"Una parola ha detto Pio, due le ho udite". Lo splendore delle verità 9788842890588

Tutto tende all'Uno: una è la radice culturale e politica dell'Europa, una la via per governare e sanare l

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"Una parola ha detto Pio, due le ho udite". Lo splendore delle verità
 9788842890588

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Il nocciolo 52

Barbara Spinelli

“Una parola ha detto Dio, due ne ho udite” Lo splendore delle verità

Editori        Laterza

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009 Seconda edizione 2011 www.laterza.it Progetto grafico di Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa Roma - Bari Finito di stampare nel gennaio 2011 Sedit - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9058-8

Indice

Lo splendore delle verità

3

L’utilità dell’Uno, p. 14 - L’obiezione democratica, p. 15 - L’obiezione filosofica-teologica, p. 23

Dio non è il nostro doppio: uscire dalla teodicea contro i valori supremi

31

L’incontro con Dio, il diverso assoluto, p. 32 Il peccato di Giobbe: non temeva «per nulla», p. 36 - La pazienza e la cacciata dal Paradiso: la memoria del presente, p. 45 - Quel che Emone insegna a Creonte, p. 52 - I valori come parola del potere (Machtwort), p. 55 - La guerra dei valori, ovvero l’incapacità di mutare, p. 69 - Serendipity. Gli effetti non intenzionali dell’antirelativismo, p. 81

Note

91

a Tommaso

“Una parola ha detto Dio, due ne ho udite” Lo splendore delle verità

Lo splendore delle verità

Una parola ha detto Dio, due ne ho udite Salmo 62,12 Il primo a parlare in una lite sembra aver ragione, ma viene il suo avversario e lo confuta. La sorte fa cessare le discussioni e decide fra i potenti Proverbi 18,17-18

L’Uno ha affascinato sempre la mente umana. Poter spiegare il mondo con un’unica immagine, non confutabile; imporre un’unica idea, giusta. È l’aspirazione segreta all’infallibilità, all’eritis sicut Dei. Gli ideatori-architetti della Torre di Babele hanno questo in mente, quando sfidano Dio con il loro prodigioso edificio: un popolo, una lingua, una pace universali. O uno stato di guerra esteso al pianeta, se è vero che la pace imposta universalmente – Kant lo sospetta nello ­3

stesso momento in cui ne sogna la perennità – può diventare pace dei cimiteri. Le Sacre Scritture sono chiare in materia: depositarie dell’Uno (del Dio monoteista), prediligono purtuttavia un mon­do differenziato, e questo sia nel Testamento Antico che in quello Nuovo. Dio abbatte la Torre di Babele, disperdendo i popoli e dividendone le lingue. Nel giorno della Pentecoste, che per gli Ebrei è giorno del dono della Torah, della Legge, il Dio trinitario appare nelle vesti di Spirito Santo, e dà agli apostoli una nuova legge al posto della vecchia. Tutto comincia con la separazione delle lingue, con la contrapposizione del molteplice all’Uno: «E come il giorno della Pentecosta fu giunto, tutti erano insieme di pari consentimento. E di subito si fece dal cielo un suono, come di vento impetuoso che soffia: ed esso riempiè tutta la casa, dove essi sedevano. Ed apparvero loro delle lingue spartite, come di fuoco; e ciascuna d’esse si posò sopra ciascun di loro. E tutti furono ripieni dello Spirito Santo, e cominciarono a parlar lingue straniere, secondo che lo Spirito dava loro a ragionare. Or in Gerusalemme dimoravano dei Giudei, uomini religiosi, d’ogni nazione di sotto il cielo. Ora, essendosi fatto quel suono, la moltitudine si radunò, e fu confusa; perciocché ciascun di loro li udiva parlar nel suo proprio linguaggio. E tutti stupivano, e si maravigliavano, dicendo gli uni agli altri: Ecco, tutti costoro che parlano non son eglino Galilei? Come adunque li udiam noi ­4

parlare ciascuno nel nostro proprio natio linguaggio? Noi Parti, e Medi, ed Elamiti, e quelli che abitiamo in Mesopotamia, in Giudea, ed in Cappadocia, in Ponto, e nell’Asia; nella Frigia, e nella Panfilia; nell’Egitto, e nelle parti della Libia ch’è di rincontro a Cirene; e noi avveniticci [avventizi, N.d.R.] Romani; e Giudei, e proseliti; Cretesi, ed Arabi; li udiamo ragionar le cose grandi di Dio ne’ nostri linguaggi. E tutti stupivano, e ne stavan sospesi, dicendo l’uno all’altro: Che vuol esser questo? Ma altri, cavillando, dicevano: Son pieni di vin dolce»1. Le lingue molteplici diversificano l’Uno, introducono nell’indistinto l’arte del distinguo, che tra le arti della ragione è la più sofisticata. In principio, è vero, fa irruzione il disorientamento: la folla dei Giudei che a Gerusalemme ascolta gli apostoli è stupita, meravigliata; ancor peggio: confusa. Tutto viene rimescolato, un ordine che faticosamente si era costruito si sfalda, c’è sospensione di giudizio. Anche per la ricerca della verità vale la regola della distruzione creativa: o più precisamente, della distinzione creativa. Lo stesso Spirito Santo, che nel linguaggio profetico respira sotto forma di vento – di ruah sottile o altisonante, secondo le evenienze –, si suddivide in tante lingue di fuoco quanti sono i discepoli di Gesù, e suddividendosi mostra a ciascuno di essi un nuovo vivere e operare. ­5

Finisce, con la distinzione-distruzione creativa, l’esperienza che nella versione Diodati degli Atti degli Apostoli è splendidamente descritta come un radunarsi «tutti [...] insieme di pari consentimento» o, come tradotto nella versione della Nuova Diodati, «con una sola mente nello stesso luogo», condizione simile a quella dei costruttori di Babele: l’unione non cessa di essere una forza portentosa, ma per divenirlo deve temprarsi in un crogiolo e può farlo solo partendo dal plurimo. E pluribus unum non è sinonimo di unione fa la forza. Nell’unione fa la forza è eluso l’ingrediente del plurimo e si resta fermi alla casella di partenza, quando i discepoli ancora si radunano «di pari consentimento», nell’illusione di poter propagare la nuova e rivoluzionaria idea che si son fatti del mondo senza intaccare l’unità tribale, clanica, cui in origine hanno dato vita. La Chiesa stessa decide di rompere l’unità clanica, nel IV secolo, quando ammette nel canone quattro versioni dei Vangeli – avrebbe potuto includere i molti altri che esistevano anziché censurarli, ma quattro è già qualcosa – mostrando di non voler cedere alla tentazione di avere un solo racconto, un solo rammemorare, un solo verbo, una sola teologia. Il compito affidato all’uomo è quello di trovare un’unione imperniata sulla disunione: disunione che Dio stesso favorisce, che regolarmente resuscita se la trova impigrita o smorta. ­6

Questo significa che l’unione funziona non a dispetto della disunione, non malgrado la disunione, ma grazie al contrapporsi anche radicale di opinioni che lottando l’una contro l’altra hanno avuto modo di misurare se stesse, di correggere i propri lati più vulnerabili, di constatare la propria supremazia o la propria insufficienza o la propria vacuità. Avverbi come «a dispetto» o «mal-grado» sono fuorvianti: l’unione non si conquista con atteggiamenti di dispetto o malgradimento nei confronti delle idee che sono refrattarie ad aderire e a conformarsi obbedendo. L’ambizione all’armonia è eccelsa se è ambizione di vivere accanto alla disunione governandola, senza annullarla. La disunione cementa l’unione, dà peso al suo agire e colore alla sua rappresentazione. Per ottenere l’Uno, bisogna saper contare almeno fino a due. Il Saggio sulla libertà di John Stuart Mill è costruito su questa scoperta della pluralità che vince sull’Uno, e che fonda il liberalismo politico e i suoi rapporti – non sempre limpidi – con il libero mercato. Quanto possa ingarbugliarsi tale rapporto lo abbiamo constatato durante la crisi finanziaria cominciata nel 2007-2008, nella quale siamo tuttora immersi. I decenni precedenti li avevamo vissuti come un’epoca in cui il pensiero liberale sembrava aver vinto: tale era l’interpretazione corrente, in ogni caso. Disfatto ­7

il comunismo realizzato (che è stato uno dei tanti sogni unanimistici, monolitici dell’uomo), il politologo Francis Fukuyama scrisse addirittura, nell’estate 1989 sulla rivista «National Inte­ rest», che la storia era finita, e che il liberalismo non aveva più concorrenti. Per l’occasione riciclò l’immagine cara a Hegel, la storia universale che dai tempi della formazione procede come un fiume sino al tempo della felicità e poi all’era del declino: un’astratta visione che – sono parole di Kierkegaard – «sospende una tenda dopo l’altra» sugli accidenti della vita, trasporta in terra il Giudizio Universale, trascura l’individualità dell’etica e le peripezie delle persone, gettando su di esse «uno sguardo di sfuggita», come quando si contempla «un banco di aringhe nel mare: le aringhe singole non hanno gran valore»2. In realtà la storia non era finita e ancora una volta le sorti non erano magnifiche né progressive. Nel momento in cui si scombinava, tendeva piuttosto ad asserragliarsi in comportamenti regressivi, a balbettare. Poco dopo il novembre 1989, quando i berlinesi dell’Est abbatterono il muro che divideva la loro città, Georgij Arbatov, consigliere di politica estera di numerosi capi sovietici, disse parole ominose e pertinenti: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico». Non ebbe torto: la caduta del comu­8

nismo impoverì il pensiero liberale, rendendolo meno poroso, meno aperto al diverso o al nuovo, meno capace di distinguo e di giudizio. Il desiderio dell’Uno indiviso e omogeneo riprendeva vigore e un modo di pensare basato sull’indistinzione prendeva possesso delle democrazie e diveniva per esse quel che il patriottismo era per il dottor Samuel Johnson nel XVIII secolo: «The last refuge of a scoundrel», l’ultimo rifugio di un mascalzone3. Cerchiamo di definirlo, questo pensiero, indagando non tanto sui suoi contenuti quanto sul modo in cui esso s’accampa e torreggia. La sua insaziabile energia è in effetti in questo accamparsi, in questa pretesa a mostrarsi agguerrito proprio in quanto uniforme, non discusso, non discutibile: in quanto impareggiabile atleta dell’Uno. Pensieri con sì straordinarie pretese restringono l’orizzonte delle opinioni, al massimo ammettono che entro il proprio campo si schierino pareri allineati, subordinati, o approfondimenti se possibile brevi e sinergici. Le idee contrarie scemano, sino a svanire o essere additate come sovversive. La scomparsa del comunismo non è vissuta come fine di un’usurpazione unanimistica – di un monolito mentale che non tollera contraddittorio – ma come prova che non esistono più idee capaci di competere con un pensiero che, avendo dimostrato di essere più ragionevole, diventa perciò stesso infallibile, inaffondabile, e a sua volta potenzialmente usurpato­9

re. La meditazione filosofica sul dopo-comunismo aggira con cura il tema decisivo dell’unanimismo, e deve ancora iniziare. Si è visto, nella crisi finanziaria del 2007-2009, quanto sia arduo per il fondamentalista liberale ammettere i propri errori, congedarsi dal credo secondo cui lo Stato è sempre e solo un problema, mai una possibile soluzione4. L’adepto del monolito, fino al giorno in cui andando contro il muro si rompe la testa, è convinto che se anche esistessero modi di pensare alternativi ai propri, essi sarebbero illegittimi, se non illegali. Tutto tende così all’Uno: una è la radice culturale e politica dell’Europa, una la via per governare e sanare l’economia, una la via per costruire e governare l’Unione Europea, uno il cammino verso l’acquisizione della cittadinanza, uno il livello di governo che deve decidere della sorte dei cittadini (lo Stato-nazione pienamente sovrano, che non accetta autorità alcuna sopra la propria). Da tempo si è smesso di contare oltre l’Uno e di giungere almeno fino al numero due, se non al tre o al quattro. Eppure, di questo contare oltre l’Uno c’è un bisogno che non muore. È il vin dolce di cui si ha sete, quando l’unità inaridisce. Lo si vede in ogni discussione personale e politica. Se la mia opinione non è contestata, se nel pensare e formulare un’opinione che ritengo vera non ­10

mi confronto con robuste obiezioni e intrepidi convincimenti opposti, sarò contento, certo. Se sono un politico, avrò addirittura l’impressione che si sia creata una sorta di pace. La pace dell’Uno non è tuttavia pace, nella pòlis. Non è pòlemos, ma neppure può chiamarsi pace. È stasi, nel senso medico del termine: i liquidi che danno vita non circolano più, si ha stagnazione, inattività, o morte. Lévi-Strauss parla di storia stazionaria, solitaria, quando le idee smettono di accumularsi perché non circolano più e non escono dal recinto della propria cultura5. La contentezza sarà vana, perché anche se la mia idea è sensata, logica e giusta, essa si logorerà fino a impallidire e poi svaporare. Potrò magari difendere il mio punto di vista con frastornante fragore, e i mezzi di comunicazione moderni sapranno magari amplificarne la sonorità fino a renderlo vincente, ma già in Geremia è scritto che «c’è un frastuono che lascia passare il momento buono», e il momento buono – nella ricerca del vero – è di solito quello in cui mettiamo alla prova noi stessi misurandoci con l’idea contraria6. Né ci si mette alla prova una sola volta, perché il momento buono, il kairòs, si presenta ripetutamente e questo esercizio assiduo è il metodo migliore per fronteggiare le minacce autentiche, che non sono le idee provenienti da fuori ma la chiusura interiore che opponiamo al loro apparire. ­11

Accade nella vita dell’individuo, in quella della pòlis, e anche nelle religioni. Senza più eresie che la sfidino e la mettano in questione, nessuna religione monoteista reggerà la prova del tempo e ogni ortodossia, ogni presunta idea-diritta, si irrigidirà in dottrina. Non a caso si insiste tanto sul molteplice, nelle Sacre Scritture. Perfino la Trinità è forse una complicazione dell’Uno, che s’incarna e si diversifica senza abbandonare la propria ineffabile unicità. Ogni cosa traballa sotto il pesante martello di simili operazioni che uniformano le menti – che ad-unano le differenze – e in modo speciale barcolla la pòlis democratica. Essa è corrosa dall’assenza di ipotesi alternative o semplicemente diverse, dall’Uno fantasticato come ideale: torrente unico che scorre incontrastato, non arricchito da affluenti e troppo povero d’acqua per socchiudere laghi di sosta, di approfondimento, di quella pace vera che è la conversazione. Molte parole impiegate in politica, non solo in Italia ma anche in Europa e negli Stati Uniti, indicano questa spasmodica passione dell’unanimità, ben visibile anche se i nomi che le vengono dati dissimulano la sua vocazione a ignorare la diversità impadronendosene o schiacciandola: penso a locuzioni eufemistiche come politica bipartisan, politica di larghe intese, o al concetto inarticola­12

to per eccellenza e quasi universalmente riverito che è il concetto di centrismo. L’atleta dell’Uno sogna il Panopticon, la prigione modello a partire dalla quale il sorvegliante può vedere, con un solo colpo d’occhio, tutto quello che succede intorno a lui e ottenere per questa via il controllo totale della società e del suo pensiero grazie all’adesione di ciascuno (minoranza compresa) al pensiero maggioritario, che sarà chiamato dominante. Essere ininterrottamente sotto l’occhio del guardiano, nella circolare casa d’ispezione, significa perdere di fatto la capacità di fare del male, se non addirittura il desiderio di farlo: è quanto Jeremy Bentham prefigura nel suo libro sul carcere modello (1789). Nella prefazione, il Panopticon è presentato come il «nuovo modo di ottenere il potere della mente sulla mente, in proporzioni quantitative mai finora raggiunte: e questo, in misura che anch’essa non ha eguali»7. L’ispettore del Panopticon è l’equivalente del­ l’idea dominante; ne è la rappresentazione emblematica. Anch’essa ha innumerevoli appellativi: in genere la si chiama un po’ nebbiosamente opinione pubblica, giungendo a sottintendere che quest’ultima semplicemente non esiste quando lo spazio pubblico non è occupato da una sola idea dotata di sufficiente forza persuasiva. Spesso in Italia la si chiama comune sentire: questo incantevole evento che zampilla quando l’interlocuto­13

re o l’elettore o lo spettatore sono della mia opinione (nei paesi totalitari si parlava meno ipocritamente di linea del partito, ovvero del Comitato centrale). In democrazia è la forza del numero ad avere, letteralmente, l’ultima parola: è la maggioranza che esercita, se non controbilanciata, la sua tirannide sulle menti. Non confrontarsi con un sé che può disapprovarti (dunque con Dio, per antonomasia): qui è la vera natura dell’idolatria. L’idolo è fatto da mani umane perché solo le mani umane possono fabbricare qualcosa che interminabilmente ci approva e che ci trasciniamo dietro come la bambola o il pupazzo dell’infanzia. La tentazione idolatrica «nasce dalla paura che se conoscesse il vero Dio, l’io troverebbe disapprovazione. Un falso dio o idolo è sempre un dio che l’io ritiene di poter manipolare attraverso la magia, e sulla cui approvazione dunque si può sempre, se si è abbastanza furbi, contare»8. L’io odiabile di Pascal – le moi haïssable – è incompatibile con l’idolo, perché l’idolo viene confezionato proprio per evitare questa sgradevole scoperta di sé. L’utilità dell’Uno La critica dell’Uno e la difesa del contraddittorio, intese come premesse indispensabili nella ricerca della verità, incontrano strada facendo ogni sorta ­14

di obiezioni, provenienti da due esperienze diverse. La prima è di natura apparentemente democratica, la seconda – non meno fondamentale – è di natura filosofica e teologica. Nel primo caso, chi obietta si erge a vigilante tutore dell’opinione maggioritaria, quale si esprime nelle urne e quale si manifesta a intervalli regolari su varie questioni politiche, etiche o culturali. Nel secondo caso, chi obietta campeggia come custode della verità e trasforma quest’ultima, una volta che ritiene di averla raggiunta, in un baluardo contro il relativismo. Vedremo come un filo sottile leghi le due visioni del mondo – quella che si pretende democratica e quella antirelativista – quando l’opinione ritenuta corretta si dota di un apparato di potere per affermarsi: la ricerca della verità diventa sempre meno prioritaria, essendo soppiantata dalla ricerca di quello che, dall’alto, viene decretato utile al cittadino o alla società, alla singola persona o al credente. L’obiezione democratica L’obiezione pseudo democratica, pur affondando le proprie radici nella cultura del conflitto, parte da una premessa autoassolutoria: da quando esistono regimi basati sulla scelta popolare dei governanti e sulla possibilità concreta di confermarli nella loro carica o licenziarli, il male del dispotismo è superato e il potere di un’opi­15

nione che prevarica su tutte le altre non costituisce più un’insidia da cui guardarsi. La sovranità del popolo non è considerata, da chi obietta in nome delle virtù democratiche, come qualcosa che richieda limitazioni di potere. Il popolo non può agire contro se stesso, coincidendo perfettamente con la raffigurazione idealizzata della società e del suo bene. Per natura esso limita l’insolenza del potere, limitando quello del sovrano o del parlamentare che elegge: il controllore non ha da vigilare su se stesso, essendo in origine il controllato, l’oggetto di un dominio. Anche per una democrazia che giunge a simili vette di autocompiacimento la storia è hegeliana: comincia, fiorisce e si conclude come linea retta, e la sua ignoranza di altre più complicate figure geometriche è assidua e militante. Ma il potere dato al popolo – e il potere dell’opinione pubblica che esso presume di incarnare – non significa in alcun modo fine delle sopraffazioni: il dominio di un’opinione su ogni altra ha bisogno d’un freno ogni volta che c’è abuso di potere, e il popolo non è esente dall’abuso cui fa riferimento Montesquieu quando descrive la naturale vocazione del potere a espandersi e prevaricare. Semmai ne è ancora più attratto, proprio perché si reputa immune, incorruttibile. È quello che la tradizione liberale va dicendo da più di due secoli, attraverso pensatori come Tocqueville o Humboldt o Mill. «La fede nell’opinione ­16

pubblica», scrive Tocqueville a proposito della democrazia americana, «diventerà una specie di religione, e la maggioranza sarà il suo profeta»9. Il suo concetto di dittatura della maggioranza viene ripreso da Mill, e analizzato con minuzia talmente rigorosa che l’idea stessa di sovranità popolare e di opinione pubblica fatica a sopravvivere senza rimettersi in questione. Il mito dell’innocenza democratica, come prima cosa, è demolito: cade l’illusione di un popolo incapace per natura di divenire il tiranno di se stesso, e cade la finzione di un’opinione pubblica definita compiutamente civile solo quando i suoi sentimenti e le sue convinzioni sono quelli gradevoli per la parte dominante della società. Il popolo può invece divenire tiranno, e in misura assai più invasiva di quanto avvenga quando si è alle prese con il dispotismo ordinario. È quello che suggerisce Mill: una volta creata la repubblica democratica, espressioni cariche di promesse come «autogoverno» e «potere del popolo» cessano di significare quel che si sforzavano di indicare quando erano propositi astratti, utopici, e non esprimono più il vero stato delle cose: «Il ‘popolo’ che esercita il potere non coincide sempre con coloro sui quali quest’ultimo viene esercitato [...] La volontà del popolo significa, in termini pratici, la volontà della parte di popolo più numerosa e attiva – la maggioranza, o coloro che riescono a farsi accettare come tale; di conseguenza, il popolo ­17

può desiderare di opprimere una propria parte, e le precauzioni contro ciò sono altrettanto necessarie quanto quelle contro ogni altro abuso di potere»10. È un memento che conviene tenere presente, oggi, quando ci si interroga sul torpore più o meno esteso dell’opinione pubblica o sui benefici più o meno estesi del controllo sociale. In maniera sotterranea ma ancora più pervasiva di quanto accada in regimi non democratici, la tirannia della maggioranza si insinua in ogni interstizio dell’opinione pubblica e trasforma il controllo sociale in una gabbia, non appena si mettono a tacere o si escludono dalle proprie valutazioni le voci dissidenti. La società stessa, dunque il popolo, può tramutarsi in despota – in collettivo che sottomette o azzittisce il singolo individuo – e il controllo che esercita corre il rischio cronico di divenire, secondo Mill, più tirannico di innumerevoli tipi di oppressione politica: «Poiché anche se generalmente non ottiene d’esser rispettata con pene altrettanto severe, [la società] lascia meno vie di scampo, penetrando molto più profondamente nei dettagli della vita e rendendo schiava l’anima stessa»11. In ambedue i casi s’impone dunque la difesa dal despota: nel caso della monocrazia classica e in quello della tirannide dell’opinione, dei sentimenti, del gusto. È certo paradossale, ma occorre farsi particolarmente vigilanti e astuti nel secondo caso, che è quello della democrazia ­18

realizzata: più insidiosa, essa richiede che l’arte attiva della resistenza al tiranno si combini con l’arte contemplativa del distinguere incessante e del conoscere se stessi. Richiede non solo lotta, ma raziocinio e meditazione. Proteggersi dalla tirannide tradizionale è solo una parte della missione liberale, dice ancora Mill: «È necessario anche proteggersi dalla tirannia dell’opinione e del sentimento predominanti, dalla tendenza della società a imporre come norme di condotta, e con mezzi diversi dalle pene legali, le proprie idee e usanze a chi dissente, a ostacolare lo sviluppo – e a prevenire, se possibile, la formazione – di qualsiasi individualità discordante, e a costringere tutti i caratteri a conformarsi al suo modello. Vi è un limite alla legittima interferenza dell’opinione collettiva sull’indipendenza individuale: e trovarlo, e difenderlo da ogni abuso, è altrettanto indispensabile alla buona conduzione delle cose umane quanto la protezione dal dispotismo politico»12. Se questa è la preoccupazione di Mill nel 1859, ancora più vasto è il timore che si può avere oggi. L’opinione prevalente che si presenta come unica – e imboccando scorciatoie terminologiche accampa perfette coincidenze con l’ente astratto che è la Società – possiede arti subdole sconosciute al dispotismo ordinario. In genere, quella porzione di società che si arroga il diritto di esse­19

re un tutto è assai più organizzata dell’opinione dissidente, ha dalla propria parte il prodigioso dispositivo che sono i mezzi di formazione e informazione: scuola, giornali, televisioni (il web ha per il momento suoi modi di sfuggire, sia pure a fatica). Chi controlla questi mezzi può non solo esprimere la volontà della «parte del popolo più numerosa e attiva» ma, per dirla con Mill, può «riuscire a farsi accettare come tale» anche quando – alle urne – dovesse temporaneamente cessare di essere maggioranza. Può fingere addirittura di rappresentare tutta intera la volontà del popolo, e incarnare in prima persona quello che viene chiamato controllo sociale. Chi lamenta l’assenza in Italia di un controllo sociale – di una sorta di filtro che eviti ai costumi disonesti di espandersi, che tenga insieme gli sparsi individui – indica un difetto vistoso del proprio paese. Se l’italiano manca frequentemente di senso civico, se con tanta facilità evade il fisco, se non esita a parcheggiare in seconda o terza fila quando deve sbrigare una sua faccenda, se sprezza volentieri il bene comune pur profittandone, è perché la nozione di controllo sociale – Giacomo Leopardi gli dava il nome di «società stretta»13 – gli è da secoli estranea. Ma il controllo sociale non è qualcosa che si possa prendere in mano senza rischi di ustionarsi e ustionare: è una nozione che occorre affinare, adattare ai tempi, saper circoscrivere con cau­20

tela quando straripa e opprime. Suo scopo non deve essere quello di promuovere un’idea votata a divenire dottrina, muro di bronzo irremovibile e impenetrabile, bensì quello di favorire una civile differenziazione, nella società: solo in tal caso, il potere d’influenza di una determinata idea non potrà costituirsi sulla propria attitudine a controllare ed eventualmente eliminare modi di ragionare e di vivere che non sono i suoi. Il vigore del controllo sociale deve risiedere non solo nell’endurance, nella ferma vocazione di un’idea a durare, ma anche nella resilience, che è l’elastica energia del materiale che si raddrizza quando lo si piega, che balza in avanti quando cade indietro. Non puoi essere resilient – flessibile, duttile, dunque antidottrinale – se non hai neppure una volta incontrato chi, disorientandoti, facendoti retrocedere, ti ha messo alla prova: così come il capitano MacWhirr nel Tifone di Joseph Conrad sa di non poter menare vanto per il ciclone audacemente scampato se non dimostra di averlo traversato, e di averlo traversato ignorando in piena coscienza tante dotte e definitive dissertazioni sulla «strategia della tempesta». Occorre insomma che l’opinione risoluta, atta a perseverare, non diventi l’equivalente del conformismo, o – appunto – del comune sentire. Che non propaghi attorno a sé la narcosi, la nonresistenza degli individui e dei cittadini a quella che si presenta come opinione prevalente. Altri­21

menti la forza d’urto di quest’ultima si tramuta in potenza dissuasiva più che persuasiva, simile per natura e finalità all’intimidazione atomica: se vuoi colpire l’opinione dominante ti guarderai dal farlo (anche se interiormente e mentalmente non ti mancano le armi) sapendo che di certo, nello stesso momento in cui colpisci, sarai a tua volta distrutto. Il principio di deterrenza o dissuasione – in linguaggio militare si usa l’acronimo MAD, Mutual Assured Destruction, che non a caso significa «folle» – vale per una pluralità di cose: per l’atomica, per il giornalismo di informazione o di intrattenimento, per la Società vista come entità separata che prevale sulla singola persona, per il pensiero che si dispone in formazione d’attacco unendo gli scudi sopra la propria testa come usava nell’antico esercito romano. È un principio ottimo in strategia militare: potremmo chiamarlo il principio della testuggine. Non è ottimo nell’arte della conversazione privata o pubblica. È adatto a legionari più che a cittadini, ad assediare più che a convivere. Dà all’esistere – che è circonvoluto, sinuoso – la forma quadrata, o lineare, che si addice a epoche d’emergenza o di guerra. Wilhelm von Humboldt sostiene cose analoghe, quasi ottant’anni prima di Mill, quando giudica necessario che ognuno si sviluppi in autonomia e con le proprie risorse: «La libertà e la varietà delle situazioni», questo l’obiettivo cui deve mirare l’uomo che voglia eserci­22

tare un influsso sui propri simili, e assicurare il funzionamento della coesistenza tra esseri umani14. Proprio come nei passaggi biblici che narrano della Torre di Babele o della Pentecoste, anch’egli insiste sull’effetto benefico prodotto dalla varietà delle lingue umane. L’obiezione filosofica-teologica L’accusa più rilevante che può venire dal ragionamento filosofico e teologico è quella del relativismo. Difendendo la libertà incondizionata dell’opinione contraria alla mia, affermo infatti qualcosa di pericoloso: dico, in sostanza, che le più svariate e contrastanti opinioni si equivalgono, che non esiste la possibilità di una verità e convinzione morale sufficientemente solide. Espongo ambedue – verità e convinzione – ad attacchi periodici e logoranti. La verità ha uno splendore che rischia di spegnersi, se messa in competizione con altre che aspirano a eguale splendore e per di più scintillano in maniere intensamente diverse. È un’obiezione molto seria e ha molti alleati, non solo appartenenti alla sfera religiosa. Grande è la paura, sia nelle Chiese sia nella pòlis laica, di vivere in un mondo – i Dizionari dei Luoghi Comuni sono monotoni lungo i secoli – senza punti di riferimento stabili, fissi. Qui, in questa paura ­23

di smarrirsi e cadere nel vuoto, senza reti di sicurezza che raccolgano l’acrobata troppo audace, è il filo sottile che lega le due obiezioni, quella democratica e quella antirelativista: il timore di un collasso dei princìpi-guida le affratella, e le spinge a spostare l’obiettivo della ricerca da quel che è vero a quel che viene ritenuto utile o nocivo per la società o l’individuo, indistintamente. Nell’ottica di chi è preso da simili paure non è conveniente che il punto di riferimento stabile venga a mancare, dentro l’animo del cittadino, anche se il punto di riferimento non è pienamente dimostrabile e neppure tanto veridico. Accade in tal modo che l’individuo libero venga due volte sopraffatto: come essere umano che cerca il vero, e come essere umano che con proprie risorse e un proprio metro tenta di far cose utili a sé e agli altri. Tedium vitae, appassire della passione politica, indifferenza s’insediano nella sua mente. Il principio che dovrebbe servire a orientarsi diventa valore finale cui urge conformarsi, ordine dall’alto che azzittisce la coscienza invece di tenerla in stato di veglia: che le addita, come vedremo nel paragrafo sulla battaglia dei valori, la via da seguire. C’è, in questo sovrapporsi dell’utile al vero, una dose cospicua di anti-intellettualismo: non spacchiamo il capello in quattro, col rischio di perdere tempo in ricerche non necessariamente proficue e forse anche parecchio dannose. Contro queste scorciatoie in­24

timidenti si erge Mill quando cita la definizione che Thomas Carlyle dà dell’anti-intellettualismo in epoca vittoriana: una passione triste che dilagava in un’«età al tempo stesso priva di fede e terrorizzata dallo scetticismo» (an age at once destitute of faith and terrified at scepticism)15. Quel che conta, per chi cerca il vero nel solo orizzonte dell’Utile o del presunto Bene della Società, è avere opinioni cui appoggiarsi come ci si appoggia a una salda roccia: opinioni che agli esordi hanno magari conosciuto il fervore immaginifico dei tempi fondatori, ma che con l’andare del tempo vengono adottate non per intima persuasione ma per fiducia o fede, delegando ad altri il compito di spaccare – se proprio vogliono buttarsi in questa spericolata avventura di acrobati – il capello in quattro. Per i tutori del Bene le opinioni valide sono quelle in cui si crede, e che è dunque pericoloso esporre oltremisura al contraddittorio, alla miscredenza e perfino alla conversazione. Ma il ragionamento non tiene: né dal punto di vista del vero, e neppure se quel che si cerca è la mera utilità. Se non viene confrontata con un parere altrettanto poderoso e argomentato, nessuna opinione morale o religiosa riesce a mantenere, alla lunga, la propria facoltà di persuasione e diffusione. Viene come prosciugata, svuotata, e quel che resta è un insieme di formule aride: ­25

che diventano insignificanti per i più, e che ineluttabilmente si fossilizzeranno in dogmi. La ragione non può che patirne, scrive Karl Popper in Conoscenza oggettiva: un punto di vista evoluzionistico, nel 1972: «Ogni qualvolta una teoria ti sembra essere l’unica possibile, prendilo come un segno che non hai capito né la teoria né il problema che si intendeva risolvere». L’opera di Popper tende a smascherare quello che anni prima aveva chiamato il «mito della cornice»: un mito di cui prende coscienza subito dopo la prima guerra mondiale, quando si mette a osservare, con sguardo vieppiù insofferente, le «persone chiuse nelle proprie cornici» che sono i marxisti, i freudiani, gli adleriani. La convinzione che si possa discutere solo se tra i dialoganti esiste un comune quadro di riferimento (linguistico, culturale, morale) gli appare «deprimente e ripugnante», perché contraria al metodo della tradizione critica nata nella Grecia di Anassimandro, Talete, Eraclito. Non c’è conoscenza né avanzamento nella ricerca del vero senza «scontro fra culture» e fra cornici diverse: «La discussione razionale intesa in questo modo è un evento raro. Si tratta, tuttavia, di un ideale importante, e possiamo imparare a goderne. Essa non mira alla conversione ed è modesta nelle sue aspettative: è sufficiente, più che sufficiente, avere la sensazione di vedere le cose in una nuova luce o di avere avvicinato anche di poco la verità»16. ­26

Ma il vero precursore in materia resta John Stuart Mill, che già nel 1859 insorge contro l’aspirazione all’infallibilità, quale che sia il pulpito da cui proviene. Esclusa è solo la matematica: chi sostiene che due più due fa cinque cade manifestamente in errore e l’errore di questo tipo è, sì, una verità difficilmente oppugnabile. Non sono invece verità inoppugnabili quelle riguardanti la morale, la politica, la religione, la società, e in particolare i privati stili di vita (compreso il modo in cui ci si prepara alla propria morte), su cui anche oggi, come ai tempi di Mill, tanto si sorveglia e si legifera. Qui vale solo la coscienza della fallibilità, e solo la fallibilità consente di acquisire opinioni magari non ultime, magari non valevoli per l’eternità, ma abbastanza tenaci perché verificate razionalmente e via via corrette in modo da divenire princìpi di orientamento negli ambiti della politica, della morale, del costume o della religione. Mill ricorda come la stessa Chiesa cattolica romana, quando decide di canonizzare un fedele trapassato, intenti nei suoi confronti un processo (un processo di trial and error, direbbe Popper, di prova ed errore) e giunga persino a istituire la figura, contrapposta al relatore, dell’avvocato del diavolo e delle sue animadversiones. Anche se travestito da diavolo, il pubblico ministero ha il diritto di cercare ogni possibile falla nel ­27

discorso dominante – nel caso specifico sulla santità ipotetica del defunto – concentrandosi su ciascun dettaglio ed esplorando ogni anfratto della sua vita e delle sue opere che dovesse contraddire quella che viene congetturata come giusta dottrina. L’invenzione dell’advocatus diaboli conferma come il dubbio penetri fin dentro il tabernacolo delle fedi assolute. Penetra fin dentro la religione cattolica, che nel momento decisivo non esita a mostrare diffidenza verso le congetture considerate infallibili dai più e dalle stesse massime autorità. Che dà uno spazio ampio e ufficiale a chi potrebbe smontare tali congetture, lasciandogli indossare la veste diabolica dell’Avversario: per raggiungere il vero, le argomentazioni giuste occorre saggiarle, provarle nel crogiolo della tribolazione che è il contraddittorio. Dio stesso «saggia i cuori e le reni dell’uomo» (la formula è ricorrente nell’Antico Testamento), prima di forgiarne il destino o lasciare che sia l’uomo stesso a forgiarlo. L’avversario è il nostro saggiatore, il nostro verificatore, nel conflitto militare e ancor più nella disputa dialettica: è «la forma che assume il nostro problema», scrive Carl Schmitt17. È il pubblico ministero che mette in causa quello che Giovanni Paolo II, nell’enciclica del 1993, chiamò Splendore della Verità. Anche quando l’intenzione è quella di preservare un’unica consistente verità, la prudenza è d’obbligo e dello ­28

scetticismo non c’è da avere terrore: se la verità viene fatta propria senza un convincimento profondo, essa diventa una fede ereditata anziché conquistata, che s’impone con l’ortodossia e con l’uso del potere politico necessario a ogni ortodossia. Occorre che esistano almeno due ragioni contrastanti perché una verità possa apparire superiore: nessuna può esserlo in assoluto, e forse per ciò bisognerebbe rinunciare a questo aggettivo troppo usato – assoluto – sia quando si parla di una verità o di un bene, sia quando si denuncia un male o una contro-verità. La verità cui si tiene apparirà solida o anche superiore solo a condizione che vi sia questo equilibrio fra argomenti discordi: «Chi conosce solo gli argomenti a proprio favore conosce poco: può avere delle buone ragioni, che magari nessuno è mai stato capace di confutare; ma se è altrettanto incapace di confutare le ragioni avversarie, se neppure le conosce, non ha basi per scegliere tra le due opinioni»18. Né bastano i riassunti delle teorie dissenzienti fatti da chi ha il potere di determinare l’opinione dominante (un esempio: i trattati di Ireneo sulle eresie nel II secolo dopo Cristo): gli argomenti contrari, «bisogna poterli udire da persone che ne sono realmente convinte, che li difendono accanitamente e al massimo delle loro possibilità [...] Se una verità fondamentale non trova oppositori è indispensabile inventarli e munirli dei più validi argomenti che il più astuto ­29

avvocato del diavolo riesca a inventare»19. Il relativismo può condurre all’impotenza, ma verso il medesimo approdo corre – ancora più spedito – il pensiero assolutista refrattario alla complessità, che incorpora il diverso senza lasciarlo vivere e crescere fuori del proprio perimetro. Torniamo a Thomas Carlyle. Quando lo scrittore, nel suo saggio su Walter Scott, definisce l’epoca vittoriana un’«età al tempo stesso priva di fede e terrorizzata dallo scetticismo», egli indica gli effetti che questa condizione sfiduciata e invasa dalla paura può avere sull’animo: l’individuo sarà inondato da un «tedio mortale», una multiforme sofferenza, una «scarsa conoscenza di dove l’epoca stia andando» (a little knowledge of its whereabouts). E assicura che il genio dell’epoca si metterà alla ricerca di qualche Confortatore, sia pure temporaneo, che aiuti l’individuo a condurre la propria vita quando il disorientamento imperversa. Ci sono assicurazioni tutt’altro che rassicuranti. La maggior parte delle volte il Confortatore viene sotto forma di pensiero semplificato più che semplice, impermeabile a verifiche o dubbi. Crea la falsa pace dei cimiteri cui si accennava sopra. E se è vero quel che dice Hölderlin («Ma dove è il pericolo, cresce anche ciò che dà salvezza»), non meno probabile è che avvenga il contrario20. Quando fa apparizione il salvifico, quando l’assoluto dilaga, proprio là cresce il pericolo. ­30

Dio non è il nostro doppio: uscire dalla teodicea contro i valori supremi

Le chiffre a deux sens Pascal Pensieri

Und seine Sinne waren wie entzweit [E i suoi sensi erano come in due divisi] Rilke Orfeo-Euridice-Ermete

Chi crede non s’imbatterà mai in un miracolo. Di giorno non si vedono stelle Kafka Gli otto quaderni in ottavo

Lo Spirito soffia dove vuole Vangelo secondo Giovanni 3,8

L’uomo può avere diversi atteggiamenti di fronte al volto inatteso che d’un tratto incrocia il suo sguardo. Può rispondere respingendolo o accogliendolo. Può fargli giustizia o ingiustizia. Può ­31

costruire con l’Altro un Noi, oppure infliggergli violenza. Il teologo Emmanuel Lévinas ha detto cose decisive in proposito. Sempre, tuttavia, c’è un elemento sacro in quel volto: qualcosa di irriducibile che non mi appartiene, che non posso accorpare, che mi fa uscire da me stesso. L’Altro risveglia quello che da soli – guardandoci allo specchio – difficilmente apprenderemmo. Da soli sperimentiamo la libertà, inclusa la libertà del tiranno. Davanti al volto dell’Altro (e in particolare a quello del Terzo che s’intromette fra l’Io e il Tu, chiedendo giustizia) conosciamo per la prima volta la responsabilità e il disinteresse, le parole dette per essere ascoltate e le istituzioni (il governo, le leggi, i tribunali) che permettono ai mortali di convivere senza annientarsi l’un l’altro. Che permettono non la libertà del tiranno, ma dal tiranno. Dall’essere passiamo all’esistere, che letteralmente è uno stare-fuori: all’aperto. L’incontro con Dio, il diverso assoluto La prima cosa che l’uomo prova, quando conosce il dolore o quando è sulla via della morte – cioè praticamente sempre –, è l’impenetrabile diversità di Dio. L’uomo può anche non dare il nome di Dio all’alterità radicale che gli si accampa davanti: il male che sperimentiamo ci sospinge comunque in alto mare, alle prese con ­32

i suoi mostri e Leviatani. Con potenze che vengono da un profondo cui non siamo preparati, ma che possiamo provare a decifrare e che ci tocca decifrare. Pensare l’impensabile è cosa scabrosa, perché non siamo noi a pensarlo per primi ma è l’impensato che si impone al pensiero e lo guida: è un po’ quel che accade col miracolo, che si materializza solo agli occhi di chi non crede e, pur avendo dentro di sé, forse, una porta dischiusa all’invisibile, non si aspetta nulla che conosca. Di questo mare, di questi Leviatani, noi diventiamo prede senza capire la loro genesi, la loro forza, il perché della prova. È l’ora in cui Dio, o l’oltre-umano, non appare né giusto, né buono, né onnipotente. Non ascolta, non proferisce verbo. Anche se pervade le nostre esistenze, anche se è «più vicino a noi della nostra vena giugulare», come nella cinquantesima sura del Corano, anche se si è incarnato, il suo agire è puro mistero. Non è separazione quella che sperimentiamo, poiché per separarsi occorre essere stati un’unione. Non è un fossato, perché ogni fossato presuppone l’esistenza di due sponde che si guatano e sono come stupite di vivere l’una di fronte all’altra, disgiunte. Non è neppure uno spazio di frontiera, dentro il quale le diversità s’intrecciano incessantemente. La frontiera più che una riga è una banda elastica, un regno dell’ibrido, dove può anche ­33

avvenire che il sacro si stringa al profano, che l’estraneo diventi domestico, nonostante il persistere fisico di linee di confine mutevoli ma non cancellate. Lo chiamano no man’s land, ma è spazio d’un terzo tipo, con persone d’un terzo tipo: mutanti. Rompere le linee divisorie è un allenamento alla complessità, scrive Piero Zanini: «rompere i ‘confini’ non implica necessariamente la cancellazione delle ‘frontiere’. Significa infrangere, sfrangiare il più possibile il confine, il limite che esso stabilisce, per trasformarlo in un margine sempre più ampio, dove dare un luogo alle differenze. Abitare la soglia vorrebbe dire, allora, abitare e costruire questo terzo luogo il cui centro passa al suo interno e dentro di noi per diventare noi stessi uomini di confine»1. La frontiera e l’ibrido sono un primo addestramento alla soglia, ma i Leviatani da andare a conoscere ce la rivelano con ancor più crudezza, proprio perché l’oltrepassano immensamente. La resa dei conti con Dio è l’esempio primordiale della nostra vocazione a esporci all’estraneità suprema, e addirittura a suscitarla: estraneità che pesa sull’uomo e lo chiama, ma pesa anche su Dio, se è vero che anch’egli ci cerca, quasi che senza di noi non giungesse a giustificare se stesso. Estraneità con cui l’uomo cerca una convivenza, imparando per necessità e virtù a darle un ordine, a far crescere su di essa la ­34

pacifica convivenza civica e anche l’amicizia. L’incontro con Dio fonda il nostro rapporto con la diversità: ne è la matrice. Nel dialogo con lui perdiamo l’illusione dell’Uno primordiale, ritroviamo il Due, il Tre, il Quattro: l’arte del numerare può cominciare, e numerando già distinguiamo e ragioniamo. Già ci accingiamo ad abitare poeticamente la soglia2. Si può arrivare alla sapienza di questa differenziazione in vari modi, con la religione o il libero pensiero, ma il punto d’arrivo è sempre quello: la Entzweiung, come dice la bella parola tedesca, la divisione in due dell’essere. Non è una caduta dall’uno nel molteplice, se non per chi vive, sedentario, nell’inganno dell’Uno. La condizione dello strappo, della Entzweiung, è inaugurale: tutte le vie partono di qui, compresa la strada che viene percorsa con il proposito di mettere d’accordo gli uomini, le nazioni, il mondo. Ci si unisce perché in partenza si è divisi, ed eventualmente anche in guerra: uomo contro uomo, uomo contro i suoi demoni, uomo contro Dio. Non si parte come un blocco compatto per poi sgretolarsi né, ritrovandosi ignominiosamente sgretolati, si ricostruisce una presunta età dorata dell’unanimità. Tutto, la storia e l’esistenza di ciascuno, è sin dall’inizio strappo, nomadismo dal molteplice all’Uno e viceversa. La parola inglese che traduce Entzweiung è diremption, vocabolo non più molto usato ma illuminante, ­35

perché rimanda all’atto che dirime, scompone, e dirimendo scioglie le contese. La divisione in due è al tempo stesso causa prima, farmaco e antidoto. È fondatrice di quel che più qualifica l’uomo: la sua difficile libertà. Il peccato di Giobbe: non temeva «per nulla» È un sapere – quello della divisione in due – che si apprende nella sofferenza, come un distillato ottenuto attraverso forte pressione, forte pigiatura. Più propriamente, è appreso nella sofferenza del giusto, di Giobbe pigiato da Dio, perché il Giusto del poema biblico non patisce solo il flagello della lebbra o l’esclusione dalla comunità umana. Patisce la natura iniqua del male che lo colpisce, la palese irragionevolezza di questo speciale soffrire e morire «per nulla». Soffre l’impossibilità di spiegarsi con Dio attorno a tale irragionevolezza, perché l’irragionevolezza rende Dio inesistente per l’uomo, ma rende anche l’uomo inesistente e del tutto vacuo per Dio. Traversiamo la notte senza di Lui, ma anche Lui ci cercherà a tastoni, brancolando nel buio e nel caos, senza trovarci: «Ben presto giacerò nella polvere, mi cercherai, ma più non sarò!»3. Anche Dio è ossessionato dalla morte dell’uomo, così come l’uomo è ossessionato dalla morte di Dio. È quello che Giobbe grida all’Altissimo, ­36

e ai quattro amici che pretendendo di assisterlo vorrebbero proteggere il Creatore da interpretazioni perturbanti, riaffermare la certezza di una divina anche se lenta retribuzione, dare un senso non tanto al male quanto a Dio e alla sua ruvida creazione. La sventura immane che l’abbatte, Giobbe non l’ha meritata, essendo stato fin dalla nascita uomo integro, buono, timoroso di Dio: anche se ha peccato, non ha peccato al punto da cadere in tanta miseria. La guerra che gli viene scatenata è asimmetrica, assurda. E il Dio che la scatena, per il fatto stesso di ricorrere ad armi di distruzione sproporzionate, rischia molta parte di sé: rischia di perdere legittimità se non legalità, e di fallire l’obiettivo che si era proposto, sempre che l’avesse chiaro in mente. La sua ha tutta l’aria di essere una guerra per cambiare l’uomo (oggi si direbbe: una guerra per cambiare regimi, piegarli alla propria idea del mondo) – non per migliorarlo e farlo vivere accanto all’avverso, al diverso, anche all’illogico. Tutto questo pensa Giobbe, e lo dice: non c’è giustizia in cielo, e se questa è giustizia c’è dell’assurdo nel cielo. Il dilemma in cui Giobbe si trova inviluppato si dipana piano piano, ed è crudele: o mi piego e accetto l’incriminazione divina (che non conosco), dunque resto impigliato in un groviglio processuale insensato e perdo anche giuridicamente il mio corpo (perdo l’habeas corpus che ­37

l’uomo perfezionerà più tardi, nel XIII secolo, ed è il diritto a conoscere la propria incriminazione), e in tal caso Dio ha un senso ma si dimostra despota cieco, spaventato dall’infinita malvagità dell’uomo; oppure esercito la mia intangibile libertà, chiedo che l’autorità renda conto e incrimini secondo criteri che sono anche i miei, anzi sono interamente miei, ma in tal caso Dio fallisce, perde la sua sovranità assoluta, perde addirittura se stesso fino al punto di dissolversi nella non esistenza. È quel che temono gli amici consolatori di Giobbe, e il panico che li prende li induce a ergersi ad avvocati e garanti del Creatore, ignorando il dilemma di Giobbe per non doverlo veramente confutare. Dio «non rigetta l’uomo integro, e non sostiene la mano dei malfattori. Diffonderà di nuovo sulla tua bocca il sorriso», assicura Bildad il Suchita, prospettando la finale conversione che consola e ricuce il nastro, lacerato, che lega Dio all’Uomo, il cielo alla terra4. La divina sovranità, la libertà stessa dell’Eterno sono in gioco se si dubita della sua attitudine a governare secondo giustizia. La nozione prettamente politica di governo è usata con allarme dall’ultimo visitatore di Giobbe, Eliu, il giovane figlio di Barachele il Buzita: «Può mai governare chi odia il diritto? E tu osi condannare il Gran Giusto? [...] Se egli tace, chi lo può condannare? Se vela la faccia, chi lo può vedere?»5. ­38

Giobbe non si limita a chiedere che gli sia resa nota l’incriminazione, a rivendicare il dibattimento nell’aula del tribunale dove potrà difendere le proprie ragioni e ascoltare quelle dell’accusa. Non diversamente da K., il protagonista del Processo di Franz Kafka, vorrebbe salvare Dio, il suo potere razionale, la sua corona che non sopporta di vedere intaccata, la bellezza di un regno che sente minata: per questo ricorda all’Altissimo che dall’alto dove si trova rischia di precipitare, di ritrovarsi a cercare l’uomo, un buio mattino, e scoprire di averlo perduto. Come nella finale lamentazione delle Elegie duinesi, in Rilke, Giobbe trepida: E noi che la felicità la pensiamo in ascesa, sentiremmo la commozione, che quasi ci atterra sgomenti, per una cosa felice che cade6.

Una sovranità divina completamente staccata dalla nozione umana di giustizia è intollerabile. Giobbe vuole che Dio sia giusto con lui, reclama perfino un Vendicatore (san Gerolamo tradurrà: un Redentore) che lo giustifichi nell’ultimo processo che – ne è persuaso – avverrà nell’aldilà. Ma giusto come, secondo quali criteri? Quale dosaggio di ricompense e punizioni? La giustizia cui si appella Giobbe è più esigente di quella difesa dai quattro amici, ma è pur sempre giustizia umana, troppo umana per Dio. È la giustizia ­39

come l’interpreta lui: se mi mostro capace di opere di bene ho diritto a equivalenti compensi; se scivolo nella colpa sarò punito in proporzione. La tentazione di Giobbe è di costringere Dio a replicare e giudicare secondo le nostre categorie del giusto e della legge: solo a queste condizioni il divino si rivelerà intelligibile e potente. In realtà, un Dio che si sottoponesse a un simile esame di maturità dissiperebbe, d’un colpo, la sua sovranità libera. La sua potenza sarebbe intelligibile ma vincolata. Troppo umana per Lui, troppo diversa da Lui, è la giustizia in base alla quale i mortali lo chiamano e gli chiedono di rendere conto. I commentatori della TOB (Traduction Œcuménique de la Bible) osservano che per questa via Dio viene trasformato in uomo d’affari: la sua libertà è barattata con la mia libertà, la sua parola è corretta e plasmata dalla mia, il suo dire e il mio formano ai primordi un’unica tela, che urge ricucire7. Alla tela scucita viene dato un nome: il silenzio di Dio – o la sua morte, il suo fallimento – che solo può spiegare il nostro soffrire quando è ingiusto. Il cielo è fatto da noi, il cielo siamo noi. Noi spieghiamo e annunciamo come l’orizzonte umano sia stato disertato da Dio. Sembra crederlo anche Benedetto XVI, quando in occasione della revoca della scomunica alla comunità di Lefebvre si duole con queste parole, in una lettera ai vescovi: «Il vero problema in questo nostro momento ­40

della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più»8. La radice dell’assolutismo è qui, in questa appropriazione umana di Dio, in questo accenderlo e spegnerlo a seconda delle convenienze, delle urgenze, di sempre risfoderate emergenze. Un’appropriazione subdola, perché chi prende possesso di Dio non esiterà, se gli tornerà utile, a dire il contrario: che l’uomo è proprietà di Dio. Non crediamo senza imprimere sulla creazione il marchio dei nostri concetti di giustizia, noi mortali; non agiamo né amiamo gratuitamente o, come nel libro di Giobbe, «per nulla». Prima o poi qualcuno che ci somiglia molto, e che è anzi il nostro quasi corporeo prolungamento, verrà dall’alto dei cieli a spiegare la razionalità dell’universo e i modi di riunificarlo: redimendo, premiando, o punendo. Se questo qualcuno non dovesse venire, decreteremo la sua scomparsa dall’orizzonte dell’uomo. La morte di Dio è un decreto umano, non del cielo. Il misterioso poeta che ha scritto Il libro di Giobbe dice tutt’altro, come tutt’altro dice anche il Qohélet. Egli mette spavaldamente in causa la dottrina delle ricompense e punizioni divine, e quasi si direbbe che fatichi a entrare nella teologia ebraica, così radicata nella fede retributiva. Il vero e più insidioso peccato, per il poeta, consi­41

ste proprio nell’inattitudine a credere per nulla, indipendentemente dagli squilibri tra il giusto e l’ingiusto, l’uniforme, il difforme o il multiforme. Se Dio cede alla proposta di mettere alla prova il prediletto tra gli uomini è perché il sospetto di Satana lo lascia sbigottito, muto. Convocato nella corte celeste, Satana non condivide le persuasioni di Dio sul suo più fedele servitore: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla? Non hai forse messo una siepe attorno a lui e alla sua casa e a tutto quanto gli appartiene?»9. La teodicea, che è il tentativo di spiegare il male preservando il divino e la sua esistenza, è costantemente ammaliata dalla visione di un Dio che si fonde a tal punto con l’uomo da incorporarne i cangianti criteri etici, le norme scritte, i valori non scritti. Costantemente punta ad antropomorfizzare il Cielo, a fare di Dio un uomo d’affari. L’uomo, in altre parole, s’inventa un Dio e lo converte in proprio Doppio. Con ciò si facilita il compito in misura ampia, ma equivoca. In un primo tempo lo stratagemma è proficuo, sicuramente: se Dio cessa di essere alterità assoluta – l’Altro che m’interpella e ottiene la mia apertura non fondendosi con me ma restando Altro – l’invenzione del Doppio servirà egregiamente allo scopo, perché assorbendolo mi ergo a ciclope con un unico occhio che vede ogni cosa e potrò edificare Stati assoluti, potere non condi­42

viso. L’invenzione sarà anche utile nelle operazioni che fissano unilateralmente Valori Supremi: una tipica azione di potere ciclopico, poiché non esiste valore supremo senza l’esistenza di valori inferiori o perfino di non-valori. Il potere esercitato in tal modo sarà tanto più forte se potrò identificare i valori con la volontà di un mio Doppio che assume le sembianze di Dio, e ha arcane proprietà che incutono paura. Il numerare non sarà neanche cominciato: non si imbrogliano i numeri con il sotterfugio del Doppio. Ma la facilitazione del compito è anche equivoca, perché il potere che viene esercitato con la simulazione del Doppio è mortale e trascina Dio stesso nella mortalità: ne fa qualcosa di posticcio, trasforma tutte le cose dell’uomo – compreso il divino – in utensili di lavoro (in idoli) che stanno appesi alle pareti d’uno scantinato e arrugginiscono. Se invece agisco fuori dalla logica del potere, se credo e amo «per nulla», Dio ricompare nell’orizzonte umano – non era mai scomparso, avevamo solo smesso di vederlo o immaginarlo: perché lo scantinato per sua natura è impossibilità di orizzonti, esattamente come il cielo di Kafka è incompatibilità con le cornacchie – e l’alterità non solo smette di essere un incubo: apre al dominio di sé, alla conoscenza del limite, alla vista della soglia. Diventa, nel linguaggio biblico, benefico freno al soffio dell’uomo10. ­43

La pòlis democratica è fin dalle origini questa scoperta e accettazione dell’alterità, questo continuo tirocinio che prende la forma del chiarimento reciproco (della parresìa, che è il libero parlare e parlarsi, nell’assemblea come nelle aule dei tribunali) e, se l’operazione riesce, della concordia discorde cui l’uomo aspira da millenni. Per Gilles Deleuze, l’uso del ragionamento agonistico permea la duplice esperienza greca della filosofia e della tragedia: quel che avviene nel dialogo socratico e nella prova tragica – l’incontro con la peripezia che inaspettatamente colpisce e sovverte l’eroe, conducendolo dall’incoscienza alla catarsi – è innanzitutto una lotta fra pretendenti (pretendenti a Penelope, pretendenti al comando, pretendenti alla realtà svelata): dunque è lotta fra diverse interpretazioni del vero, del bello, del giusto, non per ultimo del buon governo. È il primo esercizio di selezione democratica11. L’alterità del Creatore, che Giobbe infine apprende e che nessuno degli amici-consiglieri ha voluto riconoscere per tema di sacrificare le proprie ideologiche teodicee (gli amici, tranne il giovane Eliu, sono castigati nella finale epifania divina), significa che Dio è assolutamente e liberamente sovrano; è vicinissimo, ma non al punto di fondersi con la propria creatura. Nel Deuteronomio è scritto che «le cose occulte sono per lo Signore Iddio nostro; ma le rivelate ­44

sono per noi, e per li nostri figliuoli, in perpetuo; acciocché mettiamo in opera tutte le parole di questa Legge»12. Questo vuol dire che la giustizia è per inte­ro nelle mani dell’uomo: che in terra, ora, s’eser­ cita la peculiare, libera sovranità umana. Che non esiste una giustizia «in natura», perché quel che è equo o iniquo in natura fa parte delle cose che Dio cela, avvolge in caligine contraddittoria, e all’uomo spetta applicare una giustizia che non sia nascosta, che esca allo scoperto, che ripari i torti sulla base di norme fabbricate dai mortali per i mortali. Le leggi sono pensate dagli uomini per dirimere contese, per chiarire quel che altrimenti resterebbe mistero e nebbia. Nei Proverbi biblici la proposizione di Deuteronomio si condensa in una sentenza: «È gloria di Dio nascondere le cose; è gloria dei Re investigarle»13. Nell’investigare le parole divine, i re scoprono che non è mai una, l’indicazione celeste. «Dio ha detto una cosa; due ne ho ascoltate»: il salmo 62, tra i più enigmatici, indica ai re che dovranno decidere da soli, senza edificare certezze su un’univoca giustizia in cielo e in natura14. La pazienza e la cacciata dal Paradiso: la memoria del presente L’esperienza della democrazia è la più vicina al postulato biblico secondo cui Dio cela la Cosa, ­45

la dice in modo non univoco per chi l’ascolta, e all’umanità spetta investigare e darsi leggi costruite su realtà che non hanno un’unica interpretazione e che possiedono un’autonomia derivante dalla divaricazione fra cielo e terra. Quel che è arcano è di Dio, ma il governo della città è tutto di Cesare: è uno dei grandi insegnamenti di Gesù15. Dentro questa tensione vive l’uomo cristiano: tra i due poli che sono la carne e lo spirito, la vita nella pòlis e la vita per il cielo, il mondo che l’immagine di Cesare rappresenta sulla moneta e l’oltre-mondo con la sua ineffabilità. Commentando il passo di Matteo sul tributo a Cesare, Origene sostiene che nel rispondere a Farisei ed Erodiani Cristo non sceglie un polo contro l’altro ma li disgiunge, mettendo in evidenza la diversità della loro natura. «Non è così, che il rendere a Cesare quel che è di Cesare equivalga a non dare a Dio ciò che è di Dio»16: non si smette la fede se si riconosce quel che dobbiamo alla carne e al mondo, cioè alle due figure con cui il Principe s’identifica. La carne e il mondo sono – come la pecunia – la parte fugace della nostra esistenza, contengono il vizio e faticano a ricongiungersi con l’anima e lo spirito, ma di questa pasta composita è fatto l’uomo, e quel che dobbiamo al nostro corpo sarà poca cosa rispetto al cielo ma ha un peso nella vita anche spirituale dell’uomo che Gesù è lungi dallo sprezzare. Ascoltiamo ancora Origene: «Noi ­46

siamo composti di anima e corpo (dire se anche di spirito, per ora lasciamolo stare). Siamo tenuti, in un certo senso, a pagare un tributo per i (nostri) corpi al principe chiamato Cesare, e cioè (pagare) con le necessità dei corpi, che hanno l’immagine corporale di colui che è principe sui corpi: si tratta del nutrirsi, del vestirsi, del riposo necessario, del dormire. Poiché per natura l’anima è ad immagine di Dio, dobbiamo altre cose a Dio, suo re, cose che convengono e sono adatte alla natura e all’essenza dell’anima»17. Origene aggiunge un’osservazione acuta e inattesa a proposito della risposta di Cristo ai Farisei e agli Erodiani che l’interrogano sul tributo a Cesare per tendergli un tranello18: «Intanto dal nostro Signore riceviamo il monito a badare non già a ciò che dice la maggioranza e che per questo motivo appare glorioso col pretesto della pietà verso Dio, bensì a ciò che risulta all’esame e alla coesione logica del discorso»19. Nutrirsi, vestirsi, riposare quando è necessario, dormire: le «necessità dei corpi» e del mondo non hanno una connotazione negativa nel Commento a Matteo. Non avremmo la peculiare tensione dell’uomo tra carne e spirito, terra e divino, se la polarità si dileguasse e Dio decidesse di ambedue le sfere senza lasciare all’uomo il libero arbitrio e la libertà di coscienza20. Se si decidesse a maggioranza su chi debba eserci­47

tare l’assoluta sovranità, per la gloria d’un regno oppure dell’altro. Non la maggioranza ma l’«esame e la coesione logica del discorso» permettono di capire e distinguere le due sfere, e di comprendere la missione dell’uomo quando si organizza nella pòlis e ha in cura le necessità essenziali alla vita (mangiare, vestirsi, riposare, dormire): gli economisti chiamano queste necessità i «beni pubblici, che né il mercato né l’azione individuale sono in grado di produrre e che per ciò stesso costituiscono la ragione d’essere del governo»21. Se questa è la coesione logica del discorso, il dilemma di Giobbe si scioglie e le conseguenze per Cesare sono due: il suo potere è potere pieno ma al tempo stesso mortale, niente affatto unto o divino. È intriso di dubbi sulla parola di Dio, ed è potere che si può perdere in ogni istante. Che si deve perdere, se la brama di conservarlo prevale sulla coscienza di averlo, per tutte queste ragioni, solo in prestito. È quello che accade in democrazia. Esercitare il potere sapendolo mortale è il modo di governarsi che più diffida dell’umana volontà di potenza, che più si adopera perché le istituzioni e le leggi durino più dei fugaci sovrani. Andando all’essenza: è il regime più attento a evitare i due peccati capitali nell’uomo, che Kafka individua in prima battuta nell’impazienza e nell’ignavia, ­48

poi in un’unica colpa da cui ogni altra deriva: l’impazienza22. Per impazienza l’uomo che aspira a dirigere la società fissa leggi che proteggono solo il potere, immagina blocchi inalterabili di verità per rendersi più agevole la vita, prescrive valori supremi piuttosto che adattarli e intrecciarli sapientemente con altri valori. Chi prescrive valori in questa maniera ritiene che il Paradiso sia cosa facile da ridisegnare in terra, dimentica la cacciata, e secondo Kafka vive in una fede falsa23. Il liberalismo democratico si guarda da questi pericoli, per convinzione e per come è congegnato: investiga la trappola dell’impazienza, erge pareti contro il solidificarsi d’un vizio che preferisce i mezzi spicci al certosino costruire, predilige i tempi lunghi delle istituzioni e delle politiche, conoscendo la breve durata dei potenti. Ricorda la cacciata dal Paradiso e il suo perché. Sa che il Paradiso è memoria di un primordio ma anche memoria del presente: che da questo luogo-non luogo di perfezione bisogna ogni volta ricominciare da capo. In Kafka il Paradiso è perenne iniziazione, è un’attesa che non scema essendo sempre delusa, è un ripetuto conoscere se stessi («Per impazienza gli uomini sono stati scacciati dal Paradiso, per impazienza non vi tornano»). È l’Uno impossibile e l’immediata divisione in due, è una storia di scacco e di inattesa riuscita. Scacco di ­49

Dio, secondo cui sarebbe bastato il solo assaggiare dall’albero della conoscenza per morire all’istante: non si è inverato, l’uomo è divenuto mortale ma non è morto fulminato. E scacco del serpente, secondo cui mangiando dall’albero l’uomo sarebbe divenuto Dio. Neppure questo è avvenuto. Ma è anche paradossale riuscita, di Dio come del serpente: «Non morì l’uomo, ma l’uomo paradisiaco. Gli uomini non diventarono Dio, ma diventarono conoscenza divina»24. L’ostacolo che la democrazia pone all’impazienza fa tesoro della lezione impartita a Giobbe: insegna la distanza da Dio perché lo scambio di parole e di ragioni possa aver luogo (i quattro amici non credono che si possa parlare con l’Alterità assoluta). Insegna l’indistruttibile natura dei singoli attori che si scontrano e si conoscono nel dibattimento processuale. Anche qui, Kafka illumina l’oscuro: «L’indistruttibile è un unico; ogni singolo uomo lo è e al tempo stesso l’indistruttibile è comune a tutti. Di qui l’incomparabile, indivisibile legame tra gli uomini»25. La pazienza come virtù e come metodo serve a preservare questa indistruttibilità comune agli uomini: non è infatti nella fretta che si edifica l’arte del meticoloso dirimere, separare. La pazienza è anche l’arte più prossima all’amicizia, al disinteresse, alla stessa incarnazione. ­50

Dio s’incarna e si fa uomo, ma lo fa restando quell’originaria, inconfondibile alterità. Così la teofania fa apparizione nella Cena in Emmaus di Rembrandt, conservata nel museo Jacquemart-André di Parigi: sotto forma di esterrefatto stupore e di amicizia che si rivela. È nella tenebra che Gesù risorto s’incarna ancora una volta, quando seduto al tavolo dell’ospitalità è riconosciuto dai pellegrini, nera figura affondata in una luce che fiammeggia alle sue spalle. (Solo dopo anni ho scoperto che ai piedi di Gesù, in ginocchio, mescolato con l’ombra del Cristo che sta passando dall’incarnazione all’invisibilità, c’è uno dei due discepoli, completamente immerso nell’oscuro in cui ha riconosciuto la luce di Dio. Lui, l’inginocchiato che si fonde con l’ombra, in quest’incontro crede e ama davvero «per nulla». Col passare del tempo il quadro, poco curato, si è scurito sempre di più, anche se resta l’incredibile luce sullo sfondo della quale si staglia il nero profilo del Cristo. Oggi, il pellegrino inginocchiato quasi non si vede più.) Parlare di amicizia è parlare di democrazia, perché anche in democrazia la configurazione è questa: dobbiamo convivere col diverso, l’alieno, creando qualcosa d’indistruttibile che leghi fortemente gli uomini e però preservi l’indistruttibilità di ciascuno. La soluzione non è ­51

nel ritrovare l’unità perduta del genere umano o della famiglia o di una civiltà o di una radice. Il vivere non trova il suo senso, se mai ce l’ha, nella nostalgia, ma nel riconoscimento della Entzweiung che ci fonda. Non viviamo nel rimpianto, non siamo alle prese con una stoffa, sdrucita, che occorre rattoppare. Il nostro problema è senza dubbio quello di trovare un’unione e leggi comuni, dentro le nazioni o tra le nazioni. Ma è dalla molteplicità che si parte, perché è la molteplicità il nostro inizio e la nostra ragione d’essere. La ricerca stessa di un senso è vana perché ogni evento, ogni fatto può essere diversamente interpretato. Per legiferare in maniera corretta, altra via non c’è se non quella di chiedersi, umilmente, pazientemente, quali siano i molti significati delle realtà, e dal conflitto d’interpretazione estrarre la norma ponderata: nel libro La legge e la sua giustizia, Gustavo Zagrebelsky spiega molto bene i compiti che nascono da questo persistente variare di significati26. Quel che Emone insegna a Creonte Districarsi nelle contraddizioni del vero: il tentativo precede di molto il liberalismo, e si fa strada ben prima che dilaghi la concezione – apparentemente figlia della modernità progressista – del multiculturalismo. È la libertà che ­52

rivendica Emone, fidanzato di Antigone e figlio di Creonte, nel dialogo-scontro con il paterno potere sovrano: Io non avrei forza, né avrei parole per dire che il tuo parlare non è retto. Ma proviamo a non scartare lucide ragioni dentro idee diverse27.

Tale è il peccato di Creonte: la sua idea della maestà può apparire politicamente logica, non è questo a esser contestato. Ma essa perde ogni efficacia e gravitas – Tebe rumoreggia, sembra affascinata dal gesto pietoso di Antigone, piange la vergine ingiustamente condannata per aver seppellito il fratello Polinice trasgredendo le leggi regali – perché è un pensiero uniforme: perché simboleggia una civiltà presuntuosa che misconosce i frutti della divergenza e della diversità. Che predomina unilateralmente, affatto ignara dei conflitti d’interpretazione: E non portare, adesso, in te, l’impronta di quell’unico pensiero: che giusto sia soltanto ciò che affermi tu, null’altro. Colui che crede avere senno lui solo, e solo lui parole e sentimenti che non ha nessuno: se lo apri, troverai il vuoto. Ma per un uomo, sia pur savio, apprendere molto dagli altri, né tendere l’arco fino a spezzarlo, non è mai vergogna28.

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Gli alberi, «per salvare gemme e rami, si piegano ai flutti» quando le acque del torrente si gonfiano. Ascoltano il rumoreggiare del popolo, questo grande Correttore, che Emone descrive come «voce che striscia nel silenzio nero». Si spezzano invece alle radici, se restano «diritti e tesi». Creonte con il suo pensiero uniforme e il suo addomesticamento dei valori resta diritto e teso. Per questo, nella prova, si spezza. Non sa «accedere al mutamento» che Emone consiglia. Non conosce la bellezza che consiste nel considerare la riflessione come la più nobile delle arti, e nel riconoscere il momento in cui l’arte s’appanna ed è fecondo «apprendere molto dagli altri». Nella lotta fra pretendenti descritta da Deleuze, viene alla fine selezionato il governante migliore: Creonte in fin dei conti perde la gara, pur avendola inizialmente vinta conquistando il regno. Volutamente parlo di Emone, piuttosto che di Antigone, per descrivere l’irruzione dell’alterità nella vita dell’individuo o in quella della pòlis. Antigone è una legge contro un’altra legge. È l’opposizione radicale ai decreti di un potere che pensa solo alla propria sopravvivenza. Antigone dissente in nome di inalterabili regole di giustizia. Guido Ceronetti scrive in un lapidario aforisma su Sofocle, le donne e il tragico: «A Tebe Creonte pensa, Antigone no. Quel che ­54

fa vivere più a lungo Creonte è il pensare, Antigone si appende»29. Emone tenta di equilibrare le due forze, di dividere i poteri e le leggi, di esplorare e far emergere la contraddizione. Capisce le logiche del sovrano pur aderendo alla verità di Antigone, ed è persuaso che la contraddizione debba potersi sciogliere nell’esercizio del contraddittorio, nell’ascolto reciproco tra diverse culture, appartenenze, lignaggi. Sarà sacrificato anche Emone, ma il sentiero che avrebbe evitato la catastrofe è lui, l’uomo democratico e cosmopolita per eccellenza, ad averlo indicato. I valori come parola del potere (Machtwort) Accedere al mutamento: a questo ci educa l’incontro con l’alterità, fin da Sofocle. In particolare l’incontro inaugurale con l’alterità che è Dio. L’accusa di relativismo che grava su chi cerca il vero cimentandosi col diverso è futile, perché guarda alle convenienze del brevissimo periodo e manca singolarmente l’occasione di penetrare con lo sguardo nel tempo lungo. Per accedere al mutamento non basta la storia degli avvenimenti, che è quella che si agita in superficie e passa presto; né basta la storia sociale, che studia l’evoluzione dei gruppi umani ed è appena più lenta. Quella che va convocata è la storia della ­55

lunga durata, che per Fernand Braudel è a prima vista immobile, le cui fluttuazioni sono quasi impercettibili e tanto più vaste, e che determina le relazioni tra l’uomo e la politica, l’uomo e le istituzioni, l’uomo e il mondo, l’uomo e il suo ambiente naturale: ogni mutamento, se è serio, va pensato avendo in mente il presente ma anche, fuori dai calcoli di potere, i secoli a venire. Anche nel Qohélet la preferenza è chiara: «Meglio il soffio lungo che il soffio alto», traduce la Bibbia di Chouraqui30. In mancanza di questo duplice sguardo la lotta al relativismo dei valori è corsa precipitosa e miope, che non preserva virtù primarie come la giustizia o la vita o la dignità umana, ma le adopera fissando mortifere, aggressive graduatorie. Procede, ancora una volta, dall’impazienza descritta da Kafka: è «un’interruzione prematura di ciò che è metodico, un argine apparente elevato intorno alla cosa apparente»31. Ed è lotta tanto più scabrosa in democrazia perché a fianco del re Creonte si erge, complice despota, la conformistica opinione dominante generata dalla legge della maggioranza. Il futile ci può annientare – l’etimologia della parola, «che versa facilmente», fa pensare al gesto di chi versa sbadatamente l’acqua per terra – se è vero che futilissimi sono i motivi per cui le civiltà muoiono. Nel suo libro sul Collasso delle civiltà, il geografo Jared Diamond spiega la dissennata autodistruzione dei ­56

polinesiani che colonizzarono l’Isola di Pasqua: l’ottusa stupidità con cui abbatterono un albero dopo l’altro, lungo i secoli, li privò di ogni possibilità di fabbricare canoe e cercare i pesci per nutrirsi. Fu tanto corto il loro sguardo, indifferente al soffio lungo, che si mangiarono l’un l’altro prima di morire come civiltà32. La battaglia dei valori è un tema che da anni ci è accanto, e di cui varrà la pena, un giorno, scrivere la genesi e la storia. Più recentemente, essa ha preso la forma di un universale regolamento dei conti fra culture differenti e avversarie. Non si sa bene chi abbia cominciato – se alcune correnti sotterranee dell’Islam venute possentemente in superficie, o alcune non meno possenti e non meno sotterranee correnti del pensiero occidentale, o nel caso indiano alcune correnti dell’estremismo indù – ma di certo il regolamento dei conti nasce, per quanto riguarda l’Occidente, da una bramosia identitaria antica, che nella seconda metà del secolo scorso era stata soddisfatta dalla passione, fortemente dualistica, della guerra fredda. Spenta questa passione se ne escogitò un’altra, e la battaglia si riaccese come nuova, rincuorando gli animi in stato di astinenza. Samuel Huntington, che nel 1992 teorizzò lo «scontro di civiltà» in una conferenza all’American Enterprise Institute – nove anni prima dell’11 settembre 2001 e della guerra mondiale al terrorismo –, fu incen­57

sato come scopritore d’un concetto affatto originale, ma la sua buona o cattiva novella non era che un avatar, una delle figure in cui s’incarnava la vecchia battaglia dei valori. Popper e la sua ostilità al mito della cornice vennero gettati in un angolo dagli stessi intellettuali che per anni l’avevano magnificato. Lo scontro di civiltà resta impresso nell’immaginazione, ma nel frattempo s’è liso fino a divenire inservibile. Doveva dar vita all’ordine, e ha scientemente creato il caos; doveva sbrigare le faccende con lesta fattività, e ha scientemente generato un clima di paura e guerra permanenti: George W. Bush stesso voleva una cosa e il suo contrario, e come un bambino che ritiene plausibile il gelato caldo prometteva celeri operazioni a zero costi (non a zero morti) e guerre destinate a durare più generazioni33. Lo scontro di civiltà doveva infine costruire una realtà nuova, e scientemente ha abolito il mondo dei dati di fatto. La realtà era obnubilata, anzi coscientemente negata: nell’amministrazione americana ci fu addirittura chi spiegò che la «comunità che s’affidava al realismo» (la reality-based community) era una disprezzabile genia, e che una vera potenza inventava realtà costringendo giornalisti, commentatori e intere classi politiche a interpretare e studiare non quel che effettivamente succede, ma le sequenze filmiche messe in scena dal potere34. Il fatto che nella ­58

guerra in Iraq siano stati emarginati gli studiosi dell’Iraq, che nella guerra in Afghanistan siano venuti meno gli esperti dell’Afghanistan, che nelle crisi in Somalia siano evaporati i conoscitori della Somalia e dell’Etiopia, è un capitolo, probante, di questa storia. Il tracollo della carta stampata che nelle democrazie si fa allettare da analoga elusione dei fatti è un altro capitolo egualmente probante35. Non si può immaginare scempio più grande di quello capitato ai valori che in coincidenza con la guerra al terrore sono stati mobilitati, sbandierati, trafficati senza disciplina né costrutto. La democrazia esce scardinata dall’avventura, e la sola idea di diffonderla nel mondo mette ormai paura a chi l’esporta come a chi più o meno forzatamente l’importa. La dignità dell’uomo, l’emancipazione della donna, la libertà, la separazione tra Stato e Chiesa, la lotta alla teocrazia, sono valori che un uso improvvido e falsificatore ha corroso, alterato, sprecato. L’essere umano, prima ancora dei regimi, doveva essere cambiato alle fondamenta, trascinato verso la luce con il forcipe, al pari dell’uomo incatenato nella plumbea caverna di Platone. Non si trattava solo di regime change. Si puntava all’ultima e inane meta: al humanity change, versione aggiornata della creazione dell’Uomo Nuovo e del potere che si erge ad arconte celeste. Il valore supremo per cui si iniziavano guerre e si seminava mor­59

te era l’avvento di un’umanità unificata, libera non si sa bene da che e perché. Alberto Savinio direbbe: il valore supremo era diventato il grumo, il magma indistinto verso cui l’Europa nutre, nei suoi momenti migliori, la massima delle antipatie36. Al grumo si son tributati di nuovo gli onori, per anni. Gli si è dato perfino il nome di civiltà. Una volta che la guerra s’impantanò non vi fu presa di coscienza, ma rivenne a galla la passione che sott’acqua fremeva da un secolo e mezzo, e che aveva concimato tante guerre cammin facendo, il più delle volte a partire dal vecchio continente. Rivenne a galla la battaglia dei Valori Supremi, che tormenta la civiltà europea almeno dalla metà del XIX secolo. Che s’è accompagnata – guardinga e sospettosa sentinella – alla nascita della democrazia pluralista che di tanto in tanto vien difesa con le armi, non sempre fondatamente. Quel che le guerre d’aggressione sempre tentano di nuovo, da oltre un secolo, non è la Repubblica cosmopolita di Kant, non è il coesistere pacifico di valori diversi, ma è il mondo ridotto a imbambolata, fittizia unità: un mondo destinato a rattrappirsi – ogni volta che i desideri del grande manipolatore di turno sono presi per realtà – come la pelle di zigrino dell’omonimo romanzo di Balzac. ­60

Il coincidere fra disastro strategico e disastro economico non ha nulla di strabiliante, nel primo decennio del XXI secolo: anche nella guerra al terrorismo globale i valori hanno preso la forma di un astratto furore, simile alla bolla illusoria della speculazione e destinato a esplodere com’è esplosa la bolla dei subprime e della finanza. Ambedue – guerra ed economia – sono state occasioni per esibire una istupidita arroganza più che una potenza. In ambedue i casi si è fatto credito a persone, cose, assicurazioni scritte che non valevano quel che pretendevano: né i prestiti per gli acquisti di case né i valori in nome dei quali si ingaggiavano lotte di civiltà erano di primo rango. Erano, gli uni e gli altri, sub-prime: di qualità inferiore, svalutati in partenza. Erano alberi che si spezzano alle radici per aver avuto la presunzione di restare «diritti e tesi»: proprio come l’albero che era Creonte, o come la pelle di zigrino che promette l’esaudimento di qualsiasi desiderio e però si ritira sempre più a forza di strofinarla e farne abuso. (Il giovane aristocratico Raphaël, distrutto dai debiti, l’ha un giorno ottenuta da un antiquario, ma scoprirà che il lembo di pelle conciata, che rappresenta il «circolo dei suoi giorni», è illusorio e gli ha succhiato la vita, l’opera, perfino il libro che s’era proposto di scrivere. Neppure cominciato, il libro aveva un titolo colossale: La Teoria della Volontà.) ­61

Non ci sono regole né robuste fondamenta né pensieri di lungo respiro, nel mondo su cui spadroneggiano le illusioni. Il potere brancola per sentieri ignoti, ed è allora che le sue mani agguantano avide i valori e quel che vi è di continuativo, promettente, sublime nella meta che ai reclusi della caverna platonica viene prospettata. Chi dirà no alla giustizia, alla libertà, alla vita, all’amore del prossimo, alla divisione eguale dei beni? Quando le idee si fanno rare, restano pur sempre gli ideali: essi hanno il vantaggio, doppio, di proiettare mete lontane e di essere poco controversi, di allargare i cuori e mettere a tacere gli scontenti o gli inquieti, di allargare il respiro senza fortificare i polmoni: di soffocare, in conclusione, la lotta fra pretendenti nella pòlis democratica. L’astrazione non è mai inutile – è comunque una preparazione al pensare – ma può anche eclissare il concreto, trafugarlo, rompere il legame degli ideali con la ragione pratica. Manovrato con apparecchiature sempre più sofisticate di propaganda, il discorso sui valori prende spazi abnormi ma resta penzolante sul vuoto, e moltiplica i toni apodittici man mano che il potere sulla realtà scema o si fa illusorio: la manipolazione svigorisce gli ideali, ma chi li manomette – sentendosi demiurgo – non ha occhi per questo destino fatale. Il fenomeno tornò a fare apparizione sul finire del secolo scorso – era uno dei tanti avatar ­62

delle battaglie morali ottocentesche –, quando John Major riempì il vuoto della propria politica evocando i basic values, negli anni stanchi che seguirono in Inghilterra il romanzo politico di Margaret Thatcher. La formula divinatoria venne pronunciata nel 1993 al congresso del Partito conservatore (Tony Blair che venne dopo Major non fu che un imitatore) e il primo ministro disse che una nuova epoca andava spalancata, dove avrebbero fatto ritorno valori basilari come il buon vicinato, la decenza, e soprattutto la famiglia da rifare e il mercato che si regola da sé, svincolato dallo Stato (i due ultimi valori non si armonizzano immediatamente l’uno con l’altro, ma la contraddizione non creava turbamenti d’alcun tipo). I valori sono un’arma, quando vengono invocati con un secondo fine: quello di unificare surrettiziamente, di nascondere con il sotterfugio difficoltà e obblighi che incombono e dividono le menti. Riproposti all’attenzione di cittadini sospettati di essere divenuti troppo indifferenti o troppo impazienti, essi non sono visioni del mondo e neppure vere mete ideali. Sono la parola del sovrano che si è fatto egli stesso impaziente: impaziente di interrompere quel che è metodico, deciso a uniformare al più presto i cervelli dei sudditi scansando la discussione, la dialettica, il costume antico della gara po­63

litica e dell’opposizione. Nel suo Trattato del Ribelle, Ernst Jünger giunge sino a quantificare l’opposizione che il regnante assoluto riesce a sopportare: non più del due per cento (un plebiscito che l’approvasse al cento per cento «sarebbe la proporzione ideale, ma irraggiungibile come tutti gli ideali»; mentre un’approvazione del novanta per cento non gli procurerebbe tranquillità, perché significherebbe che «un uomo su dieci sarebbe in cuor suo un nemico: non si può pretendere che le masse accettino una cosa simile»)37. Talmente precipitoso è il regnante assoluto, da desiderare una cosa sopra ogni altra: poter decidere eludendo ogni genere di ostacoli e di contropoteri, e adunare attorno a sé cittadini affezionati più che raziocinanti. Il fastidio che suscitano il dibattimento giudiziario e la legge stessa non sorprende, nel sovrano-demiurgo che domina tutto tranne la propria impazienza. Si può star certi che chi parla molto di valori (ayatollah, pontefici, uomini politici) ha in mente quella che nel linguaggio della filosofia politica tedesca si chiama Machtwort: la parola di potere, la parola che dà potere. Il Machtwort è una decisione che sempre interviene quando il conflitto, considerato infruttuoso e lento, viene non sgrovigliato ma sospeso o negato. La decisione non è raggiunta né attraverso il consenso, né attraverso compromessi, né attraverso il ­64

voto a maggioranza. Sui valori non si vota: li si pone come tesi perentorie, che sarebbe indecente contraddire. Diventano, come appunto l’impazienza in Kafka, l’«argine apparente elevato intorno alla cosa apparente». La manipolazione avviene in due tappe: la graduatoria, e subito dopo la riduzione dell’innumerevole all’Uno. Se prima si dibatteva di più valori nell’agorà, ecco che d’un tratto ne resta uno solo, il primo in classifica, il valore record. Nello stesso momento in cui si stabilisce una classifica, ci sono valori che stanno in cima e diventano supremi, e sotto (o meglio fuori) sopravvivono a stento, aggrediti di continuo, valori dichiarati disvalori o non-valori. È qui che alla deliberazione e alla libera discussione tra pareri diversi si sostituisce il Machtwort, la parola-gendarme che non divide né dirime ma comanda, liquidando il diverso e l’inferiore. Gustavo Zagrebelsky propone una distinzione linguistica per rimediare alle confusioni presenti: una cosa sono i valori, un’altra i princìpi. I valori, essendo piuttosto l’obiettivo finale che si cerca quando ci si incammina verso la giustizia o la felicità o la pace, corrono il pericolo di restare appesi nel vuoto se non si accordano con i princìpi che l’uomo dà a se stesso all’inizio di tale cammino. Beni come la vita, l’eguaglianza, la libertà, la dignità, la pace sono cercati in ambedue le circostanze – da chi agisce per un principio e ­65

da chi agisce e pensa soltanto per valori – ma il primo si fa guidare da quei beni fin dagli esordi, preoccupandosi di adeguare a essi le scelte e i mezzi che fa propri, mentre il secondo vagheggia spesso la meta senza eccessivamente badare alla strada che condurrà a essa. Il mero annuncio dei valori gli parrà uno sforzo più che meritorio e sufficiente, e ciò spiega in buona parte la sua sbadataggine. Il fine ideale può giustificare i mezzi anche se essi sono abietti, ed è per questo, prosegue Zagrebelsky, che l’uomo che «troppo sbandiera questa apparentemente innocente, anzi virtuosa parola – valori – è spesso un imbroglione». «Quando i fini sono grandi – afferma Raskolnikov in Delitto e Castigo di Dostoevskij – l’umanità [...] non giudica più il delitto come tale, anche se usasse i mezzi più spaventosi»38. Non mancano nella discussione sui valori i pericoli del formalismo. Parole come valori e princìpi in certi periodi storici possono sembrare logore e guaste, in altri periodi lo sono molto meno. Non sempre hanno avuto l’ambiguità che possiedono oggi. Basti pensare al destino toccato a parole uccise dall’uso smodato come niente (spesso perfino una conversazione telefonica comincia con quest’incongrua evocazione dell’abisso) o come pensiero unico. Per molte persone, valori e princìpi sono la stessa cosa, visto che esaltano gli stessi beni, le stesse virtù. ­66

Ma le rivoluzioni che da oltre due secoli si sono succedute hanno deturpato virtù e valori a forza di sguainarli a ogni angolo di strada: ignorare il danno che ne è conseguito non aiuta a ripararlo. È nelle rivoluzioni che gli ideali preannunciati cominciano a divaricarsi dalla realtà, la meta dalla strada, i fini dai mezzi. La dittatura della mente uniforme, che quasi sempre s’abbina alle rivoluzioni, pensa essenzialmente secondo valori, e in genere scommette su un valore supremo o unico proprio per dar forza al Machtwort, alla parola che conferisce potere. A questo valore subordina il resto, fissando a proprio piacimento regole, graduatorie, sanzioni. Quel che fa Zagrebelsky è medicare le parole malate, ridando loro ordine: lo fa ricordando che ambedue i concetti sono necessari – i valori come i princìpi – ma a condizione che siano in rapporto stretto l’uno con l’altro; che esista una sequela non interrotta fra princìpi, norme e valori ultimi. Se si spezza il legame dei valori con i princìpi, se la strada che conduce alla meta ideale è non solo impervia ma senza scrupoli e addirittura indifferente all’etica, abbiamo il seguente e molto attuale paradosso: abbiamo uomini senza princìpi, che tanto più intensamente dicono di aspirare ai valori39. Chi aspira all’Uno e non ascolta il parere contrario (Creonte re di Tebe è uno dei prototipi) fa propriamente questo: dice di anelare agli ideali, non discostandosi in questo dall’uomo di prin­67

cìpi, ma in effetti anela a valori che si è abituato ad adulterare e che per utilità politica fissa unilateralmente come supremi. Le graduatorie in questo campo hanno inoltre un pregio non trascurabile: sono affermative, e annunciano il prevalere doveroso del Bene giudicato di volta in volta superiore. Si muovono più agilmente nel mondo della necessità che in quello della libertà. I princìpi, di contro, hanno più spesso i divieti come fondamento: meglio non far questo o quello, se davvero si vuole salvare oppure ottenere la libertà, o la giustizia, o la vita; meglio conoscere il male da evitare più del bene che si vuole instaurare. L’uomo di princìpi ha pazienza. L’uomo che abusa dei valori è impaziente, perché il valore – scrive Carl Schmitt nel suo saggio sulla Tirannia dei valori – non ha una propria esistenza certificabile quando viene rivendicato, e impazientemente aspira a valere, a farsi valere. Il valore non è nulla se non si impone: «La validità dev’essere continuamente attualizzata, cioè fatta valere, se non vuole dissolversi in mera parvenza. Chi dice valori vuole far valere e imporre. Le virtù si esercitano; le norme si applicano; gli ordini si eseguono; ma i valori vengono posti e imposti. Chi ne sostiene la validità deve farli valere. Chi dice che valgono senza che vi sia nessuno che li fa valere è un impostore»40. Altra cosa è il divieto, più prossimo al principio di precauzione. Il Decalogo che Mosè incide ­68

sulla pietra, sotto dettatura divina, non enuncia valori ultimi, ma enumera una serie di virtù, quasi tutte basate sul «non devi». Non stupisce che Adolf Hitler, il quale aspirava a fare della nazione tedesca un blocco monolitico di fede entusiasta e che proprio per questo era un temibile manipolatore di valori, odiasse il martellante diniego del Decalogo, incentrato sul modo d’essere di chi cerca la buona vita più che una sorta di corto circuito, breve e fulmineo, verso l’ultima spiaggia ideale. Nei dialoghi con Hermann Rauschning, Hitler fa capire che gli ebrei gli sono esecrabili perché discendono da Mosè, dal Decalogo, ed è Mosè e il Decalogo che vuol distruggere, per estirpare con un’unica mossa sia l’Antico sia il Nuovo Testamento. La sua guerra, confida, è condotta per forzare il ritorno alle leggi della natura: «Contro i Dieci Comandamenti, contro la Legge dettata sul Monte Sinai, contro il Dio biblico del deserto con i suoi poteri di legislatore. Contro il diabolico Tu devi... Tu devi... e lo stupido tu non devi... Bisogna vuotare le nostre vene dell’anatema del Monte Sinai!»41. La guerra dei valori, ovvero l’incapacità di mutare La battaglia dei valori fa irruzione nel pensiero europeo quando la certezza di una legge naturale vacilla. I filosofi che se ne sono occupati, da ­69

Max Weber a Max Scheler, da Nicolai Hartmann a Carl Schmitt e a Martin Heidegger, indicano una precisa coincidenza storica: l’apparire del nichilismo nella metà dell’Ottocento, lo sfinirsi di un’etica che pareva affidabile, all’indomani della torrenziale avventura napoleonica. La messa in guardia contro la tirannia dei valori – tirannia ineludibile a partire dal momento in cui si cerca il surrogato della vecchia legge naturale – è formulata ripetutamente nei testi di Nicolai Hartmann, il filosofo che Schmitt cita nella sua stroncatura dei valori supremi42. Pubblicato nel 1967, il saggio di Schmitt riprende l’argomentazione di Hartmann e, analizzando il modo in cui i valori sono di continuo e arbitrariamente valorizzati, svalutati o trasvalutati, critica l’intrinseca loro vocazione a escludere o annientare con la violenza il pensiero diverso. La volontà di esclusione comincia con la rivoluzione del 1789, prosegue nell’Ottocento, e oggi fa di nuovo apparizione. Anche in questo caso è la storia della lunga durata che aiuta a capire, più di quella – superficiale – degli avvenimenti recenti. John Major che negli anni Novanta del secolo scorso fa appello ai basic values, i neoconservatori statunitensi che alleandosi all’integralismo cristiano invocano palingenesi belliche in nome dei valori: tutti costoro hanno antenati vissuti nell’Ottocento, esiziali zeloti del bene già raccontati da Dostoevskij o dai narratori del ­70

Doppio come James Hogg o E.T.A. Hoffmann. L’Ottocento è il secolo chiave, e lo sguardo che esso appunta sui fenomeni umani – tanto nella letteratura quanto in politica – ci appare estremamente tagliente, e tuttavia anche stagnante. Una stagnazione non dissimile da quella contemporanea, anch’essa intrisa di sconsolati appelli ai valori. Sicché, per capire questo nostro presente, è forse alla Terza Repubblica francese che bisogna risalire: fu allora che nacque, impetuosa, l’idea di un Ordine Morale da instaurare, con la sua graduatoria di valori massimi e minimi e la fusione tra politica, cultura, etica individuale, religione. Il nuovo Ordine fu promesso nel 1873 dal maresciallo Mac-Mahon, appena nominato capo dello Stato. Mai si parlò tanto di valori come in quell’epoca senza sete vera, ma con enormi ubriacature. Già allora se ne mettevano in risalto alcuni, a scapito di altri: se ne cercavano di impareggiabili, universali, affidati alla saggezza superiore della Chiesa. Già allora essi erano considerati, come ai tempi d’oggi, non negoziabili. La storia della Terza Repubblica e dell’era Mac-Mahon è l’esempio di come la politica può perire: alle spalle la Francia aveva una delle più umilianti sconfitte, quella del 1870 a Sedan nella guerra secolare con la Germania, seguita appena un anno dopo dalla rivolta della Comune di Parigi, finita in massacro. L’Ordre Moral parte da lì, il suo seme è nel na­71

zionalismo scatenato da sanguinose esperienze e nel congiungersi di due disfatte: disfatta nella convivenza fra nazioni, e disfatta nella convivenza fra cittadini. La costruzione dell’abnorme cupola bianca del Sacré-Cœur di Montmartre, a Parigi, comincia nel 1875 e ambisce a essere la risposta moralizzatrice a queste sfide: anche architettonicamente la basilica è un Machtwort, una parola di potere che fissa, senza grazia, Sommi Valori. È il dispositivo ideale per una guerra attorno a essi, combattuta con tanto più accanimento e ansia d’unanimismo in tempi che di valori sono vuoti, che sono incattiviti, inadatti ad affrontare con calma le avversità e gli avversari. È l’ora in cui la diversità e lo scetticismo fanno più paura. In cui i sovrani sognano la sospensione delle opposizioni, della democrazia, e l’avvento di unioni nazionali indeperibili. In cui clandestinamente sognano addirittura l’eternarsi di catastrofi, l’instabilità che cuoce a fuoco lento senza mai attenuarsi: perché le catastrofi rendono ineluttabile l’unione nazionale, auspicabili le tregue d’ogni conflitto, riprovevole qualsiasi moto dell’animo che non sia dominato dalla sequela del delitto e del castigo, della condanna e della redenzione. Il Sacré-Cœur è considerato dai partigiani dell’Ordine Morale come un mezzo per espiare Sedan e la Comune, oltre che per opporsi simbolicamente all’anti­72

clericalismo dei repubblicani. È la Storia che si tramuta – qui, subito – in Giudizio Universale. Il politico che strumentalizza in questo modo i valori ottiene due risultati altamente profittevoli: la massima semplificazione e l’escamotage. L’ideale cui mira è un’unità che non conosce spigoli, che vive del rimpianto di un’età dell’oro malauguratamente perduta e che possiede l’infrangibile aspetto delle cose fantasticate: le chiese, che da millenni esplorano Città Celesti, si fanno complici di imprese rovinose quando cooperano a terrene Città Ideali tanto mal messe43. Non è stupefacente che più di centotrent’anni dopo Mac-Mahon riaffiorino in Europa le stesse simbologie, gli stessi nomi di allora. Nel 2008 esce nelle sale cinematografiche francesi il film Louise-Michel di Gustave Kervern e Benoît Delépine. I sequestri di manager (i boss­napping) si diffondono in Francia ed Europa, e i protagonisti del film progettano l’esecuzione di un imprenditore colpevole di aver messo i suoi operai sul lastrico. Gli autori non si divertono solo a citare il ’68 e le sue code terroriste. Louise-Michel è l’eroina della Comune di Parigi, ed è quell’evento fatto di tumulto inane e stroncato che viene rimesso in scena attraverso immagini di sfascio e di derisione. C’è sempre il sospetto, quando con frequenza assillante si parla di un bene o di valori da restaurare, che non sia il bene quello che si cerca, e non sia­73

no neppure i valori. In particolare non sono i beni che si esercitano nella sfera pubblica, presidiata da istituzioni e costituzioni che dovrebbero dar forma stabile a princìpi e valori – traendo da essi norme, regole – e che sono pensate non solo per durare più degli uomini di potere ma per circoscrivere la natura stessa del potere: sia limitandone la forza, sia mettendogli di fronte autorità e istituzioni in grado di controbilanciarlo. Il rigonfio fiume dei valori supremi che scorre sopra ogni cosa e sopra ogni conflitto d’interpretazione serve ad altri scopi, più torbidi e il più delle volte non pubblici ma privati: serve non a correggere storture ma a occultare il male, che alligna sotto l’angelico fluire del torrente. Serve a proteggere interessi personali, mascherandoli. Serve innanzitutto a evitare che si dica male del male: dunque che si dica la verità quando la verità è brutta, che la si cerchi senza conoscerla in anticipo ma confrontando ogni opinione con l’opinione contraria, per temprare la propria e metterla alla prova. Montaigne mette in guardia da un bene cercato sì torbidamente quando scrive: «Detto fra noi, ci son cose che ho sempre visto in singolare armonia tra di loro: le opinioni sovracelesti, e i costumi sotterranei [...] [Gli uomini di questo tipo] vogliono uscire da se stessi e sfuggire all’uomo. È follia: invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie; invece di innalzarsi, si abbassano. Questi umori trascendenti mi spaventano, come i luoghi alteri e inaccessibili»44. È in ­74

tempi di confusione etica – scrive ­Schmitt – che con più fervore garriscono le bandiere dei valori. La cosa più sorprendente è che Schmitt stesso sia stato complice di questo bugiardo garrire, in anni letali per il suo paese e per l’Europa. Tempi simili sono dichiarati cinici, nichilisti. Il cittadino è sospettato di vederli colorati di nero, mentre il potere politico li vorrebbe belli, buoni, attraenti, e in prima linea non disvelati (è la prima linea che conta, nella strategia della testuggine richiesta dall’emergenza e dalla guerra). Il rifiuto di quella che Kant, nel saggio Per la pace perpetua, chiama Publizität – la pubblicità data al proprio pensiero e a quello altrui è il primo atto libero dell’uomo emancipato, non più minorenne, che sorretto dai Lumi osa sapere45 – si combina con l’Ordine Morale incaricato di restaurare l’Uno: impossibile accingersi all’opera uniformatrice senza l’occhio unico, tondo, onnisciente, che il ciclopico Sacré-Cœur (anticipazione perfetta dell’occhio televisivo) simboleggia. Intollerabile cimentarsi nella scalata dei cieli se nella pubblica discussione vengono alla luce le pieghe, le storture del mondo reale, i conflitti di opinioni: tanto più se i cieli sono di cartapesta. Enzo Bianchi, in un articolo scritto dopo la vicenda di Eluana Englaro, biasima le epoche in cui il moralismo si sfrena e dà loro il nome di tempi cattivi, da cui si esce «non concordi ma più divisi»46. Sono tempi ­75

in cui il vociare attorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo e personale dell’uomo «al solo fine del potere», e distruggendo i valori stessi. Tempi in cui il sale perde il sapore che aveva, rendendo le cose o insipide o eccessivamente salate, corrosive. Può accadere addirittura che il troppo salato s’unisca al salace, quando più infuria l’Ordine Morale, producendo la più oscena delle misture: tra cattiveria e sesso, tra lascivia e bigotta saccenteria etica. Berlusconi ha realizzato questa «singolare armonia» tra fare orgiastico e fare politico. Negli Ultimi giorni dell’umanità Karl Kraus descrive l’eccitata vigilia della prima guerra mondiale come epoca di valori tanto più instancabilmente gridati quanto più fatui. I giornalisti, tramutati in vati, sono ingredienti decisivi di quest’epoca scura, enfatica, cruenta e cieca. Non è diversa la crisi economica che viviamo, per gli effetti che ha sulla tenuta e l’equilibrio dei regimi democratici. Come custodire e mantenere il potere, quando governi e politici sono ingabbiati in una dura necessità che controllano a malapena o che non controllano affatto, abbarbicati come sono a forze rivelatesi ambedue illusorie: il mercato e lo Stato-nazione? Naturalmente possono dire, con Jean Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». È quello che fa la maggior parte degli Stati, specie in Italia: prima negando la crisi, poi accusando gli organi d’informazione di ­76

ingigantirla e di evocare tragedie, poi minacciando di asfissia i giornali che danno brutte notizie, infine annunciando pomposamente l’epilogo del dramma e fischiettando nel buio con finta allegria, come se buio non fosse. Ma l’attività che prediligono, cui si consacrano con raddoppiato vigore e finto entusiasmo, è quella di usare i valori come diversivo, di sventolare parole politicamente incongrue come Amore e negare ogni spazio alle operazioni-verità invocate da Kant. I valori manipolati sono lo strumento per distrarre l’attenzione da sfide che essendo contraddittorie vengono eluse: per governare all’insegna di un’Annunciazione ripetuta all’infinito, come la musica di un disco in vinile il cui solco si fosse guastato in quel punto preciso, e cioè quando l’Angelo comunica la Buona Novella a Maria. Come se la parola restasse virtuale, senza incarnarsi. Visto che l’Angelo annuncia così bene, perché non eternare il suo apparire e non farne il maestro di una perfetta comunicazione mediatica? Il disco bloccato sull’annunciazione-comunicazione apre la strada all’escamotage e provvidenzialmente distoglie gli uomini dall’idea di tragedia, che comporta non la passività dell’attesa estatica ma la comprensione di responsabilità nuove e di colpe sedimentate, l’emergere della norma e la catarsi che affronta i conflitti di interpretazione: il concatenarsi tragico è il banco di prova dei pretendenti, in democrazia. ­77

Altro accade con valori abusati. Adoperati per occultare il male, essi non portano alla catarsi, non rispondono agli enigmi. Sono inculcati tassativamente, forzano rigide gerarchie. Solo attorno a valori monocromi e sbrigativi si ritiene di poter unire e calmare gli indocili cittadini. Al disastro dell’impotenza politica, all’incapacità di ricreare le linee divisorie che consentono la selezione dei migliori, si replica con ferree classifiche e con sistemi che nel gergo imprenditoriale s’accoppiano spesso, forse perché fa rima, all’orrendo aggettivo valoriale. I singoli schieramenti pretendono non al governo migliore, non alla visione più accurata, ma a essere consacrati tutori dei valori supremi, abilitati a relegare l’avversario o il rivale nelle sconsacrate terre dei disvalori. Il mistero che ci oltrepassa cessa di essere inafferrabile: facendo garrire i valori nulla più ci oltrepassa, l’usurpazione del divino è in pieno corso, e la sembianza del potere – è quello che conta, quando il disco s’inceppa sul refrain dell’Angelo annunciante – viene messa in salvo. Non sono in questione solo la morte e la vita, com’è stato il caso in Italia a più riprese negli ultimi anni. I valori en masse, cioè l’insieme di virtù cui aspira il buon governo della città, vengono tramutati in espedienti, in trucchi precari. La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere restano beni essenziali per la costituzione e il cittadino, ­78

e non sono squalificati per il semplice fatto di essere sbandierati con parole supponenti e recitati con ridondanza. Abbiamo visto come questi beni siano presenti nell’uomo di princìpi come nell’uomo che contempla l’ideale da lontano, senza troppo curarsi della strada che lo separa dalla meta. Ma nello stesso momento in cui sono adoperati politicamente, i valori si snaturano e scadono a mezzi. Il potere, innalzato a fine, non è al servizio dei valori che proclama ma se ne serve per negare l’avversario senza dibattere quel che egli dice, in un clima che ritiene altamente pericoloso per la propria sopravvivenza. Un clima propizio alla parola di potere, che si nutre di paura e di morte, permanentemente avverso alla discussione, e il cui nome è: Emergenza. Se si ricorre alle distinzioni di Zagrebelsky tra princìpi, norme e valori si intuisce il perverso motore della battaglia. Uomini senza princìpi – dunque senza un’idea delle virtù necessarie al cammino che pretendono intraprendere – temono le norme, hanno in orrore le complicazioni della legalità, ma non per questo mancano di correre, trafelati, verso quello che proclamano essere il bene ultimo, il Sacré-Cœur che porterà salvezza. Anzi, proprio per questo corrono, divorando la strada a grandi morsi senza masticarla, come l’impaziente Orfeo di Rainer Maria Rilke47. La corsa scalmanata dà loro una specie di au­79

reola: conferisce una legittimità quasi mistica, pone sul loro capo una corona ben più decisiva e imponente della mera legalità formale. I geni dell’epoca invocati da Carlyle, i grandi confortatori, sono loro. Sulla bandiera che innalzano è scritto a lettere capitali: AMORE! I valori come assillo che finisce col distruggere quel che pretende di restaurare non sono una novità. Oggi tornano in auge, come arma da brandire indistintamente contro rivali del proprio campo o avversari, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni linguistiche già in via di esaurimento nel XIX secolo. Secondo Kant sono le cose ad avere un valore (le si fa valere sulla base d’un prezzo, sono scambiabili), mentre le persone, che vanno pensate come fini e non come mezzi, hanno una dignità, che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine valore-rifugio: in economia funziona, nell’etica no. Ma ancora più chiaro è il ragionamento che induce Nicolai Hartmann a parlare di dittatura dei valori. Appena si comincia a parlare di valori, scrive il filosofo tedesco negli anni Venti del secolo scorso, ci si imbatte nell’ineludibile dilemma dell’etica: di fronte a noi si schierano l’aporia, l’antinomia, lo scontro irriducibile fra norme opposte ed egualmente valide. Difficile estrarre un comportamento virtuoso o una norma che non si decomponga col passare del tem­80

po e che per giunta sia condivisa se si mettono a raffronto, per esempio, l’inviolabile diritto alla vita e il non meno inviolabile diritto alla dignità della persona. Per non parlare dell’antinomia tra libertà ed eguaglianza, tra libertà e fraternità, tra prodigalità e risparmio. Disporre questi beni in una graduatoria significa relegare alcuni di essi nell’ambito del non valore. Significa assolutizzarne alcuni in maniera infallibile, ma a dispetto di altri resi del tutto relativi. Serendipity. Gli effetti non intenzionali dell’antirelativismo È uno dei motivi per cui la polemica sul relativismo ha elementi di vacuità così corposi, e spesso non è che un inganno perfido, oltre che macchinoso: chi ha certezze assolute, chi ha un’unica verità, sarà tanto più portato a cadere nel relativismo, e addirittura nella distruttività, quando si trova alle prese con virtù antinomiche. Il colmo della miseria relativista l’ha raggiunto un prelato illustre e molto intransigente, monsignor Rino Fisichella, il giorno in cui Berlusconi ha bestemmiato pubblicamente contro Dio raccontando una delle sue barzellette. Ben disposto a condonare la violazione del secondo comandamento, il presule non ha esitato a soccorrere il Premier perseguitato: «Bisogna sem­81

pre in questi momenti saper contestualizzare le cose», ha detto il 2 ottobre 2010 in un convegno a Pisa su Chiesa e politica. Hartmann sostiene che ogni valore, preso in se stesso e visto come unicità, finisce inevitabilmente col comportarsi in maniera «tirannica e unilaterale»48. Lo stesso imperativo categorico di Kant (agisci come se la tua singola azione valesse per l’intera umanità) trova il suo limite nell’antitetico e non meno prioritario imperativo secondo il quale ogni personalità ha le sue irrinunciabili caratteristiche, i suoi intimi preziosi valori da custodire, sicché la massima dovrebbe suonare: agisci come vorresti che tutti si comportassero in simili situazioni, e tuttavia preserva quel che ti è caratteristico e che può e deve restar tale, anche se tutti agiscono nel modo ritenuto universalmente giusto49. Altra virtù proteiforme analizzata da Hartmann: l’amore del prossimo, che secondo Niezsche è virtù limitata, che taglia le ali al ben più ardito amore di quel che ci è remoto nel tempo e nello spazio (la Fernstenliebe è più formidabile della Nächstenliebe: «Il vostro amore del prossimo è il vostro cattivo amore per voi stessi [...] Uno va dal prossimo perché cerca se stesso»)50. Le due forme d’amore devono trovare il modo di annodarsi l’una all’altra – è la tesi di Hartmann – e quel che inquieta Nietzsche deve trovare chi lo ascolti e gli dia spazio: l’amore del remoto è ­82

quello che dà al futuro e alla storia una durata lunga che il presente e il prossimo, anche con la migliore delle intenzioni, solitamente non sanno contemplare. Ogni valore considerato nella sua solitudine, portato agli estremi e reso unico, produce il «rigorismo dei singoli valori, e può svilupparsi fino al fanatismo. Ogni valore, una volta che ha preso il potere su una persona, aspira al ruolo di esclusivo tiranno dell’intero ethos umano, e questo a scapito di altri valori, anche di quelli che materialmente non sono contrapposti a esso». Nella tirannide che esso finisce con l’esercitare sta in agguato la «tendenza alla rimozione» di altre virtù: una tendenza «sempre presente nel sentimento dei valori», e sempre portata a perdere il senso della misura. Non diversamente da Kafka, Hartmann ritiene che la principale insidia al sentimento dei valori consista nell’impazienza ideologica, da cui discende l’intolleranza verso visioni diverse dalla propria. Il fanatismo della giustizia (fiat justitia, pereat mundus), o il fanatismo dell’amore del prossimo, o il fanatismo stesso della Fernstenliebe, dell’amore del remoto, sono esempi di trafelata mancanza di pazienza51. Alla tirannia dei valori Hartmann oppone la sintesi che in Aristotele è cercata fra più virtù, nessuna delle quali, da sola e in ogni evenienza, può assurgere alla sommità del valore autentico. L’accorta esplorazione di un’aurea via di mezzo ­83

è la chiave che schiude la porta alla buona vita, quando si è in presenza di intense antinomie: la sintesi tra purezza e pienezza, giustizia e amore del prossimo, fierezza e umiltà, diventa il valore – ibrido, meticcio – che vale la pena far proprio e tradurre in azione pratica, in condotta valorosa. Queste sintesi meritano il nome di virtù52. Il tentativo di sfuggire all’Uno comincia con l’Etica Nicomachea di Aristotele: con il giusto mezzo (mesòtes) che non è affatto una rassegnazione alla mediocrità né il punto mediano di una linea retta, ma è un dosaggio sapiente che estrae le qualità migliori presenti nei due estremi e colloca la sintesi raggiunta su una cima (il giusto mezzo è definito akròtes ed è il punto di eccellenza, collocato «alla massima altezza») che sovrasta eccessi e dismisure, trasformando quella che sembra linea retta in un triangolo isoscele tendente verso l’altitudine della perfezione53. Anche la Chiesa si presta a un’operazione che assolutizzando i valori li incattivisce, li devitalizza, ne relativizza un numero cospicuo, e non è un caso che il Concilio Vaticano II – con la sua aspirazione a vedere la realtà da più punti di vista, a salvaguardare il contrasto per meglio temprarsi al confronto con la diversità – sia giudicato da tanta parte della gerarchia ecclesiastica un impedimento. Esistono parole di Giovanni XXIII difficilmente concepibili oggi, probabil­84

mente dovute all’iniziazione all’alterità che fu per Angelo Roncalli la permanenza in Turchia e Grecia come delegato apostolico: «Ora più che mai, certo più che nei secoli passati, siamo intesi a servire l’uomo in quanto tale e non solo i cattolici; a difendere anzitutto e dovunque i diritti della persona umana e non solamente quelli della Chiesa cattolica. Le circostanze odierne, le esigenze degli ultimi cinquant’anni, l’approfondimento dottrinale ci hanno condotto dinnanzi a realtà nuove, come dissi nel discorso d’apertura del Concilio. Non è il Vangelo che cambia: siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio. Chi è vissuto a lungo e s’è trovato agli inizi del secolo in faccia a compiti nuovi di un’attività sociale che investe tutto l’uomo; chi è stato, come fui io, vent’anni in Oriente, otto in Francia e ha potuto confrontare culture e tradizioni diverse, sa che è giunto il momento di riconoscere i segni dei tempi, di coglierne le opportunità e di guardare lontano»54. L’arroganza dei valori è generalmente ritenuta appannaggio della destra e delle restaurazioni, ma non sempre fu così. Anche quando erano denominati virtù e le forze progressiste li consideravano una loro prerogativa, c’era chi volutamente li associava alla violenza, giudicandoli irraggiungibili senza il forcipe che li estrae dallo storto legno dell’umanità e che li impone. Bontà ­85

e sangue s’affratellano in maniera ostentata nella Rivoluzione francese, a partire dal momento in cui i giacobini – i padri delle successive rivoluzioni, compresa quella comunista – cominciano a teorizzare la violenza come indispensabile lievito della provvidenza storica. Robespierre lo dichiara atteggiandosi a profeta sublime, nel mezzo dell’orrore: «Se la molla del governo in tempo di pace è la virtù, la molla del governo popolare in rivoluzione è al tempo stesso la virtù e il terrore: la virtù, senza la quale il terrore è funesto; il terrore, senza il quale la virtù è impotente. Il terrore non è altro che la giustizia sollecita, severa, inflessibile: esso è dunque un’emanazione della virtù»55. Ancora più esplicita, analoga per magniloquenza alla dialettica comunista, è la constatazione, amara ma presentata come pienamente coerente, di Saint-Just: «Quel che produce il bene generale è sempre terribile»56. Quasi spaventato dal Terrore che difende e diffonde, Robespierre nega fin dal 1793 di voler esportare l’esperienza rivoluzionaria: «I francesi non sono affetti dalla mania di rendere altre nazioni felici e libere contro la loro volontà. Tutti i re avrebbero potuto vegetare o morire impuniti sui loro troni insanguinati, se avessero saputo rispettare l’indipendenza del popolo francese»57. Pochi decenni dopo, Goethe, che esecra il romanticismo rivoluzionario ed è assetato di luce classica, giudica con parole terribil­86

mente severe la colpa dei sovrani che permisero alla follia sanguinaria della Virtù di espandersi, e approda a una diagnosi non molto diversa da quella di Robespierre: Perché mai, come con una scopa, un tale re viene spazzato via? Fossero stati veri re, tutti sarebbero ancora indenni58.

Nel momento in cui sono inserite in una gerarchia ossificata di valori, le virtù perdono la straordinaria elasticità che hanno in Aristotele. Non si adattano alle doti e alle peculiarità dell’uomo, non sono precedute da un’analisi minuziosa di quel che è possibile o impossibile fare, delle cose che legittimamente ci fanno montare in collera e di quelle che invece non lo devono, delle conseguenze che un certo comportamento implica nel breve o nel lungo periodo. La sequela che lega gli uni agli altri i princìpi, le norme giuridiche e la meta dei valori viene recisa. I valori così sfruttati cambiano il linguaggio e l’uomo stesso, provocando la continua svalutazione – o trasvalutazione – del bene perseguito. Salvaguardarli è l’obbligo, e la via è l’accettazione della duttilità aristotelica. Spesso il valore mediano – l’altitudine dell’eccellenza – non ha neppure un nome, nell’Etica Nicomachea: non è che un saggio convivere con l’antinomia, con ­87

la conflittualità fra princìpi e norme egualmente primari e però diversi, un guardarsi sia dall’eccesso sia dal difetto di virtù e vizi. La democrazia è questo stare all’erta, questo vigilare su se stessi. Le sue Costituzioni, scritte o non scritte, sono lo sforzo tenace, acribico, di conciliare leggi etiche in conflitto tra loro ma egualmente preziose: da custodire una per una (per esempio l’eguaglianza e la libertà, il diritto alla vita e il diritto a decidere della propria morte). Quando i valori sono espedienti possono divenire prevaricatori, visto che il fine è il potere di chi li maneggia: la tirannia nasce dall’uso distorto dei valori, non dai valori stessi né tanto meno dalla ricerca accorta delle virtù elementari da tutelare. Il valore unico, come il pensare appiattito, fiacca altri valori e li relativizza con l’armamentario stesso dell’antirelativismo. Non permettendo loro di proporsi e difendersi, crea squilibri non domabili. Prefigura alternativamente o guerre di tutti contro tutti, o estesi conformismi. Assolutizza perfino i modi del conversare democratico. In Italia l’avversario è zittito in nome d’una nuova mitica terra promessa, dove allignano adorati gli intoccabili, sacrosanti «toni bassi»: quest’altro valore supremo, usato come mezzo per non affrontare il merito di una questione e azzittire ogni critica e ogni salutare correzione. ­88

I toni bassi per definizione non possono essere all’altezza dei momenti più difficili, nella vita dell’individuo come in quella della collettività. Per definizione chi li invoca o li prescrive desidera ardentemente abbassare il tono altrui, non il proprio. Desidera spegnere i Lumi che rischiarano, la voce pubblica che tiene in vita la conversazione fra cittadini, il molteplice che aspira a sostituirsi all’Uno. Il magnanimo uomo aristotelico non ha di queste preoccupazioni: forse perché passa accanto ai mali, pur combattendoli con tutto il coraggio che ha e che le occasioni della vita esigono. Perché «non è incline alla fretta colui che ha cura di poche cose, né è in tensione d’animo chi non ritiene grande nulla. E la voce acuta e la fretta sono causate da queste cose»59. Il suo muoversi è lento, la sua voce grave, la sua espressione posata: il suo tono è basso o alto a seconda della risposta che è chiamato a dare. L’impazienza è all’origine della cacciata dal Paradiso, l’impazienza ci impedisce di ritornarvi. Questa lunga storia fatta di rumore e di fretta deve pur insegnarci qualcosa, se è vero che il Paradiso ha dovuto liberarsi di noi per non essere, a sua volta, distrutto.

Note

Lo splendore delle verità 1 Atti degli Apostoli 2,1-13, in La Bibbia di Diodati, Mondadori, Milano 1999. I corsivi sono miei. 2 Søren Kierkegaard, Briciole di filosofia e Postilla non scientifica, a cura di Cornelio Fabro, 2 voll., Zanichelli, Bologna 1962, vol. 1, p. 352. Più oltre, Kierkegaard dirà: «Nella concezione della storia universale [...] non resta più niente da vivere, niente da sperimentare, tutto è compiuto e il compito della speculazione è quello di catalogare, classificare, ordinare methodice le singole determinazioni del pensiero: non si ama, non si crede, non si agisce, non si sa cos’è l’amore, cos’è la fede, e il problema è soltanto d’indicare il loro posto nel sistema» (ivi, vol. 2, p. 153). 3 È quello che Samuel Johnson confida a James Boswell, la sera del 7 aprile 1775 (James Boswell, Vita di Samuel Johnson, 2 voll., Garzanti, Milano 1982, vol. 1, p. 666). 4 Così si espresse Ronald Reagan nel discorso inaugurale al Congresso, il 20 gennaio 1981. 5 Claude Lévi-Strauss, Razza e storia e altri studi di antropologia, Einaudi, Torino 1967, pp. 117 sgg. 6 Geremia 46,17 (Bibbia CEI 1974). 7 Jeremy Bentham, The Panopticon Writings, Verso, London 1995, p. 31 (trad. it. Panopticon ovvero la casa d’ispezione, Marsilio, Venezia 2002). 8 Wystan Hugh Auden, Gli irati flutti - o l’iconografia romantica del mare, Fazi, Roma 1995, pp. 137-138. 9 Alexis de Tocqueville, De la Démocratie en Amérique, II, I, 2, in Id., Œuvres, tomo II, Gallimard, Paris 1992, p. 522.

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John Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Il Saggiatore, Milano 1981,

p. 7. Ibid. Ibid. 13 Il senso di «società stretta», assente negli italiani, è un tema affrontato a più riprese in Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, Rizzoli, Milano 1998. 14 Wilhelm von Humboldt, Idee per un saggio sui limiti dell’attività dello Stato (1791), in Scritti filosofici, Utet, Torino 2007, pp. 137, 154, 155. 15 Mill, Saggio sulla libertà cit., p. 26. Il riferimento è a Thomas Carlyle, Sir Walter Scott (1838), in Characteristics, «Inaugural Address,» and «Sir Walter Scott», Wildside Press, Rockville 2008. 16 Karl R. Popper, Il mito della cornice, il Mulino, Bologna 1995, pp. 70, 81. 17 Carl Schmitt, Theorie des Partisanen, Duncker & Humblot, Berlin 1975, p. 87 (trad. it. Teoria del partigiano, Adelphi, Milano 2005). La traduzione è mia. Ringrazio Guido Dotti, fratello del monastero di Bose, per avermi ricordato un detto della tradizione buddhista, ripreso dal Dalai Lama: «Il nemico è il migliore maestro»: nel suo attaccarci, esso ci obbliga a tirar fuori il meglio di noi stessi, a verificare la fondatezza delle nostre ragioni. 18 Mill, Saggio sulla libertà cit., p. 42. 19 Ivi, p. 43. Il corsivo è mio. 20 Friedrich Hölderlin, Patmos, vv. 3-4 («Wo aber Gefahr ist, wächst / das Rettende auch»), in Id., Tutte le liriche, trad. it. di Luigi Reitani, Mondadori, Milano 2001, pp. 1176-1177. 11 12

Dio non è il nostro doppio: uscire dalla teodicea contro i valori supremi 1 Piero Zanini, Significati del confine: i limiti naturali, storici, mentali, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 14. Il corsivo è mio. 2 Friedrich Hölderlin, Dal «Fetonte» di Waiblinger, in Id., Tutte le liriche cit., p. 347 («Colmo di meriti, ma poeticamente, l’uomo dimora su questa terra»). Guido Dotti mi ha ricordato che un’idea simile era sostenuta da Pierre Claverie (il vescovo di Orano assassinato in un attentato terrorista nel 1996). Della Chiesa d’Algeria, padre Claverie diceva che era collocata sulla «faglia» di due mondi e che lì doveva

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stare, senza temere i movimenti tellurici che da questo vivere sulla soglia potevano nascere. 3 Giobbe 7,21 (Bibbia CEI 1974). 4 Giobbe 8,20-21 (Bibbia CEI 1974). 5 Giobbe, 34,17 e 34,29 (Bibbia CEI 1974). 6 Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, X, vv. 110-114, in Id., Poesie 1908-1926, trad. it. di Anna Lucia Giavotto Künkler, Einaudi-Gallimard, Torino 1995. 7 Bibbia TOB edizione 1992, introduzione al libro di Giobbe, pp. 1404-1405. 8 Lettera del Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi della Chiesa cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre, Vaticano, 10 marzo 2009. Il corsivo è mio. 9 Giobbe 1,9-10 (Bibbia CEI 1974). 10 Proverbi 25,28 (traduzione mia da André Chouraqui, La Bible, Desclée de Brouwer, Paris 1985). Kafka sogna un cielo senza cornacchie in Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via, nr. 32, in Id., Confessioni e Diari, Mondadori, Milano 1972, p. 796. 11 L’Abécédaire de Gilles Deleuze, video-interviste a cura di Claire Parnet, Vidéo Éditions Montparnasse, Paris 1988-89. 12 Deuteronomio 29,29 (versione Diodati). 13 Proverbi 25,1-3. Nelle due ultime versioni CEI è scritto: «È gloria di Dio nascondere le cose», ma la nota nella Bibbia TOB indica che la traduzione letterale è «nascondere le parole» (la Bibbia Diodati traduce: «La gloria di Dio è di celar la cosa; ma la gloria dei Re è di investigare la cosa»). 14 Ringrazio Gustavo Zagrebelsky per avere richiamato la mia attenzione sull’interpretazione monistica del salmo 62: secondo tale interpretazione, Dio dice una cosa così penetrante e definitiva all’uomo che la forza del suo dire rimbomba due volte nel nostro animo. 15 Vangelo secondo Matteo 22,15-21 («Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio»). Bibbia CEI 2008. 16 Origene, Commento al Vangelo di Matteo, 3 voll., Città Nuova, Roma 1999-, libro XVII, 26 (vol. III, 2001, p. 216). Ringrazio Francesca Sforza per avermi indicato questi passaggi essenziali di Origene sul tributo a Cesare. 17 Ivi, libro XVII, 27, pp. 217-218. 18 I Farisei sostengono che pagare il tributo darebbe a Cesare un primato sui doveri della fede in Dio, gli Erodiani difendono il pagamento al principe di questo mondo. Se Gesù avesse scelto una delle due

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opzioni, rispondendo alla malizia della domanda, avrebbe dimostrato a Cesare di essere un sovversivo, o ai Farisei di essere un fedifrago. In ambedue i casi avrebbe dato ai propri interlocutori valide ragioni per la propria condanna a morte (per insubordinazione a Erode in un caso, per insubordinazione alla fede nell’altro). 19 Origene, Commento al Vangelo di Matteo cit., libro XVII, 26, p. 216. Il corsivo è mio. 20 Significativa in questo quadro è la correzione che la nuova Bibbia CEI (2008) introduce nella Lettera di Paolo ai Romani 14,22-23. Nella precedente edizione CEI era scritto: «La fede che possiedi, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non si condanna per ciò che egli approva. Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce per fede; tutto quello, infatti, che non viene dalla fede è peccato». La fede diventa convinzione o coscienza, nella nuova versione: «La convinzione che tu hai, conservala per te stesso davanti a Dio. Beato chi non condanna se stesso a causa di ciò che approva. Ma chi è nel dubbio, mangiando si condanna, perché non agisce secondo coscienza; tutto ciò, infatti, che non viene dalla coscienza è peccato». Ringrazio Maria Frattin, sorella e amica del monastero di Bose, per aver richiamato la mia attenzione su questo importante, benefico aggiornamento. 21 Tommaso Padoa-Schioppa, Demos e Kràtos, lezione alla Biennale della Democrazia, Torino 26 aprile 2009. I beni pubblici, prosegue il testo, «si chiamano sicurezza, giustizia, rispetto dei contratti, salvaguardia delle risorse naturali e dell’ambiente, strade e altre opere di ingegneria». Senza un governo, questi bisogni «rimarrebbero insoddisfatti, primo fra tutti il bisogno di sicurezza: senza un governo non ci sarebbero pace, né giustizia, né rispetto dei contratti, nessuno degli elementi che danno sicurezza alla nostra vita individuale e collettiva, che ci mettono al riparo dal sopruso, dalla prepotenza e dalla sopraffazione. Ma senza un governo non ci sarebbero nemmeno costruzione e manutenzione delle strade, pulizia dell’aria e delle acque; senza un codice della strada gli incidenti di traffico aumenterebbero a dismisura». 22 Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via cit., nr. 3, p. 794. 23 Ivi, nr. 74, p. 800. 24 Franz Kafka, Gli otto quaderni in ottavo - Terzo quaderno, in Id., Confessioni e Diari cit., p. 733. Il corsivo è mio. La traduzione è libera. 25 Ivi, p. 728. La traduzione è libera. 26 Gustavo Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, il Mulino, Bologna 2008.

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27 Sofocle, Antigone, traduzione di Ezio Savino, Garzanti, Milano 1988, p. 269. 28 Sofocle, Antigone, traduzione di Giuseppina Lombardo Radice, Einaudi, Torino 1966, p. 219. 29 Guido Ceronetti, Insetti senza frontiere - Pensieri del Filosofo Ignoto, Adelphi, Milano 2009. Aforisma nr. 314, p. 151. 30 Qohélet 7,8, in Chouraqui, La Bible cit. 31 Kafka, Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via cit., nr. 2, p. 793. La traduzione è libera. 32 Jared Diamond, Collasso, Einaudi, Torino 2005. 33 Il 23 gennaio 2007, quando già la guerra in Iraq precipita, George W. Bush dichiara ai parlamentari del Congresso, nel Discorso sullo stato dell’Unione, che «la guerra al terrore che stiamo combattendo oggi è una lotta generazionale che continuerà molto oltre i vostri mandati e proseguirà per lungo tempo dopo che voi e io avremo passato ad altri i nostri incarichi». 34 Fu quello che confidò Karl Rove, consigliere di George W. ­Bush, al giornalista Ron Suskind nel 2002, prima della guerra in Iraq: «Il mondo funziona ormai in modo completamente diverso da come immaginano illuministi ed empiristi. Noi siamo ormai un impero, e quando agiamo creiamo una nostra realtà. Una realtà che voi osservatori studiate, e sulla quale noi ne creiamo poi altre che voi studierete ancora» (la confidenza è ripresa due anni più tardi in un articolo sul «The New York Times», 17 ottobre 2004). 35 Indispensabile lettura in questo campo: Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti. Si prega di abolire le notizie per non disturbare le opinioni, Il Saggiatore, Milano 2006. 36 Alberto Savinio, Nuova Enciclopedia, voce Europa, Adelphi, Milano 1977. 37 Ernst Jünger, Trattato del Ribelle, Adelphi, Milano 1990, p. 14. 38 Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia cit., p. 206. Per tutto il tempo in cui fu presidente della Corte Costituzionale, Zagrebelsky si sforzò di fare in modo che nelle sentenze della Corte non venisse impiegato il termine «valore», ma che esso venisse sostituito dal termine «principio». 39 Ivi, pp. 224-226, 235. 40 Carl Schmitt, La tirannia dei valori, Adelphi, Milano 2008, pp. 53, 56. 41 Hermann Rauschning, Une conversation avec Hitler, prefazione a Les Dix Commandements - The Ten Commandments. Récits sur la guerre de Hitler contre la Loi Morale, Albin Michel, Paris 1944. La

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veridicità dei dialoghi di Rauschning con Hitler è oggi messa in dubbio dagli storici, ma resta poco dubitabile l’aspirazione del Führer a combattere le radici ebraiche e cristiane d’Europa. 42 Nicolai Hartmann, Ethik, Walther de Gruyter, Berlin 1926. 43 Terribile aspetto possono assumere le contemporanee Città Idea­ li, per esempio in Italia. Eccone una descrizione, che leggo sul blog di G.O.D.-Ghostwriters on Demand (http://ghostwritersondemand. splinder.com): «Le rappresentazioni di città e in generale di luoghi di aggregazione reali e virtuali dovrebbero essere disseminate di piccoli schermi che trasmettono identici spettacoli fracassoni e imbecilli e di videocamere che li alimentano filmando ottusamente quel che c’è attorno: risse per motivi incomprensibili, capannelli in preghiera, voyeur appiccicati alle finestre, collinette con croci, forche, strani frutti appesi agli alberi, elmetti e manganelli spruzzati come con l’aerografo, vecchi rotolati a terra, fossi pieni di ciechi deragliati, donne carponi, con occhi pesti e gonne sollevate. Autoambulanze, pompieri, pompe funebri, tutti ugualmente fusi dentro ammassi di automobili bloccate in un puzzle di metallo caldo e puzzolente per il sole e perfettamente sigillato da strade e palazzi. Bisognerebbe cercare di realizzare questo progetto con foto, mappe, cartelloni, segnaletica, istruzioni per l’uso, circolari, articoli di legge, luoghi comuni» (http://ghostwritersondemand.splinder.com/ post/20502468). 44 Montaigne, Saggi III,13 (Dell’Esperienza), Adelphi, Milano 1966, tomo 2, pp. 1495-1496. 45 Immanuel Kant, Che cos’è l’illuminismo? Riflessione filosofica e pratica politica, Editori Riuniti, Roma 2006. 46 Enzo Bianchi su «La Stampa», 15 gennaio 2009. 47 Rainer Maria Rilke, Orfeo-Euridice-Ermete («In testa l’uomo snello in manto azzurro, / guardando innanzi muto e impaziente / divorava la strada col suo passo / a grandi morsi senza masticarla»), in Id., Poesie 1895-1908, trad. it. di Giacomo Cacciapaglia, EinaudiGallimard, Torino 1994, p. 547. 48 Hartmann, Ethik cit., p. 574. 49 Ivi, pp. 523 sgg., 575. 50 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Rizzoli, Milano 1996, pp. 78-79. 51 Hartmann, Ethik cit., pp. 574-579. 52 Ivi, p. 574. 53 Il giusto mezzo va di volta in volta e secondo le circostanze cercato tra l’eccesso (yperbolè) e il difetto (èlleipsis). 54 Giovanni XXIII, Il Giornale dell’Anima cit. in Alberto Melloni,

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Papa Giovanni. Un cristiano e il suo concilio, Einaudi, Torino 2009, p. 148n. 55 Maximilien de Robespierre, «Sur les principes de morale politique qui doivent guider la Convention nationale dans l’administration intérieure de la République», discorso tenuto il 5 febbraio 1794. 56 Louis Antoine Léon de Saint-Just, Œuvres choisies, Gallimard, Paris 1968, p. 330. 57 Risposta della Convenzione nazionale ai manifesti dei re coalizzati contro la Repubblica, proposta da Robespierre in nome del Comitato di Salute pubblica, 5 dicembre 1793. 58 Johann Wolfgang von Goethe, Xenie Miti (Postume) - Dovere civico, 6 marzo 1832 («Warum denn wie mit einem Besen / Wird so ein König hinausgekehrt? / Wärens Könige gewesen, / Sie stünden alle noch unversehrt»), in Id., Tutte le Poesie, Mondadori, Milano 1994, vol. 2, tomo I, pp. 956-957. La traduzione è libera. 59 Aristotele, Etica Nicomachea, IV, 8, 1125a.