κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο / Raccolta di scritti e inediti. Volume 1 κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο Scritti editi e inediti: Vol. 1: Metrica e Musica 9783110647983, 9783110644869

One of the leading scholars of Greek literature over the past decades, Luigi Enrico Rossi (1933-2009) opened new fields

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κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο / Raccolta di scritti e inediti. Volume 1 κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο Scritti editi e inediti: Vol. 1: Metrica e Musica
 9783110647983, 9783110644869

Table of contents :
Indice
Premessa
Tabula in memoriam
Biliografia degli scritti di Luigi Enrico Rossi
Sezione 1: Metrica
Metrica e critica stilistica. Il termine “ciclico” e l’ ἀγωγή ritmica
Anceps: vocale, sillaba, elemento
Sul problema dell’ictus (A proposito di un lavoro di Alessandro Setti)
La metrica come disciplina filologica
[Recensione] C. Questa, Introduzione alla metrica di Plauto
[Scheda bibliografica] D. S. Raven, Greek Metre
Rec. D. Korzeniewski, Griechische Metrik [1969]
La pronuntiatio plena: sinalefe in luogo d’elisione
Rec. A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama, Collected Papers
Scheda bibl. M. De Oliveira Pulquério, Características métricas das monódias de Eurípides
Scheda bibl. G. B. Pighi, Studi di ritmica e metrica
Rec. D. Korzeniewski, Griechische Metrik [1973]
Verskunst
Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini
La sinafia
POxy 9 + POxy 2687: trattato ritmico–metrico
Appunti di metodo filologico (A proposito di Efestione 47. 3 ss. Consbr. e Tzetze de metr. Pind. 51. 24 Drachm.)
Estensione e valore del colon nell’esametro omerico
Ancient Greek Metricians
La metrica greca a Roma
La versificazione greca antica. Sistema ritmico e prassi poetiche
Orazio, un lirico greco senza musica
Rec. M. C. Martinelli, Gli strumenti del poeta. Elementi di Metrica greca
Breve introduzione alla metrica greca e latina
La configurazione metrico–verbale del testo come spia della natura lirica o recitativa del verso. Mondo greco e mondo romano
Orazio nel lungo silenzio della lirica greca
Riflessioni sui dattilo–epitriti
Sezione 2: Musica
Rec. W. D. Anderson, Ethos and Education in Greek Music
L’enciclopedia musicale dell’antichità
La dottrina dell’«éthos» musicale e il simposio
Il canto dorico in Orazio
Musica e psicologia nel mondo antico e nel mondo moderno: la teoria antica dell’ethos musicale e la moderna teoria degli affetti
La musica greca
Prefazione
Index nominum
Index locorum

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Luigi Enrico Rossi κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο. Scritti editi e inediti Volume 1: Metrica e musica

Luigi Enrico Rossi

κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο Scritti editi e inediti

Volume 1: Metrica e musica a cura di Giulio Colesanti e Roberto Nicolai con la collaborazione scientifica di Maria Broggiato, Andrea Ercolani, Manuela Giordano, Laura Lulli, Michele Napolitano, Riccardo Palmisciano, Livio Sbardella, Maurizio Sonnino con il supporto redazionale di Francesco Paolo Bianchi, Enrico Cerroni, Enzo Franchini, Virgilio Irmici, Michelangelo Pecoraro e con la supervisione editoriale di Serena Pirrotta

ISBN 978-3-11-064486-9 e-ISBN (PDF) 978-3-11-064798-3 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-064500-2 Library of Congress Control Number: 2019953753 Bibliographic information published by the Deutsche Nationalbibliothek The Deutsche Nationalbibliothek lists this publication in the Deutsche Nationalbibliografie; detailed bibliographic data are available in the Internet at http://dnb.dnb.de. © 2020 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Druck und Bindung: CPI books GmbH, Leck www.degruyter.com

| κηληθμῷ δ’ ἔσχοντο κατὰ μέγαρα σκιόεντα (Od. 11. 334, 13. 2)

Indice Premessa | 1 G. Colesanti – R. Nicolai

Tabula in memoriam | 23 Bibliografia degli scritti di Luigi Enrico Rossi | 31 G. Colesanti

Sezione 1: Metrica

[nr.]> Bibliografia

1. [4] Metrica e critica stilistica. Il termine ‘ciclico’ e l’ ἀγωγή ritmica | 57 2. [5] Anceps: vocale, sillaba, elemento | 125 3. [7] Sul problema dell’ictus. (A proposito di un lavoro di Alessandro Setti) | 140 4. [15] La metrica come disciplina filologica | 159 5. [21] rec. C. Questa, Introduzione alla metrica di Plauto | 179 6. [27] scheda bibl. D. S. Raven, Greek Metre | 188 7. [28] rec. D. Korzeniewski, Griechische Metrik [1969] | 189 8. [29] La pronuntiatio plena: sinalefe in luogo di elisione | 200 9. [40] rec. A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama, Collected Papers | 213 10. [41] scheda bibl. M. De Oliveira Pulquério, Características métricas das monódias de Eurípides | 219 11. [42] scheda bibl. G. B. Pighi, Studi di ritmica e metrica | 220

x | Indice

12. [50] rec. D. Korzeniewski, Griechische Metrik [1973] | 221 13. [54] Verskunst | 225 14. [63] Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini. (Sull’autenticità del nuovo Archiloco) | 234 15. [65] La sinafia | 255 16. [87] POxy 9 + POxy 2687: trattato ritmico–metrico | 278 17. [106] Appunti di metodo filologico (A proposito di Efestione 47. 3 ss. Consbr. e Tzetze de metr. Pind. 51. 24 Drachm.) | 295 18. [115] Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 298 19. [116] Ancient Greek Metricians | 338 20. [117] La metrica greca a Roma | 342 21. [118] La versificazione greca antica. Sistema ritmico e prassi poetiche | 358 22. [134] Orazio, un lirico greco senza musica | 383 23. [139] rec. M. C. Martinelli, Gli strumenti del poeta. Elementi di Metrica greca | 403 24. [140] Breve introduzione alla metrica greca e latina | 406 25. [153] La configurazione metrico–verbale del testo come spia della natura lirica o recitativa del verso. Mondo greco e mondo romano | 434 26. [175] Orazio nel lungo silenzio della lirica greca | 442 27. [198] Riflessioni sui dattilo–epitriti | 451

Indice | xi

Sezione 2: Musica

[nr.] > Bibliografia

1. [26] rec. W. D. Anderson, Ethos and Education in Greek Music | 481 2. [33] L’enciclopedia musicale dell’antichità | 487 3. [86] La dottrina dell’«éthos» musicale e il simposio | 493 4. [122] Il canto dorico in Orazio | 505 5. [145] Musica e psicologia nel mondo antico e nel mondo moderno: la teoria antica dell’ethos musicale e la moderna teoria degli affetti | 507 6. [164. 2, 6, 10] La musica greca | 538 7. [169] Prefazione, in A. Meriani, Sulla musica greca antica | 546 Index nominum | 551 Index locorum | 560

Giulio Colesanti, Roberto Nicolai

Premessa Le ragioni di una raccolta Negli ultimi anni della sua vita Luigi Enrico Rossi aveva concepito l’idea di raccogliere quelli tra i suoi contributi scientifici che considerava più significativi e aveva predisposto una prima, drastica, selezione. Dopo la sua scomparsa il progetto è stato ripreso in mano dai suoi allievi, un gruppo di studiosi che ha continuato e continua a collaborare nell’organizzazione dei seminari che oggi portano il suo nome e nella realizzazione di progetti scientifici comuni. Lo scenario era però mutato: l’esigenza era divenuta infatti quella di rendere disponibili tutti i lavori di Rossi, anche quelli minori e di più difficile reperibilità e alcuni inediti, per offrire alla comunità scientifica il quadro dell’intera produzione di uno dei maggiori storici della letteratura greca del XX secolo. Non si è trattato di un’operazione nostalgica e neanche di un servizio reso esclusivamente alla storia degli studi: in alcuni ambiti della ricerca gli scritti di Rossi sono tutt’oggi fondamentali e in moltissimi casi sono una miniera di idee e di spunti che potranno alimentare generazioni di studiosi. Tra le caratteristiche dei lavori di Rossi vi è infatti la straordinaria ricchezza di idee, talvolta appena abbozzate o non sviluppate, una ricchezza che risulta particolarmente straordinaria in un mondo che tende allo sfruttamento sistematico delle, spesso poche e non sempre brillanti, idee disponibili, alimentando così una produzione scientifica tanto vasta quanto arida. Non c’è nulla di più lontano dal metodo di lavoro di Rossi dell’applicazione sistematica di un metodo a vari oggetti di indagine: Rossi non può essere classificato come esponente di una tendenza critica per il semplice motivo che per lui prima dei metodi venivano i problemi, secondo una formulazione di Giorgio Pasquali che ci ripeteva quasi ossessivamente1. Come esempio della vitalità degli spunti di Rossi si può offrire la ricerca sulla letteratura greca sommersa, che abbiamo portato avanti con tre anni di seminari, i cui risultati

|| 1 Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 19522, p. XIII s.: “In primo luogo io sono convinto che almeno nelle scienze dello spirito non esistano – sottolinea Giorgio Pasquali – discipline severamente delimitate, «scomparti», Fächer, ma solo problemi che devono essere spesso affrontati contemporaneamente con metodi desunti dalle più varie discipline”. https://doi.org/10.1515/9783110647983-001

2 | Giulio Colesanti, Roberto Nicolai

sono stati pubblicati dall’editore de Gruyter2, lo stesso che ora pubblica questi scritti. Il quadro che emerge con chiarezza a chi prende in mano tutti gli scritti di Rossi e ha la pazienza di andare a leggerli o a rileggerli sottrae definitivamente Rossi alla, pur corretta, ma parziale, definizione di metricologo. Rossi è stato certamente un grande studioso della metrica greca3, sostenuto da una sensibilità musicale che non può mancare in chi affronta questo campo di studi, ma non è stato soltanto un metricologo. Come ho avuto già modo di scrivere4, il suo contributo alla storia della letteratura greca è stato di fondamentale importanza e ha toccato vari generi e vari ambiti di indagine. Dai poemi omerici a Esiodo, dai lirici, colti nell’occasione del simposio, fino al teatro tragico e comico e al dramma satiresco, per arrivare alla poesia ellenistica, i contributi di Rossi hanno segnato la storia degli studi. A proposito dei poemi omerici Rossi ha operato una sintesi di due secoli di questione omerica, andando ad affermare che le principali tendenze critiche, l’analitica, l’unitaria e l’oralistica, sono tutte legittime, purché usate per rispondere alle domande corrette. Nel suo contributo esiodeo del 1997 Rossi ha messo in luce il meccanismo delle sezioni alternative, frutto di operazioni redazionali per saldare porzioni di testo destinate in origine a occasioni diverse. E sempre l’occasione è stata decisiva nelle indagini sul simposio come luogo privilegiato di esecuzione della lirica monodica e di sperimentazione poetica. Nel campo del teatro, accanto a tanti contributi sul versante metrico, dove l’analisi ritmico–musicale è integrata con l’indagine drammaturgica, un apporto decisivo lo ha dato con le ricerche sul dramma satiresco, andando a cogliere la funzione di un genere fino a quel momento privo di un corretto inquadramento critico. Gli scritti di poesia ellenistica hanno contribuito a gettare luce sulla grandezza di Teocrito, rielaboratore coltissimo di forme della poesia popolare e insieme fedele interprete della tendenza alessandrina a poetare documentandosi accuratamente non solo sulla poesia del passato, ma anche, ad esempio, sui costumi di quei pastori che popolano gli idilli bucolici. Accanto a contributi su singoli autori e generi vanno ricordati quelli di più ampio respiro, come il citatissimo articolo sui generi letterari comparso nel “Bulletin of || 2 G. Colesanti – M. Giordano (eds.), Submerged Literature in Ancient Greek Culture. An Introduction, Berlin – New York 2014; G. Colesanti – L. Lulli (eds.), Submerged Literature in Ancient Greek Culture, 2. Case Studies, Berlin – New York 2016; A. Ercolani – M. Giordano (eds.), Submerged Literature in Ancient Greek Culture, 3. The Comparative Perspective, Berlin – Boston 2016. 3 Vd. M. Napolitano, Luigi Enrico Rossi (1933–2009), «RFIC» 138, 2010, pp. 235–245 e Id. Gli scritti di metrica di L. E. Rossi, «Critica del testo» 15. 2, 2012, pp. 325–347. 4 Luigi Enrico Rossi storico della letteratura greca, «Eikasmos» 24, 2013, pp. 367–406.

Premessa | 3

the Institute of Classical Studies” del 1971, un articolo che ha rivoluzionato il modo di affrontare l’intera storia della letteratura greca. La rassegna che ho proposto, di necessità incompleta e limitata a pochi esempi, è soltanto un primo assaggio di quello che il lettore potrà trovare in questa raccolta. Non deve stupire la presenza nella raccolta degli scritti di Rossi di sezioni tratte dalla Letteratura greca del 1995 e dalla successiva edizione, arricchita di antologia, pubblicata fra il 2002 e il 2003, la Storia e testi della letteratura greca, che ebbi l’onore di curare con lui. Quelle opere manualistiche, che Rossi realizzò con la collaborazione di un folto gruppo di allievi, recano in ogni pagina il segno dei suoi interessi e del suo metodo e alcune sezioni furono integralmente redatte da lui. Pur trattandosi di testi destinati all’insegnamento della letteratura greca nella scuola secondaria superiore, Rossi affidò alla Letteratura greca e alla successiva Storia e testi molte idee e riflessioni che non avevano trovato spazio altrove: tra gli esempi più evidenti vi sono l’Introduzione generale e l’Introduzione alla lirica, alle quali consegnò quelli che chiamava il suo credo critico e il suo credo lirico. I percorsi trasversali, presenti nei tre volumi, come ad esempio quello sulla musica, sono stati raggruppati in sequenza cronologica. Accanto ai lavori a suo tempo pubblicati, questi volumi contengono vari inediti, a cui sono state aggiunte informazioni essenziali tra parentesi quadre e che sono ora disponibili grazie alle cure di Giulio Colesanti. Rossi è stato un grande studioso ancora attuale, ma al tempo stesso un grande inattuale: non è mai stato condizionato dalle mode critiche, ha scritto relativamente poco rispetto alla quantità di idee e di spunti che aveva sviluppato e che spesso comunicava a lezione e nei seminari, non ha mai dato troppo peso alle sedi di pubblicazione. Con gli attuali metodi di valutazione della ricerca, attenti ai contenitori più che ai contenuti e alla quantità più che all’originalità, si sarebbe trovato come un pesce fuor d’acqua. La sua acqua era la stanza di greco della Sapienza, sempre popolata di allievi, con cui intratteneva un dialogo continuo, erano i testi che amava prima ancora di farne oggetto di studio, erano i tanti amici con cui dialogava spesso a distanza e che altrettanto spesso hanno dato vita a memorabili seminari. E nelle lezioni, nei seminari o nelle semplici chiacchierate di fronte a una tazza di tè la passione per la letteratura greca era talmente grande che l’effetto assomigliava a quell’incantamento che provocavano gli aedi nei loro ascoltatori e che dà il titolo a questi volumi. Roberto Nicolai

4 | Giulio Colesanti, Roberto Nicolai

Gli inediti Quando Luigi Enrico Rossi veniva a conoscenza dell’imminente pubblicazione di qualche inedito, il suo commento di solito era di questo tenore: “Se sono inediti, un motivo ci sarà!”, sottintendendo che l’inedito in questione era rimasto tale per la sua scarsa qualità di lavoro scientifico, che alla fine doveva aver indotto l’autore a non pubblicarlo5. Ma questa non era nient’altro che una battuta, che infatti Rossi faceva sempre ridacchiando. In realtà il suo vero atteggiamento, di fronte agli inediti, era dichiaratamente uno solo: pubblicarli sempre e comunque, per favorire in tal modo la migliore conoscenza dei loro autori e non rinunciare ai loro contributi originali altrimenti destinati all’oblio; anche quando gli autori fossero stati esplicitamente contrari ad una diffusione; anche quando la forma dell’inedito fosse stata provvisoria o approssimativa. E ciò è dimostrato da quanto egli fece, e in alcuni casi progettò di fare, nei confronti degli inediti di Eduard Fraenkel, lo studioso che più di tutti lo segnò e lo influenzò (basti pensare al quarantennale seminario di Letteratura greca instaurato da Rossi alla “Sapienza” di Roma, e che appunto dai seminari fraenkeliani discende). Rossi in effetti si premurò di far pubblicare al più presto possibile gli appunti, presi da lui stesso e da altri partecipanti, del seminario tenuto nel 1968 da Fraenkel sul Filottete di Sofocle all’Università di Roma (all’epoca non ancora ridenomitata “Sapienza”), accontentandosi di realizzarne un’edizione fuori commercio e di limitata tiratura6; e successivamente, scomparso ormai Fraenkel (1970), ripubblicò quegli stessi appunti insieme a quelli ancora inediti del seminario fraenkeliano sull’Aiace di Roma 1967, in un’elegante edizione dotata di sua Premessa (1977)7, nella quale egli non esitava a dichiarare non solo che le stesure dei due seminari non erano mai state riviste dall’autore, ma soprattutto che “abbiamo fondati dubbi che le avrebbe mai autorizzate”; e tuttavia, la ratio

|| 5 In Karl Reinhardt fra umanesimo e filologia, «ASNP», cl. Lett. e Filos., s. III, 5. 4, 1975, pp. 1333–1355, Rossi riferisce a p. 1341 di un caso del genere a proposito di Karl Reinhardt, il quale in uno scritto autobiografico aveva ricordato un suo lavoro giovanile commentando in modo autoironico che per fortuna non era mai uscito. Da questa osservazione di Reinhardt deve essere nato il caustico commento di Rossi sugli inediti in generale. 6 Appunti del seminario tenuto all’Istituto di Filologia classica dell’Università di Roma da Eduard Fraenkel sul Filottete di Sofocle (13–31 maggio 1968), Redazione di D. Alecu, A. C. Cassio, M. G. Cenci, D. Fogazza, P. Negri, M. Palma, M. Passalacqua, C. Passarella, S. Rizzo, L. E. Rossi, G. Santangelo, E. Troili, Roma 1969. 7 Due seminari romani di Eduard Fraenkel. Aiace e Filottete di Sofocle. A cura di alcuni partecipanti. Premessa di L. E. Rossi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977.

Premessa | 5

che aveva guidato Rossi era stata di obbedire “a un dovere di testimonianza”, al di là della volontà dell’autore e al di là di eventuali lacune ed errori nelle stesure8. Con analoga logica, poco prima dell’edizione dei due seminari romani Rossi aveva plaudito alla pubblicazione degli appunti di alcuni seminari baresi di Fraenkel, rimarcando l’importanza di quell’operazione a prescindere dalla volontà autoriale: “Va tenuto presente che né i seminari baresi … né quelli romani sono stati mai rivisti da F., che certo non ne prevedeva una pubblicazione: ma, con questa limitazione, sono documenti unici e preziosi della sua attività didattica e contengono per di più numerosi contributi inediti”9. All’incirca nel medesimo periodo, Rossi manifestò ancora lo stesso atteggiamento facendo pubblicare una conferenza inedita di Fraenkel su Wilamowitz tenuta a Roma nel 196910, mentre di una precedente conferenza romana (1968), anch’essa inedita, venne in possesso poco dopo la morte di Fraenkel, subito progettando di pubblicarla in memoria del suo antico maestro ma poi non risolvendosi a farlo11. E

|| 8 L. E. Rossi, Premessa, in Due seminari romani di Eduard Fraenkel, cit., p. VII. 9 L. E. Rossi, scheda bibl. su Ed. Fraenkel, (I) Dalle esercitazioni di Ed. Fr. sull’«Eunuco» (Bari 1969), «Belfagor» 25, 1970, 673–689; (II) «Pindaro senza lacrime» (Dalle esercitaz. di Ed. Fr., Bari 1967), «Belfagor» 27, 1972, 78–96; (III) La matrona di Efeso e altri capitoli di Petronio (Dalle esercitaz. di Ed. Fr., Bari 1967), «Belfagor» 29, 1974, 687–695 [a cura di R. Roncali], in «RFIC» 103, 1975, p. 380. Oltre a questi, altri appunti dei seminari baresi di Fraenkel, e sempre per interessamento di C. F. Russo, furono poi editi ancora su «Belfagor», 38, 1983, 433–451 (Sofocle, Aiace, 1966) e 58, 2003, 567–581 (Aristofane, Uccelli, e Plauto, Pseudolo, 1965, ma come ‘echi’, poiché in quel primo anno seminariale non furono presi appunti sistematici), e quindi tutti riuniti, riveduti e riediti (anche con il Catullo del 1966 mai prima pubblicato) in E. Fraenkel, Pindaro, Sofocle, Terenzio, Catullo, Petronio, a cura di R. Roncali, prefazione di C. F. Russo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 19941 e 20072 (Edizione accresciuta con Aristofane e Plauto). 10 E. Fraenkel, Wilamowitz, «QS» 5, gen.–giu. 1977, pp. 101–118: il testo pubblicato è una traduzione italiana che si deve proprio a Rossi, e che Fraenkel lesse in occasione della sua conferenza il 14.5.1969 (vd. L. E. Rossi, Riflettendo ancora sull’insegnamento di Fraenkel, «SemRom» 6, 2003, pp. 143–152, a p. 146). 11 La conferenza (Ricordi romani e non romani di un filologo classico) fu tenuta da Fraenkel a Roma in due giorni successivi (29 e 30 maggio 1968) a chiusura del seminario sul Filottete e quasi improvvisata sulla base di appunti in italiano stilati su di un quadernino (vd. L. E. Rossi, Premessa, cit., p. IX con n. 3); nel 2003 Rossi ne scriveva: “Un quadernetto … che [Fraenkel] aveva comprato con me a Piazza del Pantheon (48 paginette, da lui numerate …) mi fu donato dal figlio Ludwig Edward dopo la sua morte [1970] … La redazione (in italiano) è una via di mezzo fra il lemmatico e il definitivo. Pensavo e penso che sia il caso di pubblicarlo, anche se la forma è più provvisoria di quella della conferenza su Wilamowitz” (L. E. Rossi, Riflettendo ancora sull’insegnamento di Fraenkel, cit., p. 146). La conferenza è tuttora inedita; il quadernetto deve essere ancora conservato tra le carte personali di Rossi, e sia io sia la figlia Elena

6 | Giulio Colesanti, Roberto Nicolai

infine, niente meglio dell’episodio della “lirica mista” fraenkeliana può esemplificare il sentire di Rossi sugli inediti: Fraenkel, a conclusione dei suoi seminari, si produceva nella lettura metrica di vari brani lirici di tragedie e commedie (ad es. il desmios hymnos delle Eumenidi, il coretto delle Rane o la monodia dell’Upupa degli Uccelli); leggeva in tono recitativo sostenuto, ictando fortemente, e queste performances, che egli stesso chiamava “lirica mista” (con allusione all’italianissimo fritto misto), producevano un grande entusiasmo negli ascoltatori, i quali, consci dell’eccezionalità di tali recitazioni così come della loro irripetibilità e quindi della loro inevitabile perdita, non solo gliele richiedevano con insistenza ogni volta, ma spesso avevano anche chiesto a Fraenkel il permesso di poterle registrare, ottenendone però sempre un fermissimo diniego12. Ebbene, nel maggio 1968 Rossi aggirò l’esplicita proibizione registrandole di nascosto su cassetta (il vecchio maestro se ne avvide solo alla fine, perdonando bonariamente quello che lui stesso definì l’imbroglio!), e conservò poi a lungo i brani, progettando intorno al 2003 di farne un cd: “Sono passati più di trent’anni: il suo divieto di registrare si può considerare superato”13. Anche di Rossi sono sopravvissuti degli inediti, e in numero piuttosto elevato: si tratta di una cinquantina di scritti, che sono stati quasi tutti ritrovati nell’ottobre 2018; solo di pochissimi di essi si aveva notizia da parte dello stesso Rossi (per via orale o attraverso citazioni in articoli). La gran parte di questi lavori sono stati scoperti da me nell’HardDisk dell’ultimo pc di Rossi, debitamente archiviati in files Word, mentre pochi altri saggi li ho invece trovati su fogli dattiloscritti o stampati nello studio di Via Aventina a Roma (a volte doppioni degli inediti su files); la redazione dattiloscritta del famoso primo seminario sull’iperbato artificioso (1978), di cui tante volte Rossi aveva parlato ai suoi allievi, è stata rinvenuta da me e da Andrea Ercolani in un’apposita cartellina nello studio di Via Aventina, insieme ad altri materiali sull’iperbato; Elena

|| abbiamo rovistato nello studio di Via Aventina a Roma, nella speranza di ritrovarlo e pubblicarlo in memoria di Fraenkel e di Rossi, ma ancora senza esito. 12 Invece nel primo anno seminariale a Bari (1965) Fraenkel permise la registrazione su nastro della sua esecuzione del coretto delle Rane e della monodia degli Uccelli (lo attesta C. F. Russo in E. Fraenkel, Pindaro, Sofocle, …cit., p. XI s.). 13 Sulla “lirica mista” vd.: L. E. Rossi, Premessa, cit., pp. XIV–XVI; Id., Riflettendo ancora sull’insegnamento di Fraenkel, cit., p. 145 (con la rievocazione dell’episodio della registrazione di nascosto, il primo annuncio del progetto di realizzare un cd, e le parole di Rossi che ho citato contro il divieto di registrare di Fraenkel): Id., Insegnare e imparare il greco oggi: la lingua e la cultura, «Scienze Umanistiche» 2, 2006, pp. 87–102, a p. 99. Nel 2007 Rossi affidò le sue registrazioni su cassetta (ben 25 pezzi) a Daniele Fusi, per farle riversare in digitale e realizzarne un doppio cd, e il lavoro era praticamente concluso, ma Rossi esitò a pubblicarlo.

Premessa | 7

Rossi, tra le sue carte personali del padre, ha rinvenuto quattro inediti; Silvia Rizzo ha ritrovato tra i suoi files il discorso di ringraziamento (2004) per gli Studi offertigli dagli allievi per i settant’anni14. Quando si ritrova un inedito, è d’uopo chiedersi se pubblicarlo o meno, e se rispettare oppure no un’eventuale indicazione dell’autore contraria alla diffusione; e, qualunque cosa si decida, è comunque opportuno cercare di ritrovare o di capire le ragioni che non hanno portato lo scritto alla pubblicazione. Nel caso degli inediti rossiani tali domande sono ancora più pressanti, dato il numero molto elevato dei lavori. Quanto alla prima questione, io ritengo che la pubblicazione di un inedito sia sempre doverosa, in primo luogo come contributo importante alla migliore conoscenza dell’autore, ma poi soprattutto perché anche in un lavoro incompleto, e perfino in un abbozzo schematico, è possibile reperire un’osservazione interessante e produttrice di stimoli; e mi pare di aver mostrato che lo stesso Rossi era di quest’idea, quando parlava di testimonianze dell’attività didattica di Fraenkel e di numerose sue osservazioni scientifiche che sarebbero rimaste sconosciute. Sulla questione specifica della pubblicazione contro l’esplicito divieto dell’autore, senza scomodare illustri precedenti come ad esempio l’Eneide, e senza neppure puntualizzare che Rossi stesso, come si è visto a proposito degli inediti fraenkeliani, preferiva la diffusione del contributo al rispetto della volontà autoriale, dobbiamo dire che nel caso degli inediti rossiani tale dilemma non si pone neppure: per nessuno degli inediti, infatti, ci sono mai state affermazioni scritte o orali di Rossi che ne proibissero la pubblicazione. Al contrario, per alcuni lavori è attestato che egli pensasse esplicitamente a pubblicarli: è il caso dei contributi dei tre seminari sull’iperbato (a.a. 1977/78, 1978/79 e 1980/81), che Rossi citava sempre a tutti i suoi allievi dichiarando che presto o tardi ne avrebbe fatto dettagliata pubblicazione15; o di parti del suo corso tenuto

|| 14 R. Nicolai (ed.), ΡΥΣΜΟΣ. Studi di poesia, metrica e musica greca offerti dagli allievi a Luigi Enrico Rossi per i suoi settant’anni, «SemRom» Quaderni 6, Roma, Quasar, 2003. 15 Rossi ne annunciava la pubblicazione già nel 1983: “Questo lavoro, coll’attribuzione ai singoli dei singoli contributi, verrà pubblicato prossimamente con il titolo Modi di esecuzione musicale e configurazione dei testi nella lirica greca arcaica. L’iperbato artificioso” (L. E. Rossi, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, «Orpheus» n.s. 4, 1983, pp. 5–31, a p. 11 n. 1); io stesso da studente (1988–1993), e anche in seguito, l’ho sentito spesso alludere alla futura pubblicazione; e Rossi medesimo ancora affermava nel 2000: “Sono debitore a quegli allievi di anni ormai lontani … di una pubblicazione dettagliata di quei lavori: lo sto facendo con la collaborazione dei nuovi volenterosi allievi di questi ultimissimi anni” (L. E. Rossi, Teatro e comunicazione nella Grecia antica, in A. Zampetti – A. Marchitelli [edd.], La tragedia greca: metodologie a confronto, Roma, Armando Editore, 2000, pp. 31–40, a p. 36 n. 3).

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a Oxford sul simposio (1979)16; o anche di un lavoro sulla valutazione etico– sociale della povertà nella letteratura alessandrina17; o del progettato manuale di metrica greca (1996), iniziato ma poi abbandonato, e ovviamente destinato alle stampe; o infine di un intervento a convegno su Schadewaldt e la lirica greca (2000), che sarebbe dovuto comparire nei relativi atti18. Inoltre, si deve anche considerare che moltissimi di questi inediti sono stati materia di conferenze o di esposizioni orali, anche con ripetuti passaggi presso diverse sedi (i casi di inediti non pronunciati neppure una volta sono davvero pochi): e quindi dobbiamo ammettere che il medesimo Rossi li ha di fatto già ‘resi pubblici’ (non per iscritto ma oralmente). Questione più rilevante, invece, è perché Rossi abbia lasciato impubblicata una tale massa di lavori. Non si tratta, nel nostro caso, di lavori rimasti inediti per il sopraggiungere della morte: infatti, i lavori cui Rossi stava attendendo al momento della sua scomparsa, e di cui i suoi allievi erano naturalmente informati, sono stati subito da loro prelevati dal suo pc, debitamente curati e integrati nelle parti lacunose, e pubblicati nelle sedi cui erano destinati19. Né si tratta

|| 16 “Sto lavorando da tempo a trasformare il corso oxoniense del 1979 nella parte a me assegnata di un lavoro di maggior respiro sul simposio come istituzione politica, al quale collaboreranno sia storici sia archeologi” (L. E. Rossi, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, cit., p. 11 n. 2). Il lavoro collettivo cui allude Rossi era capitanato da Oswyn Murray, e si sarebbe concretizzato nel convegno Sympotica. A Symposium on the Symposion tenuto al Balliol College di Oxford il 4–8 settembre 1984, con i relativi atti a cura di Murray (Oxford, Clarendon Press, 1990), ma Rossi non sarebbe riuscito a farne parte per gli stessi motivi di “lentezza” (per cui vd. infra) che frenarono la pubblicazione di altri inediti di tipo scientifico (Murray nella Prefazione, p. v, ricorda che il convegno era stato ideato da lui in consultazione con Rossi e con John Boardman). 17 Annunciato come di imminente pubblicazione da M. Vetta, Identificazione di un caso di catena simposiale nel corpus teognideo, in B. Gentili et al. (edd.), Lirica greca da Archiloco a Elitis. Studi in onore di Filippo Maria Pontani, Padova, Liviana Scolastica, 1984, pp. 113–126, a p. 116 n. 7. 18 Citato come “in stampa” nella bibliografia di L. E. Rossi, L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi, in G. Arrighetti (ed.), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica. Atti del Convegno Pisa, 7–9 giugno 1999, con la collaborazione di M. Tulli, Pisa, Giardini Editori, 2000, pp. 17–29, a p. 29. Sulla mancata pubblicazione vd. infra. 19 Riflessioni sui dattilo–epitriti, «SemRom» 11, 2008 [ma stampa 2010], pp. 139–167 (a cura di M. Napolitano, F. P. Bianchi, V. Irmici); La comunicazione orale: Omero ed Esiodo nell’arcipelago epico, in G. Paradisi – A. Punzi – I. Tomassetti (edd.), Cercando l’Europa, «Critica del testo» 13/3, 2010, pp. 69–81 (a cura di S. Pirrotta); Introduzione all’incontro. Appunti sulle consuetudini editoriali nei testi letterari classici, «SemRom» n.s. 1, 2012, pp. 1–9 (a cura di M. Sonnino); a questi lavori deve aggiungersi Vasi e scena: a proposito della cultura del dramma, pubblicato in A. M. Belardinelli – G. Greco (edd.), Antigone e le Antigoni. Storia forme fortuna di un mito, Atti

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dei tre o quattro lavori che ogni studioso conserva per anni nel cassetto, o perché se n’è dimenticato o perché non trova mai il tempo di dare l’ultima mano. La metà degli inediti, più o meno, consiste in presentazioni di libri, o in chiacchierate non specialistiche (ad es. interventi divulgativi, o la conferenza sul dialetto genovese di cui Rossi era particolarmente fiero date le sue origini in parte genovesi), oppure in ricordi di studiosi e amici scomparsi, da recitarsi in una precisa e determinata occasione (fa eccezione il ricordo di Scevola Mariotti, pensato e redatto fin dall’inizio per una pubblicazione scritta, ma frenato certamente da un grande affetto foriero di ripensamenti); a tutti questi lavori va unita la Lectio magistralis (che però Rossi preferiva chiamare ‘allocuzione’ non piacendogli la magniloquenza della definizione consueta) pronunciata nel 2005 a Freiburg im Breisgau in occasione della Laurea honoris causa conferitagli dalla locale università. Si tratta pertanto di lavori che, per loro natura, dovevano vivere solo per il breve momento della loro prima (e unica) pubblicazione orale, che non erano quindi originariamente destinati ad una pubblicazione a stampa, e che però, avendo ricevuto una stesura scritta (a volte integrale a volte parziale) in funzione della recitazione, sono stati da Rossi stesso conservati. Poiché attestano comunque l’attività dello studioso, sia pure in forma più discorsiva e didattico–divulgativa rispetto ai lavori di stampo prettamente scientifico (in alcuni inediti di questo tipo, peraltro, sono riespressi alcuni capisaldi dell’insegnamento universitario), a me e a Roberto Nicolai non è sembrato inopportuno pubblicarli; considerando anche che altre presentazioni e altri ricordi, del tutto analoghi a quelli inediti, sono stati fatti giungere dall’autore stesso alla pubblicazione a stampa. La Lectio magistralis di Freiburg, poi, è importante come attestazione del particolare amore che per circa cinquant’anni ha legato Rossi al mondo e alla cultura tedesca, non solo filologica. L’unico lavoro non del tutto inedito di questo gruppo è un saggio dal titolo Il nostro credito nei confronti dell’antico e alcuni modi per esigerlo: recitato come conferenza a Roma nel 1999 e poi in altre sedi nei successivi due anni, fu in ultimo dotato di una sezione iniziale (sui rapporti di Rossi con la Grecia) e fatto tradurre in neogreco per poter essere pronunciato ad Atene nel febbraio 2002 in occasione della nomina di Rossi a membro onorario dell’Associazione Filologica “Parnassòs”, venendo

|| del convegno internazionale, Roma 13, 25–26 maggio 2009, “Sapienza” Università di Roma, Firenze, Le Monnier, 2010, pp. 226–229.

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quindi pubblicato nella rivista dell’Associazione20; il testo italiano è tuttavia inedito (fra le varie versioni ritrovate, si è scelto di pubblicarne l’ultima). Diverso è invece il discorso sugli inediti di tipo scientifico. Preliminarmente, devo dire che tra questi non devono includersi le dispense di metrica: dalla voce Verkunst apparsa in tedesco sul Kleine Pauly (1975), Rossi negli anni trasse diversi ampliamenti (in italiano e in inglese), conformandosi all’uso accademico, piuttosto vivo negli anni Sessanta e Settanta ma poi entrato in disarmo, di approntare dispense scritte dei corsi universitari specificatamente rivolte agli studenti e non alle riviste specializzate o al mercato librario; e con l’unica differenza che le dispense accademiche erano in genere edite da editori o stampatori collegati con l’Università, mentre le sue dispense metriche erano da lui stesso artigianalmente confezionate di volta in volta su ‘xerocopie’ (come lui diceva con voluto arcaismo), ad uso esclusivo degli studenti del suo corso di metrica che era sempre parte integrante del corso universitario annuale. Benché tali dispense non siano state oggetto di una pubblicazione a stampa ufficiale, non si può dire che si tratti realmente di inediti, considerata anche la circolazione che hanno avuto, la quale, seppur molto limitata, è però durata all’incirca trent’anni (1977–2009). Venendo ora ai veri inediti di tipo scientifico, che sono tutti interessanti e alcuni anche di estrema rilevanza, dobbiamo dire che i motivi che non li hanno condotti alla pubblicazione a stampa sono di vario tipo. La maggior parte di essi, tra i quali alcuni lavori cui Rossi teneva in modo particolare, sono stati certamente vittima di quella che Rossi stesso bollava sbrigativamente come “lentezza” o “pigrizia”21, ma che era in realtà un insieme di meticolosità e insoddisfazione: una tendenza all’estrema meticolosità della documentazione bibliografica, unita ad una certa insoddisfazione nei confronti della stesura scritta che lo portava più e più volte a ritornare sul proprio lavoro e a modificarlo, seppure in minime cose o anche in fatti stilistici (ne fanno fede le correzioni su alcuni inediti), sempre mirando alla chiarezza e all’efficacia della comunicazione del messaggio; per gli stessi motivi, Rossi era solito sottoporre in anteprima i suoi lavori in forma di conferenza, anche in più sedi e nel corso di diversi anni, per instaurare una sorta di διαλέγεσθαι con l’uditorio specializzato cui di volta

|| 20 L. E. Rossi, Τί μας ὀφείλει ἠ ἀρχαιότητα (il nostro credito nei confronti dell’antico), «Parnassos» 44, 2002, pp. 391–399. 21 Rossi usa questi due termini all’inizio di uno scritto inedito, la Presentazione degli “Scritti in onore di Italo Gallo”, affermando di aver rinunciato a partecipare con un suo lavoro a quest’opera “come spesso mi succede a causa della mia lentezza e – non vorrei dirlo – della mia pigrizia” (vd. vol. 3, p. 379).

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in volta si rivolgeva e ottenere così conferme soprattutto sulla propria chiarezza espositiva. Questo misto di meticolosità e insoddisfazione determinava spesso grandi ritardi nella pubblicazione dei lavori, e per parecchi inediti, evidentemente, ha fatto anche rinviare sine die l’uscita a stampa di lavori anche già rifiniti e compiuti; e proprio l’effetto di dilazionamento della pubblicazione fa comprendere perché Rossi stesso additasse il suo atteggiamento come “lentezza”. Conseguenza di tutto ciò erano anche due consigli, del tutto opposti tra di loro, che Rossi elargiva in alcuni casi agli allievi che gli sottoponevano le loro idee per futuri lavori: quando in lui prevaleva l’insoddisfazione stilistica e la ricerca esasperata della letteratura secondaria, dava il consiglio di fare una stesura scritta il più precisa e documentata possibile dell’idea avuta, ma poi di chiuderla in un cassetto e di lasciarla lì per almeno sei o sette anni, in modo che si sedimentasse e si maturasse nella mente, pronta poi per ulteriori modifiche di ogni tipo (proprio a me diede una volta un tale consiglio, ma in verità non ho quasi mai avuto il coraggio di seguirlo); quando invece si rendeva contro che un tal modo di procedere ritardava o anche bloccava di fatto la pubblicazione e quindi poteva avere conseguenze molto negative sulla carriera accademica dell’allievo, consigliava di sbrigarsi a dare forma scritta all’idea e di giungere presto ad una stesura adatta alla pubblicazione, senza perdere troppo tempo in fronzoli stilistici o nella ricerca ossessiva di qualunque studioso precedente avesse accennato all’argomento in questione (surtout, pas trop de zèle! amava dire in alcuni di questi casi, modificando volutamente il detto di Talleyrand)22. Il caso più emblematico di scritto bloccato dalla “lentezza” è quello dei lavori del seminario sull’iperbato artificioso di cui già si è detto, che Rossi aveva condotto con alcuni studenti nell’anno accademico 1977/78 e per cui aveva redatto a fine anno delle conclusioni (debitamente lette nell’ultima seduta seminariale di fronte a tutti i partecipanti), comprensive di statistiche e di elenco dei casi trovati (con precisa attribuzione ai reperitori); il seminario mirava ad individuare e schedare statisticamente i casi di iperbato artificioso in alcuni carmi lirici corali (Stesicoro, Istmiche di Pindaro, determinati carmi di Bacchilide, i cori delle Baccanti di Euripide), e fu poi replicato nell’a.a. 1978/1979 e nell’a.a. 1980/1981, su altri autori. Rossi stesso considerava il complesso dei risultati di questi tre anni come un lavoro ‘splendido’ (per usare un suo tipico aggettivo), un’analisi di fondamentale importanza; eppure, non si risolvette mai a farne una pubblicazione organica, e neppure pubblicò la relazione del 1978, perfetta

|| 22 Che era in realtà surtout, pas de zèle! Rossi amava moltissimo i bons mots, i giochi di parole e le battute (ma sempre argute e raffinate), e anche tutto questo contribuiva a dare di lui un’impressione molto particolare in coloro che lo frequentavano.

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in tutte le sue parti, o anche un altro lavoro sempre sull’iperbato, già pronto e pubblicabile, che recitò in inglese a New York nel 1978 in conferenza23 (sono due degli inediti ritrovati). I risultati statistici dei lavori ormai ‘storici’ sull’iperbato del 1977–1981, tuttavia, li riassunse nel 1983 in un altro suo lavoro24, e li citava in diverse occasioni a lezione e in seminario, ma soprattutto si fondò in seguito su di essi per allestire una conferenza (sui modi di esecuzione della lirica corale e sul suo doppio destinatario) che recitò per anni in varie sedi – a dimostrazione del valore che dava al confronto –, all’inizio basandosi semplicemente su una scaletta, poi redigendo di essa una breve versione per un sottocapitolo della sua Letteratura greca (1995)25, e infine convincendosi a darle forma di saggio compiuto (Teatro e comunicazione nella Grecia antica, 2000); nel quale però ancora annunciava come prossima (ma direi più che altro come un desideratum) la stampa di un lavoro organico e di ampio respiro che desse conto di tutti i casi di iperbato artificioso fino ad allora ritrovati26. In questo caso dell’iperbato, tuttavia, oltre alle preoccupazioni bibliografiche e di formulazione è probabile che abbia agito da freno alla pubblicazione anche la giusta consapevolezza che il discorso andava opportunamente allargato a molti più autori: e in effetti Rossi nell’a.a. 1996/1997 aveva rinnovato il seminario sull’iperbato, facendo svolgere nuove ricerche ad un gruppo di allievi in forma seminariale; ma in seguito non vi furono altre esperienze di questo tipo. Un altro caso piuttosto rilevante di “lentezza” sono le lezioni del corso tenuto a Oxford nel 1979 (“Nellie Wallace Lecturership”), dal titolo collettivo di Greek Monodic Poetry and the Symposion: un ciclo di lezioni di immensa importanza scientifica, e basti dire che in esse veniva affermato, per la prima volta in assoluto negli studi di Letteratura greca, che il destinatario di tutta la melica monodica così come di elegia e giambo era il simposio27, affermazione oggi di|| 23 L. E. Rossi, Euripides. Some statistical figures and thoughts about Greek Drama and Greek literature in general. Anaphoric demonstratives and hyperbaton, conferenza tenuta alla Columbia University di New York il 17.10.1978. 24 L. E. Rossi, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’pica alternativa, cit., pp. 8–11. 25 L. E. Rossi, Letteratura greca, Firenze, Le Monnier, 1995, p. 179: § 9 L’esecuzione corale e i due tipi di pubblico (nell’ambito del capitolo su Pindaro); ristrutturata poi come scheda, dall’identico titolo, in L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, 1. L’età arcaica, Firenze, Le Monnier, 2002, p. 450. 26 L. E. Rossi, Teatro e comunicazione nella Grecia antica, cit., p. 36 n. 9 già citata supra. 27 Rossi nell’a.a. 1975/76 aveva tenuto un corso universitario su I canti popolari e i canti conviviali della Grecia antica, e nell’a.a. 1976/77 su Stesicoro, un poeta tra epica e lirica: secondo ciò che Rossi stesso disse ad Andrea Bagordo, fu nel 1977, in una chiacchierata con Kenneth Dover sulla terrazza con vista sul Palatino del suo studio in Via Aventina, che gli venne l’idea, subito approvata da Dover, del simposio come sede privilegiata di destinazione della lirica monodica.

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venuta communis opinio nella letteratura scientifica, ma che quarant’anni fa non lo era affatto (ad es., dominavano le teorie del 1974 di Martin L. West sulla multi–destinazione dell’elegia28, poi smantellate nel 1986 da Ewen L. Bowie29, che era stato uno degli uditori di quelle lezioni oxoniensi del 1979 di Rossi). Anche di tutto questo materiale, pur così innovativo all’epoca, Rossi non curò subito la pubblicazione, preoccupandosi piuttosto di trasmetterne i princìpi nelle sue lezioni universitarie30 (il simposio e la lirica furono sempre uno dei temi principali delle sue lezioni e richerche, insieme alla metrica, a Omero, al dramma e alla letteratura ellenistica): in questo atteggiamento, probabilmente, oltre alla “lentezza” agiva su lui l’esempio di Eduard Fraenkel, il quale era noto per la sua grande passione didattica che lo portava a collocare la trasmissione del sapere su un piano almeno uguale, se non superiore, a quello della ricerca31; e del resto già Wilamowitz, proprio secondo la testimonianza del suo allievo Fraenkel, «pensò sempre, e disse spesso, che era in primo luogo non uno studioso, ma un insegnante»32. Le otto lezioni del corso ebbero sorte molto diffe|| L’idea, sicuramente nata nell’ambito del corso stesicoreo e probabilmente subito comunicata agli studenti di quel corso, fu per la primissima volta espressa pubblicamente in una relazione di convegno, sempre su Stesicoro, a Siracusa il 27.9.1977, ma ancora con una piccola reticenza (vd. L. E. Rossi, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’pica alternativa, cit., p. 11: «possiamo dire che la lirica monodica (giambica, elegiaca e melica), è in grande prevalenza, e forse nella sua totalità, simposiale»), e fu poi riesposta estensivamente a Oxford nel 1979 in tutto il ciclo delle otto lezioni. 28 M. L. West, Studies in Greek Elegy and Iambus, Berlin–New York 1974, pp. 10–13. 29 E. L. Bowie, Early Greek Elegy, Symposium and Public Festival, «JHS» 106, 1986, pp. 13–35, nelle pp. 15–21. 30 Rossi accennò alla sua idea a Viterbo il 27.5.1982 in un’altra conferenza, dedicata al simposio (vd. L. E. Rossi, Il simposio greco arcaico e classico come spettacolo a se stesso, in F. Doglio [ed.], Spettacoli conviviali dall’antichità classica alle corti italiane del ‘400, Viterbo 1983, pp. 41–50, in particolare p. 44: « È un po’ di tempo che sto pensando che tutta la poesia arcaica composta per esecuzione a solo, e cioè la poesia monodica, fosse originariamente destinata al simposio»); ma tenne soprattutto ad esporla ai suoi studenti universitari nei corsi dell’a.a. 1982/1983 su Il simposio come istituzione politica e i suoi testi poetici: il V secolo (il simposio attico e Teognide), e dell’a.a. 1985/86 su Alceo e il simposio arcaico. Nell’attesa di rimaneggiare il materiale oxoniense per i Sympotica di Murray (convegno a Oxford nel 1984, cui però poi non partecipò risultando quindi assente dagli Atti del 1990), gli unici accenni alla sua idea pubblicati rimasero quelli dei due articoli del 1983 (Stesicoro e Il simposio come spettacolo a se stesso). 31 Vd. L. E. Rossi, Premessa, cit., pp. XX–XXIII. 32 Fraenkel fece questa affermazione nella sua conferenza su Wilamowitz (p. 112), per cui vd. supra n. 10. Si consideri anche, come ricorda Fraenkel sempre nella conferenza (p. 112 s.), che Wilamowitz teneva due volte a settimana, nell’Auditorium maximum di Berlino, delle ‘lezioni pubbliche’ aperte agli studenti di tutte le Facoltà e quindi ampiamente divulgative: secondo

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rente: l’unica che sarebbe stata pubblicata riguardava Stesicoro, ed era in realtà una conferenza risalente al 1977, poi replicata varie altre volte in diverse sedi (tra cui appunto Oxford 1979) e infine edita nel 1983 (Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa); un’altra lezione, che era un’idea di uno– due anni prima (Dare e avere nella lirica greca arcaica: il problema dello scambio e del compenso nella lirica monodica e corale), ed era già stata esposta in conferenza nel 1978 a New York, proponeva l’intrigante questione della possibilità di un compenso per una composizione lirica monodica (non solo dunque per le liriche corali a seguito di committenza, come aveva insegnato Bruno Gentili), e fu elaborata fino ad uno stadio molto avanzato di saggio, ma senza vedere alla fine la stampa; le altre lezioni rimasero inerti sulla carta. Un terzo lavoro di grande respiro e impegno bloccato dalla “lentezza”, e risalente agli stessi anni, fu La valutazione etico–sociale della povertà. Modi del manierismo epico e bucolico alessandrino, che analizzava i concetti di ricchezza e povertà in Callimaco e Teocrito: nato anche questo come conferenza, pronunciata in un paio d’occasioni nel 1977, fu poi ripreso a distanza di sei anni, in ulteriore stesura, ancora per essere utilizzato in due altre conferenze, per poi giacere inedito nel cassetto. Dalla prima versione fu in seguito estrapolata una parte su Teognide, avviata a lavoro autonomo con il titolo di Ricchezza e povertà (a proposito di Theogn. 1153–56), e che però, dopo una gestazione di alcuni anni, rimase non pubblicata nonostante avesse raggiunto una forma perfettamente compiuta. Altri abbandoni per “lentezza” hanno interessato alcuni brevissimi lavori che sono stati condotti fino ad un buon grado di elaborazione, ma sui quali Rossi, evidentemente, aveva desiderio di ritornare: una puntigliosissima polemica su un passo del metrico Efestione (1995), alla quale non mancava altro che l’ultima mano con aggiunta di passi in greco e qualche citazione verbatim di brani di articoli scientifici (ma esauritosi il primo divampare della fiamma della polemica – peraltro l’unica che si conosca di Rossi –, l’interesse immediato deve essere scemato); un discorso sulla dedica nella letteratura alessandrina e sulla sua presenza nel corpus teocriteo come ulteriore spia della costituzione non || Rossi (Premessa, cit., p. XXII), l’estrema elementarità e chiarezza (la “volgarizzazione”, come la chiama Rossi) che Fraenkel riusciva a tenere nelle sue lezioni su questioni molto difficili e complesse, derivava dal taglio dato da Wilamowitz a quelle sue pubbliche lezioni. Ma noi possiamo dire, a nostra volta, che non si può non vedere l’influenza di Fraenkel (e prima ancora di Wilamowitz) sia nell’estrema ansia di chiarezza comunicativa che Rossi sempre ebbe (e che fu causa molte volte di “lentezza”), sia nella sua grande disponibilità a lezioni e conferenze anche solo divulgative e non appositamente specialistiche (come testimoniato da buona parte degli inediti “non scientifici”).

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autoriale del corpus stesso, valutata in parallelo all’assenza di dedica nel liber callimacheo invece auto–edito (La dedica nella letteratura alessandrina, all’incirca del 1997/1998); due brevi recensioni, una (1999) del manuale di metrica di M. C. Martinelli del 199533, e un’altra (2002) del libro Restraining Rage di W. V. Harris del 200134. Infine, al 1981 risalgono due lavori bloccati anch’essi dalla “lentezza”, ma allo stato di abbozzo: Simposio e guerra, in contrasto all’interpretazione del fr. 1 W. di Callino data da Gennaro Tedeschi35, e di cui esistono tre versioni, differenti nella formulazione e tutte bisognose di ulteriore lavoro di ricerca (Rossi però riprese l’argomentazione nella sezione su Callino della sua Letteratura greca del 1995)36; e Theogn. 313 s.: un caso di interferenza tra momento edonistico e momento politico?, che è un brevissimo appunto. Un abbozzo ancora più scarno è Per un approccio prossemico al dramma attico. Su alcuni passi dell’Edipo re, che risale al marzo del 1995 (da una costola del corso universitario dedicato a quella tragedia nell’a.a. 1994/95): non è altro che un breve elenco di pochi passi con minime osservazioni, ma gli uni e le altre sono di grande interesse per gli studi sulla prossemica applicati al teatro greco. Ma la vittima certamente più illustre, e direi estrema, della “lentezza” di cui si è detto, e anche l’assenza più clamorosa tra gli scritti di Rossi, è quella del ‘Manuale di metrica greca’ che da tantissime persone, e in numerose occasioni, era stato vivamente sollecitato a redigere. Rossi in effetti non si dedicò mai seriamente alla stesura di questo manuale, pur potendo agevolmente riutilizzare vari suoi scritti (come quelli sull’anceps, sull’esametro, sulla sinalefe, sugli asinarteti, sulla sinafia); il massimo che fece fu derivare dalla sua Verskunt del 1975 vari manualetti metrici in forma di dispensa ad usum discipulorum (molto maasiani nella loro estrema concisione), e a cui abbiamo già accennato, arrivando alla versione definitiva di questa dispensa con la stesura del 1985. Rossi in verità nel 1996 aveva iniziato a mettere mano al manuale di metrica, che voleva intitolare La versificazione greca antica. Sistema ritmico e prassi poetiche, e ne aveva stilato l’indice e redatto l’introduzione con qualche altra parte (è questo uno degli inediti ritrovati); ma si fermò quasi subito, abbandonando del tutto il progetto e ripiegando qualche anno dopo (1999) su una seconda edizione del manualetto del 1985, cui apportò minime correzioni e aggiunte. È || 33 M. C. Martinelli, Gli strumenti del poeta. Elementi di Metrica greca, Bologna, Cappelli Editore, 1995. 34 W. V. Harris, Restraining Rage. The Ideology of Anger Control in Classical Antiquity, Cambridge Mass. – London, Harvard University Press, 2001. 35 G. Tedeschi, L’elegia parenetico–guerriera e il simposio: a proposito del fr. 1 W. di Callino, «Riv. stud. class.» 26, 1978, pp. 203–209. 36 L. E. Rossi, Letteratura greca, cit., p. 113.

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questo certamente un caso di “lentezza”, perché possiamo facilmente immaginare quanti scrupoli di documentazione, e di formulazione, potesse avere Rossi sul suo argomento prediletto37; ma la rinuncia ad un progetto del genere, proprio perché investe la materia che sentiva come maggiormente sua, è anche la dimostrazione migliore della fede che Rossi aveva nell’insegnamento orale come canale privilegiato di trasmissione delle idee, anche al di sopra del saggio scritto. Per non arrivare a scrivere addirittura l’opera che più gli era connaturata, Rossi infatti doveva sentirsi già pago non tanto dei molti suoi studi metrici estremamente specialistici e settoriali o dei vari manualetti, ma soprattutto degli insegnamenti metrici che elargiva ex cathedra, e che praticamente riuscì a portare avanti senza soluzione di continuità, da un corso universitario all’altro, per ben cinquant’anni (1960–2009): erano quegli insegnamenti orali, veri e propri ἄγραφα δόγματα, il suo manuale di metrica greca, vivo e vitale. E tanto doveva bastargli. E d’altra parte, egli era solito ripetere, riprendendo una specie di adagio di Gottfried Hermann, che la metrica deve essere imparata non sine viva voce magistri, e di certo non solo sui manuali. In questo caso dunque il ruolo di didatta, che ha i suoi precisi obiettivi, deve aver prevalso su quello di ricercatore e redattore sistematico, che obbedisce invece ad altre logiche. E qui si aprirebbe però tutto un discorso sull’importanza, e sull’efficacia, di Rossi come insegnante (in metrica e in altri campi), che non possiamo svolgere ora in questa sede, ma che di certo costituisce un altro lato di Rossi, e non certo secondario, rispetto al profilo di studioso che emerge dagli scritti. Altri inediti non sono stati pubblicati perché la prevista sede di pubblicazione per diverse ragioni è venuta a mancare. Nel 1996 Rossi redasse la breve voce “Dori” per l’Enciclopedia Oraziana diretta da Scevola Mariotti, ma probabilmente non riuscì a rispettare le scadenze temporali di consegna e il suo pezzo fu sostituito da quello di un altro studioso38. Sorprendente e spiacevole fu invece la

|| 37 Un altro lavoro metrico non concretizzatosi fu, intorno al 1993, la rassegna ragionata di studi metrici a partire dal 1970 per la rivista «Lustrum», che dava seguito a Greek Metric 1936–1957 («Lustrum» 2, 1957) di A. M. Dale e a Greek Metric 1957–1970 («Lustrum» 15, 1970) di L. E. Parker (progetto poi ereditato da Michele Napolitano). Non si realizzò neppure il Convegno Internazionale su La Metrica nella lirica greca che Rossi, intorno al 1995/1996, voleva organizzare a Roma per il periodo 1–10 settembre 1997, e nel quale avrebbero dovuto parlare Thomas Cole, Enrica Follieri, Robert Fowler, Rudolf Führer, Bruno Gentili, Michael Haslam, Jean Irigoin, Roberto Nicolai, Bruna Marilena Palumbo, Letitia E. Parker, Roberto Pretagostini, Luigi Enrico Rossi, Andrea Tessier, Martin L. West, Bernhard Zimmermann, con tre comunicazioni affidate a giovanissimi allievi dell’epoca (Giulio Colesanti, Michele Napolitano, Livio Sbardella). 38 G. Marasco, s. v. “Dori”, in S. Mariotti (dir.), Enciclopedia Oraziana, vol. 1, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1996, pp. 448–449.

Premessa | 17

vicenda dell’intervento Schadewaldt und die griechische Lyrik39, pronunciato in tedesco nel maggio 2000 a Tübingen al Colloquium su Wolfgang Schadewaldt a cent’anni dalla nascita40, cui Rossi era stato invitato dall’amico Thomas Szlezák: Rossi parlò dell’argomento a lui assegnato in modo molto onesto e obiettivo, mettendo in luce i pregi di alcuni aspetti dell’interpretazione dei lirici di Scahdewaldt, all’interno però di un discorso che non poteva evitare – e giustamente – di mostrare come tale interpretazione, a livello generale, fosse ormai irrimediabilmente datata e superata; il suo intervento lasciò attoniti, e ostilmente freddi, gli altri oratori e tutto l’uditorio tedesco, che in parte non era al passo, all’epoca, con l’interpretazione dei lirici che si stava conducendo al di fuori della Germana e in particolare in Italia (e proprio grazie a Rossi), e in parte era giunto al convegno predisposto ad una laudatio incondizionata di Schadewaldt. L’esito del tutto irrituale della vicenda (che giustamente destò lo stupore di Rossi) fu che l’intervento venne deliberatamente escluso dagli atti del Colloquium pubblicati poi nel 2005, e sostituito da un saggio del co–curatore degli atti, dall’identico titolo41. Rossi però teneva molto a questo lavoro, e progettò in seguito di includerlo in una selezione di suoi scritti42.

|| 39 Ben rievocata con dettagli, in un ricordo di Rossi di prossima pubblicazione, da Andrea Bagordo, che ne è stato testimone. 40 Ein wissenschaftshistoriches Colloquium an der Universität Tübingen anlässlich des 100. Geburtstages vom Wolfgang Schadewaldt, 19–20.5.2000. 41 K.–H. Stanzel, Wolfgang Schadewaldt und die griechische Lyrik, in Th. A. Szlezák (Hrsg.), Wolfgang Schadewaldt und die Gräzistik des 20. Jahrhunderts, unter Mitwirkung von K.–H. Stanzel, «Spudasmata» Band 100, Hildesheim – Zürich – New York, Georg Olms Verlag, 2005, pp. 21–39. Il curatore principale degli Atti, Szlezák, che era anche amico personale di lunga data di Rossi (nonché membro del Comitato scientifico della rivista «SemRom» fondata e diretta da Rossi), si limitò a p. VI ad annotare laconicamente che il contributo di Rossi, pronunciato a convegno, non era stato incluso nel volume; in una lettera personale (22.2.2005), acclusa al volume degli Atti spediti a Rossi con dedica, affermò poi che, essendosi incentrato il contributo di Rossi principalmente sulla questione dell’unità dell’epinicio pindarico (ma in realtà Rossi aveva parlato anche di Saffo e dei lirici monodici), e non volendo Rossi apportare modifiche, si era visto costretto a chiedere a Stanzel un saggio più panoramico. 42 In possesso di Roberto Nicolai vi sono due fotocopie della mia Bibliografia 1962–2003 di Rossi redatta per gli studi in onore (non accreditata, in R. Nicolai [ed.], ΡΥΣΜΟΣ, cit., pp. 5–11), con segni di spunta e appunti manoscritti di Rossi finalizzati a selezionare i lavori (una settantina) da includere in una raccolta collettanea di suoi scritti che stava progettando (di cui fanno fede anche altri due fogli, sempre in possesso di Nicolai, nei quali prima dei lavori citati compare il titolo di Scritti di poesia, musica e metrica greca); gli appunti di Rossi e il relativo progetto risalgono almeno al 2005/2006 (tra i lavori selezionati si trova infatti aggiunto Un esploratore della parola, pubblicato su «Eikasmós» 2005), e su entrambe le copie della bibliografia Rossi ha aggiunto a mano l’indicazione di includere anche il saggio su Schadewaldt.

18 | Giulio Colesanti, Roberto Nicolai

Due inediti metrici, il saggio La metrica greca a Roma (del 1996/7) e la conferenza Orazio nel lungo silenzio della lirica greca (pronunciata a Padova nel 2004), sono stati tralasciati dallo stesso Rossi, perché dal primo è stato estratto il nucleo dell’articolo Orazio, un lirico greco senza musica pubblicato in «SemRom» 1998, mentre il secondo era in gran parte una riesposizione di quest’articolo stesso; tuttavia, entrambi i lavori contengono osservazioni originali. Un inedito “intenzionale”, per così dire, è l’Interpretazione di Sapph. fr. 31 V. (1996) che Rossi formulò come epistola e consegnò poi a mano a Glenn Most dopo un seminario a Roma di quest’ultimo proprio su Sapph. 31 V.: Rossi infatti si limitò ad esporre la sua idea all’amico, dichiarando che gliel’avrebbe “regalata” se a questi fosse piaciuta, ed egli stesso in seguito non se ne servì (ma conservò l’appunto epistolare sia in versione stampata sia su file) Infine, tre conferenze degli ultimi anni sono state organizzate da Rossi soprattutto in forma di appunti, per un’esposizione orale in gran parte improvvisata (come fece anche altre volte negli ultimi vent’anni): Le intenzioni dei poeti: delectare e/o docere?, per un convegno AICC a Sassari (1996), recitata poi anche in altra sede sempre sulla base di appunti; Modi della comunicazione e configurazione del testo. Un esercizio di critica testuale ed esegetica (Erodoto, Storie 1.123 s.), preparata per una conferenza all’Università di Parma nel 2008 ma poi non recitata; Le immagini viventi nella critica d’arte antica, per il Convegno di Napoli su Lo scudo d’Achille nell’Iliade (2008). In tutti e tre i casi, la frammentazione delle parti espositive e la strutturazione ad appunti non impediscono di cogliere le buone osservazioni formulate. Alcuni inediti non sono stati pubblicati, o perché, pur avendone notizia, non siamo riusciti a trovarli (come il Ricordo di Pierluigi Salviucci, o la Tesi di Laurea), o perché si trattava di conferenze doppioni di altri lavori (come la conferenza sull’iperbato di New York 1978; o La funzione del mito in Callimaco, pronunciato a Lamezia Terme nel marzo 1996 alla Giornata di Studio “Il mito nelle società antiche” promossa dalla locale sezione AICC, ma ripreso quasi totalmente da Letteratura di filologi e filologia di letterati (convegno di Brescia 1995), poi edito; o Il nuovo modo di leggere i lirici greci arcaici, del 2000, che è una ripresa dell’Introduzione ai lirici della sua Letteratura greca del 1995). Tutti gli inediti sono segnalati esplicitamente come tali nella Bibliografia ospitata nelle pagine seguenti, con l’indicazione certa o presunta dell’epoca di composizione o dell’ultima mano; negli inediti pubblicati (tutti a mia cura) in questi tre volumi, una nota iniziale indica lo status di inedito e il luogo di ritrovamento di ognuno, e fornisce eventuali altre notizie. Parecchi degli inediti pubblicati hanno avuto bisogno, per essere più fruibili, di interventi di vario tipo (come ad es. integrazioni, note aggiuntive oppure esplicative), tutti però

Premessa | 19

sempre inseriti tra parentesi quadre (e con preavviso nella nota iniziale), in modo che le parti di Rossi risultassero chiaramente distinguibili dalle necessarie e inevitabili aggiunte. Pochi inediti, troppo allo stato di abbozzo al punto che neppure con le integrazioni ne sarebbe scaturito un discorso compiuto, e il cui contenuto è però apparso interessante a noi curatori, sono stati pubblicati nello stato in cui si trovavano e senza interventi di alcuna sorta, come puri “documenti”, nella convinzione che anche in un frammento o in appunto possa ritrovarsi una buona osservazione. Questa raccolta non è stata fortemente voluta e attuata da noi allievi con intenti nostalgici, che del resto il nostro maestro non avrebbe di certo approvato: ci è sembrato invece il modo migliore di far giungere le sue idee, nelle efficaci formulazioni che lui sapeva trovare, sia a chi già le conosceva e voleva ritrovarle, sia soprattutto a chi non vi aveva ancora mai attinto; e per questo motivo abbiamo di molto allargato il numero dei lavori da lui selezionati in origine, includendovi anche gli inediti. Una tipica – e dissacrante – battuta di Rossi era che della letteratura greca non si butta via nulla (proprio come del proverbiale maiale): sia così anche dei suoi scritti e delle sue idee. Giulio Colesanti

Ringraziamenti Questi volumi non avrebbero potuto vedere la luce senza il lavoro di tutto il gruppo degli allievi, quelle che venivano scherzosamente chiamate Brigate Rossi e che oggi sono presenti in molte università e in molti licei italiani. Desideriamo pertanto ringraziare in primo luogo, per l’appoggio incondizionato e costante, gli altri otto membri del nostro gruppo di ricerca (Maria Broggiato, Andrea Ercolani, Manuela Giordano, Laura Lulli, Michele Napolitano, Riccardo Palmisciano, Livio Sbardella, Maurizio Sonnino), che fin dall’inizio sono stati promotori e corresponsabili del progetto al pari di noi, e insieme ai quali noi due curatori abbiamo discusso delle decisioni scientifiche più rilevanti: come la strutturazione in sezioni dei volumi43 e il procedere all’interno di esse in ordine || 43 Le sezioni coincidono più o meno con determinati argomenti (metrica, musica, dramma, letteratura ellenistica) o generi letterari sia antichi (epica, lirica) sia moderni (critica letteraria, storia degli studi, ricordi, presentazioni), a parte l’ultima (i varia), necessariamente miscellanea. Il lettore avveduto si accorgerà di inevitabili compromessi e forzature, in tale sistemazione: ad es., alcuni ricordi o presentazioni (Gallo, Serrao, Gigante, Degani, Bona, Pretagostini)

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cronologico di pubblicazione o di composizione; la rinuncia all’omologazione dei criteri di citazione (in nota e in generale), nel rispetto del contesto originario di ogni contributo; e l’atteggiamento da prendere sugli inediti, scoperti a lavori ormai già iniziati. Sugli inediti, il gruppo non è stato unanime sulla quantità di lavori da pubblicare, né sul modo di pubblicarli (se sparsi nelle varie sezioni o in gruppo a sé); per cui la responsabilità finale della scelta di quali inediti pubblicare, e del modo in cui farlo (all’interno delle sezioni spettanti a ognuno per argomento), ricade solo su di noi curatori, com’è giusto che sia. Vogliamo ringraziare anche i cinque studiosi più giovani (Francesco Paolo Bianchi, Enrico Cerroni, Enzo Franchini, Virgilio Irmici, Michelangelo Pecoraro), tutti in qualche modo legati anch’essi a Rossi, e che hanno aiutato noi del gruppo in un momento in cui le forze inizialmente messe in campo non bastavano, sobbarcandosi un lavoro redazionale tanto umile quanto fondamentale: riteniamo di poter dire che, senza il loro intervento, quest’opera non avrebbe visto la luce nei tempi previsti. Un ringraziamento ci è gradito rivolgerlo all’editore Walter de Gruyter e in particolare a Serena Pirrotta, allieva anch’essa di Rossi e ora responsabile del settore classico delle edizioni de Gruyter, la quale ha seguito tutto il nostro lavoro non solo con la consueta competenza, ma soprattutto con affetto; a Marco Michele Acquafredda e a Florian Ruppenstein siamo debitori di un prezioso supporto tecnico nella preparazione dei volumi. Parimenti siamo molto grati a tutti i sottoscrittori della Tabula in memoriam, sia persone sia enti e istituzioni, per aver voluto sostenere quest’opera nel ricordo di Rossi: le davvero molto numerose sottoscrizioni indicano che Rossi ha lasciato buona memoria di sé, e non solo come studioso. Ringraziamo anche i direttori delle riviste e gli editori che hanno autorizzato la ristampa dei vari contributi, dimostrando in questo modo di dare la priorità alla scienza e alla sua diffusione: Accademia Nazionale dei Lincei; Aevum Antiquum (Vita e Pensiero); AIONfilol (Fabrizio Serra Editore); Annali della Scuola

|| riguardano anche la storia degli studi, mentre alcuni lavori (come Rileggendo due opere di Wilamowitz: Pindaros e Griechische Verskunst; Grammatica greco–latina e metrica in Italia fra il 1860 e il 1920; Metrica e scena. Roberto Pretagostini e il dramma greco) potevano anche comparire nella sezione di Metrica, e altri ancora non avrebbero sfigurato in sezioni diverse dalle proprie (l’epica per La méthode philologique de Jean Baptiste Gaspard d’Ansse de Villoison et le Venetus Marcianus A; la lirica per Schadewaldt und die griechische Lyrik; il dramma per L’approccio non classicistico di Pasolini alla tragedia greca e per Metrica e scena. Roberto Pretagostini e il dramma greco; la Letteratura ellenistica per Il Teocrito di Gregorio Serrao); infine, il saggio Teatro e comunicazione nella Grecia antica è stato incluso nella sezione Dramma in virtù del titolo, ma in realtà si riferisce quasi esclusivamente alla lirica.

Premessa | 21

Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia; Archeologia classica; Armando Editore; AICC – Associazione Italiana di Cultura Classica; Atene e Roma; Bompiani; Cairo University Press; Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo; Critica del testo; Dialoghi di Archeologia; Dioniso; Librairie Droz; Alfred Druckenmüller Verlag (Metzler Verlag); Edizioni di Storia e Letteratura; Edizioni New Press; Edumond; Eikasmós; ESI – Edizioni Scientifiche Italiane; Einaudi; Facoltà di Lettere dell’Università di Genova; Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Catania; Fabrizio Serra Editore; Giornale di Sicilia; Giornale Italiano di Filologia; Göttingische Gelehrte Anzeigen; Gymnasium. Zeitschrift für Kultur der Antike und Humanistische Bildung (Winter); Honoré Champion; Il Poligrafo; Istituto dell’Enciclopedia Italiana; Istituto di Filologia classica e Medievale dell’Università di Genova; ISAMG – Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, Taranto; Lexis; Maia; Marsilio; Max Niemeyer Verlag (Walter de Gruyter); Olschki; Orpheus – Rivista di umanità classica e cristiana; Parola del Passato; Rivista di Cultura Classica e Medioevale; Rivista di Filologia e di Istruzione Classica (Loescher); Salerno Editrice; Scienze Umanistiche; Seminari Romani di cultura greca (Quasar editore); Studi (e testi) italiani (Bulzoni Editore); Studi Italiani di Filologia Classica; Studi Urbinati, B – Scienze umane e sociali; Symbolae Osloenses; Vandenhoeck & Ruprecht; Verlag C. H. Beck; YAWP Giornale di letterature e filosofie. Per le riviste e gli editori che non è stato possibile raggiungere, l’editore Walter de Gruyter rimane a disposizione per il soddisfacimento dei diritti. L’ultimo ringraziamento, ma non il meno importante, vogliamo rivolgerlo a Giovanna, Giacomo ed Elena Rossi, che hanno accolto subito con favore l’iniziativa di noi allievi, approvandola e sostenendola in ogni modo: hanno consentito l’accesso all’ultimo pc di Rossi e alle carte personali del suo studio, permettendo così il ritrovamento degli inediti; hanno messo a nostra disposizione tutti gli estratti personali, nei quali erano registrate correzioni e aggiunte di cui abbiamo tenuto conto; infine ci hanno accordato senza condizioni il permesso di pubblicazione dei lavori sia editi sia inediti. Il pensiero finale desideriamo però riservarlo a Chico (come amava farsi chiamare, e come era universalmente noto a tutti quelli che lo conoscevano), solo per dire che anche nei minimi dettagli abbiamo voluto rendergli omaggio. Il titolo in greco di questa raccolta di scritti, suggerito da Livio Sbardella, allude al verso omerico nel quale Chico ritrovava la perfetta espressione dell’empatia che legava aedo e pubblico, e che però a tutti noi allievi ha sempre ricordato il fascino che ci prendeva nell’ascoltarlo discutere di letteratura greca a lezione o a seminario, o nelle riunioni di redazione della sua rivista “Seminari Romani”, o nel suo studio mentre ci offriva del tè tratto dalle più disparate miscele, o anche

22 | Giulio Colesanti, Roberto Nicolai

nelle liete cene che si concedeva di frequente insieme a noi. In sottofondo sulla copertina abbiamo scelto di inserire, confortati anche dal parere di Elena Rossi, la pagina di un suo lavoro nella quale vi fosse una parte dattiloscritta e una di suo pugno (la scelta è caduta sulla p. 4 della redazione consuntiva del 1978 sull’iperbato, a lui carissima). Come immagine di copertina, abbiamo pensato di inserire il suo personale ex libris (realizzato alla fine degli anni Cinquanta dal grande incisore Bruno da Osimo): il verso archilocheo che fa da motto (fr. 128. 7 W.) allude contemporaneamente alla letteratura greca, alla metrica e alla musica (non solo greca), notori suoi campi di elezione, ma rimanda anche alla poesia in generale, altra sua grande passione non solo studiata, ma praticata fin dalla tenera età (per quanto gelosamente), e concretizzatasi nel corso di tutta la vita nella produzione di un canzoniere, rimasto anch’esso inedito e pubblicato postumo44 (ma la figura di Rossi poeta novecentesco è ancora tutta da analizzare e da studiare); il Don Chisciotte in azione fu voluto da Chico stesso, il quale considerava quell’opera “il più bel libro del mondo”, e di nuovo rimanda alla letteratura, ma anche alla meta–letteratura. Le tre foto di lui, ospitate all’inizio dei volumi, risalgono al periodo degli ultimi cinque anni, e ci sono state concesse dalla famiglia, che ringraziamo anche per questo. Nelle conclusioni di un convegno dedicato al suo maestro Gennaro Perrotta, Chico osservava che “se qualcuno trovasse nelle parole dei relatori e nelle mie toni molto o troppo personali, non sarà che del tutto naturale: parlando di Perrotta abbiamo tutti parlato di noi stessi”45. Forse potremmo dire anche noi la stessa cosa. Giulio Colesanti e Roberto Nicolai

Roma, 19 settembre 2019

|| 44 L. E. Rossi, Idioma di frodo, con un’introduzione e una nota di Roberto Nicolai e con un’intervista di Camilla Miglio ad Antonella Anedda su Luigi Enrico Rossi, Roma, Empirìa, 2012. 45 L. E. Rossi, Conclusioni, in B. Gentili – A. Masaracchia (edd.), Giornate di studio su Gennaro Perrotta. Atti del Convegno (Roma 3–4 novembre 1994), Pisa–Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1996, pp. 153–158, a p. 158.

Tabula in memoriam Gianfranco AGOSTI, “Sapienza” Università di Roma Federico ALBANO LEONI, Roma Daniela ALECU, Roma Maria Giulia AMADASI, Roma Valeria ANDÒ, Dipartimento Culture e Società, Università di Palermo Ilaria ANDOLFI, Seminar für Klassische Philologie, Universität Heidelberg

Margherita BERTAN, Roma Luca BETTARINI, Roma Maurizio BETTINI, Siena Daniela BIZZARRI e Paolo MONCELSI, Roma Piero BOITANI, Roma Maria Grazia BONANNO, Professore Emerito, Università di Roma “Tor Vergata”

Francesca ANGIÒ, Velletri

Ewen BOWIE, Corpus Christi College, Oxford

Sergio AUDANO, Chiavari

Carlo BRILLANTE, Siena

Guido AVEZZÙ, Verona

Maria BRUTTO, Catanzaro

Renato BADALÌ, Fiano Romano

Luca BRUZZESE, Roma

Andreas BAGORDO, Seminar für Griechische und Lateinische Philologie, Albert– Ludwigs–Universität Freiburg im Breisgau

Francesco BUÈ, Gela

Mattia BAHR, Genazzano Alessandro BARCHIESI, Arezzo

Gabriele BURZACCHINI, Savignano sul Panaro Giovanna CAGGIA, Roma

Giuseppina BASTA DONZELLI, Università di Catania

Claude CALAME, Directeur d’études, École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris

Luigi BATTEZZATO, Università del Piemonte Orientale, Vercelli

Stefano CALZECCHI ONESTI e Maria Grazia PIETRALUNGA GIANNINI, Roma

Anna Maria BELARDINELLI, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, “Sapienza” Università di Roma

Giorgio CAMASSA, Udine

Luigi BELLONI, Dipartimento di Lettere e Filosofia, Università di Trento Anna BELTRAMETTI, Università di Pavia Elisabetta BERARDI, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Torino Francesca BERNARDINI, Roma

https://doi.org/10.1515/9783110647983-002

Filippo CANALI DE ROSSI, Roma Paolo CANETTIERI, Roma Luciano CANFORA, Professore Emerito, Università di Bari Fabio CANNATÀ, Roma Maria CANNATÀ FERA, Università di Messina

24 | Tabula in memoriam

Mario CANTILENA, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Gian Biagio CONTE, Professore Emerito, Scuola Normale Superiore, Pisa

Mario CAPALDO, Accademia dei Lincei

Ferruccio CONTI BIZZARRO, Università di Napoli “Federico II”

Pietro CAPPELLETTO, Liceo Classico e Musicale Statale “Bartolomeo Zucchi”, Monza

Adele Teresa COZZOLI, Dipartimento di Studi Umanistici, Università “Roma Tre”

Valerio CASADIO, Dipartimento di Studi Letterari, Filosofici e di Storia dell’Arte, Università di Roma “Tor Vergata”

Andrea CUCCHIARELLI, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, “Sapienza” Università di Roma

Albio Cesare CASSIO e Paola ASCHERI, Roma

Giambattista D’ALESSIO, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Napoli “Federico II”

Gian Paolo CASTELLI, Roma Carmine CATENACCI, Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali, Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti–Pescara Alberto CAVARZERE, Verona Vanessa CAZZATO, Paris Lucio CECCARELLI, L’Aquila Paola CECCARELLI, University College London Stefano CECCARELLI, Civitavecchia Maria Silvana CELENTANO, Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti–Pescara Ester CERBO, Roma Maria Grazia CIANI, Università di Padova Piero CIMBOLLI SPAGNESI,“Sapienza” Università di Roma Ettore CINGANO e Caterina CARPINATO, Università “Ca’ Foscari” di Venezia Paolo Biagio CIPOLLA, Università di Catania

Dario D’ECCLESIIS e Giulia MARINARI, Roma Mario DE NONNO, Roma Paolo DE PAOLIS, Dipartimento di Culture e Civiltà, Università di Verona Mattia DE POLI, Padova Claudio DE STEFANI, Dipartimento di Lettere e Beni culturali, Università della Campania “Luigi Vanvitelli” Davide DEBERNARDI, Genova Maurizio DEL FREO, Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) José Antonio FERNÁNDEZ DELGADO e Francisca PORDOMINGO PARDO, Universidad de Salamanca Fabrizio DELLA SETA e Ileana PAGANI, Roma Emanuele DETTORI, Università di Roma “Tor Vergata” Claudia DI CAVE, Roma

Vittorio CITTI, Bologna

Riccardo e Monica DI DONATO, Pisa

Federico CONDELLO, Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica, “Alma Mater Studiorum” Università di Bologna

Carlo DI GIOVINE, Roma Massimo DI MARCO, “Sapienza” Università di Roma

Tabula in memoriam | 25

Paola DOLCETTI, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Torino Giulia ECCA, Humboldt–Universität zu Berlin

Rosa GIANNATTASIO ANDRIA, Salerno Davide GRAVANTI, Marina di Gioiosa Jonica

Paolo ESPOSITO, Università di Salerno

Giovanni GRECO e Maria Cristina ZERBINO, Roma

Elena FABBRO, Università di Udine

Alan GRIFFITHS e Patsy VANAGS, Winster

Marta FATTORI, Professore Emerito, “Sapienza” Università di Roma

Francesco GUIZZI, “Sapienza” Università di Roma

Luciano FAVINI, Roma

Richard HUNTER, Cambridge

Paolo FEDELI, Professore Emerito, Università di Bari

Gregory HUTCHINSON, Oxford

Luigi FERRERI e Sophie VAN DER MEEREN, Paris Maria Fernanda FERRINI, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Macerata Patrick FINGLASS, Bristol Alessandro FO, Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne, Università di Siena Sotera FORNARO, Università di Sassari Robert FOWLER, Professor Emeritus, University of Bristol Carlo FRANCO, Venezia Roberta FRASCHETTI, Roma Alessandro FUSI, Università della Tuscia Giuseppe GALIGANI, Firenze Leopoldo GAMBERALE, Roma Enrica GARBINI e Pierfrancesco CALLIERI, Roma Fernando GARCÍA ROMERO, Universidad Complutense de Madrid Tristano GARGIULO, Università di Cagliari Valentina GARULLI, Bologna Claudio GIAMMONA, “Sapienza” Università di Roma

Giovanna IACCARINO, Roma Alessandro IANNUCCI, Dipartimento di Beni Culturali, “Alma Mater Studiorum” Università di Bologna Maria Grazia IODICE, “Sapienza” Università di Roma Stefano JEDRKIEWICZ, Roma Sara KACZKO, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, “Sapienza” Università di Roma Adriano e Olga LA REGINA, Roma Nicola LANZARONE, Salerno Renata LAVAGNINI, Palermo Caterina LAZZARINI e Gianpiero ROSATI, Firenze Massimo LAZZERI, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Salerno Mary LEFKOWITZ, Wellesley Luigi LEHNUS, Milano Giuseppe LENTINI, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, “Sapienza” Università di Roma Luigi LEURINI, Cagliari Gauthier LIBERMAN, École Pratique des Hautes Études, Paris et Université Borde-

26 | Tabula in memoriam

aux Montaigne

Angelo MERIANI e Rosanna PIZZI, Salerno

Elio LO CASCIO ed Eleonora TAGLIAFERRO, Roma

Jacopo MICHELI, Viterbo

Carla LO CICERO, Roma Gianfranco LOTITO, Università di Pisa Raffaele LUISELLI, Roma Gianfranco MADDOLI, Perugia, Società Magna Grecia

Camilla MIGLIO, Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali, “Sapienza” Università di Roma Paolo MILIZIA, Roma Sabrina MINGARELLI, Roma Paola Maria MINUCCI, Roma

Simone MADONNA, Roma

Marco ed Enrico MISTRETTA, Roma

Massimo MAGNANI, Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali, Università di Parma

Mauro MOGGI, Siena

Elisabetta ed Enrico MAGNELLI, Firenze

Salvatore MONDA, Università del Molise Franco MONTANARI, Genova

Giacomo MANCUSO, Caltagirone

Gianfranco MOSCONI, Associazione Italiana di Cultura Classica, Delegazione di Roma

Daniela MANETTI, Firenze

Glenn MOST, Firenze

Francesco MANISCALCO, Roma

Francisca MOYA DEL BAÑO, Universidad de Murcia

Enrico V. MALTESE, Torino

Maria MARCHEI, Roma Antonio MARCHETTA, “Sapienza” Università di Roma

Frances MUECKE, Sydney Oswyn MURRAY, Balliol College, Oxford

Simonetta MARCHITELLI, Roma

Massimo NAFISSI, Università di Perugia

Manuela MARI, Università di Bari “Aldo Moro”

Marcello NARDIS di Torre Guidaccia, Roma

Ada MARIANI, Roma Maria Chiara MARTINELLI, Pisa Stefano MARTINELLI TEMPESTA, Milano Carlo MASSIMI, Catania Giulio MASSIMILLA, Napoli Giuseppe MASTROMARCO, Professore Emerito, Università di Bari Enrico MEDDA, Pisa Claudio MELIADÒ, Dipartimento di Civiltà antiche e moderne, Università di Messina

Camillo NERI, Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica, “Alma Mater Studiorum” Università di Bologna Anika NICOLOSI, Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali, Università di Parma Salvatore NICOSIA, Professore Emerito, Università di Palermo Gian Franco NIEDDU e Patrizia MUREDDU, Cagliari Marcello NOBILI, Roma Roberta ORTOLANO, Roma

Tabula in memoriam | 27

Cristina PACE, Università di Roma “Tor Vergata” Giovanna PACE, Dipartimento di Studi Umanistici, Università di Salerno Cosimo PALAGIANO, Professore Emerito, “Sapienza” Università di Roma

Francesco PRONTERA, Perugia Pietro PUCCI, Cornell University Pierpaolo QUATTRONE, Roma Massimo RAFFA, Milazzo Roberto RAMPIONI, Roma

Angelo PALERMO, Roma

Enrico RENNA, Napoli

Maria Rosa PALLONE, Roma

Silvia RIZZO, Professore Emerito, “Sapienza” Università di Roma

M. Grazia PALOMBI, Viterbo

Maria Grazia PALUTAN, Roma

Eleonora ROCCONI, Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali, Università di Pavia

Ester PAONE, Liceo Classico Statale “Vittorio Emanuele II”, Napoli

Andrea RODIGHIERO, Dipartimento di Culture e Civiltà, Università di Verona

Luca PARETTI, Roma

Amneris ROSELLI, Università di Napoli “L’Orientale”

Marco PALONE, University of Edinburgh

don Serafino PARISI, Santa Severina Guido PARRAVICINI, Dipartimento di Fisica, Università di Milano Piergiorgio PARRONI, Professore Emerito, “Sapienza” Università di Roma Marina PASSALACQUA, “Sapienza” Università di Roma Maria Pia PATTONI, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Gabriele PEDULLÀ, Università “Roma Tre” Rosario PINTAUDI, Accademia Fiorentina di Papirologia e di Studi sul Mondo Antico Giorgio PIRAS, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, “Sapienza” Università di Roma Teodora POCHESCI, Rocca di Cave Antonietta PORRO, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Jaume PÒRTULAS, Barcelona Enrico Emanuele PRODI, Oxford Luigi PROIETTI, Tordibetto di Assisi

Laura ROSSI, Roma Letizia RUSSO, Roma Monica SABBADINI, Roma Marcello SALVADORE, Roma Giovanna SALVIUCCI, Roma Giuseppe A. SAMONÀ, Paris Maria Michela SASSI e Salvatore SETTIS, Pisa Paolo SCATTOLIN, Dipartimento di Culture e Civiltà, Università di Verona Seth L. SCHEIN, University of California, Davis Alessandro SCHIESARO, University of Manchester Giancarlo M. G. SCODITTI, Kitawa Island (Papua New Guinea) Federica SCOGNAMIGLIO, Napoli Luigi Maria SEGOLONI, Roma Maria SERRAVEZZA, Roma

28 | Tabula in memoriam

Fabrizio SETTIMI, Roma

Stefano ZAULI, Roma

Lisa SEVERI e Giovanni Maria LEO, Roma

Bernhard ZIMMERMANN, Freiburg im Breisgau

Gigi SPINA, Bologna Silvia STUCCHI, Dipartimento di Filologia Classica, Papirologia e Linguistica storica, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

ACCADEMIA VIVARIUM NOVUM, Villa Falconieri, Frascati

Carlo SUANI, Cortina d’Ampezzo

AMERICAN ACADEMY IN ROME

Andrea TADDEI, Laboratorio di Antropologia del Mondo Antico, Università di Pisa

ARCADIA – ACCADEMIA LETTERARIA ITALIANA, Roma

Oliver TAPLIN, Oxford

ASSOCIAZIONE ITALIANA DI CULTURA CLASSICA, Sede nazionale

Matteo TAUFER, Trento Alberto TEDESCHI, Roma Gennaro TEDESCHI, Trieste Gianfranco TERZIANI, Roma Andrea e Donatella TESSIER, Venezia Aquilina Lilli TICCHI, Liceo Ginnasio Statale “Virgilio”, Roma Raffaele TORELLA e Malgorzata SACHA, “Sapienza” Università di Roma Renzo TOSI, Bologna Piero TOTARO e Tiziana DRAGO, Università di Bari “Aldo Moro” Giuseppe UCCIARDELLO, Messina Lucio Maria VALLETTA, Pisa Maddalena VALLOZZA e Mauro TULLI, Roma Pietro VANNICELLI, Dipartimento di Scienze dell’Antichità, “Sapienza” Università di Roma Eveline VITALI, Terracina Paola VOLPE, Salerno Onofrio VOX, Università del Salento Robert WALLACE, Evanston, IL Laura ZAMPETTI, Roma

ASSOCIAZIONE ITALIANA DI CULTURA CLASSICA, Delegazione di Castrovillari BIBLIOTECA “BEATRICE COSTANZO”, Liceo Classico Statale “Giulio Cesare”, Roma BIBLIOTECA “ETTORE PARATORE”, Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti–Pescara BIBLIOTECA APOSTOLICA VATICANA, Città del Vaticano BIBLIOTECA DELL’ACCADEMIA NAZIONALE DEI LINCEI E CORSINIANA, Roma BIBLIOTECA DELL’AREA LETTERARIA, STORICA, FILOSOFICA, Università di Roma “Tor Vergata” BIBLIOTECA DI AREA UMANISTICA, Università della Calabria BIBLIOTECA DI AREA UMANISTICA, Università di Napoli “Federico II” BIBLIOTECA DI AREA UMANISTICA, Università di Siena BIBLIOTECA DI FILOLOGIA, LINGUISTICA E TRADIZIONE CLASSICA, Università di Torino BIBLIOTECA DI LETTERE E FILOSOFIA, Università di Ferrara BIBLIOTECA DI SCIENZE DELL’ANTICHITÀ ARTE MUSICA LIVIANO, Università di Pa-

Tabula in memoriam | 29

dova BIBLIOTECA MEDICEA LAURENZIANA, Firenze BIBLIOTECA NAZIONALE MARCIANA, Venezia BIBLIOTHÈQUE DES SCIENCES DE L’ANTIQUITÉ, Université de Fribourg DEPARTAMENTO DE CIENCIAS DE LA ANTIGÜEDAD, Universidad de Extremadura DEPARTAMENTO DE FILOLOGÍA CLÁSICA, Universidad Complutense de Madrid DEPARTAMENTO DE FILOLOGÍA CLÁSICA, Universidad de Murcia DEPARTAMENTO DE FILOLOGÍA CLÁSICA E INDOEUROPEO, Universidad de Salamanca DEUTSCHES ARCHÄOLOGISCHES INSTITUT, Rom

DIPARTIMENTO DI LETTERE – LINGUE, LETTERATURE E CIVILTÀ ANTICHE E MODERNE, Università di Perugia DIPARTIMENTO DI LETTERE E BENI CULTURALI, Università della Campania “Luigi Vanvitelli” DIPARTIMENTO DI LETTERE E FILOSOFIA, Università di Cassino e del Lazio meridionale DIPARTIMENTO DI LETTERE E FILOSOFIA, Università di Firenze DIPARTIMENTO DI LETTERE E FILOSOFIA, Università di Trento DIPARTIMENTO DI LETTERE, LINGUE E BENI CULTURALI, Università di Cagliari DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELL’ANTICHITÀ, “Sapienza” Università di Roma

DIPARTIMENTO DI ANTICHITÀ, FILOSOFIA E STORIA, Università di Genova

DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE, STUDI UMANISTICI E INTERNAZIONALI, Università di Urbino “Carlo Bo”

DIPARTIMENTO DI ASIA, AFRICA E MEDITERRANEO, Università di Napoli “L’Orientale”

DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE, Università dell’Aquila

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ ANTICHE E MODERNE, Università di Messina

DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI – SEZIONE DI FILOLOGIA, LETTERATURE E STORIA DALL’ANTICHITÀ AL MEDIOEVO, Università di Salerno

DIPARTIMENTO DI CULTURE E CIVILTÀ, Università di Verona DIPARTIMENTO DI DISCIPLINE UMANISTICHE, SOCIALI E DELLE IMPRESE CULTURALI, Università di Parma DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA CLASSICA E ITALIANISTICA, “Alma Mater Studiorum” Università di Bologna DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA CLASSICA, PAPIROLOGIA E LINGUISTICA STORICA, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E LINGUISTICA, Università di Pisa

DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI, Università “Ca’ Foscari” di Venezia DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI, Università di Bari “Aldo Moro” DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI, Università di Pavia DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI, Università di Trieste ÉCOLE FRANÇAISE DE ROME Bibliothèque FACULTY OF CLASSICS, University of Cambridge

30 | Tabula in memoriam

FONDATION HARDT POUR L’ÉTUDE DE L’ANTIQUITÉ CLASSIQUE, Vandœuvres INSTITUT FÜR KLASSISCHE PHILOLOGIE, Goethe–Universität Frankfurt am Main INSTITUT FÜR KLASSISCHE PHILOLOGIE, Humboldt–Universität zu Berlin INSTITUTE OF CLASSICAL STUDIES LIBRARY, London ISTITUTO PER LA STORIA E L'ARCHEOLOGIA DELLA MAGNA GRECIA, Taranto ISTITUTO SICILIANO DI STUDI BIZANTINI E NEOELLENICI “BRUNO LAVAGNINI”, Palermo LICEO CLASSICO STATALE “ENNIO QUIRINO VISCONTI”, Roma LICEO GINNASIO STATALE “ORAZIO”, Roma LICEO SCIENTIFICO STATALE “PRIMO LEVI”, Roma LICEO STATALE “LUDOVICO ARIOSTO”, Ferrara

LICEO STATALE “SOCRATE”, Roma LICEO STATALE “TERENZIO MAMIANI”, Roma MUSEO DELLE RELIGIONI “RAFFAELE PETTAZZONI”, Velletri SCUOLA ARCHEOLOGICA ITALIANA DI ATENE SCUOLA NORMALE SUPERIORE, Pisa SECCIÓ DE FILOLOGIA GREGA, Universitat de Barcelona SEMINAR FÜR GRIECHISCHE UND LATEINISCHE PHILOLOGIE, Albert–Ludwigs–Universität Freiburg im Breisgau SEMINAR FÜR KLASSISCHE PHILOLOGIE, Georg–August–Universität Göttingen SEMINAR FÜR KLASSISCHE PHILOLOGIE, Universität Heidelberg UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI UDINE UNIVERSITÄTSBIBLIOTHEK, Philipps–Universität Marburg

Biliografia degli scritti di Luigi Enrico Rossi Premessa Anche questa bibliografia, probabilmente, non potrà sfuggire alla sorte comune di molti lavori di questo tipo: quella di non essere completi. Ho tuttavia effettuato spogli, sia manuali sia digitali, nel modo più accurato possibile, e voglio ringraziare tutti coloro che hanno agevolato le mie ricerche: in primo luogo la famiglia Rossi, nelle persone della vedova, Signora Giovanna Gorgosalice, e dei due figli Giacomo Claudio ed Elena Giulia, per avermi consentito ripetutamente l’accesso allo studio di Rossi in Via Aventina a Roma, dove ho potuto trovare estratti, ritagli di giornale, pubblicazioni varie, e anche le carte personali; e inoltre per avermi permesso la consultazione dell’HardDisk dell’ultimo pc di Rossi, nel quale ho trovato quasi tutti gli inediti (pochi altri erano nelle carte personali). Ringrazio anche la Biblioteca di Filologia Greca e Latina del Dipartimento di Scienze dell’Antichità della “Sapienza” Università di Roma, particolarmente nella persona del dott. Walter Mazzotta, per avermi permesso in più occasioni l’esplorazione degli estratti e delle carte del “Fondo Rossi” (in massima parte ancora non catalogati). Devo un ringraziamento anche ad Andrea Ercolani e a Roberto Nicolai, che mi hanno coadiuvato in alcune ricerche, e in particolare a Elena Giulia Rossi, che è stata sempre premurosa compartecipe di tutto questo lavoro, e che tra le sue carte personali del padre ha ritrovato quattro inediti. L’ultimo inedito scoperto in ordine di tempo me lo ha trasmesso Silvia Rizzo, che ringrazio. Benché forse incompleta, confido che questa bibliografia sia più precisa e funzionale di quella che avevo redatto, limitandola ai soli lavori significativi riconosciuti come tali dallo stesso Rossi, per gli Studi in onore in occasione dei settant’anni (2004, a cura di Roberto Nicolai). Giulio Colesanti Roma, 20 luglio 2019

https://doi.org/10.1515/9783110647983-003

Bibliografia degli scritti di Luigi Enrico Rossi (* 20 luglio 1933 – † 19 settembre 2009) a cura di Giulio Colesanti 1957 1. Ricordo di Pierluigi Salviucci [inedito; ricordo del compagno di scuola e fraterno amico Pierluigi, prematuremente scomparso in un incidente in montagna]

1959 2. Teorie ritmiche e metriche degli antichi. Studi su Aristide Quintiliano [inedito; Tesi di Laurea in Lettere discussa il 24.2.1959 presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università (“La Sapienza”) di Roma (110/110 e Lode), relatore Carlo Gallavotti in sostituzione di Gennaro Perrotta (malato), correlatore Bruno Gentili]

1962 3. Fonti per la protostoria greca. A cura del Dott. L. E. Rossi (per i corsi del Prof. C. Gallavotti), Roma, Edizioni dell’Ateneo, s. d. [ma 1962], 71 pp. 1963 4. Metrica e critica stilistica. Il termine ‘ciclico’ e l’ ἀγωγή ritmica, “Studi di metrica classica” diretti da Bruno Gentili, 2, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1963, XI–111 pp. 5. Anceps: vocale, sillaba, elemento, «RFIC» 91, 1963, pp. 52–71 6. Indice analitico, «RFIC» 91, 1963, pp. 510–512 1964 7. Sul problema dell’ictus. (A proposito di un lavoro di Alessandro Setti), «ASNP» s. II, 33, 1964, pp. 119–134 [rec. A. Setti, Ictus e verso antico, Firenze, Leo S. Olschki, 1962]

8. rec. A. Colonna, La letteratura greca, Torino, Lattes, 1962, in «RCCM» 6, 1964, pp. 188–194 9. rec. G. Schoeck, Ilias und Aithiopis, Zürich, Atlantis Verlag, 1961, in «RFIC» 92, 1964, pp. 79–83 10. Indice analitico, «RFIC» 92, 1964, pp. 507–508

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1965 11. scheda bibl. I. Lana – A. Fellin, Antologia della letteratura latina, I, Dalle origini all’età di Cicerone, Messina–Firenze, D’Anna, 1965, in «RFIC» 93, 1965, p. 382 12. scheda bibl. V. Buchheit, Von der Entstehung der Aeneis (estr. da «Nachr. d. giessener Hochschulgesellschaft» 33, 1964, 131–143), in «RFIC» 93, 1965, p. 502 13. Indice analitico, «RFIC» 93, 1965, pp. 507–508 14. Estensione e valore del ‘colon’ nell’esametro omerico, in B. Gentili (ed.), Scritti in onore di Gennaro Perrotta, «StudUrb» 39, 1965, pp. 239–273 [rivisto e ripubblicato nel nr. 115]

1966 15. La metrica come disciplina filologica, «RFIC» 94, 1966, pp. 185–207 [rec. A. Dain, Traité de métrique grecque, Paris, Klincksieck, 1965]

16. Indice analitico, «RFIC» 94, 1966, pp. 507–508 1967 17. I pesci del Tolemeo e il costume dicastico ateniese (Macone, chria 5 Gow), «PP» 22, 1967, pp. 213–226 18. scheda bibl. Papiri dell’Università degli Studi di Milano (P. Mil. Vogliano), vol. III, Milano–Varese, Istituto Edit. Cisalpino, 1965, in «RFIC» 95, 1967, pp. 254–255 19. Indice analitico, «RFIC» 95, 1967, pp. 507–508 1968 20. La pronuntiatio plena: sinalefe in luogo di elisione, in Omaggio a Eduard Fraenkel per i suoi ottant’anni. Contributi di allievi dei suoi seminari di Pisa, Bari e Roma, Roma 1968, pp. 229–247 [saggio inserito in un’edizione numerata in 100 copie e fuori commercio; poi ripubblicato nel nr. 29]

21. rec. C. Questa, Introduzione alla metrica di Plauto, Bologna, Pàtron, 1967, in «RFIC» 96, 1968, pp. 60–68 22. Primo congresso internazionale di micenologia, «RFIC» 96, 1968, pp. 120–124 [cronaca]

23. La fine alessandrina dell’Odissea e lo ζῆλος Ὁμηρικός di Apollonio Rodio, «RFIC» 96, 1968, pp. 151–163

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24. scheda bibl. D. L. Page, Lyrica Graeca selecta, Oxford, Clarendon Press, 1968, in «RFIC» 96, 1968, p. 504 25. Indice analitico, «RFIC» 96, 1968, pp. 506–508 1969 26. rec. W. D. Anderson, Ethos and Education in Greek Music. The Evidence of Poetry and Philosophy, Cambridge Mass., Harvard University Press, 1966 (ristampato 1968), in «A&R» n.s. 14. 4, 1969, pp. 42–46 27. scheda bibl. D. S. Raven, Greek Metre. An Introduction, London, Faber and Faber, 19682, in «RFIC» 97, 1969, p. 254 28. rec. D. Korzeniewski, Griechische Metrik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1968, in «RFIC» 97, 1969, pp. 314–323 [ripubblicato in versione abbreviata e in tedesco nel nr. 50]

29. La pronuntiatio plena: sinalefe in luogo di elisione, «RFIC» 97, 1969, pp. 433– 447 [ristampa del nr. 20]

30. Indice analitico, «RFIC» 97, 1969, pp. 506–508 31. Appunti del seminario tenuto all’Istituto di Filologia classica dell’Università di Roma da Eduard Fraenkel sul Filottete di Sofocle (13–31 maggio 1968), Redazione di D. Alecu, A. C. Cassio, M. G. Cenci, D. Fogazza, P. Negri, M. Palma, M. Passalacqua, C. Passarella, S. Rizzo, L. E. Rossi, G. Santangelo, E. Troili, Roma 1969, 45 pp. [edizione numerata in 300 copie e fuori commercio, poi ripubblicata nel nr. 60 nelle pp. 43–76]

1970 32. Come nasce l’edizione di un classico?, «Paese Sera» di venerdì 30.1.1970, p. 9 [rec. H. Fränkel, Testo critico e critica del testo. Traduzione dal tedesco di L. Canfora. Nota di C. F. Russo, Firenze, Le Monnier, 1969]

33. L’enciclopedia musicale dell’antichità, «Maia» n.s. 22, 1970, pp. 85–89 [rec. Aristidis Quintiliani de musica libri tres. Ed. R. P. Winnington–Ingram, Leipzig, Teubner, 1963]

34. La professione dell’attore, «Maia», n.s. 22, 1970, pp. 172–175 [rec. M. Herrmann, Die Entstehung der berufsmässigen Schauspielkunst im Altertum und in der Neuzeit. Hsg. u. mit einem Nachruf versehen von Dr. R. Mövius, Berlin, Henschelverlag, 1962]

35. Indice analitico, «RFIC» 98, 1970, pp. 506–508

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1971 36. I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, «BICS» 18, 1971, pp. 69–94 [ripubblicato con lievi correzioni nel nr. 97]

37. Wesen und Werden der homerischen Formeltechnik, «GGA» 223, 1971, pp. 161– 174 [recensione–discussione di: A. Hoekstra, Homeric Modifications of Formulaic Prototypes. Studies in Development of Greek Epic Diction, Amsterdam, N. V. Noord–Hollandsche uitgevers maatschappij, 1965; J. B. Hainsworth, The Flexibility of the Homeric Formula, Oxford, Clarendon Press, 1968; A. Hoekstra, The Sub–Epic Stage of the Formulaic Tradition. Studies in the Homeric Hymns to Apollo, to Aphrodite and to Demeter, Amsterdam–London, North–Holland publishing company, 1969]

38. Vittoria e sconfitta nell’agone bucolico letterario, «GIF» n.s. 2 [23], 1971, pp. 13–24 39. Il Ciclope di Euripide come κῶμος ‘mancato’, «Maia», n.s. 23, 1971, pp. 10–38 40. rec. A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama, Cambridge, University Press, 19682; A. M. Dale, Collected Papers, Cambridge, University Press, 1969, in «RFIC» 99, 1971, pp. 172–177 41. scheda bibl. M. De Oliveira Pulquério, Características métricas das monódias de Eurípides, Coimbra, Fac. De Letras da Univ. de Coimbra, Inst. de Estudos Clássicos, 1969, in «RFIC» 99, 1971, p. 251 42. scheda bibl. G. B. Pighi, Studi di ritmica e metrica, Torino, Bottega d’Erasmo, 1970, in «RFIC» 99, 1971, pp. 253–254 43. Indice analitico, «RFIC» 99, 1971, pp. 506–508 44. Mondo pastorale e poesia bucolica di maniera: l’idillio ottavo del corpus teocriteo, «SIFC» 43, 1971, pp. 5–25 1972 45. Il dramma satiresco attico. Forma, fortuna e funzione di un genere letterario antico, «DArch» 6. 2–3, 1972 [stampa 1973], pp. 248–302 [ripubblicato in versione parziale e in tedesco nel nr. 89, cfr. anche nrr. 93 e 154]

46. Indice analitico, «RFIC» 100, 1972, pp. 537–540 47. L’Ila di Teocrito: epistola poetica ed epillio, in C. U. Crimi – A. Di Benedetto Zimbone – C. Nicolosi (edd.), Studi classici in onore di Quintino Cataudella, II, Catania, Università di Catania, Facoltà di Lettere e Filosofia, 1972 [stampa 1974], pp. 279–293

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1973 48. Il nuovo Overbeck: Raccolta delle fonti letterarie epigrafiche e figurative per la storia degli artisti greci, a cura di L. E. Rossi, G. Serrao, M. Torelli, Milano, Fratelli Fabbri editori, 1973, 47 pp. 49. Rileggendo due opere di Wilamowitz: Pindaros e Griechische Verskunst, «ASNP», cl. Lett. e Filos., s. III, 3. 1, 1973, pp. 119–145 50. rec. D. Korzeniewski, Griechische Metrik, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1968, in «Gymnasium» 80, 1973, pp. 486–488 [versione abbreviata e in tedesco del nr. 28]

51. Indice analitico, «RFIC» 101, 1973, pp. 538–540 52. Qui te primus ‘deuro de’ fecit (Petron. 58.7), «SIFC» 45, 1973, pp. 28–45 1973–1974 53. Un’immagine aristofanea: l’‘amante escluso’ in nub. 125 sg., «Archeologia classica» 25–26, 1973–1974 (Volume in onore di Margherita Guarducci [stampa 1975]), pp. 667–675 1975 54. Verskunst, in Der kleine Pauly, Bd. 5, 1975, coll. 1210–1218 [vd. in fine vol. Corrigenda et addenda] [traduzioni nei nrr. 59 e 68]

55. Karl Reinhardt fra umanesimo e filologia, «ASNP», cl. Lett. e Filos., s. III, 5. 4, 1975, pp. 1333–1355 56. scheda bibl. Ed. Fraenkel, (I) Dalle esercitazioni di Ed. Fr. sull’«Eunuco» (Bari 1969), «Belfagor» 25, 1970, 673–689; (II) «Pindaro senza lacrime» (Dalle esercitaz. di Ed. Fr., Bari 1967), «Belfagor» 27, 1972, 78–96; (III) La matrona di Efeso e altri capitoli di Petronio (Dalle esercitaz. di Ed. Fr., Bari 1967), «Belfagor» 29, 1974, 687–695 [a cura di R. Roncali], in «RFIC» 103, 1975, p. 380 1976 57. Asynarteta from the Archaic to the Alexandrian Poets: On the Authenticity of the New Archilochus, «Arethusa» 9, 1976, pp. 207–229 [ripubblicato in italiano e in versione accresciuta nel nr. 63]

58. Umanesimo e filologia (A proposito della Storia della filologia classica di Rudolf Pfeiffer), «RFIC» 104, 1976, pp. 98–117

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59. Metrica greca e latina, Traduzione italiana di L. E. Rossi, Verskunst, in Der kleine Pauly, vol. V, München 1975, coll. 1210–1218 e Corrigenda et Addenda in fine del vol.; a cura di R. Calderan e S. Dell’Isola, s. d. [ma a.a. 1976/1977], 21 pp. [traduzione italiana del nr. 54; volumetto ciclostilato fuori commercio ad uso degli studenti]

1977 60. Premessa, in Due seminari romani di Eduard Fraenkel. Aiace e Filottete di Sofocle. A cura di alcuni partecipanti. Premessa di L. E. Rossi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977, pp. VII–XXX A Rossi, oltre alla Premessa, si devono anche: nelle pp. 43–76 la redazione (realizzata nel 1968 = nr. 31) del seminario fraenkeliano sul Filottete (in collaborazione con D. Alecu, A. C. Cassio, M. G. Cenci, D. Fogazza, P. Negri, M. Palma, M. Passalacqua, C. Passarella, S. Rizzo, G. Santangelo, E. Troili); nelle pp. 79–82 la stesura degli indici ai due seminari (in collaborazione con A. C. Cassio)

61. Un nuovo papiro epicarmeo e il tipo del medico in commedia, «A&R» n.s. 22, 1977, pp. 81–84 62. E. Fraenkel, Wilamowitz [traduzione italiana di L. E. Rossi], «QS» 5, gen.– giu. 1977, pp. 101–118 [traduzione dal tedesco di una conferenza inedita di Eduard Fraenkel tenuta il 14.5.1969 a Roma, nella quale veniva tracciato un profilo biografico di Wilamowitz]

1978 63. Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini. (Sull’autenticità del nuovo Archiloco), in A. Ceresa–Gastaldo (ed.), Problemi di metrica classica. Miscellanea filologica, [quarte Giornate filologiche genovesi 20–21.2.1976], Università di Genova, Facoltà di Lettere, [vol. 47 delle Pubblicazioni dell’]Istituto di Filologia Classica e Medievale, Genova 1978, pp. 29–48 + 3 tavole [versione accresciuta e in italiano del nr. 57]

64. I poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in R. Bianchi Bandinelli (ed.), Storia e civiltà dei Greci, 1. 1, Milano, Bompiani, 1978, pp. 73–147 65. La sinafia, in E. Livrea – G. A. Privitera (edd.), Studi in onore di Anthos Ardizzoni, II, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1978, pp. 789–821 66. Modi di esecuzione musicale e configurazione dei testi nella lirica greca arcaica. L’iperbato artificioso [inedito; relazione di consuntivo, stilata da Rossi, dei lavori del seminario sull’iperbato condotti da alcuni studenti nell’a.a. 1977/1978 sotto la supervisione di Rossi stesso]

67. Euripides. Some statistical figures and thoughts about Greek Drama and Greek literature in general. Anaphoric demonstratives and hyperbaton [inedito; conferenza tenuta a New York, Columbia University, il 17.10.1978]

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68. A short introduction to Greek and Latin meter, Translation (by R. Keen), with some additions, of L. E. Rossi, Verskunst, in Der kleine Pauly, Vol. V (1975), coll. 1210–121[8] and Corrigenda et Addenda at the end of the volume, New York, Columbia University, December 1978, VI–38 pp. [versione ampliata e in inglese del nr. 54; traduzione italiana con lievi modifiche nel nr. 83; volumetto ciclostilato fuori commercio ad uso degli studenti]

69. Mimica e danza sulla scena comica greca (A proposito del finale delle Vespe e di altri passi aristofanei), «RCCM» 20, 1978 (Miscellanea di studi in memoria di Marino Barchiesi, III [stampa 1980]), pp. 1149–1170 1979 70. Greek Monodic Poetry and the Symposion (“Nellie Wallace Lecturership”) [inedito; ciclo di otto lezioni tenute tra il 19.10 e il 7.12.1979 a Oxford]

1980 71. Dare e avere nella lirica greca arcaica: il problema dello scambio e del compenso nella lirica monodica e corale [inedito; ultima versione, e in italiano, di una conferenza tenuta a New York l’11.10.1978 e a Oxford il 9.11.1979]

1981 72. Gli oracoli come documento di improvvisazione, in C. Brillante – M. Cantilena – C. O. Pavese (edd.), I poemi epici rapsodici non omerici e la tradizione orale. Atti del Convegno di Venezia, 28–30 settembre 1977, Padova, Editrice Antenore, 1981, pp. 203–220, con Postilla nella p. 221 e Discussione nelle pp. 222–230 73. Relazione al convegno La parola e il marmo: una discussione, «DArch» n.s. 3. 2, 1981, pp. 39–42 1982 74. Una tragedia contro l’umanesimo: le Baccanti di Euripide, in Ginnasio–Liceo statale «Dante Alighieri» Anagni: Celebrazione del primo decennale della sua istituzione (1972–1982), Roma, Stabilimento Tipo–Litografico Vittorio Ferri, 1982, pp. 76–86 75. La «blanda follia» dei lirici greci, «Giornale di Sicilia» di mercoledì 6.1.1982, p. 3 [rec. F. M. Pontani (a cura di), Antologia Palatina, vol. IV, Libri XII–XVI, Torino, Einaudi, 1981] 76. Il romanzo di Alessandro ancora oggi non ha finito di crescere, «Giornale di Sicilia» di giovedì 13.5.1982, p. 3 [rec. R. L. Fox, Alessandro Magno, Torino, Einaudi, 1981]

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1983 77. Grammatica greco–latina e metrica in Italia fra il 1860 e il 1920, in M. Bollack – H. Wismann (edd.), [Atti del Convegno] Philologie und Hermeneutik im 19. Jahrhundert II / Philologie et herméneutique au 19ème siècle II [organizzato dal Centre de recherche philologique de l’Université de Lille III, con la collaborazione della Fondazione Fritz Thyssen, Lille 30 settembre – 2 ottobre 1977], édité par M. Bollack, H. Wismann et rédigé par Th. Lindken, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 1983, pp. 275–291; precisazioni nelle pp. 294–296 78. Il simposio greco arcaico e classico come spettacolo a se stesso, in F. Doglio (ed.), Spettacoli conviviali dall’antichità classica alle corti italiane del ‘400. Atti del VII Convegno di Studio del Centro di Studi sul teatro medioevale e rinascimentale, Viterbo 27–30 maggio 1982, Viterbo, Stabilimento Tipolitografico Agnesotti, 1983, pp. 41–50 79. Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, «Orpheus» n.s. 4, 1983, pp. 5–31 80. La valutazione etico–sociale della povertà. Modi del manierismo epico e bucolico alessandrino [inedito; ultima stesura, risalente al 1983, di una conferenza tenuta in varie sedi a partire dal 1977]

81. Simposio e guerra (Callin. 1. 1 W.) [inedito]

82. Theogn. 313 s.: un caso di interferenza tra momento edonistico e momento politico? [inedito]

1985 83. Breve introduzione alla metrica greca e latina, Roma “La Sapienza” 1985, II– 30 pp. con 10 tavole [traduzione italiana con lievi modifiche del nr. 68; 2a ediz. con lievi varianti e aggiunte bibliografiche nel nr. 140; volumetto xerocopiato fuori commercio ad uso degli studenti]

84. Le donne scatenate: un modo di canalizzare le forze irrazionali presso i Greci [inedito; intervento per il programma radiofonico “Cultura: temi e problemi”, 9.7.1985]

85. Come i Greci usavano la poesia: la lirica arcaica e il simposio [inedito; intervento per il programma radiofonico “Cultura: temi e problemi”, 26.7.1985]

1988 86. La dottrina dell’«éthos» musicale e il simposio, in B. Gentili – R. Pretagostini

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(edd.), La musica in Grecia, [Atti del Convegno Internazionale La musica greca antica, Urbino 18–20 ottobre 1985], Roma–Bari, Laterza, 1988, pp. 238–245; discussione nelle pp. 284–287 87. POxy 9 + POxy 2687: trattato ritmico–metrico, in F. Adorno (ed.), Aristoxenica, Menandrea, Fragmenta philosophica, Firenze, Olschki, 1988, pp. 11–30 1989 88. Livelli di lingua, gestualità, rapporti di spazio e situazione drammatica sulla scena attica, in L. de Finis (ed.), Scena e spettacolo nell’antichità. Atti del Convegno Internazionale di Studio Trento, 28–30 marzo 1988, Firenze, Olschki, 1989, pp. 63–78 89. La letteratura della Magna Grecia negli ultimi cento anni, in G. Pugliese Carratelli – A. Stazio – R. Vitale (edd.), Un secolo di ricerche in Magna Grecia. Atti del ventottesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 7–12 ottobre 1988, Taranto, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, 1989 [ma stampa 1990], pp. 213–230 90. Das Attische Satyrspiel. Form, Erfolg und Funktion einer antiken literarischen Gattung, in B. Seidensticker (Hrsg.), Satyrspiel, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1989, pp. 222–251 [traduzione, ad opera di R. Harneit, del nr. 45, pp. 259–281; cfr. anche nrr. 93 e 154]

91. Omero, in Grande Dizionario Enciclopedico, vol. XIV, Torino, UTET, 19894, pp. 898–901 1991 92. Ricchezza e povertà (a proposito di Theogn. 1153–56) [inedito]

93. Il dramma satiresco, «Dioniso» 61, fasc. II, 1991, pp. 11–24 [cfr. nrr. 45 e 154]

1992 94. L’ideologia dell’oralità fino a Platone, in G. Cambiano – L. Canfora – D. Lanza (edd.), Lo spazio letterario della Grecia antica, I, La produzione e la circolazione del testo, 1, La polis, Roma, Salerno Editrice, 1992, pp. 77–106 95. Sul libro di Giovanni Sega La traduzione dal greco [inedito; intervento pronunciato a Roma il 4.5.1992 su G. Sega, La traduzione dal greco. Metodi, esempi, testi, Firenze, La Nuova Italia, 1992]

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1993 96. Gli studi greci e latini in Italia prima e dopo l’unità, in L. Polverini (ed.), Lo studio storico del mondo antico nella cultura italiana dell’Ottocento. Incontri perugini di storia della storiografia antica e sul modo antico, III, Acquasparta, Palazzo Cesi, 30 maggio – 1° giugno 1988, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993, pp. 19–30 97. I generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, in F. Ferrari – M. Fantuzzi – M. C. Martinelli – M. S. Mirto (edd.), Dizionario della civiltà classica, I, Milano, BUR, 1993, pp. 47–84 [ristampa del nr. 36]

98. Lirica arcaica e scoli simposiali (Alc. 249, 6–9 V. e carm. conv. 891 P.), in R. Pretagostini (ed.), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di Bruno Gentili, I, Roma, GEI, 1993, pp. 237–246 1994 99. Le parole, la musica e il racconto [inedito; scheda per il programma di sala de Il signor Novecento di V. Cerami e N. Piovani]

100. L’epica greca fra oralità e scrittura, in E. Montanari et alii (edd.), Reges et proelia. Orizzonti e atteggiamenti dell’epica antica (Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Pavia. Incontro del Dipartimento. VII. Pavia, 17 marzo 1994), Como, Edizioni New Press, 1994, pp. 29–43 101. Il dialetto genovese [inedito; conferenza tenuta a Roma il 28.11.1994 nel Chiostro della chiesa di S. Giovanni Battista dei Genovesi]

102. Ricordo di Carlo Gallavotti, «RCCM» 36. 1–2, gennaio–dicembre 1994, Scritti in memoria di Carlo Gallavotti, pp. 1–4 1995 103. Gli studi aristofanei di Ettore Romagnoli, in M. Coccia (ed.), Commemorazione di Ettore Romagnoli nel cinquantenario della morte, [promossa da] Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” [e da] Associazione Italiana di Cultura Classica, Roma, GEI, 1995, pp. 43–49 104. Riflessioni conclusive, in V. Citti (ed.), Intertestualità: il dialogo fra testi nelle letterature classiche. Atti del Convegno internazionale, Cagliari 24–26 novembre 1994, «Lexis» 13, 1995, pp. 275–281 105. Per un approccio prossemico al dramma attico. Su alcuni passi dell’Edipo re [inedito]

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106. Appunti di metodo filologico (A proposito di Efestione 47. 3 ss. Consbr. e Tzetze de metr. Pind. 51. 24 Drachm.) [inedito]

107. Letteratura greca, con la collaborazione di Roberto Nicolai, Luigi M. Segoloni, Eleonora Tagliaferro, Claudio Tartaglini, Firenze, Le Monnier, 1995, VII– 885 pp. [versioni ampliate con antologia nei nrr. 164, 187, 202 e 205] Si devono specificatamente a Luigi Enrico Rossi: 1. Premessa, pp. III–VII 2. Introduzione, pp. 1–19 3. Prima di Omero, pp. 23–25 4. Omero, pp. 26–51 5. Altra poesia epica arcaica, pp. 52–67 6. Esiodo e il corpus esiodeo, pp. 68–79 7. Introduzione alla lirica, pp. 84–98 8. Elegia e giambo, pp. 99–132 9. La poesia melica, pp. 133–188 e 195–198 10. La musica del V–IV secolo a.C. Damone, pp. 388–391 11. Callimaco, pp. 586–596, 12. Teocrito e la poesia bucolica, pp. 611–620 13. L’epica. Apollonio Rodio, pp. 621–628 14. La trasmissione dei testi della letteratura greca, pp. 845–850

108. Letteratura di filologi e filologia di letterati, in A. Porro – G. Milanese (edd.), Poeti e filologi, filologi–poeti: composizione e studio della poesia epica e lirica nel mondo greco e romano. Atti del congresso Brescia, Università Cattolica, 26–27 aprile 1995, «Aevum(ant)» 8, 1995, pp. 9–32 109. Premessa, in L. Belloni – G. Milanese – A. Porro (edd.), Studia classica Iohanni Tarditi oblata, Biblioteca di «Aevum(ant)» 7, vol. I, Milano, Vita e Pensiero, 1995, pp. XXV–XXVIII [ripubblicata nel nr. 112]

110. Un nuovo vocabolario di greco, «Lettera dall’Italia» [Bollettino trimestrale dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondato da G. Treccani, Roma], 40, ott.–dic. 1995, pp. 64–65 1996 111. Conclusioni, in B. Gentili – A. Masaracchia (edd.), Giornate di studio su Gennaro Perrotta. Atti del Convegno (Roma 3–4 novembre 1994), Pisa–Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1996, pp. 153–158

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112. Presentazione [della Miscellanea Tarditi], in Studia classica Iohanni Tarditi oblata. Presentazione, Aula Pio XI, 24 gennaio 1996, Università Cattolica del Sacro Cuore, Istituto di Filologia Classica e di Papirologia, [Milano] 1996, pp. 17–28 [Presentazione di L. Belloni – G. Milanese – A. Porro (edd.), Studia classica Iohanni Tarditi oblata, Biblioteca di «Aevum(ant)» 7, voll. I–II, Milano, Vita e Pensiero, 1995; nelle pp. 21–28 è riprodotta la Premessa di cui al nr. 109]

113. Interpretazione di Sapph. 31 V. [inedito; lettera del 24.2.1996 indirizzata a Glenn Most]

114. La funzione del mito in Callimaco [inedito; conferenza tenuta a Lamezia Terme il 4.3.1996 alla Giornata di Studio “Il mito nelle società antiche” promossa dalla locale sezione AICC]

115. Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (edd.), Struttura e storia dell’esametro greco, II, Roma, GEI, 1996, pp. 271–320 [revisione del nr. 14 con un Post–scriptum 1995 nelle pp. 309–314]

116. Ancient Greek Metricians, in H. Stammerjohann (Gen. Ed.), Lexicon Grammaticorum. Who’s Who in the History of World Linguistics, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1996, pp. 631–633 117. La metrica greca a Roma [inedito; conferenza tenuta a Bari il 27.3.1996]

118. La versificazione greca antica. Sistema ritmico e prassi poetiche [inedito; abbozzo, datato al 2.5.1996, di un manuale di metrica greca]

119. Sui Greci, oggi [inedito; intervista per il programma radiofonico “Palomar”, 4.5.1996]

120. Quale plagio? La mia letteratura greca è opera seria e onesta, «Il Messaggero» di sabato 10.8.1996, p. 19 [articolo di risposta all’articolo di T. Pollini, Vergogna! E Belfagor bacchetta due insigni professori, sul «Messaggero» di mercoledì 7.8.1996, il quale riprendeva un attacco alla Letteratura greca di Rossi attuato da C. F. Russo, Chi ha paura dell’Apostata?, su «Belfagor» 51, n. 4, del 31.7.1996, p. 461]

121. Letteratura greca: polemica continua. Rossi replica a «Belfagor», «La Gazzetta del Mezzogiorno» di domenica 11.8.1996, p. 15 [articolo di risposta ad un articolo non firmato e intitolato «Alla gogna» su Belfagor su «La Gazzetta del Mezzogiorno» di mercoledì 7.8.1996, p. 13, il quale riprendeva un attacco alla Letteratura greca di Rossi attuato da C. F. Russo, Chi ha paura dell’Apostata?, su «Belfagor» 51, n. 4, del 31.7.1996, p. 461]

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122. Il canto dorico in Orazio [inedito; voce “Dori” destinata a Enciclopedia Oraziana, diretta da S. Mariotti, vol. 1, Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana (Treccani), 1996]

1997 123. Filologia classica e informatica, in T. Orlandi (ed.), Discipline umanistiche e informatica. Il problema della formalizzazione (Ciclo di seminari, febbraio–giugno 1994), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1997, pp. 173–180 124. Esiodo, Le Opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi, in F. Montanari – S. Pittaluga (edd.), Posthomerica I. Tradizioni omeriche dall’Antichità al Rinascimento, Genova, Facoltà di Lettere, 1997, pp. 7–22 [ristampato nel nr. 207]

125. L’approccio non classicistico di Pasolini alla tragedia greca, in T. De Mauro – F. Ferri (edd.), Lezioni su Pasolini, Ripatransone, Sestante, 1997, pp. 123–131 126. L’atlante occidentale degli Aitia di Callimaco. Mito e modi di lettura, in G. Pugliese Carratelli – A. Stazio – S. Ceccoli (edd.), Mito e storia in Magna Grecia. Atti del trentaseiesimo convegno di studi sulla Magna Grecia, Taranto 4–7 ottobre 1996, Taranto, Istituto per la Storia e l’Archeologia della Magna Grecia, 1997 [ma stampa Napoli 1998], pp. 69–80 127. Sofocle, Edipo re. Analisi metrica delle parti liriche, redazione di L. Del Corso, G. D’Ottavi, M. G. Iaccarino, M. Nobili, L. E. Rossi, M. Testa, 1996/1997 [volumetto xerocopiato di sussidio metrico per gli studenti, per il corso dell’a. a. 1996/1997]

128. Lo spettacolo, in S. Settis (ed.), I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. 2. Una storia greca, t. II Definizione, Torino, Einaudi, 1997, pp. 751–793 129. Presentazione de I Greci di Einaudi [inedito; presentazione di S. Settis (ed.), I Greci. Storia Cultura Arte Società, vol. 2. Una storia greca, t. II Definizione, Torino, Einaudi, 1997; letta all’Istituto Archeologico Germanico di Roma, febbraio 1997]

130. La fortuna dell’epica greca nella letteratura italiana. Traduzioni classiche, come Vincenzo Monti, e funzione che possono svolgere oggi [inedito; intervento tenuto al Centro Congressi d’Ateneo dell’Università di Roma “La Sapienza”, 12.5.1997]

1998 131. Intervento in A. Ferrari (ed.), Filologia classica e filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno, Roma 25–27 maggio 1995, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1998, pp. 521–522

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132. Tipologia del non autentico nel mondo antico, in R. Gigliucci (ed.), Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, «Studi (e testi) italiani» 1, 1998, Roma, Bulzoni Editore, 1998, pp. 15–18 133. Editoriale, con M. G. Bonanno e R. Pretagostini, «SemRom» 1, 1998, pp. VII– VIII 134. Orazio, un lirico greco senza musica, «SemRom» 1, 1998, pp. 163–181 [traduzione in inglese nel nr. 195]

135. La dedica nella letteratura alessandrina [inedito]

1999 136. La méthode philologique de Jean Baptiste Gaspard d’Ansse de Villoison et le Venetus Marcianus A, in Fr. Létoublon – C. Volpilhac–Auger (édd.) avec la collaboration de D. Sangsue, Homère en France après la Querelle (1715–1900), Actes du colloque de Grenoble (23–25 octobre 1995), Université Stendhal–Grenoble 3, Paris, Champion, 1999, pp. 51–61 137. Presentazione delle Vite di Plutarco [inedito; presentazione tenuta il 21.1.1999 a Palazzo Sant’Agostino, Salerno, de Le Vite di Plutarco, introd. di A. Barigazzi, a cura di A. Traglia, D. Magnino, M. L. Amerio, D. P. Orsi, G. Marasco, A. Meriani e R. Giannattasio Andria, voll. 1–6, Torino, UTET, 1992–1998]

138. Presentazione de La musica nel teatro di Pierluigi Petrobelli [inedito; presentazione, tenuta nel foyer del Teatro Costanzi di Roma il 25.2.1999, di P. Petrobelli, La musica nel teatro. Saggi su Verdi e altri compositori, Torino, E.D.T. Edizioni di Torino, 1988]

139. rec. M. C. Martinelli, Gli strumenti del poeta. Elementi di Metrica greca, Bologna, Cappelli Editore, 1995 [inedito; abbozzo di recensione, datato al 10.5.1999]

140. Breve introduzione alla metrica greca e latina, Roma “La Sapienza” 19992, II–31 pp. con 10 tavole [2a ed. del nr. 83 con lievi varianti e aggiunte bibliografiche, ripubblicata poi nel nr. 171; volumetto xerocopiato fuori commercio ad uso degli studenti]

141. Le pecore di Cratino, «La Stampa» di martedì 12.10.1999, p. 26 [contro un articolo di Guido Ceronetti sulla pronuncia del greco antico, apparso su «La Stampa» di domenica 3.10.1999, p. 1]

2000 142. La letteratura alessandrina e il rinnovamento dei generi letterari della tradizione, in R. Pretagostini (ed.), La letteratura ellenistica. Problemi e prospettive di

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ricerca. Atti del Colloquio Internazionale, Università di Roma “Tor Vergata”, 29– 30 aprile 1997, «SemRom» Quaderni 1, Roma, Quasar, 2000, pp. 149–161 143. Origini e finalità del prodotto pseudoepigrafo. Pseudoepigrafia preterintenzionale nel Corpus Theocriteum: l’idillio VIII, in G. Cerri (ed.), La letteratura pseudoepigrafa nella cultura greca e romana. Atti di un Incontro di studi, Napoli 15–17 gennaio 1998, «AION(filol)» 22, 2000, pp. 231–261; discussione nelle pp. 263–272 144. L’unità dell’opera letteraria: gli antichi e noi, in G. Arrighetti (ed.), Letteratura e riflessione sulla letteratura nella cultura classica. Atti del Convegno Pisa, 7–9 giugno 1999, con la collaborazione di M. Tulli, Pisa, Giardini Editori, 2000, pp. 17–29 145. Musica e psicologia nel mondo antico e nel mondo moderno: la teoria antica dell’ethos musicale e la moderna teoria degli affetti, in A. C. Cassio – D. Musti – L. E. Rossi (edd.), Synaulía. Cultura musicale in Grecia e contatti mediterranei, «AION(filol)» Quaderni 5, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 2000, pp. 57– 96 146. L’autore e il controllo del testo nel mondo antico, «SemRom» 3, 2000, pp. 165–181 [versione ampliata e in italiano del nr. 155]

147. Teatro e comunicazione nella Grecia antica, in A. Zampetti – A. Marchitelli (edd.), La tragedia greca: metodologie a confronto, Roma, Armando Editore, 2000, pp. 31–40 148. Schadewaldt und die griechische Lyrik [inedito; intervento tenuto a Tübingen al Convegno Ein wissenschaftshistoriches Colloquium an der Universität Tübingen anläßlich des 100. Geburtstages vom Wolfgang Schadewaldt, 19– 20.5.2000]

149. Il nuovo modo di leggere i lirici greci arcaici [inedito]

150. Commemorazione di Margherita Guarducci [inedito; commemorazione letta a Roma, nella sede dell’Accademia dell’Arcadia, il 6.12.2000]

151. Ricordo di Scevola Mariotti (1920–2000) [inedito; ricordo destinato a «SemRom» 3, fasc. 1, 2000 ma poi non pubblicato]

2001 152. On the Written Redaction of Archaic Greek Poetry, in SO Debate. Dividing Ho-

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mer: When and How were the Iliad and the Odyssey Divided into Songs? (continued), «SO» 76, 2001, pp. 103–112 2002 153. La configurazione metrico–verbale del testo come spia della natura lirica o recitativa del verso. Mondo greco e mondo romano, in M. Agamennone – F. Giannattasio (edd.), Sul verso cantato. La poesia orale in una prospettiva etnomusicologica, [Atti del V Seminario internazionale di etnomusicologia, organizzato dall’Istituto di Studi musicali comparati della Fondazione “Giorgio Cini”, Venezia 28–30 gennaio 1999], Padova, Il Poligrafo, 2002, pp. 127–135 154. Il dramma satiresco, in S. Parisi (a cura di), Il punto sul teatro greco antico. Atti del Convegno Nazionale di Studi della Associazione Italiana di Cultura Classica (S. Severina – Crotone, 24–25 Aprile 1999), Gallo & Calzati Editori, Bologna 2002, pp. 58–64 [cfr. nrr. 45 e 93]

155. The Author and the Control of his Texts, in Κ. Ἀ. Μανάφης (ed.), Πρακτικὰ ΙΑ' Διεθνοῦς Συνεδρίου Κλασσικῶν Σπουδῶν [Atti dell’XI Congresso della FIEC – Fédération Internationale des Associations d’Études Classiques], Καβάλα 24–30 Αὐγούστου 1999, τόμος Β', Ἀθῆναι, Φιλολογικὸς Σύλλογος «Παρνασσός», 2002, pp. 756–773 [relazione di convegno tenuta a Καβάλα il 25.8.1999; pubblicata in versione ampliata e in italiano nel nr. 146]

156. Observations prosodiques, métriques et linguistiques sur le Codex des Visions, Poèmes divers, in A. Hurst – J. Rudhardt (édd.), Le Codex des Visions. Actes du «Colloque Charles Bally», Genève 1er–4 juin 2000, Genève, Droz, 2002, pp. 69–71 157. Il nostro credito nei confronti dell’antico e alcuni modi per esigerlo [inedito; testo italiano, risalente al gennaio 2002, preparato per il nr. 158, sulla base di una conferenza tenuta precedentemente in varie sedi]

158. Τί μας ὀφείλει ἠ ἀρχαιότητα (il nostro credito nei confronti dell’antico), «Parnassos» 44, 2002, pp. 391–399 [traduzione in neogreco del nr. 157]

159. Presentazione degli Scritti in onore di Italo Gallo [inedito; presentazione, letta il 20.3.2002 nell’Aula Magna del Liceo classico “Torquato Tasso” di Salerno, di L. Torraca (a cura di), Scritti in onore di Italo Gallo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002]

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160. La lirica classica e noi. Undici domande di Roberto Antonelli a Maria Grazia Bonanno e a Luigi Enrico Rossi, «Critica del testo» 5/1, 2002 (Tra dispersione e riconoscimento: l’Io lirico nella contemporaneità), pp. 265–296 161. rec. W.V. Harris, Restraining Rage. The Ideology of Anger Control in Classical Antiquity, Cambridge Mass. – London, Harvard University Press, 2001 [inedito; abbozzo di recensione, datato al 10.6.2002]

162. Otto variazioni su un tema, in E. Lelli (ed.), Arma virumque … Studi di poesia e storiografia in onore di Luca Canali, Pisa–Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici internazionali, 2002, pp. 403–406 [nove poesie – ripubblicate poi in nr. 204, pp. 49 e 59–66 –, con dedica in versi premessa, in onore di Luca Canali]

163. Il Teocrito di Gregorio Serrao, in Giornata di studio in memoria di Gregorio Serrao, studioso di poesia alessandrina [Cagliari, 28 febbraio 2002], «AFLC» n.s. 20 (57), 2002, parte I, pp. 39–49 [stampa 2003] 2002–2003 164. L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, Firenze, Le Monnier: 1. L’età arcaica, 2002, XXIV–566 pp.; 2A–2B. L’età classica, 2003, XIV– 639 pp. e XII–468 pp.; 3A–3B. L’età ellenistica. L’età imperiale romana, 2003, XIII–385 pp. e XVI–478 pp. [versione con antologia del nr. 107; rielaborazioni nei nrr. 187, 202 e 205] Oltre alle parti manualistiche riprese dal nr. 107, si devono specificatamente a Rossi le seguenti Schede di approfondimento: 1. La giovinezza e la vecchiaia nella Grecia arcaica, in vol. 1, pp. 315–316 2. La musica greca nell’età arcaica, in vol. 1, pp. 323–324 3. La donna nella Grecia arcaica, in vol. 1, pp. 437–438 4. L’eroe nell’età classica, in vol. 2A, pp. 445–446 5. La donna nella Grecia classica, in vol. 2A, pp. 587–589 6. La musica greca nell’età classica, in vol. 2A, pp. 611–612 7. La giovinezza e la vecchiaia nell’età classica, in vol. 2A, pp. 631–632 8. Evoluzione della pronuncia del greco, in vol. 3A, pp. 11–12 9. Giovinezza e vecchiaia in età ellenistica, in vol. 3A, pp. 75–76 10. La musica in età ellenistica, in vol. 3A, pp. 116–117 11. La donna nell’età ellenistica, in vol. 3A, pp. 163–164 12. Giacomo Leopardi ed Epitteto, in vol. 3B, pp. 208–209 Inoltre, sono state revisionate le seguenti parti del nr. 107: A. Introduzione, in vol. 1, pp. 1–20 (unisce i nrr. 107. 2 e 107. 14, inserendo la Scheda di approfondimento I dialetti letterari a pp. 7–8) B. Introduzione alla lirica, in vol. 1, pp. 207–216, 218–219 (versione riveduta del nr. 107. 7; le pp. 207–216 sono state poi ripubblicate nel nr. 206)

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2003 165. La polis come protagonista eroico della commedia antica, in Il teatro e la città. Poetica e politica nel dramma attico del quinto secolo, Atti del Convegno Internazionale Siracusa, 19–22 settembre 2001, premessa di G. Picone, introd. di M. G. Bonanno e G. Mastromarco, «Quaderni di Dioniso» 1, Palermo, Palumbo, 2003, pp. 11–28 166. L’approccio di Marcello Gigante al mondo antico [inedito; ricordo preparato per essere letto a Santa Severina il 29.3.2003]

167. L’epica greca arcaica come ciclo aperto ovvero come spirale infinita, Introduzione di L’epica classica nelle traduzioni di Caro, Dolce, Pindemonte, Monti, Foscolo, Leopardi, Pascoli e altri, Scelta e introduzione di L. E. Rossi, Apparati di S. Triulzi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2003, pp. III–XIII 168. Introduzione, in M. Napolitano, Euripide. Ciclope, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 9–25 169. Prefazione, in A. Meriani, Sulla musica greca antica. Studi e ricerche, Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università degli Studi di Salerno nr. 28, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2003 [ma stampa 2004], pp. 5–9 170. Riflettendo ancora sull’insegnamento di Fraenkel, «SemRom» 6, 2003, pp. 143–152 2004 171. Appunti di metrica, Roma, Università “La Sapienza”, s. d. [ma 2004], 27 pp. + 10 tav. [riedizione del nr. 140]

172. Discorso per la presentazione degli Scritti [inedito; discorso tenuto il 5.3.2004 all’Università di Roma “La Sapienza” in ringraziamento per gli Studi in onore a lui dedicati per i settant’anni]

173. Presentazione de La musica in cento parole di Arrigo Quattrocchi [inedito; presentazione, letta all’Accademia Filarmonica Romana il 26.3.2004, di A. Quattrocchi, La musica in cento parole. Un piccolo lessico, Roma, Carocci, 2003]

174. Ricordo di Giovanni Leto [inedito; ricordo di Giovanni Leto, datato al 3.12.2004]

175. Orazio nel lungo silenzio della lirica greca [inedito; conferenza tenuta a Padova il 7.12.2004]

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2005 176. A mo’ di colophon, in M. Di Marco – B. M. Palumbo Stracca – E. Lelli (edd.), Posidippo e gli altri. Il poeta, il genere, il contesto culturale e letterario. Atti dell’incontro di studio, Roma, 14–15 maggio 2004, («ARF» 6, 2004), Pisa–Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2005, p. 229 [distico elegiaco in greco, posto come conclusione degli Atti dell’incontro]

177. Presentazione de Il fiore degli inferi di Paolo Nencini [inedito; presentazione, letta il 17.2.2005, di P. Nencini, Il fiore degli inferi. Papavero da oppio e mondo antico. Introduzione di G. Bignami, Roma, Franco Muzzio Editore, 2004]

178. Goethe e l’antico, a cura di Mauro Ponzi e Bernd Witte [inedito; presentazione, letta l’11.5.2005 presso il Goethe–Institut di Roma, di M. Ponzi – B. Witte (a cura di), Goethe e l’antico (Atti del Convegno Internazionale Goethe e l’antico, organizzato da M. Ponzi e B. Witte, Roma, Goethe–Institut, 12–13 novembre 1988), Roma, Lithos, 2005]

179. Presentazione de La lontananza dei greci di Giorgio Camassa [inedito; presentazione, letta il 7.6.2005 a Roma presso la Libreria Bibli, di G. Camassa, La lontananza dei greci, Roma, Quasar, 2004]

180. Lectio magistralis (Freiburg im Breisgau 2005) [inedito; allocuzione letta a Freiburg im Breisgau il 9.12.2005 in occasione del conferimento della Laurea honoris causa]

181. Un esploratore della parola, «Eikasmós» 16, 2005, pp. 383–392 [presentazione di M. G. Albiani et alii (edd.), Filologia e storia. Scritti di Enzo Degani, voll. I–II, Hildesheim–Zürich–New York, Georg Olms Verlag, 2004]

2006 182. Presentazione degli Scritti di Letteratura greca e di storia della Filologia di Giacomo Bona, «Quaderni» del Dipartimento di Filologia, Linguistica e Tradizione classica “Augusto Rostagni” dell’Università degli Studi di Torino, n.s. 5, 2006, pp. 13–21 183. Presentazione del carteggio Tecchi–Valgimigli [inedito; presentazione, letta alla Biblioteca Alessandrina di Roma il 30.1.2006, di S. Marini – A. Raffaelli (a cura di), Bonaventura Tecchi – Manara Valgimigli, Epistolario, Firenze, Franco Cesati Editore, 2005]

184. Le intenzioni dei poeti: delectare e/o docere? [inedito; intervento tenuto a Sassari il 29.4.2006 al Convegno AICC Poeti maestri – Poetiche e didattica poetica nella letteratura greca]

185. Insegnare e imparare il greco oggi: la lingua e la cultura, «Scienze Umanistiche» 2, 2006, pp. 87–102

Bibliografia degli scritti di Luigi Enrico Rossi | 51

186. Presentazione de La lettura nel mondo ellenistico di Lucio Del Corso [inedito; presentazione, letta a Perugia l’11.10 2006, di L. Del Corso, La lettura nel mondo ellenistico, Roma–Bari, Laterza, 2005]

2006–2007 187. L. E. Rossi – R. Nicolai, Corso integrato di letteratura greca, Firenze, Le Monnier: 1. L’età arcaica, 2006, XVIII–510 pp.; 2. L’età classica, 2006, XVI–751 pp.; 3. L’età ellenistica e imperiale romana, 2007, XVI–688 pp. [rielaborazione del nr. 164 ad opera di L. Argentieri e L. Rossi; rielaborata poi nei nrr. 202 e 205]

2007 188. Nel ricordo di Roberto Pretagostini, «Eikasmós» 18, 2007, pp. 409–410 189. Metrica e scena. Roberto Pretagostini e il dramma greco, «Dioniso» 6, 2007, pp. 10–22 190. La Chiesa pensi solo alle anime, «Il Tirreno» di giovedì 24.5.2007 2008 191. What Ancient Egypt meant and means to Mankind, in O. Fayez Riad (ed.), The Proceedings of the International Symposium “A Hundred Years of Greek and Latin Studies at Cairo University”, 1–2 March 2008, held by the Department of Classics, Faculty of Arts, Cairo University, with the Cooperation of the Greek Cultural Center, the Greek Educational Office, and the Italian Cultural Institute, Classical papers vol. VIIII, Cairo, Cairo University Press, 2008, pp. 9–17 192. Modi della comunicazione e configurazione del testo. Un esercizio di critica testuale ed esegetica (Erodoto, Storie 1.123 s.) [inedito; schema (fine marzo 2008 ca.) per una conferenza da tenere a Parma il 31.3.2008]

193. Le immagini viventi nella critica d’arte antica [inedito; intervento tenuto all’Università di Napoli “L’Orientale” il 12.5.2008 alla Giornata di studi su Lo scudo di Achille nell’Iliade]

194. M. Pecoraro – E Cerroni, Intervista al prof. Rossi, «Il Giornale di Letterefilosofia.it» nr. 4 di lunedì 30.6.2008, pp. 1–2 [ripubblicata poi su «YAWP Giornale di letterature e filosofie» http://www.letterefilosofia.com/ intervista-al-prof-rossi/ dove è riprodotta anche l’ultima coppia di domanda–risposta]

2009 195. Horace, a Greek Lyrist without Music, in M. Lowrie (ed.), Horace: Odes and Epodes, Oxford Readings in Classical Studies, Oxford, Oxford University Press, 2009, pp. 356–377 [traduzione inglese, a cura di M. Lowrie, del nr. 134]

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196. Gluck, quasi duemila e duecento anni dopo Euripide, «Il Giornale dei Grandi Eventi» anno XV, nr. 17, 17.3.2009, p. 8 [sul rapporto tra l’Iphigénie en Aulide di Gluck e la tragedia di Euripide]

197. [Lettera aperta per la chiusura del seminario], «Notiziario di Antichistica» del 18.4.2009, pp. 31–33 (http://www.accademiafiorentina.it/notiz/18_apr_09. pdf)

Scritti pubblicati postumi 2010 198. Riflessioni sui dattilo–epitriti, «SemRom» 11, 2008 [stampa 2010], pp. 139– 167 [postumo; curr. M. Napolitano, F. P. Bianchi, V. Irmici]

199. La comunicazione orale: Omero ed Esiodo nell’arcipelago epico, «Critica del testo» 13/3, 2010 (Cercando l’Europa), pp. 69–81 [postumo; redazione della prolusione tenuta il 15.4.2008 in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico della Facoltà di Scienze Umanistiche della “Sapienza” di Roma; cur. S. Pirrotta]

200. Vasi e scena: a proposito della cultura del dramma, in A. M. Belardinelli – G. Greco (edd.), Antigone e le Antigoni. Storia forme fortuna di un mito, Atti del convegno internazionale, Roma 13, 25–26 maggio 2009, “Sapienza” Università di Roma, Firenze, Le Monnier, 2010, pp. 226–229 [postumo]

2011 201. A. Ercolani – L. E. Rossi, Hesiod, §§ 1–3, 5–6, in B. Zimmermann (Hrsg.), Handbuch der griechischen Literatur der Antike, I, Die Literatur der archaischen und klassischen Zeit, München, Verlag C. H. Beck, 2011, pp. 78–100, 110–123 [postumo]

2011–2012 202. L. E. Rossi – R. Nicolai, Lezioni di Letteratura greca. Corso integrato, Firenze, Le Monnier scuola: 1. L’età arcaica, 2011, XXVI–518 pp.; 2. L’età classica, 2012, XX–651 pp.; 3. L’età ellenistica e romana, 2012, XXXIV–734 pp. [postumo; rielaborazione e integrazione dei nrr. 164 e 187 ad opera di L. Lulli e S. Pirrotta, versione con libro+web; nuova versione anche con mebook in nr. 205]

2012 203. Introduzione all’incontro. Appunti sulle consuetudini editoriali nei testi lette-

Bibliografia degli scritti di Luigi Enrico Rossi | 53

rari classici, «SemRom» n.s. 1, 2012, pp. 1–9 [postumo; redazione di due interventi pronunciati in occasione della Giornata di discussione su “Il restauro: parole, figure, suoni, manufatti”, Roma “La Sapienza” 21.2.2008; cur. M. Sonnino]

204. Idioma di frodo, con un’introduzione e una nota di Roberto Nicolai e con un’intervista di Camilla Miglio ad Antonella Anedda su Luigi Enrico Rossi, Roma, Empirìa, 2012, 150 pp. [postumo; raccolta di poesie; cur. R. Nicolai]

2015 205. L. E. Rossi – R. Nicolai, Letteratura greca. Storia, luoghi, occasioni, Firenze, Le Monnier scuola, 2015: 1. L’età arcaica, XXVIII–547 pp.; 2. L’età classica, XXVI–710 pp.; 3. L’età ellenistica e romana, XXXII–768 pp. [postumo; versione con mebook, oltre che con libro+web, del nr. 202]

206. Introduzione, in C. Di Noi (ed.), Lirici greci, Premessa di M. Napolitano, Introduzione di L. E. Rossi, Appendice a cura di E. Cerroni, Salerno Editrice, Roma 2015, pp. XIII–XLVIII [postumo; ripubblicazione del nr. 164. B, pp. 207–216]

2016 207. Esiodo, Le Opere e i giorni: un nuovo tentativo di analisi, in A. Ercolani – L. Sbardella (edd.), Esiodo e il corpus Hesiodeum. Problemi aperti e nuove prospettive, «SemRom» n.s. 5, 2016, pp. 47–61 [postumo; ristampa del nr. 124]

2020 208. κηληθμῷ δ᾽ ἔσχοντο. Scritti editi e inediti, a cura di G. Colesanti e R. Nicolai, con la collaborazione di M. Broggiato, A. Ercolani, M. Giordano, L. Lulli, M. Napolitano, R. Palmisciano, L. Sbardella, M. Sonnino, 3 voll., Berlin–Boston, Walter de Gruyter, 2020 [postumo; raccolta di scritti]

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Metrica e critica stilistica. Il termine “ciclico” e l’ ἀγωγή ritmica a mia moglie

Premessa Un passo famoso e tormentato del de compositione verborum di Dionigi d’Alicarnasso ha portato per lungo tempo fuori strada i metricisti moderni, che hanno voluto cercarvi spiegazioni che esso non dà o fondarvi teorie a cui una retta interpretazione non consente di dare appoggio. In realtà alle costruzioni teoriche che vi si sono fondate non sono molti, oggi, a credere. Mancava però finora un’indagine esauriente, che sfatasse tante leggende filologiche e che desse finalmente ampia ragione del poco credito che per istinto da molti si faceva all’interpretazione «metrica» del passo di Dionigi. Tale indagine consente, così, di vedere nella sua giusta luce un vasto settore della scienza metrica moderna, dando modo di riconoscerne i risultati positivi e d’isolare definitivamente quanto ne risulta oggi caduco, perché legato, appunto, a premesse fondate su false basi; e – quel che conta ancor più – scopre un’intera sezione della terminologia retorica degli antichi, che non era stata ancora portata ad unità. Tale terminologia, nata dal riconoscimento del fenomeno linguistico della maggiore o minore velocità di emissione, si dimostra di particolare interesse, perché viene usata nella critica dei retori e degli stilisti nell’ambito di una importante categoria di valutazione stilistica: il «tempo di dizione», appunto, o ἀγωγή ritmica. Sento il gradito dovere di ringraziare tutti coloro a cui il mio lavoro deve qualcosa. La mia gratitudine va specialmente al professor Bruno Gentili, che mi ha iniziato a questi studi e che mi ha costantemente seguito; al professor Carlo Gallavotti, che ha letto il manoscritto; ai professori Scevola Mariotti, Sebastiano Timpanaro Jr., R. P. Winnington–Ingram, i quali hanno visto il lavoro in bozze e non mi hanno lesinato preziosi consigli, spingendomi spesso, colle loro acute osservazioni, a fare opportune chiarificazioni e rettifiche; a Tullio De Mauro, che con amichevole sollecitudine ha letto l’impaginato.

|| [Monografia pubblicata in “Studi di metrica classica” diretti da Bruno Gentili, 2, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1963]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-004

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A Gregorio Serrao, infine, un grazie di cuore per tutto quello che può venire solamente dalla consuetudine quotidiana, dalla comune passione per gli studi, dall’amicizia vera. L. E. R. Roma, 27 giugno 1963

Nota bibliografica Si riportano qui di seguito quelle edizioni di testi (e quelle soltanto) la cui numerazione di pagine è presa a fondamento dell’uso di citazione: ANONYMI Scriptio de musica ... primum ed. et annot. illustr. FR. BELLERMANN. Berlin 1841. ARISTIDIS QUINTILIANI de musica libri III. Ed. A. IAHNUS (JAHN). Berlin 1882. (È annunciata da tempo una nuova edizione per la Teubneriana. L’editore, R. P. WINNINGTON–INGRAM, mi comunica cortesemente per lettera (25.1.1963) che l’edizione è quasi pronta e che uscirà con ogni probabilità entro il 1963. Per i passi utilizzati nella presente indagine, inoltre, mi comunica che l’ulteriore esame della tradizione manoscritta non ha portato novità di rilievo). ARISTOXENI elementa harmonica. ROSETTA DA RIOS rec. Roma 1954. DIONYSIUS HALICARNASEUS. Opuscula. Edd. H. USENER et L. RADERMACHER. Voll. I, II, Leipzig 1899, 1904/29. DIONYSII THRACIS ars grammatica. Ed. G. UHLIG. Leipzig 1883. (DIONYSIUS THRAX) Scholia in Dionysii Thracis artem grammaticam. Rec. A. HILGARD. Leipzig 1901. GRAMMATICI LATINI ex rec. H. KEILII (KEIL). Leipzig 1867 ss. MARTIANUS CAPELLA. Ed. A. DICK. Leipzig 1925. (MUSICI SCRIPTORES) Antiquae Musicae auctores septem. M. MEIBOMIUS (MEIBOM) rest. ac notis expl. Amsterdam 1652. MUSICI SCRIPTORES GRAECI. Aristoteles Euclides Nicomachus Bacchius Gaudentius Alypius et melodiarum veterum quidquid exstat. Rec. . . . C. JANUS (C. VON JAN). Leipzig 1895. (PORPHYRIUS) Porphyrios Kommentar zur Harmonielehre des Ptolemaios. Hsg. v. I. DÜRING. Göteborg 1932. (RHYTHMICI SCRIPTORES) R. WESTPHAL, Die Fragmente der Rhythmiker und die Musik–Reste der Griechen. Supplement zum ersten Bande der Metrik (2. Aufl.). Leipzig 1867. (Per gli elementa rhythmica di Aristosseno si segue la numerazione dell’edizione morelliana, Venezia 1785). Gli altri testi e la letteratura secondaria sull’argomento si troveranno agevolmente per mezzo dell’indice analitico. Si dà qui solamente, per comodità, l’indicazione precisa delle tre edizioni della metrica di Rossbach–Westphal (che saranno citate come Metrik1, Metrik2, Metrik3): A. ROSSBACH – R. WESTPHAL, Metrik der griechischen Dramatiker und Lyriker nebst den begleitenden musischen Künsten, Leipzig 1854–65 (I. Griechische Rhythmik, von ROSSBACH und

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WESTPHAL, 1854; II, 1. Harmonik und Melopöie der Griechen, von WESTPHAL, 1863; II, 2. Allgemeine griechische Metrik, von WESTPHAL, 1865; III. Griechische Metrik nach den einzelnen Strophengattungen und metrischen Stilarten, von ROSSBACH und WESTPHAL, 1856). A. ROSSBACH – R. WESTPHAL, Metrik der Griechen im Vereine mit den übrigen musischen Künsten, 2. Aufl., Leipzig 1867–68 (I. Griechische Rhythmik und Harmonik nebst der Geschichte der drei musischen Disciplinen, von WESTPHAL, 1867; II. Griechische Metrik, von ROSSBACH und WESTPHAL, neu bearb. von WESTPHAL, 1868). A. ROSSBACH – R. WESTPHAL, Theorie der musischen Künste der Hellenen, 3. Aufl., Leipzig 1885– 89 (I. Griechische Rhythmik, von WESTPHAL, 1865; II. Griechische Harmonik und Melopoeie, von WESTPHAL, 1886; III, 1. Allgemeine Theorie der griechischen Metrik, von WESTPHAL und H. GLEDITSCH, 1887; III, 2. Griechische Metrik mit besonderer Rücksicht auf die Strophengattungen und die übrigen melischen Metra, von ROSSBACH und WESTPHAL, 1889).

METRICA E CRITICA STILISTICA IL TERMINE «CICLICO» E L’ AΓΩΓΗ RITMICA Il termine e la categoria di «ciclico» vengono alla metrica moderna da un passo del de compositione verborum (πεϱὶ συνϑέσεως ὀνομάτων) di Dionigi d’Alicarnasso. Una retta interpretazione del passo renderebbe due segnalati servigi: da una parte inquadrerebbe opportunamente il passo stesso in quella che da tempo è stata riconosciuta come la struttura essenziale dell’operetta di Dionigi, che è di ordine retorico–stilistico e non metrico tecnico in senso stretto; dall’altra farebbe giustizia di molte costruzioni, alcune delle quali assai ingegnose, che la filologia moderna ha fondate sul passo: per esse, che già apparivano in buona parte minate da contraddizioni interne, bisognerebbe rinunciare all’autorità degli antichi, sempre che si trovi chi sia ancora disposto a difenderle. II de compositione verborum è una delle testimonianze più interessanti della critica letteraria degli antichi. L’autore si propone di condurre sui testi letterari una critica di carattere particolare, nettamente contrapposta al contenutismo etico di altre correnti: quelle qualità che tradizionalmente si sono riconosciute nelle opere di poeti e prosatori vanno passate al vaglio di una critica che utilizzi solo quello che il testo ci offre. Le parole e le iuncturae vengono studiate soprattutto dal punto di vista del loro valore fonico: è la realizzazione nel suono che conduce ad un retto apprezzamento dell’opera letteraria. Il suono che realizza ogni sillaba, il ritmo, la varia musicalità della lingua si studiano a volta a volta nel quadro della disposizione delle parole (σύνϑεσις). Ed è qui che il particolare formalismo della critica dionisiana viene chiaramente alla luce: se l’ordine delle

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parole viene cambiato, l’opera letteraria come tale perisce, e con essa ogni suo primitivo valore1. L’originalità di una tale posizione, nell’ambito della critica letterario–retorica degli antichi, ha messo a dura prova l’acribia di quei ricercatori di fonti che erano particolarmente interessati a far di Dionigi un frettoloso ed impreciso compilatore. E questo allo scopo di estrarne a piacimento alcune testimonianze che, isolate dal loro contesto, avrebbero dovuto riportarsi a fonti «buone ed antiche» per servire di sostegno ad audaci teorie moderne. Le fonti buone ed antiche non sono, fra parentesi, del tutto facili da trovarsi in Dionigi, che è sicuramente in buona parte originale2. Nell’orientamento critico non era certo isolato3 ed era stato preceduto dalla corrente strettamente formalistica dei ϰϱιτιϰοί4: ma una formulazione così netta dell’importanza dei valori formali, accompagnata da un’adeguata esperienza di critica letteraria, è senza dubbio in gran parte conquista sua. Quello che appare certo è che la critica letteraria dionisiana è nata sul terreno della dottrina e della critica musicale5. In questo campo specifico della cultura antica più facile era la liberazione dagli schemi e

|| 1 Di tale principio, che è alla base di tutta l’operetta, offre formulazione precisa il cap. IV (p. 15.3 ss. Us.–Rad.). 2 V. CHRIST–SCHMID–STÄHLIN, Gesch. d. gr. Lit., II 1, München 1920, p. 468 e nn. 6, 7. V. anche lo scetticismo di W. KROLL, «Rh. Mus.» 62 1907, p. 91 ss. Per quanto riguarda le fonti più chiaramente riconoscibili, v. CHRIST–SCHMID–STÄHLIN, op. cit., p. 467 s.: insieme con fonti più recenti (Cecilio, Posidonio), si riconoscono fonti peripatetiche più antiche, come Aristotele, Teofrasto, Aristosseno. 3 V. H. KOLLER, Die Mimesis in der Antike, Bern 1954, p. 193, dove si richiama anche lo pseudo– Longino come rappresentante di una critica letteraria «puramente estetica». Il precursore della nuova corrente si vuol vedere in Posidonio. 4 V. KOLLER, op. cit., p. 203 ss. (a pp. 137 s. e 207 ss. i contatti con Dionigi). Dei ϰϱιτιϰοί abbiamo notizia dal πεϱὶ ποιημάτων di Filodemo (XVIII, 16: XXIV, 7 Jensen): v. CHR. JENSEN, Philodemos. Ueber die Gedichte fünftes Buch, Berlin 1923, p. 137 s. Per l’importanza della corrente dal punto di vista dello sviluppo della teoria estetica, v. A. PAGLIARO, Nuovi saggi di critica semantica, Messina–Firenze 1956, p. 385. V. anche A. ARDIZZONI, ΠΟΙΗΜΑ. Ricerche sulla teoria del linguaggio poetico nell’antichità, Bari 1953, p. 84. Per la storia del termine, in rapporto con γϱαμματιϰός, v. A. GUDEMAN, R.E. XI, 2, Stuttgart 1922, col. 1912 ss. 5 V. soprattutto KROLL, art. cit., p. 94 s. e passim, dove si elencano i molti passi per cui non si può fare a meno di presupporre in Dionigi dimestichezza colla teoria musicale. V. in G. AMMON, De Dionysii Halicarnassensis librorum rhetoricorum fontibus, Diss. München 1889, p. 38 (e nota), un elenco di passi di competenza musicale esteso anche alle altre opere di Dionigi. V. ancora recentemente KOLLER, op. cit., pp. 193 ss., 203 ss. (spec. 207–209): si vorrebbero qui riportare le fonti al più antico Pitagorismo e si vorrebbe fare del Peripato solo un anello della catena.

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dai presupposti etici in cui si muoveva la critica letteraria6, senza contare che la teoria musicale era in grado di fornire preziosi strumenti d’indagine ad una critica letteraria formalistica, che si occupasse, cioè, soprattutto dei valori fonici dell’opera7. Ci troviamo di fronte – ripetiamo – a un libro di critica letteraria e non a un libro di tecnica, metrica o musicale che sia: e ce lo dichiara per di più l’autore stesso in parecchi punti8. Sembra quindi strano che quasi tutti quelli che si sono occupati di quei passi, appunto, che si prestavano ad essere intesi in senso metrico tecnico o più genericamente in senso critico letterario, abbiano scelto, come per una strana forma di attrazione, la prima via. Chiameremo per chiarezza interpretazione «metrica» la prima e interpretazione «stilistica» la seconda. Il passo principale in questione si trova in un capitolo, il XVII, che, insieme col successivo, costituisce la sezione dedicata al ritmo, considerato nel quadro dei quattro mezzi atti a rendere piacevole e bella la composizione9. Si fa una rasse|| 6 Interessante il distaccarsi della critica musicale dalla dottrina etica, presupposto per la formazione di un’estetica formalistica: v. H. ABERT, Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik, Leipzig 1899, p. 27 ss. La supposizione dello Abert (op. cit., p. 38 ss.) che i sofisti fossero i primi a negare l’influenza etica della musica è apparsa confermata dal P. Hibeh n. 13 (I, 1906): l’attribuzione ne è, in realtà, variamente discussa (v., per la storia della questione, M. UNTERSTEINER, Sofisti. Testim. e framm., III, Firenze 1954, p. 208 s.). 7 V. KROLL, art. cit., p. 96 s., dove la dottrina dionisiana delle lettere dell’alfabeto è considerata antica. Per la fonetica al servizio della retorica v. R. VOLKMANN, Die Rhetorik der Griechen u. Römer2, Leipzig 1885, p. 514 ss.; E. NORDEN, Die antike Kunstprosa4, I, Leipzig 1915, p. 57 ss.; Aeneis. Buch VI3, Leipzig 1927, p. 413 s. La dottrina dell’eufonia è, presso i sofisti, già permeata di teoria musicale. Sui valori fonici v. anche A. ARDIZZONI, op. cit., p. 82 ss. Per una storia della fonologia (fonetica + fonematica), dall’antichità ai giorni nostri, v. W. BELARDI, Elementi di fonologia generale, Roma 1959, p. 38 ss. 8 V., oltre le tipiche espressioni di reticenza citate a p. 86 n. 106, cap. XVIII p. 73.10 ss. Us.– Rad. cit. più oltre (p. 84 n. 99); in cap. XVII p. 70.8, 73.1 D. nomina i μετϱιϰοί espressamente, riportando ad essi alcuni termini dei piedi; in cap. XXII p. 102.4 contrappone Aristofane di Bisanzio (come puro metrico — Ἀ. ἢ τῶν ἄλλων τις μετϱιϰῶν — che ha distinto i ϰῶλα) ai ῥητόϱων παῖδες, che egli segue nella divisione delle πεϱίοδοι. V. NORDEN, Aen. Buch VI, cit., p. 414: D. ist sich durchaus bewusst, keine absonderliche Theorie vorzutragen, sondern allbekannte und allseitig anerkannte Prinzipien der Rhetorik und Poetik zu bringen. Il passo di cap. IV, p. 15.13 ss., dove cerca, con evidenti errori metrici, di trarre priapei e itifallici da versi omerici, fa chiaro che non è un tecnico: è singolare che lo noti proprio il Westphal (Metrik2, I, p. 117). Già, a proposito dello stesso passo, Hermann aveva chiamato Dionigi auctor parum idoneus per prenderne esempi di ionici (Elem., cit. oltre, p. 444). 9 V., per la struttura dell’operetta, KROLL, art. cit., p. 91 s. I capp. I–V costituiscono l’introduzione; nei capp. VI–IX si discute, partitamente per quanto riguarda parole ϰῶλα periodi, quali vadano scelti per esser messi insieme (ἁϱμογή), quale forma vada ad essi data (σχηματισμός:

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gna dei vari piedi e a un certo punto si viene a parlare dell’anapesto e del dattilo: Dion. Hal., de comp, verb., cap. XVII, p. 70.17 Us.–Rad. ὁ δὲ [scil. ῥυϑμός] πϱολαμβάνων τὰς δύο βϱαχείας ἀνάπαιστος μὲν ϰαλεῖται, σεμνότητα δ’ἔχει πολλήν· ϰαὶ ἔνϑα δεῖ μέγεϑός τι πεϱιτιϑέναι τοῖς πϱάγμασιν ἢ πάϑος, ἐπιτήδειός ἐστι παϱαλαμβάνεσϑαι· τούτου τὸ σχῆμα τοιόνδε βαϱύ μοι ϰεφαλᾶς ἐπίϰϱανον ἔχειν [Eur., Hipp. 201]. ὁ δὲ ἀπὸ τῆς μαϰϱᾶς ἀϱχόμενος, λήγων δὲ εἰς τὰς βϱαχείας δάϰτυλος μὲν ϰαλεῖται, πάνυ δ’ἐστὶ σεμνὸς ϰαὶ ἐς τὸ ϰάλλος τῆς ἑϱμηνείας ἀξιολογώτατος, ϰαὶ τό γε ἡϱωιϰὸν μέτϱον ἀπὸ τούτου ϰοσμεῖται ὡς ἐπὶ τὸ πολύ· παϱάδειγμα δὲ αὐτοῦ τόδε Ἰλιόϑεν με φέϱων ἄνεμος Κιϰόνεσσι πέλασσεν [ι 39]. οἱ μέντοι ῥυϑμιϰοὶ τούτου τοῦ ποδὸς τὴν μαϰϱὰν βϱαχυτέϱαν εἶναί φασι τῆς τελείας, οὐϰ ἔχοντες δ’εἰπεῖν ὅσῳ, ϰαλοῦσιν αὐτὴν ἂ λ ο γ ο ν , ἕτεϱός ἐστιν ἀντίστϱοφον ἔχων τούτῳ ῥυϑμόν, ὃς ἀπὸ τῶν βϱαχειῶν ἀϱξάμενος ἐπὶ τὴν ἄλογον τελευτᾷ· τοῦτον χωϱίσαντες ἀπὸ τῶν ἀναπαίστων ϰ υ ϰ λ ι ϰ ὸ ν 10 ϰαλοῦσι παϱάδειγμα αὐτοῦ φέϱοντες τοιόνδε ϰέχυται πόλις ὑψίπυλος ϰατὰ γᾶν [trag, adesp. fr. 141 Nauck2 = lyr. fr. III Bergk4 = 1027 e Page11]. πεϱὶ ὧν ἂν ἕτεϱος εἴη λόγος· πλὴν ἀμφότεϱοί γε τῶν πάνυ ϰαλῶν οἱ ῥυϑμοί. «Il ritmo, poi, che ha per prime le due brevi si chiama anapesto, e ha molta gravità; e conviene usarlo quando si deve conferire agli argomenti grandezza o passione. La sua figura è questa: (Eur., Hipp. 201). Quello, poi, che comincia colla lunga e finisce colle brevi si chiama dattilo, ed è molto maestoso e importante per ottenere la bellezza dell’espressione. Il metro eroico se ne fregia per la più gran parte. Ed eccone un esempio (ι 39). Veramente i ritmici dicono che la lunga di questo piede è più breve della lunga perfetta, e, non sapen-

|| per le parole si tratta l’interessante questione del singolare e del plurale, ecc.), a quali modifiche vadano sottoposti con eventuali aggiunte o sottrazioni (μετασϰευή); i capp. X–XX trattano degli scopi di chi vuol ben comporre (ἡδύ e ϰαλόν, cap. X) e dei mezzi per raggiungerli (XI): μέλος (XII–XVI), ῥυϑμός (XVII–XVIII), μεταβολή (XIX), πϱέπον (XX); viene per ultima la trattazione dei tre tipi di composizione (XXI): σύνϑεσις αὐστηϱά (XXII), γλαφυϱά (XXIII), ϰοινή ovvero εὔϰϱατος (XXIV). Un’appendice (XXV–XXVI) tratta della possibilità di confondere verso con prosa e viceversa. Per il disordine della sezione che dovrebbe riguardare il μέλος si veda KROLL, art. cit., p. 94. In realtà, tra l’altro, vi si anticipano considerazioni sul πϱέπον ο ϰαιϱός (XII– XIII) e vi si tratta dei suoni alfabetici (XIV), delle sillabe e delle loro quantità (XV), di espedienti di arte imitativa (XVI). 10 La tradizione manoscritta è discorde: porta ora ϰυϰλιϰόν ora ϰύϰλον. G. HERMANN, Elem. cit. oltre, p. 369 legge ϰύϰλιον (cf. Choerob. π. ποδ. p. 218.23 Consbr. e Sch. B ad Heph. p. 303.5 Consbr., dove il coriambo è chiamato anche ϰύϰλιος: cf. p. 47 n. 110). Veramente già J. UPTON (London 1747) leggeva ϰύϰλιον, come apprendo dall’apparato di G. H. SCHÄFER (Leipzig 1808). Si vedrà ancor meglio in seguito quanto inopportuna sia la correzione ϰόλον (ϰῶλον sarà errore di stampa) proposta da J. J. REISKE, Dion. Hal. opp. omn., Vol. V, Leipzig. 1775, p. 105 e così giustificata: . . . longam Anapaesti syllabam ultimam quasi claudicare. 11 Nel testo del Page (Oxford 1962) ὑψίπολις sarà una svista.

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do dire di quanto (è più breve), la chiamano irrazionale. C’è un altro piede che ha il ritmo opposto a questo: comincia colle brevi e finisce coll’irrazionale: distinguendolo dagli anapesti, lo chiamano ciclico, portandone quest’esempio (trag. adesp. fr. 141 Nauck 2 = lyr. fr. III Bergk 4 = 1027 e Page). Ma di ciò sarebbe un altro il discorso da fare; resta però che entrambi i ritmi sono da considerarsi tra i più belli».

Il passo ha dato avvio, come abbiamo detto sopra, quasi sempre a interpretazione strettamente metrica. Si è fatto credito a Dionigi di un’affermazione in campo tecnico. Si è voluto trovare qui la prova dell’esistenza di due piedi (anapesto e dattilo) di particolare natura, con la lunga più breve della lunga ordinaria. E sarà opportuno far qui una volta per tutte una precisazione. Nell’ambito della interpretazione metrica, considerando la metrica non le sillabe ma gli elementi dello schema del verso, non si potrà parlare di lunga (s i l l a b a ), bensì di longum (e l e m e n t o ), seguendo la chiara terminologia maasiana12. La tradizione dell’interpretazione metrica, anche successiva alla generale accettazione della terminologia maasiana, continua impropriamente a parlare di sillaba. Qui di seguito si correggerà implicitamente l’imprecisione sostituendo elemento a sillaba, beninteso solo presso coloro che seguono l’interpretazione metrica13. Il longum14 avrebbe dunque, secondo l’interpretazione metrica, un valore non perfettamente equiparabile al biceps15, bensì leggermente minore. Prima di passare in rassegna le varie teorie con cui si è voluto spiegare e sfruttare il passo di Dionigi, occorre fare un’altra precisazione. Già il Boeckh16 si era reso conto di un fatto di palmare evidenza, che cioè il termine «ciclico» non

|| 12 P. MAAS, Griechische Metrik2, Leipzig u. Berlin 1929, pp. 9 e 35 (ad § 45). Tale distinzione, fondamentale, è ancor oggi ignorata da molti. La tradizione antica la rispetta implicitamente, usando per quanto riguarda le sillabe designazioni diverse da quelle che usa per ciò che noi chiamiamo elemento (cf. «Riv. Fil. Istr. Class.» 91 1963, pp. 52–71). 13 Parlare di sillaba sarà invece a suo luogo nell’ambito dell’interpretazione stilistica, dove alla considerazione si presenteranno non schemi astratti di versi, ma suoni concreti e sillabe concrete. 14 Parlando di longum s’intende qui il primo elemento del dattilo (che è sempre realizzato da sillaba lunga); impropriamente, solo per comodità, si potrebbe designare così il secondo elemento dell’anapesto. A rigor di termini, posta la definizione maasiana di biceps come Länge und zwei Kürzen sich deckend (loc. cit.), bicipitia dovrebbero chiamarsi, oltre, naturalmente, al secondo elemento del dattilo, sia il primo che il secondo elemento dell’anapesto. V. comunque più oltre il problema della insolubilità del longum del dattilo e della solubilità del secondo elemento dell’anapesto (colla conseguente impossibilità di considerare l’uno come esattamente corrispondente all’altro o meglio come ἀντίστϱοφος dell’altro), che ha condotto fuori strada per il problema che c’interessa (cf. infra n. 65). 15 Sia, naturalmente, che esso venga realizzato come monosillabico, sia come bisillabico. 16 A. BOECKH, De metris Pindari, Leipzig 1811, p. 43 (in Pindari opera, 1811–21, T. I).

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era esteso ai dattili, ma era riservato solo ad alcuni anapesti: in quibus vero arsis irrationalis est, ii dactyli vocantur irrationales (possis et l e v e s appellare), iisque respondentes anapaesti nominati c y c l i i . Si potrebbe solo discutere sul valore sintattico di «ciclico», se sia aggettivo sostantivato o semplice aggettivo riferito agli anapesti: la questione non è di vitale interesse, visto che si tratta senz’altro di una sottospecie degli anapesti (χωϱίσαντες ἀπὸ τῶν ἀναπαίστων). Impropria, comunque, è stata l’estensione del termine ai dattili che si è fatta in seguito da quasi tutti gli studiosi, soprattutto quando i dattili diventavano addirittura gli unici ad esser designati dal termine: l’espressione «dattilo ciclico» è entrata così nell’uso senza alcuna giustificazione. Per raccogliere sia i dattili sia gli anapesti sotto un’unica denominazione, e per evitare nello stesso tempo il termine «ciclico», si propone qui di riassumere il vecchio termine boeckhiano levis–l e g g e r o 17, che era stato escogitato solo per i dattili (quelli che in realtà presso Dionigi non avevano designazione speciale) e che appare d’altra parte molto adatto a designare i due tipi insieme18. Si parlerà quindi di anapesto ciclico, di dattilo leggero, e infine di piede leggero, per comprendere ambedue i precedenti19. Ci si propone qui di passare in rassegna le varie interpretazioni metriche, che hanno seguito nel corso d’un secolo e mezzo vie diverse e che si possono sostanzialmente ordinare in due grandi correnti. Ci si riallaccerà poi alla interpretazione stilistica, che s’intende rinnovare con accresciuta messe di testimonianze e d’argomenti. *** L’interpretazione metrica non è stata univoca. La prima corrente è quella che legava le categorie della ritmica e della metrica antiche alle leggi della musica

|| 17 Esso si trova in sostanza già in A. APEL, Metrik, I, Leipzig 1814 (cito dalla seconda edizione, Leipzig 1834), p. 122: il dattilo a tre tempi è chiamato flüchtiger D., quello a quattro schwerer D. 18 E proprio nel quadro della interpretazione stilistica. Si vedrà infatti che «leggeri» vengono ad essere i ritmi di versi particolarmente veloci nell’effetto di emissione. Il termine «irrazionale», che Boeckh pure usa per i dattili, sarebbe del tutto improprio, come apparirà da quanto segue. 19 Non sembri inopportuna una simile precisazione terminologica per una categoria che s’intende distruggere come tale. Essa in realtà è inesistente solo nella metrica, ma conserva la sua validità sul piano stilistico, sul quale unicamente la porta Dionigi. Dalla metrica, dove s’è inserita purtroppo con successo, sarà bene bandirla una volta per tutte. Per uno dei tanti esempi della diffusione del termine, si veda fra l’altro TH. ZIELIŃSKI, Tragodumenon libri tres, Kraków 1925, p. 199 ss., dove si chiama ciclico l’anapesto al posto del giambo nel trimetro.

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moderna: essa sfociò nella costruzione della teoria logaedica20, che ha al suo centro il complesso sistema del Westphal. Dalla metà del secolo scorso in poi la dottrina logaedica dominò quasi incontrastata. Essa era nata durante il primo romanticismo musicale tedesco e si sviluppò pienamente verso la metà del secolo: la sua ragion d’essere culturale stava soprattutto nel desiderio di trovar parallelismi, anche nell’aspetto tecnico, tra la poesia classica e la musica romantica. Si volevano leggere i versi greci colla suggestione del metodo mensurale della musica moderna, in un momento in cui la musica viveva una delle sue stagioni più fervide21. La teoria logaedica prende le mosse dagli studi del Voss e in particolare dello Apel, che fu in realtà il primo a sfruttare la testimonianza di Dionigi22; ma prende stabile cittadinanza nel campo degli studi classici col Boeckh. Essa nasce portando con sé un colossale equivoco: la confusione fra irrazionalità in tempo debole e pseudo–irrazionalità in tempo forte23. Il Boeckh24, in altre paro|| 20 Il termine «logaedo» ha trovato, dopo lo Hermann, grande fortuna. La testimonianza più antica per λογαοιδιϰός è nel P. Oxy. 220, col. XII, 2 ss. Efestione (24.1 ss., 28.9 ss. Consbr.) designava col termine dei versi dattilici o anapestici che avevano alla fine un metron trocaico o giambico catalettico. E qui nasce il primo malinteso, quello dello Hermann, che intese dare il nome a tutti quei versi che avessero, comunque misti, dattili e trochei, anapesti e giambi (Elem., pp. 365 ss., 418 ss.; v. spec. pp. 421 e 520, dove anche i gliconei sono logaedici). Poi venne il secondo malinteso, quello della teoria logaedica di Boeckh–Westphal, che affermò l’isocronia nell’interno di questi versi. Per quanto riguarda la spiegazione del termine, il rimandare a Sch. A ad Heph., p. 138.8 ss. Consbr. non risolve, tanto la spiegazione è assurda: ὅτι ὁ μὲν δάϰτυλος ἀοιδοῖς μᾶλλον ἐπιτήδειος, ὁ δὲ τϱοχαῖος λογογϱάφοις, λογαοιδιϰὸν ϰαλεῖται τò μέτϱον. V. in proposito ΤH. BERGK, Ueber das älteste Versmass der Griechen, Kl. Schrift. II, p. 392 ss., che fu un precursore della lotta al termine; H. WEIL, Études de Littérature et de Rythmique grecques, Paris 1902, pp. 181 ss., 203 ss.; U. v. WILAMOWITZ–MOELLENDORFF, Griechische Veskunst, Berlin 1921, p. 138. Per l’estensione originaria del termine, v. T. D. GOODELL, Chapters on Greek Metric, New Haven 1901, p. 212 ss.; B. GENTILI, Metrica greca arcaica, Messina–Firenze 1950, p. 46 ss. 21 V. le ingenue quanto ferme dichiarazioni di fede nelle categorie della musica moderna in APEL, Metrik, cit., I, pp. 10–15 (ineliminabilità della battuta). 22 In Metrik, cit., pp. 121–124 (v. anche p. 27, dove sono citati precedenti articoli apparsi nel 1807 e 1808 nella «Allg. Mus. Zeitung»). Per un breve schizzo della linea J. H. VOSS (Zeitmessung der deutschen Sprache, Königsberg 1802)–Apel–Boeckh v. WESTPHAL, Metrik3, I, pp. 5–7. Lo Apel voleva dividere il dattilo leggero così: 1½ ½ 1. Il Boeckh si associò dapprima allo Apel, per cambiare più tardi idea. 23 È necessario premettere che l’uso dei termini «tempo forte» e «tempo debole», tolti alla pratica musicale (e corrispondenti a guter e schlechter Taktteil dei tedeschi), sostituiscono la terminologia tesi–arsi che, com’è noto, è veicolo d’equivoci. Si potrebbe anche dire «battere» e «levare». Non s’intende con questo, naturalmente, prendere posizione sul problema dell’ictus: la distinzione fra tempo debole e tempo forte è piuttosto un espediente per render chiara la di-

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le, applicava al tempo forte (al longum del piede leggero) il concetto aristossenico d’irrazionalità25, nato per designare quel particolare fenomeno che si ha ad esempio nel caso del metron trocaico quando la seconda sede è spondaica, e quindi destinato a riferirsi al tempo debole. Il Boeckh26 partiva per di più dal presupposto della isomensuralità, postulava, cioè, battute uguali, allo stesso modo che accade nella musica moderna: e, di fronte alla mistione di dattili e trochei, frequente nelle composizioni poetiche, poneva lo pseudoproblema della necessità d’equiparare la durata dei dattili a quella dei trochei e lo risolveva sfruttando la testimonianza di Dionigi27, che sembrava informarci dell’esistenza di dattili e anapesti non molto dissimili dai trochei28. A parte l’assurdità dell’indebita estensione dell’ἀλoγία aristossenica, è singolare che proprio a questo proposito venisse invocato, e del tutto inopportunamente, il concetto di ἀγωγή ritmica29. Esso costituirà, da quanto si vedrà in seguito, uno dei pilastri dell’interpretazione stilistica: ma Boeckh, che rettamente interpretava ἀγωγή come ductus rhythmicus (quem nostri tactum vocant, p. 105) e cioè come «tempo», ne immaginava l’azione nel contrarre i singoli dattili isolati alla misura dei trochei,

|| stinzione fra i due elementi d’ogni piede, dove normalmente l’elemento lungo porta su di sé, a causa della frequente insolubilità o della comunque costante invariabilità morica, il peso della determinazione del ritmo. Non sarebbe inopportuno chiamarli «elementi–guida»: sarebbe un nuovo nome per quello che nel sistema useneriano–schroederiano si chiama Hebung, termine troppo legato alle suggestioni accentuativo–espiratorie della metrica moderna, specie tedesca. 24 De metris Pindari, cit., pp. 39–46 (spec. 41, 45) e pp. 103–109 (v. lo schema dei piedi «irrazionali» a p. 109). 25 V. la definizione di ἀλογία in Aristox., el. rhythm., p. 292 s. Mor. cit. oltre. Per i modi vari e talora aberranti in cui si è voluto calcolare l’intervallo intermedio fra 1 : 1 e 1 : 2, v. J. W. WHITE, The Verse of Greek Comedy, London 1912, p. 5 s. 26 Op. cit., p. 105, dove si richiama al Voss e allo Apel: si parla di aequalis per diversas species rhythmi divisio e di aequalis temporum divisio. È la Taktgleichheit della musica moderna. 27 Op. cit., p. 43 s., dov’è riportato tutto il passo del cap. XVII. 28 L’equiparazione viene spiegata da Boeckh, naturalmente, coll’ausilio delle note musicali (op. cit., p. 105 ss.). Di essa vengono proposte le due possibilità: da dattili a trochei (h g g = h g , e cioè = , ossia 1 ½ ½ = 1½ ½) e da trochei a dattili (h g = h g g , e cioè = , ossia 1 ½ = ¾ ¼ ½). Ma, per non turbare i rapporti interni dei piedi, scelta l’equiparazione dei dattili leggeri ai trochei ottenuta portando i dattili al valore di tre more, i dattili stessi vengono misurati così (schema a p. 107): 12/7 6/7 6/7 = 3 (il rapporto interno è 3 : 2 : 2). V. anche com’è misurato il trocheo con lunga irrazionale: = 15/7 12/7 = 3. Mostruoso e incomprensibile è il valore di 6 (rispetto a 3) che si dà al dattilo cosiddetto normale (v. F. HEIMSOETH, De duplici quod fertur dactylorum et anapaestorum genere, cit. oltre, pp. V, XIII). 29 Op. cit., pp. 46 e 105 ss.

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lasciandone intatto, beninteso, il rapporto podico interno di uno a uno. Basterebbe porsi il caso di un verso eolico qualunque, col suo variare di dattili e trochei. L’ ἀγωγή è tempo, velocità d’emissione, e il passaggio da un tempo a un altro è cosa normale e largamente prevista dalla teoria antica, che dà ad essa il nome di μεταβολή, passato a noi come «modulazione»30: ma non possiamo immaginare nel verso classico un gioco continuo di modulazioni temporali varianti l’ἀγωγή da piede a piede, senza costruire un vero e proprio assurdo ritmico31. L’estensione sistematica della teoria logaedica è opera del Westphal, che colle tre edizioni della sua celebre Metrica, pubblicate colla collaborazione del Rossbach32, dominò quasi incontrastato fino al sorgere della scuola metrica storica. I fondamenti della teoria sono posti già in modo definitivo fin dalla prima edizione33, col principio della isocronia (Taktgleichheit) e col richiamo alla testimonianza di Dionigi come sostegno alla postulazione di lunghe meno lunghe. Ogni piede, in altre parole, diventa una battuta nel senso musicale moderno. L’esempio classico per rendere chiara la teoria westphaliana è il modo con cui viene da lui considerato il gliconeo: esso è un logaedo deuterodattilo, col dattilo, cioè, in seconda sede, in contrapposto, ad esempio, ai due dimetri coriambici col coriambo rispettivamente al primo e al secondo metron, che sarebbero ri-

|| 30 In realtà la prassi moderna limita l’uso di «modulazione» al cambio di tonalità, per cui, nel caso, va specificato che si tratta di modulazione ritmica. Sulla μεταβολή armonica v. Aristox., el. harm., p. 38 Meib. (47.17 ss. Da Rios), Cleon., isag., § 13 p. 204.19 ss. Jan. Sui vari tipi di μεταβολή, fra i quali è elencata anche quella ritmica, V. Bacch., § 50 p. 304.6 Jan. Per la μεταβολὴ ϰατ’ἀγωγήν v. Ar. Quint. p. 42 Meib. (27.34 s. Jahn). In Dionigi la μεταβολή ha significato generico e riguarda le variazioni di stile in generale (pp. 37.11, 38.14, 39.19, 40.12, 46.14, etc.; v. spec. l’intero cap. XIX, dove, a p. 84.12 ss., si parla anche della μεταβολή ritmica). 31 Non so a chi possa apparire convincente la comparazione con alcune musiche (popolari e non) che cambiano ritmo di battuta in battuta o addirittura nell’ambito della stessa battuta. Quello che è possibile in musica (e che, del resto, è realizzato in poche musiche) non si può trasferire al verso antico. V., contro la μεταβολή continua, quanto dice il GOODELL, Chapters, cit., p. 203 ss. 32 Per inquadrare il musicalismo westphaliano nella ricerca del secolo scorso, converrà ricordare che gran parte dei frammenti della musica greca furono pubblicati posteriormente: dell’epitafio di Sicilo si scoprì la notazione musicale nel 1891–93, il frammento dell’Oreste fu pubblicato nel 1893, gl’inni delfici nel 1893–94. Solo gl’inni alla Musa, a Helios e a Nemesi erano noti fin dal Rinascimento (da Vincenzo Galilei in poi) ed erano stati pubblicati colla decifrazione dei segni musicali da F. Bellermann nel 1840–41. Cf. C. VON JAN, Musici Scriptores Graeci, Suppl., Melodiarum reliquiae, Leipzig 1899. 33 Metrik1, I, p. 146 ss. V. formulazioni sostanzialmente uguali in Metrik2, II, p. 248 ss.; Metrik3, I, p. 6 s.; III, 2, pp. 1o ss., 507–527.

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spettivamente protodattili e tritodattili34. L’arbitrarietà del sistema è evidente soprattutto se si pensa alla postulazione del principio d’isocronia: il piede bisillabico in prima sede (schematicamente un trocheo), il dattilo, il trocheo successivo e il piede finale (catalettico con protrazione) – tutto questo nel gliconeo comune – venivano tutti e quattro equiparati quanto al valore temporale. E qui dava buon gioco la testimonianza di Dionigi: i dattili cosiddetti ciclici, con la loro minor durata, potevano stare in isocronia coi trochei. Oltre alla isocronia, c’era poi anche l’arbitraria divisione ritmica del verso, che portava il Westphal a rinnegare la scansione coriambica, che sembra la più probabile ed è del resto anche autorevolmente attestata nella tradizione antica35. Inutile poi dire quanto astorica fosse la sostanziale equiparazione, sotto il segno dell’isocronia, di versi tanto differenti fra loro come i versi eolico–coriambici e i dattilo–epitriti36. Particolarmente incoerente ci appare il Westphal quando, nella terza edizione, cerca di fare parzialmente macchina indietro in considerazione delle critiche che gli vengono mosse e limita così il valore della testimonianza di Dionigi ai soli dattili recitativi dell’epica37: resta comunque, anche con questa attenuazione, la più macroscopica delle conseguenze tratte dalla testimonianza di Dionigi, e cioè l’isocronia in tanti e fra loro diversi metri lirici38. Siamo qui di fronte a un tentativo in grande stile di razionalizzare la metrica classica secondo schemi a cui es|| 34 V. spec. Metrik2, II, p. 241 ss. A p. 718 ss. (cf. Metrik3, III, 2, p. 527 ss.) si usano i termini di gliconeo primo, secondo e terzo (il gliconeo comune sarebbe il secondo). 35 V. W. J. W. KOSTER, Traité de métrique grecque3, Leiden 1962, p. 222 n. 1, dov’è citata la scansione coriambica di Cesio Basso. Che il gliconeo sia verso coriambico, e legato ai vari tipi di dimetro coriambico, è ormai patrimonio comune fin dal famoso articolo del Wilamowitz (1902: cf. Griechische Verskunst, Berlin 1921, p. 210 ss.). 36 Per l’isocronia dei dattilo–epitriti v. ROSSBACH–WESTPHAL, Metrik1, III, p. 400 ss. e ROSSBACH– WESTPHAL, Metrik3, III, 2, p. 425 ss. 37 V. le critiche in J. CAESAR, Grundzüge der griechischen Rhythmik im Anschluss an Aristides Quintilianus erläutert, Marburg 1861, p. 161 s. Pur rifiutando il richiamo westphaliano all’ἀλογíα aristossenica, il Caesar non ha la forza di uscire completamente dal logaedismo. Si tratta di una posizione simile a quella del Boeckh, criticata sopra: il rapporto interno del dattilo resta di 1 : 1 ed è semplicemente l’ ἀγωγή che contrae alcuni dattili rispetto agli altri. Ma come si può postulare una durata «media» del dattilo, necessaria per stabilire quali dattili siano più veloci rispetto agli altri nello stesso verso? V. ancora a p. 241. (È la stessa assurda posizione di WESTPHAL, Metrik2, I, p. 636, dove i piedi ciclici sarebbero πόδες ῥητοί con χϱόνοι ἄλογοι). La famosa ritrattazione del Westphal è in Metrik3, I, p. 49 ss. e spec. III, 1, p. 13 ss., dov’essa è aperta e dove si cita il Caesar. V. poi un barlume dell’interpretazione «stilistica» di Dionigi nella seconda edizione (Metrik2, I, p. 638, cf. II, p. 345), là dove si dice che non tutti i dattili sono ciclici, ma solo quelli che hanno una rasche Beweglichkeit und Lebendigkeit. 38 Non era il caso, quindi, di rallegrarsi troppo per la pretesa «conversione» del Westphal, come fecero, ad es., O. CRUSIUS, «Liter. Centralbl.» 1887, col. 1501 e H. WEIL, Études, cit., p. 92 s.

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sa non si lascia piegare, e cioè a schemi musicali. Lo Hermann, che pure a modo suo aveva razionalizzato, aveva almeno sul Westphal il pregio di non sentire alcun bisogno di richiamarsi alla tradizione antica, risparmiandosi così in genere la fatica di falsarla39. Nuova conferma della già palese arbitrarietà ci viene data dalle incertezze nella misurazione ritmica del dattilo ciclico40, che è triste retaggio di discordia per tutto il logaedismo. Dalla pubblicazione del primo volume della prima edizione della metrica di Rossbach e Westphal (1854), fino quasi ai giorni nostri, la teoria logaedica diventa la pietra dello scandalo fra i metricisti. Da un netto prevalere dei logaedici fino alla fine del secolo, si passa lentamente colla maggioranza all’altra sponda, soprattutto in seguito alla serrata ed agguerrita polemica antilogaedica del Weil41. Sarà interessante qui ricordare come, sotto la suggestione della teoria logaedica colla sua equiparazione di dattili a trochei e colla misurazione dattilica del gliconeo, sia sorta una teoria, quella di W. Christ42, che pretendeva di spiegare la rigidità degli schemi metrici oraziani coll’influenza di dottrine metriche antiche da Orazio stesso seguite: col testo di Orazio e dei grammatici alla mano,

|| 39 Finalmente, comunque, un momento di stanchezza in Metrik3, III, 2, p. 518: si viene a riconoscere che la tradizione antica ha conservato ben poco per la costruzione della teoria logaedica. 40 L’unico punto fermo è nel Westphal il valore trocaico (cioè di tre more) dato al dattilo, l’equiparazione, cioè, dei dattili ai trochei (d’accordo collo Apel e col Boeckh). Ed ecco le varie misurazioni del Westphal: 1½ ½ 1 (Metrik1, I, p. 138); 1⅓ ⅔ 1 (Metrik2, I, pp. 527, 635 ss.; II, p. 331 ss; cf. System der antiken Rhythmik, Breslau 1865, p. 181 s., dove si trova per la prima volta); 1½ ¾ ¾ (Metrik3, III, 1, p. 365 ss., dove cede implicitamente al Caesar, contro cui aveva però precedentemente polemizzato in Metrik2, I, p. 635 ss.). Altri logaedici danno poi al trocheo il valore di quattro more (equiparano cioè i trochei ai dattili): Voss, Lehrs, Schmidt, etc. (v. H. JUSATZ, De irrationalitate studia rhythmica, «Leipziger Studien» 14 1893, p. 176; WHITE, The Verse, cit., pp. XIII s. e 169 s.). 41 H. Weil polemizzò per più di quarant’anni contro la teoria logaedica. I suoi scritti sulla metrica sono raccolti in Études, cit., Paris 1902. V. soprattutto pp. 191 ss., 203 ss. 42 W. CHRIST, Die Verskunst des Horaz im Lichte der antiken Ueberlieferung, «Sitzungsber. K. Akad. d. Wiss.» 1868, I, 1, München 1868. Singolare: il Christ, che anche nella sua metrica è così fortemente sotto l’influsso del Westphal, si dichiara qui indifferente alla misurazione ciclica del dattilo (op. cit., p. 19). Nel manuale (2 1879, p. 74 s., per cui v. appresso) l’accetterà in pieno. Resta comunque la suggestione logaedica, proiettata nel presunto manuale seguito da Orazio, che sarebbe così divenuto seguace della derivatio dei vari metri dal trimetro e dall’esametro (per cui v. spec. F. LEO, Die beiden metrischen Systeme des Altertums, «Hermes» 24 1889, pp. 280–301). La westphaliana scansione dattilica dei gliconei sarebbe, così, la scansione oraziana.

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essa è stata definitivamente confutata da R. Heinze43. Logaedico ante litteram, o meglio boeckhiano, era stato F. Bellermann44. Logaedici di più o meno stretta osservanza, a seconda che accettassero tutte o non tutte le conclusioni del Westphal, sono stati J. Caesar45, W. Brambbach46, J. Η. H. Schmidt47, F. A. Gevaert48, W. Christ49, F. Zambaldi50, H. Gleditsch51. Fra i più recenti ricorderemo C. Del Grande52. La lista si potrebbe allungare e comprenderebbe la quasi totalità degli studiosi di metrica fino ad un certo momento53: la testimonianza di Dionigi era più o meno esplicitamente accettata come fondamento, ma in tutti operò comunque fortemente la suggestione musicale54. La enorme diffusione della dot|| 43 R. HEINZE, Die lyrischen Verse des Horaz, «Verhandl. d. Sächs. Akad. d. Wiss.», B. 70, H. 4, Leipzig 1918 44 F. BELLERMANN, Die Hymnen des Dionysios und Mesomedes, Berlin 1840. 45 J. CAESAR, Die Grundzüge, cit., Marburg 1861. 46 W. BRAMBACH, Rhythmische und metrische Untersuchungen, Leipzig 1871. A p. 168 ss. l’a. è per un logaedismo moderato, che respinge le divisioni interne del dattilo leggero e che accetta semplicemente un irrational verkürzter 2/4 – Takt. V. poi a p. 17 ss. sostanzialmente respinta l’isocronia dei dattilo–epitriti. 47 J. Η. H. SCHMIDT, Die Kunstformen der griechischen Poesie und ihre Bedeutung, voll. I–IV, Leipzig 1868–1872. Ho a disposizione la riduzione dall’opera maggiore, tradotta (An Introduction to the Rhythmic and Metric of the Classical Languages, transl. by J. W. White, Boston 1883): v. spec. § 13 ss. (p. 43 ss.). 48 F. A. GEVAERT, Histoire et théorie de la musique dans l’Antiquité, I–II, Gand 1875–1881: v. spec. II, pp. 52 ss., 115 ss. 49 W. CHRIST, Metrik der Griechen und Römer2, Leipzig 1879, spec. p. 74 ss. (con atto di fede totale nella testimonianza di Dionigi; è per la misurazione trisema del dattilo). 50 F. ZAMBALDI, Metrica greca e latina, Torino 1881, pp. 83 ss., 375 ss. Per la isocronia v. p. 53 s. 51 H. GLEDITSCH, Metrik der Griechen und Römer, München 1901 (Handbuch d. Altertumswiss., II, 3), pp. 113 (e n. 2: la testimonianza di Dionigi), 173 ss. (i logaedi). 52 In C. DEL GRANDE, Sviluppo musicale dei metri greci, Napoli 1927, p. 15 V. la chiara professione di fede logaedica: «pongo a base d’ogni ricostruzione metrica, per quant’è possibile, l’unità di tempo, sì che molti sistemi ritenuti misti per me non saranno tali, a cominciare dai logaedi e dai dattilo–epitriti». Il Del Grande ha abbandonato da ultimo le vecchie posizioni: v. La metrica greca (Enciclopedia Classica, V), Torino 1960, pp. 183 (per quanto riguarda l’isocronia), 275 s. (svalutazione della testimonianza di Dionigi dal punto di vista metrico). 53 V., per gli altri, la rassegna di M. LENCHANTIN DE GUBERNATIS, Problemi e orientamenti di Metrica Greco–Latina (in Introduzione alla Filologia Classica, Milano, Marzorati, 1951), p. 846 ss. Anche il Lenchantin è logaedico, specie nelle sue opere più antiche, benché dia una interpretazione piuttosto prudente del passo di Dionigi (op. cit., p. 845). Fra i logaedici italiani ricorderemo ancora E. Romagnoli, per l’importanza che ha avuto il suo insegnamento all’università di Roma. 54 Un recente esempio di sfruttamento in direzione musicale del passo di Dionigi è quello di TH. GEORGIADES, Der griechische Rhythmus, Hamburg 1949, pp. 98–121. L’a. vuole equiparare il ritmo del dattilo con lunga «irrazionale» a quello del συϱτὸς ϰαλαματιανός, danza popolare pe-

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trina si può misurare dalle incertezze che alcuni, antilogaedici per scuola, ebbero ad esempio nel rifiuto della battuta e dell’isotemporalità: così un allievo del Weil, P. Masqueray55. La polemica antiwestphaliana ha i suoi rappresentanti più significativi, oltre che nel Weil, in O. Crusius, F. Blass, T. D. Goodell, J. W. White, O. Schroeder, U. von Wilamowitz–Moellendorff56. Anche qui sarebbe di qualche interesse allungare la lista, se il logaedismo non fosse ormai completamente morto: i recenti più autorevoli manuali lo ignorano del tutto. *** Il secondo filone della interpretazione metrica è quello che si può schematizzare nella linea Hermann (Maas) – E. Fraenkel – Wifstrand. Questi studiosi non hanno creato audaci teorie sulla testimonianza di Dionigi, né si sono lasciati fuorviare dai principi di base della musica moderna, come hanno fatto il Westphal e la sua scuola: si sono semplicemente serviti di Dionigi per spiegare alcuni fenomeni della metrica storica, seguendo un più rigoroso metodo filologico. G. Hermann57 pensò che l’affermazione che credeva di trovare in Dionigi, che cioè il longum non avrebbe la durata normale di una lunga, fosse giustificata dal fatto che nel dattilo il longum stesso non si risolve mai in due brevi58. Per Hermann, che segue da vicino la testimonianza di Dionigi, gli anapesti si dividono in cicli|| loponnesiaca. Partendo da una ipotesi genetica dell’esametro come verso legato alla danza, vuol vederne addirittura nel συϱτός una continuazione o proiezione moderna. 55 P. MASQUERAY, Traité de Métrique grecque, Paris 1899 (cito dalla traduzione di B. Plessner, Leipzig 1907). È in una posizione di moderato scetticismo. A § 320 ss. accetta come logaedici solo i versi che così chiama Efestione (v. sopra p. 11 s. n. 20), estendendo analogicamente ad alcuni tipi simili dei tragici. A §§ 322 e 355 afferma comunque la necessità della parità di battuta, visto che i versi di cui tratta sarebbero riservati al canto. Ma a § 251 ss. respinge la scansione logaedica westphaliana per i versi coriambico–giambici, specie per il gliconeo. A § 253 respinge il valore metrico della testimonianza di Dionigi e del dattilo ciclico, ma ammette come cosa fuor di dubbio la tritemporalità dei dattili in Soph., O. C., 676–689. 56 Della maggior parte degli antilogaedici o si son già citate le opere o si parlerà in seguito in occasione dell’interpretazione stilistica di Dionigi. 57 G. HERMANN, Elementa doctrinae metricae, Leipzig 1816, p. 317 s., dov’è citato Dionigi (sia il passo del cap. XVII, sia il passo del cap. XX, che si vedrà in seguito). Per l’anapesto v. p. 369 s. 58 Contro tale spiegazione v. E. KALINKA, Griechisch–römische Metrik und Rhythmik im letzten Vierteljahrhundert, Bursians Jahresber., B. 250, Leipzig 1935, p. 330: la lunga irrazionale del metron giambico può esser soluta in due brevi, il che toglierebbe ogni valore probante alla insolubilità del longum del dattilo. Recentemente S. TIMPANARO JR., Questioni di metrica greca, «Ann. Sc. Norm. di Pisa», Ser. II Vol. XX, 1951, p. 16 ha dato della spiegazione hermanniana un’interpretazione di sviluppo storico: il passaggio dalla metrica eolica (isosillabica, cf. C. GALLAVOTTI, «Riv. Fil. Istr. Class.» N.S. 28 1950, p. 99) a quella ionica (postulante l’identità h = g g) sarebbe avvenuto per gradi in modo che, nel dattilo, [l’equivalenza] sarebbe «limitata alla tesi» (al biceps).

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ci e non ciclici e l’elemento distintivo fra le due categorie sarebbe la solubilità dell’«arsi» (il tempo forte nella terminologia hermanniana). Ma – e questa è una delle difficoltà più grandi per chi «prende sul serio» Dionigi anche in quello che non dice – la duplicità dei dattili, in più su quella degli anapesti, non solo non è testimoniata da Dionigi, ma crea difficoltà dal punto di vista sostanziale. Hermann l’accetta (o, meglio, la crea), questa seconda duplicità59, ma difficile gli riesce distinguere i dattili, secondo quanto afferma egli stesso, quum legibus utantur iisdem, et ne in illo quidem genere, quod iustae mensurae arsin habet, solutio, nisi in nomine proprio, reperiatur. Comunque, si quid in hac re tribuendum est, pensa di annoverare tra i ciclici l’esametro epico, il pentametro elegiaco e tutti quelli che systematis comprehendi solent, dimetros, tetrametros, hexametros. I non ciclici sarebbero solo i dattilo–epitriti60. È questo in fondo, fra i tanti che sono stati tentati, il più sobrio sfruttamento del passo di Dionigi, il meno carico di conseguenze. Un autorevole sostenitore del punto di vista di Hermann è stato recentemente Paul Maas61, che si è servito di Dionigi anche per spiegare la differenza fra dattili veri e dattili apparenti come il tipo anapestico ϰαì πεφóβημαι (Soph., Ai., 139). Maas62 pensa che la «riconoscibilità» di tali versi come anapestici vada spiegata non coll’ictus, bensì col fatto che das Verhältnis der Elemente verschieden war: e richiama il passo di Dionigi e l’interpretazione data di esso. Risponderemo che non c’è bisogno di scomodare non solo l’ictus, ma neanche il piede leggero. La «riconoscibilità» anapestica di simili forme pseudodattiliche, come ogni altro ambientamento di ritmi ambigui quanto a struttura, avveniva del tutto naturalmente solo se i versi erano inseriti nel loro contesto, che, nell’esempio citato sopra, era anapestico. Solo se isolato un metron del tipo ϰαì πεφóβημαι può essere, ed è infatti, ambiguo: ma niente

|| 59 Elementa, cit., p. 321. 60 I quali però avrebbero, come anche espressamente dichiarato, la stessa caratteristica dei ciclici, e cioè la normale insolubilità del longum. Saltano agli occhi le incongruenze del quadro faticosamente messo insieme da Hermann. 61 P. MAAS, Griechische Metrik2, Leipzig u. Berlin 1929, p. 14. In KOSTER, Traité, cit., p. 83 si osserva che il Maas non cita il suo illustre predecessore. Trovo del resto la stessa spiegazione della non solubilità del longum in H. USENER, Altgriechischer Versbau, Bonn 1887, p. 119 s. Hermanniano è pure J. HILBERG, Das Princip der Silbenwaegung, Wien 1879, p. 267 s. O. SCHROEDER, Griechische Singverse, «Philologus» Suppl. XVII Heft 2, 1924, p. 25 collega più genericamente quella che anch’egli impropriamente chiama irrazionalità colla insolubilità della Hebung nell’antico enoplio. V. ancora fra i più recenti, ad es., K. RUPPRECHT, Abriss der griechischen Verslehre, München 1949, p. 8 n. 1. 62 Metrik2, cit., p. 35 (Nachträge 1929, ad § 4).

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poteva impedire d’inserirlo in contesto dattilico, e sarà stato allora sentito come dattilico; mentre, in contesto anapestico, esso non può esser stato sentito se non come anapestico. Ricordiamo il pasqualiano «dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei». Eduard Fraenkel63 trova invece che alcuni versi dei poeti corali arcaici (Stesicoro, Ibico), col loro inizio quasi sempre bisillabico costituito da due brevi, sarebbero precisamente quelli che da Dionigi vengono chiamati anapesti ciclici, ma che sarebbero in sostanza dei dattili lirici con anacrusi. È il caso di ripetere qui, tra parentesi, quanto inopportuna sia la reintroduzione di un termine («anacrusi») che ha già fatto il suo tempo per essersi dimostrato completamente estraneo alla tradizione metrica antica64. I dattili sarebbero per Fraenkel, sempre usando la nostra terminologia, tutti leggeri, e gli anapesti si distinguerebbero in normali e ciclici, i quali ultimi avrebbero coi dattili in comune l’«irrazionalità» (e la conseguente insolubilità del longum): sebbene inizianti con due brevi, sarebbero solo degli anapesti apparenti, completamente diversi dagli anapesti autentici65. Fraenkel li chiama «dattili ascendenti» (steigende Daktylen)66. E come sarebbero arrivati i ῥυθμιϰοí di cui parla Dionigi a fare una tale sottile distinzione fra le

|| 63 ED. FRAENKEL, Lyrische Daktylen, «Rhein. Mus.» 72 1917 pp. 161 ss. e 321 ss. La discussione delle testimonianze di Dionigi si trova a pp. 178 s. e 192 ss. Recentemente alla posizione del Fraenkel si è richiamato S. TIMPANARO JR., art. cit., pp. 16–18, che, oltre alla spiegazione storica riguardante il dattilo (cf. p. 22 n. 58), ne dà un’altra per l’anapesto (a p. 18), che, nella sua forma ciclica, apparterrebbe alla categoria degli «anapesti dorici non ancora ionizzati, che non hanno ancora né la solubilità dell’arsi né il raggruppamento in metra» . Considerandoli anapesti, rifiuta espressamente la spiegazione anacrusica di Fraenkel. 64 Ἀνάϰϱουσις in Strab. 9.3.10 ha il significato di «preludio musicale» (ed ugualmente ἀνάϰϱουμα in Corn., rhet., p. 353.1. Hammer in Spengel I2). Nella moderna prassi musicale il termine designa tutto ciò che precede il tempo in battere della prima battuta completa: «ritmo anacrusico», così, è il ritmo che attacca in levare, contrapposto a «ritmo tetico», che attacca in battere. Lo Hermann (Elementa,, cit., p. 11 s.; cf. p. 15) adottò per la prima volta il termine per designare quella parte del verso che precede il primo ictus: uno dei più grossi equivoci terminologici, che iniziò e favorì la confusione fra metrica e musica moderna, introducendo nella metrica il concetto musicale di battuta. 65 V. l’obiezione di WIFSTRAND, Von Kallimachos zu Nonnos, cit. oltre, p. 30 s.: se Dionigi, parlando del ciclico, lo contrappone al dattilo designandolo ἀντίστϱοφόν τινα τούτῳ ῥυϑμόν, si può solo trattare di una sottospecie di anapesti. Anche lasciando incerta la così precisa opposizione fra i due ritmi (e il valore dell’ἀντιστϱοφία, per cui cf. sopra p. 63 n. 14), quello che è certo è che non si può pensare se non a qualcosa di radicalmente diverso dai dattili. 66 O stesicorei (art. cit., pp. 182 n. 1, 193), da non confondere cogli stesicorei degli scoli pindarici, che corrispondono a tre metra epitritici (v. B. GENTILI, La metrica dei Greci, Messina–Firenze 1952, p. 108).

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due specie di anapesti? Avrebbero semplicemente «udito» dattili cantati e si sarebbero accorti che la lunga era οὐ τέλειος: e questa caratteristica li avrebbe aiutati a distinguere, fra quelli che apparentemente erano tutti anapesti, gli autentici dai falsi (dai ciclici, cioè)67. Fraenkel crede di trovare conferma alla sua tesi in un altro passo del de compositione verborum, che sarà opportuno esaminare per esteso: cap. XI, p. 42.15 Us.–Rad. ἡ μὲν γὰϱ πεζὴ λέξις οὐδενòς οὔτε ὀνόματος οὔτε ῥήματος βιάζεται τοὺς χϱόνους οὐδὲ μετατίϑησιν, ἀλλ’οἵας παϱείληφεν τῇ φύσει τὰς συλλαβὰς τάς τε μαϰϱὰς ϰαì τὰς βϱαχείας, τοιαύτας φυλάττει. ἡ δὲ μουσιϰή τε ϰαì ῥυϑμιϰὴ μεταβάλλουσιν αὐτὰς μειοῦσαι ϰαì παϱαύξουσαι, ὥστε πολλάϰις εἰς τἀναντία μεταχωϱεῖν. οὐ γὰϱ ταῖς συλλαβαῖς ἀπευϑύνουσι τοὺς χϱόνους, ἀλλὰ τοῖς χϱόνοις τὰς συλλαβάς. «La dizione prosastica, infatti, non fa violenza ai tempi di alcun nome o verbo né li altera, ma conserva le sillabe brevi e lunghe tali quali le ha assunte, secondo la loro natura; la musica e la ritmica, invece, le trasformano accorciandole ed allungandole, in modo da farle spesso passare al loro contrario: giacché non regolano i tempi secondo le sillabe, ma le sillabe secondo i tempi».

Dionigi aveva parlato in precedenza delle novità introdotte in campo musicale per quanto riguarda i rapporti fra accento (musicale: abbiamo nel cap. XI una delle testimonianze fondamentali, quella riguardante il passo dell’Oreste di Euripide) e note musicali. Segue poi, con le parole citate, quanto riguarda il ritmo delle parole, il ritmo in quanto più o meno rispettato dalla musica che ad esso si sovrappone (è chiaro che il ritmo normale del discorso è quello chiamato prosastico, che non fa violenza alle quantità normali delle sillabe). L’argomento è abbordato in occasione della famosa polemica che lamenta che l’antico dominio della parola sulla musica non venisse più rispettato non solo nell’intonazione degli accenti, ma anche nella quantità delle sillabe68. È qui che il Fraenkel fa un passaggio non lecito. Ma cerchiamo di seguirlo, comunque, sul suo stesso terreno. La particolare quantità «decurtata» del longum vorrebbe essere, secondo le sue premesse, un fatto metrico, una caratteristica metrica del dattilo (riguardante cioè gli elementi), che si estenderebbe, tra parentesi, ad alcuni anapesti apparenti: e non la si può, quindi, spiegare con la musica che, a quanto ci

|| 67 Art. cit., p. 194 ss. 68 Per l’antico predominio della parola sulla musica v. ad es. Plat., resp., 398 d, 400 a, 400 d. V. anche il famoso fr. 1 D.2 di Pratina di Fliunte. Sulla stretta unione di parola e ritmo v. Plat., Crat., 424 b, legg., 669 de. Cf. anche KOLLER, «Glotta» 35 1956, p. 23 ss., dove si discutono anche le testimonianze dionisiane del cap. XI e del cap. XXII. Cf. ancora, in Dionigi, de Isocr., p. 72.2 ss. Us.–Rad.

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viene espressamente dichiarato, ha il potere di alterare le quantità normali delle s i l l a b e , sostituendo ad esse valori nuovi ad arbitrio69. In altre parole, se qui si vuol dare una spiegazione metrica, si devono prendere in considerazione gli e l e m e n t i , e non le sillabe: ora, la musica non agisce sugli elementi, le cui astratte quantità sono stabilite dalla metrica e che restano entro certi limiti fisse nella recitazione non musicale, bensì agisce sulle sillabe, i cui reciproci rapporti di lunghezza e brevità vengono ad essere da essa svisati. Il fatto metrico, insomma, non è minimamente toccato dalla musica, che intervenga eventualmente a sovrapporsi alla parola: e colla spiegazione fraenkeliana insoluto resterebbe così, fra l’altro, anche il problema dell’insolubilità del longum. Che i ritmici, poi, abbiano «udito» differenze semplicemente nella durata delle s i l l a b e , nella esecuzione di tarde composizioni musicali, pare assai improbabile. Mi sembra addirittura da porre in dubbio la capacità di così sottili distinzioni uditive anche se, a voler essere più fraenkeliani di Fraenkel, volessimo affermare tale capacità almeno di fronte all’antica recitazione citarodica del verso epico. Supponiamo, infatti, che si voglia salvare l’affermazione dionisiana sul piano prosodico, che la si voglia cioè veder riferita alla effettiva i n c o m m e n s u r a b i l i t à della s i l l a b a lunga colla doppia breve: si sa, del resto, che l’equazione h = g g vale per la metrica ionica, mentre quella eolica la ignora totalmente70. Si verrebbe così ad attribuire a Dionigi l’affermazione di una verità linguistica più che evidente, che era chiara, come si vede da più testimonianze, anche agli antichi: e Dionigi stesso nel cap. XV del suo de compositione ci mostra che, al di fuori delle astrazioni della metrica, era ben capace di tener presente la realtà fonica estremamente varia del fenomeno quantitativo. Ma tale incommensurabilità, che dovrebbe essere totale e riferirsi a una vera e propria «elasticità» durativa, verrebbe invece da Dionigi predicata della lunga nei con|| 69 Anche volendo ammettere la musica come connaturata al verso lirico, come potrebbe una spiegazione simile applicarsi al verso recitativo epico? Questo ci porterebbe a troppo audaci ipotesi sulla resa sonora originaria del verso e ci farebbe, in più, dimenticare una difficoltà di fondo che coinvolge anche la musica dei versi cantati, e cioè che la musica di cui parla qui Dionigi è tarda sia rispetto all’epica che alla lirica arcaica. Contro la spiegazione musicale v. anche WIFSTRAND, op cit., p. 31. Già F. SPIRO, Der kyklische Daktylus und die lesbische Lyrik, «Hermes» 23 1888, pp. 234–258, polemizzando col Westphal, volle togliere valore alle parole di Dionigi affermando (p. 243) che Dionigi con ῥυϑμιϰοί si riferirebbe a musici e che si richiamerebbe a terminologia musicale. In sostanza, sia Spiro (con cui Fraenkel peraltro polemizza, art. cit., p. 194 s.) che Fraenkel «musicalizzano» Dionigi: l’unica differenza è che con questo il primo toglie e il secondo attribuisce valore al passo. 70 Cf. p. 71 n. 58. Mi sia lecito citare le chiare parole che cortesemente mi scrive, ad altro proposito, S. TIMPANARO JR. (18.4.1963): «la lunga = due brevi è il risultato di una stilizzazione, di una certa forzatura metrica della realtà prosodica».

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fronti della doppia breve solo in una direzione, e cioè per d i f e t t o , e richiederebbe una sensibilità acustico–misurativa che gli antichi stessi escludevano. E anticipiamo un argomento che sarà utile ancora in seguito e che si può opporre anche alla spiegazione, sopra riportata, di P. Maas (distinzione fra dattili e anapesti e conseguente «riconoscibilità»). Aristosseno, ponendo alla base di ogni percezione l’αἴσϑησις71, si mostra scettico sulla possibilità di accennare colla voce e, se mai, di afferrare coll’udito differenze così minute come un intervallo minore di un quarto di tono (la δίεσις): Aristox., el. harm., p. 14 Meib. (19.20 Da Rios) ἐπὶ μὲν οὖν τò μιϰϱòν ἅμα πως ἐοίϰασιν ἥ τ ε φ ω ν ὴ ϰ α ὶ ἡ α ἴ σ ϑ η σ ι ς ἐ ξ α δ υ ν α τ ε ῖ ν · οὔτε γὰϱ ἡ φωνὴ διέσεως τῆς ἐλαχίστης ἔλαττον ἔτι διάστημα δύναται διασαφεῖν οὐδ’ ἡ ἀϰοὴ διαισϑάνεσϑαι ὥστε ϰαὶ ξυνιέναι τί μέϱος ἐστὶ εἴτε διέσεως εἴτ’ ἄλλου τινòς τῶν γνωϱίμων διαστημάτων. «Per le quantità piccole, sembra che la voce e la sensazione siano tutt’e due insufficienti. Infatti la voce non è capace di render chiaro un intervallo minore della più piccola diesis, né l’udito è capace di distinguerlo in modo tale da comprendere quale parte sia della diesis o di qualunque altro degl’intervalli conosciuti».

In el. rhythm., p. 294 s. Mor. Aristosseno, avendo definito l’irrazionalità ritmica, di cui si parlerà in seguito, stabilisce un confronto coll’irrazionalità melodica e parla di rapporti che si possono render chiari ϰατὰ τοὺς τῶν ἀϱιϑμῶν μ ό ν ο ν λόγους: è escluso così che si possa parlare di vera e propria appercezione quantitativa. Essa era stata del resto esclusa a proposito della definizione stessa di ἀλογία (p. 294 Mor. ἔσται δ’ ἡ ἀλογία μ ε τ α ξ ὺ δ ύ ο λ ό γ ω ν γ ν ω ϱ ί μ ω ν τ ῇ α ἰ σ ϑ ή σ ε ι , τοῦ τε ἴσου ϰαὶ τοῦ διπλασίου, cf. p. 13). L’irrazionalità stessa, quella aristossenica, beninteso, quella cioè in tempo debole (a prescindere dalla sua indebita estensione al tempo forte, per cui v. a p. 13) è anch’essa considerata fuori dal campo dominato dall’αἴσϑησις: se la sua determinazione sta «nel mezzo fra due rapporti percepibili alla sensazione», è segno che essa percepibile non è o almeno che come tale non viene considerata. E allora – si chiederà – si deve concludere che l’irrazionalità delle sedi rispettivamente dispari e pari dei metra giambico e trocaico non fosse percepibile all’udito? Dal punto di vista quantitativo evidentemente no, a stare a quello che ci dice Aristosseno: lo stabilimento di «quantità intermedia fra lunga e breve» era solo uno strumento concettuale, un’astrazione numerica (che non trovava poi || 71 Per l’importanza dell’αἴσϑησις v. ABERT, Die Lehre vom Ethos, cit., p. 48 s. Ai luoghi aristotelici e pseudoaristotelici citati da Abert va aggiunto Ps.–Plut., de mus., 1143 f, 1144 b, c (dove l’educazione dell’αἴσϑησις è anche problema pedagogico). Per l’estrema sensibilità, comunque, al fatto quantitativo, v. Cic., or., 51.173, 53.178; etc.

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neanche una sua espressione numerica determinata). Ma un modo con cui il fenomeno dell’irrazionalità si sentiva doveva esserci – obietterà qualcuno: certamente c’era, ed era proprio l’impressione della continuità del ritmo giambico e trocaico anche in presenza di alcune lunghe che, beninteso solo in sedi particolari (rispettivamente le dispari e le pari), non arrivavano ad offuscare tali ritmi72. È notevole che anche nell’operetta di Dionigi si trovino frequenti richiami all’αἴσϑησις, come alle pp. 58.13, 59.2, 91.5, 93.7, 96.14 Us.–Rad.73. C’è poi un passo in cui, proprio nell’atteggiamento polemico per quanto riguarda l’appercepibilità o meno del quarto di tono, è evidente il richiamo alla tradizione aristossenica dell’αἴσϑησις (e il riferimento a el. harm., p. 14 Meib. citato sopra): Dion. Hal., de comp. verb., cap. XI, p. 41.13 Us.–Rad. ἡ δὲ ὀϱγανιϰή τε ϰαὶ ᾠδιϰὴ μοῦσα διαστήμασί τε χϱῆται πλείοσιν, οὐ τῷ διὰ πέντε μόνον, ἀλλ’ ἀπò τοῦ διὰ πασῶν ἀϱξαμένη ϰαὶ τò διὰ πέντε μελῳδεῖ ϰαὶ τὸ διὰ τεττάϱων ϰαὶ 〈τὸ διὰ τϱιῶν ϰαὶ τòν〉 τόνον ϰαὶ τὸ ἡμιτόνιον, ὡ ς δ έ τ ι ν ε ς ο ἴ ο ν τ α ι , ϰ α ὶ τ ὴ ν δ ί ε σ ι ν α ἰ σ ϑ η τ ῶ ς . «La musica strumentale e vocale usa vari tipi d’intervallo, non solo la quinta, bensì, cominciando dall’ottava, intona e la quinta e la quarta e la terza e il tono e il semitono e, come alcuni ritengono, anche il quarto di tono, in modo che si possa distinguerlo coll’udito».

Per l’espressa applicazione della teoria dell’αἴσϑησις alla ritmica, che è quanto qui maggiormente ci interessa, ci danno poi informazione altri passi aristossenici: Aristox., el. rhythm., p. 268 Mor. ὅτι μὲν οὖν πεϱὶ τοὺς χϱόνους ἐστὶ ϰαὶ τὴν τούτων α ἴ σ ϑ η σ ι ν , εἴϱηται μὲν ϰαὶ ἐν τοῖς ἔμπϱοσϑεν, λεϰτέον δὲ ϰαὶ πάλιν νῦν, ἀ ϱ χ ὴ γ ὰ ϱ τϱόπον τινὰ τῆς πεϱὶ τοὺς ῥυϑμοὺς ἐπιστήμης ἐστὶν αὕτη. «Che si tratta dei tempi e della sensazione (con cui vengono percepiti) è stato detto già in precedenza; ma conviene ripeterlo ancora adesso, dal momento che la sensazione è in certo modo il primo principio della scienza ritmica». Aristox., el. rhythm., p. 276 Mor. ... ἀλλ’ ὀλίγοι μέν τινές εἰσιν οἱ τϱόποι ϰαϑ’ οὓς συντίϑεται τὰ εἰϱημένα πϱὸς ἄλληλα, πολλοὶ δέ ϰαϑ’ οὓς οὔτε ἡ φωνὴ δύναται συντίϑεσϑαι φϑεγγομένη, ο ὔ τ ε ἡ α ἴ σ ϑ η σ ι ς π ϱ ο σ δ έ χ ε τ α ι , ἀ λ λ ’ ἀ π ο δ ο ϰ ι μ ά ζ ε ι … πολλαὶ μὲν γὰϱ αὐτῶν [scil. τῶν χϱόνων] συμμετϱίαι τε ϰαὶ τάξεις ἀ λ λ ό τ ϱ ι α ι φ α ί -

|| 72 V. «Riv. Fil. Istr. Class.» 91 1963, p. 69 s. 73 Si veda anche il richiamo frequente all’ἀϰoή, come a pp. 6.10, 36.11, 43.19, 100.12, etc. Si vedano, poi, le considerazioni sul senso ritmico innato a p. 38.15 ss. (spec. 39.8 ss.).

78 | Sezione 1: Metrica ν ο ν τ α ι τ ῆ ς α ἰ σ ϑ ή σ ε ω ς ο ὖ σ α ι , ὀλίγαι δέ τινες οἰϰεῖαί τε ϰαὶ δυναταὶ ταχϑῆναι εἰς τὴν τοῦ ῥυϑμοῦ φύσιν74. « . . . ma pochi sono i modi in cui le cose di cui s’è parlato (suoni alfabetici e suoni musicali) si possono comporre le une colle altre, e molti d’altra parte sono i modi secondo i quali né la voce, nel suono, può comporsi, né la sensazione percepisce, ma resta non tocca (rifiuta). ... molti sono infatti, nei tempi, quei rapporti quantitativi e quelle sequenze che appaiono estranei alla sensazione, mentre pochi ve ne sono che le sono familiari e che son capaci di rientrare nella natura del ritmo».

Una tale posizione di preminenza data all’αἴσϑησις ha, del resto, il suo luogo naturale nella teoria aristossenica. In polemica colla teoria pitagorica, che voleva fare del numero il principio primo della musica, Aristosseno, continuando la polemica aristotelica contro la teoria numerica75, afferma il valore della sensazione76. Tale atteggiamento, che dà già i suoi frutti, come s’è visto, nella scienza ritmica (col riportare al metro della sensazione quello che alla sensazione è destinato), non sarà senza conseguenze, tra parentesi, anche per l’estetica musicale e particolarmente per la teoria dell’ethos77. Ma quello che più conta, al di fuori di formulazioni teoriche che più o meno valorizzino 1’αἴσϑησις, è l’affermazione esplicita che alcuni fenomeni sono al di fuori di essa: così è per alcuni intervalli della scala musicale, così è per la misura dell’ἀλoγία, così non potrebbe non essere per quell’ἀλογία in tempo forte che, come si è già visto e come si vedrà meglio in seguito, è in contraddizione colle testimonianze e sarebbe comunque un mostro ritmico. E che in Dionigi si ritrovino tracce di questa dottrina || 74 V. la stessa terminologia nel P. Oxy. 9, col. IV, 19 ss.: ῥυϑμοὺς μὴ δοϰιμαζομένους ὑπὸ τῆς αἰσϑήσεως. V. ancora el. rhythm., pp. 280 s., 290 Mor. 75 Condotta sia contro i Pitagorici che contro gli Accademici: v. spec. met., A 6 ss., M 6 ss., N 2 s. 76 Il passo principale per l’αἴσϑησις musicale, da cui compare la polemica coi pitagorici «matematizzanti», è Aristox., el. harm., p. 32 Meib. (41.13 ss. Da Rios): si v. spec. 41.17 Da Rios ϰαὶ τούτων ἀποδείξεις πειϱώμεϑα λέγειν ὁμολογουμένας τοῖς φαινομένοις, οὐ ϰαϑάπεϱ οἱ ἔ μ π ϱ ο σ ϑ ε ν , οἱ μὲν ἀλλοτϱιολογοῦντες ϰαὶ τ ὴ ν μ ὲ ν α ἴ σ ϑ η σ ι ν ἐ ϰ ϰ λ ί ν ο ν τ ε ς ὡς οὖσαν οὐϰ ἀϰϱιβῆ, νοητὰς δὲ ϰατασϰευάζοντες αἰτίας ϰαὶ φάσϰοντες λόγους δέ τινας ἀϱιϑμῶν εἶναι ... La contrapposizione delle due scuole doveva essere un luogo comune del mondo della cultura, dal momento che troviamo opere come quella di Didimo alessandrino: πεϱὶ διαφοϱᾶς τῆς Πυϑαγοϱείου μουσιϰῆς πϱὸς τὴν ᾽Aϱιστοξένειον (Porph., ad Ptol. harm., p. 5.11 Düring). Per la questione v. P. MARQUARD, Die harmonischen Fragmente des Aristoxenus, Berlin 1868, pp. 285–290. 77 Cf. p. 47 n. 109. V. come R. SCHÄFKE, Geschichte der Musikästhetik in Umrissen, Berlin 1934 distingue, in tutta la prima parte del libro, fra musikalische Noëtik (la teoria pitagorica) e musikalische Aesthetik (la teoria musicale posteriore, che si scioglie dalla soggezione al principio metafìsico del numero, per considerare direttamente la sensazione colta dall’udito).

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non farà meraviglia a chi consideri quanto abbondante sia il materiale peripatetico da lui assorbito. Quanto detto fin qui in polemica col Fraenkel lascia comunque intatto il valore degli accostamenti stilistici da lui fatti nell’ambito della poesia arcaica. Dei tipici versi stesicorei e ibicei inizianti con doppia breve, sia che li si voglia chiamare dattili sia anapesti, è messo in rilievo, anche nella poesia più tarda e fino ai tragici, il contesto spesso dattilico. Si tratta di un’osservazione di grande importanza per chi sappia quanto peso abbia nella metrica antica il contesto, per illuminare soprattutto la sensibilità ritmica dei vari poeti ed anche, alle volte, per determinare la natura di versi particolari: ancora una volta ricorderemo il pasqualiano «dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei». Ma da qui a volersi ad ogni costo collegare colla teoria antica, per costruirvi sopra una teoria moderna, ci corre. Una nuova ipotesi, in sé assai ingegnosa, ci viene da A. Wifstrand78, che parte dalla difficoltà di spiegarsi quello che si chiama, nella poesia esametrica, «allungamento in arsi», una volta che si sia respinta, come quasi tutti i filologi moderni hanno fatto, la spiegazione dell’azione allungante dell’ictus. La presenza di sillabe brevi nel luogo di alcuni longa verrebbe spiegato, così, dal Wifstrand col fatto che il longum corrisponderebbe alla durata di meno di due more. In questo modo resterebbero comunque inspiegati due fatti: l’estrema rarità del fenomeno nella poesia dattilica e la sua assenza negli anapesti. Altri problemi che si vorrebbero risolvere dal Wifstrand in questa sede – e si apparentano arbitrariamente, perché sono di diversa natura – sono quello, già antico, dell’insolubilità del longum, la legge di Wernicke e il comportamento del digamma nel creare posizione79. Ed ecco il quadro che traccia, volendo dare realtà metrica al piede leggero di Dionigi. Distingue dai dattili (versi generalmente recitativi) gli anapesti (che possono essere di marcia o lirici). La stretta isocronia interna (cioè la perfetta equivalenza fra longum e biceps, o meglio fra i due elementi del piede) sarebbe necessaria soltanto ai versi di marcia, per l’ovvia ragione che su di essi dovrebbe appoggiarsi il passo di marcia. Gli anapesti cantati avrebbero invece l’«irrazionalità» del secondo elemento, dal momento

|| 78 A. WIFSTRAND, Von Kallimachos zu Nonnos, Lund 1933, pp. 26–34. 79 V. op. cit., p. 30: sie (le parole di Dionigi) erklären nicht nur die Nichtauflösbarkeit des longum, sondern auch, dass die Dehnung einer kurzen Silbe im longum (allungamento epico e «posizione» per digamma) leichter ist als im biceps (mancanza di «posizione» per digamma), und dass eine als schwach empfundene Positionslänge leichter im longum als im biceps geduldet wurde (per la legge di Wernicke). Das longum war nämlich kürzer.

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che ad essi non sarebbe richiesta la rigorosa isocronia: ed essi sarebbero i ciclici. Si fa notare infatti che, fra i due esempi portati da Dionigi per l’anapesto, solo il primo ha la regolare dieresi dopo il primo metron; mentre il secondo (che sarebbe lirico, e cioè ciclico) non ce l’ha, susseguendosi i due metra in sinafia: e la mancanza della pausa determinata dalla dieresi porterebbe ad un accorciamento della lunga. A chi gli obietta, però, che nei versi di marcia non si ha fine di parola dopo ogni piede (come, date le premesse, sarebbe necessario), risponde, con evidente imbarazzo, che so starr war jedoch das Sprachmaterial nicht, und es würde auch zu einer ungeheuren Einförmigkeit geführt haben, wenn es möglich wäre80. L’affermazione, in sé pienamente giusta, dell’importanza ritmica dominante della dieresi mediana non basta a fondare l’ipotesi. E i dattili? Essi sarebbero tutti con lunga «irrazionale»: lusso che ad essi sarebbe permesso, visto che si tratta di versi per lo più recitativi (o lirici). Per i pochi casi di dattili di marcia (come Soph., O.R., 151 ss.) viene notato che il longum si trova sempre (eccetto pochissimi casi) prima o dopo fine di parola: con tali pause sarebbe assicurata l’isocronia interna, necessaria, come s’è detto, a versi di marcia. Vale la pena di seguire il Wifstrand sul suo stesso terreno, per vedere a cosa può condurre il rigore filologico, quando si debbano trarre tutte le conseguenze dalle premesse. Mentre le pause dopo il longum, con la loro forza allungante, si potrebbero ancora considerare elemento equiparatore del metro al passo di marcia81; come si potrà mai considerare sullo stesso piano la pausa prima del longum? Basterebbe considerare la difficoltà che presenterebbe il primo longum del verso: la durata della sillaba ad esso corrispondente comincerebbe, rispetto al passo di marcia, in controtempo82. Senza contare che il Gentili83 ha richiamato degli esempi di dimetri anapestici senza dieresi (quindi, secondo il Wifstrand, veri anapesti lirici, cioè ciclici, che dovrebbero avere il secondo elemento equivalente a meno di due more) con il secondo elemento del secondo piede sciolto in due brevi84.

|| 80 L’esempio citato, Aesch., Pers., 24 s., di dimetri con fine di parola dopo ogni piede, non dice molto, appunto per la sua eccezionalità (che l’a. comunque riconosce). 81 In realtà la pausa non allunga: serve solo da riempitivo nel contesto ritmico. V. la testimonianza chiarissima di Mar. Victor. VI p. 63.4 ss. Keil (dove si cita Aristosseno). 82 In tempo debole, rispetto al passo di marcia, che sarebbe necessariamente in tempo forte: è evidente infatti che, in caso di pausa precedente il longum, non si potrebbe mai parlare di protrazione, ma solo di sincope. 83 B. GENTILI, Metrica greca arcaica, Messina–Firenze 1950, p. 42. 84 V. ancora gli argomenti addotti contro il Wifstrand dal KOSTER, Traité, cit., p. 84. In A. M. DALE, Greek Metric 1936–1957, «Lustrum» 2 1958, p. 35 trovo citato un nuovo tentativo di spiegazione metrica, che si può accodare alla corrente che abbiamo definito come «filologica»: H.

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*** Una simile tempesta d’ipotesi e di teorie sembra però davvero fuori luogo, se parte dal passo di Dionigi. Già si è visto come estremamente probabile che l’affermazione di lui non vada intesa nel quadro della stretta tecnica metrica: le ipotesi su cui l’interpretazione «metrica» si è fondata sono apparse a una a una estremamente fragili. Al processo negativo occorre ora far seguire un processo costruttivo. L’interpretazione stilistica ha cominciato coll’annunciarsi attraverso una diffusa diffidenza che l’interpretazione metrica suscitava. Così è sostanzialmente nella prima voce che si leva contro il piede leggero, quella di F. Heimsoeth85, che non va comunque molto oltre una violenta polemica contro il logaedismo del Westphal, attraverso una generica svalutazione di Dionigi sia come veicolo di fonti più antiche sia come integratore autonomo di tali fonti. Merito dello Heimsoeth è l’aver posto in rilievo la particolare natura dei versi omerici citati da Dionigi. Si tratta di versi olodattili e ad essi è limitata l’osservazione fatta da quei ritmici che Dionigi cita86: quid igitur mirum – conclude – si in versibus holodactylis rem celerem describentibus dactylos celeriores sibi videbantur auscultare?87. La posizione del Weil, poi, è abbastanza qualificata dalla polemica antilogaedica, di cui s’è già parlato88. Molte voci ancora si levarono contro il piede leggero metricamente inteso, come quella di F. Hanssen89, di O. Crusius90, e ancora quella, autorevolissima, del Wilamowitz91. Ma in omaggio al buon sen-

|| PIPPING, Zur homerischen Metrik: eine statistische Untersuchung, «Soc. Scientiarum Fennica, Comm. Hum. Litt.», 9.6, Helsingfors 1935 (maggior frequenza, nei longa, di gruppi consonantici dopo lunghe come ω ed η, rispetto a lunghe «più lunghe» come ῶ ῆ ῳ ῃ ῷ ῇ: si eviterebbe, così, un eccessivo allungamento). 85 F. HEIMSOETH, De duplici quod fertur dactylorum et anapaestorum genere in rhythmis Graecorum commentatio, Ind. schol. Bonn 1875. 86 Le parole τούτου τοῦ ποδός vengono riferite al dattilo di quei versi in quibus rhythmici observationem suam fecerant (diss. cit., p. XI). 87 Diss. cit., p. XII. Per la maggior velocità dei versi olodattili v. p. 85 n. 103. 88 V. l’espresso rifiuto della testimonianza di Dionigi in Études, cit., pp. 192 s., 230. 89 F. HANSSEN, Ueber die sogennanten kyklischen Versfüsse, «Verh. d. 37. Vers. deutsch. Philol. u. Schulmänn. in Dessau, 1–4 Okt. 1884», Leipzig 1885, pp. 213–216: il piede leggero non ha fondamento, perché Dionigi Prosodie, nicht Rhythmik im Auge hat. 90 V. specialmente la recensione a ROSSBACH–WESTPHAL, Metrik3, III, 1 in «Lit. Centralbl.» 1887, col. 1500 ss.: ciclico in Dionigi designa semplicemente den leichten sprachlichen Bau di certi versi omerici. V. ancora «Philologus» 50 N. F. 4 1891, p. 171: l’affermazione di Dionigi va intesa lautphysiologisch, vom leichteren oder schwereren Bau der Füsse. 91 Griech. Versk., cit., p. 83: l’interpretazione metrica del passo di Dionigi è così sbagliata, dass ich jedem, der an den kyklischen Daktylus glaubt, auf den Kopf zusage, er hat den Dionysius nicht nachgelesen. V. ancora MAX. EGGER, Denys d’Halicarnasse. Essai sur la critique littéraire et la

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so, che sconsigliava l’interpretazione metrica, ci si limitava a negazioni generiche, astenendosi da ricerche terminologiche precise ed esaurienti, che avrebbero potuto dare maggior fondamento alla interpretazione stilistica. Il primo ad avviare una tale ricerca fu il Goodell92. Suo merito indiscutibile è l’aver istituito un avvicinamento terminologico fra «ciclico» e termini affini, che senza possibilità di dubbio appartengono alla sfera stilistica. L’argomentazione del Goodell sarà preziosa per la discussione che seguirà: del resto alcuni studiosi recenti, come il Gentili e il Koster93, ne hanno già riconosciuto il valore. *** Al passo famoso, citato in principio, ne va associato un altro, tolto dal cap. XX, che è tutto dedicato al πϱέπον, all’acconcio, all’appropriato. Fra gli altri esempi, Dionigi cita il verso della Νέϰυια omerica che, coll’armonia imitativa che egli stesso mette in risalto, descrive il rotolare al piano del macigno di Sisifo. Dion. Hal., de comp. verb., cap. XX, p. 92.9 Us.–Rad. αὖτις ἔπειτα πέδονδε ϰυλίνδετο λᾶας ἀναιδής [λ 598]. οὐχὶ συγϰυλίεται τῷ βάϱει τῆς πέτϱας ἡ τῶν ὀνομάτων σύνϑεσις, μᾶλλον δὲ ἔφϑαϰε τὴν τοῦ λίϑου φοϱὰν τὸ τῆς ἀπαγγελίας τάχος; ἔμοιγε δοϰεῖ. ϰαὶ τίς ἐνταῦϑα πάλιν αἰτία; ϰαὶ γὰϱ ταῦτ’ ἦν ἄξιον ἰδεῖν· ὁ τὴν ϰαταφοϱὰν δηλῶν τοῦ πέτϱου στίχος μονοσύλλαβον μὲν οὐδεμίαν, δισυλλάβους δὲ δύο μόνας ἔχει λέξεις. τοῦτ’ οὖν ϰαὶ πϱῶτον οὐ διίστησι τοὺς χϱόνους ἀλλ’ ἐπιταχύνει· ἔπειϑ’ ἑπταϰαίδεϰα συλλαβῶν οὐσῶν ἐν τῷ στίχῳ δέϰα μέν εἰσι βϱαχεῖαι συλλαβαί, ἑπτὰ δὲ μαϰϱαὶ οὐδ’ αὗται τέλειοι· ἀνάγϰη δὴ ϰατασπᾶσϑαι ϰαὶ συστέλλεσϑαι τὴν φϱάσιν τῇ βϱαχύτητι τῶν συλλαβῶν ἐφελϰομένην. ἔτι πϱὸς τούτοις οὐδ’ ὄνομα ἀπὸ ὀνόματος ἀξιόλογον εἴληφεν διάστασιν οὔτε γὰϱ φωνήεντι φωνῆεν οὔτε ἡμιφώνῳ ἡμίφωνον ἢ ἄφωνον, ἃ δὴ τϱαχύνειν πέφυϰεν ϰαὶ διιστάναι τὰς ἁϱμονίας, οὐδέν ἐστι παϱαϰείμενον. οὐ δὴ γίνεται διάστασις αἰσϑητὴ μὴ διηϱτημένων τῶν λέξεων, ἀλλὰ συνολισϑαίνουσιν ἀλλήλαις ϰαὶ συγϰαταφέϱονται ϰαὶ τϱόπον τινὰ μία ἐξ ἁπασῶν γίνεται διὰ τὴν τῶν ἁϱμονιῶν ἀϰϱίβειαν. ὃ δὲ μάλιστα τῶν ἄλλων ϑαυμάζειν ἄξιον, ῥυϑμὸς οὐδεὶς τῶν μαϰϱῶν οἳ φύσιν ἔχουσιν πίπτειν εἰς μέτϱον ἡϱωιϰόν, οὔτε σπονδεῖος οὔτε βαϰχεῖος, ἐγϰαταμέμιϰται τῷ στίχῳ, πλὴν ἐπὶ τῆς τελευτῆς οἱ δ’ ἄλλοι πάντες εἰσὶ δάϰτυλοι, ϰαὶ οὗτοι παϱαδεδιωγμένας94 ἔχοντες τὰς ἀλόγους, ὥστε μὴ πολὺ διαφέϱειν ἐνίους τῶν τϱοχαίων. οὐδὲν δὴ τὸ ἀντιπϱᾶττον ἐστὶν εὔτϱοχον ϰαὶ πεϱιφεϱῆ ϰαὶ ϰαταϱϱέουσαν εἶναι τὴν

|| rhétorique chez les Grecs au siècle d’Auguste, Paris 1902, p. 89 s. Per voci più recenti, v. KALINKA, Griechisch–römische Metrik, cit., p. 429 ss. 92 Τ. D. GOODELL, Chapters on Greek Metric, New Haven 1901, pp. 168–183. 93 B. GENTILI, Metr. gr. arc., cit., p. 44; W. J. W. KOSTER, Traité, cit., p. 85. 94 παϱαδεδ. codd.: παϱαμεμιγμένας Usener–Radermacher. La correzione è insostenibile: tre righe sopra si usa ἐγϰαταμέμιϰται per significare quella che dovrebbe essere esattamente la stessa cosa: e qui non sarebbe il caso di parlar di amore di varietà nell’espressione (v. in segui-

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φϱάσιν ἐϰ τοιούτων συγϰεϰϱοτημένην ῤυϑμῶν. «(λ 598). Non si può forse dire che le parole, così come sono in ordine, si arrotolano giù precipitandosi come il pesante masso, che, anzi, la velocità della dizione supera addirittura la corsa del masso? A me sembra proprio così. E quale, di nuovo, ne è la causa? Bisogna considerare questo: il verso che rappresenta la caduta del masso non ha nessuna parola monosillaba, e bisillabe ne ha solo due. Questo dunque, in primo luogo, non separa i tempi (della recitazione), ma li affretta; e poi, essendo il verso costituito da diciassette sillabe, ce ne sono dieci brevi, e sette sono lunghe, e queste per giunta non sono di durata completa: per forza succede, evidentemente, che la recitazione sia come condensata e contratta, trascinata dalla brevità delle sillabe. E ancora, oltre a questo, fra parola e parola non c’è intervallo apprezzabile: infatti non c’è nessuna vocale vicino a vocale, né consonanti continue o consonanti occlusive vicino a consonanti continue95, cose che per loro natura portano ad inasprire e a distaccare i collegamenti dei suoni. Non c’è, quindi, intervallo sensibile, dal momento che le parole non sono separate l’una dall’altra, ma sdrucciolano e sono trascinate giù insieme l’una coll’altra, e in un certo modo diventano tutte una sola per la nettezza dei suoni, come sono collegati. Ma la cosa più degna di ammirazione fra tutte è che nessuno dei ritmi lenti che per natura possono capitare nel metro eroico, né lo spondeo né il baccheo, s’inseriscono nel verso, eccetto che nell’ultima sede: tutti gli altri sono dattili, e questi colle lunghe irrazionali affrettate, in modo da non essere, alcuni, molto diversi dai trochei. Tutto dunque concorre a che la recitazione, costituita da tali ritmi, sia celere, rotonda e scorrevole».

Questo secondo passo non lascia, a dir vero, alcun dubbio. Il capitolo in cui esso si trova è espressamente dedicato a considerazioni di carattere stilistico sull’appropriatezza di certi procedimenti nella scelta e nella collocazione delle parole: siamo in evidente contesto stilistico. D’altra parte la parentela terminologica col passo del cap. XVII, citato all’inizio della nostra ricerca, è evidente. Nell’uno e nell’altro si parla di lunghe irrazionali. Nel primo la lunga ἄλογος è

|| to, passim). Non si vede però la necessità di correggere. Se all’aggettivo παϱαδεδιωγμένας si potesse dare valore attributivo, si potrebbe intendere «le veloci, affrettate ἄλογοι». Se invece, come sembra in realtà richiesto dall’ordine delle parole, si dà all’aggettivo valore predicativo, si dovrà intendere «hanno le ἄλογοι affrettate»: posto che l’affermare che le «irrazionali» nel verso in questione siano più brevi del solito non possa non essere considerato una grave inesattezza d’espressione, ci troveremo a dover attribuire a Dionigi tale inesattezza, che non farà che confermarci quel non–tecnicismo dell’uso di ἀλογος che stabiliremo in seguito. Per il significato preciso di παϱαδιώϰω, v. W. R. ROBERTS, Dionysius of Halicarnassus. On Literary Composition, London 1910, Glossary, s. v. (p. 314), dove si traduce to hurry along, diripere e si richiama l’uso di συνδεδιωγμένον (de subl. 21.1) e ϰατεσπευσμένα (ibid. 19); e si aggiunga συνδιωϰούσης (ibid. 19). Si tratta di tutti contesti simili a quello di Dionigi. 95 V., per la divisione delle consonanti, cap. XIV, p. 52.14 ss. Us.–Rad. È errato tradurre ἡμίφωνον con «semivocale» e ἄφωνoν con «muta». Cogli stessi termini ancora pp. 64.20 ss. (con ψοφοειδές per ἡμίφωνον), 116.9 ss. (il commento all’ode di Saffo).

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data come caratteristica di dattili e di anapesti che vengono citati; nel secondo, senza richiamarsi alle affermazioni del cap. XVII (che, se fossero state dichiaratamente tecniche, avrebbero richiesto un chiaro riferimento), si nota come caratteristica di un verso particolare (il verso del masso di Sisifo) la presenza di lunghe οὐ τέλειοι, cioè più brevi del normale, che producono senso di velocità nella recitazione del verso. Ora, fra ἄλογος e οὐ τέλειος non v’è alcuna differenza: nello stesso passo del cap. XX, poche righe dopo οὐ τέλειος (p. 92.19), compare anche ἄλογος (p. 93.15). La concordanza stabilita, a prescindere per ora da quelle che si scopriranno in seguito, è già sufficiente. Ma i due passi sono legati fra loro da una solida trama strutturale, nel quadro della composizione dell’operetta96. Quando se ne è considerata la struttura, si è visto che essa era tutta da inserire nell’ambito della critica letterario– musicale. Un solo capitolo tuttavia c’è che si può considerare metrico in senso tecnico: ed è precisamente il cap. XVII, quello dove, venendo il discorso sul ritmo come elemento della bellezza della composizione, si elencano, come s’è detto, i piedi a uno a uno. Arrivato al dattilo, Dionigi cita il verso omerico (ι 39) ed aggiunge (p. 71.10): οἱ μέντοι ῥυϑμιϰοὶ ϰτλ. Ora, se ci fermiamo all’aspetto puramente sintattico, il passo che comincia con οἱ μέντοι ῥυϑμιϰοί e che termina con λόγος si presenta chiaramente come parentetico. Alla particella μέντοι non si può dare qui altro significato che quello lievemente avversativo che in italiano si rende con «tuttavia» o meglio con «veramente»97. L’interpretazione, quindi, corre così: «Dattilo è il piede formato così e così, e costituisce l’esametro. Eccone un esempio (ι 39). Veramente i ritmici dicono che in questo dattilo la lunga è più breve della normale. Ritmicamente contrario a questo è l’anapesto che è chiamato ciclico: ed ecco un esempio (il frammento adespoto). Ma di queste cose si dovrebbe parlare in altra sede (πεϱὶ ὧν ἂν ἕτεϱος εἴῃ λόγος, p. 72.1)». Il fatto è che tutto il cap. XVII, il capitolo metrico, è una grande parentesi: si veda la fine del capitolo stesso, dove l’argomento metrico viene abbandonato con una espressione brusca e quasi di fastidio98, e l’inizio del capitolo successivo (che tratterà genericamente dell’ethos dei ritmi), dove la precedente parentesi metrica viene ancora una volta giustificata colla «necessità d’inserirla»99 . L’itinerario mentale di Dionigi, nel cap. XVII, mi sembra evidente e sempli|| 96 V., per la struttura del de compositione, p. 61 s. n. 9. 97 V. J. D. DENNISTON, The Greek Particles2, Oxford 1954, p. 404 ss. Il Roberts, op. cit., traduce however. 98 P. 73.8 ϰαὶ πεϱὶ μὲν τούτων οὐϰ οἶδ’ ὅ τι δεῖ τὰ πλείω λέγειν. V. inoltre le espressioni di reticenza citate a p. 86 n. 106, tutte destinate ad eludere questioni tecniche. 99 Cap. XVIII, p. 73.10 oὐ γὰϱ δὴ τὴν ἄλλως γέ μοι πϱοὔϰειτο μετϱιϰῶν ϰαὶ ῥυϑμιϰῶν ἅπτεσϑαι ϑεωϱημάτων, ἀλλὰ τοῦ ἀναγϰαίου ἕνεϰα.

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ce. Dopo aver parlato dell’anapesto, viene la volta del dattilo e Dionigi s’induce a dare di esso un esempio che gli torna spontaneamente alla memoria: si tratta del verso Ἰλιόϑεν με φέϱων ἄνεμος Κιϰόνεσσι πέλασσεν, che è un verso famoso, citato inoltre piuttosto spesso100, come noi oggi potremmo citare un verso dantesco dei più famosi ed orecchiabili. La cosa farà ancor meno meraviglia, se si pensi che proprio da questo verso cominciano gli ἀπόλογοι ad Alcinoo, il racconto, cioè, del νόστος di Odisseo101. A Dionigi poi sarà venuto ancor più naturale citarlo, visto che per ragioni stilistiche s’interessa ai versi omerici che contengono nomi propri di popoli e di paesi102. Il verso citato, inoltre, è famoso soprattutto perché presenta delle caratteristiche stilistiche, come la velocità di lettura103, che lo rendono degno d’esser messo in rilievo e porta naturalmente con sé

|| 100 V. Sch. Β ad Heph., p. 259.6 ss. (8) Consbr. (è citato come esempio per l’ἐπιπλοϰή); Sch. B ad Heph., p. 265.1 Consbr. (esempio di esametro olodattilo, uno dei trentadue σχήματα); Ps.– Heph., π. τομῶν, § 27, p. 353.5 Consbr. (esempio di verso che non ha mai contemporaneamente fine di piede e fine di parola: cf. Eust. 740.1 ss. ad I 122); v. poi la questione prosodica sul nome proprio presso Eust. 1615, 11 ss. ad ι 39 (cf. Herodn., II, p. 148.20 ss. Lentz; cf. pp. 643.7 ss., 727.4 s.). Per ragioni non tecniche, il verso è citato ancora, ad es., in Sen., apocol., 5.4; negli Epictetea di Arriano, ripresi da Gell., 1.2.8 (p. 43.9 Hosius). Noteremo tra parentesi che anche l’esametro del masso di Sisifo è famoso, con tutto il suo contesto: per λ 598 solo v., ad es., Arist., rhet., 1411 b 34 (dove si legge ἐπὶ δάπεδόνδε); è poi tradotto in Lucr., 3. 1002; per il contesto v. Demetr., de eloc., § 72 e il verso arcaico (Ennio o Lucilio) cit. in Cic., Tusc., 1.5.10. 101 Per l’importanza della «partenza da Troia» come momento iniziale dell’azione anche nell’Eneide, v. R. HEINZE, Vergils epische Technik3, Leipzig 1915, p. 3 s. 102 V. cap. XVI, p. 67.5 ss., dove commenta la σεμνότης e la ϰαλλιλογία dell’inizio del catalogo delle navi (B 494 ss.), ottenute con accorta disposizione dei riempitivi (congiunzioni, particelle: παϱαπληϱώμασιν εὐφώνοις). Cf. anche Sch. B ad B 494 (p. 136.23 ss. Dindorf), dove lo scoliasta nota la variatio nell’uso dei verbi, e Demetr., de eloc., § 53, dove si parla ancora del particolare valore delle congiunzioni nel collegamento dei nomi propri del catalogo. Il catalogo ha sempre offerto un singolare problema stilistico. 103 L’olodattilismo è il principale ingrediente per la resa della «velocità»: lo si ricava specialmente dagli scoli raccolti in G. RAUSCHER, De scholiis Homericis ad rem metricam pertinentibus, Diss. Strassburg 1886, pp. 47–50. V. anche G. AMSEL, De vi atque indole rhythmorum quid veteres iudicaverint, «Bresl. Philol. Abhandl.» 1.3, Breslau 1887, p. 62 ss. (dove si citano peraltro anche alcuni apprezzamenti divergenti di Eustazio) e ABERT, Die Lehre vom Ethos, cit., p. 133 s. Per il particolare ethos dell’abbondanza di brevi v. AMSEL, diss. cit., p. 54 s. e ABERT, Die Lehre vom Ethos, cit., p. 122 s. Si vedano specialmente alcuni passi di Quintiliano: 9.4.83 quo quique [scil. pedes] sunt temporibus pleniores longisque syllabis magis stabiles, his graviorem faciunt orationem, breves celerem ac mobilem. 9.4.91 plurimum igitur auctoritatis, ut dixi, et ponderis habent longae, celeritatis breves: quae si miscentur quibusdam longis, currunt, si continuantur, exsultant. Cf. Cic., or., 57.191, etc. Per le altre caratteristiche stilistiche del verso, che qui non vengono espressamente dichiarate, v. p. 88 n. 111, dove le si vedranno considerate a proposito del verso di Sisifo.

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la citazione di un verso anapestico104 che presenta analoghe caratteristiche stilistiche105. Ma il capitolo tratta dei piedi metrici, ed ogni discorso riguardante questioni di stilistica è fuori posto: ed ecco che la parentesi si chiude colla frase πεϱὶ ὧν ἂν ἕτεϱος εἴη λόγος106. Dove verrà ripreso il discorso? Precisamente nel cap. XX, dove, trattandosi del πϱέπον, sempre nel quadro degli elementi della bellezza della composizione, la considerazione stilistica sarà perfettamente a suo luogo e verrà introdotta e trattata senza espressioni di reticenza. C’è poi l’argomento di gran peso messo in luce dal Goodell107, che costituisce in sostanza per lui l’elemento principale in favore dell’interpretazione stilistica. Riportiamo qui per intero i due passi di Aristide Quintiliano da lui utilizzati:

|| 104 Il carattere parentetico della considerazione sui piedi leggeri e il valore occasionale della citazione sono confermati dall’ordine di trattazione: prima l’anapesto «normale», poi il dattilo, poi l’anapesto ciclico. Se l’anapesto ciclico avesse avuto una sua realtà metrica, lo si sarebbe ordinatamente allineato dopo l’anapesto «normale». 105 L’assenza di dieresi mediana è rara nei dimetri anapestici, ma qualche volta si trova (v. ED. FRAENKEL, Aeschylus. Agamemnon, Oxford 1950, Vol. II, p. 33 ad v. 52, dove però non si distingue fra anapesti lirici e anapesti di marcia). Non si va normalmente oltre lo spostamento di una mora (g g h g g h , g | g h g g h). Ora, il verso citato da Dionigi doveva colpire per lo spostamento così forte della dieresi (g g h g g h , g g h | g g h). Da respingere mi sembra il dubbio di BERGK4, lyr. adesp. fr. 111, ad loc.: versum integrum, quem tamquam cyclii anapaesti exemplum Dionysius homo doctus proposuit, inscite sic dispescens . . . ϰέχυται || πόλις ὑψ. ϰ. γᾶν . . .). Anche volendo ammettere dieresi in composizione (ὑψί | πυλος), resta sempre lo spostamento di una mora. L’assenza di dieresi (colla conseguente mancanza della pausa da essa creata) è comunque elemento di «velocità». Appare improbabile che il verso sia un exemplum fictum, come sembra in sostanza pensare, per la maggior parte degli esempi dionisiani, F. LEO, art. cit., «Hermes» 24 1889, p. 289 (ob fìngiert oder nicht, zum Zwecke gebildet). Il portare exempla ficta, insieme colla frequente omissione del nome d’autore per i versi reali, sarebbe uso comune della corrente metrica varroniana, riconosciuta da Leo stesso (art. cit., p. 287 ss.) come vicina alla retorica. Gli adespota dionisiani sono in Nauck2 136–144 e Bergk4 108–112 (cf. ora Page 1027). 106 V. numerose altre forme di reticenza: cap. II, p. 7.13 Us.–Rad. ὑπὲϱ ὧν οὐ μιϰϱὸς ἂν εἴῃ λόγος (si schermisce dal trattare questioni grammaticali); cap. XV, p. 59. 8 οὐϰ ἀναγϰαῖον ἐν τῷ παϱόντι σϰοπεῖν (questioni prosodiche, rapporto 1 : 2 delle brevi colle lunghe); cap. XIV, p. 50.6 ἡ μὲν οὖν ὑπὲϱ τούτων ϑεωϱία γϱαμματιϰῆς τε ϰαὶ μετϱιϰῆς, εἰ δέ βούλεταί τις, ϰαὶ φιλοσοφίας οἰϰειοτέϱα (questioni di fonetica: si esclude espressamente la metrica, per di più). Per altre forme simili di reticenza, che in Dionigi appaiono caratteristica costante, v. de comp. verb., ancora, pp. 12.2 s., 20.19 s., 26.20 ss., 27.16 s., 33.5 s., 68.1 s., 86.21 ss., 88.5 ss., 117.6 ss. (13 ss.), 122.1 ss., 124.18 s.; de Lys., p. 22.8 s.; de Demosth., pp. 138.7, 159.15, 216.16, 229.1, 236.14 s., 241.7; etc. 107 Op. cit., p. 176 ss. La parentela terminologica fra ϰύϰλιος e στϱογγύλος era già stata notata

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Ar. Quint., p. 33 Meib. (22.14 Jahn) τούτων δὲ τῶν χϱόνων [scil. τῶν συνϑέτων χϱόνων] οἱ μὲν ἔϱϱυϑμοι λέγονται, οἱ δὲ ἄϱϱυϑμοι, οἱ δὲ ῥυϑμοειδεῖς, ἔϱϱυϑμοι μὲν oἱ ἔν τινι λόγῳ πϱὸς ἀλλήλους σῴζοντες τάξιν, οἷον διπλασίονι, ἡμιολίῳ ϰαὶ τοῖς τοιούτοις (λόγος γάϱ ἐστι δύο μεγεϑῶν ὁμοίων ἡ πϱὸς ἄλληλα σχέσις), ἄϱϱυϑμοι δὲ οἱ παντελῶς ἄταϰτοι ϰαὶ ἀλόγως συνειϱόμενοι, ῥυϑμοειδεῖς δὲ οἱ μεταξὺ τούτων ϰαὶ πῆ μὲν τῆς τάξεως τῶν ἐϱϱύϑμων, πῆ δὲ τῆς ταϱαχῆς τῶν ἀϱϱύϑμων μετειληφότες. τούτων δέ oἱ μὲν σ τ ϱ ο γ γ ύ λ ο ι ϰαλοῦνται οἱ μᾶλλον τοῦ δέοντος ἐ π ι τ ϱ έ χ ο ν τ ε ς , οἱ δὲ πεϱίπλεῳ οἱ πλέον ἢ δεῖ τὴν βϱαδυτῆτα διὰ συνϑέτων φϑόγγων ποιούμενοι, ἔτι τῶν χϱόνων οἱ μὲν ἁπλοῖ, οἱ δὲ πολλαπλοῖ, οἳ ϰαὶ ποδιϰοὶ ϰαλοῦνται108. «Di questi tempi (cioè dei tempi composti, per cui cf. p. 33 Meib. = 22.9 ss. Jahn) alcuni sono ritmici, altri aritmici, altri ritmoidi. Ritmici sono quelli che conservano ordine fra loro in un certo rapporto, che può essere quello di uno a due, quello di due a tre e simili – il rapporto infatti è la proporzione di due grandezze simili fra loro –; aritmici quelli del tutto disordinati e insieme connessi in modo irrazionale; ritmoidi quelli che stanno in mezzo a questi due precedenti, e che tengono sia dell’ordine dei ritmici, sia del disordine degli aritmici. Di questi alcuni si chiamano rotondi, e sono quelli che sono veloci più del dovuto, altri eccedenti, e sono quelli che producono lentezza più del dovuto per la presenza di suoni composti. E ancora, dei tempi, alcuni sono chiamati semplici, altri molteplici ed anche podici». Ar. Quint., p. 99 Meib. (60.34 Jahn) ἔτι τῶν ῥυϑμῶν οἱ μὲν τ α χ υ τ έ ϱ α ς π ο ι ο ύ μ ε ν ο ι τ ὰ ς ἀ γ ω γ ὰ ς ϑεϱμοί τέ εἰσι ϰαὶ δϱαστήϱιοι, οἱ δὲ βϱαδείας ϰαὶ ἀναβεβλημένας ἀνειμένοι τε ϰαὶ ἡσυχαστιϰοί· ἔτι δὲ οἱ μὲν σ τ ϱ ο γ γ ύ λ ο ι ϰαὶ ἐ π ί τ ϱ ο χ ο ι σφοδϱοί τε ϰαί συνεστϱαμμένοι ϰαί εἰς τὰς πϱάξεις παϱαϰλητιϰοί, οἱ δὲ πεϱίπλεῳ τῶν φϑόγγων τὴν σύνϑεσιν ἔχοντες ὕπτιοί τέ εἰσι ϰαὶ πλαδαϱώτεϱοι, οἱ δὲ μέσοι ϰεϰϱαμένοι τε ἐξ ἀμφοῖν ϰαὶ σύμμετϱοι τὴν ϰατάστασιν. «Ancora, fra i ritmi, quelli che producono i tempi più veloci sono caldi ed energici, quelli che li producono lenti e moderati, invece, sono rilasciati ed atti a calmare l’animo; inoltre i rotondi e i rapidi sono energici e stretti insieme (condensati) ed eccitanti all’azione; gli eccedenti, avendo composizione di suoni, sono passivi (supini) e piuttosto flosci; i medi, infine, tengono degli uni e degli altri e sono equilibrati nel carattere».

Nel cap. XX di Dionigi si parla dell’esametro di Sisifo come di verso particolarmente adatto ad esprimere la velocità di caduta dal masso da cima a valle: si

|| da ROSSBACH–WESTPHAL, Metrik1, I, p. 136 s.; III, p. 404 s., ma solo di sfuggita, senza che ne venissero tratti i necessari elementi d’interpretazione. 108 Cf. Mart. Cap., p. 519.7 Dick quorum temporum alia σ τ ϱ ο γ γ ύ λ α , hoc est r o t u n d a , perhibentur, alia π ε ϱ ί π λ ε α . et rotunda sunt quae p r o c l i v i u s e t f a c i l i u s quam gradus quidam atque ordo legitimus expetit p r a e c i p i t a n t u r , πεϱίπλεα vero quae a m plius quam decet moras compositae modulationis innectunt seque ipsa t a r d i o r e p r o n u n t i a t i o n e s u s p e n d u n t . Si noti la menzione della pronuntiatio, che interesserà nell’App. I.

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parla di εὔτϱοχος ϰαὶ πεϱιφεϱὴς ϰαὶ ϰαταϱϱέουσα φϱάσις (p. 93.17); il verso è considerato particolarmente espressivo per τὸ τῆς ἀπαγγελίας τάχος (p. 92.12). Anche Aristide Quintiliano, in tema di valutazione etica dei ritmi109, parla di ritmi che presentano particolari caratteristiche di velocità: l’aggettivo usato è στϱογγύλος–rotondo in tutti e due i passi citati dal de musica, ed è spiegato con ἐπιτϱέχων nel primo passo ed associato con ἐπίτϱοχος nel secondo. Quale fosse la sollecitazione semantica che aveva portato a dare a «rotondo» il valore di «veloce» a noi non interessa qui: più assai c’interessa riconoscere lo stesso significato, letterale e tecnico–allusivo, anche al famoso aggettivo ϰυϰλιϰός110 del cap. XVII di Dionigi. Le caratteristiche foniche e metrico–strutturali dell’anapesto citato come ciclico si son già considerate e si è visto trattarsi di verso «veloce»; quelle del verso dattilico, che all’anapesto ciclico viene avvicinato in stretto parallelismo, non sembrano differire, per di più, da quelle del verso dattilico citato al cap. XX (il verso di Sisifo): in ambedue i casi, infatti, si tratta ancora di esametri «veloci», e cioè olodattili, rappresentanti cose in movimento e veloci, rispondenti agl’ideali di onomatopea fonica professati da Dionigi111. Sarà naturale che si usino, quindi, tutte designazioni che si riporteranno al comune denominatore della velocità di emissione dei ritmi in questione. La lieve varietà terminologica non può portare ad escludere che nei vari passi presi in esame il fenomeno preso in considerazione sia sempre lo stesso, e cioè la velocità di emissione dei versi112. Tale varietà, veramente assai lieve, sarebbe conseguenza || 109 Nel secondo libro del de musica: v. ABERT, Die Lehre vom Ethos, cit., p. 24 ss.; KOLLER, Die Mimesis, cit., passim e spec. p. 79 ss. La teoria etica della musica risale a Damone (per cui v. WILAMOWITZ, Gr. Versk., cit., p. 63 ss.; DIELS–KRANZ, Die Fragmente der Vorsokratiker8, I, p. 381 ss.; e da ultimo F. LASSERRE, Plutarque. De la musique, Olten–Lausanne 1954, p. 74 ss.). Essa è comunque già sostanzialmente formata nella tradizione pitagorica, sia pure sul solo fondamento della teoria numerica. 110 Κύϰλιος (cf. supra n. 10) è detto nel corpus efestioneo del coriambo: sul carattere veloce e «diastaltico» del coriambo v. ABERT, Die Lehre vom Ethos, cit., p. 155 ss. (basterebbe pensare ai cori coriambici della tragedia, come Soph., O. R., 483 ss.). 111 Per il verso di Sisifo essi vengono espressamente dichiarati nel cap. XX: assenza di parole monosillabe, abbondanza di parole più che bisillabe, assenza di iati (nella tarda grecità si dovevano sentire fortemente anche quegli iati omerici che noi oggi giustifichiamo con ragioni etimologiche), assenza d’incontri consonantici continua–continua e continua–occlusiva, oltre, naturalmente, all’olodattilismo. In ι 39, di diverso da λ 598, abbiamo solo gl’incontri ν–μ e σ–ϰ: tutto il resto concorda. (Trovo in ROBERTS, op. cit., p. 204 n. 15 citati due versi vossiani che, pur attaccabili dal punto di vista della versione, rendono magistralmente il contrasto fra lento e veloce, cosὶ com’è presentato da Dionigi al principio del cap. XX in occasione di tutto il contesto omerico dell’episodio di Sisifo: Eines Marmors Schwere mit grosser Gewalt fortheben e Hurtig mit Donnergepolter entrollte der tückische Marmor). 112 V. le sensate osservazioni di GOODELL, Chapters, cit., p. 176 s.

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del fatto che il fenomeno di cui si parla è in certo modo al confine fra la metrica in senso stretto e la stilistica largamente intesa113, come si vedrà ancor meglio in seguito. Quello che, comunque, colpisce e che leva ogni dubbio è la persistenza, nella tradizione latina, di una terminologia del tutto simile a quella greca anche nella ricchezza e varietà, e proprio per designare lo stesso identico fenomeno della velocità e scorrevolezza di lettura: segno che si tratta, già al tempo di Dionigi, e di un fenomeno del tutto familiare e di una terminologia del tutto trasparente114. Alla interpretazione stilistica dei passi di Dionigi si oppone però, di solito, una ulteriore obiezione, che è più o meno esplicita in tutti quelli che li hanno interpretati metricamente: e cioè che tanto nel cap. XVII che nel cap. XX Dionigi, parlando delle lunghe «irregolari», le definisce, come s’è visto, οὐ τέλειοι ovvero ἄλογοι, cioè irrazionali, usando termini che non lasciano dubbi sulla loro almeno originaria natura strettamente tecnica. Abbiamo visto che fin dal Boeckh il termine ἄλογος è stato «preso sul serio». Per esso non possiamo non riportarci alla chiara definizione che di ἀλογία dà Aristosseno: Aristox., el. rhythm., p. 292 Mor. ὥϱισται δὲ τῶν ποδῶν ἕϰαστος ἤτοι λόγῳ τινὶ ἢ ἀλογίᾳ τοιαύτῃ, ἥτις δύο λόγων γνωϱίμων τῇ αἰσϑήσει ἀνὰ μέσον ἔσται. γένοιτο δ’ ἂν τὸ εἰϱημένον ὧδε ϰαταφανές· εἰ ληφϑείησαν δύο πόδες, ὁ μὲν ἴσον τὸ ἄνω τῷ ϰάτω ἔχων ϰαὶ δίσημον ἑϰάτεϱον, ὁ δὲ τὸ μὲν ϰάτω δίσημον, τὸ δὲ ἄνω ἥμισυ, τϱίτος δέ τις ληφϑείῃ ποὺς παϱὰ τούτους, τὴν μὲν βάσιν ἴσην αὖ τοῖς ἀμφοτέϱοις ἔχων, τὴν δὲ ἄϱσιν μέσον μέγεϑος ἔχουσαν τῶν ἄϱσεων, ὁ γὰϱ τοιοῦτος ποὺς ἄλογον μὲν ἕξει τὸ ἄνω πϱὸς τὸ ϰάτω· ἔσται δ’ ἡ ἀλογία μεταξὺ δύο λόγων γνωϱίμων τῇ αἰσϑήσει, τοῦ τε ἴσου ϰαὶ τοῦ διπλασίου. ϰαλεῖται δ’ οὗτος χοϱεῖος ἄλογος. «Ciascuno dei piedi si distingue o per un certo particolare rapporto o per una irrazionalità tale, che si presenti alla sensazione come media fra due rapporti razionali. Quello che abbiamo detto si può rendere chiaro in questo modo: se si prendono due piedi, l’uno avente il tempo debole uguale al tempo forte e tutti e due di due tempi, e l’altro il tempo forte di due tempi e il tempo debole di metà valore temporale, e se oltre a questi si prende un terzo piede che abbia il tempo forte uguale a quello dei due precedenti e il tempo debole di

|| 113 A proposito delle imprecisioni e approssimazioni dei retori in fatto di questioni riguardanti il ritmo, v. R. VOLKMANN, Rhetorik der Griechen u. Römer2, Leipzig 1885, p. 520, dove, a proposito di passi di Dionigi e di Cicerone, si osserva: Da es sich hierbei nicht um Rhythmus im technischen Sinne, sondern nur um ein ungefähres Ebenmass, ein gewisses rhythmisches Etwas handelt, so darf man ein genaues Eingehen auf Begriff und Wesen des Rhythmus selbst von den Rhetoren nicht erwarten. 114 Per i paralleli latini di ϰυϰλιϰός e στϱογγύλος, e inoltre per la ricerca dei termini nelle altre opere di Dionigi, v. l’App. III.

90 | Sezione 1: Metrica grandezza media fra quelle degli altri due tempi deboli. Giacché un piede simile avrà il tempo debole irrazionale rispetto al tempo forte: e quindi la irrazionalità starà nel mezzo fra due rapporti percepibili alla sensazione, e precisamente fra il rapporto uguale (1 : 1) e il rapporto doppio (2 : 1). Un piede simile si chiama coreo irrazionale».

La definizione di Aristide Quintiliano combacia perfettamente, pur essendo notevolmente accorciata, come generalmente tutto quello che in lui tradisce fonte aristossenica rintracciabile: Ar. Quint., p. 34 Meib. (22.33 Jahn) τετάϱτη [scil. διαφοϱά] ἡ τῶν ῥητῶν, ὧν μέλλομεν λόγον εἰπεῖν τῆς ἄϱσεως πϱὸς τὴν ϑέσιν, ϰαὶ ἀλόγων, ὧν οὐϰ ἔχομεν διόλου τὸν λόγον τὸν αὐτὸν τῶν χϱονιϰῶν μεϱῶν εἰπεῖν πϱὸς ἄλληλα. «La quarta (differenza tra i piedi) è quella fra i razionali, dei quali siamo in grado di dire il rapporto dei tempi deboli rispetto ai tempi forti, e gl’irrazionali, dei quali non possiamo affatto dire il rapporto delle parti temporali fra di loro».

Il Goodell115 mette in evidenza il fatto palmare che la ἀλογία di Dionigi non può essere quella di Aristosseno, perché l’irrazionale di Aristosseno è in tempo debole (si riferisce, nell’esempio portato da Aristosseno, alla sostituzione del secondo elemento del trocheo), mentre quella di Dionigi sarebbe in tempo forte (si riferirebbe al longum del piede leggero). Il concetto di ἀλογία non può riferirsi al tempo forte del piede, perché in tal caso – come afferma il Goodell – little of rhythmic ratio is left. La ἀλογία aristossenica riguarda solo il particolare fenomeno della sostituzione della sillaba lunga nelle sedi rispettivamente pari e dispari dei versi trocaici e giambici, dove, essendo accentuato il valore di conduzione del ritmo di alcuni elementi, si può lasciare agli altri una certa libertà di configurazione, senza che per questo il ritmo stesso si oscuri116. Estendere un simile fenomeno anche al dattilo e all’anapesto toglierebbe tali ritmi alla catego|| 115 Op. cit., p. 173 ss., citato e ripreso da WHITE, The Verse, cit., p. 170. V. come già avesse preso posizione contro l’ἀλογία in tempo forte il CAESAR, Die Grundzüge, cit., p. 159 ss., in polemica con Rossbach–Westphal (resta però in sostanza logaedico, perché nega l’ἀλογία aristossenica, ma continua a parlare d’irrazionalità: di quella esterna, cioè, fra piede e piede — v. p. 162 s. — che è un palese assurdo, come si è già visto a proposito della μεταβολή e come si vedrà più avanti). 116 V. JUSATZ, De irrationalitate studia rhythmica, cit., p. 220, dove, dalla espressione aristossenica, si evince che una sola può essere la ἀλογία significata, quella del tempo debole rispetto al tempo forte: ὁ γὰϱ τοιοῦτος ποὺς ἄλογον μὲν ἕξει τὸ ἄνω πϱὸς τὸ ϰάτω (se si fosse voluto intendere, oltre a f h e h f, anche F g e g F, si sarebbe dovuto aggiungere ἢ τὸ ϰάτω πϱὸς τὸ ἄνω). Inoltre, che per il longum del dattilo, ad es., non possa valere la categoria dell’irrazionalità, è chiaro da quanto riportato a p. 71 n. 58 sul diverso trattamento, quanto alla soluzione in due brevi, riservato al longum stesso e all’ἄλογος dei metra giambico e trocaico.

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ria del γένος ἴσον, a cui la tradizione antica li attribuisce concordemente117. Di più, ἄλογος compare nel de compositione alcune altre volte, mai nel suo significato tecnico proprio118. Resterebbe solo da spiegare come mai Dionigi usi in un senso che non è il suo proprio un termine che ha su di sé una lunga tradizione di chiarezza designativa: o lui o la sua fonte debbono aver contaminato nel campo della tradizione tecnica. Ci soccorre qui una supposizione del Goodell, che pensa a dei seguaci di Aristosseno, non clear–headed come lui, che abbiano esteso il termine ἀλογία ad un fenomeno che egli non aveva contemplato, per il quale, almeno, egli non aveva previsto una simile estensione del termine stesso. Riconoscendo in alcuni versi una vera ed evidente maggior velocità d’emissione, confrontandoli con altri più «lenti», alcuni ritmici avrebbero usato il termine ἀλογία per designare il fenomeno119. E lo avrebbero fatto – aggiungiamo – senza preoccuparsi affatto del rigore che lo strumento aristossenico imponeva: si tenga presente, infatti, che le lunghe di cui si predica in Dionigi l’irrazionalità sono sette (p. 92.19), venendo compresa evidentemente nel numero, insieme colle || 117 V., molto chiaro in proposito, Plut., de vita et poesi Hom., 2.7 . . . ὁ δ’ [scil. πούς] ἐϰ τϱιῶν [scil. συλλαβῶν], μιᾶς μὲν μαϰϱᾶς δύο δὲ βϱαχειῶν, ὃς λέγεται δάϰτυλος· ϰ α ί ε ἰ σ ι ν ἀ λ λήλοις ἰσόχϱονοι· αἱ γὰϱ δύο βϱαχεῖαι μιᾶς μαϰϱᾶς χϱόνον ἐ π έ χ ο υ σ ι ν . οὗτοι δέ παϱ’ ἀλλήλους συντιϑέμενοι πληϱοῦσι τὸ ἑξάμετϱον ἔπος. V. Κ. ZIEGLER, R. E., XXI, 1, Stuttgart 1951. col. 877: l’operetta pseudoplutarchea ha aus dem breiten Strom der alexandrinisch–pergamenischen Homerexegese geschöpft. 118 V. ROBERTS, op. cit., Glossary, s. v. ἄλογος (p. 286 s.): cap. I, p. 4.21 («non guidato da ragione, istintivo»); cap. XIV, p. 54.17 (accoppiato con ϑηϱιώδης, ha il valore di «non articolato, non umano», quindi «sgradevole»); cap. XXIII, p. 119.16 («non conscio, di cui non ci si sa rendere ben conto»). Non si userebbe con tanta varietà di valori non tecnici un termine che almeno una volta fosse usato per designazione tecnica: e questo, per di più, senza darne avvertimento. Ma il passo più importante è quello del cap. XV, p. 58.13, dove si parla delle τέτταϱες ... βϱαχείας συλλαβῆς διαφοϱαί, τὴν ἄλογον αἴσϑησιν ἔχουσαι τῆς παϱαλλαγῆς μέτϱου. Qui è sicuramente escluso che si parli di metrica in senso misurativo stretto, perché i quattro tipi di sillaba breve che si prendono in esame sono quelli che si ottengono se si considerano le consonanti che precedono, nella sillaba, la vocale (omicron in ὁδός, Ῥόδος, τϱόπος, στϱόφος). La considerazione strettamente misurativa (che conosce solo sillabe brevi e sillabe lunghe) era stata già fatta all’inizio del capitolo, dove si trattava della fine delle sillabe. Si parla della φύσις delle varie brevi e delle varie lunghe (p. 57.18), e quindi in un certo senso della ποιότης, non della ποσότης: ci viene ripetuto espressamente che, malgrado tali distinzioni, le brevi restano brevi e le lunghe lunghe (pp. 58.8 s., 59.2 ss.), con un rapporto di uno a due (p. 58.6 s.). Si consideri, poi, che il cap. XV è dedicato alle sillabe e che Dionigi, se avesse voluto fare un discorso veramente metrico, non avrebbe potuto trovare luogo migliore: in altre parole, se avesse voluto creare, accanto alle categorie di lunga e di breve (da lui considerate a p. 57.11 ss.), anche quella d’irrazionale (da lui ignorata), non avrebbe potuto inserirla in contesto più adatto di quello del cap. XV. 119 Op. cit., p. 174.

92 | Sezione 1: Metrica

lunghe dei longa, anche la lunga dell’elemento indifferente finale. Che, comunque, si parli in sostanza solo del longum – e non anche del biceps – non farà meraviglia a chi consideri le abbondanti approssimazioni, sia terminologiche sia sostanziali, caratteristiche della critica letteraria di cui stiamo esaminando i procedimenti120. Né Dionigi ci avrà risparmiato qualche sua imprecisione supplementare, com’è certamente il caso, ad esempio, quando, a proposito dell’esametro, ci parla di «bacchei» (p. 93.13, cit. qui sopra a p. 82), lasciandoci in serio imbarazzo su quanto egli abbia voluto significare121. E chi potrebbero essere – chiediamo noi – i ritmici che avrebbero introdotto questa ἀλογία contaminata, che terrebbe sia dell’originaria sostanza aristossenica sia di fenomeni diversi? Si potrebbe pensare ai famosi συμπλέϰοντες di cui parla Aristide Quintiliano122 che, contrapponendoli ai χωϱίζοντες, li definisce come «quelli che mescolano la teoria dei ritmi alla metrica»123. La «teoria dei ritmi» potrebbe qui benissimo riportarsi ad ambiente musicale, quello stesso nel cui ambito, come s’è visto in principio, sarebbe nata e si sarebbe formata la critica letteraria di cui Dionigi è uno dei più significativi esponenti124. Comunque si risolva la questione della fonte125, risulta ormai evidente che il dire che in dattili e anapesti l’elemento–guida del piede è irrazionale non può essere che un’espressione poco precisa per significare che il cosiddetto snatu|| 120 A parte il peso predominante dell’elemento–guida (per cui v. p. 66 n. 23), che potrebbe condurre ad appuntare in esso ogni valutazione ritmica, si consideri quanto, a spiegazione dell’atteggiamento dei «ritmici», nota S. MARIOTTI, per litt., 9.6.1963: «Forse . . . in una dizione veloce «perde» proporzionalmente più tempo una lunga di una breve, cosicché in pratica il rapporto fra lunga e breve appare alterato». 121 V. ED. FRAENKEL, art. cit., p. 196. Molto chiaro in proposito R. P. WINNINGTON–INGRAM, per litt., 3.6.1963, che vede nel riferimento al baccheo il poco guardingo confluire di due ordini d’idee: (1) la forma ritmica di parole singole (parole spondaiche o bacchiache danno lentezza al verso) e (2) la diversa specie dei piedi (che possono essere in realtà solo dattili o spondei, mai bacchei). 122 P. 40 Meib. (26.31 ss. Jahn) οἱ μὲν οὖν συμπλέϰοντες τῇ μετϱιϰῇ ϑεωϱίᾳ τὴν πεϱὶ ῥυϑμῶν. 123 Cf. ED. FRAENKEL, art. cit., p. 192, che cita a sua volta il Leo. La supposizione acquista valore, a mio avviso, dal fatto che nella sezione che A. Q. dichiara tolta ai συμπλέϰοντες si parla dei famosi χοϱεῖοι ἄλογοι. Il valore di ἄλογος qui non è sicuramente quello originario aristossenico, tanto più che χοϱεῖος è usato da A. Q. nel senso non aristossenico di tribraco (cf. ancora p. 31.14 Jahn): χοϱεῖος per Aristosseno è il trocheo. 124 F. LEO, Die beiden metrischen Systeme, cit., «Hermes» 24 1889, p. 289 pensa che la fonte della sezione metrica dionisiana sia da ricercare nell’originario tronco pergameno di quella che diverrà poi la teoria derivazionista varroniana. 125 Cf., ancora, F. BLASS, «Fleckeisens Jahrbb.» 133 1866, p. 452, che mette il passo del cap. XVII fra i frammenti di Aristosseno; R. WESTPHAL, Metrik2, I, Anhang, p. 22, dove si mettono i passi dei due capitoli, XVII e XX, fra i frammenti Ῥυϑμιϰῶν ἀνωνύμων.

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ramento del piede avviene in modo da far violenza a tutti gli elementi di esso piede, senza che ne resti intaccato il rapporto podico interno: cioè, sostanzialmente, in modo da affrettarne la dizione, il tempo di lettura. *** E finalmente, dopo aver chiarito quello che la ἀλογία di Dionigi non è, possiamo definirla per quello che essa è realmente. Per il «tempo» la teoria antica ha una definizione chiara, e un termine usato in modo altrettanto univoco: ἀγωγή126. Aristox., el. harm., p. 34 Meib. (43.15 Da Rios) πάλιν ἐν τοῖς πεϱὶ τοὺς ῥυϑμοὺς πολλὰ τοιαῦϑ’ ὁϱῶμεν γιγνόμενα· ϰαὶ γὰϱ μένοντος τοῦ λόγου ϰαϑ’ ὃν διώϱισται τὰ γένη, τὰ μεγέϑη ϰινεῖται τῶν ποδῶν δ ι ὰ τ ὴ ν τ ῆ ς ἀ γ ω γ ῆ ς δ ύ ν α μ ι ν , ϰαὶ τῶν μεγεϑῶν μενόντων ἀνόμοιοι γίγνονται οἱ πόδες· ϰαὶ τὸ αὐτὸ μέγεϑος πόδα τε δύναται ϰαὶ συζυγίαν. «Di nuovo vediamo che nella ritmica succedono molte cose del genere: ed infatti, rimanendo fisso il rapporto che determina il genere del ritmo, cambiano le grandezze dei piedi grazie alla dinamica dell’ἀγωγή127, e, rimanendo fisse le grandezze, diventano diseguali fra loro i piedi; di più, la stessa grandezza può essere un piede o una sizigia»128

Il passo si trova negli elementa harmonica e la menzione dell’ἀγωγή ritmica129 avviene incidentalmente in occasione di un paragone: ma certo non doveva mancarne la trattazione nella parte perduta degli elementa rhythmica130.

|| 126 Non può che esser fonte di malintesi e confusioni l’uso di alcuni manuali moderni che portano ἀγωγή per significare il γένος: e parlano quindi impropriamente di ἀγωγή dattilica, giambica, etc. — Per una buona raccolta di testimonianze sull’ἀγωγή ritmica v. CAESAR, Die Grundzüge, cit., p. 236 ss. 127 Non abbastanza precisa mi sembra la traduzione di ROSETTA DA RIOS, Aristoxeni Elementa Harmonica, Roma 1954, p. 49 della traduz.: «per influenza dell’andamento del ritmo». 128 Inaccettabile l’interpretazione di WEIL, Études, cit., p. 214: «on peut inférer de ce passage la fréquence des mesures chantées à contre–temps». Il Weil non ha tenuto presente la differenza fra la διαφοϱὰ ϰατ’ ἀντίϑεσιν (per la quale v. Aristox., el. rhythm., p. 300 Mor. . . . oἱ τὸν ἄνω χϱόνον πϱὸς τὸν ϰάτω ἀντιϰείμενον ἔχοντες) e quella derivante dall’ἀγωγή, della quale qui in effetti si tratta. 129 Vanno esclusi dall’attuale considerazione i passi in cui ἀγωγή si riferisce al portamento della melodia, come in Aristox., el. harm., pp. 29 e 53 Meib. (38.4 e 66.7 Da Rios); Ar. Quint., p. 29 Meib. (19.19 Jahn); Cleon., isag., p. 22 Meib. (207.2 Jan); Man. Brienn. 3.502 Wallis. Si tratta dell’ἀγωγή armonica. 130 Un importante accenno all’ἀγωγή, senza ch’essa venga nominata, troviamo infatti nei πϱολαμβανόμενα εἰς τὴν ῥυϑμιϰὴν ἐπιστήμην di Michele Psello, breve estratto della ritmica aristossenica redatto nel decimo secolo (WESTPHAL, Metrik2, I, p. 44), che ci conserverebbe tratti non solo del secondo libro, parzialmente trasmessoci nel codice marciano, ma anche del primo, totalmente perduto: Psell., prolamban., § 1 (p. 18.15 Westph.) . . . ἡ δὲ συλλαβὴ χϱόνου

94 | Sezione 1: Metrica

Aristosseno instaura un rapporto fra armonia e ritmo: sia nell’una (nel μέλος) che nell’altro c’è un μένον, cioè un elemento stabile, e un ϰινούμενον, cioè un elemento variabile. Nel μέλος uno stesso intervallo varia a seconda che sia, ad esempio, fra la ὑπάτη e la μέση, o fra la παϱαμέση e la νήτη (essendo il μένον la grandezza dell’intervallo e il ϰινούμενον la sua posizione nell’ambito della scala)131, così ugualmente succede nel ritmo. Rimanendo fermo il rapporto fra le parti del piede (il λόγος, secondo il quale si distinguono i γένη)132, può variare il valore temporale complessivo del piede stesso. Se invece rimane fermo il μέγεϑος, cioè il valore temporale complessivo del piede, può cambiare la fisionomia interna del piede: cioè, fra due piedi che abbiano la stessa durata temporale, ci può essere una differenza di rapporto interno, ed uno potrebbe essere, ad esempio, trocheo ed uno dattilo133. Ἀγωγή non può valere, quindi, che «tem-

|| τινὸς μέτϱον οὖσα οὐϰ ἠϱεμεῖ ϰατὰ τὸν χϱόνον, μεγέϑη μὲν γὰϱ χϱόνων οὐϰ ἀεὶ τὰ αὐτὰ ϰατέχουσιν αἱ συλλαβαί, λόγον μέντοι τὸν αὐτὸν ἀεὶ τῶν μεγεϑῶν· ἥμισυ μὲν γὰϱ ϰατέχειν τὴν βϱαχεῖαν χϱόνου, διπλάσιον δὲ τὴν μαϰϱάν. (Di tenore del tutto simile è Exc. Neapolit., § 15, p. 415.3 ss. Jan: non capisco la nota dello Jan ad loc., che sembra non altro che la ripetizione meccanica d’una svista del Westphal). Il termine compare ancora in P. Oxy. 9, col. V, 15. L’autenticità aristossenica del papiro non è senza qualche dubbio (v. spec. WILAMOWITZ, «GGA» 1898, pp. 698–703; BLASS, «Neue Jahrbb.» 1899, pp. 30–44; REINACH, «REG» 1898, pp. 389–415; WEIL, Études, cit., pp. 200–203). Ἀγωγή vale comunque, senza possibilità di dubbio, «tempo» (v. la felice integrazione del Blass: π[επυϰ]ν̣ωμέν[η]ν̣ ῥυϑμο[π]οιίαν̣). Sul problema se l’affrettamento del tempo si possa applicare o no a sezioni singole del verso, v. la netta opposizione di WILAMOWITZ, art. cit., p. 698 s. allo sfruttamento della testimonianza a favore della teoria logaedica: si tratta di libertà concesse alla musica (anche REINACH, art. cit., p. 413 s.) e comunque di eccezioni (col. V, 34 ὥστε ξυνεχεῖ μὲν ταύτης χϱήσει οὐ ῥᾴδιον ἐντυχεῖν: si cita colle ottime integrazioni degli editori) che vengono introdotte per amor di varietà (col. IV, 13 τοῦ ἰδίου ἕνεϰα): occorre evitare comunque quei ritmi misti non δοϰιμαζoμένους ὑπὸ τῆς αἰσϑήσεως (col. IV, 19: V., per l’αἴσϑησις, a pp. 76–79). La confutazione ante litteram del logaedismo è a col. V, 21 ss.: ἡ γὰϱ π α ϱ ὰ φ ύ σ ι ν τ ῶ ν ξ υ λ λ α β ῶ ν ϑέσις οὐχ ὑπὸ δαϰτυλιϰὴν ῥυϑμοποιίαν ξυντείνουσα φανεϱὰ ἐϰ τῶν ἔμπϱοσϑεν). 131 Il concetto di relatività del valore d’un suono, considerato come appartenente a una catena di suoni, è lo stesso che si ritrova nell’armonia moderna (un do è tonica se considerato in scala di do, dominante se in scala di fa). 132 V. la definizione e l’elencazione dei γένη (ἴσον, ἡμιόλιον, διπλάσιον, ἐπίτϱιτον) in Ar. Quint., p. 35 Meib. (23.7 ss. Jahn). Si tenga distinto l’uso armonico di γένος: si parla allora di genere diatonico, cromatico, enarmonico (Klanggeschlecht). 133 Tale aspetto della relatività ritmica non deve però condurre all’accettazione della teoria logaedica, per la quale, come s’è visto sopra, piedi di diversa struttura e valore sarebbero, addirittura nello stesso verso, equiparati in durata. Non si deve dimenticare che Aristosseno qui parla in astratto e che per lui «piede» non significa questo o quel piede, e tanto meno elemento concreto di un concreto verso, bensì piede in astratto, sottoponibile ad un qualunque processo di misurazione astratta. Ora, è ovvio che si possano in questo modo instaurare confronti fra

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po di pronuncia, di emissione». La parola «tempo» ha qui lo stesso valore che ha nella pratica musicale moderna: allo stesso modo che un pezzo si può eseguire allegro o adagio, rimanendo fermo il suo rapporto interno di battuta (2/4, 3/4, etc.), così anche nella recitazione dei versi si può affrettare o allargare il tempo di lettura, rispettando la natura ritmica degli elementi che li costituiscono134. Di particolare interesse è la definizione dell’ἀγωγή ritmica che ci offre Aristide Quintiliano: Ar. Quint., p. 42 Meib. (27.29 Jahn) ἀγωγὴ δέ ἐστι ῥυϑμιϰὴ χϱόνων τ ά χ ο ς ἢ β ϱ α δ υ τ ή ς , οἷον ὅταν τῶν λόγων σωζομένων, οὓς αἱ ϑέσεις ποιοῦνται πϱὸς τὰς ἄϱσεις, δ ι α φ ό ϱ ω ς ἑ ϰ ά σ τ ο υ χ ϱ ό ν ο υ τ ὰ μ ε γ έ ϑ η π ϱ ο φ ε ϱ ώ μ ε ϑ α . ἀϱίστη δὲ ἀγωγῆς ῥυϑμιϰῆς ἔμφασις [Tyrwhitt: ἀγωγὴ ῥυϑμιϰῆς ἐμφάσεως codd.]135 ἡ ϰατὰ μέσον τῶν ϑέσεων ϰαὶ τῶν ἄϱσεων ποσὴ διάστασις. «L’ἀγωγή ritmica è velocità o lentezza dei tempi, come succede quando, conservati i rapporti creati dai tempi forti rispetto ai tempi deboli, diversamente pronunciamo le durate dei vari tempi. La migliore realizzazione dell’ἀγωγή ritmica è un certo intervallo fra i tempi forti e i tempi deboli».

La fonte è senz’altro aristossenica136, ma vale la pena notare una particolarità importante, stabilendo il raffronto colla definizione di Aristosseno. Da essa, che come s’è visto non è completa, appare soltanto l’aspetto puramente teorico, astratto: ogni applicazione concreta è chiaramente esclusa137, colla limitazione allo stabilimento dei concetti di μέγεϑος (durata del piede) e di λόγος (suo rapporto interno). In Aristide si parla invece di ἀγωγή come di uno strumento concettuale che chiarisce il fenomeno della recitazione (ὅταν. . . πϱοφεϱώμεϑα). || piedi quanto alla durata (μέγεϑος), rimanendo ferma la struttura (γένος), e viceversa. Un tale avvicinamento ignora metodicamente la possibilità che i piedi vengano considerati nella loro concretezza e tanto meno, quindi, in contiguità nell’ambito di uno stesso verso. La dottrina del μέγεϑος variabile rispetto ad un λόγος fisso è particolarmente chiara in Psell., prolamban., § 1 (p. 18 Westph.). 134 V., molto chiaro, WHITE, The Verse, cit., p. 2. 135 Dall’apparato dell’ediz. di R. P. WINNINGTON–INGRAM, in parte cortesemente comunicatomi per lettera (25.1.63). 136 Siamo nella sezione «B» di Westphal (Metrik2, I, p. 85 ss., spec. p. 89), che sarebbe nata da un’epitome di scritti aristossenici. 137 Com’è noto, la dottrina aristossenica parte dalla totale astrazione, per il concetto di ritmo (cf. F. SUSEMIHL, Gesch. d. griech. Litt. der Alexandrinerzeit, II, Leipzig 1891, p. 220: passaggio all’astrazione dell’unità di tempo). Il ritmo viene considerato forma dei vari ῥυϑμιζόμενα, cioè delle materie capaci di essere ritmizzate: canto, parola e movimento fisico (μέλος, λέξις, ϰίνησις σωματιϰή: el. rhythm., p. 278 Mor.).

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Non solo: nella seconda parte della definizione si parla della «migliore» ἀγωγή ritmica, riferendosi naturalmente alla realizzazione concreta. Un simile apprezzamento qualitativo ci porta al quadro della valutazione etica dei ritmi, che risale a Damone138 e di cui Aristide Quintiliano si fa eco nel secondo libro del suo trattato139. Quello che a noi interessa notare, comunque, è che qui del concetto astratto aristossenico si ha l’applicazione concreta: si potrebbe quasi designare l’atteggiamento di Aristosseno come ritmica pura e quello di Aristide come ritmica applicata. Si tratta di una distinzione implicita parallela a quella, esplicita, che si fa fra ῥυϑμός e ῥυϑμοποιία140. Ora, questa della ritmica applicata non è una novità, perché doveva trovarsi già in Aristosseno. Qualcosa di ancor più esplicito troviamo infatti in alcuni passi del commento di Porfirio a Tolomeo, e vi si dà espresso riferimento ad un’opera perduta di Aristosseno141: Porph., ad Ptolem. harm., p. 255 Wallis (p. 15.8 ss. Westph., 78.23 ss. Düring) ὅτι δ’ [scil. λέγει ὁ Ἀϱιστόξενος] εἴπεϱ εἰσὶν ἑϰάστου τῶν ῥυϑμῶν ἀ γ ω γ α ὶ ἄπειϱοι, ἄπειϱοι ἔσονται ϰαὶ οἱ πϱῶτοι [scil. χϱόνοι]. . . . . . ἄτοπον, εἴ τις ἐπιστήμην εἶναι φάσϰων τὴν ῥυϑμιϰήν, ἐξ ἀπείϱων αὐτὴν συντίϑησιν· εἶναι γὰϱ πολέμιον πάσαις ταῖς ἐπιστήμαις τὸ ἄπειϱον. . . . οὔτε γὰϱ πόδας συντίϑεμεν ἐϰ χϱόνων ἀπείϱων, ἀλλ’ ἐξ ὡϱισμένων ϰαὶ πεπεϱασμένων μεγέϑει τε ϰαὶ ἀϱιϑμῷ ϰαὶ τῇ πϱὸς ἀλλήλους ξυμμετϱίᾳ τε ϰαὶ τάξει. . . . . . ϰαϑόλου δὲ νοητέον ὃς ἂν ληφϑῇ τῶν ῥυϑμῶν, ὅμοιον εἰπεῖν ὁ τϱοχαῖος, ἐπὶ τῆσδέ τινος ἀ γ ω γ ῆ ς τεϑεὶς ἀπείϱων ἐϰείνων πϱώτων ἕνα τινὰ λήψεται εἰς αὑτόν.

|| 138 V. la testimonianza di Damone riportata da Platone in resp., 400 b, c. Nel passo c’è la più antica testimonianza di ἀγωγή in senso ritmico: ϰαὶ τούτων τισὶν οἶμαι τ ὰ ς ἀ γ ω γ ὰ ς τ ο ῦ π ο δ ὸ ς αὐτὸν [scil. τὸν Δάμωνα] οὐχ ἧττον ψέγειν τε ϰαὶ ἐπαινεῖν ἢ τ ο ὺ ς ῥ υ ϑ μ ο ὺ ς α ὐ τ ο ύ ς (fg. Β 9 D.–K.8). La contrapposizione di ῥυϑμός ad ἀγωγή non lascia dubbi sul valore delle due parole: ῥυϑμός è il tipo di ritmo in relazione al γένος, ἀγωγή è anche qui tempo di recitazione. 139 Anche qui l’ἀγωγή entra a far parte di quegli elementi che caratterizzano eticamente il ritmo. Cf. Ar. Quint., p. 99 Meib. (60.34 Jahn) ἔτι τῶν ῥυϑμῶν οἱ μὲν τ α χ υ τ έ ϱ α ς ποιούμενοι τ ὰ ς ἀ γ ω γ ὰ ς ϑεϱμοί τέ εἰσι ϰαὶ δϱαστήϱιοι, οἱ δὲ β ϱ α δ ε ί α ς ϰαὶ ἀ ν α β ε β λ η μ έ ν α ς ἀνειμένοι ϰαὶ ἡσυχαστιϰοί. Interessante il ποιούμενοι, da cui è confermato quanto si dirà qui appresso (e nell’App. II), e cioè che ogni ritmo crea un’ἀγωγή che gli è in qualche modo propria. 140 E fra μέλος e μελοποιία. Per la ῥυϑμοποιία v. Aristox., el. rhythm., p. 282 s. Mor. ... (p. 284 ἐπί τε τῆς ῥυϑμιϰῆς πϱαγματείας τὴν ῥυϑμοποιίαν ὡσαύτως χϱῆσίν τινά φαμεν εἶναι). Cf. Ar. Quint., p. 42 Meib. (28.1 ss. Jahn). Cf. L. LALOY, Lexique d’Aristoxène, Paris 1904, s. v. ῥυϑμοποιία: réalisation du rythme. 141 Πεϱὶ τοῦ πϱώτου χϱόνου (cf. F. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, II, Aristoxenos, Basel 1945, p. 27).

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«(Dice Aristosseno) che, se le ἀγωγαί di ciascun ritmo sono indefinite, indefiniti saranno anche i tempi primi. . .» « . . . se si afferma che la ritmica è una scienza, è assurdo il farla consistere di cose indefinite: giacché l’indefinito è nemico di ogni scienza». « . . . infatti non mettiamo insieme i piedi con tempi indefiniti, ma con tempi precisi e definiti per grandezza e numero ed anche per proporzione ed ordine reciproco . . . » « . . . bisogna assolutamente considerare che qualunque ritmo si prenda – per esempio il trocheo –, posto in una determinata ἀγωγή, fra tutti quegli infiniti tempi indeterminati, ne prenderà per sé uno determinato, corrispondente appunto al trocheo».

Anche qui si parla di ἀγωγή nel senso preciso ed inequivocabile di «tempo». I primi tre capoversi citati dicono, in sintesi, che, se l’ἀγωγή fosse indefinita, indefinito sarebbe anche il tempo primo, che è l’elemento base del ritmo nella teoria aristossenica142; che questo non è ammissibile, perché, posto che la ritmica sia una scienza, scienza non si darebbe di cose indefinite; quindi i piedi debbono avere una loro concreta consistenza temporale. Ma il più interessante viene nel quarto ed ultimo capoverso citato. È proprio il τῆσδε della espressione ἐπὶ τῆσδέ τινος ἀγωγῆς che ci dà la chiave della interpretazione del passo. Quel τῆσδε non c’è altro modo di spiegarselo se non riferendolo a τϱοχαῖος: associato a τινος, ci dà, letteralmente, «quella certa (τινος) ἀγωγή corrispondente al trocheo (τῆσδε)». Che cosa viene a dire qui Aristosseno? Che il trocheo ha una sua particolare fissa durata d’emissione? Assolutamente no: avrebbe detto semplicemente τῆσδε ἀγωγῆς143. Qui si vuol dire invece che, nel caso che si prenda un ritmo trocaico, l’andamento del ritmo assumerà, sì, un’ἀγωγή che gli sia appropriata: ma nessuno si sogna di dire, con questo, che di appropriata il ritmo trocaico ne abbia una sola. Che cosa manca per determinare minutamente l’ἀγωγή τις? Manca la parola, manca il verso concreto, che, anche nella ritmica applicata, sfugge alla considerazione, come quello che è puro fatto di stile. Il nesso τόδε τι è frequente in Aristotele, appunto per significare la concretezza dell’oggetto di cui si prende in considerazione l’essenza144: qui lo troviamo collo stesso valore individuante. E più che evidente è il parallelismo col ποσή del passo di Aristide, che, significando «una certa, quaedam in senso misurativo», da una

|| 142 V. una formulazione del tutto simile in Aristox., el. rhythm., p. 280 s. . . . τὸ μὴ λαμβάνειν εἰς ἄπειϱον ἐπίτασιν τὰς τῶν ϰινήσεων ταχυτῆτας. . . 143 V. il parallelismo fra ἐπὶ τῆσδέ τινος ἀγωγῆς e ἕνα τινά [scil. χϱόνον]: ad una ἀγωγή τις corrisponde un χϱόνος πϱῶτός τις. 144 Cf. H. BONITZ, Index Aristotelicus, Berlin 1870, s. vv. ὅδε e οὐσία (3. c). Per i vari modi con cui si è cercato di tradurre il nesso tecnico nelle lingue moderne, v. Aristotele. Organon (a cura di G. COLLI), Torino 1955, p. 738 s. Il LIDDEL–SCOTT–JONES traduce a this, a fully specified particular.

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parte tradisce l’attenzione al fatto concreto, alla realizzazione concreta del tempo di emissione, dall’altra lascia aperta l’applicazione della definizione agli infiniti casi di realizzazione concreta dei vari schemi nei versi. Dalla testimonianza di Porfirio si ricava con chiarezza che il concetto di ἀγωγή, bisognoso di applicazione concreta per la sua stessa natura, è al margine della teoria in senso stretto e si trova al confine colla stilistica. Molto chiaramente un metricista moderno, ancora P. Maas145, afferma: die Frage nach dem Tempo ist keine metrische im Sinne dieser Disziplin. E questo proprio perché l’ἀγωγή si riferisce alla realizzazione concreta nel suono del materiale verbale, è in realtà quella stessa realizzazione. Come vediamo da Porfirio, il tecnico potrà arrivare a precisare l’ἀγωγή fino alla determinazione del ritmo a cui essa si applica (dattilico, trocaico, etc.): oltre non potrà andare, perché si tratterebbe di entrare in un ordine d’indagini che sfuggono alla sua competenza, come quelle che si appuntano nello studio di fenomeni più precisamente stilistici146. Uno degli elementi che concorrono a determinare l’ἀγωγή è la natura del ritmo in cui essa s’incarna: ma d’altra parte la più minuta categoria ritmica non è di per sé sola sufficiente a determinarla, contribuendo a tale determinazione vari altri elementi, come il peso fonico delle parole e il modo con cui esse sono le une alle altre avvicinate. Sono questi, appunto, gli elementi che tengono il concetto di ἀγωγή in una zona marginale e che lo portano al suo naturale complemento sul piano della stilistica147.

|| 145 Gr. Metrik2, cit., p. 13. 146 Di tale ovvio principio troviamo formulazione proprio in Dionigi, a proposito del ϰαιϱός, cioè dell’appropriatezza di certi espedienti stilistici: de comp. verb., p. 45.15 Us.–Rad. οὐδ’ ἔχει φύσιν τὸ πϱᾶγμα εἰς ϰαϑολιϰὴν ϰαὶ ἔντεχνόν τινα πεϱίληψιν πεσεῖν, οὐδ’ ὅλως ἐ π ι σ τ ή μ ῃ ϑηϱατός ἐστιν ὁ ϰαιϱὸς ἀλλὰ δ ό ξ ῃ . 147 Sul rapporto fra ἀγωγή e tipo di ritmo si vedano le interessanti testimonianze riportate all’App. II. — Per amor di completezza richiamo qui le due uniche definizioni divergenti di ἀγωγή ritmica. L’una è in Fragm. Parisinum, § 11 (p. 45.17 Westph.), dove si confonde ἀγωγή con γένος (v. WESTPHAL, Aristox., cit., I, p. 160). L’altro è in Bacch., isag., § 56, p. 14 Meib. (305.1 ss. Jan), dove il disordine è prodotto da un turbamento nello stato del testo (la spiegazione migliore è a mio avviso quella di CAESAR, Die Grundzüge, cit., p. 240; è desolante che O. SCHROEDER, Nomenclator metricus, Heidelberg 1929, s. v. prenda sul serio le confusioni di Bacchio e crei una nuova categoria di ἀγωγή). Sembra che anche Marziano Capella, che nel nono libro del suo de nuptiis Mercurii et Philologiae saccheggia (o traduce) Aristide Quintiliano, abbia equivocato sul significato di ἀγωγή: p. 518.4 quintum [scil. numeri genus] est, quod agogen rhythmicam nominamus, id est quo genere numerus modique ducantur. Per i rapporti fra Marziano Capella e Aristide v. da ultimo R. SCHÄFKE, Aristeides Quintilianus. Von der Musik. Eingel., übers. u. erl. v. R. S., Berlin–Schöneberg 1937, p. 4 ss.

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*** Dopo aver riconosciuto l’inopportunità dell’interpretazione metrica dei passi di Dionigi; dopo aver messo a fuoco per essi il concetto di tempo di recitazione e dopo aver ricercato concetto e termine (ἀγωγή) all’origine della teoria antica; possiamo finalmente tornare al testo di Dionigi per saggiare la validità di quanto fin qui ragionato. E vi troviamo ulteriori appigli ad avvicinamenti terminologici proprio nel quadro dell’ἀγωγή. Il termine, veramente, non compare in Dionigi nel suo significato tecnico148: e questo ci confermerebbe certi aspetti di varietà e libertà terminologica dionisiana, a cui già si è avuto occasione di accennare149. Dal particolare atteggiamento che Dionigi ostenta nei confronti della tecnica ritmica e metrica150 si può pensare che volesse addirittura sfuggire l’uso pedantesco dei termini tecnici: tendenza del tutto spiegabile in chi, da non cattivo stilista, cerca di evitare la monotonia del tono trattatistico in un’opera non aliena da eleganze stilistiche. Ma ancor maggiore è, in tal quadro, la concordanza terminologica non precisamente tecnica bensì, per così dire, capillare e di fondo, che si noterà qui di seguito a conclusione del nostro discorso e che tradirà il vero significato dei testi fin qui discussi. La seconda parte della citata definizione di ἀγωγή di Aristide Quintiliano non è del tutto chiara. Westphal stesso confessa di non capire la frase151: Ar. Quint., p. 42 Meib. (27.32 Jahn) ἀϱίστη δέ ἀγωγῆς ῥυϑμιϰῆς ἔμφασις152 ἡ ϰ α τ ὰ μέσον τῶν ϑέσεων ϰαὶ τῶν ἄϱσεων ποσὴ διάστασις.

|| 148 Nel de compositione la parola appare poche volte: cap. I, p. 5.3 («atteggiamento, modo di avvicinarsi allo studio stilistico»); cap. XIX, p. 85.3 (si noti la corrispondenza con 85.7 τò μέλος: si tratta qui dell’ἀγωγή armonica, per cui v. p. 93 n. 129); cap. XXIII, p. 119.18 (ἀγωγὴ τῶν λόγων: valore generico, press’a poco «stile»). Nelle altre opere retoriche un luogo si può avvicinare all’ultimo citato (valore generico): de Isocr., p. 76.22 ss.; cf. ancora de Isocr., p. 71.24 ss., de Isae., p. 120.24 s. La parola non ha comunque mai valore tecnico. 149 V. ROBERTS, op. cit., Glossary, p. 312 dove οἰϰεῖον (p. 40.15), che è evidentemente uguale a πϱέπον di tre righe prima (40.12), si nota come esempio di love for variety, riscontrabile anche nelle altre opere retoriche. Troveremo molte conferme in quanto segue. 150 V. spec. il passo cit. supra a n. 99. 151 Aristoxenos, cit., I, p. 159 s. V. la traduzione che ne dà CAESAR, Grundzüge, cit., p. 241: Die beste Art, die rhythmische Agoge zur Darstellung zu bringen, ist der irgendwie grosse Abstand, den man zwischen den Arsen und Thesen lässt. A confronto terminologico riporta un passo simile della sezione musicale (op. cit., p. 242). Per ἔμφασις v. ibid. (Vorstellung, Darstellung). R. P. WINNINGTON–INGRAM, per litt., 3.6.1963 richiama ancora, sempre in Aristide, ἐμφαντιϰός (pp. 73.20, 92.19) e nota che ἐμφαíνειν è frequente nel secondo libro in discussioni stilistiche.

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Abbiamo visto che Aristide, richiamandosi ai principi della teoria etica della musica, cerca di stabilire un optimum della ἀγωγή ritmica; abbiamo notato inoltre parallelismo fra il suo ποσή e il τῆσδέ τινος di Aristosseno in Porfirio e stabilito stretta parentela tra le due testimonianze, ambedue volte ad «applicare» il concetto astratto di ἀγωγή. Quello che non è chiaro è il modo con cui questo optimum viene espresso. Posto che διάστασις va inteso come «distanziamento, intervallo», che cosa può significare «intervallo fra i tempi forti e i tempi deboli»153? A spiegazione, conviene richiamare la definizione di χϱόνος ϰενός, come appare in Aristide stesso: Ar. Quint., p. 40 Meib. (27.6 Jahn) ϰενὸς μὲν οὖν ἐστι χϱόνος ἄνευ φϑόγγου πϱὸς ἀναπλήϱωσιν τοῦ ῥυϑμοῦ154. «Vuoto è quel tempo senza suono destinato a riempimento del ritmo».

Si veda anche la testimonianza dell’Anonimo di Bellermann, dove è chiaro che il χϱόνος ϰενός viene considerato dalla teoria come elemento costitutivo del ritmo, che, cioè, ogni ritmo comprende in sé: Anon., de mus., § 1 (cf. § 83) Bell. (p. 49.2 Westph.) ὁ ῥυϑμὸς συνέστηϰεν ἔϰ τε ἄϱσεως ϰαὶ ϑέσεως ϰαὶ χϱόνου τοῦ ϰαλουμένου παϱά τισι ϰενοῦ. (Cf. § 3)· «Il ritmo è costituito dal tempo debole, dal tempo forte e dal tempo che presso alcuni è chiamato vuoto».

La διάστασις sarebbe praticamente un χϱόνος ϰενός, interposto fra i vari elementi costitutivi del verso155, il quale crescerebbe o diminuirebbe di valore

|| 152 V. l’apparato di R. P. WINNINGTON–INGRAM a p. 58. Westphal (Metrik2, I, Anhang, p. 39; cf. Metrik3, I, p. 236 s.) legge come Tyrwhitt. 153 Qui tempo forte e tempo debole (arsi e tesi) stanno per «parti» del piede, elementi costitutivi: v. la teoria aristossenica del χϱόνος ποδιϰός e del χϱ. ῥυϑμοποιíας ἴδιος (ἄϱσις e βάσις = ϑέσις) in Psell., § 8 (p. 19 s. Westph.). 154 Sempre dallo stesso passo di Aristide apprendiamo che per il χϱόνος ϰενός esisteva una terminologia esaustiva: p. 40 Meib. (27.7 Jahn) λ ε ῖ μ μ α δὲ ἐν ῥυϑμῷ χϱόνος ϰενὸς ἐλάχιστος, π ϱ ό σ ϑ ε σ ι ς δὲ χϱόνος ϰενòς μαϰϱὸς ἐλαχίστου διπλασίων (ἢ τϱιπλασίων, ἢ τετϱαπλασίων aggiunge in forma di proposta WESTPHAL, Metrik2, I, p. 588 n. I, dal confronto coi segni di pausa dell’Anonimo di Bellermann, Metrik2, I, Anhang, p. 49 = §§ 1, 83 Bell.: ). Presso FR. BELLERMANN, Anonymi scriptio de musica ..., Berlin 1841, p. 18 trovo l’ipotesi che il segno nasca dall’abbreviazione di λεῖμμα. 155 Si evita qui di proposito il termine elementum. Per elementi costitutivi del verso s’intendono qui le sillabe o anche le parole (la considerazione è concreta, non astratta: cf. p. 63 e n. 12).

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temporale a seconda del variare dell’ἀγωγή. Il concetto di χϱόνος ϰενός156 è l’unico che possa portarci a spiegare quella che nella definizione di Aristide è semplicemente un’immagine157: immagine che serve ad introdurre il concetto di ἀγωγή, che è marginale e di confine come s’è visto sopra, nel campo della terminologia scientifica della tradizione aristossenica158. Oltre a un passo di Psello159, che ci familiarizza coll’immagine, si veda un passo di un’opera retorica di Dionigi stesso, dove, in contesto chiaramente stilistico riguardante la maggiore o minore velocità d’emissione, si usa l’immagine e se ne danno le ampie spiegazioni che essa richiede in chi non abbia dimestichezza colla terminologia160. Si sta parlando dello stile αὐστηϱός, severo: || 156 Non si confonda il χϱόνος ϰενός, che ha la funzione di «completare» il ritmo, colla battuta d’aspetto della musica moderna, né colle pause musicali (di minima, di semiminima, etc.): si ricordi che non siamo autorizzati a postulare la battuta. Qui si tratterebbe di tempi vuoti di durata elastica, che sarebbero totalmente indipendenti dalla durata delle sillabe singole. 157 A chiarire l’immagine, v. in GEORGIADES, Der griechische Rhythmus, cit., p. 21 ss. i concetti di Zeitabsteckung (distacco temporale) per la Schwergewichtsrhythmik (ritmica mensurale e accentuativa della musica moderna) e di Zeiterfüllung o erfüllte Zeit per la Quantitätsrhythmik. Allo stesso modo che l’a. (p. 41 ss.) trova i due principi presenti e dialetticamente operanti nella musica moderna (l’azione del «motivo» sullo schema mensurale), così si può pensare che alla teoria antica si presentasse ovvia la contemporaneità del fatto quantitativo (contiguità di tempi pieni di diverso valore, brevi e lunghi, nel caso concreto in rapporto schematico di 1 a 2: Zeiterfüllung) e del fatto della culminazione ritmica delle varie monadi quantitative, che si misurerebbe da culminazione a culminazione (Zeitabsteckung). Fra monade e monade quantitativa, secondo la nostra interpretazione, si situerebbero i tempi vuoti (χϱόνοι ϰενοί). Altri due passi di Aristide riceverebbero chiarificazione dalla interpretazione data: p. 34 Meib. (22.22 Jahn) οἱ δὲ πεϱίπλεῳ οἱ πλέον ἢ δεῖ τὴν βϱαδυτῆτα δ ι ὰ σ υ ν ϑ έ τ ω ν φ ϑ ό γ γ ω ν ποιούμενοι e p. 100 Meib. (60.38 Jahn) οἱ δὲ πεϱίπλεῳ τ ῶ ν φ ϑ ό γ γ ω ν τ ὴ ν σ ύ ν ϑ ε σ ι ν ἔχοντες ὕπτιοί τέ εἰσι ϰαὶ πλαδαϱώτεϱοι. La φϑόγγων σύνϑεσις (e i σύνϑετοι φϑόγγοι) si riferirebbero al modo in cui i suoni si pensano collegati fra loro dai χϱόνοι ϰενοί. 158 Che si tratti di un concetto di comodo ci è detto chiaramente da un passo di Bacchio: p. 24 Meib. (314.12 Jan) τ ὸ ν δ ὲ ἀ ν ὰ μ έ σ ο ν τ ῆ ς ἄ ϱ σ ε ω ς ϰ α ὶ τ ῆ ς ϑ έ σ ε ω ς χ ϱ ό ν ο ν οὐϰ ἄξιον ἐπιζητεῖν ὡς ὄντα τινὰ τῶν ϰατὰ μέϱος· διὰ γὰϱ τὴν βϱαχύτητα λανϑάνει ϰαὶ τὴν ὄψιν ϰαὶ τὴν ἀϰοήν. Qui ϰατὰ μέϱος significherà «parziale, non completo», non raggiungente l’unità, il valore del χϱόνος πϱῶτος. Per le fonti di Bacchio in generale, e per questo passo in particolare (Aristosseno), v. C. v. JAN, R. E., II, 2, Stuttgart 1896, col. 2791. V. ancora, a proposito dell’importanza dell’αἴσϑησις, più su a p. 76 ss. 159 Psell., § 6 (p. 19.14 ss. Westph.). 160 La mancanza di tali spiegazioni nel de compositione farebbe pensare che il de Demosthene sia stato composto prima, almeno in parte. Diversamente ha stabilito il Blass, ordinando il de Demosth. molto più tardi (cf. CHRIST–SCHMID–STÄHLIN, II, 1, p. 467 n. 1). S. F. BONNER, The Literary Treatises of Dionysius of Halicarnassus, Cambridge 1939, pp. 31 ss., 38 pensa che segua al de compos. solo la parte finale del de Demosth., dal cap. XXXIII alla fine: anche tale ipotesi di compromesso non sembra però sufficiente.

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Dion. Hal., de Demosth., cap. XXXVIII, p. 210.11 Us.–Rad. ... ὀνόμασι χϱῆσϑαι φιλεῖ μεγάλοις ϰαὶ μαϰϱοσυλλάβοις161 ϰαὶ τ α ῖ ς ἕ δ ϱ α ι ς αὐτῶν εἶναι π λ α τ έ ω ς [πλουσίως codd., corr. Sylburg, cf. de comp. verb., pp. 96.20, 112.1, 119.11, etc.] πάνυ βεβηϰυίαις, χϱόνων τε ἀξιολόγων ἐμπεϱιλήψει διοϱίζεσϑαι ϑ ά τ ε ϱ α ἀ π ò τ ῶ ν ἑ τ έ ϱ ω ν . (Tale effetto è prodotto dagl’incontri di vocali; poi così prosegue:) p. 210.18 ἀναγϰαῖον γὰϱ ἦν χ ϱ ό ν ο ν τ ι ν ὰ μ έ σ ο ν ἀ μ φ ο ῖ ν ἀ ξ ι ό λ ο γ ο ν ἀπολαμβάνεσϑαι. ϰαὶ μηδεὶς εἴπῃ· ‘τί δὲ τοῦτό ἐστιν, ἢ πῶς ἄν τις γένοιτο χ ϱ ό ν ο ς , ὃς161 μεταϑῇ ὀνόματα ἀπ’ ἀλλήλων δ ι ε σ τ ά ν α ι ϰατὰ τὰς τῶν φωνηέντων συμβολάς;’ δείϰνυται γὰϱ ὑπό τε μουσιϰῶν ϰαὶ μετϱιϰῶν ὁ διὰ μ έ σ ο υ τ ῶ ν φ ω ν η έ ν τ ω ν χ ϱ ό ν ο ς ἑτέϱων παϱεμβολῇ γϱαμμάτων ἡμιφώνων ἀναπληϱοῦσϑαι δυνάμενος τοῦτο δ’ οὐϰ ἂν ἐγίγνετο μὴ σ ι ω π ῆ ς τ ι ν ο ς ἀ ξ ι ο λ ό γ ο υ δ ι ε ι ϱ γ ο ύ σ η ς τὰ φωνήεντα ἀπ’ ἀλλήλων. « . . . ama far uso di parole lunghe e costituite da sillabe lunghe e che, per la loro posizione, siano come di solido incesso, e che, per l’ammissione di tempi rimarchevoli tra di loro, siano ben distinte le une dalle altre. . . . Era necessario, infatti, che ricevessero un certo tempo intermedio fra di loro (le vocali). E che nessuno dica: «Che cos’è questo tempo, e come può essere tale da fare in modo che le parole s’intervallino le une dalle altre secondo gl’incontri di vocali?». Viene infatti dimostrato dai musici e dai metrici che il tempo intermedio fra le vocali è passibile di riempimento per mezzo dell’inserzione di consonanti continue. E questo non succederebbe, se non ci fosse una specie di tempo d’aspetto (di silenzio) degno di nota a dividere le vocali le une dalle altre».

Segue un’accurata disquisizione di fonetica stilistica, in cui ricorrono paroche si vedranno usuali in contesti simili, come ἀναϰοπή, ἀντιστηϱιγμός, τϱαle, χύτης: gli iati, insomma, creano dei ritardi nel tempo di lettura, rallentano la dizione con «collisioni, resistenze, durezze». Come si vede, pur trovandosi l’immagine, piuttosto precisa, del tempo intermedio, la si usa con abbondante approssimazione e per le parole (p. 210.11 ss.) e per le vocali (p. 210.18 ss.): e la stessa approssimazione troviamo nel de compositione, dove l’immagine del χϱόνος ϰενός è piuttosto frequente. Nel cap. XXIII si parla della composizione elegante, raffinata, delicata (γλαφυϱά): Dion. Hal., de comp. verb., cap. XXIII, p. 111.18 Us.–Rad. ἡ δε γλαφυϱὰ σύνϑεσις, ἣν δευτέϱαν ἐτιϑέμην τῇ τάξει, χαϱαϰτῆϱα τοιόνδε ἔχει· οὐ ζητεῖ ϰαϑ’ ἓν ἕϰαστον ὄνομα ἐϰ πεϱιφανείας ὁϱᾶσϑαι ο ὐ δ ὲ ἐ ν ἕ δ ϱ ᾳ π ά ν τ α β ε β η ϰ έ ν α ι π λ α τ ε ί ᾳ τ ε ϰαὶ ἀσφαλεῖ οὐδὲ μαϰϱοὺς τοὺς μεταξὺ αὐτῶν εἶναι χϱόν ο υ ς , οὐδ’ ὅλως τὸ βϱαδὺ ϰαὶ σταϑεϱὸν τοῦτο φίλον αὐτῇ, ἀλλὰ ϰεϰινῆσϑαι βούλεται τὴν ὀνομασίαν ϰαὶ φέϱεσϑαι ϑάτεϱα ϰατὰ τῶν ἑτέϱων ὀνομάτων ϰαὶ ὀχεῖσϑαι τὴν ἀλληλουχίαν λαμβάνοντα βάσιν ὥσπεϱ τὰ ῥέοντα ϰαὶ μηδέποτε ἀτϱεμοῦντα· σ υ ν η λ ε ῖ φ ϑ α ί τ ε ἀ λ λ ή λ ο ι ς ἀ ξ ι ο ῖ ϰ α ὶ σ υ ν υ φ ά ν ϑ α ι τ ὰ μ ό ϱ ι α ὡς μιᾶς

|| 161 Segue una sezione di testo corrotto per cui cf. l’apparato di Us.–Rad. ad loc. Il senso resta comunque univoco e chiaro.

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λέξεως ὄψιν ἀποτελοῦντα εἰς δύναμιν. τοῦτο δὲ ποιοῦσιν αἱ τῶν ἁϱμονιῶν ἀϰϱίβειαι χ ϱ ό ν ο ν α ἰ σ ϑ η τ ὸ ν ο ὐ δ έ ν α τ ὸ ν μ ε τ α ξ ὺ τ ῶ ν ὀ ν ο μ ά τ ω ν πεϱιλαμβάνουσαι ἔοιϰέ τε ϰατὰ μέϱος εὐητϱίοις ὕφεσιν ἢ γϱαφαῖς συνεφϑαϱμένα τὰ φωτεινὰ τοῖς σϰιεϱοῖς ἐχούσαις. «La composizione raffinata, che abbiamo posta seconda nell’ordine, ha questa particolarità: non ricerca che ogni parola sia notata in grande evidenza, né che tutto inceda in base salda e sicura, né che grandi siano i tempi intermedi, né ama affatto il lento e lo statico; bensì ama che l’elocuzione sia mossa, che le parole si portino e si trascinino l’una sull’altra e che la connessione fra di esse sia sostenuta e che prendano un andamento simile alle cose che scorrono e che non stanno mai ferme: e vuole che si fondano e s’intreccino fra di loro le parti (del discorso), in modo da costituire, quanto al valore (fonico), l’apparenza d’una sola parola. Questo viene prodotto dalla nettezza delle giunture, che non ammettono nessun tempo sensibile fra le parole: e, in parte, somiglia a stoffe ben tessute o a pitture che abbiano ben fusi insieme i chiari e gli scuri». p. 119.10 ταῦϑ’ ὅτι συνήλειπταί τε ϰαὶ συγϰέχϱωται, ϰαὶ οὐ ϰαϑ’ ἓ ν ἕ ϰ α σ τ ο ν ὄ ν ο μα ἐν ἕδϱᾳ πεϱιφανεῖ ϰαὶ πλατείᾳ βέβηϰεν οὐδὲ μαϰϱοῖς τοῖς μεταξὺ χϱόνοις διείϱγεται ϰαὶ διαβέβηϰεν ἀπ’ ἀλλήλ ω ν , ἀλλ’ ἐν ϰινήσει τε ὄντα φαίνεται ϰαὶ φοϱᾷ ϰαὶ ῥύσει συνεχεῖ, πϱαεῖαί τε αὐτῶν εἰσι ϰαὶ μαλαϰαὶ ϰαὶ πϱοπετεῖς αἱ συνάπτουσαι τὴν λέξιν ἁϱμονίαι, τὸ ἄλογον ἐπιμαϱτυϱεῖ τῆς ἀϰοῆς πάϑος. «Ed è l’istintiva sensazione che riceviamo per l’udito a testimoniare che tutto questo si fonde e si combina strettamente (prende lo stesso colore); che ogni parola non sta per se stessa in salda posizione d’evidenza; che, infine, esse non sono separate e distinte le une dalle altre da grandi tempi intermedi, ma che appaiono in movimento, trascinate in continuo scorrere, che dolci e molli e fluenti sono le giunture che tengono insieme la elocuzione».

La composizione raffinata è quella che produce un’impressione di scorrevolezza e di continuità. Il porre tra elemento ed elemento della lexis dei tempi intermedi troppo lunghi rallenterebbe in modo inopportuno la dizione; d’altra parte il produrre dei collegamenti troppo stretti e duri si richiede solo quando si abbiano da rappresentare cose orrende e spaventose, come si vede in Omero, il gran modello: cap. XVI, p. 64.19 τῶν τε φωνηέντων οὐ τὰ ϰϱάτιστα ϑέσει ἀλλὰ τὰ δυσηχέστατα, ϰαὶ τῶν ψοφοειδῶν ἢ ἀφώνων τὰ δυσεϰφοϱώτατα λήψεται ϰαὶ ϰ α τ α π υ ϰ ν ώ σ ε ι τούτοις τὰς συλλαβάς. «fra le vocali non userà le più forti e salde, ma quelle di suono più duro, e fra le consonanti continue ed occlusive sceglierà le più difficili ad emettersi e comprimerà così le sillabe».

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Volendo poi imitare la violenza di due fiumi torrenziali che si uniscono, il poeta crea sillabe non morbide e lisce, ma dure e contrastanti, e p. 65.14 ἀ ν α ϰ ο π ά ς τε ποιήσει συλλαβῶν ϰαὶ ἀ ν α β ο λ ὰ ς χϱόνων ϰαὶ ἀ ν τ ι σ τ η ϱ ι γ μ ο ὺ ς γϱαμμάτων. «creerà collisioni di sillabe e ritardi nei tempi e resistenze fra i suoni».

Quando invece vuole rappresentare cose belle e dolci, fa uso delle consonanti più solide e delle vocali più dolci e p. 64.7 ο ὐ ϰ α τ α π υ ϰ ν ώ σ ε ι τοῖς ἀφώνοις τὰς συλλαβὰς οὐδὲ σ υ γ ϰ ό ψ ε ι τοὺς ἤχους παϱατιϑεὶς ἀλλήλοις τὰ δυσέϰφοϱα, πϱαεῖαν δέ τινα ποιήσει τὴν ἁϱμονίαν τῶν γϱαμμάτων ϰαὶ ῥ έ ο υ σ α ν ἀ λ ύ π ω ς διὰ τῆς ἀϰοῆς. «non comprimerà le sillabe per mezzo delle consonanti né taglierà le sonorità ponendo vicini gli uni agli altri suoni che siano di faticosa pronuncia, ma le giunture da lui create fra i suoni saranno dolci e morbidamente scorrenti all’udito».

Che cosa sono queste ϰαταπυϰνώσεις (compressioni, condensazioni), ἀναϰοπαί (collisioni) fra le sillabe e queste ἀναβολαί fra i tempi di pronuncia e questi ἀντιστηϱιγμοί fra le lettere? Si tratta evidentemente di ritardi o di affrettamenti che si producono fra gli elementi del verso e che influenzano la realizzazione di ogni determinato tempo di recitazione. Anche nel cap. XX si era parlato di στηϱιγμοί e di ἐγϰαϑίσματα (p. 91.13)162 a proposito della «lentezza» dei versi che descrivono il faticoso riporto a monte del masso di Sisifo. L’immagine del tempo vuoto intermedio ora appare ora no, ma tutti i testi citati sopra indicano inequivocabilmente lo stesso fatto. La stretta colleganza fra tutto quello che si è citato di Dionigi e la definizione aristidea è evidente. Si potrebbe solo fare un’obiezione: come mai Aristide parli chiaramente di intervalli fra i tempi forti e i tempi deboli (fra le tesi e le ar-

|| 162 Quanto al significato preciso da dare ai due sostantivi, non mi pare che ci possano esser dubbi. Στηϱιγμός vale a sustaining, pause, lat. mora (Lidd.–Sc.–J.); ἐγϰάϑισμα vale «prolungamento, fermata». È strano che KOSTER, Traité, cit., p. 30 n. 1 intenda i due sostantivi come riferentisi alla intensità di emissione ed affermi che, pur dovendosi negare in greco l’ictus, en fait, la quantité n’est pas absolument inséparable de l’intensité. L’affermazione mi sembra del tutto sensata, ma non mi pare che si possa trovar conforto in questo passo di Dionigi. Qui si tratta di impedimenti nella velocità d’emissione, come in tutti gli altri passi che stiamo esaminando. Cf. de comp. verb., p. 113.11 στηϱιχϑῆναι τὸ ν; de Demosth., cap. XLIII passim. Per ἀντιστηϱιγμός cf. de comp. verb., p. 65.15, cit. sopra, e de Demosth., p. 211.6. Cf. anche la terminologia dello Pseudo–Longino cit. a p. 106 n. 165.

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si, cioè fra i vari tempi podici aristossenici), mentre Dionigi parla d’intervalli ora fra sillabe (pp. 64.8, 64.22), ora fra parole (93.3, 93.7, 111.8 s., 112.2, 112.10 s.), ora fra ἁϱμονίαι (collegamenti, giunture) di vocali e consonanti fra loro (93.5 s.) e finalmente fra χϱόνοι (92.16 s., 119.12 s.). Ma direi che è proprio questa varietà (quattro diverse designazioni) a confermarci quelle caratteristiche di ricchezza e libertà terminologiche già notate in Dionigi e a darci definitiva garanzia del fatto che il fenomeno di cui qui si parla è dovunque inequivocabilmente lo stesso. A dare ancora una volta idea della inopportunità dell’applicazione di certi procedimenti critici a Dionigi, gioverà ricordare che per il Fraenkel163 bastava una sola lieve discrepanza terminologica (Hebungen, e cioè longa, nel cap. XVII, p. 71.10, e sillabe lunghe nel cap. XX, p. 92.18 ss.) per togliere ogni credito alla testimonianza del cap. XX (quella inequivocabilmente stilistica, che abbiamo visto avere tanti punti di contatto colla prima), facendone un poco abile autoschediasma di Dionigi stesso. E ancora, ritornando al passo del cap. XX, un parallelismo decisivo. Per la velocità di recitazione del verso del macigno di Sisifo e per la lentezza di quelli che lo precedono vengono usate le seguenti espressioni: cap. XX, p. 91.3 ἔπειτα πᾶσαι δ ι α β ε β ή ϰ α σ ι ν αἱ τῶν ὀνομάτων ἁϱμονίαι δ ι α β ά σ ε ι ς εὐμεγέϑεις ϰαὶ δ ι ε σ τ ή ϰ α σ ι πάνυ αἰσϑητῶς, ἢ τῶν φωνηέντων γϱαμμάτων συγϰϱουομένων ἢ τῶν ἡμιφώνων τε ϰαὶ ἀφώνων συναπτομένων· ῥυϑμοῖς δὲ δαϰτύλοις ϰαὶ σπονδείοις τοῖς μηϰίστοις ϰαὶ πλείστην ἔχουσι δ ι ά β α σ ι ν ἅπαντα σύγϰειται. «e poi tutte le giunture fra le parole sono distanziate fra di loro in intervalli di giusta grandezza e sono distinte in modo sensibile, sia per l’incontro di vocali sia per la connessione di consonanti continue ed occlusive: tutto è, poi, costituito da ritmi – dattili e spondei – particolarmente lenti e forniti dei più grandi intervalli intermedi». p. 92.16 (già cit.) τοῦτ’ οὖν ϰαὶ πϱῶτον οὐ δ ι ί σ τ η σ ι τοὺς χϱόνους ἀλλ’ ἐπιταχύνει. p. 93.2 (già cit.) ἔτι πϱὸς τούτοις οὐδ’ ὄνομα ἀπὸ ὀνόματος ἀξιόλογον εἴληφεν δ ι ά σ τ α σ ι ν οὔτε γὰϱ φωνήεντι φωνῆεν οὔτε ἡμιφώνῳ ἡμίφωνον ἢ ἄφωνον, ἃ δὲ τϱαχύνειν πέφυϰεν ϰαὶ δ ι ι σ τ ά ν α ι τὰς ἁϱμονίας, οὐδέν ἐστι παϱαϰείμενον, οὐ δὴ γίνεται δ ι ά σ τ α σ ι ς αἰσϑητὴ μὴ διηϱτημένων τῶν λέξεων, ϰτλ.

È evidente: abbiamo qui la δ ι ά σ τ α σ ι ς dell’ἀγωγή di Aristide Quintiliano. Oltre ad altri casi di uso di δ ι ά σ τ α σ ι ς (96.14) e di δ ι ί σ τ η μ ι (104.5, 105.19, 113.11), tutto il trattatello di Dionigi è pieno di espressioni simili o del tutto equivalenti, che ancora una volta ci mostrano la consueta disposizione a ric|| 163 Art. cit., p. 146 s.

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chezza terminologica per la designazione d’un fenomeno del tutto familiare (tutti i termini che seguono indicano lentezza e solennità della composizione, e vengono negati per indicare velocità di tempo): διαλαμβάνω (67.13), διάβασις (102.7, 105.5), διαβαίνω (70.9, 96.19, 100.13, 102.6, 105.5, 119.13), διεϱείδω (102.13), διεϱεισμός (104.10, 106.7). È proprio questa la concordanza terminologica capillare di cui abbiamo parlato iniziando l’ultima fase della nostra ricerca. La terminologia χϱόνος ϰενός–διάστασις – come possiamo ormai chiamarla per intenderci – ha una sua indiscutibile consistenza: la troviamo non solo, presso Dionigi, altrove che nel de compositione164, ma anche in altri rappresentanti della tradizione retorica165. Ultima e decisiva conferma della sua validità è, come per i termini ϰυϰλιϰός–στϱογγύλος, il ritrovarla integralmente nell’attrezzatura espressiva della retorica latina166. La terminologia χϱόνος ϰενός–διάστασις ci permette così di capire che cosa intende Aristide quando definisce l’optimum dell’ἀγωγή: come già abbiamo stabilito, usa un’immagine167 per esprimere il più efficacemente possibile il modo con cui è rallentata o affrettata l’ἀγωγή. Per chiarirci l’immagine che ci propone la terminologia e per restare nello stesso tempo coerenti colle premesse da noi poste168, sceglieremo, fra i vari elementi del verso da Dionigi indicati (sillabe, parole, ἁϱμονίαι, χϱόνοι), proprio le sillabe. È come se in una ἀγωγή lenta si sentissero, fra sillaba e sillaba, dei tempi di riposo più o meno lunghi169: non si tratta d’altro, in pratica, che dell’emissione lenta o veloce delle varie sillabe. Ma in più – ed è questo che ci sta maggiormente a cuore – la concordanza fra

|| 164 De Demosth., pp. 224.11, 225.6 s., 225.20 ss., 226.13, 226.16, oltre il passo citato sopra (p. 102). 165 Ps.–Longin., de subl., 40.4 ἔστι μὲν γενναῖον ϰαὶ τὸ λῆμμα, ἁδϱότεϱον δὲ γέγονε τῷ τὴν ἁϱμονίαν μὴ ϰατεσπεῦσϑαι, μηδ’ οἷον ἐv ἀποϰυλίσματι φέϱεσϑαι, ἀλλὰ σ τ η ϱ ι γ μ ο ύ ς τε ἔχειν πϱὸς ἄλληλα τὰ ὀνόματα ϰαὶ ἐ ξ ε ϱ ε ί σ μ α τ α τ ῶ ν χ ϱ ό ν ω ν π ϱ ὸ ς ἑ δ ϱ α ῖ ο ν δ ι α β ε β η ϰ ό τ α μ έ γ ε ϑ ο ς . È quanto di più tipico si possa desiderare per confermare il valore della terminologia. Proprio per questo sembra strano interpretare, due paragrafi più sopra, δ ι ά σ τ η μ α (ὄγϰον ϰαὶ διάστημα) diversamente da «lentezza, solennità»: e invece Lidd.–Sc.–J., Roberts (On the Subl., Cambridge 1907), Lebègue («Les Belles Lettres»), etc. intendono concordemente «distinzione». Per gli scoli omerici, etc., v. l’App. IV. 166 V. l’App. IV. 167 I. C. T. ERNESTI, Lexicon technologiae Graecorum rhetoricae, Leipzig 1795, s. v. ἐξεϱείσματα, τῶν χϱόνων (p. 113), proprio a proposito del cap. XX di Dionigi, parla giustamente di metaphorae. 168 V. sopra p. 63 (e n. 13). 169 Molto chiaro, in proposito, è Ar. Quint., p. 97 Meib. (59.17 Jahn) οἱ δὲ [scil. τῶν ῥυϑμῶν] β ϱ α χ ε ῖ ς τ ο ὺ ς ϰ ε ν ο ὺ ς ἔχοντες ἀφελέστεϱοι ϰαὶ μιϰϱοπϱεπεῖς, ο ἱ δ ’ ἐ π ι μ ή ϰ ε ι ς μεγαλοπϱεπέστεϱοι.

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Aristide e Dionigi permette di dare finalmente il loro giusto valore alle proposizioni di Dionigi. Ormai non possono più restar dubbi. Dovunque si voglia cercare la fonte prima della terminologia che in lui troviamo, Dionigi, per i suoi scopi ben precisi di critico letterario, si è servito, piegandolo alle sue esigenze, di un concetto (quello di ἀγωγή) appartenente alla più pura tradizione aristossenica, che, nella sua applicazione concreta alla versificazione, era passato ad una zona marginale fra la tecnica in senso stretto e la critica letteraria. Non si tratta di un concetto del tutto fluttuante – né si darebbe, come dice Aristosseno, scienza del non–definito –: e già la tradizione aristossenica aveva provveduto ad una sua iniziale applicazione, appunto perché, come abbiamo visto, ogni verso, colla sua struttura metrica, porta già con sé una sua velocità di emissione, un suo tempo, pur nei limiti che si son visti sopra (p. 97 s.). Ma c’è qualcos’altro che conta, per la realizzazione d’un verso: ed è la sua particolare struttura fonica, la sua concreta realtà. Solo, questa realtà non si lascia misurare cogli strumenti di precisione forniti dalla metrica in senso stretto, né si puὸ invocare alcun principio generale della ritmica, che è astratta: soltanto la ricerca stilistica potrà instradare in tale indagine. Il piede leggero, nato da un passo di Dionigi male interpretato e male inquadrato nel suo contesto, non ha quindi, da quanto s’è visto, realtà metrica. Per le varie interpretazioni metriche, che in un secolo e mezzo si sono articolate nei modi più ingegnosi, si dovrà almeno rinunciare a richiamare la testimonianza di Dionigi, laddove vi si sia fondata una teoria che si voglia ancor oggi difendere. Ma alla teoria logaedica da parecchio tempo non crede più nessuno. Resterebbe la corrente più strettamente filologica iniziata da Hermann, che perὸ, con Dionigi alla mano, non è riuscita fino ad oggi a spiegarci quello che va spiegato per altre vie o per cui forse deve ancora valere la più rigorosa ars nesciendi.

APPENDICI I. (DIZIONE E TEMPO DI DIZIONE). La considerazione del tempo di dizione s’inquadra, nella civiltà antica, in un predominante interesse per la parola fonicamente intesa, per la recitazione a voce alta. È nota la svalutazione della parola scritta, presso gli antichi, che ha trovato in Platone (Phaedr., 274 c ss.) espressione nel mito di Theut, inventore della scrittura; e nell’autunno del mondo antico troviamo la famosa scena descritta da S. Agostino nelle Confessioni (6.3.3) in cui si descrive la meraviglia di

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vedere S. Ambrogio nella sua stanza tacite legentem. Per l’importanza della parola nella sua realizzazione sonora v. NORDEN, Kunstprosa4, cit., p. 4 ss. e Nachtr., p. 1 ss. Il grande valore storico–culturale di un tale atteggiamento è efficacemente messo in luce da J. A. NOTOPOULOS, Mnemosyne in Oral Literature, «Trans. Proc. Amer. Philol. Ass.» 69 1938, pp. 465–493 (la diffidenza e l’avversione per la parola scritta originano dal fatto che quest’ultima distrugge la memoria). Si tenga presente il peso che la recitazione a viva voce avrebbe avuto, secondo alcuni, per la formazione dei poemi omerici: il problema è affrontato, da un punto di vista generale, da W. C. GREENE, The Spoken and the Written Word, «Harv. St. Class. Philol.» 60 1951, pp. 23–59 (che accetta forse troppo supinamente le conclusioni dei celebri lavori di M. Parry, facendo della tecnica formulare una categoria rigidamente orale). Vari sono i modi in cui la parola si realizza. La distinzione fra canto, recitativo (si pensi alla παϱαϰαταλογή) e semplice recitato avrà avuto valore, naturalmente, finché per le forme arcaiche e classiche della poesia era ancora in vigore la conoscenza della musica e in uso l’esecuzione musicale. Fin dall’età alessandrina la musica del periodo classico è scomparsa anche dalle partiture (soprattutto per opera dei grammatici: v. WILAMOWITZ, Textgeschichte der griechischen Lyriker, Berlin 1900, p. 41); da ultimo, con qualche precisazione, J. IRIGOIN, Histoire du texte de Pindare, Paris 1952, p. 21 s.): ma l’uso della semplice lettura, dell’ἀνάγνωσις anche della parola originariamente musicata sarà stato, senza dubbio, più antico (v. quanto si legge in SCHMID–STÄHLIN, I 1, pp. 74 s., 157 sul già antico distaccarsi della recitazione epica dall’accompagnamento musicale). Si aggiunga, dall’età classica in poi, la pratica oratoria sempre più diffusa e sempre più curata: per essa veniva ad aver peso particolare anche la pronuncia (πϱοφοϱά, ἐϰφοϱά) e quella che possiamo chiamare recitazione (ὑπόϰϱισις, ἀπαγγελία). Ἀνάγνωσις, πϱοφοϱά, ὑπόϰϱισις sono le tre voci in cui s’appunta ogni considerazione sulla dizione, intesa sempre come necessario complemento, o meglio come necessaria realizzazione della parola scritta. Per l’ἀ ν ά γ ν ω σ ι ς v. Ar. Quint., p. 7 Meib. (5.6 ss. Jahn), dove si distinguono i vari tipi di voce ( φ ω ν ή ) : la συνεχής, che non fa sentire, διά τι τάχος*, cambiamenti di tono ed è quella del discorso ordinario; la διαστηματιϰή, che ha differenze di tono senza che si senta il passaggio dall’uno all’altro, ed è realizzata nel canto; la μέση, media fra le due, che è quella della lettura della poesia (ᾗ τὰς τῶν ποιημάτων ἀναγνώσεις ποιούμεϑα). Cf. Aristox., el. harm., p. 8 ss. Meib. (13.8 ss. Da Rios), dove manca || * Codd., διὰ τὸ τάχος vel διά τε τάχους Meibom, διά τε τάχος Seydel (dall’apparato di R. P. WINNINGTON–INGRAM, per litt., 3.6.1963).

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la μέση, perché si vuole semplicemente spiegare la διαστηματιϰή (canto) in confronto colla συνεχής (discorso ordinario). Per l’importanza attribuita alla lettura per la resa nel suono dei singoli componimenti, considerati come appartenenti ai vari generi letterari, si veda la testimonianza di Dionisio Trace, che si diffonde sull’argomento con notevole estensione: Dion. Thr., § 2, p. 6.4 Uhlig (πεϱὶ ἀναγνώσεως). ἀ ν ά γ ν ω σ ί ς ἐστι ποιημάτων ἢ συγγϱαμμάτων ἀδιάπτωτος π ϱ ο φ ο ϱ ά . ἀναγνωστέον δὲ ϰαϑ’ ὑπόϰϱισιν, ϰατὰ πϱοσῳδίαν, ϰατὰ διαστολήν, ἐϰ μὲν γὰϱ τῆς ὑποϰϱίσεως τὴν ἀϱετήν, ἐϰ δὲ τῆς πϱοσῳδίας τὴν τέχνην, ἐϰ δὲ τῆς διαστολῆς τὸν πεϱιεχόμενον νοῦν ὁϱῶμεν ἵνα τ ὴ ν μ ὲ ν τ ϱ α γ ῳ δ ί α ν ἡϱωϊϰῶς ἀναγνῶμεν, τὴν δὲ ϰωμῳδίαν βιωτιϰῶς, τὰ δὲ ἐλεγεῖα λιγυϱῶς, τὸ δὲ ἔπος εὐτόνως, τὴν δὲ λυϱιϰὴν ποίησιν ἐμμελῶς, τοὺς δὲ οἴϰτους ὑφειμένους ϰαὶ γοεϱῶς. τὰ γὰϱ μὴ παϱὰ τὴν τούτων γινόμενα παϱατήϱησιν ϰαὶ τὰς τῶν ποιητῶν ἀϱετὰς ϰαταϱϱιπτεῖ ϰαὶ τὰς ἕξεις τῶν ἀναγιγνωσϰόντων ϰαταγελάστους παϱίστησιν.

Si vedano anche gli scoli (Hilgard, Leipzig 1901), che si diffondono particolarmente sull’argomento ed accentuano l’importanza dell’ἀνάγνωσις: v. ad es. pp. 453.25 ss., 473.12 ss., etc. Di particolare interesse i commenti ai vari tipi di ἀνάγνωσις elencati (v. sopra) da Dionisio Trace (pp. 16.3 ss., 170.26 ss., 305.7 ss., etc.). In Dionigi si veda, ad es., de comp. verb., p. 140.21 Us.–Rad. (ἀναγίγνωσϰε ϰατὰ διαστολάς, a proposito del carme simonideo). Per la π ϱ ο φ ο ϱ ά , ovvero ἐ ϰ φ ο ϱ ά , oltre all’uso frequente (ed improprio) di riferirvisi per la indicazione della quantità delle vocali e delle sillabe (ad es. in Dion. Hal., de comp. verb., p. 51.9; cf. gli scoli omerici), v. Dion. Hal., de comp. verb., p. 32.8 e lo scolio omerico cit. all’App. II, luoghi dov’essa è intesa nel senso globale di «dizione ad alta voce». V. anche la definizione aristidea di ἀγωγή (ὅταν... πϱοφεϱώμεϑα), che ha formato oggetto di discussione sopra (p. 95 s.). Alla ὑ π ό ϰ ϱ ι σ ι ς , concetto più ampio dei due precedenti e tale da comprenderli in sé, aveva dedicato un’opera intera Teofrasto, che doveva essere sviluppo di spunti aristotelici: si vedano, nel terzo libro della Retorica, i passi 1403 b 21 ss. (v. spec. 27 ss. . . . ἐν τ ῇ φ ω ν ῇ , πῶς αὐτῇ δεῖ χϱῆσϑαι πϱὸς ἕϰαστον πάϑος. . . ϰαὶ ῥυϑμοῖς τίσι πϱὸς ἕϰαστα), 1413 b 3 ss. (spec. 18 ss. ἀφῃϱημένης τῆς ὑ π ο ϰ ϱ ί σ ε ω ς οὐ ποιοῦντα τὸ αὑτῶν ἔϱγον φαίνεται εὐήϑη, οἷον τά τε ἀσύνδετα ϰαὶ τὸ πολλάϰις τὸ αὐτὸ εἰπεῖν ἐν τῇ γϱαφιϰῇ ὀϱϑῶς ἀποδοϰιμάζεται, ἐν δὲ ἀγωνιστιϰῇ οὔ, ϰαὶ οἱ ῥήτοϱες χϱῶνται· ἔστι γὰϱ ὑ π ο ϰ ϱ ι τ ι ϰ ή ) , 1413 b 30 s. ἀνάγϰη γὰϱ ὑ π ο ϰ ϱ ί ν ε σ ϑ α ι ϰαὶ μὴ ὡς ἓν λέγοντα τῷ αὐτῷ ἤϑει ϰαὶ τόνῳ εἰπεῖν [scil. τὰ ἀσύνδετα]). Dall’opera di Teofrasto può essere disceso quasi tutto quello che leggiamo in Cic., or., 55.183–60.203 e in Longin., p. 194.20 ss.

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Hammer (in Spengel2 1, 2), come sostiene KROLL, R. E., Supplementb. VIII, Stuttgart 1940, col. 1075. (Si tenga presente che ὑπόϰϱισις può alla volte riferirsi solo alla mimica, alle σωματιϰαὶ ϰινήσεις, con esclusione della dizione, come in Ar. Quint., p. 100 Meib. = 61.4 ss. Jahn). Di particolare interesse è la menzione della πεπλασμένη ὑπόϰϱισις in Ar. Quint., p. 32 Meib. (21.23 Jahn) per indicare il tipo di recitazione «delle opere di Sotade e simili» (v. GOODELL, Chapters, cit., p. 51). V. da ultimo B. ZUCCHELLI, Ὑποϰϱιτής. Origine e storia del termine, «Pubbl. Ιst. Fil. Class.» 15, Genova 1962 con ricca bibliografia (il lavoro interessa qui specialmente per gli spunti che, al di là della storia del termine, offre a una distinzione di sostanza fra i tre fatti diversi della recitazione rapsodica, drammatica, oratoria). Più vicino al quadro di problemi che qui interessano è R.P. SONKOWSKY, An Aspect of Delivery in Ancient Rhetorical Theory, «Trans. Proc. Amer. Philol. Ass.» 90 1959, pp. 256–274. La differenza fra la ἀνάγνωσις, semplice lettura ad alta voce, e la ὑπόϰρισις, considerata nelle sue possibilità di variazione nell’inflessione della voce, si veda, significativamente accentuata, in Demetr., de eloc., 193 s., dove è detto che la λύσις (qui per stile asindetico o «sciolto») è particolarmente adatta alla ὑπόϰϱισις, mentre la λέξις... συνηϱτημένη ϰαὶ οἷον ἠσφαλισμένη τοῖς συνδέσμοις sarebbe adatta alla lettura (εὐανάγνωστος). La distinzione sale a categoria stilistica coll’affermazione che «Menandro si recita e Filemone si legge» (= Men., fr. 685 Körte): l’asindeto porterà anche chi non voglia alla recitazione, mentre l’inserzione di congiunzioni porterà alla semplice lettura a causa della scomparsa del pathos (πάνυ δὲ τὸ ἀπαϑὲς ἀνυπόϰϱιτον). Si confronti tutto questo con i passi della Retorica aristotelica citati sopra. Per la recitazione rapsodica v. V. BÉRARD, Introduction à l’Odyssée, I, Paris 1933, p. 127 ss. (con ricca bibliografia). Per quanto riguarda l’importanza della dizione nella recitazione drammatica, v. W. G. RUTHERFORD, A Chapter in the History of Annotation being Scholia Aristophanica Vol. III, London 1905, che si limita ad Aristofane: v. spec. pp. 7 ss., 95 ss. (reading aloud), e la considerazione dell’importanza che doveva avere nella prassi grammaticale e retorica l’insegnamento a viva voce (p. 20 ss.), insieme coll’interessante ipotesi (p. 31 ss.) che molti scoli ai poeti drammatici, colle loro frequenti interrogazioni, derivino direttamente dall’insegnamento orale dei grammatici. Gli scoli ai poeti di teatro, comunque, si riferiscono alla dizione solo indirettamente o meglio mediatamente, in quanto essa è compresa nella resa del particolare carattere del personaggio e da esso determinata (ἦϑος): per il problema dell’ethos, a cui qui non si può che accennare, si veda KROLL, «Philologus» N. F. 29 1918, p. 68 ss., e, per il concetto di ἦϑος nella retorica, W. SÜSS, Ethos. Studien zur älteren griechischen Rhetorik, Leipzig 1910. In Dionigi la ὑπόϰϱισις è più volte considerata, come in

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de Demosth., p. 117.11, cap. LIII ss. (p. 243.21 ss. Us.–Rad., passim), de Isocr., p. 73.5 ss., etc., oltre naturalmente al continuo implicito riferirvisi nel de compositione, che è tutto fondato sulla valutazione stilistica dei valori fonici (cf. p. 92.12 ἀπαγγελία). Si veda poi l’importanza che hanno per i latini l’actio e la pronuntiatio, con le variazioni e gl’incroci di significato che i due termini subiscono. (V. inoltre le analisi del talento oratorio di vari oratori in Cic., de or., 3.56.213, Brut., 38.141 s., 43.158, 66.234, 67.238, etc.). Per la retorica più tarda, dal secondo secolo d. C. in poi, basta una scorsa agli indici del Waltz e dello Spengel (soprattutto con riguardo ai quadri terminologici di cui si tratta nelle App. III e IV), per rendersi conto del progressivo diminuire d’interesse per il fatto della dizione: è che, col farsi meno frequente la pratica oratoria viva, l’attenzione dei manualisti e degli epitomatori si volge ad altri settori. È in tale quadro di dominante interesse per la dizione che si pongono le numerose allusioni al tempo di pronunzia, alla ἀ γ ω γ ή . La sensibilità al tempo di pronuncia si riferisce normalmente al fenomeno linguistico, universalmente riconosciuto, della maggiore o minore velocità d’emissione del materiale fonico, tenuto riguardo delle differenze fra le varie lingue e, nell’ambito di ogni singola lingua, fra parlanti diversi, e, in uno stesso parlante, fra diverse variamente espressive sezioni del discorso parlato. V. Sprachwissenschaftliches Wörterbuch, hsg. v. J. KNOBLOCH, Lfg. 1, Heidelberg 1961, s. v. Agogik der Rede (Lehre vom Sprechtempo, das vom gedanklichen Inhalt und der Gefühlsabtönung des gesprochenen oder gelesenen Textes mitbestimmt wird); E. SIEVERS, Grundzüge der Phonetik5, Leipzig 1901, p. 255 s. (dove si distingue fra tempo dei vari parlanti e delle varie lingue – in certo senso tempo oggettivo – e tempo variamente regolabile a seconda del variare di Sinn u. Stimmung – tempo soggettivo), p. 265 s. (Taktdauer); O. VON ESSEN, Allgemeine und angewandte Phonetik3, Berlin 1962, p. 177 ss. (Sprechtempo); H. MORIER, Dictionnaire de Poétique et de Rhétorique, Paris 1961, s. v. tempo ou mouvement (a p. 445 s. la differenza fra ritmo musicale e ritmo verbale, quest’ultimo ordinariamente meno veloce); v. infine la ricca bibliografia presso W. GERSTENBERG – W. DÜRR in Die Musik in Geschichte u. Gegenwart, B. XI, s. v. Rhythmus (coll. 394 s., 400). Per il concetto di tempo medio nella musica (non troppo veloce e non troppo lento: cf. la ἀϱίστη ἀγωγή di Aristide Quintiliano), v. l’accenno in E. PÖHLMANN, Griechische Musikfragmente, Nürnberg 1960, p. 57 («tempo ordinario»); per un tentativo di rintracciare la durata morica media della lingua greca antica v. P. MAAS, Metrik2, cit., p. 13, § 50, dove si sfrutta una testimonianza di Galeno. Com’è noto, le lingue ricche di sillabe aperte hanno un tempo di dizione più veloce di quelle ricche di sillabe chiuse: basta

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confrontare il modo di porgere, oggi, di uno spagnolo o di un francese, ad es., con quello di un italiano. Oltre a tale considerazione, però, ce ne può essere un’altra, che prenda in esame le caratteristiche stilistiche di un testo e ne esamini, soprattutto dal punto di vista fonico, la struttura in relazione col tempo di dizione. È chiaro come questa seconda considerazione si fondi naturalmente sulla realtà del fenomeno che sta alla base della prima, sul fatto linguistico, cioè. E proprio per questa ragione la distinzione fra considerazione linguistica e considerazione stilistica non è sempre netta: lo si vedrà dalle testimonianze qui di seguito raccolte, dove l’una sfuma spesso nell’altra, specialmente quando si tratta di oratoria. Si consideri, prima di tutto, quanta importanza si desse all’ἀγωγή per la determinazione dell’ethos dei ritmi (v. ABERT, Die Lehre vom Ethos, cit., p. 127 s.) e si riveda la testimonianza damoniana riportata da Platone (p. 96 n. 138), la più antica fra tutte, come si è detto, dove compaia il termine ἀγωγή in questo preciso significato. Si veda anche, poco prima del passo citato, 400 b ἴαμβον ϰαί τιν’ ἄλλον τϱοχαῖον ὠνόμαζε, μήϰη δὲ ϰαὶ βϱαχύτητας πϱοσῆπτε, dove l’ultima frase, per non costituire una ripetizione di εἰς βϱαχύ τε ϰαὶ μαϰϱὸν γιγνόμενον di poco prima, significherà: «e diede ad essi certe lunghe e certe brevi», stabilì cioè per i ritmi nominati un certo tempo: pur nella imprecisione tecnico–terminologica del dettato platonico, traluce già la ritmica applicata aristossenica, come la si è vista sopra nel passo di Porfirio (pp. 96–98). Citazioni di testimonianze di sensibilità al tempo di dizione si potrebbero moltiplicare (si veda ad es., in Omero, T 213 ἐπιτϱοχάδην ἀγοϱεύειν): si continuerà qui dandone solo alcune delle più interessanti, che non abbiano, naturalmente, trovato già posto nella ricerca principale o nelle App. III e IV a proposito delle terminologie speciali (ϰυϰλιϰός– στϱογγύλος, χϱόνος ϰενός–διάστασις). Particolarmente interessante è Ps.–Ar., probl. XIX, §§ 21 e 22, dove si prospetta la questione del tempo come di fondamentale importanza pedagogica, sia per la percezione sia per la creazione attiva di esso: Ps.–Ar., probl. XIX, p. 90.1 Jan: § 21. διὰ τί τῶν ᾀδόντων οἱ βαϱύτεϱον ᾄδοντες τῶν ὀξὺ ᾀδόντων, ἐὰν ἀπᾴδωσι, μᾶλλον ϰατάδηλοι γίνονται; ὁμοίως δὲ ϰἀν τῷ ῥυϑμῷ ο ἱ ἐ ν τ ῷ β ϱ α δ υ τ έ ϱ ῳ πλημμελοῦντες ϰατάδηλοι μᾶλλον. – πότεϱον ὅτι πλείων ὁ χϱόνος ὁ τοῦ βαϱέος, οὕτω δέ μᾶλλον αἰσϑητός; ἢ ὅτι ἐν πλείονι χϱόνῳ πλείω αἴσϑησιν παϱέχει, τ ὸ δ ὲ τ α χ ὺ ϰ α ὶ ὀ ξ ὺ λ α ν ϑ ά ν ε ι δ ι ὰ τ ὸ τ ά χ ο ς . § 22. διὰ τί οἱ πολλοὶ μᾶλλον ᾄδοντες τὸν ῥυϑμὸν σώζουσιν ἢ οἱ ὀλίγοι; – ἢ ὅτι μᾶλλον πϱὸς ἕνα τε ϰαὶ ἡγεμόνα βλέπουσι ϰαὶ β ϱ α δ ύ τ ε ϱ ο ν ἄ ϱ χ ο ν τ α ι , ὥστε ῥᾷον τοῦ αὐτοῦ τυγχάνουσιν. ἐ ν γ ὰ ϱ τ ῷ τ ά χ ε ι ἡ ἁμαϱτία πλείων.

Per la questione dell’identificazione fra altezza del tono e tempo (ὀξύτης– βαϱύτης e ταχυτής–βϱαδυτής), v. la polemica di Porph., ad Ptol. harm., p. 29.27

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ss. Düring contro Tolemeo e cf. Ar., de an., 420 a 30 ss. nonché Suid., s. v. ῥυϑμός, IV p. 306.5, 18 s. Adler. Un importante accenno ancora in Ar. Quint., p. 98 Meib. (59.28 Jahn) τοὺς μὲν βϱαχεῖς [scil. χϱόνους] . . . τοὺς δ’ἀναμίξ. . . τοὺς δὲ μηϰίστους, dove si fanno considerazioni sull’ethos (siamo nel secondo libro). V. ancora, al confine colla stilistica come in Dionigi, Demetr., de eloc., §§ 40 (ἡ τοῦ ῥυϑμοῦ μ α ϰ ϱ ό τ η ς ) , 72 (ὁ στίχος μ ῆ ϰ ό ς τι ἔσχεν ἐϰ τῆς συγϰϱούσεως), 183 (. . . τῷ ῥυϑμῷ. . . οὔτε ἕ δ ϱ α ν ἕχοντι οὔτε μ ῆ ϰ ο ς ) , 1 8 5 ( τῇ γὰϱ ἐ ϰ τ ά σ ε ι ϰαὶ τῷ μ ή ϰ ε ι ) , 197 (. . . ἡ λέξις παϱαϰούεται διὰ τ ὸ τ ά χ ο ς ) . Si vedano nel de compositione, infine, altri chiari accenni al tempo, in alcuni dei quali si ha chiaro passaggio alla considerazione stilistica, da quella semplicemente metronomica: pp. 91.17 (οἱ ῥυϑμοὶ δ’ ἐ ν μ ή ϰ ε ι ϑεωϱούμενοι), 92.2 (ἐ π ι τ α χ ύ ν α ς τε ϰαὶ σ υ σ τ ϱ έ ψ α ς τὴν σύνϑεσιν), 113.6 (χϱῆται δὲ ϰαὶ ῥυϑμοῖς οὐ τοῖς μ ε γ ί σ τ ο ι ς ἀλλὰ τοῖς μ έ σ ο ι ς τε ϰαὶ β ϱ α χ υ τ έ ϱ ο ι ς ), etc. Interessanti sono in G. RAUSCHER, De scholiis Homericis, cit., pp. 47–50 gli scoli omerici quibus grammatici consensum aliquem metricae versus formae cum sententia consulto ab Homero appetitum esse opinati sunt: le espressioni che ricorrono sono τῷ τάχει τῶν συλλαβῶν, τῷ τάχει ϰαὶ τῷ λείῳ ϰαὶ ἀπϱοσϰόπῳ τῆς ἐϰφωνήσεως τῶν συλλαβῶν, τὸν ἦχον ἐμείου, τὸ τάχος τῆς ἀφήσεως, ἐϰτείνει τὰς συλλαβάς, il verbo τϱαχύνω e termini simili (che ricorrono anche in Dionigi col senso di «inasprire rallentando», cf. ad es. de comp. verb., p. 103.7 λυϑήσεται ϰαὶ τὸ βϱαδὺ ϰαὶ τὸ τϱαχὺ τῆς ἁϱμονίας; cf. sopra p. 69 ss.); etc. Presso i latini, si veda soprattutto quanto si trova nella Rhet. ad Her. (3.13.23 adceleratio; 3.14.24 celeriuscule dicemus... retardabimus; 3.14.25 celeriter cum clamore verba conficere; 4.19.26 ... ex verbis celeriter relatis constat; etc.), nonché i numerosi accenni in Cicerone (Tusc., 1.44.106; de or., 3.57.216; dell’orator va considerata tutta la sezione finale, che tratta del ritmo – 50.168 fino a 71.236 – e spec. 51.173, 56.187, 57.191, 59.201, 63.212; etc.). In Quintiliano si presta attenzione, come nei problemata pseudaristotelici, al fatto pedagogico (1.1.33) e si danno i soliti giudizi e precetti (9.4.69 ss.; 89; 91); di particolare interesse è l’ideale d’equilibrio formulato allo scopo di evitare gl’inconvenienti dell’eccesso di lentezza e di velocità: Quint., 11.3.51 vox autem u l t r a v i r e s u r g e n d a non est: nam et suffocata saepe et maiore nisu minus clara est et interim elisa in illum sonum erumpit, cui Graeci nomen a gallorum immaturo cantu dederunt. nec volubilitate nimia confundenda quae dicimus, qua et d i s t i n c t i o perit et adfectus et nonnumquam etiam verba aliqua sui parte fraudantur. cui contrarium est vitium n i m i a e t a r d i t a t i s : nam et difficultatem inveniendi fatetur et segnitia solvit animos et, in quo est aliquid, temporibus praefinitis aquam perdit. p r o m p t u m sit os, non p r a e c e p s , m o d e r a t u m , non l e n t u m .

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Si vedano poi ancora i grammatici: Diom., I p. 469.3 ss. Keil; Mar. Victor., VI p. 36.27 s.; 39.12 ss.; 39.32 ss.; 63.5 ss. Keil; etc. Ripetiamo che si sono riportate qui solo le testimonianze di non specifico interesse terminologico; le altre si troveranno nelle App. III e IV. Per l’importanza del tempo anche nella caratterizzazione dei generi letterari (per cui cf. Dion. Thr. cit. sopra), v. Plut., de mus., 29.1141 bc Λᾶσος δ’ ὁ Ἑϱμιονεὺς εἰς τὴν διϑυϱαμβιϰὴν ἀγωγὴν μεταστήσας τοὺς ῥυϑμούς. . . (intende «tempo» anche A. W. PICKARD–CAMBRIDGE, Dithyramb Tragedy and Comedy2, Oxford 1962, pp. 14 e 33; v. comunque anche H. WEIL – ΤΗ. REINACH, Plutarque. De la musique, Paris 1900, p. 115, ad loc., dove si espone dubitosamente che si tratti della libertà dal legame antistrofico: ma nell’Index, p. 169, s. v. si traduce allure, tempo, mouvement, pur con un interrogativo). Il πνῖγος della parabasi comica si chiamava così per essere notoriamente una sezione di marcia e di dizione particolarmente affrettate: Efestione, che lo chiama coll’altro suo nome (μαϰϱόν), ci parla di ἀπνευστὶ λέγεσϑαι (p. 73.4 Consbr.). Si veda anche l’ipotesi di W. KRANZ, Stasimon, Berlin 1933, p. 114, che ipotizza per στάσιμον il significato di ruhig gehaltenes Lied, naturalmente per lo stasimo originario, al momento della creazione del termine, giacché per molti cori della tragedia attica tutto si può dire fuorché che si trattasse di canti lenti (il Kranz fonda la sua ipotesi sulla definizione di Aristotele in poet., 1452 b 24 στάσιμον μέλος χοϱοῦ τὸ ἄνευ ἀναπαίστου ϰαὶ τϱοχαίου: sarebbe stata l’assenza di ritmi veloci a dare allo stasimo un ritmo moderato). Il contrasto dei tempi di dizione avrà avuto un gran peso, se con il Gegensatz von Allegro– und Lentoform va spiegata, come fa F. SOMMER, Handbuch der lateinischen Laut– u. Formenlehre3, Heidelberg 1948, p. 129, la coesistenza, naturalmente nell’ambito della poesia latina arcaica, nella quale è operante, di correptio iambica insieme con casi di mancato abbreviamento. La correptio iambica sembra essere, appunto, fatto linguistico, fondato sulla pronuncia veloce e sfuggente di parole brevi e comuni (v. F. CRUSIUS, Römische Metrik2, München 1955, p. 24: immutate le edizioni successive). Per il problema dell’assenza di correptio in interi settori della poesia arcaica (cretici, bacchei), v. G. JACHMANN, Zur altlateinischen Prosodie, «Glotta» 7 1916, p. 49 ss. V. da ultimo S. MARIOTTI, Il Bellum Poenicum e l’arte di Nevio, Roma 1955, p. 86, che definisce il saturnio (dove la correptio in parole di forma giambica sembra mancare del tutto) un verso «lento».

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II. (RITMI E TEMPI) Riportiamo per esteso due testimonianze che confermano quanto detto più sopra (p. 97 s.) a proposito della ritmica applicata, che cioè ogni ritmo (trocaico, giambico, dattilico, etc.) porta già con sé una prima determinazione temporale, una sua particolare – sebbene non totalmente determinata – ἀγωγή. Quella di Dionigi non offre, come quasi sempre presso di lui avviene, il termine tecnico. Dion. Hal., de comp. verb., cap. XVIII, p. 76.4 Us.–Rad. ἐν τούτοις [scil. Pl., Menex. 236 d] δύο μέν ἐστιν ἃ συμπληϱοῖ τὴν πεϱίοδον ϰῶλα, ῥυϑμοὶ δὲ οἱ ταῦτα διαλαμβάνοντες οἵδε· β α ϰ χ ε ῖ ο ς μὲν ὁ πϱῶτος· οὐ γὰϱ δή γε ὡς ἰ α μ β ι ϰ ὸ ν ἀξιώσαιμ’ ἂν ἔγωγε τὸ ϰῶλον τουτὶ ῥυϑμίζειν ἐνϑυμούμενος ὅτι ο ὐ ϰ ἐ π ι τ ϱ ο χ ά λ ο υ ς ϰ α ὶ τ α χ ε ῖ ς ἀ λ λ ’ ἀναβεβλημένους ϰαὶ βϱαδεῖς τοῖς οἰϰτιζομένοις πϱοσῆϰεν ἀποδίδοσϑαι τοὺς χϱόνους. «Due sono, in questo passo, i membri che costituiscono il periodo ed i ritmi che li distinguono sono: il baccheo prima di tutti, giacché non direi che questo membro vada ritmizzato come giambico, considerando che a chi si lamenta converrebbe dare, dei tempi, una resa non scorrente e veloce, ma rilassata e lenta».

Lasciamo da parte il problema del se ed, eventualmente, del come il baccheo possa equipararsi al digiambo (c’è, a proposito, il grosso problema della sincope, a cui in questa sede occorre accontentarsi di accennare: v. i possibili modi della «giambizzazione», proposta dalla scuola musicalizzante, in CHRIST, Metrik2, cit., p. 414). Quello che va qui notato è che Dionigi esclude, per il passo che discute, la resa giambica, scorrente e veloce, perché disadatta al membro ritmico, a cui meglio conviene la resa bacchiaca, rilasciata e lenta (sull’ethos veloce del giambo v. AMSEL, Diss. cit., p. 95 ss. e ABERT, Die Lehre vom Ethos, cit., p. 140 ss., spec. p. 141 n. 1; sull’ethos del baccheo AMSEL, ibid., p. 107 e ABERT, ibid., p. 151 s.; di quest’ultimo Dionigi stesso afferma in cap. XVII, p. 72.14 che ἀξίωμα ἔχει ϰαὶ μέγεϑος). L’ἀγωγή ha quindi un ruolo di prim’ordine nel determinare la natura dei segmenti ritmici ambigui, appunto perché ogni ritmo porta con sé, fino a un certo limite, come abbiamo visto, la propria. L’espressione ἀποδίδοσϑαι τοὺς χϱόνους è, per di più, sufficientemente chiara per «resa temporale». Ma ancor più esplicito è, se possibile, uno scolio omerico (riportato ad Aristonico, cf. RAUSCHER, De scholiis Homericis, cit., p. 20): Sch. A ad Ψ 644 ἔϱγων τοιούτων· ἐμὲ δὲ χϱὴ γήϱαϊ λυγϱῷ ὅτι ὁ στίχος οὗτος ϰαὶ ἑ ξ ά μ ε τ ϱ ο ς γίνεται ϰαὶ τ ϱ ί μ ε τ ϱ ο ς π α ϱ ὰ τ ὴ ν ἀ γ ω γὴν τῆς πϱοφοϱᾶς.

116 | Sezione 1: Metrica «(Ψ 664). Questo verso diviene esametro o trimetro, a seconda del tempo di dizione».

La possibilità di doppia ritmizzazione, come ci spiega un altro scolio (Sch. T ad Ψ 644: cf. Sch. A ad Heph., p. 109.4 ss. Consbr.; Mar. Victor., VI p. 50.21 ss. Keil), ci è data nel verso dalla presenza di sillabe ϰοιναί, cioè comuni, ovvero passibili, naturalmente in diacronia, delle due misurazioni (v. «Riv. Fil. Istr. Class.» 91 1963, p. 57 s.): infatti la prima sillaba di τοιοῦτος è spesso breve (per iato interno) nella tragedia e nella commedia; δὲ e λυ– restano, in attico, sillabe aperte (perché alle vocali segue il nesso di muta e liquida) e, contenendo vocale breve, restano brevi; αϊ, infine, diventa dittongo. L’esametro omerico è, tra parentesi, scelto bene, con chiaro senso di stile, per quanto riguarda la possibilità di lettura giambica: il dattilo ha, nel trimetro tragico, il suo punto di maggior frequenza proprio in terza sede (v. J. DESCROIX, Le trimètre iambique des iambographes à la comédie nouvelle, Thèse, Mâcon 1931, pp. 112 ss., dove si trovano le tabelle statistiche, e 170 ss., spec. 179); per di più la forma regolare del dattilo è proprio colla cesura dopo il longum (DESCROIX, op. cit., p. 183 ss.). Ebbene, ad influenzare la resa dattilica o giambica del verso è, a quanto ci dice lo scoliasta, il tempo di pronuncia: segno che ognuno dei due ritmi ha, a questo riguardo, una sua fisionomia particolare. Del giambo si è già parlato e d’altra parte il dattilo, contrapposto agli altri piedi, ha in massimo grado la qualità della σεμνότης (v. AMSEL, Diss. cit., p. 78 ss. e ABERT, Die Lehre vom Ethos, cit., p. 128 ss.), che porta con sé lentezza e solennità di lettura, in confronto con altri ritmi.

III. (ϰυϰλιϰός–στϱογγύλoς). Nelle altre opere retoriche di Dionigi si trova abbondantemente σ τ ϱο γ γ ύ λ o ς , ma spesso ha significato troppo generico per riferirsi proprio alla lettura e ai valori fonici (oppure ha il significato letterale di «rotondo», cf. de comp. verb., p. 52.2). Così avviene anche di ϰ ύ ϰ λ ο ς , ϰ ύ ϰ λ ι ο ς , ϰ υ ϰ λ ι ϰ ό ς , ϰ υ ϰ λ ο ῦ ν (ν. Ρ. GEIGENMÜLLER, Quaestiones Dionysianae de vocabulis artis criticae, Diss. Leipzig 1908, p. 91 ss.): benché possa apparire non del tutto casuale un «agglomerato» verbale come quello di de comp. verb., p. 120.2 τῶν τε πεϱιóδων ὁ ϰύϰλος ἔχων τι πεϱιφεϱές. . . (nel de comp. ancora a pp. 87.14, 97.13, con senso del tutto generico). In altri casi, invece, siamo condotti in quella sfera di significati che, da «rotondo, levigato, terso», passa per gradi a «fluido, scorrevole, veloce». Qui è da vedere l’origine dello scivolamento semantico, che si sarà prodotto col formarsi di un sempre più preciso vocabolario di critica letteraria (v. da principio Aristoph., Ach., 686 στϱογγύλοις τοῖς ῥήμασιν, «con parole tornite», dov’è però da notare anche l’interessante accostamento con ἐς τάχος

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παίει; lo stesso in Plat., Phaedr., 234 e; Ar., rhet., 2.21, 1394 b 33; v. quanto riferisce Dionigi stesso, de Lys., p. 14.9 ss. e de Isae., p. 123.10 ss., su Trasimaco, usando un’espressione già certamente tradizionale). Segni di passaggio più o meno evidente (perché spesso legati a un vago giudizio di valore stilistico) alla sfera del tempo si hanno soprattutto quando στϱογγύλoς compare insieme con altri vocaboli (come con π υ ϰ ν ό ς : cf. de imitat., 427 = p. 209.3 s. Us.–Rad.; ad Pomp., p. 243.6; de Lys., p. 17.8; de Demosth., p. 136.4, etc.; con σ υ σ τ ϱ έ φ ω , σ ύ ν τ ο μ ο ς , e t c . : de Lys., pp. 14.9 s., 22.19; de Isocr., 71.2 s.; de Isae., 94.21 s.; de Demosth., 156.3, 166.10 ss., 168.17 s., 170.2, etc.). V. ancora in GEIGENMÜLLER, Diss. cit., p. 92 ss. quanto si osserva a proposito di σ υ γ ϰ ϱ ο τ ε ῖ ν , σ υ σ τ ϱ έ φ ε ι ν , σ φ ί γ γ ε ι ν . V. anche A. GREILICH, Dionysius Halicarnassensis quibus potissimum vocabulis ex artibus metaphorice ductis in scriptis rhetoricis usus sit, Diss. Breslau 1886, p. 5 ss., dove στϱογγύλoς è elencato, insieme con altri vocaboli che interessano la nostra terminologia, fra le metafore tratte ex arte fingendi. I latini traducono di peso στϱογγύλoς con r o t u n d u s (cf. Mart. Cap., p. 519.8 Dick, cit. a p. 87 n. 108), anch’esso con una varietà d’accezioni simile a quella dell’aggettivo greco. Da un generico «elegante, polito» (ad es. Cic., Brut., 78.272, or., 13.40, Hor., a. p., 323), si passa, sempre collo stesso valore, ad un accostamento con «breve, conciso», come in Cic., fin., 4.3.7 (ista ipsa quae tu b r e v i t e r , ... a te quidem a p t e a c r o t u n d e ), per arrivare finalmente alla sfera di valori che c’interessa: Quint., 3.4.16 ... c e l e r i ... a c r o t u n d a usi distributione . . . Gell., 11.13.4 c u r s u s igitur et sonus r o t u n d a e v o l u b i l i s q u e sententiae eximie nos et unice delectabat, . . . (per cursus con valore di «velocità» v. Cic., de or., 1.35.161 tantus enim c u r s u s verborum fuit et sic e v o l a v i t oratio, ut eius v i m e t i n c i t a t i o n e m aspexerim, etc.; Quint., 8, Prooem., 27 ... haec infelicitas, ... quae e t c u r s u m d i c e n d i r e f r e n a t ). Gell., 16.1.1 ... quoniam vere atque luculente dictum verbisque est b r e v i b u s e t r o t u n d i s vinctum, ... Gell., 17.20.4 ... videsne – inquit – ἐνϑύμημα crebrum et coruscum et convexum b r e v i b u s q u e e t r o t u n d i s n u m e r i s cum quadam aequabili circumactione devinctum?

Ed ecco una testimonianza di particolare interesse che, sia nella terminologia che nella sostanza, pare una chiosa ai passi dionisiani:

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Diom., I p. 499.21 Keil teretes [= ϰυϰλοτεϱεῖς, cf. p. 498.27; scil. dactylici versus] sunt qui v o l u b i l e m e t c o h a e r e n t e m continuant d i c t i o n e m , ut ‘torva Mimalloniis inflatur tibia bombis’ [cf. Pers. I, 99].

Per l’immagine del «rotondo» collegata a significato di velocità, si vedano frasi come quella di Cic., or., 67.207 (ut tamquam i n o r b e inclusa c u r r a t oratio). Per π υ ϰ ν ό ς , che si è visto sopra spesso associato a στϱογγύλος, v. l’uso aristossenico (el. rhythm., p. 302 Mor. πυϰνὴ ποδιϰὴ σημασία, tradotto battement précipité des temps rythmiques da LALOY, Lex., cit., s. v.) e v. la πεπυϰνωμένη ῥυϑμοποιία di P. Oxy. 9, col. V 14 s., cit. a p. 94 n. 130). In un filone della tradizione metrica, poi, il tribraco, che è piede costituito esclusivamente da brevi e perciò veloce (v. p. 85 n. 103 e cf. spec. Cic., or., 57.191), è chiamato π ύ ϰ ν ω μα: Mar. Victor., VI p. 45.9 Keil idem [scil. tribrachys] et p y g n o m u s a quibusdam, ne vos praetereat, vocatur. Victor., VI p. 207.16 Keil … tribrachus [sic] idem qui brachysyllabus sive p y g n o m u s … [Caes. Bass.], VI p. 307.8 Keil tribrachys ex tribus brevibus temporum trium, ut Helena; sed hunc alii trochium appellaverunt, alii p y g n o m a , alii brachysyllabon: Cicero eundem in oratore etiam trochaeum appellavit.

Si vedano anche i nomi che nell’Anonimo Ambrosiano (W. STUDEMUND, Anecdota varia, I, Berlin 1886, p. 232 ss.) si danno a piedi più che tetrasillabici ricchi di brevi: παϱάπυϰνος σύντομος ὑποϰύϰλιος πϱόδϱομος

ghggg ggggg h g g g g g, etc. g g g g h h, etc.

I latini traducono πυϰνός con d e n s u s , che ha anch’esso sovente il valore di «conciso, veloce» (v. spec. Quint., 10.1.73).

IV. (χϱόνος ϰενός–διάστασις). Quanto alla terminologia χϱόνος ϰενός–διάστασις, essa è riccamente rappresentata sia nella tradizione greca che in quella latina. Per χ ϱ ό ν ο ς ϰ ε ν ό ς , interposto tra i tempi pieni, v. la interessante testimonianza di Aristotele, che lo

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ambienta nella teoria acustica (ἐϰ τοῦ πεϱὶ ἀϰουστῶν, 800 a 1 ss., spec. 803 b 34 ss. αἱ δὲ πληγαὶ γίνονται μὲν τοῦ ἀέϱος ὑπὸ τῶν χοϱδῶν πολλαὶ ϰαὶ ϰεχωϱισμέναι, διὰ δὲ μιϰϱότητα τ ο ῦ μ ε τ α ξ ὺ χ ϱ ό ν ο υ τῆς ἀϰοῆς οὐ δυναμένης συναισϑάνεσϑαι τὰς δ ι α λ ή ψ ε ι ς , μία ϰαὶ συνεχὴς ἡ φωνὴ φαίνεται). Per quanto riguarda, ancora, i termini che troviamo in Dionigi, considerato che μ ε τ α ξ ὺ χ ϱ ό ν ο ς è un altro modo di designare la διάστασις (pp. 112.2 e 119.12 riportate sopra a p. 102 s., cf. de Demosth., p. 225.22), si vedano anche pp. 101.19 σιωπήν τινα... μέσην, 102.12 σιωπή τις μεταξύ e infine 91.15 τò μεταξὺ . . . ψῦγμα: sempre varietà di termini per designare la stessa cosa. Per gli scoli omerici abbiamo oggi un buono strumento di ricerca: J. BAAR, Index zu den Iliasscholien, Baden–Baden 1961. Anch’essi, che ci tramandano in buona parte terminologia alessandrina, usano χϱόνος (per lo più χϱ. σιωπῆς) per indicare le pause determinate dalla punteggiatura (v. gli scoli attribuibili a Nicanore, autore della famosa opera sulla punteggiatura omerica, raccolti in RAUSCHER, Diss. cit., pp. 27–32; per un elenco più completo v., col Baar alla mano, Sch. A ad B 23, 52, 132, Θ 206 s., etc.); importante lo Sch. B ad T 189 che, per un verso che gli editori moderni correggono, consiglia di διαστέλλειν (far sentire un intervallo, cioè rallentare) per esigenze del senso e per completare il metro, che sarebbe altrimenti difettoso (mancherebbe una breve): ἵνα διὰ τῆς σιωπῆς τοῦ χϱόνου τὸ μέτϱον σῴζηται. Per δ ι ά σ τ α σ ι ς e termini affini indicanti intervallo intermedio (si escludono altre accezioni), si vedano ancora gli scoli omerici: διάστασις (sch. A ad B 155, Λ 101, O 158, etc.); διίστημι (Sch. A ad O 563, etc.); διάστημα (Sch. A ad B 514, Θ 206 s., etc.); διαστολή (quando non ha il significato di virgola o genericamente di punteggiatura, ad es. in Sch. A ad B 497, etc.); e ancora διάβασις, διαβαίνω, διεϱείδω, διείϱγω, διαλαμβάνω, διαστέλλω, ϰαταπυϰνόω, etc. Sarà un puro caso che δ ι ά σ τ η μ α (usato in musica per designare l’intervallo di altezza, cf. de compos., p. 40.17) non compaia nel de compositione nel quadro semantico di cui ci occupiamo (a meno che non vi si voglia riportare p. 136.6 . . . ϰαὶ τὰ ϰῶλα ἐν διαστήμασι ποιεῖν συμμέτϱως): compare, in compenso, nello Pseudo–Longino (v. supra p. 106 n. 165 colla interpretazione da noi proposta, che diventa ormai ovvia): e cf. anche Ar. Quint., p. 51 Meib. (33.17 Jahn) in cui c’è un’evidente allusione all’ἀγωγή del verso dattilico (λήγειν δὲ εἰς ϰατάληξιν εὐμεγέϑους διαστήματος). Il fatto è che in musica, per designare l’intervallo d’altezza, vengono usati promiscuamente sia διάστημα che διάστασις (v. Lidd.– Sc.–J. s.vv.; cf. spec. Aristox., el. harm., p. 4 Meib. = 9.11 Da Rios e altrove e ibid. p. 38 Meib. = 47.14 Da Rios): non ci sarebbe stata ragione che i due termini non si usassero promiscuamente anche nella terminologia χϱόνος ϰενός–διάστασις, per designare cioè l’intervallo di tempo nella recitazione (non avrebbe senso far

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distinzione fra astratto e concreto, in grazia della diversa formazione morfologica). Che διάστημα, διαστέλλω, insieme con altri termini di valore simile come χωϱίζειν, derivino alla tradizione grammaticale da quella musicale è stato notato da B. LAUM, Das alexandrinische Akzentuationssystem, Paderborn 1928, p. 412 s. (che cita anche Dion. Thr., p. 8.1 Uhl.). Quello che ancor più interessa al nostro fine è il reperimento della terminologia χϱόνος ϰενός–διάστασις in latino, tradotta di peso dal greco e volta allo stesso scopo d’indicare la velocità o la lentezza di dizione (si escludono qui naturalmente le testimonianze che sono state citate in App. I per «tempo» in generale e che non presentavano la terminologia che qui consideriamo). Cicerone ci parla del tempo della dizione e usa la solita immagine, ormai familiare: Cic., or., 56.187 quod si et angusta quaedam atque concisa et alia est dilatata et diffusa oratio, necesse est id non litterarum accidere natura, sed i n t e r v a l l o r u m l o n g o r u m e t b r e v i u m varietate; quibus implicata atque permixta oratio quoniam tum stabilis est tum volubilis, necesse est eiusmodi vi naturam numeri contineri. nam circuitus ille, quem saepe iam diximus, incitatior numero ipso fertur et labitur, quoad perveniat ad finem et insistat.

V. ancora il distrahere voces di or., 45.152 (colla nota di KROLL, Ciceronis Orator, Berlin 1913, ad loc., che richiama solo uno dei tanti passi di Dionigi). Ecco poi alcune testimonianze quintilianee, di particolare probante evidenza: Quint., 9.4.5 1 i n a n i a q u o q u e t e m p o r a rhythmi facilius accipient, quamquam haec et in metris accidunt. maior tamen illic licentia est, ubi tempora etiam manu mota [manuum motu Buchheit] metiuntur et pedum et digitorum ictu, et i n t e r v a l l a signant quibusdam notis atque aestimant q u o t b r e v e s i l l u d s p a t i u m h a b e a n t : inde τετϱάσημον et πεντάσημον et deinceps longiores sunt percussiones, nam σημεῖον tempus est unum. id., 9.4.83 quo quique [scil. pedes] sunt t e m p o r i b u s p l e n i o r e s longisque syllabis magis stabiles, his graviorem faciunt orationem, breves celerem ac mobilem. id., 9.4.136 iam illa sublimia spatiosas clarasque voces habent, amant amplitudinem dactyli quoque ac paeanis, etiam si maiori ex parte syllabis brevibus, t e m p o r i b u s tamen satis pleni.

Altri accenni evidenti al tempo intermedio (cf. il quoddam ipsa divisione verborum l a t e n s t e m p u s di 9.4.47): id., 9.4.36 nam et coeuntes litterae, quae συναλοιφαί dicuntur, etiam leviorem faciunt orationem, quam si omnia verba suo fine cludantur, et nonnumquam hiulca etiam decent faciuntque ampliora quaedam, ut ‘pulchra oratione † acta oratio iacta te’, cum longae per se

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et velut opimae syllabae a l i q u i d e t i a m m e d i i t e m p o r i s i n t e r v o c a les, quasi intersistatur, adsumunt. id., 11.3.17 utendi voce multiplex ratio. nam praeter illam d i f ferentiam, quae est tripertita, acutae, gravis, flexae, tum intentis tum remissis, tum elatis tum inferioribus modis opus est, spatiis quoque lentioribus aut citatioribus. id., 11.3.43 nam prima est observatio recte pronuntiandi aequalitas, ne sermo subsultet i n p a r i b u s s p a t i i s a c s o n i s , miscens longa brevibus, gravia acutis, elata summissis, et inaequalitate horum omnium sicut pedum claudicet.

Non può sfuggire il costante apparire di termini come s p a t i u m , i n t e r v a l l u m , t e m p u s e simili in contesti così chiaramente riferentisi al tempo di dizione. Per distinctio, intesa come pausa nella pronuncia, v. 11.3.51 s. cit. in App. I e 11.3.37. V. ancora la terminologia, ormai familiare, in notevole varietà e significativa contrapposizione (v. il comm. di KROLL, op. cit., ad loc., che richiama passi del de comp. verb., fra i quali gli unici terminologicamente pertinenti sono pp. 96.14 e 100.13 citati, cogli altri, sopra a p. 105 s.): Cic., or., 16.53 flumen aliis verborum volubilitasque cordi est, qui ponunt in orationis c e l e r i t a t e eloquentiam: d i s t i n c t a alios et i n t e r p u n c t a i n t e r v a l l a , morae respirationesque delectant.

Per interpunctum (sostantivato) v. KROLL, ibid., che richiama de or., 3.46.181 (clausulas enim atque i n t e r p u n c t a verborum) e confronta de or., 2.41.177. e 3.44.173. Al nostro quadro terminologico si può riportare anche l’uso particolare di incῑdo in Marziano Capella (il proferri tradisce l’attenzione alla dizione): Mart. Cap., p. 524.5 Dick at vero brevior [scil. proceleusmaticus brevior, id est pyrrhichius], id est disemus, syneches vocatur. . . ideoque eo raro uti decet, ne a s s i d u i t a s b r e v i s s y l l a b a e carmen ipsum, quod cum dignitate aliqua p r o f e r r i oportet, i n c i d a t .

V. anche l’uso di mora, che, essendo concetto d’uso (cf. Quint., 11.3.39 s.) per indicare pausa, serve a spiegare il tempus inane (cf. Caes. Bass., VI p. 260.30 Keil): Quint., 9.4.108 sed hic est illud i n a n e , quod dixi [cf. 9.4.51, cit. sopra]: paulum enim m o r a e damus inter ultimum atque proximum verbum, et ‘turpe’ illud i n t e r v a l l o quodam producimus.

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Mora serve anche, in contesti riguardanti il tempo di dizione, a indicare più genericamente «indugio, lentezza» (come in Plin., epist., 1.20.3 oratio animo non ictu magis quam m o r a imprimitur): Mart. Cap., p. 524.11 Dick in permixtione vero aliorum pedum, qui longiores ponuntur, decenter aptatur [scil. pyrrhichius pes], ut illorum p r o l i x a m m o r a m interveniente sua c e l e r i t a t e compenset.

NOTA Solo a impaginato già pronto ho potuto consultare A. KRUMBACHER, Stimmbildung der Redner im Altertum bis auf die Zeit Quintilians, Paderborn 1920. Il libro è di grande interesse per l’abbondanza di materiali offerta dalla parte storica (pp. 12–53) e dalla parte sistematica (pp. 54–107). Scopo della ricerca è il mettere in rilievo la pedagogia vocale oratoria dell’antichità, con paralleli presi dalla prassi scenica (sebbene il fare dell’attore l’«educatore» dell’oratore sia un eccesso del K. giustamente criticato, ad es., da J. STROUX, «Deutsche Literaturzeitung» 43 1922, col. 697). Si veda in particolare, per quello che qui interessa più da vicino, quanto è detto dello Sprechtempo a p. 97 (cf. qui sopra, p. 111 s.). A p. 58 ss. si tratta dei vari tipi di lettura (ἀνάγνωσις, cf. qui sopra, p. 108 s.) e si portano testimonianze per termini che, pur interessando marginalmente la nostra ricerca, appartengono al quadro considerato, come ἀποστοματίζειν, praelegere, etc.

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Indice dei termini discussi e delle cose notevoli accento musicale: 74 actio: 111 allungamento in arsi (epische Dehnung): 79 anacrusi: v. ἀνάϰϱουσις armonia imitativa: 82 battuta: 66, p73 n. 64, 101 n. 156 biceps: 63 e n. 14, 71 n. 58, 92 «contesto» metrico: 72–73, 79 correptio iambica: 114 «dattili ascendenti» (steigende Daktylen): 73 densus: 118 dieresi (n. anapesti): 80, 86 n. 105 distinctio: 121 dizione, recitazione, lettura (v. ἀνάγνωσις, ἐϰφοϱά, πϱοφοϱά, ὐπόϰϱισις): 107– 111, pass. elemento: 63, 75, 100 e n. 155, pass. elemento–guida: 66 n. 23, 92 n. 120 ethos: 110 s. ethos musicale: 78, 96, 112, 113 Hebung (tempo forte, q. v.): 66 n. 23, 72 n. 61, 105 iato: 103 ictus: 65 n. 23, 72, 79 incῑdo: 121 s. insolubilità del longum: 71 n. 58, 72 n. 61, 73, 75, 79 interpunctum: 121 intervallum: 120 s. irrazionale, irrazionalità: v. ἀλογία, ἄλογος. isocronia, isomensuralità (Taktgleichheit): 66n. 26, 67, 80 legge di Wernicke: 79 «leggero» (levis), piede: 64, pass. lettura: v. ἀνάγνωσις. logaedica, teoria: 64–71, 56 s. longum: 63 e n. 14, 71, 72 n. 60, 74 s., 79, 90, 92, 105, pass.

modulazione: v. μεταβολή. mora: 121 s. musica: 74 s., 108, pass. olodattilismo: 81, 85 n. 103, 88 n. 111 pausa (da fine di parola): 80 pitagorica, teoria: 78 «posizione» (per digamma): 79 pronuntiatio: 87 n. 108, 111 protrazione: 80 n. 82 quantità (variabilità della, etc.): 74, pass. recitazione: v. ὑπόϰϱισις. ritmica pura ed applicata: 96–98 rotundus: 117 saturnio: 114 sillaba: 63, 75, 107, pass. sincope: 80 n. 82, 115 solubilità del longum: 63, 73 spatium: 120 s. stesicoreo: 73 n. 66 tempo: v. ἀγωγή. tempo forte e tempo debole: 65 s., 89 s., 100 n. 153, pass. tempus (t. inane, t. latens, t. medium): 120 s. «velocità» di lettura: 85, 86 n. 105, 87– 89, 91, 93, pass. ἀγωγή (armonica): 93 ἀγωγή (ritmica): 66 s., 93–98, 99 s., 111– 114, 115 s. αἴσϑησις: 76–79, 94 n. 130, 101 n. 158 ἀλογία, ἄλογος: 64 n. 18, 66 e n. 25, 71 n. 58, 73–79, 83 n. 94, 83 s., 89–93 ἀναβολή: 104 ἀνάγνωσις: 108 s., 110 ἀναϰοπή: 102, 104 ἀνάϰϱουσις, ἀνάϰϱουμα: 73 e n. 64 ἀντιστηϱιγμός: 102, 104 e n. 162 ἀντιστϱοφία, ἀντίστϱοφος: 63 n. 14, 73 n. 65 ἀπαγγελία: 108, 111

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ἁϱμονία (giuntura): 105 s. ἄϱσις: ν. tempo forte e t. debole. ἄφωνος: 83 n. 95 βαϱύτης: 112 βάσις: 100 n. 153 βϱαδυτής: 112 γένος (armonico): 94 n. 132 γένος (ritmico): 91, 93 n.126, 94 e n. 132, 96, 98 n. 147 γϱαμματιϰός: 60 n.4 διαβαίνω, διάβασις: 106, 119 διαλαμβάνω, διάληψις: 106, 119 διάστασις: 99–107, 119 διαστέλλω, διαστολή: 119 s. διάστημα: 106 n. 165, 119 s. διείϱγω: 119 διεϱείδω, διεϱεισμός: 106, 119 δίεσις: 76 διίστημι: 102–106, 119 ἐγϰάϑισμα: 104 e n. 162 ἐϰφοϱά: ν. πϱοφοϱά. ἔμφασις: 99 e n. 151 ἡμίφωνον: 83 n. 95 ϑέσις: ν. tempo forte e t. debole, ϰαταπυϰνόω, ϰαταπύϰνωσις: 104, 119 ϰοιναί (συλλαβαί): 116 ϰϱιτιϰοί: 60 n. 4 ϰυϰλιϰός, ϰύϰλιος, ϰύϰλος, ϰυϰλοῦν: 62 n. 10, 63 s., 82, 86–89, 106, 116–118 λεῖμμα: 100 n. 154 λογαοιδιϰός: 65 n. 20 λόγος: 94 s. μέγεϑος: 94 s. μελοποιία/μέλος: 96 n. 140 μεταβολή: 67 e n. 30, 90 n. 115 μετϱιϰοί: 61 n. 8

ὀξύτης: 112 οὐ τέλειος: 74, 84, 89 παϱαϰαταλογή: 108 παϱάπυϰνος: 118 πνῖγος: 114 πϱόδϱομος: 118 πϱόσϑησις: 100 n. 154 πϱοφοϱά: 108, 109 πυϰνός, πύϰνωμα: 118 ῥυϑμιζόμενα, τά (μέλος, λέξις, ϰίνησις σωματιϰή): 95 n. 137 ῥυϑμιϰοί: 73, 75 n. 69, 92 ῥυϑμοποιία/ῥυϑμός: 96 σιωπή: 119 στηϱιγμός: 104 e n. 162 στϱογγύλος: 86–89, 106, 116–118 συμπλέϰοντες: 92 σύντομος: 118 ταχυτής: 112 τϱαχύτης: 102 ὑπόϰϱισις: 108, 109 s.; πεπλασμένη ὑπ.: 110 ὑποϰύϰλιος: 118 φωνή (συνεχής, διαστηματιϰή, μέση): 108 s. χϱόνος (in gen.): 105, 106, 119 χϱόνος ϰενός: 100–102, 106, 118 s. χϱόνος, μεταξύ: 119 χϱόνος ποδιϰός: 100 n. 153 χϱόνος πϱῶτος: 96 n. 141, 97 n. 143 χϱόνος ῥυϑμοποιίας ἴδιος: 100 n. 153 χϱόνος σιωπῆς: 119 χωϱίζειν: 120 χωϱίζοντες: 92 ψοφοειδής: 83 n. 95

Anceps: vocale, sillaba, elemento Anceps, come termine tecnico grammaticale e metrico, non compare nella tradizione antica1. I grammatici e i metricologi greci e latini usavano, per designare quanto noi oggi2 designamo alquanto impropriamente coll’unico termine anceps, tre termini diversi. In tre modi infatti si può applicare il concetto generale di quantità incerta o variabile: alle vocali graficamente intese (α ι υ in greco possono rappresentare fonemi vocalici sia brevi che lunghi), e si fa quindi una considerazione semplicemente grafica; alle sillabe, e ci si fornisce di una distinzione prosodica; ai cosiddetti «elementi» nello schema d’un verso, col che ci si porta in campo strettamente metrico. Nelle grammatiche, antiche e moderne, si trova spesso confusione fra la prima e la seconda distinzione; nei manuali di metrica fra la seconda e la terza. Non sarà quindi inutile ricercare di quali termini precisamente si servissero gli antichi, per vedere se per caso le confusioni dei moderni non traggano origine dalla mancanza di una opportuna distinzione terminologica e se quindi non valga la pena, almeno in parte, tornare alle designazioni classiche, che, al di fuori di qualche sporadica eccezione, sono usate con perfetta coerenza3. Si potrebbe, beninteso, continuare ad usare anceps, specificando di volta in volta se

|| [Saggio pubblicato in «RFIC» 91, 1963, pp. 52–71] 1 Si trovano solo due casi isolati di significato grafico (quello che, come si vedrà più oltre, si esprime normalmente con δίχρονος–dichronus): Priscian. II 9.30, 10.5 Keil; Anecd. Helv. (Gramm. Lat. Suppl. ed. Hagen) p. XXXIII (cod. Bern. 123 f. 32a). 2 L’uso di anceps è già umanistico. Lo trovo usato, ad esempio, in una riedizione tarda del trattatello di Guarino Veronese (Guarinus sive introductio ad Latinam linguam, Treviso 1620, p. 92), composto nella prima e stampato nella seconda metà del ‘400. Bentley (1726, nello ΣΧΕΔΙΑΣΜΑ) e Porson (1802, nel supplemento alla prefazione dell’Ecuba), gli archegeti della metrica moderna, non ne fanno uso. Lo troviamo di nuovo per la prima volta in G. Hermann, De metris poetarum Graecorum et Romanorum ll. III, Leipzig 1796, p. 29 sgg. col significato, espressomente dichiarato, di ἀδιάφορος. Da Boeckh (1811) in poi diviene di uso comune. È notevole che, tra tanti manuali vecchi e nuovi dalla metà del secolo scorso in poi, solo in un dimenticato libretto scolastico (Luc. Müller, Rei metricae poetarum Latinorum praeter Plautum et Terentium summarium, St. Petersburg 1878, p. 28) si trovi un cenno della recenziorità di anceps: lex est ... ut ultima syllaba cuiusvis metri possit esse communis aut, u t n u n c d i c i t u r , a n c e p s (dove, al posto di communis, andava però detto indifferens). 3 Essendo qui la ricerca volta a scopi essenzialmente pratici (lo stabilimento di una chiara terminologia), si trascureranno quasi totalmente le peraltro scarse testimonianze divergenti, che avrebbero un interesse che qui si esclude, quello di stabilire cioè un preciso rapporto di filiazione per alcune fonti grammaticali e metriche. https://doi.org/10.1515/9783110647983-005

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si tratti di designazione grafica prosodica metrica, e cioè riferendo il termine alla vocale nel primo caso, alla sillaba nel secondo, all’elemento nel terzo. Ma i termini degli antichi, e specialmente quelli per i vari tipi della terza categoria, possiedono una precisione alla quale non avrebbe senso rinunciare. *** Per la prima distinzione i greci usavano δίχρονος, che qui naturalmente non significa «di due unità di tempo»4, ma, a un dipresso, «di doppia possibilità di misurazione quanto al valore temporale»5. L’interesse della distinzione è piuttosto scarso: si designano a parte, distinguendole dalle altre, le vocali α ι υ, che non presentano differenziazione grafica fra la breve e la lunga. Secondo il Kuhn6, le più antiche tracce di distinzione in questo senso si troverebbero in Arist. Poet. 1458a.8 sgg.7. Ma, essendo controversa l’interpretazione del passo8, limitiamoci a portare per l’esemplificazione terminologica passi di autori più tardi: Dion. Thr. p. 10.2 Uhl. δ ί χ ρ ο ν α τρία, α ι υ . δ ί χ ρ ο ν α δὲ λέγεται, ἐπεὶ ἐϰτείνεται ϰαὶ συστέλλεται. Dion. Hal., De comp. verb. XIV p. 50.13 Us.–Rad. τρία δὲ δ ί χ ρ ο ν α , τό τε α ϰαὶ τò ι ϰαὶ τò υ, ϰαὶ γὰρ ἐϰτείνεται ταῦτα ϰαὶ συστέλλεται· ϰαὶ αὐτὰ οἳ μὲν δ ί χ ρ ο ν α , ὥσπερ ἔφην, οἳ δὲ μ ε τ α π τ ω τ ι ϰ ὰ ϰαλοῦσιν9 (cf. ibid. XIV p. 51.3, 51.9, XV p. 57.12 Us.–Rad.).

|| 4 Il termine, per il fatto che si presta effettivamente a un tale fraintendimento, viene criticato da Buttmann, Ausführliche griechische Sprachlehre, I, Berlin 1830, p. 32 n. V. a proposito anche la precisazione di Herodian. 8.22 Lentz. Per il primo significato v., ad es., Heph. 10.15 Consbr. V. più sotto la n. 9. 5 Cf. Drac. Stratonic. p. 152.5 Hermann δίχρονα γὰρ εἴρηνται παρὰ τὸ διπλῶς ϰατὰ τοὺς χρόνους τίϑεσϑαι ϰαὶ ὡς μαϰρὰ ϰαὶ βραχέα τίϑεσϑαι. Si cita qui Dracone unicamente per la chiarezza del suo esposto, come si potrebbe citare un moderno: che il περὶ μέτρων ποιηιϰῶν non è del grammatico alessandrino (come pensò il primo editore, G. Hermann, Leipzig 1812), bensì di un falsificatore rinascimentale, fu dimostrato da C. Lehrs, Herodiani scripta tria, 1843, p. 402 sgg. (cf. Cohn, R.E. V, 2, Stuttgart 1905, col. 1662 sg.). 6 F. Kuhn, Symbolae ad doctrinae ΠΕΡΙ ΔΙΧΡΟΝΩΝ historiam pertinentes, diss. Breslau 1892, p. 11 sgg. 7 αὐτῶν δὲ τῶν ὀνομάτων τὰ μὲν ἄρρενα τὰ δὲ ϑήλεα τὰ δὲ μεταξύ, ἄρρενα μὲν ὅσα τελευτᾷ εἰς τò Ν ϰαὶ Ρ ϰαὶ ὅσα ἐϰ τούτου σύγϰειται (ταῦτα δ’ἐστὶν δύο, Ψ ϰαὶ Ξ), ϑήλεα δὲ ὅσα ἐϰ τῶν φωνηέντων εἴς τε τὰ ἀεὶ μαϰρά, οί͂ον εἰς Η ϰαὶ Ω, ϰαὶ τ ῶ ν ἐ π ε ϰ τ ε ι ν ο μ έ ν ω ν εἰς A. 8 V. presso Kuhn, diss. cit. la discussione sul termine ἐπεϰτεινόμενα, che viene da lui interpre tato quae productae sunt e non quae produci possunt (sempre comunque delle vocali α ι υ); v., citate, le interpretazioni divergenti di Hermann, Vahlen, M. Schmidt. Rostagni, Aristotele, Poetica, Torino 1945, ad loc., è senz’altro per δίχρονα.

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Plut., Quaest. conv. IX 2.2 p. 737 e ἐν δὲ τούτοις [scil. τοῖς φωνήεσι] τῶν μὲν μαϰρῶν ὄντων τῶν δὲ βραχέων, τῶν δ’ἀμφότερα ϰαὶ δ ι χ ρ ό ν ω ν λεγομένων, ... Sex. Emp., Adv. mathem. I 100 τῶν δὲ φωναέντων τρεῖς λέγουσι διαφοράς· δύο μὲν γὰρ αὐτῶν φύσει μαϰρὰ λέγουσι τυγχάνειν, τò η ϰαὶ τὸ ω, ἰσάριϑμα δὲ βραχέα, τὸ ε ϰαί τὸ ο, τρία δὲ ϰοινὰ μήϰους τε ϰαὶ βραχύτητος, α ι υ, ἅπερ δ ί χ ρ ο ν α ϰαί ὑ γ ρ ὰ ϰαὶ ἀ μ φ ί β ο λ α ϰαί μ ε τ α β ο λ ι ϰ ὰ ϰαλοῦσιν· ἕϰαστον γὰρ αὐτῶν πέφυϰεν ὁτὲ μὲν ἐϰτείνεσϑαι ὁτὲ δὲ συστέλλεσϑαι, οἴον τὸ μὲν α ἐπὶ τοῦ [Ε 31] Ἆρες Ἄρες βροτολοιγέ, μιαιφόνε τειχεσιπλῆτα, τò δὲ ι [Η 20] Ἴλιον εἰς ἱερήν· τῇ δ’ἄντιος ὤρνυτ’ Ἀπόλλων, τὸ δὲ υ [fg. anon. 391 Schneider, Callim. abiud. Pfeiffer] ϑεσπέσιον νεφέων ἐϰ Διòς ὗεν ὕδωρ10.

Come si vede dall’ultimo passo, dalla distinzione puramente grafica si passa all’ambito più propriamente prosodico, considerando le diverse quantità che le vocali graficamente ambigue vanno volta per volta prendendo. Sull’argomento aveva scritto un intero trattato Erodiano11: α ι υ venivano studiate nelle quantità che concretamente prendono nelle varie desinenze, nei vari suffissi formativi delle parole. S’instaurava anche qui, in sostanza, un discorso prosodico (simile a quello di cui saranno oggetto le sillabe, per cui v. più oltre ϰοινός–communis) in un ambito circoscritto dalla distinzione grafica (limitato, cioè, ad α ι υ). I grammatici latini non fanno che trascrivere, con dichronus, la designazione greca. Essa è di scarsa utilità, dal momento che la grafia latina non distingue in nessun caso la vocale lunga dalla breve: e lo notano i grammatici stessi, dicendo che, a differenza dal greco, in latino tutte le vocali sono dichronae. Mar. Victor. VI 31.18 Keil ... quibus primae potestatis quinque vocales existunt a e i o u, quae gemina virtute temporum praeditae, dum corripiuntur aut acuuntur, longas et breves sylla-

|| 9 Su variazioni di terminologia per δίχρονος v. H. Steinthal, Gesch. d. Sprachwiss. bei den Gr. u. Röm., II2, Berlin 1891, p. 195; e specialmente Kuhn, diss. cit., pp. 17–33. Il Kuhn presenta l’elenco più completo: μεταπτωτιϰός, μεταβολιϰός, μεταξύ–μέσος, ὑγρός, ϰοινός, ἀμφίβολος, δίσημος, τρίχρονος. Particolare interesse presenta ὑγρός, originariamente destinato a designare le consonanti liquide–nasali (v. presso Kuhn a p. 24 sgg. la spiegazione dello slittamento terminologico). δίσημος ha scarsa fortuna, perché più ancora di δίχρονος esposto all’equivoco di cui alla n. 4. ϰοινός crea confusione colla seconda categoria di anceps, quella prosodica (v. oltre). Chiaro il Kuhn (p. 29): appellatio ϰοινά, quae est longe simplicissima, sapit artem metricam: ut metrici s y l l a b a s (sottolin. mia) digesserunt in συλλαβὰς μαϰράς, βραχείας, ϰοινάς, ita erant, qui v o c a l i u m s o n o s (id.) dividerent in φωνήεντα μαϰρά, βραχέα, ϰοινά. 10 La polemica che segue non tocca, per noi, il valore dei termini. 11 περὶ διχρόνων II, 1 pp. 7–20 Lentz; cf. περὶ ϰαϑολιϰῆς προσῳδίας ϰ’, I pp. 520–547 Lentz, περὶ χρόνων.

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bas metris praestant. unde eas haud immerito nostri auctores d i c h r o n o s pronuntiarunt. Atil. Fortunat. VI 279. 5 Keil ergo omissis omnibus quae iam nosti admonendus es vocales nostras d i c h r o n a s esse, hoc est et produci et corripi. apud Graecos enim accepisti separatim natura longas, natura breves et d i c h r o n a s . Terent. Maur. VI 336. 360 Keil (de syll.) porro cunctas nostra lingua quinque vocales suas / corripit quod nunc easdem, nunc easdem protrahit, / utitur longis et isdem brevibus aeque fungitur, / nec brevem semper requirit, semper aut quae longa sit, / omnibus sed quinque semper utitur ceu d i c h r o n i s . (Cf. VI 364.1306 Keil)12.

Come si vede dall’imbarazzo dei grammatici latini, la distinzione è di scarsa utilità in sistemi grafici che ignorano distinzioni di quantità. Se la si vuol conservare, qualunque sia il termine che si voglia adottare, converrà riferirlo sempre chiaramente alla vocale, specificando così che si tratta, appunto, di un rilievo di ordine grafico. *** La distinzione prosodica, come s’è detto, riguarda le sillabe, e non può definirsi se non è chiaramente stabilita la differenza fra quantità della vocale e quantità della sillaba. Essa è ovvia per i moderni, che hanno adottato come comodo strumento la dottrina della sillaba aperta e chiusa13. Ma la distinzione fra vocale e sillaba è nata già colla definizione stessa di sillaba, che troviamo nella sua più antica formulazione in Dionigi d’Alicarnasso14, che l’avrebbe derivata da fonte

|| 12 Si lasciano da parte qui alcune altre testimonianze non prive d’interesse, specialmente per l’equazione ὑγρός–liquidus. Sono comunque facilmente rintracciabili col Thes. L. L. e cogl’indici del Keil. 13 V. ne la chiara esposizione in Lejeune, Traité de Phonétique grecque2, Paris 1955, pp. 256 sgg. Sarebbe bene che si adottasse l’uso di segnare sopra le vocali la quantità delle vocali e separatamente, in parentesi quadre, la quantità delle sillabe: p. es. hom. πᾰτρο̆ς [h h] att. πᾰτρο̆ς [g h] (cfr. n. 48). In molti manuali si trova ancora la terminologia ambigua e imprecisa «per natura» e «per posizione» (qui la s’impiega qualche volta in omaggio all’uso, ma con coscienza della sua improprietà). Com’è noto, i due termini φύσει–ϑέσει vengono dalla tradizione filosofica (E. Hermann, Silbenbildung im Griechischen..., Göttingen 1923, p. 125) e ϑέσει significa originariamente «per convenzione» e non «per posizione», come intesero a suo tempo i grammatici latini e, sui loro passi, i moderni. La confusione tra sillaba e vocale, che crea il non preciso linguaggio scolastico («l’omicron è lungo per posizione» e simili), origina proprio da tale fraintendimento terminologico: ϑέσει = positione fa pensare, appunto, che si parli di vocale e non di sillaba. 14 De comp. verb. XV p. 57.9 Us. –Rad. ἐϰ δή τῶν γραμμάτων τοσούτων τε ὅντων ϰαὶ δυνάμεις τοιαύτας ἐχόντων αἱ ϰάλούμεναι γίγνονται συλλαβαί. τούτων δέ είσί μαϰραί μὲν ὅσαι συνεστήϰασιν ἐϰ τῶν φωνηέντων τῶν μαϰρῶν ἢ τῶν διχρόνων ὅταν μαϰρῶς ἐϰφέρηται, ϰαὶ ὅσαι λή-

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peripatetica e precisamente da Aristosseno15. La troviamo ancora in Dionisio Trace16, in Efestione17 e, fra altri, in Sesto Empirico18. È tra parentesi significativo che nella tradizione bizantina, che non ha conosciuto quel fraintendimento di ϑέσει–positione19 con cui si svisano i termini nella tradizione latina, la distinzione si sia mantenuta estremamente chiara20. I termini tecnici che usa la tradizione grammaticale sono ϰοινός e communis. Con essi si vuole designare una sillaba la cui quantità non è immediatemente determinabile con criteri generali costanti, ma che presenta le due possibilità di misurazione. Caso tipico è la cosiddetta positio debilis in presenza di muta e liquida: la sillaba la cui vocale breve è seguita da muta e liquida può essere sia breve che lunga21. Naturalmente sfugge al teorico antico (e spesso anche al moderno) la distinzione fra «ϰοινότης» diacronica e sincronica: l’unica che veramente interessa per una distinzione prosodica (e che giustifichi il termine usato a designarla) è la considerazione sincronica. Tale sarebbe quella che considerasse, ad esempio, il trattamento di muta e liquida nella poesia esametrica latina, che deriva l’«allungamento» dalla tradizione epica greca, conservando tuttavia spesso la «correptio», naturale alla lingua parlata, come si vede dal comportamento dei commediografi arcaici22. La «ϰοινότης» diacronica è invece quella che risulta dalla considerazione, appunto, diacronica del comportamento di muta e liquida, per esempio, presso Omero e presso gli attici: salvo rare eccezioni23, il comportamento è sia presso l’uno (allungamento) sia presso gli altri || γουσιν εἰς μαϰρόν ἢ μαϰρῶς λεγόμενον γράμμα ἢ ε ἴ ς τ ι τ ῶ ν ἡ μ ι φ ώ ν ω ν τ ε ϰ α ὶ ἀ φ ώ ν ω ν βραχεῖαι δὲ ὅσαι συνεστήϰασιν ἐϰ βραχέος φωνήεντος ἢ βραχέως λαμβανομένου, ϰαί ὅ σ α ι λ ή γ ο υ σ ι ν ε ἰ ς τ α ῦ τ α . Notare come nei passi sottolineati è implicitamente contenuta la dottrina della sillaba aperta e chiusa. 15 Kroll, «Rhein. Mus.» 62 (1907), p. 91 sgg. 16 P. 17.3 sgg. Uhlig. 17 P. 1.10 sgg. Consbr. (περὶ μαϰρᾶς), e specialmente p. 2.3 sgg., dove si trova la dottrina della ϑέσει μαϰρά. 18 Adv. mathem. I 121 sgg. p. 626 sg. Bekk. 19 V. n. 13. 20 È efficace, anche se un po’ ingenuamente grossolana, la formulazione di Demetrio Triclinio (Sch. Gr. in Aristophanem, ed. Dübner, Paris 1842, p. XXX): ... σ υ λ λ α β ῶ ν δ έ μ ο ι ϰ α ὶ ο ὐ σ τ ο ι χ ε ί ω ν εἴρηται, ἐπειδὴ τὰ μὲν στοιχεῖα ϰαϑ’αὑτὰ ϰείμενα οὐδεμιᾶς τινος μετέχει δυνάμεως, συλληφϑέντα δὲ ϰαί οἴον ἑνωϑέντα πρòς ἄλληλα ϰαὶ τὰς συλλαβὰς ἀποτελέσαντα, δυνάμεις τέ τινας ϰαὶ ποιότητας ἔχει. 21 Aperta o chiusa, coi termini moderni. 22 Cf. Crusius, Römische Metrik2, München 1955, p. 6 sg., dov’è però da notare che si dà, per termine latino, anceps e non, come sarebbe esatto, communis. 23 V. per esempio quelle al normale comportamento omerico in Chantraine, Gramm. Hom., I, p. 108 sg. (cf. E. Hermann, Silbenbildung cit., p. 96). Ma il comportamento di muta e liquida an-

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(correptio) costante e, restando nell’ambito di ciascuno dei due ambienti o stadi linguistici, non dà occasione a distinzione degna di rilievo. Efestione ci elenca nel suo manuale24, oltre a muta e liquida, altri due casi di «ϰοινότης»: l’abbreviamento in iato25 e quello che i moderni chiamano allungamento epico26. Qui il valore sincronico della distinzione è meno equivocabile ed era certamente più chiaro anche alla coscienza dei teorici antichi. Benché Efestione non menzioni, accanto allo iato in lungo in levare27, lo iato in lungo in battere, per il fatto stesso che comprende le lunghe abbreviate fra i fenomeni di «ϰοινότης», è evidente che gli son presenti gl’infiniti casi in cui i dittonghi o le lunghe non si abbreviano (nei casi di iato, appunto, in battere). E ugualmente utile è la distinzione per il terzo caso, che comprende le numerose voci di quello che si chiama comunemente allungamento epico (epische Dehnung). Qui si tratta di vera incertezza o ambiguità nello stabilimento della quantità della sillaba nelle singole parole prese astrattamente: a parte i casi di analogie formulari28, che i moderni hanno avuto sugli antichi la superiorità di spiegare, il grosso dell’evidenza in questo campo resta anche a noi del tutto oscuro29. Si tratta con ogni probabilità d’influenza del metro sulla prosodia delle parole30.

|| drebbe studiato esaurientemente (anche gli attici presentano eccezioni alla correptio, spesso in presenza di sonore): non si sa se si può veramente escludere a priori che in Omero i casi di correptio (salvo naturalmente quelli palesemente attribuibili ad analogia formulare) intervengano più numerosi con il progressivo estendersi del fenomeno nella lingua parlata o con una maggiore influenza della lingua parlata sulla lingua dell’epos. Il fatto della maggior frequenza della correptio nell’Odissea potrebbe favorire tale spiegazione (respinta però da Chantraine, op. cit., p. 109). Si avrebbe così, nell’ambito dello stesso Omero, coesistenza sincronica di fenomeni ambedue spiegabili linguisticamente (e non l’uno spiegabile linguisticamente e l’altro solo come licenza metrica, come affermano quelli che definiscono le correptiones come «eccezioni»). 24 Heph. 3.3 sgg. Consbr. (περὶ ϰοινῆς). 25 Comprendente anche lo iato interno (τοιαύτας). 26 Epische Dehnung. Fra gli esempi che porta Efestione, però, solo uno è di vero e proprio allungamento epico (allungamento in battere): p. 8.4 ἀλλὰ τά γ’ἄσπαρτα ϰαὶ ἀνήροτα πάντα φύονται (ι 109). Gli altri sono esempi della cosiddetta posizione nascosta (versteckte Position), di sillabe chiuse, cioè, dalla presenza di un originario digamma. 27 Per evitare l’ambiguità di «arsi» e «tesi» (che si possono vicendevolmente scambiare), si usano qui i termini “in battere” e “in levare” (tempo forte e tempo debole), avvertendo che si intendono privi del valore musicale moderno. 28 Come, ad es., μέροπες ἄνϑρωποι (Σ 288) rifatto sul formulare e frequentissimo μερóπωυ ἀνϑρώπωυ (A 250, ecc.). Fu il Witte il primo a notare l’analogia in questo come in molti altri casi (“Glotta” III, 1911, p. 130 sgg., infine in R. E. VIII, 2, Stuttgart 1913, col. 2223). 29 Cf. Chantraine, Gramm. Hom., I, p. 103 sgg. 30 Quello che qui importa notare, per evitare confusioni con quanto seguirà, è che l’ambiguità

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Sostanzialmente identica è la tradizione che ci conserva Dionisio Trace31. Presso i grammatici latini la lista dei casi di «communitas» aumenta (s + consonante, presenza di z o x, -c finale nei pronomi, consonante + h, consonante + i o u), ma non escono dalla categoria a cui appartengono gli altri32: le sillabe in questione, sia in parole diverse sia addirittura in due ricorrenze della stessa parola, sono passibili delle due misurazioni prosodiche. Si tratta probabilmente di aggiunte o rifacimenti tardi della dottrina, adattata alla lingua latina33. La distinzione è – ripetiamo – di ordine prosodico e si riferisce alla sillaba. Qualora la distinzione stessa tornasse utile, niente impedirebbe di conservare anche nelle lingue moderne la designazione latina: «sillaba comune»34. *** Per la distinzione di ordine metrico gli antichi usavano i termini ἀδιάφορος– indifferens. Essi venivano usati per qualificare, normalmente, il termine συλλαβή–syllaba: ma è evidente che qui «sillaba» non significa quello che significava nella distinzione di ordine prosodico. Qui in realtà s’intende quello che Paul Maas con chiarezza terminologica chiama «elemento»35, parte, cioè, dello schema del verso. È comune anche nei manuali moderni l’espressione «sillaba anci-

|| quantitativa qui sarebbe originata dal metro, ma non cessa per questo di essere prosodica. È il metro che agisce sulla prosodia. In altre parole, nell’emistichio iniziale εἴατ’ ἀϰούοντες (α 326) la sillaba finale (a rigore aperta, perché segue vocale) si pronunciava chiusa, cioè lunga: era cioè prosodicamente lunga (v. comunque n. 12). 31 I. 1 p. 20.3 sgg. Uhlig. 32 V. ad es. Diom. I 423.2 sgg., 428.29 sgg. Keil; Charis. I 13.16 sgg. Keil; Donat. IV 369.3 sgg. Keil.; Mart. Cap. III 278 (105.3 sgg. Dick). 33 Come pensa Luc. Müller, De re metrica poëtarum Graecorum et Latinorum2, St. Petersburg– Leipzig 1894, p. 13 sgg. 34 Demetrio Triclinio aveva escogitato un segno per la communis breve (⌊) e un segno per la communis lunga (⌉): Sch. Gr. in Aristophanem ed. Dübner, Paris 1842, p. XXX sg. (περὶ σημείων τῆς ϰοινῆς συλλαβῆς...) ... ἐπενοήϑη ἔμοιγε τ ῆ ς ϰ ο ι ν ῆ ς σ η μ ε ῖ ο ν διὰ τὴν τῶν πολλῶν πλάνην· ϰαὶ οἶμαι ϰαλòν ἂν δόξαι τοῖς εὖ φρονοῦσιν. ἐπενοήϑη δὲ διπλοῦν τò σημεῖον, διὰ τò διπλῆν τινα ϰαὶ ταύτην ἔχειν τἠν δύναμιν. ὅτε μὲν οὖν ἀντὶ βραχείας ὀφείλει λαμβάνεσϑαι, σημεῖον ἐπενοήϑη τοδί ⌊, μαϰρὰ δηλονότι ϰαταρχὰς ἄνω βλέπον τò τοῦ ἰῶτα στοιχείου σημεῖον ἔχουσα, ὅτε δ’ἀντὶ μαϰρᾶς, τοῦτο ἀντεστραμμένον οὑτωσὶ ⌉, μαϰρὰ δηλονότι ἐν τῷ τέλει ϰάτω νεῦον τò τοῦ ἰῶτα σημεῖον ἔχουσα. βέλτιον γὰρ ταῦτα τιϑέναι ϰαὶ διαγιγνώσϰειν ποία ἐστὶν ἡ ϰοινή, ἢ πλανωμένους τινὰς τò π ο ι ε ῖ ν γράφειν π ο ε ῖ ν ἀμαϑῶς· ϰαὶ φύσει βραχὺ φωνῆεν, ἔχον δὲ ἐπαγόμενα δύο σύμφονα, ὤν τò δεύτερον ἀμετάβολον ἀεὶ ἀντὶ μαϰροῦ λαμβάνειν, ἢ ϰαὶ τò φύσει βραχὺ φωνῆεν, ὅταν εἰς μέρος λόγου ϰαταλήγῃ, τὴν μαϰρὰν ἐπιτιϑέντας ἀντὶ μαϰροῦ λαμβάνειν. 35 Griechieche Metrik2, Leipzig–Berlin 1929, p. 9.

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pite» per designare l’ultimo elemento d’un verso: e sarebbe opportuno inaugurare una volta per tutte l’uso generale del termine «elemento». Gli antichi usavano ἀδιάφορος–indifferens sempre, e solo, per indicare l’ultimo elemento del verso, che, come si sa, può essere indifferentemente rappresentato da sillaba breve o lunga. Riportiamo qui di seguito le principali testimonianze, alcune con notevole estensione di testo per comodità della discussione che seguirà. Heph. 14.15 Consbr. παντòς μέτρου ἀ δ ι ά φ ο ρ ό ς ἐστιν ἡ τελευταία συλλαβή, ὥστε δύνασϑαι εἶναι αὐτὴν ϰαὶ βραχεῖαν ϰαὶ μαϰρὰν, oἷον [Β1] ἄλλοι μέν ῥα ϑεοί τε ϰαὶ ἀνέρες ἱπποϰορυσταί εὗδον παννύχιοι· Δία δ’οὐϰ ἔχε νήδυμος ὕπνος· ἐν μὲν γὰρ τῷ προτέρῳ μαϰρά ἐστιν ἡ τελευταία συλλαβή, ἐν δὲ τῷ δευτέρῳ βραχεῖα. Heph. 16.4 Consbr. ὅτε μὲν οὖν ἀϰατάληϰτόν ἐστιν, ἐπὶ τῆς τελευταίας τòν ἴαμβον δέχεται μόνον ἢ πυρρίχιον διά τ ὴ ν ἀ δ ι ά φ ο ρ ο ν . Heph. 43.14 Consbr. τοῦτο δὲ [scil. τὸ Σαπφιϰὸν ἑνδεϰασύλλαβον] τὴν μὲν πρώτην συζυγίαν ἔχει τροχαϊϰὴν ἑξάσημον ἢ ἑπτάσημον, τὴν δὲ δευτέραν χοριαμβιϰήν, τὴν δὲ ϰατάϰλειδα ἐξ ἰάμβου ϰαὶ τ ῆ ς ἀ δ ι α φ ό ρ ο υ . Heph. 44.21 Consbr. δ [scil. τὸ Ἀλϰαïϰὸν ἑνδεϰασύλλαβον] τὴν μὲν πρώτην συζυγίαν ἔχει ἰαμβιϰήν, ἤτοι ἑξάσημον ἢ ἑπτάσημον, τὴν δὲ δευτέραν ἰωνιϰὴν ἀπὸ μείζονος ἢ δευτέραν παιωνιϰήν, τὴν δὲ ϰατάϰλειδα ἐϰ τροχαίου ϰαὶ τ ῆ ς ἀ δ ι α φ ό ρ ο υ . Quint. IX 4.93 sg. clausula quoque e longis firmissima est, sed venit et in breves, quamvis habeatur i n d i f f e r e n s ultima. neque enim ignoro in fine pro longa accipi brevem, quia videtur aliquid vacantis temporis ex eo quod insequitur accedere: aures tamen consulens meas intellego multum referre verene longa sit quae cludit an pro longa. neque enim tam plenum est «dicere incipientem timere» quam illud «ausus est confiteri». atqui si nihil refert brevis an longa sit ultima, idem pes erit, verum nescio quo modo sedebit hoc, illud subsistet. quo moti quidam longae ultimae tria tempora dederunt, ut illud tempus quod brevis ex loco [longo longa (varr. lectt.)] accipit, huic quoque accederet. Diom. I 494. 18 Keil (de dactylico hexametro) sed spondeus perpetuo in fine ponitur, cuius loco plerumque trochaeus invenitur, ea ratione qua i n d i f f e r e n t e m in omnibus metris postremam syllabam veteres esse crediderunt. Mar. Victorin. VI 62.28 Keil scias autem in omni metro novissimam syllabam ἀ δ ι ά φ ο ρ ο ν , id est i n d i f f e r e n t e m esse. nihil enim metri interest utrum illa longa sit an brevis, ea videlicet ratione, quia distinctionis mora breve tempus extendit. longam autem syllabam pro brevi accipi finalem ea ratione putaverunt, qua reperiuntur in metris longae plerumque pro brevibus positae, quas communes vocant, ut est «insulae Ionio in magno» [Verg. Aen. III 211]. unde fit ut in omni metro novissima syllaba i n d i f f e r e n s habeatur. nam Aristoxenus musicus dicit breves finales in metris si collectiores sint, eo aptiores separationi versus a sequente versu fieri; idcircoque in sexta sede trimetri iambici trisyllabos figura non ponitur, quia moram habet. at contra disyllabos familiaris est, quia celerius desinit, et eo magis, si posteriorem syllabam brevem habuerit.

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Mar. Victorin. VI 71.13 Keil (de dactylico metro) trochaeus numero tantum syllabarum spondeo congruens, velut alienus ab his, semper in extima parte versus locabitur. super quo etiam nunc inter grammaticos lis pendet. nam qui eum adserunt, ferunt pulchriorem versum epicum effici, si ϰατάληξιν habeat, id est si trochaeo claudente terminetur, ut persuadeant dactylicis pedibus familiariter trochaeos in depositionibus coniugari. adversus quos alii loci extimi, in quo tantum locabitur, praescriptione nituntur; nec immerito, ut novissima eius syllaba, quae semper brevis est, mora temporis intercedente, quae in fine versus naturaliter contingit, suppleatur, quo tunc demum pro longa sumatur, sicut pleraeque in metris finales syllabae: vel quod in omni versu ultima brevis ἀ δ ι ά φ ο ρ ο ς , id est i n d i f f e r e n s , habeatur. quae tamen persuasio in medio posita potest et trochaeo accidere. Sacerd. VI 500.27 Keil dactylicum metrum solum simplicibus scanditur pedibus, dactylo, spondeo, trochaeo, sed in novissima parte; quamvis quidam trochaeum nec in novissima dactylici metri parte concedant, quoniam novissima syllaba in omni metro i n d i f f e r e n s est. sed hac sua ratione errant36.

Il termine è chiarissimo e risponde pienamente alla realtà del fenomeno. Come ci dicono i tecnici latini, nihil refert brevis an longa sit ultima37, nihil metri interest utrum illa longa sit an brevis38. A spiegazione va richiamata la particolare natura del verso quantitativo classico, che, per interrompere la sequenza temporale dei valori sillabici, fa sentire alla fine quella che, con termine musicale, si può ben definire come una vera e propria pausa: tale pausa, sempre presente a ogni fine di parola39, è in fine di verso così sensibile, da rendere indifferente la quantità breve o lunga della sillaba che riempie l’elemento finale. Stando così le cose, non ha gran senso affermare, a proposito di un elemento indifferente finale, che in quel punto lo schema del verso «richiederebbe» elemento breve o elemento lungo. Lo schema richiede alla fine né più né meno che un elemento indifferente, e tale elemento può essere riempito sia da sillaba breve che da sillaba lunga. L’affermare che il verso giambico acatalettico richiederebbe alla fine elemento lungo non è altro che un resto, tenace a morire, dell’intellettualismo hermanniano. E ancora meno ci sembra accettabile la premessa secondo cui addirittura ogni elemento finale dovrebbe esser lungo. Ha || 36 In alcune altre testimonianze di Sacerdote stesso ci si riferisce al piede, ma la sostanza è la stessa. Ad es. VI 506. 12 Keil nam sextus [scil. pes], id est novissimus, sicut in heroico metro, indifferens inter schemata non computatur. (Cf. ancora 511.9, 518.26). 37 Quint. IX 4.94.13 cit. sopra. 38 Mar. Victorin. VI 62.29 Keil cit. sopra. 39 Potremmo chiamare «pausa d’incisione» quella che interviene in presenza di cesura o di dieresi. Ma anche una normale fine di parola, al di fuori delle incisioni principali del verso, ha la sua virtù di pausa: non si spiegherebbe in altro modo la legge di Porson del trimetro giambico (v. Snell, op. cit., p. 5) e quella di Havet del tetrametro trocaico (v. Irigoin, «Rev. d. Ét. Gr.» 72, 1959, p. 69 sg.).

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avuto così origine il termine di «brevis in longo» per designare l’indifferente finale40. Si è voluto affermare così che gli schemi dei versi richiedono in fine universalmente elemento lungo. E, anche volendo seguire sullo stesso terreno chi vuol costruire schemi astratti, non sarà possibile ignorare la realtà dei versi trocaici acataletti, ad esempio: quello che questi versi alla fine «richiederebbero» sarebbe in realtà tutt’altro che un elemento lungo41. E come si farebbe ad affermare che cosa «richiederebbe» un verso con finale femminile, ad esempio un reiziano o un enoplio? Vale la pena chiarire a questo punto un altro equivoco. Si crede da alcuni che la sillaba finale – la sillaba, si noti, non più l’elemento – sia costantemente lunga, che si allunghi, cioè, anche quando sarebbe prosodicamente breve. A parte l’assurdità ritmica di un tale stato di cose42, basta considerare le testimonianze degli antichi per accorgersi che la loro sensibilità ritmica non li tradiva. Efestione43 ci parla, senza ulteriori specificazioni, di βραχεῖα e di μαϰρά, e niente ci autorizza a pensare che la breve non conservasse, nell’elemento finale, la sua qualità di breve. Ma la testimonianza decisiva è quella di Quintiliano44: aures tamen consulens meas intellego multum referre verene longa sit quae cludit an pro

|| 40 Maas, Metrik2 cit., 1929, p. 35: «(syllaba) brevis in (elemento) longo». Il termine è divenuto di uso quasi generale. Se ne veda la giustificazione in Maas, op. cit., p. 11: Das letzte Element des Verses (der Strophe, des Systems usw.) ist nie breve oder zweisilbiges biceps; es ist vielmehr immer insofern anceps, als jede versschliessende Silbe prosodisch lang oder kurz sein darf. Da aber die innere Responsion an dieser Stelle sehr oft ein longum fordert, so gut wie nie ein breve, und da mit der Möglichkeit zu rechnen ist, dass auch kurze Schlusssilben durch die Pause prosodisch gelängt werden, notieren wir jedes schliessende Element als longum. Già prima di Maas però lo Schroeder aveva anticipato la nuova terminologia, adottando la «Kürze statt der Länge» di Boeckh («Mus. d. Altertumswiss.», II, 1810, p. 215 cit. da Schroeder stesso, Vorarbeiten z. griech. Versgesch., Leipzig–Berlin 1908, p. 136), che diventerà «Kurze Hebung» (Schroeder, loc. cit.) e in seguito «Kurzhebung» (Schroeder, Nomenclator metricus, Heidelberg 1929, s. v.). V. Snell, op. cit., p. 3 n., 2, che accetta in pieno la terminologia maasiana. V. però A. M. Dale, «Gnomon» 1956, p. 193 che, nella recensione al manuale dello Snell, accetta anch’essa il termine, ma nota giustamente che, non essendo necessario considerare costantemente lungo ogni elemento finale di verso, sarebbe meglio conservare il termine solo per la sillaba (e rispettivamente per l’elemento) «closing blunt», come gF. Ma – aggiungiamo noi – con una tale (pur necessaria!) limitazione il termine diventa del tutto inutile. 41 Si tratterebbe in realtà d’irrazionale, per cui v. più. sotto. 42 Alla fine del verso si cerca piuttosto varietà che uniformità, appunto perché il diverso sfruttamento del tempo che può fornire la pausa opera da elemento ritmico di confine fra un verso e l’altro (la breve lascia più tempo alla pausa). 43 Heph. 14.6 sg. Consbr. cit. più sopra. 44 IX 4. 93.9 sgg. e 13 sgg. citt. più sopra.

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longa45. Dopo aver portato un esempio, Quintiliano continua, insistendo sul fatto del diverso valore temporale: atqui si nihil refert brevis an longa sit ultima, idem pes erit, verum nescio quo modo sedebit hoc, illud subsistet. Mario Vittorino46 ci dice addirittura che le brevi vengono preferite, perché, lasciando evidentemente più tempo alla pausa, sono aptiores separationi versus a sequente versu; e che, quindi, è meglio che l’esametro termini con trocheo invece che con spondeo. Inoltre, nelle testimonianze di Mario Vittorino e di Sacerdote47 abbiamo una eco interessantissima di una disputa di dotti su tale argomento: non tutti erano d’accordo nell’assegnare al verso dattilico, oltre al dattilo e allo spondeo, anche il trocheo, per la ragione che alcuni, considerando l’ultima sillaba sempre lunga, riportavano praticamente il trocheo a spondeo. Sia Mario Vittorino che Sacerdote, attingendo forse a fonte comune, sono apertamente per la concessione di piena cittadinanza al trocheo nell’ambito del verso dattilico, per l’ammissione, cioè, del valore di breve per la breve finale48. || 45 Quel pro longa è espressione di linguaggio lievemente figurato, che non tocca la sostanza della cosa. Contrapposta alla vere longa, la pro longa è in effetti una «non vere longa». Ci spieghiamo così anche Mar. Victorin. VI 63.3 Keil (cit. sopra) longae plerumque pro brevibus positae. 46 VI 63.6 sg., 71.16 sgg. Keil citt. più sopra. 47 Mar. Victorin. VI 71.13 sgg. Keil, Sacerd. VI 500.27 sgg. Keil citt. più sopra. 48 V. ancora, per la discussione delle due teorie, Max. Victorin. VI 208.26 sgg. Keil. – Ci sarebbe a questo punto da chiedersi se si preferisca, nell’elemento indifferente in fine di verso, sillaba breve o lunga. Aristosseno (ap. Mar. Victorin. VI 63.5 sgg. Keil cit. più sopra) affermava che era preferibile la sillaba breve alla lunga, in fine, e si veda, a spiegazione, quanto si è detto alla n. 42. È un fatto, comunque, che in fine di verso troviamo in maggioranza sillabe contenenti vocali lunghe: nel primo canto dell'Iliade, su 611 versi, 346 terminano così, di fronte a 130 finali vocaliche brevi e a 135 sillabe chiuse con vocale breve. Queste ultime fanno difficoltà: venivano sentite sempre come lunghe o no? In Hermann, Silbenbildung cit., pp. 93 sg., 124 si vedano alcune analisi di Dionigi d’Alicarnasso, dalle quali appare evidente che in alcuni casi (quando cioè si ammette pausa) la sillaba chiusa finale con vocale breve viene considerata lunga (p. es. ὡς ϰαλòν ἐπί [h g h g g]). |Ma Efestione (14.21 Consbr. cit. più sopra) ci parla di B 2 come di verso terminante in breve (ὕπνος). La sillaba chiusa con vocale breve doveva esser sentita, se non proprio come breve, certo almeno come più breve di una normale lunga: altrimenti non avrebbe ragion d’essere la legge di Wernicke, che vieta «lunghezza per posizione» col quarto biceps monosillabico in presenza di dieresi bucolica. Evidentemente si voleva evitare, come con la legge di Hermann (cf. Snell, op. cit., p. 7), l’impressione di fine prematura del verso (tetrametro dattilico catalettico), che si avrebbe senz’altro avuta, essendo evidentemente la «lunga per posizione» più breve della «lunga per natura» e dando cosὶ l’impressione di finale trocaica, cioè di catalessi (la legge di Wernicke lascerà il posto presso gli alessandrini alla legge di Naeke, che vieta totalmente dieresi bucolica con quarto biceps monosillabico). La legge di Wernicke è comunque una notevole ulteriore conferma della perfetta natura prosodica breve delle brevi in elemento indifferente: non si tenderebbe a mettere al quarto biceps una inequivocabile lunga se non esistessero sillabe che, anche in catalessi, sono sentite come brevi o

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Se si considera il fatto che le testimonianze riportate esauriscono sostanzialmente per intero l’uso dei termini in significato tecnico metrico49, non potrà non saltare agli occhi la circostanza estremamente significativa che due altri casi d’indifferenza quantitativa metrica, che i moderni riportano sempre sotto la stessa designazione di anceps, sfuggono al raggio designativo dei due termini ἀδιάφορος–indifferens: si tratta da un lato della cosiddetta ancipite dei metra giambico e trocaico e dall’altro di tutti quei fenomeni di variabilità quantitativa che possono più o meno precisamente riportarsi alla libertà della cosiddetta «base eolica» hermanniana o dell'Auftakt dei versi enoplio–prosodiaci. Per questi due casi gli antichi sfuggono concordemente denominazioni che possano apparentarli non dico coll’ancipite in senso grafico o prosodico, ma anche addirittura coll’ancipite in senso metrico di cui abbiamo discusso da ultimo, coll’indifferente finale, cioè. Ecco alcune testimonianze di terminologia per la «base» e per l’inizio di versi ascendenti: Heph. 31.15 Consbr. (περὶ ἀντισπαστιϰοῦ). τὸ ἀντισπαστιϰὸν τὴν μὲν πρώτην συζυγίαν ἔχει τρεπομένην ϰατὰ τὸν πρότερον π ό δ α ε ἰ ς τ ὰ τ έ σ σ α ρ α τ ο ῦ δ ι σ υ λ λ ά β ο υ σ χ ή μ α τ α , ... (si parla qui del gliconeo e dei versi affini). Heph. 48.2 Consbr. ... προσοδιαϰόν, τὸ ἐξ ἰωνιϰῆς ϰαὶ χοριαμβιϰῆς, τ ῆ ς ἰ ω ν ι ϰ ῆ ς ϰαὶ βραχεῖαν τὴν πρώτην δεχομένης. Mar. Victorin. VI 118.17 Keil... sub ea divisione, in qua primus pes, ut in glyconio, erit u n u s e q u a t t u o r d i s y l l a b i s ...50.

|| come quasi–brevi. In altre parole, se non ci fossero sillabe che potessero evitare impressione di catalessi (se cioè lunghe, «quasi brevi» e brevi fossero sentite uguali in fine di verso), sarebbe addirittura vietata la dieresi bucolica con quarto biceps monosillabico: e la vieterà appunto, più tardi, la legge di Naeke, nata certamente da un affievolirsi del senso della quantità. 49 Rimangono fuori alcuni rari casi di scarso rigore terminologico, come Herodian. I 533.10 sgg. Lentz, dove ἀδιάφορος ha valore prosodico (e dovrebbe quindi esser sostituito da ϰοινός). 50 V. ancora Heph. 43.14 sg., 44.21 sg. Consbr. (συζυγίαν ... ἑξάσημον ἢ ἑπτάσημον: ν. i passi citt. sopra), Sacerd. VI 515.14 Keil, etc. Gli unici casi di uso di ἀδιάφορος per questa categoria si trovano negli scoli pindarici: Sch. Pind. O. VIII epod. ϑ’ I 236.24 Drachmann, Ο. IX epod. ϑ’ II 266.3 Dr., P. II str. ζ’ II 30.13 Dr., P. II epod. ϛ’ II 30.26 Dr. (riferito alla «base» del gliconeo, chiamata πρῶτος πούς), N. III epod. β’ III 40. 15 Dr., Ν. VI str. η’ III 100.21 Dr., Ν. VI str. ιγ’ III 101.1 Dr. Si tratta sempre degli scholia vetera, che, secondo Irigoin, Les scholies métriques de Pindare, Paris 1958, p. 49 sgg., sarebbero in perfetto accordo con le dottrine di Eliodoro, come appaiono dai frammenti della colometria di Aristofane (pubblicati in White, The verse of Greek Comedy, London 1912, pp. 397–421). Non conoscendo noi di Eliodoro altro che notazioni di ordine strutturale per quanto riguarda la costruzione delle parti liriche, non possiamo che fare delle ipotesi: gli scoli pindarici avranno o innovato, oppure conservato tracce di una terminologia divergente più antica.

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Ed ecco che cosa leggiamo normalmente quando si tratta della cosiddetta ancipite dei metra giambico e trocaico: Heph. 15.16 Consbr. (περί ἰαμβιϰοῦ), τὸ ἰαμβιϰόν δέχεται ϰ α τ ά μ ὲ ν τ ὰ ς π ε ρ ι σ σὰς χώρας ἴαμβον, τρίβραχυν, ϰαὶ σπονδεῖον, δάϰτυλον, ἀ ν ά π α ι σ τ ο ν , ϰατὰ δὲ τὰς ἀρτίους ἴαμβον ϰαὶ τρίβραχυν ϰαὶ ἀνάπαιστον. Heph. 17.15 Consbr. (περὶ τροχαϊϰοῦ), τὸ τροχαϊϰὸν ϰ α τ ὰ μ ὲ ν τ ὰ ς π ε ρ ι τ τ ὰ ς χ ώ ρ α ς δ έ χ ε τ α ι τ ρ ο χ α ῖ ο ν , τ ρ ί β ρ α χ υ ν ϰ α ὶ δ ά ϰ τ υ λ ο ν , ϰατά δὲ τὰς ἀρτίους τούτους τε ϰαὶ σπονδεῖον ϰαὶ ἀνάπαιστον. Mar. Victorin. VI 80.7 Keil recipit itaque iambicus versus i n d i s p a r i b u s l o c i s , quas Graeci π ε ρ ι σ σ ὰ ς χ ώ ρ α ς vocant, id est primo tertio et quinto, cum est tragicus, s p ο n d e u m d a c t y l u m a n a p a e s t u m ; paribus autem, quas ἀρτίους χώρας dicunt, eos qui a brevi syllaba incipiunt, id est iambum tribrachyn anapaestum51.

Si vede come si rifugga da una designazione simile a quelle usate per gli altri casi. Segno evidente che, nell’ambito di una variabilità metrica che li comprendeva tutti e tre, i tre casi venivano comunque sentiti come distinti. E anche qui la terminologia antica, con la sua notevole coerenza e coi suoi «tabu», ci offre il materiale per chiarificazioni concettuali. L’ἀδιάφoρoς–indifferens finale è l’unico elemento del verso che sia veramente indifferente, nel vero senso della parola, al ritmo del verso stesso: che un esametro o un trimetro giambico finiscano con una breve o con una lunga non ha nessuna importanza per il complesso ritmico del verso. Ma la libertà della «base» non è elemento d’indifferenza ritmica: lascia semplicemente non ancora determinati alcuni elementi del verso, ma del verso astrattamente considerato, s’intende: quando questi elementi si determineranno, allora si potrà parlare di schema metrico concreto del verso in questione. In un gliconeo la «base» è incerta solo nello schema astratto: ma in un gliconeo determinato, del quale si voglia fare lo schema concreto, essa sarà di volta in volta h g oppure g h oppure h h oppure g g. In altre parole, per stabilire la fisionomia ritmica d’un gliconeo, altro è dire che l’inizio è, per esempio, h g, altro è dire che l’ultima sillaba è, per esempio, lunga: un gliconeo iniziante con h g è ritmicamente diverso da un gliconeo iniziante con g h, ma ritmicamente identici sono due gliconei in tutto uguali meno che nella quantità dell’ultima sillaba52.

|| 51 V. ancora Atil. Fortunat. VI 286.20 sgg., 287.19 sgg. Keil, Sacerd. VI 518. 22 sgg., 528. 20 sgg. Keil, Mall. Theod. VI 593. 6 sgg., 594. 28 sgg. Keil, etc. 52 Ugualmente di un dimetro coriambico si potrà fare lo schema concreto solo quando si sarà in grado di determinare come si configura quello dei due metra che sia impuro, cioè non co-

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Quanto all’indifferenza nelle sedi rispettivamente dispari e pari dei metra giambico e trocaico, si tratta di fenomeno totalmente diverso dal punto di vista ritmico: si tratta della possibilità della cosiddetta «lunga irrazionale», nata nella tradizione antica col nome di ἄλογος. La definizione di Aristosseno53 è chiara: la sillaba irrazionale ha un valore medio fra la lunga e la breve ed è per questo incommensurabile con esse per mezzo di un numero semplice (il suo λόγος o rapporto colle altre grandezze non è determinabile). E qui, sì, avrebbe ragion d’essere il parlare, per via d’immagine, di quantità «richiesta» dal ritmo: il ritmo giambico e quello trocaico, fondati sul piede giambico e su quello trocaico, sulla alternanza regolare, cioè, di una lunga e di una breve, sono in un certo senso violentati da una sostituzione quantitativa di una lunga a una breve. Gli antichi sentivano tale violenza ritmica e, avendola confinata a determinate sedi del verso, si erano creati lo strumento concettuale della lunga irrazionale, rispondente alla realtà della persistenza dei ritmi giambico e trocaico anche in presenza di tali sostituzioni54. Nella trattazione della designazione metrica abbiamo sempre implicitamente tenuto distinti i concetti di elemento e di sillaba. Intendiamo adesso esplicitare tale distinzione e sfruttarla per quella precisazione terminologica che, essendo stata utile in campo grafico e prosodico, ancor di più lo sarà qui, visto che si rendono necessarie, come s’è visto, sottodistinzioni interne. L’elemento finale è «indifferente» e può essere riempite, ossia realizzato, da sillaba di volta in volta breve o lunga, che conserva di volta in volta la sua natura di breve o di lunga55; la «base» e, ad esempio, la metà impura del dimetro coriambico sono costituite da elementi che non sarebbe inopportuno chiamare «liberi»56: ed anch’essi possono essere realizzati da sillabe brevi o lunghe; l’ἄλογος, infine,

|| riambico. Si tratta sempre di elementi non ancora determinati, liberi, che si determineranno nella configurazione concreta di ogni singolo verso. 53 P. 292 sg. Mor. 54 Si lascia qui di proposito fuori la questione se si debba considerare ἄλογος la sillaba lunga del maasiano anceps interpositum dei dattilo–epitriti (il drag della Dale, «Class. Quart.» 1951, p. 23, dove si richiama anche il maasiano cholosis): bisognerebbe riprendere il lungo e complicato discorso sulla natura di tale ritmo iniziato da Blass e Schroeder e continuato da tutti i più grandi metricisti moderni con vivaci discordanze di vedute. Quanto alla cosiddetta irrazionalità del cosiddetto dattilo ciclico, si tratta di tutt’altra cosa, come si vedrà da uno studio successivo. 55 Quanto a espedienti grafici, apprendiamo che Varrone (fr. 46 p. 205 Fun., ap. Rufin. VI 555.11 sgg. Keil) usava notam I transversam per indicare la finale breve. Richiamiamo anche l’espediente di Demetrio Triclinio (n. 34), che si potrebbe trasferire dal campo prosodico, dov’è di scarsa utilità, a quello metrico per indicare almeno le sillabe degli elementi liberi. 56 Sono liberi, naturalmente, entro certi limiti.

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dei metra giambico o trocaico ci porta a definire l’elemento di nuovo come «libero» e la eventuale sillaba lunga che lo realizzi come «irrazionale». Non sarà forse inutile riassumere in uno schema i nostri risultati riguardanti la terminologia del terzo settore, quello metrico: finale

ELEMENTO: «indifferente»

SILLABA: breve o lunga

«base», dimetro, etc.

ELEMENTI: «liberi»

SILLABE: brevi o lunghe

ἄλογος dei metra giambico e troc.

ELEMENTO: «libero»

SILLABA: breve o lunga irrazionale.

Quanto a espedienti grafici per indicare le tre categorie di elemento, si potrebbero usare rispettivamente per la prima il punto coronato W57, per la seconda il segno x58, per la terza il doppio segno f59.

|| 57 Già proposto, ma non adottato, da Maas, Metrik2 cit., 1929, p. 33 (aggiunta al § 34). È noto che in musica si indica col punto coronato una nota (finale di frase) che ha durata libera, sciolta dalla costrizione mensurale del contesto. 58 Con la variante per l’anaclasi, che esclude g g: v. Maas, op. cit. p. 9 sg. (§§ 3, 4) e Snell, Metrik3 cit., 1962, p. 2. Maas però estende la notazione x anche alla terza categoria, all’ἄλoγoς (op. cit., p. 24, § 101). 59 Resta escluso, si noti, il doppio segno F, assorbito da quelli proposti per le prime due categorie.

oo

Sul problema dell’ictus (A proposito di un lavoro di Alessandro Setti) Il problema dell’ictus è notoriamente uno dei piú spinosi e dobbiamo essere grati all’autore di un agile saggio pubblicato di recente (Alessandro Setti, Ictus e verso antico, Firenze 1962, pp. 1–59 = Atti dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria» 1962–63, pp. 300 ss.), che lo ha riaffrontato con competenza. Come leggiamo a p. 3, egli «non è mai riuscito a convincersi della illegittimità storica del termine e della nozione di ictus» e, di fronte all’ormai quasi generale divieto di usare del termine e della nozione, dichiara (p. 4 s.) che «lo scritto presente è un tentativo di uscire da questo stato di non convinta rassegnazione al divieto». Il lavoro è diviso molto ordinatamente in cinque parti, il che ne rende agevole la lettura e ne facilita grandemente la discussione. Una introduzione (pp. 3–12) imposta il problema e fornisce una informata storia della questione; si viene poi (pp. 12–33) a saggiare l’attendibilità delle fonti antiche; una terza sezione (pp. 33–49) si sposta «sul terreno linguistico e fisio–psicologico»; una quarta (pp. 49–57) studia alcuni fenomeni particolari che troverebbero spiegazione, secondo l’Α., solo accettando l’ictus; ed infine (pp. 57–59) viene presa in considerazione la lettura metrica della poesia antica, come essa sarebbe possibile a noi moderni. S’intende qui riprendere la discussione di alcune questioni, seguendo la falsariga che ci offre l’autore stesso. Piú che la vera e propria storia della questione, l’Α. ci offre (p. 4 n. 1) una rassegna delle posizioni attuali, chiara e bene aggiornata, malgrado le proteste di non completezza bibliografica (n. 1, in.)1. L’A. afferma di non rendersi conto

|| [Recensione pubblicata in «ASNP» s. II, 33, 1964, pp. 119–134; risposta di Setti in Replicando sull’ictus, «ASNP» s. II, 34, 1965, pp. 387–403] 1 Chi vorrà seguire la storia della questione nel secolo scorso, dalle affermazioni di Hermann e Boeckh, attraverso il ‘musicalismo’ del Westphal, alla reazione di Nietzsche, fervido negatore dell’ictus, e alle posizioni piú recenti, potrà vedere adesso la ricca rassegna, contemporanea al lavoro del Setti, di MARINO BARCHIESI, Nevio epico, Padova 1962, pp. 294–298. Si veda anche G. C. LEPSCKY, Il problema dell’accento latino. Rassegna critica di studi sull’accento latino e sullo studio dell’accento, «Ann. Sc. Norm. Pisa», S. II, vol. 32, 1962, pp. 199–246, dove una intera sezione è dedicata all’ictus e alla problematica ‘Iktus und Akzent’ (pp. 206–215), su cui v. oltre. Il dare ulteriori indicazioni bibliografiche non sarebbe in armonia colla natura di questo scritto: basti indicare ancora, per la ricchezza d’informazione, l’utile rassegna di E. KALINKA, «Bursians Jahresber.», 250 (1935), spec. pp. 332–362. https://doi.org/10.1515/9783110647983-006

Sul problema dell’ictus | 141

del cosí poco credito che molti hanno dato a quella che per lui è la realtà indiscutibile dell’ictus. E senz’altro l’atteggiamento di chi vuol guardarsi bene intorno prima di accedere all’opinione sia pure di una grande maggioranza non può essere che da raccomandare. L’A. fa però, in sede di collocazione storica della ricerca piú recente, un’affermazione, a nostro avviso, del tutto inesatta. Da quanto si legge particolarmente a pp. 10–12, sembra che egli consideri inconciliabile l’accettazione dell’ictus da parte della corrente metrica dell’observatio (Maas–Snell: p. 10 n. 2), corrente che chiama con aperta polemica «metrica di delusa constatazione» o «scepsi metrica» (p. 10 n. 4), come se essa si fondasse su premesse che non consentirebbero l’ictus. Il rifiuto dell’ictus da parte di tale corrente è del tutto indipendente dal presupposto generale, in essa sempre presente, di prudenza metodica, e diciamolo pure coll’A., di ‘scepsi’: è semplicemente uno dei risultati a cui i vari rappresentanti di essa sono stati condotti dall’esame delle testimonianze e dal vaglio della realtà linguistica. Che poi tutti i rappresentanti di tale corrente, la cui serietà non si può da nessuno mettere in discussione, siano arrivati a rigettare l’ictus potrà essere anche un puro caso: e del resto una notevole garanzia potrebbe vedersi nel fatto che altre scuole metriche sono arrivate alla stessa conclusione (Del Grande, ad esempio, che dalla ‘scepsi’ di Maas è certo molto lontano). Il che non vuol dire neanche che chi nega l’ictus dica di «fidarsi solo degli occhi», come polemicamente affermava Romagnoli (cit. dall’A. a p. 10 n. 4): chi nega l’ictus vuole, p e r l ’ o r e c c h i o , una resa sonora che semplicemente ignori l’ictus, ma che contempli in dovuta misura anche due elementi che l’occhio ahimè non riscontra nei testi antichi e a cui essi erano certamente sottoposti nella resa sonora, e cioè l’accento tonico e la quantità. Non si creda, quindi, che la corrente della rigorosa observatio rinunci a farsi un suo quadro della realtà fonica del verso antico. Il Romagnoli non era il solo ad avere la fervida volontà di ricostruzione dell’antico in ogni suo aspetto che era stata di Boeckh e Müller e che deve essere di ogni buon filologo che sappia che cosa è fare storia: ma portava quella volontà troppo avanti, semplicemente perché, nel quadro ricostruito, metteva anche quello che non doveva esserci, e cioè troppa musica moderna e fra l’altro – sarà bene dichiarare fin da ora il nostro modesto avviso – appunto l’ictus. Si dirà tuttavia che la prassi della lettura, anche in coloro che negano l’ictus, non può fare a meno di accentare espiratoriamente quelli che mi sia consentito di chiamare ‘elementi–guida’2: si tratta, come si sa, di una convenzione per

|| 2 V. L. E. ROSSI, Metrica e critica stilistica. Il termine ‘ciclico’ e l’ ἀγωγή ritmica, Roma 1963, p. 13 n. 23. Il termine ‘elemento–guida’ è apparso adatto ad eliminare equivoci per quanto riguarda l’ictus.

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noi ormai quasi indispensabile. L’A. (p. 8) ricorda che c’è chi dice «che il nostro modo di lettura, con ictus, diverso dall’antico, è trasposizione assolutamente omologa di una sensibilità in un’altra, in quanto a un elemento fisso e differenziato, la lunga in tesi [noi diremmo ‘elemento–guida’], si sostituisca un elemento diverso, ma fisso e differenziato esso pure, la sillaba accentata». Ma questa, che l’A. formula in realtà cosí chiaramente, non è, com’egli dice, una «indimostrabile a f f e r m a z i o n e » (ibid.), bensí una dichiarata c o n v e n z i o n e . A noi, che abbiamo in misura assai minore il senso della quantità, non resta che usare, a scopo ritmico distintivo, uno degli elementi che la nostra esperienza ritmica ci offre, e cioè l’accento espiratorio. Ma chi formula, ed applica, tale convenzione, è ben lontano dal riconoscere «il legame strettissimo, nella metrica classica, tra quantità e ictus», come pretenderebbe l’Α. (ibid.). Sostituiamo semplicemente un criterio (quello quantitativo) con un altro criterio (quello accentuativo espiratorio), come chi, essendo daltonico ed avendo quindi fortemente alterata la capacità di distinguere i colori, si affidasse, per far distinzioni, non piú alla differenza di colore, bensí a quella d’intensità (e ci è venuto per caso un esempio che ha rispondenza nell’esperienza linguistica, com’è noto). Assai chiare sono, in tal senso, le parole di A. Dain, che l’Α. stesso (p. 8 n. 2) cita: Si nous ne percevons pas ce que percevaient les Anciens, nous arrivons à percevoir des différences là où ils en percevaient3. Che poi alla quantità si sposasse una piú o meno marcata espirazione, è assai ragionevole ipotesi linguistica da varie parti avanzata: in questo caso ci troveremmo di fronte a un apprezzamento di p r e v a l e n z a , ma non sembra dubbio che dovremmo dare il ruolo di protagonista alla quantità. Le poche proposizioni che abbiamo fatte precedere sono, oggi, patrimonio quasi comune della filologia, sebbene, come giustamente rileva il Setti, i filologi rifuggano da precise prese di posizione, limitandosi a fare uso dell’ictus esclusivamente quando esso si presenti indispensabile nella prassi della lettura, e nulla piú. Ma, anche accertata ed accettata la necessità, per noi, di ricorrere all’ictus per renderci l’un l’altro partecipi dell’esperienza metrica del verso antico, dobbiamo poi porci il problema della sua eventuale liceità in sede storica: allo scopo, questo, di renderci conto se usiamo un procedimento c o n v e n z i o n a l e o se ridiamo vita a una realtà s t o r i c a . Seguiamo quindi l’Α. nella discussione delle fonti antiche (cap. II: pp. 12–33), che egli fa seguire direttamente alle premesse generali. Qui l’Α. propone una distinzione di grande importanza, che sarà di grande aiuto a comprendere le fonti stesse nelle varie inter|| 3 In «Revue des Etudes Latines» 1957, p. 52 (cit. da J. Perret in una discussione sulla recitazione dell’esametro).

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pretazioni che ne sono state date: e cioè fra un i c t u s i n t e r n o , che sia proprio del materiale poetico, e un i c t u s e s t e r n o (percussione della mano, movimento del corpo), elemento che all’esperienza fonica del verso si sovrapponga in modo del tutto esteriore e inessenziale: e quest’ultimo potrebb’essere – aggiungiamo noi precisando – sia un eventuale ‘battere’ della musica sovrapposta al verso cantato (e sarebbe nel caso nostro da escludere, perché par certo che la musica antica non avesse battuta, condizione per un accento iniziale della battuta stessa), sia un sovrapporsi di battere fisico all’ ‘elemento–guida’ per scopo di m a r c i a o d a n z a oppure di m a g g i o r e e v i d e n z a da dare allo schema ritmico. È chiaro che per ictus i difensori di esso intenderebbero l’ictus interno, non quello esterno. Il Setti – al quale dobbiamo dare atto di una frequente notevole serenità di giudizio e di onestà di discussione – comincia coll’eliminare, in relazione coi suoi scopi, Hor., carm. 4.6.35 s. (Lesbium servate pedem meique I pollicis ictum), perché si riferirebbe (e lo seguiamo in pieno) all’atto di percuotere le corde dello strumento (si vedano i passi paralleli utilmente raccolti a p. 12 n. 5)4. Ma non sappiamo seguirlo quando, nelle altre testimonianze, vuole trovare conferma per l’esistenza dell’ictus interno. Si tratta per lo piú di passi famosi e lungamente discussi, nei quali gli esegeti vedono in genere chiare testimonianze per l’ictus esterno. Ne riportiamo qui alcuni, come Plin., n. h. 2.209 richiamato a p. 12, senza che ne venga riportato il testo (sunt et in Nymphaeo parvae [scil. insulae], Saliares dictae, quoniam in symphoniae cantu ad ictus modulantium pedum moventur, dov’è evidente che si tratta di danza) o Terent. Maur. 1342 ss. Keil (a p. 16: ...ictibus quia fit duobus... – scil. pes – ...bis ferire convenit). Per Hor., a. p. 253 (a p. 14: ...cum senos redderet ictus) l’Α. porta passi paralleli per sfruttare il valore di reddere (p. 14 e n. 2) in modo da ricavarne l’esistenza di un ictus interno che il verso ‘produrrebbe’: il procedimento è in sé lecito e corretto, ma porta un sostegno assai debole alla tesi, perché del tutto isolato ed episodico, anche se teoricamente verosimile. Lo stesso si può dire delle testimonianze ciceroniane, che ci darebbero esempi di varietà terminologica (percussio in Cic., de or. 3 .4 7 .18 2 , impressio etc.: v. p. 17 s .) . L’A., che pure cita (p. 19 n. 1) anche Terent. Maur. 2 2 54 s. Keil (...moram I quam pollicis sonore vel plausu pedis I discriminare, qui d o c e n t a r t e m , solent), trascura di trascrivere alcune parole essenziali5, e cioè qui docent artem, che ci fanno chiaro essere la ictazione nient’altro che espediente scolastico, del tutto acci-

|| 4 L’interpretazione è in accordo, fra l’altro, con quella data in Porph., ad loc. (modulationem carminis). 5 La citazione compare mutila anche presso G. SCHULTZ, «Hermes» 1900, p. 316. 1.

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dentale (solamente p o s s i b i l e , cioè) ed e s t e r n o 6. Il passo di Aristide Quintiliano (p. 31 Mb. = 31.15 Winnington–Ingram ἄρσις μὲν οὖν ἐστι φορὰ μέρους σώματος ἐπὶ τὸ ἄνω, ϑέσις δὲ ἐπὶ τὸ ϰάτω ταὐτοῦ μέρους) parla, in questo senso, abbastanza chiaro: si tratta dell’unica definizione dei termini arsi/tesi nel manuale di Aristide, che accenna per di piú chiaramente a fatti di moto corporeo7. E quando in Quint. 9.4.55 leggiamo che oratio non descendet ad crepitum digitorum (v. p. 18), non possiamo intendere il passo se non, parafrasando, cosí: «la prosa oratoria non va conformata in modo da renderla m i s u r a b i l e allo stesso modo della poesia, e cioè con quella misurazione meccanica ed esterna che è la ictazione (e che è solo p o s s i b i l e ) ». Non dimentichiamo infatti che Quintiliano, nel passo precedente (9.4.52 ss.), aveva parlato dell’opportunità di evitare nella p r o s a ritmi p o e t i c i che s’inseriscono d i s o p p i a t t o (...ut in ea frequenter n o n s e n t i e n t i b u s n o b i s omnium generum excidant versus...): e come potrebbe mai crearsi ambiguità fra verso e prosa se il verso avesse in sé quell’elemento distintivo mascroscopico che sarebbe l’ictus8? È, questo, un argomento classico contro l’ictus, del quale occorre tenere debitamente conto (e l’Α. cercherà a suo luogo di dare una sua spiegazione, v. qui sotto, p. 154). Ricordiamo che la precettistica, diremo cosí, ‘antipoetica’ dell’oratoria ha una tradizione antica già nel greco e si continua nel latino, presentando spesso la mescolanza di versi a prosa come un’ i n s i d i a da cui occorre guardarsi con attenzione, il che è per i nostri scopi della massima importanza.

|| 6 Per esempi di uso comune del ‘dirigere’ una esercitazione ritmica, si veda ROSSBACH– WESTPHAL, Metrik3, I (1885), p. 103 n. (Aristot., probl. 19. 22, p. 90. 8 ss. Jan ci parla di un ἡγεμών come direttore di un coro; etc.). Per testimonianze degli usi vari della battuta del tempo (dito, mano, piede), v. ibid., p. 104 n. (cit. anche da Setti, p. 15, n. 2). – La lettura metrica a piedi come espediente scolastico ed esterno è testimoniato spesso, e per esempio da Sacerd. VI 448.20 Keil hoc tamen scire debemus, quod v e r s u s p e r c u t i e n t e s i n t e r d u m accentus alios pronuntiamus quam per singula verba ponentes. toro et pater, acutum accentum in to ponimus et in pa; scandendo vero ‘inde toro pater Aeneas’ in ro et in ter. haec igitur in metro ideo suam non continet rationem, quia in ipsis nulla intellectus ratio continetur: nam ropater nihil significat (lasciamo qui da parte il problema della doppia accentazione del dattilo, e cioè al principio e alla fine: rópatér; non sembra convincente M. G. NICOLAU, L’origine du ‘cursus’ rythmique et les débuts de l’accent d’intensité en latin, Paris 1930, p. 66 s.). Devo la segnalazione del passo alla cortesia del Prof. SCEVOLA MARIOTTI. 7 Si veda anche la famosa testimonianza di Plut., Demosth. 20. 3, dove si racconta di Filippo che c a n t a (ᾖδε) un tetrametro giambico catalettico πρὸς πόδα διαιρῶν ϰαὶ ὑποϰρούων. 8 Si veda, a questo proposito, A. CAMILLI, Trattato di prosodia e metrica latina, Firenze 1949, p. 130 e la recensione di S. TIMPANARO JR., «Par. Pass.» 1951, p. 391 ss. (spec. 396 s.).

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La troviamo già in Isocrate9, del quale Cicerone si fa eco citandolo10. La troviamo nella Retorica di Aristotele11, da cui, specialmente, Cicerone attingerà12. Troverà espressione nelle leggi della prosa ‘numerosa’ e delle clausole, colla ricerca voluta di determinati effetti di varietà ritmica e col rispetto di determinati ‘tabu’, allo scopo di evitare sequenze troppo simili a poesia. Tali sequenze erano state in principio, a dire il vero, perfino ricercate (Trasimaco, Gorgia), senza che però si arrivasse alla ricerca sistematica del verso completo (esametro, trimetro). Norden (Antike Kunstprosa p. 41) fa dell’uso sofistico una continuazione dell’omerizzare allusivo (e cioè del ‘poetizzare’ la prosa) tipico dei logografi e cosí caratteristico di Erodoto. L’atteggiamento che prende piede con Isocrate, che con tanta cura definisce e isola il ‘tabu’, va visto un po’ come la reazione a un’anticaglia stilistica, cosí come gli epici alessandrini reagiranno all’uso pedissequo del formulario omerico come lo vedevano realizzato in un Antimaco. Che poi la tendenza a far versi rinasca, come sottile e comunque episodico procedimento allusivo, ad esempio negli storici latini, è stato variamente affermato e negato. Naturalmente l’allusione è efficace, in questo caso, solo se essa s’insinua come i n a v v e r t i t a m e n t e nel contesto prosastico – e in questo sen-

|| 9 Isocr., techne, II, p. 276 § 3 Benseler–Blass (fr. 22, p. 158. 1 ss. Radermacher) ὄλως δὲ ὁ λόγος μὴ λόγος ἔστω· ζηρὸν γάρ· μηδὲ ἔμμετρος· ϰαταφανὲς γάρ· ἀλλὰ μεμίχϑω παντὶ ῥυϑμῷ, μάλιστα ἰαμβιϰῷ ἤ τροχαϊϰῷ. (Occorre avvertire che negli Artium Scriptores di RADERMACHER è caduta, per evidente omoteleuto, proprio la frase piú importante: μηδὲ ἔμμετρος· ϰαταφανὲς γάρ). 10 Cic., Brut. 8. 32 ...Isocrates... primus intellexit etiam in soluta oratione, d u m v e r s u m e f f u g e r e s , modum tamen et numerum quendam oportere servari. 11 Aristot.,. rhet. 3.8 1408 b 21 τὸ δὲ σχῆμα τῆς λέξεως δεῖ μήτε ἔ μ μ ε τ ρ ο ν εἶναι μήτε ἄ ρ ρ υ ϑ μ ο ν . . . 30 ῥυϑμὸν δεῖ ἔχειν τὸν λόγον, μ έ τ ρ ο ν δ ὲ μ ή · π ο ί η μ α γ ὰ ρ ἔ σ τ α ι . ῥυϑμὸν δὲ μὴ ἀϰριβῶς· τοῦτο δὲ ἔσται ἐὰν μέχρι του ᾖ. Etc. In Dion. Hal., de comp. verb. p. 124. 21 ss. Us.–Rad. si ha terminologia in tutto simile a quella aristotelica: 125. 2 οὐ μέντοι προσήϰει γε ἔ μ μ ε τ ρ ο ν οὐδ’ ἔ ρ ρ υ ϑ μ ο ν αὐτὴν [scil, τὴν λέξιν] εἶναι δοϰεῖν ( π ο ί η μ α γ ὰ ρ οὕτως ἔσται ϰαὶ μέλος ἐϰβήσεταί τε άπλῶς τὸν αὑτῆς χαραϰτῆρα), ἀλλ’ ε ὔ ρ υ ϑ μ ο ν αὐτὴν ἀπόχρη ϰαὶ ε ὔ μ ε τ ρ ο ν φαίνεσϑαι μόνον. Da notare specialmente 125. 1 ἐὰν μὴ περιέχῃ μέτρα ϰαὶ ῥυϑμούς τινας ἐγϰατατεταγμένους [ἐγϰαταμεμιγμένους ν . l . ] ἀδήλως. 12 Specialmente nell’Orator: 20.67 ...a versu – nam id quidem orationis est vitium – ...; 51.172 is [scil. Aristoteles] igitur versum in oratione vetat esse, numerum iubet; 56.187 perspicuum est igitur numeris astrictam orationem esse debere, carere versibus; 57.194 itaque ut versum fugimus in oratione, sic hi sunt evitandi continuati pedes; 195 ...nec numerosa esse, ut poema, neque extra numerum, ut sermo vulgi, esse debet oratio; 63.213 ...sed in orationis numero nihil est tam vitiosum, quam si semper est idem; 68.227 numerus autem – saepe enim hoc testandum est – non modo non poetice vinctus, verum etiam fugiens illum eique omnium dissimillimus. V. anche 58.198, 60.202, 63.215, 64.218; de or. 3.44.173, 175, 47.182, 48.184 s. (è citato Teofrasto); part. or. 21.72; etc. In Quintiliano si veda anche 9.4.72 ss.

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so essa ci sarebbe utile come ulteriore conferma: altrimenti si tratterebbe di c i t a z i o n e e non potremmo trarne nulla per la nostra tesi, ma per esser tale avrebbe diversa ‘presentazione’ nel contesto. Leo veramente («GGN» 1896 p. 1 9 1 . 1 [= Ausgew. kl. Schr. II p. 299 n. 1], richiamato da Norden, Ant. Kunstpr. p. 53.3 = 54) escludeva che si potesse considerare come esametro, ad esempio, l’inizio degli Annali di Tacito (Urbem Romam a principio reges habuere) perché si tratterebbe di un esametro che un poeta contemporaneo non avrebbe scritto: siamo necessariamente con lui in questo apprezzamento, ma non sappiamo deciderci del tutto per l’assenza di una certa allusività esametrica. Lasciamo comunque da parte il problema delle formule d’inizio delle grandi opere storiche (Livio etc.). Certo è che spesso sequenze esametriche non possono essere casuali. Livio scrive (9.41.18) scutis magis quam gladiis geritur res: all’effetto potrebbe ostare la necessità della scansione arcaica di magis, ma, almeno in clausola, non possiamo non pensare a reminiscenza dattilica enniana (ann. 268, 296 V.2)13. Ma anche se venisse a mancarci l’ulteriore controprova di questa ‘convivenza’ armonica di prosa e poesia, avremmo pur sempre la preziosa p r e c e t t i s t i c a antipoetica: ed essa – ripetiamo ancora – sarebbe del tutto incomprensibile se la resa sonora di prosa e poesia non fosse governata dalle stesse leggi. Del resto, numerosi sarebbero, ancora, gli argomenti che si potrebbero addurre contro l’ictus, e sarebbero appoggiati da testimonianze precise: ma dovremmo ripercorrere anche la storia della questione, mentre in questa sede è nostra intenzione, semplicemente, opporre quanto meno un prudente non liquet a quello che l’Α. porta come prova. E proprio quell’ a m b i g u i t à ritmica di certe sequenze, che al Setti (p. 30 ss.) sembra una conferma dell’esistenza di un ictus d e t e r m i n a n t e (perché ne proverebbe la necessità), sembra a noi una delle conferme piú evidenti della mancanza dell’ictus stesso. Come si potrebbero spiegare certi passaggi ritmici nei cori della tragedia in cui si sfrutta proprio

|| 13 Di questo parere è, da ultimo, P. G. WALSH, Livy, Cambridge 1961, p. 254 s. Certo, è da evitarsi quella che fu chiamata ‘caccia al verso’ (Versjagd) e che fu esercitata, per esempio, anche sul testo di Cicerone: ma soprattutto è da evitarsi quella che potremmo dire ‘caccia al frammento’. È proprio la capacità allusiva, grandissima negli antichi, come ci ha insegnato GIORGIO PASQUALI, che rende improbabile l’autenticità enniana del passo di Livio (e in realtà E. WÖLFFLIN, «Rh. Mus.» 50, 1895, p. 152, cit. da Walsh, pur deciso per autenticità enniana nel caso del passo liviano, si esprime con prudenza quanto a presupposti metodici generali in materia). Del resto si tratta soltanto di casi rari e del tutto eccezionali. Ordinariamente le reminiscenze esametriche si presentano prosasticamente, con ordine delle parole mutato, in ottemperanza, appunto, alla dottrina del ‘tabu’ ritmico. V., ad es., S. G. STACEY, Die Entwickelung des livianischem Stiles, «ALL» 10, 1898, p. 17 ss., spec. pp. 23, 32.

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l’ambiguità di certe sequenze che conducono, che ‘modulano’, nello stesso senso in cui si ha nella nostra musica la modulazione ‘per accordo comune’, da un ritmo ad un altro? L’argomento è assai interessante e, che io sappia, non è stato ancora affrontato su larga scala14. Il passaggio da contesto giambico a trocaico, e viceversa, è cosa comunissima, che si realizza in fondo anche nel corpo del verso recitativo stesso, in dipendenza del vario giuoco delle cesure; ma soprattutto interessano a questo proposito accostamenti e ‘passaggi’ piú sottili, come quello, ad esempio, di contesti ionici e coriambici (penso qui a casi come quello di Soph., O. R. 483 ss. δεινὰ μέν οὖν): una riduzione a comun denominatore del giuoco degl’ictus sarebbe qui impresa disperata, anche a voler adattare alla circostanza quelle che non sono in realtà se non le n o s t r e disposizioni convenzionali dell’ictus (g g h ́h e h g ́ g h,́ che potrebbero diventare, con l’uso dell’ictus secondario espresso dall’accento grave, g g h̀ h é h g ́ g h̀ oppure semplicemente ancora, e , o infine, piú g g h h g g h ́h̀ h̀ g g h ́ ́ ́ e h ǵ g h:́ tutte soluzioni assai poco convincenti. Oppure, falliti i tentativi di ‘equiparare’ per quanto riguarda l’ictus i due ritmi, dobbiamo ammettere una differenziazione totale di essi e dobbiamo rinunciare a vedere nell’accostamento un voluto e raffinato giuoco di sospensione ritmica data dalla polivalenza di certe sequenze? Direi che basterebbe un esame dei testi poetici, che qui non sarebbe a suo luogo e che occorre rimandare, a mostrarci del tutto irragionevole una tale posizione e a darci la piú convincente conferma dell’intenzionalità di tali accostamenti. L’esempio sofocleo riportato, esempio di due pericopi ‘A’ e ‘B’ ritmicamente ‘apparentate’ per avvicinamento, è famoso e ritmicamente istruttivo (e sull’interpretazione coriambico–ionica, che non è generale, si v., ad es., W. Kraus, Strophengestaltung in der gr. Trag. Aisch. u. Soph., Wien 1957 p. 143; sull’avvicinamento di coriambi e ionici si veda, da ultimo, Ed. Fraenkel, Beobachtungen zu Aristophanes, Roma 1962, p. 189 ss., spec. 197). Ma esempi più interessanti ancora sono quelli di una pericope ‘A’ e una ‘C’ collegate da una pericope ‘B’ modulante, e cioè ritmicamente ‘comune’. Il caso piú semplice è quello del cretico (h g h) come perno di passaggio da trochei a giambi (ed è noto quanto numerose siano le ambiguità che si possono riscontrare in contesti trocheo–giambici, che andrebbero distrutte – e che in realtà nella nostra lettura moderna vanno distrutte – nel caso di soluzioni: la sequenza g g g viene ‘letta’

|| 14 Utile raccolta di materiali, limitata ad Eschilo, in F. D. ALSEN, Die metrischen Uebergänge in den Chorliedern des Aischylos, diss. (dattil.) Hamburg 1955. Sarebbe interessante estendere la ricerca al resto della lirica. Alsen, a quanto ho visto, non fa però menzione di T. REINACH, Sur l’artifice de modulation rythmique employè par les poètes grecs, Mélanges Graux, Paris 1884, pp. 225–229, che aveva già brevemente e lucidamente impostato il problema.

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g ́g g in contesto trocaico e g g ́g

in contesto giambico). Per casi piú complessi, ed ancor piú fruttuosi dal punto di vista dell’ictus (ché la sua presenza ne distruggerebbe la ricercata ambiguità), si possono vedere intanto gli utili spunti forniti, ad es., in A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama, Cambridge 1948: ambiguità dattilico–anapestico–coriambica, pp. 25–68 passim (spec. pp. 43, 62, 63 ss.); ambiguità docmio–coriambica, p. 104; ambiguità coriambico–ionica, p. 138. La seconda serie (ambiguità docmio–coriambica) è di particolare interesse. In Aesch., Suppl. 392–406, 630–697, ad esempio (Dale p. 104), è da notare la sequenza modulante h g g h g h | g h h g g: l’ictus porterebbe una inopportuna ‘determinazione’ nel primo colon, che andrebbe letto, coriambicamente, h ́g g h ́g h ́oppure, docmiacamente, h g ́g h ́g h ́: mentre invece l’ambiguità del colon va conservata e messa in rilievo come elemento di passaggio dai docmi piú ‘normali’ all’aristofanio finale della strofe, clausola decisamente coriambica. Ma, ripetiamo, un’accurata analisi dei testi dovrebbe essere oggetto di un lavoro a parte, ché gli esempi sono innumerevoli. La stessa teoria antica, per di piú, ci dà implicitamente opportuni spunti. Attraverso la famosa analisi coriambico–ionica che gli scoli pindarici ci danno dei dattilo–epitriti (h g g h g g h h analizzato come coriambo piú ionico), e che sta alla base della ‘contesa dei dattilo–epitriti’ rinfocolata dalla difesa che Blass tentò dell’interpretazione antica, ci viene detto, esplicitamente, che h g g h e g g h h sono associati e, implicitamente, che l’ictus non poteva aver peso, essendo praticamente impossibile l’equiparazione assoluta dei due ritmi quanto all’ictus (si veda l’interpretazione di Soph. O. R. 483 ss. che si è data sopra). Né si dica, per svalutare la testimonianza, che gli scoli pindarici non fanno che fornirci una ‘descrizione’, posteriore di tre secoli e in gran parte scolastica, della colometria di Aristofane di Bisanzio (J. Irigoin, Les scholies métriques de Pindare, Paris 1958). Elemento altrettanto scolastico sarebbe in ogni caso, come s’è visto, l’ictus stesso e da una teoria scolastica esso andrebbe, se mai, rispettato. L’interpretazione coriambico–ionica dei dattilo–epitriti, sia essa ritmicamente accettabile o no per noi moderni, venga essa da una meditata teoria ritmica o da modeste esigenze scolastiche, ci fa vedere invece chiaramente che l’ictus poteva benissimo venire ignorato. Ma non mancano testimonianze dei grammatici che, coll’essere piú esplicite ancora, dovrebbero togliere ogni residuo dubbio. Una è, a mio parere, decisiva: Diom. I 513.15 Keil (= Caes. Bass., de metr. fg. 4 p. 132 Mazz.) molossicum metrum mihi durissimum videtur. huius exemplum dat Caesius Bassus tale, ‘Romani victores Germanis devictis’. omnes longae sunt, quia molossus constat ex tribus longis. hunc sane versum simillimum puto illi hexametro qui spondiacus dicitur. nam et hic similiter duodecim syllabas longas habet. Se i due versi (il dattilico e il

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molossico) avessero avuto un cosí forte elemento differenziatore come l’ictus, il grammatico non avrebbe mancato di farne menzione: la lettura ne sarebbe stata infatti per i due casi molto diversa, sia che, per il molosso, si fosse assunta la lettura coriambica (h ́h h)́, sia quella ionica (h h ́h). Invece, niente di tutto questo, e i versi sono, naturalmente, simillimi, e cioè ambigui. E come si saranno distinti? – ci si chiede. Il problema si è posto piú volte e l’Α. in effetti lo affronta (p. 30 ss.), trovandovi, appunto, una ulteriore conferma della necessità e quindi dell’esistenza dell’ictus. Tali sequenze ritmiche (che vorremmo chiamare ‘omoquantitative’, cioè una serie di lunghe o una serie di brevi) sarebbero, altrimenti, ritmicamente non determinabili. Ma forse si parte qui da una esigenza eccessiva di determinazione. Tali pericopi, dopo tutto, e r a n o ambigue: la testimonianza di Diomede parla chiaro. E ambigue saranno rimaste (creando dei particolari effetti ritmici), finché qualche elemento ad esse estraneo (contesto, analogie stilistiche con altri contesti) non le avrà precisamente ambientate. Il Setti (ibid.) porta ad esempio il famoso frammento dell’inno di Terpandro (I Bergk4Diehl2 = PMG 698 Page): Ζεῦ πάντων ἀρχά, πάντων ἁγήτωρ, I Ζεῦ σοὶ πέμπω ταύταν ὕμνων ἀρχάν. Di questi versi si è voluto, dai piú, dare interpretazione dattilica (pentapodia spondaica)15. L’A. ha ragione a criticare chi vuol ritmare questi e simili versi colle fini di parola (o cesure o dieresi), come fa Snell (Metrik3 p. 4 e n. 2, p. 22): ma non perché la ritmizzazione sarebbe nei due versi differrente (avendo, in interpretazione dattilica, uno delle cesure e l’altro delle dieresi), bensí per il fatto che in verso lirico cesura o dieresi non hanno notoriamente alcuna importanza (mentre ne hanno, e grandissima, nel verso recitativo) e non possono quindi essere portatrici dello schema ritmico16. E come saranno state comprensibili ritmicamente tali pericopi, senza quei punti fermi che potrebbero essere costituiti dagl’ictus o dai gruppi verbali? Poteva bastare la semplice successione delle quantità? Ripeto che in casi del genere ambiguità ci sarà stata anche per gli antichi: a decidere sarà stato in genere il contesto, quando c’era, beninteso. Nel caso dell’inno di Terpandro, mancando eventualmente un contesto che offrisse punti di riferimento ritmico, sarà stata proprio tradizionale sacralità del verso dattilico a far ‘sentire’ l’inno come dattilico17. || 15 Ricordiamo che alcuni vi vogliono vedere esempi di spondei maggiori o di trochei semanti (v. Ar. Quint. pp. 36, 37 Mb. = 35.12, 36.4 W.–I.); altri dividono i versi in modo da ottenerne tre paremiaci (come Ritschl, che inseriva τὰν fra ταύταν e ὕμνων). 16 Da respingere mi sembrano quindi procedimenti come quello di A. M. DALE in «Class. Rev.» 1959, p. 199 s., che cerca di correggere Ar. av. 227 ss. allo scopo di ottenere, da una ininterrotta ‘mitraglia’ di brevi, unità verbali tribrachiche, che dovrebbero definirne il ritmo: si tratta infatti di versi lirici. 17 Per casi non ‘omoquantitativi’ di ambiguità (‘dattili’ in contesto anapestico) v. Metr. e crit. stil.,

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Un ulteriore esame di testimonianze ci porterebbe sempre, volendovi trovare conferma per l’ictus, a risultati assai discutibili: esse sono, come si è visto, quando non addirittura negative, almeno ambigue e reversibili. È questo che l’Α. stesso, in fondo, riconosce (p. 30): concede che le testimonianze non provino l’esistenza dell’ictus «in maniera rigorosa ed esplicita», ma vorrebbe che gli si concedesse «che si aprano verso di esso e ce lo facciano aspettare». È che sotto tutta la sua ricerca serpeggia continuamente, piú o meno in superficie, una petizione di principio, che alle volte si formula, attenuata, press’a poco cosí: «l’ictus è possibile, dunque c’è». Tale atteggiamento è particolarmente sensibile a p. 21 ss., dove l’Α. cerca conferma dell’esistenza dell’ictus nella teoria ritmica di arsi e tesi, che sarebbe, pur nella grande scarsità di relitti teorici, «un problema sicuramente posto e trattato diffusamente». Egli, se non lo seguiamo male, ragiona cosí: ci sono dei passi in cui arsi/tesi hanno valore ‘esterno’ (Ar. Quint. cit. sopra, etc.), ma ce n’è uno in cui i termini hanno valore quantitativo, e cioè inequivocabilmente interno, giacché vi si parla di qualcosa che è m a g g i o r e di qualcos’altro. Questo coincidere di due realtà nella stessa terminologia proverebbe al là di ogni dubbio la coesistenza, anzi la compenetrazione reciproca di ictus e quantità (p. 25: «esistenza di un vincolo tra un’intensità ‘esteriore’ con elementi di pura natura quantitativa», dove però l’Α. si aspetta evidentemente che il lettore faccia da sé la promozione dell’ictus da elemento d’intensità esterna a elemento d’intensità interna, visto che è in relazione con un fattore cosí squisitamente interno come la quantità). Tutto questo sarebbe di nuovo estremamente fragile, ma verosimile, se non si fondasse su un passo disperatamente corrotto, che suona cosí: Fragm. Paris. § 8 s. Westph. γνώϱιμος δὲ γίνεται πούς * * * ἐξ ἄϱσεως ϰαὶ ϑέσεως συγϰείμενον σύστημα. ἄϱσις δέ ἐστιν ὁ μείζων ὅλως τῆς ἰδίας ἄϱσεως.

|| cit., p. 23 s. – Passi come quello di Quint. 9.4.53... in molestos incidimus grammaticos, quorum fuerunt qui lyricorum quorundam carmina in varias mensuras coegerunt, in un contesto dove si identifica poesia lirica ‘difficile’ con prosa, ci testimoniano semplicemente il fatto della perduta sensibilità ritmica per le forme complesse della lirica. Tale sensibilità, perduta in parte già nel quarto secolo a.C., era stata faticosamente restaurata dai filologi alessandrini: ma in epoca romana se ne era persa ogni traccia. Si veda il modo in cui Dionigi d’Alicarnasso tratta, nel suo de compositione verborum, passi di lirica corale e testimonianze varie, come Cic., or. 55.183 (...cantu remoto soluta esse videtur oratio..., λυριϰοί... quos cum cantu spoliaveris, nuda paene remanet oratio); Mar. Victorin. VI 113.5 Keil (...lyrica poemata sublata modulatione vocis non ultra solutam orationem procurrunt); etc. A tutti note sono le manifestazioni oraziane d’insensibilità in questo campo (carm. 4.2.10–12, epod. 14.12 etc.), senza contare l’incomprensione della tecnica della poesia latina arcaica (il locus classicus è a.p. 270–274: e ancora serm. 1.10, epist. 2.1 etc.).

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Sembra impresa disperata ricavarne quello che vorrebbe l’Α. Dagli altri passi in cui compaiono i termini nel corpus ritmico aristossenico18 si ricava ben poco, perché, come l’Α. stesso ricorda (p. 21), non ci sono arrivate definizioni19. Può reggere una costruzione cosí fragile? D’altra parte, certo, arsi/tesi e termini affini sono stati sempre una grossa tentazione per chi tendeva ad ammettere l’ictus. I termini sembrano cosí trasparenti, cosí chiari per un quadro semantico che riporti al ‘passo’, al ‘battere’, all’‘accento’, che si è stati spesso portati a dimenticare che sarebbero, cosí, l’unica magra sopravvivenza di un ictus altrimenti completamente scomparso, sia nelle testimonianze che nella natura della realtà linguistica. A questo stato di cose, che potrebbe apparire strano, una spiegazione assai valida mi sembra quella proposta da Eugenio Grassi20, che il Setti stesso ricorda (p. 23 n. 3) e che conviene riportare per esteso: «quei due termini si riferivano in origine alla marcia, ed erano stati dapprima applicati al metro anapestico... Dagli anapesti, poi, la terminologia sarebbe stata estesa agli altri metri, acquistando un valore convenzionale...». Si tratterebbe – precisiamo noi – dell’applicazione di due termini già esistenti alla distinzione dei due elementi di cui dialetticamente il ritmo si compone, e che sarebbe arbitrario identificare in via principale colla contrapposizione ‘(espiratoriamente) accentato / non accentato’, specie in lingue che non sembrano conoscere affatto (come il greco) o assai poco (come il latino) tale principio accentuativo. Si dirà allora che la contrapposizione è di quantità, e cioè ‘lunga/breve’? Non precisamente, ché troppi sarebbero gli schemi ritmici che resterebbero fuori da una schematizzazione del genere (si pensi ad es. al rapporto longum/biceps quando si abbia biceps monosillabico, cioè lungo): diremo piuttosto che si tratta di una contrapposizione, sempre beninteso quantitativa, che si può esprimere con ‘quantità a / quantità b’. È cosi che si potranno assumere sotto le varie coppie di designazioni (arsi/tesi etc.) le due parti del piede o del segmento ritmico preso ad unità, qualunque sia la figura che esse di volta in volta vengano a prendere. Questo sarebbe il senso della teoria antica che identificava arsi e tesi semplicemente colle parti del piede (cf. pp. 27–30), a prescindere dal fatto che il rapporto fosse di ‘tesi/arsi’ o di ‘arsi/tesi’.

|| 18 Ἄρσις / ϑέσις contrapposti non altrove che nel cit. Fragm. Paris. Βάσις al posto di ϑέσις troviamo in Psell. § 8 Westph. e el. rh. p. 296 Mor.; altrimenti troviamo ἄνω/ϰάτω, come in el. rh. pp. 288, 292, 298, 300 Mor. (questi ultimi vengono dalla tradizione che risale a Damone, v. ap. Plat., resp. 400 b; per βάσις con valore piú generico v. Plat., resp. 399 e, 400 a, legg. 670 d). 19 V. L. LALOY, Lexique d’Aristoxène, Paris 1904 s.vv. ἄνω, ϰάτω (Aristoxène ne définit pas ces termes). 20 Inediti di E. G., «Atene e Roma» 1961, p. 159 s. (formulazione di SEBASTIANO TIMPANARO).

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Nella terza parte del suo lavoro l’Α. si sposta, come s’è detto, sul terreno «linguistico e fisio–psicologico». Confessiamo che l’argomentare dell’A. si segue qui con una certa difficoltà. Chi corresse alla fine della sezione, si renderebbe conto, con un certo senso di delusione, che scopo di essa sarebbe soltanto, come dichiara l’Α. (p. 49), di dimostrare «che niente si oppone all’esistenza dell’ictus»; già, perché, per sua espressa dichiarazione, la parte positiva della dimostrazione resterebbe affidata allo studio delle testimonianze (e s’è visto sopra quanto malfido sia il terreno che esse, a questo scopo, ci offrono). In effetti l’Α. fa sue alcune categorie di ricerca del De Groot (Der Rhythmus, in «Neophilologus» 1932), colle quali egli costruisce un quadro che, se la difficoltà con cui qui lo si segue non ci è stata di eccessivo danno, si potrebbe rendere cosí, in poche parole: dandosi, come in effetti si dà, la possibilità che in una lingua di per sé quantitativa un accento espiratorio possa coesistere come elemento extrafunzionale, non c’è da meravigliarsi che questa «capacità di ictare metricamente» (l’espressione è mia) venga alla superficie in qualità di «termine medio» (p. 41) tra la quantità e l’ictus esterno. L’esistenza dell’ictus esterno sarebbe emersa, si ricordi, dalle testimonianze discusse nella sezione precedente: da alcune, secondo l’Α., che ha visto nella maggior parte di esse l’ictus interno; da tutte, secondo noi, che l’ictus interno non siamo riusciti a vedere in nessuna di esse. Ora, tale termine medio fra quantità e ictus esterno sarebbe appunto l’ictus interno, che emergerebbe nella misura in cui non incontrasse «forze d’inibizione» (p. 44 s.). L’ictus interno, cosí inteso, e, diremmo, cosí attenuato, sarebbe, ripeto, una capacità all’ictus, una specie di categoria ritmica interiore, che starebbe alla base di ogni esperienza ritmica, anche puramente quantitativa (la quale sarebbe pienamente possibile, come l’Α. – p. 39 e cf. p. 45 – concede al De Groot, che è poi tra parentesi un accanito negatore dell’ictus nelle lingue classiche). Esso consisterebbe «in un dato psico–fisico, nel carattere essenzialmente ‘motorio’ del ritmo soggettivo» (p. 41), e «si configura come movimento di organi corporei, sia che effettivamente si realizzi in essi, sia che rimanga latente e potenziale, realizzandosi solo come rappresentazione o come disposizione e stimolo» (ibid.). Tale ictus interno viene chiamato «ritmo soggettivo» (p. 43). Principalissima fra le forze d’inibizione che impedirebbero all’ictus interno di emergere sarebbe per l’Α. la presenza nella lingua di un accento espiratorio come elemento funzionale o distintivo (p. 47 s.): e si prende dal De Groot l’esempio della metrica neoindiana del verso āryā, in cui non si darebbe ictus metrico appunto per non creare conflitto coll’ictus linguistico espiratorio delle parole. Ma, essendo il greco e il latino lingue puramente quantitative, «le loro strutture non poterono essere ragione di inibizione al prodursi dell’ictus» (p. 48). Noi accettiamo di buon grado quella ‘possibilità’ dell’ictus (anche dell’ictus

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attenuato nella forma dell’ictus interno o ritmo soggettivo) che l’Α. difende. Faremmo volentieri a meno di laboriose argomentazioni e saremmo disposti anche ad accettarne l’estrema probabilità: solo – e, ripetiamo, si tratta di un’ammissione dell’A. stesso – non ci viene data da questa parte della ricerca alcuna certezza, alcuna prova cogente. Resterebbe da criticare, però, l’applicazione alle lingue classiche dei principi sopraesposti. Mentre per il greco si è certi che la lingua è puramente quantitativa e che l’accento è puramente musicale o di elevazione (e quindi, secondo le premesse del Setti, non ci sarebbero forze d’inibizione che si opporrebbero all’ictus metrico), si tenga presente che il latino non è puramente quantitativo: è ammissione generale, soprattutto per quanto riguarda l’intensità iniziale originaria, che ha lasciato le tracce macroscopiche che ognun sa nel cosiddetto terremoto del vocalismo. Ma c’è stato anche chi, per il latino, ha voluto la presenza di un ictus intensivo nel corpo della parola, il che ha portato, in chi credeva all’ictus metrico, a sottili ricerche volte a stabilire la misura dell’accordo dei due ictus e la natura delle eventuali discordanze. Si tratta, com’è noto, della problematica che, iniziata con numerose ricerche minute nel secolo scorso, culmina coll’Iktus und Akzent di Eduard Fraenkel (1928). Il problema, nonostante vivaci e fondate polemiche21, si può considerare ancora sub iudice, e potrebbe non sembrare prudente decidersi per il totale accantonamento di esso (per una totale inesistenza, cioè, di un accento espiratorio, specie in latino)22. D’altra parte il Setti cita con onore (p. 19 n. 4), in vivace polemica collo Schultz, il tipo di ricerca fraenkeliano, e non ha tenuto forse presente che tale problematica è per lui da escludere, visto che nega la possibilità di conflitto fra accento espiratorio di parola e accento espiratorio metrico (ictus interno), dovendo operare il primo come forza d’inibizione nei confronti del secondo. Quindi, o la sua teoria dell’ictus interno è applicabile solo al greco, e allora l’accettazione della ricerca fraenkeliana è da vedersi semplicemente come atto di simpatia e solidarietà con chi, pur accettando l’accento espiratorio di parola, accetta soprattutto, piú o meno esplicitamente, l’ictus metrico; oppure ci troviamo di fronte a una insanabile contraddizione della teoria delle forze d’inibizione.

|| 21 Si ricordi, ad es., la famosa recensione a H. DREXLER, Plautinische Akzentstudien, 1932–33 di W. THEILER in «Deutsche Lit. Zeit.» 1935, col. 799 ss. 22 Per una totale negazione della validità della problematica è (forse non a torto) LEPSCKY, art. cit., p. 207 ss. – Si potrebbe inoltre osservare che la legge di BENTLEY–LUCHS militerebbe per la pura q u a n t i t a t i v i t à del verso latino: si tratta di una legge, la cui natura quantitativa non può esser messa in dubbio, che è addirittura propria del verso recitativo latino, di una innovazione q u a n t i t a t i v a del latino stesso rispetto al greco (devo l’osservazione all’amico e collega CESARE QUESTA).

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A questo punto, come giustamente dice l’Α. (p. 49), dovrebbe cominciare il vero e proprio studio sull’ictus, la ricerca, cioè, della «sua possibile incidenza sui fatti della metrica quantitativa» (ibid.). Egli si limita, nella quarta sezione, ad accennare ad alcuni problemi. Il grosso problema, di cui abbiamo parlato sopra (p. 144), della possibile f u n g i b i l i t à reciproca, per cosí dire, di sezioni di poesia e di prosa è risolto (p. 50 s.) coll’attribuire alla prosa la capacità di elevarsi, dandosi le condizioni ritmiche necessarie, al tono della recitazione poetica, con tutto il contorno che essa comporterebbe, l’ictus interno in prima linea. Ora – chiediamo noi – tale ‘scatto del congegno dell’ictus interno’ (ci si consenta l’immagine) era automatico, avveniva, cioè, ogni volta che nella prosa si presentavano sequenze quantitative interpretabili metricamente (dattiliche, giambiche etc.)? No, ci risponde l’Α., non sempre, ma solo «quando il ritmo... era presente alla sensibilità nella stessa misura che nella dizione dei versi», e cioè quando la ‘metricità’ di una sequenza era realmente ‘sentita’ come tale. Ricordiamo però che la precettistica retorico–stilistica a cui abbiamo accennato sopra sconsigliava l’uso delle sequenze metriche in senso assoluto; una sequenza dattilica o giambica o altro era sconsigliata d i p e r s é , senza menzione di elementi di dizione che piú o meno la valorizzassero. Non resterebbe quindi, per seguire l’Α. sul suo terreno, che dimenticare la sua limitazione ed accettare lo ‘scatto automatico dell’ictus interno’: il che, solo che si tenti di dare coll’immaginazione una realtà all’ipotesi, apparirà a chiunque come estremamente improbabile, per non dire addirittura inverosimile. Il fatto è che il problema va risolto, a nostro modesto avviso, in altro modo. Posta – e nessuno potrà, qui, contraddire – l’inesistenza d’ictus metrico nella prosa, e posta la possibilità – attestata dalle testimonianze che abbiamo viste – di confusione tra poesia e prosa, non resta che concludere coll’ipotesi piú economica: e cioè coll’assenza d’ictus anche nella poesia. Un secondo problema affrontato (pp. 51–53)23 è quello delle sillabe irrazionali in ‘elemento libero’ dei metra giambici e trocaici24. L’A. afferma di vedere,

|| 23 In realtà il sottotitolo prometteva altro: Ritmi ascendenti e ritmi discendenti. Pensavamo che annunciasse una difesa della teoria che vede differenze ritmiche a seconda che i ‘piedi’ comincino ‘in battere’ o ‘in levare’ (quindi contrapposizione dattilo/anapesto, trocheo/giambo etc.). Ma ogni considerazione su questo argomento è comunque implicita in quello che si è detto sopra a proposito dell teoria arsi/tesi (e gli antichi fanno la distinzione in tal quadro, appunto: Ar. Quint, p. 97 Mb. = 82.4 ss. W.–I., Quint. 9.4.92, etc.). Se c’era, veramente, un luogo dove l’argomento poteva inserirsi, era nella trattazione successiva (v. qui appresso), dove si attribuisce un ruolo decisivo all’ictus i n i z i a l e (dei versi discendenti, cioè: dattili e trochei). 24 Per la terminologia da me adottata mi sia consentito rimandare a «Riv. Fil. Istr. Class. 91, 1963, p. 70 s.

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proprio nella norma imposta a questi metra, un segno della presenza e della operatività dell’ictus. Confessiamo di non riuscire a seguire l’Α.: a noi sembra (e siamo in numerosa compagnia) che, se mai, un ictus intensivo sarebbe tale ‘ancoraggio’ ritmico, da permettere le piú audaci libertà quantitative25. Si ricordi anche che quelli che ammettono la sincope (o ‘soppressione’ di una quantità), ricorrono, non del tutto a torto, all’ictus (la questione è di particolare importanza nella problematica del saturnio, com’è noto). L’ictus, insomma, ci sembra piuttosto elemento a favore che a sfavore di libertà quantitative: e là dove troviamo una legge di quantità, siamo piú disposti ad escluderlo che ad ammeterlo. L’argomentare del Setti sembrerebbe potersi aprire, però, anche a quest’ordine di ragionamento: il trimetro normale sarebbe pur sempre piú libero del trimetro puro e segnerebbe quindi un passo avanti su una supposta via di ‘liberalizzazione’ quantitativa, e quindi di maggior necessità della presenza ritmizzante dell’ictus. Ma ricordiamoci che le entità in discussione devono essere entità storiche e qui esse sono solo due e non tre (il trimetro puro non è rintracciabile come realtà storica, non è un prius: esso è solo occasione di virtuosismo, come in Catullo) e cioè il trimetro normale e il senario. Ora, rispetto al senario (che è latino, lingua su cui abbiamo qualche dubbio circa l’intensità), il trimetro normale è senz’altro ‘quantitativamente severo’, e non vediamo perché si debba postulare un ictus che ne metta in evidenza lo schema. L’ A. si volge infine al problema dell’allungamento metrico (pp. 53–57). È noto che questo fenomeno, originariamente omerico e in certa misura imitato dai latini, è stato spiegato da alcuni colla forza allungante che avrebbe l’ictus. C’è stato poi chi ha sfruttato a questo scopo la famosa testimonianza di Dionigi d’Alicarnasso sui piedi da lui chiamati ‘ciclici’ (de comp. verb., cap. XVII): il longum sarebbe meno lungo del biceps e ci si spiegherebbe cosí la presenza di sillabe lunghe meno lunghe, e cioè addirittura di brevi26. Alla testimonianza di Dionigi, che io credo peraltro di avere altrove dimostrato non doversi prendere in senso metrico27, il Setti dà credito e cerca di spiegarsi il fatto da lui testimoniato come un caso d’influenza dell’ictus iniziale (dei ritmi discendenti, cioè), che «potrebbe avere un effetto abbreviante sulle lunghe e, in certa misura, allungante sulle brevi, in maniera da ridurle a una misura molto vicina» (p. 56). L’A. troverebbe conferma di tale sua ipotesi in un altro ritmo ‘ad ictus iniziale’ (e

|| 25 S’innesterebbe qui il problema della metamorfosi, operata dai latini, del trimetro giambico in senario. 26 V. Metr. e crit. stil., cit., spec. p. 33 ss. (posizione di Wifstrand). 27 Metr. e crit. stil., cit.. Non sono venuto in tempo a conoscenza del lavoro del Setti: mi dispiace non aver potuto, cosí, dargli un posto nella storia della questione.

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cioè discendente), il trocheo, per il quale si hanno testimonianze (anche in Dionigi stesso) che era sentito come ‘meno nobile’ del giambo, e cioè in sostanza ‘piú veloce’, in omaggio a quel principio della teoria etica dei ritmi per cui lentezza equivale a nobiltà e decoro. Saremmo disposti ad accettare tale distinzione fra giambo e trocheo, sebbene le sfumature che ci offrono le testimonianze siano tali da non consigliarci di far dipendere da una tale sottile distinzione conseguenze di tanto peso28. Ma osserviamo che si portano qui sullo stesso piano fatti di diversa natura, e cioè minor lunghezza del longum del dattilo (fatto che, a ‘prender sul serio’ Dionigi, sarebbe metrico) e velocità d’emissione del trocheo (elemento sostanzialmente stilistico, estremamente variabile). Che se poi si volesse considerare anche del dattilo la velocità d’emissione come era stabilita dalla teoria etica, ci si troverebbe in presenza d’una contraddizione grave, ché del dattilo le testimonianze antiche ci dicono a questo proposito proprio il contrario di quanto ci dicono per il trocheo: ritmo nobile e lento29. Ma l’ipotesi mi sembrerebbe comunque destinata a cadere se cade anche, come mi pare che debba, l’interpretazione ‘metrica’ dei passo di Dionigi. Numerose sono le questioni che l’Α. affronta qua e là nel corso della trattazione e che meriterebbero ulteriore discussione30. Ma solo a un ultimo dissenso di fondo vorremmo dare espressione. Esso, in concomitanza con tanti altri elementi, ci sembra portare una prova definitiva contro l’esistenza dell’ictus. L’A., che è studioso troppo scrupoloso, come abbiamo visto, per non rendersi conto del poco frutto che viene a favore dell’ictus dalle testimonianze degli antichi, vorrebbe trovare (p. 30 s.) la ragione di tale sostanziale silenzio in due cause: «l’ovvietà dell’esperienza, in connessione strettissima col senso della quantità» e «la deficienza di mezzi teorico–scientifici». Alla prima spiegazione possiamo rispondere che sarebbe molto strano che di un’esperienza, la quale dovrebbe essere per loro cosí ‘ovvia’, gli antichi tuttavia qualche volta parlassero, e per giunta in modo tanto ambiguo da significare qualche volta l’ictus interno e qual-

|| 28 Si vedano le testimonianze per i due ritmi in G. AMSEL, De vi atque indole rhythmorum quid veteres iudicaverint, «Bresl. Philol. Abhandl.» 1.3, Breslau 1887, pp. 90 ss. (tr.), 95 ss. (ia.); e in H. ABERT, Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik, Leipzig 1899, pp. 137 ss. (tr.), 140 ss. (ia.). 29 AMSEL, diss. cit., p, 78 ss.; ABERT, op. cit., p. 128 ss. Va citata anche un’ulteriore prova che il Setti adduce per la maggior velocità del trocheo, e cioè che il tetrametro trocaico viene sostituito, nella tragedia, dal trimetro giambico, che, piú breve, verrebbe supposto, cosí, in certo modo temporalmente equivalente all’altro. L’idea è ingegnosa, pur lasciando adito a numerosi dubbi: mi dispiace comunque non aver potuto citarla nel mio lavoro cit., a pp. 86–88. 30 C’è qualche traduzione di termini tecnici che ci lascia un po’ perplessi: p. es. σημασία in Aristox., el. rh., p. 302 Mor. tradotto con «segnalazione» (p. 26).

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che volta l’ictus esterno (come vorrebbe il Setti), senza soprattutto sentire m a i il bisogno di una precisazione, sia terminologica che sostanziale. Alla seconda opporremo un’obiezione di maggior peso: è verosimile che gli antichi avessero «deficienza di mezzi tecnico–scientifici», essi che di tali strumenti ne crearono tanti, per un fattore, per di piú, che nella realizzazione sonora della parola poetica avrebbe avuto un ruolo cosí importante? Ricordiamoci che per gli antichi la parola sonora ha avuto un’importanza ben diversamente grande che per noi e che ad appoggio della prassi oratoria, gli antichi stessi crearono una teoria che andò via via raffinandosi e si estese fino a comprendere una teoria stilistica della dizione poetica31. È impensabile che da essa sia rimasto fuori un elemento fondamentale della recitazione poetica stessa, e cioè proprio quello che il Setti chiama l’ictus interno. Questo, nonostante la riluttanza dell’A. (p. 33), non può non apparire quel fortissimo argumentum ex silentio che da molti è stato accettato come tale32. Fin qui il Setti sulla documentazione e sull’impostazione teorica del problema. Non vorremmo che i dissensi che abbiamo liberamente espressi facessero dimenticare quanto abbiamo affermato al principio del nostro discorso: e cioè che eravamo grati all’A. per averci dato l’occasione di ripensare e approfondire uno dei piú spinosi problemi dei nostri studi e per averci offerto una falsariga cosí chiara, pur se spesso ci siamo trovati a impostare i ragionamenti in modo totalmente opposto al suo. È quindi con comprensibile vivo piacere che ci troviamo sostanzialmente d’accordo con lui per quanto, nel quinto ed ultimo capitolo, ci dice sulla realizzazione della lettura metrica. Oltre alla raccomandazione di conservare il piú possibile il senso della quantità (p. 58 s.), egli ci dice, a proposito della lettura metrica ad ictus, che (p. 58) «si dovrà liberarla da ogni meccanicità e monotonia, riuscendo a conciliarla col senso, non coll’espressività poetica, o si dovrà farne a meno, mantenendole tutt’al piú il solo carattere di

|| 31 Si veda la tesi centrale di Metr. e crit. stil., cit. 32 Una testimonianza da cui l’argumentum ex silentio mi pare colpisca direttamente con evidenza è Hor., serm. 1.4.39–62, dov’è detto vivacemente quello che è fin dall’antichità un principio fondamentale di critica letteraria, e cioè che non basta il verso a far poesia (40 neque enim concludere versum I dixeris esse satis neque, siqui scribat uti nos I s e r m o n i p r o p i o r a , putes hunc esse poetam; 47 nisi quod p e d e c e r t o I differt sermoni, sermo merus; 54 non satis est puris versum perscribere verbis, I quem si dissolvas, quivis stomachetur eodem I quo personatus pacto pater; etc.). Se la poesia avesse avuto, oltre al pes certus, un ulteriore elemento distintivo cosí forte come l’ictus, che sarebbe venuto a galla proprio nella recitazione, non c’era contesto dove piú opportuna ne sarebbe caduta una esplicita menzione, che invece manca totalmente. (Per la poesia tale solo ‘formalmente’ si veda anche Ar., a.p. 1447 b 13 ss.).

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prova riassuntiva e rapida della conoscenza dei ritmi»33. È un po’ un consuntivo di minima, come potrà parere a molti, i quali si aspettavano forse di piú da chi si è tanto adoperato a ricercare i fondamenti storici dell’ictus: ma è in piena coerenza colle premesse, e cioè con quell’ictus, diremo cosí, minor che è l’ictus interno e che l’Α. ha elaborato come concetto di fondo. Noi aggiungeremo solo che l’ictus, diciamo cosí, maior, quello violentemente ritmatore, che offusca ogni senso di quantita fino a diventare l’unico portatore del ritmo, com’è usuale nei paesi di cultura classicistica tedesca, ha ormai un suo posto non solo nella prassi (ché è necessario alla nostra sensibilità, quasi completamente sorda alla quantità), ma anche nella storia del Nachleben della poesia antica: cosí giustamente ricorda Maas (Metrik, § 81), che si riferisce specialmente alla poesia tedesca del classicismo, costruita precisamente su quel tipo di lettura della poesia classica; e a noi basterebbe ricordare l’esempio recente del Pascoli. Certo, l’ideale, per noi che non crediamo all’ictus, sarebbe una lettura, assai difficilmente realizzabile, che fosse sensibile alla quantità e che facesse contemporaneamente sentire l’accento musicale di ogni parola34. Resterebbe però da vedere quanto anche l’ideale del Setti, cosí raffinatamente sfumato, sia realizzabile: e se egli non debba eventualmente concedere qualcosa di piú alla prassi comune della lettura metrica, ammettendo per l’ictus almeno una parte di addizionale convenzione che si aggiungerebbe a quella che egli crede essere r e a l t à s t o r i c a , là dove noi lo accettiamo senz’altro come c o n v e n z i o n e in toto.

|| 33 Lasciamo qui da parte il problema della convivenza di sintassi e ritmo. Il ritmo non va sacrificato, veramente, alla sintassi: se mai è piú vero il contrario. Si pensi all’effetto di rilievo che ha un enjambement quando non lo si attenui per un malinteso riguardo sintattico. Sul problema tornerò fra breve a proposito della struttura dell’esametro. 34 Particolarmente dotati da questo punto di vista sarebbero gli slavi meridionali, com’è noto, essendo il serbo–croato fornito di accento musicale. Un tentativo per molti aspetti riuscito è quello di KONRAT ZIEGLER in un disco pubblicato di recente dalla casa Olms di Hildesheim: Griechische Verse (Hom. Soph. Aristoph.). Gr. Prosa (Xen. Thuk. Plat.).

La metrica come disciplina filologica Alphonse Dain, l’illustre filologo recentemente scomparso, ci lascia, nel suo postumo Traité de métrique grecque1, una preziosa testimonianza della sua lunga ed approfondita esperienza, di metrica greca. Il libro, a quanto ci dice l’A. (p. 7), vuol essere, più che un ‘trattato’, un ‘manuale’ «destinato a rendere servigi pratici». Ma alcuni atteggiamenti personali e alcuni squilibri nello sviluppo relativo delle singole sezioni, cose di cui l’A. stesso è consapevole (p. 8), danno al libro piuttosto il carattere di una ‘introduzione’. Tali squilibri sono dovuti al fatto che l’A. segue con una certa libertà i suoi interessi, soffermandosi piú a lungo là dove la sua esperienza è stata piú appassionata e diretta: solo cosí si può giustificare l’assoluta preponderanza della trattazione dei versi lirici in confronto con quella dei versi recitativi2. Il libro appare in parte come un frutto secondario dell’ultima fatica editoriale di Dain, il Sofocle delle «Belles Lettres»3: tanto è lo sviluppo che, nell’ambito di un particolare interesse per la lirica in generale, viene dato alla trattazione della lirica della tragedia, e specialmente a quella di Sofocle. Si tratta in sostanza di una riedizione della Leçon sur la métrique grecque del 1944, corretta ed arricchita4: e il parlarne come di cosa nuova è giustificato dal fatto che l’apparire, anche in seconda edizione, di un lavoro di sintesi, e per di piú ad opera di un filologo della statura di Dain, dà sempre occasione

|| [Recensione di A. Dain, Traité de métrique grecque, Paris, Klincksieck, 1965; pubblicata in «RFIC» 94, 1966, pp. 185–207] 1 Paris, Klincksieck 1965, 275 pp. 2 All’esametro, per esempio, sono dedicate poco più di tre pagine! – L’opera si articola nelle seguenti sezioni, precedute da un breve panorama degli studi moderni (9–11) e da una bibliografia essenziale (12–14): I. I ritmi (15–46: nozioni fondamentali di prosodia, elemento ritmico [metron], colon); II. Il verso (47–146: stico [che sarebbe la forma più semplice di verso ma che, come si vedrà, non si riduce al verso recitativo], sistema, verso lirico [che non esaurisce, in realtà, tutti i versi lirici]); III. Il raggruppamento dei versi (147–212: serie stichiche e distiche, periodi, strofe, raggruppamenti liberi, quadri strutturali); IV. Poetica (213–259: tecnica compositiva in generale, modo di sentire il verso antico). 3 In tre volumi (1955, 1958, 1960), con la traduzione di Paul Mazon. Vedo nel voI. I, p. LIV esposti i principi teorici e gli espedienti tipografici che hanno regolato la presentazione delle parti liriche. 4 Esauritissima da anni, non l’ho mai avuta tra le mani e non potrò quindi giovarmene per chiarire eventuali dubbi, né potrò precisare eventuali punti di divergenza in confronto colla presente edizione. https://doi.org/10.1515/9783110647983-007

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ad utili ripensamenti sui fondamenti della dottrina5. È che l’esperienza metrica s’iscrive, come Dain piú volte ripete e come la sua opera di maestro ha continuamente testimoniato, nel quadro piú generale dell’esperienza filologica: non va dimenticato che ogni rigo di questo libro nasce da una consuetudine, che è durata tutta una vita, con manoscritti e con problemi editoriali. Il frutto principale della lettura del libro di Dain è l’impressione, che se ne riporta, del grande peso che, nella strofe lirica, assume il p e r i o d o . Il periodo ha un’importanza primaria, che Dain ha ragione a mettere in grande rilievo, per la comprensione della strofe della lirica corale, che, non dimentichiamolo, è legata alle evoluzioni di un coro che danza, ed entro la quale è quindi spontanea una strutturazione in unità minori, corrispondenti alle evoluzioni del coro stesso. Il periodo è però di gran lunga piú incerto, nella sua reale estensione, di quanto non sia il verso (il quale ha peraltro anch’esso i suoi margini d’incertezza): di qui il peso di un calcolo periodologico che tenga conto dei numerosi elementi che entrano in giuoco. Sarà utile richiamare qui quei concetti fondamentali che faranno vedere quale sia, nel quadro della gerarchia dei raggruppamenti ritmici, il posto del periodo, e cioè i concetti di metron (che comprende in sé e perfeziona quello di piede), colon, verso, strofe (e sistema). Il m e t r o n , com’è noto, per lo piú s’identifica colla dipodia, ma non sempre, come nel caso del dattilo (non facciamo qui che accettare gli schemi e le definizioni di Efestione, che in questo caso sembrano avere piú che un semplice valore di comodo): Dain, invece, estende a tutti i piedi la misurabilità dipodica e preferisce, al nome ormai tradizionale di metron, quello di ‘elemento ritmico’, perché – quel che piú meraviglia – vuol riportare sotto questa stessa categoria anche le ‘tripodie’ (p. 29). È questo il piú importante punto di dissenso che, nello stabilimento degli strumenti, mi sembra di dover segnalare: basterebbe pensare che quella che Dain chiama tripodia trocaica ha, col nome di itifallico, una sua precisa fisionomia come colon unitario. Come tale finisce poi per considerarlo, parlando dei cola, Dain stesso, senza peraltro avvertirci della bivalenza (pp. 31, 34: che senso ha, però, chiamarlo itifallico quando, a p. 29, se ne parla come di metron?): ma se, come si vedrà in seguito, per alcune sequenze si può astrattamente parlare di bivalenza come colon e come verso6, non avrebbe senso, per le stesse defini-

|| 5 Se ne esporranno qui di seguito solo alcuni, e quasi esclusivamente in caso che la posizione dell’A. dia adito a necessità di precisazioni o, eventualmente, a dissenso. 6 Il reiziano, ad es., è normalmente un colon, ma nel chelidonismo dei rodii viene usato stichicamente: vd., oltre, i «versi artrodici» di Dain stesso.

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zioni che si danno, parlare di ambivalenza come metron e come colon. Il metron, infatti, come dice il nome stesso, è unità di misura, e come tale abbiamo, tra parentesi, tutto l’interesse a conservarlo di piccole dimensioni (la dipodia, appunto), perché adempia con la maggior precisione possibile alla sua funzione, che è quella di misurare (e tanto varrebbe rifarsi addirittura al piede, se versi come, ad es., il. trimetro giambico non ci facessero chiaro, con la ripetizione della sequenza f h g h, che l’unità di misura è il metron, e non il piede). Quel che distingue il metron dal colon non è una differenza quantitativa, giacché le altre entità di cui parleremo, dal colon in su, hanno, sí, una loro misurabilità in termini di piedi o metra, ma sono delle realtà ritmiche concrete che si configurano di volta in volta in modi diversi, gerarchizzandosi l’una in rapporto coll’altra. E d’altra parte, se al metron si volesse dare reale valore ritmico – il che sembra non sia nella definizione che Dain ne dà a p. 25 –, esso diventerebbe un semplice doppione del colon! È per queste considerazioni che non ci sembra convincente la definizione che Dain dà di c o l o n , il secondo tra i concetti in questione, come «unità intermedia fra elemento ritmico [leggi: metron] e verso» (p. 30). Questo potrà esser vero solo sul piano quantitativo empirico, ma non rende anche il salto qualitativo, come fa, invece, la definizione di Maas (§ 52): «metron è ‘raggruppamento elementare’ inferiore ad un organismo metrico indipendente», il quale ultimo è, appunto, il colon, prima cellula ritmica che abbia una sua realtà, come reale – e non astrattamente matematico – elemento costitutivo del verso. Il colon infatti, come continua ancora Maas, trova il suo tratto distintivo «nel poter apparire anche come verso» (il che avviene quando sia trattato come tale, e cioè in assoluta autonomia). Per le altre definizioni riportiamo quelle stesse di Dain, che sono particolarmente felici, e specialmente quella per il periodo. V e r s o : « riunione di elementi ritmici [qui leggi: cola], sensibili all’orecchio, raggruppati in modo da formare un tutto, indipendente da quanto precede e da quanto segue» (p. 47). P e r i o d o : «insieme metrico che ha una certa estensione e che presenta degli elementi [dei versi, precisiamo noi] cosí strettamente uniti tra loro, da far sentire il ritmo come sospeso fino al suo termine» (p. 159). S t r o f e : « insieme di versi o di periodi che formano, sul piano metrico, un tutto autosufficiente» (p. 165). Sul piano della elaborazione teorica, i concetti di piede/metron, verso e strofe ci sono stati tramandati dall’antichità attraverso tutta la tradizione medievale, che non ne ha mai perso sostanzialmente la nozione; quello di colon, che gli antichi pur conoscevano, è stato una graduale riconquista moderna, collegata coi progressi che man mano si sono fatti nello studio della metrica lirica. Per quanto riguarda, invece, la loro utilizzazione pratica, sappiamo che, fino alla ‘scoperta’ di Boeckh, il concetto di verso era rimasto inoperante nel campo della

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metrica lirica, essendosi perduti i criteri per stabilire i confini reali del verso stesso: fu Boeckh che ritrovò tali criteri fissandoli nella presenza di f i n e d i p a r o l a (unico fatto indispensabile), di i a t o e di quello che chiamava syllaba anceps e che noi oggi preferiamo chiamare e l e m e n t o i n d i f f e r e n t e 7, fatti, questi due ultimi, che possono anche mancare, ma che, quando sono presenti, danno definitiva conferma dell’esistenza di p a u s a finale di verso. In realtà, pochi ricordano che Boeckh aggiunge non tanto un quarto indizio di fine di verso, e cioè la interpunctio8, che è però sostanzialmente da comprendere nell’ambito del primo (la fine di parola), quanto piuttosto un quinto. Infatti, essendo unico fatto indispensabile per la fine di verso la semplice fine di parola (e lo sapeva bene già Efestione: 14.22 Consbr. πᾶν μέτρον – che qui vale ‘verso’ – εἰς τελείαν περατοῦται λέξιν), il conforto delle due prove ulteriori stabilite da Boeckh può mancare: come in realtà spesso manca quando si abbia una sola responsione (in coppia strofica) o non se ne abbia nessuna (nell’epodo o nella strofe libera), dandosi spesso il caso che la fine di parola non sia accompagnata anche da iato o indifferenza dell’elemento finale (la quale ultima ha bisogno, per essere accertata, almeno di una responsione antistrofica). L’editore, che deve decidere come presentare il suo testo, sa che in un certo punto ci deve essere fine di verso, ma non ha a sua disposizione che una semplice fine di parola: ... nonnulli sunt loci, ubi plane deficiunt [scil. i primi quattro criteri], quum in plurium stropharum carminibus, tum in iis, quae ex duabus tantum strophis et epodo singulari facta sunt ...9. Come si risolve in questi casi? Boeckh ci risponde che quinta nota, finis versuum ex u s u r h y t h m i c o e t m e t r o r u m c o g n i t i o n e a c c u r a t a petenda est: che, cioè, c o m p a r a t i o m e t r o r u m d i l i g e n s e t u s u s v e t e r u m c o g n i t i o … in plurimis aut tollit dubitationem, aut docet saltem, ubi possit versus finiri; an ibi finitum sit, incertum relinquit. Ultra progredi subinde non licet; et tutius in huiusmodi locis putavi dividere numeros ubi possint, quam ubi non constet, coniungere. Queste parole sono forse le piú efficaci fra quante abbiano mai illustrato il delicato lavoro dell’editore di testi poetici.

|| 7 Per questa ed altre innovazioni terminologiche e grafiche (e sostanziali), che si troveranno anche nel seguito, rimando a «Riv. Fil. Istr. Class.» 91 1963 p. 52 sgg., spec. 61 sgg. La ‘scoperta’ di Boeckh è in De metris Pindari, Leipzig 1811 pp. 82, 308 sgg., Pindari opera, 1811–1821, T. I. (già, comunque, in Ueber die Versmasse des Pindaros, «Museum der Alterthums–Wiss.» 2 1810 pp. 190 sgg., 207 sgg.). 8 In realtà, nell’ordine di Boeckh è il terzo (op. cit. p. 311 sg.): ma, come indicium, è incertius sia dello iato sia dell’elemento indifferente. 9 Op. cit. p. 332.

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Il concetto di periodo, invece, diversamente dagli altri, non ha avuto nell’antichità una chiara definizione teorica10, così come lo abbiamo elaborato noi moderni, riconoscendolo necessario alla comprensione della costruzione strofica, né restano tracce apprezzabili di una sua applicazione pratica11. Quello di cui restano tracce, come giustamente nota Dain (pp. 30, 114–116, 188), è soltanto la divisione in cola, realizzata con una certa coerenza e uniformità soprattutto per ragioni editoriali, a scapito perfino della divisione in versi. È noto quanto la colometria alessandrina, pur colle approssimazioni date dalle incertezze teoriche, abbia influito sulla presentazione dei testi papiracei: i versicoli brevi (i cola) si adattavano meglio alle dimensioni del rotolo di papiro. Ora, quello che per la divisione dei versi era l’ultimo dei criteri boeckhiani, qui, per il ritrovamento dei limiti dei periodi, che sono raggruppamenti di versi, diventa l’unico criterio possibile, per vago e delicato ad applicarsi che esso sia: e lo troviamo riformulato da Dain (pp. 162–164) in quella che è – ripetiamo – la parte piú preziosa del suo libro. «I movimenti della frase e la punteggiatura, i cambiamenti di ritmo, le clausole vivamente accentuate sono gli elementi normali di tale ricerca» (p. 163). Insomma, la periodologia è soprattutto s c i e n z a d e l l e c l a u s o l e , come avevamo imparato dalle parole di Boeckh per quanto riguardava la divisione dei versi12. Che altro erano, infatti, la comparatio metrorum e la usus cognitio? In altre parole: se troveremo in un contesto lirico la clausola alcaica nella forma h g g h g g h g h h (ad es. Soph. El. 1062, O. C. 1214), è assai verosimile che l’elemento finale sia indifferente (e vada segnato

|| 10 Lo stesso termine è usato in una quantità di accezioni diverse: ved., ad es., O. Schroeder, Nomenclator metricus, Heildelberg 1929, s. v.; W. J. W. Koster, Traité de métr. gr.3 Leiden 1962 p. l6.3. 11 Nei prolegomena all’edizione sofoclea Dain c’informa (I, p. LV) che, per alcuni cori dell’Aiace, il Laurenziano XXXII, 9 ci ha lasciato tracce di una disposizione grafica che tradirebbe sensibilità al periodo (si tratta di quello che erano l’ἐπέκθεσις e l’ἐπείσθεσις per Eliodoro, che le usava però per i cola, e non per i versi). 12 Boeckh, ripetiamo, parlava chiaramente di v e r s i , e non di periodi, come sembra credere B. Snell, Griechische Metrik3, Göttingen 1962 pp. 4, 30: ivi, nelle premesse (p. 4), sarebbe stato bene distinguere nettamente fra verso e periodo. La confusione deriva dal considerare periodo quello che è costituito da semplici cola: ma normalmente i cola, quando sono veramente tali, costituiscono il verso: e il periodo è l’unità immediatamente superiore al verso [uguale critica rivolgerei alla voce Periode, dello stesso Snell, in Lexikon der alten Welt, Artemis Verlag, Zür. u. Stuttg. 1965]. Del resto l’equivoco verso–periodo è anche sensibile, sul piano pratico, nelle edizioni di Bacchilide e di Pindaro (dove la distinzione, pure alle volte difficile, andava per lo meno impostata: si confronti Snell con Schroeder). Buona la definizione di verso che da L. P. E. Parker, «Bull. Inst. Class. Stud.» (London), 3 1958 p. 13, nata dal bisogno di evitare tale equivoco: verse: the line in stichic metres; the ‘ m i n o r p e r i o d ’ in lyric.

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quindi W), in qualità di elemento finale non solo di verso, ma addirittura di periodo, e questo anche se nell’eventuale unica istanza manchi iato e anche se due o piú eventuali responsioni diano concordemente sillabe finali brevi o sillabe finali lunghe: tanto frequente è la qualità di clausola del decasillabo alcaico. Naturalmente non tutti i casi sono di cosí palmare evidenza e siamo grati a Dain per aver precisato altri criteri. I cambiamenti di ritmo sono infatti altra spia estremamente significativa di fine di periodo. Senza contare che anche la sintassi, che normalmente nel trattamento dei versi, sia lirici sia recitativi, non è di grande aiuto, può fornire qui, per il periodo, utili elementi ulteriori di decisione. È in questo delicato lavoro che la eccezionale perizia e il gusto di Dain, sostenuti da una dottrina sicura e collaudata da infinita esperienza, ci danno il meglio di sé, nelle numerose analisi periodologiche disseminate nel libro: di esse dovrà tener conto chi vorrà avviare quel molto che, in questo campo, c’è ancora da fare. Il periodo è, come si vede, una suddivisione evidente della strofe: a chi abbia sensibilità ritmica non sfugge, nell’interno della strofe, la presenza di raggruppamenti il cui ritmo, secondo la bella definizione di Dain riportata sopra, «resta come sospeso fino al loro termine». È fuor di dubbio che, come giustamente ribadisce Dain piú volte (pp. 158, 180, 223), questo fatto abbia la sua origine nelle esigenze della coreografia, nelle evoluzioni del coro, cioè, che non potevano avere per unità di misura l’intera strofe, ma che trovavano di volta in volta unità minori nella struttura di essa. Eppure quello che a noi oggi sembra evidente, seguendo le ricche analisi periodologiche di Dain, si è affermato solo a poco a poco negli studi metrici e possiamo essere sostanzialmente d’accordo con Dain nel dare il merito di aver ‘ritrovato’ la periodologia a Otto Schroeder. Forse si potrebbe risalire al Westphal: ma, pur negli arbitri del suo complesso sistema, Westphal era troppo preoccupato di seguire gli schemi teorici e la terminologia degli antichi e presso di essi, come s’è detto, non trovava, a proposito di periodo, che confusione terminologica e imprecisione concettuale13. Piú in là certamente era andato J. H. Heinrich Schmidt, nella sua colossale opera14 scritta || 13 Ved., ad es., Westphal–Gleditsch, Allgem. Theor. d. gr. Metr. (Metrik3, III. I), Leipzig 1887 p. 185 sgg. 14 J. H. H. Schmidt, Die Kunstformen der griechischen Poesie und ihre Bedeutung, I–IV, Leipzig 1868–72. Schmidt si contrappone ai due suoi predecessori solo per la svalutazione delle fonti teoriche antiche e per la volontà di ricavare le leggi della metrica direttamente dai testi: ma fu presto screditato dagli arbitrî del suo sistema e dalla incertezza delle basi filologiche. Ved. la storia degli studi metrici, fatta soprattutto dal punto di vista dei progressi della periodologia, in O. Schroeder, Vorarbeiten zur griechischen Versgeschichte, Leipz.–Berl. 1908 p. 136 sgg., spec. 140 sg. In realtà Schroeder tratta forse troppo sprezzantemente quello che è il suo vero precur-

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dietro la suggestione delle opere di Rossbach e di Westphal. Ma, se pure può esser corretto vedere in costoro, e specialmente nell’ultimo, i precursori di Schroeder, spetta a lui il merito di aver impostato con superiore competenza e correttezza filologica la teoria della strofe lirica nella ricerca della simmetria dei periodi e di averla fatta entrare nel circolo degli studi filologici. E questa ricerca della simmetria è la vera divergenza di Dain da Schroeder, che Dain stranamente non menziona. Schroeder cercava, all’interno di ogni strofe, una simmetria dei periodi tra loro che, dovendo essere secondo le sue premesse ogni volta esatta, prendeva alle volte delle configurazioni estremamente complicate (perché la simmetria doveva regnare anche all’interno dei singoli periodi). Si trattava di una versione ulteriore della ‘euritmia’ di Schmidt: ma era inverosimile che simmetrie così articolate venissero sentite come tali nella realizzazione coreografica dei periodi stessi. Dain, diversamente da Schroeder, si contenta di notare semplicemente un certo equilibrio dei periodi tra loro, senza tendere ad un’esattezza che non potrebbe essere se non artificiale. Precisa solo una sua legge costruttiva: «negli stasimi che hanno piú d’una coppia di strofe, le coppie di strofe ed antistrofe che si succedono hanno lo stesso numero di periodi» (p. 184: Sofocle la rispetterebbe senza eccezioni). Ma per il resto, sebbene sembri voler stabilire un’opposizione (p. 156), Dain è integralmente schroederiano, sia sostanzialmente nei criteri di misura dei periodi15, sia nell’accettazione, a tale scopo, dell’ictus. A quest’ultimo proposito viene opportuno qui il rinnovo di una proposta. Quando l’ictus non sia appoggiato indipendentemente da valide ragioni16 – e del resto Dain stesso, in sede di principi teorici, ha rinunciato a dare ad esso un vero fondamento (p. 21), mostrandosi praticamente agnostico sulla grossa

|| sore: vedilo piú equamente valutato in H. Gleditsch, Metrik der Griechen u. Römer, Hdb. d. Altertumswiss. II. 3, München 1901 p. 80. Gleditsch stesso (Die Cantica der sophokl. Trag., Wien 1883 p. v sg.) si rifà a Westphal e a Schmidt. 15 I principi periodologici di Schroeder sono esposti in Vorarb., cit., p. 158 sg.: Griechische Singverse «Philologus» Suppl. XVII. 2, Leipzig 1924 p. 123 sgg.; Grundriss der gr. Versgeschichte, Heidelberg 1930 p. 145 sgg. Ma i criteri pratici si ricavano dallo scansioni dei quattro volumetti di Cantica o dalle edizioni di Pindaro. Tale criterio è, secondo l’opportunità, dato dallo theses (ictus) o dai metra: in altro parole, un dimetro coriambico vale quattro theses o due metra. Dain segue il calcolo a theses, Si veda, ad es., la scansione di Soph., Ant. 582 sgg. (p. 161 sg.) e la si confronti colla scansione di Schroeder. Appariranno incongruenze, che qui non possiamo inseguire, come l’enoplio valutato 4 (Schroeder 2 metra), mentre l’hemiepes femminile è valutato 3 (Schroeder, naturalmente, ancora 2 metra). – Da un pezzo la periodologia è, comunque, patrimonio comune: ved., interessanti dal punto di vista metodico, le chiare parole di A. M. Dale in The Lyric Metree of Greek Drama, Cambridge 1948 p. 185 sgg.; e da ultimo in « Wien. St.» 77 1964 p. 15 sgg. 16 Cfr. « Ann. Sc. Norm. di Pisa ", S. II, 33 1964 p. 119 sgg.

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questione17 –, non conviene certo scomodarlo per questo scopo, per contare, cioè, gli elementi che costituiscono il tempo forte del piede (i longa dei dattili, i tempi forti dei giambi e dei trochei etc.): tali elementi, anche senza ictus, continueranno sempre ad essere i portatori principali dell’ossatura ritmica, e, liberandoci dall’ipoteca dell’ictus, potremmo chiamarli ‘ e l e m e n t i – g u i d a ’ 18. O forse Dain è stato portato ad accettare l’ictus per il fatto che, dando particolare importanza, come s’è visto, alla coreografia, ha pensato che non potesse mancare l’ictus in una poesia che serviva di falsariga a un movimento di danza? Ma l’ictus è legato con fatti linguistici del tutto indipendenti dal fatto della danza, che è un di piú che si aggiunge: o si dovrebbe arrivare all’estremo di negare la possibilità di movimenti di danza sui testi di una lingua che non abbia l’ictus espiratorio? Abbiamo parlato piú sopra, senza distinzioni, di ‘verso’. Ma Dain fa tre sottodistinzioni (p. 49 sgg.), dandone precise definizioni. S t i c o : «la forma piú breve e piú schematica del verso greco, costituita dalla riunione di elementi brevi, raggruppati nella piú stretta sinafia, e usata ordinariamente in serie continue» (p. 51); s i s t e m a : «riunione in numero illimitato di elementi ritmici [cola, per intenderci] della stessa natura, formanti un tutto strettamente legato» (p. 97); v e r s o l i r i c o : «raggruppamento libero, in un tutto coerente, di cola indeterminati, in numero indeterminato» (p. 107). Dalla denominazione della terza categoria, si potrebbe pensare che la prima rappresenti i versi recitativi, in contrapposto ai lirici: ma non è cosí. Sembra, in sostanza, che la differenza si sia voluta cercare nell’uso stichico, unitamente ad una maggiore o minore complessità di struttura: stichi sarebbero esametri, tetrametri, trimetri dattilico– giambico–trocaico–anapestici (i propriamente recitativi), e in piú i dimetri, gli asinarteti, i coriambo–gliconici, gli eolici; versi lirici sarebbero soprattutto i dattilo–epitriti (che Dain chiama dattilo–trocaici, rifiutando l’interpretazione descrittiva di Maas), i docmi, gli ionici e tornano dattili, giambi, trochei, anapesti in forma lirica (mentre prima si parlava delle forme recitative). La divisione porta a qualche inconveniente: gli asclepiadei «lirici», ad esempio (p. 137 sg., fra i versi lirici), vengono separati dagli eolici e dai gliconico–coriambici (pp. 85 sgg., 80 sgg., fra gli stichi). Ora, la distinzione non risponde né alla struttura in-

|| 17 In realtà l’unico punto in cui Dain dà l’impressione di credere all’ictus è là dove (p. 23) considera «di valore capitale» la distinzione fra ritmi ascendenti e ritmi discendenti. E perché, al confronto (ibid.), la distinzione per rapporto interno (genere uguale, 1 : 1; doppio, 2 : 1; etc.) dovrebbe essere «senza interesse»? Essa è alla base di quei cambiamenti di ritmo, che si son visti sopra essere utile spia di fine di periodo. 18 Da me proposto in Metrica e critica stilistica, Roma 1963 p. 13.23.

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terna dei versi, né per lo piú ad un loro distinguibile (quando sia determinabile) uso stichico. Gli asclepiadei «stichici» (p. 87 sg.) non lo sono in realtà piú o meno di quelli considerati fra i lirici (p. 137 sg.), come Stesicoro 278 P. (due asclepiadei maggiori) o Alceo 350 L.–P. (asclepiadei minori usati stichicamente, come del resto Dain stesso ci dice a p. 88). Ma che essi venissero poi usati in serie piú o meno lunghe ed omogenee, ha a che fare con la s t r o f i c a , o dottrina della costruzione della strofe, e non collo studio della struttura del verso. E cbe cosa distingue i cretici (che Dain, come vedremo, chiama, peonici), anch’essi presenti nelle due categorie (pp. 75 sg., 144 sgg.)? E potremmo continuare. Interessante ci sembra solo la creazione di una categoria di versi che Dain chiama arthrodiques e che mette tra gli stichi (p. 91 sgg.): si tratta della ripetizione stichica di quelli che per noi erano normalmente dei semplici cola. Erano originariamente cola (cioè parti di verso) o versi? (Si pensi al chelidonismo dei rodii, che presenta reiziani usati stichicamente, o anche semplicemente all’uso stichico del gliconeo). Certo, in Sinesio si tratta di tarda ripresa di dotto. Dain avrebbe potuto qui ricordare la geniale intuizione di Leo19, che aveva visto nell’inaugurazione o nella ripresa dell’uso stichico di cola e versi originariamente usati non stichicamente un atteggiamento tipico della cultura ellenistica (atteggiamento peraltro non privo di precedenti nell’arcaico, e soprattutto continuato dagli arcaici romani, per non parlare di Catullo, Orazio, Seneca), che consacrava col nome l’εὑρετής o il rinnovatore, appunto, dell’uso stichico: si pensi a versi come l’archebuleo, il faleceo, il gliconeo, l’asclepiadeo e ai molti altri di cui i grammatici stessi giustificano il nome coll’attribuzione di un uso stichico20 . Il sistema, infine, è considerato (p. 97 sgg.) una sottospecie del verso. Molti, forse con piú ragione, lo hanno considerato, anche in grazie delle sue frequentemente grandi dimensioni (si pensi ai sistemi anapestici, trocaici e giambici della tragedia e della commedia), una specie di strofe, costituita direttamente da cola, s’intende, senza l’intermediazione del verso. Si potrebbe anche parlare, del resto, di periodo: ma la cosa non ha importanza sostanziale. Una distinzione netta fra versi r e c i t a t i v i e l i r i c i , com’è in uso nella maggior parte dei manuali, avrebbe reso il buon servigio di facilitare la messa in rilievo di un principio fondamentale della versificazione greca, la cui sostanza viene spesso ignorata e la cui formulazione viene sempre omessa, e cioè che in generale l e i n c i s i o n i (le fini di parola generalizzate) s o n o f o n d a mentali solo nella strutturazione del verso recitativo,

|| 19 Fr. Leo, Die plautin. Cantica u. die hellenistische Lyrik, Berlin 1897 p. 61 sgg. 20 La fondamentale raccolta di materiali è in O. Leichsenring, De metris Graecis quaestiones onomatologae, Diss. Greifswald 1888.

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mentre non hanno peso, anche dove casualmente sian o p r e s e n t i , n e l v e r s o l i r i c o . Indipendentemente da testimonianze esterne che ci presentino determinati versi come appartenenti all’uno o all’altro gruppo, stabilendone il tipo di resa sonora (la Vortragsweise: canto, ‘recitativo’, parlato, con eventuali sfumature intermedie), è questo il grande criterio di distinzione fra versi recitativi e versi lirici. Nei primi le incisioni servono a stabilire i confini dei cola che li costituiscono21: la semplice recitazione, piú o meno articolata in forme che si avvicinano al declamato, non può affidare il suo ritmo ad altro che alla parola. Nel verso lirico, invece, legato alla musica, si osserva che l’incisione non ha luogo che si possa stabilire con una certa fissità, il che equivale a dire che essa manca del tutto. Per rendersi conto del fenomeno, basta considerare i versi eolici e gli asclepiadei dei poeti greci e confrontarli con le riprese oraziane: nei greci non c’è incisione generalizzata, mentre in Orazio, com’è noto, le incisioni sono rigidamente fissate, in modo da render chiaro che egli tratta i versi lirici come se fossero recitativi: il che, come segno della modificazione di tutta una sensibilità, corrisponde allo sviluppo storico del modo di resa sonora della poesia lirica. Nella lirica greca, infatti, destinata al canto, è esclusivamente la musica a ritmare il verso; il tardo imitatore latino, che normalmente scrive ormai per la lettura, volendo introdurre un raffinamento virtuosistico nel verso, non trova di meglio che introdurne uno (le incisioni fisse) che è strettamente legato colla natura ‘letta’ delle sue composizioni. Nel verso lirico greco, quindi, mancando incisioni, la sutura dei cola avviene per lo piú in sinafia, nel corpo, cioè, di una parola. Dain conosce bene tale principio e recentemente dal suo insegnamento è nato un lavoro ormai famoso di Irigoin22, il quale ha riconosciuto nella sinafia dei cola piú che una semplice possibilità del verso lirico, ma addirittura una tendenza, e tale da servire addirittura di falsariga per il riconoscimento dei cola che costituiscono il verso (Irigoin parte dai dattilo–epitriti). In altre parole: non sarebbe piú, come da alcuni si crede ancora, incisione generalizzata o almeno prevalente, bensí sinafia prevalente a segnare il punto di sutura dei cola23. A Irigoin sono state opposte numerose critiche24. Ma || 21 Per l’esametro, e per il metodo di approccio ‘positivo’ al colon recitativo, ved. H. Fränkel, Wege u. Formen frühgr. Denkens2, München 1960 pp. 100–166; L. E. Rossi, «Studi Urbinati» 39 1965 (Scritti Perrotta) pp. 239–273. 22 J. Irigoin, Recherches sur les mètres de la lyrique chorale grecque. La structure du vers, Paris 1953. lrigoin stesso (p. 16) parla di ‘tendenza’ parendogli trop exclusif il nome di legge. 23 Un esempio semplice: l’encomiologico (h g g h g g h x h g h W) a seconda che la sinafia si abbia più di frequente dopo la settima o dopo l’ottava sillaba, sarebbe rispettivamente da sentirsi come hemiepes maschile + reiziano oppure come hemiepes femminile + metron trocaico.

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in verità l’eccesso stava nel dare valore positivo assoluto alla sinafia, in modo da farne per il verso lirico quello che l’incisione è per il verso recitativo, e cioè il punto preciso di sutura dei cola. In realtà, già la divisione in periodi è cosa delicata e difficile, ma è di estrema utilità, come si è visto; la divisione in cola è certo molto piú difficile: ma rende poi sempre i rischi che costa? Una volta stabiliti i confini del verso, alle volte è impossibile stabilire senza arbitrî quali sono i cola che il poeta ha riuniti. Finché si tratta di cola come gliconei e docmi, la distinzione è evidente: ma quando ci troviamo di fronte a versi enoplio–prosodiaci, a reiziani normalizzati, come nei dattilo–epitriti pindarico–bacchilidei, si può esser proprio sicuri dell’attribuzione di elementi intermedi a un colon piuttosto che a un altro? Per questo Maas nel proporre i suoi simboli (D = h w h w h ; e = h g h ecc.) si era limitato a dare ad essi valore puramente ‘descrittivo’. C’è la sinafia prevalente, ci dice Irigoin: ma può essa, nel giro di ripetizioni antistrofiche che sono alle volte due sole, creare un vero ‘schema di frequenza’ capace di far sentire il ritmo uniformemente? Prendiamo un caso limite, quello di contiguità. Nell’Olimpica sesta (che ha cinque triadi) due versi contigui dell’epodo (5 e 6) si presentano cosí (le cifre si riferiscono al numero di fini di parola vicine al centro del verso, calcolato sulle cinque ripetizioni dell’epodo): ep. 5 ep. 6

h w h w h3h 0 h w h w W h w h w h 1 h3h w h w W25

|| 24 Il lavoro, come ogni opera vitale, ha suscitato numerose opposizioni. Ved., fra le altre, le giudiziose obiezioni di L. P. E. Parker, art. cit. p. 13 sgg. – Non mi risulta che le critiche siano state impostate, come avviene qui di seguito, sulla netta distinzione fra versi lirici e versi recitativi. 25 La colizzazione nel verso lirico (qui quella proposta da Irigoin), essendo in sinafia, non si può segnare, come quella del verso recitativo, con barra (|) di fine di parola. In proposito va notata I’incongruenza che deriva dall’uso di segni uguali per fatti diversi. Infatti, per i versi recitativi normalmente abbiamo: | = incisione, ovvero fine di colon; || = fine di verso. Per i lirici: | = fine di verso; || = fine di periodo; ||| = fine di strofe. Volendo conservare separati i due sistemi, basterebbe tener presente che l’incisione del verso recitativo (|) comporta normalmente semplice fine di parola, mentre la fine di verso lirico (ancora |) comporta vera p a u s a (equivale, cioè, a quello che è || nei recitativi). L’unica confusione può sorgere negli asinarteti, che sono a mezzo fra le due categorie (ved. appresso), dove | indica, come nei recitativi, fine di colon (equivale, cioè, a semplice incisione). All’inconveniente si potrebbe ovviare unificando i due sistemi in questo modo: | = incisione (interessa solo i versi recitativi e gli asinarteti); || = fine di verso (vera pausa: interessa i due tipi); P = fine di periodo (anche qui vera pausa: ma interessa solo i lirici); ||| = fine di strofe (id.). Tutto questo, naturalmente, per descrivere versi singoli concreti. Per descrivere schemi di versi ripetuti (nei quali non si segnano sillabe, bensí elementi metrici), il doppio segno W || sarebbe di per sé inutile ridondanza (essendo sufficiente W: qui lo si può accogliere solo per ragioni pratiche di omogeneità e soprattutto di evidenza grafica – come

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Su una tale base, che non è poi neanche plebiscitaria (nel secondo verso la sinafia, in 1, è solo prevalente), Irigoin26 stabilisce che il primo verso è costituito da hemiepes femminile + hemiepes maschile, e il secondo da hemiepes maschile + prosodiaco. Ora, è possibile che due versi contigui come (O. 6.19 sg.) οὔτε δύσηρις ἐὼν οὔτ’ ὦν φιλόνικος ἄγαν, καὶ μέγαν ὅρκον ὀμοσ– σαις τοῦτό γέ οἱ σαφέως

venissero realmente sentiti colizzati in maniera diversa (l’uno dopo l’ottava sillaba, l’altro dopo la settima), e per giunta proprio dove, secondo uno schema di frequenza, non c’è fine di parola? Tale varietà non significherà piuttosto indifferenza del poeta al fatto dell’incisione? Ma comunque, anche in casi in cui la contiguità non renda la cosa ulteriormente improbabile, non sembra ragionevole dare alla sinafia valore positivo. Essa ha solo il valore negativo di ‘assenza d’incisione’. È solo in tale affermazione generica del valore (negativo) della sinafia come caratteristica dei versi lirici che Irigoin ha senz’altro ragione: e il frutto concreto sta nel mettere in guardia dal considerare la fine di parola, anche generalizzata, come fine di colon lirico. In altre parole: nei due versi pindarici citati sopra, non solo è sconsigliabile la colizzazione per punti di sinafia, ma sarebbe anche scorretta quella per fini di parola, pur se tutte e cinque le ripetizioni antistrofiche ci dessero concordamente le stesse incisioni (tale colizzazione ci darebbe l’opposto di quello che avevamo prima: ... ἐὼν | e … ὀμόσσαις | ci darebbero hem. masch. + prosod. e hem. femm. + hem. masch.). Si vorrà obiettare che tale agnosticismo è eccessivo? È che qui, per i dattilo–epitriti, pur essendo le cose piuttosto incerte, ha forse ragione Maas anche nella sostanza, nel senso che il suo anceps interpositum (che noi ribattezzeremmo come ‘elemento libero interposto’, ovvero liberum interpositum) è veramente elemento di congiunzione (il link degl’inglesi). Ma non intendo dire che la colizzazione sia, in generale, impossibile27: vorrei solo dissuadere dall’usare, allo scopo, sia la sinafia prevalente sia l’incisione generalizzata. Qui sí che occorrerà acume e compa|| negli schemi scritti continuativamente su una riga, al modo del Bacchilide e del Pindaro di Snell), mentre W P e W ||| sono necessari per indicare che quelle pause sono di particolare natura (per i versi recitativi, per cui il problema non sussiste, vedo «St. Urbin.», cit., p. 241.10). 26 Recherches, cit., p. 29 sg. 27 Mi sembra che fondamentalmente ragione abbia Irigoin nelle colizzazioni che propone in «Rev. Philol. » 31 1957 p. 234 sgg. Si tratta di cola eolico–coriambici, facilmente identificabili: cfr. già R. Merkelbach, «Arch. f. Papyrusf.» 16 1956 p. 97 sg.: diversamente B. Gentili, «Maia» 15 1963 p. 317 sgg. che, seguendo le fini di parola, isolerà dei versi, o non dei cola: la fine di parola generalizzata, in sequenza lirica, se presa come ‘confine’, potrà darci solo fini di verso, mai di colon, secondo le premesse da noi poste qui sopra.

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ratio metrorum e usus cognitio (conoscenza di alcune preferenze, usi stichici di cola che orientino nel loro uso come veri cola, etc.): ma anche questo può non bastare. Dobbiamo forse, per non azzardare ipotesi arbitrarie, ricordare l’ammonimento et quod vides perisse ... con quel che segue, e accontentarci qualche volta di stabilire semplicemente dei versi unitari, senza impegnarci a volerne determinare i cola che li costituiscono. Dain (p. 110) segue Irigoin nel principio generale della sinafia, dandoci l’impressione di non essere sfuggito alle considerazioni da noi fatte qui sopra, dal momento che dice che esso ha «un valore negativo: la proscrizione della dieresi». Comunque, trovandosi la «loi d’Irigoin» consacrata in un manuale di tanta autorità, converrà forse tener presente che il quadro storico della ricerca va configurato diversamente da come esso appare in Irigoin, che28 cita come suoi predecessori nella ricerca Maas (con la sua famosa legge, che Irigoin vede ora in nuova luce) e Dain stesso, ricordando semplicemente che il principio della inesistenza d’incisione nel verso lirico era già stato genericamente formulato da Boeckh. In realtà Boeckh era andato oltre, affermando non solo l’inesistenza dell’incisione, ma anche, in sostanza, l’importanza positiva della sinafia: aveva fatto notare29 che nel verso lirico le incisioni si trovano precisamente in vicinia commissurae ordinum, sive paullo ante sive paullo post, adeo ut unum idemque vocabulum in utrumque ordinem porrectum sit, quasi cardo, in quo versentur ordines compositi velut geniculo coniuncti: e questo altro non è che la incisione che Irigoin, nelle sue ricerche, trova una sillaba prima e una sillaba dopo il punto di sinafia30. Se poi si vuol trovare il principio generale della sinafia fra i cola anche dopo Boeckh, si tenga presente che esso è da tempo patrimonio comune, e per gli studi piú recenti basterà pensare alla colon–caesura della Dale31, recentemente ripresa da Pohlsander32 e ancor piú recentemente sostituita con il termine, forse piú adatto, di Kolonkontinuum proposto da Korzeniewski33. Del resto, fra i versi lirici, che cos’è che realmente distingue da altri versi lunghi composti di cola i cosiddetti a s i n a r t e t i , del tipo archilocheo Ἐρασμονίδη Χαρίλαε, χρῆμά τοι γελοῖον? Forse, come si usa dire, una generica opposizione ritmica fra i due cola? Apparentemente versi come questi di Alceo (Z 60 L.–P., citati da Efestione) || 28 Recherches, cit., pp. 15 sg., 98. 29 De Metris, cit., pp. 96, 177 sgg. Koster, Traité3 p. 17 richiama anche Wilamowitz, Griechische Verskunst, Berlin 1921 p. 263. 30 Recherches, cit., passim (l’enunciazione a p. 16). 31 A. M. Dale, Lyr. Metr., cit., p. 59. 32 H. A. Pohlsander, Metrical Studies in the Lyrics of Sophocles, Leiden 1964, spec. p. 147 sgg. 33 D. Korzeniewski, «Gnomon» 37, 1965 p. 449 (nella recensione a Pohlsander).

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ἦρ’ ἔτι Διννομένη τὼ Τυρρακήω τἄρμενα λάμπρα κέοντ’ ἐν Μυρσινήῳ; (h w h w h | h h g h W)

non differiscono da un encomiologico pindarico come (O. 6. 73) ἐς φανερὰν ὁδὸν ἔρχονται‧ τεχμαίρει (h w h w h h h g h h ||)

Ma la definizione di Efestione (47.3 sgg. Consbr.) è chiara, pur non essendo esplicita: γίνεται δὲ καὶ ἀσυνάρτητα, ὁπόταν δύο κῶλα μὴ δυνάμενα αλλήλοις συναρτηθήναι, μηδὲ ἔνωσιν ἔχειν ἀντὶ ἑνὸς μόνου παραλαμβάνηται στίχου. La «mancanza di unità» e il fatto che vanno presi «come un verso unitario» (pur sembrando in realtà due versi distinti) sono da spiegarsi, come viene spiegato nel seguito (42.12 etc.) colla presenza di τομή o incisione fra i cola, fenomeno insolito nei versi lirici. Efestione è poi abbastanza incoerente nella sua esposizione: comunque quasi tutti i manuali moderni34 hanno ripetuto la sua definizione, senza, però porre il necessario rilievo sulla presenza d’incisione. La realtà è che, nelle forme archilochee, g l i a s i n a r t e t i t e n g o n o s i a d e l l a natura dei versi lirici sia di quelli dei versi recitativi, costituiti, come sono, da cola lirici, separati però dall’incisione35. Si rispecchiava questo nel tipo di recitazione? Dobbiamo crederlo. Non vogliamo qui rinnovare la questione della παρακατολγή archilochea: ricorderemo solo che vero asinar|| 34 Di gran lunga la migliore trattazione degli asinarteti, visti nel quadro della composizione epodica, è quella di Snell, Metrik3, cit., pp. 31–34. Vedo a p. 33 chiaramente delineata la differenza fra asinarteti ed esternamente somiglianti sequenze dattilo–epitritiche, mancanti d’incisione. 35 Si noti che, normalmente, c’è solo fine di parola, non vera pausa (non ci sono anche, cioè, iato ed elemento indifferente): insomma, si tratta d’incisione uguale a quella che è all’interno del verso recitativo e che lo divide in cola (ved. n. 25). Il tempo debole finale di un enoplio è naturalmente, in questo caso, libero (... Χαρίλαε ~ … ἑταίρων: … g h x |, non indifferente (W): tale sarebbe solo se lo considerassimo finale di verso, ma allora dovrebbe poter essere accompagnato da iato, il che nei veri asinarteti non è ammesso. Iato e vero elemento indifferente (con sillaba breve, cioè, anche in elemento–guida) si troveranno nei cosiddetti asinarteti di Hor. epod. 11 e 13, che hanno, rispettivamente dopo trimetro giambico e esametro, dei falsi asinarteti (h g g h g g W , f h g h f h g W : in realtà due versi, hemiepes e dimetro; e f h g h f h g W , h g g h g g W : dimetro e hemiepes). È da credere che Orazio li abbia sentiti come due versi distinti, e non che abbia fatto dei cattivi asinarteti (non converrebbe stamparli su due righe?). È vero che la dottrina degli asinarteti passa alla teoria tarda con segni di confusione: ma in Orazio (carm. 1.4, Solvitur acris hiems) non troviamo traccia dell’aberrazione di Efestione (50.4 sgg.) che, nell’interno di un asinarteto, ammetteva indifferente addirittura in finale d’alcmanio (il famoso δυσπαιπάλους di Archiloco 116 D.3).

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teto è anche il pentametro (Heph. 51.20 sg.), secondo elemento di quella particolare strofe, a mezzo fra il lirico e il recitativo, che è il distico elegiaco. Piú tardi, come ci dice ancora Efestione (47.16 etc.), altri poeti, come Cratino etc., non rispettarono piú la fissità dell’incisione: e sarebbe stato meglio dire che, in mano a quei poeti, questi versi cessarono di essere degli asinarteti per diventare normali versi lirici, senza incisioni fisse, come s’è visto qui sopra, a proposito del confronto fra Alceo e Pindaro. Naturalmente la sinafia fra cola lirici, in qualità di semplice tendenza, può benissimo mancare anche in alcuni casi particolari al di fuori dei classici asinarteti, e per ragioni che alle volte possiamo chiaramente intravvedere. A questo proposito una delle osservazioni piú interessanti è stata fatta dalla Parker36, la quale ha notato che i docmi limitati da fine di parola sono il 72% in Eschilo, il 66% in Sofocle e il 60% in Euripide. Che l’aumentare progressivo dei docmi in sinafia – suppone la Parker – dipenda dal fatto che il docmio diventa man mano piú familiare all’orecchio del poeta e dei suoi spettatori, tanto da poter esser colto nella sua individualità ritmica anche se sempre piú di frequente non si trovi isolato? L’intuizione della Parker potrebbe anche aiutarci a capire il senso della legge di Weil37 . Dove mi sembra che la posizione di Dain vada totalmente riveduta è quando, a proposito del trimetro giambico, egli afferma (p. 68) che in esso vi sarebbe «sinafia fra gli elementi che costituiscono il verso» (e si rilegga, qui sopra, la sua definizione dello stico). Quali sarebbero tali elementi? Sarebbero i metra (è noto che il trimetro ha le incisioni, la pentemimere e l’eftemimere, all’interno dei metra), ma dire che fra essi v’è sinafia è affermare una palmare verità, che non ha però alcun valore. Anche ammesso che si possa trattare il trimetro, che è verso recitativo, come i versi lirici, che si possa cioè colizzarlo colle sinafie e non colle incisioni – il che si è visto essere metodicamente sbagliato –, sarebbe questa l’unica prova che i metra del verso giambico (astratte unità misurative, per cui ved. sopra, p. 161) venissero sentiti come cola, come cellule ritmiche autonome, cioè: e sarebbe ben magra prova. Ritroviamo qui la suggestione di una formulazione di Irigoin38, che voleva, fondandosi sulle costanti sinafie, colizzare il trimetro giambico come dimetro + metron (quando ci sia sinafia fra secondo e terzo metron) o metron + dimetro (nell’altro caso) e l’esametro come trimetro + tri-

|| 36 L. P. E. Parker, art. cit. p. 17. 37 La legge di Weil (ved. Masqueray, Traité § 332) stabilisce inizio coriambico per il docmio in sinafia: è in sostanza, cioè, una limitazione alla possibilità di sinafia fra docmi, che sono quindi sentiti come ritmi ‘difficili’. 38 Recherches, cit., p. 58 sgg.

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metro (è noto che l’esametro evita incisione mediana). A parte gl’inconvenienti storici a cui si andrebbe incontro, basterebbero già le considerazioni generali che precedono a sconsigliare tali procedimenti e a farne rifiutare i sorprendenti risultati. La riformulazione della legge di Maas, proposta da Irigoin39, viene accettata da Dain (p. 124). Senza entrare qui nel merito della proposta, noteremo solo che, così com’era formulata da Maas per i dattilo–epitriti, la legge s’identificava praticamente con quella di Porson e quella di Havet rispettivamente del trimetro giambico e del tetrametro trocaico40, e piú d’un metricologo era stato tentato di accettare tale identificazione. La nuova formulazione ha il pregio di staccare le sorti dei due versi recitativi da quelle dei dattilo–epitriti, che sono versi lirici. L’unico, che io sappia, ad aver formulato chiaramente il bisogno di differenziare nettamente i due gruppi di fenomeni è stato Snell41, che ha parlato di valore ‘prosodico’ per la legge di Porson (e, ovviamente, di Havet: tendenza a non ‘sovraccaricare’ la sillaba lunga in elemento libero e a non farla, quindi, seguire da fine di parola) e di valore ‘ritmico’ per la legge di Maas (tendenza a isolare alcuni gruppi ritmici a preferenza di alcuni altri). Irigoin le differenzierebbe nella formulazione stessa, senza peraltro dare importanza alla differenziazione lirico–recitativo, che ne è un concreto vantaggio. Naturalmente dire che nel verso lirico non esiste incisione generalizzata non equivale a negare ogni valore alla métrique verbale nell’ambito del verso lirico. Dain ci fa notare numerosi fatti di métrique verbale, e cioè delle sottili anafore ritmiche che avvengono quando ci si trova di fronte a quelli che chiama mots homothètes (p. 111: parole dello stesso numero di sillabe nel punto in cui c’è la sinafia dei cola, parallelismo spesso accentuato da identità di forme grammaticali) e alle rimes lyriques (p. 184: doppie ripetizioni in strofe e antistrofe, e

|| 39 Recherches, cit., p. 48 sgg. La divergenza fra Maas e Irigoin si potrebbe formulare graficamente come segue, indicando tratteggiato il ‘ponte’ di Maas e continuo quello di Irigoin.

|| x h g hbhB...

...bhBh g W

È chiara, in Irigoin, la preoccupazione di legare il ‘metron giambico’ con sinafia a quel che segue o a quel che precede. Nel caso di ‘metron trocaico’ le due formulazioni, invece, coincido...bh h g h W no: || h g h hb... La formulazione e la validità della legge di Maas (è noto quanto liberamente la trasgredisca Pindaro) sono comunque ancora sub iudice. Ved. le importanti precisazioni sull’uso bacchilideo in W.S. Barrett, «Hermes» 84, 1956 p. 251 sgg. (Bacchilide evita di isolare il gruppo h g h x al principio o alla fino del verso). 40 Nel trimetro (e nel tetrametro): ... hbh g W ; nel tetrametro || h g h hb... . 41 B. Snell, Metrik3, cit., pp. 6.1, 11, 43.1. A p. 6.1 r. 6 ‘rhythmische’ è certamente svista per ‘prosodische’ (cfr. 43.1).

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negazioni interrogazioni interiezioni che si rispondono da strofe ad antistrofe). Dain presenta tali fatti, d’altra parte, come «corollario» della tendenza segnalata da Irigoin. Ma in casi come Soph. Ai. 1184 λή–ξει ~ 1192 δῦ–ναι, O. R. 1331 οὔ– τις ~ 1351 οὐ–δέν non si tratta di vedere un valore positivo della sinafia, o della incisione prima o dopo il punto di sinafia: quel che qui ha valore positivo è solo la parola, in anafora ritmica piú o meno accentuata, e potremmo trovare ancora mille casi di paronomasia, poliptoti, figure etimologiche etc. che possono benissimo stare, e stanno, anche non in sutura di cola. Si tratta comunque di fatti già piú volte notati dai filologi42, di cui Dain si serve con particolare maestria per le sue analisi ritmiche. Il modo con cui sono affrontate alcune questioni teoriche fondamentali ci lascia perplessi, o desidereremmo che l’A. ci avesse dato ulteriori chiarimenti sulla sua posizione di fronte ad esse. Per esempio, il problema della estensione del valore delle lunghe a tre e piú more. È noto che l’espediente di considerare alcune lunghe come corrispondenti a tre o quattro o perfino cinque more (⏗,⏘,⏙ secondo la notazione dell’Anonimo di Bellermann) fu proprio della corrente metrica ‘musicalizzante’, alla quale ci sembra che Dain sia sostanzialmente estraneo. Per questo, a p. 45 sg., dove vengono semplicemente elencati i segni, ci saremmo aspettati una chiara presa di posizione. In realtà, al di fuori di alcuni accenni occasionali (pp. 77, 79, 125, 139 sg.), Dain si serve di questo strumento ritmico quasi esclusivamente43 per spiegare la differenza che crede di vedere fra il peone (h g g g, g g g h) e il cretico (h g h) (pp. 27, 75): il primo sarebbe un ‘piede’ e varrebbe cinque more, il secondo sarebbe una ‘dipodia’ (e cioè un metron) e, configurato come ⏗ g h oppure h g ⏗ (riportato, cioè, a ritmo giambico o trocaico), varrebbe sei more. È strano che non utilizzi mai il pericoloso strumento ritmico e che rinunci a servirsene anche là dov’è tradizionale usarlo, e cioè nella trattazione dei versi cretico–giambico–trocaici di Eschilo (pp. 127, 129 sg.). Ma è, tutto sommato, incoerenza salutare, giacché il voler ridurre, come i musicalizzanti hanno fatto, quei versi a misurazione giambico– trocaica, mettendo i cretici sul letto di Procruste, è arbitrio antistorico: quello che era possibile dal quarto secolo in poi (si pensi al P. Oxy. 220), dopo le ultime grandi polemiche sulla ‘musica nuova’, non può esser preso come regola dal quinto secolo in su. Ma ancor piú strano è che il cretico dei dattilo–epitriti (p.

|| 42 Ved., ad es., la Wortresponsion di W. Kraus, Strophengestaltung in der gr. Trag. I. Aischylos u. Sophokles, «Sitzungsber. österr. Ak. d. Wiss.», Phil.–hist. Kl., B. 231, Abh. 4, Wien 1957 p. 28. 43 A p. 60 dà, inoltre, una sua scansione dei famosi ferecratei della Corianno di Ferecrate: ⏘ ⏘ . Da un ferecrateo si otterrebbe cosi un dimetro anapestico (?).

hh ggh

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113 sg., dove lo chiama proprio cretico!) venga da lui accettato come perno d’inversione del ritmo da discendente ad ascendente, secondo la proposta di Irigoin44, che chiama il fenomeno ‘retrogradazione ritmica’: ad esempio, nel verso pindarico || h g g h g g h x h g h x h g g h g g W il cretico centrale avrebbe la funzione di rovesciare la dinamica del ritmo. Ma se il cretico ha da restar cretico, e va configurato, come s’è visto che Dain altrove vorrebbe, nelle forme ⏗ g h e h g ⏗, non potrà servire da perno d’inversione ritmica, perché nel primo caso sarebbe un metron giambico (che è e resta ascendente) e nel secondo caso sarebbe un metron trocaico (che è e resta discendente). E, anche a voler seguire Dain nella sua bizzarra distinzione fra peoni e cretici, che nei dattilo–epitriti il cretico resti cretico ce lo dice il fatto che la soluzione peonica è del tutto eccezionale. Se quindi si vuol vedere il cretico nei dattilo–epitriti e se si vuol dare ad esso valore di ‘retrogradazione ritmica’, bisognerà lasciargli il valore di cinque more, rinunciando, com’è senz’altro consigliabile per molte altre ragioni, alle lunghe di tre tempi. Il libro è ricco di suggestivi inquadramenti storici, come là dove (p. 192 sgg.) si parla delle forme che si affermano via via nella poesia antica, dall’epos alla tragedia, o dove (p. 216 sg.) si accenna ai rapporti del pubblico colla produzione poetica45, o dove in poche pagine di esemplare chiarezza (pp. 230–233) si proclama l’impossibilità di stabilire un ethos ritmico delle varie forme metriche46. Abbiamo qui il Dain migliore, quello di Les manuscrits, per intenderci, che si muove da gran signore nel campo dei nostri studi e che con poche parole rende chiari complessi problemi. E grati dell’A. dobbiamo essere per aver egli voluto inserire nell’opera un conciso e chiaro panorama storico delle dottrine metriche moderne (pp. 9–11). Ci sembra necessaria, solo, qualche precisazione. Se si vuol proprio fissare una data di nascita al manuale metrico moderno, che sostituisce

|| 44 Recherches cit., spec. p. 41 sgg. 45 A p. 218 un’osservazione interessante, riguardante l’allusione (per cui Dain si richiama al noto scritto del nostro Pasquali) che si esercita a teatro e che si riferisce ad altri pezzi di teatro. Che memoria si doveva supporre nell’ascoltatore, se, sprovvisto com’era di libri, gli si chiedeva di ricordare quello che spesso aveva sentito solo una volta! Il rapporto fra pubblico e spettacolo, per venir caratterizzato efficacemente e senza l’applicazione di categorie moderne, impone che si tenga conto anche di fatti di questo genere. 46 Si potrebbe andare oltre, e dimostrare che non solo precettistica etico–ritmica non viene realizzata nelle opere concrete (il che avviene sempre, anche dove vi siano nella teoria ferree leggi), ma che addirittura non esisteva una teoria del ritmo poetico che fosse anche lontanamente paragonabile con quella dell’ethos musicale. Ma il discorso si amplierebbe troppo, e lo rimandiamo.

La metrica come disciplina filologica | 177

finalmente Efestione in voga da due secoli e mezzo, si deve ricordare, di Hermann, non lo scolastico Handbuch der Metrik del 1799, bensì il De metris poetarum Graecorum et Romanorum, che è del 1796 e che segna l’introduzione nella cultura filologica di famosi concetti hermanniani, come anacrusi, base eolica etc. Piú grave ci sembra l’affermare del famoso libro di Meillet, Les origines indo–européennes des mètres qrecs (1923), che esso è «l’unico studio in cui sia stata abbordata la storia primitiva dei ritmi». In realtà esso non è l’unico, e neanche il primo. Infatti, già Bergk nel 185447 aveva affrontato il problema delle origini dell’esametro, segnando la via all’Altgriechischer Versbau di Usener, che è del 1887. Che se poi si voglia trovare qualcuno che abbia, prima di Meillet, avviato l’impostazione del problema su basi comparative, va ricordato che in Westphal, in un lavoro del 186048, si deve riconoscere il vero precursore di Meillet. Solo, Westphal aveva visto la metrica iranica come a mezza strada fra il sillabico e il quantitativo e non aveva capito che i due piani erano distinti e, per esempio nella metrica vedica, coesistenti, come coesistenti sono nella metrica eolica (ferma restando la fissità di numero delle sillabe, libertà di distribuzione degli elementi quantitativi non significa indifferenza al principio di quantità). Il passo fu fatto da Meillet, senza che peraltro egli menzionasse il suo predecessore. A lui va quindi solo il merito, che non è comunque piccolo, di aver comparato direttamente colla metrica vedica solo quella eolica (che è, appunto, sillabica, ma nello stesso tempo anche quantitativa), distinguendola dalla metrica ionica, che diventerà a sua volta esclusivamente quantitativa, coll’introduzione dell’equivalenza di due brevi a una lunga49. Il Traité di Dain è certo piú ricco di quanto appaia da questo poco che se n’è detto, in parziale dissenso. Esso nasce dall’esperienza e dall’insegnamento e vuol guidare un’esperienza viva, che faccia ritrovare «come il poeta greco sentiva i versi che scriveva» (p. 7, cfr. 239 sgg.). È questo l’unico modo di reinserire la metrica, troppo spesso ridotta a calcolo numerico e ad astratta speculazione, nella storia dell’antichità. Ma, per questo occorre rieducare pazientemente l’o|| 47 Th. Bergk, Ueber das älteste Versmass der Griechen, Progr. Freiburg i. Br. 1854 (= Kl. Schr., II pp. 392–408). 48 R. Westphal, Zur vergleichenden metrik der indogermanischen völker, «Kuhns Zeitschr.» 9 1860 pp. 437–458. Il metodo fu seguito da Fr. Allen, Ueber dem ursprung des homerischen versmasses, ibid. 24 1879 pp. 556–592. Pochi conoscono poi l’ultima opera di Westphal che, stampata quand’egli era già sul letto di morte, porta il significativo titolo di Allgemeine Metrik der indogermanischen und semitischen Völker auf Grundlage der vergleichenden Sprachwisenschaft (Berlin 1892). 49 Meillet, Les origines, cit., p. 43 sgg.

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recchio a sentire quello che non si deve considerare come perduto, e cioè il ritmo delicato dei versi antichi, almeno con qualcuno degli elementi che lo costituivano. Dain arriva a raccomandarci la lettura a voce alta (p. 262). Sembra di ritrovare l’antico entusiasmo delle splendide pagine introduttive dell’Epitome doctrinae metricae di Hermann (1818), che era pure un manuale destinato a scopi pratici, dove il grande filologo riportava a immediata appercezione ritmica di orecchio educato leggi che già ai suoi contemporanei potevano apparire astruse50. Ma Dain va oltre: ci consiglia addirittura di tradurre (p. 247 sgg.), per meglio immedesimarci nel ritmo dei versi, e ci dà dei saggi, suoi e di altri. Croce disse brillantemente che «le traduzioni non vengono mosse dalla impossibile speranza di dare degli equivalenti, ma ... dal desiderio di carezzare la poesia che ci ha recato piacere: di carezzarla coi suoni della lingua che ci è nativa o familiare»51: esse sono, in sostanza, espressioni di un atto d’amore. Schroeder, l’austero Schroeder che spaventò tanto colla ‘matematica’ dei suoi Cantica lavorava in stato d’entusiasmo, οἴνῳ συγκεραυνοθεὶς φρένας. E alla fine del suo Grundriss scriveva: «Come ogni serio impegno scientifico, cosí anche lo studio dei versi greci porta con sé molta fatica, fino al punto di renderci ottusi, finché poi nasce quel che ci aiuta a superare ogni fatica e che la fa feconda, l’amore».

|| 50 Hermann ci mostra quanto profonda fosse la sua exercitatio aurium (p. VI), elencandoci (p. X sgg.) una serie di strappamenti anapestici in Aristofane e valutandone con raffinatezza i diversi gradi di ‘accettabilità’ ritmica. Sono pagine memorabili, che tutti quelli che si accostano alla poesia antica dovrebbero conoscere. 51 B. Croce, Goethe, I, Bari 41946 (11918) p. IX.

[Recensione] CESARE QUESTA, Introduzione alla metrica di Plauto (Testi e manuali per l’insegnamento universitario del latino, Collana dir. da Alfonso Traina, 4), Bologna, Pàtron 1967, pp. XII–282 Questo libro colma una grossa lacuna nel campo dei nostri studi. Mancava infatti una trattazione aggiornata della metrica plautina. Ma si può dire tranquillamente che mancava in assoluto qualcosa che trattasse l’argomento in forma manualistica e pratica e nello stesso tempo per esteso, giacché per l’unica pubblicazione comparabile con la presente dobbiamo risalire molto indietro, all’introduzione metrica dei Captivi di Lindsay (1900), che è però piuttosto succinta. La farragine dell’Early Latin Verse, sempre di Lindsay (1922), e la presenza di molte prese di posizione personali non lo raccomandavano, infatti, a chi cercasse un comodo strumento di lavoro. E le trattazioni inserite nei classici manuali di metrica latina erano insufficienti, per ovvie ragioni di economia di struttura. Si aggiunga che, negli ultimi cento anni, il campo era stato arato da alcuni dei piú grossi nomi delle nostre discipline: Ritschl, Meyer, Leo, Skutsch padre e figlio, Fraenkel, Drexler. Si sentiva quindi urgente bisogno di vedere ordinato l’immenso materiale accumulatosi, anche per poter dare il proprio valore storico ai singoli momenti della ricerca. E questo è, in linea generale, quanto ci offre la presente Introduzione. Da questo punto di vista non è azzardato affermare che il lavoro farà epoca. A chi si fosse aspettato un manuale che comprendesse tutta la poesia arcaica latina, si può rispondere che questo lavoro è anche una manifestazione di buon metodo. È indiscussa infatti, almeno oggi, l’importanza metodica delle trattazioni limitate a un singolo autore. Il campo degli studi di metrica latina ce ne ha offerti alcuni esempi (si pensi alle numerose ricerche autonome su Catullo, Virgilio, Orazio, Ovidio e in genere sugli esametrici argentei), ma si trattava per lo piú di ricerche volte a determinare le singole caratteristiche di stile dei vari autori. Per il particolare sviluppo storico della lingua latina, un lavoro sulla metrica di Plauto dev’essere anche e, direi, soprattutto volto a individuare una vera e propria langue metrica, legata a una situazione linguistica e culturale del tutto particolare – di cui Plauto è, per l’abbondanza di materiale conservatoci, di gran lunga il maggiore rappresentante – e completamente distinta da

|| [Recensione pubblicata in «RFIC» 96, 1968, pp. 60–68]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-008

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quella che si troverà solo un secolo piú tardi. Avendo gettato cosí solidamente le basi, Questa ci darà sicuramente in seguito, vogliamo sperare, un’appendice terenziana e scenica arcaica: ma dobbiamo essergli grati di aver saputo dare una fisionomia precisa a questo suo primo lavoro d’insieme. Le osservazioni e le critiche che gli si faranno qui di seguito saranno solo di dettaglio, e spesso si tratterà di questioni ancora controverse, da lui del resto sempre presentate problematicamente come tali; altre ne potranno venire in futuro da chi si sarà servito per lungo tempo di questo libro eccellente come falsariga nell’insegnamento universitario e come sussidio nella ricerca scientifica: ma nessuna potrà mai offuscarne il piú grande merito, che è quello di essere finalmente sui nostri tavoli, a portata di consultazione. Il manuale è diviso in una sezione prosodica (pp. 1–118) e una sezione metrica (pp. 119–269). Nella prosodia si tratta delle divergenze dal latino piú tardo spiegabili linguisticamente (quantità e gruppi consonantici originari, caduta di fonemi finali), prodelisione, fonemi intervocalici, sincope e anaptissi, muta e liquida, correptio iambica (= CI), abbreviamento per enclisi (‘Kürzung durch Tonanschluss’), sinizesi e sinalefe, vocalis ante vocalem, iato, varia morfologici (nome, pronome, verbo, avverbio e preposizione, parole greche); nella metrica si premette una trattazione di quelle leggi della versificazione plautina per le quali, essendo proprie di piú d’un tipo di verso, è estremamente vantaggioso avere un quadro complessivo e chiaro con l’indicazione dei πρῶτοι εὑρεταί (il primo che ne sia stato fatto, a quanto so), e si segue con i versi giambici e trocaici, cretici e bacchiaci, anapestici, col colon reizianum e il versus reizianus, coi versi ‘eolici’, ionici, e con un capitolo d’insieme sul problema dei cantica, che dà notizia degli altri, piú o meno identificabili, versi o cola lirici. Tutto il libro è elaborato sotto il segno della prudenza: vd., ad es., le sensate posizioni a proposito della possibilità di ammettere sinizesi o CI (p. 83 sg.), vecchio problema che aveva opposto a suo tempo Lindsay (sinizesi) e Franz Skutsch (CI). Il lettore troverà, sparsi qua e là, preziosi suggerimenti di studio ulteriore: p. 163, osserv. 2 (prepositive e pospositive in rapporto a pause di vario tipo e a fine di verso: necessità di uno studio che tenga d’occhio contemporaneamente la natura linguistica del materiale trattato e le condizioni metriche del suo apparire); p. 243 (necessità di un controllo metrico–prosodico dei tormentati versi anapestici); p. 258 (necessità di ulteriori e piú precise classificazioni dei versi cosiddetti eolici); p. 263 sgg. (semplice impostazione dei problemi riguardanti i cantica, per i quali Questa stesso ha già dato numerosi contributi particolari, ora comodamente riuniti in Due cantica delle Bacchides e altre analisi metriche, Roma 1967); e cosí via. Il manuale viene cosí ad assumere nello stesso tempo anche l'aspetto di un Bericht critico, e speriamo che Q. o altri si pro-

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pongano di seguire tali preziosi spunti. Anche il lettore frettoloso dovrà fermarsi sulle chiare parole introduttive (p. 5 sgg.) sulla lingua di Plauto, sulla tradizione manoscritta, sui problemi grafici (pp. citt. e pass.: pp. 24 sgg., 88, 103 n. 1 etc.). A p. 67 si troverà un ottimo inquadramento storico–linguistico della CI, che è vista, ovviamente, come un fatto di lingua. Dovunque è rintracciabile la consumata esperienza di chi ha lavorato per anni sui manoscritti plautini (vd. l’edizione delle Bacchides, Firenze 1965). Ma i pregi maggiori vanno identificati, a mio parere, nel rigoroso inquadramento storico della ricerca moderna, che risalta chiaramente nel suo progressivo lento sviluppo dalle nutrite note bibliografiche in fine dei singoli capitoli. L’indice dei passi plautini, poi, costituisce a tutt’oggi il piú comodo ed esteso commento perpetuo metrico a Plauto per quanto riguarda i metri recitativi e i versi lunghi, una specie di ‘Schroeder’ plautino: le osservazioni metriche di Leo, infatti, vanno faticosamente estratte dal suo apparato o dalle Plautinische Forschungen e l’appendice metrica di Lindsay ha interesse sostanzialmente solo per i versi lirici. Quanto alle famose complicate leggi del verso plautino, o ‘norme’, come le chiama Q., le troviamo qui per la prima volta – come s’è detto – comodamente elencate e chiaramente esposte: R i t s c h l (p. 125 sgg.: divieto dell’elemento strappato, come || tu mágnŭs ămátor); H e r m a n n – L a c h m a n n (p. 129 sgg.: divieto delle due brevi finali di parola, come || comoédi(a) út sit ómnĭbŭs ísdem... ; la presente e la precedente insieme corrispondono a quello che in greco è il divieto dell’anapesto strappato, g | g h e g g | h [p. 132, osserv. 1]; e vd. la felice formulazione comune delle due leggi a p. 135, valida per giambi, trochei, cretici, bacchei: «nessun elemento bisillabico può essere formato, fuori delle sedi con licenza [– che sono il secondo elemento di tutti i versi e il decimo dei versi lunghi, p. 135 sgg. –], da parola che inizi prima di esso e termini all’interno o con esso stesso elemento»); F r a e n k e l –T h i e r f e l d e r –S k u t s c h (p. 144 sgg.: divieto di longum bisillabico preceduto da elemento bisillabico strappato, come || mágnă făcĭnora: riguarda trochei, anapesti, cola reiziana); J a c o b s o h n (p. 151 sgg.: ammissione di alcuni elementi che appaiono come quasi indifferenti in determinate sedi del verso: riguarda i versi giambici e trocaici); norma d e l m o n o s i l l a b o e d e l b i s i l l a b o p i r r i c h i o (p. 157 sgg.: evitati in fine, in dieresi, in incisione: riguarda i versi giambici, trocaici, cretici, bacchiaci); B e n t l e y – L u c h s (p. 188 sgg.: divieto, in fine o in dieresi, di ‘ritornello’ giambico, e cioè di fine di parola dopo giambo che precede il giambo in pausa o dieresi, come … ăquám vĕlím | (|) o … fīlĭúm sŭúm ||; riguarda i versi giambici e trocaici); M e y e r (p. 194 sgg.: divieto in alcune sedi, per es. in seconda e quarta del senario, di fine di polisillabo se l’elemento precedente è lungo o bisillabico, e cioè divieto di ... J h́ | …, come || satis ést

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nūmquām; riguarda anch’essa i versi giambici e trocaici); S p e n g e l – M e y e r (p. 224 sgg.: estensione della legge di Meyer a quei rari versi cretici e bacchiaci in cui l’elemento usualmente breve sia eccezionalmente lungo o bisillabico); M e y e r per gli anapesti (p. 242 sg.: divieto di fine di parola piú che bisillabica 2,6 in caso di quarto e dodicesimo elemento bisillabico: obbligo cioè di ... JbJb … [lo schema manca, in Q., ed è opportuno, per chiarezza]; eccezionale un verso come || ita mé Toxĭĺŭ(s) perfábricavít |). Le leggi sono alle volte esemplificate con ottimi exempla: per es. (p. 133), un verso come Eur. Bacch. 731 ἣ δ’ἀνεβόησεν· ὦ δρομάδες ἐμαὶ κύνες, perfettamente regolare nel greco, violerebbe in latino le leggi di Hermann–Lachmann (δρομάδες) e di Bentley–Luchs. Qua e là osservazioni da vero conoscitore della metrica e della lingua: Au. 66 quod me sollicitat plurumis mĭsĕrúm mŏdís presenta un ordo verborum decisamente artificioso (p. 193: piú naturale potrebbe apparire quod me sollicitat mĭsĕrūm plūrŭmīs mŏdís, ma la fine del verso darebbe violazione di Bentley–Luchs): caso di legge rispettata a tutti i costi, e direi che il consenso statistico, già cosí vasto, e da solo già sufficiente a stabilire una ‘legge’, è singolarmente rinforzato da una ‘intenzionalità’ ritmica cosí palese. Analogo il caso di Amph. 277 perge, Nox, ut occepisti; gĕrĕ pătrī mōrḗm mĕó dove il rispetto dell’usuale nesso morem gerere avrebbe dato gĕrĕ mōrḗm pătrī mĕó, con violazione di Meyer (mōrḗm) e di Bentley–Luchs. Risulta chiaro come una simile congerie di regole apparentemente cosí complicate guadagni ad essere considerata unitariamente. Le ragioni ritmiche di un divieto, per cui una certa sequenza veniva evitata o un’altra ricercata, erano certamente sentite dagli antichi, anche se tali ragioni non sono mai state esplicitamente dichiarate dai loro teorici, neanche per leggi come quella di Hermann dell’esametro greco e quella di Porson per il trimetro greco: noi non possiamo che proporci in forma dubitativa qualche spiegazione. E mi pare che, sulla strada di coordinare e spiegare le varie leggi, si possa andare anche un poco oltre al limite a cui si ferma Q. Per es., a p. 201 Q. dichiara, d’accordo con Jachmann, di non essere in grado di darsi una ragione della legge di Meyer. Decisivo mi sembra l’accostamento fatto a p. 202 fra Meyer e Bentley–Luchs, da cui però si ricaverebbe una specie di opposizione inconciliabile fra le due leggi («l’una esige nel penultimo longum del verso proprio quello che – alla stessa condizione: fine di parola nell’elemento considerato – l’altra proibisce, in precedenti longa del verso», e cioè: la non giambicità). A me sembra invece che esse si possano coordinare molto bene: prendendo il senario giambico, per es., l’una (Meyer) vuole evidentemente evitare nel corso del verso ‘equivoco anapestico’, che si avrebbe con parola o fine di parola anapestica (o spondaica), equivoco ritmico che è comunque evitato in fine di verso dalla generale prescrizione della purità del

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giambo finale. D’altra parte con Bentley–Luchs si tende ad evitare una eccessiva uniformità giambica in fine che sarebbe, come sopra, rinforzata da fine di parola giambica immediatamente prima della fine giambica del verso e che sarebbe in troppo forte contrasto con le libertà del resto del verso (libertà che restano forti, pur colle limitazioni di Meyer): seguendo le due leggi, si evita cosí l’impressione di trovarsi di fronte a un verso non unitario, costituito da cola di diversa natura ritmica (in questo caso si potrebbe avere l’impressione di colon anapestico piú colon giambico). In altre parole: Meyer tende ad attenuare l’impressione anapestica, Bentley–Luchs tende ad attenuare l’eccessiva giambicità, e cosí coordinate le due leggi salvano il difficile equilibrio di un verso cosí libero e vario ritmicamente come il senario (e ovviamente lo stesso varrebbe per gli altri versi giambici e per i versi trocaici). È per questo che non mi sentirei di sottoscrivere la classica spiegazione che si dà di Bentley–Luchs, e che Q. riporta a p. 193 («la doppia sequenza giambica finale poteva dare l’impressione di una doppia fine di verso»; se mai, di una ‘anticipata’ fine di verso). E che la spiegazione data sopra per Meyer (importanza della parola o fine di parola anapestica o spondaica) abbia buone probabilità di cogliere nel segno, ci viene confermato, alla luce del collegamento fra le due leggi, da una ‘eccezione’ a Bentley–Luchs. È noto che (Q., p. 190 sg.) fine di parola dopo giambo penultimo è permessa quando tale giambo sia preceduto da elemento bisillabico e appartenga, con esso, alla stessa parola: casi come ... nōn rĕcĭpĭāt măré ||, ... ắb ănĭmṓ pĕrít ||, ... ŭ́b(i) hăbĭtāt sĕnéx || sono ammessi, anche se a rigore si abbia la sequenza proibita ... g h | g W. Ma, pur essendo il penultimo piede –pĭāt, –nĭmō, –bĭtāt, evidentemente l’orecchio avvertiva piuttosto le sequenze anapestiche –cĭpĭāt, – ănĭmō, hăbĭtāt, dove il senso dell’autonomia della parola ha la meglio sulla ‘conta’ delle lunghe e delle brevi, e cioè sul nudo senso ritmico: si tratta di un importante fatto di métrique verbale rimasto finora in ombra, a quanto so. Là dove Meyer vietava l’anapesto, sensibilizzato dall’isolamento verbale, qui Bentley–Luchs lo chiede. Le due leggi, ‘funzionando’ esattamente nello stesso modo, sono sí opposte l’una all'altra, ma abbiamo forse capito il perché. Tengo a ringraziare Q. per aver accolto alcune mie idee e proposte, della cui opportunità ci siamo vicendevolmente convinti nel corso di discussioni seguite in tempi lontani e vicini. Sorvolo sull’ictus, negando il quale sono stato a suo tempo in buona compagnia e della cui inesistenza anche Q. è stato sempre convinto: ovviamente gli accenti segnati e nel suo manuale e in queste righe hanno valore puramente orientativo. (O è un residuo di dubbio sulla possibile esistenza dell’ictus almeno nella poesia arcaica latina? Vd. « Ann. Sc. Norm. Pisa» S. II 33, 1964, 130. È un fatto che Q. non si compromette nell’interpretazione del divieto di ‘ictazioni’ del tipo făcĕrĕ. Ma si veda del resto la saggia prudenza di

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Drexler, uno dei campioni dell’ictus, nella sua recentissima Einführung in die römische Metrik, Darmstadt 1967). Q. si è poi deciso a saltare il fosso e a chiamare ‘quaternario’ etc. quello che impropriamente veniva finora chiamato ‘dimetro’ etc. (Q., Studi Schiaffini, « Riv. Cult. Class. e Medioev.» 7, 1965 p. 922 n. 17 = 923; l’aporia terminologica già notata, del resto, in Crusius, Röm. Metr. p. 71). A p. 246 accetta poi il mio concetto di ‘ambiguità ritmica’ (Ann. Sc. Norm. Pisa», cit., p. 124 sg.), nel senso che alcune pericopi dovevano esser sentite come ambigue dagli antichi stessi, e l’ambiguità ricercata alle volte dagli autori stessi (Q. già in Studi Schiaffini, cit. p. 921 = Due cantica, cit. p. 65; ma allora perché non seguire la stessa via qui a p. 219 n. 1 a proposito della difficoltà di distinguere, in alcuni casi, fra bacchei, cretici e giambi?). Ma soprattutto gli son grato di aver accettato termini e concetti che erano piú o meno impliciti nel chiaro sistema maasiano, senza che Maas avesse avuto sempre il coraggio d’imporli definitivemente: è questo il primo manuale di metrica in cui è coerentemente usato il termine e il concetto di ‘elemento’ metrico e di ‘elemento indifferente’ (finale), segnato quest’ultimo (come ultimo elemento del verso), con il punto coronato W (vd. questa «Rivista» 91, 1963, 52 sgg.; Q., p. 121 sg., 122 n. 1; e passim, negli schemi). Q. accetta poi (p. 147) la mia proposta di chiamare p r o n u n t i a t i o p l e n a (per ovvia analogia con s c r i p t i o p l e n a ) quello che doveva essere un fenomeno linguistico reale, e cioè la non realizzazione sonora del frequente fatto ‘metrico’ dell’elisione. È chiaro che le sillabe a cui appartengono le vocali ‘elise’ non contano per il computo degli elementi metrici necessari a costituire il verso, ma vari indizi ci danno prova del fatto che tali vocali non ‘sparivano’ (Q., p. 84, osserv. 1). Basterebbe pensare alla cosiddetta ἀντιλαβή nel teatro sia greco sia latino, e cioè alla divisione di uno stesso verso in battute di vari personaggi: essendo ammessa in ἀντιλαβή (come del resto nelle normali incisioni) la cosiddetta elisione, è da escludere che essa venisse realmente sentita come tale, che cioè la vocale finale non venisse pronunciata. Certo, affermare che «spariva la sillaba, ma non la vocale» è un po’ un espediente di comodo, che richiede pur sempre una spiegazione sul come si sentisse una vocale che non faceva sillaba. I modi saranno stati vari, ma sostanzialmente si sarà trattato di diverso grado di chiusura e conseguente quasi–consonantizzazione della vocale stessa (vd. Drexler, Einf. cit. p. 16 n. 15, che ha avuto la bontà di riportare un mio breve cenno sulla sinalefe in italiano: in selva oscura la –a di selva è sentita, non è elisa). Ora, Q. non va molto oltre ad una generica affermazione del fatto (già intravisto da Wilhelm Meyer, cit. da Q. a p. 129). Solo a p. 132, osserv. 2, a proposito di ‘eccezioni’ alla legge di Hermann–Lachmann (divieto delle due brevi finali), interpreta giustamente alcuni fatti come conseguenza della pronuntiatio plena. Prendiamo il caso di un nesso perfĭcĕr(e) ṓmnes: se si prende sul

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serio l’elisione, abbiamo due brevi finali di parola (–fĭcĕ–) e quindi violazione della legge. Ma come si spiega il fatto che casi del genere, e cioè con elisione, sono frequenti, in modo da formare delle lecite ‘eccezioni’? Q. dice giustamente che in tale sequenza «l’elemento bisillabico non è formato da sillabe finali, bensí dalla penultima e terzultima»; in altre parole, la vocale finale si conserva quel tanto che serve per far sentire –fĭcĕ– come n o n finali di parola. È un fatto simile a quello che abbiamo visto a proposito dell’eccezione tipo recipiat mare alla legge di Bentley–Luchs e cioè una nuova conferma della forte autonomia verbale. O si dovrebbe pensare alla fusione delle due parole, in modo da evitare in questo modo l’impressione di fine di parola? Certo, se ci trovassimo di fronte a questo fenomeno isolato, dovremmo contemplare anche questa possibilità e potremmo essere incerti su quale delle due abbia probabilità di esser la giusta: ma siamo di fronte a un sistema dove tutto si tiene, e i due fatti di métrique verbale (autonomia della parola) discussi sopra potrebbero già indirizzare su questa via. Ma le leggi plautine colle loro ‘eccezioni’ sono una vera miniera da questo punto di vista e ci forniscono una notevole quantità di fatti simili a quello qui messo in rilievo da Q.: rimando ad altra sede la continuazione della discussione, in cui riporterò il materiale, ripetendo qui ancora che lo sfruttamento di esso mi è reso possibile proprio dall’ordine e dalla completezza con cui lo trovo fornito da Q. Molte sono le questioni controverse che Q. ci porta a rimeditare. Per esempio, la questione della natura della dieresi mediana nei versi lunghi giambici e trocaici. Q. si decide senz’altro per equiparare tali dieresi alla fine di verso, e arriva fino a segnare come indifferente (W) l’elemento che le precede (p. 146 e passim, negli schemi). È vero che in dieresi mediana ci può essere, in Plauto, iato ed elemento indifferente (quest’ultimo rintracciabile solo nei versi lunghi giambici, il cui primo colon finisce in tempo forte: nei trochei invece finisce in tempo debole, che è ‘libero’ – o meglio ‘irrazionale’ – ovvero anceps, come continua a dire Q.); ma è anche vero che in dieresi abbiamo spesso elisione (o meglio, per quanto s'è detto prima, sinalefe) (Q., p. 146), il che è la piú forte prova contro l’equiparazione alla fine di verso, che non ammette, per definizione, sinafia verbale. La soluzione migliore sarebbe di considerarla una dieresi con qualche libertà. Vediamo qual è, infatti, la natura di questi versi cosiddetti lunghi. Il greco, col generalizzare la dieresi mediana, ma col trattare tale dieresi come una comune incisione (quindi solo fine di parola: non ammessi né lo iato né l’elemento indifferente), ne fa dei veri e propri a s i n a r t e t i , dove vigono le stesse leggi (vd. questa « Rivista» 94, 1966, 200 sg., spec. 200 n. 1). Ora, i latini si trovavano ad avere, già prima di importare piú o meno liberamente le forme poetiche greche, un verso che, misurato con criteri greci, si presentava come un

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vero e proprio asinarteto, il saturnio: ma esso aveva proprio, nella dieresi mediana, quelle libertà che assumeranno i versi lunghi plautini, e cioè iato ed elemento indifferente. Plauto potrebbe essere stato influenzato dalla tecnica del saturnio: è l’ipotesi di R. Klotz, Grundzüge altrömischer Metrik, Leipzig 1890, 146 (Q., p. 149), che mi pare meriti di essere rimessa in luce. Tanto piú che tali libertà scompariranno nei numerosi (e per questo adatti a precise statistiche) versi di Terenzio, che non le ammette affatto nei trocaici e solo rarissimamente nei giambici (Crusius, Röm. Metr. 69, 72): ritorno alla tecnica greca del vero asinarteto. Anche Orazio si permetterà tali ‘plautine’ libertà negli epodi 11 e 13: ma sarà correttamente archilocheo nell’ode 1,4 (vd. questa « Rivista» 94, 1966, 200 n. 1). Ma c’è di piú. Plauto, fra i suoi circa 8.500 settenari trocaici, ne ha circa 130 (F. Skutsch, Kl. Schr. 107–111, cit. da Q.) che hanno doppia breve in dieresi mediana: e qui è chiaro che un elemento realizzato da doppia breve non può esser sentito come indifferente (l’elemento finale è, per sua natura, monosillabico). Q. cerca (pp. 63, 148) di sbarazzarsi della difficoltà postulando che questi versi abbiano non dieresi mediana, bensí incisione altrove. Ma prendiamo alcuni esempi dalla lista di Skutsch: Aul. 594 retinere ad salutem, non enim | quo incubat eo impellere e 631 quae te mala crux agitat? quid tibi | mecum est commerci senex? hanno, chiara, la loro dieresi mediana (a meno di cadere nel piú inopportuno ‘sintassismo’) con elemento bisillabico (ĕnĭm, tĭbĭ). Quindi non diremo che qui Plauto possa aver «rinunciato alla struttura asinartetica» (Q., p. 148): ché anzi, proprio in casi simili vediamo che il senso dell’asinarteto non era del tutto obliterato, pur coll’ammissione, altrove, di libertà di cui, colla spiegazione ‘saturnia’, abbiamo visto una possibile ragione storica. Ugualmente mi sembra eccessivo considerare elementi indifferenti i cosiddetti ‘punti di Jacobsohn’ (p. 151 sgg., e pass., negli schemi, spec. nella preziosa sinossi ritmica di p. 187). Si tratta di irregolarità metriche, o di violenze prosodiche che lasciano intatte le quantità metriche. È un vecchio problema, che ben conosce chi ha a che fare coll’esametro omerico. Io propenderei per una soluzione intermedia, che li apparenterebbe alla Endsilbendehnung omerica (da non confondere colle altre Dehnungen epiche), che si trova praticamente sempre in incisione: libertà collegata in qualche modo col fatto dell’incisione. Non mi nascondo che sono problemi ancora aperti: e non li risolverei cosí drasticamente. Il concetto d’indifferente finale, e il segno che lo rappresenta, vanno riservati a quel fatto unico, che si realizza in condizioni particolari e chiaramente individualizzabili, che è la fine del verso. Un problema a parte è rappresentato dalla possibilità, di fronte a sequenze anapestiche, di considerarle: a) come ottonari, eventualmente chiusi da settenario; b) come quaternari, eventualmente chiusi da ‘paremiaco’; c) come siste-

rec. C. Questa, Introduzione alla metrica di Plauto | 187

mi (Q., pp. 229–239). Anche qui la soluzione dipenderà dal valore che si darà ad una eventuale dieresi mediana (per decidersi fra versi lunghi e quaternari) e dall’apprezzamento delle libertà prosodiche che si riscontrino nel corso di un eventuale sistema. Ma i versi anapestici in particolare, come s’è visto, attendono ancora una sistemazione definitiva. Non mi dilungo con una serie di minute osservazioni particolari e con un elenco dei pochi errori di stampa da aggiungere al del resto esiguo ‘errata’, distribuito in foglio a parte: ambedue le cose sono state comunicate personalmente all’A. C’è qui ancora da dire che l’uso sarebbe facilitato da un indice delle parole latine discusse e soprattutto da un indice delle cose notevoli. Resta da augurare lunga fortuna a questo prezioso strumento di lavoro e da congratularsi coll’A. e col direttore, Alfonso Traina, di una collana che ha conosciuto ormai un collaudato successo.

[Scheda bibliografica] RAVEN D. S., Greek Metre. An Introduction. London, Faber and Faber 21968, pp. 127. Seconda edizione (1a 1962) di un piccolo manuale, che si propone d’introdurre il profano col minimo sforzo. L’A. ha parzialmente profittato delle critiche mosse alla prima edizione (spec. da J. V. Halporn, «Class. Journ.»1963, 85 sg.; D. Korzeniewski, «Gnomon» 1963, 123–7; L. P. E. Parker, «Class. Rev.» 1963, 313–5). Ma il difetto di fondo è rimasto, e cioè grave incertezza e confusione nei concetti fondamentali. Come si son potute conservare definizioni come quella di sistema (§ 3) e confusioni come quella fra verso e colon (§ 8)? Ci si chiede poi l’utilità di un discorso che cominci dalla strofe, prima di (e parzialmente senza) aver chiarito tante altre cose. Il principiante, per non correre rischi, dovrebbe avere le conoscenze di un tecnico. È stata aggiunta una breve bibliografia (p. 12).

|| [Scheda bibliografica pubblicata in «RFIC» 97, 1969, p. 254]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-009

[Recensione] DIETMAR KORZENIEWSKI, Griechische Metrik (Die Altertumswissenschaft Einführungen in Gegenstand, Methode und Ergebnisse ihrer Teildisziplinen und Hilfswissenschaften). Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1968, pp. IX, 216. Piú volte è stato detto, in passato, che il dialogo fra metricisti è come un dialogo fra sordi. Se però questo era vero qualche decennio fa, oggi è sicuramente meno vero. Si va lentamente raggiungendo una κοινή, e in un campo in cui i concetti fondamentali e la stessa terminologia erano quasi per intero in discussione. In parte ancora lo sono: e a questo si deve se qui viene liberamente espresso qualche dissenso. Inoltre vengono costantemente superati vecchi errori e si affrontano i documenti con rinnovato senso critico, continuando a raccogliere e ad ordinare il materiale; e si abbandonano, soprattutto, vecchie teorie senza fondamento, per tornare a quel sobrio e severo contatto coi testi che ci è stato rinsegnato da Paul Maas colla sua tendenza alla ‘descrizione’ prudente e all’observatio. Di tale processo è brillante testimonianza l’ottimo manuale che abbiamo davanti. K. ha raccolto in un agile libretto, che ci viene presentato in perfetta veste editoriale, tutto quello che allo studioso è necessario conoscere per muoversi nel campo non facile della metrica. Ci sarebbe forse oggi da domandarsi se non sia tramontato il tempo dei manuali e se non sia venuto il momento di scrivere delle monografie – o di rinnovare le poche già esistenti – soprattutto su singoli autori o su generi ben delimitati nel tempo e nello spazio: Pindaro, i tragici, la commedia antica e nuova e cosí via. Da un approccio di tal tipo, piú concretamente storico, si avvantaggerebbero sicuramente vecchi problemi ancora insoluti, come quello dell’interpretazione di segmenti ritmici apparentemente uguali che emergono in epoche e in generi diversi: penso al docmio, per esempio, che non sappiamo ancora di sicuro se sia o no creazione della tragedia. Ma K., adempiendo ad un compito tradizionale, ci ha dato un manuale ricco di observatio di prima mano, che aumenta notevolmente la nostra disponibilità di materiali. È questa, forse, l’unica condizione che può rendere accettabile un nuovo manuale: e K. la realizza in modo piú che soddisfacente. La disposizione è la classica: nozioni generali, prosodia, versi recitativi, versi lirici. Da segnalare, in fine, la presenza di eccellenti indici: luoghi, nomi e co-

|| [Recensione pubblicata in «RFIC» 97, 1969, pp. 314–323]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-010

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se, autori moderni. L'esametro apre la serie dei versi trattati, ed è del tutto naturale, essendo esso il verso piú antico che ci sia testimoniato: ricercarne antenati lirici, piú o meno lontani nel tempo, è ormai considerata impresa disperata e, forse, addirittura ingiustificata. Segue il distico elegiaco con una descrizione del pentametro, che veramente sarebbe stato meglio considerare, come già faceva Efestione (p. 51. 20 Consbr.), come un asinarteto (tipo di verso a mezzo fra il recitativo e il lirico, il che risponde anche al tipo di recitazione, accompagnata dall’aulo: vd. «Riv. di filol.» 94, 1966, 200 sg.), trasferendo il distico alla trattazione delle strofi epodiche. K. dedica poi un capitolo al problema del cosiddetto dattilo ciclico, in cui accetta le conclusioni di un mio lavoro: delle sue osservazioni particolari ho fatto tesoro e ne esporrò il frutto altrove, trattandosi qui di un problema marginale. Seguono il trimetro giambico collo scazonte, il tetrametro trocaico, il trimetro (Call. ia. 12 = fr. 202 Pf.) e il pentametro trocaico (Call. fr. 399 Pf.); infine, una utile appendice (p. 7l sg.) sulle simmetrie a cui sono talvolta sottoposte sequenze di versi recitativi (segnaleremmo qui quanto per la commedia ha messo in rilievo C. F. Russo, «Belfagor» 23, 1968, 317–324). Si sente la mancanza, in questa sezione, degli anapesti recitativi, che verranno trattati (pp. 87–95) subito prima dei lirici (vd. comunque la giustificazione a p. 88: gli anapesti di marcia prenderebbero un posto intermedio fra versi recitativi e lirici; ma allora perché mettere senz’altro i versi ‘lunghi’ fra i recitativi e trattare gli asinarteti e gli epodi fra i lirici, visto che anch’essi sono ‘intermedi’?). I versi lirici, a loro volta, comprendono dattili, anapesti, giambi, trochei, cretici, coriambi, ionici: tutti costruiti κατὰ μέτρον, secondo la felice distinzione di Snell, già in nuce in Maas. I lirici costruiti non κατὰ μέτρον sarebbero gli asinarteti (ai quali si aggiunge una esauriente trattazione della strofe epodica), i versi eolici, i dattilo–epitriti (con la trattazione delle altre specie di versi che compaiono in Pindaro e Bacchilide). Segue l’analisi di alcuni cori tragici, che illustra la mistione di metri in essi adottata, un breve capitolo sul docmio (che viene riconosciuto, certo a ragione, solo nella tragedia) e infine l'interpretazione di un contesto piú ampio, la parodo dei Persiani di Eschilo, e del finale dei Persiani di Timoteo. Il manuale è chiuso da una breve sintesi (pp. 186–196), dove il principiante potrà trovare, comodamente raccolto e schematizzato, tutto l’essenziale per i singoli tipi di verso. Si vede come, in fondo, la struttura del manuale stia salutarmente a mezzo fra il manuale di vecchio stampo e la monografia di cui si è parlato sopra: il dramma attico è trattato a parte e cosí Pindaro e Bacchilide. Tale disposizione, che ha il vantaggio della concretezza storica, non è peraltro senza qualche inconveniente. Il baccheo, p. es., non gode di una trattazione a parte, mentre la meriterebbe (a p. 100 sg., in Eur. Bacch, 994, si tratta senza dubbio di bacchei, e

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non di giambi sincopati – e del resto K. stesso ha dei dubbi sull’interpretazione giambica – : che si tratti di bacchei è reso sicuro dalla funzione modulante che essi hanno, come passaggio da docmi a giambi veri e propri): lo si poteva almeno mettere insieme coi cretici, come avviene in molti altri manuali (casi famosi di bacchei, come p. es. Aesch. Ag. 1103 sgg. e Prom. 115, non sono trattati da nessuna parte). Inoltre l’itifallico, anch’esso senza fissa dimora (allo stesso modo del lecizio, che però piú facilmente si lascia interpretare come dimetro trocaico catalettico, vd. p. 109), ondeggia fra trochei κατὰ μέτρον (p. 109 sg.) e asinarteti–epodi (p. 123 sgg.): si tratta di un verso (talvolta, naturalmente, trattato come semplice colon) strettamente unitario, di una cellula ritmica indipendente, come il docmio, che si sarebbe giovato di una trattazione distinta e unitaria. Nelle istituzioni di base il giudizio di K. è sano e le sue formulazioni molto chiare. Con particolare gioia è da salutare l’inconsueto accento che viene posto sulla distinzione di concetti fondamentali, spesso confusi, come quelli di elemento (p. 5, in.), colon, verso, periodo (p. 9 sgg.; cfr. «Riv. di filol.» 94, 1966, 186–195). K., a differenza di altri che ignorano completamente il periodo e altri ancora che praticamente lo identificano col verso (Snell; J. Irigoin, ΚΩΜΩΙΔΟΤΡΑΓΗΜΑΤΑ, Studia Koster, Amsterdam 1967, 65–73), distingue nettamente l’uno dall’altro, definendo il periodo come una strofe in miniatura (p. 12), come l’unità ritmica, cioè, immediatamente superiore al verso, ma da esso distinta. Il raggruppamento di versi in un singolo periodo dev’essere purtroppo spesso lasciato all'arbitrio, e cioè all’ ‘orecchio’, del metricista: ma è scorretto chiudere gli occhi di fronte alla realtà del periodo solo perché è difficile identificarlo con esattezza. Occorre, in altre parole, compromettersi, pur colla coscienza di operare un parziale arbitrio, e K. lo fa. Il discorso sarebbe, qui, troppo lungo: osserveremo solo che qualche volta traspare in questo campo la eccessiva descrittività del Pindaro di Snell, per cui vengono segnati con | (di per sé semplice finis verbi, p. 3) dei luoghi nei quali tanto varrebbe compromettersi segnando || (pausa, e cioè finis versus vel periodi), anche se in quel punto non ci sia, a conferma, iato o elemento indifferente. Ma non converrebbe addirittura, per esser coerenti fino in fondo, distinguere sempre fine di verso e fine di periodo (vd. proposte in «Riv. di filol.» 94, 1966, 197 n. 1)? Quanto al colon, unità ritmica immediatamente inferiore al verso, ottime sono le notizie che K. ci dà a p. 9 sg.: e giustamente propone di chiamare ‘ s t i c o m e t r i a ’ la divisione in versi, per distinguerla dalla c o l o m e t r i a (nome che comunemente si dà alla prima), che è stata l’unica operazione che gli antichi hanno realizzata (Aristofane di Bisanzio etc.). La colometria era volta soprattutto a scopi pratici, e cioè alla disposizione editoriale nella pagina di papiro, in genere troppo stretta per contenere i

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lunghi versi lirici, ma adatta alla misura dei cola: il problema è familiare a chi conosce le giuste osservazioni rivolte a suo tempo da Irigoin al Bacchilide di Snell. Ma si tratta di questioni destinate a rimanere aperte fino a che non si siano esaminati con questa precisa finalità tutta la poesia corale e tutti i cori del teatro. Ribadirei solo che, quanto a verso o periodo, l’ultimo elemento non è sempre lungo (p. 8), bensí indifferente, ed è la sillaba che lo realizza ad essere o veramente breve o veramente lunga (vd. «Riv. di filol.» 91, 1963, 52–71): è praticamente da tale non chiarito equivoco che è nato il termine brevis in longo (p. 9: Maas), a proposito del quale già si è sentito un certo disagio (A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama2, Cambridge 1968, 26 n. l, e già «Gnomon» 28, 1956, 193; vd. «Riv. di filol.» 91, 1963, 63 sg. e n. 1). Non arriverei poi mai ad accettare doppio elemento indifferente, come K. tenderebbe a fare a proposito dello scazonte (e cfr. pp. 9, 73, dove, a proposito della famosa responsione del Parteneo di Alcmane, parlerei senz’altro di anaclasi!). Il confine di verso, poi, mi sembra un fatto di tale dominante importanza, specie nel verso recitativo, che non mi parrebbe il caso di ricercare un particolare comportamento dello ‘iato fra versi’ (p. 60 e n. 70): esso sarebbe presente specialmente in casi in cui ci sia una Sinnespause. K. si rifà a vecchie statistiche di Harrison («Class. Rev.» 55, 1941, 22– 25; 57, 1943, 61–63), che però non danno risultati univoci e possono solo debolmente provare una certa ‘tendenza’; e ugualmente a p. 175 si dà troppa supplementare importanza ‘compositiva’ a uno iato fra versi lirici. Lo iato, direi, limita semplicemente un verso dall’altro e quando esso è assente si tratta solo del libero non uso di una licenza permessa dal sistema: in altre parole, colla sua forte pausa, il confine di verso, confermato da un eventuale iato, era certamente un fatto ritmico di tale preponderante importanza – specialmente, ripeto, nel verso recitativo, soggetto ad una precisa ‘attesa’ da parte dell’ascoltatore, nel suo fluire stichico regolare – da rendere irrilevante la distinzione dei casi in cui iato fosse presente o no. Un altro, fra i non pochi, dei problemi ancora in discussione è quello del valore ritmico che potrebbero avere certe sequenze metriche: c’è da ammettere giambo–trochei cosiddetti sincopati, e cioè, p. es., cretici (h g h) e bacchei (g h h) che abbiano valore di giambi o trochei (pp. 6 sg., 100, 104)? In realtà quello che potrebbe deciderci ad assumere lunghe di piú di due tempi sarebbe soltanto la musica, purtroppo perduta, e K. (pp. 100 sg., 103) esprime prudenti dubbi: ma come fa a p. 104 a stabilire con tanta certezza che, in determinati contesti citati, itifallici e lecizi abbiano carattere ora giambico ora trocaico? Direi che almeno dalla strofe asinarteto–epodica archilochea 4dagg | ith || 3ia^ tutt’altro ci sia da ricavare che un carattere giambico dell’itifallico: perché voler sentire l’itifallico ‘ascendente’ coi giambi che seguono, e non ‘discendente’ coi

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dattili che precedono? Ma cosí anche, fra gli altri esempi riportati, in 2ia | lec ||, per cui si vuole valore giambico del lecizio, e dove è se mai da vedere proprio una contrapposizione ritmica voluta (giambico–trocaica) fra cola componenti l’asinarteto. Per le lunghe di piú di due tempi abbiamo testimonianza della polemica aristofanea (ran. 1314 εἰειειει – … λίσσετε, con variazione nel numero delle ripetizioni secondo i vari codici; cfr. 1348), rivolta notoriamente contro Euripide e le sue innovazioni (si tratta della monodia parodica messa in bocca ad Eschilo); ricordiamo anche Dion. Hal., compos. verbor. cap. 11, in cui si parla di differenze fra musica e πεζὴ λέξις a proposito dell’Oreste di Euripide (e molte volte il tema torna nei grammatici, come nei Prolegomena ad Efestione di Longino, etc.). È da credere che tali procedimenti fossero almeno non comuni prima dell’epoca di Euripide. Abbiamo poi testimonianze tarde, come gl’inni delfici, l’Anonimo di Bellermann. Tardo per i nostri scopi, anche se è aristossenico, è il P. Oxy. 9, recentissimamente completato e ripubblicato da J. Rea come P. Oxy. 2687 (vol. 34, 1968). Ma in verità, sia per epoca arcaica dove la cosa sembra esclusa o quasi, sia per epoca piú recente dove essa è solo p o s s i b i l e , ci restano solo i muti schemi delle composizioni poetiche, che muti si offrono alla nostra volenterosa industria d’interpreti. Solo come ipotesi di lavoro, per ora purtroppo non verificabile, conviene semplicemente supporre che una sequenza del tipo (frequente p. es. in Eschilo) f h g h h g h (ia cr) abbia p o t u t o in determinati periodi e presso certi autori esser sentita, per virtú della musica, come totalmente giambica, coll’allungamento a tre tempi del terzo longum (). Sarebbe comunque improprio, in casi di questo genere, parlare di s i n c o p e , che esprimerebbe la reale contiguità di veri giambi e trochei, con un effetto simile a quello del ‘sincopato’ in musica (si pensi al docmio che, anche secondo le testimonianze antiche, ricerca proprio tale effetto): bisognerebbe invece parlare di p r o t r a z i o n e , di allungamento, cioè, delle sillabe, su una nota tenuta o eventualmente su piú note. Alcune delle novità che K. ci offre sono nel campo della terminologia. Per liberarsi dell’ipoteca dell’ictus, prende da K. Rupprecht, Abriss d. gr. Verslehre, München 1949, 13 (che a sua volta lo mutua dalla metrica germanica) il termine Stab per designare quello che io avrei proposto di chiamare ‘elemento–guida’: si tratta dei longa fissi (feste longa, Stabträger, p. 5 n. 2), nei quali si era soliti vedere, prima, le sillabe portatrici di ictus (e K. usa anche, schroederianamente, Thesis, pur non credendo all’ictus: vd. p. es. p. 129 n. 7). A p. 9, per designare la sinafia fra cola (che è la regola nei versi lirici), propone (già «Gnomon» 37, 1965, 449) il termine, molto opportuno, di Kolonkontinuum (altre proposte erano state: overlap, Denniston; colon–caesura, Dale; Wortübergreifen, Kraus; colon–junction, Halporn). Segnaliamo anche διστιχομυθία a p. 71.

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«Eine Metrik ohne das Wort ist leer und tot» (p. 161). Direi che in queste parole, che compaiono certo di proposito nella trattazione dell’autore metricamente piú difficile – Pindaro –, si può sintetizzare la piú importante novità del manuale: una vera e propria ‘ e s e g e s i v e r b a l e ’ dei testi, fondata su sensibilità e conoscenza dei testi stessi e mirante, in piú d’un caso, a ottenere risultati concreti nell’interpretazione degli schemi metrici. Il metodo è annunciato già nell’introduzione, nella forma di una «gleichzeitig metrische und inhaltliche Interpretation» (p. IX). L’approccio è senz’altro positivo: troppo spesso, in passato, si è giuocato cogli schemi, senza pensare che essi esistono solo in grazia delle parole che li realizzano. Tanto piú che, piú d’una volta, il contenuto e la sintassi possono aiutarci a capire la struttura della strofe lirica. A p. 174, p. es., in Aesch. Pers. 81 sgg. la struttura in periodi viene riconosciuta, bene, coll’aiuto della sintassi, mancando altri elementi di decisione (non ci sono né iati né elementi indifferenti; né il ritmo cambia, essendo tutta la strofe in ionici: solo una possibile ‘sinafia prosodica’ – uso il termine di Irigoin, art. cit., 71–73 – fra i vv. 82–83, che però, ignorata, dà elemento indifferente): i tre periodi vengono opportunamente riconosciuti con richiamo soprattutto al contenuto e alla forma ‘retorica’ dell’insieme. Tutto il manuale è pieno di analisi esemplificative di tal tipo, e K. riprende materiale da lui già presentato in precedenti articoli (soprattutto Sofocle ed Eschilo). Naturalmente analisi simili non possono non correre il rischio di essere personali, alle volte addirittura arbitrarie: K. è cosciente di questo (p. 139) e vuole che si parli non di regole, bensi di Tendenzen, Spielarten. Ugualmente segno di prudenza è (p. 163) il richiamo alla musica, per noi completamente perduta, che senza dubbio articolava la strofe lirica in un modo che non sempre avrà rispettato sintassi e contenuto (né, aggiungerei, lo stesso accento musicale delle parole: si ricordi il problema della responsione antistrofica della musica). E non dimentichiamo, come di recente ci ha efficacemente ricordato il Traité di Dain, che nella poesia per coro musica significa danza ed evoluzione orchestica dei coreuti. Sarebbe inutile, quindi, esprimere particolari ragioni di dissenso per casi concreti: c’è solo da accettare il suggerimento, che può aiutarci a leggere la poesia antica con maggiore aderenza ai suoi valori verbali. Una sola osservazione: a p. 171 si trova identità di vocalismo fra Eur. El. 589 ἀλαίνων ἔβα e 591 νίκαν, ὦ φίλα non è forse un eccesso di finezza di αἴσθησις? Ottime sono le osservazioni (p. 149 sg.) volte a giustificare la trasgressione, in Pind. O. 7, della opportunamente richiamata ‘legge di Zuntz’ (p. 145: le strofe dattilo–epitritiche tendono a finire con elementi epitritici, particolarmente adatti a fungere da clausola). Ma dove la lettura ‘verbale’ dà risultati di particolare concretezza è nello stabilimento di alcuni principi e criteri, che sono in gran parte frutto di observatio personale. A p. 33 si elencano elementi di richiamo,

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nell’interno dell’esametro, fra l’emistichio formato dai primi quattro dattili e l’adonio finale; a p. 38 sg. viene messa in evidenza la disposizione delle parole (ABAB, ABBA, AABB) nel pentametro; a p. 133 sgg. viene isolato, nei versi eolici, il coriambo come portatore principale dell’espressività, come ‘nucleo centrale’ dei vari tipi di verso, nel quale vengono messi in rilievo elementi come l’epiteto, il nome, il verbo, la negazione, con in piú un collegamento sintattico che si fa sentire come sottolineatura della struttura metrica (Sapph. 1. 15 sg. L.–P. ἤρε’ ὄττι δ η ὖ τ ε π έ π ο ν θ α κ ὤ τ τ ι δ η ὖ τ ε κ ά λ η μ μ ι ). Direi che la lettura di K. è particolarmente felice proprio qui, nei versi eolici, e viene applicata con successo anche, p. es., a Soph. Ant. 781 sgg. (p. 165). Dove credo, invece, di dover dissentire da K. è nella questione del cosiddetto ethos dei metri, della presunta corrispondenza, cioè, che ci sarebbe non solo fra certi ritmi, ma addirittura fra certi versi o cola e i sentimenti espressi o le azioni descritte. K. fa frequenti accenni a questa, che quasi tutti credono essere stata già una teoria antica (una salutare reazione è quella di H. Lloyd–Jones in P. Maas, Greek Metre, 1962, 55 n. 1): pp. 6, 170, dove il docmio è definito «estatico–patetico», o mezzo per esprimere «passione ed eccitazione», p. 114, dove coriambo e ionico vengono contrapposti, l’uno come «Metrum der geschlossenen, sich rundenden Form», mentre l’altro, che «durch seinen unruhigen Anfang flüchtiger ist», «mit Unrast nach vorn drängt», p. 125 sg., dove si cerca di stabilire una differenza di ethos fra i due cola di asinarteti; etc. Ora, occorre qui ben distinguere due fatti: l’esistenza di una teoria antica che stabilisca norme ‘espressive’ e l’eventuale fedeltà nella realizzazione di tali norme, che possono anche non essere codificate in una ‘legge scritta’. È noto che anche nei campi in cui l’esistenza di una teoria antica è accertata, come nella musica (l’ethos delle singole armonie etc.) e soprattutto nella disciplina dei generi letterari (che è stata, comunque, ‘codificata’ tardi: vd. A. E. Harvey, «Class. Quart.» 1955, 157 sgg.), le norme venivano di frequente superate dalla libertà creativa, che si esprimeva in piú o meno cosciente e rilevato contrasto con esse: ed è chiaro che le norme non facevano che codificare un legame storico fra una ‘forma’ e un ‘contenuto’, legame che poteva poi venire piú o meno volutamente obliterato (vd. «Riv. Cult. Class. Medioev.» 6, 1964, 189, 190). Nella metrica, dovremmo constatare la stessa situazione per quanto riguarda la r e a l i z z a z i o n e di un eventuale ethos. K. stesso a p. 171 nota, a proposito di Eur. El. 585 sgg., dove prevalgono i docmi, che abbiamo una «freudige Erregung», e basterebbe solo aggiungere che in Soph. Phil. 827 sgg. e in Eur. Or. 140 sgg., 174 sgg. abbiamo, in presenza di numerosi docmi, un ethos che non si potrebbe certo definire ‘sistaltico’ o ‘diastaltico’ bensí ‘esicastico’, contro quella che potremmo definire l'espressività normale del docmio (si tratta di passi che possono vagamente ricordare la nin-

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na–nanna). Indubbiamente K. sceglie bene, per far notare un contrasto fra coriambo e ionico, Soph. O. R. 483 sgg. (p. 114): non si può, comunque, generalizzare. Ma c’è di piú. Non credo che fino ad ora sia stato messo in luce un fatto importante, che mi propongo da tempo di esporre per esteso altrove: per la metrica non esisteva una teoria ‘etica’ vera e propria. Basta una scorsa alle due importanti raccolte di materiale in questo campo (G. Amsel, De vi atque indole rhythmorum quid veteres iudicaverint, Diss. Breslau 1887; H. Abert, Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik, Leipzig 1899, 121–165) per rendersi conto che, quando vengono date caratterizzazioni ‘etiche’, si parla di r i t m i , e cioè siamo di fronte ad una pura e semplice appendice della teoria etica della m u s i c a , di cui il ritmo è parte; ma non troviamo nessun accenno apprezzabile all’ethos di singoli v e r s i . È troppo facile dire dell’esametro che è verso «nobile»: si può, anzi, pensare che l’apprezzamento del puro e semplice ritmo dattilico venga proprio dall’accettazione di un dato di fatto storico, e cioè l’antichità e la dignità del piú antico dei versi documentati (non è peraltro chiaro se e come si possano richiamare fatti religiosi o mitici, cfr. i Dattili Idei etc.). Ma quando si parla di ethos delle lunghe e delle brevi, dei piedi, dei ritmi ‘ascendenti’ e ‘discendenti’ e, genericamente, di ciascuno dei singoli ritmi (anapestico, trocaico, giambico, ionico, coriambico etc.), non si esce dalla teoria m u s i c a l e dei ritmi. Proviamo a cercare testimonianze, p. es., non solo per il gliconeo, che potrebbe pur sempre rientrare (e rientra) nel ritmo coriambico, ma p. es. per il docmio, proprio per il docmio, nel quale la teoria moderna vede un cosí alto grado di caratterizzazione etica: non ne troveremo o quasi, e a buon diritto. Né possono smentire quanto qui detto fatti giustamente notati e messi in rilievo da K., come, a proposito delle Supplici e dei Persiani di Eschilo e delle Baccanti di Euripide, il carattere «orientalisch–fremdartig» dello ionico (p. 117 sg.) o il fatto che Aristofane, per caratterizzare il personaggio di Agatone, gli mette in bocca metri ionici (p. 119): si tratta di un fatto macroscopico della storia della cultura in generale e della musica in particolare (la Ionia ha significato per secoli mollezza e lusso), che proprio dalla musica sarà stato messo in rilievo, con una associazione che, naturale com’era in determinati momenti ed autori, altre volte ed altrove poteva mancare. K. ci presenta altre interessanti novità. I versi lirici non hanno di regola fine di parola generalizzata, in altre parole non hanno incisioni (vd. «Riv. di filol.» 94, 1966, 195 sgg.): ma qualche volta, a l l ’ i n i z i o di un carme, la fine di parola si presenta addirittura in corrispondenza del confine di metron, e questo per dare, proprio e solo all'inizio, una particolare ritmatura piú marcata (pp. 16, 102, 117, 139). Si vedano i begli esempi portati da K., come Alc. 10 B. 1 L.–P. ἔμε δείλαν, ἔμε παίσαν κακοτάτων πεδέχοισαν, dove è chiaro, dagli altri versi che

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del frammento si vedono o s’intravvedono, che la forte ritmatura è solo del primo; e, fra gli altri, Anacr. 388. 1 sg. P., dove il frammento è piú lungo, e si vede che alla forte ritmatura iniziale sono sottoposti i primi due versi, ma i primi due soltanto. A p. 163 n. 48 viene richiamato il materiale già precedentemente raccolto in «Rhein. Mus.» 105, 1962, 147 sg.: in molte strofe tragiche il penultimo colon o verso si presenta, isolato in contesto di diversa natura ritmica, di forma dattilica, e questo viene interpretato giustamente come una Temposteigerung prima della clausola finale, e cioè come un affrettamento del tempo di dizione, dell’ἀγωγή, che prelude, con un apprezzabile effetto ritmico, alla fine della strofe, e cioè alla pausa e al riposo. A p. 108 si nota che numerosi cori tragici hanno una ‘coda’ il cui contenuto si può definire come epesegetico e che, presentandosi in forma giambica, si stacca anche formalmente dal resto: viene cosí proposto il nome di coda epexegetica per il materiale raccolto. A p. 127 ci viene fornito un utilissimo ricco panorama delle imitazioni e variazioni ellenistiche delle composizioni arcaiche epodico–asinartetiche: prima d’ora la piú completa trattazione di epodi e asinarteti era quella di Snell, alla cui chiarezza K. deve molto, ma d’ora in poi ci si dovrà riferire a quella di K. A pp. 17–19 si affronta il problema dell’incisione nei versi recitativi con riferimento alla tecnica dell’enjambement: se il confine di verso può separare pronomi dittici e monosillabi (ovviamente non ortotonici), se può separare gruppi di parole strettamente unite dal punto di vista sintattico, se crea simmetrie e se favorisce anafore – tutto questo per scopo di maggior rilievo –, non c’è ragione di non ammettere gli stessi fatti anche in semplice incisione, che va riconosciuta anche là dove un atteggiamento troppo ‘sintassistico’ non la ammetterebbe. È per questo forse che mi sarei aspettato da K. meno ‘sintassismo’ altrove, in generale (pp. 30 sgg. per l’esametro, 45 sgg. per il trimetro). Non ripeterò quanto ho esposto in «St. Urbin.» 39, 1965, 239–273: aggiungerò solo che trovo conforto all’ammissione addirittura della ricerca di contrasto fra ritmo e sintassi (la metrische Brechung della germanistica, vd. Sprachwiss. Wörterb., hsg. v. J. Knobloch, Lfg. 5, Heidelberg 1969, 386) ultiamente in R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano 1966, 202– 204. Utilissime comunque, solo che si tenga presente questa riserva, le statistiche originali per incisione nel trimetro a p. 45 sgg. E a p. 55 sgg. opportuna è l’osservazione che, nel trimetro, le soluzioni tendono a situarsi all’inizio del verso e all'inizio del colon, e cioè dopo incisione, il che salva la purezza ritmica della fine di verso (si pensi a Soph. Phil. 932, cit. a p. 56). Vanno segnalate, inoltre, due ‘estensioni’ di leggi già formulate da altri. P. 51 sg.: la legge di Wilamowitz–Knox nel trimetro arcaico, che vieta ... g h4 | f h5 | g W cioè isolamento ‘verbale’ del ritmo giambico, viene rispettata con poche eccezioni anche all’inizio del verso anche in séguito (solo 3% di ec-

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cezioni nei tragici!), per evitare eccessiva monotonia di ritmo. P. 69: la legge di Havet nel tetrametro trocaico, che vieta || h1 g h2 h | (e cioè fine di parola con lunga irrazionale), va estesa nel senso che addirittura fine di parola viene evitata dopo il primo metron, anche se l’elemento libero sia realizzato da sillaba breve (avrei solo qualche perplessità di fronte alla giustificazione delle ‘eccezioni’ di p. 69 n. 85). Proprio perché il manuale è cosí ben disposto e ricco, vorrei prospettare l’opportunità di qualche aggiunta di dettaglio. Si sente la mancanza di una trattazione unitaria del Wortbild (la cosiddetta parola metrica, che a mio avviso andrebbe distinta dalla parola fonetica, vd. «St. Urbin.», cit., 245 e n. 22), della Vortragsweise (e cioè del modo di dizione; accenni a pp. 28, 35, 88 etc.), di una esposizione della dottrina (che è naturalmente implicita) della sillaba aperta e (elechiusa (p. 20). A p. 3 sarebbe stato bene aggiungere tra le sigle anche menti liberi che raramente si presentano tutti e due brevi: Maas, Snell), visto che il segno viene adottato (p. es. pp. 114, 128 sgg.). A p. 193, negli schemi finali, manca, accanto ad esempio di asinarteto, esempio di strofe epodica. A p. 73 sgg. poi, a proposito dei «dattili lirici», si cita il famoso articolo di Fraenkel (ora peraltro accessibile in Kl. Beitr. I, 165–233), ma sarebbe stato bene aggiungere qualche parola di chiarimento: il principiante può sentirsi disorientato a veder definire come dattili versi che cominciano con doppia breve. Qualche volta sarebbe stato utile dare un nome alle singole leggi: Hilberg e Naeke (p. 33, in. e nello schema a p. 34); Maas (p. 34, 2° capov.); Giseke–Meyer– Fränkel (p. 34, 2° capov.: e la formulazione è troppo approssimativa). Quanto ai versi eolici (p. 128 sgg.), per i quali si accetta la spiegazione dell’ ‘allargamento’, della äussere e innere Erweiterung (per cui, p. es., l’asclepiadeo è sentito come gliconeo con un coriambo in piú, glc), sarebbe stato bene richiamarsi espressamente a Snell come fonte (11955, 31962). Faccio seguire alcune osservazioni di dettaglio. P. 10 n. 15: in Soph. Trach. 112 ~ 122 non si tratta di brevis in longo (ovvero di indifferente), bensi di liberum interpositum fra due elementi ‘D’ dattilo–epitritici (la strofe è dattilo–epitritica e coriambica, preceduta dall’unica strofe sofoclea interamente in dattilo–epitriti). P. 31: in verità in greco, a differenza dal latino, l’incisione trocaica dell’esametro è di norma piú frequente della pentemimere. Pp. 50 n. 51, 51, 68: in Archil. 49 D. ὥσπερ è prepositivo, in Aesch. fr. 274. 2 M. καὶ πόνῳ è parola metrica (anzi, fonetica), e ugualmente in Pers. 750 οὐ νόσος. P. 77: Alcm. fr. 39. 2 P. εὗρε γεγλωσσαμέναν scandito come 2tr^ (cfr. Page, Alcm. Parth., 111). P. 79: πέτρας vale h h . P. 80: in Pind. Pae. 9, str. 8 direi che una sequenza g g h g g h g h ||, in contesto in cui c’è almeno un altro gliconeo non ‘allargato’, guadagni ad essere interpretata come gliconeo con base pirrichia, invece che come g g 3dag h || ed

oo

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equiparato a telesilleo (Snell). P. 110: non direi che in Eschilo κεκλημένῳ si possa sentire in rima con προσεννέπω (cfr. Lejeune, Traité de phon. gr., 196: lo iota dei dittonghi lunghi scompare in Attica, nella pronuncia, solo nel II sec. a. C.). P. 168 n. 64: in Soph. Trach. 107 non può essere lo iato a preoccupare, visto che K. mette addirittura fine di periodo (come giustamente notava in «Rh. Mus.» 105, 1962, 152 n. 40), bensí se mai ἀλλά, che è prepositivo, prima di pausa (ma è un caso di εἶδος Σοφόκλειον). Concludendo: un libro eccellente, per il quale non si può non congratularsi coll’autore e coll’editore, e al quale auguriamo lunga vita e numerose riedizioni.

La pronuntiatio plena: sinalefe in luogo d’elisione* Un discorso sull’elisione dovrebbe cominciare da un chiarimento terminologico, che ne favorisse l’accostamento a una serie di fenomeni affini che da essa vengono spesso a torto distinti. Secondo l’interpretazione tradizionale, che solo da alcuni è stata episodicamente rimessa in discussione, l’elisione comporterebbe la perdita totale – mentre piú spesso, come verremo sostenendo, si tratta di attenuazione – di un fonema vocalico che venga a contatto con un altro, e questo collo scopo preciso di evitare lo iato. Essa ha luogo quindi in confine di parola, fra una parola, cioè, terminante per vocale e un’altra iniziante ugualmente per vocale (lasciamo per ora da parte il caso della composizione verbale). In greco l’elisione è in genere anche indicata graficamente, a differenza dal latino che ha la cosiddetta scriptio plena; altra differenza consiste nel fatto che il greco elide solo vocali brevi (e dittonghi ‘prosodicamente’ brevi), mentre il latino elide anche vocali lunghe (pur con alcune limitazioni). Ma fatti di scomparsa o d’indebolimento di fonemi vocalici ce ne possono essere altri, volti ad eliminare anche iato interno (nel corpo, cioè, delle singole parole) e, limitandoci per ora al greco – a cui del resto risale la tradizione terminologica dei grammatici –, possono essere o non essere indicati dalla grafia. Per mettere in rilievo soprattutto quest’ultimo fatto, tentiamo qui uno schema, ricavandone gli elementi dalla tradizione neogrammatica, che ha sostanzialmente ripreso le denominazioni antiche, normalizzandone alcune occasionali incoerenze (Kühner– Blass I, 218–243; Schwyzer I, 252–254, 400–404): (ἔκθλιψις)1: rappresentata da caduta della vocale finale. ELISIONE

fra parole FATTI GRAFICI

(ἀφαίρεσις) o PRODELISIONE o ELISIONE INVERSA: rappresentata da caduta della vocale iniziale. AFERESI

CRASI (ϰρᾶσις): rappresentata da contrazione2.

interni

(ὑφαίρεσις): rappresentata da caduta di vocale interna (εὐϰλέος per εὐϰλέεος). IFERESI

|| [Saggio pubblicato in «RFIC» 97, 1969, pp. 433–447; vd. anche nota *] * Questo articolo ha fatto parte della miscellanea dattiloscritta Omaggio a Eduard Fraenkel per i suoi ottant’anni. Contributi di allievi dei suoi seminari di Pisa, Bari e Roma, riprodotta (Roma 1968) in numero limitato di copie e fuori commercio. https://doi.org/10.1515/9783110647983-011

La pronuntiatio plena: sinalefe in luogo d’elisione | 201

FATTO NON DALLA GRAFIA

(ma assicurato da metro o clausola)

(συνίζησις): produce direttamente, o per ulteriore chiusura della prima vocale, un dittongo ascendente o improprio; in sostanza è equivalente a SINERESI (συναίρεσις) come contrapposta a DIERESI (διαίρεσις), e gli antichi la chiamano anche SINECFONESI (συνεϰφώνησις). SINIZESI

EVIDENZIATO

interno3

Posto che, grazie al controllo che ci permette la costrizione del metro nei testi poetici e la struttura delle clausole nei testi prosastici, i fatti presi in esame comportano tutti l’eliminazione di una sillaba, c’è da chiedersi se tale eliminazione avvenisse per scomparsa totale della vocale o per semplice indebolimento di essa. Sappiamo infatti che la grafia non è indice sicuro in questi casi: basterebbero e la sensibile incoerenza del greco a proposito dell’elisione e della crasi, che troviamo spesso graficamente indicate, ma non sempre, sia nelle epigrafi, sia nei papiri, sia nei manoscritti medievali4; e la singolare discordanza di uso del latino, che tende a non indicare graficamente l’elisione, fatto di cui non si è ancora tentato, a quanto so, di dare una spiegazione (e in realtà di spiegazione

|| 1 Ma è significativo che in Efestione (p. 10. 5 Consbr.), rappresentante di buona tradizione alessandrina, l’elisione venisse chiamata ancora proprio συναλοιφή, che, se si deve conservare un qualche peso ai valori semantici anche in un termine tecnico, ha significato ben diverso da ἔϰϑλιψις: lo notava R. Westphal in A. Rossbach–R. Westphal, Metrik3 3. 1, Leipzig 1887, 120 sg. Vd. anche il termine ἐπισυναλοιφή, su cui oltre (n. 11). 2 Interna perché avviene in genere dopo prepositiva: articolo, ϰαί, ὦ, ἐγώ, τοί etc. (Kühner– Blass I, 218 sgg.). Rara, p. es., col relativo (ibid.). Casi come ὁσἠμέραι, τυχἀγαϑῇ sono eccezionali e vanno spiegati come nessi particolarmente frequenti, ‘saldati’ dall’uso. 3 Inesatto Schwyzer p. 401, che definisce la sinizesi come «contrazione nella Wortfuge». In realtà la sinizesi è in genere interna, come si vede dagli esempi ordinatamente raccolti in Kühner–Blass I, 226–229 (quelli sotto 4.B sono casi di appositive, che in qualche modo legano colla parola sia precedente sia seguente: δή, ἤ, ἦ, μή, έπεί, ἐγώ, ὦ). D’altra parte casi di vera Wortfuge come A 277 Πηλεΐδη ἔϑελ’ oppure Sapph. 1. 11 sg. L.–P. ὠρανᾤϑερος (ὠράνω αἴϑερος) sono estremamente rari. 4 Vd., per le iscrizioni, K. Meisterhans–E. Schwyzer, Gramm. d. attischen Inschr.3, Berlin 1900, 69 sg. (elisione: perfino δέ è qualche volta in scriptio plena; d’altra parte ci sono anche elisioni addirittura in pausa sintattica), 70–73 (crasi: è usata grosso modo in misura inversamente proporzionale all’ufficialità del documento); per i papiri E. Mayser, Gramm. d. gr. Papyri aus der Ptolemäerzeit ..., I (Laut– u. Wortlehre), Leipzig 1906, 155–158 (elisione: anche qui grande inconseguenza), 158–160 (crasi: id.). Per le iscrizioni metriche vd. l’ormai invecchiato Fr. D. Allen, On Greek Versific. in Inscript., «Papers of the Amer. Sch. of Class. St. at Athens» 4, 1885– 86 (1888), 35–204 (a pp. 155–157, considerando 387 casi di elisione grafica fra parole ortotoniche – σώμαϑ’ ἑλών – contro 146 di scriptio plena, conclude che l’elisione è solamente p o s s i b i l e ; ma, per sceverare i casi, occorrerebbe una revisione del materiale, con inclusione di quello nuovo degli ultimi decenni).

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avrebbe bisogno, se mai, l’uso greco, che indica graficamente una soppressione di vocale che, come si vedrà, non era certo totale). Valga, per intendersi, l’esempio dell’italiano, dove l’elisione non è affatto totale, nella maggioranza dei casi, neanche nella lettura scolastica dei testi poetici: in «selva oscura» le due vocali si sentono tutt’e due distintamente, anche se la sillaba è, come ci assicura l’esigenza del metro, una sola. La sinalefe è, anzi, fatto tipico dell’italiano e all’italiano si riferiscono quelli che vogliono trovare un parallelo moderno per le lingue classiche5. Ricordiamo le parole di Pasquali6: «Noi siamo foneticamente privilegiati rispetto a tutti, credo, gli altri popoli europei per questo riguardo, che a noi è naturale, congenita la sinalefe: noi sappiamo legare. Noi pronunciamo spontaneamente conticuere omnes intentique ora tenebant senza saltare vocali, eppure facendo tornare il numero delle sillabe». Quello che non è facile da stabilire è il grado di autonomia delle due vocali in contatto. Nella nostra prassi di lettura c’è qualche volta vera e propria coesistenza delle due vocali, che naturalmente formano una sillaba unica, mentre qualche volta si ha vera e propria elisione e cioè soppressione: e sarebbe interessante ricercare le ragioni di tale variare, siano esse in relazione colla struttura del verso o del ritmo prosastico, oppure colla struttura delle parole stesse (ortotoniche o appositive): in Petrarca, p. es., Rime 1.1 «Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono» si tende, seguendo la grafia qui presentata, a realizzare una elisione vera e propria (per la natura del pronome relativo in italiano?) e due elisioni non totali7. Per questo tipo d’elisione, che non è piú tale, a rigore, si è venuto specializzando (e si userà qui di seguito) il termine di s i n a l e f e (συναλοιφή), che in realtà nella tradizione antica designava genericamente elisione, aferesi, crasi e sinizesi (Schwyzer p. 401) e nell’uso moderno (specie in Germania) è stato spesso usato come semplice sinonimo di elisione, intesa come soppressione totale della vocale. Tornando al greco, vale la pena chiedersi se e fino a qual punto l’uso grafico rispetti una realtà fonica. Dove si abbia graficamente rappresentata anche una

|| 5 Vd. p. es. F. Sommer, Handb. d. lat. Laut– u. Formenlehre2, Heidelberg 1948, 291. 6 G. Pasquali, Pagine stravaganti di un filologo, Lanciano 1933, 242; cfr. Lingua nuova e antica, Firenze 1964, 279 sg. Sono grato a Sebastiano Timpanaro che mi segnala la «sineresi psicologica» di A. Camilli, Elementi di prosodia e metrica latina, Firenze 1943, 59. 7 R. Spongano, Nozioni ed esempi di metrica italiana, Bologna 1966, 17. Questo campo di ricerca è stato finora singolarmente trascurato, almeno per l’italiano. Ovviamente sarebbero necessarie per ogni testo edizioni critiche rigorose, realizzate con chiara conoscenza degli usi grafici delle varie epoche (o dei vari autori). Di prossima pubblicazione importanti studi metrici sul Belli di Roberto Vighi. Vighi mi segnala casi di sillaba in sinalefe addirittura fortemente accentata, come son. 1430. 5 «pròsite, bon pro, evviva, Iddio v’ajjuti».

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contrazione, come nella crasi, non pare ci debba essere ragione di dubitare: va tenuto presente quel che s’è visto sopra, che cioè nella crasi viene fusa con una ortotonica, in genere, una prepositiva, che, per la sua natura linguistico–accentuale e per la sua usuale alta frequenza, tende a ‘scomparire’. Ma nel caso dell’elisione, rappresentata quasi sempre da soppressione della vocale e dall’apostrofo, era essa totale o si trattava semplicemente di una sinalefe? Qui c’è sicuramente da mettere preventivamente da parte il caso delle prepositive: ἐφ’ ἑαυτοῦ, ἀντ’ οἴϰου erano sicuramente casi di elisione e a questo si ricollega senz’altro l’uso della composizione verbale (ἐπάγω). Si pensi, per prendere un esempio, all’equivoco fra γ’ ἔρανον e γέρανος in Epicarmo fr. 87 Kaibel, dove per di piú si tratta della stessa vocale. Ugualmente per nessi particolarmente usuali, come νύχϑ᾽ ὄλην oppure A 117 βούλομ’ ἐγώ che si ritrova, a conferma della sua piú tarda colloquialità, nella commedia e non nella tragedia (Schwyzer p. 403)8. Ma per innumerevoli altri casi dobbiamo supporre che esistesse almeno la p o s s i b i l i t à della sinalefe. Tale possibilità ci è confermata da casi in cui la non realizzazione dell’elisione, e quindi la sinalefe, è almeno estremamente p r o b a b i l e . Prendiamo un fenomeno metrico: l’elisione in ἀντιλαβή, e cioè in cambio di personaggio. Non si può certo pensare che un personaggio pronunciasse in teatro monca dell’ultima vocale l’ultima parola della sua parte. Per di piú ci sarebbe una generale difficoltà fonetica: che con l’elisione si verrebbero a trovare in fine di parola delle consonanti o dei nessi consonantici finali non ammessi dal greco, come ἔσϑλ’, σέμν’, νύϰτ’, πεῖϑ’, come aveva chiaramente formulato H. L. Ahrens nel 1845 (Kl. Schr. p. 52 sgg., spec. 53). Ma, per tornare alla metrica, anche al di fuori del cambio di personaggio non mancano casi di pause molto forti, per cui molto probabile deve apparire la sinalefe: Eur., Or. 131 ϰαί τόνδε πᾶσάν ϑ’ ’Ελλάδ(α). ὦ τάλαιν’ ἐγώ.

Si potrà quindi essere incerti sul modo di realizzazione: nel1’ἀντιλαβή di sinalefe a stretto rigore non si può parlare, bensí forse di una specie di «sovrapposizione delle due vocali», come pensa Soubiran (op. cit. oltre, p. 478); l’elisione vera, comunque, dovrebbe apparire esclusa in casi di tal genere, e ci soccorre la chiara formulazione di Ahrens stesso (op. cit. p. 53): «quum igitur certum sit, elisione facta literam antecedentem neque vocabulum claudere neque arcte cum sequente vocabulo iungi, sequitur elisione, quam dicunt, vocalem non prorsus deleri, sed d e m i n u i , ita ut exigua quaedam eius pars relinqua-

|| 8 Qui abbiamo vocali elidibili, e quindi elisione; nei casi della n. 2 si trattava di vocali non elidibili, e quindi di casi eccezionali di crasi.

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tur, quae neque accentum ferre valeat neque morae vicem sustinere, ut in rhythmo pro nihilo habenda sit» (e lo stesso a p. 76 a proposito dell’aferesi). E anche Gottfried Hermann nelle stupende pagine introduttive della sua Epitome doctrinae metricae (4Leipzig 1869 p. VI) si era espresso chiaramente, pur senza dare precise ragioni, fidandosi della sua exercitatio aurium: «Animadverti autem magis fere in Latinis versibus recitandis quam in Graecis peccari, et quidem duobus modis: primum eo, quod multi syllabas in vocalem vel in m litteram exeuntes ante vocalem plane omittunt, pronuntiantque descende cael et dic age tibia; monstr horrend inform, ingens, cui lumen adempt est [dove veramente la pronuncia dovrebbe essere ademptumst!], quum plene omnia proferenda sint, ..., sed sic, ut et o ante e et ista um ante eas quae sequuntur syllabas raptim inserta audiantur quidem, verum ut pars tantum sequentis syllabae». Il vecchio principio, poi, formulato da Hermann stesso, che «elisio non officit caesurae» – principio largamente confermato dalle statistiche per le incisioni – dovrebbe far seriamente riflettere sulla poca probabilità che in incisione l’elisione fosse totale: il colon, creato dalle incisioni stesse, è elemento autonomo del verso recitativo e si presenta come una unità a sé9: basterebbe questo a confutare la teoria di chi vede nell’elisione una fusione fra parole. Ma c’è di piú. Nel trimetro giambico, casi del genere di Soph., Ai. 969 τί δῆτα τοῦδ’ (|) ἐπεγγελῷεν ἂν ϰάτα; Aesch., Sept. 252 οὐϰ εἰς φϑόρον σιγῶσ’ (|) ἀνασχήσῃ τάδε;

erano sentiti sicuramente come incisione quasi–pentemimere, e cioè τοῦδ(ε) | e come incisione quasi–eftemimere, e cioè σιγῶσ(α) |10. Il secondo esempio avrebbe pur sempre la rara incisione mediana, ma il primo sarebbe completamente privo d’incisione (divisione 2 + 4). Nοn ha importanza il fatto che il se-

|| 9 L. E. Rossi, «Studi Urbinati» 39, 1965, 239–273. 10 J. Descroix, Le trimètre iambique ..., Mâcon 1931, 255 sgg., 269 sgg. Direi che la scarsa frequenza statistica, notata da Descroix, di quasi–pentemimere rispetto a trimetro diviso 2 + 4 senza elisione (vero trimetro senza incisione) non è prova di maggior ‘normalità’ di 2 + 4 rispetto a quasi–pentemimere: la pietra di paragone resta sempre la vera pentemimere, incisione ‘normale’, alla quale si adegua l’attesa del recitante e dell’ascoltatore nei confronti di ogni verso in qualche misura ‘eccezionale’ (vd. Rossi, art. cit., 241). Lo stesso discorso varrebbe per l’eftemimere e la quasi–eftemimere: e sarebbe auspicabile uno spoglio completo del materiale, specie per la commedia, che notoriamente ammette molto piú di frequente, p. es., incisione mediana. Vd. l’utile raccolta di materiale, anche greco, in R. Klotz, Grundzüge altröm. Metr., Leipzig 1890, 192 sgg. – Per l’incisione nel senario latino, che è la regola (vd. Questa, Introduz. cit. oltre, 169 sgg.), vd. già le ottime osservazioni di W. Meyer, mem. cit. oltre, 23: per ‘salvare’ versi come P1., Trin. 95, 406 etc. bisogna escludere elisione totale).

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condo emistichio cominci con ritmo giambico anziché trocaico: l’importante è che il primo emistichio sia sentito come pentemimere od eftemimere giambico prima che il verso si completi col secondo emistichio. Ed infine va tenuto presente che, già secondo la teoria degli antichi (Heph. p. 14.22 Consbr.), e cioè ancor prima che intervenissero i definitivi chiarimenti di Boeckh, il verso è per definizione limitato da fine di parola: ed è per questo che non si ha praticamente mai elisione in fine di verso11, il che darebbe l’impressione di verso ipermetro. L’interpretazione dell’elisione come sinalefe darebbe poi il non piccolo vantaggio di spiegare un fatto prosodico che non mi sembra abbia trovato finora una spiegazione soddisfacente: e cioè l’abbreviamento in iato, la cosiddetta correptio epica, il «vocalis ante vocalem corripitur». La prevalenza dei casi in dittongo breve in ι, e cioè αι ει οι12, ha prodotto la convinzione, piú o meno esplicita, della consonantizzazione dell’/i/ e del passaggio dell’/i/ consonantizzato alla sillaba successiva (ἄνδρα μο–jέννεπε). La presenza, però, di casi di dittonghi lunghi e di semplici vocali lunghe abbreviantisi ha naturalmente messo in imbarazzo: e si è pensato che il fenomeno avesse avuto origine dai dittonghi brevi con secondo elemento consonantizzato e si fosse poi esteso per analogia ai dittonghi lunghi e alle semplici lunghe13. Ma, a parte il fatto che un simile processo storico–linguistico resta indocumentabile, rimarrebbe sempre l’imbarazzo di un fatto cosí esteso come l’abbreviamento delle vocali che si sarebbe originato per analogia con un fatto di natura cosí diversa come la consonantizzazione del secondo elemento dei dittonghi. Solo Georg Curtius14 aveva pensato di apparentare tale fenomeno coll’elisione, facendone una ‘quasi–elisione’. Meglio

|| 11 Ad eccezione dei rari casi registrati da P. Maas, Metrik § 139. Lo spettro dello Zῆν’ omerico in fine di verso è ormai eliminato, da quando la forma è stata linguisticamente spiegata come originaria (P. Chantraine, Gramm. Hom. I, Paris 1948, 227), anche se essa può aver dato origine a interpretazioni errate nell’antichità. È noto, poi, il caso del cosiddetto εἶδος Σοφόϰλειον ο ‘elisione’ in fine di verso, chiamata ἐπισυναλοιφή da Choeroh. ad Heph. p. 225. 16 sgg. Consbr. (vd. spec. p. 226. 8 sgg.), su cui vd. A. Körte, «Glotta» 3, 1912, 153–156 per la teoria e la prassi degli alessandrini; cosí come noti sono i casi di –que e –ve in fine di verso ‘ipermetro’ latino. Ma si tratta di casi statisticamente rarissimi di libertà che confermano la regola. 12 Vd. le statistiche in Clapp, art. cit. oltre, 240 sgg. 13 Vd., p. es., W. Christ, Metrik2, Leipzig 1879, 22; E. Hermann, Sprachwiss. Komm. ... aus Homer, Heidelberg 1914, 3 sg.; Kühner–Blass I, 192 sgg.; G. Meyer, Gr. Gramm.3, Leipzig 1896, 226; etc. Il principale sostenitore dello sviluppo storico accennato è E. B. Clapp, «Class. Philol.» 1, 1906, 239 sgg. Ambiguo Schwyzer I, 400, che comunque respinge Clapp. Naturalmente per i dittonghi lunghi sorgerebbe un problema che li differenzierebbe dai dittonghi brevi: scomparsa di /i/ intervocalico e successivo iato con abbreviamento. 14 G. Curtius, «Curtius Studien» 1. 2, Leipzig 1868, 283–285 (in sostanza già R. Westphal, cit. da Curtius, in A. Rossbach–R. Westphal, Metrik1 2. 2, 1865, 312 = Metrik3 3. 1, cit., 122).

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faremo noi ad avvicinarlo alla sinalefe, mettendolo in relazione con quanto considerato finora: l’incontro vocalico, lo iato, è in genere evitato; quando esso si produca, si hanno d i v e r s i g r a d i d i p e r d i t a d i s o n o r i t à v o c a l i c a : nel caso di vocale breve, si ha vera e propria sinalefe, con perdita del valore sillabico, mentre nel caso di vocale lunga (o di dittongo) si ha una quasi– sinalefe, con abbreviamento della vocale (o del dittongo). Per il latino, come s’è detto, non esisterebbe differenza di trattamento, da questo punto di vista, fra breve e lunga. Concludendo, occorre pur sempre tener presente che la distinzione di operatività fra elisione vera e propria e sinalefe non è determinata solo dalla natura delle parole che entrano in contatto (ortotoniche e appositive), bensí anche dal diverso livello dello stile: l’elisione è infatti, come s’è visto, fatto prevalentemente di lingua parlata15, ed è, anche nelle lingue moderne, piú frequente quanto piú familiare e colloquiale è il livello del discorso. La lingua elevata tende ad elider meno: ed è anche questa considerazione di ordine generale che deve spingerci a veder piú sinalefi che elisioni nei nostri testi poetici e anche nella prosa, che è in grande maggioranza di livello stilistico elevato. Altri elementi possono poi entrare in giuoco: trovo citato16 un bell’esempio di Ignazio Romano, che all’inizio della sua lettera ai Romani chiama la comunità a cui si rivolge ἀξιέπαινος, ἀξιοεπίτευκτος, ἀξιόαγνος: il primo epiteto, con elisione in composizione, è in uso almeno dal tempo di Senofonte e di Demostene; gli altri sono invece ‘Augenblicksbildungen’, frutto di produttività linguistica artificiale e riflessa, e si adeguano, anche sotto l’aspetto fonetico–morfologico, al contesto, che è di tono elevato. Sarebbero, certo, utili statistiche esaustive della poesia, dove abbiamo piú elementi di controllo, per poter giudicare meglio delle testimonianze della prosa, nell’interno della quale occorrerebbe ovviamente distinguere le clausole dal resto17. Quanto è stato detto per il greco, collegando fra loro fatti spesso visti in isolamento, vale naturalmente anche per il latino, per il quale abbiamo oggi a disposizione due ottimi strumenti di lavoro: Jean Soubiran, L’élision dans la poé|| 15 Vd., p. es., Fr. Blass, Über die Ausspr. d. Griech.4, Berlin 1888, 84; W. Corssen, Über Ausspr., Vokalism. u. Bet. d. lat. Spr.2, II, Leipzig 1870, 770 sgg., spec. 792 sg.; F. Sommer, Handbuch, cit., 290. Vd. anche quanto osservato a n. 4 a proposito della crasi nelle iscrizioni. Per l’italiano vd. T. De Mauro, Storia linguistica dell'Italia unita, Bari 1963, 415–417: tendenza della lingua scritta, per di piú, ad assicurare una «forma costante e invariabile» a ogni unità del sistema. 16 In K. Meister, Die hom. Kunstspr., Leipzig 1921, 218. 17 Per il problema della sinalefe nelle clausole vd. Eduard Fraenkel, «Savigny–Zeitschrift» 47, 1927, 400. 2 = Kl. Beitr. II, 493 n. 2, che per di piú crede fermamente a sinalefe e non a elisione.

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sie latine, Paris 1966 e Cesare Questa, Introduzione alla metrica di Plauto, Bologna 1967. Soubiran, che c’informa ampiamente sugli studi anteriori, è nettamente contro l’elisione totale, anche se si mostra alle volte estremamente prudente, come nella seguente formulazione (p. 58): «È impossibile sapere se l’omissione [grafica] della vocale elisa [in quei casi che sono normali per il greco ed eccezionali per il latino] si giustifica per la cura di tradurre la realtà fonetica o per quella di c o n f o r m a r s i a l l a s c a n s i o n e , e c i o è d i g u i d a r l a » [sottolin. mia]. Ma impossibile non è, come pensa in fondo Soubiran stesso e come vedremo meglio in seguito. Soubiran si riferiva qui alle testimonianze epigrafiche (p. 56 sgg.), che, come per il greco, sono incoerenti, pur presentando una notevole maggioranza di non–elisione grafica. Anche le testimonianze dei grammatici e dei retori (p. 63 sgg.) sono spesso ambigue: quelle che non lo sono si possono distinguere fra sfavorevoli e favorevoli all’elisione reale: ma si potrebbe sempre pensare che le favorevoli siano piú o meno influenzate da una tradizione scolastica volta a g u i d a r e la scansione, tradizione che è arrivata fino ai nostri giorni e sulla quale sarebbe utile raccogliere elementi soprattutto per l’epoca della bassa latinità e per l’umanesimo. Alcune sono, comunque, estremamente chiare, come quella di Valerio Probo riportata da Gellio (13.21, Soubiran p. 71 sg.), in cui, facendo uso di criteri di sensibilità eufonica (aurem tuam interroga, arbitrio consilioque usus auris, auribus inserviens etc.), si sente una differenza in Verg., Aen. 2.460 fra turrim e turrem in un caso in cui la vocale finale sarebbe ‘elisa’ (turrim in praecipiti stantem). Ovviamente anche qui, e Soubiran lo sa bene (pp. 135 sgg., 387 sgg. e pass.), due pesi e due misure, a seconda che si tratti di parole ortotoniche o di appositive: est, per esempio, è molto spesso in aferesi grafica che è sicura testimonianza di realizzazione, come ci confermano e l’uso epigrafico e quello dei manoscritti medievali, in questo sensibilmente coerenti (p. 163 sg.). Né devono trarre a conclusioni errate grafie pressoché generalizzate come animadvertere e magnopere18: essendo nessi particolarmente frequenti, saldati per di piú in composizione verbale, provano semplicemente ancora una volta che elisione s i p u ò avere, non che s i d e v e avere sempre. Sono fatti analoghi a quelli visti sopra per il greco. Soubiran si fonda su una attenta valutazione linguistica dei fatti, che lo porta alla conclusione che anche la vocale iniziale della parola successiva viene in qualche modo modificata. Nοn vorrei, comunque, toccare qui i molti altri problemi che nascono dall’argomento, come, ad esempio, quello assai dibattuto

|| 18 Lista in Franz Skutsch, Kl. Schr., 135 sg., a cui si aggiunga E. H. Sturtevant–R. G. Kent, «Trans. Amer. Philol. Ass.» 46, 1915, 130 sg.

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dell’eventuale spostamento d’accento nel caso che si voglia l’elisione reale19, oppure quello dell’intelligibilità, nato dal fatto che con l’elisione reale scomparirebbero morfemi determinanti per il senso20, senza contare che scomparirebbero anche intere parole, peraltro necessarie: si pensi al caso delle interiezioni em, hem, quando si trovino a dover essere metricamente ‘elise’21. Vorrei soltanto aggiungere qui alcune p r o v e m e t r i c h e contro la realizzazione dell’elisione e a favore della sinalefe ricavate dalla prassi plautina, regolata da leggi statisticamente accertabili e abbastanza rigorose, che con alcune loro ‘eccezioni’ ci offrono notevoli spunti in questo senso. Per la chiara formulazione delle leggi e per la scelta del materiale mi servo del manuale di Questa citato sopra22. Già Wilhelm Meyer23 aveva fatto preziose osservazioni sulla fine dei versi giambici e trocaici, assumendo come sicura la sinalefe invece dell’elisione. E già in Meyer24 c’era un’anticipazione importante – e la ritrovo ora in Soubiran (p. || 19 Soubiran p. 457 sgg. Lo spostamento d’accento in caso d’elisione servirebbe soprattutto a favorire l’accordo accento–ictus (p. 472), ipotesi oggi in gran parte abbandonata anche dai suoi antichi sostenitori. Per quanto riguarda il puro e semplice dato linguistico, S. giustamente osserva che una reale apocope non ha impedito a parole come illíc, nostrás, addúc (per le quali abbiamo esplicite testimonianze di grammatici) di conservare sull’ultima sillaba (in contrasto colla tendenza generale del latino) un accento che originariamente si trovava ad essere sulla penultima. Che cosa quindi impedirebbe a scribénd(um) (Ter., Andr. 1) di conservare il suo accento al suo posto, a n c h e a m m e t t e n d o e l i s i o n e r e a l e ? Cadrebbe cosí anche quella che da alcuni è considerata una prova indiretta per l’elisione, e cioè lo spostamento d’accento. Vd. comunque Questa, Introd. cit., 44: secondo alcuni in negăt(o) (Pl., Bacch. 592) la correptio iambica sarebbe permessa perché l’accento di parola, coll’elisione, si sposterebbe alla prima sillaba: ma si tratta di versi dubbi anche per altre ragioni, vd. Q. p. 44 n. 1. 20 S. p. 72 sgg. Lo stesso problema si presenta nel cosiddetto allungamento epico, dove alcuni morfemi si snaturerebbero totalmente (una –a di nominativo che diverrebbe lunga). 21 Vd. Georg Luck, Über einige Interjektionen der lateinischen Umgangssprache, Heidelberg 1964, spec. 31 sg. 22 Vd. la mia recensione in «Riv. di Filol.» 96, 1968, 60 sgg., dove, a p. 65, si riallaccia la presente ricerca, che non era a suo luogo in quella sede. Mi troverò a ripetere qui qualche formulazione. 23 Wilhelm Meyer, «Abhandl. d. bayer. Akad. d. Wiss.» 17, 1886, 48 e n. 1: vengono evitate finali giambiche come núll(a) habét || oppure ómni(a) haéc ||, e cioè con sinalefe in giambo ultimo (solo est || in aferesi è frequente: ma è pospositivo!). Meyer spiega colla tendenza ad evitare impressione di finale anapestica, che si avrebbe, dal momento che le vocali in sinalefe in qualche modo restano. Da notare solo che tale tendenza è assente nel greco, come osserva Meyer (προδοῦσ’ ἐμóν || etc.). Mi sembra che Meyer resti valido, anche dopo le opposizioni di E. Klotz, Grundzüge cit., 246–248 (la grande maggioranza dei casi che porta sono prepositive, tipo átqu(e) erús || etc.) e di H. Drexler, «Glotta» 23, 1935, 225 sgg. 24 W. Meyer, mem. cit., 22 sg.

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459 sg.) e Questa (p. 132, osserv. 2; gli esempi a p. 134) – di quanto qui di seguito intenderei confermare con nuove prove: la possibilità, cioè, di avere anapesto strappato quando fra le due brevi iniziali e la lunga si situi una sinalefe. È noto che la legge di H e r m a n n – L a c h m a n n (Q. p. 129 sgg.) vieta le due brevi finali di parola e che la legge di R i t s c h l (Q. p. 125 sgg.) vieta l’elemento strappato: in sostanza la prima legge vieta g g | h e la seconda g | g h, il che corrisponde a quello che in greco è il divieto dell’anapesto strappato. Ora, perché, come fa notare Soubiran, è permesso un nesso pércŭpĭ(o) óbsequí (Pl., As. 76) ed è palesemente assente un exemplum fictum come pércŭpĭt óbsequí ? Evidentemente, come formula bene Questa, perché «l’elemento bisillabico non è formato da sillabe finali, bensí dalla terzultima e penultima»: è come se –cŭpĭ– non venissero sentite come finali di parola e fosse proprio la vocale finale, attenuata ma non scomparsa, a creare quest’effetto25. E se a qualcuno, com’è in effetti successo, venisse piú naturale di spiegare fatti del genere col ‘fondersi’ delle parole fra di loro in conseguenza dell’elisione, ricorderemo che, come si è visto sopra per le incisioni, la forte a u t o n o m i a v e r b a l e non è in nulla turbata dall’esistenza della cosiddetta elisione; e che, in piú, il verso plautino ci presenta alcuni interessanti fatti di ‘ m é t r i q u e v e r b a l e ’ , che, a quanto so, non erano ancora stati visti in questa luce 26. La legge di M e y e r (Q. p. 194 sgg.) vieta, nei versi giambici e trocaici, in alcune sedi (come, p. es., la seconda e la quarta del senario), fine di polisillabo se l’elemento precedente è lungo o bisillabico (e cioè vieta ... J h́ | ...: satis ést, nūmquām). Ora, se la mia spiegazione coglie nel segno, il ‘tabu’ di Meyer evita di dare nel mezzo del verso eccessiva impressione anapestica (che sarebbe rinforzata da parola o fine di parola anapestico–spondaica) allo stesso modo che il ‘tabu’ di Bentley–Luchs evita di dare eccessiva impressione giambica alla fine del verso: tendendo cosí le due leggi a ridare un certo equilibrio ad un verso estremamente libero dal punto di vista ritmico come il giambico–trocaico della commedia, coll’evitare l’impressione di due cola ritmici diversi tra loro, uno anapestico e uno giambico (il che ne farebbe una specie di asinarteto). Ed è chiaro che tale impressione anapestica poteva venire incrementata dalla presenza del confine di parola, che, come si sa, crea una certa pausa e che in questo caso avrebbe isolato precisamente una sequenza anapestico–spondaica. Ma conferma ancor piú forte per l’autonomia verbale mi sembra data dalla ben nota eccezione alla legge di Bentley– Luchs, per la quale (Q. p. 190 sg.) fine di parola dopo il penultimo giambo, nor-

|| 25 Anche P. Maas, Metrik § 111 ammette per il greco che gli anapesti, nel trimetro comico, abbiano una strappatura «attenuata» da elisione. 26 Vd. la mia recens. cit., 63 sg.

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malmente esclusa, è permessa quando tale giambo sia preceduto da elemento bisillabico e appartenga, con esso, alla stessa parola: ... nōn rĕcĭpĭắt mărḗ ||, ... ắb ănĭmṓ pĕrīt ||, ... ŭb(i) hăbĭtāt sĕnḗx || sono permessi, visto che evidentemente l’orecchio sentiva le sequenze ‘verbali’ –cĭpĭāt, –ănĭmṓ, hăbĭtāt (anapestiche, e quindi permesse) piuttosto che le sequenze rigorosamente ‘podiche’ –pĭāt,–nĭmṓ, –bĭtāt (giambiche, e quindi a rigore proibite). Sembra quindi che si possa vedere da casi del genere una conferma di quella forte a u t o n o m i a v e r b a l e , che già appariva non turbata dalla cosiddetta elisione. Continuo colla stessa legge di M e y e r , ricordata qui sopra. Essa soffre eccezione nel caso che «gli elementi da essa considerati appartengano a parola in 2 sinalefe colla successiva» (Q. p. 196): Au. 16 coep(i) obsērvār(e), ecqui maiorem filius. Evidentemente observa– non viene sentito come parola completa, perché basta la presenza della vocale in sinalefe ad evitare l’impressione anapestico– spondaica rafforzata da fine di parola (e questo conferma ulteriormente l’interpretazione data sopra della legge di Meyer nell’ambito della ‘métrique verbale’: mancando la forza isolante della fine di parola, l’anapesto o spondeo non disturba piú). La legge di Meyer si estende poi anche ai versi cretico–bacchiaci, nei casi in cui l’elemento breve sia eccezionalmente lungo o bisillabico (legge di S p e n g e l – M e y e r : Q. p. 224 sgg.). In Amph. 220 (4cr) hostes crebri cadunt, nōstrī 9 cōntr(a) ingruont si avrebbe, in sede sensibile (terzo e nono elemento di 4cr; quinto e undecimo di 4ba), fine di parola proibita se si prendesse sul serio l’elisione di contr(a) (ché il terzo cretico è un molosso, nōstrī cōn–, e, per la legge, non sopporterebbe fine di parola dopo di sé). Ma anche qui gli esempi non mancano (Q. p. 225) e sono una ulteriore conferma del fatto che con– n o n è sentito come fine di parola. C’è poi una eccezione alla legge di B e n t l e y – L u c h s che, messa in rilievo da Otto Skutsch27 in altro contesto, non ha trovato eco, a quanto so. La sequenza g h | g W, proibita dalla legge, sarebbe permessa quando sia preceduta da sinalefe: Poen. 447 quánd(o) Amór iubét ||, Trin. 533 ill(e) agér fuit ||: è che le vocali in sinalefe, conservandosi parzialmente, danno l’impressione di un quasi–anapesto, evitando cosí il ‘ritornello’ giambico. Consideriamo ora la legge di F r a e n k e l – T h i e r f e l d e r – S k u t s c h (Q. p. 144 sgg.): divieto di longum bisillabico preceduto da elemento bisillabico strappato, quest’ultimo, ovviamente, trovantesi nelle sedi con licenza (perché la

|| 27 Otto Skutsch, Prosod. u. metr. Gesetze d. Iambenkürzung, Göttingen 1934, 45. Si tratta di una diversa spiegazione nell’ambito della ‘Erweiterung des Bentley–Luchsschen Gesetzes’ di H. Drexler, Plautin. Akzentst. II, Breslau 1932, 26 sgg. (vd. p. 35).

La pronuntiatio plena: sinalefe in luogo d’elisione | 211

legge di Ritschl – Q. p. 125 sgg. – vieta normalmente l’anapesto strappato): Cis. 62 (7tr) īndĭd(em) ŭnd(e) ŏrĭtūr facit(o) ut facias | stultitiam sepelibilem. L’apparente strappamento dell’elemento (–dĭd(em) | ŭn–) è permesso, perché siamo nella sede con licenza (secondo elemento, Q. p. 140); ma ci sarebbe violazione di Fraenkel–Thierfelder–Skutsch, perché tale elemento strappato sarebbe seguito da longum bisillabico (ŏrĭ–). Orbene, si può pensare che, in un tale contesto ritmico (perché non c’è da credere ad una costante eccezione di tal tipo – e cioè in presenza di sinalefe – nell’ambito della legge di Ritschl), indidem venga sentito prima tutto intero o quasi, evitando l’impressione dello strappamento (né parola dattilica in prima sede costituirebbe violazione della legge di Hermann–Lachmann, ché essa in prima sede è consentita: Q. p. 135 ed esempi a p. 141 sgg.). Altri fatti riguardano la c o r r e p t i o i a m b i c a . Otto Skutsch28 ha stabilito la norma per cui fra brevis e brevianda ci può essere confine di parola solo quando c’è sinalefe (Q. p. 31, esempi a p. 57 sg.): Capt. 71 scĭ(o) ăpsūrde dict(um) hoc derisores dicere. Anche qui direi con sicurezza che è da escludere la spiegazione secondo la quale le due parole verrebbero sentite come una sola: tale spiegazione, pur tradizionalmente implicita presso molti, avrebbe il torto di contraddire agli altri casi. Semplicemente non si sentiva la penultima sillaba del vocabolo precedente (scĭ–, la brevians) come fine di parola (il che avrebbe vietato la correptio). Perché evidentemente quello che conta è la connessione della brevians ad un ‘contesto’ prosodico che la segua senza frapposizione di confine di parola: non la segue immediatamente la brevianda, è vero, ma ad assicurare il ‘contesto’ basta che segua, nel corpo della parola, la vocale indebolita in sinalefe (–o). Infine, una conferma di ordine prosodico–linguistico. Sempre per la correptio, è noto che essa è possibile in casi in cui l’accento si sposti per forza d’enclisi. Ora, in un esempio come Sti. 165 veteri dolŏrḗs m(i) oboriuntur cottidie, se il mi deve avere forza d’enclitica, e quindi capacità di dare a dolores l’accento d’enclisi sull’ultima permettendo cosí la correptio della penultima, deve conservare la sua corposità fonica, il che sarebbe impossibile in caso di elisione completa29. Esempi del genere potrebbero sicuramente moltiplicarsi. Io credo comunque che quelli qui portati siano già sufficienti a dar forza a una opinione che, pur non essendo comune, ha avuto episodicamente difensori piú o meno espliciti, e cioè la negazione dell’elisione in favore della sinalefe, o, meglio, la restri|| 28 O. Skutsch, op. cit., 7–59: la formulazione a p. 57. 29 Leo segna crux, Lindsay corregge in oboriunt.

212 | Sezione 1: Metrica

zione della sfera operativa dell’elisione in favore di quella della sinalefe. La limitazione di fondo che ci siamo imposti qui è quella riguardante la natura fonetica del fatto, e cioè la sua realizzazione: lasciamo il compito ai fonetisti, chiedendo loro di determinare di volta in volta in quali modi si facesse (e si faccia) sentire una vocale che non fa sillaba. Ci sono poi le limitazioni quantitative fatte presenti nel corso della trattazione: l’elisione p o t e v a aver luogo, e precisamente con parole non ortotoniche ovvero appositive; in particolari nessi verbali usuali e frequenti, in composizione o no; in particolari momenti e contesti della lingua parlata, trasferibili alle volte alla lingua letteraria, a seconda dei suoi diversi gradi di stilizzazione30. Ma nella grande maggioranza dei casi, e specialmente nella lingua della poesia e della prosa elevata, lo iato veniva evitato con una semplice sinalefe, che assicurava la conservazione della vocale, sia pure indebolita. Ho pensato, per analogia con scriptio plena, di chiamare il fenomeno p r o n u n t i a t i o p l e n a 31. In realtà il termine è un lusso, bastando la semplice designazione di sinalefe. Ma può servire per render piú evidente una contrapposizione polemica: allo stesso modo che scriptio plena, erroneamente considerata non rispondente alla normale realtà fonica, si contrapponeva ad una elisione grafica, erroneamente ritenuta specchio di reale pronuncia, cosí contrapporrei la pronuntiatio plena, che ritengo di norma la giusta, alla elisione totale, che forse, anche se qualcuno sarà rimasto convinto da queste righe, continuerà comunque a governare la nostra lettura scolastica, faticosamente meticolosa, dei testi poetici: per «guidarne la scansione», secondo la felice formulazione di Soubiran.

|| 30 Per distinguere elisione totale da sinalefe si potrebbe escogitare un espediente grafico: Verrio Fiacco (fr. 13 Fun.) «aveva proposto un segno speciale per –m davanti a vocale, costituito dalla prima parte della lettera» (Italo Mariotti, Marii Victorini ars grammatica, Firenze 1967, 219). Per altri simboli riguardanti metrica e prosodia (Varrone per la finale breve; Demetrio Triclinio per communis breve e per communis lunga; etc.) vd. L. E. Rossi, «Riv. di Filol.» 91, 1963, 70 n. 2, 60 n. 4). 31 Termine e concetto accettati da Questa, p. 147.

[Recensione] A. M. DALE, The Lyric Metres of Greek Drama, Second Edition, Cambridge, University Press 1968, pp. VII, 228 (= LM). A. M. DALE, Collected Papers, Cambridge, University Press 1969, pp. x, 307 (= CP). Poco dopo la morte di Amy Marjorie Dale (1901–1967) escono, postume, la seconda edizione del suo libro sulla lirica del dramma greco, da lei stessa curata (la prefazione è del 1966; la prima edizione era del 1948), e la raccolta degli scritti minori, venti articoli accresciuti di cinque inediti, curata dal marito T. B. L. Webster e da E. G. Turner. Sulla complessa personalità dell’Autrice niente c’è da aggiungere dopo la rievocazione, ben informata e commossa, di R. P. Winnington–Ingram, «Proceedings of the British Academy», 53, 423–36. Da W.–I., che ha avuto la fortuna di conoscerla bene e di frequentarla, apprendiamo delle sue straordinarie doti didattiche: e rileggendo il suo libro e i suoi articoli uno dopo l’altro, la fluida chiarezza del dettato e la scarsa propensione alla digressione dotta fine a se stessa e perfino alla citazione dànno l’impressione di un discorso didattico ad altissimo livello, volto a chiarire a sé e agli altri i problemi piú complessi nel modo piú semplice e piano. Da queste pagine s’impara davvero molto, e questo dipende anche dalla passione della Dale per i suoi temi, o meglio si potrebbe dire per il suo tema: il teatro greco in ogni suo aspetto. La stessa specializzazione metrica non è che una conseguenza del desiderio di ricostruire con tutti i mezzi a disposizione (e non piú che con questi!) una rappresentazione teatrale classica. I due volumi che abbiamo davanti non esauriscono la sua produzione: fuori restano alcune opere di grande importanza, come il commento all’Alcesti (1954), quello all’Elena (1967), la rassegna Greek Metric 1936–1957 («Lustrum» 2, 1957) e numerose recensioni. Questi dati sono ordinatamente raccolti nella bibliografia, CP, 295 sg. L’interesse per fatti di scena è ricco di risultati in alcuni articoli dove, insieme coi dati dei problemi, vengono proposte soluzioni audaci ma sensate, che hanno almeno altrettanta probabilità, rispetto ad altre, di essere le giuste (presenza di una sola porta sulla scena, uso di macchinario come l’ἐγκύκλημα: 1956, 1957, CP nrr. 8 e 9; il nr. 23, inedito, è in gran parte ripreso nel nr. 9). Al coro e alla sua funzione nella tragedia è dedicato uno degli articoli piú belli (1965, CP

|| [Recensione pubblicata in «RFIC» 99, 1971, pp. 172–177]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-012

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nr. 19), che chiarisce la tecnica dialogico–teatrale del coro (o del corifeo), che, quando esso abbia funzione protagonistica, rifugge dal ragionamento dialettico in uso per i personaggi e trova di volta in volta le diverse soluzioni: «The Chorus have won their point, but by choral methods, not by the rhetoric of reason», dice per es. la Dale, CP, 212 a proposito delle Supplici eschilee. Sono forse le pagine piú efficaci che siano state scritte sull’argomento dopo lo Stasimon di Kranz. La Poetica di Aristotele non poteva mancare di suscitare il suo interesse, e fondamentali restano le pagine sull’iporchema (1950, CP nr. 3) e su ethos e dianoia (1959, CP nr. 13, di cui è versione anteriore l’inedito nr. 24, ma con diversa centratura dei problemi: nel nr. 13 è fornita un’accurata discussione della teoria aristotelica, mentre nel nr. 24 il ‘carattere’ dei personaggi è guardato piú dal punto di vista della teoria moderna, che giustamente nega la necessità di coerenza psicologica nei personaggi). Numerose sono le note testuali ed esegetiche (Eschilo, Teocrito, Aristofane, Euripide). Non mancano pagine critico–letterarie di sintesi (1966, CP nr. 20 sull’Elettra di Sofocle; 1959, CP nr. 25, inedito, sugli Acarnesi: quest’ultimo è in sostanza una brillante introduzione alla commedia antica). Se qualcosa viene qui lasciato da parte, è per concentrarci sul campo in cui la Dale ha dato i maggiori contributi e nel quale era a ragione considerata un’autorità: la metrica. «L’ambiguità dei fenomeni, privi com’essi sono della recitazione viva, e la nostra limitata intelligenza della struttura strofica fanno sí che normalmente non possiamo ottenere risultati certi. ... Ma questa eccezionale fluidità, pazientemente osservata, può essere utile per impedire che la nostra scarsa conoscenza della composizione strofica ci porti prematuramente a classificare tali strutture in schemi preconcetti costruiti da noi stessi» (CP, 189). «Il risultato è che siamo in condizione di svantaggio per giudicare le ‘eccezioni’ nei poeti arcaici, trovandoci sempre, data la frammentarietà della tradizione, nell’incertezza se il problema che stiamo studiando sia reale o se scomparirebbe con un testo migliore, se esso era capito dall’antico testimone che lo discute, se rappresenta in maniera genuina un esperimento che non ha trovato seguito» (CP, 199 sg.). Queste parole sarebbero già valide nella loro nuda teorica formulazione: ma il rigore metodico che esse prescrivono è costantemente applicato. Il ‘credo’ metrico, e in particolare lirico, era già tutto contenuto nella prima edizione dei Lyric Metres (1948) e ci viene ora ripresentato in seconda edizione, a vent’anni di distanza, con piccole modifiche e con aggiunte di dettaglio1.

|| 1 Le aggiunte rispetto a LM 1 riguardano soprattutto dattili, docmi ed eolo–coriambi, come dice la Dale stessa nella prefazione. Notare inoltre, tra l’altro: 24, Notation, ovvero elenco dei simboli; 75 n. 1; 117–9, analisi della scena del sonno nel Filottete; 176 sg., i simboli del suo sistema,

rec. A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama, Collected Papers | 215

Questo libro era e resta insostituibile: chi scrive ha vari punti di dissenso, alcuni dei quali verranno espressi qui, ma non se ne può disconoscere la fondamentale sanità di principi e la chiarezza di esposizione. Chiunque si avvicini a questi studi dovrebbe leggere questo libro per primo, e non solo perché è eccellente, ma anche perché non è un manuale: bensí una monografia sulla lirica di un determinato periodo (il dramma, appunto), che conduce immediatamente in medias res e discute reali problemi d’interpretazione. I primi due capitoli trattano materia introduttiva e la terminologia, gli ultimi due la costruzione strofica e la resa sonora. Il corpo del libro è costituito dalla trattazione dei vari tipi di ritmo: dattilico, anapestico, giambo–trocaico, cretico–peonico, docmiaco, ionico, eolico (eolico–coriambico, prosodiaco–enoplio), dattilo–epitritico. Quasi sempre, dove possa esserci ragione di dissenso, è la Dale stessa a fornire i dati della discussione. In CP i piú importanti articoli metrici sono le tre puntate uscite nel «Classical Quarterly» del 1950 e 1951 (The Metrical Units of Greek Lyric Verse, CP, 41–97), dove la Dale, volgendosi alla lirica al di fuori del dramma, proponeva un sistema di notazione che permettesse, meglio dei nomi tradizionali di versi e cola, di ‘descrivere’, seguendo in questo il metodo di Paul Maas, che però aveva escogitato dei simboli solo per i dattilo–epitriti (D = h w h w h; e = h g h ecc.). Partendo dalla premessa che normalmente si ha alternanza di lunghe e brevi, che le brevi si presentano normalmente singole o a coppia ‘circondate’ da lunghe e che dove si abbiano piú di due brevi o piú di due lunghe consecutive si tratti di soluzione (w < h) o di contrazione h < w) (CP, 49), propone dei simboli molto semplici, e cioè d = h w h, s = h g h, che si possono presentare o in «prolongation» h w h w h = dd; h g h g h ss; h w h g h ds; ecc.) o in

|| elaborato nel 1950–51 ed esposto per esteso in CP, vd. oltre; 203 n.; 215–7, parziale aggiunta, nella sinossi dei cola, della sua notazione. Da approvare l’eliminazione del termine colon–caesura, che risultava poco adatto per indicare ‘sinafia fra cola’ (vd. questa «Rivista» 94, 1966, 199 sg.). – A p. 157 n. 2 = 158 (dove nel 1948 era giustamente ‘scandalizzata’ per quanto si legge in Heph. 50, 4 sgg. Consbr. su Archil. 116 D.3 = 210 Tarditi; e vd. ora una ingegnosa ipotesi presso G. Tarditi, Archilocus, Roma 1968, ad loc.) rimanda ora a CP, 191 sg., cfr. 202–4 (1964), dove fa un’ipotesi, che qui cerco di rendere più esplicita: Heph. 22, 18 sgg. definiva i dattili eolici di Sapph. 130–1 L.–P. (x x h g g h g g h g W) come dattili acataletti (23, 14) e può esser stato quindi portato a considerare il colon archilocheo (h h h g g h h h g h) come appartenente alla stessa categoria. Ma dovrebbe risultar chiaro che questa può essere stata l’idea di Efestione e che comunque per tutti e due i casi doveva essere sbagliata. Dire, come fa in CP, 204, che in lirica arcaica una frase dattilica terminante in h g g «was usable not only as a colon in a long period but could itself end a period» (rimanendo, cioè, un dattilo), è troppo grave negazione del principio di elemento indifferente finale (per ‘salvare’, poi, solo un piccolo gruppo di casi anormali). Più economico sarebbe, se mai, accettare un colon h g g h g g h g g h g h (un prassilleo catalettico), anche se esso non appare negli asinarteti archilochei a noi noti.

216 | Sezione 1: Metrica «blunt junction» (h w h h w h = d'd; h g h h g h =s's; ecc.), soluzione («resolution») è notata, per es., cosí: g g g h = rs; drag (un importante concetto introdotto e sistematizzato dalla Dale, su cui vd. oltre) con un segno di lunga sovrapposto: h h h, ‘derivato da’ h g h = s̄ (CP, 63). Il sistema non è stato applicato da alcuno, è stato, anzi, ignorato. C’è da credere che lo vedremo applicato anche alla lirica del dramma in quel «metrical companion to Greek tragedy» che W.–I., cit., 429 sg. annuncia come di prossima pubblicazione dalle carte della Dale. Non c’è dubbio che esso presenta qualche vantaggio, come quello di mostrare immediatamente alcune parentele e di presentare con maggiore evidenza visiva alcuni accostamenti (gli endecasillabi saffico e alcaico, per es., diventano s x ds x, x s x ds, CP, 93: ho sostituito x a f); e la ‘tentazione’ d’interpretazione docmiaca viene visivamente esclusa, per es., per un verso come Pind. O. l str. 10 g h h g h g h g g g W = ̭s'ss'rs, CP, 64, cfr. 66). Ma da una parte restano una quantità di sequenze per le quali la notazione in lunghe e brevi continuerà ad essere piú evidente (come le sequenze olodattiliche, i docmi veri e propri ecc.; vd. la solo parziale applicazione del sistema in LM, 215–17), dall’altra il principio di fondo (alternanza di lunghe e brevi, con non piú di due brevi) sembra una generalizzazione alla quale, allo stadio attuale degli studi, non si può ancora consentire. Penso soprattutto a Pind. O. 2 e a Bacch. 17. Almeno queste due composizioni presentano insistentemente gruppi di tre brevi e non so se siamo sempre autorizzati a darne una interpretazione che intenda due delle tre brevi come soluzione di un elemento lungo (CP, 77–9: in un verso come 0. 2 str. 2 10 g j h g h h g g g h g g g h g W è lecito vedere le regolari sequenze di tre brevi come ‘soluzione cretica’, ovvero come peoni? È la interpretazione prevalente, ma ha solo una probabilità su molte di esser la giusta; per di piú all’inizio la Dale dovrebbe notare ̭s(r)'s'sr ... e non (r)ss's ...): potrebbe trattarsi di uno di quegli esperimenti di epoca piú o meno arcaica a cui la Dale ha altrove accennato (vd. sopra), basato su un ritmo h g g g h, che non avrebbe poi trovato seguito. Finché non abbiamo a disposizione elementi per decidere, conviene attenerci alla pura descrizione, e questo sarebbe un caso in cui la notazione della Dale assurgerebbe a una ‘interpretazione’ sulla quale ci pare conveniente sollevare almeno qualche dubbio. Ma la sicurezza, il buon senso e soprattutto l’ ‘orecchio’ della Dale sono presenti in ogni pagina. Anche se – ripeto – su alcuni concetti di fondo non sono d’accordo (il continuare a non distinguere sillaba ed elemento porta a qualche inconveniente, vd. per es. CP, 186; LM, 26: cfr. questa «Rivista» 91, 1963, 52–71, che la Dale, CP, 185 n. 2 (1964) dice di accettare quasi per intero), si può ben dire che, dopo la disordinata ricchezza di Wilamowitz e il forse eccessivo rigorismo sistematico di Maas, le sue vedute hanno la documentata ricchezza del primo e

rec. A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama, Collected Papers | 217

il rigore del secondo. È impossibile qui dar conto di tutte le cose interessanti o nuove e basterà accennare solo ad alcune. In un lavoro giovanile (1936, CP nr. 1), studiando le clausole nella lirica sofoclea, introduce il concetto di drag o «heavy close» (CP, 8 e pass., vd. l’indice: anche LM pass.), una specie di ‘rallentando’ finale (per es. O. T. 871 sg., due volte di seguito la finale ... h h h ||), per il quale Maas aveva proposto piú tardi il termine, assai ben trovato, di cholosis (CP, 67 n. 1): in sostanza, una sequenza molossica quando ci si aspetterebbe sequenza cretica, un caso di quantità ‘irrazionale’ che si presenta in modo caratteristico nelle clausole. Da segnalare le spesso sottili osservazioni sugli anapesti attici, cioè recitativi, e dorici, cioè lirici (LM, 47 sgg.), specialmente per i casi in cui la distinzione dialettale, e contemporaneamente scenico–strutturale, non è agevole. Parlando di costruzione strofica (LM, 195 sgg.), è data valida espressione all’ambiguità e alla difficoltà di distinguere, alle volte, verso da sistema, uno dei piú spinosi problemi della nostra disciplina (197 sg.: un ‘tetrametro’ troc., contestuale a ‘esametri’ troc. che mostrano la loro chiara natura di sistemi – Ar. ran. 534 sgg. –, è a sua volta da considerarsi un sistema?2. E la migliore introduzione al problema della responsione strofica della musica è quella che troviamo in LM, 204 sgg. Dove poi la Dale mi trova particolarmente consenziente è nella negazione di un particolare ethos ai singoli versi o cola: sebbene lo conceda a fatica e solo episodicamente ai soli docmi (LM, 110; CP, 254), in generale lo nega recisamente (CP, 254–8) e arriva a dire con spirito che «one swallow does not make a summer, nor one dochmiac even a spasm of emotion» (258)! Particolarmente preziose poi sono le numerose notazioni di ambiguità, o meglio di polivalenza ritmica (LM, 8, 43, 53 sgg., 59 sgg., 105 sgg., 128 sgg., 139, 158, 190 sgg.; ecc.) di dattili–anapesti, anapesti–docmi, eolici–ionici e cosí via (avrei messo anche l’accento su coriambi–ionici e mi sarei aspettato un cenno su O. T. 483 sgg.): la ‘ modulazione’ ritmica è tra l’altro, come credo di aver mostrato altrove («Ann. Sc. Norm. Pisa» S. II 33, 1964, 124–6), una forte prova contro l’esistenza dell’ictus, al quale anche la Dale è contraria (vd. per es. LM, 5, pass.; CP nr. 21, un inedito). Resto dell’idea che fine di parola generalizzata, o incisione, è caratteristica essenziale e costante solo del verso recitativo (vd. questa «Rivista» 94, 1966, 195–204), ma il materiale offerto qua e là dalla Dale (LM, 64, 81 sg., 92 sg., 100 sg.; CP, 135 sg.; ecc.)3 mi convince del fatto che artifizi di métrique verbale

|| 2 Il verso, che fin da LM1 veniva chiamato minor period, in CP, 86 n. 1, cfr. 45 (1950–51) viene chìamato period (in CP, 94 si usa line). Meglio generalizzare minor period. 3 Vd. anche D. Korzeniewski, Griechische Metrik, Darmstadt 1968, 16, 102, 117, 139. L. P. E. Parker, «Cl. Quart.» 16, 1966, 1–26 e 18, 1968, 241–69 nota invece fatti ritmici somiglianti a

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p o s s o n o essere alle volte presenti anche nel verso lirico (restando pur sempre inessenziali alla sua struttura), come espediente tecnico in piú. Non si può negare che, per es., in Aesch. Suppl. 112 ~ 123 la corrispondenza di gruppi verbali è ricercata: τοιαῦτα πάθεα μέλεα θρεομένα λέγω ~ θεοῖς δ’ ἐναγέα τέλεα πελομένων καλῶς (LM, 82; ho dei dubbi su Ag. 222, visto che γάρ è pospositivo), o che alle volte cretici, bacchei (τίς ἀχώ, τίς ὀδμὰ …) o molossi si presentino in isolamento verbale con un particolare voluto effetto (LM, 101). E cosí via. Oggi sarei meno reciso di quanto non fossi in «Ann. Pisa», cit., 127 n. 16 nel criticare quanto è ora ristampato in CP, 135 sg. Vorrei far qui seguire alcune critiche, dal mio punto di vista, a questioni o problemi specifici, dove peraltro si è ancora lontani da un accordo generale. Penso, per es., alla vexata quaestio di sincope, o meglio protrazione: attribuzione del valore di piú di due more ad alcune lunghe per far ‘tornare conti’ ologiambici o olotrocaici (f h g h h g h interpretato come dimetro giambico ‘sincopato’). Qui la Dale alle volte mostra prudenza (LM, 3 e n. l, 5 n. 2, 19 sg.), mentre spesso altrove è forse troppo propensa a compromettersi; e si aggiunga la fede nel «syllable counting» puro e semplice quando si abbiano responsioni come g g g ~ h g g e simili, frequenti in Aristofane (LM, 65 sgg., 78 sg., 89 sgg.), ma è la Dale stessa a riconoscere che «so unorthodox a departure from quantitative determination may be felt hard to swallow» (LM, 65) e il problema resta in realtà sconfortevolmente aperto. Mi limiterò a sollevare qualche dubbio sulla validità della distinzione fra «composizione a cola», che sarebbe propria della lirica del dramma (CP, 45, 59, 66 n. l, 86 sg., 89 e pass.), e «composizione a periodo» (e cioè a verso preso come un tutto), che sarebbe propria della grande lirica corale («periodic style», CP, 53, 60 e pass.). Da quanto è detto specialmente in CP, 45 si evince che si vogliono sostanzialmente distinguere versi in cui l’identificazione dei cola è agevole e versi in cui non lo è: ma, a parte questa differenza, che origina dalla nostra ‘ignoranza’ ritmica e storica, in che cosa un priapeo (gliconeo piú ferecrateo) differisce da un complesso verso dattilo–epitritico dal punto di vista della sua struttura? Né la Dale si serve di tali classificazioni quando ci fornisce uno dei suoi efficaci quadri storici dello sviluppo della poesia lirica greca (CP, 160, 169). Perché la metrica è per la Dale non solo esercizio di sensibilità ritmica, ma anche filologia nel senso piú completo: applicazione alla critica testuale e all’esegesi ed elemento di quadro storico. C’è solo da augurarsi che questi due libri trovino molti lettori, e tra i filologi in fieri e tra quelli maturi. || quanto si ha nei versi recitativi (soluzioni, legge di Porson), che però non hanno a che fare con la vera e propria métrique verbale.

[Scheda bibliografica] DE OLIVEIRA PULQUÉRIO M., Características métricas das monódias de Eurípides (Fac. de Letras da Univ. de Coimbra, Inst. de Estudos Clássicos). Coimbra 1969, pp. 92. Il lavoro dà quello che il titolo promette: un’analisi metrica condotta con criteri in generale sani e chiari (pur se persiste, anche qui, la confusione fra verso e colon, vd. p. es. pp. 26, 52); ad ogni sezione di testo segue la giustificazione critico–testuale delle lezioni scelte e ad ogni analisi metrica segue un apprezzamento generale dello ‘stile’ della monodia. Qui si farebbe a meno delle frequenti valutazioni ‘etiche’ dei ritmi: si può dire, con qualche fondamento, che (p. 56) nella monodia di Elettra in Or. 960 sgg. il passaggio dalla forma antistrofica a quella astrofica corrisponda ad un passaggio da angoscia ad attitudine «menos pessoal»? Dovrebbe essere, se mai, il contrario, per la maggiore varietà ed agilità delle forme astrofiche! L’A. non pensa di poter trarre dalle sue analisi conclusioni cronologiche (p. 10 sgg.) e si limita ad osservare che il ricorso alle monodie si fa piú frequente nelle tragedie di sicura collocazione cronologica tarda. Il lavoro si sarebbe avvantaggiato di un inquadramento storico, in cui si fosse tenuto conto, fra l’altro, del ditirambo contemporaneo ad Euripide e a lui immediatamente posteriore.

|| [Scheda bibliografica pubblicata in «RFIC» 99, 1971, p. 251]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-013

[Scheda bibliografica] PIGHI G. B., Studi di ritmica e metrica. Raccolti a cura della Facoltà di lettere dell’Università degli Studi di Bologna, Torino, Bottega d’Erasmo 1970, pp. XLVI, 634. In questo ampio volume, stampato con largo dispiego di mezzi tipografici, sono raccolti gli studi di ritmica e metrica di G. B. Pighi, professore emerito dell’Università di Bologna. Si tratta di un omaggio all’illustre studioso, introdotto da una presentazione del compianto C. Del Grande e da una bibliografia completa degli scritti a cura di E. Pasoli. I lavori, tutti già pubblicati meno uno (87 sgg., Il Partenio del PLouvr E 3320, scritto nel 1966), sono distribuiti in sezioni: I. Metrica storica (utile panorama , organizzato secondo criteri classificatori dei diversi modi del versificare); II. Ritmica e musica (analisi di testi greci e latini); III. Ricerche sulla notazione ritmica greca (sulla base di due testi papiracei); IV. Versificazione di parola in latino (principalmente la sua teoria ‘verbale’ del saturnio); V. Metrica latina (teoria ed analisi); VI. Metrica italiana (poesia ‘barbara’ e studio dei procedimenti di alcuni poeti moderni); VII. Progymnasmata (varie composizioni latine – fra cui una commedia con musica, Rudens resartus –, che testimoniano la ben nota attitudine ‘umanistica’ dello studioso). Su tutta la produzione ritmico–metrica di P., che si presenta spesso con caratteristiche di notevole originalità, pesa l’ipotesi ‘musicale’ (equiparazione, cioè, della musica antica alla moderna, soprattutto per quello che riguarda la battuta, ipotesi che, pur avendo avuto nel passato illustri sostenitori (Westphal), è oggi generalmente abbandonata). È un peccato che P., nel ristampare una sua recensione a Del Grande (1928), affermi oggi di non sentirsi piú di «sottoscrivere» ad alcune sue «osservazioni e abbozzate teorie di allora» (p. 187) e non ci specifichi di quali si tratti. Ma ancora oggi si sente di sottoscrivere a una interpretazione ritmica del Peana del P. Berol. 6870 (oggi fr. 52 Heitsch) proposta nel 1948 sulla base di una analisi della Sonata op. 27 n. 1 di Beethoven (p. 303 sgg.)! Comunque, anche se si dissente su questioni di fondo, dagli scritti di P. s’impara sempre ed è utile averli tutti riuniti.

|| [Scheda bibliografica pubblicata in «RFIC» 99, 1971, pp. 253–254]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-014

[Recensione] D. KORZENIEWSKI: Griechische Metrik. Darmstadt (Wissenschaftliche Buchgesellschaft) 1968. Reihe: Die Altertumswissenschaft. 216 S. DM 24.10; f. Mitgl. DM 18.80. Dieses Handbuch gehört zweifellos zu den am meisten mit Freude zu begrüßenden und nützlichsten Exemplaren dieser wissenschaftlichen Gattung. Der Fortschritt auf dem Gebiet der Metrik würde vielleicht besser durch Arbeiten anderer Art gefördert: Man vermißt noch z. B. Einzeluntersuchungen über bestimmte Autoren und Versgattungen (A. M. DALE, The lyric metres of Greek drama, London2 1968 und F. PERUSINO, Il tetrametro giambico catalettico, Rom 1968 sind unter den neueren Erscheinungen willkommene Ausnahmen)1, und die Verarbeitung einer modernen, auf das Laufende gebrachten Theorie der antiken Metrik steht noch aus (nur der slawischen und englischen Verskunst ist in dieser Hinsicht ziemlich reichlich gedient worden); ein dringendes Desideratum wäre auch ein Repertorium der verschiedenen Verse und Versglieder (Kola), das die geschichtliche Entwicklung der griechischen Verskunst besser erhellen könnte; und letztlich müßten auch die antike Verslehre oder die metrischen Theorien der Alten auf neuer Grundlage überprüft werden. Ein neues Handbuch bedarf also m. E. der Rechtfertigung, denn seine Nützlichkeit darf eigentlich bei der Erscheinung in Frage gestellt werden: Voraussetzung muß sein, daß es Ungeordnetes in Ordnung bringt und Neues bei der Bearbeitung des Stoffes liefert. Hier sind beide Voraussetzungen verwirklicht, besonders die zweite wegen der reichhaltigen Observatio erster Hand; was die erste betrifft, das Werk empfiehlt sich als die brauchbarste Erfassung der besten metrischen Forschung der letzten Jahrzehnte. K. bietet nämlich eine Darstellung, in der die Sprechverse, die das Hauptanliegen von P. MAAS waren, und die Singverse, die B. SNELL als erwünschte Ergänzung in ausgedehnterem Maße berücksichtigt hatte, in gutem Gleichgewicht behandelt sind. Der Gelehrte und der Studierende können mit gleich hohem Gewinn das Handbuch K.s zu Rate ziehen. Ich denke sogar, daß es in andere Sprachen übersetzt werden sollte. Das Buch gliedert sich in fünf Teile: Allgemeines; Sprechverse; Singverse, ϰατὰ μέτρον gebaut; Singverse, nicht ϰατὰ μέτρον gebaut; Zusammenfassung; || [Recensione pubblicata in «Gymnasium» 80, 1973, pp. 486–488] 1 Zu den beiden Werken vgl. D. KORZENIEWSKI, Gnomon 41, 1969, 333–335; 42, 1970, 759–764; Rez., Riv. di filol. 99, 1971, 172–177. https://doi.org/10.1515/9783110647983-015

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den Abschluß bilden reichhaltige Indices von Stellen, Namen und Sachen, modernen Autoren. Im ersten Teil werden die Grundlagen gegeben, die immer auf gesunder Gelehrsamkeit fußen: Hier findet man eine klare Zusammenfassung unentbehrlicher Begriffe wie Metron, Vers, Periode, Strophe, die sonst oft durcheinander gebraucht werden (nur wäre es angebracht gewesen, hier auch eine Definition von System zu geben, das dann natürlich später erwähnt wird, vgl. Indices, s. v.). Die anderen Teile, in denen die Versgattungen folgen, enthalten das meiste der frischen Observatio bei der Behandlung der Beispiele. K. behauptet entschieden die Notwendigkeit eines Weges, den schon andere eingeschlagen hatten, wohl aber mit geringerem Bewußtsein: „Eine Metrik ohne das Wort ist leer und tot“, schreibt er 161. Was man mit den Franzosen métrique verbale zu nennen pflegt, die die Technik des Versbaues erklärt, wird hier zu einer Art interprétation verbale, d. h. zu einem Versuch, „die Übereinstimmung von Metrum und Inhalt ... als Bestätigung der metrischen Analyse“ anzusehen; sollte diese Übereinstimmung in bestimmten Fällen fehlen, „so berechtigt das niemals zu dem Fehlschluß, sie sei überhaupt nirgendwo vorhanden“ (a. O.). K. hat dieses Verfahren schon in anderen Arbeiten durchgeführt (Rh. Mus. 104, 1961, 193– 201; 105, 1962, 142–152; Helikon 6, 1966, 548–596; 7, 1967, 27–62) und führt es in den Einzelanalysen seines Handbuches weiter. Wortresponsion ist freilich der klarste Fall (Sapph. fr. 1, 15 L.-P., S. 136), aber eine feinfühlige Lektüre kann in dieser Richtung weitere Erscheinungen hervortreten lassen. Es ist hier nicht der Ort, mehrere genaue Hinweise anzugeben, und ich will mich auf einen beschränken. Alk. fr. 10 B, 1 L.–P. ἔμε δεíλαν | ἔμε παíσαν | ϰαϰoτάτων | πεδέχοισαν (vgl. Hor. carm. 3, 12) z. B. zeigt eine deutliche Übereinstimmung von Metrum und Wort, in dem Sinne, daß zwischen den ionischen Metra jedesmal Wortende stattfindet; das Merkwürdige ist, daß es sich in solchen Fällen immer um den ersten Vers der Gedichte handelt, wobei sich eine zielbewußte Absicht geltend macht, und zwar die, den metrischen Bau gerade am Anfang klarer hervortreten zu lassen (S. 16, 102, 117, 139). Das widerstrebt nicht der allgemeinen Grundlage, daß in der griechischen Metrik regelmäßiges Wortende (das man Zäsur nennt) im Sprechvers, und nicht im Singvers, zu Hause ist: eben solche pointierten Ausnahmen, die umfangreicher und klarer als andere Gelehrte hervorgehoben zu haben K.’s Verdienst ist, bestätigen, daß das Gesetz ein allgemeingültiges ist. An das Gesetz glaubt K. auch (15), und ich denke, daß es eine größere Verbreitung in der metrischen Forschung verdient (die erste Formulierung ist, m. W., Rez., Riv. di filol. 94, 1966, 195 ff.). 2 In diesem Sinne meine || 2 Geregeltes Wortende (Zäsur) würde ich entschieden nur für Sprechverse gelten lassen und nicht auch, wie K. 15 zu meinen scheint (vgl. jedoch 15, Anm. 21: „...analoge Erscheinungen in

rec D. Korzeniewski, Griechische Metrik [1973] | 223

ich, daß sich métrique verbale in interprétation verbale umwandelt: Vgl. z. B. 165 die Analyse von Soph. Ant. 781 ff. Es besteht trotzdem die Gefahr, auf diesem Weg zu viel wiedergewinnen zu wollen: Man hat oft an ein Ethos der Versgeschlechter geglaubt (so auch K. 6. 170: Dochmius. 114: Choriamben und Ioniker. 125 f.: verschiedene Asynartetenkola usw., pass.), und man ist auch der Versuchung erlegen, solche, erstarrten‛ Stimmungen, die sich im Wortlaut der Lieder widerspiegeln, zu suchen und zu finden. Nun, man weiß, daß, wenn es auch solche Gesetze gibt, sie nicht immer respektiert werden. Sie werden vielmehr oft bewußt übertreten, um bestimmte Wirkungen zu erreichen, so z. B. bei den Gesetzen der literarischen Gattungen (darüber Rez., Bull. Inst. Class. St., London 18, 1971, 69–94) und bei der musikalischen Affektenlehre des 17. und 18. Jh.; so besonders in der gut bekannten Ethoslehre der griechischen Musik. Alle diese Gebiete haben Gesetze gehabt, die teilweise respektiert und teilweise übertreten wurden. In der zuletzt genannten Musik gab es natürlich auch eine ethische Regelung des Rhythmus, und in diesem (musikalischen) Sinne ist man ohnehin berechtigt, von einem (musikalischen) Ethos des daktylischen, anapästischen usw. Rhythmus zu sprechen. Aber eine Regelung des Ethos der Verse gab es nicht, wie man aus den Zeugnissen sehen kann, so daß für einen solchen ästhetisch–theoretischen Bau nur die moderne Philologie verantwortlich sein kann, und ihm fehlt oft jede vertrauenswürdige Grundlage. Das ist meinerseits ein allgemein methodischer Vorbehalt, der aber keineswegs den Wert vieler Einzelerörterungen K.’s beeinträchtigen will. Es ist unmöglich, im Rahmen einer kurzen Anzeige den Reichtum an Neuem, den dieses Buch bietet, auch nur anzudeuten. Das habe ich anderswo zu tun versucht (Riv. di filol. 97, 1969, 314–323), wo auch einige Meinungsverschiedenheiten in einzelnen Fragen zu finden sind. Hier sei noch beispielsweise auf die neu erstellten Statistiken für den iambischen Trimeter (45ff.) hingewiesen sowie auf die breite Übersicht der hellenistischen Nachahmungen der epodisch–asynartetischen Bauweise (127), die SNELLS Behandlung nunmehr ersetzt. Erweiterungen der Brücken von WILAMOWITZ–KNOX und HAVET sind 51f. 69 zu finden. Eine scheinbar unwichtige terminologische Neuerung wie, Stichometrie‘ statt, Kolometrie“ (9f.) macht sehr angebrachterweise darauf aufmerksam, daß das, was wir heute als Hauptaufgabe empfinden – die Abteilung

|| Singversen“), für ϰατὰ μέτρον gebaute Singverse; lyrische Daktylen, Kretiker, Choriamben usw. haben normalerwiese keine regelmäßigen Zäsuren (so hat schon K. RUPPRECHT in seinen Vorlesungen gelehrt, wie mir seinerzeit K. selbst brieflich mitteilte). Pointierte Ausnahmen Rez. Riv. di filol. 97, 1969, 321; 99, 1971, 176f. (nach A. M. DALE); R. PRETAGOSTINI, ebd. 100, 1972, 262f.

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der Verse oder Stichoi – von den alexandrinischen Gelehrten eigentlich vernachlässigt worden ist (sie widmeten sich fast ausschließlich der Kolometrie, d. h. der Abteilung der Kola), und es wäre unrichtig, unsere Tätigkeit heute noch mit diesem Namen zu benennen. Alles in allem, ein ausgezeichnetes Buch, das auf unserem Gebiet einen wesentlichen Fortschritt sowie eine gediegene Hilfe in Forschung und Unterricht bedeutet.

Verskunst I. Allgemeines. II. Grundbegriffe, a) metr. und rhythm. Einheiten; b) Versarten: Sprech– und Singverse; Asynarteten; c) Strophik und Strophenbau; d) Vortragsarten: Metrik und Musik. III. Griech. V. IV. Lat. V. V. Gesch. der metr. Theorien, a) die Alten; b) moderne Forschung. VI. Zeichen und Abkürzungen. I. Für das Verständnis der ant. V. ist man auf observatio (Beobachtung der Praxis) und auf ant. Theorie angewiesen; mod. Theorie ist insofern gültig, als sie die beiden ersten Faktoren berücksichtigt. Von der V. wird die sprachl. Erscheinung gestaltet. Der Sprachforschung verdankt man die – wenn auch lückenhafte – Kenntnis von Prosodie und Akzent. Da die griech. Dichtung meist vertont und z. T. auch getanzt war, tritt auch die uns leider zu wenig bekannte → Musik hinzu. Das wichtigste gestaltende Element war die Quantität (kurz/ lang). Zum musikal. Akzent der Griechen bei der stroph. Responsion der Vertonung s. z. B. [9], 204ff. Ein metr. Iktus ist im Griech. wohl auszuschließen; ob im Lat. ein Widerspruch Iktus/ Akz. bestand, steht noch zur Debatte (s. Lit.–Berichte). Bei der metr. Analyse muß man zw. bestimmter Erscheinung (Schema eines 6 6 Verses, Folge von Silben: Hom. Il. 1, 1 ... h h ||, 2 ... h g ||) und metr. Typus 6 (Schema eines Verstypus, Folge von metr. Elements: 6da ... h W; [6], [2]), d. h. zw. »verse instance« und »verse design« (JAKOBSON) unterscheiden. Eine Silbe (Bestandteil eines Verses) ist immer entweder kurz oder lang; ein Elementum (Bestandteil eines abstrakten Schemas) kann kurz, lang, frei und indifferens sein (s. IIa. VIa). II. a) Metr. (d.h. zur Messung bestimmte) Einheiten sind: Fuß (nur für die archaische lat. V. gültig, s. IV), Metron (vollständige Dipodie nur bei tr ia an). Rhythm. (d.h. wirkl. und lebendige: »Der Vers ist älter als seine Messung«, [5], 25) Einheiten sind: Kolon (Bestandteil einer höheren Einheit: Soph. Oid. K. 1217f. = HW H H 1231f. gl gl || )[*], Vers (kleinste selbständige Einheit, s.u.: a.O. 1215 ‒ 1229 || gl || ), System (dem Vers ähnlich, aber längere Folge von Metra – Aristoph. Ach. 673ff. – 699ff. 9cr |||. Ran. 384ff. – 389ff. 10ia^ |||. Soph. Oid. K. 229ff 26 da – oder von || [Voce enciclopedica pubblicata in Der kleine Pauly, Bd. 5, 1975, coll. 1210–1218, con Corrigenda et addenda alla fine del volume (qui però inseriti in nota)] [*] (CORRIGENDA ET ADDENDA Spalte 1211, 30ff.) erg.: Über die Bestimmbarkeit der Quantität des Endelementums gewisser Kola (enh, ith usw., vgl. S. 1217, 24ff.) R. PRETAGOSTINI, RFIC 102, 1974, 273ff. https://doi.org/10.1515/9783110647983-016

226 | Sezione 1: Metrica Kola – typ. Fall Folge von 2an(^) | bei Chorbewegungen im Drama; oder Folge von 4da |, Soph. Oid. K. 250ff. 4da | 4da | 4da |; sonst z. B. Aristoph. Ach. 358ff. – 385ff. 7δ ||. Equ. 973ff. 6 Syst. 3gl pher |||), Periode (vom Rhythm, bedingte Vers– oder Systemgruppe kleiner als die Strophe: Eur. Hec, 905ff. – 914ff. gl || e h D h || e h D h || pher P gl gl | gl cr arist |||, zwei deutliche Perioden; die Periode war durch Musik und Tanz anschaulich gemacht), Strophe (Vers–, System– oder Periodengruppe), strophisch respondierendes Gebilde (Strophik, Folge von resp. Strophen: AAA ..., AABAAB ..., AABCCD .... AABBCC ... usw.). Grundeinheit ist der Vers, dessen Begrenzung einer an sich genügenden Bedingung bedarf: 1. Wortende (|) (so schon Heph. 14,22 C.), wozu zwei andere zur Bestätigung hinzutreten können: 2. Hiat (H), sonst im Versinnern gemieden, und 3. Elementum indifferens (ἀδιάφοϱον; »anceps« wird von den Alten nicht gebraucht, [2]), d.h. (selbstverständlich einsilbiger) am Ende durch Responsion und/oder metr. Schema feststellbarer Wechsel kurz/lang (not. W, [6], Nachtr. zu § 34 [2]). Da einfaches 1. ohne 2. und/oder 3. keine sichere Entscheidung erlaubt, darf man 4. cognitio metrorum (Stil, Kontext) zu Hilfe ziehen, um eine Folge als Vers zu bestimmen (d.h. um ein einfaches | zu || zu promovieren: z.B. Pind. O. 3 Str. 1 D h e h D | (so [17]) ist gewiß ein selbständiger Vers – vgl. Ep. 4 und auch Str. 3, außer O. 6 Ep. 1; O. 7 Str. 5; P. 4 Ep. 2 also | > ||, wie bei [6], § 55). Das alles ist, mit Änderungen in den t. t. ([2]. [3], 188), die glänzende Wiederentdeckung von A. BOECKH (Pindari Opera 1, 1811, 82. 308ff.): dadurch konnte bes. die Lyrik nach der Beschädigung der Überlieferungsstufen (s. Abschn. V) wiederhergestellt werden. Natürlich darf ein Kolon nicht nur als solches, sondern auch als Vers erscheinen, wenn es an seinem Ende die Versendbedingungen zeigt (s.o. bei Soph. gl als Vers und als Kolon; vgl. VIc. e). b) Ein inneres Kriterium ermöglicht die Unterscheidung zw. zwei Versarten: Sprech– und Singversen. Bei den ersten merkt man ein regelmäßiges Wiederkehren von Wortenden, was zur Bestimmung der Einschnitt– (d.h. Zäsur–)stellen führt (dazu »elisio non officit caesurae«, G. HERMANN). Die Singverse dagegen zeigen kein regelmäßiges Wiederkehren des Wortendes; die lyr. Kola werden meist durch Synaphie (Wortübergreifen) aneinandergereiht (ihre Gliederung dürfte also nicht durch das Wort, sondern durch die Musik hervorgekommen sein). Ein lehrreiches Beispiel: Pind. N. 9 Str. 1 (11 mal wiederholt), scheinbar 6da, aber tatsächlich da–ep der Form D h D W, nur V. 36. 46 könnten 6da mit regelrechten Einschnitten (s. VId) sein, die übrigen 9 (!) nicht. Um Wortgrenze zu bestimmen, bedient man sich des Begriffes »Wortbild« ([6], § 135. [15), 142ff.): an das Wort lehnen sich die Appositiva an, und zwar Praepositiva (Artikel, Präposition, Konjunktion usw.) und Postpositiva (Enklitika, Partikeln usw.), die keinen Einschnitt nach bzw. vor sich dulden. Eine Versart für sich bilden die

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sog. Asynarteten (asyn) (ἀσυνάϱτητα Heph. 47, 1ff. C.; [8], 32f. [10], 123ff.): zwei lyr. Kola normalerweise vom einfachen Wortende getrennt (hem | hem ||, der daktyl. Pentameter; 4da | ith ||, Archil. 191,1 W.; usw.), was ein Gebilde in der Mitte zw. Sprech– und Singversen darstellt ([3], 200f.)[*]. Die Sprechverse sind alle ϰατὰ μέτϱον (d.h. durch Wiederholung von gleichen Metra, s. VId) gebaut; die Singverse können ϰ. μ. (s. VIe1) oder nicht ϰ. μ. (d.h. nicht nach Metra analysierbar) gebaut sein (s. VIe2). Auch bei den Kola kann man dieselbe Unterscheidung machen (s. VIc1. 2), doch darf man dabei nicht immer ganz sauber klassifizieren wollen: z.B. können gl und verwandte Kola entweder äolisch als nicht ϰ. μ. gebaut (Soph. E1. 473ff. = 489ff. ascl^ gl || ...) oder choriambisch als ϰ. μ. gebaut (Eur. El. 170. 173. 184 ~ 193. 196.207 sogar gl ~ 2cho) je nach Kontext aufgefaßt werden; dazu können sich arist in nicht choriamb. (Aischyl. Hik. 782 = 791. Soph. E1. 859 = 870) und adon in weder daktyl. noch choriamb. (als Klauselkolon der sapph. Strophe) Kontext befinden, so daß ein einheitlicher und nicht, wie sonst, ein Bau ϰ. μ. zu empfinden ist (s. VIc3). c) Über Strophik s. IIa; über Strophenbau einiges später (III). Hier nehmen wir die epod. Formen vorweg: z. B. 6da || hem | hem ||| (eleg. Distichon; → Elegie), 4da | ith || 3ia ||| (Archil. 191 W.); es sind die kleinsten Strophen, mit asyn (s. b) gebaut, die später auch in der röm. Z. mehrfach variiert werden ([10], 127f.). d) Chorlyrik und monod. Lyrik wurden in archaischer und klass. Z. gesungen. 6da in arch. Z., asyn, eleg. Distichon und sonstige Epoden (s. c), Marschanapäste, Langverse des Dramas (4tr^, 4ia^, 4an^), 2tr(^), 2ia(^), 2an(^) im πνῖγος ([4]. → Komödie) wurden in einer Art Rezitativ (παϱαϰαταλογή) vorgetragen (viell. nicht immer: PICKARD–CAMBRIDGE Dram. Fest., 2156ff), das von → Kithara oder → Aulos begleitet wurde. Die Vortragsweise der eigentl. Sprechverse (6da seit klass. Z., 3ia) war die einfache Rede. Das Zeugnis der Vortragsarten wird also zum äußeren Kriterium (vgl. b) zur Unterscheidung der Versarten. Über Rom s. IV. III. Die erste Form, die man findet, ist 6da, der daktyl. Hexameter, der die ganze griech. Lit. bis zu ihrem Ausklang durchläuft (Epos, Lehrgedicht, Elegie, Epigramm usw.). Zu Bau und Einschn. s. VId. Zwei Gesetze werden so gut wie nie verletzt: Zweiteilungsverbot (... h3 jc...) und HERMANNS (Orph., 1805, 692ff.) Brücke (... h4 gbg ..., nur im Griech.); in hellenist. und röm. Z. unterliegt er immer strengeren Gesetzen ([6], § 90ff. [15], 126ff.). Über den kitharod. und aulod. → Nomos wissen wir wenig. → Archilochos führt 3ia, 4tr^, asyn und epod.

|| [*] (CORRIGENDA ET ADDENDA Spalte 1212, 47) füge ein: Jetzt aber läßt der neu veröffentlichte Archil., Pap. Colon. 7511, Frg. a, 3ia || hem | 2ia |||, eine gesch. Entwicklung der Technik spüren: zw. den Kola elem. indiff. 1. 7. 21. 33, Hiat 3.17; vgl. Hor. epod. 11.13.

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Dichtung ein ([20]). 3ia und 4tr^ (zum Bau s. VId) respektieren PORSONS (Eur. Hec., 1802) Gesetz (... hbh g W), das HAVET auf den Anf. des 4tr^ ausgedehnt hat (|| h g h hb ...): beide gelten später nur für Trag, (nicht für Satyrspiel und Kom.). Andere Gesetze nur für die arch. Iambographen ([10], 51f. [16]). → Hipponax hat den Hinkiambus (... g h h W) und den sog. ἰσχιοϱϱωγιϰός (... h h h W). Die große Chorlyrik fängt für uns mit → Alkman an: einfacher Strophenbau, schon sog. stesichor. Triade (AABAAB ...). Ungefähr gleichzeitig blüht in Lesbos die monod. Lyrik (→ Alkaios 4, → Sappho): die äol. zweisilb. freie »Basis« (x x) und die Ablehnung der (»ionischen«) Gleichung h h g g haben dazu geführt, diese V. als »silbenzählend« zu bezeichnen. Die Verse sind ϰ. μ. und nicht ϰ. μ. gebaut ([21]); der Stropbenbau ist einfach (z.B. sapph. Str.: endS || endS || endS adon |||), ebenso das respondierende Gebilde (AAA ...). → Anakreon vertritt die ion. monod. Lyrik: kleine Strophen aus gl (und 2cho) mit pher–Klausel, aus 2tr, anacl, 2ion; ion, cho größeren Umfanges; asyn usw. ([19]). Der Strophenbau ist einfach und entspricht den Ansprüchen des ion.–att. → Symposions: Ähnliches findet man in den carm. conviv. (884ff. P.: kleine Strophen aus ia, cho, phal), während die versch. Arten des Volksgesangs (carm. pop., 847ff. P.) formenreicher sind (bei → Arbeitsliedern; s. dazu z.B. Aristoph. Pax 459ff. Eur. Cycl. 656ff.). Volkstüml. Einfachheit hat bestimmt monod. Lyrik sowie später Satyrspiel und Kom. beeinflußt. Seit altersher gab es die Marschanapäste (2,4an(^), → Embateria: 856f. P.), die später im Drama die Chorbewegungen begleiteten ([9], 47ff. [10], 87ff.). → Korinna hat den »polyschematistos« Dim. (Heph. 56,5 C.; durch Pap. bestätigt), d.h. 2cho, dessen 1. (selten 2.) Metron sehr frei ist; dieselbe Erscheinung auch bei Eur. (z. B. Hel. 1301ff.; [5], 210ff., woraus die Bez. »wil«). Wenn Kor. alt ist (6.Jh.), kann ihr Zeugnis von großer Tragweite für die Altertümlichkeit einiger (wohl nicht aller) Responsionsfreiheiten sein ([32], 51ff.). Zw. 7. und 5.Jh. entfaltet die große Chorlyrik (→ Chor) einen reichen Vers– und Strophenbau: → Stesichoros, → Ibykos, → Simonides (1), bes. → Pindaros (3) und → Bakchylides erlauben, uns davon ein klares Bild zu machen. Die Verse sind da–ep (s. VIc2. [17]. [18]), freie Nachbildungen aus der äol. Lyrik (s. VIe2) und ein noch nicht geklärtes »metr. ex ia ortum« ([18], XXXIVff.: Pind. O. 2. Bakchyl. 17 usw.). Die Strophe (meist AABAAB ...) ist lang und ausgearbeitet und wird von Gedicht zu Gedicht variiert, was auch später üblich sein wird. Das att. Drama des 5.Jh.s benützt 3ia für den Dialog und zieht für die lyr. Gesänge alle vorigen Formen heran, wodurch ein »eklektischer« Stil entsteht (s. bes. [9]. [8], 46ff. [10], 162ff.). δ scheint Erfindung des Dramas zu sein. Über individuelle Eigentümlichkeiten der einzelnen Autoren s. [11]. [12]. [13]. [14]. Der Strophenbau ist am Anf. einfacher als in der Chorlyrik, um allmählich komplexer zu werden, bis er in den euripid. monod. Astropha gipfelt (vgl. die Entwicklung der

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Musik: → Timotheos (4) und der neue → Dithyrambos). → Aristophanes (3) lehnt sich z.T. an volkstüml. und sakrale Dichtung an (ED. FRAENKEL Beob. zu Aristoph., 1962, 189ff.) und polemisiert gegen die euripid. Neuerungen, die er z.T. auch akzeptiert. Die Lebendigkeit der lyr. Formen ist durch den Verfall der großen Lyrik im 5. und des Dramas im 4. Jh. bedingt. Einige lyr. Verse werden stichisch gebraucht ([26], 61ff. [6], § 15). Wenig wird in hellenist. Z. noch vertont, und der alte rhythm. Reichtum wird selten: s. z.B. astrophische Gesänge (Frg. Grenfell., S.177 Pow.: → Simodoi) und Kultgesänge (Delph. Paiane usw.). Sonst herrschen nunmehr hauptsächl. 6da (immer strenger bis → Nonnos gebaut, s.o.) für das immer noch gepflegte → Epos, für → Hymnos, → Lehrgedicht, → Bukolik (→ Theokritos 1); 3ia für → Mimus, → Fabel usw.; eleg. Dist. (auch für größere Gebilde, → Kallimachos 3) und die sonst, epod. Formen (→ Epigramm). Die Veränderungen, die durch die Wandlung der Aussprache (Akzent) eintraten, sowie die ganze Entwicklung der Kunstprosa, müssen hier beiseite bleiben. IV. Im Lat. befindet man sich auf gänzlich versch. sprachl. Boden. Vor allem war der Akzent verschieden: das expirator. Element, das in der Vorgesch. eine entscheidende Rolle gespielt haben soll (lat. Vokalismus), hat bestimmt auch später Einfluß geübt (die Anfangsbetonung hat die eigentümlich lat. Neigung zur Alliteration bewirkt). Über Iktus s. I. Prosod. Änderungen zw. archaischer und klass. Z. (s. [22], 4ff. [23], 1ff. [29]) haben gewiß sehr früh (Cic., Hor.) das Verständnis der griech. und archaischen lat. V. erschwert. Der einzige eigentlich lat. Vers ist der Saturnier, den einige als idg. ([25]), andere als griech. Ursprungs ([28]) betrachten. Caes. Bass. 6,266,16 K. führt als Grundform g h g h g h h | h g h g h h || (S.28 MOREL) an, was an asyn denken läßt (2ia^ | ith ||). Er ist allerdings sehr formenreich, auch bei der spärlichen Bezeugung (Inschr. und Frg. des Appius → Claudius [I 4] Caecus, → Livius [B 1] Andron., → Naevius III). Der Sat. ist sehr wahrscheinl. quantitierend, doch wurden andere gestaltende Elemente (Akzent, Wort, Silbe) vorgeschlagen (s. M. BARCHIESI Nevio ep., 1962, 294ff. TH. COLE, YC1S 21, 1969, 3ff.). → Ennius (ann. 213 V.2) lehnte ihn als groben Archaismus ab und führte für sein Epos 6da ein. Zw. dem 3. und 2. Jh. v. Chr. findet so eine breite Übernahme griech. Formen statt; denn schon Liv. und Naev. hatten im Drama griech. Verse eingeführt, nur mit neuer Technik: 3ia und 4ia werden Senar und Oktonar, 4tr^ und 4ia^ Septenare, und dasselbe gilt für an. Die Namen machen klar, daß Grundmaß nicht mehr das Metron, sondern der Fuß ist (»tr« J q, J q, »ia« q J, q J; frei sind also alle Elementa, außer am Ende des Verses und des Halbverses, sofern es mittleren Einschnitt gibt). → Plautus und →Terentius (B 1) sind unsere Hauptzeugen: ihre V. ist mehreren Gesetzen unterworfen ([23]). Ein Problem für sich bilden die (vertonten) Cantica bes. des Plaut. (Prosodie, Kolometrie, Responsion: ED. FRAENKEL

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Elem, plaut. in Pl., 1960, 217ff. 307ff. und Nachtr. [22], 124ff. C. QUESTA Metr. lat. arc. [Intr. allo st. d. Cult. Class.], 1973, 547ff.). Vom 1. Jh. v.Chr. an findet eine genauere Nachbildung der griech. V. statt: 3ia wird als solcher behandelt, und → Catullus, → Horatius (8), → Martialis (1) usw. bieten ein reiches Muster griech. lyr. Verse, wenn auch z.T. mit bes. Eigentümlichkeiten (gesungen wurden sie nicht mehr; Hor. normalisiert Quantitäten und Einschnitte: endS || h g h h h | ..., end A || x h g h h | ...; usw. [27]). Der Strophenbau ist einfach, außer wenigen Ausnahmen ([22], 122ff.). Mind. vom 4.Jh. n. Chr. an wird der expirator. Wortakzent immer mehr zum Hauptelement der Gestaltung. V. a) Was man bei Aristoph. Nub. 638ff. und Plat. rep. B. 3 liest, ist bestimmt auf die rhythm. (ethisch–musikal.) Lehre → Damons (2) zurückzuführen, ebenso auch z.T., was Aristot. (rhet. und poet.) lehrt. → Aristoxenos der Musiker behandelte auch die Rhythmik, natürlich als Teil der musikal. Theorie. Eine Theorie der Metrik folgt erst später. Als in hellenist. Z. die Bauprinzipien der Lyrik weniger verständlich wurden, bedurfte man einer genaueren Gestaltung der poet. Texte (der Pap. des → Timotheos [4] von Milet [4.Jh. v. Chr.] hat keine metr. Gliederung). So wurden die Texte von den alexandrin. Philologen ediert und → Aristophanes (4) von Byzantion galt als Restaurator der Kolometrie (R. PFEIFFER Hist, of Class. Schol., 1968, bes. 185ff.). Es entstanden dann auch theoret. Systeme, die aber keine wahre Kenntnis der alten Lyrik zeigen und die bes. für die Schule bestimmt waren. Es gab zwei Lehren ([31]): 1. die alexandrin. der μέτϱα πϱωτότυπα, die alle Versgebilde aus den Füßen entstehen ließ (→ Philoxenos 3, → Heliodoros 3, → Hephaistion 2: 1. Jh. v. Chr. – 2. n. Chr.); 2. die pergamen. der derivatio, die aus 6da und 3ia als Grundeinheiten alles durch adiectio, detractio, concinnatio, permutatio (→ Caesius [II 8. 9] Bass. 6,271,5 K. → Varro 1, → Terentianus Maur.) ableitete. Hephaistions HB. herrscht durch das MA. bis in die mod. Z. Durch Mangel an theoret. Grundlage und die Schicksale der Überlieferung wurde bes. die Lyrik betroffen, obwohl sich Vieles durch Pap., Sch. und ma. Hss. bewahrte ([4], 383ff. [33], J. IRIGOIN Hist, du Texte de Pind., 1952; REG 72, 1962, 61ff.). Jedoch ist Ausmaß und Tragweite des Einklangs zw. Kolometrie der Pap. und der ma. Hss. noch ein offenes Problem, ebenso der allerdings beschränkte Wert des metr. Wissens einiger Byzantiner, wie Demetrios Triklinios (s. die Arbeiten von TURYN, DAWE, ZUNTZ usw. über die Überlieferung der Tragiker). b) A. BOECKH (1811, s. IIa) verdankt man die Erkenntnis der Gesetze der ganzen ant. V. Vor ihm hatten R. BENTLEY und R. PORSON Wesentliches für die lat. und griech. Sprechverse beigetragen. G. HERMANNS Metrik (Elementa doctr. metr., 1816) ist rationalistisch wie seine Gramm., er übte aber mit Erfolg die observatio. Zw. dem 19. und 20. Jh. behaupteten sich versch. Richtungen:

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Glaube (BOECKH, R. WESTPHAL) und Mißtrauen (MAAS) der ant. Theorie gegenüber; Versuch sich in die ant. Dichtung durch die mod. Musik einzufühlen (WESTPHAL, J. H. H. SCHMIDT, CHRIST u.a.; s. [34], bes. 11ff.) und vorsichtiger Verzicht auf »quod videmus perisse« (H. WEIL gegen WESTPHAL; usw.); historisierende Richtung mit Versuch der rhythm. Interpretation (BERGK, USENER, BLASS, SCHROEDER, LEO, WILAMOWITZ, PASQUALI, GENTILI) und nüchtern deskriptive Haltung (MAAS, RUPPRECHT). Viele versuchen h. die beiden letzten Richtungen zu versöhnen, indem sie anerkennen, daß beiden wesentl. Fortschritte zu verdanken sind. Bei der Herstellung einer höchst erwünschten Liste von Kola und Versen (Typologie und Vorkommen) könnten die Computer behilflich sein: eine solche Liste würde eine vollständigere Einsicht in die Morphologie der ant. V. und ein besseres Verständnis ihrer hist. Entwicklung gewähren. VI. a) Silbe: g kurz, h lang. Elementum: g kurz, h lang, x frei (X auflösbar), f frei (ἄλογος bei tr, ia), W indifferens (Versendpause). H Hiat. | Wortende (Einschnitt). || Versende. P Periodenende ([3], 197). ||| Strophenende. ^ Katalexe, Akephalie. = (bei Stellenang.) Responsion. ~ »freie« Responsion. hbh Brücke (Wortende gemieden). b) Metra (in ihrer einfachsten Form). h g h f tr (Trochäus). f h g h ia (Iambus). h j da (Daktylus). j J j J an (Anapäst). h h sp (Spondeus). h g h cr (Kretikus; h g g g pae I, Paion I usw.). g h h ba (Bakcheus). g g h h ion (Ionikus a min.). h g g h cho (Choriambus). c 1) Die wichtigsten ϰατὰ μέτϱον gebauten Kola:

hjhjhjhj jhjh|jhjh jhjhjhh h g h f h g h (f) f h g h f h g h [… g h x] gghhgghh gghghghh xxxxhggh

alcm (Alkmanium) = 4da 2an (anap. Dimeter) paroem (Paroimiakos) = 2an^ 2tr(^) (troch. Dimeter) 2ia(^) (iamb. Dimeter) 2ion (ion. Dimeter) anacl (anacl. ion. Dim.) 2cho (häufigster chor. Dim.)

c 2) Die wichtigsten nicht ϰ. μ. gebauten Kola:

XhXhXhx XhXhXh XhXh x h w h w h (x) hghghh hghghgh

enh (Enhoplios) pros (Prosodiakus) reiz (Reizianus) hem (Hemiepes) ith (Ithyphallikus) lec (Lekythion)

232 | Sezione 1: Metrica

xhhfh hwhwh h g h =e hghxhgh h w h =d w h =d

δ (häufigster Dochmius) =D =E

1

2

da–ep (Daktyloepitriten, [6]); die Gruppen bilden Kolon mit dem Elem. lib. interpos. (x)

c 3) Ambivalente Kola ([nicht] ϰ. μ.: s. II b):

xxhgghgh xxhgghx xhgghgh xxhgghghx hgghghx hgghh

gl (Glykoneus) (~ 2cho) pher (Pherekrat.) = gl^ teles (Telesill.) = ^gl hipp (Hipponakt.) = gl x arist (Aristophan.) = 2cho^ adon (Adoneus) = 2da

d) Die wichtigsten Sprechverse (alle ϰ. μ. gebaut) :

h1 | u | h2 | j h3 | uch4 | k | h5 j h6 W 6da (voralexandrin. daktyl. Hexam., [15])

f h1 g h2 f | h3 g | h4 fv h5 g W6 3ia (iamb. Trim. d. Trag.)

h1 g h2 fv h3 g h4 f | h5 g h6 fv h7 g W8 4tr^ (kat. troch. Tetram.) e 1) Einige ϰ. μ. gebaute Singverse: oft Kola (s. c 1. 3) als Verse gebraucht (s. II a). Sonst längere Zeilen durch mehrfache Wiederholung der Metra gebaut: z. B. 6da; 4an(^); 3,4ia(^); 2,3,4,5,6cr; 3,4cho(^); 3,4ion(^); usw. e 2) Einige nicht ϰ. μ. gebaute Singverse: außer Kola (s. c2.3) kann man hier z.B. äol. Zeilen anführen,wie h g h x h g g h g h x (sapph. Elfsilbler; auch K., im 3. V. der sapph. Str.); x h g h x h g g h g W end A (alk. Elfsilbler); h g g h g g h g h W decA (alk. Zehnsilbler); x x h g g h g h g h W phal (Phalaikeion); die sog. äol. Daktyl., wie x x h g g (h g g) (h g g) h g g h g W (Tetr., Pent., Hex.); x x h g g h (h g g h) h g g h g W ascl, Ascl (Asklepiadeus min., mai.); usw.

Verskunst | 233

Lit.–Ber.: E. Kalinka, BursJb 250, 1935. 256/57, 1937. A. M. Dale, Lustrum 2, 1957. L.P.E. Parker, ebd. 15, 1970. P.W. Harsh, ebd. 3, 1958. R.J. Getty, ebd. 8, 1963. Lit.: I. 1. W.S. Allen Accent and Rhythm, 1973 (m. Bibliogr.). ‒ II. 2. L.E. Rossi. RFIC 91, 1963, 52ff. 3. Ders., ebd. 94, 1966, 185fr. – III. 4. J.W. White The Verse of Gr. Com., 1912. 5. Wilam. Griech. Versk., 1921. 6. P. Maas Griech. Mett., 21929 (übers. m. Zusätzen H.Lloyd–Jones Gr. Mette, 1962). 7. W.J.W. Koster Traité de métr. gr. ..., 41966. 8. B. Snell Griech. Metr., 31963. 9. A.M. Dale The Lyr. Metr. of Gr. Drama, 21968 10. D. Korzeniewski Griech. Metr., 1968. 11. O. Schroeder Aesch. Soph. Eur. Aristoph. Cantica, 21916, 21923, 21928. 21930. 12. A.M. Dale Metr. Anal. of Trag. Chor. I, Da.–ep., 1971. 13. H.A. Pohlsander Metr. Stud. in the Lyr. of Soph., 1964. 14. C. Prato I canti di Aristof., 1962. 15. H. Fränkel Der hom. u. d. kallim. Hexam., Wege u. Formen, 31968, 100ff. 16. J. Irigoin, REG 72, 1959, 67ff. – III. Metr. Analysen, gelegentl. m. Testim. de metris, in den Ausg. v.: 17. B. Snell Pind., 4–31964. 18. B. Snell–H. Maehler Bakchyl., 9 1968. 19. B. Gentili Anacr., 1958. 20. G. Tarditi Archil., 1968. 21. E. –M. Voigt Sappho et Alc., 1971. – IV. 22. F. Crusius Röm. Metr., 31955. 23. C. Questa Introd. alla metr. di Plauto, 1967. 24. H. Drexler Einf. in d. röm. Metr., 1967. 25. F. Leo Der Sat. Vers, 1905. 26. Ders. Die plaut. Cant. u. d. hellenist. Lyrik, 1897. 27. R. Heinze Die lyr. V. d. Horaz, 1918 (= Vom Geist d. Römert., 31960, 227ff.). 28. G. Pasquali Preist. d. poesia rom., 1936. 29. S. Timpanaro, Riv. Cult. Cl. Med. 7, 1965, 1075ff. – V. 30. H. Gleditsch Metr., 1901, 66ff. 31. F. Leo, H 24, 1889, 280ff. 32. B. Gentili Metr. gr. arc., 1950. 33. J. Irigoin Les schol. métr. de Pind., 1958. 34. L.E. Rossi Metr.e crit. stil., 1963. – Zu ant. Autoren s. Va; dazu bes. → Dionys. (20) Hal. (comp.), → Aristeid. (7) Quint. KeilGrL; usw.

Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini (Sull’autenticità del nuovo Archiloco)* Devo dire subito che credo all’autenticità dell’epodo di Colonia. Nonostante l’incredulità di alcuni abbia prodotto una serie di osservazioni ottime, gli scettici non sono riusciti a dimostrare la tesi del falso. Penso che la metrica sia, in questo caso, decisiva. Cercherò di dimostrare che la tecnica metrica del frammento non può essere che arcaica: e naturalmente, se arcaico, il frammento non può essere che di Archiloco. L’epodo e l’asinarteto sono due forme a noi ben familiari. E p o d o è una breve s t r o f e ; fra le specie di v e r s i che possono costituire una strofe epodica ci sono anche gli a s i n a r t e t i , che finora avevamo definiti nel modo seguente, riferendoci alla s t r u t t u r a i n t e r n a d e l v e r s o : 1) sono composti di due cola; e 2) questi cola sono separati da fine di parola, ma senza || [Conferenza (Göttingen V 21.11.1975, Seminar über die Kölner Epode des Archilochus) e relazione di convegno, pronunciata prima in inglese e in forma abbreviata L 29.12.1975 a Washington al Meeting of the American Philological Association, Colloquium on Archilochus [e pubblicata come Asynarteta from the Archaic to the Alexandrian Poets: On the Authenticity of the New Archilochus, «Arethusa» 9, 1976, pp. 207–229), e poi in italiano e in forma definitiva a Genova V 20.2.1976, nel pomeriggio, alle Quarte Giornate Filologiche Genovesi (20–21.2.1976); pubblicata in A. Ceresa–Gastaldo (ed.), Problemi di metrica classica. Miscellanea filologica, Università di Genova, Facoltà di Lettere, [vol. 47 delle Pubblicazioni dell’]Istituto di Filologia Classica e Medievale, Genova 1978, pp. 29–48 + 3 tavole] * Ho conservato la versione ‘orale’, con pochissimi ritocchi. Ho rinunciato alle note, limitandomi a dare nel testo i riferimenti essenziali. Altrove appariranno una versione di poco più estesa (con note per problemi particolari) e una versione molto più ampia, dove tratterò il problema storico della fase IV (tav. 3, H), qui solo abbozzato. In quest’ultima versione saranno inclusi tutti i contributi che ho ricevuti a Genova e altrove (qui ne sono inclusi alcuni, senza attribuzione), per i quali tengo ad esprimere fin da ora il mio ringraziamento. Un grazie di cuore, in più, agli ospiti genovesi. Per una nuova forma di asinarteto archilocheo, testimoniata nei grammatici latini, rimando alla comunicazione di Giuseppe Morelli, in questo stesso volume: la aggiungerò alle mie tavole nella versione più ampia. – Le tavole, qui ritoccate, erano state distribuite agli intervenuti. Per i simboli metrici usati rimando alla mia Verskunst, in Der Kleine Pauly, Bd. 5, 1975, coll. 1210-18. – Ho potuto ancora utilizzare, a redazione finita, l’articolo di D. Page, Five Hellenistic Epitaphs in Mixed Metres, “Wien. Stud.” 89, 1976, 165–76. Ulteriori precisazioni sulla sinafia, che in questo mio lavoro viene intesa sempre come sinafia verbale, in La sinafia, che uscirà prossimamente nella Miscellanea in onore di Anthos Ardizzoni. https://doi.org/10.1515/9783110647983-017

Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini | 235

la possibilità di iato e/o elemento indifferente. Come si sa, preferisco questo termine per designare la variazione lunga/breve (quando non sia in elemento libero, v. oltre) alla fine del verso (“Riv. di filol.” 91, 1963, 52–71, spec. 61–71; Verskunst 1211.14–24, 56–60; 1217.11–13): meglio di syllaba anceps, visto che è più giusto parlare qui di elemento invece che di sillaba e d’altra parte ἀδιάφορος/indifferens, un termine usato dagli antichi, è preferibile ad anceps, che gli antichi non usarono mai in tal senso. Ora, questo tipo di fine di parola è quello che chiamiamo incisione, distinguendola dalla fine di parola che si ha alla fine del verso, dove, secondo i principi di Boeckh (v. il mio articolo in “Riv. di filol.” 94, 1966, 186–95; Verskunst, 1211.25–1212.18), sono permessi iato e/o elemento indifferente finale: sono queste tre, infatti, le caratteristiche di fine di verso. Richiamando questi fatti, una decina d’anni fa (“Riv. di filol.” 94, 1966, 200 sg.; Verskunst, 1212.41–7 con Corrig. et Addenda) ho cercato di precisare di nuovo le leggi dell’asinarteto fondandomi sull’observatio dei testi e su un capitolo di Efestione, il XV, dove (47.3–5 Consbr.) si definiscono gli asinarteti una forma metrica che si produce “quando due cola, che non potrebbero giustapporsi [= che sono ritmicamente diversi] e che non hanno unità [= separati da fine di parola], vengono presi come un verso unico”. Γίνεται δὲ καὶ ἀσυνάρτητα, ὁπόταν δύο κῶλα μὴ δυνάμενα ἀλλήλοις συναρτηθῆναι μηδὲ ἕνωσιν ἔχειν ἀντὶ ἑνὸς μόνου παραλαμβάνηται στίχου. V. anche sch. A 152.12–14 Consbr. Dobbiamo tener presente questa definizione. Se osserviamo la tav. 2 qui alla fine, possiamo precisare ulteriormente la nostra definizione. Sia per la tav. 1 (strofi epodiche) sia per la tav. 2 (asinarteti) mi sono servito di Snell (Gr. Metr.3, 31–4) e di Korzeniewski (Gr. Metr., 123–8), pur apportando correzioni ed aggiunte. La tav. 2 (asinarteti) richiede due parole di spiegazione. Ho incluso tutte le forme archilochee e quelle che hanno probabilità di essere arcaiche, con in più tutte quelle date da Efestione nel suo cap. XV. Non tutte le forme efestionee hanno ugual probabilità di essere arcaiche o addirittura di essere asinartetiche, ma ho voluto includerle tutte, facendo presenti per alcune le mie perplessità. Ho notato sinafia, quando sia presente (ho dato però exempla solo quando ce n’erano con incisione). Fra gli asinarteti va ovviamente incluso anche il pentametro (asyn. 3), che già Efestione definiva in tal modo (51.20 sgg.; cf. Atil. Fortunat. 6.295.7 sg. Keil). La stessa definizione di Efestione data qui sopra (v. anche Ps. Plut. mus. 1140 f 19 sgg.; Arist. Quint. 51.1 sg. W.–I.) e in più le testimonianze poetiche fanno pensare che i d u e c o l a d o v e s s e r o e s s e r e r i t m i c a m e n t e d i f f e r e n t i l ’ u n o d a l l ’ a l t r o . Cosὶ dicono oggi anche quasi tutti i manuali. Sono sicuro d’altra parte che il pentametro non contraddice a tale legge: gli spondei sono ammessi solo nel primo hemiepes e tanto doveva bastare a diffe-

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renziare ritmicamente i due cola (v. sch. A 157.23 sgg.; e v. la polemica di sch.A 161.18 sgg. contro Efestione stesso!). Ho qui seri dubbi sulla qualità asinartetica di asyn. [20], [21], [22]. Né posso credere che Sapph. 112 (due aristofanei in sinafia) e 158 L.–P. (due adoni in sinafia) siano mai stati veri asinarteti con incisione, e perciò li ho esclusi del tutto. Ugualmente ho escluso il priapeo (gliconeo più ferecrateo), dal momento che Efestione (32.9 sgg.) non lo considera un asinarteto: si tratta di un colon seguito dalla sua forma catalettica, com’è il caso di asyn. 16–18 (che però Efestione elenca). Su questi ultimi prenderò posizione nel quadro storico alla fine. Asyn. [7] e [8] sono costituiti da tre cola per definizione stessa di Efestione, ma contraddicono non solo il resto della prassi poetica, bensí anche e soprattutto la stessa sua definizione generale di asinarteto, che prevede due cola. Sono in realtà dei dattilo–epitriti, entrati tardi nella teoria degli asinarteti, e li escludo, rimandando anche qui al quadro storico finale. Asyn. [23] è ancora sub iudice per quanto riguarda la sua forma metrica. Asyn. 19 ha un aspetto strano, ma lo ho incluso perché sembra attestato al principio del V sec. (v. oltre, nel quadro storico, sub fase IV). Ma sono pressoché certo che asyn. 2 (cf. 1), 10 (cf. 9), 12 e 13 (cf. 14) (non elencati da Efestione) possano essere stati usati in epoca molto arcaica, addirittura da Archiloco stesso. Efestione cita nel suo capitolo asyn. 16 (cratineo) e non ho esitato ad includere anche asyn. 17 (eupolideo), che al primo corrisponde, nonostante Efestione lo citi altrove (57.18 sgg., fra i polischematisti, ma insieme col cratineo!). In conclusione: aver preso Efestione come guida alla costruzione della tav. 2 risulterà, alla fine, un puro espediente provvisorio di comodo. Efestione, come vedremo, rispecchia confusamente, col suo disordine, una storia che siamo costretti a ricostruire quasi colle sole nostre forze. Vediamo quale è la p o s i z i o n e s t r u t t u r a l e degli asinarteti nelle composizioni poetiche (v. anche tav. 3, G). 1) Asinarteti sono presenti (tav. 1) nelle str. I, Ib, IV, IX–XIIa, XIV–XXI, XXIII, XXXI, XXXIII–VI; sono quindi usati in combinazione con altri versi a formare le strofi epodiche e intendo chiamarli e p o d i c i . D’altra parte, 2) sono usati in sequenze stichiche, come asyn. 9 fin da Archiloco e come forse anche asyn. 14; per asyn. 5, 13, 15 il loro uso stichico molto arcaico si può solo dare come probabile: li chiamerò s t i c h i c i . Più tardi, quando – come vedremo – la struttura interna cambia (non più fine di parola fra i due cola, bensí sinafia: lirici più tardi e teatro), cambierà anche la posizione strutturale: gli asinarteti verranno anche liberamente mescolati con altre specie di versi lirici in strofi liriche complesse. Li chiamerò i n t e r m i x t i (scil. versus! Meglio sarebbe dire asynarteti versus). Questi ultimi, che appartengono all’epoca IV (v. tav. 3, H), e a cui si accennerà nel quadro storico, non sono inclusi fra le attestazioni date nelle tavole. È un discorso qui solo abbozzato.

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Vediamo ora come sono costruite le s t r o f i e p o d i c h e (tav. 1). Come s’è visto, la presenza di asinarteti non è essenziale. Alcune strofi sono sicuramente arcaiche, come si può vedere dalle attestazioni. Alcune sono attestate solo tardi, e naturalmente dobbiamo tenere in conto i capricci della conservazione e trasmissione dei nostri testi; ma è comunque degno di nota che per esempio str. XVI (Teocrito) appaia come una espansione di XV, mentre XX (Faleco, fine del IV sec. a.C.) sembri una conflazione di V e XV: potrebbe quindi trattarsi di forme tarde. Osservazioni di tal genere si possono moltiplicare, guardando alla tav. 1. Naturalmente il distico elegiaco (str. I) è strofe epodica a pieno diritto, in effetti quella che ha avuto maggior fortuna. Prima della scoperta dell’epodo di Colonia le regole che abbiamo date per la struttura interna del verso (fine di parola fra i due cola, ma senza iato e/o elemento indifferente finale) erano rispettate sempre, almeno nella poesia greca a noi conservata. Questo fatto ci aveva portati a concludere che gli asinarteti erano trattati e sentiti come v e r s i u n i t a r i , senza fine di verso fra un colon e l’altro. Un’occhiata alla tav. 2 cogli esempi portati per asyn. 1, 4, 5, 13, 14 dà una chiara idea di come questi versi sono costruiti. Può essere utile spendere qualche parola in più per asyn. 9. A tav. 3, A sono riportati tutti gli esempi archilochei di questo tipo (citerò qui di seguito il numero di mezzo, Tarditi). Il primo colon è un enoplio normalizzato nella forma del cosiddetto erasmiano; il secondo è un itifallico. Se vogliamo considerare l’erasmiano isolato dal successivo itifallico (nel qual caso dobbiamo determinare la quantità delle sillabe finali indipendentemente dal contesto prosodico che segue), 162.1 e 163 terminerebbero con una sillaba breve (–ε, –τα), mentre tutte le altre finali sarebbero lunghe (162.2, 165 e anche 164, perché –θεν, isolata dal contesto prosodico che segue, sarebbe lunga perché chiusa); se, invece, vogliamo considerare i due cola come formanti un solo verso, la quantità della sillaba finale dell’erasmiano dev’essere determinata coll’aiuto del contesto prosodico fornito dall’inizio dell’itifallico (chiamiamolo sandhi prosodico), ed allora avremmo la finale dell’erasmiano breve in 164 (–θε– diventa sillaba aperta) e 163, mentre l’avremmo lunga negli altri casi (162.2 e 165, ma anche 162.1, essendo Χαρίλαε seguito da due consonanti, la prima delle quali chiude la sillaba che la precede). Così in tutte e due le soluzioni che si vogliano prendere (due versi o un verso solo) sembra che si debba ammettere indifferente finale (variazione lunga/breve) alla fine dell’erasmiano e che perciò, dovendo ammettere fine di verso fra i due cola, i due cola stessi vadano intesi come due versi indipendenti. In effetti sembra che così abbia inteso West, dal momento che, fra tutti gli asinarteti archilochei, stampa in due versi invece che in uno soltanto i frr. 162, 164, 163 (165 è incompleto), e cioè tutte le attestazioni di asyn. 9. (Unica ulteriore e del tutto inspiegabile eccezio-

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ne: 205, asyn. 14; forse perché fa parte degli Iobacchoi??). Quindi, ancora nel 1971, data della sua edizione – prima cioè dell’epodo di Colonia –, West ha considerato asyn. 9 l’unica eccezione alle regole di strutturazione interna dell’asinarteto esposte prima e si è comportato di conseguenza. Ma l’eccezione, se guardiamo bene, è soltanto apparente. L’alternanza breve/lunga alla fine dell’erasmiano (un colon che finisce con un tempo debole) non è conseguenza di indifferenza finale, ma semplicemente la ‘libertà’ (‘elemento libero’, secondo la mia terminologia) di un tempo debole finale! Avevo affermato questo a proposito dell’erasmiano già nel mio lavoro di dieci anni fa (“Riv. di filol.” 94, 1966, 201.1), e recentemente R. Pretagostini (“Riv. di filol.” 102, 1974, 273–82) ha opportunamente stabilito con chiara formulazione teorica in che modo si può riconoscere la quantità ‘naturale’ della finale di ogni colon: si devono cioè considerare tutte le attestazioni in cui ogni colon appaia in sinafia con un altro colon (l’itifallico, per esempio, ha sempre una lunga finale quando è in sinafia successiva; e l’enoplio/erasmiano, nelle stesse condizioni, ha qualche volta lunga, qualche volta breve, anche contestualmente nello stesso carme). Dobbiamo concludere, allora, che prima dell’epodo di Colonia la letteratura greca a noi conservata non ci dava nessuna ragione di considerare gli asinarteti due versi separati anziché un verso unitario; in altre parole, non c’era nessuna ragione di mettere in dubbio la loro natura monostichica e di stamparli su due righe. Stranamente l’unica eccezione era nella letteratura latina, in due epodi di Orazio: vedremo fra poco come Orazio diventa per noi una testimonianza di inestimabile valore. Ma ecco l’epodo di Colonia (S 478 a: asyn. 4, str. ΧΧIII) rompere le nostre regole al di là di ogni dubbio. Vediamo a tav. 3, B. Troviamo sillaba breve finale ai vv. 1, 7, 21, 33: questo produce vero elemento indifferente finale, dal momento che la quantità ‘naturale’ della finale di un hemiepes maschile dev’esser lunga; abbiamo invece breve a 21 e, se realizziamo il necessario sandhi prosodico, l’abbiamo anche a 1, 7, 33. In più troviamo iato a vv. 3, 17. Questa è stata per tutti una grossa sorpresa: sei ‘eccezioni’ su diciotto asinarteti – tanti infatti ne contiene il frammento – non sono poche. Ma bisognava rendersi conto subito che le ‘eccezioni’ archilochee andavano a fare buona compagnia ai casi simili degli epodi 11 e 13 di Orazio. Epod. 11 ha per caso la stessa forma metrica dell’epodo di Colonia (asyn. 4, str. XXIII) e alla sutura dei due cola (tav. 3, C) c’è la quantità ‘divergente’ (breve) ai vv. 6, 10, 26 e iato ai vv. 14, 24. Epod. 13 è di tipo diverso (asyn. 12, str. IV) e alla sutura del dimetro giambico coll’hemiepes ha breve finale ai vv. 8, 10, 14. Naturalmente, finché il trasgressore era Orazio, potevamo essere portati a minimizzare il peso della sua testimonianza; e proprio così avevo fatto io tempo

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fa (“Riv. di filol.” 94, 1966, 201.1), pensando che dopo tutto Orazio non doveva capir più gran che di metrica greca, come in fondo (senza volerlo!) ci confessa lui stesso quando ci parla dei ditirambi di Pindaro, che sarebbero composti numeris... lege solutis (carm. 4.2.10–12); forse lo stesso si deve pensare quando ci dice che Anacreonte canta il suo amorem non elaboratum ad pedem (epod. 14.10 sg.); e del resto anche Plauto era a lui incomprensibile (a.p. 270–4), ma lì sicuramente c’era anche incomprensione per la prosodia latina arcaica. Ora invece, quanto alle pretese irregolarità dei suoi epodi, Orazio non è più isolato: è in compagnia dell’epodo di Colonia. Per questa ragione non può essere più liquidato tanto facilmente, ché gli faremmo un torto che non merita. Ma come vanno inquadrate queste ‘irregolarità’ nella storia dello sviluppo degli asinarteti? Una ipotesi, che è la mia, è che un tal modo di costruire gli asinarteti era già arcaico e che, di conseguenza, Orazio è stato correttamente archilocheo, anche se la sua correttezza apparirà come quella di un buono scolaretto. Ma prima dobbiamo considerare l’ipotesi alternativa, che è implicita in tutti i non–autenticisti e che è stata proposta esplicitamente da Thomas Gelzer. In un articolo dove vuol dimostrare che l’epodo di Colonia è un tardo falso, Gelzer (“Mus. Helv.” 32, 1975, 12–32) cerca di tirare anche la testimonianza della metrica alla dimostrazione della sua tesi. Sostiene che Orazio e l’autore dell’epodo di Colonia seguono tutti e due tarda teoria metrica nel trattare l’asinarteto in due versi invece che in uno solo allo stesso modo che Orazio segue prassi editoriale alessandrina nel costruire la sua strofe saffica in quattro versi invece che in tre (i papiri portano le strofi saffiche su quattro righe, anche quando c’è sinafia). Questa analogia voluta da Gelzer è soltanto apparente. Per la strofe saffica Orazio aveva veramente un punto d’appoggio nella prassi editoriale alessandrina (anche se un appoggio falso: gli alessandrini scrivono così solo per economia di spazio scrittorio; e per di più Orazio è incoerente, ché fra terzo e quarto colon ha sia iato sia sinafia), ma per un trattamento simile degli asinarteti sia Orazio sia l’eventuale tardo autore di Colonia non avrebbero alcun precedente di questo tipo. Se guardiamo infatti alla prassi editoriale alessandrina, vediamo che nei papiri (compreso il nostro di Colonia) e nella tradizione manoscritta di chi li riporta gli asinarteti vengono scritti sempre su una riga sola (unica eccezione sarebbe Call. fr. 227 Pf.: sia la Diegesis sia il papiro di Berlino). Se poi ci volgiamo alla teoria metrica, troviamo Efestione e i suoi scoli colle chiare formulazioni che abbiamo riportate: i teorici, col mettere in rilievo la natura di verso unico dell’asinarteto, non potevano favorire in nessun modo un eventuale trattamento distichico. Niente sostegni teorici, quindi, né impliciti (prassi editoriale) né espliciti (teoria metrica). Recentemente R. Kannicht, “ZPE” 18, 1975, 285–7, che giustamente polemizza contro Gelzer, si mostra troppo scettico di

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fronte alla testimonianza di Efestione: non condivido in pieno le sue argomentazioni. Dovremmo quindi – se volessimo seguire Gelzer – trovare appigli almeno in prassi poetica, precedente o contemporanca. Ma secondo Gelzer non ne troveremmo in Archiloco, visto che secondo lui Archiloco deve aver avuto sempre incisione ‘corretta’ (e cioè senza iato e/o elemento indifferente fra i due cola). Né potremmo trovarne – e questa è l’obiezione più grave che si può fare a Gelzer – in prassi poetica alessandrina. Se esaminiamo infatti i singoli asinarteti dei poeti alessandrini e più tardi (tav. 2, coll’aiuto della tav. 1 per reperire le composizioni), vediamo che essi sono costruiti sempre con incisione ‘corretta’ (unica eccezione è Theocr. epigr. 20, str. XXXIV, asyn. 1; ma questo caso è connesso col problema di Heph. 50.4 ss. e di Arch. 201, che crea imbarazzi ancor più gravi; vorrei aver tempo e segnalare un modo ingegnoso con cui Tarditi ha cercato di risolverlo almeno in Archiloco). Questo non può essere sicuramente frutto del caso, perché degli alessandrini noi possediamo anche intere composizioni, che sono per lo più epigrammi, ma alle volte di ben più che una sola coppia epodica. Siamo di fronte a un fatto che per ora mi limito a constatare; ma alla fine cercherò di darne anche una spiegazione, che ci convincerà che non solo le cose stanno così, ma che è anche naturale che stiano così. Questo fatto, però, ci è già sufficiente per trarre delle conclusioni importanti. Orazio e l’eventuale tardo autore di Colonia (per il quale Gelzer, p. 30 sgg., sembra addirittura proporre il II sec. d.C.!) sarebbero così gli unici rappresentanti della loro tecnica compositiva. A confortarli non ci sarebbero né teoria metrica né prassi poetica, che, anzi, li contraddicono apertamente ambedue. Resterebbero isolati in un contesto di prassi poetica che, dagli alessandrini in poi, rispetta le leggi che loro trasgredirebbero. Ma un precedente autorevole almeno per Orazio lo vogliamo: o gli alessandrini, che – come abbiamo visto – non vi si prestano assolutamente, o un poeta arcaico. Ebbene, per via di esclusione siamo arrivati all’unica soluzione possibile: questo precedente dev’essere proprio Archiloco coll’epodo di Colonia, che quindi dev’essere conservato a lui. Orazio ci evita anche un possibile errore nella valutazione dei fatti metrici archilochei. Se avessimo solo le ‘eccezioni’ archilochee, che appaiono alla fine di un hemiepes, si potrebbe esser tentati di spiegare le brevi finali e gli iati come licenze del tipo di quelle che troviamo alla incisione semiquinaria dell’esametro (tav. 3, D: A 153 etc.). Questo sarebbe un modo per liberarci della loro ingombrante presenza. Elimineremmo però un problema ricreandone un altro: quello della connessione storica fra hemiepes ed esametro (Bergk, Usener, Schroeder, fino a Gentili). Ma possiamo non entrare qui nel merito della questione, perché nell’epod. 13 di Orazio la breve appare alla fine di un dimetro giambico (asyn.

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12, str. IV), dove non ci sarebbe certo da parlare di licenze di tipo esametrico (la quantità finale necessaria è lunga: v. l’articolo di Pretagostini citato sopra). L’epodo 13 ci rende quindi certi che quei fatti prosodico–metrici vanno presi sul serio; e Gelzer, fra l’altro, fa male, parlando di Orazio, a riferirsi solo all’epod. 11. Forse perché ha lo stesso metro dell’epodo di Colonia? Ma è la testimonianza congiunta dei due epodi di Orazio che è importante per noi! Qualcuno potrà chiedersi come mai una tale tecnica di costruire gli asinarteti possa essere sfuggita fino ad ora. È stato frutto di puro caso che tutti gli asinarteti greci conosciuti prima dell’epodo di Colonia avessero incisione ‘corretta’? A differenza di quanto si può dire per gli alessandrini, risponderò che qui sì, a mio parere, è stato frutto di puro caso. In effetti di Archiloco e dei poeti arcaici in generale abbiamo poco, e questo poco è rappresentato largamente da incipit. Ora, com’è noto, l’incipit è quella parte di una composizione poetica che, fungendo come da titolo, è più curata da un punto di vista tecnico. È significativo che, appena troviamo un frammento lungo, ci troviamo di fronte ad ‘eccezioni’! Insomma, prima dell’epodo di Colonia eravamo veramente vittime di un capriccio della tradizione. Il nuovo rinvenimento ci dà l’occasione per riabilitare Orazio, e siamo ben lieti di farlo. Ma ci dà anche alcuni disagi teorici per quanto riguarda la nostra prassi editoriale e la nostra ben ordinata teoria metrica moderna. Tali disagi peraltro vale la pena che li affrontiamo, dal momento che ci consentono di proporre una linea dello sviluppo storico degli asinarteti. Questi ultimi, come forma metrica, sono stati finora piuttosto trascurati dai moderni. E si rivelano invece un filo prezioso per capire meglio e la poesia e la musica greca. Quali sono le conseguenze che dobbiamo trarre da quanto abbiamo detto fin qui per p r a s s i e d i t o r i a l e e per t e o r i a m e t r i c a ? Dovremo stampare gli asinarteti in due righe, perché alla fin fine si sono rivelati composti di due versicoli indipendenti e non più – come credevamo prima – versi singoli composti di due cola? Adesso, coll’epodo di Colonia, ci sarebbe veramente ragione di comportarsi così, come invece non c’era nel caso che ho commentato sopra dall’edizione di West. E questo è in effetti quello che fa Page nel suo Supplementum (Oxford 1974), ma solo per l’epodo di Colonia (S 478 a: asyn. 4, str. XXIII), non anche per l’altro frammento epodico riportato dal papiro (S 478 b: asyn. 1, str. XV). In effetti dubito che si possa trovare nella continuazione di questo secondo epodo un fatto come iato o indifferente, dal momento che il primo colon di questo asinarteto è un tetrametro dattilico e una sequenza cretica alla fine distruggerebbe il flusso dattilico (si veda sopra quanto dicevamo su Archil. 201). Ma se qualcuno pensa che questo fatto ritmico sia possibile, sarebbe proprio sicuro di non trovare nella continuazione dell’epodo S 478 b delle

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‘eccezioni’ simili a quelle che ci ha date l’epodo di Colonia? In una seconda edizione, allora, Page sarebbe costretto a pubblicare su due righe anche asyn. 1, come ha fatto ora con asyn. 4; e West nel suo ‘tutto Archiloco’ sarebbe costretto a pubblicare in quel modo tutte le attestazioni almeno di asyn. 1 e 4, in accordo col suo modo (non giustificato) di pubblicare asyn. 9. Per di più, c’è da sperare che i papiri ci restituiscano nel corso degli anni molti e molti altri carmi di Archiloco: ma allora, che terremoto per le nostre edizioni! Ci sarebbe un aumento costante di asinarteti stampati su due righe e una corrispondente diminuzione di asinarteti stampati su una riga. Finché non venisse finalmente un editore coraggioso, che prendesse posizione netta e definitiva. No, penso che non possiamo andare avanti così, dipendendo dal capriccio del caso. Questo è il momento di riflettere e di deciderci. Tanto più che credo fermamente che nuovi papiri archilochei ci riserverebbero molte altre sorprese del tipo di quelle del nostro epodo. Ora, per i due problemi, prassi editoriale moderna e teoria metrica, bisogna dare due risposte distinte. Quanto alla prima, sono sicuro che d o b b i a m o continuare a stampare gli asinarteti su una sola riga. Continuare a comportarci così nelle nostre edizioni sembra almeno ragionevole in vista della teoria metrica di Efestione (“i due cola sono sentiti come un verso unico”), confermata per di più dalla prassi dei papiri (v. sopra). Le nostre edizioni di poeti arcaici possono al più aspirare a riprodurre le edizioni alessandrine (com’è per lo più il caso di fronte a problemi di dialetto): e, stampando su una riga, saremmo almeno in accordo con tale teoria e prassi editoriale. È chiaro che dottrina metrica e prassi editoriale alessandrine non riflettono necessariamente la reale prassi poetica arcaica (come non la riflettono nel caso della strofe saffica): ma possono essere utile conferma quando non siano in disaccordo con quella che sembra esser stata la tecnica poetica arcaica. Credo che quest’ultimo sia proprio il nostro caso: ecco la risposta al secondo problema. Perché sono convinto che d o b b i a m o a n c h e c o n t i n u a r e a c o n s i d e r a r e g l i a s i n a r t e t i c o m e v e r s i u n i t a r i , intendendo che tale precisamente doveva essere la tecnica dei poeti arcaici. Ho sostanzialmente una prova sola, ed è per di più un argumentum ex silentio: ma vedremo come il quadro che ne esce rispetti una visione correttamente diacronica della versificazione greca. Ebbene: le strofi epodiche di Archiloco, quando non sono presenti asinarteti, sono costantemente strofi di due versi (str. Ia, II, III, XXIV, XXV); ne consegue che è altamente probabile che di due versi soltanto siano anche le strofi che contengono asinarteti (str. I, IV, XV, XXIII, con asyn. 1, 3, 4, 12), e che quindi i suoi asinarteti (asyn. 1, 3, 4, 12, inclusi nelle strofi, più gli stichici asyn. 9, 14) siano versi singoli. Da controprova serve il fatto che tutte le strofi composte

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sicuramente di più di due versi (dico sicuramente, perché contengono due versi ‘unitari’ più un asinarteto o almeno tre versi ‘unitari’) sono attestate solo tardi e hanno per di più un’aria tarda (si ricordi quanto dicevamo all’inizio su espansione e conflazione di strofi): str. IX, X, XI, XII, XIIa, XVI, XX, XXXI, XXXII, XXXIII. C’è tuttavia una conseguenza che può essere considerata un prezzo troppo alto da pagare. Se la mia seconda proposta è giusta, allora quella che sembra essere una fine di verso fra i due cola non è una fine di verso: e dovremmo dare a tale fenomeno uno status e un nome, dal momento che sarebbe meno di una fine di verso ma, dopo tutto, più di una semplice incisione. In altre parole: se non voglio ammettere vera fine di verso, devo ammettere un fenomeno che sta a mezza strada fra la fine di verso e l’incisione. Ebbene, lo ammetto. Il nostro scopo dev’essere quello di rispettare la documentazione, e cioè di accettare una diacronia nel senso ovvio di una serie di sincronie, ognuna delle quali sia costituita da una rosa armonica di funzioni. In condizioni simili non dovrebbero esserci prezzi teorici che non valga la pena di pagare. Le categorie boeckhiane della metrica possono bene aver seguito un loro sviluppo storico: io ero e sono affezionato a queste categorie, ma non ho voluto restarne prigioniero. Propongo quindi il nome di ‘ i n c i s i o n e c o n l i c e n z a ’ e lo status di un fenomeno più forte di una normale incisione, ma tuttavia pur sempre un’incisione e non una fine di verso. Un’incisione dove iato e/o elemento indifferente sono permessi. Naturalmente è appena il caso di avvertire che la ‘licenza’ si riferisce non necessariamente a una ‘regola’ contemporanea, bensì alla ‘regola’ da tutti un tempo stabilita in base a false certezze date da documentazione insufficiente e valida per epoche più tarde. Qualcosa di simile (ma non di identico) si ha in alcuni fatti prosodico–metrici del saturnio e nei loci Jacobsohniani del teatro latino arcaico. Ma, prima di sottoporre la mia proposta a una verifica storica, ho da rispondere a un’importante domanda che mi si potrebbe fare: come poteva venire eliminata alla fine del primo colon l’impressione ritmica di fine di verso data da iato e/o elemento indifferente? Rispondo che questo era il compito e l’effetto dell’a c c o m p a g n a m e n t o m u s i c a l e . Gli asinarteti sono un tipo speciale di verso. Ho sempre pensato (ed ho anche scritto a suo tempo, “Riv. di filol.” 94, 1966, 200 sg.) che sono qualcosa d’intermedio fra i versi recitativi e i versi lirici: coi versi recitativi hanno in comune la regolare fine di parola, l’incisione (un fatto che è estraneo al vero verso lirico), mentre coi versi lirici hanno in comune la forma lirica dei cola da cui sono costituiti. Può contenere del vero l’affermazione della biografia antica che Archiloco fu l’inventore non solo di epodi e asinarteti ma anche della παρακαταλογή (i due εὑρήματα insie-

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me in Ps. Plut. mus. 1140 f 20 sgg.), un modo di resa (tav. 3, E) intermedio fra il canto e il parlato, simile al ‘recitativo’ della musica moderna: è molto probabile che Archiloco usasse proprio questo tipo di resa musicale per i suoi carmi epodici. Comunque, musica di qualche tipo era certamente connessa con essi: e la musica avrà assicurato il senso di unità ritmica dei due cola per mezzo di frasi musicali opportunamente adattate alla misura dei versi. Possiamo passare ora – come annunciavo prima – al panorama dello s v i l u p p o s t o r i c o d e g l i a s i n a r t e t i che ci viene consentito dalla interpretazione qui data della tecnica archilochea e che con tale tecnica si accorda perfettamente. Parto da alcune acute osservazioni fatte a suo tempo da Wilamowitz (Gr. Versk., 121 sg., 421–3, 442; Kl. Schr., II, 153–5; cf. Snell, Gr. Metr.3, 41 sg.), che parlava di una tendenza, nella storia della versificazione greca, dalla asinartesi alla ‘sinartesi’, e cioè da separazione ad unificazione di cola. L’esempio più chiaro di tale sviluppo sono i cosiddetti dattilo–epitriti. Vediamo tav. 3, F. Se confrontiamo il fr. 383 di Alceo col fr. 20 B, vv. 1–4 di Bacchilide, ci rendiamo conto che la diversa notazione metrica significa di fatto la stessa sequenza di lunghe e di brevi. Ma tale differenza di notazione non è oziosa, tutt’altro: in Alceo vediamo costruzione asinartetica, essendoci fine di parola dopo l’hemiepes (al v. 2 elisio non officit caesurae, secondo il principio di Gottfried Hermann), ed abbiamo un asinarteto (asyn. 5), il cosiddetto encomiologico. Ma nei vv. 2 e 3 di Bacchilide non c’è rispetto di fine di parola (al v. 3 abbiamo sinafia): siamo di fronte ad un verso dattilo–epitritico, in un contesto di altri dattilo–epitriti (la strofetta è completa), per i quali siamo ormai abituati ad usare la notazione di Maas (che, in attesa di una soddisfacente interpretazione ritmica, serve almeno a distinguere i dattilo–epitriti da altre specie ritmiche). Ebbene: nella lirica posteriore e nel dramma troviamo innumerevoli vecchie conoscenze asinartetiche, trattate però con sinafia. In effetti non possiamo essere sicuri sul quando sia avvenuto questo passaggio da incisione a sinafia. Chi può provare in modo certo che i carmi di cui possediamo uno o pochissimi versi rispettavano veramente fine di parola lungo tutta la loro estensione? Qui rientra pesantemente il gioco del caso, e il papiro di Colonia ci ha insegnato ad essere prudenti. Il frammento di Alceo, che ci è stato utile come esempio, non sappiamo se nel seguito rispettava la fine di parola. Alcmane andrebbe discusso a lungo; Anacreonte sembra prediligere l’incisione, ma dei suoi carmi asinartetici abbiamo ben poco (rimando al metrorum conspectus di Gentili, che ha sempre notato il comportamento di fine di parola; v. per ora qui asyn. 15 e 16 alla tav. 2). Non sappiamo neanche se l’uso dell’incisione con licenza finisce con Archiloco, ma, supponendo provvisoriamente che fosse così, ci resta solo da supporre che dopo Archiloco gli altri due espedienti – incisione ‘corretta’ e sinafia – venissero usati

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in concorrenza, magari dallo stesso poeta. Esaminando la documentazione vediamo comunque il progressivo diffondersi della sinafia e il suo uso costante presso i poeti drammatici, che inseriscono nelle loro strofi liriche asinarteti con sinafia fra versi di altro genere (gli asinarteti che ho chiamati intermixti) e che ne fanno uso anche in intere sequenze stichiche (per es. Ar. vesp. 248–72, asyn. 13; ibid. 1529–37, asyn. 9). Sarebbe un discorso lungo e per ora debbo limitarmi a questi pochi accenni. Aggiungo solo che asyn. 16–18, un colon seguito dalla sua forma catalettica, si accostano a – e per struttura drammatica e contesto si identificano con – i ‘versi lunghi’ anapestici trocaici giambici del dramma; mentre asyn. 5–8, considerati tali da Efestione, sono in effetti dei dattilo–epitriti (5 e 6 lo possono essere diventati, [7] e [8] sono sicuramente nati come tali, come dicevamo all’inizio). Tutto questo sarà trattato estesamente altrove. Quanto va messo in rilievo ora è che lo sviluppo lineare visto da Wilamowitz da separazione a unificazione di cola può essere proiettato all’indietro, mantenendo la sua linearità, nella tecnica ancor più ‘separatistica’ del più arcaico lirico a noi conservato, Archiloco. Insomma: dall’incisione con licenza (Archiloco), attraverso una possibile (non sicura) fase di incisione ‘corretta’, si passa alla sinafia. Quanto sono venuto argomentando fin qui sarà più chiaro e risulterà integrabile se daremo un’occhiata alla tav. 3, H, uno schizzo di quello che io credo essere stato lo sviluppo storico degli asinarteti dai poeti arcaici ai poeti alessandrini. Cercheremo anche di interpretare i mutamenti tecnici per mezzo dello sviluppo collaterale della m u s i c a . La f a s e I , due versicoli indipendenti, è una ricostruzione solo possibile, ma non necessaria (si noti l’asterisco!). Versicoli indipendenti esistevano: penso ai reiziani stichici del canto dei fanciulli rodiesi (848 P.), che è popolare e certamente arcaico. Per la f a s e I I , rappresentata dall’epodo di Colonia e sicuramente almeno da tutto Archiloco, ho segnato l’incisione con licenza con un espediente grafico: barra singola (fine di parola), ma con in più i segni di iato e di elemento indifferente; forse resto di una possibile fase anteriore (la I) di completa separazione, forse fatto di tecnica arcaica, raffinato in seguito. La f a s e I I I sarebbe quella ‘corretta’, quella che prima dell’epodo di Colonia credevamo essere l’unica: incisione semplice, senza iato e/o elemento indifferente. I suoi confini sono però incerti: anche qui, per la limitatezza dei materiali, non sappiamo quando si realizzò questo passaggio da incisione con licenza a incisione ‘corretta’. Ma incerta dev’essere considerata l’esistenza stessa di questa fase prima dell’età alessandrina (fase V). Incisione ‘corretta’ può essere stato un raffinamento introdotto da poeti posteriori ad Archiloco, per quanto esso sarebbe stato ben lontano dall’avere quella necessità e funzionalità che vedremo avrà nella fase V; trattandosi quindi di fatto non univocamente documentato e non necessario, dobbiamo lasciarlo nel limbo delle

246 | Sezione 1: Metrica

supposizioni. La f a s e I V , quella della sinafia degli intermixti e degli stichici, è d’altra parte attestata generosamente nei lirici più tardi e nei poeti drammatici. Penso che il passaggio a questa fase vada spiegato collo sviluppo di una m u s i c a sempre più ricca e fluida, che già di per sé tendeva ad oscurare i netti confini fra i cola. La musica mostra fra VI e V secolo uno sviluppo tecnico ininterrotto, sviluppo scandito dalle polemiche contro i novatori, verso forme sempre più complesse: la struttura verbale dei carmi (la métrique verbale) diventa sempre meno rilevante fino al punto che il preponderante peso della musica tende a far sbiadire la parola a mera piattaforma per la musica: e qui le polemiche si fanno più forti e accese, com’è noto. Se è vero quanto dice Wilamowitz, Sappho und Simonides, Berlin 1913, 218–23 su A.Ρ. 13.28 (asyn. 19, str. XVII), che si tratta cioè di uno Steinepigramm del principio del V sec., la sinafia del v. 2 andrebbe vista come influenza dell’usus della fase coeva. Quello che può sembrare strano a prima vista è che la f a s e V , ben attestata negli alessandrini, ha, come abbiamo visto prima, sempre incisione ‘corretta’. Ricordiamo che gli alessandrini ritornano all’epodo e agli asinarteti epodici dei poeti arcaici. Qui non dev’essere un caso: deve trattarsi del rispetto di una legge, l’abbiamo detto prima. Ora, perché tale legge? Io credo che la risposta sia chiara. Volendo ricreare fatti arcaici — atteggiamento tipico degli alessandrini —, questi poeti rifiutarono la sinafia lirica e drammatica (fase IV) e tornarono quindi all’incisione, ma sentirono di non potersi permettere l’incisione con licenza proprio p e r l a m a n c a n z a d e l l a m u s i c a : la poesia alessandrina era letta, non più cantata. Così scelsero di imitare Archiloco fino al punto che era consentito dalle leggi della lingua e del ritmo, ancora vive per loro: fine di parola, ma con una incisione ‘corretta’, senza iato e/o indifferente, allo scopo di evitare quella che al tempo loro sarebbe stata sentita veramente come una fine di verso. Qui l’incisione ‘corretta’ era strettamente funzionale. Se c’era stata una fase III, gli alessandrini semplicemente tornarono ad essa; se non c’era stata, innovarono al solo scopo di arcaizzare correttamente. Era il solo modo di imitare davvero Archiloco: col necessario ‘aggiornamento’, cioè. Orazio invece, l’unico rappresentante di quella che abbiamo chiamato la f a s e V I , volle essere più archilocheo di quanto fosse consentito: leggeva il suo Archiloco, vi trovava incisione con licenza, e semplicemente la imitò. Non si rese conto, come invece i suoi colleghi alessandrini fecero assai bene, che questo era impossibile, dal momento che anche lui, come loro, non aveva più la musica ad accompagnare i suoi carmi. Ho dato ad Orazio l’onore di rappresentare la fase VI, ma in realtà il suo ‘esperimento’ non merita di rappresentare un vero momento di sviluppo storico: non era greco e capiva poco della metrica arcaica. Così, più che un autentico arcaizzante, ci si presenta come un archeologo: è fedele ad Archiloco,

Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini | 247

ma è una fedeltà un po’ da provinciale. Orazio poteva fare la gaffe di imitare Archiloco in una caratteristica tecnica che era in disuso da secoli, ma nessun alessandrino aveva fatto tale gaffe semplicemente perché nessun poeta greco poteva farla. Sia come si vuole, la sua archeologia si rivela oggi per noi una testimonianza di valore inestimabile, perché ci conferma l’autenticità archilochea della tecnica dell’epodo di Colonia. Riprendiamo a volo d’uccello il nostro panorama storico (tav. 3, H). Le fasi che hanno realtà storica accertabile sono la II (Archiloco: incisione con licenza), la IV (lirici, dramma: sinafia), la V (poeti alessandrini: incisione ‘corretta’). Le altre sono o ricostruzioni (la I: versicoli separati) o congetture incerte (la III: incisione ‘corretta’ prima degli alessandrini) o momenti episodici (la VI: Orazio). Se, alla luce delle considerazioni storiche che abbiamo fatte, riprendiamo in esame il valore della teoria e delle esemplificazioni di Efestione nel suo cap. XV, vediamo, come dicevamo all’inizio, il suo valore di guida posto ancor più fortemente in discussione. 1. Colla sua incisione ‘corretta’, Efestione non include nella sua definizione gli asinarteti archilochei, che avevano incisione con licenza. 2. Contro la sua stessa definizione (cola diversi), ha incluso asyn. [20], [21], [22], che sono ripetizione dello stesso colon; aperto resta il discorso sugli asyn. 16–18 e sul priapeo, che, costituiti da un colon seguito dalla sua forma catalettica, sembrano apparentati coi versi lunghi anapestici trocaici giambici del teatro, che come asinarteti (pur avendo incisione mediana) non sono stati mai considerati. 3. Di nuovo contro la sua definizione (due cola) e contro la prassi poetica ha incluso asyn. [7] e [8], che sarebbero costituiti da tre cola e sono palesi dattilo– epitriti; ugualmente apparenza dattilo–epitritica hanno asyn. 5 e 6, che ho però accettati visto che sono costituiti da due soli cola e sono attestati fin da epoca sufficientemente arcaica (Alcmane e Saffo). 4. Mette insieme asinarteti con incisione e asinarteti con sinafia, senza che questo entri nella definizione: alcune volte notandolo espressamente (asyn. 9), altre volte assumendolo implicitamente nel dare gli esempi (asyn. [8], 16); solo per il pentametro (!) vede la sinafia come fatto eccezionale, anzi addirittura assurdo (v. ad asyn. 3). Di tutte queste incongruenze possiamo cercare di darci spiegazione storica. In 1. Efestione sembra influenzato dalla fase alessandrina (la V, con incisione ‘corretta’); 2. andrà spiegato con una indagine storica accurata della fase IV, in cui i poeti lirici e drammatici usano gli intermixti con sinafia e i poeti drammatici usano stichicamente i veri asinarteti lirici con sinafia e i cosiddetti versi lun-

248 | Sezione 1: Metrica

ghi con incisione mediana; per 3. sarebbe essenziale una ricerca a fondo sulla natura e sulla storia dei dattilo–epitriti (per ora rimando all’eccellente articolo di M.W. Haslam, “Quad. Urbin.” 17, 1974, 7–57); per 3. e 4. insieme c’è comunque da tener presente l’influenza della fase IV, la fase della sinafia. Anche a non tener conto delle vicende fortunose del manuale di Efestione (da quarantotto, a ventiquattro, a undici, a tre, a un libro), sono tutte deformazioni per le quali è possibile individuare la nascita nell’ambito della teoria metrica alessandrina. Una teoria legata alla scuola parte da definizioni semplici e dogmatiche, per poi pescare esempi dovunque, senza di necessità fare un vaglio storico. Concludiamo. Prima si poteva dire — sulla base della sola testimonianza del papiro — che, se l’epodo di Colonia è un falso, dev’essere almeno un falso antico: così giustamente sostiene Kannicht (“ZPE” 18, 1975, 287) contro Gelzer, basandosi sul fatto elementare che l’epodo era pur sempre stato incluso in un’edizione alessandrina di Archiloco (l’altro frammento è sicuramente archilocheo). Ma oggi, coll’aggiunta del test metrico combinato colla testimonianza di Orazio, non si può sfuggire alla conclusione non solo che è arcaico, ma anche che, se è arcaico, dev’essere di Archiloco. Restiamo, è vero, con alcune difficoltà linguistiche: ma possiamo affermare di conoscere il greco di Archiloco così bene da condannare su questa base l’epodo di Colonia come apocrifo e tardo? Per di più le idee qui esposte sulla tecnica archilochea si accordano bene — mi sembra — con un quadro intelligibile dello sviluppo storico della metrica e della musica greca.

Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini | 249

TABULAE | = finis verbi;

|| = finis versus;

||| = finis strophae.

Alc., Sapph.: L.—P.; Alcm., Simon.: Page; Arch.: Diehl = Tarditi = West; Call.: Pfeiffer.

Anacr.: Gentili = Page;

1. EPODICAE QUAE DICUNTUR STROPHAE. I.

6da || hem | hem ||| (asyn. 3)

Ia.

6da || hem ||| Arch. 198 W.; Diog. Laert. A.P. 7.101

Ib.

6da || hem | x

II.

〈 6da ||〉 4da ||| Arch. 105 = 202 = 195; Hor. epod. 12

hghW

(asyn. 5)

Diog. Laert. A.P. 7.118

III.

6da || 2ia ||| Arch. 104 = 203 = 193, (111 = 208 = 194 sec. W.); G.V. 1088; Hor. epod. 14. 15; Diog. Laert. A.P. 7.111

IV.

6da || 2ia | hem |||

V.

(asyn. 12)

Arch. 199 W. (?); Hor. epod. 13

6da || 3ia ||| Arcesil. ap. D.L. 4.31 = Epigr. Gr. vv. 961—66 Page (IIIa); Nicaenet. A.P. 13.29 (IIIa); Hor. epod. 16; (cf. SEG 14.604, 18.418; ps.—Hom. Margit.); Hegesipp. A.P. 6.266, 13.12 (IIIa); G.V. 553, 1501, 1502, 1512 (vv. 5 sq.; 1—4 str. I); Diog. Laert. A.P. 7.98 (chol.!)

VI.

6da || 3ia^ ||| A.P. 13.20 (Simon.?)

VII.

6da || hipp ||| A.P. 13.19 (Simon.?)

VIII.

6da || phal ||| Parmeno A.P. 13.18 (IIIa)

IX.

6da || hem | hem || 3ia ||| A.P. 13.13

(asyn. 3)

Simon. (?) 188 Bgk. (ap. Heph. 60.6 sqq.);

X.

6da || 6da || hem | hem |||

(asyn. 3)

A.P. 13.15

6da || hem | hem || 3ia || 3ia || 6da ||| Call. 635?)

(asyn. 3)

XI. XII.

6da || 6da || 6da || hem | hem ||| (asyn. 3)

A.P. 13.14 (Simon.? 98 D); (cf.

A.P. 13.16

XIIa.

6da || hem | hem || 3ia (?) || 3ia || 6da || hem | hem 9.239 (Ia)

XIII.

6da || 2tr^ ||| A.P. 13.17

XIV.

6da

|| 2tr | 2tr^ |||

(asyn. 18)

|||

(asyn. 3)

Crinag. A.P.

A.P. 13.30 (Simon.?), 13.31 (Timocr.?: vd. ad

asyn. 18) XIVa. XV.

4da | ith || hem | hem |||

(asyn. 1, 3)

G.V. 102

4da | ith || 3ia^ ||| (asyn. 1) Arch. 112 = 197 = 191, 113 = 209 = 188.1 + 114 = 200 = 188.2 → S 478b Page, 115 = 201 = 189, 116 = 210 = 190, 117 = 211 = 192; Call. 554; A.P. 13.26 (Simon.?); Hor. carm. 1.4

250 | Sezione 1: Metrica XVI. XVII. XVIII. XIX. XX. XXI. XXII.

4da | ith || 3ia || 3ia^ ||| 4da (|) ith || x

(asyn. 1)

Theocr. epigr. 21

h g h x | decas. Alc. |||

4da | ith || hem | hem ||| (asyn. 1, 3) 4da | ith || phal |||

(asyn. 1)

A.P. 13.28 (v. Diehl 5,144)

a

G.V. I 102 (III )

Call. epigr. 40

4da | ith || 3ia || 6da || 3ia ||| (asyn. 1) 4da | hem || 3ia^ |||

(asyn. 1, 19)

(asyn. 2)

Phalaec. A.P. 13.27

Alcm. 14

4ia^ || 3ia^ ||| Asclep. A.P. 13.23

XXIII.

3ia || hem | 2ia ||| (asyn. 4)

XXIV.

3ia || hem ||| Arch. 79 = 193 = Hipp. 115—6 W., 80 = Hipp. 117 W., 81 = 188 = 185, 82 = 192 = 186, 83 = 189 = 187, 84 = 187 = 298, 85 = 185 = 182, 86 = 190 = 184, 87 = 194 = 200; Anacr. 44 = 432; P.Oxy. 2885 fr. 4; Diog. Laert. A.P. 7.113

XXV.

3ia || 2ia ||| Arch. 88 = 166 + 167 = 172 + 223, 89 = 168 = 174, 90 = 169 = 179, 91 = 170 = 329, 92 = 171 + 172.11 = 176 + 181.11, 93 = 173 = 178, 94 = 174 + 177 = 177 + 180, 95 = 179 = 173, 169 = 179, 172 = 181, 175 = 175; Hipp. X D. = 118 W.; Hor. epod. 1—10; Diog. Laert. A.P. 7.706 (chol.!)

XXVI. XXVII. XXVIII.

3ia || ith ||| Anacr. 45 = 431; Call. 196,197 (ia 6,7); Theodorid. A.P. 13.21 (IIIa) 3ia || phal ||| Theocr. epigr. 17 3ia || decas. Alc. ||| Phaedim. A.P. 13.22 (IIIa)

XXIX.

chol || 2ia ||| Call. 195 (ia 5)

XXX.

2ia^ || phal ||| Call. epigr. 38

XXXI.

Arch. 118 = 212 = 196, S 478a Page; Hor. epod. 11

2ia^ || 2ia^ || 4da | ith |||

(asyn. 1; vd. ad asyn. [21])

XXXII.

4tr^ || x

XXXIII.

erasm | lec || hem | 2ia || 2ia^ 2ia^ ||| (asyn. 10, 4, [21])

XXXIV.

phal || 4da | ith |||

[XXXV. (?)] [XXXVI. (?)]

h g g h x || 3ia || x h g g h W (asyn. 1)

〈... ||?〉 ith | ith || 〈... ||| ?〉 2tr 2ia^ || 2tr. . . || 2tr. . . ||| ?

Call. epigr. 39

Theocr. epigr. 18

Theocr. epigr. 20

(asyn. [20])

Sapph. 127

(asyn. [23])

Sapph. 132.

A.P. 13.11

Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini | 251

2. ASYNARTETA (vel potius ASYNARTETI VERSUS) 1. 4da | ith ||

(Heph. 49.25 sqq.; synaph. str. XVII, v. 9; ‘cret.’ in fine dactylor.?, Arch. 116 = 210 = 190, Theocr. epigr. 20.2) (str. XIVa, XV—XX, XXXI, XXXIV) adde Cratin. 211 K. ap. Heph. 50.13 (stich.); Call. 554 (an stich.?, v. post 402 Pf.); Theodorid. A.P. 13.8 (stich.) (IIIa) οὐκέϑ’ ὁμῶς θάλλεις ἁπαλὸν χρόα· κάρφεται γὰρ ἥδη (Archil. S 478b1) solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni (Hor. carm. 1.4.1) 2. 4da | hem || (str. XXI) Μῶσ᾿ ἄγε Μῶσα λίγηα πολυμμελὲς αἰὲν ἀοιδὲ μέλος (Alcm. 14) 3. hem | hem || (= pentam., ἐλεγεῖoν, Heph. 51.20 sqq.; synaph. Call. 384a: πεπλημμελημένον, Heph. 52.21!) (str. I, IX—XII, XIIa, XIVa, XVIII) 4. hem | 2ia || (Heph. 50.14 sqq.; ‘licentia’ in diaeresi Arch. S 478a P., Hor. epod. 11) (str. XXIII, XXXIII) ἀλλὰ μ᾿ ὁ λυσιμελής, ὦ᾿ ταῖρε, δάμναται πόθος (Arch. 118 = 212 = 196) scribere versiculos amore percussum gravi (Hor. epod. 11.2) 5. hem | x h g h W (= encomiolog., Heph. 50.18 sqq.; stich. Alc. 383, Anacr. 99 = 416) (str. Ib) Alcm. 3, str. v. ult.; Alc. 383; Simon. 515; Anacr. 97 = 393, 98 = 438 (an synaph.?), 99 = 416 (synaph.), 100 = 391, 101 = 392 (synaph.), 188 = Adesp. 957; Bacchyl. fr. 20 B, str. 2,3 (synaph.); etc. (dact.—epitr.) χαίρετ᾿ ἀελλοπόδων θύγατρες ἴππων (Simon. 515) 6. x h g h x | hem || (= iambeleg., Heph. 51.3 sqq.) Sapph. 156 D. = Adesp. 964a ( + 949) P.; Pind. fr. 29—35, str. 1 (synaph.); etc. (dact.—epitr.) κείνων λυθέντες σαῖς ὑπὸ χερσὶν ἄναξ (Pind. fr. 35) [7.] hem | x h g h x | hem || (= platon., Heph. 51.8 sqq.) Plat. com. 90 K. (Heph. 51.12); etc. (dact.—epitr.) χαῖρε παλαιογόνων ὰνδρῶν ϑεατῶν ξύλλογε παντοσόφων (Plat. com.) [8.] x h g h x | hem | x h g h W (= pindar., Heph. 51.14 sqq.) Pind. fr. 34, 216 (ap. Heph.; synaph.); etc. (dact.—epitr.) 9. erasm (enh) | ith || (Heph. 47.6 sqq.; stich.: vd. Arch. 107 = 162 = 168) Arch. 107 = 162 = 168, 108 = 163 = 171, 109 = 164 = 170, 110 = 165 = 169, 111 = 208 ( = 194: cf. str. III); Phryn. 13 N.2 = TrGF 3 F 13 (synaph.); Eupol. 236 K. (ap. schol. A ad Heph. 154.15: synaph.); Cratin. 323 K. (ap. Heph. 47.18 sqq.: enh; synaph.); Ar. vesp. 1529—37 (synaph.) Ἐρασμονίδη Χαρίλαε, χρῆμά τοι γελοῖον ἐρέω, πολὺ φίλταθ’ ἐταίρων τέρψεαι δ’ ἀκούων (Arch. 107 = 162 = 168) 10. erasm | lec || (str. XXXIII) τίς εἰκόνα τάνδ᾿ ἀνέθηκεν; — Δωριεὺς ό Θούριος (Α.Ρ. 13.11.1)

252 | Sezione 1: Metrica 11. prosod | 〈ith〉 ||

(Heph. 47.22 sqq.) Sapph. 124 (ap. Heph.) αὔτα δὲ σὺ Καλλιόπα 〈...〉 (Sapph.) 12. 2ia | hem || (‘licentia’ in diaeresi Hor. epod. 13) (str. IV) nivesque deducunt Iovem; nunc mare, nunc silvae (Hor. epod. 13.2) 13. 2ia | ith || ( = euripid., Heph. 53.5 sqq.) Eur. fr. 929 N.2 (ap. Heph.); Ar. eq. 757 sq. = 837 sq., nub. 1114, 1212, vesp. 248—72 (synaph., sed tantum 252, 265), Lys. 256—7, 258—9 = 271—2, 273—4 (synaph.), ran. 395 sq., 441—7: Call. 227 (ia. 15, ap. Heph.) ἔνεστ’ Ἀπόλλων τῷ χορῷ· τῆς λύρης ἀκούω (Call.) 14. 2ia | lec || (= euripid., Heph. 52.24 sqq.; an stich.?) Arch. 119 = 205 = 322 Δήμητρος ἀγνῆς καὶ Κόρης τὴν πανήγυριν σέβων (Arch.) 15. 2cho (cho ia) | ith || (Heph. 54.7 sqq.) Anacr. 89 = 387 τὸν μυροποιὸν ἠρόμην Στράττιν εὶ κομήσει (Anacr.) 16. 2cho (cho ia vel cho x x x x) | 2cho^ (arist vel x x x x cho^) || ( = cratin., Heph. 54.11 sqq.; 58.5 sqq.. inter polyschem.; stich.) Anacr. 86 = 385 (ap. Heph. 30.14, inter chor.), 88 = 386 (ap. Heph. 55.5, inter asyn.), Cratin. 324 a, b, c K. (synaph.), Eupol. 37, 38 K. (ap. Heph. 55.2; synaph.) Σίμαλον εἰδον ἐν χορῷ πηκτίδ’ ἔχοντα καλήν (Anacr. 88 = 386) 17. 2cho (x x x x cho) | 2 cho^ (x x x x cho^) ( = eupolid., Heph. 57.18 sqq., inter polyschem.) Pherecr. 29 K. (cf. 13.96; Eupol. 362); Ar. nub. 518—62 (synaph.), fr. 54,55 K. (synaph.); Com. Adesp. 53 K. cap. Heph.) εὐφράνας ἡμᾶς ἀπέπεμπ᾿ οἴκαδ᾿ ἄλλον ἄλλοσε (Com. Adesp.) 18. 2tr | 2tr^ || (str. XIV) (Α.Ρ. 13.31.2 cho tr | . . .) 19. x h g h x | decas. Alc. || (str. XVII) (synaph. A.P. 13.28.9) [20.] ith | ith || (Heph. 55.19 sqq., sed vd. schol. A 161.18 sqq.!) (str. XXXV?) Sapph. 127 (ap. Heph.) δεῦρο δηὖτε Μοῖσαι χρύσιον λίποισαι (Sapph.) [21.] 2ia^ | 2ia^ || (Heph. 55.13 sqq.: sed duo versus, 2ia^ || 2ia^ ||; vd. Pfeiff.) (str. XXXI, XXXIII) Call. epigr. 39, Α.Ρ. 13.11.3 (synaph.) Δήμητρι τῇ Πυλαίῃ τῇ τούτον οὐκ Πελασγῶν (Call.) [22.] pher | pher || ( = σύμπτυκτοι ἀνάπαιστοι, Heph. 55.7 sqq., cf. 32.9 sqq.) Pherecr. 79 K. (ap. Heph.) ἄνδρες πρόσχετε τὸν νοῦν ἐξευρήματι καινῷ (Pherecr.) [23.] 2tr 2ia^ || (sed variatur) (Heph. 53.12 sqq.. cf. schol. A 159.9 sqq.: metrum adhuc incertum) (str. XXXVI?) Sapph. 132 (synaph.)

Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini | 253

3. VARIA A. Arch. 107 = 162 = 168 Ἑρασμονίδη Χαρίλαε, χρῆμά τoι γελoῖoν ἐρέω, πολὺ φίλταθ᾿ ἑταίρων, τέρψεαι δ᾿ ἀκούων 110 = 165 = 169 Δήμητρί τε χεῖρας ἀνέξων 109 = 164 = 170 ἀστῶν δ᾿ οἰ μὲν κατόπισθεν ἦσαν, οἱ δὲ πολλοί 108 = 163 = 171 φιλεῖν στυγνóν περ ἐόντα, μὴ δὲ διαλέγεσθαι

B.

Arch. S478a Page (asyn. 4, str. XXIII)

erasm (x h g g h g g h x) (asyn. 9)

ἀπο 1 πάμπαν ἀνασχόμενος· ἶσον δὲ τολμ[

(elem. indiff.)

7 Ἀμφιμεδοῦς θύγατερ, ἐσθλῆς τε καὶ[ 21 ἐς] κόρακας ἄπεχε· μὴ τοῦτ᾿ ε̣φ̣ο̣ι̣τα ̣ ̣ν̣ 33 ....]. έφηνε νέον ἥβης ἐπήλυσιν χρόα 3 ἔστιν ἐν ἡμετέρου ἣ νῦν μέγ᾿ ἱμείρε[ι

(iato)

17 ἄ]λλος ἀνὴρ ἐχέτω· αἰαῖ πέπειρα δ.[ C.

Hor. epod. 11

6 Inachia furere,

(asyn. 4, str. XXIII)

silvis honorem decutit

(elem. indiff.)

10 arguit et latere petitus imo spiritus 26 libera consilia nec contumeliae graves 14 fervidiore mero arcana promorat loco

(iato)

24 vincere mollitia amor Lycisci me tenet epod. 13

8 reducet in sedem vice. nunc et Achaemenio

(asyn. 12, str. IV)

(elem. indiff.)

10 levare diris pectora sollicitudinibus 14 findunt Scamandri flumina lubricus et Simois

D. A 153 δεῦρο μαχησόμενος, ἐπεὶ οὔ τί μοι αἴτιοί εἰσιν Ε.

I modi di resa (Vortragsweise, Mode of rendering, débit): — parlato (ψιλὴ λέξις, recitazione, declamazione); — ‘recitativo’ (παρακαταλογή); — canto.

F. Alc. 383 L.—P.

ἦρ’ ἔτι Διννομένη τὼ Τυρρακήω τἄρμενα λάμπρα κέοντ᾿ ἐν Μυρσινήῳ;

hem | x h g h x || ¦ (asyn.5, encomiolog.)

x D x e x || D x e x || ¦ D x e x || ¦ exexei (D = h g g h g g h ; e = h g h)

Bacch. fr. 20 B.1—4 ὦ βάρβιτε, μηκέτι πάσσαλον φυλάσσων ἑπτάτονον λιγυρὰν κάππαυε γᾶρυν· δεῦρ᾿ ἐς ἐμὰς χέρας· ὁρμαίνω τι πέμπειν χρύσεον Μουσᾶν Ἀλεξάνδρῳ πτερόν

ith ||

254 | Sezione 1: Metrica

G I vari tipi di asinarteti a seconda delle strutture in cui s’inseriscono: — stichici: già Archiloco, teatro attico (commedia); — epodici (in strofi epodiche): Archiloco, alessandrini, Orazio;

— intermixti (in contesti lirici allotri): lirici, teatro attico (trag. e comm.). H Lo sviluppo storico (seguito attraverso la struttura interna dell’asinarteto)

La sinafia 1. La sinafia è fenomeno comunissimo nella metrica antica. Stranamente i manuali o non ne parlano affatto o ne danno una definizione incompleta1: questo, beninteso, pur applicando correttamente quasi sempre i principi su cui il fenomeno si basa. Vale la pena soffermarsi sul problema, tentando di offrirne una visione globale. Sinafia (συνάφεια) significa ‘attaccatura, connessione, collegamento’. Si richiama così l’attenzione sulla continuità di unità che possono anche presentarsi discrete, e cioè non continue o connesse. Queste unità sono i c o l a l i r i c i , e in tal caso si usa dire che, in numero di due o più, essi non sono unità ritmiche indipendenti e che come tali concorrono a costituire quella unità ritmica indipendente che è il verso o il sistema2. All’interno di un verso o di un sistema sem-

|| [Saggio pubblicato in E. Livrea – G. A. Privitera (edd.), Studi in onore di Anthos Ardizzoni, II, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1978, pp. 789–821] 1 Sostanzialmente limitandola alla sinafia verbale. Anch’io ho fatto lo stesso fino alla mia Verskunst, in Der Kleine Pauly , Bd. 5, 1975, col. 1212.27 e fino a Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini. Sull’autenticità del nuovo Archiloco, di prossima pubblicazione in Problemi di metrica classica, Univ. di Genova (Fac. di Lettere, Ist. di Filol. Class. e Mediev.), 1977: là dove parlo di sinafia tout court, intendo ‘sinafia verbale’. Comprensiva, ma generica, è la definizione di B. Snell, in Artemis Lexikon der alten Welt, Stuttgart 1965, s.v. (“ ‘Zusammenhang’ von sich fortsetzenden metrischen Gliedern, zumal das Fehlen von Pause zwischen ihnen”); cf. J.B. Hofmann – H. Rubenbauer, Wörterb.d.gramm.u.metr.Terminol., Heidelberg 1950, s. v.; O. Crusius, Röm.Metr.2, München 1955, p. 42. Su Schroeder e Irigoin v. qui oltre, nello stesso paragrafo e a nn. 24, 25. – Di aver messo in pratica la sinafia ritmico–prosodica e ritmica negli pnige anapestici il merito va dato alla genialità intuitiva di Richard Bentley nella Epistola ad Joannem Millium, scritta nel 1691! V. la ristampa a cura di G.P. Goold, Taranto 1962, p. 273 sg. = [59] sg.; cf. R. Pfeiffer, History of Classical Scholarship from 1300 to 1850, Oxford 1976, p. 149 sg. | Il mio articolo sugli asinarteti, in versione leggermente ridotta, già ora in Arethusa 9, 1976, pp. 207–291. 2 Il sistema è una unità simile al verso, ma è di norma più lungo: sequenza o di metra (Ar. Ach. 673 sgg. = 699 sgg., nove cretici) o di cola (Ar. eq. 973 sgg., sei sistemi costituiti ciascuno da tre gliconei più ferecrateo). V. Verskunst , cit., col. 1211. 34–41 e qui oltre § § 4,6 e nn. 13, 33, 37, 46. Dagli antichi la lunga sequenza di metra era chiamata ὑπέρμετρον (Rossbach–Westphal, Metrik3, III 1; Leipzig 1887, pp. 180–5; J.W. White, The Verse of Greek Comedy , London 1912, p. 15). Per la sequenza di cola sarebbe più difficile richiamarsi a loro a causa della complicata storia di termini come σύστημα e περίοδος (Rossbach–Westphal, ibid., p. 175 sgg., 185 sgg.; White, cit., p. 15, per es., la chiama subordinate period; W.J.W. Koster, Traité de métrique grecque …3, Leiden 1962, p. 16 sg. la chiama sistema, opponendola a hypermetron, etc.). Di fronte alla varietà e talvolta confusione terminologica e concettuale degli antichi (sarebbe ora di methttps://doi.org/10.1515/9783110647983-018

256 | Sezione 1: Metrica

plici o complessi che siano, cioè, non esistono le spie sicure di fine di verso, che sono iato e/o elemento indifferente3, essendo la fine di parola la sola condizione necessaria, ma di per sé sola non sufficiente a darne certezza. Vorrei qui affermare che, quando delle sequenze siano cola (e cioè non indipendenti), esse sono sempre in sinafia fra loro. A questo scopo dovrò dare di sinafia una definizione più estensiva di quella che è stata generalmente in uso finora: finora infatti si è praticamente sempre inteso per sinafia quella che qui sarà data come una delle varie categorie di sinafia, e cioè la sinafia verbale. È ovvio che, quando le spie di fine di verso siano presenti, i cola vanno considerati come veri e propri versi indipendenti. Così avviene che pericopi che normalmente si presentano come cola, e cioè in sinafia, alle volte hanno invece le caratteristiche del verso, come nel caso dei reiziani (X h X h x) del canto dei fanciulli di Rodi (848 Page) di cui riporto solo i primi cinque versi (al v. 3 accetto, come faceva già Bergk, la correzione di Hermann): ἦλθ’ ἦλθε χελιδών καλὰς ὥρας ἄγουσα, καλοὺς ἐνιαυτούς, ἐπὶ γαστέρα λευκά, ἐπὶ νῶτα μέλαινα.

hhgghhI gghgghgI ghgghhI gghgghhI gghgghgI

Il fatto decisivo che ci porta a considerare i reiziani qui riportati come dei versi e non dei cola è lo iato fra il quarto e il quinto4.

|| tere ordine con un lessico, o almeno, inizialmente, con un index), è utile usare ‘sistema’, beninteso distinguendo i due tipi, come rileva W. Christ, Metrik2, Leipzig 1879, p. 128. Roberto Pretagostini (v. St. Class. e Orient. 25, 1976, p. 195 e n. 43) ha in animo di trattare diffusamente l’argomento; a lui tutto questo mio lavoro deve molto, per discussioni lontane e recenti, che mi hanno chiarito più di un problema. 3 Si tratta di concetti ormai familiari, o che tali dovrebbero essere, da Boeckh (1810, 1811) in poi. Per una valutazione globale della scoperta (o riscoperta!) di Boeckh e per qualche precisazione rimando a Riv. di Filol. 94, 1966, p. 185 sgg., spec. 188 sg.; cf. ora Verskunst, cit., spec. col. 1211.25–1212.18; per i simboli da me usati, ibid., col. 1217.11–17. 4 La breve finale del secondo e del quinto reizrano non sarebbe fatto decisivo, ché, prima ancora di sapere che si tratta di versi (che hanno elemento indifferente finale, W), sappiamo che si tratta di reiziani, i quali, anche nella forma di colon , hanno l’ultimo elemento l i b e r o (x), e non indifferente (Riv. di filol. 94, 1966, p. 201.1 a proposito del caso, analogo, dell’enoplio). Al mio articolo in Riv. di filol. 91, 1963, pp. 52–71 avrei oggi da aggiungere la differenza fra elemento indifferente finale in tempo debole (ovvero in elemento libero, che ha già di per sé l’alternanza breve/lunga, e che quindi non consente di sfruttare tale alternanza come spia di fine di verso, restando solo lo iato) e elemento indifferente finale in tempo forte o in elemento– guida (quello che da molti viene ancora chiamato brevis in longo, e cioè syllaba brevis in ele-

La sinafia | 257

Ma i cola lirici, essendo per la natura stessa della metrica lirica alieni da una rigorosa métrique verbale ed essendo quindi frequentemente in sinafia verbale fra loro5, possono presentare difficili problemi di i n d i v i d u a z i o n e 6. In un verso lirico, infatti, l’eventuale divisione interna in cola può essere quanto meno opinabile. È qui che soccorre il quarto dei principi di Boeckh, oltre a fine di parola, iato ed elemento indifferente: e cioè la c o g n i t i o m e t r o r u m 7. Boeckh parla, specificando, di comparatio metrorum diligens et usus veterum cognitio: dove per il primo corno è da intendere la conoscenza dell’astratto schema di cola e di versi, del paradigma ovvero del verse design (opposto a verse instance) di Jakobson (dove, naturalmente, esso sia da noi determinabile con certezza), e quindi l’operare di una relazione p a r a d i g m a t i c a fra schema e attestazione concreta; e per il secondo la conoscenza dello stile di un autore o di un periodo storico (macrocontesto) oppure il contesto immediato di una sequenza (microcontesto), che fa così diventare operante una relazione s i n t a g m a t i c a fra diverse occorrenze concrete. Vedremo come i due processi s’intersecano a vicenda: ma fin da ora va sottolineato il fatto che si tratta pur sempre

|| mento longo): tornerò prossimamente sull’argomento. Per un criterio generale, volto a determinare la quantità dell’elemento finale di un colon e fondato proprio sulla sinafia. verbale, v. ora R. Pretagostini, “Il colon nella teoria metrica”, Riv. di filol. 102, 1974, pp. 273–82. – Qualcuno potrebbe obiettare che la sicurezza di fine di verso in una serie di reiziani è data preventivamente dalla non ammissibilità del cosiddetto anceps iuxta anceps nel corpo di un verso (P. Maas, Gr. Metr.3, 1929, § 35; v. ora anche l’edizione italiana, tradotta e aggiornata da A. Ghiselli, Firenze 1976). Sarebbe più corretto parlare, nel nostro caso, di contiguità di due elementi liberi. Il principio maasiano (per cui V. per es. H.A. Pohlsander, Metrical Studies in the Lyrics of Sophocles, Leiden 1964, p. 162 sg., che cita la Dale e porta in più molti materiali) è oggi almeno parzialmente messo in discussione: esso varrebbe solo per i dattilo–epitriti, v. R. Pretagostini, in un articolo sulla sticometria del Pap.Lille 76 a, b, c (Stesicoro), di prossima pubblicazione in Quad. Urbin. (per es. Eur. Heraclid. 915=924, due enopli in sinafia verbale). 5 Riv. di filol. 94, 1966, p. 195 sgg.; ora Verskunst, cit., col. 1212.19–34, dove incisione e sinafia sono dati come criterio interno per la distinzione fra versi recitativi e versi lirici; per un criterio esterno (il modo di resa) v. ibid., col. 1213.14–27. Il principio che le incisioni valgono solo per i versi recitativi va soltanto temperato per alcuni casi eccezionali (Riv. di filol. 97, 1969, p. 321; 99, 1971, p. 176 sg., dove raccoglievo osservazioni di Korzeniewski e della Dale). Lo trovo ora formulato in Schmid–Stählin, 1.1, 1929, p. 327 (è l’unica formulazione che sono riuscito a trovare, ma è molto chiara ed esplicita): i versi recitativi “wurden dann gewöhnlich durch die für den Sprechvortrag bezeichnenden Cäsuren (τομαί) gegliedert”. 6 La scienza dei cola è la più delicata. Ad una prudente ars nesciendi in questo campo richiamavo in Riv. di filol. 94, 1966, p. 199. 7 Da me rimessa in luce ancora in Riv. di filol. 94, 1966, p. 189 sg.; v. ora Verskunst, cit., col. 1212.2–9. Le parole di Boeckh qui oltre nuovamente riportate sono in De metris Pindari, Leipzig 1811 (Pindari Opera, 1811–1821, T. I), p. 332.

258 | Sezione 1: Metrica

di p r o c e s s i e r m e n e u t i c i , in altre parole di veri e propri ‘interventi’ sulla interpretazione e per ciò stesso sulla configurazione m e t r i c a delle singole occorrenze. La sinafia è insomma, in tutte le diverse forme in cui vedremo che si presenta, frutto di una precisa i n t e r p r e t a z i o n e , che alle volte deve prendere la forma di una vera e propria ‘scelta’. Prima di mettere in opera il congegno della sinafia noi dobbiamo sapere già se e perché lo mettiamo in opera: il se e il perché ci vengono forniti da una preventiva valutazione metrica, volta ad individuare cola e ritmi. L a s i n a f i a , i n c i a s c u n a d e l l e s u e manifestazioni, è sempre un posterius rispetto al prius dell’interpretazione metrica. Cominciamo con un esempio di tutta evidenza. Succede che delle pericopi che siamo abituati a considerare più spesso come versi si presentino invece in sinafia, siano cioè dei cola. Vediamo Soph. O.C. 1224 sg. (antistrofe): μὴ φῦναι τὸν ἅπαντα νι– κᾷ λόγον· τὸ δ’ ἐπεὶ φανῇ.

h h h g g h g hb hghgghghI

I due gliconei sono palesemente in sinafia, mancando alla fine del primo l’unica condizione necessaria per fine di verso, e cioè mancando fine di parola. I due gliconei sono qui dei cola e, insieme, costituiscono un verso unico. Quale è stato il meccanismo che è scattato per indurci alla scelta della soltanto possibile determinazione di un fatto di sinafia verbale? Prendendo la pericope isolata dal suo contesto antistrofico, infatti, niente ci avrebbe vietato di dividerla rispettando, per esempio, la fine di parola prima di νικᾷ e ottenendo h h h g g h g più h h g h g g h g h dove il primo colon (o il primo verso!) sarebbe stato un ferecrateo e il secondo sarebbe stato di più complessa interpretazione; oppure avremmo potuto dividere la pericope rispettando la fine di parola dopo νικᾷ, ottenendo un ipponatteo più un telesilleo, soluzione solo astrattamente più verosimile perché in apparenza più omogenea ritmicamente. E così via: potremmo continuare. È inutile soffermarci sulle aporie delle due soluzioni qui sperimentalmente tentate: basta un’occhiata al microcontesto dell’ode o al macrocontesto dell’uso sofocleo per farci certi che si tratta di gliconei (fanno parte di un sistema di tre gliconei più decasillabo alcaico, né manca nell’ode un altro sistema gliconico). Dovendo quindi far passare il confine di colon nel corpo di una parola, abbiamo un caso della cosiddetta s i n a f i a v e r b a l e 8. Se poi, || 8 È ovvio che le appositive (pre– e pospositive) vanno saldate alla parola (seguente o precedente) a cui ‘si appoggiano’. Quanto all’e l i s i o n e nei versi lirici, tendo a considerarla elemento di saldatura, a differenza di quanto avviene nei versi recitativi (Riv. di filol. 97, 1969, p. 433 sgg.: pronuntiatio plena). Rispondo così alla domanda formulata da L. P. E. Parker, Lustrum 15, 1970,

La sinafia | 259

per comodità, consideriamo isolatamente rispetto all’antistrofe le pericopi rispondenti nella strofa, e cioè 1211 sg. ὅστις τοῦ πλέονος μέρους χρῄζει τοῦ μετρίου παρεὶς

vediamo che mancano le condizioni per metterle obbligatoriamente in sinafia. Non c’è iato fra il primo e il secondo gliconeo e il primo, per di più, finisce con una sillaba lunga (manca cioè elemento indifferente finale)9: non c’è quindi neanche la necessità di farne due versi separati. Se dunque avessimo questi due cola isolati, avremmo la scelta fra la soluzione di ammettere sinafia e la soluzione di farne due versi separati: saremmo di fronte ad un caso di sinafia libera, di cui parleremo in seguito (§ 6). Ma libera essa non è, in questo caso: la responsione antistrofica, colla sua sinafia verbale, prevale sulla sinafia libera, e giustamente si usa dire che i gliconei di O.C. 1211 sg. = 1224 sg., sia quelli della strofe sia quelli dell’antistrofe, sono fra di loro in sinafia verbale, per il fatto di essere in responsione. Importa qui sottolineare che, attraverso una considerazione di contesto (piano sintagmatico) e guidati dal paradigma del gliconeo (piano paradigmatico), saremmo comunque arrivati alla scelta di dividere νικᾷ fra due cola, scelta che per essere quasi totalmente obbligata non cessa di essere tale, e cioè un fatto d’interpretazione, e che tale scelta ha agito sulla valutazione della responsione nella strofe. Ha agito così, sia pure in maniera elementare, la boeckhiana cognitio metrorum, sui due piani paradigmatico e sintagmatico. Un caso in cui l’intervento è più complesso è quello di Anacr. 60 Gentili = 346 fr. 1 Page. Dò il testo di Gentili della strofetta 7–9, senza indicare, per semplicità, i segni diacritici dell’edizione (si tratta di papiro): τὰς ὑακινθίνας ἀρούρας ἵνα Κύπρις ἐκ λεπάδνων ἐροέσσας κατέδησεν ἵππους.

hgghghghh| gghghghh| gghhgghghhi

|| Göttingen 1972, p. 70. Ma sono cosciente del fatto che in lyricis la realtà della realizzazione canora è per noi irrecuperabile, essendo la parola troppo strettamente legata a una musica per noi irrimediabilmente perduta (e certo molto varia nelle sue forme a seconda delle destinazioni). C’era certamente posto per un’intera scala di sfumature fra l’elisione realizzata pienamente e la pronuntiatio plena, ma precise distinzioni in lyricis, a differenza dei versi recitativi, sono rischiose e praticamente impossibili. 9 Credo che, seguendo il metodo proposto da R. Pretagostini nell’art. cit. qui sopra a n.4 e da lui applicato per ora all’enoplio e soprattutto all’itifallico (dall’analisi del materiale trova sempre lunga finale quando esso è in sinafia con un colon successivo), si possa arrivare a determinare anche la quantità finale lunga (o solubile) del g1iconeo. V. § 5 e n.43.

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Le due prime pericopi presentano sempre fine di parola in tutte le occorrenze (rispettivamente cinque e quattro10) del frammento del carme: è giusto mettere questo fatto nel dovuto rilievo11. Ma così l’interpretazione metrica si presenta non del tutto agevole: Gentili pensa a 1) coriambo più reiziano, 2) dimetro ionico anaclomeno, 3) parteneo più baccheo oppure ipponatteo con base anapestica; altri vogliono vedere in 1) un anaclomeno preceduto da una lunga12. Più lineare l’interpretazione metrica, invece, se si scrive e s’interpreta così: τὰς ὑακινθίνας ἀρού– ρας ἵνα Κύπρις ἐκ λεπάδ– νων ἐροέσσας κατέδησεν ἵππους.

h g g h g h g hb h | g g h g h g hb h|gghhgghghhi

Avremmo due dimetri coriambici anaclastici (coriambo più metron giambico) e un trimetro coriambico catalettico, tutti e tre uniti da sinafia verbale: in sostanza un sistemino di tre cola coriambici13. Sarebbe rispettata sia la maasiana responsione interna (Maas, §§ 28, 31, 52 sgg.) sia l’usus di Anacreonte, che è ricco di coriambi nei suoi carmi. Propendo per questa soluzione, anche se mi restano

|| 10 Veramente la prima occorrenza della prima pericope (v.1) è in realtà mutila della fine, ma è sicuro che aveva anch’essa fine di parola, visto che la successiva comincia con parola autonoma (conservata nel pap.). 11 B. Gentili, Maia 15, 1963. p. 317 sgg.; cf. anche B.G., Anacreon, Roma 1958, p. 110 (metrorum conspectus) e 179 sg, D’accordo con Gentili sono A.M. Dale, Lustrum 2, 1957, p. 7: B. Snell, Gr. Metr.3, Göttingen 1962, p. 27 sg.; W.J.W. Koster, Traité3, cit., p. 382. Ambigui sono D. Korzeniewski, Gr. Metr., Darmstadt 1968, p. 10 sg. (che ha però un’idea felice, che riferirò oltre nel testo) e D. Page nei suoi Poetae Melici (stampa il testo come Gentili, notando però in apparato: “colometriam Alexandrinorum refero quamvis libentius choriambos restituerim”). Per l’interpretazione coriambica (e la conseguente colometria) sono invece R. Merkelbach, Arch. f. Papyrusforsch. 16, 1956, p. 97 sg.; J. Irigoin, Rev. de Philo. 31, 1967, p. 234 sgg.; P. Maas, Kl. Schr., München 1973, p. 194 sg. (un inedito del 1958) e Greek Metre, Oxford 1962, § 59 (v. anche l’ediz. ital.). La terminologia di Maas qui oltre, nel testo. Cosi pensavo anch’io in Riv. di filol. 94, 1966, p. 198.2: oggi mi sento di esser più prudente e parlo solo di preferenza per tale interpretazione. 12 Strano che Koster voglia fare del primo verso un dimetro coriambico ipercataletto, invece che un dimetro ionico preceduto da un ‘Auftakt’ di lunga, che lo omologherebbe al resto, da lui stesso interpretato come ritmo ionico. Va ricordato a questo proposito che proprio Koster, Traité, cit., ha proposto il nome (che è un’interpretazione) di ‘paragliconeo’ (p. 233 sg.) e di ‘parasclepiadeo’ minore e maggiore (p. 244 sg.) per le forme corrispondenti di questi versi acefale e ipercatalette allo stessa tempo. 13 E cioè un sistema κατὰ κῶλον costituito da dimetro, dimetro, trimetro catalettico. Cf., sui sistemi, nn.2, 33, 37, 46 e §§ 4,6. L’unità che si ripete nei primi due cola è non la cellula coriambica (h g g h), bensì la sequenza h g g h g h g h, che è un colon e non la somma di due metra: per questo non sarebbe corretto parlare di un sistema κατὰ μέτρον costituito da sette coriambi.

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dei dubbi a causa della presenza costante di fine di parola. Operando infatti la sinafia, e interpretando cioè coriambicamente, si ha lo sconfinamento costante di parola per una singola sillaba: Maas ha proposto per questo fenomeno il nome di Verzahnung, che Lloyd–Jones ha tradotto dovetailing e che noi potremmo tradurre con ‘indentatura’ o, forse meglio, con ‘incastro’ (Ghiselli). Forse la soluzione migliore per i fenomeni di questo tipo è stata proposta da Korzeniewski: che cioè questa sorta di ambiguità o ambivalenza fosse addirittura voluta, se non era poi in fin dei conti la musica a deciderla in un senso o nell’altro. Ho voluto di proposito scegliere un caso incerto e dibattuto per dare un esempio quanto mai chiaro di intervento, di scelta: perché si stabilisca sinafia all’interno di una parola è necessaria una preventiva scelta metrica, in questo caso la continuità ritmica di una serie di cola ritmicamente omogenei (coriambici). Se è lecito parlare di sandhi, e se a sandhi va dato il significato che ad esso davano i grammatici indiani – e cioè un ‘intervento’ modificante originato dall’influenza ovvero dal condizionamento del contesto14 –, dovremo parlare qui non tanto di un sandhi verbale15, quanto piuttosto di un s a n d h i m e t r i c o , che non ‘interviene’ sulla parola, bensì proprio sulla valutazione ritmica della sequenza metrica. La sinafia nel corpo della parola è soltanto una conseguenza di tale intervento ritmico. In genere il sandhi viene utilizzato per fatti prosodici. Qui lo si applica anche al fatto metrico: una sequenza ritmica può cambiar volto (essere ‘modificata’) a seconda che sia collegata o no a un contesto ritmico e, se collegata, a seconda del tipo di contesto ritmico a cui venga collegata16. Gli esempi di sinafia qui riportati sarebbero dunque, ancora, esempi di sinafia verbale, ed è questo – ripeto – l’unico tipo di cui facciano menzione i manuali che parlano di sinafia. Ma chi si ferma qui non ha esaurito la problematica della sinafia: s’impone la rubricazione di una casistica più ampia.

|| 14 Per definizioni di sandhi v. per es. L. Renou, Terminologie grammaticale du Sanskrit, Paris 1957, p. 519 sg.; J. Marouzeau, Lexique de la terminologie linguistique, Paris 1951, s. v.; W.S. Allen, Sandhi, ‘s – Gravenhage 1962, spec. p. 25. Essenziale per la prosodia e il ritmo del greco e del latino è W.S. Allen, Accent and Rhythm , Cambridge 1973. 15 La grammatica indiana conosce anche un sandhi interno alla parola, quello che Allen, Acc. and Rh., cit., p. 23 (cf. Sandhi, cit., p. 25) chiama ‘internal’ (intra–word) sandhi, contrapposto a ‘external’ (inter–word) sandhi. Il sandhi interno alla parola interessa il condizionamento dei fenomeni all’interno della parola e interessa quindi la linguistica, non la metrica (dove la divisione di una parola fra un colon e l’altro ha interesse solo metrico, e precisamente di métrique verbale): per questo è improprio parlare di un sandhi verbale sottostante alla sinafia verbale. 16 Anche se non parla espressamente di sandhi ritmico, Allen, Acc. and Rh., cit., pp. 113–22 si avvicina alla sostanza di quanto affermo qui.

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La sorte del termine ‘sinafia’, e del concetto ad esso legato, è stata determinata dal fatto – solitamente non messo in rilievo – che molto raramente esso compare anche nella trattatistica antica. In realtà, che io sappia, uno dei pochi luoghi in cui si parli espressamente di sinafia verbale nei metricisti greci è Heph. p. 56.1 sg. Consbr., dove si ha peraltro solo il verbo συνάπτειν: κἄσϑ’ ὅπου συνῆψε τὴν λέξιν [Sapph. 112.4 L.–P., di cui adotto il testo]· μέλλιχ’ ἔρος δ’ ἐπ’ ἰμέρτῳ κέχυται προσώπῳ [ h g g h g h h b h g g h g h h I ]. Efestione fa notare che i due aristofanei (che nel resto del carme – così come da altra fonte lo ha ricostruito la filologia moderna – sono separati da fine di parola) sono qui in sinafia verbale, invece di presentare l’incisione tipica dell’asinarteto (si tratta, appunto, del capitolo efestioneo sugli asinarteti17). Συνάπτειν si trova frequentemente in Eliodoro, nel commento metrico ad Aristofane18, e si è visto in questo fatto una ‘riscoperta’ della sinafia (e quindi del verso) rispetto alla predominante considerazione empirica ed approssimativa del colon che era stata caratteristica di Aristofane di Bisanzio19 e che, come si sa, aveva esercitato tanta influenza sulla impaginazione dei testi poetici sui papiri: riscoperta, cioè, della s t i c o m e t r i a (ovvero individuazione dei versi come tali) rispetto alla c o 1 o m e t r i a (ovvero individuazione dei cola come tali, che aveva portato all’equivoco di dividere scorrettamente i cola stessi seguendo fini di parola anche non generalizzate e di non saper più distinguere colon da verso: si pensi all’Euripide di Murray!20). || 17 Che, tra parentesi, non si tratta di vero asinarteto – perché ripetizione dello stesso colon – affermo nell’art.cit. (qui sopra a n. l) sugli asinarteti. 18 White, The Verse, cit., p. 384 sgg. Per chiarimenti sull’uso terminologico eliodoreo sono preziosi i due articoli di D. Holwerda, Mnemosyne 17, 1964, pp. 113–39 e 20, 1967, pp. 247–72. 19 J. Irigoin, Les scholies métriques de Pindare, Paris 1958, p. 52.1 (sch. ad Ar. pac. 775–818: συῆνπται, ἐνωϑῆναι); cf. pp. 119–21 (Eliodoro come primo passo sulla via della sticometria, che condurrà a Boeckh: argomento che meriterebbe una trattazione a parte, cf. nn.20, 22, 34 qui oltre). 20 Il termine di sticometria (contrapposto a colometria), prezioso per evitare equivoci, è riproposto da D. Korzeniewski, Gr. Metr., cit., p. 9 (v. Riv. di filol. 97, 1969, p. 316). Ma v. già, a proposito del sistema eliodoreo, O. Hense, Heliodoreische Untersuchungen, Leipzig 1870, spec. p. 22 sgg. (v. qui nn.19, 22, 34). – Sarà qui utile ricordare che la trasmissione dei testi lirici greci ha spesso offuscato i fatti colometrico–sticometrici, specie in età bizantina (v. Verskunst , cit., col. 1216.31–42): per questa ragione, e per non complicare i discorsi che qui si fanno, preferisco prescindere dai problemi di trasmissione. Interessante da ultimo Th.J. Fleming, Gr. Rom. Byz . St. 16, 1975, pp. 141–8, che rivaluta la colometria papiracea per un passo eschileo. Si dà però il caso che il conforto dei papiri, specie per la lirica del dramma, è percentualmente scarso: per stabilire una corretta sticometria siamo quindi per lo più costretti a lavorare nostro Marte. Il testo della lirica plautina, invece, pur non risparmiando problemi spinosi, ha almeno il vantaggio di esser passato attraverso meno (o meno maldestramente dotte) mediazioni e di permettere in

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Da alcune delle testimonianze eliodoree, che sarebbe fuori luogo riportare ora qui, e da alcuni passi di grammatici latini, che sono gli unici in cui compare il preciso termine tecnico ‘sinafia’21, si vede che la considerazione veniva estesa a tutti quei casi in cui sono assenti le caratteristiche di fine di verso (e cioè non solo fine di parola, ma anche iato ed elemento indifferente). Sembra chiaro che i latini derivino da Eliodoro22, assumendo comunque un esempio familiare al lettore latino, Hor. carm. 3. 12 Miserarumst, che è un sistema ionico (si confronti il modello alcaico, 10 B L.–P.), all’interno del quale la continuità sistematica è assicurata anche nel caso in cui ci sia fine di parola, giacché mancano iato ed elemento indifferente. Già Ludwig Dindorf, nell’ultima edizione del Thesaurus linguae Graecae (s.v.), aveva reso esplicito quello che era più o meno implicito nei latini: “Metrici συνάφειαν dicunt numeri continuationem, ut syllabae ancipites et hiatus in fine versus locum non habeant”; se non parla espressamente della possibilità di sinafia verbale, è che evidentemente la considera ovvia23. 2. Ora, gli unici, per quanto ne so, che parlino chiaramente di altri tipi di sinafia, distinti da quella verbale, sono stati a suo tempo Schroeder24 e recentemente Irigoin a proposito di sequenze dattiliche25. Si sa, come cosa ovvia, che all’inter-

|| percenttuale assai maggiore di risalire all’edizione “antichissima”: v. la serie di articoli di C. Questa in Quad. Urbin. 17, 1964, pp. 67–87; Riv. di filol. 102, 1974, pp. 58–79, 172–88; Archeol. Class. 25–26, 1973–74, pp. 590–619. 21 Mar. Victor. 91.9, 129.30, 131.4 Keil; Terent. Maur. 1515 sg., 2071, 2079, 2092 etc. (compare anche il termine continuatio). 22 Hense, op. cit., p. 105 sg., dove si rivendica paternità eliodorea (cf. qui nn.19, 20, 34) anche per scoli ad Efestione (e anche per la ἐπισυναλοιφή, ovvero fine di verso in elisione, su cui v. A. Körte, Glotta 3, 1912, pp. 153–6); e W. Christ, Metrik2, cit., p. 100 sg., che, quando stabilisce l’equivalenza ῥυϑμός = συνάϕεια, coglie evidentemente in ῥυϑμός il valore approssimativo di ‘sistema’. 23 Inutile ricordare che qui “in fine versus” deve valere per noi “in fine di colon”. 24 O. Schroeder, Nomenclator metricus, Heidelberg 1929, p. 44 (s.v.), pur non entrando in particolari, distingue efficacemente fra sinafia λέξεως (richiamando Heph. 56.1 riportato qui sopra) e sinafia ῥυϑμοῦ (naturalmente suo Marte). 25 J. Irigoin, in Κωμῳδοτραγήματα. Studia Koster, Amsterdam 1967, pp. 65–73 (spec. 71 sg.). L’accenno di Schroeder era comunque rimasto senza seguito (v. n. prec.). – Scelgo esempi diversi da quelli di Irigoin, visto anche che lo scopo del suo discorso è diverso da quello del mio. Irigoin in realtà vorrebbe salvare come verso autonomo l’alcmanio con finale dattilica, scardinando così il sistema boeckhiano: per lui il verso boeckhiano diventa il periodo. Pur dissentendo (non mi pare il caso di snaturare il verso boeckhiano solo per potervi accogliere casi isolati come questo dell’alcmanio, che è chiaramente un colon), gli riconosco il merito di esser stato chiaro e di aver reso esplicito quello che in alcuni moderni è implicito fraintendimento della dottrina di Boeckh (per es. Snell: v. Riv. di filol. 97, 1969, p. 316).

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no del verso (ovvero all’interno del nastro del discorso) determinati condizionamenti prosodici possono operare nel confine fra una parola e l’altra. Ci sono, cioè, fenomeni di s a n d h i p r o s o d i c o . Almeno in greco, due consonanti anche ambedue iniziali di parola possono chiudere la sillaba finale della parola che precede, rendendola lunga anche nel caso che la vocale sia breve; una consonante finale di parola si salda sillabicamente all’inizio vocalico della parola che segue; e inoltre, nelle sequenze ritmiche che l’ammettono (in sostanza le sequenze dattiliche26), si può avere il cosiddetto abbreviamento epico in iato; etc. Prendiamo una sequenza della famosa parodo dell’Edipo re di Sofocle (163– 7, dall’antistrofe): τρισσοὶ ἀλεξίμοροι προφάνητέ μοι, εἴ ποτε καὶ προτέρας ἄτας ὕπερ ὀρνυμένας πόλει 165 ἠνύσατ’ ἐκτοπίαν φλόγα πήματος, ἔλθετε καὶ νῦν.

hgghgghgghgg| hgghgghhhgg| hgghgg| hgghgghgghgg| hgghhi

La disposizione tipografica e l’analisi metrica corrispondente sono date come se i problemi fossero già risolti27. Ma poniamoci nella condizione di chi debba ancora risolverli. Tutta la prima coppia di strofe–antistrofe è costituita da pericopi che hanno tutta l’apparenza dattilica: tetrametri e dimetri, divisi da fini di parola generalizzate, interrotti solo una volta da un dimetro giambico e una volta da un enoplio. È evidente che qui Sofocle ha voluto riprendere i solenni dattili della parodo dell’Agamennone di Eschilo. Ora, se isoliamo la prima pericope che abbiamo riportata (163), essa finisce con una sillaba lunga (–μοι); e, se facciamo lo stesso colla seconda, abbiamo una sillaba ugualmente lunga perché chiusa (–περ). La misurazione metrica che ne conseguirebbe sarebbe … h g h I, e lo schema metrico delle due pericopi considerate come versi sarebbe hgghgghgghgW.

|| 26 Anche in quelle dove il ‘dattilo’ sia solo apparente, come per es. in gliconei, docmi, anapesti e, naturalmente, dattilo–epitriti. Basti rimandare a Kühner–Blass, l, 196; E.B. Clapp, Hiatus in Greek Melic Poetry , Univ. of Calif. Publ. in Class. Philol., I.1, 1904, pp. 1–34; id. “On Correption in Hiatus”, Class. Philol. l, 1906, pp. 239–52; R. Sjölund, Metrische Kürzung im Griechischen, Uppsala 1938. In giambi e trochei essa è rarissima: v. L.P.E. Parker, Class. Quart. 18, 1968, p. 257 e n.1. 27 L’edizione sofoclea di Dain (I–III, Paris 1955, 1958, 1960) è, per il dramma, l’unica veramente attenta alla sticometria (oltre che alla divisione in periodi). Ma qui la sua impaginazione sticometrica (II, 1958) è particolarmente insoddisfacente: qui e altrove non rientra tipograficamente ma qui, per di più, indica con spazio pausa di periodo dopo 158 = 165!! Forse applicava già i criteri di Irigoin, art. cit. qui sopra a n.25?

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Tale verso, a parte la sua possibile documentabilità28, romperebbe qui, coll’inopportuna inclusione di clausole cretiche, l’evidente flusso dattilico che domina tutta la prima coppia antistrofica29. Come si vede, partiamo anche qui da un’esigenza ritmico–metrica, nel senso che ci poniamo il problema di conservare il flusso olodattilico, tenendo presente da una parte il paradigma delle sequenze dattiliche in generale e dall’altra sia il microcontesto dell’ode sia il macrocontesto sofocleo–eschileo30. Se proviamo ad ‘unire’ le sequenze, creiamo dei condizionamenti prosodici nati dall’incontro di suoni che prima non s’incontravano, creiamo, cioè, le condizioni per un sandhi prosodico: 163 –μοι si abbrevia in iato colla vocale successiva (164 εἴ–), 164 –περ si apre e si abbrevia a contatto della vocale successiva (165 ὀρ–); lo stesso avviene alternativamente per 165 e 16631. Ho ignorato di proposito l’informazione fornitaci dalla strofe: ho voluto fare un exemplum fictum di esercitazione metrica. Ora, se avessimo voluto dare dignità di verso alle singole sequenze, avremmo potuto farlo, beninteso, senza commettere alcuna ‘sgrammaticatura’ metrica, ma a costo di una ‘sgrammaticatura’ ritmica, e cioè dell’interruzione del flusso dattilico con delle cellule cretiche. A rappresentare l’elemento indifferente finale può essere ammessa, infatti, solo l’ultima sillaba, visto che per definizione l’elemento indifferente finale è monosillabico32. Per conservare, quindi, andamento dattilico, abbiamo

|| 28 Ed. Fraenkel, Kleine Beiträge, Roma 1964, I, p. 180 sgg. (1918); B. Gentili, Quad. Urbin. 4, 1967, p. 177 sg. (dove si trova ulteriore bibliogr.). 29 Non vorrei discutere qui Archil. 116 D. = 210 Tarditi = 190 West: ne ho parlato nell’art. cit. (qui a n. 1) sugli asinarteti. 30 Per il problema dei dattili, e specialmente dell’alcmanio, v., oltre a Irigoin, art. cit. qui a n.25, anche A.M. Dale, Collected Papers, Cambridge 1969, pp. 185–209 (1964), dove a p. 204 (cf. 190, 200) c’è tout court l’ammissione di dattilo come finale di verso dattilico!! Sempre utile resta la raccolta di materiale in V. Marino, Ἀρχιλόχεια. L’itifallico in Archiloco, Roma 1957 (Ediz. Gopa; 19 pp.). 31 Abbiamo visto qui casi di ‘riacquisto’ di una quantità breve ottenuto attraverso lo iato e attraverso l’apertura della sillaba. Il caso opposto, quello della necessità ritmica di ricavare un elemento–guida (naturalmente lungo) da una sillaba breve attraverso doppia consonanza successiva non porta a decidere pro o contro sinafia, visto che l’indifferente finale può trasformare comunque una sillaba breve anche aperta in elemento–guida. V. sopra, n.4, e il caso di Ar. av. 1558 sg. a § 5 sotto giambi e trochei catalettici. 32 Interessante notare che il principio dell’impossibilità dell’indifferente finale bisillabico è stato formulato dagli antichi. Terenziano Mauro (1628–33) mette giustamente in rilievo l’impossibilità di avere finale dattilica pura in una sequenza dattilica, aggiungendo in sostanza quanto abbiamo detto noi sopra, e cioè che, in presenza di dattilo, dovremmo avere continuazione di ritmo dattilico dopo di esso: hoc sat erit monuisse, locis quod quinque frequenter

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bisogno di un contesto ritmico che segua a tutti i dattili finali di pericope, permettendo così ad essi di restare dattili. Si ha bisogno quindi di creare preventivamente sandhi metrico (sandhi fra elementi ritmici, e cioè qui fra dattili), che, a sua volta crea un sandhi prosodico, che fa tornare perfettamente i conti. Otteniamo così, per una sinafia che è e resta pur sempre m e t r i c a , una sequenza ininterrotta di ben sedici dattili, che costituiscono in realtà una sequenza di cola dattilici, fino alla fine della strofe33. Tenendo presente questo ovvio avvertimento, alla semplice definizione di Irigoin di ‘sinafia prosodica’ (che potrebbe trarre in inganno), preferisco chiamare questo come un caso di sinafia r i t m i c o – p r o s o d i c a : non si può negare infatti che l’intervento, nel senso del sandhi, avviene preventivamente sul piano ritmico (volontà di conservare andamento dattilico) e il piano ritmico è il vero punto di partenza sia sul piano sintagmatico (predilezione sofoclea e eschileo–sofoclea per le sequenze dattiliche) sia sul piano paradigmatico (olodattilicità delle sequenze dattiliche, e cioè identità dattilica totale delle sequenze stesse). Sicuramente gli antichi avevano già pensato al fenomeno del sandhi prosodico e lo avevano isolato dal punto di vista teorico. Non credo ci siano altre testimonianze chiare come quella di Aristide Quintiliano nel suo De musica. A p. 44.3–10 W.–I. vengono dati precetti per la misurazione delle sillabe a seconda che si voglia considerarle isolate o in contesto prosodico: χρὴ δὲ κἀκεῖνο θεωρεῖν ὡς, εἰ μὲν μ ό ν η ν τ ὴ ν σ υ λ λ α β ὴ ν ἐθέλοιμεν κρίνειν, ἐκ τῶν ἑαυτῆς στοιχείων τὸ μέγεθος αὐτῆς ἡμῖν ἐπιγνωστέον· ε ἰ δ ὲ ἐ ν π ο δ ι κ ῷ σ χ ή μ α τ ι , καὶ τὴν ἑξῆς προσληπτέον πρὸς ἐντελῆ γνῶσιν τῆς τοῦ ποδὸς ἐπισκέψεως. αὐτίκα παντὸς μέτρου τὴν τελευταίαν ἀδιάφορον ἀποφαινόμεθα μηδεμιᾶς αὐτῇ συλλαβῆς ἐπιφερομένης δι’ ἧς ἀφωρισμένως ἑνὸς μεγέθους αὐτὴν ἂν εἰπεῖν προσήκοι.

|| iugem videmus inveniri dactylum: sed non et sextum pes hic sibi vindicat umquam, nisi quando r h y t h m u m , non metrum, componimus. namque metrum certique pedes numerusque coercent, dimensa r h y t h m u m continet lex temporum. Sul valore di rhythmus v. sopra, n.22. Mi pare che il senso degli ultimi due versi, malgrado qualche approssimazione nell’espressione (che lasciano perplesso Sebastiano Timpanaro, per litt. 17.7.1971, pur incline alla fin fine alla mia interpretazione), sia da prendere in questi termini: certi pedes numerusque = “numero determinato di piedi, che crea gli usuali versi” (sei dattili – si parla dell’esametro – che rifiutano il dattilo trisillabico alla fine); dimensa lex temporum = “il semplice ritmo dattilico, senza precisa limitazione nel numero dei piedi, e cioè in sostanza il contesto sistematico”. 33 Per la considerazione a cola, e non a metra, v. §§ 4, 6 e nn.2, 13, 37, 46.

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Il passo viene dalla sezione metrica del primo libro, per la quale già Westphal aveva rintracciato fonte eliodorea, sia pure indiretta34. Siamo chiaramente di fronte ai resti di una organizzazione teorica più comprensiva, risalente ad Eliodoro, che, come abbiamo visto, contemplava vari fatti di sinafia, includendovi anche – come vediamo dal passo di Aristide – il sandhi prosodico. 3. Un’altra distinzione di comodo può risultare utile, per esaurire la varietà dei fenomeni possibili. Prendiamo un canto non in responsione, e cioè l’epodo commatico della parodo commatica dell’Elettra di Sofocle. Sia dunque Soph. El. 236–8: καὶ τί μέτρον κακότατος ἔφυ; φέρε, πῶς ἐπὶ τοῖς φθιμένοις ἀμελεῖν καλόν; ἐν τίνι τοῦτ’ ἔβλαστ’ ἀνθρώπων;

hgghgghgghgg| hgghgghgghgg| hgghhhhhhI

Diamo per scontato il discorso sul sandhi metrico, visto che ci troviamo di nuovo di fronte a dattili. Nel secondo colon dattilico abbiamo un fatto di sandhi prosodico (la sillaba –λόν che si apre e diventa breve, creando la sequenza sillabica –λό–ν|ἐν–): un fatto, quindi, che abbiamo definito sopra di sinafia ritmico– prosodica. Ma, stabilita – come anche qui si deve – una sinafia metrica generale colla creazione di un contesto dattilico (sandhi metrico) che permetta di conservare il flusso olodattilico, fra il primo e il secondo colon il sandhi prosodico non agisce attivamente: la sillaba –ρε, infatti, è breve in quanto aperta con vocale breve, né tale situazione prosodica cambia quando si faccia operare prosodicamente il contesto del colon successivo, che comincia con una monoconsonanza (πῶ–). Si obietterà che, per il fatto di essere ‘a grado zero’, il sandhi prosodico non cessa di esser tale e di agire, e non sarebbe obiezione da spregiare. Ma vorrei difendere l’utilità della rubricazione a parte evidenziando un fatto che solitamente viene ignorato o visto in luce sbagliata. Non è affatto vero che ogni sequenza metrica compiuta (verso o sistema) finisca sempre con sillaba lunga, come molti hanno affermato: la sillaba finale di un verso o di un sistema resta quella che è, breve o lunga che sia35. Il suo status non cambia quindi dal punto di vista prosodico, anche se in quel punto si postuli una fine di verso: quello che cambia non è il suo status sillabico, bensì il suo status ritmico, dal momento che la sillaba, venendo a realizzare un elemento indifferente finale, ha dopo di sé la

|| 34 R. Westphal, Metrik2, I, Leipzig 1867, pp. 229–32, spec. 231 sg. V. qui sopra nn.19, 20, 22. 35 Credo di aver dimostrato questo fatto in Riv. di filol. 91, 1963, spec. pp. 64–6, appoggiandomi anche a testimonianze antiche (spec. Efestione e Quintiliano ivi citt.). In fine di verso si aggiunge una pausa, che lascia però inalterata la quantità della sillaba.

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pausa di fine di verso. Quello che cambia quindi è lo status non della sillaba ma dell’elemento, che, breve o lunga che sia la sillaba, diventerebbe indifferente in qualità di finale di verso: cambierebbe quindi solo l’interpretazione ritmica. Dovendo ammettere … h g g I , dovremmo di nuovo postulare un verso terminante con … h g W: (il che ci porterebbe al già discusso problema di spezzare il ritmo dattilico). Ora, dal momento che in Soph. El. 236 sg. l’unico fatto ad esser ‘modificato’ dalla contestualizzazione operata dal sandhi metrico è un fatto ritmico (lo status di un elemento), il sandhi che qui si realizza è solo quello metrico: è per questo che mi sembra opportuno designare questi casi come s i n a f i a r i t m i c a pura e semplice. Chi volesse tuttavia assumere la sinafia ritmico–prosodica e quella ritmica sotto una categoria unica, potrebbe pur sempre farlo, e la scelta dei termini qui proposti autorizza a ciò anche dal punto di vista formale: l’elemento differenziatore fra la verbale e le altre due è niente meno, ma anche niente più, che la presenza o meno di fine di parola (v. sopra § 1 e nn. 14, 15, 16 col testo relativo). 4. Concludiamo con un esempio efficace, che ci permette di rivedere panoramicamente e in sintesi la materia fin qui trattata. Sia Soph. O.C. 228–35, una sezione dell’astrophon commatico (interpretabile anche come un lungo epodo, come fa Dain) che conclude la lunga parodo commatica della tragedia: οὐδενὶ μοιριδία τίσις ἔρχεται ὧν προπάθῃ τὸ τίνειν· ἀπάτα δ’ ἀπά– 230 ταις ἑτέραις ἑτέρα παραβαλλομέ– να πόνον, οὐ χάριν, ἀντιδίδωσιν ἔ– χειν. σὺ δὲ τῶνδ’ ἑδράνων πάλιν ἔκτοπος αὖθις ἄφορμος ἐμᾶς χθονὸς ἔκθορε, μή τι πέρα χρέος 235 ἐμᾷ πόλει προσάψῃς.

Un lungo pnigos dattilico di ventisei dattili (concluso da un dimetro giambico catalettico, 235, anch’esso in sinafia36), fatto di per sé raro, che a rigore non permette di vedere cola tetrametrici e dimetrici come altrove, dal momento che qui si ha tra di essi anche sinafia verbale37. D’altra parte, la validità paradigmatica

|| 36 Le sequenze dattiliche hanno frequentemente clausole allotrie: v. Pohlsander, op. cit. (a n.4), p. 200 sg. V. anche qui oltre, nel testo, O.C. 243–8 e 250–2. 37 Altrove questo è possibile, anzi, in vista delle fini di parola generalizzate, è d’obbligo. V. per es. Soph. O.R. 155–8 = 163–7 e numerosi altri casi, dove tetrametri e dimetri dattilici sono isolati regolarmente da fini di parola in strofe e antistrofe. Il problema è di ampia portata: v. § 6 e nn.2, 13, 33, 46. Rigore per rigore, Soph. O.C. 228–35, riportato qui sopra, andrebbe stampato tipogra-

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di tetrametro/dimetro altrove terminati da fine di parola e in più la presenza contestuale di tetrametri con fine di parola generalizzata nello stesso cantico (241 in sinafia ritmico–prosodica, 243–8 in sinafia ritmica con un dimetro coriambico, 250–52 in sinafia ritmico–prosodica con metron giambico più itifallico) ci permette di prendere i tetrametri (e il dimetro 234) almeno come punti di partenza empirici per stabilire i luoghi in cui hanno luogo le sinafie. Per questo non ho esitato a riportare la divisione colometrica vulgata. Ebbene: abbiamo sinafia verbale in 229 sg., 230 sg., 231 sg.; sinafia ritmico–prosodica in 228 sg., 232 sg., 234 sg.; sinafia ritmica, infine, in 233 sg. Possiamo ora dare delle definizioni sintetiche dei vari tipi di sinafia che abbiamo passati in rassegna fin qui. Posto che la sinafia è sempre un fatto di s a n d h i m e t r i c o , messo in moto da un intervento ermeneutico sulla realtà del fatto ritmico, avremo: 1) s i n a f i a v e r b a l e : il sandhi metrico agisce sia come tale sia anche sulla divisione delle parole fra un colon e l’altro (su un fatto, cioè, di métrique verbale); 2) s i n a f i a r i t m i c o – p r o s o d i c a : il sandhi metrico agisce sia come tale sia anche sulla prosodia (agisce quindi anche come sandhi prosodico); 3) s i n a f i a r i t m i c a : il sandhi metrico agisce solo come tale (solo quindi sul contesto ritmico). 5. Se mi sono limitato fin qui a portare in prevalenza esempi dattilici, è stato per comodità ed omogeneità di esposizione. Il dattilo ha presentato il vantaggio di essere l’unico ritmo che istituzionalmente presenta elemento finale a doppia breve (per la forza paradigmatica del ritmo dattilico stesso), il che si scontra coll’impossibilità, già sopra più volte ricordata, di avere elemento indifferente finale bisillabico: volendo quindi conservare dattilicità ad un dattilo finale, la sinafia è d’obbligo. Applicare correttamente i principi qui esposti porta a conseguenze di rilievo non solo per l’interpretazione dei ritmi, dei versi e dei cola, ma || ficamente in continuazione senza alcun riguardo per (pseudo–) tetrametri e (pseudo–) dimetri? Cf. Ar. eccl. 1170–76 (il mostruoso composto ‘culinario’), sette ‘tetrametri’ dattilici in sinafia verbale (1170 sg. divisione fra un composto e l’altro, ma 1172–76 sinafia verbale nel corpo dei componenti; notevoli le due soluzioni di longa in 1171, cf. A.M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama2 , Cambridge 1968, p. 25.2): quindi un sistema a metra (e non a cola) di ventotto dattili. Ma la soluzione, sia per l’editore sia per l’interprete, non è così semplice: è un puro caso che in Eur. Hypsip. fr. I.i. 9–13 = fr. I.iii. 11–16 Bond fra i ‘tetrametri’ si abbia, in contestualità antistrofica, solo sinafia ritmico–prosodica o ritmica (e cioè fine di parola generalizzata) nella strofe e invece costante sinafia verbale nell’antistrofe?

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anche, ovviamente, per una corretta impaginazione editoriale della lirica (problema che il mondo moderno si è posto, e neanche sempre, da Boeckh in poi); ma può portare anche ad interventi testuali, quando, in responsione interna od esterna, il testo tradito dia sospetto per l’esistenza di aporie. D’altra parte, la scelta preventiva di un ritmo, che abbiamo detto essere il punto di partenza per l’applicazione della sinafia, può essere anch’essa rimessa in discussione: in tali casi la si retrocede a pura ipotesi iniziale di lavoro, eventualmente da scartare. Oltre che prevalentemente di dattili, abbiamo anche parlato finora di casi in cui la sinafia si presentava come n e c e s s a r i a . Sarà ora utile vedere invece casi in cui essa è palesemente v i e t a t a , sia nei dattili sia in altri ritmi. E vietata essa è non solo quando si presentino le condizioni di fine di verso, ma anche quando, postulandola ipoteticamente in uno qualsiasi dei suoi tipi, si arrivi a ‘tradire’ un’interpretazione ritmica da cui si sia partiti e a cui non si possa rinunciare per mancanza di valide alternative. Ultima ratio, naturalmente, è la correzione del testo. Riprendiamo i d a t t i l i , per vedere quando essa sia vietata. Un esempio per più aspetti difficile è quello di Ar. pac. 114–17, particolarmente utile per il chiarimento di principi di metodo: ὦ πάτερ, ὦ πάτερ, ἆρ’ ἔτυμός γε δώμασιν ἡμετέροις φάτις ἥκει, ὡς σὺ μετ’ ὀρνίθων προλιπὼν ἐμέ ἐς κόρακας βαδιεῖ μεταμώνιος; 118 ἔστι τι τῶνδ’ ἐτύμως; εἴπ’, ὦ πάτερ, εἴ τι φιλεῖς με. 115

Quattro tetrametri dattilici, che danno a prima vista l’impressione di essere in sinafia ritmico–prosodica o ritmica. Ma non è così. Se instauriamo, per ragioni metriche evidenti (frequenza di sistemi di tetrametri dattilici), sandhi prosodico fra i cola, il sandhi di 114 sg. ci lascia con … h4 g | h1 …, dal momento che la sillaba γε, breve ed aperta, breve ed aperta resta anche col contesto prosodico che segue (inizio monoconsonantico): ecco un caso in cui la sinafia è vietata, se vogliamo conservare ritmo dattilico, imponendosi quindi interpretazione stichica (tetrametro dattilico come verso, e non come colon … h4 g I ). Lo stesso va detto per 115, che, terminando a prima vista con una lunga (–κει) e quindi presentando dattilo ‘completo’ alla fine, fa iato (iato non epico) col verso successivo: anche qui, dunque sinafia vietata. Le cose si complicano con 116, che finisce con un vero dattilo: sembra che ci siano le premesse per una sinafia ritmica, ma anche qui interviene uno iato (iato in breve!) col successivo 117. L’unico, fra i quattro, che ha le carte in regola per la sinafia è 117, che ha sinafia ritmico–prosodica coll’esametro dattilico che segue (–ο σ|ἔσ–). Strano che gli editori, com-

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preso Coulon, non si siano preoccupati del problema, che non è da poco: la soluzione più economica è quella di correggere 116 ἐμέ in μέ: si ottengono così tre tetrametri–versi, con un quarto che è colon e che è legato in sinafia ritmico– prosodica all’esametro che segue. Una soluzione almeno senza sgrammaticature metriche, anche se dal punto di vista strutturale la sequenza si presenta un po’ anomala, visto che seguono altri cinque esametri dattilici stichici38. Per il passo aristofaneo or ora discusso siamo partiti, come sempre, da una preventiva interpretazione metrica: abbiamo risolto per conservare il ritmo dattilico, che avremmo dovuto ‘tradire’ a causa di 114 sg. se avessimo operato sinafia generale; e alla sinafia generale, ovvero alla costruzione sistematica, abbiamo dovuto rinunciare facendo dei versi invece che dei cola, obbligati anche dallo iato di 115 sg., e abbiamo corretto 116. Erano le soluzioni più ‘economiche’: nella precettistica che seguirà sarà la maggiore e c o n o m i c i t à della soluzione che avremo costantemente di mira. Nei dattili la sinafia è quindi necessaria con … h g gb … (verbale) e con … h g g | … (ritmico–prosodica o ritmica); vietata con … h gb … (correzione del testo o del ritmo) e con … h g | … (fine di verso o di sistema: quindi … h g I; non ripeterò, in seguito, questa precisazione). Inutile anche aggiungere, qui e per altri ritmi, che iato obbliga ad ammettere fine di verso. Risulta chiaro quindi ancora una volta che parlare di sinafia necessaria o vietata ha senso solo se si ha in vista il ritmo ‘preventivato’ e il testo che si ha di fronte. In caso di aporia fra l’un fatto e l’altro, ambedue vanno retrocessi ad ipotesi di lavoro e occorre esser pronti a rivedere o il ritmo o il testo: il che può portare – come si è visto – ad eliminare la sinafia stessa, ed anche la stessa sinafia verbale – come si è visto al § 1 per Anacreonte – dal momento che si può spostare il confine di colon. Vediamo ora di schematizzare anche per gli altri ritmi, prendendo come punto di partenza euristico, come sempre, il ritmo ‘preventivato’. In virtù della solubilità dell’elemento–guida (lungo) finale, per l’a n a p e s t o (j J) ci si trova in condizioni analoghe a quelle dei dattili. La sinafia è necessaria in caso di … j wb … (verbale) e di … j w … (ritmico–prosodica o ritmica: Ar. av. 404); vietata è invece con … j gb … (correzione del testo o del ritmo) e con … j g | … (fine di verso o di sistema).

|| 38 È la soluzione di White, The Verse, cit., p. 143. Ed. Fraenkel, Kl. Beitr., cit., I, p. 190 (1918), per difendere il testo di 116, porta Soph. Phil. 1205, parlando tuttavia di “Lockerung der guten Technik” (ma possiamo ritenerci soddisfatti?); A.M. Dale, Coll. Papers, cit., pp. 201 e 209.1 (1964) giustifica solo l’esempio sofocleo con cambio di personaggio (aggiungendo la “general agitation”, che non sembra però giustificazione ragionevole).

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Nel caso di g i a m b i a c a t a l e t t i e t r o c h e i c a t a l e t t i c i (e simili, per es. lecizi) la sinafia è necessaria con … g g gb … (verbale) e con … g g g | … (ritmico–prosodica o ritmica: Ar. Thesm. 970); è vietata con … g gb … (correzione del testo o del ritmo: la seconda soluzione in Eur. Phoen. 1294 = 130539) e con … g g | … (fine di verso o di sistema). Un esempio istruttivo, con trochei catalettici, è una quadruplice responsione di dimetri negli Uccelli di Aristofane:

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1475 sg. … Κλεώνυμος χρήσιμον … 1487 sg. … τῆς ἑσπέρας. τηνικαῦτα δ’ … 1558 sg. … προὔλιπε σφάγι’ … 1699 sg. … συκάζουσί τε βάρβαροι δ’ …

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Il primo e il secondo dimetro ammetterebbero la sinafia, come pure il terzo (dove la sillaba finale di 1558 si chiude e si allunga colla doppia consonanza iniziale di 1559), ma non il quarto, dove la sillaba finale è breve e resta breve anche in sandhi prosodico (è seguita da monoconsonanza): bisogna quindi ammettere fine di verso per il quarto, allo scopo di conservare dimetro trocaico catalettico (si veda il contesto), e quindi, in virtù della responsione, per tutte e tre le altre occorrenze in responsione (segnare I e non |), rifiutando fra l’altro l’errata disposizione tipografica di Coulon. Quanto ai c o r i a m b i (h g g h), la sinafia è necessaria con … h g g g gb … (verbale) e con … h g g g g | … (ritmico–prosodica o ritmica); è vietata con … h g g gb … (si passerebbe a ritmo cretico, oppure bisogna correggere il testo) e con … h g g g | … (fine di verso o di sistema). Si può rimandare all’indice metrico dell’Anacreonte di Gentili, dove le sequenze coriambiche abbondano (alternativa fra dimetri e tetrametri, per es.). I c r e t i c i presentano numerosi dubbi sulla estensione dei sistemi, e cioè sui luoghi in cui sia necessaria o vietata la sinafia. Molti esempi per es. in Ar. Ach. 209–17 = 224–32; 289–91 = 338–40; 665–75 = 693–701. La sinafia è necessaria con … h g g gb … (verbale) e con … h g g g | … (ritmico–prosodica o ritmica); è vietata con … h g gb … (darebbe cellula dattilica, oppure bisogna correggere il testo) e con … h g g | … (fine di verso o di sistema). Ar. Ach. 214 φορτίον | ἠκολούθουν è comunque da risolvere come fine di sistema (I), anche se l’antistrofe 227 χωρίων è tale da non consentire per sé sola decisione sicura40.

|| 39 Discusso da Pretagostini, Riv. di filol. 102, 1974, cit., p. 277 e n. 3: dimetro giambico non acataletto, bensi catalettico, come faceva Schroeder (Murray sbaglia). 40 Non mancano problemi di appositive: per es. Ach. 215 ha bisogno di sinafia ritmico–prosodica, esclusa però dal brutto iato nella responsione a 230 sg. Meglio ammettere comunque l’ar-

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L’i t i f a l l i c o finisce, come colon, con una lunga41. È questa quindi la condizione perché la sinafia si realizzi. Casi di finale … gb … escludono natura di itifallico (Pind. O. 1, epod. 3); casi di finale … g | … obbligano a fine di verso. Ci sono poi delle pericopi per cui la conoscenza preventiva del ritmo in finale non è ancora del tutto accertata, anche se possiamo provvisoriamente assumerla con sufficiente certezza. Del g l i c o n e o e cola affini non catalettici si è già detto (n. 9): sono equiparabili, per le finali, a giambi acataletti e a trochei catalettici (v. sopra). Per gli i o n i c i penso anche che si possa affermare con certezza che la sinafia sia necessaria con … g g h g gb … (verbale) e con … g g h g g | … (ritmico–prosodica o ritmica); vietata con … g g h gb … (revisione di ritmo o correzione del testo) e con … g g h g | … (fine di verso o sistema). Del d o c m i o , nonostante esistano buoni elenchi della sua ricchissima morfologia42, andrebbe studiato esaustivamente sui testi il comportamento in questo senso. Se come punto di partenza si prende il frequente cosiddetto ‘docmio attico’ (x h h g h) le considerazioni sul suo finale saranno analoghe a quelle fatte per i cretici. Un docmio della forma x h h g g g, per restare di forma ‘attica’ (gruppo f di Gentili, Metr., pp. 166–8, v. n. prec.), avrebbe bisogno di sinafia successiva (Ar. av. 1191 = 1265); se lo si dovesse isolare a verso, non cesserebbe di essere un docmio (a ‘coriambo’ finale, gruppo e di Gentili, p.166), anche se si dovrà considerare attentamente, secondo usi e contesti, l’opportunità d’introdurre la varietà morfologica. Per i docmi i divieti hanno, come si vede, minor valore, o meglio minore operatività. Uno studio morfologico accurato su questi ultimi ritmi e cola sarebbe auspicabile43, anche se per alcuni, come si è detto, il risultato può darsi quasi per scontato; per altri non si può escludere qualche sorpresa. Per i c o l a c h e f i n i s c o n o c o n e l e m e n t o i n t e m p o d e b o l e , invece, tutto dipenderà dalla valutazione che di tale elemento si dia: decidere, in sostanza, se lo si debba intendere come ἄλογον di giambo–trochei (f: giambi catalettici e trochei acataletti), e cioè rappresentabile solo da sillaba breve o lunga; oppure come libero puro e semplice (x), anch’esso rappresenta|| ticolo in fine di sistema (215) che non il brutto iato all’interno del sistema stesso: niente sinafia, quindi. 41 Dimostrato, come si è detto, da Pretagostini (art. cit. qui sopra a n.4); l’esempio pindarico a p. 280. 42 Per es. B. Gentili, La metrica dei greci, Messina–Firenze 1952, pp. 163–9; N.C. Conomis, “The Dochmiacs of Greek Drama”, Hermes 92, 1964, pp. 23–50; fino al recente A. Tessier, “Per un inventario dei docmi ripetitivi in Euripide”, Boll. Ist. Filol. Greca, Univ. di Padova, 2, 1975, pp. 130–43. 43 Secondo le linee tracciate da Pretagostini, art. cit. sopra a n.4.

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bile solo da sillaba breve o lunga; oppure infine come libero solubile (X), e cioè rappresentabile anche da doppia breve. Per questi due tipi di elemento libero si tratta in sostanza di anapesti catalettici (paremiaci), enopli, hemiepes femminile, reiziani, ferecrateo, ipponatteo, aristofaneo etc. È anche questa una ricerca che andrà fatta sui materiali, non ostando alcun serio principio teorico a un risultato piuttosto che a un altro: la cognitio metrorum nella sua funzione sintagmatica dovrà aver qui un posto d’onore44. 6. Ma la sinafia, oltre ad essere imposta o vietata, può anche presentarsi come s i n a f i a l i b e r a . Libera nel senso che può agire o non agire, il che avviene beninteso quando ci sia fine di parola (esclusione, quindi, della sola sinafia verbale), ma manchino allo stesso tempo fatti cogenti sia per affermarla (sandhi metrico con eventuale aggiunta di sandhi prosodico: sinafia ritmico–prosodica o ritmica) sia per negarla (spie sicure di fine di verso, e cioè iato e/o elemento indifferente). È il caso di sequenze che finiscano con la loro quantità ‘naturale’ monosillabica, e cioè di dattili che escano in … h h | …, di anapesti in … j h | …, di trochei catalettici e giambi acataletti in … g h | …, di coriambi in … h g g h | …, di cretici in … h g h | …, di ionici in … g g h h | …, e così via. Esempi istruttivi dà Anacreonte coi suoi gliconei, per i quali assumiamo, come si sa, le regole di giambi acataletti e trochei catalettici. Sia dunque Anacr. 14 Gentili = 357 Page45: Ὦναξ, ᾧ δαμάλης Ἔρως καὶ Νύμφαι κυανώπιδες πορφυρέη τ’ Ἀφροδίτη

5

συμπαίζουσιν, ἐπιστρέφεαι δ’ ὑψηλὰς ὀρέων κορυφάς, γουνοῦμαί σε, σὺ δ’ εὐμενὴς ἔλθ’ ἡμίν, κεχαρισμένης δ’ εὐχωλῆς ἐπακούειν.

|| 44 Il paremiaco fra versi κατ’ ἐνόπλιον è un enoplio normalizzato; fra anapesti, invece, è un dimetro anapestico catalettico. Ricordiamo il pasqualiano ‘dimmi con chi vai e ti dirò chi sei’. Per una impostazione del problema della valutazione ritmica dei cola v. Verskunst, cit., col. 1212.52 – 1213.6, 1217.51–58. 45 Presento, per questo e per il carme successivo, il testo di Gentili. Per questo carme il testo di Page ignora stranamente i più elementari principi di métrique verbale (mette δ’ al colon successivo, divide ἔρω–τ’ etc., com’era cattiva abitudine degli alessandrini, che non abbiamo nessuna ragione al mondo di conservare: v. Körte, art. cit. qui sopra a n.22). Rilevavo questo in Riv. di filol. 96, 1968, p. 504.

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Κλεοβούλῳ δ’ ἀγαθὸς γενεῦ σύμβουλος, τὸν ἐμόν δ’ ἔρωτ’, ὦ Δεύνυσε, δέχεσθαι.

Le elisioni (4 sg., 7 sg., 10 sg.) fanno propendere per sinafia verbale (v. sopra, n. 8) e l’assenza assoluta di iati e di elementi indifferenti (che qui sarebbero sillabe brevi in fine di gliconeo) fanno decidere per quattro strofette, costituite la prima, terza e quarta ciascuna da un sistema di gliconei più ferecrateo e la seconda da gliconeo più dimetro coriambico libero (v. l’analisi metrica di Gentili). Ovviamente la prima strofe, dove la sinafia sarebbe libera, va giudicata in funzione della responsione colla terza e la quarta. Ora, com’è da giudicare un carme che stroficamente tanto somiglia a questo, e cioè 13 Gentili = 358 Page? Σφαίρῃ δηὖτέ με πορφυρέῃ βάλλων χρυσοκόμης Ἔρως νήνι ποικιλοσαμβάλῳ συμπαίζειν προκαλεῖται· 5

ἡ δ’, ἐστὶν γὰρ ἀπ’ εὐκτίτου Λέσβου, τὴν μὲν ἐμὴν κόμην, λευκὴ γάρ, καταμέμφεται, πρὸς δ’ ἄλλην τινὰ χάσκει.

A parte la pausa dopo il primo ferecrateo (v.4), confermata da iato, nelle due strofi che vengono a costituirsi e che sono formate ciascuna da tre gliconei più ferecrateo, non c’è niente che vieti la sinafia (iati o elementi indifferenti) e niente che la imponga (né sinafia verbale né ritmico–prosodica né ritmica). Si può tutt’al più propendere a legare l’ultimo gliconeo di ogni strofe al successivo ferecrateo (formando il cosiddetto priapeo), come fa Gentili e come ho presentato anche qui. Ma gli altri gliconei? Sono versi indipendenti o costituiscono insieme dei sistemi? È in sostanza un problema analogo a quello che offre l’ode di Anacreonte discussa sopra (a § 1: 60 Gentili = 346 fr. 1 Page). E innumerevoli sono i casi simili soprattutto nella lirica del dramma, dove peraltro spesso la responsione antistrofica solo binaria può far pensare a puro caso per le fini costanti di parola. Ma il problema più grave è costituito dai sistemi di tetrametri e dimetri dattilici e dai sistemi di dimetri e monometri anapestici lirici, dai sistemi di dimetri giambici e trocaici del teatro. Molto spesso ci si trova di fronte a lunghe sequenze dove l’unico fatto costante è la semplice fine di parola, non accompagnata da alcun altro fenomeno né prosodico né ritmico che imponga o vieti la sinafia. Come efficacemente dice Paul Maas (§ 66, traduz. Ghiselli), “spesso riesce impossibile stabilire se in una determinata sede la fine di parola generalizzata sia dovu-

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ta al caso, alla dieresi [ovvero all’incisione] o alla pausa [scil. di fine di verso]”. Per questi punti, dove sia fine di verso sia sinafia ritmico–prosodica o ritmica sono solo possibili, Schroeder propose a suo tempo il termine di ‘c o n t a t t o ’ (Kontakt), ripreso poi da Maas stesso46. La funzione più evidente a cui si può pensare per il ‘contatto’ è quella di mettere in luce la struttura a cola, e non a metra, dei sistemi. Ma, a quanto ne so, siamo in questi fatti poco oltre alla pura descrizione, che attende ancora una vera interpretazione. Tale interpretazione sarà valida nella misura in cui sia attenta alla morfologia storica e della lirica e del dramma47. Un esempio istruttivo di sinafia solo apparentemente libera offrono gli asinarteti. Per la definizione ‘classica’ di asinarteto (due cola separati da semplice fine di parola), come in modo sicuro si realizza solo in età alessandrina48, non si ha mai sinafia verbale; sinafia ritmico–prosodica o ritmica si ha solo in 4dagg | ith I e in 4dagg | hem I (finali dattiliche, che creano la necessità di continuazione del contesto ritmico: sandhi metrico). Negli altri casi (per es. enh | ith I, 2ia | lec I etc.) si dovrebbe parlare a rigore di sinafia libera, se a deciderci per sinafia sicura non ci fossero: 1) il conforto sintagmatico degli altri asinarteti con sinafia ritmico–prosodica o ritmica sicura; e 2) un usus editoriale antico e una teoria metrica antica a renderci certi della continuità ritmico–metrica e cioè della monostichicità degli asinarteti. La funzione di quello che anche qui possiamo chiamare ‘contatto’ sembra anche qui quella di dare un particolare tipo di isolamento ai cola, e cioè isolamento verbale. 7. Sintetizziamo in poche parole i risultati delle nostre ricerche. Il primo è di ordine t e o r i c o . Laddove la sinafia era considerata comunemente un fatto semplice ed univoco (sinafia verbale), abbiamo cercato di distinguerne vari tipi, mettendo comunque in rilievo che si tratta sempre di un fatto metrico, che nasce da una precisa e resposabile interpretazione della realtà ritmica (§§ 1–3). Laddove per l’identificazione delle unità da ‘connettere’ non ci si preoccupava di im-

|| 46 O. Schroeder, Vorarbeiten zur gr. Versgesch., Leipzig u. Berlin 1908, p. 152.2 = 153; anche in Griechische Singverse, Leipzig 1924, p. 8; cf. Nomenclator, cit. (sopra, a n. 24), p. 44. P. Maas, Sokrates 9 , 1921, p. 24 = Die neuen Responsionsfreiheiten bei Bacchyl. u. Pind., Berlin 1921, p. 14; e la sua Metrica, § 66. Cf. qui sopra nn.2, 13, 33, 37 e § 4. 47 Su questa linea, con giusta prudenza, pone il problema F. Perusino, Il tetrametro giambico catalettico nella commedia greca, Roma 1968, pp. 28–32 a proposito del problema di tetrametri (recitativi) o dimetri (lirici) giambici; lo stesso per gli anapesti fa R. Pretagostini, St. Class. e Orient. 25, 1976, cit., p. 210. 48 V. il mio art. cit. sopra, a n.l, dove, in tavole a parte, offro una lista delle strofi epodiche e degli asinarteti [le tavole di Genova sono più ricche di quelle di Arethusa].

La sinafia | 277

postare correttamente il problema, abbiamo cercato di far operare a questo scopo (identificazione dei cola) i due criteri paradigmatico e sintagmatico (pass., ma spec. § 1: la boeckhiana cognitio metrorum come moderno strumento euristico). Ne è conseguito un rinnovamento dello strumento t e r m i n o l o g i c o : mentre prima si usava comunemente chiamare sinafia solo quella verbale, l’estensione del suo raggio d’azione ci ha portati a proporre altri termini distintivi (§§ 1–3 e spec. 4: sinafia verbale, ritmico–prosodica, ritmica). Abbiamo cercato di vederne i modi di operare sia nei dattili, da cui per comodità siamo partiti (§§ 2, 3), sia negli altri ritmi (§ 5); abbiamo stabilito di conseguenza alcuni criteri per orientare correttamente l’i n t e r v e n t o f i l o l o g i c o sul testo e/o sull’interpretazione ritmica (§ 5). Abbiamo per di più cercato di determinare anche i limiti entro i quali possiamo muoverci con sicurezza e al di là dei quali c’è l’ars nesciendi, colla conseguente attesa di nuove acquisizioni negli studi (§ 6: sinafia libera). Il secondo risultato è di ordine s t o r i c o . Da una parte abbiamo visto i resti di una t e o r i a a n t i c a , risalente ad Eliodoro, che ancora aspetta una soddisfacente ricostruzione e valutazione e che promette esiti del massimo valore, avendo essa posto al centro del proprio interesse la sticometria e non più l’empirica colometria di un Aristofane di Bisanzio (spec. §§ 1, 2); dall’altra abbiamo impostato una serie di problemi che attengono alla conoscenza storico–morfologica, in parte ancora incompleta, della p o e s i a l i r i c a greca (§§ 5, 6).

POxy 9 + POxy 2687: trattato ritmico–metrico Frammento di rotolo con cinque colonne di scrittura (cm 43,5 x 22,7). È conservato il margine inferiore (circa cm 3,3) e in parte quello superiore; l’intercolunnio misura circa cm 2. Della prima colonna restano solo le lettere finali di rigo. La scrittura (tavv. in POxy I e POxy XXXIV, II) è una maiuscola che presenta affinità con PHerc 310 e che quindi viene retrodatata da Cavallo (rispetto alla datazione, originariamente proposta, del sec. II/IIIp) a cavallo tra il sec. I/IIp (cfr. Libri scritture scribi a Ercolano, Napoli, Macchiaroli 1983, p. 57); si può aggiungere a conferma anche POxy 1182 del I/IIp e E. G. TURNER, Greek Manuscripts of the Ancient World, Oxford, Clarendon 1971, tav. 67. Il testo è scritto sul recto, mentre il verso è stato riutilizzato in epoca più tarda per scrivervi una lista di pesi e misure (edita in POxy I, pp. 77–79) che è databile alla prima metà del sec. IIIp (cfr. PSI 1248 del 235p in M. NORSA, Scritture documentarie, fasc. II, Roma 1933, tav. XVIII). Le paragraphoi unite ad uno spazio bianco segnalano le pause forti. Segni marginali di lettura a col. III 26 (che rimandano probabilmente alla correzione in fondo alla colonna) e a col. V 10. Forse ad una seconda mano, poco più tarda, è dovuto un certo numero di correzioni (espunzioni, inversione dell’ordine delle parole in II 15 e in IV 15) e l’unico accento che compare nel testo (III 16 νεᾶνις). Il testo fu pubblicato inizialmente da Grenfell e Hunt [POxy I (1898) n. 9, pp. 14–21], ma la scoperta della parte inferiore del frammento, che completa la seconda (r. 23 sgg.), la terza (r. 22 sgg.) e la quarta (r. 23 sgg.) colonna e reca consistenti aggiunte alla prima e alla quinta, dette luogo alla riedizione dell’intero pezzo curata da J. REA in POxy XXXIV (1968), n. 2687, pp. 15–25.∗ Questo frammento è di grande importanza come esempio di trattazione ritmica teorica con applicazione pratica a testi poetici.1 La teoria antica tiene di|| [Saggio pubblicato in F. Adorno (ed.), Aristoxenica, Menandrea, Fragmenta philosophica, Firenze, Olschki, 1988, pp. 11–30] ∗ Ringrazio, per la collaborazione prestata nella descrizione del papiro, il dott. Alessandro Linguiti. Viene qui riprodotto, salvo lievissime modifiche, il testo pubblicato da John Rea. 1 Del papiro ho considerato le varie edizioni, perlopiù risalenti alla editio princeps di Grenfell e Hunt, precedenti quindi al recupero del frammento che ha dato luogo alla riedizione completa del testo da parte di John Rea. Si segnalano comunque le edizioni e i lavori relativi a questo testo: J. U. POWELL, Collectanea Alexandrina, Oxford, Clarendon 1925, pp. 192–193; E. DIEHL, Anthologia Lyrica Graeca, II, Leipzig, Teubner 1925, pp. 166–167; D. L. PAGE, PMG, fr. 926; D. L. PAGE, GLP, 1 nr. 88; J. U. POWELL – E. A. BARBER, New Chapters in the History of Greek Literature, Oxford, Clarendon 1921–1929, vol. I, p. 54 e, a cura di J. F. MOUNTFORD, vol. II, pp. 178–180; Th. https://doi.org/10.1515/9783110647983-019

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stinti i tempi del ritmo musicale e i tempi di lunga e di breve delle sillabe del discorso parlato, ma la fissazione astratta del rapporto di lunga e breve a 2 : 1 favorisce un discorso ‘musicale’ distinto (ovvero ‘ritmico’ astratto) sui testi poetici, come quello che qui ci è conservato. I συμπλέκοντες sarebbero stati, secondo Aristid. Quint. mus. 38.15 sgg., quelli che combinavano la teoria dei ritmi con quella metrica, in contrapposizione ai χωρίζοντες, puri metrici, che dovevano attenersi alla pura ‘partitura ritmica’ dei testi poetici. A stare ai frammenti aristossenici che ci sono conservati (Wehrli, II p. 28, oltre al grande frammento degli Elementa rhythmica), sembra sicura la fedeltà del nostro frammento alla teoria di Aristosseno. Ma varie ragioni portano a dubitare della sua autenticità, per cui sarebbe più da annoverare fra gli Aristoxenica di scuola (Reinach, cit., 395 sg. vi vede dei frutti dell’insegnamento orale, degli Entretiens rythmiques). Tutte insieme, le ragioni che seguono qui oltre hanno qualche peso.2 I frammenti poetici citati sembrano (anche per la metrica: sequenze molto lunghe) non più antichi almeno della fine del IV secolo, nella migliore delle ipotesi di poco anteriori, cioè, ad Aristosseno:3 il primo a parlare di questa cronologia fu Wilamowitz (cit., p. 699). Ma è la stessa trattazione con esempi a tradire rielaborazione più tarda della teoria. L’applicazione concreta della teoria ritmica ai testi poetici non sembra essere stata praticata da Aristosseno, almeno nelle opere exoteriche, avendo egli dato ai συμπλέκοντες (che palesemente alla sua dottrina ritmica si ispiravano) solo lo strumentario teorico (v. ad II.2 su λέξις): da questo può dipendere l’uso del tutto indifferente di ‘tempo’ e ‘piede’ per illustrare gli esempi poetici. μονόχρονον (III.2) per ‘tempo o sillaba iperlunga’ ha probabilità di essere originario; sospetto mi sembra invece l’uso sinonimico di περιέχων (ad II.4–7) per tempo e per sillaba. In II.16–22 (vd. ad II.2) c’è || REINACH, «Revue des Études Grecques», XI, 1898, pp. 398–415; U. VON WILAMOWITZ, «Göttingische Gelehrte Anzeigen», 1898, pp. 698–703; F. BLASS, «Neue Jahrbücher für die Altertumswissenschaft», XXXIII, 1899, pp. 30–49; C. VON JAN, «Philologische Wochenschrift», XIX, 1899, pp. 475–479, 508–511; C. VON JAN, «Jahresbericht über die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft», CIV, 1900, pp. 22–25; W. CRÖNERT, «Archiv für Papyrusforschung», I, 1901, p. 117; H. GLEDITSCH, «Jahresbericht über die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft», CXXV, 1905, pp. 2–8; L. LALOY, Aristoxène de Tarente et la musique de l’antiquité, Paris, Société Française d’Imprimerie et de Librairie 1904, spec. cap. VI; G. B. PIGHI (a cura di), Aristoxeni Rhythmica, Bologna, Pátron 1959, pp. 11–12, 29–32, 62–65; E. PÖHLMANN, Griechische Musikfragmente, Nürnberg, Carl 1960; R. P. WINNINGTON–INGRAM (rec. a PÖHLMANN), «Gnomon», XXXIII, 1961, p. 694; W. J. W. KOSTER, «Revue des Études Grecques», LXXXV, 1972, pp. 47–56. 2 Tuttora di grande utilità è il lessico di Aristosseno del Laloy, in op. cit. alla nota 1. 3 Lyr. Ad. frr. 22–26 CA Powell; fr. 926 a–e PMG Page; ma II.31 e II.32, nella parte pubblicata nel 1968, non sono stati accolti né nel Supplementum di Page, che è del 1974, né nel Supplementum Hellenisticum (a cura di H. LLOYD–JONES – P. PARSONS, Berlin–New York, de Gruyter 1983).

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un uso quanto meno disordinato di lexis, ‘ritmopea’ e ‘ritmo’. In IV.34 τὸ χρώμενον è sinonimo di χρῆσις? È strano che l’ἀλογία, importante strumento aristossenico, sia taciuta a IV.25–V.8, dove sarebbe stata a suo luogo. Particolare ridondanza espositiva è notata ad IV.6 sg.: si tratta forse di ripetitività scolastica? La difficoltà a inquadrare nella teoria etico–musicale il materiale discusso ad III.30 può dipendere dalla scarsità del materiale che della teoria etica stessa ci è rimasto, ma anche da tarda e stanca ripetizione scolastica della dottrina. L’impressione è, insomma, che si tratti di materiale di buona antichità e pregio rielaborato per scopi didattici in forme che ci sono familiari nella tradizione grammaticale. Questa è l’unica trattazione teorica di una certa estensione del fenomeno della misurazione ritmico–musicale della sillaba distinta da quella prosodica: la possibilità, cioè, che una lunga o una breve valgano reciprocamente in misura diversa da quanto è stabilito dalla equazione (artificiale: linguistico–oppositiva) h = gg, ovvero la lunga due more e la breve una. Del fatto esistono enunciazioni, ma non dettagliate analisi. Dall’Anonimo di Bellermann conosciamo il sistema di notazione: h per la lunga di due more,  di tre,  di quattro, di cinque (è d’uso la distinzione fra  = g h e = h g). Il papiro discute le seguenti ipotesi ritmiche derivate dalla cellula h g h : 1)  g h = g h g h ; 2) h g = h g h g ; 3) g h = h g g h . Per fatti del genere si parla comunemente nella teoria moderna (fin da Rossbach e Westphal) di s i n c o p e , ma bisognerebbe invece parlare di p r o t r a z i o n e (v. L. E. Rossi, «Rivista di Filologia e di Istruzione Classica», XCVII, 1969, 318): la sincope si avrebbe con un vero cretico inserito in un contesto giambico o trocaico dove ci fosse (e fosse per noi accertabile) un senso di ‘mancanza’ ritmica (· h g h , h g h ·), mentre un cretico che valga come un metron di sei more è più giusto chiamarlo (e immaginarlo eseguito) protratto. Ora, l’importanza di questo papiro è grande, al di là dei puri fatti tecnici che esso illustra: ci testimonia, infatti, non solo che la protrazione è presente nella teoria e nella prassi ritmico–musicale, ma anche che è praticata nella composizione poetica e nell’esecuzione dei testi. Se si tratta di Aristosseno, va ricordato ancora una volta che la sua dottrina era quella di un conservatore, che rifiutava le innovazioni della musica nuova, fra le quali veniva annoverata l’eccessiva licenza nel trattamento ritmico–-musicale delle parole. Evidentemente l’uso moderato (come quello qui proposto) della protrazione era una caratteristica della musica ‘antica e sana’, e del resto la teoria metrica moderna ha frequentemente (troppo frequentemente, certo: v. ad IV.11–21) proposto scansioni di questo tipo a cominciare almeno da Eschilo in poi, per es. per le sue frequenti sequenze giambiche e trocaiche dove dei tempi deboli sembrano essere mancanti: in casi come g h g h h g h l’esegesi ritmica della cel-

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lula potrebbe essere: 1) h g h , vero cretico; 2) · h g h , cretico con effetto di sincope (e cioè con l’effetto della caduta di un tempo); 3)  g h , g h oppure h g  , h g , cretico con protrazione, e cioè equiparato a un digiambo, a un coriambo o a un ditrocheo, che è la situazione dei testi poetico–musicali così come sono analizzati nel nostro frammento. A quanto conosciamo della sua dottrina, Aristosseno aveva fornito i presupposti teorici per il fenomeno della protrazione: aveva distinto la misurazione del ritmo (per cui l’unità di misura era l’indivisibile χρόνος πρῶτος) da quella della sillaba, che οὐκ ἀεὶ τὸν αὐτὸν χρόνον κατέχει (ap. Psell. prolamb. 1). Il papiro (III.29 sgg.) fa menzione anche di un fenomeno ritmico del tutto diverso e del massimo interesse. Il giambo ortio ( ́  o g ǵ g), il trocheo semanto (́   o ǵ g g) e il peone epibato (     o g g g g g), che vengono scartati come contrari alla teoria dell’ethos (IV.8), presentano elasticità di tutti gli elementi della cellula ritmica, e non di uno soltanto (fino a III.23) o di due (IV.21 sgg.). Il fenomeno è il ‘tempo’ ovvero la ἀγωγή ritmica (v. L. E. ROSSI, Metrica e critica stilistica, Roma, Edizioni dell’Ateneo 1963), che è anch’esso legato alla teoria dell’ethos, nel senso che ogni ritmo ha il ‘tempo’ che gli è proprio e che l’accumulo di lunghe crea lentezza mentre l’accumulo di brevi crea velocità. Il termine ἀγωγή si legge a V.15 ed è di tradizione aristossenica. Un ulteriore strumento teorico della ritmica aristossenica qui utilizzato è la ἀλογία (Rhyth. 292; v. Rossi, 49 sgg.), la mancanza cioè di un rapporto numerico razionale (λόγος) fra i tempi del piede: l’esempio aristossenico è quello del χορεῖος ἄλογος (h g ), il cui tempo forte vale due more e il cui tempo debole ha un valore intermedio fra due e una mora. In tale condizione sono le cellule trisillabiche di cui si parla IV.21 sgg.: quello che qui si rappresenta con g heh g vuole esprimere un valore intermedio fra lunga e breve contestuale con il valore della lunga e quello della breve (e i tre valori si potrebbero quantificare con 1 + ½, 1, 2 e 2, 1, 1 + ½). Questa è l’unica trattazione teorica che ci è rimasta che estenda l’applicazione a più di uno schema ritmico oltre al coreo/trocheo. È possibile che dopo V.34 sg. seguissero esempi poetici, sull’analogia di quanto avviene, per es., a II.29 sg., dove l’uso ‘moderato’ dell’artifizio ritmico ivi discusso prelude all’esemplificazione. Il frammento si distingue anche per il fatto che ci conserva una quantità di notazioni, molto fitte in rapporto con la brevità della sezione di testo, di dottrina etico–musicale e precisamente di ethos ritmico (v., ancora valido, H. ABERT, Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik, Leipzig, Breitkopf und Härtel 1899). Tale dottrina ci viene attraverso due filoni: l’uno pitagorico, numerico e astratto; l’altro, individuabile in Damone – Platone – Aristotele, empirico e basato sull’αἴσϑησις, cfr. IV.20 e n. ad loc.: a quest’ultimo appartiene Aristosseno, da

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buon aristotelico. Quanto la dottrina applicata nel papiro fosse ancora legata agli originari valori ‘politici’ non si può dire, ma ne conserva terminologia e valutazioni. Nel frammento sono presenti valutazioni negative, in armonia con il conservatorismo di Aristosseno. La condanna di ortio, semanto ed epibato (III.28 sgg.) è sicuramente autentica, e per ovvie ragioni cronologiche (fine IV sec.) non ci consente di applicare neanche queste analisi ritmiche a testi di consacrata antichità che dovevano essere accetti a un conservatore: poesia arcaica e classica, e cioè lirici e drammaturghi, per i quali l’esegesi metrica moderna ha fatto uso troppo generoso di questi schemi ritmici ‘liberi’. Wilamowitz, che per i frammenti poetici pensa a «tarda poesia dionisiaca» e a ditirambo (699), fa giustamente notare che Aristosseno ama bollare di anatema (verketzert) il ditirambo stesso: sono testi poetici che Aristosseno avrà davvero discusso o che avrebbe potuto discutere nel suo insegnamento? Cοl. i

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]λ̣ει ]. ]ε̣ως ].α̣ ].. ρ̣η̣ ].. ].χρη ].ταυτηι ].θ̣οτ̣αν ].δυсι ]..η̣εναλ ].εμονο ]λ̣ικωιсπα̣ ]πιπολυ ] ]. [. . ]. ] . επει ]λογον ]τ̣οι ]ω̣τ̣ηξυν ].καιω̣ρ̣ι̣ ]προενη ] . . τωιπαρ ]ναιπρο

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ξ]υνζυγίαι ].ρυκτονωι ].ευχειβρο ].μολει ].φερειν ]τηλε ]δ̣υοξυνζυ ]τελευτη οἰκε]ιό̣τα̣τοι

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μὲν οὖν εἰσιν οἱ ῥυθμοὶ οὗτοι τῆς τοιαύτης λέξεως· χρήσαιτο δ’ ἂν αὐτῇ καὶ ὁ ⟦ιαμβ⟧ `δάκτυλ´ος ὁ κατὰ ⟦δ⟧ ·ἴ·α⟦κτυλ⟧ `μβ´ον ἀνάπαλι τῶν περιεχουσῶν ξυλλαβῶν τεθεισῶν εἰς `τοὺς´ χρόνους ἢ ὡς ἐν τῷ κρητικῷ ἐτίθεντο· ἔσται δὲ τὸ σχῆμα τοῦ ποδὸς δι’ οὗ ἡ ῥυθμοποιΐα πορεύσεται τὸ εἰς ἴαμβον οἷον ‘ἔνθα δὴ ποικίλων ἀνθέων ἄμβροτοι λ〈ε〉ίμακες βαθύσκιον παρ’ ἄλσος ἁβροπαρθένους εὐιώτας χοροὺς ἀγκάλαις δέχονται’· ἐν τούτῳ β

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α

γὰρ οἵ̣ τε· πέντε· ⟦γ⟧· πρῶτοι· πόδες οὕτω κέχρηνται τῇ λέξει καὶ πάλιν ⟦ε⟧ `ὕσ´τεροι τρεῖς καὶ ‘ὅστις εὐθυμίῃ καὶ χοροῖς ἥδεται’· ἐπὶ πολὺ δὲ τῇ τοιαύτη`ι´ ῥυθμοποιΐᾳ οὐ πάνυ χρ⟦α⟧`ῆ´ται ὁ ῥυθμὸς οὗτος· χρήσαιτο δ’ ἂν τῇ τοιαύτῃ λέξ[ε]ι̣ καὶ ὁ ἀπὸ τροχαίου βακχεῖος ἐν καταμείξει τιθεὶς τὴν̣ ἐκ μονοχρόνου καὶ ἰάμβ[ο]υ̣ ξυνζυγίαν ὥστε ξυνεχ[ῆ] μὲν οὐδὲ ταύτην `δεῖ´ ζητεῖν ⟦δει⟧ τὴν ῥυθμοποιΐαν· οὐ γὰρ παρ̣α-̣

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γίγνεται· [διε]σ̣παρμένη`ι´ δ’ [ἔ-] στι περιπε[σ]εῖν οἷον ἐν τῷ ‘ῥιπτείσθω πο`δὸ´ς ἱερὰ βάσις’ κατὰ τὸ ‘Διόνυσο{с}`ν´ τὸν ἐκ πυρός’ μία ξυνζυ[γ]ία· προελθόντι δὲ κατὰ μὲν τὴν λέξιν [ἔ]στι λαβεῖν τ[ὸ] προκείμ̣ε-

Cοl. iii

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νον εἶδος, κατὰ δὲ `τὰ´ τῆς ῥυθμοποιΐας σχήματα παραλλ̣άτ̣ τει ἐν τῷ ‘φίλον ὥραισιν ἀγάπημα θνατοῖσιν ἀνάπαυμα μόχθων’· ἔστι δέ που καὶ ξυνεχεῖς ἐπὶ τρεῖς ‘φέρτατον δαίμον’ ἁγνᾶς τέκος ματέρος ἃν Κάδμος ἑγέννασέ ποτ’ ἐν ταῖς πολυολβ`ί´οισ⟦ιν⟧ Θήβαις’· χρήσαιτο δ’ ἂν καὶ ὁ ἴαμβος τῇ αὐτῇ ταύτῃ λέξει, ἀφυέστερον δὲ τοῦ βακχείου· τὸ γὰρ μονόχρονον οἰκειότερον τοῦ τροχαικοῦ ἢ τοῦ ἰάμβου, οἷον ἐν τῷ ‘βᾶτε, βᾶτε κεῖθεν αἱ δ’ εἰς τὸ πρόσθεν ὀρόμεναι· τίς πόθ’ ⟦ε⟧ `ἁ´ νεᾶνις; ὡς εὐπρεπής νιν ἀμφέπει’· τρεῖς πόδας διαλείπουσιν αἱ ξυνζυγίαι ὥστε περιοδῶδές τι γίγνεσθαι· αὗται μὲν οὖν α̣ἱ χρήσεις τῶν γιγνομένων εἰσὶν ο̣[ὕ]τ̣ως ὡς δήποθ’ ἑκάστη⟦ν⟧ αὐτῶν· αἱ δὲ μέλλουσαι ῥηθήσ⟦α̣⟧εσθαι δύναν>ται μὲν γενέσθαι εἴ τις εὐκαί< ρως αὐτ⟦ωι⟧`αῖς´ χρῶ`ι´το καταμιγνὺς εἰς τὰς γνωριμωτέρα̣ς τε καὶ οἰκειοτέρα̣[ς] χρήσεις· οὐ μέντοι γεγε[νη]μέναι γέ πω`ς´· λέγω δὲ τὰς τοιάσδε· ὁ ὄρθιος

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καὶ ὁ σημαντὸς τροχαῖος ἐκ̣ τριῶν κρητικῶν δύνανται ξυντ[ί]θεσθαι· δῆλον δ’ ὅτι̣ καὶ ἐκ τριῶ[ν π]εριεχόντων· δύνανται δὲ καὶ ἐκ τρι< οὐκ ἦν τὸ̣ ‘αὐτῷ’

Cοl. iv

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ῶν [ἡ]μ̣ι[σ]έ̣ων· ὁ αὐτὸς δὲ λόγος καὶ π[ερ]ὶ τοῦ παιῶνος· καὶ γὰρ οὗτος ἐ[κ] π̣έντε περιεχόντων δύν[ατ]αι ξυντίθεσθαι· δῆλον δ’ ὅτι καὶ ἐκ πέντε ἡμισέων. ξυνεχὴς μὲν `οὖν´ ἡ τοιαύτη χρῆσις οὐκ ἂν γίγνοιτο· παντελῶς γὰρ ἀλλότριον τὸ ἦθος τῆς τοιαύτης ῥυθμοποιΐας τοῦ τ̣[ε] παιῶνος καὶ τῶν πρὸ̣ τούτ̣[ο]υ̣ ῥηθέντων· εἰ δέ που τιθε̣[μ]ένη ἐν καταμε[ί]ξ̣ει τ[ο]ῦ ἰ[δ]ίου ἕνεκα δοκ[ιμά]ζοιτο, τάχ’ ἂν χρήσαιτό [τις] αὐβ

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τῇ· [εἰ] `δὲ´ μὴ· καθόλου· δι[ὰ τὴ]ν· προα

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εκκ[ε] ι̣μένην ἀπο[ρίαν·] ἀθέτους ἐατέον τὰς τọ[ιαύτ]ας χρήσεις ὅσαι μεικτοὺς τ̣[ινὰ]ς̣ ἐμφαίνουσι ῥυθμ[οὺς μὴ] δ̣[οκιμαζομένους ὑ[πὸ τῆς αἰ[σθ]ήσεως· επει̣..[ [...]. α̣υ̣τ̣η[̣ .] χ̣ρ̣ηc̣ .̣ ..[.. δ] ι̣ῃ̣ ρη̣μ[̣ έν]ο̣ι ῥυθμοὶ καὶ ξυνεστραμμέν̣[οι] εἰς ἐλάττους χρόνους ἐπ[ειδή]περ ἐνδέχετ̣α̣ι̣ ... δύο τ̣[ῶ]ν τριῶ̣[ν] ξ̣υ̣λ̣λα ̣ ̣βῶ ̣ ν ταc.[.]..ερα.[...]..ω̣[..].[ θε[.].[.]. χ̣ρον̣[..]. λέγω δ’ εἰς ἀν ί̣σο ̣ υ̣ς,̣ τὴν̣ [μὲν] προτέραν εἰς τὸν μείζω̣ [ἐπε]ι̣δήπερ καὶ μακρά, τ[ὴν δὲ ὑ]στέραν

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εἰς τ[ὸ]ν ἐλάτ[τω ἐπ]ε̣ιδήπ̣[ερ βραχεῖ̣α· ὅτι [δὲ γε]νομέ̣ν̣ο̣υ̣ τ̣[ο]ύ̣του τὸ χ[ρώ]μενον [ο]ὕτ̣[ως] ταῖς τ̣ρι[σ]ὶ ξ[υλλα]β̣αῖς

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ἐγγὺ[ς ἔ]σται ἀναπαιστικοῦ σχήματο[ς] σχεδὸν δῆλον· διὰ τί δ’ οὐκ ἂν γ[ί]γν[ο]ιτο καὶ τὸ ἀντεστρ[αμμένον [ὥ]στε τὴν μὲν πρώτην ξυλλαβὴν ἐν τῶ[ι] μεγίστῳ χρόνῳ κεῖσ[θαι, τὴν δὲ δευτέρα[ν] ἐν τῶ[ι] ἐ̣[λα]χ[ί]σ[τῳ, τὴν δὲ τ[ρί]την ἐν [τ]ῷ μέσω[ι· δῆλον δ’ ὅ̣[τ]ι̣ ἡ αὐτὴ α̣[ὕτ]η ἀ̣π̣ορ ̣ [ία / διατεί[νε]ι καὶ ἐπὶ τὴν ἀντικειμένην λέξιν τῇ τετραχρόνῳ κρητικῇ λέξει· διὰ̣ τί γὰρ οὐκ ἂν ἡ δύο ἰαμβικοῖ`ς´ εἰ[ς τὸν π[όδα χ]ρ̣ωμέν̣η̣ ῥυθμο[π]οιΐ[α ... τὴ]ν αὐ[τὴ]ν ἀγωγὴ[ν [ . . . . . . . . . . . . . . . . ]ικοις χρ[ω[μενη. . . . . . . . . . . . ].[.]υ γεγε [ . . . . . . . . . . . . . . . . ]ον δι’ ἣν [αἰ]τίαν̣ [....]...φα̣νερόν· π[ερ̣ὶ μὲν oὖ[ν τού]του τοῦ σχήματος τοσαῦτ’ [εἰ]ρήσθω· ἡ γὰρ π[αρὰ φύσιν τῶν ξυλλαβῶν θέσις ἡ εἰς [τ]ὴ[ν] δακτυλικὴν ῥυθμοποιΐ[αν ξ]υντείνουσα φαν̣[ερὰ ἐκ τῶν] ἔ̣μ[̣ προ]σθεν· ἡ δ’ ἀπὸ β̣[ραχ]ε̣ία ̣ ς̣ ἀρχομένη τ[ῶν ξυλλα̣[βῶν τά]ξις οἰκεία μὲν [οὐδενός̣ [ἐσ]τ̣ιν τῶν ῥυθμῶν̣ [τοιούτω[ν ..... ἰα]μβικὴ τοῦ ἰάμβου τα.[.....]ν̣α σχήματα τῆς λέ[ξε]ω̣[ς ...]της ἐστὶ μέν τι ν̣[. . . . . . . ]υ̣[.]ν̣[....]αυτων ου̣[. . . . . . . ]τ̣[...]μ̣[..]ρ̣ατοιc

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δ[ . . . . . . . ]μενον ὥσ[τε] ξυνεχει̣[ . . . . . ]α̣υτης χρή⟦ι⟧σει οὐ ῥαι-

35

II 31 ἱ͜ερὰ vel ἱρὰ Dale ap. Rea (sed vd. comm.) 31 sq. καὶ ‘τὸ Winnington–Ingram ap. Rea (sed vd. comm.). III 9 πολυολβίοις Page (PMG 926a), fort. recte. IV 20 sq. suppl. edd. prr. 22–23 διῃρημένοι Rea (sed vd. comm.) 25 fin. τὰς Thomas Cole 27 sq. τὰς πρωτέρας εἰς ἀνωμάλους ϑεῖναι χρόνους Thomas Cole (ϑεῖναι dub. Rea). V 12–18 dub. suppl. Rea (vd. comm.)

26 sq. suppl. Winnington–Ingram ap. Rea.

(Col. II) Questi ritmi dunque (cretico = ditrocheo) sono molto adatti a una simile lexis, e potrebbe servirsi di essa anche il dattilo giambico (= digiambo, 

g h = g h g h ), nel quale

le sillabe eccedenti |5 sono realizzate, per quanto riguarda i tempi, al contrario di come si realizzavano nel cretico (h

g

=h

g h g ) ; e la forma del piede, secondo la quale la ritmopea procederà, sarà | quella giambica, come (926a Page) ἔνϑα δὴ ... (1 g h, 2 g h, 3 g h, 4 g h, 5 g h, g h g h, g h g h, g h g h, 1 g h, 2 g h, 3 g h, g h h): in questo 10

(esempio), |15 infatti, i primi cinque piedi fanno quest’uso di (tale) lexis e ancora gli ultimi tre e inoltre (926b Page) ὅστις εὐϑυμίηι. . . (  g

h,  g h,  g h,  g h ). Ma questo ritmo |20 non

usa affatto a lungo una simile ritmopea. Di una simile lexis può fare uso anche il ‘baccheo che comincia dal trocheo’ (= coriambo, h

g g h ), realizzando in mescolanza la sizigia formata |25 dall’elemento (allungato) di un tempo solo (μονόχρονον) e dal giambo ( g h), in modo però

che neanche questa ritmopea vada ricercata in serie continuata, e infatti non si incontra; mentre è possibile |30 trovarla sparsa, come in ῥιπτείσϑω ... (h modo che in Διόνυσον ... (g

g h,

g h, g h)

h, h g g g g,

g h) allo stesso

c’è una sola sizigia (protratta). Continuando

poi, per quanto riguarda la lexis, |35 si può cogliere il fenomeno (Col. III) di prima, ma è mutevole per quanto riguarda le forme della ritmopea, come in (926c Page) φίλον ὥραισιν ... (g

g h,

g g g,

g h,

g g g,

g h, h). È possibile g h,

trovare anche |5 tre (sizigie protratte) in successione: (926d Page): φέρτατον δαίμον’... (

g h,

g h, h g g h, h g g h, h g g h, h g g h, g h g h h,). Anche |10 il giambo può

far uso di questa stessa lexis ma in maniera meno naturale del baccheo; infatti il monochronon è più connaturato al trocheo che al giambo, come in |15 (926e Page) βᾶτε βᾶτε ... (scansione giambica:

 g h, g

trocaica: h

h g h,  g h, g g g g h,  g h, g h g h,  g h, g h g h; scansione g h g, h g , h g h g, g g g , h g h g, h g , h g h g, h g ). Le sizigie

(protratte) stanno a intervalli di tre piedi perché |20 si crei un effetto ‘periodico’: questi usi sono fra quelli che capitano, così come (capita) ognuno di essi: e quelli che verranno esposti possono presentarsi se li si usi |25 opportunamente mescolandoli con gli usi più noti e più familiari; non sono però (usi) che ricorrono, e intendo |30 i seguenti: il (giambo) ortio ( cheo semanto (́ 

́ ) e il tro-

) possono essere realizzati da tre cretici (tre ditrochei): è chiaro che

possono essere realizzati anche da tre (tempi) iperlunghi; |35 e possono esserlo anche da tre

288 | Sezione 1: Metrica

(Col. IV) mezzi (tempi) (g

g g) ; e lo stesso è il discorso sul peone: infatti questo può esse-

re costituito da cinque (tempi) iperlunghi ( da cinque mezzi (tempi) (g

ggg

   ), ma è chiaro |5 che può esserlo anche

g). Quest’uso non può essere continuo, giacché l’ethos di

questa ritmopea è estraneo |10 e al peone e (ai ritmi) nominati prima di esso; se invece, realizzata in mescolanza, viene considerata adatta per le sue caratteristiche peculiari, ci se ne può ben servire; |15 se no, per l’aporia esposta in precedenza, bisogna lasciar da parte del tutto quegli usi che presentano, mescolati, ritmi che |20 non sono approvati dal senso dell’udito. [...] Ritmi (...?) e compressi in misure di tempo minori, |25 poiché è possibile [...] due fra tre sillabe (le prime realizzarle in tempi anomali), e dico in (tempi) disuguali, e cioè la prima |30 nel (tempo) maggiore perché lunga, la successiva nel (tempo) minore perché breve: giacché, succedendo questo, è chiaro che la sezione che fa tale uso |35 delle tre sillabe

g g h); e perché non dovrebbe

(Col. V) sarà più o meno vicina alla forma dell’anapesto (

succedere anche il contrario, in modo che la prima |5 sillaba si trovi nel tempo più grande, la seconda nel più piccolo, la terza in quello medio (h

g g)? Ed è chiaro che questa stessa aporia g h g): perché,

|10 si estende anche alla lexis che è opposta alla lexis cretica di quattro tempi (h

infatti, la ritmopea che si serve di due giambi per formare il piede |15 non (dovrebbe avere) lo stesso tempo (della ritmopea che) si serve (di due) trochei? Ma non capita [...] per quale causa [...] è chiaro. Intorno |20 a questa forma ritmica basti quanto si è detto: infatti la realizzazione del ritmo contraria alla natura delle sillabe, quella che tende ad una ritmopea dattilica, |25 è chiara da quanto è stato esposto prima; l’ordinamento, poi, che comincia, fra le sillabe, dalla breve non è adatto a nessuno di questi ritmi [...] giambica del giambo |30 [...] forme della lexis [...] |35 non è facile usarne continuativamente [...]

I.13. Se la proposta δακτυλικῶι degli edd. prr. è giusta, ci sarà stato anche σχήματι (cfr. V.l). I.14. ἐπὶ πολύ? Cfr. II.19. I.20. Una possibilità è ἡ πρώτη ξυνζυγία (cfr. 25, 31). I.26. È molto probabile che qui ci sia l’inizio di una citazione (Rea), che dovrebbe finire prima di 31. II. l. οἱ ῥυϑμοὶ οὗτοι si riferisce alla trattazione, che doveva essere immediatamente precedente, del cretico (h g h g, secondo la terminologia aristossenica), come si ricava da 7. II.2. λέξις in Aristosseno vale ‘parola’ in generale (Rhyth. 278 Mor. λ., μέλος, κίνησις σωματική) ο in particolare col valore approssimativo di sezione del discorso ; ‘sillaba’ o ‘gruppo di sillabe’, che è quanto qui è richiesto, compare in un enunciato teorico generale in Rhyth. 270 ἡ γὰρ αὐτὴ λέξις εἰς χρόνους τεϑεῖσα διαφέροντας etc., che conferma la fedeltà di buona parte del lessico tecnico qui presente. Le altre occorrenze sono II.16, 22, 34, III.11, V.11 sg. (ma c’è

POxy 9 + POxy 2687: trattato ritmico–metrico | 289

per caso, in 16–22, una approssimativa sinonimia fra ‘ritmopea’ e lexis?); per V.30, v. ad loc. II.3. δάκτυλος κατὰ ἴαμβον è termine aristossenico (Aristid. Quint. mus. 38.5 sg. Winnington–Ingram) per il digiambo. Questa designazione e altre simili (v. oltre) nascono evidentemente da una interpretazione ritmica degli schemi: qui si intende che il metron (o la ξυνζυγία, v. oltre) è formato da due giambi, che hanno fra loro il rapporto numerico di 1 : 1 , e cioè il rapporto interno del dattilo (γένος ἴσον). II.4–7. Le sillabe περιέχουσαι possono essere solo le sillabe ‘eccedenti’, e (ditrocheo cioè iperlunghe:  g h (digiambo protratto) è il rovescio di h g protratto). Il valore ‘comprendere, stare all’esterno’, che alcuni qui vogliono, non può andare in III.34 e IV.3 (dove il termine sottinteso dev’essere χρόνος, edd. prr.). L’uso di τίϑημι in 5 e 7 (cfr. II.24, IV.12, 28, V.22 ϑέσις e Aristox. Rhyth. 270; cfr. anche III.33, IV.4 ξυντίϑεσϑαι) indica la realizzazione di una quantità attraverso il metriale verbale (τῶν ... ξυλλαβῶν). κρητικός è il termine aristossenico per ditrocheo (Aristid. Quint. mus. 38.3; schol. B in Heph. 302.20 Consbruch). II.7–19. σχῆμα τοῦ ποδός è aristossenico (Rhyth. 282, 298 etc.) per ‘forma del piede’, ῥυϑμοποιία è, ugualmente, ‘realizzazione del ritmo’. La scansione delle due citazioni è molto chiara: ogni sequenza h g h diventa, ritmicamente,  g h , adeguandosi così alla sequenza g h g h. Le indicazioni del testo (15–17) sulla posizione dei digiambi con protrazione sono molto accurate (i primi cinque e gli ultimi tre, in corrispondenza di tutte le occorrenze di h g h). I due frammenti vengono dati da Page, sub 926, come separati (a, b), ma dalla sintassi di 17 καὶ πάλιν e dalla similarità di contesto sia ritmico sia verbale è possibile che 18 sg. (b) appartenesse alla stessa composizione di 10–14 (a). II.19–21. ῥυϑμός significa qui ‘ritmo determinato’, e cioè giambico attraverso protrazione (mentre 8 σχῆμα τοῦ ποδός indicava solo giambicità della cellula): è correttamente aristossenico. Si ha qui la prima delle numerose valutazioni etico–musicali (ritmiche). II.23. ὁ ἀπὸ τροχαίου βακχεῖος è aristossenico per coriambo, anche se è brachilogico per δάκτυλος κατὰ βακχεῖον ὁ ἀπὸ τροχαίου (Aristid. Quint. mus. 38. 12). A III.12 viene detto semplicemente βακχεῖος, il che anche risponde all’uso aristossenico (Aristid. Quint. mus. pass.). II.25. μονόχρονον non può essere aggettivo, cfr. III.12 τὸ μ.; è testimoniato, altrove, solo in Mart. Cap. 9.524.17, 22 Dick e significa la lunga iperlunga, quella che altrove viene chiamata συλλαβὴ περιέχουσα ο χρόνος περιέχων (ν. ad ΙΙ.4–7). Il termine si deve essere sostantivato da un nesso come χρόνος μονόχρονος (tempus, v. Mart. Cap.), e cioè (secondo corretta terminologia aristossenica) un tempo di un

290 | Sezione 1: Metrica solo χρόνος ποδικός, un tempo di una sola sillaba (per es. = h g,  = g h), capace però di rappresentare un intero ‘piede’. II.26. ξυνζυγία, in Aristosseno, vale unione di due misure, sia in musica sia in ritmica. Si tratta qui della dipodia o metron (come a II.33); in III.19 è chiaramente contrapposta a ‘piede’. II.28 sg. οὐ γὰρ παραγίγνεται: il fatto che una ritmopea non sia praticata (III.28 sg., cfr. 21 sg., 24 sg. etc.) è della massima importanza per la teoria dell’ethos musicale, perché non può essere avvenuta l’assuefazione necessaria all’αἴσϑησις (IV.20). II.31 sg. Per i due frammenti poetici citati (e non accolti da Page, Supplementum, che è del 1974) sono stati proposti emendamenti da Winnington–Ingram (καὶ ‘τὸν invece di κατὰ τὸ) e dalla Dale (ἱρὰ) allo scopo di avere in tutti e due la sequenza h g g h g h con, all’inizio della prima, il coriambo completo. V. ad III.3 sgg. Ma le attese suscitate dal contesto grammaticale sono soddisfatte dal testo tramandato: le sizigie protratte devono essere una per frammento (33); lo schema metrico del primo frammento presenta un coriambo soluto ( h g g g g) ; l’incompletezza del coriambo iniziale del secondo (g g h) non deve creare problemi, dal momento che i frammenti poetici qui citati devono essere lunghe o brevi sequenze tagliate ad inizio di parola (come anche III.3 Διόνυσον non era necessariamente inizio di verso). III.1 sg. ‘Variare nelle forme della ritmopea’, restando uguale la lexis (II.34), può solo significare che avremo ora di nuovo coriambi per protazione ( g h = h g g h), ma in forme diverse: g h misto a g g g. Dev’essere importante che i quattro pseudo–cretici protratti alternino le due forme: v. n. successiva. Anche qui abbiamo un contesto coriambico che comincia con g g h (e Reinach aveva proposto di integrare ὦ all’inizio), cfr. ad II.31 sg.; vale la pena anche notare che un elemento ipermetro finale è clausola poco probabile per una lunga sequenza coriambica e che quindi forse la sequenza non finiva qui (cfr. n. successiva). III.5–9. ξυνεχεῖς, scil. ‘sizigie protratte’ (cfr. II.34, III.19), che sono ora tre uguali di seguito. La sizigia g h = h g g h è stata presentata prima come sparsa (II. 29 sgg.), poi come variata nella forma ritmica (II.33 sgg.) e ora come presente in serie di tre. La clausola finale del frammento poetico risulta più verosimile se si accetta la proposta (dub.) di Page (ad 926d) di scrivere πολυολβίοισι (la seconda mano ha espunto lo iota insieme con il ν finale). III.9–14. Invece di ‘baccheo’ (h g g h) ci si aspetterebbe ‘cretico’ (h g h g), che si opporrebbe bene a ‘giambo’. Ma la terminologia non oscura il senso, che è «  g h ( = g h g h) è meno naturale di g h (= h g g h)», che è ‘trocai-

POxy 9 + POxy 2687: trattato ritmico–metrico | 291

co’; per di più la precisazione successiva è secondo le attese e permette di formulare in modo per noi chiaro la definizione di monochronon trocaico ( = g h) e di m. giambico ( = g h). III. 15–18. Il problema qui è solo apparentemente di stabilire se l’esempio poetico offerto è trocaico (giudicato buono) o giambico (giudicato cattivo). Dando opportunamente valore di tre more alle lunghe giuste, tutte e due le scansioni sono possibili (Dale ap. Rea): nei due casi (trocaico e giambico) abbiamo otto sizigie (metra), di cui quattro protratte (la scansione trocaica va forse intesa con finale catalettica, e cioè ... h g h invece di h g , così da averne solo tre). L’intenzione del grammatico sarà stata di presentare un esempio con cui, scandendo nei due modi, risultasse chiaro quanto ‘migliore’ fosse la scansione trocaica rispetto a quella giambica. III.18–20. τρεῖς πόδας ... γίγνεσϑαι. Il valore qui richiesto di διαλείπω è quello di ‘stare a un intervallo di’, intransitivo con accusativo di spazio (L–S–J s.v., II). ‘Sizigia’ vale, come di consueto, ‘sizigia protratta’, anche se quello che «sta a intervallo di tre piedi» è il monochronon, non la sizigia (v. la scansione). Περίοδος è termine variamente presente nelle varie correnti metriche: περιοδώδης (che è hapax) può significare solo ‘circolare, regolare, ricorrente’, secondo l’uso che di περίοδος si ha in Aristid. Quint. mus. 35.1,2; 36.8. III.23–29. Questa e IV.7–11 sono le notazioni più ampie ed esplicite di teoria etico–musicale e ritmica: lo οἰκεῖον è legato al γνώριμον, secondo quello che troviamo nelle notazioni aristoteliche di questo tipo (l’αἴσϑησις). Sulla pratica effettiva dei ritmi discussi qui sotto il grammatico è molto esplicito: non sono usati. Anche la possibilità di usarli mescolati con altri sembra solo teorica o assai ristretta (IV.16–21). III. 30. ὄρϑιος deve sottintendere ἴαμβος (Ps.–Plu. mus. 23.15 Ziegler) per la scansione ritmica che ne dà Aristid. Quint. mus. 36.3 sg. (levare di quattro tempi e battere di otto) e per il parallelismo con il trocheo semanto (che è l’inverso: v. oltre). Di questi ritmi (tre iperlunghe) la teoria etica della musica affermava la lentezza e il conseguente ἀξίωμα (Aristid. Quint. mus. 8.4–6; del resto molte lunghe comportavano sempre lentezza di tempo): ma qui (e solo qui) ci viene offerta la possibilità di avere tre metra o solo tre brevi, tanto che sembra difficile che si potesse parlare di un ethos unitario di questi ritmi. Viene il sospetto di trovarsi di fronte a frammenti di teoria antica, sfigurata però da qualche secolo di trasmissione scolastica. III.31–IV.1. Il σημαντὸς τροχαῖος (Ps.–Plu. mus. 23.16; Aristid. Quint. mus. 36.4 sg., 30 sgg., 83.4–6) è l’opposto del precedente, ovvero il suo corrispondente trocaico. L’uso di ἥμισυς (χρόνος) in IV. 1 e 5 per ‘breve’ (g è la metà di h) dev’essere stato aristossenico, come si vede da Psell. prolamb. 1. C’è da chiedersi

292 | Sezione 1: Metrica

se i tre metra trocaici, dati come una delle realizzazioni dell’ortio e del semanto (ovviamente con diversa configurazione dei tempi forti e deboli: 2tr battere + tr levare per il semanto e viceversa per l’ortio), non siano adatti solo al semanto (che è trocaico): ma sul piano teorico aristossenico (rapporto di tempi podici) il testo del papiro non fa difficoltà. IV.1–5. Il παιών può essere solo il π. ἐπιβατός (Ps.–Plu. mus. 23.24, 29.6; Aristid. Quint. mus. 37.7–9, 82.30 sgg., che lo definisce ritmicamente). Anche qui abbiamo il problema di una valutazione etica che tenga conto delle cinque iperlunghe e del tempo lento da una parte e delle cinque brevi con un tempo molto più mosso dall’altra. IV.6 sg. Sulla condanna e sulla possibilità del solo uso non continuo dell’ortio, del trocheo semanto e del peone epibato si ripete qui quello che era stato detto a III.23–28 e che verrà ripetuto a IV.11–21 (con una sfumatura in più, v. ad loc.). Questa insistenza in un contesto così breve non è quello che ci si aspetterebbe in una genuina esposizione aristossenica e non ha paralleli nei resti presumibilmente autentici della dottrina. IV.7–11. Altra notazione molto esplicita di teoria etico–ritmica (cfr. III.23– 29), nella quale compare la parola–chiave ἦϑος. I ritmi nominati prima del peone erano l’ortio e il trocheo semanto (III.30 sg.), dei quali si afferma essere la natura ritmica contraria a «questa realizzazione del ritmo (ritmopea)». Riesce difficile capire che cosa implichi qui la ritmopea: se fatti di tempo in generale, o monotonia di rapporti reciproci fra tempi ritmici (v. gli schemi), o tutto insieme, o altro (v. ad III.30). IV.11–21. Di nuovo precetti etico–ritmici (cfr. III.23–28, III. 6 sg.), questa volta con una condizione anche per l’uso in commistione. Se, come sembra, si ha anche qui tradizione aristossenica, c’è da credere che i ritmi discussi e in parte condannati non siano da riconoscere in poesia fino a tutto il IV secolo a. C., mentre invece la filologia moderna li propone episodicamente (forse a torto) anche per l’età arcaica e classica. IV.21–24. A 22 διῃρημένοι è ingegnosa congettura di Rea, ma non so quanto la si possa accettare, perché è termine polare nei confronti di 23 ξυνεστραμμένοι (‘diviso, sparso’ vs. ‘condensato, contratto’), mentre i resti della costruzione sintattica fanno pensare piuttosto a un nesso sinonimico o endiadico con 23 ξυνεστραμμένοι εἰς ἐλάττους χρόνους. Per συνεστραμμένος v. Aristid. Quint. mus. 84.6, su cui L. E. ROSSI, Metr. e crit. stilist., cit., pass. e spec. 45 sgg., dove si raccoglie la varia terminologia per ‘tempo’. Anche qui la valutazione dei ritmi viene fatta in termini di tempo di dizione e di tempo musicale. I «tempi minori» non possono riferirsi a ortio, trocheo semanto e peone epibato in versione di tut-

POxy 9 + POxy 2687: trattato ritmico–metrico | 293

te brevi (v. sopra), bensì ai ritmi di cui appresso per l’immediato e forte legame sintattico di 25. IV.26. «Due fra le tre sillabe», che è integrazione sicura (Rea), si riferisce alle due sillabe in tempo minore (24) e diverso fra loro (29). IV.27–29. Qui doveva essere illustrato il modo in cui le sillabe potevano essere realizzate nei ‘tempi’ (28 ϑεῖναι è ottimo suggerimento di Rea). Per IV.25 sgg. Thomas Cole mi suggerisce τὰς δύο τῶν τριῶν ξυλλαβῶν τὰς πρωτέρας εἰς ἀνωμάλους ϑεῖναι χρόνους. Il tempo ‘diseguale’ è a mio avviso inteso in relazione al λόγος, ovvero rapporto numerico, e sarebbe l’unico riferimento tecnico in questa sezione, che tratta del fenomeno detto ἀλογία (v. ad IV.33–V.8). IV.29–33. Qui non si dà ancora uno schema di uso, ma si parla ancora astrattamente del rapporto delle sillabe tra di loro: prima si era parlato di due sillabe fra tre (IV.26) e ora si continua (29 προτέραν / 31 ὑστέραν e 30 μείζω / 32 ἐλάττω), ma dopo (V.4–8) si contrappongono πρώτην – δευτέραν – τρίτην e μεγίστῳ – ἐλαχίστῳ – μέσῳ (sc. χρόνῳ). Evidentemente si parla qui solo delle due sillabe che presentano la maggiore opposizione temporale. Lo schema delle tre sillabe viene subito dopo. IV.33–V.8. Gli schemi di cui si parla sono qui chiaramente g h (detto si(detmile all’anapesto perché, pur nella varietà, va dal breve al lungo) e h g to ‘rovesciato’ rispetto al precedente, secondo una terminologia comune per i rapporti dattilo–anapesto). Il fenomeno ritmico qui discusso è quello della ἀλογία (Aristox. Rhyth. 292–294; L. E. ROSSI, Metr. e crit. stilist., cit., 29 sgg., 49 sgg.), che è la mancanza di rapporto numerico preciso (λόγος) fra due grandezze: v. IV.29 ἀνίσους e comm. ad loc. Per questo non mi servo qui, come invece fanno altri, della notazione h g  e g h (che sarebbe rapporto di 2–1–3 e 3–1–2): i ritmi discussi nella prima parte del papiro avevano precisi rapporti numerici interni, il che è escluso qui. L’applicazione della ἀλογία alla ritmica è aristossenica e mi domando se in una trattazione tecnica, qual è questa, Aristosseno avrebbe evitato il termine tecnico chiave. Inoltre: τὸ χρώμενον è sinonimo di χρῆσις?

g

g

V. 9–12. L’ ‘aporia’ si riferisce alla condanna di questi ritmi fatta a IV.16 sgg. Qui la condanna viene estesa a un ritmo che viene chiamato «opposto al cretico di quattro tempi» (h g h g, e cioè di quattro χρόνοι ποδικοί, di quattro sillabe, non di tre, com’è il caso in cui si abbia tempo iperlungo e tre sillabe), e cioè  g h, quello che a II.3 sg. era il ‘dattilo giambico’ (sulla varietà terminologica v. n. successiva). V.12–19. ἀγωγή è termine tecnico per ‘tempo’ e, anche in vista di notazioni analoghe che precedono (v. ad IV.21–24), non vedo perché questa valenza tec-

294 | Sezione 1: Metrica

nica debba essere scartata (come fa Winnington–Ingram ap. Rea). Il testo viene integrato con verosimile approssimazione da Rea: διὰ τί γὰρ οὐκ ἄν ἡ δύο ἰαμβικοῖς εἰ[ς] | τὸν π[όδα χ]ρ̣ωμέν̣η̣ ῥυϑμο|[π]οιΐ[α ἔχοι τὴ]ν αὐ[τὴ]ν ἀγωγὴ[ν | ἣν καὶ ἡ δύο τροχα]ικοῖς χρ[ω|μένη ῥυϑμοποιΐα; ἀλ]λ̣’ [ο]ὐ γεγέ|[νηται. È chiaro che il parallelo è fra la dipodia giambica e quella trocaica (16) e che per tutte e due si afferma la stessa ἀγωγή. Ma come si presentassero le due dipodie non è perspicuo, visto che dovrebbero essere dipodie complete (11 τετραχρόνῳ) e che l’accordo con il contesto precedente (le cellule g h e h g ) e con quello successivo (v. n. successiva) richiederebbe che le dipodie venissero discusse in condizione di ἀνισότης ο ἀλογία temporale interna. Anche i casi, discussi al principio del nostro frammento, di h g (trocaico) e  g h (giambico) sono diversi (rapporti 2–1–3 e 3–1–2), perché ora si parla di rapporti irrazionali fra le quantità (v. ad IV.33–V.8). V.19–21. τούτου τοῦ σχήματος si riferisce, a quanto pare, alle due cellule trisillabiche (fino a V.8), a cui è stata aggiunta la menzione delle due dipodie (v. n. precedente) come fenomeno analogo. V 21–29. L’adattamento ‘innaturale’ delle sillabe è quello che crea rapporti irrazionali (e l’esempio per noi chiaro sono le due cellule trisillabiche); la ritmopea dattilica, a cui tenderebbe la cellula h g , dev’essere quella che veniva definita opposta all’anapesto (V.l), il che viene confermato da 25 sgg., dove si parla di un ordine ritmico che comincia dalla breve (‘anapestico’?). τάξις per ‘ordine dei tempi’ è aristossenico. V.29–35. Viene ripreso qui il discorso sul ritmo giambico (che comincia dalla breve, V. 26), ma altro non si riesce a capire. σχήματα τῆς λέξεως non è il termine retorico, ma, con una certa contaminatio terminologica, ‘forme varie della lexis’ (su cui ad II.2): essendo lexis ‘gruppo di sillabe’, si intende qui certamente un vario modo di configurarsi del gruppo che viene preso in esame dal punto di vista ritmico.

f

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g

Appunti di metodo filologico (A proposito di Efestione 47. 3 ss. Consbr. e Tzetze de metr. Pind. 51. 24 Drachm.) In una nota recente1 Giuseppe Morelli, su una questione che riguarda la teoria metrica degli antichi, dà un suggerimento che, a mio parere, va ben oltre quanto lui stesso ha creduto di mettere in luce. Nella sezione da Efestione riservata agli asinarteti leggiamo che in quel tipo di versi [γίνεται καὶ ἀσυνάρτητα, ὁπόταν δύο κῶλα μὴ δυνάμενα ἀλλήλοις συναρτηθῆναι μηδὲ ἕνωσιν ἔχειν ἀντὶ ἑνὸς μόνου παραλαμβάνηται στίχου (47. 3 ss. Consbruch).]

Alcuni anni fa2 io avevo rimproverato Efestione di incoerenza, perché – dicevo – [“contro la sua definizione (due cola) e contro la prassi poetica ha incluso asyn. [7] e [8][3], che sarebbero costituiti da tre cola e sono palesi dattilo– epitriti”.] Morelli trova che “l’accusa, per la verità, non era nuova”, perché [“già in età bizantina l’aveva tacitamente formulata Isacco Tzetze († 1138), se nel suo com-

|| [Breve saggio risalente al 1995 (subito dopo la lettura degli Scritti in memoria di Carlo Gallavotti). – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiuntive (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]

1 G. Morelli, Isacco Tzetze rimaneggiatore di Efestione, in: Scritti in memoria di Carlo Gallavotti, «RCCM» 36, 1994, p. 257 s. – [Il volume fu stampato nell’aprile 1995, e vi partecipò anche Rossi con un suo breve ricordo di Gallavotti.] 2 L.E. Rossi, [Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini. Sull’autenticità del nuovo Archiloco, in A. Ceresa–Gastaldo (ed.), Problemi di metrica classica, Università di Genova (Fac. di Lettere, Ist. di Filol. Class. e Mediev.) 1978, pp. 29–48 + 3 tavole, a p. 47. Il mio contributo è] correttamene cit. da Morelli a [p. 257] n. 1 nelle due versioni, quella inglese su «Arethusa» [(Asynarteta from the Archaic to the Alexandrian Poets: On the Authenticity of the New Archilochus, «Arethusa» 9, 1976, pp. 207–229)] e quella italiana di Genova. Quello che, poco correttamente, non fa (e che imbosca con parole insidiose: “prima della pubblicazione degli atti era apparsa in versione inglese con il titolo ...”), è avvertire di quanto avevo avvertito io in [L. E. Rossi, La sinafia, in Studi in onore di Anthos Ardizzoni, II, Roma 1978, pp. 789–821, a p. 813 n. 1,] e anche realizzato: che la versione di Genova è più ampia, perché come si vede dalle date fra le due versioni erano passati, non invano, ben due anni. Non ho l’abitudine di stampare la stessa cosa, identica, in più lingue, anche se ne so più d’una. [3 Si tratta rispettivamente di Plat. com 90 K. = 96 K. –A. (apud Heph. 51. 12 Consbr.) e di Pind. fr. 34 Sn. –M. (apud Heph. 51. 14 ss. Consbr.).] https://doi.org/10.1515/9783110647983-020

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mento sui metri di Pindaro, parafrasando in versi la definizione efestionea, scriveva: ταῦτα δὲ ἀσυνάρτητα λέγονται τοῖς τεχνίταις. ὅταν γὰρ μὴ δυνάμενα ἀλλήλοις συναρτᾶσθαι μηδ’ ἔχειν ἕνωσιν τινὰ δύο ἢ τρία κῶλα ἀντὶ ἑνὸς μόνου παραλαμβάνωνται τοῦ στίχου, τότε λέγε αὐτά γε ἀσυνάρτητα (Isaac Tzetzae de metris Pindaricis commentarius, edidit A. B. Drachmann, København 1925, p. 51. 24 ss.).

Sebbene sia segnalata nell’apparato dei loci similes che correda l’edizione del Consbruch, la testimonianza è stranamente sfuggita non solo al Rossi, ma anche alla Palumbo Stracca, che peraltro non condivide il rilievo del Rossi”]. [Morelli] ha ragione a rimproverare sia me sia la Palumbo[4] per esserci lasciati sfuggire il passo, che compare in propatulo nell’apparato dei loci similes dell’edizione di Efestione di Consbruch. Ma avrebbe avuto veramente ragione a rimproverarcelo, se avesse fatto della preziosa testimonianza di Tzetze quello che a me pare vada fatto: serve per emendare Efestione! Che cosa, invece, ne fa lui? Dice che [“è assolutamente da escludere che l’aggiunta ἢ τρία risalga ad una redazione più ampia della definizione efestionea; si tratta infatti di un’inserzione che, a dispetto delle apparenze, è non solo arbitraria, ma chiaramente incongrua, ove si consideri che nel περὶ ἀσυναρτήτων Efestione illustra diciassette tipi di combinazioni asinartetiche, ma è ben lontano dal mescolare sequenze trimembri a sequenze bimembri. Nella definizione preliminare parla giustamente di δύο κῶλα – e non di δύο ἢ τρία κῶλα, come pretendeva di fargli dire Tzetze – perché ben quindici delle diciassette combinazioni complessivamente analizzate sono costituite da sequenze bimembri”]. Ora, io credo che qui le apparenze non ingannino. [Morelli] fa di Tzetze o un allievo clemente con gli errori del maestro, che lo corregge in maniera implicita e quindi discreta; o, peggio, un poeta alessandrino che ‘corregge’ un altro poeta in maniera allusiva. Ma Tzetze non è né l’uno né l’altro: è un dotto che deve aver trovato ‘o tre’ non certo nella sua mente, po-

|| [4 B. M. Palumbo Stracca, La teoria antica degli asinarteti, “Bollettino dei classici” Suppl. 3, 1979, pp. 1–117, dove a p. 50 si osserva che “Efestione definisce gli asinarteti in una maniera che è indubbiamente generica, e per noi di difficile comprensione; ma questo non giustifica affatto le accuse di incoerenza che da qualche parte gli sono state rivolte (ved. L. E. Rossi, “RFIC” ’66, p. 200 sg. e di recente Asynarteta, p. 208 sg.); anzi, credo che Efestione sia, dal suo punto di vista, assolutamente coerente”.]

Appunti di metodo filologico | 297

co esercitata metricamente, bensì sicuramente su base documentaria. –––– Cfr. con Eur. Cycl. (Triclin.)[5] Ma Tzetze avrebbe fatto bene o male a rimproverare Efestione? A stare a Morelli, che dice che in Efestione ci sono solo asinarteti a due e non a tre, avrebbe fatto malissimo. E male avrei fatto anch’io, se lo avessi fatto, ma no: io criticavo solo il testo di Efestione! ––– Heph. in 48, 24, 11, 3, 1 libro![6] ––– Quindi, niente da rimproverare! E come e perché avrebbe, allora sbagliato Tzetze? Questo Morelli non lo spiega, ma fa bene, perché non c’è nessun bisogno di spiegarlo: Tzetze semplicemente non ha sbagliato, ma ha trovato ‘o tre’ in un testo di Efestione che noi non abbiamo. Non so a che scopo, vista la posizione di Morelli, io avrei dovuto non farmi sfuggire la testimonianza di Tzetze, visto che secondo lui non giova al testo di Efestione (perché di quello io parlavo nel mio lavoro). O forse intende notare in me una mancanza di completezza bibliografica, nel senso che mi sarei appropriato della notazione (peraltro da lui male interpretata come tale) di un filologo anteriore o la avrei colpevolmente ignorata: in questo caso avrebbe ragione, ma esito a pensare a Isacco Tzetze come a un semplice predecessore bibliografico, a meno che qualcuno non pensi di inserirlo nell’Année philologique. Il buon metodo filologico, quando non lo si rispetta, si rivolta e morde.

|| [5 A sostegno della sua spiegazione della presenza di ἢ τρία nel testo efestioneo letto da Tzetze, Rossi voleva offrire come caso di confronto quello dell’extra metrum ἰδού di Eur. Cycl. 544 aggiunto nel cod. Laurenziano (L) dalla mano di Demetrio Triclinio: il ragionamento di Rossi (che gli ho sentito personalmente fare a lezione, quand’ero studente, in un corso universitario sul Ciclope nell’a.a. 1989/90) era che Triclinio non avrebbe mai potuto inventarsi questa aggiunta extra metrum (né aveva motivi per farla), e che pertanto, se l’aveva fatta, l’unica spiegazione è che l’aveva trovata nel manoscritto con il quale correggeva il cod. L. Vd. anche quanto dirà in seguito Rossi, proprio su questo extra metrum, in Introduzione a M. Napolitano, Euripide. Ciclope, Venezia 2003, pp. 9–25, a p. 25 n. 16.] [6 Con questa stringata annotazione (ovviamente da sviluppare), Rossi intendeva dire che il testo che leggiamo di Efestione ha subìto di sicuro pesanti rimaneggiamenti, a seguito dei quali alcune parti possono essere state omesse: non si deve dimenticare, infatti, che il manuale di Efestione, dagli originali 48 libri, è stato progressivamente ridotto prima a 24 libri, quindi a 11, a 3 e infine a 1 libro, che è quello che attualmente abbiamo. Dunque Rossi intendeva puntualizzare che la sua critica di incoerenza, in realtà, era rivolta non ad Efestione metricista, ma al testo del manuale di Efestione nella forma rimaneggiata, e molto più sintetica dell’originale, giunta fino a noi.]

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico* 1. La quadripartizione dell’esametro Lo sviluppo degli studi esametrici dal principio del secolo scorso, dalla scoperta del ‘ponte’ di Hermann (1805) fino ai nostri giorni, potrebbe sintetizzarsi in una breve formula: “dalla cesura al colon”. Dalla scoperta, cioè, delle cesure preferite e dei ‘tabu’ ritmici si è passati lentamente ad una sempre maggiore sensibilità a quei cola, o membri ritmici, che le cesure stesse creano e mettono in rilievo. Quando, nel 1926, apparve la prima redazione degli studi esametrici di Hermann Fränkel1, Giorgio Pasquali2 salutò il lavoro come “il principio di una nuova era nello studio del ritmo dei versi recitativi”. Pasquali contrapponeva le due pagine di Maas (1923) sull’esametro, mirabili per concisione e chiarezza, al lavoro di Fränkel: nelle une /240/ vedeva la summa delle ricerche anteriori espressa nel modo più astratto, vorrei dire più asettico possibile, volta a fornire al filologo una specie di vademecum stilistico e critico–testuale3; nel secondo quell’approccio concreto alla realtà del verso, che solo poteva rendere vive le conquiste di più di cent’anni di studi. Pasquali aveva ragione: Fränkel ci ha insegnato a ‘leggere’ l’esametro. La sua sensibilità al colon era quello per cui la ricerca esametrica era finalmente matura. Con lo stabilire definitivamente che

|| * Già pubblicato in StudUrb 39, 1965, 239–273. [La versione qui presentata è quella pubblicata in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (edd.), Struttura e storia dell’esametro greco, II, Roma, GEI, 1996, pp. 271–320, con rimaneggiamenti e correzioni rispetto al saggio del 1965, e con l’aggiunta del Post–scriptum 1995] 1 Fränkel 1926. L’autore ha ripubblicato l’articolo, completamente rifuso, come capitolo (‘Der homerische und der kallimachische Hexameter’) del volume Fränkel 1955, 100–156 (= 19602, 19683) (la prima e la seconda redazione si abbrevieranno qui di seguito Hex.1 e Hex.2). Si veda anche un’esposizione concisa e chiarissima dell’essenziale in Fränkel 1951, 39–50 (19622, 32– 37, ulteriormente rielaborato). Anche se nel seguito mi troverò a polemizzare su qualche punto particolare, sarà chiaro, a chi vorrà leggere, che queste pagine non sarebbero state scritte senza le categorie e le sollecitazioni fornite dai lavori di Fränkel. Tutta la migliore letteratura recente sull’esametro è influenzata più o meno da Fränkel, ma tutta ugualmente gli è debitrice di chiarezza d’impostazioni: O’Neill 1942; Porter 1951; Mette 1951. 2 Pasquali 1927. 3 Pasquali 1927, 242 (= 857): “... ihre stilkritische oder stildiagnostische und ihre textkritische Aufgabe”. https://doi.org/10.1515/9783110647983-021

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 299

l’esametro ha tre punti ‘sensibili’ nei quali in genere c’è fine di parola che crea una incisione4, l’attenzione viene a spostarsi naturalmente sui quattro membri o cola a cui le tre incisioni danno vita. Alcuni eccessi nella determinazione dell’ethos dei vari cola possono lasciare qualche perplessità, come quando leggiamo che “il primo colon può essere vivace ed energico, il secondo più positivo e disteso, il terzo patetico od enfatico, il quarto decoroso e solenne”5. Forse è più aderente quanto leggiamo sulla natura del quarto colon, sede di una grandissima parte del patrimonio formulare, e precisamente di quasi tutte le formule nome–epiteto: in esso verrebbero normalmente espressi con solennità i grandi ‘valori’ del mondo omerico6. Ma il metodo da cui tali eccessi occasionalmente derivano è sano: è, appunto, l’approccio ‘positivo’ alla realtà del colon7. E per questo particolarmente significativa è la definizione dell’esametro come “una strofa in miniatura”8. /241/ Ed ecco lo schema di Fränkel9:

h1 | g | g | h2 | g g h3 | g | g h4 | g g | h5 g g h6 W 1

2

3 ‘A’

4

1

2 ‘B’

1

10

2 ‘C’

Per noi, che siamo lontani dall’uso vivo del verso, e cioè dalla sua recitazione, la struttura è frutto di una faticosa riconquista fatta attraverso uno studio

|| 4 Useremo qui di seguito “incisione”, per sfuggire all’equivoco scolastico di “cesura”/“dieresi” (la seconda si avrebbe solo con fine di piede). “Fine di parola” semplicemente non è preciso: ché ogni incisione si trova, sì, in fine di parola, ma non ogni fine di parola è incisione (in altri termini: il colon può benissimo essere pluriverbale). 5 Hex.2 113 s. 6 Ilex.1 212. Vale la pena riportare per esteso le parole di Fränkel “Mit dem Geschehnis beginnt gerne der epische Hexameter, um mit der GestaIt und dem Bleibenden auszuklingen; mit der Benennung von Göttern oder Heroen oder ewigen Dingen und Werten, deren unabänderliches Wesen durch ein Beiwort preisend umschrieben wird: die breite Erde etwa, oder das Heimatland, das meerwandernde Schiff, die ‘ragende Vernichtung’ des Todes – oder mit dem ruhmenden Epitheton selbst”. 7 Così si esprime felicemente Dale 1957, 32: “the positive ‘colon’ approach”. 8 Hex.2 113, cfr. Fränkel 1951, 47 (19622, 34). 9 Hex.2 111, cfr. Fränkel 1951, 42. 10 Coerentemente con le proposte da me avanzate (cfr. Rossi 1963, 71), indico con … h6 W l’indifferente finale dello schema generale dell’esametro (dove si indicano elementi); con … h6 g I, oppure … h6 h I le sillabe brevi o lunghe, finali di esametri concreti (ad es. Il. 1, 2 … ἔθηκε I, Il. 1, 5 … βουλή I), dove la fine di verso (che sopra era indicata implicitamente dal simbolo per elemento indifferente finale) è indicata dalla doppia barra (vd. già Maas e, da ultimo, Snell 1962, 2: | = finis verbi; I = finis versus; i = finis strophae).

300 | Sezione 1: Metrica

statistico11 che, con tabelle di frequenza, ci indichi i punti in cui con maggior regolarità avvengono le incisioni, e cioè le suture dei cola. Con lo schema di Fränkel si vuol portare ad evidenza che la grande maggioranza dei versi risponde a uno schema che presenta tre incisioni, che è costituito, cioè, da quattro cola. Sarà, naturalmente, tale ‘schema di frequenza’ da cui prenderanno valore le eventuali ‘eccezioni’ ovvero deviazioni dallo schema, le cosiddette ‘attese frustrate’12. Tali deviazioni /242/ – e qui schematizziamo liberamente l’esposizione di Fränkel – possono essere di minore o di maggior peso. Le prime consistono semplicemente nello “spostamento” (Verschiebung, verschieben) di una incisione di una, due o più Stellen, contando una Stelle il longum e due il biceps (lo spostamento di A una Stelle dopo A4, e cioè al secondo trocheo, viene indicato con A.1, contrapposto ad A1, che indica la prima incisione ‘regolare’ di A; di due Stellen, e cioè al secondo biceps, con A.2; e così via). Le seconde consistono nel “salto” (Überbrückung, überbrücken) di una incisione, nella identificazione, cioè, colla precedente, che si è tanto spostata in avanti da cadere dove cade, appunto, la successiva: in altre parole, se A si sposta di tre Stellen viene a identificarsi colla prima incisione del gruppo B, e cioè con B1. Ora, il primo gruppo di ‘deviazioni’ non merita, secondo me, una categorizzazione a parte. Si tratta di incisioni un po’ meno frequenti di quelle che Fränkel considera ‘regolari’, ma fra le meno frequenti delle ‘regolari’ e le più frequenti delle ‘irregolari’ non c’è un salto che giustifichi un cambio di categoria. Abbandonando quindi i simboli di Fränkel, utili solo se si gerarchizzano le incisioni possibili all’interno dei tre gruppi, anticipiamo qui i risultati di una statistica autonoma, condotta per ora solo sui più di seicento versi del primo libro dell’Iliade13. È sembrato più chiaro indicare le incisioni col nome della clausola con cui || 11 Vd. Guiraud 1959, 7: “Métrique et versification constituent le domaine privilégié de la statistique linguistique puisque leur objet est un retour régulier de sons”. Per vedere le ricerche statistiche che seguiranno nel loro giusto valore, si tenga presente che ‘esametri’ come ὃς τότε μὲν βασιλεύων κεῖθι νέαισί θ’ ἑορταῖς, e cioè con incisione mediana, non compaiono praticamente mai pur essendo del tutto possibili dal punto di vista linguistico–ritmico, come fa chiaro l’esempio pindarico riportato (N. 9, 11), che è in realtà un dattilo–epitrito (schema maasiano: D h D W). Ebbene: nella Nemea nona, fra undici ritorni strofici di questo verso, solo due sarebbero esametri normali quadripartiti (36, 46); quattro mancherebbero di incisione ‘B’, fatto raro ma attestato (1, 6, 41, 51); tre violerebbero il ponte di Hermann (11, 21, 26), e addirittura quattro, infine, sarebbero bipartiti, e cioè del tutto vietati (11, 16, 21, 31). 12 Vd. Jakobson 1963, 98 (traduz. dall’ingl.), proprio a proposito del valore dello schema ritmico del linguaggio poetico e delle ricerche di studiosi come R. Tomačevskij, O stiche (Il verso), Leningrad 1929: applicazione delle catene di Markov allo studio del verso russo. 13 La scelta è stata dettata, tra l’altro, dal fatto che il libro contiene molti versi famosi, particolarmente adatti a colizzazioni–modello. A sviluppo storico della struttura del verso, nell’ambi-

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 301

finisce il colon corrispondente, usando i termini longum (lg), trocheo (tr) e biceps (bc)14:

I h1 | g | g | h2 | g | g | h3 | g | gb h4 | gb g | h5 | g | g | h6 W %:

1lg 1tr 1bc

2lg 2tr 2bc

3lg 3tr

4lg

4bc 5lg

5tr 5bc

8.3 14.2 27.8

38.7 7.2

40

29

50.2

7.2

‘A’

3.8

60

‘B’

12.2

1.4

‘C’

/243/ Sono in corsivo le incisioni ‘irregolari’ di Fränkel e le rispettive percentua-

|| to dei poemi, non sembra di poter pensare (non, almeno, a uno sviluppo tale che possa farsi evidente con statistiche): vd. Maas 1929, § 27; Porter 1951, 27. Il primo libro dell’lliade sarebbe, comunque, un buon misto di ‘antico’ e di ‘recente’. 14 La tritemimere sarà quindi 2lg, la pentemimere 3lg, la trocaica 3tr, l’eftemimere 4lg, la bucolica 4bc. Questo sistema è sembrato offrire maggiore evidenza immediata di quello, ad es., usato da O’Neill e Porter (12 numeri per ogni elemento, e frazione per i brevia del biceps: 5 e ½ sarebbe la trocaica, 8 la bucolica ecc.). Ecco un campionario completo di esempi scelti a caso, ordinati in modo da facilitarne la ricerca. I numeri in grassetto indicano il valore dei singoli cola valutato in more (la sillaba in elemento indifferente [finale] viene calcolata convenzionalmente due more, intendendosi che, nel caso di breve, s’include il valore di pausa): per 1lg: Il. 1, 52 βάλλ’· | αἰεὶ δὲ πυραὶ | νεκύων | καίοντο θαμειαί. (2 1lg 8 3lg 4 4lg 10) per 1tr: Il. 1, 31 ἱστὸν | ἐποιχομένην | καὶ ἐμὸν λέχος | ἀντιόωσαν (3 1tr 7 3lg 6 4bc 8) per 1bc: Il. 1, 37 κλῦθί μευ, | ἀργυρότοξ’, | ὃς Χρύσην | ἀμφιβέβηκας (4 1bc 6 3lg 6 4bc 8) per 2lg: Il. 1, 21 ἁζόμενοι | Διὸς υἱὸν | ἑκηβόλον | Ἀπόλλωνα (6 2lg 5 3tr 5 4bc 8) per 2tr: Il. 1, 36 Ἀπόλλωνι | ἄνακτι, | τὸν ἠΰκομος | τέκε Λητώ (7 2tr 4 3tr 7 5lg 6) per 2bc: Il. 1, 22 ἔνθ’ ἄλλοι μὲν | πάντες | ἐπευφήμησαν | Ἀχαιοὶ (8 2bc 3 3tr 8 5tr 5) per 3lg e 3tr: vd. Il. 1, 52; 1, 21, ecc.; per 4lg e 4bc: vd. Il. 1, 52; 1, 21, ecc.; per 5lg: vd. Il. 1, 36; per 5tr: vd. Il. 1, 22; per 5bc: vd. Il. 1, 122 Ἀτρεΐδη | κύδιστε | φιλοκτεανώτατε | πάντων (6 2lg 5 3tr 9 5bc 4).

302 | Sezione 1: Metrica

li15. Considerando 2tr (A.1), si vede che non molto la allontana statisticamente da 1lg (A1): 7.2% contro 8.3%. Più decisamente rara, nel gruppo A, è 2bc (A.2): 3.8%. Nel gruppo C, di fronte alla eftemimere e alla bucolica (29% e 50.2%), le ‘eccezionali’ sono proporzionalmente più rare: ma in fin dei conti versi con 5lg (C.l) o con 5tr (C.2) hanno frequenze maggiori o di poco minori (12.2% e 7.2%) di quelle di una incisione ‘regolare’ del gruppo A, e cioè 1lg (A1): 8.3%16. Il secondo gruppo di ‘deviazioni’, invece, a parte la sua notevolmente minore incidenza statistica, rivoluziona la quadripartizione /244/ del verso, perché, avendo una incisione ‘saltata’, ha soltanto le due superstiti, ed ha quindi solo tre cola. In un verso come Il. 1, 145 ἢ Αἴας | ἢ Ἰδομενεὺς | ἢ δῖος Ὀδυσσεύς (6 2lg 8 4lg 10),

la colizzazione usuale è rivoluzionata dal fatto che il secondo e il terzo colon sono fusi insieme: l’equilibrio consueto della quadripartizione lascia il posto a un equilibrio nuovo, a una tripartizione. Le statistiche di sopra prendevano in considerazione solo i versi che hanno incisione nei singoli gruppi: ora, al gruppo B ne mancavano nove, costruiti come Il. 1, 145, che costituiscono l’1.47% sul totale di 611 versi17. Quello che più conta, però, e che stacca questi ultimi fatti (i salti) dai precedenti (i semplici spostamenti) è – ripetiamo – più ancora della scarsa frequenza statistica, la rivoluzione nell’equilibrio dei cola: esametri così costruiti sono veramente diversi da tutti gli altri18. Ora, ogni studio sulla struttura del verso è necessariamente fondato, come studio sui cola, sulle fini di parola: è quindi uno studio di métrique verbale. Come tale esso può portare a due deviazioni, ambedue pericolose. 1. Può portare a non distinguere parole ortotoniche da non–ortotoniche (a seguire, cioè, una divisione puramente tipografica delle parole), creando un

|| 15 Mancano naturalmente: 3bc (divieto di incisione mediana) e 4tr (ponte di Hermann). Qui ci si riferisce all’esametro omerico e non si tiene quindi conto delle leggi alessandrine (di particolare importanza per la struttura del verso sarebbero quelle di Giseke–Meyer–Fränkel). 16 L’incisione in 5bc (C.3 di Fränkel, vd. Hex.2 116 n. 4; 120; 133) deve considerarsi, colla sua scarsissima frequenza (1.4%), caso di incisione molto rara o vero e proprio ‘salto’ di incisione del gruppo C? Il problema è qui di scarso peso e si porrà in sede di studio di struttura del verso (vd. oltre). 17 Mentre le percentuali (arrotondate) di sopra sono ricavate da 611 meno 9 = 602 (riguardano, come s’è detto, solo i versi che hanno una incisione in B). 18 Non anticipo i risultati per il salto di A, perché dovrei anticipare anche i criteri (e i risultati di una ricerca) per la ortotonia (vd. intanto l’Appendice, qui oltre, e il Post–scriptum 1995). Per il gruppo C, vd. n. 16.

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‘atomismo’ verbale che prescinderebbe dannosamente da alcune fondamentali premesse di ordine puramente linguistico (le proclitiche e le enclitiche sono, per loro natura, legate a un’ortotonica contigua: le une precedono e le altre seguono; e così per prepositive e pospositive dei vari gradi). È questo l’errore più banale, che oggi non si fa quasi più, dopo che si è affermata l’importanza, appunto, della métrique verbale. Tale errore rende inutilizzabili moltissime vecchie (e alcune nuove) statistiche, che danno dignità di parola alle non–ortotoniche. 2. Può portare a far dimenticare che il verso è un microcosmo che segue sue leggi, fra le quali la più importante è proprio quella di struttura o di divisione in cola. Tale legge ritmica può entrare /245/ in conflitto sia colla sintassi, sia colle regole della métrique verbale19. Tali conflitti, ricercati in genere a scopi espressivi, non possono però essere mai tali da obliterare totalmente la struttura ritmica del verso, la quale perciò, anche nel caso di detti conflitti, domina comunque20. La considerazione sintattica potrà avere ruolo decisivo solo in casi ritmicamente indifferenti, quando ci sia possibilità di scelta ritmica; e può servire tutt’al più da avvio metodico allo studio statistico sulle incisioni, facendo notare i punti in cui preferenzialmente si situano le incisioni stesse21. Il non aver tenuto nel giusto conto tale predominio della struttura ritmica del verso ha portato: a) un buon numero di studiosi ad eccessivo riguardo per le categorie sintattiche; b) la totalità degli studiosi a un eccessivo rispetto per le regole linguistiche della métrique verbale: ha portato, cioè, ad applicare al verso le categorie della parola fonetica, laddove andavano applicate le caterorie della parola metrica, delicate e spesso necessariamente costruite di volta in volta ad hoc, come quelle che devono adattarsi a quei rapporti di equilibrio che di volta in volta mutevolmente si creano nel microcosmo stichico22. || 19 E potrebbe perfino violare l’integrità della parola: si pensi al problema della incisione ‘attenuata’ che si avrebbe in parole composte. 20 Sarebbe di grande interesse seguire le teorie e gli usi delle varie scuole di recitazione, antiche e moderne, a questo proposito (rilievo, cioè, dato alla sintassi o al verso). Si pensi alla nostra recitazione scolastica, estremamente monotona, alla quale alcuni cercano di reagire con una pseudo–culta eccessiva attenzione alla sintassi. 21 Vd. le statistiche per incisione con punteggiatura, oltre che in Hex.2 104 s. (Rossbach–Westphal), in Hartel 1873, 93–98 (ad es.: circa un terzo dei versi con pentemimere avrebbe interpunzione). Ovviamente, come notava già Hoffmann 1842, 27: “accedente interpunctione consentaneum est multo vehementiores fieri caesuras, quam quae efficiuntur solo vocum fine”. E vd. Porter 1951, 16: “A colon is not a unit of meaning, although phrase divisions, when they occur, are often at caesural points”. 22 Non mi risulta che i francesi abbiano fatto questa distinzione: essi usano mot métrique e mot phonétique del tutto promiscuamcnte, come sinonimi (vd. ad es. Havet 1896, 13; Nougaret 1956, 5). La distinzione sostanziale mi sembra della massima importanza e ad essa andrebbe infor-

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/246/ Al primo di questi due pericoli Fränkel è, ovviamente, sfuggito. Al secondo non del tutto. È vero che il suo ‘sintassismo’ è andato attenuandosi dalla prima23 alla seconda redazione: ma troppo importante, nonostante alcune benefiche incoerenze24, continua ad essere in lui il Sinneseinschnitt. Troppi sono, al contrario, i versi che ricavano la loro virtù espressiva proprio da un sottile conflitto fra colizzazione ‘regolare’ e flusso sintattico obliterato dal ritmo25. E come potrebbe essere diversamente, dal momento che il ritmo del /247/ verso si afferma con tanta monotona frequenza e precisione? I ‘sintassisti’ vorrebbero, invece, far violenza al ritmo mettendo incisioni ‘eccezionali’ alle pause sintattiche ‘fuori posto’. A questo e ad altri spunti metodici andrebbe dato sviluppo in lavori specifici, nei quali si dovrebbe anche fornire piena e documentata ragione di alcuni

|| mata una ricerca esaustiva sull’ortotonia. – Irragionevole è l’atomismo verbale di O’Neill 1951, tale da renderne totalmente inservibili le pur accurate statistiche. Si legga a p. 108: “The doubtful cases are proclitics, enclitics, particles like μέν, δέ, γάρ, οὖν, καί, κτλ., articles, and prepositions. A finally satisfactory and valid judgement of the status of such words is impossible on the basis of evidence now available”. E così si decide per considerare tali parole tutte come indipendenti (!). Ora, per queste parole siamo certi della loro natura linguistica: oscillante è, appunto, solo il loro uso nel verso. Ma il fatto che ci vogliano più pesi e più misure non dispensa dal distinguere! Vd., intanto, l’Appendice, qui oltre. 23 In Hex.1 esso era estremamente accentuato. A p. 213 s. Fränkel cerca addirittura di stabilire uno sviluppo storico dal Sinneseinschnitt alle Zäsuren (“Historisch hatten sich also die Zäsuren, d.h. die ständige Wiederkehr von Wortfugen an bestimmten Versstellen, aus der Ordnung und Regelung der Sinneseinschnitte entwickelt”) e insegue tale sviluppo fino a Callimaco. Insomma: a strutturare ritmicamente il verso, prima sarebbe stato il Sinneseinschnitt; poi si sarebbe ammessa anche la semplice Wortfuge. Vd. già le giuste critiche di Pasquali 1927, 245 s. 24 Come quella che lo porta ad affermare felicemente (Fränkel 1951, 45): “So ist es in der Tat; die vierfache Gliederung des Hexameters ist vollständig durchgefuhrt. Jedesmal beginnt an einer A–Stelle, einer B–Stelle und einer C–Stelle entweder ein neuer Satz [sottolinn. miei], oder eine neue Wortgruppe, oder doch mindestens ein neues Wort. Im lelztgenannten Fall ist der Sinneseinschnitt zwar nur ein leichter; aber er ist doch merkbar, denn mit dem neuen Wort tritt eine neue Vorstellung ins Bewusstsein, und der Vortrag kann den Einsatz zart aber deutlich markieren”. Palese tentativo di nobilitare la semplice fine di parola, cacciata dalla porta e rientrata dalla finestra, a pausa o quasi–pausa sintattica. E si veda in Hex.2 116 la ammissione di cesure che vengano “vom Inhalt mehr geduldet als gefordert, ... diese den Sinneszusammenhang leicht uberschattenden Zäsuren”. In sostanza si ha l’impressione che il sintassismo di Fränkel si fermi di fronte alla indiscutibile importanza che ha la semplice fine di parola. E, posto che fra i due estremi, Satzgrenze e Wortgrenze, ci sono Einschnitte jeden Grades (Hex.2 104), tanto vale saltare il fosso e affermare che, rispetto alla colizzazione, quello che conta è la semplice Wortgrenze. 25 Si pensi a quel conflitto di fondo che è l’enjambement. il quale supera addirittura i confini del microcosmo ritmico del verso. Anche questo è un problema che va rivisto.

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criteri che già vengono seguiti nella presente ricerca, e cioè: a) criterio di distinzione fra ortotonia e non–ortotonia (ricerca, cioè, nell’ambito di ogni verso, della parola metrica); b) conferma della quadripartizione del verso, ottenuta con statistiche autonome, fatte su larga scala seguendo i criteri di cui sotto a) (oltre ad un sostanziale antisintassismo); studio, inoltre, dei vari tipi di esametro non quadripartito; c) studio del rapporto fra colon e formula, inteso come necessaria appendice allo studio dei rapporti fra colon e sintassi. Tali premesse e precisazioni di ordine generale, che modificano solo in alcuni dettagli lo strumento metodico fränkeliano, erano necessarie per avviare il discorso su un fatto particolare, che mi sembra si possa vedere in una luce diversa da come lo vede Fränkel26.

2. La ‘parola pesante’ di Hermann Fränkel In realtà a Fränkel importa tener separate dalle ‘normali’ le incisioni ‘spostate’ (2tr, 2bc, 5lg, 5tr, 5bc) perché lo ‘spostamento’ si verificherebbe, secondo lui, in presenza di quella che chiama ‘parola pesante’ (Schweres Wort, abbreviato SW), Basta dare un’occhiata allo schema del verso, per rendersi conto che tale parola pesante deve valere sette more o più27: infatti, per ‘spostare’ l’incisione del gruppo A oltre i quattro luoghi fränkeliani, occorre che la parola cominci al principio del verso (I h1 w h2 g |, I h1 w h2 w |), giacché basterebbe avere 1lg (I h1 |) per avere la prima delle incisioni ‘normali’. Ugualmente per lo spostamento di C, dove la parola, /248/ iniziando prima di 4lg, e cioè almeno a 3tr, potrà finire o a 5lg (| g h4 w h5 |) o a 5tr (| g h4 w h5 g |), oppure a 5bc (| g h4 w h5 w |). L’incisione in B, invece, si può solamente ‘saltare’, giacché il suo primo spostamento viene a coincidere colla prima incisione del gruppo C, e cioè con 4lg. E così per il salto di A, che verrebbe a richiedere parola di almeno dieci more (I h1 w h2 w h3 |)28. Ma tale affermazione sarebbe una semplice tautologia, se Fränkel non attribuisse alle parole pesanti un ruolo particolare, e || 26 Resterebbe ancora da aggiungere un principio che è diventato ormai ovvio, e cioè che l’elisione non è di ostacolo all’incisione (e nemmeno, in genere, indebolimento di essa). Vd. la formulazione di Hermann 1816, 33: “Sed tenendum est, elisionem syllabae neque apud Graecos neque apud Romanos caesurae officere” (cfr. 357, dove si richiama già a Bentley, ad Hor. carm. 4, 8, 17). 27 Hex.2, spec. 107 e pass. 28 Per il problema del salto di C, vd. qui sopra n. 16.

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precisamente un ruolo stilistico: tali parole sarebbero ‘pesanti’ non solo per la loro estensione (Umfang), per il loro, per così dire, ‘volume morico’, ma anche per il loro valore semantico–stilistico (Inhalt)29. L’affermazione avrebbe bisogno del conforto dei testi, che però, ad un esame degli stessi esempi portati da Fränkel, viene spesso a mancare o è per lo meno insufficiente30. Vediamo in Hex.2 107 s. esempi di A e C spostate, che da lungo tempo31 erano stati presi in considerazione perché hanno interpunzione o comunque pausa sintattica immediatamente dopo32 e che Fränkel porta come casi particolarmente significativi di parola pesante. Ecco alcuni esempi di spostamento di A in 2tr (I h1 w h2 g |), col valore di 7: Il. 1, 356 ἠτίμησεν | ἑλὼν γὰρ | ἔχει γέρας. | αὐτὸς ἀπούρας (7+4+5+8); ma si potrebbe anche trovare maggior ‘peso’ nel secondo colon, che nella sua secchezza esprime drammaticamente il modo in cui Achille è stato insultato, e cioè il ‘prendere’ di Agamennone; senza contare che il ‘disonorare Achille’ ha già il suo rilievo coll’essere posto in enjambement all’inizio del verso. /249/ Il. 7, 236 ἠὲ γυναικός, | ἣ οὐκ | οἶδεν | πολεμήϊα ἔργα (7+3+4+10), dove non si vede perché dovrebbe aver forte rilievo “come donnetta”, che sarebbe contrapposto a “come fanciullo” del verso precedente33. Il. 9, 675 ἦ ἀπέειπε, | χόλος δ’ | ἔτ’ ἔχει | μεγαλήτορα θυμόν; (7+3+4+10), dove si potrebbe vedere anche maggior peso nel secondo colon (“ira”) (cfr. Il. 15, 122). Ed ecco un esempio, tra gli altri, di spostamento di A in 2bc (I h1 w h2 w |), col valore di 8: Il. 15, 586 ἀλλ’ ὅ γ’ ἄρ’ ἔτρεσε | θηρὶ | κακὸν | ῥέξαντι | ἐοικώς (8+3+8+5), ma assai maggior peso si potrebbe dare al secondo colon (“belva”), che introduce la similitudine a metà verso.

E così via per altri esempi di A spostata e per quelli di C spostata: ma il procedimento di Fränkel è ormai chiaro. E si tenga presente che qui si trattava di

|| 29 Hex.2 107 e pass. Vedi già Hex.1 pass. e le perplessità di Pasquali 1927, 247, che si chiede se Il. l, 6 διαστήτην, 49 ἀργυρέοιο, 81 αὐτῆμαρ, 36 ἠΰκομος siano veramente, come vorrebbe Fränkel, “an und für sich feierliche Ausdrücke”. 30 Si sono usati qui di seguito i consueti strumenti di ricerca: Gehring 1891 (per gl’Inni c’è l’Appendix, del 1895); Prendergast–Marzullo 1971, Dunbar–Marzullo 1962; di scarsa utilità è Schmidt 1885 (per cui vanno comunque tenuti presenti i ‘Nachträge’: Schmidt 1895). 31 Gerhard 1816, 208 ss. 32 Del resto le categorie sintattiche della lista di Gerhard sono estremamente elastiche e gli esempi andrebbero tutti riveduti. 33 Per | ἣ οὐκ | (incisione dopo prepositiva) vd. Appendice, § 2.

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parole già di per sé messe in rilievo dal fallo di trovarsi prima di pausa sintattica. Che se poi si prendono esempi senza distinguere pause sintattiche da semplici fini di parola, il raccolto sarebbe ugualmente, anzi più scarso. Limitiamoci ad alcuni esempi di A spostata, leggendo questa volta continuativamente dal primo libro dell’Iliade. Il. 1, 1 μῆνιν ἄειδε, | θεά, | Πηληϊάδεω | Ἀχιλῆος (7+3+8+6). Qui non c’è a rigore parola pesante, sebbene appaia necessario colizzare con 2tr (7+3). È significativo che proprio quest’esempio, che sarebbe in contrasto colla teoria della parola pesante, non compaia mai fra i versi colizzati e discussi in Hex.2 – l’incipit dell’Iliade! –, mentre compare ancora in Fränkel 1951, 17 n. 17, ma colizzato diversamente: I μῆνιν | ἄειδε, θεά (I h1 g | g h2 w h3 |), con 1tr, e cioè con valore 3+7. Ma non conviene richiamare, come Fränkel già faceva in Hex.1 215, la legge dell’enclisi dei vocativi34, perché anche in antico indiano il vocativo, che di regola è enclitico, è ortotonico all’inizio del periodo: ora, qui θεά può stare benissimo all’inizio del colon, dal punto di vista ritmico (anzi, è colon) e quindi può essere ed è ortotonico. Il vocativo si è voluto sentire da molti, invece, come strettamente legato al contesto immediatamente contiguo35. /250/ La colizzazione è confermata poi da un fatto singolare. Si vedano infatti i vari casi in cui capitano le forme bisillabiche di θεός (che, escludendo i ‘dativi lunghi’, sono θεά, θεαί, θεάν, θεᾶς, θεάς, θεοί, θεοῖς, θεόν, θεός, θεοῦ, θεούς, θεῷ, θεῶν): per il femminile la stragrande maggioranza, per il maschile più della metà di tali forme costituiscono colon a sé (particolare rilievo dato all’intervento della divinità?). Il.–Od.–Inni hanno 116 casi di θεά (sia nomintivo sia vocativo) come un colon a sé (| g h3 |, | g h4 |), contro 31 in cui è in cola pluriverbali (vengono contati, qui e di seguito, anche i versi formulari e i semplici iterata, ché anch’essi contribuiscono a creare lo ‘schema di frequenza’). È poi interessante trovare conferma di tale colizzazione nella sensibilità del terzo secolo. Apollonio Rodio al principio del suo quarto libro ha voluto, credo, palesemente alludere ai due incipit omerici: αὐτὴ νῦν | κάματόν γε, | θεά, | καὶ δήνεα κούρης (6+5+3+10) Κολχίδος ἔννεπε, | Μοῦσα, | Διὸς τέκος· | ἦ γὰρ ἔμοιγε (8+3+5+8). Il primo verso, che allude all’incipit dell’Iliade, presenta θεά in colon autonomo, anche se variato, alla maniera alessandrina, da | g h3 | a | g h4 | (e cioè da secondo a terzo colon, che sono le due posizioni usuali nei poemi omerici, come s’è visto)36: θεά ha, oltre tutto, anche Arg. 4, l s.

|| 34 Wackernagel 1892, 424 s. (= 92 s.); Wackernagel 1930, III, 27 s. 35 Vd., come locus classicus, Bekker 1863, 268 ss.; ma vd. le giuste critiche di Fraenkel 1965, 7l ss. 36 Che il primo emistichio del secondo verso ricalchi l’Odissea non ha bisogno di esser messo in rilievo (e la certezza sul secondo verso porta con sé la certezza sul primo: se il secondo verso allude all’ Odissea, il primo non potrà che alludere all’IIiade). Ma altre raffinate analogie, nel seconddo emistichio, ci confermano l’allusività: 4, 2 | ἦ γὰρ ἔμοιγε I riecheggia Od. 1, l | ὃς μάλα πολλά I, oltre che col ritmo sintattico interno al verso (interpunzione in 4bc), anche col sottile

308 | Sezione 1: Metrica forte rilievo sintattico, trovandosi fra due membri sintattici in accentuato parallelismo (κάματόν γε … καὶ δήνεα)37. Quello che qui preme ancora notare, e che sarà confermato in seguito, è che sono le due parole μῆνιν e θεά che possono acquistare maggior rilievo se fanno colon a sé: nella colizzazione che sembra da preferire è, appunto, θεά ad essere in rilievo. Il. 1, 5 οἰωνοῖσί τε | δαῖτα, | Διὸς δ’ | ἐτελείετο βουλή (8+3+3+10). Non pare proprio dubbio quale delle parole abbia maggior rilievo: non “uccelli” (su cui dovrebbe porsi un non necessario accento rispetto a “cani” /251/ del verso precedente), bensì δαῖτα per il famoso ossimoro notato fin dall’antichità (δαῖτα è solo di pasto umano38). Il forte rilievo di δαῖτα come colon a sé lo rende ulteriormente preferibile (solo da un punto di vista estetico, s’intende!) alla scialba varia lectio πᾶσι (vd. l’equilibrato atteggiamento di Leaf ad loc.). Il. l, 7 Ἀτρεΐδης τε | ἄναξ | ἀνδρῶν | καὶ δῖος Ἀχιλλεύς (7+3+4+10). Qui, se mai, l’attributo (“re”, “sovrano”) appare in netto rilievo rispetto al nome proprio39. Il. 1, 8 τίς τ’ ἄρ σφωε | θεῶν | ἔριδι | ξυνέηκε μάχεσθαι; (7+3+4+10). A parte la poca significanza del primo colon, agglomerato di pospositive, come parola pesante, si veda quanto si è detto sotto Il. 1, 1 a proposito del rilievo dei casi di θεός (anche per θεῶν c’è maggioranza di uso in colon a sé, e quindi in rilievo: 142 casi netti, contro 13 di colizzazione ambivalente e solo 72 in colon pluriverbale).

|| parallelismo dell’enjambement. Si ricordi, come antecedente di Apollonio, la studiata contaminazione delle categorie ritmiche e morfologico–sintattiche dei due incipil già nel primo verso della Tebaide: Ἄργος ἄειδε, | θεά, | πολυδίψιον, | ἔνθεν ἄνακτες (fr. l Bernabé), dove il primo emistichio richiama Il. l, la e il secondo Od. l, 1b (πολύτροπον, interpunzione, relativo, enjambement). Per le imitazioni alessandrine di simili formule iniziali vd. Perrotta 1926, 105 s. [Ho sviluppato questa intuizione in RFIC 96, 1968, 151–163]. 37 Fraenkel 1965, 19 ss. 38 Vd. per la questione Pasquali 1952, 236 s.; Pagliaro 1952, 125 ss. 39 Sulla divisione, per incisione, di formule che altrove appaiono o divise diversamente o unite nello stesso colon (ad es. il frequente | ἄναξ ἀνδρῶν | [ | g h4 h h5 | ]), sul problema, cioè, di quella che potremmo chiamare ‘mobilità formulare’, si dovrebbe parlare altrove in sede di rapporti cola–formule (vd, supra, alla fine di § l). Si vedano intanto gli esempi portati da Severyns 1946. 53 s., e specialmente: Il. 6, 54 ἀντίος ἦλθε | θέων, | καὶ ὁμοκλήσας | ἔπος ηὔδα Il. 17, 257 πρῶτος δ’ | ἀντίος ἦλθε | θέων | ἀνὰ δηϊοτῆτα Il. 6, 52 καὶ δή μιν | τάχ’ ἔμελλε | θοὰς | ἐπὶ νῆας Ἀχαιῶν Il. 14, 354 βῆ δὲ θέειν | ἐπὶ νῆας | Ἀχαιῶν | νήδυμος ῞Υπνος. (Per Il. 6, 54 si potrebbe anche proporre I ἀντίος | ἦλθε θέων | ). La colizzazione, come si vede, si sovrappone non solo alla sintassi. ma anche alla trama formulare. Un index della dizione formulare dovrebbe tener conto di questo fatto.

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Il. 1, 13 λυσόμενός τε | θύγατρα | φέρων τ’ | ἀπερείσι’ ἄποινα (7+4+3+10). Qui il testo non ci dà indicazioni univoche e un certo accento può anche poggiare sulla parola pesante (“coll’intenzione di riscattare”). Il. 1, 16 Ἀτρεΐδα δὲ | μάλιστα | δύω, | κοσμήτορε λαῶν (7+4+3+10). Qui l’accento potrebbe, se mai, cadere sul secondo colon (“più di tutti”), essendo il peso di ‘Atridi’ diviso fra il primo e il terzo colon (“i due Atridi”). /252/ Il. 1, 17 Ἀτρεΐδαι τε | καὶ ἄλλοι | ἐϋκνήμιδες | Ἀχαιοί (7+4+8+5). Qui l’accento è, sì, sul primo colon, ma non certo per il suo ‘peso morico’, bensì per la sua qualità di vocativo all’inizio di verso (e di periodo). Ma notevole rilievo potrebbe avere anche il secondo colon (“e voi tutti”, “e tutti gli altri “).

3. Il colon breve e il suo ruolo ritmico E così via. Si sono volutamente scelti gli esempi che venivano incontro da sé a chi cominciasse a leggere, per evitare ogni sospetto d’intenzionalità della scelta. Ma esempi si possono trovare ad aperturam. Certo, l’apprezzamento del ‘peso’ stilistico di una parola è materia squisitamente opinabile: ma si è visto, comunque, che si è ben lontani da quella costante o quasi costante messa in rilievo che vorrebbe Fränkel . Quello che salta invece agli occhi, dagli esami fatti, è un’altra cosa. È ovvio che, nell’ambito di un emistichio, quanto più lungo sarà un colon tanto più breve sarà l’altro. Ora, negli esempi presi in esame ha mostrato particolare rilievo proprio il secondo colon, brevissimo o breve di fronte al primo notevolmente più lungo (7 o 8 di fronte a 3 o 4): θεά/θεῶν, δαῖτα, ἄναξ, ἄνακτι. Non potrebbe essere – lo azzardiamo per ora come ipotesi – proprio la piccola estensione del colon a conferirgli rilievo particolare? L’ipotesi appare seducente. Ricordiamo che l’esametro è verso certamente fin dall’origine destinato alla recitazione, ed è proprio come tale che esso rispetta una certa monotonia e regolarità di divisione ritmica. Ricordando la definizione fränkeliana citata sopra dell’esametro come una “microstrofa”, non appare improbabile che esso rispettasse nella recitazione un certo equilibrio temporale fra i cola. Sarebbe azzardato pretendere di definire a priori, come tale equilibrio potesse venir realizzato: si può pensare che il colon più breve si equiparasse, per così dire, al più lungo per mezzo di una variazione di tempo (rallentamento) nella recitazione, oppure per mezzo di una pausa che fosse più sensibile quanto più forte fosse lo squilibrio; o forse i due fatti, insieme con altri che possono sfuggirci, concorrevano. Potrebbe non essere inutile, per via di comparazione o d’immagine, richiamare la tecnica di un altro verso moderno, d’illustre tradizione recitativa

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come l’esametro e, come l’esametro, ugualmente quadripartito: l’alessandrino francese. È noto che nell’alessandrino l’incisione mediana è fissa, mentre le due incisioni che dividono i singoli emistichi sono libere. Ora, è altrettanto noto a chi abbia sentito recitare o anche solo letto alessandrini, /253/ed è acquisito alla teoria40, che tanto più un membro è breve tanto più fortemente esso è in rilievo, proprio per una specie di rilassamento temporale che fa sì che esso venga recitato più lentamente, in modo da avvicinarlo in durata agli altri cola. Si consideri la costruzione dei seguenti versi di Racine: Athal. a. I, sc. II Et comptez–vous | pour rien | Dieu | qui combat pour nous? Dieu, | qui de l’orphelin | protège | l’innocence? Iphig. a. IV, sc. VI Oubliez–vous | ici | qui | nous interrogez? Brit. a. I, sc. Il Vous le dirais–je | enfin? | Rome | le justifie, Rome, | à trois affranchis | si longtemps | asservie.

E vediamo l’effetto ottenuto anche con cambio di personaggio: Brit. a. V, sc. VI (Agr.) Je connais | l’assassin. | (Ner.) Et qui, Madame? | (Agr.) Vous. Phèdre a. II, sc. III (Ther.) Elle vous cherche. | (Hipp.) Moi? | (Ther.) J’ignore | sa pensée.

Per tornare all’esametro, vediamo ora, tenendo presente lo schema ritmico, la estensione minima e massima dei cola e il loro reciproco rapporto morico: I colon: da un minimo di 2 (I h1 |) a un massimodi 8 (I h1 w h2 w |)41. II colon: da un min. di 2 (| h3 |) a un massimo di 9 (| w h2 w h3 g |)42.

|| 40 Vd. Grammont 1913, 13 s. (sulla quadripartizionc dell’alessandrino), 15 ss. (sulla mancanza di equilibrio sillabico fra i cola, equilibrio riottenuto colle variazioni di tempo), 84 ss. (conferma sperimentale della variété du mouvement rythmique). Si veda anche Grammont 1955, 49 ss. (Les exigences du rythme et le débit des vers: le changement de vitesse), 115 ss. (La variété du mouvement rythmique). Nel testo, i primi due esempi sono presi da Grammont, gli altri sono scelti da me ad aperturam. 41 Per i vari esempi di primo colon si vedano quelli citati alla n. 14, in ordine, per i vari tipi di

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/254/ III colon: da un min. di 3 (| g | h4 |) a un massimo di 8 (| w h4 w h5 |), 9 (| w h4 w h5 g |), 5 10 (| w h4 w h w |)43. IV colon: all’incirca per l’80% dei casi varia da 8 (| h5 w h6 W) a 10 (| w h5 w h6 W). Può valere anche 6 (|w h6 W), 5 (| g h6 W). Per 4 vd. nn. 16 e 4344.

Da un minimo di 2 more a un massimo di 10: appare evidente come la variabilità dell’estensione dei cola è tale da assicurare una notevole vivacità ritmica nei versi che presentino tale variabilità. Si tenga presente, d’altra parte, che la ‘normalità’ statistica fa rilevare un certo equilibrio fra i cola. Come si può vedere dalle statistiche riportate sopra per le incisioni (§ 1), lo schema più frequente di esametro è:

I h1 w h2 | w h3 g | g h4 w | h5 w h6 W (6+5+5+8) Essendo inoltre il verso approssimativamente dimezzato da quella che usa chiamarsi ‘cesura mediana’ (le due incisioni del gruppo B, 3lg e 3tr), che è la meno variabile di tutte (varia di una sola mora)45, si potrebbe vedere l’equilibrio dell’esametro abbastanza simile a quello dell’alessandrino francese: due emistichi, nell’ambito di ciascuno dei quali i cola raggiungono un loro equilibrio reciproco, il primo col secondo e il terzo col quarto46. In ognuno dei due emistichi, tanto più breve un colon, tanto maggiore l’altro, e quindi tanto più accentuato lo squilibrio morico, che dovrebbe risolversi in una tendenza all’equilibrio sonoro (colla tendenziale ‘equiparazione’ del colon più breve al più lungo). La mobilità della incisione mediana dà, anzi, all’esametro una vivacità ritmica molto

|| incisione del gruppo A. 42 Per il secondo colon di 2 more vd. il tipo IIa), qui infra. Per il secondo colon di 9 more vd. per es. Il. 1, 121 | ἠμείβετ’ ἔπειτα | (| h h2 w h3 g |), frequentissima formula (I τὸν δ’ è I h1 |), ché il dimostrativo dittico è ortotonico: cfr. n. 50). 43 Per il terzo colon di 3 more vd. ad es. di nuovo. Il. 1, 5 | Διὸς δ’ | (| g h4 |) ; per 8 vd. Il. 1, l | Πηληϊάδεω | (|h h4 w h5 |); per 9 vd. Il. 1, 75 | ἑκατηβελέταο | (| w h4 w h5 g |). Per 10 vd. la perplessità esposta alla n. 16. 44 È ovvio che, per avere tabelle di frequenza del primo e dell’ultimo colon, basta vedere le statistiche riguardanti le incisioni del gruppo A e del gruppo C (supra, § 1). Per i cola intermedi esse si ricavano coll’approssimazione di l mora (la differenza fra 3lg e 3tr). 45 Ed è proprio questo fatto che ha dato origine, sia nella scarna teoria antica (per cui vd. Bassett 1919), sia nella moderna, alla teoria della Hauptzäsur. 46 Naturalmente qui si prescinde dall’esametro variamente tripartito.

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maggiore, /255/ senza contare quel certo squilibrio praticamente costante che è dato dal fatto che il quarto colon presenta generalmente estensione maggiore degli altri colle sue frequentissime 8 o 10 more47. L’alessandrino ha, al confronto, uno schema più rigido48. Vediamo ora concretamente quali possono essere i più forti squilibri colici nell’esametro. Ecco tutti gli schemi che si possono ottenere limitandosi a considerare i cola di 2 o 3 more, quelli che possiamo chiamare d’ora in poi ‘cola brevi’. I) primo emistichio: I colon breve (si tenga presente che la forma più frequente del colon, come si vede dallo schema riportato sopra, è I h1 w h2 |, del valore 6): a) I h1 | w h2 w h3 (g) | (2+8, 2+9); b) I h1 g | g h2 w h3 (g) | (3+7, 3+8); Il) primo emistichio: II colon breve (la forma più frequente [w h3 (g) |] è del valore di almeno 4): a) I h1 w h2 w | h3 | (8+2); b) I h1 w h2 g | g h3 | (7+3); c) I h1 w h2 w | h3 g | (8+3); III) secondo emistichio: III colon breve (la forma più frequente è | (g) g h4 w | del valore di almeno 5)49; | g h4 | w h5 w h6 W (3+10).

Diamo qui di seguito alcuni esempi dei vari tipi, presi sempre dal primo libro dell’Iliade. Si tenga solo presente che fra le categorie /256/ di parole che qui appaiono (di 2 o 3 more) – sostantivi e aggettivi, verbi, pronomi, avverbi etc. – particolare rilievo (a prescindere dall’addizionale valore semantico–stilistico di ogni parola) possono avere i vocativi, gl’imperativi e, fra i pronomi, quelli personali che siano ortotonici (enfatici) e i dimostrativi fortemente dittici (anche,

|| 47 Vd. infra, § 5. C’è chi (ad es. Mette 1951, 8), sia a proposito dei due emistichi, sia a proposito del solo ultimo colon, si richiama al Gesetz der wachsenden Glieder formulato da Behagel 1909 (110–142, spec. 139). Per la preistoria (già umanistica) della legge vd. Lindholm 1931, 15 ss. [In realtà ci sono spunti già nell’antichità: H. Bolkestein, Mnemosyne s. IV, 16, 1963, 179 n. 1.] Sull’argomento si dovrà tornare in tema di struttura del verso: naturalmente si trasferisce al colon ritmico quello che i linguisti hanno osservato per il colon sintattico. Quanto dice Schuchardt 1915 vale in generale solo per gli esametri tripartiti (mostra comunque di non conoscere la legge di Behagel). 48 Questo dissuada, se pure c’è ancora bisogno di avvertirlo, dal prendere l’alessandrino più che come un semplice esempio illustrativo, come s’è detto sopra. 49 Sulla possibilità o meno di un quarto colon breve vd. n. 16.

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naturalmente, le forme convenzionalmente non accentate perché uguali alle forme dell’articolo attico). Ia) 45 τόξ’ | ὤμοισιν ἔχων | ἀμφηρεφέα τε | φαρέτρην (2+8+9+5); 52 βάλλ’· | αἰεὶ δὲ πυραὶ | νεκύω | καίοντο θαμειαί (2+8+4+10); 29 τὴν δ’ | ἐγὼ οὐ λύσω· | πρίν μιν | καὶ γῆρας ἔπεισιν (2+8+4+ 10); 84 τὸν δ’ | ἀπαμειβόμενος | προσέφη | πόδας ὠκὺς Ἀχιλλεύς (2+8+4+ 10)50; 89 σοὶ | κοίλῃς παρὰ νηυσὶ | βαρείας | χεῖρας ἐποίσει (2+9+5+8); 60 ἂψ | ἀπονοστήσειν, | εἴ κεν | θάνατόν γε φύγοιμεν (2+8+4+10)51; Ib) 75 μῆνιν | Ἀπόλλωνος | ἑκατηβελέταο | ἄνακτος (3+7+9+5); 398 οἴη | ἐν ἀθανάτοισιν | ἀεικέα λοιγὸν | ἀμῦναι (3+8+8+5); 352 μῆτερ | ἐπεί μ’ ἔτεκές γε | μινυνθάδιόν περ | ἐόντα (3+8+8+5); 365 οἶσθα· | τίη τοι ταῦτα | ἰδυίῃ | πάντ’ ἀγορεύω; (3+8+5+8); 422 μήνι’ | Ἀχαιοῖσιν, | πολέμου δ’ | ἀποπαύεο πάμπαν (3+7+4+10); 58 τοῖσι δ’ | ἀνιστάμενος | μετέφη | πόδας ὠκὺς Ἀχιλλεύς (3+7+4+10); IIa) 295 ἄλλοισιν δὴ | ταῦτ’ | ἐπιτέλλεο, | μὴ γὰρ ἔμοιγε (8+2+6+8)52;

|| 50 Formula comunissima. Si veda anche τὸν (τὴν) δ’ | ἠμείβετ’ ἔπειτα | ecc. L’attenzione si rivolge naturalmente al pronome (dittico e ortotonico, cfr. n. 42), che ogni volta è riferito a parlante diverso. 51 Per | εἴ κεν | (proclitica + enclitica) vd. qui sotto l’Appendice, § 2. 52 È una categoria scarsissimarnente rappresentata, sia per ragioni ritmiche (rarità dell’incisione) sia linguistiche (più facile è che un monosillabo lungo ortotonico si trovi all’inizio del verso). Si vedano gli esempi di βῆ discussi sotto. Interessante il caso di Il. 7, 238 οἶδ’ ἐπὶ δεξιά, | οἶδ’ | ἐπ’ ἀριστερὰ | νωμῆσαι βῶν. Generalmente il verso viene considerato come mancante di incisione in B. Il vedervi un verso tripartito, con incisione mediana saltata, è conseguenza di eccessivo rispetto per la sintassi. Ché anzi, l’anafora di οἶδ’ è rafforzata dal rilievo che la parola acquista nel secondo membro

314 | Sezione 1: Metrica /257/1 IIb) 1 μῆνιν ἄειδε, | θεά, | Πηληϊάδεω | Ἀχιλῆος (7+3+8+6)53; 260 ἤδη γάρ ποτ’ | ἐγὼ | καὶ ἀρείοσιν | ἠέ περ ὑμῖν (7+3+6+8); IIc) 505 τίμησόν μοι | υἱὸν, | ὃς ὠκυμορώτατος (|) ἄλλων (8+3+9+4); 508 ἀλλὰ σύ πέρ μιν | τεῖσον | Ὀλύμπιε | μητίετα Ζεῦ (8+3+5+8); 127 ἀλλὰ σὺ μὲν νῦν | τῆνδε | θεῷ πρόες· | αὐτὰρ Ἀχαιοί (8+3+5+8); III 599 ἄσβεστος δ’ ἄρ’ | ἐνῶρτο | γέλως | μακάρεσσι θεοῖσιν (7+4+3+10); 286 ναὶ δὴ | ταῦτά γε πάντα, | γέρον, | κατὰ μοῖραν ἔειπες (4+7+3+10); 344 ὅππως οἱ | παρὰ νηυσὶ | σόοι | μαχέοιντο Ἀχαιοί (6+5+3+10); 559 τιμήσῃς, | ὀλέσῃς δὲ | πολέας | ἐπὶ νηυσὶν Ἀχαιῶν (6+5+3+10); 530 κρατὸς ἀπ’ | ἀθανάτοιο· | μέγαν δ’ | ἐλέλιξεν Ὄλυμπον (4+7+3+10); 61 εἰ δὴ ὁμοῦ | πόλεμός τε | δαμᾷ | καὶ λοιμὸς Ἀχαιούς (6+5+3+10); 26 μή σε, γέρον, | κοίλῃσιν | ἐγὼ | παρὰ νηυσὶ κιχείω (6+5+3+10); 180 Μυρμιδόνεσσιν | ἄνασσε, | σέθεν δ’ | ἐγὼ οὐκ ἀλεγίζω (7+4+3+10); 9 Λητοῦς | καὶ Διὸς υἱός· | ὃ γὰρ | βασιλῆϊ χολωθείς (4+7+3+10).

/258/ Si noti poi la particolare costruzione di alcuni versi, che presentano due cola brevi, in singolare parallelismo od opposizione: 10 νοῦσον | ἀνὰ στρατὸν ὄρσε | κακήν, | ὀλέκοντο δὲ λαοί (3+8+3+10); 20 παῖδα δ’ | ἐμοὶ λύσαιτε | φίλην, | τὰ δ’ ἄποινα δέχεσθαι (3+8+3+10); 167 σοὶ | τὸ γέρας πολὺ μεῖζον, | ἐγὼ δ’ | ὀλίγον τε φίλον τε (2+9+3+10); || breve. Il verso, così colizzato, è un bellissimo esempio di conflitto fra sintassi e ritmo, dove la prevalenza dello schema ritmico crea una tensione stilisticamente apprezzabile. 53 Vd. quello che, a proposito di questo verso, si è notato più sopra, § 2, nell’analisi di Il. 1, 1. Per θεά in posizione | g h4 | non si ripeteranno esempi sotto III.

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 315

5 οἰωνοῖσί τε | δαῖτα, | Διὸς δ’ | ἐτελείετο βουλή (8+3+3+10)54; 388 ἠπείλησεν | μῦθον | ὃ δὴ | τετελεσμένος ἐστί (8+3+3+10).

Di particolare interesse sono poi alcune sequenze, dove è da notare il ‘ritorno’ (o l’agglomerato) di alcuni cola brevi: 453 s. ἦ μὲν δή ποτ’ | ἐμεῦ | πάρος ἔκλυες | εὐξαμένοιο (7+3+6+8); τίμησας μὲν | ἐμέ, | μέγα δ’ ἴψαο | λαὸν Ἀχαιῶν (7+3+6+8); 382 ss. ἧκε δ’ | ἐπ’ Ἀργείοισι | κακὸν βέλος· | οἳ δέ νυ λαοί (3+8+5+8); θνῇσκον | ἐπασσύτεροι, | τὰ δ’ ἐπῴχετο | κῆλα θεοῖο (3+7+6+8); πάντῃ | ἀνὰ στρατὸν εὐρὺν | Ἀχαιῶν· | ἄμμι δὲ μάντις (3+8+5+8).

E gli esempi potrebbero facilmente moltiplicarsi55. Naturalmente questi che abbiamo offerti sono stati scelti ad arte fra altri che non erano ugualmente significativi dal punto di vista stilistico. Si potrà obiettare che gli esempi offerti sono contraddetti da almeno altrettanti che presentano il colon breve, non che in scarso rilievo, addirittura in ombra: e si potranno portare esempi per il primo 1 colon (scialbi αὐτὰρ in posizione I h g | come in Il. 1, 464; ecc.): per il secondo 3 (ἔσαν in posizione | g h |, come in Il. 1, 267; ecc.): e specialmente /259/ per il terzo, nel quale numerose sono le forme verbali, ad esempio, ben lontane dall’avere rilievo specifico nell’economia del verso (ἵει, φέρων, ἴσαν, τίθει, ἔβαν, 4 ἔχων, –ον ecc. in posizione | g h |: se ne trovano ad aperturam. Ma a tale obiezione si potrebbe agevolmente rispondere che in materia come quella che stiamo trattando quello che può esser messo in evidenza è tendenza e non legge E poi, a voler condurre (e a riuscirci!) una ricerca del genere fino all’applicazione esatta, si arriverebbe alla conclusione assurda che nell’esametro solo le parole brevi o brevissime possano avere rilievo stilistico (quando costituiscano, cioè, colon da sole), mentre le lunghe o lunghissime sarebbero condannate a ruolo di secondo piano. Lo stesso ragionamento potrebbe rovesciarsi, ed avreb|| 54 Vd. quanto si è notato più sopra, § 2, nell’analisi di Il. 1, 5. 55 Un bellissimo esempio di verso out of balance trovo in Dale 1957, 31 e ne segnalo la singolare forza espressiva: Od. 11, 224 ἴσθ’, | ἵνα καὶ μετόπισθε | τεῇ | εἴπῃσθα γυναικί (2+9+3+10).

316 | Sezione 1: Metrica

be tutto il suo valore proprio se lo si usasse contro la ‘parola pesante’ di Fränkel: ché, seguendo il suo principio, ogni parola lunga, che per le sue dimensioni tenda ad identificarsi inevitabilmente col colon, sarebbe condannata a dominare necessariamente sulle altre56. Non ci sarebbe, insomma, possibilità di scelta. Invece per la parola breve c’è la semplice possibilità d’identificarsi col colon: il che dà valore alla scelta. Un’occhiata agl’indici omerici mostrerebbe che le parole che si son viste costituire colon breve capitano anche in cola pluriverbali. E c’è d’altra parte anche la possibilità d’isolare in colon a sé parole a cui l’economia del verso non dia rilievo: e questo non tanto perché accanto ai versi ‘belli’ si debbano ammettere anche i ‘brutti’, ma perché è ovvio che non ogni verso può avere lo stesso grado di espressività. In realtà quello che qui interessava era semplicemente mostrare che, se una possibilità di rilievo poteva venire in qualche modo offerta dal rapporto fra le estensioni dei cola, essa era almeno pari per il colon lungo come per il breve, ma molto probabilmente maggiore per il breve. Questo è venuto in luce sia dall’esame di esempi concreti (e si lascia ovviamente al lettore la cura di accrescerne il numero, ché sarebbe inutile dar qui delle statistiche), sia soprattutto dalla considerazione di una maggior consentaneità alla natura recitativa del verso. In altre parole: la parola–colon pesante è tale solo /260/ per l’occhio; la parola–colon breve, invece, è in grado di acquistare un maggior rilievo proprio per l’orecchio, che è quello che conta in poesia destinata alla recitazione. Ma le prove offerteci dalla stilistica, che possono considerarsi spesso sottilmente insicure e talvolta addirittura reversibili, ci vengono opportunamente confermate, come si vedrà qui di seguito, da argomenti linguistici.

4. La prova linguistica della quadripartizione e la controprova del ruolo ritmico del colon breve È nota la tendenza, nelle varie lingue arioeuropee di tipo arcaico, ad evitare parole ortotoniche troppo brevi. “Les mots autonomes de la phrase – come dice Meillet57 – tendent dans presque toutes les langues à n’ètre pas monosyllabiques; seuls demeurent ou deviennent monosyllabiques les mots accessoires,

|| 56 È, in sostanza, l’obiezione principale di Pasquali 1927, 247 contro lo schweres Wort: “Und ein langes Wort, wie ἀργυρέοιο, das Homer von der Sprache angeboten und vom Hexameter nicht gerade ausgeschlossen war, musste er doch irgendwo im Vers unterbringen; er musste also Platz dafür schaffen”. 57 Citato da Wackernagel 1906, 184 (= 184).

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 317

qui, le plus souvent, s’unissent dans la prononciation à des mots voisins”. In greco sono rare le parole ortotoniche costituite da una sola lunga58 e rarissime quelle costituite da una sola breve59. Ora, Wackernagel60 ha osservato che il greco evita forme verbali che, non aumentate, sarebbero costituite da monosillabo breve (accanto a εἶχε c’è ἔχε, ma accanto a ἔσχε, ἔσχες, ἔσχον non ci sono *σχέ, *σχές – che esiste solo come forma dell’imperativo –, *σχόν), mentre sono ammesse forme non aumentate di tempi passati (imperfetti e aoristi) costituite da monosillabo lungo. Si tratta delle forme seguenti: βῆ, βῆν, βάν61; γνῶ62; δῦ; ἦ; /261/ στῆ, στάν63; τλῆ; φῆ, φῆν, φῆς, φάν64; φθῆ; φῦ. Tali forme sarebbero ammesse però, secondo Wackernagel, solo (o quasi) alla condizione di trovarsi all’inizio di periodo o all’inizio di verso. Tale posizione, non richiesta da esigenze metriche (delle forme con aumento alcune – ἔβη ecc. – sono metricamente escluse dall’inizio del verso, ma nessuna di quelle senz’aumento, ovviamente, è esclusa dall’interno), sarebbe solo una conseguenza del fatto che queste forme verbali, divenute in seguito alla perdita dell’aumento troppo poco ‘corpose’ dal punto di vista fonico, ritroverebbero il ‘peso’ che la loro espressività richiede solo all’inizio di frase o verso, in posizione di maggior rilievo65. Secondo le statistiche di Wackernagel66, la tendenza sarebbe violata da circa un decimo dei casi. Fränkel67 porterebbe una opportuna correzione al metodo facendo cadere quasi tutti i casi di violazione, perché si troverebbero all’inizio di colon. Ma noi siamo ora in grado di aggredire la questione da un altro punto di

|| 58 Senza contare, naturalmente, le trocaiche che si possono elidere. L’elemento –κ– degli aoristi fortissimi (ἤκα ecc.) sarebbe volto ad evitare la costituzione di forme monosillabiche: vd. Chantraine, Morph. histor. du grec2, 163. 59 Vd. Hex.2 122 n. 1: σύ, σέ ortotonici, δός, σός ecc. Fränkel (Hex.2 121 s.) si serve proprio del fatto della estrema rarità di parole di questo tipo (che è equiparabile ad una totale esclusione) per la sua ormai famosa enunciazione “positiva” della legge di Hermann. 60 Wackernagel 1906, 147–184 (= 148–185). Il titolo del presente lavoro è un calco del titolo di Wackernagel, e suonerebbe Kolonumfang und Kolonwert. 61 Sempre con sillaba chiusa, con valore, cioè, di una lunga. 62 Wackernagel lo trascura. A p. 149 ricorda semplicemente che accanto a ἔγνων (4 casi) non c’è *γνῶν, ma dimentica che accanto a ἔγνω (27 casi) c’è γνῶ (7 casi). 63 Sempre con sillaba chiusa, con valore, cioè, di una lunga. 64 In un solo caso su quattro (Od. 2, 337) vale breve. 65 Si noti che a Wackernagel appare più significativa la posizione all’inizio di periodo, in accordo colla legge linguistica enunciata in Wackernagel 1906, 150 (= 150): “Das erste Wort des indogermanischen Satzes ist voller (stärker? höher?) betont als andere Satzteile”. 66 A cui vanno aggiunti i casi di γνῶ: su sette casi, uno solo andrebbe contro la norma (Il. 4, 357). 67 Hex.2 150.

318 | Sezione 1: Metrica

vista: non è la posizione nel verso o nel colon a interessarci maggiormente, bensì la estensione del colon in cui queste forme si trovano. Ora, esaminando i casi uno per uno, ci accorgiamo che per una notevole maggioranza esse non solo si trovano all’inizio del colon, ma sono esse stesse colon breve, o sole (| h |), o in unione con un debole pospositivo col quale non oltrepassano la misura del colon di tre more (| h g |). Quello che intendiamo risulterà chiaro da qualche esempio: Il. 8, 322 βῆ δ’ | ἰθὺς Τεύκρου, | βαλέειν δέ ἑ | θυμὸς ἀνώγει (2+8+6+8); Od. 24, 370 ἐκ δ’ ἀσαμίνθου | βῆ· | θαύμαζε δέ μιν | φίλος υἱός (8+2+8+6); Il. 10, 358 γνῶ ῥ’ | ἄνδρας δηΐους, | λαιψηρὰ δὲ | γούνατ’ ἐνώμα (2+8+6+8); /262/ Il. l, 528 ἦ, | καὶ κυανέῃσιν | ἐπ’ ὀφρύσι | νεῦσε Κρονίων (2+9+5+8); Il. 3, 310 ἦ ῥα, | καὶ ἐς δίφρον | ἄρνας θέτο | ἰσόθεος φώς (3+7+6+8).

Il valore del singolare isolamento in colon breve risulta evidente se si considera la struttura complessiva dei versi. Per vedere, d’altra parte, casi di palese violazione della tendenza enunciata non abbiamo bisogno di cercare exempla ficta: Il. 22, 77 ἦ ῥ’ ὁ γέρων, | πολιὰς δ’ ἄρ’ | ἀνὰ τρίχας | ἕλκετο χερσί (6+5+5+8); Il. 4, 385 αὐτὰρ ὁ βῆ, | πολέας δὲ | κιχήσατο | Καδμεΐωνας (6+5+5+8).

Si tratta di casi in particolare contrasto cogli altri: il verbo è in colon di media estensione (in questi casi di valore 6) e in unione con un soggetto, il che è di serio impedimento al rilievo del verbo stesso. Casi come i seguenti si trovano, d’altra parte, al di fuori del nostro campo d’indagine: Il. 12, 299 βῆ ῥ’ ἴμεν | ὥς τε λέων | ὀρεσίτροφος, | ὅς τ’ ἐπιδευής (4+6+6+8); Il. 11, 805 βῆ δὲ θέειν | παρὰ νῆας | ἐπ’ Αἰακίδην | Ἀχιλῆα (6+5+7+6).

Qui infatti il verbo scade al ruolo di semplice ausiliare, comunque si voglia

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 319

sintatticamente interpretare il nesso68: quel che conta, in altre parole, sono ἴμεν, θέειν. E ugualmente è da considerarsi un nesso di tipo verbo+participio e anche verbo+complemento (o avverbio) – sempre che questi ultimi siano compresi interamente nel colon69 – ché anche qui sono le determinaminazioni del verbo a /263/ prendere il ruolo di protagoniste, o meglio a prender su di sé, determinandola, l’azione verbale: Il. 11, 545 στῆ δὲ ταφών, | ὄπιθεν δὲ | σάκος βάλεν | ἑπταβόειον (6+5+5+8); Il. 1, 197 στῆ δ’ ὄπιθεν, | ξανθῆς δὲ | κόμης ἕλε | Πηλεΐωνα (6+5+5+8).

Ma esaminiamo partitamente caso per caso, tenendo distinto, per ciascuna forma, se si tratti: a) di rispetto della tendenza enunciata; b) di vere e proprie violazioni (cola da 4 in su); c) di casi fuori del nostro campo d’indagine. 1. βῆ a)

b)

βῆ

(I h1 |) Il. 2, 66570.

βῆ

(I h3 |) Od. 3, 468; 23, 163; 24, 37071.

βῆ δ’ (ῥ’)

(I h1 |) Il. 8, 322, 410; 13, 582; 14, 79; 17, 574; Od. 1, 119; 6, 3; 17, 325; 23, 161.

βῆ δέ

(I h1 g |) Il. 1, 44; 2, 167; 3, 419; 4, 74, 495; 5, 152, 562, 566, 681; 6, 21; 11, 196, 247; 13, 297, 469; 15, 169, 237; 16, 536, 677; 17, 3, 87, 124, 592; 20, 111; 22, 187; 24, 121; Od. 1, 102; 24, 488.

βῆ δ’ ἄρ’

(I h1 g |) Il. 2, 18.

βῆ ῥα

(I h1 g |) Il. 7, 19; 17, 213.

αὐτὰρ ὁ βῆ (ῥ’)

(I h1 w h2 |) Il. 4, 385; 5, 398, 849; 6, 171; 11, 101; 19, 40; 20, 407; 21, 299; Od. 4, 532; 7, 139; 17, 255; 18, 153.

βῆ δ’ ἄρ’ ὄνειρος

(| h2 w h3 g |) Il. 2, 16.

|| 68 Schwyzer–Debrunner, Griech. Grammatik II, 1950, 359 s. assegna all’infinito valore causale: Kühner–Gerth, Ausführl. Gramm. Syntax3 II, 16 s., invece, con più verosimiglianza, ne fanno esempi d’infinito con valore finale–consecutivo. 69 Diversamente dai tre tipi elencati infra per ultimi sotto Ib), che per scrupolo abbiamo preferto ordinare sotto le violazioni, perché il complemento non è interamente contenuto nel colon in cui è il verbo: Il. 1, 439 ἐκ δὲ | Χρυσηῒς | νηὸς βῆ | ποντοπόροιο. 70 I βῆ | φεύγων ἐπὶ πόντον | (I h1 | h h2 w h3 g |): se si preferisce (cfr. n. 39) la colizzazione I βῆ φεύγων | (I h1 h h2 |), il caso rientra fra quelli di c). 71 I ἐκ ῥ’ (ἐκ δ’) ἀσαμίνθου | βῆ |: questo caso, che per noi è uno dei più probanti, è per Wackernagel fra i negativi, perché il verbo non è all’inizio né di periodo né di verso.

320 | Sezione 1: Metrica

/264/c)

βῆ δὲ συφορβός

(| h2 w h3 g |) Od. 17, 348, 551, 574.

βῆ Ἀχιλλεύς

(| w h6 h I) Il. 19, 397.

βῆ τείχεος

(| h h4 w |) Il. 16, 702.

σανίδος βῆ

(| w h4 h |) Od. 21, 51.

νηὸς βῆ

(| h h4 h |) Il. 1, 43972.

βῆ δ’ (ῥ’) ἴμεν

(I h1 w |) Il. 5, 167; 10, 32; 12, 299; 13, 242; 14, 166, 188; 16, 221; 20, 319; Od. 1, 441; 2, 5, 10; 4, 24, 310, 528, 679; 5, 475; 6, 15, 130; 8, 273, 277; 13, 160; 14, 73; 17, 365; 20, 146; 22, 400.

βῆ δ’ ἐλάαν

(I h1 w h2 |) Il. 13, 27.

βῆ δὲ θέειν

(I h1 w h2 |) Il. 2, 183; 11, 617, 805; 12, 352; 14, 354; 17, 119, 698; Od. 14, 501; 23, 99.

βῆ δ’ (ῥ’) ἰέναι

(I h1 w h2 |) Il. 4, 199; 6, 296; 8, 220; 9, 596; 10, 136, 179, 336; 13, 167, 208; 15, 483; 17, 657; 24, 95, 347; Od. 10, 208; 16, 413.

βῆ ῥ’ ἰέναι

(| h2 w h3 |) Il. 10, 73; 20, 484; 21, 20573.

βῆ δ’ (ῥ’) ἴμεναι βῆ δ’ ἀκέων

(I h1 w h2 |) Od. 2, 298, 394; 6, 50; 8, 287, 303; 14, 532; 16, 341; 17, 604; 21, 8, 58; 22, 109, 146. (I h1 w h2 |) Il. 1, 34.

βῆ ῥ’ ἀν’ ὁδόν

(I h1 w h2 |) Il. 10, 339

βῆ δὲ μετ’ ἄλλους (–ας)

(| h5 w h6 h I) Il. 4, 292, 364; Od. 11, 563

βῆ δὲ μετ’ αὐτούς

(| h5 w h6 h I) Il. 10, 149.

βῆ δὲ θύραζε

(| h2 w h3 g |) Od. 15, 62.

βῆ δὲ θύραζε

(| h5 w h6 g I) Il. 18, 416.

βῆ δ’ ἐπὶ φύσας

(| h5 w h6 h I) Il. 18, 468.

βῆ δὲ φοβηθείς

(| h5 w h6 h I) Il. 22, 137.

2. βῆν a)

c)

βῆν

(I h1 |) Od. 9, 196; 10, 60.

βῆν δέ

(I h1 g |) Od. 10, 169.

βῆν δ’ ἰέναι

(I h1 w h2 |) Od. 10, 407; 12, 367.

|| 72 Fränkel (Hex.2 150 n. 2; cfr. 153) per conservare βῆ all’inizio di colon, colizza i versi in modo inaccettabile: Od. 21, 51 | σανίδος | βῆ· ἔνθα δὲ χηλοί I (e dove va a finire il suo sintassismo?), Il. 1, 439 | νηὸς | βῆ ποντοπόροιο I (cfr. n. 69). 73 I αὐτὰρ ὁ | βῆ ῥ’ ἰέναι | è sovrapposizione di due formule: αὐτὰρ ὁ βῆ e βῆ δ’ (ῥ’) ἰέναι. Qui non è dubbia la colizzazione (I αὐτὰρ ὁ βῆ ῥ’ | ἰέναι sarebbe qui sbagliato, perché separerebbe, senza necessità ritmica, ‘ausiliare’ da verbo; d’altra parte I αὐτὰρ ὁ | può benissimo essere colon, per l’ortotonia del pronome, come ormai si è visto).

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 321

3. βάν a)

c)

βάν δ’ (ῥ’)

(I h1 |) Il. 10, 150; 12, 106; 16, 552; 19, 279.

βάν δέ

(I h1 g |) Od. 15, 295.

βάν δ’ (ῥ’) ἴμεν

(I h1 w |) Il. 10, 297; 13, 789; 14, 134, 384; 19, 241; Od. 8, 56, 109; 19, 429; 22, 179.

βάν δ’ ἰέναι

(I h1 w h2 |) Il. 4, 209; 10, 273; Od. 4, 779; 15, 109.

βάν δ’ ἴμεναι

(I h1 w h2 |) Il. 20, 32; Od. 18, 341, 428.

/265/

4. γνῶ

a)

γνῶ δ’ (ῥ’)

(I h1 |) Il. 10, 358; 11, 439; 16, 11974; Od. 19, 468.

b)

γνῶ δέ

(I h1 h |) Il. 7, 189.

γνῶ γάρ

(| h h4 |) Il. 16, 658.

ὡς γνῶ

(I h1 h |) Il. 4, 35775.

5. δῦ a)

δῦ

(I h1 |) Il. 21, 118.

b)

δῦ δέ μιν Ἄρης

(| h5 w h6 h I) Il. 17, 210.

δῦ δὲ χιτῶν’

(I h1 w h2 |) Il. 18, 416.

εἰς ἐγκέφαλον δῦ

(| h h5 w h6 h I) Il. 8, 85.

6. ἦ a)



(I h1 |) Il. 1, 219, 528; 3, 292, 369; 4, 192; 5, 533; 9, 620; 10, 454; 11, 143, 320, 368, 446, 842; 13, 59; 14, 214, 475 (ῥ’); 15, 742; 17, 209; 18, 410; 19, 238, 266; 20, 353, 428; 21, 233, 324; 24, 228, 247, 440, 621, 643 (ῥ’); Od. 9, 371; 14, 494; 15, 182, 539; 16, 172; 18. 356 (ῥ’); 19, 476; 20, 197; 21, 118, 431; 23, 8.

ἦ ῥα

(I h1 g |) Il. 3, 310, 355, 447; 4, 419; 5, 280, 416; 6, 390; 7, 214; 8, 300; 10, 372; 11, 349; 13, 754; 14, 346; 16, 426; 17, 516; 19, 424; 20, 259, 438; 21, 200, 489, 590; 22, 273, 289, 367, 395; 23, 24, 563, 596, 612; 24, 302, 596; Od. 2, 321; 3, 337; 5, 28; 6, 198; 8, 186, 416, 469; 14, 446; 16,

|| 74 In tutti e due gli ultimi esempi (Il. 11, 439 I γνῶ δ’ | Ὀδυσεὺς ὅ οἱ οὔ τι |, e 16, 119 I γνῶ δ’ | Αἴας κατὰ θυμόν |) ritmicamente si può mandare i soggetti al secondo colon, e quindi, in omaggio alla tendenza, si deve. A differenza di Il. 22, 77 I ἦ ῥ’ ὃ γέρων |, dove lo strappo sintattico sarebbe inutilmente duro (la punteggiatura è proprio in 2lg, l’incisione più frequente del gruppo A!). Del resto Il. 22, 77 è un unicum del tipo. 75 Ho relegato fra le violazioni questi tre ultimi esempi solo perché superano di una le tre more che mi sono imposto come limite al colon breve: ma specie il secondo (| γνῶ γάρ |, | h h4 |) potrebbe valere benissimo come breve di fronte al lunghissimo quarto colon (10).

322 | Sezione 1: Metrica 154; 17, 197, 356, 396; 18, 108; 19, 96; 22, 236, 292; 23, 366. b)

ἦ ῥ’ ὁ γέρων

a)

στῆ δ’

(I h1 w h2 |) Il. 22, 77.

7. στῆ

στῆ δὲ ταφών

(I h1 |) Il. 8, 222; 11, 5; 14, 13, 297; 17, 468; 18, 215; 24, 286; Od. 1, 103; 6, 141; 8, 114; 15, 150; 19, 447. (I h1 g |) Il. 4, 496; 5, 170, 611; 7, 46; 8, 100, 280, 329; 11, 355, 429, 595; 12, 353, 457; 15, 591; 16, 255; 17, 114, 347, 707; 22, 293; 23, 507, 780; 24, 169; Od. 2, 37; 7, 21; 16, 159, 166; 17, 414. (I h1 g |) Il. 2, 20, 59; 8, 267; 15, 6; 22, 225; 23, 68; 24, 682; Od. 4, 803; 6, 21; 13, 197; 20, 32, 128; 21, 124, 149; 23, 4; 24, 178, 493. (I h1 g |) Il. 7, 225; 11, 577; 13, 146; Od. 1, 333; 8, 458; 16, 415; 18, 209; 21, 64. (I h1 h h2 |) Il. 23, 271 = 456 = 657 = 706 = 752 = 801 = 830. (I h1 w h2 |) Il. 11, 545; 16, 806; 24, 360.

στῆ δ’ εὐράξ

(I h1 h h2 |) Il. 11, 251; 15, 541.

στῆ δὲ παρέξ

(I h1 w h2 |) Il. 11, 486.

στῆ δ’ ὄπιθεν

(I h1 w h2 |) Il. 1, 197; 16, 791.

στῆ δέ

/266/

στῆ δ’ ἄρ’

στῆ ῥα c)

στῆ δ’ ὀρθός

8. στῆν a)

στῆν ῥα

(I h1 g |) Il. 11, 744.

9. στάν a)

c)

στὰν δ’

(I h1 |) Il. 16, 601

στὰν δέ

(I h1 g |) Il. 9, 193; 23, 358 = 757

στὰν δ’ ἀντίοι

(| h h4 w |) Il. 11, 216.

10. τλῆ b)

c)

τλῆ δ’ Ἀΐδης

(I h1 w h2 |) Il. 5, 395.

τλῆ δ’ Ἥρη

(I h1 h h2 |) Il. 5, 392.

τλῆ μὲν Ἄρης

(I h1 w h2 |) Il. 5, 385.

τλῆ μίμνειν

(| h h4 h |) Il. 8, 78

11. φῆ a)

φῆ (δ’/ῥ’)

(I h1 |) Il. 21, 361; 24, 608; Od. 4, 504; 24, 47076.

φῆ γάρ

(I h1 g |) Il. 2, 37.

|| 76 Per la separazione del verbo dal soggetto, in questo caso e per i successivi φῆ γάρ e φῆ μιν, vd. n. 74.

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 323

b)

φῆ δέ

(I h1 g |) Od. 11, 237.

φῆ μιν

(I h1 g |) Od. 17, 142.

φῆ δέ μιν

(I h1 w |) Od. 14, 382.

φῆ ποτε

(I h1 w |) Od. 8, 567; 13, 175.

12. φῆς77 φῆς δ’

(I h1 |) Od. 14, 117.

φῆς που

(I h1 g |) Il. 5, 473.

b)

οὐ δὴ φῆς

(I h1 h h2 |) Od. 7, 239.

/267/

13. φῆν

a)

φῆν

(I h1 |) Od. 2, 174.

b)

φῆν δέ οἱ

(I h1 w |) Il. 18, 326.

a)

14. φάν b)

φὰν δέ τιν’

(I h1 w |) Il. 6, 108.

φὰν γάρ μιν

(| h h3 g |) Od. 18, 342.

ὣς φάν

(I h1 h |) Od. 7, 343.

ὣς φάν

(I h1 g |) Od. 2, 33778.

15. φθῆ a)

φθῆ σε

(I h1 g |) Il. 11, 451.

b)

ἀλλ’ ἄρα μιν φθῆ

(| h5 w h6 h I) Od. 22, 91.

16. φθάν a)

φθὰν δέ

(I h1 g |) Il. 11, 51.

17. φῦ c)

φῦ χειρί

(| h h3 g |) Il 6, 253 = 406 = 14, 232 = 18, 384 = 423 = 19, 7 = Od. 2, 302 = 8, 291 = 10, 280 = 11, 247 = 15, 53079.

|| 77 Accetto i soli tre casi che accettano la maggioranza degli editori (La Roche, seguito da Gehring, Ameis–Hentze, Dindorf–Hentze; in più Ebeling [la voce è di Capelle]; Bekker esclude Od. 14, 117, Monro–Allen Od. 7, 239, Ludwich ambedue questi ultimi; Leaf accetta Il. 5, 473). È noto che fin dall’antichità esisteva per i tre passi, e in più per Il. 4, 351, 14, 265, 17, 174 la v.l. φῄς (φής) che sarebbe presente e non cadrebbe quindi sotto il nostro raggio d’indagine. È significativo che per Il. 5, 473 (che, fra i sei casi, insieme con Od. 14, 117, rispetta la tendenza) esista una testimonianza di Aristarco a favore della lezione φῆς (Zon. Lex. 1805: vd. La Roche 1866, 374 s.). 78 Colon di valore 3, ma il caso è particolare: φάν (g) è l’unico caso, come si è detto, di forma breve con sillaba aperta in sandhi e il rapporto con la lunga che precede ne è ulteriormente turbato, a scapito del valore fonico di φάν. 79 Tutti i casi del verso formulare I ἔν τ’ ἄρα οἱ (Od. 10, 280 μοι) | φῦ χειρί, | ἔπος τ’ ἔφατ’ | ἔκ τ’ ὀνόμαζε I.

324 | Sezione 1: Metrica

I risultati complessivi del computo statistico ci danno, sui 375 casi studiati: a) 224 casi di tendenza rispettata; b) 38 casi di violazione; c) 113 casi fuori campo. Escludendo – com’è ovvio – la categoria c), il rapporto di a) col totale a) + b) è di 85.4,%. Un’occhiata agli elenchi che precedono può ulteriormente illuminare su alcuni fatti interessanti, come la particolare frequenza e varietà di casi di tipo c) con una forma (βῆ) di βαίνω e con una (στῆ) di ἵστημι, ambedue verbi particolarmente bisognosi di ‘determinazioni’. Alcuni casi del gruppo b), le vere e proprie violazioni, si presentano più di una volta nella forma di caratteristici 1 2 ‘agglomerati’ contestuali, come nel caso di τλῆ in colon I h w h | (tutti e tre gli esempi da Il. V). Ma quello che qui conviene soprattutto notare è l’assoluta assenza di violazioni fra i casi di una forma importante come στῆ (non esiste un colon *| στῆ ῥ’ ὁ γέρων |) e una unica eccezione fra le forme ἦ (I ἦ ῥ’ ὁ γέρων |). E ancor più significativa è la presenza praticamente costante di καί dopo ἦ (ῥα)80, fatto che rende ancor più /268/ forte il distacco del colon breve dal resto del verso, col rafforzare a mezzo di pausa sintattica quella che era già una pausa ritmica. Si rivedano, per avere un’idea della struttura del verso, Il. 1, 528 e 3, 310 riportati sopra come esempi (inizio di § 4.). La quasi totalità dei casi presenta così, come si è visto, rispetto della tendenza. In realtà, del gruppo b) (le nostre violazioni) si salverebbero, colla formulazione di Wackernagel–Fränkel81, quasi tutti i casi, meno i cola I αὐτὰρ ὁ βῆ (ῥ’) |, | σανίδος βῆ |, | νηὸς βῆ |, I ὡς γνῶ |, I οὐ δὴ φῆς |, I ὡς φάν |, | ἀλλ’ ἄρα μιν φθῆ I, con un totale di 19 casi82, che costituirebbero il 5.2% e che darebbero, col 94.8% di rispetto, un vantaggio in confronto al nostro 85.4%. Veramente, al di sopra di un minimo di frequenza statistica, che sia sufficiente per far da base ad ogni astrazione induttiva, non è un maggior consenso quello che conta, bensì la constatazione di una tendenza che sia maggiormente in accordo colla natura delle cose: nel nostro caso, con quella che appare essere la natura del verso recitativo epico. Ma la nostra esegesi non ambisce a dare spiegazione esclusiva al fenomeno studiato, la eccezionale presenza, cioè, degli aoristi e imperfetti monosillabici: essa concorre con quella di Wackernagel–Fränkel, non si sosti|| 80 Fanno eccezione solo 6 casi su 89: Il. 14, 475; 24, 643; Od. 18, 356 per ἦ; Il. 6, 390; Od. 3, 337: 22, 292 per ἦ ῥα. Il fatto, in qualità di semplice ‘uso’ omerico, era già stato osservato da Lehrs 1882, 95–97: e si vedano colà le ‘catacresi’ della formula per “disse” nei poeti esametrici più tardi. Già Aristarco aveva notato che ἦ si usa dopo il discorso diretto (sch. A ad Il. 1, 219). 81 Dò qui cifre autonome, sia perché quelle di Wackernagel vanno corrette (vd. n. 62) e quelle di Fränkel sfuggono al controllo (le statistiche non sono esposte), sia perché la mia colizzazione qualche volta risulta diversa da quella di Fränkel (vd. n. 72). 82 Nel gruppo c), tra parentesi, un solo caso violerebbe la posizione iniziale: Il. 8, 85 | εἰς ἐγκέφαλον δῦ I.

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 325

tuisce a quest’ultima. Il valore, infatti, della pura e semplice posizione iniziale, sia di verso sia di colon, resta indiscutibile. Ma non può sfuggire l’importanza del fatto che, fra i casi di rispetto della tendenza alla posizione iniziale (Wackernagel–Fränkel), il 90% (che è il rapporto fra 85.4 e 94.8) rispetti in più un’altra tendenza, quella, cioè, d’isolamento in colon breve.

5. Il restauro della recitazione viva del verso epico Non pare più soggetto a dubbi il fatto che il peso fonico di cui i passati monosillabici son venuti a mancare, a causa della mancanza d’aumento e per loro intrinseca insufficienza morica, torni ad essi per gran parte dall’essere isolati in colon breve. La prova linguistica, che ricalca felicemente la documentazione stilistica che avevamo /269/ portata più su, ci conferma definitivamente che alla realizzazione sonora – l’unica cosa che conti in un verso destinato alla recitazione – è il colon breve ad essere messo in rilievo, mentre il colon lungo, per ‘equipararsi’ agli altri, tende ad una recitazione relativamente più affrettata. Riprendendo le osservazioni di Fränkel sul carattere dei cola, potremmo aggiungere, precisando, che il quarto colon, sede più comune del materiale formulare, è in genere il più lungo: ed è naturale che la formula, fatta di materiale particularmente ‘saputo’, scorra via più velocemente, anche se è – anzi, proprio perché è – di contenuto solenne, legata ai grandi ‘valori’. Sarebbe d’altra parte interessante vedere in che modo poesia destinata più all’occhio che all’orecchio, com’è tutta la poesia antica almeno dall’età alessandrina in poi, si comporti in tema di equilibrio colico del verso. Ma qui si aprirebbe un altro capitolo nello studio dell’esametro. A noi importava soltanto definire e spiegare una legge interna di struttura dell’esametro omerico, che già, per testimonianze esterne, conoscevamo come nato dalla recitazione e ad essa intimamente legato. Di questo fatto abbiamo trovato ora una prova interna. Se ci ha guidati buon metodo, abbiamo stabilito così un importante criterio di lettura del verso, intendendo per lettura una ‘esecuzione’ cosciente dei valori che realizza: ed abbiamo ora una ragione di più – se mai ce n’era bisogno – per considerare l’esametro, fin dai suoi inizi documentati, frutto di consumata perizia tecnica.

/270/

Appendice

1. Conferma delle equazioni ‘breve/lento’ e ‘lungo/veloce’, che vengono assunte a spiegazione di fatti linguistici, ci viene offerta anche dalla fonetica sperimentale. Come leggiamo, ad es., in Niedermann 1953, 32: “La phonétique expérimentale a fourni la démonstration que, toutes choses égales d’ailleurs, une voyelle est d’autant plus brève que la portion subséquente du mot

326 | Sezione 1: Metrica auquel elle appartient est plus longue, qu’en français, par exemple, ‘a’ dans ‘habituel’ a une durée moindre que dans ‘habit’”. Questo ci spiegherebbe certi casi di sincope in latino: abbiamo opifex, ma *opificina > officina; posterus, ma *posteridie > postridie. Aumentando, cioè, l’estensione della parola, la vocale breve postonica tende a scomparire, passando attraverso vari gradi di pronuncia breve e sfuggente. In francese ancora, ad esempio, diverso (e cioè sempre più breve) è il valore della vocale a nella serie pâte, pâté, pâtisserie ecc. (Durand 1946, 16). Vd. anche Sievers 1901, 255; Jespersen 1926, 180 s.; Dieth 1950, 433, § 3, e inoltre Hermann 1923, 5 s. Chiara la formulazione di Malmberg 1944, 10: “Jeder Sprachlaut ist umso kürzer, je länger das Wort (oder der Satz, wenn wir es mit einer phonetischen Gruppe zu tun haben) ist, von dem er einen Teil ausmacht”. In altre parole: la quantità sillabica non si può riportare a valori assoluti; tali valori sono influenzati anche dall’estensione della parola, in modo che gli elementi di una parola breve vengono emessi più lentamente di quelli di una lunga. Insomma, entro certi limiti è come se le parole tendessero ad una specie di equilibrio temporale tra loro (vd. Collinder 1939, 66 s., che dà della Ersatzdehnung una spiegazione in questo senso). Naturalmente si parla qui di quantità come pura durata acustica (misurabile con strumenti) e non come durata fonematicamente rilevante, avente cioè funzione linguisticamente /271/ distintiva (là dove esista per esempio, come nelle lingue classiche, una opposizione tra vocale breve e vocale lunga): Malmberg 1960, 88 ss. parla di quantité objective o mesurable e di quantité subjective o fonctionnelle o linguistique. In altri termini, si tratta qui di Laut e non di Phonem, come precisa, ad es., Trubetzkoy 1938, 173. (Devo molte indicazioni al prof. Walter Belardi, che qui desidero nuovamente ringraziare). 2. Anche nel periodo prosastico, che è la sola sintassi ad articolare in cola (essendo assente il ritmo del verso), gli elementi dei cola brevi sono emessi più lentamente di quelli dei cola lunghi (vd. da ultimo, ad es., Morier 1961, 443 ss.). Nella prosa greca e latina l’isolamento di cola sintattici relativamente brevi e di apparente minor peso è dovuto ad una ricerca di Fraenkel 1933, 319–354 (= 93–130). Wackernagel 1892 aveva formulato la legge che porta il suo nome e che stabilisce la preferenza delle pospositive iudoeuropee per la seconda posizione nel periodo. Fondandosi sulla legge di Wackernagel, Fraenkel isola come cola a sé delle sezioni del periodo che precedono il nesso ortotonica + pospositiva (sceglie ἄν), che, per la legge citata, è il segno d’un inizio, sia di periodo sia di colon: quanto precede tale nesso va quindi colizzato a parte. Vediamo un esempio: Isae. 3, 51 γενομένων δὲ τούτων | δοκεῖ ἂν ὑμῖν ὁ θεῖος ἐπιτρέψαι κτλ. In questo caso è un genitivo assoluto ad essere ‘isolato’: ma può trattarsi anche (e Fraenkel ne porta numerosi esempi) di participi congiunti (Herod. 4, 119, καὶ ἡμεῖς ὑπακούσαντες | τὠυτὸ ἂν ὑμῖν ἐπρήσσομεν), di nessi preposizionali (Polit. Ath. 1, 9 ἀπὸ τούτων τοίνυν τῶν ἀγαθῶν | τάχιστ’ ἂν ὁ δῆμος εἰς δουλείαν καταπέσοι), di rezioni di proposizioni oggettive (Thuc. 1, 72, 1 νομίζοντες | μᾶλλον ἂν αὐτοὺς … τραπέσθαι) ecc. Sviluppando spunti precedenti (110; 117 n. 1; 120 n. 5), Fraenkel 1964 trova che il colon isolato all’inizio può essere brevissimo e, quel che più conta, costituito non solo da pronomi e avverbi relativi, pronomi interrogativi (che sono sempre ortotonici), ma anche da prepositive come καί (!), ἀλλά, εἶτα, καὶ ἔπειτα, πλήν ecc. Ecco degli esempi (p. 135): Thuc. 6, 34, 6 καὶ | ἀσμένου ἂν πρόφασιν λαβόντος; l, 74, 4 ἀλλὰ | καθ’ ἡσυχίαν ἂν αὐτῷ προυχώρησε τὰ πράγματα ecc. Ora, cola brevi del genere (che Fraenkel chiamava Kurzkola e per i quali propende ora ad accettare la designazione di Auftakt, proposta da A. Slupski), se risultano capaci di essere isolati ed autonomi sintatticamente, a maggior ragione potranno esserlo ritmicamente nell’ambito del verso, in grazia della divisione in cola. Le osservazioni di Fraenkel ci sono utili non solo a sostegno del colon breve, ma anche di un particolare tipo di colon, più o meno breve che sia, e cioè di

Estensione e valore del colon nell’esametro omerico | 327

certi nessi sintattici, costituiti da semplici prepositive, messi in particolare rilievo per il loro isolamento /272/ in colon. Vediamo alcuni esempi, in varie posizioni (primo, secondo, terzo colon): Il. 1, 24 ἀλλ’ οὐκ | Ἀτρεΐδῃ | Ἀγαμέμνονι | ἥνδανε θυμῷ, Il. 1, 132 (μὴ … I) κλέπτε νόῳ, | ἐπεὶ οὐ | παρελεύσεαι | οὐδέ με πείσεις Il. 1, 90 συμπάντων | Δαναῶν, | οὐδ’ ἢν | Ἀγαμέμνονα εἴπῃς Si rileggano i versi nel loro contesto e si vedrà che cosa intendiamo per ‘nesso sintattico in particolare rilievo’. I cola citati sono di 4 more, ma ne possiamo citare anche di veramente brevi (2): Il. l, 204 ἀλλ’ | ἔκ τοι ἐρέω, | τὸ δὲ καὶ | τελέεσθαι ὀΐω83 Gli esempi portati hanno mostrato prepositive (ἀλλά) e gruppi di prepositiva + prepositiva (ἐπεὶ οὐ, οὐδ’ ἤν), e cioè i casi più significativi. Posto il chiaro isolamento e rilievo ritmico di tali cola, che conferisce una certa autonomia alle prepositive col farle veicolo di un particolare accento sintattico, diventa di secondaria importanza il conforto dell’autonomia fonetica di un eventuale gruppo prepositiva + pospositiva (che dovrebbe ritenersi di per sé già ortotonico: cfr. Hex. 2 144, § 35; 145 s.): Il. 1, 60 ἂψ | ἀπονοστήσειν, | εἴ κεν | θάνατόν γε φύγοιμεν Il. 1, 515 ἢ ἀπόειπ’ | ἐπεὶ οὔ τοι | ἔπι δέος, | ὄφρ’ ἐῢ εἰδέω Ma qui si entra nel pieno del discorso sull’ortotonia, che va rimandato ad altra sede. /273/ 3. La struttura del trimetro giambico è diversa da quella dell’esametro e mi sembra da respingere quanto, pur genericamente, dice Fränkel (Hex.2 152 n. l), stabilendo il seguente schema:

I f h1 | g | h2 f | h3 g | h4 f h5 | g W A A

B

C

D

|| 83 Fraenkel 1965 [che ricevetti dalla cortesia dell’A. mentre il presente lavoro era in bozze] è tornato ancora sull’argomento. Come nei precedenti lavori si serviva di ἄν, qui Fraenkel si serve del vocativo come elemento isolatore di cola, sia precedenti che seguenti i vocativi stessi (esclude per prudenza – p. 5 – i casi in cui il vocativo è in connessione con un verbo o pronome di seconda persona: ma dichiara di concedersi, e si concede, alcune fruttuose eccezioni particolarmente significative). Troviamo qui le stesse categorie degli altri lavori, con particolare attenzione al colon breve (pp. 31 s., 41–49): si veda la grande quantità di quelli che abbiamo chiamati sopra “nessi sintattici in rilievo”. Di notevole interesse per la nostra ricerca è il discorso, avviato a p. 30 ss., sulla gerarchia dei cola fra di loro quanto al rilievo o Nachdruck: gerarchia che nella prosa può avere solo un fondamento sintattico–stilistico, mentre nel verso questo è un di più che si aggiunge al fatto ritmico, il quale è necessariamente prevalente, come si è visto.

328 | Sezione 1: Metrica Per una vera e propria divisione in più di due cola il trimetro è troppo breve: esso risponde, del resto, ad esigenze di recitazione sostanzialmente diverse da quelle dell’esametro epico, e questo fin dal principio del suo uso come verso recitativo, come aveva visto già Aristotele nel resoconto storico che ci dà nella Poetica (cap. IV). Mi sembrano comunque da notare alcuni casi di parole brevi (di 2 more) strette fra la pentemimere e la interpunzione (o semplicemente pausa) mediana, che ricevono indubbiamente rilievo proprio grazie alla loro brevità. Prendo alcuni degli esempi che porta de Groot 1935, 103: Soph. Ant. 55 τρίτον δ’ ἀδελφὼ | δύο | μίαν καθ’ ἡμέραν 555 σὺ μὲν γὰρ εἵλου | ζῆν, | ἐγὼ δὲ κατθανεῖν Eur. Andr. 973 γάμους ἀφεῖναι | σούς, | ἐμὰς λέγων τύχας Considerando a parte esempi eccezionali come questi riportati (anche perché la pausa mediana si situa in un luogo che è ‘tabu’ per l’incisione e quindi bisognerebbe creare delicate sottocategorie ritmiche), si potrebbe azzardare una divisione ternaria almeno nei trimetri che abbiano pentemimere ed eftemimere, nei quali riceverebbe particolare rilievo la parola breve di 3 more inclusa fra le due incisioni:

I f h1 g h2 f | h3 g | h4 f h5 g W In effetti i trimetri colle due incisioni chiare e nette sono poco frequenti: ma potrebbe essere di qualche utilità una ricerca statistica esauriente.

Post–scriptum 1995 1. Ho ripubblicato qui sostanzialmente immutato il mio articolo sull’esametro del 19651 (= art., di qui innanzi): lo ho solo strutturato in cinque paragrafi, ho corretto qualche svista e ho fatto alcune minute aggiunte in parentesi quadre. Aggiunte o precisazioni più corpose sono date qui di seguito. Per tale mio procedere sento il dovere di dare una giustificazione, che fughi il sospetto di inopportuna testardaggine. La versione primitiva apparve in una sede remota, poco diffusa (gli Studi Urbinati del 1965, quella che fu definita la miscellanea dei giovani per Gennaro Perrotta), così che il lavoro trovò scarsa o piuttosto nulla eco sia in rassegne bibliografiche sia in occasionali discussioni scientifiche2. D’altra parte le risposte private, ottenute a voce e soprattutto per litteras, di cui dò notizia qui oltre (§ 3), mi incoraggiarono della bontà della mia tesi, tanto che in trent’anni di insegnamento l’ho sempre esposta nei miei corsi

|| 1 Lo avevo riproposto in sintesi in Rossi 1978, 102–107. 2 Un destino che mi onoro di aver condiviso con lo stesso Hermann Fränkel: vd. qui sotto, n. 6.

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e non ho mai avuto smentite dai miei allievi: e questo è stato un incoraggiamento decisivo, ché l’insegnamento è sempre una verifica di gran peso. 2. Mi sembrò a suo tempo, e mi sembra ancora, di aver ottenuto un risultato di notevole interesse: la riconquista dei modi della recitazione viva del verso epico, dei ‘tempi’ relativi nella resa dei diversi cola. L’immagine da me usata nell’insegnamento è sempre stata quella del ritrovamento di una cassetta incisa in cui si sente distintamente l’aedo che dice i versi dell’epos con la cantilena del recitativo musicale: più lentamente i cola più brevi e quelli brevissimi (quelli che contengono i passati monosillabici, bisognosi di una messa in rilievo ottenuta con un tempo più lento), più velocemente i cola più lunghi (segnatamente il quarto, che contiene spesso il materiale ‘saputo’ di alcune grandi formule). Una grande intuizione di Hermann Fränkel era stata quella di vedere nell’esametro una microstrofa di quattro cola; e a me è sembrato che, sulla base della prova linguistica dei passati monosillabici, si potesse ipotizzare una approssimativa isocronia dei quattro cola nella recitazione, in cui per i cola si potessero ipotizzare le equazioni ‘breve/lento’ e ‘lungo/veloce’. Tale isocronia – preciso ora – si doveva costituire come orizzonte ritmico di attesa creato dalla maggior frequenza dell’esametro equilibrato, quello con un rapporto morico 6+5+5+8 di cui parlavo in art., all’inizio di § 3: in quei moltissimi esametri l’isocronia morica dei cola si realizzava in una recitazione naturaliter isocrona creandosi per tale isocronia un chiaro orizzonte di attesa, mentre in esametri fortemente squilibrati (un bell’esempio in Od. 11, 224, dato in art., n. 55: 2+9+3+10) l’isocronia veniva restituita nella recitazione da un rallentamento relativo del colon più breve e da un’accelerazione relativa del colon più lungo: creandosi così una serie di molto vivaci attese frustrate. Una simile elasticità mi apparve molto appropriata a un verso recitativo, anche per la comparazione con altre esperienze (l’alessandrino francese: art. § 3 e n. 40). Si otteneva così una prova, interna al verso, della sua natura recitativa, prova ulteriore in sé superflua per l’esistenza di tante prove esterne (alcune contenute già nei poemi stessi, come le testimonianze di Demodoco e di Femio), ma particolarmente interessante proprio per il fatto di essere interna. La rilevanza delle incisioni, nata dalla strutturazione del testo secondo la métrique verbale e cioè secondo la configurazione del testo poetico ottenuta con le fini di parola, mi portò inoltre a una intuizione che a me sembrava e sembra importante, già formulata in art., n. 11 e poi da me sviluppata subito dopo3 e più

|| 3 Rossi 1966, 195–204.

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volte ripresa4: che, cioè, la configurazione a métrique verbale (a fini di parola regolari, e cioè a incisioni) avveniva solo nei versi recitativi e non nei versi lirici, per la buona ragione che il fattore strutturante nei primi era la parola mentre nei secondi era la musica, la frase musicale. Mi parve allora di non aver trovato altrove questa formulazione né mi pare che sia oggi divenuta di dominio pubblico. Eppure chiunque può verificarla sulla base della propria esperienza dei testi poetici greci arcaici. E, per di più, può far capire il comportamento di un Orazio, che nei suoi carmi lirici, per introdurre un virtuosismo normalizzante, non trova di meglio che introdurre le incisioni (nei versi e cola delle strofi eoliche, nei versi coriambici etc.), comportamento del tutto normale in chi, come lui, destinava ormai la sua lirica alla recitazione e non più al canto com’era la norma nella Grecia arcaica. Prova ulteriore da non disprezzarsi, tra parentesi, visto che di tempo in tempo si trova sempre qualche attardato difensore dell’originaria esecuzione musicale della lirica oraziana. 3. È naturale che la più importante delle reazioni epistolari fosse per me quella, molto dettagliata (sei pagine dattiloscritte), di Hermann Fränkel5, nella quale dominava la difesa (moderata) del suo sintassismo (per il quale vd. art., passim), originata dal fatto che, secondo i risultati della seconda parte del suo articolo, “Spätere Dichter, wie Apollonios oder Kallimachos, lassen eine Verschiebung von starken Sinneseinschnitten nicht mehr zu”: le incisioni ‘spostate’, in altre parole, non lo sarebbero più in presenza di stacchi sintattici, bensì di semplici fini di parola, ma questo è vero solo negli alessandrini (come lui stesso affermava) e non in Omero, dove peraltro il rispetto per la sintassi non è certo generalizzato. “Ich verstehe wohl, dass Sie bei mir eine Übertreibung des Inhaltsfaktors zu finden glauben”: riconosceva in sé un ipersintassismo, ma in sostanza gli riusciva difficile aderire a una generica indipendenza di ritmo e sintassi, come per la poesia in generale l’avevano formulata, molto dopo la sua prima versione (1926), Jakobson e i formalisti russi. Considerando che io, pur partendo dal suo lavoro, ne avevo rovesciato uno dei risultati (non la parola/colon più lunga è in maggior rilievo, bensì la più breve), rimasi commosso per la serenità con cui (ri)conduceva le sue argomentazioni e per il rispetto che mi testimoniava. Definì il mio articolo “wichtig” e “schön”: approvò, definendola “höchst lehrreich”, una mia nota (art., n. 11), alla quale tenevo e tengo tanto; si dichiarò “fast einverstanden” con una mia formulazione (art., § 3, penultimo capoverso), il che prevedibilmente mi avrebbe sorpreso – “was Sie vielleicht überrascht” – e che,

|| 4 Rossi 1969, 321 s.; Rossi 1971, 176 s.; Rossi 1975, col. 1212, 19–34. 5 Datata Palo Alto, 24.5.1966.

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in più, mi incoraggiò: approvò l’uso del termine ‘incisione’; mi corresse un paio di brutte sviste. La formulazione più interessante fu quella dell’ultimo periodo della lettera, che voglio riportare qui per intero: Übrigens empfiehlt es sich, in solchen grundsätzlichen Fragen [...] nicht vom Ältesten auszugehen (Homer), sondern von demjenigen Material in dem die Regelung am präzisesten durchgeführt ist (Kallim.); so wie rnan z.B., wenn man die Regeln der latein. Grammatik nicht nur registrieren sondern auch verstehen will, gut daran tut Cicero und Caesar zu Grunde zu legen und nicht Plautus. Hätte man das für den Hexameter getan, so wäre uns vielleicht längst die Existenz der 4 Kola aufgezwungen worden: bei Kallim. springen sie einem direkt ins Auge, oder vielmehr ins Ohr.

Se si fosse partiti da Callimaco, che è così più regolare di Omero nell’equilibrio dei cola, ottenuto con le sue normalizzazioni, si sarebbe capita subito – e Fränkel aveva ragione – la quadripartizione dell’esametro6. “Avrebbe colpito l’occhio, o piuttosto l’orecchio”, come diceva: io direi invece che avrebbe colpito piuttosto l’occhio che l’orecchio, o se mai un orecchio annoiato dalla monotonia ritmica7, perché l’equilibrio callimacheo dei cola sembra anch’esso (come nel caso di Orazio: qui sopra, § 2) una normalizzazione di chi ha perso il contatto con le condizioni originarie della comunicazione, e cioè in questo caso con l’antica recitazione dell’epos. Dello squilibrio dei cola, al tempo dell’epos arcaico, ci si faceva un punto di forza per movimentare e variare la recitazione stessa, che – non va dimenticato – era in recitativo musicale accompagnato dallo strumento a corda. La così chiara quadripartizione callimachea (chiara perché tendente alla regolarità) è una conferma, se fosse ancora necessaria, per la originaria quadripartizione omerica, così diversamente variata, recepita da una cultura che come quella alessandrina aveva perso il senso del recitativo accompagnato.

|| 6 In una lettera precedente (Palo Alto, 20.9.1965) Fränkel si rammaricava per la poca risonanza che il suo articolo aveva avuto: “Ich muss gestehn dass ich bedrückt war, weil meine Hexameterarbeit so wenig Anklang gefunden hat, und auch von solchen die sie direkt anging weitgehend ignoriert worden ist, trotz Pasquali und einigen anderen”. 7 È chiaro che ancora per Callimaco, e ancora per secoli a venire, la poesia veniva letta ad alta voce (e Fränkel lo tiene presente. Hex.2, § 31), ma – appunto – letta e non recitata nel recitativo musicale dei tempi dell’epos arcaico. Se parlo di ‘occhio’, lo faccio per provocazione, per mettere l’accento su una strutturazione altamente razionalistica del verso. È per uscire dalla provocazione che mi correggo in ‘orecchio annoiato’.

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4. La bibliografia sulla formula omerica e sull’esametro (e sui rapporti fra l’una e l’altro) è nel frattempo molto cresciuta e potrebbe servire a quanto suggerivo per la “mobilità formulare”8. Hainsworth 1968 ha poi mostrato che la mobilità formulare è molto maggiore di quanto si potesse prima pensare: tale risultato, staccando molte formule da una posizione fissa nel verso, ha molto indebolito, a mio parere, la tesi di chi vuol vedere un rapporto stretto fra formule e colizzazione e quindi una genesi formule–cola–esametro. Oggi, a chi insistesse su questa via genetica, obietterei che il ritmo del verso fa aggio non solo sulla sintassi in generale, ma anche sulla formula e che quindi una considerazione globale delle formule non può aiutarci a costruire ipotesi genetiche. Solo alcune formule potrebbero essere pre–esametriche (quelle di particolare arcaicità linguistica9 e quelle di una certa estensione, oltre agli emistichi proverbiali), ma dubito che si sia arrivati e si possa mai arrivare a risultati concreti da un punto di vista storicamente verificabile. Penso, in altre parole, che il sistema formulare si sia costituito, almeno per la maggior parte, sulla realtà ritmica dell’esametro già compiutamente formato10. Il rifiuto della quadripartizione dell’esametro (tre zone variabili d’incisione e quindi strutturazione in quattro cola di estensione alle volte molto elastica), rifiuto peraltro opposto a Hermann Fränkel a cui la quadripartizione stessa risale, non mi è mai sembrato convincente: per la bipartizione non venivano portate se non prove reversibili, mentre nessuna vera prova si può dire sia stata portata contro la quadripartizionc, che con questo mio lavoro risultava, a mio parere, validamente confermata, per di più con prove linguistiche oggettive (i passati monosillabici in colon a sé). Ma c’è stato anche qualcuno che in tempi più o meno recenti ha ripreso e difeso la quadripartizione11. Per le appositive, nei pochi che se ne occupano, continua e continuerà ad esserci ampio spazio per divergenze nella determinazione dei confini dell’ortotonia12. Per giustificare possibili oscillazioni nella nostra valutazione dei feno-

|| 8 In art., § l verso la fine e a n. 39, dove proponevo il termine di ‘mobilità formulare’. Additavo allora un geniale precursore di questo tipo di indagine in Severyns 1946! 9 Per l’indagine propriamente linguistica sui poemi omerici vanno segnalati Hoekstra 1965, 1969 (su cui vd. Rossi 1971) e 1981. 10 Per ipotesi genetiche, che hanno dietro di sé una lunga tradizione di studi, rimando soprattutto a Nagy 1974 e Nagy 1979, oltre a Nagy 1992 e Gentili–Giannini 1977. 11 Ingalls 1970; Barnes 1986 (su cui vd. le giuste osservazioni di Cantilena 1995, § 2.2 verso la fine, 2.3, 3.1). 12 Vd. da ultimo l’ampia discussione di Cantilena 1995, § 1.1–1.3 e passim. – Nella pur scarsa bibliografia sull’argomento mi pare che vadano comunque tenuti presenti i materiali finora offerti, oltre che da H. Fränkel , anche da Maas 1929, § 135 ss., da Dover 1968, 12 ss., e da Mar-

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meni (che comunque non possono inficiare ampie statistiche) Mario Cantilena13 mutua da Devine e Stephens lo strumento del “fonostile”, facendo cioè ricorso a scelte stilistiche individuali (si potrebbe forse meglio parlare di “idioletto prosodico”). Io avevo preferito vedere fra langue e parole una dialettica meno libera, o meglio in qualche modo istituzionalizzata, e quindi, più precisamente, una langue fonetica e una langue metrica: proponevo infatti (art., § l e n. 22) di distinguere parola fonetica da parola metrica: la parola metrica sarebbe non uno stile individuale, bensì una sensibilità linguistica condizionata dal ritmo verbale del verso. Esprimo qui il rammarico di non aver mai visto pubblicato il materiale sull’ortotonia negli oratori attici di cui mi parlò a suo tempo (fra i venticinque e i trent’anni fa) un linguista di eccezionale competenza, Meinrad Scheller, da qualche anno scomparso.

Opere citate* [Barnes 1986] H.R. Barnes, ‘The Colometic Structure of Homeric Hexameter’, GRBS 27,1986, 125–150 Bassett 1919 S.E. Bassett, ‘The Theory of the Homeric Caesura According to the Extant Remains of the Ancient Doctrine’, AJPh 40, 1919, 343–372 Behagel 1909 O. Behagel, ‘Beziehungen zwischen Urnfang und Reihenfolge von Satzgliedern’, IF 25, 1909, 110–142 Bekker 1863 I. Bekker, Homerische Blätter I, Bonn 1863 [Cantilena 1995] M. Cantilena, ‘Il ponte di Nicanore’, nel voI. I di quest’opera [I, 1995, 9–67 – G. C.] Collinder 1939 B. Collinder, Das Wort als phonetische Einheit (Uppsala Univo Årsskrift 1939, 13) Dale 1957 A.M. Dale, ‘Greek Metric 1936–1957’. Lustrum 2, 1957, 5–51 Dieth 1950 E. Dieth, Vademecum der Phonetik, Bern 1950

|| shall 1987, e ancora dal sempre prezioso Vendryes 1945 (vd., ad es., per il caso di prepositiva + pospositiva = ortotonica, 90 s.). A un elenco di appositive, il più ricco per quanto io conosca, sta lavorando Daniele Fusi, che qui ringrazio per avermene fatto vedere una prima redazione. 13 Cantilena 1995, § 1.1 verso la metà. * La bibliografia delle opere citate nel Post–scriptum 1995 è data in parentesi quadre.

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[Dover 1968] K.J. Dover. Greek Word Order, Cambridge 19682 Dunbar–Marzullo 1962 H. Dunbar, A Complete Concordance to the Odyssey and Hymns of Homer, Oxford 1880 (19622, cur. B. Marzullo] Durand 1946 M. Durand, Voyelles longues et voyelles brèves, Paris 1946 Fraenkel 1933 E. Fraenkel, ‘Kolon und Satz Il’. NGG 1933, 319–351, ora in Id., Kleine Beiträge zur klassischen Philologie, Roma 1964, 93–130 Fraenkel 1964 E. Fraenklel, ‘Nachträge zu «Kolon und Satz» Il’, ora In ld. Kleine Beiträge cit., 131–139 Fraenkel 1965 E. Fraenkel, Noch einmal Kolon und Satz (SBAW, Philos.–hist. KI. 1965.2), München 1965 Fränkel 1926 = Hex.1 H. Fränkel, ‘Der kallimachische und der homerische Hexameter’, NGG 1926, 197–229 Fränkel 1951 H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, New York 1951 (München 19622) Fränkel 1955 = Hex.2 H. Fränkel, ‘Der homerische und der kallimachische Hexameter’, in Wege und Formen frühgriechischen Denkens, München 1955, 100–156 (19602, 19683) [ora in traduzione italiana in questo volume, 173–248 – G. C.] Gehring 1891 A. Gehring, Index Homericus, Leipzig 1891 [Gentili–Giannini 1977] B. Gentili–P. Giannini, ‘Preistoria e formazione dell’esametro’, QUCC 26, 1977, 7–51, ora in questo volume [11–62 – G. C.] Gerhard 1816 E. Gerhard, Lectiones Apollonianae, Leipzig 1816 Grammont 1913 M. Grammonl, Le vers français. Ses moyens d’expression, son harmonie, Paris 19132 Grammont 1955 M. Grammont, Petit traité de versification française, Paris 19555 de Groot 1935 A.W. de Groot. ‘Wesen und Gesetze der Caesur’, Mnemosyne s. III, 2, 1935, 81–154 Guiraud 1959 P. Guiraud, Problèmes et méthodes de la statistique linguistique, Dordrecht 1959 [Hainsworth 1968] J.B. Hainsworth, The Flexibility of the Homeric Formula, Oxford 1968 Hartel 1873 W. Hartel, Homerische Studien I, Berlin 18732

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Havet 1896 L. Havet, Cours élémentaire de métrique grecque et latine, Paris 1896 Hermann 1923 Ed. Hermann, Silbenbildung im Griechischen und in den anderen indogermanischen Sprachen, Göttingen 1923 Hermann 1816 G. Hermann, Elementa doctrinae metricae, Leipzig 1816 [Hoekstra 1965] A. Hoekstra, Homeric Modifications of Formulaic Prototypes. Studies in the Development of Greek Epic Diction (Verhandel. d. koninkl. Nederlandse Akad. d. Wetenschappen, Afd. Letterkunde, N.R. LXXI, No.1), Amsterdam 1965 [Hoekstra 1969] A. Hoekstra, The Sub–epic Stage of the Formulaic Tradition. Studies in the Homeric Hymns to Apollo, to Aphrodite and to Demeter (Verhandel. d. koninkl. Nederlandse Akad. ecc., N.R. LXXV, No.2), Amsterdam 1969 [Hoekstra 1981] A. Hoekstra, Epic Verse before Homer. Three Studies (Verhandel. d. koninkl. Nederlandse Akad. ecc., N.R. 108), Amsterdam 1981 Hoffmann 1842 C.A.J Hoffmann. Quaestiones Homericae I, Clausthal 1842 [Ingalls 1970] W.H. Ingalls, ‘The Structure of the Homeric Hexameter. A Review’, Phoenix 24, 1970, 1–12 Jakobson 1963 R. Jakobson, Essais de linguistique générale, Paris 1963 Jespersen 1926 O. Jespersen, Lehrbuch der Phonetik, Leipzig 19264 (19325) La Roche 1866 J. La Roche, Die homerische Textkritik im Alterthum, Leipzig 1866 Lehrs 1882 K. Lehrs, De Aristarchi studiis Homericis, Leipzig 18823 Lindholm 1931 K. Lindholm, Stilistische Studien zur Erweiterung der Satzglieder im Lateinischen, Lund 1931 Maas 1929 P. Maas, Griechische Metrik, in Einleitung in die Altertumswissenschaft. a c. di A. Gercke – E. Norden, Leipzig–Berlin 1923, 19293 Malmberg 1944 B. Malmberg, Die Quantität als phonetisch–phonologischer Begriff, Lund 1944 Malmberg 1960 B. Malmberg, La phonétique, Paris 1960 [Marshall 1987] M.B.H. Marshall. Verbs, Nouns, and Pospositives in Attic Prose, Edinburgh 1987

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Mette 1951 H.–J. Mette, ‘Die Struktur des ältesten daktylischen Hexameters’, Glotta 35, 1951, 1–17 Morier 1961 H. Morier, Dictionnaire de poétique et de rhétorique, Paris 1961 [Nagy 1974] G. Nagy, Comparative Studies in Greek and Indic Meter, Cambridge Mass. 1974 [Nagy 1979] G. Nagy, ‘On the Origins of the Greek Hexameter: Synchronic and Diachronic Perspectives’, in Festschrift for O. Szemerényi, Amstcrdam 1979, 611–631 [Nagy 1992] G. Nagy, ‘Metrical Convergences and Divergences in Early Greck Poetry and Song’. in B. Brogyanyi – R. Lipp (edd.), Historical Philology: Greek. Latin, and Romance (Current Issues in Linguistic Theory 87), Amsterdarn 1992, 151–185, ora in questo volume [63–110 – G. C.] Nougaret 1956 L. Nougaret, Traité de métrique latine classique, Paris 19562 O’Neill 1942 E.G. O’Neill (jr.), ‘The Localization of Metrical Word–Types in the Greek Hexameter (Homer, Hesiod, and the Alexandrians)’, YCIS 8, 1942, 105–178 Pagliaro 1952 A. Pagliaro, Saggi di critica semantica, Messina–Firenze 1952 Pasquali 1927 G. Pasquali, rec. di Hex.1, in Gnomon 3, 1927, 241–247, ora in Id., Scritti filologici (curr. F. Bornmann – G. Pascucci – S. Timpanaro), Firenze 1986, II, 857–864 Pasquali 1952 G. Pasquali, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 19522 Perrotta 1926 G. Perrotta, ‘Studi di poesia ellenistica’, SIFC N.S. 4, 1926, 5–68; 85–280, ora in Id., Poesia ellenistica. Scritti minori II (curr. B. Gentili – G. Morelli – G. Serrao), Roma 1978, 119–389 Porter 1951 H.N. Porter, ‘The Early Greek Hexameter’, YCIS 12, 1951, 3–63 Prendergast–Marzullo 1971 G.L. Prendergast, A Complete Concordance to the Iliad of Homer, London 1875 (Hildesheim 19712, cur. B. Marzullo) Rossi 1963 L.E. Rossi, ‘Anceps: vocale, sillaba, elemento’, RFIC 91, 1963, 52–71 [Rossi 1966] L.E. Rossi, ‘La metrica come disciplina filologica’, RIFC 94, 1966, 185–207 [Rossi 1969] L.E. Rossi, rec. di D. Korzeniewski, Griechische Metrik, Darmstadt 1968, in RIFC 97, 1969, 314– 323 [Rossi 1971] L.E. Rossi, ‘Wesen und Werden der homerischen Formeltechnik’, GGA 223, 1971, 161–174

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[Rossi 1975] L.E. Rossi, ‘Verskunst’, in Der kleine Pauly, V, 1975, colI. 1210–1218 Schmidt 1885 C. E. Schmidt, Parallel–Homer, Göttingen 1885 Schmidt 1895 C.E. Schmidt., ‘Nachträge zum Parallel–Homer’, in Festschrift L. Friedländer , Leipzig 1895, 399–413 Schuchardt l 1915 Fr. Schuchardt., De Graecorum versibus quorum membra ambitu increscant commentatio, diss, Marburg 1915 Severyns 1946 A. Severyns, Homère. II: Le poète et son œuvre, Bruxelles 19462 Sievers 1901 E. Sievers, Grundzüge der Phonetik, Leipzig 19015 Snell 1962 B. Snell, Griechische Metrik, Göttingen 19623 Trubetzkoy 1938 N.F. Trubetzkoy, ‘Die phonologischen Grundlagen der sogenannten «Quantität» in verschiedenen Sprachen’, in Scritti in onore di A. Trombetti, Milano 1938, 155–174 [Vendryes 1945] J. Vendryes, Traité d’accentuation grecque, Paris 1945 Wackernagel 1892 J. Wackernagel, ‘Über ein Gesetz der indogermanischen Wortstellung’, IF 1, 1892, 333–436 (= J. Wackernagel, Kleine Schriften, I, Göttingen 19692, 1–104) Wackernagel 1906 J. Wackernagel, ‘Wortumfang und Wortform’, NGG 1906, 147–184 (= J. Waekernagel, Kleine Schriften cit. I, 148–184) Wackernagel 1930 J. Wackernagel, Altindische Grammatik, III, Göttingen 1930.

Ancient Greek Metricians When the Greeks started to reflect on the forms of their poetry, they had to take into consideration the fact that it was set to music and often danced to as well. Music theory was therefore seen as offering the widest explanatory framework. Aristoxenus of Tarentum (end of the 4th c. B.C.), dubbed in antiquity ho mousikós or ‘the musician (by definition)’, provided just such a theory with his treatises On music and On rhythm. Of the latter, only fragments are extant. According to Aristoxenus, ‘things submitted to rhythm are words. song and movements of the body’ (léxis, mélos, kínesis somatiké) and it is clear that he included all aspects of ‘poetry’ in the broadest sense. The even fewer extant fragments from Damon (5th c. B.C., Pericles’ music teacher) clearly indicate that what is usually called ‘meter’ today (i.e., the sequence of long and short syllables) was, at the time, subsumed under what is now called rhythm. Aristoxenus wrote at the end of the age in which poetry was set to music; his system, therefore, was already dated when it appeared. In fact, it concentrates on music and on rhythm in the musical sense, not on words as such. Thus, when music disappeared totally from poetry recitals in the early Hellenistic age (4–3th c. B.C.), it became necessary to work out an explanation of poetic meter that considered syllabic sequences in themselves, i.e. disregarding the original musical accompaniment. This became even more of a necessity with the increasing loss of accompaniments, inasmuch as they were not written down and the practice of occasionally creating new music for old texts began to be abandoned. The heterogeneous character of this transition period explains the hybrid nature of metrical theory in antiquity. In fact, mod. research, using ancient Gr. terminol., is able to identify both the doctrine of the ‘metricians’, ordinary grammarians only interested in ‘counting long and short syllables’ (so to speak), and what remained of a formerly complex theory of poetical diction, espoused by the ‘rhythmicians’, ever faithful to the old poetry–plus–music tradition, Metrical theory as such arose from the need to write poetry down in a way that would make its rhythm intelligible to the eye. → Aristophanes of Byzantium (3rd–2nd c. B.C.) provided just such a system in his ed. of the major lyric poets of the past. Up to that time, texts had been written in continuous script; but since there would be no musical accompaniment any more to help the reader phrase the text, it became necessary to indicate at least the division of the poem into lines of verse. Aristophanes did so, although his divisions mainly indicate cola, i.e. rhythmic groups within verses. (His divisions were obviously not the only ones possible and, in fact, ancient papyri offer different solutions; still https://doi.org/10.1515/9783110647983-022

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other divisions are proposed in the ancient scholia, i.e. comms., added to the works of the lyric poets.) Aristophanes provided his texts with critical signs to distinguish lines, strophes and so on. → Aristarchus of Samothracia closely followed him, in time and in editorial technique, to the extent that it is sometimes difficult to distinguish the metrical and critical work of one from the other. Metrical theory during this early Alexandrian phase is only implicit; it lies beneath the practical choices made in text editing. No traces remain of any treatises written at the time and it is doubtful that any existed. Later on, a coherent, albeit abstract, theory of meter appeared for teaching purposes; however it offered little more than what was already generally known about the laws of archaic and class. poetry. It does furnish mod. research, however, with important testimony of ancient musical and rhythmical experimentation. Over time two main theories emerged. The so–called Alexandrian theory gave prominence to the different feet (dactyl, anapaest, etc.), considered the basic constituents of a verse; it distinguished the métra protótupa or ‘primary feet’. Among the representatives of this school are → Philoxenus of Alexandria (1st c. A.D.), an influential grammarian who taught in Rome but of whom very few fragments remain, and Heliodorus (1st c. A.D.), whose work is frequently attested both in later metricians and in the ancient comms. to Aristophanes. Heliodorus showed more conspicuous concern with rhythm as a whole, in that he distinguished not only cola (sections of verses), as Aristophanes had done, but complete verses (entire lines) as well. The leading metrician by far, however, is Hephaestion of Alexandria (2nd C. A.D.), whose work is the most frequently attested as well as the most influential on later doctrine. He is the author of a 48–vol. treatise on meter which, for teaching purposes, was subsequently reduced to 11 vols., then to 3, and finally to one (the extant version). Verses are categorized according to their feet: iambus, trochee, dactyl, anapaest, choriamb, antispast, ionicus a maiore, ionicus a minore, paeon. The examples are taken mainly from monodic lyric poetry and from comedies; in other words, choral lyric poetry and tragedies are mostly left out. (This says much about what was probably taught in schools.) It seems a pity that Hephaestion’s doctrine is known today simply as a description of longs and shorts; but a single–vol. compendium must have been required for routine instructional purposes, and that is the volume which has survived. The second main systematization has been labelled the ‘Pergamenian theory’. While its principles are not much more elaborate, there seems to be at least some attempt at rhythmical explanation: each kind of verse is said to derive from the dactylic hexameter or the iambic trimeter through various kinds of de-

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rivation (derivatio), addition (adiectio), subtraction (detractio), adaptation (concinnatio), and change (permutatio). What is known of this theory comes mostly from Roman grammarians such as M.T. → Varro (1st c. B.C.), who was the link between Pergamenian culture and the Roman world, and Caesius Bassus (1st c. A.D.). This theory appears to have originated in the handling of prose rhythms in rhetoric and oratory, where it was essential to identify and label final clauses, considered the most adaptable and variable. While a neat distinction between theory and praxis is impossible here, a continuous (albeit at times divergent) theoretical development can be found in the views on rhetoric and oratory expressed by → Isocrates, → Aristotle, → Cicero, → Dionysus of Halicarnassus and → Quintilian. While later musical theory is indebted to Aristoxenus, the first true encyclopedia of meter, rhythm and music is to be found in the rather late treatise of Aristides Quintilianus (somewhere between 1st–3rd c. A.D.). Book I treats music and rhythm (deriving from Aristoxenus) and meter (adapted from the Alexandrian system); book II treats musical ethos, i.e. the theory of the psychol. influence of music, with roots perhaps as far back as Damon; book III is a kind of ontol. of music owing much to Neo–Platonism and Neo–Pythagorianism. The treatise offers valuable glimpses of ancient doctrines on rhythm and metrics (e.g., in the distinction between sumplékontes, those who tied meter to rhythm, and khorízontes, the pure metricians) and it has yet to be fully exploited for the reconstruction of ancient theories. Finally, disregarding the treatise by Pseudo–Plutarch (mostly a history of archaic poetry and music), one last but very interesting source should be mentioned: the large papyrus fragment P. Oxy. 9 + 2687 (1898–1961), dating from I– II c. A.D. It was formerly thought to be part of the mainly lost rhythmical treatise of Aristoxenus; more recent scholarship considers it a subsequent manual for teaching purposes. The document is remarkable in that, long after the time in which poetry was set to music, such questions are raised as to how a syllable can be recited to a certain musical note, disregarding its prosodic quantity. Remaining extant texts appear too late to shed much light on archaic and class poetry. Thus, much remains to be discovered about the rhythmical and metrical doctrines in antiquity—the starting point for any modern reconstruction of ancient poetical practice. (1898–1961): The Oxyrhynchus Papyri, B.P. Grenfell et al. eds., London. (1906): HEPHAESTION, Enchiridion, repr., M. Consbruch ed., Leipzig. (1954): Plutarque. De la musique, F. Lassene ed., Olten/Lausanne (text, transl., comm., preface on musical education in ancient Greece with much on Damon). (1963): ARISTIDES QUINTILIANUS, De musica, R.P. Winnington–Ingram ED., Leipzig. (1990): Aristoxenus, Elementa Rhythmica. The fragment of

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Book II and the additional evidence for Aristroxenean rhythmic theory, L. Pearson ed., Oxford. — For the Roman grammarians see: GrL, VI (some texts have been reed. however). GENTILI, B. (1950): Metrica greca arcaica, Messina/Firenze. IRIGOIN, J. (1963): Les scholies métriques de Pindare, Paris. LEO, F. (1889): “Die beiden metrischen Systeme des Alterthums”, Hermes 24, 280–301. PFEIFFER, R. (1968): Hist. of class. scholarship. From the beginnings to the end of the Hellenistic age, Oxford. ROSSI, L.E. (1963): Metrica e critica stilistica, Roma. Id. (1988): “POxy 9 + POxy 2687: Trattato ritmico–metrico”, in: N.N., Aristoxenica, Menandrea. Fragmenta philosophica, Firenze, 11–30.

La metrica greca a Roma 0. Non so se sia azzardato affermare che il campo in cui i romani furono più integralmente colonizzati dai greci fu la metrica. Negli altri campi del sistema culturale furono indubbiamente più indipendenti e più inventivi: certo nel giure, che fu integralmente loro invenzione; certo nelle forme letterarie, che seguerono vie proprie nonostante le proteste di fedeltà agli architesti desunti dai greci; e anche nella religione, che, nonostante l’interpretatio Romana, restò legata ai loro riti. Ma la ricercata fedeltà integrale al codice metrico greco fu, soprattutto nella metrica lirica, più una pia intenzione che un successo, e questo non per ragione della diversità di lingua, che poteva benissimo adattarsi alle regole essenziali di quel codice, ma per una perdita di competenza metrica che aveva avuto i suoi precedenti già in Grecia almeno dal V–IV sec. a.C. in poi. È mia intenzione mostrare come questa perdita di competenza fosse una conseguenza naturale della cessata funzione di quel codice, che era legato alle condizioni esterne della comunicazione in Grecia fino, appunto, al V–IV sec. a.C. circa1. Il legame della grande lirica con l’occasione, e quindi con la musica e anche con la danza, era finito: e, se la cultura letteraria cominciò a diventare libresca alle soglie dell’età ellenistica, questo sviluppo si compì interamente in età romana. I greci, in fondo, le forme della lirica che abbandonarono nella prassi, come la grande lirica nel corso del V secolo, le abbandonarono e ne dimenticarono la tecnica man mano che queste persero la loro funzione. I romani, invece, si esposero di più: vollero resuscitare alcune di quelle forme e si sottoposero a un tour de force che, staccato com’era dalle funzioni originarie, a volte mostra la corda. Non riesco a sottrarmi all’impressione che ci fosse uno stridore o ‘disturbo’ fra il codice (la grammatica metrica dei greci) e il mezzo di comunicazione o canale, che erano le nuove condizioni della ‘esecuzione’ della poesia: non più cantata ed eventualmente anche danzata, ma semplicemente letta. Questa considerazio|| [Conferenza recitata a Bari Mc 27.3.1996, ore 16–18, per il Corso di perfezionamento e per i professori dei Licei. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi (non è stato invece ritrovato il relativo handout, a cui rimandano nel testo i numeri in grassetto e sottolineato: dove è stato possibile, si sono aggiunte note esplicative in coincidenza del rimando). La cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] * Ho esposto queste idee in varie sedi nel corso di alcuni anni: … [Rossi allude alle innumerevoli volte in cui a lezione, nel suo seminario romano, o in conferenze e seminari in Italia e all’estero, si è trovato a parlare di metrica greca.] 1 Ho cercato di impostare la mia Letteratura greca, Firenze 1995, sulle condizioni della comunicazione, in età arcaica e classica così diverse dalle nostre e anche da quelle della cultura latina. https://doi.org/10.1515/9783110647983-023

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ne iniziale, che verrà verificata con l’esame del materiale, mi mette al sicuro dall’accusa di leggere sterilmente i poeti latini con la matita rossa e blu, per di più graduando la gravità dei loro ‘errori’. Nessuno voglia pensare che io ritenga lecito un simile procedimento senza darne una giustificazione: ne faccio uso con lucido cinismo solo per comodità euristica. Un’ultima premessa. Come ho detto, il codice lirico era in gran parte perduto, per i romani, come lo era anche (ma meno) per gli alessandrini. Ora, i romani credevano in buona fede di possederlo almeno quanto gli alessandrini, ma non era vero.

1. Le tappe dell’importazione della metrica greca a Roma 1.0. La storia che intendo presentare qui panoramicamente è una storia di tre secoli circa, dal 240 a.C., data dell’inizio ufficiale dell’attività poetica di Livio Andronico, fino a Orazio e a Seneca tragico. Vediamo le tappe dell’importazione della metrica greca a Roma2. 1.1. Non mi soffermo sul saturnio, che da Friedrich Leo era considerato indoeuropeo e da Giorgio Pasquali era considerato sutura di cola greci. I fauni vatesque di Ennio confortano nell’idea che fosse autoctono, ma com’è ben noto la questione è lontana dall’essere chiusa3. 1.2. Il trimetro giambico dei drammaturghi diventò il senario, costruito non più da metra ma da singoli piedi, che hanno tutti la stessa libertà di sostituzione meno l’ultimo. Lo stesso avvenne per i tetrametri giambici e trocaici, che divennero settenari e ottonari. La ragione di questa trasformazione è stata vista da alcuni4 nella natura della lingua latina, più ricca di sillabe lunghe: ma è probabile che, come viene ora proposto5, la ragione sia non linguistico–prosodica ma || 2 Sulla metrica latina arcaica vd. L. Ceccarelli, [Metrica latina arcaica 1956–1990 ], “Lustrum” [33, 1991, pp. 227–400]. Sulla metrica latina classica …. [Rossi non ha inserito alcuna indicazione, ma forse pensava a R. J. Getty, Classical Latin Meter and Prosody 1935–1962, “Lustrum” 8, 1963, 103–160.] 3 Sul saturnio: [F.] Leo, [Der saturnische Vers, Berlin 1905; G.] Pasquali, [Preistoria della poesia romana, Firenze 1936, 2a ediz. Firenze 1981 con saggio introduttivo di S.] Timpanaro; [M. Barchiesi, Nevio epico, Padova 1962, pp. 294–327; B. Luiselli, Il verso saturnio, Roma 1967; B.] Gentili, [Gli studi di Giorgio Pasquali sulla metrica greca e sul saturnio latino, in Giorgio Pasquali e la filologia classica del novecento. Atti del Convegno Firenze–Pisa, 2–3 dicembre 1985, a cura di F. Bornmann, Firenze 1988, pp. 79–99, spec. pp. 87–99.] 4 [Vd. ad es. G.] Pasquali, [Preistoria della poesia romana, Firenze 1981 (19361), cit., p. 93 n. 7]. 5 L. Ceccarelli – [Rossi si riferisce ad una conferenza tenuta al suo seminario romano (Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza”) Mc 14.2.1996, ore 16–18, da Lucio Ceccarelli, dal titolo

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ritmica indigena, restando in piedi la possibilità di una concomitante influenza greca. 1.3. Il calco dell’esametro greco è senza dubbio, fin da epoca arcaica, il più fedele. L’esametro di Ennio e quello di Lucrezio hanno alcune durezze6, ma si tratta sempre in sostanza dell’esametro greco con una sola grande eccezione: il ponte di Hermann non è rispettato. Nella teoria metrica a noi conservata il ponte di Hermann non è mai nominato: se si può invocare l’argumentum ex silentio, questo dipenderà dal fatto che per i greci era ritmicamente ovvio7 ed è del tutto spiegabile che per i romani non fosse ovvio per niente8. L’esametro portò poi con sé il pentametro nell’uso del distico elegiaco: e il pentametro si comportò come quello greco. 1.4. Un ulteriore passo è rappresentato dalla grande lirica plautina9. Fu senza dubbio una manifestazione di grande sensibilità ritmica, ma fu lontana dalla complicata struttura della grande lirica melica greca e, per di più, non aveva responsione antistrofica. Si tratta, come ben si sa, di un problema complicato dalla ricostruzione della prosodia arcaica latina. Si può dire comunque una cosa importante: la lirica plautina, i cantica (e anche i piuttosto semplici cantica della tragedia di Livio, Nevio ed Ennio; Cecilio forse influenzato da Plauto), furono il fatto più autentico di tutta l’importazione metrica dalla Grecia a Roma: nelle loro profonde differenze costruttive rispetto ai cantica del teatro greco rivelano la loro esigenza di adattarsi a un codice musicale e drammaturgico che era ormai molto diverso da quello greco. In altre parole: la musica era diversa, le esigenze drammaturgiche erano diverse (non sappiamo dire fino a che punto, ma capiamo che erano diverse) e diverse erano anche, evidentemente, le condizioni della comunicazione drammatica. (Terenzio molto diverso da Plauto: cultura meno ‘pubblica’, circolo più ristretto etc.). 1.5. Venne poi la ‘correzione di rotta’ avvenuta con i poetae novi per il trattamento del verso giambico, che, con studiata fedeltà, ridiventò il trimetro giambico alla greca, da senario latino che era. Catullo si divertì anche a fare

|| Metrica latina e statistica (Rossi fece anche redigere a due membri del seminario un accurato verbale della discussione, poi debitamente conservato nel suo pc); la conferenza fu quindi pubblicata in «SemRom» 1, 1998, pp. 145–161, con il titolo Versificazione greca e versificazione latina arcaica: il settenario giambico e il tetrametro giambico catalettico.] 6 [È ben nota la presenza di] monosillabo finale [negli esametri di] Ennio e Lucrezio. 7 [La ragione ritmica che comunemente si dà del ponte di] Hermann [è che la fine di parola al quarto trocheo darebbe l’impressione che il verso finisca lì, e cioè che sia un tetrametro dattilico ovvero un] alcmanio. 8 I romani non avevano l’alcmanio nel loro orizzonte ritmico di attesa. 9 C. Questa, [Introduzione alla metrica di Plauto, Bologna 1967.]

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trimetri puri (Phaselus ille), un esercizio piuttosto strano per i greci, un virtuosismo per loro del tutto raro: fu, da parte romana, un virtuosismo da letterati, l’eccessivo zelo degli oriundi. Lo praticò anche Orazio nell’epodo 16, costituito da esametro e trimetro giambico puro (Altera iam teritur bellis civilibus aetas, I suis et ipsa Roma viribus ruit): ben 33 trimetri giambici puri! 1.6. L’autore che ci insegna di più sulla conoscenza metrica dei romani è senza dubbio Orazio. E si spiega: Orazio è il poeta latino che ha le maggiori ambizioni, e del resto le dichiara apertamente più di una volta, ed è quello che quindi si espone di più. Orazio per noi è prezioso. Se non lo avessimo, potremmo pensare che i latini conoscessero ma rifiutassero molti aspetti della metrica greca, così come i drammaturghi latini avevano rifiutato l’imitazione pedissequa della lirica drammatica greca: invece la sua audacia ci fa chiaro che avrebbe voluto fare alcune cose, che voleva farle, ma che non ci riusciva del tutto. Ovviamente non per colpa sua, e questo non tocca – se c’è bisogno di dirlo – il valore del suo esperimento non solo poetico ma anche tecnico. Dobbiamo solo cercare di capire i suoi procedimenti e risalire alla sua cultura metrica. E poi, per dare a Orazio tutto l’onore che merita, dobbiamo ricordarci che è stato un combattente di prima linea, che senza soccombere ha riportato ferite da valoroso: insomma, nella metrica ha combattuto e non ha gettato lo scudo. 1.7. Con Seneca siamo al definitivo tramonto non solo della competenza, ma anche del gusto. Lo vedremo all’opera e non potremo fare a meno di scandalizzarci di fronte ad alcuni dei suoi strafalcioni.

2. Orazio 2.0. Se per i primi cinque punti che ho messo in rilievo basta qui dire quel poco che ho detto, vale la pena soffermarsi su Orazio e su Seneca. Cerchiamo di precisare quale era al tempo di Orazio la situazione delle conoscenze metriche10. 2.1. Come si vede dalla teoria e dalla prassi, la tecnica metrica, già dall’età ellenistica, si distingueva in facile, media e difficile ovvero impossibile: quella facile erano i versi recitativi (esametro, trimetro e versi lunghi giambici e trocaici), quella media erano gli epodi e le semplici strofe dei poeti eolici, quella difficile (e non praticata perché non più capita) era la grande metrica di Pindaro e dei tragici. Gli estremi fra facile e difficile venivano espressi nella terminologia da una scala di sostantivi e di aggettivi che andava da ‘metro’ (facile) a ‘ritmo’

|| 10 Il modo con cui Orazio ha seguito la teoria metrica del suo tempo è stato illustrato tanti anni fa da R. Heinze, [Die lyrischen Verse des Horaz, Leipzig] 1918

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(difficile): è una mia vecchia idea per la quale offrirò qui oltre alcuni dettagli11. Orazio pratica la facile e la media, come aveva fatto anche Catullo, ma lo fa con maggiore estensione. Ora, fra I sec. a.C. e I sec. d.C. chi praticava questa metrica nel bacino del Mediterraneo? Qualche cosa troviamo in Marziale. Ma se cerchiamo qualche collega greco di Orazio, la nostra recensio sarebbe o nulla o misera (l’Inno a Roma di Melinno!, forse dell’inizio del I sec. a.C.). Ecco perché Orazio aveva perfettamente ragione di essere orgoglioso della sua resurrezione della poesia greca12. Era dunque un combattente valoroso, ma anche solitario, un Don Chisciotte della tradizione lirica. Mi permetto una formulazione paradossale: Orazio fu l’unico lirico greco di ampio respiro non solo dell’età sua, ma anche di tre o quattro secoli di cultura alessandrina e romana. 2.2. E ora, dopo avergli tributato l’onore delle armi, vediamo di leggerlo con la matita rossa e blu: solo strumentalmente, come si è detto, solo per rendersi conto delle intenzioni e dei mezzi che aveva per realizzarle. Cominciamo col dire che sembra proprio che non capisse bene neppure Plauto, se apertamente dichiara cattivi i suoi numeri, apprezzabili solo da chi non sappia le leggi della metrica13: 4 (Hor. a.p. 268–274)[14] È opinione diffusa che l’incomprensione di una metrica assai accurata come quella di Plauto dipendesse dalle trasformazioni prosodiche della lingua latina, che sono state messe in luce per noi in un secolo e mezzo di accurati studi e che potevano far sì che il legitimus sonus potesse essere offeso all’orecchio di Orazio a causa di fatti linguistici non più sentiti. Del resto in questo Orazio non era solo, se qualche anno prima di lui Cicerone considerava abiecti i senari dei poeti comici tanto da non distinguere in essi la costruzione metrica: X (Cic. orat. 55. 183s.)[15] || 11 Nell’appendice. 12 Le vanterie di Orazio: [epist. 1. 19. 21–23 libera per vacuum posui vestigia princeps, / non aliena meo pressi pede. qui sibi fidet / dux reget examen; carm. 3. 30. 13 s. princeps Aeolium carmen ad Italos / deduxisse modos.] 13 Che Orazio facesse gran conto dello studio della prassi greca risulta chiaro dai primi due versi del passo dell’ars poetica qui citati. [14 Hor. a.p. 268–274 Vos exemplaria Graeca /nocturna versate manu, versate diurna. / At vestri proavi Plautinos et numeros et / laudavere sales, nimium patienter utrumque, / ne dicam stulte, mirati, si modo ego et vos / scimus inurbanum lepido seponere dicto / legitimumque sonum digitis callemus et aure.] [15 Cic. orat. 55.(183) Esse ergo in oratione numerum quendam non est difficile cognoscere. Iudicat enim sensus; in quo est iniquum quod accidit non agnoscere, si cur id accidat reperire nequeamus. Neque enim ipse versus ratione est cognitus, sed natura atque sensu, quem dimensa ratio docuit quid accideret. Ita notatio naturae et animadversio peperit artem. Sed in versibus res est apertior, quamquam etiam a modis quibusdam cantu remoto soluta esse videtur oratio maxime-

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2.3. Per quanto riguarda la poesia greca, quello che Orazio dice dei numeri lege soluti dei ditirambi di Pindaro (carm. 4. 2. 11s.) aveva fatto pensare che questi fossero astrofici, senza responsione: ma era una spiegazione da una parte ottimistica – perché si attribuiva a Orazio una distinzione fra poesia a responsione e poesia astrofica – e da una parte falsa, perché poi, trovando papiri dei ditirambi di Pindaro, si scoprì che erano a responsione antistrofica come tutta la sua poesia corale. Il termine ‘ditirambi’ sembra in lui una sineddoche per tutta la poesia di Pindaro. Quello che Orazio qui voleva dire era che Pindaro era poesia difficile e incomprensibile, e cioè ‘ritmica’ (come vedremo meglio poi per la terminologia), e non poesia ‘metrica’. In epod. 14. 9–12 ci dice che Anacreonte cantava il suo amore non elaboratum ad pedem, segno che Orazio probabilmente non capiva neanche la libertà della ‘base’ dei gliconei (pur facili) di Anacreonte, tanto da fare lui quello che Anacreonte non aveva fatto, e cioè normalizzare a doppia lunga le basi, come vedremo. Pes corrisponde a metron16, così che Anacreonte avrebbe composto anche lui ritmi (e cioè poesia incomprensibile) e non metri (e cioè poesia regolare e quindi comprensibile): qui Orazio addirittura correggerebbe i poeti greci! 2.4. Queste sono le più importanti affermazioni teoriche di Orazio (insieme a epist. 1. 3. 9 ss.). Ma vediamo come si comporta nella prassi. Cominciamo dalle normalizzazioni, dove lo vediamo pieno di tenace buona volontà. Nei versi eolici normalizza la base eolica a doppia lunga iniziale, dando ad essi quella elaboratio di cui i greci non sarebbero stati capaci, e fa lo stesso rispettivamente con il quinto e con il quarto elemento degli endecasillabi alcaico e saffico: gl, pher, ascl, Ascl ‘h h’

h g g h ...

h h g h ‘h’ | ... end Sapph h g h ‘h’ h | ... end Alc

Questo procedere, in quanto tendenza, non era del tutto estraneo ai poeti greci, come mostrò Richard Heinze17, ma erano stati ben lontani all’applicarlo con monotona regolarità come fa lui. || que id in optimo quoque eorum poetarum qui lyricoi a Graecis nominantur, quos cum cantu spoliaveris, nuda paene remanet oratio. (184) Quorum similia sunt quaedam etiam apud nostros, velut illa in Thyeste: “quemnam te esse dicam? Qui tarda in senecta” et quae sequuntur; quae, nisi cum tibicen accessit, orationis sunt solutae simillima. At comicorum senarii propter similitudinem sermonis sic saepe sunt abiecti, ut non numquam vix in eis numerus et versus intellegi possit. Quo est ad inveniendum difficilior in oratione numerus quam in versibus.] 16 Come si vedrà in appendice, per es., da Mario Vittorino e da Mallio Teodoro. 17 R. Heinze, [Die lyrischen Verse des Horaz], cit.

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2.5. Altre innovazioni sono da attribuirsi o a una sensibilità del tutto nuova o a veri e propri fraintendimenti. Quando Orazio normalizzava l’incisione alla quinta sillaba di tutti i suoi endecasillabi saffici e alcaici, certamente sapeva che i greci non lo facevano, che cioè erano molto liberi nella fine di parola in quei versi, e quindi introduceva un raffinamento che doveva sapere essere tutto suo. E, ancor più, quando isolava i coriambi con fine di parola nei suoi versi coriambici (carm. 1. 11 Tu ne quaesieris, I scire nefas, I quem mihi quem tibi I finem di dederint, I Leuconoe I ... etc.) operava un’innovazione che anche qui sapeva essere sua, e che era certo ancora più difficile: qui faceva il virtuoso a ragion veduta, ma dobbiamo essergli grati perché, con questa sua idea di normalizzare le incisioni, ci ha dato una preziosa indicazione implicita di quanto era cambiata la sensibilità in confronto con la grande poesia lirica greca. I versi lirici greci non avevano incisioni fisse: non era il caso di parlare di métrique verbale, semplicemente perché a strutturare il verso era la musica, la frase melodica18; mentre l’esametro e gli altri versi recitativi, sì, avevano le incisioni, perché, avendo una musica di grado ridotto (come la parakatalogé) o niente musica del tutto, avevano bisogno della métrique verbale per strutturare il discorso ritmico. A chi poteva venire l’idea di introdurre incisioni nei versi lirici greci se non a chi, come Orazio, non usava più la musica? È, questa, una prova ulteriore (se non la principale) del fatto che le odi di Orazio erano composte per la lettura19. Orazio introduce nel verso lirico un espediente tipico del verso recitativo: può farlo in una cultura che non distingue più fra versi cantati e versi recitati. 2.6. Un altro passo falso di Orazio credo di averlo mostrato quando fu pubblicato il papiro di Archiloco di Colonia nel 197420. Nei suoi asinarteti Orazio ammette, nella sutura dei due cola, iato ed elemento indifferente (quello che comu-

|| 18 Questa della rilevanza della métrique verbale solo per i versi recitativi e non per i lirici è una mia vecchia idea, [vd. L. E. Rossi, La metrica come disciplina filologica], RFIC [94], 1966, [pp. 185–207]: ma Dietmar Korzeniewski, morto da molti anni, mi disse nel 1971 a Colonia che aveva sentito formulare questa idea da Rupprecht nelle sue lezioni a Monaco. 19 Contro chi vuole Orazio musicato: [G.] Wille, [Musica Romana, Amsterdam 1967, in particolare le pp. 253–260] etc. Il carmen saeculare fu cantato, e ne abbiamo testimonianza precisa [CIL 6. 32323, spec. ll. 3, 20 ss., 147 ss.:]: ma fu un’eccezione. 20 [L. E. Rossi, Asynarteta from the Archaic to the Alexandrian Poets: On the Authenticity of the New Archilochus], «Arethusa» [9], 1976, [pp. 207–229] e poi [Id., Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini. (Sull’autenticità del nuovo Archiloco), in A. Ceresa–Gastaldo (ed.), Problemi di metrica classica. Miscellanea filologica, Università di Genova, Facoltà di Lettere, Istituto di Filologia Classica e Medievale], Genova 1978, [pp. 29–48 + 3 tavole] (quest’ultimo accresciuto).

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nemente viene chiamato syllaba anceps)21: in altre parole, tratta come versi quelli che in greco sono normalmente trattati come cola, con la normale licenza prosodica della fine di verso. La cosa doveva fare scandalo22, perché nei poeti greci la cosa non succedeva. Ma il papiro di Colonia ci rese chiaro che questo comportamento era della prassi archilochea, rimanendo accertato che dopo di lui non lo faceva più nessuno. Ebbene, qui Orazio fu correttamente archilocheo, perché versabat il suo Archiloco con mano diurna e notturna, ma non si rendeva conto di fare una cosa che era fuori moda da molti secoli: un arcaismo, poi del tutto eliminato. Se si fosse reso conto di questo, non avrebbe esitato a ‘correggere’ Archiloco come aveva fatto con Anacreonte (esplicitamente) e con i lesbii (implicitamente) e avrebbe normalizzato la prosodia delle finali di colon nella costruzione dei suoi asinarteti: non avrebbe perso l’occasione per una nuova normalizzazione, e cioè per un nuovo atto di virtuosismo. 2.7. Che il comportamento di Orazio vada giudicato con una certa (strumentale) severità dal punto di vista della tecnica metrica mi è confermato da un ulteriore indizio, questo molto forte, dove lo vedo al punto più basso della sua competenza. Questo succede nel legame del terzo al quarto colon della strofe saffica: qualche volta si comporta come i poeti greci, trattandoli correttamente come due cola uniti in un unico verso e quindi praticando qualche volta anche la sinafia verbale, ma qualche volta, addirittura nello stesso carme (1 Hor. carm. 1. 2, 19s. e 47s.), ammettendo iato e quindi trattandoli come due versi distinti [1[23]].

|| 21 [Hor. epod. 11, v. 6 Inachia furere, |W silvis honorem decutit, v. 10 arguit et latere |W petitus imo spiritus, v. 14 fervidiore mero |H arcana promorat loco, v. 24 vincere mollitia |H amor Lycisci me tenet, v. 26 libera consilia |W nec contumeliae graves; epod. 13, v. 8 reducet in sedem vice. |W nunc et Achaemenio, v. 10 levare diris pectora |W sollicitudinibus, v. 14 findunt Scamandri flumina |W lubricus et Simois.] 22 Non so quanto questo sia stato severamente notato in Orazio prima dell’Archiloco di Colonia. In realtà credo che l’attenzione della teoria metrica moderna sugli asinarteti fosse molto scarsa prima dei miei due articoli. [23 Carm. 1. 2, 19s. labitur ripa Iove non probante͜ u-/xorius amnis, 47s. neve te nostris vitiis iniquumI͜Hocior aura (mancata sinalefe); 1. 12, 7s. unde vocalem temere͜ insecutae IH Orphea silvae, 31s. et minax, quod sic voluere ponto IH unda recumbit; 1. 22, 15s. nec Iubae tellus generat, leonumI͜Harida nutrix (mancata sinalefe); 1. 25, 11 s. Thracio bacchante magis sub inter-/lunia vento; carm. 2. 16, 7s. Grosphe, non gemmis neque purpura ve-/nale neque͜ auro; carm. 4. 2, 23s. aureos educit in astra nigroque͜/invidet Orco. Ci sono infine due casi di enedacasillabi saffici che terminano con un in prepositivo (quindi in sinafia verbale con l’adonio seguente): carm. 3. 8, 3s. plena miraris positusque carbo͜ in / caespite vivo, 4. 6, 11s. procidit late posuitque collum͜ in / pulvere Teucro.]

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In questo era indotto in errore sicuramente dall’impaginazione dei papiri, che offrono il testo in quattro righi, dando l’impressione che si tratti di quattro e non di tre versi. 2.8. Ma Orazio è al suo meglio, molto spesso, nella costruzione strofica. 6[24] Generalizza la strofe di quattro versi, anche quando usa versi uguali o distici, seguendo quella che è nota come lex Meineke25, considerando evidentemente paradigmatiche le strofi eoliche da lui considerate (pur a torto) come di quattro versi: e la generalizzazione appare del tutto lecita, sia che la considerasse tradizionale sia che pensasse di fare un’innovazione, perché il senso della tecnica metrica non viene in alcun modo tradito. Sembra, anzi, che qui si manifesti un suo grandioso spirito di sistema. Le strofette epodiche, che nei carmi organizza a coppia per la lex Meineke, negli epodi le tratta correttamente come strofette distiche, senza produrre numero pari di distici26, come facevano i greci, che consideravano le strofette epodiche come appartenenti al campo della parakatalogé e non del canto lirico. Tutto || [24 Nr. 6 dell’handout – Strofi e versi usati da Orazio nei carmina e negli epodi (vd. il conspectus metrorum di F. Klingner [ed.], Q. Orati Flacci opera, Leipzig, Teubner, 1970, pp. 317–321): ascl (carm. 1. 1 [36 vv.]; 3. 30 [16 vv.]; carm. 4. 8 [34 vv.]); strofe saffica (carm. 1. 2, 10, 12, 20, 22, 25, 30, 32, 38; carm. 2. 2, 4, 6, 8, 10, 16; carm. 3. 8, 11, 14, 18, 20, 22, 27; carm. 4. 2, 6, 11); gl I ascl i (carm. 1. 3 [40 vv.], 13 [20 vv.], 19 [16 vv.], 36 [20 vv.]; carm. 3. 9 [24 vv.], 15 [16 vv.], 19 [28 vv.], 24 [64 vv.], 25 [20 vv.], 28 [16 vv.]; carm. 4. 1 [40 vv.], 3 [24 vv.]); 4da | itiph I 3ia^ i (carm. 1. 4 [20 vv.]); ascl I ascl I pher I gl i (carm. 1. 5, 14, 21, 23; carm. 3. 7, 13; carm. 4. 13); ascl I ascl I ascl I gl i (carm. 1. 6, 15, 24, 33; carm. 2. 12; carm. 3. 10, 16; carm. 4. 5, 12); 6da I 4da i (carm. 1. 7 [32 vv.], 28 [36 vv.]); arist I 4chor^ i (carm. 1. 8 [16 vv.]); strofe alcaica (carm. 1. 9, 16, 17, 26, 27, 29, 31, 34, 35, 37; carm. 2. 1, 3, 5, 7, 9, 11, 13, 14, 15, 17, 19, 20; carm. 3. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 17, 21, 23, 26, 29; carm. 4. 4, 9, 14, 15); Ascl (carm. 1. 11 [8 vv.], 18 [16 vv.]; carm. 4. 10 [8 vv.]); lec I 3ia^ i (carm. 2. 18 [40 vv.]); 4ion I 3ion I 3ion i (carm. 3. 12 [12 vv.]); 6da I hem i (carm. 4. 7 [28 vv.]); 3ia I 2ia i (epod. 1–10); asinarteti (il numero romano si riferisce all’elenco di L. E. Rossi, Teoria e storia degli asinarteti, cit., Tab. 1): II. 6da I 4da i (epod. 12); III. 6da I 2ia i (epod. 14, 15); IV. 6da I 2ia | hem i (epod. 13); V. 6da I 3ia i (epod. 16), XXIII. 3ia I hem | 2ia i (epod. 11); 3ia i (epod. 17).] 25 Con la sola eccezione di carm. 4. 8, ode che è stata variamente corretta. 26 Dei 16 epodi ‘epodici’ (il 17 è in trimetri giambici stichici: Meineke vi vide rispettata la legge di Porson, vd. P. Maas, “Phil. Wochenshr.” 1911, 710), solo sette (4, 6, 7, 10, 11, 14, 15) hanno numero di versi divisibile per quattro, il che risulta essere quindi puro caso.

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questo è conservazione corretta negli epodi e lecita innovazione nelle odi. Per di più, nelle odi introduce forme forse nuove di strofette epodiche27. [Ho raccolto i materiali sempre sotto 6, dove mi riferisco, per il numero delle strofe epodiche, alla tavola in fondo come primo foglio (elenco da Genova 1978).] La sua libertà consiste, in questo caso, nell’avere ammesso come liriche (e cioè meliche nel senso greco) delle strofette che in greco appartenevano ad altro genere poetico e che erano destinate ad altro modo di resa. 2.9. È a ragion veduta che mi sono sentito (2.1.) di definire Orazio come il più grande poeta lirico greco apparso in alcuni secoli di prassi poetica greca e latina. Quelli che si possono definire come i suoi errori sono tutti spiegabili con una mutata sensibilità alla parola poetica, determinata da un totale cambiamento nelle condizioni della comunicazione: e alcuni di questi errori sono per noi utilissimi perché rivelatori. Ma chi altro aveva programmato e realizzato un sistema strofico così ampio e, nelle grandi linee, così corretto? Le sue vanterie (2.1.) non erano del tutto a vuoto.

3. Seneca 3.0. Se Orazio si è qualche volta generosamente tradito per le sue grandi ambizioni, Seneca nelle sue tragedie è invece desolante per le sue incongruenze tecniche del tutto gratuite e anche per la sua totale mancanza di gusto. 3.1. Usa endecasillabi saffici e gliconei in sequenze stichiche lunghissime, infinite[28], qualcosa che teoricamente non era certo proibito, ma che certo offendeva duramente le orecchie di chi era abituato al trattamento greco di questi versi, ripetuti non più di due volte in costruzioni strofiche (l’endecasillabo saf-

|| 27 Sembra improbabile che alcune fossero anche greche, anche se la prudenza è d’obbligo, potendosi sempre reperire materiale nuovo: ma penso che potrebbe solo trattarsi di poesia ellenistica e non arcaica. [28 Rossi aveva lasciato un’indicazione per segnalare in nota tutti i passi, che sono i seguenti: endecasillabi saffici stichici: Her. fur. 830–874; Tro. 814–860 (vv. 825, 835 e 850 adonii), 1009– 1055 (1017 adonio); Med. 579–669 (vv. 582, 586, 590, 594, 598, 602, 606, 615, 624, 633, 642, 651, 669 adonii; si noti che i vv. 579–606 sono organizzati in strofi saffiche regolari [3endS + adon], mentre nei vv. 607–669 si possono riconoscere 7 gruppi di 8endS + adon [con l’eccezione dei vv. 652–660, dove in v. 660 al posto dell’atteso adonio si trova un verso metricamente non congruo con il contesto]); Phaedr. 274–324, 736–752 (vv. 740 e 752 adonii), 1149–1153; Oed. 110–153 (vv. 123, 132 e 144 adonii), 416–428 (v. 428 adonio); Thyest. 546–622 (v. 622 adonio); Her. Oet. 1518–1606 (v. 1606 adonio); gliconei stichici: Her. fur. 875–894; Med. 75–92; Oed. 882–914; Thyest. 336–403; Her. Oet. 1031– 1130.]

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fico) o usati con parsimonia nelle strofe polimetriche dei tragici o in brevi sequenze stichiche (il gliconeo). A chi poteva mai venire in mente di usare stichicamente l’endecasillabo saffico? Qui vorrei ricordare una brillante idea di Leo, Die plautinischen Cantica, 1897, 61 ss., con la quale è spiegato il nome di versi molto antichi che a un certo momento prendono il nome di poeti molto più recenti, come gliconeo, ferecrateo e i meno noti philikion, simmiakon, archebuleion etc.: i nomi deriverebbero non dai primi poeti che li usarono in assoluto, ma dai poeti molto più tardi che cominciarono a usarli stichicamente, non dai protoi heuretai in assoluto, ma dai protoi heuretai dell’uso stichico. Dal IV sec. a.C. in poi infatti i poeti greci cominciarono a preferire costruzioni più semplici (brevi serie stichiche) alle complicate strofe della grande lirica (mescolanza di vari ritmi). Ma che differenza dalle infinite serie senecane!

3.2. Scrive alcuni cori polimetrici che sono pressoché mostruosi per l’assurdo assemblaggio o accostamento di cola greci (solo) nell’Agammennone e nell’Edipo). 3.3. Come si può vedere in 2[29] (dalle Troadi), tratta i dimetri anapestici non come cola costituenti un sistema – il che era la regola in greco – ma come versi

|| [29 Ricostruzione del nr. 2 dell’handout: Sen. Tro. 108 s., 705–708, 721–731 Sen. Oed. 449–465 Rhoetea sonent litora planctu IH 108 Te Tyrrhena, puer, rapuit manŭs, | habitansque cavis montibus Echo (…) et tumidum Nereus posuit marĕ, | 450 705 caerula cum pratis mutat fretă: IH Huc e latebris procede tuis, flebile matris furtum miserae. IH hinc verno platanus folio virĕt | Hic est, hic est terror, Ulixe, et Phoebo laurus carum nemus; IW mille carinis. (…) garrula per ramos avis obstrepit; IW Ille,͜ ille ferox, cuius vastis vivaces hederas remus tenet, IW 455 viribus omnes cessere ferae, summa ligat vitis carchesiă. IH qui perfracto limine Ditis Idaeus prora fremuit leŏ, | caecum retro patefecit itĕr, IW tigris puppe sedet Gangetică. | 725 Tum pirata freto pavidus natăt, | hostis parvi victus lacrimis ‘suscipe’ dixit ‘rector habenas et nova demersos facies habet: IW 460 patrioque sede celsus solio; bracchia prima cadunt praedonibŭs | sed sceptra fide meliore tene’: IH inlisumque͜ utero pectus coit, IW hoc fuit illo victore capi. parvula dependet lateri manŭs, | Discite mites Herculis iras — 730 et dorso fluctum curvo subit, IW an sola placent Herculis armă? IW lunata scindit cauda marĕ: | 465 In Tro. 724 la fine di parola dopo iter è da promuovere a fine di verso perché, se si facesse sinafia con il v. seguente, la sillaba finale di v. 724 diventerebbe breve realizzando dunque l’elementum indifferens W. In Oed. vv. 449, 450, 452, 457, 458, 459, 461, 463 e 465 la fine di parola in fine di linea è promuovibile a fine di verso per analogia con gli altri versi (secondo il criterio

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indipendenti (introducendo fra l’uno e l’altro iati ed elementi indifferenti). Questa innovazione era in sé, di nuovo, teoricamente consentita, ma a dir poco eccentrica e ben diversa dalle innovazioni oraziane, che avevano una loro logica e anche un loro gusto. 3.4. Ma poi, come si può vedere sempre in 2 nel passo dell’Edipo, ha offeso una legge elementare della metrica e della prosodia. Ha trattato sequenze dattiliche (in questo caso tetrametri dattilici o alcmani) facendole finire con un dattilo vero (e non spondeo o trocheo), il che andava bene se quelle sequenze erano cola e non versi e se rispettavano l’incontro prosodico fra un colon e l’altro; ma ha trattato quelle stesse sequenze come versi autonomi ammettendo fra di essi iato ed elemento indifferente. Ha violato la legge elementare che una serie dattilica non può finire con un vero dattilo, a meno che non si voglia che questa serie finisca con un cretico e cessi quindi di essere una serie olodattilica30. Lo sapevano tutti i poeti greci e lo sapeva anche Orazio, che si è comportato correttamente in carm. 1.4 Solvitur acris hiems gratā vĭcĕ | veris et Favoni (elencato in 6).

4. Conclusione Provo a dare una breve sintesi del periodo che va da Livio Andronico a Seneca. Ci sono assunzioni piuttosto fedeli (l’esametro), adattamenti (versi giambico– trocaici), straordinari esperimenti lirici (Plauto), un grandioso sistema lirico costruito da un collezionista di genio (Orazio). Il codice metrico straniero assunto dai romani mostra vari tipi di ‘disturbo’ causato dalle diverse condizioni della comunicazione: da uno ad altro codice musicale in Plauto, da canto a parola recitata in Orazio. Ma Seneca è proprio un brutto finale, con le sue gratuite imperizie tecniche e con la sua mancanza di gusto. Osidio Geta, che componeva un centone virgiliano nel IV sec. d.C., si ricordò sicuramente di Seneca quando scrisse i suoi lunghi cori in hemiepe stichici, ma lui almeno aveva la giustificazione che non poteva fare altrimenti, dal momento che voleva usare materiale esametrico virgiliano. Ho segnalato la perdita e, in verità, la trasformazione di un codice metrico cercando di fornire delle spiegazioni storiche, culturali e di gusto. Credo di poter mostrare (in appendice) la nascita, da Aristotele in poi, di una terminologia del|| della cognitio metrorum), e quindi si deve intendere che l’ultima sillaba (breve o lunga) realizzi l’indifferens.] 30 Rimando a un mio lavoro sulla sinafia, 1978 [= L. E. Rossi, La sinafia, in E. Livrea – G. A. Privitera (edd.), Studi in onore di Anthos Ardizzoni, II, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1978, pp. 789–821].

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l’ignoranza metrica che deve aver tranquillizzato la buona coscienza di chi, già nel mondo greco e ancor più nel mondo latino, non sapeva più capire la grande lirica. Quella che io non conosco o conosco pochissimo è la storia successiva della metrica greca e latina, attraverso il medioevo e l’umanesimo. Anche qui la storia è fatta di non colpevoli ignoranze e di modificazione di codici fra loro interagenti, fra cui le grandi trasformazioni linguistiche in tutte e due le lingue, trasformazioni che non erano state di così grande rilevanza nel periodo che io ho considerato. Ma questa è tutta un’altra storia.

Appendice. La terminologia metro/ritmo Bisogna dire che, a onor del vero, la conoscenza della grande metrica lirica comincia a decadere in Grecia fin dal IV sec. a.C. Non solo la composizione di quella lirica, e quindi la competenza attiva, ma anche la conoscenza di lettura, e quindi la competenza passiva, e questo a causa dello scomparire della musica che accompagnava quella lirica (tra parentesi, quella musica non veniva mai scritta: Wilamowitz, Die Textgeschichte der griechischen Lyriker, [Berlin 1900], 41, che dice che era scomparsa almeno in età ellenistica). Il restauro della colometria dei lirici operata da Aristofane di Bisanzio nel II sec. a.C. (vd. Dionigi di Alicarnasso, A–1[31]) fu un intervento necessario, perché anche la colometria non si era forse mai rispettata nella impaginazione prima di lui (perché prima non era necessaria). Il papiro di Timoteo, del IV sec. a.C., non ha colometria: non l’aveva più o non l’aveva ancora? Secondo me non l’aveva ancora, perché non c’era mai stata. ([A.] Boeckh, De metris Pindari, [Weigel] 1811 e la riconquista della tecnica metrica, soprattutto il concetto di autonomia del verso).

Ora, la ridotta comprensione della grande lirica non risulta soltanto dalla scomparsa della prassi e dalla necessità di un restauro da parte dei filologi alessandrini, ma anche da un adattamento della classica terminologia ritmico– musicale che era arrivata intatta fino ad Aristosseno di Taranto, il grande musico che l’aveva organizzata, e fino ad Aristotele. Secondo me, per capire bene che cosa vogliono dire ‘ritmo’ e ‘metro’ non possiamo mescolare la teoria musi-

|| [31 Dion. Hal. de comp. verb. 22 p. 102. 1–4 Us.–Rad. οὕτω τραχύνεται τῇ συνθέσει. κῶλα δέ με δέξαι λέγειν οὐχ οἷς Ἀριστοφάνης ἢ τῶν ἄλλων τις μετρικῶν διεκόσμησε τὰς ᾠδάς, ἀλλ’ οἷς ἡ φύσις ἀξιοῖ διαιρεῖν, e 26 p. 140 18–20 Us.–Rad. γέγραπται δὲ κατὰ διαστολὰς οὐχ ὧν Ἀριστοφάνης ἢ ἄλλός τις κατεσκεύασε κώλων.]

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cale originaria con l’uso che più tardi ne fanno grammatici e retori, i quali la adattano ad esigenze loro. Le vecchie dissertazioni ottocentesche mettevano tutto insieme, ma ora bisogna distinguere. ‘Ritmo’ è termine musicale, ‘metro’ è termine metrico: forzare ‘ritmo’ a entrare nell’analisi di una partitura verbale significa, progressivamente, fornirsi di uno strumento impreciso per definire sequenze e composizioni che non si era più capaci di definire con precisione perché non le si capivano più. Originariamente ritmo è termine musicale, mentre metron ha a che fare con la sequenza di lunghe e brevi come fatto verbale distinto dal ritmo musicale. Poi, passando da Aristosseno e Aristotele a Dionigi di Alicarnasso e ai grammatici latini, vengono a significare qualcosa di diverso. Vediamo i testi che ho selezionati. In A–2[32], la Retorica di Aristotele, impariamo che ῥυθμός è una categoria più generale, alla quale μέτρον è subordinata. Ricordo che per Aristosseno ([elem. rhythm. 9])[33] ῥυθμός è un determinato ordine di χρόνοι, e cioè di lunghezze temporalmente misurabili, e che ῥυθμοποιία è la realizzazione del ritmo, che può avvenire in parole, melodia, danza (λέξις, μέλος, κίνησις σωματική, che sono i ῥυθμιζόμενα). Nel ῥυθμιζόμενον verbale, e cioè nelle parole di un testo, ῥυθμός è il modo in cui le parole si realizzano ritmicamente, ed è il modo appropriato per la prosa, avendo la prosa il ritmo come unico fattore ordinante; la poesia invece ha anche il μέτρον, e cioè una sequenza ordinata di lunghe e brevi. I due passi aristotelici in A–2 riflettono chiaramente questa terminologia peripatetica che si riferisce alla linea di confine fra parola e musica. Se guardiamo ora i passi in A–3 vediamo che, in perfetta coerenza con questa terminologia, il massimo di legame a una regola è dato dall’essere governato da un pre|| [32 Ricostruzione del nr. A–2 dell’handout: Aristot. rhet. 1408b 21–32: τὸ δὲ σχῆμα τῆς λέξεως δεῖ μήτε ἔμμετρον εἶναι μήτε ἄρρυθμον: τὸ μὲν γὰρ ἀπίθανον πεπλάσθαι γὰρ δοκεῖ, καὶ ἅμα καὶ ἐξίστησι: προσέχειν γὰρ ποιεῖ τῷ ὁμοίῳ, πότε πάλιν ἥξει: ὥσπερ οὖν τῶν κηρύκων προλαμβάνουσι τὰ παιδία τὸ “τίνα αἱρεῖται ἐπίτροπον ὁ ἀπελευθερούμενος;” “Κλέωνα”: τὸ δὲ ἄρρυθμον ἀπέραντον, δεῖ δὲ πεπεράνθαι μέν, μὴ μέτρῳ δέ: ἀηδὲς γὰρ καὶ ἄγνωστον τὸ ἄπειρον. περαίνεται δὲ ἀριθμῷ πάντα: ὁ δὲ τοῦ σχήματος τῆς λέξεως ἀριθμὸς ῥυθμός ἐστιν, οὗ καὶ τὰ μέτρα τμήματα: διὸ ῥυθμὸν δεῖ ἔχειν τὸν λόγον, μέτρον δὲ μή: ποίημα γὰρ ἔσται. ῥυθμὸν δὲ μὴ ἀκριβῶς: τοῦτο δὲ ἔσται ἐὰν μέχρι του ᾖ. Aristot. poet. 1448b 20–22: κατὰ φύσιν δὲ ὄντος ἡμῖν τοῦ μιμεῖσθαι καὶ τῆς ἁρμονίας καὶ τοῦ ῥυθμοῦ (τὰ γὰρ μέτρα ὅτι μόρια τῶν ῥυθμῶν ἐστι φανερὸν) …] [33 Aristox. elem. rhythm. 9 (p. 278 Mor.) Διαιρεῖται δὲ ὁ χρόνος ὑπὸ τῶν ῥυθμιζομένων τοῖς ἑκάστου αὐτῶν μέρεσιν. Ἔστι δὲ τὰ ῥυθμιζόμενα τρία· λέξις, μέλος, κίνησις σωματική. Ὥστε διαιρήσει τὸν χρόνον ἡ μὲν λέξις τοῖς αὑτῆς μέρεσιν, οἷον γράμμασι καὶ συλλαβαῖς καὶ ῥήμασι καὶ πᾶσι τοῖς τοιούτοις· τὸ δὲ μέλος τοῖς ἑαυτοῦ φθόγγοις τε καὶ διαστήμασι καὶ συστήμασιν· ἡ δὲ κίνησις σημείοις τε καὶ σχήμασι καὶ εἴ τι τοιοῦτόν ἐστι κινήσεως μέρος.]

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ciso μέτρον. Le due realizzazioni polari per una composizione verbale sono di essere 1) strettamente regolata dal μέτρον e 2) di essere addirittura priva di un precisamente analizzabile ῥυθμός, il quale ultimo, e non il μέτρον, è la caratteristica di ogni prosa strutturata. Ho cercato di costruire un sistema (A–4) in cui i due estremi sono rappresentati da ἔμμετρος e da ἄρρυθμος. Questo sistema è confortato dai testi qui dati e da molti altri. Si può vedere ora che in questo sistema c’è l’origine dello slittamento semantico che porta a intendere per μέτρον poesia facile o comprensibile (o ‘controllabile’) e per ῥυθμός poesia ormai difficile o incomprensibile (o ‘incontrollabile’), e cioè poesia che sembra prosa. Il passo di Dionigi di Alicarnasso in A– 5[34] lo ho diviso in quattro sezioni: le sezioni 1 e 3 si riferiscono a quella che vorrei chiamare ‘metrica facile’ e che è definita con μέτρον (esametro e trimetro, come si vede dalla sez. 1), mentre le sezioni 2 e 4 si riferiscono a quello che vorrei chiamare ‘metrica difficile’ (la metrica della grande lirica) e che è definita con ῥυθμός proprio per la difficoltà, o l’impossibilità, di analizzarla precisamente. Ho aggiunto B–4[35], sempre Dionigi, per confermare che ῥυθμός è ormai la parola–chiave per ‘prosa ritmica’ o per ‘poesia che non si capisce come tale’, || [34 Dion. Hal. de comp. verb. 26 p. 136. 13–137. 10 Us.–Rad. (1) τοῖς μὲν οὖν τὰ ἔπη καὶ τοὺς ἰάμβους καὶ τὰ ἄλλα τὰ ὁμοειδῆ μέτρα κατασκευάζουσιν οὐκ ἔξεστι πολλοῖς διαλαμβάνειν μέτροις ἢ ῥυθμοῖς τὰς ποιήσεις, ἀλλ’ ἀνάγκη μένειν ἀεὶ ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ σχήματος· (2) τοῖς δὲ μελοποιοῖς ἔξεστι πολλὰ μέτρα καὶ ῥυθμοὺς εἰς μίαν ἐμβαλεῖν περίοδον· (3) ὥς θ’ οἱ μὲν τὰ μονόμετρα συντιθέντες ὅταν διαλύσωσι τοὺς στίχους τοῖς κώλοις διαλαμβάνοντες ἄλλοτε ἄλλως, διαχέουσι καὶ ἀφανίζουσι τὴν ἀκρίβειαν τοῦ μέτρου, καὶ ὅταν τὰς περιόδους μεγέθει τε καὶ σχήματι ποικίλας ποιῶσιν, εἰς λήθην ἐμβάλλουσιν ἡμᾶς τοῦ μέτρου· (4) οἱ δὲ μελοποιοὶ πολυμέτρους τὰς στροφὰς ἐργαζόμενοι καὶ τῶν κώλων ἑκάστοτε πάλιν ἀνίσων τε ὄντων καὶ ἀνομοίων ἀλλήλοις ἀνομοίους τε καὶ ἀνίσους ποιούμενοι τὰς διαιρέσεις, δι’ ἄμφω δὲ ταῦτα οὐκ ἐῶντες ἡμᾶς ὁμοειδοῦς ἀντίληψιν λαβεῖν ῥυθμοῦ πολλὴν τὴν πρὸς τοὺς λόγους ὁμοιότητα κατασκευάζουσιν ἐν τοῖς μέλεσιν, ἔνεστί τε καὶ τροπικῶν καὶ ξένων καὶ γλωττηματικῶν καὶ τῶν ἄλλων ποιητικῶν ὀνομάτων μενόντων ἐν τοῖς ποιήμασιν μηδὲν ἧττον αὐτὰ φαίνεσθαι λόγῳ παραπλήσια.] [35 Dion. Hal. de comp. verb. 25 p. 124. 10–125. 8 Us.–Rad.: πᾶσα λέξις ἡ δίχα μέτρου συγκειμένη ποιητικὴν μοῦσαν ἢ μελικὴν χάριν οὐ δύναται προσλαβεῖν κατὰ γοῦν τὴν σύνθεσιν αὐτήν· ἐπεὶ καὶ ἡ ἐκλογὴ τῶν ὀνομάτων μέγα τι δύναται, καὶ ἔστι τις ὀνομασία ποιητικὴ γλωττηματικῶν τε καὶ ξένων καὶ τροπικῶν καὶ πεποιημένων, οἷς ἡδύνεται ποίησις, εἰς κόρον ἐγκαταμιγέντων τῇ ἀμέτρῳ λέξει, ὃ ποιοῦσιν ἄλλοι τε πολλοὶ καὶ οὐχ ἥκιστα Πλάτων· οὐ δὴ λέγω περὶ τῆς ἐκλογῆς, ἀλλ’ ἀφείσθω κατὰ τὸ παρὸν ἡ περὶ ταῦτα σκέψις. περὶ τῆς συνθέσεως αὐτῆς ἔστω ἡ θεωρία τῆς ἐν τοῖς κοινοῖς ὀνόμασι καὶ τετριμμένοις καὶ ἥκιστα ποιητικοῖς τὰς ποιητικὰς χάριτας ἐπιδεικνυμένης. ὅπερ οὖν ἔφην, οὐ δύναται ψιλὴ λέξις ὁμοία γενέσθαι τῇ ἐμμέτρῳ καὶ ἐμμελεῖ, ἐὰν μὴ περιέχῃ μέτρα καὶ ῥυθμούς τινας ἐγκατατεταγμένους ἀδήλως. οὐ μέντοι προσήκει γε ἔμμετρον οὐδ’ ἔρρυθμον αὐτὴν εἶναι δοκεῖν (ποίημα γὰρ οὕτως ἔσται καὶ μέλος ἐκβήσεταί

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mentre μέτρον è la parola–chiave per ‘vera poesia’ o per ‘poesia che si capisce come tale’. La poesia – e Dionigi lo sa bene – originariamente era musicata, e così nel passo che stiamo esaminando troviamo l’equazione ἔμμετρος/ἐμμηλής e εὔμετρος/εὐμηλής, in modo che si può così completare il sistema di A–4. Propongo un problema testuale che mi pare rilevante per quanto ho detto. In B–4, Dion. Hal. comp. [p.] 125.7 Us.–Rad. [= 25. 50] leggo con la vecchia Tauchnitziana εὐμηλής invece dell’ ἐμμηλής dei mss., che trovo accolto sia da Us.–Rad. sia dalla Aujac.

Di questo atteggiamento di fronte alla poesia ‘difficile’ una testimonianza preziosa sono per noi i due ultimi capitoli (il 25 e il 26) del De compositione verborum di Dionigi di Alicarnasso, da vari luoghi del quale abbiamo preso qui dei passi. Nel 25 parla della prosa che può sembrare poesia; nel 26 parla della poesia che può sembrare prosa, l’argomento per noi qui più importante. Uno degli esempi è il Lamento di Danae di Simonide. Adesso che abbiamo chiarito lo slittamento terminologico, Simonide, letto senza colometria, sembra a lui composto in vaghi ῥυθμοί e non in rigorosi μέτρα. È poesia difficile, che per essere riconosciuta come tale ha bisogno di impaginazione adeguata: senza più la musica, sembra prosa numerosa, ovvero prosa ritmica. Questa terminologia continua nei grammatici latini con lo stesso slittamento semantico, ed è una ricerca che varrà la pena fare da queste premesse per vedere fino a che punto sono confermate. Un esempio. Serv. ad Georg. 2. 385 s. “versibus incomptis ludunt”, id est carminibus Saturnio metro compositis, quod ad rhythmum solum vulgares componere consueverunt.

Vedi, sub 7, una selezione di grammatici latini[36].

|| τε ἁπλῶς τὸν αὑτῆς χαρακτῆρα), ἀλλ’ εὔρυθμον αὐτὴν ἀπόχρη καὶ εὔμετρον φαίνεσθαι μόνον· οὕτως γὰρ ἂν εἴη ποιητικὴ μέν, οὐ μὴν ποίημά γε, καὶ ἐμμελὴς μέν, οὐ μέλος δέ.] [36 Diversi grammatici latini si sono occupati di metro e ritmo: per un utile orientamento si veda da ultimo N. Bellucci, Quid sit metrum et quid rhythmum: definizioni di metricità e ritmicità presso i grammatici latini antichi, «Eruditio Antiqua» 8, 2016, pp. 155–194.]

La versificazione greca antica. Sistema ritmico e prassi poetiche Premessa La metrica, forse più di altre discipline, richiede passione, una passione che viene tradizionalmente considerata come avvio necessario alla musica e la metrica, nel caso della cultura letteraria greca, con la musica fa tutt’uno. È solo strano che la conoscenza di alcuni principi fondamentali della metrica sia poco diffusa: colpa della scuola, si dice, dove la metrica viene trascurata in parte o del tutto, ed è vero. Alla metrica ne viene così la fama di materia incomprensibile ed esoterica, una fama usurpata, falsa, perché a chi si prenda la pena di affrontarla con un minimo di attrezzatura teorica risulta semplice, agevolmente praticabile e molto remunerativa. Questa convinzione mi viene dalla ormai lunga esperienza d’insegnamento da cui queste pagine sono nate. Una prima redazione unitaria delle mie idee sulla metrica greca, seguita a lavori specifici in riviste, fu la sintetica voce Verskunst in Der kleine Pauly, V, 1975, coll. 1210–1218, che distribuii poi ai miei studenti, tradotta, in forma di dispense[1]. Sempre in forma di dispense ne distribuii una versione ampliata in inglese per i miei studenti della Columbia University (1978)[2], che prese forma di nuove dispense in italiano (ulteriormente ampliate) con il titolo Breve introduzione alla metrica greca e latina (1985). Molte delle idee che qui potranno apparire nuove erano già in quelle prime versioni.

|| [Abbozzo di un manuale di metrica greca, datato al 2.5.96 (in un appunto iniziale del file originario, qui non riportato). Si sono volutamente lasciate nel testo le annotazioni appuntate e le abbreviazioni, nel rispetto della natura di abbozzo di questo lavoro; il costante utilizzo di rimandi tra parentesi del tipo “(p. 16s.)”, “(p. 17)” etc., è un rinvio alle pagine (da riprendere e sviluppare) della Breve introduzione alla metrica greca e latina (1985), mentre i rimandi a numeri, che si trovano nelle note, rinviano alla bibliografia della Breve introduzione. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 Metrica greca e latina, Trad. italiana di: L. E. Rossi, Verskunst, in Der kleine Pauly, vol. V, München 1975, coll. 1210–1218 e Corrigenda et Addenda in fine del vol., a cura di Roberto Calderan e Stefano Dell’Isola, s.d. (ma a.a. 1976/77).] [2 A short introduction to Greek and Latin meter, Translation (by Ralph Keen), with some additions, of L. E. Rossi, Verskunst, in Der kleine Pauly, Vol. V (1975), coll. 1210–1218 and Corrigenda et Addenda at the end of the volume, New York, Columbia University, December 1978.] https://doi.org/10.1515/9783110647983-024

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In questo libro non si troveranno scanditi e interpretati metricamente non dico tutti i testi poetici che ne avrebbero bisogno, ma neanche molti. Questo non è un repertorio, ma neanche un vero e proprio manuale: è un’introduzione alla metrica greca, e il mio intento è stato quello di fornire al lettore alcuni strumenti di approccio per affrontare almeno i problemi più importanti. Tanto serva per giustificare una relativa ipertrofia delle sezioni dedicate ai principi generali rispetto alle sezioni dedicate alla descrizione e alla storia. Nella mia prassi metrica – perché di prassi si tratta, in questa come in tutte le discipline – ho sempre fatto riferimento a quel poco di cultura musicale che mi sono fatto con gli anni e ne ho tratto quel poco o tanto di sensibilità ritmica che è indispensabile non dico per risolvere i problemi, ma per affrontarli. E mi corre l’obbligo di rassicurare chi giustamente possa sospettare che io voglia rinnovare l’errore della scuola ‘musicale’ di Rossbach e Westphal, quello di equiparare la musica antica alla moderna: niente di più lontano da me, fin dagli anni del mio apprendistato. Ma, in una pur saggia antropologia musicale, ad alcuni universali ritmici non si può davvero rinunciare, ed è a quelli che mi sono sforzato di limitarmi. Gli allievi che hanno seguito i miei corsi per quasi quattro decenni mi hanno sempre detto di avere imparato la metrica dalla mia viva voce e non dai libri. Non crederei a questo riconoscimento se non ne avessi fatto l’esperienza io stesso: anch’io posso dire di aver imparato a muovermi in questo campo seguendo le lezioni di Bruno Gentili negli ultimi anni cinquanta. La metrica ambisce a ricostruire quanto c’è di più delicato nei testi poetici, e cioè i fattori che quei testi hanno configurato ritmicamente come poetici: la voce è necessaria come l’aria per respirare, anche se la realizzazione sonora deve essere consapevole dei compromessi che ci è necessario fare per tradurre il codice linguistico e metrico–musicale dei greci nel nostro. Le convenzioni, prima tra le quali l’ictus, servono per comunicare fra di noi la nostra interpretazione. Quanto abbia poi imparato dai miei allievi non c’è bisogno di dire: chiunque abbia insegnato con un po’ d’entusiasmo sa bene che succede sempre così, anche se non sempre lo si confessa. Non mi resta quindi da sperare altro se non che questo libro sia utilizzato da studenti che possano ascoltare la voce di un docente che non discordi proprio in toto da quanto in questo libro è offerto.

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Indice (provvisorio) Simboli e abbreviazioni (con richiami al testo per le spiegazioni) Introduzione La metrica: statuto di una disciplina La lingua e la metrica (prosodia) La musica e la metrica (+ l’ethos musicale) Il ritmo e la metrica (epiploké o modulaz. ritmica) (+ l’ethos dei ritmi, non dei versi); il ritmo, fattore costruttivo del verso, che può essere di ritmi vari) La danza e la metrica La parola e la metrica La metrica e la critica testuale (anomalisti e analogisti: in metr. e in crit. test.) Principi ritmici elementari (alternanza di brevi e lunghe; elementi–guida etc.; collocazione dell’ictus) Prosodia e accento; appositive Verso e schema di verso (sintagma e paradigma) Concetti fondamentali (verso etc.) Costruzione katà métron e non katà métron (+ cola ambivalenti) Versi recitativi e versi lirici; asinarteti Modi di esecuzione: ritmo e musica (+ protrazione e sincope). Lirica corale e lirica monodica Sistematica ritmica (tiene conto dello sviluppo storico; è anticipata per comodità espositiva) Dattili (Distico elegiaco) Giambi e trochei Anapesti Coriambi Ionici Dattilo–epitriti Sequenze a tempo debole libero (enh, prosod, reiz) Cretici Bacchei Lirica eolica Cola unitari, non analizzabili (ith, lec, docmi; alcuni arist)

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Versificazione greca: profilo storico L’ordine della trattazione è storico: si fanno seguire i singoli ritmi e versi, per quanto è possibile, secondo il primo apparire della loro documentazione. Ma costante è il richiamo a una sistematica, della quale non si può fare a meno per capire il senso ritmico delle singole figurazioni. (Nella parte storica non mancano considerazioni ritmiche, come i tentativi di spiegazione delle singole leggi).

Esametro con precedenti lirici (p. 16s.): fuerunt ante Hom. poetae Nomos citarodico e nomos aulodico (p. 17) Giambi e trochei (Archiloco) (p. 17) Anapesti: dagli anapesti di marcia (p. 18, 3/4) in poi Inizi della lirica corale (p. 17): Alcmane ... La lirica di Lesbo L’epoca d’oro della lirica monodica (il simposio) (p.18): dall’arcaico Alcmane fino ad Anacreonte e ai carm. conv. Il canto popolare (p. 18); qui Corinna (p. 18, 3/4)? La grande lirica corale (p. 19): ... Simon. ... : (da Stes., monod.): da–an, aeol., ex iambis; composizione strofica Il dimetro coriambico (p. 18, fin.) Il dramma (p. 19): 3ia, vv. lunghi, lirica ‘eclettica’, astropha Dal IV sec. in poi (p. 20) Orazio, ultimo grande poeta lirico greco L’età tarda (p. 20): 6da (epica fino a Nonno, inni, didasc., distico, altre forme epod. (epigramma) Breve excursus sulla versificazione latina di origine greca (pp. 20–22) Storia delle teorie metriche (pp. 22–25) Gli antichi (i da–ep come test per la validità o non delle loro dottrine) I moderni Laboratorio (analisi esemplificative di canti ‘difficili’: limiti delle certezze e scansioni sperimentali) Bibliografia (per sigle)

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Introduzione Ante enim carmen ortum est quam observatio carminis. (Quintiliano, 9. 4. 115) Nella metrica ci sono più cose che non ci sono che cose che ci sono. (attribuito a Paul Maas da tradizione orale)3

0.1. La metrica: statuto di una disciplina La metrica studia i fattori che configurano un testo poetico come tale. Questi fattori sono diversi da una lingua all’altra: in molte lingue moderne sono, per esempio, il numero delle sillabe, l’accento (per lo più intensivo o espiratorio) e la rima. Nel greco e nel latino il fattore configurante di gran lunga principale era la quantità, e cioè l’opposizione binaria breve/lunga: le sillabe lunghe e le brevi appaiono di volta in volta in un ricco numero di sequenze diverse che per gli ascoltatori originari avevano un loro individuale significato ritmico. Il nostro compito è di riuscire a interpretare, per quanto è possibile, tale significato ritmico, aiutandoci con espedienti che rientrino nella nostra competenza linguistica, anche se per avventura siano estranei a quella che ricostruiamo come la competenza linguistica degli antichi: si tratta in sostanza dell’ictus espiratorio posto su sedi che appaiano a noi opportune, con la realizzazione di convenzioni che ci risultino utili. L’ictus espiratorio era sicuramente estraneo alla sensibilità dei greci, restando un ampio margine di incertezza per i latini. Se, per un puristico trasporto filologico, volessimo rinunciare a questo espediente convenzionale, dovremmo non solo con grande fatica realizzare nella lettura la quantità, estranea all’italiano e a molte altre lingue moderne, ma anche renderci ritmicamente intelligibile l’organizzazione delle singole quantità, sentire cioè come versi le sequenze che leggiamo. Non che un simile sforzo sia al di là della portata e della buona volontà di un singolo, ma il risultato sarebbe difficilmente comunicabile a chi non abbia praticato un altrettanto severo apprendistato. Una formulazione felice di Alphonse Dain suona come segue: “far sentire delle differenze là dove gli antichi ne sentivano” ([A.] Dain, [Traité de métrique grecque, Paris] 1965, p. 233: Si nous ne percevons pas ce que percevaient les An|| 3 In der Metrik gibt es mehr Dinge, die es nicht gibt, als Dinge, die es gibt.

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ciens, nous arrivons à percevoir des différences là où ils en percevaient). Il nostro compito è quindi niente di più ma anche niente di meno che una traduzione da un codice versificatorio, quello degli antichi, a un altro, il nostro. Quod vides perisse perditum ducas, ma con la consapevolezza che il perduto non ci rende sordi del tutto al suono della parola poetica antica.

La teoria antica Già gli antichi hanno riflettuto sulla loro versificazione, ma quello che ci resta delle loro riflessioni – oltre a spunti minimi del V sec. a.C. – è materiale tardo, che data per lo più nella migliore delle ipotesi dall’epoca ellenistica, lontano quindi alcuni secoli dall’epoca più creativa (VIII–V sec. a.C.) e per di più destinato alla scuola. La scuola, si sa, tende ad essere conservatrice, e lo è dal momento in cui si istituzionalizza come scuola: in quel momento i procedimenti tendono a diventare meccanici, mnemonici, tendono quindi a tradire la realtà dei fenomeni, che vengono sezionati e descritti, senza troppo riguardo né alla loro natura (specie quando il codice sia venuto mutandosi) né alla loro storia (che non è mai lineare e rende discutibile la costruzione di sistemi rigidi). Non che noi possiamo sfuggire a questi pericoli, tutt’altro, pur da quei tardissimi epigoni che siamo: ma possiamo almeno coltivare la consapevolezza di quei pericoli, nati come siamo dalla coscienza storica che è alla base delle discipline antichistiche. La teoria antica non va certo trascurata, perché alle volte è portatrice di fossili preziosi: ma dobbiamo accostarci ad essa con spirito critico. La si richiamerà qui di seguito quando appaia utile e quando, almeno, non sia dannosa alla comprensione dei fenomeni. Se ne darà anche un panorama storico, che potrà valere a dare le linee di un approccio, e chi vorrà potrà continuare a cercare in essa nuovi spunti validi di interpretazione.

La teoria moderna: l’observatio La teoria moderna, oltre che su quanto risulti utilizzabile della teoria antica, deve fondarsi soprattutto sulla fonte più sicura, che è lo studio della versificazione, la observatio dei fenomeni. Ante enim carmen ortum est quam observatio carminis, dice Quintiliano (9. 4. 115), riportato qui come motto in apertura. È di rigore una sana diffidenza nei confronti di quelle interpretazioni che nascano da impostazioni teoriche, antiche o moderne che siano. Un’analisi della documentazione porterà a un procedimento induttivo–deduttivo e sarà segno di

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buon metodo se qualche volta sapremo contentarci di un interrogativo o anche solo di timide proposte, applicando l’onesta ars nesciendi di Gottfried Hermann.

Poesia, musica e danza La poesia greca era quasi sempre accompagnata dalla musica (fino a tutta la poesia lirica corale e monodica: fino al IV sec. a.C.) e spesso anche dalla danza (tutta la lirica corale e i cori del dramma). Della musica non ci resta quasi nulla, e quel poco è di secoli posteriore ai periodi creativi: sembra paradossale affermarlo, ma quanto di più fedele ci resta della musica è quello che ci forniscono i testi poetici con la loro strutturazione metrica, quella che giova chiamare la ‘partitura ritmica’; e della danza, oltre alle descrizioni del tutto approssimative dei testi letterari, ci restano i molti vasi che la ritraggono, anch’essi approssimativi perché legati a schemi figurativi. Ma il solo fatto, a noi ben noto, del legame di poesia, musica e danza è fondamentale per non perdere di vista la reciproca funzione di questi tre fattori, che si riassumono in una formulazione: la poesia greca non fu mai poesia per la lettura silenziosa, ma sempre spettacolo per l’udito e per la vista.

Il ritmo e la metrica Il ritmo è uno degli elementi della musica, e potrà sembrare strano che se ne parli a parte. Ma è l’unico che, attraverso la poesia, ci sia arrivato con relativa integrità attraverso la partitura ritmica, ed è qui il banco di prova di molte interpretazioni metriche. Per intenderci, una cosa è il ritmo dattilico, che ha per base il dattilo ( h g g ), e che si presenta in varie forme recitative e liriche e in varie mistioni (per es. nei dattilo–epitriti); e altra cosa sono i singoli versi dattilici, che sono diversi l’uno dall’altro ma che hanno tutti alla base il ritmo dattilico. Così è anche per tutti gli altri, trochei, giambi, anapesti, ionici, coriambi etc. È con questa fondamentale distinzione che si giustifica una trattazione della sistematica ritmica separata dalla storia della versificazione: chi obiettasse che gli universali ritmici possono subire variazioni nel tempo, avrebbe ragione, e troverà nelle due sezioni delle sacche storico–esegetiche che daranno notizia e ragione di tali eventuali variazioni. Si è cercato di evitare ogni dogmaticità e ogni astrattezza sistematica. Appellarsi al ritmo e fidarsi (moderatamente) di una nostra sensibilità ritmica è spesso di grande aiuto nell’interpretazione di sequenze metriche. [epi-

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ploké o modulaz. ritmica: dopo]; interpretaz. di elem. liberi; finali dei cola etc. sincope e protrazione

Ethos dei ritmi e non dei versi Ritmi, melodie musicali e tipi di danza erano soggetti a severe valutazioni di carattere, ‘etiche’ in senso sia descrittivo sia valutativo: musica e danza avevano un’influenza psicagogica senza confronto superiore a quella che hanno oggi nelle nostre culture e i greci davano importanza etico–politica a tale influenza, tanto da dar voce alla cosiddetta dottrina etica della musica, che dettava severe norme in questo campo: ogni espressione musicale aveva il potere di agitare o di calmare, di spingere ad azioni considerate riprovevoli o sagge, e le prescrizioni della dottrina dipendevano da tali effetti. Ma, ad essere regolati da tali prescrizioni, conseguenti alle valutazioni, erano i ritmi, come espressioni musicali, e non i versi singoli: questi ultimi (esametro dattilico, trimetro giambico etc.) erano regolati non da leggi etico–musicali, ma dalle leggi dei generi letterari. La dottrina etica riguarda solo il ritmo come parte integrante della musica, e si applica quindi soprattutto all’aspetto orchestico, alla danza, legata o no che fosse alla parola.

La danza e la metrica Se la danza è legata alla musica, e se della musica ci è conservata solo la partitura ritmica e cioè lo schema metrico, è a quest’ultimo che dobbiamo ricorrere per una ricostruzione, sia pure approssimativa, della danza. Le variazioni di ritmo all’interno della strofe, l’articolazione in periodi, l’opposizione ritmica che alle volte viene realizzata fra coppia antistrofica ed epodo sono spia di articolazioni orchestiche di cui possiamo solo cogliere le differenze, le opposizioni contrastive, che ci fanno vedere schematicamente quanto variate potevano essere le simmetriche evoluzioni del coro. Se poi si riesce a cogliere anche una corrispondenza fra espedienti ritmici e significato delle parole cantate, possiamo dire di esserci avvicinati ad una ricostruzione soddisfacente dell’evento scenico.

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La lingua e la metrica Il greco antico e il latino sono lingue morte ed è compito della linguistica ricostruirle in tutti i loro fattori. A parte l’opposizione breve/lunga, di cui si è parlato sopra, un fattore di primaria importanza anche per la metrica è l’accento, che in greco era musicale, di altezza o di tono (da τείνω, τόνος, intendendosi la tensione della corda musicale). La formulazione teorica più chiara è quella di Dionigi di Alicarnasso (comp. verb. 11, p. 40. 17 ss. Us.–Rad.): una vocale accentata sarebbe stata intonata una quinta al di sopra di una non accentata (si tratta di una palese razionalizzazione di un fatto che era in realtà molto più variato: presa alla lettera, avrebbe comportato una cantilena inverosimilmente monotona). Per il latino, che aveva un accento espiratorio, si pone il problema del contrasto fra accento espiratorio di parola ed eventuale ictus metrico; mentre per il greco si pone il problema del possibile contrasto fra accento (musicale) di parola e conduzione della melodia nella poesia cantata: se ne parlerà a proposito della costruzione strofica della lirica. La linguistica fornisce informazione essenziale sulla quantità delle vocali e delle sillabe, e cioè sulla prosodia. Ci sono anche casi (più rari) in cui è la metrica a fornire informazione linguistica, come quando, di fronte a quantità non accertabili con criteri linguistici, è lo schema metrico ad assicurarci di alcune quantità, sempre beninteso quando siano sicuri e il testo e lo schema metrico. Alla prosodia, e cioè alla disciplina della quantità e dell’accento, si deve anche l’informazione, quanto mai preziosa, sullo statuto particolare di alcune parole, che non sono autonome dal punto di vista dell’accento ma si ‘inclinano’ (o ‘coricano’: enklitikà) verso altre, che sono ortotoniche (‘con accento autonomo’): sono le cosiddette appositive, distinte in prepositive, che si collocano prima della parola a cui si appoggiano, e pospositive, che si collocano dopo la parola a cui si appoggiano. Anche qui è forte l’interazione euristica fra lingua e metrica: ci sono appositive della cui natura ci fa certi la metrica, rivelando rapporti fra la collocazione delle parole e lo schema metrico.

Il canto e la metrica Poiché l’accento greco era tonico e cioè musicale, nelle esecuzioni musicali di un testo poetico poteva esserci urto tra il normale accento tonico della parola e l’altezza di tono con cui la parola era musicata ed eseguita. Il problema è grave

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per la valutazione della responsione strofica (p. 15)4, perché la stessa musica e la stessa danza (quando quest’ultima ci fosse) dovevano accompagnare sia la strofe sia l’antistrofe, mentre parole del tutto diverse, con diversa successione di accenti tonici (musicali anch’essi), dovevano caratterizzare i due passi in responsione antistrofica. A rigore avrebbero dovuto entrare in urto o nella strofe o nell’antistrofe l’accento musicale della parola e la melodia musicale: e che dire di strofe che si ripetevano molte volte? La melodia che rispettava ogni accento di parola poteva essere una sola. Le soluzioni ipotizzabili sono due. La prima è che l’intonazione musicale potesse far violenza all’intonazione dell’accento di parola, ma questo sembra improbabile per l’identica natura musicale delle due intonazioni, quella linguistica e quella della melodia. La seconda è che le musiche della strofe e delle antistrofi fossero melodicamente un poco diverse fra loro, in modo da adeguarsi all’accento delle parole. Anche se il problema resta aperto, e procura un certo disagio, la seconda soluzione sembra di gran lunga preferibile sia perché il concetto di melodia era piuttosto vago e libero5 sia perché, specie nella musica corale in cui c’era la danza, a garantire il senso di responsione c’era il ritmo: il ritmo la vinceva sulla melodia. Il rapporto fra musica e parola conduce anche alla segnalazione di una grande differenza fra la musica antica e la moderna: la mancanza della battuta isocrona, su cui è fondata la musica moderna. Il rapporto fra parola e musica va ripensato e risentito come nel canto gregoriano, dove la frase musicale segue la parola e basta. Il disagio di immaginare una musica così diversa dalla nostra portò alla teoria logaedica, che – per fare un esempio semplice ed efficace – portava a sentire un colon quale il gliconeo come una sequenza di quattro battute isocrone, in cui la resa sonora avrebbe fatto sentire le quattro battute come isocrone (il dattilo, quindi, equiparato al trocheo e viceversa): h g | h g g | h g | h . La teoria logaedica nacque nell’Ottocento, in un momento di trionfalistico entusiasmo per la musica romantica, e la possiamo capire nel clima culturale in cui nacque: ma non era per questo meno sbagliata6. Proprio le sequenze di ritmo misto dovevano far capire che l’isocronia antica non esisteva.

|| 4 9, 204ss.; Ps.–Aristot. probl. XIX, 15. Naturalmente non va escluso che, anche nel periodo d’oro della produzione lirica, durato fra i tre e i quattro secoli, le soluzioni potessero essere variate. 5 Sulla vaghezza del concetto di melodia (aria, Weise): Abert, W.–I. etc. 6 V. L. E. Rossi, Metr. e crit. stil. (sui logaedi)

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La parola e la metrica Il rapporto fra la collocazione delle parole e lo schema metrico è quanto cade sotto la denominazione di ‘metrica verbale’ (métrique verbale, inaugurata dai francesi a cavallo di Ottocento e Novecento). Una disciplina particolare della parola in rapporto con lo schema metrico, e precisamente in rapporto con le incisioni, è fatto che riguarda quasi esclusivamente la metrica recitativa, l’unica in cui le incisioni abbiano peso. Nella metrica lirica la corrispondenza, o addirittura la responsione, di parole è fatto stilistico che si presenta solo alcune volte, con particolare intenzione espressiva e forse anche in rapporto con simmetrie nella danza.

La critica testuale e la metrica Di non scarsa importanza è il rapporto in cui sono metrica e critica testuale. Stabilire, in testi frammentari, uno schema metrico certo porta a limitare le alternative di integrazione e in testi trasmessi per intero, con struttura metrica certa, guida alle correzioni eventualmente da apportare. La formularità della metrica è certo molto minore di quella della lingua poetica: il restauro della metrica ha meno alternative di quello della lingua. Interessanti, e vivacemente discussi, sono i casi che rientrano nella tipologia delle ‘libertà di responsione’: in Pindaro, per citare un esempio illustre7. In altre parole: in casi di non perfetta responsione, va accettata una metrica in qualche modo libera o va corretto il testo per ottenere responsione perfetta? Anomalisti e analogisti si contendono il campo della metrica e della critica testuale: vedremo che sarà necessaria una ragionevole flessibilità di giudizio, a seconda dei casi.

|| 7 lib. di resp.: Maas, Gentili

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Principi ritmici elementari La realtà di un testo poetico non si lascia scomporre in unità minime se non per scopi puramente descrittivi e non ci si può limitare a spiegarla con considerazioni genetiche. Di un esametro, per esempio, si può dire: 1) che è costituito da sei dattili, oppure 2) che è costituito da due cola singoli, un hemiepes e un enoplio. La definizione n. 1 è un utile espediente di comodo, che tale può restare (e cioè avere pura funzione descrittiva) quando non si trovi una fondata spiegazione genetica che giustifichi la definizione n. 2 o altre dello stesso tipo. Ma la genesi, in un determinato momento, è solo un fatto di origine storica e può non avere alcuna influenza sulla sensibilità di chi compone e ascolta esametri omerici, nel senso che, nel caso di Omero, l’esametro veniva sentito ormai come un verso unitario di ritmo dattilico e non come un verso composto: una cosa è una considerazione diacronica (l’eventuale accertabilità dell’origine dell’esametro) e una cosa è la considerazione sincronica (il risultato di uno sviluppo storico considerato, storicamente, in un momento o in un periodo determinato). In questo caso alle definizioni del tipo del n. 2 conviene rinunciare e conviene ricorrere alla n. 1, sia pure con una (non puramente formale) modifica: l’esametro allora sarà un verso olodattilico, e cioè tutto costruito in ritmo dattilico, in cui la cellula ritmica h g g si ripete sei volte (vedremo come va considerata l’ultima cellula). Questo è tutt’altra cosa dal dire che è costituito da sei piedi dattilici, perché nella tradizione grammaticale il piede (come si vedrà in dettaglio) è un’unità descrittiva del tutto astratta priva di valore euristico, escogitata dai grammatici antichi. Il ritmo, invece, è l’anima della versificazione e, in quanto fattore musicale, sta alla base della musicalità e dell’eventuale messa in musica del testo poetico. Prendendo come punto di partenza una sequenza dattilica, il ritmo si configura come una sequenza in cui fra le lunghe singole si situano due brevi. Vediamo se è possibile enunciare qualche principio più ampio sotto il quale si possano comprendere almeno alcuni fra i ritmi storicamente documentati. Da un esame del materiale si possono individuare i seguenti ritmi più comuni: dattilo (h g g): h g g h g g h g g h g g ... anapesto (g g h): g g h g g h g g h g g h ... trocheo (h g): h g h g h g h g ... giambo (g h): g h g h g h g h ... coriambo (h g g h): h g g h h g g h h g g h h g g h ... ionico (g g h h): g g h h g g h h g g h h g g h h ...

370 | Sezione 1: Metrica cretico (h g h): h g h h g h h g h h g h ... baccheo (g h h): g h h g h h g h h g h h ... La teoria antica aveva già classificato questi ritmi secondo il loro rapporto interno. A fondamento c’è il concetto di mora (χρόνος πρῶτος), e cioè di tempo primario, di unità di tempo. Sulla base dell’equivalenza di una lunga a due brevi (h = g g), principio della metrica cosiddetta ionica, i ritmi si classificano da sé come di tre tempi (trocheo, giambo), di quattro tempi ... i meizones podes (Gl. 92) ascend. e discend.; evitare arsi e tesi (p.4s.) Non che quanto descritto qui sopra esaurisca la ricchezza ritmica della versificazione greca. Non solo ci sono le sequenze miste (che venivano con tanta cura classificate a parte, come dai logaedisti, v. per es. l’eredità raccolta da Gleditsch, il che era favorito dalla non distinzione fra ritmo e verso singolo, che può anche essere di ritmo misto), ma c’è anche la metr. eol. Proprio l’esistenza dei versi a ritmo misto è la dimostrazione implicita della non esistenza della battuta nella musica antica (diverso è il caso degli an: v. E. Grassi, “At. e Roma” 1961) + tribraco, proceleusmatico, spondeo, peone (etc.), molosso: quasi sempre frutto di soluzione o contrazione, più raram. ritmi autonomi docmio (g h h g h, la forma più comune)

gli elementi–guida8 soluzione degli elementi–guida

Dattilo–epitriti Sequenze a tempo debole libero (enh, prosod, reiz) Lirica eolica Cola unitari, non analizzabili (ith, lec, docmi; alcuni arist)

|| 8 Il termine è stato introdotto da me in 34, 13. 23; v. anche 3, 193.

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L’elemento–guida e l’ictus Se dunque accettiamo – come a mio parere dobbiamo, se vogliamo capire ritmicamente qualcosa – la funzione di perno degli elementi–guida, appare del tutto naturale che sulle sillabe che li realizzano noi facciamo cadere il (convenzionale) ictus nella nostra lettura. È bene che la convenzione sia coerente e che si chiarisca che, nel caso di un longum soluto, l’ictus cada sulla prima delle due brevi che lo risolvono, così: h́ = ǵ g. Nel caso di soluzione del longum di un trocheo e di un giambo, la convenzione ci porterà a ictare g g g come ǵ g g e come g ǵ g a seconda che si tratti di un trocheo o di un giambo. Per i greci bastava il contesto a far sentire il tribraco come trocaico o come giambico: a noi serve l’ictus.

La modulazione ritmica (epiploké) E l’ictus, opportunamente collocato, è in grado di farci capire ritmi diversi, dai greci – si noti – sentiti come diversi, anche in sequenze dove noi possiamo perdere l’orientamento ritmico. (cho–ion, dimostrazione dell’inesistenza dell’ictus). Proprio attraverso la dimostrazione dell’inesistenza dell’ictus – sembra un paradosso – si arriva alla dimostrazione della sua profonda utilità per noi.

Battere e levare niente arsi e tesi (p. 4s.)

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Gli strumenti dell’analisi [ordine provvis. d. argom.] Prosodia Nonostante ‘prosodia’ significhi in greco ‘accento’9, ha preso per noi il valore di misurazione delle vocali e delle sillabe: in sostanza la distinzione di lunghe e brevi. Il materiale linguistico che viene considerato per la scansione sono ovviamente le sillabe, unità reali di emissione, e non le vocali, che hanno la loro realtà solo all’interno della sillaba contornate da consonanti (o da sole nel caso di sillabe monovocaliche). ... funzione culminativa etc. Per stabilire la quantità di una sillaba bisogna definire preliminarmente i suoi confini: una sillaba comprende una vocale e tutte le consonanti che la precedono (πο–λί–της). Quanto alle consonanti che seguono la vocale, una consonante unica appartiene alla sillaba che segue, mentre i gruppi consonantici sono ripartiti fra la sillaba che precede e quella che segue (πισ–τός); se le consonanti sono più di due (ἔσ–φιγ–ξα), solo la prima appartiene alla sillaba che precede. Fa eccezione la cosiddetta correptio Attica (πα– τρός, v. qui oltre). Una sillaba che termina per consonante è detta ‘chiusa’ ed è sempre lunga, anche quando la sua vocale è breve; una sillaba che termina per vocale è detta ‘aperta’ e può essere breve o lunga secondo la quantità della vocale stessa. Risulta chiaro che quantità di vocale e quantità di sillaba non coincidono: possono infatti differire l’una dall’altra, ma per la scansione metrica – vale la pena di ripeterlo – ha importanza solamente la quantità della sillaba. Negli esempi che seguono, al fine di mostrare la differenza che intercorre fra quantità di vocale e quantità di sillaba, sono segnate sopra le vocali le quantità delle vocali e a fianco , fra parentesi quadre, le quantità delle sillabe10. qui gli exx. di p. 3 Prosodia (p. 2s.) e accento (p. 4s.); appositive (tav. 8 e D. Fusi[11]); acc. e musica in responsione (p. 5)

|| 9 Il latino accentus (*ad–cantus) non è che il calco semantico del greco προσῳδία (προς–ᾠδή). 10 Seguo la proposta, utile ed efficace, di M. Lejeune, Phonétique historique du mycénien et du grec ancien, Paris 1972, spec. 283 ss. [11 Rossi si riferiva ad un elenco di appositive elaborato da Daniele Fusi e poi confluito nella sua Tesi di Dottorato (2000 [citato anche in L. E. Rossi, Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (edd.), Struttura e storia dell’esametro greco, II,

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Vocale, sillaba, elemento metrico (p. 6) Si è parlato di vocale e di sillaba, ma elem. coerenza della teoria antica ... A chi considerasse oziose le distinzioni illustrate, andrà detto che la prassi quasi generale di ignorarle porta a formulazioni del tutto false come ‘la sillaba finale di un verso è anceps, ovvero breve o lunga’. Ora, ogni sillaba di ogni verso concreto è inesorabilmente o breve o lunga; ad essere breve o lungo o libero o indifferente (gli ultimi due casi spesso sussunti sotto la fuorviante categoria di anceps) è solo l’elemento metrico.

Verso e schema di verso (p. 6) In conseguenza di quanto è stato esposto nel paragrafo precedente, diversa è la descrizione di un verso singolo, dove si dà la quantità delle sillabe di un verso concreto, dalla descrizione di uno schema astratto di verso, dove si dà la quantità degli elementi metrici. In questo caso si dà lo schema di un tipo o paradigma di verso, per esempio l’esametro (quello omerico, quello alessandrino, quello tardo: o si può descrivere, con opportuni accorgimenti grafici, l’esametro eterno). Si è già detto quali dannosi equivoci si riesce a evitare con una precisazione così economica, ben lontana dall’essere oziosa.

Unità metriche e unità ritmiche (p. 7ss.) Quando dalla semplice descrizione si passa all’interpretazione, ci si trova a dover distinguere, nelle sequenze sotto esame, quelle che sono unità puramente misurative e quindi prive di realtà ritmica autonoma, da quelle che sono, invece, unità ritmiche vive e reali, che avevano per chi componeva e per chi ascoltava un valore ritmico concreto e autonomo. Chiamerò semplicemente le prime ‘unità metriche’ (secondo il valore etimologico di ‘misurative’) e le seconde ‘unità ritmiche’. Si analizzano qui i vari termini uno per uno.

|| Roma, GEI, 1996, pp. 271–320, a p. 314 n. 12]), ma mai pubblicato; tuttavia se ne può tovare un resoconto sia in D. Fusi, Fra metrica e linguistica: per la contestualizzazione di alcune leggi esametriche, in E. Di Lorenzo (ed.), L’esametro greco e latino: analisi, problemi e prospettive – Atti del convegno di Fisciano 28–29 maggio 2002, Napoli, Guida, 2004, pp. 33–63; sia in Id., A Multilanguage, Modular Framework for Metrical Analysis: IT Patterns and Theorical Issues, «Langages» 199, 2015, pp. 41–66.

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– Piede. A rigore il piede non è unità né metrica né ritmica, ma semplice astrazione di grammatici antichi e moderni: per la sua totale inutilità è utile salvarlo con funzione solo umilmente descrittiva12, avendo più su sostituito efficacemente la nozione di piede con quella di ritmo (dattilico, anapestico, trocaico, giambico etc.). Solo il dattilo è libero da una misurazione a metron (teoria antica) (e cioè a coppia: v. sotto), ma è singolare la sua quasi costante realizzazione in numero pari. Sono assai rari i casi in cui a puro scopo di (imbarazzata) descrizione alcuni parlano di piede, ma in casi come h h, risulta assai più chiarificante parlare per es. di clausola, di cellula ritmica, proprio perché sono termini ritmicamente fondati e cioè giustamente compromettenti dal punto di vista dell’interpretazione ritmica. – Metron. Il metron è l’unica unità misurativa (= ‘misura’). È una dipodia per trochei, giambi e anapesti. Per i primi due ritmi la misurazione è giustificata dal fatto che i due trochei e i due giambi (h g h f, f h g h) non si comportano nello stesso modo, visto che l’elemento libero in levare si presenta solo rispettivamente in sede pari e in sede dispari: l’unità di misura è quindi non il singolo trocheo o giambo, ma la dipodia, che è l’unità che si ripete regolarmente. Per gli anapesti la giustificazione della costante composizione a metron (g g h g g h) non sta in un diverso trattamento dei due anapesti, ma avrà avuto ragioni ritmiche di più ampio contesto. Coriambi, ionici, cretici e bacchei ... sono solo apparentemente piedi (e come tali vengono definiti dagli antichi e da molti moderni), ma sono in realtà dei metra per la loro dimensione. Un metron singolo è assai raro che compaia con un suo valore autonomo nella versificazione: quando questo accada, lo si dovrà definire o un colon di brevità assolutamente eccezionale o, come si diceva sopra per il piede, una clausola o una cellula ritmica, trovandone di volta in volta il rapporto con il contesto ritmico. E veniamo ora alle unità ritmiche, quelle che compaiono nella versificazione come sezioni ritmicamente autonome. – Colon. Il colon è l’unità ritmica minima, riconosciuta come parte costitutiva di un’unità superiore, sia esso verso o sistema (v. oltre). L’esempio più semplice è un verso costituito da due cola, diversi fra loro o uguali. Soph. OC 1215, 1217–18 = 1229, 1231–32

|| 12 Il piede può aver corso come unità metrica soltanto nella metrica latina arcaica, dove i trochei e i giambi non vanno a metra, come in greco, ma hanno una loro ‘democrazia’ reciproca (da cui il termine senario giambico invece di trimetro etc.).

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L’intero contesto qui riportato è utile per capire come i due gliconei uniti da sinafia sono due cola gliconici che costituiscono un verso unico, mentre il primo, chiuso da iato col verso successivo, è un verso gliconico autonomo. Il test per dare a una sequenza lo status di colon è che compaia anche come verso isolato: questo ne garantiva l’appercepibilità come una unità ritmica reale. – Verso. Il verso è l’unità fondamentale, essendo la più piccola unità ritmica indipendente e in sé conchiusa, per la quale il nostro compito è stabilirne i confini: un verso è un’unità autonoma, che potrebbe anche costituire da sola un carme. La delimitazione del verso non presenta apparenti problemi nel caso di versi stichici come l’esametro e il trimetro giambico, ma ne può presentare di rilevanti nella metrica lirica. Gli antichi, per costruire un verso, dovevano rispettare – come del resto accade nelle versificazioni moderne – una sola condizione, in sé sufficiente: (1) la fine di parola, e così si esprimeva Efestione (14. 22 Consbr.). Gli antichi, ho detto, ma per noi la cosa è solo teoricamente un po’ più complessa, perché in una sequenza sperimentalmente disposta in continuazione tipografica non ogni fine di parola può essere fine di verso: dovremo stabilire fine di verso dove una fine di parola chiuda realmente una sequenza autonoma. Vediamo quali sono i criteri per ottenere certezza su questo punto. Possiamo sempre rimanere con il dubbio se la fine di parola al termine di una sequenza (e perfino quando la fine di parola si abbia anche in responsione) sia una semplice fine di parola o anche una fine di verso. L’ideale, per avere la certezza, è che si aggiungano altri due fattori a conferma: (2) iato (H), che altrimenti è di norma evitato all’interno del verso, e (3) elemento indifferente (W; ἀδιάφορον, indifferens), cioè un elemento che si lascia realizzare indifferentemente da sillaba breve o lunga. L’esistenza dell’elemento indifferente si accerta con l’osservazione dei comportamenti delle singole sillabe in responsione13: se c’è un’alternanza di breve e di lunga, si può essere sicuri che quella fine di parola va promossa a fine di verso. Naturalmente questo terzo fattore è rilevabile con sicurezza soltanto in occasione di un elemento in battere o elemento–guida, come la fine di un gliconeo o di una sequenza giambica acataletta, poiché la fine di una sequenza catalettica o di ogni altra sequenza terminante in levare con un ele|| 13 Il termine ‘elemento indifferente è stato da me introdotto in 2 in quanto testimoniato nella terminologia antica proprio nel senso qui richiesto. Il termine anceps, ancora comunemente usato nella teoria moderna (per di più riferito a ‘sillaba’!), era usato dagli antichi con diverso significato. Strano che i partigiani della teoria antica si lascino spesso sfuggire materiale prezioso. Quanto al simbolo W, esso è stato proposto da Paul Maas nell’appendice al suo 34 (1929) ed è stato sistematicamente applicato da me in 2 (e vedo che, solo da alcuni anni, viene adottato anche da altri).

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mento libero (x), per esempio un enoplio, non ci fornisce una sicura prova che il verso si concluda in quel punto, poiché l’ultimo elemento è libero in sé, e può perciò essere realizzato per sua natura da sillaba lunga o breve in virtù della sua ‘libertà’ e non per la sua indifferenza di fine di verso. Ecco alcuni esempi: EXX. + caso di lec e ith, Pretagostini L’indifferenza dell’ultimo elemento mostra che alla fine di ogni verso c’era una pausa, per cui il verso veniva ad essere una specie di microcosmo autonomo14. E gli antichi sentivano questa pausa proprio attraverso la distinta percezione della quantità a volte breve e a volte lunga della sillaba finale di ogni verso, come dimostrano alcune testimonianze antiche molto esplicite15. Allo stesso modo che è assurdo definire anceps la sillaba finale (che come si è detto, in quanto sillaba, è o breve o lunga), è anche errato credere, come fanno ancora molti, che ogni elemento finale sia lungo e che richieda perciò sillaba lunga. È invece alla reale alternanza che è affidato il senso di pausa. Come si è visto, in certi casi il criterio dell’elemento indifferente non può intervenire (nel caso di elemento in levare o libero). Se quindi iato non c’è ed elemento indifferente non è accertabile, non resta che affidarsi a un ulteriore criterio, (4) la cognitio metrorum, come fu felicemente definita da Boeckh16, e cioè la valutazione e il confronto di contesto e di stile: il contesto può offrire il confronto con sequenze uguali o simili, in un rapporto che va definito sintagmatico; mentre lo stile ritmico di un autore o di un’epoca, fino al reperimento di un paradigma di verso che stia all’origine, fornisce un criterio paradigmatico. Ecco un esempio che illustra l’uno e l’altro caso: (p. 10s.) La cognitio metrorum è nient’altro che la verifica storica dei materiali, che deve condurre all’interpretazione ritmica: e in tal senso deve presiedere anche al riconoscimento di eventuali cola che costituiscano un verso. Il risultato ottimale dell’applicazione del criterio della cognitio metrorum è quello di isolare un verso, o di riconoscere un colon, che abbiano una loro attestazione storica come verso autonomo o come colon; in caso contrario, ci troveremmo a postulare un verso o un colon che siano degli unica, ma questo può avvenire in casi limite che sarebbero cruces metriche. EXX: 5an? (può ben essere unicum per caso); altri exx. (strofetta attica con v. attico)

|| 14 Metafora felicemente inventata da Hermann Fränkel ... 15 Raccolte in 2, 64–66: per es. ... 16 Boeckh, cognitio metrorum

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Tutto quanto qui esposto, tranne alcuni aggiornamenti terminologici, costituisce la brillante scoperta di August Boeckh17, che ai primi dell’Ottocento ha scritto pagine che sono fondamentali ancora oggi. Stabilendo per la prima volta tutti e quattro i criteri per la delimitazione del verso, ha reso possibile la ricostruzione della struttura metrico–ritmica della poesia lirica dopo i danni che essa aveva subito nelle varie fasi della trasmissione. La sua è la trattazione più sistematica e più sana della problematica qui esposta e valeva la pena riesumare il suo sistema, anche se i principi essenziali sono stati applicati, più o meno consapevolmente, dagli studiosi moderni più avvertiti18. Ovviamente un colon può presentarsi non solo come colon, ma anche come verso, quando abbia alla fine le condizioni di fine di verso (lo si è visto sopra per i gliconei dell’Edipo a Colono). Per questo motivo uso sempre il termine ‘sequenza’ quando debba essere lasciato impregiudicato se si tratti di colon o di verso.

La sinafia Sinafia (συνάφεια, da συνάπτω, ‘attaccare, connettere, collegare’)

La catalessi Un concetto ritmico fondamentale è la catalessi (katalexis, ‘cessazione, fine’), nel senso di fine anticipata di un colon o di un verso. Dal momento che la fine anticipata va rapportata ovviamente a una finale che si dà come ‘naturale’, è chiaro che si tratta di un concetto relativo, che va riferito a un paradigma o a un sintagma. ... (conc. relativo: contestualità di forme catal. e acatalette; catal. come clausola) (falsa catalessi delle sequenze dattiliche)

|| 17 Boeckh, bibl. a metà p. 11, che offre un affascinante colpo d’occhio nel laboratorio del filologo che, scandendo Pindaro, ‘prova e riprova’. 18 La riesumazione del sistema di Boeckh è stata da me presentata in 3 e 3c; v. comunque 3b.

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Sincope e protrazione Due fenomeni ritmici di difficile accertamento e di difficile interpretazione sono la sincope e la protrazione. Prima di dar notizia della teoria antica che ne fa cenno, è bene chiarirsi i due fenomeni, che sono sempre confusi sotto il concetto unico di sincope. Come va interpretata una sequenza come g h g h g h g h h g h ? ... mio comm. a Ps. Aristox.

Il verso: costruzione katà métron e non katà métron (+ cola ambivalenti: (p. 14s.) Una volta isolato il verso, occorre chiedersi come esso è ritmicamente costruito. Asyn (p. 13s.)

Il sistema (p. 7s.) Il sistema è un verso costituito da una serie di metra omogenei in una sequenza più lunga dell’usuale. ...

Il periodo (p. 8) ‘Periodo’ è termine presente nella teoria antica con vari significati e anche la teoria moderna lo applica a realtà diverse (spesso è identificato con verso). Qui lo si intende come un gruppo di versi o sistemi apparentati dal genere ritmico interni a una strofe: EXX La strutturazione a periodi era messa in rilievo dalla musica e soprattutto dalla danza. La sua identificazione è affidata alla nostra sensibilità ritmica ed è molto remunerante riconoscerlo, perché ci dà modo di intravedere delle differenze fra movenze musicali e orchestiche. È in realtà un lusso esegetico, che va praticato solo nei casi sicuri. Alle volte è un fatto molto evidente, alle volte è più sfumato, alle volte sembra mancare del tutto. EXX in cui manca

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La strofe e la costruzione antistrofica. La coppia antistrofica e la triade (p. 8) La costruzione strofica rappresenta la più macroscopica analogia con il linguaggio musicale: realizza due principi fondamentali della musica, la simmetria e la ripetizione, che agiscono anche senza la presenza della danza, ma che con la danza si potenziano presentandosi anche visivamente con le simmetrie e le ripetizioni delle evoluzioni del coro. Nella sua struttura interna la strofe consiste di un gruppo più o meno esteso di versi o sistemi e può strutturarsi in periodi. EXX: con vv. , con sist. e in periodi. La struttura interna varia molto in complessità, e se ne parlerà in sede di storia. La forma più semplice è la strofe epodica (p. 13s.) La strutturazione esterna della strofe, soggetta alla legge della responsione e cioè della corrispondenza di verso a verso, si realizza in una serie di strofe/antistrofe metricamente uguali fra di loro, con possibilità di aggiunta dell’epodo (diverso da strofe/antistrofe). Ecco le diverse forme: AA...: è la struttura più semplice, ... AAB, AAB ...: è la consueta triade, che troviamo prevalentemente nella lirica corale (ma non solo: v. i carmi conviviali di Pindaro e Bacchilide): strofe e antistrofe (uguali) più epodo (diverso), struttura che può ripetersi anche molte volte. AAB CCD ... : è la triade di molti (quanti?) cori del dramma, per cui ogni triade è diversa dall’altra (importante [e nuovo?]: ha la funzione di differenziare l’espressione musicale e orchestica da triade a triade, ed è notevole che sia solo del dramma e non della meno ‘espressiva’ lirica corale) AA, BB, CC ...: ripetizione di coppie antistrofiche diverse l’una dall’altra, tripica dei cori del dramma (vale la stessa osservazione fatta al capov. preced.) UNICO EPODO FINALE: ... altre forme? (con asyn in epoca tarda?) v. tavv. di 3b

Lo astrophon

Modi di esecuzione (p. 15s.): ritmo e musica (+ protrazione e sincope). Lirica corale e lirica monodica (p. 15s.) Lo stretto legame che unì musica e poesia in Grecia per almeno cinque secoli (dall’VIII al IV sec. a.C.) ci impone di raccogliere materiali e testimonianze che

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ci chiariscano i modi di questo legame. È inevitabile che le distinzioni basilari cerchiamo di rendercele chiare attraverso prudenti paralleli con la pratica musicale moderna, purché non ci manchi la consapevolezza che si tratta di approssimazioni. I modi dell’esecuzione della parola poetica che possiamo fondatamente ipotizzare sono non più di tre. Chi vuole fare precisazioni ulteriori corre l’inutile rischio di costruire ipotesi senza fondamento, ricavate esclusivamente dalla prassi musicale moderna19. La parola in assenza di musica che viene resa in semplice ‘recitato’ viene tardi. Quanto al rapporto con la musica, si può parlare qui di musica a grado zero. La terminologia critico–letteraria usa largamente della qualifica di ‘musicale’ per molti testi poetici, ma si tratta di una metafora per designare la maggiore o minor frequenza di figure di suono: una cosa è il diverso grado di musicalità immanente a ogni testo poetico e una cosa è l’unione della parola poetica con una musica vera e propria che la intoni con mezzi diversi da quelli della parola stessa. Parakatalogé/‘recitativo’. La parola può essere intonata ... Musica a grado pieno: il canto vero e proprio. ... Le fonti per le distinzioni offerte qui sopra sono esterne (terminologia e descrizioni, etc.) e interne (vv. recitativi e lyr.chor. e monod.; la prassi poetica: per es. l’uso delle incisioni, v. sotto) ...

Versi recitativi e versi lirici (o della rilevanza dell’incisione); asinarteti (p. 12) La distinzione fra versi recitativi (resi in semplice recitato o parlato oppure in quel ‘recitativo’che abbiamo definito ‘musica a grado ridotto’) e versi lirici (resi in canto spiegato, e cioè con musica a ‘grado pieno’) è della massima importanza per due ragioni: perché la distinzione ha a che fare con le modalità di resa ovvero con il tipo di esecuzione e perché diverse erano le leggi che governavano gli uni e gli altri, com’era naturale che fosse vista la diversa funzione e il diverso rapporto con la parola: unica protagonista nel semplice parlato, appoggiata da un accompagnamento musicale discreto e timido nel recitativo, totalmente fusa con il canto nel caso di musica a grado pieno. I criteri di distinzione sono esterni e interni.

|| 19 Come fa White, nel suo pur fondamentale libro, che ne distingue addirittura cinque: ...

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I criteri esterni ci vengono da testimonianze sulle modalità di esecuzione. Parakatalogé per il recitativo e musica (strum., harmoniai etc.) per le parti cantate. Stichicità (p. 12) .... Ma un criterio interno, derivato quindi dalla observatio della prassi versificatoria, si rivela della massima importanza sia per capire meglio il rapporto fra parola e musica sia come strumento filologico per affrontare eventuali restauri testuali. Il fenomeno più macroscopico della metrica verbale è il ricorrere con una certa regolarità di quelle fini di parola che, proprio per la loro regolarità, vengono promosse a ‘incisioni’ o, come spesso si dice, a ‘cesure’ o ‘dieresi’20: l’incisione è una fine di parola generalizzata. Non ogni fine di parola ha quindi la stessa rilevanza nella costruzione di un verso: .... exx da 6da e da 3ia Ora, un principio fondamentale della versificazione greca, la cui sostanza viene spesso ignorata e la cui formulazione viene sempre omessa21, forse in grazia di poche eccezioni che come si vedrà confermano la regola, è il seguente: le incisioni hanno rilevanza solo nella costruzione del verso recitativo, mentre normalmente non hanno peso nel verso lirico. ... ex da Pind. N. 9 Non è difficile darsi una ragione di questo fatto. I versi recitativi (eseguiti in semplice parlato o in recitativo) sono gli unici ad essere soggetti alla metrica verbale e quindi alle incisioni, dal momento che il loro declamato (musicalmente a grado zero o a grado ridotto) non può affidare il suo ritmo ad altro che alla parola. Nel verso lirico, invece, che è legato alla musica a grado pieno, a strutturarsi è il discorso musicale (la melodia) e non la metrica verbale, e cioè la parola: di qui la normale assenza di fini di parola generalizzate, e cioè di incisioni. Alcune eccezioni non fanno che confermare la regola, presentandosi come espedienti tecnici in più, tanto più rari e notevoli quanto più estranei all’orizzonte di attesa: il virtuosismo è tale solo se si fa notare. ... exx di ‘incis’ lyr da Korzen! (eccezioni che confermano la regola) Credo che non si potesse desiderare una verifica più efficace di questa delle incisioni per ricostruire il rapporto fra parola e musica. Verifica che si conferma attraverso una testimonianza in negativo offertaci dalla prassi oraziana22, che

|| 20 terminol. per incisione ed eliminaz. di cesura/dieresi 21 La rilevanza dell’incisione solo per i versi recitativi è stata da me formulata in Riv di filol 1966 195ss. e precisaz. in rec. Korzen. 22 Mostrerò in Appendice sia i condizionamenti della prassi versificatoria lirica oraziana sia la grandiosità del suo programma metrico, non meno grandioso per il fatto di tradire difficoltà insuperabili alla sua sensibilità.

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notoriamente prende a modello la poesia greca ma la adatta e alla sua competenza linguistico–poetica di apprendista straniero a cui sono estranei molti dettagli del codice metrico greco e a una comunicazione letteraria completemente nuova rispetto a quella della lirica greca. ...: su Hor. e incisioni: Non c’è niente di più utile che l’osservare leggi metriche, altrove rispettate, là dove sono invece violate. Basta considerare i versi eolici e gli asclepiadei dei poeti greci e confrontarli con le riprese oraziane: nei greci non c’è traccia di incisioni, mentre Orazio si fa un punto d’onore di fissarle rigidamente. Ecco alcuni esempi: ....

Nella lirica greca, che era destinata al canto (monodico o corale che fosse), era la melodia musicale a scandire il canto, non la parola; Orazio, nel suo desiderio di introdurre una normalizzazione virtuosistica nei versi lirici, non trovò di meglio che introdurne una (le incisioni fisse) tipica del verso recitativo, e cioè strettamente legata alla natura letta e non cantata della sua poesia. In altre parole: trattò i versi lirici come se fossero recitativi, perché erano ormai destinati alla semplice recitazione. Se fossero necessarie ulteriori prove della esecuzione non più musicale della lirica oraziana23 (ad eccezione del carmen saeculare, che fu realmente eseguito da un coro24), questa sarebbe la prova decisiva, tanto più importante in quanto interna alla sua stessa versificazione. (asinarteti)

|| 23 G. Wille, Musica Romana, è, in tempi abbastanza recenti, la più ampia e vigorosa difesa della esecuzione musicale di Orazio. Un suo grande argomento è l’abbondanza di terminologia musicale nei suoi carmi (strumenti, harmonìai etc.), che erano però semplicemente bagaglio tematico usuale nella lirica greca, che Orazio stesso voleva imitare. 24 Ed. Fraenkel, Horace, 378–82.

Orazio, un lirico greco senza musica 1. Premessa Che Orazio sia un poeta lirico greco è quasi un’ovvietà, che va solo qualificata, perché la componente romana è in lui molto forte: a parte le composizioni schiettamente romane, ci è stato insegnato da tempo1 che nelle odi che si aprono con un’aperta dichiarazione di debito nei confronti dei modelli greci quella dichiarazione è solo un ‘motto’ iniziale, che lascia poi il posto a ispirazione e tematica del tutto autonome. Che Orazio, per di più, sia il più grande poeta lirico greco del tempo suo e oltre sembra un paradosso, che però mi sento in grado di sostenere: è stato senza concorrenti né greci né latini nel corso di alcuni secoli per il grandioso programma metrico che realizzò nel suo corpus lirico2. Il suo orgoglio, più volte espresso nella sua opera, era pienamente giustificato. Nonostante le questioni esegetiche ancora aperte, è notevole epist. 1. 19. 21–34, dove c’è la più forte formulazione di consapevolezza: 21–23 libera p e r v a c u u m posui vestigia p r i n c e p s , || non aliena meo pressi pede. qui sibi fidet || dux reget examen. Ma per essere un vero lirico greco a Orazio mancava la musica, nel senso della organica e costante esecuzione musicale: e siccome la musica era un fattore essenziale e non ornamentale dell’evento poetico greco, la sua mancanza è di peso fondamentale per precisare lo statuto della sua lirica (§ 2). Con le considerazioni che seguono vorrei togliere credito all’idea di un Orazio musico, nonostante i meriti di chi ha sostenuto l’ipotesi e di chi ancora la sostiene3. || [Rossi aveva già espresso varie volte il concetto di questo lavoro sia a lezione di metrica nell’ambito dei suoi corsi universitari sia nel suo seminario romano, inoltre nel suo manualetto metrico distribuito come dispensa agli studenti (Breve introduzione alla metrica greca e latina, Roma “La Sapienza” 1985, p. 22), e infine anche in una conferenza (per cui vd. le pp. 346–352 di questo volume). Saggio pubblicato in «SemRom» 1, 1998, pp. 163–181; ripubblicato in traduzione inglese in M. Lowrie (ed.), Horace: Odes and Epodes, Oxford Readings in Classical Studies, Oxford, Oxford University Press, 2009, pp. 356–377] 1 Pasquali 1920. La Penna 1964, p. XII s.: «Il concetto è del Norden, ma si deve a Pasquali l’importanza che esso ha assunta nell’interpretazione della lirica oraziana». Vd. da ultimo Cavarzere 1996. 2 Per un aggiornato panorama del sistema lirico oraziano vd. Rosellini 1997 (con bibliografia). Utile la bibliografia in Kissel 1981, sia per la metrica sia per la musica. 3 Bonavia–Hunt 1969 vuole ricostruire una figura di Orazio–citarodo, che sembra un po’ ingenua. Wille 1967 (per Orazio pp. 234–281) è invece una formidabile raccolta di materiale per la https://doi.org/10.1515/9783110647983-025

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Alcune voci autorevoli si erano e si sono spese per l’assenza di musica4. Trattandosi di tema ancora dibattuto, cercherò di mettere insieme vecchie idee, altrui e mie5, aggiungendo qualche spunto e qualche collegamento forse nuovo e presentando tutte insieme quelle che a me sembrano le prove per il mio assunto. È bene però chiarirsi in partenza un punto fondamentale, per evitare equivoci6: che negare la musica come fattore originario nella composizione delle odi non significa né negare il fatto che a Roma ci fosse prassi musicale né che Orazio eseguisse o facesse eseguire occasionalmente le odi dei quattro libri con accompagnamento musicale.

2. Grecia e Roma: la lirica e la comunicazione letteraria Si dirà che si creerebbe, in apparenza, una singolare contraddizione se alla lirica di Orazio – poeta che voleva essere greco e che greco sotto molti aspetti appare – fosse venuto a mancare un fattore sempre presente nella lirica greca, e cioè la musica come accompagnamento costante: nei greci la musica era strettamente legata alla partitura ritmica, anche se questa è tutto quello che ci resta dell’intreccio fra ritmo e melodia nella lirica greca. Ma, una volta accertata in Orazio l’eventuale assenza della musica, questo fatto vera contraddizione non sarebbe, viste le mutate condizioni della comunicazione letteraria verificatesi fin dal IV–III secolo a. C. già in ambiente greco, e cioè il passaggio di ordine culturale da pubblicazione orale (aurale) a pubblicazione libresca, per il progressivo intensificarsi della diffusione del libro con le corrispondenti mutazioni nella formazione delle opere di letteratura, segnatamente della poesia lirica7. Si sarebbe trattato così di un adattamento dei modelli greci a una realtà di comunicazione radicalmente diversa, ed è interessante domandarsi se di questo adat-

|| musica a Roma, che resta utilissima anche se molte delle testimonianze raccolte si possono usare precisamente e contrario. Ancora recentemente von Albrecht 1993 è per la musica (pur con prudenza: p. 99 s.). Una succinta storia della questione in Milanese 1997, p. 921 s. 4 Fondamentale resta Heinze 1918, soprattutto per quanto riguarda le testimonianze dei grammatici antichi, come si vedrà (§ 6); più di recente Pöhlmann 1965. 5 Ho cercato, per quanto mi è stato possibile, di render giustizia a chi in qualche isolata argomentazione mi ha preceduto. 6 Nella pur lodevole prudenza di von Albrecht 1993 (vd. n. 3, supra) sembra proprio che questo equivoco ci sia. 7 Per una lettura globale della letteratura greca ho tenuto presenti proprio le mutevoli condizioni della comunicazione in Rossi 1995.

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tamento Orazio era lucidamente cosciente o no. Anticipo che, a mio parere, lo era. Ora, per tornare alla vecchia domanda, ha Orazio composto le sue odi pensandole destinate a un’esecuzione musicale? Fra le risposte sia negative sia positive, c’è anche chi ha cercato una sorta di compromesso: alcune odi sarebbero state destinate al canto e alcune no, ma quest’ultima è una soluzione solo di comodo che in sé può esprimere una verità, non tale però da toccare il cuore del problema, che – come abbiamo anticipato (§ 1) e come vedremo meglio – consiste nel darsi una risposta alla domanda se le odi, tutte le odi, fossero originariamente pensate per occasioni singole in cui andavano eseguite musicalmente o se fossero composte per la semplice lettura, sia pure per la lettura ad alta voce, come ancora normalmente avveniva ai suoi tempi e come sarebbe ancora avvenuto a lungo8. Certo, il carmen saeculare era destinato all’esecuzione musicale, visto che abbiamo testimonianza epigrafica9 del fatto che nel 17 a. C. fu cantato da un coro di fanciulli e di fanciulle, composto com’era a onore pubblico di Augusto per i ludi saeculares da lui stesso rinnovati. Le odi, nei loro quattro libri, si presentano come una autoedizione10 attentamente e studiatamente ordinata dall’autore stesso, al di là quindi di occasioni singole per le quali i carmi sarebbero nati: una visione ‘occasionale’ della produzione lirica di Orazio peccherebbe di una illecita ricerca di identità o anche solo di analogia con la situazione editoriale dei lirici monodici greci arcaici e tardo–arcaici, che subordinava la pubblicazione delle singole odi a precisi eventi occasionali che trovavano il loro luogo soprattutto nel simposio11. A raccogliere i corpora di quella poesia pensò per prima la filologia alessandrina, che li ordinò in modo da formarne dei libri, ma quei libri erano ben lontani dall’ordine studiato e voluto di una autoedizione: ordine nelle loro edizioni c’era, ma non era certo un ordine d’autore, bensì un ordine solo editoriale esterno che

|| 8 Gavrilov 1997 (con le aggiunte di Burnyeat 1997), sulla scia di un famoso articolo di Knox del 1968, è un aggiornato panorama di fonti per la diffusione della prassi della lettura silenziosa. Si concordi o no con la loro lettura delle testimonianze, è però chiaro che il livello minimo di fruizione letteraria dei testi era quello, a sua volta ben testimoniato, della lettura ad alta voce, indipendentemente dall’uso della lettura silenziosa, che dipendeva poi dalla disponibilità di libri (costantemente crescente nei secoli). 9 CIL VI 32323, spec. ll. 3, 20 ss., 147 ss. 10 A rigore due autoedizioni: i libri I–III pubblicati nel 23 a. C., il IV nel 13 a. C. o subito dopo. Non c’è bisogno di richiamare la ormai abbondante bibliografia su Callimaco autoeditore. Sulle autoedizioni epigrammatiche nel mondo greco ellenistico vd. Argentieri 1998. 11 Ovvio precisare che il caso di Saffo è singolare, ma le sue odi erano pur sempre destinate alle celebrazioni del gruppo.

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si ispirava a criteri vari di comodo (l’occasione, il metro, il soggetto etc., con molte soluzioni di compromesso). L’autoedizione diventò usuale da Callimaco in poi, e cioè in età ellenistica (dal III sec. a. C. in poi), epoca in cui significativamente l’esecuzione musicale della poesia era da tempo un uso del passato12. Da molto tempo si è detto giustamente13, per di più, che Orazio non poteva trovare a Roma un luogo destinato istituzionalmente ad accogliere poesia cantata. E d’altra parte il liber poetico era destinato ad offrire le composizioni disposte in un ordine voluto dall’autore, perché facevano parte di un tutto organico, un ordine quindi per così dire legato alla pagina, dove anche la sola posizione di ogni singola ode aveva una precisa funzione compositiva nell’ambito del tutto. Queste sono considerazioni ovvie, ma non bisogna dimenticarle quando si imposta il problema che abbiamo di fronte: le odi di Orazio erano destinate al canto o no? Le considerazioni che ho fatte qui sopra paiono a me piuttosto forti per negare decisamente l’uso originario dell’esecuzione musicale: nascono da un confronto delle diverse condizioni della comunicazione letteraria della Grecia del VII–IV sec. e quelle della cultura romana, nella quale ultima si afferma decisamente il libro, e più precisamente il liber poetico organizzato e autoedito. Non è il caso di trovare analogie con il medioevo e l’età moderna, per le quali è merito non piccolo di Günther Wille14 aver raccolto una ricca documentazione: le numerose messe in musica di odi di Orazio nel medioevo, nel rinascimento, nel seicento, nel settecento e nell’otto–novecento, fino ai nostri giorni, non dimostrano nulla. A chi cercava testi da musicare per le più svariate occasioni le odi fornivano una base verbale di alta qualità, ma si trattava di riusi che non avevano nulla a che fare con le ragioni primitive e i criteri originari delle composizioni. Goethe, Heine, Mörike – per fare solo alcuni nomi della grande stagione poetica del romanticismo tedesco – hanno composto poesia scritta, pur con una sua alta musicalità interna verbale e strofica, che però solo dopo è stata sfruttata come testo per musica da musicisti come Schubert, Schumann, Brahms e Wolf. Questi ne hanno fatto delle composizioni a lor modo indipendenti e nuove rispetto al nudo testo poetico.

|| 12 Nonostante il tentativo recente di mostrare il contrario da parte di Cameron 1995, spec. pp. 71–103 (cap. III, The Symposium). 13 Birt 1925, p. 158, e Klingner 1930, p. 76, in tempi in cui non si parlava di simposio greco (trovo ambedue onestamente citati, ma a mio parere non contraddetti, da Wille 1967, p. 248 n. 388). 14 Wille 1967, pp. 253 ss., 260 ss.; vd. anche Draheim–Wille 1985 per una antologia e Draheim 1981 per un panorama musicale moderno di vari autori antichi.

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Quanto alle occasioni delle vere e proprie esecuzioni musicali, ripeto che a Roma mancava proprio la più importante e pressoché unica occasione per l’esecuzione organica e sistematica della poesia lirica monodica, e cioè il simposio15. Esso era in Grecia una vera e propria istituzione politica, che riuniva coloro che appartenevano a un gruppo politico ben individuato, e che in occasione del bere in comune prevedeva alcuni aspetti ritualizzati come il cantare poesia accompagnata dallo strumento musicale (lo strumento a corda, lira o barbiton, e lo strumento a fiato, l’aulòs). Questa presenza della musica ci è attestata dalle fonti, che ne parlano spesso, ma ci è testimoniata anche dai carmi stessi dei poeti greci, che hanno continue allusioni a questa tematica quando, molto di frequente, i carmi cantano lo svolgimento del simposio stesso e la presenza in esso della musica: è a questo proposito che parliamo di poesia m e t a s i m p o s i a l e . A Roma non c’era un’istituzione che anche lontanamente somigliasse al simposio: intrattenimenti simili si potevano praticare, ma non erano certo istituzionalizzati come in Grecia e quindi non davano origine a una letteratura ad essi specificamente destinata. Non vorremo certo trovare a Roma un parallelo greco nella semplice cena romana16, e d’altronde i carmina convivalia, a parte la controversia sulla loro natura, risalgono ad un’epoca che per Roma è addirittura pre–arcaica17. L’ideale del simposio per Orazio è quello che descrive alla fine del libro I (carm. 1. 38): Persicos odi, puer, adparatus, displicent nexae philyra coronae, mitte sectari rosa quo locorum sera moretur. simplici myrto nihil adlabores sedulus curo: neque te ministrum dedecet myrtus neque me sub arta vite bibentem.

5

L’ideale espresso da questa breve ode è quello di un simposio che, dichiaratamente, di cerimoniale non ha altro che il mirto, che incorona sia il signore sia il servitore: niente di più lontano dal formalizzato simposio greco, che per di più

|| 15 Per il simposio posso limitarmi qui a rimandare ai contributi raccolti in Vetta 1983, in Murray 1990 e in Murray–Tecusan 1995. 16 Gellio 19. 9 ci tramanda notizia di una cena, presente il retore Antonio Giuliano, in cui furono cantati versi greci insieme con epigrammi latini. Per testimoni come Marziale, Petronio etc. vd. la ricca documentazione in Wille 1967, nell’indice s. v. Tafelmusik. 17 Sui carmina convivalia e sulla storia della questione vd. Zorzetti 1990; sul rapporto di Orazio con la convivialità vd. Landolfi 1990; su aspetti sociologici della convivialità romana vd. D’Arms 1990.

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era socialmente selettivo. Ora, questo carme è l’ultimo del libro I e, come ha notato Eduard Fraenkel18, non è solo l’ultimo del libro, ma è significativo che sia preceduto dal carme 1. 37, espediente che lo mette anche più in rilievo: nunc est bibendum è esplicitamente ricalcato (attraverso l’incipit) su un famoso carme simposiale di Alceo di alto tenore politico, come grido di vittoria per il successo della propria parte. Il carme 1. 38 è, invece, una dichiarazione di vita e di poetica semplice, che viene espressa anche altrove nell’opera di Orazio19, ma che qui ha valore di programma poetico per la sua posizione rilevata come conclusione di libro. Due simposi a confronto ravvicinato nella pagina autoeditoriale: quello alcaico–romano si conclude col romanissimo superbo | ... triumpho (vd. 31 s.), quello oraziano–romano è, per di più, un simposio campestre (mentre quello greco era stato istituzione cittadina)20. In conclusione: alla cultura del tempo di Orazio mancavano luogo e funzione per un’esecuzione musicale istituzionalizzata dei suoi carmi, che nella loro strutturazione editoriale ci mostrano chiaramente la loro natura libresca.

3. Le antichità musicali in Orazio Queste prime considerazioni sul rapporto poesia/musica mirano a mettere a fuoco, come ho detto, le differenze nelle condizioni generali della comunicazione letteraria (semplice lettura contrapposta a musica) e nelle istituzioni sociopolitiche (mancanza del simposio). Vediamo ora di valutare quella che è apparsa a molti la più importante prova dell’esecuzione musicale delle odi21, e cioè la presenza, in Orazio come nei greci, di antichità musicali (terminologia e strumenti) nella tematica delle odi stesse. Perché il simposio, il komos e altre istituzioni prettamente greche con la loro musica sono in lui molto presenti, e spesso Orazio parla in prima persona come musico. Ma troppo poco si è riflettuto sul fatto che quegli elementi potevano non rispecchiare una realtà veramente romana, ma esser dovuti solo all’imitazione dei modelli: Alceo, Saffo, Anacreonte, Pindaro, per citare i modelli prin-

|| 18 Fraenkel 1957, pp. 297–299. 19 Fraenkel 1957, ibid. 20 Viene da ricordare Theocr. 3, che è un komos, istituzione cittadina, anch’essa trasferita all’ambiente campestre per virtuosismo letterario. 21 Doblhofer 1992, p. 79, sintetizza bene i quattro ordini di testimonianze su cui Wille 1967 e Bonavia–Hunt 1969 fondano la loro fede nella destinazione musicale: il carmen saeculare (vd. qui oltre), la menzione della musica, le affermazioni di tardi grammatici (spec. Mario Vittorino, su cui però vd. Pöhlmann 1965), i codici medievali provvisti di neumi (supra, § 2).

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cipali di Orazio, sono pieni di antichità musicali che solo all’origine (greca) erano referenzialmente legate all’uso vivo della musica nell’esecuzione. Per la situazione oraziana si usa parlare di una rappresentazione mimata della realtà che viene mediata attraverso un letteratissimo rapporto intertestuale22. Se si riesce anche per altre vie, come qui cerco di fare, a dimostrare la destinazione non musicale delle odi, lo statuto della ricca presenza musicale sarà quello di mimesi del fatto musicale. Per m i m e s i si intende qui un espediente con il quale viene descritta in funzione referenziale una realtà che però è assente dal contesto pragmatico di un evento, realtà che è quindi solo letteraria23: mimesi in questa accezionevuol dire “rappresentazione”, nel senso che una realtà è rappresentata, non agìta. È un principio ormai saldamente acquisito che una descrizione, quanto più dettagliata essa è, comporta per lo più l’assenza della realtà descritta, sia sulla scena in un testo drammaturgico come falsa deixis24 sia come fatto referenziale in un testo non scenico25. Quello che è presente nella realtà contestuale, nel contesto pragmatico non ha bisogno di essere menzionato26: ed è proprio l’insistenza e il dettaglio della menzione (che non avrebbe una funzione se si trattasse di realtà) a far sorgere il sospetto e alle volte la certezza di trovarsi di fronte a fatti di mimesi letteraria. Non darei importanza né in un senso né nell’altro al fatto che qualche volta Orazio parla esplicitamente di lettura e di chartae27, visto che sia in greco sia in latino il lessico del ‘cantare’ si confonde frequentemente con quello del ‘parlare’ o del ‘leggere’. Non intendo passare in rassegna tutto il lessico musicale di Orazio28. Darò qui ora solo qualche esempio, scelto fra quelli che più hanno impegnato gli esegeti musicalizzanti. Non vorremo certo fondarci su conoscenze musicali, media-

|| 22 Considerazioni sensate sul simposio mimato in Orazio in Nisbet–Hubbard 1970, p. XV s. Tutto il capitolo (p. XI ss.), The Odes and their Literary Form, è importante per i generi e la topica dei lirici che Orazio prende a modello. 23 Albert 1988 offre un utile panorama, nel quale entra anche Orazio, ma non per la musica. Un antesignano della considerazione mimetica è Weber 1917: quanto più un epigramma, p. es. funerario, è ricco di descrizioni di quadro naturale ‘circostante’ (albero, fonte etc.), tanto più è probabile che sia letterario. 24 Ricordo qui le didascalie sceniche interne ai testi drammaturgici. 25 Per esempio negli inni mimetici (2, 5, 6) di Callimaco. 26 Va tenuto presente che, nel simposio, la tematica metasimposiale è solo una delle possibili. 27 Lo fa di nuovo onestamente Wille 1967, p. 237 nn. 284, 285, 286 (per escluderne poi, giustamente, l’importanza): epist. 1. 19. 35 s.; ibid. 41 s.; carm. 4. 8. 20 ss. e 4. 9. 30 s. 28 Se si vuole esaminare più da vicino il lessico musicale nella sua produzione e soprattutto nelle odi, rimando sempre a Wille 1967 e da ultimo (con bibliografia) a Milanese 1997.

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te attraverso la letteratura, che ci offre epod. 9. 629 (4 ss. ... bibam || sonante mixtum tibiis carmen lyra || hac Dorium, illis barbarum). Rientra nell’uso letterario romano, praticato su larga scala da Orazio, il designare i fenomeni musicali seguendo anche nei particolari la prassi e la teoria greche, soprattutto se mediate da testi letterari. Nel passo in questione vengono contrapposti due strumenti musicali, la tibia, che corrisponde all’aulòs greco come il più comune strumento a fiato, e la lira, che sta per uno qualunque degli strumenti a corda (intercambiabile è in Orazio l’uso di lyra, cithara, fides, testudo, barbiton). La tibia, strumento a fiato, è indicata qui come lo strumento atto ad accompagnare un carmen barbarum; altrove è qualificata come Berecyntia dal monte sito in Frigia, sacro a Cibele (carm. 1. 18. 13 s. [cornu], 3. 19. 18, 4. 1. 22), e quindi come strumento estatico e orgiastico. Lo strumento a corda è invece adatto ad accompagnare un carmen Dorium secondo la tradizione musicale greca, che assegnava all’armonia dorica carattere di serietà, coraggio, nobiltà d’animo etc.30 Qui la contrapposizione è tra il mondo romano, che si richiama all’ethos musicale ‘serio’ dei greci, Dorium, e il mondo barbarico con la sua musica orgiastica, rappresentato da Cleopatra e da quei romani che Orazio ripudia perché si erano messi contro Roma (vv. 11–16 dello stesso epodo). Altre qualificazioni dello strumento a corda confermano il valore di ‘dorico’ del nostro passo: a. p. 216 fidibus ... severis; carm. 1. 32. 13 s. decus Phoebi ... testudo; carm. 3. 4. 4 seu fidibus citharave Phoebi; etc. Tutto questo materiale appare ricavato non solo dalla poesia dei greci, ma quasi addirittura dalla teoria greca dell’ethos musicale, di cui ci restano tante tracce. E proprio in apprezzamento dello sforzo di chi ha voluto rivendicare a Roma una vita musicale autonoma31, fatto che pure va sottoscritto nei suoi limiti, non colpisce la così ostentata aderente fedeltà di Orazio alla tradizione greca nella maggioranza dei casi in cui di musica si parla? La sua è musica, per così dire, letteraria. Q u a n t o p i ù g r e c i s o n o i l suo lessico e la sua cultura musicale, tanto più sospetto dovrebbe apparire il loro eventuale valore ref e r e n z i a l e n e i c o n f r o n t i d i u n a r e a l t à r o m a n a 32. || 29 Se qualcuno volesse vedere qui un carme metasimposiale, si ricordi che si tratta di un epodo, e sulla differenza da Orazio stesso ricercata fra odi ed epodi vd. infra (§ 6, med.). 30 Per l’ethos musicale greco vd. Abert 1899 (spec. p. 74 ss., 80 ss.); Anderson 1966. 31 In particolare Wille 1967. 32 Così anche per odi come 4. 11. 35 s. minuentur atrae | carmine curae, nell’ode a Fillide, dove la musica e il canto come consolazione degli affanni risalgono anch’essi alla tradizione greca dell’ethos musicale. Sia 4. 11 sia 3. 28 (a Lide) sono delle cenae romane, neanche poi tanto mascherate da simposi, nella forma di biglietto d’invito (Einladungsgedicht: von Albrecht 1993, p. 95 e n. 60), con precetto di cantare alla cena stessa espresso come programma (3. 28. 9 s., 11

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Ha tanto confortato gli interpreti musicalizzanti il fatto che Orazio, quando espone il suo grandioso programma, si serve di lessico musicale. Lo troviamo per esempio in carm. 4. 3. 23, dove si presenta come Romanae fidicen lyrae, come erede dei lirici greci; in epist. 1. 3. 12 s. etc. Si pensi soprattutto a carm. 3. 30. 13 s. (princeps Aeolium carmen ad Italos || deduxisse modos): questa è l’ode exegi monumentum aere perennius, ed è qui che si mostra quanto mai romano. Anche se per ipotesi (assurda) un poeta greco arcaico avesse raccolto i suoi carmi destinati alle esecuzioni occasionali, non saprei immaginarlo a fare una dichiarazione programmatica come questa, che toglie la propria poesia dall’effimero dell’occasione e la proietta nella perennità di una acquisizione che s’identifica con il proprio stesso corpus poetico, con il suo liber affidato alla pagina33. Decisamente contro la corrispondenza a una realtà musicale è Fraenkel34, che considera semplicemente mimate tutte le situazioni in cui Orazio parla di cithara, barbiton, lyra come riferite a se stesso in quanto esecutore: ‘suonare lo strumento a corda’, o ‘cantare’, erano metafore ormai addirittura spente per ‘essere poeta lirico’, o poeta tout court. Un buon esempio di mimesi è l’ode 4. 2 (Pindarum quisquis). Com’è noto, l’ode è la risposta all’invito di Iullo Antonio a Orazio a celebrare il ritorno di Augusto, partito da Roma nel 16 a. C. per gravi ragioni militari e destinato a tornarvi solo nel 13, invito che Orazio gira a Iullo stesso (33 s. concines maiore poeta plectro || Caesarem ...), riservando a sé una parte minore nella celebrazione (27 s. ego apis Matinae | more modoque ..., 45 s. tum meae, si quid loquar audiendum, || vocis accedet bona pars ...). Il carme è il programma della celebrazione (un trionfo, che poi non ebbe luogo), con tutte le ‘didascalie’ musicali del caso: 33 concines, plectro; 41 s. concines laetosque dies et urbis || publicum ludum; poi, in prima persona, 45 s. citato supra, che continua con 46 s. et ‘o sol || pulcer, o laudande’ canam; poi 49–51 teque, dum procedis, ‘io triumphe’ || non semel dicemus, ‘io triumphe’ ||civita somnis. Quello che rivela la mimesi è l’indicazione

|| s., 16; 4. 11. 34–36). Non si tratta tanto di affermare o negare che alle cenae si cantasse (per il sì, giustamente, von Albrecht 1993, p. 97), ma di chiarirsi se alla cena si dovesse cantare o no l’ode oraziana che di volta in volta abbiamo davanti. 33 Manca, credo, uno studio esauriente sulla volontà di diffusione dell’opera letteraria antica sull’asse del tempo e sull’asse dello spazio: qui Orazio si pone orgogliosamente sull’asse del tempo. Quanto all’asse del tempo (dell’immortalità dell’opera e dell’autore) da Omero a Pindaro vd. Goldhill 1991, spec. pp. 69–166. 34 Fraenkel 1957, p. 403 ss.

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dei testi da cantare in discorso diretto35: vedremo quanto simile sarà quello che ci sarà da dire a proposito di carm. 4. 6 (§ 5). Le antichità musicali, in conclusione, appaiono esser presenti solo nel testo di Orazio, non nella realtà referenziale. La loro funzione referenziale si realizza attraverso un rapporto intertestuale con i modelli greci: sarebbe improprio parlare, per lui, di metasimposio, ovvero di meta–musica. Convinciamoci del fatto che Orazio in tutti questi casi dice una innocente ‘bugia’ letteraria, innocente perché dovuta all’amore per i suoi modelli, che invece dicevano la verità: nell’ampio spazio metaforico creato dall’intertestualità il pericolo del torto sta dalla parte di chi non si orienta, di chi non decodifica.

4. La prova di una innovazione metrica oraziana Non insisto oltre nella confutazione di coloro che credono di ascoltare Orazio cantare o far cantare i suoi carmi sulla base della terminologia musicale: riconosco che troppo forte è stato per altri, e forse è anche ora per me, il pericolo di far violenza ai testi secondo il proprio pregiudizio in un senso o nell’altro. Mi basterebbe aver messo in guardia di fronte alla loro ambivalenza (§ 3) e mi contento di quanto ho detto, in negativo, sulla mancanza di luogo sociologico (e quindi di occasione) e sulla presenza di una cultura del libro (§ 2). Ma vorrei fornire ora una prova, che a me sembra forte, dell’assenza di musica d’autore per le odi di Orazio, una prova che ricavo da un’analisi interna, e precisamente metrica, dei suoi testi. La considero per noi preziosa per valutare in lui sensibilità e consapevolezza e, conseguentemente, le sue intenzioni. Trovo una felice anticipazione dell’idea in Heinze, che però non ne traeva tutte le implicazioni36. Con poche eccezioni, Orazio notoriamente normalizzava l’incisione al quinto elemento di tutti i suoi endecasillabi saffici e alcaici:

h g h h h | ... endecasillabo alcaico x h g h h | ...

endecasillabo saffico

C’è da credere che sapesse bene che i greci non lo facevano, che cioè erano molto liberi nella fine di parola in quei versi, e quindi introduceva un raffina|| 35 Questa è una ‘mimesi dichiarata’ (che è in sé una forma di p r e c e t t o ), e rispetto a quelle ‘non dichiarate’ vedo lo stesso rapporto che c’è tra similitudine e metafora. 36 Heinze 1918, p. 68 (II, 3): partiva comunque, giustamente, dal ‘trauma’ del carmen saeculare (vd. qui oltre).

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mento, una ‘normalizzazione’ che doveva sapere essere tutta sua: in Catullo non la troviamo37. Quando, per di più, isolava il coriambo centrale con fine di parola nei suoi asclepiadei maggiori e quando separava i due coriambi nei suoi asclepiadei minori operava un’innovazione che anche qui sapeva essere sua, e che era ancor più appariscente per la ricercata monotonia ritmica che creava: carm. 1. 11. 1–3

tu ne quaesieris, | scire nefas, | quem mihi quem tibi finem di dederint, | Leuconoe, | nec Babylonios temptaris numeros. | ...

carm. 1. 1. 1

Maecenas atavis | edite regibus | ...38

Faceva il virtuoso, ma lo faceva a ragion veduta, e dobbiamo essergli grati perché, con questa sua idea di normalizzare le fini di parola, ci ha dato una preziosa indicazione implicita di quanto era cambiata la sua sensibilità nei confronti della grande poesia lirica greca. I versi lirici greci non avevano incisioni fisse: non era il caso di parlare di métrique verbale, semplicemente perché a strutturare il verso era la musica, la frase melodica, e non la parola39; mentre l’esametro e gli altri versi recitativi, sì, avevano le incisioni, perché, avendo una musica di grado ridotto (come la parakatalogé) o niente musica del tutto (come nel trimetro giambico del dramma), avevano bisogno della métrique verbale per strutturare il discorso ritmico attraverso la parola. A chi poteva venire l’idea di introdurre incisioni nei versi lirici greci se non a chi, come Orazio, non usava più la musica? Secondo me questa è una prova molto forte del fatto che le odi di Orazio erano composte per la lettura, declamata o silenziosa40, che valorizzava il virtuosismo delle (pur monotone) incisioni41. Orazio introdusse nel verso lirico

|| 37 Questo non vuol dire, ovviamente, che Catullo fosse necessariamente musicato all’origine. 38 Vd. infra per il trattamento sistematico di questi due tipi di verso. 39 Questa della rilevanza della métrique verbale solo per i versi recitativi e non per i lirici nel mondo greco è una mia vecchia idea, Rossi 1966, spec. pp. 195–204 (e la riprova interna era stata per me nel 1965 il confronto fra l’esametro recitativo e gli pseudo–esametri, in realtà dattilo–eptriti, di Pind. Nem. 9, str. 1, su cui ora Rossi 1996, pp. 273 n. 11, 310 s.): ma Dietmar Korzeniewski mi disse nel 1971 a Colonia che aveva sentito formulare questa idea da Rupprecht nelle sue lezioni a Monaco. Quando scrivevo quell’articolo non mi ero accorto dell’intuizione di Heinze 1918 (vd. n. 36, supra); e del resto Seel–Pöhlmann 1959 avevano rilevato che Orazio trattava versi lirici come recitativi. 40 Sul tipo di lettura vd. n. 8, supra. 41 Questa monotonia, che al nostro gusto risulta fastidiosa, sembra un eccesso da un punto di vista ritmico e, anche pensata in versi lirici divenuti recitativi, non è ritmicamente greca (basta pensare alla mobilità delle incisioni dell’esametro e del trimetro giambico). Sembra qualcosa che i critici letterari antichi avrebbero chiamato κακόζηλον. Evidentemente per Orazio la mono-

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un espediente tipico del verso recitativo: poté farlo in una cultura che non distingueva più fra versi originariamente cantati e versi solo recitati42. Ma lui era in grado di fare questa distinzione? Aveva composto poesia libresca, e per nostra fortuna anche il carmen saeculare: possiamo vedere differenza di comportamento all’interno della sua produzione? Ebbene, la prova palmare del fatto che in Orazio il suo espediente di métrique verbale era frutto di una sensibilità del tutto consapevole la trovo proprio in un esame interno del carmen saeculare, composto in strofi saffiche, confrontato con il resto della sua produzione lirica. Presento qui un prospetto dei numeri dei versi con il numero delle violazioni dell’incisione dopo il quinto elemento, rispettando la sequenza cronologica della pubblicazione dei suoi carmi: libri I–III (23 a. C.), con un totale di 447 end. saff.; violazioni 7 (1.57 %)43; carm. saec. (17 a. C.), con un totale di 57 end. saff.; violazioni 19 (33.34 %)44; libro IV (dopo il 13 a. C.), con un totale di 105 end. saff.; violazioni 22 (20.96 %)45.

Cerchiamo di interpretare i dati statistici. Prima di tutto richiamiamo le date di pubblicazione delle odi: i libri I–III nel 23 a. C., il carmen saeculare nel 17, il IV libro dopo il 13. La quantità infima di violazioni alla normalizzazione delle incisioni nei libri I–III (1.57 %) segnala una volontà normalizzatrice pienamente realizzata. Poi viene il carmen saeculare, che, con la sua improvvisa impennata delle violazioni (33.34 %), mostra una chiara disattenzione al fenomeno, che si può spiegare solo con il fatto che il carme fu pensato per una esecuzione cantata. È qui che io vedo una sensibilità oraziana alla métrique verbale dei versi reci|| tonia ritmica doveva mettere in risalto il suo virtuosismo normalizzatore, al quale veniva sacrificata la varietà ritmica. Mi pare, questa, l’unica spiegazione che si possa dare per tanto rigore, che rientrava d’altra parte in una tendenza romana anche nei versi recitativi veri: l’esametro latino preferisce con assoluta prevalenza l’incisione semiquinaria. 42 In Rossi 1966 consideravo implicitamente il fatto come segno di un inconsapevole cambiamento di sensibilità da parte di Orazio: ma ora sono convinto che Orazio era perfettamente consapevole del significato, del valore e della funzione della sua sperimentazione metrica (vd. infra, nel testo). 43 Nei libri I–III: 1. 10. 1, 10. 6 (–que), 10. 18 (–que), 12. 1, 25. 11, 30. 1; 2. 6. 11. Il numero di violazioni scenderebbe ulteriormente se si considerasse giustificata, come alcuni fanno, fine di parola virtuale prima di –que: ma preferisco per prudenza includere sia i casi di –que sia i casi di composizione verbale. Nessun cambiamento di criterio può intaccare il valore delle statistiche qui presentate. 44 Nel carm. saec.: 1 (–que), 14, 15, 18, 19 (–que), 35, 39, 43, 51, 53 (–que), 54 (–que), 55, 58, 59 (–que), 61, 62 (–que), 70, 73, 74 (–que). 45 Nel libro IV: 2. 7 (–que), 2. 9, 2. 13 (–que), 2. 17, 2. 23, 2. 33, 2. 38, 2. 41 (–que), 2. 47, 2. 49, 2. 50, 6. 10, 6. 13, 6. 27, 6. 30 (–que), 6. 33, 6. 35, 11. 23, 11. 27, 11. 29, 11. 30, 11. 34.

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tativi, che non so spiegarmi se non con la forte volontarietà (un vero Kunstwollen) della normalizzazione, abbandonata quando risultò chiaro che la strutturazione a incisione (métrique verbale) non avrebbe avuto più alcun effetto nell’esecuzione musicale, che per di più era corale. Se nel 17 a. C. Orazio, che aveva alle spalle già una lunga carriera di poeta lirico, rinnegò una norma che si era autoimposta e che aveva rispettata con fedeltà, lo fece evidentemente perché aveva presente la destinazione musicale del suo carme celebrativo, che era una novità rispetto alla destinazione puramente recitativa del resto della sua produzione. Come si può spiegare, allora, il persistere delle violazioni, sia pure in misura minore (20.96 %), nelle tre odi saffiche del libro IV (2, 6, 11)? Dobbiamo pensare che tutto il libro IV fosse destinato alla musica? No, e per una ragione ben precisa. Tutti gli altri versi che Orazio aveva sottoposto alla normalizzazione dell’incisione, presenti nell’intero corpus46 , si comportano esattamente nello stesso modo sia nei libri I–III sia nel IV, e cioè con severo rispetto della regola autoimposta. Ecco il prospetto: end. alc.: 634 occorrenze, di cui 106 nel libro IV; violazioni 3 (0.47 %)47; ascl. min.: 507 occorrenze, di cui 129 nel libro IV; violazioni 1 (0.78%)48; ascl. magg.: 32 occorrenze, di cui 8 nel libro IV; violazioni 1 (3.13%)49.

Per falsare il meno possibile queste statistiche, conviene evitare di frazionarle e sommare le occorrenze dei tre tipi di verso (1173) e le violazioni (5): ne viene uno 0.42 % complessivo di violazioni. C’è allora da chiedersi perché mai solo le tre odi saffiche del libro IV presentino tanti endecasillabi con violazione (22 su 105: 20.96 %), con una percentuale che è così vicina al saffico carmen saeculare (19 su 57: 33.34 %)50. La spiegazione più ovvia, che forse è la giusta, sembra essere che, dopo l’esperimento compositivo a più larga maglia normativa del carmen saeculare, Orazio abbia continuato a comporre odi saffiche ‘con licenza’ per la lettura, pur continuando a trattare gli altri versi con la consueta scrupolosa severità.

|| 46 Nel libro IV: 2. 7 (–que), 2. 9, 2. 13 (–que), 2. 17, 2. 23, 2. 33, 2. 38, 2. 41 (–que), 2. 47, 2. 49, 2. 50, 6. 10, 6. 13, 6. 27, 6. 30 (–que), 6. 33, 6. 35, 11. 23, 11. 27, 11. 29, 11. 30, 11. 34. 47 1. 16. 21, 1. 37. 5 (de–promere), 4. 14. 17. 48 2. 12. 25 (de–torquet); escludo 4. 8. 17, normalmente espunto da molti in omaggio alla lex Meinekiana 49 1. 18. 16 (per–lucidior); 1. 18. 5 si può spiegare con valore ortotonico di aut, e lo escludo. 50 Di fronte alla brutale univocità di tutte le altre statistiche, non mi sento onestamente di dar significato alla differenza fra 33.34 % e 20.96 %.

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5. Ancora sulla mimesi musicale Ma c’è una controprova che a me sembra davvero notevole, un altro caso di mimesi51. Una certa importanza è stata data dagli interpreti musicalizzanti al carme 4. 6, che è proprio uno dei tre carmi in strofe saffica del libro IV52. In esso Orazio si rivolge a un coro di fanciulli e di fanciulle istruendoli ad eseguire nel canto le sue parole (vv. 31–44): virginum primae puerique claris patribus orti, Deliae tutela deae, fugacis lyncas et cervos cohibentis arcu, Lesbium servate pedem meique Pollicis ictum, rite Latonae puerum canentes, rite crescentem face Noctilucam, prosperam frugum celeremque pronos volvere mensis. nupta iam dices ‘ego dis amicum, saeculo festas referente luces, reddidi carmen, docilis modorum vatis Horati’.

35

40

È un carme molto interessante, perché è come se ci facesse assistere alle prove di un concerto: ma è questo uno dei casi in cui le prove musicali sono chiaramente mimate, come del resto assai sensatamente osservava Porfirione53 nello scolio a 4. 6. 35 ss., dove, commentando 35 s. meique pollicis ictum54, diceva candidamente: id est: modulationem lyrici carminis. et suaviter hoc dicitur, quasi ipsam lyram percutiat55.

Va notato come Orazio insista in anafora sul rite (37, 38), che vuol dire “secondo la norma, il rito” e che ha a che fare anche, ovviamente, con la musica56.

|| 51 Sulla mimesi in carm. 4. 2 vd. supra, § 3, fin. 52 Presenta 6 violazioni su 33 endecasillabi (18.18 %, vicinissimo al 20.96 % dell’intero IV libro): 10, 13, 27, 30 (–que), 33, 35. 53 Non è buon metodo fondarsi su affermazioni scoliastiche (tarde o molto tarde) per appoggiare argomentazioni moderne: ma Porfirione viene qui a proposito perché si oppone proprio all’uso scoliastico di musicalizzare! 54 Lascio qui da parte il dibattuto problema dell’ictus. 55 Onestamente, come sempre, riportato da Wille 1967, 239 n. 97. 56 A tutt’altro che alla musica si riferisce il rite di carm. saec. 13.

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Ma tutto qui è precettistico e quindi musicalmente mimetico. La spia più eloquente è l’introduzione, anche qui (come in 4. 2, supra § 3, fin.), del canto in discorso diretto a 41–44: questo è proprio il poeta che si rivolge al suo coro, come un chorodidáskalos che lo sta istruendo suggerendogli le parole da cantare, il poeta che ancora una volta rivela la mimesi. Ora, a quale esecuzione musicale si riferiva Orazio con 4. 6? Proprio – guarda caso – all’esecuzione del carmen saeculare, che per mezzo di questa ode, ovviamente non cantata, intendeva rievocare. È importante che il carme saeculare (17 a. C.) sia stato ordinato fuori dal libro IV delle odi (dopo il 13), ed è significativo che un’occasione così importante per la politica augustea sia presente nel corpus come ‘doppio’ puramente letterario, così come era presente carm. 4. 2, anch’esso musicalmente mimetico, altra grande occasione celebrativa di Augusto, che non aveva però avuto realizzazione (§ 3, fin.). Se l’avesse avuta, c’è da credere che il carme veramente cantato sarebbe stato accoppiato nell’edizione, e nella tradizione, al carmen saeculare. Del resto, a ulteriore controprova che il carmen saeculare fu veramente cantato, c’è forse in esso traccia di mimesi musicale? No: tutto quello che riguarda l’esecuzione musicale sono gli ultimi due versi (75 s.): doctus et Phoebi chorus et Dianae | dicere laudes. Ma qui l’esecuzione è agita, non mimata, in forma di invocazione finale. Tutto quello che quest’ode ha di didascalico (p. es. 5–8, 21–24) non è altro che l’enunciazione delle norme imposte dalla tradizione per il rinnovo voluto da Augusto dei ludi saeculares, di cui si dà una specie di aition. Da notare è la corrispondenza semantica di 4. 6. 43 docilis, dove è il coro che canta nell’ambito dell’azione scenica mimata messa in opera da Orazio, e carm. saec. 75 doctus, dove è invece il coro stesso che canta in prima persona. In altre parole: il carme 4. 6 è notoriamente il pendant letterario strettamente legato al carmen saeculare, che era il carme composto veramente per il canto. Nel carme letterario sono presenti notazioni musicali, proprio perché l’assenza della musica creava le condizioni perché la musica stessa venisse semplicemente mimata; ed è altamente significativo il fatto che nel carmen saeculare queste notazioni musicali manchino, proprio perché esso era composto realmente per la musica.

6. Orazio poeta latino con orecchio (quasi) greco Questi secondo me fortunati test promuovono Orazio a conoscitore molto sensibile della poesia greca e delle ragioni del suo configurarsi con le sue leggi com-

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positive. Uno dei grandi meriti di Heinze57 fu quello di aver negato, contro Christ e Kiessling, che Orazio seguisse per il suo versificare astruse teorie metriche in circolazione al suo tempo e di aver invece affermato che la sua scuola furono i poeti greci stessi. Praticava quello che predicava: a. p. 268 s. vos exemplaria Graeca || nocturna versate manu, versate diurna. Esiste un cahier de doléances per alcune sue singole incomprensioni della tecnica metrica greca58, al quale personalmente aderisco. Ma mi compiaccio di aver trovato anni fa59 una ulteriore prova alla tesi di Heinze mostrando come, nel trattamento degli asinarteti, Orazio si attenesse direttamente alla tecnica del suo modello Archiloco: leggeva il suo Archiloco, e non le teorie dei grammatici. Tengo a lasciar parlare Heinze stesso60, che ci presenta addirittura con spirito la ‘competenza’ di Orazio: L’ipotesi Christ–Kiessling ci mostra un poeta che, quando decide di comporre delle odi, si rifà a un manuale metrico recentemente apparso costruito su astrusa teoria e che con faticosa diligenza (mit peinlicher Befliessenheit) imita sillaba per sillaba quello che nel manuale stesso gli viene insegnato come la ‘giusta’ metrica eolica, o che addirittura va oltre quello che là viene preteso (über das dort Verlangte hinausgeht) e che, felice di aver capito l’origine dei versi dall’unione di due cola, li vuole martellare (einhämmern) nell’orecchio dei suoi lettori facendo intervenire fine di parola alla fine di ogni colon. Io vorrei, invece, tributare onore al poeta (den Dichter zu Ehren bringen) che ha sentito i versi lesbici con l’orecchio del suo tempo e la cui tecnica metrica si colloca all’interno dello sviluppo della tecnica metrica ellenistico–romana61.

Da una prova ulteriore che i musicalizzanti hanno portato a favore della destinazione musicale traggo un ulteriore forte indizio della sensibilità e – a mio parere – addirittura della informazione storica di Orazio. Si tratta della ben nota

|| 57 Heinze 1918. 58 Non si smetterà di discutere sulla sua possibile incomprensione della metrica di Pindaro (carm. 4. 2. 11 s.), di Anacreonte (epod. 14. 9–12) e perfino di Plauto (a. p. 268–274). Ma al suo punto più basso Orazio è quando tratta incoerentemente (alle volte con fine di verso e alle volte con sinafia) il passaggio dal terzo al quarto colon della strofe saffica. Confesso che, di fronte ai suoi meriti e alla sua competenza, devo ancora darmi una ragione di questi fatti. 59 Rossi 1978, spec. p. 37 s., a proposito del trattamento libero della pausa fra i due cola che costituiscono gli asinarteti. 60 Heinze 1918, p. 31 s. (cap. I, 6). 61 Le ultime parole sono la formulazione, qui sintetica, del fatto che Heinze vedeva nella tecnica oraziana, che era rigorosa, il punto di arrivo di tendenze riscontrabili nei poeti ellenistici (Heinze 1918, pass.).

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lex Meinekiana62, per cui Orazio sembra generalizzare la strofe di quattro versi, anche quando usa versi stichici o distici63. Evidentemente considerava paradigmatiche le strofi eoliche da lui sentite (pur a torto64) come di quattro versi. Dal lontano lavoro di Otto Jahn fino al recente ed esauriente studio di Bohnenkamp65, alcuni hanno creduto di vedere nella lex un espediente lirico–musicale. Sul lirico sono d’accordo, perché è una delle normalizzazioni che Orazio virtuosisticamente si è imposto anche nella strofica; ma non riesco a fare il salto dal lirico al musicale, che è un passaggio assolutamente arbitrario66. A me sembra, anzi, che anche qui si manifesti il suo grandioso spirito di sistema. Le strofette epodiche distiche, che nei carmi organizza a coppia per la lex Meinekiana67, nel libro degli epodi le tratta correttamente come strofette distiche, senza produrre sistematicamente numero pari di distici: dei 16 epodi ‘epodici’ (il 17 è in trimetri giambici stichici), solo sette (4, 6, 7, 10, 11, 14, 15) hanno numero di versi divisibile per quattro, il che risulta essere quindi puro caso68. Ne abbiamo conferma definitiva dal confronto diretto fra epod. 12 e carm. 1. 7 e 28 (esametro + alcmanio): le due odi rispettano la lex Meinekiana, ma non l’epodo! Perché così facevano i greci nel trattare gli epodi, e soprattutto, anche qui, il suo Archiloco69. Il comportamento di Orazio è conservazione corretta negli epodi e lecita innovazione nelle forme epodiche assunte nelle odi. La sua libertà consiste, in questo caso, nell’avere ammesso come liriche (e cioè meliche nel senso greco) || 62 Formulata da August Meineke nella sua seconda edizione di Orazio, Berlin 1854, p. XLIII s. (ma già applicata nella prima): Bohnenkamp 1972, p. 4 n. 14. 63 Con la sola eccezione di carm. 4. 8, ode che è stata corretta. 64 A torto, perché le strofi eoliche sono di tre versi (il terzo e il quarto colon formano un verso unico): aveva dalla sua la prassi editoriale alessandrina, che scriveva le strofi su quattro righi. 65 Jahn 1867; Bohnenkamp 1972. Ricordo che Otto Jahn fu archeologo, filologo e musicologo, per cui la sua adesione alla corrente musicalizzante è culturalmente giustificabile e, in sé, interessante. 66 Lo è anche per von Albrecht 1993, pp. 81, 99. 67 Per le strofette epodiche testimoniate in greco rimando a Rossi 1978, tav. I: carm. 4. 7 (str. Ia, esametro + hemiepes), 1. 7, 28 (str. II, esametro + alcmanio), 1. 4 (str. XV, alcmanio e itifallico [con semplice incisione] + trimetro giambico catalettico); per le altre mi riferisco ai systemata carminum di Klingner:carm. 1. 3, 13, 19, 36; 3. 9, 15, 19, 24, 25, 28; 4. 1, 3 (syst. IV, gliconeo + asclepiadeo min.); 1. 8 (syst. VII, aristofaneo + saffico maggiore); 2, 18 (syst. XII, ipponatteo + dimetro trocaico catalettico). È possibile (ma non probabile) che alcune delle forme strofiche non attestate in greco fossero non greche, ma la prudenza è d’obbligo, potendosi sempre reperire materiale nuovo: prevale l’opinione che potrebbe trattarsi di poesia alessandrina. 68 Da Bohnenkamp 1972, p. 9 e n. 43, imparo che già G. Jachmann, «Philologus» 90, 1935, 350 n. 27, sfruttava questo diverso trattamento delle forme epodiche come (giusta) conferma della validità della lex Meinekiana. 69 Che Orazio seguiva anche per la costruzione interna degli asinarteti, vd. supra e n. 59.

400 | Sezione 1: Metrica

delle strofette che in greco appartenevano ad altro genere poetico (che tradizionalmente andava con l’elegia) e nell’averle adattate alla sua idea tetrastica della strofe, ma solo nelle odi. Sapeva bene quello che faceva. Ora, dal III sec. a. C. in poi, chi praticava metrica lirica greca nel bacino del Mediterraneo? Intendo per pratica della lirica qualcosa che vada al di là del semplice distico elegiaco, divenuto quasi l’unica forma lirica in uso. Ricordiamo il per vacuum (epist. 1. 19. 21) citato all’inizio (§ 1). Molto sarà andato perduto nel mondo greco ellenistico, ma non ci sono tracce di polimetria che vada oltre al non molto che troviamo nel libro XIII dell’Antologia. Se cerchiamo qualche collega greco di Orazio, la nostra recensio è assai misera: Callimaco con la sobria varietà dei Giambi, Sotade con i suoi bizzarri sotadei, Cercida con i suoi prudenti dattilo–epitriti, l’Inno a Roma di Melinno in cinque strofi saffiche (forse dell’inizio del I sec. a. C.). Fra gli arcaici latini e Marziale abbiamo solo i geniali cantica di Plauto, la sobria varietà dei neoterici e di Catullo. In nessuno troviamo la presenza di tanta varietà di metri e di un così formidabile numero di sistemi strofici. Per quello che non è attestato ma che forse era presente anche in greco, Orazio ci serve da integrazione, come fosse stato una specie di pinacografo metrico. Ecco perché aveva perfettamente ragione di essere orgoglioso della ripresa, da lui operata, della poesia greca. E non ha neanche avuto seguito70. Mi permetto ormai senza esitazioni la formulazione paradossale presentata all’inizio: Orazio fu l’unico lirico greco di ampio respiro non solo dell’età sua, ma anche di alcuni secoli di letteratura alessandrina e romana. Per il mondo latino non c’è da meravigliarsi; per quello greco neanche, perché la caduta del legame fra poesia e musica fu un deterrente sufficiente che spinse all’abbandono di forme poetiche complesse che erano nate con la funzione di servire a quel connubio. Questa situazione, ben lontana dal diminuirla, aumenta l’audacia del grandioso programma oraziano.

7. Conclusioni Vorrei aver almeno rinforzato la tesi che le odi di Orazio non erano cantate, ma erano destinate a una lettura recitativa. La testimonianza del carmen saeculare non prova se non che una ode fu cantata da due cori per una singola occasione

|| 70 Se ha avuto qualche seguito, lo ha avuto molto parziale e tardo: Rosellini 1997, p. 917 (un gusto per la polimetria si riscontra in Ausonio e in Prudenzio, più limitatamente in Paolino di Nola).

Orazio, un lirico greco senza musica | 401

solenne. Testimonianze esplicite per l’uso del canto – monodico, s’intende – non ce ne sono per i carmi in generale come genere letterario. E, se troviamo testimonianze esterne dell’esecuzione occasionale di uno o di qualche carme (§ 2), possiamo tranquillamente dare ad esse la nostra fede: sarebbe assurdo negare la possibilità che qualche volta i carmi fossero anche cantati, in riunioni mondane para–simposiali. E sarebbe proprio un caso tipico di eccezione che confermerebbe la regola e non sarebbe che l’anticipo della fortuna musicale di Orazio dal medioevo in poi (§ 2). Il risultato di questa indagine non è solo la precisazione di un modo di esecuzione della lirica oraziana, che non era composta per la resa musicale bensì per la recitazione e la lettura, ma – da quanto si è visto – è anche e soprattutto il riconoscimento della coscienza che Orazio ebbe delle mutate condizioni della comunicazione letteraria rispetto ai suoi modelli greci, coscienza che per noi è riconoscibile attraverso la sua effettiva operatività. Apportò delle innovazioni (le fini di parola generalizzate) là dove sentiva che erano in qualche modo opportune in una lirica che non si strutturava più attraverso la frase musicale ma attraverso la parola, la métrique verbale. Ma là dove, in via eccezionale come nel carmen saeculare, a strutturare l’esecuzione era la resa musicale, rinunciò a quell’innovazione. Le sue scelte di tecnica versificatoria derivavano da una viva coscienza dell’esecuzione reale. La testimonianza del carmen saeculare, interna al testo, e il confronto con il carme 4. 6 con la sua così scoperta mimesi ci confermano come prove certe quella che finora poteva sembrare ai più prudenti un semplice argomento ex silentio, e cioè che quel carme corale fu l’unico composto per la musica71.

Bibliografia H. Abert, Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik, Leipzig 1899 W. Albert, Das mimetische Gedicht in der Antike. Geschichte und Typologie von den Anfängen bis in die augusteische Zeit, Frankfurt/Main 1988 M. von Albrecht, Musik und Dichtung bei Horaz, in AA. VV., Atti del Convegno di Venosa (8–15 novembre 1992), Venosa 1993, pp. 75–100 W. D. Anderson, Ethos and Education in Greek Music, Cambridge (Mass.) 1966 L. Argentieri, Epigramma e libro. Morfologia delle raccolte epigrammatiche premeleagree, «ZPE» 121, 1998, pp. 1–20 Th. Birt, Horaz’ Lieder. StudienzurKritik und Auslegung, Leipzig 1925 K. E. Bohnenkamp, Die horazische Strophe. Studien zur lex Meinekiana, Hildesheim 1972

|| 71 Per questo lavoro debbo molto agli amici del seminario romano. Un grazie speciale a Lucio Ceccarelli.

402 | Sezione 1: Metrica

N. A. Bonavia–Hunt, Horace the Minstrel. A Practical and Aesthetic Study of his Aeolic Verse, Kineton 19692 M. F. Burnyeat, Postscript on Silent Reading, «CQ» 47, 1997, pp. 74–76 A. Cameron, Callimachus and his Critics, Princeton 1995 A. Cavarzere, Sul limitare. Il “motto” e la poesia d’Orazio, Bologna 1996 J. D’Arms, The Roman Convivium and the Idea of Equality, in Murray 1990, pp. 308–320 E. Doblhofer, Horaz in der Forschungnach 1957, Darmstadt 1992, pp. 76–81 (Metrik) J. Draheim, Vertonungen antikerTexte vom Barock bis zur Gegenwart, Amsterdam 1981 J. Draheim – G. Wille, Horaz–Vertonungen vom Mittelalter bis zur Gegenwart. Eine Anthologie, Amsterdam 1985 Ed. Fraenkel, Horace, Oxford 1957 A. K. Gavrilov, Techniques of Reading in Classical Antiquity, «CQ» 47, 1997, pp. 56–73 S. Goldhill, The Poet’s Voice. Essays on Poetics and Greek Literature, Cambridge 1991 R. Heinze, Die lyrischen Verse des Horaz, «Ber. Sächs. Akad. d. Wiss.», Philol. –hist. Kl. 70. 4, Leipzig 1918 (= Vom Geist des Römertums, Stuttgart 19603, pp. 227–294; mancando nella ristampa la corrispondenza delle pagine dell’originale, sarà da quest’ultimo che citerò, dando però anche capitolo e paragrafo) O. Jahn, Wie wurden die Oden des Horatius vorgetragen?, «Hermes» 2, 1867, pp. 418–433 W. Kissel, Horaz 1936–1975, in ANRW II, 31.3, Berlin – New York 1981, pp. 1405–1558, spec. 1465–1467 (Metrik), 1469 (Musik) F. Klingner, Horazische und moderne Lyrik, «Antike» 6, 1930, pp. 65–84 L. Landolfi, Banchetto e società romana arcaica, Roma 1990 A. La Penna: vd. Pasquali 1920 G. Milanese, Musica, in Enciclopedia oraziana, II, Roma 1997, pp. 921–924 O. Murray (ed.), Sympotica, Oxford 1990 O. Murray – M. Tecusan (edd.), In vino veritas, Oxford 1995 R. G. M. Nisbet – M. Hubbard, A Commentary on Horace Odes Book 1, Oxford 1970 G. Pasquali, Orazio lirico, Firenze 1920 (rist. con intr. di A. La Penna, Firenze 1964) E. Pöhlmann, Marius Victorinus zum Odengesang bei Horaz, «Philologus» 109, 1965, pp. 134– 140 (rist. in Beiträge zura ntiken und neueren Musikgeschichte, Frankfurt etc. 1988, pp. 135–143) M. Rosellini, Metri lirici, in Enciclopedia oraziana, II, Roma 1997, pp. 912–919 L. E. Rossi, La metrica come disciplina filologica, «RFIC» 94, 1966, pp. 185–207 L. E. Rossi, Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini. Sull’autenticità delnuovo Archiloco, in AA. VV., Problemi di metrica classica, Univ. di Genova, Fac. Di Lettere, Ist. di Filol. Class. e Medioev., 1978, pp. 29–48 + tre tavole L. E. Rossi, Letteratura greca. Con la collaboraz. di R. Nicolai, L. M. Segoloni, E. Tagliaferro, C. Tartaglini, Firenze 1995 L. E. Rossi, Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (edd.), Struttura e storia dell’esametro greco, II, Roma 1996, pp. 271–320 (da «StudUrb» 39, 1965, pp. 239–273, rivisto e con un Post–scriptum 1995) O. Seel – E. Pöhlmann, Quantität und Wortakzent im horazischen Sapphiker, «Philologus» 103, 1959, pp. 237–280 M. Vetta (ed.), Poesia e simposio nella Grecia antica, Roma – Bari 1983 L. Weber, Steinepigramm und Buchepigramm, «Hermes» 52, 1917, pp. 536–557 G. Wille, Musica Romana, Amsterdam 1967 N. Zorzetti, The Carmina Convivalia, in Murray 1990, pp. 289–307

[Recensione] Maria Chiara Martinelli, Gli strumenti del poeta. Elementi di Metrica greca, Bologna (Cappelli Editore) 1995, pp. IX, 339. Il manuale si presenta come un compromesso, utile per studenti di vari livelli, fra il manuale scolastico e l’esposizione scientifica. Dell’uno ha la chiarezza espositiva e qualche inevitabile pleonasmo; della seconda ha un notevole rigore teorico, e va detto che è questa seconda qualità, assolutamente benvenuta, a far prevalere l’aspetto e la funzione scientifica. È forse per rispettare quella che nelle intenzioni dell’A. (p. III) dev’essere anche la funzione scolastica che l’A. fa sentire qualche volta la mancanza della prospettiva storica della ricerca moderna fin da Boeckh, e cioè non dà conto dei progressi e dei regressi che in quasi due secoli si sono fatti: il fatto è che si serve molto del manuale di West[1], che, a parte dissensi di fondo (vd. Pretagostini[2]), tende ad appiattire la dottrina senza dare sempre la profondità storica della ricerca. Ma in fin dei conti vedo questo libro nelle mani piuttosto degli studenti universitari che di quelli di liceo, se non addirittura nelle mani di molti studiosi che mostrano di ignorare una materia che in fin dei conti è facile, a patto che la si fondi su alcuni pochi concetti fondamentali, come in questo libro si fa. Non posso tacere tuttavia una perplessità sul taglio dato all’informazione e ai materiali: alle volte si ammira un’accuratezza addirittura puntigliosa, che in altri luoghi fa sentire la mancanza di informazioni e di materiali che appaiono fondamentali. È il prezzo di un compromesso, che è però da salutare come opportuno anche se qualche prezzo va messo in conto: una volta scelto il doppio piano su cui si opera, è difficile stabilire un confine tra quello che è essenziale e quello che non lo è, ed è del resto un confine che molte volte si ha il diritto di stabilire come personale e arbitrario. Ricordiamo che la prima metrica in italiano che abbia dato conto di tanti fatti e sia libera da ipotesi musicali moderne è quella di Gentili (1952)[3]: ma purtroppo è manchevole nelle premesse prosodiche, che qui sono invece servite ottimamente. || [Abbozzo di recensione, datato al 10.5.1999. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] [1 M. L. West, Greek Metre, Oxford 1982.] [2 R. Pretagostini, La metrica greca e la metrica di M. L. West, «QUCC» 23. 2, 1986, pp. 149–154]. [3 B. Gentili, La metrica dei greci, Messina–Firenze 1952.] https://doi.org/10.1515/9783110647983-026

404 | Sezione 1: Metrica

La disposizione della materia, i richiami interni e i chiarimenti permessi dal glossario rendono l’opera di facile comprensione per l’addestramento di chi voglia iniziarsi alla metrica, nonché di agevole consultazione per chi se ne serva come di un compagno di lavoro. Un manuale che si raccomanda per tanta chiarezza e accuratezza mi spinge a discutere sia alcuni problemi generali sia alcuni punti di dettaglio. Nozioni fondamentali (pp. 15–26) Ritrovo in questa sezione quasi tutto quello che ha costituito la materia del mio insegnamento per quasi quarant’anni: quando un metodo, delle idee e una terminologia si diffondono quasi fossero un fiume sotterraneo, non si può se non compiacersene, proprio quando – direi – la fonte non si scorge più a causa di una diffusione capillare. Esempio [ne sono i] termini e concetti qui utilizzati4. C’è però qualche caso di non dichiarato debito che mi meraviglia un po’: – p. 19: Coll’accettare [il termine di] elementum indifferens (grazie)[5] ma col non adottare il simbolo di punto coronato (già proposto da Maas, e qualcuno lo usa, oggi: vd. mio [studio sull’]anceps), mostra di non capire la natura profondamente diversa dell’elementum indifferens: lo confonde così coll’elemento libero e con l’irrazionale! – p. 22 brevis in longo (vd. anche glossario [a p. 325]): Rientra nell’elementum indifferens! – p. 22 s. cognitio metrorum: Sono stato io (1966) a resuscitare questo fondamentale strumento di lavoro da Boeckh[6]. L’A. è il primo utente teorico di questo strumento: e il fatto che dimentichi da chi lo ha imparato7, considerandolo ovvio, fa perfino piacere! Prosodia (pp. 38–58) – 39: γα non si elide, perché l’alfa è lungo; quando capita γ’ in contesti dorici (come per es. in Teocrito), bisogna considerarlo eliso da epico γε (con tutte le conseguenze di ordine di mistione dialettale, di cui qui non è il caso di parlare). L’esametro (pp. 59–76) – p. 59: Non era eseguito anche col canto: solo in recitativo. – pp. 27, 59 Esiodo: non è didascalico, è epico. – [pp. 59–60 n. 3]: Bene 6da; ma la storia della ricerca ha varie inesattezze: Schroeder fu preceduto da Bergk e Gentili è nella stessa linea (non Gentili–Giannini); a p. 60, ultime righe della nota: i fenomeni (iato etc.) che fanno pensare a questi studiosi che l’esametro sia costituito da due versi sono all’interno del verso, non “alla fine”. – p. 59: Catalessi in disyllabum e in syllabam? (v. anche glossario [a p. 326]);

|| 4 [Si veda il] mio ‘credo’ recitativo [(Estensione e valore del ‘colon’ nell’esametro omerico, in B. Gentili (ed.), Scritti in onore di Gennaro Perrotta, «StudUrb» 39, 1965, pp. 239–273) e il] mio ‘credo’ lirico [(La metrica come disciplina filologica,] «RFIC» [94,] 1966, [pp. 185–207), nonché] Verskunst [in Der kleine Pauly, Bd. 5,] 1975, [coll. 1210–1218]; mie dispense 19... . [5 A p. 19 n. 6 l’A. osserva: «Il termine è stato proposto da L. E. Rossi, Anceps: vocale, sillaba, elemento, «RFIC» 91 (1963), 61 ss.».] [6 L. E. Rossi, La metrica come disciplina filologica, cit., a p. 188 s.] 7 Che l’A. abbia imparato tutto da me si vede dalla citazione delle pagine di Boeckh a p. 22 n. 9, ripresa da me p. 188 n. 1.

rec. M. C. Martinelli, Gli strumenti del poeta. Elementi di Metrica greca | 405

– p. 61 s. [esametro di] Callimaco quadripartito [e esametro] omerico tripartito: Vd. [il] mio [saggio su] Estensione e valore second. ediz. con postscriptum[8]. La quadripartizione è così adatta alla recitazione! – p. 66 divieto di bipartizione (Aristotele o Varrone): Le appositive non c’entrano! Si tratta di monosillabi ortotonici! – pp. 63-66: È strano che per gli allungamenti non si nomini neppure Schulze! Dattilo–epitriti (pp. 257–264) Non capisco perché si voglia continuare ad aver paura della descrizione di Maas, che non è “dichiaratamente descrittiva” (p. 257): è un’interpretazione! (Le cellule, che si annacquano nella scansione di chi vuol vedervi enh, prosod etc.). Glossario [(pp. 323–339)] - p. 325 asinarteto: “problematico” è se mai il termine, non il concetto. - p. 326 catalettico: (a parte καταλήγω, che vuol dire ‘cessare’ e non ‘interrompere’ [come detto a] p. 24), per in syllabam e in disyllabum (terminologia grammaticale) vd. p. 59 - p. 337 sincope: [ricordare anche la] protrazione etc. Aggiunte (al volume intero): responsione interna e esterna; sostituzioni.

In complesso: la preminenza data ai versi recitativi è forse da imputare al versante divulgativo, ma è proprio la ricchezza d’informazione in questo campo a farne desiderare almeno altrettanta nel campo dei versi lirici, che sono il vero problema della metrica greca. Sarebbe stato opportuno un cenno all’ictus. Sarebbe ingeneroso se spingessi il lettore a dare troppo rilievo alle molte critiche che nascono solo dal [mio] ‘credo’ [metrico recitativo e lirico]; e sarebbe ingiusto il lettore che non seguisse questo mio avvertimento. Questo libro è veramente utile, come ho detto già all’inizio di queste mie note.

|| [8 L. E. Rossi, Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (edd.), Struttura e storia dell’esametro greco, II, Roma, 1996, pp. 271–320.]

Breve introduzione alla metrica greca e latina “In metrica ci sono più cose che non ci sono che cose che ci sono” (In der Metrik gibt es mehr Dinge, die es nicht gibt, als Dinge, die es gibt: attribuito a Paul Maas da tradizione orale).

PREMESSA Presento qui una versione, sensibilmente ampliata specie nei capp. I e II, della mia voce Verskunst in Der kleine Pauly, 5, 1975, coll. 1210–1218 (con i Corrigenda et Addenda alla fine del volume). Questa versione differisce solo in alcuni dettagli da quella che avevo redatta in inglese per i miei studenti della Columbia University, New York nel dicembre 1978. La bibliografia essenziale data alla fine viene citata con i numeri progressivi in corsivo (qui sottolineati). Non ho creduto di aggiornarla per non appesantire un apparato di sussidi che mi sembra ancora sufficiente per la sua finalità didattica. I riferimenti alle tavole numerate, che contengono per lo più testi, sono dati dai numeri in margine incorniciati in tondo. Sono molto grato a Claudio Tartaglini per il prezioso aiuto che ha voluto generosamente darmi. Ma la mia gratitudine va a tutti i miei allievi, che durante tutti i miei anni di insegnamento mi hanno aiutato a chiarirmi le idee che qui sono esposte sinteticamente. L.E.R. Roma “La Sapienza”, novembre 1985

In questa seconda tiratura ho corretto alcuni errori di dettaglio e ho aggiunto qualche voce bibliografica. L.E.R. Roma “La Sapienza”, settembre 1999

|| [Dispensa xerocopiata fuori commercio, ad uso degli studenti, 19851, 19992]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-027

Breve introduzione alla metrica greca e latina | 407

INDICE I. Principi generali. a. Note introduttive. b. Prosodia. c. Accento. d. Realizzazione di verso e schema del verso.

II. Concetti fondamentali. a. Unità metriche e ritmiche. b. Versi recitativi e versi lirici; asinarteti. c. La strofe e la sua struttura interna ed esterna. d. Modi di esecuzione: metrica (ritmica) e musica.

III. Metrica greca.

IV. Metrica latina.

V. Storia delle teorie metriche. a. Gli antichi. b. La teoria moderna.

VI. Simboli e abbreviazioni.

Bibliografia.

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I. Principi generali a. N o t e i n t r o d u t t i v e . Per capire la metrica antica è necessaria l’observatio (lo studio della prassi poetica) e la conoscenza della teoria antica (cfr. cap. V–a); la teoria moderna (cfr. cap.V–b) è valida solo in quanto tenga presenti questi due fattori. La m e t r i c a ( r i t m o ) configura poeticamente il materiale linguistico. Alla linguistica siamo debitori della nostra conoscenza, anche se incompleta, della p r o s o d i a (cap. I–b) e dell’ a c c e n t o (cap. I– c). Poiché la poesia greca, a differenza di quella latina, era quasi sempre accompagnata dalla m u s i c a (almeno fino alla fine del IV sec. a.C.), e spesso anche dalla d a n z a (lirica corale e cori del dramma), bisogna tenere conto anche di queste due ultime componenti, sebbene la documentazione sia scarsa (cap. I–c). Essendo il greco e il latino lingue morte, dobbiamo ricostruire non solo i lineamenti generali delle lingue stesse, ma anche i f a t t o r i c h e l e c o n f i g u r a v a n o p o e t i c a m e n t e . Questi fattori sono diversi da una lingua all’altra: in molte lingue moderne sono, p.e., l’accento, il numero delle sillabe e la rima; in greco e in latino il più importante fattore configurante era la q u a n t i t à (opposizione linguistica binaria lunga/breve, argomento pertinente alla prosodia): le sillabe lunghe e brevi appaiono in un ricco numero di sequenze (cap. I–d) diverse le une dalle altre, che possedevano per gli ascoltatori originari un loro individuale significato ritmico. Il nostro compito è di i n t e r p r e t a r e , per quanto possibile, tale significato ritmico, aiutandoci con l’uso dell’ictus espiratorio (cap. I–c), che è utile convenzione di noi moderni, ma che era sicuramente estraneo alla sensibilità almeno dei greci. b. P r o s o d i a . Poiché l’oggetto della ricerca metrica è un testo, dobbiamo per prima cosa definire la quantità delle s i l l a b e , poiché le sillabe e non le v o c a l i sono le componenti effettive del discorso (cfr. 2; per la differenza tra sillaba ed elemento metrico cap. I–d). Per stabilire la quantità di una sillaba bisogna definire preliminarmente i suoi confini: una sillaba comprende una vocale e tutte le consonanti che la precedono (πο–λί–της); una consonante singola appartiene alla sillaba che segue, mentre i gruppi di consonanti sono ripartiti tra la sillaba che precede e quella che segue (πισ–τός; se le consonanti sono più di due, come in ἔσ–φιγ–ξα, solo la prima appartiene alla sillaba che precede). Fa eccezione la cosiddetta correptio Attica (πα–τρός, cfr. appresso). Una sillaba che termina per consonante è detta ‘chiusa’ ed è sempre lunga, anche quando la sua vocale è

Breve introduzione alla metrica greca e latina | 409

breve; una sillaba che termina per vocale è detta ‘aperta’ e può essere sia breve sia lunga, secondo la quantità della vocale stessa. Risulta chiaro come quantità di vocale e quantità di sillaba non coincidano: esse possono infatti differire l’una dall’altra, ma per la metrica – vale la pena di ripeterlo – ha importanza solamente la quantità della sillaba. Negli esempi che seguono, al fine di mostrare la differenza che intercorre tra quantità di vocale e quantità di sillaba, sono segnate sopra le vocali le quantità delle vocali e a fianco, tra parentesi quadre, le quantità delle sillabe. Si ricordi – ancora una volta – che è quest’ultimo il solo modo di scandire m e t r i c a m e n t e una parola (seguo le proposte di M. Lejeune, Phonétique historique du mycénien et du grec ancien, Paris 1972, spec. 283 ss.):

ghh] ̅ ˘ ̅ [ ἔ–δω̅ –κε̆–ν͡ αὐ–τῷ ghghh] Qui il confine della sillaba non coincide sempre con il confine della

̅ πο̆–λί–τη̅ ς [

parola: l’ultima sillaba di ἔδωκεν è aperta, perché la consonante finale, nella scansione sillabica, appartiene alla sillaba che segue, visto che comincia per vocale (in questo caso un dittongo); c’è qui contesto prosodico o sandhi prosodico tra le parole, cfr. 3–c; in latino il sandhi prosodico è trattato in modo leggermente diverso, v. 22.

˘ ἄν–θρω̅–πο̆ς [

hQui,h hse ]prendiamo la parola isolatamente, dobbiamo considerare l’ultima sillaba lunga, perché risulta chiusa: non segue infatti contesto o sandhi prosodico, così come avviene sempre in fine di verso. Se seguisse un’altra parola, la sillaba finale sarebbe lunga o breve a seconda che fosse chiusa o aperta. Quanto alla prima sillaba, anch’essa ha una quantità – lunga – diversa da quella della vocale – breve – perché è chiusa.

πᾰτ–τρί˘ [

h g ]Prosodia omerica: cosiddetta muta (π β φ, κ γ χ, τ δ θ) + cosiddetta liquida (μ ν λ ρ) ‘fanno posizione’, cioè sono ripartite tra le due sillabe, cosicché la prima sillaba, sebbene abbia una vocale breve, è chiusa e perciò lunga. Si usa qui la terminologia tradizionale, linguisticamente scorretta; più corretto è parlare di occlusive sorde, sonore, aspirate e di liquide + nasali. È anche scorretto parlare di ‘posizione’: va detto, semplicemente, che la sillaba è chiusa e quindi lunga.

πᾰ–τρί˘ [

g g ] Prosodia attica (ma non solo attica), la cosiddetta correptio Attica: muta + liquida non ‘fanno posiziοne’, cioè sono considerate inseparabili dalla ‘muta’ che le precede e quindi viene a formarsi un gruppo consonantico che appartiene tutto alla sillaba che segue, come se si trattasse di una sola consonante; la prima sillaba, poiché è aperta e contiene vocale breve, è breve.

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c. A c c e n t o . L’accento greco era un accento di tono (intonazione) e quindi musicale (Dion. Hal., comp. verb. 11, p. 40.17 ss. Usen.–Rad.), e non un accento espiratorio (o di intensità), come nella maggior parte delle lingue moderne. Il latino, invece, aveva un accento espiratorio piuttosto forte, specialmente agli inizi. Convenzionalmente leggiamo la poesia antica con ciò che chiamiamo i c t u s , e cioè con un accento espiratorio sulle sillabe che occupano in concreto la sede di un elemento lungo ( h́ ) anche se è soluto in due brevi ( g g ), e che così vengono ad avere una certa preminenza nella struttura ritmica. Questi elementi li chiamo ‘elementi guida’, cfr. 34, 13.23; 3, 193. Così nell’esametro tendiamo ad accentare gli elementi lunghi dei dattili (i longa, cfr. 6, §§ 32, 33, 82 ss.: h́ g g h́ h …), come anche in un gliconeo nella forma h́ g h́ g g h́ g Ẃ . Dobbiamo però tener presente che si tratta di una convenzione moderna e artificiale, specialmente per il greco, dove non esisteva alcun ictus metrico: ogni tipo di accento espiratorio deve essere stato estraneo alla lingua greca, sia nelle parole, sia nell’esecuzione ritmica. Il fattore configurante per i greci era una certa sequenza di lunghe e brevi (cfr. sopra): poiché nella maggior parte delle lingue moderne la differenza tra lunga e breve è o più debole o del tutto inesistente, l’ictus costituisce per noi l’unico modo di esprimere la nostra comprensione di quella che potremmo definire la p a r t i t u r a r i t m i c a (la sola che possiamo ricostruire, essendo quella musicale irrimediabilmente perduta). Se il latino abbia avuto o meno un ictus metrico, eventualmente in urto con l’accento della parola (accento espiratorio, cfr. 1; 1a), è ancora oggetto di discussione tra gli studiosi. Tendo ad evitare i termini ‘tesi’ e ‘arsi’ (elemento con ictus e senza ictus, cioè accentato e non accentato), poiché nella teoria antica essi finirono per acquistare significati diametralmente opposti a quelli originari, e la teoria moderna ha adottato talvolta il significato più tardo (Germania: arsi = battere), altre volte quello originario (arsi = levare). Per evitare malintesi, preferisco parlare di ‘tempo in battere’ e ‘tempo in levare’, designazioni che appartengono alla terminologia musicale e sono perciò adeguate alla nostra moderna e convenzionale lettura con ictus. La battuta è estranea perfino alla stessa musica antica (sebbene nel XIX sec. alcuni studiosi abbiano arbitrariamente applicato concetti musicali moderni alla musica e alla poesia antica, cap. V–b). Poiché l’accento greco era tonico, nelle esecuzioni musicali poteva esserci urto tra il normale accento tonico della parola e l’altezza di tono con cui la parola era musicata ed eseguita. Il problema è particolarmente grave per la nostra valutazione della responsione strofica (cap. II–c), poiché la stessa musica e la

́́

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stessa danza dovevano accompagnare sia la strofe sia l’antistrofe, mentre parole del tutto diverse, con diversa successione di accenti tonici (musicali anch’essi), dovevano caratterizzare i due passi in responsione antistrofica. Forse entravano in urto o nella strofe o nell’antistrofe l’accento musicale della parola e la musica stessa? Oppure la musica dell’antistrofe era leggermente diversa dalla musica della strofe, in modo da adeguarsi all’accento delle parole dell’antistrofe stessa? Il problema è tuttora irrisolto (cfr. 9, 204 ss.; cfr. Ps.–Aristot. probl. XIX 15), anche se la seconda soluzione sembra la più probabile. d. R e a l i z z a z i o n e d i v e r s o e s c h e m a d e l v e r s o . Nell’analisi metrica bisogna distinguere tra un fenomeno concreto (lo schema o scansione di un verso reale, cioè di una sequenza di sillabe: Hom. Il. I 1 … h6 h I, Il. I 6 … h6 g I) e un modulo metrico astratto (lo schema di un tipo o paradigma di verso, p. es. l’esametro, cioè una sequenza di elementi metrici astratti: 6da, … h6 W; 2). Questi due fatti sono stati definiti ‘realizzazione di verso’ (verse instance) e ‘schema di verso’ (verse design) da R. Jakobson, Linguistics and Poetics, in Style and Language, Cambridge Mass. 1960, pp. 350–377, in particolare p. 364; trad. ital., R. J., Saggi di linguistica generale, Milano 1966, p. 200; concetto adottato in 6; 2; 15a; etc. Quando si descrive una realizzazione di verso ovvero un verso reale (si scandisce cioè un testo concreto) si dà la quantità delle s i l l a b e ; quando si descrive lo schema del verso ovvero il suo paradigma si dà invece la quantità degli e l e m e n t i m e t r i c i che devono essere poi realizzati dalle sillabe concrete. Una sillaba (componente di un verso reale) è sempre o lunga o breve; invece un elemento (la componente di uno schema di verso astratto) può essere lungo, breve, libero o indifferente (capp. II–a, VI–a). Quando si dice che un elemento è realizzato da una sillaba breve o da una lunga, si definisce il passaggio (teoricamente parlando) dallo schema astratto del verso o paradigma (sequenza di elementi) al verso concretamente composto ed eseguito (sequenza di sillabe). Naturalmente non è qui implicato alcun discorso genetico, nel senso che il paradigma preceda il verso reale: al ‘contrario, ‘il verso è più antico della sua misurazione’, come leggiamo in Quint. IX 4 115 ante enim carmen ortum est quam observatio carminis (cfr. 5, 25).

II. Concetti fondamentali a. U n i t à m e t r i c h e e r i t m i c h e (si veda il cap. VI per simboli e abbreviazioni)

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Quelle che seguono sono unità metriche astratte, destinate solo alla m i s u r a z i o n e e prive di realtà ritmica autonoma: – p i e d e : in greco si misurava normalmente con il metron (vedi qui appresso; praticamente solo il dattilo può essere contato per piede singolo; nel latino arcaico anche giambi e trochei vanno per piede, cap. IV); soltanto la prassi scolastica antica dava importanza generalizzata al piede (cap. V–a); – m e t r o n : una dipodia completa per trochei, giambi e anapesti; cretici, bacchei, ionici e coriambi sono piedi solo apparentemente, essendo in realtà metra. Quelle che seguono, al contrario, sono u n i t à r i t m i c h e , e cioè unità vive e reali, che hanno un significato ritmico concreto e indipendente: – c o l o n : l’unità ritmica minima, parte costitutiva di un’unità superiore, W sia essa verso o sistema (Soph OC 1217–8 = 1231–2, gl gl IH ) [Tab. 2]; sulla possibilità di stabilire la quantità dell’elemento finale di alcuni cola (enh, ith, etc.) cfr. 3a; – v e r s o : la più piccola unità ritmica indipendente e in sé conchiusa (Soph. OC 1215 = 1229, IH gl IH) [Tab. 2]; sul modo di stabilirne i confini vedi qui oltre; – s i s t e m a : simile al verso (in realtà si identifica con esso), ma di solito costituito da una più lunga sequenza di metra (Ar. Ach. 673–5 = 699–701, 9cr i [Tab. 3]; ran. 384–8 = 389–93, 10ia^ i; Soph. OC 229–53, 26da [Tab. 4–1a]) o anche di cola (un esempio tipico è la sequenza di 2an(^)| quando in un’opera drammatica il coro si muove; o anche la sequenza di 4da |: Soph. OC 243–5, 250– 2, 4da | 4da | 4da | [Tab. 4], su cui vedi 3c (in particolare 802 s.); e ancora, p.e. Ar. Ach. 358–63.= 385–90, 7δ I; eq. 973–84 = 985–96, tre sistemi in responsione, formati ciascuno da 3gl pher i [Tab. 5]); – p e r i o d o : un gruppo di versi o sistemi imparentati dal genere ritmico; è più piccolo della strofe e parte costitutiva di questa (Eur. Hec. 905–13 = 914–22, gl I e h D h I e h D h I pher P gl gl | gl cr arist i, due periodi assai ben definiti, caratterizzati da due diversi tipi di ritmo; Ar. nub. 563–74 = 595–606, quattro evidenti periodi, fortemente posti in risalto dai contenuti [Tab. 6]); il periodo era messo in rilievo dalla musica e soprattutto dalla danza, e questo è il motivo per cui è oggi l’unità più difficile da definire (cfr. 3, 189 ss.): esso era presente solo in alcuni tipi di strofe; – s t r o f e : nella sua struttura interna consiste in un gruppo più o meno esteso (oppure più o meno complicato, cap. III) di versi, sistemi o periodi; nella sua struttura esterna o ‘antistrofica’ (struttura in responsione, cap. II–c) consiste di una serie di strofe/antistrofe (uguali tra di loro), con possibilità di aggiunta dell’epodo, il tutto in diversa struttura compositiva: AAA . . . (la struttura

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più semplice), AAB AAB . . . (la ‘triade’ consueta della poesia lirica corale: strofe, antistrofe ed epodo, eventualmente ripetuti più di una volta), AAB CCD . . . (la triade consueta dei cori del dramma: strofe, antistrofe ed epodo diversi da triade a triade), AA BB CC . . . (comuni nel dramma), e alcune altre forme meno frequenti (cap. II–c). L ’ u n i t à f o n d a m e n t a l e è i l v e r s o , la cui delimitazione ha bisogno di una sola condizione, in sé sufficiente: (1) fine di parola ( | ), come già affermato da Efestione, 14.22 Consbr. Tuttavia possiamo rimanere con il dubbio se la fine di parola al termine di una sequenza (perfino quando sia ripetuta in responsione) sia una semplice fine di parola oppure anche una fine di verso. Si possono allora aggiungere altri due fattori a conferma: (2) i a t o ( H ), che è altrimenti evitato all’interno del verso (e fa quindi capire che siamo al confine tra un verso e l’altro), e (3) e l e m e n t o i n d i f f e r e n t e ( W ; ἀδιάφορον, indifferens; il termine anceps, ancora comunemente usato nella teoria moderna, non era usato dagli antichi con questo significato, cfr. 2), cioè un elemento che può essere realizzato indifferentemente da sillaba breve o lunga alla fine del verso; questa variabilità (breve/lunga) può essere rilevata attraverso la responsione interna o esterna (cfr. 6, § 28), vale a dire con un criterio sintagmatico (che è in relazione con gli altri versi in responsione interna o esterna, considerati come appartenenti a un sintagma) e/o attraverso lo schema o paradigma astratto, vale a dire con un criterio paradigmatico (che è in relazione con il paradigma, come nell’evidente caso del 3ia o di ogni altro tipo di verso giambico). Il concetto di elementum indifferens è stato elaborato da Paul Maas (6); il simbolo W è stato suggerito nell’appendice al suo § 34, (1929), ed è stato coerentemente applicato in 2; su tutti questi concetti, fondati sulla dottrina di August Boeckh (1811), cfr. 3, 3c. E chiaro che questo terzo fattore si può rilevare soltanto in occasione di un tempo in battere o elemento–guida (cap. I–c), come la fine di un gl o di una sequenza giambica acataletta, poiché la fine di una sequenza catalettica o di ogni altra sequenza terminante ‘in levare’ con un elemento libero (x : cap. VI–a; p.e. enh) non ci fornisce una sicura prova paradigmatica che il verso si concluda in quel punto, poiché l’ultimo elemento è libero in sé, e può perciò essere realizzato, per sua natura, da una sillaba lunga o breve, in virtù della sua ‘libertà’ e non per l’‘indifferenza’ della fine di verso; invece un 3ia e molti altri versi hanno alla fine del paradigma un elemento lungo e perciò la presenza occasionale in quest’ultima sede di una sillaba breve svela la fine di verso, seconddo il criterio paradigmatico (infatti il ritmo del giambo acataletto ‘richiede’ alla fine una lunga). L’indifferenza dell’ultimo elemento mostra che alla fine di un verso c’era una p a u s a , per cui il verso può essere considerato una sorta di ‘microcosmo’

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autonomo. Gli antichi sentivano questa pausa attraverso la distinta percezione della quantità a volte lunga e a volte breve della sillaba finale di ogni verso, come dimostrano le testimonianze raccolte in 2, 64–66: è del tutto errato credere, come fanno ancora molti studiosi moderni, che ogni elemento finale sia lungo e che richieda sillaba lunga. Come abbiamo visto, in certi casi il criterio (3) non è di nessun aiuto (nel caso di ‘levare’ o di elemento finale libero). Ma può presentarsi un’altra difficoltà. Poiché il semplice criterio (1) senza.(2) e/o (3) non consente di definire con sicurezza la fine di verso, bisogna in certi casi ricorrere al criterio (4), la c o g n i t i o m e t r o r u m (come fu chiamata da Boeckh), e cioè la valutazione e il confronto con stile e contesto, un criterio prevalentemente sintagmatico (cfr. 3c); p.e. Pind. O. 3 str. 1, D h e h D | (così 17) [Tab. 7] è, invece, sicuramente un verso indipendente (cosicché | , fine di parola, può essere promosso a I , fine di verso: D h e h D I), anche se nelle sue sei responsioni c’è solo (1) fine di parola, e manca (2) iato e/o (3) elemento indifferente (qui rilevabile perché D termina con un tempo in battere o elemento–guida): che si tratti di verso è comprovato dal confronto, nella stessa O. 3, in particolare con ep. 4 (sequenza identica) e anche str. 3 (una sequenza molto simile, h D h e h D I), e in più con O. 6 ep. 1, O. 7 str. 5, P. 4 ep. 2, tutti uguali al nostro O. 3 str. 1, e tutti casi in cui o (2) o (3) o entrambe le condizioni garantiscono che questa sequenza nell’uso di Pindaro ha lo status di verso. Perciò in O. 3 str. 1 si può tranquillamente promuovere fine di parola ( | ) a fine di verso ( I ), come giustamente fa Maas (6, § 55). Dunque sia la considerazione sintagmatica (compresenza in O. 3 di altri casi sicuri in cui la sequenza compare con status di verso) sia quella paradigmatica (presenza della stessa sequenza in altre odi – e certamente in altri autori – con lo stesso status di verso) confermano lo status di verso di O. 3 str. 1. Tutto questo, tranne alcune modifiche terminologiche, costituisce la brillante scoperta di August Boeckh (Pindari opera, I, 1811, 82, 308 ss.; ma già in «Museum fur die Alterthums–Wissenschaft» 1, 1809). Stabilendo per la prima volta i quattro criteri, Boeckh ha reso possibile la ricostruzione della struttura metrica della poesia lirica, dopo i danni che essa aveva subito nelle varie fasi della trasmissione (cap. V). Alcuni principi della teoria di Boeckh, essenziali per la comprensione della metrica antica, sono stati applicati, più o meno consapevolmente, dagli studiosi (ma certamente non da tutti!); una disamina e una valutazione dei suoi principi si trova in 3 e 3c (vedi comunque 3b). Ovviamente un colon può presentarsi non solo come colon, ma anche come verso, ogni volta che abbia alla fine le condizioni di fine verso (cfr. sopra gl come colon in Soph. OC. 1217–8 = 1231–2 e gl come verso in 1215 = 1229; cfr. cap. VI–c, e). Per questo motivo ho spesso usato (e lo farò anche in seguito) il ter-

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mine ‘sequenza’, e precisamente quando doveva essere lasciato in sospeso se si trattava di colon o di verso. b. V e r s i r e c i t a t i v i e v e r s i l i r i c i ; a s i n a r t e t i . Per distinguere i due generi di versi, r e c i t a t i v i (parlati o eseguiti in ‘recitativo’) e l i r i c i (cantati), disponiamo di due differenti criteri, uno esterno e uno interno. La distinzione è di fondamentale importanza, perché ha a che fare con le modalità di resa ovvero con il tipo di esecuzione (cap. II–d). Come c r i t e r i e s t e r n i abbiamo (1) alcune testimonianze sulle modalità di esecuzione in antichi autori di critica letteraria e (2) la possibilità di determinare se i versi siano stichici (cioè ripetuti uno dopo l’altro, come sono i versi recitativi) o non stichici (come sono la maggior parte dei versi lirici). Un c r i t e r i o i n t e r n o , al contrario, si fonda sull’observatio (cap. I–a) della fine di parola in determinate sedi del verso, per vedere se essa ricorra regolarmente o no: una fine di parola regolarmente ripetuta in una precisa sede del verso diviene un’incisione regolare o una ‘cesura’ (si ricordi che elisio non officit caesurae: G. Hermann, Elementa doctrinae metricae, 1816, 33). Ora, i versi recitativi (6da, 3ia, etc.) presentano una ricorrenza quasi regolare di fine di parola che diviene poi una incisione, mentre i versi lirici non mostrano alcuna ricorrenza regolare di fine di parola: i cola lirici si saldano per lo più l’uno all’altro in sinafia verbale (il confine tra i due cola viene a trovarsi all’interno di una parola; per ulteriori precisazioni sulla sinafia, cfr. 3c): segno che l’articolazione ritmica del verso doveva risultare non attraverso le pause tra le parole (la métrique verbale dei francesi), ma piuttosto attraverso la musica e la danza. Così la presenza dell’incisione (o cesura) risulta essere funzionale nei versi recitativi, dove la parola determina e regola il flusso ritmico, mentre l’assenza dell’incisione risulta essere funzionale nei versi lirici, dove la struttura ritmica è affidata alla musica e alla danza (cfr. 3, 195 ss.) Un esempio istruttivo. Pindaro, N. 9 str. 1 [Tab. 9] (ripetuto antistroficamente undici volte) è apparentemente 6da, a stare alla sequenza di lunghe e di brevi, ma è in realtà da–ep della forma D h D W (cap. VI–c. 2). Infatti solo i versi 36 e 46 potrebbero essere 6da con normali incisioni (cap. VI–d), mentre gli altri nove (!!) versi non possono essere 6da, poiché violano l’una o l’altra legge della métrique verbale (cfr. 15a, 141). Ovviamente, malgrado la sequenza di lunghe e di brevi sia identica, essi non sono 6da ma da–ep, versi lirici, dove la fine di parola è del tutto irrilevante (cfr. 3, 195 ss.). Omero e Pindaro: due diversi modi di esecuzione, a cui corrispondevano due diversi modi di composizione ritmica. Per determinare il confine di parola si deve ricorrere al concetto di ‘gruppo verbale’ (Wortbild; mot phonétique: cfr. 6, § 135; 15, 142 ss.) [Tab. 8]: le apposi-

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tive (parole non indipendenti per accento) si appoggiano alle contigue parole ortotoniche (o indipendenti per accento): le prepositive (articoli, preposizioni, congiunzioni etc.: ὁ ἄνθρωπος) si appoggiano alla parola che segue e le pospositive (enclitiche, particelle varie etc.: ἄνθρωπός τις) si appoggiano alla parola che precede. Perciò non ammettono alcuna incisione rispettivamente dopo e prima di esse: nessuna incisione può essere ammessa dopo l’articolo, dopo ἐπί o dopo καί, oppure prima di τις, τε o δέ. I cosiddetti a s i n a r t e t i (asyn) sono una categoria di versi a parte (Heph. 47.1 ss. Consbr.; 8, 32 s.; 10, 123 ss.; 3b): due cola lirici normalmente separati da semplice fine di parola con valore di incisione (hem | hem I, il pentametro dattilico; 4da | ith I, Archil. 191.1 W.; etc.). L’asinarteto è, così, una struttura a mezzo tra verso recitativo (che ha fini di parola regolari, cioè incisioni) e verso lirico (costituito da cola lirici e privo di incisioni, cfr. 3, 200 ss.): è formato infatti da cola lirici, che sono tuttavia separati da incisione. Ora, però, il papiro di Archiloco recentemente pubblicato (Pap. Colon. 7511, fr. a = S 478 Page), 3ia I hem | 2ia i , ci ha fatto intravedere uno sviluppo storico nella tecnica compositiva degli asinarteti: tra i cola che costituiscono l’asinarteto compare elemento indifferente ai versi 1, 7, 21, 23, e iato ai versi 3, 17; cfr. Hor. epod. 11 e 13, che certamente imitava (sebbene in modo apparentemente goffo) il modello di Archiloco (per considerazioni di carattere storico cfr. 3b). I versi recitativi sono tutti costruiti κατὰ μέτρον, e cioè attraverso la ripetizione di metra uguali (cap. VI–d); i versi lirici sono costruiti sia κ.μ. (cap. VI–e. 1) sia non κ.μ., e cioè in modo non analizzabile secondo metra (cap. VI–e. 2). Anche per i cola si può fare la stessa distinzione (cap. VI–c. 1, c. 2), sebbene sia talvolta difficile, o impossibile, stabilire con certezza se appartengono alla prima o alla seconda categoria. Per esempio, gl e cola affini possono essere interpretati, in accordo con il contesto, sia come versi eolici, e quindi costruiti non κ.μ. (Soph. El. 473 ss. = 489 ss., ascl^ gl …), sia come coriambi, e perciò costruiti κ.μ. (Eur. El. 170∼193, 173∼196, 184∼207: addirittura gl∼2cho!); è inoltre possibile trovare arist in un contesto non coriambico (Soph. El. 859 = 870, cfr. Aesch. suppl. 782 = 791, in sinafia verbale con un metron giambico) e anche adon in un contesto né dattilico né coriambico (come il colon, adon, in clausola della strofe saffica). Vediamo il significato ritmico di questa distinzione: versi o cola costruiti κ.μ. erano percepiti come una successione di metra uguali, mentre versi o cola costruiti non κ.μ. erano percepiti come una struttura ritmica unitaria, una specie di cellula ritmicamente non analizzabile (tipico è il caso di sequenze come ith, lec: cap. VI–c. 3).

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c. L a s t r o f e e l a s u a s t r u t t u r a i n t e r n a e d e s t e r n a . Si è già visto (cap. II–a) che con struttura esterna indico il modo in cui strofe, antistrofe ed eventuale epodo sono disposti in successione così da formare le unità superiori come ‘coppia’, ‘triade’ o simili; mentre con struttura interna indico il modo in cui versi, sistemi e periodi costituiscono la singola strofe/antistrofe e l’epodo. La costruzione interna della strofe sarà trattata più avanti (cap. III), nella storia della metrica greca (la complessità della struttura interna varia molto). Anticipiamo qui solamente la f o r m a e p o d i c a , la più semplice di tutte le strutture strofiche interne: p. e. 6da I hem | hem i (distico elegiaco: la forma epodica più diffusa, formata con l’asinarteto più comune, il pentametro, cfr. 3b); 4da | ith I 3ia i (Archil. 191 W.); etc. Una lista si trova nelle tavole di 3b. Queste sono le strofe più piccole, alcune delle quali sono costituite anche da asyn (cap. II–b); solo più tardi, in età romana, diventano molto più varie e complicate (3b, tavole). d. M o d i d i e s e c u z i o n e : m e t r i c a ( r i t m i c a ) e m u s i c a . In età classica la lirica monodica e la lirica corale erano cantate con accompagnamento strumentale (strumento a corda, come la kithara e la lira; strumento a fiato, l’aulòs). Gli altri tipi di versi erano invece eseguiti in ‘recitativo’ o parakatalogé: erano 6da in età arcaica, asyn, distico elegiaco e altri tipi di epodo (cap. II–c), 3ia dei poeti arcaici, anapesti di marcia, i cosiddetti versi lunghi del dramma (4tr^ , 4ia^ , 4an^ ), 2tr(^) , 2ia(^) , 2an(^) , nello pnigos (cfr. 4). Anche questi erano accompagnati o dallo strumento a corda o da quello a fiato. Il modo consueto di esecuzione di 6da per tutta la durata dell’età classica e oltre e del 3ia del dramma fu sempre il semplice parlato. Testimonianze sui modi di esecuzione si possono trovare in osservazioni occasionali di diversi autori e nei trattati sulla musica: ci offrono un criterio esterno (cap. II–b) per la distinzione tra le differenti categorie di versi dal punto di vista dell’esecuzione. Altre volte invece dobbiamo ricorrere alla nostra observatio, studiando in che modo i versi stessi siano internamente costruiti, al fine di ottenere un criterio interno (cap. II–b). Si può facilmente capire l’enorme importanza che ha per noi determinare le modalità di esecuzione ovvero di resa: infatti ci troviamo sempre di fronte a ‘partiture ritmiche’ mute (cap. I–c), che dobbiamo quanto più possibile rendere vive. Il modo di resa, inoltre, era in funzione dell’occasione per cui i vari generi poetici venivano composti e in cui venivano eseguiti. Sulla metrica latina, priva del supporto musicale, cfr. cap. IV.

418 | Sezione 1: Metrica

III. Metrica greca

(breve profilo storico).

La prima forma documentata è 6da, l’esametro dattilico, che fu usato nel corso di tutta la storia letteraria greca (poesia epica, elegia, epigramma etc.). Per struttura e incisioni (cesure), cap. VI–d. Due leggi non sono quasi mai violate: (1) il divieto di divisione in due parti uguali è costantemente rispettato (… h3 jc …: qui il simbolo di ponte – cap. VI–a – si riferisce alla incisione e non alla semplice fine di parola, poiché versi come Hom. Od. I 3, πολλῶν δ’ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω, e Od. I 4, πολλὰ δ’ ὅ γ’ ἐν πόντῳ πάθεν ἄλγεα ὃν κατὰ θυμόν: … h3 | w | h4 w … non sono rari, avendo, l’incisione in h3 | e non in | h4 poiché così voleva l’‘orizzonte di attesa’ del pubblico; per una prima formulazione della legge cfr. Aristot. met. 1093 a 26 ss.; Varr. fr. 220, p. 259 Funaioli; (2) ponte di Hermann (… h4 gbg … : Orphica 1805, 692 ss.), valido solo in greco (con poche eccezioni) e non in latino. Nel corso dell’età ellenistica e romana l’esametro greco fu sottoposto a leggi sempre più severe (cfr. 6 § 90 ss.; 15, 126 ss.). Poco sappiamo del nomos citarodico e del nomos aulodico. Archiloco introdusse 3ia e 4tr^ (per la loro struttura, cap. VI–d); entrambi sono soggetti alla legge di Porson (… hbh g W : Eur. Hec., 1802), che Havet ha esteso all’inizio di 4tr^ (I h g h hb … : per un’interpretazione ritmica della legge cfr. 16); entrambe queste leggi valgono nel successivo sviluppo solo per la tragedia, ma non per il dramma satiresco e la commedia. Altre leggi più complesse valgono solo per i giambografi arcaici (10, 59 s.; 16). Ipponatte presenta il cosiddetto giambo zoppo (o coliambo o ‘giambo scazonte’: … g h5 h W6 ) e il cosiddetto ischiorrogikós (‘dai fianchi rotti’: … h h5 h W6 ). La lirica corale greca comincia per noi con Alcmane: una costruzione strofica interna piuttosto semplice, con strofe brevi e ritmicamente semplici, già disposte nella struttura esterna della cosiddetta ‘triade stesicorea’ (AAB AAB . . . , cap. II–a, c). Circa nello, stesso periodo fiorì a Lesbo una locale lirica monodica (Alceo, Saffo, inizi del VI sec. a.C.): la ‘base’ eolica bisillabica libera (xx) e l’assenza dell’equivalenza ionica h = w ha fatto sì che questo stile metrico fosse chiamato ‘sillabico’, e cioè basato sul numero delle sillabe; i versi sono costruiti sia κατὰ μέτρον sia non κ.μ. (cap. I–b; cfr. 21); la costruzione interna della strofe è semplice (p.e. la strofe saffica, endS I endS I endS adon i ) come anche la struttura della responsione esterna (AAA . . . ). Anacreonte (dopo il 550 a.C.) rappresenta la lirica monodica ionica: piccole strofe di gl (e 2cho) con pher di clausola; di 2tr, di anacl, di 2ion; ci sono anche ion, cho in sequenza più lunga; asyn etc. (cfr. 19). La struttura strofica interna ed esterna è semplice e adeguata alle esigenze dei canti simposiali ionico–attici (cfr. 16c); così anche nei canti simposiali anonimi (carm. conv., 884 ss. Page: brevi strofe di ia, cho,

Breve introduzione alla metrica greca e latina | 419

phal), mentre i diversi generi di canto popolare (carm. pop., 847 ss. Page) sono semplicemente più variati (p.e. canti di lavoro; cfr. almeno anche Ar. pax 459– 72, Eur. Cycl. 656–62). La tendenza popolare alla semplicità e all’immediatezza influenzò sicuramente la più elevata lirica monodica, così come più tardi influenzò le parti corali del dramma satiresco e della commedia. Fin dai tempi più antichi sono attestati anapesti di marcia (2, 4an(^), embateria: 856 ss. Page), che in seguito accompagnarono i movimenti del coro nel dramma (9, 47 ss.; 10, 87 ss.). Corinna presenta il dimetro libero o ‘polischematisto’ (Heph. 56.5 ss. Consbr., di recente confermato da frammenti papiracei), che è un 2cho con il primo metron (raramente il secondo) molto libero (cap. VI–c. 1); lo stesso, fenomeno si incontra anche in Euripide (p.e. Hel. 1301 ss.; cfr. 5, 210 ss.). Se Corinna è arcaica (VI sec. a.C.), la testimonianza offerta dalle sue ‘libertà’ deve essere considerata importante per alcune (certamente non per tutte) fra le cosiddette ‘responsioni libere’ (32, 51 ss.). Dal VII al VI sec. a.C. la grande lirica corale sviluppò una notevole varietà di costruzione del verso e della strofe: Stesicoro, Ibico, Simonide e soprattutto Pindaro e Bacchilide ci permettono di farci un’idea di quello che fu questa poesia. I versi di questi poeti sono lunghe sequenze dattiliche e anapestiche (cfr. Ed. Fraenkel, Kleine Beiträge, 1964, I, 165 ss.; 16a, 16b); da–ep (cap. VI–c. 2; 17, 18); libere riprese di versi lirici eolici (cap. VI–c. 2); e un non ancora ben chiaro “metrum–ex–iambis–ortum” (cfr. 18, XXXIV e ss.: Pind. O. 2, Bacchyl. 17 etc.). La composizione antistrofica è di solito AAB AAB . . . ; la composizione interna è lunga e sempre variata, tanto che non ci sono due carmi con strofe o triadi identiche. La tragedia attica del V sec. a.C. impiegava 3ia per il dialogo (parlato) e usava per le parti liriche (cantate) tutte le forme preesistenti, dalle quali sviluppò un suo stile ‘eclettico’ (cfr. soprattutto 9; 8, 46 ss.; 10, 162 ss.). δ (il docmio) sembra che sia stato un’invenzione dei poeti tragici. Per le caratteristiche dei singoli autori cfr. 11, 12, 13, 14. La struttura strofica interna è all’inizio più semplice di quella della lirica corale, ma in seguito diviene progressivamente più complessa, culminando infine negli astropha della monodia euripidea (cfr. lo sviluppo parallelo nella musica: Timoteo e il nuovo ditirambo). Aristofane segue in parte il canto popolare e la poesia sacrale (cfr. Ed. Fraenkel, Beobachtungen zu Aristophanes, 1962, 189 ss.) e polemizza contro le innovazioni euripidee, che d’altra parte adotta nelle sue commedie. La vitalità delle forme liriche fu condizionata dal declino della grande poesia lirica durante il V sec. a.C. e del dramma nel corso del IV. Alcuni versi lirici, già usati isolatamente nella strofe tra versi di altro genere, sono più tardi usati in sequenze stichiche (26, 61 ss.; 6 § 15). Poche composizioni erano in età ellenistica ancora musicate e l’antica ricchezza ritmica diviene rara: cfr., p.e., i canti

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astrofici (Fragm. Grenfellianum, p. 177 Powell; cfr. anche i simodoi) e i canti cultuali (i Peani Delfici etc.). Per quel che riguarda gli altri generi, in età più tarda, sono soprattutto rappresentati i 6da (costruiti fino a Nonno sempre più rigidamente, v. sopra) sia per l’epica, che fu sempre in uso, sia per gli inni, sia per la poesia didascalica e per quella bucolica (Teocrito); il 3ia per il mimo, la favola etc.; il distico elegiaco (anche per opere di più ampio respiro: Callimaco) e le altre forme epodiche (epigramma). Le trasformazioni che ebbero luogo dopo il mutamento di accento da tonico a espiratorio, come anche l’intero sviluppo della prosa d’arte, debbono qui esser tralasciate.

IV. Metrica latina

(breve profilo storico).

In latino il materiale linguistico è completamente differente. Soprattutto era differente l’accento (cap. I–c): l’elemento espiratorio, che in età più antica deve aver svolto un ruolo decisivo (cfr. il cosiddetto ‘terremoto del vocalismo’: ago ed abı̆go etc.), esercitò la sua influenza anche più tardi. L’accento radicale ha prodotto la caratteristica tendenza latina all’allitterazione. Sull’ictus, cap. I–c. I mutamenti prosodici tra età arcaica ed età classica (cfr. 22, 4 ss.; 23, 1 ss.; 29) resero certamente difficile per i romani contemporanei di Cicerone l’intelligenza del verso greco ed anche del verso e della prosodia arcaica (vedi anche le incomprensioni di Orazio). L’unico verso propriamente latino è il saturnio, che alcuni ritengono provenga da un tipo di verso ario–europeo (25), altri da cola greci (28). Cesio Basso (6.266.16 K.) cita come forma tipica di saturnio la sequenza g h g h g h h | h g h g h h I (p. 28 Morel), che fa pensare ad un asyn (2ia^ | ith I: cap. II–b). C’è in realtà molta varietà di forme specialmente se teniamo conto della scarsa documentazione, sebbene siano stati proposti altri elementi configurativi (accento, parola, sillaba: cfr. M. Barchiesi, Nevio epico, 1962, 294 ss.; Th. Cole, «YClSt» 21, 1969, 3 ss.). Ennio (ann. 213 V2.) rifiutò il saturnio in quanto grossolano arcaismo e introdusse il 6da nel suo poema epico. Tra il III e il II sec. a.C. ebbe luogo una vasta ripresa di forme greche. Poco prima Livio Andronico e Nevio avevano introdotto nel dramma versi greci, ma con una tecnica nuova: 3ia e 4ia divennero senario e ottonario: 4tr^ e 4ia^ divennero settenari e lo stesso avvenne per i versi anapestici. I nomi (che sono antichi) fanno chiaro che l’unità di misura non è più il metron, ma il piede (‘tr’ J q , J q etc.; ‘ia’ q J, q J etc., poiché sono tutte le sedi ad esser libere, e non, come in greco, solo quelle dispari, tranne la fine del verso e la metà quando c’è incisione mediana; cap.

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III). Plauto e Terenzio sono le nostre fonti principali: i loro versi seguono numerose altre leggi (cfr. 23). Un problema a sé costituiscono i cantica (parti musicate), soprattutto quelli di Plauto (prosodia, colometria e responsione sono ancora dibattute: cfr. Ed. Fraenkel, Elementi plautini in Plauto, 1960, 217 ss., 307 ss. e addenda; 22, 124 ss.; C. Questa, Metrica latina arcaica in Introduzione allo studio della Cultura classica, Milano 1973, 547 ss.). Dal I sec. a.C. si sviluppò una rinnovata fedeltà alle forme greche: il 3ia torna ad essere trattato come tale, e Catullo, Orazio, Marziale etc. offrono un ricco campionario di versi lirici greci, in parte anche con caratteristiche particolari. Orazio normalizzò le quantità dove esse erano libere e soprattutto normalizzò le incisioni (questo fatto costituisce un tratto distintivo dei versi recitativi parlati: cap. II–b; 3, 195): ciò non sorprende, dal momento che i suoi versi non erano più cantati, cosicché l’introduzione di una caratteristica propria del genere recitativo, pur in versi che erano anticamente cantati, appare del tutto funzionale. Questo è un altro esempio dell’utilità dei criteri interni (cap. II–b) per stabilire i ↓ modi di esecuzione. Il suo endS comincia nella forma I h g h h h | … , il suo ↓ endA nella forma I x h g h h | … : quarto e quinto elemento rispettivamente sono sempre lunghi e l’incisione cade sempre dopo il quinto elemento (cfr. 27). La struttura interna della strofe è semplice, con solo poche eccezioni (cfr. 22, 122 ss.). Almeno dal IV sec. d.C. l’accento espiratorio di parola diviene progresssivamente il fondamentale elemento configurativo della poesia latina, a spese della quantità.

V. Storia delle teorie metriche a. Gli antichi Quel che leggiamo in Ar. nub. 638 ss. e in Plat. resp. III deriva dalla dottrina ritmica etico–musicale di Damone, il maestro di Pericle, come anche in parte ciò che Aristotele sostiene nella Retorica e nella Poetica. Anche Aristosseno di Taranto si occupò del ritmo, ma ovviamente in quanto parte della teoria musicale. Una teoria della metrica separata dal ritmo musicale si sviluppò solo più tardi, con gli alessandrini. Poiché in età ellenistica i fondamentali principi della metrica lirica divennero sempre meno comprensibili, si rese necessaria per la prima volta una disposizione tipografica piuttosto precisa dei testi poetici: Aristofane di Bisanzio (II sec. a.C.) curò la ‘colometria’ dei poeti lirici (Dion. Hal., comp. verb. 102.1 ss., 140.18 s. U.–R.). Il papiro dei Persiani di Timoteo di Mileto, che è del IV sec. a.C.

422 | Sezione 1: Metrica

e perciò quasi contemporaneo all’autore stesso, non presenta traccia di colometria (cfr. R. Pfeiffer, Storia della filologia classica, trad. ital., Napoli 1973, p. 295): sembra sicuro che questo fosse il costume normale di scrittura fino all’intervento della filologia alessandrina. In quest’epoca cominciarono ad essere formulati alcuni sistemi teorici, che tuttavia non mostrano alcuna reale conoscenza della metrica lirica antica, essenzialmente destinati, com’erano, alla scuola. Vi erano due teorie (cfr. 31): (1) quella alessandrina dei μέτρα πρωτότυπα, che riteneva il piede la componente fondamentale di tutti i versi (Filosseno, Eliodoro, Efestione; I sec. a.C.– II sec. d.C.); e (2) quella pergamena della derivatio, che riconduceva tutto a 6da e 3ia, assunti come unità fondamentali, tramite l’adiectio, la detractio, la concinnatio e la permutatio (Caes. Bass. 6.271.5 K.; Varrone; Terent. Maur.). Il manuale di Efestione, ridotto dagli originali 48 libri ad uno solo, ha dominato fino quasi ai nostri giorni (il manuale di P. Masqueray, 1899, sembra ricalcato su di esso). A causa della mancanza di basi teoriche e per le vicissitudini della trasmissione dei testi, la poesia lirica (a differenza di 6da e 3ia, p.e.) fu particolarmente danneggiata, malgrado ce ne sia stata conservata una certa quantità da papiri, tradizione indiretta e manoscritti medievali (4, 363 ss.; J. Irigoin, Histoire du texte de Pindare, 1952; «Rev.Ét.Gr.» 72, 1962, 61 ss.). Tuttavia la misura e la portata dell’accordo tra la colometria dei papiri e quella dei manoscritti medievali è ancora una questione aperta; ed anche in discussione è il valore, certamente limitato, della conoscenza metrica di studiosi bizantini come Demetrio Triclinio (cfr. i lavori di Turyn, Dawe, Zuntz etc. sulla tradizione manoscritta dei tragici). b. La teoria moderna Dobbiamo ad August Boeckh (1811, cap. II–a) la conoscenza delle leggi della metrica antica. Prima di lui R. Bentley e R. Porson avevano dato contributi decisivi per la conoscenza dei versi recitativi greci e latini, usando il metodo di un’accurata observatio. La metrica di Gottfried Hermann (Elementa doctrinae metricae, 1816) è di stampo razionalistico come i suoi studi grammaticali (era un seguace di Kant), ma applicò anch’egli con successo l’observatio. Dal XIX sec. si sono sviluppate diverse tendenze: fiducia (Boeckh, R. Westphal) e sfiducia (P. Maas) nei confronti della teoria degli antichi; tentativo di recepire come viva l’antica poesia, con discutibile ricorso alla pratica musicale moderna (Westphal, J.H.H. Schmidt, W. Christ e altri, cfr. 34, spec. 11 ss.) e d’altra parte prudente rinuncia a quod videmus perisse (H. Weil contro Westphal etc.); tendenza storicistica con tentativo di interpretazione ritmica (Bergk, Usener, Blass, Schroeder, Leo, Wilamowitz, Pasquali, Gentili) e atteggiamento prevalentemente descrittivo (Maas, Rupprecht) applicato quando per certi fenome-

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ni nessuna interpretazione ritmica sembrava ben fondata. Il più illustre esempio di quest’ultima tendenza è la descrizione dei da–ep data da Maas agli inizi del secolo: con l’aiuto della sua precisa descrizione (cap. VI–c. 2) possiamo oggi farci un’idea della costruzione ritmica dei da–ep di Pindaro e di Bacchilide e dei molti papiri stesicorei pubblicati negli ultimi anni (cfr. 16a; 16b). Molti cercano oggi di riconciliare le due ultime tendenze, riconoscendo che a entrambe dobbiamo sostanziali progressi. Per la realizzazione di un repertorio di cola e di versi (tipologia e ricorrenza), altamente auspicabile, possono essere d’aiuto i calcolatori: un tale repertorio ci consentirebbe di capire meglio la morfologia della metrica antica e di seguire più in dettaglio lo sviluppo storico della poesia antica.

VI. Simboli e abbreviazioni a. Simboli Sillaba: g breve; h lunga. Elemento: g breve; h lungo; x libero (X solubile), f libero (ἄλογον, irrationale: in tr, ia); W indifferente (ἀδιάφορον, indifferens: pausa di fine verso).

H Iato. | Fine di parola (il più delle volte usato come simbolo per particolare fine di parola, cioè incisione o cesura).

I Fine di verso. P Fine di periodo (cfr. 3, 197). i Fine di strofe. ^ Catalessi, acefalia (‘caduta’ di un elemento, alla fine o all’inizio). = (nelle citazioni) Responsione (responsione regolare). ∼ Responsione ‘libera’. hbh Ponte (divieto di fine parola o cesura in quel punto). b. Metra (nella loro forma più semplice):

hghf fhgh hj jJjJ hh hgh

tr ia da an sp cr

(trocaico) (giambico) (dattilico) (anapestico) (spondeo) (cretico;

h g g g pae I, peone I etc.)

424 | Sezione 1: Metrica

ghh gghh hggh

ba ion cho

(baccheo) (ionico a minore) (coriambo)

c. 1. I più importanti cola costruiti κατὰ μέτρον

hjhjhjhj jhjhjhjh jhjhjhh h g h f h g h (f) f h g h f h g h [ … g h x] gghhgghh gghghghh xxxxhggh

alcm 2an paroem 2tr(^)

(alcmanio) = 4da (dimetro anapestico) (paremiaco) = 2an^ (dimetro trocaico)

2ia(^) 2ion anacl 2cho

(dimetro giambico) (dimetro ionico) (dimetro ionico anaclomeno) (il più frequente dimetro coriambico)

c. 2. I più importanti cola costruiti non κατὰ μέτρον

XhXhXhx XhXhXh XhXh x h w h w h (x)

hghghh hghghgh xhhfh h w h w h =D h g h =e [h g h x h g h = E] h w h =d w h =d

enh

(enoplio)

pros

(prosodiaco)

reiz

(reiziano)

hem

(hemiepes)

ith

(itifallico)

lec

(lecizio)

δ

(il docmio più frequente)

(dattilo–epitriti, vedi 6; le cellule sono da–ep normalmente collegate dall’elemento libero interposito, )

x

1

2

c. 3. Cola ambivalenti (κατὰ μέτρον e non κατὰ μέτρον: cap. II–b)

xxhgghgh xxhgghx xhgghgh xxhgghghx hgghghx

hgghh

gl pher teles hipp arist adon

(gliconeo) (∼ 2cho) (ferecrateo) = gl^ (telesilleo) = ^gl (ipponatteo) = gl x (aristofaneo) = 2cho^ (adonio) = 2da

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d. I più importanti versi recitativi (costruiti tutti κατὰ μέτρον)

h1 | u | h2 | j h3 | uch4 | k | h5 j h6 W A

B

[Tab. 10]

C

6da (esametro dattilico prealessandrino, vedi 15)

f h1 g h2 f | h3 g | h4 fv h5 g W6 3ia (trimetro giambico dei tragici)

h1 g h2 fv h3 g h4 f | h5 g h6 fv h7 g W8 4tr^ (tetrametro trocaico catalettico)

e. 1. Alcuni versi lirici costruiti κατὰ μέτρον – spesso cola (vedi c. 1, c. 3) usati come versi (cap. II–a); – altrimenti versi più lunghi ottenuti con ulteriore ripetizione di metra, p.e.: 6da; 4an(^); 3, 4ia(^); 2, 3, 4, 5, 6cr; 3, 4cho(^); 3, 4ion(^); etc. e. 2. Alcuni versi lirici costruiti non κατὰ μέτρον (o non interamente κ.μ.) Oltre ai cola (vedi c. 2, c. 3), si possono citare qui alcuni versi (o cola) eolici, p.e.: (endecasillabo saffico; anche come colon, nel terzo

h g h x h g g h g h x endS verso della strofa saffica) x h g h x h g g h g W endA (endecasillabo alcaico) x x h g g h g h g h W phal (faleceo) x x h g g (h g g) (h g g) h g g h g W

(i cosiddetti dattili eolici: tetr., pent., hex.)

x x h g g h (h g g h) h g g h g W

ascl, Ascl (asclepiadeo minore e maggiore)

xhghxhghx

ennA (enneasillabo alcaico)

hgghgghghW

decA (decasillabo alcaico)

426 | Sezione 1: Metrica

Bibliografia Rassegne bibliografiche: E. Kalinka, Griechisch–römische Metrik und Rhythmik im letzten Vierteljahrhundert, “Bursians Jahresbericht” 250, 1935, 290–507; 256, 1937, 1–126; 257, 1937, 1–160. A.M. Dale, Greek Metrik 1936–1957, “Lustrum” 2, 1957, 5–51. L. P. E. Parker, Greek Metrik 1957–1970, “Lustrum” 15, 1970, 37–98. P. W. Harsh, Early Latin Meter and Prosody 1904–1955, “Lustrum” 3, 1958, 215–250. R. J. Getty, Classical Latin Meter and Prosody 1935–1962, “Lustrum” 8, 1963, 103–160. I. 1. W. S. Allen, Accent and Rhythm. Prosodic Features of Latin and Greek: a Study in Theory and Reconstruction, Cambridge 1973 (con bibliografia). 1a. L. E. Rossi, sul problema dell’ictus, “Ann. Sc. Norm. Pisa”, S.II, 33, 1964, 119–134. II. 2. L. E. Rossi, Anceps: vocale, sillaba, elemento, “Riv. di filol.” 91, 1963, 52–71. 3. L. E. Rossi, La metrica come disciplina filologica, “Riv. di filol.” 94, 1966, 185–207. 3a. R. Pretagostini, Il colon nella teoria metrica, “Riv. di filol.” 102, 1974, 273–282. 3b. L. E. Rossi, Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini. Sull’autenticità del nuovo Archiloco, in: Problemi di metrica classica, Università di Genova (Fac. di Lettere, Ist. di Filol. Class. e Mediev.) 1978, 29–48 + 3 tavole. 3c. L. E. Rossi, La sinafia, in: Studi in onore di Anthos Ardizzoni, Roma 1978, 789–821. III. 4. J. W. White, The verse of Greek Comedy, London 1912. 5. U. von Wilamowitz–Moellendorff, Griechische Verskunst, Berlin 1921. 6. P. Maas, Griechische Metrik, Leipzig und Berlin 19293 (Einleitung in die Altertumswiss., hsg. v. A. Gercke u. E. Norden, Bd. I, Heft 7); Greek Metre. Transl. by H. Lloyd–Jones, Oxford 1962 (con aggiornam.); Metrica greca, traduz. e aggiornam. di A. Ghiselli, Firenze 1976. 7. W. J. W. Koster, Traité de métrique grecque suivi d’un précis de métrique latine, Leiden 19664. 8. B. Snell, Griechische Metrik, Göttingen 19633. 9. A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama, Cambridge 19682. 9a. A. M. Dale, Collected Papers, Cambridge 1969. 10. D. Korzeniewski, Griechische Metrik, Darmstadt 1968. 11. O. Schroeder, Aeschyli, Sophoclis, Euripidis, Aristophanis cantica, Leipzig 19162, 19232, 19282, 19302. 12. A. M. Dale, Metrical Analyses of Tragic Choruses, Fasc. 1: Dactylo–Epitrite, “Bull. Inst. Class. Stud.”, Suppl. 21.1, London 1971. 13. H. A. Pohlsander, Metrical Studies in the Lyrics of Sophocles, Leiden 1964. 14. C. Prato, I canti di Aristofane, Roma 1962. 15. H. Fränkel, Der homerische und der kallimachische Hexameter, in: Wege und Formen frühgriechischen Denkens, München 19682, 100–156. 15a. L. E. Rossi, Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, “Studi Urbinati” 39, 1965, 239–273. 16. J. Irigoin, Lois et règles dans le trimètre iambique et le tétramètre trochaique, “Rev.Ét.Gr.” 72, 1959, 67–80.

Breve introduzione alla metrica greca e latina | 427

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Bibliografia aggiuntiva III. 22. [versione aggiornata di 15a] L. E. Rossi, Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, in: M. Fantuzzi – R. Pretagostini (a cura di), Struttura e storia dell’esametro greco. II, Roma 1996, pp. 271–320 (da “Stud. Urbin.” 39, 1965, pp. 239–273, rivisto e con un Post–scriptum 1995).

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IV. 30. L. Ceccarelli, Prosodia e metrica latina arcaica 1956–1990, “Lustrum” 33, 1991, 227–400. 31. L. E. Rossi, Orazio, un lirico greco senza musica, “Sem Roma” 1, 1998, pp. 163–181. V. 35. L. E. Rossi, Grammatica greco–latina e metrica in Italia fra il 1860 e il 1920, in: Atti del convegno Philologie und herméneutique au 19ème siècle (Lille, 1977), II, Göttingen, 1983, 275– 291 + aggiunte 294–296. 36. L. E. Rossi, POxy 9 + POxy 2687: trattato ritmico–metrico, in: Aristoxenica, Menandrea, Fragmenta philosophica, ed. F. Adorno, Firenze (Olschki) 1988, 11–30. 37. L. E. Rossi, Letteratura greca, con la collaborazione di R. Nicolai, L. M. Segoloni, E. Tagliaferro, C. Tartaglini, Firenze (Le Monnier) 1995 (e successive ristampe rivedute; per ogni poeta c’è una sezione che tratta della tecnica e dello stile metrico). 38. L. E. Rossi, Metricians, Ancient Greek, in: Lexikon Grammaticorum. Who’s Who in the History of World Linguistics. Gen. Ed. Harro Stammerjohann, Tübingen (Max Niemeyer Verlag) 1996, 631–633.

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La configurazione metrico–verbale del testo come spia della natura lirica o recitativa del verso. Mondo greco e mondo romano 1. Premessa L’occasione di parlare dei miei due mondi lirici, quello greco e quello romano, in un contesto comparatistico come questo è un’occasione unica e benvenuta, della quale voglio approfittare per riflettere, sotto nuova luce, su cose che credo di sapere da sempre, ma che hanno sempre bisogno di ripensamento. In effetti, molti fatti della poesia e della musica greca1, quando, a suo tempo, ho cercato di spiegarmeli, mi sono sembrati ‘naturali’: oggi voglio riconsiderarli, perché poche sono in antropologia le cose ‘naturali’, e la musica meno di ogni altra, legata com’è a condizioni mutevoli e all’assuefazione. Preziosa è quindi la comparazione, che qui mi viene offerta da competenti. Mi scuso subito per le frequenti citazioni di lavori miei, antichi e recenti. Il fatto è che a questi problemi penso da una vita e, per molti, ho proposto soluzioni da tempo: se rimando a quei lavori, lo faccio per risparmiarmi ripetizioni inutili. Premetto che ‘poesia orale’, nel titolo di questo seminario, lo intendo nel senso di ‘poesia cantata’, contrapposta a ‘poesia recitativa’ (e cioè resa in ‘recitativo’ musicale), per una serie di ragioni che sono proprie delle culture antiche in cui mi muovo. La qualifica di ‘orale’ è attribuita alla fase di composizione orale dell’epica, realizzata in metro stichico (l’esametro) e destinata a una resa di recitativo musicale, musicalmente molto più semplice delle complesse strutture liriche che erano invece destinate al canto spiegato. Certo, le strutture liriche popolari, ovviamente cantate in canto spiegato, rientrerebbero nel tema del no|| [Relazione di convegno (V 29.1.1999, mattino), pubblicata in M. Agamennone – F. Giannattasio (edd.), Sul verso cantato. La poesia orale in una prospettiva etnomusicologica, [Atti del V Seminario internazionale di etnomusicologia, organizzato dall’Istituto di Studi musicali comparati della Fondazione “Giorgio Cini”, Venezia 28–30 gennaio 1999], Padova, Il Poligrafo, 2002, pp. 127–135] 1 Quando si parla di teoria della musica nel mondo antico s’intende sempre soltanto quella greca. I romani non hanno lasciato alcuna traccia di teoria autonoma né hanno apportato novità se non in alcuni aspetti della prassi esecutiva (come, per esempio, nell’aumento dell’organico degli strumenti). https://doi.org/10.1515/9783110647983-028

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stro incontro. Erano ritmicamente più semplici e sarebbe interessante parlarne a confronto con i canti popolari di altre culture ancora vive, ma, purtroppo, ce n’è rimasta scarsa documentazione. La differenza fra la cultura lirica popolare greca antica e quella di molte altre delle civiltà di cui si parla in questa sede è una differenza per l’appunto documentaria, trattandosi di una cultura antica, e quindi di una lingua morta e di una musica condannata al silenzio, che si ricostruisce con troppa approssimazione. Lascio quindi da parte questo settore, pur importante, della cultura greca. Ma anche la notazione musicale dell’epoca di cui tratto è perduta. Ci sono buone ragioni per ritenere che si cominciasse a usarla solo dal III sec. a.C. in poi: prima di allora non si sentiva il bisogno di rappresentare graficamente la musica, che era in sé molto più semplice della nostra, tanto che l’istruzione di un coro, per esempio, era compito dello stesso autore e della poesia e della musica oppure del regista. Se quindi mi trovo a parlare, per la poesia lirica, di un’epoca che va dal VII al IV sec. a.C., la musica deve essere integrarta da quegli indizi che ci restano nello schema metrico della poesia, quella che io chiamo partitura ritmica e che altro non è che la sequenza di lunghe e di brevi che ci trasmettono i testi e che noi dobbiamo interpretare2. Tutto quello che riusciamo a ricavarne è ben lontano da una linea musicale precisa: possiamo però ricostruire, da alcuni indizi interni del testo verbale, il tipo di resa musicale, recitativo o canto spiegato3. Questo non è poco, dopo tutto. Alphonse Dain, il grande filologo francese morto qualche decennio fa, diceva che, mancandoci la possibilità di ricostruzioni precise, dobbiamo accontentarci di riconoscere delle differenze là dove le percepivano gli antichi. Nel nostro caso, si tratta principalmente della differenza fra recitativo musicale e canto spiegato, due modi di resa che avevano funzioni diverse. Non è per amore di paradosso che aggiungerei che la perdita secca della musica in sé non è poi così grande iattura, dal momento che, possedendola per ipotesi registrata autenticamente all’epoca, avremmo gran difficol-

|| 2 Le interpretazioni metrico–ritmiche date dai grammatici più tardi e dagli scoliasti sono inficiate da rigido schematismo scolastico: Rossi 1975, col. 1216 sg. e Rossi 1996 Metricians. 3 Senza poter entrare in ulteriori differenziazioni, penso che ci si debba limitare a distinguere tre tipi di rapporto della musica nei confronti della parola: 1) musica a grado zero, e cioè semplice parlato (il dialogo del dramma, in trimetri giambici); 2) musica a grado ridotto, e cioè recitativo musicale, secco o arioso che fosse (elegia e giambo; versi lunghi del dramma: tetrametri anapestici, tetrametri trocaici e tetrametri giambici, tutti normalmente catalettici); 3) musica a grado pieno, e cioè canto spiegato (la poesia lirica ovvero melica, sia monodica sia corale). Solo allo scopo di orientarsi, è utile riferirsi a istituti della nostra musica moderna, tenendo però presente che in Grecia siamo in una cultura musicale totalmente altra.

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tà a capirne i principi costruttivi, tanto lontana sarebbe dalla nostra sensibilità odierna4. Meglio, quindi, sfuggire a una curiosità che ci porterebbe a non capire o, meglio, addirittura a disprezzare una musica che ci sembrerebbe elementare e inespressiva. Comunque, quod vides perisse perditum ducas, come dice Catullo: e noi ci accontenteremo di ricostruire quello che possiamo. Va messo l’accento su un fatto importante: la poesia greca fu costantemente accompagnata dalla musica fra gli inizi documentati, nell’VIII sec. a.C., fino al IV sec. a.C. Unica eccezione fu il trimetro giambico del dialogo del dramma che, però, fu introdotto solo alla fine del VI sec. Credo di poter dare una formulazione oppositiva fra l’unione di parola e musica nel mondo greco e quell’esperienza moderna che fu il tentativo, di stampo prettamente umanistico, di ricostruire quell’unione nel dramma musicale intorno al 1600 con la Camerata fiorentina. Per la Grecia, propongo di considerare quell’unione come un ‘matrimonio di convenienza’ e, cioè, come un potenziamento della parola poetica per mezzo della musica, visto che la parola era sempre destinata ad un’esecuzione pubblica in determinate occasioni cerimoniali (le grandi feste e il teatro), quella che da Hassan Jouad ho sentito chiamare ‘socializzazione del testo’5. La parola, così, si giovava oggettivamente ad essere unita alla musica. L’unione promossa dalla Camerata fiorentina, invece, quella che ha condotto poi all’opera lirica fino al Gesamtkunstwerk del Wort–Ton–Drama di Richard Wagner, fu, a mio parere, un ‘matrimonio d’amore’: un’unione non necessaria, ma fortemente voluta per una sorta di passione umanistica di ricostruzione e reviviscenza dell’antico che poi, naturalmente, ha portato a risultati via via diversi dalle intenzioni originarie. Serve, infine, ricordare che la lirica corale era costantemente accompagnata dalla danza. Le evoluzioni del coro davano una specie di lettura visiva del ritmo verbale e, quando interpretiamo quei ritmi, dobbiamo sempre vederli ripetuti dai danzatori in corrispondenza delle ripetizioni antistrofiche.

2. Il verso recitativo Il verso recitativo per eccellenza è l’esametro, il verso dell’epica. Per la sua relativa estensione, ci permette delle osservazioni che non ci è possibile fare sul trimetro giambico, più breve. Ne dò lo schema:

|| 4 Rossi 2000: 57–60. 5 Nel senso di destinazione, funzione, estetica della ricezione ecc.

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%

8,3

14,2 27,8 38,7 7,2 3,8

40

60

29

50,2

12,2 7,2

1,4

h | g | g | h | g | g | h | g | gbh | gbg | h | g | g | h6 W 1

2

3

A

4

B

5

C

Dallo schema qui proposto sembrerebbe che la libertà fosse tale da permettere qualunque struttura verbale. Ma si faccia attenzione al fatto che, pur concessa una certa libertà di collocazione all’interno delle zone sensibili A, B e C, le tre incisioni (A, B e C) sono pressoché sempre presenti: la A e la C sono abbastanza elastiche, ma rarissimi sono i versi senza l’incisione in B, la più rigida perché consente una sola alternativa binaria (fra l’incisione pentemimere e quella trocaica). Per di più, ancora più significativamente, ci sono i due ‘ponti’ (divieto di fine di parola): uno all’interno del quarto dattilo e uno fra il terzo e il quarto. Il divieto di fine di parola fra la prima e la seconda breve del quarto dattilo è chiamato ‘ponte di Hermann’, perché fu Gottfried Hermann che, in base alla sua observatio, lo segnalò nel 1805. La ragione ritmica che se ne dà comunemente è il bisogno di evitare l’impressione che il verso finisca lì, che sia cioè un tetrametro dattilico. Ma la legge più assoluta e universalmente rispettata è quella del divieto della divisione in due del verso che propongo di chiamare ‘ponte di mezzo’. Anche qui la ragione ritmica è facile da intuire: il bisogno di evitare monotonia. Come si vede, come conseguenza della disciplina delle fini di parola, la rilevanza della strutturazione verbale è notevole e il rispetto delle leggi tradisce un’evoluzione già matura nel momento in cui la redazione scritta dei due poemi omerici, avvenuta per gradi a cominciare dalla metà circa dell’VIII secolo, ha, per così dire, fotografato una situazione che aveva dietro di sé già un lungo sviluppo di affinamento, tale da creare un preciso orizzonte d’attesa ritmico– verbale. La costanza delle tre incisioni, il ponte di Hermann, e soprattutto il ponte di mezzo, sono tre leggi di diversa natura quasi universalmente rispettate (l’ultima è assoluta): non è pensabile che l’esametro, fin dalle origini, nascesse subito così rigidamente strutturato nella sua métrique verbale ed è invece sicuro che un simile affinamento della versificazione fosse frutto di un lungo tirocinio, del quale di fronte a noi sta la fase finale. 6

|| 6 Rossi 1996, spec. 274 sgg.: le statistiche della frequenza delle incisioni provengono da un mio esame del primo libro dell’Iliade.

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3. Il verso lirico e la costruzione strofica Non è questo il luogo per descrivere la grande ricchezza di forme della poesia lirica. Intendo soltanto prospettare una rilevante differenza fra il verso recitativo e il verso lirico, differenza che credo di aver formulato chiaramente, per primo, molti anni fa7. Abbiamo visto come sia importante, nel verso recitativo, la strutturazione verbale, e cioè quanta importanza abbiano, nel verso, quelle parti finali di parola che assurgono al valore di incisioni. Ebbene, nei versi lirici nulla di tutto questo: non c’è alcuna attenzione alle fini di parola regolarmente ricorrenti, e cioè alle incisioni8. La spiegazione che ho dato di questo fatto mi sembra talmente palmare da avere buone probabilità di corrispondere alla sensibilità ritmico–verbale dei greci. Mi esprimo con tanta (relativa) prudenza, specialmente qui che mi trovo in un contesto comparatistico, perché penso che spiegazioni nostre possono derivare da un’indebita ‘colonizzazione’ dell’antico. Ma in casi come questo, confido che la spiegazione sia giusta, anche se nessun grammatico o metricologo greco l’ha mai formulata: mi attengo al principio che i fatti normali ed evidenti non hanno nessun bisogno di venir formulati9. Ed ecco la spiegazione: nel verso recitativo è ovvio che la strutturazione ritmico–verbale venga affidata alla parola (a mezzo delle incisioni), mentre è altrettanto ovvio che la strutturazione ritmica del verso lirico venga affidata esclusivamente alla frase musicale. Vediamo un esempio molto istruttivo10, dal quale si osserverà come la natura dei versi si possa riconoscere dal solo testo verbale. C’è una sequenza dattilo– epitritica11 che, a guardare soltanto la successione di lunghe e di brevi, potrebbe sembrare identica all’esametro dattilico. Ma questa sequenza è inserita in un contesto (dattilo–epitritico, appunto) che esclude ogni natura esametrica ed è quindi da sentire ritmicamente strutturata nel suo contesto: lo schema dattilo– epitritico è quindi D D . Ne abbiamo conferma se osserviamo un caso for-

h h

|| 7 Rossi 1966: 195–204. 8 La strutturazione verbale può essere qualche volta un espediente in più, confinato normalmente all’inizio del carme lirico (Korzeniewski 1968: 16, 102, 117, 139). 9 Non c’è alcuna formulazione antica, per esempio, della legge di Hermann. 10 Lo segnalai già nel 1965 (v. ora Rossi 1996: 273.11, 311). 11 I dattilo–epitriti – che sono il ritmo di circa la metà delle odi di Bacchilide e di Pindaro – sono costituiti dalla giustapposizione delle due cellule ritmiche D (h g g h g g h) ed e (h g h), variamente collegate da un elemento libero interposto (es. h g g h g g h x h g h x). (Ho sempre usato i preziosi simboli di Paul Maas). La cellula D è la dattilica, mentre la e (con l’elemento interposito che precede o segue) è la epitritica (la designazione ‘dattilo–epitriti’ è moderna: risale a Rossbach–Westphal, intorno alla metà dell’Ottocento).

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tunato in cui il controllo del verso in questione (il primo di ogni strofa) è reso possibile dal fatto che viene ripetuto per ben undici volte in un’ode di Pindaro, la Nemea IX: 1 6 11 16 21 26 31 36 41 46 51

ϰωμάσομεν παρ’ Ἀπόλλωνος Σιϰυωνόϑε, Μοῖσαι, ἔστι δέ τις λόγος ἀνϑρώπων, τετελεσμένον ἐσϑλόν ὂς τότε μέν βασιλεύων ϰεῖϑι νέαισί ϑ’ ἑορταῖς ἀνδροδάμαντ’ Ἐριφύλαν, ὅρϰιον ὡς ὅτε πιστόν φαινομέναν δ’ ἄρ’ ἐς ἄταν σπεῦδεν ὅμιλος ἱϰέσϑαι δουρὶ Περιϰλυμένου πρὶν νῶτα τυπέντα μαχατάν Ζεῦ πάτερ, ἀγλαΐαισιν δ’ ἀστυνόμοις ἐπιμεῖξαι οὔνεϰεν ἐν πολέμῳ ϰείνα ϑεὸς ἔντυεν αὐτοῦ ἔνϑ’ Ἀρείας πόρον ἄνϑρωποι ϰαλέοισι, δέδορϰεν εἰ γὰρ ἅμα ϰτεάνοις πολλοῖς ἐπίδοξον ἄρηται ἀραγυρέαισι δὲ νωμάτω φιάλαισι βιατάν

Questi solo apparentemente sono esametri. Esaminiamoli dal punto di vista delle tre leggi dell’esametro: 1) presenza di incisione almeno in B; 2) ponte di Hermann; 3) ponte di mezzo. Ebbene, la prima legge è infranta nei quattro versi 1, 6, 41, 51; la seconda nei tre versi 11, 21, 26; la terza (la più rigorosa) nei versi 11, 16, 21, 31. Esametri del tutto normali sarebbero solo due su undici, i versi 36 e 46. Questo è del tutto naturale: non erano esametri, bensì versi lirici, cantati a canto spiegato. Chiunque avesse sentito solo recitare i nove versi ‘sbagliati’ non li avrebbe mai presi per esametri dattilici. A Roma si assiste a un curioso fenomeno che è, però, molto istruttivo, perché ci dà la conferma della spiegazione data sopra (verso recitativo strutturato dalla parola, verso lirico dalla musica)12. Orazio si vantava – e aveva ragione – di aver trasposto la lirica arcaica greca nella lingua latina. Usava versi lirici greci che, in Grecia, non avevano incisioni, ma lui, le incisioni, le metteva e le rispettava con una sua puntigliosa regolarità. Leggiamo ad alta voce i seguenti suoi versi: carm. 1. 1. 1 carm. 1. 11. 1–3

Maecenas atavis / edite regibus // (etc.) tu ne quaesieris, / scire nefas, / quem mihi quem tibi // finem di dederint, / Leuconoe, / nec Babylonios // temptaris numeros. / (etc.)

|| 12 Rossi 1998, dove sono trattati anche altri aspetti della ricezione della metrica greca a Roma: spero con quel lavoro di aver eliminato l’episodica persistente convinzione dell’originaria esecuzione musicale delle odi di Orazio.

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Questo, in greco, non si trova. Perché Orazio avrebbe operato una simile scelta? La ragione a me pare evidente: perché, componendo senza musica, sentiva i versi lirici come recitativi e, quindi, bisognosi di incisioni regolari. L’introduzione di espedienti tecnici regolari si chiama ‘normalizzazione’ e costituisce un virtuosismo compositivo in aggiunta agli altri fattori che configurano il testo poetico come tale. Orazio non ha esitato a introdurre, come virtuosismo poetico addizionale, incisioni regolari, visto che ben si adattavano a versi che non erano ormai più cantati. Ripeto: una bella conferma della diversa natura dei versi recitativi e lirici e della funzione delle fini regolari di parola.

4. Conclusioni. La nascita della parola dallo spirito della musica La formula di Nietzsche, alla quale alludo in questo titolo di paragrafo, deve rendere chiaro che parola e musica nascono per parto gemellare. Questo specialmente nel mondo antico, a causa sia delle particolari condizioni della comunicazione letteraria (affidata alla pubblicazione orale), sia della conseguente unione personale delle due competenze, quella poetica e quella musicale: poeta e musicista erano la stessa persona. Molti hanno detto, di volta in volta con parole diverse, che la poesia nasce prima della sua misurazione: il testo verbale nasce con una sua propria configurazione che comprende una musicalità interna. È questo che ci fa dire che, per esempio, i versi di Torquato Tasso, di Vincenzo Monti o di Ugo Foscolo sono musicali. Inoltre, il testo verbale si adatta, a sua volta, a una musicalità esterna, nell’eventuale destinazione a un determinato tipo di messa in musica, permettendoci, per i testi greci, – come abbiamo visto – di riconoscere a posteriori tale loro destinazione sulla base della sola lettura (l’unica a noi concessa) del solo testo verbale con le sue valenze metrico– ritmiche. È così che siamo riusciti a ‘leggere’, nei nostri testi muti, la destinazione musicale: dal modo in cui si configura la métrique verbale. Non che, in questo campo, sia permesso ottenere molto di più: ma, a patto di contentarci, possiamo chiudere con soddisfazione la partita del perduto e del ricostruito. E questo grazie a una sensibilità ritmico–musicale assai spinta che era degli antichi e che traspare dai loro testi: è nostro compito riaccostarci a quella sensibilità, origliando con discrezione.

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Riferimenti bibliografici Korzeniewski D. (1968), Griechische Metrik, Darmstadt. Rossi L.E. (1996), La metrica come disciplina filologica, “Rivista di filologia”, 94: 185–207. — (1975),Verskunst, in Der kleine Pauly, Bd. 5: coll. 1210–1218. — (1996), Metricians, Ancient Greek, in Lexikon Grammaticorum. Who’s Who in the History of World Linguistics. Gen. Ed. Harro Stammerjohann, Tübingen (Max Niemeyer Verlag): 631– 633. — (1996), Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (a cura di), Struttura e storia dell’esametro greco, II, Roma 1996: 271–320 (da “Studi Urbinati”, 39, 1965: 239–273, rivisto e con un Post–scriptum 1995). — (1998), Orazio, un lirico greco senza musica, “Seminari Romani di Cultura Greca”, 1: 163– 181. — (2000), Musica e psicologia nel mondo antico e nel mondo moderno: la teoria antica dell’ethos musicale e la moderna teoria degli affetti, in Synaulìa. Cultura musicale in Grecia e contatti mediterranei, a cura di A.C. Cassio, D. Musti, L.E. Rossi, Napoli: 57–96.

Orazio nel lungo silenzio della lirica greca Grazie a E.[milio] P.[ianezzola] per l’invito a parlare di Orazio e grazie agli amici presenti. Parlo di fronte a un pubblico che lo conosce ben meglio di me. Ho accettato solo perché mi si è assicurato che potevo vederlo sotto un aspetto che mi interessa particolarmente, e spero che contribuisca a chiarire ulteriormente la sua collocazione nel suo contesto, che è globalmente greco–latino. Altrove ho cercato di mostrare che la lirica di Orazio non era originariamente destinata alla musica. Riprenderò inevitabilmente questo discorso, che tempo fa avevo intitolato Orazio, un lirico greco senza musica (“SemRom” 1, 1998, 163– 181). Qui vi infliggerò gran parte di quel materiale per poi mettere l’accento su Orazio come lirico sì greco, ma solitario nel corso di molti secoli sia nella letteratura latina sia proprio in quella greca, che da almeno tre secoli e mezzo (dal IV sec. a. C.) aveva abbandonato non solo le forme più complicate della composizione lirica, ma anche quelle di media complessità: [si ricordi] l’uso κατὰ στίχον di gliconei, falecei etc. ad opera di poeti ellenistici da cui prendono il nome (che è ovviamente cosa ben diversa dalla melica arcaica) e le poche tracce di composizioni liriche di un certa complessità, come Cercida, Sotade e il cosiddetto Lamento dell’esclusa. È necessario quindi presentare almeno schematicamente le forme della poesia greca in una scala crescente di quella che possiamo chiamare ‘difficoltà’: non, beninteso, in una scala assiologica assoluta – che nascerebbe da una prospettiva solo nostra moderna –, bensì in una prospettiva storica, che ci mostra i segni inequivocabili di invenzioni (heuremata), di prassi estesa e poi infine di abbandoni. Che poi questa scala corrisponda più o meno alla nostra valutazione moderna di ‘difficoltà’ – come in effetti avviene – non mi esime dal fare la necessaria premessa che ho appena fatta. E ho un testimone d’eccezione, contemporaneo di Orazio: Dion. Hal. comp. 136. 13 ss. U.–R. (cap. 26), che distingue proprio con criteri che sembrano nostri la metrica facile da quella difficile (di difficile ἀντίληψιν, percezione, e grazie: non c’era più la musica). Che Orazio sia un primo in latino lo dice lui stesso (e chiunque avrebbe potuto smentirlo): (1)

|| [Conferenza tenuta all’Università di Padova Mt 7.12.2004 (i numeri tra parentesi, sottolineati e in neretto rimandano all’handout). – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi e anche in un file a stampa nello studio di Via Aventina; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-029

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Vediamo quale era la letteratura in versi che Orazio aveva nella sua biblioteca. È il caso di accennare al problema della disponibilità di letteratura greca a Roma nell’età di Orazio? Per es. ho qualche dubbio per quanto riguarda Alcmane; Stesicoro era sicuramente letto a Roma. Significativo è il canone di Quintiliano, che ricorda i nove lirici, ma ne cita soltanto alcuni: Pindaro, Stesicoro, Alceo e Simonide. Forse va valorizzata la citazione [quintilianea] di Orazio (10. 1. 61 propter quae Horatius eum [scil.: Pindarum] merito nemini credit imitabilem) che mostra come Orazio fosse sentito come il vero termine di confronto romano della lirica greca. Vd. anche 10. 1. 96 At lyricorum idem Horatius fere solus legi dignus: nam et insurgit aliquando et plenus est iucunditatis et gratiae et varius figuris et verbis felicissime audax (poi viene nominato Cesio Basso).

[Ecco dunque la letteratura in versi di Orazio:] – In principio c’è l’epica con l’esametro. Ma: verso stichico recitativo. – Poi: elegia e giambo. Cominciano, da Archiloco in poi, anche gli asinarteti: ma sono strofette distiche, come il distico elegiaco. (Anche il tetrametro trocaico). – Alcmane con gli inizi di una metrica, e di una musica e di una orchestica, più complesse: comincia la triade (strofe/antistofe/epodo AAB, AAB, …), ma con costruzione strofica interna in genere non troppo complicata. – Stesicoro comincia con le complicate triadi in da–ep e da–an, che vengono poi riprese da Simonide, Pindaro e Bacchilide. Questo è il punto più alto di elaborazione. L’iperbato. Ordo verborum in Hor. (3). – In un diverso ambiente operano Saffo a Alceo, che come complessità non vanno oltre le due strofi eoliche e i versi lunghi eolici (i vari gliconei, asclepiadei etc.). – Il dramma, V sec.: la tragedia contamina i vari ritmi, ma semplifica rispetto alla lirica corale nella strofica, perché solo raramente ha la triade (normalmente una sola triade) e quasi sempre ha ripetizione della sola strofe: AA, BB, CC ... (3). – Poi il IV sec. e poi l’età ellenistica: si conservano nell’uso solo poche forme metriche. – Che cosa riprende Orazio di tutto questo? [E le forme non attestate in greco?] Domanda di fondo: se prescindiamo dal libellus di Catullo, di per sé molto meno ricco nelle forme di quanto non sia Orazio, il liber poetico di altri poeti lirici latini, intorno ad Orazio o poco dopo, non va molto oltre il distico elegiaco. Poeti come Catullo, Tibullo, Properzio (per parlare solo dei conservati, ma

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c’erano i neoterici, v. Gallo): il liber poetico che è anche storia di un amore (diverso statuto della donna), che ha bisogno di una collocazione. Mi chiedo piuttosto perché Orazio volesse essere un così tenace e puntiglioso conservatore, o per meglio dire restauratore. Il restauro della grande lirica greca era stato un dovere storico–filologico ad Alessandria (Aristoph. Byz. 2), ma nessuno si era mai posto il problema di far rivivere quelle forme, neanche poi quelle di media difficoltà (le strofi eoliche). Mondo greco: libro XIII dell’Antologia Palatina. Fra gli arcaici latini e Marziale abbiamo i geniali cantica di Plauto (che per me restano sempre un problema), Terenzio (versi lunghi), la sobria varietà dei neoterici e di Catullo. Non vorrei parlare di Seneca (goffaggini di vario tipo, come le infinite sequenze di endecasillabi saffici, che avrebbero scandalizzato un greco anche contemporaneo: ma non era rappresentato). Se cerchiamo qualche collega greco di Orazio, la nostra recensio è assai misera: Callimaco con la sobria varietà dei Giambi, Sotade con i suoi bizzarri sotadei, Cercida con i suoi prudenti dattilo–epitriti, l’Inno a Roma di Melinno in cinque strofi saffiche (forse dell’inizio del I sec. a.C.). Se ha avuto qualche seguito, lo ha avuto molto parziale e tardo (Rosellini 1997[1], p. 917: un gusto per la polimetria si riscontra in Ausonio e in Prudenzio, più limitatamente in Paolino da Nola). – Perdita della grande metrica anche nel mondo greco: pap. di Timoteo (IV a. C.), Dion. Hal. (Aristoph. Byz. 102.1 ss., cap. 22; 140.18 ss.; cap. 26; poesia = prosa: cap. 25 come la prosa può sembrare verso, cap. 26 come la poesia può sembrare prosa, es. Simon. Lamento di Danae; ictus negato); confessioni di ignoranza di Hor. (12). Anthologia Graeca: quasi solo il distico elegiaco. Ora, la grande lirica, e soprattutto quella corale, ha cessato di essere praticata col mutare delle condizioni della comunicazione, che in Grecia sono cambiate ben due volte, creando tre fasi (per periodizzazione v.(2)): oralità integrale fino all’VIII sec.; auralità–spettacolarità (convivenza di oralità e scrittura) fino al V–IV sec.; e finalmente cultura della scrittura e soprattutto del libro, che ha permesso la creazione del liber poetico in età ellenistica e romana. Cambia la comunicazione e di conseguenza tante ‘occasioni’ della pubblicazione scompaiono o cambiano. Sul simposio v. (5). Ma si sono adattati, i greci, a queste mutazioni: più che di inattuali reviviscenze, si sono esercitati a rendere presente il loro passato letterario metabolizzandolo in forme nuove, memori dell’antico, dal IV sec. in poi. Creano forme nuove, prescindendo dalle antiche occasioni (agoni, teatro etc.), nelle quali forme nuove brillano i preziosi fossili della tradizione (questo è il senso della famosa formulazione di Kroll “mescolanza dei || [1 M. Rosellini, Metri lirici, in Enciclopedia oraziana, II, Roma 1997, pp. 912–919.]

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generi letterari”). Due esempi fra tanti: Callimaco che compone epinici in distici elegiaci (non li si canta più con la danza: non sono più i santuari il luogo della celebrazione spettacolare); e Teocrito che mescola, nel nuovo genere bucolico, epistola, epos, dialogo del dramma. Vi propongo un modo di interpretare l’Anthologia Graeca nelle sue varie realizzazioni, che (come ci testimoniano alcuni papiri) cominciano già nel III sec. a. C., ben prima di Meleagro. L’organizzazione editoriale è ben nota: una serie di epigrammi di autori vari seguiti dall’epigramma dell’antologista, che gareggia con i suoi predecessori con zelos o aemulatio, dandosi la palma della vittoria. Ebbene: questo mi pare la traduzione scrittoria ovvero libresca di quello che erano le varie forme greche di agone tutt’altro che libresche (agoni rapsodici, agone simposiale, agoni drammaturgici etc.). Questa mia interpretazione la sfrutterò in fine per darmi una spiegazione della prestazione letteraria di Orazio. Che cosa fa invece Orazio? Fa tutt’altro. Riprende, per quanto è capace di fare, il fattore configuratore più immediatamente percepibile in una letteratura scritta, la metrica, ma non la musica e, al di là di omaggi formali (per es. le antichità musicali, per cui v. Wille (6), qualche volta la mimesi, (7), neanche i contenuti, limitandosi al motto di pasqualiana memoria, rivisitato recentemente da Cavarzere[2]: il motto è una dichiarazione esplicita di intertestualità, che a lui serve a dar l’avvio a tutt’altro. La materia è genuinamente romana, e parlo naturalmente della lirica, perché per satire ed epistole la romanità non aveva bisogno di filtri. Vorrei qui mettere in rilievo la piena consapevolezza di Orazio. – L’aperta mimesi (7). – L’espediente della regolarizzazione dell’incisione in lyricis, innovazione che tanto tempo fa mi sembrava goffa, ma ora non più (8, 9, 10): il carmen saeculare, l’unico cantato (4, e v. 10!!). – La formidabile prova della lex Meineke (13). – La sua confessione d’ignoranza conta meno (12): la prova del trattamento veramente archilocheo degli asinarteti (12). Niente teoria metrica Christ– Kiessling: ha ragione Heinze (11). Per tirare le somme: i greci non sentirono alcun bisogno di rinnovare in grande la loro lirica, perché ne era finita la funzione e con la funzione anche la

|| [2 A. Cavarzere, Sul limitare. Il “motto” e la poesia d’Orazio, Bologna 1996.]

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pratica delle forme più complesse, legate alla musica e alla danza. Era come se dicessero ‘abbiamo già dato’, siamo al sicuro come inventori, come heuretaì, e ora ci dedichiamo a forme nuove. I romani, invece, avevano i loro complessi, in qualità di feri victores, di fronte alla Graecia capta che a sua volta li aveva culturalmente conquistati. L’enciclopedia metrica oraziana la vedo come quel tributo alla cultura letteraria greca che ancora mancava. Dopo il dramma con Livio Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio, Plauto e Terenzio, dopo l’assunzione della forma greca dell’epos, l’esametro, con Ennio, dopo la polimetria solo recitativa di Lucilio (nell’ambito di una satura che beninteso tota nostra est), dopo la sobria polimetria lirica dei neoterici e di Catullo, era come dire: vedete, da voi abbiamo imparato tante cose, ma c’è qualcosa ancora che possiamo e dobbiamo fare con onesta aemulatio: lo facciamo a modo nostro e con le nostre possibilità, gareggiando con quello che voi non producete più. Azzardo una metafora: vedo Orazio, con il suo sostanzioso corpus lirico, come il continuatore di un ideale corpus lirico greco, come l’antologista di una immensa antologia lirica greco– romana, e, come tale, questa volta non vincitore/vinto ma vincitore/vincitore in quanto ultimo. In questo senso voglio confermare ancora una volta la chiara consapevolezza non solo tecnica, ma anche storica di Orazio: il suo monumentum era davvero da prevedersi aere perennius in assoluto, in qualità di conclusione definitiva di una serie antologica. La sua solitudine non tanto fra i romani, ma addirittura fra i greci suoi contemporanei, lo faceva sentire come un antologista–vincitore assoluto e definitivo, senza futuri concorrenti. La sua consapevolezza storica e la sua più che soddisfacente attrezzatura tecnica ne hanno fatto un profeta veritiero. Il suo orgoglio era giustificato (1). Se vogliamo davvero rendergli giustizia, dovremo dire non soltanto che è stato un solitario poeta lirico greco nei secoli a lui adiacenti (prima e dopo), ma anche che è stato l’ultimo poeta lirico greco della storia: e spero che sia ormai chiaro che, quando dico ‘greco’, intendo che dai greci ha saputo prendere gli aspetti formali (la metrica e i maliziosi richiami intertestuali) che sentiva di potere e dover assumere, senza che questo gli facesse velo sulla distanza funzionale, e cioè storica, dai suoi modelli. Anche lui ha metabolizzato, in un modo nuovo rispetto a quanto avevano fatto i suoi immediati predecessori greci dell’ellenismo. E comunque lo ha fatto molto meglio di quanto ci riveli la fortuna della lirica greca nell’età moderna. Il silenzio letterario di quella poesia dura ancora oggi, e per buone ragioni Una fortuna sfortunata, per dirla in breve e per concludere davvero. La grande lirica greca è arrivata a noi terribilmente frammentaria (due miracoli: Pindaro in grandi papiri e in mss medievali, Bacchilide nel papiro di Londra),

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tanto che non si può parlare di una vera fortuna della lirica greca nel mondo moderno (intendo una fortuna testuale o precisamente intertestuale): solo una fortuna per figure di lirici [come] Archiloco poeta maledetto e gratuitamente antiomerico, Alceo ingenuamente antitirannico, Saffo anche lei maledetta o femminista (non so quale è peggiore, fra le due condanne). Fraintendimenti gravi. Le colpe della critica moderna? Scarsità di testi, ma specialmente fraintendimento socio–biografico di quelle grandi figure. Ma soprattutto fraintendimento di poetica: noi siamo stati per un paio di secoli immersi nella poetica romantica, quella del primato della funzione espressiva (per dirla con Jakobson) ovvero della prima persona, mentre loro erano più per la funzione conativa ovvero della seconda persona: non atteggiamento idiosincratico (romantico), ma scelte di contenuti condivisi, ognuno nella propria comunità. Ed è per la scarsità e lacunosità dei testi che l’esegesi dei lirici greci è stata esclusivamente una riserva della filologia, che per molto tempo non si è preoccupata di intenderne la poetica (l’intelligenza di un Boeckh e di un Welcker sono state eccezioni; e anche Hegel ha avuto intuizioni felici). I veri prodromi della lirica moderna sono negli elegiaci latini, come si è detto prima. Quando i greci arcaici sono entrati di forza nella poesia moderna, ci sono scappati di mano: i voli pindarici di Hölderlin erano solo hölderliniani, le contorsioni espressionistico–ermetiche di Saffo erano solo di Quasimodo. A chi possiamo avvicinare i lirici arcaici nel mondo moderno per la loro funzione? Vorrei non scandalizzare nessuno considerandoli dei cantautori di altissimo livello. E Orazio, allora? Ha letterarizzato consapevolmente, a modo suo e con risultati alti, un universo testuale che a me spesso ripugna definire come letteratura. Riusciremo mai a trovare un altro termine per definire le opere della cultura greca fino al IV secolo a. C.? Molti amici qui presenti mi capiranno, spero, e non crederanno che questa mia sia una provocazione gratuita.

Handout 1. epist. 1. 19. 21–34: 21–23 libera per vacuum posui vestigia princeps, || non aliena meo pressi pede. qui sibi fidet || dux reget examen. carm. 3. 30. 13 s. princeps Aeolium carmen ad Italos || deduxisse modos: questa è l’ode exegi monumentum aere perennius (asse del tempo / asse dello spazio) 2. Le condizioni della comunicazione nella Grecia antica: 1) oralità (fino al 750 c.: mancanza di scrittura); 2) diffusione della scrittura, ma persistenza della auralità (dalla fine dell’VIII al IV sec. a.C.): convivenza di scrittura con pubbli-

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cazione orale; 3) libro (dal IV sec. a.C. in poi). – Prima l’occasione e poi il liber. 3. Verifica delle modalità della comunicazione verbale attraverso un’analisi interna dei testi: il test dell’ordo verborum fondato sull’iperbato. In greco e in latino, lingue flessionali, ci sono iperbati da definirsi ‘linguistici’ perché normali e ‘attesi’: filias quaerit suas (Plaut. Poen . 111), quindecim dederat minas (Plaut. Pseud. 618). (Fondamentale sull’argomento E. Fraenkel, Iktus und Akzent, Berlin 1928, 39ss., 162ss.). Ma ci sono iperbati che, anche in greco e in latino, suonano ‘artificiosi’: carm. 1.9.21 nunc et latentis proditor intimo // gratus puellae risus ab angulo). Considerazioni sull’orchestica (ovvero sulla costruzione strofica): in Pindaro AAB, AAB... (in media tre–cinque ripetizioni della triade, fino alle tredici della Pitica IV); nel dramma AA, BB, CC... (o al più – ma di rado – triadi diverse fra loro: AAB, CCD...). Scelta mirata, nel dramma, a una maggiore trasparenza del mesaggio verbale, mentre nella lirica corale doveva prevalere lo spettacolo. 4. CIL 6. 32323, spec. ll. 3, 20 ss., 147 ss.: il carmen saeculare cantato 5. carm. 1. 38 Persicos odi, puer, adparatus, / displicent nexae philyra coronae, / mitte sectari rosa quo locorum / sera moretur. // 5 simplici myrto nihil adlabores / sedulus curo: neque te ministrum / dedecet myrtus neque me sub arta / vite bibentem. (Fraenkel, Hor., 1957, 297–299: subito dopo 1. 37!) 6. lyra, cithara, fides, testudo, barbiton ‘suonare uno strumento’, o ‘cantare’, erano metafore ormai addirittura spente per ‘essere poeta lirico’, o poeta tout court. 7. La mimesi. carm. 4. 2 (Pindarum quisquis). Com’è noto, l’ode è la risposta all’invito di Iullo Antonio per il ritorno di Augusto, assente dal 16 al 13 a.C, invito che Orazio gira a Iullo stesso (33 s. concines maiore poeta plectro | Caesarem ...), riservando a sé una parte minore nella celebrazione (27 s. ego apis matinae | more modoque ..., 45 s. tum meae, si quid loquar audiendum, || vocis accedet bona pars...). Il carme è il programma della celebrazione (un trionfo, che poi non ebbe luogo), con tutte le ‘didascalie’ musicali del caso: 33 concines, plectro; 41 s. concines laetosque dies et urbis || publicum ludum; poi, in prima persona, 45 s. cit. supra, che continua con 46 s. et “o sol || pulcer o laudande” canam; poi 49–51 teque, dum procedis, “io triumphe” || non semel dicemus, “io triumphe” ||

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civitas omnis. Quello che rivela, e che contemporaneamente tradisce, la mimesi è l’indicazione dei testi da cantare in discorso diretto: v. a proposito di carm. 4. 6. carm. 4.6 (rifer. al carmen saeculare: (75 s.): doctus et Phoebi chorus et Dianae | dicere laudes). virginum primae puerique claris / patribus orti, // Deliae tutela deae, fugacis / lyncas et cervos cohibentis arcu, // 35 Lesbium servate pedem meique / pollicis ictum, // rite Latonae puerum canentes, / rite crescentem face Noctilucam, / prosperam frugum celeremque pronos / 40 volvere mensis. // nupta iam dices “ego dis amicum, / saeculo festas referente luces, / reddidi carmen, docilis modorum / vatis Horati”. [Porfirione nello scolio ad 4. 6. 35 ss., commentando 35 s. meique pollicis ictum, diceva candidamente: id est: modulationem lyrici carminis. et suaviter hoc dicitur, quasi ipsam lyram percutiat] 8. endecasillabo saffico: endecasillabo alcaico:

h g h h h | ... x h g h h | ...

(niente del genere in Catullo)

9. carm. 1. 11. 1–3

tu ne quaesieris, | scire nefas, | quem mihi quem tibi finem di dederint, | Leuconoe, | nec Babylonios temptaris numeros. | (... ) carm. 1. 1. 1 Maecenas atavis | edite regibus || (...) 10. Prospetto dei numeri dei versi con il numero delle violazioni dell’incisione dopo il quinto elemento, rispettando la sequenza cronologica della pubblicazione dei suoi carmi: end. sapph.: libri I–III (23 a.C.), con un totale di 447 end. saff.; violazioni 7 (1,57 %); Nei libri I–III: 1. 10. 1, 10. 6 (–que), 10. 18 (–que), 12. 1, 25. 11, 30. 1; 2. 6. 11. carm. saec. (17 a.C.), con un totale di 57 end. saff.; violazioni 19 (33,34 %); Nel carm. saec.: 1 (–que), 14, 15, 18, 19 (–que), 35, 39, 43, 51, 53 (–que), 54 (–que), 55, 58, 59 (–que), 61, 62 (–que), 70, 73, 74 (–que). libro IV (dopo il 13 a.C.), con un totale di 105 end. saff.; violazioni 22 (20,96 %); Nel libro IV: 2. 7 (–que), 2. 9, 2. 13 (–que), 2. 17, 2. 23, 2. 33, 2. 38, 2. 41 (–que), 2. 47, 2. 49, 2. 50, 6. 10, 6. 13, 6. 27, 6. 30 (–que), 6. 33, 6. 35, 11. 23, 11. 27, 11. 29, 11. 30, 11. 34. end. alc.: 634 occorrenze, di cui 106 nel libro IV; violazioni 3 (0,47 %): 1. 16. 21, 1. 37. 5 (de–promere), 4. 14. 17.

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ascl. min.: 507 occorrenze, di cui 129 nel libro IV; violazioni 1 (0,78%): 2. 12. 25 (de–torquet); escludo 4. 8. 17, normalmente espunto da molti in omaggio alla lex Meineke. ascl. magg.: 32 occorrenze, di cui 8 nel libro IV; violazioni 1 (3,13%): 1. 18. 16 (per–lucidior); 1. 18. 5 si può spiegare con valore ortotonico di aut , e lo escludo. Per falsare il meno possibile queste statistiche, conviene evitare di frazionarle e sommare le occorrenze dei tre tipi di verso (1173) e le violazioni (5): ne viene uno 0,42 % complessivo di violazioni. 11. La teoria di Christ–Kiessling, bene presa in giro da Heinze (1918, p. 31 s. = cap. I, 6). a.p. 268 s. vos exemplaria Graeca || nocturna versate manu, versate diurna. 12. Incomprensione della metrica di Pindaro (carm. 4. 2. 11 s.), di Anacreonte (epod. 14. 9–12) e perfino di Plauto (a.p. 268–274). Ma al suo punto più basso Orazio è quando tratta incoerentemente (alle volte con fine di verso e alle volte con sinafia) il passaggio dal terzo al quarto colon delle strofi eoliche (comprensibile per l’impaginazione). Ma il trattamento degli asinarteti è genuinamente archilocheo (v. l’epodo di Colonia: Arch. e Hor. sono gli unici a trattare i due cola dell’asinarteto divisi da ‘incisione con licenza’ (Rossi 1978)[3]: si conferma così sia l’autenticità archilochea sia la imitatio Archilochi di Orazio. 13. Lex Meineke (esped. lirico, ma non musicale, perché non orchestico): dei 16 epodi ‘epodici’ (il 17 è in trimetri giambici stichici), solo sette (4, 6, 7, 10, 11, 14, 15) hanno numero di versi divisibile per quattro, il che risulta essere quindi puro caso. Ne abbiamo conferma definitiva dal confronto diretto fra epod. 12 e carm. 1. 7 e 28 (esametro + alcmanio): le due odi rispettano la lex Meineke, ma non l’epodo!

|| [3 L.E. Rossi, Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini. (Sull’autenticità del nuovo Archiloco), in A. Ceresa–Gastaldo (ed.), Problemi di metrica classica, Università di Genova (Fac. di Lettere, Ist. di Filol. Class. e Mediev.) 1978, pp. 29–48 + 3 tavole.]

Riflessioni sui dattilo–epitriti 1. Una brillante trovata scenica nelle Nuvole 2. Una proposta registica per una rappresentazione moderna 3. Un esercizio di esegesi ritmica: i dattilo–epitriti da Rossbach–Westphal a Maas 4. Metrica davvero antica e teoria tarda: l’enoplio nel V secolo a. C. e l’enoplio per i grammatici 5. Verso una conferma definitiva dell’esegesi ritmica di Maas 6. Alla ricerca dei vari versi boeckhiani dattilo–epitritici 7. L’assenza di strutturazione interna in cola 8. Conclusioni (provvisorie): i dattilo–epitriti originariamente figli dell’esametro epico || [Relazione di convegno (Mc 12.12.2007, ore 10, Giornata in onore di Roberto Pretagostini, presso l’Auditorium della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”), recitata poi anche come conferenza L 31.3.2008, ore 11, all’Università di Parma (Aula Seminari della Biblioteca Centrale di Lettere, Plesso D’Azeglio), e G 12.6.2008, ore 16–18, al seminario romano (Facoltà di Scienze Umanistiche della “Sapienza”); pubblicata postuma in «SemRom» 11, 2008 {ma stampa 2010}, pp. 139–167] * Il presente lavoro, che dopo molti anni di gestazione aveva finalmente cominciato a trovare forma scritta in vista della stampa, era ancora incompiuto al momento del malore che ha colto Rossi alla metà del mese di giugno dello scorso anno, e che lo ha portato, tre mesi dopo, alla morte. I curatori (Michele Napolitano con i giovani Francesco Paolo Bianchi e Virgilio Irmici, valenti allievi degli ultimi anni) hanno lavorato a rendere pubblicabili – oltre al molto che era già pronto per la stampa, e che qui si riproduce senza modifica alcuna – anche le parti che erano ancora allo stato di abbozzo, rinunciando però a integrare in tutti i casi in cui le intenzioni dell’autore non fossero chiare e inequivoche, e a maggior ragione ad aggiungere porzioni nuove di testo ove il dattiloscritto recasse non più che note o appunti ancora da sviluppare. Le parti integrate, e i necessari raccordi, sono comunque regolarmente stampati, nel testo e nelle note, in parentesi quadre. Le appendici raccolte sotto la lettera A riproducono il più fedelmente possibile il materiale che Rossi aveva scelto di distribuire in sede di esposizione orale; la tabella 7 di appendice A, elaborata in comune da Bianchi e da Irmici, è stata revisionata e sensibilmente migliorata da Irmici verso la fine del lavoro di revisione. L’appendice B, frutto esclusivo della fatica di Bianchi e di Irmici, porta a compimento un lavoro che Rossi aveva coordinato fin dalle sue prime fasi, e poi seguito passo dopo passo fino ai suoi ultimi giorni di attività. Un’ultima avvertenza riguarda la bibliografia, che riproduce fedelmente, senza aggiunta alcuna, la bibliografia del dattiloscritto. Per quanto essa si presenti sensibilmente più ricca rispetto a ciò che si trova effettivamente citato nel testo e nelle note, i curatori hanno ritenuto opportuno lasciarla com’è: il lettore potrà in questo modo formarsi un’idea chiara dei titoli che Rossi aveva in animo di utilizzare per le parti del suo articolo che non è riuscito a completare, e immaginare a un tempo, pur entro certi limiti, la forma che il lavoro avrebbe assunto se l’autore fosse stato in grado di portarlo a compimento. https://doi.org/10.1515/9783110647983-030

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1. Una brillante trovata scenica nelle Nuvole Con una relazione sulla metrica lirica intendo fare un omaggio, sia su piano scientifico sia su piano personale, alla memoria di Roberto Pretagostini, che ha prodotto in campo metrico lavori che meritano memoria veramente perenne per originalità e intelligenza. Siamo grati per questa giornata agli amici di “Tor Vergata”, e specialmente a Maria Grazia Bonanno, che ne ha elaborata la formula: fornire, cioè, ricerche originali nei campi da lui praticati. La mia è nata occasionalmente proprio dalla rilettura di un suo articolo metrico, veramente splendido1. Intendo il suo geniale articolo intitolato Le prime due sezioni liriche delle Nuvole di Aristofane e i ritmi κατ’ ἐνόπλιον e κατὰ δάκτυλον (Nub. 649–651). Pretagostini fa un’osservazione molto acuta: come tutti sappiamo, nelle Nuvole di Aristofane, ai vv. 649–651, Socrate, che vuole istruire il vecchio rozzo Strepsiade, gli dice che gli insegnerà ad avere buone maniere in società e a distinguere i ritmi κατ’ ἐνόπλιον da quelli κατὰ δάκτυλον. Aristoph. Nub. 636–651 Wilson Σω. ἄγε δή, τί βούλει πρῶτα νυνί μανθάνειν ὧν οὐκ ἐδιδάχθης πώποτ’ οὐδέν; εἰπέ μοι. πότερα περὶ μέτρων ἢ περὶ ἐπῶν ἢ ῥυθμῶν; Στ. περὶ τῶν μέτρων ἔγωγ’· ἔναγχος γάρ ποτε ὑπ’ ἀλϕιταμοιβοῦ παρεκόπην διχοινίκῳ. Σω. οὐ τοῦτ’ ἐρωτῶ σ’, ἀλλ’ ὅτι κάλλιστον μέτρον ἡγεῖ· πότερα τὸ τρίμετρον ἢ τὸ τετράμετρον; Στ. ἐγὼ μὲν οὐδὲν πρότερον ἡμιέκτεω. Σω. οὐδὲν λέγεις, ὦνθρωπε. Στ. περίδου νυν ἐμοί, εἰ μὴ τετράμετρόν ἐστιν ἡμιέκτεων. Σω. ἐς κόρακας· ὡς ἄγροικος εἶ καὶ δυσμαθής. ταχύ γ’ ἂν δύναιο μανθάνειν περὶ ῥυθμῶν. Στ. τί δέ μ’ ὠϕελήσουσ’ οἱ ῥυθμοὶ πρὸς τἄλϕιτα; Σω. πρῶτον μὲν εἶναι κομψὸν ἐν ξυνουσίᾳ, ἐπαΐειν θ’ ὁποῖος ἐστι τῶν ῥυθμῶν κατ’ ἐνόπλιον, χὠποῖος αὖ κατὰ δάκτυλον.

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|| 1 In Rossi 2007 ho offerto una rassegna critica dei suoi lavori sulla scena greca, fra cui spiccano i suoi migliori lavori metrici, che hanno a che fare con l′esecuzione drammatica, verbale e musicale. Sull’articolo di cui, meno estesamente di qui, ho parlato in quel lavoro vd. pp. 15–17. – [Ad eccezione di uno, gli interventi della giornata in ricordo di Pretagostini, organizzata da Maria Grazia Bonano, sono stati pubblicati in «SemRom» 11, 2008, pp. 139–221 – G. C.]

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Pretagostini si accorge che questa uscita fa seguito, a poca distanza, a due parti corali, la prima delle quali (275–290 = 298–313), lo splendido coro retroscenico delle Nuvole, è costruita in palese contestualizzazione dattilica e la seconda (457–475), il duetto lirico, è in grande prevalenza dattilo–epitritica2. Ecco l’analisi metrica dei due corali: Aristoph. Nub. 275–290 Wilson {στρ.} ἀέναοι Νεϕέλαι, ἀρθῶμεν ϕανεραὶ δροσερὰν ϕύσιν εὐάγητον πατρὸς ἀπ’ Ὠκεανοῦ βαρυαχέος ὑψηλῶν ὀρέων κορυϕὰς ἔπι δενδροκόμους, ἵνα τηλεϕανεῖς σκοπιὰς ἀϕορώμεθα καρπούς τ’ ἀρδομέναν ἱερὰν χθόνα καὶ ποταμῶν ζαθέων κελαδήματα καὶ πόντον κελάδοντα βαρύβρομον· ὄμμα γὰρ αἰθέρος ἀκάματον σελαγεῖται μαρμαρέαισιν ἐν αὐγαῖς. ἀλλ’ ἀποσεισάμεναι νέϕος ὄμβριον ἀθανάτας ἰδέας ἐπιδώμεθα τηλεσκόπῳ ὄμματι γαῖαν.

276 280

285/6

290

3da^ [= D] ‖ 6da 4da 6da 4da ″ ″ ″ 5da 3da [= D h]3 4da ″ h 3da [= h D h]

40 da

Aristoph. Nub. 457–475 Wilson Xo. λῆμα μὲν πάρεστι τῷδέ γ’ οὐκ ἄτολμον ἀλλ’ ἕτοιμον. ἴσθι δ’ ὡς ταῦτα μαθὼν παρ’ ἐμοῦ κλέος οὐρανόμηκες ἐν βροτοῖσιν ἕξεις. Στ. τί πείσομαι; Xo. τὸν πάντα χρόνον μετ’ ἐμοῦ ζηλωτότατον βίον ἀνθρώπων διάξεις. Στ. ἆρά γε τοῦτ’ ἄρ’ ἐγώ ποτ’ ὄψομαι; Xo. ὥστε γέ σου πολλοὺς ἐπὶ ταῖσι θύραις ἀεὶ καθῆσθαι, βουλομένους ἀνακοινοῦσθαι τε καὶ εἰς λόγον ἐλθεῖν πράγματα κἀντιγραϕὰς πολλῶν ταλάντων, ἄξια σῇ ϕρενὶ συμβουλευσομένους μετὰ σοῦ.

460

465

470 475

4tr tr^ (= e) 5da ‖ ith ‖ ia (= g e) ‖ hD‖ hDheh‖ DgD‖ hDheh‖ DhDh‖ Dheh‖ D h D i4

|| 2 Vedi le analisi metriche di Zimmermann 1987, pp. 15 s., 17, e di Parker 1997, pp. 186–191. 3 [Così leggeva Rossi (Θ2), diversamente da Wilson] 4 [In sede di esposizione orale, Rossi proponeva a questo punto un confronto tra la propria scansione e quella di Guidorizzi 1996, p. 356: vd. appendice A1]

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Ora, Pretagostini osserva giustamente, e a quanto so per primo, che quei due corali erano l’esemplificazione preventiva (prima delle battute di Socrate a Strepsiade) dei due generi ritmici, quello dattilico puro e quello dattilo–epitritico: vedremo qui oltre (§ 2) che l’ordine scenico ha una sua precisa funzione. Se la sua observatio coglie nel segno, come io credo, siamo di fronte a uno dei tanti casi in cui viene a proposito una bella formulazione di Dain: non sappiamo come quei due ritmi si differenziassero, ma siamo in grado di verificare che si differenziavano5: En fait [...] c’est quand un mètre est opposé à un autre que son caractère se dégage. L’étude des changements rythmiques à l’intérieur d’un ensemble permet de reconnaître, sinon le caractère expressif de chaque rythme, du moins les divers caractères qu’il est susceptible de prendre.

2. Una proposta registica per una rappresentazione moderna Dirò ora che la scoperta di Pretagostini mi invita irresistibilmente ad andare avanti nella via da lui aperta. Le situazioni sceniche sono chiare: durante tutte e due le parti corali, che vengono un po’ prima delle battute dialogate di Socrate (636–651), il vecchio rozzo e ignorante è sulla scena: nel primo caso (v. 275 ss., dattili) sente il coro retroscenico delle Nuvole e nel secondo (v. 457 ss., dattilo– epitriti) si realizza addirittura un amebeo lirico, ovvero un duetto, fra il coro e Strepsiade. Se si accetta l’idea di Pretagostini, che cioè queste due parti corali esemplificano i due diversi generi ritmici, non riesco a sottrarmi all’idea che questo venisse anche scenicamente rappresentato, con espedienti che potevano essere di vario tipo: i due ritmi sono diversi, ma Strepsiade è troppo rozzo per saperli distinguere, ed ecco che, anche solo canticchiando lui stesso, mostra la sua goffaggine: se avesse riconosciuto la specificità dei due ritmi, lo avrebbe fatto certo non visivamente, come siamo costretti a farlo noi, ma coll’orecchio, lasciandosi andare a una realizzazione ritmica, e cioè scenica. Nel duetto lirico è lui una delle due parti, dopo tutto: ed era proprio quello il luogo per marcare la specificità dell’uno e dell’altro ritmo. Se colgo nel segno, il fatto che il confronto Strepsiade–Coro avvenga precisamente sul ritmo dattilo–epitritico, e non sui dattili lirici (che sono affidati al solo coro), può non essere privo di significato. Secondo me era proprio con i dattilo–epitriti, ormai da un paio di secoli familiari all’orecchio del pubblico, che si poteva meglio smascherare e evidenziare la rozzezza del vecchio. Il ritmo datti|| 5 Dain 1965, p. 233.

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lico era certo meno adatto allo scopo6. E il dialogo recitativo fra Socrate e Strepsiade viene dopo la prova concreta di incompetenza ritmica del vecchio: l’offerta di educarlo al ritmo avviene dopo che ha dimostrato, sia a Socrate sia al pubblico, che non ha un orecchio educato. Sono consapevole del principio, comunemente accettato, che niente avviene sulla scena che non trovi la sua esplicitazione nel testo, come giustamente predica tutta la ricerca drammaturgica7, e quindi qualcuno potrebbe obiettarmi che in questo nostro testo non c’è niente di esplicito: ma penso che la parola non dicesse, perché non può dire, proprio tutto quello che in scena avveniva o poteva avvenire, come in realtà avviene in una partitura musicale, che notoriamente non può arrivare a precisare tutto. Quanto io ritengo sicuro è non un vero e proprio movimento scenico, bensì qualcosa di gestuale e/o di cadenza verbale, che francamente penso venisse realizzato. E ne avvertirei un regista (colto), che sarei felice di avere sottomano, pur senza sapere che cosa precisamente suggerirgli.

3. Un esercizio di esegesi ritmica: i dattilo–epitriti da Rossbach–Westphal a Maas La rilettura del davvero eccellente lavoro di Pretagostini mi ha dato lo spunto per ripensare la natura di questa famiglia ritmica, i dattilo–epitriti, così abbondantemente utilizzata dai greci. Molti anni fa Paul Maas8 ha dato di questo universo ritmico un’interpretazione ormai quasi universalmente accettata e che io credo giusta e che, come si vedrà, è provvidamente unitaria proprio dal punto di vista dell’esegesi del ritmo. Maas ha individuato quelle che sono le cellule metriche ritmicamente identificabili e all’infinito ripetute e ne ha proposto i simboli: D (h g g h g g h), e (h g h) e, molto più raramente, d1 (h g g h) e d2 (g g h). Va pre-

|| 6 Mi domando se ci si sia mai chiesta la ragione di un fatto singolare universalmente segnalato, ma non spiegato: quando il ritmo dattilico, che frequentemente era rappresentato da tetrametri stichici o da sistemi di cola, sia invece rappresentato da esametri, questi sono sempre fedeli alle regole di métrique verbale dell’esametro epico, che era reso non liricamente ma in recitativo (sulla rilevanza delle incisioni solo per la metrica recitativa vd. § 6). Potenza dell′orizzonte di attesa, condizionato dall’epos? 7 Non serve proprio che indichi bibliografia. 8 Maas 1929, §§ 6 e 55 (ma già in Maas 1911, p. 327).

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cisato che D ed e sono sempre precedute e seguite da un elemento libero interposito che le collega fra di loro (h D h, h e h)9. Maas ha dato così prova di autentica intelligenza ritmica, con la quale ha risolto il problema della caratterizzazione unitaria di questi ritmi, che presentano u n a e n o r m e v a r i e t à m o r f o l o g i c a a t t r a v e r s o l e n u merosissime combinazioni di quelle pochissime cellule – come vedremo al § 5 –, davvero pochissime perché sono quasi sempre solo le prime due. Si era così creato un ritmo che con la cellula D risultava debitore dell’esametro dattilico (e capace di inglobare facilmente materiale lessicale dell’epos) e che nello stesso tempo con la cellula e innovava. Ma vedremo alla fine questo legame con l’epica (§ 8). In realtà un primo germe delle cellule maasiane era già nella denominazione “dattilo–epitriti”, che, inventata di sana pianta da Rossbach e Westphal centocinquant’anni fa10, è stata poi subito quasi universalmente adottata. Il binomio opportunamente evidenzia la natura dattilica della cellula D e la natura “epitritica” della cellula e, a seconda che la si veda preceduta (epitrito giambico, h e) o seguita (epitrito trocaico, e h) dall’elemento libero interposito, che è quasi sempre lungo: il rapporto epitritico è, com’è noto, di 4 a 3. Peccato che poi Rossbach e Westphal abbiano annacquato il tutto con l’idea “musicalizzante” moderna della cosiddetta teoria logaedica, che voleva uniformità di battuta (Taktgleichheit) fra dattili e trochei11.

|| 9 Essendo abitualmente lungo, l′elemento libero interposito dà l′epitrito, che significa rapporto 4:3 o 3:4 (p. es. h h g h , il cosiddetto epitrito giambico, oppure h g h h , il cosiddetto epitrito trocaico). Maas ha proposto, in più, la cellula E, corrispondente a e x e, ma conviene farne a meno, perché nega l′informazione sulla natura del libero interposito e, per di più, quando per esempio ci sia e x e x e, non si può trovare una ragione al mondo per scegliere E x e oppure e x E (e infatti le scelte in Maas e in Snell sono di volta in volta arbitrarie: vd. appendice A2). Questa seconda obiezione è già in Dale 1950, p. 144 n. 2. 10 Rossbach–Westphal 1856, p. 382 ss.; Rossbach–Westphal 1868, p. 778 ss.; Rossbach–Westphal 1889, p. 404 ss. 11 Per questo rimando a Rossi 1963, p. 11 ss.: per semplicità dirò qui che un gliconeo veniva da Rossbach e Westphal ‛letto’ ritmicamente come avesse quattro battute isocrone (con catalessi finale). Contro la teoria logaedica si è sempre opportunamente battuto Gentili, anche nell′insegnamento, mettendo in rilievo l’arbitrio dell’introduzione di un principio musicale nostro (la battuta) in una resa non mensurale, che era quella antica (come nel canto gregoriano).

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4. Metrica davvero antica e teoria tarda: l’enoplio nel V secolo a. C. e l’enoplio per i grammatici L’impostazione di Maas, pur nella secchezza di quella che a torto è stata considerata da alcuni una pura d e s c r i z i o n e e basta, risulta essere invece una vera e propria i n t e r p r e t a z i o n e ritmica, come risulterà meglio qui oltre. Contro questa interpretazione, pensando di opporsi solo a uno schema astratto e opponendosi invece proprio all’interpretazione ritmica, si è sempre tenacemente schierato Bruno Gentili fin da tempi molto antichi, tempi che io, come ora dirò, ho personalmente vissuti12. In realtà la notazione maasiana è oggi universalmente accettata, ma in genere non lo è da noi in Italia, e questo per l’autorità e il prestigio di Gentili. E qui una breve ma importante precisazione. Chi volesse vedere in quanto dirò non il frutto di autentica e seria riflessione scientifica ma una sterile polemica con Gentili, va avvertito trattarsi di una penosa abitudine che, da chiuque praticata, non ha niente di scientifico ed è solo deplorevole frutto di attitudine al genere del gossip. Ripeterò adesso, piuttosto, quello che per più di mezzo secolo (dal 1954–55, cioè da quando ho cominciato a seguire le lezioni di metrica di Gentili) ho sempre detto esplicitamente a tutti e sempre scritto e che sta in ogni versione del mio curriculum: che a Gentili debbo l’avvio alla filologia e alla metrica, che di questo gli sono sempre stato gratissimo e che, infine, proprio questo mio continuo riconoscimento mi dà il diritto di dissentire in qualcosa da lui, molto onorevolmente, del resto, sia per lui sia per me. Tra l’altro, è da Gentili che ho inizialmente imparato a interiorizzare il ritmo e a renderlo – spero – con una qualche efficacia. Gottfried Hermann, nella versione didattica del suo manuale di metrica, ha detto con molta ragione che la metrica non si può imparare sine viva magistri voce perché di grande importanza è la exercitatio aurium13. Vorrei riuscire a dare una esposizione chiara della teoria di Gentili, che peraltro si appoggia a illustri precedenti14. Alla base c’è il rifiuto dell’appercezione

|| 12 In Gentili 1952, p. 105 ss. La formulazione più recente è in Gentili–Lomiento 2003, p. 197 ss. Contro si era espresso anche Grassi 1961, p. 165 (giustamente, invece, Grassi si oppone ai simboli della Dale [Dale 1951, p. 21]: tali simboli, volendo coprire tutto l′universo ritmico greco, risultano inopportuni perché confondono famiglie ritmiche che appare fossero ben distinte per gli antichi). 13 Hermann 1818, p. VI. È questa la versione in usum scholarum del famoso e monumentale Hermann 1816: nella Praefatio, pp. III–XXI, ci sono tutti gli ancora preziosi consigli didattici sull’insegnamento della metrica. 14 Molto chiaro Gentili 1952, p. 105 ss., dove segue soprattutto Bergk, Blass, Wilamowitz e Schroeder nell′apparentare questi ritmi con enoplio, prosodiaco e reiziano.

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maasiana unitaria del ritmo e conseguentemente delle sigle, ingiustamente tacciate di schematizzazione astratta15, per affermare l’apparentamento alle sequenze qui elencate: enoplio prosodiaco reiziano hemiepes

XhXhXhx XhXhXh XhXh x h w h w h (x)

Alle sempre diverse combinazioni delle cellule maasiane vengono quindi riconosciute identità ritmiche quanto mai varie (operazione quindi non unificante ma disgiuntiva): e questa è già un’obiezione, come vedremo fra poco. Ma ce n’è un’altra, più di fondo, che va rivolta anche – e direi soprattutto – agli iniziatori di questa corrente (da Bergk in poi)16: n o n è p o s s i b i l e a p p a r e n t a r e questi ritmi con i dattilo–epitriti, che non hanno elemento libero solubile fra due longa, come invece ce l’hanno l’enoplio, il prosodiaco e il reiziano. Ma bisogna anche dire che l’hemiepes, nelle sue due forme maschile e femminile, non è assolutamente apparentabile con gli altri tre cola, proprio per la ragione appena detta. È per questo che anche l’analisi dell’esametro dattilico come hemiepes + enoplio va respinta, e da un puro e semplice punto di vista ritmico. Non vale dire che nel caso dell’origine dell’esametro epico l’enoplio sarebbe stato un enoplio ’normalizzato’, ovvero con tutti i tempi deboli moricamente uguali ai tempi forti (J), non liberi, cioè, di realizzarsi in singola breve (J h J h J h x): la normalizzazione sarebbe stata originaria (palese contraddizione in termini) o sarebbe stata preceduta da una fase non normalizzata (ignotum per ignotius)? E, se un simile enoplio normalizzato può andar d’accordo con l’hemiepes, come la mettiamo con prosodiaco e reiziano, che sono la negazione della normalizzazione? Tornando all’articolo di Pretagostini, da quella che risulta essere una testimonianza davvero antica (Aristofane) si ricava con sicurezza (e la sicurezza è ormai totale dopo questa conferma) che il ritmo che noi moderni chiamiamo datti-

|| 15 Alla base della (ingiustificata) accusa di astratto razionalismo avanzata sempre contro Maas da Gentili c′è la (giustificata) simile accusa avanzata contro Maas da Pasquali in fatto di critica testuale: vedo chiaramente il percorso mentale di Gentili, fedele pasqualiano. Ma in metrica Maas non poteva non seguire, e in effetti seguì, una tradizione, affermatasi da sempre e seguita dal suo maestro Wilamowitz, di sensibilità alla observatio e cioè all′approccio storico, per cui vd. Rossi 1973, p. 138 ss. 16 Vd. n. 14.

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lo–epitritico era chiamato, al tempo di Aristofane, κατ’ ἐνόπλιον17. Prima di questo contributo ci si doveva fondare sulla testimonianza sia di Socrate in Aristofane sia di Platone18, con all’origine, in un caso e nell’altro, Damone il musico. Si trattava di una pur palmare congettura: ma oggi ne abbiamo la concreta certezza da una documentazione coeva a Damone19. Ora mi chiedo: quali sono le conseguenze di questo innegabile acquisto? È giusto abbandonare il termine “dattilo–epitriti” in favore della terminologia enoplia? Credo proprio di no, e questo per solide ragioni di storia dei ritmi: non si tratta di un problema puramente terminologico. Dopo il Damone di Aristofane e di Platone, le cose evidentemente erano cambiate radicalmente: sia nella teoria tarda (scoliasti, trattatisti) sia nella teoria moderna che ad essa si appoggia, il termine “enoplio” designa schemi ritmici diversi dalla cellula D dei dattilo– epitriti per la semplice ragione che quel termine veniva a coprire anche ritmi con elementi liberi in toto. L’enoplio con gli elementi liberi è largamente rappresentato nella prassi: evidentemente l’uso terminologico più tardo dava quel nome a quella forma libera. E allora, se volessimo usare quel termine, dovremmo parlare di “ e n o p l i o d a m o n i a n o ” ovvero normalizzato, che designava un enoplio con tutte doppie brevi, per distinguerlo dall’enoplio più tardo, che aveva i tempi deboli liberi. Questa seconda è la forma che prendono i versi enopliaci all’epoca del teatro, che tali venivano chiamati dai teorici più tardi e che però convivevano con i dattilo–epitriti come famiglie ritmiche distinte. Tanto vale quindi, dopo tutto, restare alla terminologia westfaliano– maasiana di d a t t i l o – e p i t r i t i , che ha il pregio di dar conto sia della costante doppia breve della cellula D sia della singola breve della cellula e. Possiamo anche chiamarli “ c a l c i d i c i ” o “ c a l c i d e s i ″ , come fece Wilamowitz e come dopo di lui fece Schroeder20, dal carmen populare dei calcidesi (fr. 873 Page). Ma chiariamo una volta per tutte che terminologia e interpretazione

|| 17 Chiamarli, come fa Gentili, κατ’ ἐνόπλιον–epitriti rivela una indebita (e dal suo punto di vista inopportuna) dipendenza dalla designazione di Rossbach–Westphal (dattilo–epitriti). 18 La testimonianza diretta di Aristofane anticipa di qualche decennio quella di Platone (resp. 400b 4), con l′ulteriore vantaggio che, mentre in Platone abbiamo solo il termine “enoplio”, in Aristofane il termine risulta legato proprio a questi precisi ritmi, e cioè ai dattilo–epitriti. 19 È sicuramente per pura dimenticanza (a cui vanno soggette le cose ovvie) che in Gentili–Lomiento 2003, pp. 197, 204 ss., la paternità della certezza non viene data a Pretagostini. 20 Sbaglia Pasquali (1986a, p. 283) ad attribuire la proposta terminologica a Schroeder: vd. Gentili–Lomiento 2003, p. 205 n. 52.

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ritmica sono due fatti indipendenti l’uno dall’altro e che quello che conta è l’interpretazione ritmica21. Il fatto è che, a mio parere, la teoria antica che ci resta è troppo poco antica per interessarci veramente. Pasquali22 ne parlava come di «classificazione meccanica o speculazione inutile». La scuola storica ci ha giustamente abituati a non trascurare nessuna testimonianza, ma deve essere considerato ovvio che non tutte le testimonianze possono stare sullo stesso piano e che soprattutto, nel nostro caso, non si può dar fede a chi spiega e teorizza fenomeni musicali e ritmici a distanza di vari secoli. Concludendo: conviene ricavare le leggi dalla prassi autentica piuttosto che da qualunque teoria, tanto più se questa teoria dà poco affidamento per ragioni cronologiche23.

5. Verso una conferma definitiva dell’esegesi ritmica di Maas Non sono mai intervenuto esplicitamente contro la visione anti–maasiana, a mio parere errata, di una parte così importante dell’universo ritmico greco: ho semplicemente sempre adottato (come del resto fanno ormai tutti) la geniale perché semplicissima (e secondo me veritiera) descrizione, che è anche – ormai deve risultare chiaro – una interpretazione ritmica, quella di Paul Maas. L’ho fatto ogni volta che mi sono trovato anche solo a trattare di sfuggita i dattilo– epitriti24 e quando ho parlato di Stesicoro come dell’inventore di quel ritmo25, palesemente derivato dall’esametro: si aveva evidentemente l’intenzione di rinnovare l’esametro in forme nuove, ancorché non violentemente nuove (§ 8). Non riesco a capire che senso abbia designare versi che hanno una loro identità ritmica unitaria, pur con l’infinito variare degli accoppiamenti delle due cellule, con nomi episodici e raccogliticci come i seguenti, che sono i più frequentemente adottati dalla teoria tarda26: || 21 Chi riesce a leggere senza pregiudizi Pasquali 1986a si rende conto che in lui c’è solo un′adesione terminologica. 22 Pasquali 1986b, p. 288: «la dottrina della metrica greca non può essere se non descrittiva ed empirica». E ancora: «È verosimile che uno studioso alessandrino non si trovasse rispetto a un cantico di Sofocle in condizioni molto diverse dalla nostra». Io direi che si trovò in condizione addirittura peggiore, perché la chiarezza di Boeckh era di là da venire. 23 Un altro esempio di divergenza nel diverso approccio rispetto alla prassi originaria e alla teoria tarda è dato da Rossi 1978 (già 1976: è in assoluto la prima descrizione monografica degli asinarteti) e da Palumbo Stracca 1979. 24 Rossi 1975 e 1985. 25 Rossi 1983, spec. p. 7 s. 26 I numeri in grassetto e tra parentesi quadre rinviano allo schema di appendice B.

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angelico, cherileo, difilio = D x D (Plot. Sac. p. 507. 19 ss. Keil) [nr. 48] pindarico = x e x D x e x (Heph. pp. 44. 13; 51. 14; 362. 12 Consbr.) (Pind. fr. 35b Sn.–M.; Bacch. 12, str. 1–2; Heph. p. 51. 18 Consbr.; schol. ad Eur. Hipp. 264)27 platonico = D x e x D (Heph. p. 51. 9 Consbr.) [nr. 92] stesicoreo = e x e x e x (= 3 tr) [nr. 25] encomiologico o elegiambo = D x e x (Heph. p. 50. 19 Consbr.) [nr. 23] giambelego = e x D (Heph. p. 51. 3 Consbr.) [nr. 17] [A quelle che precedono Rossi aggiungeva qui, tra parentesi quadre, le due ulteriori denominazioni che seguono: archebuleo (Koster 1953, VIII 5 [p. 178 s., c]) = 2an g h x (Heph. pp. 28. 13; 276. 15; 384. 27 Consbr.) prassilleo (Koster 1953, VIII 3 [p. 173, c]) = D d2 g h x (Heph. pp. 24. 8; 35. 17; 130. 19; 145. 27; 379. 34; 380. 32; 405. 15 Consbr.)

Per quanto attiene al pindarico, precisava, inoltre, che gli antichi associavano a tale denominazione una serie di distinte possibilità di realizzazione; la tabella che segue, fondata sui soli scolii alle Pitiche, ne esemplifica quattro, tutte diverse rispetto allo schema fornito sopra (x e x D x e x). nome (Gentili) pindarico I pindarico II pindarico III pindarico IV

schema astratto

hghhhgghggh hghhhgghgghx hghhhgghgghhhgh hghxhgghgghhx

interpretazione di Gentili

ehD

epitr.tr hem tr

epitr. hem

f

epitr.tr hem epitr.ia tr

interpretazione maasiana

epitr. alcm ^^

ehDx ehDhe exDhx

I calcoli che Rossi fa seguire all’inizio di § 6 non tengono in ogni caso conto né di archebuleo e prassilleo né delle quattro ulteriori possibilità di realizzazione del pindarico appena segnalate.] Tutti questi (pochi) nomi designano versi dattilo–epitritici formati con le cellule maasiane. Questi nomi sono attestati in epoca tarda e sono frutto palese di gente che quella identità ritmica non capiva, non sentiva proprio più: e ovviamente mi astengo dal farne loro una colpa, lontani com’erano di secoli (quattro, cinque, sei etc.) dal momento in cui quei ritmi e quella musica si praticavano: ma ne va fatta colpa a chi dà loro retta. O pensiamo che noi moderni ab-

|| 27 [La combinazione delle cellule maasiane che forma il cosiddetto “pindarico” non si trova nella tabella di appendice B per le ragioni esposte infra a n. 37]

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biamo la stessa sensibilità (e assuefazione) musicale di chi produceva e ascoltava musica prima di Monteverdi? Se si mette in conto una ragionevole approssimazione in fatto di assuefazione dell’orecchio, i secoli sono quelli, più o meno. A parte la considerazione storico–scientifica, non ho bisogno di mostrare quanto tutti quegli inutili nomi siano di grave ostacolo anche a una didattica ottimistica: come si fa a memorizzare quei nomi e a dare ad essi una individuallità ritmica distinta? E quando si vedrà, come si vedrà qui subito (§ 6), in quale numero esorbitante sono i versi che meriterebbero un nome come i pochi qui passati in rassegna, sarà ancor più evidente l’assurdo.

6. Alla ricerca dei vari versi boeckhiani dattilo–epitritici I termini usati dalla terminologia tarda, e da alcuni accolti, sono – come si è appena visto (§ 5) – nove per designare sei realtà ritmiche, e cioè sei versi boeckhiani: è chiaro che se ne potrà reperire qualche altro testimoniato da qualche codice medievale. Ora, questo ristretto numero mi ha risvegliato la curiosità di sapere quanti sono gli schemi di verso boeckhiano presenti negli autori dattilo– epitritici, in primis in Pindaro e in Bacchilide. Credevo che la risposta mi venisse da una rapida consultazione del conspectus metrorum dei dattilo–epitriti nell’edizione (che abbiamo in mano da decenni) di Snell–Maehler. E invece no, perché, dopo una in sé del tutto inutile ripetizione degli schemi delle singole odi (in quasi tre pagine: forse solo al modesto scopo di una presentazione in ordine cronologico), ripetizione che però è modificata in maniera gravemente fuorviante28, viene un elenco (in due pagine e mezzo), in sé non inutile, di nessi morfolo-

|| 28 La ripetizione non è del tutto tale perché è inspiegabilmente diversa dal “modello”, in cui erano segnalate (inutilmente, perché sono versi lirici, vd. n. 29) le fini di parola interne ai versi e queste sono rimaste, senza però la segnalazione, affidata al numeretto dei versi, dei confini dei versi stessi (si confondono, quindi, semplici fini di parola e fini di verso!). Per molti decenni si è continuato pigramente a ristampare un conspectus metrorum del tutto inutile: evidentemente nessuno (me compreso) si era dato la pena di utilizzarlo. Ecco, per dare un esempio, come compare lo schema della strofe di Ol. XII in testa al testo dell′ode e poi come, inspiegabilmente, compare nel conspectus metrorum: e h D ∥ 2e h D | h d1 | 3E h e | 4E h d1 ∥ 5e h D h | 6E | h D h E||| e h D ∥ e h D | h d1 | E h e | E h d1 ∥ e h D h| E | h D h E ||| Manca la (necessaria) distinzione (nel primo schema sostituita dai numeretti) fra le semplici fini di parola interne ai versi (inutilmente segnalate, per dannoso eccesso descrizionistico) e le fini di verso: come si fa a fare uso di una tale nullità? [A questo Rossi aggiungeva una considerazione ulteriore: non si trova una vera ragione per cui Snell impieghi la barra singola (|) per indicare la fine di verso non confermata da iato o indifferens e la barra doppia (∥) per indicare la fine di verso

Riflessioni sui dattilo–epitriti | 463

gici (mancanza di elemento libero interposito fra le varie cellule D e le varie cellule e, e simili) arbitrariamente scelti dagli editori: nulla che aiuti a reperire le varie forme di verso, insomma, che era poi l’unico sussidio che un conspectus metrorum avrebbe dovuto dare29. A farmi rendere conto, con autentica meraviglia, che i pochi nomi adottati dalla teoria tarda sono ben lontani dall’esaurire la fenomenologia del genere ritmico che abbiamo di fronte è stata una recentissima ricerca sugli epinici completi di Pindaro dovuta a tre miei benemeriti allievi, Francesco Paolo Bianchi, Barbara Capotondi e Giorgia De Luca. Secondo questa faticosa ricerca (fondata ovviamente non sul conspectus, bensì sulle scansioni delle singole odi), v e niamo a conoscere, per la prima volta a quanto so, il numero delle diverse forme di verso boeckhiano, che

|| confermata, invece, da iato o indifferens. Tanto più che in quest’ultimo caso rimane comunque non esplicitato se la fine di verso sia individuata di volta in volta da iato, da indifferens o da entrambi (vd. per questo appendice A3). Per questo Rossi proponeva di generalizzare l′impiego della barra doppia per indicare ogni fine di verso ed in più aggiungere la notazione di iato o indifferens per segnalare quei casi in cui uno dei due criteri, o entrambi, siano di conferma all′individuazione della fine di verso (per questo si può istituire un confronto tra la scansione di Ol. VII proposta da Snell–Maehler 1987, p. 23, e la nostra, per cui vd. appendice A4)] 29 [Qui Rossi inseriva una nota relativa al valore delle fini di parola in lyricis. Per quanto sia chiaro dai suoi appunti che tale nota sarebbe stata incorporata in testo, i curatori hanno ritenuto opportuno conservarne lo status di nota a piè di pagina; qui di seguito il testo della nota] Non mi risulta che questo ovvio principio fosse stato formulato prima del 1965, quando operai un mio test singolarmente illuminante (come tale – «höchst lehrreich» – è stato giudicato da Hermann Fränkel, per litt. [24.5.1966]: vd. Rossi 1996, p. 311 s.): la monostrofica Nemea IX di Pindaro è in dattilo–epitriti e il primo verso della strofe è D h D h I (h g g h g g h h h g g h g g h h I ), e cioè una sequenza che per la successione di lunghe e di brevi potrebbe essere un esametro [in sede di esposizione orale e poi in dattiloscritto, Rossi aveva pensato al nome di “esametroide” per individuare questa sequenza: vd. appendice A5]: ebbene, di undici ripetizioni due sole (!!), per incisioni, potrebbero essere esametri perfettamente regolari (36, 46), mentre quattro sarebbero esametri rari (1, 6, 41, 51: senza incisione pentemimere o trocaica), uno rarissimo (26: contro il ponte di Hermann) e addirittura quattro (si noti: quattro su undici!) assolutamente impossibili (11, 16, 21, 31: divisi in due parti uguali, quello che io da qualche tempo chiamo “ponte di mezzo″, regola mai violata). Non si poteva desiderare prova migliore per dimostrare l′irrilevanza della métrique verbale in tutta la poesia lirica greca: le fini di parola non hanno nessuna rilevanza in lyricis, per la buona ragione che la strutturazione delle frasi è musicale, mentre nei versi recitativi la métrique verbale ha tutto il suo peso. A quanto so, questo principio fondamentale della lirica, che la distingue dalla poesia recitativa, viene segnalato esplicitamente per la prima volta in Rossi 1966, p. 195 ss.; in Rossi 1998, spec. p. 171 ss., viene evidenziato il comportamento assolutamente non greco di Orazio. [A questo punto nel dattiloscritto ricorre un appunto relativo al lavoro di Lomiento 2001, senza però ulteriori precisazioni; ci è parso opportuno segnalarlo, per quanto sia impossibile ricostruire in che termini Rossi aveva in mente di utilizzare il lavoro citato]

464 | Sezione 1: Metrica

s o n o a d d i r i t t u r a ( s a l v o u l t e r i o r i c o n t r o l l i ) 1 5 0 (una quarantina presenti più di una volta, le altre una sola volta)30, a fronte dei nove nomi per sei versi dati qui sopra e dovuti ai tardi esegeti metrici. Che valore dare, allora, a quei nomi? Cercando negli scolii ne troveremo ancora quanti ne servono a denominare le sequenze rimanenti? E, trovandoli, che ne faremo? Non vedo quale utilità possa darci assegnare una, per così dire, fisionomia ritmica singola a ciascuno di quei moltissimi versi, che sono poi tutti un diverso accrocco di solamente due cellule, o molto raramente quattro. Senza contare che i frammenti di Pindaro e quanto ci resta degli altri ci daranno ancora alcune ulteriori forme di verso. L a s o r p r e n d e n t e a b b o n d a n z a d i forme, che in modi diversi combinano le poche cellule maasiane, non fa che confermare l’utilità, anzi la necessità della interpretazione ritmica unitaria di Paul M a a s . [In sede di esposizione orale e poi ancora in dattiloscritto, Rossi proponeva a questo punto un confronto tra le scansioni di Pind. Pyth. 3 fornite da Snell nella sua edizione di Pindaro e da Gentili 1995. I curatori hanno ritenuto opportuno riproporre tale confronto: vd. appendice A6]

7. L’assenza di strutturazione interna in cola I versi di una certa estensione e costituiti da ritmi differenti sono in genere strutturati in cola, ma, come a me sembra, non è questo il caso dei versi dattilo– epitritici. Anche qui richiamo un bell’articolo di Pretagostini31, sulla base del quale mi sento di dire c h e i d a t t i l o – e p i t r i t i s o n o q u a l c o s a d i i b r i d o f r a v e r s o e s i s t e m a . Se li si considera come sistemi, sono simili non a quelli katà kolon bensì a quelli katà metron, dove al posto del metron ricorrente c’è la ricorrente cellula ritmica dattilica (D) e/o epitritica ( e, e ). Mi domando, in realtà: quali cola dovremo isolare in versi che hanno tre cellule D e due e (app. B nr. 150) o cinque e e una D (app. B nr. 145)? Potremo cavarcela, certo, con catalessi, acefalie, sincopi, e per di più in quanti casi avremo dei dubbi insolubili? In realtà è quello che si deve fare nel sistema di Gentili: ma vediamo a quanti aggiustamenti si deve andare incontro per dare una fisionomia non dattilo–epitritica a tanti versi differenti32.

h

|| 30 Vd. appendice B. 31 Pretagostini 1978. 32 Basta dare un′occhiata a appendice A1, A6 (scansione Gentili) e A7.

h

Riflessioni sui dattilo–epitriti | 465

8. Conclusioni (provvisorie): i dattilo–epitriti originariamente figli dell’esametro epico Quanto alla visione diacronica di questo ritmo, confermo la mia visione del 1983 in un mio lavoro su Stesicoro33: i dattilo–epitriti sono originariamente figli sia dell’esametro nella forma metrica sia della narrazione epica nella strutturazione dei contenuti, come vediamo assai meglio di prima nei frammenti ultimamente ritrovati di Stesicoro. In questo vado d’accordo con Michael Haslam nel suo bell’articolo del 197434. C’è da credere che l’epica stesicorea nascesse dal desiderio di innovare, con forme che a suo tempo ho chiamate “alternative”, sul sempre vitale tronco della recitazione epica. La tecnica narrativa era, se possibile, più omerica di Omero ed era raccontata in lyricis. Difficile dire se i lunghi poemetti stesicorei fossero resi in canto spiegato o in un tipo di resa più simile al recitativo: io tendo a pensare che la resa spiegatamente lirica non fosse del tutto probabile, ma c’è chi invece, con buone basi, la pensa diversamente35. Questa famiglia ritmica ha avuto gran fortuna, e non solo in poesia di alto livello (lirica corale, tragedia)36, ma anche in poesia popolare (penso al carme calcidese, fr. 873 Page), e la sua fortuna è durata a lungo. [Qui Rossi chiamava in causa Cercida; con questo riferimento, non ulteriormente argomentato, il dattiloscritto si chiude]

Appendici A 1. Scansione di Aristoph. Nub. 457–475 in Guidorizzi 1996, p. 356 457 458 459–460 461 462 463 464 465–466 467–469 470–471

hghghghg| hghghghghgh| hgghggh|gghgghg hghghh| ghgh| hhgghggh hhgghgghhhghh hgghgg h|ghgh|H hgghhhgghgghghghh hgghgghhhgghgghh|

|| 33 Rossi 1983. 34 Haslam 1974. 35 Cingano 1993. 36 Per i dattilo–epitriti tragici vd. Dale 1971.

2tr 3trcat hem reiz ith ia prosod prosod reiz hem ia hem reizcat reiz hem enopl

466 | Sezione 1: Metrica 472–473 474–475

hgghggh|hhghh h g g h g g h h h g g h g g h ||

hem reiz hem prosod

2. Comportamento di Snell (Pindaro) e Maehler (Bacchilide) per E [Nell’elenco che segue si segnalano solo i casi di incoerenza rispetto alla notazione E e si rimanda per il resto alla tabella di appendice B] Pindaro

Bacchilide

a) Isthm. II, ep. 3: E h Isthm. VI, ep. 6: h e h b) Isthm. III/IV, ep. 3: e F e c) Isthm. III/IV, ep. 4: h e F e d) Ol. XIII, ep. 7: E e h e h e) Nem. IX, str. 2: e F e h D h E f) Isthm. V, str. 2: e F e F d1 g) Pyth. I, ep. 3: e h Egg e Pyth. IV, str. 7: E h e e h) Isthm. III/IV, str. 1: e F e F E F i) Isthm. III/IV, ep. 7: h D e F e j) Isthm. II, ep. 6: e gbg h e h

a) b) c) d) e) f)

3. Snell–Maehler

Proposte di modifica

| = fine di parola/verso senza H / W I = fine di verso con H / W ||| = fine strofe

I = fine verso I H / I W = fine verso con H / W

Epin. 1, str. 5/6: D h e F e Epin. 5, str. 7/8: E h e F e Epin. 11, str. 3/4: h D e F e h Epin. 5, ep. 7/8: h D F e F e F Epin. 10, ep. 2: h e F e h Epin. 13, str. 4: e F e h

4. Scansione di Pind. Ol. VII Snell–Maehler ΣΤΡ. d2hehD ‖ 2eFE ‖ 3he ‖ 4FEhDhD ‖ 5DhehD ‖ 6d2hehDh ||| ΕΠ.

DhDhe ‖ 2EhDh | g g | 3h g g h \ g g | g h g g h g g h \ h h | g g h g g h ‖ 4E F | 5DFehD‖ d Dhe ‖ 7Eheh|||

6 2

Proposte di modifica ΣΤΡ. 1 2 3 4 5 6

d2 h e h D I H W e x e x e IHW h e IHW

x e x e h D h D IHW D h e h D IHW d2 h e h D h |||

ΕΠ.

1 2 3 4 5 6 7

D h D h e IW exehDhgg‖

h g g h g g g h g g h g g h h h g g h g g h IW

exex‖ D x e h D IHW d2 D h e I H W e x e h e h |||

Riflessioni sui dattilo–epitriti | 467

5. “Esametroide” Pind. Nem. IX, str. 1: D h D h I (D = h g g h g g h ) (†) (†) ††† ††† ††† †† ††† → (†) → (†)

1 6 11 16 21 26 31 36 41 46 51

κωμάσομεν παρ’ Ἀπόλλωνος Σικυωνόθε, Μοῖσαι ἔστι δέ τις λόγος ἀνθρώπων, τετελεσμένον ἐσλόν ὃς τότε μὲν βασιλεύων κεῖθι νέαισί θ’ ἑορταῖς ἀνδροδάμαντ’ Ἐριϕύλαν, ὅρκιον ὡς ὅτε πιστόν ϕαινoμέναν δ’ ἄρ’ ἐς ἄταν σπεῦδεν ὅμιλoς ἱκέσθαι δουρὶ Περικλυμένου πρὶν νῶτα τυπέντα μαχατάν Ζεῦ πάτερ, ἀγλαΐαισιν δ’ ἀστυνόμoις ἐπιμεῖξαι oὕνεκεν ἐν πολέμῳ κείνα θεὸς ἔντυεν αὐτoῦ ἔνθ’ Ἀρείας πόρoν ἄνθρωπoι καλέoισι, δέδορκεν εἰ γὰρ ἅμα κτεάνοις πoλλοῖς ἐπίδoξoν ἄρηται ἀργυρέαισι δὲ νωμάτω ϕιάλαισι βιατάν

Le tre leggi esametriche, in ordine crescente di severità, qui violate: a) presenza di incisione pentemimere o trocaica ( ... h3 | g g ... , ... h3 g | g ... ) b) rispetto del ponte di Hermann (( ... h4 gbg ...); c) divieto di divisione in due (quando ci sia ... h3 g g | , ci deve essere anche h3 | : Hom. Od. 3, 4). Fra le undici ripetizioni antistoriche, sarebbero esametri omerici normali solo 36 e 46; accettabili (ma rari) 1, 6, 41, 51; rarissimo 26; impossibili come tali 11, 16, 21, 31 6. Pind. Pyth. III: confronto tra il conspectus metrorum di Snell e la scansione fornita in Gentili 1995, p. 86 conspectus metrorum di Snell ΣΤΡ. ehD ‖ 2ehDhE ‖ 3hD ‖ 4Dd2d2 | hEhd1 ‖ 5ehDhe ‖ 6DehE ‖ 7Dheh i (86)

18

ΕΠ. ehD ‖ 2Ehe ‖ 3ehDh | e ‖ 4e F Dh ‖ 5DhE ‖ 6DhE ‖ 7DhD ‖ 8ehDheh ‖ 9d2d2hE i scansione di Gentili 1995 strofe/antistrofe

h g h h h g g h g g h IH hghhhgghggh h h g h h h g F IH 3 h h g g h g g F IH 4h ggh gg h gghggh h h g h h h g h h h g g FI 5 h gh h h ggh ggh h h g F IH 6h ggh gg h h gh h h g F h h g F IH 7 h ggh gg h h h g h h ||| 1 2

pind (epitrtr hem) pind (epitrtr hem) 2 epitria pros hem an 2epitria an pind (epitrtr hem) epitria hem epitrtr epitrtr (~ cho) epitrtr^ (stesich^) hem reiz (encom)

epodo 1 2

h g h h h g g h g g FI h g h h h g h h h g h IH

pind (epitrtr hem) 3 epitrtr^ (stesich^)

468 | Sezione 1: Metrica 3 4 5 6 7 8 9

h g h h h g g h g g h h h g FI h g h a h g g h g g h h IH h g g h g g h h h g h h h g h IH h g g h g g h h h g h h h g F IH h g g h g g h h h g g h g g F IH h g h h h g g h g g h h h g h F| g g h g g h h h g h h h g F |||

epitrtr hem epitria pind (epitrtr hemf) hem 2epitria hem 2epitria angel (hem pros) epitrtr hem reiz (encom) an 2epitria

Lista dei cola e dei versi dattilo–epitritici di Pitiche e Istmiche nelle interpretazioni di Gentili e di Privitera Cola 1. alcm^^ 2. an 3. anaclom 4. cho 5. cr 6. 2cr 7. decasyll

Versi 1. an. 2epitria 2. angel (= 37) 3. cho 2epitria pros 4. cho 2epitrtr 5. cr cho 6. decasyll tr 7. en 8. en cho 9. en 2epitrtr^ 10. en lecyth 11. encom (= 39) 12. 2epitria 13. 2epitria an 14. epitrtr cho pind (epitrtr alcm^^) 15. epitrtr cho epitria 16. epitrtr cr sp 17. epitrtr encom (hem reiz) 18. epitrtr epitria ionmi cr 19. 2epitrtr^ (= 51) 20. 2epitrtralcm^^ 21. 2epitrtr cho 22. 2epitrtr 2cr 23. 2epitrtr hem

8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.

en encom epitria 2epitria epitrtr 2epitrtr epitrtr^

24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45.

15. 16. 17. 18. 19. 20. 21.

2epitrtr^ (= 21) 3epitrtr^ (= 26) hem hemf ionmai ionmi lecyth (= 15)

3epitrtr^ (stesich^) 4 epitrtr^ hem an 2epitria an hem anacl hem epitria hem epitrtr cho epitrtr^ hem 2epitrtr^ hem en hem ia hem ionmi epitrtr hem pind hem pind ionmai epitrtr epitrtr hem pind pros epitrtr hem pros (= 2) hem pros ia hem reiz (= 11) hem reiz cho hem reiz hem hem stesich^ (epitrtr epitrtr epitrtr^) hemf hemf 2epitrtr hemf 2epitrtr hem

22. 23. 24. 25. 26. 27.

46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67.

pind pros reiz sp stesich^ (= 16) 3tr

hemf hem hemf hem ia hemf pind 3ia ionmi hemf lecyth (= 19) lecyth tr hem pind. (epitrtr hem) (= 77) pind (epitrtr hemf) pind (epitrtr hem epitria) pind (epitrtr alcm^^) pind cho epitrtr pind cr pind epitria (= 79) pind epitria pros pind epitria ionmai epitrtr pind 2epitria pind epitrtr epitrtr pros pros epitria pros epitria pind pros 2epitria

Riflessioni sui dattilo–epitriti | 469

68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75.

pros ionmi epitrtr pros lecyth 2 pros reiz cho 2tr reiz hem reiz hem ia reiz tr reiz tr hem ia reiz

76. stesich (epitrtr epitrtr epitrtr) (= 88) 77. tr hem ( = 53) 78. tr hem cho lecyth 79. tr hem ia (= 59) 80. tr hem tr pros 81. tr lecyth 82. 2tr

83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90.

2tr cr 2tr hem 2tr hem en 2tr hem reiz 2tr hemf 3tr (= 76) 4tr sp epitrtr cr

[Gentili e Privitera chiamano, rispettivamente, epitrtr, epitria e tr, ia le combinazioni maasiane e h, h e. Non si è, dunque, ritenuto opportuno ripetere cola o versi discrepanti solo terminologicamente: laddove ricorressero tanto nelle Pitiche quanto nelle Istmiche è stata scelta la denominazione di Gentili]

B Nuovo conspectus metrorum dei carmi di Pindaro e Bacchilide (dattilo–epitriti)1 Le 150 combinazioni delle quattro cellule maasiane (si omette E, considerandolo equivalente a e x e) sono qui ordinate secondo il risultato della somma degli elementi di ciascuna combinazione. Per comodità, si danno qui i valori corrispondenti al numero degli elementi di ciascuna cellula: D = 7 e = 3 d1 = 4 d2 = 3 x = 1 La tabella dovrà leggersi nel seguente modo. Nella riga orizzontale che introduce ogni sezione è indicato il coefficiente comune alle combinazioni in essa contenute, ossia il valore che si ottiene sommando il numero degli elementi che compongono le singole combinazioni. All’interno delle singole sezioni le combinazioni si susseguono in ordine discendente secondo il numero delle loro occorrenze. Nella prima colonna è indicata la numerazione progressiva di ogni singola combinazione; la seconda colonna presenta i versi descritti maasianamente; nella terza colonna è indicato il totale delle occorrenze di una combinazione, seguito, dove una medesima combinazione si presenti in entrambi i poeti, dal numero di occorrenze in ciascuno; nella quarta e quinta colonna i luoghi delle occorrenze, rispettivamente in Pindaro e in Bacchilide.

|| 1 [Di Pindaro è stato preso in considerazione esclusivamente il corpus di carmi trasmesso dalla tradizione manoscritta medievale (escluso l’incipit di Isthm. IX). Quanto a Bacchilide, si è avuta cura di attenersi a quei componimenti che conservano almeno una triade integra (o una strofe nel caso di un’ode monostrofica) e senza problemi testuali tali da rendere dubbia la scansione: Epinici 1, 3, 5, 9, 10, 11, 13, 14; Ditirambo 15; fr. 20B. Importa inoltre avvertire che la scansione dei versi bacchilidei si basa qui generalmente sulla mise en page della prima triade integra]

470 | Sezione 1: Metrica

Coefficiente N. Forma

Occorrenze

1

he

1

2

exe

3

D

8 (5; 3) 8 (5; 3)

4 5 6

e d1 ?

7

Pindaro 4 O. 7, str. 3 7 O. 8, str. 7; O. 11, str. 5, ep. 6; N. 1, str. 5; I. 3/4, ep. 3 O. 8, str. 5; P. 9, ep. 8; N. 1, str. 3; I. 1 str. 4; I. 5, str. 4

Bacchilide

Ep. 9, str. 5, 7, ep. 4 Ep. 10, ep. 5; Ep. 11, ep. 3; Ep. 14, ep. 5

1 1 1

I. 5, ep. 4

hD

8 (1; 7)

8

exex

9

xexe

10

Dx

11

e h d1

8 (5; 3) 5 (4; 1) 5 (3; 2) 1

12

hexeh

6 (1; 5)

13

hDx

5 (1; 4)

14 15

ehehh hhehe

1 1

16

eD

1

17

exD

18 (16; 2)

18

ehexe

13 (12; 1)

Ep. 11, str. 8, ep. 1, 9, 10; Ep. 14, ep. 1; Dith. 15, str. 1 O. 7, ep. 4; P. 4, str. 8; P. 9, Ep. 10, str. 2, 5; ep. 4; I. 2, ep. 3, 6 Ep. 13, str. 4 O. 8, ep. 8; N. 1, str. 1; Dith. 15, str. 4 I. 3/4, ep. 4; I. 6, str. 5 O. 8, ep. 4; O. 11, ep. 2; Ep. 13, str. 9, 10 I. 3/4, ep. 2 O. 11, str. 3 9 I. 6, str. 9 Ep. 9, str. 8, ep. 3; Ep. 10, ep. 2; Dith. 15, ep. 2, 7 P. 9, str. 7 Ep. 9, str. 6; Ep. 10, ep. 6; Ep. 13, str. 5; Ep. 14, ep. 2 P. 9, str. 2 P. 1, str. 3 10 O. 8, ep. 7 11 O. 11, str. 2, ep. 3; O. 12, str. Ep. 10, ep. 1; 1, ep. 5; O. 13, ep. 2; P. 3, Dith. 15, ep. 3 str. 1, ep. 1; P. 4, str. 1; P. 9, ep. 6; N. 8, ep. 2; N. 10, str. 3; I. 2, ep. 5; I. 5, ep. 3, 7; I. 6, str. 4, ep. 1 O. 7, str. 2; O. 11, ep. 4, 5; fr. 20B, str. 4 O. 12, str. 3; O. 13, ep. 4; P.

hhhgghx d2 h e

Ep. 13, str. 3 O. 8, str. 6 8 P. 3, str. 3

Riflessioni sui dattilo–epitriti | 471

19

Dxe

4

20 21 22

e h e h d1 gghehe hehegh

1 1 1

23

Dxex

14 (11; 3)

24

exDx

13 (12; 1)

25

eheheh

11 (5; 6)

26

hDxe

9 (6; 3)

27

xehD

28

e h e x d1

8 (5; 3) 7

29 30 31 32

hehexe d2 x D h e x d1 e h D h d1

3 2 1 1

33

hDxex

8

34

heheheh

35 36

hehDx h D h d1

2 (1; 1) 1 1

37 38

e h D d2 ehDe

1 1

1, str. 5; P. 3, ep. 2; I. 5, ep. 2; I. 6, str. 7; N. 5, str. 3; N. 11, str. 4, ep. 5 O. 8, str. 4, ep. 3; P. 12, str. 7; I. 1, str. 2 O. 12, str. 4 O. 13, ep. 6 N. 8, ep. 4 12 O. 6, str. 3; O. 11, ep. 1; O. 12, ep. 1; P. 3, str. 7; I. 1, str. 1; I. 2, str. 4, ep. 2; I. 3/4, str. 3, 4; I. 5, ep. 9; N. 10, ep. 4 O. 11, str. 1; O. 12, str. 5; P. 1, ep. 6; P. 3, ep. 4; P. 9, ep. 9; I. 1, str. 3; I. 5, str. 1, 3, 5, ep. 1, 6; I. 6, ep. 2 O. 3, str. 5, ep. 5; O. 7, ep. 7; P. 12, str. 8; I. 2, str. 5; I. 3/4, str. 6 O. 3, str. 2; O. 8, ep. 1; P. 1, ep. 4; P. 9, ep. 1; I. 3/4, ep. 5; N. 5, ep. 5 N. 1, str. 2, 4; N. 5, str. 5; I. 1, str. 5; I. 6, str. 1 O. 12, str. 4, ep. 6; P. 4, ep. 6; I. 2, ep. 4; I. 5, str. 2, ep. 5; I. 6, str. 2 I. 3/4, ep. 6, 8; N. 5, str. 4 P. 9, str. 1, 3 O. 13, ep. 3 O. 6, str. 2 13

N. 9, str. 5 O. 8, str. 2 I. 3/4, ep. 1 14 O. 12, ep. 3 N. 8, ep. 5

Ep. 10, ep. 4; fr. 20B str. 2, 3

Ep. 9, str. 4

Ep. 9, str. 9; Ep. 10, str. 9; Ep. 11, ep. 11; Ep. 14, ep. 8; Dith. 15, str. 5, 7 Ep. 11, ep. 8; Ep. 13, ep. 1; Dith. 15, str. 2 Ep. 9, ep. 1; Dith. 15, str. 3, ep. 1

Ep. 9, str. 3; Ep. 10, str. 1; Ep. 11, str. 9, 12, ep. 2; Ep. 13, str. 1, ep. 2; fr. 20B, str. 1 Ep. 10, ep. 3

472 | Sezione 1: Metrica

39 40 41 42 43 44 45 46

ehehee d2 D h e hehDgh Dexe D d2 h e d2 d2 h e x e eehD e h D d2

2 1 1 1 1 1 1 1

P. 1, ep. 3; P. 4, str. 7 O. 7, ep. 6 O. 6, str. 5 P. 9, str. 8 I. 5, ep. 8 P. 3, ep. 9 N. 11, ep. 6 Ep. 10, str. 6 15 O. 8, str. 1; P. 1, ep. 5; P. 3, str. 5, ep. 3; P. 9, ep. 3, 5; N. 10, str. 4, ep. 1, 2; N. 11, str. 1, ep. 2; I. 3/4, str. 2 O. 6, ep. 5, 6; O. 8, ep. 2; P. 3, ep. 7; P. 9, str. 6; P. 12, str. 2, 4; N. 10, ep. 3; N. 11, str. 3, ep. 1 O. 3, ep. 1; O. 6, ep. 4; O. 11, str. 6; O. 13, ep. 5; P. 1, str. 1; P. 4, ep. 3; I. 6, ep. 3, 5 O. 12, ep. 2; P. 1, ep. 1; P. 3, ep. 5, 6; P. 4, str. 5 O. 11, ep. 8; O. 13, ep. 7; N. 8, str. 5 I. 3/4, ep. 7; N. 8, ep. 1 O. 6, ep. 7

47

exDxe

13 (12; 1)

48

DxD

12 (10; 2)

49

exexD

8

50

Dhexe

51

exeexeh

7 (5; 2) 3

52

hDexe

53

eehexeh

54

exehexe

55 56

1 1

P. 4, str. 4 N. 1, ep. 4

57 58 59 60 61

D d2 x e h h e d1 e x e (vel potius h e h d2 e x e) d1 e e h d1 D h d1 e d2 x D x e heheehe d2 h e h D

1 1 1 1 1

N. 11, str. 5 N. 11, ep. 4

62

DhDx

7 (4; 3)

O. 7, str. 1 16 O. 8, ep. 5; P. 9, str. 4; N. 9, str. 1; N. 11, ep. 3

63

xDxexe

7 (5; 2)

I. 2, str. 1; P. 12, str. 3, 5, 6; N. 5, ep. 3

3 (2; 1) 2 (1; 1) 2

Ep. 9, ep. 2

Ep. 5, str. 5–6; Dith. 15, str. 6

Ep. 1, str. 5–6; Ep. 9, ep. 5–6

Ep. 5, str. 11–12 Ep. 10, str. 10 Ep. 3, ep. 3–4; Ep. 5, str. 7–8

Ep. 1, str. 1–2 Ep. 1, str. 7–8

Ep. 1, str. 3–4, ep. 1–2; Ep. 10, str. 3–4 Ep. 3, ep. 1–2; Ep. 11, ep. 6–7

Riflessioni sui dattilo–epitriti | 473

64

exehDx

5

65

exexexex

5 (2; 3)

66

hDexex

3

67 68 69

hehDhe D h e h d1 ehDheh

70

Dxexex

3 2 2 (1; 1) 2

71 72 73 74

e h D h d1 d2 h d1 e x e x h D d2 h e x hDhD

75 76 77

hehehD e x e h e h d1 d2 h e h D h

78

xDxexex

79 80 81 82

d1 h d1 h e x e h e x d1 e x e x heheheheh hehehDh

83 84 85 86 87 88 89 90 91

D d2 h e h e ehehDhgg Dehehe ehehDe e h e h D d2 eheehD d2 d2 h e D h d2 e h D x e exexeexe

1 1 1 2 (1; 1) 1 1 1 4 (2; 2) 1 1 1 1 2 1 1 1 1 1 1 1 1

92

DxexD

7

93

DxDxe

6

O. 6, str. 4; O. 11, str. 4; I. 2, str. 3; N. 10, ep. 5; N. 11, str. 2 P. 9, str. 9; Ep. 9, ep. 7–8; I. 3/4, str. 1 Ep. 10, str. 7–8; Ep. 14, str. 3–4 Ep. 5, str. 1–2; Ep. 11, str. 3–4, ep. 4–5 I. 1, ep. 1; I. 6, str. 8, ep. 6 I. 1, ep. 3; I. 6, str. 6 P. 3, ep. 8 Ep. 14, str. 1–2 Ep. 13, str. 11–12, ep. 8–9 O. 12, str. 2 P. 1, ep. 8 P. 4, ep. 5 P. 12, str. 1 O. 6, str. 1 N. 8, str. 2 O. 7, str. 6 17 O. 12, ep. 4; N. 5, ep. 1 O. 6, ep. 3 I. 1, ep. 4 N. 5, str. 6

Ep. 11, str. 10–11

Ep. 5, ep. 7–8; Ep. 11, str. 1, 13–14

Ep. 14, ep. 6–7 18 N. 1, str. 6, ep. 2 O. 7, ep. 2 P. 3, str. 6 N. 1, ep. 1 P. 4, str. 6 I. 2, str. 2 N. 8, str. 4 N. 8, ep. 3 Ep. 3, ep. 5–6 19 O. 3, str. 1, ep. 4; O. 6, ep. 1; O. 7, str. 5, ep. 5; P. 1, ep. 2; P. 4, ep. 2 O. 3, ep. 3; O. 7, ep. 1; O. 8,

474 | Sezione 1: Metrica

94

ehDhehe

95 96 97 98 99 100 101 102 103 104

Dhexehe ehDxD eheheexeh exDeheh ghhexehDh e h D d2 h e h h h d1 h e h D h exehehD ehehehexe Dexexex

6 (4; 2) 2 (1; 1) 2 1 1 1 1 1 1 1 1

105

hDhehD

106

ehehDxeh

107

e h d1 e x D x

108

Dhehehex

109

hDxexexe

2 (1; 1) 2 (1; 1) 2 (1; 1) 2 (1; 1) 2

110 111 112 113 114 115 116 117 118

d1 h e h e h D DhDxeh h e h d1 D x e exDhDh gghggehehD ehDhexex hDhDxe h d1 e h e x D hDDheh

1 1 1 1 1 1 1 1 1

119 120 121 122

e h d1 e h D h h eeDhehe ehDeexe hDxeheheh

1 1 1 1

123 124 125 126

hgghggghggh gg h h h g g h g g h e h D d1 e h e e h e h D d2 e h e h D d2 h e h e

ep. 6; I. 1, ep. 2; I. 2, ep. 1; N. 9, str. 3 O. 3, ep. 2; P. 3, str. 2; P. 4, ep. 1; P. 9, ep. 7 N. 5, ep. 2 N. 10, str. 2, 5 O. 12, ep. 7 P. 4, ep. 7 O. 6, str. 6 N. 5, ep. 6 N. 8, str. 1 N. 8, str. 3 N. 8, ep. 7

Ep. 9, str. 1–2; Ep. 13, ep. 4–5 Ep. 5, ep. 5–6

Ep. 5, ep. 9–10 20 O. 3, str. 3

Ep. 5, str. 9–10

I. 6, ep. 4;

Ep. 13, str. 6–8

N. 8, ep. 6

Ep. 14, ep. 3–4

O. 6, str. 7

Ep. 1, ep. 6–7 Ep. 5, ep. 3–4; Ep. 13, ep. 6–7

P. 4, ep. 4 N. 5, str. 2 N. 5, ep. 4 O. 8, str. 3 N. 10, str. 1 P. 4, str. 3 Ep. 5, str. 3–4 Ep. 5, ep. 1–2 O. 13, ep. 1 21 P. 1, str. 2 N. 10, ep. 6 I. 6, ep. 7 Ep. 5, ep. 3–4

1

22 O. 7, ep. 3

1 1 1

I. 1, str. 6 I. 3/4, str. 5 N. 1, ep. 3

Riflessioni sui dattilo–epitriti | 475

127

eheheexehe

1

128 129 130 131 132 133 134 135 136 137

ehDhehD e h e h d1 d2 d2 h d1 ehehDhexe hDxeehD e h e h e he h D DhehehD e h e h D d2 h e h D h D e h d1 hDhDehe DhDeheh

2 1 2 1 1 1 1 1 1 1

138 139 140 141 142 143

hehehehDhe xexehDhD DhehDheh e x e h e h d1 e x e x hDhehehehe hDhehehD

1 1 1 1 1 1

144

hehexDhexex

1

145 146

ehDehehehe D d2 d2 h e he h d1

1 1

147 148

heheehehDhe ehDhDhehe

1 1

149

ehDhDhehex

1

150

DehDhDeh

1

N. 10, str. 6 23 P. 4, str. 2; P. 9, str. 5 O. 6, ep. 2 O. 12, str. 6; N. 9, str. 2 P. 1, str. 4 P. 1, ep. 7 P. 9, ep. 2 I. 6, str. 3 Ep. 11, str. 5–7 Ep. 5, str. 13–15 Ep. 11, ep. 12–14 24 O. 3, str. 4 O. 7, str. 4 O. 11, ep. 7 I. 5, str. 6 Ep. 14, str. 5–7 Dith. 15, ep. 4–6 25 I. 1, ep. 5 26 N. 1, str. 7 P. 3, str. 4 27 N. 5, str. 1 N. 9, str. 4 28 Ep. 1, ep. 3–5 30 P. 1, str. 6

Nota Il numero 37 di questa tabella è di incerta scansione (perché incerto è il testo) nel conspectus metrorum preposto all’Olimpica XII (Snell parrebbe considerare altrettanto plausibile, anzi poziore, la scansione e h D e, visto che la stampa fuori parentesi). Tuttavia questa incertezza è assente nel conspectus metrorum in appendice alla Pars II del Pindarus, dove e h D d2 è scansione offerta senza esitazioni. È sembrato preferibile conformarsi a quest’ultima scelta di Snell, se non altro per esigenze d’ordine.

476 | Sezione 1: Metrica

Bibliografia W. S. Barrett, Two Studies in Pindaric Metre. 1. Short Anceps in Dactylo–epitrites, in Greek Lyric, Tragedy, and Textual Criticism. Collected Papers, Oxford 2007, pp. 118–173 W. S. Barrett, Dactylo–epitrites in Bacchylides, in Greek Lyric, Tragedy, and Textual Criticism. Collected Papers, Oxford 2007, pp. 314–321 (= «Hermes» 84, 1956, pp. 248–253) A. Boeckh, Ueber die Versmasse des Pindaros, «Museum der Alterthums–Wiss.» 2, 1810, pp. 1–197 dell’estratto A. Boeckh, De metris Pindari, in Pindari opera, I 2, Leipzig 1811, pp. I–VI, 1–340 E. Cingano, Indizi di esecuzione corale in Stesicoro, in R. Pretagostini (cur.), Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di Bruno Gentili, I, Roma 1993, pp. 347–361 A. Dain, Traité de métrique grecque, Paris 1965 A. M. Dale, The Metrical Units of Greek Lyric Verse, I, «CQ» 44, 1950, pp. 138–148 (= Dale 1969, pp. 41–60) A. M. Dale, The Metrical Units of Greek Lyric Verse, II, «CQ» n. s. 1, 1951, pp. 20–30 (= Dale 1969, pp. 61–79) A. M. Dale, The Lyric Metres of Greek Drama, Cambridge 19682 A. M. Dale, Collected Papers, Cambridge 1969 A. M. Dale, Metrical Analyses of Tragic Choruses. 1. Dactylo–Epitrite, London 1971 A. M. Devine – L. Stephens, Anceps, «GRBS» 16, 1975, pp. 197–215 E. Dickey, Ancient Greek Scholarship, Oxford 2007 K. J. Dover, Aristophanes. Clouds, Oxford 1968 Th. Fleming, The Versus in Greek Metrics and Music, «QUCC» 52, 1996, pp. 123–131 Th. Fleming – E. Chr. Kopff, Colometry of Greek Lyric Verses in Tragic Texts, «SIFC» 85, 1992, pp. 758–770 B. Gentili, Metrica greca arcaica, Messina – Firenze 1950 B. Gentili, La metrica dei Greci, Messina – Firenze 1952 B. Gentili – P. Giannini, Preistoria e formazione dell’esametro, «QUCC» 26, 1977, pp. 7–51 (= M. Fantuzzi – R. Pretagostini (curr.), Struttura e storia dell’esametro greco, II, Pisa – Roma 1996, pp. 11–62) B. Gentili et all., Pindaro. Le Pitiche, Milano 1995 B. Gentili – L. Lomiento, Metrica e ritmica. Storia delle forme poetiche nella Grecia antica, Milano 2003 E. Grassi, Osservazioni sulla metrica greca e latina, in V. Bartoletti – F. Bornmann – M. Manfredi – S. Timpanaro (curr.), Inediti di Eugenio Grassi, «A&R» n. s. 6, 1961, pp. 152–165 G. Guidorizzi, Aristofane. Le Nuvole, Milano 1996 M. W. Haslam, Stesichorean Metre, «QUCC» 17, 1974, pp. 7–57 G. Hermann, Elementa doctrinae metricae, Leipzig 1816 G. Hermann, Epitome doctrinae metricae, Leipzig 1818 Chr. G. Heyne, Pindari carmina cum lectionis varietate et adnotationibus, I–III, Leipzig 1817 (III 1, Carminum Pindaricorum fragmenta et Godofredi Hermanni dissertationes Pindaricae, spec. pp. 183–229: De metris Pindari; pp. 230–249: De metrorum quorundam mensura rhythmica). La prima edizione era del 1798 W. J. W. Koster, Traité de métrique grecque suivi d’un précis de métrique latine, Leiden 19623

Riflessioni sui dattilo–epitriti | 477

L. Lomiento, Considerazioni sul valore della cesura nei versi kata stichon e nei versi lirici della poesia greca arcaica e classica, «QUCC» n. s. 67 (96), 2001, pp. 21–35 (= M. Steinrück – A. Lukinovich (dirr.), Autour de la césure, Bern etc. 2004, pp. 31–45) P. Maas, Rec. O. Schroeder, Euripidis cantica, «BphW» 1911, pp. 322–333 P. Maas, Griechische Metrik, in Einleitung in die Altertumswissenschaft, I 7, Leipzig – Berlin 19293 = P. Maas, Greek Metre, Oxford 1962 (trad. it. Metrica greca, Firenze 1976) D. M. MacDowell, Aristophanes. Wasps, Oxford 1971 B. M. Palumbo Stracca, La teoria antica degli asinarteti, Roma 1979 L. P. E. Parker, Catalexis, «CQ» n. s. 26, 1976, pp. 14–28 L. P. E. Parker, The Songs of Aristophanes, Oxford 1997 G. Pasquali, Dattilo–epitriti (1931), in Rapsodia sul classico, Roma 1986a, pp. 282–283 G. Pasquali, Metrica classica (1934), in Rapsodia sul classico, Roma 1986b, pp. 287–295 O. Poltera, Groupe de mots et hyperbate dans la lyrique archaïque et classique, in M. Steinrück – A. Lukinovich (dirr.), Autour de la césure, Bern etc. 2004, pp. 47–60 L. Prauscello, Singing Alexandria. Music between Practice and Textual Transmission, Leiden – Boston 2006 R. Pretagostini, Il colon nella teoria metrica, «RFIC» 102, 1974, pp. 273–282 R. Pretagostini, Sistemi κατὰ κῶλον e sistemi κατὰ μέτρον, «QUCC» 28, 1978, pp. 165–179 R. Pretagostini, Le prime due sezioni liriche delle Nuvole di Aristofane e i ritmi κατ’ ἐνόπλιον e κατὰ δάκτυλον (Nub. 649–651), «QUCC» 31, 1979, pp. 119–129 R. Pretagostini, Metro, significante, significato: l’esperienza greca, in R. M. Danese – F. Gori – C. Questa (curr.), Metrica classica e linguistica, Urbino 1990, pp. 107–119 R. Pretagostini, L’interpretazione metrica di Aristofane, Acarnesi 285=336 e lo scolio di Eliodoro, in B. Gentili – F. Perusino (curr.), Mousike. Metrica, ritmica e musica greca in memoria di Giovanni Comotti, Roma 1995, pp. 265–276 A. Rossbach – R. Westphal, Metrik der griechischen Dramatiker und Lyriker nebst den begleitenden musischen Künsten. III, Griechische Metrik nach den einzelnen Strophengattungen und metrischen Stilarten, Leipzig 1856 A. Rossbach – R. Westphal, Metrik der Griechen im Vereine mit den übrigen musischen Künsten. Zweite Auflage, II, neu bearb. von R. Westphal, Griechische Metrik, Leipzig 1868 A. Rossbach – R. Westphal, Theorie der musischen Künste der Hellenen, III 2, Griechische Metrik mit besonderer Rücksicht auf die Strophengattungen und die übrigen melischen Metra. Dritte Auflage bearb. von A. Rossbach, Leipzig 1889 L. E. Rossi, Metrica e critica stilistica. Il termine “ciclico” e l’ἀγωγή ritmica, Roma 1963 L. E. Rossi, Anceps: vocale, sillaba, elemento, «RIFC» 91, 1963a, pp. 52–71 L. E. Rossi, La metrica come disciplina filologica, «RIFC» 94, 1966, pp. 185–207 L. E. Rossi, Rileggendo due opere di Wilamowitz: Pindaros e Griechische Verskunst, «ASNP» s. III vol. 3, 1973, pp. 119–145 L. E. Rossi, Verskunst, in Der kleine Pauly, V, 1975, coll. 1210–1218 (in fine del vol. s. i. p. Corrigenda et Addenda) L. E. Rossi, La sinafia, in E. Livrea – G. A. Privitera (curr.), Studi in onore di Anthos Ardizzoni, II, Roma 1978a, pp. 789–821 L. E. Rossi, Teoria e storia degli asinarteti dagli arcaici agli alessandrini. Sull’autenticità del nuovo Archiloco, in AA. VV., Problemi di metrica classica, Genova 1978b, pp. 29–48 + tre tavole (versione arricchita di Asynarteta from the Archaic to the Alexandrian Poets: On the Authenticity of the New Archilochus, «Arethusa» 9, 1976, pp. 207–229)

478 | Sezione 1: Metrica

L. E. Rossi, Feste religiose e letteratura: Stesicoro o dell’epica alternativa, «Orpheus» n. s. 4, 1983, pp. 5–31 L. E. Rossi, Breve introduzione alla metrica greca e latina, Roma “La Sapienza” (dispense) 1985 (traduzione, fortemente ampliata, di Rossi 1975) L. E. Rossi, Estensione e valore del colon nell’esametro omerico, in M. Fantuzzi – R. Pretagostini (curr.), Struttura e storia dell’esametro greco, II, Roma 1996, pp. 271–320 (da «StudUrb» 39, 1965, pp. 239–273, rivisto e con un Post–scriptum 1995) L. E. Rossi, Orazio, un lirico greco senza musica, «SemRom» 1, 1998, pp. 163–181 L. E. Rossi, Metrica e scena. Roberto Pretagostini e il dramma greco, «Dioniso» 6, 2007, pp. 10–22 B. Snell, Griechische Metrik, Göttingen 19824 B. Snell – H. Maehler, Pindarus, I, Epinicia, Stuttgart 19878 M. L. West, Greek Metre, Oxford 1982 S. J. Willett, Working Memory and its Constraints on Colometry, «QUCC» 100, 2002, pp. 7–19 B. Zimmermann, Untersuchungen zur Form und dramatischen Technik der Aristophanischen Komödien, I, Parodos und Amoibaion, Königstein/Ts. 19852 B. Zimmermann, Untersuchungen zur Form und dramatischen Technik der Aristophanischen Komödien, III, Metrische Analysen, Frankfurt/Main 1987

| Sezione 2: Musica

[Recensione] Warren D. Anderson, Ethos and education in Greek Music. The Evidence of Poetry and Philosophy, Harvard University Press, Cambridge/Mass. 1966 [ristampa 1968]. Pp. VIII, 306. Tutti sanno quanto grande fosse l’importanza della musica nel mondo antico ed è rimasta famosa l’affermazione di Damone, riportata con approvazione da Platone in bocca a Socrate (resp. 424 c), che mutamenti nell’uso musicale non possono avvenire senza gravi mutamenti nelle istituzioni politiche. È inutile poi ricordare che, almeno fino alle soglie dell’età ellenistica, la poesia e la musica sono sempre strettamente legate, al punto che la poesia è sempre musicata e solo tardi si afferma con una certa diffusione una pura musica strumentale. C’è quindi da chiedersi come mai la letteratura sul cosiddetto ethos musicale, e cioè sulla potenza psicagogica della musica, tanto fortemente sentita dagli antichi, sia a tutt’oggi relativamente così scarsa. L’unico lavoro complessivo precedente a quello che ci sta dinanzi è il famoso libro di Hermann Abert, Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik , Leipzig 1899 (2Tutzing 1968). Si trattava della dissertazione di un musicologo illustre (tra l’altro aggiornò e rifuse il Mozart di Otto Jahn), dotato di solidi interessi e preparazione di classicista. Ma giustamente era stato osservato – e Anderson lo ripete a pp. 226.34 e 177 – che Abert aveva avuto torto a porsi di fronte alle fonti antiche come di fronte a una ‘teoria’ in certo modo unitaria, della quale si dovessero semplicemente registrare di volta in volta i ‘progressi’ da un autore all’altro. Ne era venuta una trattazione a cui mancava talvolta il necessario senso storico, anche se ad essa dovremo continuare a riferirci in futuro come ad una ordinata e insostituibile raccolta di materiali. È chiaro che parlare di ethos musicale dovrebbe presupporre una conoscenza adeguata della musica di cui si è voluta determinare l’influenza psicagogica. Purtroppo la musica greca ci mette in grave imbarazzo: la teoria musicale ci è pervenuta incompleta e ricca di contraddizioni, dovute soprattutto alla difficoltà della trasmissione di un bagaglio tecnico che spesso era malamente noto agli stessi compilatori dei trattati, e d’altra parte i frammenti musicali sono pochi e quasi tutti tardi, senza contare le difficoltà esegetiche di una notazione non del tutto razionale e coerente. È quindi della massima importanza, in un

|| [Recensione pubblicata in «A&R» n.s. 14. 4, 1969, pp. 42–46]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-031

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campo come questo, stabilire con esattezza almeno quello che non sappiamo. Era qui forse la maggiore manchevolezza del bel libro di Abert, e non tanto perché gli mancassero i mezzi per addentrarsi nei problemi più specificamente tecnico–musicali (era musicologo, come s’è detto, e molti dei suoi lavori successivi sulla musica antica sono ancora insostituibili da questo punto di vista), quanto perché fu danneggiato dall’eccessivo ottimismo che lo portò ad accettare le teorie di Helmholtz e di Westphal (Abert, p. 72), che vedevano la musica greca dominata da una «legge di tonalità» del tutto simile a quella della musica moderna. In altre parole: c’era in quello che, con una qui opportuna semplificazione, possiamo chiamare le ‘scale’ greche una gerarchia di suoni? C’era una tonica, una dominante, una sensibile etc.? Purtroppo non lo sappiamo. E d’altra parte solo raggiungendo definitiva chiarezza su questo punto saremmo in grado di capire fino in fondo le affermazioni della teoria e l’‘effetto’ dei frammenti musicali. Ora, Anderson ha il merito prima di tutto di porre la questione, e poi di porla in tutta la sua irrisolta (e forse irrisolvibile) problematicità. Lo fa in un denso primo capitolo introduttivo, che deve in realtà molto al migliore lavoro sull’argomento (R. P. Winnington–Ingram, Mode in Ancient Greek Music, Cambridge 1936, 2Amsterdam 1968) e che è redatto nella forma di una succinta storia della musica antica (strumenti e sviluppo della teoria musicale). Il resto del libro si articola in vari capitoli: da Pindaro ad Aristofane, Platone, Aristotele, il papiro musicale di Hibeh, Filodemo. Seguono una conclusione, appendici su alcuni punti di dettaglio, una ricca bibliografia e indici esaurienti. Salta agli occhi una strana limitazione del lavoro, e cioè l’arresto a Filodemo. Proprio perché, per la ricostruzione di dottrine antiche, le fonti assai spesso sono tarde, ci si domanda se non sarebbe stata opportuna una trattazione a parte di tali fonti, e proprio allo scopo di determinarne meglio la struttura e l’attendibilità. Il non aver dedicato capitoli singoli a personalità come, ad es., Aristide Quintiliano e Tolemeo porta a dover denunciare un regresso, rispetto ad Abert. Anche perché un vigile senso storico non può contentarsi di pescare nelle fonti tarde solo quello che sembra antico, per buttarne via quello che forse è specchio di teoria e di prassi musicale contemporanea. Tolemeo è, nel II sec. d.C., particolarmente legato al suo tempo; mentre Aristide, la cui cronologia oscilla fra il I e il IV secolo, è palesemente un ‘antiquario’ (W.–I.), che si compiace di riportare dottrine non più in voga da secoli. Ci troviamo di fronte a una limitazione che è ben più che semplicemente quantitativa. Damone il musico, maestro di Pericle, è un personaggio del quale vorremmo sapere di più. Platone deriva dichiaratamente da lui alcune delle sue affermazioni in tema di ethos musicale e ci sono stati recentemente numerosi tentativi di rivendicare a lui gran parte di quanto gli antichi hanno scritto sull’ar-

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gomento, da Platone ad Aristide Quintiliano. Anderson tiene qui una via di saggia prudenza, come già aveva fatto in un articolo precedente. Non ci sentiamo però di condividere l’affermazione (p. 42) che la dottrina dell’ethos deve originare dall’oriente. È vero, Damone è il primo nel quale siamo in grado d’individuare un interesse esclusivo e coerente per l’ethos musicale; le dottrine pitagoriche attribuite a Pitagora sono state recentemente a lui negate e spostate molto più in giù nel tempo, colla tendenza a diminuire l’importanza che queste stesse dottrine possono aver avuto sulla teoria musicale in generale; e Damone non può essere stato il primo a ‘inventare’ la teoria etica. Ma il problema delle origini orientali è troppo grosso e non lo si può liquidare con un’affermazione apodittica. È vero che i greci si compiacevano di trovare origini orientali per molte delle loro istituzioni musicali (strumenti, armonie etc.); ed è anche vero che in oriente troviamo atteggiamenti simili per quanto riguarda l’influenza psicagogica della musica (è strano che Anderson ometta di discutere qui l’importanza paradigmatica che ha l’Egitto col suo conservatorismo musicale per il Platone delle Leggi). Ricordiamo però che anche una teoria dei generi letterari, che comincia ad apparire ‘codifìcata’ con Platone e che si svilupperà in epoca alessandrina, era certamente già presente in epoca arcaica, come possiamo vedere dalle stesse composizioni poetiche arcaiche (pensiamo alle leggi ‘non scritte’ dell’epinicio pindarico etc.). Probabilmente, se avessimo anche per la musica composizioni dell’età arcaica, saremmo in grado di seguire le vicende di leggi ancora ‘non scritte’ che tradirebbero l’esistenza di una prassi affermata, e allora l’ipotesi di un’importazione si sposterebbe così in alto nella cronologia da perdere almeno parte del suo interesse. Ugualmente discutibile mi sembra il fare di Damone un pitagorico (pp. 38, 221.9): le basi per tale affermazione sono estremamente fragili e Anderson avrebbe fatto bene a meditare un libro recente che ha contribuito efficacemente a smitizzare Pitagora e il pitagorismo antico, W. Burkert, Weisheit und Wissenschaft, Nürnberg 1962 (su Damone p. 270.79; sulla teoria musicale ‘pitagorica’ p. 348 ss.). Sarebbe bello che ci fosse stata conservata per intero l’opera di Didimo il musico (RE 5.1 col. 473 s.) περὶ διαφορᾶς τῆς Πυθαγορείου μουσικῆς πρὸς τὴν Ἀριστοξένειον (Porphyr. ad Ptolem. harmon. 5.13 ss. Düring, all.; v. Burkert p. 349.6), che ci darebbe i risultati di una ricerca per noi ormai estremamente difficile che comunque la filologia moderna non ci ha ancora data: e cioè il diverso sviluppo ed intreccio di due correnti, una matematico–astratta, che è del pitagorismo recente e per la quale Platone non nasconde le sue simpatie, e una di tipo più precisamente induttivo, più ricca di risultati concretamente storici, che troviamo in Aristotele e, poco più tardi, in Aristosseno. Porfirio, nel suo commento a Tolemeo, cita infatti Didimo ad illustrazione di una contrapposizione fra λόγος pitagorico e αἴσθησις aristossenica

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(v. i framm. nell’index di Düring: spec. 26.6 ss., 27.17 ss. Dür.), contrapposizione che ci è presentata da Tolemeo in harmon. 1.2 (5.11 ss. Dür.) coll’ambizione di esserne il conciliatore e superatore. Anche un certo Archestrato (RE 2.1 col. 459 n. 13; I. Düring, Ptolemaios und Porphyrios über die Musik, Göteborg 1934 p. 145 ss.), citato da Didimo ap. Porphyr. 26.27 ss. Dür., si moveva in tale ordine d’idee, dando però una certa prevalenza al λόγος, e cioè alla corrente pitagorica. Ma già quattro o cinque secoli prima di Tolemeo e poco meno prima di Didimo il musico (che è probabilmente del I sec. d.C.) la contrapposizione di λόγος e αἴσθησις era presente, nella forma di una vivace polemica in favore dell’αἴσθησις, in Aristotele e Aristosseno. È da credere che tutti questi passi e questa problematica siano sfuggiti ad Anderson perché i passi stessi non trattano espressamente dell’ethos: ma è chiaro che costituiscono frammenti di una impostazione teorico– filosofica che doveva essere alla base di ogni considerazione etico–musicale. Altro è, infatti, ricercare rapporti numerici nella musica (reperibili attraverso studio delle vibrazioni delle corde etc.) e, stabiliti rapporti numerici nell’anima, teorizzare r a z i o n a l i s t i c a m e n t e un n e c e s s a r i o rapporto fra gli uni e gli altri; altro è ricercare un rapporto s t o r i c a m e n t e accertabile fra determinate musiche e determinati ‘affetti’, ed esso naturalmente col tempo può variare per nuove ed innovatrici associazioni di musiche e affetti (e le fonti antiche, che alle volte registrano tali associazioni eccezionali e ‘inaspettate’, son più ricche di quanto si creda di episodi di genuina sensibilità storica). Sarebbe stato anche interessante vedere le connessioni di questa seconda corrente colla psicologia aristotelica e soprattutto colla psicologia epicurea e stoica: giacché il rapporto musica–psicologia verrà ovviamente stabilito in corrispondenza delle categorie psicologiche che di volta in volta si intendano, più o meno artificialmente, individuare e isolare. Un’opera che Anderson (p. 276.7) dichiara di non conoscere, R. Schäfke, Geschichte der Musikästhetik in Umrissen, Berlin 1934 (2Tutzing 1964), gli avrebbe suggerito nuove vie d’indagine. Il libro è ricco di osservazioni stimolanti. A p. 25 si ricorda utilmente quanto della prassi musicale antica fosse legato all’esecuzione viva e, possiamo aggiungere in questo contesto, certamente l’esecuzione viva era a suo modo creatrice, nella forma di una più o meno libera improvvisazione. Anderson arriva a supporre che quello che i greci chiamavano «armonia», e che determinavano coi nomi etnici che conosciamo (dorico, frigio etc.), non fosse in realtà qualcosa di rigido, ma indicasse «maniera» o «stile» (e richiama il valore di τρόπος), un distinctive musical idiom, una specie di «dialetto»: e si spiegherebbe in questo modo l’uso di avverbi per indicare le singole armonie (δωριστί, φρυγιστί etc.). L’ipotesi è seducente e ci aiuterebbe a capire almeno in parte come e perché alcune armonie coll’andar del tempo, pur conservando lo stesso nome, appaio-

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no mutate nell’apprezzamento etico–musicale che se ne dà, evidentemente a causa di un fenomeno simile a quello che nel lessico è lo slittamento semantico. È noto, per es., che per Platone, nella Repubblica, si ‘permettono’ solo il dorico e il frigio, il primo come virile e guerriero, il secondo come pacifico e tranquillo e adatto alla preghiera e all’insegnamento (399 b). Ma il frigio aveva una lunga tradizione di legame all’estasi e all’entusiasmo dionisiaco (le Baccanti di Euripide!) e già Aristotele polemizzerà contro Platone (polit. 1342 a 32 ss.) obiettandogli che, accettando il frigio, avrebbe dovuto accettare anche l’aulo, che al frigio è legato e che come il frigio è «orgiastico e patetico»: ambedue sono legati a Dioniso e anche al ditirambo letterario, fino ancora all’epoca di Filosseno. Come può essere arrivato Platone a sentire nel frigio un ethos così diverso dall’originario? Varie ipotesi sono state avanzate in passato. Anderson (pp. 107–109) mette in rapporto il r e a 1 e mutarsi del culto di Dioniso nel corso del quinto e del quarto secolo da orgiastico–estatico ad ‘esicastico’ (Delfi e suo legame col culto apollineo) col p o s s i b i l e mutarsi del carattere della musica che veniva usata in tali occasioni cultuali: anche questa è ipotesi suggestiva e l’A., prudentemente, come ipotesi la presenta. La materia è interessante e infiniti sarebbero gli appigli per discussione, ripensamento, osservazioni particolari. Mi limito qui ad aggiungere ancora una considerazione di ordine generale, che in realtà esce dal tema, ma che in qualche modo lo illumina ulteriormente. Non solo ad Anderson, ma anche a un musicologo come Abert, e nel libro sopra ricordato e nella successiva opera sull’estetica musicale del medioevo (Die Musikanschauung des Mittelalters und ihre Grundlagen, Halle 1905, 2Tutzing 1964), che è la naturale continuazione della prima nella forma di una ricerca del continuare della teoria etica e della simbologia numerica, non è parso utile neppure un breve accenno alla cosiddetta dottrina degli affetti o Affektenlehre musicale che si sviluppò nel corso del seicento e del settecento soprattutto alla luce dell’esperienza sempre più affinata dell’espressività strumentale. Tale esperienza segue alla ‘riscoperta’ operata dal maturo rinascimento (Vincenzo Galilei e la camerata fiorentina) dell’espressività vocale monodica, legata com’era quest’ultima, almeno nell’intenzione, al desiderio umanistico di ritorno all’antico. La storia della Affektenlehre è ricca e lunga ed ha avuto importanza determinante nel formarsi di un’estetica musicale moderna ed è strano che in un’opera recente, peraltro utile, essa venga praticamente ignorata (Enrico Fubini, L’estetica musicale dal settecento a oggi, Torino 1964). Ricorderò solo pochi nomi, come Marin Mersenne (1588– 1648), Johann Mattheson (1681–1764), Friedrich Wilhelm Marpurg (1718–1795). Anche qui si trovò una base psicologica nelle opere di filosofi come Descartes, Spinoza; ed anche qui si ebbero nell’ottocento le opposizioni e le polemiche di

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uno Schopenhauer e di un musicologo militante come Eduard Hanslick, allo stesso modo che la dottrina antica dell’ethos aveva avuto l’opposizione degli epicurei e, certo prima ancora, dell’autore del famoso papiro di Hibeh (un sofista?). Da uno studio comparativo, sia pur sommario, che ancora non è stato tentato, andrebbero messe in luce più le differenze fra l’antico e il moderno che le somiglianze, per non cadere negli eccessi di antistorico ‘parallelismo’ che caratterizzavano ancora in Germania, pochi decenni fa, le opere di Hermann Kretschmar e di Arnold Schering. A parte infatti la necessità di non fare, anche per la teoria moderna, d’ogni erba un fascio, è atteggiamento antistorico (anche se legato a precise condizioni storiche: filiazione della paideia germanica da quella ellenica!) il voler vedere continuità, anzi identità fra teoria e prassi antica e moderna. Ma qui il discorso diverrebbe troppo lungo e parzialmente autonomo. Conviene fermarsi, limitandosi a queste, che sono alcune delle considerazioni che nascono dalla lettura del libro. Anche quando affermazioni singole possono suscitare opposizione, esso s’impone al rispetto per la vasta informazione e per la coscienza con cui la ricerca anteriore viene vagliata e discussa. Chiunque vorrà interessarsi in futuro dell’ethos musicale non potrà fare a meno di usare quest’opera, che per di più una bibliografia ricchissima e quasi del tutto esauriente rende indispensabile strumento di lavoro.

L’enciclopedia musicale dell’antichità Aristidis Quintiliani de musica libri tres. Edidit R. P. Winnington–Ingram, Accedunt quattuor tabulae, Leipzig, Teubner, 1963, XXIX 198 pp.; 4 tavv. f.t. Non sembri inopportuna la segnalazione, in verità un po’ tardiva, di un lavoro filologico di prim’ordine, che ci presenta per la prima volta in una vera edizione critica una delle opere meno conosciute dell’antichità, la cui importanza, in passato, è stata spesso sottovalutata, dopo la condanna di Westphal nel secolo scorso. È strano che la prima pubblicazione attendibile di quella che si può considerare la più completa ed ampia ‘enciclopedia’ musicale del mondo antico abbia trovato finora così scarsa eco nelle rubriche dedicate alle recensioni dalle riviste filologiche. Forse perché l’argomento dell’opera sembra troppo tecnico e specialistico? Se tale è l’opinione corrente, vale la pena di spezzare una lancia per modificarla. L’opera è particolarmente interessante, oltre che per la sua materia, anche per la problematica finora insoluta di fronte a cui ci pone. Il trattatello è diviso in tre libri: il primo è dedicato all’armonica, alla ritmica e alla metrica, e cioè all’aspetto tecnico della musica; il secondo, che è quello in cui l’autore più s’impegna e che, a parte il l. VIII della Politica di Aristotele, è l’unica trattazione in qualche modo sistematica dell’argomento, è dedicato al cosiddetto ethos musicale, e cioè all’aspetto paideutico, alla determinazione degli effetti psicagogici della musica e del ritmo; il terzo, infine, contiene una ‘ontologia’ musicale su base cosmologico–numerica. L’opera contiene vari unica e la determinazione delle fonti non è sempre agevole. Il guaio è che dell’autore conosciamo solo il nome e siamo in difficoltà anche per la determinazione della cronologia, che oscilla fra il I e il IV/V sec. d.C. W.–I. (p. XXIII s.) propende per la fine del II sec. o poco più tardi, soprattutto sulla base di considerazioni stilistiche: Aristide sarebbe un atticista, che non sempre riuscirebbe nei suoi intenti di stilista. È chiaro che la determinazione delle fonti e la soluzione del problema cronologico s’illuminerebbero a vicenda. La base per una ricerca del genere è, appunto, un’edizione critica e finalmente adesso gli studiosi saranno in grado di affrontarla. Le fonti del primo e del secondo libro sono state finora in una certa misura oggetto d’interesse (grosso modo Aristosseno per armonica e ritmica; sistema alessandrino efestioneo–eliodoreo per la metrica; per l’ethos musicale

|| [Recensione pubblicata in «Maia» n.s. 22, 1970, pp. 85–89]

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si è voluto trovare troppo Damone, maestro di Pericle e fonte di Platone, ma in realtà di lui non sappiamo quasi niente); mentre un po’ trascurato è stato il terzo libro, che, a parte riferimenti espressi al Timeo di Platone, presenta un miscuglio di neoplatonismo e neopitagorismo. Come si vede, l’operetta interessa il musicologo, il metricista e il filosofo e, per la vasta risonanza che sempre ebbe per i greci il fatto musicale come elemento determinante per la psicologia individuale e per le istituzioni politiche, anche lo storico della cultura nell’accezione più lata. Aristide Quintiliano fu pubblicato per la prima volta dall’olandese Meibom nel 1652 e, dopo alcune edizioni parziali limitate alla ritmica e alla metrica, si dovette aspettare fino al 1882 per una nuova edizione completa, quella di A. Jahn. Ma il testo di Jahn era insufficiente e Karl von Jan lo stroncò in una feroce recensione («Philol. Wochenschr.» 1882 col. 1377 ss.), che permette anche di seguire le vicende del testo aristideo in quegli anni (v. anche R. Schäfke, A. Q. Von der Musik, Berlin–Schöneberg 1937, p. 33 ss.): A. Jahn aveva battuto nei tempi di realizzazione K. v. Jan e H. Deiters, che da tempo collaboravano per un’edizione, e lo fece dando agli studiosi un testo manchevole non solo dal punto di vista della recensio in assoluto, ma anche dal punto di vista della semplice informazione sul materiale elaborato (il vero e proprio apparato era stato rimandato ad un secondo volume, che non uscì mai). Un elenco abbastanza completo dei codici era stato dato da K. v. Jan nei suoi Musici scriptores Graeci (1895): a questi W.–I. ne ha aggiunti paucissimos (p. VII), ma la novità più importante della sua edizione è che per la prima volta abbiamo uno stemma della tradizione aristidea, dopo che per la prima volta (!) è stato utilizzato il testimone più antico, un Veneto Marciano (V) del XIII/XIV sec. Ugualmente per la prima volta sono stati utilizzati altri due testimoni ‘autonomi’, un Napoletano (N) e un Riccardiano (F). Si tratta comunque, come dice W.–I., di una tradizione piuttosto unitaria, sicuramente chiusa. Nella valutazione delle varianti che hanno condotto allo stemma il giudizio di W.–I. appare sano e guidato da opportuna prudenza. Prudente e modesto W.–I. è anche troppo, seguendo in questo l’ammirevole stile britannico: e forse, visto il carattere definitivo della sua edizione, avrebbe potuto eliminare la inetta e sviante distinzione e numerazione in capitoli di A. Jahn, per quanto questa, com’egli dice (p. XXV), permetta una più facile identificazione delle citazioni presso alcuni filologi del passato. Faccio seguire qui alcune osservazioni particolari, che derivano da una rilettura cursoria del testo, e non da una revisione sistematica dell’apparato. 21,21. καὶ τὰ, che leggiamo nel testo, dovrebbe riferirsi ai «suoni (o note), partendo dalla proslambanomenos»; ora, i suoni sono φθόγγοι e sarebbe meglio τοὺς invece del generico neutro τὰ; ma quello che fa maggior difficoltà è l’uso di

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τὰ invece di un normale dimostrativo; è meglio quindi lasciare a μελῳδεῖν valore assoluto, senza oggetto, e tornare a una vecchia congettura di Meibom (p. 238), κᾆτα, che W.–I. non riporta (la crasi, tra parentesi, è abbondantemente attestata nel testo di A.Q.). 22,13. τύπος codd. W.–I., τόπος Ruelle. Anche qui mi sembra che vada accolto l’emendamento di Ruelle: si parla infatti della «regione» della voce (e una riga prima, in 22,12, il τῆς φωνῆς χαρακτήρ è tale proprio in dipendenza del tipo di voce, soprano contralto tenore etc.; cf. anche 29,1, dove, sempre per lo stesso fatto, si parla di φωνῆς ἰδιώτητες): cf. 10,11 ὁ τῆς φωνῆς τόπος e gli altri passi nell’index verb.; d’altra parte τύπος comparirebbe, nel senso musicale tecnico che gli si vorrebbe attribuire qui in 22,13, solo in 81,20, secondo i codd., ma lo stesso W.–I. nota in apparato «fort. τόπος». 30,13. Si parla dei diversi tipi di μελοποιίαι secondo la caratteristica etica che hanno: c’è la συσταλτική, la διαστατική (così i codd. e W.–I.) e quella che spinge εἰς ἠρεμίαν (quella che altrove è chiamata ἡσυχαστική). Δ ι α σ τ α λ τ ι κ ό ς , che è bene attestatο in 40,15 (dove W.–I. corregge in διαστατικός) e in Cleonide, va certamente meglio per il senso (si tratta della musica che «eccita»). Schäfke, op. cit., pp. 208,4, 275,3 (e cf. anche Gesch. d. Musikästh., Berlin 1934, p. 111 ss.) dice giustamente che tali termini sono vicini alla terminologia psicologica stoica (συστέλλειν, διαχεῖν etc.; ma purtroppo, dall’index di von Arnim, nessun esempio di διαστα(λ)τικός): sarebbe del massimo interesse, anche ad altri scopi, studiare la psicologia stoica in rapporto all’ethos musicale (Aristotele, alla fine della Politica, distingueva le armonie in ἠθικαί, πρακτικαί ed ἐνθουσιαστικαί, con diversa impostazione psicologica). 39,30. A.Q. parla della ἀγωγή (il ‘tempo’) e dice che quella ideale è ἡ κατὰ μέσον τῶν θέσεων κ α ὶ τῶν ἄρσεων ποσὴ διάστασις. W.–I. nota in apparato: καὶ] fort. ἢ. La proposta mi pare da respingere e il testo dei codd. da conservare e mi permetto di rinviare al mio Metrica e critica stilistica, Roma 1963, spec. pp. 64 ss., 74 ss. (‘tempo forte’ e ‘tempo debole’, qui e altrove, sono usati semplicemente per indicare i χρόνοι ποδικοί, i ‘tempi podici’ aristossenici: è come dire «una certa διάστασις fra gli elementi costitutivi del flusso ritmico», che sono poi, ovviamente, arsi e tesi). 40,2. Non sarebbe il caso di mettere crux a δώδεκα? V., oltre a Caesar cit. da W.–I., anche H. Abert, Die Lehre vom Ethos, Leipzig 1899, p. 160. 41,14. Se, come appare da 79,13 e dal rettamente emendato 75,27, τὸ ἰδιάζον è la designazione del sigma, è inutile qui accogliere l’integrazione di Jahn. Se i manoscritti l’avessero riportata, l’avremmo certo espunta come glossa. 47,22. A.Q. parla delle τομαί dell’esametro e, dopo aver elencato la pentemimere, la trocaica e l’eftemimere, continua così: τετάρτη κατ᾽ ἐνίους τέσσαρες

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δάκτυλοι [la bucolica] ἤ, ὅπερ ἄμεινον, τέταρτος τροχαῖος. Se dovessimo prendere alla lettera il testo dei codici, ci sarebbe da capire che incisione «migliore» sarebbe nientemeno che il quarto trocheo, e cioè la violazione del ponte di Hermann, che è rispettato da tutta la poesia esametrica greca (ma non latina!): e gli antichi, pur non avendo mai formulato tale legge, la sentivano senza dubbio ad orecchio. Il dettato potrebbe essere corrotto (se per colpa di Aristide stesso o dei copisti è, come in altri casi, difficile dire) e mi par di vedere un possibile itinerario della corruzione, facendola venire da ‘contaminazione’ di formulazioni diverse, del tipo di Append. Dionys. ad Heph. p. 329, 16 ss. Consbr. (ἑτέρως περὶ τομῶν) τομαί εἰσι τοῦ στίχου πέντε· πενθημιμερής, ἑφθημιμερής, τρίτη τροχαϊκή [dovrebbe trattarsi della tritemimere, da quanto è detto a 330,1–3: ma l’esempio che porta è sbagliato, v. Consbruch ad loc.], τ ε τ ά ρ τ η τ ρ ο χ α ϊ κ ή [che è la normale trocaica, κατὰ τὸν τρίτον τροχαῖον, cf. 330,4–6], πέμπτη βουκολική. L’espressione τετάρτη (o τρίτη) τροχαϊκή in questo contesto è ellittica, valendo τετάρτη [scil. τομή], ἥ ἐστι τροχαϊκή; e da τετάρτη τροχαϊκή possiamo immaginare come molto semplice il passaggio al τέταρτος τροχαῖος di Aristide, che all’origine avrebbe così significato la normale trocaica (terzo trocheo). Ma la corruzione è sicuramente più ampia: perché, se mai, parlare, o, peggio, riparlare della trocaica (terzo trocheo), che era stata definita prima ἡ μετά δύο πόδας (suppl. Caesar, ma meglio forse , Meibom, cf. 47,15), e dopo la bucolica? La contaminazione fra diverse fonti grammaticali, con diversi usi definitori, investe quindi tutto il passo sulle τομαί. Sarebbe comunque interessante conoscere meglio lo sviluppo delle teorie dei grammatici sull’argomento. Si veda S. E. Bassett, «Amer. Journ. of Philol.» 40 (1919), pp. 341–372, che a p. 348 considera questa di A.Q., da lui posto al III sec., la più antica trattazione di τομή che abbiamo, visto che per Efestione c’è solo una testimonianza indiretta di Cherobosco; a pp. 348–51 è riportato il passo di Aristide con paralleli latini; a p. 365 si avanza l’ipotesi che «quarto trocheo» origini dall’alcmanio. Naturalmente i paralleli trovati da Bassett per il «quarto trocheo» nei latini andrebbero riportati, secondo me, ad una tradizione fondata su un equivoco, di cui Aristide potrebbe essere uno degli anelli, se non proprio l’origine prima. C’è tuttavia la possibilità di un’altra spiegazione, che devo a Scevola Mariotti e che escluderebbe la necessità di supporre corruzione. Il passo di cui stiamo discutendo è seguito da (47,22 s.) ἡ γὰρ εἰς ὅμοια μέρη διαίρεσις μᾶλλον ἢ τομὴ καλεῖται etc. Aristide fa cioè la distinzione fra quelle che la nostra tradizione grammaticale scolastica, fondata sulla grammatica antica, chiama dieresi (fra piedi) e cesure (entro i piedi). Qui il discorso era sull’unica vera e propria dieresi, la bucolica: e, accortosi che sta parlando di cesure (τομαί), Aristide improvviserebbe, fornendo l’esempio della cesura per così dire corrispon-

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dente alla dieresi bucolica, e cioè il (vietato!) quarto trocheo. Direi che si avrebbe qui un caso di ‘amor di sistema’ e richiamerei, a sostegno dell’ipotesi, un altro caso simile, la famosa trattazione dei dimetri dodecasemi (36,8 ss.), dove sono dati i dodici schemi astrattamente possibili delle combinazioni di giambi e trochei. (Per una sostanziale svalutazione del passo v. già p. es. Christ, Metrik2, p. 87 s.; Wilamowitz, Gr. Versk., p. 246,1; tuttavia esso potrebbe essere la corruzione ‘sistematizzante’ di una teoria più antica, volta a rendersi ragione delle responsioni libere fra ‘dimetri’, e cioè enopli, prosodiaci ecc.: v. B. Gentili, Metrica greca arcaica, Messina–Firenze 1950, p. 51 ss., che però dà troppo credito autonomo ad Aristide). 47,28. αὐτὸ] correggerei in αὐτῶν [scil. τῶν εἰδῶν]. 61,26. Tutti i codici portano αὐτῶν. W.–I. (v. anche l’appendix) corregge l’errore di Ziegler (in M. Tulli Cicer. De re publ., Leipzig 51960, p. 115,9 e appar.), che attribuisce la lezione αὐτοῦ al codice R (Vat. Gr. 192), desumendo la notizia dalle collazioni di G. Amsel, De vi atque indole rhythmorum..., Breslau 1887, p. 138, fin. W.–I. attribuisce quindi la lezione a Ziegler stesso, che viene così considerato congetturatore ‘per equivoco’, e vi aggiunge un fort. recte. Ma il primo a proporla era stato Giacomo Leopardi, come si può vedere già dall’apparato al De re publica di L. Castiglioni (1936, 21947: C. corregge in αὐτῷ e attribuisce anche lui αὐτοῦ a R) e come si può agevolmente controllare nel recentissimo Giacomo Leopardi, Scritti filologici. A cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969, p. 188 rr. 189–91 (note critiche all’edizione di Angelo Mai): omnino legendum αὐτοῦ, scil. Κικέρωνος, pro αὐτῶν. Nam de Cicerone sermo est. Sic paullo inf. de eodem: καθὰ καὶ αὐτός φησιν. Devo questa preziosa indicazione allo stesso Sebastiano Timpanaro. Certo, αὐτοῦ è da preferire, ma va ridato a Leopardi. Pochissimi sono gli errori di stampa che ho notati nel testo: 36,2 ῥυθμοί; 53,19 ἐνθαδί; 54,9 σύμπαν; 97,1 φθόγγοι; 102,30 εἰς; 111,14 ἡμίσεος. A 109.27 è proprio opportuno conservare un fatto grafico singolare dei codd., e cioè un’elisione in interpunzione (δ᾽;)? A p. XXVII s. c’è quella che attualmente è la più ricca bibliografia su A.Q. Alle pp. 135–144 c’è una appendix dell’apparato critico, nella quale si sono relegate le lezioni meno importanti di V e R. Il volume è chiuso da quattro tavole fuori testo, contenenti le tavole della notazione di V. Ma l’accessorio di gran lunga più importante è il ricchissimo index verborum (pp. 145–198), che, nella penuria di lessici speciali della tecnica musicale e metrica, acquista un inestimabile valore (e sarà prezioso a quelli che studieranno le fonti filosofiche). Quando avremo finalmente un lessico complessivo della metrica e della musica? I testi non sono molti, solo alcuni dei quali avrebbero bisogno di essere ripubblicati. Chiudiamo augurandoci che W.–I., uno dei pochi veri esperti di

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musica antica e, fra i pochi, uno dei più dotti e prudenti, ci dia presto i lavori che ci promette: uno studio sui codici di minore importanza, che per l’edizione sono stati collazionati soltanto in alcuni passi (p. XI); uno studio sulle tavole della notazione (p. XXV), che com’è noto non concordano colle altre che ci sono state tramandate; e infine un commento ad A.Q. (p. XXVI), che ci farebbe certo imparare cose che non sappiamo ancora.

La dottrina dell’«éthos» musicale e il simposio Comincerò queste riflessioni con l’esame di un carme di Anacreonte (33 G. = 356 P.). Lo leggerò servendomi liberamente delle traduzioni di Gentili e di Pontani: Portami un orcio, ragazzo, ch’io tracanni d’un fiato, mescimi dieci misure d’acqua e cinque di vino, perché io possa fare un’orgia bacchica, con violenza. Suvvia, non più di nuovo tra fracasso e tra schiamazzi beviamo, alla maniera scitica, ma tra canti belli, e sorseggiando1.

Accetto la recente proposta di Pretagostini2 di leggere nel quinto versicolo un avverbio che denoti violenza (hybrístos) invece di non violenza (anybrístos), || [Relazione di convegno (V 18.10.1985), pubblicata in B. Gentili – R. Pretagostini (edd.), La musica in Grecia, {Atti del Convegno Internazionale su La musica greca antica, Urbino 18–20 ottobre 1985}, Roma–Bari, Laterza, 1988, pp. 238–245; discussione nelle pp. 284–287] 1 Anacr. fr. 33 G. = 356 P.: ἄγε δή, φέρ’ ἡμίν, ὦ παῖ, κελέβην, ὅκως ἄμυστιν προπίω, τὰ μὲν δέκ’ ἐγχέας ὕδατος, τὰ πέντε δ’ οἴνου 5 κυάθους ὡς ἂν ὑβρίστως ἀνὰ δηὖτε βασσαρήσω. ἄγε δηὖτε μηκέτ’ οὕτω πατάγῳ τε κἀλαλητῷ, Σκυθικὴν πόσιν παρ’ οἴνῳ 10 μελετῶμεν, ἀλλὰ καλοῖς ὑποπίνοντες ἐν ὕμνοις. 2 Indico qui tutti i titoli che nel testo citerò in forma abbreviata: H. Abert, Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik, Leipzig 1899 (ancora fondamentale sull’argomento); W. Burkert, Weisheit und Wissenschaft, Nürnberg 1962; B. Gentili, Anacreon, Roma 1958; F. Lasserre, Plutarque. De la musique, Olten–Lausanne 1954; R. Pretagostini, Anacr. 33 Gent. = 356 P.: due modalità simposiali a confronto, «Quad. Urb.» n.s., 10 (39), 1982, pp. 47–55; L.E. Rossi, Metrica e critica stilistica. Il termine «ciclico» e l’agogé ritmica, Roma 1963; [L.E. Rossi, rec. W.D. Anderson, Ethos and Education in Greek Music. The Evidence of Poetry and Philosophy, Cambridge, https://doi.org/10.1515/9783110647983-033

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come prima in genere si faceva sulla base del corrotto testo di Ateneo. Questo carme, che forse è completo (tutt’al più manca un versicolo) e che ha forti tratti di responsione nel contenuto, presenta meglio di ogni altro testo lirico arcaico la contrapposizione contestuale di due modi polari di comportamento simposiale, il simposio e l’antisimposio, il codice e la trasgressione. Il quadro referenziale include infatti tutti i fattori importanti del simposio: la miscela del vino, il modo di berlo, il comportamento, la musica. La contrapposizione dei due modi di canto e musica è l’unica ad essere del tutto esplicita, e proprio alle due fini di strofe: anabassaréso e kaloîs hýmnois. Lo hapax anabassaréo deve avere infatti anch’esso, secondo me, un valore musicale–orchestico specialistico come lo ha anabakcheúousa in Eur., Ba. 864: «Ecco che nelle notturne danze (pannychíois choroîs) io poserò il mio bianco piede anabakcheúousa». Quest’ultima parola precisa choroîs, perché i misteri dionisiaci hanno una loro musica e una loro danza. E così in Anacreonte: la musica trasgressiva viene indicata con una metafora presa dall’ambito menadico. La teoria etico–musicale usa questo stesso campo metaforico molto spesso, quando vuole caratterizzare proprio musica, e precisamente musica diastaltica scomposta. Mi limito a dare qualche esempio. La distinzione delle harmoníai per Aristotele (Pol. 1341b) è in ethikaí, praktikaí e enthousiastikaí e la hypolydistí, per esempio, rende l’uomo bakcheutikós (1342b). L’aulo è uno strumento che spinge all’exorgiázein (Abert 63) e che ha una serie di altre qualificazioni menadiche. Il korybantiasmós è una delle malattie che la musica è in grado di sanare (Abert 62). La harmonía frigia è legata all’origine al culto della Magna Mater e ha carattere entusiastico e bacchico (Aristot., Probl. 19, 48). È chiaro che in questa terminologia si hanno qualificazioni metaforiche, che designano l’effetto di musiche che hanno caratteristiche sentite come simili. In sostanza, si potrà discutere se anabassaréo in Anacreonte abbia valore esclusivamente musicale, ma non si potrà negare che abbia valore anche musicale: ed è questo che qui importa. La contrapposizione esplicita dei due simposi in antitesi polare viene, così, affidata ai due ultimi versicoli di ogni strofetta e, precisamente, ai due tipi di musica (il resto invece è più implicito: la prima strofetta afferma l’antisimposio e la seconda lo ripete negandolo). Ho voluto cominciare con il carme di Anacreonte perché mi è sembrato, come ho detto, un bell’esempio metasimposiale di codice e di trasgressione. Ora, non c’è bisogno che io ricordi l’importanza della musica nel simposio arcaico, tardo arcaico e attico del V sec. Neanche serve che io spenda parole per || Mass. 1966, in] «Atene e Roma» n.s., 14, 1969, pp. 42–46; M. Vetta, Poesia e simposio nella Grecia antica. Guida storica e critica, Roma–Bari 1983.

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illustrare il simposio in generale e i suoi valori politici e religiosi (Vetta). È forse opportuno, invece, che io illustri in sintesi la dottrina etica della musica, presentandola con qualche tratto mio personale. Éthos e «etico» sono, come si sa, riferiti all’azione sull’animo e sul comportamento. Credo che si possano identificare con chiarezza due diverse correnti di dottrina etico–musicale a partire dal VI sec. in poi. Una è la corrente pitagorica, che partiva dal numero. In musica parlare di rapporti numerici è ovvio e oggettivo, perché i suoni ottenuti da una corda variano dall’acuto al grave in rapporto con la lunghezza della corda, che è misurabile. Volendo utilizzare questi numeri musicali in rapporto con la psicologia, bisogna comparare il non comparabile, e cioè un ordinato sistema psicologico nel quale caratteri e passioni, legati all’astronomia, vengano distinti secondo rapporti numerici assegnati astrattamente. Si tratta di un procedimento razionalistico astratto, ed è proprio quello che faceva la dottrina pitagorica. Un’altra corrente è totalmente diversa dalla pitagorica nei suoi fondamenti epistemologici, ed è quella il cui più antico rappresentante è per noi Damone il Musico, maestro e consigliere politico di Pericle, attivo già prima della metà del V sec. Platone, un secolo dopo, ce lo presenta come l’autorità massima in campo etico–musicale. L’importanza della musica per lui è così riassunta nel suo aforisma trasmessoci dallo stesso Platone (Resp. 424c): «non si danno cambiamenti nella prassi musicale senza cambiamenti politici». Questo è comune con i pitagorici e con la loro epanórthosis tôn ethôn, ma la corrente damoniana si differenzia nel trovare il nesso fra musica e affetti dell’animo nella percezione, l’aísthesis, e nell’esperienza, la peîra (Rossi 1963, pp. 29 sgg.; 1969). Aristotele è ricco di notazioni etico–musicali in cui viene richiamata l’aísthesis e, nel caso di mutamenti nella sensibilità musicale, presenta le diverse attitudini ricettive come qualcosa che si è storicamente verificato. In altre parole: il legame fra le varie musiche e gli affetti si accerta non con un legame astratto, bensì attraverso un’esperienza, in questo caso acustica, che si viene accumulando nella memoria storica e che trascina con sé associazioni culturali di vario tipo (particolarmente legate agli éthne). È l’esperienza che conta, e questa ha le sue variabili registrate nella prassi musicale. È interessante che tracce di questa netta distinzione fra le due dottrine restino anche nella successiva critica degli antichi: un certo Didimo il Musico (RE V l, coll. 473 sg.) ai tempi di Nerone aveva scritto un trattato «Sulla differenza fra la musica pitagorica e quella aristossenica» (Porphyr. ad Ptolem. Harm. 5, 13 sgg. Düring, all.; Burkert 1962, p. 349, 6); Aristosseno, da questo punto di vista, è aristotelico e cioè damoniano (vedi per es. fr. 73 W., dove parla di akoé); Porfirio (26, 6 sgg., 27, 17 sgg. Düring) cita Didimo proprio per la contrapposizione fra lógos pitagorico e aísthesis aristossenica. Va

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messo in rilievo, tra l’altro, come questa dottrina sembra passare indenne attraverso autorità con palesi simpatie pitagoriche, come Platone e Aristosseno. La dottrina damoniana si presenta, così, come sperimentale. Proponendosi, per i suoi scopi pedagogico–politici, una selezione dei generi musicali, delle harmoníai, dei ritmi, delle danze etc., operava attraverso una sperimentazione delle varie musiche. Per sapere quale effetto una musica poteva avere sul piano del comportamento, bisognava averla provata. La classificazione non era aprioristica. Mi sono quindi chiesto quali potessero essere i luoghi di vera sperimentazione che accogliessero anche la musica poi passibile di venir bollata come trasgressiva. Fra l’epoca arcaica e il V sec. la musica era sempre presente: e cercherò qui di considerare da questo punto di vista le principali occasioni di pratica musicale. Prima di tutto le grandi feste panelleniche e le feste locali: specialmente le prime furono il punto d’incontro delle varie esperienze musicali locali, che spesso portavano nel nome traccia dell’origine che ad esse veniva riconosciuta (nelle armonie nomi come dorico, frigio, lidio, eolico, ionico; nei ritmi cretico etc.), ma riesce difficile pensare, e non mi risulta che sia testimoniato, che nelle feste il codice musicale ufficialmente riconosciuto venisse violato: nei concorsi ogni audacia innovativa doveva essere prudentemente «calcolata» e del resto canti processionali, epinici etc. erano espressione di una già avvenuta selezione dei mezzi musicali. Se veniamo al dramma attico, sappiamo bene che le giurie dei concorsi non consentivano vere libertà in questo senso. Le licenze di un Euripide erano molto più miti, secondo la scala di valori dell’éthos musicale, di quanto ce le presenti Aristofane nella sua parodia comica. L’ufficialità della sede, severamente controllata dalla polis, non era propizia a vere trasgressioni. Un’occasione, invece, in cui si eseguiva una musica che era senza dubbio al di fuori del codice stabilito dalla pólis erano i misteri: ma i misteri erano tagliati fuori dalla normale circolazione anche a livello di semplice informazione, e in realtà le designazioni terminologiche menadico–dionisiache richiamate prima non vanno mai oltre una vaga genericità. Non credo che la musica menadica fosse diffusa e penso, tra parentesi, che la musica delle Baccanti di Euripide, a giudicare dalla partitura ritmica dei cori, avesse solo una coloritura convenzionale di menadismo, o meglio ancora una vaga coloritura orientale (qualcosa di simile a quella che viene chiamata la «patina» dorica dei cori drammatici in generale). Molte, d’altra parte, tra le testimonianze del corpus etico–musicale appartengono al campo della medicina (Abert): e occorre riconoscere che la terapia musicale fu realmente una ricca palestra di sperimentazione dei tipi di musica

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più vari, tenuto conto della intensa pratica musicale omeopatica (per esempio, casi di eccitazione curati con musica diastaltica). Né va dimenticato quello che, dopo la metà del IV secolo, sarà il versante musicale della catarsi aristotelica. Qui richiamerò solo (e per la ragione che dirò poi) un passo della Medea di Euripide in cui la nutrice si esprime in termini negativi sulla capacità terapeutica della musica (vv. 190–203). Il succo del suo discorso è il seguente: «Stolti sono quelli che credono di poter sanare i dolori degli uomini con la musica». La terminologia è chiaramente medico–terapeutica: lýpas paúein e akeîsthai. Non meravigli la polemica antimusicale: essa rientra in quella che Hermann Abert chiamava la corrente formalistica, alla quale aderirono fra gli altri Democrito ed Epicuro, e che non fa che confermare la generale diffusione dell’éthos musicale. La ragione per cui ho richiamato proprio questo passo euripideo è la localizzazione esclusiva della musica nel simposio che, in tema di terapia musicale, è evocato con insistenza quasi ossessiva: epì thalíais, ep’eilapínais, parà deínois, eúdeipnoi daîtes. Questo ci porta al simposio, che è stato davvero il luogo, se non unico, almeno eminente della sperimentazione di ogni tipo di musica: quella trasgressiva andava di pari passo con la qualità episodicamente trasgressiva di tutto il resto del cerimoniale del simposio. Un famoso passo di Erodoto (6, 126– 130) narra del banchetto nuziale nel quale il tiranno Clistene di Sicione (prima metà del VI sec.) avrebbe scelto un marito per la figlia Agariste fra molti pretendenti. Ateneo (14, 628c) ci trasmette l’episodio più in sintesi, attribuendone la fonte a Damone (ma ha ragione Lasserre 1950, p. 70, a considerare damoniane tutte e due le versioni). Gli invitati – così ci viene raccontato – si intrattenevano con una animata discussione–gara (érin) di argomento musicale. E allora Ippoclide ateniese, gran favorito di Clistene (Herodt. 6, 128, 2), si mise a danzare e la sua danza, oltremodo scomposta, disgustò il tiranno, che lo rifiutò come genero. L’episodio rivela aspetti molto interessanti: il luogo per la scelta del genero è il simposio, che Clistene considerava la prova suprema (128) e la prova finale è una prestazione musicale–orchestica che si situa a conclusione di una discussione–gara verbale di argomento musicale (è chiaro che i convitati discutevano proprio di danza). Ecco che intorno al 570 si discuteva, per di più a simposio, di éthos musicale. Si trattava di orientamento sperimentale, e cioè damoniano ante litteram? Sembra proprio di sì, se si segue lo svolgersi dell’episodio: abbiamo qui un caso di vera sperimentazione. Ippoclide comincia con una emméleia (non è necessario qui attardarsi a discutere di quale danza si tratti) e Clistene, osservando, si lascia già prendere da presentimenti negativi (hypópteue); poi Ippoclide si fa portare una tavola sulla quale danza figure laconiche e attiche, e qui Clistene si trattiene per non investire l’ospite; ma, quando Ippoclide si mette scompostamente a danzare con le gambe in su e la testa in giù, allora il rifiuto è

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netto. Di qui mi sembra di vedere una chiara gradazione di sconvenienza, una scala etico–musicale che viene sperimentata – per di più in seguito a discussione – secondo quello che poi sarà il principio dell’aísthesis e della peîra. Questo avviene, ripeto, già un secolo prima di Damone. Sarebbe bello conoscere i termini della discussione: era certamente qualcosa di simile alla polemica di Aristotele contro Platone sulla harmonía frigia (Pol. 1342a 32 sgg.), anch’essa in verità alquanto animata. Il carme di Anacreonte discusso all’inizio ci aveva presentato due modi polari di praticare il simposio e ho proposto di leggervi anche un riferimento molto esplicito alla musica contraria al codice. C’è un altro frammento di Anacreonte che mi pare significativo in questo senso (127 G. = 445 P.), trasmessoci da Imerio, che lo fornisce di una integrazione narrativa. In occasione di una sua delusione d’amore, il poeta chiama gli Erotes hybristaì kaì atásthaloi e, prendendo la lira, li minaccia, se non porteranno a lui l’oggetto del suo amore, di non cantare mai più per loro un mélos eúphemon. Sappiamo che Eros e gli Erotes nella poesia d’amore sono spesso insultati o trattati «alla pari» (in Anacreonte basta pensare al pugilato con Eros di 38 G. = 396 P.), ma qui si tratta di un intero canto contro le divinità! Vedo qui (e non solo qui) il rovesciamento della preghiera tradizionale, che aveva leggi poetiche e musicali molto rigorose, per cui anti–inni di questo tipo dovevano essere accompagnati da una musica appropriata, anti–innica anch’essa. Anacreonte non manca di spunti per un simposio almeno in parte trasgressivo rispetto alla rigida etichetta e potremmo aggiungere oggi questo fattore a quanto ormai molti anni fa diceva Gentili nella introduzione al suo Anacreonte a proposito di personaggi, di situazioni, di stile nel senso dell’inaugurazione di una sensibilità nuova. Potrei richiamare qui altri frammenti che rappresentano situazioni simposiali al margine, come «Sono ebbro, lasciami tornare a casa!» (107 G. = 412 P.). Il momento puramente edonistico, inteso come pausa dalla severità della norma etico–politica, doveva essere più frequente di quanto crediamo, se lo troviamo documentato già nel simposio di Alceo. Fra i suoi frammenti di tematica non politica ricorderò qui solo il 346 V.: «Beviamo! Perché aspettare le lucerne? ...» e troveremo ad esso un senso pregnante nel vietatissimo potare de die. La verità è che tutto il VI sec. ci presenta un’attenuazione progressiva dell’etichetta simposiale ed è notevole che questo emerga a livello metasimposiale. La notazione moralistica che ci viene trasmessa da Ateneo (10, 428b) sulla mollezza del simposio sdraiato rispetto al più severo simposio seduto può aver colto nel segno quanto a mutamenti nel costume e alla traccia da essi lasciata nella tradizione. Non avrebbero neanche senso le talvolta appassionate difese, anch’esse metasimposiali, dell’etichetta tradizionale, come ce le hanno conservate, in ambienti e momenti diversi, Seno-

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fane, Teognide, Crizia: l’impegno e l’insistenza con cui l’ordine viene difeso e propagandato fanno capire che le infrazioni erano frequenti. Oppure queste ultime venivano confinate al kômos, come nel ben noto frammento di Pratina contro il prevalere dell’aulo, che ci fornisce una testimonianza musicale di prim’ordine: «L’aulo comandi solo nel kômos, e nelle zuffe di giovani ubriachi che assaltano le porte!» (708, 8 sg. P.). Il kômos successivo al simposio sembra essere stato, fra VI e V sec., una normale parentesi di licenza, nella quale la musica continuava ad avere un ruolo primario, a stare proprio a Pratina e alle figurazioni vascolari. Ad informarci, ancora, sulla funzione di primo piano che il simposio ha svolto nella sperimentazione e selezione delle musiche è una serie di testimonianze di tipo storico–musicale. Ne presento una scelta, limitandomi a quelle che o siano arcaiche o si riferiscano all’epoca arcaica. Pindaro nel fr. 125 Sn.– Maehl., lo scolio a Ierone di Siracusa, ricorda che Terpandro inventò il bárbiton dall’esperienza musicale fatta presso i Lidi nei loro simposi. Nel trasmetterci il canto conviviale di Pitermo (910 P.), Ateneo ci informa che Pitermo, originario di Teo, usò per primo la harmonía che da lui si chiamò ionica e che lo fece per degli scoli, e cioè per dei canti simposiali. Teleste di Selinunte, che secondo il Marmor Parium vince ad Atene nel 402–401, è ricco di materiale musicale nei suoi frammenti (quasi tutti trasmessi da Ateneo nel libro XIV), e in uno di essi (810 P.) dice che Pelope e i suoi compagni per primi introdussero sugli auli il canto frigio della Magna Mater nei simposi degli Elleni e che con lo strumento a corda suonarono il canto lidio. È la mitologia degli heurémata musicali che entra nella storia portandosi appresso il legame con il simposio, che li ha in realtà sperimentati, prima di introdurli. Se conoscessimo meglio una figura chiave della tradizione storico–letteraria e musicale come Glauco di Reggio, avremmo in abbondanza testimonianze di questo genere. Era proprio nel quadro del simposio che la dottrina dell’éthos musicale conservava alcuni dei suoi incunaboli. Mi resta da dire di un altro argomento, e cioè la frequenza con cui la terminologia dell’éthos musicale designa certi tipi di musica come «simposiali», «erotici» e «avvinazzati». In altre parole: la musica che trasgrediva il codice portava designazioni che si riferivano proprio all’antisimposio. Anche qui pochi esempi. Eraclide Pontico (fr. 163 W.), nel famoso passo di Ateneo (14, 624c sgg.), dà in dettaglio le caratteristiche etniche delle varie musiche, e gli Eoli nella loro musica esprimerebbero il loro senso dell’ospitalità e sarebbero loro familiari «l’amore del vino, l’eros e ogni rilassatezza di costume». È, come si vede, una caratterizzazione simposiale della musica di un éthos, che non sarebbe stata teorizzata in questo modo se non fosse stata collaudata nel simposio stesso. Nel

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corpus della dottrina etico–musicale erotikón e sympotikón sono addirittura due generi (eíde) quasi sinonimici e appartenenti all’éthos sistaltico (Abert 1899, p. 67). Platone (Resp. 398e, Lach. 188d) respinge lo ionico e l’ipolidio come «molli» e «simposiali». E si noti che in tutti questi casi si tratta di tradizioni culturali che non respingono il simposio di per sé: se quindi condannano una musica come «simposiale», vuol dire che ne condannano la degenerazione che ha luogo in simposi non rispettosi del codice. Vorrei concludere. Se l’éthos musicale di tipo damoniano ha avuto, come ha avuto, luoghi di sperimentazione e di selezione, questi luoghi sono stati soprattutto la terapia musicale e il simposio, con la loro vasta gamma di esperienze musicali. Abbiamo qui riflettuto solo sul simposio: il suo legame con la dottrina dell’éthos è apparso chiaro attraverso testi metasimposiali, testimonianze storico–musicali e terminologia. Quello che più importa, alla fine, non è tanto lo scoprire che nel severo simposio arcaico e tardo arcaico le licenze, e fra esse le licenze musicali, esistevano, quanto piuttosto decifrarne la memoria, che è rimasta tenacemente iscritta a vari livelli di formalizzazione (testi poetici, testimonianze, terminologia). Tale frammentaria memoria introduce di contrabbando nella storia una prassi simposiale e una musica che ne erano ufficialmente escluse; che, per venire classificate e condannate, venivano per ciò stesso largamente esperite e selezionate in quegli stessi ambienti che dettavano a se stessi severe leggi. Sono questi gli ambienti che hanno fatto la storia, dando di sé una precisa immagine, ma siamo in grado di farci un’idea più completa anche della loro reale prassi quotidiana. La corrente etico–musicale cosiddetta damoniana, che si fondava sull’esperienza per le sue selezioni, si alimentava là dove tale variegata esperienza si realizzava. E se ne è trovata traccia almeno un secolo prima di Damone.

Discussione* BERNHARD ZIMMERMANN La metrica che a partire da Damone pone al centro l’aisthesis, dunque, per citare lo stesso Rossi, «una dottrina basata sull’esperienza», può essere realizzata anche nella práxis. Penso soprattutto ad Aristofane, che nelle sue composizioni evoca, mediante determinati ritmi ed una determinata musica, riferimenti e motivi che sono legati precisamente a questo ritmo e a questa musica. A volte vengono evocati tipi di canto tradizionali, noti ad ogni spettatore dalla sua || [* Della discussione si riportano soltanto le parti relative all’intervento di Rossi. – G. C.]

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esperienza di vita quotidiana, come ad esempio makarismoí, imenei, o canti di canzonatura; altre volte vengono evocate forme compositive della tragedia e della lirica. Ciò si effettua talora mediante un intero canto, ma talvolta solo mediante brevi segnali metrici, nel qual caso appunto le violazioni nelle responsioni rivestono il maggior significato. FRANÇOIS LASSERRE La relazione di Rossi mi pare convincente per la maggior parte dei suoi aspetti: il simposio è un luogo di confronto tra modi musicali diversi; l’etica musicale si fonda sull’esperienza – empeiría, peîra – e non su una teoria pedagogica, in particolare pitagorica; la testimonianza della medicina dimostra un uso non etico, ma empirico della musica. D’altra parte, mi sembra che la nozione di aísthesis comporti un equivoco. In senso stretto, essa significherebbe che il modo musicale di per se stesso produca certe conseguenze sui sensi, e che queste conseguenze provochino un giudizio e, dunque, un’etica. Ma si osserva che questo giudizio, all’epoca in cui inizia a trovare espressione nei testi, è legato all’éthos che si attribuisce a un popolo: dorico, frigio ecc. Nel frammento citato da Rossi, Pratina in fin dei conti chiede al coro di ritrovare l’ordine, tornando al modo dorico. Tuttavia nel nómos trimelés attribuito a Polimnesto dallo Ps. Plutarco nel De musica, il musicista passa, durante la stessa performance, dal frigio al lidio e dal lidio al dorico, e questo sulla stessa melodia, come se l’éthos non si modificasse, e come se si trattasse semplicemente di un esercizio virtuosistico sul flauto. Tra il VII (Polimnesto) e l’inizio del V sec. (per esempio Pratina) il sentimento musicale sembra dunque essersi sviluppato non sulla musica stessa, ma sull’immagine etica dei popoli, che essa trasmette. Data questa situazione, si adatta la nozione di aísthesis alla realtà? Non si tratta piuttosto di una convenzione divenuta reazione dell’orecchio, così come ad esempio la innologia protestante (canti dei salmi nella Francia del XVI sec.), in effetti costituita dalla musica profana del tempo, ha sviluppato un’etica musicale che resterà legata all’uso protestante di questa musica, e dunque all’immagine del protestante nella società? La nozione di empeiría non basta forse da sola a spiegare l’origine della teoria etica e pedagogica della musica? LUIGI ENRICO ROSSI La dottrina damoniana, riferendosi all’esperienza, non si limita alla sensazione puramente acustica, bensì è riferita a un’esperienza musicale completa, totale, nella quale entrano a far parte tutti i fattori culturali che hanno contribuito a formarla. In altre parole, non è possibile separare la pura sensazione acustica dalle associazioni che essa portava con sé (tutto quello che la tradizione legava con i vari éthne, con le varie culture), in modo da farne una vera espe-

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rienza. Devo richiamare l’attenzione sulla terminologia usata: aísthesis e peîra, e cioè non solo «percezione», ma anche «esperienza». SAMUEL BAUD–BOVY Ignoriamo quali fossero esattamente i modi designati con nomi topici (lidio, frigio ecc.), ma siamo sensibili alla differenza di colore e di éthos tra modi diatonici e modi di seconda più o meno aumentata. Aristotele (PoI. 1342a) osserva che, per lo svago di un pubblico incolto, si possono eseguire arie «sopratese e spiacevolmente colorate» (parakechrosména), che non hanno alcun posto nella educazione. D’altra parte, se si ammette che i Dori avevano una musica pentatonica senza semi–toni, il suo éthos era evidentemente diverso da quello delle musiche a semi–toni dei Greci delle isole e dell’Asia Minore: un contrasto che Aristotele (Pol. 1290a) raffronta a quello tra la oligarchia e la democrazia. LUIGI ENRICO ROSSI Per il taglio dato alla mia relazione, non potevo entrare nei particolari della dottrina dell’éthos. Certo, il genere cromatico viene introdotto più tardi e soppianta il genere enarmonico, che era il vecchio genere nobile della tragedia. È questo fatto, fra l’altro, a causare il rimpianto di un conservatore come Aristosseno. GIUSTO MONACO Domando a Rossi se alla base delle teorie «etiche» della musica nella Grecia antica non ci sia, in consonanza o in opposizione (ma forse piuttosto in opposizione che in consonanza), un qualche riferimento al carattere magico dell’estrinsecazione musicale, in altre parole al suo potere di «incantesimo». Il rifiuto, espresso dalla nutrice della Medea nei confronti della musica come rimedio al dolore, può essere il segno di una presa di posizione laica, anti– magica, da parte di Euripide? LUIGI ENRICO ROSSI La Medea di Euripide contrappone Medea, la maga orientale, al mondo greco. Mi pare quindi molto probabile che nelle parole che ho citate da quella tragedia ci sia un rifiuto della virtù etico–medica della musica e, in più, anche un rifiuto della magia musicale (legata alla medicina), in coerenza con il «laicismo» sofistico contemporaneo. (…)

La dottrina dell’«éthos» musicale e il simposio | 503

AGOSTINO MASARACCHIA Il discorso di Rossi, su cui concordo totalmente, può essere continuato accennando alla posizione della musica nella paideía, che diventa centrale nel IV sec., quando comincia a maturare nella cultura attica la prospettiva di un’educazione di stato, che poi, come è noto, si realizzerà in epoca ellenistica. Il testo capitale di questa problematica è costituito dalle Leggi di Platone. Non è un caso che in esse, nel II libro, si trovi una trattazione che si propone di mostrare come le esperienze del simposio possano essere assunte nella loro positività nel quadro della società e dello stato che Platone auspica e disegna. È opportuno a questo punto osservare che il dibattito sulla musica greca deve partire dal presupposto che una letteratura musicale, disponibile e fruibile allo stesso modo della letteratura consegnata al libro, comincia negli anni Cinquanta di questo secolo, quando il microsolco estende in modo massiccio la possibilità di ascoltare musica prescindendo dalle scelte e dagli orientamenti delle performances pubbliche. Prima si ascoltava infatti la musica soprattutto nei concerti pubblici o alla radio. Ancora diversa, e più lontana dalla nostra, era la condizione della cultura musicale prima dell’età romantica, nel Settecento e oltre. La musica non era composta per essere fruita in qualunque momento, ma era composta e ascoltata nell’hic et nunc. Si pensi, per esempio, alle numerosissime messe di Haydn: una nuova occasione richiedeva una nuova messa e non si pensava ad utilizzare quelle già usate. È una prassi artigianale che aiuta a capire la civiltà musicale antica. Nelle opere poetiche accompagnate dalla musica certo il testo aveva una vitalità maggiore, ma anch’esso era soggetto a continue modifiche per il concorrere di numerosi, noti fattori. Ancora peggio andavano le cose con la musica. Quando, a partire dall’età ellenistica, si eseguiva musica che veniva chiamata di Euripide, non si trattava certo più dell’originale, che probabilmente non era più conosciuto. Non si può quindi che essere profondamente scettici verso ogni tentativo di ricostruzione. Più fruttuoso, e fondato su basi documentarie valide, sarebbe invece lo studio del dibattito sulla musica nella paideía e in genere nel panorama delle arti e del pensiero estetico. GIUSTO MONACO La realtà davanti alla quale ci troviamo è che i testi musicali della Grecia antica si sono perduti quasi totalmente, specie a confronto con la grande quantità di testi verbali che si sono conservati. Risulta paradigmatico, in questo come in tanti altri casi, ciò che è accaduto nel teatro. Pöhlmann (al quale tutti dobbiamo essere grati per l’estensione e il peso della sua presenza) colloca la perdita dei testi musicali nel momento in cui il dramma diventa libro. Ma quando si è manifestato questo fenomeno? Nel IV sec. a.C.? Qualcuno, qui fra noi, ha già espres-

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so riserve. Nel III? Ricordiamo almeno che nel III sec. la commedia ha intermezzi musicali indicati col segno ΧΟΡΟΥ. La verità è che nel teatro la musica era sentita come uno degli elementi della performance, allo stesso titolo del gesto, della danza, del costume, della maschera: un elemento transeunte e contingente rispetto alla stabilità e alla certezza del testo verbale, e come tale proprio della «esecuzione». Perciò ha ragione Bruno Gentili quando osserva, che i testi musicali greci a noi noti difficilmente saranno dello stesso autore del relativo testo poetico. Con questa considerazione si collega ciò che lo stesso Gentili ha fatto presente, che spesso i Greci mettono in musica testi di ogni genere, anche non lirici, anche trimetri giambici o anapesti. Vale la considerazione che nell’arte musicale l’improvvisazione è normalmente propria degli specialisti. Ed a proposito di specialisti, bene ha fatto Giovanni Comotti a rilevare che la notazione musicale, appunto perché segno e frutto di professionalità, non è l’equivalente della scrittura del testo verbale: quella è riservata ai competenti, questa è aperta e destinata a tutti. In nome di tutto ciò si giustifica, anzi si motiva adeguatamente, il nostro Convegno, la varietà e l’articolazione degli interventi, i quali mi sembrano tanto più proficui quanto più concretamente propongono e prospettano problemi riferiti allo specifico ritmico e musicale, alle sue teorizzazioni e alle sue estrinsecazioni, insomma a quello che è fondamentalmente uno dei codici della comunicazione, intesa nella sua globalità ma pur sempre polisemica, come tutte le comunicazioni, come anche (e forse soprattutto) quella teatrale.

[Il canto dorico in Orazio] La menzione del canto dorico a epod. 9. 6 (4 ss. ... bibam // sonante mixtus tibiis carmen lyra // hac Dorium, illis barbarum) rientra nell’uso letterario romano, praticato su larga scala da Orazio, di designare i fenomeni musicali seguendo in tutti i particolari la prassi e la teoria greche. Una finzione è anche il presentare il simposio accompagnato dal canto delle proprie composizioni: si tratta di formule che fanno parte del codice lirico greco, letterariamente assunto da Orazio. Il ‘programma’ è in carm. 4. 3. 23, dove si presenta come Romanae fidicen lyrae, erede quindi in tutto (ma letterariamente) dei lirici greci; cf. carm. 3. 30. 13 s., epist. 1. 3. 12 s. etc. L’unica composizione che abbia avuto una vera esecuzione musicale sembra essere stato il carmen saeculare1. Nel passo in questione vengono contrapposti due strumenti musicali, la tibia, che corrisponde all’ αὐλός greco come il più comune strumento a fiato, e la lira, che sta per uno qualunque degli strumenti a corda (intercambiabile è in Orazio l’uso di lyra, cithara, fides, testudo, barbiton). La tibia è indicata qui come lo strumento atto ad accompagnare un carmen barbarum; altrove è qualificata come Berecyntia dal monte sito in Frigia, sacro a Cibele (carm. 1. 18. 13, 3. 19. 18, 4. 1. 22), e quindi come strumento estatico e orgiastico. Lo strumento a corda è invece adatto ad accompagnare un carmen Dorium secondo la tradizione musicale greca che assegnava all’armonia dorica carattere di serietà, coraggio, nobiltà d’animo etc.2 Qui la contrapposizione è tra il mondo romano, che si richiama all’ethos musicale ‘serio’, e il mondo barbarico con la sua musica orgiastica, rappresentato da Cleopatra e da quei romani che Orazio ripudia perché si erano messi contro Roma (vv. 11–16 dello stesso epodo). Altre qualificazioni dello strumento a corda confermano il valore di ‘dorico’ del nostro passo: a. p. 216 fidibus severis; carm. 1. 32. 13 s. decus Phoebi ... testudo; carm. 3. 4. 4 seu fidibus citharave Phoebi; etc.

|| [Scheda scritta per la voce “Dori” di S. Mariotti (dir.), Enciclopedia Oraziana, vol. 1, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1996, ma poi non pubblicata. – Inedito, ritrovato nell’ultimo pc di Rossi; la cura del testo e le parti aggiunte (tra parentesi quadre) si devono a Giulio Colesanti] 1 Il materiale è raccolto in Wille, p. 234 ss. (sul carm. saec. p. 238), il quale è però per dare valore facciale a tutte le formulazioni oraziane; giustamente contrari sono per es. Burck e quasi tutta la filologia moderna, su cui vd. Wille p. 235 s. 2 Vd. Abert spec. pp. 74 ss., 80 ss.; Anderson 1966, passim. https://doi.org/10.1515/9783110647983-034

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Ci si è chiesti se il canto ‘dorico’ e quello ‘barbarico’ potessero essere cantati insieme, ma questo è da escludersi, ché, per la contrapposizione dei due mondi, ognuno canta il proprio canto (carmina), con ovvia impossibilità di intonazione simultanea. Diverso il caso di carm. 4. 1. 22–24, dove il canto cultuale danzato per Venere dovrebbe essere costituito da un solo inno (nonostante il plurale carminibus) ed essere accompagnato da lyra, tibia e fistula (σῦριγξ) insieme: una specie di piccola orchestra in onore della dea.

Bibliografia Abert H., Die Lehre vom Ethos in der griechischen Musik, Wiesbaden 1899 (= Tutzing 1968). Anderson W., Horace, in S. Sadie (ed.), The New Grove Dictionary of Music and Musicians, VIII, Washington D.C. 1980, p. 693 Anderson W. D., Ethos and Education in Greek Music. The Evidence of Poetry and Philosophy, Cambridge Mass. 1966. Burck E., Horaz, in: Die Musik in Geschichte und Gegenwart, VI, Kassel–Basel–London 1957, coll. 707–711. Sachs C., Gli strumenti musicali, Torino 1980. Wille G., Musica Romana. Die Bedeutung der Musik im Leben der Römer, Amsterdam 1967.

Musica e psicologia nel mondo antico e nel mondo moderno: la teoria antica dell’ethos musicale e la moderna teoria degli affetti* 1. Premessa: la varietà dei codici musicali e il condizionamento dell’assuefazione La forte sensibilità alla musica sul piano psicologico è sempre stata riconosciuta con consenso generale1, e che tale sensibilità fosse particolarmente forte nella Grecia antica ci è testimoniato dal corpus teorico che, pur frammentariamente, ci è noto dalle fonti letterarie. La musica antica si serviva di mezzi particolarmente semplici per la nostra sensibilità moderna2, ma la sua efficacia va misurata non su una brutale scala diacronica in cui si mettano sullo stesso piano l’antica (per quanto è possibile ricostruirla) e la moderna, bensì su una situazione di molto minor sollecitazione ambientale, che era quella antica. Le esperienze musicali di noi, oggi, devono di volta in volta isolarsi in un contesto di con-

|| [Saggio pubblicato in A. C. Cassio – D. Musti – L. E. Rossi (edd.), Synaulía. Cultura musicale in Grecia e contatti mediterranei, «AION(filol)» Quaderni 5, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 2000, pp. 57–96] * In tempi lontani e recenti ho esposto queste mie idee in varie sedi italiane, all’estero (Germania, Gran Bretagna, Svizzera, Stati Uniti), al mio seminario romano e ultimamente in Facoltà negli incontri fra i partecipanti a questa raccolta: a tutti sono grato per belle discussioni e per preziosi suggerimenti. – [Rossi tenne una conferenza su questo specifico argomento a Roma 10.4.1974, in inglese, all’Intermediate Center for Advanced Studies; in Germania nelle Università di Münster 18.11.1975, Göttingen 20.11.1975, Konstanz 24.11.1975, Tübingen 25.11.1975; negli USA a Washington, Center of Hellenic Studies, 12.1.1976, e a Ithaca N. Y., Cornell University, 27.1.1976; all’Università di Bari 19.5.1976; all’Università di Catania 21.3.1977; ancora negli USA al Brooklyn College di New York 25.10.1978, alla Berkeley University, California, 7.11.1978, alla Columbia University di New York 5.12.1978; a Fisciano all’Università di Salerno 15.3.1995; invece nel suo seminario romano (Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza”) Rossi dedicò alla musica un seminario monotematico negli a.a. 1972/73 (Introduzione alla metrica e musica antica) e 1988/89 (Pseudo–Plutarco, de musica). Rossi comunque accennava spesso alla musica anche in lavori, seminari e conferenze di argomento metrico o letterario. – G. C.] 1 Utile il recente Aiello 1994, dove, tra i molti altri contributi, è ristampato un classico sull’argomento: Meyer 1956. 2 Fondamentale per quanto dico in questa premessa è Abert 1968, pp. 1–21 (= Die Stellung der Musik in der antiken Kultur, “Die Antike” 2, 1926). https://doi.org/10.1515/9783110647983-035

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tinue e violente sollecitazioni acustiche in generale (e anche specificamente musicali, ma della natura più varia), incrementate dalla enorme facilità della riproduzione e dai potenti mezzi di diffusione acustica; per gli antichi invece la loro flebile musica nasceva da un contesto di circostante silenzio e l’evento era quindi più eccezionale, più solenne, più intensamente percepibile. Molto si potrebbe citare, nella letteratura moderna, sul rapporto fra la musica e il silenzio. Una pagina molto bella è quella di Milan Kundera3, dove si leggono formulazioni efficaci: “... al tempo in cui viveva Johann Sebastian Bach e la musica assomigliava a una rosa fiorita sulla sconfinata landa nevosa del silenzio”; “la bruttezza si è manifestata dapprima come onnipresente bruttezza acustica: le automobili, le motociclette, le chitarre elettriche, i martelli pneumatici, gli altoparlanti, le sirene”. Si tratta qui del silenzio che circonda la musica, che è esterno ad essa. Di altra natura è il silenzio interno alla musica, quello che si rileva dall’analisi delle composizioni musicali, e che non si limita certo alle battute vuote4.

Se, per di più, fossimo in grado di risentire dal vero l’esecuzione di un carme simposiale o di un’ode corale o dei canti del dramma, difficilmente sfuggiremmo alla tentazione di comparare l’effetto che una tale esecuzione farebbe su di noi con l’effetto che subiamo da un’orchestra moderna in una moderna sala da concerto. E sarebbe una comparazione illusoria e dannosa. L’assuefazione è una componente fondamentale dell’esperienza, e dell’esperienza musicale in particolare, come ci capita continuamente di verificare quando ci troviamo di fronte a più o meno riuscite esecuzioni filologiche con strumenti d’epoca: l’esecuzione di musica di Bach su clavicembalo in una grande sala da concerto ci mette di fronte a una sorta di straniamento per quanto riguarda sia il risultato acustico–ambientale sia il puro e semplice fraseggio. Se è possibile, nel ristretto ambito cronologico di due secoli e mezzo, ricostruire una musica e il modo originario di eseguirla, non è possibile ricostruire in noi stessi l’ascoltatore di allora. Quanto più lontana da noi, e nel tempo e nel sistema o codice, è la musica antica: la situazione che ho appena esemplificata non rende appieno la difficoltà di catturarne di nuovo la produzione e la ricezione. Fra Bach e noi ci troviamo pur sempre all’interno di uno stesso codice, anche se dalla fine del romanticismo in poi questo stesso codice è in crisi per i numerosi esperimenti innovatori di un intero secolo, che tuttavia aspettano una compiuta assuefazione dell’orecchio collettivo. Quasi ogni esecuzione di musica contemporanea deve || 3 Kundera 1985, pp. 98–100. 4 Sul silenzio interno alla musica v. Jankélévitch 1998 (1961), pp. 111–131 (segnalo le belle analisi su Debussy).

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per i più di noi essere accompagnata dalla spiegazione del codice musicale in cui è composta: quanto all’assuefazione, possiamo quindi dire di essere ancora nell’ambito della cultura musicale romantica e tardo–romantica, lontani, cioè, sia dal mondo antico, al quale non siamo più assuefatti, sia dallo sperimentalismo contemporaneo, al quale non siamo ancora assuefatti. La ricerca storico–antiquaria e l’informazione antropologica ci informano dell’esistenza di numerosi altri sistemi o ‘grammatiche’ musicali anche nel mondo a noi contemporaneo. Si tratta non solo di culture diverse dalla nostra (India, Cina, mondo arabo etc.), ma anche di aree all’interno della nostra stessa cultura. Chi ha avuto occasione di ascoltare il complicato contrappunto vocale dei pastori sardi, procedente per quarti di tono, è rimasto a tutta prima sbigottito da un apparente disordine, da una supposta assenza di leggi: ma ad un ascolto attento e magari opportunamente guidato ci appare poi chiaro che leggi ci sono e che quelle che ci pare che manchino sono solo le nostre, per cui gli intervalli enarmonici li sentiamo come pure stonature da quando ci siamo assuefatti al sistema temperato, che conosce solo intervalli di tono e di mezzo tono. Per entrare in un sistema a noi nuovo è necessario uno sforzo razionale che sostituisca l’assuefazione. È opportuno chiarire subito che il discorso che qui mi propongo di introdurre non è la comparazione fra il sistema musicale greco e il nostro. Non mancano eccellenti descrizioni del codice musicale greco5, dalle quali impariamo le molte differenze: dalla diversa organizzazione dei suoni (scale, modi, toni etc.), alla mancanza di battuta isocrona, alla mancanza o quasi di vera e propria polifonia, alla semplicità degli strumenti e alla relativa povertà degli organici strumentali. Quello che intendo proporre è invece, come dicevo all’inizio, una panoramica di una costante, e cioè d e l l a s e n s i b i l i t à a g l i e f f e t t i p s i c o l o g i c i ( o v v e r o p s i c a g o g i c i ) d e l l a m u s i c a , che si è sempre tradotta in un’attiva riflessione teorica su tale dato verificabile sperimentalmente. Momenti centrali di tale riflessione furono il VI–IV sec. a.C. in Grecia (la cosiddetta teoria etica della musica) e il XVII–XVIII secolo nella cultura europea (la cosiddetta dottrina degli affetti): da una comparazione di questi due momenti, che a me pare sia stata fatta solo superficialmente e sia || 5 Sulla musica greca in generale sempre prezioso, perché chiaro e sintetico, è Reinach 1926; v. anche Henderson 1957 e i recenti Neubecker 1977 e West 1992; molto utile per le testimonianze è Barker 1984–1989; su letteratura recente informano i Berichte di Winnington–Ingram 1958 (spec. § VII, pp. 48–55) e di Neubecker 1990 (spec, i §§ IX–XII, pp. 162–168). Per i documenti Pöhlmann 1970. Per un’esposizione storica e problematica della teoria musicale è sempre valido Winnington–Ingram 1936. Una mirabile sintesi, nata dalle lezioni (che io ascoltai da studente), è Ronga 1991.

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stata volta alla ricerca di parallelismi, credo che risulteranno piuttosto delle divergenze. Se comune era la consapevolezza della grande forza psicagogica della musica, diversa è stata la direzione in cui questa forza è stata vista operare.

2. La teoria etica della musica antica Per esorcizzare una comparazione illusoria fra la musica antica e la nostra (§ 1), azzardo una formulazione che può apparire, ma a mio parere non è, paradossale. È per noi quasi una fortuna che la realtà musicale antica sia così scarsamente ricostruibile dal punto di vista tecnico e così irraggiungibile dal punto di vista dell’esecuzione6: rischieremmo di ottenerne informazioni fuorvianti al nostro scopo. Per ricostruire, infatti, l’impatto psicologico della musica presso gli antichi – quello che qui ci interessa – siamo provvidenzialmente costretti a sentir parlare gli antichi stessi nelle loro testimonianze e nella loro riflessione teorica sugli effetti della musica7: è il modo che ci resta – e non abbiamo alternative, ma non rammarichiamocene – per ascoltare la musica antica con l’orecchio degli antichi. Abbiamo anche modo di interrogare i loro miti: non so se in altre culture sia presente un mito così eloquente come quello di Orfeo, che con la forza irresistibile del suo canto trascinava anche gli animali, le piante e la natura inanimata. Dalle testimonianze apprendiamo che la musica era affare di filosofi e di politici, tanto grande era considerato l’effetto che essa aveva sul comportamento: si trattava di un fatto di ordine pubblico, e quindi di disciplina della comunità, che andava da una parte spiegato da un punto di vista filosofico– scientifico (ovvero psicologico in senso lato) e dall’altra andava disciplinato politicamente per ragioni di controllo sociale. L’atteggiamento dei greci di fronte alla musica si sintetizza in una formulazione che Platone8 attribuisce a Damone9, maestro di Pericle nella prima metà del V sec. a.C.: οὑδαμοῦ γάρ ϰινοῦνται μουσιϰῆς τρόποι ἄνευ πολιτιϰῶν νόμων τῶν μεγίστων, ὥς φησί τε Δάμων ϰαί ἐγὼ πείθομαι.

|| 6 Neubecker 1990, p. 118 s. elenca alcune incisioni utili per chi voglia rendersi conto di quanto qui esposto: anche chi volesse fidarsi dei criteri filologici delle ricostruzioni (di necessità ampiamente approssimativi) resterebbe deluso e sottoscriverebbe il mio paradosso. 7 Fondamentale resta ancora Abert 1899; v. anche Anderson 1966 (v. Rossi 1969) e Barker 1989. 8 Plat. resp. 424c. 9 Per Damone da ultimo Wallace 1991.

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In nessun ambiente avvengono innovazioni musicali senza leggi politiche istituzionali, come dice Damone e come credo anch’io10.

Il passo va interpretato non come una corrispondenza biunivoca fra prassi musicale e leggi, nel senso che la musica influenzerebbe le leggi e viceversa. La prima alternativa presupporrebbe una certa libertà musicale, una sorta di sperimentazione, che nel dirigismo politico di Platone è qui implicitamente (e altrove anche esplicitamente11) negata. Ma di corrispondenza biunivoca non si tratta: non può essere la musica a mutare la politica, ma è sempre la politica a mutare eventualmente la musica. Le parole di Damone sono state citate da un conservatore come Platone, e qualcuno può pensare che fosse incline a falsarle secondo i suoi orientamenti: ma io credo che vadano prese alla lettera12 e che rispecchiassero non solo la politica musicale propugnata da Platone stesso, ma anche quella periclea di un secolo prima. È del resto ben noto alla ricerca moderna che Platone, come poi anche Aristotele, assunsero come propria la tradizione etico–musicale di Damone. Questo mi conforta nella convinzione che la sperimentazione musicale, troppo pericolosa per essere affidata ad ambiente democratico13, fosse a suo tempo praticata nel simposio aristocratico, come ho sostenuto altrove14. La musica era considerata materia di interesse pubblico, che andava regolata da chi amministrava la cosa pubblica. Aristotele nella Politica (8.5 e 7) ci

|| 10 Questa è la traduzione letterale del passo. Ho evitato la traduzione di τρόπος per non coinvolgermi in dettagli terminologici qui non rilevanti. Per dare un’idea della polivalenza di molta terminologia musicale rimando a Meyer 1932, che individua ben dieci valori del termine ἁρμονία: Tonmischung (Tonreihe), Tonleiter, Oktave, Tonart, Transpositionsskala, Tonsystem, Klanggeschlecht, Musik, Melodie, Symphonie. 11 Nell’ampia diagnosi socioculturale di legg. 699d – 701b Platone giustifica la necessità di un opportuno dirigismo in fatto di musica. 12 Non è irrilevante l’aggiunta “come credo anch’io”, anche se ovviamente non è Platone in prima persona che parla. 13 Sui rapporti fra musica e democrazia basti rimandare ai contributi di Musti e di Mosconi in questa raccolta: alla base di quei due lavori è Musti 1995. 14 Rossi 1988: allora semplicemente non mi ponevo alternative, mentre oggi aggiungerei che la sperimentazione poteva essere solo del simposio. In Ieranò 1997, p. 223 trovo una preziosa testimonianza che conferma la mia tesi: Amphis fr. 14 K.–A., che introduce un aulo di nome γίγγρας (Athen. 174f: il testimone lo dà per fenicio e cario) come disadatto al teatro ma usato nel simposio; anche se si tratta di commedia di mezzo, e cioè di IV sec., la contrapposizione teatro/simposio è pur sempre interessante perché certamente tradizionale, come mostra la testimonianza su Socrate (segnalatami da Michele Napolitano) I A 24 Giannantoni (ap. Plut. lib. educ. 14, 10 C): Socrate, a chi in teatro per le Nuvole gli chiedeva se non si infuriasse per la presa in giro, avrebbe risposto ὡς γάρ ἐν συμποσίῳ μεγάλῳ τῷ θεάτρῳ σϰώπτομαι.

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elenca le funzioni proprie della musica: gioco (παιδιά), divertimento (διαγωγή), educazione (παιδεία), purificazione (ϰάθαρσις). Le più importanti erano ovviamente le ultime due. Dato il legame che veniva riconosciuto fra i fatti musicali e gli affetti dell’animo, enorme poteva essere l’efficacia della musica: poteva esercitare azione calmante e poteva eccitare ad azioni socialmente buone o socialmente cattive. In altre parole, la sollecitazione nervoso–psicologica della musica poteva venir sfruttata a scopi determinati. Ben nota è la diffusione e l’utilizzazione dei cosiddetti ‘canti di lavoro’15: fino dall’epoca arcaica il lavoro manuale era accompagnato da canti fortemente ritmati (rematori, mietitori etc.) e la marcia dei soldati in guerra era accompagnata dal suono dell’aulo ritmato sugli ‘anapesti di marcia’. Che il concetto di ‘catarsi’ si fondasse su musica e medicina insieme è un dato acquisito della ricerca moderna, avendo la musica un effetto sia in positivo per l’educazione dei giovani (promozione di comportamenti socialmente accettabili) sia uno, per così dire, in negativo per la terapia di malattie psicologiche (eliminazione di turbe)16. Accenno qui ad alcuni aneddoti che rispondono a varie tipologie costanti. Durante una gara musicale i magistrati spartani si presentano colla spada sguainata davanti a un musicista che ha aggiunto una corda alle sette della κιθάρα per ottenerne nuovi effetti arricchendone la gamma sonora e gli chiedono da quale parte devono tagliare la corda in più17. Episodi di patologia e terapia musicale sono molto frequenti, e venivano in buona parte dall’ambiente pitagorico o almeno a quell’ambiente venivano riportati sia nell’antichità sia nel medioevo18: erano guarigioni da quelli che oggi chiamiamo stati maniacali di esaltazione o di depressione. Anche la diagnostica aveva un suo luogo. A Damone19 risale l’aneddoto di Clistene tiranno di Sicione che, vedendo danzare Ippoclide ateniese che si era presentato come pretendente alla mano della figlia, gli disse di aver “danzato via” (ἀπορχήσασθαι) il suo matrimonio, avendo dato dimostrazione delle cattive qualità del suo carattere. Nella Theophorumene di Menandro20 (La donna invasata dal dio) due personaggi vedono le manifestazioni esteriori di una ragazza che si dà per invasata e, per sapere se finge o no, decidono di farle sentire una musica coribantica allo scopo di studiarne le reazioni. || 15 Bücher 1896. 16 Sull’argomento la bibliografia è enorme, il che esime dal citare. 17 Plut. inst. Lac. 17, 238 C; l’episodio è riportato anche altrove, v. Weil–Reinach 1900, p. 148. 389. 18 Abert 1899, pass, e Abert 1905, p. 23. 19 Damone, fr. 18 Lass. = Athen. 628c, cf. fr. 19 Lass. = Hdt. 6.129. 20 Men. Theophor. fr. 145 Austin.

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I fattori musicali per la determinazione degli effetti psicologici erano la tonalità21, la melodia, il ritmo, il tempo (ἀγωγή)22, gli strumenti; per la danza erano importanti le figure (σχήματα)23. Quanto al ritmo, sarà bene precisare che si tratta sempre di ritmo in senso musicale. Una teoria che considerasse i versi o i cola nella loro individualità non è suffragata dalle testimonianze antiche: solo fonti tarde o arbitrarie esegesi moderne applicano ai singoli versi o cola (versi dattilici come l’esametro, versi anapestici etc.) categorie che erano soltanto ritmico–musicali (ritmo dattilico, ritmo anapestico etc.): i versi erano disciplinati da un’altra disciplina, quella dei generi letterari. In altre parole: non esiste un e t h o s d e i v e r s i , ma solo un e t h o s d e i r i t m i . La distinzione non è oziosa. Un esempio: a rientrare nelle categorie ritmico–musicali è solo il ritmo dattilico dell’esametro o del tetrametro dattilico, mentre non esiste un ethos ritmico distinto dell’esametro o del tetrametro; lo stesso per trimetro e dimetro giambico etc. Anche il docmio, che è spesso considerato eccitato ed eccitante, è considerato come ritmo, e cioè come unità ritmica, e non come colon o verso24.

Siamo così in grado di capire il significato della parola ἦθος25, che continuamente compare in questi contesti e che ha dato per noi moderni un nome a tutta questa corrente, e cioè la dottrina dell’‘ethos musicale’ (Ethoslebre). La parola ἦθος significa ‘carattere’, ‘costume’. Chiare risultano, così, espressioni come ἐπανόρθωσις τῶν ἠθῶν (comune in ambiente pitagorico: ‘correzione dei caratteri, dei costumi’), τò ἦθος ποιόν τι ποιεῖν (Aristot. pol. 39a24: ‘modellare il carattere’26), ἠθοποιεῖν τὴν ψυχήν (‘plasmare l’animo per quanto riguarda il carattere’)27. Fu così che i fattori musicali vennero ad avere un determinato ἦθος e fu così che la musica divenne uno dei fattori più importanti che concorrevano a formare e a disciplinare il costume individuale e quello collettivo di una comunità28.

|| 21 È una designazione imprecisa e modernizzante: v. Winnington–Ingram 1936. 22 Sul ‘tempo’ come fattore etico–ritmico v. Rossi 1963, spec. p. 77 ss. 23 Per la danza v. Lawler 1965, Prudhommeau 1965. 24 Utilissima è ancora la raccolta di testimonianze che si possono comodamente leggere in Abert 1899, pp. 121–165 (Das Ethos in der Rhythmopoiie). 25 Su parola e concetto v. Schmidt 1941; Süss 1910, specie per il versante retorico. Utile Garcia– López 1969. 26 Aristot. pol. 39a24 (Schütrumpf 1970, p. 13 ss.). 27 Sext. Empir. math. 6. 30 (Abert 1899, p. 6 e n. 2). 28 Lascio qui da parte l’aspetto magico della musica, su cui Combarieu 1909 resta un classico.

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3. I due approcci all’etica musicale (Pitagora e Damone) e la sua negazione (la teoria formalistica) Il veloce panorama qui tracciato può dare la falsa impressione che la dottrina dell’ethos musicale fosse in Grecia, nel corso dei secoli, un corpus di dottrine più o meno costanti e coerenti che man mano si sarebbe accresciuto e precisato. Ma non è così29. Un esempio della velocità di trasformazione in un campo che falsamente appare così fermo è la diversa valutazione del modo frigio da parte di Platone e di Aristotele30. La distanza cronologica fra la Repubblica e la Politica si può valutare, all’interno del IV secolo a.C., intorno a tre o quattro decenni, anche se Platone è portavoce di dottrine di almeno un secolo più vecchie di lui (Damone), mentre Aristotele vive in un momento di grandi trasformazioni e ne accetta la portata. Quello che sembra certo è che vi erano stati mutamenti sia nella tecnica musicale sia nella sensibilità alla musica stessa. Ma soggetta a variazioni è anche l’impostazione filosofica dell’esperienza musicale. La personalità più antica a cui viene attribuita una teoria compiuta in questo campo è Pitagora, che visse fra il sec. VI e il V fra Samo, dove nacque, Crotone e Metaponto: circoli pitagorici, a cui dobbiamo molto di quanto conosciamo della sua dottrina, si stabilirono poi a Taranto. Di lui sappiamo poco ed è anche difficile fare giuste attribuzioni alla dottrina pitagorica più antica31. Dalle testimonianze sappiamo comunque che Pitagora partiva dal numero come principio di tutte le cose e che ogni cosa aveva nel cosmo un suo posto corrispondente al numero (importante era lo studio dell’astronomia). Così l’uomo e l’anima umana, attraverso il numero, venivano a trovarsi in un preciso rapporto con i fatti musicali, i quali ultimi, come si sa, erano e sono oggettivamente legati a rapporti numerici, perché una corda che dà un certo suono, se divisa per metà, dà lo stesso suono all’ottava superiore, avendo un numero doppio di vibrazioni; nella dottrina pitagorica, invece, il rapporto numerico dei fatti musicali veniva applicato arbitrariamente ai moti dell’animo. In un passo controverso Platone32 critica la dottrina pitagorica come empirica, ma vedrei in questa polemica due razionalisti a confronto: la dottrina pitagorica – come ho appena detto – postulava una corrispondenza fra i rapporti numerici della musica (rapporti reali) e i rapporti numerici dell’anima (rapporti stabiliti razionali-

|| 29 V. la critica di Anderson 1966 ad Abert 1899 esposta in sintesi e discussa in Rossi 1969. 30 Plat. resp. 394a s.; Aristot. pol. 42a32 ss. V. qui oltre il contributo di Pagliara. 31 Burkert 1962. 32 Plat. resp. 530d ss.

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sticamente); Platone, invece, in campo musicale, apparteneva alla corrente teorica di cui passiamo a parlare qui di seguito. L’altra corrente infatti procedeva con metodo genuinamente empirico e sperimentale. Del legame dei fatti musicali con le reazioni psicologiche si prendeva semplicemente atto in base all’esperienza. Il modo dorico è forte e guerriero, lo ionico e il lidio sono molli, il ritmo dattilico è nobile, lo strumento a corda è lo strumento apollineo per eccellenza mentre l’aulo è lo strumento dell’estasi e dell’eccitazione33: tali classificazioni nascevano da semplice esperienza (πεῖρα), dalla sensazione (αἴσθησις). Il caposcuola di questa corrente è il già richiamato Damone, seguito da Platone e da Aristotele (§ 2). Fra questi due ultimi c’è però una differenza: Platone rifiuta tutto quello che, in musica come in poesia, non risponde ai suoi ideali etici e paideutici, mentre Aristotele ammette anche quello che Platone rifiuta, dando ad esso un valore ‘catartico’, purificatore, come sappiamo soprattutto dalla Poetica. Ma è solo questione di valutazione e selezione di un materiale raccolto con lo stesso metodo sia in Platone sia in Aristotele. E aristotelico fu il primo grande sistematore di tutta la teoria musicale, Aristosseno di Taranto, di poco più giovane del maestro34. In comune con Platone ebbe forte tendenza conservatrice, con il rifiuto di quella che veniva sentita come la corruzione della musica favorita dal virtuosismo. A tutta questa corrente fu comune la contrapposizione della πεῖρα e dell’αἴσθησις al λόγος (rapporto numerico) pitagorico: Didimo il musico (forse del I sec. d.C.) scrisse un’opera, non conservata e dalla quale impareremmo molto, Sulla differenza della musica pitagorica e di quella aristossenica35. Ci piacerebbe vedere resa esplicita da una fonte antica una comparazione sistematica 36 fra un approccio razionalistico e un approccio storico–sperimentale. Di pari passo vanno gli studi sulla psicologia. A Ippocrate (V sec. a.C.) si deve la teoria dei quattro temperamenti: flemmatico, sanguigno, collerico, melanconico. Ad essa seguì la sistemazione psicologica degli stoici e la ricca messe di osservazioni in campo psicologico nella Retorica aristotelica.

|| 33 Abert 1899, pur datato, resta il più comodo repertorio per questo materiale. 34 Va ricordato che Aristosseno è portatore anche di influenza pitagorica (Burkert 1962), ma non nell’ethos musicale. 35 L. Cohn, RE 5.1, col. 473 s. (n. 11): Porphyr. ad Ptolem. harmon. 5.13 ss. Düring, all.; v. Burkert 1962, p. 349.6; Rossi 1969, p. 44 s. Schäfke 1934 efficacemente parla, in generale, di una musikalische Noëtik contrapposta a una musikalische Ästhetik. 36 Opposizione a Pitagora è molto frequente in occasionali polemiche, e varrebbe la pena rintracciarvi le presumibili fonti di Didimo.

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Ma, accanto alla persistente diffusione della considerazione etica della musica, fosse essa di ispirazione pitagorica o damoniana, si sviluppò una tendenza che negava alla musica qualsiasi legame con la psicologia e la considerava semplicemente come organizzazione neutra di suoni. È quella che è stata chiamata la corrente formalistica37, rappresentata per noi in base alla documentazione soprattutto dall’asse Democrito38 – Epicuro (IV sec. a.C.). La maggior parte delle informazioni su questa materia la abbiamo dal Περὶ μουσιϰῆς di Filodemo di Gadara (I sec. a.C.)39. Particolarmente interessante la posizione che è certamente di Epicuro, trasmessaci da Filodemo, e che attribuiva valore psicagogico solo alla parola e lo negava alla musica che la accompagnava: alla musica veniva lasciata solo una funzione edonistica, senza alcun legame con l’educazione40. Uno dei più begli esempi di ritrovamento papiraceo che conferma una congettura – in realtà il sogno di ogni filologo – fu il famoso papiro Hibeh 1341, subito riconosciuto come un’orazione sofistica (molti pensarono subito a Ippia42), che attacca, con pesante ironia, la teoria etico–musicale, negandole ogni valore. Ora, il papiro fu pubblicato nel 1906 e già nel 1899, con felice intuito, Abert43 aveva giustamente congetturato che all’origine della negazione dell’ethos musicale ci fossero i sofisti, che avrebbero anche in questo nodo cruciale contribuito alla messa in discussione di una serie di istituti tradizionali, come in altri campi così anche nella teoria musicale44.

|| 37 Anche se la si deve considerare lontana dal formalismo moderno (e cioè dallo studio storico delle forme): commovente l’entusiasmo di un Abert 1899, p. 43, che con trionfalismo formalistico saluta questa corrente come se si trattasse di precursori di Eduard Hanslick (sul quale v. oltre, § 9). 38 Democrito, in realtà, non ci risulta essere andato oltre un generico ridimensionamento della musica: in 68 B 144 D.–K. (ap. Philod. mus. 4.31, p. 108.29 ss. Kemke) afferma essere la musica arte recente e non necessaria, quindi superflua. 39 Abert 1899, p. 27 ss.; v. ora Rispoli 1974, Rispoli 1991. 40 È grande la tentazione, e forse vale la pena seguirla, di attribuire a Epicuro molto di quanto riferisce Filodemo. 41 B. P. Grenfell – A. S. Hunt, The Hibeh Papyri, I, London 1906, pp. 45–58. 42 Per un’equilibrata informazione Anderson 1966, p. 147 ss. 43 Abert 1899, pp. 38–43. 44 Abert 1906, stranamente escluso dalle sue Gesammelte Schriften (Abert 1968).

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4. Il rapporto con la parola e i due diversi tipi di polemica La musica era onnipresente nella cultura arcaica e classica: la parola poetica non ne era di regola mai priva, e questo pone il delicato problema di come il rapporto fra parola e musica era sentito nella prassi e nella teoria. Fu nel rapporto con il testo verbale che la ‘nuova musica’ della seconda metà del V sec. si scontrò con la corrente conservatrice, che si richiamava alla tradizione rappresentata da Terpandro45. Del cosiddetto ditirambo nuovo46, di cui scorgiamo l’influenza in monodie euripidee e in parodie aristofanee, vanno ricordati (fra V e IV sec. a.C.) Melanippide (che avrebbe forse inaugurato il canto a solo come genere indipendente47), Cinesia, Frinide, Filosseno, fino a Timoteo. Naturalmente non bisogna dimenticare, agli albori della lignée, Laso di Ermione, attivo ad Atene fin dalla seconda metà del VI sec. 48, teorico della musica e autore di innovazioni nella prassi. La progressiva disattenzione al rapporto musica–parola, tutta tesa al virtuosismo vocale, diede sì una notevole autonomia autoriale ai musicisti, ma non c’è alcuna testimonianza interna o esterna a quei testi che faccia sia pur lontanamente pensare a una volontà espressiva. Si trattò di un potenziamento dell’aspetto spettacolare (la θεατροϰρατία τις πονηρά di Platone, leg. 701a3), che aveva come scopo l’intrattenimento e la ‘maraviglia’ del pubblico. Siamo sempre nell’ambito di una funzione conativa49, come è di ogni virtuosismo fine a se stesso. È da queste esigenze che nasce, nel corso del IV sec., la professionalità degli attori e dei cantanti, che dovevano avere particolari doti e una specifica preparazione tecnica50. È questo il materiale che doveva sostanziare le rappresentazioni dell’Odeion di Pericle, connesse con le istituzioni democratiche51.

|| 45 Per Terpandro, figura centrale dell’antica storia musicale, v. ora Gostoli 1990. 46 La cui storia si confonde con quella del nomos. Da ultimo Zimmermann 1992, pp. 117 ss., 140 ss. I frammenti in Del Grande 1946, Sutton 1989, leranò 1997. In Pretagostini 1998, p. 45 ss., un’utile sintesi del nomos e del ditirambo nuovo dall’epoca arcaica fino al IV sec. a.C. Interessante Dion. Hal. comp. verb. 86. 6 s. Us.–Rad., che contrappone proprio il ditirambo antico al nuovo per le libertà musicali di quest’ultimo. 47 Aristot. rhet., 09b25 ss. (test. 159 b Ieranò). 48 Su Laso v. Privitera 1965. Quanto Laso tenesse al suono della parola lo testimonia il suo famoso ‘asigmatismo’ (composizioni prive del sigma). 49 Per funzione conativa ed espressiva v. infra §§ 5, 6 e pass. 50 Sulla professionalità degli attori, strettamente legata a quella dei musici, v. Ghiron–Bistagne 1976, pp. 173–202, che dedica un’intera sezione del libro (il cap. IV) alla condizione sociologica degli attori. 51 Sui fondamenti sociopolitici di questa richiesta di nuova musica–spettacolo e sull’Odeion di Pericle v., in questa raccolta, Musti e Mosconi.

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Al centro di questa polemica fu il rapporto fra musica e parola nel senso di una discussa e contestata prevalenza dell’una sull’altra. Va detto – a questo punto – che l e p o l e m i c h e m u s i c a l i f u r o n o d i d u e t i p i d i f f e r e n t i , che vengono comunemente confusi: una è rivolta a chi viola la tradizione della musica buona e di sano effetto etico a vantaggio di una musica pericolosamente innovatrice, la vera e propria dottrina dell’ethos musicale (§§ 2 e 3); e l’altra, quella che difende i diritti della parola nei confronti di una musica che può diventare prevaricatrice e quindi creatrice di uno squilibrio, che può addirittura obliterare la parola magari rendendola inintelligibile a causa dell’eccessiva volubilità melodica52. In altre parole: u n a p o l e m i c a r i guarda solo la musica, l’altra riguarda il rapporto fra parola e musica. La necessità della preminenza della parola sulla musica venne espressa in maniera del tutto esplicita già all’inizio del V sec. a.C. In un frammento di grande interesse, che pone problemi di vario tipo53, Pratina di Fliunte54 lamenta, in vivace polemica metaletteraria55, il prevalere dell’aulo sul canto: siamo già nel pieno della polemica del secondo tipo, quella su parola/musica. Ma c’è una realtà contestuale davvero singolare: alla fine del frammento (v. 16) c’è l’esortazione ad ascoltare questa musica in armonia dorica (ἄϰουε τὰν ἐμάν Δώριον χορείαν), il che fa certi che il pezzo fosse cantato in modo dorico. Ora, il dorico era un modo nobile che non era mai stato criticato dal punto di vista etico– musicale. Proprio la coesistenza contestuale delle due tematiche, quella prettamente musicale (la cui realizzazione qui sfugge ad ogni polemica, anzi è data per ottima) e quella parola/musica (che qui è invece fonte di problemi), ci conferma la netta e già antica distinzione56.

|| 52 Una chiara formulazione polemica, che scende al dettaglio tecnico dell’accento di parola (musicale, in greco) e del ritmo, è Dion. Hal. comp. verb. 11 p. 41. 11 ss. Us.–Rad. – V. quanto ho osservato recentemente (Rossi 1997, pp. 763–765, 776 s.) a proposito della intelligibilità del dettato verbale mettendo a confronto la lirica corale (in cui prevaleva l’aspetto spettacolare musicale–orchestico su quello verbale) e i cori del dramma (di cui il pubblico era messo in grado di cogliere appieno il senso delle parole). 53 V., in questa raccolta, Napolitano per cronologia, genere letterario, lingua. 54 Pratin. fr. 708 P. 55 Non si può escludere che la polemica fosse anche metamusicale, che si sarebbe realizzata col mezzo della parodia: ma non sembra questo il caso, a stare al tono del frammento e al senso dell’ultimo verso (v. qui oltre). 56 Che la scarsa attenzione data dagli studi alla distinzione fra le due diverse polemiche derivi dalla coesistenza delle due nel frammento di Pratina? Ma è proprio l’accostamento delle due che ne conferma la differenza: se la musica fosse stata criticabile come lo era il rapporto paro-

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Un’altra preziosa polemica metaletteraria57 è quella di Ferecrate, che in un famoso frammento trasmesso dallo Pseudo–Plutarco58 prende di mira proprio il ditirambo nuovo nominando Melanippide (v. 3), Cinesia (v. 8), Frinide (v. 14) e criticando le loro audaci innovazioni che, a quanto appare, consistevano più che altro in una tecnica troppo audace del vocalizzo59. Plutarco, introducendo il frammento, dice che “prima di Melanippide l’auleta veniva pagato dal poeta, essendo protagonista la poesia ed essendo gli auleti sottoposti ai didascali; ma poi le cose si corruppero”. Anche qui, quindi, strumentalizzazione della parola a favore della musica, come lamentava Pratina. Sembra di capire che, se là era in questione il rapporto parola/strumento, qui lo era la parola in rapporto non solo con lo strumento, ma anche con il canto stesso, ormai monodico e costretto a seguire le audaci evoluzioni melodiche dell’aulo. Dall’orgogliosa rivendicazione di innovazione da parte del ditirambografo Timoteo di Mileto (V–IV sec. a.C.), nella parte finale (la σφραγίς, 202 ss.) del grande frammento dei suoi Persiani60, troviamo di nuovo un’affermazione metaletteraria, questa volta in positivo: il poeta afferma l’eccellenza delle sue innovazioni, ma non minore è, sullo sfondo, la sua polemica contro la polemica misoneista, perché tiene ad affermare (vv. 213 ss.) il suo rispettoso legame con la tradizione e quindi la legittimazione delle sue innovazioni. Ha sempre destato una certa meraviglia il fatto che proprio la σφραγίς si presenta metricamente molto più semplice e lineare della descrizione che precede, tanto da dare la fondata impressione che questo sia l’espediente con cui l’autore la stacca dal resto della composizione. Una proposta recente61 di interpretazione di questo innegabile fatto mi pare tanto solida da poter essere portata a tutte le sue conseguenze: non solo l’autore “sollecita una maggiore attenzione del pubblico nei confronti di ciò che viene detto, oltre che di come viene detto”62 || la/musica, si poteva pensare che i due filoni fossero uno solo, ma non è così, perché per Pratina la musica va bene ma il rapporto con la parola no. 57 Per la possibilità di polemica metamusicale vale quanto detto per Pratina, con l’avvertimento che qui ci troviamo in commedia, il che renderebbe possibile la parodia, se non si trattasse però di trimetri giambici. C’erano parti liriche a cui la parodia era affidata? 58 Pherecr. fr. 155 K.–A. ap. Ps.–Plut. mus. 30, 1141 C. 20 ss. Ziegler; sul framm. Restani 1983. Lascio da parte il problema dell’autenticità, alla quale oggi si tende a credere. 59 Va notato l’uso quasi ossessivo di ϰαμπή, ϰάμπτω, στρέφω: vv. 9, 15, 28, oltre a 23 ἐκτραπήλους μυρμηϰιάς (cf. Aristoph. Thesm. 100) e 27 νιγλάρους, tutti termini riferibili alla tecnica del canto. 60 Timoth. fr. 791 P. 61 Nieddu 1993 (le parole citate sono a p. 528 s.). 62 Il problema della comprensibilità del messaggio verbale, soprattutto nella lirica corale e nel teatro, me lo sono posto in Rossi 1997, spec. pp. 763–765, 776 s.

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(per l’importanza del messaggio metaletterario), ma si tratta anche di una presa di posizione metaletteraria implicita sul rapporto parola/musica, perché la parola non vada annegata nella musica63: sia l’affermazione di rispetto della tradizione musicale sia questa presa di posizione fanno chiaro, mi pare, che le innovazioni di Timoteo erano sicuramente meno violente di quanto tutta la critica moderna (che segue l’antica) ha fatto pensare. È, questo, un altro caso di compresenza delle due diverse polemiche, come si era visto sopra con Pratina. La prima delle due polemiche sopra individuate, quella esclusivamente musicale, fu la più importante64 perché, pur essendo parola e musica così strettamente legate, le testimonianze sull’ethos musicale ignorano la parola e prendono di mira solo il fatto musicale. Questo dato, riscontrabile nelle testimonianze stesse, è confermato dalla polemica cosiddetta formalistica contro l’ethos musicale condotta da Democrito e soprattutto da Epicuro, che negava l’efficacia etica della musica perché tale efficacia risiederebbe solo nella parola (§ 3). Il sostituire polemicamente la valenza etica della musica con quella della parola ci dà la conferma del fatto che le dottrine etico–musicali a cui la corrente formalistica si opponeva davano, nella valutazione etico–musicale, l’assoluta preminenza alla considerazione della musica. Questa precisazione conserva tutto il suo valore anche se si tiene conto del fatto che esisteva una musica solo strumentale, ma questa era più l’eccezione che la regola ed era praticata soprattutto in epoca molto arcaica65. E del resto anche la corrente del filone Democrito – Epicuro dava una funzione alla musica in sé: una funzione esclusivamente edonistica. Il panorama storico che risulta mi sembra abbastanza chiaro. Gli organici strumentali sono sempre stati modesti nell’epoca di cui ci occupiamo (VI–IV sec. a.C.), al punto di essere normalmente ristretti all’accompagnamento di un solista, come si è detto sopra (§ 2). Ora, nella musica corale il solista strumentale aveva poca possibilità di sovrastare la parola da un punto di vista puramente tecnico (abuso del forte), e quindi il vero pericolo da evitare era quello di far cantare a un coro una musica che non fosse eticamente accettabile. Questo spiega ulteriormente l’insistenza su una dottrina (la prima delle due correnti || 63 Musica che in questa sezione finale doveva essere più lineare, in concordanza con la partitura ritmica, che è quanto ci resta: questo rende del tutto verosimile, a differenza di Pratina e di Ferecrate, una esecuzione che mettesse in rilievo anche il fattore metamusicale. 64 Ce lo conferma anche il molto maggior corpus di testimonianze. 65 Ce ne conserva testimonianza soprattutto il De musica dello Pseudo–Plutarco: per una buona sintesi Neubecker 1977, pp. 44–46. Alla musica strumentale erano affidati soprattutto compiti imitativi: sono i primi esempi di ‘musica a programma’ (il νόμος πολυϰέφαλος attribuito a Olimpo, il nomo pitico attribuito a Sakadas etc.).

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distinte sopra) che si preoccupava esclusivamente della musica e della sua valenza etica. Lo sviluppo della seconda polemica, quella contro il predominio della musica sulla parola, nacque dalla preoccupazione che il canto agonale monodico, quello che si diffuse dalla metà del V sec. in poi, fosse dominato da una musica che poteva realmente rendere schiava la parola in quanto puro pretesto per virtuosismi vocali, accompagnati da virtuosismi strumentali.

5. La funzione conativa della musica antica Da quanto ho qui esposto in sintesi è lecito trarre due considerazioni: una precisazione sulla natura della riflessione teorica sulla musica presso i greci e una ipotesi sulla loro stessa prassi musicale. Chi legge i testi teorici di cui ho tracciato sommariamente la storia è colpito da un fatto per noi singolare: il centro dell’interesse è sempre, ed esclusivamente, la reazione dell’ascoltatore, e precisamente la sua reazione psicologica. Ora la musica, essendo un sistema di segni, un universo semiologico, dà origine a un fatto di comunicazione, che amo configurare secondo il ben noto ed utile modello che Jakobson ha tracciato per il fatto linguistico66. Sei sono per lui i fattori e le corrispondenti funzioni di ogni fatto di comunicazione: il mittente (funzione emotiva o espressiva: prima persona), il destinatario (funzione conativa: seconda persona), il contesto (funzione referenziale: terza persona), il messaggio (funzione poetica, centrata sul messaggio in sé), il contatto o canale (funzione fàtica, ovvero di controllo del canale), il codice (funzione metalinguistica). È chiaro che in ogni fatto di comunicazione tutti i fattori e quindi le relative funzioni possono essere compresenti, salva restando la preminenza di una o di alcune sulle altre. Parlo in termini moderni per capire meglio la realtà degli antichi, per selezionare meglio, cioè, i loro poli di attenzione sia nella riflessione teorica sia nella prassi: teoria e prassi vanno distinte, perché non è detto che ci debba essere sempre perfetto accordo fra le due67, ed è tanto più interessante trovarle eventualmente in accordo. Consideriamo due fattori, il mittente e il destinatario, e le loro rispettive funzioni, quella espressiva (‘quali sono i contenuti che il mittente vuole esprimere’, prima persona) e quella conativa (‘quali effetti si vogliono suscitare nel destinatario’, seconda persona). È chiaro che queste due

|| 66 Jakobson 1960, pp. 350–377 (= trad, it., pp. 181–218). 67 Nel senso che la teoria può privilegiare fattori e funzioni diversi da quelli ricostruibili dalla prassi.

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fondamentali funzioni sono sempre compresenti in un atto di comunicazione, ma diverso può essere il loro reciproco rapporto di prevalenza. Ora, quello che colpisce nella riflessione teorica antica sulla musica è l a c o n c e n t r a z i o n e a s s o l u t a s u l l a f u n z i o n e c o n a t i v a , quella che mira a ottenere determinati effetti sul destinatario68. La formula fissa, e unica, è la seguente: ‘questa armonia, questo ritmo, questo tempo, questo strumento hanno questo effetto psicologico sull’ascoltatore’. Una teoria tutta basata sulla ricezione passiva, senza che entri mai in discussione una considerazione espressiva–attiva, che si formulerebbe nella domanda: ‘quali sono i contenuti che si vogliono esprimere?’. L’ipotesi, qui sopra preannunciata (all’inizio di questo paragrafo), sulla prassi musicale non è che una conferma di quanto le fonti ci dicono sulla scarsa complessità della musica antica (§ 1): da quanto si ricava da ogni estetica, musicale e letteraria, antica e moderna, la gamma di reazioni psicologico–contenutistiche è molto minore se ci si limita a considerare reazioni passive collettive, mentre la considerazione espressiva–attiva ha i suoi più ampi confini nella più articolata analisi individuale–autoriale, come si vedrà parlando della musica moderna, che si serve tra l’altro di strumenti il cui raffinamento tecnico è andato di pari passo con la rivoluzione estetica che ha mirato alla funzione espressiva. Lo si vedrà fra poco parlando della teoria moderna degli affetti (§ 6). La musica antica sarebbe stata molto meno semplice se esigenze di espressività musicale avessero promosso un ben ipotizzabile maggior raffinamento tecnologico, per esempio, degli strumenti. Questo non avvenne o avvenne in misura non rilevante 69, e pour cause. Nella verifica storica che stiamo facendo, è bene evitare l’errore di prospettiva prodotto da una visione ‘primitivistica’: è evidente che l’intenzione della ricerca di progresso in questo campo era sì condizionata (e dimensionata) da dati tecnologici oggettivi, ma anche dalle necessità funzionali, dal posto riservato alla musica nel sistema globale della comunicazione (§ 8). Del resto, data la riconosciuta grande influenza psicologica di ogni suono organizzato, l’importanza politica della musica portava ad escludere in quest’arte più ancora che nelle altre l’intervento personale del singolo. Il mit|| 68 La funzione referenziale (terza persona) è reperibile là dove vengono presentate le musiche descrittive, peraltro quasi esclusivamente dell’epoca arcaica (§ 4, fin.). 69 La tradizione ci parla, per es., di continui aggiustamenti del numero delle corde degli strumenti a corda, ma si tratta di ben modesta cosa in confronto di quanto si sarebbe potuto fare se ne fosse sorta l’esigenza. La stessa tendenza a utilizzare un solo strumento per volta è uno dei segni della scarsità di esigenze. Niente di confrontabile alla volontà di affinamento strumentale della musica sei–settecentesca (§ 8).

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tente, l’autore, qui quasi scompariva dietro le leggi del codice, che comportavano finalità eminentemente conative. È appena il caso di accennare che la preminenza di questa funzione fu strettamente legata alla storia della polis70, il che rende questo momento (VII–IV sec.), di assoluta funzionalizzazione etico– sociale, un’esperienza unica. Nell’età ellenistica e romana la dottrina dell’ethos musicale si trascinò come un fossile culturale, staccato dal suo contesto politico, utilizzato tutt’al più a scopo di diagnostica e di terapia psicologiche. Si sviluppò intanto il virtuosismo strumentale e vocale, in epoca ellenistica (§ 3, fin.) e soprattutto a Roma71.

6. Breve parentesi sulla letteratura Un discorso molto simile va fatto anche per la letteratura, specie per quella arcaica e classica. Qui la teoria antica è abbondante, ma solo se ci riferiamo alla teoria dell’oratoria, e cioè alla retorica, che è la vera critica letteraria degli antichi: “La maggior parte della critica letteraria antica è un sottoprodotto della retorica. Di qui il suo occuparsi di letteratura come produttrice di un effetto sul pubblico, e non come l’espressione di un autore”.

Così efficacemente formula Donald A. Russell72, mettendo in rilievo, tra l’altro, un dato di fatto della prassi. Nello studio della musica greca, da me praticato a livello amatoriale durante tutta la mia carriera di studioso, trovo l’incunabolo della mia convinzione che la letteratura, specie dalle origini fino almeno al IV sec. a.C., avesse anch’essa privilegiato la funzione conativa. È così che ho impostato, ultimamente, la mia visione della letteratura greca73, cercando di mettere in rilievo maggiore di quanto si sia normalmente fatto finora l’aspetto conativo. Non che la funzione espressiva potesse mancare del tutto. A chi obiettasse che Saffo, quando dava l’addio a una ragazza del tìaso che andava sposa, doveva sentire realmente i sentimenti di dolore vedovanza nostalgia, bisognerebbe dare ragione. Ma va tenuto conto di due fatti fondamentali: che la vera ragione del suo comporre quei carmi cerimoniali non era la volontà di esprimere il suo sentire, ma quello di celebrare un evento comunita-

|| 70 V. l’utile sintesi di Richter 1974. 71 Wille 1967, nell’indice s.vv. Virtuosen, Virtuosenkult. 72 Russell 1970; v. anche Fuhrmann 1973, s.v. Wirkungsästhetik nell’indice. 73 Rossi 1995.

524 | Sezione 2: Musica rio importante, un fondamentale rito di passaggio nell’ambito del gruppo; e che, in maniera del tutto funzionale, i sentimenti espressi rientravano in un codice psicologico ben strutturato, comune al gruppo, e non individualmente marcato, come è nell’estetica romantica74. Si è spesso dimenticata la funzione celebrativa della letteratura, che nel caso di Saffo, per esempio, si realizzava con l’esaltazione dell’ambiente raffinato, della suppellettile etc., che doveva consolidare la coesione del gruppo e proporla a paradigma all’esterno come anche all’interno del gruppo stesso.

L’attenzione per questo fatto fondamentale, chiaramente formulato in antico sia nella teoria sia in dichiarazioni metapoetiche e soprattutto praticato, non mi sembra molto diffusa. L’estetica della ricezione, orientamento peraltro recente, ha opportunamente richiamato la nostra attenzione sulla presenza di un pubblico antico che era il destinatario delle opere, ma non è stata ancora sufficiente a convincere della prevalente importanza di questa presenza. Formulazioni moderne, per converso, della minor presenza autoriale nella confezione del prodotto letterario e del forte orientamento verso il pubblico dell’opera antica sono recenti75 e non conducono sempre alle conseguenti prese di posizione critica che a me paiono necessarie76. Le opere di letteratura erano pubblicate in occasioni pubbliche, cerimoniali: come portatrici di valori comunitari ampiamente condivisi, privilegiati rispetto al personale e all’idiosincratico, dovevano principalmente convincere del pregio di tali valori, e questo sia all’interno sia all’esterno della comunità stessa. Le occasioni della pubblicazione erano tali da non incoraggiare la confessione intimistica della poetica moderna 77, che del resto non avrebbe interessato il pubblico. In questa sede è opportuno niente più che un accenno, che si può concludere con la considerazione che la letteratura arcaica e classica è per lo più la realizzazione di vere e varie forme spettacolari 78, che sono tra l’altro

|| 74 Rossi 1995, pp. 85 s., 158–163. 75 Sullivan 1994 (che offre un utile panorama dei rapporti fra critica contemporanea e critica antica), spec. pp. 18 (differenza rispetto all’estetica romantica), 20 (most ancient discussions of literature are audience–oriented), ibid. (poetry was seen as a means of producing effects, not expressing the author’s psyche). 76 Oltre a quello che ho già citato, e che citerò, di Russell, si veda Russell 1981, ricco di prospettive molto stimolanti. 77 Non mi soffermo qui sulla persistenza dell’uso di leggere la poesia arcaica con sensibilità moderna. 78 Rossi 1997: ho cercato di ridurre a spettacolo, senza peraltro alcuno sforzo, il legame perenne fra la parola, la musica e – spesso – anche la danza: l’epos, la stessa arte figurativa con il frequente richiamo al movimento delle figure, gli agoni letterario–musicali, il simposio come spettacolo (o passerella) a se stesso, ovviamente il dramma, ma anche l’oratoria. V. il recente

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strettamente legate alla musica e alla danza, per cui la considerazione del destinatario non poteva non avere assoluta preminenza. Questo per quanto riguarda la prassi, ma la letteratura teorica non fa che mettere in rilievo questa realtà della prassi. Tralascio qui la retorica come teoria della letteratura e soprattutto dell’orazione, nonché l’interesse della filosofia stoica per la psicologia. Ma segnalo che perfino l’anonimo del Sublime, un trattato così atipico nel campo della critica letteraria antica 79, mira al sentimento del sublime da un punto di vista retorico come risvegliato nell’ascoltatore, nel pubblico80, mentre quanto all’autore parla di generica disposizione del carattere al sublime81, così come faceva Aristotele quando, nel IV capitolo della Poetica82, contrapponeva la predisposizione del carattere degli autori di poesia seria (epos, tragedia) a quella degli autori della poesia del riso (giambo, commedia). La disposizione ‘etica’ dell’autore, come centro dell’interesse teorico, è comunque ben lontana da un’articolata psicologia del sentimento individuale come materia di espressione: va notato che sia nelle sparse premesse platoniche83 sia nelle formulazioni aristoteliche i caratteri degli autori, e i singoli generi, si attestano su due sole disposizioni, una di alto e una di basso profilo, in modo da formare una semplice opposizione polare. Non sembra una classificazione sufficiente a fondare un prontuario espressivo, soprattutto se la confrontiamo con la molto articolata classificazione psicologica della Retorica aristotelica, tutta orientata, retoricamente, a studiare le reazioni del destinatario. Sempre Aristotele, con la teoria della catarsi, ci dà la conferma del fatto che l’aspetto più rilevante delle opere letterarie era l’effetto sul pubblico: l’ἔλεος e il

|| saggio di Bonanno 1996, che mette in particolare rilievo la parola poetica come creatrice di scena. 79 In realtà, se il Sublime ha degli aspetti atipici, ancora più atipico è il De compositione verborum di Dionigi di Alicarnasso, che è unico come esempio di critica antica integralmente formalistica. Il Sublime, per contrasto, risulta nelle sue premesse retoriche molto più tradizionale di quanto in genere lo si voglia considerare. Ma questo sarebbe più lungo discorso. 80 Fin dall’inizio (Subl. 1. 2) l’intenzione dell’autore è di fornire qualcosa di utile ἀνδράσι πολιτιϰοῖς, finalità tipicamente retorica. In molti passi, fra cui segnalo 7. 2, 10. 1, 14. 2 e 3, 17. 1, 18. 2, 20. 1, 22. 4, 30. 1, 32. 4, 38. 2, 39 e 41 (con riferimenti all’ethos musicale), è esplicitamente presente solo il destinatario, l’ascoltatore, si tratti di oratoria o anche di altri generi letterari. In 8. 1 l’arte oratoria (ἡ ἐν τῷ λέγειν δύναμις) è data come base comune alle fonti del sublime. 81 V. specialmente la famosa definizione in Subl. 9. 2 ὕψος μεγαλοφροσύνης ἀπήχημα. 82 Aristot. a.p. 48b4 ss.: Schütrumpf 1970, pp. 67–80 dedica un intero capitolo al valore di ἦθος nel cap. IV della Poetica aristotelica. 83 Schütrumpf 1970, spec. p. 69 s.

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φόβος, la pietà e il terrore, erano strumenti di terapia psicologica, realizzazioni tipiche di una diffusa e intenzionalmente ricercata funzione conativa. Naturalmente fin dall’epoca ellenistica, e specialmente con la letteratura latina, il progressivo staccarsi della pubblicazione dall’occasione, favorito dalla diffusione del libro, portò a un progressivo ripiegamento individualistico, che mise sempre più in primo piano la presenza della prima persona, della funzione espressiva, e al sempre maggiore protagonismo dell’intervento autoriale84, come si metterà meglio in luce in sede di conclusioni (§ 10). È nella letteratura dell’età ellenistica, quella che usiamo chiamare alessandrina, e specialmente nella letteratura latina che si vedono i prodromi e le prime realizzazioni di una letteratura più vicina a noi, fornita di una funzione espressiva sempre più vicina alla funzione della letteratura moderna.

7. Il Medioevo e la Chiesa Per ritrovare la musica interamente assorbita in un sistema in qualche modo comparabile con quello della polis si deve guardare alla Chiesa85. Se per i greci la musica era un fatto politico, per i cristiani essa era un fatto religioso. Aut sacra sit musica aut non sit86. Non è questo il luogo per precisare quanto abbiano influito sul pensiero cristiano le filosofie dell’epoca romana con le loro tendenze mistiche (neopitagorismo, neoplatonismo etc.)87. La Chiesa fece propri questi slanci mistici e volle che la musica fosse al servizio di Dio, fosse cioè un mezzo di elevazione dei sentimenti dei fedeli88: nacque così la moralitas artis musicae. Questo predominio della Chiesa fu reso possibile, su piano sociologico, dal fatto che per secoli l’unico luogo dove si poteva fare ed ascoltare musica in pubblico era in assoluta preminenza la chiesa, la cattedrale. Alcuni elementi dell’antica dottrina dell’ethos vennero ‘tradotti’ per le nuove esigenze, come per esempio da Sant’Agostino e da Boezio, ma per il rinnovamento delle forme musicali in seno alla Chiesa si dovette aspettare Lutero e la Riforma, che permisero alla musica popolare, formatasi nel corso degli ultimi secoli del medioevo, di entrare nelle chiese89. || 84 È in questo senso che la letteratura latina, quanto alle condizioni della comunicazione e alla produzione della letteratura, è più vicina a noi, più moderna. 85 Per la continuazione della tradizione antica nel medioevo v. Abert 1905. 86 Abert 1968, pp. 92–102, precisam. p. 93 (= Geistlich und Weltlich in der Musik, 1924) 87 Festugière 1954 offre preziosi orientamenti. 88 Abert 1905, spec. p. 224 ss. 89 Abert 1968, pp. 92–119 (= Luther und die Musik, 1924).

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8. La teoria musicale degli affetti nell’estetica sei–settecentesca La vera rivoluzione nella considerazione teorica delle arti, e naturalmente anche della loro produzione, si ha con l’Umanesimo e con il Rinascimento. Assistiamo a una progressiva centralizzazione del mittente, dell’autore, e quindi della funzione espressiva90, di quella che possiamo ora chiamare esplicitamente la f u n z i o n e p s i c o l o g i c a a t t i v a , i n c o n t r a p p o s t o a l l a f u n z i o n e p s i c o l o g i c a p a s s i v a della teoria e della prassi antica: si tratta di quella che è stata chiamata la “dottrina degli affetti” (Affektenlehre)91. Nella scoperta dell’individuo e della centralità della funzione espressiva la musica ha l’eguale forse solo nelle arti figurative e soprattutto nella pittura: la letteratura ha seguito la stessa via, ma ha avuto un percorso più lento, più diseguale, con episodici arresti e conseguenti polemiche92. La musica ha precorso il romanticismo, nella teoria e nella prassi, e del romanticismo è stata la vera arte–guida. La storia della teoria degli affetti è ben nota93, ma vale la pena richiamarne qui i momenti salienti per meglio centrarne le novità. La rivendicazione delle possibilità espressive della monodia in confronto con la polifonia fu teorizzata da Vincenzo Galilei nel 158194, anche se in realtà ci fu in lui molto di gratuitamente polemico, visti i grandi risultati già raggiunti fra Quattrocento e Cinquecento dalla polifonia secolare–mondana dei Paesi Bassi e dell’Inghilterra. Intorno all’anno 1600 con il ‘cantare con affetto’ di Giulio Caccini e la Camerata fiorentina e poco dopo con Claudio Monteverdi la monodia diede l’avvio all’opera lirica, forma totalmente nuova nonostante il dotto richiamo alla tragedia greca95. La strenua difesa della monodia, un eccesso polemico volto solo ad affermare sia pure unilateralmente la preminenza della funzione espressiva, trovò poi un illustre sostenitore ancora in Rousseau96, a metà del sec. XVIII.

|| 90 Sull’espressione in musica in generale Forchert 1988. 91 La letteratura in proposito è ampia; v. da ultimo Braun 1994, con bibliografia recente. 92 Penso al più graduale svilupparsi delle letterature nazionali europee, dovuto al persistere del predominio del latino. Nella letteratura italiana vanno segnalati momenti di stasi come il petrarchismo e, più tardi, la polemica contrapposizione dei classici e dei romantici. 93 Uno scorcio in Fubini 1987, pp. 3–46. 94 Galilei 1581. 95 Una breve sintesi della immediata crisi del primitivo ‘recitar cantando’, proprio in rapporto all’espressività, in Fubini 1987, p. 13 ss. 96 Rousseau 1767 è tra l’altro ricco di notizie sulla prassi esecutiva coeva.

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Ma la maggior spinta a ricercare le possibilità espressive della musica fu data dal continuo p e r f e z i o n a r s i d e g l i s t r u m e n t i soprattutto a corda e a fiato, nel corso del Seicento e del Settecento: basterà ricordare i grandi costruttori italiani di violini, come gli Amati gli Stradivari i Guarneri, per rendersi conto che nulla di simile si era realizzato nel mondo antico (§ 5) e che, se qui si realizzò, fu per rispondere a una funzione nuova della musica, come ci conferma, su piano sia teorico sia pratico, il nascere di una sempre più articolata espressività strumentale nella letteratura per violino (Torelli, Corelli, Tartini, per ricordare solo alcuni grandi nomi). Una storia dell’estetica musicale dovrebbe tener conto qui del progressivo affermarsi della teoria dell’imitazione, che ha a che fare con la ‘pittura musicale’ (Tonmalerei) e con la musica a programma97: basterà ricordare che gli affetti erano considerati fra le cose imitabili e da imitare. Naturalmente è essenziale l’elaborarsi di una teoria psicologica: la funzione ordinatrice che svolsero gli aristotelici e gli stoici (§ 3) fu qui svolta dalla filosofia razionalistica. Les passions de l’âme di Descartes è del 164998, l’Etica di Spinoza del 167799. Descartes fu in contatto e in intensa corrispondenza con Marin Mersenne, che nel 1636 elaborò un quadro teorico di vasto respiro100, considerando le virtù espressive della voce101 (riabilitando la polifonia, in polemica con Vincenzo Galilei), degli strumenti, degli intervalli. La musica dell’età barocca102, in un contesto generale che portò più tardi alla definizione di ‘espressionismo barocco’, portò avanti esperienze che culminarono con le due grandi Passioni di Bach e con la cura per l’espressività del ritmo, dell’ornamentazione, della melodia103. Il teorico di maggior portata di questo periodo è Johann Mattheson (1681– 1764)104. Mattheson cita espressamente Descartes come fonte per la conoscenza degli affetti, dei quali offre un dettagliato elenco105. Perfeziona una vera e propria retorica musicale, con una teoria dello stile elevato, medio e semplice, specie per la musica sacra e per quella teatrale. La musica, sia essa vocale o strumentale, dev’essere “un vero discorso” (eine wirkliche Rede), pur senza paro-

|| 97 Serauky 1929. 98 Descartes 1649. 99 Spinoza 1677. 100 Mersenne 1636. 101 V., già a Roma, Wille 1974 s.v. vox. 102 Dammann, “AfMw” 1954, p. 224.3. 103 Segnalo concetti come Expressivmelodik, Charakterthema (in Mattheson, v. qui oltre). 104 Mattheson 1713 e 1739. 105 Mattheson 1739, pp. 15–19, § 51.

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le106. Fondamentale è la “chiarezza” (Deutlichkeit): ogni melodia deve esprimere un affetto e uno solo107. Interessanti sono le notazioni che fa su alcuni generi musicali, e precisamente su alcune danze108: la ciaccona è più elevata e nobile di una passacaglia; la corrente esprime una tenera speranza; la sarabanda è rigida e seria; e così via. Il compositore deve anche conoscere la disposizione psicologica del suo pubblico109: e proprio questa precisazione rende chiaro che il punto di partenza è sempre l’espressione dell’autore, che tuttavia non può prescindere dalla disponibilità (noi diremmo dall’assuefazione) del suo pubblico, che deve avere un codice in comune con l’autore. E quando leggiamo110 che fra le tonalità “il sol minore è quasi la più bella di tutte, perché non ha solo costumata seriosità (ziemliche Ernsthafftigkeit) e balda gentilezza (muntere Liebligkeit), ma anche grazia e piacevolezza (Anmut und Gefälligkeit)”, non possiamo fare a meno di pensare alla Sinfonia n. 40 di Mozart che sarà composta alcuni decenni più tardi e per cui certo queste definizioni, pur larghe, sarebbero insufficienti 111. Ma una coscienza di relatività e di condizionamento storico è pur sempre presente, in questi teorici. Lo stesso Mattheson112 afferma infatti che sulle caratteristiche delle tonalità “non si può dire niente di definitivo, giacché nessuna tonalità potrà essere in se stessa tanto triste o tanto allegra, da non poterne predicare il contrario”113. C’è poi tutta una letteratura che dà precetti sull’ e s e c u z i ο n e , sul modo di suonare i vari strumenti con attenzione agli affetti della musica eseguita, e qui la centralità della personalità dell’autore viene sempre più in luce. Quantz scrive nel 1752 un Saggio sul modo di suonare il flauto traverso, dove, sulla base della teoria degli affetti, si afferma che “la buona esecuzione deve, insomma, essere espressiva (ausdrückend) e adeguata a ognuno degli affetti che si presentano”114. Qui si vede con particolare chiarezza la Affektenlehre come e r m e n e u t i c a , come arte dell’interpretazione: Quantz dà consigli sul modo di riconoscere l’affetto dominante di un pezzo (tonalità, intervalli, dissonanze,

|| 106 Mattheson 1739, p. 127, § 45. 107 Mattheson 1739, p. 145, § 74. 108 Mattheson 1739, p. 208, § 32. 109 Schäfke 1934, p. 307. 110 Mattheson 1713, p. 237 s. 111 E lo furono per il pubblico delle prime esecuzioni, che la definirono, come si sa, ‘l’orrida’. 112 Mattheson 1739, p. 68. 113 Schäfke 1934, p. 310. 114 Quantz 1752, p. 107.

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didascalie115), e tutto questo allo scopo di realizzare un’esecuzione fedele, e cioè per riconoscere le i n t e n z i o n i dell’autore. Gemella e contemporanea dell’opera di Quantz è quella di Carl Philipp Emanuel Bach116, Saggio sull’autentico modo di suonare il clavicembalo. Quando Bach dice117 che l’esecutore “deve sentire dentro di sé le stesse passioni (dieselben Leidenschaften) che aveva l’autore del pezzo durante la sua composizione”, espone chiaramente il principio di questa estetica, affermando che l’autore si esprime nella musica e che l’esecutore deve fedelmente interpretarne la volontà espressiva. Anche il recitativo, considerato come imitazione del discorso parlato, ha una sua tradizione precettistica, che risale ai primi esperimenti del recitar cantando della Camerata fiorentina e della teoria della monodia, di cui si è parlato sopra, e che ora è presente in vari teorici qui passati in rassegna118.

9. Il primo romanticismo e l’Ottocento storicistico: il rifiuto delle strettoie della teoria degli affetti Pur nella brevità del nostro panorama, abbiamo visto che la rilevanza della funzione espressiva della musica, quella centrata sul mittente o autore, si fa sempre più avanti dal rinascimento in poi, fino ad arrivare a formulazioni teoriche del tutto esplicite che trovano corrispondenza nella prassi. Si vede chiaramente il concorso dei due fattori principali, l’uno in funzione dell’altro: la volontà espressiva e il raffinarsi dei mezzi tecnico–espressivi della musica. Come ho avuto modo di accennare (§ 8, in.), la centralità della musica nel gusto e nel pensiero del romanticismo è preparata dall’estetica musicale del Settecento119 con la sua concezione della musica come espressione fortemente individualizzata dei sentimenti. Dalla constatazione che “la musica esprime qualcosa” si passa all’imperativo “esprimere se stessi nella musica”120: è evidente

|| 115 Le didascalie dinamiche (piano, forte etc.), agogiche (allegro, adagio etc.) e soprattutto quelle espressive (affettuoso etc.) – che si affermano gradualmente soprattutto nel sec. XVIII – sono un aiuto a indirizzare proprio l’ermeneutica del pezzo. 116 Bach, I 1753, II 1762. 117 Bach 1753, p. 122; sulle didascalie e sulla loro funzione ermeneutica ibid., p. 124. 118 Heinichen, Mattheson, Marpurg, Scheibe etc.: v. Neumann 1962; interessante il rapporto musica–retorica, su cui molto si discute nel sec. XVIII (Schäfke 1929, p. 304). 119 Fubini 1964. 120 Secondo Eggebrecht (1955 = 1987) è proprio questo imperativo, che parte dal sentimento dell’individuo creatore, che stacca lo Sturm und Drang musicale (da lui datato fra il 1740 e il 1780) da tutto quanto lo precede (v. spec, p. 79 ss.): sarebbe essenziale la differenza fra espri-

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come sia il punto di partenza sia il punto di arrivo di questo processo siano quanto mai lontani dalla psicologia passiva del mondo antico. Ma certi aspetti razionalisticamente e astrattamente irrigiditi della teoria degli affetti portarono il romanticismo a rifiutarla, come contraria al senso storico che si era maturato. Cosa diversa fu l’affermarsi di una simbologia dei suoni, come quella che ci presenta per es. Mozart nel Flauto magico: mi bemolle maggiore è l’accordo mistico a fondamento dell’opera, fa maggiore è la tonalità dei sacerdoti, do minore quella delle forze avverse, sol maggiore quella delle scene e dei personaggi sereni121. Ma si tratta di scelte allegoriche precise, che si realizzano per lo più in una singola composizione. Il rifiuto della teoria degli affetti dipese dal fatto che per i romantici la musica fu sentita come arte troppo universale e indeterminata per poter essere ridotta a schemi, a una rigida classificazione retorica: basta leggere le opere di E.T.A. Hoffmann, Wackenroder, Tieck, Schumann. L’affermazione teorico–filosofica è di Schopenhauer122: la musica, che è regina di tutte le arti, non rappresenta l’affetto concreto, bensì “l’affetto in sé” (das Ansich des Affekts), e quindi non una gioia, bensì la gioia. Della teoria degli affetti restò qualche attardato rappresentante, come Schubart123, del quale a Vienna uscirono postume le Idee su un’estetica della musica. La sua caratterizzazione delle tonalità è molto minuta124. E c’è stata in seguito, nel corso dell’Ottocento fino quasi ai giorni nostri, tutta una letteratura che ha continuato stancamente una tematica di questo tipo, non fornendo alcun interesse storico e scientifico sia per la mancanza di senso storico sia per l’improvvisazione delle basi scientifiche. Senza dubbio di grande importanza è stata l’opera di Helmholtz (1862)125, la Dottrina delle sensazioni sonore, che affermò energicamente che scale musicali e

|| mere “oggettivamente” gli affetti dall’esprimere “soggettivamente” gli affetti. La precisazione della svolta, inquadrata in una visione dello sviluppo moderno della prassi e della teoria musicale, si deve sottoscrivere (v. la bibliografia storica a p. 81, n. 24, salvo poi a trovare precorrimenti ed echi successive nei singoli). Ma la svolta più rilevante è quella che si verifica fra Cinquecento e Seicento (qui sopra, § 8). 121 Abert 1968, pp. 173–231, precisam. p. 206 (Wort und Ton in der Musik des 18. Jahrhunderts, 1923): Beethoven ammirava tutto questo e anche in lui troviamo lo stesso procedimento. 122 Schopenhauer 1819–44. 123 Schubart 1806. 124 Il do maggiore esprimerebbe innocenza, semplicità, ingenuità: il la minore femminilità e mollezza; etc. Schumann, Ges. Schr. I, p. 180 lo criticò a fondo. 125 Helmholtz 1862; dette ragione a Hanslick (6a ediz., p. 413 s.), sul quale vedi qui oltre: secondo lui la musica non entra in rapporto con determinati Gefühle, perché non ne ha i mezzi, bensì con più vaghe Gemütsstimmungen.

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armonie sono prodotto artificiale e convenzionale e non sono affatto determinate dalla natura dell’orecchio umano. Ma il colpo più duro contro la teoria degli affetti, ed anche alla simbologia musicale, fu dato da Eduard Hanslick126, musicologo e critico musicale nato a Praga e attivo a Vienna, che nel 1854 col suo famoso saggio Sul bello musicale sostenne una teoria formalistica, per cui “la bellezza di un pezzo di musica è specificamente musicale (spezifisch musikalisch, sottolineato dall’A.), e cioè immanente ai nessi sonori, senza rapporto con un mondo di pensieri estraneo e al di fuori della musica”127. Polemizzò vivacemente contro quei critici che chiamò ‘visionari’ (Schwärmer), che hanno la pretesa di imporre le loro interpretazioni, mentre non fanno altro che illustrare “i loro sogni d’oppio sonori” (ihre klingenden Opiumträume)128. Riconoscere la forma musicale è per lui compito supremo del critico e la polemica è rivolta anche contro quei musicisti che non realizzavano nessuna forma, come secondo lui Richard Wagner129, che presenterebbe “la mancanza di forma elevata a principio” (die zum Princip erhobene Formlosigkeit), “l’oppio cantato e strimpellato” (den gesungenen und gegeigten Opiumrauch), per il cui culto sarebbe stato aperto a Bayreuth un tempio apposito. Il libro di Hanslick è una lettura davvero piacevole, per la chiarezza dell’esposizione e per la vivacità della polemica. Vi si trovano delle affermazioni interessanti, come quella del legame storico fra fatti musicali e affetti, che cambia col variare delle esperienze musicali, il che ha a che fare con l’assuefazione di cui si parlava sopra (§ 1) e che dà spessore storico a un atteggiamento che alla fin fine non è astrattamente formalistico ma si risolve, opportunamente, in una ‘storia delle forme’. C’è in Hanslick una formulazione formidabile, quella secondo cui nessuna arte “usura (verbraucht)” tante forme come la musica130. Se gli perdoniamo la confusione fra l’antica teoria dell’ethos e la moderna teoria degli affetti, insieme condannate in omaggio alla sua visione formalistica, sarà divertente leggere l’elogio funebre dell’estetica musicale antica131: Se per spingere il soldato a combattere con coraggio il nemico c’era bisogno semplicemente di qualche suono frigio e se la fedeltà delle donne lasciate a casa sole era assicurata da canti dorici, la perdita della musica greca potrà essere pianta da generali e da mariti (von Feldherren und Ehegatten): il musicologo e il compositore non la rimpiangeranno.

|| 126 Hanslick 1854. Su di lui Dahlhaus 1988. 127 Hanslick 1966, p. VI (Vorwort). 128 Hanslick 1966, p. IV s. (Vorwort). 129 Hanslick 1966, p. VII (Vorwort). 130 Hanslick 1966, p. 74 (cap. III). 131 Hanslick 1966, p. 131 (cap. V).

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10. I risultati di una comparazione È strano che una così chiara contrapposizione di posizioni teoriche, e di rispettive prassi, sia stata così poco messa in rilievo e che alle volte sia stata addirittura obliterata dalla ricerca storica moderna. Le teorie e la prassi della musica hanno sì in comune il riconoscimento della fortissima influenza psicagogica della musica, ma abbiamo evidenziato il diverso accento posto sui due versanti del d e s t i n a t a r i o e del m i t t e n t e . La teoria musicale antica, orientata verso il destinatario e verso la ricezione (passiva) degli affetti, partiva da un’esperienza disciplinata entro precisi limiti per ragioni politico–sociali: era u n p r o n t u a r i o p r a t i c o , d i a g n o s t i c o , t e r a p e u t i c o . La moderna teoria degli affetti era invece orientata verso il mittente, l’autore, privilegiava l’espressione (attiva) degli affetti e partiva da un’esperienza musicale in continua espansione tecnica, espansione voluta e cercata per estendere sempre di più la gamma espressiva: era, dunque, u n p r o n t u a r i o e s p r e s s i v o . Analogo è il percorso dei rispettivi tipi di comunicazione letteraria, legati a situazioni esterne della comunicazione profondamente diverse fra loro: la diffusione della scrittura e del libro, l’invenzione della stampa, l’olio di infinite lucerne hanno eliminato la più gran parte delle occasioni cerimoniali della pubblicazione e hanno progressivamente favorito l’introspezione individuale e il progressivo emergere della funzione espressiva. Sempre comunque legata a una tradizione che crea gli spazi della connotazione con la distanza dei testi che si trovano in cortocircuito fra loro, la letteratura si è fatta lentamente più libera, certo senza liberarsi del tutto da una sua retorica, ma creandosene di volta in volta di nuove. È una storia lunga, che parte dall’ellenismo e soprattutto dalla letteratura latina (penso in specie all’elegia) e arriva finalmente all’estetica romantica, nella quale ancora ci troviamo immersi132: le sempre più articolate esigenze della funzione espressiva rompono i confini delle forme e le rinnovano continuamente, dalla lingua alle strutture letterarie. Potremmo rincarare sul bell’aforisma di Hanslick citato sopra (§ 9, fin.), ampliandone la portata133: ‘niente si usura come tutte le forme (letterarie, musicali, figurative)’. È l’individuo a innovare, restando però almeno con un piede fermamente posato nell’a-

|| 132 Segnalo una splendida formulazione di Russell 1964, p. XLVIII (a proposito dell’apprezzamento di noi moderni per il Sublime, su cui v. supra § 6, fin.): our long–ingrained and often unthinking romanticism. 133 Privandolo però della sua efficace specificità musicale, che resta valida: la musica è stata ed è condizionata da un modo di pubblicazione che era e resta aurale ed è quindi più esposta all’usura delle forme.

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rea di un codice condiviso: è la dialettica fra langue e parole, fortemente condizionata dal rapporto con l’ambiente. Per quanto riguarda la musica, la nutrita corrente di studi sulla psicologia della percezione134 ha portato e continuerà a portare l’attenzione sulle grandi possibilità di suggestione che la musica ha come prodotto di consumo parallelo agli altri consumi e come potente alleata per promuoverli: se ne serve ampiamente la pubblicità commerciale, come avviene anche per la psicologia del colore. La nostra recente cultura della comunicazione, con i potenti e invadenti mezzi che ha a disposizione, potrà – oggi sì – riportarci a situazioni che siano, da un puro punto di vista tecnico, simili a quelle del mondo greco, con un riemergere in forza della funzione conativa, veicolata da mezzi ben più influenti di allora e soprattutto con l’invenzione di nuovi generi della comunicazione. Analizzare questi agenti nei loro rapporti reciproci è oggi forse prematuro o forse solo per me troppo difficile. Ma la funzione politica della musica in senso globale, così come si era realizzata nella polis greca, è stata un’esperienza unica, non ripetuta e presumibilmente non ripetibile, per la ridotta dimensione e la compattezza della comunità politico–sociale e per il totalizzante impegno etico– ideologico che la caratterizzavano. Quanto alla nostra odierna propaganda politica, c’è certo da augurarsi che la musica non ne divenga perverso veicolo, come lo è stata nei recenti totalitarismi del secolo, che hanno avuto i loro anapesti di marcia a sostegno delle varie fedi professate, ma per fortuna non mi risulta che quegli stessi totalitarismi abbiano avuto il tempo e il modo di compromettersi con una compiuta teoria che ne disciplinasse l’uso135. Dopo tanti decenni di linguaggio cinematografico legato alla musica (dall’avvento del sonoro, e anche prima, per l’accompagnamento musicale del muto) non si può tacere del rapporto fra immagine e musica. Importante è il concetto di ‘analogia musicale’ e quel complesso orizzonte di attesa, che questa volta è del produttore come guida alle diversificate categorie di destinatari 136.

Bibliografia H. Abert, Ein neuer musikalischer Papyrusfund, “Zeitschr. d. Internat. Musikges.” 8, 1906, pp. 79–83

|| 134 Ho citato in apertura Aiello 1994. 135 Il realismo socialista d’oltre cortina è stato quello che più ha influito, anche nel campo della musica, su un’arte di regime. 136 Sulla ‘analogia musicale’ v. Boschi 1998, spec. p. 83 ss.; sulla produzione e la ricezione v. Chion 1997 (1990). Devo queste preziose indicazioni a Gabriele Pedullà.

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La musica greca In età arcaica La musica accompagnò in Grecia i testi letterari fin dagli inizi dell’attività letteraria per noi rintracciabile (VIII secolo: introduzione della scrittura, che è posteriore all’uso dei cantari epici orali) e continuò a essere sempre presente fino al V–IV secolo a.C.: se ne deve escludere solo il dialogo del dramma (tragedia e commedia) dalla fine del VI secolo in poi. Questo dato di fatto risulta comprensibile solo se si pensa alle condizioni della comunicazione, che si effettuava oralmente e visivamente nell’ambito di esecuzioni pubbliche o ristrette, ma sempre a lor modo rituali: l’opera letteraria si giovava però della musica in modo assai differenziato, come si vedrà. Non è il caso di soffermarsi qui su aspetti tecnici: si cercherà di dare un’idea di quello che era la musica greca, premettendo che era molto diversa dalla nostra, anche se è ad essa che si risale per comprendere il cammino percorso nel Medioevo. Non mancano peraltro anche oggi culture musicali vive che sono molto lontane dalla nostra esperienza (India, Cina ecc.). Basterà dire che gli intervalli e le gerarchie della moderna scala temperata (maggiore e minore) erano del tutto diversi e di tipologie molto più varie; che quello che oggi si chiama armonia non esisteva (c’era solo l’unisono); che la varietà e l’abbondanza di strumenti nella moderna orchestra non esistevano, visto che i pochi strumenti praticati suonavano per lo più in assolo; che la musica strumentale, viva nel periodo arcaico, cedette presto il sopravvento alla musica vocale. Gli strumenti erano pochi, e rispondevano a due tipologie. Gli strumenti a corda erano le epiche phórminx e cetra (kithára), poi la lira (lyra) e il bárbiton (o –os) dei poeti melici. Lo strumento a fiato più comune era l’aulo (aulós). Alcuni strumenti a percussione (tamburini, cimbali, castagnette) erano propri delle celebrazioni dionisiache e coribantiche. Ogni tipo di musica era importante per la pratica religiosa. La documentazione teorica comincia molto tardi (soprattutto con Aristosseno di Taranto, alla fine del IV secolo a.C.) e la prassi ci è nota attraverso notazioni che cominciano solo, con solida (perché databile) documentazione epigrafica, nel II secolo a.C. Per le musiche trasmesse da papiri e da manoscritti || [Schede pubblicate in L. E. Rossi – R. Nicolai, Storia e testi della letteratura greca, Firenze, Le Monnier, vol. 1, 2002, pp. 323–324, vol. 2A, 2003, pp. 611–612, vol. 3A, 2003, pp. 116–117]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-036

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medievali la cronologia è quanto mai incerta (è verosimile pensare che fino al IV secolo a.C. non si sentisse il bisogno di una notazione). Di qui la grande difficoltà che abbiamo a ricostruire, sia pure in maniera congetturale, la musica che accompagnava le grandi composizioni dei poeti lirici e dei tragici, lontani alcuni secoli dalle testimonianze che abbiamo. Di quella musica ci resta soltanto quella che si può chiamare la partitura ritmica, ricavata dai testi, che ci conservano sequenze di lunghe e di brevi che dobbiamo di volta in volta interpretare ritmicamente. Ma da un certo punto di vista è quasi un bene che di quella musica non ci sia rimasta una registrazione dal vivo: essa sembrerebbe troppo semplice, oltre che incomprensibile, alle nostre orecchie, dal momento che in campo musicale è fondamentale l’assuefazione. D’altra parte a questa musica, che a noi sembrerebbe così banale e futile, i Greci erano molto sensibili: a parte l’assuefazione, noi siamo ormai bombardati da rumori e anche da tanta e diversa musica, mentre la loro nasceva esile, ma da un silenzio per noi difficilmente immaginabile, così da spiegare l’enorme influenza emotiva che provocava. I pubblici ne erano emotivamente così condizionati, nel bene e nel male, che si creò ben presto (almeno con Pitagora nel VI secolo a.C., e poi con Damone, maestro e consigliere di Pericle nel V) un variegato complesso di norme che va tradizionalmente sotto il nome di ‘ethos musicale’. La musica era uno dei fattori della stabilità politica e quindi era molto controllata: l’ethos orgiastico era considerato socialmente pericoloso, mentre quello calmante era socialmente utile e ammesso. Va anche aggiunto un fattore che ha corrispondenze anche nella cultura di oggi: i cosiddetti ‘canti di lavoro’, che accompagnavano l’attività fisica dei lavoratori (i rematori, per esempio). La partitura ritmica ci dà un’idea approssimativa della danza, per la quale abbiamo anche tante testimonianze specie nelle rappresentazioni vascolari. Ma l’idea che possiamo farcene è assolutamente vaga, e questo è un vero peccato, perché ci nega del tutto un aspetto che per i Greci, fin dall’età arcaica, era fondamentale, e cioè l’aspetto spettacolare. Le più antiche descrizioni di danza sono quelle che troviamo nello scudo di Achille (Iliade 18) e negli intrattenimenti dei Feaci (Odissea 8), del tutto insufficienti a orientarci. Per la comunicazione letteraria l’unione di parola e musica (con in molti casi anche la danza) non è sempre stata a vantaggio della parola, e qui bisogna distinguere i diversi modi di realizzazione della musica (monodica o corale, quest’ultima con coro) e i diversi modi di resa, che sono in sostanza due: il ‘recitativo’ musicale (παρακαταλογή) e il canto spiegato: una differenza che si può approssimativamente attualizzare con la sequenza ‘recitativo’ più aria dell’opera lirica. Il recitativo (sempre monodico) era il modo di resa, accompagnato dallo strumento a corda

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o a fiato, dell’epos arcaico, dell’elegia e del giambo e, più tardi, dei cosiddetti ‘versi lunghi’ del dramma. Il canto spiegato era proprio della lirica monodica, e in tutti questi casi si può ben credere che le parole fossero chiaramente percepite, avendo la musica funzione, per così dire, di rinforzo della parola. Le cose dovevano complicarsi quando il canto spiegato era eseguito da un coro, per di più da un coro di cinquanta componenti, e nelle libere aree dei santuari totalmente prive di acustica, come nel caso, per esempio, di un epinicio di Pindaro (o di un canto processionale sacro). C’è da credere che all’ampio e variegato pubblico delle feste non arrivassero tutte le parole del testo, che per di più è complesso anche per noi che lo leggiamo. La realtà dev’essere stata la seguente: al pubblico era destinato lo spettacolo, che comprendeva parola musicata e danza; il messaggio verbale era destinato soprattutto al ricco committente, che nella sua sede faceva rieseguire l’ode in forma o monodica o addirittura recitata. Abbiamo qui un caso interessante di doppio destinatario, ben diverso dal caso dei cori del dramma, dei quali si parlerà in seguito: per il loro coinvolgimento etico e drammatico essi dovevano essere ben capiti dal pubblico ateniese del teatro di Dioniso, prova ne sia la loro maggior linearità stilistica unita alla presenza di un’acustica, quella dei teatri, che risultava essere una naturale alleata del messaggio verbale (e, in più, i cori erano solo di 12 o 15 coreuti in tragedia e di 24 in commedia).

In età classica La musica continua a essere anche in epoca tardoarcaica e classica non solo accompagnamento costante della poesia, ma anche strumento di potere per la sua riconosciuta forte influenza psicagogica sugli individui e sulle collettività. In quest’epoca si elabora quella che si è chiamata la teoria etica della musica, e cioè la codificazione e la valutazione psicologica positiva o negativa dei vari elementi costitutivi di ogni composizione (tipi di melodia, di ritmo, tempo veloce o lento).

Pitagora e Damone Quanto alle figure storiche che emergono dal variegato magma che è il terreno di coltura della teoria etica della musica, se n’è parlato poco sopra: i principali punti di riferimento sono Pitagora e Damone. I vari tipi di musica nascevano dall’uso che si faceva delle harmonìai, diverse fra loro per la diversa posizione degli intervalli di mezzo tono e di un quarto di tono (erano solo approssimati-

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vamente comparabili con le moderne scale maggiore e minore, e per di più erano in quantità molto maggiore di due). Parlare in musica di rapporti numerici è del tutto naturale, perché il suono prodotto da una corda si realizza all’ottava superiore se la corda viene dimezzata (e così i vari intervalli possono essere espressi in forma numerica), ed era quindi del tutto lecito che Pitagora estendesse la sua teoria numerica anche alla teoria musicale. La sua teoria etico– musicale si fondava su una corrispondenza fra numero musicale – perfettamente riscontrabile nella realtà dei rapporti numerici delle varie lunghezze della corda – e numeri dell’anima (legati a rapporti astronomici), questi ultimi però frutto di speculazione astratta: il legame fra musica e psicologia risultava quindi preordinato e fisso, slegato da ogni verifica sperimentale. Il tardo Porfirio, nel suo commento agli Harmonikà di Claudio Tolemeo (26,6 ss., 27,17 ss. Düring), contrappone proprio il logos (rapporto numerico) pitagorico alla dottrina dell’aisthesis (sensazione, appercezione). All’aisthesis, e cioè alla verifica sperimentale, si rifaceva invece la teoria rappresentata da Damone, che poi fu quella che ebbe vera fortuna nei secoli successivi e che arrivò, attraverso Platone e Aristotele, alle più tarde formulazioni per esempio di Sant’Agostino (IV secolo d.C.). Il fatto che l’una o l’altra harmonìa avesse sull’anima effetti di varia natura (positivi o negativi, secondo esigenze etiche e/o terapeutiche) derivava da una opportuna sperimentazione, che studiava le varie reazioni. Capiremmo più in dettaglio come si configuravano le due dottrine se possedessimo quello che un certo Didimo il Musico, alla metà del I secolo d.C., aveva scritto in un trattato intitolato Sulla differenza fra la musica pitagorica e quella aristossenica. Aristosseno di Taranto, di poco più giovane di Aristotele e suo seguace, aderiva alla dottrina damoniana dell’aisthesis: fu soprannominato «il Musico» per eccellenza e fu il sistematore della teoria musicale per quanto riguarda sia la produzione (e cioè la tecnica) sia la ricezione (la teoria etica). La sua influenza sugli scritti teorici posteriori fu quasi totale. Il fatto che fosse in rapporto con il pitagorismo di Taranto rende ancor più significativa la sua scelta dell’etica dell’aisthesis.

La poesia simposiale Ora, la domanda da farsi è: dove si sperimentavano le diverse reazioni delle musiche eticamente proscritte, visto che non c’era altro modo di accertarsi dei loro effetti? Un capitolo da esplorare è naturalmente quello della medicina, in cui operava una concezione omeopatica simile alla catarsi aristotelica. Ma un campo che ci offre sufficiente documentazione è quello della poesia simposiale,

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che nei suoi carmi metasimposiali (quelli che descrivono il simposio) ci offre vari esempi di quello che è stato chiamato antisimposio, e cioè simposio non ossequiente alle regole del simposio ritualmente ben costumato: ne abbiamo esempi in carmi metasimposiali, per esempio, di Alceo e di Anacreonte, nei quali appaiono descrizioni di simposi che non rispondono al modello ideale di costumatezza, e la musica deve aver avuto la sua parte. La cosa non deve far meraviglia, vista l’estrazione aristocratica del simposio arcaico. Le società aristocratiche, i cui membri si riunivano per di più in numero limitato di componenti, potevano benissimo trasgredire episodicamente fra loro leggi che regolavano il canto (la musica), l’eros e le varie altre attività d’intrattenimento che allietavano i simposiasti. Quando poi il simposio si laicizzò, per così dire, e diventò costume generalizzato nella polis (si veda il finale delle Vespe di Aristofane), lo stesso originario severo galateo simposiale si allentò. Ma il primo terreno di coltura dell’antisimposio è senz’altro da vedere nelle episodiche trasgressioni dell’aristocrazia. Per quanto riguarda Atene, che è l’ambiente a noi più noto, la laicizzazione del simposio da pratica elitaria della hetairìa a costume diffuso ci è testimoniata anche dal costituirsi nel V secolo di antologie–prontuario atte a facilitare il canto (e il riuso): si tratta del corpus Theognideum e dei Carmina convivalia, raccolte destinate a fornire a simposiasti ‘borghesi’ carmi e modelli di carmi da cantare, anche se molti sono di ambiente e di ispirazione aristocratica. Il riuso priva ora i canti della loro funzione originaria: frequente diventa il riuso di tutta la lirica simposiale arcaica (Alceo, Anacreonte ecc.) e si afferma l’uso di cantare perfino rheseis tragiche, come ci testimonia la commedia. Naturalmente canto e danza furono parte integrante degli spettacoli drammatici offerti, sotto la tutela della polis di Atene, nel teatro di Dioniso: per un’analisi dettagliata di quanto possiamo ricostruire si rimanda alla trattazione dei tre grandi tragediografi e di Aristofane. Per la musica, c’è da tener presente la costruzione da parte di Pericle (dopo la metà del V secolo) dell’Odeion, una struttura architettonica di cui restano tracce vicino al teatro di Dioniso sotto l’Acropoli: era il luogo destinato a esecuzioni musicali non legate alle rappresentazioni drammatiche, dove nel corso dei decenni il gusto musicale dei cittadini poté evolversi da forme più severe a forme più libere, come quelle del ditirambo nuovo, tanto da far parlare Platone (Leggi 701a) di una θεατροκρατíα τις πονηρά («corrotto dominio della spettacolarità»), e cioè di una depravazione del gusto dei pubblici, ben comprensibilmente censurata da un nostalgico reazionario come lui. Immaginarsi una realtà musicale che compattamente passò da una maggior severità ossequiente a strette norme etiche a forme più libere è, come sempre in

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fatto di storia, una totale irrealtà: l’elaborazione di realizzazioni musicali sempre più consone al mutare delle regole etiche e dei gusti del pubblico fu graduale e bisogna far risalire l’inizio di questo itinerario a età molto antica.

In età ellenistica La musica in età ellenistica fece qualche progresso tecnico (strumenti, uso di musica d’insieme e non più soltanto di strumento solista), ma perdette la sua centralità viva nel quadro generale non tanto dell’educazione quanto piuttosto della psicologia collettiva, la quale era riflessa dalla dottrina dell’ethos musicale. In più, ci viene offerta una descrizione tecnica e una riflessione teorica che guardavano principalmente alla musica dell’epoca classica: ne venne un atteggiamento conservatore che tendeva a condannare le novità e a richiamare i fasti della musica ‘antica’ con una nostalgia fuori tempo. Aristosseno di Taranto, contemporaneo un po’ più giovane di Aristotele, fu il grande sistematore della cultura musicale greca, tanto che fu soprannominato in seguito ‘il musico’ per antonomasia: tutti i teorici che seguirono presero da lui, anche indirettamente, compresi i Romani (per esempio Agostino, Marziano Capella, Boezio, fra IV e VI secolo d.C.). Il suo arcaizzare ci è prezioso perché ci trasmette nelle sue opere teoriche quanto non era più del tutto attuale, e mette a confronto la prassi, considerata ‘decaduta’, del tempo suo.

Rapporto della musica con i testi letterari Quello che in epoca ellenistica in effetti cambiò, e cambiò in maniera radicale e definitiva, fu il rapporto della musica con i testi letterari. Lo stretto legame che esisteva fin da età arcaica si allentò nel corso del IV secolo a.C. per poi cessare quasi del tutto. Già nella commedia menandrea, sulla quale siamo più informati, le parti corali sono rappresentate nella tradizione manoscritta dalla sigla χοροῦ (scil. μέλος), e in realtà non sappiamo se si trattasse di testi musicati (comunque non tramandati) o, più probabilmente, di intermezzi strumentali: tale situazione già si annunciava al principio del IV secolo nelle due ultime commedie di Aristofane (Le donne all’assemblea e il Pluto), al confine con la commedia di mezzo. Lo stesso è da credere che avvenisse per la stanca sopravvivenza della tragedia (le parti corali erano usualmente recitate? O venivano soppresse?). Uno stretto rapporto parola/musica si conservò naturalmente nelle forme della musica cultuale e del canto popolare e nei canti di lavoro, dei quali ultimi abbiamo testimonianze dalla letteratura dotta (per esempio in Teocrito) e

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scarsi testi papiracei più tardi. Può sembrare paradossale che i primi resti della notazione musicale greca appartengano tutti a un’epoca in cui la musica aveva perso molte delle sue funzioni, nella migliore delle ipotesi di epoca ellenistica (qualche iscrizione, qualche papiro, qualche manoscritto medievale, e questi ultimi spesso sotto il sospetto di falso): ma tale fatto si spiega con la necessità di fermare su materiale scrittorio quello che prima vigeva nella pratica delle esecuzioni come parte viva e integrante e che ormai era diventato solo episodico. L’ipotesi della mancanza di un sistema grafico prima dell’età ellenistica ha giustamente raccolto sempre maggiori consensi fra i filologi e gli storici moderni, e va di pari passo con l’assenza di una disposizione tipografica della colometria e della sticometria dei testi poetici fino al IV secolo a.C. (si veda qui oltre): quello che vive nella prassi quotidiana, e che è quindi frutto di una competenza viva, non ha bisogno di registrazioni scrittorie. E farsi un’idea della musica dell’epoca arcaica e classica da testimonianze lontane tre o quattro secoli è impresa disperata, alla quale è bene rinunciare in partenza.

La scomparsa della lirica corale Il decadere della relazione di complementarità parola/musica, che aveva segnato tutta la letteratura per più di quattro secoli, è da mettere in rapporto con la progressiva eclissi della grande lirica, soprattutto corale, e della complessa metrica in cui era composta. Nell’epoca ellenistica sopravvissero solo le forme più semplici, come il distico elegiaco, il giambo, le strofi eoliche e alcuni versi usati stichicamente (asclepiadei, falecei). La scomparsa della grande lirica corale fu totale, perché man mano venivano a mancare le solenni occasioni in cui la si eseguiva e così si venne a perdere la competenza sia degli autori sia del pubblico a cui era originariamente destinata. Non si spiegherebbe altrimenti il bisogno che la filologia alessandrina sentì di restaurare nella impaginazione la colometria e la sticometria di quella lirica, restauro che viene attribuito ad Aristofane di Bisanzio (II secolo a.C.) e che ci viene testimoniato, con maggiori o minori incoerenze, dalla tradizione papiracea, punto di partenza per la tradizione manoscritta dei codici medievali. La musica continuò a essere presente, per esempio, nelle grandi feste promosse dai sovrani greci d’Egitto (di una grande festa in onore di Adone ad Alessandria ci dà notizia Teocrito nell’idillio 15, Le Siracusane). Quanto ricaviamo dalle fonti è una grande innovazione, e cioè l’uso di complessi strumentali, che possono aver raggiunto le dimensioni di vere e proprie orchestre. L’aumento del volume sonoro andò di pari passo con una diminuita sensibilità

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al fatto musicale in sé, così forte in eta arcaica e classica da rispondere alla sollecitazione della tenue sonorità dello strumento solista (a corda, come la cetra o la lira, e a fiato, come l’aulo). Guadagnarono in diffusione strumenti più rumorosi, come le trombe. Quanto alla melodia, gli antichi tetracordi, che accoppiati corrispondevano approssimativamente a quello che nella musica moderna sono le scale, rimasero in uso e si trasmisero alla musica romana e medievale con alcuni mutamenti. L’antica dottrina etico–musicale si trascinò stancamente nella trattatistica, ma come un reperto archeologico conservato con rispetto in omaggio a una tradizione ormai spenta.

Dalla Grecia a Roma La cultura greca passò a Roma a cominciare dal III secolo a.C., ma porto con sé non molto della grande metrica e musica greche. Ennio, con l’adozione dell’esametro, lo sostituì al saturnio. I poetae novi e Catullo ripresero solo forme metriche greche assai semplici (prima fra tutte il distico elegiaco). Se si vuole una rinascita più ampia della metrica greca, in un sistema che non ha rivali nel mondo greco dell’epoca, si deve guardare a Orazio: ma l’idea che le sue odi fossero originariamente destinate al canto, così come lo era la lirica monodica greca nell’ambito del simposio, va ormai definitivamente scartata, vista la mancanza di una istituzione come il simposio greco, il che non ne escludeva qualche occasionale messa in musica, testimoniataci a cominciare dall’alto Medioevo fino alla musica moderna. L’unica ode di Orazio realmente cantata da un coro di fanciulli e di fanciulle fu il carmen saeculare nel 17 a.C. composto in onore di Augusto per i Ludi saeculares da lui stesso rinnovati: ma proviamo a immaginare un greco anche solo della tarda eta classica di fronte a un’ode corale composta in strofe saffica!

Prefazione Ogni nuovo ritrovamento di testimonianze sulla musica greca in quanto fenomeno puramente musicale è da salutare sempre con grande interesse, e in questi ultimi tempi il nostro pur esiguo patrimonio si è notevolmente arricchito. Ma è bene non farsi illusioni, e questo per più di una ragione. La prima di tutte è umilmente c r o n o l o g i c a : una esposizione sufficientemente estesa della teoria musicale ci è nota attraverso l’opera, in parte conservata, di Aristosseno di Taranto, che è sì un nostalgico della musica di un tempo, ma dipende dalla realtà della seconda metà del IV sec. a. C., quanto mai lontana da quell’età di cui vorremmo sapere di più, e cioè dal periodo VII–V sec. a. C., fino agli inizi del IV. Poi c’è, per noi, la difficoltà del c o d i c e di quel linguaggio musicale, che non tanto è solo parzialmente risostruibile, ma piuttosto, anche se ricostruibile in toto, risulterebbe estraneo a un orecchio moderno. Hermann Abert scrisse un secolo fa che la musica greca doveva essere molto semplice, se confrontata con la moderna, e io aggiungerei una considerazione che ha del paradosso, ed è proprio per questo che mi pare opportuno esporla, allo scopo di rendere il più chiaramente e ‘scandalosamente’ possibile quella che a me sembra la realtà delle cose: è in fondo una fortuna che non siamo in grado di ricostruire la musica di una composizione pindarica, perché ci sembrerebbe miserevolmente incomprensibile e sicuramente ‘brutta’ per l’impermeabilità di orecchie moderne al suo codice. Nella musica conta molto l’assuefazione, e lo sperimentiamo quando ascoltiamo ricostruzioni della musica antica più o meno filologicamente fondate: l’impressione che ne ricaviamo è quella di una irrilevanza che porta di necessità alla noia, senza contare che si tratta di esperimenti basati su una teoria tarda rispetto all’epoca che ci interessa, come abbiamo detto. D’altra parte non possiamo neanche sperare su ritrovamenti di musica arcaica e classica, visto che a quei tempi non si sentiva alcun bisogno di notazione musicale. E, in più, non saremo mai in grado di dar voce autentica agli s t r u m e n t i m u s i c a l i , il cui peraltro flebile suono difficilmente potrebbe oggi emergere nel frastuono musicale (e non solo musicale) in cui siamo immersi. Ben diverso è il caso del ritrovamento di testi letterari: il codice linguistico, con avvicinamenti che sono andati realizzandosi attraverso più di due millenni, ci è sempre più

|| [Prefazione pubblicata in A. Meriani, Sulla musica greca antica. Studi e ricerche, Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università degli Studi di Salerno nr. 28, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2003, pp. 5–9]

https://doi.org/10.1515/9783110647983-037

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familiare e sappiamo anche valutarlo sempre meglio secondo il genere letterario in cui il messaggio verbale si inquadrava e secondo i suoi destinatari. Dobbiamo allora rassegnarci, mettendo in pratica il catulliano et quod vides perisse perditum ducas? Sì, dobbiamo farlo, ma con una sana e dichiarata ars nesciendi hermanniana che sia consapevole di quanto grande era l’importanza, e vorrei dire l’invadenza, della musica nella Grecia arcaica e classica. La sua f u n z i o n e psicologica era enormemente più importante e pervasiva di quanto possa essere nel mondo moderno e contemporaneo, tanto che, com’è ben noto, la disciplina delle varie manifestazioni musicali era compito delle autorità politiche della polis. Del resto, alla nostra percezione storica (visto che, come si diceva, di percezione musicale non si può parlare, e sarebbe anche sostanzialmente inutile) bastano le t e s t i m o n i a n z e l e t t e r a r i e che ci restituiscono una assiologia musicale legata alla sua funzione di propedeutica civica delle masse, assiologia che tende a mutare con i cambiamenti stessi della musica, che – com’è noto da una anche superficiale informazione antropologica – è fra le arti la più mobile e mutevole. Per concludere da quanto si è detto, nel campo della musica antica assai più importante di nuovi ritrovamenti musicali è l’emergere di n u o v e i n i z i a t i v e s t o r i c o – e s e g e t i c h e volte a chiarire la funzione di quell’entità così largamente ignota, e così pervasivamente importante, che era la musica: ed è questo che i tre studi di Angelo Meriani qui riuniti offrono. Rileggere continuamente con nuova attenzione i t e s t i l e t t e r a r i che parlano di musica, ed estrarne con sempre maggiore informazione e spirito critico approvazioni e rifiuti, nostalgie conservatrici del passato e più o meno necessitate accettazioni delle innovazioni gradite al pubblico, è tutto quello che possiamo ricavare, ma dal punto di vista storico è molto più di quanto ci potrebbe dare la registrazione fedele dell’esecuzione di una di quelle musiche: per giudicarla correttamente dovremmo essere affratellati da un codice musicale comune, che tale non potrebbe essere e al quale, per quanto si è detto, è corretto atteggiamento storico e antropologico il rinunciare. Richiamo un saggio avvertimento dovuto ad Alphonse Dain, che diceva che, non potendo noi ricostruire alcuni fenomeni, dobbiamo contentarci di “riconoscere delle differenze là dove gli antichi ne sentivano”. Questo vale per la metrica, che è solo quella che chiamerei la muta partitura ritmica della parola poetica unita alla musica e che può darci un’idea di quelle ‘differenze’. E vale per la danza, che ci è nota da generiche descrizioni e da rappresentazioni figurative, soggette a stereotipi che colgono per di più l’istante discreto di una realtà continua: la realtà viva della tragica emméleia, del comico kòrdax, della satriresca sìkinnis necessariamente ci

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sfuggono, ma chiara è, anche qui, la ‘differenza’, che si realizzava in una scala che dal composto andava verso il più o meno scomposto. I testi letterari qui trattati presentano un pregio che va segnalato in anticipo: non avevano suscitato nella ricerca moderna l’interesse che meritano. Il primo studio è sul fr. 124 Wehrli di Aristosseno, trasmessoci da Ateneo, quanto mai prezioso e mai letto con tanto acume fino ad ora[*]: viene tra l’altro messa in rilievo la sua natura di lacerto di opera letterario–simposiale (i Symmikta sympotikà) e una lettura puntigliosa del dettato ne illustra coerenza linguistica e voluti parallelismi che fanno di Ateneo un anello fededegno della tradizione del testo. Poseidonia (poi la romana Paestum), colonia greca del VII sec. a. C., nel contatto (sempre difficile per le colonie greche) con la chora circostante si trovava, nel IV sec., ad aver assorbito usi e costumi estranei alla sua cultura greca originaria, e addirittura innovazioni nella lingua. Rendendosi conto delle trasformazioni subite, come affermavano i poseidoniati la loro originaria identità greca? Con il celebrare una festa, mai riconosciuta nella sua fisionomia e in questo studio ampiamente ricostruita con strumenti storico–religiosi, che, sicuramente celebrata in onore del fondatore sulla base di opportuni paralleli, presentava varie componenti di rilievo rituale e quindi politico, come cerimoniale festivo, musica, pianto rituale, il tutto con geloso rispetto dell’antica tradizione. La ricca informazione storica e archeologica, rivisitata col pretesto della festa e della musica, fa di questo lavoro un punto di riferimento obbligato per lo storico. Quello, poi, che rende il frammento ancor più interessante è il confronto con la realtà contemporanea di Taranto, colonia greca di ben maggiore importanza e potenza, che può permettersi di accettare innovazioni, anche nella musica, senza timore di inquinare la sua identità originaria. Meriani tiene conto, sì, del ben noto conservatorismo di Aristosseno, il quale però, considerando la realtà teatrale e musicale di una travolgente grande capitale come Taranto, si mostra ben più indulgente rispetto alle innovazioni musicali (il nomos della fine del V sec. e del IV) in confronto con il passatismo nostalgico del Platone di pochi decenni prima. L’accettazione della più libera cultura musicale del nomos, avversata dall’aristocratico Platone ma affermatasi nell’ambiente vivace di una grande città coloniale, non poteva lasciare indifferente chi di quell’ambiente era parte viva e partecipante. Per usare parole di Meriani, Aristosseno va visto come un “conservatore moderato”, che rappresenta bene “l’evoluzione della tradizione aristocratica nella critica alle innovazioni musicali”.

|| [* Meriani peraltro ne aveva parlato al seminario romano di Rossi (Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza”) G 9.12.99, ore 16–18, in una conferenza dal titolo La festa greca dei Poseidoniati e la nuova musica greca (Aristox. fr. 124 Wehrli). – G. C.]

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Il secondo studio è una lettura integrale a suo modo inedita del De musica dello Pseudo–Plutarco, operina preziosa perché piena di informazioni uniche, non plutarchea ma comunque composta nel II sec. d. C. Meriani finalizza la sua lettura a quei non pochi tratti di teoria aristossenica che non sono esplicitamente attribuiti ad Aristosseno e, con accorte analisi, ne individua più d’uno che era sfuggito in passato. Mostra così la ormai affermata diffusione della teoria del Tarentino, alla quale tutti quelli che si occuparono di musica attinsero, epitomando e variamente adattando. Non per nulla per gli antichi Aristosseno era ‘il musico’ per antonomasia. Sulle fonti dell’anonimo e sulla loro qualità (accesso diretto o indiretto alle opere aristosseniche) Meriani conclude correttamente con un prudente non liquet. Di interesse ancor maggiore è il terzo studio, che mostra la natura bifronte dell’atteggiamento di Platone nei confronti della musica. Un passo fondamentale, e poco frequentato, del VII libro della Repubblica viene letto con attenzione di nuovo puntigliosa, tipica di chi non si rassegna a non capire e tale da rivelare quanto importanti siano le (alle volte mascherate) variazioni di livello linguistico che rendono quasi inesauribile all’esegeta il suo dettato (qui le mirabili metafore ironiche sugli harmonikoì). Con competenza matematica e musicale Meriani estrae dallo stile amabilmente dialogico di Platone, e quindi alieno da pedantesca precisione, una serie di notizie su quello che era il pitagorismo coevo e sulle teorie dei cosiddetti harmonikoì. Il tema che viene trattato è di importanza capitale per il progetto politico di Platone: si tratta della formazione dei filosofi dialettici, ai quali va affidata la guida dello Stato. La loro educazione, a differenza di quella prescritta per i phylakes, che dovevano avere dimestichezza con le musiche realmente eseguite, prevedeva, tra l’altro, una esauriente competenza in teoria musicale, che è oggettivamente legata al calcolo matematico (rapporto numerico di una nota rispetto a un’altra, a seconda di lunghezza, qualità e tensione della corda). Si tratta di una disciplina che al tempo del Socrate platonico doveva essere già ulteriormente sviluppata dai suoi inizi pitagorici, ma sulla quale siamo pochissimo informati. Se qui il Socrate platonico si mostra incline ai procedimenti matematici dei pitagorici, è che ai massimi dirigenti dello stato vuole che sia insegnata la musica come scienza. In tutta la comune letteratura moderna sulla musica antica Platone è in realtà etichettato come ‘damoniano’, e cioè cliente della dottrina empirica di Damone, così come si dichiara nei libri III e IV sempre della Repubblica. In che cosa consisteva questa dottrina empirica, comunemente chiamata dell’‘ethos musicale’? Nello stabilire l’influenza psicagogica di determinate musiche sulla base dell’esperienza vissuta dagli ascoltatori. La posizione di Platone può sembrare contraddittoria: da una parte damoniano, e dunque empirico per quanto riguardava la

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formazione dei phylakes, che dovevano vivere e controllare la realtà quotidiana di una città in cui già da decenni si era affermato un ‘pericoloso’ cattivo gusto del pubblico e in cui quindi si erano moltiplicate le occasioni di sperimentazione; pitagorico e quindi astratto, dall’altra, per quanto riguardava la formazione rigorosamente scientifica dei filosofi dialettici. In realtà contraddizione non c’è, visto che si tratta di due diverse competenze, richieste a due diversi tipi di ufficiali della polis. La griglia delle nostre conoscenze ha tante caselle ancora vuote, anche nelle epoche e nelle realtà locali che crediamo di conoscere meglio. Meriani ha una invidiabile familiarità con le fonti antiche e con la letteratura moderna sugli argomenti trattati. C’è da sperare che, nell’attuale invasione di tanta bibliografia inutile, questi suoi lavori emergano e attirino l’attenzione di chi ha a cuore il vero progresso dei nostri studi.

Index nominum a cura di Francesco Paolo Bianchi, Enrico Cerroni, Giulio Colesanti, Andrea Ercolani, Virgilio Irmici, Roberto Nicolai Abert, H.: 61 n. 6, 76 n. 71, 85 n. 103, 88 nn. 109–110, 112, 115, 116, 156, 196, 281, 481 s., 485, 496 s., 516 e n. 37, 546 Achille: 539 Acquafredda, M. M.: 20 Adone: 544 Agariste: 497 Agatòne: 196 Agostino d’Ippona (santo): 526, 541, 543 Ahrens, H. L.: 203 Albrecht, M. von: 384 n. 3 e n. 6 Alceo: 173, 228, 244, 388,418, 443, 447, 498, 541 Alcmane: 192, 228, 244, 361, 418, 443 Alecu, D.: 4 n. 6, 34, 37 Allen, Fr. D.: 177, 201 Allen, Th. W.: 323 n. 77 Allen, W. S.: 261, nn. 15–16 Alsen, F. D.: 147 Amati (famiglia di liutai): 528 Ameis, K. Fr.: 323 n. 77 Amerio, M. L.: 45 Ammon, G.: 60 n. 5 Amsel, G.: 85 n. 103, 115, 116, 156, 196 Anacreonte: 239, 244, 260, 271, 347, 349, 361, 388, 398 n. 58, 418, 450, 493– 495, 498, 542 Anderson, W. D.: 34, 481–485 Anedda, A.: 22 n. 44, 53 Anonimo di Bellermann: 175, 193, 280 Antonelli, R.: 48 Apel, A.: 64 n. 17, 65 nn. 21–22 Apollo: 485, 515 Apollonio Rodio: 307 s. Appio Claudio Cieco: 229 Archestrato (musico): 484 Archiloco: 234, 236, 240, 241, 243–248, 348 s., 361, 398–399, 416, 418, 447, 450 Ardizzoni, A.: 37, 60 n. 4, 61 n. 7 https://doi.org/10.1515/9783110647983-038

Argentieri, L.: 51 Aristarco di Samotracia: 339 Aristìde Quintiliano: 32, 267, 340, 482 s., 487–492 Aristofane: 178, 196, 214, 218, 229, 262, 419, 458–459, 482, 496, 500, 542 Aristofane di Bisanzio: 148, 230, 262, 277, 338 s., 354, 421, 444, 544 Aristòsseno di Taranto: 129, 135, 138, 230, 279, 280, 281, 282, 338, 340, 354 s., 421, 483 s., 487, 495 s., 502, 515 e n. 34, 538, 541, 543, 546, 548 s. Aristotele: 214, 281, 328, 340, 353–355, 405, 482–484, 495, 511, 514 s., 541, 543 Ateneo: 494, 497, 499, 548 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano: 448, 545 Ausonio, Decimo Magno: 400 n. 70, 444 Bacchilide: 11, 163, 174, 190, 228, 419, 423, 443, 446, 462, 469 Bach, C. Ph. E.: 530 Bach, J. S.: 508, 528 Bagordo, A.: 12 n. 27, 17 n. 39 Barchiesi, M.: 38, 140, 229 Barigazzi, A.: 45 Baud–Bovy, S.: 502 Beethoven, L. van: 220, 531 n. 121 Bekker, I.: 323 n. 77 Belardi, W.: 61 n. 7, 326 Bellermann, F.: 67 n. 32, 70 n. 44, 100 n. 154 Belloni, L.: 43 Bentley, R.: 125, 181, 182, 183, 185, 209, 210, 230, 255 n. 1, 422 Bérard, V.: 110 Bergk, Th.: 65 n. 20, 86 n. 105, 177, 231, 240, 404, 422, 457 n. 14, 458 Bianchi, F. P.: 8 n. 19, 20, 52, 451 n. *, 463 Blass, F.: 71, 92 n. 125, 94 n. 130, 101 n. 160,

552 | Index nominum

138, 205, 206, 231, 422, 457 n. 14 Boeckh, A.: 63 e n. 16, 65 e nn. 20 e 22, 66 e n. 28, 89, 125, 134, 140, 141, 161, 162, 163, 171, 205, 230, 231, 234, 256 n. 3, 257 e n. 7, 263 n. 25, 270, 376 s., 403–404, 413–414, 422, 447, 460 n. 22 Bona, G.: 50 Bonanno, M. G.: 45, 48, 49, 452 Bonavia–Hunt, N. A: 383 n. 3 Bonhenkamp, K. E.: 399 e n. 68 Bonitz, H.: 97 n. 144 Bonner, S. F.: 101 n. 160 Bowie, E. L.: 13 Brahms, J.: 386 Brambach, W.: 170 n. 46 Broggiato, M.: 19, 53 Bruno da Osimo (nome d’arte di Bruno Marsili): 22 Buchheit, V.: 33 Burnyeat, M. F.: 385 n. 8 Buttman, Ph.: 126 Baar, J.: 119 Caccini, G.: 527 Caesar, J.: 68 n. 37, 70 n. 45, 90 n. 115, 93 n. 126, 98 n. 147, 99 n. 151 Calderan, R.: 37 Callimaco: 14, 229, 304 n. 23, 330 s., 385 n. 10, 386, 405, 420, 444–445 Camassa, G.: 50 Canali, L.: 48 Canfora, L.: 34 Cantilena, M.: 333 Capotondi, B.: 463 Cassio, A. C.: 4 n. 6, 34, 37 Castiglioni, L.: 491 Cataudella, Q.: 35 Catullo, Gaio Valerio: 5 n. 9, 167, 179, 230, 344, 346, 393 e n. 37, 400, 421, 443, 446, 449, 545, 547 Cavallo, G.: 278 Cavarzere, A.: 445 Ceccarelli, L.: 401 n. 71 Cecilio Stazio: 344 Cenci, M. G.: 4 n. 6, 34, 37 Cerami, V.: 41

Cercida di Megalopoli: 400, 442, 444, 465 Ceronetti, G.: 45 Cerroni, E.: 20, 51, 53 Cesio Basso: 340, 443 Chantraine, P.: 129, 130, 205 Cherobosco, Giorgio: 490 Christ, W.: 60 n.2, 69 n. 42, 70 n. 49, 101 n. 160, 115, 231, 256 n. 2, 398, 422, 445, 450 Cibele: 505 Cicerone, Marco Tullio: 229, 340, 346, 420 Cinesia: 517, 519 Clapp, E. B.: 205 Cleonide: 489 Cleopatra (VII Filopatore): 505 Clistene di Sicione: 497, 512 Cole, Th.: 16 n. 37, 293 Colesanti, G.: 3, 5 n. 11, 6, 9, 16 n. 37, 53 Colli, G.: 97 n. 144 Colonna, A.: 32 Comotti, G.: 504 Consbruch, M.: 490 Corelli, A.: 528 Corinna: 228, 361, 419 Corssen, W.: 206 Cratìno: 173 Crizia: 499 Crusius, F.: 114, 129, 184 Crusius, O.: 68 n. 38, 71, 81 Curtius, G.: 205 D’Ottavi, G.: 44 Da Rios, R.: 93 n. 127 Dain, A.: 33142, 159, 160, 163, 164, 166, 167, 168, 171, 174, 175, 176, 177, 178, 194, 264 n. 27, 362 s., 435, 454, 547 Dale, A. M.: 16 n. 37, 35, 80 n. 84, 134, 148, 165, 192, 193, 213–218, 221, 257 nn. 4–5, 265 n. 30, 271 n. 38, 290, 457 n. 12 Damone: 230, 281, 338, 459, 481–483, 488, 495–498, 500 s., 510–512, 514– 516, 539–541, 549 Dawe, R.: 422 De Groot, A. W.: 152 De Luca, G.: 463

Index nominum | 553

De Mauro, T.: 57, 206 De Oliveira Pulquério, M.: 35, 219 Debussy, C.: 508 n. 4 Degani, E.: 50 Deiters, H.: 488 Del Corso, L.: 44, 51 Del Grande, C.: 70 n. 52, 141, 220 Dell’Isola, S.: 37 Democrito: 497, 516 e n. 38, 520 Demodoco: 329 Demostene: 206 Denniston, J. D.: 84 n. 97, 193 Descartes, R. (Cartesio): 485, 528 Descroix, J.: 116, 204 Di Noi, C.: 53 Didimo il musico: 483 s., 495, 515 n. 36, 541 Diels, H.: 88 n. 109 Dindorf, L.: 263 Diomede: 149 Dionigi di Alicarnasso: 340, 354–357, 366 Dionisio Trace: 128, 131 Dionìso: 485, 496, 542 Don Chisciotte: 22 Dover, K. J.: 12 nn. 12 Drexler, H.: 179, 184, 208, 210 n. 27 Dürr, W.: 111 Ebeling, H.: 323 n. 77 Efestione (metricologo): 14, 128, 177, 193, 234, 236, 239, 242, 245, 247, 267, 295–297, 339, 375, 422, 487, 490 Egger, M.: 81 n. 91 Eliodòro: 230, 262, 263, 277, 339, 422, 487 Ennio, Quinto: 343 s., 445, 545 Epicuro: 484, 497, 516 e n. 40, 520 Eraclìde Pontico: 499 Ercolani, A.: 6, 19, 31, 53 Ernesti, I. C. T.: 106 n. 167 Erodiano: 127 Eros: 498 Eschilo: 173, 175, 190, 193, 194, 196, 199, 214, 264, 280 Esiodo: 2, 404 Essen, O. von: 111

Euripide : 11, 173, 193, 196, 214, 496 s., 502 s., 517 Faleco: 237 Fellin, A.: 33 Femio: 329 Ferecrate: 175, 519, 520 n. 63 Filippo II (re di Macedonia): 144 Filodèmo di Gadara: 482, 516 e n. 40 Filosseno di Alessandria (grammatico): 230, 339, 422 Filosseno di Citèra (poeta ditirambico): 485, 517 Fleming, Th. J.; 262 n. 20 Fogazza, D.: 4 n. 6, 34, 37 Follieri, E.: 16 n. 37 Foscolo, U.: 440 Fowler, R.: 16 n. 37 Fox, R. L.: 38 Fraenkel, E.: 4, 5 e n. 9, 6 e nn. 11–12, 7, 13 e n. 32, 14 n. 32, 33, 34, 36, 49, 71, 73–79, 86 n. 105, 92 n. 121 e 123, 105, 147, 153, 179, 198, 206, 210, 211, 229, 271 n. 38, 388, 391 Fraenkel, L. E.: 5 n. 11 Franchini, E.: 20 Frinide: 517, 519 Fränkel, H.: 34, 168, 298–300, 304–308, 317, 324–327, 328 n. 2, 330–332, 463 n. 29 Fusi, D.: 6 n. 13, 333 n. 12, 372 Führer, R.: 16 n. 37 Galilei, V.: 67 n. 32, 485, 527 s. Gallavotti, C.: 32, 41, 57, 71 n. 58 Gallo, Gaio Cornelio: 444 Gallo, I.: 47 Gavrilov, A. K.: 385 n. 8 Gehring, A.: 323 n. 77 Geigenmüller, P.: 116, 117 Gellio, Aulo: 207 Gelzer, Th.: 239, 240, 241 Gentili, B.: 14, 16 n. 37, 32, 57, 65 n. 20, 73 n. 66, 80 n. 83, 82 e n. 93, 231, 240, 244, 260, 272, 274 n. 45, 275, 359, 403–404, 422, 456 n. 11, 457 e n.

554 | Index nominum

14, 458 n. 15, 459 n. 17 e n. 19, 461, 464 e n. 32, 469, 491, 504 Georgiades, Th.: 70 n. 54, 101 n. 157 Gerstenberg, W.: 111 Gevaert, F. A.: 70 n. 48 Ghiselli, A.: 261, 275 Giannattasio Andria, R.: 45 Giannini, P.: 404 Gigante, M.: 49 Giordano, M.: 19, 53 Giseke, B.: 198 Glauco di Reggio: 499 Gleditsch, Η.: 59, 70 n. 51 Gluck, Ch. W.: 51 Goethe, W.: 385 Goodell, T. D.: 65 n. 20, 67 n. 31, 71, 82 n. 92, 86, 88 n. 112, 90, 91, 110 Gorgosalice, G.: 21, 31, 57 Grassi, E.: 151, 457 n. 12 Greene, W. C.: 108 Greilich, A.: 117 Grenfell, B.: 278 Guarducci, M.: 36, 46 Guarino veronese: 125 Guarneri (famiglia di liutai): 528 Gudeman, A.: 60 n. 4 Hainsworth, J. B.: 35 Halporn, J. V.: 188, 193 Hanslick, E.: 486, 516 n. 37, 531 n. 125, 532 s. Hanssen, F.: 81 e n. 89 Harneit, R.: 40 Harris, W. V.: 15 Harrison, E.: 192 Harvey, A. E.: 195 Haslam, M. W.: 16 n. 37, 248, 465 Havet, L.: 198, 222, 228, 418 Hegel, G. F. W.: 447 Heimsoeth, F.: 66 n. 28, 81 n. 85 Heine, H.: 386 Heinze, R.: 70 n. 43, 85 n. 101, 347, 393 n. 39, 398, 445, 450 Helmhotz, H. von: 482, 531 Hentze, K.: 323 n. 77 Hermann, J. G. J.: 16, 61 n. 8, 62 n. 10, 65 n. 20, 69, 71 e n. 57, 73 n. 64, 125, 135, 140, 177, 178, 181, 182, 184,

204, 205, 209, 211, 226, 230, 415, 418, 422, 437, 439, 457, 490, 547 Herrmann, M.: 34 Hilberg, J.: 72 n. 61, 198 Hoekstra, A.: 35 Hoffmann, E. T. A.: 531 Hunt, A. S.: 278 Hölderlin, F.: 447 Iaccarino, M. G. : 44 Ibico: 228, 419 Ieròne di Siracusa: 499 Ignazio Romano: 206 Ippoclide: 497, 512 Ippocrate: 515 Ipponatte: 418 Irigoin, J.: 16 n. 37, 108, 148, 168, 170, 171, 174, 191, 192, 194, 230, 255 n. 1, 263 n. 25, 264 n. 27, 265 n. 30 Irmici, V.: 8 n. 19, 20, 52, 451 n. * Isocrate: 340 Iullo Antonio: 448 Jachmann, G.: 114, 399 n. 68 Jacobsohn, H.: 181, 186 Jahn, A.: 488 Jahn, O.: 399, 481 Jakobson, R.: 197, 225, 257, 330, 521 Jan, C. von: 67 n. 32, 94 n. 130, 101 n. 158, 487 Jensen, Chr.: 60 n. 4 Jones, H. Stuart: v. Liddell, H. G. Jouad, H.: 436 Jusatz, H.: 69 n. 40, 90 n. 116 Kalinka, E.: 71 n. 58, 82 n. 91, 140 Kannicht, R.: 239, 248 Kant, I.: 422 Keen, R.: 38 Kiessling, A.: 398, 445, 450 Klotz, R.: 186, 204, 208 Knobloch, J.: 111 Knox, A. D.: 197 Knox, B. M. W.: 223, 385 n. 8 Koller, H.: 60 nn. 3–5, 74 n. 68, 88 n. 109 Korzeniewski, D.: 34, 36, 189, 217 n. 3, 221–224, 235, 257 n. 5, 259 n. 11, 261,

Index nominum | 555

348 n. 18, 381 e n. 21, 393 n. 39 Koster, W. J. W.: 68 n. 35, 72 n. 61, 80 n. 84, 82 e n. 93, 104 n. 162, 259 n. 12 Kranz, W.: 88 n. 109, 114 Kraus, W.: 147, 193 Kretschmar, H.: 486 Kroll, W.: 60 nn. 2 e 5, 61 nn. 7 e 9, 110, 120, 121, 444 Krumbacher, A.: 122 Kuhn, F.: 126, 127 Kundera, M.: 508 Kühner, R.: 201, 205 Körte, A.: 205 La Roche, J.: 323 n. 77 Lachmann, K.: 182, 184, 209, 211 Laloy, L.: 96 n. 140, 118 Lana, I.: 33 Laso di Ermìone: 517 e n. 48 Lasserre, F.: 88 n. 109, 497, 501 Laum, B.: 120 Leaf, W.: 323 n. 77 Lebègue, Η.: 106 n. 165 Lehrs, Κ.: 69 n. 40, 126 Leichsenring, O.: 167 Lejeune, M.: 128, 199 Lenchantin De Gubernatis, Μ.: 70 n. 53 Leo, F.: 69 n. 42, 86 n. 105, 92 n. 124, 146, 167, 179, 181, 211 n. 28, 231, 422, 343, 352 Leopardi, G.: 491 Lepscky, C.: 140, 153 Leto, G.: 49 Liddell, Η. G. – Scott., R. – Jones, H. Stuart: 97 n. 144, 104 n. 162, 106 n. 165, 119 Lindsay, W. M.: 179, 180, 181, 211 n. 29 Linguiti, A.: 278 n. * Livio Andronìco: 229, 343 s., 353, 420, 446 Lloyd–Jones, H.: 261 Lomiento, L.: 459 n. 19, 463 n. 29 Longino: 193 Lowrie, M.: 51 Luchs, A.: 181, 182, 183, 185, 209, 210 Lucilio, Gaio: 446 Luck, G.: 208

Lucrezio Caro, Tito: 344 Lulli, L.: 19, 52, 53 Lutero, Martin: 526 Maas, P.: 63 n. 12, 72 e n. 61, 76, 98, 111, 131, 134, 139, 141, 158, 166, 168, 174, 184, 189, 190, 195, 198, 205, 209, 215, 216, 217, 221, 231, 244, 261, 275, 276, 298, 375 n. 13, 404–406, 413, 422–423, 452, 455–457, 458 n. 15, 460, 464 Maehler, H.: 462 Magna Mater: 499 Magnino, D.: 45 Marasco, G.: 45 Marini, S.: 50 Mariotti, S.: 9, 16, 44, 46, 57, 92 n. 120, 114, 144 n. 6, 490 Marpurg, F. W.: 485, 530 n. 118 Marquard, P.: 78 n. 76 Martinelli, M. C.: 15, 403 Marziale, Marco Valerio: 230, 400, 421, 444 Marziano Capella: 543 Masaracchia, A: 503 Masqueray, P.: 71 e n. 55, 422 Mastromarco, G.: 49 Mattheson, J.: 485, 528 s., 530 n. 118 Mayser, E.: 201 Mazzotta, W.: 31 Meibom, M.: 488–490 Meillet, A.: 177, 316 s. Meineke, A.: 350, 399 n. 62 Meisterhans, K.: 201 Melanippide: 517, 519 Meleagro (poeta): 445 Meriani, A.: 45, 49, 547–550 Mersenne, M.: 485, 528 Meyer, W.: 179, 181, 182, 183, 184, 198, 204, 205, 208, 209, 210 Miglio, C.: 22 n. 44, 53 Milanese, G.: 43 Monaco, G.: 502 s. Monro, D. B.: 323 n. 77 Monteverdi, C.: 462, 527 Monti, V.: 44, 440 Morelli, G.: 295–297

556 | Index nominum

Morier, H.: 111 Most, G.: 18, 43 Mozart, W. A.: 529, 531 Murray, G.: 262, 272 n. 39 Murray, O.: 8 n. 16, 13 n. 30 Müller, L.: 125, 131, 141 Mörike, E.: 386 Mövius, R.: 34 Naeke, A. F.: 198 Napolitano, M.: 8 n. 19, 16 n. 37, 19, 49, 52, 53, 451 n. *, 511 n. 14, 518 n. 53 Negri, P.: 4 n. 6, 34, 37 Nencini, P.: 50 Nerone (Nerone Claudio Cesare): 495 Nevio, Gneo: 229, 344, 420, 446 Nicolai, R.: 9, 16 n. 37, 17 n. 42, 22 n. 44, 31, 42, 53 Nicolau, M.G.: 144 Nietzsche, F.: 140, 440 Nobili, M.: 44 Nonno di Panopoli: 361, 420 Norden, E.: 61 nn. 7—8, 108, 146, 383 n. 1 Norsa, M.: 278 Notopoulos, J. A.: 108 Olimpo (musico): 520 n. 65 Omero: 128, 130, 369, 415, 465 O’Neill, E. G. (jr.): 301 n. 14 Orazio Flacco, Quinto: 167, 168, 179, 186, 229, 230, 238, 239, 240, 246, 248, 330 s., 343, 345–351, 353, 361, 382 e n. 23, 383–401, 420–421, 439–440, 442–450, 463 n. 29, 505, 545 Orfeo: 510 Orsi, D. P.: 45 Osidio Geta: 353 Ovidio Nasone, Publio: 179 Pacuvio, Marco: 446 Page, D. L.: 34, 62 n. 11, 241, 242, 259 n. 11 Pagliaro, A.: 60 n. 4 Palma, M.: 4 n. 6, 34, 37 Palmisciano, R.: 19, 53 Palumbo Stracca, B. M.: 16 n. 37, 296, 460 n. 23

Paolino di Nola (Ponzio Anicio Meropio Paolino, santo): 400 n. 70, 444 Parker, L. E.: 16 n. 37,163, 169, 173, 188, 217 n. 3, 258 n. 8 Parry, M.: 108 Pascoli, G.: 158 Pasoli, E.: 220 Pasquali, G.: 1, 146, 176, 202, 231, 298 ss., 343, 422, 458 n. 15, 459 n. 20, 460 e nn. 21–22 Passalacqua, M.: 4 n. 6, 34, 37 Passarella, C.: 4 n. 6, 34, 37 Pecoraro, M.: 20, 51 Pedullà, G.: 534 n. 136 Pelope: 499 Pericle: 482, 488, 495, 510 s., 517 e n. 51, 539, 542 Perrotta, G.: 22, 32, 33, 42, 328 Perusino, F.: 221, 276 n. 47 Petrarca, F.: 202 Petrobelli, P.: 45 Petronio Arbitro, Gaio: 5 n. 9 Pfeiffer, R.: 36 Pianezzola, E.: 442 Pickard–Cambridge, A. W.: 114 Picone, G.: 49 Pighi, G. B.: 35, 220 Pindaro: 11, 163, 165, 173, 190, 194, 228, 239, 296, 345, 347, 368, 388, 398 n. 58, 415, 419, 423, 443, 446, 450, 462, 464, 469, 482 s., 539, 546 Piovani, N.: 41 Pipping, H.: 81 n. 84 Pirrotta, S.: 8 n. 19, 20, 52 Pitagora: 483 s., 495, 501, 514, 515 e n. 36, 516, 539–541, 549 s. Platone: 281, 459, 481–483, 485, 488, 495 s., 498, 503, 510 s., 514 s., 541, 548 s. Plauto, Tito Maccio: 179, 181, 186, 229, 344, 346, 353, 398 n. 58, 400, 421, 444, 446, 450 Polimnesto: 501 Pollini, T.: 43 Pontani, F. M.: 38 Ponzi, M.: 50 Porfirio: 483, 495, 541

Index nominum | 557

Porfirione: 396, 449 Porro, A.: 43 Porson, R.: 125, 218 n. 3, 228, 230, 418, 422 Porter, H. N.: 301 n. 14 Pràtina di Fliunte: 499, 501, 518 e n. 56, 519 e n. 57, 520 e n. 63 Pretagostini, R.: 16 n. 37, 45, 51, 223 n. 2, 238, 241, 256 n. 2, 257 n. 4, 259 n. 9, 273 n. 41 e 43, 403, 451–455, 458, 459 n. 19, 464, 493 Privitera, G. A.: 469 Probo, Valerio: 207 Properzio, Sesto Aurelio: 443 Prudenzio Clemente, Aurelio: 400 n. 70, 444 pseudo–Longino: 104 n. 162 pseudo–Plutarco: 340, 520 n. 65, 549 Pöhlmann, E.: 111, 393 n. 39, 503 Quantz, J. J.: 529 Quasimodo, S.: 447 Quattrocchi, A.: 49 Questa, C.: 33, 153, 179, 207, 212 n. 31, 229 Quintiliano, Marco Fabio: 267, 340, 363, 443 Racine, J.: 310 Raffaelli, A.: 50 Rauscher, G.: 85 n. 103, 113, 115, 119 Raven, D. S.: 34, 188 Rea, J.: 278 nn. * e 1 Reinach, Th.: 94 n. 130, 114, 147, 279 Reinhardt, K.: 4 n. 5, 36 Reiske, J. J.: 62 n. 10 Ritschl, F. W.: 179, 209, 211 Rizzo, S.: 4 n. 6, 7, 31, 34, 37 Roberts, W. R.: 83 n. 94, 84 n. 97, 88 n. 111, 91 n. 118, 99 n. 149, 106 n. 165 Romagnoli, E.: 41, 70 n. 53, 141 Roncali, R.: 5 n. 9, 36 Rossbach, A.: 165, 201, 359, 451, 455–456 Rossbach, A. – Westphal, R.: 58 s., 61 n. 8, 65 n.22, 67–69, 81 n. 90, 87 n. 107, 92 n. 125, 93 n. 130, 95 n. 136, 100 nn. 152 e 154

Rossi, E. G.: 5 n. 11, 6, 21, 22, 31 Rossi, G. C.: 21, 31 Rossi, L.: 51 Rousseau, J.–J.: 527 Ruelle, Ch.–É.: 488 s. Ruppenstein, F.: 20 Rupprecht, K.: 72 n. 61, 193, 223 n. 2, 231, 393 n. 39, 422 Russell, D. A.: 523, 533 n. 132 Russo, C. F.: 5 n. 9, 6 n. 12, 34, 43, 190 Rutherford, W. G.: 110 Sacada (Sakadas): 520 n. 65 Saffo: 228, 385 n. 11, 388, 418, 443, 446, 523 s. Salviucci, P.: 18, 32 Santangelo, G.: 4 n. 6, 34, 37 Sbardella, L.: 16 n. 37, 19, 21, 53 Schadewaldt, W.: 8, 17 Scheibe, J. A.: 530 n. 118 Scheller, M.: 333 Schering, A.: 486 Schmid, W.: 60 n.2, 101 n. 160, 108 Schmidt, J. H. H.: 69 n. 40, 70n. 47, 164, 165, 231, 422 Schoeck, G.: 32 Schopenhauer, A.: 486, 531 Schroeder, O.: 71, 72 n. 61, 98 n. 147, 134, 138, 164, 165, 178, 181, 231, 240, 255 n. 1, 263 e n. 24, 272 n. 39, 276, 404, 422, 457 n. 14, 459 e n. 20 Schubart, Ch. F. D.: 531 Schubert, F.: 386 Schultz, G.: 153 Schulze, W.: 405 Schumann, R.: 386, 531 Schwyzer, E.: 201, 205 Schäfer, G. H.: 62 n. 10 Schäfke, R.: 78 n. 77, 98 n. 147 Scott, R.: v. Liddell, H. G. Seel, O.: 393 n. 39 Sega, G.: 40 Segoloni, L. M.: 42 Seneca, Lucio Anneo: 167, 343, 345, 351– 353, 444 Senofane: 498 Senofonte: 206

558 | Index nominum

Serrao, G.: 36, 48, 58 Sesto Empirico: 128 Setti, A.: 32, 140- 144, 146, 149–158 Settis, S.: 44 Severino Boezio, Anicio Manlio Torquato: 526, 543 Sievers, E.: 111 Simonide: 228, 357, 419, 443 Sinesio di Cirene: 167 Skutsch, F.: 179, 180, 181, 186 Skutsch, O.: 210 e n. 27, 211 Slupski, A.: 326 Snell, B.: 134, 149, 163, 172, 174, 190, 191, 192, 197, 198, 222, 235, 255 n. 1 , 263 n. 25, 456 n. 9, 462, 475 n. Socrate: 454–455, 481, 549 Sofocle: 4, 159, 173, 194, 214, 264, 460 n. 22 Sommer, F.: 114, 202, 206 Sonkowsky, R. P.: 110 Sonnino, M.: 8 n. 19, 19, 53 Sotade: 400, 442, 444 Soubiran, J.: 206, 207, 208, 209, 212 Spengel, L.: 182, 210 Spinoza, B.: 485, 528 Spiro, F.: 75 n. 69 Stacey, S. G.: 146 Steinthal, H.: 127 Stesicoro: 11, 13 n. 12, 14, 228, 419, 443, 460, 465 Stradivari (famiglia di liutai): 528 Strepsiade: 454–455 Stroux, J.: 122 Studemund, W.: 118 Stählin, O.: 60 n.2, 101 n. 160, 108 Susemihl, F.: 95 n. 137 Süss, W.: 110 Szlezák, Th.: 17 e n. 41

Tedeschi, G.: 15 Teleste di Selinunte: 499 Teocrito: 2, 14, 214, 229, 237, 404, 420, 445, 543 Teodoro Mallio: 347 n. 16 Teognide: 14, 499, 542 Terenziano Mauro: 230, 422 Terenzio Afro, Publio: 186, 229, 344, 421, 444, 446 Terpandro: 499, 517 e n. 45 Tessier, A.: 16 n. 37 Testa, M.: 44 Theiler, W.: 153 Thierfelder, A. M. W.: 181, 210, 211 Tibullo, Albio: 443 Tieck, L.: 531 Timoteo di Mileto: 190, 229, 230, 419, 517, 519 s. Timpanaro, S. (jr.): 57, 71 n. 58, 73 n. 63, 75 n. 70, 151, 202, 266 n. 32, 491 Tolemeo, Claudio: 482–484, 541 Torelli, G.: 528 Torelli, M.: 36 Torraca, L.: 47 Traglia, A.: 45 Traina, A.: 187 Triclinio, Demetrio: 129 n. 20, 131 n. 34, 138 n. 55, 212 n. 30, 297 e n. 5, 422 Triulzi, S.: 49 Troili, E.: 4 n. 6, 34, 37 Turner, E. G.: 213, 278 Turyn, A.: 422 Tzetze, G.: 295–297

Tacito, Publio Cornelio: 146 Tagliaferro, E.: 42 Talleyrand (Charles Maurice de Talleyrand–Périgord): 11 Tarditi, G.: 42, 43, 237, 240 Tartaglini, C.: 42, 406 Tartini, G.: 528 Tasso, T.: 440 Tecchi, B.: 50

Valgimigli, M.: 50 Varrone, Marco Terenzio: 212 n. 30, 230, 340, 405, 422 Venere: 506 Vetta, M.: 495 Vighi, R.: 201 Vittorino, M.: 347 n. 16 Volkmann, R.: 61 n. 7, 89 n. 113 Voss, J. H.: 65 n. 22, 69 n. 40

Untersteiner, M.: 61 n. 6 Upton, J.: 62 n. 10 Usener, H.: 72 n. 61, 177, 231, 240, 422

Index nominum | 559

Wackenroder, W. H.: 531 Wackernagel, J.: 317, 319 n. 71, 324, 326 Wagner, R.: 436, 532 Walsh, P. G.: 146 Webster, T.B.L.: 213 Wehrli, F.: 96 n. 141, 279 Weil, H.: 65 n. 20, 68 n. 38, 69 n. 41, 71, 81, 93 n. 128, 94 n. 130, 114, 231, 422 Welcker, F. G.: 447 West, M. L.: 13, 16 n. 37, 237, 238, 241, 242, 403 Westphal, R.: 65 n. 22, 69 n. 40 (System), 98 n. 147 (Aristox.), 99, 140, 164, 165, 177, 201, 220, 231, 267, 359, 422, 451, 455–456, 482, 487; v. anche Rossbach, A. White, J. W.: 66 n. 25, 69 n. 40, 70 n. 47, 71, 90 n. 115, 95 n. 134, 380 n. 19 Wifstrand, A.: 71, 73 n. 65, 75 n. 69, 79–80

Wilamowitz–Moellendorff, U. von: 5 e n. 11, 13 e n. 32, 14 n. 32, 36, 37, 65 n. 20, 68 n. 35, 71, 81, 88 n. 109, 94 n. 130, 108, 197, 216, 222, 231, 244, 279, 282, 422, 457 n. 14, 458 n. 15, 459 Wille, G.: 382 n. 23, 383 n. 3, 386 Winnington–Ingram, R. P.: 34, 57, 58, 92 n. 121, 95 n. 135, 99 n. 151, 100 n. 152, 108 n. *, 213, 216, 482, 487–492 Witte, B.: 50 Witte, K.: 130 Wolf, H.: 386 Zambaldi, F.: 70 n. 50 Ziegler, K. J. F.: 91 n. 117, 158, 491 Zieliński, Th.: 64 n. 19 Zimmermann, B.: 16 n. 37, 500 Zucchelli, B.: 110 Zuntz, G.: 422

Index locorum a cura di Francesco Paolo Bianchi, Enrico Cerroni, Giulio Colesanti, Andrea Ercolani, Virgilio Irmici, Roberto Nicolai adesp. PMG 957 Page (= Anacr. fr. 188 G.): 251 adesp. PMG 964a (+ 949) Page (= Sapph. fr. 156 Diehl): 251 adesp. com. 53 K. (= 246 K.–A.): 252 Aesch. – Ag. 222: 218 – Ag. 1103 ss: 191 – Pers. 24 s.: 80 n. 80 – Pers. 81: 194 – Pers. 750: 198 – Prom. 115: 191 – Sept. 252: 204 – Suppl. 112: 218 – Suppl. 123: 218 – Suppl. 392–406: 148 – Suppl. 630–697: 148 – Suppl. 782: 227, 416 – Suppl. 791: 227, 416 – fr. 274 Mette (= adesp. fr. 7 N.2/Snell– Kannicht) v. 2: 198 Alc. – fr. 10B L.–P. (= 10 V.): 196, 222, 263 – fr. 346 (L.-P. =) V.: 498 – fr. 350 L.–P. (= V.): 167 – fr. 383 (Z 60) L.–P. (= V.): 171, 244, 251, 254 Alcm. – PMG 14 Page (= PMGF Davies): 250 – PMG 39.2 Page (= PMGF Davies): 198 Amph. fr. 14 K.–A.: 511 n. 14 Anacr. – fr. 13 G. = PMG 358 Page: 275 – fr. 14 G. = PMG 357 Page: 274–276 – fr. 33 G. = PMG 356 Page: 493 s., 498 – fr. 38 G. = PMG 396 Page: 498 – fr. 44 G. = PMG 432 Page: 250 – fr. 45 G. = PMG 431 Page: 250 – fr. 60. 7–9 G. = PMG 346 fr. 1. 7–9 Page: 259–260, 275 – fr. 86 G. = PMG 385 Page: 252 https://doi.org/10.1515/9783110647983-039

– fr. 88 G. = PMG 386 Page: 252 – fr. 89 G. = PMG 387 Page: 252 – fr. 97 G. = PMG 393 Page: 251 – fr. 98 G. = PMG 438 Page: 251 – fr. 99 G. = PMG 416 Page: 251 – fr. 100 G. = PMG 391 Page: 251 – fr. 101 G. = PMG 392 Page: 251 – fr. 107 G. = PMG 412 Page: 498 – fr. 127 G. = PMG 445 Page: 498 – fr. 188 G. = adesp. PMG 957 Page: 251 – (fr. 82. 1 ss. G. =) PMG 388. 1 ss. Page: 197 Anecdota Helvetica (Gramm. Lat. Suppl. ed. Hagen) p. XXXIII: 125 n. 1 Anon. Ambros. (ed. Studemund) p. 232 ss.: 118 Anon. Bellermann §§ 1, 3, 83: 100 e n. 154 Anth. Pal. – 6. 266: 249 – 7. 98: 249 – 7. 101: 249 – 7. 111: 249 – 7. 113: 250 – 7. 118: 249 – 7. 706: 250 – 7. 728 (Call. epigr. 40 Pf.): : 250 – 9. 239 : 249 – 13: 400, 444 – 13. 8: 251 – 13. 11: 250 – 13. 11. 1: 251 – 13. 11. 3: 252 – 13. 12: 249 – 13. 14 (Simon.? fr. 98 Diehl [= epigr. Gr. vv. 205–211 Page]) : 249 – 13. 16: 249 – 13. 17: 249 – 13. 18: 249 – 13. 19 (Simon.?) [= epigr. Gr. vv. 242– 253 Page]: 249 – 13. 20 (Simon.?) [= epigr. Gr. vv. 330–

561 | Index locorum 333 Page]: 249 – 13. 21: 250 – 13. 22: 250 – 13. 23: 250 – 13. 24 (Call. epigr. 38 Pf.): 250 – 13. 25 (Call. epigr. 39 Pf.): 250, 252 – 13. 26: 250 – 13. 27: 250 – 13. 28: 246, 250 – 13. 28. 9: 252 – 13. 29: : 249 – 13. 30 (Simon.?): 249 – 13. 31: 249 – 13. 31. 2: 252 Anthologia Graeca: 444–445 Ap. Rh. 4. 1 s.: 307 Append. Dionys. ad Heph. p. 329, 16 ss. Consbr.: 490 Arcesil. ap. D. L. 4. 31 = epigr. Gr. vv. 961– 966 Page: 249 Archil. – fr. 49 D. (= 44 T. = 41 W.): 198 – fr. 79 D. = 193 T. (= Hippon. 115–116 W.): 250 – fr. 80 D. (= Hippon. 117 W.): 250 – fr. 81 D. = 188 T. = 185 W.: 250 – fr. 82 D. = 192 T. = 186 W.: 250 – fr. 83 D. = 189 T. = 187 W.: 250 – fr. 84 D. = 187 T. = 298 W.: 250 – fr. 85 D. = 185 T. = 182 W.: 250 – fr. 86 D. = 190 T. = 184 W.: 250 – fr. 87 D. = 194 T. = 200 W.: 250 – fr. 88 D. = 166 + 167 T. = 172 + 223 W.: 250 – fr. 89 D. = 168 T. = 174 W.: 250 – fr. 90 D. = 169 T. = 179 W.: 250 – fr. 91 D. = 170 T. = 329 W.: 250 – fr. 92 D. = 171 + 172. 11 T. = 176 + 181. 11 W.: 250 – fr. 172 T. = 181 W.: 250 – fr. 93 D. = 173 T. = 178 W.: 250 – fr. 94 D. = 174 + 177 T. = 177 + 180 W.: 250 – fr. 175 T. = 175 W.: 250 – fr. 95 D. = 179 T. = 173 W.: 250 – fr. 104 D. = 203 T. = 193 W.: 249 – fr. 105 D. = 202 T. = 195 W.: 249

– fr. 107 D. = 162 T. = 168 W.: 237, 251, 253 – fr. 108 D. = 163 T. = 171 W.: 237, 251, 253 – fr. 109 D. = 164 T. = 170 W.: 237, 251, 253 – fr. 110 D. = 165 T. = 169 W.: 237, 251, 253 – fr. 111 D. = 208 T. = 194 W.: 249, 251 – fr. 112 D. = 197 T. = 191 W.: 227 (v. 1), 249, 416–417 – fr. 113 D. = 209 T. = 188. 1 W.1 (= SLG S478b. 1 Page): 249 – fr. 114 D. = 200 T. = 188. 2 W.1 (=SLG S478b. 2 Page): 249 – fr. 115 D. = 201 T. = 189 W.: 240, 241, 249 – fr. 116 D. = 210 T. = 190 W.: 172, 215 n. 1, 249, 251, 265 n. 29 – fr. 117 D. = 211 T. = 192 W.: 249 – fr. 118 D. = 212 T. = 196 W.: 250, 251 – fr. 119 D. = 205 T. = 322 W.: 238, 252 – fr. 105 D. = 202 T. = 195 W.: 249 – fr. 198 W.: 249 – fr. 199 W.: 249 – fr. SLG S478a Page (= fr. 196a W.2) = PColon 7511, fr. a: 227 n. *, 241, 250, 251, 253, 348 s., 416, 450 – v. 1: 238, 253 – v. 3: 238, 253 – v. 6: 238 – v. 7: 238, 253 – v. 8: 238 – v. 10: 238 – v. 14: 238 – v. 17: 238, 253 – v. 21: 238, 253 – v. 23: 238 – v. 24: 238 – v. 26: 238 – v. 33: 253 – fr. SLG S478b Page (= 188 W.2): 241, 249, 251 Arist. Quint. – p. 7 Meib. = p. 5. 6 ss. Jahn (= p. 6. 5 ss. W.–I.): 108 – p. 8. 4–6 W.–I.: 291 – p. 10. 11 W.–I.: 489 – p. 21. 21 W.–I.: 488 s.

562 | Index locorum

– p. 22. 12 W.–I.: 489 – p. 22. 13 W.–I.: 489 – p. 29. 1 W.–I.: 489 – p. 29 Meib. = p. 19. 19 Jahn (= p. 29. 8 W.–I.): 93 n. 129 – p. 30. 13 W.–I.: 489 – p. 31 Meib. = p. 31. 15 W.–I.: 144 – p. 32 Meib. = p. 21. 23 Jahn (= p. 32. 1 W.–I.): 110 – p. 33 Meib. = p. 22. 9 ss. Jahn (= p. 32. 25 ss. W.–I.): 87 – p. 33 Meib. = p. 22. 14 ss. Jahn (= p. 32. 30 ss. W.–I.): 87 – p. 34 Meib. = p. 22. 22 ss. Jahn (= p. 33. 9 s. W.–I.): 101 n. 157 – p. 34 Meib. = p. 22. 33 ss. Jahn (= p. 33. 19 ss. W.–I.): 90 – p. 35 Meib. = p. 23. 7 ss. Jahn (= p. 33. 28 ss. W.–I.): 94 n. 132 – p. 35. 1–2 W.–I.: 291 – p. 36 Meib. = p. 35. 12 W.–I.: 149 n. 15 – p. 36. 2 W.–I.: 491 – p. 36. 3 s. W.–I.: 291 – p. 37 Meib. = p. 36. 4 W.–I.: 149 n. 15 – p. 36. 4 ss. W.–I.: 291 – p. 36. 8 W.–I.: 291 – p. 36. 8 ss. W.–I.: 491 – p. 36. 30 ss. W.–I.: 291 – p. 37. 7–9 W.–I.: 292 – p. 38. 3 W.–I.: 289 – p. 38. 5 W.–I.: 289 – p. 38. 12 W.–I.: 289 – p. 40 Meib. = p. 26. 31 ss. Jahn = p. 38. 15 ss. W.–I.: 92 n. 122, 278 – p. 40 Meib. = p. 27. 6 s. Jahn (= p. 38. 28 s. W.–I.): 100 – p. 40 Meib. = p. 27. 7 ss. Jahn (= pp. 38. 29–39. 2 W.–I.): 100 n. 154 – p. 42 Meib. = p. 27. 29 ss. Jahn (= p. 39. 26–30 W.–I.): 95 – p. 42 Meib. = p. 27. 32 s. Jahn (= p. 39. 29 s. W.–I.): 99 – p. 39. 30 W.–I.: 489 – p. 42 Meib. = p. 27. 34 s. Jahn (= p. 40. 1–3 W.–I.): 67 n. 30 – p. 40. 2 W.–I.: 489 – p. 42 Meib. = p. 28. 1 ss. Jahn (= p. 40. 8

ss. W.–I.): 96 n. 140 – p. 40. 15 W.–I.: 489 – p. 41. 14 W.–I.: 489 – p. 44. 3–10 W.–I.: 266 – p. 31. 14 Jahn (= p. 44. 17 W.–I.): 92 n. 123 – p. 51 Meib. = p. 33. 17 Jahn (= p. 47. 14 W.–I.): 119 – p. 47. 22 W.–I.: 489 s. – p. 47. 22 s. W.–I.: 490 – p. 47. 28 W.–I.: 491 – p. 51. 1 ss. W.–I.: 235 – p. 53. 19 W.–I.: 491 – p. 54. 9 W.–I.: 491 – p. 61. 26 W.–I.: 491 – p. 75. 27 W.–I.: 489 – p. 79. 13 W.–I.: 489 – p. 81. 20 W.–I.: 489 – p. 97 Meib. = p. 82. 4 ss. W.–I.: 154 – p. 97 Meib. = p. 59. 17 ss. Jahn (= p. 82. 8 s. W.–I.): 106 n. 169 – p. 98 Meib. = p. 59. 28 ss. Jahn (= p. 82. 19 ss. W.–I.): 113 – p. 82. 30 W.–I.: 292 – p. 83. 4–6 W.–I.: 291 – p. 99 Meib. = p. 60. 34 ss. Jahn (= p. 84. 3 ss. W.–I.): 87, 96 n. 139 – p. 84. 6 W.–I.: 292 – p. 100 Meib. = p. 60. 38 ss. Jahn (= p. 84. 7 ss. W.–I.): 101 n. 157 – p. 100 Meib. = p. 61. 4 ss. Jahn (= p. 84. 11 ss. W.–I.): 110 – p. 97. 1 W.–I.: 491 – p. 102. 30 W.–I.: 491 – p. 109. 27 W.–I.: 491 – p. 111. 14 W.–I.: 491 Aristoph. – Ach. 209–217: 272 – Ach. 214: 272 – Ach. 215: 272 n. 40 – Ach. 224–232: 272 – Ach. 230 s.: 272 n. 40 – Ach. 289–291: 272 – Ach. 338–340: 272 – Ach. 358 ss.: 226 – Ach. 358–363: 412 – Ach. 385 ss.: 226

563 | Index locorum – Ach. 385–390: 412 – Ach. 665–675: 272, 430 – Ach. 673 ss.: 225, 255 n. 2 – Ach. 673–675: 412 – Ach. 686: 116 – Ach. 693–701: 272 – Ach. 699 ss.: 225, 255 n. 2 – Ach. 699–701: 412 – av. 1191: 273 – av. 1265: 273 – av. 1475 s.: 272 – av. 1487 s.: 272 – av. 1558 ss.: 265, 272 – av. 1699 s.: 272 – ecclesiazusae: 543 – eccl. 1170–1176: 269 n. 37 – eq. 973–984: 412, 431 – eq. 985–996: 412, 431 – eq. 757 s. : 252 – eq. 837 s: 252 – eq. 973 ss: 226, 255 n. 2 – Lys. 256 s.: 252 – Lys. 258 s.: 252 – Lys. 271 s.: 252 – Lys. 273 s.: 252 – nubes: 451–452 – nub. 275–290: 453 – nub. 298–313: 453 – nub. 457–475: 453–454, 465 s. – nub. 518–562: 252 – nub. 563–574: 412, 431 – nub. 595–606: 412, 431 – nub. 636–651: 452, 454 – nub. 638 ss.: 230, 421 – nub. 1114: 252 – nub. 1212: 252 – pax 114–118: 270–271, 429 – pax 459 ss.: 228 – pax 459–472: 419 – Plutus: 543 – ran. 384 ss.: 225 – ran. 384–388: 412 – ran. 389 ss.: 225 – ran. 389–393: 412 – ran. 395 s.: 252 – ran. 441–447: 252 – ran. 534 ss.: 217

– ran. 1314: 193 – thesm. 100: 519 n. 58 – thesm. 970: 272 – vespae: 542 – vesp. 248–272: 245, 252 – vesp. 1529–1537: 245, 251 – fr. 54 K. (= 58 K.–A., Anaguros): 252 – fr. 55 K. (= 59 K.–A., Anaguros): 252 Aristot. – de an. 420a 30 ss.: 113 – met. A 6 ss.: 78 n. 75 – met. M 6 ss.: 78 n. 75 – met. N 2 s.: 78 n. 75 – met. 1093a 26 ss.: 418 – π. ἀϰουστ. 800a 1 ss.: 119 – poetica: 421, 515 – poet. 1447b 13 ss.: 157 – poet. 1448b: 355 – poet. 1448b 4 ss.: 525 n. 82 – poet. 1452b 24: 114 – poet. 1458a 8 ss.: 126 – politica: 487, 489 – pol. 1290a: 502 – pol. 8. 5 (1339a 11–1340b 19): 511 – pol. 1339a 24: 513 e n. 26 – pol. 1341b: 494 – pol. 8. 7 (1341b 19–1342b34): 511 – pol. 1342a: 502 – pol. 1342a 32 ss.: 485, 498, 514 n. 30 – pol. 1342b: 494 – [probl.] 19. 15 (pp. 86. 1–87. 7 Jan): 367 n. 4, 411 – [probl.] 19. 21–22 p. 90. 1–12 Jan: 112 – [probl.] 19. 48 (pp. 108. 7–110. 9 Jan): 494 – rhetorica: 421, 515, 525 – rhet. 1394b 33: 117 – rhet. 1403b 21 ss.: 109 – rhet. 1408b: 355 – rhet. 1408b 21: 145 – rhet. 1409b 25 ss.: 517 n. 47 – rhet. 1411b 34: 85 n. 100 – rhet. 1413b 3 ss.: 109 – rhet. 1413b 30 s.: 109 Aristox. – el. harm. p. 4 Meib. = 9. 11 Da Rios: 119 – el. harm. p. 8 ss. Meib. = 13. 8 ss. Da

564 | Index locorum

Rios: 108 – el. harm. p. 14 Meib. = 19. 20 ss. Da Rios: 76 – el. harm. p. 29 Meib. = 38. 4 Da Rios: 93 n. 129 – el. harm. p. 32 Meib. = 41. 13 ss. Da Rios: 78 n. 76 – el. harm. p. 34 Meib. = 43. 15 ss. Da Rios: 93 – el. harm. p. 38 Meib. = 47. 14 Da Rios: 119 – el. harm. p. 38 Meib. = 47. 17 ss. Da Rios: 67 n. 30 – el. harm. p. 53 Meib. = 66. 7 Da Rios: 93 n. 129 – el. rhythm. p. 268 Mor.: 77 – el. rhythm. p. 270 Mor.: 288, 289 – el. rhythm. p. 276 Mor.: 77 – el. rhythm. p. 278 Mor.: 95 n. 137, 288, 355 – el. rhythm. p. 280 s. Mor.: 78 n. 74, 97 n. 142 – el. rhythm. p. 282 Mor.: 289 – el. rhythm. p. 282 s. Mor.: 96 n. 140 – el. rhythm. p. 288 Mor.: 151 – el. rhythm. p. 290 Mor.: 78 n. 74 – el. rhythm. p. 292 Mor.: 89, 151, 281 – el. rhythm. p. 292 s. Mor.: 66 n. 25 – el. rhythm. p. 292 ss. Mor.: 138 – el. rhythm. p. 292–294 Mor.: 293 – el. rhythm. p. 294 s. Mor.: 76 – el. rhythm. p. 296 Mor.: 151 – el. rhythm. p. 298 Mor.: 151, 289 – el. rhythm. p. 300 Mor.: 93 n. 128, 151 – el. rhythm. p. 302 Mor.: 118, 156 – fr. 124 Wehrli: 548 – πεϱὶ τοῦ πϱώτου χϱόνου: 96 n. 141 Asclep. AP 13. 23: 250 Athen. – 10. 428b: 498 – 14. 624c ss.: 499 – 14. 628c (= Damon. fr. 18 Lass.): 497, 512 e n. 19 Atil. Fortunat. – VI p. 279. 5 Keil: 128 – VI p. 286. 20 Keil ss.: 137 – VI p. 287. 19 Keil ss.: 137

– VI p. 295. 7 ss. Keil: 235 Augustin. conf. 6. 3. 3: 107 Bacch. – p. 304. 6 Jan: 67 n. 30 – p. 305. 1 ss. Jan: 98 n. 147 – p. 314. 12 Jan: 101 n. 158 Bacchyl. – 1: 469 n. 1 – 1, str. vv. 5–6: 466 – 3: 469 n. 1 – 5: 469 n. 1 – 5, str. vv. 7–8: 466 – 5, ep. vv. 7–8: 466 – 9: 469 n. 1 – 10: 469 n. 1 – 10, ep. 2: 466 – 11: 469 n. 1 – 11, str. vv. 3–4: 466 – 12, str. vv. 1–2: 461 – 13: 469 n. 1 – 13, str. 4: 466 – 14: 469 n. 1 – 15: 469 n. 1 – 17: 216, 228, 419 – fr. 20B Sn.–M.: 469 n. 1 – fr. 20B. 1–4 Sn.(–M.): 244 – fr. 20B Sn.(–M.), str. 2–3: 251, 254 Brienn., Man. 3. 502 Wallis: 93 n. 129 Caes. Bass. – VI p. 260. 30 Keil: 121 – VI p. 266. 16 Keil: 229, 420 – VI p. 271. 5 Keil: 422 – [VI p. 307. 8 ss. Keil]: 118 Call. – epigr. 38 Pf. (AP 13. 24): 250 – epigr. 39 Pf. (AP 13. 25): 250, 252 – epigr. 40 Pf. (AP 7. 728): 250 – fr. 195 Pf. (= ia. 5): 250 – fr. 196 Pf. (= ia. 6): 250 – fr. 197 Pf. (= ia. 7): 250 – fr. 202 Pf. (=ia. 12): 190 – fr. 227 Pf. (=ia. 15): 239, 252 – fr. 384a Pf.: 251 – fr. 399 Pf.: 190 – fr. 554 Pf.: 249, 251

565 | Index locorum – fr. 635 Pf.: 249 – iambi: 400 carm. conv. PMG 884 ss. Page: 418 carmina popularia: – PMG 847 ss. Page: 419 – PMG 848 Page: 256 – PMG 856 ss. Page: 419 – PMG 873 Page: 459 Catull. 8. 2: 436 Charis. I p. 13. 16 ss. Keil: 131 Choerob. p. 218. 23 Consbr.: 62 n. 10 Cic. – Brut. 8. 32: 145 – Brut. 38. 141 s.: 111 – Brut. 43. 158: 111 – Brut. 66. 234: 111 – Brut. 67. 238: 111 – Brut. 78. 272: 117 – de or. 1. 35. 161: 117 – de or. 2. 41. 177: 121 – de or. 3. 44. 173: 121, 145 – de or. 3. 44. 175: 145 – de or. 3. 46. 181: 121 – de or. 3. 47. 182: 143, 145 – de or. 3. 48. 184 s.: 145 – de or. 3. 56. 213: 111 – de or. 3. 57. 216: 113 – fin. 4. 3. 7: 117 – or. 13. 40: 117 – or. 16. 53: 121 – or. 20. 67: 145 – or. 45. 152: 120 – or. 50. 168–71. 236: 113 – or. 51. 172: 145 – or. 51. 173: 76 n. 71, 113 – or. 53. 178: 76 n. 71 – or. 55. 183: 150 – or. 55. 183 s.: 346 – or. 55. 183–60. 203: 109 – or. 56. 187: 120, 145 – or. 57. 191: 118 – or. 57. 194–195: 145 – or. 58. 198: 145 – or. 60. 202: 145 – or. 63. 213: 145 – or. 63. 215: 145 – or. 64. 218: 145

– or. 67. 207: 118 – or. 68. 227: 145 – part. or. 21. 72: 145 – Tusc. 1. 5. 10: 85 n. 100 – Tusc. 1. 44. 106: 113 CIL VI 32323: 385 n. 9, 448 Cleon. – isag. p. 204. 19 ss. Jan: 67 n. 30 – isag. p. 207. 2 Jan: 93 n. 129 Corn. rhet. p. 353. 1 Hammer: 73 n. 64 Cratin. – 211 K. (= 225 K.–A., Seriphioi): 251 – 323 K. (= 360 K.–A., inc. fab.): 251 – 384 K. (= 379 K.–A., inc. fab.): 252 Crinag. AP 9. 239 : 249 Damon. – fr. 16 Lass. = fr. Β 9 D.–K.8 (apud Plat. resp. 400b–c): 96 n. 138, 112 – fr. 18 Lass. (apud Athen. 14. 628c): 497, 512 e n. 19 – fr. 19 Lass. (apud Herodot. 6. 129): 512 e n. 19 Dem. Tricl. Sch. Gr. in Aristoph. p. XXX s. Dübner: 131 Demetr. – de eloc. 40: 113 – de eloc. 53: 85 n. 102 – de eloc. 72: 85 n. 100, 113 – de eloc. 183: 113 – de eloc. 185: 113 – de eloc. 193 s.: 110 – de eloc. 197: 113 Didym. Alex. πεϱὶ διαφοϱᾶς τῆς Πυϑαγοϱείου μουσιϰῆς πϱὸς τὴν ᾽Aϱιστοξένειον (Porph. ad Ptol. harm. p. 5. 13 ss. Dür.): 78 n. 76, 483, 495, 515, 541 Diog. Laert. – AP 7. 98: 249 – AP 7. 101: 249 – AP 7. 111: 249 – AP 7. 113: 250 – AP 7. 118: 249 – AP 7. 706: 250 Diom. – I p. 423. 2 ss. Keil: 131 – I p. 428. 29 ss. Keil: 131

566 | Index locorum

– I p. 469. 3 ss. Keil: 114 – I p. 494. 18 Keil: 131 – I p. 498. 27 Keil: 118 – I p. 499. 21 ss. Keil: 118 – I p. 513. 15 Keil (= Caes. Bass., de metr. fg. 4 p. 132 Mazz.): 148 Dion. Hal. – ad Pomp. p. 243. 6 Us.–Rad.: 117 – de compositione verborum: 525 n. 79 – de comp. verb. 1 p. 4. 21 Us.–Rad.: 91 n. 118 – de comp. verb. 1 p. 5. 3 Us.–Rad.: 99 n. 148 – de comp. verb. 1 p. 6. 10 Us.–Rad.: 77 n. 73 – de comp. verb. 2 p. 7. 13 Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 3 p. 12. 2 s. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 4 = p. 15. 3 ss. Us.–Rad.: 60 n. 1 – de comp. verb. 4 p. 15. 13 ss. Us.–Rad.: 61 n. 8 – de comp. verb. 4 p. 20. 19 s. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 5 p. 26. 20 ss. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 5 p. 27. 16 s. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 8 p. 32. 8 Us.–Rad.: 109 – de comp. verb. 8 p. 33. 5 s. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 10 p. 36. 11 Us.–Rad.: 77 n. 73 – de comp. verb. 11 (= p. 37. 9 ss. Us.– Rad.): 193 – de comp. verb. 11 p. 37. 11 Us.–Rad.: 67 n. 30 – de comp. verb. 11 p. 38. 14 Us.–Rad.: 67 n. 30 – de comp. verb. 11 p. 38. 15 ss. Us.–Rad.: 77 n. 73 – de comp. verb. 11 p. 39. 8 ss. Us.–Rad.: 77 n. 73 – de comp. verb. 11 p. 39. 19 Us.–Rad.: 67 n. 30 – de comp. verb. 11 p. 40. 12 Us.–Rad.: 67

n. 30 – de comp. verb. 11 p. 40. 17 Us.–Rad.: 119 – de comp. verb. 11 p. 40. 17 ss. Us.–Rad.: 366, 410 – de comp. verb. 11 p. 41. 11 ss. Us.–Rad.: 518 n. 52 – de comp. verb. 11 p. 41. 13 ss. Us.–Rad.: 77 – de comp. verb. 11 p. 42. 15 ss. Us.–Rad.: 74 – de comp. verb. 12 p. 43. 19 Us.–Rad.: 77 n. 73 – de comp. verb. 12 p. 45. 15 Us.–Rad.: 98 n. 146 – de comp. verb. 12 p. 46. 14 Us.–Rad.: 67 n. 30 – de comp. verb. 14 p. 50. 6 ss. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 14 p. 50. 13 Us.–Rad.: 126 – de comp. verb. 14 p. 51. 9 Us.–Rad.: 109 – de comp. verb. 14 p. 52. 2 Us.–Rad.: 116 – de comp. verb. 14 p. 52. 14 ss. Us.–Rad.: 83 n. 95 – de comp. verb. 14 p. 54. 17 Us.–Rad.: 91 n. 118 – de comp. verb. 15 = p. 57. 9 ss. Us.–Rad.: 75, 91 n. 118 – de comp. verb. 15 p. 57. 9–17 Us.–Rad.: 128–129 n. 14 – de comp. verb. 15 p. 57. 11 ss. Us.–Rad.: 91 n. 118 – de comp. verb. 15 p. 57. 18 Us.–Rad.: 91 n. 118 – de comp. verb. 15 p. 58. 6 s. Us.–Rad.: 91 n. 118 – de comp. verb. 15 p. 58. 8 s. Us.–Rad.: 91 n. 118 – de comp. verb. 15 p. 58. 13 Us.–Rad.: 77 – de comp. verb. 15 p. 58. 13 ss. Us.–Rad.: 91 n. 118 – de comp. verb. 15 p. 59. 2 Us.–Rad.: 77 – de comp. verb. 15 p. 59. 2 ss. Us.–Rad.: 91 n. 118 – de comp. verb. 15 p. 59. 8 Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 16 p. 64. 7 ss. Us.–Rad.: 104

567 | Index locorum – de comp. verb. 16 p. 64. 8 Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 16 p. 64. 19 ss. Us.–Rad.: 103 – de comp. verb. 16 p. 64. 20 ss. Us.–Rad.: 83 n. 95 – de comp. verb. 16 p. 64. 22 Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 16 p. 65. 14 s. Us.–Rad.: 104 e n. 162 – de comp. verb. 16 p. 67. 5 ss. Us.–Rad.: 85 n. 102 – de comp. verb. 16 p. 67. 13 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 16 p. 68. 1 s. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 17 = p. 68. 7 ss. Us.–Rad.: 61, 84 – de comp. verb. 17 p. 70. 8 Us.–Rad.: 61 n. 8 – de comp. verb. 17 p. 70. 9 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 17 p. 70. 17 ss. Us.–Rad.: 62 – de comp. verb. 17 p. 71. 10 Us.–Rad.: 84, 105 – de comp. verb. 17 (p. 71. 15 Us.–Rad.): 155 – de comp. verb. 17 p. 72. 1 Us.–Rad.: 84 – de comp. verb. 17 p. 72. 14 Us.–Rad.: 115 – de comp. verb. 17 p. 73. 1 Us.–Rad.: 61 n. 8 – de comp. verb. 17 p. 73. 8 s. Us.–Rad.: 84 n. 98 – de comp. verb. 18 p. 73. 10–13 Us.–Rad.: 61 n. 8, 84 n. 99 – de comp. verb. 18 p. 76. 4 ss. Us.–Rad.: 115 – de comp. verb. 19 = p. 84. 5 ss. ss. Us.– Rad.: 67 n. 30 – de comp. verb. 19 p. 84. 12 ss. Us.–Rad.: 67 n. 30 – de comp. verb. 19 p. 85. 3 ss. Us.–Rad.: 99 n. 148 – de comp. verb. 19 p. 85. 7 Us.–Rad.: 99 n. 148 – de comp. verb. 19 p. 86. 6 s. Us.–Rad.: 517 n. 46 – de comp. verb. 19 p. 86. 21 ss. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 19 p. 87. 14 Us.–Rad.: 116 – de comp. verb. 20 p. 88. 5 ss. Us.–Rad.:

86 n. 106 – de comp. verb. 20 p. 91. 3 ss. Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 20 p. 91. 5 Us.–Rad.: 77 – de comp. verb. 20 p. 91. 13 Us.–Rad.: 104 – de comp. verb. 20 p. 91. 15 Us.–Rad.: 119 – de comp. verb. 20 p. 91. 17 s. Us.–Rad.: 113 – de comp. verb. 20 p. 92. 2 s. Us.–Rad.: 113 – de comp. verb. 20 p. 92. 9 ss. Us.–Rad.: 82 s. – de comp. verb. 20 p. 92. 12 Us.–Rad.: 88, 111 – de comp. verb. 20 p. 92. 16 s. Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 20 p. 92. 18 ss. Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 20 p. 92. 19 Us.–Rad.: 84, 91 – de comp. verb. 20 p. 93. 2 ss. Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 20 p. 93. 3 Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 20 p. 93. 5 s. Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 20 p. 93. 7 Us.–Rad.: 77, 105 – de comp. verb. 20 p. 93. 13 Us.–Rad.: 92 – de comp. verb. 20 p. 93. 15 Us.–Rad.: (84 – de comp. verb. 20 p. 93. 17 Us.–Rad.: 88 – de comp. verb. 22 p. 96. 14 Us.–Rad.: 77, 105, 121 – de comp. verb. 22 p. 96. 19 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 22 p. 96. 20 Us.–Rad.: 102 – de comp. verb. 22 p. 97. 13 Us.–Rad.: 116 – de comp. verb. 22 p. 100. 12 Us.–Rad.: 77 n. 73 – de comp. verb. 22 p. 100. 13 Us.–Rad.: 106, 121) – de comp. verb. 22 p. 101. 19 s. Us.–Rad.: 119 – de comp. verb. 22 p. 102. 1 ss. Us.–Rad.: 421, 444 – de comp. verb. 22 p. 102. 1–4 Us.–Rad.: 354 n.31 – de comp. verb. 22 p. 102. 2 Us.–Rad.: 116 – de comp. verb. 22 p. 102. 4 Us.–Rad.: 61

568 | Index locorum

n. 8 – de comp. verb. 22 p. 102. 6 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 22 p. 102. 7 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 22 p. 102. 12 s. Us.–Rad.: 119 – de comp. verb. 22 p. 102. 13 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 22 p. 103. 7 s. Us.–Rad.: 113 – de comp. verb. 22 p. 104. 5 Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 22 p. 104. 10 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 22 p. 105. 5 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 22 p. 105. 19 Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 22 p. 106. 7 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 23 p. 111. 8 s. Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 23 p. 111. 18 ss. Us.–Rad.: 102 s. – de comp. verb. 23 p. 112. 1 Us.–Rad.: 102 – de comp. verb. 23 p. 112. 2 Us.–Rad.: 105, 119 – de comp. verb. 23 p. 112. 10 s. Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 23 p. 113. 6 ss.. Us.–Rad.: 113 – de comp. verb. 23 p. 113. 11 Us.–Rad.: 104 n.162, 105 – de comp. verb. 23 p. 116. 9 ss. Us.–Rad.: 83 n. 95 – de comp. verb. 23 p. 117. 6 ss. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 23 p. 119. 10 ss. Us.–Rad.: 103 – de comp. verb. 23 p. 119. 11 Us.–Rad.: 102 – de comp. verb. 23 p. 119. 12 Us.–Rad.: 119 – de comp. verb. 23 p. 119. 12 s. Us.–Rad.: 105 – de comp. verb. 23 p. 119. 13 Us.–Rad.: 106 – de comp. verb. 23 p. 119. 16 Us.–Rad.: 91 n. 118 – de comp. verb. 23 p. 119. 18 Us.–Rad.: 99 n. 148 – de comp. verb. 23 p. 120. 2 s. Us.–Rad.: 116

– de comp. verb. 24 p. 122. 1 ss. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 25 = p. 122. 13 ss. Us.– Rad.: 444 – de comp. verb. 25–26 (= pp. 122. 13–143. 5 Us.–Rad.): 357 – de comp. verb. 25 p. 124. 10–125. 8 Us.– Rad.: 356 n. 35 – de comp. verb. 25 p. 124. 18 s. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de comp. verb. 25 p. 124. 21 ss. Us.–Rad.: 145 – de comp. verb. 25 p. 125. 1–2 Us.–Rad.: 145 – de comp. verb. 26 = p. 135. 20 ss. Us.– Rad.: 442, 444 – de comp. verb. 26 p. 136. 6 s. Us.–Rad.: 119 – de comp. verb. 26 p. 136. 13–137. 10 Us.– Rad.: 356 n. 34 – de comp. verb. 26 p. 140. 18 s. Us.–Rad.: 421 – de comp. verb. 26 p. 140. 18–20 Us.– Rad.: 354 n. 31 – de comp. verb. 26 p. 140. 21 Us.–Rad.: 109 – de Demosth. p. 117. 11 Us.–Rad.: 111 – de Demosth. p. 136. 4 Us.–Rad.: 117 – de Demosth. p. 138. 7 Us.–Rad.: 86 n. 106 – de Demosth. p. 156. 3 Us.–Rad.: 117 – de Demosth. p. 159. 15 Us.–Rad.: 86 n. 106 – de Demosth. p. 166. 10 ss. Us.–Rad.: 117 – de Demosth. p. 168. 17 s. Us.–Rad.: 117 – de Demosth. p. 170. 2 Us.–Rad.: 117 – de Demosth. p. 210. 11 ss. Us.–Rad.: 102, 106 n. 164 – de Demosth. p. 211. 6 Us.–Rad.: 104 n.162 – de Demosth. p. 216. 16 Us.–Rad.: 86 n. 106 – de Demosth. 43 = p. 224. 3 ss. Us.–Rad.: 104 n.162 – de Demosth. p. 224. 11 Us.–Rad.: 106 n. 164 – de Demosth. p. 225. 6 s. Us.–Rad.: 106 n. 164

569 | Index locorum – de Demosth. p. 225. 20 ss. Us.–Rad.: 106 n. 164 – de Demosth. p. 225. 22 Us.–Rad.: 119 – de Demosth. p. 226. 13 Us.–Rad.: 106 n. 164 – de Demosth. p. 226. 16 Us.–Rad.: 106 n. 164 – de Demosth. p. 229. 1 Us.–Rad.: 86 n. 106 – de Demosth. p. 236. 14 s. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de Demosth. p. 241. 7 Us.–Rad.: 86 n. 106 – de Demosth. 53 ss. = p. 243. 21 ss. Us.– Rad.: 111 – de imitat. p. 209. 3 s. Us.–Rad.: 117 – de Isae. p. 94. 21 s. Us.–Rad.: 117 – de Isae. p. 120. 24 s.: 99 n. 148 – de Isae. p. 123. 10 ss. Us.–Rad.: 117 – de Isocr. p. 71. 2 s. Us.–Rad.: 117 – de Isocr. p. 71. 24 ss. Us.–Rad.: 99 n. 148 – de Isocr. p. 72. 2 ss. Us.–Rad.: 74 n. 68 – de Isocr. p. 73. 5 ss. Us.–Rad.: 111 – de Isocr. p. 76. 22 ss. Us.–Rad.: 99 n. 148 – de Lys. p. 14. 9 ss. Us.–Rad.: 117 – de Lys. p. 17. 8 Us.–Rad.: 117 – de Lys. p. 22. 8 s. Us.–Rad.: 86 n. 106 – de Lys. p. 22. 19 Us.–Rad.: 117 Dion. Thr. – p. 6. 4 ss. Uhlig: 109 – p. 8. 1 Uhlig: 120 – p. 10. 2 Uhlig: 126 – p. 16. 3 ss. Uhlig: 109 – p. 17. 3 ss. Uhlig: 129 – p. 20. 3 ss. Uhlig: 131 – p. 170. 26 ss. Uhlig: 109 – p. 305. 7 ss. Uhlig: 109 Donat. IV p. 369. 3 ss. Keil: 131 Drac. Stratonic. p. 152. 5 Hermann: 126 Enn. – ann. 213 V.: 620 – ann. 268 V.: 146 – ann. 296 V.: 146 Epicharm. fr. 87 Kaibel (= 76 K.–A., Logos

kai Logina): 203 epigrammata Graeca (ed. Page) – vv. 205–211 (Simon.? AP 13. 14 = Simon. fr. 98 Diehl) : 249 – vv. 242–253 (Simon.? AP 13. 19): 249 – vv. 330–333 (Simon.? AP 13. 20): 249 – vv. 961–966 (Arcesil. ap. D. L. 4. 31): 249 Eupol. – 37 K. (= 42 K.–A., Astrateutoi): 252 – 38 K. (= 42 K.–A., Astrateutoi): 252 – 236 K. (= 250 K.–A., Poleis): 251 – 362 K. (= 396 K.–A., inc. fab.): 252 Eur. – Andr. 973: 328 – Bacchae: 485, 496 – Bacch. 731: 182 – Bacch. 864: 494 – Bacch. 994: 190 – Cycl. 544: 296 n. 5 – Cycl. 656 ss.: 228 – Cycl. 656–662: 419 – El. 170: 227, 416 – El. 173: 227, 416 – El. 184: 227, 416 – El. 193: 227, 416 – El. 196: 227, 416 – El. 207: 227, 416 – El. 585: 195 – El. 589: 194 – El. 591: 194 – El. 859: 227 – El. 870: 227 – Hec. 905 ss.: 226 – Hec. 905–913: 412 – Hec. 914 ss.: 226 – Hec. 914–922: 412 – Hel. 210 ss.: 228, 419 – Hel. 1301 ss.: 228, 419 – Hypsip. fr. I.i.9–13 Bond: 269 n. 37 – Hypsip. fr. I.iii. 11–16 Bond: 269 n. 37 – Medea: 502 – Med. 190–203: 497 – Or. 140 ss.: 195 – Or. 174 ss.: 195 – Or. 960 sgg.: 219 – Phoen. 1294 = 1305: 272 – fr. 929 N.2 (= Kannicht): 252

570 | Index locorum

Eust. – 740. 1 ss. ad Il. 9. 122: 85 n. 100 – 1615. 11 ss. ad Od. 9. 39: 85 n. 100 Exc. Neapolit. p. 415. 3 ss. Jan: 94 n. 130 Fragm. Paris. – § 8 Westph.: 150 – § 11 Westph.: 98 n. 147 Fragmentum Grenfellianum (PDryton 50), in Collectanea Alexandrina (ed. Powell), pp. 177–179: 229, 420, 442 Gell. – 1. 2. 8: 85 n. 100 – 11. 13. 4: 117 – 13. 21: 207 – 16. 1. 1: 117 – 17. 20. 4: 117 – 19. 9: 387 n. 16 Griechische Vers–Inschriften (ed. Peek) – GV 102: 249, 250 – GV 553: 249 – GV 1088: 249 – GV 1501: 249 – GV 1502: 249 – GV 1512: 249 Hegesipp. – AP 6. 266: 249 – AP 13. 12: 249 Hephaest. – p. 1. 10 ss. Consbr.: 129 – p. 2. 3 ss. Consbr.: 129 – p. 3. 3 ss. Consbr.: 129 – p. 10. 5 Consbr.: 201 – p. 14. 6 Consbr.: 134 – p. 14. 15 Consbr.: 132 – p. 14. 22 Consbr.: 162, 205, 226, 375, 413 – p. 15. 16 Consbr.: 137 – p. 16. 4 Consbr.: 132 – p. 17. 15 Consbr.: 137 – p. 22. 18 ss. Consbr.: 215 n. 1 – p. 24. 1 ss. Consbr.: 65 n. 20 – p. 24. 8 Consbr.: 461 – p. 28. 9 ss. Consbr.: 65 n. 20 – p. 28. 13 Consbr.: 461

– p. 30. 14 Consbr.: 252 – p. 31. 15 Consbr.: 136 – p. 32. 9 Consbr.: 236, 252 – p. 35. 17 Consbr.: 461 – p. 42. 12 Consbr.: 172 – p. 43. 14 Consbr.: 132, 136 – p. 44. 13 Consbr.: 461 – p. 44. 21 Consbr.: 132, 136 – p. 47. 1 ss. Consbr.: 227, 415 – p. 47. 3 Consbr.: 172 – p. 47. 3 ss. Consbr.: 295–296 – p. 47. 3–5 Consbr.: 235 – p. 47. 6 Consbr.: 251 – p. 47. 16 Consbr.: 173 – p. 47. 18 Consbr.: 251 – p. 47. 22 Consbr.: 252 – p. 47. 32 s. Consbr.: 227 – p. 47. 123 ss. Consbr.: 227 – p. 48. 2 Consbr.: 136 – p. 49. 25 ss. Consbr.: 251 – p. 50. 4 Consbr.: 172 – p. 50. 4 ss. Consbr.: 215 n. 1, 240 – p. 50. 13 Consbr.: 251 – p. 50. 14 ss. Consbr.: 251 – p. 50. 18 ss. Consbr.: 251 – p. 50. 19 Consbr.: 461 – p. 51. 3 Consbr.: 461 – p. 51. 3 ss. Consbr.: 251 – p. 51. 8 Consbr.: 251 – p. 51. 9 Consbr.: 461 – p. 51. 12 Consbr.: 251, 295 n. 3 – p. 51. 14 Consbr.: 251, 461 – p. 51. 18 Consbr.: 461 – p. 51. 20 ss. Consbr.: 173, 190, 235, 251 – p. 52. 21 Consbr.: 251 – p. 52. 54 Consbr.: 252 – p. 53. 5 Consbr.: 252 – p. 53. 12 Consbr.: 252 – p. 54. 11 Consbr.: 252 – p. 55. 2 Consbr.: 252 – p. 55. 5 Consbr.: 252 – p. 55. 7 Consbr.: 252 – p. 55. 13 Consbr.: 252 – p. 55. 19 ss. Consbr.: 252 – p. 56. 1 s. Consbr.: 262, 263 n. 24 – p. 56. 5 Consbr.: 228 – p. 56. 5 ss. Consbr.: 419

571 | Index locorum – p. 57. 18 Consbr.: 236, 252 – p. 58. 5 ss. Consbr.: 252 – p. 60. 6 ss. Consbr.: 249 – p. 73. 4 Consbr.: 114 – p. 130. 19: Consbr.: 461 – p. 145. 27 Consbr.: 461 – p. 276. 15 Consbr.: 461 – [π. τομῶν] p. 353. 5 Consbr.: 85 n. 100 – p. 362. 12 Consbr.: 461 – p. 379. 34 Consbr.: 461 – p. 380. 32 Consbr.: 461 – p. 384. 27 Consbr.: 461 – p. 405. 15 Consbr.: 461 Heracl. Pont. fr. 163 Wehrli: 499 Herodian. – I pp. 520–457 Lentz: 127 – I p. 533. 10 ss. Lentz: 136 – II pp. 7–20 Lentz: 127 – II p. 148. 20 ss. Lentz: 85 n. 100 – II p. 643. 7 ss. Lentz 85 n. 100 – II p. 727. 4 s. Lentz : 85 n. 100 Herodot. – 4. 119: 326 – 6. 128. 2: 497 – 6. 129 (Damon. fr. 19 Lass.): 512 e n. 19 Hippon. – fr. 115–116 W.: 250 – fr. 117 W.: 250 – fr. 118 W. (= fr. X Diehl): 250 Hom. – Il. 1: 437 n. 6 – Il. 1. 1: 307, 311 n. 43, 314, 411 – Il. 1. 1–16: 429 – Il. 1. 2: 299 n. 10 – Il. 1. 5: 299 n. 10, 308, 311 n. 43, 315 – Il. 1. 6: 306 n. 29, 411 – Il. 1. 7: 308 – Il. 1. 8: 308 – Il. 1. 9: 314 – Il. 1. 10: 314 – Il. 1. 13: 309 – Il. 1. 16: 309 – Il. 1. 17: 309 – Il. 1. 20: 314 – Il. 1. 21: 301 n. 14 – Il. 1. 22: 301 n. 14 – Il. 1. 24: 327

– Il. 1. 26: 314 – Il. 1. 31: 301 n. 14 – Il. 1. 34: 320 – Il. 1. 36: 301 n. 14 – Il. 1. 37: 301 n. 14 – Il. 1. 44: 319 – Il. 1. 49: 306 n. 29 – Il. 1. 52: 301 n. 14 – Il. 1. 60: 327 – Il. 1. 61: 314 – Il. 1. 75: 311 n. 43 – Il. 1. 81: 306 n. 29 – Il. 1. 90: 327 – Il. 1. 121: 311 n. 42 – Il. 1. 122: 301 n. 14 – Il. 1. 127: 314 – Il. 1. 132: 327 – Il. 1. 145: 302 – Il. 1. 153: 253 – Il. 1. 167: 314 – Il. 1. 180: 314 – Il. 1. 197: 319, 322 – Il. 1. 204: 327 – Il. 1. 219: 321 – Il. 1. 260: 314 – Il. 1. 267: 315 – Il. 1. 286: 314 – Il. 1. 344: 314 – Il. 1. 356: 306 – Il. 1. 382–384: 315 – Il. 1. 388: 315 – Il. 1. 439: 319 n. 69, 320 e n. 72 – Il. 1. 453 s.: 315 – Il. 1. 474: 315 – Il. 1. 505: 314 – Il. 1. 515: 327 – Il. 1. 528: 318, 321, 324 – Il. 1. 530: 314 – Il. 1. 559: 314 – Il. 2. 16: 319 – Il. 2. 18: 319 – Il. 2. 20: 322 – Il. 2. 37: 322 – Il. 2. 59: 322 – Il. 2. 167: 319 – Il. 2. 183: 320 – Il. 2. 494 ss.: 85 n. 102

572 | Index locorum

– Il. 2. 665: 319 – Il. 3. 292: 321 – Il. 3. 310: 318, 321, 324 – Il. 3. 355: 321 – Il. 3. 369: 321 – Il. 3. 419: 319 – Il. 3. 447: 321 – Il. 4. 74: 319 – Il. 4. 192: 321 – Il. 4. 199: 320 – Il. 4. 209: 321 – Il. 4. 292: 320 – Il. 4. 351: 323 n. 77 – Il. 4. 357: 321 – Il. 4. 364: 320 – Il. 4. 385: 318–319 – Il. 4. 419: 321 – Il. 4. 495: 319 – Il. 4. 496: 322 – Il. 5. 152: 319 – Il. 5. 167: 320 – Il. 5. 170: 322 – Il. 5. 280: 321 – Il. 5. 385: 322 – Il. 5. 392: 322 – Il. 5. 395: 322 – Il. 5. 398: 319 – Il. 5. 416: 321 – Il. 5. 473: 323 – Il. 5. 533: 321 – Il. 5. 562: 319 – Il. 5. 566: 319 – Il. 5. 611: 322 – Il. 5. 681: 319 – Il. 5. 849: 319 – Il. 6. 21: 319 – Il. 6. 52: 308 n. 39 – Il. 6. 54: 308 n. 39 – Il. 6. 108: 323 – Il. 6. 171: 319 – Il. 6. 253: 323 – Il. 6. 296: 320 – Il. 6. 390: 321, 324 n. 80 – Il. 6. 406: 323 – Il. 7. 19: 319 – Il. 7. 46: 322 – Il. 7. 189: 321

– Il. 7. 214: 321 – Il. 7. 225: 322 – Il. 7. 236: 306 – Il. 7. 238: 313 n. 52 – Il. 8. 78: 322 – Il. 8. 85: 321, 324 n. 82 – Il. 8. 100: 322 – Il. 8. 220: 320 – Il. 8. 222: 322 – Il. 8. 267: 322 – Il. 8. 280: 322 – Il. 8. 300: 321 – Il. 8. 322: 318–319 – Il. 8. 329: 322 – Il. 8. 410: 319 – Il. 9. 193: 322 – Il. 9. 596: 320 – Il. 9. 620: 321 – Il. 9. 675: 306 – Il. 10. 32: 320 – Il. 10. 73: 320 – Il. 10. 136: 320 – Il. 10. 149: 320 – Il. 10. 150: 321 – Il. 10. 179: 320 – Il. 10. 273: 321 – Il. 10. 297: 321 – Il. 10. 336: 320 – Il. 10. 339: 320 – Il. 10. 358: 318, 321 – Il. 10. 372: 321 – Il. 10. 454: 321 – Il. 11. 5: 322 – Il. 11. 51: 323 – Il. 11. 101: 319 – Il. 11. 143: 321 – Il. 11. 196: 319 – Il. 11. 216: 322 – Il. 11. 247: 319 – Il. 11. 251: 322 – Il. 11. 320: 321 – Il. 11. 349: 321 – Il. 11. 355: 322 – Il. 11. 368: 321 – Il. 11. 429: 322 – Il. 11. 439: 321 e n. 74 – Il. 11. 446: 321

573 | Index locorum – Il. 11. 451: 323 – Il. 11. 486: 322 – Il. 11. 545: 319, 322 – Il. 11. 577: 322 – Il. 11. 595: 322 – Il. 11. 617: 320 – Il. 11. 744: 322 – Il. 11. 805: 318, 320 – Il. 11. 842: 321 – Il. 12. 106: 321 – Il. 12. 299: 318, 320 – Il. 12. 352: 320 – Il. 12. 353: 322 – Il. 12. 457: 322 – Il. 13. 27: 320 – Il. 13. 59: 321 – Il. 13. 146: 322 – Il. 13. 167: 320 – Il. 13. 208: 320 – Il. 13. 242: 320 – Il. 13. 297: 319 – Il. 13. 469: 319 – Il. 13. 582: 319 – Il. 13. 754: 321 – Il. 13. 789: 321 – Il. 14. 13: 322 – Il. 14. 79: 319 – Il. 14. 134: 321 – Il. 14. 166: 320 – Il. 14. 188: 320 – Il. 14. 214: 321 – Il. 14. 232: 323 – Il. 14. 265: 323 n. 77 – Il. 14. 297: 322 – Il. 14. 346: 321 – Il. 14. 354: 308 n. 39, 320 – Il. 14. 384: 321 – Il. 14. 475: 321, 324 n. 80 – Il. 15. 6: 322 – Il. 15. 169: 319 – Il. 15. 237: 319 – Il. 15. 483: 320 – Il. 15. 541: 322 – Il. 15. 586: 306 – Il. 15. 591: 322 – Il. 15. 742: 321 – Il. 16. 119: 321 e n. 74

– Il. 16. 221: 320 – Il. 16. 255: 322 – Il. 16. 426: 321 – Il. 16. 536: 319 – Il. 16. 552: 321 – Il. 16. 601: 322 – Il. 16. 658: 321 – Il. 16. 677: 319 – Il. 16. 702: 320 – Il. 16. 791: 322 – Il. 16. 806: 322 – Il. 17. 3: 319 – Il. 17. 87: 319 – Il. 17. 114: 322 – Il. 17. 119: 320 – Il. 17. 124: 319 – Il. 17. 174: 323 n. 77 – Il. 17. 209: 321 – Il. 17. 210: 321 – Il. 17. 213: 319 – Il. 17. 257: 308 n. 39 – Il. 17. 347: 322 – Il. 17. 468: 322 – Il. 17. 516: 321 – Il. 17. 574: 319 – Il. 17. 592: 319 – Il. 17. 657: 320 – Il. 17. 698: 320 – Il. 17. 707: 322 – Il. 18. 215: 322 – Il. 18. 326: 323 – Il. 18. 384: 323 – Il. 18. 410: 321 – Il. 18. 416: 320–321 – Il. 18. 423: 323 – Il. 18. 468: 320 – Il. 19. 7: 323 – Il. 19. 40: 319 – Il. 19. 213 : 112 – Il. 19. 238: 321 – Il. 19. 241: 321 – Il. 19. 266: 321 – Il. 19. 279: 321 – Il. 19. 397: 320 – Il. 19. 424: 321 – Il. 20. 32: 321 – Il. 20. 111: 319

574 | Index locorum

– Il. 20. 259: 321 – Il. 20. 319: 320 – Il. 20. 353: 321 – Il. 20. 407: 319 – Il. 20. 428: 321 – Il. 20. 438: 321 – Il. 20. 484: 320 – Il. 21. 118: 321 – Il. 21. 200: 321 – Il. 21. 205: 320 – Il. 21. 233: 321 – Il. 21. 299: 319 – Il. 21. 324: 321 – Il. 21. 361: 322 – Il. 21. 489: 321 – Il. 21. 590: 321 – Il. 22. 77: 318, 321 n. 74, 322 – Il. 22. 137: 320 – Il. 22. 187: 319 – Il. 22. 225: 322 – Il. 22. 273: 321 – Il. 22. 289: 321 – Il. 22. 293: 322 – Il. 22. 367: 321 – Il. 22. 395: 321 – Il. 23. 24: 321 – Il. 23. 68: 322 – Il. 23. 271: 322 – Il. 23. 358: 322 – Il. 23. 456: 322 – Il. 23. 507: 322 – Il. 23. 563: 321 – Il. 23. 596: 321 – Il. 23. 612: 321 – Il. 23. 657: 322 – Il. 23. 706: 322 – Il. 23. 752: 322 – Il. 23. 757: 322 – Il. 23. 780: 322 – Il. 23. 801: 322 – Il. 23. 830: 322 – Il. 24. 95: 320 – Il. 24. 121: 319 – Il. 24. 169: 322 – Il. 24. 228: 321 – Il. 24. 247: 321 – Il. 24. 286: 322

– Il. 24. 302: 321 – Il. 24. 347: 320 – Il. 24. 360: 322 – Il. 24. 440: 321 – Il. 24. 596: 321 – Il. 24. 608: 322 – Il. 24. 621: 321 – Il. 24. 643: 321, 324 n. 80 – Il. 24. 682: 322 – Od. 1. 1: 307 s. n. 36 – Od. 1. 1–24: 429 – Od. 1. 3: 418 – Od. 1. 4: 418 – Od. 1. 102: 319 – Od. 1. 103: 322 – Od. 1. 119: 319 – Od. 1. 333: 322 – Od. 1. 441: 320 – Od. 2. 5: 320 – Od. 2. 10: 320 – Od. 2. 37: 322 – Od. 2. 174: 323 – Od. 2. 298: 320 – Od. 2. 302: 323 – Od. 2. 321: 321 – Od. 2. 337: 317 n. 64, 323 – Od. 2. 394: 320 – Od. 3. 337: 321, 324 n. 80 – Od. 3. 468: 319 – Od. 4. 24: 320 – Od. 4. 310: 320 – Od. 4. 504: 322 – Od. 4. 528: 320 – Od. 4. 532: 319 – Od. 4. 679: 320 – Od. 4. 779: 321 – Od. 4. 803: 322 – Od. 5. 28: 321 – Od. 5. 475: 320 – Od. 6. 3: 319 – Od. 6. 15: 320 – Od. 6. 21: 322 – Od. 6. 50: 320 – Od. 6. 130: 320 – Od. 6. 141: 322 – Od. 6. 198: 321 – Od. 7. 21: 322

575 | Index locorum – Od. 7. 139: 319 – Od. 7. 239: 323 – Od. 7. 343: 323 – Od. 8. 56: 321 – Od. 8. 109: 321 – Od. 8. 114: 322 – Od. 8. 186: 321 – Od. 8. 273: 320 – Od. 8. 277: 320 – Od. 8. 287: 320 – Od. 8. 291: 323 – Od. 8. 303: 320 – Od. 8. 416: 321 – Od. 8. 458: 322 – Od. 8. 469: 321 – Od. 8. 567: 323 – Od. 9. 39: 62 ss., 84 s. – Od. 9. 196: 320 – Od. 9. 371: 321 – Od. 10. 60: 320 – Od. 10. 169: 320 – Od. 10. 208: 320 – Od. 10. 280: 323 – Od. 10. 407: 320 – Od. 11. 224: 315 n. 55, 329 – Od. 11. 237: 323 – Od. 11. 247: 323 – Od. 11. 563: 320 – Od. 11. 598: 82 s., 85 n. 100, 88 n. 111 – Od. 12. 367: 320 – Od. 13. 160: 320 – Od. 13. 175: 323 – Od. 13. 197: 322 – Od. 14. 73: 320 – Od. 14. 117: 323 e n. 77 – Od. 14. 382: 323 – Od. 14. 446: 321 – Od. 14. 494: 321 – Od. 14. 501: 320 – Od. 14. 532: 320 – Od. 15. 62: 320 – Od. 15. 109: 321 – Od. 15. 150: 322 – Od. 15. 182: 321 – Od. 15. 295: 321 – Od. 15. 530: 323 – Od. 15. 539: 321

– Od. 16. 154: 321 – Od. 16. 159: 322 – Od. 16. 166: 322 – Od. 16. 172: 321 – Od. 16. 341: 320 – Od. 16. 413: 320 – Od. 16. 415: 322 – Od. 17. 142: 323 – Od. 17. 197: 322 – Od. 17. 255: 319 – Od. 17. 325: 319 – Od. 17. 348: 320 – Od. 17. 356: 322 – Od. 17. 365: 320 – Od. 17. 396: 322 – Od. 17. 414: 322 – Od. 17. 551: 320 – Od. 17. 574: 320 – Od. 17. 604: 320 – Od. 18. 108: 322 – Od. 18. 153: 319 – Od. 18. 209: 322 – Od. 18. 341: 321 – Od. 18. 342: 323 – Od. 18. 356: 321, 324 n. 80 – Od. 18. 428: 321 – Od. 19. 96: 322 – Od. 19. 429: 321 – Od. 19. 447: 322 – Od. 19. 468: 321 – Od. 19. 476: 321 – Od. 20. 32: 322 – Od. 20. 128: 322 – Od. 20. 146: 320 – Od. 20. 197: 321 – Od. 21. 8: 320 – Od. 21. 51: 320 e n. 72 – Od. 21. 58: 320 – Od. 21. 64: 322 – Od. 21. 118: 321 – Od. 21. 124: 322 – Od. 21. 149: 322 – Od. 21. 431: 321 – Od. 22. 91: 323 – Od. 22. 109: 320 – Od. 22. 146: 320 – Od. 22. 179: 321

576 | Index locorum

– Od. 22. 236: 322 – Od. 22. 292: 322, 324 n. 80 – Od. 22. 400: 320 – Od. 23. 4: 322 – Od. 23. 8: 321 – Od. 23. 99: 320 – Od. 23. 161: 319 – Od. 23. 163: 319 – Od. 23. 366: 322 – Od. 24. 178: 322 – Od. 24. 370: 318–319 – Od. 24. 470: 322 – Od. 24. 488: 319 – Od. 24. 493: 322 Hor. – a. p. 216: 390 – a. p. 253: 143 – a. p. 268 s.: 398, 450 – a. p. 268–274: 346, 398 n. 58, 450 – a. p. 270–274: 239, 150 – a. p. 323: 117 – carmen saeculare: 385, 394–395, 397, 545 – carm. saec. 1: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 5–8: 397 – carm. saec. 14: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 15: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 18: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 19: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 21–24: 397 – carm. saec. 35: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 39: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 43: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 51: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 53: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 54: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 55: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 58: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 59: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 61: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 62: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 70: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 73: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 74: 394 n. 44, 449 – carm. saec. 75 s.: 397, 449 – carmina (omnia): 350 n. 24 – carm. 1. 1. 1.: 393, 439, 449

– carm. 1–3: 385 n. 10, 394, 449 – carm. 1. 2. 19 s.: 349 – carm. 1. 2. 47 s.: 349 – carm. 1. 3: 399 n. 67 – carm. 1. 4: 172, 249, 353,399 n. 67 – carm. 1. 4. 1: 251 – carm. 1. 7: 399 e n. 67, 450 – carm. 1. 8: 399 n. 67 – carm. 1. 9. 21: 448 – carm. 1. 10. 1: 394 n. 43, 449 – carm. 1. 10. 6: 394 n. 43, 449 – carm. 1. 10. 18: 394 n. 43, 449 – carm. 1. 11: 348 – carm. 1. 11. 1–3: 393, 439, 449 – carm. 1. 12. 1: 394 n. 43, 449 – carm. 1. 12. 7 s.: 349 n. 23 – carm. 1. 13: 399 n. 67 – carm. 1. 16. 21: 395 n. 47, 449 – carm. 1. 18. 5: 395 n. 49, 450 – carm. 1. 18. 13: 505 – carm. 1. 18. 13 s.: 390 – carm. 1. 18. 16: 395 n. 49, 450 – carm. 1. 19: 399 n. 67 – carm. 1. 22. 15 s.: 349 n. 23 – carm. 1. 25. 11: 394 n. 43, 449 – carm. 1. 25. 11 s.: 349 n. 23 – carm. 1. 28: 399 e n. 67, 450 – carm. 1. 30. 1: 394 n. 43, 449 – carm. 1. 32. 13: 390 – carm. 1. 36: 399 n. 67 – carm. 1. 37: 388, 448 – carm. 1. 37. 5: 395 n. 47, 449 – carm. 1. 38: 387, 448 – carm. 2. 6. 11: 394 n. 43, 449 – carm. 2. 12. 25: 395 n. 48, 450 – carm. 2. 16. 7 s.: 349 n. 23 – carm. 2. 18: 399 n. 67 – carm. 3. 4. 4: 390 – carm. 3. 8. 3 s.: 349 n. 23 – carm. 3. 9: 399 n. 67 – carm. 3. 12: 222,263 – carm. 3. 15: 399 n. 67 – carm. 3. 19: 399 n. 67 – carm. 3. 19. 18: 390, 505 – carm. 3. 24: 399 n. 67 – carm. 3. 25: 399 n. 67 – carm. 3. 28: 390–391 n. 32, 399 n. 67

577 | Index locorum – carm. 3. 30. 13 s.: 391, 447, 505 – carm. 4: 385 n. 10, 394 – carm. 4. 1: 399 n. 67 – carm. 4. 1. 22: 390, 505 – carm. 4. 1. 22–24: 506 – carm. 4. 2: 391, 395, 397, 448 – carm. 4. 2. 7: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 9: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 10–12: 150, 239 – carm. 4. 2. 11 s.: 347, 398 n. 58, 450 – carm. 4. 2. 13: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 17: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 23: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 23 s.: 349 n. 23 – carm. 4. 2. 27 s.: 448 – carm. 4. 2. 33: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 33 s.: 448 – carm. 4. 2. 38: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 41: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 41 s.: 448 – carm. 4. 2. 45 s.: 448 – carm. 4. 2. 46. s.: 448 – carm. 4. 2. 47: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 49: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 2. 49–51: 448 – carm. 4. 2. 50: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 3: 399 n. 67 – carm. 4. 3. 23: 391, 505 – carm. 4. 6: 392, 395, 397, 449 – carm. 4. 6. 10: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 6. 11 s.: 349 n. 23 – carm. 4. 6. 13: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 6. 27: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 6. 30: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 6. 31–44: 396–397, 449 – carm. 4. 6. 33: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 6. 35: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 6. 35 ss.: 143 – carm. 4. 6. 43: 397 – carm. 4. 8: 350 n. 25 – carm. 4. 8. 17: 395 n. 48, 450 – carm. 4. 11: 395 – carm. 4. 11. 23: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 11. 27: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 11. 29: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 11. 30: 394 n. 45, 395 n. 46, 449 – carm. 4. 11. 34: 394 n. 45, 395 n. 46, 449

– carm. 4. 11. 35 s.: 390–391 n. 32, 395 n. 46 – carm. 4. 14. 17: 395 n. 47, 449 – epistulae: 445 – epist. 1. 19. 21: 400 – epist. 1. 19. 21–23: 346 n. 12 – epist. 1. 19. 21–34: 383, 447 – epist. 1. 3. 9 ss.: 347 – epist. 1. 3. 12 s.: 391, 505 – epist. 2. 1: 150 – epist. 3. 30. 13 s.: 346 n 12 – epodi (omnes): 350 n. 24 – epod. 2: 250 – epod. 3: 250 – epod. 4: 250, 350 n. 26, 399, 450 – epod. 5: 250 – epod. 6: 250, 350 n. 26, 399, 450 – epod. 7: 250, 350 n. 26,399, 450 – epod. 8: 250 – epod. 9: 250 – epod. 9. 4 ss.: 505 – epod. 9. 6: 390, 505 – epod. 9. 11–16: 390 – epod. 10: 250, 350 n. 26399, 450 – epod. 11: 238,250, 251, 350 n. 26, 399, 416, 450 – epod. 11. 2: 172, 251 – epod. 11. 6: 253, 349 n. 21 – epod. 11. 10: 253, 349 n. 21 – epod. 11. 13: 227 n. * – epod. 11. 14: 253, 349 n. 21 – epod. 11. 24: 253, 349 n. 21 – epod. 11. 26: 253, 349 n. 21 – epod. 12: 249: 253,399, 450 – epod. 13: 172, 238, 240, 249, 252,416 – epod. 13. 2: 252 – epod. 13. 8: 253, 349 n. 21 – epod. 13. 10: 253, 349 n. 21 – epod. 13. 14: 253, 349 n. 21 – epod. 14: 249, 350 n. 26, 399, 450 – epod. 14. 9–12: 347, 398 n. 58, 450 – epod. 14. 10: 239 – epod. 14. 12: 150 – epod. 15: 249, 350 n. 26, 399, 450 – epod. 16: 249, 345 – epod. 17: 399, 450 – sermones: 445 – serm. 1. 4. 39–62: 157

578 | Index locorum

– serm. 1. 10: 150 Isae. 3. 51: 326 Isocr. II p. 276 § 3 Benseler–Blass (= fr. 22, p. 158 1 ss. Radermacher): 145 Liv. 9. 41. 18: 146 Longin. p. 194. 20 ss. Hammer (in Sp.2 1, 2): 109 s. [Longin.] de subl.: 525 n. 79 – 1. 2: 525 n. 80 – 7. 2: 525 n. 80 – 9. 2: 525 n. 81 – 10. 1: 525 n. 80 – 14. 2 s.: 525 n. 80 – 17. 1: 525 n. 80 – 18. 2: 525 n. 80 – 19: 83 n. 94 – 20. 1: 525 n. 80 – 21. 1: 83 n. 94 – 22. 4: 525 n. 80 – 30. 1: 525 n. 80 – 32. 4: 525 n. 80 – 38. 2: 525 n. 80 – 39: 525 n. 80 – 40. 4: 106 n. 165, 119 – 41: 525 n. 80 Lucr. 3. 1002: 85 n. 100 Mall. Theod. – VI p. 593. 6 ss. Keil: 137 – VI p. 594. 28 ss. Keil: 137 Mar. Victor. – VI p. 31. 18 Keil: 127 – VI p. 36. 27 s. Keil: 114 – VI p. 39. 12 ss. Keil: 114 – VI p. 39. 32 ss. Keil:: 114 – VI p. 45. 9 Keil: 118 – VI p. 50. 21 ss. Keil: 116 – VI p. 62. 28 Keil: 132 – VI p. 62. 29 Keil: 133 – VI p. 63. 3 Keil: 133, 135 – VI p. 63. 4 ss. Keil: 80 n. 81 – VI p. 63. 5 ss. Keil:: 114, 135 – VI p. 63. 6 ss. Keil: 135 – VI p. 71. 16 ss. Keil: 135 – VI p. 71. 13 Keil: 133, 135

– VI p. 80. 7 Keil: 137 – VI p. 91. 9 Keil: 263 n. 21 – VI p. 113. 5 Keil: 150 – VI p. 118. 17 Keil: 136 – VI p. 129. 30 Keil: 263 n. 21 – VI p. 131. 4 Keil: 263 n. 21 Mart. Cap. – III p. 105. 3 Dick: 131 – IX p. 518. 4 ss. Dick: 98 n.147 – IX p. 519. 7 ss. Dick: 87 n. 108 – IX p. 519. 8: 117 – IX p. 524. 5 ss. Dick: 121 – IX p. 524. 11 Dick: 122 – IX p. 524. 17–22 Dick: 289 Melinn. hymn. Rom. (SH edd. Lloyd–Jones – Parsons p. 268 s.): 346, 400, 444 Men. – CGFP fr. 145 Austin (Theophoroumenē): 512 e n. 20 – fr. 685 Körte (= fr. 456 K. –A.): 110 Nicaenet. AP 13. 29: 249 Parmen. AP 13. 18: 249 PBerol 6870: 220 PColon 7511, fr. a (= SLG S478a Page = Archil. fr. 196a W.2): 227 n. *, 241, 250, 251, 253 PDryton 50 (Fragmentum Grenfellianum): 229 Phaedim. AP 13. 22: 250 Phalaec. AP 13. 27: : 250 PHerc 310: 278 Pherecr. – fr. 29 K. (= 34 K.–A., Automoloi): 252 – fr. 79 K. (= 84 K.–A., Koriannō): 252 – fr. 155 K.–A. (Kheirōn): 519 nn. 58, 59 PHibeh 13: 61 n. 6, 482, 486, 516 Philod. πεϱὶ ποιημάτων – 17. 16 Jensen: 60 n. 4 – 24. 7 Jensen: 60 n. 4 Phryn. 13 N.2 = TrGF 3 F 13: 251 Pind. – frr. 29–35 Sn.–M., str. 1: 251 – fr. 34 Sn.–M.: : 251, 295 n. 3 – fr. 35 Sn.–M.: 251 – fr. 35b Sn.–M.: 461

579 | Index locorum – fr. 125 Sn.–M.: 499 – fr. 216 Sn.–M.: 251 – Isthm. 2, ep. v. 3: 466 – Isthm. 2, ep. v. 6: 466 – Isthm. 3/4, str. v. 1: 466 – Isthm. 3/4, ep. v. 3: 466 – Isthm. 3/4, ep. v. 4: 466 – Isthm. 3/4, ep. v. 7: 466 – Isthm. 5, str. v. 2: 466 – Isthm. 6, ep. v. 6: 466 – Isthm. 9: 469 n. 1 – Nem. 9: 300 n. 11, 381 – Nem. 9. 1: 300 n. 11, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9, str. v. 1: 226, 393 n. 39, 415, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9, str. v. 2: 466 – Nem. 9. 6: 300 n. 11, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9. 11: 300 n. 11, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9. 16: 300 n. 11, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9. 21: 300 n. 11, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9. 26: 300 n. 11, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9. 31: 300 n. 11, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9. 36: 300 n. 11, 415, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9. 41: 300 n. 11, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9. 46: 300 n. 11, 415, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Nem. 9. 51: 300 n. 11, 433, 439, 463 n. 29, 467 – Ol. 1, str. v. 10: 216 – Ol. 1, ep. v. 3: 273 – Ol. 2: 216, 228, 419 – Ol. 3, str. v. 1: 226, 414, 432–433 – Ol. 3, ep. v. 4: , 414 – Ol. 6, ep. v. 1: 226, 414 – Ol. 6. 19: 170 – Ol. 6, ep. vv. 5–6: 169 – Ol. 6. 73: 172 – Ol. 7: 194, 463 n. 28, 466

– Ol. 7, str. v. 5: 226, 414 – Ol. 12: 462 n. 28, 475 n. – Ol. 13, ep. v. 7: 466 – Pae. 9, str. v. 8: 198 – Pyth. 1, ep. v. 3: 466 – Pyth. 3: 464, 467 s. – Pyth. 4: 448 – Pyth. 4, str. v. 7: 466 – Pyth. 4, ep. v. 2: 226, 414 Plat. – Crat. 424b: 74 n. 68 – Lach. 188d: 500 – leges: 483, 503 – leg. 669d–e: 74 n. 68 – leg. 670d: 151 – leg. 699d–701b: 511 n. 11 – leg. 701a: 542 – Phaedr. 234e: 117 – Phaedr. 274c ss.: 107 – respublica: 230, 421 – resp. 394a s.: 514 n. 30 – resp. 398d: 74 n. 68 – resp. 398e: 500 – resp. 399b: 485 – resp. 399e: 151 – resp. 400a: 74 n. 68, 151 – resp. 400b: 112, 151 – resp. 400b 4: 459 n. 18 – resp. 400b–c: 96 n. 138 – resp. 400d: 74 n. 68 – resp. 424c: 481, 495, 510 s. – resp. 701 a3: 517 – Timaeus: 488 Plat. com. – fr. 90 K. (= 96 K.–A., Xantai ē Kerkōpes): 251, 295 n. 3 Plaut. – Amph. 220: 210 – Amph. 277: 182 – Aul. 16: 210 – Aul. 594: 186 – Aul. 631: 186 – Bacch. 592: 208 – Capt. 71: 211 – Cis. 62: 211 – Poen. 111: 448 – Poen. 477: 210

580 | Index locorum

– Pseud. 618: 448 – Sti. 165: 211 – Trin. 533: 210 PLille 76 a, b, c (= Stesich. PMGF 222(b) Davies): 257 n. 4 Plin. (sr.) nat. hist. 2. 209: 143 Plin. (jr.) epist. 1. 20. 3: 122 PLouvre E 3320: 220 Plut. – de vita et poesi Hom. 2. 7: 91 n. 117 – Demosth. 20. 3: 144 n. 7 – inst. Lac. 17. 238c: 512 e n. 17 – lib. educ. 14. 10c: 511 n. 14 – quaest. conv. 9. 2. 2: 127 PMG 926a Page: 287 PMG 926b Page: 287 PMG 926c Page: 287 PMG 926d Page: 287, 290 PMG 926e Page: 287 Porphyr. – ad Ptolem. harm. p. 5. 11 Düring: 78 n. 76, 483 – ad Ptolem. harm. p. 5. 13 ss. Düring: 483, 495, 515 n. 35 – ad Ptolem. harm. p. 26. 6 ss. Düring: 484, 541 – ad Ptolem. harm. p. 26. 27 ss. Düring: 484 – ad Ptolem. harm. p. 27. 17 ss. Düring: 484, 541 – ad Ptolem. harm. p. 29. 27 ss. Düring: 112 – ad Ptolem. harm. p. 78. 23 ss. Düring: 96, 112 Porphyrion. apud schol. ad Hor. carm. 4. 6. 35 ss.: 396, 449 POxy I 9: 278 – col. IV. 13: 94 n. 130 – col. IV. 19 ss.: 78 n. 74, 94 n. 130 – col. V. 14 s.: 118 – col. V. 15: 94 n. 130 – col. V. 21 ss.: 94 n. 130 – col. V. 34 s.: 94 n. 130 POxy II 220 col. XII. 2 ss.: 65 n. 20 POxy IX 1182: 278 POxy XXXIV 2687: 278 POxy XXXIX 2885 fr. 4: 250 Pratin. fr. 1 D.2 = PMG 708 Page: 74 n. 68, 499 (spec. v. 8 s.), 518 e n. 54

Prisc. – II p. 9. 30 Keil: 125 – II p. 10. 5 Keil: 125 PSI 1248: 278 Psell. – prolamb. 1 Westphal: 93 n. 130, 95 n. 133, 281, 291 – prolamb. 6 Westphal: 101 n. 159 – prolamb. 8 Westphal: 100 n. 153, 151 ps.–Hom. Margites: 249 ps.–Plut. – de musica: 501, 549 – de mus. 1140f p. 23. 15 Ziegler: 291 – de mus. 1140f p. 23. 16 Ziegler: 291 – de mus. 1140f 19 ss. (p. 23 Ziegler): 235 – de mus. 1140f 20 ss. (p. 23 Ziegler): 244 – de mus. 1141a p. 23. 24 Ziegler: 292 – de mus. 1141b–c (p. 24. 6–19 Ziegler): 114 – de mus. 1141c 20 ss. pp. 24–26 Ziegler: 519 nn. 58, 59 – de mus. 1143b p. 29. 6 Ziegler: 292 – de mus. 1143f (p. 30 Ziegler): 76 n. 71 – de mus. 1144b–c (p. 31 Ziegler): 76 n. 71 ps.–Xenophon. Athen. Pol. 1. 9: 326 Pytherm. carm. conv. PMG 910 Page: 499 Ptol. harm. 1. 2 (p. 5. 11 ss. Düring): 484 Quint. – 1. 1. 33: 113 – 3. 4. 16: 117 – 8. Prooem. 27: 117 – 9. 4. 36: 120 – 9. 4. 47: 120 – 9. 4. 51: 120, 121 – 9. 4. 52: 144 – 9. 4. 53: 150 – 9. 4. 55: 144 – 9. 4. 69 ss.: 113 – 9. 4. 72 ss.: 145 – 9. 4. 83: 85 n. 103, 120 – 9. 4. 89: 113 – 9. 4. 91: 85 n. 103, 113 – 9. 4. 92: 154 – 9. 4. 93 ss.: 132, 134 – 9. 4. 94. 13: 133 – 9. 4. 108: 121

581 | Index locorum – 9. 4. 115: 363, 411 – 9. 4. 136: 120 – 10. 1. 61: 443 – 10. 1. 73: 118 – 10. 1. 96: 443 – 11. 3. 17: 121 – 11. 3. 37: 121 – 11. 3. 39 s.: 121 – 11. 3. 43: 121 – 11. 3. 51: 113 – 11. 3. 51 s.: 121 rhet. ad Her. – 3. 13. 23: 113 – 3. 14. 24: 113 – 3. 14. 25: 113 – 4. 19. 26: 113 Rufin. VI p. 555. 11 ss. Keil: 138 Sacerd. – VI p. 506. 12 Keil: 133 – VI p. 208. 26 ss. Keil: 135 – VI p. 448. 20 Keil: 144 – VI p. 500. 27 Keil: 133, 135 – VI p. 507. 19 ss. Keil: 461 – VI p. 511. 9 Keil: 133 – VI p. 515. 14 Keil: 136 – VI p. 518. 22 ss. Keil: 137 – VI p. 518. 26 Keil: 133 – VI p. 528. 20 ss. Keil: 137 Sapph. – fr. 1. 11 ss. L.–P. (= V.): 201 – fr. 1. 15 L.–P. (= V.): 222 – fr. 1. 15 ss. L.–P. (= V.): 195 – fr. 112 L.–P. (= V.): 236, 262 – fr. 124 L.–P. (= V.): 252 – fr. 127 L.–P. (= V.): 250, 252 – fr. 132 L.–P. (= V.): 250, 252 – fr. 158 L.-P. (= V.): 236 – fr. 156 Diehl = adesp. PMG 964a (+ 949) Page: 251 Schol. in Dion. Thr. – p. 453. 25 ss. Hilgard: 119 – p. 473. 12 ss. Hilgard: 119 Schol. in Eur. ad Hipp. 264: 461 Schol. in Hephaest. – Sch. A p. 109. 4 ss. Consbr.: 116

– Sch. A p. 138. 8 ss. Consbr.: 65 n. 20 – sch. A p. 152. 12–14 Consbr.: 235 – sch. A p. 154. 15 Consbr.: 251 – sch. A p. 157. 23 ss. Consbr.: 236 – sch. A p. 159. 9 ss. Consbr.: 252 – sch. A p. 161. 18 Consbr.: 236, 252 – Sch. B p. 259. 6 ss. Consbr.: 85 n. 100 – Sch. B p. 265. 1 Consbr.: 85 n. 100 – Sch. B p. 302. 20 Consbr.: 289 – Sch. B p. 303. 5 Consbr.: 62 n. 10 Schol. in Hom. – schol. A ad Il. 1. 219: 324 n. 80 – schol. A ad Il. 2. 23: 119 – schol. A ad Il. 2. 52: 119 – schol. A ad Il. 2. 132: 119 – schol. A ad Il. 2. 155: 119 – schol. A ad Il. 2. 497: 119 – schol. A ad Il. 2. 514: 119 – schol. A ad Il. 8. 206 s.: 119 – schol. A ad Il. 11. 101: 119 – schol. A ad Il. 15. 158: 119 – schol. A ad Il. 15. 563: 119 – schol. A ad Il. 23. 644: 115 – schol. Β ad Il. 2. 494: 85 n. 102 – schol. B ad Il. 19. 189: 119 – schol. Τ ad Il. 23. 644: 116 Schol. in Pind. – ad Ol. 8 epod. θ’ I p. 236. 24 Drach.: 136 – ad Ol. 9 epod. θ’ III p. 266. 3 Drach.: 136 – ad Pyth. 2 str. ζ’ II p. 30. 13 Drach.: 136 – ad Pyth. 2 epod. ϛ’ II p. 30. 26 Drach.: 136 – ad Nem. 3 epod. β’ III p. 40. 15 Drach.: 136 – ad Nem. 6 str. η’ III p. 100. 21 Drach.: 136 – ad Nem. 6 str. ιγ’ III p. 101. 1 Drach.: 136 Sen. – apocol. 5. 4: 85 n. 100 – Her. fur. 830–874: 351 n. 28 – Her. fur. 875–894: 351 n. 28 – Her. Oet. 1031–1130: 351 n. 28 – Her. Oet. 1518–1606: 351 n. 28 – Med. 75–92: 351 n. 28 – Med. 579–669: 351 n. 28 – Oedipus: 353 – Oed. 110–153: 351 n. 28

582 | Index locorum

– Oed. 416–428: 351 n. 28 – Oed. 449–465: 352 n. 29 – Oed. 882–914: 351 n. 28 – Phaedr. 274–324: 351 n. 28 – Phaedr. 736–752: 351 n. 28 – Phaedr. 1149–1153: 351 n. 28 – Thyest. 336–403: 351 n. 28 – Thyest. 546–622: 351 n. 28 – Troades: 352 – Tro. 108 s. : 352 n. 29 – Tro. 705–708: 352 n. 29 – Tro. 721–731: 352 n. 29 – Tro. 814–860: 351 n. 28 – Tro. 1009–1055: 351 n. 28 Serv. ad Georg. 2. 385 s.: 357 Sext. Empir. – adv. mathem. 1. 100: 127 – adv. mathem. 1. 121 ss.: 129 – adv. mathem. 6. 30: 513 n. 27 Simon. – PMG 515 Page: 251 – PMG 543 Page: 444 – (?) fr. 188 Bergk (ap. Heph. 60. 6 ss. Consbr.): 249 – (?) fr. 98 Diehl = epigr. Gr. vv. 205–211 Page (AP 13. 14) : 249 – (?) epigr. Gr. vv. 242–253 Page (AP 13. 19): 249 – (?) epigr. Gr. vv. 330–333 Page (AP 13. 20): 249 – (?) AP 13. 30: 249 Soph. – Aj. 969: 204 – Aj. 1184: 175 – Aj. 1192: 175 – Ant. 55: 328 – Ant. 555: 328 – Ant. 582 ss.: 165 – Ant. 781 ss.: 195, 222 – El. 236–238: 267–268 – El. 473 ss: 227, 416 – El. 489 ss.: 227, 416 – El. 859: 426 – El. 870: 426 – El. 1062: 163 – OC 163–167: 264–265 – OC 228–235: 268–269 e n. 37

– OC 229–253: 412, 430 – OC 241: 269 – OC 243–245: 412 – OC 243–248: 268 n. 36, 269 – OC 250–252: 268 n. 36, 269, 412 – OC 1211 s.: 259 – OC 1211–1232: 430 – OC 1214: 163 – OC 1215: 374, 412, 414 – OC 1217 s.: 374, 412, 414 – OC 1224 s.: 258, 259 – OC 1229: 374, 412, 414 – OC 1231 s.: 374, 412, 414 – OR 151 ss.: 80 – OR 155–158: 268 n. 37 – OR 163–167: 268 n. 37 – OR 229 ss.: 225 – OR 250 ss: 226 – OR 483 ss.: 88 n. 110, 147, 196 – OR 871 s.: 217 – OR 1215–1229: 225 – OR 1217: 225 – OR 1231: 225 – OR 1331: 175 – OR 1351: 175 – Phil. 827: 195 – Phil. 932: 197 – Trach. 107: 199 – Trach. 112–122: 198 Stesich. – PLille 76 a, b, c (= PMGF 222(b) Davies): 257 n. 4 – PMG 278 Page (= PMGF Davies): 167 Strab. 9. 3. 10: 73 n. 64 Suid. IV p. 306. 5, 18 s. Adler: 113 Supplementum Epigraphicum Graecum – 14. 604: 249 – 18. 418: 249 Telest. PMG 810 Page: 499 Ter. Andr. 1: 208 Terent. Maur. – VI p. 336. 360 Keil: 128 – VI p. 364. 1306 Keil: 128 – VI p. 365. 1342 ss. Keil: 143 – VI p. 370. 1515 s. Keil: 263 n. 21 – VI p. 374. 1628–1633 Keil: 265–266 n. 32

583 | Index locorum – VI p. 387. 2071 Keil: 263 n. 21 – VI p. 387. 2079 Keil: 263 n. 21 – VI p. 388. 2092 Keil: 263 n. 21 – VI p. 393. 2254 s. Keil: 143 Terpandr. fr. 1 Bergk = 1 Diehl = PMG 698 Page: 149 Thebaid. fr. 1 Bernabé: 308 n. 36 Theocr. – 15: 544 – epigr. 17: 250 – epigr. 18: 250 – epigr. 20: 240, 250 – epigr. 20. 2: 251 – epigr. 21: 250 Theodorid. – AP 13. 8: 251 – AP 13. 21: 250 Theophr. περὶ ὑποϰϱίσεως: 109 Thuc. – 1. 72. 1: 326

– 1. 74. 4: 326 – 6. 34. 6: 326 Timoth. Persae PMG 791 Page: 421, 444, 519 n. 59 Tzetz. de metr. pind. p. 51. 24 ss. Drach.: 296 Varr. – fr. 46 p. 205 Funaioli: 138 – fr. 220 p. 259 Funaioli: 418 Verg. – Aen. 2. 460: 207 – Aen 3. 211: 132 Verr. Fiacc. fr. 13 Funaioli: 212 n. 30 Victor. – VI p. 207. 16 Keil: 118 – VI p. 208. 26 ss. Keil: 135 Zonar. Lex. 1805: 323 n. 77