Razzisti a parole (per tacer dei fatti) [Paperback ed.] 8842096210, 9788842096214

Davu' cumpràavu' lavà, daletterature etnicheacampi nomadi, quando parliamo usiamo espressioni che ci sembrano

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Italian Pages 160 [154] Year 2011

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Razzisti a parole (per tacer dei fatti) [Paperback ed.]
 8842096210, 9788842096214

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Il nocciolo 64

Federico Faloppa

Razzisti a parole (per tacer dei fatti)

Editori       Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Progetto grafico di Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa Roma - Bari Finito di stampare nel settembre 2011 Sedit - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9621-4

a Viola Qafzezi wandert und ankommt in ihnen, sie anfüllt mit Ankunft [cammina e arriva in loro, le riempie d’arrivo] (Rainer Maria Rilke, Handinneres)

Indice

«Non sono razzista, ma»

3

Si fa presto a dire razzismo

7

Soltanto parole?

14

Dagli al negro!

17

C’era due volte il «vu’ cumprà»...

31

Immigrato a chi?

42

«Discriminazione transitoria positiva»

50

Clandestini si nasce o si diventa?

65

Etnico è bello?

80

Zingari: basta la parola

92

Quelli che l’emergenza

108

«Vox populi»

124

Note 131

­vii

Razzisti a parole (per tacer dei fatti)

«Non sono razzista, ma»

Non sono un razzista, ma alle mie tradizioni ci tengo. Non sono un razzista, ma non siamo pronti a ricevere [tutti ’sti immigrati. Non sono un razzista, ma ci mancano le strutture. Non sono un razzista, ma se ne stiano a casa loro. Non sono un razzista, ma se poi loro sono infettivi? Non sono un razzista, ma invece di farli venire qua [aiutiamo i loro Paesi d’origine. Non sono razzista, ma... quando è troppo è troppo. Non sono razzista, ma lo sono diventata col tempo. Non sono razzista, ma sinceramente il lavoro [scarseggia se ci si mettono pure loro siamo rovinati. Non sono razzista, ma chissà come mai vengono [tutti qui. Non sono razzista, ma i delinquenti non li voglio. Non sono razzista, ma gli zingari non li posso [sopportare. Non sono razzista, ma ci sono razze che non mi [piacciono.

Una manciata di frasi. Di frasi fatte. Talmente banali da sembrare artificiose, posticce. Ma non sono farina del mio sacco. Non le ho inventate io. Le prime sei le ho estratte dall’articolo di Enzo Costa Non sono un razzista, pubblicato nel settimanale di satira politica «Cuore» il 2 aprile ­3

1990. Sono state scritte, quindi, oltre vent’anni fa, con lo scopo, dichiarato, di mettere alla berlina un modo di dire che proprio allora – avevamo da poco scoperto l’esistenza di vu’ cumprà ed extracomunitari – si stava radicando nell’uso1. Le altre, invece, le ho trovate in internet nel dicembre del 2010, inserendo in Google la query «Non sono razzista, ma». Appartengono all’oggi, quindi. E fanno parte di quelle 140.000 (circa) occorrenze che il motore di ricerca ha scovato nel web. Non che questo numero – 140.000 – dica molto in termini assoluti. Dice però qualcosa se confrontato con un dato riportato dal giornalista Giovanni Maria Bellu nella sua rubrica Gli altri noi. Storie di immigrazione del 13 maggio 2007 (www.repubblica.it). Ovvero che la stessa query quattro anni fa produsse «soltanto» 10.000 occorrenze. In quattro anni, insomma – pur filtrando i contesti duplicati, o in cui l’espressione compare sotto forma di discorso riportato, e pur tenendo conto della fisiologica espansione di internet dal 2007 a oggi –, si sono moltiplicati i documenti in cui qualcuno ha avuto bisogno di raccontare o di sostenere che non è razzista, ma. E non solo di affermarlo, ma anche di condividerlo. Perché basta spostarsi su Facebook per scoprire che l’espressione «non sono razzista, ma» (o «però», o altre varianti simili) è il nome di decine e decine di gruppi. ­4

Qualche esempio? «Io non sono razzista, ma non ne posso più» (e nella descrizione del gruppo si legge «per tutti quelli che non ne possono più degli extracomunitari che rubano nelle nostre case, che spacciano droga nelle strade»); «Io non sono razzista, però ne ho pieni i maroni»; «non sono razzista, ma sto diventando intollerante»; «Io non sono razzista, ma i neretti nel parcheggio dell’Ipercoop hanno rotto»; «Io non sono razzista, ma neanche buonista». O ancora: «Non sono razzista: mi baso sui fatti» e «non sono razzista: sono loro che puzzano di merda». Oppure «Non sono nato razzista... ma adesso voglio un’Italia pulita». Per finire – ma si tratta di una veloce carrellata – con il gruppo «Io non sono razzista! Sono solo selettivo!» («diciamo basta! A tutti gli immigrati clandestini! Che vengono in cerca di lavoro... ma poi finiscono a rubare... se vogliono stare in Italia devono lavorare! Devono pagare le tasse! E non devono fare casini! Altrimenti, andrebbero rispediti nei loro paesi a calci in culo!»), che a dicembre 2010 aveva attirato la bellezza di 1459 simpatizzanti. Poca cosa, si dirà, considerando che Facebook ha circa 600 milioni di utenti sparsi per il mondo, di cui ben 16 milioni in Italia. Eppure, anche a volerci scherzare su, l’impressione è che il «fantasma del non sono razzista, però», evocato da Giovanni Maria Bellu nel 2007, e da lui stesso sinteticamente soprannominato, con ­5

efficace neologismo, noràppero, si aggiri ancora per l’Italia. Sfuggendo, tra l’altro, a modelli e definizioni: perché i noràpperi – è ancora Bellu a suggerirlo, ma è Facebook a confermarlo – sono «trasversali». Sono sia di destra sia di sinistra. Sia uomini sia donne. Sia giovani sia meno giovani. Divisi su molte cose, ma accomunati – sempre secondo il giornalista – da una personalissima sensibilità «alle vicende di cronaca, ai sentimenti dominanti nell’opinione pubblica, e anche alle esperienze personali». O forse – aggiungo io – da una manifesta incapacità di discernere, chiaramente, tra queste e quelli. Prigionieri di una logica che si nutre di semplificazioni, di un’argomentazione povera, spesso scopertamente mediocre, fallace, contraddittoria.

Si fa presto a dire razzismo

Io non sono razzista, però ci sono razze che non mi [piacciono. (www.forumsalute.it/community, giugno 2008)

Ma chi è il razzista? Che cos’è il razzismo? Negli ultimi tre secoli ci hanno provato in tanti a cercare di spiegare che cosa sia una «razza», o meglio la «razza»1. Ma una definizione soddisfacente, universalmente accettata (del concetto, e quindi del termine) non c’è. Anche perché vi è ormai la certezza che le «razze», per come sono state intese fino al ventesimo secolo, non esistono. Almeno sul piano biologico. Nella nostra specie non esisterebbero «razze pure» come – almeno sulla carta – avverrebbe per altre specie animali. Le differenze tra una popolazione e l’altra sarebbero infatti molto piccole in termini ereditari: perché esistiamo da (relativamente) troppo poco tempo, perché discendiamo da un numero ristretto di antenati, perché nella storia non siamo mai stati completamente isolati gli uni dagli altri (e infatti non ­7

c’è accordo, tra gli scienziati, circa l’esistenza – e la natura – di confini «genetici» chiari e stabili). Biologicamente apparteniamo tutti alla stessa famiglia: quella dell’Homo sapiens sapiens, nata in Africa circa 100.000 anni fa e rimasta straordinariamente omogenea sul piano genetico nel corso del tempo. E anche quando presentiamo caratteristiche esteriori diverse (la morfologia fisica, il colore della pelle, il taglio degli occhi, ecc.), frutto dell’adattamento ai vari climi e ambienti del pianeta, lo dobbiamo a una variazione minima dell’intero genoma. Ce lo hanno spiegato tanto gli antropologi (a partire da Ashley Montagu, autore del celebre saggio Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race, pubblicato nel 1942)2 quanto i sociologi e i filosofi (dicendoci che la razza è una costruzione sociale)3 e soprattutto – con analisi su vasta scala e prove più evidenti – gli scienziati (come l’italiano Luigi Cavalli-Sforza)4. Recentemente ce lo hanno ricordato, tra gli altri, e in modo efficacemente accessibile, il genetista Guido Barbujani e il giornalista Pietro Cheli, con il loro Sono razzista, ma sto cercando di smettere (2008). Certo, esistono – eccome – differenze culturali (ovvero, secondo la definizione dell’Unesco, differenze «materiali, intellettuali o emozionali») tra le popolazioni. Ma poco avrebbero a che ­8

fare con il Dna, con la biologia5. E con le supposte «razze». Senza contare che la struttura delle popolazioni umane è sì molto complessa e variabile, ma si presenta anche molto sfumata per via delle continue migrazioni: e ciò rende vano cercare confini razziali netti, con caratteri fisici e psicologici specifici e assolutamente determinati6. Negli anni Trenta, il poeta satirico Hilaire Belloc già ci scherzava su, sbeffeggiando la celebre classificazione tri-razziale proposta da William Z. Ripley in The Races of Europe (1899): Osserva, figlio, l’uomo del Nord; per quanto puoi, sii come lui: le gambe lunghe, lento di testa, capelli flosci fatti di stoppa. La razza alpina vedo arrivare, guarda che faccia larga e brutale; pelle giallastra, il ceffo che ha è sgradevolissimo in verità. Fra tutte la più degenerata mediterranea viene chiamata: capelli ricci, parole pazze, impertinente con le ragazze7.

Oggi possiamo dirlo quasi con certezza: di fatto le razze non esistono. Come non esiste più – se non nella mente di qualche invasato, di ­9

qualche scienziato pazzo o, mutatis mutandis, di qualche accademico smanioso di notorietà8 – il cosiddetto razzismo scientifico, o «classico»: un insieme di teorie elaborate tra Sette e Ottocento (culminate nel Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane di Joseph Arthur de Gobi­neau, 1853-55), basate sull’idea che il patrimonio biologico delle popolazioni determini la loro psicologia, che esistano razze superiori perché «più pure» rispetto ad altre e che ciò autorizzi discriminazione, segregazione, perfino persecuzione. Esistono però altri «razzismi», che dall’idea di razza biologicamente data e dal razzismo «classico» hanno tratto linfa, ma si basano più in generale sulla paura o l’odio per il diverso (ovvero, sulla xenofobia)9, sulla supposta esistenza di un «noi» da contrapporre a un «loro» (come se fosse facile identificarci – e identificare gli altri – in gruppi omogenei e definiti una volta per tutte), sull’incrollabilità di certi pregiudizi, accompagnati da «processi di deculturazione», di disgregazione e perdita di saperi, culture, valori di riferimento10. Razzismi alimentati da forme di nevrosi individuali e collettive che ci portano a riversare sugli altri – spesso per compensare quella che il sociologo Marco Revelli ha definito «ansia da declassamento» – inquietudini, invidie, frustrazioni11. Esiste ad esempio – lo ha spiegato per primo ­10

Martin Barker in The New Racism: Conservatives and the Ideology of the Tribe (1981) – il razzismo che imputa ad alcuni gruppi umani caratteristiche culturali incompatibili con la cultura dominante, e da essi vede minacciata la propria integrità. Esiste il cosiddetto «neorazzismo» (o «razzismo differenzialista», «culturale», «senza razze»)12, che si presenta come un sistema di ideologie finalizzato a giustificare pratiche di esclusione ai danni di gruppi ritenuti indesiderabili perché estranei alla (e irrimediabilmente diversi dalla) cultura maggioritaria. Alla base di questa impermeabilità, di questa inconciliabilità, ci sarebbe l’idea dell’assenza di una unità morale tra i popoli (una sorta di anti-universalismo), l’idea che le culture siano immutabili e determinate naturalmente una volta per tutte (anche nel loro rapporto gerarchico, nelle loro relazioni di dominio): che siano destinate quindi a non mescolarsi, ad essere irrimediabilmente separate. Pur in mancanza di razze, insomma, i razzismi esistono, resistono e si diffondono: per mezzo di idee, discorsi, rappresentazioni e pratiche che tendono a dividere – e ordinare gerarchicamente – i gruppi umani secondo tratti essenziali, generalizzati, definitivi, catalogabili. Un sistema non di rado istituzionalizzato (e infatti si parla anche di «razzismo istituzionale», o «giuridico»13), sorretto da norme e procedure che rendono rou­11

tinaria la discriminazione e alimentano a loro volta – tramite i media, il discorso pubblico e politico14 – immagini ed exempla negativi dei gruppi sanzionati, giustificando di fatto l’intervento dell’istituzione, secondo un perfetto circolo vizioso. Ma si tratta anche di discriminazioni quotidiane, di atteggiamenti attivi (e quindi consapevoli) di intolleranza verso gruppi di persone identificabili per la loro religione, il loro aspetto esteriore, le loro caratteristiche culturali, la loro sessualità. È il razzismo diffuso: quello delle pratiche discorsive, degli assalti verbali («negro!», «zingaro di merda!»), dei simboli razzisti esibiti (svastiche, croci celtiche), degli atti linguistici che veicolano maleducazione (ad esempio, dare del «tu» a un immigrato pur non conoscendolo) o inveterati pregiudizi (chiedere a una persona come ha ottenuto un certo lavoro, o un certo oggetto, sottintendendo che potrebbe averlo ottenuto in modi non leciti). È il razzismo dei discorsi che negano o mortificano i pensieri, i sentimenti e le esperienze di un individuo (ad esempio, chiedere a un «nero» dove è nato, presupponendo che non possa essere cittadino italiano); ma è anche quello dei luoghi comuni e delle leggende metropolitane («i rom rubano i bambini»), quello – rozzamente dissimulato – del «non sono razzista, però...», ­12

quello delle generalizzazioni al fine di colpire e stigmatizzare non soltanto una persona, ma l’intero gruppo a cui appartiene. Per tenere entrambi – almeno psicologicamente – al loro posto: un posto minoritario, subordinato, da cui non possano dar troppo fastidio. È il «razzismo democratico», da cui ci mette in guardia ormai da anni un osservatore attento come Giuseppe Faso. Ha il suo lessico, i suoi stilemi stereotipati, le sue parole d’ordine: usi ormai talmente radicati da sembrare normali, condivisi, universalmente – e acriticamente – accettati15. È un razzismo a parole. Ma non per questo meno nocivo, meno condannabile, meno degradante.

Soltanto parole?

Las palabras son como las piedras, que no se pueden revocar. (proverbio popolare spagnolo)

«Io gli immigrati li schederei a uno a uno. Purtroppo la legge non lo consente. Errore: portano ogni tipo di malattia: tbc, aids, scabbia, epatite...» (Giancarlo Gentilini, Lega Nord, sindaco di Treviso, «Corriere della Sera», 12 febbraio 2001). «[gli immigrati] Sono una malattia non una risorsa [...] L’immigrazione è come il morbillo se non la si affronta seriamente peggiora e diventa pericolosissima» (Mario Borghezio, Lega Nord, europarlamentare, «La Stampa», 15 maggio 2002). «Finalmente l’Unione ha cessato di imbastardire il nostro sangue infettandolo con quello degli immigrati» (Mario Borghezio, Lega Nord, europarlamentare, www.senato.it – resoconto ­14

stenografico della seduta 242 del 25 settembre 2002). «Dare il voto agli extracomunitari? Un paese civile non può fare votare dei bingo-bongo che fino a qualche anno fa stavano ancora sugli alberi» (Roberto Calderoli, Lega Nord, ministro della Repubblica, 23 ottobre 2003, cit. in Peter Gomez e Marco Travaglio, Se li conosci li eviti, Milano, Chiarelettere, 2008). «L’immigrato non è mio fratello, ha un colore della pelle diverso. Peccato che il forno crematorio del cimitero di Santa Bona [a Treviso] per loro non sia ancora pronto» (Piergiorgio Stiffoni, Lega Nord, senatore della Repubblica, «Il Gazzettino», 22 novembre 2003). «I topi sono più facili da debellare degli zingari. Perché sono più piccoli...» (Matteo Salvini, Lega Nord, deputato della Repubblica, Radio Padania Libera, 9 aprile 2008). «Io voglio la rivoluzione contro gli extracomunitari clandestini! Voglio la pulizia dalle strade di tutte queste etnie che distruggono il nostro Paese! Voglio la rivoluzione nei confronti dei nomadi, dei [sic] zingari! Ho distrutto due campi di nomadi e di zingari a Treviso, non ci sono zingari! Voglio eliminare tutti i bambini dei [sic] zingari che vanno a rubare dagli anziani. Voglio tolleranza a doppio zero, Maroni dice ‘a zero’, ­15

io voglio ‘a doppio zero’». (Giancarlo Gentilini, Lega Nord, intervento alla «Festa dei Popoli», 14 settembre 2008, www.youtube.it). «Gli immigrati che annegano inquinano le acque di Lampedusa» (Mario Borghezio, Lega Nord, europarlamentare, intervento alla «Festa dei Popoli», 14 settembre 2008, www.youtube. it). «Posso fare un rilievo razzista, ma razzista fra virgolette? Ci sono etnie con una maggiore propensione al lavoro e altre che ne hanno meno. Ce ne sono che hanno una maggiore predisposizione a delinquere» (Roberto Calderoli, Lega Nord, ministro della Repubblica, 4 giugno 2008, www.quotidiano.net). «So che la Lega non è razzista» (Pierluigi Bersani, segretario del Partito Democratico, intervista a «La Padania», in «l’Unità», 14 febbraio 2011).

Dagli al negro!

How do you find a nigger at night? Tell the motherfucker to smile. (barzelletta razzista statunitense)

Genova Nervi, 18 agosto 2008. Venerdì notte. Assunçao Bonvindo Muteba sta camminando con un’amica sulla passeggiata Anita Garibaldi. Figlio di un alto funzionario del Ministero dell’Innovazione dell’Angola, vive da quattro anni in città, dove sta studiando Economia e Commercio. All’improvviso alcuni ragazzi, appena usciti da una discoteca, gli si avvicinano. «Stasera ho proprio voglia di picchiare qualcuno – dice uno. – Guarda: sta passando uno sporco negro... quasi quasi mi sfogo con lui. Puzzi, lo sai negro? Te ne devi tornare al tuo paese, in Africa. Ti ammazzo». Assunçao non reagisce, cerca solo di allontanarsi il più rapidamente possibile. Ma quelli non lo mollano. E ormai gli sono addosso. Lo chiudono in cerchio. È un attimo. Si avventano su di lui, e cominciano a picchiarlo: al volto, alle gambe, all’addome. E ­17

continuano a insultarlo. La ragazza che è con lui reagisce, grida. E riesce a richiamare l’attenzione dei buttafuori della discoteca, che intervenendo mettono in fuga gli aggressori. Il tutto dura un paio di minuti, ma – dirà più tardi Assunçao agli inquirenti – sembra un’eternità1. Parma, 29 settembre 2008. Sono circa le sei e un quarto. Il ventiduenne di origine ghanese Bonsu Emmanuel Foster aspetta l’inizio delle lezioni davanti all’ITIS serale di via Toscana quando, improvvisamente, viene aggredito da tre uomini. Impaurito, Emmanuel scappa, ma viene raggiunto, steso a terra, tenuto fermo con un piede sulla testa, pestato e manganellato, infine ammanettato. I tre – vigili urbani in borghese – lo caricano a forza su un’auto, continuano a picchiarlo, e lo portano in caserma: dove Emmanuel viene denudato, insultato, e umiliato da almeno sei persone. Lo interrogano brutalmente. «Confessa, scimmia», gli urlano. E lo obbligano a firmare un verbale – che lui non può leggere – «altrimenti non puoi tornartene a casa». Intorno alle 23 viene rilasciato, con una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale e un occhio pesto. I suoi effetti personali gli vengono riconsegnati in una busta, con l’intestazione ufficiale del Comune. E sulla busta due parole: «Emanuel [sic], negro»2. ­18

Roma, 14 aprile 2009. Stanza 80, terzo piano del Policlinico Tor Vergata. Samba Sow non sa ancora che non riacquisterà più la vista dall’occhio sinistro. È stata una bottiglia di vetro rotta a lacerarglielo: la sera prima, a Tor Bella Monaca, per mano del ventenne Mirko Blasi. È passata da poco mezzanotte. Samba esce per comprare una ricarica telefonica. Vuole telefonare a suo zio, che vive in Senegal: è un po’ che non lo sente. È in macchina, ma la batteria dell’auto è scarica: si ferma davanti a un bar. Fuori dal locale, alcuni ragazzi sono in piedi a fumare. Appena lo vedono cominciano a insultarlo: «Negro di merda, che schifo di auto che hai». A Samba viene da sorridere: pensa all’auto, che non è neppure sua. Ma loro continuano, rincarano la dose: «Anvedi sto negro di merda, ride pure, morto di fame». Samba allora si chiude in macchina: meglio evitarli quei tizi, pensa. Aspetta qualche minuto, poi scende di nuovo quando – sul marciapiede – scorge avvicinarsi un suo amico. Nel vederlo scendere, però, il gruppetto ricomincia. E improvvisamente uno di loro si avvicina, lo punta, lo spintona, lo insulta. In mano ha una bottiglia, che rompe sbattendola a terra. Senza motivo gli colpisce l’occhio, continuando a gridare «Sei un negro di merda, morto di fame». Samba – grazie all’amico – riesce in qualche modo a scappare. Il ragazzo che l’ha colpito, Mirko Blasi, precendenti per droga e reati contro la persona, dopo ­19

un po’ se ne torna a casa. E va a dormire, la maglietta ancora sporca di sangue, come se nulla fosse successo3. Tre episodi diversi. Diverse le persone coinvolte, diversi i luoghi, le circostanze. Non le dinamiche: piuttosto simili (e tutte accertate). Non il movente: chiaramente razzista (senza se e senza ma). Non le conseguenze: sempre dolorose (oltre che umilianti) per le vittime. E non quell’insulto: «negro». Negro, negro, negro... Provo a ripetermi la parola, a farmela rimbalzare nel cervello, cercando di immaginarmi i toni, i volumi delle voci, i gesti che possono averla accompagnata in quelle notti di Genova, Parma, Roma. Ma l’effetto psicologico, la violenza reale: questo no, non posso proprio immaginarlo. A me non è mai capitato, né capiterà mai, di sentirmi insultare così. Con «negro». O con «negro di merda» o con «sporco negro». Né mi è mai (ancora?) successo di sentirmi apostrofare con «bianco» (o «sporco bianco», «bianco di merda»)4. Quindi non so, né saprò forse mai, che effetto fa, che cosa si prova a essere aggrediti in questo modo: prendendo di mira il colore della mia pelle, un mio preciso tratto somatico. Certo, potrei sentirmi dire, chissà, «gambe corte», «erre moscia di merda», «sporco nasone» da qualcuno a cui non vado a genio, per qualche motivo. ­20

Ma sarebbe la stessa cosa? No, non lo sarebbe. Lo dicono gli studiosi di psicologia sociale che – in particolare negli Stati Uniti – hanno provato nell’ultimo decennio a verificare quanto possa essere dannoso per la persona che lo riceve un insulto razzista (rispetto ad altri insulti). E che hanno confermato che provoca effetti evidenti sul suo stato d’animo immediato, sulle sue reazioni emotive e fisiche, sulla sua perdita di autostima (come individuo e come parte di una minoranza bersaglio di insulti)5. Ma lo dice anche il buon senso. Perché negro, nell’italiano d’oggi, non denota (o descrive) soltanto una caratteristica fisica: semmai connota – una persona, un gruppo di persone – proprio in ragione di quella caratteristica fisica. Veicola un giudizio di inferiorità – non soltanto fisica, ma anche intellettuale, morale – nei confronti sia della persona a cui è rivolto sia del presunto gruppo («razza») di cui farebbe parte. E lo fa portandosi addosso una storia – anzi, migliaia di storie – di violenza, sopraffazione, razzismo. Negarlo, o minimizzarlo, sarebbe disconoscere la realtà. Con buona pace di chi sostiene che non si tratti affatto di un insulto (ma prova a dirlo ad Assunçao, Emmanuel, Samba...)6, che negro è soltanto la continuazione del latino niger, che è etimologicamente corretto, che serve soltanto a indicare «le persone appartenenti [...] alla razza negra» (così tale rob78, a commento ­21

della notizia di un’aggressione verbale ai danni di un’infermiera «negra», su www.quotidiano. net)7, che è sempre meglio delle sue alternative «buoniste» nero, o di colore, perché dice pane al pane e vino al vino. (A questo proposito, come non ricordare il titolo dell’editoriale di Vittorio Feltri nel «Giornale» all’indomani dei fatti tristemente noti di Rosarno, il 9 gennaio 2010: Stavolta hanno ragione i negri?8 O la vignetta di Forattini pubblicata il 6 novembre 2008 nella «Nazione», all’indomani dell’elezione di Obama alla presidenza degli Stati Uniti, in cui George Bush dice alla Statua della Libertà – che, in un letto di ospedale, tiene in braccio un neonato dalle sembianze del neo-presidente – «Sciagurata! M’hai tradito col maggiordomo negro»?9. ) Dipende dai contesti, sostengono in molti; da come lo si dice, in quale circostanza. Certo, dipende dai contesti. E dai toni, dagli sguardi, dai gesti che accompagnano la parola. La parola, in sé, non è colpevole dell’uso che ne facciamo. E la lingua, in sé, non è né buona né cattiva. Ma in quanti contesti negro suonerebbe davvero neutro, oggi? Quanti, oggi, userebbero il termine soltanto per denotare? E chi, usandola, non è consapevole del fatto che – in ragione dei suoi significati traslati (o connotazioni) – quella parola può offendere, ferire, far male? C’è poi quel ragionamento – a volerlo accet­22

tare – sul valore performativo di negro: ovvero, sul suo essere insieme verbo e azione. Sì, perché chi usa negro non soltanto dice, ma fa qualcosa. Non solo descrive, giudicandola, una caratteristica somatica; ma – nel nominare – crea, produce soggettività (individuale, sociale) intorno a quella caratteristica: tu sei ciò che io nomino – il «negro» (e quindi quella è la tua etichetta, il tuo stigma, il tuo posto nella storia e nella società) – e, a parte obiecti, io dovrei ammettere di essere ciò che tu hai nominato: ovvero, nient’altro che un «negro». Sul valore performativo degli insulti razziali – assumendo, appunto, che negro sia fra questi – e sulle conseguenze che l’azione del nominare produce, si è interrogata la filosofa statunitense Judith Butler in un lavoro di qualche anno fa, Excitable Speech. A Politics of the Performative (1997), recentemente tradotto in italiano con il titolo Parole che provocano10. Chi usa questi insulti non sarebbe solo «responsabile» del modo in cui vengono detti, ma anche – sostiene Judith Butler – del loro «rinvigorimento»: del fatto che grazie ad essi vengono rinforzati, riattualizzati, «contesti di odio e di ingiuria». E i discorsi razzisti funzionerebbero proprio «perché invocano una convenzione». Circolano, e sebbene richiedano un soggetto per essere detti, non cominciano né finiscono con chi dice né con chi riceve l’epiteto. L’insulto razziale ha una sua storicità, ­23

«che può essere intesa come la storia che è divenuta interna al nome stesso, che è arrivata a costituire il [suo] significato» attuale. È la sedimentazione dei suoi usi, divenuti parte del nome stesso: «una ripetizione che si coagula, che dà al nome la sua forza». A voler condividere questo punto di vista, ecco allora la vera differenza tra negro e «gambe corte», «erre moscia di merda», «sporco nasone». Ma anche, in Italia, «sporco bianco». Dicendo «negro» non solo insultiamo, ma è come se rievocassimo la storia (drammatica) del termine: è come se ripetessimo offese formulate e reiterate per secoli prima di noi. Ristabilendo più o meno consciamente gerarchie di dominio realmente esistite, di cui è intrisa la storia (anche la nostra: basti ricordare il razzismo fascista)11. Riaprendo, sul piano psicologico, ferite collettive, e personali, profonde. Si verrebbe a formare così una catena – di significato, di implicazioni – che non è facile da spezzare: perché non permetterebbe al soggetto di «tirarsi fuori» tanto facilmente, una volta compiuto l’atto verbale. Di dire, insomma: «ma è una parola come un’altra», «che c’entra la storia?», «mica è razzismo!». Né permetterebbe all’oggetto (l’aggredito) di farsi scivolare via quell’insulto come se nulla fosse: sono ancora gli psicologi a dircelo. Anche per questo in alcuni paesi (Stati Uniti ­24

e Inghilterra in primis) gli insulti razziali sono giuridicamente sanzionati: perché considerati alla stessa stregua degli atti di razzismo. Si può discutere, ovviamente, dell’efficacia di una sanzione che punisce il comportamento stigmatizzando la parola. Ed è la discussione che tenta di proporre Judith Butler nel suo libro. Il ragionamento di Butler traeva spunto – erano gli anni Novanta – sia da suoi precedenti lavori (in particolare Gender Trouble, del 1990), sia dall’analisi di alcuni casi giudiziari (su cui si è interrogato anche Randall Kennedy nel suo Nigger. The Strange Case of a Troublesome Word, 2001). Casi in cui – dato un episodio di «razzismo verbale» – si poneva il dilemma, per il tribunale, se condannare l’uso di certe parole come atti espliciti di discriminazione. O se proteggere – siamo negli Stati Uniti – l’inviolabilità del Primo Emendamento, che garantisce la libertà di opinione, separando la parola dal suo valore performativo. Secondo l’assunto che è casomai il gesto – se c’è – che va condannato, non l’opinione che l’ha anticipato, che l’ha enunciato: a meno che non si traduca in atto. Ma è proprio questo il punto. Qual è il discrimine che separa l’ingiuria dall’atto razzista? Se partiamo dal presupposto che dire a qualcuno «sporco negro» significa attualizzare categorie razziste basate sull’inferiorità dei «negri», come si può negare che quelle parole non si traducano ­25

immediatamente nella messa in atto della subordinazione stessa? E quindi che l’insulto non debba essere condannato come atto razzista? Dal punto di vista linguistico, tutto sta nel capire se – e come – negro sia o no performativo. Se lo è, andrebbe condannato alla stessa stregua di un’azione. Se non lo è, è indubbio che la giurisprudenza – e la morale – possano ammettere un certo grado di interpretazione. E il dibattito, infatti, è aperto. Tuttavia, fa specie leggere – e torniamo in Italia – sentenze come quella espressa dalla Quinta Sezione della Corte di Cassazione nel dicembre 2005 (la 44295), che annullava una sentenza di primo e secondo grado ai danni di Davide Paoletich, già condannato a quindici giorni di carcere per rissa e lesioni con l’aggravante dei motivi di odio razziale. Secondo la ricostruzione della magistratura inquirente, Paoletich aveva aggredito, con un gruppo di amici, alcune ragazze colombiane al grido di «sporche negre». Chiamati ad interrogarsi sull’interpretazione di «sporche negre», i giudici della Cassazione giunsero alla conclusione che quell’insulto non implicava, di per sé, un intento discriminatorio e razzista da parte di chi lo aveva pronunciato, ma piuttosto una manifestazione di «generica antipatia, insofferenza o rifiuto» per chi appartiene «a una razza diversa». Richiamandosi alla convenzione di New York ­26

del 1966 i giudici spiegarono infatti che, per esserci discriminazione, occorreva che ci fosse «restrizione o preferenza basata sulla razza», con lo scopo di «distruggere o compromettere il godimento di condizioni di parità dei diritti e delle libertà fondamentali». Non ritennero dunque opportuno qualificare come odio «qualsiasi sentimento o manifestazione di generica antipatia, insofferenza o rifiuto solo perché riconducibile a motivazioni [...] attinenti alla razza, all’etnia, o alla religione». Sostenendo così che la condanna per ingiuria aggravata scattava solo se si era «in presenza di vero odio». Ma che cosa separa l’antipatia, l’insofferenza, il rifiuto dal vero odio? È possibile stabilirlo giuridicamente? E non è una «libertà fondamentale» poter passeggiare per una città italiana – in quel caso Treviso – senza essere ingiuriati e assaliti verbalmente e fisicamente? In base, per l’appunto, a una preferenza «basata sulla razza»? Eppure la legge 205/93 su Discriminazione, odio e violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (detta «legge Mancino») aveva stabilito chiaramente che era passibile di reclusione fino a tre anni chi diffondesse in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico (ovvero «incitasse a commettere, o commettesse, atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi»), ­27

e da sei mesi a quattro anni chi «in qualsiasi modo, incitasse a commettere o commettesse violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Ma allora assalire delle persone solo perché «negre di merda» che cos’è, se non un atto di violenza per motivi razziali ed etnici? E infatti, pochi mesi dopo, arriva la smentita della stessa Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, che con la sentenza 9381/2006 ristabilisce il nesso tra l’insulto e l’odio razziale. Che cosa era successo? Tale S.G., di 54 anni, aveva insultato una bambina «di colore» in un luogo pubblico, dicendole «Vai via di qua, sporca negra». Per questa frase, l’uomo era stato condannato dalla Corte d’Appello di Trieste (il 15 marzo 2005) per ingiuria aggravata. Memori della sentenza Paoletich – che, come abbiamo visto, si era dimostrata tollerante nei confronti dell’espressione incriminata e del suo latore – gli avvocati di S.G. si erano rivolti alla Cassazione escludendo che l’espressione utilizzata fosse finalizzata alla discriminazione o all’odio etnico o razziale. Stavolta, però, la Cassazione si sofferma sull’«apprezzamento semantico della combinazione degli elementi del linguaggio». E giunge alla conclusione che «la sintesi espressiva» (ovvero «sporca» + «negra») offre un significato diverso «da quello apparentemente reso dalla mera con­28

secuzione delle parole». Cioè, in altri termini, «la connessione tra l’attributo ed il sostantivo» non è affatto occasionale, neutrale. E – recita ancora la sentenza – «la parola negro, traslato di nero, non definisce semplicemente il colore della persona, a differenza di moro; difatti è stata assunta nella recente epoca coloniale, nelle lingue neolatine ed anglosassoni, per la designazione antonomastica dell’indigeno africano, quale appartenente ad una razza inferiore, quando non destinato [...] alla schiavitù». La Cassazione giunge così alla conclusione «che l’espressione sporco negro, che combina la qualità negativa al dato razziale, è frequente ed inequivoca nel particolare significato assunto dall’insieme», e dunque «lo spregio» dell’attributo non ha nulla di occasionale, ma si rapporta «nell’accezione corrente ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza, che inquina il costume sino al punto da radicare manifestazioni di gruppo» (di qui la previsione dell’aggravante). Giustizia è fatta? Parrebbe. Ma c’è un ma. Perché a scorrere la sentenza si scopre che per condannare un insulto razziale, la commissione deve stabilire che si sia in presenza di una «minoranza razziale», verso la quale sono stati manifestati atteggiamenti di odio e discriminazione, intrinseci nell’espressione denigratoria. E siamo al paradosso. Perché l’istituzione, per ­29

perseguire un atto di razzismo, è costretta ad ammettere che le razze esistono, a reiterare – suo malgrado – un discorso razzista. Il classico cane che si morde la coda.

C’era due volte il «vu’ cumprà»...

Il sindaco [...] definì con il termine «vu cumprà» i venditori ambulanti senegalesi. Qualcuno obbiettò che la parola era offensiva [...] Il primo cittadino ribatté che si trattava di una polemica pretestuosa in quanto ormai «vu cumprà» era una parola d’uso comune. Quando chiesero ad un mio amico giornalista senegalese cosa ne pensava, egli rispose: «Dite a quel sindaco che è un cretino! Tanto, ‘cretino’ è ormai una parola d’uso comune». (Kossi Komla-Ebri, Imbarazzismi, Milano, Edizioni dell’Arco, 2002, p. 51)

A proposito di code, rimandi, circoli viziosi... A volte ritornano. E non si tratta di presenze inquietanti nate dalla penna di Stephen King, ma di usi (anzi, abusi) linguistici di cui pensavamo di esserci liberati. Uno su tutti: vu’ cumprà. Un neologismo che ha imperversato sui giornali – e da lì nel linguaggio comune – a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta fino all’inizio degli anni Novanta. Difficile non ricordarsene, per chi c’era. Ci accorgemmo proprio in quegli anni, quasi improvvisamente, che l’Italia era diventata un pae­se di ­31

immigrazione: che tante persone stavano raggiungendo la Penisola per scappare da guerre, persecuzioni, stenti. Per cercarsi un futuro (un po’) migliore. Ce ne accorgemmo – e per molti fu un trauma – a causa dell’omicidio di Jerry Essan Masslo a Villa Literno, la notte tra il 24 e il 25 agosto del 1989. Val la pena di ricordarla, la storia di Jerry Essan Masslo. Fuggito nel 1987 dal Sudafrica razzista – dove rischiava il carcere per la sua attività anti-apartheid – Masslo giunse in Nigeria, e da lì proseguì per Roma, dove atterrò il 21 marzo del 1988. A Fiumicino fece immediatamente richiesta d’asilo politico, ma si sentì rispondere che in Italia l’asilo politico veniva concesso soltanto (per evidenti ragioni ideologiche) a persone provenienti dai paesi del blocco sovietico. Trattenuto in aeroporto dalla polizia di frontiera, venne rilasciato soltanto due settimane più tardi grazie all’intervento di Amnesty International e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). Privo di uno status giuridico definito, trovò accoglienza in una struttura della Comunità di Sant’Egidio, dove lo aiutarono a fare domanda di espatrio per il Canada, e dove cominciò a imparare l’italiano. In attesa di avere una risposta dal governo canadese, decise di spostarsi per l’estate a Villa Literno, nel casertano, dove avrebbe lavorato – in nero, ovviamente – alla raccolta dei pomo­32

dori. Al termine dell’estate rientrò a Roma, ma l’anno successivo – non avendo nel frattempo ricevuto nessuna comunicazione dal governo di Ottawa – tornò a Villa Literno. Fu lì che, nella notte tra il 24 e il 25 agosto, fu ucciso – tra i ruderi del casolare dove viveva con i suoi compagni di lavoro – da una banda di balordi che volevano derubarli. La sua morte fece scalpore, commosse perfino l’establishment politico, che – dopo averlo ignorato da vivo – gli concesse da morto i funerali di Stato, trasmessi in diretta dalla Rai il 28 agosto. E divenne uno spartiacque nella nostra percezione delle condizioni degli immigrati in Italia, e dell’insorgenza di episodi di sfruttamento e di razzismo nei loro confronti. Della possibilità di scoprirci razzisti, insomma (da cui il titolo di un celebre saggio di Luigi Manconi e Laura Balbo, I razzismi possibili, 1990). Tanto da farci mettere in discussione (e forse era la prima volta) quell’«italiani brava gente» a cui una lettura indulgente – e falsa – del nostro passato coloniale ci aveva da tempo abituati1. Ma che l’Italia fosse diventato un paese di immigrazione ce n’eravamo già accorti per la comparsa di tanti venditori ambulanti sulle nostre spiagge, nelle nostre piazze, sui nostri marciapiedi (di lì a poco, sarebbe stato uno di loro, Pap Khouma, con il suo libro Io, venditore di elefanti, 1990, a raccontarci un frammento della ­33

loro condizione: stava nascendo anche da noi la cosiddetta «letteratura dell’emigrazione»)2. Persone che, cariche di merci – collanine, occhiali, accendini, piccoli oggetti di artigianato –, chiedevano ai passanti di acquistare qualcosa. E glielo chiedevano in quel modo, con quell’espressione: «vu’ cumprà?». O forse no. Forse non glielo chiedevano così. Non ce lo chiedevano così. Ma fu con quella storpiatura a loro attribuita (da «vuoi comprare?», e pare che l’origine sia napoletana) che li chiamavamo, che li avremmo chiamati. Erano prevalentemente africani, soprattutto «neri» (o «di colore», come usava allora). O almeno così si fissavano nello stereotipo: stereotipo tanto verbale quanto visivo, come hanno ben dimostrato Luigi Gariglio, Andrea Pogliano e Riccardo Zanini nel volume Facce da straniero. 30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia (2010). Non che i vu’ cumprà fossero davvero una novità. Egiziani, marocchini, iraniani giravano in lungo e in largo per le nostre province almeno dalla fine degli anni Settanta, vendendo tappeti che trasportavano – questa è l’immagine, anch’essa stereotipata – su vecchi modelli di Peugeot familiari. Ma quelli erano pochi, si vedevano poco. Al contrario degli ambulanti che invece si incontravano in spiaggia, per le strade: i vu’ cumprà, appunto. Che dalla se­34

conda metà degli anni Ottanta, da settimanali quali «L’Europeo», «l’Espresso», «Panorama» (sono ancora Pogliano e Zanini a ricordarcelo), venivano presentati come icone dell’immigrazione straniera tout court: quasi sempre «neri» appunto, spesso «clandestini», di solito marginali (secondo una «fotogenia della miseria» che si dimostrava particolarmente funzionale al racconto). E che – a leggere i quotidiani – avevano invaso, o stavano per invadere, l’intera penisola. A cominciare dalle coste romagnole, toscane, laziali, liguri. E infatti, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, l’invasione ci fu: ma soprattutto del termine vu’ cumprà. A spulciare l’archivio online della «Stampa», nessuno lo usa prima dell’estate 1986 (questo è d’altronde il terminus a quo proposto dal Grande Dizionario della Lingua italiana diretto da Tullio De Mauro). Ma da lì in poi è una vera esplosione: caotica, rumorosa, fastidiosa. In un articolo del 15 agosto di quell’anno – ad esempio – l’espressione (al singolare e al plurale) viene considerata, senza andare troppo per il sottile, un sinonimo di «[venditori] abusivi», «abusivi senza arte né parte», «venditore sulle spiagge», «clandestino», «popolo di pataccari», «marocchini che riempiono le spiagge e le strade della Riviera», «disperati delle spiagge», «fratellastri abusivi» [degli «ambulanti Doc»], ecc. E vie­35

ne associata – già chiaramente – alla metafora dell’invasione: che le truppe dei vu cumprà rappresentino un vero e proprio esercito illegale di emarginazione varia è un dato di fatto inconfutabile. Dagli scugnizzi con la cesta del cocco bello, al popolo di africani bardati come in inverno e con i tappeti sulle spalle, dai pataccari ai piccoli truffatori: quanti sono nessuno lo sa, ma i mille miliardi che riescono a tirare su nella stagione equivalgono al 30 per cento del cosiddetto commercio regolare. Una bella fetta, che finisce soltanto in minima parte nelle tasche di questi disperati delle spiagge. [...] Tanti abusivi senza arte né parte, senza soldi e senza futuro. E pochi padroni: nascosti e sconosciuti. In ogni caso i santuari del mercato nero sono ancora lontani, imprendibili. Non resta che prendersela allora con l’esercito dei pataccari e dei vu cumprà. Una crociata compatta, cominciata alcune settimane fa: ordinanze dei sindaci hanno vietato mercanteggiamenti di sorta sulle spiagge e gli altoparlanti dei bagni hanno martellato i turisti invitandoli a evitare «accuratamente» i marocchini («La Stampa», 15 agosto 1986).

Certo, questa rappresentazione risulta particolarmente (e disinvoltamente) approssimativa. Ma vu’ cumprà si diffonde rapidamente, diventando l’appellativo per antonomasia degli immigrati «extracomunitari» nel nostro paese, e sostituendo progressivamente il già connotato marocchino, in voga ormai da qualche anno ­36

(non solo in riferimento a chi proveniva dal Marocco). Tra l’estate del 1987 e la primavera del 1988 vu’ cumprà si afferma definitivamente, diventa di uso comune. Tanto che Michele Serra, in un suo elzeviro satirico dall’inequivoco titolo Le collanine di «Vu’ cumprà», sente la necessità di metterlo alla berlina, denunciandone l’uso ormai stereotipato, semanticamente generico: Cara mamma, se solo sapessi scrivere ti scriverei questa lettera. Come vanno le cose nel Senegal? Qui vanno così così. Il viaggio, nascosto in un container insieme ad altri trenta fratelli neri, è stato un po’ faticoso e mi ha confermato il sospetto che per noi del Terzo Mondo l’unico modo di fare una crociera decente sia quello di dirottare l’Achille Lauro. Comunque, quando ho visto la spiaggia di Rimini, dove vado ogni giorno a vendere collanine e magliette, ho rimpianto il mio container: si stava molto più larghi. Gli italiani sono abbastanza gentili. A meno che uno non sia proprio negro, qui non esiste razzismo. Ci hanno trovato anche un soprannome, «Vu cumprà», uguale per tutti, dimostrando che non intendono fare discriminazioni [...] («Epoca», 13 agosto 1987).

Ed è ancora la satira ad attestare l’avvenuto sdoganamento del termine nel linguaggio televisivo: nel programma del 1988 «L’Araba Fenice» – parente del più celebre «Drive in» – un presentatore (pseudo)marocchino, per annunciare la pubblicità, si rivolgeva ai telespettatori chiedendo, appunto, «vu’ cumprà?». ­37

Ma la satira era solo un riflesso, ovviamente. Nell’immaginario (del) pubblico era stata la cronaca con i suoi toni allarmistici, le sue metafore belliche, le sue «cacce» e «guerre» (Guerra ai «vu’ cumprà». Due petizioni per scacciarli dal centro, «La Stampa», 7 settembre 1989) a fissarne le connotazioni. Che già nel 1988 vengono avvertite come negative, quando non spregiative («Vu’ cumprà», un luogo comune che sa già di razzismo, «La Stampa» 27 dicembre 1988), al punto che un lettore della «Stampa» si sente in obbligo – inviando una lettera alla rubrica «Specchio dei tempi» – di difendere d’ufficio e con tono assolutorio l’espressione e, di conseguenza, chi ne fa uso: Un lettore ci scrive da Cesana: Sullo «Specchio» di domenica 7 agosto un gruppo di lettori protestava per l’uso del «Vu cumprà», che ha sostituito il vecchio e altrettanto deprecato «marocchini» per indicare i nordafricani, che vendono chincaglierie. Tutto ciò mi sembra francamente eccessivo. «Marocchini» indicava semplicemente la nazionalità della maggioranza di questi immigrati, almeno nei primi tempi. «Vu cumprà» non ha nulla di spregiativo, indica solo la loro attività e la scarsa, peraltro giustificabilissima, conoscenza dell’italiano. Gli italiani hanno i loro difetti (chi non ne ha?), che riconoscono sempre, anche con durezza. Potranno avere un po’ di razzismo interno [...], però nessuno come loro accoglie, ama, ammira, protegge lo straniero; e nessun altro popo-

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lo accetta con tanta disponibilità le critiche, talora ingiuste, interessate, «razziste», che gli stranieri talvolta ci muovono («La Stampa», 19 agosto 1988).

Cristallizzando l’immagine – se non negativa, di certo stereotipata – degli «immigrati» africani, vu’ cumprà diventa semanticamente prototipico (ovvero la parola viene sempre associata, dai parlanti, al suo significato più tipico, composto dai tratti «africano», «nero», «povero», «venditore ambulante irregolare») e morfologicamente produttivo. Non solo infatti comincia ad essere usato – tramite analogia – in contesti lontani dall’immigrazione (Vu’ cumprà l’Europa? I rischi di una Cee troppo aperta e generosa, «La Stampa», 18 dicembre 1988). Ma diventa anche la base per altri neologismi: dal Vu’ emigrà, titolo di un’inchiesta sugli «immigrati clandestini» pubblicata da «Panorama» il 29 maggio 1988, al Vu’ campà, servizio che «Epoca» dedica al razzismo il 2 luglio 1989; dal «vu’ drugà» («nelle pagine di cronaca di Milano del Corriere di oggi campeggia un titolo a sei colonne in cui i vu’ cumprà diventano vu’ drugà», «La Stampa», 27 febbraio 1989) al «vu’ studià» (questo il titolo di un servizio che «L’Europeo» pubblica il 14 dicembre 1990 sulla presenza degli stranieri nelle università italiane: La carica dei vu’ studià). Fino ai «vu’ ciulà?», «vu’ sballà», «vu’ lavà» e «vu’ stuprà», perle neo-linguistiche che fan­39

no bella mostra di sé in un volantino distribuito a Cinisello Balsamo dalla Lega Nord nel 1998 (con gli inequivocabili slogan «Stop» e «Fuori dalle palle»). A ogni «vu’...» venivano associate caricature, rispettivamente, di una donna africana (stereotipo della prostituta «extracomunitaria»), di un giovane grunge (stereotipo dello spacciatore di droga), di un arabo-palestinese (stereotipo del lavatore di vetri ai semafori) e – dulcis in fundo – di uno scimmionesco africano (stereotipo dello stupratore). Era il lontano 1998, si dirà. La Lega – all’opposizione – offriva messaggi come questo per stuzzicare gli appetiti belluini dei suoi elettori, pescando dallo stupidario lessicale e iconografico prodotto da oltre dieci anni di (mala)informazione. Peccato che un volantino simile sia stato riproposto nel 2010 a Genova da Fersido Celsi, candidato al Consiglio regionale della Liguria sempre per il partito del Carroccio. Sei vignette a descrivere l’umanità «allevata» dalle «sinistre», sostenute «da interferenze cattoliche»: quattro «extracomunitari», un tossicodipendente e un mafioso col sigaro in bocca, ognuna col suo bello slogan: «Vu’ cumprà?», «Vu’ stuprà?», «Vu’ lavà?», «Vu’ ciulà?», «Vu’ sballà?», «Vu’ pagà lu pizzu?». Non risulta che Celsi ce l’abbia fatta a essere eletto, malgrado l’ottundente campagna elettorale. Però viene da chiedersi se l’uso di certe pa­40

role sia soltanto pigra imitazione di una comunicazione leghista d’antan, o se invece non sia la presa d’atto che vu’ cumprà è ancora ben radicato nel lessico (e nell’immaginario) collettivo. D’altronde, la circolazione dell’epiteto sembra garantita non soltanto dalla rozzezza di certo verbo leghista, ma anche (ancora!) dai mezzi di comunicazione di massa. Che non di rado propongono titoli come A Venezia caccia ai vu’ cumprà: la Provincia schiera i militari (e all’interno dell’articolo, tanto per ossigenare un po’ la metafora guerresca: «scende in campo una task force di 138 uomini contro i 400 ambulanti del centro storico», www.repubblica.it, 3 agosto 2009); Vu’ cumprà preso a calci da un gruppo di ragazzini, nessuno interviene (www. quotidiano.net, 26 agosto 2010); Chiedevano il pizzo ai ‘vu cumprà’. Arrestati 4 bengalesi («La Nazione», cronaca di Pisa, 23 febbraio 2011) o anche Anziano spara a ‘vu cumprà’: Il pensionato [...] sarebbe stato infastidito da un nigeriano di trent’anni, regolare in Italia, che aveva citofonato due volte per vendergli la sua merce. L’uomo non ci ha pensato due volte e, invece di allontanarlo a parole, ha imbracciato la sua doppietta sparando due colpi a pallettoni. «Mi stavano esasperando – ha raccontato ai carabinieri che si sono presentati per arrestarlo –, così l’ho messo in fuga con il fucile. Ma che cos’ho fatto di male?»3.

Immigrato a chi?

Io sono nata in Italia... però mia mamma e mio papà sono albanesi e anche io allora sono albanese. Io ho fatto l’asilo qui, la scuola qui. Io vorrei chiedere al maestro due cose... sono italiana o albanese o tutti e due? [...] ma io sono immigrata o no? (Vera, 11 anni, Albania1)

Restiamo alle etichette. E al loro uso. Se non esplicitamente razzista, almeno pigro, omologato, e paternalista. Ne hanno parlato molti giornali, del boom dei bambini (o alunni) immigrati che si sono iscritti nel 2010 alle scuole italiane. E presumibilmente, in numero maggiore (a dar credito all’indagine della Commissione Cultura della Camera sull’«accoglienza degli studenti stranieri nelle scuole italiane») si iscriveranno nel 2011, e negli anni successivi. A partire dalle scuole elementari. Come l’ormai celebre Carlo Pisacane di Torpignattara, a Roma. Dove l’italiano è lingua madre minoritaria. E dove l’educazione multiculturale (espressione un po’ generica ma pur sempre preferibile a integrazio­42

ne) non sarà una passeggiata, ma neppure è vista come un insormontabile problema: semmai come una sfida pedagogica, ancor prima che sociale. Ma anche dove – nel settembre del 2010, all’inizio dell’anno scolastico – l’assessore per le Politiche educative scolastiche del Comune di Roma, Laura Marsilio, ha affermato che i «bambini figli di immigrati, anche se nati in Italia» debbono essere considerati «stranieri», perché straniere sono le culture di cui sarebbero portatori. Sono stati sempre i giornali a raccontarcelo. Provocando la nostra reazione. Basta leggere i commenti agli articoli che riportavano la notizia nelle edizioni web dei quotidiani: nel sito del «Corriere della Sera» decine di lettori esprimevano incredulità, indignazione, ma soprattutto paure: paura di diventare «stranieri in patria», «ospiti in casa nostra» a causa di «un’immigrazione selvaggia»; paura di dover ospitare «tutte le donne incinte del terzo mondo a figliare a spese della Comunità»; paura di veder sparire la «nostra cultura» a causa dell’arrivo di un numero imprecisato di «musulmani» (che potrebbero fare «milioni di figli e imporci la sharia» decretando nientemeno che «la fine della civiltà occidentale»); paura di dover subire la «follia suicida di un Popolo, una Cultura, una Storia» per la presenza, nella scuola, di così tanti «stranieri». ­43

Ci siamo messi a discutere: chi prendendo le parti dell’assessore – finalmente una che dice le cose come stanno! – chi accusandola di miopia, di ignoranza, e anche di razzismo. Eppure, a ben guardare, avremmo dovuto discutere a prescindere dalle affermazioni di Marsilio (le cui dichiarazioni erano – ad onor del vero – un po’ più più articolate di quanto riferito dai giornalisti). Perché ci saremmo dovuti interrogare intorno a un’altra questione. Che sembra marginale, formale: ma è invece di sostanza. Ovvero la presenza – in quelle cronache, in quegli articoli – di espressioni come «bambini immigrati», «alunni immigrati», «baby immigrati». Basti citare un articolo pubblicato su «la Repubblica» il 14 settembre 2010, dall’inequivocabile titolo Un esercito di baby immigrati bussa alle porte delle elementari: Nell’anno scolastico che sta per cominciare saranno circa l’11% di tutti gli iscritti alla prima elementare. Ma già nel 2015, secondo una stima della Fondazione Giovanni Agnelli, il loro numero salirà al 17%. Ossia centomila bambini, immigrati di seconda generazione, che approderanno tutti insieme sui banchi della scuola primaria. Romeni, albanesi, cinesi, maghrebini, filippini, indiani, nati qui, nel nostro paese, nuovi italiani tra gli italiani, spesso ben integrati e bilingui, eppure ancora stranieri, perché senza cittadinanza e dunque con i diritti a metà. Bimbi e ragazzi made in Italy, con la pelle nera, gli

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occhi a mandorla, europei, asiatici, africani, simili e diversi insieme, figli di quel mini baby-boom dovuto all’immigrazione «residente» che negli ultimi anni ha fatto risalire il nostro avaro tasso demografico. C’è un nuovo mondo che bussa alle porte della scuola italiana, la fotografia del Paese che verrà, multi­ etnico sì ma non ancora multiculturale, come sottolineano da tempo storici, demografi, insegnanti. Per i bambini immigrati infatti il percorso di studi sembra già «segnato» e accidentato sul nascere.

È la fotografia di un cambiamento in atto. La «fotografia di un Paese che verrà». Ma c’è qualcosa che stride. Qualcosa che è legato al passato: a rappresentazioni che sembrano non mutare mai. Perché «baby immigrati» (accompagnato dalla consueta metafora bellica, qui veicolata da «esercito»), «immigrati di seconda generazione», «bambini immigrati» saranno anche espressioni utili ad attirare la nostra attenzione. Ma suonano scorrette: e quindi foriere di scorretta informazione. Perché il 75% di quei bambini, a leggere le statistiche (ad esempio, quelle fornite dalla stessa Fondazione Agnelli di Torino nella ricerca I figli dell’emigrazione nella scuola italiana, i cui risultati sono stati diffusi nel settembre 2010 dalla documentata indagine di Gianpiero Dalla Zuanna, Patrizia Farina e Salvatore Strozza Nuovi italiani), è nato in Italia. Non sono immigrati e non lo sono mai stati: se si considera l’immigrazione come un processo, ­45

una fase, un’esperienza transitoria, loro – direttamente – non l’hanno mai conosciuta2. Certo, alcuni giornalisti hanno scritto o parlato anche di «bambini figli di immigrati»: il che è senz’altro più veritiero. Ma non risolve la questione, e non solo da un punto di vista nominale. Perché definisce quei bambini in base alla provenienza dei loro genitori (uno status che resta appiccicato loro addosso per tutta la vita, anche se l’immigrazione non è una condizione permanente). Come se dicessimo: in quella scuola ci sono 7 figli di avvocati, 3 di medici, 4 di artigiani. E pretendessimo che questo ci dicesse qualcosa di categorico, di definitivo su quegli alunni. Che fare, allora? Quali espressioni usare? Sarebbe meglio dire, che so, «bambini di origine marocchina»? (ma origine di che tipo? culturale, nazionale, o – ancor più discutibilmente – etnica?) O «figli di genitori romeni»? (e se si trattasse di «coppie miste»? di coppie formate da genitori provenienti da paesi diversi?), o di «nazionalità ucraina»? Oppure «immigrati di seconda generazione»? O, per guardare al presente e al futuro (e sempre al passato delle loro famiglie), «italiani di seconda generazione»? O invece «seconda generazione» e basta? Magari al plurale, «seconde generazioni», come quelle che costituiscono la Rete G2, «l’organizzazione nazionale [...] fondata da figli di immigrati e rifugiati nati e/o cresciuti in Italia», dove «G2» non sta per ­46

«seconde generazioni di immigrati», ma per «seconde generazioni dell’immigrazione»? Ma poi che cosa sono queste seconde generazioni (tra l’altro, ci avvertono i sociologi, occorrerebbe distinguere tra G2, ovvero i «nati in Italia» e G1.75, ovvero quelli «arrivati in Italia in età inferiore a 6 anni», e ancora tra G1.5, cioè le persone giunte in Italia «in età tra i 6-12 anni», e G1.25, cioè i «minori arrivati in Italia dopo i 13 anni»3)? Chi appartiene a queste seconde generazioni? Chi ha oggi 8 anni? 15? 25? O i ragazzi e le ragazze comprese tra i 18 e i 35 anni (come quelli della Rete G2)? Alcuni suggeriscono di usare «nuovi italiani». Ma anche qui la soluzione non sembra accontentare nessuno. A parte il fatto che occorrerebbe capire dagli italiani che cosa significa essere italiani, non è detto che i cosiddetti «nuovi italiani» si sentano davvero italiani – o soltanto italiani – anche se nati in Italia4. Spesso, anzi, si trovano a vivere tra due (o più) lingue, tra due (o più) culture: cercando – a voler vedere il bicchiere mezzo pieno – di prendere il meglio da entrambe. O sentendole – a voler vedere il bicchiere mezzo vuoto – confliggere, anche drammaticamente5. E allora, che fare? La questione è aperta. Anche perché non si tratta di un cavillo lessicografico. Interrogarsi sulla denominazione significa, in questo caso, interrogarsi su errori già ­47

commessi in passato nei confronti della «prima generazione». Rappresentata in modo troppo spesso omogeneo, monolitico, approssimativo; etichettata, stigmatizzata prima ancora di essere conosciuta. E significa soprattutto interrogarsi sul concetto stesso di cittadinanza: da concedere solo secondo lo ius sanguinis, come è oggi per legge? O secondo lo ius soli, come sarebbe più lecito trattandosi di persone che sono nate in Italia o vi hanno trascorso gran parte della loro vita? Vero è che al compimento del diciottesimo anno, il ragazzo o la ragazza «G2» può richiedere (secondo la legge 91/1992) la cittadinanza italiana. Ma lo può fare se – e soltanto se – può dimostrare il possesso continuativo sia del permesso di soggiorno sia della residenza anagrafica fin dalla nascita. Cosa non scontata, quando si hanno pezzi di famiglia sparsi per il mondo, presso cui può capitare di trascorrere lunghi soggiorni. E comunque: che ne è di quelli che non sono nati in Italia, ma hanno vissuto la maggior parte della loro esistenza qui, e sono quindi «italiani» e «italiane» di fatto: spesso molto più «italiani» di molti italiani residenti all’estero, che godono della cittadinanza senza magari aver mai vissuto veramente in Italia? La discussione – appunto – è aperta. Ma, in attesa di soluzioni condivise, proviamo almeno a farci qualche domanda. A chiederci se dav­48

vero abbiamo bisogno di semplificare sempre tutto: di ridurre tutto a un problema di mancata o riuscita «integrazione»6. Proviamo a capire chi sono, che cosa fanno, che cosa vogliono questi ragazzi e queste ragazze. Che tante cose saranno: ma non di certo, soltanto, dei «piccoli immigrati».

«Discriminazione transitoria positiva»

– Puramente didattica la finalità delle classi separate. – Le leggi razziali spiegate ai bambini. (Ellekappa, «la Repubblica», 16 ottobre 2008)

Rimanendo in tema di «seconde generazioni», ve la ricordate la mozione Cota? Quella proposta dall’attuale governatore del Piemonte Roberto Cota e da altri ventisei parlamentari del Pdl sulle «classi differenziali» (poi diventate, per una ipocrita pruderie, «classi di inserimento»)? Quella che proponeva di creare nelle scuole italiane classi ad hoc di lingua e cultura, rivolte esclusivamente agli alunni «stranieri» che non padroneggiassero la lingua italiana? Risale a tre anni fa, ormai. E, benché votata e approvata dalla maggioranza parlamentare di destra il 14 ottobre 2008, non si è ancora tradotta – per fortuna – in provvedimenti concreti. Non ancora. Basta leggere i passi più rilevanti della mozione per porsi qualche legittima domanda. Potrebbe sembrare un esercizio pedante, ma invece è utile: anche solo per capire la complessità dell’ar-

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gomento (peraltro suggerita a suo tempo dalla Società di linguistica italiana, dall’Associazione italiana di linguistica applicata e dal Gruppo di intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica, il Giscel). E per denunciare un altro aspetto del legame tra linguaggio, pratiche discorsive, e razzismo. Perché, a ben vedere, di questo si tratta: di separare gli studenti su basi «etniche» (ovvero, «razziali») e non in base a motivazioni strettamente pedagogiche. Ma scorriamolo, il testo di quel documento. E proviamo a interrogarci sul suo contenuto. Punto per punto (o quasi). Cominciamo dalle premesse. La Camera, premesso che: il crescente fenomeno dell’immigrazione ha modificato sensibilmente il modello organizzativo del sistema scolastico italiano. L’elevata presenza di alunni stranieri nelle singole classi scolastiche della scuola dell’obbligo determina difficoltà oggettive d’insegnamento per i docenti e di apprendimento per gli studenti. Prima perplessità. Si parla di «difficoltà oggettive». Non si vuole negare che ci siano, ma quali sono? E dove sono i dati che le renderebbero così oggettive? Basta dichiararle «oggettive» per renderle tali? ­51

Il diverso grado di alfabetizzazione linguistica si rivela, quindi, un ostacolo per gli studenti stranieri che devono affrontare lo studio e gli insegnamenti previsti nei programmi scolastici, e per gli alunni italiani che assistono a una «penalizzante riduzione dell’offerta didattica» a causa dei rallentamenti degli insegnamenti dovuti alle specifiche esigenze di apprendimento degli studenti stranieri. Che cosa significa «diverso grado di alfabetizzazione linguistica»? Forse si intende «diverso grado di conoscenza della lingua italiana» (le due espressioni non sono affatto sinonimiche, però: a volte quegli studenti conoscono due, tre lingue). Ma vale soltanto per gli «studenti stranieri»? Perché, a pensarci bene, anche tra gli italiani vi può essere una conoscenza eterogenea, non omogenea, della lingua italiana, a seconda del contesto di provenienza (e del grado di dialettofonia delle loro famiglie). E ancora: quella citazione, «penalizzante riduzione dell’offerta didattica», che suona assiomatica perché riportata da qualche fonte (che si suppone autorevole), da chi è stata detta? Su quali analisi o considerazioni si basa? Tale situazione è ancora più evidente nelle classi che vedono la presenza di studenti provenienti da diversi Paesi, le cui specifiche esi­52

genze personali sono anche caratterizzate dalle diversità culturali del Paese di origine, tanto da indurre gli insegnanti ad essere più tolleranti e meno rigorosi in merito alle valutazioni. «Ancora più evidente»? Ovvero? Sulla base di quali dati, statistiche? E cosa si intende per «Paese di origine»? Paese in cui lo studente è nato? In cui è cresciuto fino a una certa età? Pae­ se di cui i genitori possiedono la nazionalità? O alla cui cultura la famiglia fa riferimento? E il rapporto inversamente proporzionale tra «specifiche esigenze personali» e rigore degli insegnanti: ancora una volta, da dove salta fuori? Dai dati forniti dal Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca la crescita di alunni stranieri, registrata nell’anno scolastico 2007-2008, è pari a 574.133 unità, con un’incidenza del 6,4 per cento rispetto alla popolazione scolastica complessiva. Per l’ennesima volta: che cosa si intende per «alunni stranieri»? Nati in un altro paese? Perché – a scanso di equivoci e cantonate – di quelle «574.133 unità», oltre il 35% è nato in Italia. Nell’anno 2007-2008, ad esempio, si erano iscritti alle scuole italiane 46.154 «studenti stranieri»: di questi, soltanto l’8% non era nato in Italia (il dato è disponibile sul sito del Servizio ­53

Statistico del Ministero dell’Istruzione: www. pubblica.istruzione.it), e circa la metà avrebbe cominciato a frequentare, in quell’anno scolastico, la scuola primaria. [...] Di grande attualità [...] i dati sulla presenza di alunni nomadi, essi raggiungono le 12.342 unità e pertanto rappresentano il 2,1 per cento degli alunni stranieri. Più della metà degli alunni nomadi frequenta la scuola primaria. L’inclusione degli alunni «nomadi» tra gli «stranieri» è fuorviante, ma risponde bene a certe retoriche in odore di xenofobia. Vale la pena ricordare che dei 160.000 «nomadi» residenti in Italia, circa la metà sono a pieno titolo cittadini italiani (fonte: Opera Nomadi Milano), e di conseguenza sono «italiani» anche i loro figli. O qualcuno vuol suggerire il contrario? [...] L’osservazione sull’esito scolastico degli alunni italiani a confronto con quello degli alunni stranieri rivela che nelle scuole dove sono presenti alunni con cittadinanza non italiana si riscontra una maggiore selezione nei loro riguardi che finisce per incidere sui livelli generali di promozione. Qui la tautologia sfiora il ridicolo. L’affermazione è talmente ovvia da risultare inutile ai fini dell’informazione (ma non inutile nel contesto ­54

del messaggio subliminale sotteso). Infatti, se gli «alunni stranieri» non fossero presenti, non ci sarebbe selezione nei loro confronti. Ma andiamo avanti... La presenza di minori stranieri nella scuola si inserisce come fenomeno dinamico in una situazione in forte trasformazione a livello sociale, culturale, di organizzazione scolastica: globalizzazione, europeizzazione e allargamento dell’Unione europea, processi di trasformazione nelle competenze territoriali (decentramento, autonomia ed altro), trasformazione dei linguaggi e dei media della comunicazione, trasformazione dei saperi e delle connessioni tra i saperi, processi di riforma della scuola. Non è chiaro il legame tra «la presenza di minori stranieri nella scuola» (e il suo essere un «fenomeno dinamico») e le trasformazioni elencate in seguito. Se il senso è che la scuola è comunque e inevitabilmente investita da cambiamenti e sollecitazioni culturali e sociali, dove sta l’urgenza di intervenire su un singolo aspetto scorporandolo da una riflessione più generale? Insomma, qual è il problema? O, come direbbe un noto personaggio politico: che ci azzecca? Il fenomeno migratorio sta assumendo caratteri di stabilizzazione sia per le caratteristiche ­55

dei progetti migratori delle famiglie, sia per la quota crescente di minori di origine immigrata che nascono in Italia o comunque frequentano l’intero percorso scolastico. E infatti, a medio termine, il problema non si pone (almeno non in termini imprevedibili, drammatici), dato che il «fenomeno migratorio» (e quindi il «fenomeno» della presenza di minori stranieri) tende ad assumere «caratteri di stabilizzazione»... La Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia sancisce che tutti devono poter contare su pari opportunità in materia di accesso alla scuola, nonché di riuscita scolastica e di orientamento. La scuola italiana deve quindi essere in grado di supportare una politica di «discriminazione transitoria positiva», a favore dei minori immigrati, avente come obiettivo la riduzione dei rischi di esclusione. Una vera e propria piroetta, questa, tutta giocata sull’ossimoro, su una specie di contraddizione in termini: «pari opportunità» garantite da una «discriminazione transitoria positiva» (e dove starebbe la parità?): una «discriminazione» che sarebbe «a favore» dei «minori immigrati» (altra espressione per significare «alunni stranieri»: ma si tratta davvero soltanto di «im­56

migrati»?) introdotta nientemeno che per ridurre i rischi di esclusione... La maggior parte dei Paesi europei ha costrui­ to luoghi d’apprendimento separati per i bambini immigrati, allo scopo di attuare un percorso breve o medio di alfabetizzazione culturale e linguistica del Paese accogliente. La presenza di bambini stranieri, ma anche nomadi o figli di genitori con lo status di rifugiati politici, implica l’aggiunta di finanziamenti e di docenti, e l’organizzazione di classi di recupero successive o contemporanee all’orario normale, di classi bilingue, oppure con la presenza di assistenti assunti a tal fine. Un minestrone, questo paragrafo, indegno di un documento governativo così importante. Si parla della «maggior parte dei Paesi europei»: ma non si danno esempi (tranne quello della Grecia, nel paragrafo successivo), fonti, termini di comparazione. Si dice «luoghi d’apprendimento separati». Separati come? Fisicamente, in stile apartheid? Per quanto tempo? Di che tipo di percorso di apprendimento si sta discorrendo: di un percorso a breve, medio o lungo termine? E ancora: che cosa si intende per «alfabetizzazione culturale e linguistica»? Si intende «imparare a leggere e scrivere» (abilità indipendenti dalla lingua in cui si esercitano, che gli ­57

studenti nati in altri paesi potrebbero già aver appreso in altre lingue), o si intende apprendimento dell’italiano? E che dire poi dell’equivalenza tra alunni stranieri e nomadi, e tra questi e i figli di genitori con lo status di rifugiati politici? Per finire: si propongono classi di recupero «successive» o «contemporanee» all’orario normale? Alternative o aggiuntive? In termini di risorse e di impegno per l’alunno e per la sua famiglia c’è una bella differenza. Dai dati ministeriali si rileva che per i diversi ordini di scuola gli alunni stranieri sembrano ottenere maggiori risultati quando sono ridotti di numero. Quali dati? È possibile leggerli, conoscerli? E poi quel «sembrano»: ma dai (fantomatici) dati «si rileva», o... sembra di rilevare? [...] L’elemento della presenza di molte diverse cittadinanze nelle scuole, pur non coincidendo necessariamente con esiti negativi finali degli alunni stranieri, rappresenta un fattore condizionante del complesso sistema educativo e formativo che influenza l’intera classe. In che senso la «presenza di molte diverse cittadinanze» a scuola è un «fattore condizionante»? (A proposito: ora si mette l’accento sulla «cittadinanza», non sull’essere genericamente ­58

stranieri; merito di un cambiamento di prospettiva politica o di una estemporanea variatio stilistica?) Questa tipologia di alunni con cittadinanza non italiana consegue esiti scolastici, in rapporto al livello di conoscenza della lingua italiana, alla dimensione temporale di scolarizzazione nel nostro Paese, alle misure di accompagnamento per la loro integrazione all’interno e all’esterno dell’ambito scolastico. Adesso si mette in rilievo la «conoscenza della lingua italiana»: ma – c’è da chiedersi – nelle prime classi della scuola primaria non sono (anche) altri i fattori che determinano la competenza comunicativa, e in generale l’esito scolastico? E veniamo adesso alla sezione dedicata agli impegni. [la Camera impegna il governo] a rivedere il sistema di accesso degli studenti stranieri alla scuola di ogni ordine e grado, favorendo il loro ingresso previo superamento di test e specifiche prove di valutazione. Questo in barba a quanto stabilito dalla Convenzione internazionale dei diritti dell’infanzia (almeno non l’avessero citata prima!). ­59

[la Camera impegna il governo] a istituire classi di inserimento che consentano agli studenti stranieri che non superano le prove e i test sopra menzionati di frequentare corsi di apprendimento della lingua italiana, propedeutiche all’ingresso degli studenti stranieri nelle classi permanenti. Il problema è linguistico, a quanto sembra. [la Camera impegna il governo] a favorire, all’interno delle predette classi di inserimento, l’attuazione di percorsi monodisciplinari e interdisciplinari, attraverso l’elaborazione di un curricolo formativo essenziale, che tenga conto di progetti interculturali, nonché dell’educazione alla legalità e alla cittadinanza. Anzi no, non è soltanto linguistico. Qui si parla di «elaborazione di un curricolo formativo essenziale» all’interno delle classi di inserimento. Un curricolo che tenga conto «dell’educazione alla legalità e alla cittadinanza». E si parla sempre (e soltanto) di alunni «stranieri»: come se gli «italiani», in fatto di legalità e cittadinanza, sapessero già tutto. L’equivalenza implicita è sempre quella: «straniero» = «più propenso a delinquere». Dunque, non si tratta soltanto di «corsi di apprendimento della lingua italiana» (come indicato in precedenza), ma di vere e proprie ­60

classi (di inserimento) con contenuti specifici. E in quale lingua dovrebbero essere insegnati, questi contenuti, se l’italiano non è stato ancora appreso? In quale lingua (e con quali strumenti) dovrebbero essere esaminati gli studenti, su questi contenuti? Finisco qui. Ma adesso cerchiamo di capire perché, oltre che su una pessima formulazione dei concetti, la mozione si basa su premesse errate. A cominciare da quelle sulla competenza linguistica. Che secondo Cota e gli altri firmatari sarebbe influenzata da una serie di fattori indifferenziati – ed equiparabili – come la provenienza, la residenza, la cittadinanza, il processo migratorio (non a caso vengono utilizzati come sinonimi «alunni stranieri», «alunni di cittadinanza non italiana», «nomadi», «minori di origine immigrata che nascono in Italia», «bambini immigrati», «bambini stranieri, ma anche nomadi o figli di genitori con lo status di rifugiati politici», «studenti non italiani»). Invece la competenza linguistica non è affatto vincolata all’origine (etnica, nazionale, sociale) né allo status burocratico (dei genitori): presenta anzi una casistica complessa. Prendiamo gli studenti della scuola primaria. La loro acquisizione linguistica è ancora molto spontanea, e il loro contatto con l’italiano L2 avviene quando l’acquisizione della lingua madre non si è ancora stabilizzata. La loro competenza ­61

linguistica si fonda, quindi, su abilità comunicative di base, che possono essere (facilmente) acquisite nell’arco di due-tre anni in situazioni e contesti comunicativi spontanei: senza cioè bisogno di «corsi speciali». Di contro, durante gli anni di scuola media, gli studenti attivano vere e proprie strategie cognitive e metacognitive per sviluppare e rafforzare competenze linguistiche specifiche. Le abilità comunicative dipendenti dalla lingua madre sono piuttosto stabili, ma le capacità di astrazione – tanto nella lingua madre quanto nella L2 – devono essere ancora sviluppate. Sono gli anni in cui si acquisisce il cosiddetto «italiano per lo studio» (o «italiano scolastico», o «ItalStudio»1), che non coincide necessariamente con le varietà comunicative apprese in precedenza. La mozione Cota non differenzia tra stadi ed età differenti, e tra «nuovi» e «vecchi» arrivati. Anzi, presuppone che deficit di lettura e scrittura possano influenzare genericamente la competenza linguistica fin dai primi anni. E soprattutto non sembra prendere in considerazione il fatto che gli studenti non italofoni non sono per definizione analfabeti, perché possono essere stati alfabetizzati (anche solo parzialmente) in un’altra lingua. In generale, la proposta non tiene in alcun conto l’enorme quantità di letteratura sulla L2 prodotta in Italia negli ultimi vent’anni (ad ­62

esempio, dal «Gruppo di Pavia» guidato da Anna Giacalone Ramat)2. Non considera, quindi, l’acquisizione linguistica come un processo multidimensionale, nel quale motivazioni psicologiche e relazioni sociali, oltre a una piena immersione nella nuova realtà linguistico-culturale sono – fino a una certa età – fattori sicuramente più importanti rispetto alla conoscenza della «grammatica»3. Ignora che la grammatica della L2 non è una versione difettosa o semplicemente un transfert parziale dalla L1, ma risponde a input precisi – non necessariamente lineari – per passare da un livello all’altro di lingua. Non contempla, infine, che il bilinguismo possa essere un vantaggio in termini acquisizionali (non lo dice solo la linguistica, ma anche la neuroscienza): tutt’altro che uno svantaggio, perché non soltanto accresce le abilità comunicative e la consapevolezza meta-linguistica degli apprendenti, ma incide anche – stando alle ultime ricerche – sullo sviluppo neuronale complessivo della persona4. La mozione Cota, inoltre, non prende nemmeno lontanamente in considerazione la biografia linguistica dello studente, la sua individualità (e chi insegna sa bene quanto ogni alunno sia un mondo a sé, difficile da conoscere, ma straor­ dinariamente unico e complesso). Né prende in considerazione le potenzialità di una classe multilingue, della possibilità di scambiarsi e ap­63

prendere competenze socio-pragmatiche anche al di fuori delle classi di lingua5. Semplicemente, si preoccupa di dare risposte improvvisate, accomodanti a sfide reali e realmente complicate (come formare gli insegnanti nel modo giusto? Come ripensare la didattica in termini «interculturali»? Come garantire parità di condizioni a tutti i discenti?). In nome della demagogia e della xenofobia non esita a sacrificare anche i bambini. E le loro chances non solo di imparare bene l’italiano. Ma di stare bene: di sentirsi parte di una comunità che non li respinga, li isoli, o peggio, li «separi».

Clandestini si nasce o si diventa?

Gentile o Giudeo O tu che giri la ruota e guardi nella direzione [del vento Pensa a Fleba, che un tempo è stato bello e ben fatto [al pari tuo. (T.S. Eliot, La morte per acqua, da La terra desolata, Torino, Einaudi, 1987)

Se il tema è quello del respingere, del respingimento, allora è arrivato il momento di soffermarsi un po’ su quella che, quando si parla di immigrazione, è una parola-feticcio: «clandestino». «Clandestino», per parlare di «immigrati» e di immigrazione, si usava già un quarto di secolo fa. E la cosa certo non stupisce. Perché nella lingua italiana era un termine corrente (a dar retta ai dizionari, ad esempio il Grande Dizionario della Lingua Italiana di De Mauro) da circa quattro secoli, soprattutto in funzione aggettivale. Con un significato lungamente attestato: «fatto di nascosto, in segreto» (dal latino clam, che significa appunto «di nascosto»), da

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cui «lotta clandestina», «stampa clandestina», «rifugi clandestini», «amori clandestini», «matrimoni clandestini» (come quello narrato dal Manzoni nel Fermo e Lucia), «relazioni clandestine», «passeggeri clandestini», «lotto clandestino» (di cui scrive Matilde Serao nel Ventre di Napoli: «Quando il napoletano non ha più che due soldi, li va a giuocare al gioco piccolo, o lotto clandestino»), ecc. Il clandestino – questo è il senso – agisce di nascosto, cela la propria identità e le proprie azioni, perché «viola le leggi vigenti» (anche soltanto quelle morali), «non ha l’approvazione dell’autorità»: si trova, insomma, in una situazione di infrazione, di illegalità. Non stupisce, quindi, che «clandestino» si usasse già venticinque anni fa: quando molti migranti cominciarono a scegliere l’Italia come destinazione. Perché per molti di loro non c’è stato altro modo di raggiungere il nostro paese che arrivarvi «clandestinamente» (e di «lavoratori immigrati clandestinamente» parla la prima legge sull’immigrazione, la 943 del 30 dicembre 1986). Come quel mio studente romeno, Nicolae, che all’inizio degli anni Novanta giunse a Torino dalla Francia nascosto nell’intercapedine di un treno. Eludendo i controlli di frontiera: trovandosi – temporaneamente – in condizione di «clandestinità»1. Tuttavia negli ultimi anni «clandestino» sembra aver assunto accezioni nuove. È una sen­66

sazione che si basa su letture a campione (occorrerebbe una ricerca quantitativamente rappresentativa per trasformarla in certezza), e tuttavia è abbastanza chiara. Venticinque anni fa di «clandestino» era prevalentemente messo in evidenza il tratto semantico dell’invisibilità. Gli immigrati c’erano: ma si vedevano poco. E soprattutto non si conoscevano: non si sapeva ancora che cosa facessero, quanti realmente fossero. Appunto perché molti di essi erano «clandestini». Oggi invece i migranti «clandestini» sono visibilissimi, tanto da essere evocati con espressioni iperboliche tali da rovinarci il sonno: con i loro sbarchi, le loro ondate, le loro invasioni. Già questa è una novità, a pensarci bene. Altro che nascosto: il clandestino – ha scritto l’antropologa Annamaria Rivera – ha oggi la colpa di essere fin troppo visibile2. Anzi: più si vede, più esposto è (dai media), e meglio è. Perché diventa onnipresente; riconoscibile, nella sua tipizzazione, e quindi additabile, respingibile. E diventa soprattutto collettivo: massa, orda, esercito da cui guardarsi, contro cui difendersi3. Un pericolo, prima ancora che un uomo, una donna. In questo ultimo decennio il clandestino si è moltiplicato, anche in termini lessicali. E la verifica, per quanto grezza, è semplice. Se si va a guardare l’archivio online della «Repubblica», le occorrenze del termine «clandestini», dopo il ­67

1998, aumentano esponenzialmente. Per diminuire un po’ nel 2009 e nel 2010. Non si tratta di date casuali. Nel 1998 entra in vigore la legge Turco-Napolitano, che utilizza esplicitamente il termine «clandestino» (seppur come aggettivo: «immigrazioni clandestine»). Negli ultimi anni, invece, la propaganda del Ministero degli Interni ha messo la sordina agli allarmismi generati dall’arrivo di «clandestini»: il che, probabilmente, ha significato (un po’) meno lanci di agenzie e (un po’) meno articoli sui giornali. Ma torniamo ai significati della parola. Il tratto oggi più rilevante di «clandestino», quando è usato per parlare di migranti, non è tanto la «segretezza», quanto l’illegalità. Mi riferisco ovviamente al recente reato di immigrazione clandestina (introdotto dal «Pacchetto Sicurezza» 94 del 15 luglio 2009), e alla conseguente equazione «clandestino» uguale criminale, fuorilegge, delinquente. Un’equazione che è sopravvissuta anche alla verifica di incostituzionalità della norma giuridica, alla faccia di quello jus migrandi che sarebbe uno dei pilastri del diritto europeo fin dal De Indis recenter inventis et de jure belli Hispanorum (1539) del giurista teologo spagnolo Francisco De Vitoria4. Un diritto universale che proprio oggi potrebbe essere garantito a tutti (non solo agli europei chiamati a civilizzare gli altri continenti, come nelle intenzioni di De Vitoria), e che invece si capo­68

volge nel suo contrario, diventando sia reato di per sé, sia aggravante di qualsiasi reato (con un aumento della pena fino a un terzo, e il divieto di concedere le attenuanti generiche, come stabilito dal decreto legge 92/2008, convertito in legge il 24 luglio del 2008). A proposito di semantica, c’è anche altro su cui riflettere. Prendiamo questi esempi: Quattro cadaveri di clandestini recuperati a Lampedusa [titolo] Il capitano sotto choc: «Resti scarnificati, senza braccia e gambe». agrigento – Nuova tragedia dell’immigrazione al largo delle coste siciliane. Un peschereccio ha recuperato i corpi di quattro extracomunitari a 50 miglia da Lampedusa. I cadaveri erano impigliati fra le maglie delle reti da pesca, probabilmente si tratta di clandestini caduti in mare durante un viaggio dalle coste nordafricane verso quelle italiane. Praticamente impossibile, per la Guardia di finanza, i carabinieri e la Capitaneria di porto, identificare le vittime, o stabilire la data del naufragio [...] («la Repubblica», 15 maggio 2003). Strage di clandestini in mare. Barcone a picco: 26 dispersi [titolo] Naufragio nelle acque tunisine [...] L’incidente alle 4 del mattino in una zona turistica a 20 chilometri da Tunisi [...] roma – Erano partiti da poco [...] Il naufragio

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si è consumato alle 4 del mattino di ieri davanti alla spiaggia di Marsa [...] I dispersi sono 26 [...] Hanno rischiato di fare la stessa fine anche i 203 immigrati che ieri sono arrivati a Lampedusa. Il loro barcone [...] stava affondando a 21 miglia dall’isola [...] («Corriere della Sera», 20 gennaio 2009).

Leggendo articoli come questi, salta all’occhio che nell’uso di «clandestino» il tratto di segretezza, di «nascosto», non sembra determinante. Ma a ben vedere anche il tratto legato all’illegalità appare sbiadito. Perché come si fa a infrangere una legge – e a essere passibili di sanzioni amministrative e penali – prima ancora di essere entrati nel paese (trovandosi in acque tunisine, o internazionali) o addirittura non avendo alcuna possibilità di farlo (essendo morti)? Si può essere clandestini «in potenza»? La giurisprudenza dice di no: e infatti stabilisce che l’elemento oggettivo del reato può essere costituito solo dal fatto materiale dell’ingresso (cioè del mettere piede) nel territorio nazionale5, vis-à-vis con la politica di confine6. E dice di no anche il buon senso. La sensazione è che si possa essere clandestini per natura, quasi ontologicamente. Da qualche anno a questa parte chi cerca di entrare in Italia non è un «immigrato», o un «migrante». Né tantomeno un uomo o una donna: una persona. È un clandestino. E basta. Per definizione. E ­70

una volta etichettato così, non si può facilmente redimere. Perché tutte le interpretazioni successive delle sue azioni rischiano di essere valutate nei termini di quello status attribuito pregiudizialmente. Senza tenere conto della sua storia personale, del paese di provenienza, del fatto che possa essere o meno un rifugiato politico (protetto da leggi internazionali prima ancora che dalla giurisprudenza dei singoli paesi, è bene ricordarlo), e che abbia tutti i «requisiti» per chiedere asilo politico. Dunque non essere un «clandestino». Prendiamo le persone provenienti dal Corno d’Africa. Che possono giungere «clandestinamente» in Italia dopo aver attraversato – subendo ogni tipo di violenza e sopruso, come ha documentato il regista Andrea Segre in Come un uomo sulla terra (2008) – la Libia, per poi tentare di raggiungere Lampedusa, o un altro spicchio di costa italiana. Ebbene: in fuga da guerre e dittature, somali, etiopi, eritrei sono – non solo de facto, ma anche de jure – «tutti titolari di una protezione internazionale, molti dello status di rifugiato politico, alcuni di protezione sussidiaria o umanitaria». Ce lo ricorda Luca Rastello nel suo libro La frontiera addosso (2010)7. Aggiungendo che, in ogni caso, «in base alla Convenzione di Ginevra e ai protocolli successivi, fino al momento della decisione finale da parte delle autorità competenti, chi ha ­71

presentato domanda ha pienamente diritto di soggiorno regolare nel paese in cui si trova. Il richiedente asilo, insomma, non è in alcun modo assimilabile al migrante irregolare: anche se arriva senza documenti di identità o in maniera irregolare»8. E noi non solo puniamo il «clandestino», non solo non garantiamo un quadro giuridico adeguato ai rifugiati, ai richiedenti asilo e a chi ha ottenuto il diritto d’asilo. Ma infrangiamo la legge. Quando ad esempio respingiamo in mare i migranti. Perché i «respingimenti» sono illegali sotto più aspetti. Violano, anzitutto, il diritto d’asilo stabilito dall’articolo 10 (comma 3) della Costituzione per «lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche», giacché le navi italiane con cui i migranti vengono riportati in Tunisia e Libia sono territorio italiano, siano esse in acque territoriali o in acque extraterritoriali. E lo violano doppiamente, giacché queste persone vengono respinte in campi di detenzione dove sono destinati a rimanere senza limiti di tempo e in violazione dei più elementari diritti umani. Poi, violano la garanzia dell’habeas corpus stabilita dall’articolo 13 (comma 3) della Costituzione: questi respingimenti si risolvono infatti in accompagnamenti coattivi, non sottoposti a nessuna convalida giudiziaria. Le motovedette di Polizia, Carabinieri o Guardia di Finanza ri­72

cevono l’ordine di procedere in mezzo al mare, frettolosamente, alla selezione degli stranieri dei paesi in guerra, titolati a richiedere asilo; anche se è palese l’impossibilità di condurre a bordo le indagini accurate che sarebbero obbligatorie. Infine violano le convenzioni internazionali che l’Italia, nell’articolo 10 della Costituzione, si è impegnata a rispettare: l’art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti umani sulla libertà di emigrare; l’art. 14 della stessa Dichiarazione sul diritto d’asilo; l’art. 4 del protocollo 4 della Convenzione europea dei diritti umani che vieta le espulsioni collettive. Il punto vero è che a essere illegali siamo noi. Non i migranti: noi. O meglio, il nostro governo. Come tra l’altro hanno stabilito, in tempi e modalità diverse, tanto la Corte di Cassazione quanto la Corte di Giustizia dell’Unione Europea9. Senza contare le leggi non scritte che vengono infrante quando – com’è successo – si accusano di favoreggiamento del reato di immigrazione illegale i pescatori e i marinai che hanno prestato soccorso in mare10. Risultato? Innanzitutto, il disconoscimento dei diritti fondamentali della persona. Secondo – ed è altrettanto grave – l’affermazione di un razzismo istituzionale che non ferma certo – come vorrebbero dare a intendere i suoi sostenitori – l’immigrazione (siamo seri: come potrebbe?), ma anzi produce «clandestinità» e precarietà per ­73

migliaia di persone (lo spiegano, in modo documentato, Laura Galesi e Antonello Mangano in Voi li chiamate clandestini e Marco Rovelli in Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro). Terzo – ed è l’aspetto che ci preme di più, qui – la costruzione di un discorso giuridico e politico che risulta accettabile (quando non auspicabile), che diventa imprescindibile, che si scopre dogmatico: a destra, certo. Ma anche a sinistra. Alla Bossi-Fini dobbiamo quell’articolo di legge che, nella procedura di richiesta e di riconoscimento dell’asilo, prevede che i richiedenti debbano essere trattenuti nei «Centri di identificazione e assistenza» per il tempo necessario a verificare nazionalità, identità e altri elementi chiave. Un articolo che ci ha fatto redarguire dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, avendo complicato a dismisura le pratiche di accesso a un diritto garantito da norme internazionali (senza contare che nella prassi, ormai, il «controllo» è stato esternalizzato, spostato fuori dai nostri confini, allontanato dai nostri occhi e dalle garanzie fornite dal diritto: è ancora Luca Rastello a rammentarcelo). Ma a Giuliano Amato – ministro degli Interni del secondo Governo Prodi – dobbiamo dichiarazioni come quella rilasciata il 19 gennaio 2007, in cui, elogiando i «buoni frutti» della coope­razione con la Libia, il ministro del ­74

centro-sinistra commentava la notizia di un’ondata di arresti avvenuti in Libia (quindi fuori dal territorio italiano) parlando di «candidati all’immigrazione clandestina». Avete letto bene: «candidati all’immigrazione clandestina». Questo erano le persone che cercavano di scappare dalla miseria e dalle guerre, molte delle quali avrebbero potuto accedere allo status di rifugiato11. L’ombra della clandestinità: sempre, comunque, quando si tratta di immigrazione. Uno stigma che – attraverso i media – si normalizza nella doxa, nel pensare comune. Nella sua tesi di laurea Fabrizia Uboldi, una studentessa della Facoltà di Lingue dell’Università di Bologna, ha passato al setaccio – grazie a software capaci di creare liste di concordanze tra parole, e di fornire dati statistici sul loro uso all’interno di un corpus testuale – alcune annate del «Corriere della Sera», cercando dove e come fosse stata utilizzata la parola «immigrato». E trovando che questa era stata usata, tra il 1999 e il 2007, negli stessi contesti di «clandestino», «quasi come se [le due parole] si potessero sostituire l’una con l’altra creando una confusione sia a livello lessicale che di contenuti, soprattutto nel pubblico lettore»12. Qual è l’aggettivo più frequente in abbinamento con «immigrato»? Proprio «clandestino». E quello abbinato a «clandestino»? Manco a dirlo: «immigrato»13. ­75

In attesa di studi più estesi, la giornalista Gabriela Jacomella, con una ricerca pilota sulla rappresentazione dei migranti in sei quotidiani nazionali (eterogenei per diffusione e orientamento politico), ha quantificato la presenza della parola «clandestino» usando le cosiddette word-cloud, le nuvolette di parole che mettono in risalto i termini a seconda della loro frequenza nei testi in esame14. Jacomella ha visualizzato strategie discorsive e parole ricorrenti sia in una settimana «calda» (quella immediatamente successiva ai già evocati fatti di Rosarno: 8-14 gennaio 2010), sia in una settimana dello stesso anno (8-14 maggio), in cui non si sono registrati particolari episodi di cronaca legati all’immigrazione. Pur in presenza di una quantità diversa di occorrenze, la percentuale di «clandestino/i» non cambia molto. Ovvero: per alcuni dei quotidiani più diffusi in Italia l’immigrazione e gli immigrati hanno a che fare con la clandestinità in qualsia­si momento dell’anno. Ma «clandestino» non soltanto è il termine più ricorrente, quando si parla di immigrazione. È anche il termine più mistificante. Perché nel 2006, a metà del decennio appena trascorso, almeno il 63% degli stranieri (sono dati del Ministero dell’Interno) sarebbe entrato in Italia dagli aeroporti: cioè legalmente. Cioè non clandestinamente. Mentre solo il 23% avrebbe ­76

varcato le frontiere terrestri da clandestino. E so­lo il ­10-15% sarebbe arrivato via mare (il dato, sempre relativo al 2006, proviene dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati). Per dare ancora qualche cifra: nel 2007, per uno straniero arrivato a Lampedusa o sulle coste siciliane, il Governo italiano ha chiesto l’ingresso di altri dodici stranieri per motivi di lavoro, disponendo l’ingresso di 170.000 lavoratori e 80.000 stagionali, a fronte di circa 20.000 persone sbarcate «clandestinamente». La stragrande maggioranza degli stranieri ancora oggi arriva in Italia legalmente, quindi. Ma diventa «illegale» – e quindi «clandestina» – per la scadenza del visto e del permesso di soggiorno (di studio, turistico, di lavoro)15. E le lentezze burocratiche sembrano studiate apposta per incrementare la clandestinità, non certo per dimensionarla, come racconta Kirj Vasilev, un macedone di 21 anni, intervistato dal giornalista Domenico Guarino: Se non trovo lavoro c’è l’espulsione automatica, perché, a questo punto, come ti dicevo, ho solo sei mesi di tempo per trovare un’altra occupazione e rinnovare il mio permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Permesso che durerà per la durata del contratto, ovviamente. E di questi tempi... la maggior parte dei lavori che ti propongono sono a termine. A tempo determinato. E quindi anche il mio permesso di soggiorno lo è. Nonostante io mi senta assoluta-

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mente integrato in Italia. Tieni conto anche del fatto che la validità del permesso di soggiorno decorre da quando si fa la richiesta... Ciò significa che io ho ancora tre mesi di tempo... Ma soprattutto significa che tre mesi li ho persi. Li ho buttati via e non per colpa mia. Perché con la semplice ricevuta della richiesta non posso far niente: non posso viaggiare, non posso attraversare il confine, ho problemi a cercare lavoro... Pensa che l’ultima volta avevo un permesso di soggiorno di due anni e mi è arrivato dopo un anno e quattro mesi. Quindi in effetti la sua vera validità si era ridotta di fatto a otto mesi appena. Per un italiano è difficile capire quanto possa essere pesante tutto questo, ma per noi immigrati ti garantisco che sono cose che ti condizionano la vita. Che ti pesano un sacco e ti fanno vivere sempre sotto pressione16.

«Clandestino», «illegale», «irregolare»... è bene sottolineare, a questo punto, come questi tre vocaboli non dovrebbero avere, né per il linguaggio giuridico né per quello mediatico, lo stesso significato. A rigore, illegale è chi si pone in contrasto con una legge, nel senso tecnico del termine; mentre irregolare è chi ha un comportamento che contrasta con un regolamento. Per intenderci: spesso il migrante non è in regola con circolari o direttive meramente amministrative. Non si trova quindi in uno stato di vera illegalità (o, dato l’assunto clandestino = illegale, di clandestinità), ma di irregolarità. Ma i media raramente si preoccupano di specifi­78

care, chiarire, disambiguare. Anzi: confondono, intorbidano le acque17. E in queste acque affonda – insieme con la speranza di tanti migranti – la nostra capacità di vedere, di comprendere.

Etnico è bello?

– Ti pago profumatamente e mi piacerebbe offrire ai miei ospiti una di quelle cene esotiche... come vengono chiamate...? – Etniche. (Kaha Mohamed Aden, Fra-intendimenti, Roma, Nottetempo, 2010, p. 120)

Ormai non ce ne accorgiamo quasi più. Non sono più una novità: ci accompagnano fedelmente da una ventina d’anni, almeno. E non è certo un male, anzi. Però qualche riflessione vale la pena di spenderla: sul nome «etnia», sull’aggettivo «etnico». Storia interessante, la loro, che ci riporta indietro di almeno duemila e cinquecento anni. Almeno alle Storie di Erodoto, in cui il termine éthnos (etnia), da cui deriva ethnicós (etnico), compare diverse volte per indicare popoli e genti diverse da quelle che abitavano le polis greche, le città-Stato con le loro leggi e i loro costumi. Éthnoi erano – non solo per Erodoto – popoli e genti altre, a cui si attribuivano comuni origini (date dai legami di sangue) e abitudini, ma anche una forma di organizzazione sociale ­80

a-politica: anteriore e implicitamente inferiore rispetto a quella della polis. Passati in latino, i vocaboli entrano nel linguaggio dei primi cristiani, in cui il loro significato si specializza, e l’aggettivo ethnicus passa a significare i popoli «gentili», «pagani», «senza fede», quelli che non appartengono (ancora) all’ecclesia, alla comunità dei credenti (così è in Tertulliano). Con questo senso, «etnico» si ritrova ad esempio nei volgarizzamenti medievali di testi sacri; nel Cinquecento in Sperone Speroni («Or non è dubbio, che anticamente i Francesi bene erano etnici senza fede, come altre assai nazioni...»), nell’Ottocento in Vincenzo Gioberti, come ricorda anche la quinta edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1863-1923). E diventa inoltre la base per l’avverbio etnicamente, nella locuzione «vivere etnicamente», ovvero «alla pagana», registrata dal Tommaseo nel suo dizionario (1861-79). Proprio nell’Ottocento però il significato si modifica sensibilmente. L’aggettivo etnico (etnique) è usato da Gobineau nel già citato Essai sur l’inegalité des races humaines (1853-55). In quel testo vale tanto – genericamente – come sinonimo di razza, nazione, civiltà, quanto – più specificamente – per indicare il risultato della mescolanza razziale (un’ibridazione destinata, nella sua ottica, a provocare il declino dell’umanità e la fine della storia). Il nome «etnia» ­81

(ethnie) è riproposto verso la fine del secolo da George Vacher de Lapouge (uno dei padri dell’eugenetica) per indicare la coabitazione di segmenti di razze diverse (con caratteristiche morfologiche diverse) che per ragioni storiche condividono lingua e cultura. Dunque un concetto più esteso rispetto a «razza», quello di «etnia». Ma ben diverso da «nazione». Perché all’«etnia» – questo è il senso originario che si (ri)afferma nel diciannovesimo secolo – manca la compiutezza delle istituzioni politiche, dei caratteri di civiltà, e della coscienza di sé e del proprio destino: della possibilità di essere soggetti della propria storia, nonché di autogovernarsi. Una caratteristica, questa, che si ritrova anche nella definizione che di «gruppo etnico» dà Max Weber negli anni Venti del Novecento: un gruppo che condivide «la credenza soggettiva di una comune origine», ma si presenta come una nazione senza Stato, e quindi senza forma di governo1. Termini perfetti allora, «etnia» ed «etnico», per parlare di popoli arretrati, non «civilizzati», da colonizzare. E infatti è il colonialismo che produce le «etnie»: le inventa, le nomina (con gli «etnonimi»), le studia (con l’«etnografia» e l’«etnologia»). Ne fa unità individuali (sul piano biologico e culturale), omogenee (e impermeabili), dai confini chiusi (e arbitrari). Al punto che – parafrasando lo storico John Iliffe ­82

(A Modern History of Tanganyka, 1979) – se gli europei credevano che gli africani appartenessero a delle etnie, gli africani crearono delle etnie a cui appartenere. A partire dagli anni Cinquanta, la coppia «etnico/gruppo etnico» (in italiano «etnia») cambia ancora pelle. E passa a sostituire, nel discorso antropologico, quella di «razza/razziale» (e in parte anche quella di «tribù/tribale»), troppo discussa e discutibile dopo le persecuzioni e gli stermìni compiuti in suo nome. È l’Unesco – col documento The Question of Race («La questione della razza», 1950), sottoscritto da scienziati e antropologi di fama mondiale – a spingere in questa direzione, per depotenziare tanto nel linguaggio settoriale quanto in quello comune il significato (e l’uso) del termine «razza», da «espungere totalmente... da discorsi che si riferiscono a razze umane», per utilizzare invece «il termine gruppo etnico». Questa sostituzione (anzi, sovrapposizione) ha fatto diventare «etnico» e «gruppo etnico/etnia» (e il derivato «etnicità», dall’inglese ethni­ city) vere e proprie parole chiave delle scienze umane nell’ultimo mezzo secolo. Con l’ovvio risultato di moltiplicarne le definizioni, le declinazioni, le interpretazioni, alla ricerca di una sintesi terminologica (e concettuale) tutt’altro che scontata. E allora si va – per fare un esempio – da una ­83

definizione come quella di Raoul Narroll (contenuta nel suo articolo Ethnic Unit and Classification, 1964), secondo cui l’«etnico» si riproduce biologicamente, porta in sé valori culturali fondamentali che si realizzano in unità aperte attraverso forme culturali, determina un campo di comunicazione e d’interazione, consta di membri che si autodefiniscono e che sono riconosciuti dagli esterni al gruppo come appartenenti a un altro gruppo. A quella proposta da John Hutchinson e Anthony Smith in anni più recenti, basata su quattro caratteristiche portanti: il mito della discendenza; la condivisione di memorie; l’identificazione con il gruppo; il nome collettivo. Fino a quella, ancora diversa – ma è solo uno dei molti esempi possibili –, di Manning Nash, per il quale il gruppo etnico si fonda sulla parentela (quindi i legami di sangue), sulla «commensalità», su un culto comune, e su markers ben precisi e visibili (vestiario, lingua, aspetto fisico). Senza contare che, grazie agli studi dell’antropologo norvegese Fredrik Barth sulle «frontiere etniche», l’etnicità appare invece situazionale, contingente, relazionale, processuale e performativa: in parole povere, relativa. E le categorie etniche appaiono funzionali agli scopi e agli interessi del gruppo (etnico): l’identità etnica, insomma, non si erediterebbe, non preesisterebbe al gruppo, ma sarebbe attivata da complesse ­84

dinamiche sociali, organizzative, conflittuali. Altro che tratti culturali fissi, fondanti! Appare chiaro, anche da questi pochi esempi, che definire l’«etnia», il «gruppo etnico» e l’«etnicità» è stato ed è quanto mai complesso. Se sfogliamo un dizionario italiano qualsiasi – per esempio il Devoto-Oli – troviamo una definizione di questo tipo: «proprio di un popolo [...] gruppo sociale contraddistinto da una stessa cultura e lingua». In teoria tutto e tutti potrebbero essere «etnici», quindi. Ma è così? Prendiamo una lista di parole che oggi associamo comunemente all’aggettivo «etnico»: cucina (etnica), ristoranti (etnici), musica (etnica), danze (etniche), e poi abbigliamento (etnico), arredamento (etnico) o mobili (etnici), gioielli (etnici). Per non parlare dell’identità (etnica), delle minoranze (etniche), della pulizia (etnica), dei conflitti (etnici). Da una ventina d’anni a questa parte, questi paiono (ma l’impressione andrebbe suffragata da analisi quantitative) i contesti più frequenti. Ma che cosa intendiamo davvero qui con «etnico»? «Proprio di un popolo»? Di un qualsiasi popolo? Davvero? Assoceremmo mai la parola «etnico» a qualcosa di «italiano»? Alla cultura per noi dominante: la nostra? O ci riferiamo piuttosto – sempre – a qualcosa di «altro»: diverso, strano, esotico, tribale, istintuale, pre-moderno, culturalmente distante? ­85

Vengono in mente i conflitti etnici degli anni Novanta: in Ruanda, nell’ex Jugoslavia, nel Caucaso. Ricordate? Dicevamo che quelle stragi, quei bagni di sangue, avevano ragioni, radici «etniche»: come se fossero naturalmente connaturate alle popolazioni, determinate dalla loro «etnia», da geni impazziti, da un odio a lungo sopito, da misteri ancestrali che noi non potevamo afferrare, perché erano pre-moderni, pre-politici. Salvo poi apprendere – invece – che i motivi erano molto più banali: lotte per il potere, per la supremazia economica e politica, per la conquista di risorse, spazi, privilegi. Ma ci serviva «etnicizzare»: per distanziare (psicologicamente: come tollerare, altrimenti, la «guerra in casa» bosniaca?), per evitare di sentirci chiamati in causa, di riflettere sulle vere cause. Ma vengono in mente anche gli «scontri etnici» o le «rivolte etniche» a cui ogni tanto assistiamo – impotenti – non solo dagli schermi dei nostri televisori («scontri etnici in Cina», «scontri etnici avvenuti nel sud del Sudan», www.adnkronos.com, 21 settembre 2010) ma anche sotto casa, nelle nostre città: Scontri etnici, «coprifuoco» in via Padova [titolo] Chiusura anticipata per locali e centri massaggi. Giro di vite anche sugli affitti irregolari. MILANO – In via Padova scatta il coprifuoco per i negozi «sospetti». Take away e phone center chiude-

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ranno entro le 22, mentre i centri massaggi dovranno spegnere le insegne ancora prima, alle 20 [...] A un mese di distanza dalla rivolta etnica scoppiata dopo l’omicidio di un giovane egiziano – era il 13 febbraio – arriva la risposta del Comune. Venerdì il sindaco Letizia Moratti firmerà le due nuove ordinanze che si applicheranno solo in via Padova e negli immediati dintorni [...] Oltre al «coprifuoco» per le attività commerciali gestite in larghissima maggioranza da stranieri, il giro di vite colpirà anche gli affitti in nero [...] Sabato scorso nel quartiere è arrivata la Lega. Il Carroccio ha aperto una sezione a poche decine di metri dall’epicentro della rivolta, una «ridotta padana» nel quartiere multietnico. «Il sindaco venga qui, passi meno tempo a Palazzo Marino e di più nelle periferie difficili», l’invito degli uomini di Bossi alla Moratti nell’arringa tenuta al piccolo popolo riunito davanti all’avamposto lumbard nella terra di frontiera. Lei, il sindaco, in via Padova era arrivata giusto giovedì scorso. In visita a una bocciofila [...] «Questa non è una banlieue, non è il Bronx. È un quartiere difficile, ma pieno di risorse positive», aveva detto agli anziani della bocciofila [...] («Corriere della Sera», 16 marzo 2010).

Scontri etnici, rivolte etniche, stranieri, terra di frontiera, banlieue, Bronx2. Associazioni verbali utili a rimarcare l’idea dell’inevitabilità (c’è violenza proprio perché c’è di mezzo l’«etnia»), della separazione, dell’isolamento, della marginalità rispetto alla polis e all’organizzazione dell’istituzione moderna: liberale, democratica, ­87

razionale. Che però ha il potere di «etnicizzare» – ne ha scritto il sociologo algerino Abdelmalek Sayad ne La double absence (1999) – ciò che le sfugge, non le appartiene ancora. E che quindi va, in ultima analisi, normalizzato. Perché l’impressione è questa. Che «etnico» sia bello soprattutto quando è normalizzato: quando risponde – ammiccante – alle nostre aspettative, quando si conforma ai nostri consumi. Quando diventa categoria commerciale (lo «shopping etnico»). Quando in fondo non è troppo strano, diverso, imprevisto. I tamburi africani che abbiamo già sentito mille volte, il kebab poco piccante, che magari non stoni con le nostre «tradizioni culinarie»: Lucca dice basta ai ristoranti etnici. Il nuovo regolamento del Comune (guidato da una giunta di centrodestra) per bar locali e ristoranti [...] prevede che nel centro storico del capoluogo toscano [...] «al fine di salvaguardare la tradizione culinaria e la tipicità architettonica, strutturale, culturale, storica e di arredo non è ammessa l’attivazione di esercizi di somministrazione, la cui attività svolta sia riconducibile ad etnie diverse». [...] Tra le prime «vittime» ovviamente i venditori di kebab [...] E il Comune, nel varare il nuovo regolamento, ha pensato anche agli arredi che devono essere «confacenti al centro storico stesso», e ha specificato che i locali devono fornire: «sedie in legno, arredamento elegante e signorile anche nei dettagli», al personale che deve

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essere «fornito di elegante uniforme adatta agli ambienti nei quali si svolge il servizio» e dovrà «essere a conoscenza della lingua inglese» («la Repubblica», 26 gennaio 2009).

O i monili spacciati per originali, i vestiti «di sapore indiano o afro». Così adatti ai nostri gusti, così chic: Quest’anno il vero chic è etnico. Gioielli e monili di sapore indiano o afro. Con qualche chilo in più, ma comunque sexy. A Torino un bazar con tanta esperienza per esaltare le rotondità mediterranee. Non v’è alcun dubbio: l’etnico quest’anno fa chic. Praticamente un must dell’estate. Addirittura, sulle spiagge i caftani stanno soppiantando il normale copricostume. All’occorrenza, capaci anche di trasformarsi in seducenti abiti da sera. Sul tema esotico giocano pure gli accessori come gioielli e monili, un trionfo di pietre preziose e semipreziose montate su oro e argento, frutto di un’attenta e accurata lavorazione artigianale. Un tripudio di coralli, perle, cammei, ambre e giade, a ornare mise dal sapore indiano oppure d’ispirazione afro che spopolano ovunque alla grande, da Capri a Porto Cervo, da Saint-Tropez a Taormina («La Stampa», 21 giugno 2003).

L’etnico che ti aspetti, insomma. Anche nei consumi culturali (penso alla letteratura o ai romanzi «etnici»). Anche nel viaggio, nella (prevedibile) scoperta del nuovo (ne parla Marco Aime in un suo illuminante libretto del 2000, ­89

Diario Dogon, in cui racconta come i Dogon del Mali si siano artificiosamente «etnicizzati» – accettando il falso ritratto fattone dall’etnologo Marcel Griaule ad uso dei bons savants francesi – per rispondere meglio alla domanda del turista europeo «colto»). Una sorta di safari, anzi di pesca facilitata. Dove si tira su, comunque, sempre il punto di vista della cultura dominante. Etnicizziamo per dividere: da una parte l’etnico buono, assimilabile, addomesticabile, dall’altra quello bizzarro, incontrollabile, potenzialmente pericoloso; da una parte le etnie buone, cattoliche (i filippini), tranquille (i sikh), assimilabili (nel senso etimologico di rendere simili a ciò che già si conosce) e integrabili, dall’altra quelle pericolose, straccione (secondo i cliché riscontrati nella stampa italiana dai già citati Andrea Pogliano e Riccardo Zanini)3. Etnicizziamo per creare unità compatte e autonome, esclusive e distintive. Ed etnicizziamo – ma qui il discorso è appena accennato – per assegnare risorse o riconoscimenti, decidendo ad esempio quali e quante minoranze «etnico-linguistiche» devono esistere ed essere riconosciute in Italia (con la legge 482/1999): gli occitani e i friulani sì, i rom no, tanto per dire. E allora? Mica è razzismo linguistico, questo! No, infatti, non lo è esplicitamente. Però – tra le righe – la superiorità e discrezionalità del nostro modello (etnocentrico, per l’appunto) è sempre ­90

in agguato. E se anche non è sostenuta necessariamente da un disegno ideologico consapevole, si accompagna spesso – nell’informazione, anche e soprattutto in quella locale – a sciatteria, pressapochismo: Per la famiglia di ricettatori sono quindi scattati gli arresti: in manette Sofia Pawlowska, 66 anni, rom di etnia polacca, e i figli Adam e Samuele Pawlowski, di 48 e 32 anni. A loro vanno aggiunti altri quattro nomadi residenti a Recetto, della stessa nazionalità, denunciati a piede libero sempre per ricettazione e già noti alle forze dell’ordine. Nessuno di origine Rom o romena. Per trovare le roulotte di questa etnia, bisogna andare verso la cascina Continassa o lungo lo Stura («il Biellese», 6 novembre 2010). «Etnia» polacca? «Etnia» rom o romena? Di

che cosa si parla, esattamente? Di nazionalità, di cultura, di rom, di romeni, o di persone da fissare – attraverso una lettura semplificata, semplicistica – in una categoria di statuto inferiore, verso cui esprimere un implicito giudizio di valore?

Zingari: basta la parola

Sopprimiamoli, anche i bambini sono zingari [piccoli. (Vittorio Aliprandi, consigliere comunale di Padova, 2 dicembre 2010)

Tra tutte le cosiddette etnie, non c’è dubbio che la più stigmatizzata sia oggi quella dei «rom» (o dei «nomadi», o degli «zingari», termini che dai più, ma anche da chi fa informazione, sono considerati sinonimi). A dirlo sono i sondaggi: quelli che ogni tanto qualche quotidiano commissiona ad agenzie o istituti di ricerca. Come il sondaggio svolto da Ipr Marketing per «la Repubblica» nella primavera del 2008, secondo il quale per circa il 70% degli intervistati «immigrati» e «nomadi» erano gruppi indesiderati, e la vera priorità sociale era quella di risolvere «il problema dei Rom e degli immigrati», magari – nel caso dei primi – smantellando i «campi» ed espellendoli in massa dall’Italia («la Repubblica», 15 maggio 2008)1. O come il sondaggio effettuato nello stesso periodo dall’Ispo di Re­92

nato Mannheimer – poi trasmesso a diversi media – secondo il quale, per l’81% del campione, l’«etnia» più antipatica agli italiani era quella degli «zingari», seguiti a ruota dagli albanesi (74%) e dai romeni (64%), mentre la palma dei più simpatici andava a filippini e senegalesi. Certo, si era nel pieno dell’ondata xenofoba – anzi, razzista – contro rom e romeni: quella iniziata all’indomani del 30 ottobre 2007, il giorno dell’omicidio di Giovanna Reggiani da parte del rom romeno Nicolae Romulus Mailat (anche se il processo a suo carico avrebbe messo in luce parecchie zone d’ombra)2. Omicidio che finì per condizionare le campagne elettorali dei mesi a venire (in particolare quella per l’elezione del sindaco di Roma)3, per giustificare i «censimenti» forzati degli «zingari» nella primavera del 2008, per aprire – a seguito di un processo xenofobo di assimilazione4 – quella caccia (mediatica, ma non solo) al romeno che si sarebbe protratta almeno fino al 2009, con impressionante convergenza di opinioni e di linguaggio tra destra e sinistra. Come quando, all’indomani dello «stupro di Guidonia» – una ragazza fu stuprata da cinque uomini di nazionalità romena –, all’onorevole della Lega Nord Piergiorgio Stiffoni, che definì i romeni un «popolo di stupratori», fecero eco il quotidiano di area dalemiana «il Riformista» (28 gennaio 2008), che titolò Branco rumeno ­93

un fondo di Peppino Caldarola, e dopo qualche settimana «La Stampa», con un editoriale di Luca Ricolfi che avrebbe fatto discutere per l’uso di un’affermazione («Basandosi esclusivamente sulle denunce, quel che si può dire è che la propensione allo stupro degli stranieri è 13-14 volte più alta di quella degli italiani») che, erroneamente, naturalizzava un fenomeno tutt’altro che chiaro e oggettivo5. Mala tempora, si dirà, quei mesi a cavallo fra l’ottobre del 2007 e l’estate del 2008. Ma non è che oggi le cose siano molto cambiate, che la percezione degli italiani sia molto diversa. Almeno a leggere, di nuovo, i sondaggi. Prendiamo quello pubblicato dal quotidiano «Il Foglio» il 21 febbraio 2011. Alla domanda «Parliamo delle diverse etnie che vivono in Italia e che talvolta danno problemi con la sicurezza e l’ordine pubblico. Quali sono tra queste quelle che lei teme di più? Ne indichi al massimo due», le risposte sono state: zingari (39%), albanesi (36%) e romeni (33%). Oppure si prenda lo studio voluto nel 2010 dalla Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, reso pubblico col titolo Io e gli altri: più di due giovani su tre proverebbe «antipatia» nei confronti di rom e sinti, e la maggioranza di questi addirittura una «forte antipatia»6. O ancora, si sfogli il rapporto conclusivo dell’Indagine sulla condizione di ­94

Rom, Sinti e Camminanti condotta sempre nel 2010, e sempre su campione statistico, dalla Commissione diritti umani del Senato. Il 47% degli italiani avrebbe un’immagine decisamente negativa degli zingari, mentre sarebbero ben di più quelli che credono che gli zingari siano nomadi (84%), che vivano soltanto di furtarelli e sfruttando i minori (92%), e che vogliano vivere nei campi, meglio se isolati dal resto della città (83%)7. Stigma e avversione netti, quindi. Ma basati su che? Non certo sulla conoscenza diretta. Perché i dati ci dicono che la stragrande maggioranza delle risposte (circa l’80%) contenute nell’inchiesta Io e gli altri non si basa su esperienze personali, su contatti concreti. Ma piuttosto sul sentito dire, sul luogo comune: quello che vuole gli «zingari» tutti uguali, tutti ugualmente brutti, sporchi e cattivi. E colpevoli. Ora, occorrerebbe soffermarsi sul luogo comune. Che non veicola necessariamente una falsità (da rifiutare a priori, da negare): perché sarà pur vero – ce lo racconta cum grano salis Luca Cefisi in Bambini ladri. Tutta la verità sulla vita dei piccoli rom, tra degrado e indifferenza (2011) – che tra gli «zingari» esistono comportamenti devianti (quale gruppo, d’altronde, non ne annovera?). Semmai, veicola una banalità: una generalizzazione di comportamenti individuali assurti – grossolanamente, falsamente (è ­95

ancora Cefisi a ricordarcelo) – a caratteristica di gruppo. E spesso non solo anticipa la conoscenza, ma la sostituisce. Anzi: la impedisce, la rende vana. E allora, da banale il luogo comune diventa fattuale. Mentre invece i fatti sono altri: e sono troppo spesso misconosciuti. Quanti di quelli che li giudicano sanno effettivamente qualcosa degli, sugli «zingari»? Pochi, pochissimi. Se così non fosse, saprebbero che la maggior parte di essi è ormai stanziale da tempo. (E comunque occorrerebbe distinguere tra sinti, in minoranza, ancora parzialmente nomadi; e rom, nella quasi totalità, prevalentemente stanziali. E occorrerebbe anche distinguere tra gruppi diversi, insediatisi in periodi diversi.) Saprebbero che la metà di essi sono cittadini italiani (con buona pace di chi vorrebbe gli zingari fuori dall’Italia). E che, soprattutto, non sono «milioni» – come credono quattro intervistati su dieci, quale che sia l’inchiesta di riferimento – ma circa 160-170.000: lo 0,25% della popolazione italiana (ripeto: lo 0,25%, la percentuale più bassa tra i paesi europei)8. E di questi nemmeno un terzo, poco più di 50.000, vive effettivamente nei famigerati «campi»9. Certo, occorrerebbe anche vedere come sono fatti questi sondaggi, queste inchieste. In che modo possono orientare – con domande chiuse, retoriche – le risposte. Per rendersene conto, basta rileggersi la domanda di prima, quella ­96

pubblicata dal «Foglio», che chiede al lettore di associare – senza riserva alcuna – «etnie» a «problemi con la sicurezza e l’ordine pubblico». O magari prendere, a caso, una delle domande che affollano il web per pseudo «sondaggi» (condotti senza alcun metodo statistico) ad uso e consumo di commentatori e bloggers. Come quello proposto dal quotidiano online «SiciliaLive» il 1° settembre 2010: Si parla tanto, sulla scorta delle ultime vicende di cronaca, di rom e di integrazione. Noi la buttiamo giù piatta, con un nuovo sondaggio e una domanda chiara e cruda. I rom di Palermo... 1) Andrebbero sistemati in case o in un campo decente; 2) dovrebbero essere rimandati a casa.

Che tipo di risultati potranno mai venir fuori da un’inchiesta così? Sembra che – salvo (rare) eccezioni – l’informazione sia fatta per avallare ciò che il lettore in qualche modo già pensa, immagina, vuole sentirsi dire. Dando credito, per esempio, al luogo comune. Come? Rimettendolo costantemente in circolo. A sfogliare certi giornali, salta subito agli occhi una certa sovrarappresentazione. Che ci dà l’impressione che gli «zingari» siano ovunque: una minaccia costante, numericamente pericolosa, onnipresente. E non solo in periodi di «bolle informative», di «cicli di attenzione»10, ovvero a seguito di episodi di cronaca che in mi­97

sura più o meno evidente vedono coinvolti degli «zingari». Prendiamo ad esempio un quotidiano molto diffuso a Torino: «Cronaca qui» (circa 40.000 copie vendute nell’area metropolitana, dato dell’ottobre 2010), politicamente orientato a destra, ma piuttosto popolare tra lettori di ogni tipo. Nei soli mesi di novembre e dicembre 2010, gli articoli sugli «zingari» si contano a decine. Solo in un paio di giorni – nel quotidiano più letto in città dopo «La Stampa» – non si è trovato alcun riferimento agli «zingari». In tutti gli altri casi, c’era infatti almeno una notizia che li riguardava. È un’informazione che ripete stilemi e modalità (l’uso massiccio di virgolettati per riportare la vox populi esasperata della cittadinanza, che peraltro rimane quasi sempre anonima; sillogismi e paragoni che si basano su premesse discutibili; iperboli, titoli costantemente «urlati»), che tenta di oggettivizzare opinioni, supposizioni: Il fatto. Scippata in strada mentre va in chiesa. Gettata a terra e picchiata selvaggiamente. Ottantenne alla fermata del bus massacrata di botte dagli zingari «son certa che fossero degli zingari [...] l’ho detto anche ai poliziotti...» («Cronaca qui», 12 dicembre 2010).

Qui l’assunto del paratesto (occhiello, titolo, sottotitolo) viene messo in dubbio già dall’articolo stesso, perché gli aggressori – così si legge ­98

– avevano dei caschi, e quindi non erano facilmente riconoscibili, e perché non viene citato nessun altro indizio o testimonianza – salvo quella, confusa, dell’aggredita – che possa far pensare effettivamente a degli «zingari». Ciò non toglie nulla alla gravità dell’episodio: ma perché chiamare in causa sempre «i soliti sospetti», se non si hanno le prove? Ci sono, ovviamente, luoghi comuni che si ripetono. C’è l’idea della finta indigenza (e del rovesciamento di prospettiva: in realtà «loro» stanno benone, con tutte quelle Mercedes e Bmw, con tutti quei privilegi; siamo noi, «comuni mortali», che stiamo male). C’è l’idea del degrado. E c’è soprattutto l’idea dello sporco, del germe estraneo, del contagio, perché gli zingari sono una minaccia per la salute – tanto fisica quanto morale – del corpo sano della società. Lo sappiamo da tempo: da quando, nell’Ottocento, il termine «zingaro» divenne sinonimo di «colera» nelle Romagne paludose11. Fanno in questo senso riflettere – rimanendo in Italia – le ordinanze comunali o regionali in materia di igiene pubblica che dagli anni Settanta in poi hanno posto al centro la «questione degli zingari». Solo negli anni Settanta, in Veneto, circa un centinaio di ordinanze comunali su 136 riguardanti l’espulsione degli zingari erano basate su motivi sanitari12. Nel veronese, da cui proviene tra l’altro l’espressione dialettale on­99

to come un zingaro, «sporco, sudicio come uno zingaro»13, queste politiche avrebbero spesso coinciso con mirate campagne di stampa, che tendevano a rappresentare gli zingari come «gente [che] vive in sporche tende di foggia vagamente indiane, dove l’unica cosa umana è la sporcizia» («L’Arena di Verona», 8 dicembre 1972), e «[individui] che infestano la città» («L’Arena di Verona», 17 febbraio 1979)14. Porre l’accento sul tema dell’igiene, però, non è solo l’effetto di uno stereotipo di lunga durata. Sarebbe stato infatti anche il mezzo migliore, per molte amministrazioni, per negare agli zingari il diritto di risiedere e stabilirsi nelle città e nei paesi, e quindi di muoversi liberamente sul territorio: un modo talmente efficace da spingere l’allora ministro degli Interni a diramare, di fronte alle espulsioni extra moenia, una circolare a salvaguardia del nomadismo (11 ottobre 1973)15. Eccolo, l’altro topos. Il nomadismo. «Nomade» è il nome che sembrava politicamente corretto, quando su «zingaro» pesavano secoli di significati spregiativi, di espressioni idiomatiche offensive. Ma «nomade» ha una valenza politica, oltre che semantica, ben precisa. Come si fa infatti – è ciò che si legge in un articolo preso sempre da «Cronaca qui» nel novembre 2010 – a chiamare «nomadi» persone che risiedono in un campo da trent’anni? Non è una contraddi­100

zione? Perché – lo ha scritto bene Nando Sigona in Figli del ghetto, e in altri successivi lavori – stabilire l’equivalenza tra zingaro e nomade significa stabilire che il nomadismo è ancora una componente importante per gli zingari. Quando di fatto sappiamo che non è più così, per la stragrande maggioranza di loro. Ma a noi – e agli amministratori delle nostre città, delle nostre regioni, i quali infatti nei decenni scorsi si sono spesi per costruire campi (anzi, camping: pensati cioè secondo le coordinate culturali di chi li costruiva, non di chi li avrebbe dovuti abitare) e non soluzioni abitative stabili – fa comodo pensare che sia così. Perché cercare soluzioni durature, permanenti, per gli «zingari»? Tanto prima o poi se ne andranno. O no? I campi realizzati erano infatti (generalmente) posti pensati per la sosta temporanea e non per l’abitazione di gruppi sedentari. Non avevano neppure le minime strutture d’accoglienza previste dalla legge (acqua corrente, fogne, luce). Risultato? Due o tre generazioni di «zingari» sono sostanzialmente nate e vissute in luoghi non molto dissimili – ha scritto l’antropologo Leonardo Piasere – dalle discariche16: con tutte le conseguenze – umane, sociali – che questo ha comportato e ancora comporta. Così, quando sentiamo l’espressione «campo nomadi», ormai visualizziamo rapidamente le solite immagini, che di quei posti – degradati e ­101

spesso degradanti per chi è costretto ad abitarci – restituiscono solo la miseria, mai l’umanità. O la storia. Anzi, le storie: visto che ogni «campo» ha la propria. Ma quanti di noi ci sono stati mai in un «campo nomadi»? Quanti di quelli che li vorrebbero chiudere, o bruciare (perché nei blog in internet si trova anche questo)? O dei giornalisti che ne scrivono? Quanti sono stati tra il fango e le lamiere di Parco Stura, a Torino? O nelle cosiddette favelas di Triboniano, a Milano («la più grande favela cittadina», «Corriere della Sera», 3 maggio 2011), o in via Cornalia («Un alveare di locali sovraffollati. Una favela brasiliana, uno slum indiano. Da Rio a Calcutta passando per Milano. Nel cuore della metropoli del futuro. La città della moda e quel che sarà. Per adesso, tante tantissime mosche. E una casa occupata dai nomadi», «Corriere della Sera», 11 maggio 2003, e qui è chiaro che la definizione non dipende dalle caratteristiche dell’abitato – che nulla ha da spartire con una favela brasiliana – ma da quelle degli abitanti). Altro termine tutto da studiare, favela: etichetta pronta all’uso per connotare chi ci abita. Come nel caso di ghetto, casbah, suk: luoghi reietti all’interno di quella che è diventata una vera e propria geografia (e toponomastica) dell’alterità, della marginalità. Il suk, ad esempio, non indica più un luogo dove si mercanteggia, spesso in modo caotico, ma fa riferimento alla presen­102

za di «altri», magari antagonistici rispetto agli «autoctoni» («Per debuttare con falafel e sushi, ‘pasta de mici’ e un mucchio di biro, pinze per capelli e giocattoli made in China i giovani imprenditori stranieri hanno scelto il centro storico. Il ‘suk’ è spalmato tra via San Lorenzo e Borgo Rovereto», «La Stampa», cronaca di Alessandria, 18 febbraio 2010). Oppure al degrado (Degrado al Colosseo, è un suk arabo, «Corriere della Sera», 4 giugno 2009), alla mancanza assoluta di regole e legalità («senza regole non c’è mercato, c’è un suk», «La Stampa», 12 febbraio 2011), all’intralcio di marginali, balordi, soggetti pericolosi17: la sensazione che la biblioteca sia un suk arriva anche da un’altra lettera [...]: «In quella struttura non c’è tanto carenza di personale addetto, quanto questioni di sicurezza. Farei [...] rilevare la costante presenza di vari bivaccatori e di persone mentalmente disturbate che con il loro comportamento aggressivo provocano ansia, paura e disagio agli utenti della biblioteca, in particolare ai bambini [...] («La Stampa», cronaca di Torino, 26 febbraio 2010).

Non so se è corretto parlare di razzismo, qui, pur nel senso lato del termine. Certo è corretto parlare di cattiva informazione. Che crea cattiva opinione pubblica. Torniamo agli zingari. Caso limite, dicevamo, quello di «Cronaca qui»: giornale che non brilla ­103

certo per imparzialità, per equilibrio, e fa del sensazionalismo legato alla cronaca locale la sua arma migliore. Ma vengono in mente anche altri episodi, altri esempi. Penso alle errate supposizioni, alle mancate rettifiche. Come nel caso del neonato rapito all’ospedale di Nocera inferiore. Ve lo ricordate? Era l’inizio di giugno del 2010. I siti internet dei principali quotidiani diedero immediatamente il lancio, e «Libero» e «il Giornale» si affrettarono ad accusare i rom, benché non ci fosse la minima prova a loro carico: Rapito neonato all’ospedale di Nocera. Una finta infermiera ha preso il piccolo. Caccia a due donne rom su una Fiat Punto («Liberonews», 7 giugno 2010). Nocera. Bimbo rapito nel reparto maternità: caccia a due donne rom [...] Ora si cerca una Fiat Punto di colore verde con due donne rom a bordo, che si sarebbe allontanata in direzione Napoli dall’ospedale Umberto Primo («il Giornale», 7 giugno 2010).

Anche i siti dei più moderati «Corriere della Sera» e «La Nazione», a ben vedere, non furono da meno. Perché, benché non riportassero riferimenti espliciti alle rom rapitrici, associarono immediatamente – nello stesso box, graficamente – la notizia dei fatti di Nocera a un’altra notizia di cronaca: il presunto rapimento di un ­104

bambino da parte di tre rom, a Fiesole (Neonato rapito in ospedale. Caccia a una falsa infermiera e, subito sotto, Prato. Bimbo sul balcone di casa. Rom cercano di portarlo via, «Corriere della Sera», 7 giugno 2010; Nocera inferiore. Neonato rapito da finta infermiera e, a fianco, Prato. Tentano di prendere bimbo. È caccia a tre rom, «La Nazione», 7 giugno 2010). Della serie: chi ha orecchie per intendere... Ecco servita la leggenda della zingara rapitrice18. Malgrado in Italia una sola sentenza – dal dopoguerra! – sia stata emessa contro una nomade sospettata di aver tentato di «rubare» un bambino. Una sola sentenza. Peraltro molto discussa, come racconta bene Silvia Tosi Cambini nel suo La zingara rapitrice (2008). E come ricorda anche Luca Cefisi nel già citato Bambini ladri19. Ma i pregiudizi sono duri a morire. Tanto più duri a morire quanto più facili a veicolare. Anche attraverso precise strategie testuali. Ve ne mostro un esempio, uno fra i tanti. Prendiamo questo articolo: Moncalieri, guerriglia fra rom [titolo] I disordini si sono conclusi con il lancio di bottiglie incendiarie [...] Le versioni di accusa e difesa sono contrastanti. Di certo c’è una sorta di guerriglia andata in scena al campo nomadi di Moncalieri [...] tra esponenti di

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una stessa famiglia del campo [...] Ecco l’ennesimo capitolo di una delle storie più travagliate della città [...] il campo nomadi appunto. Nella notte di lunedì una coppia di rom è stata notata sulla tangenziale con due bottiglie [...] potenzialmente incendiarie [...] Le stesse bottiglie sarebbero state poi lanciate all’interno del campo contro i rivali [...] Una guerra che [...] è avvenuta tra un fratello e una sorella [...] Nessun sindaco è riuscito a gestire con efficacia il problema e la convivenza tra le famiglie rom, tutte della stessa etnia serba ma divise da vecchie ruggini che periodicamente si rinfocolano («La Stampa», cronaca di Torino, 27 agosto 2009).

Ordinaria cronaca metropolitana, si direbbe. Eppure, a una lettura più attenta, qualcosa salta agli occhi. Passi che si parli di «emergenza nomadi» per una rissa (ma immaginereste di trovare un’equivalente «emergenza adolescenti» per una rissa fuori da una discoteca?). Passi anche che una lite tra due famiglie diventi una «guerriglia». Qui a sorprendere è l’uso di un elemento testuale: il cosiddetto «incapsulatore anaforico»20. Il termine è tecnico, ma il concetto è chiaro. Si tratta di un’anafora – ovvero una ripresa per mezzo di un pronome, un sostantivo, ecc. – di qualcosa già detto in precedenza (come nel caso di «Mario è venuto a cena ieri sera. Il mio amico è davvero una persona speciale», dove «il mio amico» è ripresa anaforica di «Mario»). Solo che al posto di «riprendere» ­106

un nome, riprende una porzione di testo, di informazione, che in parte deve essere ricostruita, indovinata dal lettore. Nel nostro caso questa è la funzione di «l’ennesimo capitolo», in riferimento al testo che lo precede. Ma l’incapsulatore anaforico non riprende soltanto: spesso veicola anche un giudizio su ciò che riprende. Introduce un’informazione supposta presentandola come evidente o realizzata. E qui ne abbiamo un limpido esempio. Perché «ennesimo» ci fa pensare che l’episodio sia solo l’ultimo di una lunga serie, anche se il testo dell’articolo non lo dice. Ovvero: non sappiamo che cosa sia successo prima, quante volte quelle famiglie di «zingari» si siano prese a male parole, si siano fatte la «guerra». Però lo immaginiamo, che questa non sia la prima volta: grazie a quell’«ennesimo capitolo», grazie a quella implicita reiterazione21. Eccolo in funzione, il nostro incapsulatore. Ci prende per mano, e ci conduce... dove vuole il giornalista: non alla nuda informazione, ma all’opinione pregiudiziale che lui vuole farci condividere. Trattandosi di zingari, non gli è difficile.

Quelli che l’emergenza

– Gli immigrati sono l’emergenza. – I razzisti e gli imbecilli, la norma. (Vauro, 2008)

Due flash: estemporanei solo all’apparenza. Il primo. Un progetto senza fini di lucro chiamato Il futuro del mondo passa da qui (www.fmpq.it), che sarà presto un libro. E che è già un omonimo documentario (di Andrea Deaglio), vincitore del festival parigino «Cinéma du réel 2011». Un documentario che narra di un luogo sospeso, le «basse dello Stura»: e di tutte le storie che vi si intrecciano, da qualche anno a questa parte. Non solo quelle dei tanti spacciatori e «tossici» che qui mercanteggiavano alla luce del sole (da cui l’ufficioso toponimo, tanto amato dalla stampa locale, di «Toxic Park»). Ma anche quelle di alcuni immigrati dal Sud Italia che negli anni Cinquanta e Sessanta colonizzarono le rive del fiume creando orti «abusivi», e che in mezzo agli orti hanno costruito piccole casette per passare il fine settimana. O quelle di «barboni» ­108

che hanno deciso di vivere qui, lontano dal frastuono – e dallo stigma – del centro città. O ancora, quelle degli «zingari» (profughi e migranti provenienti dall’Est Europa) che sul Lungo Stura Lazio hanno costruito baracche di lamiere e cartone, tirato su tende con sacchi di plastica, costruito abitazioni con pareti di fango. Arrivati qui di passaggio o per restare, per nascondersi o ripartire, in cerca di un po’ di fortuna o soltanto di un luogo da cui non (dover) scappare. Un’intera comunità di quasi cinquecento persone con le proprie regole, le proprie abitudini, le proprie idiosincrasie. I bambini giocano, gli adolescenti sognano fughe e avventure, gli adulti cercano – come possono – di mettere insieme il pranzo con la cena. D’estate, tutti si rinfrescano bagnandosi nel fiume. D’inverno, patiscono il freddo. Tutti. Secondo flash. Un’inchiesta di Rai 3, La grande paura, andata in onda nel marzo del 2008: facendo rumore, suscitando clamore. Perché parlava di furti, rapine, borseggi. Di criminalità. Che sembrava aver stretto in una morsa mortale Milano. E quindi l’Italia. E lo faceva alternando inseguimenti e arresti della polizia a immagini di accampamenti «rom» improvvisati sotto i ponti della ferrovia: zoomando sul degrado in cui vivevano i loro disperati abitanti. Non c’è, non viene stabilito un legame esplicito tra i primi e i secondi: tra quei crimini e quegli accampamenti. Ma – lo sappiamo fin da ­109

Eisenstein – il «montaggio parallelo» può essere più potente, e più assordante, di qualsiasi didascalia e spiegazione. Risultato? Furti, rapine, borseggi, criminalità uguale rom (o meglio, rom romeni: chiunque essi siano). Punto e basta. L’«etnicizzazione» del crimine (e la criminalizzazione su base «etnica»)1 è servita. Senza molte spiegazioni. Senza dati, riscontri oggettivi, distinzioni. Ma ponendo semmai l’accento sul frame ansiogeno ed emergenziale delle vicende: trasferendo così la narrazione dal piano razionale a quello pre-razionale, emotivo. Non a caso l’inchiesta è stata uploadata su youtube con il sottotitolo «Emergenza Rom». «Emergenza Rom». Ma anche «emergenza nomadi» o «emergenza zingari». Espressioni da anni usate – e abusate – dai media: L’emergenza zingari spacca Firenze («Corriere della Sera», 7 ottobre 1995) Emergenza zingari. Allontanata una colonna di caravan («La Stampa», cronaca di Savona, 8 luglio 1998) Finita l’emergenza nomadi. Le carovane lasciano Novi e Serravalle («La Stampa», cronaca di Alessandria, 7 agosto 1998) L’emergenza zingari, anche a seguito di una serie di furti in alloggi, ha portato ad un’intensificazione dei servizi preventivi da parte delle forze dell’ordine («La Stampa», cronaca di Savona, 18 agosto 2000)

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«Emergenza nomadi, Milano non può accogliere tutti» («Corriere della Sera», 21 maggio 2007) Emergenza nomadi. La rabbia che sale. Urla contro i giudici «troppo buoni». Sei anni e mezzo al rom che fece una strage guidando ubriaco, il pm ne voleva quattro («La Stampa», 6 ottobre 2007) Emergenza Rom. Chiamparino attacca Maroni «Subito il commissario» («La Stampa», cronaca di Torino, 24 maggio 2008)

Un’emergenza che dura da tempo. Ricorrente. Ciclica. E quindi in realtà prevista, prevedibile, quando non calcolata. Ammesso che di «emergenza» si tratti davvero (come nel caso, a cui si riferisce uno degli esempi citati, dell’accusa di omicidio colposo ai danni del «rom» che ha causato un incidente stradale: un atto singolo, individuale, casuale, può generare un’emergenza diffusa, collettiva, attribuibile a un gruppo specifico?). Ammesso che si possa davvero qualificare la sola presenza di un gruppo di persone – per quanto poco ci piacciano – come «situazione particolarmente critica, difficile» o «di pericolo grave e generalizzato». Come emergenza, appunto. Siamo così assuefatti a certe parole, certe espressioni, che non ci interroghiamo neanche più sul loro uso, sul loro significato. Le prendiamo per buone. Le accettiamo, acriticamente. E questa accettazione non si riflette soltanto sul ­111

nostro vocabolario quotidiano: sulla sua povertà, sulla sua sciatteria. Ma anche – ovviamente – sull’omologazione e sulla passività del nostro pensiero. Che esercitiamo sempre meno al dubbio (non ne abbiamo il tempo, la voglia: le priorità sono altre, suvvia), sempre meno a mettere in discussione idee, etichette, parole che riceviamo come fossero degli assiomi, dei mantra2. «Emergenza» è sicuramente tra queste. A quante «emergenze» abbiamo recentemente assistito o assistiamo oggi? Tutto in Italia sembra «emergenza», come se la politica – e la società – non fossero più in grado di programmare, prevedere, pianificare. Come se tutto ci cogliesse alla sprovvista, impreparati. Sempre. E ripetutamente, continuamente (alla faccia del significato stesso di emergenza: «circostanza, difficoltà imprevista»). Come se vivessimo costantemente sul filo del rasoio. O fuori dall’ordinario (e di qui la necessità di provvedimenti extra-ordinari, di deroghe, deleghe, eccezioni). Ecco allora l’«emergenza caldo» (o l’«emergenza freddo»), l’«emergenza piogge», l’«emergenza incendi», l’«emergenza traffico», l’«emergenza malasanità», l’«emergenza bullismo», addirittura l’«emergenza quote latte», l’«emergenza zanzare». Per non parlare dell’infinita «emergenza rifiuti»3. La madre di tutte le emergenze di questi ultimi anni però è l’«emergenza sicurezza». L’e­112

spressione non è certo nuova. Ma fino agli anni Novanta si associava, di regola, agli incidenti stradali o agli incidenti sul lavoro. Mentre da qualche anno – con picchi tra il 2008 e il 2010, stando al documentato rapporto Il tempo delle rivolte, stilato dal Centro studi e ricerche Carta di Roma, l’osservatorio permanente su media e razzismo dell’Università La Sapienza – viene associata all’immigrazione. Consolidando così il binomio immigrazione-sicurezza, e quindi supportando l’idea che un argomento tanto complesso (l’immigrazione) possa essere affrontato in modo estemporaneo – emergenziale, appunto – attraverso politiche securitarie. Per definizione, le emergenze esigono risposte: immediate. L’«emergenza sicurezza» non fa eccezione. E infatti le risposte sono arrivate, arrivano. Con i cosiddetti «pacchetti sicurezza». Il primo «pacchetto sicurezza» («Misure legislative per la sicurezza») viene approvato dal Consiglio dei ministri presieduto da Romano Prodi il 30 ottobre 2007. Siamo – ironia della sorte – a poche ore dall’assassinio – già citato – di Giovanna Reggiani; alla vigilia dell’«allarme criminalità», della «questione romena», degli «appelli bipartisan», delle «prove di dialogo fra Cdl e Unione sull’emergenza sicurezza» («La Stampa», 5 novembre 2007). Nel giro di poche ore vengono licenziati quattro disegni di legge, tra cui quello contenente le «disposizioni ­113

in materia di sicurezza urbana». Ad ispirarli, si legge nel documento illustrativo del Ministero dell’Interno, è il principio che «la sicurezza è un diritto», sostenuto dalla consapevolezza che «attuare i principi di Libertà e Giustizia non è possibile senza garantire la sicurezza ai cittadini dell’Unione Europea. La sicurezza, sia interna che esterna, è uno dei diritti fondamentali della Ue e la sua rea­lizzazione è competenza di ogni autorità pubblica, di ogni governo». Il secondo «pacchetto sicurezza» è di qualche mese dopo. Il centro-destra ha appena vinto le elezioni politiche (in parte, proprio per essere uscito vincente dal dibattito sulla «sicurezza»). E – come promesso in campagna elettorale – presenta un decreto legge (il 92 del 23 maggio 2008) recante «misure urgenti in materia di sicurezza pubblica» (convertito in legge due mesi dopo), poi due disegni di legge sulle «disposizioni in materia di sicurezza pubblica» e tre decreti legislativi, relativi al ricongiungimento familiare dei cittadini stranieri, al riconoscimento dello status di rifugiato, e alla libera circolazione dei cittadini comunitari. Sicurezza: un vero totem linguistico, all’interno di quei provvedimenti. Soffermiamoci su quelli del 2008. Che vengono presentati da Berlusconi il 21 maggio durante una conferenza stampa sull’«emergenza rifiuti» a Napoli. Affinché la sicurezza risulti chiaramente inserita nel ­114

frame – direbbero i semiologi4 – dell’emergenza: una cornice che implica ordinanze urgenti, imperativi di ordine pubblico, corsie preferenziali in parlamento, apparati legislativi immediatamente operativi. «Misure urgenti», appunto, che non necessitano di lunghi ragionamenti su cause e conseguenze. Ma solo di atti. Tutto il resto è implicito, lo si dà per scontato, lo si conosce già («con tutte le conseguenze che conosciamo», dice Berlusconi durante quella conferenza stampa). Argomenti e azioni si autolegittimano, o vengono legittimati da un sapere presupposto, delegato, e presentato – dal potere esecutivo, e dai media – come condiviso. Emergenza. Sicurezza. E paura. Perché, all’interno di quel frame, il tema della sicurezza è il tema della paura. Perché il cittadino ha «diritto a non avere paura». Ma come si fa a quantificare la paura? A oggettivizzare uno stato d’animo? E soprattutto su che cosa si fondano i sentimenti di paura? Su esperienze negative dirette? O piuttosto – ma non solo – su percezioni, proiezioni, rappresentazioni astratte della realtà (come sembra suggerire il 16° Rapporto dell’Osservatorio del Nord Ovest su «Insicurezza e Paura del crimine»), e sulla loro «costruzione discorsiva»?5 E infatti, prima delle cause (che andrebbero indagate, approfondite, rese note) vengono le soluzioni. Il «pacchetto sicurezza» non è generato da motivi specifici, ma da una paura gene­115

ralizzata, basata su un’insicurezza percepita più che reale6 (epperò data per certa, auto-evidente, secondo un meccanismo tautologico, o «autopoietico», ben spiegato dal sociologo Alessandro Dal Lago)7, a cui porre rimedio attraverso la costruzione di un sistema di «misure» tranquillizzante, rassicurante. A motivarlo sono la «straordinaria necessità» e l’«urgenza di introdurre disposizioni» volte ad «apprestare un quadro normativo più efficiente», per contrastare «fenomeni di illegalità diffusa collegati all’immigrazione illegale e alla criminalità organizzata» (così Berlusconi, ancora in quella conferenza stampa). Il cerchio si chiude: emergenza, sicurezza, urgenza, misure, contrasto, illegalità, immigrazione (illegale), criminalità organizzata. Una catena suggellata da una dichiarazione del ministro degli Interni Maroni, ad approvazione definitiva del Ddl (23 luglio 2008). A suo dire, la legge avrebbe consentito «un contrasto più efficace dell’immigrazione clandestina, una maggiore prevenzione della microcriminalità diffusa attraverso il coinvolgimento dei sindaci nel controllo del territorio e una più incisiva lotta alla mafia grazie alla norma che prevede l’aggressione ai patrimoni dei boss». Ma la parola feticcio resta sempre quella: sicurezza. C’è chi sostiene che sia diventata una parola chiave – o meglio, una parola d’ordine – ­116

solo dopo l’11 settembre. Occorrerebbero verifiche puntuali per stabilirlo. È probabile comunque che quantitativamente (e qualitativamente) l’attentato alle Torri Gemelle sia stato un punto di non ritorno, nella percezione «occidentale» della sicurezza. Basti pensare che solo nel 2002, negli Stati Uniti, sono stati approvati ben cinque piani strategici ad hoc sulla «sicurezza»8. «La sicurezza al primo posto» (Der Sicherheit Vorrang geben) era lo slogan del partito popolare austriaco per le elezioni del 2002. Ma il discorso sulla sicurezza ha radici lontane. Tanto che già il Trattato sull’Unione Europea (o Trattato di Maastricht, del 1992, poi ratificato nel 2007 con il Trattato di Lisbona) nella sezione sui principi fondamentali poneva il termine al secondo posto tra gli «spazi» che l’Unione dovrebbe offrire ai suoi cittadini, dopo quello della «libertà» ma prima di quello della «giustizia» («L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia», art. 3, comma 2). E «sicurezza» è già (ben) presente nel vocabolario politico e mediatico degli anni Novanta, con notevoli picchi di frequenza verso la fine del decennio. L’indicatore – proposto da Marcello Maneri – non è molto preciso, ma dà un’idea: nel «Corriere della Sera» il termine «sicurezza» (in generale) appare, nella titolazione, una media di 131 volte all’anno tra il 1992 e il 1995, una media di 252 volte tra il 1996 e ­117

il 1997 e una media di 362 volte all’anno tra il 1998 e il 2000. Un andamento simile si riscontra per «La Stampa». E si riscontra anche – non a caso, secondo Maneri – per l’uso della parola «degrado». Intesa dapprima come «abbandono» di stabili, luoghi pubblici, parchi e beni artistici, la parola assumerebbe, a partire dal 199596­e più decisamente dal 1997, il significato di «deterioramento del paesaggio urbano dovuto alla presenza di immigrati, senza-casa, tossicodipendenti, piccoli criminali», con i disagi e l’insicurezza annessi9. Secondo Vladimiro Giacché, autore dell’intrigante saggio La fabbrica del falso (2008), l’enfasi sulla sicurezza sarebbe cominciata – nel mondo occidentale – almeno dieci anni prima, vale a dire dalla caduta del Muro di Berlino. Che avrebbe comportato un passaggio dalla parola «difesa» (nei confronti del blocco contrapposto, dell’ideologia avversa) alla parola «sicurezza» (esterna e interna). La sicurezza, come concetto, sarebbe più includente, e avrebbe un significato più ampio: per garantire la sicurezza non basta difendersi, occorre attaccare. E soprattutto non basta difendersi da pericoli esterni, ma anche da pericoli interni, reali o artefatti che siano. Sì, perché mentre la difesa presuppone pericoli rea­li, la sicurezza si baserebbe sulla paura, anzi sulla sua percezione. Sulla sua costruzione. Il potere politico, perdute altre fonti di legittima­118

zione (la contrapposizione dei blocchi, comunismo vs anticomunismo), avrebbe ricercato il consenso grazie alla deriva securitaria innescata dalla paura. Ecco uno spostamento politicamente allettante – nota Zygmunt Bauman – perché se «le radici dell’insicurezza affondano in luoghi anonimi, remoti o inaccessibili, non è immediatamente chiaro che cosa i poteri locali, visibili, possano fare per porre rimedio alle afflizioni attuali». Tranne che fornire risposte circa la sicurezza personale dei cittadini in quanto collettività. Ovvero tentare di «chiudere le frontiere ai migranti, [...] inasprire le norme sul diritto d’asilo, [...] fermare ed espellere gli stranieri indesiderati, sospettati di possedere inclinazioni odiose e condannabili». In sintesi: «I governi non possono francamente promettere ai loro cittadini un’esistenza sicura e un futuro certo, ma possono per il momento alleviare almeno in parte l’ansia accumulata... con l’esibire la loro energia e determinazione in una guerra contro gli stranieri in cerca di lavoro e altri estranei penetrati senza invito nel giardino di casa, un tempo pulito e tranquillo, ordinato e accogliente»10. Questo avrebbero fatto e farebbero alcuni governi (a cominciare da quello italiano). Coa­ diuvati anche da una «industria della notizia» che non solo avrebbe alimentato questa nuova logica, ma che l’avrebbe anche generata. Mol­119

tiplicando le minacce senza analizzare le cause. Concentrandosi in particolare sulla (in)sicurezza personale, e trascurando le altre – e più misurabili – aree di (in)sicurezza individuate dal «Development Programme» dell’Onu nel 1994: la sicurezza economica, alimentare, sanitaria, ambientale, politica. Proprio le aree al centro dei rapporti del Worldwatch Institute nel 2005, basati su indicatori meno aleatori, e sulla necessità di interventi e di politiche di «sviluppo» concreti. In altri termini, la sicurezza, chiamata a colmare un vuoto ideologico della politica, sarebbe stata svuotata delle sue variabili meno emotive (quelle socio-economiche), e ridotta a problema di ordine pubblico: subordinata alla repressione della microcriminalità (reati ad «alta visibilità sociale»), e dei molteplici fastidi che infestano la vita di una classe indistinta di cittadini. Un’enfasi paradossale, proprio nell’epoca – almeno per la gran parte dei cittadini europei – più «sicura» della storia (benessere materiale, salute, aspettative di vita, ecc.)11. O forse, semplicemente, molto funzionale. Perché politicamente spendibile. Anche prima dell’11 settembre. Ricordate le elezioni politiche della primavera del 2001? Ne ricordate gli slogan? «Più sicurezza per tutti», prometteva Berlusconi. «La sicurezza è un diritto di tutti. È mio dovere garantirlo. Certezza della pena; Stop al racket dei clandestini; ­120

Giustizia più rapida», rispondeva Rutelli, sdoganando definitivamente la retorica securitaria anche a sinistra. Ben prima del primo «pacchetto sicurezza» del 2007. Il centro-sinistra scendeva sul terreno tipico della destra (legge ed ordine), provando a farle concorrenza, ma soprattutto – quel che è peggio – accettando che il tema della sicurezza, connesso con la questione dell’immigrazione e delle minoranze rom e sinti, dovesse essere tra i primi, se non il primo, dell’agenda politica della competizione elettorale, e degli anni a venire. Ecco allora la chiamata alle armi di Sergio Cofferati, sindaco di Bologna, che dalle colonne della «Repubblica» (28 novembre 2005) tuonava: «sicurezza, la sinistra si svegli». O l’intervento, sullo stesso giornale, del sindaco di Roma Walter Veltroni – al motto di «la sicurezza non è di destra né di sinistra» – in risposta alla lettera di un cittadino intitolata Aiuto, sono di sinistra e sto diventando razzista? (7 maggio 2007). O la celeberrima crociata contro i lavavetri in nome della «sicurezza e del decoro» dell’assessore alla Sicurezza di Firenze, Graziano Cioni, nell’agosto del 2007?12 Firenze fece scuola e fu molto imitata, a destra e a sinistra. E anticipò, suo malgrado, la stagione delle «ordinanze creative» da parte dei sindaci «sceriffi»: ordinanze per prevenire e contrastare – a seguito di spinte ossessive a mettere ordine e ­121

a fare pulizia (come se la città non fosse, per definizione, anche il luogo del non-ordine) – «situazioni urbane di degrado o di isolamento che favoriscono l’insorgere di fenomeni criminosi», «situazioni in cui si verificano comportamenti quali il danneggiamento al patrimonio pubblico e privato o che ne impediscono la fruibilità e determinano lo scadimento della qualità urbana», «l’incuria, il degrado e l’occupazione abusiva di immobili», «situazioni che costituiscono intralcio alla pubblica viabilità o che alterano il decoro urbano», «comportamenti che, come la prostituzione su strada o l’accattonaggio molesto, possono offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si manifestano» (Decreto del Ministero dell’Interno, 5 agosto 2008, art. 2). Queste ordinanze si tradussero in una serie di divieti (di prostituzione, di alcolici, di indossare il burqa e il burqini, di trasporto di merce in borsoni o sacchi di plastica, di camminare per strada in bikini o a torso nudo, di vendita di fiori nei locali, di rovistare nei cassonetti, di nomadismo, di graffiti, di commercio ambulante, di svolgere riunioni religiose non in lingua italiana, di stazionamento e assembramento, di appoggiare i piedi sulle panchine, di dormire in auto, di dare cibo agli animali, ecc.) che fecero discutere. Non solo perché, di fatto, erano rivolte quasi sempre a colpire alcuni gruppi o individui considerati pregiudizialmente pe­122

ricolosi (prostitute, venditori ambulanti, lavavetri, mendicanti, writers, vagabondi, ecc.), ma anche perché modificavano il modello di città fin dai luoghi (sedili, panchine, stazioni ferroviarie), rendevano illeciti comportamenti leciti, introducevano sanzioni a carattere preventivo, elementi di discrezionalità (dei sindaci) e frammentazione (con una selva di divieti e prescrizioni) nell’universalità e nella razionalità del diritto13. Indicavano insomma, per via giuridica, la condotta «virtuosa» da seguire, basata su un modello di vita «normale», decoroso (e sappiamo, ormai, che decoro è antinomico di illegale) o meglio «normalizzato»: una sorta di «galateo della cittadinanza ritagliato sugli umori [...] di una presunta maggioranza moderata»14. E tutto in nome di una parola: sicurezza.

«Vox populi»

Sono preoccupato per i miei nipotini che a breve dovranno recarsi in moschea e genuflettersi verso la mecca e per la bambina che dovrà adattarsi al burka1.

Gli immigrati sono troppi! In realtà, sono meno di quello che si crede. Secondo alcuni sondaggi2, gli italiani credono che gli «immigrati» nel nostro paese siano ormai il 25% della popolazione residente. In realtà nel 2010 erano il 7%, circa 4,23 milioni (il dato comprende anche i «comunitari»): al di sotto delle percentuali di Spagna, Irlanda, Austria, Belgio, Germania e Regno Unito3. Senza contare che nei prossimi dieci anni l’economia italiana avrà bisogno di inserirne al lavoro altri due milioni circa4. Sono (quasi) tutti clandestini Intanto, occorre intendersi sul significato del termine «clandestino». La maggioranza dei mi­124

granti entra regolarmente nel nostro paese (in treno o in aereo) grazie a un visto turistico. Alla scadenza del permesso turistico, scatta l’irregolarità. Per diventare «clandestini di ritorno» basta che, una volta perduto il lavoro, non si riesca a trovare un altro impiego nel giro di sei mesi. Come se, in tempi di recessione economica, fosse facile trovare un nuovo lavoro: e infatti la disoccupazione tra gli «immigrati» è aumentata del 60%5. Comunque, se restiamo alle cifre, dei circa 4,3 milioni di «immigrati» presenti nel nostro paese, gli irregolari sarebbero tra i 500 e i 700.000: tra l’11 e il 15%6. Saremo invasi dall’Islam Falso. La maggioranza degli stranieri è di fede cristiana, non musulmana (e gli incrementi in termini percentuali di cristiani e musulmani si equivalgono: a dirlo sono i rapporti della Fondazione Ismu di Milano: www.ismu.org). Ci rubano il lavoro Al contrario. Secondo un rapporto della Banca d’Italia (Rapporto sulle economie regionali, 2008), gli immigrati non solo non ci toglierebbero il lavoro, ma sarebbero anzi un’opportunità per noi: perché svolgono lavori fondamentali nella cura della persona (le «badanti», ad esempio), nell’industria, nell’edilizia, nell’agricoltu­125

ra, e soprattutto perché costano meno. Percepiscono infatti retribuzioni più basse (mediamente dell’11%, ma secondo il già citato dossier Caritas-Migrantes si arriverebbe addirittura al 23%) rispetto agli italiani impiegati nello stesso settore. Senza contare lo sfruttamento, talvolta al limite dello schiavismo, dei «clandestini»: di quelli che – quando va bene – lavorano per una ventina di euro al giorno, in nero, senza neppure la certezza di vederli, quei soldi, al termine del periodo di lavoro7. Ancora: la tassazione dei redditi degli immigrati che lavorano regolarmente implica una maggiore possibilità di «spesa compensativa» a vantaggio di tutta la popolazione italiana. Insomma: gli «immigrati» lavorano in settori chiave (spesso lasciati «scoperti» dagli italiani), costano meno (anche in termini previdenziali; e spesso – è il caso di chi non può rivendicare i propri diritti – molto poco), e – attraverso le tasse – producono ricchezza per tutti. E producono anche posti di lavoro: perché moltissimi di loro – a maggio 2010 erano circa 213.000 – sono titolari di imprese8. Ci costano troppo In realtà, gli immigrati contribuiscono al Pil con una percentuale pari all’11% (dato del 2008; fonte: Caritas-Migrantes), e i contributi versati dagli immigrati nelle casse dell’Inps ammonta­126

no a circa il 4% del totale (dato 2008), ovvero: dobbiamo agli immigrati – che cominceranno a percepire pensioni solo fra molti anni, e che fino ad allora non graveranno pesantemente sul bilancio Inps – il 4% delle nostre pensioni. Uno studio della Banca d’Italia ha inoltre confermato che agli immigrati viene destinato circa il 2,5% di tutte le spese di istruzione, pensione, sanità e prestazioni di sostegno al reddito: un po’ più della metà di quanto gli stessi assicurano in termini di gettito9. Semmai, siamo noi – spesso – a guadagnare da loro. Non solo grazie all’impiego di lavoratori «in nero» e all’economia sommersa legata all’emigrazione clandestina. Ma anche grazie alla tassa imposta dal settembre 2009 sulla regolarizzazione. Le quasi trecentomila domande di regolarizzazione presentate nel 2009 hanno infatti fruttato alle casse dello Stato 154 milioni di euro in contributi arretrati e marche da bollo (dagli 80 ai 100 euro ciascuna), e la «regolarizzazione», nel solo periodo 2010-12, farà entrare nelle casse dell’Inps ben 1,3 miliardi di euro. Sono tutti delinquenti Le statistiche ci dicono che non esiste un aumento del tasso di criminalità legato all’immigrazione. Secondo il Ministero dell’Interno gli «immigrati» che delinquono sono circa il 4% ­127

del totale (e tra questi vanno conteggiati gli «irregolari», e quindi quelli accusati del reato di immigrazione clandestina), ma la quota di stranieri denunciati sul totale degli stranieri regolari in Italia si ferma al di sotto del 2%. In più, non vi è nessuna corrispondenza tra aumento degli «immigrati» e aumento della criminalità. Due dati non aggiornati ma significativi: dal 2001 al 2006 le condanne a carico di stranieri sono rimaste stabili, e nel periodo 1990-2003, mentre il numero dei permessi di soggiorno si è quintuplicato, la criminalità «straniera» ha addirittura mostrato una flessione10. Portano un sacco di malattie In realtà molti di loro, lavorando in condizioni di sfruttamento e di disagio, le malattie se le prendono in Italia. Un esempio? «Arrivano qui sani, giovani e forti, si ammalano nella Piana [di Rosarno] per gli antiparassiti, per il freddo dei capannoni in cui dormono, per il cibo malsano. Arrivano sani, e qui si ammalano di gastroenterite per le pessime condizioni dell’acqua, di malattie della pelle per aver mangiato i frutti del raccolto (il 90 per cento dei loro pasti) stracarichi di antiparassitari, e ovviamente di ogni sorta di dolori delle ossa e delle articolazioni, ovvia conseguenza del dormire all’aperto o in edifici abbandonati. Non è facile resistere cin­128

que mesi al fumo dei rami bruciati per riscaldarsi, all’umidità delle cinque di mattina, agli antiparassitari»11. C’è poi da mettere in conto che per molti di loro l’assistenza sanitaria è solo un miraggio12. Fermiamo gli sbarchi Malgrado i toni costantemente allarmati, e allarmistici, circa gli esodi «biblici», gli «tsunami umani» e gli sbarchi senza fine sulle nostre coste, i migranti che sono arrivati via mare in Italia (passando da Lampedusa, ma non solo) non hanno mai superato mediamente, nell’ultimo decennio, il 15% del totale (molto spesso il 10%; ma il dato del 2011 – a seguito degli avvenimenti politici nel Nord Africa – è destinato a subire un incremento). La stragrande maggioranza dei migranti arriva in Italia con un regolare visto turistico: e quindi non entra affatto clandestinamente nel nostro paese13. Aiutiamoli a casa loro! Peccato che l’Italia sia l’unico paese fra quelli più industrializzati ad aver ridotto drasticamente gli aiuti allo sviluppo: la quota del Pil destinata agli aiuti è soltanto dello 0,19%: ben al di sotto dell’«Obiettivo Onu» (che è lo 0,70%) e meno della metà di quanto investono, in media, gli altri paesi occidentali14. E comunque, è ancora da ­129

dimostrare che l’avvio di politiche di sviluppo nei paesi di provenienza possa effettivamente contenere l’immigrazione, frenando le partenze potenziali. La situazione economica di un pae­ se non può essere assunta come sola causa di migrazione. Anzi, spesso proprio l’avvio di un processo di sviluppo alimenta non una diminuzione, ma piuttusto una crescita della mobilità delle popolazioni15. È invece ampiamente dimostrato quanto i migranti contribuiscano allo sviluppo dei loro paesi con le rimesse economiche: non soltanto in termini assoluti (per quantità di flussi monetari), ma soprattutto in termini relativi, incidendo con percentuali molto elevate sui Pil dei singoli paesi (ad esempio, le rimesse degli «immigrati» moldavi influiscono per il 27% sul Pil della Moldavia). Ancora: «negli ultimi anni la ricerca economica ha evidenziato come le rimesse siano spesso risorse cruciali per il finanziamento di investimenti a lungo termine del migrante (per esempio, avvio di attività imprenditoriali nel paese di origine) e della sua famiglia (per esempio, investimenti nell’istruzione dei figli)»16.

Note

«Non sono razzista, ma» Come hanno raccontato anche Roberto Franchini e Dario Guidi in una delle prime inchieste sulla percezione dell’immigrazione da parte degli italiani, «Premesso che non sono razzista». L’opinione di mille modenesi sull’immigrazione extracomunitaria, Roma, Editori Riuniti, 1991. 1

Si fa presto a dire razzismo Per una sintesi, rimando all’elenco sui principali «cataloghi razziali umani» in G. Barbujani e P. Cheli, Sono razzista, ma sto cercando di smettere, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 72. 2 In italiano La razza. Analisi di un mito, Torino, Einaudi, 1966; il suo The Question of Race, scritto nel 1950 per l’Unesco, è accessibile all’indirizzo unesdoc.unesco.org (consultato il 25 gennaio 2010). 3 Per un’introduzione, si veda B. Boxill (a cura di), Race and Racism, Oxford, Oxford University Press, 2001. 4 E si vedano L.L. Cavalli-Sforza e F. Cavalli-Sforza, Chi siamo: la storia della diversità umana, Milano, Mondadori, 1995; L.L. CavalliSforza, Geni, popoli e lingue, Milano, Adelphi, 1996; L.L. CavalliSforza e F. Cavalli-Sforza, Razza o pregiudizio? Evoluzione dell’uomo fra natura e storia, Milano, Einaudi Scuola, 1996. 5 U. Hannerz, La complessità culturale, Bologna, il Mulino, 1998. 6 L.L. Cavalli-Sforza e F. Cavalli-Sforza, Chi siamo: la storia della diversità umana, cit., p. 344. 1

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7 H. Belloc, Talking (and Singing) of the Nordic Man: «Behold, my child, the Nordic man / And be as like him as you can; / His legs are long, his mind is slow / His hair is lank and made of tow. // And here we have the Alpine race / Oh! What a broad and brutal face. / His skin is of a dirty yellow / He is a most unpleasant fellow. // The most degraded of them all / Mediterranean we call. / His hair is crisp and even curls / And he is saucy with the girls», in Id., Selected essays, PhiladelphiaLondon, J.B. Lippincott Company, 1936. La poesia è citata e tradotta in L.L. Cavalli-Sforza e F. Cavalli-Sforza, Chi siamo: la storia della diversità umana, cit., p. 350. 8 Come R.J. Herrnstein e C. Murray, autori del controverso The Bell Curve, New York, Free Press, 1994. 9 Sullo scarto, non sempre netto, tra «razzismo» e «xenofobia» (tanto a livello teorico quanto a livello di pratiche discorsive), cfr. T. Van Dijk, Élite discourse and racism, Newbury Park, Sage, 1993. 10 Cfr. A. Rivera, Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo, Bari, Dedalo, 2009, pp. 30 sgg. 11 Cfr. M. Revelli, Poveri, noi, Torino, Einaudi, 2010, p. 25; cfr. anche Id., Controcanto. Sulla caduta dell’altra Italia, Milano, Chiarelettere, 2010. 12 E. Balibar e I. Wallerstein, Race, Nation, Class. Ambiguous Identities, London, Verso, 1991; e si veda soprattutto la voce «neorazzismo» contenuta in R. Gallissot e A. Rivera, L’imbroglio etnico in quattordici parole chiave, Bari, Dedalo, 1996, pp. 279 sgg. 13 V. De Rudder, C. Poiret, e F. Vourc’h, L’inégalité raciste, Paris, Puf, 2000. 14 Già oggetto dei primi studi di T. Van Dijk, ad esempio Élite discourse and racism, cit. Cfr. anche P. Tevanian, La mécanique raciste, Paris, Editions Dilecta, 2008. 15 Di Giuseppe Faso, ricordo almeno l’indispensabile – e giustamente fortunato – Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono, Roma, DeriveApprodi, 2008.

Dagli al negro! Fonte: «la Repubblica», «il Giornale», 19 agosto 2008. Fonte: «la Repubblica», «Corriere della Sera», 30 settembre 2008. 3 Fonte: «l’Unità», 14 aprile 2009. 4 Stando alle cronache, i casi in cui «sporco bianco» è stato usato 1 2

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come insulto razzista si contano sulla punta delle dita. Una certa eco ebbe, nel 2004, la notizia di un «immigrato senegalese» condannato in Tribunale a Lecco per aver detto: «Sporco bianco, bianco bastardo» all’autista di un autobus di linea. «Gli insulti, ritenuti razzisti dal giudice, costeranno al passeggero senegalese 100 euro di multa e 200 di danni morali che l’autista devolverà a una parrocchia» («Corriere della Sera», 25 settembre 2004). 5 Rimando a R.J. Boeckmann e C. Turpin-Petrosino, Understanding the Harm of Hate Crime, in «Journal of Social Issues», 58 (2002), 2, pp. 207-225; R. Clark, N.B. Anderson, V. Clark, e R.R. Williams, Racism as a Stressor for African Americans: A Biopsychosocial Model, in «American Psychologist», 54 (1999), pp. 805-816; L.B. Nielsen, Subtle, Pervasive, Harmful: Racist and Sexist Remarks in Public as Hate Speech, in «Journal of Social Issues», 58 (2002), 2, pp. 265280; e per una visione di insieme a T. Leader, B. Mullen, e D. Rice, Complexity and Valence in Ethnophaulisms and Exclusion of Ethnic Out-Groups: What Puts the «Hate» Into Hate Speech?, in «Journal of Personality and Social Psychology», 96 (2009), 1, pp. 170-182. 6 E peggio è andata a Abdoul Guiebrè, ucciso a sprangate al grido di «sporco negro di merda» per non aver pagato un pacchetto di biscotti al bar Shining di Milano. Si legga anche Pap Khouma, Noi italiani neri. Storie di ordinario razzismo, Milano, B.C. Dalai Editore, 2010. 7 Cfr. la notizia, riportata il 14 settembre 2009 dal portale del «Resto del Carlino» con il titolo «Non voglio che i negri mi tocchino». Malato insulta infermiera di colore. 8 Per un commento, rimando a L. Guadagnucci, Parole sporche, Roma, Altraeconomia Edizioni, 2010, p. 11. Sui fatti di Rosarno vale la pena di leggere A. Mangano, Gli africani salveranno l’Italia, Milano, BUR Rizzoli, 2010. 9 La vignetta causò la protesta del comitato di redazione della Poligrafici editoriale, proprietaria del quotidiano, che lo stesso giorno espresse in una nota, diffusa dall’Ansa, «fermo e totale dissenso» (fonte: Ansa). 10 J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo, trad. dall’inglese di S. Adamo, Milano, Raffaello Cortina, 2010. 11 Sul razzismo fascista, si veda almeno F. Cassata, «La difesa della razza». Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino, Einaudi, 2008.

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C’era due volte il «vu’ cumprà»... 1 Per saperne di più sulla vita e l’omicidio di Jerry Essan Masslo, cfr. www.associazionejerrymasslo.it. 2 Per una prima introduzione, cfr. il dossier di P. Ellero «Letteratura migrante in Italia», in http://www.maldura.unipd.it/masters/italianoL2/ Lingua_nostra_e_oltre/LNO3_26luglio2010/Ellero_4_12.pdf (consultato il 28 marzo 2011), e bibliografia ivi segnalata, nonché il Repertorio bibliografico ragionato sulla letteratura italiana della migrazione (1989-2008), a cura di C. Montaldi e G. Romano, in «Moderna», XII, 1, 2010, pp. 123-204. Per un primo bilancio sul tema, cfr. gli atti del Convegno internazionale di studi «Vent’anni di scritture della migrazione in Italia - Il testo e il mondo», Università di Bologna, 14-15 ottobre 2010 (in corso di stampa), e l’articolo di Daniela Brogi Smettiamo di chiamarla «letteratura della migrazione»? A proposito di un romanzo di Igiaba Scego (e non solo), in www.nazioneindiana.it (consultato il 23 marzo 2011). Rimando anche alla Banca Dati Scrittori Immigrati in Lingua Italiana (www.disp.let.uniroma1.it/basili2001), e alla rivista online «elghibli» (www.el-ghibli.provincia.bologna.it). 3 www.corriere.it, 23 maggio 2009. Ma non finisce qui. Perché non contenti di riproporre l’originale, i giornalisti e i titolisti hanno continuato, anche in tempi recenti, ad esercitare la fantasia sui derivati. Riesumando «vu’ lavà» (E ora i vu’ lavà avanzano in centro, con incipit dell’articolo che non smentisce il piglio del titolo: «Lo sciame ronza attorno alla Statale. Ma una parte s’è staccata. E ha colonizzato anche viale Tripoli, la nuova patria dei vu’ lavà. Che ora bussano alle mura. [...]», «Il Resto del Carlino», 21 aprile 2009); proponendo «vu’ parcheggià» («il Giornale», 26 giugno 2006). E inventando persino «vu’ sciuscià» («Il lido di Lipari, questa estate, offre anche ‘Il vu’ sciuscià’, extracomunitari sventolano dei ventagli per 5-10 euro l’ora per i bagnanti sdraiati», «la Repubblica», 21 agosto 2008).

Immigrato a chi? 1 Da G. Caliceti, Italiani per esempio. L’Italia vista dai bambini immigrati, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 67. 2 E si noti, comunque, come le persone nate in Italia nascano, secondo i commentatori (anche i più avvertiti), nel «nostro» paese (ma se vi sono nati e vi vivono, perché non è anche il «loro», di paese?). Cfr. ad

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esempio V. Polchi, Generazione 2, gli immigrati più laici, in «l’Unità», 25 aprile 2007: «I segnali positivi certo non mancano. Lo conferma un’inchiesta della Fondazione Giovanni Agnelli sugli studenti torinesi: il 60% dei ragazzi immigrati nati nel nostro Paese si sente italiano, così come il 50% di quelli giunti nei primi cinque anni di età...». 3 D. Cologna, «Giovani cinesi d’Italia: una scommessa che non dobbiamo perdere», in L.M. Visconti e E. Napolitano, Cross Generation Marketing, Milano, Egea Edizioni, 2009, p. 10. 4 Si veda G. Dalla Zuanna, P. Farina, e S. Strozza, Nuovi italiani. I giovani immigrati cambieranno il nostro paese?, Bologna, il Mulino, pp. 66 sgg. È indicativo che anche questo lavoro (che pure presenta i risultati di Itagen2, la prima indagine conoscitiva sulle «seconde generazioni» in Italia) riporti già a partire dal titolo la discutibile equazione «nuovi italiani» = «giovani immigrati». Si veda anche B. Thomassen, ‘Second Generation Immigrants’ or ‘Italians with Immigrant Parents’? Italian and European Perspectives on Immigrants and their Children, in «Bulletin of Italian Politics», vol. 2, 1, 2010, pp. 21-44. 5 La realtà è decisamente sfaccettata e non si può schematizzare né generalizzare. Si vedano almeno M. Ambrosini e S. Molina (a cura di), Seconde Generazioni. Un’introduzione al futuro dell’immigrazione in Italia, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 2004; E. Colombo, L. Leonini, e P. Rebughini, Different But Not Stranger: Everyday Collective Identifications among Adolescent Children of Immigrants in Italy, in «Journal of Ethnic and Migration Studies», vol. 35, 1, January 2009, pp. 37-59; nonché l’illuminante indagine di D. Cologna, E. Granata, e C. Novak (a cura di), Approssimandosi. Vita e luoghi dei giovani di seconda generazione a Torino, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 2010. 6 «Ma perché una delle prime domande fatte dai Media alle seconde generazioni deve essere sempre: ma tu sei integrato? Ti senti integrato? E i giornalisti scrivono di noi, della Rete G2, che siamo delle seconde generazioni perfettamente integrate. Ma che cosa cavolo vuol dire? Ultimamente, quando mi viene rivolta la domandina preconfezionata, la tentazione spontanea è di rispondere chiedendo a mia volta all’intervistatore: e tu? Sei riuscito a integrarti? Come se noi seconde generazioni fossimo dei corpi estranei alla società italiana. Noi siamo già società italiana» (post di Nuez in www.secondegenerazioni.it, citato in R. Parenzan, Intrusi. Vuoto comunitario e nuovi cittadini, Verona, Ombre Corte, 2009, p. 106).

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«Discriminazione transitoria positiva» 1 R. Grassi, A. Valentini, e R. Bozzone Costa (a cura di), L’italiano per lo studio nella scuola plurilingue: tra semplificazione e facilitazione, Perugia, Guerra, 2003; P.E. Balboni, Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse, Torino, Utet, 2008, p. 206. 2 A mo’ di introduzione, si leggano A. Giacalone Ramat, Verso l’italiano. Percorsi e strategie di acquisizione, Roma, Carocci, 2003; A. Ciliberti, R. Pugliese, e L. Anderson, Le lingue in classe, Roma, Carocci, 2003; C. Ghezzi, F. Guerini, e P. Molinelli (a cura di), Italiano e lingue immigrate a confronto: riflessioni per la pratica didattica, Atti del Convegno-seminario del CIS, Bergamo, 23-25 giugno 2003, Perugia, Guerra, 2004; L. Revelli, Italiano L2. Problemi scientifici, metodologici e didattici, Milano, Franco Angeli, 2009; e – per un approccio più didattico – G. Favaro, Insegnare l’italiano agli alunni stranieri, Firenze, La Nuova Italia, 2002, e M.C. Luise, Italiano come lingua seconda. Elementi di didattica, Torino, Utet, 2006. 3 J.H. Schumann, A Neurobiological Perspective on Affect and Methodology in Second Language Learning, in J. Arnold (a cura di), Affect in Language Learning, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 28-42; Z. Dörnyei, New Themes and Approaches in Second Language Motivation Research, in «Annual Review of Applied Linguistics», 21 (2001), pp. 43-59. 4 V.J. Cook (a cura di), Portraits of the L2 User, Clevedon, Multilingual Matters, 2002, pp. 1-28. 5 Cfr. ad esempio, tra i tanti testi disponibili, M. Omodeo, La scuola multiculturale, Roma, Carocci, 2007.

Clandestini si nasce o si diventa? Storie simili, ma con ben altro esito letterario, sono raccontate da E. Affinati nel suo La città dei ragazzi, Milano, Mondadori, 2008. 2 A. Rivera, Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia, Roma, DeriveApprodi, 2003, p. 57. 3 E ancora: è della primavera scorsa l’uso della metafora «tsunami immigrati» (Berlusconi a Tunisi per fermare lo tsunami immigrati, www.notizie.virgilio.it, 4 aprile 2011; Berlusconi, tsunami immigrati, www.agi.it, 2 aprile 2011), figlia dello «tsunami umano» evocato da Berlusconi alla fine di marzo, a proposito della fuga dalla Tunisia di 1

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migliaia di persone. Una metafora che rende indubbiamente l’idea: un’onda anomala gigantesca pronta a inghiottire tutto ciò che trova sul suo percorso (e, implicitamente, a fare danni incalcolabili). Un clima da apocalisse, anzi: e un climax retoricamente preparato da anni di metafore d’acqua, di «ondate» di migranti a travolgere prima Lampedusa e poi l’Italia (e al consueto campionario si è ancora aggiunta – nel frattempo – l’immagine del «chiudere i rubinetti e... svuotare la vasca» di bossiana fattura: Ansa, 5 aprile 2011). 4 Cfr. L. Ferrajoli, Libertà di circolazione e di soggiorno. Per chi?, in M. Bovero (a cura di), Quale libertà. Dizionario minimo contro i falsi liberali, Roma-Bari, Laterza, 2004; S. Mezzadra (a cura di), I confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee, Roma, DeriveApprodi, 2004; E. Vitale, Ius migrandi. Figure di erranti al di qua della cosmopoli, Torino, Bollati Boringhieri, 2004; L. Ferrajoli, Principia Iuris, Roma-Bari, Laterza, 2008. 5 G. Ferrero, Contro il reato di immigrazione clandestina, Roma, Ediesse, 2009. 6 Pur riguardando un sistema giuridico diverso da quello italiano, si legga J. Nevins, «Operation Gatekeeper». The Rise of the «Illegal Alien» and the Making of the U.S.-Mexico Boundary, New York, Routledge, 2002, pp. 121-122. 7 L. Rastello, La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 13. 8 Ivi, p. 21. Cfr. anche l’importante e ricco volume di C. Hein (a cura di), Rifugiati. Vent’anni di storia del diritto d’asilo in Italia, Roma, Donzelli, 2010. 9 Sul pronunciamento della Corte di Giustizia Europea riferiscono ampiamente quasi tutti i quotidiani del 28 aprile 2011. 10 Ne parla, tra gli altri, Giovanni Maria Bellu nel suo celebre librodenuncia I fantasmi di Porto Palo. La morte di 300 clandestini e il silenzio dell’Italia, Milano, Oscar Mondadori, 2004. Ma si vedano anche le cronache riportate dal giornalista Gabriele Del Grande sul sito di Fortress Europe (ad esempio: fortresseurope.blogspot.com/2009/11/ delitto-di-solidarieta-il-processo-ai.html). 11 Rimando ancora a L. Rastello, La frontiera addosso, cit. 12 F. Uboldi, Discorso e pregiudizio. La rappresentazione della figura dell’immigrato nella stampa: un’analisi linguistica, tesi di laurea inedita, Università di Bologna, a.a. 2007-2008, p. 42. Si veda anche il lavoro di Elena Malavolti, Discriminazioni razziali nella carta stampata, in P. Nobili (a cura di), Insulti e pregiudizi. Discriminazione etnica e turpiloquio in film, canzoni e giornali, Roma, Aracne, 2007.

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13 Sull’uso della corpus linguistics nell’analisi della rappresentazione di migranti e rifugiati, cfr. anche M. Conoscenti, La Stampa Locale in Piemonte nell’Anno Europeo del Dialogo Interculturale (2008). Un’analisi discorsiva secondo i principi della corpus linguistics (accessibile in www.paralleli.org); C. Taylor, The Representation of Immigrants in the Italian Press, «CIRCaP Occasional Papers», 21, 2009 (www.circap.unisi.it/file_download/470), e soprattutto – ma riguarda la stampa inglese – C. Gabrielatos e P. Baker, Fleing, Sneaking, Flooding.­A Corpus Analysis of Discoursive Constructions of Refugees and Asylum Seekers in the UK Press, 1996-2005, in «Journal of English Linguistics», vol. 36, 1 (2008), pp. 5-38, nonché M. Khosravinik, The Representation of Refugees, Asylum Seekers and Immigrants in British Newspapers during the Balkan Conflict (1999) and the British General Elections (2005), in «Discourse & Society», vol. 20, 4 (2009), pp. 477-498. 14 Ringrazio Gabriela Jacomella per avermi fornito questi dati. 15 Si veda il capitolo Come si diventa clandestini in Italia..., in M.C. Chiuri, N. Coniglio, e G. Ferri, L’esercito degli invisibili. Aspetti economici dell’immigrazione clandestina, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 38 sgg. Cfr. anche P. Borgna, Clandestinità (e altri errori di destra e di sinistra), Roma-Bari, Laterza, 2011, e L. Gallesi e A. Mangano, Voi li chiamate clandestini, Roma, Manifestolibri, 2010, p. 73: «Quasi tutti i marocchini [impegnati nella raccolta ortofrutticola a San Nicola di Varco] sono arrivati in Italia con un regolare visto d’ingresso, e non sui ‘barconi’ di Lampedusa. Irregolari lo sono diventati dopo, grazie a un meccanismo perverso. ‘È la stessa legge Bossi-Fini a suggerire la strada’, spiega InsuTV... ‘L’unico modo per avere un visto d’ingresso è la chiamata nominale in Marocco da parte delle aziende del settore. Che ovviamente non può che avvenire tramite intermediatori... della stessa nazionalità dei migranti. Paghi 5-6000 euro da spartire tra committente e caporale’. Ed ecco il ‘nulla osta del Centro per l’impiego, il visto di ingresso rilasciato dal consolato italiano’... Arrivati in Italia, ‘comincia il balletto dei fantasmi. L’indirizzo dell’azienda agricola o del cantiere edile non risulta, il cellulare del presunto datore di lavoro squilla a vuoto. Il contratto diventa aria; lo straniero, clandestino’. ‘Arrivati in Italia, gli emigrati hanno otto giorni di tempo per presentarsi in Prefettura con i datori di lavoro. E se le aziende agricole si rendono irreperibili, dal nono giorno diventano irregolari’, denuncia il giornalista Gabriele Del Grande...». 16 In Io sono un italiano nero. Chi sono, cosa pensano, da dove ven-

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gono. Storie, vite, viaggi, racconti e speranze di chi è arrivato in Italia per lavorare, Firenze, Cult Editore, 2010, p. 87. 17 Vale sicuramente la pena ricordare la campagna «mettiamo al bando la parola clandestino» promossa dai Giornalisti contro il razzismo (www.giornalismi.info) nel 2008, come è da riconoscere che, se il termine «migranti» ha parzialmente sostituito, sui grandi quotidiani nazionali, quello di «immigrati» (e spesso anche di «clandestini») – ad evidenziare la temporaneità di una condizione all’interno di un processo umano e sociale, e non l’ineluttabile permanenza di uno status, che come un marchio accompagna (e categorizza) nel tempo – è anche merito di questa associazione. Le cui proposte non vanno soltanto nel senso di sostituire un linguaggio «xenofobo» con un altro ritenuto più «corretto», o di riflettere sui fenomeni linguistici più superficiali, ma anche – e soprattutto – di criticare un’informazione pigra, omologata, succube di certo «razzismo democratico», e di interrogarsi sulla quantità e qualità delle notizie, sull’attendibilità e molteplicità delle fonti, sulla presenza e pluralità delle «voci» (negli articoli di giornale, nelle redazioni dei giornali: cfr. L. Guadagnucci, Parole sporche, cit., pp. 142 sgg.; a proposito di «redazioni miste», e di giornalismo interculturale, segnalo – tra le tante – l’esperienza del mensile «Il mondo capovolto», edito e pubblicato a Biella, dal 2007 al 2010, dagli amici dell’associazione culturale «Apertamente», www.apertamente.it). Richieste e sollecitazioni analoghe sono arrivate e arrivano dall’Osservatorio Carta di Roma (www.cartadiroma.org), nato per promuovere l’omonimo protocollo deontologico («concernente richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti») promosso nel 2008 dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana, dall’Ordine nazionale dei Giornalisti (www.odg.it/content/carta-di-roma: e si veda anche l’utile «glossario») e dall’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, e impegnato in attività di monitoraggio, ricerca e formazione.

Etnico è bello? 1 Cfr. anche V. Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici. Razzismo, immigrazione e società multiculturale, Roma-Bari, Laterza, 20092, pp. 133 sgg. 2 E fa specie leggere, su siti di agenzie immobiliari (e talvolta sui giornali), espressioni come «quartiere multietnico ma abitabile/sicuro/ tranquillo/ancora carino/non pericoloso/vivace/allegro ecc.», con quel-

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la congiunzione avversativa a veicolare un chiaro pregiudizio. Cfr. C. Taylor, The Representation of Immigrants in the Italian Press, cit. 3 In L. Gariglio, A. Pogliano e R. Zanini (a cura di), Facce da straniero. 30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia, Milano, Bruno Mondadori, 2010, pp. 141-145.

Zingari: basta la parola 1 Il sondaggio fu ripreso dal quotidiano britannico «The Guardian», il 17 maggio, nell’articolo 68% of Italians Want Roma Expelled. 2 Cfr. G. Naletto, L’omicidio Reggiani, in Id. (a cura di), Rapporto sul razzismo in Italia, Roma, Manifestolibri, 2009, pp. 64-68. 3 Secondo Nando Sigona le elezioni politiche e amministrative del 2008 furono, in effetti, le prime della storia repubblicana ad essere influenzate da una «questione zingari», presente non a caso nei programmi elettorali di quasi tutti i partiti politici. Cfr. N. Sigona, Via gli zingari dall’Italia [Gypsies out of Italy]!»: Social Exclusion and Racial Discrimination of Roma and Sinti in Italy, in A. Mammone e G. Veltri (a cura di), Italy Today: The Sick Man of Europe, London, Routledge, 2009, p. 150 [143-157]. 4 Qualcosa di simile era avvenuto nel 1999, quando l’arrivo di migliaia di profughi kosovari scatenò una certa ostilità verso i rom, permettendo a giornali come «Panorama» di titolare, il 22 luglio 1999, un articolo Mamma arrivano ‘li zingari!’. 5 Lo fece notare, senza peli sulla lingua, Giuseppe Faso con un commento su http://www.giornalismi.info/mediarom/articoli/art_1590. html. 6 Io e gli altri. I giovani italiani nel vortice dei cambiamenti, www.parlamentiregionali.it/dbdata/documenti/[4b7d2c0c77d9b]ricerca _razzismo_2010.pdf. 7 Senato della Repubblica, Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, www.senato.it/documenti/repository /commissioni/dirittiumani16/Rapporto%20conclusivo%20indagine% 20rom,%20sinti%20e%20caminanti.pdf. 8 L. Piasere, I rom d’Europa. Una storia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2009. 9 A proposito, vale la pena ricordare quanto ridicolo sia stato l’uso del termine «zingaropoli» – ovvero, «città degli zingari» – la scorsa primavera, in riferimento alla città di Milano (Umberto Bossi, «il

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Giornale», 19 maggio 2011, poi ripreso da Berlusconi: «Milano non può diventare una zingaropoli di campi rom, assediata dagli stranieri e che dà a questi stranieri extracomunitari anche il diritto di voto alle elezioni municipali», Agi, 23 maggio 2011). Su una popolazione di circa 1.300.000 persone, il comune meneghino conterebbe infatti meno di 5000 «zingari» (M. Ludovico, La «mappa» del popolo rom: il 36% sono cittadini italiani, in «Sole 24Ore», 16 maggio 2008, p. 18). Se la matematica non è un’opinione, sarebbe lo 0,4 % dei residenti. O, se si preferisce, il 4 per mille: non certo le tanto temute «orde di zingari che premono alle porte delle città con il coltello fra i denti» (Barbara Spinelli, Propaganda tossica, in «la Repubblica», 25 maggio 2011). 10 Cfr. L. Guadagnucci, Parole sporche, cit., pp. 78 sgg.; M. Maneri, I media nel razzismo consensuale, in G. Naletto (a cura di), Rapporto sul razzismo in Italia, cit., pp. 47-51. 11 Cfr. F. Faloppa, Le calunnie etniche nella lingua italiana, in L.L. Cavalli-Sforza, La cultura italiana, vol. II – Lingue e linguaggi, Torino, Utet, 2009, pp. 513-587. 12 Sul rapporto controllo-polizia-pulizia, segnalo, pur in maniera estemporanea, un comunicato stampa piuttosto esplicito pubblicato sul sito del Ministero dell’Interno il 12 dicembre 2002: «Controlli intensificati per i nomadi e potenziamento dei trasporti per i pendolari. I problemi del campo nomadi di Via di Salone sono stati affrontati oggi... nel corso di una riunione del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica... In primo luogo, è stato affrontato il problema della situazione del campo, in merito alla quale è stata decisa un’intensificazione dei controlli già abitualmente svolti da parte delle forze dell’ordine e da attuarsi anche, se necessario, con una frequenza quotidiana. Il Comune di Roma si è impegnato a procedere ad operazioni sistematiche di pulizia, d’intesa con l’Ama e a realizzare opere volte alla riduzione del numero delle persone presenti nel campo stesso. L’Azienda Sanitaria Locale continuerà ad effettuare controlli di propria competenza». 13 Cf. D. Coltro, Paese perduto, Verona, Bertani, 4 voll., 1975-76, vol. I, pp. 55, 162; vol. II, pp. 98, 149; vol. III, pp. 52, 64, 269. 14 Esempi citati in L. Piasere, Il popolo delle discariche, Roma, Cisu, 1991, p. 181; cfr. anche ivi, p. 185: «Invitato a parlare sul problema degli zingari, in molte scuole mi sono trovato spesso di fronte a facce schifate, quando consigliavo agli insegnanti con alunni zingari in classe di andare a far loro visita nell’accampamento. Una maestra mi riferì tutto il suo ribrezzo al riguardo non per paura di essere derubata, ma per paura di prendersi qualche malattia, e un’altra... mi confessò di

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temere di toccare i bambini in classe per paura dell’Aids». Secondo una ricerca sociologica del 1990 sugli stereotipi anti-immigrati e antizingari (P.P. Leschiutta e C. Marta, Stereotipi casuali. Dati e stereotipi in formazione: zingari e immigrati in formazione, in «Studi Emigrazioni», 99, 1990, 395-407, p. 401), gran parte degli studenti era convinta che le professioni zingare fossero «lavori che hanno a che fare con lo sporco», come «spazzacamino, lavapiatti, pulitore di scale, di bagni» e «spurgafogne». 15 N. Sigona, Figli del ghetto. Gli italiani, i campi nomadi e l’invenzione degli zingari, Civezzano, Nonluoghi, 2002, p. 108. 16 L. Piasere, I rom d’Europa, cit., p. 86. 17 Cfr. anche F. Faloppa, Parole contro. La rappresentazione del diverso in italiano e nei dialetti, Milano, Garzanti, 2004, pp. 87 sgg. 18 A proposito di leggende relative agli zingari. Ne ricordo una di alcuni anni fa: quella dello zingaro cannibale, raccontanta anche su Zingari, tutti cannibali. A scuola insulti anti-rom («la Repubblica», 5 marzo 1998, p. 10). 19 Cfr. A. Rivera, Regole e roghi, cit., p. 38: «è bastato che la figlia di un affiliato alla Camorra accusasse una quindicenne rom di tentato rapimento della propria figlia di pochi mesi perché si mettesse in moto la macchina arcaica del pogrom: una folla inferocita, composta in buona parte da popolane, accorre e tenta di linciare la ‘rapitrice’ mancata, un lavoratore è aggredito e accoltellato solo perché romeno, il consueto gruppo di ‘ragazzi’... con taniche di benzina e molotov appicca il fuoco ai poveri accampamenti rom del quartiere, la folla completa il lavoro: sbeffeggia i vigili del fuoco che cercano di spegnere i roghi, accompagna con urla e sassaiole la triste fuga notturna di uomini, donne, bambini, animali... Malgrado il rapporto della polizia avesse messo in dubbio la verosimiglianza del racconto dell’accaduto, due giorni dopo la giovane rom è arrestata con l’imputazione di tentato rapimento e imprigionata nel carcere minorile. Otto mesi dopo sarà condannata a una pena ‘esemplare’, come scrivono i gazzettieri, ingiusta, come si dovrebbe dire: tre anni e otto mesi di carcere – a una minorenne – per un reato che prevede un minimo di pena di otto mesi. Unica testimone oculare, la figlia del camorrista e madre della neonata, cioè la sua accusatrice». Cfr. M. Mora, Una sentenza già scritta, in «Internazionale», 781, 6 febbraio 2009, pp. 20-23. Sul «pogrom» di Ponticelli cfr. M. Imarisio, I giorni della vergogna. Cronaca di una emergenza infinita, Napoli-Roma, L’Ancora del Mediterraneo, 2008. 20 Cfr. R. González Ruiz, Las nominalizaciones como estrategia de manipulación informativa en la noticia periodística: el caso de

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la anáfora conceptual, in I. Olza Moreno, M. Casado Velarde, e R. González Ruiz (a cura di), Actas del XXXVII Simposio Internacional de la Sociedad Española de Lingüística, Pamplona, Universidad de Navarra, 2008, pp. 247-259, e la bibliografia lì indicata. 21 Sulla reiterazione come espediente retorico nel discorso «razzista», cfr. A. Rivera, Regole e roghi, cit., p. 21.

Quelli che l’emergenza 1 Sull’etnicizzazione del crimine, si veda A. Dal Lago, Non persone, Milano, Feltrinelli, 1999. 2 Cfr. G. Carofiglio, La manomissione delle parole, Milano, Rizzoli, 2010; G. Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Torino, Einaudi, 2010. 3 Cfr. B. Spinelli, Le nostre infinite emergenze, in «La Stampa», 19 aprile 2009. 4 E infatti devo parte delle riflessioni seguenti alla lettura di un paper della collega e amica Sara Saleri, semiologa dell’Università di Bologna: S. Saleri, Emergenze sicurezza: un discorso istituzionale sull’alterità, pubblicato il 29 marzo 2010 in www.ec.aiss.it. 5 M. Belluati, L’insicurezza nei quartieri. Media, territorio e percezioni di insicurezza, Milano, Franco Angeli, 2004. 6 Cfr. The Burden of Crime in the EU su www.europeansafetyobse vatory.eu. E cfr. il commento di F. Scaglione, Più che il crimine regna la paura, in «Famiglia Cristiana», 28 settembre 2008: «... ci piaccia o no, nel mondo reale l’Italia è un paese piuttosto sicuro. Però tanta è la paura. Siamo quinti in Europa per furti con scasso ma secondi... nella convinzione che entro un anno verranno a rubarci in casa. Ancor più clamoroso: gli italiani sono terzi... nel considerare pericolose le strade al calar della notte, con lo stesso timore dei primi anni Novanta. Il che porta a una conclusione: il problema vero, in Italia, non è il crimine. È la paura». 7 In breve, Alessandro Dal Lago definisce come «tautologico» il meccanismo per cui la semplice enunciazione dell’allarme (e della paura) dimostra la realtà che esso denuncia. Ma si veda A. Dal Lago, La tautologia della paura, in «Rassegna Italiana di Sociologia», 1, 1999, pp. 5-42; Id., Non persone, cit. 8 Cfr. AA.VV., Da Bush a Bush. La nuova dottrina strategica USA

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attraverso i documenti ufficiali (1991-2003), Roma, Città del Sole, 2004, pp. 187-201. 9 M. Maneri, Il panico morale come dispositivo di trasformazione dell’insicurezza, in «Rassegna italiana di sociologia», 1, 2001, pp. 5-40. Cfr. anche I. Diamanti e F. Bordignon, Sicurezza e opinione pubblica in Italia, in «Rassegna italiana di sociologia», XLII, 1, 2001, pp. 115-132. 10 Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 58-59. Ma cfr. anche Id., La società dell’incertezza, Bologna, il Mulino, 1999. 11 Cfr. R. Castel, L’insicurezza sociale. Cosa significa essere protetti, Torino, Einaudi, 2003. 12 Riassume bene la vicenda L. Guadagnucci, Lavavetri, Roma, Terredimezzo, 2009. Rimando anche al racconto di «Giorgio» riportato da D. Guarino, Io sono un italiano. Un italiano nero, Firenze, Cult Editore, 2010, p. 103. 13 A. Lorenzetti, Il divieto di indossare «burqa» e «burqini». Che «genere» di ordinanze?, in «Le Regioni», 1-2, 2010, pp. 349-366. 14 M. Bascetta, Sicurezza e lavavetri, un brillante progetto di civiltà, in «il manifesto», 15 settembre 2007.

«Vox populi» 1 Commento all’articolo Immigrati, uno su 4 vive in Lombardia, pubblicato in www.corriere.it il 26 ottobre 2010, postato da vitvin alle ore 14 dello stesso giorno. 2 Si veda ad esempio la ricerca Transatlantic Trends: Immigration 2010, http://trends.gmfus.org/immigration. 3 Fonti: Ismu, www.ismu.org; Istat, www.istat.it; Ministero del Lavoro, www.lavoro.gov.it; Caritas-Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2010. XX rapporto, Roma, Idos edizioni, 2010. 4 Fonte: L’immigrazione per lavoro in Italia: evoluzione e prospettive - Rapporto 2011, Ministero del Lavoro, www.lavoro.gov.it. 5 Fonte: L’immigrazione per lavoro in Italia: evoluzione e prospettive - Rapporto 2011, Ministero del Lavoro, www.lavoro.gov.it. 6 Fonte: Caritas-Migrantes, Immigrazione. Dossier statistico 2010. XX rapporto, Roma, Idos edizioni, 2010. 7 Rimando ancora a M. Rovelli, Servi. Il paese sommerso dei clan-

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destini al lavoro, Milano, Feltrinelli, 2009, e L. Galesi, A. Mangano, Voi li chiamate clandestini, cit. 8 Fonte: www.infocamere.it. 9 Cfr. C. Devillanova, I costi dell’immigrazione per la finanza pubblica, quattordicesimo Rapporto sull’immigrazione 2008, Milano, Fondazione Ismu, pp. 205-218. E cfr., oltre ai dossier Caritas e Ismu, anche le sintesi contenute in M.C. Chiuri, N. Coniglio, e G. Ferri, L’esercito degli invisibili, cit. 10 Fonte: www.interno.it. 11 A. Mangano, Gli africani salveranno l’Italia, cit., pp. 121 sgg. 12 Cfr. anche i rapporti di Medici Senza Frontiere, facilmente accessibili in internet, e www.terrelibere.org. 13 Fonte: www.interno.it. 14 Fonte: www.gatesfoundation.org. 15 E. Balibar, M. Chemillier-Gendreau, J. Costa-Lascoux, e E. Terray, Sans-Papier, l’archaisme fatal, Paris, La decouverte, 1999. 16 Cfr. M.C. Chiuri, N. Coniglio, G. Ferri, L’esercito degli invisibili, cit., pp. 94 sgg. E cfr. anche S. Mezzadra, Diritto di fuga, Verona, Ombre corte, 2001.