"Vede qualcosa ...Sì, cose meravigliose!" L'antico Egitto nei documenti, nei musei, nei mass-media
 8849135475, 9788849135473

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Damiana Spadaro

Vede qualcosa? ... Sì, cose meravigliose! L’antico Egitto nei documenti, nei musei, nei mass-media

© 2011 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

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Spadaro, Damiana Vede qualcosa? ... Sì, cose meravigliose! L’antico Egitto nei documenti, nei musei, nei mass-media / Damiana Spadaro. – Bologna : CLUEB, 2011 126 p. ; 21 cm ISBN 978-88-491-3547-3

Progetto grafico di copertina: Oriano Sportelli (www.studionegativo.com)

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com Finito di stampare nel mese di settembre 2011 da Legoprint - Lavis (TN)

INDICE

Ringraziamenti .....................................................................................

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Premessa di Maurizio Agrò ..................................................................

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Prefazione di Roberto Giacobbo ..........................................................

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Capitolo I – Sulle orme di conquistatori, giganti e sognatori .............

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Introduzione ......................................................................................... 1.1 Da Drovetti e Napoleone a Wilbur Smith ...................................... 1.2 Da Jean François Champollion al Flauto Magico di Mozart ......... 1.3 Dalle avventure di Belzoni alla Mummia ....................................... 1.4 Da Mariette e Carter all’archeologia eretica ..................................

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Capitolo II – Dalle fonti storiche ai reperti archeologici ....................

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2.1 L’antico Egitto nell’Italia arcaica e a Siracusa ............................... 2.2 L’Egitto al museo di Torino ........................................................... 2.3 Il Museo del Cairo .......................................................................... 2.4 Le collezioni egizie del British Museum .......................................

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Capitolo III – La divulgazione dell’egittologia fuori dal contesto museale .................................................................................................

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Premessa ............................................................................................... 3.1 Il livello intraspecialistico: da egittologo a egittologo ................... 3.2 Il livello interspecialistico: dagli egittologi agli altri scienziati ..... 3.3 Il livello pedagogico: la sistematizzazione del sapere ................... 3.4 Il livello popolare: l’antico Egitto nei documentari televisivi ....... 3.5 Gli enigmi dell’antico Egitto: da “Stargate” a “Voyager” ............. 3.6 L’antico Egitto spiegato al popolo: articoli, inserti, gadget ...........

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Capitolo IV – L’opinione degli esperti ................................................

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4.1 Alla ricerca della verità: Roberto Giacobbo ................................... 4.2 Nel regno delle certezze: Alberto Angela ...................................... 4.3 Dalla parte dell’Egitto: Kamel Ezz Eldin ......................................

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Bibliografia ..........................................................................................

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Ringraziamenti

Molte persone mi hanno aiutato nelle diverse fasi di stesura di questo lavoro. In particolare un sentito ringraziamento è dovuto al Prof. Günther Hölbl per l’eccezzionale competenza, la cura dei dettagli e l’umana simpatia con la quale mi ha seguito. Preziosa è stata la consulenza del dott. Roberto Giacobbo, per l’impagabile e interessantissima chiacchierata offertami sui misteri dell’antico Egitto e sulla loro comunicazione al grande pubblico. Anche la redazione di Voyager si è rivelata un valido aiuto, e un doveroso grazie va anche alla dott.ssa Veronica Vetrulli e alla dott.ssa Giulia Crisanti per avermi magistralmente aiutato nei miei contatti con il dott. Giacobbo. Grande riconoscimento merita il dott. Alberto Angela, per la gentilezza, l’affabilità con la quale si è prestato a commentare alcuni aspetti della divulgazione televisiva della terra delle Piramidi. Un grazie di cuore va rivolto anche al dott. Kamel Ezz Eldin, senza il quale molte problematiche inerenti alla corretta divulgazione della cultura del suo paese in Occidente sarebbero rimaste, fatalmente e dolorosamente, oscure. Doveroso appare il ringraziamento alla mia famiglia per il continuo sostegno che mai ha fatto mancare. Infine un grazie del tutto speciale al mio compagno, Maurizio, per la sua inesauribile capacità di essere fonte di ispirazione per me.

Premessa

…e Lord Carnarvon disse: «Vede qualcosa?». Carter rispose: «Sì, cose meravigliose!». E la luce della fiammella illuminò lo scintillio dell’oro, tanto oro, era la scoperta del secolo, la tomba di Tuthankamon. Se Bruno Vespa fosse nato in quel periodo avrebbe sicuramente dedicato all’evento una puntata di “Porta a Porta” e magari Roberto Giacobbo si sarebbe calato nella tomba alla ricerca di misteri perduti accompagnato dal suo Whatson, Zahii Hawass. Molto più reality di un reality, ma molto meno celebrato, l’antico incubo di una maledizione incute ancora oggi timore, proliferando nel sonno della ragione: il Faraone era stato svegliato dal suo sonno eterno. Dalle antiche rovine della valle dei Re scorrono senza fine le immagini di viaggi eccezionali compiuti da uomini eccezionali. Come passeggeri immobili sul treno del tempo scrutiamo l’antico mondo dal finestrino e mentre Napoleone porta il suo esercito all’ombra delle piramidi, Belzoni carica il colosso del Giovane Memnone sulle navi inglesi, Mariette pone fine alle scorribande di ladri di tombe e predoni stranieri, Champollion regala al mondo il codice della vecchia-nuova lingua, i geroglifici erano stati interpretati. L’avida Europa brama le ricchezze dell’antico Egitto sottratte, imbrigliate e conservate nelle sontuose sale dei suoi musei. Il nostro percorso si trasforma, si apre uno spiraglio semioforo, gli oggetti diventano tattili e ci ricatapultano nel tunnel temporale. Sinonimo di tragitto è anche il concetto di dubbio, di percorso ontologico da compiere verso la sapienza. Dall’egittologia, con funzione biunivoca, all’egittomania, come un Giano bifronte si diramano i quattro livelli della divulgazione mediatica che propongono al mondo enigmatiche certezze.

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Saussurre teorizza l’esistenza di una langue, insieme di regole scientifiche e appropriate che descrivono un determinato segmento conoscitivo, e di una parole, attualizzazione concreta, mutevole e soggettiva delle regole della langue. L’immagine attualizzante dell’Egitto antico è il concetto stesso di langue che aderisce perfettamente all’egittologia. Virtualizzante è invece la parole che si polarizza sull’egittomania. Ecco dunque che due strade si intrecciano lungo il nostro viaggio: la cultura massonica, di stampo settecentesco e la piramidologia, contemporanea teoria che lega il mondo delle piramidi e della sfinge ai miti di Atlantide, ai cerchi nel grano e a possibili civiltà aliene. Che il vostro viaggio sia dunque reale, temporale, ontologico o esoterico poco importa perché al di là della partenza e dell’arrivo ciò che conta è la voglia di viaggiare. Maurizio Agrò

Prefazione

L’Egitto è sempre stata una mia passione, penso di essere stato in quella terra negli ultimi quindici anni almeno venti volte se non di più. Di libri ne ho letti tanti dai più ortodossi ai più eretici e in ognuno ho trovato qualcosa di interessante, scoperte, studi, ipotesi o anche solo fantasiose invenzioni. In questo libro c’è forse qualcosa in più. Damiana Spadaro è riuscita a condensare non solo una grande serie di dati ma ha utilizzato una tecnica di comunicazione che oserei definire illuminata. Ha fatto quello che forse qualunque ricercatore o anche solo appassionato sogna o dovrebbe fare. Ha preso un tema e lo ha affrontato circolarmente, individuando tutti gli aspetti più interessanti che potevano fare luce. Ma c’è di più, è riuscita ad entrare in ciascun aspetto con l’umiltà dell’appassionata e nello stesso tempo con la tecnica e la sagacia dell’esperta. Ne è nato un concentrato di competenza e di passione che non può lasciare indifferenti. Un libro come questo può servire da esempio per molti. In alcuni passaggi sembra addirittura troppo tecnico, ma se si legge con attenzione si potranno apprezzare invece grandi aperture in grado di interessare ed avvincere anche chi non conosce a fondo la storia egiziana. Sono rimasto sorpreso dalla richiesta dall’autrice di leggere in anteprima il manoscritto e di farne la prefazione, ma sono stato contento di accettare e di essere “coinvolto” in questo libro insieme a due persone delle quali conosco la serietà e la preparazione professionale: Kamel Ezz Eldin con il quale tante volte mi sono incontrato parlando di argomenti interessantissimi e facendo gradi progetti all’Accademia d’Egitto a Roma e Alberto Angela. Vorrei sottolineare di particolare interesse il capitolo riservato ai vari musei egizi, descritti con precisione e competenza. Una linea comune a tutto il libro. Dal lavoro di preparazione svolto dall’autrice emerge una forte compenetrazione nei vari aspetti dell’indagine nei quali si

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ritrovano contenuti e motivi profondi, completi, fusi in una analisi rigorosa ricca di dati. Un testo completo che in virtù anche della giovane età dell’autrice fa sperare in ulteriori future positive sorprese e “…cose meravigliose!”. Buona lettura. Roberto Giacobbo

Capitolo I

Sulle orme di conquistatori, giganti e sognatori

Introduzione Il percorso attraverso il quale l’Occidente si è accostato all’antico Egitto è un viaggio millenario e ancestrale, un tragitto fondato e rifondato continuamente sul sogno, sulla riformulazione di obiettivi e progetti, un itinerario alla scoperta di un territorio che, come nessuno, è sempre stato un vero, irripetibile, Giano bifronte. La straordinaria civiltà, infatti, che ha donato al mondo lo splendore delle piramidi, prima di essere studiata razionalmente e scientificamente, è stata la terra della spiritualità, un angolo di pianeta dominato come nessun altro dal mistero, un luogo capace di suscitare potenti moti di eccitazione estatica di massa, di empatia profonda in tutti i popoli che le si accostano. Prima quindi di addentrarci nella trattazione della vera e propria nascita ed evoluzione della moderna egittologia, appare utile trattare di quella che amo definire “egittomania”. La ratio di questa scelta si situa nella convinzione che senza prima comprendere il mito, senza prima comprendere il perché profondo si infiammarono i cuori, non si potrà mai comprendere la scelta di tanti uomini che, nei secoli, hanno sacrificato tutta la loro vita nello studio dell’antico Egitto donando al mondo una parte di quelle conoscenze scientifiche e archeologiche che oggi possediamo. Dall’egittomania all’egittologia appare l’unico percorso percorribile nella rivendicazione di quella tradizione teorica che assegna al mito la forza propulsiva e il motore delle antiche come delle moderne civiltà umane. Di questa egittomania e di come si sia diffusa, nel più potente impero della storia, vale la pena spendere qualche parola, trarre qualche considerazione socio-culturale. Occorre però fare subito una premes-

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sa. In maniera del tutto analoga a come era avvenuto con la conquista della Grecia da parte di Roma, il conquistato soggiogò il conquistatore, in maniera tanto sottile quanto indissolubile. Anche per la storia dell’Egitto vale il principio secondo il quale, se i romani avevano conquistato la terra delle piramidi con le loro spade, tutta la gloriosa cultura di questo paese fu in grado a sua volta di ammaliare il popolo e l’aristocrazia romana. Mariette de Vos, nel suo saggio1, spiega le modalità attraverso le quali, nell’iconografia augustea, viene elaborato il tema della conquista di questo paese. La studiosa rileva come lo stile raffigurativo, sia nei complessi monumentali pubblici che nelle case dei ricchi privati romani, fosse di stampo ellenistico. Dagli scavi della parte superiore della dimora del primo imperatore romano, Augusto, il ritrovamento di numerosi fregi floreali manifesta chiaramente la volontà di celare, ma al tempo stesso di esaltare all’infinito la gloria dell’imperatore che ha conquistato un paese potente e dorato. Il linguaggio dunque di questi fregi floreali e una serie di corone egizie dipinte indicano la superiorità regale sull’Egitto. Accanto alle corone e ai fregi floreali, l’imperatore fa decorare il cubicolo superiore della sua casa, sia con fregi raffiguranti “situlae”, termine con il quale si indicano i recipienti contenenti il latte di Iside, sia con fregi raffiguranti anfore di acqua del Nilo, simbolo di Osiri. Attraverso l’alternanza fra corone e recipienti di Iside viene illustrata la volontà di Augusto di mantenere un’apparente continuità con la dinastia dei faraoni. Questa lettura dinastica è saldata dal riferimento a Isi che significa “trono” ovvero trasmissione ereditaria del potere da padre in figlio. Attraverso le situlae Iside allatta (Isis Lactaans) e trasferisce il potere da Osiri al loro figlio Horus. Inoltre con una serie di simboli della scrittura geroglifica, come ankh (vita), was (scettro) e neb (cestino), viene chiaramente evocato il concetto di sovranità. L’interpretazione romana di questi fregi è volutamente ambigua, sempre pronta a confondere e mescolare simboli diversi come i serpenti intrecciati, che rappresentano sia Apollo che Isi, le ghirlande, che richiamano l’attenzione sia alla sacralità di stampo ellenistico che alle corone della vittoria di Osiri. Anche gli affreschi della villa della Farnesina, eseguiti per le nozze di Giulia, unica figlia di Augusto, e Agrippa, suo valente generale, sottolineano il tema della maternità mescolando tradizione ellenistica ed egizia, rappresentando Venere e il figlio Dioniso secondo lo schema di Isis Lactaans. Il repertorio di pitture egittizzanti in epoca augustea viene arricchito anche da frequenti contatti fra motivi egizi e temi dionisiaci evidenti nella cista mystica che richiama la pergola con tralci di vite fio-

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riti, tipico simbolo di Dioniso. Seppur presente già in età repubblicana e nella prima età imperiale, l’Egitto per lungo tempo fu guardato con sospetto, quasi con disprezzo. Le vicende di Antonio e Cleopatra e la conseguente conquista da parte di Augusto avevano generato, nell’opinione pubblica romana, un clima di diffidenza se non di odio persecutorio nei confronti della civiltà egiziana. Solo con Caligola (31-41 d.C.) e soprattutto con Adriano (117-138 d.C.) si afferma definitivamente quella che abbiamo definito egittomania2. Nella seconda metà del II secolo a.C. e nei primi decenni del I secolo a.C., il culto degli dei egizi Isi e Serapide giunge a Roma anche se in forma privata e non come culto ufficiale. Apuleio afferma che, nel I secolo a.C., è già presente il Collegio Sacerdotale Iliaco dei Pastofori (portatori della statua di culto). Il culto di Isi viene introdotto nella città eterna attraverso le vie commerciali che collegavano Roma con Delo, ricco mercato di schiavi e importante sede di culti egizi. Il senato romano prese spesso posizione contro tali culti egizi più per ragioni politiche che religiose. Quello che preoccupava, infatti, era da un lato la loro provenienza e diffusione negli strati più umili della società, e, dall’altro, il loro carattere misterico e precluso ai profani. Si temeva che i nuovi riti egizi potessero diventare pericolosi cenacoli di eversione contro lo stato. Dal 58 al 43 a.C vari consoli tentarono, inutilmente, di sradicarli. La svolta si ebbe con il secondo triunvirato quando Ottaviano, Lepido e Antonio votarono per la costruzione dell’Iseo Campense, edificato nel Campo Marzio e destinato a diventare il più importante di Roma. Ma la tregua per i culti isiaci durò poco, interrotta dalla guerra di Azio e dalla conquista dell’Egitto. Ancora una volta il paese divenne il nemico numero uno. La persecuzione contro i simboli e i seguaci dei culti nilotici toccò l’apice della drammaticità con Tiberio (14-37 d.C.) a causa dello scandalo di Mundo e Paolina. Cavaliere romano il primo e matrona romana, seguace di Iside la seconda, furono protagonisti di una vicenda che suscitò molte polemiche. Dallo storico Flavio apprendiamo, infatti, dell’inganno di Mundo ai danni di Paolina, alla quale venne fatto credere che il dio Anubi volesse che la donna trascorresse una notte d’amore con Mundo all’interno dell’Iseo del Campo marzio. La donna accettò ma solo dopo, scoperto l’inganno di cui fu vittima, denunciò il fatto a Tiberio. L’imperatore decise dunque di fare abbattere il tempio, distruggere tutti gli oggetti di culto, gettare la statua di Iside nel Tevere, ordinando persino la crocifissione dei sacerdoti complici di Mundo, facendo deportare in Sardegna gli altri sacerdoti del collegio isiaco. Sarà Caligola o Nerone a riedificare l’antico tempio. A par-

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tire da questo momento l’egittomania non conoscerà ostacoli trovando in Nerone un sicuro egittofilo e in Tito il primo imperatore a farsi rappresentare come faraone anche fuori dall’Egitto. Ma l’imperatore che più di tutti conobbe l’amore per il paese delle piramidi fu Adriano (117138 d.C.). Il dolore di Adriano per la morte del suo amante Antinoo e la sua decisone di introdurre il culto del giovane defunto associandolo a quello di Serapide e onorandolo con la fondazione di Antinoupolis nel Faijum ne è l’esempio. Come dimenticare poi la splendida Villa Adriana da dove provengono molte statue egizie o egittizzanti. In particolare nel Canòpo, la sezione della villa che riproduceva l’Egitto, sono presenti statue di coccodrilli e la vicenda di Antinoo è rievocata dai geroglifici dell’obelisco che oggi si trova nel Pincio a Roma. Cercando le tracce archeologiche di una egittomania di stampo religioso che si diffonde a Roma non possiamo non parlare più approfonditamente degli Isei-Serapei. Il più antico è sul Campidoglio, il più famoso è al Campo Marzio, ed il più recente è quello di Caracalla al Quirinale. Del secondo sappiamo che è composto da tre parti: un cortile rettangolare, un viale con obelischi che porta all’ingresso principale e un emiciclo con portici dove sorgeva il tempio. Il terzo edificio di culto è andato quasi completamente distrutto ma, dalle fonti, sappiamo che doveva avere un aspetto grandioso con colonne alte anche 21 metri e ispirate all’architettura tolemaica. Ma la conquista culturale nilotica nei confronti del mondo romano è degnamente celebrata da altri monumenti, molto più importanti, molto più conosciuti e soprattutto vissuti quotidianamente ancora oggi. Si tratta degli Obelischi e della Piramide di Caio Cestio. Quest’ultima era inserita all’interno delle Mura Aureliane presso la Porta Ostiense. Costruita nel 20 a.C. era la tomba di Caio Cestio Epulone, pretore, tribuno della plebe e organizzatore di banchetti sacri in occasione di feste religiose. La Piramide è ricoperta di marmo di Carrara e la camera sepolcrale è riccamente decorata con numerose pitture. Riguardo agli obelischi di Roma la prima, curiosa, considerazione da fare riguarda il loro numero, oggi, superiore persino a quello della madre-patria. Il termine obelisco fa riferimento al vocabolo egizio usato per identificare una lancia o uno spiedo3. Nato dalla trasformazione della pietra benben, la prima pietra che la leggenda vuole emersa dall’oceano, l’obelisco richiama alla memoria il primo nucleo solido attorno al quale la terra si è per così dire “ancorata”. La benben è una pietra che ha avuto origine, probabilmente, da un meteorite. Nell’antico Egitto si trovava custodita ad Eliopoli in un antichissimo luogo di

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culto. La tradizionale cosmogonia egizia ascrive alla pietra la proprietà di avere costituito una collina antichissima sulla quale il dio Atum si era innalzato durante la creazione del mondo per illuminare tutto il creato. Elevato su questa pietra il dio avrebbe concepito da se stesso la prima coppia di esseri viventi iniziando così a popolare la terra. L’obelisco dunque, attraverso il suo legame con la pietra benben, è legato al culto solare. Anche gli egizi costruirono, come poi accadrà in Europa durante il Barocco, obelischi per avvicinarsi al dio che stava in cielo. I chorten tibetani, gli stupa buddisti, i campanili cristiani, ovunque ci sia un dio da adorare ci sono monumenti che svettano verso il cielo! A Roma gli obelischi erano collocati nelle zone adiacenti ai templi isiaci o a decorazione di tombe. Esistono numerosissimi esemplari di questi monumenti a Roma. Fra i più importanti ricordiamo: – Obelisco di Piazza San Giovanni in Laterano: rappresentando l’obelisco più alto di Roma, si può anche considerare il più importante. La pietra con cui è stato edificato è granito rosso. Funzione di questo monumento è quella di esaltare Tuthmosi III che lo volle per riporlo a Karnak. Portato a Roma da Costanzo II nel 357 d.C. per decorare la spina centrale del Circo Massimo. – Obelisco di Piazza San Pietro: fu portato da Eliopoli a Roma nel 37 d.C. da Caligola. Il trasporto di questo grandioso monumento viene raccontato da Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, paragonandolo ad un evento senza precedenti. Per trasportare l’enorme reperto fu costruita una chiatta vastissima che, una volta utilizzata, fu fatta affondare per creare il molo del nuovo porto di Ostia. L’obelisco venne quindi collocato, in un primo tempo, nel circo di Caligola e di Nerone. Molti secoli dopo, eletto al soglio pontificio, Sisto V volle a tutti i costi spostare l’obelisco dalla sua collocazione circense a Piazza San Pietro. L’iniziativa si mostrò subito talmente complessa che persino Michelangelo non si sentì all’altezza del compito. Chi invece non si tirò indietro fu Domenico Fontana che ottenne l’appalto dal papa. Dal 30 aprile al 17 maggio 1586 quasi 1.000 uomini, 140 cavalli e 47 gru spostarono l’obelisco dal Circo a Piazza San Pietro. La rielezione fu fissata ed eseguita il 17 maggio dello stesso anno. Da quel momento per secoli molte leggende metropolitane hanno fatto da cornice ideale a questo dono egizio. Una prima leggenda affermava che il globo di bronzo sopra l’obelisco contenesse le ceneri

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di Giulio Cesare. Papa Sisto V fece mettere, al posto della sfera, una croce che, secondo le leggende doveva contenere nel basamento un frammento della croce di Gesù. Ma la particolarità di questo obelisco risiede nel fatto che venne fatto costruire per ordine di Caligola dai romani mentre si trovavano in Egitto. A conseguenza di ciò l’obelisco non reca iscrizioni geroglifiche. Inoltre coronano il monumento 16 pietre ovali, che formano una grande Rosa dei Venti, e 12 pietre rotonde ognuna delle quali porta scolpito un segno zodiacale. La funzione dell’obelisco risulta perciò essere quella di traguardare i movimenti del Sole nello Zodiaco. – Obelisco di Piazza del Popolo: fu costruito da Ramesse II e proviene anche questo da Eliopoli. Nel 10 a.C. fu portato a Roma da Augusto e posizionato nel Circo Massimo. Emblema della potenza dell’imperatore, questo monumento avrebbe visto per oltre 5 secoli le corse delle bighe. – Obelisco di Montecitorio: risalente al periodo di Psammetico II (594-588 a.C.), è collocato davanti alla Camera dei Deputati. La sua funzione è analoga a quella dell’obelisco in Piazza San Pietro fungendo da gnonome per la lettura dell’ora solare seguendo le ombre che vengono a formarsi nelle tacche di bronzo con i vari segni zodiacali. Questo obelisco è dunque conosciuto convenzionalmente come centro astronomico di Roma. – Obelisco di Piazza della Minerva: proveniente da Sais e fatto erigere da Apries nel VI secolo a.C. questo reperto fu collocato nell’Iseo Campense. Bernini realizzò l’elefante come basamento per sottolineare il ricco bagaglio allegorico che questo “dono egizio” portava con sé. Il simbolo, celato dietro la scelta di creare un elefante, mostra la volontà di diffondere un valore morale: quella forza interiore grazie alla quale l’uomo riusciva a reggere il peso della saggezza. Ma come qualunque messaggio comunicativo, passando dall’autore al pubblico cambia natura, cambia prospettiva, si adegua all’interpretazione che ne danno milioni di persone. L’elefante diventa dunque emblema delle fatiche, delle critiche, dei rimproveri ingiusti che il Bernini aveva “collezionato” e dovuto sopportare. Il fatto che il pachiderma poi volgesse il fondo schiena al Collegio dei Domenicani mostra, senza pietà, come nell’immaginario collettivo del popolo quell’elefante fosse una risposta avvelenata quanto doverosa dell’autore alla Chiesa. – Obelisco di Piazza Navona: questo è il primo lavoro architettonico fatto su modello, ad imitazione di quelli egizi. Anche i geroglifici non sono originari.

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– Obelisco di Antinoo: voluto da Adriano come segno del suo amore verso il defunto Antinoo. Anticamente, come già detto, era collocato nel Circo Variano, spazio situato entro la villa dell’imperatore Eliogabalo. Dal 1822 è collocato sul Pincio su iniziativa di Pio VII. – Obelisco sallustiano: anche con questo esemplare veniamo a conoscenza della cura con cui venivano realizzate le imitazioni di obelischi egizi specialmente di quelli ramesseidi. Provenienti dagli Horti Sallustiani, dal 1789 è collocato davanti alla Chiesa di Trinità dei Monti per volere di papa Pio VI. – Obelisco di Santa Maria Maggiore: proveniente dal Mausoleo di Augusto e collocato nel Campo Marzio fu poi spostato seguendo il progetto di riurbanizzazione di papa Sisto V e del suo architetto Fontana. – Obelisco matteiano: dono dell’imperatore Domiziano, inizialmente collocato nel Tempio di Iside sul Campidoglio. Una leggenda voleva che dentro la sfera sulla sommità fossero custodite le ceneri di Augusto. Nel 1582 fu donato a Ciriaco Mattei che lo pose nella sua villa al Celio. Il ricorso, dunque, al significato ideologico e spirituale attribuito agli obelischi, rendono l’egittomania nella Roma Antica un fenomeno sociale e di costume molto ben radicato e perfettamente compatibile con la tradizionale politica di tolleranza delle altre culture che da sempre ha contraddistinto, salvo rare eccezioni, l’impero romano4. Rimane sempre confermata, dunque, la ricorsività della storia che vede Roma conquistare il mondo ma essere a sua volta “conquistata” da popoli la cui saggezza e cultura è stata troppo grande per essere schiacciata dal nuovo dominatore. Era accaduto con i greci, accade ora con gli egizi. Passeranno molti secoli, le sabbie del tempo scorreranno violente e inesorabili per tutta la terra, crolleranno imperi e si formeranno nuovi consessi: l’antico Egitto non sarà mai dimenticato. All’ombra delle spade ma soprattutto dell’arguzia e della cultura di un nuovo imperatore, Napoleone, la Francia e i suoi “savans” rinverdiranno il mito del Nilo creando le basi della moderna egittologia. Non si tratterà tuttavia, occorre ribadirlo, di un annientamento di ciò che di modaiolo, di magico, di misterico, di esoterico, era stato coltivato fino ad allora in Europa, bensì si assisterà alla nascita di una nuova forma di mitologia che, paradossalmente, si alimenterà come mai accaduto prima, dei dati, dei numeri, della decifrazione della lingua, del-

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la scoperta dei più importanti monumenti, di tutto ciò insomma che la nascente scienza archeologica egizia porterà alla luce. 1.1 Da Drovetti e Napoleone a Wilbur Smith L’impresa, o per meglio dire la straordinaria avventura dell’esercito napoleonico alla scoperta della terra di Isi, segna il passaggio dalla fase pre-egittologica di conoscenza di questo paese alla successiva svolta in chiave di moderna egittologia che guiderà da questo momento in poi qualunque scoperta e rappresentazione dell’antico Egitto. La ricostruzione, basata su fonti e dati certi, di 5.000 anni di storia egizia è raggiunta seguendo due direttrici: la prima definita “cristiana”, volta a trovare conferme nei testi e nei monumenti egizi di quanto narrato nell’Antico Testamento, la seconda “antropologica” mirante a conoscere la cultura di questo popolo, sia nei suoi aspetti più monumentali ed eclatanti che nei suoi risvolti legati alla vita di ogni giorno. Solo verso la metà del Novecento si comprende che lo studio dell’egittologia deve essere interpretato in chiave storica, inserendolo nella vasta cornice della storia europea e mediterranea. Ma, come affermato sopra, la prima pietra miliare per la conoscenza dell’antico Egitto è costituita dall’impresa napoleonica. Nel 1797 il grande condottiero francese decide di invadere il paese delle piramidi. Le ragioni che si celano dietro questa volontà di conquista si riassumono nello sfacelo dell’impero turco e nella possibilità per la Francia di tagliare la via verso l’India al rivale inglese. Nel grande tempio di Isi, nell’isola di File, possiamo ancora leggere l’epigrafe dell’editto della spedizione che così recita: […] L’an 6 de la République le 13 Messidor une Armée Francaise commandée par Bonaparte est descendue a Alexandrie l’Armée ayant mis vingt jours aprés les Mammelouks en fuite aux pyramides desaix commandant la Prèmiere division les a poursuivis au délà des cataracts où il est arrive le 13 Ventose de l’an 7 les Généraux de Brigade Daoust, Friant et Belliard Donzelot Chef de l’Etat Maior Latournerie Comm. De l’Artillerie Eppler Chef de la 21 me Légère le 13 Ventose an 7 de la République le 3 Mars an de J s C st 17995.

La nave Orient di Napoleone salpò il 19 maggio 1798 da Tolone trasportando oltre alle armi e ai soldati anche una biblioteca con le Lettere sull’Egitto di Savary e il Viaggio in Egitto e Siria di Volney. Lo scopo del futuro imperatore di Francia era chiaro: quel viaggio sareb-

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be dovuto servire a studiare l’Egitto in termini scientifici, ispirati al rigore cartesiano e ai principi definiti dall’Enciclopedia che in quegli anni si andava elaborando in Francia. Per raggiungere questo scopo era necessario utilizzare le tecniche cartografiche e di rilevazione di monumenti, metodologie che richiedevano la creazione di una vera e propria commissione scientifica. L’incarico di riunire tutti gli scienziati necessari fu affidato a Gaspard Monge il creatore della Geometria Descrittiva che in due mesi convocò 167 esperti fra astronomi, naturalisti, orientalisti, ingegneri, tipografi e disegnatori, tutti selezionati, ovviamente, fra i migliori di Francia. Alla fine della missione ben 34 scienziati moriranno coinvolti nelle dure battaglie che l’esercito francese dovette combattere per conquistare il territorio egiziano. Nella celebre battaglia delle piramidi i francesi sbaragliarono i Mamelucchi, ma poco dopo la flotta francese fu distrutta e gli scienziati trovarono una comoda sistemazione in una casa al Cairo. In questa dimora il generale francese fece costruire una biblioteca, una tipografia e un deposito per gli strumenti scientifici fondando poco dopo quello che verrà conosciuto come “Institut National d’Egypte” suddiviso nelle sezioni di: matematica, fisica, lettere e arti ed economia politica. Tornati in patria i “savans”, come vennero chiamati i membri di questa commissione, pubblicarono l’enorme mole di dati raccolta nei vari campi oggetto della loro indagine dando vita alla Descrizione dell’Egitto. L’opera è composta da dieci volumi contenenti 1066 tavole in “folio” e “litografie”. È suddivisa per argomenti secondo il seguente schema: Antichità: – Volumi I-V: descrizione dei monumenti da File ad Alessandria; in V anche “Papiro”, “Inscrizioni”, “Medaglie”, “Collezioni di oggetti antichi”. Età moderna: – Volumi I-II Storia Naturale: – Volumi I-II: (zoologia) – Volume IIbis: (botanica, mineralogia) – Tavole: un volume introduttivo con le carte geografiche.

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Completa l’opera la descrizione di Vivant Denon intitolata Viaggio nell’Alto e nel Basso Egitto con la compagnia del Generale Bonaparte che comprende due volumi e 60 tavole con riferimenti alla vita quotidiana, carte geografiche, immagini di guerra, rilevazioni di edifici antichi e moderni. Inoltre la missione fornisce il modello per le altre successive spedizioni fra le quali quella di Champollion, Ippolito Rossellini e Richard Lepsius. Infine grazie alla pubblicazione della Descrizione dell’Egitto si dà il via a due fenomeni non previsti dagli studiosi, ma che si riveleranno di importanza decisiva per lo sviluppo futuro dell’egittologia moderna. Questi due corollari sono il manifestarsi di un collezionismo sfrenato di antichità egizie, da cui nasceranno i moderni musei egizi sparsi in Europa, nonché la decifrazione della “pietra di Rosetta” trovata durante alcuni lavori di consolidamento del Fort Jiulien, il campo militare che si trovava nella località di Rosetta per l’appunto. La stele di Rosetta è in basalto nero alta 1,14 metri e reca traccia di un decreto creato dai sacerdoti egizi riuniti in assemblea in onore di Tolomeo V Epifane nel 196 a.C. Il decreto è in tre lingue: lapidaria faraonica, quindi in geroglifico, manuale tarda, quindi in demotico, e greco per essere comprensibile ai nuovi dominatori e immigrati presenti nel paese. A trovare questo strano reperto fu il capitano del Genio Militare Pierre Francois Bouchard che lo inviò al generale Menou. Sarà proprio Menou a dare l’ordine di analizzare la pietra, ordine che verrà eseguito dagli esperti dell’Istituto Nazionale dell’Egitto. Gli scienziati non impiegarono molto tempo a capire la straordinaria importanza di quel reperto che riporta tre iscrizioni: in alto un testo in geroglifico, al centro un’iscrizione che sembra scritta in arabo, ma in realtà è demotico, in basso una frase scritta in greco. Traducendo la frase in greco, gli ellenisti capirono che altro non era che la traduzione anche delle altre due righe. Fu possibile quindi, dopo secoli di oblio, ricominciare a comprendere l’antica lingua egizia, il geroglifico! Purtroppo però gli inglesi pretesero la preziosa stele come bottino di guerra. Oggi il reperto campeggia al “British Museum”. Ma il regno francese ben presto avrà modo di ottenere la sua rivincita sul resto del mondo decifrando, con Champollion, la scrittura geroglifica. Per comprendere il modo con cui 3.000 anni fa il popolo delle piramidi elaborò il proprio sistema di comunicazione scritta, bisogna introdurre il concetto di “scrittura lapidaria”, ossia formata da segni ri-

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gidamente incisi che raffigurano uomini, animali, piante e oggetti e non idee come si era creduto all’inizio della decifrazione. La scrittura geroglifica classica è composta da circa 700 segni. L’alfabeto, ovvero i segni con un valore fonetico corrispondente ad un unico suono, ne consta circa 25. La scrittura che ne deriva è una “scrittura consonantica” simile a quella araba. Con il tempo questa scrittura lapidaria, tracciata sul papiro con pennello e inchiostro, si trasformò in “scrittura manuale” con i segni identici a quelli della “lapidaria” ma tracciati in maniera più agile e artistica. Verso la fine dell’età faraonica, le due scritture, lapidaria e manuale, mutarono e i segni persero ogni realismo per divenire astratti. Queste due forme di scrittura ebbero destini diversi riassumibili come segue:

Come si vede dallo schema l’evoluzione della scrittura egizia segue due direttrici: la lapidaria al tempo dei faraoni è definita da Clemens Alexandrinus (ca. 150-215 d.C.) “geroglifica” ossia “sacra incisa” perché quando visitarono l’Egitto questo tipo di scrittura era appannaggio dei sacerdoti essendo pochissimo praticata a livello popolare. La scrittura manuale dell’epoca tarda fu invece denominata, sempre dai Greci, “demotica” ossia “comune a tutta la popolazione”. La scrittura manuale praticata al tempo dei faraoni, fu in seguito chiamata dagli studiosi “ieratica” ossia “sacra” o “sacerdotale”. Se quindi la spedizione napoleonica si rivela la prima pietra miliare nella costruzione di un modo nuovo, più scientifico e razionale, di rappresentare l’Egitto al mondo occidentale, è indiscutibile che nella figura di Bernardino Drovetti si celi non solo un uomo ma il simbolo stesso di quella nascente “egittomania” che contagia tutto l’occidente. Grazie alla sua infaticabile opera affluiscono nelle corti italiane ed eu-

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ropee numerosissimi reperti egizi che andranno in seguito a formare i futuri “musei egizi” sparsi in tutto il vecchio continente. Intorno al 1853 al Museo Egizio di Torino, nella Prima Sala, il Ministro del re Vittorio Emanuele II riceve l’ordine di creare una lapide in onore di Drovetti. Lo stesso ministro, Luigi Cibrario, detta le parole da scrivere argomentando così: […] A memoria ed onore di Bernardino Drovetti da Barbania che Console Generale di Francia in Egitto adunò in lunghi anni di sapienti ricerche queste antichità egiziane procurando poi che diventassero acquisto dei nostri principi e una fra le glorie piemontesi6.

Drovetti in qualità di Console Generale per conto della Francia in Egitto conquista i meriti attribuitigli in questa lapide per la sua intelligenza politica e per le sue grandi doti culturali. Da abile analista della situazione politica egiziana intuisce l’importanza di allearsi ed entrare in rapporti di amicizia con Mohammed Alì il nuovo viceré deciso ad ammodernare il paese portandolo fuori da secoli di arretratezza, culturale, politica ed economica. Drovetti riesce a guadagnarsi la perpetua amicizia di Alì grazie alla difesa di Alessandria da un colpo di mano tentato dagli inglesi che vogliono approfittare del fatto che il viceré Alì si trovi, in quello stesso momento, impegnato nella guerra contro i sultani turchi Mamelucchi che vogliono frenare le spinte autonomiste dell’Egitto e il suo desiderio di staccarsi dall’impero Turco. Ma Drovetti aiuta il nuovo alleato anche in altri modi. Uno di questi è l’invio di medici francesi e italiani che procedono a vaccinazioni di massa per sconfiggere un’epidemia di colera che decima la popolazione. Inoltre Drovetti aiuta il nuovo reggente a trovare ingegneri e tecnici abili alla costruzione di dighe per accumulare l’acqua che il Nilo produce durante le piene, in bacini di raccolta in modo che, durante i periodi di siccità, l’acqua messa da parte possa servire ad irrigare i campi rimasti aridi, permettendo all’agricoltura una produzione costante tutto l’anno. Per fare questo Drovetti fonda scuole di alta ingegneria in Egitto e chiama i migliori docenti francesi garantendo così un’adeguata formazione del personale locale. Sarà proprio lui a favorire e ad appoggiare presso il governo locale la spedizione franco-toscana di Champollion che tanta importanza avrà per la costruzione dell’egittologia novecentesca. Nel 1811 Drovetti mette insieme una tale mole di capolavori egizi che, solo dopo non poche reticenze dovute all’ingente costo economico richiesto, il Piemonte accetta di acquistare grazie all’interesse di Vittorio Emanuele I. La morte del sovrano non intacca la validità degli ac-

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cordi conclusi da Carlo Felice. Giunta a Torino la collezione è sistemata ottimamente nella sede dell’Accademia delle Scienze, luogo strategico sia perché al centro della città, sia perché alto abbastanza da ospitare veri e propri colossi, e anche perché molto sobrio nell’arredamento e quindi idoneo a non distogliere l’attenzione dalla collezione7. Prima di morire a Torino nel 1852 Drovetti offre una seconda collezione alla Francia e una terza a Berlino. Senza di lui Champollion non avrebbe avuto a sua disposizione la collezione torinese su cui reperire materiale per continuare i suoi studi di decifrazione dei geroglifici finalizzati ad ottenere la prova della correttezza delle sue prime interpretazioni. La collezione torinese è quindi la prima raccolta di antichità egizie in grado di assolvere al duplice compito di essere uno strumento prezioso per gli studiosi e al contempo essere un organismo divulgativo-scientifico dell’antico Egitto verso il grande pubblico. Francia, Inghilterra e Germania imitano l’operato di Torino impiegando ingenti mezzi finanziari, superiori a quelli piemontesi, non solo per acquistare le collezioni proposte dai vari consoli ma soprattutto per finanziare campagne di scavo archeologico che riportino in patria preziosi e inestimabili reperti. Fra il 1900 e il 1920 Ernesto Schiapparelli, valente egittologo, colma la lacuna del museo torinese ampliando la collezione, che in origine comprendeva materiale solo del Nuovo Regno, con reperti archeologici che illustrano la storia egizia dalla preistoria all’epoca Copta. Tre sono le particolarità del museo piemontese rispetto agli altri. La prima è rappresentata dalla volontà politica che si cela dietro la sua nascita, mentre nel resto d’Europa la nascita di musei egizi è voluta o per iniziativa di collezionisti illuminati, come per il museo londinese, o per la volontà di studiosi, come per quello di Firenze. La seconda caratteristica che rende unico il museo torinese è il suo essere costituito, ad illustrazione delle diverse epoche, da un certo numero di oggetti “unici” e non per serie omogenee di manufatti. La terza peculiarità che distingue il museo in questione, è la sua volontà di accogliere al suo interno anche oggetti della vita quotidiana seguendo il principio della moderna archeologia e della rivalutazione degli oggetti di uso comune come indicatori indispensabili per comprendere la storia di un popolo8. Da Drovetti nasce dunque l’impulso verso il collezionismo e verso l’istituzione di corsi universitari, come quello tenuto da Rossellini a Bologna nel 1824 o da Camillo Orcurti nel 1862 a Torino, ma anche di biblioteche e strutture di ricerca. Veri e propri tesori di conoscenza, saranno proprio le biblioteche ad alimentare la curiosità di studiosi e semplici appassionati che, non

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soltanto dai reperti ma anche dalla letteratura e dal romanzo dal sapore egittizzante, troveranno nuovi spunti per coltivare quell’egittomania da sempre parallela all’egittologia. Grandi scrittori dall’antichità più remota fino all’età moderna si cimentano nella narrazione dell’antico Egitto. Il primo romanzo, a metà strada fra lo storico e l’avventuroso, fu scritto nel Medio Regno, ovvero in un arco temporale che va dal 2061 al 1635 a.C. Narrava gli intrighi, gli amori, i misteri che circondavano la vita dei faraoni dalla XI alla XIV dinastia. L’opera in questione è Le avventure di Sinuhe da cui fu tratto il film Sinuhe l’egiziano di Curtiz. In realtà la pellicola riproduce solo in minima parte la realtà degli eventi del libro, attingendo a piene mani dalla fantasia del regista e degli sceneggiatori. Dai manoscritti a noi giunti, apprendiamo, infatti, la storia di Sinuhe, un cortigiano di Sesostri I, che fugge dal suo paese e vive in esilio volontario molte avventure. Tornato in patria muore serenamente di vecchiaia dopo avere servito fedelmente il faraone per molti anni. Molte sono le particolarità che rendono questo romanzo interessante. Innanzitutto il racconto è scritto in forma di epigrafe autobiografica in cui Sinuhe parla in prima persona. Lo stile è molto ricco e vivace, pieno di ironia. Inoltre dal testo emerge un’ideale di fedeltà al sovrano che farà sì che questo testo diventi il libro ufficiale di tutte le scuole egizie, copiato milioni di volte dagli alunni che aspirano a diventare scribi. Dal grande capolavoro della letteratura egizia, nel 1945 Mika Waltari, grande scrittore finlandese, trae l’ispirazione per scrivere a sua volta un vero capolavoro, Sinuhe l’egiziano da cui viene tratto il celebre film sopra citato. Waltari nasce ad Helsinki nel 1908 e vi muore nel 1979. Nel 1928 pubblica La strada maestra, una raccolta di poesie ispirate alle metropoli moderne. Nel 1945 scrive Sinuhe l’egiziano, vero e proprio romanzo appartenente alla “letteratura di consumo” dove si riscontra un incipiente esoterismo che lo rese uno dei best-seller più celebri del dopoguerra9. L’epoca dei fatti è cambiata. Per scelta del nuovo romanziere, le vicende vengono ambientate all’epoca del cosiddetto faraone eretico, Amenofi IV (1364-1347 a.C.), che assume il nome di Akhenaton e abbandona i culti originari per sostituirli con la religione monoteistica in onore del disco solare Aton. Waltari rimaneggiando l’antico manoscritto lo rielabora seguendo un gusto tipicamente moderno, attribuendo, per esempio, al protago-

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nista la decisone di raccontare la sua storia per un’esigenza interiore impellente. Dal libro originario sappiamo invece che la volontà dell’autore era esattamente l’opposto: bisognava raccontare la storia di un uomo e della sua fedeltà al sovrano, una tale abnegazione da spingere Sinuhe a lasciare il suo paese temendo di non potere difendere adeguatamente il suo signore. Ancora una volta dunque cambiando l’epoca e il contesto sociale e culturale la divulgazione del messaggio subisce una significativa modificazione. Avendo ben presente l’operazione culturale compiuta da Waltari, Christian Jacq dona all’umanità intera la più celebre fra le raccolte di argomento storico, l’opera grazie alla quale ha senso parlare di egittomania che si diffonde attraverso la letteratura. Sto parlando, naturalmente, del Romanzo di Ramesse (Nuovo Regno XIX Dinastia 12901224 a.C.). La struttura dell’opera è suddivisa in 5 volumi e descrive tutta la vita del più celebre fra i faraoni, dall’ascesa al trono dopo la morte di Seti I, alla costruzione della capitale del suo regno, denominata Pi-Ramses, alla battaglia di Qadesh contro gli Ittiti. Nei 5 libri si parla anche dei due grandi amori del faraone, Nefertari e Iset, ma trovano spazio anche le congiure ai danni del sovrano con la presenza di Mosè e la sua incredibile storia della liberazione degli ebrei dal giogo schiavistico del faraone. Realtà e fantasia, odio e amore, come una moderna soap opera, la storia di Ramesse si tinge di perfezione. Il re è l’eroe assoluto, coraggioso, giusto, buono, amato dal popolo. Ma in ogni fiaba che si rispetti per esserci un eroe deve esserci un anti-eroe, un cattivo, rappresentato dal fratello Shenar, che cerca di eliminare l’odiato fratello con l’aiuto del tenebroso mago Ofir, che scatena contro il sovrano le sue temibili armi di magia nera. Da un lato dunque Ramesse, Nefertari, Iset, Mosè e soprattutto la fedelissima guardia personale del re Serramanna. Dall’altro lato Shenar, Ofir, i corrotti cortigiani. Fra questi due gruppi antagonisti si sviluppa l’intera storia che non manca di toccare punti di assoluta fantasia come la narrazione della visita al faraone da parte di Elena e Menelao accompagnati da Omero. Molta fantasia è riscontrabile anche nell’interpretazione del rapporto fra Ramses e Mosè. Nel romanzo emerge chiaramente l’amicizia fraterna che lega i due uomini, al punto da sostenere che l’attraversata del Mar Rosso da parte degli ebrei non fosse il risultato della manifestazione della potenza del Dio degli ebrei, ma, al contrario, fosse conseguenza delle arti magiche di Ramses usate per aiutare l’amico. La visione letteraria dell’antico Egitto, viene dunque elaborata da Jacq secondo i canoni della soap opera di stampo storico, con una profonda at-

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tenzione alle passioni che, il narratore, suppone si agitino nell’animo di re e regine del tempo. Grazie a questo impianto stilistico l’identificazione con dei lettori moderni avviene facilmente, e questo ha decretato l’enorme successo della saga in questione ai giorni nostri. Ma c’è di più. Nella mente dell’autore il paese delle Piramidi è il luogo della tradizione, intesa soprattutto in senso morale e religioso. Ramses, infatti, incarna l’uomo perfetto, stucchevole persino nella sua eccessiva bontà, mentre i suoi nemici sono dipinti come crudeli senza alcuna possibilità, anche minima, di redenzione. Non vi è alcuno scavo psicologico, alcun chiaroscuro, non vi sono zone di ombra, al contrario prevale una visione di netta contrapposizione fra bene e male, tanto semplice quanto efficace per attirare lettori culturalmente poco raffinati. Inoltre Jacq è un fedele e pedissequo sostenitore della religione tradizionale, considerando deleterio per la civiltà egizia l’eresia di Amenofi IV a cui è legata l’introduzione del monoteismo. Ramses è dunque l’eroe del bel tempo che fu, l’uomo antico e saggio, su cui riversare la nostalgia per un passato dipinto con colori fiabeschi e leggendari. Attraverso la letteratura assistiamo alla divulgazione di un sentimento di “egittomania” che ritroviamo anche in pieno Ottocento. Dalla scoperta della Stele di Rosetta, i continui viaggi di esploratori, archeologi, ladri di tombe, gli innumerevoli racconti di mummie, sarcofagi, tombe giungono in Occidente a stimolare la fantasia degli scrittori. Fra questi troviamo Bram Stoker, autore di Il gioiello delle sette stelle, storia della regina Tera che da mummia torna in vita per impadronirsi di un gioiello che le avrebbe dato vita eterna. Anche Gorge Gordon Byron è fra i tanti intellettuali impegnati nella divulgazione dell’Egitto al popolo. Autore de La sposa di Abido, lo scrittore narra le vicende della giovane Zuleika. Il nostro viaggio continua con Théophile Gautier definito da Baudelaire poeta impeccabile e mago perfetto delle lettere francesi. In prosa scrisse numerosi racconti di stampo fantastico che si rifacevano alla letteratura di Hoffmann. Conosciuto per l’opera Le Capitaine Fracasse, con il Romanzo della Mummia, crea un intreccio costruito intorno a due personaggi, un inglese e un tedesco, che si cimentano nell’archeologia studiando i reperti della Valle dei Re, riuscendo a trovare un sarcofago, una mummia e un papiro della regina Tausert della XIX Dinastia. Nel 1886 Henry Rider Haggard, romanziere inglese autore di racconti di stile esotico-avventuroso ambientati nell’Africa del Sud scri-

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ve La donna eterna, vero e proprio romanzo cult di una generazione affascinata dalla storia della regina Amenartas, appunto, la donna immortale. Momento centrale della trama è costituito dalla fuga del sacerdote Callicrate e Amenartas alla volta dell’Africa, dove i due fondano un regno millenario. Secoli dopo, il ritrovamento del papiro che racconta l’intera storia spinge un avventuriero a mettersi sulle tracce di questo fantastico regno, fino a incontrarvi, rimanendone affascinato, la bellissima regina. Il Novecento si apre con il romanzo Le figlie dei faraoni di Salgari (1906). Autore di Sandokan alla riscossa del 1907 e de Le tigri di Mompracem del 1901, la cui scrittura si caratterizza per uno stile approssimativo, e per una tematica che, di frequente, fa leva su sentimenti elementari, come l’onore, l’amicizia e la vendetta. A riscattare le debolezze formali c’è una fervida immaginazione e la capacità di inventare personaggi dall’eroismo esaltante e intrecci ricchi d’azione e suspense, nonché atmosfere di stampo esotico.10 Ne La figlia dei faraoni lo scrittore mescola informazioni della più svariata natura, prendendo spunto dall’archeologia, dalla storia, dalla cultura egizia per creare lo sfondo più idoneo alle sue trame a sfondo amoroso e piene di intrighi. Se dunque la prima letteratura novecentesca di stampo egizio nasce con la decifrazione dei geroglifici da parte di Champollion, la seconda ondata di egittomania nasce con la scoperta, nel 1922, della tomba di Tuthankamon. Ciò che scatena la fantasia degli scrittori di tutto il mondo, a differenza della cinematografia, è la morte improvvisa che coglie, a distanza di pochi mesi dalla scoperta della tomba, i protagonisti della vicenda: da Lord Carnarvon a Carter ad altre 4 persone. Nasce così la maledizione di Tuthankamon leggenda metropolitana che accende l’entusiasmo di milioni di intellettuali a caccia di una storia. Non si fa dunque pregare Robin Cook (1979) autore de L’ombra del faraone romanzo in cui Erica Baron, archeologa, si reca in Egitto e si trova coinvolta in una serie di omicidi che ruotano attorno alla statua di Seti I. Alla fine l’eroina scoprirà il legame fra Seti I e Tuthankamon giungendo a spiegare la morte di Carter e compagni. Anche Arthur Phillips rimane contagiato dall’egittomania arrivando a scrivere L’archeologo vero best-seller nel 2004. Appare sorprendente che sia Cook, che è un medico, che Phillips, che non è archeologo, rimangano talmente soggiogati dal fascino di questo paese da cimentarsi nell’avventura di scriverne le storie anche se inventate.

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Phillips immagina, infatti, di avere scoperto un cartiglio regale in realtà mai esistito. Tutto è frutto della fantasia: dal faraone Atum-Hadu, alla sua tomba a Deir el Bahari all’archeologo protagonista Ralph Trilipush. Ogni cosa è falsa ma viene descritta con tale realismo e con tale dovizia di particolari da sembrare vera. La struttura del romanzo poi è concepita come un diario epistolare. Se quindi con Cook e Phillips dei non addetti ai lavori si sono misurati con l’egittologia con ottimi risultati, a maggiore ragione un archeologo come Valerio Massimo Manfredi è “autorizzato” a farlo. Manfredi, docente alla Bocconi di Milano, scrittore di successo e conduttore del programma tv “Stargate” (La7 2003-2005), scrive Il faraone delle sabbie, capolavoro letterario dove passato e presente di fondono in una trama ricca di colpi di scena. La vicenda narra infatti di William Balke, archeologo che ha perso la sua credibilità a causa di un papiro che racconta una versione diversa dell’Esodo Biblico. Blake ritrova lo slancio quando viene inviato in Medio Oriente per un incarico segretissimo. Avanzando nelle sue indagini il protagonista si rende conto che la sue scoperte potrebbero demolire l’intera impalcatura teologica delle tre religioni monoteiste. Se fosse svelata l’identità del faraone delle sabbie sarebbe la fine per cristianesimo, ebraismo e islamismo! A colorare ancora di più di inquietudine il romanzo interviene la sua collocazione in uno scenario storico che vede la lotta fra un terrorista palestinese e il capo del Mossad, il servizio segreto israeliano. La curiosità di milioni di lettori verso le storie, vere o presunte, di stampo egittizzante viene alimentata con passione e innovazione da ogni singolo scrittore, alterando sapientemente il messaggio originale e piegandolo ai più diversi scopi, siano essi avventuristici, come in Salgari, di stampo ideologico e politico, come in Manfredi, o coltivando il gusto per l’esoterismo, come in Waltari. In ogni caso la rappresentazione dell’antico Egitto ne esce sempre compromessa. Solo uno scrittore riesce a creare e quasi a fare respirare la magia di quei luoghi, i suoi colori, i suoi odori, le sue contraddizioni, che, scorrendo nella lettura, si scopre come siano quelle di ogni animo umano. Questo scrittore è Wilbur Smith, autore della celebre trilogia composta da Il Dio del fiume (1993), Il settimo papiro (1995), I figli del Nilo (2001), attraverso la quale il lettore compie un simbolico viaggio nel tempo, narrando le vicende di un unico faraone Mamose e della sua dinastia. Tutto ha inizio con la costruzione della tomba del faraone da parte dello scribaarchitetto Taita narrata nel corso del primo libro. Nella seconda parte della saga questa tomba viene scoperta da un gruppo di archeologi.

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Nella terza parte infine viene narrata la storia del figlio e del nipote di Mamose. Ne Il dio del fiume seguiamo il racconto di Taita che ci mette a conoscenza dei problemi del suo paese rappresentati dalle invasioni degli Hyksos e dal nobile Intef che vuole servirsi della figlia Lostris per togliere il trono al legittimo pretendente: Mamose. Contro gli invasori e contro Intef si schierano Taita e Tanus. Dall’amore di Lostris e Tanus nascerà Tamose il futuro faraone dopo Mamose. Ne Il settimo papiro il protagonista è sempre Taita che guida, con il suo papiro segreto, l’archeologa Royan e l’avventuriero Harper alla scoperta della tomba di Mamos. Anche qui vi è il cattivo di turno rappresentato dal collezionista Von Schiller. Questo secondo romanzo è interessante perché emblema della prima operazione di metaletteratura che si conosca in un libro ambientato in Egitto. Con il termine metaletteratura si intende quel procedimento attraverso il quale la letteratura parla di se stessa, o per meglio dire, cita se stessa. In altre parole le ricerche dell’archeologa e dell’avventuriero prendono spunto dalle indicazioni presenti nel primo romanzo di Smith, creando così un caso in un cui uno scrittore cita se stesso. Infine ne I figli del Nilo ritroviamo Taita, Tanus, Lostris e il loro figlio Tamose che diverrà un faraone saggio e illuminato. A sua volta Tamose genererà Nefer che si innamorerà di Mintaka, principessa che fa parte della tribù degli Hyksos. Fondendo più generi letterari, Smith compie una vera e propria rivoluzione nella rappresentazione letteraria di stampo egittizzante, mescolando il romanzo storico con quello di avventura, ma presentando anche alte punte di lirismo e di scavo psicologico dei personaggi, dimostrando al mondo quanto potente possa divenire il mezzo letterario se ad una forma tanto alta viene associata una sostanza come la storia egizia. 1.2 Da Jean François Champollion al Flauto Magico di Mozart Luigi Cibrario, celebre primo ministro del re Vittorio Emanuele II, è il fautore della bella epigrafe dedicata a Jean François Champollion e posta nella prima sala del museo egizio di Torino sopra la celebre statua di Ramesse II. In questa lapide possiamo leggere: Honori et memoriae/ Joannis Francisci Champollionis/ qui arcanae aegyptiorum scripturae/reconditam doctrinam primus apervit/monumen-

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ta aegyptia/ regis Victorii Emmanuelis liberalitate conquista/ in his aedibus docte invisit scriptis inlustravit/moderatores rei letterariae/ statim ac de morte celeberrimi viri nuntiatum est/ mense martirio anno MDCCCXXXII/ principatus regis Caroli Alberti secondo11.

La presenza di questa lapide al centro del museo torinese dimostra la grandissima considerazione tributata al lavoro di questo geniale studioso che si accosta all’antico Egitto animato da un sogno, quasi una premonizione. Il giovane Jean François sente fortissimo dentro di sé il dovere di scoprire e riuscire a rendere intelligibile al mondo la scrittura geroglifica. La prima possibilità concreta di compiere questa “missione” gli è offerta dal ricevere in dono una copia della Stele di Rosetta. La decifrazione di questa stele impiega da tempo, oltre al giovane Champollion, studiosi come l’inglese Young, lo svedese Akerblad e il francese de Sacy. Tutti studiano per anni il reperto, ma nessuno è in grado di fornire una risposta a questa domanda fondamentale per l’interpretazione dei geroglifici: la scrittura egiziana è ideografica o fonetica? In altre parole, ogni segno rappresenta un’idea o un suono?12. La prima interpretazione, quella dei segni come espressione d’idee astratte, è formulata per la prima volta da Diodoro Siculo e seguita nel corso dei secoli da studiosi come Cheremone da Naucratis, dai neoplatonici di Plotino, dall’umanista Marsilio Ficino fino al gesuita Kircher. La seconda interpretazione di questa antica scrittura, quella che propendeva per la fonetica, era stata fatta propria dal grammatico Tito Flavio Clemente e da Ammaiano Marcellino di Antiochia. Ma questa seconda ipotesi non sfiora la mente di Champollion che impiega diversi anni cercando di leggere i geroglifici della Stele di Rosetta come ideogrammi. La ragione di questo convincimento nella mente del giovane risiede in un preconcetto mentale: sin dal tempo dei Greci il mondo occidentale aveva usato una scrittura formata da segni “astratti” che indicano il parlare, quindi davanti ai segni figurativi della Stele si è portati a credere che rappresentino idee e concetti. Nella mente di Champollion, come per ogni uomo del suo tempo, non è stata interiorizzata la lezione della semiologia secondo la quale il simbolo è formato da un significante, o successione lineare di lettere, e da un significato, contenuto astratto associato ad ogni singolo significante. Dunque per interpretare correttamente questi simboli bisogna considerare la loro “doppia” natura sia fonetica che concettuale! Solo nel 1821, ricevendo in dono la copia di un’iscrizione egizia lapidaria e greca incisa sulla base di un obelisco a File, gli fu permesso di capire che la scrittura egizia poteva essere anche “fonetica”. Il 14 settembre 1822 intui-

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sce quindi che la scrittura egizia è sia ideografica che fonetica. Da quel giorno nasce la moderna egittologia. Per arrivare a questa comprensione così rigorosa e filologica dei geroglifici, il linguista segue un metodo preciso schematizzabile nelle seguenti tappe13. Disponendo di un testo con traduzione, come avviene nel caso della Stele di Rosetta, trascrive il testo su linee ben separate da spazi tratteggiati in neretto. Successivamente cerca un pacchetto di segni che simboleggiano una parola. Quindi cerca nella traduzione un vocabolo che corrisponda a quella parola. Se trova questo sostantivo annota sotto ciascuna lettera geroglifica quella corrispondente fissandone il suo valore fonetico. Ripete questa operazione per tutte le parole del testo aggiungendo alla “traslitterazione” un tentativo di “traduzione”. Quando Champollion capisce che i geroglifici della Stele di Rosetta possono essere fonetici prosegue, come descritto sopra, scoprendo il pacchetto di segni nel cartiglio reale e trovando il corrispondente nel testo greco. Da questa operazione viene fuori la seguente traduzione “Tolomeo vivente in eterno di Path l’amato”.Tuttavia la pubblicazione dell’opera Lettera a M. Dacier relativa all’alfabeto degli sviluppi fonetici dei geroglifici per gli Egiziani per inserire nei loro monumenti i nomi e i cognomi dei saggi greci e romani gli valse non pochi problemi legati sia alla consapevolezza di non potere andare avanti con i suoi studi per mancanza di reperti egizi da studiare, sia allo scetticismo, per non dire risentimento, con il quale la severa “Accademia” accolse le sue teorie colpevoli di mettere in discussione secoli di convincimento sulla natura ideogrammatica della scrittura egizia. Inoltre giocava a sfavore di Champollion l’aspra polemica sviluppatasi intorno all’acquisto, da parte del “Louvre”, del cosiddetto “Zodiaco di Dendera” che in realtà non raffigura uno zodiaco egizio ma uno greco, ed è datato in una età compresa fra il 6.000 e il 15.000 a.C. Proprio questa datazione costituisce una gravissima minaccia per la Chiesa cattolica in quanto contraddice la Bibbia circa l’origine del mondo, fino a quel momento collocata nel V millennio. Contro Champollion si scatena quindi una vera e propria crociata, vedendo nei suoi studi lo strumento per mettere in discussione secoli di certezze, quando non anche la stessa veridicità delle Sacre Scritture. Ma la fortuna aiuta ancora una volta l’egittologo che può continuare i suoi studi nel nascente museo egizio di Torino. Grazie all’enorme mole di reperti a disposizione e alla sua straordinaria conoscenza linguistica, Champollion impara a tradurre, senza alcuna difficoltà, testi egizi di qualunque natura facendo di Torino la capitale mondiale dei primi studi di egittologia moderna. Il 31 luglio 1828 si avve-

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ra il sogno di questo straordinario studioso: recarsi in Egitto dove legge, traduce e copia nuovi testi, confermando al mondo la validità della sua tecnica decifratoria. Nel 1832, dopo trenta anni di studi infaticabili ed essersi guadagnato una fama mondiale come studioso, Champollion muore lasciando una conoscenza storica e linguistica sull’antico Egitto, davvero insuperabile. L’immortalità della scoperta di Champollion non rimane impressa soltanto nella storia della moderna egittologia, ma contribuisce alla creazione di un importante frammento di quella moda egittizzante che si diffonde a partire dal Settecento in tutta Europa. In particolare attraverso il melodramma, già a partire dal Diciottesimo secolo, le sonorità occidentali furono profondamente influenzate e ammaliate da quel fitto intreccio di mistero e meraviglia che la prima e più importante provincia romana emanava sin dai tempi antichi. Fu Jean Philippe Rameau il primo a raccogliere la sfida14. Nato a Digione nel 1683 fu un compositore e uno studioso francese. Era figlio di un organista e si dedicò alla musica solo a partire dal 1701. Tale decisione fu presa a seguito di un viaggio in Italia, in particolare a Milano. La sua attività si svolse ad Avignone come maestro di cappella. Nel 1706, si trasferì a Parigi pubblicando il suo primo testo di composizione cembalistica, Pezzi per clavicembalo. Nel 1722 riscosse grande successo la sua nuova pubblicazione Trattato di armonia ridotta ai suoi principi naturali. Tuttavia se Rameau era celebre come teorico, ancora la sua attività artistica stentava a decollare. La svolta si ebbe nel 1731 quando fu chiamato a dirigere l’orchestra privata del ricchissimo Alexandre Jean Joseph Le Riche de La Pouplinière15. In questo modo, con un testo di Voltaire, nacque l’opera lirica Sansone. A questa opera seguirono Ippolito e Aricia (1733), Le Indie galanti (1735), Castore e Polluce (1737). Coinvolto nella querelle fra i difensori dell’opera “buffa” italiana che si ispiravano a Lulli e i sostenitori dell’opera “seria” francese, Rameau abbandona per alcuni anni il campo teatrale per ritornarvi nel 1749 con la “tragedia lirica” ispirata all’Oriente. Dal libretto di Louis de Cahusac nasce Zoroastro la prima composizione di stampo “massonico”16. L’opera mette in scena un Oriente favoloso e misterico, lontano nel tempo e nello spazio dove si svolge una titanica lotta fra il Bene e il Male, con trionfo finale del Bene. Nel 1751 compose inoltre l’opera per balletto La nascita di Osiri. Muore nel 1764 a Parigi. L’opera seria settecentesca si era da sempre nutrita di personaggi dell’antichità classica, attingendo dai miti greci le sue tragedie e i suoi

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ardori17. Ma ora qualcosa è cambiato. Se finora ci si è accontentati di rievocare, attraverso la musica, antichi miti ellenici, adesso con Winckelmann vengono posti i presupposti del neoclassicismo. Il pensiero di Winckelmann pervade ogni settore artistico, imponendo la ricerca dell’idea di bellezza che sovrasta il singolo e specifico prodotto artistico. Anche la musica deve adeguarsi a questa nuova ondata di amore ed entusiasmo verso la civiltà greca e in particolare ateniese. Ogni traccia di mestiere, di schematismi musicali, di consuetudini derivati dalla tecnica, deve scomparire per lasciare posto a quel “sublime” che deve alitar sopra l’opera seria togliendone ogni senso di festoso, e di frivolezza. La grande Atena sembra ora rivolgere il suo ammaestramento etico al mondo, celebrando la sua grandezza basata sulla democrazia, l’unica forma di governo possibile per la crescita rigogliosa della arti. Tale quieta grandezza e nobile semplicità non può essere ricreata in campo musicale lasciando campo libero ai soli musicisti, occorre fare intervenire i letterati come Metastasio, creando un’opera dove la parola abbia più peso della musica18. Lo stesso Metastasio è coinvolto in tale processo. Pietro Trapassi, in arte conosciuto con il nome grecizzato di Metastasio, nasce a Roma nel 1698. Poeta e librettista divenne famoso nel 1724 con l’opera Didone abbandonata scritta in onore di Marianna Benti Burgarelli, celebre cantante cara al poeta. Nel 1730 subentrò come poeta di corte degli Amburgo ad Apostolo Zeno e ricoprì tale incarico fino alla morte, avvenuta 52 anni dopo a Vienna nel 1782. Metastasio viene ricordato per la sua riforma dell’opera lirica, ricollocata in uno schema fisso diviso in tre parti: aria, recitativo secco, recitativo accompagnato. L’azione doveva dunque essere separata dall’effusione lirica affidata alle arie poste alle fine del melodramma19. Se dunque con Metastasio una ventata di classicità e di serietà pervade i libretti delle maggiori opere del periodo, è altrettanto vero che la riscoperta di antichi miti e antiche civiltà non si limita soltanto all’Ellade, ma riguarda anche l’Oriente, terra favolosa e misterica. Il passaggio dall’Oriente all’antico Egitto è quasi scontato e quindi non sorprende ritrovare, nella produzione metastasiana, il Nitteti vero e proprio kolossal ambientato in Egitto da presentarsi al Teatro Regio di Torino nel 1756. Numerosi altri compositori si lasciano conquistare dalla terra nilotica. Fra questi Johann Gottlieb Nauman20. Compositore tedesco, nasce a Dresda nel 1741. Nella sua città natale inizia i suoi studi completandoli in Italia. Fa rappresentare Il tesoro insidiato e Li

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creduti spiriti a Venezia rispettivamente nel 1762 e nel 1764. Dal 1776 è maestro di cappella a Dresda e a Stoccolma dove scrive alcuni lavori teatrali utilizzando testi svedesi. Nel 1781, per celebrare un matrimonio principesco, compone Osiride lasciandosi attrarre dalla teosofia egizia. Muore a Dresda nel 1801. Ma ben altri sono i maestri che si cimentano con la terra dei faraoni, e ben diversi i risultati raggiunti. Con Wolfgang Amadeus Mozart entriamo nella leggenda. Il bambino prodigio nasce a Salisburgo il 27 gennaio 1756. Il padre Leopold intuì subito le straordinarie doti musicali dl figlio e lo indirizzò subito ad una precoce attività concertistica. Nel 1762, infatti, Leopold, Amadeus e la sorella Marianna tennero un concerto a Monaco di Baviera suscitando grande clamore. L’eco del successo fu tale che dopo pochi mesi l’imperatrice Maria Teresa invitò i due fanciulli prodigio ad esibirsi davanti all’intera famiglia imperiale. Nel 1763 i piccoli Mozart iniziarono un tour di concerti a Monaco, Augusta, Ulma, Mannheim, Francofone, Colonia, Bruxelles fino a Parigi. Nel frattempo Mozart incantava le platee suonando non solo il clavicembalo ma anche il violino e l’organo. Nel 1764 arrivò a Londra dove apprese l’arte del belcanto e la tecnica del clarinetto. Dal 1767, a soli 11 anni, inizia l’intensa attività compositiva del Maestro che non terminerà che con la sua morte avvenuta il 5 dicembre 1791 a soli 35 anni. Tre le opere dedicate all’Egitto: Thamos re d’Egitto K 345 del 1779, L’Oca del Cairo K 422 del 1783 e Il Flauto Magico KV 620 del 1791 vero e proprio testamento artistico del grande compositore21. Per comprendere al meglio le ragioni che legano Mozart al suo Flauto Magico e alla sua particolare visione dell’antico Egitto, sarà necessario spendere qualche parola sul contesto culturale nel quale venne composta. Tale cornice spirituale e gnoseologica prende il nome di Massoneria. Il movimento massonico nasce in Inghilterra nel 1717 e scaturisce dal movimento “rosacrociano” a cui si mescola la tradizione medioevale delle corporazioni dei muratori e dei cantieri edili. I simboli di questo movimento sono il martello, il compasso, la squadra e il grembiule. Nel 1723 il prete James Anderson fece stampare a Londra la prima costituzione massonica che faceva risalire la sua origine addirittura ad Adamo, assegnando a Noè il ruolo di salvatore dell’architettura grazie alla sua arca e a Mizraim, suo nipote, il ruolo di aver trapiantato l’arte degli architetti in Egitto. In seguito Mosè sarebbe stato insignito del titolo di Grande Maestro dell’Alleanza.

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Il romanzo Sethos dell’abate Jean Terrasson contribuisce al rafforzamento di questo legame fra massoneria ed Egitto, così come il romanzo anonimo Crata Repoa. Ma il vero fondatore della massoneria egizia è Cagliostro, nome d’arte dietro cui si cela il palermitano Giuseppe Balsamo vissuto fra il 1743 e il 1795. Nel 1785 introduce a Parigi la Massoneria egizia, ma il furto della famosa collana di pietre preziose lo costrinse a conoscere la prigione francese dove rimane rinchiuso per un anno. Prima di questo arresto Cagliostro fonda logge massoniche d’ispirazione egizia a Varsavia, sul Baltico, a Strasburgo proclamando ovunque di avere appreso l’antica saggezza nilotica nei sotterranei delle piramidi e definendosi il diretto subalterno di Elia che, insieme a Cristo e Mosè, forma il consiglio supremo del pianeta terra. Nel 1795 muore nella fortezza papale di San Leo vicino ad Urbino. Si trovava lì in quanto condannato a morte dalla Santa Inquisizione con l’accusa di propagare la massoneria egizia. Era stato tuttavia graziato da Papa Pio VI che aveva trasformato la condanna a morte in carcere a vita. Ma la vita e il rigoglio della Massoneria egizia non muore con Cagliostro, anzi raggiunge gli apici di gloria ed elevazione artistica con Mozart, come vedremo. Dunque la penetrazione della cultura nilotica in Occidente durante il Diciottesimo secolo fu orchestrata seguendo strane ed oscure note. A suonar questa strana moda culturale anche intellettuali, da Terrasson a Christoph Wieland che, nel 1786, pubblicò una raccolta di racconti su fiabe, spiriti e fate. Lo scrittore richiama l’attenzione sull’importanza delle fiabe e sul valore etico che si nasconde dietro la loro apparente ingenuità. Seguendo questa direzione, si arriva dunque a fondere classicismo ed esoterismo, sintesi che ricalcava le orme dell’antico poeta latino Apuleio che, nelle sue Metamorfosi, narrava la lotta di un giovane iniziato ai misteri di Iside che deve combattere contro spiriti potenti e maligni che ne ritardano l’ascesi verso l’immortalità. Volta dunque al raggiungimento del progresso morale e intellettuale della società, la Massoneria si configura come la cornice ideale nella quale collocare lo stesso Mozart che ne faceva parte. La musica massonica appare dunque caratterizzata da:22 1) Uso di tonalità solenni (come il mi bemolle maggiore); 2) Strumenti a fiato di timbro oscuro come i tromboni; 3) Utilizzo di alcune “figure”, come due note legate a due a due, simbolo di fratellanza, accordi tre volte ripetuti; 4) Atmosfera generale di pace e armonia superiore;

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Mozart dunque entra il 14 dicembre del 1784 nella loggia massonica “La beneficenza” a Vienna. Durante tale decennio la Massoneria viennese conobbe un periodo di massimo splendore data anche la vicinanza politica con le idee dell’imperatore Giuseppe II, noto riformista. Queste logge ospitavano al loro interno eruditi, intellettuali, artisti e aristocratici illuminati. Oltre a Mozart facevano parte della loggia Haydn, il padre di Mozart, Leopold, e Schikaneder autore del libretto del Il Flauto magico23. L’ingresso in questa organizzazione segreta viene in qualche modo ad essere consequenziale alla composizione delle due opere che precedono il capolavoro. Già a livello tematico e compositivo si intravede l’influsso della corrente massonica anche se ancora Mozart non ne è entrato, ufficialmente, a farne parte. In Thanos viene messo in scena un dramma eroico su testo di Von Gebler, grande maestro della loggia viennese. Viene musicata la storia di Menès, re di Egitto, a cui Ramesse toglie il trono. Creduto morto, Menès in realtà vive sotto le mentite spoglie di Sethos a Heliopolis. Dopo la morte di Ramesse, il vecchio re rinuncerà a rivendicare il suo legittimo trono in favore di Thamos, figlio di Ramesse. Alla base di questa sua scelta l’amore di Thamos per Tharsis, figlia di Menès. Ne L’Oca del Cairo viene messo in scena un semplice quanto divertente congegno meccanico, che dà il titolo all’opera, che si presta agli equivoci farseschi utilizzati a piene mani per raccontare le disavventure dello sciocco e arrogante marchese Don Pippo di Ripasecca24. Protagonista indiscussa di questo dramma giocoso rimasto incompiuto, una presunta “oca parlante” che in realtà è una gigantesca costruzione, simile per idea al cavallo di Troia, costruita da Calandrino per fare entrare dentro il palazzo il povero Bindello. Il ragazzo, innamorato di Celidora, dovrà entrare nel castello del padre, Don Pippo di Ripasecca, per liberare la sua amata dalla torre in cui è stata rinchiusa dal tiranno genitore proprio per evitare che sposi Bindello. Grazie alla sua “oca”, Bindello entrerà nel palazzo e si unirà, in uno scontato lieto fine, alla sua amata. Il Flauto magico, andato in scena il 30 settembre 1791 a Vienna, appartiene al genere teatrale del Singspiel, definibile come una commistione, tipica dell’area di lingua tedesca, fra parti cantate e parti recitate. Tale genere si caratterizza per la compresenza di elementi favolistici e realistico-popolareschi25.

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L’opera racconta la storia di Tamino che viene salvato da un serpente che lo sta per mordere grazie all’intervento di tre donne. Rinvenuto, il protagonista scopre dalle tre donne di trovarsi nel regno delle Regina della Notte, disperata per il rapimento della figlia Pamina. Guardando il ritratto della giovane donna Tamino se ne innamora e corre a salvarla dal malvagio Sarastro che l’ha rapita. Per proteggere Tamino dai pericoli la Regina della Notte gli regala un flauto magico. Tamino trova Pamina ma, mentre tenta di liberarla, sopraggiunge Sarastro, sovrano di quelle terre. Ben presto Tamino e Pamira si rendono conto che la vera malvagità non sta dalla parte di Sarastro, ma si trova celata nella Regina della Notte. Comunque i due giovani non si lasciano scoraggiare e superano le tre prove, del silenzio, dell’acqua e del fuoco, potendo così stare finalmente insieme. Molti i significati nascosti in questa opera. Con spirito, a tratti pungente, a volte commosso, Massimo Mila commenta: Oltre all’elemento magico e meraviglioso si erano infiltrate nel libretto strane aspirazioni umanitarie e filantropiche. Nella freschezza invidiabile della sua ingenuità, Mozart ebbe il potere di prendere sul serio tale simbologie a sfondo orientale, la cui vacua falsità sarebbe apparsa evidente a qualunque persona fornita di anche mediocre spirito critico. Prendendole sul serio, ne fece una cosa seria; e quelle scene di misteriose iniziazioni egli vivificò con tutta la sua anima, invano offesa e delusa dalla vita, ma anelante al bene, all’onestà, alla purezza. Il Flauto Magico rappresenta un estremo atto di fede, a dispetto di ogni crudele smentita, nel bene, nella luce, nell’amore, nelle forze positive della vita. Uno sforzo eroico di riconquistare il candore infantile, l’integrità della propria anima, che le vicende dolorose avevano turbata26.

Il cuore dell’opera è radicato saldamente nella mentalità settecentesca in cui l’interesse spasmodico per l’archeologia, la scienza e l’esoterismo si manifestano largamente nell’egittomania. Le sette segrete massoniche idolatrano, infatti, la teosofia egizia, madre di tutti i culti e di tutti i miti. I misteri egizi si intrecciano abilmente con la mania per le arti magiche (incantesimi, apparizioni di fantasmi, evocazioni spiritiche, agnizioni) attraverso le quali coniugare in un cerchio senza fine un passato fiabesco e tenebroso e la speranza di un presente dominato dalla luce e dalla gioia, Mozart diventa quindi un anticipatore della “Luce e Gioia” di Beethoven. Il fine ultimo è quello di puntare

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tutto sulla forza del messaggio, sete di ammaestramento morale e di trasformazione dell’uomo dai vizi alle virtù27. L’Egitto dunque per riscoprire la propria anima, per ritrovare il candore. Il Flauto Magico come commistione di generi, superbo contenitore di: Stato di natura (Papageno trattato con il Lied), la gelidità abbagliante e asettica (la Regina della Notte, con il virtuosismo estremo), ma anche il magico effetto de suono e dei riti iniziatici (Tamino e Palmina), o il sublime profilo vocale di Sarastro e dei sacerdoti, poi tutto il fascinoso contorno della solennità laica, derivata dal quadro illuministico e massonico che parla di un’umanità nuova, iniziata al sapere più alto e alla conoscenza più profonda28.

Con questa composizione si conclude l’epopea di Mozart, e senza dubbio questa è l’opera: Più nutrita di spirito del tempo, manifestazione riassuntiva di tutto l’illuminismo austriaco e assieme prima opera tedesca nazionale. Quella corsa alla felicità, sentita come un bene perduto dovuto diviene nel Flauto Magico esplicita e disciplinata da un messaggio morale: non è solo l’impulso che la rende lecita, ma una comunità di uomini savi che stende una mano amichevole a chiunque voglia uscire dalle tenebre verso la luce e raggiungere la felicità nell’unico modo consentito all’uomo, mediante la saggezza29.

Mozart non riuscì a godere dei successi della sua ultima opera. Dopo solo un anno dalla sua composizione, quando oramai il maestro era morto, Il Flauto Magico ottenne la sua 100a replica! Il giorno prima di morire Mozart stesso sussurrò: «[…] Eppure vorrei sentirlo ancora Il Flauto magico!»30. Tre mesi dopo la morte di un genio, l’umanità conobbe un altro grandissimo astro nascente destinato a lasciare un segno indelebile nella storia della musica di tutto il mondo. Questo nascente talento fu Gioachino Antonio Rossini. Il compositore nacque il 29 Febbraio del 1792 a Pesaro. Il padre Antonio fu un banditore che integrava i suoi guadagni suonando il corno nelle manifestazioni teatrali. La madre Anna fu una cantante. Nel 1802 si trasferirono a Lugo dove il giovane studiò musica con Luigi e Giuseppe Malerbi. Nel 1806 entrò al liceo musicale di Bologna dove imparò a suonare la viola, il cembalo, il pianoforte e canto. Tra il 1810 e il 1823 Rossini scrisse oltre 30 opere buffe chiudendo la sua stagione italiana.

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Nacquero, infatti, nel 1813 L’italiana in Algeri, Il turco in Italia, Il barbiere di Siviglia, e la Cenerentola. Dal 1818 in poi si dedicò alla scrittura solamente di opere serie fra le quali il Mosè in Egitto. Dopo nove anni, nel 1827, Rossini, ripresentò il suo Mosè trasformandolo in Mosè e il faraone, il passaggio nel Mar Rosso. Rossini morì il 13 Novembre del 1868 a Passy (Parigi)31. Nelle due versioni dell’opera sull’antico Egitto occorre sottolineare la profonda differenza di forme e ideologia che intercorre fra i due lavori. Le ragioni che si celano dietro questo mutamento sono da ravvisare nel fatto che: Oramai l’operista italiano non viene più accolto a Parigi in quanto tale, come importatore di quella merce insostituibile che è l’opera napoletana; il monopolio è cessato, ed egli deve fare i conti con le novità dell’ambiente, gareggiando vittoriosamente con la concorrenza locale. Il Mosè è dunque un vero e proprio rifacimento, un’opera nuova che serve a Rossini da tirocinio per impossessarsi della prosodia e lo stile francese32.

Inoltre in questa opera il compositore inserisce la preghiera di Mosè dove si può intravedere un appello alla liberazione italiana. Superlativamente commentata da Balzac questa melodia tocca le corde più profonde dell’anima in quanto: Esiste forse un tema più ricco di quello di un popolo che, imprigionato nelle catene di una volontà malvagia, vuole conquistare la libertà e che, ispirato da Dio, compie un miracolo dopo l’altro per ottenere questa libertà?33.

Anche Stendhal rimase colpito dalla nobiltà e dalla potenza evocativa del canto del profeta. Rossini, forse stimolato dal parziale insuccesso del Mosè italiano, ritornò sulla partitura aggiungendo la già citata “Preghiera di Mosè” che Verdi stesso definì una piramide di melodie. La sequenza musicale egittizzante passò come la fiaccola olimpica dalle mani di Mozart a quelle di Rossini per concludere il primo cerchio con l’opera di Verdi. Giuseppe Verdi nacque a Roncole di Busseto il 10 Ottobre del 1813. Iniziò i suoi studi con Pietro Baistrocchi, organista di Roncole. Grazie all’aiuto del futuro suocero Antonio Barezzi studiò con Ferdinando Provesi, organista di Busseto. Escluso dal conservatorio di Milano continuò i suoi studi con Vincenzo Lavigna, operista e maestro concertatore di cembalo alla “Scala” di Milano. Nel 1836 vinse il concorso per

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maestro di musica di Busseto e sposò Margherita Barezzi. Ottenne discreto successo alla “Scala” di Milano con la sua prima opera Oberto conte di San Bonifacio. La morte della moglie e dei figli e alcuni problemi professionali lo convinsero a tornare a Busseto. Tuttavia grazie alla tenacia dell’impresario alla “Scala” Morelli si convinse a musicare il Nabucco, vero e proprio trionfo che decise la carriera dell’operista. Fra il 1841 e il 1871 compose numerosissime opere fra cui Rigoletto, La Traviata e Il Trovatore. Nel 1871 compose Aida. Verdi morirà il 27 gennaio 1901 a Milano34. La fortuna dell’Aida risiede nel fatto che: Congiunge miracolosamente questa sopraggiunta capacità di riflessione con una ricchezza di invenzione musicale, con una torrenziale fecondità melodica, quali non si erano forse più riscontrate dopo il Trovatore. L’irrobustimento dello strumentale, lo sforzo quasi costante di riscattare l’orchestra dalla volgarità degli accompagnamenti convenzionali, il modesto uso di melodie ricorrenti per individuare alcuni personaggi, fecero parlare di wagnerismo: in realtà Aida è opera tutta solare e italiana, cui l’esperienza wagneriana è ancora estranea, e costituisce un momento unico nella produzione verdiana, per la sua congiunzione di meditata fattura e di giovanile esuberanza35.

Inoltre anche nella costruzione della psicologia dei personaggi c’è da notare come: Il canto di Aida è fin dall’inizio estraneo ala conflittualità che il suo personaggio provoca e che dà corpo al dramma. È il canto del sentimento o quindi idea “superiore” dell’amore; superiore al dramma. Lo stesso per il canto eroico di Radamès. Radamès, conquistatore, è conquistato ai valori supremi (al diritto primario dell’amore, al suo simbolo civile, di liberazione) dal canto anomalo di Aida. Così si incontrano, vincitori ancorché sconfitti, alla fine36.

Con Aida quindi Verdi compie una scelta ideologica e stilistica ravvisabile nella volontà di staccarsi dalla grand-opéra ma al contrario: Riproponendo l’opposizione dialettica tra massa e individuo, tra le costrizioni del potere e la libertà iconoclasta della forza d’amore, scagliandole in maniera vertiginosamente profonda37.

Tuttavia non si può comprendere a fondo l’opera senza la sua contestualizzazione in Egitto, senza dunque mettere in luce il ruolo di Auguste Mariette, egittologo e autore della trama dell’opera.

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Dallo studio del francese Jean-Luc Chappaz apprendiamo che: La parte dell’egittologia nella genesi di questa opera è dunque molto grande, e tanto più importante era che questa apparisse paradossalmente discreta, naturale, e opportunamente secondaria38.

Occorre inoltre rilevare i dubbi e le perplessità dello stesso Mariette a proposito della trasposizione, in chiave occidentale, della rappresentazione dell’antico Egitto. Ecco le sue impressioni: Ma fin dalla creazione Mariette non nascose i suoi timori di vedere i suoi egiziani, così sottilmente verosimili grazie all’erudizione del maestro dell’opera che lui era, divenire delle figure grottesche e carnevalesche. E purtroppo l’avvenire immediato doveva dargli rapidamente ragione39.

Giuseppe Verdi presenta la sua Aida nel 1871, Richard Strauss compone Elena Egiziaca nel 1928. Anche all’alba del nuovo secolo continua, dunque, l’ondata di egittomania nella musica classica occidentale. Richard Strauss nasce a Monaco di Baviera l’11 giugno del 1864. Il padre Joseph era primo corno nell’orchestra del Teatro di Corte di Monaco. La madre apparteneva ad una nota famiglia di produttori di birra. Nel 1885 ricevette il suo primo incarico di direttore d’orchestra. Nel 1894 sposò la cantante Pauline de Ahna che diede alla luce il suo unico figlio, Franz. Durante la sua lunga carriera di direttore d’orchestra, lottò e vinse la battaglia legale per la fruizione, da parte dei musicisti, dei diritti d’autore. Nel 1933 Strauss accettò la presidenza della “Camera della Musica” del Reich. Ma nel 1935, a causa della sua collaborazione con un ebreo, fu costretto da Goebbels, ministro della propaganda del Terzo Reich, alle dimissioni. L’8 settembre del 1949 muore nella sua principesca residenza di Garmisch in Baviera40. Anche il compositore tedesco esprime la sua ammirazione verso l’antico Egitto attraverso la creazione di Elena egiziaca rappresentata a Dresda il 6 giugno 1928 e successivamente a Salisburgo il 14 agosto 1933. Tratta dal celebre mito che ispirò l’Iliade omerica, la storia narra l’inganno di cui è vittima Menelao che viene convinto dalla maga Aithra a non uccidere l’adultera Elena di Troia dato che la vera e pura Elena si trova in Egitto. Menelao dunque vive la sua vita felice con Elena l’egiziaca. Tuttavia ancora una volta Elena tradisce il marito e Menelao è costretto a uccidere il rivale. Elena quindi confessa la verità al marito che decide di perdonarla e di iniziare una nuova vita.

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Per Strauss quindi il ricorso al mito greco e l’ambientazione in Egitto non rappresentano altro che la cornice ideale per mostrare i sentimenti di un marito ferito che, alla fine, ritrova tutta la forza dell’amore e del perdono. Lo stesso Strauss in un’intervista del 27 maggio del 1928 apparsa su un giornale viennese dichiarava: Della musica c’è poco da dire. Ho paura che risulti melodiosa, armoniosa, e che non presenti nessun problema per orecchie che sono state educate al linguaggio dl XIX secolo41.

Sottile, dalle sue parole, emerge il riferimento alle avanguardie dodecafoniche42 che con Arnold Schönberg caratterizzano il panorama musicale europeo del Novecento. Il compositore nasce a Vienna il 13 settembre 1874 da una famiglia ebrea. Nel 1933, con l’avvento al potere di Hitler, dovette lasciare Berlino per fuggire negli Stati Uniti dove morirà a Los Angeles il 13 luglio 1951. Per il creatore della dodecafonia, rappresentare l’antico Egitto vuol dire narrare una storia di tormenti e di riscatto, musicare quindi la liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù, grazie all’intervento di Mosè e Aronne. Nasce in questo modo il Mosé e Aronne rappresentato ad Amburgo il 12 marzo 1954 e a Zurigo il 6 giugno del 1957. In questa opera particolare attenzione merita la concezione di Dio e del popolo elaborata dal compositore. Dio, infatti, è invisibile e irrappresentabile e il popolo ebraico è eletto in quanto, nonostante tutti i suoi errori, porta dentro di sé il germe della perfezione di Dio43. Ricca di originalità inoltre la trattazione del coro che, dovendo proferire la parola di un Dio invisibile, rimane anch’esso nell’ombra. Tuttavia per fare sentire distintamente le voci del coro dal fondo del palco, il compositore pensò di mettere in scena 6 apparecchi telefonici in modo tale che Dio potesse parlare al telefono! Ancora una volta dunque il paese delle piramidi turba il sonno di compositori, egittologi e studiosi in genere, mostrando di quali meraviglie e bagliori sia capace di suscitare negli animi, di quali marce trionfali sia in grado di fare risuonare, ma anche di quali perigli si debbano correre per ottenere l’ambito premio.

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1.3 Dalle avventure di Belzoni alla Mummia Gianbattista Belzoni si può considerare sia “il padre dell’archeologia” che il “padre della divulgazione archeologica”44. Per capire a fondo le motivazioni che soggiacciono dietro questi due altissimi riconoscimenti bisogna ripercorrere le tappe della vita e dell’attività di questo “colosso” dall’altezza e dalla forza eccezionale45. Una vita errabonda quella di questo strano quanto affascinante personaggio, un’esistenza piena d’amore accanto all’inseparabile moglie Sarah che lo seguirà perennemente in giro per il mondo. Una storia in cui il destino gioca un ruolo non indifferente nel guidare i passi di questo incredibile uomo. Nel 1815, infatti, arriva la notizia che segna il cambiamento definitivo di tutta la sua vita. Questa informazione giunge a Malta da un emissario del viceré egiziano che comunica alla famiglia Belzoni l’intenzione del reggente di ammodernare il paese con la costruzione di dighe per il rinnovamento dei sistemi di irrigazione dei campi. Belzoni, da esperto di meccanica idraulica, decide di partire per il paese dei faraoni per presentare la sua idea di una macchina che solleva l’acqua. Ma la sua proposta non è accolta con favore dall’amministrazione egizia e Belzoni sembra sconfitto ancora prima di cominciare. Ma il fato interviene una seconda volta in suo favore. Stringe, infatti, amicizia con Drovetti e con Burckhardt, uno dei primi esploratori della Nubia. Sarà proprio Burckhardt a mettere in contatto Belzoni con il console inglese Henry Salt che affiderà all’uomo dalla forza quasi sovraumana il compito di trasportare, per inviarlo in Inghilterra, un gigantesco busto di granito attribuito al Giovane Memnone che si trovava nella zona ovest di Tebe presso l’antico tempio conosciuto come Memnonium. L’origine di questa denominazione si deve ricercare nella parola monumento che, detta in egiziano, suona come “menu”. I turisti greci che frequentarono Tebe dal II secolo a.C. sentendo chiamare “menu” i monumenti ad ovest di Tebe, si convinsero che tale pronuncia fosse dovuta al richiamarsi da parte delle guide egizie all’antico mito di Memnone il figlio di Aurora e Titone ucciso da Achille mentre difendeva Troia. I greci avevano creduto dunque che il tempio di Tebe ovest fosse il Memnonium, una cripta della valle dei Re dove si trova la tomba di Memnone e che un secondo Memnonium si trovasse nei pressi del tempio di Abido. Oggi si sa invece che il primo Memnonium è in realtà il tempio funerario di Ramesse II, il cosiddetto Ramesseum, la tomba di Memnone è quella di Ramesse VI, e il secondo Memnonium ad Abido appartiene a Sethi I. Tuttavia che siano o no corretti i nomi attribuiti al

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tempio, e alle statue, Belzoni invia nel 1816 il busto al Cairo e di qui, attraverso Alessandria, verso l’Inghilterra dove oggi campeggia al British Museum. Ma Belzoni ha in mente una nuova complicata ed entusiasmante sfida. Vuole liberare, infatti, l’ingresso del tempio di Abu Simbel, scoperto 4 anni prima da Burckhardt ma impossibile da visitare a causa dei moltissimi detriti che ne occludono il passaggio. L’italiano riesce anche in questa impresa e redige una descrizione dettagliata del luogo. In seguito si reca a Giza dove esplora la piramide di Chefren. Nel 1823 muore in seguito ad una grave malattia tropicale contratta durante un suo viaggio in Marocco. La memoria di Belzoni si basa su una sola ma importante fonte documentaria: il suo diario intitolato Viaggio e scoperte in Egitto e in Nubia. Il taccuino di viaggio fu pubblicato per la prima volta nel 1820 dall’editore Murray, il primo a pubblicare opere a carattere divulgativo concernenti l’antico Egitto. A questo fu aggiunto il diario della moglie Sarah A trifling account of women of Egypt, Nubia and Syria. Il racconto di Belzoni raggiunge uno straordinario successo e illustra i criteri con cui vengono organizzate e condotte le operazioni di trasporto dei giganteschi monumenti egizi comprendendo anche immagini e descrizioni accurate dei monumenti. L’opera è suddivisa in tre capitoli che descrivono altrettanti viaggi dell’autore e della moglie. La prima sezione del libro è intitolata Operazioni e scoperte tra le piramidi, i templi, le tombe e gli scavi in Egitto e in Nubia. Di questa prima avventura Belzoni riferisce: Il signor Belzoni è invitato a preparare tutti gli strumenti necessari a Bulaq per rimuovere la testa del giovane Memnone e trasportarla lungo il Nilo. […] La scultura è di grandi dimensioni e potrà essere riconosciuta, 1°, dal fatto che giace con il viso rivolto verso l’alto; 2°, dal fatto che il volto è assolutamente intatto e bellissimo; 3°, da un foro praticato in una spalla che si ritiene fatto dai francesi per staccare il frammento del corpo; 4°, perché è di granito misto, nero-rosso e coperto di geroglifici sulle spalle. […] Il mio primo pensiero, trovandomi in mezzo a queste rovine, fu di esaminare il busto colossale che dovevo trasportare. […] I mezzi a nostra disposizione, portati dal Cairo a Memnone, consistevano in quattordici pali, otto dei quali furono impiegati per formare una specie di carro per trasportare il busto. […] Il 28 riprendemmo il lavoro. Quel giorno trasportammo il busto fuori dalle rovine del Memnonium. […] Il 30 riprendemmo il lavoro e il colosso procedette per centocinquanta iarde verso il Nilo. […] Il 10 e l’11 ci avvicinammo al fiume e il 12, grazie a Dio, il giovane Memno-

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ne giunse felicemente alle sponde del Nilo. […] Il 17 novembre riuscii ad imbarcare la testa del giovane Memnone. […] Il battello quindi attraversò il fiume fino a Luxor. […] Il mattino dopo partimmo per il Cairo dove giungemmo il 15 dicembre […]. Quando fummo pronti per partire per Alessandria, lasciammo Bulaq il 3 gennaio 1817 e arrivammo a Rashid, o Rosetta, il 10. Qui dovevo sbarcare il colosso per ricaricarlo a bordo di un djerm. […] Eseguito il carico, salii a bordo del djerm e giunsi ad Alessandria. […] A me non restava altro che sbarcare il fusto e farlo trasportare nel magazzino del pasha, in attesa di mandarlo in Inghilterra46.

La seconda sezione viene intitolata Viaggio sulla costa del Mar Rosso in cerca dell’antica Berenice. In questo libro Belzoni visita la piramide di Chefren e riporta le seguenti considerazioni: Gli antichi concordano con l’affermare che tali monumenti sono stati eretti per conservare i resti dei due fratelli, Cheope e Chefren, sovrani d’Egitto. Sono circondati da altre piramidi più piccole e da mausolei. Si continuano a trovare molte tombe contenenti mummie, eppure, nonostante tutte queste prove, si fanno le ipotesi più assurde: per esempio che servissero come granai. Alcuni sostengono che siano state costruite per scopi astronomici, ma non c’è niente nella costruzione che lo provi; latri sostengono che venissero utilizzate per le cerimonie sacre dei sacerdoti egizi. Queste ipotesi sono state fatte, suppongo, per spirito di contraddizione o per il desiderio di riuscire originali47.

La terza sezione si intitola Viaggio verso l’oasi di Giove Ammone e consente di gettare uno sguardo sulla personalità di Belzoni e sul suo rapporto con il paese dono del Nilo. Ecco alcuni frammenti: «[…] Infine conclusi tutti i miei affari in Egitto e, grazie a Dio, partimmo per l’Europa verso la metà di Settembre del 1819. non che il paese mi dispiacesse, perché ho invece motivo di essere riconoscente, né mi lagno dei turchi o degli arabi in generale, ma piuttosto di alcuni europei residenti in Egitto il cui contegno e la cui mentalità sono una vergogna per il genere umano. Dopo un’assenza di venti anni tornai in seno alla mia famiglia, da dove ripartii per l’Inghilterra. Mi hanno convinto a raccontare come si sono svolte le mie ricerche e operazioni in quelle terre: a questo proposito, spero che i lettori inglesi vorranno perdonare i molti errori che ho commesso in questo libro, particolarmente nell’uso della lingua inglese48.

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Belzoni incarna il mito della forza fisica, la dote che da Maciste a Sansone, da Golia a Ercole, fino ad arrivare a Stallone o Schwarzenegger, ha da sempre contribuito a formare il substrato leggendario nell’antichità come nei giorni nostri. Questa sua enorme possanza è l’origine di mille avventure sia professionali che umane. In Inghilterra, ad esempio, molto prima di partire per i suoi celebri viaggi, avendo lasciato la sua città natale, Padova, e il mestiere da barbiere nella bottega del padre, Belzoni era il “Sansone Patagonico”, un dipendente del teatro il cui compito consisteva, a circa metà dello spettacolo, nel caricarsi sulle spalle una montagna umana formata da dieci uomini da portare in giro, per il divertimento del pubblico, per tutta la lunghezza del palco. Girando per l’Europa l’uomo forzuto portò in scena questo spettacolo in vari teatri riuscendo a stupire il pubblico anche esibendo un complesso di fontane con un sistema idraulico di sua invenzione. Belzoni dunque era un uomo umile, una persona non solo di grande forza fisica ma anche di ingegno e talento nella risoluzione dei problemi legati al trasporto, alla tutela e alla valorizzazione di preziosi beni culturali come quelli egizi. Un uomo arguto che sapeva leggere nell’animo delle persone spinte solo dalla smania di denaro, di potere e ricche solo dei loro pregiudizi. Un lavoratore instancabile che ammirava le antichità e voleva farle conoscere al mondo. Se dunque con Belzoni la divulgazione dell’antico Egitto conosce la sua prima alba, quasi un secolo dopo, la storia della patria di Cleopatra si intreccia inestricabilmente con quella del cinema. Denominatore comune, sia al gigante che ai percorsi della settima arte, è l’avventura, la voglia del grande pubblico di partecipare agli intrighi, alle sfide, al pericolo di tanti uomini e donne che all’Egitto hanno dedicato la vita. Tuttavia, come sottolinea Giacovelli49, i rapporti fra il paese delle piramidi e la settima arte sono molto più antichi della nascita del cinema in senso stretto. Dopo la Rivoluzione francese, infatti, seguendo la moda delle lanterne magiche, a Parigi e a Londra chiunque poteva ammirare immagini che trattavano direttamente o indirettamente temi concernenti la storia nilotica. Celebre per le sue fantasmagorie, E.G. Robertson, pittore e fisico belga, coltivò la bizzarra idea di utilizzare per le sue proiezioni una

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cappella abbandonata di Parigi simile in tutto e per tutto ad una delle tante tombe egiziane. In questo luogo tetro e solitario i parigini poterono ammirare storie di varia natura comprese alcune di stampo egittologico. Fra le vicende che richiamano il paese dei faraoni vi è la famosa storia dello scavatore di tombe che muore per la paura quando, cercando di portare via un gioiello con cui era adornata una mummia da lui scoperta, il cadavere spalanca la bocca come colto da improvvisa nuova vita. Nell’Ottocento si diffonde la moda dei panorami turistici, versioni più aggiornate e spettacolari delle lanterne magiche che si caratterizzano per le ampliate dimensioni rispetto ai loro predecessori. Fra i paesaggi che godono di maggiore interesse, vengono mostrati spesso ambientazioni egiziane. Una data merita di essere ricordata, quella del 16 luglio 1849. In questa occasione a Londra, nella sala Egyptian Hall, viene proiettato un panorama del Nilo suddiviso in due parti. Nella prima parte veniva ad essere illustrata la lunga percorrenza lungo la riva dei morti. Nella seconda parte il viaggio di ritorno lungo la riva orientale. Al centro dello spettacolo venivano mostrate delle scene ambientate all’interno di un tempio ad Abu Simbel. Con la nascita del cinema, l’egittomania dilaga, dando forma a celebri teatri, come il “Grauman’s Egyptian” di Los Angeles, decorati con finti geroglifici e sfingi. Inoltre le prime sale cinematografiche erano tutte percepite come vere e proprie tombe per via sia del buio che le circondava che per il silenzio prodotto dal cinema “muto”. Scendendo nel mondo delle allegorie e della psiche, lo spettatore sentiva di partecipare ad uno spettacolo dai chiari connotati pittorici, un mondo privo di suoni che parlava attraverso una sorta di geroglifici rivelati dalla luce. Inoltre non bisogna dimenticare il sottile filo rosso che lega una pratica come la mummificazione, che consente di conservare nel tempo il corpo del defunto, e le immagini cinematografiche, attraverso le quali l’umanità esercita il suo potere sul tempo, rendendo quasi immortale ciò che per definizione è fugace e momentaneo. Ma altri legami ben più visibili legano il mondo faraonico e il cinema europeo dei primordi. Abbiamo già menzionato la Egyptian Hall a Londra, ora scopriamo che, oltre a custodire gelosamente alcune mummie nei sotterranei, fu teatro di molti spettacoli di magia egizia oltre che di proiezione di film.

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Georges Méliès, futuro padre del cinema di fantasia, ne rimase profondamente colpito al punto tale da essere il pioniere nella creazione del primo film sull’Egitto. Méliès nasce a Parigi nel 1861 da una famiglia benestante. Nel 1888 cede la sua quota del patrimonio paterno al fratello e con il ricavato acquista il teatro “Robert-Houdin”. Nelle sue sale vengono proposti spettacoli di carattere fantastico e misterico. Volendo costruire una “illusione di realtà” sempre maggiore, nel 1896 costruisce un kinetografo, un apparecchio che permette la proiezione di fotografie animate. Nasce così la storia del cinema! La concezione della realtà e del cinema sono per Mèliès improntate alla meraviglia, all’illusione ottica, al mistero non svelato. Il cinema, in altri termini, doveva visualizzare l’impossibile, concretizzare l’irreale50. Si comprende bene allora il perché il fondatore della storia del cinema rimase affascinato dall’antico Egitto e creò nel 1899 La Val de la tombe de Cléopatre. Già dal titolo emerge chiara la direttrice attraverso la quale la terra dono del Nilo entra nella cinematografia europea. I tre temi privilegiati sono: orrore, morte, misteri. Sempre dello stesso autore nel 1900 Les Mésaventures d’un explorateur nel quale non si mette in scena una mummia vera e propria ma un divertente scheletro, con il casco da esploratore, che esce fuori da un sarcofago egizio disegnato molto finemente. Nel 1908 Méliès conclude la sua trilogia sul tema con il film La Prophétesse de Thèbes che mostra una corte faraonica concepita secondo i canoni estetici tipici della belle époque. Accanto alla trilogia appena citata occorre affiancare tutta l’importante produzione ispirata alla storia biblica, importantissimo veicolo cinematografico per accrescere l’egittomania degli europei del tempo. Fra il 1902 e il 1905 la Pathé Fréres produce La vie et la passion du Christ in cui vengono mostrate delle sequenze filmiche riguardanti la permanenza della sacra famiglia in Egitto. Con Marcantonio e Cleopatra (1913), per la regia di Enrico Guazzoni, la cinematografia egittizante approda in Italia compiendo un vero e proprio prodigio. Il segreto del successo di questo film è da rintracciare nel fatto che Gli amori di Marcantonio e Cleopatra, oltre ad essere di per se stessi uno dei soggetti più passionali della storia, si prestavano magnificamente alla ricostruzione della vita che si menava nella fastosa corte dei Tolomei, con scene di intimità piene di fascino per il loro sfarzo. Ogni parte di questa ricostruzione è stata da me studiata con maggiore scru-

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polo, sui luoghi, nei musei, nelle biblioteche. Compiuto questo studio una legione di artisti e operai della Cines si sono accinti al paziente lavoro di ricostruire parti intere di città, palazzi, monumenti, aule, saloni, fontane, vasche, mobili, armi, vestiari, in modo che ogni cosa corrispondesse alla più assoluta verità storica51.

Il film si inserisce perfettamente nell’evoluzione della cinematografia italiana che, ai primi del Novecento, si afferma sempre di più nel campo del film “storico” e “in costume”. Le ricostruzioni storiche e mitologiche, dai poemi omerici al mondo romano, ricalcano la volontà di proporre un cinema dove grande predominanza viene data alle scenografie, la recitazione è spiccatamente teatrale, e la narrazione è magniloquente e pomposa. Il film storico italiano si caratterizza inoltre per la contaminazione dei fatti narrati con elementi tratti dalla letteratura romanzesca e popolare e indugiando spesso ad una rappresentazione “naturalistica” di fatti e personaggi. Esponente di rilievo di questa cinematografia fu proprio Enrico Guazzoni di cui si ricorda il Quo Vadis del 1912 e il già citato Marcantonio e Cleopatra. Il suo approccio al cinema fondeva abilità tecnica e uno falsa cultura artistica e letteraria che rifletteva alla perfezione il gusto dell’epoca, sempre diviso fra il kitsch e il mondano52. Dall’illusionismo francese, alla storia in costume italiana, l’egittomania attraversa l’oceano per approdare in America dove il paese dei misteri viene strumentalizzato per scopi più commerciali e veniali. Qui, infatti, la Kalem, importante casa cinematografica, pubblica nel 1912 un calendario poromozionale che ha come scopo quello di pubblicizzare il lavoro dei propri impiegati in tutto il mondo. Sulla copertina di questo calendario la Sfinge, le Piramidi di Giza e un cammello, rappresentano l’Egitto e vengono posti in simbolica connessione con il sole, simbolo della compagnia, ma anche emblema del disco solare del dio Aton. Nel 1909, con il film The Egyptian Mystery, entriamo nel mistero. La trama racconta, infatti, di un magico amuleto, trovato in una tomba egizia, che permette a chiunque lo porti di fare scomparire qualunque cosa. Spettacolare la scena finale del film che mostra un ladro che indossa il ciondolo e toccando la sua immagine allo specchio fa sparire se stesso, il ciondolo, lo specchio ma anche l’intero film. Nel 1911 è la volta di The Mummy, storia di una danzatrice morta per una scossa elettrica che, divenuta mummia, sposa il suo possessore.

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La fortuna delle mummie nel cinema americano continua inarrestabile, in quanto, secondo André Bazin, alle origini di questa cinematografia si situerebbe il “complesso della mummia” ossia il bisogno di vincere la morte con qualcosa di fisicamente perenne. Fra il 1912 e il 1915 quindi il cinema statunitense mette in scena The Egyptian Mummy, The Mummy, La Mummia e i Guardiani, La Mummia e il Colibrì. Tornando in Europa, l’egittomania viene interpretata dai tedeschi come celebrazione del culto delle mummie realizzata attraverso la creazione del Golem protagonista del celebre film di Wegener e Boese. Il Golem è un mostro, nella tradizione ebraica, che cammina come una mummia uscita dal fango. Il ritrovamento del busto di Nefertiti ispira Ernst Lubitsch a girare, nel 1918, Gli occhi della Mummia. Il film inizia con la scena di un pittore inglese che vede aprirsi gli occhi della mummia Mâ. Sembrerebbe preannunciare un film horror, ma in realtà il proseguo della pellicola mostra la natura di trhiller della storia narrata. La mummia, infatti, appartiene ad un ragazza prigioniera del guardiano della tomba. Liberata dalla sua prigione la giovane ballerina andrà a Londra e il guardiano dovrà accontentarsi soltanto di deturpare un suo ritratto. Nel 1921 esce, sempre per la regia di Lubitsch, Theonis: la donna dei faraoni che racconta l’amore fra il figlio dell’architetto di corte e Theonis. Sorpresi in intimità il giovane architetto e la schiava vengono condannati a morte, ma il faraone, colpito dalla bellezza di Theonis, se ne innamora e le evita la condanna a morte. Salita al trono il suo destino sarà segnato. Il popolo egizio decide infatti di sacrificarla agli dei in occasione della guerra contro gli Etiopi. La donna morirà di terrore sul trono. Nato a Berlino nel 1892 il regista Lubitsch crebbe in una famiglia piccolo-borghese divenendo ben presto attore di teatro durante la Prima guerra mondiale. Nel 1918 lasciò per sempre il teatro e si dedicò alla regia cinematografica privilegiando l’importanza della recitazione e della messainscena. La fama di Lubitsch rimane legata al filone storico in cui il cinema storico all’italiana viene reinterpretato alla luce di elementi quali: le scenografie, i ritmi visivi e il gioco degli attori. Lubitsch appare chiuso in una concezione individualistica della vita, lontana dalla volontà di rappresentare le contraddizioni della Germania nel primo dopoguerra. Il suo cinema appare dunque astorico ed edulcorato sul piano della rappresentazione dei contrasti ideologici e sociali. Appare dunque chiaro il suo interesse per l’antico Egitto che gli permette di creare dei film

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totalmente affabulati, edonistici, con situazioni condotte fino all’assurdo. Il regno delle piramidi si presta perfettamente per cogliere quella sottile solitudine di tutto il suo cinema, quella malinconia impercettibile che fa da sfondo a tutta la sua opera53. Dopo la malinconia celata dietro l’edonismo della Theonis di Lubitsch, una donna stava entrando prepotentemente nel cuore degli uomini del Novecento: Cleopatra. Si ricorre alla sua figura per svariati motivi: in primo luogo per il suo decisivo coinvolgimento nella storia romana, in secondo luogo perché anche il grande William Shakespeare l’ha scelta come eroina di uno dei suoi drammi, Antonio e Cleopatra (1606), infine perché nella sua vicenda si intrecciano tutti gli ingredienti dell’immaginario collettivo: bellezza, seduzione, intrighi, amore, passione, morte, mondanità. Del 1917 è il capolavoro di J.G. Edwards, Cleopatra rimasto nella storia del cinema per i meravigliosi costumi di G.J. Hopkins che, con essi, inaugurerà lo stile night club Egyptian décor. La mitica diva Theda Bara, nel ruolo di Cleopatra, proprio in questo film sfoggerà un sontuoso abito di piume di pavone che farà epoca. La scelta sia dell’attrice che dell’abito non fu affatto casuale. Ne spiega le ragioni Giacovelli che così argomenta: Figlia della Sfinge, nata sotto la sua ombra e con apparenza umana, tanto bizzarra nel sangue quanto cosmopolita nella mentalità, Theda aprì i suoi occhi distruttivi in un’oasi del Sahara54.

Per rafforzare il parallelismo fra Theda e l’Egitto in varie immagini pubblicitarie dell’epoca la diva è paragonata alla Sfinge e accompagnata da indecifrabili quanto falsi geroglifici. Negli anni Venti la terra delle piramidi viene rappresentata dal kolossal biblico di Cecil B. De Mille con il suo I dieci comandamenti in cui prevale una rappresentazione molto cupa, con uomini corrotti e crudeli come Ramesse, e con i loro dei del tutto impotenti di fronte al dio di Mosè. Risulta emblematico l’impegno che lo scenografo Iribe mise nella ricostruzione di un palazzo di Ramses preceduto da un grandioso viale con 24 Sfingi. Tutta l’opera di Cecil De Mille si inserisce perfettamente nella nascente “industria” cinematografica hollywoodiana. Durante gli anni della Prima guerra mondiale l’isolamento geografico americano, la lontananza dalle operazioni di guerra europee, fecero sì che Hollywood divenisse la vera e sola capitale mondiale del cine-

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ma: la sola a potere imporre al resto del pianeta la propria particolare concezione del cinema. Hollywood si appropriò di miti e ne creò di nuovi, con il “divismo” di attori e attrici, vissuti, dalla gente comune, come dei della mitologia cinematografica che fondevano vita e arte. Compito di questi nuovi “eroi di celluloide” sarebbe stato quello di fare dimenticare le incertezze del presente, l’orrore della guerra, favorendo la creazione di un cinema di puro consumo, divertimento ed evasione, in cui Theda Bara simboleggia il trionfo della femminilità e della sensualità, emblema di donna conturbante e aggressiva che rimase costante anche nei decenni successivi. L’eclettismo di questo nuovo modo di fare cinema è presente anche nella produzione di De Mille che cura la regia di opere comiche, drammatiche, ma anche commedie a sfondo erotico, per cambiare ancora una volta direzione con il film storico I dieci comandamenti, in cui troviamo uno stile che ha interiorizzato la grande lezione del film storico italiano, ma anche quella del cinema di Griffith, basando tutto il successo dell’opera su grandiose scenografie, l’uso di moltissime comparse, il ritmo narrativo ad incastro e una storia popolare molto attraente55. Ma gli anni Venti non segnano soltanto il consolidamento di Hollywood, caratterizzandosi per una grande scoperta che cambierà per sempre il corso dell’egittologia. Nel 1922 Carter rinviene la tomba di Tutankhamon anche se di questa straordinaria scoperta ne troviamo traccia solo nel film del 1923 L’Ottava moglie del re Tutankhamnon. La cosa più sorprendente è che la più eclatante scoperta dell’egittologia novecentesca, avvenuta tra l’altro per un insieme di fatalità davvero impressionanti, non abbia suscitato la creazione di un nuovo filone cinematografico. Quello che invece rimarrà nella storia e darà il via ad una grande fioritura cinematografica visibile ancora oggi è il tema della mummia. Questo tema viene reso magistralmente da Karl Freund con il suo La Mummia uscito nel 1931. La storia narra di due esploratori che si recano a Tebe e scoprono la mummia del sacerdote ImHoTep, infatti, a cui restituiscono la vita leggendo un papiro. Il sacerdote era stato sepolto vivo a causa del suo amore per la principessa AnckesenAmon. Le caratteristiche che rendono unico nel suo genere questo film possono essere riscontrate in: a) l’eccellenza del regista, considerato il più grande esponente del cinema espressionista tedesco; b) la grandiosa interpretazione di Boris Karloff, vera e propria star fra gli attori tede-

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schi dell’epoca; c) la grande cura dei costumi come l’abito della mummia realizzato con 14 metri di stoffa e il trucco di Karloff che richiedeva 6 ore di lavoro al giorno; d) la grande poesia che si cela dietro questo classico del cinema dell’orrore; e) la capacità del regista di fare percepire a chi guarda l’emozione dell’eterno amore, del sentimento che sconfigge il tempo, dell’impossibilità di un amore in terra che diventa l’unica condizione perché questo amore sia possibile in un’altra dimensione e per sempre. Dopo il successo di questo film, a sua immagine, nascerà il Ciclo di Kharis, una saga in tre parti composta da The Mummy’s Tomb di Harold Houng del 1942, nel quale viene raccontata la vendetta della mummia Kharis che, inopportunamente svegliata, va a vendicarsi dei sopravvissuti a casa loro, negli States. Segue The Mummy’s Ghost di Reginald LeBorg del 1944 che narra la ricerca da parte del fantasma della mummia della creatura nella quale si è reincarnata la principessa Ananka. Sempre nel 1944 ad opera di Leslie Goodwins esce The Mummy’s Curse, film che illustra le vicende di Kharis e Ananka, tornati in vita per la quarta volta, e residenti in Louisiana dove portano regolare e inevitabile scompiglio. Prodotto dalla Fox, ottavo film della serie di Charlie Chan, creato da Louis King nel 1935, il Segreto delle Piramidi mostra un detective cinese alle prese con un morto che, anziché uscire dal sarcofago, vi finisce dentro. L’uomo in questione è un archeologo di cui non si hanno più tracce dalla scoperta della tomba del sacerdote Ameti. Lo scienziato verrà ritrovato cadavere proprio nel sarcofago di Ameti. Il tono del film è decisamente diverso dagli altri, in quanto non ci sono eventi soprannaturali, vengono solo messi in scena crimini e criminali, che turbano l’ordinaria amministrazione americana. Solo Chan può risolvere i misteri e per farlo mette in campo intelligenza, una pistola e qualche proverbio. Contagiati oramai senza ritorno dal virus dell’egittomania, i desideri americani vengono appagati dall’ennesima Cleopatra di Cecil B. De Mille che, nel 1934, porta in scena una falsissima rappresentazione della terra nilotica facendo abitare la regina in un palazzo egizio ma dal chiaro arredamento art déco, con dei costumi tanto sensuali quanto volgari che mettono in mostra sirene, donne-leopardo, odalische in reggiseno e piume di pavone. Ma il film fa di più, mostrando i segretari di Cesare che scrivono con penne d’oca e inchiostro, e la regina che viene portata a Roma avvolta in un tappeto turco!

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Il dilagare dell’egittomania si diffonde anche attraverso il cortometraggio musicale del 1931 di Joseph Santley dal titolo Oh! Oh! Cleopatra! recitato e cantato dai comici Wheeler e Woolsey. Nascono anche alcune parodie come Mummy’s Boys di Fred Guiol (1936) e Il tesoro dei faraoni di Roy Del Ruth (1934). In questa ultima commedia assistiamo divertiti e preoccupati alle disavventure di un giovane newyorkese che eredita un tesoro egizio. Durante la Seconda guerra mondiale, per fini propagandistici, ci si serve anche dell’antico Egitto. Vengono abbandonate mummie e regine e, sullo sfondo del Nilo, vengono girati film nazisti come Avventura al Cairo di W.S.V. Dyke (1942), una commedia degli equivoci di chiaro stampo propagandistico in cui la protagonista si finge una spia nazista, ma anche I cinque segreti del deserto di Billy Wilder (1943), film di spionaggio con alcuni spunti umoristici e con Erich Von Stroheim nel ruolo di Rommel. Finita la guerra la grandezza dell’Egitto viene usata da una nuova grande potenza: gli Stati Uniti d’America. Si tenta ora di nascondere le falsità sotto un velo di vaga storicità. Nel 1954 vede la luce il film Sinuhe l’egiziano che, come già detto, ha pochi punti di contatto con la storia vera di Sinuhe tramandataci dai papiri. Nella finzione Sinuhe e Horemheb salvano il faraone da un leone e vengono premiati da questi diventando Sinuhe medico di corte, e Horemheb ufficiale dell’esercito. Nel frattempo Sinuhe si innamora della babilonese Nefer e torna in patria alla vigilia della guerra con gli Hittiti. La violenza, però, è aborrita dal faraone e questo suo rifiuto scatena l’odio di coloro che vogliono la guerra, fino a spingerli a chiedere a Sinuhe, medico del re, di avvelenarlo. Il medico esegue l’ordine ma viene convertito dal faraone, prima di morire, al culto del dio Aton. In questo modo anche Sinuhe dovrà fuggire in quanto perseguitato. Scopo della complessa trama è quello di spiegare al popolo americano degli anni Cinquanta la problematica transizione della religione egizia, da politeista a monoteista. Questa transizione è visibile, per l’appunto, dal passaggio dall’adorazione di molti dei all’unico dio Akhenaton. Il passaggio viene letto da molti americani come una prima tappa verso il cristianesimo. Nel 1955 è la volta di Hawks con La regina delle piramidi dove viene messo in scena il tentativo della seconda moglie di Cheope di ucciderlo per prenderne il potere.

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Ottenuto il suo scopo la malvagia regina farà seppellire il corpo nella famosa piramide ignorando, tuttavia, la tragica tradizione che prescrive che la moglie deve essere seppellita insieme al marito finendo così i suoi giorni sepolta viva. Dopo 33 anni, De Mille ripropone il remake de I Dieci Comandamenti (1956) in cui gli ebrei sono i buoni e gli egiziani i cattivi. Memorabile soprattutto l’effetto speciale dell’apertura delle acque del Mar Rosso, che valse a John Fulton l’Oscar. Ma parlare di egittomania nel cinema non vuol dire occuparsi solamente di cinematografia americana. Nel nostro paese Carlo Campogalliani dirige nel 1959 Maciste nella Valle dei Re dove il giovane eroe aiuta un inventato faraone di nome Kenamum a liberarsi degli invasori persiani. Con Sepolcro dei re (1960), Fernando Cerchio racconta la storia di una regina sepolta viva insieme al marito ucciso in un complotto. Tuttavia, in questo caso, la donna riesce a resuscitare in carne e ossa, e non come mummia, in virtù di un filtro magico che provoca la morte apparente, come in Romeo e Giulietta. Anche attraverso Nefertite regina del Nilo, sempre di Cerchio, assistiamo alla costruzione di un film sulla falsariga del melodramma. Viene raccontata la storia d’amore fra Nefertiti e Tumos. Il loro amore è ostacolato dal matrimonio imposto alla giovane con il faraone Amenophis IV. Quando il faraone muore, la regina può tornare da Tumos. Se con questo film il regista non vuole distaccarsi eccessivamente dalla realtà storica, Giorgio Ferroni vuole invece cavalcare solo le ali della fantasia. Ne Il Leone di Tebe (1964) viene narrata l’incredibile vicenda di Elena e Menelao e del loro viaggio alla volta dell’Egitto per andare in visita da Ramesse. Il faraone si innamora di Elena e viene ucciso. La colpa viene fatta ricadere su Elena e Menelao. Non si tratta di una parodia ma di un film serio! Piegata al gusto tipicamente italiano, una promettente e prosperosa Sophia Loren venne impiegata nel film d’opera Aida in cui viene negata qualsiasi convenzione teatrale annullando l’esiguità del teatro, preferendo immagini all’aperto. Ciò che risalta è il realismo nella presentazione del corpo, stabilendo un rapporto diretto tra la psicologia del personaggio e la sua corporatura56. Il decolleté prosperoso e mediterraneo della Loren è funzionale ad una rappresentazione dell’interiorità della donna basata su valori genuini e tradizionali.

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Doppiata dalla cantante Renata Tebaldi, la Loren diede di Verdi e dell’Egitto una rappresentazione fumettistica che però piacque in Italia e nel mondo. Ma non solo Aida fu la donna dell’egittomania. Anche Cleopatra, con le sue intricate vicende sentimentali, ispira l’ilarità e lo scherno dei nostri due più grandi comici, Alberto Sordi e Totò. Nel film Due notti con Cleopatra di Mattoli (1954) Sordi incontra Cleopatra-Sophia Loren. Quanto a Totò nel suo Totò e Cleopatra di Cerchio (1963) il protagonista conosce e si innamora di Cleopatra-Magali Noël, mentre in Totò e Maciste si ride a partire dai nomi egizi-napoletani di Totokamen (Totò) e Tarantenkamen (Nino Taranto). Totokamen è l’uomo più forte del mondo mentre Maciste è innamorato di Nefertite ma viene circuito dalla stessa moglie del faraone. Inseriti nel pieno clima neorealistico italiano, i film con Sordi e Totò mostrano una chiara opposizione al cinema impegnato, preferendo una filmologia popolare, senza preoccupazioni intellettualistiche, senza riflessi politici anche se impregnata di spunti di carattere sociale, del costume e dell’ideologia dominate. Trattegiati con maestria impagabile, i personaggi di Totò vivono situazioni dozzinali, carratterizati da una forte carica corrosiva e polemica, creati su modello della beffa, dello sberleffo, dell’invettiva verbale, della comicità volgare e plebea. Interpretato da questi due maestri l’antico Egitto viene piegato da una clava scagliata contro il perbenismo ipocrita e il conformismo della società borghese57. Negli anni Settanta e Ottanta solo pochi film meritano di essere menzionati. Fra questi I predatori dell’arca perduta di Spielberg, che comprende alcune sequenze sull’archeologia egizia. Stephen Spielberg appartiene alla schiera di giovani registi che, negli anni Sessanta e Settanta, contribuisce a rilanciare Hollywood dopo la crisi industriale e commerciale che investì la vecchia cinematografia a causa dell’introduzione nella vita quotidiana del piccolo schermo, ma anche con la rivoluzione portata avanti dal neorealismo e dalla nouvelle vague che avevano imposto un cinema elitario e impegnato. Grazie a Spielberg, Coppola, Lucas, Scorsese il cinema americano risorse dalle sue ceneri, ricominciando a creare film di puro divertimento ed evasione. Nato nel 1947 Spielberg era socio in affari di Lucas e nei suoi film

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la realtà, futura o passata, è rappresentata con uno stile ironico e coinvolgente, ma soprattutto altamente spettacolare. In I predatori dell’arca perduta (1981), primo film della trilogia di Indiana Jones comprendente anche Indiana Jones e l’ultima crociata e Indiana Jones e il tempio maledetto (1984), il regista crea uno spettacolo per tutti, interiorizzando la lezione di Walt Disney, e cimentandosi con un tipo di film sempre più fantastico e fiabesco, che lascia spazio alle emozioni e alla spettacolarità58. Se per Spielberg il riferimento all’Egitto si colora di fiaba, negli anni Novanta l’egittomania diventa fantascienza. Nel 1994 Ronald Emmerich gira il film Stargate in cui si racconta il ritrovamento presso la Piramide di Cheope di una “porta delle stelle” che conduce in un regno lontanissimo dalla terra, dominato da un faraone immorale e crudele. Il film si concluderà con la ribellione e la vittoria finale degli “umani” contro il tiranno. Con questo film ritorna in auge la nuova egittologia esoterica che porta avanti l’idea che le Piramidi non siano opera dell’uomo ma di civiltà aliene. Dal film vengono tratte tre serie di telefilm: Stargate SG-1, dove si narra la commistione tra geroglifici, piramidi, alieni e viaggi interstellari, Stargate Atlantis che aggiunge alla precedente la scoperta e ricolonizzazione di Atlantide da parte di alcuni scienziati e Stargate Universe, dove i protagonisti sono pseudo-prigionieri in una nave interstellare costruita dagli antichi. Vengono composte anche commedie divertenti e innocue come Natale sul Nilo di Neri-Parenti, con la coppia Boldi-De Sica (2002). Con La Mummia di Stephen Sommers molta cura è riservata all’attendibilità di quanto raccontato. Il regista si avvale di un docente di egittologia che lo aiuta anche nella scrittura dei dialoghi in egizio antico per trovare la pronuncia che si avvicina il più possibile a quella di 3.000 anni fa. Molto più accurata nei dettagli, molto più spettacolare, questa nuova Mummia di fine millennio stupisce ma non commuove, mancando l’intera storia di poesia. Anche ne La Mummia, il ritorno di Sommers del 2001 lo sfondo è ancora più improbabile mettendo in campo il dio Anubi e un libro dei morti che dà la vita e un libro dei vivi che dà la morte. Adesso si mettono in scena mummie-soldato e anche le mummiepigmeo molto simili ai “gremlins”. Inoltre il duello, sexy e appagante, fra Rachel Weisz e Patricia Velasquez è l’emblema del kitsch antico-

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egiziano. In ambedue i film, secondo Giacovelli, domina il clima di una incipiente americanizzazione, un’aria di banalizzazione delle culture antiche, ma soprattutto sembra essere scomparsa quell’aura di eternità, di vita dopo la morte, di amore immutabile dei primi film. Se nel 1932 Boris Karloff ne La Mummia di Karl Freund diceva a Zita Johann: «AnckesenAmon, il mio amore per te ha resistito più a lungo dei templi degli dei», ne La Mummia del 2001 Anksunamun non salva il suo amato che sta precipitando negli inferi, mentre l’odiosa bibliotecaria Weisz salva il suo uomo avido e spaccone. La famiglia piccolo borghese ha invaso il mondo degli amori eterni e i templi degli dei! 1.4 Da Mariette e Carter all’archeologia eretica La figura di Mariette si pone in rapporto alla nascente egittologia come l’anima razionalizzatrice, il primo organizzatore e legislatore per tutela del patrimonio culturale egiziano59. Solo grazie a Mariette viene definitivamente a tramontare la grande epoca dei consoli che, per tutto il Diciottesimo secolo, avevano depredato il paese dei faraoni offrendo ingenti e inestimabili collezioni ai musei di tutta Europa. Il grande archeologo si fa, infatti, promotore della fondazione del “Museo del Cairo”, che apre i battenti nel 1857 diretto dallo stesso Mariette, e raccoglie tutti i reperti ottenuti grazie alle campagne di scavo organizzate in tutto il paese. La fondazione di questo museo è, però solo una delle tre imprese per le quali lo studioso è ricordato nella storia. Ad essa si affiancano l’istituzione del concetto e della pratica concreta di tutela delle antichità e la scoperta delle maggiori aree archeologiche del paese. Tuttavia è la creazione del Museo la sua opera più importante, originariamente ospitata in un edificio preesistente nel quartiere di Bulak, poi trasferito a Giza e infine, dal 1902, nella sua sede attuale di Kasr-en-Nil. Ma Mariette è prima di tutto un valente archeologo e lega quindi il suo nome a molte grandiose imprese come gli interventi sul territorio di Tanis, gli studi dell’area intorno alle piramidi a Giza, le ricerche su Saqqara, sulle mastabe dell’Antico Regno, sui grandi templi di Abido, sul tempio di Dendera, sull’immenso santuario di Karnak, sui cimiteri e i templi di Deir-el-Bahari. Valido successore di Mariette è Gaston Maspero che dirige il Museo del Cairo dal 1899 al 1914. Grazie a questo ultimo viene creato un Istitu-

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to di Stato per il consolidamento della tutela del patrimonio egiziano. Questo organismo, formato da inglesi e francesi a cui si aggiungono studiosi egiziani, conosciuto con il nome di “Servizio per le Antichità Egizie”, è composto da una Direzione Generale e da tre ispettorati: Alto, Basso e Medio Egitto, a cui si aggiungono due direzioni speciali di Karnak e Saqqara. Ma i meriti di Maspero non si fermano qui. Egli intuisce, infatti, che una buona attività sul campo deve essere supportata da una solida rete di ricerca e a questo scopo fonda nel 1900 la rivista “Annali del Servizio per le Antichità Egizie”, in cui si raccolgono i resoconti delle varie attività e scoperte archeologiche. Maspero inoltre è l’artefice della nascita del “Catalogo generale del museo del Cairo”. Nel 1914 questo catalogo conta già 40 volumi. Inoltre, per preparare adeguatamente gli archeologi, nel 1880 fonda “l’Ecole du Caire” che ricalca il modello delle scuole di archeologia di Roma e Atene. La fondazione di scuole di specializzazione in campo archeologico di stampo egizio viene accolta come una sfida anche nel resto d’Europa. In particolare la sinergia fra l’istituto francese e quello tedesco consente di stabilire al Cairo una missione archeologica stabile che permette ancora oggi di accompagnare le varie fasi della ricerca, e di evitare le lungaggini burocratiche connesse con le attività di scavo temporanee. Da Mariette e successivamente da Maspero prende avvio una poderosa macchina organizzativa che mira a creare centri di eccellenza e riviste specializzate per la divulgazione della cultura egizia al resto del mondo. Tuttavia non bisogna dimenticare che la materia prima sulla quale poggia questa imponente organizzazione è l’archeologia egizia con i suoi monumenti e i tanti misteri ancora da svelare. Anche in questo campo, e prima ancora di divenire il massimo esperto di tutela e conservazione del patrimonio, Mariette lascia il segno nella storia intraprendendo una serie di esplorazioni archeologiche ancora oggi memorabili. Due sono le imprese che più di altre meritano di essere ricordate: lo scavo del Serapeo di Menfi e la scoperta delle mummie reali a Deir-el-Bahari60. La prima scoperta si lega alla circostanza che vede lo studioso partire per la terra dei faraoni con l’incarico di acquistare manoscritti copti. L’impresa fallisce per via della diffidenza dei monaci che custodiscono i documenti che, avendo da poco subito un furto, non si fidano nel fare entrare gli stranieri nel convento e nelle loro biblioteche, impedendo così allo studioso di compiere la sua missione. Ma la forza d’animo, la tenacia di questo grande archeologo fanno sì che non si dia per vinto e decida di utilizzare i soldi in un altro modo. Nel 1850 giunto a Saqqara si accorge di una sfinge in parte coperta dalla sabbia. Inizia così lo scavo che lo porterà ala scoperta del Serapeo di Menfi, l’antica necropoli dei “tori api”.

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Da questo momento in poi comincia l’ascesa del bibliotecario che improvvisamente diviene uno dei più importanti archeologici della sua epoca. Ottenuti i finanziamenti dal governo francese, e grazie ad accordi diplomatici fra le autorità dell’Egitto e della Francia, riesce a portare a termine i suoi scavi. Nel 1858 è nominato “maamour” ovvero direttore degli scavi in Egitto, con il preciso incarico di reclutare uomini e mezzi per le attività sul campo, potendo contare su un costante rifornimento di denaro da parte del governo egiziano al fine di garantire al paese dei faraoni la tutela, ma soprattutto la conservazione nel loro luogo di origine di tutti i reperti scoperti. Si pone così fine a secoli di razzie da parte dell’Europa. Ma il compito affidato a Mariette non è semplice e la scoperta del nascondiglio delle mummie reali a Deir-elBahari lo dimostra. Nel 1858 infatti gli abitanti del villaggio di Gurnah scoprono che sotto il loro villaggio giace la tomba di un faraone e della sua regina appartenenti alla XVII dinastia. Le tombe sono ricche di oro, argento, pietre preziose, dal valore inestimabile. Accade così che i contadini, non solo di quel villaggio ma di tutto l’Egitto, avendo acquisito, dall’osservazione degli archeologi al lavoro, le tecniche di scavo, saccheggiano in lungo e largo le tombe di tutto il paese. Nel 1881, divenuto direttore degli scavi alla morte di Mariette, Maspero scopre che alcuni ricettatori di oggetti d’arte rubati piazzano sul mercato alcune statuette blu chiamate “ushabti”. Da questo indizio ne deduce che gli oggetti debbano provenire da una tomba ancora sconosciuta e saccheggiata da poco tempo. Si mette quindi sulle tracce di Mustafà Agha Ayat, mercante di antichità e agente consolare per conto di paesi come l’Inghilterra, il Belgio e la Russia. Per questa professione Ayat gode dell’immunità riservata ai diplomatici, caratteristica che però non ferma Mariette e Maspero che lo trovano scoprendo tuttavia che è solo un ricettatore e non lo scavatore clandestino. Continuando nelle indagini i sospetti si condensano su Mohammed Abder Rassoul, un dipendente di Mustafà, che viene arrestato. Il soggiorno in carcere lo convince a confessare il luogo dove ha scoperto un nascondiglio di mummie e oggetti di ogni genere. Viene così alla luce, a 11 metri di profondità, una camera funeraria dove sono contenute le mummie dei più prestigiosi faraoni della XVIII e XIX dinastia: Ahmosi, Thutmosi I, II, III, Amenofi I, Ramesse I, II, III, Nefertari, Hatshepsut, Aahotep. Ma la conoscenza dell’Egitto e dei suoi tesori non sarebbe completa senza Howard Carter, autore del ritrovamento della tomba e del tesoro di Tutankhamon61. Nel 1892 il giovane scopritore della tomba in questione viene incaricato, essendo un disegnatore professionista, di

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dipingere i bassorilievi del tempio di Menthotpe a Deir-el-Bahari. Scopre così, o per meglio dire rimane folgorato, dalla visione della Valle dei Re, tanto da convincersi a chiedere al ricco americano Davis un finanziamento per iniziare gli scavi in questa regione. Animato da un fede incrollabile e nella certezza che ci siano ancora tombe reali da trovare, scopre le tombe della regina Hatshepsut e di Thutmosi IV. Ma, a causa di alcuni dissapori con il console di Inghilterra, è costretto a dimettersi. Se non fosse per questa decisione, Carter non avrebbe potuto incontrare il secondo personaggio chiave della vicenda e quindi non avrebbe potuto scoprire la tomba che lo ha reso celebre. Questo secondo interprete è Lord Carnarvon, un ricco inglese che passa gli inverni in Egitto per evitare il freddo che potrebbe danneggiare il suo già precario stato di salute. Il nobile inglese infatti è quasi un invalido a causa di un incidente automobilistico. Sarà proprio il Lord inglese, dietro suggerimento di Maspero, che lo convince ad investire su Carter, a finanziare le attività di scavo. Dal 1912 al 1922 Carter scava e proprio quando sta per abbandonare ogni speranza il 4 novembre 1922 individua la tomba di Tutankhamon. Il 26 novembre la discesa è praticabile e Carter e Lord Carnarvon si apprestano a visitare la tomba. Tolte le prime pietre, con l’aiuto di una candela, l’archeologo guarda dentro la stanza, Lord Carnarvon incuriosito e un po’ in apprensione sussurra: Vede qualcosa? E Carter esclama «Sì, cose meravigliose!».

Ci vorranno quattro anni per rimuovere la sterminata quantità di statue, letti, seggiole, poltrone, modelli di barche, carri, armi, vasi, arche, cofanetti vari, posti in un disordine incredibile e dove ovunque brilla l’oro. Dopo questo incredibile recupero Carter arriva finalmente alla camera dove riposa la mummia del faraone, con sorpresa scopre che la testa e parte del busto sono coperti da una maschera in oro massiccio. Da questo momento in poi la giovane scienza egittologica entra nella fase della maturità, un’età, per meglio dire, dell’oro, che trionfa grazie ad un unico ingrediente: quella tenacia e quella fede incrollabile nelle proprie idee che da Belzoni fino a Carter ha permesso la conoscenza di questo incredibile paese da parte di noi occidentali. Avvicinandosi ad una terra come l’antico Egitto è scontato che emergano domande, non in cerca di autore ma di risposte. Con Mariette, Maspero, Carter alcuni enigmi sono stati risolti e divulgati al mondo. Tanti misteri però ancora oggi, come ieri, affollano le menti di molti uomini e donne in tutta la Terra. Gli enigmi più frequenti trova-

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no spesso un punto di contatto con il fenomeno UFO, ambito nel quale i “ricercatori indipendenti”, le Università e i Militari hanno pensato bene di scavare a fondo nella ricerca della verità. Il ritrovamento in Valcamonica, Uzbekistan e Perù di grotte in cui vi erano alcune pitture rupestri che raffiguravano uomini con un alone attorno alla testa, ha spinto alcuni studiosi ad ipotizzare la presenza di antichi astronauti venuti sulla Terra da un altro pianeta. Numerosi scrittori avallarono nei secoli questa ipotesi. Fra questi Al-Halabi, morto nel 1267, sostenne che le piramidi fossero state costruite dai pre-adamiti, ovvero dagli uomini che dimoravano in una “terra precedente”62. Anche i dipinti conosciuti come La Madonna col bambino e San Giovannino, di attribuzione incerta fra Sebastiano Mainardi, Jacopo del Sellaio o Domenico Ghirlandino dove sullo sfondo si intravede un oggetto volante, oppure La Santissima Trinità di Bonaventura Salimbeni del 1595, in cui la terra sembra raffigurata esattamente come lo Sputnik, il primo satellite artificiale sovietico, ma anche Il miracolo della Neve di Masolino da Panicale, dove le nuvole appaiono come dei grandi sigari nel cielo assomigliando a una parata d’astronavi, sembrano confermare l’insolito incontro non ravvicinato con entità o fenomeni non terrestri. Quando l’umanità conobbe la fisica moderna, con la scoperta dell’atomo, della teoria della Relatività di Einstein e quella dell’espansione dell’Universo di Hubble, e divenne consapevole della potenza bellica dell’Atomica, si ebbe una improvvisa accelerazione tecnologica che alimentò l’immaginazione di poter viaggiare nell’universo alla ricerca di nuove forme di vita. Nel 1938 Orson Welles mise in onda per la CBS uno sceneggiato radiofonico, La guerra dei mondi, dove descriveva, in modo piuttosto preoccupante, un’imminente attacco alieno, generando panico nella popolazione americana. La curiosità e l’incremento dell’interesse per l’ufologia fu attestata nove anni più tardi quando, nel luglio 1947, nelle campagne di Roswell in New Mexico, un agricoltore, William McBrazel, rinvenne dei frammenti di un presunto disco volante. Questo episodio è considerato il primo Ufo Crash della storia dell’ufologia. Pochi sanno che in realtà, secondo l’ufologo italiano Roberto Pinotti, la nascita dell’ufologia risale al 13 giugno del 1933 quando un presunto “apparecchio” di origine sconosciuta precipitò nelle campagne milanesi. Immediatamente il Duce avrebbe dato ordine di formare una commissione di studio in quanto pensava si trattasse di una nuova arma straniera. Nacque così il Gabinetto RS/33 con

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a capo delle ricerche Guglielmo Marconi. Dunque l’ufologia non è affatto un’invenzione americana, bensì tutta italiana. Ufficialmente però la data d’inizio della disciplina è proprio il 1947. Da questo momento in poi vari personaggi titolati come ingegneri, architetti, matematici, archeologi e semplici appassionati iniziarono a studiare il fenomeno ufologico cercando di svelarne il mistero. Tutte le ricerche sugli UFO, considerati non come astronavi aliene, ma nella sostanza stessa del temine, cioè Unidentified Flying Objects (Oggetti volanti non identificati), finirono per intrecciarsi con gli enigmi dell’archeologia. La Piramide di Cheope divenne uno dei simboli per la nascente Paleoastronautica, lo studio di possibili civiltà aliene giunte sulla Terra in tempi precedenti l’avvento dell’uomo. Gli anni Settanta vedono l’affermarsi di un nuovo fenomeno: i cerchi nel grano. Inizialmente la comparsa di figure geometriche prevalentemente circolari e perfette si verificò attorno al monumento di Stonehenge in Inghilterra per poi coinvolgere tutto il pianeta e diventare un fenomeno mondiale. Proprio vicino a Stonehenge si erge la “Silbury Hill” una collinetta singolarmente regolare che fu considerata il “punto di Archimede” per il fenomeno dei cerchi nel grano. Alcuni appassionati studiosi del fenomeno iniziarono a credere che le raffigurazioni fossero realizzate dai “Guardiani” cioè coloro che ci aiutano ad evolverci illuminandoci. In effetti si notò che la Silbury Hill aveva alcune somiglianze con alcune Ziggurat Sumere appartenenti al IV secolo a.C., sta di fatto che la collinetta inglese viene fatta risalire al 2700 a.C. e fu costruita come piramide a gradoni di pietra calcarea. Similmente nel 2700 a.C. l’architetto Imhotep costruì a Saqqarah la piramide di Zoser eretta con 6 gradoni in travertino e alta 60 metri. Il costruttore fu il responsabile dell’invenzione dei geroglifici, dell’astronomia e della medicina. Imhotep era discepolo di Thot fondatore dell’esoterismo e dio primordiale dell’antico Egitto appartenente alla stirpe divina dei Neteru. Gli Egizi ritenevano che i Neteru fossero sbarcati con le loro navi provenienti da Sud. Da queste prime osservazioni si ipotizzò che anche le piramidi a gradoni costruite dai Maya avessero in qualche modo a che fare con le grandi Piramidi dell’Egitto. Nasce così il concetto di Convergenza Architettonica con il compito di spiegare come fosse possibile che popoli così lontani avessero concepito megastrutture simili. L’ipotesi più semplice e immediata era ovviamente l’intervento di un Deus ex Machina, nel vero senso del termine, cioè l’arrivo sul pianeta Terra di una civiltà aliena che per un certo tempo ha coabitato con i primi esseri umani.

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L’archeologia eretica conosciuta oramai come Paleoastronautica dilaga a partire dagli anni Novanta diventando punto cardine di nuovi studi e nuove teorie che si basano sull’intreccio di dati archeologici, storici, tecnici, prove di laboratorio, analisi chimiche, indagini su dipinti, testi sacri e realtà incognite attuali. Punto di inizio e di arrivo della Paleoastronautica è sempre l’antico Egitto che viene studiato seguendo ogni possibile traccia, dalla più accreditata alla più fantasiosa. Inizia la lettura di alcuni geroglifici nella nuova chiave interpretativa, come per esempio il lastrone conosciuto come Le lampade di Dendera custodito nel tempio tardo tolemaico dedicato alla Dea Hator di Dendera. Alcuni studiosi fanno notare la somiglianza tra le immagini raffigurate nel bassorilievo con il Tubo di Crooks un generatore di raggi X risalente al XIX secolo. L’idea di poter generare corrente elettrica e Raggi X nell’antico Egitto pone una domanda fondamentale: gli egizi conoscevano la fisica quantistica? Dalla ricerca di risposte a domande di questo tipo inizia un nuovo filone miliardario che riesce a calamitare grandi fette di pubblico (quindi di mercato): sembra che il vecchio esoterismo basato su Streghe, Stregoni, Draghi e magia nera si sia trasformato in un esoterismo di tipo scientifico più adatto a una società avanzata tecnologicamente e che ha superato vecchie credenze popolari sostituendole con nuovi dogmi. È pur vero che alcuni studi mostrano un vero approccio scientifico secondo i dettami del “Metodo” di Galileo Galilei e le domande diventano un vero rompicapo. L’esistenza di pianeti extrasolari accentua i viaggi fantastici della mente umana verso la coniugazione di miti egizi e miti alieni. La letteratura sull’archeologia esoterica è piena di studiosi che si definiscono tali e pubblicano materiali pretendendo di non portare prove scientifiche. Tutto ha inizio negli anni Settanta con Peter Kolosimo, pseudonimo di Pier Domenico Colosimo, scrittore e giornalista italiano, noto divulgatore, considerato uno dei fondatori, assieme ad Erich von Däniken, dell’archeologia misteriosa, un controverso filone che si propone di studiare le origini delle antiche civiltà utilizzando teorie e metodi spesso non accettati dalla comunità accademica cercando di dimostrare, senza alcuna prova scientifica, che le prime civiltà, quindi anche quella egizia, altro non sono che il residuo della scomparsa Atlantide, mitica terra “generata” da civiltà aliene. Sebbene del tutto compatibili con la trama di un romanzo le idee di Kolosimo vengono esposte da lui stesso come serie, attendibili, ma soprattutto scientifiche! Vincitore, nel 1969, del Premio Bancarella fu coordinatore dell’Associazione Stu-

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di Preistorici Italia e tra le sue pubblicazioni si possono annoverare titoli come Astronavi sulla preistoria (1972), Pi Kappa, rivista di mistero, archeologia ed esobiologia (1971-1973). Maggiore aderenza ai dati di fatto, anche se pur sempre in un’ottica di archeologia “eretica”, sono le teorie di Robert Bauval, Graam Hancock e Colin Wilson che, sul finire degli anni Novanta, studiano la Sfinge e la Piramide di Cheope. Bauval, ingegnere edile ed appassionato di egittologia, nel 1982 percorrendo la galleria principale del Museo delle Antichità Egizie del Cairo notò da una fotografia aerea delle Piramidi della piana di Giza, che vi era stato un curioso spostamento della piramide di Micerino rispetto all’allineamento sud-ovest delle due piramidi più grandi. Perché Micerino, potente quanto i suoi predecessori e più amato dal suo popolo, si fece erigere un monumento così piccolo e meno maestoso? E inoltre, perché quella piccola piramide sembrava deviare dal progetto originario? Nel 1983 osservando le stelle della Cintura di Orione e la Via Lattea Bauval si accorse che la stella più piccola della Cintura era spostata leggermente verso est, e tutte e tre le stelle erano inclinate in una direzione sud-ovest rispetto all’asse della Via Lattea. Nacque così la teoria della Correlazione divulgata nel 1994 pubblicando Il mistero di Orione in cui afferma che le tre piramidi di Giza sono allineate in esatta riproduzione delle tre stelle della cintura di Orione. Seguendo questa ipotesi Bauval arriva ad affermare che le piramidi non sono state edificate nel 2.600 a.C, come scritto su tutti i testi del mondo, ma nel 10.450 a.C., cioè prima della comparsa di qualunque civiltà a noi conosciuta. A tal proposito, nel 2008, Ronald Emmerich firma il kolossal 10.000 a.C. dove alcuni uomini preistorici vengono in contatto con una civiltà molto avanzata artefice dell’edificazione della Grande Piramide. Il film prende chiaramente spunto dalla teoria di Bauval che studia anche la Sfinge arrivando a sostenere come questa sia molto più antica di quanto si creda, essendo percorsa da tracce di corrosione provocate dall’acqua ovvero quando il Sahara non era ancora deserto ma zona fertile. Inoltre la Sfinge avrebbe solo il volto del faraone Chefren mentre il resto del monumento è la raffigurazione della costellazione del Leone databile anche questa al 10.500 a.C. Da Atlantide alla Sfinge Colin Wilson afferma che questo monumento è quanto resta della civiltà atlantidea essendo stata edificata nello stesso periodo in cui Atlantide scomparve, momento indicato da Platone nel Timeo e nel Crizia. Ma la teoria della Correlazione si spinge oltre affermando la presenza di similitudini tra i monumenti della Pia-

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na di Giza e le recenti foto satellitari del complesso di Cydonia su Marte. Sembra infatti che una collina marziana riproduca un volto umano (o alieno) considerato una Sfinge attorniata da una serie di monumenti piramidali. Queste teorie vengono enunciate da Bauval in collaborazione con Hancock nel volume L’enigma di Marte. Sul versante delle prove scientifiche si pone indubbiamente lo studioso di scritture sumeriche Zecharia Sitchin. Dallo studio interpretativo della scrittura cuneiforme Sitchin giunge alla conclusione che gli dei sumeri venivano chiamati Anunnaki che letteralmente significa “coloro che dal cielo sono venuti sulla terra”. Autore del ciclo “Le Cronache terrestri”, ha venduto milioni di copie con titoli come Le astronavi del Sinai, Guerre Atomiche al tempo degli dei, Il pianeta degli Dei, Gli Dei dalle lacrime d’oro, Gli architetti del tempo e il libro definitivo de “Le Cronache terresti”, Il giorno degli Dei. Osservando attraverso il suo sguardo il regno tolemaico acquista una nuova luce. Le piramidi, la Sfinge, ma anche le astronavi aliene che avrebbero utilizzato lo spazioporto del Sinai, tutto ricondurrebbe ad una visione dell’architettura e dei monumenti egizi funzionale all’ottenimento di qualcosa che finora è stata da sempre considerata solo un’utopia: la vita eterna. Anche la costruzione della Grande Piramide si rivela, così come si apprende dalle pagine di Guerre Atomiche al tempo degli dei, destinata a ben altra funzione che quella, tradizionalmente attribuitale, di sepolcro del faraone. Secondo Sitchin, infatti, molti testi proverebbero la destinazione della grande piramide a luogo dove sarebbe sepolto vivo Marduk, della stirpe degli Annunaki, colpevole di avere causato la morte del fratello Dumuzi, che aveva abusato della sorella Geshtinanna. Il sumerologo ritiene inoltre che gli dei alieni provengano dal pianeta Nibiru che compirebbe un’orbita completa intorno al solo in 3600 anni e che ogni qual volta questo si trovi in vicinanza della Terra il genere umano acquisirebbe un notevole quanto rapido progresso scientifico e tecnologico. Queste affermazioni trovano alcune corrispondenze nel calendario Maya che è basato sull’inizio e la fine di “cicli” che porterebbero a cambiamenti sia spirituali che materiali nel popolo terrestre. Per gli esperti della NASA il pianeta Nibiru fu scoperto nel 1983 anche se la notizia fu divulgata dal settimanale statunitense Newsweek il 13 luglio del 1987. Dunque per Sitchin se il pianeta Nibiru esiste è logico pensare che esistano anche gli Anunnaki e di conseguenza che la civiltà Sumera abbia passato le antiche conoscenze e gli antichi dei alla civiltà egizia

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e che questa abbia convissuto con gli dei alieni per un determinato periodo di tempo. Il mistero che lega l’antico Egitto all’arrivo di visitatori da altri pianeti si diffonde largamente in alcuni ambiti della cultura scientifica dagli anni Novanta in poi, ma soprattutto diventa un espediente mediatico. Dalle trasmissioni televisive dedicate al genere Mistery una in particolare ha esteso la sua influenza in libreria. Il programma in questione è di Roberto Giacobbo, Voyager. Nel maggio 2006 la Giunti Editore in collaborazione con RaiTrade e Raidue pubblica la collana Gli atlanti di Voyager in cui un volume è dedicato interamente alle Piramidi e ai suoi misteri. Il volume è diviso in tre sezioni: La storia, Il mistero, Il viaggio. Vengono così significativamente legate l’archeologia “ufficiale”, indagata attraverso il tradizionale approccio storico, e l’archeologia non ufficiale che viene letta attraverso due direttrici, il mistero e il viaggio. Magistralmente utilizzato, il legame fra la civiltà egizia e altre civiltà extraterrestri viene presentato da Roberto Giacobbo come un tentativo di far luce su molti misteri ancora irrisolti. In particolare viene sottolineata la possibile interconnessione fra le Piramidi e la civiltà di Atlantide. Questo legame scaturisce dalle affermazioni di Edgar Cayce, conosciuto come “il profeta dormiente”, che sosteneva che le grandiosi costruzioni della Piana di Giza fossero state costruite nel 10.500 a.C dai superstiti del popolo di Atlantide in fuga dal mitico continente oramai sprofondato negli abissi63. Per conservare memoria del loro passaggio sulla terra, gli atlantidei avrebbero nascosto un immenso archivio, una “Sala dei Documenti” situata non nelle piramidi ma nella Sfinge. In contrapposizione secondo Alberto Angela, invece, «la scienza procede con il lumino, delle cose di cui parla è assolutamente certa, se certa non è allora non si arroga il diritto di spiegarla». Tuttavia la storia dell’uomo insegna che solo le menti visionarie e irriverenti, che non accettano comode verità codificate, fanno germogliare il seme del dubbio che, come dice Roberto Giacobbo, genera la necessità della ricerca della verità. Non importa se questa archeologia venga considerata “fanta archeologia” dal mondo accademico, ciò che importa è il viaggio, indipendente dalla partenza e dall’arrivo, ma grande solo in se stesso.

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Note M. DE VOS, Nuove pitture egittizzanti di epoca augustea, in L’Egitto fuori dall’Egitto, Bologna, Clueb 1991, pp. 121-127. 2 C. RUO REDDA, Egittomania, Torino, Ananke 2006, p. 26. 3 Ibidem, p. 51. 4 Cfr. D. SPADARO, Sulle tracce degli dei, Torino, Ananke, 2009, pp. 37-43. 5 S. DONADONI, S. CURTO, A. M. DONADONI ROVERE, L’Egitto dal mito all’egittologia, Milano, Fabbri, 1990, pp. 106-114. 6 Ibidem, p. 115. 7 Ibidem, p. 118. 8 Ibidem, p. 124. 9 ENCICLOPEDIA UNIVERSALE DELLA LETTERATURA (EUL), tomo II, 2005, p. 1156. 10 EUL, II, p. 938. 11 DONADONI et al., cit., p. 131. 12 Ibidem, p. 141. 13 Ibidem, p. 144. 14 R. FAVARO, L. PESTALOZZA, Storia della musica, San Giuliano Milanese, Nuova Carisch 1999, pp. 532-533. 15 ENCICLOPEDIA UNIVERSALE DELLA MUSICA (EUM), tomo II, 2005, p. 725. 16 RUO REDDA, cit., pp. 212-213. 17 G. PESTELLI, L’età di Mozart e di Beethoven, Torino, EDT 1979, p. 55. 18 Ibidem, p. 62. 19 EUM, I, p. 536. 20 Ibidem, p. 592. 21 Ibidem, pp. 562-565. 22 Pestelli, cit., p. 61. 23 A. BATTA, Opera, Köln, Könemann 2000, p. 400. 24 RUO REDDA, cit., p. 213. 25 EUM, II, p. 825. 26 Ibidem, p. 825. 27 A. BASSO, Massoneria, essoterismo e altri luoghi segreti della musica dei secoli XVII-XIX in EUM, I, 2005, pp. 617-620. 28 FAVARO et al., cit., p. 336. 29 PESTELLI, cit., pp. 174-175. 30 RUO REDDA, cit., p. 217. 31 EUM, II, pp. 763-766. 32 M. MILA, Breve Storia della musica, Torino, Einaudi 1963, p. 261. 33 BATTA, cit., p. 540. 34 EUM, II, pp. 936-939. 35 MILA, cit., p. 275. 1

71 FAVARO et al., cit., p. 433. Ibidem, p. 439. 38 C. MORIGI GOVI, S. CURTO, S. PERNIGOTTI, L’Egitto fuori dall’Egitto, Bologna, Clueb 1991, p. 83. 39 Ibidem, p. 84. 40 EUM, II, pp. 853-856. 41 BATTA, cit., p. 621. 42 Fu lo stesso Schönberg a definire la dodecafonia come il metodo di composizione con dodici note che siano in relazione solo l’una con l’altra. 43 BATTA, cit., p. 556. 44 G.B. BELZONI, Viaggio e scoperte in Egitto e in Nubia, Vercelli, White Star 2006, pp. 33, 34, 47, 48, 53, 59, 144-148. 45 Ibidem, p. 296. 46 Ibidem, pp. 461-462. 47 Ibidem. 48 Ibidem. 49 E. GIACOVELLI, Ma che cinema D’Egitto!, in Ruo Redda, cit., pp. 321-340. 50 G. RONDOLINO, Storia del cinema, Torino, Utet 1995, pp. 29-30. 51 E. GIACOVELLI, cit., pp. 323-324. 52 G. RONDOLINO, cit., pp. 91-93. 53 Ibidem, pp. 233-234. 54 RUO REDDA, cit., p. 326. 55 RONDOLINO, cit., pp. 115-120. 56 D. SPADARO, Il teatro in televisione, Firenze, Firenze Libri 2004, p. 40. 57 RONDOLINO, cit., pp. 415-416. 58 Ibidem, pp. 677-678. 59 DONADONI et al., cit., pp. 165-188. 60 J. VERCUTTER, L’Antico Egitto, Electa-Gallimard 1992, pp. 102-111. 61 Ibidem, pp. 114-127. 62 E. HORNUNG, Egitto esoterico, Torino, Lindau 2006, pp. 224-225. 63 R. GIACOBBO, Le piramidi mistero e realtà, Firenze, Giunti 2006, p. 94. 36 37

Capitolo II

Dalle fonti storiche ai reperti archeologici

2.1 L’antico Egitto nell’Italia arcaica e a Siracusa Per secoli l’Egitto è stata la terra di filosofi, letterati, pellegrini in cerca della sapienza perduta, quasi mai è divenuta terra di scienza, territorio da studiare sotto il rigoroso vaglio della razionalità. Solo alla fine dell’Ottocento l’umanità ha fatto propria la considerazione dell’ineluttabilità di uno studio rigoroso e scientificamente fondato della cultura egizia, una storia che doveva essere raccontata così come è avvenuta senza più alcun inquinamento di tipo ideologico, politico, religioso, che ne scalfisse la corretta interpretazione. Dal mistero, che celava spesso la più profonda ignoranza di quel popolo e della sua civiltà, si è passati alla ricerca della realtà storica, di quegli elementi fattuali e incontrovertibili su cui fondare la moderna egittologia. Paradossalmente proprio cercando i fatti sono venute fuori nuove domande, nuovi misteri ancora da chiarire, nuove interpretazioni che per secoli sono state considerate eretiche. Ma la consapevolezza di dover fondare l’egittologia moderna su basi rigorose ancora non bastava. Affinché l’occidente comprendesse a pieno il valore e le peculiarità di questa cultura era necessario rendere quella civiltà alla portata di tutti, era necessario mutare la logica documentaristica in logica museale. Solo, infatti, portando la cultura egizia fuori dai libri specialistici, destinati ovviamente solo ad una ristretta cerchia di studiosi dell’argomento, si poteva ottenere quella visione concreta di oggetti e di reperti che, molto meglio di tante parole, hanno il potere di rendere tangibile, per esperti e non, una civiltà ed un popolo. Tuttavia se appare evidente come non vi può essere museo senza reperti archeologici, meno appariscenti sono le problematiche legate allo studio delle modalità di introduzione dei reperti egizi in Italia fin dall’età arcaica. Nel saggio Problemi fondamentali della ricerca degli Aegyptiaca nell’Italia arcaica1, il prof. Günther Hölbl evidenzia come l’ana-

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lisi delle forme di diffusione sul territorio di reperti egizi in epoca arcaica debba tenere conto di due peculiarità. La prima di queste anomalie è ravvisabile nel ritardo con cui questi reperti arrivano nel nostro paese rispetto ad esempio alla Grecia dove si attestano ritrovamenti già in epoca minoica e micenea. La seconda dicotomia è rappresentata dall’epoca in cui questi reperti fanno la loro comparsa, periodo storico collocabile intorno all’800 a.C., età dopo la quale si trova traccia di oggetti propriamente egizi o dal sapore egittizante sia in Sardegna che in Sicilia. La funzione di questi reperti è essenzialmente di stampo religioso e magico. Reperti assai comuni sono soprattutto gli scarabei e le figurine di divinità create seguendo i dettami della tecnica nota come faïence egiziana. Provengono dallo stesso Egitto le “fiasche di Capodanno” e gli “unguentari a forma di porcospino”. Il nome delle prime è dovuto alla presenza di iscrizioni in geroglifico presenti sui lati stretti delle fiasche e che esprimono auguri di Capodanno. Questo tipo di reperto è frequentemente rinvenibile fuori dall’Egitto soprattutto a Rodi e, in Italia, a Cerveteri e Vulci. Gli “unguentari a forma di porcospino” sono presenti anche in Sicilia a Megara Hyblea. Ma anche altri reperti egizi arrivano in Italia. Fra questi numerose raffigurazioni di dei e dee egizie rappresentati dalle figurine di Bes, Sachmet e Nefertem. Questa tipologia di oggetti mette dunque in luce diversi problemi di natura metodologica dovuti al fatto che non sono stati rinvenuti in Egitto, né si conosce bene la loro area di provenienza. Inoltre, sempre per ciò che concerne le tecniche migliori di analisi e di valutazione, è necessario, secondo Hölbl, rimuovere un pregiudizio che per lungo tempo ha attanagliato lo studio di questi materiali. Per lungo tempo gli Aegyptiaca (manufatti decorativi e utensili creati a modello dell’antica arte egizia) del I millennio hanno suscitato scarso interesse, mentre quelli del II e del III millennio sono stati custoditi e studiati con grande cura in quanto si riteneva fossero espressione concreta dell’influenza politica ed economica egiziana presente sia in Asia Minore che nella civiltà minoica e micenea. Bisogna invece ridare importanza ai reperti egizi del I millennio contestualizzandoli all’interno delle culture straniere che le hanno ricevute e utilizzate. Inoltre bisogna considerare ogni oggetto da due angolazioni differenti, quello egiziano e quello locale. Solo comprendendo a fondo le dinamiche che caratterizzano il contesto locale di rinvenimento, potremo capire la funzione e il perché un certo oggetto egizio si trovi lì. Ma l’analisi non è sufficiente, è necessario anche un approccio di stampo tipologico, finora poco praticato, ma l’unico in grado di consentire, anche attraverso esami chimico-fisici, di rispondere

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alle domande circa l’imitazione del manufatto e la sua area di provenienza. Entrando nello specifico del territorio siracusano e delle modalità con cui accoglie materiali egizi ed egittizzanti, dobbiamo fare riferimento ad un altro studio del prof. Hölbl, I rapporti culturali della Sicilia Orientale con l’Egitto in età arcaica visti attraverso gli aegyptiaca del territorio siracusano2. In questo saggio viene spiegato come, nella Sicilia orientale, i primi ritrovamenti di reperti egizi risalgono alla metà dell’VIII secolo in stretta interdipendenza con la ceramica greca di Eubea. Il legame con la ceramica euboica appare evidente nella tipologia di reperti egizi ritrovati nella necropoli di Villasmundo consistenti in 23 scarabei del tutto simili a quelli provenienti da Pithekoussai, la cui fondazione è di origine euboica. Ma il ritrovamento più antico di reperto egizio nel siracusano è quello della tomba 44, sempre di Villasmundo, dove è stato rinvenuto uno scarabeo di pasta blu chiara molto sbiadita. Nel VII secolo a.C. appaiono antichi oggetti egizi anche a Siracusa provenienti dalla Necropoli del Fusco e dall’Athenaion. In questo ultimo sono stati ritrovati 3 frammenti di un vaso sferico di granito con striature bianche e grigie che rappresenta Ramsete II con due cartigli davanti alla dea Hathor. Ancora dalla Necropoli del Fusco provengono tre scarabei. Infine sempre a Siracusa è stato ritrovato un magnifico alabastron. In conclusione i rapporti culturali che la Sicilia orientale e Siracusa intessono con l’antico Egitto sono direttamente influenzati dai popoli mediatori fra il paese dei faraoni e il territorio aretuseo. Nell’VIII secolo prima di Cristo questi mediatori sono gli Euboici, nel VII secolo, nel cosiddetto periodo orientalizzante, prevalgono le faïences greco-orientali, nel VI secolo compaiono gli Aegyptiaca saitici che si ricollegano alla colonia di Naukratis. 2.2 L’Egitto al Museo di Torino La città di Torino rappresenta una tappa fondamentale per la divulgazione della cultura egizia nel mondo occidentale, sia per il suo porsi in primo piano nella nascita della moderna egittologia, sia, successivamente, per la sua capacità di seguire, con scrupolo e costanza, gli sviluppi successivi della nascente scienza in questione3. L’interesse della città piemontese verso la cultura nilotica viene reso manifesto, a metà del Seicento, con la “Tabula Bembina” o “Mensa Isiaca”.

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Da fonti storiche apprendiamo la genesi e l’evoluzione di questo singolare manufatto. La cosiddetta Mensa Isiaca è una tavola in bronzo lavorato, forse un piano d’altare, risalente al primo secolo dopo Cristo e appartenente all’area campana. Tuttavia, le figure qui incise non hanno nulla a che vedere con la religione romana o con la fede cristiana. Si tratta di un oggetto di culto legato all’antico Egitto: al centro, campeggia la dea Iside, attorniata da divinità minori. […] Iside, in quanto madre di Osiride, il dio prima ucciso e poi risorto, è inoltre un’efficace premessa alla venerazione mariana. […] Nel Rinascimento, l’interesse per la mistica orientale divenne addirittura morboso. […] Non c’è da stupirsi se proprio un cardinale collezionista, Pietro Bembo, riuscì a entrare in possesso della Tavola nei primi anni del Cinquecento; egli la custodì prima a Roma e quindi a Padova, nello Studiolo della sua casa. Pietro Bembo tenne la Tavola fino alla morte. Il figlio Torquato smembrò la collezione paterna, privandosi via via dei pezzi più pregiati. A questo punto intervengono i Gonzaga, nella persona di Vincenzo. […] Comunque, la permanenza della tavola nella città virgiliana (Mantova) fu breve. Si ipotizza che sparisse già nel 1630, dopo il sacco delle truppe imperiali, per riapparire qualche anno più tardi tra le antichità di Casa Savoia, a Torino. […] Dopo un breve periodo di cattività francese entrò a far parte del Museo Egizio, il più ricco del genere in Italia, dove ancora oggi si trova.

Se la “Mensa Isiaca” simboleggia il legame fra Torino e l’antico Egitto, occorre risalire ancora più indietro nel tempo per riannodare i fili dell’intenso rapporto che lega la città piemontese con la terra dei faraoni. Una data in particolare merita di essere ricordata: quella del 1563 quando viene scoperta la statua della dea Isi. Questo eccezionale ritrovamento viene abilmente sfruttato da Pingone, consigliere di stato del Re, per attribuire a Torino una origine egizia, rintracciando addirittura nella dea Isi la fondatrice della città sabauda. Dopo il ritrovamento della Mensa Isiaca, questo importante reperto viene custodito prima negli archivi regali, poi, nel 1775, assegnato al Museo Universitario. Questo era stato creato pochi decenni prima, sotto l’impulso della casa regnante, per rivalutare l’Ateneo piemontese. La struttura era suddivisa in cinque grandi aree: una per la Fisica, una per la Matematica, una per la Botanica, una per l’Anatomia, una per oggetti vari e preziosi. Anche Carlo Emanuele III, successore del Re Amedeo di Savoia, prosegue l’opera di tutela e valorizzazione dell’Università e del Museo,

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ma il nuovo Re non si limita soltanto a ricevere l’eredità del vecchio sovrano, e pensa addirittura di ampliare il museo aggiungendovi un giardino botanico. Nelle intenzioni del Re vi è la volontà di trasformare il parco del Valentino in un moderno “Ceramico di Atene” un luogo in cui dovevano essere rappresentati i tre regni presenti in natura. Per raggiungere questo scopo, nel 1757, Carlo Emanuele III decide di mandare in Egitto il padovano Vitalino Donati, naturalista, geologo ed esperto di mineralogia, con il preciso incarico di raccogliere campioni botanici e mineralogici. Il viaggio ha inizio nel 1759 e porterà l’insigne studioso verso l’Egitto, il Sinai, la Palestina, l’Iraq, la Siria, e l’Oceano indiano verso Calcutta. Purtroppo, nel 1762, Donati muore. Prove documentarie che attestano il suo soggiorno in Egitto sono costituite sia dalle lettere inviate al Re, che da numerose relazioni e da due copie manoscritte del giornale di bordo. Dal viaggio nascerà la futura collezione Donati composta da tre magnifiche statue rappresentanti Isi con testa di leone intagliata verde scuro, un’altra statua raffigurante la dea leonessa Sekhmet in granito rosso e una statua di Ramesse II in granito rosa, più un busto in granito di Isi. Del materiale naturalistico, invece, molto andò perduto. Nel 1832 la collezione di Donati fu riunita con quella di Drovetti. Con l’arrivo di tali reperti, prima della spedizione napoleonica, nasce a Torino una pregnante “egittomania” ravvisabile nell’amore per le decorazioni fantastiche ed esoteriche e nel gusto rococò con cui cambia la città. Ecco cosa incontra il gusto dei ricchi torinesi: Le tinte fingeranno i fondi di travertino, li pilastri il verde d’Egitto, il rossiccio deve essere Porfido i fondi neri di Basalto il Zoccolo di Granito. Circa ai Geroglifici e alle figure si ricorrerà alle raccolte. Le porte saranno di Legno in due colori. Le teste segnate gialle saranno di Bronzo naturale e non dorato. Invece del camino che esiste nella Camera si formerà una stuffa a forma d’Ara Egizia, di questa se ne darà il Disegno4.

Nel 1819, sulla scia di una sempre più fiorente moda egittizzante, verrà progettata dal Pregliasco “La Carrozza di Gala” nello stile egiziano per la futura sposa del Re Carlo Felice. Il rafforzamento del legame fra Torino e il paese delle piramidi è dovuto anche alla presenza della sposa del generale Menou, colei che aveva scoperto la Stele di Rosetta e incaricato di inviarla agli esperti per esaminarla. La moglie del generale è egiziana e porta con se tradizioni, gusti, comportamenti tipici del suo paese di origine. Proprio per la sua “diversità” cultura-

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le impone che sia allestita una tenda nel suo giardino in modo da permetterle di ricevere le nobildonne piemontesi facendole “accomodare” su tappeti e cuscini posti per terra! Ma la vera svolta nel rapporto fra il capoluogo sabaudo e la terra dono del Nilo avverrà nel 1824, quando Carlo Felice acquista la collezione di Drovetti. L’accordo prevede la cessione della collezione al prezzo di 400.000 lire, ovvero la metà degli introiti spesi dal governo per il ministero della Pubblica Istruzione e delle Belle Arti. La somma doveva essere corrisposta per metà in contanti e il resto in forma di rendita annua. La collezione è divisa in 19 sezioni5: 1) Papiri e manoscritti; 2) Oggetti di bronzo, ferro e piombo; 3) Tavole o pietre sepolcrali, tavole d’offerta, pietre con iscrizioni, santuari ecc; 4) Oggetti diversi; 5) Oggetti di legno; 6) Scarabei; 7) Amuleti; 8) Piccole statue e altri oggetti di pietra dura e di calcare ecc; 9) Piccoli idoli di pietra dura, calcarea, di faïence e d’oro; 10) Oggetti di cera; 11) Mummie e altri oggetti; 12) Oggetti di terracotta; 13) Oggetti di alabastro; 14) Oggetti di vetro e faïence; 15) Mobili e oggetti di abbigliamento; 16) Statue; 17) Teste, busti, frammenti di statue; 18) Monumenti; 19) Monete; Fra i monumenti, autentici capolavori sono rappresentati dalle grandi statue regali che raffigurano sovrani della XVIII e XIX dinastia: Amenofi II, Thutmosi III, Ramesse II, Sethi II. Di grande pregio e valore storico anche la grande collezione di papiri tra cui Il libro dei Morti, Il libro del Re, il papiro della congiura contro Ramesse III, testi mitologici che narrano la favola del dio Rā, ma anche testi letterari come La canzone del Sicomoro, libri amministrativi come Il Giornale della necropoli di Tebe. Infine la straordinaria prima carta topografica del-

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l’umanità rappresentata nel Papiro delle Miniere. L’arrivo di Champollion nel museo permette allo studioso di verificare sul campo la correttezza della sua tecnica decifratoria dei geroglifici. Al giovane egittologo viene dato il compito di sistemare i vari reperti del Museo torinese e di classificare in ordine cronologico i vari monumenti in esso presenti. Il grande ardore, la grande ammirazione e l’amore per i papiri che raccolgono una storia millenaria, fa pronunciare al giovane parole accorate circa lo stato pietoso in cui questi reperti si trovano: Ho visto scorrere tra le mie mani i nomi di anni di cui la storia aveva completamente perso il ricordo, nomi di Dei che non hanno altari da più di 15 secoli, e ho raccolto respirando a fatica, nel timore di ridurlo in polvere, un piccolo frammento di papiro, ultimo e unico rifugio della memoria di un Re che, quando era vivo, si trovava probabilmente allo stretto nell’immenso palazzo di Karnak!6

Nel 1894 diviene direttore del museo Ernesto Schiapparelli. Grazie alla sua abilità la collezione di reperti egizi si triplica, per merito di una attività di scavo sul campo, scientificamente valida e mirata. Questo impulso alla ricerca archeologica trova le sue ragioni nella volontà, del nuovo direttore, di colmare le lacune del museo che ospita soltanto reperti del Nuovo Regno e della civiltà greco-romana. Non vi è traccia di oggetti dell’epoca Preistorica, dell’Antico Regno, del Medio Regno e dei Periodi Intermedi. Nel 1903 il valente conservatore ottiene da parte di Vittorio Emanale III il finanziamento della Missione Archeologica Italiana. Il metodo di indagine proposto da Schiapparelli per queste missioni viene spiegato da Giovanni Marro, un antropologo che lavora per la Missione. Dalle pagine di Marro si apprende che: Sotto la sua direzione si praticavano metodicamente gli scavi in tutta la regione, senza lasciarne alcuna parte inesplorata: si comincia dal piede della montagna, si avanza poco a poco sul pendio e sui fianchi, seguendo tutte le depressioni del suolo, fino a che non si raggiunge la cima. E invariabilmente gli scavi si proseguono fino a che non si incontra la “montagna” come si dice nel linguaggio tecnico locale – cioè la roccia viva intatta – o il terreno compatto, omogeneo, che presenti tutte le caratteristiche di uno strato che mai sia stato toccato dalla mano dell’uomo. Durante i primi giorni, soltanto, i materiali estratti dal suolo sono trasportati molto lontani nel deserto, poi li si getta negli scavi fatti nei giorni precedenti: si riempiono in questo modo tutti i buchi, i pozzi, le gallerie esplorate e si rendono alle tenebre le costruzio-

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ni funerarie scoperte; in tal modo insieme al lavoro di scavo si compie così anche l’opera pietosa e riparatrice per la quale si rende a questi luoghi consacrati ai morti il loro rispetto primitivo7.

Il grande rigore metodologico, la preferenza del “metodo sistematico” al posto di quello dei “sondaggi”, permette a Schiapparelli di rifornire il nascente museo di opere che illustrano l’intera storia del paese dei faraoni dalla Preistoria fino all’epoca greco-romana. Tuttavia l’enorme mole di oggetti, provenienti sia dall’acquisto di intere collezioni, come quella di Drovetti, sia dall’attività sul campo della Missione Archeologica Italiana, rendono necessaria la creazione di nuove aree da destinare a tali oggetti. In origine infatti la prima sede del museo è nel Palazzo dell’Università. Tuttavia, a causa dell’enorme ampliamento delle collezioni, è necessario trovare nuovi spazi, individuati nel Palazzo dell’Accademia delle Scienze. In questa nuova sede vengono riunite la collezione di Drovetti, i reperti egizi e greci e romani, le collezioni di geologia e mineralogia delle altre Università. Ma anche questa sede si rivela ben presto troppo angusta per ospitare tutto il materiale. Nel 1872 il Ministro della Pubblica Istruzione ordina un’inchiesta sui Musei Egizi in Italia. Questo compito viene assegnato a Luigi Vassalli che denuncia l’urgenza di ampliare lo spazio del Museo torinese. Vassalli propone di utilizzare, in aggiunta al piano terreno, anche il primo piano del palazzo dell’accademia, finora occupato dal Museo di Storia Naturale che dovrà essere spostato a palazzo Carignano. Queste indicazioni vengono accolte e concretizzate dal Ministero. Nel 1865 viene disposto l’ulteriore spostamento, dal secondo piano, del Museo di Antichità che viene ospitato in una nuova ala quella attualmente nota come “Ala Schiapparelli”. Questo nuovo ambiente è costruito nel fondo del cortile dell’accademia delle scienze e collegato con i piani superiori da una monumentale scalinata. Dopo siffatti spostamenti il Museo Egizio occupa la nuova ala, il piano terreno e il primo piano. La liberazione del secondo piano sarà funzionale alla collocazione della Galleria Sabauda. Anche tale sistemazione entra in crisi a seguito dell’enorme aumento di reperti da musealizzare ottenuto con le spedizioni di Schiapparelli. In poco tempo si stima che gli oggetti da collocare siano passati da 7.400 a 17.0608. Un tale numero rende necessarie alcune dolorose, ma inevitabili, scelte organizzative. Si decide di asportare completamente la sezione dedicata ai papiri, anche la nuova ala viene modificata prevedendo la presenza di un secondo piano da ricavare in altezza e da illuminare con grandi lucernari in ferro.

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Tuttavia i neo ambienti si rivelano inadatti alla conservazione dei preziosi reperti. A causa dell’eccessiva frescura in inverno e nel notevole calore in estate. Per tale motivo le nuove stanze vengono abbandonate e destinate a magazzini. Solo nel 1985 sono iniziati i lavori per l’ampliamento dell’Ala Schiapparelli, ripensata su cinque piani, due sotto terra e tre in elevato. Nel primo seminterrato si può vedere una parte delle fondazioni del muro di cinta della città in epoca romana. Il secondo seminterrato è occupato dagli impianti tecnici. Il piano terra ospita la biblioteca. I piani superiori sono occupati dagli uffici e dai laboratori. In sintesi gli spazi espositivi sono stati ampliati, passando da 2.000 a oltre 3.000 mq. 2.3 Il Museo del Cairo Come abbiamo visto la straordinaria figura di Auguste Mariette ha lasciato la propria impronta nella storia dell’umanità non soltanto come valente archeologo, ma soprattutto come fondatore del moderno Museo Egizio del Cairo9. Questa iniziativa mette fine dunque alla cosiddetta “Epoca dei Consoli”, ponendo un freno a quanti dall’Europa si riversavano in Egitto in cerca di tesori e monumenti preziosi da offrire ai vari sovrani del vecchio continente. Le prime sale che ospitano il museo vengono collocate in un vecchio edificio di Bulak. Nel 1863 Ismaïl Pasha celebra la storica apertura. Nel 1891 la struttura viene trasferita nella piana di Giza, per passare, nel 1902, alla sua sede attuale di Kasren-Nil. L’edificio è costruito dall’architetto Dourgnon in stile grecoromano, un’opera architettonica ideale nel coniugare estetica e funzionalità. La ricerca di reperti da esporre nella novella struttura porta Mariette a vasti interventi sul territorio. Sua prima iniziativa è lo studio di Tanis, la grande capitale delle ultime dinastie. La sua attività di ricerca prosegue, infaticabile, verso Giza, a Saqqara, verso le Mastabe dell’Antico Regno, nella necropoli ai piedi della Piramide di Medum, verso i templi di Abido, e alla ricerca dei templi di Esna, Edfu e Dendera, dirigendosi infine verso il grandioso santuario di Karnak e il cimitero di Deir-el-Bahari. Molti di questi reperti arricchiscono il nascente museo, ma molti finiscono, suo malgrado, al Louvre di Parigi. Alla morte di Mariette, come già accenato, la guida del museo passa nelle valenti mani di Gaston Maspero che lo dirige dal 1889 al 1914. Grazie alla perspicacia e alla grande cultura di questo nuovo reggente, la tutela delle antichità egizie viene consolidandosi anche per merito di tre iniziative.

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La prima è rappresentata dalla creazione di un Istituto di Stato dotato di tre ispettorati con il preciso scopo di vigilare su eventuali furti di materiale egizio che archeologi europei tentano di fare uscire dal paese. La seconda iniziativa è ravvisabile nella fondazione di molte riviste specializzate che raccoglievano le notizie e i risultati degli scavi in corso permettendo a tutti gli egittologi di essere, in tempi molto brevi, sempre aggiornati sulle novità. Infine la terza scelta strategica di Maspero, per consolidare il museo, fu la creazione del Catalogo Generale del Museo del Cairo. Ma il nuovo direttore non si limita alla sola attività editoriale, si preoccupa anche della formazione culturale istituendo, nel 1880 in collaborazione con il Louvre e l’Institute de France, un corso di specializzazione in “Filologia e archeologia egizia e assira”. Inoltre con lo scopo di preparare adeguatamente il personale che eseguiva gli scavi, fonda l’Institut Français d’Archéologie Orientale. Questo istituto in collaborazione con quello tedesco crea al Cairo una missione archeologica stabile, un’iniziativa che permette di seguire dall’inizio alla fine i lavori di scavo essendo dotata di una buona biblioteca, di laboratori, di tipografia. Nel 1976, data l’enorme quantità di scoperte effettuate, l’organizzazione creata da Maspero si rivela oramai insufficiente. Per questo motivo viene istituita l’Association Internationale des Egyptologues. Se la genialità e l’instancabile lavoro organizzativo di Maspero hanno reso grande il museo del Cairo, questo non sarebbe esistito se non fondato da Mariette e soprattutto non sarebbe il primo museo egizio al mondo se non ospitasse inestimabili reperti frutto, per la maggiore parte, della grandezza, come archeologo, del suo fondatore. Delle moltissime ricerche archeologiche compiute dall’uomo, alcune meritano di essere sottolineate come assolutamente importanti. La prima è lo scavo a Saqqara di una piramide della VI dinastia. L’iniziativa fu promossa da Mariette poco prima della sua morte e portata a termine dai fratelli Brugsch che notarono come la cripta fosse ricca di iscrizioni parietali. Maspero ne spiegò il significato rivelandone la natura di formule magiche o religiose. Ma la decifrazione non era completa. Fu chiarita totalmente da Sethe che ne diede l’interpretazione definitiva. Nel 1910 vennero pubblicati i Testi dei Sarcofagi chiamati così perché incisi dentro le tombe dei faraoni del Medio Regno. Fu subito chiaro che si trattava di una rielaborazione dei Testi delle Piramidi una tipologia di scritti redatti per essere compresi da tutti i cittadini. A questi testi si connette anche Il Libro dei Morti un formulario per l’aldilà scritto su papiro e deposto nelle tombe del Nuovo Regno. In questo modo fu ricostruito l’intero asse dei testi dei riti funerari egizi. Ma

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al museo del Cairo giungono anche importanti scoperte sulla preistoria egizia, argomento fino ad allora poco studiato e le cui mosse prendono avvio nel 1894 dal lavoro di Petrie e Quibell. I due archeologi scoprono infatti che nella località di Naqada si trovano ampi cimiteri con sepolture “a fossa” con dentro corpi essiccati e deposti come un dormiente rannicchiato che riposa su un fianco. Questi corpi erano poi ricoperti di panni, stuoie, bastoni, archi, frecce, ornamenti per la persona e vasi di terracotta. La scoperta permise ai due studiosi di datare le tombe all’epoca preistorica basandosi sull’assenza di iscrizioni di qualsiasi genere. Il ritrovamento delle tombe fece comprendere anche che: a) quasi tutte le tombe conservavano manufatti in pietra; b) la lavorazione di tali manufatti non permetteva la formulazione di una “datazione assoluta”; c) si poteva comunque giungere ad una “datazione relativa” analizzando la sezione stratigrafica in cui erano scavate le tombe. Successive scoperte presso le rovine dei templi di Edfu e Abido permisero a Petrie di capire che le tombe analizzate rappresentavano una fase di passaggio dalla Preistoria alla Storia, rappresentavano quindi la Protostoria. Gli studi di Schwinfurth nella zona tebana permettevano inoltre di datare i reperti all’epoca Paleolitica, mentre le ricerche di Thompson e di Junker ai bordi dal Faijum permisero il ritrovamento di reperti Neolitici. La storia completa del paese dei faraoni era così completa e si articolava in Paleolitico e Neolitico per la Preistoria, in un periodo Protostorico e in un lunghissimo periodo Storico. La moderna egittologia chiama “Predinastico” il Neolitico, “Protodinastico” il Periodo Protostorico, e “Dinastico o Faraonico” quello Storico. Ma rimanevano alcune questioni irrisolte. La più difficile era quella relativa alla spiegazione della nascita della civiltà egiziana. Questa origine fu spiegata in vari modi, come distinti sono gli uomini che li elaborarono: per gli egizi la civiltà sorse grazie al dio Thot che insegnò agli uomini la scrittura; secondo la mitologia greca la nascita di tutte le civiltà fu la conseguenza del dono del fuoco da parte di Prometeo; per i neoplatonici le origini del mondo civilizzato sono legate ai Grandi Iniziati come Osiri, Zarathustra. In anni recenti ha preso piede il mito della razza superiore, una teoria condivisa anche da Petrie che entra nella Valle del Nilo da Oriente, luogo scelto non a caso, ma in riposta ad un antico mito che vede ad est il seme da cui germoglia tutta la civiltà, e porta il progresso e l’evoluzione ai popoli con cui entra in contatto. Questa teoria evolutiva fu definitivamente messa a tacere da Gordon Childe che, con la sua opera Man makes himself (l’uomo costruisce se stesso), dimostra come i popoli dell’oriente fossero passati da cacciatori e raccoglitori

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ad agricoltori e allevatori in maniera del tutto autonoma rispetto agli altri paesi. Alla luce di questa teoria anche le tracce di stampo orientalizzante, presenti nei reperti Neolitici e Protodinastici, sono da considerare normali nella misura in cui veniva condiviso un substrato etnico comune e venivano intessuti rapporti commerciali con il Levante. Risolta l’annosa questione sull’origine della civiltà egizia e sui suoi rapporti con l’Oriente, un’altra problematica turba il sonno di sociologi e antropologi. Il dibattito si scatena sulla ricerca delle motivazioni che soggiacciono all’evoluzione di alcuni popoli, mentre altri rimangono fuori dalla spirale del progresso. Per spiegare questa discrepanza, Toynbee pubblica il suo Civilization on trial dimostrando come l’uomo progredisce se stimolato da una sfida media prodotta dall’ambiente che lo circonda. In altre parole, per evolversi, l’essere umano non deve trovarsi né in un ambiente troppo difficile da modificare, come accade per gli Inuit, né in uno dove la vita è resa eccessivamente semplice dalle risorse offerte dalla natura, come in Polinesia. Il merito di questa costruzione teorica risiede nel fatto che può spiegare il grandissimo grado di evoluzione raggiunto collegandolo alla difficoltà media che il territorio pone ogni giorno agli uomini stimolandone le capacità mentali. Ultima questione inerente la nascita della civiltà nilotica è rappresentata dalla cronologia proposta per il Neolitico, fissata fra il VI e il V millennio, e per il Protostorico, compreso fra il 3200 e il 2800 a.C. Dalle cifre emerge un periodo molto breve di evoluzione rispetto agli altri popoli e di cui bisognava rintracciarne le cause. A fornire una possibile risposta ci pensa la Scienza Sociologica che osserva come il livello e la rapidità di progresso di un popolo sia strettamente collegato con l’incontro con altre ideologie e culture. Accade in questo modo che si giunga alla conclusione che la rapidità con cui si è evoluta è dovuta al fatto che il popolo egizio nasce da etnie diverse che si mescolano fra loro dando vita ad un’unica civiltà. Accogliendo dunque reperti preistorici il Museo Egizio del Cairo si configura come motore di importanti speculazioni quali quelle descritte finora. Ma la magnificenza di questa struttura non comprende soltanto reperti Preistorici e Protostorici, ma conserva al suo interno anche reperti della Necropoli di Giza. Su questa area si registra il passaggio di Belzoni, Mariette, Lepsius e naturalmente Maspero. Quest’ultimo organizza una spedizione per esplorare integralmente l’area e la affida a tre squadre di cui una italiana, una tedesca e una americana. La squadra italiana viene però in seguito sostituita da una austriaca e l’intera area viene riscoperta nel periodo compreso fra il 1903 e il 1929. Delle

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numerose relazioni che ne seguiranno la più interessante sarà quella di Junker, capo della spedizione viennese, che saprà trarre molte preziose informazioni dall’osservazione delle pitture parietali delle cappelle tombali. Questi dati arricchiranno di molto la conoscenza dei riti funebri e della vita quotidiana già tramandata attraverso i Testi delle Piramidi. Nel 1925 il museo si dota dell’arredo sepolcrale della regina Hetepheres, madre di Cheope. La scoperta è attribuita alla squadra americana guidata da Reisner dell’Università di Harvard. Restaurato sapientemente a Boston, l’arredo si presenta composto da un padiglione da campo, un letto, una sedia e cofani contenenti ornamenti della defunta. Una serie di ricerche egiziane porta nel 1954 alla scoperta di due navi regali sepolte presso la Piramide di Cheope. Il successo del ritrovamento e del conseguente arricchimento del museo è dovuto all’ispettore del Service des Antiquités, Kamal. Una delle navi sarà lasciata sul posto, la seconda sarà sapientemente restaurata e collocata nel museo in uno spazio appositamente costruito dall’architetto italiano Minissi. La nave di Cheope, come viene ribattezzata, fornisce indicazioni utili sui percorsi e le tecniche di navigazione egizie permettendo anche di ipotizzare, data la sua struttura “cucita”, che il popolo nilotico trasportasse, smontate, queste imbarcazioni attraverso il deserto Arabico, per poi, giunti in mare, rimontarle e proseguire il viaggio verso le miniere di rame e malachite del Sinai. La storia della formazione delle collezioni del museo egizio deve continuare con la vicenda dell’inglese Emery autore della scoperta di una serie di mastabe presso Saqqara. Il ritrovamento si rivela interessante per una serie di iscrizioni che appartengono ai sovrani della I dinastia. Lo stesso tipo di incisioni si trova nel tempio di Abido scoperto da Petrie. Questo aumento di sepolcri spinge Emery ad affermare che le tombe di Saqqara siano “cenotafi”, ovvero luoghi di sepoltura situati vicino alla sede dove si era svolta l’attività politica e pubblica del defunto. I monumenti di Abido sono invece luoghi dove i faraoni trovavano l’eterno riposo nella loro patria di origine. Arricchito con gli immensi tesori delle scoperte fin qui elencate, il Museo Egizio del Cairo si presenta dunque come emblema di un popolo e di una civiltà senza eguali. 2.4 Le collezioni egizie del British Museum Il fascino dell’antico Egitto arriva nel regno dei lord trasportato dal fervore dell’illuminismo. Grazie al secolo dei lumi, infatti, tutta la cultu-

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ra europea venne scossa da un fremito, da una voglia di conoscenza e da una sete di sapere come mai era avvenuto nella storia dell’umanità. La lotta contro i falsi miti, i pregiudizi, le ataviche paure alla ricerca soltanto di ciò che di veramente razionale e dimostrabile aveva prodotto l’evoluzione umana, contribuì in maniera decisiva alla nascita di An universal curiosity made educated men find interest and wonder in all the phenomena of nature and all the products of human hands from the time of remote antiquity10. (Una curiosità universale che spinse tutti gli uomini colti a provare interesse e meraviglia per tutti i fenomeni della natura e per tutti i manufatti fatti dall’uomo fin dalla più remota antichità).

Questo interessarsi e interrogarsi sia sulle produzioni delle natura che sui manufatti dell’antichità costituì il terreno culturale più idoneo per la storica decisione, presa nel 1753 con decreto del Parlamento, che permise l’apertura di uno dei musei più importanti del mondo: il British Museum. La grande divulgazione della cultura dell’antico Egitto agli inglesi fu concepito e fondato dal Fisico e ricco possidente Sir Hans Sloane grande collezionista di libri, manoscritti, opere d’arte, oggetti di antiquariato e tanto altro ancora. Grazie alla sua posizione di potere, questo scienziato, presidente fra l’altro della Royal Society e del Collegio Regale di Fisica, fu in grado di promuovere e allargare i confini dei commerci britannici assicurandosi il prezioso aiuto di molti viaggiatori che, da ogni parte del mondo, riportavano in patria preziosi reperti per il nascente museo. Dai suoi agenti Sloane acquistava o riceveva in dono molti manufatti e per un intero decennio prima di morire fu impegnato nella sistemazione della sua immensa collezione e della grande biblioteca nella sua tenuta di Chelsea. Tuttavia sarebbe incompleta la presentazione di Sloane se non gli venisse riconosciuto il merito, oltre che della fondazione del museo inglese, di avere intuito le potenzialità della sua iniziativa e di avere deciso di trasformare una collezione privata in un pubblico museo. Occorre ricordare a questo punto che il concetto di pubblico nell’Europa del Diciottesimo secolo, è molto distante dal nostro. L’esistenza infatti in tutta Europa di varie dinastie monarchiche rendeva inevitabile che chiunque volesse rendere alla nazione le proprie collezioni dovesse venderle al Re. Così fece il nostro fisico che offrì le sue collezioni al Re per la modica somma di 20.000 sterline! Con una legge datata 7 Giugno 1753 il Parlamento britannico decise che le collezioni di Sloa-

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ne fossero ospitate in un luogo idoneo. Per fare fronte alle spese venne istituita una lotteria. In questo modo centinaia di dei in bronzo, pietra e terracotta, scarabei, figurine, shabti, amuleti vennero esposti agli occhi dei visitatori inglesi per introdurli nel magico mondo dell’antico Egitto. Di notevole valore era la Stele di Nekau che era stata portata agli inglesi dall’antiquario Alex Gordon. Bisogna tuttavia ricordare che, nella ricca collezione di Sloane, così come nelle menti degli studiosi inglesi, la terra dei faraoni occupava un posto marginale nella formazione dei loro interessi di studio e di ricerca. Andare in Egitto nell’Ottocento era inoltre estremamente pericoloso sia per l’ostilità degli abitanti che per le continue pestilenze che affliggevano il paese. Anche se timido, l’interesse per la terra dono del Nilo stimolò nel 1741 la fondazione della Società Egizia a Londra. Tuttavia i pochi reperti disponibili da studiare determinarono, dopo due anni, la chiusura di questa istituzione. Ritornando al museo inglese, esso venne installato dapprima nella Montagu House a Bloomsbury, un grande edificio con ampi giardini. Nel 1756 nella splendide sale della sua nuova residenza arrivò la prima mummia, dono di William Lethieullier. Anche il cugino, Smart Lethieullier, e suo nipote, Pitt Lethieullier, donarono altri oggetti al museo. Verso la fine del Diciottesimo secolo altri manufatti provennero dall’ambigua figura di Edward Wortley Montagu che compì diversi viaggi in Egitto e inviò al cugino, il terzo conte di Bute, vari reperti che, a loro volta, furono presentati al Re Giorgio III incluso una mummia in un bara e due lastre che si trovavano fra due colonne dei templi del Delta. Nel 1776 il Re consegnò questi oggetti al British Museum. L’immenso salto di qualità per il collezionismo inglese di matrice egizia fu compiuto grazie alle guerre napoleoniche. Nel 1801, infatti, dopo la sconfitta dell’esercito francese, il popolo inglese ricavò non solo gli onori della vittoria militare ma anche un’eccezionale oggetto scoperto in Egitto da un ufficiale francese: la Stele di Rosetta. Con l’arrivo di questo prezioso reperto il museo di sua maestà britannica divenne una tappa obbligata per tutti coloro che volevano studiare la lingua egiziana. Nel 1802 vennero acquisite dal museo le prime grandi sculture fra le quali le più interessanti furono quelle della dea Sakhmet, splendidamente scolpite con teste di leonesse al posto di quelle umane. Altro reperto interessante fu il sarcofago di Nectanebo II faraone della XXX dinastia trovato ad Alessandria e usato, incredibile ma vero, come bagno pubblico con la conseguente foratura per fare defluire l’acqua! Quando l’oggetto arrivò al museo inglese non fu possibile de-

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cifrare i testi che lo ricoprirono al fine di determinarne l’identità. Da qui il malinteso, che dura ancora oggi, che quello sia il sarcofago di Alessandro il Grande. Con l’arrivo di queste statue colossali fu necessario creare delle nuove sale che ospitassero tutta una serie di gallerie dove poter contenere non solo le sculture egizie ma anche la cosiddetta Collezione Townley comprendente una ricca varietà di marmi classici e la testa in scisto verde rappresentante Amasio della XXVI Dinastia oppure Nectanebo della XIII Dinastia. Fu in questa galleria che arrivò l’enorme busto di Ramses II presentato da Henry Salt e Jean Louis Burckhardt nel 1817. Il sempre crescente interesse dell’Inghilterra per la terra dei faraoni fu enormemente soddisfatto dall’intrepida, colossale, avventuriera figura del più noto fra gli scavatori. Sto parlando naturalmente del padovano Gian Battista Belzoni. Grazie a lui il busto di Ramesse II arrivò al British Museum suscitando una grande meraviglia. Incoraggiati dal loro successo Salt e Belzoni si imbarcarono nuovamente alla volta dell’Egitto per acquisire altro materiale da vendere al Museo. In questa impresa Salt trovò il sostegno di Joseph Banks. Tuttavia ben presto il seme del dubbio si insinuò nella mente degli amministratori del museo, arrivando a sospettare che Salt volesse solo arricchirsi ai danni della nazione. Nel 1823 il drammatico epilogo: Salt e Belzoni vendettero per 2.000 sterline una grande collezione che comprendeva, fra l’altro, la grande testa di granito inizialmente identificata con Thutmosi III (solo di recente, nei pressi del tempio di Mut a Karnak, si è trovato il resto del corpo e, benché manchi di iscrizioni, gli studiosi sono convinti che la statua sia quella di Amenophis III); la collezione di Salt includeva sculture di Amenophis III (due grandi statue sedute in granito nero, un colossale busto in pietra calcarea, due meravigliose teste in quarzite) oltre alla statua seduta di Sethos II, una statua in granito nero dell’alto ufficiale Ser-Nefer e tre figurine lignee di Re della valle dei Re. Ma il vero capolavoro delle fatiche di Salt e Belzoni non giunse mai al British Museum. Si tratta del sarcofago in alabastro di Sethos I acquistato ed esposto ancora oggi nella casa privata di John Sloane a Lincoln’s Inn Fields a Londra. Nel 1827 muore Henry Salt il pioniere della formazione della collezione egizia del museo inglese.

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Note G. HÖLBL, Problemi fondamentali della ricerca degli Aegyptiaca nell’Italia arcaica, in L’Egitto in Italia dall’Antichità al Medioevo. Atti del III Congresso Internazionale Italo-Egiziano, Roma-Pompei, 13-19 Novembre 1995, a cura di N. Bonacasa et al. (Roma 1998), 1995, pp. 267-273. 2 G. HÖLBL, I rapporti culturali della Sicilia orientale con l’Egitto in età arcaica visti attraverso gli “aegyptiaca” del territorio siracusano, Siracusa, Quaderni Museo del Papiro, volume X, 2001, pp. 31-47. 3 S. DONADONI, S. CURTO, A. M. DONADONI ROVERE, L’Egitto dal mito all’egittologia, Milano, Fabbri, 1990, p. 226. 4 Ibidem, p. 232. 5 Ibidem, p. 236. 6 Ibidem, p. 241. 7 Ibidem, p. 249. 8 Ibidem, p. 272 9 Ibidem, pp. 165-188. 10 T.G. HARRY JAMES, The development of the egyptian collection in the British Museum, in C. Morigi Govi, S. Curto, S. Pernigotti, L’Egitto fuori dall’Egitto, Bologna, Clueb 1991, p. 255. 1

Capitolo III

La divulgazione dell’egittologia fuori dal contesto museale

Premessa L’enorme ricchezza di arte, meraviglia, mistero, ricerca, racchiusa nella civiltà nilotica non può essere compresa soffermandosi soltanto su quanto si è scritto, ovvero sul documento, e su quanto si è mostrato, ovvero sul monumento, deve arricchirsi di una terza voce: quella della parola, della comunicazione, della divulgazione al grande pubblico attraverso i moderni mezzi di comunicazione di massa. Massimiano Bucchi propone a tal riguardo un modello teorico basato sul concetto di “continuità” e, conseguentemente, sul rifiuto di quella vecchia filosofia che vedeva contrapposte, nettamente e senza possibilità di contatto, la scienza e la sua divulgazione. Il paradigma teorico che meglio di altri si presta a visualizzare le diverse tappe di questo “continuum” è rappresentato dallo schema di Cloître e Shinn1. I due studiosi identificano 4 livelli nella comunicazione pubblica della scienza schematizzabili come segue: – Livello intraspecialistico: in questo livello, il più elevato nella scala della scientificità prevalgono i dati empirici, i riferimenti allo stato degli studi, le descrizioni dettagliate delle sperimentazioni effettuate, i grafici. Il linguaggio è altamente specializzato comprensibile soltanto dai cultori della materia. Si situano a questo livello i paper, ovvero i lunghi saggi attraverso i quali, nel nostro caso, gli egittologi di tutto il mondo comunicano fra loro. – Livello interspecialistico: appartengono a questo livello due tipologie di testi: da un lato abbiamo gli articoli pubblicati su riviste specializzate, dall’altro possiamo trovare tutte le relazioni preparate in occasioni di convegni e seminari e destinate sempre agli scienziati ma, a differenza del precedente livello, di discipline differenti, nel nostro

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caso, dall’egittologia. In questo secondo livello il linguaggio, pur rimanendo settoriale, viene parzialmente semplificato e la conoscenza scientifica comincia ad essere epurata di tutti quei tecnicismi, presenti nei paper, che risulterebbero incomprensibili ad altri scienziati fuori dal campo di conoscenze di colui che scrive. – Livello pedagogico: questo terzo livello viene denominato da Fleck “scienza dei manuali”, intendendo i libri scolatici destinati ai ragazzi. In questo livello la scienza ha perso moltissima della sua problematicità per divenire un corpus di conoscenze consolidato e aproblematico. Il linguaggio inoltre è quello accattivante e divertente di chi scrive per i ragazzi cercando di coniugare educazione e intrattenimento. – Livello popolare: ultimo ma non meno importante livello di divulgazione del sapere scientifico al grande pubblico, il livello popolare si caratterizza per il suo contenere due tipologie di prodotti comunicativi. Da un lato troviamo, infatti, tutti quegli articoli pubblicati sull’antico Egitto nella stampa quotidiana o nei grandi settimanali, dall’altro lato abbiamo tutti i telegiornali, documentari, trasmissioni televisive, film, spot pubblicitari che in qualche modo avvicinano il grande pubblico ai misteri della terra dei faraoni. 3.1 Il livello intraspecialistico: da egittologo a egittologo A differenza degli articoli elaborati da una sola branca scientifica (ad esempio quelli di Fisica o di Matematica), i testi archeologici si avvalgono del lavoro di diversi scienziati appartenenti a differenti discipline. Occorre distinguere il punto di vista divulgativo da quello contenutistico. Nell’accezione divulgativa anche il saggio pubblicato su una rivista di archeologia è riservato alla comunicazione fra archeologi. Tuttavia sul piano dei contenuti differisce dagli altri paper per il suo essere aperto agli apporti di altre scienze a completamento della ricerca archeologica. La struttura concettuale e stilistica su cui porre le basi di un testo di archeologia egizia deve contenere alcuni elementi fondamentali come: 1) Le nuove ricerche archeologiche italiane e straniere effettuate. 2) La descrizione sommaria del sito. 3) Le ricerche precedenti.

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4) La schedatura e il rilievo planimetrico delle strutture archeologiche. 5) I vari settori indagati. 6) La morfologia e le fasi attraverso le quali si è evoluto l’impianto urbanistico. Un tale articolo dovrà essere concepito come un lavoro interdisciplinare, frutto della collaborazione di vari esperti di diverse branche scientifiche, organizzati sempre più spesso secondo la logica del gruppo di egittologi provenienti da tutto il mondo. La comunicazione fra egittologo ed egittologo non dovrà infatti esaurirsi soltanto nel chiuso di una logica prettamente ed esclusivamente egittologica, ma dovrà arricchirsi dei validissimi contributi forniti da scienze come la geologia, la chimica, la fisica, la topografia, la storia, l’antropologia, ecc… L’interconnessione del sapere è una delle più importanti consapevolezze della scienza contemporanea e non può non riguardare anche l’egittologia. Occorre sempre considerare inoltre che gli studiosi, scavando sul campo in territorio egiziano, spesso riscontrano la necessità di considerare il concetto di emergenza archeologica e quindi di tutela ad esso collegato. In altre parole, a livello metodologico, nell’approccio ad un sito occorre privilegiare un aspetto di tipo “topografico” in quanto attraverso questa disciplina, e strumento di analisi, si riesce ad indagare, in maniera non invasiva, tutte le strutture che affiorano dalla sabbia, individuando con grande celerità le emergenze archeologiche ovvero tutti quei resti che rischiano di essere spazzati via per sempre dall’azione dell’uomo o degli agenti naturali come il vento, la pioggia, ecc… Attraverso l’esame topografico l’egittologia raggiunge il duplice risultato di tutelare i reperti e di coniugare rigore scientifico e alta tecnologia riscontrabili nell’informatizzazione dei dati e nella georeferenziazione assoluta del sito. Elementi essenziali di tale articolo risulteranno costituiti da una preliminare piantina del sito, orientata verso il Nord, accompagnata da una ricognizione di tipo storico delle precedenti rappresentazioni visive del luogo (acquerelli, antiche planimetrie, schizzi trovati nei diari di viaggio) fino ad arrivare all’odierna planimetria dell’area di scavo. Molta importanza sarà data all’elemento fotografico, vera e propria star di questo tipo di indagini. Due le tipologie di fotografie utilizzate: generiche vedute di ampie porzioni del sito, ma anche scatti puntuali e mirati di precise, quanto minute, parti dei resti trovati. Ma una rappre-

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sentazione fotografica che abbia valore scientifico deve rispondere a dei criteri precisi, primo fra tutti l’indicazione abbreviata del nome del luogo, seguita dalla data, dalla sigla del settore con il numero della foto così come riportato in questo esempio: SOK. 14.11.01 SN 58 (A) (B) Questa didascalia, posta in una tavoletta di legno, associata alla relativa foto ci indica il luogo di provenienza (SOK = SOKNOPAIOU NESOS), la data (14 novembre 2001) il settore (SN = Settore nord), il numero dell’edificio (58) e i due lati da cui è stato fotografato (a e b)2. Tuttavia, seppur precisa, l’indicazione di ogni singola foto, non è sufficiente a garantire il rigore scientifico del testo. Occorre creare una lunga serie di didascalie all’interno delle quali indicare, per ogni singolo reperto, informazioni come tipologia (edificio, struttura, complesso, mura di cinta, abitazioni, templi), tipologia e colore dei materiali da costuzione (larghezza, lunghezza, altezza), la descrizione del reperto e la sua collocazione nella piantina generale del sito. Inoltre è possibile riprodurre delle ricostruzioni tridimensionali del sito per rendere più evidente la sua antica struttura. Sempre da un punto di vista iconografico è utile inserire una planimetria con indicazione degli edifici principali del periodo e anche con l’indicazione dell’andamento delle strade. Fondamentale risulta poi essere l’indicazione delle curve di livello, la ricostruzione tridimensionale dell’area con l’indicazione delle sezioni esaminate, ma anche l’indicazione della longitudine e della latitudine non di un singolo punto ma di più punti del sito, attraverso la trilaterazione e il GPS. Una ricca bibliografia, dall’ampio respiro internazionale, un nutrito elenco delle abbreviazioni, ma soprattutto un dettagliatissimo numero di note e citazioni, all’interno delle quali fornire persino le traduzioni dal geroglifico, insieme alla corposità in termini qualitativi e quantitativi di certi saggi, rendono questa tipologia di testo perfettamente inserita e compatibile con il livello intraspecialistico. Non bisogna dimenticare infatti che in questi testi vengono presentate nozioni estremamente complesse, con un grado di rigore linguistico assoluto, uno stile estremamente secco, puramente scientifico, ric-

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co di dati, numeri, tabelle, schemi. In questa fase la scienza è ancora al suo stato primordiale, colma di tutti i suoi dubbi, aperta ad ogni nuova scoperta, ansiosa di continuare a cercare risposte, ma soprattutto per nulla contaminata da esigenze spettacolari, di compiacimento del lettore, o di empatia verso l’oggetto di studio trattato. Siamo lontanissimi dall’afflato misterico e religioso di tanti testi esoterici, siamo lontanissimi dalla visione criptica e spettacolare della scienza in tv, siamo anche distanti dal successivo livello intraspecialistico, dove la scienza comincia a perdere rigore scientifico ma si apre a suggestioni poetiche e filosofiche. In definitiva i paper hanno la funzione di classificare e catalogare i risultati delle ricerche scientifiche al fine di fornire il substrato conoscitivo sul quale iniziare il lungo e lento lavoro di interpretazione dei dati e divulgazione dei relativi risultati tramite i livelli interspecialistico, pedagogico e popolare. 3.2 Il livello interspecialistico: dagli egittologi agli altri scienziati La seconda categoria del modello, è costituita dal livello “interspecialistico”. Dalla conoscenza del latino si può facilmente ricavare la differenza fra i due livelli denominati, non senza ragione, uno con il prefisso “intra” e l’altro con quello “inter”. Con il primo termine, come è noto, si intende designare un concetto che “sta dentro” ovvero, nel nostro caso, le comunicazioni che vengono elaborate all’interno della comunità degli egittologi. Con il secondo termine si suole indicare un modello di comunicazione fra due o più persone che non condividono lo stesso ambito di studi ma che sono, per esempio, un fisico e un egittologo. Ambedue i livelli quindi condividono la vocazione specialistica ma, mentre nel primo modello l’egittologo gioca in casa per così dire, nel secondo è in trasferta in un territorio che non conosce, davanti ad un auditorio di cui è certo non potrà pretendere la stessa competenza nella materia trattata. Da ciò una conseguenza importantissima che scardina il vecchio concetto di scienza, in questo caso egittologia, immutabile e indifferente alle varie situazioni e contesti comunicativi. Al contrario si profila uno scenario dove, il semplice fatto per cui prima ci si rivolgeva a degli egittologi, mentre ora, per esempio, a dei fisici, non è affatto privo di conseguenze, ma anzi trasforma non solo lo stile, ma anche la nozione stessa di ciò di cui si viene a dibattere.

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Per spiegare come avviene questo processo di metamorfosi del linguaggio e dei contenuti, è necessario esaminare una relazione scritta da Günther Hölb3 per un convegno di egittologia. L’articolo analizza i contatti fra la Sicilia orientale e l’Egitto in età arcaica, evidenziando il ruolo di centro promotore e di ponte strategico per l’intensificarsi di questi contatti nei secoli rappresentato dalla città di Siracusa. In questo contributo dobbiamo isolare due elementi: a) piano dell’espressione, b) piano del contenuto4. Tali concetti sono stati elaborati dal linguista danese Louis T. Hjelmslev nel 1947. Con il primo termine si indica il piano di manifestazione del segno, il primo aspetto immediatamente percepibile. Con il secondo si designa il livello mentale e concettuale del segno. Prima di andare avanti nell’illustrazione della teoria enunciata occorre definire il concetto di segno. Per pervenire a questa definizione occorre rifarsi alla teoria del linguista Ferdinand De Saussure5. Secondo lo studioso il segno è l’unione di due parti fra loro inseparabili, il significante, ovvero l’immagine grafica della parola, e il significato, cioè il contenuto di cui il segno è portatore. Data questa definizione si può comprendere come il piano dell’espressione di cui sopra non sia altro che lo stile con cui è scritta un’opera, comprendendo elementi come: 1) Punteggiatura 2) Lessico 3) Abbreviazioni 4) Note 5) Illustrazioni Allo stesso modo il piano del contenuto non è altro che il corrispondente del significato includendo dentro di sé tutta la vasta gamma di sensi che si celano in profondità sotto il livello della lettera6. È possibile osservare: 1) Ideologia 2) Personalità 3) Dubbi 4) Certezze Tornando al saggio citato occorrerà dunque interpretare distintamente i due livelli:

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a) Piano dell’espressione: dal punto di vista della punteggiatura si può agevolmente notare la presenza di moltissimi punti in media ogni tre o quattro righe. Questo utilizzo serrato del punto mette in evidenza la volontà di chi scrive di creare un testo dal ritmo incalzante, che mira a non fare perdere il filo del discorso ma, al contrario, a tenere desta l’attenzione del lettore su ciò che viene argomentato. Emblematica questa sezione della ricerca. Gli aegyptiaca di Siracusa arcaica provengono in gran parte dalla Necropoli del Fusco e dall’Athenaion. Il documento egiziano pù rappresentativo dell’area dell’Athenaion è costituito da tre frammenti di un vaso sferico di granito picchettato in bianco e in grigio. Essi vennero alla luce nel deposito votivo presso l’altare arcaico. Il frammento principale reca la parte restante d’una rappresentazione di Ramses II coi due cartigli davanti alla dea Hathor, Signora del Sicomoro Meridionale. A questo punto va precisato che i vasi in pietra egiziani con iscrizioni geroglifiche sono stati trovati molto raramente nei contesti pre-ellenistici dell’area italiana. Quindi questo vaso è un reperto straordinario e non tipico.

Inoltre è da rilevare l’uso dei due punti in funzione classica, come segni di interpunzione necessari quando si vuole sottolineare la natura di spiegazione di una certa affermazione. Tipico esempio nel testo: Se, quindi, ci interroghiamo sui modi e sui mediatori delle relazioni culturali più antiche fra l’Egitto e la Sicilia Orientale, avranno peso speciale i seguenti fatti: le relazioni strettissime fra gli scarabei di Villasmundo e di Pithekoussai innanzi indicate.

Argomentando in merito al lessico non si può fare a meno di notare la perfetta sintesi fra rigore scientifico ed esigenze divulgative. L’autore, infatti, ha saputo mescolare con arte parole tecniche come scarabeo, faïence, steatite, alabastro, aegyptiaca, ecc… con parole tratte dal linguaggio comune, come nell’esempio qui riportato. Il complesso di reperti più significativo di Aegyptiaca di Villasmundo proviene dalla Tomba numero 105 ricchissima di ornamenti e ceramica dell’ultimo quarto del secolo VIII a.C. Quanto ai dodici scarabei della tomba si tratta di pezzi egiziani di accurata lavorazione, probabilmente tutti di Età Libica, dei quali undici di steatite bianca perlopiù ben eseguiti, mentre uno con tutta probabilità di faïence.

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Questo sapiente dosaggio di linguaggi e lessici diversi rendono il testo agevole nella comprensione e di piacevole lettura anche grazie ad un uso attento di aggettivi, anche superlativi, per dare un tocco enfatico a quello che si sta dicendo e per aprire le maglie del testo anche all’interpretazione soggettiva di chi scrive. Possiamo trovare evidenze di quanto scritto in questo passaggio testuale: Dei vasetti della produzione greco-orientale trovati a Siracusa va menzionato solo un bellissimo alabastron che per di più è perfettamente conservato.

Infine è da rilevare, sempre in merito al lessico, l’abbondante uso di toponimi per designare località geografiche e rotte attraverso le quali l’arte egizia giunge fino a noi. Una piccola esemplificazione in questo brano: Gli Aegyptiaca appaiono nella penisola appenninica in continuazione, tuttavia non prima degli anni attorno all’Ottocento a.C. Per la prima metà dell’VIII secolo a.C. possiamo menzionare alcuni luoghi in Campania (Pontecagnano, Cuma e Capua) così come in Etruria (Veio e Tarquinia).

Apparentemente meno importanti, ma in realtà assai rilevanti per delineare il complessivo quadro espressivo del testo, le abbreviazioni presenti nella prima pagina che illustrano, nel dettaglio, i testi da cui sono tratte le sigle. Proprio in questo ambito si riconosce tutta la forma mentis dello scienziato, il rigore metodologico, la precisione nei dettagli, l’esigenza di rendere sempre e comunque intelligibile e rintracciabile il contenuto del suo saggio. Dal testo una chiara “prova” di ciò. Hölbl (1979) = G. Hölbl, Beziehungen der ägyptischen Kultur zu Altitalien, J-II, Leiden 1979 (= EPRO 62). Hölbl (1986) = G. Hölbl, Ägyptisches Kulturgut im phönikischen und punischen Sardinien I-II, Leiden 1986 (= EPRO 102) Hölbl (1998) = G. Hölbl, Vorbericht über die Arbeiten an den ägyptischen und ägyptisierenden Funden im Museo Archeologico Regionale Paolo Orsi von Syrakus im März 1997: Papyri 2 (1998) 49-74.

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Utili per comprendere la formazione del testo, le note non solo esplicitano le tradizionali informazioni del caso (autore, titolo dell’opera, città, casa editrice, anno di pubblicazione, e pagine di riferimento) ma anche, in perfetta consonanza con la rilevanza comunque archeologica del saggio, viene data indicazione degli scavi effettuati, indicando il chi, il quando, il numero della tomba. Altrove viene indicato persino il numero di inventario, come nella nota 11, dove a proposito di uno “scarabeo di steatite con castone d’oro”, viene indicato la sua presenza al museo siracusano “P. Orsi”, ma anche la sua catalogazione, 81471. Ecco l’esempio: Mus. P. Orsi, appartenente all’inventario 81471; pubblicato in Hölbl (1998), 61 e tav. VII, 2. 11

Nella nota 12 qualcosa è cambiato. L’autore per così dire entra nel testo con un operazione definita embrayage7. Intendiamo con questo termine il processo attraverso il quale lo scrittore ritorna indietro passando da un piano in cui la sua presenza era nascosta ad un piano in cui interviene in prima persona magari facendo una considerazione personale. Nella nota 12 questo fenomeno è evidente, in quanto chi scrive argomenta che esemplari simili allo scarabeo sopra descritto sono presenti solo in Egitto e a Pithekoussai. Fin qui tutto normale se non fosse che in nota leggiamo: Cairo, Museo Egizio, JE 75398 (collezione Fouad; secondo autopsia personale dell’A.).

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Ecco dunque materializzarsi sotto i nostri occhi il fenomeno sopra descritto, evidente nell’uso dell’aggettivo personale che indica la valutazione soggettiva dell’autore in merito alla somiglianza dello scarabeo siracusano con i modelli egizi. L’elenco delle illustrazioni, poste al fondo dello scritto, risultano completissime e molto dettagliate sia nell’indicazione delle misure dei reperti, che nel numero di inventario, che nell’indicazione del chi, dove, quando. Tav. I: Nove scarabei di steatite dalla tomba 105 di Villasmundo; Mus. P. Orsi, inv. 81470. Tav. III,1: Scarabeo di steatite con castone d’oro; 13,2×13,7×6,5 mm (misure con castone); Mus. P. Orsi, appartenente al n. d’inv. 81471; Villasmundo, tomba 105.

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Tav. IV,1: Vasetto in forma di porcospino; l’animale sta su una base e porta sul dorso la bocca degli aryballoi corinzi; di faience fine morbida bianco-giallastra; lo smalto originalmente verde è diventato beige per la massima parte e porta una serie di macchie brunastre nere, base: 47,8×29,4, mm, altezza: 51,5 mm; Mus. P. Orsi, inv. 11964.

b) Piano del contenuto: possiamo notare che, nell’ambito di quella che ho definito ideologia, grande risalto viene dato dall’autore alla interconnessione fra popoli e civiltà diverse. Traspare infatti un’autentica volontà di non considerare le evidenze archeologiche isolate nei loro specifici contesti, ma al contrario la voglia di intrecciare e riannodare antichi fili di antiche storie, storie di viaggi, di popoli che si muovevano, di genti del mare che attraverso il commercio entravano in contatto con una civiltà antica e misteriosa come l’Egitto. Emerge quindi evidente un’ideologia della mescolanza di popoli e culture e uno sforzo da parte dello studioso di non chiudersi entro gli angusti confini della regione di studi, in questo caso l’Egitto, ma di aprirsi un varco verso lo studio di come una cultura possa raggiungere ogni angolo del mondo. Non a caso possiamo leggere infatti: La scarsa stima goduta in passato dagli Aegyptiaca del I millennio era imputabile ad una loro valutazione superficiale che li equiparava ai manufatti rinvenuti in Egitto, senza coglierne le peculiarità storico-culturali. […] Sicché il primo criterio metodologico sta nella restituzione della dignità storico-culturale agli Aegyptiaca di epoca tarda tanto sottovalutati, e ciò può avvenire soltanto attraverso lo studio di tali reperti posti in connessione con le culture straniere che li accolsero e se ne servirono. […] Pertanto ogni Aegyptiacum deve essere considerato sotto due aspetti differenti e complementari, cioè quello egiziano e quello locale. […] La metodologia ulteriore concerne gli Aegyptiaca considerati in se stessi. Se essi portano segni di scrittura allora proveremo a interpretarli filologicamente, ma se non risulta alcun significat linguistico in tal caso il solo esame filologico chiaramente non è sufficiente. […] Può costituire un buon ausilio metodologico l’esame delle caratteristiche tipologiche. […] Questo è il metodo archeologico. […] Su questi due principi metodologici avanzati in questa sede, cioè l’esame degli Aegyptiaca in nesso coi loro contesti locali e l’esame delle loro caratteristiche tipologiche, bisogna insistere. […] Quindi la ricerca degli Aegyptiaca fuori dall’Egitto richiede uno spirito aperto per ogni metodo immaginabile insieme con la prontezza di registrazione perfino dei dettagli più piccoli.

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Ne consegue che, altro elemento celato sotto la “lettera”, è la personalità di uno studioso poliedrico, eclettico, affascinato dalle suggestioni dei popoli del mediterraneo, nonché desideroso di scoprire in che modo i reperti egizi furono modificati per adattarli alla cultura siciliana orientale. 3.3 Il livello pedagogico: la sistematizzazione del sapere Il livello pedagogico rappresenta la normalizzazione del sapere scientifico, la sua messa in pagina per l’eternità. Una volta, infatti, entrati nei manuali di milioni di studenti, di ogni ordine e grado, sarà difficilissimo “smontare” determinate teorie, soprattutto nel caso di una disciplina come l’egittologia piena di dubbi e di grandi domande. Fra i maggiori interrogativi ricordiamo: chi, quando e perché ha costruito la Piramide di Cheope? Inoltre qual è la vera età della Sfinge? Tante domande che quasi mai trovano spazio nell’editoria ufficiale destinata agli studenti. La rimozione di ogni elemento di “dubbio” a favore di una visione della scienza oramai codificata e apparentemente immodificabile, è dunque la prima grande caratteristica di tutti i prodotti mediali che appartengono a questo livello. Altro denominatore comune è rappresentato da una spiccata e crescente spettacolarizzazione del prodotto. Ritroviamo in questo contesto pienamente operativa la grande lezione della sociologia della comunicazione che subordina qualunque tipologia di atto comunicativo alla costante presenza del contesto e alla tipologia di target di riferimento. In altre parole, qualunque autore di un testo che si accosti al mondo egizio dovrà tenere in debita considerazione non solo l’esigenza di completezza, accuratezza e scientificità di quanto scrive ma anche il contesto in cui il libro verrà fruito e il tipo di uditorio a cui sarà presentato. Dovendo quindi riferirsi ad un “pubblico” di bambini e ragazzi e dovendo tenere in considerazione le differenze socio-economico-culturali, che intercorrono fra gli studenti, per appartenere al livello pedagogico, è necessario che i contenuti non siano troppo specialistici, senza per questo essere scadenti, che sappiano coniugare gioco e apprendimento, brio e serietà, intento educativo e logica dell’intrattenimento. Inoltre per risultare attraenti ad un lettore non ancora specializzato, questi prodotti dovranno curare molto gli apparati iconografici, i colori, prediligere un formato non troppo voluminoso, scegliere uno stile di scrittura “medio” che valorizzi, a volte, anche il linguaggio gergale dei ragazzi. A livello pedagogico dovranno infine

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evitare qualunque approccio moralistico, nozionistico o pedante, privilegiando invece, in massimo grado, la dimensione quotidiana dell’esistenza sforzandosi di trovare analogie con i problemi del mondo attuale, cercando di raggiungere l’obiettivo fondamentale di questo livello: l’identificazione e la fidelizzazione del lettore. Con il primo termine si intende la capacità di suscitare empatia, coinvolgimento emotivo nelle vicende narrate, facendo in modo che queste superino idealmente lo spazio e il tempo che ci separano da loro, e facciano sentire ancora tutta la loro attualità e pregnanza. Il premio è la fidelizzazione ovvero la bravura nell’agganciare il lettore e fare in modo che questi compri, anche in futuro, i volumi della collana. Identificazione, fidelizzazione, contestualizzazione del sapere, spettacolarizzazione presente ma moderata sono gli ingredienti vincenti per creare un prodotto mediale che risponda alle logiche del modello appena descritto. 3.4 Il livello popolare: l’antico Egitto nei documentari televisivi Intersecata, lungo un ideale continuum, con la storia della televisione italiana, la rappresentazione mediatica dell’antico Egitto muta con il cambiare delle strutture e delle logiche produttive del piccolo schermo, adeguandosi a stilemi e concezioni scientifiche sempre nuove e, a volte, divergenti. Stretta entro schemi sempre mutevoli, il fascino di re, tombe, mummie e piramidi viene declinato, a livello popolare, secondo una logica di “deviazione” più che di “divulgazione”. La strategia sociologica e strumentale che viene ad essere sottesa sotto il termine deviazione rende manifesta l’immensa potenza dei mass media, gli unici in grado di fornire il giusto, ma soprattutto immediato, risalto alle scoperte di qualunque scienziato senza aspettare i tempi lunghi, a volte anche anni, che intercorrono fra il momento della scoperta e la sua validazione da parte del mondo scientifico ufficiale. Appare dunque lapalissiana la ragione che rende la deviazione un formidabile strumento: in un mondo scientifico sempre più dipendente dai finanziamenti pubblici e privati, poter contare su una scoperta immediatamente e capillarmente divulgata rende l’accesso alle risorse economiche incredibilmente più agevole. Il ritorno di immagine e di denaro garantito subito dall’arena mediatica, contrapposto ai tempi lunghi di approvazione da parte del mondo scientifico, rendono la deviazione indubbiamente più appetibile della divulgazione.

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A livello televisivo occorre distinguere dunque le trasmissioni divulgative da quelle costruite sulla deviazione. Le prime saranno infatti incentrate sulla rappresentazione dell’antico Egitto all’interno di programmi dedicati in tutto o in parte a tale argomento. In queste trasmissioni potremo riscontrare inoltre la presenza di filmati raccolti dalle sale dei moderni musei del mondo. La contestualizzazione, all’interno degli ambienti museali, degli argomenti proposti tende infatti a conferire loro lo status di fatto incontestabile8. A livello sostanziale, inoltre, i programmi di divulgazione propongono un tipo di informazione relativamente scontato, inseguendo il modello retorico della celebrazione9, enfatizzando dunque i risultati raggiunti e celebrando, per l’appunto, la solidità delle teorie proposte e dei modelli presentati. Nelle trasmissioni invece costruite secondo la logica della deviazione a livello formale, non potremo non constatare l’abbondanza di informazioni presenti in contesti non propriamente legati al tema in questione. Inoltre il ricorso alla deviazione rende oscuro al telespettatore l’esito della comunicazione. La deviazione agisce dunque come un buon film giallo, lasciando inalterato, fino alla fine, l’alone di mistero. Punto cruciale del discorso appare dunque la consapevolezza che, nella deviazione, il messaggio, proiettato a livello pubblico, subisce una manipolazione che potrà essere positiva o negativa. L’uso dei media sarà proficuo se, scavalcando i rigidi protocolli e le gerarchie della comunità scientifica, allontanerà il rischio che la ricerca venga modificata e resa più innocua nella sua carica innovativa, magari per salvaguardare delle posizioni giudicate oramai immodificabili. Sarà dannosa se, coinvolgendo subito i media, il messaggio verrà trasformato in un qualcosa di diverso dall’originale ma più funzionale a logiche di potere economico, politico o religioso estranee all’autentico spirito scientifico. Se dunque finora ci siamo occupati della descrizione generica delle caratteristiche delle trasmissioni divulgative e deviative, occorre adesso entrare nello specifico e parlare della più importante trasmissione divulgativa italiana: “Superquark”. Un documentario in particolare appare molto interessante per la nostra analisi, il suo titolo è “La battaglia di Megiddo”. Il programma narra la storia del faraone Tuthmosi III. Asceso al trono, in giovane età, alla morte della regina Hatshepsut, il nuovo re si trova costretto a fronteggiare la rivolta siriana contro l’Egitto. Il 15 maggio del 1458 a.C. si svolge la battaglia fra l’esercito egiziano e

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quello siriano. Teatro degli scontri è la città di Megiddo, vicino Gerusalemme. La vittoria arride a Tuthmosi III, da quel momento faraone potente e temuto di tutto l’antico Egitto. Per isolare le caratteristiche salienti del programma occorre elencarne le micro-unità narrative di cui è composto. Esse vengono esplicitate sotto forma di brevi incisi. Ecco le tematiche trattate dagli excursus presenti nel programma10: 1) Sulla scrittura geroglifica 2) Sul potere delle icone 3) Sui vari tipi di talismani portafortuna 4) Sul ruolo dei portafortuna nel mondo di oggi 5) Sulla provenienza etnica e condizione economica dell’esercito 6) Sull’addestramento delle reclute 7) Sulla vita del soldato semplice 8) Sulle pratiche mediche per curare i feriti 9) Sui riti funebri 10) Sul ruolo dei bambini prigionieri 11) Sulla storia di Megiddo 12) Sulle regole di ingaggio dei soldati 13) Sulla mummia di Tuthmosi III 14) Sulla vita privata e pubblica del faraone 15) Sui palazzi egizi 16) Sulle abitudini alimentari 17) Sulla condizione della donna 18) Sull’Egitto a Roma 19) Sugli imperatori romani in Egitto 20) Sull’egittomania oggi: la tomba di Beyern Venti piccoli mosaici compongono dunque il grande puzzle della trasmissione conferendole un carattere fortemente eterogeneo. Accanto, infatti, al troncone principale, rappresentato dal resoconto della battaglia, si fornisce al telespettatore la possibilità di comprendere meglio la storia di questo paese, suscitando la sua curiosità anche su aspetti meno evidenti. Ad esempio gli incisi 3) e 4) si legano con la storia di Amose, mite e laborioso contadino che viene reclutato forzatamente nell’esercito del suo paese e a cui la moglie affida un talismano nella speranza di proteggerlo dai pericoli della guerra. L’inserimento di questi due incisi è funzionale ad un intento pedagogico, volto a suscitare interesse e curiosità verso aspetti antropologici, religiosi e psicologici che non fanno parte della storia ufficiale ma

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rispondono all’esigenza di parlare anche degli uomini e delle donne del tempo, delle loro paure, delle loro aspettative, del loro vissuto. Piero Angela ha voluto costruire un documentario facendo tesoro dell’insegnamento erodoteo, ma anche della moderna storiografia, che vuole che dei fatti storici non sia evidenziato solo il carattere politico, economico e militare, ma anche sociale, umano e culturale. Solo così è possibile trovare il nesso che collega la battaglia di Megiddo con gli ultimi incisi – dal 14) al 20) –. Questi più di ogni altro dimostrano la volontà di offrire una tipologia trasversale di divulgazione e, di conseguenza, una visione del tema dove attori principali non siano solo faraoni e regine ma anche un semplice contadino come Amose. L’agire di questi attori, principali e secondari, viene ad essere costruito seguendo una sottile trama invisibile che lega indissolubilmente le azioni degli uni e degli altri, facendo ricadere le sorti del paese dalla coerente messa in scena delle azioni e delle passioni di ogni singolo partecipante. Ne viene fuori una visione corale degli eventi, dove ciascuno occupa il proprio posto nella risoluzione del comune problema. Il documentario si presenta così simile ad una fiaba, all’interno della quale è possibile riconoscere una struttura profonda che soggiace alla specificità del tema, e sopra la quale vengono edificati tutti i 20 incisi precedentemente esposti. Una teoria nota come “Programma Narrativo Canonico”, elaborata da Greimas, si basa sulla constatazione che potranno cambiare personaggi e situazioni, ma vi è una struttura profonda del racconto che non cambia mai. Questa logica è il risultato di 4 momenti diversi che servono a creare la struttura profonda, la maglia originaria sopra la quale vanno ad inserirsi i contenuti specifici. Questa rete organizzativa è formata da: – Manipolazione – Competenza – Performanza – Sanzione Applicando questa teoria alla trasmissione avremo che: a) Nella manipolazione il destinante affida l’incarico all’eroe: Tuthmosi III è il mandante o destinante dell’azione. Da lui viene l’ordine al suo esercito (eroe) di combattere per la patria. b) Nella competenza l’eroe deve acquisire alcune modalità che gli permetteranno di agire. Queste modalità sono dovere, volere, potere,

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sapere: i combattenti devono e vogliono combattere, si addestrano per saperlo fare e quindi per poterlo mettere in pratica. c) Nella performanza l’eroe si scontra con l’anti-eroe. Per vincere deve trovare degli aiutanti. Ma anche l’anti-eroe cercherà i suoi alleati, ovvero gli opponenti dell’eroe. Colui che vincerà avrà in cambio l’oggetto di valore che può essere sia materiale che immateriale: in questo caso l’oggetto di valore è sia materiale (il bottino per i soldati) che immateriale (la gloria per il re). d) Nella sanzione il destinatario e il destinate giudicano l’azione dell’eroe: il popolo egizio (destinatario) arride alla vittoria del suo esercito. Aggiungiamo adesso alla teoria di Greimas quella della morfologia della fiaba elaborata da Propp. Tale teoria sostiene che alla base di qualsiasi racconto vi sia una situazione iniziale nella quale si registra la rottura di uno stato di equilibrio. Segue poi una serie di prove che il soggetto deve affrontare e infine la risoluzione del problema. I partecipanti all’azione possono quindi, secondo Propp, assumere dei ruoli attanziali ben precisi. Definiamo un attante non una persona in carne e ossa ma un ruolo che verrà poi concretizzato da un attore reale. Gli attanti sono 6: – Destinante: colui che da l’incarico – Destinatario: il beneficiario dell’azione – Eroe: il protagonista dell’azione – Anti-eroe: colui che deve sconfiggere l’eroe – Aiutante: colui che deve aiutare l’eroe – Oppositore: colui che deve aiutare l’anti-eroe Riepilogando i ruoli presenti nel programma noteremo che: – Destinante: è Tuthmosi III in persona il mandante della sua stessa azione. Ma lo è anche la memoria di sua madre e della grandezza del suo paese. Lo è il suo popolo che non vuole sottomettersi allo straniero. Lo sono le ragioni economiche che impediscono ad un re di accettare di perdere territori. Lo è la smania di potere che anima il faraone alla ricerca di fama e gloria. Lo è infine anche l’incoscienza di un giovane sovrano che si cimenta in un’impresa grandiosa per dimostrare il suo valore e il suo essere uomo degno di rispetto e di timore

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– Destinatario: l’Egitto e la sua grandezza sono i destinatari delle azioni del suo re – Eroe: è l’esercito – Anti-eroe: è il principe di Cadesh – Aiutante: è Amose che combatte con l’esercito agli ordini del sovrano – Oppositore: è l’armata siriana agli ordini di Cadesh La lunga storia narrata nel programma può essere letta così: – Manipolazione: il popolo egizio “incarica” il suo sovrano di difendere e accrescere la potenza della propria patria. – Competenza: Tuthmosi III possiede tutte e quattro le competenze in quanto “vuole” andare in guerra per difendere se stesso e il suo paese dallo straniero. Al tempo stesso “deve” andare in guerra per provare a tutti che lui è un uomo e un sovrano forte. Inoltre “può” andare in battaglia perché dotato di un esercito ben preparato e addestrato. Infine “sa” quando è necessario dimostrare coraggio e temerarietà. – Performanza: la battaglia infuria e ogni sorta di atrocità viene commessa. Viene fatto scempio dei cadaveri da parte dell’esercito egiziano in cerca di oro da sottrarre ai nemici. Tuttavia anche in questo caso, la performanza del faraone è impeccabile. Deplora il comportamento dei suoi generali che non hanno inseguito il nemico fino dentro le mura di Megiddo impegnati come erano a pensare al bottino. – Sanzione: non può che essere enormemente positiva, sancita dalla gloria dei posteri, il cui ricordo di questo faraone conservano indelebile nella memoria. L’adozione di una simile lettura del programma, si rivela efficace anche per comprendere l’atteggiamento profondo che contraddistingue questa come la trasmissione divulgativa per eccellenza. Leggendo tra le righe appare evidente come vi sia stata una scelta di divulgare la contraddizione fra sapere scientifico e sapere pseudo-scientifico e quindi l’insanabile contrarietà fra ragione e mistero11. Nella superiorità della scienza e della ragione, sulla mitologia e sul mistero, sta tutto il senso di questa rappresentazione televisiva dell’Egitto e della sua storia. Questo è ciò che rende il programma di Piero Angela sull’Egitto perfettamente compatibile con le caratteristiche formali e sostanziali proprie della divulgazione.

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Ma per comprendere non solo il cosa viene comunicato (significato) ma anche il come viene divulgato (significante) dobbiamo concentrare la nostra analisi su due livelli12: – Modus: indicante l’atteggiamento di chi parla nei confronti del tema trattato – Concezione della scienza: ciò che emerge dal tema trattato e dal modo in cui viene esposto. A livello del modus, l’atteggiamento di Piero Angela è tipicamente da debrayage13. Con questo termine, coniato ancora una volta da Greimas, si indica l’atto di allontanamento del soggetto empirico reale dalla trasmissione televisiva e la conseguente instaurazione di un soggetto dal forte valore simbolico. Il conduttore, in altri termini, è il soggetto empirico reale. Durante il documentario esce fuori dalla trasmissione e instaura un tipo di divulgazione che mira a fare in modo che i fatti parlino da soli, che la spiegazione degli avvenimenti non sia sempre delegata alla figura del conduttore, ma che provenga dalle voci di Amose, del faraone e dei suoi soldati, da Alberto Angela, che interviene alla fine della trasmissione per introdurre i temi degli ultimi incisi – dal 16) al 20) –, da Zahii Hawass intervistato per parlare di Tuthmosi III. In questo modo viene data l’impressione di una distribuzione del controllo del sapere fra più attori. In realtà, alla base di questo modus divulgativo c’è infatti una totale accentrazione nelle proprie mani del controllo sulla conduzione, un potere così forte da poter consentire, paradossalmente, al conduttore di far credere che esso possa venire ridistribuito. A livello del modus dunque Piero Angela si dimostra un tipo di conduttore che si manifesta come attore principale, unico e solo autorizzato a mettere ordine in merito al tema trattato. Non a caso all’inizio del documentario, proprio dal conduttore vengono esplicitate alcune caratteristiche del prodotto mediatico che ci si accinge a vedere, chiarendo ad esempio la volontà di rimanere quanto più fedeli alla storia narrata, utilizzando, in alcuni dialoghi, un mix di italiano ed egiziano antico. In questo modo la presenza non di “un” conduttore ma “del” conduttore è da sola sinonimo di chiarezza, serietà e professionalità. Piero Angela con il suo linguaggio, i suoi esempi illuminanti, la sua sottile ironia, ma anche un sobrio divismo, è il divulgatore moderno, colui che si avvicina molto di più al giornalista di successo che al professore universitario.

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La sua divulgazione dell’antico Egitto è arricchita dai generi televisivi di maggiore successo, interviste esclusive, grande qualità delle immagini, attori professionisti, ma anche una costruzione da sceneggiato, termine che lo stesso conduttore usa durante il documentario. Inoltre anche in questa puntata emerge la convinzione che una buona divulgazione dipenda da quanto il divulgatore sappia far comprendere a tutti i concetti chiave dell’argomento trattato, secondo una logica gnoseologica perfettamente ordinata e razionale, dove ogni segmento è collegato all’altro e dove la ragione non lascia alcuno spazio al mistero. Anche nella storia di Tuthmosi III l’intento è didattico-emancipativo: ovvero si vogliono fornire strumenti adeguati per interpretare il passato in maniera corretta e vivere meglio il nostro presente. Nella costruzione del patto comunicativo si conferma il cosiddetto principio di autorità: lo spettatore, in altre parole, riceve un prodotto già organizzato, semplificato, ricco di comparazioni, di esempi tratti dalla vita comune, come quello sul potere ancora attuale dei talismani portafortuna, pronto per la fruizione da parte del pubblico. Da quanto detto finora sulla “Battaglia di Megiddo” possiamo trarre qualche inferenza anche sulla concezione della scienza che emerge dal programma. Si tratta di una visione positivistica che vede la scienza come un mezzo indispensabile per il progresso dell’umanità. Tuttavia dietro questa esaltazione si cela, paradossalmente, un nuovo dogmatismo di fondo. La scienza assume il ruolo della metafisica divenendo […] Metanarrazione con valore autoleggittimante ed emancipativo14.

Dietro un’apparenza descrittiva dei fenomeni, si cela dunque un sapere che descrive solo ciò che appare, quindi per definizione aproblematico. Anche questo documentario, infatti, non solleva dubbi, non crea problemi, non pone domande se non quelle alle quali sa di potere dare una risposta precisa e unanime. Al telespettatore spetta dunque il compito di prendere atto dei contenuti proposti, presentati come immodificabili, veicolanti un tipo di sapere che si presenta come imitazione di un ordine eterno e immodificabile. Manca ogni accenno alle controversie attraverso le quali si è giunti a quella conoscenza scientifica, manca ogni riferimento alle metodologie, ma soprattutto viene bandita ogni ipotesi di autocorregibilità delle teorie. La rappresentazione dell’antico Egitto non è mai stata così ortodossa, non è mai stata così scientifica, non è mai stata così autoritaria.

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3.5 Gli enigmi dell’antico Egitto: da “Stargate” a “Voyager” Il significante e il significato, la forma e l’espressione, la divulgazione e la deviazione. Dall’oppisizione di significato celata dietro i concetti di divulgazione e deviazione, si situa tutta la complessità e la diversificazione che intercorre fra “Quark” e “Voyager”, fra Piero Angela e Roberto Giacobbo. Entrambi protagonisti indiscussi del panorama divulgativo scientifico televisivo italiano, entrambi carismatici e dotati di grandi doti comunicative, tuttavia così diversi nel loro approccio alla scienza, all’egittologia, oserei dire alla vita. Nel loro modo di divulgare la conoscenza sull’antico paese delle piramidi ritroviamo tutta la diatriba fra ragione e mistero, fra certezza e dubbio, fra divulgazione e deviazione. Abbiamo visto, infatti, come Piero Angela abbia costruito la sua battaglia di Megiddo, come abbia privilegiato solo i fatti accertati, come non abbia lasciato spazio ad alcun dubbio, come abbia accentrato su di sé tutta la comunicazione, quale concezione della scienza e del pubblico abbia veicolato, ma soprattutto ci siamo resi conto di quanto, paradossalmente, metafisica e salvifica appaia la scienza così come presentata in tutti i suoi documentari. Se quindi come telespettatori vogliamo soltanto un sicuro e imperturbabile rifugio da tutte le nostre domande sulla storia e civiltà dei faraoni, non vi è dubbio che nella trasmissione di Piero Angela quel luogo sicuro lo abbiamo trovato. Se invece non siamo mai paghi delle certezze comminateci, se vogliamo provare il brivido dell’incertezza, lo sguardo, insieme impaurito e impavido, di chi chiede perché anche oltre le apparenze, se vogliamo sentirci come un moderno Odisseo, non potremo non apprezzare Giacobbo e le sue eterne domande. Con lui entra in scena il concetto di “deviazione”, ovvero quel tipo di comunicazione di cui non si conosce a priori l’esito finale, una tipologia di diffusione del sapere che sfrutta la pubblica arena della televisione per esporre teorie, mostrare filmati, accendere il contraddittorio senza passare da tutti i livelli di verifica del sapere scientifico (livello intraspecialistico, interspecialistico, pedagogico) previsti nel modello della divulgazione. Giacobbo ci introduce nel regno di misteri ancora da spiegare, di storici e violentissimi contradditori fra un egittologo come Zahii Hawass e tre archeologi eretici come Bauval, Hancock e West che smentiscono tutte le teorie ufficiali sull’origine degli egizi e delle piramidi. Con questo tipo di conduzione insomma scopriamo un mondo che assai difficilmente vedremmo in “Quark”. Un mondo dove la scienza ritrova il suo antico e

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più prezioso amore: il dubbio e quindi la voglia di non accontentarsi mai di teorie formulate “una volta per tutte” ritenute, spesso con dogmatismo, assolute, eterne, infallibili, un microcosmo popolato anche da misteri, e da una immaginaria, ma non troppo, porta delle stelle, come nel celebre film Stargate in cui il dott. Daniel Jackson, un giovane archeologo, scopre e dimostra il legame fra le Piramidi di Giza e una civiltà aliena che le ha costruite. La traduzione inglese di porta delle stelle è appunto Stargate, ovviamente una linea di confine! Niente altro che il titolo di una delle due trasmissioni analizzate in questo paragrafo. Fra la “paleo” Stargate su La7 e la neo Voyager su Rai Due un sottile filo rosso unisce, in un mirabile cerchio, le motivazioni che soggiacciono ai due titoli: non si può immaginare, infatti, di vivere l’incredibile esperienza di visitare il paese regno delle Piramidi senza viaggiare. Da qui Voyager, ovvero viaggio analizzato, ancora una volta, ponendosi ai confini della conoscenza! Voyager è anche il nome della Nave Interstellare comandata dal Capitano Kathryn Janeway nell’omonima serie televisiva di Star Trek, ma è altresì il nome della Sonda Spaziale lanciata dalla NASA nel 1977 per esplorare il sistema solare esterno. Ecco dunque che la magia delle stelle, la necessità e la voglia del viaggio, ma soprattutto l’incoscienza di cimentarsi in un percorso conoscitivo che conduce non verso lidi sicuri e ben noti ma di confine, questi sono i tre elementi chiave per comprendere le forme, le tinte, i colori e i soggetti che Giacobbo dipinge sul piccolo schermo quando parla di antico Egitto. È interessante analizzare quattro puntate, tre di “Voyager” e una di “Stargate”, inerenti al tema egiziano per comprendere meglio lo stile di conduzione, la concezione dell’egittologia del conduttore, il patto comunicativo instaurato sia con il pubblico che con gli esperti nonché il tipo di conoscenza veicolata. Le quattro trasmissioni sono: 1) I misteri di Cheope: in questa puntata di “Voyager” momento topico è rappresentato da un’inedita intervista ad un archeologo italiano che, insieme ad una sua collega, raccontano di come, nella stanza del re dentro la piramide di Cheope, i loro orologi segnassero un tempo di 10 minuti quando invece erano trascorse 3 ore. 2) Egitto dal cielo: sempre in “Voyager” viene mostrata l’arrampicata del conduttore e di Zahii Hawass sulla piramide di Cheope. Raggiunta la cima i due protagonisti cominciano a dialogare sui numeri della piramide, sulla sua forma curva, sui suoi angoli perfetti, sul suo allineamento con i pianeti.

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3) Luci e misteri in Egitto: tema principe di questa puntata di “Stargate” sono i lastroni con incisi i geroglifici conosciuti come lampade di Dendera assimilabili all’ottocentesco Tubo di Crooks e la presunta conoscenza degli egizi delle tecniche radiografiche ai raggi X. 4) Esplorazione robot: emozionante momento in cui tutti i telespettatori di “Voyager” vedono l’ingresso del robot, nella piramide di Cheope, nel cunicolo che parte dalla stanza della regina. Alla fine delle immagini viene scoperta un’altra porta. Già dai titoli, oltre che dai temi, emerge chiara la volontà di sondare molti enigmi irrisolti incentrati soprattutto sul tema delle Piramidi, o per meglio dire della grande piramide di Cheope. In tre su quattro puntate, infatti, questa imponente opera architettonica viene esplorata dentro e fuori, cercando di far luce sui suoi misteri, attraverso l’interpretazione dei numeri della costruzione, ma anche attraverso i moderni ritrovati della tecnologia, come il robot, che penetra nei condotti della piramide alla ricerca, vana, della stanza di Cheope. Appare interessante notare inoltre che nel documentario I Misteri di Cheope venga citata, dalle parole dello storico e geografo Ibn Fadlallah al’-Umari nel 1300, la rivelazione che [...] Ogni cosa teme il tempo. E il tempo ha paura delle piramidi15.

Momento culmine, infatti, della puntata è rappresentato dall’intervista inedita a due stimati archeologi che narrano la loro incredibile storia. Recatisi di mattina presto nella piramide di Cheope soggiornano al suo interno per circa 10 minuti. Il loro tempo di permanenza è per così dire monitorato dai loro due orologi. Durante questi 10 minuti accade qualcosa di strano: entrambi vedono, infatti, una luce intensa che li abbaglia. Usciti dalla piramide si vedono accusare dal guardiano di comportamento scorretto, essendo rimasti dentro la costruzione per più di 3 ore! Cosa è successo si domanda Giacobbo? Si può ragionevolmente credere che dentro le piramidi il tempo scorra diversamente? Ancora una volta un mistero, ancora una volta un enigma irrisolto. Ma l’antico Egitto non è solo piramidi, è anche lampade di Dendera che, secondo alcune interpretazioni, possono essere considerate le prime apparecchiature radiografiche dell’umanità. Al di là dei temi trattati, è comunque ravvisabile una struttura di base che soggiace a tutta la produzione divulgativa sull’antico Egitto da parte di Giacobbo. Elementi essenziali di questa organizzazione sono:

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– Titolazione: nella costruzione dei titoli vengono utilizzate varie tecniche di volta in volta diverse. In riferimento alle 4 trasmissioni citate, possiamo notare che il primo titolo I misteri di Cheope si configura necessariamente come un titolo interpretativo-cognitivo16, proponendo una chiara ed esplicita chiave di lettura al programma e condizionando fin dall’inizio l’atteggiamento cognitivo del telespettatore. La scelta di Egitto dal cielo appare come una decisione più “neutra” da un punto di vista patemico. Si tratta perciò di un titolo chiaramente iconico, dato che lo sguardo del telespettatore viene simbolicamente guidato fin sopra la cima delle piramidi, là dove le immagini (quindi le icone) di ciò che sta intorno appaiono incredibili e spettacolari. Tuttavia questo titolo non è solo iconico ma è anche narrativo in quanto racconta l’avventura di due uomini, Hawass e Giacobbo, che scalano la piramide di Cheope alla ricerca di risposte alle loro domande. Da un titolo iconico siamo dunque passati ad un titolo narrativo ma anche interpretativo-cognitivo perché guardare il paese nilotico dall’alto vuol dire cambiare prospettiva, quindi interpretazione delle cose, quindi cognizione sugli eventi. La motivazione che soggiace alla decisione di titolare una puntata Luci e misteri in Egitto viene spiegata attraverso la volontà di ricorrere a un titolo dichiaratamente interpretativo-cognitivo, ma con una punta di patemico rappresentata dall’accostamento di luce a mistero. Creando un vero e proprio ossimoro, si lascia ad intendere al telespettatore che non sempre luce è sinonimo di chiarezza e di certezze, ma che a volte, come nel caso di Dendera, davanti a certe luci si può restare sgomenti, senza risposte. Volendo essere particolarmente smaliziati si potrebbe addirittura scorgere un sottile legame con il mondo alieno, da sempre raffigurato a livello iconico e nell’immaginario collettivo, come una presenza dalle strane e sinistre luci nel cielo. Infine dietro Esplorazione robot si nasconde un titolo solo all’apparenza informativo, e neutro dal punto di vista emotivo, mentre in realtà ci troviamo davanti al titolo patemico per eccellenza. Vi è infatti tutta la tecnologia umana applicata alla scienza e alla scoperta. Tuttavia tale esplorazione è altamente pericolosa, rischia di sconvolgere millenarie certezze, radicate convinzioni in grado di mostrare una verità verso cui nessuno è preparato. Inserito nel contesto di “Stargate”, nella psicologia del suo conduttore, nelle tematiche trattate, questo titolo assume una valenza profonda molto diversa da quella che appare, configurandosi come uno strumento dall’altissimo potere dissacrante rispetto a consolidate teorie.

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– Ambientazione: cifra essenziale delle 4 puntate è la loro natura di ricerca sul campo. Da questa scelta discende logicamente la volontà di Giacobbo di recarsi personalmente in Egitto proponendo dunque come location televisiva gli straordinari paesaggi del paese nilotico. Tuttavia anche nella scelta dell’ambientazione dei documentari vi sono due elementi da non trascurare. Ad integrare la naturalità di tali paesaggi vi è sempre la componente tecnica televisiva, che esplica la sua potenza attraverso un sapiente ricorso alle luci, al montaggio registico, in modo che le immagini che vengono trasmesse non saranno mai totalmente pure così come apparirebbero ad un qualunque turista, ma siano sempre particolarmente spettacolari per garantire il giusto equilibrio fra naturalismo documentaristico e spettacolarizzazione, ineludibile per qualunque trasmissione televisiva. Emerge dunque chiaramente, anche in merito all’ambientazione, una lettura denotativa, quindi superficiale, dell’immagine e una connotativa, ovvero profonda, di ciò che viene mostrato. Su questo secondo livello possiamo infatti notare la presenza di un concetto fortemente ideologizzato che utilizza le immagini come strumenti per comunicare messaggi profondi. Ad esempio la volontà di creare spesso immagini della piramide di Cheope contro il cielo stellato evidenzia molto bene la sottolineatura del legame fra il cielo e le costruzioni egizie con chiaro intento di traslare un manufatto umano in una dimensione celeste e sovraumana. – Stile di conduzione: il modo suadente di comunicare, la voce calda e profonda, il ritmo del parlare da cantastorie che ammalia con la sua voce chiunque lo ascolti, la scelta delle parole sempre misurata, mai casuale, a metà strada fra il detto e il non detto, questi e molti altri elementi rendono lo stile di conduzione di Giacobbo veramente inconfondibile. Uno stile fortemente connotato e abilmente ideologico che mette in luce la volontà di configurarsi come i saggi dell’antichità, che venivano da tutti seguiti e ascoltati proprio perché consapevoli di non sapere. In realtà, dietro questa professione di ignoranza, sappiamo tutti molto bene che si celava una grandissima conoscenza dell’argomento, e che questa pseudo umiltà era funzionale all’accoglimento da parte dell’uditorio delle idee proposte. In altre parole dallo stile di conduzione di Giacobbo emerge molto chiarente l’immensa efficacia comunicativa del porsi non da maestro ad allievo, come avveniva in “Quark”, ma come uomo alla pari, che proprio perché si mostra portatore delle medesime conoscenze del pubblico, paradossalmente viene percepito come saggio e latore di una verità non imposta ma abilmente negoziata.

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Attraverso l’analisi di queste due tipologie di programmi possiamo agevolmente constatare come il dogmatismo del sapere, tipico di “Quark”, e il relativismo della conoscenza spinto alle sue più profonde conseguenze, con “Stargate” e “Voyager”, non sono altro che due facce della stessa medaglia, due modi di interpretare la divulgazione egittologica televisiva non contrapposti ma complementari. Anche se, infatti, in apparenza ci troviamo di fronte ad una insanabile contraddizione fra i due stili, in realtà in questa contrapposizione si cela tutta la ricchezza della scienza capace di offrire di se stessa un’immagine sempre mutevole, sempre cangiante. L’egittologia, proprio in virtù dell’immensa ricchezza di forme e di contenuti, viene a costituire il terreno fertile ora per consolidate certezze, ora per tormentosi dubbi, ora per accademici e libreschi studi, ora per straordinarie avventure. Anche la televisione italiana si è dunque dovuta adeguare a questa poliedricità di significati, inscritta indelebilmente nell’egittologia, garantendo una polifonia di voci e assumendosi il lodevole compito di presentare al grande pubblico il pathos di Giacobbo e l’ammaestramento di Piero Angela. 3.6 L’antico Egitto spiegato al popolo: articoli, inserti, gadget Il livello popolare si colora dunque delle infinite sfaccettature delle trasmissioni televisive, della diatriba fra divulgazione, portata avanti da Piero Angela, e deviazione, abilmente proposta da Roberto Giacobbo. Ma non soltanto il piccolo schermo ha contribuito a diffondere la conoscenza fino alla mania dell’antico Egitto. Nelle pagine precedenti abbiamo visto come con gli obelischi gli antichi romani manifestarono il loro plauso, la loro ammirazione, il loro stupore verso la civiltà dei faraoni, quegli stessi sentimenti animano oggi milioni di persone in tutto il mondo. Nella cinematografia, nell’opera lirica, nella letteratura per secoli si è edificato l’immaginario collettivo di stampo egittizzante. Oggi si continua ad alimentare questa moda anche attraverso i prodotti editoriali della De Agostini o della Fabbri Editori che rappresentano il lodevole tentativo di saziare la fame di conoscenza sull’Egitto da parte di chi “ne vuole sapere di più” senza però pretendere di possederne una conoscenza approfondita. Utili leve dunque per stimolare il lettore verso un tipo di sapere più complesso e articolato, questi inserti vengono spesso abbinati alle riviste oppure preparati come prodotto editoriale a se stante. Al di là delle caratteristiche proprie di ogni

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lavoro editoriale, è possibile isolare alcune caratteristiche comuni a tutti gli inserti. Ecco le principali: – Tematizzazione: cioè una particolare costruzione della notizia basata non tanto sulla trattazione di singoli temi del tutto slegati fra loro, ma, al contrario, sulla scelta di uno o due temi attorno ai quali far ruotare tutto il contenuto dell’inserto. – Monografia: questi inserti vengono costruiti editorialmente secondo le regole della monografia, ovvero del saggio breve incentrato su uno o, al massimo, due temi. – Spettacolarizzazione: la cura dei colori, la presenza di grandi e belle fotografie, l’inserimento di box all’interno della pagina con brevi trattazioni di curiosità, aspetti inusuali o legati alla vita quotidiana, sono tutti strumenti atti a privilegiare un rapporto con il lettore che raramente si mantiene in equilibrio fra didattica e intrattenimento, indugiando spesso più al divertimento che all’apprendimento. – Gadget: ultima ma più pregnante caratteristica di moltissimi inserti dedicati all’antico Egitto è la presenza di piccole statue, magari organizzate in modo tale da formare una scacchiera o semplicemente pensati per decorare le vetrinette dei salotti, indice sia della tendenza alla spettacolarizzazione di cui sopra, ma soprattutto rappresenta il tentativo di rendere tangibile una civiltà al di là dei libri di storia e delle fotografie, di farla rivivere nel nostro presente attraverso il gioco. Proprio l’elemento ludico è il veicolo più efficace per attirare tanti adulti che, come bambini, si compiacciono di acquistarne simbolicamente un pezzetto arrivando ad una conoscenza estremamente immediata, tangibile, divertente, poco impegnativa, ma soprattutto gratificante. Attratti da un gioco esotico e nuovo non potremo fare altro che fidelizzarci ovvero continuare a comprare dal primo all’ultimo numero della raccolta. La potenza di un gadget è tutta qui, nel creare aspettativa e dipendenza psicologica tramite il gioco, da sempre elemento vincente per spezzare la serietà della nostra vita. Un linguaggio semplice ma accattivante, la scelta di pochi ma spettacolari argomenti, la spettacolarizzazione della notizia, ma soprattutto la dimensione ludica di molti inserti sono dunque gli elementi chiave per spiegare il successo editoriale di questi prodotti. La particolarità di queste dinamiche editoriali è il posizionamento sul versante ludico ma soprattutto utopico, privilegiando il gioco inteso come stimolazione della creatività, liberazione di energie, abbando-

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no della dimensione adulta e dei suoi dictat e rifugio in quella che gli psichiatri definiscono regressione infantile. In questo senso, acquistando un inserto con gadget sull’Egitto, il lettore accetta implicitamente il patto comunicativo che gli viene proposto: in cambio di una modica somma di denaro, si sente quasi sussurrare dall’editore: “potrai vivere un momento di relax, potrai tornare bambino, potrai riscoprire la tua fanciullezza e il tuo candore, potrai essere un uomo o una donna migliore perché avrai imparato a soddisfare non solo i desideri degli altri, ma anche le tue esigenze”. Ecco perché la definizione di ludicoutopico: ludico in quanto legato al gioco, utopico poiché attraverso l’acquisto della rivista si può acquisire una dote morale, in questo caso rappresentata dal riconoscimento della propria parte infantile e pura e dal soddisfacimento delle proprie emozioni e aspettative. Ma c’è di più. Nel momento in cui una casa editrice decide di creare inserti, riviste con gadget, cerca di imporre un modello sociale. In un mondo sempre più dominato da una visione spietata della vita e della società, puntare sul gioco vuol dire spingere tutti gli uomini a ritrovare una dimensione più serena e naturale dell’esistenza, a privilegiare le relazioni sociali, perché non si gioca mai da soli, a costruire un modello sociale improntato alla calma, dal momento che per giocare e gustarsi questo piacere non bisogna avere fretta. Assistiamo dunque alla riscoperta di quello che Freud chiamava “Es”, il regno degli istinti, da sempre contrapposto al “Super-Io”, il regno dei doveri. applicati all’antico Egitto la scelta di creare giochi sintetizza alla perfezione la volontà di rendere leggero ma profondamente coinvolgente una storia millenaria che, tuttavia, attira ancora ogni uomo della Terra per la sua capacità di essere: […] La terra del prodigio, un paese che ha il potere magico di far sognare le persone migliori17.

Da non trascurare, inoltre, l’apprezzabile operazione culturale che si viene a creare con l’introduzione nel mercato di tali prodotti editoriali. Sto parlando di quella democratizzazione del sapere, feconda generatrice di conoscenza a tutti i livelli, dal più specialistico con i paper al più semplice con queste riviste. Non è un caso, infatti, che la provenienza da case editrici come la De Agostini o la Fabbri Editori garantisca un livello di qualità apprezzabile. Non si tratta infatti soltanto di vendere giochi con effigi di antichi faraoni o dei egizi, si tratta di attirare il lettore attraverso il gioco per perseguire comunque un intento didattico e di conoscenza di questa antica civiltà, stimolando magari la curiosità verso nuove e più impegnative letture, ma comunque tenden-

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do a fornire poche e accurate informazioni anche a coloro che, sull’argomento, non vogliono leggere niente altro. Come dire, se vuoi correre devi prima imparare a camminare. Note 1 M. CLOÎTRE, T. SHINN, Expository Practice Social, Cognitive and Epistemological Linkages, in Shinn, T. e Withley, R., Expository Science, Dordrecht, Reidel 1985, pp. 31-60. 2 S. DE MARIA, P. CAMPAGNOLI, E. GIORGI, G. LEPORE, Topografia e Urbanistica di Soknopaiou Nesos, in Fayyum Studies, Vol. 2, aprile 2006, Bologna Ante Quem, p. 50. 3 G. HÖLBL, I rapporti culturali della Sicilia orientale con l’Egitto in età arcaica visti attraverso gli “aegyptiaca” del territorio siracusano, Siracusa, Quaderni Museo del Papiro, volume X, 2001, pp. 31-47. 4 L.T. HJELMSLEV, Saggi Linguistici, Vol. I, traduzione a cura di R. Galassi, Milano, Unicopli 1998, pp. 154-196. 5 F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, RomaBari, Laterza 1968, p. 25. 6 Ho usato il termine lettera richiamandomi alla grande tradizione esegetica origeniana in base alla quale, nell’interpretazione della Bibbia, è necessario andare oltre il livello letterale per passare al disvelamento del significato allegorico nascosto sotto l’apparenza. 7 A.M. LO RUSSO, P. VIOLI, Semiotica del testo giornalistico, Roma-Bari, Laterza 2004, p. 57. 8 S. MAC DONALD, R. SILVERSTONE, Science on Display. The representation of scientific controversary in museum exhibition in “Public Understanding of Science”, n. 1, pp. 69-87. 9 R. CURTIS, Narrative form and normative force. Baconian story telling in popular science in “Social Studies of Science”, n. 24, pp. 419-461. 10 Per una migliore comprensione dell’utilità dell’elencazione di questi 20 frammenti, sarà utile considerare il concetto di logica induttiva (dal particolare all’universale), e di logica deduttiva (dall’universale al particolare). 11 I termini di contraddizione e contrarietà sono presi in prestito sempre dalla teoria semiotica di Greimas. 12 G. BETTETINI, GRASSO A., Lo specchio sporco della televisione, Torino, Fondazione Agnelli 1988, pp. 95-104. 13 LO RUSSO, et al., cit., p. 57. 14 J.F. LOYTARD, La condizione postmoderna, Milano, Feltrinelli 1981. 15 HORNUNG, cit., p. 225. 16 LO RUSSO, et al., cit., p. 22. 17 HORNUNG, cit., p. 232.

Capitolo IV

L’opinione degli esperti

4.1 Alla ricerca della verità: Roberto Giacobbo Il filo rosso che lega i capitoli di questo saggio è rappresentato da tre parole chiave: documento, monumento e viaggio. Nel primo capitolo, infatti, ci siamo occupati delle fonti documentarie che, a partire dalla spedizione napoleonica fino ai giorni nostri, hanno segnato il lento e faticoso nascere della moderna egittologia. Nel secondo capitolo, invece, siamo traghettati dalla parola all’oggetto, dal documento al monumento analizzando le collezioni egizie e la loro formazione nei più importanti musei del mondo. Nel terzo capitolo siamo passati al viaggio ovvero alla scoperta di come l’egittologia abbia percorso tutto il mondo attraverso i mass media, divulgando a milioni di persone, esperti e non, la sapienza egizia. Nel nostro viaggio ci siamo posti sotto angolazioni diverse, analizzando sia i tragitti più che reali degli obelischi egizi verso l’antica Roma, che compiendo anche itinerari virtuali alla scoperta dell’antico Egitto sulla scia di celebri film, di strabilianti note musicali, di avvincenti romanzi. La nozione di viaggio ingloba il documento e il monumento perché visitando i luoghi, sia concretamente che seduti comodamente sul proprio divano, si viene a conoscenza di fatti tratti da fonti scritte precise e si ammirano le incredibili meraviglie architettoniche del popolo delle piramidi. L’importanza del concetto di viaggio pervade dunque questo lavoro, ma ha riempito di significato anche la vita personale e professionale di uno dei maggiori e più illustri divulgatori della televisione italiana: Roberto Giacobbo. Un saggio sull’antico Egitto e su come ancora oggi affascini tutti noi, un lavoro editoriale che soprattutto ne voglia indagare la rappresentazione anche attraverso i mass media, non sarebbe stata completa, non sarebbe stata seria senza il suo contributo. Vie-

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ne impossibile, infatti, pensare alla tv e all’antico Egitto e non associare a questo binomio il suo nome. Molti punti chiave dell’intervista concessami hanno permesso di gettare luce sulla complessa problematica della rappresentazione dell’antico Egitto nei mass media. Chiamato ad argomentare dei cambiamenti che sono avvenuti nella divulgazione mediatica dagli anni Novanta ad oggi, Giacobbo sceglie subito, con decisione, di entrare nel vivo della sua storia professionale sottolineando il suo passato come autore di programmi quali “Misteri” e “La Macchina del tempo”, trasmissioni che, come è noto, si occupavano anche di egittologia. Proprio nella sua esperienza di autore di documentari sulla terra nilotica, si colloca il suo incontro con Zahii Hawass. Ecco come viene riferito: «Sono andato a incontrare Zahii Hawass in Egitto 13 anni fa e lui era il responsabile della piana di Giza e non era ancora il personaggio così noto che conosciamo adesso. Gli dissi che volevo realizzare una puntata contrapponendo la sua realtà storica con le ipotesi, più o meno fantastiche, di tre ricercatori che erano Bauval, Hancock e West, che stavano vendendo milioni di copie dei loro libri circa la differente origini delle piramidi e degli egizi. Lui si rifiutò e io gli dissi che, in questa maniera, avrebbe fatto il gioco di queste persone che, non avendo contraddittorio, avrebbero fatto passare questo pensiero come verità assoluta. Lo invitai a cena, alle 20, per parlare di comunicazione, sicuro che non sarebbe venuto. Lui arrivò alle ventuno per farmi notare che il ritardo non era causale ma era perché doveva farmi aspettare un’ora esatta. Alla fine lui accettò e realizzammo una puntata di “Misteri” in collegamento con Bauval, Hancock e West. Lo scambio di improperi era così duro che il traduttore arabo spesso si fermava perché non poteva tradurre. Io ho spiegato a Hawass come poteva essere la comunicazione. Dopo pochi anni Hawass mi ha confessato che il mio modo di comunicare l’Egitto al passo con i tempi gli era piaciuto, lo aveva fatto pensare. La sua carriera meritatamente ha fatto passi da gigante, è diventato uno dei più affermati archeologi al mondo, famoso anche per il suo cappello da Indiana Jones, fa conferenze in tutto il mondo ed è stato inserito, nel 2006, tra i 100 uomini più importanti della terra, sono orgoglioso che la nostra amicizia si sia confermata e rafforzata nel segno della comune passione per la storia dell’Antico Egitto».

Una rappresentazione della terra delle piramidi che muta a contatto con i media, e la cifra del mutamento è proprio l’evoluzione della figura di Zahii Hawass, da egittologo ripiegato su se stesso e sul proprio sapere a personaggio pubblico di fama mondiale. La ragione di questo cambiamento è dunque da ricercarsi nel ruolo chiave che la comuni-

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cazione ha avuto nel modificare non tanto il contenuto del messaggio ma la sua presentazione. Alla base di questa “rivoluzione”, tuttavia, non vi è solo, sottolinea Giacobbo, un cambiamento di stile superficiale ma un cambiamento di prospettiva profondo. La vita di Hawass non è più la stessa, l’immagine che il paese del Nilo dà al mondo è cambiata perché è stato aggiunto un ingrediente, la scienza è stata ricondotta al suo primo e unico amore: la ricerca, il dubbio, l’inesausta curiosità. Ma ecco alcune parole del conduttore: «Bloccarsi dietro un’idea preconcetta, una scoperta già fatta, senza mai mettersi in discussione, senza mai capire se c’è un’evoluzione a questo pensiero, rischia di bloccare la ricerca. La ricerca è una delle cose più belle che si possono fare».

Se dunque sul piano del contenuto Giacobbo rivendica il valore propedeutico del dubbio, del continuare a cercare, del non accontentarsi di risposte già preconfezionate, sul piano dell’espressione, quello che concerne lo stile di conduzione, sottolinea la sua volontà di raccontare questo paese tenendo in considerazione vari livelli di lettura, dal più semplice al più articolato, cercando di non annoiare i meno esperti, ma anche di non allontanare i cultori della materia. Ancora una volta però questo modello di divulgazione nasconde dietro di sé una potente quanto poetica utopia quella di: «Guardare con gli occhi di chi, seppur preparato, si avvicina per la prima volta a queste cose. Gli occhi puri di un bambino che scopre la luna e mostra la sua sorpresa abbinata ad una tecnica di ricerca raffinata, ad una serie di tecniche di comunicazione importanti, ad una serie di esperti che aiutano in tutto questo. Ma la cosa più importante è non avere l’arroganza di dire che tutto è stato scoperto, non avere l’arroganza di dire che tutto quello che è stato scoperto è così e basta, perché più volte mi sono trovato in delle situazioni che non mi convincevano e, dopo avere parlato a lungo con chi le aveva studiate, mi sono sentito dire che quel punto era stato affrontato trovando una convenzione perché se no non si poteva andare avanti, e allora bisogna vedere quante convenzioni sono disseminate nella storia ufficiale che conosciamo per capire se la storia è realmente quella che dobbiamo conoscere o se c’è qualcosa di altro».

Guidato dunque dal dubbio, dalla voglia di conoscere, Giacobbo ci aiuta a guardare l’Egitto con occhi diversi, con uno sguardo che non teme il mistero, e non ha paura di discutere anche di temi delicati come quelli inerenti alla Piramide di Cheope e al suo forse “diverso” scorre-

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re del tempo. Parlando, infatti, della straordinaria avventura capitata a due archeologi convinti di avere trascorso 10 minuti all’interno della Piramide di Cheope mentre fuori l’orologio di tutti i presenti segnava 3 ore, argomenta: «C’è una serie di incredibili coincidenze. Agatha Christie diceva che una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono due coincidenze, tre coincidenze sono una prova. Ai due archeologi è comparsa una luce verdina che molte volte è comparsa quando ci sono stati problemi legati allo scorrere del tempo. Due aerei che sono passati nel Triangolo delle Bermuda che sono arrivati 20 minuti prima dopo essere scomparsi per 10 minuti dal radar e tutti i passeggeri hanno visto quella luce. L’esperimento della nave e della sua sparizione che è stata sempre segnata da questa luce verdina. Guarda caso anche qui c’è stata la luce verdina e le persone di cui parlo non conoscevano questi esperimenti».

Fondamento di tutta la divulgazione mediatica dell’Egitto da parte di Giacobbo, non solo il dubbio, non solo le incredibili coincidenze, non solo il rifiuto dell’arroganza di chi crede di avere scoperto tutto, ma anche un quarto elemento: il coraggio. Incalzato dalla domanda se, avesse o meno ritenuto di mostrare il contenuto della stanza del re indagato dal robot nella piramide di Cheope anche se si fosse trattato di qualcosa di sconvolgente per tutta l’umanità, puntuale la risposta: «L’avremmo vissuta insieme, niente mi avrebbe impedito di mostrarla».

Mostrare i fatti, con umiltà e senza pregiudizi. Non accanirsi alla ricerca a tutti i costi di mistero, ma non ignorare anche i tanti dubbi legittimi che ancora non sono stati spiegati sull’antico Egitto. Ma soprattutto non dimenticare i limiti della divulgazione televisiva non solo di argomento egizio ma in generale. «Io faccio televisione, quando realizzo con i miei collaboratori un servizio di 30 minuti io cerco di soddisfare la curiosità di chi conosce il tema ma anche avvicinare a quel tema chi non lo conosce. Quanto si può leggere di un libro in trenta minuti? Se sei bravo leggi 10-15 pagine. In 10 pagine si può esaurire qualunque tema? No. Ma si possono seminare i dubbi e le passioni e gli interessi che poi serviranno per andarti a comprare quei libri e per approfondire quei temi. Io faccio pubblicità alla cultura e alla voglia di conoscere».

Dalla televisione come mezzo per invogliare alla cultura e al sapere, all’approfondimento delle tematiche egizie, all’uomo di televisio-

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ne che, lucidamente, pone un freno allo spettacolo, non si preoccupa di adeguarsi alle mode, soprattutto a quelle che vogliono istituire un legame fra piramidi e alieni e afferma: «Anche senza parlare di civiltà aliene, si può affermare con certezza che non ci sia stata una civiltà assolutamente terrestre, sorta, vissuta, estinta, in un tempo prima di tutte le civiltà che conosciamo, in grado di costruire piramidi?».

Cosa guida dunque Giacobbo quando spiega l’antico Egitto in tv? «La cosa più bella è la verità, basta trovarla».

4.2 Nel regno delle certezze: Alberto Angela L’immagine e la rappresentazione dell’antico Egitto offerta da Alberto Angela, ispira un senso di profonda tranquillità. Come in un puzzle perfettamente armonico dove ogni tessera trova la sua collocazione, allo stesso modo il dialogo con il divulgatore scientifico di “Ulisse: il piacere della scoperta” e di “Passaggio a NordOvest”, dimostra inequivocabilmente tutto il potere della scienza. Dopo avere elevato il dubbio a strumento principe della conoscenza, grazie e Roberto Giacobbo, raggiungiamo la pace delle mente e della ragione, trovando risposta a molti interrogativi rimasti insoluti. Tante le domande su cui il noto divulgatore è chiamato a rispondere. Fra queste una inerente allo stile di conduzione, offre la possibilità di apprendere che, nella costruzione di un documentario di argomento egizio: «Ci mettiamo dalla parte della gente per lo stile, per le frasi, per il modo di esporre, e per i contenuti dalla parte degli esperti».

Da un lato dunque, con Giacobbo, uno stile affabulatorio, ammaliante, ricalcato dalle antiche tecniche degli aedi omerici, dall’altro, con Alberto Angela, un modo di condurre chiaro, disteso, perfettamente compatibile con i vari background socio-culturali dei telespettatori. Chiamato dunque ad illustrare il suo modo di raccontare l’Egitto, inevitabilmente si arriva all’enunciazione di cosa significhi per lui accostarsi ad una civiltà affascinante e millenaria. Lo spirito più idoneo per scrutare la storia di questo popolo è così riassunto:

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«Se dobbiamo capire come sono state costruite le piramidi cerchiamo le prove archeologiche e ingegnieristiche. Esattamente come in un processo bisogna portare delle prove, e se le prove sono sufficienti c’è poi una sentenza. Noi cerchiamo di avere un approccio molto razionale che è quello dell’archeologia».

Dubbi e certezze, irrazionale e razionale, il duello fra due concezioni della divulgazione profondamente diverse arriva al punto cruciale, contrapponendo due divulgatori, ma soprattutto due visioni del mondo. Laddove con Giacobbo il mistero pervade la conoscenza e turba le coscienze, con Alberto Angela: «Non si sentirà mai nel programma pronunciare una parola, che è mistero, semmai enigma perché ci sono delle domande che momentaneamente non hanno ancora una risposta ma questo non vuol dire che siano inspiegabili».

Dall’estromissione del mistero dalla sua divulgazione, Alberto Angela fornisce un illuminate definizione di cosa sia la scienza aiutandoci a comprendere meglio l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’antico Egitto e delle informazioni ancora da scoprire. Davanti, infatti, ai grandi voli “pindarici” che il telespettatore compie con Giacobbo, in palese opposizione le parole di Alberto Angela che afferma: «La scienza è qualcosa che avanza con il lumino e ti sa dire quello che so è certo, quello che non conosco non vado a spiegartelo, cerco di studiarlo, ma non per questo non è qualcosa che non ha una risposta».

Due modi dunque di intendere la divulgazione egittologica attraverso i mass media completamente diversi, due: «Velieri che hanno rotte diverse, noi facciamo sempre la nostra rotta e tiriamo le vele in modo da andare bene».

4.3 Dalla parte dell’Egitto: Kamel Ezz Eldin Kamel Ezz Eldin, responsabile dell’Accademia della Cultura Egiziana a Roma, rappresenta il perfetto interlocutore per comprendere a pieno le dinamiche attraverso le quali la cultura nilotica entra nel mondo occidentale subendo i condizionamenti ma anche provocandone trasformazioni.

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Chiamato ad argomentare sulle diverse attività di promozione e di divulgazione della cultura egizia promossa da questa istituzione, il Dott. Eldin spiega come: «L’accademia si occupi di organizzare, da Settembre a Luglio, tutta una serie di attività volte ad una maggiore conoscenza dell’Egitto da parte occidentale. Fra queste attività rientrano: mostre di pittura, scultura, fotografia, arte contemporanea, ma anche conferenze di egittologia, concerti di musica classica, balletto. Presenza importante nel territorio italiano, grazie all’intensa attività di mediazione la cultura egizia viene divulgata attraverso la partecipazione a festival di letteratura, rassegne cinematografiche, ma anche alla Biennale di Venezia».

Da un lato dunque un intenso sforzo di diffusione in Occidente di questa antica cultura, dall’altro la deludente constatazione riguardo alla ricezione da parte dei giovani degli aspetti più importanti di tale civiltà: «La storia e l’arte dell’antico Egitto nei manuali scolastici italiani ed europei non viene trattata molta approfonditamente, lasciando spazio agli elementi di maggiore impatto e più noti, rischiando una trattazione un po’ superficiale».

Sempre severo, inoltre, appare il giudizio sulle trasmissioni televisive italiane che indugiano spesso sull’esoterico e sul misterico per spiegare la nascita delle Piramidi di Giza. Eldin commenta in questo modo tale “deriva” mediatica: «È un tipo di approccio che non ritengo consono allo studio di una civiltà e di una cultura come quella dell’Antico Egitto, malgrado le numerose tentazioni di credere o quanto meno di ipotizzare un aspetto misterico; credo invece che si debba affrontarne lo studio dal punto di vista storico, cercando di valutare gli immensi risultati conseguiti da questa civiltà storicamente e antropologicamente».

Anche rispetto alla pratica di molte riviste di allegare gadget e inserti sull’antico Egitto per fare conoscere la cultura nilotica anche ai non esperti, la risposta si dimostra dubbiosa: «Penso che tali espedienti posano suscitare interesse per la materia, ma certo non ne possono esaurirne la vastità».

Della divulgazione di questa civiltà attraverso la cinematografia, viene spiegato sia il perché il cinema sia tanto affascinato dal suo paese, che i limiti di questo approccio:

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«La magia e il fascino di una civiltà che aveva raggiunto livelli di conoscenza eccellenti non possa propagarsi che all’infinito, venendo sempre riproposta perché sempre attuale. Tuttavia non ritengo che tale cinematografia abbia scopi legati all’incremento del turismo nel mio paese».

Sulla rappresentazione letteraria di stampo egittizzante, viene evidenziato il fatto che: «I romanzi non sono inadatti a descrivere la cultura egizia antica, ma ritengo che questo tipo di letteratura svii il pubblico interessato all’egittologia in quanto disciplina scientifica».

Molto più severo il giudizio sull’ondata di “orientalismo” che contagiò il melodramma settecentesco e ottocentesco. Di questo fenomeno dichiara: «Posso certamente affermare che tali rappresentazioni non fossero altro che una mistificazione occidentale caratteristiche di quel periodo storico».

Del ruolo che la politica del suo paese giochi nell’influenzare la ricerca archeologica afferma: «Non direi che la politica influenzi le scelte su cui approfondire gli studi archeologici, ma piuttosto che sia di supporto a tali studi».

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