-clientelari grandi e piccole che rispondevano all’individualismo abitativo. Un lunghissimo contenzioso si aprì quindi all’interno degli organismi preposti alla elaborazione e messa a punto del piano, a cui si aggiunsero gli interventi di autorità del potere centrale. Varato a giugno del 1962 con il contributo decisivo dei tecnici e degli urbanisti nominati dal ministro dei Lavori pubblici, il democristiano Fiorentino Sullo, il piano fu approvato dal Consiglio comunale il 18 dicembre di quell’anno. Fra giugno e dicembre aveva subito una serie di ulteriori modifiche apportate dagli uffici comunali guidati da Amerigo Petrucci, l’assessore all’Urbanistica della nuova giunta di centro-sinistra in carica dal luglio 1962. Gli interventi erano volti a ridistribuire la previsione dei nuovi nuclei 297

abitati tutto intorno alla città, ad attenuare l’opzione principale di espansione a est e a rafforzare quella a sud, prima e oltre l’Eur. Il decreto di approvazione del piano giunse solo nel 1965, ma le norme vincolanti erano comunque operative dal 1962. Nel 1967 fu necessario approntare una variante generale poi approvata nel 1971. Altre varianti furono adottate nel 1974 e nel 1978. I frequenti adeguamenti al piano regolatore testimoniavano della necessità di recepire nuove normative e assorbire le trasformazioni della città intervenute nel frattempo. Dimostravano anche la complessità e macchinosità di uno strumento regolatore di questo tipo. La principale modifica nelle previsioni e nella politica urbanistica fu quella indotta dalla legge 167 del 1962 che dava il via al Piano per l’edilizia economica e popolare (Peep). Nel 1964, con inconsueta rapidità, venne approvato il progetto d’insieme che prevedeva 72 piani di zona dislocati per oltre il 90% alla sinistra del Tevere. I piani di zona erano 14 a nord, 25 a est, 20 a sud e 14 a ovest (alla destra del fiume) per una popolazione complessiva di 712.000 abitanti di cui 331.000 a nord-est e 315.000 a sud. Il Peep contribuì a rovesciare le priorità del piano regolatore e a concentrare l’impegno delle forze politiche, soprattutto di sinistra, sugli interventi nel settore dell’edilizia residenziale pubblica. La patologica lentezza di esecuzione del Peep, derivante anche dall’ampiezza dei finanziamenti necessari e dal consenso politico indispensabile per ottenerli, si rivelò in fondo positiva. Dai primi anni Settanta era infatti saltata una delle principali ipotesi su cui si reggeva la programmazione dell’espansione urbana di Roma, quella di un’inarrestabile crescita demografica che avrebbe portato la città a superare i 5.000.000 di abitanti nell’arco di un trentennio3. Nel 1971 la popolazione tocca i 2.782.000 abitanti con un incremento del 27% rispetto al 1961, mentre nel decennio precedente l’incremento era stato del 33%. A partire dal 1974 il rallentamento si accentua e nel 1981 si raggiungono i 2.840.259 abitanti, con un aumento di solo il 2%. È appena il caso di aggiungere che il terziario rimane il settore dominante nella popolazione attiva, con un’ulteriore crescita fino al 70,9% nel 1971 e al 78,6% nel 1981: diminuisce la componente della pubblica amministrazione, scesa al 20,3% nel 1971 e al 16,8% dieci anni dopo, mentre si rafforza il terziario diffuso delle attività commerciali e di servizio in una città che occulta, proprio in questo settore, forme diffuse di secondi lavori e di part-time. 298

La politica urbanistica e lo strumento del piano regolatore erano più adatti a interpretare una struttura sociale relativamente statica fondata su ceti e aspettative tradizionali, piuttosto che accogliere le esigenze di mobilità, indipendenza, individualismo dei nuovi gruppi sociali. Nel corso di un lungo periodo di oltre trent’anni, con una significativa accelerazione a partire dai primi anni Settanta ma con lunghe pause e riprese, emerge la nuova città dei piani di zona, dell’edilizia sovvenzionata, agevolata o convenzionata, che dissemina le periferie e la campagna con i suoi grandi volumi. Accanto continua a svilupparsi la città spontanea dell’abusivismo e delle borgate, dove si consolidano anche significative differenze sociali e una distribuzione territoriale che vede, da est verso sud e verso ovest, salire il livello dei redditi e la ricerca di visibilità sociale. La città nuova si presenta dunque divisa e irrisolta nelle sue due componenti, talora contigue, spesso incomunicabili nei caratteri e negli stili di vita. La vicenda di Spinaceto, il primo Peep4 realizzato a Roma, è emblematica della difficoltà di governare la costruzione, la crescita e il consolidamento nella periferia di una piccola città per 26.000 abitanti. Progettato nel 1965, nel 1969-1970 molti edifici e le scuole erano già realizzati e Spinaceto si stagliava con i suoi grandi parallelepipedi come un elemento anomalo e isolato nella campagna, sollevando le ricorrenti perplessità di chi percorreva la Pontina o la Cristoforo Colombo. Si realizzarono le scuole, e non solo quelle dei gradi inferiori, con soluzioni anche architettonicamente felici, come nel caso del liceo Plauto5, ma rimasero a lungo insufficienti o incompiuti gli altri servizi, inefficienti e incompleti i collegamenti pubblici. Bisognò attendere il 1981 per vedere realizzato il primo degli edifici «omnibus» per i servizi, mentre nel 2000 il tragitto da piazza Venezia comportava ancora un’ora di percorrenza e l’ipotesi della costruzione di una linea metropolitana, che i progettisti del quartiere prevedevano come ultimata nel 1967, era ancora allo stadio progettuale6. Il quartiere ha oggi una buona dotazione di verde pubblico pur in un contesto di insufficiente manutenzione. Ma soprattutto dimostra che un nuovo insediamento in cui sono presenti case in cooperativa, a riscatto e in proprietà privata, o è almeno diffusa la gestione condominiale delle spese, presenta una tenuta e un amalgama sociale decisa299

mente superiori a quelli dei quartieri a prevalente locazione pubblica, dove il rispetto della cosa comune rimane bassissimo, con gravi forme di degrado. Anche a Spinaceto non sono assenti aspetti di questo genere negli immobili del Comune e dell’Iacp, e in alcuni edifici occupati dai primi anni Ottanta, ma nell’insieme il quartiere attesta gli effetti positivi a lungo termine di una buona progettazione urbanistica generale. Come altrove, tuttavia, la limitata attenzione per i servizi collettivi si è rivelata il vero punto debole di tutti i piani di zona. Migliori risultati sono stati raggiunti, allora e in seguito, quando la progettazione ha investito zone più circoscritte, come nel caso del quartiere dell’Incis a Decima, che ricorda il Villaggio olimpico, o quello del Casilino (fra via dei Gordiani e viale della Primavera)7. Per quanto presentasse limiti e insufficienze, il piano del 1962 non è responsabile del fallimento della progettazione urbanistica della città. Il piano regolatore è un insieme di prescrizioni e di vincoli, ha valore di legge, ma delega alla politica e all’amministrazione la scelta delle priorità, i tempi delle realizzazioni. È dunque tutta politica la responsabilità della mancata attuazione e del mancato rispetto delle sue indicazioni più forti. Il piano fallì come strumento per dare forma alla città nuova e per risolvere i problemi della città vecchia. Fallì soprattutto nel suo momento urbanisticamente più significativo, la realizzazione del Sistema direzionale orientale (Sdo). Lo Sdo era un grande asse viario, un’autostrada urbana, che doveva congiungere i nodi direzionali, costituiti da grandi complessi di uffici e servizi, dislocati fra la Nomentana e la Tuscolana, fra Pietralata e l’aeroporto di Centocelle, e poi continuare fino all’Eur. L’obiettivo era quello di svuotare il centro storico e i quartieri della prima metà del secolo delle loro funzioni amministrative, di spostare la città burocratica, di destinare i nuovi spazi all’ulteriore sviluppo terziario. Il piano si configurava dunque come un intervento di urbanizzazione forte e moderna, progettata e non occasionale, collocato al margine della città strutturata per rilanciare verso est la nuova espansione urbana. Si apriva verso le zone industriali restituendo una dimensione urbana alla classe operaia. Rivelava una chiara matrice politica e ideale, e se si vuole ideologica, nel contrapporsi e sottrarsi alle prescrizioni della città fascista che ritrovavano forza nell’espansione dell’Eur. 300

A distanza di quasi quarant’anni dell’asse attrezzato non si è realizzato praticamente nulla, mentre l’ipotesi dello Sdo, rimasta come una formula magica, tornava e ritornava in una sorta di penoso «tormentone» fino alla fine degli anni Novanta, sistematicamente riproposta e poi svuotata nei suoi intenti da tutte le forze politiche via via alternatesi al governo della città. Così, in mancanza di un altro forte polo direzionale che bilanciasse l’Eur, elementi di direzionalità si sono venuti realizzando prima all’interno della città, da Prati, al Pinciano, al Salario, poi lungo le vie consolari, spesso nelle zone di innesto con il Grande raccordo anulare, come segmenti sparsi di assi attrezzati. Basterà ricordare la città giudiziaria a piazzale Clodio, la Rai a viale Mazzini, i palazzi di uffici a corso d’Italia e via Po e la nuova Rinascente a piazza Fiume, tutti completati negli anni Sessanta o nei primi anni Settanta: elementi di traino di un terziario diffuso sviluppatosi all’interno dei quartieri costruiti negli anni Venti e Trenta, demolendo e ricostruendo o semplicemente modificando le destinazioni d’uso. Queste iniziative si aggiungono all’elenco delle innumerevoli prescrizioni del piano sistematicamente disattese o ritardate. Come quelle relative al rinnovo dei quartieri semicentrali (Esquilino, San Lorenzo, piazza Alessandria) o all’acquisizione dei grandi parchi urbani o suburbani. Nel 1960 era stata aperta al pubblico una piccola parte di Villa Ada. Nell’aprile 1966 si aggiunsero altri 20 ettari e nello stesso mese era stata aperta parte di Villa Doria Pamphilj. La battaglia per sottrarre i due grandi parchi cittadini alla speculazione poteva dirsi ormai vinta, ma gli interventi sugli altri parchi – Veio, valle dell’Aniene, Castel Fusano, Appia Antica – cominciarono solo in seguito senza giungere, dopo circa quarant’anni, a una sistemazione definitiva. La gestione del piano da parte di un’amministrazione votata alla tutela dell’equilibrio degli interessi e alla rappresentanza dei bisogni diffusi, incapace di impegnarsi con determinazione in scelte a lungo termine, cancellava ogni forma ragionevole di pianificazione urbana. I nuovi quartieri, fossero legali o abusivi, rimanevano penalizzati nella loro vivibilità e nella loro potenziale nascente identità. E soprattutto la mobilità dei cittadini e l’accessibilità fra le varie parti venivano drammaticamente ostacolate. A Roma lo sviluppo urbano non è mai stato accompagnato da un piano dei trasporti commisurato ai tassi di espansione e alle 301

nuove dimensioni via via raggiunte dal tessuto urbano. Le soluzioni adottate negli anni Sessanta e Settanta, con la soppressione dei filobus e con la riduzione delle linee tranviarie, e il contemporaneo incremento degli autobus per rendere più agili nel traffico i trasporti pubblici e adattarli alla rete stradale, le restrizioni alla sosta, mai veramente controllate, le prime isole pedonali a piazza Navona e a S. Maria in Trastevere (1968 e 1969) furono poco più che palliativi, spesso totalmente inefficaci. Mancava e mancherà a lungo una rete metropolitana sotterranea come ve ne sono in ogni grande città europea. Nel 1960 vi era una sola linea di metro da Termini fino all’Eur, quartiere servito da due stazioni che sarebbero in seguito divenute quattro. Nel 1964 fu dato inizio ai lavori per la nuova linea A dal Tuscolano alla zona di piazza Risorgimento, inaugurata dopo ben sedici anni, nel febbraio 1980. La costruzione del prolungamento dalla stazione Ottaviano a Battistini avrebbe richiesto altri 19 anni, mentre solo nel dicembre 1990 fu aperto il prolungamento della linea B da Termini verso est fino a Rebibbia. Le due linee servivano quartieri già interamente costruiti e urbanizzati. Ma nella primavera del 2001 rimaneva ancora chiusa la stazione Quintiliani, progettata per una zona del fantomatico Sdo collocata oltre la stazione Tiburtina. In nessun momento le forze al governo della città o all’opposizione si sono battute per modellare e indirizzare lo sviluppo cittadino utilizzando il potente strumento dei collegamenti veloci sotterranei. La mancata soluzione della questione dei trasporti, resa più complessa dopo l’inaugurazione, nel 1962 e 1963, delle autostrade verso Napoli e verso Firenze, va considerata come una delle pagine più negative delle amministrazioni di centro-sinistra rimaste al potere dal 1962 al 1976. Pensare in grande non era nelle corde dei sindaci democristiani succedutisi in quegli anni in Campidoglio, che pure difficilmente si sottraevano al vezzo di presentarsi come artefici di tutto quello che veniva realizzato a Roma, ad esempio nel settore dei lavori pubblici8. Al primo sindaco di centro-sinistra, Glauco Della Porta, designato da Moro, rimasto in carica dal luglio 1962 al marzo 1964, seguì l’andreottiano Amerigo Petrucci fino al novembre 1967, quando si dimise per potersi presentare alle elezioni per la Camera dei deputati dell’anno successivo. Ma nel gennaio del 1968 Petrucci fu 302

arrestato per peculato relativo al periodo in cui era stato commissario della sezione romana dell’Opera nazionale maternità e infanzia9. Nella carica di sindaco gli era subentrato Rinaldo Santini, un ex sindacalista, segretario dell’Unione sindacale romana fino al 1954. Costretto dalla Dc a ritirarsi per favorire il rispetto degli equilibri fra le maggiori correnti del partito10, Santini cedette il posto al fanfaniano Clelio Darida, rimasto in carica per quasi sette anni, dal luglio 1969 al maggio 1976, alla guida di due giunte di centro-sinistra e di altre due monocolori democristiane11. Nel corso di quegli anni il quadro politico locale si mantenne ancora sostanzialmente stabile anche se si registrarono alcune significative oscillazioni nel numero dei consensi raccolti dai partiti di media dimensione. I due partiti maggiori, Dc e Pci, conservarono una percentuale costante dell’elettorato tanto nelle elezioni politiche (1963, 1968, 1972) che in quelle comunali (1962, 1966, 1971). Alle politiche la Dc ottenne un massimo del 30,9% nel 1968 e nel 1972 e un minimo del 28,1% nel 1963; alle comunali salì dal 29,2% del 1962 al 30,8% del 1966 per poi ridiscendere al 28,3% nel 1971. Il Pci registrò una maggiore variazione salendo dal 22,8% delle comunali del 1962 al 26,7% delle politiche del 1972. Il Psi, penalizzato dalla scissione del Psiup, attraversò un periodo di forte crisi che non premiava la scelta di centro-sinistra: scese infatti dal 12,6% delle comunali del 1962 al 7,5% delle politiche del 1972. Opposto fu invece, limitatamente alle comunali, l’andamento del Psdi che dal 6,3% del 1962 toccò il 10,5% nel 1971, per poi ridiscendere al 5,4% nelle politiche dell’anno successivo. Un andamento altalenante fu quello manifestato dal Pli e dal Msi che sembravano compensare a vicenda, soprattutto nelle comunali, i successi dell’uno con gli insuccessi dell’altro. Nelle tre tornate il Msi (che riportava a Roma risultati nettamente superiori alla media nazionale) ottenne infatti il 15,8%, poi il 9,3 e il 16,2; il Pli rispettivamente l’8,3%, il 10,7 e il 3,9. Il Pri, infine, ebbe una netta ripresa passando dall’1,4% del 1962 al 4,2 del 1971. L’alleanza di centro-sinistra garantiva una maggioranza appena sufficiente, ma priva di alternative. Il personale politico che sedeva in Campidoglio non annoverava personaggi di spicco e i leader nazionali che pure i partiti presentavano in lista fungevano solo da fattori di traino. La politica amministrativa della capitale de303

stava un interesse circoscritto alla raccolta dei voti e al mantenimento del consenso. Un consenso che era opportuno non intaccare con riforme o grandi progetti ed era bene invece garantire mantenendo sempre operante quella che tutti ritenevano l’equazione vincente: più case, più voti. Un consenso favorito anche da una larga permeabilità al clientelismo sostenuto da un diffuso sistema di tangenti. È proprio un ex sindaco come Santini a ricordare con candore che la ragione dei successi delle sue proposte quando era assessore al Bilancio della giunta Petrucci «stava nel fatto che, notoriamente, io non chiedevo ‘tangenti’ o favori ad alcuno»12. Dal che si evince come il sistema dominante era invece un altro. Un sistema che non solo maggiorava i costi, ma rallentava l’esecuzione dei progetti fino alla soddisfazione patteggiata degli interessi in gioco e dei loro referenti politici e burocratici. Le limitate risorse di cui il Comune di Roma disponeva e il suo forte indebitamento non possono tuttavia giustificare il fallimento della politica di pianificazione urbana. I contributi speciali per Roma capitale erano certamente limitati, e talora non erano neppure sistematicamente corrisposti: in ogni caso non risulta che nessun grande progetto per la città sia stato presentato o proposto e quindi respinto dal potere centrale o dal Parlamento. L’impoverimento della politica riformatrice investiva del resto tutto il paese, mentre la nuova mobilitazione della società cominciava ad intaccare la politica tradizionale imponendo nuovi obiettivi e nuove forme di lotta. 2. Movimenti collettivi e secolarizzazione L’antifascismo come coagulo di una nuova militanza giovanile aveva fatto le sue prime prove nel 1960 e si era rafforzato in seguito anche attraverso una serie di rituali di piazza. Una nuova élite di studenti universitari mirava a rileggere il passato secondo le idee e i princìpi dell’antifascismo e a legare ad essi segmenti decisivi della propria educazione politica. Per di più una parte rilevante della cultura accademica romana appariva contrassegnata da un pesante tradizionalismo. Nella facoltà di Lettere solo a partire dal 1961 Nino Valeri aveva cominciato a tenere corsi di storia che affrontavano temi «contemporanei» come l’origine del fasci304

smo. Un insegnamento troppo tradizionale poteva essere anche violentemente osteggiato. E così accadde nella primavera del 1963, quando gli studenti di architettura occuparono la facoltà riuscendo a imporre che accanto all’«antiquato» Saverio Muratori venissero chiamati i più moderni Quaroni, Piccinato e Zevi13. L’occupazione delle facoltà si sarebbe imposta come la pratica più radicale nelle agitazioni studentesche, anche se in una prima fase fu più minacciata che adottata. Le cose cambiarono dopo il 27 aprile 1966. Quella mattina lo studente socialista Paolo Rossi, diciannovenne, iscritto al primo anno di Architettura, dopo essere stato colpito nel corso di uno scontro con i fascisti davanti alla facoltà di Lettere, si sentì male e cadde oltre un muretto privo di protezione che delimitava la sommità della scalinata. Ferito gravemente alla testa, morì nella notte14. Immediatamente fu occupata la facoltà di Lettere, poi sgombrata dalla polizia. Il giorno successivo, dopo una grande assemblea la mattina e un comizio nel pomeriggio a cui intervenne anche Ferruccio Parri, otto facoltà e istituti furono occupati per protesta15. Una grande folla partecipò ai funerali di Paolo Rossi, tenuti nel piazzale della Minerva, al centro della Città universitaria, davanti al rettorato, e l’orazione funebre fu tenuta da Walter Binni, ordinario di Letteratura italiana. La grande mobilitazione antifascista impose le dimissioni del rettore, Giuseppe Ugo Papi, accusato di non aver saputo frenare le ricorrenti violenze delle organizzazioni neofasciste, riesplose in occasione delle elezioni dell’Orur, l’organismo rappresentativo degli studenti. Gli studenti fascisti provocarono incidenti fuori dalla cinta universitaria e cercarono di riconquistare l’università guidati dai deputati missini Giulio Caradonna, Raffaele Delfino e Luigi Turchi, ma furono respinti dalla polizia. L’agitazione si concluse il 3 maggio: fu un successo, ma mise in luce le difficoltà di gestire in modo unitario una mobilitazione molto ampia in cui erano confluite differenti gradazioni e militanze antifasciste, dai cattolici di sinistra, ai socialdemocratici, repubblicani, radicali, socialisti delle due appartenenze, comunisti. Rese evidenti anche le potenziali spaccature fra la politica dei partiti, condizionata da diplomazie e compromessi, e il radicalismo di molti studenti16. Le tensioni, spesso irrisolte e per certi aspetti irriducibili, che si manifestarono nel periodo successivo, soprattutto nella Fede305

razione giovanile comunista dove era presente un’ala trozkista, prefigurarono una radicalizzazione delle parole d’ordine e dell’impegno politico. Per la leadership del primo ’68 romano, in gran parte di origine comunista, l’occupazione del 1966 rappresentò un momento decisivo di svolta. I nuovi militanti del ’68, spesso studenti dei primi anni, si erano formati invece fuori dalle tradizionali organizzazioni politiche universitarie: erano in primo luogo partecipi di quella dimensione giovanile che avvertiva con grande intensità il bisogno di rotture radicali nei comportamenti privati e personali. Sotto la spinta dei modelli americani, accettati e insieme respinti, amplificati dalla forza unificante della nuova musica, l’antagonismo generazionale anelava a nuovi stili di vita. La rivolta nelle università poté apparire come l’inizio e l’epitome di tutte le rivolte possibili. Non sorprende che gli slogan della prima occupazione del ’68 a Roma, quella di Lettere del 2 febbraio, fossero incentrati sulla lotta all’imperialismo contro la guerra del Vietnam: in quei giorni era in corso l’offensiva del Têt. Non fu quello, tuttavia, il momento iniziale della rivolta studentesca che aveva preso le mosse nei mesi precedenti a Pisa e a Torino. Ma fu Roma a dare al ’68 una valenza e un significato nazionale. L’occupazione – ha ricordato uno dei protagonisti di quei giorni, Oreste Scalzone – era come un formicaio misterioso, come se tutti circolassero senza un apparente costrutto ma tutti assieme costituissero come un grande laboratorio, un alveare preso da una feroce operosità. [...] Che cosa si voleva? Che cambiasse tutto – che le università fossero autogestite, che non ci fosse la selezione [...] che i vietcong vincessero, che i contenuti della cultura cambiassero, ma che soprattutto restasse in piedi questo straordinario movimento che radicalmente trasformava il nostro quotidiano17.

Per tutto il mese di febbraio si susseguirono sgomberi e occupazioni18. Dopo lo sgombero effettuato il 22, le facoltà furono ancora occupate. Poi l’università fu di nuovo sgomberata dalle forze di polizia il 29 febbraio. Nel pomeriggio gli studenti si raccolsero a piazzale delle Scienze, di fronte all’ingresso principale della Città universitaria difesa dalla polizia. Si diressero quindi verso il centro percorrendo via 306

Nazionale da piazza Esedra. Non era un grande corteo, non c’erano più di 1500 persone. All’altezza di via Depretis la celere iniziò i caroselli per disperdere i manifestanti: si videro allora staccarsi dal corteo alcuni giovani che, zigzagando abilmente fra le jeep, attaccavano con successo i poliziotti. Non erano gli studenti di sinistra, ma i picchiatori neofascisti che in quel periodo si erano inseriti nel movimento occupando Giurisprudenza19. L’esempio fu contagioso, altri scontri si ebbero ancora lungo via Nazionale e fino a largo Chigi, sede della presidenza del Consiglio. Nella notte gli studenti di sinistra decisero di «liberare» la facoltà di Architettura a Valle Giulia. La mattina del 1° marzo il corteo si mise in moto da piazza di Spagna, percorse via Flaminia e le Belle Arti. Quando, verso le 11, giunse in via Gramsci, sotto la facoltà, apparve possibile ai più determinati (e fra questi c’erano ancora i neofascisti del giorno precedente) attaccare poliziotti e carabinieri, pochi e impacciati nei loro cappottoni. Gli studenti erano circa 3000 e avevano di fronte un’ottantina fra guardie di P.S. e militari dell’Arma. Si ingaggiarono allora numerosi scontri mentre sopraggiungevano nutriti reparti di forza pubblica. Dopo un primo lancio di uova, ortaggi, arance vennero impiegati sassi, sampietrini, pezzi di legno delle recinzioni. Giovani fino allora noti per la loro mitezza e il tiepido impegno politico furono visti dar fuoco agli automezzi della forza pubblica. Un poliziotto, gettato a terra, fu disarmato della Beretta di ordinanza. Circa 300 studenti riuscirono a penetrare nella facoltà, ma alla fine polizia e carabinieri prevalsero anche grazie all’impiego di idranti e di lacrimogeni. Quando gli studenti furono costretti a sgomberare subirono i colpi dei poliziotti e dei carabinieri schierati all’uscita della facoltà. Si contarono 177 contusi e feriti nelle forze dell’ordine, 54 fra i dimostranti, mentre i fermati furono 234. La battaglia durò oltre due ore20. Il parziale successo degli studenti trasformò quella giornata in una vittoria. Da allora la «battaglia di Valle Giulia» divenne un elemento fondativo ed epocale per la storia del movimento. Una ballata di Paolo Pietrangeli ne colse in pieno il senso con i versi «e all’improvviso è poi successo/un fatto nuovo un fatto nuovo un fatto nuovo/non siam scappati più non siam scappati più»21. Nelle due giornate del 29 febbraio e 1° marzo gli studenti di sinistra conobbero il battesimo della violenza. Fino allora vittime 307

dei picchiatori fascisti, impararono che si poteva combattere e vincere. L’organizzazione di un servizio d’ordine (di difesa ma sempre più spesso di offesa) divenne un passaggio ineliminabile nella preparazione delle manifestazioni. Dopo Valle Giulia vi furono altre giornate memorabili. Il 16 marzo i picchiatori neofascisti attaccarono la facoltà di Lettere armati di bastoni e catene, poi ripiegarono a Giurisprudenza. Per difendersi lanciarono banchi e panche dalle finestre colpendo alla schiena Oreste Scalzone, uno dei leader del movimento22. Il 27 aprile una grande manifestazione di protesta contro l’arresto di alcuni militanti del movimento, a cui parteciparono molti studenti medi, fu repressa con durezza inusitata a piazza Cavour e in tutto il quartiere Prati in quella che sembrò una rivincita delle forze dell’ordine su Valle Giulia23. Il 31 maggio, nel corso di una manifestazione di solidarietà con il Maggio francese fra piazza Farnese e Campo dei Fiori, gli studenti impiegarono per la prima volta le bottiglie incendiarie (molotov)24. E le molotov furono protagoniste dei duri scontri avvenuti il 27 febbraio 1969 in occasione della visita di Nixon a Roma25. Alla fine del ’68, con un largo coinvolgimento degli studenti medi che vedeva in prima fila il liceo Mamiani26, e agli inizi del ’69 le agitazioni e le occupazioni erano riprese. L’endemica conflittualità universitaria comportò gravi disagi per la maggioranza della popolazione studentesca e per gran parte del corpo docente delle facoltà più a lungo coinvolte nelle agitazioni (Lettere, Architettura, Fisica, Magistero). L’università versava da tempo in condizioni critiche e praticamente nulla era stato fatto per migliorarne la situazione. I professori incaricati e gli assistenti erano da anni in agitazione. La Sapienza aveva visto crescere i suoi iscritti complessivi dai 41.677 (compresi i fuori corso) del 1959-1960 ai 71.727 del 1967-1968, con un incremento del 72% e senza alcun miglioramento dell’efficienza, dato che il numero degli studenti fuori corso rimaneva costante intorno al 27%. Gli iscritti a Lettere si erano più che triplicati in un decennio, passando dai 2790 del 1958-1959 ai 9357 del 1968-1969. Prima ancora dell’apertura degli accessi a tutte la facoltà indipendentemente dagli studi secondari compiuti (stabilita dalla legge dell’11 dicembre 1969), che avrebbe fatto ulteriormente aumentare gli iscritti, alla Sapienza il rapporto fra il numero degli stu308

denti e le risorse disponibili creava condizioni di grave disagio. Le agitazioni studentesche avevano incrinato definitivamente quel rapporto di fiducia con l’istituzione che estemporanei tentativi di riforma didattica non riuscirono a reinstaurare27. Un’aliquota consistente dei docenti di sinistra più giovani e politicizzati (nelle fasce di età fra i 25 e i 45 anni) si era schierata con la rivolta universitaria, con atteggiamenti che andavano dall’aperta adesione alla critica dall’interno ai tentativi di egemonizzarla. Spesso personalmente coinvolti nel clima dell’esperienza diretta di una fase «rivoluzionaria», partecipi di un’inedita frantumazione delle gerarchie, contribuirono a mantenere elevato il tasso di ideologizzazione del movimento, alimentando le varie versioni del marxismo allora correnti, da quello critico a quello filocinese. Due università convissero faticosamente per qualche anno per ritrovare gradatamente, alla metà degli anni Settanta, una durevole riconciliazione. La contestazione studentesca investì in modo particolare alcuni docenti, considerati i più autoritari: in molti casi si trattava, più semplicemente, dei più rispettosi della propria coerenza e della propria dignità e libertà intellettuale. A Lettere il latinista Ettore Paratore o l’etnologo Vinigi Grottanelli furono oggetto di ripetute azioni di disturbo. Uno dei professori più osteggiati fu Rosario Romeo, ordinario di Storia moderna. Romeo non solo non accettò mai gli esami di gruppo e la prassi, peraltro diffusa, della discussione del voto degli esami orali, ma ad ogni minima contestazione sospendeva lezioni ed esami. Fu quindi preso di mira dai contestatori, che non gli diedero tregua, in qualche caso assediandolo all’interno della facoltà o impedendogli di abbandonarla28. Come è noto il ’68 non si esaurì in quell’anno, ma continuò a far sentire i suoi effetti negli anni successivi. Per Roma è possibile individuare alcuni specifici elementi che trasformarono le dinamiche politiche locali: la definitiva conquista della piazza da parte della sinistra, il permanente conflitto con i gruppi del neofascismo influenzati anch’essi da quanto accadeva nei movimenti, il durevole collegamento con esponenti del corpo docente universitario. L’originalità teorica del movimento romano dei primi mesi fu piuttosto bassa, ma si rafforzò dopo l’estate e nel 1969 ad opera di gruppi come Servire il popolo, Potere operaio e il Manifesto. Il ’68 romano ebbe sempre pochi interessi per un’analisi delle specificità universitarie e quindi diede vita a ridotte iniziati309

ve concrete in questo settore. Si garantì invece, grazie proprio alla centralità di Roma, una notevole visibilità, favorita anche da un settimanale come «L’Espresso», e misurò spesso l’efficacia della sua azione sull’eco prodotta dal megafono dei media29. Anche a Roma, come altrove, il movimento del ’68 si sciolse in vari gruppi e organizzazioni politiche, tutte in qualche misura impegnate nel tentativo di avviare un rapporto strutturale con la classe operaia e i sindacati. Questo tentativo si tradusse, anche a Roma, in una certa attività politica fra gli operai di fabbrica e nella partecipazione ai rituali del mondo del lavoro come il 1° maggio. Pur non essendo una città industriale, Roma, in quanto capitale e palcoscenico centrale della politica nazionale, si impose dall’autunno del 1969 come sede di grandi manifestazioni operaie e sindacali. E fu proprio in occasione del primo grande appuntamento di questo tipo, la marcia di centomila metalmeccanici del 27 novembre 1969 conclusasi con un comizio a piazza del Popolo, che si realizzò simbolicamente la fusione fra il movimento studentesco romano e il movimento operaio30. Alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta lo spirito del ’68 e le nuove forme di militanza caratterizzarono anche altre fasi cruciali di mobilitazione sociale, dalle lotte per la casa, all’impegno dei cattolici di base, al movimento femminista. Nell’autunno caldo la questione della casa si presentava come una continuazione esplicita delle lotte operaie fuori dalle fabbriche e il 19 novembre 1969 i sindacati promossero in tutta Italia un grande sciopero generale per la casa che ebbe grande successo anche a Roma31, dove il problema delle abitazioni per i ceti popolari era rimasto un nodo irrisolto anche per la lentezza di realizzazione dei Peep. Sopravvivevano le baracche e i borghetti, mentre dall’estate 1967 l’approvazione di una normativa che poneva tendenzialmente fine al blocco dei fitti minacciava la posizione delle famiglie più povere32. Sul fronte della battaglia per la casa erano schierati da tempo i partiti tradizionali della sinistra e in primo luogo il Pci, che aveva una lunga tradizione di lotte a tutela dei baraccati, degli abitanti delle borgate, ma anche degli insediamenti abusivi dell’Agro. La pratica comunista era caratterizzata da due momenti destinati a interagire sotto il controllo di organizzazioni collaterali come le consulte popolari prima e poi l’Unia (Unione nazionale inquilini e assegnatari, confluito in seguito nel Sindaca310

to unitario nazionale inquilini e assegnatari, Sunia). A una fase di azione popolare diretta con episodi di occupazioni e manifestazioni di piazza seguiva una fase di pressione politica sugli organi istituzionali preposti a una soluzione amministrativa del problema. La lotta per la casa era così riportata ad un unico potenziale beneficiario politico, il Pci appunto. Alla fine degli anni Sessanta l’egemonia comunista è ormai intaccata dall’emergere di altre organizzazioni, meno strutturate ma assai più disinvoltamente combattive, e di nuovi leader locali33. Le lotte riprendono slancio proprio nel ’68 e con maggiore impegno a partire dall’agosto 1969: questa volta l’iniziativa maggiore spetta al Comitato di agitazione borgate (Cab) formato da militanti di base del Pci, Psiup, cattolici, studenti. L’intervento della polizia spezza queste iniziative autogestite quando ad essere occupate sono anche case delle immobiliari private. Il contrasto con l’Unia è evidente e si accentua, anche dopo l’uscita di scena del Cab nel 1970, fra l’organizzazione comunista e le nuove formazioni extraparlamentari impegnate sul fronte della casa: Lotta continua, soprattutto, Potere operaio e i primi gruppi dell’Autonomia. Sullo stesso terreno oltre alle Acli sono attivi altri gruppi cattolici di base come quelli che operano all’Acquedotto Felice sotto la guida di don Roberto Sardelli e a Prato Rotondo con il salesiano Gerardo Lutte. Era un arcipelago di iniziative e di forme di lotta dagli obiettivi spesso contrastanti. Le forme di lotta andavano dall’autoriduzione degli affitti all’occupazione «di scambio» per ottenere altri alloggi, all’occupazione permanente. La concorrenza rese più combattiva anche l’Unia, che accentuò le sue iniziative: dalle occupazioni dall’autunno del 1969, alla campagna di autoriduzione dei fitti nelle case degli enti pubblici del 1970, alla marcia sulla casa del 29-30 ottobre 1971 con 10.000 manifestanti impegnati nell’occupazione diretta di 3200-3400 appartamenti vuoti34. Una vicenda esemplare fu quella della Magliana, un quartiere costruito in una zona al di sotto dell’argine del Tevere senza rispettare gli obblighi di riempimento del terreno e dunque con notevoli problemi per il deflusso delle acque fognarie. Qui imprenditori privati legati alla società Condotte avevano costruito grandi palazzi d’affitto cedendo alcuni fabbricati ad enti come l’Inpdai (l’istituto previdenziale dei dirigenti di azienda)35. Il quartie311

re era abitato da operai, piccoli impiegati e commercianti, addetti ai servizi e molti inquilini erano impegnati nella battaglia per l’autoriduzione dei fitti sostenuta dall’Unia. Nel maggio 1971 circa un migliaio di baraccati di Prato Rotondo ottennero, con il sostegno politico dell’assessore all’Edilizia popolare Paolo Cabras della sinistra democristiana, di essere trasferiti tutti insieme alla Magliana nelle case affittate dal Comune. A Prato Rotondo l’attività promossa dai religiosi del vicino Pontificio Ateneo salesiano si era via via politicizzata mettendo in primo piano le condizioni sociali ed economiche degli abitanti. Nel 1969 erano stati coinvolti il Vicariato e in prima persona papa Paolo VI per evitare il trasferimento in Belgio di Lutte, il principale animatore della comunità, mentre dalla primavera del 1970 era stata avviata la mobilitazione per risolvere il problema delle case. L’arrivo dei baraccati suscitò una reazione allarmata negli abitanti della Magliana. La fama negativa che coinvolgeva chiunque provenisse dai borghetti, considerati nidi di delinquenza e prostituzione, era del resto diffusa in tutti i ceti. Inoltre apparve una grave ingiustizia che nelle case del Comune si pagassero 2500 lire a vano, un affitto molto più basso di quello delle altre case del quartiere. Esplose allora una dura controversia con l’organizzazione comunista per accentuare l’autoriduzione e portarla al 30%, poi al 50% infine ai livelli delle case comunali. La radicalizzazione delle richieste era anche alimentata dalla carenza di servizi e dalle gravi condizioni igieniche e sanitarie del quartiere. Le nuove organizzazioni politiche di base non si limitavano a un ruolo di autodifesa collettiva, anche violenta, contro gli sfratti e gli interventi della polizia, ma si sentivano interpreti «della forza esplosiva di quell’enorme concentrazione di abitanti, la maggior parte proletari»36. Si poterono così scambiare le case occupate per fortilizi proletari di una nuova lotta rivoluzionaria, mentre la dimensione sociale del quartiere era tutt’altro che proletaria, così come non era proletaria la composizione del comitato di quartiere37. L’impiego di un termine così fortemente evocativo non solo era un automatismo legato alle ideologie imperanti nella sinistra di quegli anni, ma era anche un artificio lessicale indispensabile per mascherare una realtà complessa di bisogni che nascevano dalle forme usuali dell’articolazione sociale urbana. Secondo la ricostruzione dello stesso comitato di quartiere alla Magliana predomina312

vano le coppie giovani o fra i 30 e i 40 anni, spesso con figli, giunte nel quartiere per sottrarsi alla coabitazione, agli sfratti e ai rischi di aumento dei fitti: famiglie nucleari in cerca di indipendenza e di migliori servizi sociali per alleggerire la condizione delle donne lavoratrici. E che a ispirare la lotta fossero bisogni e valori di questo tipo e non obiettivi rivoluzionari è dimostrato dal riflusso dei tardi anni Settanta e dalla marcata depoliticizzazione degli anni Ottanta38. Grazie a un alto livello di partecipazione e di combattività, accentuato dalla esplicita concorrenza e reciproca ostilità fra il Pci e la nuova sinistra, la lotta per la casa si intensificò per tutti i primi anni Settanta. Mentre i comunisti cercavano di mantenere un carattere popolare alle loro iniziative, i gruppi extraparlamentari, e soprattutto Lotta continua, puntavano a imporre una svolta rivoluzionaria che sarebbe sfociata anche in episodi di guerriglia urbana. Violenti scontri si ebbero nel gennaio e nel febbraio 1974 al Tufello e a Casal Bruciato al Tiburtino. Fra il 6 e il 9 settembre dello stesso anno la difesa di un’occupazione promossa da Lotta continua a San Basilio si tramutò in una battaglia con barricate e colpi di arma da fuoco sparati anche dalla parte degli occupanti. Negli scontri dell’8 settembre rimase ucciso un giovane di 19 anni, Fabrizio Ceruso, e furono feriti una ventina di appartenenti alle forze dell’ordine, di cui uno molto gravemente39. Fra novembre 1974 e gennaio 1975, per oltre due mesi, gruppi di donne organizzate dal Pci piantarono le tende sulla piazza del Campidoglio e vi trascorsero Natale, Capodanno e l’Epifania fino ad ottenere una delibera del Comune per l’assegnazione di 2000 appartamenti. Ma quando i primi assegnatari, provenienti dalle baracche del Borghetto Prenestino, giunsero a Casal Bruciato trovarono i palazzi dell’Enasarco occupati da Lotta continua. «Guerra fra poveri», si disse allora. I contrasti fra le parti politiche occultavano appena il sistematico abbandono dei criteri di equità nell’assegnazione delle case, del resto già inquinati da diffusi meccanismi clientelari. Non è agevole misurare tutti gli effetti durevoli delle lotte per la casa di quegli anni. Mentre per l’autoriduzione, soprattutto nei confronti degli enti, era garantito un esito positivo, le occupazioni, anche se si concludevano con uno sgombero, individuavano comunque gruppi di aventi diritto ad assegnazioni di urgenza, 313

spesso in contrasto con le graduatorie ufficiali. Insomma le occupazioni prima o poi «pagavano» e la rivendicazione di un diritto si trasformava spesso nell’acquisizione di un privilegio, lasciando aperti lunghi e irrisolti contenziosi. Nei nuovi quartieri della 167 si accostarono così provenienze e comportamenti sociali diversi, che rimase assai arduo disciplinare. Le occupazioni ripresero con qualche episodio agli inizi degli anni Ottanta e continuarono con minore drammaticità e contrasti anche in seguito. Ma la pressione sulla casa era diminuita, i conflitti erano stati metabolizzati e anche la forza pubblica preferiva evitare di essere raffigurata in assetto di guerra di fronte alla povera gente raccolta nelle strade con i materassi arrotolati e le masserizie accatastate dopo uno sgombero. Sul problema della casa, accanto alla sinistra tradizionale e alla nuova sinistra, i gruppi cattolici portarono un loro contributo originale, dai contenuti spesso di esplicita contestazione degli assetti politici, economici e sociali del tempo. Settori delle Acli perseguirono con determinazione il disegno di una revisione radicale delle normative sulla proprietà e sulla utilizzazione delle aree edificabili, convinti che la pubblicizzazione dei suoli e l’esproprio generalizzato costituissero la via maestra per lo sviluppo di un’edilizia residenziale pubblica a costi contenuti non fondata sulla proprietà ma sull’assegnazione di case a canoni moderati40. Contemporaneamente si impegnarono nella costituzione di cooperative che affiancarono le analoghe iniziative delle sinistre per utilizzare le agevolazioni previste dalla legge 167 e inserirsi nei piani di zona. I temi dell’emarginazione e del disagio sociale furono al centro dell’attenzione degli studi sociologici di questi anni. Nel 1970 Franco Ferrarotti pubblicò Roma da capitale a periferia, la prima di una serie di indagini sulla condizione delle periferie e delle borgate romane. L’attenzione della cultura laica contribuì a rinnovare l’impegno sociale dei cattolici e a radicarlo nella dimensione della povertà urbana. Il mondo cattolico romano dopo il fallimento del movimento di rinascita religiosa e di mobilitazione degli anni Cinquanta, arenatosi di fronte alla diffidenza e al realismo concreto del clero romano, aveva attraversato un periodo di delusione e stanchezza41. Il rinnovamento era partito dal basso, reinterpretando il messaggio che veniva da papa Giovanni XXIII e dal concilio Vaticano II, 314

e colorandosi anche di spunti critici nei confronti dell’istituzione ecclesiastica. Nel 1973 don Roberto Sardelli, il prete della baracca 725 all’Acquedotto Felice, prima di ritirarsi in Ciociaria dava una valutazione pessimistica della situazione e dei rapporti con la gerarchia: [...] continuerà ad essere così finché si diventa vescovi attraverso una selezione preoccupata più del potere, del privilegio da conservare, del rispetto della costituzione repubblicana, che del servizio umile e profetico. Spesso abbiamo assunto il medesimo atteggiamento degli stati: non più ascolto degli umili, ma emarginazione42.

Già qualche anno prima l’abate di S. Paolo, Giovanni Franzoni, aveva raccolto intorno a sé una comunità laica che condivideva posizioni politiche di sinistra e di esplicito rifiuto del sistema capitalista43. Il Terzo Mondo era dunque anche a Roma. E anche nelle periferie della capitale era possibile dare un senso alla propria missione. Fra i giovani si manteneva fortissima l’eco delle Lettere a una professoressa di don Lorenzo Milani: una comunità come quella di Sant’Egidio, fra le più attive e le più seguite, iniziò la sua attività nel 1968 con il doposcuola fra i baraccati44. Nel 1974, per iniziativa del vicario Ugo Poletti, il mondo cattolico romano analizzò in un convegno la situazione sociale e religiosa della capitale anche per riportare sotto una guida più sicura una realtà organizzativa estremamente frammentata e tutt’altro che unitaria negli intenti. Qualche anno dopo, nel ricostruire le origini di quell’incontro il gesuita padre Martina sottolineò che ad affrettarne la genesi era stata l’indagine del magistrato Luciano Infelisi sugli istituti di assistenza cattolici culminata nella spettacolare perquisizione ad opera di 1500 agenti e carabinieri il 19 febbraio 1971. Un’iniziativa che si collegava all’inchiesta sull’operato della ex suora Maria Diletta Pagliuca, arrestata nel giugno 1969 (e condannata nel 1972) per maltrattamenti ai bambini ricoverati nell’istituto che aveva fondato45. In previsione del convegno furono preparati centinaia di rapporti e numerosissimi furono gli interventi pronunciati durante le sessioni tenute in S. Giovanni in Laterano dal 12 al 15 febbraio 1974. Nella relazione di sintesi Luciano Tavazza notò come il 315

«giudizio complessivo sulla ‘disumanità di Roma’ equivale[va] a pronunciare [...] un giudizio sulla sostanziale disumanità dei meccanismi di sviluppo della società capitalistica» e come fosse diffuso fra i partecipanti il pessimismo per la insuperabilità delle contraddizioni del mondo contemporaneo46. Il tema della responsabilità dei cristiani era al centro del convegno47. Ma il giudizio su questo aspetto non era molto confortante. Per il sociologo Giuseppe De Rita a Roma non solo era presente con un’enfasi «quasi emblematica» l’egoismo collettivo, ma soprattutto la «deresponsabilizzazione collettiva». Roma infatti rappresentava certamente il punto più alto di non partecipazione ai problemi comuni: basti dare uno sguardo all’assetto urbanistico, al traffico, alla condizione dei rioni e dei quartieri, al rapporto dei cittadini con la classe politica locale, ecc. Non può che risultarne una città culturalmente inerte, moralmente opaca, politicamente deresponsabilizzata [...].

Un luogo in cui, ove anche si presentasse una palingenesi collettiva, le caratteristiche del sistema cittadino sarebbero tali da «farla rientrare, scivolare, evirare»48. La critica alla società civile e alla politica locale lasciava intravedere una visione pessimistica della realtà romana. Una risposta ai mali di una città dove era gravissima l’insufficienza dei servizi di base, «dove chi sta meglio ha il meglio, chi è marginale non ha quasi nulla», poteva venire da una mobilitazione pluralista sociale e civile insieme. L’analisi della realtà romana compiuta dal cattolicesimo critico misurava le sue riserve sulla mancata adesione a un modello ideale di responsabilizzazione individuale e sociale. Sfuggivano forse le dinamiche di una società che si veniva laicizzando e in larga misura secolarizzando allontanandosi dal rispetto delle pratiche religiose tradizionali. Per una volta i bisogni e i valori del privato si traducevano in una mobilitazione collettiva. Anche in questa chiave è possibile leggere il risultato del referendum del 12-13 maggio 1974 che respinse la richiesta di abrogazione della legge che aveva istituito il divorzio. Vennero sconfitti non solo la Dc e il Msi, ma anche uno dei cardini della visione cattolica del mondo. La capitale del No: 68% titolò il 14 maggio 1974 «Paese sera». 316

Il successo dei divorzisti fu infatti nettissimo, superiore di quasi nove punti percentuali a quello nazionale49. Gran parte della città festeggiò la vittoria e contemporaneamente una minoranza dei romani festeggiò o si consolò con la conquista del primo scudetto da parte della Lazio. Il confronto fra i due schieramenti era stato come ovunque accesissimo. Gran parte della stampa romana era schierata esplicitamente sul fronte divorzista che si estendeva dai liberali ai comunisti. Oltre ai quotidiani dei partiti e al «Paese sera», fiancheggiatore del Pci, «Il Messaggero» condusse una battaglia in nome dell’Italia laica e liberale minacciata dal risorgere delle forze clericali. Il 12 maggio un grande «no», alto quindici centimetri, campeggiava sulla prima pagina del «Messaggero», mentre la mattina del 13 maggio il quotidiano chiamava ancora i lettori alle urne – si votava fino alle 14 – con il titolo C’è ancora tempo per il NO50. «Il Tempo» si batté invece sul fronte antidivorzista mantenendo viva la contrapposizione fra i due maggiori quotidiani della capitale. Il giorno del voto pubblicò un editoriale di Andreotti che metteva in allarme i lettori sul fatto che le centrali divorziste erano le stesse che alimentavano «le campagne per l’aborto, per la... naturalizzazione degli amori innaturali, per la declassazione penale dello spaccio e dell’uso delle droghe cosiddette minori, per la simpatia verso i tupamaros»51. E il giorno dopo il quotidiano ricordava agli elettori di non sottostare «al ridicolo dommatismo [...] sostenendo che il ‘no’ è la libertà e il ‘si’ la reazione, il sottosviluppo mentale, il fascismo»52. Gli appelli del tradizionalismo cattolico in nome della famiglia e della sua unità rimasero inascoltati. In tutta la città prevalse il no, anche nei quartieri dove più brillanti erano stati i successi della Dc e del Msi nelle elezioni politiche del 1972. Al Salario e ai Parioli il no ottenne il 53-54%, a Mazzini e Delle Vittorie il 60,3%, mentre in alcune circoscrizioni popolari come Pietralata, San Basilio, Ponte Mammolo o Isola sacra, Fiumicino, Maccarese sfiorò l’80%. Ovunque si registrò uno scarto significativo fra il voto raccolto dai partiti divorzisti nelle elezioni del 1972 e il risultato del referendum. Uno scarto che raggiunse e superò il 20% in singoli seggi distribuiti sia nei quartieri della media che in quelli della piccola borghesia: a Ludovisi, Macao, Montesacro, Prati, Alberone, Garbatella, San Paolo, Portuense53. 317

Sotto la spinta del successo nella difesa di una conquista civile come il divorzio si accentuò la mobilitazione delle donne per l’introduzione dell’aborto legale. Una prima manifestazione si tenne a Roma il 13 novembre 1974 e aveva al centro anche i temi della parità nel diritto di famiglia. Poco più di un anno dopo, il 6 dicembre 1975, ventimila donne provenienti da tutta Italia sfilarono da piazza Esedra a piazza Mastai a Trastevere in una manifestazione organizzata dal Comitato romano aborto e contraccezione. «Vogliamo l’aborto per non dover più abortire» era uno degli slogan del corteo. Il dramma della condizione femminile era avvertito a Roma con particolare coinvolgimento emotivo proprio in quei mesi che seguivano i drammatici fatti del Circeo. Due ragazze di estrazione popolare, di 19 e 17 anni, Maria Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, erano rimaste vittime, in una villa del Circeo, delle violenze sessuali e delle sevizie inflitte da tre giovani bene, neofascisti militanti, rapinatori e stupratori abituali, interpreti di una perversa visione di superiorità ideologica e di classe. Riportate a Roma nel bagagliaio di una Fiat 127, furono abbandonate in viale Pola, una strada del quartiere Trieste, e ritrovate nella notte fra il 30 settembre e il 1° ottobre. La Lopez era già morta, mentre la testimonianza della Colasanti, riuscita a sopravvivere, consentì l’identificazione dei responsabili. Solo due dei giovani criminali furono arrestati mentre il terzo non sarebbe stato catturato neppure in seguito54. La nuova orgogliosa libertà femminile si scontrava contro una violenza maschile costantemente in agguato. Per questi motivi una delle manifestazioni più significative del primo femminismo romano fu il corteo «riprendiamoci la notte» che mosse da piazza Esedra verso la stazione e via Volturno, luoghi emblematici del sesso mercificato, percorse via Bissolati, via Veneto, via Sistina, scese la scalinata di Trinità dei Monti e si concluse a piazza del Popolo verso le 11 di sera del 27 novembre 197655. Alla metà degli anni Settanta giunge al suo culmine un processo iniziato un quindicennio prima. La piazza è ormai stabilmente una piazza di sinistra. Ma è una sinistra che presenta molte facce, spesso antitetiche. Accanto a quella tradizionale dei partiti e dei sindacati, vi è la nuova sinistra dei movimenti. E proprio la piazza ne registra i contrasti e gli antagonismi e sempre più frequen318

temente le violenze. Poi ci sono le donne con la loro esibita presenza, con la forza dei temi che investono i diritti della persona. Roma è largamente coinvolta in questo rinnovamento degli stili e dei contenuti della politica. Ne costituisce sempre più lo scenario ineliminabile sottraendosi gradatamente alle sue connotazioni localistiche. Per questo è particolarmente sorprendente registrare il modo stereotipato e tradizionale con cui gli intellettuali continuano a guardare alla capitale d’Italia.

3. Contro Roma Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e di turismo?

Chi pronunciava questa sentenza, sull’«Espresso» del 28 maggio 1971, era Alberto Moravia, lo scrittore e l’intellettuale forse più rappresentativo della Roma di quegli anni, echeggiando, non è chiaro quanto consapevolmente, toni e accenti dei primi anni del secolo quando Papini aveva pronunciato la sua famosa invettiva contro Roma. Chi mi darà torto se io dichiaro che Roma è stata sempre, intellettualmente parlando, una mantenuta? [...] Questa città ch’è tutto passato nelle sue rovine, nelle sue piazze, nelle sue chiese; questa città brigantesca e saccheggiatrice che attira come una puttana e attacca ai suoi amanti la sifilide dell’archeologismo cronico, è il simbolo sfacciato e pericoloso di tutto quello che ostacola in Italia il sorgere di una mentalità nuova, originale, rivolta innanzi e non sempre indietro [...]56.

Ciclicamente uomini di cultura e artisti erano chiamati a dire la loro sulla capitale. E puntualmente recitavano il copione consolidato e prevedibile degli antiromani. Delusione e rammarico infastidito per quello che Roma non era riuscita ad essere. Disdegno, invece, e disprezzo per la città che avevano sotto gli occhi. Fisicamente, Roma, non è diventata né una grande capitale come Parigi o Londra, né una megalopoli come Rio de Janeiro o il Cairo. È 319

una via di mezzo fra le due cose e ha i difetti così della megalopoli come della capitale senza averne i pregi.

Sono ancora parole di Moravia in apertura a un volume del 1975 significativamente intitolato Contro Roma, raccolta delle considerazioni di una quindicina fra saggisti, scrittori e poeti sulla capitale57. Roma è soltanto – sosteneva Bigiaretti – una bellissima (a tratti, a momenti) città sfasciata, traboccante in maniera incomposta, dalla morfologia abnorme, e che «funziona» fortunosamente alla meglio; ed è assolutamente non idonea – dopo cento anni di tirocinio – alle mansioni di Capitale58.

Alla constatazione che Roma era una delle città «peggio tenute, più sporche, più neglette e più maltrattate d’Europa» Moravia aggiungeva anche «la mancanza di raffinatezza, la volgarità squallida e devitalizzante propria dello Stato». E come un insulto aggiungeva «Roma è una città, a dirla in breve, statale»59. La città è, dunque, molto volgare; a questa volgarità hanno contribuito alcuni caratteri negativi che le erano propri anche in passato ma mescolati con altri positivi e ormai scomparsi: buonsenso qualunquista, grossolanità paesana, gastronomia pesante, atonia morale che si tenta, quest’ultima, di far passare per senso dell’eternità. Cinica, scettica, priva di ideali, ottusa, Roma presenta insomma lo spettacolo sconcertante di una capitale il cui fine principale anzi unico sia quello di vivere alla giornata o meglio di sopravvivere60.

Ma c’era anche chi, come Fellini, impegnato nella lavorazione del suo film Roma (1972), manifestava un rapporto più pacificato e accomodante con la città. Le mie propensioni verso Roma non sono polemiche, non provo acredine o sdegno, perché Roma è un baraccone capace dove entra tutto, è un magma fluttuante dove tutto viene assolto e tutto viene dissolto, una bolla che esplode, una città con dimensioni di cinismo, saggezza, indifferenza che mai cambiano e riconducono agli stessi errori, una metropoli che permette di rimanere infantili con il beneplacito della Chiesa. Per farla ci son voluti 261 papi. Come pretendere di cambiarla in qualche secolo?61 320

Mentre Bernardino Zapponi poteva ironizzare su quanti, visitatori o residenti da tempo a Roma, erano ossessionati dalla opacità dei romani, dalla loro facce da «impuniti». Incapaci di conciliarsi con la città, il loro livore era accresciuto dalla «impalpabilità dell’avversario». Lo sbaglio di questi infelici, che col loro atteggiamento collerico si privano del piacere di godersi una città peraltro non priva di pregi, è nel vecchio vizio del confronto, del paragone; l’analogia li rovina62.

Il tema del confronto con le altre grandi città era un motivo ricorrente nella vicenda di Roma capitale italiana. Solo il recupero delle grandi memorie del passato, compiuto negli anni del fascismo, e il rinnovato mito di Roma l’avevano sottratta a questa dimensione. Nel dopoguerra si era rotto irrimediabilmente il rapporto con il passato ed erano tornati in primo piano l’inadeguatezza a interpretare il ruolo di capitale e insieme il peso delle costanti antropologiche, ambientali, potremmo dire, ecologiche della città. Per Guido Piovene Roma, «vetrina vistosa dei vizi nazionali», è politicamente «senza qualità». Tra Roma e le diverse parti d’Italia, non si sa quale sia più attiva nel corrompere l’altra. L’Italia è tutta e quasi egualmente mafiosa, la periferia guasta il centro e il centro la periferia. Tra un’Italia male unita e una capitale senza qualità politica si ha un circolo sbagliato, da cui il buono resta estromesso. Roma sarebbe una delle città più attraenti del mondo se non svolgesse una funzione che non è la sua63.

«Ma che cos’è una capitale, insomma?» è la domanda che si poneva Moravia per spiegarsi le ragioni della sua delusione di fronte alla Roma attuale. Una capitale dovrebbe essere «un modello per l’intera nazione», il luogo dove le energie grezze ma vitali della provincia vengono, appunto, trasformate da una potente e sofisticata macchina sociale in modi di comportamento esemplari. In una capitale tutto ciò che è particolare diventa universale, tutto ciò che è inconscio consapevole, tutto ciò che è rozzo raffinato64. 321

E invece Roma, lungi dall’essere «una creatrice di modelli culturali», era diventata «un elemento frenante e mortificante per la cultura italiana». A differenza che a Londra, Parigi, New York, lamentava Moravia, a Roma la mancanza di una società borghese privava la città della condizione principale per quella «circolazione di idee e di persone che sembra indispensabile a una capitale per assolvere degnamente la sua funzione di capitale». In conclusione, Roma non era una capitale «se non di nome». Agli argomenti di Moravia si aggiungevano altre considerazioni proprio sul ruolo culturale della capitale. «La cultura italiana, nel senso dei propagatori d’idee, poeti, romanzieri, saggisti, artisti» era accorsa a Roma e si era formata «una cultura romana con tratti ben distinti, che ha preso il sopravvento dappertutto» ricordava Piovene65. Anche se a Roma, aveva già notato Alberto Arbasino dominavano «una quantità di piccoli ambienti, minuscoli clan»66. È in qualche misura paradossale che non venisse preso in considerazione quello che era invece sotto gli occhi di tutti. Non tanto il ruolo, a tratti egemone, della cultura letteraria romana o il rilievo assunto, in singole fasi, dal settore delle arti visive, quanto il dominio della capitale nel settore trainante della cultura di massa. Il cinema aveva a Roma il suo maggiore centro di produzione e il genere di maggiore successo, quello della commedia all’italiana, avrebbe potuto anche definirsi «commedia alla romana»67. Della televisione, ma anche della radio, è quasi superfluo ricordare la centralità romana. Per di più i mass media annoveravano fra i propri collaboratori e addetti molti intellettuali, severi critici dei limiti culturali della capitale. A questa non sorprendente schizofrenia degli intellettuali, legati ancora a pregiudizi di maniera sul valore della cultura di massa, si aggiungeva il ricorrente rimprovero mosso a Roma di non essere in grado di esprimere una cifra culturale unitaria. Un atteggiamento che rivelava una certa incapacità di riflettere sul passato e un marcato strabismo nel guardare alla realtà del tempo. Il tessuto culturale della capitale era frammentario e molteplice da sempre. I tentativi di costruzione di una dimensione unitaria, compiuta dai cultori della Terza Roma, dal fascismo o dai sostenitori della Roma sacra, erano stati espressione di una dilatazione ideologica o di progetti totalizzanti: avevano garantito forse un primato di im322

magine, ma non erano stati mai, salvo per alcuni anni il fascismo, interamente egemoni. La Roma del dopoguerra, rimane del tutto estranea all’adozione di un canone, e in questo senso è già paradossalmente e precocemente e, anche se inconsapevolmente, postmoderna. Se una città come Milano può identificarsi in una cultura imprenditoriale di efficienza e operosità fino a riproporre per oltre un secolo un proprio primato e rivendicare gli attributi di capitale morale, a Roma convivono tante culture e tanti modelli diversi. Ridotti spesso a espressione di gruppi o clan: in questo Arbasino coglieva un punto nodale, confermato anche dallo studio sui percorsi e gli insediamenti della vita letteraria romana68. Accanto alle diverse culture politiche e alle articolazioni della cultura cattolica, tutte dotate di apparati e strumenti per la diffusione delle idee, Roma annovera molti altri gruppi protagonisti e comprimari. La sinistra laica e radicale, il mondo dell’università e dell’accademia, quello dei grandi commis di Stato e dei vertici della burocrazia. Molti settori si sfiorano, talora intrecciando legami e clientele. Sopravvivono e vengono rivendicate le appartenenze regionali. Di questo complesso sistema di relazioni andrebbe individuata la mappa dei poteri reali che è ben lungi dall’essere stata anche solo abbozzata. Roma ha poi un suo specifico settore, quasi uno spazio separato, in cui si raccolgono i romanisti, cultori e interpreti di un genere antiquario dove predominano amabili bozzetti segnati da un gusto compiaciuto e appassionato per la città scomparsa69. Un ambito segnato da numerose presenze, pubblicazioni e ampio seguito. Ad ognuno di questi settori corrispondono luoghi di produzione della cultura e centri di spesa. E dalla metà degli anni Cinquanta la loro forza e visibilità dipende sempre più dalla capacità di interagire con i nuovi media. È una modernizzazione specifica di Roma che molti intellettuali, pur essendovi largamente immersi, non sembrano in grado di cogliere se non per rifiutarne gli esiti, infastiditi per gli scostamenti dai modelli della cultura alta e per i ricorrenti sconfinamenti delle nuove mode, sociologiche e/o psicologiche. Quel che scrivevano «contro Roma», al di là dell’esercizio scopertamente di maniera, testimoniava anche il progressivo disagio di fronte a una realtà plurima, dispersa e incomprimibile entro gli schemi abituali, il rimpianto nostalgico per una per323

dita di egemonia che non era solo degli intellettuali come ceto, ma della politica come cultura alla vigilia di anni destinati a mettere a rischio i fondamenti stessi della convivenza civile. Consapevole più di altri dei cambiamenti sociali e culturali di quegli anni, tutt’altro che in sintonia con quei mutamenti, voce dissonante rispetto ai reiterati stereotipi sui mali borghesi, Pier Paolo Pasolini intervenne con una sua specifica dissacrante violenza antimoderna nel dibattito sulla Roma di quell’autunno 1975. Scrisse con toni risentiti della scomparsa di quella cultura sottoproletaria che aveva descritto nei suoi romanzi e nel film Accattone del 1961 ed era rimasta al centro del suo mondo artistico e affettivo. Quella cultura era definitivamente scomparsa, come scomparso era finanche quel linguaggio che germinava naturalmente nella «grandiosa metropoli plebea» delle borgate. Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. E si tratta precisamente di uno di quei genocidi culturali che avevano preceduto i genocidi fisici di Hitler. [...] I giovani – svuotati dei loro valori e dei loro modelli – come del loro sangue – e divenuti larvali calchi di un altro modo di essere e di concepire l’essere: quello piccolo borghese. Se oggi io volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo «corpo» neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato sé stessi in Accattone. [...] Sarei un imbecille se generalizzassi, la mia paradossalità non è che formale. Certo: metà e più dei giovani che vivono nelle borgate romane, o insomma dentro il mondo sottoproletario e proletario romano, sono, dal punto di vista della fedina penale, onesti. Sono anche bravi ragazzi. Ma non sono più simpatici. Sono tristi, nevrotici, incerti, pieni di un’ansia piccolo borghese; si vergognano di essere operai; cercano di imitare i «figli di papà», i «farlocchi»70.

Questa omologazione piccolo-borghese era quanto più infastidiva Pasolini anche perché era vissuta come una personale esperienza negativa. La mia esperienza privata, quotidiana, esistenziale – che oppongo ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose – m’insegna che non c’è più alcuna differenza vera nell’atteggiamento verso il reale e nel 324

conseguente comportamento tra i borghesi dei Parioli e i sottoproletari delle borgate71.

Roma non era ormai più diversa da Milano o da Torino. E colpevolizzare Roma, dopo il delitto del Circeo, sarebbe stato come tornare agli anni Cinquanta «quando torinesi milanesi (friulani) consideravano Roma il centro di ogni corruzione: con aperte manifestazioni razzistiche». Più avanti in questa Lettera luterana a Italo Calvino che a proposito del delitto del Circeo si era interessato, come tanti, all’origine borghese di quei criminali, Pasolini ricordava che i «poveri» delle borgate romane e i «poveri» immigrati, cioè i giovani del popolo, possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani dei Parioli: e con lo stesso identico spirito [...]. I giovani delle borgate di Roma fanno tutte le sere centinaia di orge (le chiamano «batterie») simili a quelle del Circeo; e, inoltre, anch’essi drogati. L’uccisione di Rosaria Lopez è stata molto probabilmente preterintenzionale (cosa che non considero affatto un’attenuante): tutte le sere, infatti, quelle centinaia di batterie implicano un rozzo cerimoniale sadico72.

Questa lettera, pubblicata sul «Mondo» portava la data del 30 ottobre 1975. Nella notte del 2 novembre 1975, all’idroscalo di Ostia, Pasolini cadeva vittima, chissà, proprio di una violenza di questo tipo. Al margine estremo di una città che aveva già cominciato a sperimentare una violenza pubblica e politica pari in ferocia a quella privata.

4. Terrorismo diffuso e grande terrorismo La crescita dei movimenti collettivi, la diffusione di nuove forme di militanza e la mobilitazione intorno a nuovi obiettivi diedero agli anni Settanta una connotazione nettamente conflittuale. In particolare a Roma gli anni fra il 1973 e il 1983 sono segnati anche da un drammatico imbarbarimento della lotta politica. Per quanto sia in qualche misura arbitrario trattare separatamente le vicende della capitale, non è possibile sottrarsi al tenta325

tivo di ricostruire le coordinate principali e i caratteri specifici di quanto accadde a Roma. Non tanto perché è in gioco la capitale, ma perché la città si differenzia da altre piazze politiche per alcuni elementi distintivi. A Roma è più drammatico che altrove lo scontro fra i militanti della nuova sinistra e quelli della destra neofascista, più lungo è il protrarsi del terrorismo di sinistra, infine la capitale è la sede del più grande attacco portato dalle Brigate rosse al sistema politico italiano, il rapimento e l’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro, l’uomo di maggiore spicco della vita pubblica di quel tempo, l’artefice dell’incontro fra Dc e Pci. E ancora a Roma, il 13 maggio 1981, in piazza S.Pietro, viene compiuto, ad opera del terrorista turco Mehmet Ali Agca, l’attentato che ferì gravemente papa Giovanni Paolo II. Quegli anni furono caratterizzati non solo da episodi terroristici di grande rilievo, ma anche da una miriade di eventi minori, trascurati e in seguito dimenticati, classificabili nella categoria del terrorismo diffuso. Una locuzione che suggerisce non solo una certa dispersione territoriale, ma anche il coinvolgimento di organizzazioni minori e di sigle talora a insediamento puramente locale, se non di quartiere, operanti al di fuori di un disegno politico complessivo. Il terrorismo diffuso poteva svariare dall’uso di armi proprie o improprie volte all’interdizione o all’eliminazione fisica degli avversari politici, agli assalti e alle spedizioni punitive, agli attentati a sedi di partiti, associazioni, rappresentanze industriali. Roma era stata già coinvolta dagli esordi del grande terrorismo quando, nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, in coincidenza con l’attentato di piazza Fontana a Milano, tre bombe esplosero nella capitale. Una nel sottopassaggio che collegava a via S. Basilio le sedi della Banca nazionale del lavoro, dove si ebbero 13 feriti, e due, in rapida successione, all’Altare della Patria, questa volta senza fare vittime. Gli attentati, opera come ormai è stato accertato della destra eversiva sostenuta dai servizi segreti deviati, vennero allora attribuiti agli anarchici ed erano le prime avvisaglie di un clima politico destinato a diventare sempre più violento. Nel 1968-1969 si era verificata un’inversione di tendenza nella violenza di piazza. Protagonisti erano ormai diventati i giovani dell’estrema sinistra, scalzando il primato dei picchiatori fascisti. Gli scontri fra le due tendenze estreme divennero sempre più fre326

quenti negli anni successivi, favoriti anche da un colpevole lassismo delle autorità pubbliche che, interpretando questi fenomeni come espressione di opposti estremismi cui era consentito combattersi a vicenda, sottovalutarono gli effetti distruttivi a lungo termine di tale politica. A partire dal 1973 cominciarono a verificarsi episodi sempre più gravi miranti alla vera e propria eliminazione degli avversari. Il 16 aprile 1973 morirono carbonizzati, nell’incendio della loro casa in via Bibbiena, Stefano e Virgilio Mattei di 8 e 22 anni, figli del segretario della sezione missina di Primavalle. Il fuoco era stato appiccato da militanti di Potere operaio dopo aver lasciato filtrare benzina all’interno dell’abitazione73. Nel 1974 fecero la loro comparsa le armi da fuoco, impiegate per la prima volta negli episodi di guerriglia urbana legati alle lotte per la casa, come a San Basilio. Il 28 febbraio 1975 lo studente greco Mikis Mantakas, 21 anni, morì dopo un assalto armato di autonomi alla sezione missina di via Ottaviano nel quartiere Prati. Il 29 ottobre dello stesso anno Mario Zicchieri, 16 anni, verrà ucciso, davanti alla sezione del Msi al Prenestino, da colpi d’arma da fuoco sparati da un’auto in corsa. Negli anni fra il 1972 e il 1975 l’«antifascismo militante» dilaga nelle scuole e nelle periferie. Le sedi missine sono bersaglio di continui attentati compiuti con esplosivi e bombe molotov, che mettono in qualche caso a rischio la vita dei presenti nei locali assaltati74. Le risse, le aggressioni e i pestaggi reciproci sono frequentissimi davanti e nei dintorni delle scuole. Salvo alcuni licei come il Giulio Cesare, l’Azzarita, il Mameli, dove i neofascisti sono più agguerriti, nelle altre scuole politicizzate come il Mamiani, il Tasso, il Virgilio, il Castelnuovo, il Francesco d’Assisi, l’istituto tecnico Fermi prevalgono i gruppi di sinistra. Quando esplode il movimento del ’77, la pratica della violenza è ormai uno degli elementi costitutivi della mobilitazione politica giovanile. Spesso le manifestazioni di protesta degenerano lasciando sul campo le prime vittime negli scontri con la forza pubblica, come Pietro Bruno di Lotta continua, 18 anni, ucciso durante un assalto all’ambasciata dello Zaire (il 22 novembre 1975) o Mario Salvi, 21 anni, dopo un lancio di molotov a Palazzo di Giustizia (il 7 aprile 1976). Nel frattempo si sono affermati i nuovi rituali dell’autoriduzione (nei cinema, negli spettacoli) e degli «espropri 327

proletari». Quel che un’intera generazione di giovani borghesi metropolitani aveva fino allora compiuto con l’astuzia – i piccoli furti nelle librerie, nei negozi di dischi, nei grandi magazzini –, ora si compie collettivamente e, appunto, con la violenza. Quando il nuovo movimento del ’77 torna ad occupare l’università molti parametri sono cambiati rispetto al ’68. Sono cambiati i protagonisti e sono diversi o assenti gli interlocutori di un tempo. Gli studenti esprimono uno spettro sociale più ampio da quando gli accessi non sono più limitati ai diplomati nei licei. Gli iscritti alla Sapienza hanno raggiunto la cifra di 130.000, ma la questione universitaria, e la protesta contro le proposte efficientiste del ministro Malfatti, offrono solo un punto di partenza per la mobilitazione, poi le facoltà occupate rimangono più che altro lo spazio politico privilegiato di un movimento che ha altri obiettivi: in primo luogo la visibilità e la notorietà assicurata dal precedente del ’68, poi la rivendicazione di un’alterità radicale nei confronti della politica della sinistra storica e anche di quella delle formazioni della nuova sinistra. Il confronto fra i gruppi dell’Autonomia, che esprimono un disegno politico chiaramente antagonistico e sovversivo75, e i «creativi», che puntano sull’immagine e su una comunicazione ironica e trasgressiva, si risolve a vantaggio dei primi, sempre in grado di imporre il loro controllo sulla mobilitazione. Il 1° febbraio un centinaio di fascisti attacca le facoltà di Giurisprudenza e Lettere e un colpo di pistola ferisce gravemente alla nuca uno studente durante gli scontri fra i viali. Lettere dà il via all’occupazione. Il giorno dopo, nel corso di una manifestazione contro i fascisti a piazza Indipendenza, a sparare sono le pistole delle squadre speciali in borghese e degli autonomi: si contano due studenti e un agente feriti. Già il 4 febbraio si consuma la rottura fra il movimento da una parte e i sindacati e il Pci dall’altra, mentre sale il numero della facoltà occupate (oltre a Lettere, Architettura, Scienze politiche, Medicina, Ingegneria). Alla richiesta del sindaco Argan, da poco alla guida della giunta di sinistra, di far chiudere d’autorità tutti i centri dei «provocatori» di qualunque parte fossero, gli autonomi, che avevano il loro centro a San Lorenzo in via dei Volsci, replicarono attaccando il Pci che li aveva messi sullo stesso piano dei fascisti. Compagni lavoratori, studenti, che cosa si deve chiudere? Il «covo» di Via dei Volsci, dove si organizzano i proletari per lottare con328

tro lo sfruttamento per i propri bisogni di classe, o il «covo» di Via delle Botteghe Oscure, dove si decide oggi la svendita e l’attacco alle lotte operaie contro la ristrutturazione, alle lotte per l’autoriduzione, per la casa, contro le donne, i giovani, gli studenti? La nostra risposta sarebbe faziosa, lasciamo allo sviluppo della lotta di classe nel paese la decisione finale!!76

Ma il movimento si esprimeva anche secondo altri registri, come nel caso di questo tatzebao. Baroni, padroni, pompieri, aspiranti dirigenti / topi di sezione, oscuri burocrati, gente con la linea in tasca / Forse fra qualche giorno ce ne andremo / e proverete a dimenticare / tornando con bacheche, circolari / processo democratico, giornali [...] proposte in positivo / ma azioni costruttive, delegati e mozioni / (ma non rompete i coglioni) /Direte: era un fuoco di paglia / un’oscura marmaglia [...] Ma tutto questo non è stato invano / noi non dimentichiamo... / Per il vostro potere fondato sulla merda / per il vostro squallore odioso, sporco e brutto / Pagherete caro, pagherete tutto!!77

Un tentativo di riportare il movimento alla ragione e alle ragioni della sinistra storica fu compiuto dalla Cgil, che mise in campo la sua forza organizzativa e il suo uomo di maggior prestigio, il segretario generale Luciano Lama. Accolto da slogan irridenti come «Dal Tibet al Perù tutti i Lama a testa in giù!», il comizio di Lama alla Città universitaria la mattina del 17 febbraio si tradusse in un gravissimo scacco. Palloncini pieni di vernice furono lanciati sulla folla, seguirono scontri e lanci di pietre. Lama fu costretto a concludere rapidamente dopo aver sostenuto che il comizio poteva essere disturbato ma non impedito. Gli studenti, dopo aver fatto ripiegare il servizio d’ordine sindacale, chiusero i cancelli con le catene e li barricarono con delle auto. Nel pomeriggio i bulldozer delle forze dell’ordine abbatterono gli ostacoli e penetrarono nell’università ormai abbandonata dai dimostranti78. Il 26 e il 27 febbraio, forti del successo sul campo, gli autonomi sgominano le posizioni delle femministe e degli indiani metropolitani, la componente creativa romana, e di altri collettivi critici sulla strategia del movimento ed espellono gli avversari dalle assemblee. Ma la rottura più radicale si compie il 12 marzo, durante la manifestazione nazionale convocata a Roma. Il giorno prima, 329

a Bologna, era stato ucciso dai carabinieri nel corso di durissimi scontri Francesco Lorusso di Lotta continua. Alla manifestazione romana accorrono anche molti militanti della nuova sinistra, ex sessantottini sollecitati dai tragici fatti di Bologna. Dal grande corteo emerge la componente violenta che mette a ferro e fuoco, è il caso di dirlo, il centro della città da piazza del Gesù a Campo dei Fiori, via Giulia, il lungotevere. Vi è un largo impiego di armi da fuoco, un’armeria in piazza S. Vincenzo dei Pallottini viene saccheggiata, centinaia di auto danneggiate a colpi di spranga, negozi incendiati79. Roma non aveva mai conosciuto una giornata così drammatica. I molti che avevano mostrato interesse e aspettative per la nuova ondata di contestazione giovanile cominciarono a prendere le distanze, mentre le organizzazioni del terrorismo trovavano nuovi adepti nel movimento. Il 21 aprile, dopo un ennesimo sgombero dell’università, scoppiano violentissimi scontri nelle strade fra la Città universitaria e San Lorenzo. Fece allora la sua comparsa la «compagna P 38», la pistola di fabbricazione tedesca, arma e simbolo del movimento armato: in via dei Marrucini fu colpito a morte l’agente Settimio Passamonti e un altro agente venne gravemente ferito80. Anche gli slogan si fecero più duri e si sentì intonare «Il Movimento di lotta non si tocca, Settimio Passamonti t’abbiamo sparato in bocca!». Il simbolo della P38, le due dita protese a ricordare la pistola, e le pistole vere cominciarono ad essere agitate non solo per la strada, ma anche nei corridoi dell’università. Fino all’autunno inoltrato la conflittualità rimane endemica nella Città universitaria, dove gli studenti, a differenza del ’68, non hanno interlocutori fra i docenti. Ma il conflitto è diffuso e permanente in tutta la città. Un ruolo decisivo nel creare consensi e moltiplicare la militanza è affidato in quei mesi alle radio libere che si sono diffuse a Roma in gran numero dall’inizio del 1976. Radio Onda rossa, la radio degli autonomi di via dei Volsci, non maschera gli obiettivi della violenza metropolitana, Radio Città futura esprime invece le posizioni dei vari gruppi della sinistra extraparlamentare81. Accanto a quelle tradizionali si intensificano nuove forme di mobilitazione, come quella femminista. Un tema dominante, foriero di molte ambiguità, è quello delle proteste contro la politica repressiva del governo, il monocolore democristiano presieduto da Andreotti, che si reggeva in virtù delle astensioni dei partiti dell’arco costituzionale, compreso il Pci. 330

Il 12 maggio, nel corso di una manifestazione non autorizzata promossa dai radicali per celebrare il successo del referendum di tre anni prima e duramente repressa, muore Giorgiana Masi, 19 anni, colpita a piazza Belli di fronte a ponte Garibaldi probabilmente da agenti in borghese. Nel corso del ’77 i militanti neofascisti si sono riorganizzati e fanno un uso sempre più frequente delle armi. Il 29 settembre sparano contro alcuni giovani di sinistra a piazza Igea a Monte Mario. Il 30 settembre, nel corso di una manifestazione per i fatti del giorno precedente nei pressi della sezione missina della Balduina a via delle Medaglie d’Oro due giovani sparano e uccidono Walter Rossi, 20 anni, militante di Lotta continua82. Il giorno dopo la protesta antifascista esplode in tutta Italia, non solo a Roma, e i funerali della vittima saranno imponenti. Ma il nuovo slogan «Compagno Walter te lo giuriamo / d’ora in avanti anche noi spariamo» non diceva la verità, perché da almeno quattro anni i «compagni» avevano impugnato le armi. Il 28 dicembre un giovane militante del Msi, Angelo Pistolesi, 31 anni, viene ucciso sotto casa al quartiere Portuense da un commando denominato Nuovi partigiani. Si chiudeva così il 1977, il primo di cinque anni orribili. In quell’anno le Brigate rosse avevano cominciato ad adottare anche a Roma la pratica della «gambizzazione», i ferimenti non mortali alle gambe. Erano stati colpiti a giugno Emilio Rossi, direttore del Tg1, e Remo Cacciafesta preside della facoltà di Economia, a novembre Publio Fiori, consigliere regionale della Dc. Ma già il 10 luglio 1976 Roma era stata scossa dall’omicidio del sostituto procuratore Vittorio Occorsio (che indagava sulla strage di piazza Fontana), compiuto da Pierluigi Concutelli, un terrorista dell’organizzazione di estrema destra Movimento politico ordine nuovo. Gli anni successivi videro di nuovo attentati, morti, vendette, rappresaglie. E agli episodi più noti vanno aggiunti i morti per caso o per errore, per non dire dei feriti che uscivano presto dalla cronaca e non sarebbero mai entrati nella storia. Il 7 gennaio 1978 un commando fa fuoco con una mitraglietta contro i militanti della sezione missina di via Acca Larenzia al Tuscolano. Muoiono Franco Bigonzetti, 19 anni, e Francesco Ciavatta, 18 anni. Più tardi, sempre in via Acca Larenzia, nello scontro a fuoco fra le forze dell’ordine e i giovani missini esasperati, 331

un capitano dei carabinieri spara e uccide un altro giovane, Stefano Recchioni, 19 anni. Acca Larenzia è l’episodio chiave che segna il passaggio al terrorismo di un gruppo di militanti neofascisti guidati da Valerio Fioravanti (diciannove anni non ancora compiuti) e la nascita dei Nar, Nuclei armati rivoluzionari. Il 28 febbraio 1978, anniversario della morte di Mantakas, Valerio, il fratello Cristiano e altri amici si spingono dall’Eur al Tuscolano, individuano nei giardini della piazza S. Giovanni Bosco un gruppo di giovani che gli abiti qualificano come di sinistra. Valerio spara e uccide Roberto Scialabba, 24 anni, finendolo con due colpi alla nuca83. Ma il 1978 è l’anno delle Brigate rosse e del delitto Moro. La mattina del 16 marzo, dopo il rapimento del presidente della Dc e l’uccisione dei cinque uomini della scorta, in via Fani a Monte Mario, si diffuse in città un sentimento drammatico di paura e incertezza. Parve a molti che il sistema in cui vivevano potesse crollare da un momento all’altro. Mentre si intrecciarono telefonate allarmate, un silenzio innaturale calò su Roma e la gente cercò la via di casa per un bisogno istintivo di protezione. Lo sciopero generale immediatamente proclamato, con una manifestazione nel pomeriggio a piazza S. Giovanni, unito allo sgomento generale, svuotarono la città84. Ma è anche vero che molti ostentarono indifferenza ed estraneità, con punte di ammirazione per le Br e compiacimento, soprattutto fra la giovane militanza dei movimenti di estrema sinistra. I partiti, e anche la Dc, reagirono con la mobilitazione di piazza, come si vide il 18 marzo in occasione dei funerali degli agenti della scorta. Nel corteo, che dal Verano per via Nazionale raggiunse piazza del Gesù, i giovani democristiani cercarono di tenere separate le proprie bandiere da quelle del Pci, rivendicando l’orgoglio di partito e temendo di subire l’egemonia della piazza comunista85. Il 9 maggio, giorno del ritrovamento del cadavere di Moro, fu la seconda «stazione» di quella drammatica vicenda. Il corpo rannicchiato nel portabagagli della Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, a poche decine di metri dalle direzioni centrali della Dc e del Pci, sarebbe rimasto il simbolo più forte della sfida brigatista al cuore dello Stato86. Poi venne la messa in suffragio di Moro in S. Giovanni in Laterano celebrata, in absentia corporis, da un Paolo VI dolente di 332

fronte a tutte le autorità dello Stato, mentre fuori la folla, in una piazza presidiata e transennata, attendeva in un silenzio cupo e smarrito87, simbolo della drammatica – e per molti inevitabile – contrapposizione fra la ragione di Stato e le ragioni umanitarie a cui invano si erano appellati la famiglia, il Psi, i radicali e parte della sinistra extraparlamentare. Le Br continuarono a mietere vittime a Roma negli anni successivi: Vittorio Bachelet ucciso sulle scale della facoltà di Scienze politiche il 12 febbraio 1980, il giudice Girolamo Minervini il 18 marzo, il generale Enrico Galvaligi il 31 dicembre dello stesso anno. Il 13 agosto 1981 fu ritrovato alla periferia della città il corpo di Roberto Peci, fratello del primo pentito delle Br, Patrizio. Quattro anni dopo, il 27 marzo 1985, fu ancora ucciso l’economista Enzo Tarantelli e il 20 marzo 1987 il generale Licio Giorgieri, colpito questa volta da una formazione minore, ma erede delle Br. Il 23 giugno 1980 i Nar avevano ucciso a Roma il giudice Mario Amato. Ma l’elenco dei caduti non sarebbe, anche solo approssimativamente, completo senza le morti «minori», quelle delle faide di quartiere fra estrema destra ed estrema sinistra, i cui responsabili non sono mai stati identificati. L’autonomo Valerio Verbano, 19 anni, ucciso il 22 febbraio 1980 da un commando appostatosi nella sua abitazione a Montesacro dopo aver immobilizzato e imbavagliato i genitori; il giovane missino Francesco Cecchin, 18 anni, percosso da avversari politici, trovato sotto un muro alto cinque metri nel quartiere Trieste e morto il 16 giugno 1979; Angelo Mancia, 27 anni, segretario della sezione missina di Talenti, ucciso sotto casa, il 12 marzo 1980, da un commando definitosi Compagni organizzati in volante rossa88. Infine, il 9 febbraio 1983, morì Paolo Di Nella, dopo un’aggressione a colpi di spranga subita mentre attaccava manifesti dell’organizzazione missina Fronte della gioventù a viale Libia. Tutti nomi (e date) che appartengono al martirologio di quegli anni terribili. Nomi (e date) ricordati a ogni anniversario sui muri dei loro quartieri89. La città si difese estraniandosi sempre più da uno scontro che appariva insensato, ma allontanandosi anche dalle ragioni della grande politica. Intanto l’immagine di una convivenza pacifica era andata smarrita. Guardie armate, auto blindate, scorte. Mutata anche la dimensione sonora della città, attraversata ora dalle sire333

ne spiegate delle auto ufficiali, impegnate nei loro ostentati zig zag, mentre nella notte, nei quartieri e nelle periferie, rimbalzavano le esplosioni degli attentati di un terrorismo diffuso dalle molte incomprensibili sigle. 5. La sinistra in Campidoglio Dal 1976 al 1985, negli anni del terrorismo e oltre, Roma ebbe un’amministrazione comunale di sinistra. Il primo sindaco fu Giulio Carlo Argan, storico dell’arte, professore alla facoltà di Lettere, studioso e critico di grande valore: chi ebbe la ventura di ascoltarne le lezioni su Borromini o su Klee non avrebbe più dimenticato il rapimento intellettuale che Argan induceva con il fascino e il rigore del suo argomentare. La scelta di Argan rispondeva all’esigenza di porre alla testa di un’amministrazione di sinistra non un uomo di apparato, ma un personaggio di livello culturale indiscusso. Quando Argan si ritirò per motivi di salute, nel settembre 1979 gli successe Luigi Petroselli, segretario della federazione romana del Pci. Dopo la tornata elettorale amministrativa del giugno 1981 Petroselli ricoprì ancora la carica di sindaco fino alla morte improvvisa avvenuta il 7 ottobre 1981. Da allora e fino alle elezioni del maggio 1985 sindaco fu il comunista Ugo Vetere, ex assessore al Bilancio. Nel 1976 e nel 1981 il Pci fu il primo partito in città riportando rispettivamente il 35,5% e il 36,1%. La Dc ottenne, nelle due consultazioni amministrative, il 33,1% e il 29,6%. Nelle politiche del 1979 invece la Dc superò nettamente il Pci (34,2% rispetto a 29,7%). Il 1976 fu l’anno in cui si registrò la più forte polarizzazione intorno ai due maggiori partiti, che raccolsero insieme quasi il 70% dei suffragi. Il Msi passò dal 16,2% del 1971 al 10,6% del 1976 ma rimase il terzo partito, mentre il Psi scese al 7,6%, un minimo già toccato nelle comunali del 1966. Nel 1981 il Msi scese ancora, all’8,7%, mentre il Psi recuperò attestandosi al 10,1%. Il successo dei comunisti fu determinato dal generale spostamento a sinistra ormai in atto nel paese a vantaggio del Pci, guidato in quel periodo da un leader carismatico come Enrico Berlinguer, dall’aumento della percentuale dei votanti, passati dall’89% delle comunali del 1971 al 93,7%, ma anche da un passaggio di 334

voti dall’estrema destra all’estrema sinistra, non tanto nell’elettorato borghese, ma in quello popolare o piccolo-borghese dove attingevano sia i comunisti che i missini. Le giunte Argan e Petroselli erano composte da Pci, Psi, Psdi e godevano dell’appoggio esterno del Pri. Nella giunta Vetere entrò anche il Pri, che ottenne l’assessorato all’Edilizia pubblica, affidato allo storico del Medioevo Ludovico Gatto. Uno dei primi obiettivi dell’amministrazione di sinistra fu quello di proseguire e intensificare l’opera di risanamento delle borgate, già avviata dalle giunte di centro-sinistra con il piano Acea per la fornitura d’acqua e di fogne90. Il problema delle borgate si presentava come una realtà assai più articolata di quanto fosse apparsa per tanti anni all’opinione pubblica più aperta ai problemi sociali: un termine che riassumeva tutto quello che lo spontaneismo edilizio aveva costruito al margine o alla periferia della città, residenza coatta di poveri e di marginali. Un’immagine confortata anche dalla rappresentazione che di quel mondo aveva dato Pasolini nei suoi romanzi e nei suoi primi film. Non era mai stato interamente così e soprattutto non era più questa la dimensione reale del problema nel 1976. Si trattava certamente di eliminare gli ultimi insediamenti di baracche e di casette – obiettivo che fu finalmente portato a termine –, ma bisognava anche decidere una politica urbana per i numerosissimi centri abusivi sorti da tempo e consolidati nell’Agro, e per quelli che continuavano a svilupparsi. Le dimensioni e i caratteri di questa parte ormai molto ampia del comune di Roma sono stati oggetto di molti studi compiuti negli anni Ottanta. La città abusiva era stimata, nel 1981, in 8.500 ettari su 30.000 di superficie edificata e in 800.000 abitanti su 2.840.000, cifre entrambe corrispondenti al 28% circa del totale91. Fra il 1961 e il 1981 la popolazione «abusiva» era raddoppiata, mentre la superficie era cresciuta del 142%. Tutte le ricerche hanno messo in luce un analogo processo di nascita e sviluppo delle borgate. All’origine vi era quasi sempre una grande tenuta agricola (Tor Bella Monaca dei Vaselli valga come esempio), seguiva la lottizzazione di una sua parte, in genere collocata a ridosso di una via consolare, che il grande proprietario iniziava in proprio per poi cederla ad altri. I lottisti erano prevalentemente autocostruttori, ma presto intervenivano piccole 335

imprese germinate proprio da queste iniziative. La densità aumentava gradatamente92. Alle case basse si aggiungevano i primi piani. Se il livello di benessere cresceva salivano anche i piani, ma la casetta originaria poteva anche essere, nel tempo, sostituita da una palazzina93. In borgata non mancavano le ville di lusso. Nel frattempo le strade rimanevano quelle anguste delle lottizzazioni originarie, le case restavano spesso per anni senz’acqua, mentre si narrava di battaglie durissime per ottenere la luce. Se questo è, a grandi linee, lo schema di sviluppo dei quadranti est, la crescita delle borgate appare, a sud e a ovest, più razionalizzata, con utenti di livello sociale più elevato. Tutto il sistema della città spontanea registrò in quegli anni e in seguito una crescita di livello economico nettamente visibile nel tessuto sociale e nelle tipologie edilizie. Al bisogno di casa del muratore di prima immigrazione, legato ancora alle sue origini rurali, seguì la domanda di chi per cultura, per tradizioni, per stili e scelte di vita, voleva garantirsi una casa propria e qualche agio semirurale. La vecchia Italia contadina, che veniva morendo nelle campagne, trasportava nella città una parte del suo mondo. Il fenomeno dell’abusivismo, ricordavano Alberto Clementi e Francesco Perego nel 1983, può essere spiegato come «la manifestazione della domanda di autopromozione immobiliare alla quale il monopolio dei grandi investitori non ha lasciato alcuno spazio legale». Se questa conclusione era fondata, cadeva anche l’interpretazione dell’abusivismo «come una storia di emarginazione di classe»: se in alcuni periodi questa è stata certamente una componente della spinta all’urbanizzazione illegale, da sola non sarebbe mai stata in grado di generare esiti quantitativamente così rilevanti e soprattutto non avrebbe potuto tradursi, senza eventi traumatici, nell’attuale piena integrazione politica e culturale delle borgate nella città94.

Si trattava di una visione radicalmente diversa della cultura urbana e dell’urbanistica tradizionale, nemica di ogni spontaneismo architettonico e impegnata invece a promuovere, proprio negli stessi anni, altri interventi su grande scala. A questo riguardo è di notevole interesse seguire i criteri di realizzazione del nuovo quartiere di Tor Bella Monaca, previsto 336

per 28.000 abitanti, sito lungo la Casilina oltre il raccordo anulare, accanto alla omonima borgata abusiva e in stretta relazione con la contigua borgata di Torre Angela95. L’intervento della nuova Tor Bella Monaca fu un’operazione di bandiera per la giunta rossa, finalmente in grado di aprirsi alle dinamiche del mercato e agli accordi con i costruttori privati. La novità dell’operazione fu quella di riunire in un unico progetto, segnato da tempi di esecuzione molto rapidi, tutte le forze in campo: la rendita (ossia la proprietà Vaselli, che in virtù di una cessione bonaria poté godere di un indennizzo doppio), i costruttori romani uniti nel consorzio Isveur, le cooperative rosse e gli urbanisti del Comune, autori del progetto planovolumetrico. Nel luglio 1980 i lavori furono assegnati al consorzio, a dicembre i progetti erano pronti; nel febbraio 1981 iniziarono i lavori che furono completati per il Natale 1982. Tempi brevi e costi contenuti, grazie anche al largo impiego della prefabbricazione, erano gli ingredienti del successo: «spettacolare prova di capacità politica e amministrativa», questo il giudizio dell’urbanista comunista Vezio De Lucia nel 198696. Consegnato nel 1983, il quartiere di Tor Bella Monaca, si era trasformato dopo solo qualche mese in un drammatico problema sociale: Case e torri di cemento in un deserto brullo fra bivacchi di zingari ed «occupanti» abusivi titolava il «Corriere della Sera» del 25 aprile 1984. E otto anni dopo, esprimendo un sentire diffuso, Il degrado e il suo sinonimo. Tor Bella Monaca, il nome di un quartiere al limite di tutto97. Da quartiere modello a simbolo del degrado: come era potuto accadere? Tor Bella Monaca non aveva sfidato il senso comune come Corviale, l’enorme edificio di quasi un chilometro posato lungo un crinale, una sorta di baluardo fra la città e la campagna nell’estrema periferia sud-ovest, dai ballatoi sterminati, utopia di un abitare collettivo a cui nessuno più aspirava, illusione di poter costruire e gestire un falansterio, e di passare alla storia dell’architettura per aver lasciato un segno così potente e definito in un territorio dominato dallo spontaneismo e dal caos98. A Tor Bella Monaca gli edifici erano piuttosto convenzionali, c’erano le solite torri di 15 piani e ai fabbricati in linea era stato dato un po’ di movimento. Insufficiente come al solito era la progettazione degli spazi a terra, quelli pubblici e quelli fra gli edifici. Il limite maggiore sembrava quello della separazione fra le va337

rie parti dell’insediamento non percorribili a piedi, date le distanze, e una sorta di autostrada a quattro corsie che tagliava in due tutto il comprensorio. Sarebbe stato poi troppo banale immaginare un centro civico che compattasse le molte funzioni, dalla chiesa, alle scuole, ai servizi: se non una grande piazza, almeno un insieme di spazi collegati di socializzazione per una città le cui convivenze erano tutte da inventare. Non molto felici erano poi le saldature con le borgate preesistenti. Ma il limite maggiore non va addebitato al progetto architettonico-urbanistico, bensì alla difficile operazione di ingegneria sociale rappresentata dal concentrare in un unico luogo una percentuale così elevata di disagio sociale, sfrattati, disoccupati, sottoccupati, handicappati99. In parte la progettazione degli alloggi aveva previsto i possibili effetti derivanti da questo tipo di utenza quando aveva rinunciato al sistema centralizzato di riscaldamento dotando ogni appartamento di impianti autonomi. Veniva eliminato in partenza uno dei motivi ricorrenti di conflitto per morosità, ma ciò significava anche rinunciare a un embrione di gestione collettiva fra gli inquilini da costruire nel tempo. La compresenza, nelle case del Comune spesso fianco a fianco, di inquilini a fitto sociale a 25.000 lire mensili e di altri a 170.000 per gli stessi alloggi creò immediatamente una sistematica autoriduzione, se non la sospensione dei pagamenti. Per non parlare del mercato nero degli alloggi non assegnati o «rivenduti» dagli assegnatari, pratiche del resto largamente diffuse nei complessi di edilizia residenziale pubblica. Nessuna forza politica o amministrativa si era cimentata in un’opera di disciplinamento sociale, peraltro difficilissima quando era in gioco un bisogno elementare come quello della casa. Non era certo il momento per rischiare di riattizzare una conflittualità che aveva appena cominciato ad attenuarsi, né il Pci era disposto a cimentarsi in una battaglia perduta. Ma non è escluso che la linea morbida adottata a Roma su questi problemi, al di là dei costi finanziari per un’edilizia sociale senza ritorni di reddito e al di là delle perduranti iniquità nelle assegnazioni degli alloggi, sia stata, più che altrove, foriera di un graduale processo di integrazione favorito dalle numerose iniziative di assistenza sociale pubbliche e volontarie e dai recenti piani di recupero urbano100. Diverse furono quindi le politiche per le periferie delle giunte rosse. Da un lato incremento dell’impegno per il completamento dei piani per l’edilizia economica e popolare, dall’altro sanatorie 338

dell’abusivismo, premessa dei condoni successivi. Non sempre la distruzione dei borghetti riuscì per intero e suscitò unanimi consensi. Vi era chi, soprattutto se in possesso di una piccola casa in muratura, con orto e alberi da frutta, casa abitata ormai da generazioni, era riluttante a trasferirsi in un appartamento delle case popolari e in qualche caso riuscì a resistere, come ancora oggi si può vedere all’Acquedotto Felice, a Prato Rotondo o a Valle Aurelia101. Come è stato notato proprio per Valle Aurelia, una comunità del Trionfale con forti tradizioni operaie nel settore delle fornaci di laterizi e una lunga militanza comunista, la razionalizzazione dell’intervento risanatore confliggeva aspramente con i legami consolidati e le identità locali, per quanto circoscritte, fino a mettere in discussione le vecchie appartenenze partitiche102. L’insieme sostanzialmente ricco di risultati nel settore del risanamento della città abusiva e marginale e in quello delle realizzazioni dell’edilizia residenziale pubblica, non fu foriero tuttavia di consensi durevoli. L’esito di maggiore e permanente successo delle giunte di sinistra, una vera innovazione nella storia della città, e un modello largamente imitato altrove, fu l’Estate romana, ideata, realizzata e difesa dall’assessore alla Cultura Renato Nicolini, architetto e docente di architettura, uno dei leader della prima contestazione della sua facoltà. L’idea originaria, rivelatasi subito vincente, era quella di utilizzare gli spazi monumentali del centro di Roma come sede di spettacoli, e in particolare, all’inizio, di spettacoli cinematografici. Non più per un pubblico di élite come quello che aveva seguito la stagione dei concerti alla Basilica di Massenzio o l’opera a Caracalla, ma per gli spettatori dei film di grande successo e anche dei film di qualità, un pubblico sempre più numeroso e sempre più giovane, per il quale trovarsi era altrettanto importante che assistere. Dalla Basilica di Massenzio, dove si tennero le prime proiezioni si passò al Colosseo, al Circo Massimo (che fu la sede principale della rassegna cinematografica che continuò a chiamarsi Massenzio), alle piazze e ai giardini di Roma via via per altri spettacoli. Fu inventato un nuovo modo di fruire il centro cittadino aprendolo realmente a tutti e soprattutto ai tanti ragazzi di una difficile stagione conflittuale. Per Nicolini l’Estate romana si inseriva in primo luogo nel tentativo di potenziare il diritto all’informazione e alla cultura; ebbe poi la sua parte 339

nella sconfitta della «paura di uscire di casa» su cui prosperavano terrorismo e violenza urbana. In terzo luogo ha affermato l’appartenenza del centro storico a tutta la città e non a una residenza privilegiata. In quarto luogo ha mostrato in modo esemplare l’assenza di ideologismi, di ristrette visioni «di partito», del bisogno di sventolare bandiere rosse ad ogni piè sospinto, dall’iniziativa culturale della giunta rossa103.

Ma sul centro storico si concentrarono anche altre iniziative della giunta di sinistra, di diverso peso e diversa importanza: il risanamento del quartiere di Tor di Nona e il progetto dei Fori. Per Tor di Nona, un piccolo quartiere degradato posto sotto i muraglioni di sinistra del Tevere, fra i ponti S. Angelo e Umberto I, il piano regolatore del 1931 aveva previsto la demolizione e ricostruzione. Nel dopoguerra, dopo gli ultimi sventramenti e il fallimento dell’ipotesi dell’allargamento di via Vittoria e del concorso per l’ampliamento della Camera dei deputati, nessuno osava più proporre interventi moderni nel tessuto antico. Si fece cosi strada l’ipotesi del risanamento conservativo, con restituzione degli alloggi ai vecchi abitanti, progetto finalmente avviato dopo attenti studi dall’assessore al Centro storico della giunta Argan, Vittoria Calzolari. Ma l’intervento, dopo oltre vent’anni, non è stato ancora portato a termine104. Il progetto Fori fu invece l’iniziativa urbanistica più importante. Nell’aprile 1979 il soprintendente archeologico di Roma, Adriano La Regina, segnalò il grave stato di degrado dei monumenti sottoposti agli effetti degli agenti atmosferici e degli agenti inquinanti prodotti dal traffico e propose la realizzazione di una grande area archeologica centrale. Era un’ipotesi già studiata da Leonardo Benevolo, considerato uno dei maggiori storici della città e urbanisti italiani105. Un’area che dai Fori unificati si congiungesse al Colosseo e al Circo Massimo da un lato, e dall’altro, partendo dal Campidoglio, assorbisse via del Mare, il Teatro di Marcello, il Palatino e si spingesse lungo la Passeggiata archeologica fino al parco dell’Appia Antica, creando una grande spina di verde e di monumenti che dal Campidoglio giungesse alle pendici dei Castelli106. Il punto fondamentale e politicamente più rilevante era costituito dalla distruzione degli assetti monumentali voluti dal fascismo e dalla cancellazione del suo tratto simbolicamente più signi340

ficativo, via dei Fori imperiali. Come la presentazione del piano avrebbe chiaramente enunciato, la realizzazione di un programma di tali dimensioni avrebbe comportato non solo il ridisegno complessivo del centro di Roma e una radicale modifica delle sue funzioni, ma anche la ridislocazione dei principali flussi di traffico pubblico e privato. Il sindaco Petroselli e l’assessore al centro storico Carlo Aymonino, comunista e architetto fra i più noti, sposarono la sostanza della proposta cogliendone immediatamente la valenza propagandistica e di immagine: in nome della tutela dell’ambiente si potevano fare finalmente i conti col fascismo. Una delle prime iniziative fu la demolizione di via della Consolazione ai piedi del Campidoglio, mentre l’assessore Aymonino diede il via a una messe di studi preparatori in vista di un concorso internazionale per la definizione dei rapporti fra le aree di bordo della città e la nuova area archeologica centrale. Ma la delibera relativa sarebbe stata approvata solo nel luglio 1984, gli studi pubblicati dalla giunta successiva nel 1986, mentre il concorso internazionale non fu mai bandito107. Il problema dei Fori rimaneva comunque un punto nodale nei programmi della sinistra. Come ebbe a sostenere Nicolini solo la nascita dello Sdo – al quale la giunta di sinistra aveva restituito un po’ di fiato –, con lo spostamento ad est di molte funzioni centrali, avrebbe potuto divenire la premessa per la realizzazione del progetto dei Fori. Un progetto che si veniva circoscrivendo alla questione di via dei Fori imperiali. Il progetto suscitò molte polemiche e alcune, limitate, riserve anche a sinistra108. Ma è sorprendente come rimanesse prevalentemente in ombra il significato di fondo politico e ideologico dell’operazione, la rivincita nei confronti di Mussolini urbanista in nome o sotto il pretesto dell’archeologia. Un assetto urbano consolidato da cinquant’anni, largamente apprezzato e popolare, poteva tranquillamente essere demolito (e Cederna invitò Petroselli a brandire il piccone!) perché era appunto l’espressione di una fase della storia d’Italia che era legittimo e consentito abrogare. Che quella strada e quel percorso e quel collegamento con l’Altare della Patria, consolidati nel dopoguerra da innumerevoli occasioni celebrative, parate militari, cortei politici, imponenti funerali (quelli di Togliatti e di Berlinguer) potessero essere tranquillamente cancellati non sembrava importare a nessuno, forse solo a nostalgici e retrogradi romanisti. 341

Era davvero sorprendente che una grande operazione di modifica e snaturamento del centro politico-simbolico dell’Italia unita (di tutta quell’Italia, liberale, fascista, repubblicana) potesse procedere su proposta di una soprintendenza archeologica e non fosse il frutto invece di una consapevole decisione dei vertici politici e rappresentativi del paese. Questa colpevole disattenzione era forse favorita dal fatto che dal 1976 al 1983 non si tenne la parata militare ai Fori imperiali e che il Vittoriano restò chiuso al pubblico dal 1969 al 2000. Rimaneva la dolorosa consapevolezza che una parte dell’Italia repubblicana e di sinistra potesse pensare di recidere le radici comuni e demolire l’unico spazio pubblico nazionale che la capitale possedeva. Non è privo di logica che questo accadesse in uno dei momenti più drammatici della vita del paese e sotto la spinta di forze politiche e culturali che continuavano a guardare al passato non come a una storia comune, ma come alle vicende di un’altra Italia. E neppure che, quando le elezioni comunali del 1985 segnarono un crollo vistoso del Pci e il ritorno al governo della città della Dc con una giunta di pentapartito (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli), i progetti più ambiziosi della sinistra fossero abbandonati. Avvisaglie di una crisi del Pci a Roma si erano già avute nelle politiche del 1979 con un calo del 6%, dal 35,8 al 29,7%. Ma il successo nel referendum del maggio 1981 che aveva respinto la proposta cattolica di abolizione della legge sull’aborto aveva consolidato la secolarizzazione di una città tutt’altro che disposta a tornare indietro sul terreno dei diritti individuali. Sembrava una conferma della tendenza progressista iniziata nel 1974, tanto più che gli antiabrogazionisti si erano concentrati nei quartieri popolari e di sinistra109. Nelle elezioni politiche del 1983 il Pci aveva guadagnato pochi decimi percentuali, ma nel 1985 perse oltre 5 punti percentuali (dal 36,1 delle comunali precedenti al 30,8%), allineandosi al dato delle politiche, e fu superato dalla Dc attestatasi al 33,1%. Il controllo dell’amministrazione non era più pagante. Dopo nove anni di opposizione la Dc si era riorganizzata, si era avvantaggiata dell’appoggio del Vicariato e della mobilitazione del movimento di Comunione e Liberazione, aveva ripreso tutte le fila del suo insediamento territoriale grazie a una leadership locale più aggressiva. Il Pci appariva invece attardato nel cogliere i 342

mutamenti della società e appesantito dai cambiamenti di linea: dall’esaltazione del compromesso storico si era passati all’autolesionistica critica di quell’esperienza. Di fronte alla nuova articolazione della società le argomentazioni dei suoi intellettuali organici sulla situazione apparivano segnate da vistose arretratezze. La stabilità di un nuovo blocco sociale rinnovatore può essere garantita a sinistra e in senso progressista non certo inseguendo gli interessi di questo o quel gruppo sociale, ma solo se il movimento operaio saprà essere protagonista di una iniziativa politica di carattere generale, che proponga un nuovo modello di società e quindi un nuovo patto per lo sviluppo [...]. Di fronte a [una] situazione caratterizzata da profondi mutamenti del processo produttivo in rapporto all’introduzione di nuove tecnologie, da una crescita delle attività terziarie e delle funzioni pubbliche [...] spetta alla classe operaia assolvere a una funzione unificante [...]110.

Ma lo stesso Argan non era da meno. Riflettendo sul suo periodo come sindaco in un’intervista dopo la sconfitta elettorale, a proposito della realizzazione dello Sdo sosteneva: Dovevamo affidare lo sviluppo di una parte della città al grande capitalismo? Forse sbaglio, posso aver sbagliato, ma a questo rimango contrario, perché significherebbe delegare al capitale la direzione culturale della città111.

È del tutto evidente che l’elettorato popolare non abbandonava il Pci sconcertato dal ripetersi di questi slogan stereotipati, peraltro largamente diffusi nel lessico del partito, ma aveva colto alcuni sintomi presenti nel paese. Irrigidimenti settari come nella battaglia per la difesa della scala mobile, riproposizione reiterata e acritica della centralità comunista incapace di dare spazio alle energie innovative della società catturate ora dal Psi e di nuovo anche dalla Dc. Si aggiunga la più alta capacità democristiana sul terreno della gestione del voto di scambio su cui anche il Pci si era ormai collocato. Come scriveva Piero Della Seta dopo l’insuccesso elettorale, «per una politica di vantaggi tutto sommato più ‘vantaggiosa’ appare la Dc», ricordando che in VIII circoscrizione (Casilino, Tor Bella Monaca, Torre Angela) la Dc aveva gua343

dagnato 7340 voti112. E così, proprio nei quartieri di sinistra e della periferia il calo del Pci era stato più vistoso113. Ma sarebbe semplicistico sostenere che al governo del Campidoglio tornava la vecchia politica. Più che altro prendeva il potere una nuova disinvoltura, una voglia di realizzare senza regole, rifiutando piani e programmazioni in sintonia con la società affluente degli anni Ottanta. Un’amministrazione senza ideali e senza progetti, pragmatica, ossessionata dalla difficile mediazione spartitoria. Priva di veri leader, segnò forse il punto più basso nella lunga storia della vita politica cittadina.

X

La nuova capitale

1. La crisi della politica e la cultura del privilegio L’alleanza politica tra Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli, il pentapartito che era anche al governo del paese, rimase alla guida del Campidoglio dal 1985 al 1993. Le elezioni comunali anticipate del 29 ottobre 1989, determinate dalle dimissioni del sindaco democristiano Pietro Giubilo, travolto da irregolarità nella gestione delle mense scolastiche, confermarono il peso complessivo dell’alleanza, registrando tuttavia un significativo rafforzamento del Psi, salito al 13,8% con un aumento del 3,5%. La Dc otteneva il 31,9% con una modesta perdita dell’1,2%. Un notevole successo arrise ai Verdi per Roma, con il 7% dei voti e 6 seggi, a conferma del consolidarsi in città di una cultura ambientalista. Il Pci, nonostante avesse predisposto un programma ricco e articolato, registrò un’ulteriore perdita, del 4,2%, che lo portava al 26,6% cancellando tutta l’ascesa realizzata negli anni Settanta. Dopo una figura evanescente e irresoluta come Nicola Signorello, il primo sindaco della nuova maggioranza, e dopo un personaggio più dinamico ma discusso come Giubilo, i due maggiori esponenti locali della Dc e del Psi, Vittorio Sbardella e Paris Dell’Unto, trovarono un accordo per offrire la guida del Comune a Franco Carraro, di origine padovana, socialista, ex presidente del Milan e del Coni, già ministro del Turismo, amico di Craxi. Una scelta insolita, quella di un imprenditore e manager non romano, che testimoniava da un lato le difficoltà del Psi di esprime345

re una candidatura locale di prestigio e dall’altro la necessità di garantire al Campidoglio una maggiore efficienza e capacità di mediazione in una fase che sembrava coinvolgere Roma in una nuova espansione economica, edilizia e industriale. La città si configurava sempre più come un polo del terziario avanzato, soprattutto nei servizi alle imprese e in quelli dedicati all’ammodernamento della pubblica amministrazione, come il settore informatico1. In costante sviluppo erano il settore delle industrie spaziali e quello degli armamenti elettronici. In più si cominciavano a progettare e realizzare i primi grandi centri commerciali integrati e nel 1988 era stata inaugurata la prima parte di Cinecittà 2. Tutte queste prospettive di innovazione sollecitarono una transitoria riesumazione dello Sdo. Sul palcoscenico della vita politica ed economica cittadina, fra il 1988 e il 1990, si recitò così un nuovo atto di quella scontata commedia degli equivoci. Comparvero in scena o apparvero fuggevolmente tra le quinte tutti i protagonisti del nuovo possibile grande affare, imprese, imprenditori, gli andreottiani di Sbardella, i socialisti, referenti e mediatori politici, una grande impresa pubblica come l’Italstat. Giravano di nuovo i soldi per i grandi studi di progettazione. Si mobilitò il grande architetto giapponese Kenzo Tange. Poi il sipario si chiuse su un finale ancora aperto. Nell’ottobre del 1990 una delibera del Comune stabilì che tutte le aree dello Sdo (855 ettari) sarebbero state espropriate per poi restituire all’asta ai privati quel 40% non destinato ad opere di interesse pubblico2. L’impianto originario dello Sdo, un insieme di aree collegate da un asse attrezzato, non esisteva più. Sopravvivevano sulla carta quattro comprensori separati e dieci anni dopo si sarebbe cominciato a lavorare solo su quello di Pietralata. Nel frattempo nessuna decisione strategica era stata presa sulla destinazione di questi spazi. E ancora una volta si dimostrava che il Comune non riusciva ad essere protagonista nello sviluppo della città, né come promotore né come mediatore delle iniziative urbanistiche. I mondiali di calcio del 1990 furono una delle grandi occasioni per ottenere finanziamenti speciali. Il Comune riuscì ad assolvere i suoi compiti specifici, limitati al settore della viabilità, come il raddoppio dell’Olimpica, della galleria Fleming, vari parcheggi a raso 346

(al Tuscolano e alla stazione Tiburtina), una nuova linea veloce di tram da piazzale Flaminio verso lo Stadio Olimpico (piazza Mancini), una pista ciclabile lungo il Tevere da viale Mazzini a Tor di Quinto. Ma le altre realizzazioni strategiche apparvero discutibili se non fallimentari, con un Campidoglio interlocutore debole o complice. Cadde presto l’ipotesi di un nuovo grande stadio per il solo calcio alla Magliana o alla Romanina, proposta che avrebbe evitato l’ampliamento dell’Olimpico, un impianto architettonicamente riuscito ma più adatto all’atletica. Il vecchio stadio venne smontato e ricostruito modificando la copertura praticamente in corso d’opera per accontentare i Verdi, preoccupati forse più della loro visibilità come forza politica che della riduzione della visibilità del verde della Farnesina. Alla fine la visuale di Monte Mario rimaneva comunque intercettata e in parte compromessa da un ingombrante manufatto costituito da un gigantesco bianco «copricapo» di tubi intersecati, mentre gli otto divaricati piloni previsti dal progetto originario per reggere i sottili tiranti della nuova copertura avrebbero offerto una soluzione scenografica più leggera e paesaggisticamente più accettabile3. Alle spalle del Foro italico le Ferrovie avevano previsto due stazioni, quella di Farneto (Olimpico-Farnesina) proprio sopra lo stadio e quella di Vigna Clara (all’incrocio tra Flaminia e Cassia), entrambe abbandonate immediatamente dopo i campionati. Così come fallimentare si rivelò la grandiosa costruzione di un Air terminal ferroviario accanto alla stazione Ostiense, viziato da carenze strutturali, presto superato dal prolungamento della linea ferroviaria e abbandonato a un destino tuttora incerto. Il fallimento della progettazione della città a Roma non era che un tassello del più generale fallimento della progettazione urbanistica e architettonica in Italia e la conseguenza spesso diretta del peso sempre maggiore assunto dal sistema delle tangenti, che regolava le relazioni fra politici e imprenditori anche in questo settore. La profonda crisi della politica come amministrazione virtuosa si accompagnava anche a un generale smarrimento nella riflessione sulle prospettive della città. Una parte dei migliori progettisti appariva, almeno agli occhi dei profani, come impaniata in una sterile produzione di architettura disegnata, avulsa da ogni impegno e possibile intervento concreto: più votata a capire e talora a reinventare la forma urbis, come nel caso della rilettura del 347

centro politico della capitale compiuta nel 1987 da Franco Purini, il più acuto e rappresentativo esponente di quella generazione4. Vittime, quegli architetti, di una nostalgia del principe, del grande committente o del grande mecenate, poco disposti a misurarsi con le forze reali, a proporsi politicamente, a ricercare e a elaborare criteri, e quindi individuare beneficiari, di una collaborazione con il profitto e la rendita dell’edilizia. Pronti invece ad estenuarsi nelle rêveries di città immaginate5. Questa divaricazione rappresenta uno degli elementi più sintomatici dello scollamento fra sviluppo urbano e cultura della città, una lacerazione nel confronto di idee e di programmi che tarda ancora a ricomporsi. Tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta la città reale vedeva riesplodere con forza rinnovata la gara degli interessi in cui erano largamente coinvolti i politici locali. Sul terreno erano sempre in gioco i grandi interventi di edilizia residenziale economica, settore nel quale, dopo l’abbandono dei grandi accordi patrocinati dalla giunta di sinistra, l’assessore all’Urbanistica, il democristiano Antonio Gerace, «si propone[va] di fatto come arbitro (non disinteressato) di eventuali nuovi accordi, ovviamente da stabilire ‘caso per caso’, secondo una tradizione da troppo interrotta»6. Nei primi anni Novanta vennero alla luce innumerevoli episodi di corruzione, favoritismo, uso improprio del potere politico, tutti a carico di esponenti democristiani, socialisti, socialdemocratici o di funzionari del Comune7. Anche il Pci partecipava ai grandi disegni di spartizione degli appalti. La stampa cittadina era protagonista di un’opera di denuncia e anticipava in molti casi la magistratura (particolarmente vivace la cronaca della «Repubblica»)8. Che ormai la politica e i partiti fossero attraversati da una crisi inarrestabile era evidente da tempo. In un convegno promosso da cattolici politicamente impegnati tenuto nel marzo 1990 per riflettere sulla situazione e ricominciare a Pensare politicamente a Roma, il sociologo Michele Dau lamentò i gravi limiti del ceto dirigente locale dominato da «figure di tipo tribunizio, pseudo-tribunizio» e la sottorappresentazione del mondo industriale e produttivo della società civile9. Mentre Francesco D’Onofrio, tratteggiando un cauto e contorto bilancio, osservava che a Roma la 348

Dc, pur dominata dalla presenza di un leader di spicco come Andreotti, non era più all’altezza dei suoi compiti. Il presidente Andreotti riassume in sé le tre dimensioni – locale, nazionale e universale – ma è una persona. Il partito non si è modellato su questa tridimensionalità, vive schizofrenicamente o la dimensione nazionale (i commissari si succedono ogni tanti anni) o il puro degrado locale (il partito diventa occulto scompare alla visibilità nazionale e diventa realtà separata, puramente comunale o circoscrizionale) e mai la dimensione universale10.

La percezione di una caduta verticale dei princìpi ispiratori generali della politica come tutela dell’interesse collettivo accentuava ulteriormente la ricerca delle garanzie offerte dal sistema del privilegio, attivato prevalentemente dal personale politico e burocratico. La città esprimeva un tessuto di relazioni complesse il cui modello regolatore in questa fase era la trasformazione delle aspirazioni sociali in garanzie permanenti, risultato non di un confronto sul terreno dei meriti comparativamente attestati, ma prodotto all’interno di uno scambio che innesca o conferma un privilegio. In una città dominata dalle funzioni pubbliche o parapubbliche, dispensatrici di status tendenzialmente permanenti, la riduzione delle risorse disponibili rendeva più frammentaria la contesa e più conflittuali le aspirazioni degli esclusi. L’alternativa inclusi/esclusi dal novero dei benefici diventava uno dei motori dominanti del sistema delle relazioni sociali. L’area investita dal sistema dei privilegi non copre solo le possibilità di impiego nei settori non regolati da procedure formalizzate (come quelle dei concorsi), dove pure vengono sistematicamente attivati canali di conoscenza e di protezione, ma si estende all’ambito amplissimo delle sanatorie di ogni forma di precariato, nonché a quel largo ventaglio di posizioni tutelate, di stipendi e indennità speciali, di sinecure di cui il potere pubblico in Italia è prodigo dispensatore: aprendo accessi occulti e separati in uno stile che ricorda talora più le modalità d’ancien régime che la trasparenza di una democrazia. Ulteriore e specifica area di sostanziosi privilegi, a cui sulla carta dovrebbero corrispondere più alte professionalità verificate al momento dell’accesso, è quella delle grandi istituzioni statali, Camera, Senato, Presidenza della Repubblica o di altre come la Ban349

ca d’Italia e le più recenti authority di controllo. Senza entrare nel merito dei piccoli numeri delle alte cariche, ma prendendo in esame solo la fitta trama dei funzionari, impiegati di vario livello, operai, commessi, uscieri, è arduo ipotizzare una distribuzione così capillare di professionalità speciali da giustificare livelli di retribuzioni che possono essere doppi e tripli (senza contare numerosi altri benefits) rispetto a quelli dei pari funzioni in altri settori dell’amministrazione pubblica. Un bibliotecario di livello medio della Camera dei deputati, per fare solo un esempio, può percepire uno stipendio più che doppio di quello di un bibliotecario della Nazionale a livello dirigenziale e pari a quello di un professore ordinario delle università. Per quanto dotati di normative speciali che consentono a questi organismi forme estese di autoregolamentazione, appare evidente una diffusa, per quanto legittima, alterazione dei princìpi di equità. L’università, per parte sua, consente, come è noto, a chiunque ne sia membro di ritagliarsi stili di disimpegno molto accentuati e di far convivere altre attività tanto in campo scientifico che professionale, anche andando oltre i vincoli fissati per legge. È una situazione diffusa in tutta Italia, ma Roma, con tre grandi università statali e numerosi atenei privati, offre molte più possibilità tra cui quella, largamente praticata, di essere docente in un’università pubblica e contemporaneamente in una privata sua potenziale concorrente. E la confusione tra pubblico e privato si ripete largamente nel settore sanitario. La grande capitale offre innumerevoli nicchie, protette e talora invisibili, annidate nelle istituzioni culturali, nelle fondazioni, con congedi praticamente permanenti offerti dallo Stato, con una congerie di doppi lavori, part-time veri o presunti, consulenze, collaborazioni. La Rai-Tv è stata per anni una delle maggiori dispensatrici di questo tipo di occasioni. Sarebbe ingiusto oltre che errato immaginare questo sistema solo come un coacervo di parassitismi. Ha consentito invece di dare maggiore elasticità a strutture irrigidite dalla burocrazia e ha favorito la formazione di nuove professionalità. Ma difficilmente è riuscito a espungere i meno capaci e più immeritevoli, soprattutto se inseriti in qualche rete di protezione politica e/o clientelare. Fenomeni di costume, si dirà, ma non per questo meno rilevanti per illustrare un carattere specifico della capitale dove ope350

rano fitti intrecci di grandi e piccole complicità. È in fondo la forma precipua di autodifesa del corpo sociale di fronte al rischio drammatico della selezione per merito. Ne sono protagonisti figure diverse, politici nelle varie accezioni, manager, burocrati, «baroni» universitari. Il loro sistema di relazioni, prevalentemente informale, la loro caratteristica di attivatori di reti fondata su meccanismi di promessa/attesa di scambio individuano le trame complesse dei poteri reali in città. Singoli aspetti di questo sistema di privilegi sono stati oggetto di sporadiche incursioni e denunce della stampa11. E non è un caso che uno dei temi privilegiati in una città come Roma fosse quello, ancora e sempre, della casa. Soprattutto dopo che la legge sull’equo canone del 1978, introducendo un calmiere, aveva sottratto al mercato gli alloggi in affitto e fatto esplodere la domanda di case in proprietà per i ceti medi e medio-alti. L’offerta nelle zone centrali era ormai limitata dopo l’avvenuta sostituzione dei vecchi strati popolari con i ceti affluenti, mentre si avviava a saturazione in quelle semicentrali, dove, per una forma di estremo conservatorismo, non si poteva abbattere e ricostruire neppure nelle zone più degradate. Entravano sul mercato, e a costi crescenti, solo gli alloggi che si liberavano per un ricambio generazionale. L’uscita di scena, alla metà degli anni Settanta, dell’Immobiliare già abbandonata dal Vaticano e travolta dagli scandali del banchiere Sindona, aveva ridotto l’offerta di un’edilizia di qualità, né sulla scena romana si affacciavano imprenditori in grado di realizzare città-satellite residenziali come quelle costruite a Milano da Silvio Berlusconi. Gli appartamenti di qualità erano un bene raro e costoso, ma non per i politici, i sindacalisti e i loro clienti, di centro e di sinistra, che erano favoriti da assegnazioni privilegiate degli alloggi dello Stato, degli enti pubblici e del Comune a prezzi di equo canone, praticamente inesistenti sul mercato libero. L’abuso, o meglio, il privilegio venne denunciato dalla stampa a più riprese a partire dal 199112. Non si trattava quasi mai di illegalità, ma non per questo il fenomeno fu avvertito come meno odioso. Quanto fosse ormai distorta la questione della casa era dimostrato sul fronte opposto, fra i gruppi sociali più poveri, dove operavano altre forme di ingiustificati privilegi. Come ebbe a ricordare un giornalista fra i maggiori conoscitori dei problemi urbanistici della città, Francesco Perego, dei 10.000 alloggi consegna351

ti dall’Iacp nel periodo 1984-1993, soltanto 1000 erano andati «a famiglie selezionate attraverso i bandi di assegnazione». Tutti gli altri erano stati «occupati abusivamente da gente che, se pur ne aveva altrettanto bisogno, non aveva però trovato modo di vederselo riconoscere attraverso le procedure di selezione»13. È del tutto comprensibile come il piccolo e grande abusivismo per ogni ceto sociale abbia continuato a imperversare allora e in seguito nel pieno rispetto della logica del privilegio conquistato e poi riconosciuto legalmente come tale dai successivi condoni. Una correzione spontanea di meccanismi così rodati, funzionali e consensuali non poteva procedere da una società civile sempre più disaggregata e in sintonia con il sistema e le tutele offerte dai meccanismi clientelari. Nel pieno delle inchieste di Tangentopoli, nella primavera del 1993, come reazione in extremis di una classe politica che comprendeva la necessità di rivitalizzare il rapporto con gli elettori, venne varata la nuova legge per l’elezione diretta del sindaco nei grandi comuni, che rafforzava la posizione del vincitore con un premio di maggioranza. In molte grandi città si votò già in quella primavera, ma non a Roma dove la crisi strisciante della giunta Carraro si protrasse a lungo e dove cominciò ad emergere la candidatura del verde Francesco Rutelli in sostituzione del sindaco in carica promossa dal Partito democratico della sinistra (ex Pci). L’operazione non andò poi a buon fine, il Consiglio fu sciolto e il Comune commissariato. A Roma si sarebbe votato a novembre. 2. Verso un nuovo governo della città La campagna elettorale per Roma fu molto accesa. Rutelli era il candidato dei Verdi, del Pds, dei radicali della Lista Pannella e dei democratici e dei cattolici di centro-sinistra dell’Alleanza per Roma. In aprile Rutelli era stato nominato ministro per l’Ambiente nel governo Ciampi, ma il giorno successivo al giuramento si era dimesso per protesta contro il voto della Camera che aveva negato l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi. Questa decisione rafforzò la sua posizione nella sinistra romana, ancora incerta e combattuta di fronte alla parallela candidatura di Renato Nicolini, il popolare ex assessore alla Cultura. 352

La Dc, in piena crisi per le inchieste di Tangentopoli e priva di uomini nuovi, si risolse alla fine a presentare un candidato di ripiego, l’ex prefetto di Roma Carmelo Caruso. Mentre buone possibilità sembrava avere Gianfranco Fini, segretario del Msi, impegnato nel rinnovamento del suo partito e nella revisione dei tradizionali legami col fascismo. Fini rischiava tutto il suo prestigio in una battaglia non facile e in una città dove il Msi aveva perso gran parte dei suoi consensi. Divenne ben presto evidente che la scelta degli elettori si sarebbe concentrata su Rutelli e Fini, due politici giovani – 39 e 41 anni rispettivamente – e non compromessi con il diffuso sistema delle tangenti e dei finanziamenti illeciti messo in luce dalle inchieste giudiziarie di quei mesi. Per la prima volta la partita si giocò anche nel confronto diretto tra i due candidati in televisione, introducendo in Italia una prassi inconsueta, fondata sulla presenza scenica, l’abilità argomentativa e l’efficacia delle immagini trasmesse dal piccolo schermo14. Anche per queste ragioni l’elezione diretta dei sindaci rappresentò un momento di svolta nella politica italiana. Il 21 novembre Rutelli riportò il 39,6% dei voti, Fini il 35,8%: una differenza esigua, ma che rendeva assai probabile il successo di Rutelli al ballottaggio, grazie alla prevedibile confluenza dei voti che aveva ottenuto Nicolini (l’8,3%) sostenuto da Rifondazione comunista. L’ex prefetto Caruso si fermò all’11%. Nel voto espresso a favore dei singoli partiti, che poteva essere separato da quello per il candidato sindaco, la Dc scese al 12,2%. Il Pds ottenne il 18,2%, i Verdi, trascinati da Rutelli, il 10,6%, Rifondazione il 7%. Un vero trionfo arrise al Msi, passato dal 6,8% delle comunali del 1989 al 31%, che ne faceva di gran lunga il primo partito in città15. Nel turno di ballottaggio, previsto dalla legge dopo due settimane, Rutelli vinse con il 53,1%. Fini superò il rivale solo nelle circoscrizioni XVIII (Aurelio-Boccea), II (Parioli-Trieste) e XX (Cassia-Flaminia) dove ottenne con il 54,3% la percentuale più alta. Rutelli riportò i risultati migliori nelle circoscrizioni orientali e in particolare nella V (Tiburtino) dove raccolse il 59,6% dei voti16. Rutelli si ripresentò alle elezioni dopo quattro anni: la legge consente infatti di esercitare due mandati consecutivi. Questa volta la vittoria fu assai più agevole. Il sindaco in carica poteva vanta353

re una serie di successi e di consensi: aveva consolidato i rapporti con le varie espressioni della sinistra, con i cattolici e con la S. Sede, si avvantaggiava della presenza di un governo nazionale di centro-sinistra, era ormai designato a guidare la città al grande appuntamento del Giubileo del 200017. Inoltre il candidato di centro-destra, Perluigi Borghini di Forza Italia, era un avversario debole. Rutelli vinse al primo turno con il 60,4% dei voti. Tra i partiti del suo schieramento il Pds ottenne il 22%, Rifondazione comunista l’8,8%, la Federazione dei verdi il 6,5% i popolari il 5,5%18. Un buon risultato (7%) riportò la Lista civica per Rutelli, che vide scendere in campo professionisti, manager, sportivi e anche qualche bella signora, tanto da meritarsi la definizione di «Lista beautiful». La frammentazione delle formazioni che sostenevano Rutelli avrebbe in seguito imposto una serie di aggiustamenti degli incarichi di giunta fino quasi alla scadenza del mandato. Scadenza che fu anticipata perché Rutelli, grazie alla notorietà e al prestigio raggiunti, sarebbe stato designato leader dell’alleanza di centro-sinistra per le elezioni politiche del 2001, vinte da Silvio Berlusconi. Tra i partiti dell’opposizione Alleanza nazionale (erede del Msi, ma con importanti confluenze di ex Dc) con il 24,1% non ripeté lo straordinario risultato del 1993 e neppure quello delle politiche del 1996, quando aveva ottenuto il 31,4%. Forza Italia con i Cristiani democratici uniti si fermò al 10,1%. Il nuovo sistema elettorale conferiva ai sindaci una maggioranza solida e la possibilità di impegnarsi, se confermati, in un programma di lunga durata. Nei suoi due mandati Rutelli mantenne alcuni uomini chiave negli assessorati più importanti: Walter Tocci, prosindaco, alle Politiche della mobilità, ossia al traffico, Domenico Cecchini alle Politiche del territorio, ossia all’urbanistica, Gianni Borgna alle Politiche culturali e allo sport: una scelta che garantì una notevole unità di indirizzo in questi settori. Il programma presentato nel 1993 dal candidato Rutelli, Progetto per Roma, era un ambizioso piano di rinnovamento e di rinascita urbana fondato su una decisa rottura con il passato19. Del resto la situazione di partenza era disastrosa, oltre che per i diffusi fenomeni di corruzione, per l’abbandono da molti anni di ogni tentativo di ricondurre gli interventi sulla città a un disegno d’insieme, frutto anche della povertà e rigidità del confronto politico e culturale. 354

Misurare i risultati di quasi otto anni in termini di successi e insuccessi rispetto ai programmi originari non è sempre agevole e forse neppure corretto: molte innovazioni erano ancora in itinere e se il loro avvio poteva essere considerato come un segno inequivocabile di cambiamento, la lentezza delle realizzazioni ne limita la valutazione positiva. Luci e ombre tendono a confondersi. Così l’elenco dei progetti avviati coincideva spesso con l’inventario dei problemi rimasti aperti. Alcuni risultati appaiono tuttavia incontrovertibili: rinnovamento del personale politico, trasparenza dell’amministrazione, apertura alle competenze della società civile, attenzione alle esigenze dei cittadini nel rapporto con la burocrazia. Cambiò lo stile di governo e Rutelli restituì prestigio alla città. La nuova personalizzazione della politica, ormai diffusa in tutto il paese dopo il crollo dei partiti storici, e l’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci, imposero anche al sindaco di Roma, che aveva ambizioni politiche più ampie, un controllo sulla visibilità e credibilità del suo ruolo, cui attese con misurata accortezza, riuscendo a trasmettere l’immagine dell’artefice di un grande processo di trasformazione della città. Grande attenzione venne prestata alle risorse finanziarie per la capitale che risultava penalizzata nei trasferimenti pro-capite rispetto alle altre grandi città, mentre fu avviata la parziale privatizzazione e la quotazione in Borsa dell’azienda municipalizzata Acea. Grazie a un pullulare di idee e di operatori, la vita culturale pubblica della città riprese grande vivacità con la creazione di nuovi spazi e coinvolgendo altre istituzioni pubbliche e private nel nuovo clima (pur con qualche cedimento sul piano della qualità). Ne furono investite la cultura alta, quella popolare e finanche quella alternativa dei centri sociali, cui venne riconosciuto un autonomo spazio e ruolo nelle periferie20. Ma se si guarda ad alcuni punti nodali del programma di rinnovamento risulta evidente che i ritardi e le consuete inefficienze del sistema, non tutti imputabili all’amministrazione capitolina, rimasero tali da vanificare parte consistente degli obiettivi e da rendere sempre meno credibile quella politica degli annunci che rappresenta uno dei limiti più gravi della ricorrente necessità di trovare ascolto nei mass media. La soluzione ai problemi del traffico era al primo posto tra le aspettative dei romani all’indomani delle elezioni del 199321. Il 355

trasferimento in zone al margine della città, non servite da mezzi pubblici veloci, di grandi complessi di uffici (decisioni legate non a una programmazione urbanistica, ma alla convergenza di interessi fra proprietari di aree, costruttori e grandi società o enti pubblici) aveva in parte alleggerito la densità del traffico nelle aree centrali, ma reso molto difficile quella nei settori semicentrali e periferici, sulle consolari e lungo il Grande raccordo anulare. La rigidità del mercato immobiliare e l’alto numero delle case in proprietà spesso gravate da mutui o da vincoli di inalienabilità non favorivano gli spostamenti di domicilio in rapporto al luogo di lavoro: soluzione del resto difficilmente praticabile quando nei nuclei familiari fossero presenti più individui impegnati in un’attività lavorativa. Tutte condizioni che mantenevano elevatissimo il disagio dei cittadini obbligati a lunghi e costosi percorsi con la propria auto, o ad ancora più lunghi e disagevoli, ma almeno economici, spostamenti con i mezzi pubblici. Con grande fatica, ma con altrettanta determinazione, venne introdotta la tariffazione oraria della sosta nelle zone centrali e in alcune al di fuori delle mura aureliane (Prati, Pinciano). Nuovi tram, autobus e la creazione di nuove linee veloci su gomma e su rotaie hanno ridotto i tempi di spostamento sulle lunghe distanze, ma la corrispondente riduzione delle linee minori ha imposto agli utenti frequenti trasbordi non agevolati dall’esistenza di un piano orario dei passaggi. Nonostante questi importanti elementi di razionalizzazione, Roma rimane ancora l’unica grande capitale europea in cui non è consentito al pubblico di conoscere, salvo in qualche caso22, le frequenze e gli orari di transito dei mezzi pubblici. La mancata comunicazione degli orari, derivante dalla manifesta incapacità dell’azienda di farli rispettare, determina due ordini di svantaggi: per il pubblico di non poter programmare i propri tempi di spostamento e dunque di dover preferire il mezzo privato, per l’Atac la necessità di compensare gli utenti mantenendo un costo demagogicamente basso dei biglietti. Di qui l’esplosione dell’impiego dei ciclomotori e scooter per le medie distanze e ad opera di un pubblico non solo giovanile. Lo stesso Rutelli si era presentato del resto come il sindaco in motorino. Lo sviluppo della metropolitana intanto procedeva a rilento. Nel 1999 era stato inaugurato il prolungamento a nord-ovest della linea A, mentre tra 2000 e 2001 veniva reso possibile lo scam356

bio alla stazione di Valle Aurelia tra la metro e la linea per Viterbo, trasformata in ferrovia urbana. Il sistema dei trasporti era divenuto, finalmente, uno dei criteri ispiratori del nuovo piano regolatore, varato in giunta nel 2000 ma rimasto senza l’approvazione definitiva del Comune (e di tutti i passaggi successivi) alla scadenza del mandato di Rutelli. Si prevedeva infatti che si potessero costruire nuovi quartieri solo se serviti da comunicazioni su ferro. Il piano prevedeva quattro linee metropolitane rispetto alle due esistenti. La linea C, con partenza da Pantano sulla Casilina e arrivo a Clodio-Mazzini avrebbe attraversato il centro dal Colosseo, all’Argentina, a S. Pietro. La quarta linea (D) insieme a una diramazione della B avrebbero raggiunto i quartieri di nord-est, tuttora privi di sotterranea. Un rafforzamento del sistema di grandi tangenziali, una circonvallazione più interna al Grande raccordo anulare, l’altra più esterna tra Tiburtina e Appia, fornivano l’alternativa per il traffico automobilistico privato, già fortemente disincentivato dalla messa in pratica della «cura del ferro» basata sulla realizzazione delle metropolitane e sull’integrazione con il sistema ferroviario urbano e suburbano23. La Roma prefigurata dal nuovo piano è demograficamente stabile. Tutto l’opposto dell’esplosione fino a oltre 5 milioni prevista dal piano regolatore del 1962 (tuttora paradossalmente in vigore lì dove non modificato dalle varianti). Una demografia numericamente ferma non comporta necessariamente l’interruzione della domanda di alloggi, che continua a provenire dalla nuova composizione dei nuclei familiari, con la diffusione delle coppie semplici, delle nuove convivenze, dei single. Si aggiunge la legittima aspirazione a case migliori che potrebbe collocarsi in edifici di nuova costruzione piuttosto che nella ristrutturazione (peraltro diffusissima) dei vecchi appartamenti. Che questa domanda fosse rimasta elevata era testimoniato dallo sviluppo di un quartiere non solo residenziale come il Torrino Sud, oltre l’Eur24. Come premessa del nuovo piano fu approvata nel 1997 una variante generale (il «piano delle certezze») che ridimensionava le nuove cubature consentite e istituiva 11 parchi regionali inseriti profondamente nella struttura a raggiera dell’espansione urbana25. In ossequio al principio fondamentale della tutela dell’ambiente, il cosiddetto sistema ambientale protetto si estendeva sul 68,2% del territorio comunale che rimaneva amplissimo, 129.000 ettari, an357

che dopo il distacco del comune di Fiumicino. Il 3% della superficie totale era attribuito alla città storica, il 13,8% alla città consolidata, il 6,3% alla città da ristrutturare e l’8,7% alla città della trasformazione, ossia la parte destinata alla nuova espansione sia residenziale che direzionale. In questo campo un ruolo decisivo veniva affidato ai privati, soprattutto nella realizzazione dei poli direzionali disseminati radialmente a conferma degli sviluppi reali della città. La vecchia ipotesi dello Sdo usciva definitivamente di scena perché, come spiegò uno degli ispiratori culturali del nuovo piano, Giuseppe Campos Venuti, «si è scelta una ‘centralità diffusa’, un’edilizia meno gridata, tante aree di pregio in periferia che accoglieranno uffici e serviranno a rigenerare zone degradate»26. Nel frattempo, a partire dal 1995, era stato avviato un programma di recupero e riqualificazione urbana di molti quartieri dell’estrema periferia ma anche in alcuni della periferia storica (Pigneto, Casalbertone) o centrali come l’Esquilino27. Con l’obiettivo, in gran parte riuscito dove i lavori sono stati portati a termine, di restituire qualità e fornire identità a zone degradate, con interventi di piccola scala spesso più efficaci, anche nel suscitare consenso fra i residenti, di quelli di scala maggiore. All’Esquilino stentava invece a chiudersi l’annosa questione dello spostamento del popolare mercato da piazza Vittorio in uno spazio contiguo (poi realizzato nel settembre 2001), mentre era in corso la ristrutturazione e riqualificazione di tutta la zona tra la piazza e la ferrovia. Il piano prevedeva un incremento complessivo di 450.000 stanze circa derivanti per quasi la metà da diritti acquisiti. Poco meno del 50% veniva destinato alla residenza. Dal momento che il diritto di edificabilità una volta concesso non poteva essere revocato se non con l’esproprio, procedura lunga e costosa, l’amministrazione si avvaleva del criterio della perequazione urbanistica sostitutiva. Lì dove si prevedeva di introdurre nuovi vincoli si garantiva al proprietario di poter costruire altrove. Questo sistema si piegava di fatto alla pressione di comitati di quartiere e di forze politiche impegnati ad una difesa integrale del verde e ostili ad ogni forma di edificazione anche parziale. Esemplare al riguardo è la vicenda di Tor Marancia, un vallone di oltre 200 ettari tra le vie Ardeatina e di Grotta Perfetta nel quale era stato progettato (da Vittorio Gregotti) un intervento per 14.000 abitanti largamente dotato di servizi come asili, scuole, centri anziani, cen358

tro commerciale e con una larga e compatta estensione di parco pubblico attrezzato di 105 ettari. La proposta era faticosamente passata in Comune, nonostante l’opposizione di Verdi, Rifondazione e Alleanza nazionale quando nel gennaio 2001 la Soprintendenza archeologica poneva il vincolo integrale sull’intera area28. Alle riserve di sinistra e ambientaliste si aggiungevano dunque anche quelle di Alleanza nazionale, il partito che in altra parte della città si era segnalato per la sua opposizione alle demolizione degli edifici abusivi29. Si riproponevano così due nodi rimasti irrisolti negli anni della gestione Rutelli: quello dei rapporti con l’imprenditoria edilizia, la cui operatività veniva prima favorita poi interdetta, e quello con la Soprintendenza archeologica, protagonista nel frapporre ogni sorta di vincoli. Forse è inevitabile e anche giustificato che si debba aprire una riflessione pubblica sulla tutela e/o utilizzazione del verde. Tuttavia appare paradossale constatare come in una parte consistente dell’opinione pubblica si sia consolidata l’idea di una città immutabile che non può né deve più essere trasformata, nonché l’attribuzione del marchio dell’abuso o dell’arbitrio ad ogni intervento edilizio e architettonico che non sia pubblico o semipubblico. Quasi che gli spazi e i pregi di ogni città, e in particolare della città italiana, non derivino piuttosto dall’ambiente urbano e solo indirettamente dall’interagire con la natura e il verde. A questa situazione, che non ha eguali altrove, ha contribuito una particolare declinazione della cultura urbana, contrassegnata a Roma dal dilatarsi di quello che nel tempo si è costituito come il «partito archeologico» e dalla coincidente atonia cronica, dal «sonno» dell’architettura. Negli anni di Rutelli i rapporti con la Soprintendenza archeologica di Roma, diretta da Adriano La Regina, dotata di suoi precipui strumenti giuridici di intervento, rimasero costantemente conflittuali, segnati da sospetti, sotterfugi, indebite scorciatoie e da defatiganti contrasti, premessa in molti casi di soluzioni comunque insoddisfacenti. Come nel caso dei ritrovamenti di materiali antichi e di affreschi romani (poi asportati) durante gli scavi del parcheggio sotterraneo con accesso dalle rampe del Gianicolo, dalla galleria Principe Amedeo e dal sottostante sottopasso: nel dicembre 1999 esplosero infinite polemiche, seguite dall’interruzione dei lavori, dagli interventi del governo perché erano in gio359

co i rapporti con la S. Sede, infine dalla ripresa degli scavi per concludere con la finale larga sottoutilizzazione dell’opera30. Un andamento dei rapporti, quello tra il Comune e la Soprintendenza, che metteva in luce un evidente conflitto di poteri e di competenze ancora lontano dall’aver trovato quegli indispensabili nuovi equilibri che il particolare carattere della città esige. Tra i meriti dell’amministrazione Rutelli va riconosciuto quello di aver ridato slancio alla progettazione architettonica, di aver contribuito al «risveglio» dell’architettura31. Oltre a una serie di iniziative su piccola scala, tra cui i concorsi e poi le prime realizzazioni delle «Cento piazze» e il recupero delle periferie e delle zone degradate, sono stati promossi alcuni grandi progetti come quello per l’Auditorium e la sistemazione dell’Ara Pacis, affidata all’architetto americano Richard Meier, che realizzò anche la chiesa a Dio Padre Misericordioso nel quartiere periferico di Tor Tre Teste. Questo nuovo clima favorì l’espletamento di altri importanti concorsi, come quello per il Centro per le arti contemporanee, promosso dal ministero per i Beni Culturali (1998-1999), vinto dalla irachena Zaha Hadid, quello del Centro Congressi Italia bandito dal Comune di Roma e dall’Ente Eur (1998-2000), vinto dall’italiano Massimiliano Fuksas e quello della nuova stazione Tiburtina (20012002) aggiudicato a Paolo Desideri e al suo gruppo32. La vicenda dell’Auditorium è l’esempio più emblematico del declino dell’architettura pubblica nella capitale dopo gli anni del fascismo (fatta eccezione per il completamento della stazione Termini e per gli impianti sportivi delle Olimpiadi). Nel 1937, dopo lo smantellamento dell’Augusteo (la sala da concerti collocata sul mausoleo di Augusto)33, la stagione musicale dell’Accademia di S. Cecilia era stata trasferita all’Adriano, poi al teatro Argentina infine, dal 1958, all’Auditorium Pio XII di via della Conciliazione. Ma già nel 1934 era stato bandito un concorso per il nuovo auditorium da collocare nell’area all’inizio della Passeggiata archeologica, dove ora sorge il palazzo della Fao: furono premiati ex aequo sei progetti, ma non fu proclamato un vincitore. Nel dopoguerra fu scelta una nuova area, quella del Borghetto Flaminio sotto la rupe di Villa Strohl-Fern. Si tenne un nuovo concorso in due fasi (tra il 1949 e il 1951) e al gruppo dei vincitori ex aequo fu richiesto di elaborare un progetto finale che fu giudicato positivamente dalla giuria, ma mai realizzato. Il problema si ripropose all’inizio degli 360

anni Novanta, ma l’area del Borghetto, ingombra di varie attività (concessionari d’auto, officine, bocciofile, studi di artisti) pareva difficile da liberare in tempi rapidi. Emerse allora l’alternativa di destinare all’Auditorium una vasta area sotto Villa Glori, accanto al Villaggio olimpico34. Dopo un concorso ad inviti la realizzazione dell’Auditorium (tre sale per 2700, 1000 e 500 posti) fu affidata a Renzo Piano, il più noto architetto italiano del momento. I lavori procedettero però a rilento non solo per il ritrovamento di una villa romana al di sotto dell’area, ma per infiniti contrasti sulle inadempienze delle imprese, sulle reali o presunte imprecisioni del progetto esecutivo fino alla rescissione del contratto con le società appaltatrici e una nuova gara di aggiudicazione35. L’edificio, simbolo del rinnovamento architettonico e culturale della città, non fu inaugurato né nel 1999, né nel 2000 (ma il 21 aprile 2002). Un altro scacco per Rutelli fu di non essere riuscito «a portare a Roma le Olimpiadi del 2004, che avrebbero coronato un decennio di trasformazioni della città», come il sindaco stesso ebbe a scrivere accomiatandosi dai concittadini nel gennaio 200136. Il progetto Olimpiadi aveva suscitato molte riserve in parti consistenti dell’opinione pubblica, così come molte perplessità sollevava l’impegno del Comune e dello Stato per il Giubileo del 2000. Nell’organizzazione del grande evento religioso l’amministrazione si riscattò, anche se molti dei maggiori progetti previsti o annunciati per il 2000 – e in primo luogo la realizzazione della linea metropolitana Colosseo-S. Pietro – furono abbandonati37. A una visione più concreta mirò l’Agenzia romana per il Giubileo, guidata da Luigi Zanda38: di fronte alla prevedibile mancata conclusione di alcune grandi opere puntò sugli investimenti destinati a rafforzare le capacità di accoglienza della città, con finanziamenti per il rinnovamento degli alberghi e la riconversione delle case religiose. L’anno giubilare era peraltro iniziato con un disastro organizzativo. Per il 31 dicembre 1999 in molte piazze della città erano stati previsti spettacoli e fuochi d’artificio per celebrare il passaggio (anticipato e virtuale) del secolo e la fine del millennio. Scavalcando tutte le previsioni la città si era venuta riempiendo già dal pomeriggio. Oltre ai romani e ai moltissimi turisti e pellegrini, torme di giovani erano confluiti da tutta la regione e anche da più lontano per passare l’ultimo dell’anno a Roma. Dopo mezza361

notte si scoprì che il deflusso era praticamente impossibile. Mancavano i mezzi pubblici che avevano sospeso il servizio alle 21, le auto rimasero bloccate in tutto il centro, centinaia di migliaia di persone dovettero spostarsi a piedi per lunghissimi tragitti39. Nei mesi successivi l’organizzazione migliorò. Il piano pullman funzionò, riuscendo a tenere al margine della città i torpedoni dei pellegrini obbligati a utilizzare gli autobus urbani delle nuove linee J per i collegamenti con S. Pietro e le altre basiliche. Nel frattempo la città si era abbellita, erano stati restaurati molti palazzi centrali, le piazze principali e quelle antistanti le basiliche. La stazione Termini fu interamente rinnovata. Si raggiunse un livello di decoro urbano fino allora del tutto sconosciuto: risultato a cui parteciparono anche i privati con ritinteggiature e restauri40. Il Comune apprestò e urbanizzò un grande spazio a Tor Vergata dove la sera del 19 agosto si tenne il grande incontro del papa con i giovani. Due milioni, disse il pontefice e confermò la stampa, ma calcoli più attendibili elaborati negli ambienti dell’Agenzia fanno ritenere che le presenze fossero di 700-800.000, cifra comunque enorme. Roma si era svuotata, non solo per le ferie estive, ma anche in previsione del Giubileo dei giovani che si concentrò fra il 15 e il 20 agosto. Al solito aspetto innaturale della città a ferragosto si aggiunse allora un «brusio sterminato»41, quel continuo calpestio e vociare pacato, spezzato da canti dei gruppi di giovani di innumerevoli provenienze. Fu l’evento culminante del Giubileo. Su tutt’altro piano il 2000 registrò anche un appuntamento politico importante. In aprile si era votato infatti per le regionali. Dopo cinque anni di governo di centro-sinistra vinse il centro-destra, portando alla presidenza della regione Francesco Storace di Alleanza nazionale, che impose una gestione dinamicamente spregiudicata in aperto contrasto con l’amministrazione comunale. In città il centro-destra si era affermato in 12 delle 19 circoscrizioni e il successo sembrava dare fondamento a questa politica42. Primo partito, ma in lieve calo, era ancora Alleanza nazionale con il 25,6% seguito dai Ds con il 22% e da Forza Italia con il 19,7% entrambi in ripresa rispetto alle europee dell’anno precedente. Se questi erano i rapporti di forza in città, le elezioni per il rinnovo del sindaco, che si sarebbero tenute il 13 maggio 2001, in contemporanea con le politiche, non si presentavano agevoli per il centro-sinistra. L’eredità di Rutelli rappresentava un credito 362

positivo e un viatico per il nuovo candidato di centro-sinistra. Ma era ormai evidente come fosse indispensabile presentare una personalità di spicco dal momento che il prevedibile successo di Berlusconi nelle elezioni politiche avrebbe fatto da traino al centrodestra. Il segretario nazionale dei Ds, Walter Veltroni, romano e radicato nella città, presentò la propria candidatura avviando un confronto che si rivelò non facile né scontato con Antonio Tajani di Forza Italia. Al primo turno Veltroni ottenne il 48,3%, Tajani il 45,1%, ma la coalizione di centro-destra riportò il 49,5% dei voti, mentre il centro-sinistra raggiungeva solo il 45,6% dei suffragi. Era evidente che la capacità di attrazione di Veltroni andava ben oltre il suo stesso schieramento. Perdevano invece voti tutti i maggiori partiti con Alleanza nazionale ancora al primo posto con il 21%, seguita da Forza Italia al 19,2% e dai Ds al 17,6%43. Nelle elezioni politiche tenute nella stessa giornata i candidati del centro-sinistra vinsero nettamente nei collegi uninominali per la Camera (17 a 7) e Rutelli riportò la percentuale più alta in città con il 56,4% al Prenestino-Casilino, mentre nei collegi senatoriali prevalse il centro-destra (6 a 5). Al ballottaggio del 27 maggio la forbice tra i due candidati si allargò leggermente e Veltroni vinse con il 52,2% dei voti. Il centro-sinistra ottenne anche 12 dei 19 presidenti dei nuovi municipi (corrispondenti alle vecchie circoscrizioni), rovesciando la tendenza manifestatasi nelle regionali dell’anno precedente44. Cinque anni dopo, il 28 e 29 maggio 2006, Veltroni vincerà le elezioni al primo turno con il 61,4% dei voti superando il già brillante risultato di Rutelli del 1997. Oltre 925.000 cittadini lo voteranno testimoniando un consenso diffuso per il sindaco in carica. Ma il quinquennio di Veltroni era iniziato in salita. 3. Consenso e partecipazione Dopo le elezioni del 2001 si era aperta infatti una stagione non facile per il nuovo sindaco impegnato a confermare e ampliare, soprattutto nei confronti dei ceti meno favoriti, gli ambiziosi programmi delle giunte Rutelli, mantenendo le aperture nei confronti della società civile, misurandosi con una regione e un governo 363

nazionale guidati ora dal centro-destra. Mentre si trattava di verificare l’efficacia operativa delle nuove larghe autonomie attribuite ai municipi. Una struttura amministrativa che evidenziava anche sul piano politico-istituzionale le diversità e le complesse frammentazioni della capitale. Lo stile di governo di Veltroni rimase caratterizzato per tutto il quinquennio da una strategia dell’ascolto e della presenza: disponibilità ad ascoltare e conciliare le voci dissonanti, ma riportando sempre i nodi della politica al centro e alla figura del sindaco. Assistito, nei posti chiave, da amministratori capaci provenienti dai Ds come Roberto Morassut (Urbanistica), Marco Causi (Bilancio), Gianni Borgna (Cultura), dalla Margherita come Claudio Minelli (Casa e Patrimonio), da Rifondazione comunista come Luigi Nieri (Periferie) o dalle organizzazioni della società civile come Raffaella Milano (Politiche sociali), per citarne solo alcuni, Veltroni manteneva tuttavia un fermo controllo sulla macchina amministrativa, stemperando altresì le occasionali inquietudini dell’aula consiliare. Il consenso che veniva crescendo intorno al sindaco appariva dipendere non solo dalle scelte strategiche, ma soprattutto dai minuti interventi, spesso di mediazione, e da una larga visibilità concessa dai media. Questa prassi politica era arricchita e potenziata da un’idea di Roma che attribuiva alla capitale un forte e autonomo ruolo di intervento strettamente legato a una sua rinnovata funzione simbolica. Non sorprende quindi che la popolarità di Veltroni – risultato dell’attenzione a tutte le dimensioni del welfare, del favore di molte organizzazioni cattoliche e di una esplicita offerta ai cittadini di partecipare alla soluzione dei loro problemi – si sia tradotta, alla vigilia di una vittoria annunciata, anche in un aggregarsi intorno al suo nome di esponenti politici un tempo legati al centro-destra45. Del resto il logo per le elezioni del 2006 era «Walter Veltroni il sindaco di tutti». Da questo stile politico e da questo metodo di governo nasceva il «modello Roma». Pensavano e pensano, alcuni, che governare sia solo gestione del potere e del comando. Pensavano e pensano, altri, che governare sia solo questione di buona tecnica, e non anche di costruzione del ne364

cessario consenso sociale. Oggi il nostro metodo si chiama Modello Roma, si identifica con il clima di coesione sociale, di equilibrio e di fiducia che si respira nella Capitale del paese […]46.

Criticato duramente dalla destra, il modello si caratterizzava, secondo un rapporto del Censis, per uno sviluppo economico non solo nei settori del turismo e dell’intrattenimento, ma anche in quelli tradizionali dell’edilizia (con un aumento dell’88% delle abitazioni edificate tra 2001 e 2005) e per una crescita dell’occupazione, soprattutto femminile, superiore del 3,2% a quella del resto del paese. E in effetti la città esprimeva da alcuni anni maggiore competitività ed efficienza, sostenute da un’inconsueta vitalità e dalla «convinzione collettiva che valori quali la fiducia, l’affidabilità, l’utilità sociale, la creatività e l’impegno costituiscano una piattaforma di riferimenti comuni»47. Confermavano questa vitalità non solo i grandi successi delle notti bianche (iniziate nel 2003 con spettacoli ed eventi culturali che si susseguono lungo un’intera notte) e di altre forme di divertimento di massa (come il concerto di Elton John al Colosseo e ai Fori imperiali il 3 settembre 2005), ma anche la dinamica trasformazione di molti quartieri a cominciare dall’Ostiense, dove un ruolo trainante è affidato al campus diffuso dell’università Roma Tre48. Questo quadro positivo ha anche le sue ombre. Molti problemi tradizionali rimangono infatti irrisolti. Sul fronte della casa, accanto a limitate sacche di degrado e povertà estrema, si deve registrare l’uscita di scena dell’Iacp (oggi Ater, Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica) dal novero delle istituzioni votate alla costruzione di case popolari. Afflitta da un deficit gigantesco, l’Ater riesce appena a garantire gli aspetti essenziali della manutenzione. Né pare politicamente e amministrativamente percorribile la strada della redistribuzione degli alloggi di proprietà pubblica, non solo dell’Ater. Scrive il direttore dell’ufficio per la pianificazione urbanistica Daniel Modigliani: Pur avendo un patrimonio complessivo tra Comune e Ater di alloggi pubblici di circa 100.000 unità, si è da tempo rinunciato: alla loro gestione, reputata troppo difficile o troppo onerosa. Una politica incomprensibile di rinuncia e di spreco di risorse pubbliche che va avanti da molti anni. Se solo si potesse far conto sul ricambio fisiologico degli utenti, come si fa in tutti i paesi civili, si avrebbero per lo me365

no 5000 alloggi l’anno per far fronte alle emergenze abitative. Invece si rinuncia alla gestione, si svende e si cercano in emergenza alloggi da affittare o da comprare sul mercato49.

Con il risultato di avvantaggiare i costruttori privati, ma anche i destinatari degli affitti in caso di vendita successiva. Mantenendo gli alloggi pubblici o semi-pubblici in un sistema di possesso perpetuo non sempre giustificato da verificate e verificabili condizioni di disagio economico e sociale. Un altro problema ancora lontano da una convincente soluzione è quello dell’efficienza dei servizi pubblici di trasporto. In questo settore Roma continua a registrare, nonostante alcuni miglioramenti, un livello inaccettabile di arretratezza in rapporto alle ambizioni di confrontarsi alla pari con le altre grandi capitali europee. In una città votata alla comunicazione e alla socialità, gli spostamenti rimangono lenti e faticosi. Non viene rispettata la cadenza delle corse che possono ingiustificatamente rarefarsi o addensarsi in una costante imprevedibilità. L’uso del mezzo pubblico è spesso una scommessa, talora un’avventura, quasi sempre un disagio. E la situazione non è alleggerita dal servizio offerto dai taxi: oltre a godere del privilegio di essere pochi (e quindi spesso introvabili) hanno anche quello di poter avviare il tassametro al momento della prenotazione telefonica, al quale si aggiunge la prassi frequente di applicare arbitrariamente la tariffa più elevata a danno dei disattenti e degli sprovveduti, spesso stranieri. Le linee della metropolitana rimangono insufficienti e la realizzazione di nuovi percorsi ha tempi molto lunghi, nonostante il rilancio progettuale messo in atto negli anni recenti. La nuova linea B1 (piazza Bologna-via Conca d’Oro), per la quale si sono aperti i cantieri nel 2005 e l’entrata in esercizio è prevista nel 2009, si fermerà incongruamente al margine di un settore della città di oltre 200.000 abitanti senza attraversarlo. Anche la linea D, in fase di progettazione, giungerà a nord-est nel 2019, a via Ugo Ojetti, in un quartiere edificato negli anni Sessanta, lasciando fuori tutte le zone costruite nel cinquantennio successivo. L’amministrazione lamenta giustamente l’insufficienza dei finanziamenti pubblici e la disattenzione dello Stato per la sua capitale, una disattenzione accentuatasi con il centro-destra al governo del paese e della regione. La «cura del ferro» ha avuto così 366

un andamento «omeopatico» negli anni successivi alle accelerazioni imposte dal giubileo del 2000. Questi ritardi sembrano pregiudicare i tempi di realizzazione del nuovo piano regolatore approvato finalmente dal Consiglio comunale nel marzo 2006. I tracciati su ferro rappresentano infatti lo scheletro dello sviluppo della città secondo le nuove pianificazioni. L’altro elemento caratterizzante del piano regolatore è quello delle nuove centralità, urbane ma prevalentemente suburbane, la cui definizione ha segnato il lungo iter di approvazione. Delle diciotto centralità dieci sono già pianificate (Bufalotta, Pietralata, Polo Tecnologico, Ponte di Nona-Lunghezza, Tor Vergata, Ostiense, Eur-Castellaccio, Alitalia-Magliana, Fiera di Roma, Massimina) mentre otto rimangono da pianificare (Saxa Rubra, Ponte Mammolo, Torre Spaccata, Anagnina-Romanina, Acilia-Madonnetta, Santa Maria della Pietà, La Storta, Cesano)50. La scelta delle centralità (collocate in genere nelle aree destinate a servizi pubblici dal precedente piano regolatore e rimaste inedificate) nasce dalla convergenza di interessi pubblici e privati, una convergenza che caratterizza il piano e la politica delle amministrazioni Rutelli e Veltroni. In alcuni casi le centralità sono frutto dell’iniziativa immobiliare di grandi imprese (Bufalotta, Eur-Castellaccio, Anagnina-Romanina). In tutte devono essere presenti funzioni pubbliche accanto a quelle commerciali private, anche se i costruttori tendono a richiedere un aumento della quota destinata alle residenze per rispondere alla forte domanda del mercato. Il piano mantiene i princìpi della perequazione urbanistica sostitutiva o compensazione, di cui si è già detto, ed è nell’applicazione previsionale di questi princìpi che si sono combattute battaglie volte a ridurre le cubature. Le forze dell’estrema sinistra e gli ambientalisti, abbandonati gli obsoleti slogan contro la speculazione, hanno preferito innescare ora la polemica contro la rendita, un concetto nobilitato dall’aura lontana di Ricardo e Marx. Così nei giorni dell’approvazione del piano regolatore si è sentito parlare da un lato (da parte dei Ds) di sconfitta della rendita, dall’altro di vittoria della rendita. Semplificazioni propagandistiche e demagogiche entrambe che riposano ancora su una arretrata cultura urbana. Quasi si potessero espungere queste dinamiche economiche dalla crescita delle città, di tutte le città. Quasi si potesse immaginare ancora per 367

una città, e per la città di Roma in particolare, uno sviluppo legato prevalentemente all’intervento della mano pubblica. L’utilizzazione in chiave deprecatoria della categoria della rendita è tanto più paradossale se si pensa che la stragrande maggioranza dei cittadini di Roma sono proprietari almeno dell’alloggio in cui abitano e sono titolari quindi di posizioni di rendita confermate dal costante aumento dei valori sul mercato immobiliare. Per non contare quanti considerano la proprietà la principale aspirazione della loro dimensione urbana. Non è quindi agevole gestire la pianificazione quando si è costretti ad operare in presenza di queste contraddizioni. Ricordando tuttavia, come ha fatto l’assessore Morassut, che il 65% delle previsioni è già in attuazione e quindi che il nuovo piano sancisce per gran parte trasformazioni già compiute51. Si è scelto tuttavia di mantenere lo strumento del piano generale, rivelatosi macchinoso, inapplicabile e inapplicato in tutte le sue precedenti versioni, e di rinunciare a procedure più leggere come le trattative caso per caso adottate altrove, ad esempio a Milano. Fra gli addetti ai lavori serpeggia tuttavia una giustificata preoccupazione sulla possibilità di gestire i tempi e le priorità del percorso di attuazione e financo di riuscire a completare nel dettaglio una rappresentazione leggibile e fruibile di tutte le complessità del piano. Una scommessa cruciale sul versante della politica e della comunicazione politica. L’altra scommessa su cui in fine mandato si è pronunciato a più riprese Veltroni è quella della qualità. Da decenni a Roma non si faceva della buona architettura pubblica, ma le iniziative di Rutelli prima, di Veltroni poi hanno invertito la rotta suscitando tuttavia le aspre polemiche degli esclusi e di quel conservatorismo formale che sembra aver dimenticato la grande stagione dell’architettura romana dagli anni Trenta agli anni Sessanta. Polemiche esplose in modo anche demagogico e propagandistico in occasione dell’inaugurazione del museo dell’Ara Pacis di Meier nell’aprile 2006. Tutti segnali comunque di un ritorno dell’architettura al centro della discussione sulle trasformazioni della città. La battaglia sull’architettura ha interessato anche la fase finale di approvazione del piano regolatore. Per evitare l’ostruzionismo della destra si sono esclusi dalla tutela della città storica – ora estesa agli edifici più significativi degli anni Settanta – i grandi complessi Iacp come Corviale52, Vigne Nuove, Laurentino 38. In 368

clima pre-elettorale si è abbattuto l’ultimo degli undici ponti del Laurentino, luoghi progettati per la socializzazione del quartiere, ma trasformati per gran parte dalle occupazioni abusive in occasioni di drammatico degrado. La distruzione, richiesta a gran voce dalla destra anche per il gigantesco edificio di Corviale, non sembra davvero sia la via più efficace per realizzare i progetti di riqualificazione già in atto. La qualità dovrebbe divenire il criterio guida – e qui l’impegno appare di più difficile realizzazione – nell’edilizia residenziale e nei nuovi interventi direzionali alla periferia della città, dove tuttavia sono coinvolti alcuni degli architetti più noti della scena romana, da Paolo Portoghesi a Franco Purini a Gino Valle. Una periferia a cui è stata dedicata grande cura dall’amministrazione, premiata dal largo successo elettorale nei municipi esterni. Una periferia profondamente cambiata e in via di un’ulteriore veloce trasformazione alla ricerca di un’autonoma dimensione urbana. Se un tempo le borgate abusive e i grandi complessi dell’edilizia popolare definivano il confine con la campagna, oggi i segnali di modernità punteggiano il margine della città senza riuscire ancora a rimodellare il persistente disordine urbano. 4. Paesaggi urbani di inizio secolo La struttura radiale della città e la raggiera dei tanti possibili ingressi individuano percorsi di avvicinamento e paesaggi urbani sensibilmente diversi. Confrontato con le grandi aspettative che Roma continua a suggerire, l’arrivo è spesso deludente, talora sconfortante, e insieme rivelatore di tutti i confusi e articolati elementi che hanno segnato lo sviluppo e la modernizzazione della città negli ultimi decenni. Per chi giunge in treno da Firenze, lasciata la valle del Tevere dopo aver costeggiato la Salaria e superata la confluenza dell’Aniene, un breve percorso accompagnato da un tessuto urbano densissimo di palazzi e palazzine conduce, passando per la rimodernata stazione Tiburtina, direttamente a Termini con rapidi scorci di monumentali avanzi della Roma antica. Da sud, invece, si alternano ampi squarci della Campagna romana più classica, dolci ondulazioni verdi o bruciate a seconda delle stagioni, ritmate per lunghi tratti dagli archi degli acquedotti antichi, poi i tessuti fran369

tumati dell’abusivismo, del provvisorio o del dismesso, il retro di abitazioni popolari disordinato e délabré come ovunque, qualche apertura su un tessuto urbano più fitto all’imbocco della Casilina (parte degli anni Venti, parte ricostruito) dominato dall’alto della massicciata e, rallentando verso l’arrivo, l’apertura di piazza di Porta Maggiore, un segno forte della città antica. La città non ha una sua skyline moderna, non ha, salvo la cupola di S. Pietro, segni eminenti percepibili da lontano. Lo stesso «cupolone», con i suoi 136 metri53, è visibile solo all’interno della cerchia dei colli o da molto più lontano, dalle alture della Cassia, dai Colli Albani o dall’estrema periferia est, da dove si riesce a cogliere, in condizioni di particolare trasparenza dell’atmosfera, la dimensione di tutta l’area urbana. La grande mole del Vittoriano, con i suoi 81 metri misurati alle quadrighe, è posta in uno dei punti più bassi della città, partendo dalla quota dei 20 metri di piazza Venezia. La città monumentale, dominata dai tradizionali punti panoramici del Gianicolo, del Pincio, dell’Aventino o del Campidoglio54, sfugge invece alla visione di gran parte dei quartieri posti al di là del crinale dei colli storici, ma anche di quelli che si affacciano nella valle del Tevere a causa del denso tessuto edificato, che lascia poche vie di fuga allo sguardo essendosi sovrapposto con un’uniforme copertura ai ricorrenti saliscendi, ai crinali, ai valloni. Un mancato rispetto dell’orografia che aveva già suscitato uno sdegnoso resoconto di Cesare Brandi nel 1957: Questi palazzacci avanzano sulle colline come un esercito, non si curano d’orografia, non si curano di plasticare l’edilizia a quella che è la conformazione dei colli, come sempre era stato fatto, come richiede l’urbanistica più elementare55.

Da qui deriva la difficoltà di percepire il mosso andamento dei rilievi. Se è agevole cogliere l’evidenza della forte quinta collinare alla destra del Tevere con le quote subito elevate del Gianicolo e di Monteverde (a 85 e 71 metri rispettivamente) e quella assai più alta di Monte Mario (139 metri), cui si accompagnano ad ovest i crinali più bassi di Primavalle e di Torrevecchia (88 e 98-107 metri), è assai più arduo percepire gli andamenti in tutto il più ampio arco alla sinistra del Tevere. Rispetto alle quote di Porta Pinciana, piazza Fiume e Porta Pia, tra i 65 e i 62 metri, di piazza dei 370

Cinquecento a 60 metri, tutta la città da nord a sud-est tende prima a scendere, poi a risalire gradatamente, in alcuni punti più vicino al centro, in altri assai più lontano56. Bisogna spingersi fino al Nuovo Salario (Serpentara) e a Castel Giubileo a nord, a ridosso del raccordo anulare, per toccare i 67 metri, o a Tor Bella Monaca, molto più a est, per raggiungere i 75 metri; alla borgata Finocchio, lungo la Casilina, si arriva a quasi 100 metri di quota, ma siamo a 18 chilometri dal centro cittadino. Per le enormi dimensioni del territorio comunale si è già dentro Roma, anche se Roma non appare e neppure si annuncia con le sue targhe ufficiali67. Da queste distanze e tornando verso il centro si distaccano dai margini o si dislocano lungo percorsi tangenziali, come ha notato Francesco Garofalo, «i grappoli dei ‘piani di zona’, le trame e filamenti delle borgate, entrambi quasi sempre dotati di una paradossale qualità panoramica consentita dall’orografia e dai grandi intervalli della campagna romana»58. In qualche misura tutti i percorsi di ingresso a Roma consentono un inventario delle tipologie edilizie, dei criteri insediativi e del paesaggio: una mescolanza di generi che raramente annoia, talora sorprende con qualità inattese o felici accostamenti spontanei, spesso irrita per il degrado e la sciatteria. Gli arrivi principali dall’aeroporto o da nord, dall’autostrada del Sole, offrono alcune sequenze veramente emblematiche delle alternative possibili fra paesaggio ordinato e disordine urbano nonostante i recenti ritocchi e migliorie. Da Fiumicino, un nodo aeroportuale che nel 2005 ha visto transitare 28,6 milioni di passeggeri, la rinnovata autostrada a tre corsie fino al raccordo, con un’illuminazione aerea di moderno design, non nasconde un paesaggio in forte trasformazione: ai nuovi centri direzionali e residenziali (come Parco Leonardo ancora in comune di Fiumicino) si alternano una campagna a grano con casali e grandi concessionarie. Insediamenti recenti dal disegno confuso sui crinali a sinistra. Poi qualche traccia di industrie con reminiscenze quasi archeologiche. Due grandi aree di servizio introducono un tocco di modernità colorata con l’aggiunta di un McDonald’s. A destra alza le sue insegne un villaggio cinematografico a molte sale affiancato da bassi palazzi di uffici. Di nuovo altri squarci direzionali sulle prime alture o, in basso, come accampati in un recinto: palazzi di uffici di una modernità già con371

sunta, con qualche audacia strutturale, case-torre dall’uso incerto, poi un importante edificio ospedaliero-assistenziale, un pezzo di bravura architettonica, trasformazione di un antico casale fortificato o castello59. Al di là, la massicciata ferroviaria e palazzine piccolo-borghesi su un primo dosso. Più lontano, sul crinale successivo, imponente, l’ultima Roma monumentale, il megalite di Corviale: un edificio di alloggi popolari lungo un chilometro, laboratorio del disagio sociale e nodo di infinite polemiche. Sull’ansa del Tevere, che compare fra rive cespugliose, un gioiello di ingegneria, ma quasi inafferrabile nella sua funzione, un ponte possente che sembra poggiato direttamente sul terreno60. Due alti, sottili ponti metallici di servizio si incrociano sul fiume. Più lontano sulla destra la Roma monumentale dell’Eur, il «Colosseo quadrato», la chiesa dei SS. Pietro e Paolo, ma mescolati a palazzi direzionali più moderni. Poi, dopo qualche deposito di auto e qualche officina industriale, oltre un intricato svincolo autostradale e al di là di un viale alberato iniziano d’improvviso le abitazioni compatte di un quartiere ad alta densità (la Magliana). Le direttrici appaiono confuse, gli attraversamenti improvvisamente rallentati, la città è polimorfa, ma soprattutto inafferrabile. Bisogna di nuovo arrivare al Tevere e varcarlo per entrare in un tessuto della prima metà del secolo, in un quartiere come Testaccio, in una via come via Marmorata, con il grande edificio delle Poste di Libera e De Renzi, o la caserma dei vigili del fuoco di Fasolo per ritrovare i tratti di una città definita e consolidata. Ma l’autostrada di Fiumicino offre anche un’alternativa al perdersi nella Magliana: quella di scavalcare il Tevere e la via Ostiense e inserirsi nella Cristoforo Colombo, lasciandosi alle spalle l’Eur, che rimane la vera porta monumentale e moderna di Roma, ma solo per chi giunge da Latina e Pomezia o si inserisce da Spinaceto o dal raccordo anulare o arriva dai quartieri litoranei, da Castel Fusano, Casal Palocco, Axa, Acilia. Chi converge da queste direzioni si trova di fronte il grande volume cilindrico del Palazzo dello Sport (oggi PalaLottomatica) collocato al culmine di un larghissimo viale in salita. La strada scende poi verso il lago per risalire gradatamente in un ampio percorso scenografico che inizia con gli alti edifici dei ministeri, continua e si amplia con il rondò intorno alla stele dedicata a Marconi proseguendo in una sequenza di bianchi edifici monumentali con scorci laterali sul Palazzo dei 372

Congressi e sul «Colosseo quadrato» per chiudersi con le quinte scure dei nitidi edifici di Moretti. Inizia poi un lungo asse, non rettilineo, ma uniformemente largo, una sorta di autostrada urbana, molto curata ai suoi margini ma non ancora compiutamente risolta nelle sue funzioni miste, direzionali e residenziali, anche se è in piena trasformazione il nodo di piazza dei Navigatori. Vi si colgono ancora stratificazioni irrisolte e compromessi, e vuoti ingiustificati, ma la Cristoforo Colombo, anche per la felicità del tracciato, rimane l’unica grande arteria moderna della città con un arrivo diretto nel centro monumentale antico. Varcati infatti, al termine di questo percorso, i fornici aperti nelle mura aureliane dopo aver sfiorato le Terme di Caracalla, il viaggiatore può dirigersi o verso l’Appia Antica o verso S. Giovanni o direttamente al Circo Massimo e al Colosseo. È in fondo il completamento, in questi tratti finali, di quella passeggiata archeologica «automobilistica» che il modernismo fascista aveva immaginato con la via Imperiale. Un percorso altrettanto rapido di ingresso in città è quello offerto, nel quadrante est, dall’autostrada Roma-L’Aquila, collegata direttamente alla tangenziale che costeggia la circonvallazione ferroviaria fra Tiburtina e Prenestina. Il grande asse, nei suoi ultimi chilometri, seziona un paesaggio che alterna zone agricole, le solite borgate di crinale, le nuove trincee della linea ad alta velocità per Napoli, infine un quartiere urbanisticamente riuscito come Colli Aniene. Dopo aver sottopassato Casalbertone si dirama quando giunge a ridosso del cimitero del Verano, con il sacrario militare a far quasi da spartitraffico, tra San Lorenzo a sinistra e il fronte massiccio degli intensivi del Tiburtino a Portonaccio a destra preceduti dal largo fascio dei binari e da un tessuto vitale e disordinato di depositi e attività industriali. Uno dei paesaggi preferiti del Vespignani pittore e incisore. Più a nord, l’arrivo tradizionale a Roma dalla Salaria segue nel suo tratto finale un percorso quasi ottocentesco, un grande viale alberato a platani che giunge rapido fino all’Aniene e alla tangenziale e all’Olimpica, praticamente dentro la città. La strada è affiancata da un lato dalla ferrovia Firenze-Roma e dall’altro, prima e dopo il lungo muro che nasconde l’aeroporto dell’Urbe, da impianti industriali o del terziario dignitosamente rimodellati, da autofficine e concessionari d’auto, intervallati, come ovunque nelle vie di grande scorrimento, da sfrontati bivacchi del sesso a paga373

mento esibito lungo i suoi margini sfrangiati. Dall’Olimpica il tragitto della Salaria prosegue costeggiando Villa Ada, quartieri residenziali a palazzine e villini costruiti tra gli anni Venti e Quaranta, poi i grandi casamenti degli impiegati di inizio secolo per giungere infine a Villa Borghese, a Porta Pinciana, a via Veneto. È il più rapido passaggio dalla campagna al centro di una città consolidata da oltre un secolo. Ma se il viaggiatore all’uscita dell’Autosole, incuriosito dalle alte torri che sovrastano come propilei la valle del Tevere e l’incrocio della Salaria61, salisse su quella collina alla ricerca di una nuova visuale e di un percorso alternativo verso il centro, scoprirebbe tutta un’altra città, varia, densa e intricata. Su quell’alto crinale, e poi sui successivi modesti rilievi e in seguito a scendere come da una serie di piani inclinati, sono disposti prima gli insediamenti recenti dei Peep di Castel Giubileo e Nuova Fidene; poco più avanti si aggruma con il suo intrico di stradine il denso formicaio della vecchia borgata di Fidene, ormai assestata in una rivendicazione di orgoglioso benessere. Segue con mosso andamento e varie tipologie il grande quartiere della Serpentara e del Nuovo Salario. Si costeggiano più sotto il forte e turrito intervento Iacp di Vigne Nuove62, poi i quartieri di saldatura che precedono le vecchie case popolari di Val Melaina e del Tufello fino a perdersi nel tessuto fittissimo di viale Jonio, dei Prati Fiscali e del quartiere delle Valli: varcato il viadotto sulla ferrovia e sull’Aniene seguendo gli assi commerciali di viale Libia e viale Eritrea, poi corso Trieste fino alla Nomentana, a Porta Pia, a via XX Settembre, al Macao si percorrono a ritroso tutte le varie tipologie edilizie, popolari, piccole, medie e grandi-borghesi di tutta la lunga stagione dello sviluppo urbanistico della città fino al 1870. E altri itinerari potrebbero essere rintracciati nei quadranti di sud-est, ancora diversi soprattutto per le forti permanenze archeologiche ora finalmente curate (come il parco degli Acquedotti) o in via di trasformazione. Difficile dire se tutta questa grande città appaia bella e vitale proprio nella sua varietà come appare ad alcuni dei suoi viaggiatori locali che ne seguono la faticosa evoluzione, lamentando lo scarso coraggio e i vincoli mentali che hanno segnato per anni i suoi amministratori63. Se riveli anche ad altri occhi il suo fascino, nonostante i tessuti urbani slabbrati e inconsistenti, nonostante gli smorzi, i cimiteri d’auto, i depositi di roulotte e i campi di zinga374

ri, nonostante l’individualismo esasperato dell’autocostruito e le disordinate superfetazioni e gli infiniti riempimenti incrostati su prospetti potenzialmente scanditi e ordinati64. Nell’insieme si tratta di paesaggi urbani consolidati dai quali sembra tuttavia opportuno distinguere il centro storico, la città rinascimentale, barocca, settecentesca e anche quella postunitaria racchiusa per gran parte entro le mura aureliane. Una parte di quel centro corrisponde alla città della politica, delle grandi istituzioni, delle grandi banche e aziende, dei giornali, dei musei e di molte istituzioni culturali. Coincide con la miriade delle attività commerciali per lo shopping di qualità e per quello di massa; accoglie il turista attento e colto e quello distratto e inerte; concentra molti cinema e i teatri; ospita le grandi case di moda, gli showroom e innumerevoli attività artigianali di qualità. Nell’insieme, nonostante profondi cambiamenti, esprime una forte continuità di funzioni e di ruoli. Ma è anche sempre più coinvolto nei consumi e nei riti di massa che hanno anche a Roma le loro nuove date periodizzanti, l’inaugurazione del McDonald’s di piazza di Spagna nel marzo 1986 e ancora prima quella dell’apertura della metropolitana A che dal 1980 ha riversato sul centro, un tempo elitario, le masse giovanili delle periferie con grande rimpianto e scandalo di alcuni65. Per questi nuovi potenziali consumatori, ma non solo per loro, sono cresciuti al posto dei tradizionali negozi di abbigliamento, promossi in parte dagli stessi vecchi gestori, nuovi punti vendita (riassunti col termine generico di «jeanserie») per nuovi oggetti e prodotti a basso costo e larga diffusione come in ogni grande città. Nonostante il rinnovato scandalo dei conservatori non si vede chi o che cosa avrebbe potuto o dovuto impedire questa trasformazione (fermo restando il rispetto di alcuni standard per vetrine e insegne e la tutela di alcuni negozi storici). Ma vi sono altri aspetti di mutamento del centro storico. Il primo, strutturale, è il radicale ridimensionamento demografico: dal 1951 al 2004 i rioni centrali avevano perso oltre due terzi della loro popolazione, passando da 424.000 a 122.000 abitanti66. Considerando che nel frattempo vi era stato un fortissimo ricambio dovuto alla ristrutturazione degli alloggi, alla modifica delle destinazioni d’uso e alla nuova residenza di ceti superiori, stranieri, artisti, single, il tessuto popolare del vecchio centro era stato per gran parte spazzato via. 375

Il secondo grande mutamento, solo apparentemente superficiale, è la tendenziale scomparsa del colore di Roma. I restauri recenti hanno infatti cercato di restituire ai palazzi storici i tenui colori originari, bianchi spenti, grigio-cilestrini, gialli e rosa chiari testimoniati dalle fonti archivistiche e dalle tele dei vedutisti settecenteschi, condannando all’oblio gli innumerevoli cantori del colore di Roma, con le sue tonalità calde del giallo, del rosso, dell’ocra, lasciate invece sopravvivere nei quartieri ottocenteschi o di primo Novecento. Anche se i palazzi dei primi del secolo potevano avere altri colori, come quello di via Merulana 219, protagonista del Pasticciaccio di Gadda, il «casermone color pidocchio», «intignazzato e grigio». Una di quelle grandi case dei primi del secolo che t’infondono, solo a vederle, un senso d’uggia e di canarinizzata contrizione: be’, il contrapposto netto del color di Roma, del cielo e del fulgido sole di Roma67.

Infine tra i più durevoli segnali di trasformazione del centro storico si colloca la molteplicità d’uso di alcuni spazi a seconda dei giorni o delle ore del giorno. La pedonalizzazione dei Fori imperiali nei giorni festivi, le diverse stratificazioni d’uso, per ceti e per classi di età, di alcune piazze come Campo dei Fiori, mercato di mattina, passeggio e shopping nel pomeriggio, ritrovo fittissimo di giovani la sera tarda e la notte. Gli esempi possono moltiplicarsi ed estendersi alle zone intorno a piazza Navona e a tutto Trastevere. Di notte il ritmo e gli orari sono imposti dai rituali giovanili adattati alla diffusione capillare dei pub e dal consumo di birra, fino a qualche anno fa limitata all’accompagnamento di alcuni piatti e oggi sostituto del vino come bevanda di relazione, ad imitazione dei modelli stranieri. Consumi e rituali hanno introdotto il centro storico in circuiti diversi da quelli tradizionali. Anche per antitesi e rifiuto di questo consumo del centro storico si sono modellate preferenze e gusti che trovano altrove i propri referenti spaziali, i propri paesaggi. Nel film Caro diario (1993) Nanni Moretti comunica una relazione affettiva con gli spazi che è anche l’insolita rappresentazione di una possibile esplorazione della città. Nell’episodio di apertura, con il suo solitario ma non casuale girovagare in Vespa passa da via delle Fornaci, Monteverde, via Bruno Buozzi, la Garbatella, il Flaminio e ponte Fla376

minio, il Villaggio olimpico, giocando con alcuni stereotipi (contro Spinaceto) e con una più radicata avversione per il perbenismo residenziale di Casal Palocco. Passando accanto a queste case sento tutto un odore di tute indossate al posto dei vestiti, un odore di videocassette, cani in giardino a fare la guardia e pizze già pronte dentro a scatole di cartone. Ma perché sono venuti quaggiù trent’anni fa?

Un viaggio nella propria riscoperta identità fino a condurre lo spettatore ad esplorare la provvisorietà estrema della città, i luoghi di Ostia dove morì Pasolini, un’elegia accompagnata dai ritmi di Keith Jarrett68. Musica, sentimenti, riti e luoghi di una generazione. Questa rappresentazione di una possibile, personale ma comunicabile, identità urbana coglieva un punto cruciale nel rapporto con la città, una città a crescita limitata e che si rinnova poco nel suo tessuto consolidato. Si rinnova per ricambio generazionale, per l’appetibilità di tanti edifici dell’edilizia popolare ed economica pubblica degli anni Venti e Trenta oggi destinati sempre più a ceti medio-alti, in rapporto anche con l’offerta carente di alloggi per questi strati sociali ma anche per la più forte identità dei quartieri di quegli anni rispetto a quelli costruiti nel dopoguerra. Gli stessi paesaggi umani sono venuti cambiando con le nuove generazioni e le nuove connotazioni borghesi caratterizzate dalla convivenza di stili di vita tradizionali mescolati ad altri resi più disinvolti per i durevoli lasciti del ’68 più che per le differenze anagrafiche. L’identità di quartiere è sempre stata forte a Roma, in qualche caso fortissima e non solo nei vecchi rioni. La stessa grande immigrazione degli anni Cinquanta e Sessanta produceva chiusure locali piuttosto che aperture al resto della città. Quello che è accaduto e che sta accadendo negli ultimi anni, prima nel centro storico (Monti, Campo dei Fiori, Trastevere) poi più al margine (Testaccio, Ostiense, San Lorenzo, Pigneto) è l’emergere di un’identità più generalmente cittadina che si aggiunge e si sovrappone a quella locale. Contribuiscono a questi esiti il rinnovo degli abitanti e la presenza di stranieri o di residenze transitorie, ma soprattutto il nuovo ruolo di quartieri per il tempo libero che li modifica profondamente. 377

Questi processi rendono più forti e più visibili le differenze con quelle zone che conservano le loro specificità, forti appunto ma isolate. Contemporaneamente individuano l’identità marginale e talora la totale estraneità dei tanti «villaggi metropolitani»69 ancora in cerca di un’autodefinizione, di un riconoscimento, spesso di un nome. Un nome che possono talora riprendere dall’unica emergenza che li caratterizza, come il quartiere I Granai, all’Ardeatino, denominato da un grande centro commerciale. Il grande territorio comunale ospita realtà lontane e diverse, ma tutte facilmente percepibili dall’alto se si sorvola la città con il programma Google Earth: basti segnalare quante diversità sono disseminate in un arco del quadrante di sud-ovest dall’Eur ai grandi complessi circolari di Tintoretto-Ottavo Colle, alle torri del Laurentino 38, ai tappeti di villini, casette a schiera e piscine di Vallerano, Infernetto, Axa fino al verde delle pinete e al mare di Ostia. Questa frammentazione è accentuata dal dislocarsi sempre più frequente di tante attività ai margini delle zone urbanizzate – si pensi, da ultimo, alla cittadella della Banca d’Italia a Vermicino, nel comune di Frascati, ai nuovi mercati generali nel comune di Guidonia, agli uffici del ministero delle Finanze posti all’incrocio della Laurentina col raccordo –, i flussi e gli spostamenti sono sempre più vari e non necessariamente dominati dalla convergenza verso il centro, anche per la specifica e irregolare mobilità di tante professioni del terziario indipendente. Così il Grande raccordo anulare è diventato un paradossale luogo di identità e di definizione degli spazi. Il raccordo non è più quel tracciato incongruo, calato prepotentemente a tagliare i territori dell’abusivismo e ad attrarre ai suoi bordi, come un magnete, tutte le varietà del non finito, come appariva ancora in un racconto di Marco Lodoli del 1989. È l’anello che porta ovunque e chiude in sé la città, o meglio la chiudeva, perché casupole e torri l’hanno saltato e oggi immensi quartieri africani si protendono verso ogni dove, sommandosi uno all’altro in una sola vitale confusione, in un’intesa vera. Raramente le costruzioni sono compiute, la fretta e la necessità hanno rubato l’intonaco, il piano di sopra o di sotto, le fognature. Qua e là si aprono minuscoli prati, e tra le carriole abbandonate e i mucchi di terra e mattoni come lupi si aggirano pecore zozze e affamate. [...] Ci sono anche delle fabbrichette, o forse sono soltanto grandi punti di smercio, 378

soprattutto palazzine trasparenti in cui pendono a migliaia lampadari di ogni foggia. A sera si accendono tutti insieme, per richiamare la gente, credo, e allora le palazzine paiono scalcagnate astronavi che stentano a sollevarsi70.

Certo, le fabbriche di lampadari ci sono ancora nel settore sudest del raccordo, ma l’aspetto dominante è quello di un’autostrada moderna, congestionata e pericolosa che individua via via tutti gli spicchi della città in cui è possibile immettersi. La sua tangenzialità sembra restituire un senso e un quadrante per orientarsi, mentre i grandi centri commerciali o i complessi di uffici che crescono ai suoi margini offrono nuove e inedite convergenze. Ne deriva una complessiva più accentuata mobilità che rappresenta uno dei nuovi vincoli della vita urbana insieme a quelli degli orari unici, dei pranzi consumati in una vitale e/o forzata socialità, dei lunghi, faticosi e spesso solitari rientri. Anche le sotterranee di cui si è dotata finalmente Roma contribuiscono a consolidare i caratteri spiccatamente metropolitani della grande città. Del resto non c’è forse niente che dia più la sensazione della metropoli che gli sguardi persi, chiusi e oscurati dei viaggiatori la notte, i rumori improvvisamente assordanti, le fantasie, gli scoppi di voci, la sciatta architettura delle stazioni, quel perdersi nei percorsi di risalita e le uscite improvvise, disorientanti, alla superficie. I treni, gonfiati dai graffiti dei writers, offrono i nuovi spaccati sociali ed etnici della città, con la sfida ad individuare etnie, gruppi e lingue diverse. Il risultato esteriore dei nuovi modi di vita urbani è quello di un interscambio più ricco, di una maggiore permeabilità degli spazi, di una socialità più estesa, favorita forse da «quel moderato realismo ironico che forma – come suggerisce Edoardo Albinati – la base del carattere di molti abitanti della città»71. E che comunque è il modo più diffuso di autorappresentarsi. In realtà Roma conserva molte dimensioni nettamente separate e chiuse, in parte derivanti dalle antiche divisioni sociali e dalle più recenti immigrazioni extracomunitarie, ma anche per la struttura frammentata dei borghi dell’Agro ampliati e trasformati nel tempo, ma mai interamente saldati. Conserva anche curiosi residui di modi di vita rurali-urbani che si nascondono in certi margini del suo territorio anche molto centrali72. 379

In generale a una più ricca vita sociale, spesso notturna, molto spesso egemonizzata da giovani e da giovanissimi, cui in alcuni quartieri contribuisce la nuova presenza multietnica, corrisponde una pratica sempre più diffusa dell’isolamento individuale e dei piccoli gruppi. La città è più aperta, più collegata, più sociale, ma una parte consistente del privato tende a chiudersi, a sequestrarsi. Negli ultimi trent’anni tutte le porte di ingresso agli appartamenti sono state blindate, infinite grate di tutte le varietà si sono sovrapposte alle finestre. E negli anni recenti si sono moltiplicati i centri residenziali recintati (dalla Bufalotta alla Laurentina). Fenomeni che rispondono non solo all’ovvia e indispensabile necessità di frapporre un argine ai furti di una piccola criminalità sempre più diffusa, ma si configurano anche come una ostentata clausura a difesa di un proprio privato benessere e un suggello alla scomparsa dei tradizionali controlli di comunità ormai disgregate dai nuovi stili di vita e di lavoro. Anche se i tassi di criminalità appaiono sensibilmente inferiori a quelli di altre grandi capitali europee, da Londra a Parigi a Madrid, e il muoversi la notte a Roma rappresenta un rischio assai contenuto, il numero delle rapine e dei furti negli appartamenti e soprattutto dei furti d’auto rimane elevato. Anche il numero degli omicidi è inferiore alla media nazionale e comparativamente minore rispetto a città come Milano. Ma rimane elevato il numero dei casi irrisolti (soprattutto di quelli compiuti negli ambienti gay) e di quelli che l’opinione pubblica considera malamente risolti73. Tutti questi elementi, anche quelli negativi, contribuiscono a definire la nuova dimensione metropolitana di Roma. Ma in questa accelerata e a tratti consapevolmente orgogliosa trasformazione degli ultimi anni rimaneva nell’ombra o si ripresentava in modi scontati e convenzionali la riflessione sul ruolo e sulle funzioni simboliche della capitale. 5. Due capitali In più occasioni, in quella particolarmente solenne del centenario della presa di Porta Pia, o in quelle più usuali e apparentemente più concrete delle vigilie elettorali, sindaci o candidati sindaci si sono impegnati a enunciare obiettivi epocali per la città, espres380

sione di un ruolo e di un compito speciale affidato a Roma. Certo non si ritrovano più parole come destino o missione, ma è come se una inconsapevole nostalgia sotterranea per altre epoche riaffiorasse al di sotto di quelle enunciazioni. Si riaffacciava il peso di tutta la grande storia passata, mentre in una certa ridondanza verbale si avvertiva la difficoltà di un rapporto equilibrato con le più recenti vicende di Roma contemporanea. Nel 1970, in occasione delle celebrazioni del XX Settembre, il sindaco Darida, dopo aver individuato in Roma «una sorta di specchio deformato e deformante della vita del Paese» e «il punto di incontro e di scontro di tutte le diversificate realtà e di tutte le contraddizioni della società italiana», indicava come compito della capitale quello di farsi «luogo e momento della più adeguata espressione» di un grande paese industrializzato come l’Italia e insieme di proporsi, in armonia con la Chiesa e lo spirito del concilio, l’obiettivo di realizzare «i princìpi di rispetto e di dignificazione della persona umana». In un mondo caratterizzato dalla divisione tra paesi sviluppati e sottosviluppati, la capitale doveva portare un contributo attivo, incidente, significativo, fondato sulla ricerca e la realizzazione del dialogo più aperto tra i popoli, le classi, le generazioni, i gruppi etnici, le realtà nazionali. Roma, città del dialogo, Roma luogo e momento della più adeguata espressione della realtà nazionale, capofila delle città italiane [dove] si sommano e si scontrano tutti i problemi e si sperimentano le soluzioni più adeguate ai problemi stessi74.

Nel 1993, il programma di Rutelli, dopo aver constatato il recupero dell’antica centralità geopolitica del Mediterraneo, sosteneva che Roma aveva la collocazione geografica, la tradizione storica, l’autorità religiosa e la credibilità culturale per candidarsi a ricevere sul proprio territorio istituzioni finanziarie, agenzie internazionali, centri di scambio culturale e commerciale. Roma può diventare il crocevia delle politiche mondiali per uno sviluppo sostenibile nell’Area del Mediterraneo e del Vicino Oriente75.

Erano contenuti solo apparentemente più concreti, dato che non era chiaro su quale peso politico e istituzionale si potessero fondare tali obiettivi. Otto anni dopo nel programma elettorale di 381

Veltroni un paragrafo era dedicato a «Roma capitale della pace e della solidarietà». Roma ha [...] la possibilità e il dovere di proporsi come cerniera tra l’Europa e il Mediterraneo, come «portale internazionale» per un dialogo di mutuo interesse tra l’area di massimo sviluppo economico e tecnologico del pianeta e le aree svantaggiate da rapporti internazionali ingiusti. [...] La nuova Amministrazione ha dunque il dovere e l’interesse di promuovere una nuova stagione di impegno civile nella lotta internazionale alla povertà, per la pace, il rispetto dei diritti umani e l’abolizione generalizzata e definitiva della pena di morte76.

Temi riproposti anche nel programma di Veltroni del 2006 dove Roma veniva presentata come «città di pace e capitale della lotta alla povertà e alla fame nel mondo». L’enunciazione di questi intenti poteva manifestarsi in queste forme disinvolte forse perché faceva riferimento a un’istituzione come il Comune, priva in realtà delle capacità di controllare per intero il ruolo e l’identità della capitale che rimaneva affidata per gran parte ad altri protagonisti. Ma era anche sollecitata dall’esplicito confronto con la capitale del cattolicesimo che tre grandi pontefici, Giovanni XXIII, Paolo VI e in particolare Giovanni Paolo II avevano proiettato in una dimensione mondiale ed ecumenica, con risultati, nel caso del papa polacco, in grado di sovvertire equilibri geopolitici e di presentarsi con la vocazione a un’egemonia «imperiale» nel campo dei valori individuali e collettivi. Ne derivava altresì, in settori della cultura politica della sinistra ex comunista, un senso di minorità dei valori laici e quasi l’obbligo di misurarsi alla pari con gli stessi poteri virtuali e di immagine che la capitale religiosa sembrava così efficacemente proporre. Risultò così non proprio agevole difendere quell’eclettismo dei princìpi di libertà che veniva dalla tradizione laica in occasione del World Gay Pride (l’incontro mondiale dell’orgoglio omosessuale) che si svolse a Roma in coincidenza con il Giubileo e prevedeva per la giornata dell’8 luglio 2000 un vistoso, stravagante e trasgressivo corteo. Il presidente del Consiglio Amato considerò inopportuna l’iniziativa e il sindaco, che aveva fornito il suo patrocinio, poi lo ritirò senza annullare, con abili equilibrismi, il 382

contributo finanziario alla manifestazione, tenutasi comunque nel centro monumentale della città da Porta S. Paolo al Colosseo e di lì al Circo Massimo, con una grande partecipazione, stimata in 200.000 persone77. Nella capitale cattolica, fattasi più forte e consapevole con il Giubileo del 2000, abbellita e rinnovata nei suoi grandi simboli dal contributo dello Stato, dalle iniziative del Comune e di grandi imprese pubbliche (come l’Eni che curò il restauro della facciata di S. Pietro), ruolo e identità coincidevano, rafforzandosi reciprocamente, nonostante le sensibili differenze negli ultimi pontificati. Un risultato legato non solo alla bimillenaria continuità della Chiesa, ma anche alla natura autocratica dell’istituzione, temperata tuttavia dalle numerose, varie e talora contrastanti articolazioni del mondo cattolico tutte largamente rappresentate a Roma. Diversa e più complessa si presenta la valutazione del ruolo e dell’identità della capitale della Repubblica italiana. Ma i quasi sessant’anni dalla caduta del fascismo impongono in qualche misura di tracciare alcune considerazioni d’insieme. Non sul ruolo istituzionale e politico di Roma, che rimane solido e indiscusso, e anzi si rafforza a partire dal 1960, quando anche la piazza politica romana entra in sintonia con i movimenti dominanti nel resto del paese, ma sulle funzioni simboliche esercitate dalla capitale. Funzioni che si manifestano in molte modalità diverse, soprattutto se misurate utilizzando come reagente le solennità politiche del calendario nazionale. L’Italia uscita dalla guerra continuò a celebrare la festa della Vittoria del 4 novembre e, tra il 1946 e il 1949, si dotò di due altre festività nazionali, il 25 aprile, anniversario della Liberazione, e il 2 giugno data di fondazione della Repubblica. Ad esse si aggiunse la ricorrenza del 1° maggio, festa del lavoro, che si ricominciò a celebrare nel 194578. Colpisce una certa sovrabbondanza di solennità politiche che corrispondono non solo a fasi diverse della nostra storia, ma anche alle differenti modalità con cui si declina simbolicamente il rapporto col passato più recente. Fin dall’inizio apparve evidente il carattere resistenziale e antifascista del 25 aprile79 rispetto alla dimensione più istituzionale del 2 giugno. I rituali celebrativi di queste feste si definirono solo gradatamente80. All’inizio il 4 novembre rappresentava non solo l’ovvia occasione per rinverdire la vittoria militare del 1918, tanto più ne383

cessaria di fronte alle recenti sconfitte, ma consentiva di rinsaldare la rinnovata alleanza con le potenze occidentali. Nel novembre 1944 si celebrarono infatti sia il 4 che l’11 novembre, con le truppe alleate che sfilarono a piazza Venezia nella ricorrenza dell’armistizio di Rethondes. Nel 1947 un corteo militare marciò lungo il Corso da piazza del Popolo all’Altare della Patria secondo un vecchio itinerario patriottico. Nel 1948, dopo la cerimonia al Vittoriano le truppe rientrarono in corteo nelle caserme. Più tardi Vittorio Emanuele Orlando tenne una commemorazione ufficiale al teatro Argentina. Negli anni successivi la cerimonia mantenne un carattere prevalentemente militare e alcuni elementi costanti: l’omaggio al milite ignoto e la commemorazione dei caduti con varie cerimonie religiose e manifestazioni delle associazioni combattentistiche. Dal 1949 le caserme vennero aperte alla visita dei cittadini. Ma il 4 novembre non aveva a Roma la sua localizzazione principale. Nel 1954 la cerimonia nazionale si tenne a Trieste, in seguito a più riprese a Redipuglia. A Roma nel 1960 vennero ricordati anche i caduti della Montagnola, morti nel 1943 per la difesa di Roma e nel 1961 il cordoglio si estese ai martiri delle Ardeatine. Dal 1977 il 4 novembre venne declassato a festa mobile da celebrarsi nella prima domenica di novembre, e da allora la ricorrenza si spense lentamente nel disinteresse, mentre le più giovani generazioni ne perdevano definitivamente la memoria. Il 1° maggio, abolito dal fascismo, si tornò a celebrare a Roma a piazza del Popolo come festa sindacale unitaria dal 1945 al 1948. Dopo la scissione sindacale la Cgil continuò a utilizzare quella piazza per gran parte degli anni Cinquanta, ma nel 1951 la manifestazione si tenne al Colosseo e nel 1955 per la prima volta a piazza di Porta S. Giovanni. La Cisl alternò piazza Navona al teatro Adriano, mentre nel 1953 gli operai cattolici prima della manifestazione si recarono a portare il loro omaggio al milite ignoto. Nel 1960 invece la Cisl manifestò a piazza del Popolo, mentre S. Giovanni era divenuta la piazza della sinistra, dove si sperimentarono anche le possibilità di incontro con i nuovi movimenti e la Cgil subì le prime contestazioni nel 1969. Nel 1972 si celebrò a S. Giovanni una grande manifestazione sindacale unitaria, ma il sindacato si dovette misurare nel 1976 con una contromanifestazione dell’Autonomia. Negli anni Ottanta la festa del lavoro perse via via di interesse e non riuscì a riempire più una piazza così grande. Del resto le manifestazioni nazionali si tenevano di volta in volta 384

in diverse città italiane. Il 1° maggio tornò a S. Giovanni a partire dal 1990 solo con i grandi concerti di musica pop e rock che raccoglievano centinaia di migliaia di persone, un omaggio ai giovani e quasi un risarcimento per la sempre più debole capacità del sindacato di garantire l’occupazione giovanile81. Era una soluzione di ripiego in un periodo in cui le grandi manifestazioni di piazza erano da tempo in crisi. Il 25 aprile rimase per tutto questo periodo la festa dell’antifascismo e della Resistenza, con il suo fulcro principale nel Nord e a Milano. Si celebrava ovviamente anche a Roma dove, negli anni in cui fu ministro della Difesa il repubblicano Randolfo Pacciardi (1948-1953), ex combattente antifranchista in Spagna, assunse un carattere spiccatamente militare, accompagnato da grandi manifestazioni e discorsi all’Adriano. In seguito si codificò un rituale in due tempi, omaggio all’Altare della Patria e poi alle Fosse Ardeatine, a cui si aggiunse, a partire dai primi anni Sessanta, una messa al Verano, presso il Sepolcreto dei caduti di Roma, che precedeva i due momenti. Con poche varianti questo rituale, diviso in tre fasi, si ripeté anche in seguito. Il registro dominante rimase quello del cordoglio per il sacrificio subito più che la celebrazione della lotta e della vittoria. Si trattava di manifestazioni ufficiali con la partecipazione delle autorità comunali e di esponenti del governo, solo raramente con partecipazione popolare, in genere più coinvolta nella cerimonia dell’anniversario dell’eccidio delle Ardeatine del 24 marzo. Il decennale del 25 aprile fu celebrato a Milano con il ministro della Difesa Taviani e una messa sul sagrato del Duomo. Nel 1975, in occasione del trentennale, le celebrazioni a Roma si svolsero con il capo dello Stato Saragat in Campidoglio e con una manifestazione antifascista a piazza SS. Apostoli il 24 aprile per lasciar modo a quelle del 25 aprile di tenersi a Milano82. Particolarmente sintomatica di questa connotazione milanese fu la grande manifestazione nazionale antifascista che sfilò (con circa 300.000 partecipanti) il 25 aprile 1994 a Milano in aperta polemica con l’alleanza di centro-destra, guidata da Berlusconi e comprendente anche Alleanza nazionale, appena uscita vincitrice dalle elezioni politiche del 27 marzo83. Nella stessa giornata a Roma, in contemporanea con il rituale ufficiale e con i cortei antifascisti che sfilavano in città, fu celebrata nella chiesa di S. Maria degli Angeli per iniziativa dello stato maggiore di Alleanza nazionale guidato da Fini una messa di riconciliazione nazionale84. 385

La sola ricorrenza nazionale che ha il suo centro e le sue ragioni principali a Roma è quella del 2 giugno, la festa nazionale ufficiale corrispondente, per fare un esempio, al 14 luglio francese. È la festa della Repubblica e la Repubblica ha il suo centro a Roma. Ma è anche la solennità nazionale che ha avuto la storia più tormentata. Si cominciò a celebrare il 2 giugno fin dal 1947 con una sfilata militare a viale Tiziano e con un comizio popolare indetto dai partiti repubblicani a piazza del Popolo, mentre i democristiani manifestavano separatamente in piazza del Collegio Romano. Nel 1948, durante una manifestazione militare a piazza Venezia, il presidente della Repubblica Einaudi assunse simbolicamente i poteri militari di fronte a nove reggimenti rappresentanti di tutte le armi. Il pubblico era disposto su tribune erette ai lati del Vittoriano e ai margini della piazza e un battaglione di bersaglieri, giunto da Milano, sfilò per le vie del centro. Nel 2 giugno 1949, centenario della Repubblica romana, venne inaugurato il monumento a Mazzini di Ettore Ferrari, completato nel 1926, collocato alle pendici dell’Aventino dove la prima pietra era stata posta nel lontano 192285. Dal 1950 si tenne la parata militare a via dei Fori imperiali, il momento pubblico più importante, seguito e popolare della festa. Ma mentre i ricevimenti nei giardini del Quirinale riservati alle alte cariche dello Stato e delle amministrazioni e ai cittadini eminenti non subirono interruzioni, la parata, nel corso degli anni, venne spesso soppressa, rinviata, spostata86. Nel 1961, centenario dell’Unità d’Italia, si tenne a Torino; nel 1963 fu sospesa per le gravi condizioni del pontefice Giovanni XXIII e lo fu di nuovo nel 1976 per il terremoto del Friuli; nel 1977, anno di gravissime tensioni di piazza, non si tenne. Dal 1977 la festa era diventata festa mobile da celebrarsi nella prima domenica di giugno, una ripresa, chissà quanto consapevole, dell’occorrenza dell’antica festa nazionale monarchica dello Statuto. Nel frattempo la festa era stata contestata da obiettori di coscienza, radicali, pacifisti. Nel 1984 la parata tornò ai Fori imperiali, ma l’anno dopo si celebrò alla Passeggiata archeologica, per poi tornare ai Fori nel 1986. Nel 1988 si decise di tenerla ogni quattro anni, ma nel 1992 il presidente Scalfaro suggerì una sospensione. Insomma la parata e conseguentemente la festa risentì del clima di tensione degli anni Settanta, del debole consenso intorno alle forze armate non 386

solo in una parte dell’opinione pubblica ma anche, paradossalmente, in settori dei vertici dello Stato. Va sottolineata inoltre una certa incapacità di immaginare una festa della Repubblica che fosse qualcosa di più di una parata militare fondata sull’idea ottocentesca dell’esercito di popolo o sul recupero dell’immagine storica degli antichi corpi militari. La ripresa della parata in forme limitate nel 2000 e, con un impianto più spettacolare, nel 2001, quando sfilarono i nuovi reparti femminili87, coincideva con un rilancio politico-simbolico delle funzioni nazionali ispirato dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (antifascista ed ex combattente) che aveva portato alla riapertura dell’Altare della Patria al pubblico dopo 31 anni, il 4 novembre 2000, e aveva restituito alla festa nazionale italiana la data fissa del 2 giugno88. La debolezza della tradizione politica simbolica della capitale repubblicana è puntualmente rispecchiata dalle vicende del 2 giugno, ma in qualche misura anche dal ruolo minoritario e, nel caso del 25 aprile, marginale che Roma ha rivestito nelle modalità di celebrazione delle altre feste nazionali. Anche se guardiamo ai luoghi, agli spazi celebrativi (escluso ovviamente il Parlamento), possiamo constatare in genere l’assenza di un sistema codificato che presenti relazioni stringenti tra spazi pubblici e funzioni simboliche. Piazza del Popolo, piazza SS. Apostoli, piazza Navona sono tutti spazi aperti a rappresentazioni politiche di diverso orientamento, in quasi esclusiva dipendenza dagli afflussi di pubblico. Piazza del Popolo rimane il luogo privilegiato, per le dimensioni circolari, per la straordinaria qualità monumentale, per la vicinanza al centro. Non lontana dallo Stadio Olimpico, si presta anche per le spontanee celebrazioni dei successi calcistici (come fu dopo la vittoria italiana ai mondiali in Spagna del 1982). Per anni piazza del Colosseo, ora praticamente cancellata, fu la sede di manifestazioni sindacali, mentre negli anni Cinquanta veniva utilizzata anche la Basilica di Massenzio. Altri luoghi, più nettamente connotati, non individuano più le identità forti di un tempo: le manifestazioni antifasciste a Porta S. Paolo o i raduni sindacali e le grandi manifestazioni del Pci a S. Giovanni dove, nel 1964 e nel 1984, si svolsero le imponenti commemorazioni di Togliatti e di Berlinguer. Il centro simbolico della capitale è rimasto così affidato all’Altare della Patria, che per oltre trent’anni ha registrato l’abbassar387

si della monumentale cancellata solo per veder salire le delegazioni italiane e straniere impegnate a deporre la rituale corona d’alloro ai piedi del sacello del milite ignoto, portato, implicitamente, a rappresentare i caduti di tutte le guerre89. Ma lo spazio cerimoniale di una grande capitale non può limitarsi a un monumento, deve potersi distendere in un percorso. Nonostante le critiche al progetto per l’area archeologica centrale e all’ipotesi di smantellamento di via dei Fori imperiali, gli archeologi sembrano mettere in primo piano solo il loro punto di vista. Inascoltate sono rimaste le osservazioni di Brandi del 1983. Non basta dire che via dell’Impero fu un misfatto fascista, e che, per ottenerla, fu abbattuto tutto un quartiere del Rinascimento. Potesse rinascere come un fungo per forza propria, sarebbe il benvenuto. Ma dato che questo non è possibile bisogna fare i conti con quella che è la fisionomia della città, che anche certi urbanisti frettolosi non vogliono o non sanno tenere nel dovuto conto. Ora, la caratteristica fondamentale di Roma, rinfocolata dal tempo di Sisto V, è d’essere una città prospettica impiantata come una città ideale del Rinascimento. [...] Via dell’Impero non fu tracciata certo da un grande architetto, ma rispecchia ancora la struttura urbanistica di Roma che non è quella di Spinaceto o dell’asse attrezzato [...]. I pini, i cespugli di alloro, i prati, anche se mal tenuti, rappresentano come la ribalta dei grandi fondali, a destra e a sinistra, che mostrano i Fori di Traiano, di Nerva, di Augusto e di Cesare; in fondo il Colosseo non è affatto una prospettiva retorica, ma un modo semmai, per farlo godere, meglio che da vicino. Senza bisogno di andare a calarsi in quei catini [...] le antichità si vedono benissimo, assai meglio anzi, così un po’ dall’alto, di quel che non si osservino le sbriciolate rovine ai lati della via Sacra, allo stesso livello90.

Così come si sono trascurate le osservazioni di Franco Purini del 1987 quando richiamava la necessità di andare oltre gli scavi ricostituendo un tessuto urbano. La centralità e l’antecedenza spaziale di quest’area allo spazio urbano fanno sì che il suo ruolo debba essere quello di «una parte di città» e non solo quello di uno straordinario museo a cielo aperto. La sua configurazione dovrebbe consistere in una serie di «isolati archeologici» ricostruiti, individuati dall’antico tracciato allacciato di nuovo alla viabilità attuale. [...] La «ricostruzione» sarà considerata come la conclusione logica dello scavo e la sua legittimazione, mentre 388

il processo di anastilosi consentirebbe di misurare con gli strumenti dell’architettura il rapporto tra l’antico e la contemporaneità anche nella forma radicale dell’impossibilità91.

Il rinnovarsi delle critiche e delle perplessità hanno sollecitato nuove riflessioni sull’assetto dell’area dei Fori, ma al centro delle discussioni si pone ora sempre più il destino finale di quell’incongruo vuoto che si è creato e che rischia di allargarsi senza alcun progetto urbano e urbanistico, non il carattere politico e simbolico assunto da quell’area nella Roma contemporanea e tanto meno il punto di vista di chi è sensibile alla tutela di altri significati che non la riscoperta dell’antico (o il definitivo accertamento dell’asse principale del Foro di Traiano)92. Consapevole del problema, lo stesso soprintendente La Regina, alla vigilia della scadenza del suo incarico affidava a Massimiliano Fuksas il compito di presentare, in una mostra rimasta a lungo aperta tra le arcate del Colosseo nel 2004, una soluzione che non cancellasse l’asse stradale e aprisse nuovi percorsi e livelli di fruizione degli avanzi archeologici. La giunta Veltroni quasi al termine del suo mandato proponeva una serie di concorsi per i diversi comparti dell’area archeologica centrale, ma appariva ancora timida nell’affrontare la questione nel suo insieme. Gli incerti esiti e la lentezza nell’eventuale correzione di un’iniziativa che continua a sollevare dubbi e perplessità, anche per l’apparente modestia dei risultati ottenuti dai nuovi scavi a fronte degli «sventramenti» realizzati, dimostrano come la dimensione simbolica della capitale continui ad essere compromessa dalle divisioni e dalle lacerazioni dell’identità italiana. Né a rafforzare il carattere della capitale può concorrere il parallelo (e talora divergente) rafforzamento di una specifica identità romana che si misura su altri versanti, di nuovo ma non troppo paradossalmente, per parte unitari e consensuali, per parte frammentati e conflittuali. Non si tratta delle solite identità antropologiche e comportamentali – il disincanto, l’indolenza93 – presentate come verità indiscusse, rafforzate soprattutto dal loro ciclico riaffacciarsi nei media e nelle autorappresentazioni dei romani stessi. Sono altri i nuovi elementi. Il primo è la definitiva caduta del primato di Milano capitale morale da quando le inchieste di Tangentopoli avevano dimostrato a confronto il modesto livello della «Roma ladrona». Un primato che è stato orgogliosamente esibito dai 389

milanesi, ignorato dai romani, ma sempre sotterraneamente sofferto. Poi il nuovo orgoglio cittadino per una città che appariva più ordinata e più efficiente grazie alla buona amministrazione delle giunte Rutelli e Veltroni. Infine la rivincita sul Nord anche sul piano sportivo. Due consecutivi scudetti del campionato di calcio vinti nel 2000 dalla Lazio e nel 2001 (dopo 18 anni) dalla Roma davano alla capitale la sensazione di una nuova superiorità94. Una rivincita non confermata dagli anni successivi, ma certamente rappresentativa di una definitiva uscita dalla minorità. Di questo orgoglio, di questa voglia di celebrarsi furono espressione le grandiose feste di quartiere e i cortei che attraversarono la città in occasione della conquista dello scudetto da parte della Roma il 17 giugno 2001. La città si coprì di bandiere e striscioni, apparve impavesata da un quartiere all’altro soprattutto nella periferia storica da est a sud-est, dal Quarticciolo, al Quadraro a Testaccio. Non c’era strada o palazzo che non esponesse almeno una bandiera. Si calcola che i tifosi romanisti stiano in un rapporto di 4 a 1 rispetto ai laziali, ma per tutta l’estate la città sembrò solo romanista95. La rivalità tra le due tifoserie non si attenuò ma prese i toni di un diffuso sfottò. Molti striscioni mostravano le forbicione con cui lo scudetto era stato scucito «dar petto» dei laziali. Una grandiosa festa popolare, la più grande di tutta la storia recente di Roma, con oltre, si disse, un milione di partecipanti, invase, domenica 24 giugno, il Circo Massimo e tutte le zone circostanti a perdita d’occhio. I tifosi si erano arrampicati sulle rovine dei palazzi imperiali sovrastanti il Circo dal Palatino in un’improvvisa rivisitazione degli antichi riti circensi96. Del resto erano tornati in auge, adeguatamente adattati, alcuni motti e frasi celebri della Roma antica (Veni, vidi, scuci) e il mito del gladiatore sembrò reincarnarsi nel popolarissimo capitano della squadra, Francesco Totti, un romano di origine proletaria97. Nell’Italia contemporanea niente più del calcio sembrava porsi all’origine di nuovi forti processi identitari, locali e nazionali: lo si vide in occasione della vittoria ai mondiali nel 1982 e lo si è visto di nuovo nel 2006, quando un’enorme folla festeggiò i giocatori nell’attraversamento della città e in un’imponente festa popolare al Circo Massimo la sera del 10 luglio. Ma niente più del calcio è fonte anche di contrapposizioni nettamente antagonistiche, soprattutto locali, esemplificate proprio dall’estremismo radicale di una parte dei tifosi98. 390

I trionfalismi dell’estate 2001 e le ricorrenti successive celebrazioni della nuova Roma non potevano però naturalmente occultare alcuni problemi di fondo della città: la persistente inciviltà di molti comportamenti, l’insufficiente rispetto di molte regole di convivenza civile e un durevole sprezzo della cosa pubblica. Questi atteggiamenti sono in stretta dipendenza con la condotta non sempre esemplare di singoli settori dell’amministrazione comunale che continua ad essere oggetto di critiche da parte dell’opinione pubblica e dell’autorità di controllo per i servizi pubblici locali. La discrezionalità, la latitanza e talora la ingiustificata e compiacente tolleranza della polizia urbana (al di là di singoli, ma non infrequenti, episodi di corruzione), configurano un ambito esteso e negoziabile nelle relazioni con i cittadini, dove invece una mano più ferma e una continuità di indirizzo sarebbero forieri di benefici più certi per la collettività. Su un altro piano l’invito ai cittadini, molto propagandato negli anni passati, a tenere pulita la città non si è accompagnato ad un aumento di efficienza e di controllo (in ultima analisi di adeguata severità) da parte dell’Azienda municipale dell’ambiente. L’abbandono in cui versano alcuni giardini e parchi pubblici e la scarsissima manutenzione successiva ai restauri rivelano, al di là dell’insufficiente disponibilità di fondi e dell’abituale lentezza di avvio dei progetti di riqualificazione, un diffuso lassismo, non disgiunto dal sospetto che una maggiore quantità di risorse sia stata negli anni riversata dall’amministrazione nelle circoscrizioni dove la possibilità di un beneficio elettorale si presentava più alto. È evidente che una nuova cultura urbana può affermarsi solo se riesce a fondare rapporti di trasparente reciprocità di impegno tra cittadini e amministrazione. Un ambito nel quale molti fattori di rinnovamento confliggono ancora con forti resistenze presenti sui due fronti e con la frammentazione degli interessi in gioco. Ma il settore più esposto ad esiti incerti è quello relativo alla capacità di mantenere un livello non conflittuale nei confronti della nuova realtà multietnica che rappresenta la trasformazione sociale forse più significativa degli ultimi vent’anni. Roma registrava da molti anni una modesta presenza di immigrati provenienti dalle ex colonie (Somalia, Eritrea, Etiopia), spesso esuli per motivi politici, che avevano stabilito la residenza e i loro luoghi di incontro all’Esquilino nei pressi della stazione Termini. Ma la realtà 391

dell’immigrazione esplose tra il 1990 e il 1991, quando la città scoprì che l’ex pastificio della Pantanella a Porta Maggiore era divenuto un ghetto di oltre 2000 extracomunitari che vivevano in condizioni drammatiche, per di più segnate da forti tensioni tra asiatici e africani. Lo sgombero forzato, il 31 gennaio 1991, e la «dispersione» dei rifugiati della Pantanella dimostravano che il problema non poteva essere risolto, se non transitoriamente, con operazioni di ordine pubblico. Del resto l’immigrazione clandestina che si affacciava prepotentemente in quegli anni non era un problema solo romano. Roma non aveva conosciuto negli anni Cinquanta e Sessanta, a differenza di alcune grandi città del Nord, momenti di tensione sociale legati alla grande immigrazione interna. I grandi afflussi di piccola e media borghesia impiegatizia non avevano creato problemi, mentre l’immigrazione dei ceti popolari si era distribuita, spesso in condizioni di grave disagio, su un territorio così ampio da ridurre le aree di frizione. Del resto le lotte per la casa sarebbero esplose nel decennio successivo. Negli ultimi vent’anni del Novecento, esaurita la spinta immigratoria endogena, emergevano invece i problemi dei rapporti con comunità e gruppi portatori di una diversità più evidente e più marcata, comunità e gruppi che configuravano quell’insieme di identità plurime ormai caratteristico di ogni grande metropoli. I motivi di ostilità più datati e più strutturati sono quelli nei confronti delle numerose comunità di zingari, stimate per un totale di 7000 presenze. Il Comune si è adoperato a dimezzare gli insediamenti (passati da 50 a 26), a fornire un minimo di strutture igieniche, ad approntare alcuni campi attrezzati con moduli abitativi99: proprio questi insediamenti hanno suscitato le vivaci proteste degli abitanti delle zone contigue, timorosi appunto del loro carattere permanente e sollecitati dalla facile demagogia di alcuni esponenti politici. Non vi è alcun dubbio che il borseggio molesto a cui sono dediti gruppi di giovanissimi zingari nelle strade del centro e la pratica diffusa del furto contribuiscano a mantenere un pregiudizio negativo che investe tutte le comunità, anche quelle da tempo stanziali. Nonostante gli zingari mantengano una difesa rigida delle loro tradizioni e identità, un certo successo ha raggiunto tuttavia il tentativo di scolarizzazione per una parte dei più giovani. 392

Più complesse sono le reazioni che suscita la presenza di tanti cittadini stranieri in città, soprattutto se di colore: africani, asiatici, sudamericani, arabi, europei dei paesi slavi o balcanici, quelli che con una parola vengono definiti «extracomunitari». Al generico rifiuto dell’«altro» (imputato di ogni forma di disordine sociale e morale, dalla droga alla prostituzione), atteggiamento tanto diffuso quanto automaticamente innescato da consolidati stereotipi culturali, fa sempre più riscontro la trama delle relazioni concrete e spesso tutt’altro che conflittuali che ogni cittadino romano intreccia più o meno stabilmente con gli esponenti della nuova realtà multietnica. Alcuni gruppi sono da tempo inseriti nella vita cittadina, in particolare negli impieghi domestici e nell’assistenza agli anziani. Ai primi arrivi di donne capoverdiane seguirono, richiamate dalle organizzazioni cattoliche, le filippine e le polacche. Si aggiunsero in seguito le componenti maschili, ma la comunità filippina, la maggiore a Roma, stimata in oltre 27.000 presenze, è rimasta prevalentemente femminile (62,3%). Sensibilmente diversi sono i comportamenti dei vari gruppi per quanto attiene ai ricongiungimenti familiari, più frequenti per i nordafricani, assai più radi, ma in incremento, per gli altri. La scolarizzazione dei bambini è piuttosto diffusa e favorita dall’istituzione comunale: del resto anche nell’immigrazione proveniente dai paesi più poveri la formazione base degli immigrati è talora di livello elevato, accompagnata da una discreta conoscenza di una lingua veicolare come l’inglese. Col tempo si sono definite una serie di specializzazioni lavorative. Per le donne di ogni provenienza, soprattutto nei lavori domestici e nell’assistenza; per gli originari dal subcontinente indiano, gli egiziani e i cinesi, nella ristorazione; per i romeni e per i polacchi, nell’edilizia. Non solo i cinesi, ma sempre più frequentemente altri gruppi, danno vita ad iniziative imprenditoriali in proprio, mentre rimane elevatissima la componente associativa delle diverse comunità. La grande dispersione, l’aleatorietà e l’assenza di continuità di molte attività lavorative degli extracomunitari comportano residenze autonome lontane dai luoghi di lavoro o, per le domestiche, spesso la coabitazione nelle famiglie dove prestano servizio. Si sono consolidati così alcuni rituali d’incontro caratteristici non solo della domenica, ma anche del giovedì pomeriggio (la tradizionale 393

mezza giornata libera dai lavori domestici), con l’adozione, da parte dei singoli gruppi etnici, di luoghi fissi di ritrovo che hanno modificato radicalmente la fruizione di alcuni spazi urbani. I giardini davanti alla stazione Termini, o alle stazioni della metro della Piramide e dell’Eur per i filippini; il marciapiede di viale Einaudi accanto a S. Maria degli Angeli per i peruviani; via delle Botteghe Oscure la domenica mattina per i polacchi, accanto alla loro chiesa nazionale, dove arrivano e ripartono i pulmini per la Polonia e si scambiano giornali e riviste; e tanti altri. Tra gli immigrati moltissimi sono i cattolici, ma vi sono anche aliquote di altre confessioni cristiane (come tra i filippini). La forte presenza islamica, col peso politico di una grande religione monoteista, è riuscita a imporre la costruzione di un’imponente moschea per 2000 fedeli e di un centro culturale islamico in una zona semicentrale e ben collegata, anche se non dominante, lungo la via Olimpica, non senza qualche protesta dei cattolici più tradizionalisti100. Gran parte dei romani conserva, accanto alla diffidenza nei confronti di comunità poco assimilate e poco residenziali, la difficoltà di individuare le singole appartenenze etniche e linguistiche. Si sono mantenuti così alcuni termini consolidati come quello di «marocchino» per indicare i venditori ambulanti da marciapiede (di dischi, cassette, occhiali, pelletteria), settore in cui prevalgono da tempo senegalesi e nigeriani. Continuano a manifestarsi del resto esternazioni frequenti di razzismo da parte di gruppi giovanili della destra estrema, con striscioni offensivi ostentati durante le partite di calcio e con qualche caso, seppure sporadico, di aggressione violenta101. Manifestazioni di razzismo toccano occasionalmente anche la consistente componente dei commercianti ebrei, con scritte oltraggiose sulle saracinesche dei negozi e sui muri102. Ormai il carattere multietnico, multinazionale e multiculturale della città è un dato acquisito, consolidato da un particolare addensamento in alcuni quartieri come l’Esquilino. I numeri delle presenze a Roma sono tuttavia relativamente bassi, circa 242.000 nelle stime della Caritas compresa un’aliquota di 20.000 clandestini, pari approssimativamente all’8,5% della popolazione totale alla fine del 2004103. Le cifre complessive non rispecchiano le dimensioni reali del problema perché comprendono 10.000 provenienze dalla Francia e dagli Stati Uniti divise quasi equamente a 394

metà. È evidente che solo una parte degli stranieri a Roma rappresenta una questione sociale, quella dei non inseriti in una condizione lavorativa consolidata, con retribuzioni ridotte e per gran parte in nero, siano o no clandestini. Nei confronti di questo disagio sociale e delle nuove forme di povertà – a Roma si contano circa 5000 individui senza fissa dimora – opera la capillare attività assistenziale di varie organizzazioni cattoliche e laiche, tra cui primeggia la Caritas diocesana guidata per molti anni (dal 1980 al 1997) da don Luigi Di Liegro. Meno chiara è la linea della mano pubblica, date le politiche spesso divergenti adottate a livello centrale, regionale e locale. Nel programma elettorale del 2001 Veltroni, dopo aver ridimensionato l’entità del problema e aver sottolineato la relativa stabilità della presenza extracomunitaria e la positiva assenza di ghetti, si impegnava a favorire «un percorso di piena integrazione e di mutuo rispetto [...] sviluppando il modello della ‘mediazione culturale’» fondato sui valori positivi dell’accoglienza e sulla reciprocità nel rispetto dei doveri da parte degli immigrati104. Un significativo segnale in questo senso fu l’elezione, nel marzo 2004, di quattro rappresentanti delle comunità straniere come consiglieri aggiunti e di uno per ogni municipio. Proprio sul piano dei valori, della disponibilità, dell’educazione al rispetto, l’evoluzione dell’identità romana, che pure ha acquisito alcuni contorni più definiti, denuncia molti elementi ancora in evoluzione. Su questo fronte si apre una scommessa che vale per la città, ma può valere per l’intero paese. Anche su questo piano quindi si misura lo statuto particolare delle due capitali che convivono nella stessa città. E la capitale religiosa si presenta appunto con una forte vocazione multietnica non solo nella composizione delle sue gerarchie, dei suoi ordini e del suo clero operanti a Roma, ma anche con lo spirito dell’accoglienza che la guida. Per la capitale laica il percorso è certamente più articolato e più arduo. Infatti se la capitale religiosa appare forte e definita nei suoi compiti e nelle sue funzioni, la capitale politica risulta tuttora fragile nei suoi simboli, ancora inadeguata a rappresentare l’unità del paese e a garantire una memoria equilibrata e consensuale di tutta la sua contrastata storia nel Novecento. In questo campo il ruolo del Campidoglio appare decisivo nel dare un contributo fattivo non alla rinascita di qualche nuovo generico mito di Roma105, ma alla definizione armoniosa del ruolo e delle funzioni della capitale italiana. 395

Abbreviazioni ACS ASC ASR AP DBI Mussolini

Archivio Centrale dello Stato, Roma Archivio Storico Capitolino, Roma Archivio di Stato, Roma Atti Parlamentari Dizionario biografico degli italiani Opera omnia di Benito Mussolini, a cura di E. e D. Susmel, La Fenice, Firenze 1951-1963.

Note

Capitolo primo 1 Vedi l’ampio inventario per Roma in Garms 1982 e la ricchissima ricostruzione dell’immagine dell’Italia e degli italiani in Venturi 1973. Per la particolare attenzione a Roma antica, Treves 1962. 2 Goethe 1983, p. 143. 3 Garms 1982, pp. 645-646; Venturi 1973, pp. 1198, 1312, 1381. 4 Giacobini italiani 1964, p. 521: Discorso recitato dal cittadino avvocato Brunetti al popolo romano in occasione d’un inalzamento d’albero di libertà. 5 Stendhal 1991, p. 449. 6 Gabelli 1881a, pp. VI-VII. 7 Goethe 1983, p. 138. 8 Insolera 1993, p. 7. Sugli itinerari di avvicinamento a Roma, Brilli 2006, p. 191. 9 Chabod 1965, p. 228 e la cit. di Balbo ibid. 10 Mazzini 1986, p. 382. 11 Cit. in Salvemini 1925, pp. 84-85. Sulla Terza Roma cfr. anche Bartolini 2006, pp. 74-78. 12 Aquarone 1972, p. 104. 13 Stefanucci Ala 1865, pp. 10-11. 14 Margotti 1858, pp. 9-10. Cfr. anche Bartoccini 1985, pp. 157-158. 15 Margotti 1858, pp. 554-555. 16 Cit. da Morelli 1881, p. 530. 17 Ventrone 1942, pp. 58-59. 18 Morelli 1881, pp. 439 e 444 sgg. Le principali uscite del ventennio 18511870 erano quelle per i lavori pubblici (ossia per interventi in città nonché per la manutenzione delle strade urbane e di quelle dell’Agro), per il personale dell’amministrazione, per il casermaggio delle truppe francesi: quest’ultima voce costituì fino al 1862, con il 27-28% del totale, il maggiore capitolo di spesa sul quale rimase aperto un contenzioso con lo Stato che del resto provvedeva con appositi cespiti al rimborso. Cfr. anche De Cesare 1907, I, pp. 55 sgg.; Caravale, Caracciolo 1978, p. 684. Per l’articolazione degli uffici e il funzionamento del Comune, Allegrezza 2000, pp. 81-93 e Bartoloni, De Nicolò 2000, pp. 61-74.

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Bocci 1995, p. 137. Pompili Olivieri 1886, II, pp. 47-48; III, pp. 314-316. 21 Non si verificò quindi, come ha sostenuto Weber 1978, I, p. 45, quella potente spinta verso l’alto del ceto borghese sostenuta dal segretario di Stato Antonelli, che aveva garantito del resto alla recente nobiltà del fratello un accesso fra i conservatori, l’esecutivo della magistratura capitolina. Del resto si tratta pur sempre di una borghesia contigua alla nobiltà e al potere centrale pontificio, non di un ceto nato per opposizione e portatore di un programma politico ed economico alternativo. Sulla presenza aristocratica e su quella borghese in Campidoglio, cfr. Bartoloni 1996, pp. 49-50 e Bartoloni, De Nicolò 2000, pp. 112 sgg. 22 Una descrizione dei meccanismi di formazione del Consiglio comunale in ASR, Luogotenenza del re, b. 61. 23 ASC, Titolo 22, Elezioni, 1870, b. 1, f. 19: Elenco degli eleggibili a consiglieri del Comune di Roma... per l’elezione del 1867, 96 pp. a stampa. L’elenco è diviso per rioni e in quattro classi: 1) possidenti nobili, 2) possidenti, 3) commercianti, 4) professori di scienze, ed esercenti arti liberali. Gli iscritti erano rispettivamente 118, 533, 202, 1259. 24 Kauffmann 1865, pp. 32-37 sulle «sedicenti» elezioni romane, p. 33 sulle esclusioni. Nel 1864 gli eleggibili erano 1814, ossia 108, 481, 204, 1021 secondo la distribuzione nelle quattro classi. 25 Friz 1980, pp. 561-562; Pompili Olivieri 1886, III, pp. 325 sgg. 26 Silvagni 1971, III, p. 182. 27 Querini 1881, pp. 80-81. 28 Groppi 1994. 29 Morichini 1870, pp. 456-457. Per Milano, Hunecke 1989, pp. 253 sgg. 30 Albini 1896, p. 65. 31 Piccialuti Caprioli 1984, p. 294 e Querini 1892, p. 397. 32 Morichini 1835, 1842, 1870. Morichini (1805-1879), figlio di un eminente medico e chimico, primario del S. Spirito, fu vicepresidente dell’Ospizio di S. Michele, il maggiore di Roma, tesoriere generale della Camera apostolica, ministro delle Finanze nel 1847-1848, cardinale dal 1852: cfr. Weber 1978, pp. 489490 e passim. 33 Morichini 1835 ripreso da Bowring 1838, pp. 86-87. 34 Morichini 1842, ma rimase praticamente costante al S. Giacomo (11,6 e 11,3), mentre diminuì sensibilmente negli ospedali specialistici, S. Gallicano, dal 6,5 al 4,8 e S. Maria della Pietà, dal 5,8 al 4,8%. 35 Forti Messina 1984, p. 438. 36 Nonostante Friz 1980, p. 299. 37 Belardelli 1987, pp. 77 sgg.; cfr. anche Ago, Parmeggiani 1990, pp. 595611. 38 Frascani 1986, pp. 116-117 che cita il medico Carlo Mazzoni, autore di uno studio sugli ospedali romani pubblicato nel 1869. 39 Friz 1974a, pp. 99 sgg. 40 Bartoccini 1985, pp. 183 sgg. 41 Pescosolido 1979, p. 245. 42 Caravale, Caracciolo 1978, p. 681. 43 «Il libro di stato d’anime sta tutto l’anno sulla tavola del parroco nella parrocchietta: è la carta topografica della parrocchia»: Desanctis 1871, p. 242. Il Desanctis, prima di convertirsi al protestantesimo nel 1847 e divenire uno degli 19 20

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elementi di spicco del movimento valdese ed evangelico in Italia, era stato parroco a Roma. La sua opera, Roma papale, era uscita in prima edizione in inglese nel 1852 con il titolo Popery and Jesuitism at Rome. 44 «A Roma, come in molte altre diocesi, trascorso il tempo pasquale, chi non aveva ancora ‘fatto Pasqua’ era colpito dalle pene canoniche, e il suo nome era esposto alle porte della parrocchia» (Martina 1964, pp. 771-772). La partecipazione ai sacramenti era requisito indispensabile «per ottenere dal parroco la fede di buoni costumi e di manco di sospetti da parte della polizia, senza di che non era lecito uscire dal proprio paese e ridursi, neppure a fin di lavoro, in altro luogo dello stato» (Leti 1909, I, p. 73, nonché Tufari 1971, p. 239). Sull’andamento della pratica del precetto pasquale a Roma, cfr. Martina e Turtas 1971, pp. 31 e 95-110. Nei ricordi di Desanctis 1871, p. 269, alcuni parroci «danno de’ biglietti di comunione ai confessori, acciò possano distribuirli a coloro i quali non sono disposti alla comunione, e che facendola forzatamente commetterebbero sacrilegio». 45 Che gli stati delle anime sembrano registrare con l’aumento dei «non atti» alla comunione (Martina 1971, p. 22 e le tabelle alle pp. 44-46). 46 Sardelli 1977, p. 148. 47 Il Libro per tutti 1866, pp. 307-308, elenca 70 case mercantili. Alcune, con lo stesso nome, sembrano suddivisioni originate da una stessa famiglia. Cfr. De Cesare 1907, p. 107. 48 Nonostante le numerosissime descrizioni della loro presenza economica e sociale, mancano studi sull’effettivo operare dei mercanti di campagna soprattutto nell’Ottocento. Fa eccezione Piscitelli 1958, limitatamente al Settecento. Cfr. tuttavia Sombart 1891, pp. 82 sgg.; About 1861, pp. 127-128 e Piscitelli 1968. 49 Pescosolido 1979, pp. 213 sgg. e 1983, pp. 87 sgg. Le ricerche più recenti smentiscono l’affermazione che la rendita nobiliare ed ecclesiastica era «di anno in anno più esigua»: Caracciolo 1956, p. 7. 50 Villani 1960, pp. 181 sgg. 51 Il matrimonio di Domenico Di Pietro di una famiglia di mercanti di campagna con Faustina Caetani, di grande e antica nobiltà, sembra favorito anche dalla presenza di un cardinale nella famiglia Di Pietro: Weber 1978, I, p. 59 e albero genealogico, II, p. 773. 52 De Cesare 1907, I, p. 107. Sul generone e sulla società romana si veda ora Sanfilippo 2005, in particolare pp. 141 sgg; se il ceto alto borghese corrisponde al generone, nel generetto «confluiscono i professionisti più stimati, i medi proprietari terrieri, i commercianti di rilievo, gli intellettuali e gli artisti di successo, famiglie solide dei livelli superiori della burocrazia, ecc.», p. 65. 53 Caracciolo 1954, p. 187. 54 Caracciolo 1954, p. 197. 55 Bartoccini 1985, pp. 54 sgg. 56 Negri 1967. 57 Aubert 1955, pp. 389-390. 58 Gurreri 1977-1978, pp. 175 sgg. e Neri 1989, pp. 16 sgg. 59 Morichini 1870, p. 657. 60 Milano 1964, Berliner 1992. 61 Sanfilippo 1993a, pp. 244-245. 62 Kauffmann 1865, pp. 208 e 270; Berliner 1992, p. 315 (che lo chiama Fortunato); Martina 1986, p. 36; Kertzer 1996, pp. 375-382. Restituito a forza ai ge-

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nitori dopo la presa di Roma e portato a Livorno, il Coen, raggiunta la maggiore età, tornò nella capitale e si fece prete: destino che lo accomunò al Mortara. 63 Berliner 1992, pp. 311-312. 64 «Civiltà cattolica», 1868, II, p. 482, cit. in Gallon 1971, p. 83. 65 Friz 1974a, p. 143; Caviglia 1996, p. 9. 66 Friz 1974a, p. 45; e superiore di tre volte e mezza rispetto agli altri rioni più intensamente popolati come Ponte, Regola e Parione. 67 Milano 1964, p. 120. 68 Poche unità a Monti, Trevi, Campo Marzio, nessuna a Trastevere, Colonna e Ponte; per un totale di 77 elettori ebrei fuori da Sant’Angelo. Tutti questi dati sono stati elaborati in base all’analisi (che conserva ovviamente qualche elemento di approssimazione) dei nominativi elencati nelle liste elettorali amministrative pubblicate in Bollettino degli atti 1871, pp. 200-312. 69 Pavone 1962-1963, pp. 378-379, dove le cifre sono lievemente diverse da quelle pubblicate nel Bollettino degli atti 1871. 70 Ossia in virtù del titolo di studio e delle funzioni esercitate nella burocrazia, nella magistratura, nell’insegnamento ecc.: cfr. Ballini 1988, pp. 44-45. 71 Per la «cultura del coltello» e il declino del tasso di omicidi dopo il 1870 e fino al 1914, Boschi 1997 e Boschi 1998, pp. 136 sgg. 72 Demarco 1949, p. 201. 73 Azeglio 1949, pp. 325-326, 321-322. 74 Si tratta di una elaborazione che individua alcune tendenze, non dati definitivi: non è fondata infatti su uno spoglio dei singoli processi. Si basa in primo luogo su una quantificazione dello Stato degli inquisiti 1937, già utilizzato da Demarco 1947, al quale sono stati aggiunti i nominativi presenti nelle «cause romane» del 1849-1851 (relative ad avvenimenti del periodo repubblicano o, in qualche caso, collegati ad esso e di poco successivi) tratti dall’elenco di processi della Sacra Consulta pubblicati in appendice ad una tesi di laurea discussa nella facoltà di Lettere dell’Università di Roma (Andreoli 1966-1967). Questi nomi aggiuntivi, oltre a una certa aliquota di romani, riguardano per gran parte residenti a Roma: consentono di superare il limite, segnalato già da Demarco, di costruire un elenco fondato unicamente sulla «patria», ossia sul luogo di nascita, così come indicato dallo Stato degli inquisiti. Sono risultati 518 nomi e professioni (rispetto ai 368 estrapolati da Demarco per Roma dallo Stato degli inquisiti, mentre chi scrive ne ha calcolati 342, escludendo le duplicazioni). «A Roma la rivoluzione di piazza era stata fin da principio, e continuò ad essere nei mesi successivi, opera di operai o di minuti artigiani [...] a cui si aggiunsero molti possidenti, qualche negoziante, qualche impiegato, qualche studente, qualche letterato, ecc. Si trattava della sommossa di tutti gli scontenti della borghesia e del popolo minuto romano e significativa fu la prevalenza che vi ebbero quelli che potrebbero dirsi operai specializzati – ebanisti, mosaicisti, intagliatori, incisori di cammei, ecc. –, i quali [...] mancavano di lavoro, ed erano per conseguenza costretti a trascinare un’esistenza delle più penose»: così scriveva Demarco 1944, pp. 302-303. In realtà, sia dai suoi stessi calcoli che dai nostri, non si registra la significativa prevalenza delle figure professionali da lui indicata: se infatti contiamo 16 ebanisti, i mosaicisti erano solo 6 a cui si aggiungevano 1 intagliatore e 1 incisore di cammei (le cifre di Demarco sono rispettivamente 10, 4, 1). La graduatoria delle dieci maggiori presenze è la seguente: 19 impiegati; 17 muratori; 16 calzolai, ebanisti, possidenti, scalpellini, studenti; 12

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negozianti, osti, sarti. Le donne erano: 1 caffettiera, 1 campagnola, 2 domestiche, 1 donna di casa, 4 lavandaie, 2 nubili, 1 possidente, 1 sarta, 1 sediara, 1 stiratrice, 1 tabaccaia, 1 vedova. Un quadro delle principali attività artigianali nel primo decennio dopo l’Unità in Monografia 1881, II, pp. 5 sgg. 75 Vovelle 1987, pp. 113-120. 76 Casadio 1983-1984, pp. 171-174. I lanari presentarono una petizione alla Costituente che protestava fra l’altro contro le macchine e richiedeva premi solo per chi lavorava «a braccia»: Demarco 1944, pp. 91-92. 77 Azeglio 1949, p. 337. 78 Demarco 1949, p. 201. 79 Demarco 1949, p. 199. 80 Desanctis 1871, Pianciani 1859. Vedi anche Taine 1866, pp. 457-458. 81 Martina 1988, pp. 337-338 e 322. 82 Martina 1988, pp. 336 e 339 e sopratutto Friz 1974b. 83 Friz 1974a, p. 146. Non è possibile utilizzare i dati del 1870, che registrano un totale di 8521 con un incremento del 40% del clero secolare rispetto al 1869, perché sono viziati dal largo numero di presenze dovute al concilio. Nel 1870 la presenza religiosa corrispondeva al 12,6% della popolazione del rione Pigna, al 6,9 di Monti, al 6,3 di Sant’Eustachio, ma a Campo Marzio era l’1% e a Ponte lo 0,5%: Friz 1974a, p. 50. 84 Sonnino 1982, p. 79. 85 Giuntella 1977, p. 27, le cui considerazioni, riferite al Settecento, appaiono largamente estensibili anche al secolo successivo. Con una diversa sfumatura Martina 1977, p. 35, a proposito dell’Ottocento: «Ci troviamo di fronte a una massa che con ogni probabilità ha una fede sincera, anche se questa ha una scarsa incidenza sulla vita concreta, ma che nonostante le sue frequenti deviazioni morali, ha conservato sempre il senso del peccato»; e altrove, a proposito dei sonetti del Belli non smentisce «il contrasto tra la pratica ufficiale della fede, imposta dall’alto, e l’immoralità reale»: Martina 1988, p. 365. 86 Tufari 1971, pp. 241 e 243-244. 87 Giuntella 1977, p. 27. 88 Falconi 1983, pp. 321 sgg.; Martina 1986, pp. 44-45. 89 Goethe 1983, p. 573. 90 Calcolati alla Pasqua dei rispettivi anni, Friz 1974a, p. 137. 91 Friz 1974a, pp. 115-116. Dal momento che per il periodo l’eccedenza dei morti sui nati era stata di 5406, mentre l’aumento della popolazione era stato di 31.435, l’immigrazione doveva ammontare a 36.841. In particolare nel 1861 il saldo attivo fu di 10.177 (+ 53,76 per mille, quoziente annuo mai più raggiunto). 92 Aquarone 1972, p. 147. Sulla fase finale dello Stato pontificio, Monsagrati 2000a, pp. 1047-1058. 93 De Cesare 1907, II, pp. 365-366. De Cesare aveva una concezione chiarissima del suo ruolo di storico della società. «Si dirà forse che io non ho voluto trascurare alcune piccole cose. Lo riconosco, e non mi pento. L’epoca della storia convenzionale è passata: della vecchia storia ridotta alle guerre, alle ambasciate, agl’intrighi della diplomazia e alla vita delle corti, e narrata in periodi pomposi e retorici. Oggi la storia è chiamata a riprodurre tutte le manifestazioni umane, tutta la vita sociale nella forma più semplice», I, p. XI. 94 De Cesare 1907, II, p. 366.

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Carte Lanza 1937, p. 26. Cit. anche in Aquarone 1972, p. 150. Cfr. il rapporto di Ponza di S. Martino a Lanza del 10 settembre 1870, in Carte Lanza 1938, pp. 91-92. 97 Una versione sostanzialmente analoga di questo capitolo era stata anticipata in «Clio», 1996, pp. 599-631. 95 96

Capitolo secondo Carte Lanza 1938, p. 137 Berselli 1963, p. 53. 3 Pesci 1895, pp. 94-95. 4 Pesci 1895, pp. 106-107. 5 Martina 1990, pp. 240 sgg.; Candeloro 1968, p. 366. 6 Gregorovius 1895, pp. 459-460, 30 ottobre 1870. 7 In Pesci 1895, pp. XX-XXI: prefazione ai ricordi del Pesci. Nello stesso anno fu pubblicata la traduzione dei diari del Gregorovius. 8 Citati in Bartoccini 1985, pp. 417-418. 9 Soprannome delle guardie palatine pontificie, passato poi a indicare i sostenitori del papa e i clericali. La guardia palatina «formata di piccoli borghesi e bottegai» era in genere malvista e «il nome di caccialepre era stato dato loro per dileggio, in quanto che molti, per entrare nel corpo, si erano lasciati allettare dalla licenza gratuita di porto d’armi»: la passione della caccia era infatti diffusissima a Roma. Cfr. Pesci 1907, pp. 41-42 e 336-337. 10 Pavone 1957, pp. 308-314; Pesci 1895, pp. 185-188. 11 Duca Michelangelo Caetani, principe Francesco Pallavicini, duca Francesco Sforza Cesarini, Emanuele dei principi Ruspoli, principe Baldassarre Odescalchi, Ignazio Boncompagni dei principi di Piombino, prof. Carlo Maggiorani, avv. Biagio Placidi, avv. Raffaele Marchetti, avv. Vincenzo Tancredi, Vincenzo Tittoni, Vincenzo Rossi, Pietro De Angelis, Achille Mazzoleni, Felice Ferri, Augusto Castellani, Filippo Costa, Alessandro del Grande. Una lista di «conciliazione nazionale» in cui ricorrevano i nomi di Michelangelo e Onorato Caetani, Sforza Cesarini, Mazzoleni, Piacentini, Silvestrelli e altri era già stata sottoposta al Lanza il 12 settembre: Carte Lanza 1938, pp. 105-106. 12 Quest’ultimo compito fu affidato alla supervisione di David Silvagni, che in quei giorni aveva svolto un importante ruolo di mediazione politica. 13 Pavone 1957, pp. 329 sgg. Una soluzione di compromesso fu trovata inserendo nel proclama, con cui la giunta chiamava al plebiscito, la frase «lasciamo al governo italiano la cura di assicurare l’indipendenza dell’autorità spirituale del papa»: Candeloro 1968, p. 371. 14 Carte Lanza 1938, p. 140, telegramma a Cadorna del 22 settembre. 15 Pavone 1957, pp. 336 sgg. E la descrizione di Pesci 1911, pp. 204 sgg., che mescola dettagli accurati e patriottismo convenzionale. In ASC, Giunta provvisoria di governo, b. 3-4, piccoli registri con i nominativi degli iscritti alle liste elettorali. 16 Candeloro 1968, p. 371 e Martina 1990, p. 251. 17 La Marmora a Lanza, 15 ottobre 1870, in Carte Lanza 1938, p. 178. 18 AP, Camera, 25 marzo 1861, p. 285. 1 2

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AP, Camera, 25 marzo 1861, p. 288. Romeo 1984, pp. 914-915; Galasso 1970. 21 AP, Senato, 23 gennaio 1871, p. 123. 22 Legge 3 febbraio 1871. 23 Papa 1970, p. 55. 24 Poi prefetto della capitale dal 31 agosto 1871 al 30 marzo 1876. 25 Pesci 1895, pp. 278 sgg. 26 Pesci 1907, pp. 64-66. 27 Nel capitolo dedicato all’idea di Roma della Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse pubblicata nel 1951: cfr. Chabod 1965, pp. 215-373. 28 Discorso del 14 marzo 1881, Sella 1887-1890, I, pp. 292 e 303. 29 La cit. di Capponi in Jemolo 1963, p. 256; quella di La Marmora in Carte Lanza 1938, p. 179, 15 ottobre 1870. 30 Romeo 1963, p. 80. 31 Castronovo 1979, pp. 29 sgg. e Majolo Molinari 1963 ad nomen. 32 Pavone 1962-1963, pp. 378-379 e 389. 33 Storia dei collegi elettorali 1898, pp. 557-562. Leggermente, ma non significativamente diversa la cifra (7144) indicata in Pavone 1962-1963, p. 382 e anche quella ricalcolata sulla stessa fonte: ASR, Luogotenenza del re, b. 51, fasc. 77. 34 Pavone 1962-1963, pp. 378 sgg. 35 Pavone 1962-1963, p. 367. 36 Municipio 1891, p. 38. 37 Ballini 1988, pp. 95 sgg.; Avallone 1997-1998. 38 Per i dati elettorali e la divisione territoriale dei collegi, Luogotenenza 1972, pp. 379 sgg. 39 Storia dei collegi elettorali 1898 e Berselli 1965, pp. 449-454. 40 Pavone 1962-1963, pp. 383 sgg., in particolare pp. 390-391. 41 Ignazio Boncompagni, Baldassarre Odescalchi, Emanuele Ruspoli avevano rispettivamente 25, 26 e 33 anni: ASR, Luogotenenza del re, b. 21, fasc. E 17/13, Elenco dei Consiglieri del Comune di Roma. 42 Ibid. 43 A lungo si è datato al 1872 il primo intervento dell’Unione romana basandosi su un errore contenuto nelle memorie di Paolo di Campello, uno dei suoi maggiori esponenti: cfr. fra gli altri Chabod 1965, p. 633, Candeloro 1961, p. 143 e Caracciolo 1956, pp. 134-135. La questione è chiarita da Mazzonis 1970 e 1984, cap. II; per una ricostruzione complessiva si veda ora Ciampani 2000: per gli esordi dell’Unione, pp. 111-132. 44 Cit. in Mazzonis 1970, p. 223. 45 «La Voce della Verità», 4 agosto 1872. 46 Per i dati Soderini 1888, p. 12; cfr. Mazzonis 1970, p. 228. Una ricostruzione, non sempre precisa, anche in Pesci 1907, pp. 510-512. A Napoli i cattolici invece ottennero un vistoso successo: Mascilli Migliorini 1987, p. 159. 47 Cioè «montanari venditori di castagne, come cortesemente chiamarono tutti noi venuti da altre province»: così nelle sue memorie il Manfroni 1971, p. 40. Cfr. anche Pesci 1907, pp. 199-200. 48 «La Voce della Verità», 7 agosto 1872. 49 ASR, Prefettura, Gabinetto, b. 145, fasc. 3183, Rapporti sullo spirito pubblico, II semestre 1876. 19 20

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50 ASR, Prefettura, Gabinetto, b. 121, fasc. 404, Partito clericale. Concorso alle elezioni amministrative e alle elezioni politiche, lettere del questore al prefetto, 22 maggio e 5 giugno 1876. 51 Cit. da Mazzonis 1970, p. 233. 52 Ciampani 2000, p. 64 53 «Gazzetta della Capitale» (dal novembre 1875 e fino alla fine del 1878 è il titolo della «Capitale»), 10 giugno 1877. Secondo «La Libertà» dell’8 giugno 1877 «in questa lista ci sono tre candidati moderati puro sangue (Mamiani, Alatri, Lovatelli), tre moderati di idee un po’ più larghe (Bracci, Piacentini, Armellini), tre progressisti moderati (Pericoli, Luigioni e Felice Ferri) e tre progressisti accentuati (Seismit-Doda, Carancini ed Ettore Ferrari)». 54 «La Libertà», 11 giugno 1877: si trattava di un giornale del pomeriggio con la data del giorno successivo. 55 Pesci 1907, p. 529. 56 «Gazzetta della Capitale», 13 giugno 1877. 57 ASR, Prefettura, Gabinetto, b. 145, fasc. 3947, Consiglieri comunali di Roma (autunno 1877). Gli «abbastanza noti» erano: Cairoli, Correnti, Garibaldi, Mamiani, Menabrea, Sella, Seismit-Doda. Una descrizione del ceto politico comunale in Ciampani 2000, pp. 65 sgg. 58 Ciampani 2000, pp. 138 sgg.; Pesci 1907, p. 530. 59 17 giugno 1879. 60 ASR, Prefettura, Gabinetto, b. 174, fasc. 1815, Relazione sullo spirito pubblico... I semestre 1879, 20 luglio 1879, minuta. Fra gli eletti vi era il principe Paolo Borghese, presidente dell’Unione. 61 Sommario 1895, pp. V-VI; Ciampani 2000, p. 185. 62 21 giugno 1881. 63 Secondo la ricostruzione dell’Arbib, direttore della «Libertà», in un lungo intervento presentato come Pagine staccate dal mio diario, 20 giugno 1881. 64 «La Capitale», 18 giugno 1881. 65 Sommario 1895, p. VI e «La Libertà», 18 luglio 1882. In quell’occasione furono eletti 16 consiglieri. 66 Sulle relazioni fra sistema elettorale e società politica, cfr. Romanelli 1988. 67 ASR, Prefettura, Gabinetto, b. 158, fasc. 1815, Relazione semestrale..., I semestre 1877. 68 Talamo 1979. 69 Monsagrati 1979; Galante Garrone 1973, pp. 194-195. 70 Perodi 1980, pp. 451-452; la cit. a p. 452. 71 Scacchi 1984. 72 Manfroni 1971, p. 45. 73 Un elenco, fino al 1900, in Keller 1989-1990 e in Manfroni 1971, passim. 74 Manfroni 1971, pp. 508 sgg.; Keller 1989-1990, pp. 146 sgg. e anche I fatti della nuova Roma 1885. 75 I circoli anticlericali ebbero una distribuzione rionale e Borgo «fu il primo a dare l’esempio»; fra i compiti principali dei circoli era quello di «promuovere l’istruzione pubblica obbligatoria» e di organizzarsi per le elezioni politiche e amministrative, e soprattutto in relazione alla riforma elettorale del 1882: cfr. Circoli anti-clericali 1882, pp. 5, 7 e 10. 76 Verucci 1981, p. 293. 77 Vedine un elenco, con i testi, in Sommario 1895, pp. LXXV sgg.

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Tobia 1991, pp. 118-119; Levra 1992, pp. 18-21. Dal mercante di campagna Augusto Silvestrelli per 1.550.000 lire. 80 Fiorentino 1996, pp. 575 sgg. ne enumera 48, mentre erano 54 secondo Masotti 1881, pp. 118-119. 81 Cit. in Jemolo 1963, p. 240. 82 Cfr. la voce Soppressione di enti ecclesiastici, in Il Digesto italiano, XXII, 1, 1889-1893, p. 37. 83 Le cifre sono riportate nella voce Asse ecclesiastico, in Il Digesto italiano, IV, 1, 1896, p. 870. 84 Dati tratti da Masotti 1881, p. 112. Sacerdoti, laici, coriste, converse sono le denominazioni e le classificazioni adottate dalla legge del 1873, art. 12. Il desueto termine di «coriste» indica evidentemente le monache che avevano pronunciato i voti completi. 85 Confrontando queste cifre con i dati degli stati delle anime del 1869: vedi sopra, cap. I, p. 28. 86 Cit. in Fiorentino 1996, p. 560. 87 Il Comune ottenne, fra gli altri, gli edifici conventuali dei certosini di S. Maria degli Angeli, dei minori osservanti dell’Aracoeli, degli agostiniani di S. Maria del Popolo. 88 Fondo edifici di culto 1997, pp. 56-57. 89 Veneziani 1995, pp. 709 sgg.; Petrucci 1977, p. 184. 90 Melograni 1957, p. 468. 91 I dati in Gurreri 1988 che fornisce un quadro definitivo delle vendite e degli acquirenti nella Campagna romana. Per l’estensione della proprietà aristocratica nell’Agro al 1913, Della Seta 1988, p. 21. 92 Gori Mazzoleni acquistò la tenuta di Conca, un tempo del Sant’Uffizio, di cui era affittuario, e una porzione di quella di Campomorto del capitolo di S. Pietro per complessivi 8222 ha e 3.685.200 lire; David Montani la tenuta Torre del Padiglione di 3366 ha; i fratelli Tittoni la Tragliatella di 1706 ha (Giunta liquidatrice 1875, pp. 42-43 e Gurreri 1988, p. 122). 93 Giunta liquidatrice 1875, pp. 40 sgg. 94 Bartoccini 1985, pp. 663 sgg. 95 Per le diverse valutazioni, Polenghi 1993, pp. 383 sgg. 96 Morpurgo 1881, pp. 59-60. 97 Polenghi 1993, pp. 388 sgg. 98 Monsagrati 2000b, p. 407 e per gli sviluppi e i problemi di quell’insegnamento, pp. 431 sgg. 99 Per un confronto, vedi l’elenco delle materie e dei corsi per gli anni 18691870 e 1878-1879 in appendice a Morpurgo 1881, pp. 90 sgg. 100 Tamassia Galassi Paluzzi 1967, pp. 256 sgg.; Gurreri 1995. 101 Testimonianza resa alla commissione Scialoja sull’istruzione secondaria, in Montevecchi 1995, pp. 312-313. 102 Tamassia Galassi Paluzzi 1967, pp. 313-317. 103 Tamassia Galassi Paluzzi 1967, pp. 302-304. 104 Nel 1871 gli analfabeti erano in Italia il 68,8%, nel Lazio il 67,1%, il dato più basso dell’Italia centro-meridionale e superiore solo a quello di Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto. 105 Gabelli 1881b, pp. 177-178. 106 Tutti i dati in Rosati 1995. 78 79

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Ordine del giorno del 12 aprile 1878: Sommario 1895, p. 212. Tamassia Galassi Paluzzi 1967, p. 272. 109 Caracciolo 1956, pp. 55 sgg. 110 Seronde Babonaux 1983, pp. 11-13; Pietrangeli 1970, pp. 421-422 e 429. 111 Benevolo 1992, p. 96. 112 Piacentini 1952, p. 13. 113 Cuccia 1991 (indispensabile per un quadro sinottico dello sviluppo urbano) p. 60; Ministeri 1985, p. 134; Pesci 1907, pp. 101-103; G. Miano, Canevari, Raffaele, in DBI. 114 Sulle convenzioni, Carbone Stella Richter 1993, pp. 435 sgg. Un elenco delle maggiori convenzioni fra il 1870 e il 1900 in Della Seta 1988, pp. 35-37. Cfr. anche Via Cavour 2003. 115 Il fenomeno della speculazione è al centro della puntuale ricostruzione di Caracciolo 1956 e Insolera 1993 (ma la 1a ed. è del 1962), le opere più rappresentative della prima stagione di studi critici su Roma capitale, divenute presto due classici: con l’occhio ai conflitti politici degli anni Cinquanta e alle prospettive della progettazione della Roma contemporanea, Caracciolo e Insolera sottolineano gli errori da evitare e i percorsi virtuosi da compiere. Per la speculazione sulle aree e gli investimenti nei quartieri dei primi anni dopo l’Unità, cfr. Caracciolo 1956, pp. 53-59. 116 Sommario 1895, p. 153 e più in generale pp. 150-161; Insolera 1993, pp. 27 sgg.; Insolera 1959a, pp. 74 sgg. 117 «La Voce della Verità», 14 e 15 ottobre 1873. 118 Pianciani 1874, p. 6 (con alcune integrazioni alla punteggiatura). 119 Pianciani 1882, p. 56. 120 Sella 1887-1890, II, p. 279. 121 Piacentini 1952, pp. 14-17. 122 Mengoni 1873, pp. 5-7, e cfr. Miano 1984, pp. 32-33. 123 Giovanetti 1984, pp. 379 sgg. 124 Calza 1911, p. 16; e in generale Pasquarelli 1984, pp. 298-302; Tafuri 1959, pp. 97 sgg. 125 Monti 1873, p. 596; e cfr. Pietrangeli 1970, p. 419. 126 Secondo le ricerche di D. Bocquet, e cfr. Bocquet 1999. 127 Ma già Ruspoli, in seguito alle difficoltà finanziarie del Comune, nel 1875 aveva presentato un ordine del giorno per aprire trattative con il governo «per l’ultimazione dei quartieri iniziati»: Raccolta degli atti 1883, p. 3. 107 108

Capitolo terzo Perodi 1980, p. 478. Depretis, sostenuto allora e in seguito da Camillo Boito, nel replicare alla Camera alle critiche del Bonghi, affermò che comunque quel quartiere sarebbe stato da abbattere perché segnato dai «più squallidi abituri di Roma» e da niente che meritasse di essere conservato, AP, Camera, Discussioni, 10 maggio 1883, pp. 3001-3002. Cfr. Manieri Elia 1991, pp. 519-525; Tobia 1998, pp. 34-36; Brice 2005, pp. 205 sgg. 1 2

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Monti 1873, pp. 594-596. Faldella 1885, p. 17. Dal 1878 al 1881 Faldella fu corrispondente da Roma della «Gazzetta piemontese»; deputato nel 1881, non fu rieletto nel 1882 ma tornò alla Camera nel 1886; senatore dal 1896. 5 Faldella 1885, pp. 18-19. 6 Faldella 1885, p. 42. 7 AP, Camera, Discussioni, 16 marzo 1881, p. 4407. 8 Sul dibattito: Bonadonna Russo 1970, pp. 266 sgg.; Bartoccini 1991, pp. 81-96; Bartolini 2006, pp. 122-126. 9 AP, Camera, Discussioni, 14 marzo 1881, pp. 4337-4355, anche in Sella 1887-1890, I, pp. 273-311. 10 Sella 1887-1890, I, p. 275. 11 Sella 1887-1890, I, p. 283. 12 Relazione presentata alla Camera dei deputati, 24 gennaio 1881, in Sella 1887-1890, I, p. 237. 13 AP, Camera, Discussioni, 12 marzo 1881, p. 4293. 14 AP, Camera, Discussioni, 12 marzo 1881, p. 4298. 15 AP, Camera, Discussioni, 12 marzo 1881, p. 4299. 16 AP, Camera, Discussioni, 15 marzo 1881, pp. 4376 e 4379. 17 Sella 1887-1890, I, p. 308. 18 AP, Camera, Discussioni, 11 marzo 1881, p. 4284. 19 Ciampani 1998, pp. 499 sgg. 20 Firmata il 14 novembre 1880, per il Comune dal facente funzione di sindaco Augusto Armellini e dall’assessore al Bilancio Federico Seismit-Doda, per il governo da Benedetto Cairoli. 21 Artt. 2 e 3 della convenzione; e cfr. Caravale 1996, p. 138. 22 Art. 2 della legge. 23 Piano regolatore 1882, p. 51; Piacentini 1952, p. 28; cfr. anche Insolera 1959b, p. 114 e Insolera 1993, pp. 46 sgg. 24 Piano regolatore 1882, p. 64. 25 Piano regolatore 1882, pp. 71-72. 26 Vedi le numerose proposte dal 1872 al 1900 in Accasto, Fraticelli, Nicolini 1971, pp. 162-165. 27 Piacentini 1952, p. 29. 28 Per la distruzione delle grandi ville, Della Seta 1988, pp. 65 sgg.; un elenco alle pp. 84-87. 29 La S. Sede agevolò l’operazione concedendo ai Boncompagni un prestito volto a sistemare le pendenze ereditarie: Lai 1999, pp. 108 sgg. 30 Vedi l’elenco dei lotti, dei progettisti e dei proprietari in Architettura e urbanistica 1984, pp. 169-171; per la vicenda nel suo insieme, Ferretti, Garofalo 1984a, pp. 172 sgg. Esempi di villini in Accasto, Fraticelli, Nicolini 1971, pp. 196197. 31 Folchi ottenne un prestito di 100.000 dai fondi personali di Leone XIII: Lai 1999, p. 110. 32 Vidotto 1997, pp. 17-18. 33 Sulle trasformazioni di piazza Venezia in rapporto con il monumento a Vittorio Emanuele, Racheli 1988, pp. 30 sgg.; Bertelli 1997, pp. 183-184. 34 Boito 1875, pp. 189 e 190. 35 Boito 1875, pp. 196-197, cit. anche in Miano 1984, pp. 34-35. 3 4

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Quaroni 1969, p. 398. Faldella 1885, p. 18. 38 Valenti 1890, pp. 320-321. 39 Valenti 1890, pp. 325-326. 40 300 milioni erano pari al 3% circa del prodotto interno lordo del 1887. Per consentire un raffronto orientativo ricordo che una lira del 1887 è equivalente a circa 6000 lire del 2000 e a 3 euro. 41 «Le banche e le società immobiliari si procuravano denaro dagli altri istituti di credito e dagli istituti di emissione [...] soprattutto riscontando le cambiali ad esse rilasciate dai costruttori sovvenzionati, garantite su ipoteche sui terreni e sugli stabili oggetto di lavori. All’indomani del fallimento o della impossibilità di gran parte dei costruttori di onorare gli effetti firmati e nella quasi impossibilità di vendere le proprietà acquisite, le banche e le società immobiliari si trovavano così esposte verso gli istituti creditori per somme rilevantissime»: Bocci 1999, p. 141, nota 9. 42 Bocci 1999, pp. 136-137. 43 Sommario 1895, p. 191. 44 Luzzatto 1968, p. 163. 45 Bocci 1999, p. 129. 46 La Cassa di risparmio di Roma sostanzialmente si sottrasse alle operazioni di speculazione edilizia, mentre il Banco di Roma vi partecipò in misura inferiore alle altre banche: cfr. d’Errico 1999, pp. 184 sgg. e De Rosa 1982, pp. 6367 e 80-82. 47 Candeloro 1970, pp. 357-358. 48 ASR, Questura, b. 33. 49 Turco 1985-1986, pp. 190-196; Guiccioli 1973, pp. 151-152. 50 Cafagna 1952, pp. 745 sgg. 51 Come ha ricordato Levra 1992, p. 350, «Crispi seppe mettere la propria forte sensibilità per la forza trascinatrice dei miti al servizio di una autorappresentazione come ultimo sopravvissuto della ‘generazione degli eroi’ che aveva dato vita alla patria comune». 52 Crispi 1890, p. 441: si tratta di un discorso pronunciato il 23 marzo 1884 al Collegio Romano a beneficio della Cassa sovvenzioni per gli studenti bisognosi. 53 Crispi 1915, II, 16 marzo 1881, p. 487; 10 marzo 1881, pp. 480-481. Cfr. anche Tobia 1991, p. 26. 54 Uno dei progetti presentati a quel concorso, quello dell’ing. Giovanni Barbiani di Bologna, aveva per motto «Trasformismo», non si sa se per omaggio o dileggio a Depretis: cfr. catalogo dei progetti in ACS, Presidenza del consiglio dei ministri, Commissione reale per la costruzione del palazzo del Parlamento, b. 3, fasc. 8, sottofasc. 5. 55 Una pianta dell’area (ivi, fasc. 9, sottofasc. 1) denuncia un andamento assai vario delle quote: dai 37 metri di via Nazionale si passava ai 48-49 dei giardini di Aldobrandini, ai 40-48 dell’ex convento, ai 27 della salita del Grillo e ai 25 del margine di via Baccina. 56 ACS, Crispi, Roma, fasc. 234, Documentazione relativa alla scelta della località per la costruzione del nuovo Parlamento, allegato B, p. 11; la relazione è datata 18 agosto 1888. Beltrami, milanese, curò il restauro del Castello sforzesco. 57 ACS, Crispi, Roma, fasc. 234, Documentazione..., relazione cit., pp. 43-45. 36 37

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ACS, Crispi, Roma, fasc. 234, Documentazione..., allegato M. Basile aveva partecipato a entrambi i concorsi per il nuovo Parlamento ed era stato premiato nel secondo. Sulle vicende del palazzo di Montecitorio, cfr. Borsi 1967, pp. 266 sgg. 60 Bertelli 1997, pp. 171-172; Banti 1996, p. 253. 61 I morti furono 433 e i feriti 82. 62 D’Onofrio 1965, pp. 303 sgg. 63 Berggren, Sjöstedt 1996, pp. 137 sgg. 64 «La Capitale», 5-6-7 giugno 1887. 65 Cit. in Berggren, Sjöstedt 1996, p. 141. 66 «La Capitale», 5-6-7 giugno 1887. Al momento dell’inaugurazione mancava ancora il piedistallo dell’obelisco. 67 Si trattava di un leone in bronzo, coronato, posto originariamente nella stazione di Addis Abeba, donato da una società ferroviaria francese a Hailè Selassiè nel 1929. Fu rimosso dal monumento a Dogali dopo l’occupazione alleata e quindi restituito all’Etiopia: D’Onofrio 1965, pp. 306-307 e Barberini 1987, p. 184. 68 «Il Messaggero», 16 aprile 1925; Cronologia 1973, p. 65. 69 Romano 1949, p. 176; la decisione fu presa il 18 febbraio 1916. 70 Un’accurata ricostruzione di tutta la vicenda in Berggren, Sjöstedt 1996, pp. 29-35, 123-136, 154-156, 161-182; cfr. anche Foa 1998, pp. 7-21. 71 Per la variegata articolazione professionale della massoneria romana, dove prevalevano medici, impiegati, ufficiali dell’esercito, avvocati, studenti, si veda la composizione della loggia «Goffredo Mameli» in Cordova 1985, pp. 231 e 310. 72 Ciampani 1999. 73 Intervento del consigliere Carlo Santucci, in Sommario 1895, p. 365. Il sindaco commentò così nel suo diario: «Sono contento di aver votato a favore e, insieme, che la proposta non sia passata», Guiccioli 1973, p. 153. 74 Municipio 1891, p. 38: i votanti furono 23.472. Solo nel 1872 e nel 1880 era stato di poco superato il 50%. Cfr. anche Bianchini 1997-1998, pp. 70 sgg. 75 Secondo la stima più favorevole. 76 Cfr. anche Guiccioli 1973, p. 161. 77 Tobia 1991, pp. 100 sgg. 78 Promossa dalla Società per il bene economico di Roma fondata nel 1889 e presieduta da Guido Baccelli. 79 Stampata dallo Stabilimento Rolla di A. Marzi, Roma, riprodotta in Berggren, Sjöstedt 1996, p. 232 e tav. 53. 80 Crispi 1915, II, p. 651: intervento del 2 giugno 1883, cit. in Berggren, Sjöstedt 1996, p. 240. 81 Per tutta questa fase della politica monumentale Berggren, Sjöstedt 1996, pp. 195 sgg. e in particolare per le celebrazioni del 1895, pp. 239 sgg.; cfr. anche Tobia 1991, pp. 143 sgg.; Francescangeli 1997, pp. 210 sgg. 82 Un album pubblicato in quell’occasione, Il Pantheon degli eroi e il giubileo italiano, Tip. Ripamonti, Milano 1895, con una rievocazione del 20 settembre di Alfredo Baccelli, portava impressi sul piatto Vittorio Emanuele e Garibaldi, lo stemma di Roma e quello dell’Italia. 83 Labriola 1983, p. 542. Cfr. anche Vitale 1972, p. 254; in realtà le lettere al maggiordomo erano 108 e non tutte di mano di Lina Crispi: cfr. p. 252. 84 Barbagallo 1995, p. 43. 58 59

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85 I dati sono relativi alla popolazione presente: alle stesse date la popolazione residente era, rispettivamente, di 275.637 e di 424.943; Friz 1974a, tab. XXVII e Popolazione e territorio 1960, p. 23. 86 Friz 1974a, p. 124. 87 Friz 1974a, p. 126. 88 Caracciolo 1956, p. 42. 89 Inchiesta sulle abitazioni 1908, p. 246. L’inchiesta aveva preso in esame complessivamente 5000 casi. 90 Inchiesta sulle abitazioni 1908, p. 129. 91 Dati citati in Fiorentino 1996, p. 559. 92 Friz 1974a, p. 127. 93 Friz 1974a, tab. XXXII: nel 1901 gli addetti all’agricoltura rappresentavano l’11,7% della popolazione attiva, mentre erano il 33,5% nell’industria e il 54,6 nel terziario, di cui il 19,6 nella pubblica amministrazione. Lievemente, ma non significativamente diverse sono le cifre riportate da Seronde Babonaux 1983, tab. 32. 94 Insieme ai mercanti di campagna la Guida elencava gli esercenti di industrie agricole, i negozianti di bestiame, i produttori di formaggi. 95 Guida Monaci. Guida Commerciale di Roma e Provincia alle singole voci. Cfr. altri dati rielaborati da Isastia 1988. 96 Elenco contribuenti 1889: per Roma sono elencati, nella categoria B (quella comprendente i redditi di impresa), 111 contribuenti su 115 dell’intera provincia. 97 Notizie 1893: per i telefoni, cfr. p. 24; manca il dato di Milano. Le due società erano la Società romana dei telefoni e la Società anonima cooperativa dei telefoni: la prima aveva 54 impiegati maschi e altrettante femmine (nel 1888), la seconda rispettivamente 32 e 29 (nel 1891). 98 In corrispondenza con le partenze dei treni: cfr. Guida Monaci 1895, p. 381. 99 Notizie 1893, tav. XI. Altri dati, per i primi anni del secolo, confermano questa superiorità: Scattarreggia 1988, p. 61. 100 Tutti i dati sono tratti da Notizie 1893, tav. X e p. 12. Per un appartamento di prezzo medio si pagavano a Roma 80-110 lire, a Parigi 335, a Londra 75-105, a Berlino 62-85. 101 Dell’Arco 1970, passim e le locandine ivi riprodotte. 102 Rossi 1999, pp. 232-233. 103 Pécout 1990, pp. 598 sgg. 104 Rossi 1999, pp. 237-238. 105 Casella 1979, p. 32. 106 Nel 1895 i rioni erano così ripartiti nei collegi di Roma: I, Monti, Campitelli; II, Esquilino, Castro Pretorio, Colonna, Trevi, Agro romano; III, Campo Marzio, Parione, Sant’Eustachio, Pigna; IV, Ponte, Regola, Sant’Angelo, Ripa; V, Trastevere, Borgo. 107 Bartoccini 1985, p. 621. 108 Civitelli 1981, pp. 173 sgg.; Falco 1996, pp. 29 sgg. 109 Civitelli 1981, p. 227. 110 Bartoccini 1985, p. 648. L’elenco delle associazioni fondatrici in Casella 1995, p. 45; fra le più importanti Compositori tipografi, Cooperativa operai scalpellini, Mutuo soccorso vetturini, Unione emancipatrice muratori.

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Casella 1979, pp. 47-49. Turco 1985-1986, pp. 223-230; Cafagna 1952, pp. 769-771; Morelli 1991, p. 59. 113 Casella 1979, pp. 160 sgg., 245 sgg. e 388 sgg. 114 A Aigues-Mortes vi furono una trentina di morti e un centinaio di feriti fra gli italiani. Sui disordini, durati dal 19 al 21 agosto, Perodi 1980, pp. 804 sgg. e Casella 1979, pp. 207 sgg. 115 Casella 1979, pp. 340 sgg. Crispi abitava a via Gregoriana 24; l’anarchico che sparò i due colpi di pistola andati a vuoto era il romagnolo Paolo Lega. 116 Annibali 1993, pp. 56 sgg. e 87-90. 117 Procacci 1970, pp. 267-269, 278-280; Talamo 1987, pp. 144-145; Salvatori, Novelli 1993, pp. 24-26. 118 Talamo 1987, pp. 146-147. 119 Durerà fino al 1925 e per alcuni mesi, nel 1895, fu quotidiano: Majolo Molinari 1963, pp. 76-80. Cfr. Chiesa 1990, pp. 9 sgg. 120 Notizie 1893. 121 Cuccia 1991, alle singole voci. 122 Si trattava di 164 comunità religiose (89 maschili e 75 femminili) e di 103 fra associazioni e sodalizi, cfr. Casella 1995, pp. 240-241, e l’elenco pp. 244 sgg. 123 Martina 2000, p. 1089. 124 Iozzelli 1985, pp. 237 sgg. 125 Caviglia 1996, pp. 84 sgg. 126 Caviglia 1996, pp. 66-70. 127 A. Cimmino, Chauvet, Costanzo, in DBI. 128 Scacchi 1990; L. Rossi, Coccapieller, Francesco, in DBI. 129 Majolo Molinari 1963, pp. 399-400 e 706-707. 130 Sbarbaro 1884, p. 5. 131 Sbarbaro 1884, pp. 335-336. 132 Lombroso 1887, pp. 65 sgg. per Coccapieller, pp. 97 sgg. per Sbarbaro, «il terzo tribuno, o meglio, il terzo mattoide». Nel 1882 Lombroso aveva pubblicato Due tribuni con il solo Coccapieller accanto a Cola di Rienzo. 133 Cicchetti 1989, pp. 553 sgg. Cfr. la documentazione fotografica di molti momenti di quella vita mondana e di altre occasioni di socialità in Fotografie e illustrazioni 1984. 134 Pubblicata su «La Tribuna», 20 luglio 1886: D’Annunzio 1992, pp. 591592. 135 Turf, in Roma bizantina 1979, pp. 95-96, datata 1° maggio 1882; e D’Annunzio 1991, p. 146. 136 Studii di nudo II, in D’Annunzio 1884, p. 20. 137 Budillon 1970, p. 242. 138 Il romanzo parlamentare 1980. 139 Jemolo 1991, p. 41. 140 Jemolo 1991, p. 45. 141 Ibid. 142 Friz 1974a, pp. 129-130. 143 Niceforo era del 1876, Sighele del 1868. 144 Niceforo, Sighele 1898, p. 26. 145 Niceforo, Sighele 1898, p. 29. 146 Niceforo, Sighele 1898, p. 55. 111 112

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Niceforo, Sighele 1898, pp. 101 sgg. e 103. Banti 1996, p. 246. 149 Roma bizantina 1979, p. 146: Le donne buzzurre. La bellezza delle romane, nella rubrica Corriere di Roma, 1° settembre 1883, a firma Imbianchino, sotto cui si celavano, di volta in volta, la Serao, D’Annunzio e altri. 150 Jemolo 1991, p. 54. 151 Zanazzo 1908, pp. 285 e 289. 152 Cit. in Manacorda 1993, p. 106. 153 Municipio 1891, p. 38. 154 Bartoccini 1985, pp. 630-632; Tinari 1997-1998, pp. 149 sgg. 155 Belardinelli 1986, pp. 21 e 27; Talamo 1987, pp. 110-111. 156 Caravale 1996, p. 162; per l’illustrazione dei contenuti della legge, pp. 149 sgg. Totalmente diversa l’interpretazione di Caracciolo 1956, p. 214, sul significato della legislazione speciale. 157 Citazioni dalla legge 20 luglio 1890, n. 6980. Sul sistema della beneficenza a Roma e sulle sue difficoltà e incertezze operative, Taviani 2000; si veda anche Piccialuti Caprioli 1984, pp. 331-333 e 1991, pp. 424 sgg. 158 Bocci 1999, p. 140. Sul ruolo svolto dalla Banca d’Italia nelle trasformazioni edilizie, cfr. La costruzione della capitale 2002. 147 148

Capitolo quarto Levi 1945, pp. 220 e 216-217. «L’Osservatore romano», 27 novembre 1907. 3 Cit. in Talamo 1979, pp. 262-263. 4 «La Tribuna», 27 novembre 1907. 5 Carte Giolitti 1962, II, p. 354. 6 Cafagna 1986, pp. 40 e 43-44. 7 Cardano 1980 e Puglia 1980; Bortolotti 1988, pp. 191-196; Alatri 2000, pp. 75 sgg. 8 Toschi 1998, pp. 70 sgg. 9 «La Vera Roma», 17 novembre 1907. 10 Talamo 1987, pp. 116-119; Macioti 1995, pp. 38-41 e 148-149. Si rammenti che la lista poteva essere votata in blocco e che 16 seggi su 80 (il 20%) spettavano alla minoranza. 11 Ullrich 1986, p. 119. La famiglia Nathan aveva aiutato a più riprese Mazzini fino alla morte, avvenuta a Pisa nella casa di una sorella di Ernesto, Giannetta, sposata Rosselli. Sara Levi Nathan, madre di Ernesto, dopo la morte del Mazzini, rilevò tutti i diritti sui suoi scritti, destinati al figlio Giuseppe e passati poi ad Ernesto: Levi 1945, pp. 44-45. 12 Ullrich 1972, pp. 28-29. 13 Macioti 1995, p. 149. 14 «ll Corriere d’Italia», 24 novembre 1907. 15 Macioti 1995, p. 52. 16 Tutte le citazioni da Cinque anni 1912, pp. 18-22. 17 Discorso del 2 dicembre 1907, in Cinque anni 1912, p. 12; anche in Macioti 1995, p. 44. 1 2

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Ciampi 1986, p. 183. Ciampi 1986, pp. 59-60. 20 Per le argomentazioni di Montemartini a favore dell’intervento pubblico: Barbalace 1994, pp. 33 sgg. 21 Montemartini in Consiglio comunale, 22 maggio 1908, cit. da Ciampi 1986, pp. 162-163 e da Attanasio 1992, p. 379. 22 Cit. da Ciampi 1986, p. 167. 23 Aquarone 1988, p. 519. 24 da Empoli 1993, p. 93. 25 Ciampi 1986, pp. 189 sgg. 26 Cfr. Relazione 1907. 27 Discorso del 2 dicembre 1907, in Cinque anni 1912, p. 11. 28 Miano 1984, pp. 43-44. Sanjust fu in seguito deputato del Partito popolare. 29 Art. 8 del Regolamento edilizio speciale, R.D. 24 dicembre 1911, n. 1522. 30 Sanjust 1908, p. 10 e in Miano 1984, p. 44. 31 Sanjust 1908, pp. 15-16. 32 Piacentini 1952, p. 85 e per un’analisi dettagliata del piano, pp. 77-86. Cfr. anche Insolera 1993, pp. 89-101 che ne dà una valutazione largamente positiva. 33 Neri 1998, pp. 39 sgg. 34 Sanjust 1908, pp. 48-49. 35 Grispigni 1988, pp. 175 sgg.: nel 1909 le fornaci in attività erano 25, ma se ne contavano 71 nel 1886. 36 Manifesto diffuso in previsione di un comizio contro il rincaro delle pigioni riprodotto in Annibali 1993, p. 100. Cfr. ASR, Prefettura, Gabinetto, b. 522, 11.6, Agitazione per il rincaro delle pigioni, febbraio 1904. 37 Inchiesta sulle abitazioni 1908, p. 32. L’indice di affollamento era di 0,51-1 vani per abitante per il 54,3% degli impiegati d’ordine e per il 49,5% per quelli di servizio, mentre era di 1-2 vani per abitante per il 33,7% dei primi e per il 12,2% dei secondi (ivi, p. 30). Il personale d’ordine in alloggi fino a due camere nel 66% dei casi disponeva di latrine di uso promiscuo e nel 67% di acqua potabile promiscua (ivi, p. 32). Nel 1907 solo il 32% circa del personale d’ordine risiedeva nella stessa casa in cui abitava nel 1900. Cfr. anche Talamo 1987, pp. 31-35. 38 Lunadei 1992, pp. 32-33. 39 Orano 1912, pp. XIV-XV. 40 Orano 1912, pp. 119-120. 41 Orano 1912, p. 163. 42 Orano 1912, pp. 216-217. 43 Orano 1912, p. 217. 44 Orano 1912, p. 732. 45 Nel 2000 la mortalità infantile del Lazio è giunta allo 0,8-0,9%. 46 Orano 1912, p. 733. 47 Toschi 1998, pp. 81 sgg. 48 Lunadei 1992, pp. 61 sgg.; Cocchioni, De Grassi 1984, pp. 24-36, 163166. 49 Ferretti, Garofalo 1984b, p. 214; Briotti 1988, pp. 63-81; Cocchioni, De Grassi 1984, pp. 154-157. 50 Toschi 1998, p. 69. 51 Insolera 1993, pp. 80-81; Caracciolo 1956, pp. 260 sgg. 18 19

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52 Canali 1984, pp. 1091-1092. La Camera del lavoro aveva subito nel 1907 una scissione (ricomposta nel 1910) con la fuoruscita degli anarco-sindacalisti. Nel 1908 i fatti di piazza del Gesù rappresentarono l’evento simbolo di una radicalizzazione delle divisioni. Il 2 aprile i funerali di un muratore, il pontarolo Cesare Premucci, morto in seguito ad un incidente sul lavoro, che intendevano attraversare il centro cittadino per dare visibilità al disagio e alla radicalità dell’opposizione operaia degli anarco-sindacalisti, si trasformarono in duri scontri a piazza del Gesù. La forza pubblica usò le armi per disperdere il corteo facendo quattro morti e numerosi feriti: Canali 1984, p. 1075. 53 Ullrich 1972, pp. 82 sgg.; Talamo 1987, pp. 164-168; da ultimo Roccucci 2001, pp.134-138. 54 Staderini 1987, p. 538: 33.500 voti ottenne l’alleanza liberalnazionalistaclericale, 28.000 il blocco laico, 3500 l’Unione socialista romana. 55 Fleres 1911, p. 2. 56 La piazza, oggi intitolata alla Repubblica, è comunemente chiamata piazza dell’Esedra, in ricordo dell’esedra delle terme che gli edifici di Koch, completati dall’impresa Feltrinelli nel 1902, riprendono nel disegno con la loro curvatura. 57 Spostato in via Cernaia sul lato opposto del ministero nel 1927, dove era già il monumento a Silvio Spaventa del 1898. 58 Cambedda, Cardano 1984, p. 250. 59 Vidotto 2000, pp. 505-508. 60 Tobia 1998, p. 68. 61 Jemolo 1991, pp. 48-49. 62 U. Tavanti, Il monumento spauracchio di Lipsia confrontato col monumento di Roma, in «L’Illustrazione italiana», 4 luglio 1915, ripreso da «L’Idea nazionale». 63 Fleres 1911, p. 41. 64 Con l’ing. Francesco Guazzaroni e lo scultore Vito Pardo. Lo stadio fu ristrutturato nel 1928. 65 Lupano 1991, p. 15. 66 Cit. in Tobia 1998, pp. 15-16. 67 Guida ufficiale 1911, con le piante e le fotografie di tutti i padiglioni e tutte le istallazioni. 68 Gli edifici dei Beni stabili (ora su viale Mazzini) e della Cooperativa impiegati (via Settembrini angolo via Menotti), insieme ad alcuni villini e alcuni esempi di case popolari, sono ancora esistenti: Rossi 2000, pp. 18-20. 69 Nicolini 1980, p. 45. 70 Guida ufficiale 1911, pp. 152-153. 71 Questa stessa immagine è posta sul frontespizio della Guida ufficiale 1911, e cfr. anche p. 100.

Capitolo quinto Barbagallo 1995, p. 125. Staderini 1987. 3 In via della Croce Bianca, una strada cancellata dagli sventramenti compiuti per tracciare via dell’Impero. 1 2

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Talamo 1987, p. 173; Salvatori, Novelli 1993, p. 92. I disordini e gl’incidenti nei tre giorni di sciopero a Roma, in «Il Messaggero», 11 giugno 1914; Lotti 1965, p. 151; Staderini 1987, pp. 534 sgg.; Salvatori, Novelli 1993, p. 96. 6 La cattedra profanata in «Il Popolo d’Italia», 12 dicembre 1914, cit. in Staderini 1995, p. 32 e Gibelli 1998, p. 70. 7 Giovanni Miceli in «Il Fascio repubblicano», cit. da Staderini 1995, p. 33. 8 D’Annunzio 1915, pp. 67-72. I riferimenti sono, ovviamente, all’inno Fratelli d’Italia di Goffredo Mameli, il poeta morto non ancora ventiduenne nel 1849 per una ferita riportata sul Gianicolo durante la difesa della Repubblica romana. 9 L’ex cancelliere Bernhard von Bülow era dal 1914 a Roma nell’intento di evitare l’intervento dell’Italia. L’ambasciata tedesca era a palazzo Caffarelli sul Campidoglio, la residenza di Bülow a Villa Malta. 10 D’Annunzio 1915, pp. 74-78. La legge di Roma è il titolo della sezione che raccoglie, in Per la più grande Italia, i discorsi pronunciati a Roma in quei giorni. 11 È un testo riportato dal «Messaggero», cit. in Staderini 1995, p. 48; e cfr. Volpe 1940, p. 252. 12 I discorsi erano divulgati dai giornali o da opuscoli immediatamente stampati. Per la più grande Italia fu pubblicato nella prima settimana di luglio: cfr. la notizia pubblicitaria dell’editore Treves in «L’Illustrazione italiana», 4 luglio 1915. 13 D’Annunzio 1915, p. 83. 14 «Il Messaggero», 18 maggio 1915. 15 Ibid. 16 D’Annunzio 1915, pp. 91-92, 96, 98-99, 101. 17 Cit. in Staderini 1995, p. 53. 18 E. Moschino, Le grandi giornate di Roma, in «L’Illustrazione italiana», 23 maggio 1915. 19 «Il Messaggero», 13-18 maggio 1915; «La Tribuna», 14-19 maggio 1915 (questo giornale usciva di pomeriggio e portava la data del giorno successivo); «Corriere d’Italia», 13-18 maggio 1915; «L’Illustrazione italiana», 23 maggio 1915. 20 Staderini 1995, p. 79. 21 Il solenne pellegrinaggio del popolo all’Altare della Patria, «Il Messaggero», 3 novembre 1915. 22 Bertelli 1955, p. 82; Salvatori, Novelli 1993, pp. 107 sgg. Su 803 edili 499 si schierarono con gli interventisti, di contro ai soli 7 su 2017 poligrafici. 23 Staderini 1995, p. 247. Gli iscritti al Partito socialista nella provincia di Roma erano scesi da 1260 nel 1914 a 592 nel 1917: Staderini 1995, p. 244. 24 Pagnotta 2001, p. 13. 25 Staderini 1995, pp. 317-330. 26 Curli 1998, pp. 147 sgg. 27 Tutta la vicenda delle tranviere romane è ricostruita da Pagnotta 2001, pp. 16-70. 28 Curli 1998, pp. 223 sgg. 29 Per tutti questi aspetti Staderini 1995. 30 Staderini 1995, pp. 413 sgg. 31 Mariani 1981, pp. 179-180; L. Jannattoni, Capanna, Pietro, in DBI. 32 Staderini 1995, pp. 82, 281, 83 e 122. 4 5

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Staderini 1995, p. 282. Staderini 1995, p. 375. 35 Staderini 1995, pp. 81 e 120; La memoria perduta 1998, p. 114. Muñoz 1935, p. 8 indica 4814 caduti, 5 medaglie d’oro, 382 d’argento, 202 di bronzo, 319 croci di guerra. 36 Deganello 1927, pp. 787, 790-791. Nell’ottobre 1918 la mortalità a Roma fu di sette volte superiore a quella consueta e i quartieri più colpiti furono anche quelli più affollati e più poveri: Tiburtino, ossia San Lorenzo, e Testaccio. Negli anni di guerra aumentò anche il tasso di mortalità per tubercolosi, che passò dal 2,28‰ del 1914 al 3,92‰ del 1918. 37 «Il Messaggero», 3 novembre 1918. Erano state ridotte anche le luci perpetue del Verano. 38 Le cifre sono chiaramente gonfiate: cfr. «Corriere della Sera» e «ll Messaggero», 5 novembre 1918. 39 Tutte le citazioni sono tratte dalla cronaca del «Messaggero», 5 novembre 1918. 40 Volpe 1940, p. 267. Il libro di Volpe, scritto fra il 1923 e il 1924, fu pubblicato integralmente solo alla vigilia della nuova guerra. 41 Cit. in Staderini 1995, p. 390. 42 Toschi 1994a, pp. 15-17 e Toschi 1998, pp. 75 sgg.: l’intervento fu progettato dall’ing. Errico Bovio del Genio civile. 43 Ruini 1916, p. 41. 44 Ruini 1916, p. 46. 45 I nostri gloriosi morti, in «Il Messaggero», 4 novembre 1918. 46 La memoria perduta 1998. 47 Cfr. in La memoria perduta 1998 le singole schede, pp. 105-106, 110, 102, 109, 123, 82, 69. 48 Alla vigilia delle elezioni del 1921 fu concesso un aumento fra le 150 e le 200 lire: «Il Giornale d’Italia», 8 maggio 1921. 49 Cit. in Bartolini 2001, pp. 16 sgg., che ricostruisce tutta la vicenda. 50 Queste due cooperative avevano ottenuto entrambe oltre 30 milioni di finanziamenti dalla Cassa depositi e prestiti e ricevevano, nel 1922, 600.000 lire di contributi annui al pagamento degli interessi: Bartolini 2001, pp. 51-52, 5455 e 201 sgg.; Bartolini 1999, pp. 164 e 175. 51 Migneco 1988, pp. 349-350. 52 Elezioni 1919 1920, p. XXXVII. 53 Elezioni 1919 1920, p. XXXV. 54 Elezioni 1919 1920, pp. 110-113; per lo scorporo dei risultati di Roma, cfr. Maroi 1921, p. 268 e anche «La Tribuna» e «Il Giornale d’Italia», 19 novembre 1919, che presentano tuttavia qualche modesta differenza con i dati calcolati successivamente da Maroi. 55 «Il Messaggero», 25 e 26 maggio 1920; «L’Idea nazionale», 26 e 27 maggio 1920. Chiurco 1929, II, pp. 63-64 e Muñoz 1935, p. 10, attribuiscono la sparatoria alla sola Guardia regia. 56 Il presidente del Consiglio Nitti era convinto dell’imminenza di un colpo di mano dalmata, come risulta da un appunto autografo preparato come base di replica all’interrogazione di venti senatori sugli arresti indiscriminati di fiumani e dalmati compiuti dopo i fatti del 24 maggio; arresti che coinvolsero anche «varie signore e signorine, tolte queste ultime, agli educandati». Nei giorni prece33 34

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denti all’anniversario dell’entrata in guerra era stato disposto dal questore Cesare Mori un poderoso rafforzamento delle forze di polizia a protezione e sorveglianza di tutti i luoghi pubblici, le poste, le centrali telefoniche, i rioni più pericolosi: ACS, Archivio Francesco Saverio Nitti, b. 52, fasc. 177, sottofasc. 8. Altre manifestazioni nazionaliste si ebbero dopo il Natale 1920, il 26 e 27 dicembre, «contro la condotta del governo imbelle di fronte alla baldanza dei negatori della Patria, tracotante contro la passione nazionale di Fiume e della Dalmazia»: con queste parole un manifestino invitava i cittadini a scendere in piazza. I manifestanti furono a più riprese dispersi in vari punti del centro cittadino dopo che si erano raccolti a piazza Venezia il pomeriggio del 26 dicembre: cfr. ACS, Ministero Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, Div. Affari generali e riservati, 1920, cat. A 5, Agitazioni pro Fiume e Dalmazia, b. 5, che contiene anche un appunto di Giolitti che dà disposizioni per sventare la manifestazione. 57 Migneco 1988, pp. 365-366, per un elenco dei partiti e delle associazioni aderenti all’Unione. 58 Migneco 1988, p. 376. 59 Percentuali calcolate sulla tabella riportata ibid., e cfr. «Il Messaggero», 1° e 3 novembre 1920. 60 Dei 64 eletti nelle liste dell’Unione, 14 erano liberali, 8 nazionalisti, 11 democratici-costituzionali, 16 radicali, 5 socialisti riformisti, 10 rappresentanti di società economiche e sindacali: Migneco 1988, p. 378; ora anche Roccucci 2001, pp. 439-441. 61 Maroi 1921; Elezioni 1921 1924, pp. 126-129. Bottai fu sostituito, dopo tredici mesi di permanenza alla Camera, da Alessandro Dudan. 62 Maroi 1921, pp. 267, 272 e 274. Per i voti delle singole sezioni, cfr. «Il Messaggero», 17-18 maggio 1921. Nelle sezioni di via Salaria la percentuale dei votanti fu del 41%: «Il Giornale d’Italia», 17 maggio 1921; l’astensionismo degli impiegati era duramente stigmatizzato tanto dal «Messaggero» che dal «Giornale d’Italia». 63 La vicenda attende di essere indagata in profondità: cfr. Melis 1980, pp. 192 sgg.; Bosman 1992-1993, pp. 167 sgg. 64 «Il Messaggero», 1° settembre 1920. 65 Salvatori, Novelli 1993, pp. 154-159. 66 Cit. dall’organo nittiano «Il Paese», 7 luglio 1921, in Grispigni 1986, p. 863; Cordova 1969, p. 92; Francescangeli 2000, p. 103. 67 Piccioni 1984, pp. 32 sgg.; Bosman 1992-1993, pp. 296 sgg. e 324; «Il Messaggero», 27-28 maggio 1922, 31 ottobre 1922; Repaci 1972, p. 564. 68 Vedi la cronaca degli episodi nel «Messaggero», 1° novembre 1922. 69 Muñoz 1935, pp. 2-3. 70 Il solenne atto di fede del popolo di Roma su l’Altare della Patria, in «Il Messaggero», 31 ottobre 1920. Il giuramento di Roma potrebbe essere ricollegato a quello pronunciato a Torino il 23 giugno 1918, nel corso di una grande manifestazione patriottica promossa dal sindaco, mentre era in corso l’ultima offensiva austriaca sul Piave: «Noi, cittadini torinesi, per la memoria dei caduti, per l’eroismo dei combattenti di terra e di mare, per l’Italia, per la libertà e la civiltà, per quanto abbiamo di più sacro, giuriamo di resistere, sopportando ogni sacrificio fino alla vittoria», cit. in Rugafiori 1998, p. 71. 71 «Il Messaggero», 5 novembre 1918. La corona fu posta successivamente sotto la statua della dea Roma, che molti cronisti confondevano con l’Italia, al

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posto di un bassorilievo con la lupa e i gemelli: cfr. le immagini pubblicate da «L’Illustrazione italiana», 14 novembre 1920, pp. 612-613 e 13 novembre 1921, p. 575. 72 «Il Giornale d’Italia», 15 maggio 1921. 73 «Il Messaggero», 15 maggio 1921; il titolo della prima pagina era Chi non va oggi a votare è un disertore. 74 Per la cerimonia di quel giorno, Tobia 1998, pp. 79 sgg. La sepoltura di un milite ignoto a ricordo del sacrificio di tutti i caduti avveniva ad imitazione di quanto già compiuto a Londra e a Parigi un anno prima, l’11 novembre 1920, nell’anniversario della vittoria. Non sembra convincente la tesi, già avanzata dai contemporanei, di una primogenitura italiana dell’idea, resa pubblica dal capitano Giulio Douhet – un fiero avversario di Cadorna, poi teorico della guerra aerea – nell’agosto 1920 sul giornale «Il Dovere» da lui diretto, ripresa e realizzata in anticipo da inglesi e francesi: cfr. Labita 1990, pp. 123 sgg. Ci fu presumibilmente una convergenza di idee. Come precedenti secondo Inglis 1993, pp. 9-10, vanno ricordati la Tomb of the Unknown Dead of the War between the States (la guerra civile americana) al cimitero di Arlington in Virginia e soprattutto il cenotafio posto sotto l’Arco di trionfo a Parigi in occasione della parata del 14 luglio 1919. 75 La statua definitiva in marmo di Angelo Zanelli sarebbe stata collocata nell’edicola solo nell’aprile del 1925. «Capitolium» apriva il numero di giugno 1925 con una fotografia della Dea Roma, cui seguiva nella successiva p. 125 un’epigrafe che illustrava la presa di possesso dell’edicola consacratale sul tumulo dell’Ignoto. «Ivi è rimasta. E il popolo di Roma, il popolo d’Italia, / le genti d’oltralpe e d’oltremare chinandosi a venerare / la salma dell’eroe, porgono anche ad essa, divina / custode, l’omaggio. / Così sarà nei secoli. Giacché la tomba del martire innominato santifica il nume di Roma, non come simulacro / di paganesimo ma come palladio delle / rinnovate fortune d’Italia». 76 Fra le prime attestazioni del termine, Il soldato ignoto al Vittoriano, «Il Giornale d’Italia», 8 agosto 1921. In qualche caso ricorreva anche la variante «Vittoriale» come in un manifesto del commissario comunale Cremonesi del 21 aprile 1924, nel quale si può leggere: «Sul fianco del Campidoglio, dove ascende verso il cielo il Vittoriale...», Cremonesi 1927.

Capitolo sesto 1 «Il Messaggero», 31 ottobre 1922. Cremonesi, sindaco dal giugno 1922, era succeduto nella carica a Giovanni (Giannetto) Valli, che era subentrato a Rava nel maggio 1921. 2 «Il Messaggero», 3 dicembre 1922. 3 Dal «Giornale d’Italia», 3 dicembre 1922 riportato in Mussolini, vol. XIX, p. 56. 4 Natoli 1984; Bonetta 1987, pp. 232-236. 5 Sabbatucci 1997, pp. 152-153. 6 I voti di Roma sono stati individuati utilizzando, in questo caso, solo i quotidiani «Il Messaggero» e «La Tribuna», 8 aprile 1924, che presentano dati identici. Queste cifre, come quelle per le elezioni del 1919 e del 1921 riportate nel

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capitolo precedente, differiscono dai dati pubblicati in Talamo 1987, pp. 189, 192 e 200, dove i voti espressi nella capitale non sono scorporati da quelli dell’intera circoscrizione. 7 «La Tribuna», 8 aprile 1924. 8 Cfr. Elezioni 1924 1924, pp. 49-53; Ballini 1988, p. 213. 9 Tranfaglia 1980, pp. 19-20; A. Monticone, Bergamini, Alberto, in DBI. 10 «Il Messaggero», 21, 22, 24 febbraio 1923. 11 Aquarone 1965, p. 83. Sull’avvio del Governatorato: Bonetta 1987, pp. 218 sgg.; Insolera, Perego 1999, pp. 36 sgg. Sull’amministrazione di Roma negli anni del Governatorato la ricostruzione più completa è Salvatori 2006. 12 E. Gatta, Governatorato di Roma, in Nuovo digesto italiano, VI, 1938, p. 438. 13 Parisella 1992, pp. 55-59; Parisella 1996, pp. 177-184. 14 Vedi i nomi dei consultori riportati in «Capitolium», 1930, p. 417: Prof. Alessandro Bacchiani, Prof. Dr. Giulio Bastianelli, Ing. Clemente Busiri Vici, On. Prof. Cesare Serono, Conte Nestore Carosi Martinozzi, Gr. Uff. Ing. Lino De Stefani, On. Rag. Giacomo Ferretti, Comm. Prof. Dr. Riccardo Moretti, Sen. Prof. Corrado Ricci, On. Prof. Avv. Amilcare Rossi, Cav. di Gr. Cr. Avv. Carlo Scotti, Comm. Giovanni Viola. La Consulta non lasciò gran traccia di sé nelle pubblicazioni ufficiali del Comune. Sul «Bollettino della Capitale» che si pubblicò nel 1935-1936, negli anni del governatorato Bottai, in sostituzione di «Capitolium», compaiono alcuni sintetici resoconti delle riunioni mensili della Consulta, in qualche caso investita, tramite l’opera di qualche suo membro, di incarichi particolari, come quello affidato al consultore Carletti di riferire sul «piano regolatore delle latrine pubbliche»: in «Bollettino della Capitale», dicembre 1935. 15 Attanasio 1992, pp. 371 sgg. e 397. 16 La carriera esemplare e le numerose iniziative di Mancini sono state ricostruite con dovizia di particolari e appassionata devozione in un libro della moglie: cfr. Mancini Lapenna 1958. 17 Piacentini 1952, p. 158. 18 Ravaglioli 1984, p. 506; Sanfilippo 1993b, p. 102. Si veda la testimonianza dell’opposizione di Testa alla riorganizzazione della Ripartizione V, Lavori pubblici, un nodo nevralgico del potere amministrativo, promossa da Colonna nel 1937. Testa riteneva che la struttura degli uffici, riorganizzata sotto Bottai per ovviare a disorganizzazioni se non a malversazioni nel settore degli espropri, non andasse modificata. La sua opposizione non ebbe successo, furono cambiati i responsabili e introdotta una nuova Divisione per l’esposizione universale: Salvatori 2006, pp. 96-98; Guida Monaci, 1937 e 1938. Su Testa cfr. Gaspari 2004. 19 Aquarone 1965, pp. 83-84. 20 Bottai 1982, p. 114. 21 Il principe Borghese era presidente della società Condotte d’acqua. Vedi un elenco delle sue cariche in ACS, Pnf, Segreteria particolare del duce, b. 98, fasc. Borghese. 22 Per le varie attività di Muñoz, cfr. Racheli 1994, pp. 747 sgg. 23 Muñoz 1935, pp. IX-X. 24 Sull’abitudine di Mussolini di seguire da vicino l’attività del Governatorato con un’attenzione particolare per tutta una serie di questioni minute, cfr. ACS, Pnf, Segreteria particolare del duce, b. 98, fasc. Borghese, dove i resoconti delle udienze concesse al governatore Borghese nel 1941 e 1942 testimoniano

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un interesse che svariava dalla qualità estetica dell’hotel Bristol a piazza Barberini, alla sistemazione di Castro Pretorio a parco pubblico, ai giubboni per gli addetti alla nettezza urbana, all’assegnazioni di gomme all’azienda trasporti. 25 Cederna 1979, p. V. 26 Cederna 1979, p. 47. 27 «Il Popolo d’Italia», 21 aprile 1922, in Mussolini, vol. XVIII, pp. 160-161. 28 Cfr. sopra, cap. I, la citazione di Mazzini, p. 9. 29 Mussolini, vol. XX, pp. 234-235. 30 G. Bottai, Roma e fascismo, in «Roma», ottobre 1937, p. 352, cit. anche in Gentile 1993, pp. 149-150. 31 Giardina 2000, pp. 220-223 e 247; la cit. a pp. 248-249. 32 Giardina 2000, p. 241. 33 Belardelli 2000. 34 La tradizione italiana, discorso letto al Lyceum di Firenze il 15 aprile 1936, ora in Gentile 1992, pp. 105-106. 35 Gentile 1993, pp. 147 e 150. 36 Cit. in Belardelli 2005. 37 Giardina 2000, p. 243. 38 Mussolini, vol. XX, p. 235. 39 Mussolini, vol. XXII, p. 48. 40 Utilizzo le cifre di Popolazione e territorio 1960, p. 23; questi dati differiscono leggermente, senza comportare problemi per i valori percentuali, da quelli di Friz 1974a, tab. XXVII, dove vengono riportati 462.437 abitanti per il 1901: vedi sopra, cap. III, par. 3. 41 Muñoz 1935, p. 343. 42 Seronde Babonaux 1983, pp. 205-209. 43 I dati sono tratti da Popolazione e territorio 1960, pp. 26-27: non coincidono con quelli riportati in Seronde Babonaux 1983, p. 217 che presentano tuttavia la stessa tendenza. 44 Popolazione e territorio 1960, pp. 26-27. 45 Seronde Babonaux 1983, p. 231. 46 Seronde Babonaux 1983, pp. 220-223. 47 Piva 1998, pp. 262-263. 48 Misiani 1997, p. 83. 49 Maroi 1934, pp. 369-370. 50 Nel 1911 erano il 15,8%. Nel 1936 le dipendenti della pubblica amministrazione rappresentavano il 20,4% della forza lavoro femminile complessiva, mentre nel 1911 erano il 13%. 51 Popolazione e territorio 1960, pp. 26-27. 52 Maroi 1937, p. 620. Secondo Maroi 1936, il numero medio di figli a Roma era di 3,3 rispetto ai 2,69 di Milano e ai 4,22 di Napoli. 53 Piano regolatore 1931, pp. 19-20: il verbale dell’intervento di Mussolini è stampato tutto in maiuscolo. 54 La commissione, presieduta dal governatore Francesco Boncompagni Ludovisi, era composta da Cesare Bazzani, Armando Brasini, Alberto Calza Bini, Edmondo Del Bufalo, Gustavo Giovannoni, Antonio Muñoz, Cesare Palazzo, Roberto Paribeni, Paolo Salatino, Marcello Piacentini, relatore: Piano regolatore 1931, p. 33. 55 Fraticelli 1982, pp. 357 sgg.

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56 Piacentini 1952, pp. 101-102; Insolera 1993, pp. 116-117; Rossi 2000, pp. 39-41. 57 Piacentini 1952, p. 104. Del Gruppo urbanisti romani facevano parte fra gli altri Luigi Piccinato e Alfredo Scalpelli, autori del piano di Sabaudia, Cesare Valle e Gino Cancellotti. 58 Fra i maggiori esponenti di questo gruppo si possono ricordare Gustavo Giovannoni, Vincenzo Fasolo, Pietro Aschieri, Arnaldo Foschini. «Burbera» è il nome di un verricello in uso nei cantieri. 59 Per Fori imperiali si intendono quelli di Traiano, Augusto e Nerva, contigui ma diversi dal Foro romano. 60 Cfr. la minuta ricostruzione critica di tutta la vicenda in Cederna 1979 e Insolera, Perego 1999. Per la cultura del restauro in quegli anni, Pallottino 1994. 61 Discorso in Senato sul piano regolatore, 18 marzo 1932: Mussolini, vol. XXV, p. 86. 62 L’impresa Elia Federici lavorò ai Fori imperiali, l’impresa Romolo Vaselli all’Augusteo: sulla rilevanza di queste imprese, Salvatori 2006, pp. 41-42. 63 E. Ponti, Le memorie di piazza Montanara, in «Capitolium», 1931, pp. 2033. 64 Per un’ampia scelta di immagini, cfr. Muñoz 1935, la voce Roma dell’Enciclopedia italiana, Cederna 1979, Insolera 1980, pp. 392-400, e Insolera, Perego 1999. Documentazione, non solo fotografica, degli scavi e dei ritrovamenti in Cardilli 1995. 65 Cit. in Insolera, Perego 1999, p. 26. 66 Negli anni del fascismo le inaugurazioni avvenivano in genere il 21 aprile o il 28 ottobre. 67 Piacentini 1952, p. 160. 68 Piacentini 1952, pp. 135-162; Rossi 2000, pp. 63-72. 69 Piano regolatore 1931, p. 24 e, nella versione proposta dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici, pp. 50-51. 70 Columba 1994, pp. 632 sgg. 71 Piano regolatore 1931, p. 25. 72 Fotografie del varco in Enciclopedia italiana. Appendice, 1938, voce Roma. Per la coincidenza con le istanze vaticane, Riccardi 1979, pp. 99-100. 73 I quattro gruppi scultorei, posti sul ponte nel 1912, rappresentavano La fedeltà allo Statuto (Dopo Novara, 1849), Il Valore militare (La battaglia di San Martino, 1859), Il trionfo politico (La proclamazione del Regno d’Italia, 1861), Il Padre della Patria (Vittorio Emanuele a Roma durante l’inondazione, 1871) e furono eseguiti, nell’ordine da Giuseppe Romagnoli, Italo Griselli, Giovanni Nicolini e Cesare Reduzzi con Edoardo Rubino: cfr. Cambedda Napolitano 1991, p. 38. 74 Teatri e auditorium a Castro Pretorio, Biblioteca nazionale al Pantheon, ospedale a Val Melaina, cimiteri ai Prati Fiscali e fra Ardeatina e Laurentina: Piano regolatore 1931, p. 31. 75 Piano regolatore 1931, tavole 9 e 12. 76 Piano regolatore 1931, p. 31. 77 Piacentini 1952, p. 152. 78 Riprese dal vero della zona in costruzione con vedute di piazza Esedra e della stazione Termini ancora nel suo assetto ottocentesco fanno da sfondo ad alcune vivaci sequenze con Anna Magnani e Aldo Fabrizi nel film L’ultima carrozzella di Mario Mattoli del 1943.

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Piano regolatore 1931, p. 25. Per i quasi quaranta concorsi di architettura di quel periodo, Muntoni 1994, pp. 653 sgg. 81 Un’ampia documentazione di queste realizzazioni a Roma in Castelnuovo 1932. 82 De Begnac 1990, p. 427. 83 Ciucci 1989, pp. 131 sgg. 84 In quella che era la più bella biblioteca moderna di Roma è stata distrutta la grande sala di consultazione, sono stati modificati tutti gli arredi e profondamente alterata la distribuzione degli accessi e degli spazi. Sui singoli edifici della Città universitaria, Rossi 2000, pp. 94-101. 85 Rossi 2000, pp. 44-48. Nell’obelisco, opera di Costantino Costantini (19281932), fu murata una pergamena con una dedica in latino a Mussolini: «[...] Ea tempestate / cœlesti quodam nutu atque numine VIR extitit, qui singulari acie ingeni animoque firmissimo praeditus et ad omnia fortia facienda ac patientia paratus, non solum res inclinatas eversasque se in pristinum restituere sed etiam Italiam illam, quam veteres Romani orbis terrarum lumen effecissent, Italis reddere divina mente concepit consiliisque facta adaequare est aggressus. Qui Vir fuit / BENITUS MUSSOLINI», in Foro Mussolini 1937, p. 103. Il monolite, di 17,40 metri fu trasportato su una chiatta lungo il Tevere. La fontana della sfera, progettata da Mario Paniconi e Giulio Pediconi, era stata realizzata nel 1933-1934. La «palestra del duce» è nelle Terme, l’edificio che contiene la piscina coperta. 86 Cfr. gli esempi illustrati in Matitti 1991. 87 Un’ampia documentazione fotografica in Roma mussolinèa 1932. 88 Fraticelli 1982, pp. 258-268. Nel 1931 l’Ircis confluì nell’Incis. 89 Guida Monaci 1936, p. 45; Bonetta 1987, p. 259. 90 Dal 1903 al 1930 furono costruiti 12.892 alloggi, di cui 10.846 popolari, 442 semieconomici, 1604 economici; 342 alloggi economici, destinati ai più abbienti, erano a Piazza d’Armi e 339 al Flaminio; alla Garbatella si contavano 2948 alloggi popolari e 1749 a Testaccio: Cocchioni, De Grassi 1984, p. 14. Sugli interventi a Montesacro, cfr. pp. 54-56, 198-202; e per Villa Narducci, pp. 74, 126-137, 222-228. 91 Fraticelli 1982, pp. 273 sgg. e 294 sgg. 92 Bortolotti 1978, pp. 163-164. 93 «Capitolium», 1931, pp. 70-83; Toschi 1994, pp. 826-833. 94 Rossi 2000, p. 118; Neri 1992, pp. 41-42, 104-105. 95 Grazie al Trattato l’Italia versava alla S. Sede 750 milioni di lire in contanti e un miliardo in consolidato al 5%, cifra enorme ma comunque inferiore a quella che sarebbe maturata se la Chiesa avesse accettato la rendita annua di 3.225.000 prevista dalla legge delle guarentigie. 96 Bartolini 2001, pp. 87 sgg. Nel 1935 erano 8303 i residenti negli appartamenti dell’Immobiliare: cfr. p. 273. 97 Roma mussolinèa 1932, figg. 236-254, pp. 61-65. 98 De Vico Fallani 1985; Sanfilippo 1993b, pp. 151-152. 99 Salsano 2005. 100 Muñoz 1935, pp. 153-156. 101 Muñoz 1935, pp. 156-157. 102 Discorso del 22 ottobre 1934, dal tetto di una casa di via Soderini, in oc79 80

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casione del primo colpo di piccone per l’isolamento dell’Augusteo: Mussolini, vol. XXVI, p. 368. 103 Il sito dell’Ara pacis, noto dal 1568, era stato esplorato sistematicamente nel 1903, quindi nel 1937-1938: cfr. Torelli 1999, p. 71. 104 Volpe 1939, pp. 172-173. 105 G. Bottai, Amore di Roma, in «Bollettino della Capitale», dicembre 1935. 106 Sulle funzioni simboliche della capitale del fascismo, cfr. anche Vidotto 2002, pp. 395-407. 107 Vidotto 1997, pp. 19-20. 108 Insolera, Perego 1999, pp. 73-75. 109 Cit. in Muñoz 1935, pp. 445-446. Mussolini aveva già espresso pubblicamente alcuni giudizi sull’architettura del suo tempo: nel discorso sul piano regolatore pronunciato il 18 marzo 1932 in Senato aveva deprecato che sull’Isola Tiberina fosse stato costruito un enorme ospedale; considerò un vero «infortunio» (!) capitato alla Cassa infortuni l’edificio eretto in via IV novembre (di Brasini) e non volle che la Cassa vi si trasferisse. Divenne sede infatti dell’Aereo Club per passare poi all’Inail (succeduto nel 1933 alla Cassa nazionale infortuni) nel dopoguerra: Mussolini, vol. XXV, p. 88. 110 Muñoz 1935, p. 447. 111 Per i vari concorsi cfr. Muntoni 1994, pp. 677-682; Rossi 2000, pp. 104107, 122-124. 112 Ciucci 1999, per la dislocazione e progettazione delle piazze, per gli sviluppi e le poche realizzazioni successive legate al progetto originario. 113 Le quote della zona variavano dai 40 ai 20 metri sul livello del mare: cfr. Mariani 1987. 114 G. Fioravanti in E42 1987, 1, pp. 91-101; per le schede delle mostre, pp. 103 sgg. 115 Piacentini 1916, p. 7. 116 Lupano 1991, pp. 148-150. 117 Per il progetto generale, i concorsi e le varie tappe di realizzazione degli edifici, cfr. Rossi 2000, pp. 134 sgg. e E42 1987, 2. 118 Volpe 1967, pp. 471-472. 119 ACS, Pnf, Situazione politica ed economica delle provincie, b. 19, relazione fiduciaria del 24 agosto 1934. 120 Eiar 1939 1940, p. 8. 121 Salvatori 1999, pp. 221 sgg. Cfr. La stampa periodica romana 1998, II, Repertorio. 122 A. Cortellessa in La stampa periodica romana 1998, I, p. 69. 123 Belardelli 1997, pp. 449-450. 124 Enciclopedia italiana, vol. XXIX e Appendice, 1938. 125 Sull’IsMeo, Ferretti 1986. 126 Enciclopedia italiana, Appendice, 1938, voce Accademia. La Reale Accademia d’Italia a firma di Gioacchino Volpe, accademico d’Italia. La voce era già comparsa in un fascicolo di appendice pubblicato separatamente prima del volume complessivo. 127 Cit. in Gentile 1993, p. 217. Per una ricostruzione d’insieme, pp. 213 sgg. 128 Gentile 1993, pp. 221-227; Rossi 2000, pp. 81-83; Isnenghi 1997, pp. 326-327. Una dettagliata descrizione delle sale con immagini, in Mostra della Rivoluzione Fascista 1932.

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129 Vedi le fotografie della facciata e delle nuove sale dell’impero e della guerra di Spagna in Roma 1942, pp. 18-19. La facciata fu progettata da Cesare Bazzani, mentre i due rilievi che la decoravano, posti sotto le date 1922, La rivolta, e 1936, La vittoria, erano di Publio Morbiducci. Per tutte le complesse vicende della mostra e la storia dei suoi materiali, cfr. Mostra della Rivoluzione Fascista 1990 e, in particolare l’introduzione di G. Fioravanti, pp. 38 sgg. Sulla seconda mostra, Salvatori (1979) 2003. 130 Riccardi 1979, pp. 3-10. Sul primato ideologico della Roma sacra e della tradizione cattolica, pp. 30 sgg. 131 Riccardi 1979, p. 167. 132 Vedi a tale riguardo la vasta documentazione dalle carte di polizia utilizzata da Riccardi 1979. 133 Riccardi 1979, p. 175. 134 Riccardi 1979, pp. 91-92. 135 È la zona dove ora sorgono l’ospedale del Bambino Gesù e numerosi collegi religiosi: cfr. l’allegato II, 12 del trattato e, per le proprietà riconosciute, confermate e trasferite, gli artt. 13 sgg. 136 Un caso esemplare fu quello dell’ospedale dei Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina. Acquisito allo Stato in virtù della legge sulla soppressione degli enti ecclesiastici e ceduto in seguito al Comune, passò nel 1883 agli Ospedali riuniti di Roma, amministrati da un commissario, il commendator Silvestrelli. Questi, sollecitato dal generale dei Fatebenefratelli, decise di mettere in vendita l’ospedale, presentando come troppo costose le opere di restauro e ammodernamento. Acquistato da tre religiosi stranieri e attribuito in seguito ad una società, rivendicato come effettivamente posseduto animo domini dalla casa generalizia dei Fatebenefratelli, fu ad essa trasferito nel 1931 dopo un’istanza alla Direzione generale dei culti e un parere del Consiglio di Stato. La documentazione di questa vicenda e di altre analoghe in Cirinei 1994-1995. 137 Cfr. Vidotto 2005a. 138 De Felice 1974, pp. 54-126. 139 Milza 2000, pp. 651-656. 140 Nel 1932 furono riaperte le iscrizioni al Pnf; nel 1939 si aprirono a tutti gli ex combattenti. 141 Dati citati in Bonetta 1987, pp. 546-547. Nel primo caso i dati si riferiscono alla provincia di Roma, nel secondo alla federazione dei fasci di combattimento di Roma: cfr.ACS, Pnf, Situazione politica ed economica delle provincie, b.19, documento del 2 novembre 1940. 142 ACS, Pnf, Situazione politica ed economica delle provincie, b. 19. 143 Ivi, in data 11 ottobre 1938. 144 Gentile 2000, pp. 464-465. 145 Monelli 1945, p. 31. 146 Salvatori 1997, pp. 30-32, 40-43. 147 Bonetta 1987, pp. 312 sgg. Secondo le statistiche del Governatorato gli iscritti alle liste di povertà erano passati da 141.476 nel 1933 a 205.371 nel 1937: Dopolavoro a Roma 1988, p. 54. 148 «Capitolium», 1926-27, p. 199: il giuramento era stato pronunciato a tre riprese, il 18 aprile, il 16 e il 23 maggio, nel deposito dell’Atag di Piazza d’Armi. 149 Piva 1998, pp. 185, 187. 150 Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, Dati sull’inquadra-

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mento sindacale e territoriale delle categorie dei lavoratori dell’industria, Tip. Artero, Roma 1935, p. 23; Id., Dati sull’inquadramento sindacale e territoriale delle categorie dei lavoratori dell’industria al 31. 12. 1937, Tip. Artero, Roma anno XVII, p. 354. 151 Dopolavoro a Roma 1988, pp. 217 e 229. 152 Rinaldi 1991, pp. 124 sgg. 153 Il 10 settembre 1938 «Omnibus» pubblicava nel paginone finale nove foto di tipi di ebrei, dal polacco al tedesco, dal persiano all’ucraino, dall’egiziano all’ungherese ecc., così diversi fra loro da sembrare una presa in giro della «Difesa della razza». Il 15 ottobre 1938, in prima pagina, al di sopra di un editoriale intitolato Coerenza dedicato alla politica estera, ma con cenni alla questione razziale, una grande foto raffigurava un uomo che provava il filo di una lametta da barba sull’avambraccio nudo e la didascalia recitava «Industriale del ghetto: venditore di lamette usate». Per i suoi toni irriverenti «Omnibus» fu soppresso nel 1939. Sullo stile di «Omnibus», Ajello 1976, pp. 185-188. 154 Sarfatti 2000, pp. 138 sgg.; De Felice 1961, pp. 299 sgg. 155 De Felice 1981, p. 247. 156 De Felice 1981, p. 489. 157 Volpe 1939, p. 239. La Storia del movimento fascista di Volpe fu finita di stampare il 17 gennaio 1939. 158 Erano esentate ad esempio le famiglie dei caduti nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola. Le domande di discriminazione furono a Roma 2023di cui 1152 per meriti di guerra (e di queste il 51,6% fu accolto): cfr. Seller 2000-2001, pp.154sgg. 159 Nella Guida Monaci 1940 non ci sono più i nominativi Ascarelli nell’elenco degli avvocati e procuratori; di Mario Tagliacozzo, rappresentante di commercio e autore di un diario su quegli anni, c’è l’indirizzo privato, ma scompare quello della ditta. 160 Sarfatti 2000, pp. 187 sgg. 161 Per Maroi 1931, p. 593, erano 10.901; per Sarfatti 2000, p. 41, 11.280: il dato del 1938, p. 29, nota alla tabella. 162 Sarfatti 2000, p. 49. Cfr. Sabatello 1970, pp. 262, 265-266: su 1578 unità locali il 40,3% era rappresentato da negozi al dettaglio, il 27% da banchi di mercato mentre il 13,2% erano venditori ambulanti; il 5,7% erano uffici o agenzie, il 3% magazzini all’ingrosso, il 3,2% industrie; l’86,1% erano aziende individuali; il 77,4% non aveva dipendenti e solo il 2,6% delle aziende aveva più di 10 dipendenti. Il 54% dei titolari di azienda risiedevano nel centro storico: il 23,2% nel vecchio ghetto ossia nel rione Sant’Angelo e il 30,8 negli altri rioni centrali; gli altri erano distribuiti in tutta la città: il 3,9% nei rioni di nord-est, il 6,8 a Testaccio, il 7 all’Esquilino, il 20,7 nei quartieri residenziali della fascia ovest-nord-est, pp. 269 e 272 sgg. Nel dopoguerra la dispersione abitativa degli ebrei romani si accentuò privilegiando l’asse Gianicolense-Portuense, pp. 276 sgg. 163 Finzi 1997, pp. 109-112 e 92-94. 164 Guida Monaci 1939. Sulle voci di un’eventuale vendita (i Coen a Galtrucco, i Piperno a Zingone), riferisce precocemente un rapporto del questore del 7 settembre 1938: cfr., con altri rapporti datati fra la fine del 1938 e la primavera del 1939, ASR, Prefettura, Gabinetto, b. 1515, cat. 34/6 «razza» (ebrei). Le azioni della Tecoel, che riuniva le aziende di Amilcare Piperno al Corso furono interamente rilevate, nel 1940, dai 177 dipendenti: cfr. Consiglio dei mini-

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stri, Bonomi 1944-1945, p. 540. I fratelli Coen chiamarono alla presidenza della società il direttore della Federazione nazionale fascista commercianti prodotti tessili e alla direzione del personale un console generale della milizia. Sulla documentazione archivistica: San Martini Barrovecchio 1993, pp. 152 sgg. e in particolare 158-159. Per la questione dei beni degli ebrei: Seller 2000-2001, pp.99sgg.e da ultimo Commissione 2001, pp.493-522. 165 Sarfatti 2000, p. 178. 166 Tagliacozzo 1998, pp. 27 sgg. 167 ASR, Prefettura, Gabinetto, b.1515, cat.34/6 «razza» (ebrei). 168 Colarizi 1991, pp. 248-250. 169 Zangrandi 1964, pp. 134-137. 170 Cit. in Colarizi 1991, p. 277.

Capitolo settimo 1 Mussolini, vol. XXXIV, Rapporto sul 25 luglio, p. 275, anche in De Felice 1990, p. 1385. 2 Tagliacozzo 1998, p. 79. 3 Tagliacozzo 1998, p. 80. 4 Raganella 2000, p. 112. 5 Monelli 1945, p. 156. 6 Rapporti raccolti in ACS, Pnf, Situazione politica ed economica delle provincie, b. 19. 7 Rapporti del 26 aprile e 12 maggio 1940. 8 Monelli 1945, p. 11. 9 Rapporto non datato ma successivo al 10 giugno 1940, in ACS, Pnf, Situazione politica ed economica delle provincie, b. 19. 10 Monelli 1945, p. 11 e Lepre 1989, p. 34. 11 Rapporto fiduciario del 26 settembre 1941 in ACS, Pnf, Situazione politica ed economica delle provincie, b. 19. 12 Intercettazione telefonica del 22 giugno 1941, riportata in Guspini 1973, p. 189. 13 Lepre 1989, pp. 87 sgg. 14 Dati in De Felice 1990, p. 701. 15 Monelli 1945, p. 6. 16 «Il Messaggero», 30 ottobre 1941. 17 Rapporto del 31 dicembre 1942, cit. in De Felice 1990, p. 705. 18 Mussolini, vol. XXXI, pp. 118-133. 19 Rapporto pubblicato in De Felice 1990, pp. 1456-1460, la cit. a p. 1459; cfr. anche Lepre 1995, pp. 302-303. 20 Rapporto da Roma del 3 dicembre 1942, riprodotto in Lepre 1989, p. 145. 21 ACS, Ministero Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, Div. Affari generali e riservati, Segreteria del capo della polizia, Situazione politicoeconomica del regno al 28 febbraio-XXI, b. 10, fasc. 122, p. 12. 22 Monelli 1945, p. 20. 23 Con Mussolini e il principe di Piemonte, «Il Messaggero», 5 novembre 1939.

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24 Sui luoghi rituali del fascismo, cfr. Vidotto 2005b. Il sacrario dei caduti della rivoluzione fascista (impropriamente noto come «Cella commemorativa») era stato realizzato da L. Moretti nel 1941 e non nel 1940: sulle vicende della costruzione, Vidotto 2004. Cfr. le fotografie ivi e quelle pubblicate in Bucci, Mulazzani 2000, pp. 72-74 nonché la descrizione della cerimonia inaugurale del 28 ottobre, «Il Messaggero», 29 ottobre 1941. 25 «Il Messaggero», 4 novembre 1941. Il monumento era anche chiamato Monumento ossario dei caduti garibaldini. 26 Piscitelli 1965, pp. 17-18; Bonetta 1987, pp. 470-471. 27 Riccardi 1978, pp. 146-147. 28 Il numero totale non è mai stato accertato. Secondo i primi dati del «Messaggero» i morti erano 717 e i feriti 1593; in seguito si parlò di 1500 morti, cfr. Bonacina 1970, p. 211. De Simone 1993, p. 264 ipotizza invece una cifra di circa 3000 vittime. Furono bombardati anche gli aeroporti di Ciampino e del Littorio (lungo la Salaria). Alla Città universitaria subirono danni gli edifici di Botanica, Giurisprudenza, Mineralogia, Chimica farmaceutica, Fisiologia: cfr. La ricostruzione delle università 1951, pp. 112 sgg. Il Policlinico fu colpito anche il 18 aprile 1944. 29 «L’Illustrazione italiana», 25 luglio 1943. 30 «Il Messaggero», 21 luglio 1943. 31 Colarizi 1991, p. 409. 32 Si contarono 502 vittime, un numero presumibilmente sottostimato: Bonacina 1970, p. 236; De Simone 1993, p. 306. 33 Era fatto inoltre divieto alla caccia di agire sul cielo di Roma, mentre il nodo ferroviario non sarebbe stato più utilizzato dai trasporti militari, né per operazioni di carico e scarico, rimanendo solo come transito. Era previsto anche il trasferimento fuori città degli stabilimenti e delle fabbriche militari. La S. Sede e il governo svizzero erano pregati di notificare a Londra e Washington le misure adottate: cfr. «Il Messaggero», 28 agosto 1943. 34 Piscitelli 1965, p. 50. 35 Aga Rossi 1998, pp. 144-147. 36 La radio di New York aveva dato la notizia alle 16.30. 37 Gallerano 1989, pp. 22 sgg. 38 Aga Rossi 1998, p. 150. 39 Torsiello 1975, pp. 125-126; nel computo delle forze italiane erano compresi i metropolitani. 40 Aga Rossi 1998, pp. 193-194. 41 Piscitelli 1965, pp. 51-72; Tedesco 1967, pp. 166-183; De Simone 1994, pp. 11-22. 42 Utilizzo due fonti diverse: per i civili Ranzato 2000, p. 414; per i militari Torsiello 1975, pp. 125-126: caddero 65 fanti, 65 granatieri, 39 carristi, 33 carabinieri. Torsiello indica in 156 le vittime civili. 43 Annotazione del 18 ottobre 1943 cit. in De Felice 1997, p. 85; cfr. Forcella 1999, p. 20 e Ranzato 2000, p. 414. 44 De Felice 1997, p. 152. 45 Corvisieri 1968, p. 8: «186 caduti (tre volte quelli subiti dal Pci, cinque volte quelli del partito d’Azione); 137 arrestati e deportati; i ‘combattenti’ riconosciuti del movimento furono 1183, cinque in più di quelli del Pci e 481 più del partito socialista».

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46 Piscitelli 1965, pp. 103-105. I cattolici comunisti presenti nelle formazioni partigiane a Roma e provincia furono 744: Casula 1976, p. 150. Cfr. Ossicini 2000, pp. 1133-1143. 47 Piscitelli 1965, pp. 198-204. 48 «Domina un indifferentismo piuttosto ostile», segnalava un appunto della Direzione generale della Pubblica sicurezza per il capo della polizia dell’8 gennaio 1944: Documenti 2001, n. 695. 49 Forcella 1999, p. 52. 50 Melis 1996, pp. 384 sgg. Cfr. anche Documenti 2001, n. 703, dove è citato il caso di 61 agenti astenutisi dal partire su 98 destinati al trasferimento al Nord. 51 De Felice 1997, p. 123; Ganapini 1999, p. 83. 52 Uno dei più drammatici fu il rastrellamento del Quadraro del 17 aprile 1944 con forse 800 deportati: cfr. Documenti 2001, nn. 398-406; Balzarro 1999. 53 Klinkhammer 1996, pp. 401-402. Prima di Roma furono compiute retate di ebrei a Merano e Trieste. 54 Klinkhammer 1996, pp. 402-403. 55 Nel 1943 l’oro costava 400-500 lire al grammo: Coen 1993, p. 139. Il valore della taglia assommava a 25 milioni, pari a circa 12 miliardi di lire del 2000. 56 Coen 1993, p. 66. 57 Utilizzo le cifre proposte da Picciotto Fargion 1991, pp. 815-816. Kappler, nella sua relazione, diede la cifra di 1007 deportati. 58 Cit. in Coen 1993, pp. 98-99. 59 Picciotto Fargion 1991, pp. 42, 56-57, 816. 60 Modigliani 1984, pp. 20-23. 61 Testimonianza raccolta da Barozzi 1998, p. 116. Altri episodi in Coen 1993, pp. 72 sgg.; Stille 1994, pp. 228 sgg. 62 Cfr. Debenedetti 1959, p. 56. 63 Forcella 1999, pp. 105-107. 64 Tagliacozzo 1998, p. 264. 65 Picciotto Fargion 1991, p. 29. Gli ebrei romani erano circa un quarto dei 43-44.000 ebrei italiani. 66 Piscitelli 1965, p. 230 e Corvisieri 1968, p. 88. 67 Amendola 1973, p. 227. 68 I gappisti autori degli attentati furono Rosario Bentivegna, Carla Capponi, Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini al Barberini; Franco Calamandrei, Ernesto Borghesi e Maria Teresa Regard al Flora; Mario Fiorentini a Regina Coeli: Piscitelli 1965, pp. 232-233, De Simone 1994, pp. 238 sgg., Calamandrei 1998, pp. 155-157, Documenti 2001, n. 846; per i nomi di battaglia dei gappisti, De Simone 1994, p. 47. Bentivegna e Capponi, Calamandrei e Regard, Fiorentini e Ottobrini formavano delle coppie e si sarebbero sposati. 69 Calamandrei 1998, p. 157; la bomba della Regard non esplose. Per la memoria delle emozioni di quei giorni di militanza, cfr. Portelli 1999, pp. 156 sgg. 70 Katz 1994, pp. 24-28. 71 Katz 1994, pp. 30 sgg. per una minuta ricostruzione. Cfr. anche De Simone 1994, pp. 108 sgg. con qualche marginale differenza. Salinari era in fondo a via Rasella. Amendola si trovava a via Due Macelli: di lì a poco si sarebbe incontrato con De Gasperi al Collegio di Propaganda Fide. 72 La ricostruzione di Carla Capponi, imprecisa in alcuni particolari, non convince nella rievocazione dei sentimenti e pensieri provati alla vigilia di via Rasella: cfr. Capponi 2000, pp. 229-230.

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73 Griner 2000, pp. 133-134. L’età media dei soldati altoatesini uccisi era di 34 anni. 74 Klinkhammer 1997, pp. 8-10; Battini 1996, pp. 62-64. 75 De Simone 1994, p. 238 riporta la testimonianza di Bentivegna per uno dei casi: dieci fucilati italiani per un tedesco ammazzato da un gappista a piazza dei Mirti; Klinkhammer 1997, p. 10; Benzoni 1999, pp. 78 e 87. 76 Klinkhammer 1997, p. 11. 77 Griner 2000, pp. 142-144; 29 furono indicati da Koch: 18 azionisti, 9 di Bandiera rossa e 2 del Fronte militare. 78 Sarebbero state 336 se l’austriaco Joseph Raider, disertore e imprigionato con falso nome italiano, non fosse riuscito a liberarsi ma, catturato dalle SS, non fosse stato riconosciuto come tedesco e riportato a via Tasso (Katz 1994, pp. 131134). Si ricorda che Kappler fu condannato, al termine del processo celebrato nel 1948 dal tribunale militare di Roma, all’ergastolo in primo grado solo per le cinque vittime in più, in seguito, con sentenza definitiva, per non aver rifiutato di eseguire un ordine illegittimo, per aver aggiunto di sua iniziativa dieci ostaggi e per non aver controllato le liste. Kappler sarebbe rimasto in carcere fino al 1977 quando riuscì a fuggire con l’aiuto della moglie dall’ospedale militare del Celio dove era ricoverato. Il capitano Erich Priebke, l’addetto alle liste, fu rintracciato in Argentina e processato in Italia dal tribunale militare di Roma nel 1996. Condannato all’ergastolo nel 1998, ottenne in seguito gli arresti domiciliari (cfr. Forcella 1999, p. 157). I partigiani dei Gap subirono un processo civile per danni intentato dai familiari di alcune vittime, ma furono assolti in tribunale nel 1950, in appello nel 1954, in Cassazione nel 1957: cfr. Galante Garrone 1996, p. 52. 79 Klinkhammer 1997, pp. 5-6. 80 Lo registra alla data del 28 marzo Elena Albertini nel suo diario: Carandini Albertini 1997, p. 105. La testimonianza di padre Libero Raganella che si sarebbe spinto in bicicletta da San Lorenzo alle Ardeatine per giungervi mentre era in corso l’eccidio appare inverosimile (Raganella 2000), pp. 218-221. Subito dopo la liberazione le cave cominciarono ad essere chiamate «fosse», un termine che richiamava direttamente un luogo di sepoltura: Katz 1994, p. 192. Sugli aspetti della riesumazione e sulle forme del lutto, Portelli 1999, pp. 253 sgg. e 275 sgg. Il 24 marzo 1949 fu inaugurato il Mausoleo delle Fosse Ardeatine. 81 Le categorie professionali più rappresentate erano quelle degli impiegati (87), dei commercianti (71), degli ufficiali (46), operai (39), artigiani (27): Portelli 1999, p. 35. Fra gli uccisi ci fu anche Aldo Finzi, ebreo, squadrista della prima ora, sottosegretario agli Interni al tempo del delitto Matteotti, caduto poi in disgrazia, oppositore delle leggi razziali, impegnato nella lotta partigiana nei Castelli. 82 Il 30 aprile successivo «L’Osservatore romano» pubblicò un lungo e importante articolo, La sanzione delle leggi di guerra, dedicato ai fondamenti giuridici del diritto di rappresaglia. Dopo aver indicato i limiti entro cui poteva essere applicata escludeva, nel caso di atti compiuti da non appartenenti alle forze armate, «la responsabilità solidale della comunità». Nei confronti dei non combattenti era solo ammesso il ricorso alla legge marziale. E terminava: «La rappresaglia si presenta, dunque, come una sanzione tendente a ristabilire le leggi di guerra violate. È una dolorosa necessità della guerra che, nella sua applicazione, deve sempre rispettare i principii umanitari e la legge morale. È una misura di coercizione e mai un castigo. Per queste ragioni è stato sempre condan-

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nato dal diritto internazionale il massacro di civili per atti di ostilità compiuti dai non combattenti». 83 Lepre 1996, pp. 35 e 37. 84 Calamandrei 1998, p. 195. 85 Forcella 1999, pp. 166-169; Piscitelli 1965, pp. 301-304. 86 Mario Fiorentini in De Simone 1994, p. 251. 87 Testimonianza di Bentivegna citata da Benzoni 1999, p. 93. 88 Non trova alcun convincente riscontro (nonostante la ricostruzione di Maurizio 1996) la «leggenda nera» che attribuisce ai comunisti l’intenzione di provocare deliberatamente la rappresaglia per liberarsi dei rivali di Bandiera rossa incarcerati in quel momento. Fra i comunisti più noti caddero alle Ardeatine Gioacchino Gesmundo e Valerio Fiorentini. 89 Dopo via Rasella Kesselring diede disposizione precise per cautelarsi dagli attentati e reagire con ferma determinazione: in pratica veniva data «carta bianca» alla radicalizzazione della lotta contro i partigiani e alla guerra contro i civili: Klinkhammer 1996, pp. 333-334. 90 Calamandrei riuscì a fuggire dal bagno della pensione Jaccarino il giorno stesso dell’arresto, il 28 aprile 1944; dopo qualche giorno si sarebbe rifugiato al Laterano. Koch si vantò di aver salvato la vita a Salinari in virtù di un accordo d’onore con Priebke. Blasi rimase con Koch fino alla fine del reparto speciale e fu poi condannato a 30 anni, ma uscì dal carcere nel 1955: Griner 2000, pp. 151 sgg., 239 e 346. 91 Spriano 1975, p. 304; Battaglia 1964, p. 223. 92 Anche per il Pci. La memoria della violenza, ricorda Portelli, «diventa un peso imbarazzante: la resistenza, martire più che combattente, si può rappresentare attraverso le Fosse Ardeatine meglio che attraverso via Rasella», Portelli 1999, p. 325. 93 Il volume di Alessandro Portelli (Portelli 1999) offre una conferma di queste divisioni insieme a una rappresentazione corale della Resistenza romana, risultato di una coinvolgente costruzione letteraria. 94 Benzoni 1999, pp. 114 e 115. 95 Ranzato 2000, pp. 421-422. 96 Tagliacozzo 1998, p. 303; Lepre 1999, pp. 197-198. 97 Forcella 1974, p. 103. 98 Cfr. Gli orti di guerra, in «Capitolium», 1942, pp. 63-64. L’Ufficio giardini coltivava direttamente 58 ettari di cui 28 seminati a grano; il dopolavoro del Governatorato altri 21 ettari. Lo svuotamento del laghetto di Villa Borghese aveva dato 15 quintali di grosse carpe e alcuni quintali di anguille, mentre quello di Villa Paganini era stato popolato da 8000 piccole carpe. Cfr. anche Campitelli 1994, pp. 295 sgg. 99 Documenti 2001, n. 725 del 15 maggio 1944. 100 «L’Osservatore romano», 13-14 marzo 1944. Sulla prima pagina del giornale anche una grande foto che testimonia tutta l’ampiezza della folla raccolta fra le braccia del colonnato sullo sfondo del varco compiuto ma non ultimato di via della Conciliazione. 101 Griner 2000, pp. 92 sgg.; Riccardi 1979, pp. 239 sgg. 102 Carandini Albertini 1997, p. 124. 103 Monelli 1945, pp. 424-425.

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104 Sono ricordati come i caduti della Storta, la località allora più vicina alla Giustiniana: Portelli 1999, pp. 380 sgg. 105 Tagliacozzo 1998, p. 314. 106 Tagliacozzo 1998, p. 318. 107 Il «Corriere di Roma» si pubblicò fino al gennaio 1945 utilizzando la sede e la tipografia del «Messaggero», che era stato soppresso per il suo passato fascista. 108 La delibera è del settembre 1944, quando non si era ancora definitivamente affermato il termine «fosse». 109 Ranzato 1997, pp. 36 sgg. 110 Griner 2000, pp. 303 sgg. 111 Melis 1996, pp. 431 sgg. e Woller 1997, pp. 521 sgg. per gli effetti sulla pubblica amministrazione. 112 Brunetta 1991, pp. 340 e 372. Anna Magnani e Aldo Fabrizi, protagonisti del film, erano fra i più popolari attori romani del cinema e del teatro leggero. La prima di Roma città aperta si tenne nel settembre 1945 in occasione del Festival internazionale del teatro e del cinema. 113 Contini 1977, p. 13. 114 «Il Tempo», 1° novembre 1944, cit. parzialmente anche in Mafai 1994, p. 29. 115 Zatterin 1996, pp. 61 sgg. e Woller 1997, pp. 309-310. 116 Tutti i dati cit. in Ranzato 1997, pp. 188-190 e 244. 117 Talamo 2000, p. 11. 118 Ossicini 2000, pp. 1145-1148. 119 Cit. in Setta 1998, p. 5. 120 Serra 1998-1999, pp. 19 sgg. 121 Bonetta 1987, p. 510. 122 A livello nazionale la Dc riportò il 35,2%, il Pci il 18,9%, il Psiup il 20,7%. 123 Contini 1977. La disoccupazione complessiva era di oltre 50.000 unità, fra cui 14.257 impiegati. Fabbriche d’armi come la Breda erano passate da 7000 a 300 dipendenti. I cantieri del Genio civile impiegavano allora 45.000 addetti: un personale inadatto che creava molti problemi per il rifiuto di rispettare gli orari e la mobilitazione permanente: Contini 1977, p. 20. 124 Serra 1998-1999, pp. 127 sgg. 125 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, 1947-1948, b. 13, Relazione mensile del questore, ottobre 1947. 126 Come riferiva il rapporto della polizia: cfr. «Il Tempo», 13 ottobre 1947. Ai funerali del Federici, celebrati solennemente in S. Maria in Vallicella a corso Vittorio, parteciparono De Gasperi e molti membri del governo.

Capitolo ottavo 1 Qui e in seguito utilizzo, talora con qualche marginale differenza, i dati elettorali pubblicati in Porro 1996. 2 Lo sciopero si era tenuto l’11-12 dicembre 1947: Contini 1977, pp. 37-39.

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Gedda 1998, pp. 115 sgg. Ne rimane traccia anche in ACS nelle carte di polizia e nei frequenti rapporti del questore Saverio Pòlito, che registrano numerose denunce nei confronti di tipografie e tipografi per cartoline e materiali propagandistici comunisti perseguibili per vilipendio del capo del governo e dei ministri. Altri rapporti di Pòlito attestano la continua attenta vigilanza sul Pci prima e dopo le elezioni. 5 Italia e Roma nella luce del XVIII aprile, in «L’Osservatore romano», 22 aprile 1948. 6 Cfr. sopra pp. 164 sgg. 7 Una declinazione patriottica si ritrova anche nella titolazione del «Corriere della Sera» del 18 aprile: La Patria chiama alle urne, cui segue il sottotitolo Oltre venticinque milioni di Italiani difendono oggi col voto il loro diritto alla libertà riconquistata. 8 «L’Osservatore romano», 31 maggio-1° giugno 1948; «Il Tempo», 31 maggio 1948; Riccardi 1979, pp. 340-343; Riccardi 2000, pp. 46-47. Il quotidiano della S. Sede, in conclusione della sua lunga cronaca dell’evento, forniva anche le specifiche tecniche dell’impianto di amplificazione affidato a «30 unità esponenziali con 250W di potenza modulata» con materiali Marelli messi a disposizione dalla ditta del comm. Alberto Bagnini. 9 Le chiese di Maria SS. Assunta e di S. Maria Mediatrice nel 1950, del Cuore Immacolato di Maria nel 1955, di S. Maria della Mercede nel 1958, di S. Maria della Perseveranza nel 1958. Nel 1954 fu riaperta al culto S. Maria Antiqua al Foro romano e inaugurata la Domus Mariae all’Aurelio. 10 «Il Tempo» e «l’Unità», 16 luglio 1948. Secondo «Il Tempo» i blocchi stradali furono compiuti impiegando anche i chiodi a tre punte. I funerali di Glionna, che aveva 49 anni, furono celebrati a S. Lorenzo il 21 luglio. 11 Si veda il ricordo di Bentivegna in Portelli 1999, pp. 307-308. 12 Gozzini 1998, pp. 162 sgg. e in genere per la cronaca e l’atmosfera di quei giorni; cfr. anche Zatterin 1996, pp. 299 sgg. 13 «l’Unità», 25, 26, 28 settembre 1948; «Il Tempo», 27 settembre 1948. Sulla festa fu prodotto un documentario, Togliatti è ritornato (1949), di Basilio Franchina e Carlo Lizzani. 14 «Il Tempo», 27 settembre 1948. 15 Traniello 2000, p. 642. 16 ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, b. 105, cat. H5, fasc. 6: rapporto e iniziative del questore Pòlito del 26 luglio 1949. 17 «[...] il comportamento del Sommo Pontefice è oggetto da qualche tempo a questa parte di critiche vivacissime. Gli si rimprovera una forma non tollerabile di assolutismo e per di più un pernicioso isolamento che lo porterebbe spesso a commettere gravi errori»: in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, anno 1951, b. 14, cat. C2I, Relazione mensile riservata sulla situazione politico-economica e sull’ordine pubblico, ottobre 1951, p. 3. 18 Cfr. l’art. 63 del testo unico del 5 aprile 1951, n. 203: a Roma, alla coalizione vincente sarebbero spettati 53 seggi su 80. 19 Riccardi 1983, p. 145. Cfr. anche D’Angelo 2002. 20 Cit. in Di Capua 1976, p. 31: cfr. G. Andreotti, Note sull’operazione Sturzo, in «Concretezza», 16 agosto 1965, p. 4. 21 L. Sturzo, Destino di Roma, in «Il Popolo», 22 aprile 1952. 3 4

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22 Gedda cercò di formare un’altra lista cattolica, ma gli mancarono i nominativi dei presentatori e fu osteggiato non solo dalla Dc, ma anche dall’interno dell’Azione cattolica: Di Capua 1976, p. 43. 23 Discorso riportato in un rapporto del questore Pòlito del 31 gennaio 1952, in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, 1952, b. 10, cat. E1. 24 Rapporto di Pòlito del 13 maggio 1952, in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, 1952, b. 11, cat. E1. 25 Il Msi aveva «in programma una azione di penetrazione in tutti gli strati sociali e specialmente tra gli operai e gli studenti»: ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Affari generali e riservati, b. 17, cat. C2I, maggio 1952. 26 Dc 39, Pli 6, Psdi 4, Pri 3, Fronte economico 1. La Lista cittadina ottenne 306.000 voti e 16 seggi. Le destre raccolsero 206.000 voti; il Msi ebbe 8 seggi, il Partito nazionale monarchico 3 seggi. 27 Rapporto di Pòlito del 6 giugno 1953, in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, 1953, b. 21, cat. E1A. I discorsi di piazza erano spesso registrati dalla polizia; ad esempio quello dell’ex maresciallo Graziani pronunciato al Colosseo in chiusura della campagna del Msi per le amministrative del 1952, registrato con apparecchiatura Western Electric: ACS, Ministero dell’Interno, Direzione generale della Pubblica sicurezza, 1952, b. 11, cat. E1. 28 Sulle elezioni del 1953, Forlenza 2001. 29 Riccardi 1979, p. 354. 30 Il nome di Piccioni era già circolato sulla stampa di destra e di sinistra ai primi di maggio 1953, ma Pòlito ne aveva escluso il coinvolgimento. 31 Come lo scioglilingua proposto dall’«Unità» del 24 marzo 1954: «A Capocotta poca coca cape?» e la risposta: «Non poca coca cape a Capocotta», cit. in Ceccarelli 1994, p. 108. 32 Sul caso Montesi, Talamo 2000, pp. 22-25; Ceccarelli 1994, pp. 106-133; Grignetti 2006. Sulla vicenda Sotgiu, «Il Tempo», 16, 17, 18 novembre 1954 e il commento dell’«Osservatore romano» del 18 novembre, intitolato eloquentemente Hodie mihi cras tibi: oggi a me, domani a te. 33 Pagnotta 2006, pp. 45-46. A conferma di questi suoi orientamenti, Cioccetti, nel commemorare le Fosse Ardeatine nel marzo 1960, dopo aver deprecato l’eccidio, l’occupazione nazista e gli eccessi di quei mesi, invitava alla pacificazione giudicando antistorico «mantenere inalterate le contrapposizioni ideali e pratiche da cui sono scaturite dolorose vicende del nostro popolo»: cfr. «Capitolium», aprile 1960, p. 35. 34 Cfr. «Il Messaggero» e «l’Unità», 7 luglio 1960. L’agente di polizia Antonio Sarappa, che aveva riportato la frattura del femore e altre lesioni, morì due mesi dopo: cfr. «Il Tempo», 8 settembre 1960. 35 De Luna 1997, pp. 368-370. 36 «Il Tempo», 21 ottobre e 7 novembre 1953. 37 «l’Unità» e «Il Tempo», 30 e 31 ottobre 1956. 38 «Avanti!», 21 giugno 1961, «Il Messaggero», 8 luglio 1961; Pagnotta 2006, p. 51. 39 D’ora in poi si utilizzeranno i dati della popolazione residente: Seronde

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Babonaux 1983, p. 300; Agnew 1995, p. 75; Golini 2000, p. 131. Nel 1961 la popolazione presente era di 2.245.716 abitanti. 40 Seronde Babonaux 1983, pp. 244 e 20. 41 Seronde Babonaux 1983, pp. 284 sgg. 42 Inchiesta sulla miseria 1978, p. 56. 43 Alloggi precari 1958, p. 24. 44 Cfr. ivi le schede descrittive dei singoli nuclei. 45 Sul malessere sociale e sulle gravi condizioni sanitarie di queste abitazioni improprie, cfr. il resoconto di T. Aymone in Berlinguer, Della Seta 1960, pp. 109 sgg. 46 Si veda la ricca documentazione fotografica di queste trasformazioni in Insolera 1959b, pp. 170 sgg. 47 Rossi 2000, pp. 172-180; Avarello 2000, pp. 168-169; Sotgia 2005. 48 Legge 28 febbraio 1949, n. 43. 49 Per il progetto del Tiburtino (via dei Crispolti) i capigruppo erano Ridolfi e Quaroni. 50 La scena in cui i paparazzi si affollano attorno alla moglie di Steiner che si dirige verso casa ignara del suicidio del marito e dell’uccisione dei figli. La chiesa e il progetto della piazza sono di Gaetano Rapisardi, collaboratore di Piacentini. Cfr. anche Ferzetti 1988, pp. 40 sgg. 51 Bortolotti 1978, p. 252. Cfr. legge 2 luglio 1949, n. 408 e legge 10 agosto 1950, n. 715: Umberto Tupini e Salvatore Aldisio erano ministri dei Lavori pubblici. 52 Manieri Elia 1991, pp. 542-545. 53 Barberini 1971, p. 165. 54 Statera 1977, pp. 30 sgg. Il libro di Statera è costruito anche sulla base delle confidenze di Aldo Samaritani. 55 Casal Palocco, progettato dal 1958 da A. Libera, U. Luccichenti, M. Paniconi, G. Pediconi, G. Vaccaro, fu realizzato fra il 1961 e il 1975. Nel 1962, nel presentare un grosso volume promosso dall’Immobiliare per i suoi cento anni (Cento anni di edilizia, Roma 1962), dedicato non alle realizzazioni della società, ma alle trasformazioni urbanistiche, edilizie e architettoniche di un secolo – con contributi di L. Benevolo, P. Marconi e altri –, Samaritani auspicava uno sviluppo della città affidato ai quartieri satelliti. 56 Il progetto era di Ugo Luccichenti, Emilio Pifferi e Alberto Ressa; agli interni collaborarono Franco Albini, Ignazio Gardella, Melchiorre Bega. La posa della prima pietra dell’Hilton avvenne il 12 settembre 1960, il giorno successivo alla chiusura delle Olimpiadi. La pergamena di rito fu firmata, fra gli altri, da Livio Berruti, vincitore dei 200 metri. In quella circostanza il sindaco Cioccetti ricordò le modifiche apportate al progetto in difesa dell’urbanistica e del panorama di Monte Mario («Il Tempo», 13 settembre 1960), ma erano affermazioni puramente propagandistiche. Sulla vicenda dell’Hilton, Cederna 1965, pp. 239248, 278-287, 329-333. «Volgare, informe, smisurata, la massa dell’Albergo Hilton in cima a Monte Mario sovrasta Roma, imponendosi alla vista come tronfia roccaforte della speculazione privata, alta ed opprimente su tutte le visuali della città [...] perfino la civile prospettiva di via Giulia è sbarrata al suo limite estremo dalla turpe mole»: p. 329. 57 Insolera 1993, pp. 207-209; Statera 1977, pp. 50-51. Dopo la condanna «Il Mondo» pubblicò una dichiarazione di solidarietà con i due giornalisti, in cui ve-

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nivano ribadite le posizioni dell’«Espresso» e stigmatizzati gli attacchi alla libertà di stampa. La dichiarazione fu sottoscritta da oltre mille fra intellettuali, giornalisti, scrittori, artisti, politici, storici, architetti della sinistra laica: cfr. il testo e le firme pubblicate dal 7 al 28 gennaio 1958, in Scalfari 1986, pp. 161-169. 58 È il titolo di un volume del 1956 che raccoglie gli interventi pubblicati sul settimanale «Il Mondo». Cfr. Monte Mario venduto, in «Il Mondo», 25 aprile e 5 giugno 1956 e in Cederna 1956, pp. 110-124. 59 Cederna 1965, p. IX. 60 Cattani 1954, pp. 23-24 e 45. L’art. 10 del decreto legge che approvava il piano regolatore del 1931 stabiliva infatti che il prezzo degli espropri doveva essere fissato (in base agli artt. 4 e 5) sulla media del valore venale e dell’imponibile netto al 1931, capitalizzato a un tasso dal 3,50 al 7% a seconda della località, senza tenere conto dell’incremento di valore che poteva essersi verificato e verificarsi in dipendenza dell’approvazione del piano. 61 Questa interpretazione trovava una prima definizione nel coevo volume Introduzione a Roma contemporanea (1954), scritto da un gruppo di giovani storici comunisti (fra cui Luciano Cafagna, Paolo Basevi, Piero Della Seta) e presentato da Natoli, che anticipava molti temi del fortunato libro di Alberto Caracciolo (1956). 62 Natoli 1954, pp. 5, 21 e 63 sgg. In Insolera 1993, p. 181 sono elencate le superfici possedute dai maggiori proprietari nel 1953: il conte Romolo Vaselli 10.450.000 mq, la famiglia Lanza 6.615.000, la famiglia Talenti 2.700.000, Antonio Scalera 8.830.000, i principi Lancellotti 7.200.000, il marchese e senatore democristiano Alessandro Gerini e la sorella Isabella, eredi di un ramo dei Torlonia, 8.500.000. Cfr. anche Della Seta 1988, pp. 179 sgg. 63 Natoli 1954, pp. 67-68. 64 Le posizioni di Cattani e di Natoli si confrontarono in un convegno degli amici del «Mondo» tenuto al Ridotto del teatro Eliseo il 21-22 aprile 1956: cfr. I padroni della città 1957. 65 Pagnotta 1997, pp. 107 sgg; Pagnotta 2000, pp. 191 sgg. e 218. 66 Nel 1951 i maggiori stabilimenti erano quelli del Poligrafico a piazza Verdi, con 3665 addetti e a via Capponi con 1715. Nel settore meccanico quelli della Fatme sulla via Appia con 1022 addetti e la Fiorentini in via Tiburtina con 599. Nel chimico-tessile la Cisa-Viscosa sulla via Prenestina con 1247 (ma avrebbe chiuso nel 1954). Nel settore alimentare la Centrale del latte (522), il pastificio Pantanella (454), la Birra Peroni (451). Cinecittà contava 681 addetti. Nei quartieri Aurelio, Trionfale e Tor di Quinto erano ancora attive le fornaci. Nel 1961 i 34.267 addetti del settore metallurgico e meccanico, il primo per forza lavoro impiegata nell’industria manifatturiera, erano suddivisi in 5421 unità locali con una media di 6,3; nel settore carta e poligrafico le 981 unità locali impiegavano 17.357 addetti, con una media di 17,7: Pagnotta 2000, p. 202 e passim. 67 D.p.r. 17 gennaio 1959, n. 2. Le case venivano cedute al 30% in meno del valore venale accertato dall’Ufficio tecnico erariale; un’ulteriore diminuzione, dello 0,25% per ogni anno di occupazione effettiva, per un massimo di 20 anni, veniva riconosciuta agli inquilini. Il pagamento poteva avvenire in non oltre vent’anni al tasso del 5,8%, mentre per dieci anni gli alloggi erano inalienabili. 68 Roma moderna e Mirabilia Urbis sono dotati di un apparato fotografico che appare piuttosto «tendenzioso». Nel caso del libro di Insolera si tratta quasi esclusivamente di foto aeree che restituiscono i rapporti fra le masse urbane,

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ma tendono ad accentuare le densità. Nel caso di Cederna le brutture sono documentate, per circa la metà dei casi, dai retri degli edifici. 69 La nuova stazione fu inaugurata il 20 dicembre 1950. L’edificio di testa, che si raccordava con le fiancate laterali già realizzate da Angiolo Mazzoni, fu progettato da Eugenio Montuori, Annibale Vitellozzi, Leo Calini, Massimo Castellazzi, Vasco Fadigati, Achille Pintonello. La piazza è rimasta uno spazio irrisolto, così come non eseguiti furono gli ampliamenti previsti dai progetti originari, delle zone ai lati della ferrovia. L’edificio di testa è stato ristrutturato nel 2000. Cfr. Rossi 2000, pp. 159-165. 70 Testa 1971, p. 41. 71 Di Majo, Insolera 1986, pp. 86-116; Rossi 2000, pp. 137-139 e passim. 72 Testa 1971, p. 44: la vendita delle aree veniva effettuata «a metro cubo di utilizzazione edilizia anziché a metro quadrato di estensione». Cfr. anche Testa 1970, pp. 12-13. 73 G. Togni nel numero speciale di «Capitolium» dedicato alle Olimpiadi, p. 11. 74 I progettisti furono Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Luigi Moretti, Vincenzo Monaco, Amedeo Luccichenti. Per le varie attrezzature olimpiche, Rossi 2000, pp. 203-219. 75 All’ipotesi della variante era stato affiancato un decreto legge (6 gennaio 1941), mai convertito e decaduto nel 1943, che prevedeva l’esproprio di tutte le aree previste all’interno del nuovo piano: una normativa spesso ricordata e rimpianta come base ideale per la pianificazione della città. Della commissione di sette membri per la variante facevano parte Piacentini, Giovannoni, Testa. 76 «L’Espresso», 21 agosto 1960. Cfr. anche Cederna 1965, pp. 57-65; Insolera 1993, pp. 240-245. 77 «L’Espresso», 4 settembre 1960. 78 G. Corbi in «L’Espresso», 21 agosto 1960. Per la ricostruzione delle trasformazioni del Foro italico: Vidotto 2004. 79 «Il Tempo», 25 agosto 1960. La Fiamma Roma era legata al Msi. 80 «Il Tempo», 26 agosto 1960. 81 «A Roma le Olimpiadi erano arrivate circonfuse dall’atmosfera esteticorazionalista in cui erano state ideate. Ne ripartiranno trasformate in una manifestazione ecclesiastico-sensuale, gesuitico-sportiva. Speriamo che i giapponesi di qui a quattro anni le epurino», scriveva «L’Espresso» il 4 settembre 1960. 82 Fra le altre vittorie celebri: nel ciclismo quelle di Sante Gaiardoni (chilometro da fermo e velocità) e di Sergio Bianchetto e Giuseppe Beghetto nel tandem; nel pugilato di Nino Benvenuti nei welter, di Cassius Clay nei medio-massimi, di Francesco De Piccoli nei massimi; del tedesco Armin Hary nei 100 metri; di Giuseppe Delfino nella spada; di Raimondo D’Inzeo nell’individuale del Premio delle nazioni di equitazione. 83 Si veda il corsivo Basta!, pubblicato da «L’Osservatore romano», 8-9 febbraio 1960, dove, echeggiando le proteste del pubblico milanese alla scena dello spogliarello, si sosteneva che «il male, il delitto, il vizio ostentato sugli schermi, sviscerato nella sua psicologia, incarnato nei suoi protagonisti, splendente in bellezze artefatte e procaci, è incentivo al male, al delitto, al vizio [...]».

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Capitolo nono 1 Il complesso iter del piano regolatore e delle successive varianti è ricostruito in Insolera 1993; una sintesi molto chiara in Rossi 2000, pp. 237 sgg. 2 I. Guidi, Il nuovo piano regolatore, in «Capitolium», gennaio 1957, p. 7. 3 Su queste previsioni manifestò le sue riserve Aldo Natoli in Campidoglio: Piano regolatore 1963, pp. 85 sgg. 4 Nell’uso, con Peep si indicano anche i singoli piani di zona. Su Spinaceto, Rossi 2000, pp. 262-265; Sanfilippo 1994, pp. 114-116. 5 Progettato da Vittorio De Feo con Giorgio Ciucci, Massimo D’Alessandro, Paolo Jacobelli, Mario Manieri Elia, Maurizio Morandi: cfr. Rossi 2000, p. 289. 6 L’attuazione della 167 a Roma: il piano di zona di Spinaceto, in «Urbanistica», n. 45, 1965, p. 7. 7 L’Incis di Decima fu progettato da Luigi Moretti, Adalberto Libera, Vittorio Cafiero, Ignazio Guidi; il progetto del Casilino (piano di zona 23) fu coordinato da Ludovico Quaroni. 8 Così, nei ricordi dell’ex sindaco Santini, gli edifici per le Olimpiadi sono presentati come «opere memorabili» realizzate dal sindaco Cioccetti. 9 Nel 1972 Petrucci fu assolto. 10 Santini 1996, pp. 73-74. 11 La prima giunta Darida di centro-sinistra (luglio 1969 - giugno 1971) era composta da democristiani, socialisti e socialdemocratici, alla seconda (marzo 1972 - agosto 1974) parteciparono anche i repubblicani: cfr. Roma del Duemila 2000, pp. 384-385. 12 Santini 1996, p. 60. 13 Insolera 1993, pp. 302-303. Altre occupazioni si sarebbero avute ad Architettura: nel gennaio del 1967 ad opera di studenti dell’Agir, l’organizzazione liberale, e della Caravella, neofascista, contro la chiamata di Paolo Portoghesi; di nuovo nel maggio di quell’anno promossa questa volta da studenti e docenti di sinistra per il rinnovamento degli studi: ACS, Ministero Interno, Gabinetto, 1967-1970, b. 354, 15.584/69, Roma Università, sottofasc. 2. 14 Due anni dopo il giudice istruttore dichiarò di non doversi procedere per il delitto di percosse che aveva causato la morte di Paolo Rossi perché gli autori erano rimasti ignoti: Roghi, Vittoria 2000, pp. 622-623. 15 Lettere, Giurisprudenza, Scienze, Scienze statistiche, Magistero, Economia, Architettura, Fisica: cfr. Roghi, Vittoria 2000, pp. 618-623; «Il Tempo», 28 aprile 1966; «Il Messaggero», 28 aprile-4 maggio 1966. 16 Rossi 1981, p. 138. 17 Cit. in L’orda d’oro 1997, pp. 237-238. 18 Il 22 febbraio 1968, 79 studenti forzarono il passaggio che collegava la Biblioteca Alessandrina a Lettere e rioccuparono la facoltà. Il 19 tre studenti, giunti a S. Ivo alla Sapienza del Borromini, la chiesa dell’antica università romana, con il professor Portoghesi, che doveva scattare delle foto, occuparono la cupola della chiesa fino alla sera del giorno successivo. I tre, noti come «gli uccelli», furono protagonisti di altre fantasiose forme di contestazione: ACS, Ministero Interno, Gabinetto, 1967-1970, b. 354, 15.584/69, Roma Università, sottofasc. 2. 19 Dell’episodio è stato testimone chi scrive. La presenza degli studenti di destra è confermata dal «Tempo», 1° marzo 1968 e dal rapporto del questore

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del 29 febbraio dove si parla di «attivisti comunisti, ‘cinesi’, neo-fascisti», in ACS, Ministero Interno, Gabinetto, 1967-1970, b. 354, 15.584/69, Roma Università, sottofasc. 2. Cfr. anche Baldoni, Provvisionato 1989, pp. 16 e 34-35. «Il Messaggero» parlò di scene «indescrivibili» avvenute a via Nazionale. Si ebbero 26 feriti fra gli studenti, 7 fra le forze dell’ordine e 75 fermati. 20 «Il Messaggero», «Il Tempo», «l’Unità», 2 marzo 1968 per il racconto degli avvenimenti e anche il rapporto del questore del 1° marzo, in ACS, Ministero Interno, Gabinetto, 1967-1970, b. 354, 15.584/69, Roma Università, sottofasc. 2, da cui sono tratti i dati relativi ai feriti (fra cui 9 fra vicequestori e commissari e due ufficiali dei carabinieri) e ai fermati. I giornali riportarono cifre lievemente inferiori. 21 Cit. in L’orda d’oro 1997, p. 240. 22 La spedizione era stata organizzata da Giulio Caradonna con molti elementi estranei all’università che esautorarono i militanti di Caravella, l’organizzazione studentesca romana del Msi: dopo i fatti la polizia identificò 160 persone, di cui solo 105 erano studenti: cfr. in ACS, Ministero Interno, Gabinetto, 1967-1970, b. 354, 15.584/69, Roma Università, sottofasc. 2. La facoltà di Giurisprudenza fu devastata. Vi furono 52 arresti: cfr. «Il Messaggero», 17 marzo 1968. 23 Il corteo degli studenti, partito dalla Città universitaria, era passato da via Bissolati, via Ludovisi, il Tritone, piazza di Spagna, via Tomacelli. La protesta era originata dagli arresti per l’attentato alla società americana Boston Chemical e per le devastazioni alla facoltà di Architettura. Vi furono 160 fermi e 6 arresti: «Il Messaggero», 28 aprile 1968. 24 Grispigni 1989, p. 103 e «Il Messaggero», 1° giugno 1968. Ma sei bottiglie molotov erano state rinvenute dalla polizia prima di una manifestazione del 2 marzo a piazza del Popolo: ACS, Ministero Interno, Gabinetto, 1967-1970, b. 354, 15.584/69, Roma Università, sottofasc. 2. 25 «l’Unità», 28 febbraio 1969. Nella stessa giornata, durante l’assalto di una squadra di fascisti contro la facoltà di Magistero, morì cadendo da una finestra del secondo piano lo studente Domenico Congedo: cfr. anche ACS, Ministero Interno, Gabinetto, 1967-1970, b. 354, 15.584/69, Roma Università, sottofasc. 2. 26 Ghione, Morbidelli 1991. Le agitazioni del Mamiani, iniziate già a marzo, ripresero alla riapertura dell’anno scolastico. A dicembre 175 occupanti vennero sospesi. Cfr. «Il Messaggero», ottobre-dicembre 1968, varie date. 27 È il caso della cosiddetta «riforma Lombardi-Romeo», promossa dal preside di Lettere Franco Lombardi e da Rosario Romeo nel 1969: prevedeva tre diversi livelli di complessità per gli esami, fra cui un livello C di estrema semplicità, per aggirare la distinzione fra fondamentali e complementari e rendere più specialistico l’itinerario formativo degli studenti. Fu applicata per tre sole sessioni e superata dalla liberalizzazione dei piani di studio resa possibile dalla legge dell’11 dicembre 1969: cfr. Vidotto 1994, p. 314. 28 Per un episodio di questo tipo in occasione del secondo appello degli esami del 5 novembre 1968, cfr. ACS, Ministero Interno, Gabinetto, 1967-1970, b. 354, fasc. 15.584/69, Roma Università. Cfr. anche Vidotto 1994, pp. 313-314. 29 Anche in seguito «L’Espresso» si distinse per la celebrazione delle ricorrenze del ’68 contribuendo alla nascita del suo mito. 30 Due cortei provenienti da piazza Esedra e da Porta S. Paolo si erano riuniti al Circo Massimo percorrendo quindi il lungotevere fino a piazza del Po-

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polo, dove parlarono Luigi Macario per la Fim-Cisl, Giorgio Benvenuto per la Uilm, Bruno Trentin per la Fiom: cfr. «l’Unità», 28 novembre 1969. 31 «l’Unità», 20 novembre 1969: piazza SS. Apostoli, sede del comizio finale, non riuscì a contenere tutti i partecipanti al corteo che si era snodato a partire da piazza Esedra. 32 Legge del 28 luglio 1967, n. 628. 33 Le vicende delle lotte comuniste per la casa e dei rapporti conflittuali con le altre organizzazioni sono ricostruite dal suo leader romano Aldo Tozzetti in Tozzetti 1989: cfr. a p. IX, nella presentazione del volume, le perplessità di Giovanni Berlinguer su una lettura priva di spunti critici su quelle vicende. Cfr. anche Musci 1990, pp. 27-28 e il dossier casa in www.altremappe.org. 34 Tozzetti 1989, pp. 225 sgg. 35 Nel 1971 la Magliana aveva circa 6500 abitanti, ma era prevista la costruzione di 7800 alloggi per oltre 30.000 abitanti. 36 Così Laura Gonsalez nell’introduzione a Magliana 1977, p. 8. Su Prato Rotondo e la Magliana: Bonomo 2003. 37 Grispigni 1990, p. 9. 38 Sui comitati di quartiere De Mucci 1984, pp. 156 sgg., e sul loro graduale proporsi non «obiettivi di uguaglianza, ma piuttosto di acquisire miglioramenti di vita individualmente e a basso costo (economico e politico)», cfr. p. 202. 39 Ceruso fu colpito da un colpo di pistola 7,65, calibro in dotazione alle forze dell’ordine. La cronaca degli avvenimenti in tutti i giornali romani: cfr. anche Tozzetti 1989, pp. 288-293; Baldoni 1996, pp. 207-208. Il 10 settembre un corteo di protesta per l’uccisione di Ceruso sfilò da piazza Esedra per via Cavour e i Fori imperiali fino a piazza SS. Apostoli. «l’Unità», che già il 7 settembre aveva deprecato le «iniziative provocatorie di elementi avventuristi», sostenne il 10 che se «vi fosse un manuale in cui si spiega come si deve fare per creare la disperazione e la rabbia più esasperata e per creare lo spazio ad ogni sorta di provocazioni esso, in questo caso, sarebbe stato applicato in ogni più perfido dettaglio». Sulla prima pagina di «Lotta continua» del 9 settembre campeggiava, a caratteri cubitali, la scritta Assassini. 40 I padroni della casa 1972, p. 31. 41 Martina 1980, pp. 76-77; Riccardi 2000, pp. 52 e 56. 42 In «Il Regno. Documenti», 1° febbraio 1974, p. 113. 43 Dom Franzoni, monaco «divorzista», venne sospeso a divinis alla vigilia del referendum sul divorzio: cfr. «L’Osservatore romano», 2-3 maggio 1974. 44 Riccardi 2000, pp. 65-67. 45 Martina 1980, pp. 81-83. 46 In «Rivista diocesana di Roma», 1974, n. 1-2, p. 241. Le relazioni principali del convegno sono pubblicate anche in «Il Regno. Documenti», 1° marzo 1974. 47 La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma è il titolo con cui vennero pubblicati gli atti parziali del convegno sulla «Rivista diocesana di Roma», ma nel cartellone che campeggiava nella basilica di S. Giovanni i due termini erano invertiti e la «carità» precedeva la «giustizia». 48 De Rita 1974, pp. 205-206. 49 I no furono a Torino il 79%, a Milano il 73,7%, a Napoli il 60%, a Palermo il 55%: «Corriere della Sera», 14 maggio 1974.

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50 Il 12 maggio «Il Messaggero» tornava in edicola dopo tre giorni di sciopero per controversie relative alla vendita del 50% delle azioni ancora possedute dai Perrone alla Montedison. Dal 14 al 27 maggio sarebbe entrato di nuovo in sciopero. Sulla questione della proprietà e sulla campagna divorzista del giornale, cfr. Talamo 1991, pp. 373-378. 51 G. Andreotti, Significato di un voto, in «Il Tempo», 12 maggio 1974. 52 Appello ai ritardatari, in «Il Tempo», 13 maggio 1974. 53 Cfr. «Paese sera» del 14 e 15 maggio per un’analisi «al microscopio» del risultato. 54 «Il Tempo», 1° e 2 ottobre 1975. Dei tre – Andrea Ghira, Gianni Guido e Angelo Izzo – il primo è riuscito a rimanere in latitanza fino alla morte avvenuta in Spagna nel 1994. 55 «Il Messaggero», 28 novembre 1976. 56 G. Papini, Il discorso di Roma, in «Lacerba» 1° marzo 1913: cfr. La cultura italiana 1961, p. 142; il discorso di Papini, di sostegno ai futuristi, era rivolto anche contro Benedetto Croce. Anche il Prezzolini di quegli anni era molto critico nei confronti della capitale, salvo riconciliarsi con Roma dopo le giornate interventiste del maggio 1915. 57 Contro Roma 1975, p. 11. 58 Contro Roma 1975, p. 99. 59 Contro Roma 1975, p. 12. 60 Contro Roma 1975, p. 13. 61 «L’Espresso», 28 marzo 1971. 62 Ibid. 63 Piovene in Contro Roma 1975, p. 36. 64 Contro Roma 1975, p. 8. 65 Contro Roma 1975, p. 36. 66 «L’Espresso», 28 marzo 1971. 67 Asor Rosa 1989, p. 636. 68 Asor Rosa 1989, p. 642. Cfr. anche Erbani 2000. 69 Si deve almeno ricordare Ceccarius (Giuseppe Ceccarelli, 1889-1972) dal 1947 animatore della annuale Strenna dei romanisti. La sua biblioteca conservata alla Nazionale costituisce un fondo prezioso e ricchissimo per gli studi su Roma. E poi Silvio Negro, Daria Borghese, Livio Jannattoni fra i molti altri. Infine le popolarissime Avventure in città di Giancarlo Del Re pubblicate dal «Messaggero». 70 P.P. Pasolini, Il mio «Accattone» in TV dopo il genocidio, in «Corriere della Sera», 8 ottobre 1975, poi in Pasolini 1991, pp. 154-156. 71 P.P. Pasolini, Due modeste proposte per eliminare la criminalità in Italia, in «Corriere della Sera», 18 ottobre 1975, poi in Pasolini 1991, p. 167. 72 P.P. Pasolini 1991, pp. 181-182. 73 Per la ricostruzione dei fatti e la situazione politica della borgata, tradizionalmente di sinistra, cfr. Baldoni, Provvisionato 1989, pp. 102 sgg. Mario Mattei, la moglie e gli altri quattro figli riuscirono a salvarsi. Per i fatti vennero processati Marino Clavo, Manlio Grillo e Achille Lollo, i primi due latitanti. Lollo, dopo la sentenza di assoluzione per insufficienza di prove, riparò all’estero. 74 Baldoni 1996, pp. 210 sgg. Il 17 gennaio 1975, dopo aver lanciato dodici molotov all’interno della sezione di Cinecittà, gli assalitori abbassarono e poi chiusero la saracinesca col filo di ferro. 75 Daniele Pifano in Settantasette 1997, pp. 361-369.

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Documento del 3 febbraio 1977, in www.zzz.it/~ago/settesette/. Cit. in Grispigni 1997, p. 27. 78 «l’Unità», 19 febbraio 1977 e Coppoli 1988-1989, cronologia. 79 «Il Messaggero», 13 marzo 1977 e Coppoli 1988-1989, cronologia. 80 «Il Messaggero», 22 aprile 1977 e Coppoli 1988-1989, cronologia. 81 Le radio libere erano prevalentemente commerciali: ne nacquero un’ottantina fra il 1976 e gli inizi del 1977. Anche i giovani comunisti avevano una loro emittente di riferimento, Radio blu: trasmetteva tra l’altro rock di genere progressivo mentre Città futura era più aperta agli sperimentalismi. 82 Una ricostruzione dettagliata della vicenda in www.associazionewalterrossi.it. Cfr. anche Bianconi 1996, pp. 94-96. I responsabili della sparatoria furono Alessandro Alibrandi e Cristiano Fioravanti, ma non si è accertato chi avesse sparato il colpo mortale: l’arma era una sola e i due se la sarebbero passata a vicenda. 83 Bianconi 1996, pp. 99 sgg. 84 U. Cubeddu, Sgomento e protesta: Roma si è fermata, in «Il Messaggero», 17 marzo 1978; L. Melograni, Roma si raccoglie unita a piazza S. Giovanni, in «l’Unità», 17 marzo 1978. 85 Marco Follini, segretario dei giovani democristiani, manifestò esplicitamente il fastidio proprio e dei suoi quando i giovani comunisti guidati da Massimo D’Alema vollero mettersi alla testa del corteo: «non abbiamo la tradizione di piazza dei comunisti. Siamo un po’ a disagio» (Corteo bianco, corteo rosso tutti in piazza ma non uniti, in «la Repubblica», 19-20 marzo 1978). 86 Nel pomeriggio del 9 si ebbe una manifestazione al Colosseo dove parlò Argan, mentre era in corso uno sciopero generale. Nel pomeriggio del 10 di nuovo sciopero e grande comizio sindacale a S. Giovanni con 100-150.000 presenti. 87 Rossanda 1997, p. 507. La famiglia, che si era battuta aspramente per la linea della trattativa, pretese per Moro i funerali privati. 88 Due giorni prima era stato ucciso per errore il cuoco Luigi Allegretti, finito come Mancia con un colpo alla nuca: cfr. Baldoni, Provvisionato 1989, pp. 317 sgg. 89 Piazza Igea a Monte Mario è stata ridedicata a Walter Rossi. 90 Pagnotta 2006, pp. 80-81. 91 M. Panizza in Rossi 2000, p. 297; nel 1951 la superficie era di 1500 ha e gli abitanti 150.000. 92 Vedi lo sviluppo di Case Rosse sulla Tiburtina illustrato in Vallat 1995, pp. 48-51; per Tor Bella Monaca, Martinelli 1990, pp. 151 sgg. 93 Secondo lo studio riassuntivo Vallat 1995, p. 18, nel 1980 le borgate erano costituite per il 66% di case basse individuali, per il 28% da piccole palazzine, per il 6% da ville di lusso. La destinazione era per il 50% residenziale, per 19,3% professionale, per il 30,7% mista. Cinquina era una borgata con il 75% di case di due o più piani, a Castelverde il 73% delle case avevano il piano terra e un piano. Ma in tutte le borgate gli ampliamenti delle case sono stati continui. 94 A. Clementi, F. Perego in La metropoli «spontanea» 1983, p. 218. 95 Torre Angela aveva 2000 abitanti nel 1953, 20.000 nel 1970, 35.000 nei primi anni Novanta. Sulla borgata e la sua progressiva integrazione, cfr. B. Krella in Rom - Madrid - Athen 1993, pp. 53-65. 96 Roma perché 1986, p. 67. Cfr. anche i dépliant di presentazione del quartiere, Tor Bella Monaca 1983. 97 «Corriere della Sera», 24 febbraio 1992. 76 77

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98 Corviale (piano di zona 61) fu progettato per conto dell’Istituto case popolari fra il 1972 e il 1974, realizzato fra il 1974 e il 1982; coordinatore generale del progetto fu Mario Fiorentino, alla guida di un folto gruppo di architetti e ingegneri. Gli abitanti provvidero poi a ridurre con grate e tramezzi gli spazi aperti previsti dagli architetti. Cfr. anche Sanfilippo 1994, pp. 123-127; Rossi 2000, pp. 321-323. 99 Su 2683 nuclei familiari trasferiti a Tor Bella Monaca nel 1983 il 51,9% aveva lo sfratto esecutivo, il 26,5% era in disagiate condizioni economiche, il 5% era di portatori di handicap motorio grave, il 15,6% era di famiglia di nuova formazione: materiale fornito nel 1992 dall’VIII circoscrizione. Cfr. anche V. Kreibich in Rom - Madrid - Athen 1993, pp. 66-80: il 43% degli alloggi sono proprietà del Comune, il 28,5% dello Iacp: p. 71. Cfr. anche Sanfilippo 1994, pp. 130-131. 100 A Tor Bella Monaca si è realizzato, a partire dalla fine degli anni Novanta, il progetto di recupero Urban promosso dall’Unione Europea. 101 Si vedano le case e casette, in parte anche ben restaurate, lungo via di Valle Aurelia e nelle adiacenti via delle Ceramiche e via dei Laterizi. 102 Macioti 1988, pp. 81 sgg. 103 Nicolini in Roma perché 1986, p. 126. 104 Rossi 2000, pp. 329-331. 105 Benevolo 1977, pp. 214 sgg. 106 Area archeologica centrale 1985: al progetto partecipò, oltre a Benevolo, anche Vittorio Gregotti. 107 Cfr. C. Aymonino, Relazione introduttiva...; V. Sermonti, La cronaca delle cronache; L’iter della delibera..., in «Romacentro. Area archeologica e città», 6, 1986; G. Consoli, F. Garofalo, S. Pasquarelli, Documenti e ricerche per un dibattito sull’area archeologica centrale, 1810-1940, in «Romacentro. Area archeologica e città», 7, 1986. L’assessorato di Aymonino si fece promotore di una serie di ricerche e di mostre sulla storia di Roma capitale che diedero luogo a cataloghi che raccolgono risultati di grande interesse, purtroppo circoscritti al periodo 1870-1911: cfr. il più importante, Architettura e urbanistica 1984. 108 Manieri Elia 1991, pp. 551 sgg. 109 Il valore medio del «no» in città fu del 72,6%, a Centocelle e al Tuscolano e Cinecittà raggiunse l’82%: «Paese sera», 19 maggio 1981. 110 Garano, Salvagni 1985, p. 37. 111 Cit. in Roma perché 1986, p. 22. 112 Cit. in Roma perché 1986, p. 44. Nell’VIII circoscrizione il Pci passava nelle comunali dal 45,2% del 1981 al 41% del 1985 e al 31,7% del 1989. 113 Cfr. le considerazioni di Tocci 1993, pp. 90-94.

Capitolo decimo 1 Nel 1991 il terziario aveva raggiunto l’83,2%della popolazione attiva mentre l’industria era scesa al 16%e l’agricoltura allo 0,8%. 2 Rossi 2000, p. 248. Per una minuta e colorita ricostruzione della vicenda, Boccacci 1994, pp. 15-42.

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Rossi 2000, pp. 351-353. Purini in Le città immaginate 1987, pp. 18-26. 5 Cfr. i progetti pubblicati in La nuova scuola di Roma 1987 e, alle pp. 5253, le osservazioni di Giorgio Muratore sul «drammatico distacco, la progressiva divaricazione fra architettura e urbanistica» e sull’allontanamento «dalla dimensione tradizionale del fare architettura». 6 Avarello 2000, p. 192. 7 D. Martirano, Mattoni e mazzette: i signori delle tangenti, in «Corriere della Sera», 15 luglio 1993. 8 Boccacci 1994. 9 Pensare politicamente 1991, pp. 54-55. 10 Pensare politicamente 1991, p. 85. 11 P. Di Nicola, Il palazzo di Bengòdi, in «L’Espresso», 7 ottobre 1999 per la Camera dei deputati; P. Di Nicola, S. Livadiotti, Bankitalia dei privilegi, in «L’Espresso», 23 marzo 2000. 12 Cfr. A. Danesi, I politici si regalano anche le case di Stato, in «Europeo», 17/26 aprile 1991. 13 «Corriere della Sera», 8 febbraio 1994. 14 Castrucci 1998-1999. 15 Nettamente inferiore (fra il 26,5 e il 20%) fu il voto riportato dal Msi nelle elezioni circoscrizionali, a conferma dell’effetto di trascinamento della candidatura di Fini. Al Tiburtino tanto il Pds che Rifondazione ottennero i migliori risultati, 26,4% e 10,2% rispettivamente. 16 «Il Messaggero», 7 dicembre 1993. 17 Rutelli, sposato civilmente dal 1981, nell’aprile 1995 celebrò riservatamente, con la stessa moglie, anche il matrimonio religioso: P. Conti, Rutelli, nozze segrete in chiesa, in «Corriere della Sera», 11 gennaio 1996. 18 Pds e Rifondazione perdevano rispetto alle politiche dell’anno prima, quando avevano riportato il 25,2% e il 10,7% rispettivamente. 19 Rutelli 1993. Walter Tocci, esponente di spicco del Pds, pubblicò alla vigilia delle elezioni un’ampia analisi della situazione politica e sociale di Roma, ricca di spunti critici sugli errori della sinistra comunista: Tocci 1993. 20 Ferrarotti 2000, pp. 218-219. 21 «la Repubblica», 7 dicembre 1993. 22 Si trattava (nel 2001) delle 49 linee «esatte» prevalentemente periferiche e con partenze molto scaglionate. Nel 2006 tali linee erano ridotte a 20. Gli altri orari sono disponibili in rete (www.atac.roma.it) ma non alle fermate. 23 La «circonvallazione verde»: Togliatti, sottopasso dell’Appia, Eur, Newton, Olimpica, Pineta Sacchetti, Olimpica, Prati Fiscali, cfr. Rossi 2000, p. 387. 24 P. Potz in Rom - Madrid - Athen 1993, pp. 81-92. 25 Marcigliana, Monte Mario, Insugherata, Pineto, Tenuta di Acquafredda, Valle dei Casali, Tenuta dei Massimi, Decima-Malafede, Laurentina-Acqua Acetosa, Valle dell’Aniene, Aguzzano. 26 Intervista con F. Erbani, Roma. Milioni di stanze per una città che non cresce, in «la Repubblica», 23 dicembre 2000. 27 Vedi i progetti per l’Esquilino, Ostia, Borghesiana, Case Rosse, Pigneto, Quadraro nel fascicolo Modernizzare Roma 1995 pubblicato dal Dipartimento politiche del territorio. Ma altre zone furono investite dagli interventi di recupero: Fidene-Val Melaina, San Basilio, Tor Bella Monaca, Acilia, Laurentino, 3 4

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Corviale, Magliana, Valle Aurelia, Palmarola-Selva Candida, Primavalle-Torrevecchia, Labaro, cfr. Rossi 2000, p. 386. Sul Pigneto, cfr. ora Severino 2005. 28 «la Repubblica», 24 gennaio 2001: la Soprintendenza si era avvalsa di una perizia di Italo Insolera, Vezio De Lucia, Carlo Blasi sul valore archeologico e paesaggistico della zona di Tor Marancia, contigua all’area dell’Appia Antica. 29 A. Ferrigolo, Quel pasticciaccio abusivo, in «Diario della settimana», 26 gennaio 2000. 30 Un lungo contenzioso riguardò anche il sottopasso del lungotevere a Castel S. Angelo, impedito dalla Soprintendenza e sostituito da un tratto più breve, noto come il «sottopassino», che tuttavia si spingeva, nel suo braccio sotto Porta Cavalleggeri, per un lungo tratto fino agli inizi di via Gregorio VII. 31 Burdett 2000, pp. 76-77. 32 Una notevole vitalità progettuale dimostrava la nuova università di Roma Tre, contribuendo alla riqualificazione del quartiere Ostiense con la riutilizzazione e il restauro di vecchi edifici o con la costruzione di nuovi. Nel decennio precedente si era consolidata anche l’università di Tor Vergata, che rimaneva tuttavia penalizzata dai difficili collegamenti, mentre La Sapienza dimostrava una singolare lentezza nell’avviare a soluzione i suoi molti problemi, di spazio e organizzativi. 33 Cfr. le fotografie relative all’esterno dell’Augusteo e alla demolizione avvenuta nei primi mesi del 1937, in Insolera 2001, pp. 173-179. 34 L’idea fu presentata nel 1991 dall’architetto Francesco Ghio: cfr. V. Emiliani, Due ipotesi dibattute e un progetto possibile, in «Il Tempo», 11 maggio 1991. 35 Sui vari progetti per l’Auditorium, cfr. Rossi 2000, pp. 371-374; cfr. anche D. Lucca, Piano con l’Auditorium, in «L’Espresso», 13 aprile 2000. 36 Lettera dal Campidoglio, 9 gennaio 2001. 37 A Roma e al Lazio furono destinati 3500 miliardi con la legge 23 dicembre 1996, n. 651. 38 Cfr. Agenzia per il Giubileo 2001. 39 A. Padellaro, Roma kaputt mundi, in «L’Espresso», 13 gennaio 2000. 40 Si veda il bilancio tracciato dallo stesso Rutelli in un’intervista, Così Roma ha battuto Milano, in «la Repubblica», 28 gennaio 2001. 41 Albinati 2001, p. 46. 42 Le circoscrizioni si numerano ancora fino a 20, anche dopo il distacco del comune di Fiumicino che era la XIV. 43 La Lista civica per Veltroni riportò il 10,9%, la Margherita (il raggruppamento in cui era confluito Rutelli) l’8,3%, Rifondazione comunista il 4,6%; nel centro-destra i Ccd-Cdu ottennero il 3,1%. 44 Il centro-destra prevalse nei municipi II (Parioli-Salario), XII (Eur-Spinaceto), XIII (Ostia), XVII (Prati-Delle Vittorie), XVIII (Boccea-Montespaccato), XIX (Balduina-Primavalle) e XX (Cassia-Prima Porta). Il centro-sinistra conquistò i municipi I (Centro-Testaccio), III (Piazza Bologna-San Lorenzo), IV (Montesacro-Talenti), V (Tiburtina-San Basilio), VI (Prenestino-Pigneto), VII (Centocelle-Prenestino), VIII (Torre Angela-Borghesiana), IX (Appio Latino), X (Tuscolano-Cinecittà), XI (Ostiense-Ardeatino), XV (Trullo-Magliana), XVI (Monteverde-Bravetta). 45 I Moderati per Veltroni ottennero il 4,4% dei voti. Fra le altre liste e partiti che sostenevano il sindaco uscente, L’Ulivo (Ds e Margherita) riportò il 33,8%, la Lista civica per Veltroni il 6,2, Rifondazione comunista il 5,4, i Verdi

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il 4,8, Di Pietro-Italia dei valori il 2,3, La rosa nel pugno (socialisti e radicali) il 2,0, i Comunisti italiani l’1,5. Il candidato sconfitto, l’esponente della destra sociale di Alleanza nazionale e ministro delle Politiche agricole del governo Berlusconi, Gianni (Giovanni) Alemanno, aveva ottenuto il 37,1%. Fra i partiti che lo sostenevano, Alleanza nazionale ottenne il 19,5% dei voti, Forza Italia il 10,1, l’Udc il 4,4. Votò solo il 65,6% degli aventi diritto (rispetto al 75,5 del 2001): una percentuale così bassa discendeva anche dalla diffusa convinzione che la vittoria di Veltroni fosse scontata. Il centro-sinistra conquistò anche tutti i municipi salvo il XX (Cassia-Prima Porta). 46 Dal Programma amministrativo 2006-2011, p. 4. Sul «modello Roma» cfr. anche Veltroni 2006. 47 Comune di Roma, Censis, Rapporto su Roma. L’evoluzione della città al 2006, Roma, marzo 2006, p. 2. 48 Un’analisi del distretto di sud-ovest e anche dell’Ostiense in Tocci 2004. 49 Modigliani 2005, p. 98. 50 Lamaro alla Bufalotta, Parnasi a Eur-Castellaccio, Scarpellini ad Anagnina-Romanina. Sulle funzioni delle centralità, cfr. Marcelloni 2003, pp. 131 sgg. 51 Nuovo piano regolatore di Roma, p. 4: documento in pdf scaricabile dal sito dell’assessorato all’Urbanistica del Comune di Roma. 52 Sui progetti per Corviale, cfr. Osservatorio nomade 2006. 53 Piazza S. Pietro è a 19 metri, la base della basilica a 30. 54 Piazza del Campidoglio è a una quota piuttosto bassa, 38 metri: i punti panoramici sono dai giardini di fianco e sul retro e dalla terrazza di palazzo dei Conservatori. 55 «Corriere della Sera», 26 novembre 1957, ora in Brandi 2001, p. 239. 56 Seronde Babonaux 1983, p. 6. 57 La frazione di Cesano a nord-ovest dista 29 km dal centro. 58 Testo italiano di Garofalo 2000, p. 159. 59 Si tratta dell’ospedale S. Giovanni Evangelista del Sovrano Militare Ordine di Malta, nel Castello della Magliana, di Julio Lafuente e Gaetano Rebecchini (cfr. Italia 1988, p. 329), autori anche, nella stessa zona, dell’insolito edificio della Esso (ivi, p. 355). 60 È la travata dell’ansa del Tevere di Riccardo Morandi: cfr. Rossi 2000, p. 272. 61 Sono le torri di quindici piani del Peep di Castel Giubileo, poste alla quota di 67 metri. 62 Forse il complesso (coordinato da Lucio Passarelli) architettonicamente più convincente degli anni Settanta, anche se tutti questi grandi interventi risentono dei modelli dei grandi Höfe viennesi degli anni Trenta. 63 Ma cfr. il drastico giudizio negativo di Giorgio Muratore. Roma, fatta eccezione per il centro storico, la fascia ottocentesca e alcune zone intensive degli anni Cinquanta «non è più, anzi non è mai stata e probabilmente non sarà mai, una città. Non lo sono le cosiddette borgate, lo sono ancora meno i numerosi quartieri di edilizia pubblica o sovvenzionata costruiti in questi ultimi anni. Questa Roma non è città (non parliamo poi di Metropoli), o meglio lo è come può esserlo oggi un qualsiasi pezzo di periferia in una qualsiasi megalopoli mediterranea [...]», in «Abitare», maggio 1984, p. 80. 64 Per uno sguardo disincantato e realistico sulla Roma delle periferie, Pe-

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rego 1993 e i numerosi interventi di scrittori chiamati da «la Repubblica» a descrivere i vari quartieri: La città fuori le mura 2005. 65 L. Malerba, Ragazzi dai sogni sbagliati, in «la Repubblica», 14 maggio 1991; Id., Con i piedi sulla storia tra cartacce e barattoli, in «la Repubblica», 12 giugno 1991. 66 Golini 2000, p. 133 e Comune di Roma, Annuario statistico 2004, Roma 2005. 67 Gadda 1983, pp. 23-24. 68 È un brano tratto da The Köln concert (1975). 69 Avarello 2000, p. 201. 70 Lodoli 2000, p. 141. Sul Grande raccordo anulare cfr. anche De Quarto 2005. 71 Albinati 2001, pp. 98-99. 72 Valle Aurelia, vicolo del Gelsomino a fianco di via Gregorio VII, certi tratti di Pietralata al di là della ferrovia, per non dire che di alcuni. 73 Cfr. V. Emiliani, Città tranquilla eppure impaurita, in «Corriere della Sera», 14 agosto 2001. Per i molti casi di omicidio irrisolti, Musci, Minicangeli 2000, passim, e in particolare pp. 124 sgg. Un caso la cui soluzione è stata contestata da una larga parte dell’opinione pubblica è quello dell’omicidio di Marta Russo colpita da una pallottola alla testa all’interno della Città universitaria il 9 maggio 1997: Musci, Minicangeli 2000, pp. 42-47. 74 C. Darida, 20 settembre 1870: la capitale è Roma, in «Capitolium», settembre 1970, pp. 11-12. 75 Rutelli 1993, pp. 80-81 (in corsivo nel testo). 76 Veltroni sindaco 2001, pp. 107-108. 77 G. Dotto, Roma, festa e follie ma senza scandalo, in «Il Messaggero», 9 luglio 2000. 78 Il 25 aprile era stato istituito come festa nel 1946 con un decreto di De Gasperi. Una successiva legge del 27 maggio 1949, n. 260 istituì all’art. 1 la festa nazionale del 2 giugno e insieme alle altre festività civili e religiose confermò il 25 aprile, il 1° maggio e intitolò il 4 novembre «giorno dell’Unità nazionale». 79 Cenci 1999, pp. 339 sgg. 80 Tutte le informazioni sulle celebrazioni delle feste nazionali a Roma derivano da uno spoglio della stampa romana, dal 1944 al 2001, condotto prevalentemente sul «Messaggero». 81 400.000 nel 1995, 600.000 nel 1999 secondo i giornali. Nel 2000 la manifestazione si tenne a Tor Vergata nello spazio dove sarebbe stato celebrato il giubileo dei giovani. 82 A Milano il corteo degli extraparlamentari era aperto da gruppi di soldati in divisa con il volto coperto che portavano un cartello con lo slogan «fascisti golpisti / per voi non c’è domani / siamo soldati / saremo partigiani». 83 Cfr. P. Mieli, Una prova di maturità, in «Corriere della Sera», 26 aprile 1994. Cfr. Cenci 2000, pp. 231 sgg. 84 Non parteciparono esponenti di spicco di An come Alessandra Mussolini, Teodoro Buontempo e Giorgio Pisanò. 85 Berggren, Sjöstedt 1996, p. 192. 86 Ilari 2000, pp. 195 sgg.; Bertelli 1997, pp. 198-201. 87 Le donne in divisa hanno conquistato Roma, in «Corriere della Sera», 3 giugno 2001.

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88 G. Belardelli, 2 giugno. Una Festa perduta e ritrovata, in «Corriere della Sera», 1° giugno 2001. 89 Manca un monumento nazionale della Resistenza come anche, ma è meno sorprendente, un monumento che commemori i caduti di tutte le guerre dal 1935 al 1945. 90 Dal «Corriere della Sera» del 18 marzo 1983, ora in Brandi 2001, pp. 265266. 91 Purini in Le città immaginate 1987, p. 20. 92 A. Carandini, Così dobbiamo liberare i Fori, in «Corriere della Sera», 18 febbraio 2001. Una rassegna delle riserve di architetti e urbanisti in M. Manieri Elia, Il dibattito sui Fori Imperiali. Tra progetto e conservazione, in «Roma ricerca e formazione», gennaio-febbraio 1999, pp. 11-13. 93 E. Biagi, Il disincanto, l’altra faccia di Roma, in «Corriere della Sera», 4 ottobre 1998. 94 Già in occasione dello scudetto vinto dalla Roma nel 1983 Vittorio Emiliani aveva intitolato E adesso più capitale: «Una città che non è più soltanto enti e Ministeri, burocrazia, routine, ma nuova professionalità, managerialità, creatività, culturale e sportiva [...] Dove il calcio non è solo ‘circense’, ma passione autenticamente popolare, più festosa che violenta». 95 Sono dati del Censis del 1998. Ma almeno il 40% dei cittadini romani non sono tifosi di calcio o sostengono altre squadre o sono indifferenti. Il tifo calcistico per le due squadre romane è largamente interclassista. La Lazio oltre ad avere una base popolare, che nella Roma è invece dominante, è radicata nei quartieri borghesi di Prati, Cassia, Flaminio e Parioli. In entrambe le tifoserie, che tendono sempre più a omologarsi, allignano gruppi violenti con punte di razzismo, soprattutto fra i laziali, che nell’ultimo derby del 2001 mostravano dalla loro curva Nord uno striscione con la scritta, rivolta agli avversari, «Squadra de negri / curva d’ebrei». 96 Cantore della serata fu Antonello Venditti già autore con Grazie Roma, scritto per lo scudetto del 1983 (anch’esso celebrato al Circo Massimo, il 15 maggio, e con grandi feste in molti altri quartieri), dell’inno più intonato dai tifosi giallorossi. Dopo molte attese si mostrò, in un semi-spogliarello, anche la bella e popolare attrice Sabrina Ferilli, grande tifosa della squadra. 97 A. Giardina, La Roma imperiale riveduta e corretta, in «Il Messaggero», 25 giugno 2001. 98 Fra le più note associazioni di tifosi della Roma fu il Commando ultrà curva sud (Cucs), un’organizzazione politicamente di estrema sinistra, durata dal gennaio 1977 al 12 settembre 1999, quando comparve il suo ultimo striscione. Per la violenza puramente distruttiva di alcuni gruppi attivi negli ultimi anni si vedano le confidenze di un tifoso «antagonista» della Roma: «Io, in trasferta, porto sempre una bottiglietta di alcol e un po’ di ovatta. Basta sfondare il finestrino, inzuppi l’ovatta e gli dai fuoco. Uno spettacolo», cfr. F. Roncone, Le confessioni di un diffidato, in «Corriere della Sera», 12 giugno 2001. 99 Dei 26 campi 5 sono quelli attrezzati (2 a Tor Sapienza, e gli altri a Tor de’ Cenci, alla Magliana Vecchia, a Santa Maria della Pietà), 6 sono i semiattrezzati e 15 gli insediamenti spontanei, fra cui quelli più affollati del Casilino 900 e di Salone con oltre 700 presenze l’uno; 12 campi sono situati nel quadrante est, fra Tiburtina e Casilina: informazioni fornite dall’Opera Nomadi di Roma, ma

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i dati ufficiali, che si fermano al 2002, non registrano il proliferare di piccoli insediamenti e i nuovi arrivi soprattutto di rom rumeni. 100 Rossi 2000, pp. 354-355: il progetto è di Paolo Portoghesi, Vittorio Gigliotti, Sami Mousawi ed è stato realizzato fra il 1984 e il 1995. 101 I più gravi episodi di razzismo riguardano epoche relativamente lontane. Quello più grave avvenne nel 1979, quando un gruppo di giovani, fra cui una donna, appiccò il fuoco e uccise il somalo Ali Ahmed Jama che dormiva sotto il portico di S. Maria della Pace. Più recentemente, il 20 gennaio 1992, un gruppo di naziskin ferì a coltellate due nordafricani che dormivano nel parco di Colle Oppio: cfr. «Corriere della Sera», 22 gennaio 1992. 102 La ripresa di un’identità ebraica a partire dagli anni Ottanta si manifesta nel rispetto più rigoroso delle festività religiose, con la chiusura degli esercizi, non più solo nella zona del vecchio ghetto, ma in tutta la città, come si può notare in occasione di Kippur nelle grandi strade commerciali. 103 Caritas Roma, Osservatorio Romano sulle Migrazioni, 2005. Secondo rapporto, Roma gennaio 2006, che utilizza per le singole comunità di Roma i dati dell’anagrafe. Secondo questo rapporto i filippini sono oltre 27.000, i romeni 25.000 (la comunità in maggior crescita negli ultimi anni), i polacchi sfiorano gli 11.000; gli egiziani sono oltre 9000 e i peruviani quasi 10.000, mentre più di 9000 provengono dal Bangladesh. I cinesi sono circa 8000 e i cingalesi superano i 6000. La componente femminile percentualmente più elevata si registra fra le ucraine: 83,9%. 104 Veltroni sindaco 2001, pp. 33-34. 105 Vedi le considerazioni di Alberto Caracciolo nel constatare come alla parola Roma sia rimasta piuttosto «la capacità di suscitare rifiuto e condanna che non di avvolgersi nella glorificazione di un mito», in Caracciolo 1996, p. 172.

Opere citate

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Quartieri e circoscrizioni di Roma

Indici

Indice analitico*

Agenzia romana per il Giubileo (del 2000), 361-62. Agenzia Stefani, 249. Agnew, J., 434. Agir, organizzazione politica studentesca, 437. Ago, R., 398. Agro romano (vedi anche Campagna romana), 59-60, 121, 125-26, 278, 287, 310, 335, 379, 397, 405, 410. Aigues-Mortes, 104, 411. Air terminal ferroviario, 347. Ajello, N., 425. Alatri, G., 412. Alatri, Samuele, 45, 67, 107, 404. Alberghi, pensioni: – albergo Flora, 246, 428; – Grand Hotel, 136; – hotel Bristol, 420; – hotel Cavalieri Hilton, 284, 434; – hotel Regina, 146; – hotel Savoia, 172;

About, E., 399. Abruzzi, 97, 186. Accademie: – di Arte drammatica, 209; – di Belle Arti, 209; – di Educazione fisica, 209; – di Francia, 209; – d’Italia, 210; – dei Lincei, 42, 210; – di S. Cecilia, 201, 360. Accasto, G., 407. Acqua Marcia, società, 117. Addis Abeba, 409. Adua, 94. Aeroporti: – Centocelle, 300; – Ciampino, 427; – Fiumicino, 278, 371; – dell’Urbe, 373, 427. Africa, 177, 226. Aga Rossi, E., 427. Agca, Mehmet Ali, 326.

* In quest’indice non sono state inserite, per la loro frequenza, le voci Roma, Italia, Comune di Roma, Chiesa cattolica. Di regola non vi compaiono neppure, data la scansione cronologica del volume, voci relative a periodi storici o ad eventi importanti della storia nazionale (del tipo «prima guerra mondiale», «fascismo», «Resistenza»). I singoli quartieri di Roma, la toponomastica cittadina e altre voci sono stati raggruppati come sottolemmi in lemmi generali.

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– pensione Jaccarino, 246, 430; – pensione Oltremare, 246, 249. Albertelli, Pilo, 250. Albertini, Elena, 429. Albinati, Edoardo, 379, 444, 446. Albini, D., 398. Albini, Franco, 434. Aldisio, Salvatore, 434. Aldobrandini, Camillo, 50. Alemanno, Giovanni (Gianni), 445. Aleramo, Sibilla, 121. Alessandria, 108. Alfieri, Cesare, 109. Alibrandi, famiglia, 18. Alibrandi, Alessandro, 441. Alitalia, 291, 367. Alleanza nazionale, 354, 359, 36263, 385, 445. Alleanza per Roma, 352. Allegretti, Luigi, 441. Allegrezza, P., 397. Almagià, Roberto, 221. Almirante, Giorgio, 272. Altare della Patria, vedi Monumenti. Alula, ras, 88. Amato, Giuliano, 382. Amato, Mario, 333. Amba Alagi, 94. Amendola, Giorgio, 246-47, 251, 428. Amendola, Giovanni, 174, 238. American Academy, 209. Anarchici, 104, 135, 167. Anarco-sindacalisti, 144, 414. Ancona, 15, 21, 143. Andreoli, L., 400. Andreotti, Giulio, 271, 294, 317, 330, 349, 432, 440. Aniene, fiume, 125, 301, 369, 37374. Aniene, società di canottaggio, 101. Annibali, S., 411, 413. Annona (Stato pontificio), 16. Annona municipale, 126.

Anticlericalismo, VIII, 54-55, 106, 123, 213, 404. Antonelli, Filippo, 21. Antonelli, Giacomo, 12, 21, 29, 31, 108, 398. Anzio, 253. Apolloni, Adolfo, 151, 159. Aquarone, Alberto, 10, 397, 401-2, 413, 419. Ara pacis augustae, 201, 360, 368, 423. Aragno, Giacomo, 99. Arbasino, Alberto, 322-23. Arbib, Edoardo, 404. Arce capitolina, 72. Archäologisches Institut (Deutsches), 209. Arco di Costantino, 201, 294. Arditi del popolo, 167. Argan, Giulio Carlo, 328, 334, 343, 441. Argonne, 145. Arias, Gino, 221. Aristofane, 95. Arlington (Virginia), 418. Armellini, Augusto, 404, 407. Aschieri, Pietro, 194, 421. Asor Rosa, A., 440. Assisi, 141. Associazione costituzionale, 51. Associazione elettorale liberale fra i rioni di Trastevere, Borgo, Prati, Ripa, Sant’Angelo, 102. Associazione elettorale operaia del rione Borgo e Prati di Castello, 102. Associazione Giordano Bruno, 102. Associazione mariana La Scaletta, 239. Associazione nazionale combattenti, 176. Associazione proprietari di case, 122. Associazione repubblicana Giuditta Tavani Arquati, 103.

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Bagnini, Alberto, 432. Balbo, Cesare, 9, 397. Baldoni, A., 438-41. Ballini, P.L., 400, 403, 419. Balzarro, A., 428. Banca d’Italia (vedi anche Banca Nazionale), 87, 118, 129, 153, 34950, 378, 412. Banca Nazionale (poi Banca d’Italia), 84, 87, 91. Banca romana, X, 84, 91, 94-95, 108. Banca Tiberina, 80, 84. Banco di Napoli, 131. Banco di Roma, 116, 153, 408. Banda Matteotti, 247. Bandiera rossa, 238, 245, 250, 42930. Bangladesh, 448. Banti, A.M., 409, 412. Baracche, borghetti, 133, 199, 27980, 310, 312. Barbagallo, F., 409, 414. Barbagallo, Lina, 95. Barbalace, G., 413. Barberini, A., 434. Barberini, M.G., 409. Barbiani, Giovanni, 408. Bardi, Gino, 241. Barozzi, F., 428. Barrère, Camille, 122. Bartoccini, F., 397-99, 402, 405, 407, 412. Bartolini, F., 397, 407, 416, 422. Bartoloni, E., 397-98. Barzilai, Salvatore, 103, 107, 135, 157. Basevi, Paolo, 435. Basile, Ernesto, 88, 409. Basilica di Massenzio, 190-91, 203, 262, 294, 339, 387. Bastianelli, Giulio, 419. Battaglia, Roberto, 252, 430. Battini, M., 429. Battisti, Cesare, 148. Bauer, Riccardo, 238.

Associazioni cattoliche lavoratori italiani (Acli), 311, 314. Atac, 356. Atag, 424. Attanasio, A., 413, 419. Aubert, R., 399. Audace, società di ginnastica, 101. Auditorium, 360-61. Auditorium Pio XII, 360. Augusteo, 167, 185, 192, 201, 360, 421, 423, 444. Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, imperatore 178, 182, 184, 212. Auschwitz, 243. Austria, 53, 144-45. Autonomia operaia, 311, 328-30, 384. Autostrade: – del Sole, 302, 371, 374; – di Fiumicino, 372; – Roma-L’Aquila, 373. Avallone, E., 403. Avarello, P., 434, 443, 446. Aventino, 201, 370, 386. Aversa, Raffaele, 250. Aymone, T., 434. Aymonino, Carlo, 281, 341, 442. Azeglio, Massimo d’, 25, 27, 40, 400-1. Azienda municipale dell’ambiente (Ama), 391. Azienda territoriale per l’edilizia residenziale pubblica (Ater), 365. Azione cattolica, 213, 266, 433. Azzurri, Francesco, 89. Baccelli, Alfredo, 409. Baccelli, Guido, 45, 102-3, 109, 118, 135, 409. Bacchiani, Alessandro, 419. Bachelet, Vittorio, 333. Bachi, Riccardo, 221. Badoglio, Pietro, 224-25, 233-35, 237, 239, 241.

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– Nazionale Vittorio Emanuele II, 59; – Vallicelliana, 58. Bigiaretti, Libero, 260, 320. Bigonzetti, Franco, 331. Bikila, Abebe, 294. Binni, Walter, 305. Birra Peroni, stabilimenti, 435. Bissolati, Leonida, 135. Bixio, Nino, 34. Blasi, Carlo, 444. Blasi, Guglielmo, 251, 430. Blocco nazionale delle libertà, 263. Blocco popolare, vedi Unione liberale popolare. Blocco del popolo, 263-64. Boccacci, P., 442-43. Bocci, M., 398, 408, 412. Bocquet, D., 406. Boito, Camillo, 81-82, 406-7. Bologna, 21, 23, 73-74, 330, 408. Bonacina, G., 427. Bonadonna Russo, M.T., 407. Boncompagni, famiglia, 20, 407. Boncompagni Ludovisi, Francesco, 177, 420. Boncompagni Ludovisi, Ignazio, 402-3. Boncompagni Ludovisi, Rodolfo, 80. Boncompagni Ludovisi, Ugo, 80. Bondi, Moisè, 99. Bonetta, G., 418-19, 422, 424, 427, 431. Bonfiglietti, Rodolfo, 126-27. Bonghi, Ruggiero, 57, 76, 102, 406. Bongioannini, Francesco, 87. Bonomi, Ivanoe, 123, 167, 169-70, 237-38, 240, 263, 426. Bonomo, B., 439. Borghese, Daria, 440. Borghese, Giangiacomo, 178, 419. Borghese, Marcantonio, 20-21. Borghese, Paolo, 404. Borghesi, Ernesto, 428.

Bazzani, Cesare, 140, 420, 424. Bega, Melchiorre, 434. Beghetto, Giuseppe, 436. Belardelli, A., 398. Belardelli, G. , 420, 423, 447. Belardinelli, M., 412. Belisario, generale di Giustiniano, 123. Belli, Giuseppe Gioacchino, 26, 36, 401. Bellucci, Giuseppe, 134. Belmont, Rose, 101. Beltrami, Luca, 87, 408. Benedetti, Arrigo, 285. Benevolo, Leonardo, 340, 406, 434, 442. Bentivegna, Rosario, 183, 247, 251, 428-29, 432. Benvenuti, Nino, 436. Benvenuto, Giorgio, 439. Benzoni, Alberto, 252, 429-30. Benzoni, Elisa, 252, 429-30. Bergamini, Alberto, 169-70, 174. Berggren, L., 409, 446. Berliner, A., 399-400. Berlinguer, Enrico, 270, 334, 341, 387. Berlinguer, Giovanni, 434, 439. Berlino, 100, 146, 410. Berlusconi, Silvio, 351, 354, 363, 385, 445. Bernini, Gian Lorenzo, 81. Berruti, Livio, 294, 434. Berselli, A., 402-3. Bertelli, S. , 407, 409, 415, 446. Biagi, E., 447. Bianchetto, Sergio, 436. Bianchini, G., 409. Bianconi, G., 441. Biblioteche: – Alessandrina, 437; – Angelica, 58; – Casanatense, 58; – Hertziana, 209;

490

Caetani, Faustina, 399. Caetani, Leone, 135. Caetani, Michelangelo, 37, 45, 402. Caetani, Onorato, 117, 402. Cafagna, Luciano, 408, 411-12, 435. Cafiero, Vittorio, 436-37. Il Cairo, 319. Cairoli, Benedetto, 47, 71, 77, 404, 407. Calabresi, famiglia, 18. Calamandrei, Franco, 246-47, 251, 428, 430. Calini, Leo, 436. Calvino, Italo, 325. Calza, A., 406. Calza Bini, Alberto, 197, 420. Calza Bini, Gino, 168. Calzolari, Vittoria, 340. Cambedda Napolitano, A., 414, 421. Camera di commercio, 13. Camera del lavoro, 103, 143, 152, 168, 414. Campagna romana (vedi anche Agro romano), 21, 99, 205, 369, 371, 405. Campania, 97. Campanozzi, Antonino, 135. Campello, Paolo di, 51, 403. Campidoglio, X, 5, 7-8, 10, 37, 41, 43, 46, 55, 65, 71-72, 81, 87-88, 98, 116, 120, 134-35, 137, 144, 148-50, 156, 165, 169, 172, 18081, 185, 188-91, 193-94, 231, 257, 268, 272, 285, 302-3, 340-41, 344-46, 370, 385, 395, 398, 415, 418, 437, 444. Campitelli, A., 430. Campomorto, tenuta di, 405. Camporesi, Pietro, 46. Campos Venuti, Giuseppe, 358. Canaletti Gaudenti, Alberto, 278. Canali, M., 414. Cancellotti, Gino, 421. Cancogni, Manlio, 285.

Borghini, Pierluigi, 354. Borgna, Gianni, 354, 364. Borgo-Prati, società di ginnastica, 101. Borromini, Francesco, 334, 437. Borsi, F., 409. Bortolotti, L., 413, 422, 434. Boschi, D., 400. Bosman, G., 417. Bottai, Giuseppe, 165, 168, 170, 174, 177-78, 181, 202, 208, 259, 417, 419-20, 423. Bovio, Errico, 416. Bovio, Giovanni, 53. Bowring, G., 398. Bracci, Andrea, 404. Bramante, Donato, 81. Brandi, Cesare, 370, 388, 445, 447. Brasini, Armando, 140, 189, 203, 420, 423. Breda, 187, 217, 287, 431. Brescia, 241. Brice, C., 406. Brigate rosse (Br), 326, 331-33. Brilli, A., 397. Briotti, A., 413. Brunetta, G., 431. Bruni, Gerardo, 239. Bruno, Giordano, X, 90-92, 116. Bruno, Pietro, 327. Bucci, F., 427. Budillon, P., 411. Bülow, Bernhard von, 415. Buontempo, Teodoro, 446. Buozzi, Bruno, 255. Burano, 141. «La burbera», 189, 421. Burdett, R., 444. Busiri Vici, Clemente, 419. Byron, George Gordon, 4. Cabras, Paolo, 312. Cacciafesta, Remo, 331. Cadorna, Luigi, 418. Cadorna, Raffaele, 33, 37-38, 402.

491

Candeloro, G., 402-3, 408. Canevari, Raffaele, 66. Cannizzaro, Stanislao, 61. Capitolo di S. Giovanni in Laterano, 59. Capitolo di S. Pietro, 59, 405. Capocotta, 274, 433. Caporetto, 154. Capponi, Carla, 248, 251, 428. Capponi, Gino, 42-43, 403. Capponi, Giuseppe, 195. Caracciolo, Alberto, 397-99, 403, 406, 410, 412-13, 435, 448. Caradonna, Giulio, 305, 438. Carancini, Alessandro, 404. Carandini, A., 447. Carandini Albertini, E., 429-30. Caravale, M., 397-98, 407, 412. Caravella, organizzazione politica studentesca, 437-38. Carbone Stella Richter, C., 406. Carcere di Regina Coeli, 65, 192, 245-246, 249, 257-58. Cardano, N., 412, 414. Cardilli, L., 421. Carducci, Giosue, 36. Caritas diocesana, 394-95, 448. Carlo Alberto di Savoia, 136. Carosi Martinozzi, Nestore, 419. Carraro, Franco, 345. Carretta, Donato, 257-58. Caruso, Carmelo, 353. Caruso, Pietro, 248-49, 258. Casa dei catecumeni, 22-23. Casa delle Armi, 195. Casadio, C., 401. Casati, Gabrio, 238. Cascia, 26. Casella, M., 410-11. Caserma dei vigili del fuoco a via Marmorata, 372. Caserma Lamarmora, 168. Cassa depositi e prestiti, 159, 416. Cassa di risparmio di Roma, 131, 408. Cassino, 255.

Cassuto, Umberto, 221. Castel Fusano, 301, 372. Castel S. Angelo, 7, 140, 444. Castelgandolfo, 41. Castellani, Augusto, 99, 402. Castellazzi, Massimo, 436. Castelli romani, 125, 152, 238, 253, 270, 340, 429. Castelnuovo, G. di, 422. Castronovo, V., 403. Castro Pretorio, 81, 420-21. Castrucci, S., 443. Casula, C.F., 428. Catacombe: – di S. Callisto, 249; – di S. Sebastiano, 249. Cattani, Leone, 238, 286, 435. Cattolici (orientamenti e azione politica), VIII, 46-47, 49, 52-53, 92, 103, 106, 116-17, 120, 176, 31416. Causi, Marco, 364. Cavalieri, Lina, 101. Cavallotti, Felice, 53, 108, 110. Caviglia, Enrico, 237. Caviglia, S., 400, 411. Cavour, Camillo Benso, conte di, 39, 46, 93-94. Ceccarelli, F., 433. Ceccarelli, Giuseppe (Ceccarius), 440. Cecchin, Francesco, 333. Cecchini, Domenico, 354. Cederna, Antonio, 179, 285, 289, 341, 420-21, 434-36. Celio, 118. Celli, Angelo, 121. Cena, Giovanni, 121. Cenci, C., 446. Centrale immobiliare, 198. Centrale del latte, 126, 435. Centro cristiano democratico - Cristiani democratici uniti (CcdCdu), 444. Centro Italia, 97, 236, 280.

492

Cantro studi investimenti sociali (Censis), 365, 445, 447. Ceprano, 21. Cerroti, Giuseppe, 45. Ceruso, Fabrizio, 313, 439. Cesana, Luigi, 119. Cesare, Gaio Giulio, 182, 212. Chabod, Federico, 42, 206, 397, 403. Chaplin, Charlie, 259. Chateaubriand, François-René de, 4, 36. Chauvet, Costanzo, 108. Chiesa, A., 411. Chiesa episcopale americana di S. Paolo, 63. Chiese, conventi, monasteri, luoghi sacri cattolici di Roma: – Cuore Immacolato di Maria, 432; – Dio Padre Misericordioso, 360; – Domus Mariae, 432; – Gesù, 56, 70, 78, 215; – Maria SS. Assunta, 432; – Sacro Cuore, 106; – Sacro Cuore di Maria, 295; – S. Agnese, 118; – S. Agostino, 56; – S. Andrea al Quirinale, 58; – S. Andrea della Valle, 56, 58, 214; – S. Anselmo, 106; – S. Antonio, 106; – S. Apollinare, 214; – S. Bartolomeo all’Isola Tiberina, 17; – S. Callisto, 214; – S. Camillo, 106; – S. Carlo ai Catinari, 214; – S. Carlo al Corso, 60; – S. Francesco a Ripa, 79; – S. Gioacchino, 106; – S. Giovanni Bosco, 282; – S. Giovanni dei Fiorentini, 69; – S. Giovanni in Laterano, 21, 74, 126, 128, 192, 214, 315, 332, 373; – S. Giuseppe, 106;

– – – –

S. Ignazio, 89; S. Ivo alla Sapienza, 437; S. Lorenzo da Brindisi, 106; S. Lorenzo fuori le Mura, 54, 232, 432; – S. Lorenzo in Lucina, 60, 189; – S. Marcello, 56; – S. Maria Antiqua, 432; – S. Maria degli Angeli, 136, 385, 394, 405; – S. Maria del Popolo, 405; – S. Maria della Mercede, 432; – S. Maria della Pace, 448; – S. Maria della Perseveranza, 432; – S. Maria in Aracoeli, 58, 72, 268, 405; – S. Maria in Campo Marzio, 56; – S. Maria in Vallicella (Chiesa Nuova), 56, 60, 431; – S. Maria Liberatrice, 106; – S. Maria Maggiore, 66, 214, 254; – S. Maria Mediatrice, 432; – S. Maria Regina Coeli, 56; – S. Maria sopra Minerva, 56, 58, 89; – S. Paolo fuori le Mura, 59, 214, 254-55, 315; – S. Pietro, 7, 35, 54, 63, 74, 88, 124, 126-27, 192-93, 205, 267, 290, 357, 362, 370, 383; – S. Pietro in Vincoli, 56; – S. Sabina, 58; – S. Teresa, 106; – SS. XII Apostoli, 56, 58, 214; – SS. Domenico e Sisto (Angelicum), 57, 59, 87, 214; – SS. Luca e Martina, 190-91; – SS. Pietro e Paolo, 291, 372; – SS. Silvestro e Stefano in Capite, 56; – Trinità dei Monti, 192, 318. Chiquita, soubrette, 101. Chiurco, G.A., 416. Churchill, Winston Leonard Spencer, 232.

493

Ciampani, A., 403-4, 407, 409. Ciampi, Carlo Azeglio, 387. Ciampi, G., 413. Cianca, Alberto, 174. Ciavatta, Francesco, 331. Cicchetti, A., 411. Cimitero del Verano, 151, 155, 168169, 231-32, 294, 332, 373, 385. Cimmino, A., 411. Cinecittà, 187, 435. Cinecittà 2, centro commerciale, 346. Cinema: – Barberini, 246, 428; – Cola di Rienzo, 154; – Corso, 154; – Politeama Marchetti, 154. Cini, Vittorio, 205. Cioccetti, Urbano, 276, 294, 433-34, 437. Ciociaria, 315. Cipolla, Antonio, 46. Cipriani, Amilcare, 104. Circeo, 318, 325. Circo Massimo, 118, 130, 201, 218, 339-40, 373, 383, 390, 438, 447. Circolo Camillo Cavour, 102. Circolo elettorale operaio di Trastevere, 102. Circolo Giuseppe Mazzini, 102. Circolo radicale, 102. Circolo Savoia, 102. Cirinei, C., 424. Cisa-Viscosa, vedi Viscosa. Città del Vaticano (vedi anche Vaticano), 214. Città leonina, 35, 38. Città universitaria, 194-95, 232, 305306, 329-30, 422, 427, 438, 446. Ciucci, Giorgio, 422-23, 437. Civitavecchia, 21, 34. Civitelli, M., 410. Clark, Mark Wayne, 256. Clavo, Marino, 440. Clay, Cassius, 436.

Clementi, Alberto, 336, 441. Club pedestre, 101. Coccapieller, Francesco, 108, 411. Cocchioni, C., 413, 422. Coen, famiglia, 425-26. Coen, F., 428. Coen, Giuseppe, 23, 400. Cola di Rienzo, 109, 411. Colajanni, Napoleone, 94. Colarizi, S., 426-27. Colasanti, Donatella, 318. Colle Oppio, 118. Colleferro, 238. Collegio Romano, 56, 58, 61. Colli Albani, 370. Colonna, Piero, 177-78, 419. Colonna, Prospero, 117, 144, 148, 151, 156, 169. Colorni, Eugenio, 237. Colosseo, 21, 37, 118, 128, 189-91, 200, 205, 260, 273, 339-40, 357, 365, 373, 383-84, 388-89, 433, 441. Columba, C., 421. Combattentismo, 163-65. Comitati civici, 266-67. Comitato di agitazione borgate (Cab), 311. Comitato centrale di liberazione nazionale (Ccln), 237-38, 240, 257. Comitato elettorale cattolico, 47. Comitato per il miglioramento economico e morale di Testaccio, 133. Comitato romano aborto e contraccezione, 318. Comizio dei comizi (febbraio 1881), 53. Commando ultrà curva sud (Cucs), 447. Comotto, Paolo, 56, 60. Compagni organizzati in volante rossa, 333. Comunione e Liberazione, 342. Comunisti, 166-67, 174.

494

Comunisti italiani, formazione politica, 445. Comunità di Sant’Egidio, 315. Conca, tenuta di, 405. Concordato del 1929, vedi Patti lateranensi. Concutelli, Pierluigi, 331. Confederazione generale del lavoro (Cgdl), 143. Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), 329, 384. Confederazione italiana sindacati dei lavoratori (Cisl), 384. Congedo, Domenico, 438. Congregazione di carità del Comune, 58. Conservatori, magistratura, 398. Conservatorio di Santa Cecilia, 209. Consiglio comunale, 12-13, 44, 46, 50, 63, 66-67, 78, 80, 89-92, 116, 119, 172, 175, 284-85, 296-97, 352, 367, 398. Consiglio federativo della Resistenza, 276. Consoli, G., 442. Consolini, Adolfo, 294. Consorzio Isveur, 337. Consulta di Roma, 175, 419. Conti, P., 443. Contini, G., 431. Cooperativa Ammiraglio Del Bono, 161. Cooperativa case e alloggi impiegati, 140, 414. Cooperativa «La casa nostra», 160. Cooperativa Vis Unita Fortior, 161. Coppoli, F., 441. Corbi, G., 436. Cordero Lanza di Montezemolo, Giuseppe, 239, 250. Cordova, F., 409, 417. Correnti, Cesare, 404. Cortellessa, A., 423. Corvisieri, S., 427-28. Cossa, Pietro, 93.

Costa, Andrea, 85. Costa, Filippo, 402. Costa, Nino, 37. Costantini, Costantino, 422. Craxi, Bettino, 345, 352. Cremona, 241. Cremona, Luigi, 61. Cremonesi, Filippo, 172, 175, 177, 184, 418. Crispi, Francesco, X, 8, 77, 85-88, 90-95, 104-6, 115-16, 175, 215, 408-9, 411. Crispi, Lina, 409. Croce, Benedetto, 208, 256, 263, 440. Crociata di azione sociale, 261. Cruciani Alibrandi, Enrico, 122. Cubeddu, U., 441. Cuccia, G., 406, 411. Curli, B., 415. da Empoli, D., 413. D’Alema, Massimo, 441. D’Alessandro, Massimo, 437. D’Angelo, A., 432. D’Annunzio, Gabriele, 109-10, 138, 145-46, 148-51, 411-12, 415. Dalmazia, 417. Danesi, A., 443. Dannecker, Theo, 242. Dante Alighieri, 181. Darida, Clelio, 303, 381, 437, 446. Dau, Michele, 348. De Angelis, famiglia, 18. De Angelis, Pietro, 402. De Begnac, Yvon, 194, 422. Debenedetti, G., 428. De Cesare, R., 31, 397, 399, 401. De Cristoforis, Tommaso, 88. De Felice, Renzo, 215, 217, 219, 424-28. De Felice Giuffrida, Giuseppe, 94. De Feo, Vittorio, 437. Deganello, U., 416. De Gasperi, Alcide, 238, 272-74, 428, 431, 446.

495

De Grassi, M., 413, 422. Del Bufalo, Edmondo, 420. Del Debbio, Enrico, 194-95. Delfino, Giuseppe, 436. Delfino, Raffaele, 305. del Grande, Alessandro, 402. Della Porta, Glauco, 302. Dell’Arco, M., 410. Della Seta, Alessandro, 221. Della Seta, Piero, 343, 405-7, 434-35. Della Seta, Roberto, 405-7, 435. Dell’Unto, Paris, 345. Del Re, Giancarlo, 440. De Lucia, Vezio, 337, 444. De Luna, G., 433. Del Vecchio, Giorgio, 221. Demarco, D., 400. de Mérode, Francesco Saverio, 21, 60, 64, 66. Democratici di sinistra (Ds), 36264, 367, 444. Democrazia cristiana (Dc), 238, 262-265, 271-78, 288, 291, 303, 317, 326, 332, 334, 342-43, 345, 349, 353-54, 431, 433. Democrazia del lavoro, 238. De Mucci, R., 439. De Nicolò, M., 397-98. De Piccoli, Francesco, 436. Depretis, Agostino, 51, 71-72, 77, 90-91, 108, 110, 204, 406, 408. De Quarto, M., 446. De Renzi, Mario, 194, 198, 211, 281, 372. De Rita, Giuseppe, 316, 439. De Rosa, L., 408. d’Errico, R., 408. Desanctis, L., 27, 398-99, 401. De Simone, C., 427-30. Desideri, Paolo, 360. De Stefani, Lino, 419. Destra storica, 45-46. De Vecchi, Cesare Maria, 182. De Vico, Raffaele, 191, 198-99. De Vico Fallani, M., 422.

Di Capua, G., 432-33. Dickens, Charles, 30. Di Liegro, Luigi, 395. Di Majo, L., 436. Di Nella, Paolo, 333. Di Nicola, P., 443. D’Inzeo, Raimondo, 276, 436. Di Pietro, famiglia, 399. Di Pietro, Antonio, 445. Di Pietro, Domenico, 399. Di Porto, Sabato, 60. Di Rudinì, Antonio, 76. Di Vittorio, Giuseppe, 269. Dogali, 88-89. D’Onofrio, C., 409. D’Onofrio, Francesco, 348. Doria Pamphili, famiglia, 20, 46. Doria Pamphili, Filippo Andrea, 257. Dotto, G., 446. Douhet, Giulio, 418. Dronero, 146. Dudan, Alessandro, 170, 417. Duvernois, M.lle Suzanne, 101. Ebrei, 22-24, 63, 107, 218-23, 24245, 250, 388, 400, 425-26, 428, 447. École française, 209. Edoardo VII, re di Gran Bretagna, 136. Eiar, 207. Einaudi, Luigi, 160, 386. Eisenhower, Dwight David, 234. Elezioni amministrative, 44-52, 9091, 116, 119-20, 122, 262, 271-73, 275, 303, 334-35, 342-45, 352-54, 362-63. Elezioni politiche, 45, 135, 162-66, 173-74, 262-67, 273-75, 303, 342. Emilia, 97, 126. Emiliani, Vittorio, 444, 446-47. Enasarco, 313. Enciclopedia italiana, 208-9. Engels, Friedrich, 95, 129.

496

Ferrero, Guglielmo, 113, 138. Ferretti, Giacomo, 419. Ferretti, L., 407, 413. Ferretti, Lando, 293. Ferretti, V., 423. Ferri, famiglia, 18. Ferri, Camillo, 99. Ferri, Felice, 46, 99, 402, 404. Ferri, Giustino, 109. Ferrigolo, A., 444. Ferrovia Firenze-Roma, 373. Ferzetti, F., 434. Fiamma Roma, società sportiva, 294, 436. Fiera di Roma, 367. Fim-Cisl, 439. Fini, Gianfranco, 353, 385, 443. Finocchiaro Aprile, Camillo, 116. Finzi, Aldo, 429. Finzi, R., 425. Fiom, 439. Fioravanti, Cristiano, 332, 441. Fioravanti, G., 423-24. Fioravanti, Giuseppe Valerio, 332. Fiorentini, Mario, 247, 428-30. Fiorentini, Valerio, 430. Fiorentini, stabilimenti, 435. Fiorentino, C.M., 405, 410. Fiorentino, Mario, 281, 442. Fiori, Publio, 331. Firenze, 31, 40, 56, 74, 97-98, 100, 144, 162, 203, 208, 302, 369. Fiume, 417. Fiumicino, 317, 358, 371, 444. Fleres, Ugo, 135, 138, 414. Flora, Francesco, 256. Foa, A., 409. Focis, 166. Folchi, Alberto, 293. Folchi, Enrico, 80, 407. Follini, Marco, 441. Fondo speciale per gli usi di beneficenza e di religione della città di Roma, 58.

Enriques, Federigo, 221. Ente Eur, 177, 291-92, 360. Ente nazionale idrocarburi (Eni), 291, 383. E42 (Esposizione universale progettata per il 1942), 204-5. Erbani, F., 440, 443. Eritrea, 391. Esso, 291. Estate romana, 339. Estrema sinistra, 75, 93, 102, 116. Etiopia, 89, 177, 183, 203, 206, 219, 293, 391, 409. Europa, 3, 9-10, 75, 206, 244, 382. Fabrizi, Aldo, 421, 431. Fabrizi, Nicola, 77. Fadigati, Vasco, 436. Faenza, 141. Falco, E., 410. Falconi, C., 401. Faldella, Giovanni, 73-74, 82, 407408. Fanfani, Amintore, 274. Fasci di combattimento, 169. Fascio repubblicano-socialista-combattenti (Fascio d’avanguardia), 163. Fascisti, 162, 165-66, 168, 170-71, 174-75, 238-39, 244, 251. Fasolo, Vincenzo, 198, 372, 421. Fatme, 166, 217, 435. Federazione giovanile comunista italiana (Fgci), 305-7. Federici, Gervasio, 264, 431. Federzoni, Luigi, 135, 144, 163, 165, 168. Fellini, Federico, 282, 295, 320. Feltre, 224. Femminismo, 318-19, 329. Ferilli, Sabrina, 447. Ferrari, Ettore, 90, 102, 136, 386, 404. Ferraris, Maggiorino, 129, 160. Ferrarotti, Franco, 314, 443.

497

Fontana della sfera al Foro italico, 195, 270, 293. Fontana delle Naiadi, 136. Forcella, Enzo, 240, 244, 253, 42730. Fori, 73, 79, 180, 190, 214, 340, 388-89, 421: – Fori imperiali, 189, 200, 365, 388, 421, 439; – di Augusto, 190, 382, 421; – di Cesare, 388; – di Nerva, 388, 421; – di Traiano, 143, 190, 388-89, 421; – Foro romano, 118, 190, 200, 294, 341, 421, 432. Foro Boario, 105. Foro italico (Foro Mussolini), 195, 206, 257, 270, 292-93, 347, 436. «Foro italico» (complesso monumentale di piazza Venezia), 194, 202-3, 206. Forlenza, R., 433. Forte Bravetta, 245, 258. Forti Messina, A.L., 398. Forza Italia, 354, 362-63, 445. Foschi, Italo, 168. Foschini, Arnaldo, 193, 281, 421. Fosse Ardeatine, X, 252, 384-85, 429-30, 433. Fraentzel, Anna, 121. Francescangeli, E., 417. Francescangeli, L., 409. Franchina, Basilio, 432. Francia, 23, 39, 76, 104, 114, 120, 145, 197, 203, 394. Franconi, fratelli, 99. Frankl, Wolfgang, 283. Franzoni, Giovanni, 315, 439. Frascani, P., 398. Frascati, 21, 236, 378. Fraticelli V., 407, 420, 422. Fregoli, Leopoldo, 101. Frignani, Giovanni, 250. Friuli, 386. Friz, G., 398, 400-1, 410-11, 420.

Fronte clandestino militare della Resistenza, 239, 250, 429. Fronte democratico popolare, 265. Fronte economico, 273, 433. Fronte della gioventù, 333. Fronte dell’Uomo qualunque, vedi Uomo qualunque. Fuà Fusinato, Erminia, 62. Fuksas, Massimiliano, 360, 389. Gabelli, Aristide, 5, 397, 405. Gabrielli, Placido, 50. Gadda, Carlo Emilio, 376, 446. Gadda, Giuseppe, 40, 62. Gaiardoni, Sante, 436. Galantara, Gabriele, 106. Galante Garrone, A., 404. Galante Garrone, C., 429. Galasso, G., 403. Gallerano, N., 427. Galleria nazionale d’arte moderna, 140, 211-12. Gallon, F., 400. Galvaligi, Enrico, 333. Ganapini, L., 428. Garano, S., 442. Garda, lago di, 241. Gardella, Ignazio, 434. Garibaldi, Bruno, 145. Garibaldi, Giuseppe, 45, 70, 93-94, 404, 409. Garibaldi, Ricciotti, 108. Garms, Elisabeth, 391. Garms, Jörg, 397. Garofalo, Francesco, 371, 407, 413, 442, 445. Gaspari, O., 419. Gatta, E., 419. Gatto, Ludovico, 335. Gayda, Virginio, 223. Gedda, Luigi, 266, 432-33. Genova, 15, 74, 97-98. Gentile, Emilio, 183, 420, 423-24. Gentile, Giovanni, 165, 182-83, 208-209, 231, 420. Gerace, Antonio, 348.

498

Gerini, famiglia, 286, 288. Gerini, Alessandro, 435. Gerini, Isabella, 435. Germania, 35, 137, 184, 197, 219, 222, 227, 241. Gesmundo, Gioacchino, 430. Ghio, Francesco, 444. Ghione, P., 438. Ghira, Andrea, 440. Ghisalberti, Alberto Maria, 206. Gianicolo, 67, 93, 118, 122, 192, 214, 359, 370, 415. Giannini, Massimo Severo, 245. Giannini, Guglielmo, 261. Giardina, Andrea, 182, 420, 447. Giardino zoologico, 140. Gibelli, A., 415. Gigliotti, Vittorio, 448. Gioberti, Vincenzo, 8. Giolitti, Giovanni, 94-95, 108, 120, 122, 134, 145-48, 170, 174, 286, 417. Giorgieri, Licio, 333. Giornali e periodici: – «L’Armonia», 11; – «L’Asino», 106; – «Autarchia e commercio», 222; – «Avanti!», 105; – «Il Bersagliere», 52; – «Bollettino dell’Ufficio municipale del lavoro», 176; – «La Capitale», 36, 45-46, 49-50, 52, 55; – «Capitolium», 177, 197, 217; – «La Civiltà cattolica», 47, 49, 271; – «Il Corriere d’Italia», 122, 150; – «Corriere di Roma», 256, 431; – «Corriere della Sera», 138, 156, 337; – «Cronaca bizantina», 109-10; – «Il Diritto», 43, 52; – «Don Pirloncino», 108; – «Il Dovere», 52-53; – «L’Epoca», 164; – «L’Espresso», 285, 293, 319, 435, 438;

– – – –

«Il Fanfulla», 52; «La Fiera letteraria», 208; «Le Forche caudine», 108; «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 138; – «Il Fronte interno», 152; – «La Gazzetta del Popolo», 46; – «Il Giornale d’Italia», 164, 169, 174, 223; – «Il Giornale del Popolo», 164; – «L’Idea nazionale», 138, 164; – «L’Illustrazione italiana», 150, 232; – «L’Italia», 52; – «La Lega della Democrazia», 53; – «La Libertà», 49, 51-52; – «Il Messaggero», 52, 119, 148, 150, 152, 156, 158, 164-65, 174, 232, 317, 431, 440; – «Il Mondo», 174, 285, 434-35; – «Nuova Antologia», 73, 121; – «Omnibus», 208, 218, 425; – «L’Opinione», 43, 52; – «L’Osservatore romano», 52, 119, 122, 250, 266-67; – «Paese sera», 317; – «Il Popolo Romano», 49, 52, 107; – «Primato», 208; – «Quadrante», 208; – «la Repubblica», 446; – «La Riforma», 43; – «Il Selvaggio», 208; – «Il Tempo», 164, 267, 317; – «Tevere», 222; – «La Tribuna», 110, 120, 150, 164, 174; – «Il Tribuno», 36; – «La Voce della Verità», 47-48, 52, 67. Giovanetti, F., 406. Giovanni XXIII, 314, 382, 386. Giovanni Paolo II, X, 326, 382. Giovannoni, Gustavo, 189, 196, 420-21, 436. Gioventù italiana del littorio (Gil), 198.

499

Giubileo del 1925, 189. Giubileo del 1950, 192. Giubileo del 2000, 354, 361-62, 367, 382-83, 446. Giubilo, Pietro, 345. Giuliani, Americo, 114. Giunta centrale per gli studi storici, 209. Giuntella, V.E., 401. Glionna, Filippo, 269, 432. Goethe, Johann Wolfgang von, 4, 6, 30, 36, 397, 401. Golini, A., 434, 446. Gonsalez, Laura, 439. Gori Mazzoleni, Achille, 46, 99, 402, 405. Governatorato, 175, 177-78, 187, 197, 217, 291, 419, 424, 430. Govoni, Aladino, 250. Gozzini, G., 432. Gracchi, famiglia, 170. Gran Bretagna (vedi anche Inghilterra), 222. Grascia, 16. Graziani, Rodolfo, 433. Gregorio XVI, 20. Gregorovius, Ferdinand, 35-36, 90, 402. Gregotti, Vittorio, 358, 442. Grignetti, F., 433. Grillo, Giacomo, 91. Grillo, Manlio, 440. Grimau, Julian, 277. Griner, M., 429-31. Griselli, Italo, 421. Grispigni, M., 413, 417, 438-39, 441. Gronchi, Giovanni, 238, 294. Groppi, A., 398. Grottanelli, Vinigi, 309. Gruppi di azione patriottica (Gap), 246-47, 251-52, 269, 429. Gruppi universitari fascisti (Guf), 216. Gruppo urbanisti romani, 189, 421. Gualdi, Eugenio, 283. Guardia palatina, 402.

Guazzaroni, Francesco, 414. Guglielmo II, 137. Guiccioli, Alessandro, 85, 91, 408-9. Guidi, Ignazio, 297, 437. Guido, Gianni, 440. Guidonia, 378. Gurreri, F., 399, 405. Guspini, U., 426. Hadid, Zaha, 360. Hailè Selassiè, 409. Hardouin, Maria, 110. Hary, Armin, 436. Haussmann, Georges-Eugène, 21. Herzen, Aleksandr Ivanovicˇ, 4. Himmler, Heinrich, 248. Hitler, Adolf, 219, 223-24, 234, 248, 324. Hugo, Victor, 90. Humboldt, Karl Wilhelm von, 4. Hunecke, V., 398. Ibsen, Henrik, 90. Igliori, Ulisse, 168. Ilari, V., 446. Imprese edili: – Adriani, 197; – De Fonseca, 198; – Federici, 198, 421; – Feltrinelli, 414; – Lamaro, 445; – Parnasi, 445; – Scarpellini, 445; – Vaselli, 421. Ina-Casa, 281-82, 288. Infelisi, Luciano, 315. Inghilterra (vedi anche Gran Bretagna), 11, 114, 136, 197, 203, 222. Inglis, K.S., 418. Insolera, Italo, 289, 397, 406-7, 413, 419, 421, 423, 434-37, 444. Interventismo, VIII, 144-50. Iozzelli, F., 411. Ippodromo a Campo Parioli, 192. Ippodromo delle Capannelle, 10910.

500

John, Elton, 365.

Isastia, A.M., 410. Isnenghi, M., 423. Isola Tiberina, 17, 22, 423-24. Istituto autonomo case popolari, vedi Istituto case popolari. Istituto case popolari (Icp), poi Istituto autonomo case popolari (Iacp), 121, 131, 133-34, 160, 282, 288, 300, 352, 365, 368, 374, 442. Istituto cooperativo case impiegati dello Stato (Iccis), 157, 166. Istituto per l’Europa orientale, 210. Istituto per il Medio ed Estremo Oriente, 210. Istituto per l’Oriente, 210. Istituto Luce, 207. Istituto nazionale delle assicurazioni (Ina), 197-98, 218, 282. Istituto nazionale case impiegati dello Stato (Incis), 196, 300, 422. Istituto nazionale fascista di cultura, 209. Istituto nazionale previdenza dirigenti d’azienda (Inpdai), 311. Istituto romano beni stabili, 118, 121, 130-33, 140, 414. Istituto romano cooperativo per le case degli impiegati dello Stato (Ircis; vedi anche Istituto nazionale case impiegati dello Stato), 196, 422. Istituto di studi germanici, 210. Istituto di studi romani, 209. Italia dei valori, formazione politica, 445. Italstat, 346. Izzo, Angelo, 440.

Kanzler, Hermann, 35. Kappler, Herbert, 242, 248-49, 428-29. Katz, R., 428-29. Kauffmann, A.S., 398-99. Keller, A., 404. Kertzer, D.I., 399. Kesselring, Albert, 236-37, 242, 248, 252, 430. Klee, Paul, 334. Klinkhammer, L., 428-30. Koch, Gaetano, 136, 139, 414. Koch, Pietro, 249, 251, 254, 258, 429-430. Kreibich, V., 442. Krella, B., 441. Labita, V., 418. Labriola, Antonio, 61, 95, 104, 409. Lafuente, Julio, 445. Lai, B., 407. Lama, Luciano, 329. La Malfa, Ugo, 238. La Marmora, Alfonso, 38, 43, 402-3. Lancellotti, famiglia, 286, 288, 435. Lanciani, Rodolfo, 72, 89. Langhe, 108. Lanza, famiglia, 435. Lanza, Giovanni, 32-33, 43, 47-48, 402. La Regina, Adriano, 340, 359. Laterano, 40, 240, 430. Latina, 287, 372. Latini, Carlo, 287. Lazio, 19, 97, 162, 165, 173-74, 186, 278, 280, 405, 413, 444. Lazio, società sportiva, 317, 383-84, 447. Lega, Paolo, 411. Legge delle guarentigie, 40-41, 422. Lemmi, Adriano, 90. Lenin, Nikolaj, 167, 170. Leone X, 178. Leone XIII, 90, 407.

Jacini, Stefano, 40, 48. Jacobelli, Paolo, 437. Jama, Ali Ahmed, 448. Jannattoni, Livio, 415, 440. Jarrett, Keith, 371. Jemolo, Arturo Carlo, 111-12, 114, 137, 403, 405, 411-12, 414.

501

Lepre, A., 426, 430. Leti, G., 399. Levi, A., 412. Levi Civita, Tullio, 221. Levi Nathan, Sara, 412. Levra, U., 405, 408. Libera, Adalberto, 194, 198, 204, 211, 281, 372, 434, 436-37. Liberali, 45-52, 92, 116, 121-22, 135, 163-65, 170, 174, 264, 417. Liberali democratici, progressisti, 46, 48, 50-51, 121, 163, 170. Liberali moderati, 45-46, 49-51, 163, 165. Libia, 134, 142. Lipsia, 138. Lista cittadina, 272, 433. Lista civica per Rutelli, 354. Lista civica per Veltroni, 444. Lista nazionale, 173. Lista nazionale bis, 173. Lista Pannella, 352. Litta Bolognini, Eugenia, 111. Livadiotti, S., 443. Livorno, 400. Lizzani, Carlo, 432. Lodoli, Marco, 378, 446. Loggia massonica «Goffredo Mameli», 409. Lollo, Achille, 440. Lombardi, Franco, 438. Lombardi, Riccardo, 268. Lombardia, 9, 126, 405. Lombroso, Cesare, 109, 112, 405. Londra, 11, 86, 100, 110, 128, 145, 294, 319, 322, 380, 410, 418, 427. Longo, Luigi, 270. Lopez, Maria Rosaria, 318, 325. Lorusso, Francesco, 330. Lotta continua, 311, 313, 327, 33031. Lotte per la casa, 310-14, 439. Lotti, L., 415. Lovatelli, Giacomo, 404. Lucca, D., 444.

Luccichenti, Amedeo, 283, 436. Luccichenti, Ugo, 283, 434. Luigioni, Paolo, 404. Lumumba, Patrice, 277. Lunadei, S., 413. Lungotevere, 70, 245, 293, 330, 438, 444. Lupano, M., 414, 423. Lusignoli, Alfredo, 176. Lussu, Emilio, 237. Lutero, Martin, 95. Lutte, Gerardo, 311-12. Luzzatti, Luigi, 120, 159. Luzzatto, G., 408. Macario, Luigi, 439. Maccarese, 317. Macioti, M.I., 412, 442. Mackensen, Eberhard von, 248, 252. Maderno, 241. Madrid, 380. Mafai, M., 431. Magazzini Coen al Tritone, 221. Magazzini Piperno al Corso, 222. Maggiorani, Carlo, 402. Maglione, Luigi, 244. Magnani, Anna, 259, 421, 431. Magni, Giulio, 133. Majolo Molinari, O., 403, 411. Malagodi, Olindo, 164, 174. Malerba, L., 446. Malfatti, Franco Maria, 328. Mältzer, Kurt, 248. Mameli, Goffredo, 231, 415. Mamiani, Terenzio, 404. Manacorda, G., 412. Mancia, Angelo, 333, 441. Mancini, Alberto, 176-77, 419. Mancini Lapenna, F., 419. Manfredi, Manfredo, 139. Manfroni, G., 55, 403-4. Manieri Elia, Mario, 406, 434, 437, 442, 447. Manifattura tabacchi, 130, 132, 187.

502

Il Manifesto, 309. Mantakas, Mikis, 327, 332. Marabini, Ezio, 104. Maraini, Enrico, 99. Marazza, Ercole, 278. Marcelloni, M., 445. Marche, 97, 141, 186. Marchetti, Raffaele, 45, 402. Marconi, Guglielmo, 212, 367. Marconi, P., 434. Marcucci, Alessandro, 121. Margherita di Savoia, 41. Margherita, raggruppamento politico, 364, 444. Margotti, Giacomo, 11, 397. Mariani, R., 415, 423. Mario, Alberto, 53. Maroi, Lanfranco, 177, 187, 41617, 420, 425. Martina, Giacomo, 315, 399, 401-2, 411, 439. Martinelli, F., 441. Martirano, D., 443. Marx, Karl, 367. Mascilli Migliorini, L., 403. Masi, Giorgiana, 331. Masotti, C., 405. Massenzio, rassegna cinematografica, 339. Massoneria, VIII, 47, 53, 90, 176, 409. Matitti, F., 422. Mattei, Mario, 440. Mattei, Stefano, 327. Mattei, Virgilio, 327. Matteotti, Giacomo, 174, 429. Mattoli, Mario, 421. Maturi, Walter, 206. Maurizio, P., 430. Mausoleo di Augusto, vedi Augusteo. Mazzini, Giuseppe, 8-9, 55, 120, 122, 247, 397, 412, 420. Mazzoleni, famiglia, 18. Mazzoni, Angiolo, 290, 436. Mazzoni, C., 398.

Mazzonis, F., 403-4. Meda, Filippo, 159. Medici del Vascello, Luigi, 135. Mediterraneo, mare, 381-82. Meier, Richard, 360, 368. Melis, G., 417, 428, 431. Melograni, Carlo, 281. Melograni, L., 441. Melograni, P., 405. Menabrea, L.F., 404. Mengoni, G., 69, 406. Mentana, 31, 37, 93. Merano, 428. Mercati di Traiano, 190, 227. Messedaglia, Angelo, 61. Messina, 144, 161. Metropolitana, 302, 356-57, 361, 366, 375, 379. Miano, G., 406-7, 413. Miceli, Giovanni, 415. Michelangelo Buonarroti, 139. Michelucci, Giovanni, 195. Mieli, P., 446. Migneco, L., 416-17. Milani, Lorenzo, 315. Milano, 15, 44, 69, 74, 95, 97-98, 100, 112, 127, 132, 144, 154, 16162, 188, 208, 232, 251, 278, 323, 325-326, 351, 368, 380, 385-86, 389, 398, 410, 420, 439, 446. Milano, A., 399-400. Milano, Raffaella, 364. Milza, P., 424. Minelli, Claudio, 364. Minervini, Girolamo, 333. Minghetti, Marco, 33, 93. Minicangeli, M., 446. Minnucci, Gaetano, 198. Misiani, S., 420. Missiroli, Mario, 267. Mito di Roma, idea di Roma, VIII-IX, 3-12, 42, 151, 179-85, 202, 23233, 268, 319-25, 374-77, 388-89, 424. Modena, 74.

503

– – – –

monumento a Carlo Alberto, 136; monumento a Cavour, 93; monumento a Garibaldi, 93; monumento a Giordano Bruno, X, 90-92, 116; – monumento a Mamiani, 192; – monumento a Mazzini, 386; – monumento a Minghetti, 93, 192; – monumento a Pietro Cossa, 93, 192; – monumento a Quintino Sella, 136; – monumento a Silvio Spaventa, 414; – monumento ai caduti di Dogali, 88-89, 136, 409; – monumento ossario ai caduti per Roma, 231; – monumento ossario al Verano, 155, 231; – obelisco di Axum, 204; – obelisco Dux, 195, 257, 293, 422; – sacrario dei caduti per la rivoluzione al Foro Mussolini, 231, 427; – sepolcreto dei caduti di Roma al Verano, 385; – stele a Marconi, 372. Morandi, Carlo, 206. Morandi, Maurizio, 437. Morandi, Riccardo, 445. Morassut, Roberto, 364, 368. Moravia, Alberto, 319-22. Morbidelli, M., 438. Morbiducci, Publio, 424. Morelli, F., 397. Morelli, R., 411. Moretti, Luigi, 194-95, 198, 231, 283, 373, 427, 436-37. Moretti, Nanni, 376. Moretti, Riccardo, 419. Mori, Cesare, 417. Morichini, Carlo Luigi, 14-15, 22, 398-99. Moro, Aldo, X, 302, 326, 332, 441. Morpurgo, Emilio, 60, 405. Morpurgo, Vittorio, 201.

Moderati per Veltroni, 444. Modigliani, Daniel, 365, 445. Modigliani, P., 428. Moellhausen, Eitel Friedrich, 242. Mole Adriana, vedi Castel S. Angelo. Mommsen, Theodor, 36, 42. Monaco, Vincenzo, 283, 436. Monaco di Baviera, 203. Monarchici, 264. Monelli, Paolo, 226-28, 230, 255, 424, 426, 430. Monsagrati, G., 401, 404-5. Montagna, Ugo, 274. Montani, David, 405. Montecchi, Mattia, 37. Montecitorio, 41, 74, 86, 88, 128, 152, 269. Montemartini, Giovanni, 123, 125, 129, 135, 176, 413. Monterosi, 236. Montesi, Wilma, 274, 433. Montessori, Maria, 121. Montevecchi, L., 405. Monti, Coriolano, 73, 406-7. Monticone, A., 419. Montuori, Eugenio, 436. Monumenti commemorativi moderni: – altare al Parco della Rimembranza, 231; – Altare della Patria (monumento a Vittorio Emanuele II, Vittoriano, «Vittoriale»), VIII-IX, 65, 72, 8081, 105, 136-39, 141-42, 151, 156, 162, 169-71, 189-91, 194, 203, 206, 231, 268, 326, 341-42, 370, 384-87, 418; – ara dei caduti fascisti in Campidoglio, 231, 257; – colonna di Porta Pia, 93, 136; – colonna di Villa Glori, 93; – lapidi e monumenti ai caduti della prima guerra mondiale, 159; – mausoleo delle Fosse Ardeatine, 429;

504

Nathan, Ernesto, VIII, 8, 119-20, 122-126, 133-35, 140, 142, 176, 412. Nathan, Giannetta, 412. Nathan, Giuseppe, 412. Natoli, Aldo, 272, 285-87, 435, 437. Natoli, C., 418. Nazionalisti, VIII, 135, 142-45, 162163, 166, 168, 170, 175, 417. Negri, P., 399. Negro, Silvio, 440. Nenni, Pietro, 238, 240. Neofascisti, 126, 328, 332, 438. Nera, fiume, 125. Neri, M.L., 399, 413, 422. Nervi, Pier Luigi, 292. New York, 322, 427. Niceforo, Alfredo, 112-13, 130, 411-12. Nicolini, Giovanni, 421. Nicolini, Renato, 339, 341, 352-53, 407, 414, 442. Nicotera, Giovanni, 104. Niebuhr, Barthold Georg, 36. Nieri, Luigi, 364. Nitti, Francesco Saverio, 164, 263, 271-72, 416. Nixon, Richard, 308. Norcia, 26. Nord Italia, 55, 97, 126, 186, 24142, 256, 279, 379, 383. Norimberga, 195. Novelli, C., 411, 415, 417. Nuclei armati rivoluzionari (Nar), 333. Nuovi partigiani, 331.

Mortara, Edgardo, 23, 400. Moschea, 387. Moschino, E., 415. Mostra augustea della romanità, 212. Mostra della rivoluzione fascista, 211-212. Mousawi, Sami, 448. Movimento dei cattolici comunisti, 238-39, 261. Movimento comunista d’Italia, vedi Bandiera rossa. Movimento politico ordine nuovo, 331. Movimento sociale italiano (Msi), 263-64, 266, 272-76, 303, 317, 327, 331, 334-35, 353-54, 433, 436, 438, 443. Mulazzani, M., 427. Müller, Heinrich, 242. Muñoz, Antonio, 178-79, 200-1, 416-17, 419-23. Muntoni, A., 422-23. Mura aureliane, 33-34, 64, 68, 204, 356, 373. Muratore, Giorgio, 443, 445. Muratori, Saverio, 281, 305. Musci, A., 439, 446. Museo della civiltà romana, 291. Museo delle tradizioni popolari, 291. Mussolini, Alessandra, 446. Mussolini, Benito, X, 8, 144, 171-72, 174, 177-84, 188-91, 201, 203, 209-213, 215-16, 219-20, 224-28, 230, 233, 250, 293, 341, 418-23, 426. Musulmani, 387. Muto, Silvano, 274-75.

Occorsio, Vittorio, 331. Odescalchi, famiglia, 46. Odescalchi, Baldassarre, 402-3. Officina del gas, 130. Olimpiadi del 1960, 290, 292, 29495, 360, 434, 436-37. Olimpiadi del 2004 (candidatura), 361.

Napoleone I Bonaparte, 5, 138. Napoleone III Bonaparte, 33. Napoli, 15, 21, 47, 74, 83, 97-98, 100, 112-13, 144, 154, 162, 188, 302, 373, 403, 420, 439. Nathan, famiglia, 412.

505

Opera nazionale balilla, 195, 216, 218. Opera nazionale dopolavoro, 21516, 218. Opera nomadi di Roma, 447. Orano, Domenico, 130-33, 413. Orbetello, 21. Orlando, Vittorio Emanuele, 263, 384. Orte, 21. Orto botanico al Celio, 167. Ospedali: – Bambino Gesù, 424; – Fatebenefratelli, 424; – militare del Celio, 429; – Policlinico, 81, 117, 232, 269, 427; – S. Gallicano, 14, 398; – S. Giacomo, 398; – S. Giovanni Evangelista, 445; – S. Maria della Pietà, 14, 398, 447; – S. Spirito in Sassia, 14, 46, 398. Ospizio di S. Michele, 398. Ossicini, Adriano, 238, 428, 431. Ottobrini, Lucia, 428.

– – – – – – – – – – – – – – – – – –

Pacciardi, Randolfo, 385. Pacelli, Ernesto, 116. Padova, 60, 241, 243. Pagano, Giuseppe, 195. Pagliuca, Maria Diletta, 315. Pagnotta, G., 415, 433, 435, 441. Palatino, 201, 262, 340, 390. Palazzetto dello Sport, 292. Palazzetto Venezia, 137; Palazzi: – Altieri, 78; – della Banca d’Italia (nazionale), 87; – Barberini, 248; – Braschi, 56, 143; – Caffarelli, 415; – della Cancelleria, 40; – della Civiltà italiana («Colosseo quadrato»), 205, 291, 372-73; – Colonna, 70; – dei Congressi, 205, 291, 372-73;

– – – – – – – – – – – – –

506

della Consulta, 56; Corsini, 258; della Dataria, 214; della Direzione delle ferrovie, 136; Doria, 153; delle Esposizioni, 143, 163, 21112; della Fao (del ministero dell’Africa Italiana), 204, 360; Farnese, 104; della Gil a Montesacro, 198; della Gil a Trastevere, 198; villa Giulia, 140; di Giustizia, 78, 81, 86, 88, 94, 105, 117, 138, 258, 327; del Littorio (progetti), 204, 21112; Madama, 56, 88; villa Malta, 415; del ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, 136, 159; del ministero del Commercio estero, 291; del ministero delle Finanze, 66, 136, 159; del ministero delle Finanze all’Eur, 291; del ministero della Guerra, 136, 143; del ministero dei Lavori pubblici, 136, 159; del ministero della Marina mercantile, 291; del ministero delle Poste, 159; del ministero delle Poste all’Eur, 291; del ministero della Sanità, 291; del ministero del Tesoro, 159; di Montecitorio, 56, 269, 409; Piombino, 139; delle Poste centrali, 166; delle Poste a piazza Bologna, 198; delle Poste a via Marmorata, 198, 366;

– di Propaganda Fide, 214; – Senatorio, 8, 148, 190; – dello Sport (oggi PalaLottomatica), 292, 372; – Tittoni, 247; – Torlonia, 72, 79; – Venezia, 72, 194, 202, 206, 218, 227; – del Vicariato a via della Pigna, 214. Palazzo, Cesare, 420. Palermo, 74, 439. Palestrina, 125. Pallante, Antonio, 269. Pallavicini, famiglia, 46. Pallavicini, Francesco, 402. Pallottino, E., 421. Paniconi, Mario, 422, 434. Panizza, M., 441. Pansarella, Giuseppe, 294. Pantaleoni, Diomede, 46. Pantaleoni, Maffeo, 147. Pantanella, Michele, 60, 99. Pantanella, molini, pastificio, 60, 105, 130, 187, 392, 435. Pantheon, VIII, 55, 79, 92, 137, 185, 189, 192, 421. Paolo III, 72. Paolo VI, 312, 332, 382. Papa, A., 403. Papi, Giuseppe Ugo, 305. Papini, Giovanni, 137, 319, 440. Paratore, Ettore, 309. Parchi (vedi anche Ville): – della tenuta di Acquafredda, 443; – degli Acquedotti, 374; – di Aguzzano, 443; – dell’Appia Antica, 301, 340; – di Castel Fusano, 301; – Colle Oppio, 198, 448; – di Decima-Malafede, 443; – Gianicolo, 65; – dell’Insugherata, 443; – della Laurentina-Acqua Acetosa, 443;

– della Marcigliana, 443; – della tenuta dei Massimi, 443; – di Monte Mario, 443; – del Pineto, 443; – della Rimembranza, 198, 231; – della Valle dell’Aniene, 301; – della Valle dei Casali, 443; – di Veio, 301; – Virgiliano, 196, 198; – della Vittoria, 198. Parco Leonardo (Fiumicino), 371. Pardo, Vito, 414. Paribeni, Roberto, 420. Parigi, 21, 67-68, 76, 100, 128, 258, 319, 322, 380, 410, 418. Parisella, A., 419. Parma, 74. Parmeggiani, A., 398. Parri, Ferruccio, 305. Partito d’azione, 236-38, 245, 25051, 427, 429. Partito comunista italiano (Pci), 165, 173, 238, 246, 251-52, 262, 266, 271-72, 274-78, 285, 303, 305, 311, 313, 326, 328, 330, 332, 334-35, 338, 342, 345, 348, 387, 427, 430-32, 442. Partito «cristiano-sociale», 239. Partito democratico costituzionale, 121, 164, 417. Partito democratico della sinistra (Pds, poi Democratici di sinistra), 352-54, 443. Partito liberale democratico, 163. Partito liberale italiano (Pli), 238, 263, 273, 303, 342, 345, 433. Partito liberale nazionalista (Alleanza nazionale), 163. Partito nazionale fascista (Pnf), 201, 216-18, 233, 241, 424. Partito nazionale monarchico (Pnm), 263, 274. Partito popolare italiano (Ppi; prefascismo), 163, 174, 413. Partito popolare italiano, 354.

507

Partito progressista italiano, 261. Partito radicale, 286, 305, 333, 352. Partito repubblicano italiano (Pri), 262-63, 273, 275, 278, 303, 305, 331, 335, 342, 345, 433, 437. Partito della rifondazione comunista, 353-54, 359, 443-44. Partito della sinistra cristiana, 261. Partito socialista democratico italiano (Psdi), 264, 273, 275, 278, 303, 305, 335, 342, 345, 348, 433, 437. Partito socialista italiano (Psi), 105, 143-44, 174, 236, 238, 251, 262, 271, 274-75, 278, 303, 305, 33435, 342-43, 345, 348, 415, 427, 437. Partito socialista italiano di unità proletaria (1943-1947), vedi Partito socialista italiano. Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup), 303, 305, 311. Partito socialista unitario, 174. Partito della vittoria, 165. Pasolini, Pier Paolo, 324-25, 335, 377, 440. Pasquarelli, S., 406, 442. Passamonti, Settimio, 330. Passarelli, Lucio, 445. Passeggiata archeologica, 118, 340, 360, 386. Patti lateranensi, 212-15, 283, 422. Pavia, 109. Pavolini, Alessandro, 232. Pavone, C., 400, 402-3. Peci, Patrizio, 333. Peci, Roberto, 333. Pécout, G., 410. Pediconi, Giulio, 422, 434. Pellegrinaggio nazionale (9 gennaio 1884), 92. Perego, Francesco, 336, 351, 419, 421, 423, 441. Pericoli, Pietro, 404. Perodi, E., 404, 406, 411. Perrone, famiglia, 440.

Persichetti, Raffaele, 236. Persico, Giovanni, 238. Pertini, Sandro, 245, 258. Pescara, 235. Pesci, Ugo, 34, 50, 402-4, 406. Pescosolido, G., 398-99. Petacci, Claretta, 228, 230. Petroselli, Luigi, 334, 341. Petrucci, Amerigo, 297, 302, 405, 437. Pia Casa degli esposti, 14. Pia Casa del Sant’Uffizio, 59. Piacentini, Marcello, 65, 79, 129, 139, 188-89, 191-94, 203-5, 29092, 396-97, 402, 404, 406-7, 413, 419-21, 423, 434, 436. Piacentini, Pio, 139. Pianciani, Luigi, 27, 45-46, 51, 6769, 73, 401, 406. Piani regolatori, X, 78-79, 118, 126129, 189-194, 287, 290, 297-300, 367-68, 419, 421, 423, 435-37. Piano, Renzo, 361. Piano per l’edilizia economica e popolare (Peep), 298-99, 310, 374, 437. Piave, fiume, 237, 417. Piccialuti Caprioli, M., 398, 412. Piccinato, Luigi, 305, 421. Piccioni, Attilio, 274. Piccioni, L., 417. Piccioni, Piero, 274, 433. Picciotto Fargion, L., 428. Piemonte, 62, 97. Pietrangeli, C., 406. Pietrangeli, Paolo, 307. Pifano, Daniele, 440. Pifferi, Emilio, 434. Pincio, 41, 67, 189, 191, 370. Pintonello, Achille, 436. Pio IX, 12, 20-21, 31-32, 35, 40, 47, 53-54, 58. Pio X, 124. Pio XII, X, 232, 244, 254, 266, 269, 271, 286, 290.

508

Piovene, Guido, 321-22, 440. Piperno, famiglia, 425. Piperno, Amilcare, 425. Pirani, Quadrio, 134. Pisa, 183, 306, 412. Pisanò, Giorgio, 446. Piscina delle rose, 292. Piscitelli, E., 399, 427-28, 430. Pistolesi, Angelo, 331. Piva, F., 420, 424. Placidi, Biagio, 51, 402. Plauto, Tito Maccio, 95. Podrecca, Guido, 106, 148. Pogliaghi, Lodovico, 191. Polenghi, S., 405. Poletti, Ugo, 315. Poligrafico dello Stato, 187, 217. Pòlito, Saverio, 264, 273-74, 432-33. Pollastrini, Guglielmo, 241. Polonia, 394. Pomezia, 287, 372. Pompili Olivieri, L., 398. Ponti, E., 421. Ponti, Gio, 195. Ponti: – Flaminio (di corso Francia), 37677; – Garibaldi, 245, 331; – della Magliana, 236; – Mazzini, 65, 192; – Milvio, 7, 135; – provvisorio di Ripetta, 65; – del Risorgimento (Flaminio), 139; – S. Angelo, 54, 63, 340; – Sisto, 245; – Umberto I, 117, 340; – Vittorio Emanuele II, 128, 139, 193. Pontificio Istituto biblico, 209, 216. Pontificio Istituto orientale, 209, 214. Ponza di S. Martino, Gustavo, 402. Popolari, 135, 165-66, 174. Popolazione, demografia, 26-28, 96-99, 186-88, 278-80, 298, 335,

357, 370, 386, 388, 401, 410, 413, 416, 420, 424, 442. Porro, N., 431. Porte: – Cavalleggeri, 444; – Maggiore, 81, 189, 392; – Metronia, 127, 133; – Pia, VIII, 33-35, 60, 64, 80, 84, 118, 122, 124, 126, 136, 264, 370, 374, 380; – Pinciana, 80, 370, 374; – del Popolo, 9, 31, 50; – Portese, 127; – Salara, 34, 80, 84; – S. Giovanni, 127, 133; – S. Lorenzo, 34; – di S. Marta, 54; – S. Paolo, 31, 128, 204, 236-37, 276, 383, 387, 438. Portelli, Alessandro, 428-32. Portoghesi, Paolo, 369, 437, 448. Potere operaio, 309, 327. Potz, P., 443. Premucci, Cesare, 414. Premuti, Costanzo, 149. Prévost, Marcel, 113. Prezzolini, Giuseppe, 440. Priebke, Erich, 429-30. Procacci, G., 411. Provenza, 104. Provvisionato, S., 438, 440-41. Puglia, S., 412. Purini, Franco, 348, 369, 388, 443, 447. Quaroni, Ludovico, 82, 281, 305, 408, 434, 437. Quartieri, rioni, borgate, zone, località, frazioni di Roma: – Acilia, 199, 282, 367, 372, 443; – Acqua Acetosa, 41; – Acqua Bullicante, 199; – Acquedotto Felice, 280, 311, 315, 339; – Alberone, 317;

509

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Anagnina, 367, 445; Appio, 198; Appio Latino, 165-66, 444; Appio Tuscolano, 161; Ardeatino, 378, 444; Aurelio, 166, 353, 435; Aventino, 106, 128; Axa, 372, 378; Balduina, 284, 331, 444; Belsito, 284; Boccea, 353, 444; Borghesiana, 443-44; Borghetto Flaminio, 360-61; Borghetto Prenestino, 313; Borgo, 22, 35, 44-45, 54, 69, 1023, 166, 173, 192, 290, 404, 410; Bravetta, 444; Bufalotta, 367, 380, 445; Campitelli, 24, 45, 173, 410; Campo Marzio, 21-22, 44-45, 96, 104, 165, 266, 400-1, 410; Campo Parioli, 280; Casalbertone, 358, 373; Casal Bruciato, 313; Casal Palocco, 284, 372, 377, 427; Case Rosse, 441, 443; Casilino, 232-33, 300, 343, 363, 437; Casilino 900, 447; Castel Giubileo, 371, 374, 445; Castellaccio, 367, 445; Castelverde, 441; Castro Pretorio, 66, 73, 113, 410; Celio, 66, 165, 173; Centocelle, 442, 444; Cesano, 367, 445; Cinecittà, 440, 442, 444; Cinquina, 441; città giardino Aniene, 161, 196; Colle Oppio, 192; Colli Aniene, 373; Colonna, 22, 45, 96, 165, 400, 410; Corviale, 337, 368-69, 372, 442, 444-45; Decima, 300, 437, 443;

– Delle Vittorie (Mazzini), 196, 198, 225, 317, 444; – Donna Olimpia, 199; – Esquilino, 20, 66, 73, 79, 96, 100, 113, 272, 301, 358, 391, 394, 410, 425, 443; – Eur (E42), 205-6, 279, 290-92, 298, 300-2, 332, 357, 367, 372, 378, 394, 443-44; – Eur-Castellaccio, 445; – Farnesina, 197, 347; – Fidene, 374, 443; – borgata Finocchio, 371; – Flaminio, 161, 197, 272, 280, 293, 353, 376, 422, 447; – Garbatella, 196-98, 317, 376, 422; – ghetto ebraico, 22-24, 107, 242, 425, 448; – Gianicolense, 166, 425; – Giustiniana, 255, 431; – dei Gordiani, 199; – I Granai, 378; – Grotte Celoni, 287; – Infernetto, 378; – Isola sacra, 317; – Laurentino, 368-69, 378, 443; – Ludovisi, 80, 89, 100, 165, 272, 317; – Lunghezza, 367; – Macao, 73, 165, 202, 317, 374; – Madonnetta, 367; – Magliana, 311-12, 347, 367, 372, 439, 444-45; – Magliana Vecchia, 447; – Magnanapoli, 54, 70, 87-88, 214; – Mandrione, 280; – Massimina, 367; – Montagnola, 236, 384; – Monte Mario, 189, 198, 284-86, 331-32, 347, 370, 434, 441, 443; – Montesacro, 161, 196, 198, 317, 333, 422, 444; – Montespaccato, 444; – Monteverde, 127-28, 196, 370, 376, 444;

510

– Monti, 21-22, 45, 96, 103, 108, 128, 165, 255, 372, 400-1, 410; – Nemorense, 198; – Nomentano, 79, 118, 128, 165, 168, 279; – Nuova Fidene, 374; – Nuovo Salario, 371, 374; – Ostia, 185, 274, 325, 377-78, 44344; – Ostiense, 130, 165-66, 186, 196, 204, 236, 287, 365, 367, 372, 377, 444-45; – Palmarola, 444; – Pantano, 357; – Parioli, 161, 192, 196, 266, 280, 286, 317, 325, 353, 444, 447; – Parione, 22, 45, 96, 400, 410; – Piazza d’Armi, 127, 135, 139-40, 197, 422, 424; – «piccolo Aventino», 134; – Pietralata, 300, 317, 346, 367, 446; – Pigna, 44-45, 96, 165-66, 401, 410; – Pigneto, 358, 377, 443-44; – Pinciano, 79, 128, 165, 301, 356; – Polo Tecnologico, 367; – Ponte, 22, 44-45, 96, 393, 400-1, 410; – Ponte Mammolo, 281, 317, 367; – Ponte di Nona, 367; – Porta Metronia, 199; – Portonaccio, 373; – Portuense, 128, 317, 331, 425; – Prati (di Castello), 65-67, 69, 75, 78-79, 88, 100, 102, 106, 117, 165, 168, 173, 186, 301, 308, 317, 327, 356, 444, 447; – Prati Fiscali, 189, 421, 443; – Prato Rotondo, 280, 312, 339, 439; – Prenestino, 165-66, 197-98, 23233, 266, 288, 327, 363, 444; – Prima Porta, 444-45; – Primavalle, 199, 327, 370, 444; – Quadraro, 390, 428, 443; – Quarticciolo, 238, 390;

– – – – – – – – –

– – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – – –

511

Regola, 22, 24, 45, 96, 400, 410; Ripa, 22, 24, 45, 102, 410; Ripetta, 31; Romanina, 347, 367, 445; Salario, 118, 128, 198, 266, 301, 317, 444; Sallustiano (degli Orti Sallustiani), 80, 165; Salone, 447; San Basilio, 199, 282, 313, 317, 327, 443-44; San Lorenzo, 80, 113, 121, 130, 165, 167-68, 224-25, 232-33, 257, 301, 328, 330, 373, 377, 416, 429, 444; San Paolo, 287, 317; San Saba, 134, 166; Santa Croce, 165-66; Santa Maria della Pietà, 367, 447; Sant’Angelo, 22, 24, 44-45, 96, 102, 400, 410, 425; Sant’Eustachio, 24, 45, 96, 16566, 401, 410; Sant’Ippolito, 197; Saxa Rubra, 367; Selva Candida, 444; Serpentara, 371, 374; Sette Chiese, 199; Spinaceto, 299-300, 372, 377, 388, 437, 444; La Storta, 367, 431; Suburra, 143; Talenti, 333, 444; Termini, 54, 66, 192; Testaccio, 67, 100, 106, 130-33, 165-66, 266, 277, 372, 377, 390, 416, 422, 425, 444; Tiburtino, 118, 165-66, 173, 186, 281, 313, 353, 373, 416, 434, 443; Tiburtino III, 216; Tintoretto-Ottavo Colle, 378; Tor Bella Monaca, 335-37, 343, 371, 441-43; Tor de’ Cenci, 447; Tor di Nona, 41, 198, 340; Tor di Quinto, 435;

Radicali, 53, 55, 93, 103, 122, 144, 164, 170, 417, 445. Radio blu, 441. Radio Città futura, 330, 441. Radio Onda rossa, 330. Raganella, Libero, 225, 426, 429. Rahn, Rudolf, 242. Raider, Joseph, 429. Rai-Tv, 295, 350. Ranzato, G., 427, 430-31. Rapisardi, Gaetano, 434. Rapporti Comune-Stato, 71, 74-78, 90-92, 116-18, 159-60. Rattazzi, Urbano, 80. Rava, Luigi, 165, 418. Ravaglioli, A., 419. Rebecchini, Gaetano, 445. Rebecchini, Salvatore, 263-64, 268, 275, 286. Recchioni, Stefano, 332. Redipuglia, 384. Reduzzi, Cesare, 421. Referendum, plebisciti, 37-38, 126, 262, 293, 316-17, 342, 439, 442. Regard, Maria Teresa, 428. Regno di Sardegna, 28. Regno Lombardo-Veneto, 28. Renan, Ernest, 4, 90. Repaci, A., 417. Repubblica romana (1849), 12, 26, 37, 77, 380, 415. Repubblicani, 52-53, 103, 122, 144, 165-67, 264. Rethondes, 384. Ressa, Alberto, 434. Riario Sforza, Sisto, 47. Ribbentrop, Joachim von, 242. Ricardo, David, 367. Riccardi, A., 421, 424, 427, 430, 43233, 439. Ricci, Corrado, 191, 419. Ricci, Renato, 195. Ridolfi, Mario, 194, 198, 281, 283, 434. Rifondazione comunista, 364, 444. Rinaldi, M., 425.

– Tor Marancia (Tor Marancio), 199, 358; – Torre Angela, 337, 343, 441, 444; – Torre di Mezzo, 282; – Torre Spaccata, 281-82, 367; – Torrevecchia, 370, 444; – Torrino Sud, 357; – Tor Sapienza, 287, 447; – Tor Tre Teste, 360; – Tor Vergata, 362, 367, 444, 446; – Trastevere, 21-22, 44-45, 96, 102103, 113, 130, 166, 173, 192, 198199, 318, 376-77, 400, 410; – Tre Fontane, 204; – Trevi, 44-45, 96, 165, 400, 410; – quartiere Trieste, 198, 279, 318, 333, 353; – Trionfale, 118, 168, 173, 186, 197, 339, 435; – Trullo, 199, 444; – Tufello, 199, 313, 374; – Tuscolano, 165-66, 233, 266, 28182, 288, 302, 331-32, 347, 442, 444; – Valco San Paolo, 281; – Valle Aurelia, 168, 339, 444, 446; – Valle Giulia, 135, 140, 212, 307-8; – Valle dell’Inferno, 129; – valle di S. Vitale, 64; – Vallerano, 378; – quartiere delle Valli, 374; – Val Melaina, 199, 374, 421, 443; – Vigna Cartoni, 135; – Vigne Nuove, 368, 374; – Villa Caetani, 156, 159; – Villaggio olimpico, 192, 292, 294, 300, 361, 377; – Villa Gordiani, 282, 288; – Villa Riccio, 161. Quarto (Genova), 145. Querini, Q., 398. Quirinale, 41, 53, 55-56, 64, 66, 8788, 136, 143, 148, 156, 169, 211, 261, 272, 386. Racheli, A.M., 407, 419.

512

Rio de Janeiro, 319. Riva, Mario, 295. Roatta, Mario, 235, 260. Roccucci, A., 414, 417. Rodano, Franco, 238. Roghi, V., 437. Roma, Dea, 137. Roma, società calcistica, 383-84, 447. Romagnoli, Giuseppe, 421. Romanelli, R., 404. Romano, P., 409. Romeo, Rosario, 39, 43, 309, 403, 438. Romita, Giuseppe, 238, 262. Roncone, F., 447. Roosevelt, Franklin Delano, 232. Rosa nel pugno, La, formazione politica, 445. Rosati, R., 405. Rossanda, R., 441. Rosselli, fratelli, 260. Rossellini, Roberto, 259. Rossi, Amilcare, 176, 419. Rossi, C., 437. Rossi, Emilio, 331. Rossi, L., 410-11. Rossi, P.O., 414, 421-23, 434, 43637, 441-45, 448. Rossi, Paolo, 305, 437. Rossi, Vincenzo, 402. Rossi, Walter, 331, 441. Rossi Doria, Tullio, 123, 133. Rubino, Edoardo, 421. Rudolph, Wilma, 294. Rugafiori, P., 417. Ruini, Meuccio, 123, 157-58, 160, 238, 416. Rupe tarpea, 190. Ruspoli, Augusto, 45. Ruspoli, Emanuele, 45, 71, 93, 117, 402-3, 406. Russia, 226. Russo, Marta, 446. Rutelli, Francesco, X, 352-57, 359, 361-363, 367-68, 381, 390, 44344, 446.

Rutelli, Mario, 136. Sabatello, E.F., 425. Sabaudia, 203. Sabbatini, Innocenzo, 197. Sabbatucci, G., 418. Sabina, 238. Sacconi, Giuseppe, 81, 139. Sacer, 166. Saladini-Pilastri, Saladino, 75. Salandra, Antonio, 143, 146, 148. Salatino, Paolo, 420. Salerno, 237, 257. Salinari, Carlo, 246-47, 251, 428, 430. Salò, 241. Salsano, F., 422. Salvagni, P., 442. Salvarezza, Cesare, 123. Salvatori, P., 411, 415, 417, 419, 421, 423-24. Salvatori, P. (1979), 424. Salvemini, Gaetano, 147, 397. Salvi, Mario, 327. Samaritani, Aldo, 283, 434. Sanfilippo, M., 399, 419, 422, 437, 442. Sanjust di Teulada, Edmondo, 127129, 137, 189, 413. San Martini Barrovecchio, M.L., 426. S. Sede (vedi anche Vaticano), 32, 46, 80, 91, 116, 192, 198, 211, 214, 240-42, 244, 261, 271-72, 283, 354, 407, 422, 427, 432. Santini, Rinaldo, 303-4, 437. Santucci, Carlo, 409. Sapienza, vedi Università della Sapienza. Saragat, Giuseppe, 240, 245, 258, 264, 385. Sarappa, Antonio, 433. Sardegna, 141. Sardelli, Roberto, 311, 315. Sardelli, T., 399. Sarfatti, M., 425-26.

513

Savoia, famiglia, 55. Sbarbaro, Pietro, 108-9, 411. Sbardella, Vittorio, 345-46. Scacchi, D., 404, 411. Scalera, Antonio, 286, 435. Scalfari, E., 435. Scalfaro, Oscar Luigi, 386. Scalpelli, Alfredo, 421. Scalzone, Oreste, 306, 308. Scattarreggia, M., 410. Scelba, Mario, 270. Scialabba, Roberto, 332. Scoccimarro, Mauro, 237-38. Scotti, Carlo, 419. Scuola di Paleografia, diplomatica e archivistica, 209. Scuola di telegrafia e telefonia, 209. Scuola superiore di Polizia, 209. Scuole, istituti d’istruzione: – elementari di via Acireale, 198; – liceo Azzarita, 327; – liceo Castelnuovo, 327; – istituto tecnico Fermi, 327; – liceo Francesco d’Assisi, 327; – della Garbatella, 198; – liceo Giulio Cesare, 198, 327; – liceo Mameli, 327; – liceo Mamiani, 198, 308, 327, 432; – collegio Massimo, 136, 239, 291; – elementari di viale delle Medaglie d’Oro, 198; – elementari E. Pistelli, 198; – liceo Plauto, 299; – S. Apollinare, 239; – S. Gabriele, 238; – collegio S. Tommaso d’Aquino, 214; – liceo Tasso, 327; – elementari di Tor di Nona, 198; – elementari di via Vetulonia, 198; – liceo Virgilio, 260, 327; – liceo Visconti, 56, 61, 236, 239. Secondari, Argo, 167-68. Sedan, 33. Seismit-Doda, Federico, 404, 407.

Sella, Quintino, 33, 42, 64, 68, 7577, 136, 189, 403-4, 406-7. Seller, G., 425-26. Sempre Avanti Savoia, 102. Senatore di Roma, 8, 12-13. Serao, Matilde, 109-10, 412. Serbia, 145. Sermoneta, Rosetta, 243. Sermonti, V., 442. Seronde Babonaux, A.-M., 406, 410, 420, 433-34, 445. Serono, Cesare, 419. Serra, F., 431. Servire il popolo, 309. Sestan, Ernesto, 206. Setta, S., 431. Settano, Quinto, 36. Severino, C.G., 444. Sferisterio Barberini, 101. Sforza Cesarini, Francesco, 402. Shelley, Percy Bysshe, 4. Sicilia, 141, 232. Sighele, Scipio, 112-13, 130, 411. Signorello, Nicola, 345. Silvagni, David, 398, 402. Silvestrelli, famiglia, 18. Silvestrelli, Augusto, 46, 402, 405, 424. Sinagoga, 107. Sindacato unitario nazionale inquilini e assegnatari (Sunia), 310-12. Sindona, Michele, 351. Sinistra extraparlamentare, «nuova sinistra», 313, 326, 330, 333. Sinistra storica, 45-46, 74, 77, 92. Sistema direzionale orientale (Sdo), 300-2, 341, 343, 346, 358. Sisto V, 64, 74, 178, 388. Sjöstedt, L., 409, 446. Socialisti, 103-4, 121-22, 134-35, 144, 147, 152, 163, 165-67, 17374, 236, 445. Social-riformisti, 121, 144, 164, 175, 417. Società anglo romana (Sar), 125, 129.

514

Società per il bene economico di Roma, 409. Società Condotte, 311. Società dell’Esquilino, 84. Società generale immobiliare, 80, 84, 118, 198, 283-84, 291, 350, 422, 434. Società generale strade ferrate romane, 21. Società ginnastica Roma, 101. Società italiana per imprese fondiarie, 118. Società di lavori pubblici, 60. Società podistica Lazio, 101. Società primaria romana per gli interessi cattolici, 47. Società romana tramways e omnibus (Srto), 117, 124, 126, 153. Società del tiro a segno nazionale, 101. Società velocipedistica romana, 101. Società veneta per imprese e costruzioni, 66. Soderini, E., 403. Somalia, 385. Sombart, W., 399. Sommaruga, Angelo, 108-10. Sonnino, E., 401. Soprintendenza archeologica di Roma, 359-60. Sotgia, A., 434. Sotgiu, Giuseppe, 275, 433. Spaccarelli, Attilio, 192. Spagna, 114, 211, 385, 387, 424, 440. Spano, Velio, 261. Spaventa, Silvio, 414. Speculazione edilizia, 64, 83-84, 284-289, 367, 406, 408. Spencer, Herbert, 90. Spithoever, Giuseppe, 80. Spriano, Paolo, 252, 430. Stabilimento tipografico Staderini, 105. Staderini, Alessandra, 155, 414-16. Stadi: – dei Marmi, 195, 270;

– nazionale al Flaminio, 139, 414; – del Nuoto, 292; – Olimpico (dei Cipressi), 195, 292, 294, 347, 387. Stadio di Domiziano, 262. Statera, A., 434. Stati del papa, vedi Stato pontificio. Stati Uniti, 75, 88, 203, 269, 277, 294, 394. Stato ecclesiastico, vedi Stato pontificio. Stato pontificio, 4, 10-12, 15, 20-21, 41, 401. Stazioni ferroviarie, 192; – Farneto (Olimpico-Farnesina), 347; – Ostiense, 257, 347; – Termini, 21, 64, 74-75, 89, 92, 135-136, 150, 168, 189, 192, 232, 290, 360, 362, 364, 391, 394, 421, 436; – Tiburtina, 243, 302, 347, 360, 369; – Valle Aurelia, 357; – Vigna Clara, 347. Stazioni della metropolitana: – Battistini, 302; – Clodio-Mazzini, 357; – Eur, 387; – Ottaviano, 302; – Piramide, 387; – Quintiliani, 302; – Rebibbia, 302; – Termini, 302; – Valle Aurelia, 357. Stefanucci Ala, A., 10, 397. Stendhal (Henri Beyle), 4-5, 397. Stille, A., 428. Storace, Francesco, 362. Storoni, Enzo, 286. Strenna dei romanisti, 440. Sturzo, Luigi, 271-72, 432. Sud Italia, 97, 186, 236, 256, 27980. Sullo, Fiorentino, 297. Susi, Attilio, 165.

515

Tafuri, M., 406. Tagliacozzo, Leone, 60. Tagliacozzo, Mario, 222, 225, 245, 255-56, 425-26, 428, 430-31. Taine, H., 401. Tajani, Antonio, 363. Talamo, Edoardo, 132. Talamo, G., 404, 411-15, 419, 431, 433, 440. Talenti, famiglia, 435. Tamassia Galassi Paluzzi, M.T., 405-6. Tambroni, Fernando, 276, 294. Tancredi, Vincenzo, 402. Tange, Kenzo, 346. Tanlongo, Bernardo, 60, 91. Tarantelli, Enzo, 333. Tavanti, U., 414. Tavazza, Luciano, 315. Taviani, E., 412. Taviani, Paolo Emilio, 385. Taylor, Maxwell, 234. Teatri: – Adriano, 247, 360, 384-85; – Apollo, 20, 41, 52; – Argentina, 360, 384; – Costanzi, 101, 148, 170; – Eldorado, 101; – Eliseo, 435; – Giardino dell’Eden, 101; – Olympia, 101; – Salone Margherita, 101. Teatro di Marcello, 185, 190-91, 340. Tedesco, V., 427. Tempio evangelico della Chiesa libera italiana, 63. Terme di Caracalla, 118, 201, 204, 294, 339, 373. Terme di Diocleziano, 21, 64, 74, 290, 414. Terni, 270. Terragni, Giuseppe, 211. Testa, Virgilio, 177, 291, 419, 436. Tevere, fiume, 7, 22, 24, 31, 41, 65, 67, 69-70, 78-79, 117, 127, 131, 139-40, 180, 202, 258, 298, 311,

340, 347, 369-70, 372, 374, 422, 445. Tevere, società di canottaggio, 101. Tinari, A., 412. Tirreno, mare, 185. Tittoni, fratelli, 18, 405. Tittoni, Vincenzo, 45, 402. Tivoli, 235. Tobia, B., 405-6, 408-9, 414, 418. Tocci, Walter, 354, 442-43, 445. Togliatti, Palmiro, 269-70, 273, 341, 387. Togni, G., 288, 436. Tommasi-Crudeli, Corrado, 61. Tonelli, Alberto, 122. Torelli, M., 423. Torino, 44, 74, 97-98, 100, 132, 139140, 162, 306, 325, 386, 417, 439. Torlonia, famiglia, 435. Torlonia, Leopoldo, 51, 89-91. Torre capitolina, 267. Torre delle Milizie, 87. Torre del Padiglione, tenuta di, 405. Torre di Paolo III, 72. Torsiello, M., 427. Tor Vaianica, 274. Toscana, 9, 97, 186. Toschi, L., 412-13, 416, 422. Toti, Enrico, 168. Totti, Francesco, 390. Touring club ciclistico italiano, 101. Tozzetti, Aldo, 439. Tragliatella, tenuta di, 405. Tranfaglia, N., 419. Traniello, F., 432. Trentin, Bruno, 439. Trento, 156. Treves, R., 397. Treviso, 241. Tribunale della Sacra Consulta, 26, 400. Tribunale del Vicariato, 17. Trieste, 154, 156, 277, 384, 428. Trombadori, Antonello, 246. Trotzki, Lev Davidovicˇ, 170. Tufari, P., 399, 401.

516

Unrra-Casas, 282. Uomo qualunque, 261-63.

Tupini, Umberto, 144, 275-76, 434. Turchi, Luigi, 305. Turco, M., 408, 411. Turtas, R., 399.

Vaccaro, G., 434. Valdoni, Pietro, 269. Valenti, Ghino, 83, 408. Valeri, Nino, 304. Vallat, C., 441. Valle, Cesare, 421. Valle, Gino, 369. Valli, Giovanni (Giannetto), 418. Vanni, Giovanni Antonio, 121-22. Vaselli, Romolo, 286, 421, 435. Vassalli, Giuliano, 245. Vaticano (vedi anche S. Sede; Città del Vaticano), X, 35, 43, 69, 209, 239-241, 251, 253, 257, 272, 290, 351. Veio, 301. Velia, collina, 191. Velodromo olimpico, 292. Veltroni, Walter, X, 363-64, 367-68, 383, 389-90, 395, 444-45. Venditti, Antonello, 447. Veneto, 186. Venezia, 74, 241. Venezia Giulia, 268. Veneziani, P., 405. Ventrone, A., 397. Venturi, F., 397. Venturi, Pietro, 50, 67, 69. Veralli Spada Potenziani, Ludovico, 177. Verbano, Valerio, 333. Verdi, formazione politica, 345, 347, 352-54, 359, 444. Vermicino, 378. Verona, 241, 295. Verucci, G., 404. Vespignani, Renzo, 373. Vetere, Ugo, 334. Vicariato, 312. Vicino Oriente, 381. Vidotto, V., 407, 414, 423-24, 427, 436, 438. Vie, piazze di Roma:

Uilm, 439. Ulivo, 444. Ullrich, H., 412, 414. Umberto I di Savoia, 41, 111. Umbria, 97, 173-74. Unione democratica nazionale, 263. Unione dei democratici cristiani e democratici di centro (Udc), 445. Unione edilizia nazionale, 161. Unione per le elezioni amministrative, 164-66, 169, 417. Unione giovanile indipendente, 261. Unione degli industriali del Lazio, 287. Unione liberale democratica, 144. Unione liberale popolare, 121-24, 126, 135, 142. Unione liberale romana, 122. Unione monarchica liberale, 102. Unione nazionale, 165, 170, 267. Unione nazionale inquilini e assegnatari (Unia), vedi Sindacato unitario nazionale inquilini e assegnatari. Unione romana per le elezioni amministrative, 47-48, 50-51, 90-91, 102, 116, 120, 122, 126, 135, 403. Unione sindacale romana, 303. Unione socialista romana, 414. Unione Sovietica, 228, 294. Università, 350; – Ateneo pontificio, 61; – Pontificia Università gregoriana, 209; – Università Roma Tre, 365, 444; – Università della Sapienza (vedi anche Città universitaria), 42, 60-61, 122, 144-45, 147, 177, 195, 209, 221, 223, 259, 306, 308, 328, 437, 444; – Università Tor Vergata, 444.

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via Acca Larenzia, 331-32; via Acireale, 198; piazza Alessandria, 301; via Alessandrina, 137, 190; viale Angelico, 139; via Appia Antica, 180, 373, 444; via Appia Nuova, 282, 357, 435; via in Arcione, 192; via Ardeatina, 249, 358; via Arenula, 242; largo Argentina (di Torre Argentina), 79, 193, 201, 357; lungotevere Arnaldo da Brescia, 192; via Arno, 198; via Aurelia, 283; viale Aventino, 204, 236; via del Babuino, 79, 247; via Baccina, 408; piazza Barberini, 87, 192-93, 420; via Barberini (via Regina Elena), 193; via Bari, 218; via delle Belle Arti, 307; piazza Belli, 338; via Belsiana, 192; via Bibbiena, 327; via Bissolati (via XXIII marzo), 193, 257, 318, 438; via del Boccaccio, 247; piazza della Bocca della Verità, 105; piazza Bologna, 127, 198, 366, 444; via Boncompagni, 79-80; via delle Botteghe oscure, 194, 268, 277, 329, 394; viale B. Buozzi (viale dei Martiri fascisti), 257, 376; via Caetani, 332; piazza del Campidoglio, 148, 313; piazza Campitelli, 268; piazza della Cancelleria, 148; vicolo dei Canneti, 113; via Capodistria, 161; via Capo le Case, 31, 105;

– via Capponi, 435; – via Casilina, 269, 337, 357, 37071, 447; – via Cassia, 7, 236, 255, 347, 353, 370, 444-45, 447; – viale delle Cave Ardeatine (viale Hitler), 257; – piazza Cavour, 138, 308; – via Cavour, 76, 117, 136-37, 147, 190, 203, 406, 439; – via delle Ceramiche, 442; – via dei Cerchi, 60; – via Cernaia, 414; – via Chiana, 196; – largo Chigi, 269, 277, 307; – piazza dei Cinquecento, 89, 136, 370-71; – piazza delle Cinque Scole, 24; – via del Circo Massimo, 201; – piazzale Clodio, 301; – piazza del Collegio Romano, 143, 386; – via C. Colombo, 299, 372-73; – piazza Colonna, 50, 64, 69-70, 79, 128, 139, 163, 185, 189, 237, 269, 277; – piazza del Colosseo, 383, 387, 441; – via Conca d’Oro, 366; – via della Conciliazione, 69, 192, 290, 360, 430; – via Condotti, 69; – via della Consolazione, 341; – via delle Coppelle, 128; – via dei Coronari, 128; – via del Corso, 22, 30-31, 55, 6465, 69-70, 72, 96, 100, 128, 137, 143, 162, 192, 223, 237, 255, 270, 384; – via Cremona, 137, 190; – via dei Crispolti, 434; – via della Croce Bianca, 168, 414; – piazza Dante, 264; – via Depretis, 307; – via dei Due Macelli, 79, 108, 150, 192, 247, 428; – viale Einaudi, 394;

518

– viale Eritrea, 198, 374; – piazza dell’Esedra (della Repubblica), 171, 192, 270, 307, 318, 414, 421, 438-39; – viale Etiopia, 282; – piazza Euclide, 295; – via Fani, 332; – piazza Farnese, 308; – Campo dei Fiori, 90, 92, 308, 330, 376-77; – piazza Fiume, 301, 370; – via Flaminia, 127, 135, 255, 307, 347; – piazzale Flaminio, 192, 347; – galleria Fleming, 346; – via dei Fori imperiali (progetto), 128, 137; – via dei Fori imperiali (dell’Impero), 191, 201, 203, 227, 268, 34142, 373, 376, 386, 388, 414, 439; – via delle Fornaci, 127, 376; – corso Francia, 293; – via Gaeta, 277; – vicolo del Gelsomino, 446; – piazza del Gesù, 268, 330, 332, 414; – via Giulia, 330, 434; – via dei Gordiani, 300; – via Gramsci, 307; – via Gregoriana, 411; – via Gregorio VII, 444, 446; – salita del Grillo, 408; – via di Grotta Perfetta, 358; – piazzale dell’Impero al Foro Mussolini, 270, 293; – piazza Indipendenza, 329; – corso d’Italia, 106, 136, 301; – viale Jonio, 374; – via Lago di Lesina, 198; – via Lata, 156; – via dei Laterizi, 442; – via Laurentina, 236, 378, 380; – viale Libia, 333, 374; – viale Liegi, 255; – via Ludovisi, 172, 192, 438; – via della Lungara, 243;

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519

piazza Mancini, 347; via del Mandrione, 280; via Mangili, 161; viale Manzoni, 81; via Marche, 80; via del Mare (via del Teatro di Marcello), 268, 340; via di Marforio, 190; via Marmorata, 131, 198, 372; via dei Marrucini, 330; via Marsala, 106; piazza Mastai, 318; piazza Mattei, 24; piazza Mazzini, 196, 198; viale Mazzini, 139, 301, 347, 414; viale delle Medaglie d’Oro, 198, 331; piazza Melozzo da Forlì, 197; via Menotti, 414; via Mercati, 161; via Merulana, 106, 376; via Milano, 79, 128, 192; viale delle Milizie, 197; piazzale della Minerva nella Città universitaria, 305; via Minghetti, 192; piazza dei Mirti, 429; via della Missione, 269; piazza Montanara, 98, 190; via Monterone, 79; via Monte Zebio, 225; viale del Muro Torto, 293; piazza dei Navigatori, 373; piazza Navona, 193, 302, 376, 384, 387; via Nazionale, 63, 66, 70, 72, 76, 78-79, 87, 100, 136, 143, 163, 211, 256, 306-7, 332, 408, 438; via Nemorense, 198; viale Newton, 443; via Nomentana, 34, 79, 106, 118, 136, 283, 300, 374; via U. Ojetti, 366; via Olimpica, 127, 293, 346, 37374, 394, 443; via Oslavia, 197;

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via Ostiense, 128, 372; via Ottaviano, 327; via Panisperna, 79; via della Palombella, 62; viale Parioli, 255; piazzale dei Partigiani (piazzale Hitler), 257; piazza G. Pepe, 113; via della Pigna, 214; via della Pilotta, 70; via della Pineta Sacchetti, 443; viale Pola, 318; piazza Poli, 143; viale del Policlinico, 269; via Pontina, 299; piazza del Popolo, 55, 72, 79, 143, 148, 156, 162, 169, 262, 264, 270, 273, 310, 318, 384, 386-87, 438; piazza di Porta Maggiore, 370; via del Portico d’Ottavia, 24, 242; via Postumia, 198; via dei Prati Fiscali, 374, 443; via Prenestina, 287, 367, 435; viale della Primavera, 300; via Principe Amedeo, 246; galleria Principe Amedeo di Savoia Aosta, 359; via delle Quattro Fontane, 66, 101, 136, 143, 247-48; via IV Novembre, 423; piazza del Quirinale, 56; Grande raccordo anulare, 301, 337, 356, 371-72, 378-79, 446; via Rasella, X, 183, 247-48, 25052, 428, 430; viale Regina Margherita, 127, 255; via della Reginella, 242; corso Rinascimento, 193; via di Ripetta, 79; via della Ripresa dei barberi, 72; piazza Risorgimento, 302; via Romagna (Dogali), 89, 246; piazza W. Rossi (Igea), 331, 441; via Sabotino, 197; via Sacra, 169, 294, 388; via della Salara vecchia, 190;

– via Salaria, 34, 157, 159, 166, 287, 369, 373-74, 417, 427; – via Sallustiana, 106, 150; – piazza SS. Apostoli, 192, 385, 387, 439; – via S. Basilio, 326; – piazza S. Bernardo, 193; – piazza S. Croce in Gerusalemme, 104, 127; – piazza S. Giovanni (piazza di Porta S. Giovanni), 127, 273, 332, 384-85, 387, 441; – piazza S. Giovanni Bosco, 282, 332; – piazza S. Lorenzo in Lucina, 72; – piazza S. Pantaleo, 143; – piazza S. Pietro, 54, 254, 257, 326, 445; – piazza S. Maria in Trastevere, 302; – piazza S. Eustachio, 79; – piazza S. Vincenzo dei Pallottini, 330; – via dei Sardi, 168; – piazza Sciarra, 69-70; – piazzale delle Scienze (A. Moro), 306; – via della Scrofa, 79; – via Settembrini, 414; – via Sicilia, 106, 168; – via Sistina, 318; – via Soderini, 422; – piazza di Spagna, 247, 307, 375, 438; – tangenziale Est, 373; – via Tasso, 246, 249, 429; – piazza delle Terme (di Termini), 136; – via delle Terme di Diocleziano, 89; – via Tiburtina, 80, 168, 287, 373, 435, 441, 447; – viale Tiziano, 386; – viale Togliatti, 443; – via Tomacelli, 247, 438; – viale di Tor di Quinto, 347; – via del Traforo, 247;

520

– – – – –

via di Trasone, 198; via delle Tre Pile, 294; piazza di Trevi, 69-70; corso Trieste, 196, 374; via dei Trionfi (via di S. Gregorio), 201, 204; – via del Tritone, 100, 143, 221, 438; – via Tuscolana, 300; – traforo Umberto I, 79, 192; – via di Valle Aurelia, 442; – via Veneto (Vittorio Veneto), 80, 146, 156, 169, 193, 218, 246, 248, 277, 318, 374; – piazza Venezia, 70, 72, 78-79, 81, 117, 143, 156, 162, 169, 189, 191, 194, 202-3, 268, 277, 299, 370, 384, 386, 407, 417; – via XX Settembre, 64, 66, 136, 143, 148, 374; – viale XXI Aprile, 198; – piazza Verbano, 127, 196; – piazza Verdi, 157, 435; – via Vetulonia, 198; – via della Vite, 166; – via Vittoria, 60, 192, 340; – corso Vittorio Emanuele II, 70, 139, 192, 268, 431; – piazza Vittorio Emanuele II, 358; – via dei Volsci, 328, 330; – via Volturno, 318. Vienna, 100, 128. Vietnam, 306. Villani, P., 399. Ville: – Ada, 301, 374; – Albani, 80; – Aldobrandini, 87, 408; – Anziani, 198; – Balestra, 281; – Borghese, 118, 127, 140, 162, 374, 430; – Doria Pamphilj, 293, 301; – Fiorelli, 198; – Glori, 198, 361; – Ludovisi, 79-80, 87;

– Massimo, 21; – Narducci, 197, 422; – Paganini, 161, 198, 430; – Patrizi, 80; – Savoia, 224; – Strohl-Fern, 360; – Torlonia, 224. Viminale, 64, 247, 261, 263, 269. Viola, Giovanni, 419. Violenza e conflittualità politica, 54-55, 143, 147-48, 164, 167-68, 269-270, 277, 305-9, 319, 325-34, 411, 414, 437-39. Visconti Venosta, Emilio, 33. Viscosa (Società generale italiana della Viscosa, poi Cisa-Viscosa), 187, 217, 269, 435. Vitale, E., 409. Vitellozzi, Annibale, 292, 436. Viterbo, 357. Vitorchiano, 294. Vittoria, A., 437. Vittorio Emanuele II, 37, 41, 55, 65, 72, 80-81, 92, 94, 105, 136-40, 171, 212, 407, 409. Vittorio Emanuele III, 136. Vittorio Veneto, 171, 181. Viviani, Alessandro, 67, 69-70, 78. Volpe, Gioacchino, 157, 202, 206, 210, 219, 259, 415-16, 423, 425. Vovelle, M., 401. Washington, 75, 427. Weber, Ch., 398-99. Weizsäcker, Richard von, 244. Woller, H., 431. Zanazzo, Giggi, 115, 412. Zanda, Luigi, 361. Zanelli, Angelo, 418. Zangrandi, R., 426. Zapponi, Bernardino, 321. Zatterin, U., 431-32. Zevi, Bruno, 293, 305. Zicchieri, Mario, 327.

521

Indice del volume

Premessa I.

VII

Alla vigilia del 1870

3

1. Immagini e miti, p. 3 - 2. I poteri in città, p. 12 - 3. L’economia e la società, p. 18 - 4. Prima della fine, p. 30

II.

La capitale laica

33

1. Roma italiana, p. 33 - 2. La nuova politica, p. 43 - 3. La secolarizzazione, p. 56 - 4. La trasformazione della città, p. 63

III. Tra due secoli

72

1. Sviluppo urbano e crisi edilizia, p. 72 - 2. La Roma di Crispi: conflitti e celebrazioni, p. 85 - 3. Popolazione e articolazioni della società, p. 96 - 4. Giornalisti, tribuni, artisti: figure sociali e autorappresentazioni, p. 107 - 5. Municipio e Stato, p. 116

IV. Gli anni di Nathan

119

1. Anticlericalismo e riforme, p. 119 - 2. Il piano regolatore e il problema della casa, p. 126 - 3. Roma nel 1911, p. 135

V.

Guerra e dopoguerra

142

1. Maggio 1915, p. 142 - 2. La città e la guerra, p. 151 - 3. I meriti e le ricompense, p. 157 - 4. Dal nazionalismo al fascismo, p. 162

523

VI. Roma fascista

172

1. Ordine e amministrazione, p. 172 - 2. La Roma di Mussolini, p. 178 - 3. La città nuova del fascismo, p. 185 - 4. La costruzione dell’egemonia, le tappe del consenso, p. 206 - 5. La persecuzione degli ebrei, p. 218

VII. Dalla guerra fascista alla democrazia

224

1. La guerra e la caduta del fascismo, p. 224 - 2. Occupazione tedesca e Resistenza, p. 233 - 3. Il ritorno alla democrazia, p. 256

VIII. Roma democratica e cristiana

265

1. La Dc al potere, p. 265 - 2. Crescita demografica e sviluppo urbano, p. 278 - 3. L’Eur e le Olimpiadi, p. 290

IX. Disordine urbano e conflittualità

296

1. Il fallimento del piano, p. 296 - 2. Movimenti collettivi e secolarizzazione, p. 304 - 3. Contro Roma, p. 319 - 4. Terrorismo diffuso e grande terrorismo, p. 325 - 5. La sinistra in Campidoglio, p. 334

X.

La nuova capitale

345

1. La crisi della politica e la cultura del privilegio, p. 345 - 2. Verso un nuovo governo della città, p. 352 - 3. Consenso e partecipazione, p. 363 - 4. Paesaggi urbani di inizio secolo, p. 369 - 5. Due capitali, p. 380

Note

397

Opere citate

449

Quartieri e circoscrizioni di Roma

483

Indice analitico

487