Capitoli gozzaniani. Scritti editi e inediti 8822230787

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Capitoli gozzaniani. Scritti editi e inediti
 8822230787

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iii FRANCO

ANTONICELLI

CAPITOLI GOZZANIANI SCRITTI EDITI E INEDITI A CURA DI MIcHELE MARI

LEO

S. OLSCHKI MCMLXXXII

- FIRENZE

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UNIVERSITÀ CENTRO

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STUDI

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LETTERATURA

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ITALIANA

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Gozzano »

MIESTIE-AVOLÀ

FRANCO

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CAPITOLI GOZZANIANI TQ

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SCRITTI EDITI E INEDITI

3505

A cura

DI MICHELE

MARI

1932

LEO

S. OLSCHKI MCMLXXXII

- FIRENZE

Questo e i precedenti volumi della collana sono stati pubblicati con un contributo del CNR ISBN

88 222

3078

7

Desidero esprimere la mia più viva riconoscenza alla signora Renata Antonicelli per la fiducia con cui ha voluto affidarmi la cura di questa raccolta mettendomi a disposizione le carte manoscritte

di suo marito e facilitando in ogni modo il mio compito. Per avere accolto questo volume nella presente collana ringrazio il Centro di studi di letteratura italiana in Piemonte « Guido Gozzano », e in particolare il suo direttore, prof. Giovanni Getto, e il prof. Marziano Guglielminetti che mi ha assistito con attenzione e con competenza. Un ringraziamento speciale vada infine al prof. Gennaro Barbarisi, che ha seguito il mio lavoro fin dal suo nascere.

M. M.

VESPE

SA DI] ei did

PREFAZIONE

Raccogliere oggi in volume parte degli scritti dedicati da Franco Antonicelli a Gozzano nel corso di oltre quarant'anni non ha solo lo scopo dichiarato di offrire al lettore e guadagnare agli studî gozzaniani testi dispersi e di difficile reperibilità, ma è anche un modo di rendere un primo concreto omaggio ad una vastissima attività letteraria solo da qualche anno in via di riscoperta. Omaggio evidentemente non casuale, Gozzano essendo stato — più che « l’autore » di Antonicelli (eguale pretesa potrebbero accampare Carducci, Pascoli e D'Annunzio) — il poeta che maggiormente ne ha stimolato e valorizzato le facoltà e le vocazioni critiche, im-

pegnandolo a lungo in una ricerca che anche senza essere stata coronata da un’opera complessiva (come pure era nei voti) rimane esem-

plare per la continuità, l’organicità, la passione; dai primi « bozzetti» impressionistici sulle cose ed i luoghi gozzaniani agli studî di più rigorosa critica storica alla raccolta di varianti ed inediti gozzaniani fino alla preparazione, negli ultimi anni, di un’edizione critica di parte dell’opera di Gozzano, i numerosi contributi di Antonicelli si dispongono con naturalezza lungo una linea critica ascendente, ed è proprio la cura filologica conclusiva che nel quadro delle frequen-

! Sull’opera letteraria di Antonicelli si sono in particolare soffermati M. FUBINI (II mestiere di letterato) e N. SapeGNO (Sul filo d’una antica amiciza) in Scritti di Bobbio, Fubini, Galante Garrone, Quazza, Sapegno su Antonicelli, Torino, Centro Studi P. Gobetti 1975, L. Greco, La mediazione di Antonicelli, « Il Ponte », XXXII, 31 ottobre 1976, e G. BarBARISI (L'attività letteraria di F. A.) in Presenza culturale

e impegno civile di F. A. - Atti del Convegno, Museo di Storia Contemporanea, Milano, 31 marzo 1980, Milano, Edizioni Comune di Milano 1981, pp. 15-28 (ma cfr. anche il Ritratto critico di C. STAJANO in F. A., La pratica della libertà. Documenti, discorsi, scritti politici 1929-1974, Torino, Einaudi 1976). Strumento indispensabile ad una conoscenza non superficiale di tutta la produzione di Antonicelli è ora la bibliografia degli scritti curata da G. BarBARISI, P. LurI e P. PeLLEGRINI (Un baule pieno di carte, Livorno, Fondazione Franco Antonicelli 1980), di cui è in preparazione una seconda edizione estesa ai testi radiofonici.

a

e,

tazioni di Antonicelli determina (se si esclude un inattuato progetto di edizione critica del Cortegiano) la preminenza del poeta piemontese sugli altri autori. Non è però soltanto una questione di critica letteraria e testuale. Tra le riposte finalità della presente raccolta è anche la rimozione di quel sospetto di « gozzanismo » che, paradossalmente, ha sempre gravitato su questo protagonista della vita politica e morale torinese e nazionale. « Gozzaniano », è noto, non è soltanto l’aggettivo che si deriva per uso comune dal nome, definisce invece per convenzione tutto un mondo morale negativo, una precisa posizione psicologica; riferiamo acriticamente l’epiteto ad Antonicelli e vediamo che in esso si esplicitano, perdendovi tutta la loro ambiguità, quelle altre qualifiche (più apertamente riferitegli) di «letterato », « fine umanista », « scrittore elegante »... L’imputazione di gozzanismo, lasciata cadere con un sorriso di condiscendenza, era in realtà un alibi per sminuire la figura di Antonicelli — intellettualmente erede del pensiero gobettiano e compagno di strada della classe operaia ma visceralmente legato al passato e ai buoni salotti di quella che Thovez chiamava la « Beozia torinese » — e per negare, a lui corrivo lettore di testi decadenti, la patente di critico, di studioso, di storico della letteratu-

ra. Com’erano bastate l’eleganza naturale e la nobilità dei modi a metterlo in odore di mondanità, di frivolezza, di fatuità (lo ha ricordato ancora di recente Massimo Mila nel corso di un’intervista tele-

2 Ai cospicui materiali raccolti ed elaborati da Antonicelli negli anni 1970-72 in vista della ridefinizione testuale di tutto il corpus poetico gozzaniano si è ritenuto di non dare pubblicità, l’edizione critica delle poesie di Gozzano essendo nel frattempo apparsa per altre cure (G. Gozzano, Tutte le poesie a cura di A. Rocca, introd. di M. GueLieLMINETTI, Milano, Mondadori 1980). Basti dire che molti dei criterî e degli emendamenti presentati da questa edizione trovano riscontro nelle carte di Antonicelli e nelle sue correzioni alle copie delle edizioni Calcaterra e De Marchi da lui possedute. Ma della felice acribia filologica di Antonicelli offrono già sufficiente testimonianza, credo, la sua edizione dei Colloqui pet i tipi di Alberto Tallone, Alpignano 1970 (che emendando il testo di Calcaterra e De Marchi sulla base dell’edizione originale del 1911 ha procurato il miglior testo a disposizione prima dell’edizione critica), e, più ancora, quel «libriccino » — così lo chiamava il suo autore — della Moneta seminata (G. Gozzano, La moneta seminata e altri scritti con un saggio di varianti e una scelta di documenti a cura di F. A., Milano, « All’Insegna del Pesce d’oro » — ma Scheiwiller — 1968) che unendo alla preziosità dell’iconografia gran novità di ritrovamenti testuali e di informazioni ha indicato positivamente qual era la strada da seguire per un restauro efficace dell’opera di Gozzano, inaugurando così quel «nuovo corso » della filologia gozzaniana che ha dato e sta dando i suoi frutti nell’attività di studiosi come F. Contorbia, M. Guglielminetti, A. Stàuble, A. Rocca e altri. -_

8

visiva *), così bastava la sua passione per il poeta della Signorina Felicita ad avvelenarne l’immagine pubblica. Nulla a che vedere con un tale modo di giudicare ha naturalmente il riconoscimento (Fubini, Greco, Barbatisi) di profonde consonanze tra Antonicelli e il suo poeta, ma finalmente, dovendosi qui

presentare

il critico e non

l’uomo, neanche

interessa stabilire se

Antonicelli fosse o meno uno spirito « gozzaniano », e critico — e non soltanto « letterato » — Antonicelli era a pieno diritto allorché,

dimenticando e facendo dimenticare gli amori e le simpatie, sapeva prendere le distanze da un autore per indagarne senza connivenze la personalità, inquadrarne storicamente l’opera, motivarne la fortuna, separarne gli aspetti più attuali da quelli più datati. E appunto con l’abito del critico (anche se egli si compiaceva di affermare ripetutamente il contrario), non con quello del lettore comune, per quanto raffinato, che esprime in modi immediati le proprie impressioni prime di attrazione o repulsione, Antonicelli si chinava periodicamente sull’opera del poeta Gozzano. Non è intanto un caso che proprio sulla scabrosa questione del gozzanismo si eserciti una parte cospicua della critica di Antonicelli che, sensibilissimo al problema dell’oggettività poetica ed umana di Gozzano, ripetutamente invita ad una lettura non manieristica del poeta e ad una esegesi, come egli amava in ultimo dire con parole di Aldo

Marcovecchio,

« fuori dalle abusate

formule » (e « Gozzano

senza gozzanismo » è forse anzi il principale filo conduttore di tutta la sua meditazione).

Intuendo di dover fare, con Gozzano, i conti un po’ anche con se stesso, Antonicelli sembra — coi suoi continui ritorni sull’argomento, quando questo già pareva esaurito — voler sgombrare il terreno da ogni possibile equivoco per legittimare (anzitutto ai proprî occhi) l’inclinazione per il poeta torinese. Quindi non, come pure è stato scritto,* un « rifiuto di Gozzano », ma semmai lo sforzo

3 Di Mila cfr. anche il bell’articolo Il mio amico (Antonicelli professore), « La TE Stampa », 6 novembre 1975. 4 Da L. GRECO, art. cit.: « tanto intense frequentazioni [di Gozzano] possono far pensare ad una vera simpatia, e avallare in qualcuno quel sospetto di crepuscolarismo che certa sua produzone letteraria sembrerebbe a volte suggerire: ma Antonicelli a ben conoscerlo sorprende sempre. La sua intelligenza era quanto mai attenta, la sua consapevolezza acuta e mai adagiata in comode condiscendenze. Basti, per Gozzano, un solo esempio: in un articolo sul “Radiocorriere” (n. 20, 11 maggio [ma corrige: n. 11, 14-20 maggio] 1961) Per i 50 anni dei “Colloqui”: da Gozzano a Montale, il suo rifiuto di Gozzano è netto, la sua condanna dettata con un tono di decisa virilità -_9

di liberare il poeta dai fantasmi che ancora, dopo tante ricognizioni critiche, si ergono tra noi e lui a falsarne l’immagine più autentica e ad impedircene una valutazione finalmente serena. Ferma è la condanna di Antonicelli non di Gozzano ma delle « gozzanerie dozzinali », del « gozzanismo diventato atteggiamento civile », di un « significato goffo, nemico, avvilente, il gozzanismo

come mediocre regola civile e come costume » Se il suo risentimento è tutto rivolto a chi ha avvilito Gozzano attribuendogli le proprie debolezze (« detesto la ovatta del sentimento di cui gli spiriti deboli l'hanno imbottito »; « Ho corso il rischio di odiarlo. Profanato co-

m’egli è stato da cinquant’anni dall’amore dei mediocri »°), Antonicelli è critico vigile anche nei proprî confronti: Di qualcosa dobbiamo anzitutto liberarci, di quel che Gozzano non è. Del Gozzano ridotto ai nostri amori, per cui quando diciamo, per esempio, salotto gozzaniano, ricostruiamo di colpo, con struggimento, un ambiente ch’egli non idolatrava affatto come noi abbiamo creduto.

Funzionale alla volontà di incondizionata riappropriazione del poeta è anche la critica del luogo comune di un Gozzano nostalgico e sentimentale « poeta del passato ». « Solo il passato è bello per il Gozzano? — si chiede — Ma ci sono la “grazia delle crestaie” e tante altre modernità pungenti »; le crestaie, la confetteria Baratti e l’Esposizione del 1911 « datano » la sua poesia non meno delle grate secentiste e dei salotti del 1850; come l’ambigua messinscena del « buono sentimentale giovine romantico », come l’amore ancillare e tanti altri amori, anche l’amore del passato è, in questo poeta « di testa », una funzione letteraria: In Gozzano tenerezze e lacrime non ve ne sono. Le sue sono cose più di testa che di cuore. Forse è sentimentale il suo amore per il passato? [...] Gozzano non ama il passato, lo accarezza scherzosamente. Lo riflette in uno schermo corruttore.

Con un senso

come

di sollievo Antonicelli,

di conserva

con

i

progressi della critica (ma respingendone salutarmente alcune forza(ancora moraleggiante):

quasi a fugare ogni sospetto

di affinità di temperamento

e

di vita ».

5 Cfr. 1956 e del 6 Cfr. ? Cfr. 8 Cfr.

Frammenti, s.d. Le prime due citazioni sono tratte da appunti del marzo novembre 1970. Parte II - Appendice

(Torino), e Frammenti, Frammenti, 25 maggio 1966. Parte II - Appendice (Torino).

19 settembre

1966.

ture), scopre che il connotato decisivo di Gozzano è la « falsità » (è

superfluo citare; soprattutto negli ultimi anni il tema della « finzione », dell’« astuzia », del « virtuosismo » di Gozzano diviene predominante nella sua riflessione). Acquisito che il poeta « non era un debole sentimentale:

ironizzava coi sentimenti » accolto finalmente

il « non credere a Gozzano » lanciato a suo tempo da Serra, stabilito che ci lega a Gozzano « un consenso non più sentimentale [...] ma di ordine artistico, anzi tecnico »,!° ribadito che ogni ritorno a Gozzano «è un fatto puramente letterario »,! l’esorcismo poteva ben dirsi riuscito: a perfezionarlo ulteriormente saranno due altre operazioni che conducono nel vivo di un dibattito tuttora aperto, la « liberazione » di Gozzano dai crepuscolari e la ricerca della sua « attualità ».

È ormai pressoché acquisito che « crepuscolare » Gozzano non fu — o fu pochissimo, per certuni aspetti marginali — nel senso stretto (cioè storico) del termine, ma soltanto nei sensi lati, che possono

non escludersi, di decadente (« crepuscolare » quindi Gozzano come potevano esserlo Oscr Wilde o D'Annunzio) ovvero di poeta di transizione, di un’età che ha perduto le certezze del secolo precedente, ovvero ancora (ma su questo vi è una notevole discordanza di giudizî) di anticipatore di spiriti e modi letterarî che saranno inconfondibilmente del più umbratile e tormentato Novecento (sì che una parte della critica ha potuto ricercare, e creduto di trovare, echi gozzaniani nella letteratura contemporanea e individuare, nel cuore della lirica novecentesca, una « linea crepuscolare » che da Gozzano conduce

a Montale).

Ma ad Antonicelli, cui le periodizzazioni letterarie e le dispute terminologiche interessavano poco, più che inseguire Gozzano nei meandri del decadentismo europeo o del Novecento letterario italiano stava a cuore l’esplorazione del mondo poetico e, limitatamente a un primo tempo, psicologico di Guido Gozzano. Fedele al monito crociano — non doversi ricercare e descrivere ciò che accomuna i poeti ma ciò che li distingue e ne fa la peculiarità — Antonicelli continua così, a intervalli, a riflettere sulle differenze tra Gozzano e gli altri « fratellini » messi insieme da Slataper, a separare quel che

i — 9 Cfr. Il nipote di nonna Speranza. 10 Gozzano, cinquant'anni dopo, « Radiocorriere », 21-27 agosto 1966. hi 11 Cfr. Frammenti, autunno 1970; delle sole parole qui citate consta più di una nota degli anni ’60.

nta

del poeta torinese è « dentro » da quel che è « fuori » il crepuscolarismo storico. Ho parlato di « liberazione dai crepuscolari »: l’articolo di Pancrazi in effetti, Guido Gozzano senza i crepuscolari (1933), ebbe su Antonicelli — come, per fare due nomi illustri, su Trompeo

e Momigliano — una influenza decisiva. Il Gozzano che piace ad Antonicelli (quindi quello, al suo giudizio, più valido, più degno del nostro affetto di lettori) è quello che piaceva, prima di Pancrazi, a Cecchi, a Serra, a Guglielmo Alberti:

il Gozzano delle*« sensazioni

fresche », delle immagini nitide e corpose come di pittore fiammingo, un poeta quasi giocoso, felicissimo nella raffigurazione, in modi classicamente esatti, delle « cose », delle forme segrete della natura, di

una realtà minore ma precisa: il Gozzano delle donne « reali » (la pattinatrice di Inverzale, la prima « risorta », Graziella, le golose, e

tante altre), tanto più vere delle sue donne lontanate nel sogno e nella stampa (« Mi piace [...] di scoprirgli qui non solo denti più canini, ma un appetito di più terrestri frutta » disse Alberti !) — un poeta « sano » (pur nella confessa « tabe letteraria ») affatto imparentato con i tanti malati del suo tempo, dai quali valgono a distinguerlo l’ironia, la consapevolezza (« l’unico dei crepuscolari che ebbe senso della rivolta polemica contro D’Annunzio è Gozzano »), « la modernità, il gusto del concreto », la classicità della forma (« Cre-

puscolarismo del sentimento [...] ma non crepuscolarismo della forma poetica »).® Il giudizio di Antonicelli, pur con gli inevitabili spostamenti d’accento e con quelle oscillazioni che gli erano abituali (ed erano un segno della sua disponibilità di critico, insofferente di ogni acquisizione sottratta

somma

al vaglio di una verifica continua), non muterà in-

granché rispetto alla sua prima formulazione del 1937:

Ha forse ragione il Pancrazi: Gozzano senza i crepuscolari. Mi sembrava a certe letture timidamente balbettante, qualche volta fastidiosamente accademico, accademico di rime banali. Colpa del crepuscolarismo. Dimentichiamo le sue affettazioni, gli obblighi e gli sforzi, i versi poveramente ampollosi («l’ultimo bacio e l’ultimo sussulto »), il vezzo di incastonare endecasillabi o emistichi danteschi o petrarcheschi, certi languori di Poema paradisiace, qualche spolvero evangelico-pascoliano. Dimenticate tutto questo. Anche i francesi, più volte denunciati [...]. Di-

12 G. ALBERTI (« Oreste »), Lettera di Provincia, « Il Baretti », 1925, n. 3. 13 Cfr. Frammenti, 25 maggio 1966 e s.d., e F. A., Piccolo libro di lettura, Tortino, ERI 1957, p. 48.

o

menticate. Cercate la vita contemplata, quasi per ironia, quasi per distac-

co, come attraverso un artificio di cartigli e stampe e smalti, sorretta di un gracile congegno, un gioco «di sillabe e di rime». Cercate brivido del lontano presentimento della fine, in quelle rime modeste assorte, la moderna acerba sensuale, raffinata talora e golosa grazia

donne amate...“

su il

e di

Nulla che altri non avessero detto e non ridiranno, ma interessa-

va per il momento rilevare come Antonicelli, rimuovendo fin dai suoi esordî di critico l'ostacolo dei crepuscolari ancor prima di quello del gozzanismo, non perdesse occasione di convincere e convincersi di una effettiva « positività » (non importa di che segno) del poeta Gozzano. Se quello dei crepuscolari è « il tema più complesso, più ambiguo »,° è però il tema dell’appartenenza di Gozzano all’800 ovvero al ‘900, « per quanto lieve (e forse un po’ fatuo) »,' che ha maggiormente

assorbito l’interesse di Antonicelli

(e, pare, di tutta la

critica negli ultimi vent'anni): Allora, « ultimo dei classici », addirittura, come l’irrideva « Lacerba », facendolo campione di antifuturismo e di antimodernità, « arcicucco lirico dei passatisti », o « il primo del Novecento »? [...] la domanda è così piena di seduzione che da tempo si protrae, e solo il fatto che ce la poniamo ancora potrebbe significare alla fine una scelta già avvenuta, a favore di un’inclusione nel nostro tempo...”

Una conclusione questa, cui Antonicelli perviene dopo quarant'anni di dubbî e di ripensamenti. Era infatti partito (nella scia del De Robertis, che avrebbe definito Gozzano « un classico fine Otto-

cento, attardatosi sulla soglia del nuovo secolo ») da un giudizio diametralmente opposto, secondo il quale « con un dolce e accorato canto di cigno » Gozzano aveva chiuso una stagione poetica: quella cara poesia di un giorno fu l’ultima, chiara ed espressiva, di un secolo di poesia al tramonto, che aspri, crudi ed oscuri argomenti e suoni nuovi avrebbero, dopo la prima guerra mondiale, messa

a tacere

con qualche dispregio...!*

Un giudizio peraltro sensibilmente rettificato nel 1966, anno di 14 15 16 17

Ad Da Cfr. Cfr.

Aglié di Gozzano, « Il Biellese », 5 novembre una nota ms. del 26 maggio 1966. Frammenti, 15 settembre 1970. Gozzano nel millenovecentosettanta.

1937.

18 I sogni di Guido Gozzano, « Radiocorriere », 16-22 settembre

ra

1951.

assidua riflessione gozzaniana (né, dopo le « riletture » di Gozzano da parte della critica, era più possibile ignorare le ragioni che avvicinano il poeta alla nostra cultura): ... corrode la vecchia poesia cui appartiene. Ma con questa corrosione si schiera nei suoi limiti, coi suoi modi, accanto poesia dal fondo problematico quale è l’attuale, e finalmente

agli iniziatori di una ì

la questione se ‘egli è poeta ottocentesco o novecentesco, che cosa importa? È chiaro che, agli inizî del secolo, egli ha ancora dell’ottocento (la rima, la novella, gli echi, ecc.) e con il suo risolino dissolvente ha del moderno, del nuovo, persino — han trovato — del futuro ! e così via, con numerose eco, soprattutto nelle carte manoscritte, del

dibattito che aveva opposto, negli anni ’50, « novecentisti » e « ottocentisti » (Getto, Antonielli, Sanguineti; De Castris, Mariani, più

tardi Baldacci). Rimane il fatto che, per la sua ambiguità, per l’obbligata incertezza del nostro giudizio, Gozzano è « il poeta che più ci ha attratti al problema di ciò che è Ottocento e ciò che è Novecento ». Anche di questa seconda collocazione però Antonicelli crede presto di dover dare un aggiornamento; senza arrivare mai all’eccesso di guadagnare interamente Gozzano alla « nuova arte del tormento critico », dalla fine degli anni ’60 — e soprattutto, con esemplare chiarezza di giudizio, nella prefazione all’edizione Tallone dei Colloqui — egli porta a termine quella paziente opera di recupero di Gozzano « all'arte del Novecento e alla sensibilità, al gusto, agli atteggiamenti psicologici e morali di oggi »”! cui, implicitamente, attendeva fin dai suoi primi approcci al poeta: quelle due psicologie a confronto, anzi in urto fra di loro, di chi è desideroso di credere e si dispone a non credere, [...] quel suo concretizzare un sogno essendo già in anticipo pronto a dissiparlo, e il rifiuto perenne di consistere in una qualche fede, di accettare un valore saldo, tutto quell’inventare un mondo passato senza sentirne un vero amore [...]; insomma, quell’atteggiarsi disincantato e atrestarsi abulico e dubitoso, il bisogno di rinunciare come poeta ad una investitura missionaria (né superuomo, né fanciullino, ma incurante di essere voce del pubblico o per il pubblico), di ridurre la statura umana [...], queste cose segnano l’orlo 19 Cfr. Frammenti, 4 settembre 1968. 2 Cfr. Frammenti, 4 luglio 1970. 21 Da una nota ms. del settembre 1966.

di una crisi di spirito civile e di fede artistica, e trasportano Gozzano nel territorio nostro, novecentesco, più che non lo trattengano nel precedente??

Un novecentismo però (ed è una distinzione importante, su cui la critica non ha insistito sufficientemente) dello spirito più che della forma poetica: la modernità temporale, la sua anticipazione novecentesca non è del poeta, dell’artista, ma dell’uomo morale, della sua sensibilità di « cosa vivente »;5

la novità formale era da ricercarsi, semmai, in quelle Farfalle che

Antonicelli bene riteneva troppo poco frequentate dalla critica e sulle quali (revisione testuale a parte) negli ultimissimi anni meditava uno studio particolare. Isolate didascalicamente alcune delle direzioni prese negli anni dal pensiero di Antonicelli, si lascia quindi al lettore il compito di ricostruire gli altri discorsi gozzaniani che emergono dalle prefazioni, dagli articoli, dalle conversazioni e dagli inediti qui raccolti, discorsi differenti, marginali talvolta, ma caratterizzati in egual misura (almeno a partire dal 1960) dal rifiuto criticamente persuaso di ogni psicologismo e dall’attenzione, piuttosto che alla cultura” o alla tecnica o alla lingua di Gozzano, ai sottili rapporti tra la vita e l’arte sua e, ancora e sempre, alla sua fortuna. Indagare le ragioni del « successo » di Gozzano oggi non era — come l’intervento di Fubini pur lascerebbe pensare ®©— un pretesto per riparlare del poeta ama22 Cfr. Gozzano nel millenovecentosettanta. 23 Cfr. Frammenti, 16 settembre 1970. 24 Può essere interessante notare come Antonicelli, pur avvertendo di continuo la necessità di uno studio esauriente sulla cultura di Gozzano, non affrontasse mai direttamente l’argomento. Intuiva forse, in quel tipo di ricerca, il pericolo di un fiscalismo incapace di superare il momento della dissacrazione e compiaciuto nella propria acribia distruttiva; nel 1970, di alcuni studî sulle « fonti» ed i « prestiti » gozzaniani ebbe a scrivere: «La parte destruens. Certo è una ricerca culturale importante, ma alla fine non serve a dire se e come egli fu poeta » (nota ms. del 20 settembre). 25 « Antonicelli [...] ha pure avuto non mai rinnegata una predilezione per il poeta Gozzano, in cui sembra avere identificato una parte di se stesso, torinese d’elezione, portato a vagheggiare memorie domestiche, qualche immagine del passato che si colorava di tinte gozzaniane. Ricordiamo che al Gozzano egli ha dedicato un saggio eccellente Core nacque la “Signorina Felicita”, ha curato ristampe di pagine disperse e di varianti delle poesie con

illustrazioni

del tempo,

e infine l'edizione Tallone. del

1970, di una bellezza di cui Antonicelli certo si compiacque e nella cui introduzione tentò di spiegare ancora una volta le ragioni della presenzadi quel poeta nel nostro tempo. Ma quali fossero le ragioni da lui addotte e ben dimostrate, la ragione vera per lui era, nonostante la differenza degli spiriti e dei ‘tempi, una segreta consonanza di umori e di stati d'animo: nell’Antonicelli della Resistenza e degli anni che seguirono persisteva pure il fedele di Guido Gozzano...» (Il mestiere del letterato cit., pp. 21-22).

bisi

to, un modo di coprire, giustificandola sotto la species della « necessità », un’inclinazione sentimentale, ma il tentativo di comprendere come fosse possibile, a tanti anni di distanza e nonostante tutta la sopravvenuta malizia, essere in sintonia (non lui solo: un po’ tutti)

con « quella cara poesia di un giorno ». Nondimeno, è noto come Antonicelli, anzi che « critico », abbia potuto essere frettolosamente considerato da alcuni piuttosto un « divulgatore » e, quel che suona peggio, un « brillante > divulgatore; c'è da chiedersi se i due termini non possano invece conciliarsi o anche, nel nostro caso, coincidere esattamente e inverarsi in quella nozione di « mediazione » cui più di una volta si è ricorso per definire l’opera e la personalità di Antonicelli. Sempre i suoi testi presuppongono

un « terzo », sia questo un

pubblico di lettori o di ascoltatori o di spettatori, sempre il suo fare, ritmato da ammicchi e intercalari deittici, è quello del conversatore e del conteur; l’episodio di Antonicelli che in carcere legge I prozzessi sposi a Mila e a Geymonat, entusiasmandoli a un libro che fino a quel momento essi avevano giudicato noioso e scolastico, è veramen-

te emblematico dell’intera attività letteraria di chi ha sempre concepito la cultura (anche quella fatta di sensazioni impalpabili, di piaceri sottili e raffinati) come un bene da trasmettere agli altri: Per Antonicelli la cultura non era esercizio solitario di individuale coi testi, ma sempre opera di mediazione. Gozzano mé non avrebbe potuto goderseli gelosamente da solo, anche se intendeva meglio di lui. La fruizione piena consisteva nel farli altri, rendere altri partecipi della sua conoscenza.’

confronto e Mallarnessuno li godere ad

Divulgatore quindi Antonicelli senz’altro, ma soltanto, operandosi un’opportuna sostituzione di idee accessorie, nel più nobile senso di educatore e di maestro.” L’amabilità della forma, anzitutto, non esclude mai un più segreto rigore storico e filologico (« anzi, stupisce di trovar affiancate doti non comuni di divulgatore [...] ad altre doti altrettanto non comuni di erudito e di filologo, per cui egli potè a un tempo accogliere larghi consensi fra i proprî lettori e recare contributi dignitosi agli

2% M. MILA, art. cit.

27 « Mediatore di varia cultura letteraria e storica per non dire politica » lo ha definito Fubini (Il mestiere del letterato cit., p. 26); secondo Mila proprio nella funzione dell’educatore « si congiungono le due facce di Antonicelli, il letterato e l’uomo politico » (darf. cit.). appunto

studî più seri e accademici » ha osservato Gennaro Barbarisi 2), un

rigore garantito, in primo luogo, dalla verifica sistematica e capillare di ogni dato (certe imprecisioni, gli errori anche minimi che egli si incaricava di rimuovere non solo frequentando archivî e biblioteche, ma recandosi personalmente nei luoghi che furono dei poeti), e poi dalla meticolosità con cui si documentava, sempre inappagato nella sua curiosità, sempre in cetca di piccole, preziose notizie trascurate

dalla critica accademica, di fonti di prima mano che avrebbe riferito con la vivezza delle cose vissute, da protagonista: e ancora nell’esercizio assiduo, programmatico quasi, del dubbio in relazione a quanto veniva scrivendo

(come testimoniano

i punti interrogativi, i « per-

ché », i « ma è poi vero? » di cui sono costellate le sue minute: e cosa può essere più « critico » di questo suo connaturale procedimento dilemmatico?), dal rispetto profondo per i testi, che sempre, anche nei casi meno sospetti, cercava come per sfida di emendare — finalmente, dalla dignità e dal « garbo della forma, che è sempre segno di rispetto verso i proprî interlocutori ».? Un rigore cui fan torto, una volta di più, la discrezione grandissima dell’uomo, il suo ritegno a farsi passare per « esperto » e a far uso di linguaggi specialistici, l'aspirazione ad essere scrittore, pur raffinato, veramente

popolare;

se infatti un compiacimento

era in

Antonicelli, era l’opposto di quello di tanti agguerriti critici d’oggi: il rifiuto di ogni tecnicismo quando di più d’una tecnica era padrone, il tentativo di passare per un « buon » lettore, un « buon » conversatore e poco più (critico per intuito e filologo per buon senso, erano sue autodefinizioni), l’abile occultamento della propria fatica di ricercatore nella prosa così tersa e fluida dei suoi testi, volutamente colloquiale, volutamente narrativa. Chi in tutto questo non ha sospettato un pizzico di giocosa simulazione, chi ha preso Antonicelli in parola senza neanche un dubbio o una riserva, ha potuto in buona fede vedere in lui il dilettante di lusso e risolverne l’attività letteraria nella formula della levitas: ma la sua competenza, la sua erudizione anche, la vastità delle sue documentazioni sono là, per chi le

vuol vedere, tra le righe: sono, come egli stesso avvertì un giorno i più distratti, « in filigrana ».” 2 L'attività letteraria di F. A. cit., p. 17. 2 Ibidem, p. 17. l 30 Nella Cibinione premessa a La vita di D'Annunzio raccontata da F. A., Torino, ERI 1964: « Tutto ciò che mi aveva servito per risuscitare quell’immagine di uomo [...] tutto ciò è sparito quasi del tutto dal mio racconto: i luoghi che ho

gia

Può forse capitare che qualche lettore, diseducato dalla terminologia sofisticata e apparentemente « esatta » di una critica letteraria arrogante, curiosa solo di se stessa e sempre più proclive ad ostentare i proprî processi e i proprî riferimenti culturali, rimanga perplesso (ma, credo, piacevolmente) di fronte al tono confidenziale e argu-

tamente dimesso dei « pezzi » di Antonicelli, che smettendo i panni curiali del Critico ama prendere il suo pubblico per mano e accompagnarlo quindi al testo o all’autore suscitandone la curiosità, la penetrazione, il giudizio. Convinto della funzione di stimolo della critica (piuttosto che, come egli soleva dire, di « sistemazione » o « liquidazione »), Antonicelli non amava imporsi, dire l’ultima parola, esaurire l’argomento: amava bensì lanciare indicazioni, aprire (non chiudere) i discorsi, instillare nel lettore o nell’ascoltatore qual-

che dubbio fecondo, insomma incuriosire senza troppo asseverare, toccando e passando; « chiavi offerte al lettore » sono stati definiti i suoi testi:*! e al lettore effettivamente egli lascia un margine amplissimo di integrazione, pronto ad assentarsi non appena ritenesse di avere detto il minimo indispensabile. Come gli scritti gozzaniani dimostrano esemplarmente, Antonicelli ha l’intelligenza di non giocare tutte le sue carte, di non trarre tutte le conclusioni possibili: la sua è una critica reticente e allusiva quant’altre mai (qui il suo fascino), così discreta da tendere sempre ad obliarsi per lasciar parlare gli autori e « cantare » i testi. È stato opportunamente detto che la vocazione pedagogica di Antonicelli si realizzava meglio che altrove nella forma della prefazione:* ma una prefazione, aggiungerei, con l’impulso a sublimarsi ulteriormente nella forma della « presentazione » o della Nota d’antologia. Ecco, la vera forma mentis di questo « volubile maestro » *

rivisto, dove il poeta è vissuto o passato [...] le persone che ho avvicinato, le memorie

lette, i biografi interrogati, i libri suoi e i libri intorno a lui ripresi in mano. È sparito, ma c’è in filigrana. Non compare una sola nota bibliografica in queste pagine, non ne era il caso, ma esse presuppongono tutto quello che anche un buon lettore, un curioso lettore può aver cercato ». 31 Da C. STAJANO, Ritratto critico cit., p. XXXIX. Cfr. anche F. A., Piccolo libro di lettura, Torino, ERI 1957, p. 5. 32 «Il genere letterario della prefazione è stato quasi la forma mentis di Antonicelli. Ne scrisse infinite, e tutte precise, e spesso i suoi scritti di letteratura anche quando non lo sono di proposito, sono prefazioni di fatto. Quando la sua opera sarà raccolta si vedrà che è tutta un gran “libro delle prefazioni” » (M. MILA, art. cit.). Cfr. anche C. StAJANO, Ritratto critico cit., pp. XXXVIII-XXXIX e LVIII-LIX. 33 Secondo la definizione che lo stesso Antonicelli diede dell’amatissimo Pascoli di Lyra e Sul limitare (nelle Notizie su questa scelta, in Calendario di letture raccolte e presentate da F. A., Torino, ERI 1966).

era forse proprio quella dell’antologia: lo era nella concezione della critica come di un allettamento, un « invito alla lettura » di qualcuno o qualcosa, nel piacere di spaziare nei campi della cultura e dell’arte come chi erra senza meta (ma in realtà sapendo benissimo cosa vuole, con eccezionale sicurezza di gusto e di scelte), ancor più

lo era in quell’agilità, in quella mobilità che lo distoglievano da un lavoro per fargliene intraprendere dieci altri, che pure avrebbe lasciato a favore di nuovi interessi per poi tornare a quel primo lavoro, riprendendone in nuovi articoli e in nuove conversazioni le fila interrotte (anche il suo « Gozzano » è un insieme suggestivo di queste « puntate »), in un ramificarsi di letture e di indagini che è solo pallidamente testimoniato dai numerosi elenchi — li diceva i suoi « cantieri » — di lavori in corso o da intraprendere. E « antologie », a ben vedere, possono in un certo senso essere considerati i suoi cicli radiofonici (emblematici alcuni titoli: Toccata e fuga, Da cosa nasce cosa...), la sua attività editoriale (il catalogo come una

« galleria » di autori esemplari), i suoi celebri album: un’antologia immensa — la « grande opera globale » di cui parla Mila — tutta la sua produzione critica. La forma della prefazione, la misura snella, la tendenza al fram-

mento piuttosto che allo studio ampio e sistematico, la facoltà di « esaurire nel breve respiro di poche pagine il ritratto completo di uno scrittore o l’analisi di un’opera »,° la diffidenza verso le classificazioni teoriche, la dispersione delle energie in tanti interessi differenti, l’eleganza della forma: sono tutti tratti peculiari della scrittura critica di Antonicelli che, dettati naturalmente

dall’indole

dell’uomo, si inseriscono nondimeno in una precisa tradizione letteraria, quella illustre del « saggio in punta di penna », del « capitolo », del saggio breve « di varia umanità », dell’elzeviro: una tradizione (la si sarebbe detta poi, con intento diminutivo, appunto elzeviristica) che ha visto alcune tra le prove migliori della prosa critica e meno critica italiana del 900, da Serra e De Robertis ai rondisti,

Cecchi e Baldini in testa, ad Angelini, Pancrazi — e in certe pagine loro Momigliano e Flora — a « specialisti » come Neri, Lugli,

34 « ...l’opera di Antonicelli risulterà immensa il giorno che ci si deciderà a raccogliere la sua produzone letteraria e non soltanto quella politica [...]. Forse non ci sarà la grande opera singola, sebbene tante ne avesse vagheggiate, perché la sua è una grande opera globale... » (art. cit.). 35 G. BARBARISI, L'attività cit., p. 17.

Trompeo, Solmi, Valgimigli, Praz, a « giornalisti » come

Benco o

Bellonci ad altri (non molti) ancora.

Segnatamente è, quella di Antonicelli, una critica « alterna », che sospendendosi volentieri a favore di momenti allotrî quali sono gli indugi narrativi, le descrizioni paesistiche, gli abbandoni al fluire della memoria,

ricorda da vicino, ancor più che la scrittura

classica di Cecchi o di Pancrazi, quella irregolare, composita, « aperta » di Renato Serra, Serra che per parlare di Paul Fort divaga sulla sua piovosa Cesena nella « noia della domenica mattina » e Antonicelli che descrive il Canavese come lo vedesse dall’abbaino di Villa Amarena. Evocando Serra abbiamo toccato uno dei nodi della personalità di Antonicelli — dove infatti, in lui, termina il critico, lo studioso, e dove ha inizio il narratore, il memorialista, lo scrittore di « morali-

tà »? Si deve dire che è difficile, se non impossibile, separare i due aspetti della prosa di Antonicelli, che persino nei suoi appunti preparatorî, nelle sue note private (alcuni frammenti sono gioielli di aforistica) pare obbedire all’unica legalità del « saggio » (nel senso classico di essay), dunque una legalità non solamente critica, non solamente fantastica; ogni suo scritto, ha detto Barbarisi, e il giudi-

zio è da accettarsi in pieno, tende quasi sempre alla forma del racconto, in modo da conquistare subito l’attenzione del lettore e da poter collocare le pagine di critica o di storia accanto alle prose originali, sempre fatte di riflessioni, di apologhi, di descrizione di personaggi, luoghi, atmosfere: di « piccoli poemi in prosa » ha parlato il Fubini per alcuni scritti, e la definizione può estendersi a tutta la sua produzione critica, che proprio in questo gusto e in questo stile trova una sua straordinaria unità.

Resta però a questo punto ancora da mettere a fuoco il carattere principale di questa critica letteraria antonicelliana, e tale precisamente da assicurarle un posto tutto suo nel panorama degli studî gozzaniani. Ad Antonicelli, non è un mistero, la poesia interessava meno dei

poeti. Se non ci fosse il pericolo che la dittologia venisse intesa in un senso desanctisiano, qui fuori luogo, si potrebbe dire che più dell’« artista » nel poeta egli cercasse costantemente « l’uomo »: Il poeta è un uomo come noi e sapere come da quel comune a tutti 36 Ibidem, pp. 18-19.

egli è salito alla sua singolarità non può non interessare; e restituire al nostro spirito la figura fisica è quasi toccare con mano quel miracolo della sua trasformazione in figura ideale...

Il suo approccio allo scrittore è infatti generalmente biografico, spesso addirittura topografico: infanzia, case, amicizie, viaggi: subito tutto quello che stabilendo un’intesa umana preliminare può servire ad introdurci al personaggio e alla sua arte: Un modo di avvicinare un poeta è quello di peregrinare fra i luoghi di origine della sua poesia: la patria o le patrie, le case dove il poeta è vissuto, l’ultima dove scorre ancora la sua vita, quel punto (c’è sempre un punto verosimile, paesistico) dove gli è nata dentro, come da un rimbalzo dell’esterno, un'immagine, una parola, o un ritmo, un suono [...]. Il cammino

del poeta

non

è il nostro;

ma,

appunto,

si constata,

questa

meraviglia, come l’ispirazione abbia preso il suo slancio di lì, da quel cielo, da quella linea di monte, quello svolto di fiume, da quel nome, e non da altro cielo e monte e fiume e monte.”

Senonché, nonostante una certa sfiducia nel potere conoscitivo di un’impostazione biografica della critica letteraria, anche nel prosieguo dell’indagine raramente si dà una vera lievitazione, uno stacco della critica dal livello biografico o psicologico verso le più rarefatte zone dell’analisi testuale: il fine letterato ron era infatti quel che si dice un «lettore di poesia », uno che delibasse la poesia verso a verso traducendo con esattezza sulla carta le più sottili sensazioni che gliene derivavano. Lontanissimo in questo dalle squisite « impressioni di lettura » in cui spesso si risolveva la critica vociana, Antonicelli era piuttosto — come Croce, ma diversamente da Croce per i presupposti teorici e gli esiti — uno storico dell’umanità poetica: resta infatti sempre, il fine cui assoggetta il gioco delle citazioni dei testi, quello di delineare la biografia artistica o spirituale dell’autore. Egli stesso invita dunque a cercare nella propria critica la ricostruzione di una genesi che è duplice solo in apparenza — come nasce la poesia e come nasce una personalità artistica (più che eloquente il titolo di uno dei suoi studî più noti, Come nacque la « Signorina Felicita »): di qui un’attenzione privilegiata alla preistoria

e alla storia della poesia più che alla poesia stessa, alle sue tracce nei documenti, alle varianti, alla vita pratica dell’autore nel periodo inte37 F. A., Un modo di avvicinare un poeta, « Radiocorriere », 13-19 dicembre 1964; cfr. anche la Gustificazione premessa alla Vita di D'Annunzio cit.

FIGA

ressato, alle piccole vicissitudini di tipografia; spiando, cercando anticipazioni delle future creazioni, Antonicelli ripercorre la vita degli scrittori tutto interrogando e a tutto dando senso e posto nel mosaico in formazione. Non esistono limiti alla sua curiosità: raccogliendo dati sulla vita di Gozzano si procura dettagliatissime memorie sulle prime idee politiche del giovane nonno materno di Guido, il futuro senatore Mautino; rileggendo Verso la cuna del mondo (e pensando probabilmente a Ur giorno del Vallini) medita di raccogliere una bibliografia completa degli studî buddhistici in Italia. Nascono così i suoi « album », in cui le immagini non hanno meno importanza del testo (le Immagini carducciane, la Vita di D'Annunzio, la Moneta

seminata, un altro e più ricco album gozzaniano non preparato per le stampe, l’in-folio dell'Unità d’Italia e le tavole del Triennio dell’Unità, oltre a una gran quantità di materiale iconografico in parte ancora da ordinare) e gli applauditissimi documentarî (proprio quello su Gozzano ad esempio, di cui si riproducono qui un testo immiserito e falsato dalla mancanza delle immagini, o la serie Le case dove il passato vive). « Accattone di libri » disse una volta di sé, portando via l’espressione a Croce: ma anche di cimelî, di documenti, di immagini (ciò che non poteva procurarsi fotografava o disegnava;* non esiste quasi pagina autografa sulle sue visite al Meleto che non rechi uno schizzo della casa di Gozzano o di un panorama), che era poi un modo di calarsi all’interno di quel processo genetico — l’epifania della poesia — situato al centro del suo interesse: « era un’operazione che rientrava nel suo metodo e nel suo rigore critico, senza la quale gli sarebbe stato difficile rivivere dal vero il mondo dei suoi personaggi ».’ Ma non vorrei nemmeno aver dato l’impressione di una critica letteraria traviatasi, per sordità ai valori della poesia, nella ricerca fine a se stessa dell’aneddoto o in un facile biografismo. Le evocazioni antonicelliane d’ambiente vogliono prima di ogni altra cosa essere atti d’amore nei riguardi della poesia che in quegli ambienti era nata e si era definita, e — quel che più importa — anche quando divagando più sembrano allontanarsene, quella poesia continuamente presuppongono con citazioni mascherate, parafrasi che ne

38 Sulla vocazione seconda» di disegnatore e di fotografo in Antonicelli cfr. M. Mita, A. e la fotografia, presentazione a Ci fu un tempo. Ricordi fotografici di F. A. 1926-1945, Torino, Regione Piemonte 1977. 39 G. BARBARISI, L'attività cit., p. 22.

sono al tempo stesso sottili interpretazioni e giudizî illuminanti, rimandi ora più ora meno puntuali (è anzi proprio sulla guida dei testi stessi che Antonicelli si orienta nelle sue esplorazioni, come Schliemann cercava i resti di Ilio con il poema di Omero in mano); per questo credo che non si possano leggere e guardare allo stesso modo un libro suo sul fascismo, per esempio, ed un altro dei suoi su D'Annunzio o Gozzano o Carducci. In particolare è Gozzano, si era anticipato in apertura, ad esaltare le grandi virtù evocative di Antonicelli, così per la carenza stessa di buoni studî biografici (prima della monografia della Martin ci si doveva affidare a La vita e i pallidi amori di Guido Gozzano del Vaccari, un libro che a cominciare dal titolo si attirò più di una volta gli strali di Antonicelli) come per quella singolare mistione tra vero e falso, tra il dato reale e la sua trasfigurazione ironica, che si segnala come la « chiave » della poesia gozzaniana. Rileggo che U. Bosco nel suo « Gozzano » del 1926 parlava dei Colloqui come di « una sorta di romanzo autobiografico ». Non l’avevo a

mente e forse non avevo letto quel saggio. Ed è questa anche una mia definizione.

scrive Antonicelli nel 1971; e più decisamente, in una nota senza data: « La poesia di Gozzano è la trasposizione lirica della sua biografia », oppure: « Cantò la sua biografia ».° Affermazioni che, una volta temperate da quelle intorno alla « falsità » e alla « maniera » di Gozzano, e da quelle altre sulla necessità di cercare la vita vera dei poeti soltanto nell’opera loro, fungono per noi da didascalie poste dal critico in calce alla propria ricerca. Ancor più chiaramente, presentando il documentario televisivo: Si può raccontare per immagini la vita di un poeta? Serve a comprendere la sua poesia, che è poi la sua vera vita? E la vita di Gozzano poi fu così poco avventurosa, fu anche così breve e tutta ripiegata su se stessa! Tuttavia, proviamo, perché, poi, tutta la poesia di Gozzano ha un fondamento autobiografico.

Né solo quella di Gozzano. La poesia è sempre d'occasione, aveva detto Goethe; la poesia è sempre autobiografica, ci ricorda Antonicelli (« la chiave di volta delle poesie è il poeta stesso »‘), che come con Gozzano così si conduce con tutti gli altri suoi autori. 4 Cfr. Frammenti, 18 ottobre 1971, s.d. e agosto 1966. 4 Nota ms. dell’8 novembre 1971.

« Sono andato a cercare Gozzano fuori della sua poesia per rientrare poi nella sua poesia » scrive a proposito dello stesso documentario: sostituiamo al nome del poeta torinese i nomi di De Amicis, di Carducci, di Pascoli, di D'Annunzio, di Jahier, di Saba, di Pavese, ed otteniamo una definizione (sommaria, ma sostanzialmente esatta)

di tutta la sua critica letteraria, appunto un gioco continuo di « dentro » e « fuori » la poesia, un andirivieni dalla poesia al poeta e viceversa e di nuovo da quella a questo... Fondamentalmente estraneo agli indirizzi formalisti e strutturali sti della critica, Antonicelli non concepirà mai il testo come un sistema autonomo retto da proprie leggi e smontabile e rimontabile come una macchina. In qualità di emanazione o prolungamento del suo autore (ma senza mai scadere a mero documento) il testo è per lui piuttosto un organismo o un individuo dotato di una sua propria fisicità: i Colloqui di Guido Gozzano possono così essere, prima che una raccolta poetica, un libro, quel libro di Treves del 1911 con quel disegno di Bistolfi in copertina e quei caratteri tipografici e quel tipo di carta — il libro che il poeta ideò e.in cui si compiacque, che il pubblico lesse e sgualcì e la critica recensì: non altro (perché dunque Antonicelli avrebbe tanto amato le prime edizioni dei nostri classici, se in esse non avesse visto le sole depositarie dell’unico testo veramente

« autentico »?).

L’amore del documento e del reperto prezioso, la presunta nostalgia per le « date » (quel suo gusto tra il risorgimentale e il liberty) e il rigore filologico più austero che gli veniva dalla prestigiosa scuola torinese si incontrano qui, nel rispetto profondo e nella ricerca amorosa delle origizes. Per Antonicelli restaurare un testo non voleva dire soltanto emendare un verso o apporvi in calce una variante, ma anche riprodurre (e in quest’arte del fac-sizzile egli è stato in Italia maestro insuperato) i disegni, i fregi, le inezie che lo accompagnavano originalmente, la sua stessa prima composizione e

impaginazione tipografica — insomma, come specificò presentando la raccolta di varianti e documenti gozzaniani unanimemente riconosciuta come il suo più valido ed originale contributo agli studî, testimonianze di vario genere, che possono giovare alla ricostruzione dell’ambiente, alla definizione del clima in cui visse il poeta e prese colore l’opera sua, e alla storia della sua fortuna.*

® La moneta seminata cit., p. 11.

La religione del restauro, la scelta dell’incontentabilità, tanta punti-

gliosa acribia di correttore nascono qui. « Piccolezze erudite — ebbe a dire Antonicelli di una sua minima postilla carducciana — senz’altro; ma l’affetto per la poesia è sempre storico, e cerca l’esattezza: nell’esattezza rivive l’ora e il clima delle creazioni ».£ MicHELE

MARI

43 Un battesimo del Tevere in F. A., Il soldato di Lambessa, Torino, ERI

p. 219.

1957,

NOTA

AL TESTO

La prima sezione del volume raccoglie i tre contributi più rilevanti di Antonicelli alla critica gozzaniana. Gozzano nel millenovecentosettanta, che si può considerare la su7z4 della sua lunga riflessione sul poeta torinese, è la prefazione all’edizione dei Colloqui da lui curata per i tipi di Alberto Tallone nel 1970; più circoscritto, ma forse proprio per questo più rappresentativo della critica antonicelliana, Come nacque la « Signori na Felicita » è il testo di una conversazione radiofonica del 26 aprile 1953 pubblicata per la prima volta ne « Lo Smeraldo » del 30 maggio 1953, quindi in F. A., Il soldato di Lambessa, Torino, ERI 1956, pp. 83-94; della Moneta seminata (G. Gozzano, La moneta seminata e altri scritti con un saggio di varianti e una scelta di documenti a cura di F. A., Milano,

« All’Insegna

del

Pesce

d’oro »



ma

Scheiwiller



1968),

rinviando senz’altro al volume per quanto riguarda testi e documenti, si ristampano qui soltanto la prefazione (Giustificazione della raccolta), che bene dà la misura dell’appassionata (e, nella fattispecie, pionieristica) filologia dell’autore, e — per la relativa autonomia conferitale dalla sua ampiezza — la nota critica alla prima parte della raccolta (Sette favole). Nella seconda sezione è riprodotto, nei limiti del possibile, il testo del documentario televisivo Il nipote di nonna Speranza realizzato da Antonicelli per la regia di Vladi Orengo e trasmesso il 31 marzo 1967 (ovviamente sono stati omessi i passaggi di commento alle immagini); ad esso segue una testimonianza dell’amico di Gozzano « Golia » (l’illustratore Eugenio Colmo) così come Antonicelli l’ha lasciata trascritta (con ogni probabilità il dattiloscritto risale alla metà degli anni ’60). In appendice si leggono quindi — ordinati per nuclei tematici a scapito della successione cronologica originale — alcuni brani tratti da altri articoli e conversazioni di Antonicelli, e precisamente da: Ad Aglié di Gozzano, « Il Biellese », 5 novembre 1937; Amore di Torino, « La Stampa », 29 novembre 1952; La poesia dà il nome alle cose, conversazione radiofonica dell’8 agosto 1954; Trittico gozzaniano. I. La vita, conversazione radiofonica del 23 dicembre 1966; Il poeta della Signorina Felicita, « Video », gennaio 1967.

Per comodità del lettore fornisco l’elenco di tutti gli altri scritti gozzaniani di Antonicelli: Gozzano da ieri riposa nella chiesa di S. Gaudenzio, « La Stampa », 7 l settembre 1951. Il nostro bel Guido

Gozzano,

« La Stampa », 15 settembre

1951.

I sogni di Guido Gozzano, « Radiocorriere », 16-22 settembre 1951. Album della vita e dei sogni di Guido Gozzano, conversazione radiofonica, 19 settembre 1951. Trenta settembre novecentosette, « Radiocortiere », 22-28 settembre 1957. Da Gozzano a Montale, « Radiocorriere », 14-20 maggio 1961. Gozzano, cinquant’anni dopo, « Radiocorriere », 21-27 agosto 1966. Esplorazione di Gozzano e un epistolario di Saba, « Radiocorriere »,

4-10 dicembre 1966. Trittico gozzaniano. II. La poesia; III. Gozzano e la critica, conver-

sazioni radiofoniche del 30 dicembre 1966 e 7 gennaio 1967. All’ombra di Gozzano la poesia di Carlo Vallini, « Radiocorriere », 10-16 settembre 1967. Note gozzaniane si leggono anche in F.A., Piccolo libro di lettura, Torino, ERI 1957, pp. 48-9, e in Calendario di letture raccolte e presentate da F.A., Torino, ERI 1966, nonché sulle copertine dei dischi FonitCetra Torino di Gozzano (1961) e Ricordiamo Gozzano (1966). Inverosimile l’attribuzione ad Antonicelli dell’articolo non firmato Oggi Torino onora il poeta Guido Gozzano (« La Gazzetta del Popolo »,

15 settembre 1951) risultante dall’opuscolo Guido Gozzano (1883-1916) — Nota bibliografica approntato per il cinquantenario della morte del poeta dalla « Bottega d’Erasmo » di Torino. Di un altro articolo non pubblicato (Interesse per Gozzano, settembre 1966) e di un intervento tenuto nell’aprile 1967 al « Circolo » di Voghera sul tema « Rilettura di Gozzano » (cfr. G.M., F.A. « rilegge » Gozzano, « Giornale di Voghera », 6 aprile 1967) ci sono rimaste soltanto le minute. Sotto la denominazione di Frammenti inediti sono infine raccolte alcune delle numerosissime note che Antonicelli soleva vergare su fogli sparsi, taccuini e margini di libri accompagnando così la preparazione e l'elaborazione vera e propria dei suoi testi; la scelta che se ne propone al lettore è quanto mai stretta, e vuol’essere più che altro rappresentativa dell’irrequietezza e della coscienziosità di un pensiero critico naturalmente portato alla continua interrogazione di se stesso.

Nella trascrizione si sono sciolte tutte le abbreviazioni e si sono introdotte, dove mancassero, le maiuscole dopo punto fermo e nei nomi proprî o nei titoli; qua e là è stata rivista anche la punteggiatura.

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GOZZANO NEL MILLENOVECENTOSETTANTA

Il piccolo miracolo di Gozzano è di essere risorto all’attenzione di un Novecento molto avanzato nel suo corso, avendo attraversato

dopo anni di corruzione e di violenza anche anni di fuoco e di ceneri. Dopo Majdanek! direbbe un Saba stupito e sconsolato. Davvero, sorprende che un poeta in apparenza così poco problematico e così isolato da noi nel suo mondo di ieri, sia approdato ai nostri

tempi in una navigazione critica tutt’altro che sfortunata. È lecito pensare che sia unico merito del segreto sempre fresco e grazioso di quella poesia e di quel residuo di « echi imprecisabili » — li avvertiva finemente Gramsci nella Signorina Felicita — che, istigando il lettore, prolungano l’esistenza di ogni vera opera d’arte? Se c’è un poeta che ami la mistificazione quello è Gozzano; a metterla a nudo e spiegarne i congegni si può sempre ricominciare.

Ma questi motivi si collegano con un altro, più determinante: il bisogno di ricapitolare, di riordinare le somme, chiarire le idee una nuova volta, appunto dopo i grandi sconquassi. E riprender tutto daccapo; cercando, come è giusto, più lontano possibile fra i blocchi e le crepe della nostra storia moderna, scoprendo con maggiore nitidezza, tra gli altri cammini, anche quello della poesia del nostro secolo, portava ovviamente

a risalire alle origini, a individuarle, a

fornirle di date certe, di situazioni definite e a quel punto incontrarsi con Gozzano. È vero che le proposte sono state anche diverse (non poteva aver più diritti di predecessore un Corazzini, o, fuori dei crepuscolari, il « provocatore del Parnaso del nostro secolo » non era forse Lucini?)

ma, per accettarlo o scartarlo, a un colloquio con

Gozzano non era possibile sottrarsi. Così, andati per quella via, i filoni d’indagine si sono variamente intrecciati. Da una parte, si è avvicinata, più complessa di un tempo,

la couche delle fonti gozzaniane, che una scarsa curiosità euristica non aveva nemmeno permesso di sospettare (mescolando prosa e PES MI

poesia: molto più D'Annunzio del già conosciuto, e Maeterlinck e Loti e Zola, oltre ai petits maîtres del simbolismo), da un’altra si è andati seguendo il flusso della sua fortuna poetica, il persistere dei suoi echi, anche i più fievoli, nella memoria dei novecentisti, le sue minime provocazioni in poeti, narratori e magari in critici. E così, incalzata da presso la sua cultura, varia, divertita, ma priva di vero

impegno e un po’ ristretta nell’ambito di una frequentazione subalpina, e rivelato con qualche stupore il suo ascendente su artisti tanto diversi da lui, si è venuti fissando un’immagine della sua poesia e del rapporto uomo-poeta ben lontana dalle vecchie decalcomanie. Che poeta era dunque questo Gozzano, la cui astuzia superava la facilità, così da mettere in allarme i critici meno

faccendoni, e la

« falsità » imbrogliava apparenze tanto ingenue? Poteva essere semplicemente un epigono, un « serrafila » dei poeti dell'Ottocento? Certamente, le sue architetture metriche erano sempre le tradizionali (impossibile pensare un Gozzano versiliberista), il piacere di novellare in versi tradiva una consuetudine chiaramente ottocentesca, l’abbandono alla declamazione, al canto, talvolta a una modulazione da

romanza, era l’ultimo dei gusti sopportabili da un orecchio del Novecento. Ma le malizie insinuate con noncuranza e, assai più di questi trucchi signorili, quelle due psicologie a confronto, anzi in urto fra loro, di chi è desideroso di credere e si dispone a non credere, la dissonanza fra la modestia malinconica e quasi buffa e la « semplicità che l’anima consola », quel suo concretizzare un sogno essendo già in anticipo pronto a dissiparlo, e il rifiuto perenne di consistere in una qualche fede, di accettare un valore saldo, tutto quell’inventare un mondo passato senza sentirne un vero amore (solo un « odore del passato ») e, per esempio, quel curioso inganno della mente di battezzare « tempo sacro del risveglio » un Risorgimento goduto nella rievocazione di un « ambiente sconsolato e brullo » e,

viceversa, « mite e sconsolato » il proprio tempo, così agitato, dirà altrove, da « lotte brutali », da « commerci turbinosi »; insomma, quell’atteggiarsi disincantato e arrestarsi abulico e dubitoso, il bisogno di rinunciare come poeta ad una investitura missionaria (né superuomo, né fanciullino, ma incurante di essere voce del pubblico o per il pubblico), di ridurre la statura umana, la sua prestanza e vigoria, la sua alterezza, la coscienza di sé, le ribelli speranze, avendo

un’idea del mistero tutta terrena, queste cose insieme segnano l’orlo di una crisi di spirito civile e di fede artistica, e trasportano Gozzano

nel territorio nostro, novecentesco, più che non lo trattengano nel

precedente.

Allora, « ultimo dei classici », addirittura, come l’irrideva « La-

cerba », facendolo campione di antifuturismo e di antimodernità, « arcicucco lirico dei passatisti », o « il primo del Novecento »? Una volta Ferdinando Neri (un maestro) sorrise di questo incorreggibile amore di collocazioni così poco critiche. Ma se ne dava una ragione. Infatti la domanda è così piena di seduzione che da tempo si protrae, e solo il fatto che ce la poniamo ancora potrebbe significare alla fine una scelta già avvenuta, a favore di un’inclusione nel nostro tempo, sia pure in un luogo, in una situazione affatto speciali. Un poeta bifronte, si potrebbe quasi dire, e in quella duplicità (piuttosto, un’indeterminatezza) è il suo fascino ancora sensibile. Quando Gozzano moriva, nel farsi atroce della guerra, cui, in

qualità di artista, il poeta aveva partecipato con la più esangue retorica, nello stesso anno, in una trincea carsolina nasceva il poeta nuovo italiano, Ungaretti, da una realtà sconvolgente e da una ben diversa pena dell’anima, che non erano più crepuscolo, più nulla avevano che fare con la soaveamara musa gozzaniana (eppure, qualcuno in trincea si era portato, « blando contravveleno » alla tragica realtà, il libro dei Collogui: tanto per ricordare, la vita non ha conforti prestabiliti, e non basta un rullo di tamburi a dividere soldati da fantasmi). Dunque non era stata la guerra un grosso fendente sul tempo? e sulla civiltà letteraria, come su ogni altro ramo della civiltà? Invece, alle soglie della guerra Gozzano, con i suoi metri antichi, ma con il suo gusto moderno che prendeva la distanza dalle cose stesse che amava, aveva depositato la sua inquietudine di uomo malato non solo nel corpo, la sua ricerca di una verità più umile, se non così scabra, così vicina all’osso come quella

dei poeti che stavano sopravvenendo, o che già gli erano intorno, ma lui non conosceva (i vociani, per esempio; ma così mute al riguardo sono le carte quae exstant della sua cultura). Nell’età in cui visse, nell’ambito della società borghese di una zona d’Italia che l'amaro Thovez aveva definito « Beozia », non gli era concesso di essere un eversore, e per conto suo si moveva in uno spazio morale troppo angusto e le domande che rivolgeva, in versi, alla Vita, alla Morte, alla Natura, non andavano oltre il primo battito della perplessità; ma già il suo distacco critico, il suo colloquio ironico con la gloria dei predecessori e con la gloria stessa e con la sua stessa condizione di poeta, il suo piccolo personale lavoro di Ri

corrosione e dissacrazione dei modelli letterari, l’incrinatura ch'egli incideva, sia pure appena sensibile, nella tradizione lirica, lo dovevano condurre un poco al di là del suo tempo, oltre l’età della guerra, in modo da non sembrare troppo estraneo alle nuove generazioni. Non di più: la scelta, così prediletta, dei suoi maestri francesi rivela con evidenza la sola curiosità di motivi idillici, la sua contesta-

zione del mondo vivente e della letteratura consacrata non condanna disfacimenti e non profetizza scosse, né denuncia con chiarezza ma-

lesseri e perdita di valori, nemmeno vuol difendere con forza l’isolamento conquistato. È soltanto un segno, pur non trascurabile, di coscienza avvertita. Ma anche su altre ragioni riusciva a sostenersi cotani nel gusto mutato dei novecentisti. Già lontano negli anni, e in piena stagione ermetica, nel ’36, al giovane laureando Vittorio Sereni pareva di scoprire che l’inattuale Gozzano poteva « riassumere un’attualità, insegnare, proprio ora, qualche cosa », ed erano, quell’attualità e quell'insegnamento contro un pericolo di rarefazione, indicati nell’attaccamento di Gozzano, al di là di compiaciute leziosità e mondanità,

alla vivezza di particolari di ambienti, di paesi, di oggetti, nel suo acuto senso della contemporaneità: una prova di conciliazione con la vita, una nuova « concordia » con le cose, diceva Sereni (e pensava

al consimile esempio di Montale), per cui « in questo modo rivisto Gozzano può offrire un apporto notevole alla formazione di una nuova atmosfera di poesia ». Perciò, si può concludere, l’operazione critica che ha non liberato Gozzano dalla sua maniera, che sarebbe un falso, ma liberato in lui

ciò che di meno visibile c’era, capace di assumere in sé, nella propria storia poetica, in misura

sia pure minima,

con invenzioni di miti

imperfetti, o ambigui, i turbamenti dell’insoddisfazione, il sapore di aridità di un’età che declinava, quell’operazione, perfezionandosi via via, è riuscita. Lo ha anche liberato, conseguentemente, dal « gozzanismo », che non è cosa sua, ma una corriva interpretazione della

sua apparente fatuità, di ogni suo sofisticato distacco dalla realtà e dagl’'impegni più severi della vita. Troppo complice ironia, nel bel mezzo del convenzionale, lo salvava come poeta; e del malore etico egli non è propriamente responsabile. Ora finalmente possiamo accettare una rilettura di Gozzano poeta come un piacere sempre disponibile, fra godute novellette sentimentali (alcune, le più riuscite del suo tempo favorevole alla novellistica:

Serra lo vide subito) e perfetti scenari di memoria

ua

inventata,

certi versi di nitore prezioso, sia pure accanto a vari scarti oleografici e deboli cantilene: poéta minor, ma, si potrebbe dedurre da tante perizie critiche, nella svolta fra l’Otto e il Novecento, intestatario di

un passaggio obbligato della poesia italiana, se obbligo ci può essere nella storia letteraria e in ogni altra storia.

Il libro dei Collogui è un piccolo canzoniere. Il suo autore si illuse di annodarne

i fili, dall’interno all’esterno, in un solo « filo

ciclico », riconoscendolo sottile, di tessere cioè una storia psicologica coerente, dal vagabondaggio di varie esperienze a una quiete di rassegnazione. Il lettore non lo può seguire. Potrà credere nel personaggio unico, al centro di tutti i « colloqui », quell’io che ama con la mente e disama col cuore nel tempo stesso, tenero e schivo, di un gelo consapevole, e che vi sia un appena avvertibile décalage fra Guido Gozzano e Totò Merùmeni (« Totò Merùmeni — si è chiesto anche Mario Soldati — che cos’è, se non un travestimento sem-

plificante di Gozzano stesso? »), ma se lo dimentica per via, non può che leggere separatamente liriche e poemetti, ognuno con la sua luce di crepuscolo in sé. L’unità, dunque, non è nella supposta trama del « reduce dall'amore e dalla morte » da entrambe le « cose belle » ingannato, ma, naturalmente, è nel tono che, con poche variazioni, è

costante dappertutto, riconoscibile senza incertezze. Non contano le rispondenze, i riecheggiamenti abili, e talvolta oziosi, di cui i Colloqui abbondano, da tema a tema e all’interno di uno stesso componimento; il tono unitario è quello già ampiamente descritto dai critici, alla quale descrizione bisognerebbe solo aggiungere, forse, che a stento lo scherzo tiene a freno la pietà e il disincanto dissolve l’incanto: assai spesso l’antitesi è evidente. Eppure l’equilibrio rimane, più per istinto, si direbbe, che per artificio. Le due strade, Elogio degli amori ancillari, Il gioco del silenzio, Il buon compagno, Invernale, Paolo e Virginia, La signorina Felicita, L'amica di nonna Speranza, Cocotte, Una risorta, Un'altra risorta...

non ci sono che figure femminili intorno a Gozzano — Totò Merùmeni, e schermaglie amorose o solo galanti. La stessa Torino è una città-donna,

« favorevole ai piaceri », o materna come una vecchia

fantesca di casa. Anche di fronte a quel limitato mondo sociale e umano l’atteggiamento del poeta è unico; immagini staccate nel passato e soltanto là, in quella cuna, lievitate e desiderate, possono coesistere in lui con altre nervosamente moderne, l'impossibile e il lontano vivono alla

pari in un « altro » tempo che, nonostante l’amore intellettuale di Gozzano per le date, non può avere date: il tempo, che tutto pareggia, della rinuncia. Ma dentro quel tono unico gozzaniano, che nasce da quell’atteggiamento anch’esso unico di fronte alle poche cose interessategli della vita, abbiamo sempre il sospetto che siano da scoprire ancora variegazioni che senza alterarlo possano confermarlo meno univoco: dobbiamo aspettare che qualche geomètra strutturalistaci renda accorti di altri « echi imprecisabili ».

COME NACQUE LA « SIGNORINA FELICITA »

La « Signorina Felicita » (c’è bisogno di aggiungere, quella di Gozzano?) nacque di un grado sociale più giù della figlia di un « quasi bifolco », per giunta « in fama d’usuraio », in un ambiente di provincia: nacque domestica, servetta di monte. Il primo annuncio che il suo creatore ne diede è del 3 agosto 1907, da Ceresole Reale, all’Amica (Amica con l’a maiuscola: siamo in tempi ancora dannunziani), la poetessa Amalia Guglielminetti. Da parecchie settimane sono qui in una solitudine deliziosa e con dinnanzi uno scenario che ricorda il 2° atto della Figlia di Jorio... Come! Non ho una Mila per compagna, ma una servente indigena e prosaicissima. Che non mi annoia però: alla sera, mentre io contemplo il tramonto sui picchi nevati delle Levanne, ella parla. Io non l’ascolto: ma la sua voce mi giunge a quando a quando, attraverso il rombo della mia malinconia, e afferro brani di cose bellissime, di episodi che sfrutterò forse poeticamente: « La storia del Curato che fuggì con la figlia del Sindaco » oppure « della Marchesa che s’innamorò della guida; e furono sorpresi dal marito ». E così via... Ma non pensate male, Amica mia! È una onestis-

sima fanciulla, figlia di Maria, ed io nutro per lei la più rispettosa ripugnanza: imaginate un corpo diciottenne, ma che in città, sdegnerebbe una vecchia ottuagenaria, imaginate un volto quadrato, scialbo, roseo, lentigginoso, senza pupille, senza ciglia, senza sopracciglia, e un viscidume di capelli gialli, tirati, tirati lisci aderenti e stretti alla nuca in un fascio di trecciuole minute e su tutto il volto diffusi i segni dell’idiozia ereditaria... e questa è la servente che avrò fino a che non giunga mia Madre, dal mare.

Davvero, così descritta, non c’era da pensar male. Del resto, nella stessa lettera, il Gozzano confessa: « Che nostalgia spaventosa ho delle Signore ben vestite, ben calzate, ben pettinate... Che desiderio di stringere una bella toilette di taglio perfetto! Ah! le pastorelle e la campagna non son fatte per me... »

Ma una fantasia si era insinuata. Seguiamola. Tre mesi dopo, 12 novembre, siamo scesi al piano, fra le piccole

ondulazioni del Canavese. Dal Meleto, la villetta di campagna: malia, mia cara Amica... ». Il poeta malato si sente meglio.

« A-

Sto meglio anche perché sono innamorato! Di una donna che non esiste, naturalmente! La signorina Domestica. Una deliziosa creatura provinciale, senza cipria e senza busto, con un volto quadro e le mandibole maschie, con un nasetto camuso sparso di efelidi leggere, due occhi chiari senza sopracciglia, come nei quadri fiamminghi; non ridete, amica! Ritroverete la mia Bella tra l’odore del caffè tostato, della lavanda, della carta da bollo e dell’inchiostro putrefatto; con a sfondo una tapizzeria (sic) a rombi di ghirlande rococò, racchiudenti ognuna un ‘episodio alternato della miseranda favola di Piramo e di Tisbe... È strano ch’io mi sia così cerebralmente invaghito di costei, mentre ho ancora nella retina la vostra moderna figura di raffinata. Forse è una reazione, una benefica reazione... Volevo farne una prosa a brevi capitoli lirici, uniti da una trama sentimentale, onesta, pura, sana, come la carne della protagonista: ma non farò probabilmente. Ogni volta che mi accingo ‘a questo lavoro mi prende un’abulìa, un tremito, un’impotenza verbale» e metrica, indefinibili...

È una lettera press’a poco identica a quella, notissima agli studiosi, che Guido Gozzano scriveva in quei giorni all'amico critico letterario Giulio De Frenzi, ricca di qualche particolare descrittivo in più. La servetta montanara, come tale, è scomparsa. Ma l’umile mestiere forse ha suggerito il nome, Domestica. Il nome s’impone; è segnato, intorno a quel tempo senza dubbio, in un album del poeta, come il titolo di un tema da trattare; dura quasi un anno: almeno, il 17 settembre 1908, quando il poemetto è già più che avviato, si parla ancora della signorina Domestica, anzi « La Signorina Domestica ovvero la moglie del saggio », come è precisato in una cartolina del 12 luglio, che porta ad Amalia, come un saluto, una primizia,

una delle compiute sestine, quella che diventerà, ritoccata, la penultima dell’idillio. Ecco i versi in quella prima, forse immediata stesura. E giunse l’ora del commiato alfine. E fu il commiato d’altri tempi, quando le amate in bande liscie e in crinoline, fra i pioppi d’un giardino venerando, singhiozzavano piano, salutando diligenze che andavano al confine.

I pioppi scomparvero nel testo definitivo. Erano derivati al Gozi

zano da una strofe dell’E/égie dixième del libro Le Deuil des Primevères di Francis Jammes: e non staremo qui a indicare fra i due poeti vicinanze e distacchi, così a lungo sorvegliati dai critici, ma ricorderemo solo che quei versi del Jammes erano stati trascritti nell’album di Gozzano già nel 1906; al momento giusto avevano forzato la porta e trovato il posto adatto, la sistemazione nuova. Anche in Francis Jammes gli addii lagrimosi, i fazzoletti che salutano i grandi viaggi comme

aux temps anciens, e quei pioppi.

Ma il volto della primitiva servetta? Certe « postille » sono svanite, ma alcuni elementi essenziali sono rimasti, sia pure raffinandosi, in quella che da donna repugnante è divenuta « deliziosa creatura provinciale »: il volto quadro, la mancanza di sopracciglia, le lentiggini — mutate più preziosamente in efelidi leggere e limitate al naso — e i capelli da gialli fatti castani (e nella poesia poi, belli « di color di sole »), ma già lisci, aderenti alle tempia, e il nodo di trecciuole minute, e il corpo sgraziato. Nella Signorina Domestica c’è di più, anzi di diverso, una luce che ferma, e rileva la bellezza un po’ scialba: l’azzurto delle iridi. E due particolari: uno che rimarrà, « la bocca larga e sana », e uno che scomparirà, « il naso camuso ». E l’evocazione artistica che suggella il tipo: i quadri fiamminghi. E ora leggiamo. Un colpo di pennello, e, sembrerebbe, le parole della lettera all'amico De Frenzi e all’amica Amalia vengono sistemate senza sforzo nelle striscie dei versi e nella cornice delle sestine. Sei quasi brutta... (sarà il farmacista pettegolo a malignare nella farmacia con l’avvocato: la Signorina è un’oca, è brutta, senza seno, povera, volgaruccia come una cuoca. Ma il « quasi brutta » del poeta è così affettuoso!) Sei quasi brutta, priva di lusinga nelle tue vesti quasi campagnole, ma la tua faccia buona e casalinga, ma i bei capelli di color di sole, attorti in minutissime

trecciuole,

ti fanno un tipo di beltà fiamminga... E rivedo la tua bocca vermiglia così larga nel ridere e nel bere, e il volto quadro, senza sopracciglia, tutto sparso d’efelidi leggiere

239

À

e gli occhi fermi l’iridi sincere azzurre d’un azzutto di stoviglia...

Le carte notarili, l’odore del caffè e dell’inchiostro putrefatto (l'inchiostro putrefatto è già segnato fra gli appunti del famoso album iniziato nel 1906), le tappezzerie a ghirlande rococò, le favole mitologiche... Queste cose nacquero a un tempo, si è visto, corr la Signorina Domestica e non furono abbandonate più: in realtà l’amore cerebrale per quell'immagine femminile era l’amore per il luogo natio e il passato e le fantasticherie più care a quella vita che intanto, al poeta, fuggiva. La signorina provinciale è, essa stessa, un tempo e un luogo,

evocati, concretati e idealizzati nella sua figura. Ma la servetta originaria e colta reale nella vita è, forse davvero,

la prima idea fisica della Signorina Felicita. Adagio! Abbiamo detto Felicita. Siamo già all’« idillio » finito, come comparve nel fascicolo nella Nuova Antologia del 16 marzo 1909? Non ancora. C’è di mezzo un poemetto, L’Ipotesi, che porta una data « Aglié Canavese, autunno 1907 »: com’è noto, il poemetto fu rinnegato, e comparve solamente nel periodico « Il viandante » del 6 febbraio 1910, per compiacenza del poeta verso il Direttore Tomaso Monicelli. L’Ipotesi, per dichiarazione dell’autore, è « preludio » della Signorina Felicita. Fu concepito nel metro lungo, andante e dolcemente monotono dell’ Azzica di Nonna Speranza. « ... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!» Le date ch’egli adorava: « ma pur che molto passate », come quella, appunto, dell’Amzica di Nonna Speranza, « o molto di là da venire », come

quella dell’Ipotesi: « Quest’oggi il mio sogno mi canta figure, parvenze tranquille d’un giorno d’estate, nel mille e... novecento... quaranta ». Ma al Gozzano quella sua prima maniera riusciva ormai intollerabile; si sentiva « affinato a una metrica più severa ». Eliminato il poemetto, rimase la materia, per così dire, la favola di un’ipotesi, di un matrimonio possibile, sereno e prosaico. Io penso talvolta che vita, che vita sarebbe la mia, se già la Signora vestita di nulla non fosse per via...

E penso pur quale Signora m’avrei dalla sorte per moglie; se quella tutt’altra Signora non già s’affacciasse alle soglie.

Sposare vorremmo non quella che legge romanzi, cresciuta tra gli agi, mutevole e bella, raffinata e saputa... Ma quella che vive tranquilla, serena col padre borghese in un’antichissima villa remota del Canavese...

Ma quella che prega e digiuna e canta e ride, più fresca dell’acqua, e vive con una semplicità di fantesca. Ma quella che porta le chiome lisce sul volto rosato e cuce e attende al bucato e vive secondo

il suo nome:

un nome che è come uno scrigno di cose semplici e buone, che è come un lavacro benigno di canfora spigo sapone... un nome

così disadorno e bello che il cuore ne trema;

il candido nome che un giorno vorrò celebrare in poema, il fresco nome innocente come un ruscello che va: Felìcita! Oh! Veramente Felìcita!... Felicità...

Il nome, dopo una sapiente modulazione, è come scoppiato raggiante; così impostato, il poemetto si svolgerà poi con la solita mescolanza gozzaniana di tenerezza e di vaga ironia, di finzione e di sincerità, e di disinvoltura e sorveglianza tecnica. Ma in un frammento, certo precedente, che leggiamo al fondo dell’epistolario Gozzano-Guglielminetti, c'è ancora un indugio sul primitivo nome, come c'è un’incertezza su molti particolari: Domestica. — La Signorina Domestica! Oh! Veramente domestica: dolce ridente fra i testi d’erba cedrina!

Poi l’ipotetico matrimonio del saggio si ridusse a un vagheggiamento, a un idillio, e a un desiderio di saggezza (Ob! questa vita sterile di sogno! / Meglio la vita ruvida concreta / del buon mercante inteso alla moneta,

/ meglio andare sferzati dal bisogno,

/

ma vivere di vita!...); le più facili e abbandonate rime s’inquadrarono in sestine di cesello più paziente, di finitura più rigorosa. E il nome ritrovato insieme con un’idea più precisa di un sogno, di un’aspirazione (Felìcita, felicità) campeggiò nel primo verso dell’idillio, senza più modulazioni e commenti. Signorina Felicita, a quest’ora scende la sera nel giardino antico della tua casa...

A

« Mio caro Guido, — Torino, venerdì Santo, 9 aprile 1909 — la « Signorina Felicita » m’ha raggiunta solo stamane dopo aver peregrinato sulle mie traccie su e giù per l’Italia ». Il poemetto era dunque uscito, sulla « Nuova Antologia ». Segue il giudizio di Amalia, piuttosto generico: « Come vi ritrovo le vostra freschezza, il vostro riso amabilmente amarognolo di non so che amaro, l’amaro di certi fiori di siepe spinosa, forse ».

Secondo un disegno primitivo La Signorina Felicita doveva essere un idillio in due tempi, un intermezzo e venticinque episodi. In una lettera del 9 settembre 1908 il poeta confesserà che l’idillio è appena schematicamente concepito — « manca di tutto l’intermezzo (che sarà il mio esiglio d’oltre mare) e del tempo secondo, epilogo fantastico che devo ancora a lungo meditare con me stesso » — e il 17 settembre annuncia che « il primo tempo è quasi compiuto: mancano un canto e qualche sestina, qua e là... » e « Sarà una buona cosa? — aggiunge — Piacerà? A me piace qualche volta e qualche volta no. Certo m'è costata molta pazienza: e dalla tenuità della forma volutamente dimessa (benché a rima triplice). purtroppo non pare... ». Il poemetto risultò poi compiuto in otto parti, o canti; la divisione in due tempi fu abolita, probabilmente il primo tempo gli dovette parere anche tempo unico, e il secondo che avrebbe dovuto costituire, secondo le sue parole, una sorta di epilogo fantastico, forse si esaurì nell’esperimento per lui fallito del poemetto L’Ipotesi, che per l'appunto è un epilogo di fantasia. Quanto all’intermezzo sul suo « esiglio d’oltre mare », esso di-

ventò la conclusione dell’idillio: la partenza per un viaggio, l’abbandono. Il poeta aveva più volte annunciato quel viaggio reale: « ai primi freddi — scriveva ad Amalia il 3 agosto 1908 — io navigo alla volta delle Isole Canarie e dalle Canarie, ai primi caldi (Aprile-Maggio), attraverserò l'Atlantico per il Brasile »; « sarò lontano — pensava il 28 di quell’agosto — in un’isola perduta dell’Atlantico »; ma il viaggio andrà a monte per la grave malattia della madre. « Viaggio con le rondini stamane... » « Dove andrà? » — « Dove andrò! Non so... Viaggio, viaggio per fuggire altro viaggio... Oltre Marocco, ad isolette strane, ricche in essenze, in datteri, in banane,

perdute nell’Atlantico selvaggio...

Anche quel desiderio, quel sogno, quella speranza di salute pe-

netrò in condizione di fantasia, nel finale dell’idillio, a equilibrare,

come sempre, la verità della confidenza con l’invenzione della favola, e la sobria malinconia dell’animo con la cerebrale causticità. Così concepito e lungamente elaborato e condotto a quella bilancia perfetta di narrazione e di lirica che è il modello ideale delle composizioni di Gozzano, l’idillio della Signorina Felicita ovvero la Felicità entrò, con la sola aggiunta, superflua, di una sestina polemica (quella che comincia « L’alloro... ob! Bimbo semplice che fui »....) nel libro dei Collogui del 1911. È il caso di dire che tutto quello che il poeta aveva ricevuto dalla realtà per le sue ispirazioni, così come ogni altra reminiscenza, era andato fuso nella fantasia? È un processo ovvio, che l’estetica conosce e la critica indaga. Qual era Villa Amarena, chi era al mondo la signorina Felicita? Fuori della poesia, non rimane che qualche indicazione della memoria privata. Come in questa nota che il Gozzano stesso appose a una delle sue « epistole entomologiche » sulle farfalle, cioè a una delle parti del poemetto Le farfalle concepito al tempo stesso della Signorina Felicita: l’Acherontia Atropos. È la farfalla che incontrai nel Canavese a quella Villa che chiamai Amarena, con quella Signorina che chiamai Felicità. Nell’alto solaio, fra il ciarpame reietto d’altri tempi, spiegavo alla mia compagna candida le favole di Piramo e di Tisbe; il vecchio paravento rococò illustrava entro ghirlandette di campanule quell’amore favoleggiato; e ad un tratto, proprio nella cornice dell’ultimo episodio fra il gelso e il velo insanguinato, m’apparve il triangolo cupo dell’Acherontia. Il solaio prese immediatamente quell’aspetto specialissimo che hanno i solai quando a una parete si scopre l’Acherontia Atropos: un senso di mistero che bisogna sentire, indefinibile, incomunicabile a parole, un senso che nemmeno la musica, nemmeno la poesia — nemmeno la poesia! — può riprodurre...

Nell’« epistola entomologica » il poeta dirà: ...lAtropo mi parla di cose care, dell’antiche ville.

Sul canterano dell’Impero, sotto la campana di vetro che racchiude le madrepore rare e le conchiglie, sta quasi sembre l’Acherontia Atropos depostavi da un nonno giovinetto.

E l’immagine che poi segue sull’apparire della farfalla funeraria a

una finestra di notte, sgomentando una famiglia raccolta a cena, è molto bella. Una sosta felice nello scrupolo didascalico del poema. Ma nei solai abbandonati di Villa Amarena, nella visita che vi compiono l'avvocato e la signorina Felicita, la farfalla porta un trasalimento, una vaghezza notturna, poeticissima, e risolve quel canto quarto dell’idillio in una discesa musicale. « Avvocato, non parla: che cos'ha? » « Oh! Signorina! Penso ai casi miei, a piccole miserie, alla città... Sarebbe dolce restar qui, con lei!...» — « Qui, nel solaio?...» — « Per l’eternità! » — « Per sempre? Accetterebbe?... » — « Accetterei! » Tacqui. Scorgevo un atropo soletto e prigioniero. Stavasi in riposo alla parete: il segno spaventoso chiuso tra l’ali ripiegate a tetto. Come lo vellicai sul corsaletto

si librò con un ronzo lamentoso.

« Che ronzo triste! » — « È la Marchesa in pianto... La Dannata sarà, che porta pena... » Nulla s’udiva che la sfinge in pena e dalle vigne, ad ora ad ora, un canto...

...« La Signorina che chiamai Felicita »: balena, nel segreto, il ricordo di un incontro reale. Eppure l’artista la rituftò nel nulla: « sono innamorato! Di una donna che non esiste, naturalmente! La Signorina Domestica ». Dunque, tra l’esistere e il non esistere, tra il vero e l’immaginario (come sempre) nacque la signorina Felicita. E l’« umile ancella » montanara dalla bruttezza suggestiva? Al l’amica che gliene chiedeva notizia il 2 ottobre 1907, due mesi dopo la famosa descrizione, Gozzano non rispondeva. Ma forse un ricordo di lei, non so come chiamarlo, un segno di fedeltà a quella prima ispirazione Gozzano volle lasciarlo nell’idillio stesso: nell’addio ultimo, la signorina provinciale giura una promessa all’avvocato, e disegnando una ghirlanda / sul muro, di viole e di saette, vi aggiunge i nomi e la data memoranda: | trenta settembre novecentosette... Cioè un tempo in cui la vero-fantasticata signorina servetta soltanto, con l’immagine sua e i suoi racconti, aveva dato il primo avvio a un capolavoro. AI

DALLA

GIUSTIFICAZIONE

DELLA

MONETA

SEMINATA

RACCOLTA

In questo libretto raccolgo alcune favole di Guido Gozzano finora non pubblicate in volume, un gruppo di lezioni di sue poesie e prose differenti da quelle definitive da lui stesso decise o così proposte e approssimativamente stabilite dai curatori delle sue opere a cominciare dall’edizione del 1948, e qualche curiosità documentaria di lievissima importanza; e poiché il primo scritto che mi è capitato di trovare fra quelli tralasciati dall’autore e dagli editori (o da questi non

mai

ricercati)

è stato La moneta

seminata,

una

novellina

per

ragazzi, ho dato questo titolo all’intera raccolta. Da quella novellina ero partito per altre ricerche, via via ingrossando un primitivo disegno e le pagine di questo libretto, ma il suo titolo mi sembrò che potesse assumere anche un altro significato, con una ragione altrettanto giusta: era una moneta di qualche valore ch’era stata « seminata », cioè perduta per via, o anche, se si vuole, che, sparsa come seme, aveva dato qualche frutto. Non si è trattato, come giudicheià rettamente ogni lettore, di aggiungere alle opere di Gozzano qualche preziosa testimonianza dell’arte sua, ma di ampliare al massimo la conoscenza del suo lavoro. Questo è ormai desiderato da tutti: avere a disposizione ogni documento utile a seguire l’intera traccia di un’arte che fu sempre scrupolosa e giunse a fare di Gozzano un « piccolo classico » (« un piccolo poeta valuta oro », come lo stimò Emilio Cecchi). Lo stesso Gozzano (garantì il suo antico compagno

di studi e nuovo curatore delle sue opere, Carlo Calcaterra) « acconsentirebbe che a mostrar il formarsi della sua arte siano raccolti i suoi scritti dispersi, più volte mal citati e mal interpretati ». Un'indagine più attenta, più meticolosa intorno a questo poeta

(ultimo dell'Ottocento? primo del Novecento? se ne discute ancora; ma il suo distacco dagli spiriti che definiscono chiaramente l’Otto-

IAS

cento dovrebbe apparire certissimo) è cominciata appena, voglio dire intorno all’elaborazione dei suoi testi e specialmente alla formazione ed estensione della sua cultura: dopo il Calcaterra, solo il Sanguineti

l’ha mandata innanzi con esiti fortunati (sappiamo meglio oggi, dopo i suoi sondaggi, di quale spazio e durata sia stato in realtà il dominio di D’Annunzio sul poeta e prosatore piemontese, che aveva creduto di essersene liberato abbastanza presto, quali utili suggestions ritrovasse Gozzano in prose francesi e inglesi, rimaste finora inesplorate,

e infine quanto e dove contasse la sua presenza letteraria non presso « facili seguaci », ma presso artisti di personalità accertabile come il Vallini).

Non disponiamo, si sa, di una biografia completa e attendibile del poeta; quella del Vaccari (La vita e i pallidi amori di Guido Gozzano, Omnia ed., s.d., ma « stampato nel novembre 1958 ») non

è che un modesto tentativo, solo meritevole di essere stato il primo. Dizionari ed enciclopedie contengono di solito notizie troppo sommarie e si tramandano errori. Ma non disponiamo nemmeno di un’edizione delle sue opere che possa dirsi definitiva. Ricusò di chiamarla tale il Calcaterra quando, insieme con Alberto De Marchi, nel 1948

apprestò una nuova raccolta delle opere di Gozzano « più fondata e criticamente severa » che non quella pubblicata fra il 1925 e il 1937 della Casa Treves, per altre cure. E il De Marchi, rimasto solo a proseguire la revisione di quella raccolta, non ha dichiarato « definitiva » neppure la sua edizione del °61, anzi non l’ha più intitolata Opere, ma più limitatamente Poesie e prose, pur dicendola « variata e accresciuta ». Nella quale nuova edizione ha riordinato opportunamente in modo diverso il volume, unendo le « rime scelte » alle « poesie sparse » sotto quest’ultimo titolo, e includendo fra le « altre novelle » I benefizi di Zaratustra che il Calcaterra aveva separato da quello e da altri gruppi di prose, ma ha soppresso la prefazione e le note del Calterra, altre ne ha compilate, talvolta senza nulla aggiungere di nuovo, talaltra aggiungendo, ma insieme sopprimendo la nota originaria del Calcaterra (sicché per questo lato convertà sempre ricorrere all’una e all’altra edizione); ha eliminato alcuni scritti giudicandoli « meno significati vi» (fra le « prose varie » l’articolo critico intorno al romanzo di Iacopo Vigliani, Il superstite; fra le « altre novelle » La sfida e Le giuste nozze di Serafino) e ne ha accolto altri « sin qui inediti » (la

Novella bianca, per esempio, del gruppo delle « altre novelle ») giustificandoli con la ragione che Guido Gozzano, se « verrà ricordato

per un manipolo di poche composizioni, sarà tuttavia da ricercare anche nelle minori e nelle prose », ragione giustissima che però valeva anche per gli scritti abbandonati. Il De Marchi garantisce, tra altre cose, la « diretta consultazione degli autografi » e « l’approfondita ricerca delle date di composizione e di pubblicazione dei singoli scritti », il che, come avremo occasione di avvertire più volte, non è bastato ad assicurare risultati convincenti. È necessario invece, come ormai richiede la personalità artistica di Gozzano, riaffrontare di nuovo tutto quanto l’esame filologico dei testi, in particolare, s'intende, quelli non curati dall’autore per l’edi-

zione in volume, stabilire l’esatta cronologia della loro composizione, arricchire quant'è possibile la raccolta degli scritti sparsi e degli eventuali inediti. Il quale lavoro non sarà portato a ingrossare granché l’auspicata edizione definitiva delle opere di Gozzano, ma per certa parte utilmente a inserirsi in un «archivio » gozzaniano, luogo giusto per tutto quello cui Gozzano non volle o non poté provvedere sino all’ultima finitezza, o cui il livello d’arte nega maggiore qualificazione. Il nostro è per l’appunto un architetto, e solo uno specizzen pet vari settori di ricerche: scritti dispersi (abbiamo limitato le indagini alle favole, senza rinunciare alla fondata ipotesi di altri recuperi; assai più cauta è invece l’ipotesi di testi inediti); varianti di poesie (diamo un saggio di quelle da noi raccolte — tralasciando le varianti già illustrate nelle loro note dal Calcaterra e dal De Marchi — sia da testi a stampa precedenti l’edizione stabilita dal poeta stesso, o dai curatori delle sue opere, e talvolta successive a quell’edizione, sia dagli autografi, ove esistevano; e occorrerà ricordare che, oltre qualche autografo sparso, attualmente non si è in possesso che della copia, che appare lacunosa, de La via del rifugio di mano del poeta dedicata a Carlo Vallini « con la stessa sua fraterna malinconia », in

data 16-3-907, e anche questo manoscritto rivela non trascurabili differenze; varianti di prose (abbiamo qui ristretto le indicazioni a due sole novelle e al riscontro con le stampe originali nell’assenza totale degli autografi; resta valida per tutto gli scritti in prosa di Gozzano la richiesta di Sanguineti di un’« operazione di restauro », « davvero indispensabile », e in definitiva più che di varianti si dovrebbe parlare di correzioni); epistolario (non esibiamo che una lettera del poeta e neppure di molta importanza, ma solo per dare uno stimolo alla ricerca e a una silloge quanto possibile vasta, ricordando

Ar

che l’epistolario preparato per le stampe milanesi è andato distrutto nel 1943 nell’incendio per incursione aerea che colpì la casa editrice; si hanno tracce di sparse lettere a vari (compresa quella corrispondenza fra il giugno 1909 e il maggio 1910 con Orazia Belsito — «amore di lontano », o galanteria amorosa con una signora che Gozzano non conobbe mai — di cui ha parlato Antonietta Drago in « Successo » del giugno 1960), ma alle lettere raccolte, sia pure per una scelta, nell’edizione del De Marchi, dovrebbe essere possibile aggiungere un giorno i gruppi più consistenti e importanti di quelle al Vallini, al Gianelli — di queste ultime si occupa Paolo Mauri — e all'amico dell’adolescenza Ettore Colla, che occupano uno spazio di tempo fra il 1897 e il 1903 (e di esse ha fatto cenno una figliuola del Colla nella rivista « Agorà » del marzo 1946); infine testimonianze di vario genere, che possono giovare alla ricostruzione dell’ambiente, alla definizione del clima in cui visse il poeta e prese colore l’opera sua, e alla storia della sua fortuna (nel nostro libretto abbiamo principalmente accolto alcune curiosità, quali una scelta abbastanza larga delle illustrazioni che accompagnarono le edizioni singole di poesie, racconti e favole, e anche alcuni piccoli inediti, di cui

volevamo, includendoli in questo settore, minimizzare, cioè ridurre al vero, l’importanza).

Come si vede, la conoscenza completa di Guido Gozzano ha bisogno di varie integrazioni. Purtroppo, la perdita di manoscritti essenziali non può essere compensata che da congetture non arrischiate, specialmente, si capisce, per quegli scritti che non ebbero con certezza la cura definitiva dell’autore (come affidarsi a testi ori-

ginali a stampa usciti in periodici che seguivano loro particolari criteri tipografici e che probabilmente non inviavano bozze all’autore?); ma anche gli scritti curati dal poeta stesso per la raccolta in volume suscitano talora qualche dubbio di lezione. SETTE

FAVOLE

sono gli scritti dispersi che finora abbiamo ritrovato. Tra fiabe e novelline per ragazzi Gozzano ne pubblicò venticinque, e di queste ne raccolse in volume dodici (sei ne I tre talismani, ed. « La Scolastica» di A. Mondadori & C., Ostiglia, nella « bibliotechina de “La Lampada” », serie 1, n. 4, diretta da Tomaso Monicelli e Arnoldo Mondadori, 1914, e sei ne La principessa si sposa, ed. Treves, 1917,

edizione postuma ma da lui preordinata).

Nelle edizioni delle opere gozzaniane procurate dal Calcaterra e dal De Marchi (che anche per i testi fiabeschi avrebbe bisogno di nuove cure) è stato incluso, sotto il titolo « Altre fiabe », un gruppo di fiabe e raccontini — sei in tutto — tolti da « Adolescenza », settimanale illustrato per ragazzi. I curatori non hanno detto di più, non han parlato di una scelta (e del resto han dedicato poche righe alla due raccolte di fiabe).

Sfogliando « Adolescenza » (nella copia conservata dalla Biblioteca Civica di Torino mancano

dell’anno 1911, unico esistente, i nn.

40 e 46) abbiamo trovato altri cinque testi. L’anno 1911 fu un anno di intensa attività fiabistica per Gozzano: pubblicò sedici favole, in maggior numero in « Adolescenza ». (Nello stesso anno scrisse con frequenza — disse poi ch’era una vergogna che pesava sulla sua coscienza letteraria — articoli di varietà sul « Momento », quotidiano cattolico di Torino, il quale era, come si legge in certi avvisi, il

« fratello maggiore » di « Adolescenza ». Anzi, proprio sul « Momento » del 5 aprile 1911, Gozzano pubblicava l'articolo Eterzi poemi, intorno a favole e leggende di varia tradizione, e lo chiudeva esprimendo un rimpianto per quelle « dolci fantasie » dell’umanità giovane, « oggi invecchiata ». « Forse per questo — diceva — ci piace ripensare le belle cose inverosimili; e gli spiriti dell’aria, della foresta, delle acque, fate benefiche e malvagie, elfi, ondine, nani, corrispondono a qualche sentimento del nostro cuore, hanno per origine uno dei mille sogni che in ogni tempo agitarono la nostra anima inquieta ». Era come

trovare, per

l’appunto in un qualche sentimento del cuore, una spiegazione al proprio gusto di favoleggiare). Ma sin dal 1909 Gozzano aveva pubblicato fiabe sul « Corriere dei piccoli », supplemento illustrato del « Corriere della Sera », un settimanale dalla copertina rosa, che a lungo ebbe assicurata una grande popolarità e godè di collaborazioni pregevoli di scrittori più o meno già celebrati — Zuccoli, Ojetti, Beltramelli, Panzini, Fucini, Bertolazzi, A. S. Novaro, Zambaldi, Provenzal, Garoglio, Cozzani,

Paola Lombroso, Carola Prosperi, Amalia Guglielminetti, Térésah, Valeri, Tofano, Tessa... — e di illustratori quali Rubino, Brunelleschi, Gustavino, Attilio.

Il « Corriere dei piccoli » aveva cominciato la sua vita con un numero del dicembre 1908; la prima fiaba di Gozzano, per invenzione forse la più originale, la più affascinante tra le sue — diceva il Calcaterra — « fantasticamente più musicali », Piumadoro e Piom-

Ao

bofino (vi appaiono le tanto gozzaniane farfalle e cetonie) vi è pubblicata nel numero del 25 luglio 1909, con le suggestive illustrazioni del Brunelleschi. La collaborazione alla rivista continuò, senza molta frequenza, nel 1910 e ’11. Da quella Gozzano trasse la materia per le due raccolte de I fre talismani (che non reca affatto, a stampa, la dedica

ai nipoti Francesco e Maria, come dicono il Calcaterra e il De Marchi) e de La principessa si sposa. Tralasciò due novelline, I/ dono di Natale (31-XII-1911) e quella che fu probabilmente l’ultima sua, La moneta seminata, pubblicata, con un certo distacco di anni, sul

« Corriere dei piccoli » del 4-I-1914. E fece bene, giacché nessuna delle due poteva intonarsi alle raccolte; erano raccontini « virtuosi », con un fine educativo, senza

nulla di fiabesco, e dello stampo deamicisiano più corrente, della pedagogia borghese più consumata. Allo stesso modo Gozzano trascurò in blocco le fiabe, le novelline, i bozzettini pubblicati in « Adolescenza », tutti quanti, fiabe comprese, di fantasia meno aerea,

meno libera, scritti con palese intento moraleggiante (come forse | richiedeva più naturalmente quel settimanale di intonazione cattolica: ci scrivevano collaboratori del « Momento », Saverio Fino, Dionisio Borra — poeta e sacerdote, amico di° Gozzano, che fu poi

vescovo di Fossano, ancora oggi poetante — Giulio Gianelli, Gigi Michelotti, e vi apparvero, meno frequenti, Emilio Zanzi, Luigi Ambrosini, Nino Oxilia; il disegnatore più assiduo era Eugenio Colmo che firmava ora col suo cognome, ora con lo pseudonimo diventato più popolare di Golia). Non tutti gli scritti gozzaniani di « Adolescenza » sono di trama fiabesca; alcuni « esempi » di bontà,

di generosità, di gratitudine e del loro rovescio, sono collocati in un ambiente realistico moderno e i personaggi vi hanno, secondo uno spiccato gusto dell’autore, nome e cognome. E il fine educativo, come si è detto, è esplic'it+o, dentro un filone tradizionale indiscusso: nella novella Luca e Mario è condiviso, non certamente ironizzato, il

sentimento di bontà benefattrice che la borghesia carezzava schiettamente compiaciuta; ne I/ contino lustrascarpe il racconto è addirittura al servizio del motivo pedagogico « quale gioia divina sia il beneficare gli altri ». Gli scritti per ragazzi raccolti nel presente libretto rientrano nella medesima definizione di allentata fantasia e maggiore preoccupazione moralistica. Era naturale che Gozzano escludesse queste minori

e differenti narrazioni dal contesto del mondo favoloso che in varia misura costantemente lo ispirava: mondo di fantasticheria, vogliamo

dire, dell’altrove, dell’altrotempo, in contrasto col presente, fuga dal quotidiano, dal « magro piacere » della realtà. Gli « sponsali delle favole » gli balenavano alla fantasia anche fuori della cornice delle fiabe che scriveva; il titolo da lui trovato « La principessa si sposa » riassumeva la sua idea di una felicità leggiadra perché remota, in un’età di incantesimi. Nostalgia di favola e filigrana di favola traspaiono in sue poesie e novelle, nelle pagine del viaggio indiano (non ci spingeremmo fino all’ipotesi decadente, avanzata dal Calcaterra, che « vivere e dileguare come in una fiaba sarebbe stato per lui raggiungere la pura essenza della poesia »). Il sottofondo culturale delle fiabe di Gozzano, facilmente individuabile per alcune, è generico per tutte le altre e di tipo tradizionale. Come tradizionale è la loro composizione; Gozzano non si sottrae alla regola della ripetizione (« nelle favole tutto si fa tre volte ») ricorda lo Sklovskij di Zoo) e nemmeno alla formula iniziale del « c'era una volta », che però egli di frequente varia con versicoli di scherzosa attrattiva. Quasi tutte le sue favole si chiudono con felici nozze regali, e il compenso di « metà del regno » è comune a molte conclusioni. Con le favole di Gozzano diremmo che termina, con una partico» lare accentuazione poetica (Piurzadoro e Piombofino, Nevina e Fiordaprile), tutta un’età della favolistica, che dopo la prima guerra

mondiale apparve stanca, anzi morta e impossibile da risuscitare; era toccato a un poeta darle l’ultimo, lieve soffio di vita, inserendo la sua non distratta attenzione nel significato e nell’atmosfera della propria opera.

Il confronto fra le stampe originali e le edizioni in volume rivela un lavoro di revisione da parte dell’autore, oltre, s’intende, la corre-

zione dei refusi così abituali in quel genere di pubblicazioni periodiche. È una revisione che non modifica se non elementi formali: comincia dal trasferimento da una fiaba a un’altra di alcune filastrocche iniziali, da qualche loro aggiunta o mutamento o ripetizione e da lievi ritocchi a quei versicoli, e continua più di frequente operando nel senso di soppressioni di frasi, di enumerazioni. (Un’evidente attenzione pose Gozzano nel mutare la raffinata definizione di « camerista » — per esempio nella favola de I tre talismani, ne La fiaccola dei desideri — in quella più umile e usuale di « ancella »,

PIE, 1 0°

« fantesca ». E le generiche « isole delle Indie » diventano le più favolose « isole Fortunate »). Nel presente « archivio » raccogliamo gli scritti gozzaniani per ragazzi secondo la versione a stampa, in mancanza degli autografi, e seguendo l’ordine cronologico della loro pubblicazione.

II

PER UNA

BIOGRAFIA

GOZZANIANA

LS dai

IL NIPOTE

DI NONNA

SPERANZA

Voglio anzitutto giustificare il titolo, che non è mio. È di Amalia Guglielminetti, la poetessa che, come sapete, fu l’amica — donna amata — di Guido Gozzano. Gli scrisse un giorno (14 novembre 1907): « Come ritrovo e riconosco in Voi il nipote di nonna Speranza! ». Che cosa voleva dire? Gozzano da tempo e ancora due giorni prima le aveva parlato di una sua nuova ispirazione poetica, da cui doveva nascere compiuto il poemetto La signorina Felicita e le aveva detto di essere innamorato di quel personaggio di fantasia, di quella donna che non esisteva. E la Guglielminetti si era ricordata dell’altra poesia di Gozzano, L'amica di Nonna Speranza, in cui il poeta si fingeva preso d’amore o quasi per quella azzica, quella Carlotta, non veduta mai che in una vecchissima fotografia. Un uomo che sapeva sognare dunque, amare il passato, le cose che non erano,

un romantico... il nipote di Nonna Speranza. Ecco dunque spiegato il titolo, che del resto richiama alla mente di tutti i lettori di Gozzano la sua poesia più famosa, più nota a tutti. E ora faccio una domanda a me stesso: si può raccontare per immagini la vita di un poeta? Serve a comprendere la sua poesia, che è poi la sua vera vita? E la vita di Gozzano poi fu così poco avventurosa, fu anche così breve e tutta ripiegata su se stessa! Tuttavia, proviamo, perché, poi, tutta la poesia di Gozzano ha un fondamento autobiografico. E cominciamo a stabilire certi fatti precisi. Per esempio, in tante storie letterarie, in tante enciclopedie si legge di Gozzano che è nato ed è morto ad Aglié, nel Canavese. Invece no: è nato a Torino [...], in via Bertolotti, nel 1883, in un anno —

disse Pancrazi — molto fausto per la letteratura, perché nacque anche Saba, uscì il Cazzo Novo di D'Annunzio e uscì anche il Pirocchio di Collodi. Il 19 dicembre (e non il 9, come disgraziatamente è scritto nella lapide) e a Torino morì nel 1916, a trentatre anni [...],

in via Cibrario 65 dove adesso hanno messo una lapide a ricordo.

Di Aglié, della provincia di Torino, erano la famiglia paterna e la famiglia materna. Famiglie della buonissima borghesia. Il padre Fausto era ingegnere, costruttore della ferrovia canavesana: aveva sposato in seconde nozze Deodata figlia del senatore Massimo Mautino, amico di Massimo D'Azeglio (ecco un D'Azeglio che vien fuori,

non troppo a caso, dalle memorie di famiglia nella poesia di Gozzano). La madre aveva un temperamento d’artista, amava il teatro, le

fogge teatrali; scriveva anche qualche poesia di affetti domestici. Erano nati cinque figli: due morti presto, e poi Erina, una sorella assai buona e gentile, Guido, il futuro poeta, Renato, « il più atto »

ad affrontare la vita, come Ad

Aglié esistevano

diceva suo fratello, e tuttora vivente.

le due case

signorili,

dei Gozzano

([...]

bella, grandiosa, signorile [...]: qui Gozzano trascorse qualche stagione della sua infanzia [...]) e quella del senatore Mautino, anch’essa assai decorosa, confinante col parco del grande castello dei duchi di Genova; qui Gozzano trascorse qualche stagione della sua adolescenza e giovinezza [...]. E qui, dovrei dire, il futuro poeta assorbì molte delle cose che rifluirono poi dopo nella sua poesia. Quel ricordo di case dalle panciute grate secentiste e di alberi, di farfalle, quel colore e odore delle glicini che ornano le porte delle villette di campagna, l’odor di muffa, di mentastro, di cotogna nelle stanze da frutta delle vecchie case. Tutte sensazioni che sono frequentissime nella sua poesia. La vita di Guido Gustavo Gozzano trascorse principalmente fra Torino e Aglié: solo quando il suo male, l’etisia, cominciò a manifestarsi egli andava a passare qualche tempo sulla Riviera ligure, non lontano da Genova. Del resto i suoi viaggi sono scarsi... il Lago Maggiore, una volta Firenze e Roma. Poi il famoso viaggio del 1912 in India in cerca di salute, ma insomma i due luoghi della sua esistenza e del suo lavoro di artista sono principalmente Torino e Aglié. Che cosa significa Torino. Torino vuol dire la scuola. Prima in un collegio a Chiavasso, poi il ginnasio e il liceo a Torino, e il terzo anno del liceo a Savigliano. Non fu uno scolaro memorabile. Neppure all’università, dove s’iscrisse nella facoltà di legge, preparò esami — forse ne diede qualcuno, pensò alla laurea, ma non c’è traccia né di esami dati, né di laurea presa [...]. Non la prese, e fu chiamato egualmente avvocato, titolo che accettava con una sfumatura un po’

convenzionale, un po’ ironica. Che cosa conta nella sua giovinezza? Poche cose, io credo, d’im-

portanza tutta privata. Dei suoi amori credo che serva bene l’aggettivo col quale li definì e li sotterrò, « pochi amori pallidi ». Non ne è rimasta traccia nella sua vita, se non in qualche confidenza epistolare, e, quel che più conta, non ne è rimasta traccia nella sua poesia o prosa. Io penso che possiamo ricordare soltanto i suoi amici, questi sì, che erano principalmente dei poeti, dei letterati, dei giornalisti. Ne nomino alcuni. Anzitutto i tre Marii: Mario Vugliano, tipo di goliardo;

Mario

Bassi, anche lui giornalista, fine dicitore,

uomo sano e forte; Mario Dogliotti, un giovane bello che doveva, nel 1910, farsi frate benedettino col nome di padre Silvestro. E poi due poeti, in mezzo ad altri poeti, che morirono giovani come Gozzano, Giulio Gianelli e Carlo Vallini, forse a lui il più vicino, nel-

l'amicizia e nella poesia. Qual era il punto di ritrovo di questi amici? Oltre alle redazioni di giornali e riviste, è rimasta memoria specialmente della Società di cultura. Forse una sola persona di quel gruppo di allora può ancora parlarcene, ed è una delle scrittrici più semplici, più modeste d’animo, più popolari d’accento, che Benedetto Croce stimava, cara da quasi sessant'anni a migliaia e migliaia di lettori, ferma e precisa nel suo lavoro che è quasi giornalistico, Carola Prosperi. Era coetanea di Gozzano e proprio nell’anno 1907 in cui Gozzano pubblicava il suo primo libro di poesie, lei pubblicava il suo primo libro di racconti, La profezia ed altre novelle. Poi, quando Gozzano nell’11 pubblicò il suo secondo libro poetico, I colloqui, lei pubblicò il suo secondo libro, che questa volta era un romanzo, La paura di amare. Sono andato a trovarla a casa sua. — Si ricorda, signora Carola, la Società di cultura?

— Certo, me la ricordo benissimo. Era il tempo della giovinezza spensierata. Era una famosa ma modesta sede, in via delle Finanze, quella che adesso dev'essere via Cesare Battisti, al secondo

piano, due stanze piene di libri; nella prima ci stavano generalmente i professori, anche dell’università, serî, a leggere le riviste; nella seconda eravamo giovani, c’era un gruppo di giornalisti novellini, di aspiranti scrittori, poeti, e si faceva un gran ridere — cosa che faceva molto scandalo per gli altri che leggevano. Un giorno lo incontrai, vidi appunto Gozzano che entrò, un giovane biondo, magro, con un viso stretto, occhi pallidi dietro le lenti, distinto, mi dissero «è Gozzano, Guido Gozzano, poeta ». Ma siccome non aveva mai pubblicato niente io non lo presi in grande

considerazione. Credo anche che pubblicammo quasi nello stesso tempo il nostro primo libro, alla fine del 1907, e anche la poetessa Guglielminetti pubblicò un libro di versi allora, e lui la sua raccolta La via del rifugio, io invece un libro di racconti. E Gozzano com'era, ricorda? Era molto gentile Gozzano, sorrideva sempre, ma non rideva mai, rideva quasi con sforzo, apriva sempre la bocca come se mordesse l’aria, forse era un segno della sua malattia, a cui nessuno credeva allora; lo conoscevamo poco in fondo, ci sembrava un giovane signore dilettante, e certo nessuno di noi immaginava che

sarebbe quello l’unico che sarebbe stato raggiunto dalla gloria... troppo tardi, perché morì molto prima. Guardi questa fotografia, signora. A sinistra è Gozzano, a destra c'è Amalia Guglielminetti, e in mezzo un’attrice bella e famosa, Lyda Borelli. C’era anche lei quel giorno? Certo, c'ero anch'io. C’eravamo tanti allora... tutti i giovani che scrivevano.

Sarà stato l’11, il ’10 o l’11, e la Borelli recitava

all’Alfieri, con Ruggeri mi sembra, e lei recitava delle liriche di Gozzano,

della Guglielminetti,

era al solito molto molto bella,

molto più bella di quanto appaia in questa fotografia, perché era bionda, alta, con un incarnato meraviglioso,

aveva una bellezza

veramente angelica. E lessero e furono molto applauditi, e poi se ne andarono, e noi dietro sulla porta li guardavamo andare, era una bella sera d’autunno, mi ricordo, e c’era ancora un raggio di sole, e andavano verso la porticina del teatro Alferi, tutti e tre, ignari del loro destino, perché tutti e tre ebbero dei grandi dolori, e una fine triste tutte e tre. Cosa disse la San Giusto? C'era la San Giusto, che non ebbe certo il successo che meritava,

una donna molto intelligente, era una buona scrittrice, e diceva: « Quando non saranno più giovani, quando non saranno più belli cosa sarà di loro? ». Lei era una donna un po’ pessimista, ma in quel momento sembravano veramente tre trionfatori, ecco, di tutto, erano belli, felici, famosi.

Vuole ricordare qualcos’altro signora Carola? Ecco, ci sarebbero

tante

cose

da ricordare...

Con

Gozzano

ci

vedevamo sovente, perché poi venne la guerra, il gruppo si sciolse, la Società di cultura cambiò

sede, non ci andammo

più, e

ognuno fece la propria strada, è vero, ma con lui ci vedevamo alla « Stampa », dove lui collaborava, poi veniva a casa mia, portava

sempre qualche balocco al mio bambino, io andavo a casa sua a

trovare sua madre, qualche volta. Era malato, certo era malato,

non so se sperava di guarire, io non lo so, mi pare che sperasse perché una volta lo incontrai che tornava dal pattinaggio, andava al patinoire, lì al Valentino, allora in gran voga, era entusiasta... un’altra volta s’infatuò del yogbourt — veniva di moda — e mi volle regalare una boccetta con quella cosa che si chiamava la « Maia bulgara », che era una porcheria, e che io seppellii in un armadio... Ma poi, per un pezzo lo vidi meno, con la guerra non ci si vedeva più... ma voglio dire due cose che mi sembrano — per me — importanti: io lo ricordo sempre, sempre con quel sorriso così buono, quel sorriso era proprio quello della nostra giovinezza, ma poi con gli anni quel sorriso diventò così mesto, così lontano, che mi rattristava e mi rattrista ancora, era come

un rimorso... Tutti

sappiamo che quando perdiamo qualcuno dei nostri cari anche l'ombra del passato diventa un rimorso. Lui non era mio parente, e non eravamo neanche amici, lui ce ne aveva degli altri, degli amici intimi che sapevano tutto di lui, i suoi amori, il suo lavoro,

i suoi segreti, io ero una collega e una conoscente, un po’ più che una conoscente, eppure quel rimorso l’avevo e l’ho, perché, a mio parere, e nel ricordo, mi pare che Gozzano non era stato trattato bene negli anni lontani, che tutti erano stati un poco crudeli con lui, critici e colleghi, un po’ per la sua malattia, che sembrava una

trovata pubblicitaria, e poi si vide invece come morì, e poi per questa sua enorme gentilezza, questa infinita gentilezza, questa sua bontà, non diceva mai una parola, macché sgarbata, non diceva

che parole buone, che elogi, che giudizî affettuosi: e dicevano quindi che era falso, perché la gente è brutale, è vero, ama la sua sincerità, che è quella di dire delle cose sgradevoli generalmente... Invece lui era così, era buono, e allora ripenso, perché non gli abbiamo voluto più bene, non l’abbiamo aiutato, quando scriveva qualche bella poesia e la leggevamo e ne eravamo entusiasti non glielo dicevamo, non glielo scrivevamo? Sarebbe stato così contento, e perché quando qualche critica dura era stampata contro di lui non lo consolavamo? Non lo so, perché così, perché da giovani non

si pensa, son cose che si pensano

dopo, quando è troppo

tardi... E un’altra cosa: dissero che fece una morte santa, specialmente l’ultimo mese che fu quell’agonia straziante che fu, e fu allora che

diventò religioso, fece bruciare i suoi scritti, disse che tutto era vanità, e un giorno cetcarono per mare e per tetra il suo grande vero amico, che era quel padre Silvestro, un frate benedettino,

dapprima era un certo Mario

Dogliotti che veniva

anche

alla

Società di cultura, un bellissimo giovane, dagli occhi azzurri, bellissimo, e che a un tratto si fece frate benedettino, e loro corri-

spondevano... e non si sapeva — era agosto, c'era la guerra, non c'era nessuno per Torino — dove trovarlo, e per puro miracolo, un vero miracolo, lo trovarono alla stazione, e lo portarono diritti

a casa di Gozzano, e lui fu felice di quello, e stettero insieme a lungo, e fu il loro supremo colloquio, perché poi anche il padre Silvestro morì, poco dopo... e lui gli lasciò quel crocifisso d’argento che Gozzano strinse al cuore fino all’ultimo respiro, e fu certo una santa morte. Ma io posso dire, e testimoniare, che tre anni prima, a un pranzo dato tra scrittori e giornalisti a festeggiare non so più cosa, ci fu qualcuno che disse cose irriverenti sulla religione, e io e lui eravamo vicini, e ci guardammo, e lui era pallido, e ebbe l’aria di protestare, ma disse solamente « Io sono credente », queste son le

parole che mi ricorderò sempre, ma lo disse con una faccia così spirituale, così piena di fede che non si poteva dubitare di quel che diceva, quindi era religioso già prima di morire, molto tempo prima di spirare, poverino, tra le braccia della mamma.

Un altro momento che ebbe qualche peso nella vita e che è documentato da un famoso epistolario fu quello della relazione con Amalia Guglielminetti. Dirla un tipo dannunziano, se qualcuno ricorda che cosa vuol dire, è una definizione abbastanza naturale [...].

Che cosa fu questo amore? Ci sono, se si vuole, le pose del tempo, ma se volessimo riassumere? Un breve incontro di sensi? O una amicizia che sopravvisse a lungo? C’è qualcosa di ambiguo, voglio

dire di non chiaro in quei sentimenti. Ve ne sono tracce nelle lettere, come vi sono tracce di appuntamenti, di passeggiate che allora sembravano portar molto lontano — v’è traccia, questo è più importante, nella poesia. Se dovessimo,

per così dire, definire le loro

posizioni, potremmo adoperare le loro stesse parole e vedremmo bene: Lui: «Io voglio camminare diritto con l’occhio fisso alla mia meta lontana, tutto è secondario e trascurabile » (c’era anche il distacco dell’uomo malato).

E lei: « Io voglio più bene a te che alla gloria ». Ma a lei, col nome di A/ba Nigra, dedicò le Farfalle. Il fatto più importante della vita di colui che voleva e doveva essere soltanto poeta, fisso alla sua arte, è il primo libro, La via del rifugio [ ...]. Nella Via del rifugio c'erano già alcune delle poesie più belle, che crearono l’immediato successo di Gozzano. C'erano, per dirne due sole, Le due strade, che Croce ha detto la più bella, e

L’amica di Nonna Speranza, la più caratteristica e la più famosa... Torino

delle stampe,

Torino

del passato, Torino

cantata nella

Bela Cardlin... Sentiamo il maestro Gatti: — E tu in che anni hai conosciuto Gozzano? — L’ho conosciuto

nel ’14, verso la fine del ’14, in un’occasione

musicale. Mi spiego: fu dato un concetto in cui due signorine, cantanti e pianiste, avevano proposto un programma di musiche antiche italiane del Sei e del Settecento fino ai primi dell’Ottocento, che cantavano, che eseguivano in costume dell’epoca. Il prologo, la presentazione di questo programma era stata fatta da Gozzano in versi martelliani. Siccome Gozzano era amico di queste signorine, le signorine chiesero a me se si poteva trovare un musi-

cista per musicare un poemetto di Gozzano per il loro repertorio. Io pensai subito a Ghedini, che allora viveva a Torino, ed era abbastanza sconosciuto, e in seguito ad un incontro tra me, Ghe-

dini, Gozzano, queste signorine, che si chiamavano Zanardini, nella casa di via Cibrario 65, Gozzano si decise dopo molte insistenze a scrivere quel poema che chiamò La bela Cardlin, e che poi è lo stesso tema che lui ha sviluppato in un altro poemetto e in uno scritto rievocativo di Torino pubblicato nelle sue opere. Questa è stata l’occasione. In seguito però ho incontrato Gozzano parecchie altre volte, nella sede di una rivista che si chiamava « La Donna », in via Robilant a Torino, e spesse volte l’ho accompagnato a casa, da via Robilant, a piedi, a via Cibrario, che non era un

viaggio troppo breve, e adagio adagio parlando di questo, di quello, di musica, di poesia, di viaggi ch’egli aveva fatto, s’arrivava sempre a imboccare via Cibrario nell'ora del tramonto in cui le montagne, soprattutto nel periodo autunnale, spiccavano in un mo-

do stupendo, e esaltavano Gozzano, il quale si fermava e mi diceva: « Vede, vede com’è bella Torino? Vede? Qual è la città del mondo nella quale si può avere una vista di questo genere? ».

Due Torino sono in lui. Torino d’altri tempi, e poi la Torino

moderna, che cantò con nostalgia nel poemetto Torizo. Ma la Torino della « grande ora », la Torino, direi, che ha una topografia speciale nella propria storia e anche nella vita del poeta è la Torino del 1911. È la Torino della famosa Esposizione, per la quale Gozzano scrisse alcune belle prose — per esempio descrisse una visita ai cantieri navali dell’Esposizione in un febbraio pieno di neve. Torino della mostra, Torino dei padiglioni [...] ... che cos'è rimasto dopo cinquant'anni? Solo una fontana... E anche Torino della moda, da cui Gozzano fu sempre attratto, Torino di Baratti, Torino del cine-

ma... Pensate a quello che si produceva allora. E Gozzano proprio in quell’anno ebbe un premio... | Un tipico momento che è stato espresso proprio dalla città: il suo sentimentalismo, la sua leggera galanteria, la sua eleganza, il suo orgoglio di città che rievocava un passato di cui si sentiva la maggiore partecipe. Era tuttavia la città da cui partivano gli aerei per la guerra di Libia. L’inizio di un periodo che germinò guerre, l’atmosfera turbata, qualcosa che comincia a crollare. Ma l'11 è anche un anno che conta nella vita privata di Gozzano. All’inizio dell’anno sua madre è colpita da una paralisi che la inchioderà a una carrozzina fino alla morte, che avvenne tuttavia tardissimo, nel 1947. Infine è

l’anno della sua gloria. Sono nel dicembre 1910 usciti i Colloqui, con quella specie di stele funeraria sulla copertina disegnata da Bistolfi. In essi tra l’altro c'è la poesia Torino e c’è anche La signorina Felicita, ma questo ci porta altrove, nel Canavese. Aglié è un bel paesino — si chiama città — con il grande castello ducale dei Savoia-Genova, con il verdissimo parco abitato dagli aironi, la via centrale con i vecchi porticati... La capitale minima dei luoghi di Gozzano, l’altro suo luogo di vita e di canto: Più bel piacere davver non c’è che andare ad Aglié che andare ad Aglié

— pare che siano stati i primi versi di un Gozzano infantile. C'erano le sue vecchie case, come vi ho già detto, quella del padre e quella della madre (torniamo ancora su quella materna, dei Mautino; è la casa « col suo giardino incolto » in cui viveva qualche tempo e si vedeva vivere — ricordate la sua poesia Totò Merumeni — come in esilio, placido, quasi rassegnato, consumato dai mali del corpo e dello spirito, consolato da qualche fioritura di poesia, tra la madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente, che sono

immagini reali, esistite). Ma il luogo ideale di Gozzano era il Meleto, una villetta con una proprietà a un chilometro da Aglié. « Meleto dell’oblio », come lui lo chiamava. Era un podere che il nonno paterno aveva curato, una villa che sua madre aveva migliorato [...]. Al pianterreno è un salottino, chissà come guasto, come deformato,

ma è quello che tutti dicono il salotto di nonna Speranza, un salotto della metà dell’Ottocento, un salotto Napoleone III, con le anche troppo famose « buone cose di pessimo gusto » che oggi, o già ieri, sono tornate a piacere, così, per nostalgia di vecchi ricordi... il carillon, che non suona più, col valzer delle « Campane di Corneville »... il cucù dell’ore che canta... gli oggetti curiosi, « gli acquerelli un po’ scialbi », le tele di Massimo D'Azeglio, o quasi... le stampe... la fotografia... il gran lampadario vetusto... E questo il salotto di nonna Speranza? E nonna Speranza è questa? Forse... ma queste cose il poeta le trovava anche fuori di qui, ricordi Impero... gli uccelli imbalsamati sotto campana e cose simili... i dagherrotipi... c'erano un po’ dappertutto, ci sono ancora: solo che lui ha dato loro un nome che è rimasto, che si ama ripetere. Solo che lui da queste cose, « le buone cose di pessimo gusto », ha cavato la cornice e forse anche il quadro dell’ Amica di Nonna Speranza — un trucco, come

diceva Saba, ma un trucco, una finzione

incantevole, proprio di chi in un viso un po’ goffo scopre uno sguardo umano, un sorriso tenero... Gozzano ci mise dentro il suo desiderio di amare, di abbandonarsi, frenato dall’aridità, dal riserbo d’intel-

lettuale. Saliamo al piano di sopra, lungo il balconcino, sotto la grondaia il muro è dipinto a festoni di glicini... la sua stanza da letto e da studio... il tavolino sotto la finestra... Torniamo a uscire... l’eco di una sua poesia... E non sono triste. Ma sono

stupito se guardo il giardino... stupito di che? non mi sono sentito mai tanto bambino... Stupito di che? Delle cose. I fiori mi sembrano strani: ci sono pur sempre le rose, ci sono pur sempre i gerani...

Più in là, nei campi del vecchio podere (la casa fu poi venduta),

uno chalet dipinto rustico, oggi mezzo in rovina, e uno stagno che

PE

una volta era quasi un limpido laghetto, con barchetta e cigno e vecchi alberi rari tutt'intorno. La vita estiva e autunnale dei Gozzano si svolgeva qui, tra la villetta e lo chalet... La madre amava recitare... era donna attraente d’ingegno, di compagnia [...]. Non sono vacanze avventurose. Qualche visita ricevuta (ci viene qualche volta da Torino la Guglielminetti), qualche giro in cerca di farfalle, perché Gozzano le amava non solo come poeta ma anche come entomologo... qualche passo proprio fuori casa alla Florera, la villa tutta rossa accanto al Meleto, dove viveva fra memorie del passato una ballerina già amante dell’Imperatore d’Austria... qualche gita intorno nel Canavese, che è splendido, idillico... [...] In questi piccoli vagabondaggi capitava qualche volta fino a Ivrea, la piccola capitale del Canavese, non lontano dalle montagne in cui qualche volta Gozzano andava a cercare aria salubre per i suoi polmoni malati. « Mi piace, Ivrea — scriveva nel 1908 alla Guglielminetti — È una piccola cittaduzza da stampa in rame, con le sue torri, le sue piazzette deserte, le sue botteghe di chincaglierie antiquate... È una meta favorevole alle fughe di un giorno, alle assenze di una notte ». A Ivrea mi sono incontrato con Salvator Gotta proprio per chiedergli di Gozzano. Eravamo vicini al ponte sul fiume Dora...

— Tu hai conosciuto Vallini, Gianelli, quel gruppo lì... — Vallini, Gianelli, Camasio, Oxilia, Berrini, la Prosperi, La Guglielminetti, è vero, moltissimi...

Dove li trovavi? Ci ritrovavamo soprattutto alla redazione della « Donna ». Parlami un momentino della « Donna ». — La « Donna » era una delle prime riviste che è venuta in Italia di tono femminile, di tono salottiero, un po’, e anche letterario e artistico, fondata da Nino Caimi. Alla redazione di « Donna » si

facevano dei raduni e anche col pubblico, specie di conferenze — ne ho fatta una anch’io, e la Guglielminetti, la Prosperi... Gozzano veniva un po’ meno perché era un po’ più riservato, le cose — diciamo — mondane non gli piacevano, forse aveva ragione, perché aveva buon gusto, aveva doti di grande gusto e di stile, devo dire più di noi... noi intanto eravamo più sani, eravamo più ragaz-

zi, si scherzava, si facevano queste cose un po’ sotto gamba... Noi andavamo tutti a lezione da Graf, eravamo tutti allievi di Graf, ci

possiamo considerare allievi perché non perdevamo una lezione, ii

— — — —

lezioni che erano importantissime, ci andavano signore, signorine, anche perché qualche volta faceva leggere delle opere dei giovani, degli allievi... I famosi « Sabati »... I famosi « Sabati ». Tu ne hai sentito qualcheduno? C’era Bontempelli... Bontempelli, ma quelli sono anteriori, Bontempelli, Pastonchi, Cena, sono tutti anteriori. So che Madre di Cena fu letto all’Università, fu letto a una lezione di Graf.

— Tu non ti ticordi di avere assistito a un « Sabato »? — Sì... — Te ne ricordi uno?

Poteva essere di Bertoni, Piovano, o più in

là, Salvaneschi mi pare. — Salvaneschi pure era con noi, Calcaterra era con noi, Luigi Foscolo Benedetto, tutto il clan, e Vugliano, Mario Vugliano... — Parlami di Vugliano. -— Vugliano era uno strano tipo, intanto era altissimo, altissimo, un’aria da moschettiere;

allora c’era la Bohézze di moda, e lui si

vestiva come Rodolfo, aveva quei pantaloni stretti in fondo, un gran cappello in testa, portava il pizzo e i baffi, tanti bottoni, e maniche strette, com’era il costume di Rodolfo; girava per Torino,

anche sotto i portici, e tutti lo vedevano... Scriveva sul « Momento », faceva già il giornalista anche allora, e aveva scritto un libro che aveva avuto un certo seguito, Gli allegri compari di Bogodrolo, un romanzo burlesco, sul tipo un pochettino del Circolo Pickwick, un po’ così, o Dio, a distanza di chilometri... Vugliano poi faceva dei versi, non ricordo se fossero pubblicati... in giornali certo, soprattutto sulla « Gazzetta del Popolo della Domenica »,

quella diretta da Augusto Berta. Lì abbiamo pubblicato tutti, tutti noi. Oxilia era il più giovane di tutti, però il più bello, era bellissimo Oxilia, coi capelli ondulati, il più romantico, e aveva

fatto in quel periodo i famosi versi di Giovinezza: Stretti stretti sotto al braccio

di una piccola sdegnosa trecce bionde e labbra rosa occhi azzurri come il mar...

— Adesso dimmi di Mario Bassi. — Mario Bassi era molto dolce, sentimentale, toscaneggiava nel parlare (per quanto fosse piemontese come me), dicitore bravissimo,

era quello ch’era preferito da Gozzano, Gozzano rivelava che chi diceva meglio i suoi versi era Bassi. Poi lui passò alla « Stampa », era un giornalista, bravo anche, un giornalista di quelli che vanno in giro, un corrispondente, e morì abbastanza giovane... In quest’ultima guerra, nel ‘40 o nel ’41. Fece anche una commedia, una commedia rappresentata all’Alfteri, non mi ricordo il titolo, ma recitata all’Alfieri perché c’era una

fotografia che rappresentava Bassi davanti al manifesto della porta dell’Alfieri. Un altro che era del clan nostro, qui, e anche a Torino, era Enrico Craveri. Craveri era anzi un letteratoide, proprio deciso, toscaneggiava anche lui, era un dannunziano, ragazzo ricco,

il primo che ha posseduto un’automobile dei miei amici... E alla « Donna » hai sentito quando è venuta la Lyda Borelli a recitare?

Sì, Lyda Borelli ricordo che era venuta a recitare la Rosmunda di Benelli, vedi che ho buona memoria, e fecero i festeggiamenti all'Associazione della Stampa e anche alla « Donna », e vidi la Borelli con il suo cappellone, il suo mento aguzzo, sotto braccio di Sem Benelli, che entra all'Associazione della Stampa prima, e poi anche alla « Donna ». Senti, ancora una cosa. Tu sapresti dire — sono leggende — ma che cosa si diceva che potesse essere Villa Amarena della Sigrorina Felicita? Non è che tu sappia qualche cosa? Villa Amarena? No. Guarda, dev'essere proprio una fantasia, una fantasia o quasi, come anche la signorina Felicita, non so se sia identificabile, erano delle creazioni veramente dell’artista, che vede, che inventa, che immagina... Senti Gotta, tu nella piccola capitale del Canavese ti ricordi bene quando hai conosciuto Gozzano, te lo ricordi bene quando è venuto qua?

Dunque, io conobbi Guido Gozzano negli anni della giovinezza ad Aglié, ma il primo contatto che ebbi con lui come poeta fu qui, in Ivrea, quando

Mario

Bassi, lo scrittore

comune

amico,

venne a portarci la prima copia della Via del rifugio, che fu letta in un crocchio di amici qui a Ivrea, e che destò in tutti noi un grandissimo entusiasmo. La fama del Gozzano da quel momento dilagò in tutto il paese in un modo veramente straordinario, ci fu un grandissimo successo. Poi ebbi occasione di averlo qui a Ivrea moltissime volte, ma ricordo in modo particolare una gita che si fece insieme al Castel-

lo di San Giuseppe, dove avvenne il grande amore fra Arrigo Boito ed Eleonora Duse. Andai lassù con lui e Amalia Guglielminetti. Gozzano era allora in un periodo in cui stava abbastanza bene. Era un bellissimo giovane, biondo, con gli occhi chiari, mani stupende, parlava calmo, era un gran signore, nel senso più completo della parola. La Guglielminetti allora aveva veramente quella che si potrebbe dire la figura della v472p, ricordo che era vestita di seta cruda, un abito lungo fino ai piedi, e un grande cappello piumato. Era una bella donna, occhi grandi, neri, e una grande bocca, tipo sensualissimo, tipo anche di donna molto intelligente. Andammo a questo castello, che è in cima a un monte sul lago di San Giuseppe, luogo molto romantico a cui si accede per una stradina malagevole. La salita, ancora, andò bene, ma la discesa fu un disastro. Amalia Guglielminetti perse prima un tacco, e poi anche l’altro, per cui dovemmo fare, Gozzano ed io, la « seggetta », e portarla giù, a passo naturalmente, in una giornata d’agosto — potete immaginare — caldissima. Il povero Guido, che non era l’uomo più adatto per fare questi lavori, sudava, soffriva... A ogni modo arrivammo al lago di San Giuseppe e facemmo una magnifica colazione, con grande allegria, discorrendo di quel che avevamo visto e della nostra vita letteraria di allora. Poi, altro ricordo magnifico fu a Fiéry d’Ayas, che è un paese sopra Champoluc, in Valle d’Aosta,

E lì ebbi occasione di avvicinarlo molto di più, perché stemmo insieme una ventina di giorni, e c'erano lassù Pastonchi, don Romolo Murri, Frassati, il direttore della « Stampa », con sua moglie

e i suoi due figliuoli, Giuseppe Antonio Borgese, con la moglie, il figlio Leonardo e la piccola figlia Giovanna, ora scomparsa, il professor Caristia, e venne pure Giannino Antona-Traversi. Furono giornate bellissime, anzi serate più che altro che noi passavamo in quel piccolo albergo, a lume di candela, discutendo d’arte, di politica (era il periodo in cui in Italia si dibatteva la questione del Vico, questione nella quale il Borgese si era buttato). Poi, durante questo periodo di Ayas si fece una passeggiata al Lago Bleu, e qui avvenne un fatto piuttosto triste, e anche comico insieme:

il Borgese, che non credeva alla malattia del Gozzano,

credeva che fosse una posa letteraria la sua etisia, a un certo punto per scherzo — uno scherzo forse un po’ di cattivo genere — gli diede una spinta e lo buttò nel lago. Per cui tutti quelli che c'erano, specialmente le signore, la signora Frassati e la signora

Liga

Borgese, ci affannammo a tirarlo fuori dal lago e poi a portarlo al vicino albergo, dove lo si mise a letto, con bottiglie d’acqua calda... Scherzo che però il Gozzano accolse con grandissima signorilità, senza darvi importanza, senza offendersi per nulla, con quella dolcezza che gli era propria, sorridendo, « non è niente, non è niente, è uno scherzo ».

Sempre nel Canavese siamo andati a cercare don Dionisio Borra, un altro dei pochissimi amici superstiti del poeta, poeta egli stesso e già vescovo di Fossano. Ora è ritirato in una piccola canonica presso un nipote parroco.

— Io sono contento di essere venuto fino qui a Caravino a cercarla, perché so che lei ha molto amato e conosciuto bene Guido Gozzano. Ma adesso mi dica: quando l’ha conosciuto propriamente? -— L’ho conosciuto nel 1911 al mese di luglio, e quindi sbagliano coloro che dicono che io ero amico d’infanzia e compagno di scuola. — Che differenza d’età c’era? — C'era differenza di tre anni. Io avevo venticinque anni allora, quando l’ho conosciuto, e lui ne aveva ventotto. — Dove vi siete conosciuti? — Ci siamo conosciuti ad Aglié. — Lei dov'era allora? Che cosa faceva allora? — Ero ad Ivrea professore in Seminario, e quindi quando ha pubblicato i Colloqui io ho fatto un articolo di esame ai Colloqui, speciale, non critico nel senso dell’arte, ma piuttosto nella linea morale. E lui ha visto questo mandatogli forse da Vugliano o da

Zanzi, da qualcuno di Torino. Io non avrei mai pensato che quel- |

— — — —

l’articolo fosse andato in mano anche al poeta, e che soprattutto il poeta avesse il piacere di rispondermi, non soltanto con le parole di convenienza, diremo così, ma con un tono che si sentiva che io avevo indovinato qualche cosa di speciale in lui. Questo me l’ha detto poi a voce quando ci siamo trovati. Ma lui dov'era allora? Era a Milano. Forse per combinare lì la pubblicazione? Sì, « passo momenti turbinosi di cose e di uomini, ma verrò poi ad Aglié, nella quiete canavesana, e allora la vedrò volentieri », questo mi ha detto nella lettera.

E vi siete poi trovati? Sì, ci siamo trovati ad Aglié nel luglio del 1911. Come è andato l’incontro? i L’incontro è stato affabilissimo, perché lui era affabile con tutti,

come diceva la mamma. Trattava bene, era un signore nel tratto,

aristocratico,

senza

smancerie,

senza

— direi — cose importune.

L’ha visto altre volte lei? Sì, l'ho visto ancora quell’anno nel settembre. Poi l’ho visto nel 1912 quando è tornato dall’India e poi nell’estate di nuovo a Torino. Sono stato a pranzo da lui una volta nel settembre, credo,

del 1912, giorno in cui mi propose: « Andiamo a trovare Amalia Guglielminetti, le ho parlato di lei, credo che la veda volentieri ». Io sono andato. Dove stava allora? In Corso Francia. Abbiamo attraversato il Corso Francia a piedi, siamo andati là e, in un momento speciale, mentre lui era interessato a guardare,

nella stanza

vicina, delle stampe,

Amalia

Gu-

glielminetti si volge a me e mi sussurra: « Voi credete che sia cattolico? È buddista! ». Perché era stato nell’India ed aveva ammirato, come del resto ammiriamo, lo spirito ecumenico:

è pro-

prio quello che ammiriamo, quello che c’è di buono e di grande in tutto e per tutto. Lui aveva ammirato l’ascetismo buddista. E lei cosa ha detto? Io non ho detto niente, mi sono messo a sorridere e poi ho pensato: « In questo momento conosco il cuore e l’anima di Gozzano meglio io di quello che la conosca lei ». Ho pensato, non l'ho detto per non offenderla. E poi l’ha visto ancora Gozzano? L’ho ancora rivisto quando ho pubblicato le poesie. Le sue poesie? Le mie poesie, col titolo Come la fonte, per cui mi aveva promesso di fare una pagina su « Donna » intiera — dice: « Una cosa che la lancia ». Io ho un po’ nicchiato, e allora lui ha capito che non era proprio il posto adatto a me, sacerdote, ed allora non mi ha più parlato di quello. Quando è uscito il volume ho mandato alcune copie a lui che era a Genova ed era ammalato. Mi ha

fatto rispondere con una ricevuta e con tutte quelle cose che mi aveva detto riguardo alla poesia, e poi mi ha promesso di mandare una copia ai giornalisti genovesi sperando che qualcheduno ne parlasse. => 69 —

— E poi lei è andato militare, — Sì, io sono andato militare e all'ultimo momento, quando contrare degli amici proprio

vero? anche tutti gli amici, in maniera che

forse avrebbe avuto bisogno di indi cuore, non c’era più nessuno. Gli

amici (gli amici confidenti) erano tre, secondo la mamma

nell’arti-

colo che ha pubblicato nel 1937 sulla « Gazzetta del Popolo della Sera »: « Mio figlio era molto cauto nel contrarre delle amicizie, cautissimo nel scegliersi i confidenti e fra questi erano specialmente tre: Filippo Bevione, Emilio Zanzi, Don Dionisio Borra ». — Mi dica ancora: che giudizio si fa lei dello spirito di Gozzano? — Ecco, è uno spirito che superficialmente era un po’ ironico e un po’ tenuo, niente letizia, viceversa in fondo era uno spirito meditativo e inquieto, inquieto. Si vedeva che cercava con tutta l’anima, cercava qualche cosa a cui abbrancarsi in modo assoluto, e visto che il materialismo non serviva, visto che lo spiritualismo non serviva, allora ha sempre progredito con delle deviazioni, non per una strada rettilinea ma con un cammino che era sempre stato orientato verso l’assoluto. — Mi dica ancora una cosa Monsignor Borra, se lei dovesse indicare

qualche verso che secondo lei esprimesse l’inquietudine di cui mi ha parlato, oppure un’aspirazione anche ignota verso qualche cosa, saprebbe indicarmelo? — Sì, nella poesia Ur’altra risorta dice fra le altre cose: Sono felice. La mia vita è tanto pari al mio sogno; il sogno che non varia: vivere in una villa solitaria, senza passato più, senza rimpianto:

appartenersi, meditare...

— Appartenersi, meditare... — Sì, due parole molto significative. Vuol dire che cercava l’introspezione e meditava su quello che era il suo pensiero. — Ma lei mi ha detto che c’erano anche nell’Amzico delle crisalidi ‘dei versi che sembravano come un'ispirazione... — Amante delle crisalidi, le osservava nella cimasa della sua casa, e dice a un certo punto: Tra poco l’ospite della mia casa sarà lontana; prenderà vòta dalla cimasa la spoglia vana.

Andrai perfetta dove ti porta l’alba fiorita; e sarà come tu fossi morta per altra vita. L’ale! Si muoia, pur che morendo, sogno mortale, s’appaghi alfine questo tremendo sforzo dell’ale!

L’ale, una strofa magnifica.

Nei piccoli vagabondaggi fuori di Aglié Gozzano vide sovente questo vecchio nobile palazzo cadente: fu questa la Villa Amarena della Signorina Felicita? Lo dicono. Fu questo il « bell’edificio triste inabitato » tra nobile e campagnolo? « Odore di passato! Odore d’abbandono desolato! » qui ce ne dev'essere. O è quest'altra villa? Dicono anche questa. « Vill’Amarena a sommo dell’ascesa ». O è questa? ... Questa o quest’altra villa, o nessuna... Benché una davve-

ro ci fu — il poeta lo disse — dov'era nel solaio un paravento con la storia di Piramo e Tisbe. Ma è tutto vero e tutto falso... la tela col ritratto della vecchia marchesa folle... chissà quale... e gli abbaini secentisti, ovali, a telaietti. E sotto, la pianura, i vigneti... la canzone O mio carino tu mi piaci tanto, siccome piace al mar

una sirena...

canzone che ricordo, che è anche della mia infanzia e certo di molti

di voi... Di qui, da tutte queste cose nacque il poemetto della Signorina Felicita, il canto di una réverie, di un sogno inappagato, ambiguamente voluto e non voluto, vero e finto, che è proprio indicativo di chi dispera di poter amare. Nella Signorina Felicita si accenna a una viaggio in terra d’oltremare. Questo viaggio fu compiuto nel 1912 sul piroscafo « Rubattino », in India, tra il febbraio e l’aprile. Il ricordo che ne scrisse Gozzano è splendido: e non è un reportage di viaggio, è un poema in prosa, un poema di morte, tutto pervaso del sentimento della morte. Il poeta non era lontano dalla fine. La poesia lo frequentava in

toni ormai diversi da prima. Gozzano lavorava a qualche trama di film, di sua invenzione o di altri, a un canovaccio per un film su San

i Ta

Francesco, al poemetto che lasciò incompiuto, Le farfalle, quasi il suo titolo di amore alla Natura, questa fede in cui si abbandonava in mancanza di quella fede religiosa che non disdegnava e che forse venne, vicino lui a morire (ma è un segreto della sua anima che nemmeno la sua poesia conosce). Questa è forse la sua ultima patetica fotografia da vivo. Magro, consumato, morire

triste, senza alcuna difesa di sé. Tornò da, Genova per

a casa sua. Ce lo racconta

il fratello.

Ora, questa sarebbe l’ultima fotografia di Guido. Una delle ultime fotografie di Guido prima della fine, di pochi giorni precedente il trasporto a Torino in gravissime condizioni. E tu dov’eri? — Fro

a Londra, ; dov’ero

stabilito.

Un

telesramma g

m’ingiungeva giung

l'immediato ritorno in patria per l'improvviso aggravarsi di mio fratello. L’agonia fu lunga e straziante. Guido era pervaso da un profondo misticismo; sopportò il male con stoico coraggio, affrontò la morte sereno e in piena lucidità. La sera prima del trapasso desiderò che gli portassero le carte, le sue carte: distrusse le poesie d’ispirazione esotica, i cui schemi aveva elaborato in India,

rimpianse di non avere tempo per finire il poema sulle Farfalle, mi segnalò gli articoli che avrei dovuto raccogliere in volume e ne designò il titolo, Verso la cuna del mondo. Quindi, affranto, si

assopì. Il giorno seguente, 9 agosto, le sue condizioni precipitarono. Nel tardo pomeriggio gli recai la notizia della presa di Gorizia: la sua reazione fu viva, e si espresse nel compianto verso quei ragazzi che morivano in trincea, lontano da tutti, mentre egli si riteneva fortunato di morire nella sua casa, tra i suoi cari. Subito

dopo mi fece cenno che voleva essere sollevato dal letto per incontrare la morte. Nel sollevarlo, aiutato da un’infermiera, accostò il capo sulla mia spalla mormorando: « Tutto è bene nel mondo ». E così si spense. La « Signora vestita di nulla » era giunta all’appuntamento. Gotta ebbe della morte del poeta uno strano presagio:

L’ultimo ricordo che ho di Guido Gozzano è più che altro ‘una misteriosa fantasia. Eravamo

precisamente

nell’albergo

in guerra, nell’agosto del 1916, e

« Misurina »,

occupato

soltanto

da

ufficiali. Quando, al buio, a un certo punto uno di noi recita una

poesia di Gozzano, e si parla del Gozzano. Intanto un faro ci

illumina, illumina le vetrate. Il giorno dopo, 9 agosto del 1916, leggemmo che Gozzano era morto. La guerra aveva travolto nella sua tragica confusione la presenza del poeta. Gozzano sembrava sparire nel passato. Anche il suo collega d’arte, un crepuscolare, Nino Oxilia, morto in guerra nel 1917,

sul Monte Tomba, lo aveva salutato come « poeta del passato », lui poeta che dalla guerra si aspettava un rinnovamento. Invece la guerra passò, ne passò un’altra, e la voce che sembrava inadatta all’ascolto delle nuove generazioni, tornò ad essere percepita, ad essere accettata.

Gozzano era stato il poeta della crisi d’arte e di coscienza che era cominciata agli inizî del secolo. Quella crisi che significava decadenza dalle certezze, o supposte certezze del passato, quella crisi che significava il crepuscolo di una giornata ch’era sembrata calda, piena, certa, gloriosa. Perciò fu detto crepuscolare. Ma Gozzano era poeta dalla voce

tutt’altro che debole

o incerta;

il suo

timbro, le sue

immagini erano piene e concrete. Egli diede il suo nome

a certi

sentimenti minori, ma non meno veri, come li aveva dati Puccini con

la sua musica borghese. Egli non era un debole sentimentale: ironizzava coi sentimenti. Egli diede il nome a una certa civiltà intorno agli anni del liberty. Che cosa ne pensano quelli che l’hanno riletto? Non dico quelli del tempo suo, che l’anno sempre amato, dei tempi di Renato Serra, come monsignor Angelini, o i miei coetanei, come Mario Soldati *,

che lo rivalutano ancora, dopo una lunga parabola di anni e di esperienza. Ma i più giovani? Un poeta d’avanguardia come Sanguineti, per esempio?

— Gozzano è un poeta caratteristico del nostro Novecento, anzi è il poeta che inaugura la poesia del nostro secolo, è veramente un nostro contemporaneo. Ha rovesciato il dannunzianesimo, ha aperto quel gusto — per usare una formula che lui stesso ci ha lasciato — delle cose stridule che è ancora tutto nostro.

O come il giovanissimo Olmo, studente universitario, nipote del poeta Mario Luzi, che ebbe la sua prima gloria al tempo della poesia ermetica? * Il testo di queste due brevi interviste è andato perduto.

— E tu che sei di una nuovissima generazione, credi che Gozzano ti possa ancora interessare, appartenere?

— Sì, è vero, io sono di una nuova generazione, infatti ho diciannove anni, ma

io credo che Gozzano

sia ancora

attuale nella sua

personale ironia per immagini ormai consumate, per la quale il giovane lettore può recuperare il dramma storico del contrasto tra l’uomo e il suo mondo, tra.il poeta e la sua società. Dunque, avete sentito.

E abbiamo finito. Quel che vi abbiamo

fatto vedere sono immagini esteriori. Quel che vi abbiamo raccontato sono poche notizie, insufficienti per una

storia’ vera di un poeta.

Ma la storia vera del poeta è scritta nel libro delle sue poesie. x

TESTIMONIANZA

DI GOLIA

Va, canzonetta fina al bene avventuroso, férilo alla corina se ’1 trovi disdegnoso...

Questi versetti di sapore trecentesco tratti da una vecchia antologia formavano la delizia e le risate di Gozzano e mie. Egli era portato a irridere ogni cosa, a cominciare da se stesso. *

Nella quarta e quinta ginnasiale era nostro insegnante Luigi Valmaggi che poi passò all’Università, docente di Letteratura greca. Egli amava intrattenersi con gli allievi, fare delle domande a bruciapelo: « Chi è il più grande poeta d’oggi? ». Silenzio. Nessuno osa rispondere. Un braccio teso domanda di parlare e la voce un po’ rauca di Gozzano: «D'Annunzio! ». Apriti o cielo! Si stava studiando il Carducci e i sonetti del Ca ira viaggiavano sulle nostre labbra. « No, no, no, — tuona Valmaggi — finché è vivo Carducci non sarà mai D'Annunzio! ». *

Guido Gozzano aveva un altro nome:

Gustavo, che non gli piaceva,

e se ne crucciava. Io gli consigliavo di adottare un secondo nome ma neanche quello gli andava. Ci pensò e poi mi disse: mi piacerebbe chiamarmi Guido. Allusione ai due grandi Guidi che lo precedettero? Non penso: penso invece all’articolo comparso sul « Corriere della Sera » nel ’33 nel 50° anniversario della sua nascita in cui Pastonchi lo portava agli altari, unendolo, terzo Guido, a Cavalcanti

e Guinizelli.

Gozzano fu mio ospite in campagna e nella cricca giovanile di ambo i sessi si annoiò terribilmente. È notorio che egli odiava le « signorine » con commenti alle volte talmente audaci da farlo pensare un sadico, o forse meglio un essere che aveva da amministrare una vendetta contro la sorte. * ®

Durante una gita attraverso i sentieri di montagna lo perdemmo di vista. Io lasciai gli altri precedere per rintracciarlo. Seduto in terra tossiva. Una tosse secca. Di lontano si sentivano gli schiamazzi della brigata. « Ho sempre la gola arrossata ». Trasse il: fazzoletto e si asciugò le labbra: sul fazzoletto erano rimaste delle tracce rosso-brune sanguigne.

Io gli presi quel fazzoletto di mano, lo sciacquai al vicino ruscello, lo strizzai parecchie volte, le macchie scomparvero;

lo stesi al

sole che era molto caldo e in breve si asciugò. Allora presi quel fazzoletto, glielo misi attorno al viso alla maniera di una vecchietta. Guido sorrise ripetendomi la frase: « Tit mia granda! », frase che accolto il suo apparire in un « mondano » salotto di Aglié!

Fui ospite al Meleto, presente la mamma, lo zio demente, la nonna materna. Vita di campagna — una casa vecchiotta, confortabile, una vecchia Caterina, lumi a petrolio, libri vecchi, un persistente odore di

chiuso. Meleto. Perché Meleto? perché dinanzi alla facciata della casa erano dei meli allineati come in una bonaria scenografia, ma questo insieme cambiava aspetto quando percorsi poche decine di metti ci si addentrava in una macchia di piante altissime le cui fronde si incrociavano quasi a formare una volta. Sotto, un lago di acque scure qua e là coperto di vegetazione. Al centro un isolotto con un chiosco, composto di rami di bambù intrecciati molto artificiosamente. Vi si entrava per una porticina: qualche seggiola di paglia, un tavolino, una finestrina. Un ponticello univa l’isolotto alla riva: una barca e un cigno.

Immaginiamo questo quadretto d’autunno nella quiete del primo °900 senza urla di sirene né strepiti di claxon. C’era di che sognare,

c'era di che diventare romantici, c’era di Seifare quasi a pugni con Gozzano! *

Amori ancillari? Ricordo (oh averla!) una fotografia mandatami da

lui, inginocchiato di fronte ad una cospicua figura di donna, sortridente, pasciuta, ingombrante. Questa foto era una presa di giro a se stesso e ai suoi amori ancillari, che a parte ogni indagine assai più profonda della mia non avevano altro significato che una spiccata reazione al tipo di « donna fatale » che imperava in quel momento. *

Egli, che brutto non era, avrebbe voluto essere bellissimo e soprattutto atletico. Il tempo trascorso nel Collegio di Savigliano lo aveva deluso in pieno. Andatovi per ricuperare un anno perduto si era accorto che i mezzi fisici hanno la loro importanza. Per questo egli invidiava un amico atleta e fors’anche la bellezza di un collega che a questa doveva gran parte del suo successo.

Mai io sentii dalla bocca di Gozzano un urlo di meraviglia né di indignazione, mai un commento appassionato né la sua voce contratta da una emozione. A qualche mio facile entusiasmo (in questo io dissentivo da lui) dava delle grandi risate e poi tossiva. *

Entrati alla Facoltà di Legge dell’Università torinese le cui lezioni allora erano facilmente disertate, non credo di avercelo visto mai.

Egli voleva essere avvocato e amava farsi chiamare tale perché allora lo studente precorreva i tempi e lo si chiamava già come laureato. Mi ricordo di aver studiato con lui e Cesare M. Devecchi Diritto Commerciale. Devecchi studiava sodo, serio. Gozzano ed io dormi-

vamo in certi pomeriggi estivi, nella Casa Devecchi di Via Cernia 2, oggi demolita. Gli esami andavano bene, erano faciloni. Ricordo che a quello di Statistica (Prof. Ferroglio) nessuno

era mai caduto.

Ma a Gozzano la vita universitaria non piaceva. Il baccano del Carnevale, la matricola, il berretto goliardico non si adattavano al suo carattere. Lasciò l’Università. Eravamo ai primi del ’900, veniva alla luce La via del rifugio, editore Streglio: L. 200 pagate dal poeta per la pubblicazione. *

x

I primi versi Gozzano li aveva pubblicati sulla « Gazzetta del Popolo della Domenica » e sul « Venerdì della Contessa ». Il primo era un supplemento letterario del quotidiano torinese: il secondo era un gazzettino mondano-artistico-letterario riguardante la vita dell’aristocrazia cittadina. Poter averne una copia e leggerne il contenuto sarebbe uno spasso. Dalla première del Regio al « Premio Principe Amedeo », dal gran ballo all’Accademia Filarmonica a quello della Croce Rossa, dal ricevimento in casa della Marchesa X presente la Duchessa Y e così via ci sarebbe veramente da cogliere uno stile, un clima, quasi un profumo della della époque. ... Ma di lì alla Nuova Antologia il cammino fu breve. *

Nel 1914 io fondai con un gruppo di azionisti la Rivista « Numero », Rivista politico-umoristica, la quale comparve col N. 2 ed una poesia di introduzione del nostro Guido, bellissima, il Rimpianto al N. 1 tutto esaurito (ma che non era uscito mai). *

Uno scontro Gozzano-Guglielminetti. Una Rivista mensile cattolica pubblicava all’inizio del 1916 un commovente episodio. Una ragazza dopo la partenza del fidanzato per il fronte veniva improvvisamente colpita da un grave morbo che le deturpava il volto rendendola irriconoscibile. La poveretta se ne disperava: « lui » sarebbe tornato e non l’avrebbe più riconosciuta. Ma venne il miracolo: il fidanzato tornò, sì, ma cieco. L'argomento era ghiotto. Amalia e Guido all’insaputa l’un dell’altro se ne impossessarono e composero due novelle da mandare alla rispettive redazioni. La prima pubblicata suscitò le ire dell’altro: era mia, era vostro... ma un battibecco non era possibile. Gozzano non infierì, non ne era capace o gliene mancava ormai la forza.

*

Quando ebbe casa mia Guido venne da me, una sera. Erano presenti

pochi colleghi artisti e giornalisti e qualche signora. Apparve prima timido, quindi, poiché la conversazione verteva su di lui, fu lui a

prenderne il bandolo, con poche frasi levigatissime. Il giorno appresso venne da me in redazione. Io era assente. Mi lasciò un biglietto (ahimè perduto nel caos delle due guerre). Si diceva compiaciuto delle accoglienze, della mia casa morbida, cordiale, luminosa come un albero di Natale. Gozzano? Un altro Gozzano?

Lo vidi ancora poco prima del trapasso. Era sereno. La barba gli cingeva il volto scarno affilato, quasi etereo. Mi parve bellissimo, di quella bellezza che lui, vivo, aveva

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tanto desiderato.

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APPENDICE

LA VITA

[...] Per quel che riguarda la vita pratica di Gozzano, non se ne sa molto più oggi che ieri. Le lettere, intanto, non erano molte né molto varie d’argomento, e poi la maggior parte dell’epistolario è andata distrutta con la guerra, tanto presso la casa editrice quanto presso i familiari e gli amici. Altre ricerche non sono state fatte. Quel tanto che è capitato a me di trovare riflette la psicologia e la curiosità dell'adolescenza di Gozzano: anni che per la poesia non dicono nulla. Fa piacere incontrare il ragazzo, a scuola o in vacanza, interessato alla bicicletta, o alla macchina fotografica, o a qualche

acerbo e passeggero innamoramento o avventura: niente che lo renda dissimile dagli altri della sua età, niente che faccia presagire una qualche originalità di fantasia, d’intelletto, di gusti. È il figlio di una buona famiglia borghese, delle primarie della terra canavesana, che alterna la vita fra Torino e le belle case provinciali, in mezzo a una dolce campagna, buona specialmente per gli autunni. Il padre è ingegnere, costruttore di ferrovie, e il padre di lui è stato medico anche nella guerra di Crimea; la madre è figlia del senatore Mautino molto amico di Massimo D'Azeglio. Questo forma,

per così dire, il passato ottocentesco di Gozzano: appunto, la Crimea, D'Azeglio, memorie che, sia pure col suono dei soli nomi, con un barlume del loro significato, affioreranno nella futura poesia di Guido Gozzano. Gozzano dunque è un figlio di famiglia, quel che si dice per indicare uno che uno evade dalle tradizioni:

anzi diventeranno, sia

pure con un po’ di consapevolezza ironica, il suo penchant, il suo coté conservatore. Come studente, non c’è nulla a testimoniare che

sia emerso dalla mediocrità comune. C'è ancora chi lo ricorda — il suo compagno di scuola, il pittore Golia — alzatosi in piedi a

LIL

dichiarare, a un maestro carducciano, che il maggiore poeta di allora era D'Annunzio: un piccolo scandaloso segno di coraggio. Anche gli studi universitari passarono senza gloria. Così poca gloria che addirittura non ve n’è traccia, se non nel ricordo di qualcuno che preparò esami con lui, o anche in lettere sue. Ma il suo libretto universitario — almeno quello che io posseggo — è tutto bianco: e quanto alla laurea si sa che ci pensò frequentemente con un certo proposito, ma non la prese. Ma lui lasciò che lo chiamassero egualmente avvocato, come si è sempre fatto con uno studente appena entrato in facoltà di legge. Gli piaceva di chiamarsi avvocato da sé, per saggiare il suono di un titolo che sapeva di borghesia professionista. Siamo dunque sui vent’anni. Nei tredici che gli rimasero da vivere nulla c'è di eccezionale,

salvo la malattia

mortale

dell’uomo e la nascita in lui di un poeta nuovo. A quanti ho potuto ho chiesto di ricordarmelo fisicamente. Sapevo che era biondo, magro, un po’ ossuto, miope, occhi grigi, la voce un po’ rauca, il volto come trasognato « un po’ sporto in avanti » —

ricordò di lui la più nota delle donne che l’amò, Amalia Guglielminetti, poetessa. « Tutti i suoi modi erano cauti, guardinghi di urtare e di urtarsi, riservato il parlare, da signore educato molto bene »,

. ricordò qualche altro amico. Ma quelli che ancora vivono dell’età sua sono concordi nel rammentarne la gentilezza, il riserbo. Non che fosse incapace di lietezza, di cordialità, di amore. Ma vinceva la sua

natura di solitario, il bisogno di possedere se stesso, di compiersi nella sola cosa che amasse

superiormente,

l’arte sua, prima della

morte precoce che dovette presagire più volte, rassegnandosi ad accettarla. Le lettere sue alla Guglielminetti — la sola donna con la quale la sua relazione ebbe un senso, una consuetudine che si trasformò

presto in amicizia, durando sia pure illanguidita — quelle lettere sono la testimonianza più diretta e sicura della sua esclusiva dedizione alla sua vocazione di poeta («la passione è un ingombro al cammino » le scriveva). In fondo, il suo rapporto con lei è fondato su un tifiuto, e mitigato dal gioco ambiguo della confidenza, tesa a trasformare la « creatura amante » nella « compagna necessaria ». Ho già detto dello scarso interesse della sua biografia esteriore. La primavera nel Canavese, l’estate in montagna, l’autunno al Meleto (« una cascina — egli diceva — volgare e senza sogni, se io non la popolassi di tutte le mie stramberie »), l’inverno e un po’ della primavera al mare: a Torino sempre meno, con gli anni [...].

Morto il padre ch'egli era sui diciott’anni, colpita la madre da

paralisi che ne aveva ventotto, Gozzano dovette come primogenito

occuparsi del patrimonio domestico che non era grande ed esigeva regole attente. Si compiaceva di riuscire a cavarsela, pur lamentandosi — con un fastidio che rasentava l’estetismo dannunziano — dei suoi contatti con « uomini dozzinali », cioè con uomini d’affari. Viveva in una città, in un tempo di iniziative pratiche, di nascite di industrie, di movimenti sociali. Ce n’è qualche risonanza nelle lettere, nelle prose. Nessuna

nelle poesie

[...].

Gozzano si definiva da sé un « fanciullo molto trasognato e un poco fatuo », piuttosto inerte. In realtà viveva in una « calma inquietante », in continue « crisi d’ombra e di luce ». già verso la fine della vita, benché apparisse tranquillo e talvolta fiducioso, confessava che il suo morale era « sempre quello d’un tormentato ». Lavorava ancora: a un poemetto sulle amate e studiate farfalle: riduceva a scene cinematografiche qualche soggetto d’altri e suo. Sua una sceneggiatura su San Francesco, per quei tempi piena di nobili toni culturali ed artistici. Compì qualche viaggio in Italia, ma senza memorie. Uno solo, a lungo meditato e fantasticato, realizzò, per salute,

in un paese lontano, come tutto ciò che gli piaceva, nel tempo e nello spazio. Dall’India portò, come confermato dalle visioni che ne ebbe, un interesse di meditazione verso il buddismo. Era il passaggio dal giovanile materialismo a una intensa spiritualità. Questa storia intima della sua anima ha interessato molti, e si è parlato di un sicuro ritorno del poeta alla fede cattolica [...] [Trittico gozzariano

Get: [...] « È morto come un santo. Come un santo ». Così ricordano

agli amici la madre e la sorella di Guido. E di tutta la biografia del poeta, quei soli ricordi sono malinconicamente in margine alle dolci rime di lui. — Come un santo, pronunciando parole d’amore e di pace. Ha tenuto per giorni, fino all’ultimo, un crocifisso d’argento

fra le mani. Il padre Dogliotti che gli era al capezzale disse di aver ricevuto lui un bene dalle parole del morente. Guido era stato a Sturla con la mamma. All’improvviso (così mi ha rievocato un giorno la sorella) seppi che l’avevano trasportato, dopo un’angosciosa crisi, in un o-

spedale protestante sulle alture di Genova: accolto fra i soldati, tra i malati e i feriti di guerra. Quante difficoltà dovetti sormontare, giunta di notte a Genova, senza indirizzo, straziata, sola. Quando potetti

rivederlo « Oh, ma soeur! Ma soeur! » mi gridò. Da quel momento non volle più che mi allontanassi dal suo fianco; si abbandonava, fanciullo docile, rassegnato moribondo, alle cure della sorella. Lo feci trasportare a Torino: era il 21 luglio 1916. La gente credeva che accompagnassimo un cadavere. Alla stazione di Torino dovetti provare tante automobili prima di trovare quella che mi parve meno incomoda per quel corpo fragile. Ma era Torino, dove era nato e vissuto. Lì voleva morire, aveva supplicato di morire. Non come i caduti di guerra, lontani dalle case loro. « Sono fortunato — diceva — muoio

nell’hétel de la mère ». Non

aveva

alcuna speranza.

Da

anni si sapeva destinato alla morte: la Signora vestita di nulla. Tuttavia diceva: « Se guarirò, mi farò francescano ». Gli ultimi studi, forse, per lo scenario cinematografico di Frate Sole lo avevano come riavvicinato a quei sogni spirituali, a quei pensieri religiosi che aveva in sé non distrutti, ma abbandonati con il facile scetticismo

degli anni giovanili. Non gli studi soltanto, ma la coscienza del male, il lento male, il presentimento dell’ultima ora [...]. Il viaggio in India, « vagabondaggio con qualche inquietudine », distrasse il poeta, non guarì « le non molte carni ». Aveva riportato con sé certe poesie. Misteriose poesie. Pornografiche, sospetta la madre. Sul letto di morte Gozzano volle obbedire al consiglio della suora, e, vigile e risoluto, le bruciò tutte. Chi oserebbe chiamarlo « vigliacco ravvedimento dell’ultim’ora »? Fra stanco, ma

non stremato.

Ragionava,

discorreva, sempre

in

attesa trepida dell’« ora dolce », il vespro. Era come veggente, presentiva tutto, le assenze, i ritorno, gli aftettuosi inganni. Gli parve rinascere quando rivide il fratello Renato, il « fratello forte », accorso da Londra. Lo amava. Lo aveva mandato lui a Londra con i suoi guadagni. « AU right! AU right! » lo salutò. L’agonia si prolungava. « Non posso più avanzare — diceva — Ho il naso contro il muro ». Morì la sera del 9 agosto, alle sei e un quarto, nell’ora dolce. « Prego per quelli che amo ». « Tutto è bene a questo mondo ». Furono le sue ultime parole [...] [Ad Aglié di Gozzano cit.]. [...] Fu qualcosa di più? Approdò più lontano? È difficile affermarlo, ed è rimasto un segreto dell’anima di Gozzano. In una lettera del 25 giugno 1916, cioè di un mese e mezzo prima della morte (che lo tolse dalle sofferenze del male il giorno che i quotidiani annunziavano la presa di Gorizia), in quella lettera che era aperta alle confidenze intime, perché rivolta a una madre cui la guerra aveva ucciso

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un figlio, Gozzano confidava di essersi evoluto, appunto, « ad una

figura di spiritualismo quasi religiosa: provvidenziale — aggiungeva — per chi non può trovare conforto nei dogmi d’una fede tradizio-

nale ». Altre verità ci restano ignote. La breve vita dell’uomo Gozzano è tutta qui, e non ha bisogno di molte postille. Quella del poeta è invece più lunga e, nonostante l’apparenza semplice, il tono dimesso, la luce chiara dei contorni, è molto più complicata e dice a noi più cose che non dica la biografia [Trittico gozzaniano]. AGLIÉ

« Benvenuti al castello d’Aglié — diceva cortesemente un cartellone all'angolo di una strada fra un parco cintato e una distesa di campi di granoturco lambiti da un rivo frusciante — Vi si invita a visitare

il castello e luoghi gozzaniani ». Il castello che fu dei duchi di Genova e ora è monumento,

e

proprietà nazionale, non è molto conosciuto. Aglié, per i gozzaniani di tutta Italia — e ce n’è anche fuori d’Italia — è Gozzano e il castello non conta. Eppure merita di essere veduto, nobilmente grandioso e severo nel suo colore di cotto scurito, nella stessa semplicità delle sagome e pur nella modestia e nel silenzio di oggi. Se altro non ci fosse — ma ci sono anche sculture e quadri decorosi, anche interessanti, e affreschi e sale e gallerie ancora intatte e fresche del loro tempo, alcune in un buon saggio di stile neogotico, e un teatrino per nemmen cento persone che verrebbe la voglia di vedere messo in uso per qualche spettacolo prezioso, se a creare simili occasioni ci fossero ancora tempo, voglia e gusto;

se altro non ci

fosse, c'è un parco sterminato, che ha un giro di viale di 22 chilometri, ed è ricchissimo d’ombra e di frescura d’alberi, i quali son platani, ippocastani, carpini, acacie e pini di 66 varietà.

Le vicende della guerra misero il castello in pericolo, poiché ci furono di stanza i tedeschi per un mese e più con cinquemila cavalli, sicché ne andarono di mezzo 14 giornate di grano e 265 piante: la situazione nuova giustificò la scomparsa di cacciagione varia, persino di cinghiali e di mufloni.

Ma

ci sono

ancora,

ospiti indisturbati,

usignoli e merli, gazze e ghiandaie e, dal 1935, nuovi venuti gli aironi chi nidificano, in primavera, altissimi sulle quercie. L’impressione è solenne per l'ampiezza dello scenario e romantica per il colore e la solitudine e lo spessore della foresta. L'Italia non è certo

ricca di foreste, e questa di Aglié dovrebbe essere custodita come un tesoro. In realtà lo è, ma gli uomini a lavorarci, a falciare i prati, a pulire i viali, a curare le tremila rose, le tremila ortensie e le 1280 piante in vaso, sono pochi, pochissimi, quattro in tutto. Ma non è di questo che voglio parlarvi. Poiché era permesso entrai dunque nel parco ducale. Non era ancora sera, ma il sole non si vedeva più. Appoggiato a una balaustra di quel vecchio marmo di Castellamonte, sentivo l’odore del fieno tagliato e ascoltavo null’altro che gridi repentini di uccelli, i loro richiami confusi e lontani e un senso di pacifico dominio, ché il mondo è tutto loro. E zampilli di fontane. Quando volli addentrarmi nel fitto della foresta, il giardi-

niere volle che prestassi attenzione: infatti, al battere delle mani, gli aironi lasciavano preoccupati i loro nidi... In età giovanile, a venti, ventun anni, Guido Gozzano cantò il

castello e il parco e le memorie illustri di Aglié, in versi ancora non suoi. Ma fra il castello e le sue case del paese e la villetta celebre del « Meleto » c’era una differenza, non di lusso e di fastigi soltanto,

ma, per l'animo suo di poeta — per quello ch’egli doveva essere, tanto originalmente nella nostra poesia e persino in una certa riposa-

ta curva del nostro gusto — una differenza di motivi ispiratori. Una modesta graziosa villetta ha battuto in gloria una secolare, storica dimora [...] [La poesia dà il nome alle cose cit.]. [...] M’avevano detto che la villa della signorina Felicita esisteva davvero, e anche era vissuta la signorina campagnola; vissuta Graziella e la « cocotte ». Voleva vedere la casa « coronata di glicini leggiadre », « in mezzo ai campi dolce romitaggio ». Ma, se era romita fra i campi, è quella che ho trovata, la villa del Meleto, con tanti

meli in fila davanti al cancello. Non è più dei Gozzano, come non lo è più la casa materna ch'è in paese. I contadini me l’hanno fatta visitare: qualche stanza è « come una volta ». Ma dov’era la camera di Guido? Eppure c’è ancora, m’ha detto la sorella, il suo letto nero e il suo tavolino, gli arredi semplici e sufficienti della sua vita rassegnatamente modesta. Lì dormiva, lì scriveva. Un giorno venne qualche letterato di nome a cercare del poeta in quella villa. E il poeta che vestiva una giacca bianca d’estate non s'era fatto riconoscere. L’aveva accompagnato a visitare la sua stanzetta. Così semplice? pareva chiedere il volto sorpreso dell’ammiratore. « Lì dorme, lì scrive » aveva indicato, per tutta risposta, Goz-

zano. Tutto contento poi di essere stato preso per un cameriere.

Macché farsi conoscere! Hanno già un’idea di come sono, e poi vengono, sentono che io tosso e tosso. Il poeta Guido Gozzano? Immaginarselo

come

lo si voleva.

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E non ho veduto altro, all’infuori di un vecchio stagno sporco, che una volta era un laghetto, e non ho trovato altre tracce che cercavo. « Niente vero, niente vero! Tutto inventato! » mi ha voluto

assicurare la vecchia madre. Solo qualche nota di reale, qualche figura esistita. La « Garibaldina », per esempio, di L'altare del passato. E la « cattiva signorina », la cocotte. Si chiamava Fifì. Era anche lei ai bagni di Cornigliano, una signora tedesca mantenuta da un vecchio. Si chiamava Fifì: c’è ancora oggi qualche « cattiva signorina » che porta un nome come questo? [...] [Ad Aglié di Gozzano]. [...] La nobilità intima, pudica e perfin goffa delle cose dimesse, il profumo di quello che ci è vicino e col tempo, disseccandosi, si confonde con le cose stesse e i luoghi e l’età, e tanto più ha la traccia di un nostro culto quotidiano, fanciullesco e umile, tanto meglio si addice al rimpianto e al sorriso indulgente: questo è un qualcosa a cui Guido Gozzano ha imposto un suo timbro. Sono memorie che non hanno storica importanza, sono bellezze senza fama, verità senza lucida consistenza, senza risalto. Cose come

altre

mille. Io ascoltavo l’altro giorno, tornando al « Meleto », la compiaciuta assimilazione di oggetti reali, di luoghi esatti e di versi gozzaniani, perdonabile affettuosa superstizione di colei che oggi possiede e tiene in vigilante cura il vecchio chélet di campagna che si chiama il « Meleto »; ascoltavo senza molta attenzione le indicazioni più o meno vere o verosimili, ma insomma non prive di prosastica corri-

spondenza con la cara verità della poesia... la fotografia di lui piccolo di nove anni, quella dell’amatissima madre di lui... la cartolina con il ritratto della bella Otero, l'orologio a cucù... E salendo al primo piano, alla camera da letto, dai mobili di un bianco celestino profilato di blu scuro, ecco, sì, il ventaglio... e il cuscino, e la lampadina, e

i gambali donatigli dal fratello Renato e il salvadanaio dono della sorella Erina, e fuori il rosaio che innalza rose fino al suo poggiolo ... Rose e gerani ci sono in mille giardini: ci son certo, insieme alle magnolie, e a una palma, a non so quali altre piante e fiori del suo riposato e segreto giardino, ma per noi le rose e i gerani sono confusi col suo stranito abbandono di serenità vespertina, col suo stupore infantile:

E non son triste. Ma sono stupito se guardo il giardino... stupito di che? non mi sono sentito mai tanto bambino... Stupito di che? Delle cose. I fiori mi paiono strani: ci sono pur sempre le rose, ci sono pur sempre i gerani...

[...] [La poesia dà il nome alle cose]. TORINO

[...] Dall’Alfieri al D’Azeglio, con accenti orridi o ironici, la vita a Torino, quella di chi dava il tono, ha sempre influito sulla fama poco brillante della città. Nacque poi una diversa Torino, centro nazionale e perfino alquanto europeo di fermenti e di stile: l’età del risveglio, l’età del risorgimento. Ma il giudizio non mutò di molto. Mezzo secolo dopo, aprite Gozzano e ritroverete fermo tutto, vita, fascino, sentimento,

immagine,

nella fissità irreale di una

vecchia

stampa del 1850: città sonnolenta, bigotta, pettegola. I poeti dominano le nostre impressioni; hanno la fantasia, il canto e con quelli battono ogni verità storica, ogni logica. Sulla Torino di Gozzano c’è un velo e nessuno l’ha più sollevato. Anche viaggiatori moderni, uno così sensitivo come Cesare Angelini, o uno così sinfonico e problemistico come Bacchelli, dedicano a Torino una pagina rispettosa, da stranieri e ospiti di garbo, non più: « severità lavorativa e puritana », la città che nasce da una norma, da un pensiero, « un cielo trovadorico e felice » (fresca immagine, e cercàtela nei Frammenti del sabato di Angelini); la « grazia sorridente » ben ragionata da Bacchelli (Italia per terra e per mare). Certo essere stranieri potrebbe essere una bella condizione. « Io vorrei non essere torinese per poter vedere Torino con occhi nuovi », diceva Gozzano. « Tornando da Milano, dopo 24 ore di assenza, riscoperto

Torino »: Pavese. [...] Quasi tutti i poeti di qui sono imbevuti della malinconia torinese. Gozzano sopra tutti. Non sono un gozzaniano, detesto la

ovatta del sentimento di cui gli spiriti deboli l'hanno imbottito. Ma egli era un poeta vero. Torino diventò a quel modo poetica perché fu un’immagine della sua nostalgia autentica. Torino fu una voce, un personaggio del passato nel quale, ironizzando, egli amava illudersi e

deludersi. Dopo, artisti poveri e falsi hanno abusato di quell’originalità sua. E purtroppo Torino è offuscata da quelle gentilissime confetterie, e stenta a ritrovare il suo volto di città moderna. Da Calandra a Burzio, da Gromo, da Thovez ad Augusto Monti, i migliori

l'han sentita bene, con diversa fortuna e grazia, appoggiandosi alle lezioni della storia o alle ragioni del sentimento: ma sempre sepolta e ricreata nei vecchi tempi [...] [Arzore di Torino cit.].

Torino — dicono — somiglia a Gozzano. È vero, non è vero? I forestieri lo dicono dopo aver fatto quattro passi per la città (viali, centro, portici, Valentino, Porta Palazzo): lo dicono come di chi ha

l'occhio pronto, il giudizio sicuro, gli piacciono le definizioni. Io stesso mi sono sentito come perseguitato da questo rapporto, che sembra così facile e invece s’imbroglia a ogni passo. Ero, dentro di me, interrogato ogni momento da questa domanda. Ma che cosa c’è dunque di gozzaniano a Torino?

E, anzitutto,

che cosa significa gozzaniano? Vorrebbe significare sentimentale, immagino, una certa inclinazione a dare libera corsa a ciò che si chiama il sentimento, il quale, manco a dirlo, è la malinconia, la nostalgia, il distacco, l’assenza, la fuga interiore. Ma Gozzano non era un senti-

mentale a questo modo. Era troppo provvisto d’ironia (l’hanno detto i critici) per abbandonarsi alle cose, ai tempi, ai miti che gli piaceva cantare. Hanno ricordato per lui Puccini, ma Puccini mancava d'’ironia: il paragone può reggere per altre ragioni. L’ironia era la salute di Gozzano. E poi niente di morbido, niente di velato in lui: egli è uno dei poeti più chiari, più interamente espressi, più esatti e rifini-

ti, e la sua ambiguità è solo psicologica. Torino, invece, è una città sentimentale:

« sentimentale » è un

aggettivo che si usa frequentemente per Torino. Ha, sì, pudore di molte cose, non si vanta che con discrezione, non si paragona che con riserbo, senza iattanza; in casa sua si parla a voce moderata, mai

senti alzar di tono una voce, il suo vocabolario è privo di enfasi e non ha particelle esornative; ma non si vergogna affatto di piangere, di mostrarsi intenerita, di far gesti pietosi; segue per chilometri i suoi calciatori morti tutti insieme, risponde agli appelli di solidarietà con l’aggiunta di frasi patetiche e virtuose. Una città, per dirla in breve, più deamicisiana che gozzaniana. In Gozzano tenerezze e lacrime non ve ne sono. Le sue sono cose più di testa che di cuore. Forse è sentimentale il suo amore per il passato? Ma, chiediamocelo pure, il suo è un vero amore per il OR,

passato? L’amore per il tempo antico è il riconoscimento di una bellezza, di una grandezza, di una moralità, di un ideale insomma,

che si è spento e il cuore vorrebbe resuscitare, per rinnovare una forza, scuotere

un’apatia, sciogliere un gelo o, nel caso peggiore,

rifiutare il presente. Nulla di tutto questo in Gozzano. Gozzano non ama il passato, lo accarezza scherzosamente. Gli piace deformarlo. Lo riflette in uno specchio corruttore. La Torino secentesca-settecentesca che gli Biacevaleera quella stilizzata e di fantasia delle stampe d’epoca. Calandra, anche Gramegna ci credevano di più, ci sapevano passeggiare dentro. Gozzano si accontenta

di incisioni in rame.

E la metà

dell’Ottocento,

e Carlo

Alberto e D'Azeglio e il 1850? Ma sono le confuse, sbiadite immagini delle vecchie fotografie. È quella scoloritura a piacergli, e cioè quel tanto che diminuisce la verità. E il Risorgimento e il « tempo sacro del risveglio? ». Ma ci voleva una tempra eroica, anche solo di eroismo mentale, anche solo di eroismo figurato, ma amarlo davvero.

Al tempo del risveglio Gozzano avrebbe continuato a dormire (benché poi non è detto che dormisse: lavorava e si torturava in problemi, ma nei tempi suoi, e di tempi suoi). Per Torino è diverso. Torino ha del suo amore al passato la forma più gentile e più pericolosa: l’istinto conservatore, il culto della tradizione. Uno potrà dire: ma non è vero, a Torino ci sono stati ragazzi svegli, c'è da mezzo secolo un esercito di operai, una fabbrica senza confronti, ci sono state lotte memorabili, c’è stato Gramsci, c'è stato Gobetti, un nucleo di « resistenti » che han fatto

meraviglie, uomini avanzatissimi, sia in politica che in letteratura, nelle arti, nella scuola (Cosmo! Monti!), nella vita civile, gente eu-

ropea.

È verissimo,

ma

sono

minoranze.

Anche

Monti,

che ho

nominato, amava la tradizione, il vecchio Piemonte, ma come una forza, non come un rimpianto. E nemmeno Gozzano rimpiangeva. Torino invece, nel suo complesso, voglio dire nella sua media, è

conservatrice, in modo non eccessivamente gretto, ma lo è. Guardate la sua poesia dialettale, che una spia: è la più dialettale possibile (non parlo del vecchio Calvo o dei pochissimi rinnovatori di oggi), cioè vernacola, tutta piccole affettuosità, ninnananne, nostalgie, pic-

cole malizie, e nemmeno uno sguardo al di fuori della città. E allora che cosa si può dire gozzaniano in Torino? Perché qualcosa vorrà ben dire. Gozzanoè stato l’ultimo poeta cheè riuscito a fare del suo nome un aggettivo, della sua impronta uno stile. È, penso, anzitutto tutto quello che non è dannunziano. In altre città

qualcosa di dannunziano è rimasto, qualche alalà si alza ancora per questo o per quello, è nella natura. A Torino no: nessuna voce più alta del tono medio umano ha la possibilità di alzarsi. Se si alza, è sgradevole, è sgradita. Bene, questo è (anche) gozzaniano, perché Gozzano fu dei primi e dei più coscienti ribelli a D'Annunzio, anche se l’abbia trascinato dietro più a lungo di quanto non si creda. Poi Gozzano, sebbene trepidante verso una qualche speranza di fede, è un laico, e Torino, benché rispettosissima e anzi affettuosa con la religione, è laica; osservante per educazione, per tradizione

familiare, per buon gusto, ma intimamente laica. Torino, benché si dica città operaia, è città borghese. Si tiene su, ha il gusto della proprietà, del decoro personale. Nella sua signorilità pur tendente al dimesso, Gozzano era un borghese. Le sue novelle, o bozzetti in versi sono borghesia pura. Debbo anche dire (almeno da quanto appare dallo spunto di una lettera alla Guglielminetti), che i socialisti gli davano fastidio: ma siamo nel 1907, e poi li mette in un fascio con altre «cose », « gli automobili, le biciclette, i preti, i tramvay, il dottore, il dentista, il sarto, il parrucchiere, i parenti, l’Università ».

L’ambiente di nonna Speranza è di borghesia ricca, quasi aristocratica, quello della Signorina Felicita è di borghesia media e provinciale, di professionisti e possidenti, quello delle Due strade, di Invernale, eccetera, è di borghesia agiata, con vacanze e piccoli spassi. E la finezza con la quale Gozzano racconta suppone un uditorio per bene, gentile, educato, di buoni sentimenti.

C'è infine una Torino moderna che non appare così ostensibilmente, ma si riflette nella poesia di Gozzano. Sono ancora i portici, il Valentino, la confetteria Baratti (dove Gozzano andava spessissimo, dove le signore vanno tuttora nei pomeriggi d’ogni stagione), ma è la città animata dalle donne, signore o « crestaie ». Di « crestaie » non si può più parlare, ma delle altre donne sì, con lavoro o senza lavoro: per quanto allargati gli ambiti della città, per quante cose siano mutate, c'è chi giura che la Torino femminile sia ancora quella di Gozzano, mordente, fresca di sensi, schernitrice, vitale. Ma che

significa questo? Significa che Gozzano ha portato nella poesia una donna moderna (stile liberty, se volete) che prima non c’era, e questa donna era torinese, e quindi può anche essere vero che sia viva ancora per le strade. La signorina Felicita, l'amica di nonna Speranza, la « cocotte » sono scherzi (bellissimi), falsi scopi, motivi un po’ letterari, « mimi »

di evasione, argomenti per rimpiangere amori non avuti e, in fondo, per giocare con un sentimento faux-exprès; ma la signorina Graziella delle Due strade e l’amica delle crisalidi e l’ardita pattinatrice ed una delle donne « risorte » sono ciò che di più vero Gozzano sentiva vicino. Le loro chiome, i loro capelli a casco, gli abiti come guaine, i monili sono osservati con amore, con gusto soddisfatto. Non la Torino del Seicento o del 1850 è quella sua vera, ma la Torino 1907-11, sua contemporanea

[I/ poeta della Signorina Felicita cit.].

[...] Ma la città risorta coi suoi coraggiosi e prudenti industriali, e la città della più grande e moderna forza operaia, Gramsci studente, Gobetti agitatore? Darei tutta la letteratura crepuscolare torinese per queste due righe di Gobetti che partiva per sempre e andava a morire a Parigi: « L’ultima visione di Torino: attraverso la botte traballante che va nella neve: dominante l'enorme mantello del vetturino (che è l’ultima sua poesia). Saluto nordico al mio cuore di

nordico ». Per me lo scopritore morale di questa città è stato Pavese. Pavese che l’ha guardata da tutte le parti con gli occhi del renaiolo sul fiume, del contadino delle langhe lontane, dell’intellettuale vagabondo. Che ha sognato di riconoscervi una stirpe nuova e capace di uomini di cultura e di creatori. Perché morale? Non solo perché in quel buio, in quel mondo appartato, scolorito, in quella freddezza e in quel rigore ha visto l'impronta di una saggezza, una lezione non ostentata di pudore e di onestà, ma perché la sua città non è più remota, è viva, è contemporanea. (Sotto questo aspetto, sebbene con quei suoi toni artisticamente grossolani, chi lo precede è il vecchio De Amicis). Pavese le ha restituito la sua modernità, l’ha tolta alle

ragnatele conservatrici, l’ha riconciliata col suo tempo Torino].

=19205

[Amzore di

II] FRAMMENTI

INEDITI

1929-1973

1929

Jammes va dall’intenerimento all’humour. Gozzano viceversa. Jammes è un vero provinciale, un vero rurale: Gozzano è un cittadino che gioca al campagnolo. 1939

Il Gozzano è un poeta che spesso vede con l’occhio dell’infanzia, ma sapendolo. Non si fa mai decisamente fanciullo. Il Gozzano amò le memorie fanciullesche e in esse trasfuse molti dei miraggi del suo mondo, ma non godé mai con abbandono di quelle illusioni, e con l’ironia tentò di evitare la taccia di romantico. In quel gioco si rivela non la sua maturità d’intelletto e d’esperienza: ma la sua giovinezza irrequieta, quella che con dolce tristezza ci lasciò come sua immagine perenne. 1951

Delibò da D'Annunzio « paradisiaco » e da Jammes campestre quel tanto di « poetico » che s’intonava alla sua ispirazione sentimentale: intonò quei versi alla propria musica. Qual è la tenerezza che ci fa volgere a quella poesia e a quell’uomo diventato un simbolo poetico?

Finse, ma la sua finzione piacque, diventò una realtà. Ingannò la tristezza con qualche bella frase. Nulla è passato della sua poesia nell’altrui e nulla poteva passare. Conclude un mondo, con voce affascinante di malinconia interpreta le inquietudini sentimentali di un’epoca mal sicura del suo avvenire e non rinnovata nei suoi ideali.

Recita e vede

se stesso

recitare.

Torino. Ma « il tempo sacro del risveglio » non è un ideale, è una data. Perché il « certo ambiente caro a me », caro alla sua poesia non è molto diverso dal nostro tempo « mite e sonnolento! ». Non è un ideale, è un ricordo d’infanzia. E Gianduia è ricordato non per il « tempo sacro del risveglio » ma la saviezza ridanciana, per la prudenza e il ritegno. A

La condiscendenza al vivere borghese, che neppure quello è un ideale, ma un amaro e ironico ripiegamento. Poesia magra, fredda, senza vero pathos: e la musica dei versi ha questo suono un po’ atono.

Quel continuo ripetere i versi che dà alle poesie una definizione fiabesca. Amore mai sincero. La poesia di questo composito gioco di serietà e finzione, di verità finta è in Nonna Speranza e in Signorina Felicita. Poemi del desiderio d'amore (ma nemmeno potente è quel desiderio,

quindi del varo desiderio d’amore). Ebbe di Torino un sapore malinconico. Diede un colore a Torino. Un secondo glielo diede Pavese. Cocotte. Forse ho amato te sola (memoria del passato). Ma non è che risuscitare un’immagine d’infanzia. Ti rifarò bella. Questa bellezza (la poesia) che ha saputo dare alle figure del suo sogno, quel sogno nutrito d’abbandono e di rimpianto — quella la sua Musa. Ma quel romanticissimo « non amo che le rose che non colsi » rompe la sincerità di quell'amore. Vero è il desiderio di amare, non l’amore. x

L’amica di nonna

Speranza. Ha toccato queste cose con un lento

sguardo affezionato, le ha composte in un ordine visivo e musicale — musicale rondò. Luna,

« non

sorta

sei da una

stampa » ma

l’incanto

è giusto,

quel senso di fittizio ha un garbo. Sappiamo di sognare. Ma questo odore di passato c'è ed è suo, porta come aggettivo il suo nome.

E il sorriso, l'ironia aggiunge qualcosa, come un velo, come una lagrima trattenuta, a quell’abbandonato sognare. Non distrugge. Il fittizio è un fascino che dà colore al sogno. %

Tutto tessuto il poemetto [La signorina Felicita] dei suoi motivi più noti, una 547724. Non la donna lo interessa, ma quell’ na di DIETA di pace remota.. « In un cantico » sno lei. Il gesto ravvicina nel tempo la cittadina Carlotta e la provinciale d’oggi Felicita. Quel desiderio di amore campagnolo gli si finge nella figura di Felicita: amore non vero. « Quello che fingo d’essere e non sono » e dissipa il sogno. Ma rimangono le immagini, la cornice bellissima, la musica immutabile.

Le Farfalle. Una materia che non ha trovato scintilla. Le sue Grazie, diremo? Se voi vivete nell'atmosfera di una donna, è certo che ne amerete [N

anche le piccinerie fino i difetti fisici. un vostro dono di gusto, e allora ecco

morali, l'ambiguità ed evanescenza mentale, perL’intelligenza non vi manca, la chiaroveggenza è natura, la malizia e l’indulgenza sono nel vostro che vi accorgete del gioco in cui vivete: vi piace,

ne sentite uno scontento, intravedete una possibilità drammatica, ma

in fondo ne godete. Illusione e scetticismo si fondono in voi e ne vien fuori un contrasto, ma senza punte, gradito. La vostra anima tanto squisita ha una sensibilità femminile. Un uomo, anche dominato da una donna, se è maschio, è in definitiva sempre un dominato-

re: perché quella servitù suscita qualcosa in lui, o è ribellione o pietà della propria miseria. Ma se alla servitù che lo blandisce, è femmina. E tanto dirò che tutta femminile è in sostanza la poesia

presto o tardi, che un uomo indulge per fermarmi qui, di Gozzano.

Eppure lo scetticismo di Gozzano non è falso, ma è un malore sentimentale in lui veramente esistito, solo che questa malattia non merita i colori tragici che il poeta a volte le dà, ma va ridotta a proporzioni meno ambiziose.

In lui nessun impeto, nessun desiderio di lotta e di risveglio. Dio, Umanità sono per lui parole « che i retori gli han reso se ». Dove è da avvertire che l’abuso che i retori possano quelle credenze non è mai sufficiente a sradicarle dall’animo che veramente le abbia.

Patria, nauseofare di di uno

Il sogno è la sua « via del rifugio »: non è un sogno, veramente, ma

il dormiveglia d’un neghittoso. Parole, e per di più parole facilmente cantate. Ma sono sogni veri questi? o fantasticherie superficiali ed oziose? Se fossero veri i sogni, essi diventerebbero poesia vera, giacché sono proprio la sostanza più

Ti

certa della poesia. Ma un sogno privo di desiderio che cos’è? Può essere la nebbia d’un ubriaco che dorme. Se dunque non c’è nel Gozzano amore della vita nelle sue aspirazioni più salde e convincenti, non c’è neppure uno schietto amore per il sogno, tanto schietto da tradursi in lirica. Il Gozzano è come uno di quei contadini troppo smaliziati che per tema d’essere giocati scoprono trucco dappertutto. E così egli vede finzione dappertutto. 1966 Poesia del rammarico. Sono tutte, come egli diceva, « fantasie com-

posite ». Infatti: fantasia dell'amore antico (Paolo e Virginia o L’amica di Nonna Speranza), fantasia dell'amore sognato, ma impossibi-

le (la Cocotte) e dunque ironizzato (La Signorina Felicita) [22 maggio].

Il Gozzano è il più importante dei crepuscolari, benché non ne abbia le caratteristiche. Non ne è il caposcuola. Dobbiamo dire che Gozzano ne esce fuori? Le droghe crepuscolari (quelle del noto repertorio) sono altre, e del resto egli non le ama, le sfiora col suo gusto ironico. Che cosa lo unisce ai crepuscolari. Nessuna collaborazione di proposito, nessuna conscenza reciproca. Ma il vivere nella stessa stagione, in cui si verificavano l’influenza di poeti stranieri musicali e intimisti, la stanchezza della poesia dei « vati », lo sguardo intimo alle piccole cose, il ripudio dell’azione, la reazione a questi grandi e retorici ideali. Essi segnavano una novità (non era la novità morale di certi poeti vociani, ma piuttosto sentimentale e di gusto); la esprimevano in alcuni schemi che sono simboli [22 maggio]. La risposta al tono « alto » di D’Annunzio; ma al tono « alto » falso [23 maggio].

Sono tutte poesie dell’îo, al centro di ogni novella in versi: nessuna oggettivazione narrativa o storica [23 maggio].

Letterato che scherza con la letteratura [24 maggio]. La « buone cose di pessimo gusto »: c’erano, in poesia, prima di lui, ma solo lui le indicò a quel modo [25 maggio].

Si ha l'impressione di una poesia senza più sviluppo e ch’egli abbia avuto la fortuna di poter dire tutto di sé [25 maggio]. ad: GR

Di qualcosa dobbiamo anzitutto liberarci: di quel che Gozzano non è. Del Gozzano ridotto ai nostri amori, per cui quando diciamo, per esempio, salotto gozzaniano, ricostruiamo di colpo, con struggimento, un ambiente ch’egli non idolatrava affatto come noi abbiamo creduto [25 maggio].

Egli canterella, talvolta, più che cantare. Ciò toglie forza alla verità psicologica del suo male, del suo dolore [25 maggio]. Vere sono le sue immagini moderne. Finte quelle d’un tempo più remoto [25 maggio]. Il suo stesso atteggiamento ironico, deluso (tra l’autentico e il calcolato) è originale [25 maggio].

L’unico dei crepuscolari che ebbe senso della rivolta polemica contro D'Annunzio è Gozzano [25 maggio]. Sembrerebbe che le « stampe » siano una ricerca della memoria, del tempo perduto, un itinerario proustiano in anticipo. Ma ecco che sono false, talvolta irrise, e sono amore del passato? Si direbbe che

la sua verità sia in quella visione falsa: il solo suo modo di vedere e gustare, il suo modo di evocazione è la finzione [25 maggio]. Penso che tutta la sua poesia potrebbe riassumersi sotto il titolo emblematico « La via del rifugio » — in quanto storia psicologica, romanzo

psicologico

[25 maggio].

Forse dobbiamo credere al suo « desiderio » ucciso, ma io credo che

il suo tono più sincero, quello che, nonostante ogni indagine, resta più sicuro, galleggia nel ricordo, è quel suo larguore, il languore di chi vive nella condizione di essere per perdere, e perciò tutto è già come perduto. Di qui le immagini (col rammarico, il rimpianto, il distacco, la delusione, e il suo stato di sogno e di perplessità) delle cose che non sono state, o il senso del disfacimento della bellezza femminile e, finalmente, della morte. Tutto questo: larguore e ironia, i toni in cui si alterna, con punte acri, talvolta fallaci, la sua poesia [26 maggio].

Il rapporto fra l’uomo e l’artista è di solito piccolo. Il grande e il piccolo vi sono spesso distribuiti in contrasto sorprendente. In Gozzano il rapporto è meno stridente. Leggo ripetuto, in diari recentemente pubblicati di B. Berenson, che « meno sappiamo di una artista e meglio è. Benedetto ShakePE

speare! ». Ma quel che sappiamo di Gozzano uomo non ci delude, non ci sorprende e non ci offende. Egli assomigliava abbastanza alla sua arte [agosto].

Che cosa possono dire i documenti per intendere un poeta? Poco. Cantò la sua biografia. C’è lui in mezzo a tutti i suoi canti [agosto].

Ho corso il rischio di odiarlo. Profanato com’egli è stato da cinquant’anni dall'amore dei mediocri [19 settembre]. Nel falso, nel corrotto e decaduto, nel cattivo gusto, in tutto ciò che

non era più dello secondo un canone estetico raffinato od eletto stava il suo amore — e la sua novità, e maggiore originalità di tema [22 settembre].

Solo il passato è bello per il Gozzano? Ma ci sono la « grazia delle crestaie » e tante modernità pungenti

[22 settembre].

L’ironia è il passaggio da una fede consunta a una non trovata [22 settembre]. Il capitolo da continuare, intorno alla cultura di Gozzano e di quella torinese nel tempo che fu suo, dovrebbe sottolineare la sorpresa di una quasi completa assenza di rapporti con la poesia di quegli anni, così Govoni come Corazzini, così i « leonardeschi » come i « vociani » (che spostano le date di confronto al 1913, ’14, cioè al momen-

to del silenzio di Gozzano e dell’apparire invece di poesie e raccolte poetiche di Jahier, di Sbarbaro e anche di Bacchelli, per non dire, su diversi versanti, di Palazzeschi e di Saba.

Gozzano fu dunque un isolato? Fra alquanto appartata dal resto della nazione la cultura torinese? Eppure un Ambrosini collaborava da tempo alla « Voce ». Vero è che tante carte di Gozzano sono andate distrutte, e non c’è molto da recuperare; ma c’è anche poco da attendere di nuovo. Crediamo che la conoscenza della cultura di Gozzano e di altri della sua cerchia più torinese (e del resto anche Pastonchi, Cena, il primo Bontempelli anche esulando non escono da

quella cerchia) non abbia a modificarsi di molto per quel lato cui si è fatto cenno [settembre].

Quando Gozzano muore, vengono alla luce le prime poesie di Ungaretti, e Montale data anche lui, in privato, i suoi inizi. Sembrava una rottura definitiva: tutto un altro mondo, con la guerra come mannaia del vecchio. Non poteva naturalmente essere esattamente così: = 100—

ma ci sono voluti gli anni del secondo dopoguerra per riallacciare i vecchi fili stroncati. E una parte dell’attualità di Gozzano consiste nel fatto che egli è alle origini di quel processo di dissolvimento e di ricerche (la « crisi dell’uomo contemporaneo ») in sede estetica e in sede spirituale, che non è ancora concluso. Anche se i rapporti fra noi e lui sono lontani e infranti, qualcosa torna a legarci, con diverse corde, a quel processo [settembre]. La storia critica di Gozzano crepuscolare è stata piuttosto lunga e complessa; il vero è che egli, rispetto al crepuscolarismo, è dentro e fuori: vi è dentro per certi atteggiamenti e clichés abbastanza consunti, ne è fuori per altri clichés suoi personali che v’introdusse, fino al punto di essere consapevole della « maniera » da lui stesso creata e di giocarvi su con malizia. Ma crepuscolare egli è certamente, per quella luce falsa, ambigua che è al fondo dei suoi sentimenti: per quel suo atlalenìo tra una fede che più non ritrova e un’altra che non trova ancora, tra il desiderio e l’aridità, per i cento forse della

sua stessa poesia [settembre]. Sentiamo

di essere

di fronte

a una

poesia che, sembrerà

strano,

resiste a ogni tentativo di definizione unitaria [settembre].

La ricerca di echi gozzaniani nella lirica del novecento (e in certi motivi anche della prosa) può essere seducente e protrarsi fino alle più sottili risonanze, ma molte di queste non può dirsi che derivino dalla musica di Gozzano: sono motivi nell’aria, comuni a quel tempo; e il ricordo che se ne ha e il ricordarsi che si fa subito di Gozzano dimostrano soltanto che egli li aveva suggellati nella sua poesia con insospettata aderenza e forza [6 ottobre]. Verità, finzione, coscienza di quella finzione, risultato d’ironia, ma,

come chi è stato impigliato nel proprio gioco, tratti d’abbandono al sentimento e al canto. Questo è il Gozzano tipico, originale [26 dicembre].

Gozzano è il poeta di questa nuova musa: l’incertezza, la perplessità, il sentimento in bilico tra una breve illusione di cui egli già conosce il gioco e la vanità, e che narra per definirla, per darle una consistenza. Ma è una perplessità espressa in disegni precisi.

Il tono sentimentale della sua poesia esiste — il lettore lo sente nonostante che il poeta cerchi di sfuggire a quell’impressione, la neghi — anche quando egli deride il sentimento. - 101—

Il fascino di ambiguità sentimentale espresso con fermezza tonale è la novità di Gozzano [26 dicembre]. È una storia rimata della sua incapacità di dedizione a qualcosa: alla vita come agli ideali come ai sentimenti. Lontano in questo dal Carducci, dal Pascoli, dal D'Annunzio, perciò vicino di più a quell’aridità, a quello scetticismo, a quel disdegno, o paura della retorica,

che è nostra [26 dicembre].

:

1967

Gozzano fu il poeta di un gioco cui egli stesso sorrideva. Distrusse tutto. Atteggiamento di neghittosa insofferenza dalla Via del rifugio fino a Totò Merumeni o In casa del sopravvissuto. Bisogna osservare le Farfalle con attenzione. Nelle Farfalle non c’è più l’ironia, che scherza tra cedere e retrocedere, accettare e negare, accostare e rifuggire [2 gennaio].

Prima l’influsso accettato, poi la consapevole reazione a D'Annunzio. Non fu il solo. Ma egli si mise espressamente, dichiaratamente in situazione polemica contro la morale dannunziana: il borghese contro la vita inimitabile, contro l’egolatria dell’uomo-poeta [15 aprile].

Sentimento idillico, rappresentazione ferma, colorito di consapevolezza percorso da ironia, che è la forma che assicura quella consapevolezza. Tutto questo è una ricchezza sottile, chiaroscurata di temi che piace ai moderni. È vero che corrode la vecchia poesia cui appartiene, ma con questa corrosione si schiera nei suoi limiti, con i suoi modi, accanto agli iniziatori di una poesia dal fondo problematico quale è l’attuale [15 aprile]. Certo, la poesia nuova era in parte cominciata, usciva poi con uno

scatto particolare con Ungaretti, dalla guerra. Gozzano è ‘ancora dentro le forme chiuse. La bella forma. AI di là di certo linguaggio suo inconfondibile che dà il tono a certe mosse della poesia novecentesca, c’è tutto un atteggiamento che fa di lui un poeta di trapasso [15 aprile]. Sembrerà strano, ma questo poeta, mezzo secolo dopo che è morto e

che tante esperienze poetiche e tanti poeti e tante grandi cronache e storie sono passate e oltrepassate, torna a presentarsi come un pro-

blema, invece che definito e solo da spostare un po’ più a destra o = 102—

sinistra nello spazio letterario, inquietante e da spostare cioè un po’ più avanti o un po’ più indietro di quel tempo [aprile]. [Renato Gozzano] mi ricorda quando andava con suo fratello a prendere la sera l’amico Golia, che abitava in una casa tra piazza Solferino e via Alfieri (me lo dice con scarsa precisione). Guido fischiava da sotto (credo dal cortile). Si affacciava la madre di Golia dicendo: «1 ninin a ven subit » (alto com'era!).

[...] Renato pensa che Guido non avesse mai veramente amato. Non se lo ricorda innamorato, inquieto per vicende amorose. Cioè quello che Guido disse in poesia — non ho mai veramente amato — è vero. Salvo una passioncella giovanile per Cecilia Morano (ma a me pare di ricordare dalle lettere all’amico Colla che alludendo alla Morano la dicesse una cosa superata da quale altro vagheggiamento. Ma erano cose di sensi). La famosa Paolina (non se ne sa il cogno-

me), quella che somigliava alla « piccola attrice famosa », quando Guido era al Meleto malato di pleurite si recò vicino a lui. In quella fotografia in cui c'è lei in compagnia di tanti e c’è anche Niccolò Carandini, non c'è Guido: era al Meleto malato. Dice che si vede che era in stato interessante. Renato e sua sorella Erina erano sicuri

che il figlio che ebbe era di Guido. Questo figlio morì. Erina l’aveva visto e diceva che assomigliava a Guido [19 novembre]. 1968

La questione se egli è poeta ottocentesco o novecentesco, che cosa importa? È chiaro che, agli inizî del secolo, egli ha ancora dell’OtSi

tocento

(la rima, la novella, gli echi, ecc.) e con

il suo risolino

dissolvente ha del moderno, del nuovo, persino — han trovato — del futuro [4 settembre]. Ultimo dell’Ottocento

(dei classici)? Primo del Novecento?

Le due

tesi a lungo si bilanciano... Ma se si pensa che negli anni di Gozzano iniziava la poesia di Saba, di Sbarbaro, di Rebora e Cardarelli e altri

si ha più netto il senso di un’appartenenza del Gozzano al passato. Il timbro della poesia novecentesca non è il suo. Ma non si può dimenticare quel fatto essenziale che egli vive in un ambiente storico alquanto appartato... Egli è proprio non su un piatto della bilancia, ma sull’ago. Fino a caricarlo di responsabilità di lontanissimo ma ancora visibile maestro sul limite lontano dell’orizzonte: vedi la commemora= 103—

zione che ne ha fatto il Getto nel cinquantennio. Un’operazione di anticipazione quale è stata fatta, in altra misura, per il Pascoli [ultimi mesi]. 1969

Spiriti, influssi dannunziani sull’Inrocente

dappertutto.

L’analfabeta è rifatto di

[22 dicembre].

1970

Gozzano ebbe una sua leggenda. Egli non l’alimentò, in parte la subì: quella del poeta malato da morire [7 febbraio]. Queste novelle o storie o cronache del rimpianto, nel cuore di un

tempo cui sembra non aver già più scelta fra l’aridità scettica e il rimpianto amaro dell’impossibile. Il piccolo dramma è più che personale

[17 aprile].

Fu un mutamento di paesaggi, di mondi domestici, di ragioni affettive, non un rinnovamento. Cui, ben più che la disgregazione dei futuristi, serviva un’asciuttezza rigorosa di sentimenti, una scabrezza morale, dalla quale lo scetticismo un po’ di maniera di Gozzano è quanto mai lontano [26 aprile]. Una poesia non importa di che misura di grandezza conta per il suo apparire al momento opportuno. La poesia è un’azione [26 aprile]. Il genio di Gozzano è pur sempre quello consacrato dalla critica, difficile da contestare, il gioco di alternativa sempre pronta e improvvisa fra serietà e ironia, fra distacco e abbandono [7 giugno]. &

In fondo, tutto è storia di Totò Merumeni, cioè tormentatore di se stesso. Così, a giudicare il libro [I colloqui] nel suo primo insieme:

storie, novellette galanti. Libro-storia di una vita sentimentale:

la

storia di uno che non riesce ad amare, che non ha mai amato, che

avrebbe voluto amare e cerca immagini possibili nel tempo remoto o immaginario. Qualche volta c’è l’indagine critica di queste impossibilità [7 giugno]. Egli è ancora uno degli specchi in cui Narciso si guarda compiaciuto riconoscendosi [29 giugno].

I giovani lettori di Gozzano come guardano a lui? Io ho seguito,

= 104—

anche in me, questo trapasso di attenzioni (e disattenzioni) di gusti

(e di rifiuti). Forse la varietà delle interpretazioni dipende dalla stessa sua calma ambiguità, dalla sua superficie tranquilla e ironica che non lascia supporre un fondo diverso; e dall’essere lui a quell’e-

siliato confine tra la fin de siècle e lo stacco del Novecento Ungaretti) [29 giugno].

(con

Non è mai una poesia [quella dei Collogui] descrittiva d’ambiente: c'è sempre una persona dentro: questa persona è sempre lui, il poeta [2 luglio]. Nessun canzoniere ebbe, in ogni componimento, come personaggio in

azione il poeta stesso. Il poeta come personaggio. Realtà travestita appena da una leggera e un po’ fatua finzione. « Un poco falsa come piace a me »: questo è il limite cosciente della finzione. Solo « un poco » per non tradire troppo. La « falsità » di Gozzano [2 luglio].

E il crepuscolo, il declino della stagione, l’ora triste e inquieta ebbero in lui il protagonista cantore. È un crepuscolo morale, che risulta da un confronto [2 luglio]. L’incrinatura ch’egli porta nella tradizione è sottile, è appena riconoscibile. Nei suoi stessi anni l’epifania del Novecento trasluce in bS

altri [2 luglio].

Il poeta che più ci ha attratti al problema di ciò che è Ottocento e ciò che è Novecento [4 luglio]. Il « toi que j’eusse aimée » di Baudelaire perde tutta la sua trepidante tenerezza luglio].

nelle invocazioni

tra fatue e scherzose di Gozzano

[4

La sua educazione letteraria fu bloccata dalla critica tradizionale scolastica, illustre, e dagli alti « veti » di Croce alla poesia contemporanea novecentesca [4 luglio].

Rappresentò il ripiegamento (in gran parte di maniera, d’imitazione di una corrente europea) nel « grigio e nel silenzio »: ma più un gioco, un atteggiamento che una reazione sincera [12 luglio]. Intorno al 1911 Torino conobbe, o almeno ebbe l’apparenza di conoscere, un ciclo di anni felici. Fu probabilmente la visione di chi guardava le cose dall'esperienza della prima grande guerra mondiale = 105.»

e da quello che le seguì: la felicità, la pace, già molto relative in quella cerchia ritenuta beata, non potevano che sembrare più grandi e più vere. Ancora oggi si parla di una Torino « gozzaniana », perché quel tipo di beatitudine con i suoi gustosi limiti provinciali fu per l’appunto visto e goduto e affettuosamente esaltato in versi dal poeta Gozzano. In genere le due qualifiche di « gozzaniana » e di « giolittiana » tendono a fondersi, in un’impressione abbastanza superficiale: la ragione più certa è nella coincidenza degli anni [12 luglio]. Uscì dalla matrice di tutti e tre i poeti del secondo ottocento, e se ne distaccò per scetticismo, cercò altrove (in Francia) i suoi padri ispiratori; nelle certezze formali immise qualche sua trascuratezza non del tutto nuova ma di sapore sicuramente personale. Questi potrebbero essere alcuni connotati del poeta Gozzano. Ma forse il più determinante

è la sua falsità [15 luglio].

Gozzano: che cosa ha cercato per lui la critica in questi anni (cinquanta dopo)? di riscattarlo da un giudizio, inteso male, che lo stemperava nel grigio (il « crepuscolare »), di cercare la sua salute di poeta al di lì dei suoi melanconici mali d’uomo e di rivendicargli un posto (ma più per acquetare se stessa che soddisfare con decisione postume il poeta) in quella situazione poetica incerta che questa volta corrispondeva esattamente col declino di un secolo e l’alba di un altro. Nessuno più contesta che di quel periodo Gozzano sia il meglio. La contraddizione è che nel suo spirito stridono corrosioni del passato, del suo linguaggio e delle sue vanitose ambizioni ma nella forma della sua poesia il rispetto della tradizione è ancora devoto, scrupoloso [13 settembre]. La sua cultura non ha aneliti, non ha audacie: sembra di quella Beozia torinese che Thovez dileggiava, appartata, scontrosa, incuriosa; la sua è una pigra e serena soddisfazione di incontrarsi con quanto in Francis Jammes era di più finto, di più volutamente ingenuo, un modo di scavarsi un rifugio ombroso senza profondità [13 settembre]. Fu uno scatto d’invidia oppure d’orgoglio quello di Saba che irride a Gozzano? [13 settembre]. La vera

forma

spezzata

che, rompendo,

costruisce

altra unità, la

prima a essere in questo senso, è quella di Ungaretti. Quale sugge=

106—

stione poteva avere per Gozzano? Nessun contrasto interiore lo por-

tava a distruggere i vecchi calchi. Né ciò che gli poteva venire dalla storia intorno era, in quegli anni, irrompente e obbligante. Fra il 1905 e il 1911 le signorine Felicite potevano essere sognate e anche la pittura le carezzava a quel modo e anche la musica. Vi potete immaginare La signorina Felicita o Torino o L'amica di nonna Speranza in ritmi di versiliberisti?

[13 settembre].

L'altro tema della ricerca presente è quale sia il suo tono particolare, l'ispirazione più sincera. Si deve dire « la finzione » [13 settembre]. Scivolar via da D’Annunzio era atto di intelligenza [13 settembre]. Uno degli impegni più difficili cui si è messa la critica gozzaniana è di cercare il tono unitario di quella poesia. La spingeva a questo il carattere non dispersivo, non largamente sperimentale dell’opera (del canzoniere), la loro forte unità stilistica (un continuo esterno e in-

terno riecheggiare). Ma c’era il gusto del moderno (mettiamo Le due strade, Un rimorso, Invernale, Una risorta, Un'altra risorta) e quello

del passato (i poemetti ben noti). La tentazione di collegare le due predilezioni del poeta era forte nei critici [13 settembre]. Gozzano s’illuse di aver dato un’architettura ai Colloqui. In realtà l’architettura sta nel fatto della perenne presenza del poeta come personaggio di ogni fantasia [14 settembre].

Un linguaggio volontariamente astuto di accoppiamenti classico-moderno, colto e dozzinale (tecnico e gergale), letterario e realistico [14 settembre].

L’inizio del secolo ventesimo ha in Italia il suo nome. Lo ricordiamo, settant'anni dopo, senza discussione. Un intreccio di eventi fan sì che il secolo abbia un proprio inizio, qualcosa che muta. Anche se la data più accreditata è il 1914, già gli anni che precedono rivelano qualcosa di diverso da ciò che conosciamo per ottocentesco [14 settembre]. Può aver destato meraviglia in qualcuno (o in molti) che sollevato il

capo e anche l’animo alla personalità di G. critici. A stento si è facilità e direi anche frequenza di Gozzano,

dagli anni dell’ultima guerra proprio intorno Gozzano si sia accesa la curiosità dei lettori tornati a parlare di un D'Annunzio e con con amore si è parlato da più parti e con poeta lontanissimo in apparenza dal nostro =

107 »

tempo e già, come si dice, « sistemato ». L’osservazione è marginale

e senza dubbio potrebbe rimanere tale (con la sua conclusione: che nulla, nemmeno una guerra atroce, può uccidere veramente lo spirito e i suoi più solitari diletti) se non si tenesse conto del bisogno di ricapitolare, di fare il punto, di riordinare le somme, chiarire le idee una nuova volta appunto dopo i grandi sconquassi [14 settembre]. È una poesia che scivola sempre verso una conclusione di addio, di distacco [14 settembre].

Nei confronti della tradizione letteraria il suo riserbo è significativo [14 settembre]. Per quanto lieve (e forse un po’ fatuo) sia, il problema (OttocentoNovecento) rimane dunque aperto [15 settembre]. Quando si pensa a Sbarbaro, Jahier, Rebora e Campana (e Bacchelli)

e Saba di « Trieste e una donna » (1910-2) e di lì a poco a Ungaretti e si medita su certa poesia di Corazzini (si tralasciano altri esempi non privi di significato, ma vissuti in un isolamento, come Thovez per esempio), si ha il senso della differenza e del distacco [15 settembre]. Non solo presentimenti in Gozzano, inavvertite anticipazioni, anche

scelte più decise, atteggiamenti non equivoci [15 settembre]. L’endecasillabo prosastico farà le prove più scoperte e migliori nelle non dimenticabili

(trascurabili) Farfalle [15 settembre].

Un momento crepuscolare è ancora nei più grandi di allora — seppure all’inizio (v. anche Diluvio, prima stesura di Nasce forse dell’Allegria, 1915 su « Lacerba »). Segno di un modo ancora incerto e umbratile e alla fine letterario di affrontare la vita con l’arte (cosicché diventa moda) [15 settembre].

Nei confronti della letteratura a lui contemporanea provoca sorpresa il completo silenzio che risulta nelle carte quae exstant di Gozzano, quelle poetiche e pubblicate e quelle private, come nessun altro poeta esistesse dopo la triade troppo famosa e in parte ancora militante, come s’egli non sapesse accorgesi d’altri che dei suoi « facili seguaci »: non v’è prova, segno di alcun ricordo o interesse o suggestione di tutto ciò che da Sbarbaro a Bacchelli, da Jahier a Rebora (Govoni, Corazzini, Lucini, i futuristi anch’essi ignorati, ma li metto

da parte per non confondere il loro col tono più omogeneo di quegli = 108—

altri) si veniva pubblicando. In realtà, questa osservazione può servire solo per mettere in rilievo un così grande distacco di toni, perché la sola risposta positiva potrebbe anche essere che nel 1911 Gozzano, radunando versi composti già tempo prima, concludeva la sua parte di poeta. Quell’altra, delle Farfalle, ben più che rifarsi ai precedenti della tradizione cinque-settecentesca da lui citata, era già un collocarsi accano alle più moderne voci dei suoi contemporanei. La modernità temporale, la sua anticipazione novecentesca non è del poeta, dell’artista, ma dell’uomo morale, della sua sensibilità di « cosa vivente »,

che avverte le inquietudini le stanchezze le vacuità del suo tempo [16 settembre]. A tutta prima (penso a un lettore del 1907 o 1911) dopo la lettura dell’Amzica di nonna Speranza uno può restare irritato e scontento come il poeta Saba. Possibile che Saba non avesse ragione? Ma sappiamo bene ora le cattive ispirazioni della sua collera facile, del suo orgoglio, della coscienza di sé non certamente schiva [16 settembre]. Appartiene ancora a quel mondo che avrebbe potuto accogliere per suo epitaffio il verso di Rimbaud « Par delicatesse j'ai perdu ma vie » [19 settembre]. Una « stagione nuova » morale e poetica? Non si è ben persuasi. Forse le Farfalle... [19 settembre].

È difficile rinunziare al patetico sospetto che il poeta si difendesse con l’ironia dalla tristezza del suo dramma di morte: forse anche il presentito destino gli impedì di vagare per geniale dilettantismo al di fuori della propria storia in continue rappresentazioni [27 settembre].

Perplessità, inquietudine fissate in rigide, impeccabili colonne metriche. Dissonanze composte in un’ambigua tonalità ironica (per incredulità) [29 settembre]. Art nouveau — nel suo reclinare l’anima senza un grido. Non è un nuovo linguaggio, è un linguaggio solo avvicinato a un modulo di finta dimestichezza. Non ha il senso del malessere, l’odore del disfacimento del primo « espressionismo romantico » che è di quegli anni, dei poeti tedeschi [29 settembre]. = 109—

Davanti alle porte della guerra. Contestazione tutta letteraria la sua, appena appena con i segni d’indole sociale. Aiuto che offre alla mediocrità della borghesia. La distanza fra lui e i temi della sua età. Dal Zaratustra a Ketty la sua satira è appena scherzosa. Rivolta esigua e delineata con la flessione ironica [29 settembre]. Egli non è poeta del passato, ma di un rifugio qualunque in un’età che non sia il presente, in un luogo da cui il tempo fugga. La sortita da uno scacco

[29 settembre].

Perché « un tipo nuovo di poesia » il suo? Comunque la si accerti, la si limiti, se ne riveli la perizia astuta fino a simulare lo scherzo, l’accento finale (e totale) è suo e non è di nessun altro [29 settembre].

Insomma nessuno ha mai negato giudizio ha mostrato fino ad oggi dire che oggi, in un clima tanto favorevole, il giudizio sia stato

a Gozzano la qualità di poeta e il la sua tempra. Si potrebbe persino diverso e sotto molti aspetti non davvero temprato [9 ottobre].

Il « non amare » di Gozzano — a parte la sua veridicità biografica — è il rifiuto proprio alla « perplessità crepuscolare », come già vide in generale Slataper [23 ottobre]. Il segreto di Gozzano è quello, apparente, di non averne (alcuno). Non c’è, in apparenza, che facilità in lui, discorsiva, immaginosa, culturale. Tutto, in apparenza, è allo stato galleggiante d’un sughero: x

non va mai a fondo, non

fende lo specchio

[23 ottobre].

E la sua lingua è apparsa conciliare finalmente l’età contemporanea con la tradizione poetica [27 ottobre]. Gozzano rappresenta inquietudini del suo tempo, non le visse veramente perché i suoi interessi erano mediocri; per questo poté giocarvi letterariamente e lasciò spazio alla sua ironia, al suo scetticismo un po’ compiaciuto, alle invenzioni di altri tempi [30 ottobre].

Poi l’immaginazione dei lettori critici ha oscillato: dal crepuscolo vespertino è trascorsa a quello mattutino ed è rimasta, ragionevolmente, a mezzo fra l’uno e l’altro. Da lontano, ormai, lo si vede immerso in un sottile clima, ancora ombrato e illuminato con inne-

gabile fascino [18 novembre]. - 110—

I sogni di Totò Merumeni (anche la signorina Felicita, anche le altre donne sono il sogno di un «esteta gelido », un « sofista »). AI centro del piccolo canzoniere c'è Gozzano, e la sua fisionomia è di Totò Merumeni. Egli è lì, come immobile e passivo nel suo scetticismo: non si rifugia in nulla, ogni desiderio e fantasia sono pronti a confermare la sua solitudine nel presente. Quindi non amore nel passato, fuga nel passato, e il fatto che quel passato sia immaginario dichiara che amore e fuga sono trasposizioni fittizie [18 novembre]. Il suo mondo è il passato, o il presente distaccato da lui, il suo gusto è moderno. Quel gusto moderno non è l’aspretta vitalità di certe figurine, la data precisa di un’abitudine o di una moda femminile (robes et manteaux), ma l’attenzione a non tradirsi troppo, a eludere l'abbandono sentimentale, a sorvegliare i gesti, a prendere la distanza dalle cose, come avviene in uno spirito senza più fede, un

po’ blasé... [19 novembre]. Tutta una realtà chiara, evidentissima, appena tracciata da un « forse ». Uno specchio di Narciso che un guizzo della mano può appannare o frantumare [19 novembre]. Il suo essere, non

certamente

estraneo,

inteso a lungo per crepuscolarismo

ma

fuori di ciò che si è

[19 novembre].

Totò Merumeni non è un ritratto immaginario. È difficile non pensare che Guido Gozzano e Totò Merumeni non siano la stessa persona: l’uomo del rifiuto, dell’attesa impavida e dell’autoironia [29 novembre]. Non ho la minima idea, poiché credo che nessuno tra noi ne abbia mai parlato, di come sia stato accolto ieri e possa essere accolto oggi Gozzano

fuori dell’Italia

[autunno].

Sono certo che la cosa più difficile da riprodurre sia l’uso ironico di certe interpolazioni, di certi scarti (ma non tutti voluti e riusciti) fra

il letterario e il dozzinale, fra l’aulico e il prosaico. (Eppure quest’uso è moderno)

[autunno].

Saggiata da ogni parte, quella poesia così fragile si dimostra di cristallo, luminosa, solida e compatta. I Colloqui resistono tutti, e ciascuno per intero o quasi [autunno].

Gozzano fra noi? Gozzano posdatato? Non è il ritorno dello spirito POL

per rifarsi con un poeta ritrovato; è un fatto puramente letterario. Non c’è posto, dopo Esterina e dopo la ragazza Carla e altre ancora meno nobili e appariscenti, per la signorina di provincia Felicita. x

Amori arretrati non più [autunno] 1971 Noi che siamo vissuti in età di choc drammatici, non riusciamo a vede-

re per eccesso di contrasto Gozzano e i suoi tempi se non in un lago placido, in una valletta serena di sole schermaglie culturali, dimenticando che essi non erano educati ad aver coscienza d’altri problemi che non fossero quelli [14 settembre]. La realtà in una stampa è immobilizzata e al tempo stesso trasfigurata [2 ottobre]. Gozzano in India. Un’esperienza allora non comune fra gl’italiani e specialmente fra i letterati italiani, il cui orizzonte più lontano era Parigi, salvo qualche eccezione per notizie di giornalismo [9 ottobre].

Verso la cuna del mondo. Tra i ricordi e le alterazioni letterarie che continuamente si presentano a intrigare la realtà e l'evidenza abbagliante, tumultuosa, opulenta della realtà stessa: la lotta di Gozzano in questo dissidio, per liberarsene [11 ottobre]. La realtà è volgare e deludente, il sogno è il vero bello; il pathos è in questo dissidio, l’attrattiva ora dell’una ora dell’altro, l’illusione che se ne può derivare. Il tono generale di ambiguità: ormai da tempo si è insistito su questo, vi si è riconosciuto il Gozzano autentico.

In questa lunga evocazione e contemplazione della morte che è Verso la cuna del mondo, c'è da chiedersi se appunto non pensato come reportage, quel suo libro non sia che un poema in prosa, una verifica quasi immaginaria (seppure reale) di un suo sogno di morte (repulsione e fascino). Nulla c’è della vita vera, sociale, civile, eco-

nomica, privata dell’India. È un viaggio in un’antica Tebe sopravvissuta, una Tebaide

[13 ottobre].

C’è ironia in Gozzano, ma non deformazione ironica (come in Palazzeschi) [14 ottobre].

« La stoffa del borghese onesto » è la stoffa di chi crede nel lavoro, sì, ma concepito in una dimensione ideologica della classe dominante. -_ {12

Da che cosa doveva riscattarlo la « borghese onestà »? Dalla « tabe letteraria ». Ma era l’espressione di un vago desiderio [14 ottobre]. Le varianti gozzaniane sono tutte anteriori all’edizione. Non c’è l’inquietudine così fitta, quasi tormentata di un Ungaretti, per esempio. Non ci sono problemi metrici in Gozzano: la sua conformità alla tradizione è quasi perfetta [14 ottobre]. Rileggo che U. Bosco nel suo « Gozzano » del 1926 parlava dei Collogui come di « una sorta di romanzo autobiografico ». Non l’avevo a mente e forse non avevo letto quel saggio. Ed è questa anche una mia definizione [18 ottobre]. Il tono fondamentale mi sembra il riserbo (fino alla scontrosità, alla selvatichezza, all’« aridità » e cinismo) e l’aspirazione nostalgica, ora

rivolta al passato ora al futuro [20 ottobre]. Una poesia, la sua più personale, tutta malizia letteraria, tanto è consapevole del valore della sua apparente semplicità, affabilità, popolarità [14 novembre]. DI

Di fronte alla guerra, cioè alla novità nella vita del suo tempo, egli rimase spiritualmente assente, come se appartenesse del tutto a un periodo diverso. Si pensi ad altri letterati, interventisti o no. Partecipò con la retorica del dovere patriottico e del dolore umano. Come già il passato e la rinunzia, così la scienza e la sua poesia furono il « rifugio » di un uomo isolato ed estraneo [29 dicembre]. 1972 L’immagine

di Gozzano

che nasconde, arrossendo, a un visitatore

inatteso, il libro di Jammes che leggeva, mi fa sorridere: non è il gesto di un ladro, ma di un libertino pudico [2 gennaio]. In lui nessuna poesia limitata a descrivere la natura ma sempre la natura in un racconto [16 gennaio]. Torino, intorno agli anni in cui nacque Gozzano, non era affatto mite né sonnolenta [5 giugno]. 1973

Quando pensò entusiasmandosi al poema sulle « Farfalle », fu come rompere col suo vecchio mondo poetico, galante, sentimentale, ironi-

113 —

co, narratico. Rimase solo il segno della perfezione artistica [17 agosto]. s.d.

Dopo la grazia insopportabile del Pascoli, Gozzano portò un’altra grazia, ai limiti della corruzione. “

Per citare il nome più grosso, Croce non ebbe timore di chiamare Gozzano un « piccolo Leopardi », ma alludendo alla sua intima storia psicologica, non alla sua poesia realizzata, anche se le signorine Felicite e le amiche di nonna Speranza possono apparire le sue Silvie e Nerine.

La poesia di Gozzano è la trasposizione lirica della sua biografia. La poesia dei Colloqui, con tutta la sua ironia, col suo rifiuto, è

tutt’'intera un’elegia. È un grande congedo dalla poesia dell’ultimo ottocento tra ironico e patetico.

Gozzano è sempre in testa: che cosa voglio dire? In testa alla poesia del Novecento, cioè al suo principio. La poesia del nuovo secolo comincia con lui. Ma non rompe. Romperà con altri. Nella sua ambiguità (finezza e scolasticità, antico e nuovo, ecc.) c’è il poeta di transizione [dopo il 1968]. La sua perplessità non è incertezza, è modo di essere, di consistere suo. Il fascino della sua ambiguità: non essere interamente negativo. Nega, ma domina, brilla nella sua e nostra fantasia l’immagine positiva [dopo il 1968]. Sentì nel proprio destino di vita il male del secolo al trapasso. L’identificazione è palese [dopo il 1968]. Un artista così consumato da creare da sé una propria maniera. Da lui nacque gozzarismo (letterario e psicologico, e morale, di costume). Egli curò la propria immagine poetica già nel comporre i suoi libri, criticamente

[1970?].

Gli è stato tolto di dosso un peso antipatico e, per la sua statura, insopportabile: il gozzanismo, non già la maniera che in lui è appena incipiente e del resto non è possibile astrarne (non è separabile dal suo corpus), ma un significato goffo, nemico, avvilente, il gozzanismo come mediocre regola civile e come costume [1970?].

- 114»

Il piccolo incanto delle sue figurine così mosse (sempre in azione) e del sentimento di attrazione-distacco che vi è congiunto. Il Jezioso. La fine delle donne gorgoni [19702]. i Prima di Gozzano ci sono, immediatamente, molto D'Annunzio e un poco di Pascoli e qualcosa del dimesso verismo mescolato di toni irridenti di un Betteloni e di un Graf [1970?].

Questo bisogno (nei componimenti più significativi, quelli tipicamente gozzaniani) di allontanare da sé il reale mentre lo descrive con amore: bisogno di non credergli, di rifiutarlo, questo evadere dall'impegno, tipicamente un moto d’animo, un atteggiamento spirituale decadentistico

[1970?].

Il taglio della guerra potrebbe sembrare qualcosa che disdice. Ma, pur diventando più severe, l’inquietudine, la ricerca di un posto nel tempo, nella verità della storia, nello spazio umano, con altra voce, meno asciutta, con timbri più antichi, erano già in Gozzano.

La prima operazione riuscita sulla sua poesia è, dal tempo che lo si volle liberare dai crepuscolari (con una grave forzatura — ma aveva un senso, rivelarne la modernità, il gusto del concreto) questa che lo fa chiaro al nostro secolo [1970?].

=> 1105

INDICE

Prefazione

pag.

Nota al testo

> 26

I - TRE

STUDI

Gozzano

nel millenovecentosettanta

i

Come nacque la « Signorina Felicita »

II

Dalla Moneta

45

II - PER

UNA

seminata

BIOGRAFIA

GOZZANIANA

Il nipote di Nonna Speranza

»

Testimonianza di Golia

13

Appendice

III - FRAMMENTI

»

INEDITI

DI

1929-1973

- 117 —

81

93

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