Lo spirito delle leggi [Vol. 1]
 880201857X

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CLASSIC'/

D.ELLA

POLIT/C"'A

COLLEZIONE FONDATA DA LUIGI FIRPO

CLASSICI'{$_1JJ! �UTET

LO SPIRITO DELLE LEGGI di

Charles de Seconda! barone di Montesquieu

A CURA DI

SERGIO COTTA

Volume primo

UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE TORINESE

©

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Ristampa-

©

1952 Prima edizione, 1965 Seconda, 1996 Terza

Unione Tipografico-Editrice Torinese

corso Raffaello, z8 - IOIZS Torino

Sito Internet Utet: www.utet.com e-mail: [email protected] I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qual­ siasi mezzo (compresi i microfìlm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. L'Editore potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume e fino a un massimo di settantacinque pagine.

Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all'Associa­ zione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell'ingegno (AIDRO), via delle Erbe, 2 - 20121 Milano Te!. e Fax o2/8ogso6 Stampa: Stamperia Artistica Nazionale - Torino ISBN 88-o2-o1857-X

PRE FAZIONE ALLA T E RZA E DIZIONE

Questa terza edizione della versione italiana dell' Esprit cles lois ripro­ duce immutata fa prima, affidatami da Luigi Firpo nel tardo 1948, e uscita nel 1952 a causa de/lungo lavoro che essa richiese per farla corri­ spondere alle novità che venivano emergendo nel campo delle ricerche su Montesquieu. L'opportunità di ristampar/a è dovuta certo al fatto che, in questo lasso di tempo, non è uscita da noi un'altra traduzione integrale, criticamente condotta, dell'opera maggiore del filosofo francese. D'altron­ de questa edizione «a toujours beaucoup d'utilité, méme pour le lecteur du texte français come ha dichiarato Robert Shackleton (cfr. Storia e ragione, a cura di A. Postigliola, Napoli, 1987, p. 15), poco prima della sua rimpianta scomparsa. L'autorevole giudizio del maggior studioso di Montesquieu è una convalida dei criteri e delle modalità seguiti nel mio lavoro. l/lettore ne troverà una traccia sommaria nella giustificazione de La presente edizione, più avanti riprodotta. Non starò a ripetermi. Mi basta sottolineare un punto: questa edizione italiana fu la prima a tener conto, per tutta l'opera, delle molteplici varianti presenti nell'unico ma­ noscritto rimastoci, allora da poco acquistato dalla Bibliotèque Nationa­ le di Parigi e reso accessibile agli studiosi. Esso contiene una prima stesu­ ra dell'opera, prolungatasi per vari anni e rimasta incompleta, ma di grande importanza per la comprensione dello svolgimento del pensiero di Montesquieu. fean Brèthe de La Gressaye lo aveva utilizzato nel primo tomo, uscito nel 1950, della sua edizione dell' Esprit per i tipi delle Belles Lettres, ma soltanto per i primi otto libri dell'opera. L'edizione italiana costituì pertanto una novità e tale è rimasta per il /ettore italiano. Se, dunque, la presentazione e l'annotazione del testo non sono del tutto superate, l'introduzione è invece un po' invecchiata. Rispetto ad es­ sa, d'altronde, io stesso, grazie al lavoro di quegli anni, detti successiva­ mente una interpretazione del pensiero di Montesquieu più ampia, e in molte parti modificata, ne/libro Montesquieu e la scienza della società »,

6

PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZ!Or-.'E

(Torino, 1953). Tuttavia, sebbene sia stato all'origine d'un rinnovato in­ tere.He italiano per il pensiero politico montesquiviano, anche questo li­ bro è segnato dal tempo. Pensato e scritto in anni nei quali non si era an­ cora sviluppata e affinata, soprattutto all'estero, la ricerca sul filosofo francese, presentava le mie tesi interpretative in modo spesso troppo rigi­ do. Nella «premessa" aggiunta alla ristampa anastatica del libro, nella collana European Politica! Thought (New York, Arno Press, 1979) di­ retta da f. P. Mayer, ho segnalato i punti principali meritevoli di ripensa­ mento. Mi limito a indicarne alcuni. Ritengo ancor oggi che Montesquieu abbia avuto e perseguito l'inten­ to di elaborare una scienza della politica, e più in generale della società, né razionalistica né ideologica al modo dei suoi predecessori secenteschi (in specie Hobbes} e dei philosophes e doctrinaires illuministi a lui po­ steriori. La sua è una scienza che ricerca una oggettività wertfrei della vita sociale, basandosi sull'osservazione esplicativa dei dati storico-empi­ rici. Non si tratta però di una «scienza naturalistica ,, esprimente «leggi fisiologiche,, come avevo ritenuto e nell'introduzione e in parte ne/libro successivo. Invero, il costante studio montesquiviano della nature des choses mi appare ora rivolto ad accertare la struttura (la nature) e il senso (i principes e l'esprit) sottostanti all'apparire fenomenico delle di­ verse formazioni sociali. In Montesquieu, a mio avviso, codeste strutture comportano delle vere e proprie leggi strutturali e permettono di stabilire come dovrebbero essere le leggi empiriche per non essere arbitrarie, ma corrispondenti alle rispettive strutture socio-politiche. In questa prospetti­ va, dall'essere strutturale, e dalle sue implicazioni, si passa argomentati­ vamente al dover essere delle leggi; pertanto la scienza della politica si apre alla filosofia della politica. Questa, in Montesquieu, non disconosce la relatività delle formazioni sociopolitiche alle loro condizioni storico­ culturali-ambientali: è il tema dell'esprit général delle diverse nazioni. Ma prospetta la valutazione delle leggi empiriche in riferimento, in pri­ mo luogo, alla «Constitution de notre étre" (E. L., 1, 2) e a . Già BAYLE si era servito del para­ gone del circolo per dimostrare l'esistenza di verità eterne, cfr. Continua­ lion des Pensées diverses, § 152. 2. Cfr. il cap. VI, 1 6 intitolato Della legge del taglione.

ss

PARTE PRIMA

piacere serve loro a conservare tanto lare,

quanto

perchè

il

la

loro

specie.

il

loro essere partico­

Posseggono

leggi

naturali,

senso li unisce; ma leggi positive non ne hanno,

perchè la conoscenza non li accomuna. Tuttavia non seguono invariabilmente le loro leggi naturali: meglio le seguono le piante, nelle quali noi non notiamo nè senso nè conoscenza. Gli animali non posseggono i nostri vantaggi supremi, ma ne posseggono altri

di

cui noi siamo privi. Essi non

hanno le nostre speranze, ma in compenso non hanno i nostri timori; subiscono la morte come noi, ma senza cono­ scerla: anzi la maggior parte di essi si conserva meglio di noi, e non fa un uso altrettanto cattivo delle proprie pas­ sioni. Come gli altri corpi, l'uomo è, quale essere fisico, retto da leggi invariabili; quale essere intelligente egli viola in­ cessantemente le leggi che ldàio ha stabilite, e muta quelle che lui stesso stabilisce t ; deve dirigere se stesso, eppure è un essere limitato, soggetto all'ignoranza e all'errore come tutte le intelligenze finite, che perde per di più le proprie deboli cognizioni. Come creatura sensibile soggiace a mille passioni 2. Un essere siffatto ad ogni istante poteva dimen­ ticare chi lo ha creato: Dio colle leggi della religione lo ha richiamato a sè; poteva ad ogni istante dimenticare se stesso: i filosofi con le leggi della morale lo hanno avvertito; fatto per vivere in società, poteva dimenticarvi gli altri: con le leggi politiche e civili, i legislatori lo hanno restituito ai suoi doveri 1 .

I . Cfr. Lettres Persanes, LXXXIII: « Vero è che gli uomini non vedono sempre questi rapporti [di gtustizia] ; sovente se ne allontanano anche quando li vedo!lo. e ciò che vedono meglio è il loro interesse. Gli uomini possono fare delle mgiustizte perchè hanno interesse a commetterle e percnè preferiscono soddiSfare se stessi piuttosto che gli altri >. 2. Cfr. TraiU des devoirs (Oeuvres complètes, VII, p. 6g) : • . essi [gli uomini] agiscono sempre per· capriccio o per passione •. 3· Cfr. Défense (Appendice II, vol. II, p. 468). . .

LIBRO PRIMO

59

CAPO II. Delle leggi di natura. Prima di tutte queste leggi vi sono quelle di natura, cosi chiamate perchè derivano unicamente dalla costituzione dell'essere nostro. Per ben conoscerle dobbiamo considerare l'uomo prima che le società fossero costituite '· Le leggi di natura sono quelle che egli riceverebbe in una simile con­ dizione. Quella legge, che, stampando in noi l'idea di un. creatore, ci conduce verso di lui, è la prima per importanza, non per ordine, fra le leggi naturali z. L'uomo, nello stato di natura, piuttosto che conoscenze, possiederebbe la facoltà di conoscere. Le sue prime idee, è chiaro, non sarebbero affatto speculative: prima di indagare sull'origine del proprio essere, egli penserebbe alla propria conservazione. Un uomo simile all'inizio non sentirebbe che la propria debolezza; la sua timidità sarebbe estrema; e,

se

ne volessimo una prova,

ecco i selvaggi che sono stati trovati nelle foreste •: tutto li fa tremare, tutto li fa fuggire. a . Come quel selvaggio che fu trovato nelle foreste dell'An­ nover, e che fu oggetto di curiosità in Inghilterra durante il regno di Giorgio I .

r . Allo stato d i natura Montesquieu h a dedicato, contrariamente all'opinione diffusa al suo tempo, ben poca attenzione poicbè egli credeva fermamente alla naturalità del vincolo sociale come appare chiaramente da Lettres Persanes, XCIV: • Non bo mai inteso parlare di diritto pub­ blico senza che si cominciasse col ricercare accuratamente quale sia l'ori­ gine delle società, ciò che mi sembra ridicolo. Se gli uomini non ne for­ massero affatto, se si abbandonassero, si fuggissero gli uni con gli altri, bisognerebbe domandarsene la ragione e indagare percbè se ne stiano separati; ma essi nascono tutti uniti gli uni agli altri; un figlio nasce vicino a suo padre e vi resta: ecco la società e la causa della società •: nello stesso senso cfr. Pensées, II, fol. 1 2 1 vo, n. 1 267 (6x6). Tutto il capitolo deve essere inteso quindi in senso ipotetico, come lo comprova l'uso del con­ dizionale e lo conferma la Défense, nella quale afferma di aver • supposto l'uomo presociale come se fosse • caduto dalle nuvole 1 (Appendice II, vol. II, p. 476). 2. Questo percbè, secondo quanto è affermato nella Défense, l'uomo di natura • avrebbe delle sensazioni prima di poter fare delle riflessioni 1 (Appendice II, vol. II, p. 476). 1

6o

PARTE PRIMA

In una simile condizione, il senso di inferiorità è ge­ nerale, quello dell'eguaglianza assai debole. Gli uomini non cercherebbero, quindi, di aggredirsi, e la pace sarebbe la prima legge naturale 1 . Il primo desiderio che Hobbes 2 attribuisce agli uomini, di soggiogarsi a vicenda, non è ragionevole. L'idea dell'im­ pero e della dominazione è tanto complessa e dipende da tante altre idee, che non sarebbe certamente la prima. Hobbes si domanda perchè gli uomini vadano sempre armati, se non sono naturalmente in stato di guerra, e perchè abbiano delle chiavi per chiudere le loro case

J.

Ma

non

si può attribuire agli uomini, prima della costituzione delle società, ciò che accade loro solamente dopo, e che li spinge a trovare ragioni per attaccarsi e difendersi.

Al

senso della propria debolezza l'uomo unirebbe quello

dei propri bisogni: quindi un'altra legge naturale sarebbe quella che lo ispira a mettersi alla ricerca del cibo. Ho detto che la paura condurrebbe gli uomini a fuggirsi; ma i segni di un timore reciproco li inviterebbero ben presto ad avvicinarsi: basterebbe a ciò, d'altronde, il piaçere che ogni ;mimale prova quando incontra un altro animale della medesima specie.

Non solo,

ma questo piacere verrebbe

I . Nel Ms. segue il cpv. seguente, successivamente cancellato: " Gli animali (e il Diritto naturale bisogna andarlo a cercare soprattutto fra di essi) non muovono guerra agli animali della loro specie, poichè, sen­ tendosi eguali, non hanno il desiderio di attaccarsi. So bene che affermando ciò contradico uomini illustri ma li prego di riflettere su quel sentimento di piacere che ogni animale prova allorchè gli si accosta un altro animale della sua stessa specie, essi non sono dunque in stato dt guerra e voler far si che lo siano significa voler far fare loro ciò che i leoni non fanno. Se. infatti constatiamo che degli animali fanno guerra a quelli della loro specie, ciò avviene soltanto in casi particolari e (quasi sempre) perchè noi li avvezziamo a ciò per nostro uso • (1, foll. 9 r-10 r0). 2. Per un più ampio sviluppo della critica del Montesquieu a Hobbes cfr. un lungo frammento destinato al Traité des devoirs in Pensées, Il, fol. n 6 vo, n. 1266 (615). 3· • Negli Stati stessi in cui vigono leggi e pene contro i malvagi, i singoli cittadini non vanno in giro da soli senza un'arma a scopo di difesa, nè a dormire senza aver sprangato non solo le porte per timore dei con­ cittadini, ma anche gli armadi e i cassetti per sospetto verso i domestici. Potrebbero gli uomini più chiaramente esprimere la diffidenza che provano verso i propri simili? ». HOBBES, Elementi filosofici sul cittadino, Prefa­ zione, Torino, 1 9 4 8 , p. 62.

61

LIBRO PRIMO

accresciuto

dall'attrazione

esercitata

dalla

differenza

dei

sessi, e la preghiera naturale 1 ch'essi si rivolgono sempre l'un l'altro formerebbe la terza legge z. Oltre al loro primo sentimento, gli uomini riescono ancora a farsi delle cognizioni; secondo legame, animali non posseggono.

cotesto, che gli

Essi hanno dunque una nuova

ragione di unirsi, ed il desiderio di vivere in società forma la quarta legge naturale

CAPO III.

3,

Delle leggi positive.

Non appena sono in società, gli uomini perdono il senso della loro debolezza; cessa l'eguaglianza che regnava fra loro e lo stato di guerra comincia. Ogni società particolare acquista la coscienza della propria forza, producendo così uno stato di guerra fra nazione e nazione. I singoli in ogni società si sentono forti; cercano di volgere in loro favore i vantaggi principali della società ove vivono e creano fra di loro uno stato di guerra. Questi due tipi di stato di guerra sono quelli che portano alla costituzione delle leggi fra gli uomini. Considerati come abitanti di un grande pianeta, nel quale è necessario che vivano popoli diversi, gli uomini trovano delle leggi nei rapporti che questi popoli hanno fra

diritto delle genti

di

loro: ed ecco il

4. Considerati come viventi in seno ad una

I . Cfr. il frammento Histoire d'une ile dove, parlando dell'attrazione dei sessi - " che è impossii>ile ignorare la definisce « una preghiera naturale » (Penstes, I. p. 2 1 2 . n. 209 [489]) . 2. L'aspetto sociale dell'attr&7.ione dei sessi è già rilevato d a Aristotele (cfr. Politica, 1 252 a) il quale però ne attribuisce la causa non al piacere come Montesquieu ma alla riproduzione. Sull'influenza di Aristotele su Montesquieu cfr. l'edizione francese della Politica a cura del BARTHtLEMY SAINT-HILAIRE, Parigi, 1837,che ha rilevato accuratamente le somiglianze dei testi, nonchè L. FERRI, La filtiJsofia politica in Montesquieu e in Aristotele, in • Rivista italiana di filosofia III, 1 888, pp. I I 'i -133· 3· Cfr. ARISTOTELE, Politica, 1252 b - 1 253 a. 4· Nell'Esprit des Lois non si ha una trattazione sistematica del diritto delle genti, a cui sono dedicati, a parte osservazioni sparse, soltanto i capi 20-23 del libro XXVI; nè molto si trova nelle Pensées, a parte un •

•.

-

PARTE PRIMA

società che deve essere conservata, gli uomini hanno delle leggi nei rapporti fra governanti e governati: ed ecco il

dintto politico 1 . Finalmente essi hanno delle leggi nei rap­ porti reciproci esistenti fra tutti i cittadini: ed ecco il diritto civile. Il diritto delle genti è naturalmente fondato sul prin­ cipio seguente: che le varie nazioni devono in pace farsi il massimo bene, e in guerra il minimo male possibile, senza nuocere ai propri veri interessi. Oggetto della guerra è la vittoria;

quello della vittoria,

conquista,

la conservazione

2.

la conquista; Da questo

quello

principio

della e dal

precedente debbono derivare tutte le leggi che formano il diritto delle genti. Tutte le nazioni hanno un diritto delle genti; persino gli Irochesi, che divorano i loro prigionieri. Essi mandano e ricevono ambasciatori; conoscono alcuni diritti di guerra e di pace: il male si

è

che questo diritto delle genti non è

fondato sui veri princìpi

J.

Oltre al diritto delle genti che concerne tutte le società, ne esiste uno politico per ciascuna di esse. Una società non potrebbe sussistere senza governo.

«

La riunione di tutte le

forze particolari - dice assai bene il Gravina 4

-

forma

lungo frammento intitolato Della natura delle cose che dipendono dal diriUc; delle genti (III, foll. 83-85, n. 1 8 1 4 [390) ) . È assai probabile che debba riferirsi al diritto delle genti il seguente significativo passo delle Pensées • Rendo grazie a Grozio e a Pufendorf per aver compiuto ciò che una gran parte di quest'opera [l'Esprit des Lois] esigeva da me con quella altezza d'ingegno alla quale non sarei potuto giungere • (III, fol. I I I , n. 1863 [191]).

I . Cfr. Lettres Persanes, XCIV. 2. Alla guerra come istituto di diritto internazionale è dedicato il cap. X, 2, e al diritto di conquista il cap. X, 3; cfr. pure LettYes Per­ sanes, XCV, dove si parla della guerra come • atto di giustizia •, affermando però che • suo scopo è la distruzione della società •. mentre sia nell'Esprit des LC>is che nel frammento delle Pensées, citato alla nota 4 della pag. pre­ cedente, oltrepassando questo dato immediato, si afferma la funzione conservativa della guerra nell'ordine internazionale. 3· Nel Ms. (I, fol. 14 r0-v0) si ha quindi il cpv. seguente, poi cancellato: • Il diritto delle genti viene stabilito fra le nazioni che si conoscono, ma questo diritto deve venir esteso a quelle nazioni che il caso o le circostanze ci fanno conoscere successivamente, regola che popoli civili hanno assai spesso violata •. passo riprodotto letteralmente in Pensées, Il, fol. 450, n. 156o (1908) e che è da cfr. con XXVI, 22. 4· G. V. GRAVINA, Origines iuris civilis, Lipsia, 1708, II, 17: • His

LIBRO PRIMO

ciò che viene chiamato lo stato politico ,., La forza generale può essere affidata nelle mani di uno solo, o di molti. Qual­ cuno 1 ha pensato che, poichè la natura ha voluto la patria potestà, il governo di uno solo fosse il più conforme alla natura. Ma l'esempio della patria potestà non prova nulla. Infatti se il potere del padre è in relazione col governo di uno solo, dopo la morte del padre, il potere dei fratelli, oppure, dopo la morte dei fratelli, quello dei cugini germani, è in relazione col governo di molti 2. La potenza politica comprende di necessità l'unione di numerose famiglie. È meglio dire che il governo più conforme alla natura è quello la cui disposizione particolare si trova maggiormente in armonia colla disposizione del popolo per il quale esso è stabilito 3. Le forze particolari • non si possono riunire senza che anche tutte le volontà si riuniscano. (( La riunione di queste volontà - dice ancora assai bene il Gravina s - forma ciò­ che chiamiamo lo stato civile t. In generale, la legge è la ragione umana in quanto go­ verna tutti i popoli della terra; e le leggi politiche e civili di ogni nazione non debbono esser altro che i casi particolari in cui questa ragione umana si applica 6. 6

volu11tatibus et viri bus in u11um confiuentibus, publica voluntas c011{latur, su1r1maque potestas •· r . Si cfr., p. es., il Patriarcha del FILMER o BossUET, Politique tirle de l' Écriture Sainte, II, art. I, prop. J, per limitarci agli scrittori più vicini cronologicamente a Montesquieu. In Pensées, Il, fol. 1 2 1 VO, n. 1267 (616), :Montesquieu tra l'altro osserva che l'autorità patema non è illimitata, poichè la natura stessa, facendo crescere i figli ed invecchiare i genitori, viene a mutare il rapporto che li unisce. 2. Questo concetto è più ampiamente sviluppato in Pensées, Il, fol. 18-4� n. 1 3 1 8 (1933). 3· Analogo concetto è espresso in Lettres Persanes, LXXX. 4· Nel Ms. (I, fol. 16) si ha invece: • La forza che riunisce queste volontà è ciò che viene chiamato governo civile, e ciò che risulta da questa riunione è ciò che viene chiamato diritto civile •, manca cioè la citazione di Gravina che, come nella citazione precedente, è stata aggiunta alla prima reda· zione del Ms. 5· G. V. GRAVINA, op. cit., II, 17, cfr. anche il cap. 18. 6. Cfr. in Pensées, I I I , fol. 1 10, n. 1859 (208) il frammento Dell'oggeUo delle Leggi: È principio mirabile di Platone che le leggi sono fatte per annunziare gli ordini dalla Ragione a coloro che non possono riceverli mettamente da essa •· Dopo • Platone • si ha la seguente nota: De Re­ publica, IX, I J . •

PARTE PRIMA

Esse devono esser talmente adatte al popolo per il quale son fatte, che è un caso raro che le leggi di una nazione convengano ad un'altra 1 . Esse devono essere i n armonia con l a natura e col prin­ cipio del governo costituito, o che si vuoi costituire, sia che lo formino, come fanno le leggi politiche; oppure che lo mantengano, come fanno le leggi civili z. Queste leggi debbono essere in relazione col carattere fisico del paese, col suo clima

J

gelato, ardente o temperato;

con la qualità del terreno 4, con la sua situazione, con la sua estensione s, col genere di vita dei popoli che vi abitano, siano essi coltivatori, cacciatori o pastori 6: esse debbono essere in armonia col grado di libertà

è capace di sopportare

s,

12,

che la costituzione

con la religione degli abitanti

le loro disposizioni, la loro ricchezza loro commerci

1

costumi, maniere

n.

10,

il loro numero

u,

9,

i

Finalmente, esse hanno

relazioni reciproche; con la loro origine 14, col fine del legi-

1. Cfr. Pensées, III, fol. 98 vo, n. 1 827 (320): « Le leggi possono avere un'origine di conformità che deve essere conosciuta. Come SI può appli­ care una legge se non si conosce il paese per il quale essa è stata fatta e le circostanze nelle quali è stata fatta ? ». In questi testi si ha la formu­ lazione "di uno dei principi più importanti dell'Esprit des Lois, quello della relatività delle leggi. Il DEDIEU ha rilevato già (Monlesquieu, Parigi, 1913, p. b], nota 1 ) come questo principio fosse stato affermato già in quei tempi, fra l'altro, da BoLINGBROKE nel Craflsman e da GRAVINA nelle sue Orationes et opuscula (Utrecht, 1713). Ciò che di nuovo vi è, per altro, in Montesquieu è l'applicazione di questo principio, secondo lo schema fornito nei cpvv. seguenti, ai più vari aspetti della realtà. 2. È il soggetto dei libri II-X. 3 · Cfr. i libri XIV-XVII. 4· Cfr. il libro XVIII. 5 · Cfr. il cap. VIII, 20. 6. Cfr. XVIII, 10-14 e XXIII, 1 4-15. 7· Cfr. i libri XI-XIII. -8. Nel Ms. si ha inoltre: con la schiavitù domestica e civile (quest'ul­ tima parola è cancellata); la soppressione di questa frase va messa in relazione con il fatto che la schiavitù - cui sono dedicati i 1\bri XV-XVII ­ è considerata in essi come conseguenza di un fattore più generale e già elencato: il clima. 9· Cfr. i libri XXIV-XXV. 10. Cfr. il libro XXII. 1 1 . Cfr. il libro XXIII. 12. Cfr. i libri XX-XXI. 13. Cfr. il libro XIX. 14. Cfr. i libri XXVII-XXVIII, nei quali è studiato il problema par­ ticolare dell'origine del diritto successorio romano e di quello civile francese. •



LIBRO PRIMO

slatore, con l'ordine delle cose sulle quali esse sono state costituite

1•

Noi le dobbiamo considerare sotto tutti questi

vari aspetti, ed è appunto ciò che io intendo fare nella mia opera. Esaminerò tutte queste relazioni: esse, nel loro in­

spirito delle leggi. politiche dalle civili, poichè,

sieme, formano ciò che viene chiamato lo Non ho separato le leggi

siccome tratte. non delle leggi ma dello spirito delle leggi, e questo spirito consiste nelle relazioni varie che le leggi possono avere con diverse questioni, ho dovuto seguire non tanto l'ordine naturale delle leggi quanto quello

di

queste

relazioni e di queste questioni. Per cominciare esaminerò i rapporti che le leggi hanno con la natura e col principio di ciascun governo; e siccome questo principio esercita sulle leggi un'influenza suprema, farò di tutto per ben conoscerlo; e se lo potrò stabilire, si vedranno le leggi sgorgare da esso come dalla loro sorgente. Quindi passerò agli altri rapporti che appaiono più particolari.

r. Cfr. il libro XXVI. Si noti come da questo quadro dell'opera siano esclusi il libro XXIX, il quale però costituisce un'aooenatce tecnica dei libri precedenti, e i libri XXX-XXXI composti per ulttmi e che, per il loro carattere stonco, rispondono a un indtnzzo di penstero diverso.

LIBRO SECONDO

DELLE LEGGI CHE DERIVANO DIRETTAMENTE DALLA NATURA DEL GOVERNO

CAPO I.

Della natura dei tre diversi governi.

Esistono tre specie di governi: il repubblicano, il monar• chico e il dispotico. Per scoprirne la natura, ci basta l'idea che gli uomini, anche i meno istruiti, se ne fanno. lo pre­ suppongo tre definizioni, o meglio tre fatti: � il governo republicano è quello nel quale il popolo tutto, o almeno una parte di esso, detiene il potere supremo; il monarchico, è quello nel quale uno solo governa, ma secondo leggi fisse e stabilite; nel governo dispotico, invece, uno solo, senza nè leggi nè freni, trascina tutto e tutti dietro la sua volontà ed i suoi capricci �. Ecco ciò che io chiamo la natura di ogni governo. Ora dobbiamo vedere quali siano le leggi che deri­ vano da questa natura e sono perciò le prime leggi fon­ damentali.

Del governo repubblicano e delle leggi relative alla democrazia.

CAPO II.

Quando, nella repubblica, è il popolo intero che gode del potere supremo, allora si ha una democrazia t. Quando il potere supremo si trova nelle mani di una parte del popolo, allora noi chiamiamo ciò una aristocrazia. 1 . Cfr. ARISTOTELE, Politica, III, 1278 b: • Nelle democrazie è sovrano il popolo tqm come m seguito mi valgo della traduzione del Costanzi, Bari, 1925). ...

n

LIBRO SECONDO

Nella democrazia il popolo è, sotto certi aspetti, il mo­ narca; sotto certi altri il suddito. Esso può essere monarca solamente grazie ai suoi suffragi, i quali non sono altro che le sue volontà. La volontà del sovrano è il sovrano stesso.

Le leggi che stabiliscono il diritto al suffragio sono quindi fondamentali in questo governo. In esso, infatti, è altret­ tanto importante stabilire come, a chi, da chi, a proposito di che cosa i suffragi debbano esser dati, quanto in una monarchia sapere chi sia e come debba governare il monarca. Dice Libanio

a

che « in Atene veniva condannato a morte

lo straniero il quale si fosse mescolato all ' assemblea popo­ lare � - Un simile individuo, infatti, usurpava il diritto di sovranità.

È

essenziale che il numero dei cittadini destinati a formar

l'assemblea venga fissato; altrimenti sarebbe possibile igno­ rare se il popolo tutto ha parlato, o solamente una parte di esso. A Sparta accorrevano diecimila cittadini. A Roma, nata piccola ma destinata alla grandezza, a sperimentare tutte le vicissitudini della sorte; a Roma, la quale aveva talvolta tutti i suoi cittadini fuori, e talaltra l'Italia intera o una parte della terra dentro alle proprie mura, non era stato fissato questo numero b, e ciò fu appunto una delle cause principali della sua rovina. Il popolo che gode del potere supremo deve fare da solo tutto ciò che può far bene; e ciò che non può far bene deve affidare ai suoi ministri. Costoro non gli saran fedeli se esso stesso non li nomina: massima fondamentale del governo di cui si tratta è quindi che il popolo nomini i pcopri ministri, o meglio i propri magistrati. Come, anzi più che ai monarchi, gli occorre la guida di un consiglio o senato

1. Ma, perchè possa aver fiducia in

a. Declamazioni, XVII e XVIII. le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, cap. g, Parigi, 1755.

b. Si vedano

1. E questo senato deve essere numeroso, secondo quanto Montesquieu dice nelle Pensées, poichè • un senato numeroso è più consono alla demo­ crazia , (III, fol. 67 vo, n. 1762 [21.�]).

68

PARTE PRIMA

esso, deve eleggerne i membri, sia che, come ad Atene, se li scelga da solo, sia che, come a Roma in certe occasioni, ne abbia incaricato un magistrato scelto apposta. Il popolo sceglie in maniera ammirevole coloro ai quali deve affidare parte della propria autorità 1• Esso deve pren­ dere delle risoluzioni solo in base a circostanze che non può ignorare e a fatti controllabili dai sensi. Esso sa benis­ simo che un tale è stato sovente in guerra, che ha ottenuto questo o quel successo: dnnque è capacissimo di eleggere un generale. Sa che il tal giudice è assiduo, che molta gente esce soddisfatta dal suo tribunale, che nessuno lo ha mai sospettato di corruzione: ecco quanto basta per eleggere un pretore. La pompa, le ricchezze di · un cittadino lo hanno colpito: ciò gli è sufficiente per eleggere un edile. Di tutti questi fatti si istruisce meglio il popolo sulla pubblica piazza che non il monarca dentro al suo palazzo. Ma sarà egli capace di condurre nn affare, di riconoscere i luoghi, le occasioni, i momenti propizi, ed approfittarne ? lo rispondo di no. Se alcnno dubitasse della capacità naturale che il popolo ha di discernere i meriti, dia uno sguardo a quel continuo succedersi di scelte stupefacenti fatte dagli Ateniesi e dai

Romani , che non si potranno indubbiamente attribuire al

caso.

È

noto come il popolo a Roma, sebbene si fosse dato

il diritto di innalzare alle cariche i plebei, non si decidesse però ad eleggerli

2.

E in Atene, sebbene secondo la legge

di Aristide i magistrati potessero provenire da tutte le classi,

1. Tuttavia, durante il suo soggiorno a Roma, Montesquieu cosi scri­ veva: - « I paesi elettivi sono peggiori di quelli ereditari. Si presuppone (ciò che non avviene mai) che gli elettori cerchino il pubblico bene, mentre cercano solo il loro bene particolare. Si vedano i Romani che, nel mo­ mento in cui è in gioco la loro esistenza, dànno il comando del loro esercito a Terenzio Varrone, figlio di un macellaio, perchè costui aveva comprato i suffragi. E quand'anche si scegliesse colui che ha la riputazione di essere il più degno, chi può dire che, allorchè sarà stato eletto, non cambierà, come è accaduto per tanti altri! Optimus imperator, si non imperasset. Bisognerebbe che i paesi elettivi vendessero la loro corona » ( Voyages, I, p. 225) . 2. Cfr. Considérations, cap.. 8, n. 6: Il popolo ottenne il diritto di eleggere dei plebei, ed eleggeva dei patrizi. Fu obbligato a legarsi le mani, stabilendo che vi dovesse essere sempre un console plebeo •

».

LIBRO SECONDO

6g

tuttavia, secondo quanto afferma Senofonte •, mai il basso popolo pretese per sè quelle che potevano interessare la sua salvezza o la sua gloria. Come la maggior parte dei cittadini sono abbastanza sicuri di sè per eleggere, ma non per essere eletti, così il popolo ha sufficiente capacità per farsi render conto della gestione altrui, ma non per ammi­ nistrare direttamente. Occorre che gli affari procedano, e con un moto che non sia troppo lento, nè troppo veloce. Ma il popolo è sempre troppo, o troppo poco attivo. Talvolta con centomila braccia travolge ogni cosa, talaltra con cen­ tomila piedi non va più spedito di un insetto. Nello stato popolare 1 il popolo viene diviso in certe classi, ed è appunto nella maniera di compiere questa divi­ sione che i grandi legislatori si sono distinti, e da essa la durata, la prosperità delle democrazie hanno sempre dipeso. Nel comporre le sue classi, Servio Tullio seguì lo spirito dell'aristocrazia. Vediamo in Tito Livio b, in Dionigi d'Ali­ carnasso •, come egli affidasse il diritto di suffragio ai cit­ tadini principali. Aveva diviso il popolo di Roma in 193 cen­ turie che fòrmavano sei classi. Collocò, ma in numero minore, i ricchi nelle prime centurie; i meno ricchi, ma in numero maggiore, nelle seguenti, tutta la massa dei poveri riversò nell'ultima; e siccome ogni centuria aveva un voto solo d, più che le persone, erano i mezzi e le ricchezze a dare il suffragio. a. [Athen. Resp., cap. r] pp. 6gr e 6gz, edizione del Wechelius dell'anno r s g6. b. Libro I lcap. 431c. [Roman. Antiq.] , lib . IV. artt. rs e segg. d. Si veda, nelle Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décaaence, cap. g, come questo spirito di Servio Tullio si mantenne sotto la repubblica. ,

I . Nel Ms. (1, fol. 25 v•) si aveva dapprima la seguente lezione: • Per evitare la confusione nello Stato popolare, bisogna necessariamente divi­ dere il popolo in talune classi ed è quel che 1 leg!.slatori hanno sempre fatto: i Romani stabilirono le loro classi secondo io spirito dell'aristocrazia, gli Ateniesi secondo quello della democrazia •.

PARTE PRIMA

Solone divise il popolo di Atene in quattro classi. Guidato da spirito democratico, egli creò queste classi non per fissare coloro che dovevano eleggere, ma coloro che potevano essere eletti; e, lasciando ad ogni cittadino il diritto d'elezione, volle • che in ciascuna di quelle quattro classi si potessero eleggere dei giudici; ma che i magistrati si potessero prendere soltanto nelle prime tre, dove erano i cittadini agiati 1 . Come nelle repubbliche la divisione di coloro i quali hanno diritto di suffragio è legge fondamentale, così lo è pure il modo con cui questo suffragio si dà. Il suffragio per via della sorte è proprio per natura della democrazia; quello per via di scelta, dell'aristocrazia2. Il primo non affligge nessuno; lascia a ciascun cittadino una ragionevole speranza di servire la patria. Ma siccome è di per sè difettoso, i grandi legislatori hanno superato se stessi cercando di regolarlo, di correggerlo. Solone in Atene stabilì che tutte le cariche militari venis­ sero distribuite in sèguito a scelta, ma che senatori e giudici fossero eletti a sorte. Pure alla scelta volle che fossero affi­ date le magistrature civili che esigevano una grossa spesa ed alla sorte le altre. Ma, al fine di correggere la sorte, ordinò che solo fra coloro che si fossero presentati andassero scelti gli eletti; che l'eletto dovesse subìre un esame da parte dei giudici b e che chiunque lo potesse accusare di indegnità •:

in tal modo scelta e sorte intervenivano contemporaneaa. DIONIGI o'ALICARNASSO, elogio d'lsocrate, p. 97, tomo Il, edizione del Wechelius 3 • PoLLU CE, [Onomasticon] , lib. VIII, cap. 10, art. 130. b. Si veda l'orazione di DEMOSTENE, De falsa legatione [§ 2II] e l'orazione contro Timarco 4 • c. Si estraevano anzi due schede per ogni carica: con la

I.

Cfr. ARISTOTELE, Politica, II, 1 2 74 a. Cfr. nello stesso senso ARISTOTELE, Politica, IV. 1 294 b. J . Nel ludicium de lsocrate, § 120, in realtà è detto solo che Solone non dette il potere nemini flagitioso . . . , sed spectatissimis viris •· 4· EscHINE, Contra Timarcum, §§. 19-2 1 . Questo esame, detto lloxl­ f.LctO(ct, non verteva sulla capacità amministrativa dell'eletto, ma sull'as­ senza di condizioni di indegnità e sull'accertamento della sua nazionalità. 2.



LIBRO SECONDO

mente.

71

Scaduto il termine della magistratura, si doveva

sottostare ad un altro giudizio sul comportamento avuto. Gli incapaci dovevano provare una grande ripugnanza a dare il loro nome affinchè fosse tirato a sorte. Anche la legge che stabilisce le modalità del suffragio è fondamentale nelle democrazie.

È

assai importante sapere

se i suffragi han da essere pubblici oppure segreti. Cicerone • scrive che le leggi b che li resero segreti durante gli ultimi anni della monarchia romana, furono una delle principali cause della sua caduta. Siccome nelle diverse repubbliche si segue un metodo diverso, ecco ciò che, secondo me, si deve pensare sull'argomento. Indubbiamente, quando il popolo dà i suoi suffragi, essi debbono essere pubblici c; e ciò nelle democrazie deve esser legge fondamentale. Il popolino deve essere illuminato dalle persone più importanti e tenuto in rispetto dalla gravità di alcune personalità. Fu così che, nella repubblica romana, rendendo segreti i suffragi, si rovinò tutto; nè fu più possi­ bile illuminare una plebaglia che andava perdendosi. Ma quando in un'aristocrazia il corpo dei nobili democrazia il senato

•,

d,

o in una

dànno i suffragi, poichè si tratta

soltanto di impedire gli intrighi, il segreto non sarà mai

prima si attribuiva la carica, con la seconda si designava il suc­ cessore, nel caso che il primo estratto fosse respinto 1. a. lib. I 2 e III [cap. 15] delle Leggi. b. Venivano dette (( leggi tabulari n 3• Si davano a ciascun cittadino due tavolette, la prima contrassegnata da una A, che significava antiquo; la seconda da una U e da una R, che signi­ ficavano uti rogas. c. Ad Atene si procedeva per alzata di mano. d. Come a Venezia. e. I trenta tiranni di Atene vollero che i suffragi degli aero­ pagiti fossero pubblici, onae dirigerli a loro piacunento. LISIA, Orat. contra Agorat., cap. 8 [ma § 37]. r. Il sostituto era detto a1ttÀa:xwv, cfr. DEMOSTENE, Conll'a Theo­ crinem, § 29. 2. Nel libro I delle Leggi non vi è accenno alcuno alle leggi sui suffragi. 3· Sulle leggi tabulari cfr. CICERONE, Leges, III, 16.

PARTE PRIMA

esagerato. Gli intrighi in un senato sono pericolosi, ed anche in un corpo di nobili; ma non nel popolo, il quale per natura sua agisce spinto dalla passione. In quegli stati ove non partecipa al governo, esso prenderà fuoco per un attore ', tarito quanto avrebbe fatto per i pubblici affari. Per le repubbliche è una disgrazia quando gli intrighi vengono a mancare 2. Ciò avviene quando si è corrotto il popolo col denaro: questi si fa più freddo, si affeziona al denaro, ma non più ai pubblici affari. Incurante del governo e di quanto vi si propone, aspetta con calma il proprio salario. Altra legge fondamentale nelle democrazie è che sia il popolo solo a fare le leggi. Esistono tutta:via mille casi in cui bisogna che il senato possa deliberare; spesso anzi è bene provare una legge prima di stabilirla. Le costituzioni di Roma e di Atene erano molto sagge. Le ordinanze del senato a avevano forza di legge per la durata di un anno, e non diventavano perpetue che per volontà del popolo. a . Si veda DIONIGI n'ALICARNASSO, lib. IV [cap. 84] e lib. IX [cap. 37].

I. Cfr. XIX, 3· 2. Nelle Lettres Persanes (lett. CXXXVI), parlando dell'Inghilterra, Montesquieu osserva che colà " si vede la libertà balzar fuori senza posa dal fuoco della discordia e della sedizione », e analogamente nelle Consi­ dérations (cap. 8) definisce il governo libero, un governo toujours agité; sempre nelle Considérations (cap. 9) afferma che a Roma le divisioni e le lotte intestine " erano necessarie » e ne trae la seguente regola generale: ogni qualvolta si vede tutto tranquillo in uno Stato che si dà il nome di repubblica, si può esser certi che la libertà non vi regna ». Era questa anche l'opinione di Machiavelli; cfr. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 4 · Tuttavia in un passo, fra i primi cronologicamente, delle Pensées, Montesquieu si allontana da questo concetto dinamico della libertà, che è cosi in armonia con il suo ideale di una libertà risultato di un equilibrio e di un controllo di forze politiche opposte, affermando invece, secondo la concezione moralistica corrente ai suoi tempi, che quando in una repubblica si hanno delle fazioni, il partito più debole non è più sconfitto di quello . più forte, ma è la Repubblica che è scon­ fitta " (I, p. 358, n. 3 7 1 [r8r6]). "



73

LIBRO SECONDO

CAPO III.

Delle leggi relative alla natura dell'aristocrazia.

Nelle aristocrazie, il supremo potere è nelle mani di un certo numero di persone, le quali fanno le leggi e badano alla loro esecuzione, mentre il resto del popolo rispetto ad esse si trova tutt'al più nella situazione dei sudditi rispetto al monarca nelle monarchie. I vi i suffragi non devono essere dati per sorte

r,

poichè di tale sistema non si avrebbero

che gli inconvenienti. Infatti in un governo in cui sono già stabilite le più umilianti distinzioni, la scelta per sorte non renderebbe

meno

odiosi:

l'invidiato

è

il

nobile,

non

il

magistrato. Quando i nobili sono numerosi, occorre un senato che regoli gli affari che il corpo nobiliare non può decidere e prepari quelli di cui questo decide. In simile caso possiamo dire che in certo qual modo si ha l'aristocrazia nel senato, la democrazia nel corpo dei nobili 2, e che il popolo non è nulla.

Se, per qualche via indiretta, nelle aristocrazie si

potrà fare uscire il popolo dal nulla in cui giace, sarà un felicissimo avvenimento.

Cosi a Genova il Banco di San

Giorgio, amministrato l in gran parte dai principali persoI . Cfr. SPINOZA, TYactatus politicus, cap. 8: « AYistocratiam impeYium illud esse diximus quod non unus sed quidam ex multitudine selecti tenent, quos in posterum patricios appellavimus. Dico expresse quod quidam selecti tenent, nam haec pyaecipua est ditferentia inter hoc et democraticum impe­ rium, quod scilicet in imperio aristocratico gubernandi ius a sola electione pendeat, in democratico autem maxime a iure quodam innato vel fortuna adepto (ut suo loco dicemus) atque adeo tametsi imperii alicuius integra mul­ titudo in numero patriciorum recipiatur, modo illud ius hereditarium non sit, nec lege aliqua communi ad alios descendat, imperium tamen aristo­ craticum omnino erit, quandoquidem nulli nisi expresse electi in numerum patriciorum Yecipiuntur •· 2. Cfr. ARISTOTELE, Politica, V, 1308 a, il quale osserva che « quel principio di eguaglianza che i democratici cercano nella moltitudine, tra pari non s0lo è giusto ma ancora è utile ». Tuttavia l'esempio che Monte­ squieu doveva avere sott'occhio era quello di Venezia, con la sua distm­ zione fra Maggior Consiglio e Minor Consiglio. L' AMELOT DE LA Hous­ SAYE, nella sua Histoire du GouveYnement de Venise (Parigi, 1676-77) che Montesquieu cita sovente, scriveva che il Maggior Consiglio costitUisce il popolo della Nobiltà, e il Senato. . . ne è tutta l'élite » (p. 19, cito dal­ l'ediz. di Amsterdam del 1 705) . Montesquieu stesso aveva scritto in Pensées, III, fol. 65 vo, n. 1 758 (217): « Ogni assemblea aristocratica si divide sempre da sè in popolo e in grandi ». 3· In A B si ha la seguente lezione: « che è diretto dal popolo, gli dà •

74

PARTE PRIMA

naggi del popolo

•,

gli dà una certa influenza sul governo,

che sta alla base di tutta la sua prosperità

r.

Nel senato i senatori non devono avere il diritto di rim­ piazzare i mancanti: nulla risulterebbe più atto a perpetuare gli abusi. In Roma, la quale nei primi tempi fu una specie di aristocrazia, esso non colmava da sè i propri vuoti; erano censori a nominare i nuovi membri b.

a. Si veda AnmsoN, Viaggi d'Italia, [traduzione francese, Parigi, 1722] , p. r6. b. Dapprima furono eletti dai consoli. una certa influenza, ecc. » . Questa prima lezione provocò non poche cri­ tiche, prime fra tutte quelle dei marchesi Pallavicina e Lomellini, inviati di Genova a Parigi, i quali si affrettarono a far pervenire a Montesquieu, tramite le signore di Tencin e Geoffrin, delle osservazioni in merito (cfr. Corr., Il, p. 164 segg.) affermando, in particolare, che l'amministrazione del Banco di S. Giorgio non era in mano del popolo. Montesquieu in una lettera alla signora di Tencin riconfermò la sua opinione (cfr. Corr., II, p . 1 78) richiamandosi alle informazioni dell'Addison. L' Addison tuttavia afferma che l'amministrazione era nelle mani dei a principali cittadini >, alludendo evidentemente ai principali esponenti dell'alta borghesia com­ merciante, rivale dell'aristocrazia. Non sembra quindi che la primitiva opinione di Montesquieu fosse esatta, e del resto il fatto che egli stesso abbia poi modificato il testo sta a dimostrare che le critiche non erano sbagliate. Si noti che la stessa critica si ritrova nelle Observations sur un livre zntitulé De l'Esprit des Lois, 3 voli., Parigi, 1 757-58 (tomo I, p. 29), del fermier général Claude Dupin, seguito poi anche da VOLTAIRE (Questions sur l'Encyclopèdie, art. Esprit des Lois) . Contro queste critiche si è levata in difesa di Montesquieu la Dodds, affermando che gli amministratori del Banco erano borghesi e non nobili. Con tutta probabilità il Dupin ha ripetuto la critica contenuta nella prima edizione del suo libro (Réfiexions sur quetques parties d'un livre intitulé, ecc., Parigi, chez Benjamin Serpent, 1 749) poi distrutta, ct itica rivolta al testo inesatto di A B, senza badare alla correzione successiva, e dal canto suo la Dodds non ha avuto presente la prima lezione del testo di Montesquieu poichè, quand'anche gli ammi­ nistratori del Banco fossero stati soltanto dei borghesi, non per questo era legittimo di parlare di « popolo ». Si noti che nella sua Lettre sur Genes, rifacimento det suoi appunti di viaggio, Montesquieu non parla affatto di un'influenza politica del popolo, anzi afferma che frà di esso e la nobiltà vi è un distacco profondo. accentuato dalla parzialità dei tribunali: • Non vi è alcuna risorsa contro il potere di un nobile il quale voglia attentare ai beni, all'onore o alla vita altrui » ( Voyages, u, p. 289). r. Sull'importanza del Banco di San Giorgio, come fonte di prosperità e di libertà per la Repubblica genovese, si era già espresso MACHIAVELLI, cfr. Istone Fiorentine, VIII, 29, al giudizio del quale si richiamò HuME nel saggw That Politics mav be reduced lo a Science (in Essays Moral and Politicat. Edimburgo, 1 74 1 ) affermando: « . . . mentre lo Stato era sempre agitato da sediziom, tumulti e disordini il banco di San Giorgio, che era diventato una parte considerevole della nazione, venne retto per molto temno con la massima integrità e saggezza • (cito dalla edizione dei saggi di T. H. l>ROSE e T. H. GREEN, Londra, 1 9 1 2 , tomo I, pp. 105-r o6) .

75

LIBRO SECONDO

Un'autorità esorbitante che, nelle repubbliche, venga concessa improvvisamente a un cittadino, forma la monar­ chia, o più che la monarchia. In questa alla sua costituzione hanno provveduto le leggi, o vi si sono acconciate: il prin­ cipio del governo raffrena il sovrano. Ma se in una repubblica un cittadino si fa dare un potere esorbitante •, l'abuso è maggiore, poichè le leggi, che non hanno previsto simile caso, non hanno fatto nulla per frenarlo. Si ha un'eccezione alla regola precedente quando la costituzione è tale che allo Stato occorra una magistratura dal potere esorbitante t , Cosi a Roma coi dittatori; a Venezia coi suoi inquisitori di Stato z; terribili magistrature che riconducono violente­ mente lo , Stato alla libertà. Ma donde viene la grande dif­ terenza di queste magistrature nelle repubbliche sunnomi­ nate? Dal fatto che Roma difendeva contro il popolo i resti della propria aristocrazia, mentre Venezia si serve dei propri inquisitori per mantenere l'aristocrazia contro i nobili. Quindi a Roma la dittatura non doveva durare che poco tempo 3, perchè è la foga, non i consigli, che fa agire il popolo. Questo ufficio andava esercitato con lustro, perchè si doveva intimidire il popolo, non già punirlo; ed il dittatore doveva essere eletto in vista di un solo affare, e solo per esso godere di un'autorità illimitata, perchè era sempre creato per casi imprevisti. A Venezia invece occorre una magistratura permanente; in essa i progetti possono essere cominciati, seguiti, sospesi, ripresi; in essa l'ambizione di a. Fu questa la causa del rovesciamento della repubblica romana. Si vedano le Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence, [capi 9 e I I], Parigi, 1755. 1 . Cfr. V, 8 e XI, 6. I n Pe�sées, III, fol. 43. n. 1712 (288) osserva, a proJ?osito del dittatore: • Rimedio estremo per mali estrenu. Era come una divinità che scendeva dal cielo oer risolvere gli affari ing. 2. Sul carattere degli lnquisiton di Venez1a larghe ùrformazioni Mon­ tesquieu doveva aver trovat:e nell'Histoire citata dali'HousSAYE . cfr tomo I, pp. 2 1 4-217. 3 · Nel passo delle Pensées, citato sopra, cosi scriveva: • Sareboe stato un tiranno se non fosse stato scelto per un breve periodo di te e se



il suo potere non I066e stato litnitato all'obiettivo per il quale era stato scelto •·

PARTE PRIMA

uno solo diviene quella di una famiglia, l'ambizione di una famiglia quella di molte. Occorre una magistratura nascosta, perchè i crimini ch'essa punisce, sempre profondi, vengono tramati nel segreto e nel silenzio. Questo ufficio deve avere un potere di inquisizione generale, poichè non è affar suo fermare i mali noti, bensì prevenire persino quelli ignoti. Quest'ultima magistratura infine è stata creata per punire i crimini che sospetta; mentre la prima verso i criminali, anche confessi, adoperava più minacce che castighi. In ogni magistratura la grandezza del potere va com­ pensata con la brevità della sua durata t. La maggior parte dei legislatori ha fissato un anno come termine: un periodo più lungo sarebbe pericoloso, più corto contro la natura delle cose. Chi mai vorrebbe governare cosi le proprie fac­ cende domestiche ? A Ragusa • il capo della repubblica muta ogni mese; gli altri funzionari ogni settimana; il governatore del castello ogni giorno. Ciò non è possibile che in una repubblica piccola b, circondata da formidabili potenze, le quali corromperebbero facilmente dei modesti magistrati. L'aristocrazia migliore è quella dove la parte del popolo priva di potere è tanto povera, tanto es1gua, che la parte dominante non ha alcun interesse ad opprimerla. Così quando,

a. Voyages de Tournefort 2 • b. A Lucca i magistrati non stanno in canea che per due mesi 3• r . Cfr. ARISTOTELE, Politica, V, 1308 a: • Se i membri del govemo sono numerosi saranno utili molte istituzioni democratiche, come la durata semestrale delle maeistrature. . . non essendo egualmente facile tare male esercitando una magistratura per breve tempo che per lungo, poichè appunto per la lunga durata nelle magistrature, nelle oligarchie e nelle democrazie si producono le tirannidi ». Cfr. anche ib�a., 1308 b. 2. La Dodds non ha trovato una simile notizia nella Relation d'un voyage fait au Levant (Parigi, 1 7 1 7) del botanico J OSEPH PITTON DE TOURNEFORT (1635-1 708) bensl nella Relation fournalière du voyat. Cfr. inoltre Esprit des Lois, XIV, 4. nota a, che ci rivela un'altra fonte ben più antica di Montesquieu. 3· Sofl è la denominazione data in Occidente ai re di Persia, derivante dalla dinastia dei Safawidi, assurta al potere verso i primi del 1500 con Isma'il. 4· Rectius Myrr-Weiss, capo afgano che cacciò dal trono di Persia il sofl Hussein nel 1 722, conquistò tutta la Persia e fu ucciso dal cugino e rivale Mir Abdallah. 5· Cfr. p. 18 della citata traduzione francese. 6. È l Hi stoire de la dernière Révolution de Perse, Parigi, 1 728, tomo l, pp. 80-7, del gesuita }EAN ANT01NE DucERCEAU ( 1 670-1730). Sulla rivolta di Myu-Weiss sono conservati, nello Spicilège, un articolo della Gazette de Hollande • del 23 febbraio 1 723, nonchè l'estratto di lettere prove­ nienti da Ispahan (pp. So- 1 ) . 7· Cfr. i n Pensées, I I I , fol. 1 3 4 r0-v0, n. 1 899 (239) i l frammento Del governo militare: Il governo militare si stabilisce in due maniere: o me­ diante la conquista compiuta da un esercito che vHol sempre restare costi­ tuito come un corpo d'esercito, quale è tuttora il governo di Algeri; ovvero '





LIBRO TERZO

95

un torrente che rovina una parte sola, lascia dall'altra delle terre, dove l'occhio di lontano scorge dei prati •.

CAPO X. Differenze fra l'obbedienza net governi moderati nei governi dispotici.

e

Negli Stati dispotici 2 il governo per la natura sua, reclama una obbedienza estrema; e la volontà del principe, una volta conosciuta, deve sortire il proprio effetto altrettanto infalli­ bilmente di una palla gettata contro un'altra. È impossibile proporre temperamenti, modifiche, accomo­ damenti, rinvii, controproposte, discussioni, rimostranze, cose eguali o migliori. L'uomo è una creatura che obbedisce ad una creatura che vuole. È impossibile far presenti i propri timori circa un avvenimento futuro, quanto cercare una scusa nei capricci della fortuna per un'impresa andata a male. Agli uomini, come agli animali, non rimane che l'istinto, l'obbedienza, il castigo. È inutile opporre i senti­ menti naturali, il rispetto verso il padre, l'amore per i figli, per la moglie, le leggi dell'onore, lo stato di salute: si è ricevuto un ordine e ciò deve bastare. In Persia, quando il re ha condannato qualcuno, è vietato riparlargliene e chiedergli la grazia. Seppure egli era ebbro o fuor di senno, l'ordine va eseguito lo stesso •; altrimenti il sovrano entrea.

Si veda CHARDIN 3•

è l'eccesso di abuso del governo dispotico e, per cosi dire, la corruzione di quel governo •. 1 . Il Ms. cosi continua: • Ma è prova del grande erramento di Machia­ velli l'aver dato ai principi per il mantenimento della loro grandezza dei principi che sono necessari unicamente nel governo dispotico e che sono inutili, pericolosi e persino impraticabili in quello monarchico. Ciò deriva dal fatto che egli non ha ben compreso la natura e le distinzioni [dei governi] : ciò che non è degno del suo grande ingegno » (I, fol. 68 vo) . 2. Cfr. quanto è detto nelle Rèflexions sur la monarchie universelle, cap. 8 (in Deux opuscules): « Regna in Asia uno spirito di servitù che mai l'ha abbandonata » ed ancora: « In Asia si sono avuti sempre dei grandi imperi... Un grande impero presuppone necessariamente un'autorità dispotica ». 3. Voyage en Perse, cit., tomo VI, Description du gouvernement, cap. 2, p. 18.

PARTE PRIMA

rebbe in contraddizione con se stesso, e la legge non può contraddirsi. In Persia si è sempre pensato in tal modo. Siccome non era possibile revocare 1 l'ordine dato da Assuero di sterminare gli Ebrei, si decise di permetter loro di di­ fendersi z. Una cosa però esiste che qualche volta è possibile opporre alla volontà del principe •: la religione. Se il principe lo ordina, si abbandonerà, si ucciderà perfino il proprio padre; ma non si berrà del vino s'egli lo vuole e lo ordina. Le leggi religiose appartengono ad un precetto superiore, perchè valgono tanto per il principe quanto per i suoi sudditi J. Ma per il diritto naturale la cosa è diversa: il principe non viene più considerato come un uomo. Negli Stati monarchici e moderati il potere viene limitato da quella che è la sua molla, l'onore, voglio dire, il quale regna come un monarca su principe e popolo. Nessuno gli citerà le leggi della religione (un cortigiano si sentirebbe ridicolo) , ma sempre quelle dell'onore. Ciò richiede delle modifiche necessarie nel modo di obbedire; per natura l'onore va soggetto a stranezze, e l'obbedienza le seguirà tutte. Sebbene in questi due governi la maniera di obbedire sia diver-sa, il potere è tuttavia eguale. Da qualunque lato s1 volti, il monarca fa pendere a suo favore la bilancia, la a.

Ibid. 4•

1. Nel libro di Ester non si parla in realtà della irrevocabilità degli editti regi, anzi l'editto che ordinava lo sterminio degli Ebrei venne revo­ cato da un altro nel quale si diceva: " Sappiate perciò che quelle lettere le quali egli [Aman] a nome nostro vi indirizzò sono nulle " (Ester, XVI, 1 7 ) . 2. Il nuovo editto di Assuero non dava ai Giudei il permesso di difen­ dersi, ina di sterminare i loro nemici e ritrattava esplicitamente le accuse formulate contro di essi nel primo editto, cfr. Ester, XIII, r-7 e XVI, r - 2 4. J. Su questa influenza della religione nei paesi dispotici cfr. inoltre Il, 4; V, 14; XII, 29 e Considéralions, cap. XXII. Un aperto riconosci­ mento dell'azione civile della religione nella società è il cap. XXIV, 2 . 4· Voyage e n PeYse, cit., tomo V I , Description d u gouvernement, cap. 2, pp. 21-3: Essi i Persiani ritengono che gli ordini del re sono al di sopra del diritto naturale . . . ma ritengono d'altra parte . . . che i suoi ordini sono sottoposti al diritto divino e, se quindi accade che il re ordiniqualcosa contro la religione, ritengono che non si debba obbedirgli; ma che si debba sopportare qualsiasi cosa piuttosto di violare la legge divina ». "

LIBRO TERZO

97

fa precipitare ed è obbedito. Tutta 1 la differenza sta nel fatto che nelle monarchie, il principe non è privo di lumi, ed i suoi ministri sono infinitamente più abili ed esperti che negli Stati dispotici '·

CAPO XI. Riflessione generale. Questi sono i princìpi dei tre governi; il che non vuole affatto dire che in una particolare repubblica si sia virtuosi, ma che si dovrebbe esserlo. E nemmeno prova che, in una data monarchia, regni l'onore, in un certo Stato dispotico la paura, ma bensì che essi vi dovrebbero regnare, altri­ menti il governo sarebbe imperfetto.

I. Nel Ms. (I, fol. 7 1 v0) il periodo suona più severa condanna dei ministri: " Vero è che i ministri, nella monarchia, devono avere maggiore abilità. E infatti ne hanno di più; hanno un maggior numero di affari, quindi vi sono più abili. Vero è che, per sbarazzarsene, vogliono sovente sovvertire le leggi. Simile governo formando dei genii di tal fatta è para­ gonabile a quell'uccello che fornisce la penna che l'uccide ». La modifi cazione venne apportata, a stampa avvenuta, mediante sostituzione del foglio. 2. Sui ministri, le loro funzioni e i loro doveri, cfr. Pensées, III, fol. 289 segg., n. 1994 (659) .

LIBRO QUARTO CHE LE LEGGI DELL'EDUCAZIONE DEBBONO ESSERE IN ARMONIA COI PRINC Ì PI DEL GOVERNO

CAPO I. Delle leggi dell'educazione t . Le leggi dell'educazione sono le prime che noi riceviamo. E poichè esse ci preparano ad essere dei buoni cittadini

z,

ogni famiglia particolare deve essere retta sul piano della grande famiglia che le abbraccia tutte. Se il popolo in gene­ rale ha un principio, anche le parti che lo compongono, e cioè le famiglie, dovranno averne uno. Le leggi dell'educa­ zione saranno dunque diverse in ogni genere di governo: nelle monarchie il loro fine sarà l'onore; nelle repubbliche la virtù; negli Stati dispotici, il timore. CAPO ·n. Dell'educazione nelle monarchie 3. Nelle monarchie, l'educazione principale non la si riceve affatto in quegli istituti pubblici 4 nei quali l'infanzia viene I. Sull'educazione cfr. Pensées, II, fol. 197 V0, n. 1 379 (1 754). 2. Cfr. ARISTOTELE, Politica, 1310 a: • Ma il punto più importante di quanto abbiamo detto per la solidità delle istituzioni è l'educazione politica... Nessun giovamento infatti si ritrae dalle leggi più utili e appro­ vate da tutti i governanti se i cittadini non saranno abituati ed educati al governo che li regge •. 3· Cfr. Voyages, II, p. 202: c La maggior parte delle sciocchezze dei principi derivano dalla loro educazione •· Si ricordi che Montesquieu par­ lando delle monarchie ha in mente soprattutto la Francia. Sull'importanza dell'onore nella monarchia francese cfr. Lettres Persanes, LXXXIX e XC. Ma nella lettera LXXXIX aveva anche detto: " Ma il santuario dell'onore, della reputazione e della virtù sembra esser stabilito nelle repubbliche e nei paesi dove si può pronunziare il nome di patria ». La contraddizione è dovuta all'uso equivoco della parola " onore » che nell Esprit des Lois sta a indicare l'onore quale sentimento e vincolo politico di origine feudale, mentre nelle Lettres è sentimento individuale di dignità, cfr. p. 91 n. 3 · 4· Sull'educazione che vi si riceveva cfr. gli apprezzamenti poco lusin· ghieri contenuti in Pensées, I, p. 239, n. 2 1 8 ( 1 758). '

LIBRO QUARTO

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istruita; in certo qual modo, l'educazione comincia al mo� mento dell'ingresso nel mondo. È lì che si trova la scuola di quello · che chiamano onore, di quel maestro universale, che ci deve guidan� dappertutto. È lì che si sentono sempre dire tre cose: . Le virtù che nel mondo ci vengono additate non trattano tanto di ciò che dobbiamo agli altri, quanto di ciò che dobbiamo a noi stessi: esse non consistono tanto in ciò che ci avvicina, quanto in ciò che ci distingue dai nostri concittadini. Le azioni umane non vi sono giudi­ cate in quanto buone, ma in quanto belle; non in quanto giuste, ma in quanto grandi; non in quanto ragionevoli, ma in quanto fuori del comune. L'onore, appena può sco­ prirvi qualche parvenza di nobiltà, sùbito diventa il giudice che le rende legittime, o il sofì.sta che le giustifica: permette la galanteria, purchè sia unita all'idea dei sentimenti del cuore, o all'idea di conquista; ed è questo il vero motivo per cui nelle monarchie i costumi sono sempre meno puri che nelle repubbliche. L'onore permette l'astuzia quando, come nella politica le cui finezze ' non l'offendono, si accom­ pagna all'idea della grandezza dell'animo o degli affari. Nè vieta l'adulazione, se non quando è separata dall'idea di una grande fortuna e non è legata che al senso della propria bassezza. Riguardo ai costumi, ho già detto che, nelle monarchie, l'educazione deve infondervi una dose di sincerità. Vi si desidera, dunque, che le parole pronunciate siano vere per amore forse della verità? Niente affatto, ma solo perchè l'uomo che è abituato a dirla appare libero e ardito. Costui infatti sembra dipendere dalle cose e non dal modo con il quale un altro le riceve. Ed è a causa di tutto ciò che nelle monarchie quel genere di sincerità viene raccomandato tanto quanto invece quella del popolo, il cui fondo è la verità e la semplicità, viene disprezzato. 1 . n testo primitivo, invece di " astuzia • e « fi nezze •. aveva " dop· piezza • e astuzie », modificazione apportata a stampa avvenuta mediante� sosti tu zio ne del foglio. •

1 00

PARTE PRIMA

Infine, nelle monarchie, l'educazione esige una certa gar­ batezza di modi. Gli uomini, nati per vivere assieme, sono pure nati per piacersi a vicenda, e chi non osservasse le convenienze, scandalizzando coloro con i quali vive, si screditerebbe al punto di diventare incapace di fare il bene. Tuttavia la garbatezza, di solito, non sgorga da sorgenti così pure, ma piuttosto dalla brama di distinguersi. Noi siamo garbati per orgoglio; ci lusinga il fatto di provare coi nostri modi che non apparteniamo a un basso stato, nè abbiamo vissuto con quei tipi di persone che in ogni età sono state derelitte 1. Nelle monarchie la corte è la dimora naturale del garbo. Un individuo eccessivamente grande rende piccoli gli altri. Di qui hanno origine i riguardi che si debbono a tutti, il garbo che lusinga tanto chi lo pratica quanto chi ne è fatto oggetto, perchè fa capire che si appartiene alla corte e si è degni di appartenervi. L'aria della corte consiste nell'ab­ bandonare la propria grandezza per assumerne un'altra di accatto, la quale più ancora della prima lusinga il cortigiano. Essa conferisce una certa modestia superba che si diffonde a distanza, ma il cui orgoglio diminuisce insensibilmente, in proporzione alla distanza in cui ci si trova dalla fonte di questa grandezza. Nelle corti troviamo un gusto assai delicato in ogni cosa, portato dall'uso continuo del superfluo di una grossa fortuna, dalla varietà, dalla stanchezza, soprat­ tutto, dei piaceri, dalla molteplicità, persino dalla confusione dei capricci, sempre bene accolti quando sono gradevoli. L'educazione si serve di tutte queste cose per formare quello che viene chiamato l'uomo costumato, al quale non manca nessuna fra tutte le qualità e tutte le virtù richieste in un governo simile. Intrufolandosi dappertutto, l'onore penetra in ogni maniera di pensare, di sentire e regola perfino i princìpi. Questo bizzarro onore fa sì che le virtù siano quali e come esso le vuole; inventa di testa sua delle regole per tutto ciò che ci viene prescritto; estende o limita a suo 1 . Intendi il popolo, e più precisamente " coloro che sono in una condizione tale di bassezza che si ritiene non abbiano nemmeno una pro­ pria volontà come dirà in sèguito (XI, 6). »,

IDI

LIBRO QUARTO

capriccio i nostri doveri, sorgano essi dalla religione, dalla politica o dalla morale. Le leggi, la religione e l'onore, nelle monarchie, non prescrivono nulla con tanta enfasi quanto l'obbedienza alle volontà del principe; ma questo onore ci detta che il principe non deve mai prescrivere un'atto capace di disonorarci, perchè saremmo messi così nell'incapacità di servirlo. Crillon 1 rifiutò di assassinare il duca di Guisa, ma offrì ad Enrico III di battersi contro di lui. Dopo la notte di san Bartolomeo Carlo IX scrisse a tutti i governatori di fare massacrare gli Ugonotti, ma il visconte d'Orthe 2, il quale aveva il comando di Baiona, scrisse al re •: . Fu solo grazie alla corruzione di alcune democrazie che gli artigiani riuscirono a diventare cittadini. Aristotele d ce lo fa sapere e sostiene che una buona repubblica non concederà mai loro diritto di cit­ tadinanza •,

c

•.

a. Vita di Pelopida, [287 e]. b. PLATONE, nel libro IV delle Leggi [ma VI, 764 c-765 d] , afferma che l e prefetture della musica e della ginnastica sono le cariche più importanti dello Stato 3; e nella sua Repubblica, lib. III [400 b] afferma: (( Damone vi dirà quali siano i suoni capaci di far nascere la bassezza nell'animo, l'insolenza, e quali le virtù contrarie 11 4• c. Detti memorabili, lib. V s . d. Politica, III, 4 [1277 b] . e. " Diofanto - dice ARISTOTELE, Politica, cap. 7 [II, r267 b] I.

Politica, VIII, 1 339 a - 1 340 b. 2. Geographica, l, 2 . 3 · Nel passo citato delle Leggi, PLATONE non dice affatto che i magi­ strati preposti alla musica e alla ginnastica fossero i più importanti della città, ma si limita ad elencarli insieme a tutti gli altri. 4· Il testo esatto di Platone è il seguente: • Ma su codesto, ripresi io, delibereremo con Damone, vedendo quali siano le misure proprie della illiberalità, dell'oltracotanza e della pazzia, o che corrispondano ad altri vizi, e quali ritmi invece si debbano riservare agli stati contrari a questi •: mi valgo della traduzione dello ZURETTI, Bari, 1915. 5 · Trattasi in realtà degli Oeconomici (cap. 4. §§ 2-3) , chè i Memo­ rabilia hanno solo quattro libri. Senofonte non dice • la maggior parte delle arti •. come riporta Montesquieu, ma, con maggior precisione, illi­ berales artes.

112

PARTE PRIMA

L'agricoltura continuava ad essere una professione servile di solito era un popolo vinto ad esercitarla: gli Iloti presso gli Spartani, i Perieci presso i Cretesi, i Penesti presso i Tessali, ed altri popoli schiavi presso altre repubbliche. Infine i Greci consideravano come infame ogni piccolo com­ mercio h: un cittadino avrebbe dovuto rendere dei servizi a uno schiavo, a un affittavolo, a uno straniero, idea ripu­ gnante allo spirito della libertà greca; per cui Platone, nelle sue Leggi b, vuole punito il cittadino che commerci 1 . Nelle repubbliche greche si era quindi assai impacciati. Non si voleva che i cittadini si dedicassero ai commerci, all'agricoltura, alle arti manuali, ma nemmeno che se ne stessero in ozio d. Essi trovavano un'occupazione negli esercizi ginnastici ed in quelli attinenti alla guerra Le e

a

•.

- stabilì un tempo ad Atene che gli artigiani fossero schiavi dello Stato )) 2• a. Pertanto Platone e Aristotele vogliono che gli schiavi coltivino 1a terra, Leggi, lib. VII [8o6 d-e] , Politica, VII, ro [1330 a] . Vero è che non dappertutto l'agricoltura era esercitata da schiavi; al contrario, come dice ARISTOTELE [Politica, VI, 1318 b], le migliori repubbliche erano quelle nelle quali i cit­ tadini si dedicavano all'agricoltura, ma ciò non accadde che in sèguito alla corruzione degli antichi governi, diventati demo­ cratici, poichè nei tempi più antichi, le città della Grecia vive­ vano sotto un governo aristocratico. b. Cauponatio. c. Lib. XI [919 d-g zo aj . d. ARISTOTELE, Politica, lib. X 3 • e. Ars corporum exercendorum gymnastica, variis certaminibus terendorum paedotribica. ARISTOTELE, Politica, lib. VIII, cap. 3 [1338 b] . 1 . PLATONE d'altra parte riconosceva l'utilità del commercio (Leges, XI, 9 1 8 b) e pertanto voleva che l'esercizio ne fosse limitato agli stranieri. 2. In realtà il passo di Aristotele suona diversamente. Parlando dei progetti legislativi di Falea Calcedonio, che voleva appunto questa pro­ prietà pubblica degli artigiani, Aristotele aggiunge: « Ma se debbono essere proprieta dello Stato occorre che lo siano quelli incaricati di opere pub­ bliche (come in Epidamno o in Atene, secondo il progetto di Diofanto) Cfr. Politica, II, 1 267 b. 3 · Trattasi evidentemente di un errore, poichè la Politica non ha che otto libri. ».

LIBRO QUARTO

istituzioni non permettevano altro. Dunque i Greci vanno considerati come una società di atleti e di combattenti. Ora questi esercizi, così adatti a creare degli individui tem­ prati, selvaggi •, avevano bisogno di essere moderati da altri, che potessero raddolcire i costumi. Adattissima a ciò era la musica, la quale, grazie agli organi del corpo, agisce sullo spirito; mezzo termine fra gli esercizi del corpo, che rendono gli uomini temprati, e le scienze della speculazione 1 che li rendono selvaggi. Non si può dire che la musica ispi­ rasse la virtù - una cosa simile sarebbe inconcepibile ma impediva gli effetti della ferocia delle istituzioni e nel­ l'educazione dava all'anima una parte che altrimenti non avrebbe mai avuta. Supponiamo che esista fra di noi una società di uomini talmente appassionati per la caccia, che non si occupino d'altro; ciò farebbe acquistare loro una certa rudezza. Se a costoro nascesse in più un certo gusto per la musica, non tarderemmo a notare nei loro modi, nei loro costumi una certa differenza. Infine, quegli esercizi, eccitavano nei Greci un genere solo di passioni: la rudezza, la collera, la crudeltà. La musica le passioni, le eccita tutte, e può far provare all'anima dolcezza, pietà, tenerezza, dolci piaceri. Quei moralisti, i quali proscrivono con tanta violenza fra di noi i teatri, ci fanno sentire abbastanza il potere che la musica esercita sui nostri animi. Non è forse vero che se alla società di cui ho parlato non dessimo che tamburi ed arie da suonar colle trombe, ' sarebbe più difficile raggiungere il nostro scopo che se le dessimo una musica dolce ? Dunque avevano ragione gli antichi quando, in certe circostanze, preferivano per i costumi certi modi a certi altri. Ma, si dirà, perchè preferire la mua. Aristotele afferma che i fanciulli spartani, che comin­ ciavano questi esercizi dalla più tenera età, ne contraevano troppa ferocia. Politica, lib. VIII, cap. 4 [1338 b].

1. I ntendi: il commercio, l'agricoltura. dal contesto.

e

le arti manuali, come risulta

PARTE PRIMA

sica ? Perchè, fra tutti i piaceri dei sensi, nessuno corrompe meno l'anima. Il rossore ci sale alla fronte, quando leggiamo

in Plutarco • che i Tebani, per addolcire i costumi fra i loro giovani, stabilirono per legge un certo amore, che tutte le nazioni del mondo dovrebbero proscrivere.

a. Vita di Pelopida [287 b-288 b]

1•

I . VoLTAIRE (Commentaire sur l'Esprit des Lois, art. 20) contestava l'esattezza della citazione, affermando giustameute che Plutarco riportava la veemente protesta profenta da Filippo di Macedonia, davanti a1 morti della legione sacra tebana, contro coloro che diffondevano tale accusa. Comunque questa opinione circa la sodomia dei Tebani era largamente diffusa nel mondo greco, e il testo di Plutarco non lascia dubbi in proposito.

LIBRO QUINTO

LE LEGGI DATE DAL LEGISLATORE DEVONO ESSERE IN ARMONIA CON IL PRINCIPIO DEL GOVERNO

CAPO I.

A rgomento di questo libro.

Abbiamo veduto che le leggi dell'educazione debbono essere in armonia con il principio

di ciascun governo. Lo

stesso deve accadere alle leggi che il legislatore dà alla società intera ( Questo rapporto fra il principio e le leggi dà vigore a tutti i COflge�i del governo, e sua volta ne riceve una forza nuova.

È

il principio a

così che nei moti

fisici, all'azione segue sempre una reazione. Ora noi esamineremo in ogni governo questo rapporto e cominceremo dallo Stato repubblicano, il cui principio è la virtù.

CAPO I I . Che cosa sza la virtù nello Stato politico. In una repubblica la virtù è una cosa semplicissima: è l'amore per la repubblica,

è un sentimento

z,

non una sequela

I . Cfr. ARISTOTELE, Politica, VI, I J I 6 b - 1 3 1 7 a, dove si afferma la necessità di esaminare le varie forme politiche in conformità • alla loro indole "· 2 . Cfr. Considérations, cap. 4: « Nulla vi è di più potente di una repubblica nella quale si osservino le leggi non per timore, non per ragione, ma per passione, come avvenne a Roma e a Sparta, poichè in simile caso alla saggezza d'un buon governo si aggiunge tutta la forza che potrebbe avere una fazione •· Questa definizione della virtù politica come sentimento è concetto su cui Montesquieu si è travagliato; mentre, infatti, nei due passi citati dimostra di apprezzare il valore pratico di questa identifica­ zione, in Pensées, III, fol. 1 1 3, n. 1 871 (199) e III, fol. 155 v0, n. 1940 (198) lamenta, con parole identiche a quelle dell'Esprit, che « il bene e il male

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PARTE PRIMA

di cogmztoni; tanto l'ultimo, quanto il primo cittadino lo possono provare. Il popolo, quando è stato dotato una volta per sempre di buone massime, le segue più a lungo di coloro che chiamiamo uomini costumati '· Di rado la corruzione comincia da esso. Spesso dalla mediocrità dei propri lumi, esso trae un attaccamento maggiore per l'ordine stabilito. L'amor patrio conduce ai buoni costumi, e i buoni costumi all'amor patrio. Meno ci è dato di soddisfare le nostre pas­ sioni particolari, più ci abbandoniamo alle generali. Perchè mai i monaci amano tanto il loro ordine ? per la medesima ragione appunto che glielo rende insopportabile. La regola loro li priva di tutte quelle cose sulle quali si appoggiano le passioni ordinarie: non resta dunque che quella passione per la regola che li tormenta. Più questa è austera, più nume­ rose ctoe sono le inclinazioni che essa toglie loro, tanto più grande è la forza che lascia alle rimanenti.

CAPO I I I . Che cosa sia l'amore della repubblica nella democrazia.

In· una democrazia, l'amore per la repubblica non è altro che l'amore per la democrazia; e questo è l'amore per l'eguaglianza 2, il quale è, a sua volta, amore per la frugalità. Siccome vi devono esistere felicità e vantaggi eguali per tutti, ciascuno, nelle democrazie, deve gustare i medesimi piaceri e nutrire le medesime speranze; cosa che solo una generale frugalità può dare. L'amore per l'eguaglianza, in una democrazia, limita l'ambizione al solo desiderio, alla sola felicità di rendere alla patria servigi maggiori degli altri cittadini. Tutti non possono renderle dei servigi eguali, ma in ogni modo tutti devono servirla. Al momento della nascita politico siano degradati da oggetto di scienza a mero sentimento, con­ trariamente a quanto avveniva in Grecia e a Roma. La contraddizione è più apparente che sostanziale, poichè nei primi due passi Montesquieu considera il sentimento (la virtù) come forza politica, mentre nelle Pensées lo confronta con il sapere scientifico nel campo della indagine politica. I . Cioè gli uomini d'onore, come ha detto prima, cfr. IV, 2 . 2 . I l rapporto fra spirito di eguaglianza e regime repubblicano era già stato sottolineato da Machiavelli, cfr. Discorsi, l, 55· »

LIBRO QUINTO

1 17

si contrae verso di essa un debito immenso, del quale è impossibile liberarsi mai. Pertanto le distinzioni vi nascono dal principio dell'eguaglianza r, nel medesimo istante in cui pare che dei servigi fortunati, dei talenti superiori la levino di mezzo. L'amore per la frugalità limita il desiderio di possedeTe all'applicazione richiesta dalla ricerca del necessario per la famiglia, o persino del superfluo per la patria. Le ricchezze offrono una potenza di cui i! cittadino non può usare per sè, poichè così non sarebbe eguale agli altri. E procurano delle delizie delle quali, del pari, egli non deve godere, poichè urterebbero il senso dell'eguaglianza. Quindi le buone democrazie, con lo stabilire la frugalità domestica, hanno aperto la porta alle spese pubbliche, come avvenne ad Atene e a Roma. Allora la magnificenza e l'abbondanza nascevano dalla frugalità stessa; e, come la religione vuole che, per porgere le offerte agli dèi, si abbiano le mani pure, così le leggi imponevano che, per offrire alla patria, si avessero dei costumi frugali. Il buon senso e la felicità dei privati consiste in gran parte nella mediocrità dei talenti e delle fortune. Una repubblica, in cui le leggi avranno formato molte persone mediocri, composta di individui saggi, si governerà saviamente; composta di individui felici, sarà essa pure molto felice.

CAPO IV. Come ispirare l'amore per l'eguaglianza e per la

frugalità.

Sono l'eguaglianza e la frugalità medesime, quando si vive in una società dove le leggi le hanno stabilite ambedue, ad ispirare un amore fortissimo verso di loro. Nelle monarchie e negli Stati dispotici nessuno aspira all'eguaglianza; è una cosa che non viene neanche in mente; ognuno tende alla 1 . Cfr. Pensées, I, p. 509, n. 785 ( r 8 r 5): « Quando in una nazione la nascita e gli onori non dànno autorità, ciascuno cerca un'autorità naturale che è quella del merito personale •.

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superiorità. Gli individui delle condizioni più basse non desiderano di uscirne che per spadroneggiare sugli altri. Lo stesso accade per la frugalità; per amarla bisogna goderne. Non coloro che le delizie corrompono ameranno la vita frugale; e, se ciò fosse stato naturale e consueto, l'universo intero non avrebbe ammirato Alcibiade 1• E nemmeno ame­ ranno la frugalità coloro che invidiano ed ammirano il lusso altrui: coloro che hanno davanti agli occhi soltanto i ricchi, oppure i miserabili come loro, detestano la propria miseria senza nè amare nè conoscere ciò che ad essa pone termine. Dunque una massima assai vera è questa: che, per essere amate in una repubblica, l'eguaglianza e la frugalità deb­ bono essere state istituite dalle leggi.

CAPO

V. Come fanno le leggi ad istituire l'eguaglianza nella democrazia.

Alcuni antichi legislatori, quali Romolo e Licurgo, divi­ sero le terre in parti eguali; cosa che poteva avvenire sol­ tanto al momento della fondazione di una repubblica nuova, oppure quando l'antica legge era tanto corrotta, e gli animi così disposti, che i poveri si credevano obbli�ati a cercare ed i ricchi a sopportare un rimedio siffatto. Se, operando una divisione simile, il legislatore non crea anche delle leggi per mantenerla, non fa che una costituzione passeggera: dal lato che le leggi non difendono, penetrerà l'ineguaglianza e la repubblica sarà perduta. Occorre quindi regolare le doti delle donne, le donazioni, le successioni, i testamenti, ogni categoria, insomma, di contratti. Poichè, se f6sse lecito donare i propri beni a chi e come ci aggrada, ogni volontà particolare turberebbe la disposizione della legge fonda­ mentale z. I . Cfr. PLUTARCO, A :cibiades, 203 b. Si noti però che Plutarco parla solo dell'ammirazione che gli Spartani provarono per Alcibiade allorchè lo videro conformarsi alle loro leggi. 2 . Cfr. Pensées, I I I , fol. 1 02, n. 1837 (262) in cui riporta le critiche di ARISTOTELE alla costituzione spartana (Politica, II, 1 2 70 a), la quale,

LIBRO QUINTO

Solone, il quale in Atene permetteva di disporre dei propri beni a piacimento, purchè non ci fossero figli •, con­ traddiceva le antiche leggi, secondo le quali i beni dovevano restare nella famiglia del testatore b. Egli contraddiceva pure le sue, poichè aveva cercato l'eguaglianza grazie alla soppressione dei debiti. Legge buona per la democrazia era quella che vietava di ricevere due eredità Essa traeva origine dalla divisione delle terre in parti eguali e dalle porzioni date ad ogni cit­ tadino. La legge non aveva voluto che un uomo solo posse­ desse più porzioni. Origine analoga aveva la legge secondo la quale il parente più prossimo doveva sposare l'ereditiera. Noi la troviamo presso gli Ebrei 1, dopo una simile divisione. Anche Platone d, il quale fonda su quella divisione le proprie leggi, ne parla; ed era una legge ateniese. In Atene esisteva una legge, della quale credo che nessuno abbia conosciuto il senso. Era lecito sposare la sorella consanguinea z, non quella uterina Questa usanza traeva la propria origine •.

•.

a. PLUTARCO, Vita di Salone [go a]. b. Ibid. c. Filolao di Corinto stabilì ad Atene 3 che il numero dei lotti di terreno e quello delle eredità fossero sempre eguali. ARISTOTELE, Politica, Il, I2 [1274 b) . d. Republica, lib. VIII •. e. CoRNELIO NEPOTE, in praefat 5 • Questa usanza risale ai tempi più antichi. Infatti Abramo dice di Sara: « essa è mia moglie, figlia di mio padre e non di mia madre )) 6. Identiche dopo aver stabilita l'eguaglianza e proibito gli acquisti e le vendite, aveva lasciato la facoltà di testare o di far donazioni, ciò che distruggeva la eguaglianza. 1 . Cfr. Numeri, XXXVI, 6-8, dove però è detto soltanto che le figlie di Salphaad dovranno sposarsi con uomini della stessa tribù perchè l'ere· dità resti nella famiglia. 2. In Pensées, III. tal. 74. n. 1 791 (360) nota, sulla fede di PLUTARCO (Dio, 960 c), che anche a Siracusa i fratelli consanguinei si sposavano fra loro. 3· Non a Atene ma a Tebe. 4· Nel libro VI l i della Republica non ho trovato accenno alcuno a questa legge, di cui PLATONE parla invece in Leges, XI, 924 e 925 a. 5 · In realtà Cornelio riferisce soltanto che Cimone sposò sua sorella germana senza parlare della proibizione di sposare la· sorella uterina. 6. Genesi. XX, 12. -

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dalle repubbliche che non volevano mettere sul medesimo capo due porzioni di fondo terriero, e quindi due eredità. Un individuo, quando sposava la propria sorella per parte di padre, non poteva ricevere che un'eredità sola, quella del padre suo; ma quando sposava la propria sorella uterina, allora poteva capitare che il padre di quella sorella, privo di figli maschi, la facesse sua erede, e che allora il fratello, che l'aveva sposata, ricevesse due eredità. Che non mi si obbietti ciò che dice Filone a, che cioè, sebbene in Atene fosse lecito sposare la propria sorella con­ sanguinea, ma non quella uterina, a Sparta avveniva il contrario. Trovo infatti in Strabone h che quando a Sparta una sorella sposava il proprio fratello, riceveva in dote la metà della porzione del fratello. Questa seconda legge era stata creata, è chiaro, onde prevenire le cattive conseguenze della prima. Onde impedire che i beni della famiglia della sorella passassero in quella del fratello, si dava in dote alla sorella la metà dei beni del fratello. Parlando di Silano che aveva sposato la sorella 1, Seneca c dice che in Atene la licenza era ristretta, ma in Alessandria generale. Sotto il governo di uno solo, non si parlava nemmeno di mantenere la divisione dei beni. Per mantenere questa divisione delle ragioni avevano fatto istituire una identica legge presso popoli diversi. a. De specialibus legibus quae pertinent ad praecepta Decalogi 2 • b. Lib. X [cap. 4] 3• c. A thenis dimidium licet, A lexandriae totum. SENECA, [Ludus] de morte Claudii [cap. 8, 93]. I . Seneca parlando di Silano allude soltanto ad un commercio ince­ stueso ma non ad un vero matrimonio ( « ... sororem festivissimam omnium puellarum. quam omnes Venerem vocabant, maluit junonem vocare •) . I l matrimonio tra fratelli era sconosciuto a Roma, come lo dimostra il passo precedentemente citato di Cornelio il quale, a proposito del matrimonio di Cimone, dice appunto che esso era considerato come nefas a Roma. In merito a Silano, inoltre, TACITO esclude anche l'accusa di incesto, cfr. Annales, XII, 4· 2. Trattasi del De specialibus legibus quae referuntur ad duo Decalogi capita, se:ftum septimumque ecc., cfr. Philonis Iudaei omnia quae e:ftant opera, p. 779 e (Parigi, 1 640), che è l'edizione usata da Montesquieu, cfr. infatti XXVI, 1 4, vol. Il, p. 161, nota a. 3· Strabone, in realtà, parla delle leggi di Creta e non di Sparta.

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terre in una democrazia, una legge buona era quella che voleva che un pagre di numerosa prole, scegliesse uno dei figli quale erede della sua porzione a, e desse gli altri in adozione a un uomo senza figli, affinchè il numero dei cit­ tadini potesse sempre mantenersi eguale a quello delle divisioni. Falea di Calcedonia b aveva escogitato un sistema per rendere eguali le fortune nelle repubbliche dove non lo erano: i ricchi avrebbero dato ai poveri delle doti e non ne avrebbero ricevute, ed i poveri non avrebbero dato nulla, ma avrebbero ricevuto denaro per le loro figlie. Io però ignoro se una repubblica si sia mai adattata ad un regola­ mento simile, il quale impone ai cittadini delle condizioni di una diversità così impressionante, da far loro odiare quell'eguaglianza stessa che si cercherebbe di introdurre. È bene che qualche volta le leggi non abbiano l'aria di andare troppo dirittamente allo scopo che si propongono. Sebbene nella democrazia l'eguaglianza reale sia l'anima dello Stato, essa è tuttavia così difficile da stabilire che un'estrema esattezza al riguardo non sempre conviene. Basta stabilire un censo c che fissi o riduca le differenze a un certo livello; dopo di che còmpito di leggi particolari sarà lo spianare, per intenderei, le ineguaglianze, mediante i pesi che impongono ai ricchi ed il sollievo che accordano ai poveri. Soltanto le ricchezze mediocri sono in grado di dare o di sopportare questo genere di compensi; poichè le fortune esorbitanti si sentono insultate se non ricevono potenza e onori a sufficienza. Ogni ineguaglianza nella democrazia deve essere tratta a. Platone ha fatto una legge del genere, lib. III delle Leggi [ma V, 740 b-e] . b. ARISTOTELE, Politica, II, 7 [1266 b] . c. Salone istituì quattro classi: la prima composta da coloro che avevano cinquecento mine di reddito, sia in grano che in frutti liquidi; la seconda di coloro che ne avevano trecento e potevano mantenere un cavallo; la terza di coloro che non ne avevano che duecento; la quarta di tutti coloro che vivevano del lavoro delle loro braccia. PLUTARCO, Vita di Solone [87 e-88 a].

122

PARTE PRIMA

dalla natura della democrazia e dallo stesso principio del­ l'eguaglianza. Si ha ragione di temere, per esempio, che chi per vivere ha bisogno di un lavoro continuato venga troppo impoverito dall'esercizio di una magistratura, oppure che ne trascuri le funzioni; che gli artigiani si insuperbiscano; che i liberti, troppo numerosi, divengano più potenti dei citta­ dini di vecchia data. In casi come i precedenti, per il bene della democrazia, l'eguaglianza fra i cittadini • può essere abolita. È però solo una apparente eguaglianza che viene abolita, giacchè un individuo rovinato dall'esercizio di una magistratura si troverebbe in condizioni meno buone dei suoi concittadini; e colui il quale fosse costretto a trascu­ rarne le funzioni, metterebbe gli altri cittadini in una con­ dizione peggiore della sua; e così di sèguito.

CAPO VI. Come nella democrazia le leggi debbano conservare la frugalità. In una buona democrazia non basta che le porzioni di terra siano eguali, ma, come presso i Romani, esse devono pure èsser piccole: « A Dio non piaccia - diceva Curio ai suoi soldati b - che la terra sufficiente a nutrire un uomo, sembri poca a un cittadino! •). Come l'eguaglianza dei beni conserva la frugalità, così la frugalità conserva l'eguaglianza dei beni. Ambedue, per quanto diverse, sono tali tuttavia che non possono sussistere l'una senza l'altra; ognuna è la causa e l'effetto: se una si ritira dalla democrazia, l'altra la segue sempre. È vero che, quando la democrazia si fonda sul commercio, alcuni cittadini possono benissimo esser molto ricchi, ed i costumi non corrotti. Ma ciò avviene, a. Solone escluse dalle cariche tutti coloro che appartene­ vano al quarto censo 1 • b. I quali richiedevano una porzione maggiore delle terre conauistate. PLUTARCo, Opere morali, Vite di re e capitani antichi [Manii Curii, I] . I. Cfr. PLUTARCO, Solon, 88 a

e

ARISTOTELE, Politica,

Il, I274

a.

LIBRO QUINTO

perchè lo spirito commerciale reca con sè lo spirito della frugalità, qell'economia, della moderazione, del lavoro, della saggezza, ,della tranquillità, dell'ordine e del metodo 1. Così finchè dura uno spirito siffatto, le ricchezze ch'esso produce non dànno effetti cattivi. Il male sopravviene quando l'ec­ cesso della ricchezza uccide lo spirito commerciale; allora noi vediamo nascere all'improvviso i disordini dell'inegua­ glianza, che ancora non si erano manifestati. Per mantenere questo spirito, occorre che i principali cittadini esercitino il commercio di persona; che esso regni da solo, senza che un altro lo intralci; che tutte le leggi lo favoriscano; che queste leggi, con le disposizioni loro, dividano le fortune, man mano che il commercio le fa crescere, e diano al cittadino povero un'agiatezza sufficiente da permettergli di lavorare come gli altri, a quello ricco una situazione tanto mediocre da obbligarlo a lavorare, sia che voglia conservare, sia che voglia arricchire. Ottima, in una repubblica commerciante, è quella legge che, nella successione del padre, dà a tutti i figli una porzione eguale. Avviene così che, qualunque sia la fortuna che il padre si è fatta, i figli, sempre meno ricchi, sono portati a fuggire il lusso e a lavorare come lui ha lavorato. Io parlo soltanto delle repubbliche commercianti, poichè per le altre il legislatore deve provvedere dei regolamenti ben diversi In Grecia vi erano due specie di repubbliche: militari, come Sparla, commercianti, come Atene. Nelle prime si volevano dei cittadini oziosi, nelle seconde si cercava di ispirare l'amore per il lavoro. Solone dell'ozio fece un crimine e volle che ogni cittadino rendesse conto di come si guadagnava da vi­ vere 2. Infatti in una buona democrazia, dove è lecito spen­ dere soltanto per il necessario, ognuno ha il diritto di averlo; da chi infatti lo riceverebbe ? a.

a.

Vi si devono limitare molto le doti delle donne

I. Cfr. XX, r . 2 . Cfr. Pl.. UTARCO, Solon, go e . 3· Cfr. quanto ARISTOTELE (Polilica, II, sito di SpJ.rta..

1270

a ) osservava

l,

a

propo­

124

PARTE PRIMA

CAPO VII. Altri mezzi per favorire il principio della democrazia.

È impossibile stabilire una divisione eguale delle terre in tutte le democrazie. Date certe circostanze, una disposi­ zione simile risulterebbe impraticabile, pericolosa e offen­ derebbe la costituzione stessa. Non si è sempre costretti a scegliere le vie estreme. Se si vede, in una democrazia, che questa divisione, destinata a conservare i costumi, non conviene, si deve ricorrere ad altri mezzi. Se si stabilisce un corpo fisso, il quale di per sè serva da regolatore dei costumi, un senato a cui diano accesso l'età, la gravità, la virtù, i servizi resi; i senatori, esposti al popolo come simulacri degli dèi, ispireranno un genere di sentimenti, che ogni famiglia porterà in seno. Questo senato deve soprattutto stare attaccato alle antiche istituzioni e badare a che popolo e magistrati non se ne allontanino mai. Circa i costumi, a conservare gli usi antichi si guadagna molto 1. Siccome i popoli corrotti, di rado compiono grandi imprese e mai hanno creato società, fondato città, nè dato leggi; e siccome invece la maggior parte delle istituzioni è stata data da chi aveva costumi semplici e austeri, ricordare agli uomini le antiche massime, vuol dire di solito ricondurli alla virtù. Non solo, ma se c'è stata una rivoluzione, se allo Stato si è data una forma nuova, ciò è avvenuto solo in sèguito a pene, a travagli infiniti, di rado in mezzo all'ozio e ai costumi corrotti. Coloro medesimi i quali hanno fatto la rivoluzione, hanno voluto che essa fosse apprezzata, e solo grazie a delle buone leggi ci sono riusciti. Le antiche istituzioni son dunque di solito delle correzioni; e le nuove, degli abusi. Nel corso di un lungo governo, si scivola verso il male per una china insensibile, e solo grazie ad uno sforzo si risale al bene. Si è discusso se i membri del senato di cui parliamo debbano essere a vita oppure scelti per un dato periodo. 1 . Cfr. Lettres Persanes, CXXIX. Già PLATONE (Leges, V, 738 b-e) aveva messo in guardia i legislatori dà! modificare le antiche- usanze, per Io più fondate su motivi religiosi; a questo passo fa riferimento MoN­ TESQUIEU in Spici/ège, p. 1 29.

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Sparta b, A vita, senza dubbio, come si faceva a Roma ed anche ·ad Atene. Non confondiamo, infatti, quello che in Atene chiamavano senato, il quale mutava ogni tre mesi, coll'areopago, i cui membri venivano designati a vita quali modelli perpetui. Massima generale: in un senato creato per essere la regola e, diciamo, il deposito dei costumi, i senatori debbono venire eletti a vita; invece in un senato eletto per preparare gli affari, possono mutare. Lo spirito, dice Aristotele, invecchia come il corpo ' · Questa riflessione vale soltanto nel caso del magistrato unico e non la si può applicare ad un'assemblea di senatori. Oltre all'areopago esistevano in Atene dei custodi dei costumi e dei custodi delle leggi A Sparta tutti i vecchi erano censori. A Roma la censura veniva esercitata da due magistrati particolari. Come il senato vigila il popolo, così i censori devono vigilare popolo e senato. Essi devono ristabilire nella repubblica tutto ciò che è stato corrotto; prender nota delle tiepidezze, giudicare le negligenze, e correggere gli sbagli, come le leggi puniscono i crimini 2. La legge romana secondo la quale l'accusa di adulterio doveva esser pubblica 3, serviva in modo mirabile a conservare la purezza dei costumi: essa faceva paura tanto alle donne quanto a coloro che dovevano vegliare su di esse 4• a,

•.

a. I magistrati vi erano annuali e i senatori a vita. b. (( Licurgo - dice SENOFONTE, De republ. Lacedaem. [capi­ tolo ro] - volle che si eleggessero i senatori fra gli anziani perchè questi non si risparmiassero nemmeno alla fine della vita; e facendone dei giudici del coraggio dei giovani, Licurgo ha reso la vecchiaia di quelli più onorevole della forza di questl )), c. Lo stesso areopago era sottoposto alla censura. I. Politica, II, 1 2 70 b. Questa osservazione di Aristotele gli serviva proprio per criticare l'istituzione di un senato a vita a Sparta. 2. Sui censon e sulla loro utilità in un regime democratico, cfr. Con­ sidérations, cap. 8, in cui la loro funzione viene paragonata a quella del Parlamento inglese. 3· Cioè permessa a tutti. 4· Cfr. VII, IO.

126

PARTE PRIMA

Nulla serve tanto a mantener puri i costumi quanto una subordinazione estrema dei giovani rispetto ai vecchi. Gli uni e gli altri ne saranno frenati: i primi per il rispetto che avranno verso i vecchi, i secondi per il rispetto che avranno di se stessi 1 . Nulla conferisce maggior forza alle leggi della subordi­ nazione dei cittadini ai magistrati. . Il popolo cade ip. questa sventura quando coloro ai quali si affida, volendo nascondere la propria corruzione, cercano di corromperlo. Perchè esso non veda la loro ambizione, non gli parlano che della sua grandezza; perchè non si ac­ corga della loro avarizia, adulano continuamente la sua. La corruzione non farà che aumentare tra i corruttori, ed aumenterà tra coloro i quali sono già corrotti. Il popolo avocherà a se stesso tutte le ricchezze pubbliche e, quando avrà aggiunto al proprio ozio la gestione degli affari, vorrà aggiungere alla propria povertà, i divertimenti concessi dal lusso. Ma, col suo ozio e il suo lusso, non ci sarà che il pub­ blico tesoro sufficiente alle sue brame. Non bisognerà meravigliarsi vedendo che i suffragi si dànno in cambio di danaro. Non si può dare molto al popolo r. Simposium, cap.

561 e.

4;

cfr, anche

PLATONE, Republica, VIII, 5 5 7 c-

LIBRO OTTAVO

2II

senza trame ancora di più; ma, per trarre molto dal popolo, bisogna rovesciare lo Stato. Più sembrerà che tragga van­ taggi dalla propria libertà, e più si avvicinerà il momento in cui dovrà perderla. Sorgono piccoli tiranni che hanno tutti i vizi di uno solo. Presto quel po' di libertà che rimane diviene insopportabile: si fa strada un solo tiranno, e il popolo perde ogni cosa, compresi i vantaggi della sua corruzione. La democrazia deve dunque evitare due eccessi: lo spirito di diseguaglianza, che porta al governo aristocratico o a quello di un solo; e lo spirito di eguaglianza estrema, che la conduce al dispotismo di un solo, così come questo finisce con la conquista. È vero che coloro i quali corruppero te repubbliche greche non divennero sempre dei tiranni. Ma essi si erano dedicati più all'arte dell'eloquenza che a quella militare 1, senza contare che c'era nel cuore di tutti i Greci un odio implacabile contro chi volesse distruggere il governo repub­ blicano: ecco perchè l'anarchia si tramutò in sfacelo anzichè in tirannide. Ma Siracusa, che si trovò in mezzo a un grande numero di piccole oligarchie tramutate in tirannidi •, Siracusa, che aveva un senato b del quale non si è quasi mai fatta men­ zione nella storia, provò sventure che la corruzione ordinaria non reca. Questa città, sempre nella licenza o nell'oppresc

a. Si veda PLUTARCO, nelle vite di Timoleonte [236 b-e] e di Dione 2• b. È il senato dei seicento di cui parla DIODORO [XIX, sJ . c . Avendo cacciato i tiranni, fecero cittadini degli stranieri e dei soldati mercenari, ciò che fu causa di guerre civili. ARI­ STOTELE, Politica, lib. V, cap. 3 [1303 b] . Causa della vittoria sugli Ateniesi essendo stato il popolo, l'assetto della repubblica venne mutato. Ibid., cap. 4 [1304 a] . La passione di due giovani magistrati, di cui l'uno rapi all'altro un giovanetto e il secondo corruppe la moglie del primo, fece mutare la forma di quella repubblica. Ibid., lib. VII, cap. 4 [ma V, 1303 b]. I. È quanto aveva già notato ARISTOTELE, cfr. Politica, V, 1305 b. 2. Tn realtà nella Vita di Dione si parla solo della tirannide siracusana.

212

PARTE PRIMA

sione, travagliata egualmente dalla sua libertà e dalla sua schiavitù, scossa sempre dall'una e dall'altra come da una tempesta e, nonostante la sua potenza all'esterno, spinta sempre a una rivoluzione dalla più piccola fazione straniera, aveva nel suo seno un popolo numeroso, che non ebbe mai altra alternativa se non quella crudele di darsi un tiranno o di esserlo esso stesso 1. CAPO III. Dello spirito di estrema eguaglianza.

Quanto il cielo è lontano dalla terra, tanto il vero spi­ rito di eguaglianza lo è da quello di eguaglianza estrema. Il primo non consiste affatto nel fare in modo che tutti comandino o che nessuno venga comandato, ma nell'obbe­ dire e nel comandare ai propri eguali. Siffatta eguaglianza non cerca di non avere affatto dei capi, ma di avere soltanto degli eguali per capi. Nello stato di natura, gli uomini nascono sì in condizione di eguaglianza; ma non potrebbero rimanervi. La società fa loro perdere questa condizione, ed essi non ridivengono eguali che in grazia delle leggi z. Tale è la differenza tra la democrazia regolata e quella che non lo è, che, nella prima si è eguali solo come cittadini, e nella seconda anche come magistrati, come senatori, come giudici, come genitori, come mariti, come padroni. Il posto naturale della virtù è presso la libertà; ma essa non si trova in misura maggiore presso la libertà estrema che presso la schiavitù J. I . Cfr. PLATONE, Republica, VIII, 562 a-d e CICERONE, De republica, l , 43-4 4· 2. Cfr. l, 2-3. È palese la polemica con HoBBES che nel De Cive (cap. I ,

§ 3 ) afferma:



Dunque tutti gli uomini sono per natura uguali tra loro.

La disuguaglianza che ora si scorge è stata introdotta dalle leggi civili 11; l'affermazione di Montesquieu sarà ripresa da RoussEAU nel Contrai Social (I, g) . - Nel Ms. segue quindi un cpv. cancellato cosi concepito:

« L'eguaglianza politica consiste soprattutto nel non poter fare che ciò che le leggi permettono • (II, fol. 50 vo), la cui affinità con la definizione della libertà contenuta nel cap. XI, 3 è evidente. 3· Nel Ms. (II, fol. 5 1 v0) segue quindi un cpv. cancellato che è diven­ tato, con una lieve differenza formale, il secondo cpv. di Xl, 3·

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213

CAPO IV. Causa particolare della corruzione del popolo. I grandi successi, soprattutto quelli ai quali il popolo contribuisce in misura notevole, gli dànno un tale orgoglio che non è più possibile governarlo. Geloso dei magistrati, lo diviene anche della magistratura; nemico dei governanti, lo è ben presto anche della costituzione. È così che la vittoria di Salamina riportata sui Persiani corruppe la repubblica ateniese a; è così che la disfatta degli Ateniesi mandò in rovina la repubblica di Siracusa b. La repubblica di Marsiglia non esperimentò mai questi passaggi dall'avvilimento alla grandezza: così si governò sempre con saggezza, e conservò intatti i propri princìpi.

CAPO V. Della corruzione del principio dell'aristocrazia. Il governo aristocratico si corrompe allorquando il potere dei nobili diviene arbitrario: non può più esistervi allora virtù nè in quelli che governano, nè in quelli che sono governati. Quando le famiglie regnanti osservano la legge, è come se si trattasse di una monarchia con parecchi monarchi, ottima per sua natura; quasi tutti questi monarchi sono rispettosi della legge. Ma quando esse non la rispettano, è come se si trattasse di uno Stato dispotico dominato da parecchi tiranni. In questo caso, la repubblica non esiste che per i nobili, e tra di loro soltanto. Essa è nel corpo che governa, mentre lo Stato dispotico è nel corpo che vien governato: ciò che dà origine ai due più disuniti corpi del mondo. La corruzione estrema si verifica quando le cariche divengono ereditarie c: i nobili non hanno più ritegno. Se a. ARISTOTELE, Politica, lib. V, cap. 4 [1304 a]. b. lbid. c. L'aristocrazia si muta in oligarchia 1 . I . Cfr. PLATONE, Republica, VIII, 550 d-e, dove si afferma che I'oli­ garchia nasce dal troppo amore delle ricchezze private a scapito della virtù.

PARTE PRIMA

sono in piccolo numero, il loro potere è più grande, ma la loro sicurezza diminuisce; se essi sono in numero maggiore, il loro potere è più ridotto, ma la loro sicurezza più grande: così che il potere va crescendo, e la sicurezza diminuendo, fino a giungere al despota, che raccoglie in sè il massimo di potere e di rischio. Il gran numero di nobili nell'aristocrazia ereditaria renderà dunque il governo stesso meno violento; ma, poichè vi sarà scarsa virtù, si cadrà in uno spirito di noncuranza, di ozio, di abbandono a, tale che lo Stato non avrà più nè forza nè autorità 1 • Una aristocrazia può mantenere la forza del suo prin­ cipio, se le leggi sono tali da far sentire ai nobili i rischi e le fatiche del comando, piuttosto che le sue delizie, e se lo Stato è in tale situazione da aver qualcosa da temere, in modo che la sicurezza venga dall'interno, e l'incertezza dall'esterno. Poichè una certa fiducia in sè fa la gloria e la sicurezza di una monarchia, bisogna al contrario che una repubblica abbia qualcosa da temere b. Il timore dei Persiani servì a mantener salde le leggi presso i Greci. Cartagine e Roma si tennero a bada vicendevolmente, e si rinsaldarono. Sin­ golare vicenda! Più questi Stati sono sicuri, più, come acque tranquille, sono soggetti alla corruzione. a. Venezia è una delle repubbliche che meglio ha corretto, con le sue leggi, gli inconvenienti dell'aristocrazia ereditaria 2. b. Giustino attribuisce alla morte di Epaminonda la fine della virtù ad Atene. Non essendo più sospinti dall'emulazione, gli Ateniesi dissiparono tutte le loro entrate in feste, frequentius coenam quam castra visentes. Da quel momento i Macedoni usci­ rono dall'oscurità (lib. VI [cap. g]) .

r . Il Ms. (II, fol. 5 4 v0) cosi continua: " In queste condizioni si trova la maggior parte delle aristocrazie italiane periodo poi cancellato. 2. Cfr. AMELOT DE LA HoussAYE, Histoire du gouvernement de Venise, cit., I. p. 48. "•

215

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CAPO V I .

Della corruzione del principio della monarchia.

Come le democrazie vanno alla rovina quando il popolo esautora il senato, i magistrati e i giudici, le monarchie si corrompono quando si tolgono poco per volta le prerogative degli ordini 1 e i privilegi delle città. Nel primo caso, si va verso il dispotismo di tutti; nell'altro, verso il dispotismo di un solo z. . L'autore cinese ci dà qui la causa della corruzione di quasi tutte le monarchie. La monarchia 3 si perde quando un principe crede di poter mostrare maggiormente la propria potenza mutando l'ordine delle cose invece che rispettandolo, quando priva gli uni delle loro funzioni naturali, per conferirle ad altri arbitrariamente, e quando antepone le proprie fantasie alla sua volontà. La monarchia va in rovina quando il principe, avocando ogni cosa a se stesso, restringe lo Stato alla capitale, la capitale alla corte, la corte alla propria unica persona 4. -

a. Compilazione di opere fatte sotto p. Du HALDE [tomo Il, p. 648].

i

Ming, riportate dal

I. Nel Ms. (II, fol. 56) si ha " ordini intermedi

•.

2 . In un passo delle Pensées (III, foll. 52-53, n. 1 735 [263]) , esami­

nando le cause della decadenza delle monarchie, Montesquieu pone in primo piano la perdita della libertà, mancando la quale i vari corpi e le varie classi finiscono col distaccarsi dalle loro funzioni. 3· Nel Ms. (II, foll. 57-58) l'intero cpv. ha la seguente lezione: « La monarchia si perde allorchè il principe vuoi fare tutto di persona, o quando i suoi ministri si servono del suo nome per fare tutto; allorchè si preoccupa dei dettagli; allorchè là dove non è in grado di agire, non vuole che si �sca, e là dove non può esaminare, non vuole che si esamini ; allorchè crede di mostrare maggiormente la sua potenza nel mutare l'ordine delle cose che nel segmrlo; allorchè toglie le funzioni naturali degli impieghi per darle arbitrariamente ad altri; allorchè è troppo geloso dei suoi tribu­ nali e dei suoi grandi e non abbastanza del suo Consiglio; in una parola allorchè è più preoccupato delle sue fantasie che delle sue volontà ». 4· Evidente allusione a Luigi XIV.

216

PARTE PRIMA

Infine essa va in rovina quando un principe disconosce la propria autorità, la propria posizione, l'amore del suo popolo, e quando non si rende ben conto che un monarca deve sempre considerarsi al sicuro, come un despota deve credersi in pericolo.

CAPO V I I . Continuazione del medesimo argomento. Il principio della monarchia si corrompe quando le pm alte cariche sono simbolo di massima servitù, quando si toglie ai grandi il rispetto dei popoli, e quando li si rende vili strumenti di un potere arbitrario. Si corrompe ancora di più quando l'onore è posto in contraddizione con gli onori, e quando si può essere al tempo stesso coperti d'infamia • e di cariche ' · Si corrompe quando il principe muta la propria giustizia in severità; quando si pone sul petto, come gli imperatori romani, una testa di Medusa b; quando assume quell'aspetto minaccioso e terribile che Commodo faceva conferire alle proprie statue c. a. Sotto il regno di Tiberio vennero innalzate delle statue e vennero concessi gli ornamenti trionfali ai delatori, ciò che svili talmente questi onori che coloro i quali li avevano meritati li sdegnarono. Framm. di DIONE, lib. LVIII [cap. 14] , tratto dal­ l'Estratto delle virtù e dei vizi di COSTANTINO PORFIROGENITO. Si veda in Tacito come Nerone, in base alla scoperta e alla puni­ zione di una pretesa congiura, concesse a Petronio Turpiliano, a Nerva, a Tigellino le insegne trionfali. A nna!. , lib. XIV [cap. 72] . Si veda del pari come i generali sdegnarono di fare la guerra, poichè ne disprezzavano gli onori. Pervulgatis triumphi insignibus. TACITO, Annal., lib. XIII [cap. 53] . b. In un simile Stato, il principe sapeva bene quale era il principio del suo governo. c. ERODIANO [Hist., lib. I]. 1 . Cfr. PLATONE, Republica, VIII, 567 d-e, dove si afferma che il tiranno è costretto a vivere • tra una folla di uomini dappoco » e circon­ dato da schiavi liberati.

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217

Il princ1p10 della monarchia si corrompe quando degli animi particolarmente vili si vantano della grandezza che potrebbe avere la loro servitù, e quando essi credono che, per il fatto che devono tutto al principe, non debbano nulla alla patria. Ma, se è ver-o (e lo si è visto in tutte le epoche) che a mano a mano che il potere del monarca diviene grande la sua sicurezza diminuisce, corrompere questo potere fino a mutarne la natura, non è forse un delitto di lesa maestà ?

CAPO VIII. Rischi della corruzione del principio della monarchia. Non si hanno inconvenienti quando lo Stato passa da un governo moderato ad un altro governo moderato, come dalla repubblica alla monarchia '· o dalla monarchia alla . repubblica; ma quando cade e si precipita dal governo mo­ derato al dispotismo. I popoli d'Europa, nella loro maggioranza, sono ancora governati dai costumi. Ma se, a causa di un lungo abuso di potere, o per una grande conquista, a un certo punto si stabilisse un regime dispotico, non varrebbero nè costumi nè clima; e, in questa bella parte del mondo, la natura umana dovrebbe soffrire, almeno per un certo tempo, gli stessi affronti che le vengono fatti nelle altre tre 2.

1 . In Lettres Persanes, CII aveva affermato che la monarchia « è una condizione politica violenta che degenera sempre nel dispotismo o nella repubblica •. ooichè l'equilibrio di potenza fra sovrano e popolo è ben difficile. Nell' Esprit des Lois invece l'ideale della monarchia temperata acquista ben altra forza. 2. Il Ms. (II, foll. 6I v0-62) cosi continua: « E non si considerino come chimerici mutamenti di tal fatta! Non abbiamo forse visto ai nostri giorni interamente mutato il Diritto delle Genti, e la Germania stupita di un nuovo genere di guerra ch'essa non conosceva ? In margine Montesquieu aveva apl_l osto la seguente nota cancellata: « Nel I 74I e I 742. Guerra di E interessante paragonare l'opinione espressa nel testo, cosi Slesia diversa da uno dei principi fondamentali del pensiero di Montesquieu, quello che le leggi dipendono dagli elementi spirituali e fisici della natura umana, con l'analoga opinione espressa nel passo delle Pensées citato alla nota I del cap. VII, I ], p. 2ò7. •·

•.

218

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CAPO IX. Come la nobiltà è portata a difendere il trono. La nobiltà ' inglese si seppellì con Carlo I sotto i resti del trono; e, qualche tempo prima, quando Filippo II fece suonare alle orecchie dei Francesi la parola libertà, la corona fu sempre sostenuta da questa nobiltà che è attaccata al­ l'onore di servire un re, ma che ritiene infamia imperdona­ bile dividere il potere col popolo. Si 2 è visto come la casa d'Austria si sia adoperata senza posa per schiacciare la nobiltà 3 ungherese. Essa ignorava di quale utilità le sarebbe stata un giorno. Essa cercava presso quei popoli delle ricchezze che non esistevano, e non vi vedeva gli uomini che, invece, c'erano. Quando tanti prìncipi si spartivano i suoi Stati, quando tutte le parti della monarchia, immobili e senza vita, cadevano, per così dire, le une sulle altre; non c'era più vita che in questa nobiltà, la quale si indignò, dimenticò tutto per combattere, e pensò che la sua gloria consisteva nel perire e nel perdonare 4. CAPO X. Della corruzione del principio del governo dispotico. Il principio del governo dispotico si corrompe continua­ mente, perchè è corrotto per sua stessa natura s. Gli altri governi periscono, perchè delle vicende particolari ne com­ promettono il principio: questo perisce per il suo vizio in­ terno, a meno che qualche causa accidentale non impedisca al suo principio di corrompersi. Non si mantiene esso dunque che quando delle circostanze, derivanti dal clima, dalla 1 . Il cpv. è anche in Pensées, II, fol. 6, n. 884 (63 r), il giudizio sulla nobiltà si trova anche nei Frammenti sulla storia di Francia, in Pensées, Il, foll. I4I-65, n. I J02 (595). 2. Il cpv., con solo qualche lieve differenza formale, si trova anche in Pensées, II, fol. 206 v, n. I 4 J I (r689). J. Nel Ms. (Il, fol. 63 vo) si aveva " libertà » in un primo tempo, parola poi cancellata e sostituita con l'attuale « nobiltà •· 4· Evidente allusione al MoriamuY pro Yege nostro MaYia TheYesia e alla condotta della nobiltà ungherese nella guerra di successione di Austria ( r 7 4 r -48) . 5· Cfr. il testo del cap. I di questo libro nel Ms., riportato nella nota r di p. 209.

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religione, dalla situazione o dall'ingegno del popolo, lo costringono a seguire qualche ordine, e a tollerare qualche regola. Questi elementi fanno violenza alla sua natura senza mutarla: la sua ferocia resta, ma per qualche tempo essa è come domata.

CAPO XI. Effetti naturali della bontà e della corruzzone dei princìpi. Quando i princìpi del governo sono ormai corrotti, le leggi migliori divengono cattive, e si rivoltano contro lo Stato; quando i princìpi sono sani, le leggi cattive hanno l'effetto di quelle buone: la forza del principio trascina tutto dietro di sè. I Cretesi, per mantenere gli alti magistrati nel rispetto della legge, impiegavano un sistema ben singolare: quello dell'insurrezione. Una parte dei cittadini si ribellava •. poneva in fuga i magistrati, e li costringeva a riprendere la loro condizione di privati. Ciò era considerato avvenire legalmente. Una simile istituzione, che prevedeva la sedi­ zione per impedire l'abuso di potere, in apparenza pareva destinata a distruggere lo Stato che l'aveva adottata, qua­ lunque esso fosse. Non distrusse invece Creta, ed ecco per­ chè b: quando gli antichi volevano parlare di un popolo che aveva il più grande amore per la patria, citavano il cretese. Patria, diceva Platone •, nome così caro ai Cretesi! Essi la chiamavano con un nome che esprime l'amore di una madre a. ARISTOTELE, Politica, Il, IO [1272 b] l . Si riunivano sempre immediatamente contro i nemici esterni, ciò che veniva detto sincretismo. PLUTARCO, Opere morali, p. 88 [De fraterno amore, cap. 19] . c. Repubblica, lib. IX [575 d]. b.

I. Aristotele però attribuiva la salvezza di Creta al fatto che essa era isolata dagli altri Stati ( Politica, ibid.).

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per i suoi figli Ora, l'amore della patria corregge ogni difetto. Le leggi polacche contemplano anch'esse l'insurrezione. Ma gli inconvenienti che ne risultano dimostrano che sol­ tanto il popolo di Creta era in grado di impiegare con suc­ cesso un simile rimedio. Gli esercizi ginnici, stabiliti presso i Greci, provenivano egualmente dalla bontà del principio del governo. . Ai tempi di Platone, queste istituzioni erano ammirevoli c; esse miravano a un grande scopo, e cioè all'arte militare. Ma quando i Greci non ebbero più virtù, esse distrussero addirittura l'arte militare: non si scendeva più sull'arena per temprarsi, ma per corrompersi d. Plutarco ci fa sapere che ai suoi tempi i Romani erano dell'opinione che su quei giochi gravava la responsabilità principale della schiavitù nella quale versavano i Greci. a.

-



a. PLUTARCO, Opere morali, nel trattato Se gli anziani debbano aver parte ai pubblici affari [cap. 1 7] 1 • b. Repubblica, lib. V [452 c-d] . c. La ginnastica si divideva in due parti: la danza e la lotta. A Creta si avevano le danze armate dei Cureti; a Soarta quelle di Castore e Polluce; ad Atene, le danze armate di Pallade, molto adatte per coloro che non sono ancora in età di andare alla guerra. La lotta è l'immagine della guerra, afferma PLATONE, Delle teggi, lib. VII [795 d-796 d]. Egli loda l'antichità di non aver stabilito che due danze: la danza Pacifica e quella Pirrica. Si veda come quest'ultima si applicasse all'arte militare. PLATONE, ibid. [814 e­ BIS b] . d. ... A ut libidinosae Ledaeas Lacedaemonis Palaestras (MARZIALE, lib IV, epig. ss ). e . Opere morali, nel trattato Questioni romane [quaest. XL]. .

. �· l Cretesi dicevano infatti IJ.'Ij'tp(� invece di 1tct-;p(ç, secondo quanto nfensce Plutarco. Sarebbe stato più giusto dire che con tal nome i Cretesi esprimevano l'amore dei figli verso la madre, e non il contrario, come dice Montesquieul

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22 I

Era, al contrario, la schiavitù dei Greci che aveva corrotto gli esercizi. Ai tempi di Plutarco a, i parchi ove si combat­ teva nudi, e le arti della lotta, rendevano vili i giovani, e li portavano ad amori infami, non facendone che dei buf­ foni b; ma ai tempi di Epaminonda l'esercizio della lotta permetteva ai Tebani di vincere la battaglia di Leuttra r . Poche sono le leggi cattive quando lo Stato non ha perduto i suoi princ1p1; e, come diceva Epicuro parlando delle ricchezze: 2 .

CAPO XII Continuazione del medesimo argomento. A Roma si sceglievano i giudici nell'ordine dei senatori. I Gracchi trasferirono questa prerogativa ai cavalieri. Druso la diede ai senatori e ai cavalieri; Silla, ai soli senatori; Cotta, ai senatori, ai cavalieri e ai tesorieri del risparmio l. Cesare escluse questi ultimi. Antonio fece delle decurie di senatori, cavalieri e centurioni. Quando una repubblica è corrotta, non si può ovviare a nessuno dei mali nascenti se non togliendo la corruzione e rifacendosi ai principi dello Stato; ogni altra correzione è inutile, o rappresenta addirittura un nuovo male. Fino a che Roma conservò i suoi principi, l'amministrazione della giustizia potè rimanere senza abusi nelle mani dei senatori, ma quando essa fu corrotta, a qualunque classe la si tra­ sferisse, ai senatori, ai cavalieri, ai tesorieri del risparmio, a due di queste classi, a tutte e tre insieme, a qualunque altra classe, essa funzionava sempre male. I cavalieri non possedevano più virtù di quanta ne avessero i senatori; i a. PLUTARCO, ibid. b. PLUTARCO, Opere morali, Conversazioni conviviali, lib. II [quaest. V, z]. x . Nel Ms. seguiva qui un folio e mezzo dedicato alle vicende interne di Siracusa. poi cancellato. 2. La citazione è di ORAZIO: Sincerum est nisi vas, quodcumque infundis, acescit (Ep., I, 2, v. 54) . J. Cio� i tribuni aerarii.

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tesorieri del risparmio non ne avevano più dei cavalieri, e questi tanto poca quanto i centurioni. Quando il popolo romano ebbe ottenuto l'ammissione alle magistrature patrizie, era naturale pensare che i suoi adulatori sarebbero stati gli arbitri del governo. E invece si vide questo popolo, che aveva reso le magistrature acces­ sibili ai plebei, eleggere sempre dei patrizi. Poichè era vir­ tuoso, era anche magnanimo; poichè era libero, sdegnava il potere • . Ma quando ebbe perduto i suoi princìpi, maggior potere ebbe nelle mani, e meno ritegno ebbe; finchè, divenuto infine tiranno e schiavo di se stesso, perdette la forza della libertà, per cadere nella debolezza della licenza. CAPO XIII. Effetti del giuramento presso un popolo virtuoso z. Non vi è stato alcun popolo, dice Tito Livio presso il quale la dissoluzione si sia fatta strada più tardi che presso i Romani, e dal quale la moderazione e la povertà siano state più a lungo onorate. Il giuramento ebbe tanta forza presso quel popolo che nulla lo rese più ossequiente alle leggi. I Romani fecero, pur di osservarlo, ciò che non avrebbero mai fatto per la gloria o per la patria 3. Il console Quinto Cincinnato volle levare un esercito in Roma contro gli Equi e i Volsci, e i tribuni si opposero. - Ebbene - egli disse - che tutti coloro i quali hanno pre­ stato giuramento al console dell'anno passato mi seguano b -. Invano i tribuni protestarono che nessuno era più legato a,

Lib . I [ma Prefazione] . b. TITO LIVIO, lib. III [cap. 20).

a.

1 . Nello stesso senso cfr. II, 2 e Considérations, cap. 8 e soprattutto nota 6. 2. Nel Ms. (Il, fol. 75) il capitolo aveva in un pqmo tempo il seguente titolo: « Allorchè il princip io della repubblica è in tutto il suo vigore, non vi è quasi bisogno di leggi poi sostituito con l'attuale. 3· Cfr. Considérations, cap. 1: « I Romani erano il oooolo più religioso del mondo in fatto di giuramento, che costitul sempre il ner oo della loro disciplina militare •· n,

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da quel giuramento; che, quando esso era stato prestato, Quinto era un semplice privato: il popolo fu più probo di chi voleva reggerlo, e non ascoltò le distinzioni e le inter­ pretazioni dei tribuni. Quando il medesimo popolo volle ritirarsi sul Monte Sacro, si sentì trattenere in nome del giuramento prestato ai consoli di seguirli in guerra a. Disignò allora di ucciderli, ma gli si fece capire che il giuramento sarebbe rimasto valido in ogni caso. Si può capire quale idea il popolo avesse della violazione del giuramento dal delitto che stava per commettere. Dopo la battaglia di Canne, il popolo, spaventato, volle ritirarsi in Sicilia; Scipione r gli fece giurare di restare a Roma: il timore di violare il giuramento fu superiore ad ogni altra paura. Roma era una nave tenuta salda da due ancore nella tempesta: la religione e i costumi. CAPO XIV. Come il più piccolo cambiamento nella costituzione porta al crollo dei principi. Aristotele 2 ci parla della repubblica di Cartagine come di una repubblica ben regolata. Polibio 3 ci dice che durante la seconda guerra punica b esisteva a Cartagine il grave inconveniente che il senato aveva perduto tutta la sùa autorità. Tito Livio 4 ci fa sapere che, quando Annibale ritornò a Cartagine, trovò che i magistrati e i cittadini più influenti stornavano a loro beneficio il pubblico danaro, e abusavano del loro potere. La virtù dei magistrati cadde dunque insieme all'autorità del senato; tutto il male derivò dalla stessa causa s. a. Ibid., lib. II [cap. 32). b. Circa cento anm dopo. 1. Lrvro, XXII, 53· Politica, II, r 272 b-1273 b. 3 · Historiae, VI, 5 L 4· Hisloriae. XXXIII, 46. 5· Nel Ms. si ba. il seguente cpv.:

2.



Ai nostri giorni è stato

abolito in

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Sono noti i prodigi della censura presso i Romani. Ci fu un periodo di tempo nel quale essa divenne pesante; ma venne sostenuta, perchè c'era più lusso che corruzione. Clodio 1 la indebolì; e, a causa di questo indebolimento, la corruzione divenne molto maggiore del lusso, e la censura • si abolì, in un certo senso, da sè. Disturbata 2, richiesta, ristabilita, abbandonata, essa fu sospesa del tutto fino al momento in cui divenne inutile, voglio dire sotto i regni di Augusto e di Claudio. CAPO XV. Sistemi efficacissimi per il mantenimento dei tre principi. Non sarò in grado di spiegarmi chiaramente che quando si saranno letti i quattro capitoli che seguono. a. Si veda DIONE, lib. XXXVIII {cap. 13]; la Vita di Cice­ rone in PLUTARCO [875 e-878 a] ; CICERONE, Ad A ttico, lib. IV, lett. IO e rs; Ascanio, in CICERONE, De divinatione 3• una grande repubblica [Paesi Bassi] il magistrato che faceva le funzioni dei due re di Sparta [lo Statholder] . I magistrati non hanno più avuto bisogno di virtù per sostenere la repubblica contro questo re; non hanno più avuto bisogno di virtù per accattivarsi i favori del popolo contro questo re. Si san visti nascere in quantità gli inconvenienti perchè la loro costituzione non era fatta per questo mutamento nè preparata ad esso ». In margine vi è la seguente nota: « Vedi il libro XI cap. I 2 • (in realtà XI, 6, cfr. p. 290, n. I } . È a questo passo del Ms. che va probabilmente riferito quanto Montesquieu scriveva all'abate Guasco in una sua lettera del 17 luglio I 747: • ... ho giudicato opportuno togliere, per il momento, il capitolo sullo statholderato ecc. • (Corr., Il, pp. 6-7). Probabilmente Montesquieu tolse questo passo perchè i fatti gli avevano dimostrato il suo errore: infatti la rivoluzione del I 747 aveva portato al potere Guglielmo IV d'Orange, soffocando quella libertà che gli era sembrata garantita invece proprio dallo statholderato. Cfr. nello stesso senso del passo citato Pensées, Il, fol. I B, n. 940 ( r 8o 6) : « L'Olanda è diventata meno libera dacchè non ha più statholder », e Pensées, II, fol. 247 vo, n. 1550 ( I 8 r 3 ) : • Il capo delle repubbliche è un magistrato civile. Il caso e la necessità dettero un capo militare (Statholder) all'Olanda ed essa compi grandi imprese •. I . Il testo ha • Claudius >, evidentemente errato, come dimostrano i riferimenti della nota a. 2 Quest'ultimo periodo manca nel Ms. nel quale si ha invece la nota seguente, rimasta anche in A B: « i tribuni impedirono loro di fare il censimento e si opposero alla loro elezione. Vedi CICERONE, ad A tticum, IV, IO e IS 3 · Si tratta di un errore poichè i Commentari alle opere di Cicerone .

•.

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CAPO XVI. Caratteri distintivi della repubblica.

È nella natura della repubblica che essa non abbia che un ridotto territorio 1 : diversamente, essa non potrebbe sussistere. In una grande repubblica, vi sono delle grandi ricchezze, e di conseguenza poca moderazione negli spiriti: troppo grandi sono infatti gli incarichi da affidarsi nelle mani di un solo cittadino; gli interessi divengono particolari; un uomo si accorge dapprima che può essere felice, grande, glorioso, senza la patria, e ben presto che può essere unico grande sulle rovine della patria. In una grande repubblica, il bene comune è sacrificato a mille considerazioni; è soggetto alle eccezioni, dipende da cause accidentali. In una repubblica piccola, il bene pub­ blico è più apprezzato, è meglio conosciuto, è pii1 vicino a ciascun cittadino; gli abusi sono meno diffusi, e di. conse­ guenza meno facili da proteggere. Ciò che permise a Sparta di mantenersi per così lungo tempo, fu che dopo ogni guerra essa rimase sempre con il medesimo territorio. Il solo scopo di Sparta era la libertà 2; il solo vantaggio della sua libertà, era la gloria. Fu proprio dello spirito delle repubbliche greche il con­ tentarsi dei propri territori come delle proprie leggi. Atene di Quinto Asconi0 Pediano a noi pervenuti riguardano soltanto le cinque seguenti orazioni: In Pisonem, Pro Scauro, Pro Cornelio, In toga candida e Pro Milone. Probabilmente è a quesf ultima che Montesquieu vuole alludere. I . In Pensées, I, p. 507, n. 777 (r]o8), riporta, accettandola, l'opinione espressa dal PUFENDORF nell Histoire Universelle, Amsterdam, 1 722, cap. I , § 1 5 (trattasi della Enleitung zu der Historie der vornehmsten Reiche und Staaten, Francoforte s. M., r 682-1686 che, nella traduzione francese del Bruzen de La Martinière citata da Montesquieu, aveva in realtà il titolo Introduction à l'histoire générale et politique de l'univers) secondo il quale " negli Stati nei quali i cittadini sono racchiusi in una sola città, i popoli sono più inclini all'aristocrazia e alla democrazia ». Nello stesso senso cfr. anche ALGERNON SIDNEY nei suoi Discourses corcerning government (Londra, r 688): " La democrazia può convenire soltanto alle necessità di una piccola città » (to�o I, p. 3 8 1 ediz. francese) . 2. Cfr. Dialogue de Xant.'ppe et de Xénocrate (in Mélanges inédits, p. roo) : " Ogui Spartano non è forse nato protettore della libertà comune ? È questa la prima cosa che Licurgo ci abbia insegnato », cfr. anche ibid., p . 1 0 1 . Ma precedentemente (Esprit des Lois, IV, 6) aveva detto, e lo ripeterà (XI, 5) che oggetto del governo di Sparta è la guerra. '

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acquistò ambizione, e la trasmise anche a Sparta; ma fu piuttosto ambizione di comandare a popoli liberi, che di guidare degli schiavi; di essere piuttosto alla testa dell'unione, che di spezzarla. Tutto andò perduto quando sorse una monarchia: tipo di governo il cui spirito è più portato verso l'ingrandimento. Senza certe circostanze particolari •, è difficile che qua­ lunque altra forma di governo differente da quella repub­ blicana possa sussistere in una sola città. Un principe di uno Stato così piccolo cercherebbe naturalmente di tiran­ neggiare, perchè avrebbe una grande potenza nelle mani, e pochi mezzi per trame giovamento o per farla rispettare: calpesterebbe quindi il suo popolo. D'altra parte, un prin­ cipe di questo genere sarebbe facilmente sconfitto da una potenza straniera, o anche da una resistenza interna: il popolo 1 potrebbe in ogni momento riunirsi e marciare con­ tro di lui 2. Ora, quando il principe di una città ne viene cacciato, il processo è finito: se ha molte città, è soltanto incominciato.

CAPO XVII. Caratteri distintivi della monarchia 3.

Uno Stato retto a monarchia deve essere di media gran­ dezza. Se fosse piccolo, si reggerebbe a repubblica; se fosse molto esteso, i maggiorenti dello Stato, grandi di per sè, non essendo sotto gli occhi del principe, avendo la loro corte fuori della sua corte, resi inoltre sicuri contro le pronte esecuzioni dalle leggi e dai costumi, potrebbero fare a meno a. Come quando un piccolo sovrano riesce a mantenersi indipendente fra due grandi Stati, per la loro reciproca gelosia; si tratta tuttavia di una esistenza precaria.

1. La fine del capitolo è tratta dal passo delle Penst!es citato alla nota I della pagina precedente. 2. Montesquieu riporta l'opinione di Pufendorf, come risulta dal passo citato delle Penst!es; la riflessione successiva è invece originale. 3 · Nel Ms. (II, fol. 83) il titolo era Dell'estensione naturale della mo· narchia.

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di obbedire; non temerebbero certo una punizione troppo lenta e troppo lontana. Per questo motivo non appena Carlo Magno ebbe fondato il suo impero, si fu costretti a dividerlo: sia 1 perchè i gover­ natori delle provincie non obbedivano, sia perchè, per farli obbedire più prontamente, si dovette dividere l'impero in parecchi reami. Dopo la morte di Alessandro, il suo impero venne sud­ diviso. In qual maniera i grandi di Grecia e di Macedonia, liberi, o per lo meno capi dei conquistatori sparsi su così vasto terreno di conquista, sarebbero potuti venir costretti alla obbedienza? Dopo la morte di Attila, il suo impero si dissolse: tanti re, non più tenuti a freno, non potevano certo ribadire le proprie catene. La pronta istituzione di un potere senza limiti è il rimedio che, in questo caso, può prevenire la dissoluzione: male nuovo, dopo quello dell'ingrandimento. I fiumi corrono a gettarsi nel mare: le monarchie vanno a perdersi nel dispotismo. CAPO XVIII. Che la monarchia di Spagna era particolare 2.

un caso

m

Non 3 si citi l'esempio della Spagna: esso al contrario prova appunto quanto ho affermato. Per conservare l' Ame1 . Questa frase, sino alla fine del cpv., è già nel cap. ro delle Réfiexions sur la monarchie universelle en Europe (in Deux opuscules), in cui attri­ buisce questa divisione alla struttura feudale dell'impero di Carlo Magno derivata dai Goti. Nel Ms. (II, fol. 83 v0) in nota rinvia esplicitamente a questa sua opera pubblicata in pochissimi esemplari, sùbito ritirati dall' autore, dal Desbordes di Amsterdam a quanto sembra non dopo il 1734 (secondo quanto risulta da una nota autografa del Ms. delle Considérations sur les richesses de l' Espagne) . 2. Montesquieu fa riferimento all'estensione dell'impero spagnolo, poichè la Spagna in sè la ritiene di grandezza giusta, cfr. IX, 6. 3 · Cfr. Réfiexions sur la monarchie universelle, cap. 8, n. 4: L'esempio della monarchia spagnola non è in contraddizione con quanto dico poichè gli Stati d'Italia e delle Fiandre erano governati con le loro leggi ed erano ripagati della loro dipendenza dalle somme immense che gli Spagnoli vi arrecavano, e le Indie sono tenute con un vincolo di natura particolare Montesquieu stesso ha annotato: • l\lesso nelle Leggi •. •

»,

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rica, essa fece ciò che non fa neppure un governo dispotico: ne distrusse gli abitanti. Per conservare la sua colonia, dovette tenerla nella dipendenza persino per ciò che ne riguardava la sussistenza 1 . Essa tentò un governo dispotico nei Paesi Bassi, e, non appena lo ebbe abbandonato, i suoi guai si accrebbero 2 • Da un lato, i Valloni non volevano essere governati dagli Spagnoli, e dall'altro, i soldati spagnoli non volevano obbe­ dire agli ufficiali valloni a. La Spagna non mantenne i suoi possessi in Italia che arricchendoli e rovinandoli al tempo stesso 3: poichè coloro i quali avrebbero voluto disfarsi del re di Spagna non se la sentivano, in ogni modo, di rinunziare al suo danaro. CAPO XIX. Caratteri distintivi del governo dispotico 4. Un grande impero presuppone una autorità dispotica in chi lo governa s . Bisogna che la prontezza degli ordini sup­ plisca. alla distanza dei luoghi ove vengono inviati; che la a. Si veda l'Histoire del signor LE CLERC.

des Provinces unies,

[Amsterdam, 1723]

1 . Sulla politica coloniale degli Spagnoli cfr. Lettres Persanes, CXXI ed anche LXXVIII. 2. 1\la cfr. le Réflexions sur les caractères de quelques Princes, cap. 3 (in Mélanges inédits, p. 1 74); dove, parlando di Filippo II e della sua politica nei Paesi Bassi, osserva: Il disegno di introdurre l'Inquisizione nei Paesi Bassi, quello di stabilirvi il governo spagnolo fanno vedere che egli non conosceva nè i Fiamminghi nè i popoli liberi e nemmeno gli uomini. Province cosi lontane, cosi estranee alla Spagna e che potevano dar vita a tanti padroni, non potevano esser conservate che mediante le leggi "· Le Réflexions citate sono di data incerta, ma probabilmente posteriori ai viaggi di Montesquieu. 3· Cfr. Spicilège, p. 6o dove riporta il noto passo di Boccalini in cui vengono pesate su una stessa bilancia Spagna e Francia e quella si fa sempre più leggera man mano che le si aggiungono sul piatto i suoi vari possedimenti (cfr. Pietra del paragone politico, Cormopoli [Venezia], s. d . , m a r6r4. ragg. I 3, ora in Ragguagli di Parnaso, cent. III, ragg. I 2 , Bari, 1 948, pp. 37-9), passo che è citato anche in Pensées, I, p. 535, n. 834 ( 1 896) . 4· N'el ms. (II, fol. 87) il titolo è Dell'estensione naturale dello Stato dispotico, e in margine vi è la nota seguente: Preso dal trattatello sulla monarchia universale infatti il capitolo è tratto dal cap. 8 delle Réflexions sur la monarchie universelle. 5· Cir. III, I O . cc

cc

"•

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229

paura impedisca la negligenza del governatore o del magi­ strato lontani; che la legge promani da una sola persona, � che muti continuamente, come gli incidenti, che si molti­ plicano sempre nello Stato in proporzione della sua gran­ dezza 1 . CAPO XX. Conseguenze dei capitoli precedenti 2. Se la caratteristica naturale dei piccoli Stati è di essere retti a regime repubblicano, quella dei medi di essere sot­ tomessi a un monarca, quella dei grandi imperi di essere dominati da un despota J , ne deriva che, per conservare i princìpi del governo stabilito, bisogna mantenere lo Stato nei limiti che aveva in precedenza. Ne deriva ancora che questo Stato muterà di tendenze a misura che ridurrà o allargherà i suoi confini. CAPO XXI. Dell'impero cinese 4. Prima di por termine a questo libro, risponderò ad una abbiezione che può esser fatta a tutto ciò che ho detto fin qui. I nostri missionari ci parlano del vasto impero ci­ nese come di un governo ammirevole che riunisce in­ Sieme, nel suo principio fondamentale, il timore, l'onore e la virtù. Io ho dunque posto una vana distinzione 1. Anche in Pensées, III, fol. 59 v•. n. 1 476 (274) MoNTESQUIEU osserva che la grande estensione del territorio importa il dispotismo, e di questa osservazione si vale per criticare lo spirito di conquista. 2. Sono le norme preannunciate nel cap. 1 5 . J . M a cfr. i l passo citato alla nota 2 di p. 22ll, che conferma come Montesquieu pensasse all'Oriente allorchè parlava del dispotismo. 4· Il giudizio che Montesquieu esprime in questo capitolo sulla Cina è ispirato al principio, da lui sin qui seguito, che il dispotismo è una forma corrotta di governo, più che un tipo di governo rispondente a condizioni naturali sia di ordine fisico che spirituale. Per questo motivo egli si oppone alla esaltazione fatta della Cina dai missionari, che sarà invece seguita da Voltaire, dai fisiocratici e, in genere, dai sostenitori dell'assolutismo illuminato. Indubbiamente in questa sua tendenza MoNTESQUIEU rivela l'orientamento razionalista che ispira i primi libri dell'Espnt des Lois, mentre successivamente (cfr. XIV, 8; XVIII, 7; XIX, r 6, 1 7, 19) mostrerà di avere una concezione meno rigida del " dispotismo » cinese tenendo conto delle relazioni dei missionari e quindi dell'elemento sperimentale.

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quando ho stabilito i princìpi delle tre forme di governo ' · Ignoro in che cosa possa consistere quell'onore, di cui si parla, presso popoli ai quali ogni cosa vien fatta fare a colpi di bastone •. Inoltre, i nostri commercianti ci offrono un'immagine ben diversa di quella virtù della quale ci parlano i missionari: basta chiedere loro qualche notizia sugli atti di brigantaggio dei mandarini h. E ne 2 prendo a testimone anche il grande È il bastone che governa la Cina, dice il p. Du Halde J . b. Si veda, tra le altre, la Relation del LANGE 4•

a.

I . Cfr. infatti. a modifica di quanto dice nel testo, il seguente brano delle Pensées (III, foll. n8-9 vo, n. 1 88o [268]) intitolato: Per qual motivo la Cina. nonostante la sua estensione, sia stata obbligata a temperare talvolta il suo dispotismo: « La Cina è posta in un clima dove si è natural­

mente portati. come diremo, all'obbedienza servile. Pertanto, sebbene le circostanze di cui ci accingiamo a parlare, dovessero condurla al principio del governo repubblicano, essa non è diventata una repubblica. La Cina ha un governo misto, che somiglia molto al dispotismo, per l'immenso potere del Principe; un poco alla repubblica, per la censura e per una ·certa virtù fondata sull'amore e sul rispetto per i padri; un poco alla monarchia, per delle leggi stabili e dei tribunali ordinati, per un certo onore collegato alla fermezza e al pericolo di dire la verità. Queste tre cose assai temperate, e varie circostanze desunte dal clima fisico, hanno fatto sussistere siffatto governo; e se la vastità dell'impero ne ha fatto un governo dispotico, esso è forse il migliore di tutti ». Altrove attribuirà (Pensées, III, fol. 103, n. 1 839 [315]) il miglior governo della Cina in confronto agli altri Stati asiatici, al fatto che vi è stabilita la proprietà fondiaria. Infine in Pensées, III, fol. 106, n. 1849 (270) osserva che in Cina vigeva una sorta di governo feudale il quale « dava origine a un insieme di mo­ narchie, invece che a uno Stato dispotico ». 2. La frase manca in A B. GEoRGE ANsoN ( 1 697-1 762) nella sua opera A voyage round the world in the years 1 740-44, Londra 1 748 (cito dalla traduzione francese di ELIE DE JoNCOURT, Amsterdam e Lipsia 1749) parla infatti del terrore ispirato dal governo cinese e della vigliaccheria del popolo (III, 7. p. 283), della corruzione dei magistrati (ibid., p. 288) e critica l'opinione dei missionari circa la virtù dei cinesi, da lui giudicati ipocriti, e circa il loro buon governo (III, I O , pp. 327-8) . Ma l' Anson fu brevissimo tempo in Cina (quattro mesi e mezzo) e ne conobbe solo i porti e probabilmente, in quanto protestante, non era equanime nei confronti dei missionari gesuiti. Del suo libro Montesquieu ebbe grande stima. come dimostrano la sua lettera del 22 luglio 1 749 al Domville (Corr . . II, p. 209): « Sto leggendo la magnifica opera di l\Iilord Anson. . . è un libro. a quanto mi sembra, pieno di lumi e la lettera di pari data al marchese Solaro di Breglio (Corr., Il, p. 2 1 0) . 3· Nè la Dodds nè il Carcassonne (La Chine dans l'Esprit des Lois, in Revue d'histoire littéraire de la France >, XXXI, 1924, pp. 193-205) hanno trovato questa citazione di Montesquieu, che del resto è contraria a tutto lo spirito dell'opera del Duhalde. 4· È la Relation du voyage de Laurent Lange à la Chine, in Recueil de »,

«

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Milord Anson. D'altronde, le lettere del padre Parennin sul processo che l'imperatore fece istruire contro prìncipi del sangue neofiti a, che erano caduti in sua disgrazia, ci rno� strano un sistema di tirannide costantemente seguìto, e delle offese recate alla natura umana con metodo, vale a dire a sangue freddo. N oi possediamo poi ancora le lettere del signor di Mairan 1 e dello stesso padre Parennin, sul governo cinese 2. Dopo una serie di domande e di risposte sensate, il meraviglioso che se ne diceva è scomparso. Può forse darsi che i mis� sionari siano stati ingannati da una apparenza di ordine; ch'essi siano stati colpiti da quell'esercizio perpetuo della volontà di un solo, dal quale essi stessi sono retti, e che si compiacciono di trovare alle corti dei re delle Indie. Inoltre, recandovisi per apportarvi grandi mutamenti, è per loro più facile convincere i prìncipi che possono fare tutto, che non persuadere i popoli che possono soffrire ogni cosa b. a. Della famiglia di Surniama, Lettres édifiantes, XVIII [� XX] racc. b. Si veda nell'opera del p. Du HALDE [torno III, pp. 104-III] come i m1ss10nari si servirono dell'autorità di Carn-hi J per far tacere i mandarini i quali affermavano sempre che stando alle voyages au Nord, contenants divers mémoires très utiles au commerce et à la navigation, Amsterdam, 1 7 1 5 , tomo VIII. A pp. 270-1, il LANGE parla

appunto della furfanteria dèi mandarini, a p. 363 riferisce che i commer­ cianti cinesi usano false misure per ingannare i clienti, a p. 254 che i cinesi si rifiutano spesso di pagare i debiti. La testimonianza del Lange, inge­ gnere svedese al servizio della Russia, non pare giustamente probante alla Dodds, poichè egli, pur essendo vissuto abbastanza a lungo a Pekino, era inviso ai Cinesi che lo tenevano, a detta sua, quasi segregato. 1 . J . - J . Dortous de Mairan (1678-1 7 7 1 ) , membro dei i A cadémie des Sciences di Parigi, col quale Montesquieu era in corrispondenza fin dal 1 7 2 1 , cfr. Corr., I, pp. 18-21 e per il quale nutriva molta stima, cfr. Pensées, II, fol. 1 85, n. 1320 ( 1 356) . Nella Corr. (II, p. 558), si trova traccia della divergenza di idee tra Montesquieu e il Mairan riguardo alla Cina. 2. In Lettres édifiantes, racc. XXI e XXIV. 3 · In realtà il Duhalde riferisce che Cam-bi, vicerè del Tche-Kiang, proibi ai missionari, in base a un editto del 1669, di esercitare il loro ministero e di costruire chiese, ma che l'imperatore, cui i missionari si erano appellati, nonostante due sentenze contrarie dei tribunali, ottenne che fosse loro resa giustizia. '

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Infine, c'è sempre qualcosa di vero anche negli erron. Delle circostanze particolari, e forse uniche, possono far sì che il governo della Cina non sia così corrotto come dovrebbe essere. Delle cause originate nella maggior parte dalle con­ dizioni climatiche possono aver prevalso sulle cause morali in quel paese, realizzando una specie di prodigio 1 . Il clima della Cina favorisce prodigiosamente la propa­ gazione della specie umana 2. Le donne sono di una fecondità che non ha eguali in tutto il mondo. La più crudele delle tirannidi non può arrestare la prolificità. Il principe non può dire, come il Faraone: - Opprimiamoli con arte J -. Sarebbe piuttosto ridotto ad avere lo stesso desiderio di Nerone 4 che, cioè, il genere umano avesse una sola testa. Nonostante la tirannide, la Cina, per la forza del clima, si popolerà sempre di più, ed avrà ragione della tirannide. La Cina, come tutti i paesi ove cresce il riso •, è soggetta a frequenti carestie s. Quando il popolo muore di fame, si disperde per cercare di che vivere. Si formano così da ogni parte bande di tre, quattro o cinque ladri: la maggior parte viene sterminata subito, altre bande s'ingrossano, e vengono sterminate a loro volta. Ma, in un numero così grande di province, e così lontane, può accadere che qualche banda faccia fortuna. Essa si mantiene, si rafforza, si forma in corpo d'esercito, punta sulla capitale, e il suo capo ascende il trono 6. leggi del paese un culto straniero non poteva esser stabilito nell'Impero. a . Si veda in seguito lib. XXIII, cap. 14.

I. Nello stesso senso cfr. XII, 29, dove però ritiene predominante l'influenza religiosa. In senso contrario cfr. invece XIV, 5· 2. Cfr. VII, 6, n. 2 di p. I95· 3· Cfr. Esodo, I, IO. 4· La frase è in realtà di Caligola, cfr. SvETONIO, Calig., 30. 5· Cfr. in merito la lettera del p. Parennin al Dortous de Mairan del 28 settembre I 735. in Lettres édifiantes, racc. XXIV. 6. L'intero cpv., eccetto la prima frase, è press'a poco desunto dallo

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Tale è la natura delle cose, che il cattivo governo vi è subito punito. Improvviso nasce il disordine, perchè questo popolo prodigioso manca dei mezzi di sussistenza. Invece negli altri paesi cl.ifficilmente si abbandona la via degli abusi, perchè questi non hanno effetti sensibili: il principe non se ne rende conto in una maniera immediata e clamorosa, come avviene in Cina. L'imperatore della Cina non crederà, come i nostri prìncipi, che se governa male, sarà meno felice nel­ l'altra vita, meno potente e meno ricco in questa: saprà che se il suo governo non è buono, perderà l'impero e la vita. Poichè, malgrado le esposizioni dei bambini, la popola­ zione aumenta sempre in Cina •, ci vuole un lavoro indefesso per far produrre alla terra il necessario per nutrire tutti: ciò richiede una grande attenzione da parte del governo r , il quale ha sempre tutto l'interesse che ciascuno possa lavorare senza il timore di esser frustrato delle sue fatiche. Il governo cinese deve quindi essere non tanto un governo civile quanto un governo domestico 2. Ecco ciò che ha prodotto le disposizioni di cui tanto si parla. Si è voluto far regnare le leggi, pet mezzo del dispo­ tismo, ma ciò che è legato al dispotismo, non ha più forza. Invano questo dispotismo, incalzato dai suoi insuccessi, ha voluto incatenarsi: esso si arma delle proprie catene, e diviene più terribile ancora. a . Si veda il memoriale di un Tsongtou, relativo al dissoda­ mento delle terre, Lettres édifiantes, XXI racc. [ma XXII,

pp. 210-2J].

Spicilège (p. 147), fonte ne è il Fouquet; cfr. anche DuHALDE, op. cit., tomo I, p. 74· I . In A B si ha la seguente lezione: • ciò richiede dal governo un'at­ tenzione che non si ha altrove 2. In questa sua definizione del governo cinese come governo dome­ stico, Montesquieu doveva esser confortato da quanto sia il Fouquet che il Duhalde gli insegnavano circa il culto che i Cinesi nutrivano per i padri, culto che costituiva uno dei principi morali e politici fondamentali del­ l'impero celeste, cfr. XIX, 19 e XXIII, 16, n. x . n.

234

PARTE PRIMA

La Cina è dunque uno Stato dispotico, il cui princi­ pio è la paura. Può darsi che, sotto le prime dinastie, l'impero non essendo ancora così esteso 1, il governo si allontanasse talvolta da questo spirito. Ma oggi non è più così 2.

I. Nel primo passo delle Pens!es citato alla nota 1 di p. 230, osservava in­ •fatti che in Cina il dispotismo non si era introdotto perchè in origine l'impero era meno esteso e limitato alle regioni del Nord, regioni meno ricche e più rudi « e dove, di conseguenza, i costumi sono più semplici 2. Nel Ms. (II, fol. g8) si ha quindi il seguente cpv.: « Torniamo dunque a dire che i principi sono relativi all'estensione degli Stati e che, di con­ seguenza, per conservarne i principi occorre mantenerli nella loro grandezza». •.

PARTE

SECONDA

LIBRO NONO LE LEGGI NEL LORO RAPPORTO CON LA FORZA DIFENSIVA

CAPO I. Come le repubbliche provvedono alla loro sicurezza. Se una repubblica è piccola, sarà distrutta da una po­ tenza straniera; se è grande, perirà per vizi interni 1. Questo doppio inconveniente colpisce in egual misura le democrazie e le aristocrazie, siano esse buone o cattive. Il male è nella sostanza stessa delle cose: non esiste alcuna forma di rimedio. Di conseguenza, è da ritenersi che gli uomini sarebbero stati costretti alla fine a vivere per sempre sotto il governo di un solo, se non avessero studiato una forma di costitu­ zione, che possiede tutti i vantaggi interni del regime repub­ blicano e tutti quelli esterni del regime monarchico. Mi riferisco alla repubblica federativa. Questa forma di governo ha origine da una convenzione m base alla quale numerosi corpi politici consentono a diveI . La citazione figura anche in Pmsées, II, fol. 1 8, n. 940 ( r 8o6), dove osserva: « Ogni repubblica troppo piccola non può venir considerata libera affermando quindi la necessità per esse di una associazione federale. L'affermazione del testo sembra escludere la possibilità di vita di qual­ siasi repubblica che non sia federativa, dato che nel cap. VIII, 16 aveva affermato che, dal punto di vista della politica interna, una repubblica per sussistere deve avere un territorio piccolo. Era questa del resto anche l'opinione di MACHIAVELLI, il quale nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio cosi scriveva: « È impossibile che ad una republica riesca lo stare quieta, e godersi la sua libertà e gli pochi confini: perchè, se lei non molesterà altrui, sarà molestata ella; e dallo essere molestata le nascerà la voglia e la necessità dello acquistare; e quando non avessi il nimico fuora, lo troverebbe in casa: come pare necessario intervenga a tutte le gran cittadi... E bisogna o ampliare per via di leghe, o ampliare come i Romani » (II, 19) . Nello stesso senso si esprimerà RoussEAU, cfr. Du contrat social, III, 15 e Considérations sur le gouvernement de Pologne, cap. 5· "•

PARTE SECONDA

nire p arti di uno Stato più grande che tutti insieme inten­ dono formare. È questa una società di società che ne creano una nuova, la quale può ingrandirsi grazie a nuovi asso­ ciati t , che si sono Ùniti. Furono queste · associazioni a render fiorente per così lungo tempo la Grecia 2. Grazie ad esse i Romani attacca­ rono il mondo intero, e grazie ad esse sole il mondo intero si difese contro di loro. Quando Roma raggiunse il massimo della propria grandezza, fu per mezzo di simili associazioni poste oltre il Danubio ed il Reno, e sorte per effetto della paura, che i barbari poterono resisterle. È per questo che l'Olanda la Germania 1, le leghe sviz­ zere, sono considerate in Europa quali repubbliche eterne. Le associazioni tra città erano in altri tempi più neces­ sarie di quanto non lo siano oggi. Una città mal difesa cor­ reva rischi gravissimi. Essere conquistata significava la perdita non soltanto del potere esecutivo e legislativo, come avviene oggi, ma anche di tutte le proprietà individuali h, Questo tipo di repubblica, capace di resistere alle potenze straniere, può mantenersi nella sua grandezza senza corrom­ persi all'interno. La forma di questa società previene tutti gli inconvenienti. a,

a. È formata infatti da circa cinquanta repubbliche 4, tutte diverse le une dalle altre. État [présent de la République] des Provinces Unies [L'Aia, 1729-1730, 2 voli .] del signor jANISSON [ma Janiçon] . b. Libertà civile, beni, mogli, figli, templi e persino sepolture. 1. In A segue: « fino a che la sua potenza non basta alla sicurezza di coloro che si sono uniti 2. Cfr. Lettres Persanes, CXXXI, dove, parlando delle repubbliche greche, usa una espressione quasi identica. 3 · In Lettres Persanes, CXXXVI, parlando dell'Impero germanico si. stupiva che potesse sussistere nonostante le divisioni, appunto perchè non lo considerava come uno Stato federale. 4· In realtà, come dirà poi egli stesso nel cap. 3. la repubblica d'Olanda era costituita di sette province. Montesquieu intendeva evidentemente alludere al fatto che nell'àmbito di ogni provincia si avevano più città con diritto di voto nell'assemblea della provincia, di moda che l'Olanda appariva come una federazione di province federate, cfr. quanto scriveva in proposito nei suoi Voyages, I I , 227-8. L'inesattezza era già stata rile­ vata da VoLTAIRE, cfr. Commentaire sur l'Esprit des Lois, art. 36. ».

Una pagina autografa dell 'Esprit des Lois (vol. II, fol. go; Parigi, B iblioteca Nazionale).

LIBRO NONO

239

Chi volesse usurpare il potere non potrebbe godere del medesimo credito presso tutti gli Stati confederati. Se, infatti, costui si rendesse troppo potente in uno, allarmerebbe tutti gli altri; se ne soggiogasse una parte, quella rimasta libera potrebbe resistergli con forze indipendenti da quelle da lui usurpate, e annientarlo prima che potesse consolidare il proprio potere. Se si verifica qualche sollevazione presso uno dei membri confederati, gli altri possono placarla. Se qualche abuso si introduce in una parte della confederazione, viene corretto dalle altre, rimaste sane. Questo tipo di Stato può perire da una parte, senza perire dall'altra; la confederazione può sciogliersi, rimanendo sovrani i confederati. Composta di piccole repubbliche, essa gode della bontà del governo in­ terno di ciascuna; rispetto all'esterno, poi, possiede, grazie alla forza dell'associazione, tutti i vantaggi delle grandi monarchie.

CAPO II. Che la costituzione federativa deve esser formata da Stati della medesima natura, soprattutto da Stati repubblicani. I Cananei furono distrutti, perchè erano piccole monarchie non confederate, e che non si difesero in comune 1, Ciò perchè la natura delle piccole monarchie non porta alla confederazione. La repubblica federativa germanica è composta di libere città, e di piccoli Stati sottoposti a dei prìncipi. L'esperienza dimostra che essa è meno perfetta di quella olandese e di quella svizzera. Lo spirito della monarchia è la guerra e il desiderio di ingrandirsi; lo spirito della repubblica è la pace e la mode­ razione. Questi due tipi di governo non possono sussistere insieme in una repubblica federativa, che in maniera forzata. I.

Frase che incorse nella censura della Sorbona, cfr. Appendice

vol. II, pp. 547-9·

II.

PARTE SECONDA

Noi vediamo nella storia romana che, quando i Veienti 1 si scelsero un re, tutte le piccole repubbliche etrusche li abban­ donarono. Tutto andò perduto in Grecia quando i re di Macedonia ottennero un posto tra gli anfizioni z. La repubblica federativa germanica, composta di prìncipi e di libere città, si regge perchè ha un capo J che è in certo senso il magistrato della unione, e in certo senso il monarca. CAPO I I I . A ltri requisiti richiesti nella repubblica federativa· Nella repubblica olandese, una provincia non può con­ trarre alleanze senza il consenso delle altre. Questa legge è assai buona, e persino necessaria in una repubblica fede­ rativa. Essa manca nella costituzione germanica, ove evite­ rebbe le sciagure che possono colpire tutti i membri, a causa dell'imprudenza, dell'ambizione o della avidità di uno solo di essi. Una repubblica che si è unita a una confederazione politica si è data internamente, e non ha più nulla da dare. È difficile che gli Stati associati abbiano la stessa esten­ sione, e possiedano una potenza uguale. La repubblica di Licia a era un'associazione di ventitre città: le grandi ave­ vano tre voti nel consiglio comune, le medie due, le piccole uno. La repubblica olandese è composta di sette provincie, grandi o piccole, le quali hanno ciascuna un voto. Le città della Licia b pagavano i tributi secondo la pro­ porzione dei suffragi. Le province olandesi non possono seguire questa proporzione: bisogna che seguano quella della loro potenza. In Licia i giudici ed i magistrati delle città venivano c,

a.

STRABONE, lib. b. Ibid. c. Ibid.

XIV

[cap. 3].

I . TITO LIVIO, V, I . 2. Nel 346, dopo l a conclusione della guerra contro i Focesi, Filippo

di Macedonia ottenne la partecipazione del suo regno, con diritto a due voti, al consiglio della Anfizionia pilaico-delfica; cfr. PAUSANIA, X, 3, § 3 e DIODORO, XVI, 6o, che rilevano il fatto riportato da Montesquieu. 3 . L'imperatore.

LIBRO NONO

eletti dal consiglio comune, e secondo la proporzione di cui abbiamo fatto cenno. Nella repubblica olandese, essi non sono eletti dal consiglio comune, e ciascuna città elegge i suoi magistrati. Se si dovesse offrire un modello di buona repubblica federativa, io prenderei quello della repubblica di Licia.

CAPO IV. Come gli Stati dispotici provvedono alla propria szcurezza. Se le repubbliche provvedono alla propria sicurezza unendosi, gli Stati dispotici lo fanno separandosi, e tenen­ dosi, per così dire, isolati. Essi sacrificano una parte della nazione, devastano le frontiere, e le rendono deserte: il nucleo dell'impero diviene inaccessibile 1 . È noto in geometria che più i corpi sono estesi, e più la loro circonferenza è relativamente piccola. L'uso di deva­ stare le frontiere è quindi maggiormente tollerabile nei grandi Stati che in quelli medi. Lo Stato reca quindi a se stesso il male che potrebbe fargli un nemico crudele, un nemico, però, che non si po­ tesse arrestare. Lo Stato dispotico si conserva con un altro tipo di sepa­ razione, che si attua affidando le province più lontane nelle mani di un principe feudatario 2 • Il Mogol, la Persia, gli imperatori della Cina, hanno i loro feudatari, e i Turchi hanno tratto molto profitto dall'aver posto tra sè ed i propri nemici i Tartari, i Moldavi, i Valacchi, e in altri tempi i Transilvani l , 1 . Cfr. V, 14. Il RYCAUT (Histoire de l'état présent de l'Empire Ottoman, cit., cap. 15, pp. 168-71) osservava già che « le distruzioni che i Turchi praticano nelle province asiatiche che loro appartengono e nelle altre regioni lontane dalla sede del loro Impero, sono una delle cause della sua conservazione •· E fin dalla antichità Cesare notava come questa abitudine fosse praticata dai Germani (De bello Gallico, VI, 23) . 2. Cfr. X, 1 7 . 3· Cfr. RYCAUT, o p . cit., p p . 1 45-5 1 , i l quale parla di questi popoli vassalli dei Turchi.

PARTE SECONDA

CAPO V. Come la monarchia provvede alla propria sicurezza.

La monarchia non si distrugge da sè come lo Stato dispo­ tico, ma uno Stato di media grandezza potrebbe essere facilmente invaso. Essa ha dunque delle piazzeforti che ne difendono le frontiere, e degli eserciti per difendere le piaz­ zeforti. Il più piccolo territorio viene conteso con arte, con coraggio, con tenacia. Gli Stati dispotici si invadono a vi­ cenda: non ci sono che le monarchie che sappian fare la guerra. Le piazzeforti sono proprie delle monarchie; gli Stati dispotici temono di averne; non osano affidarle a nessuno, perchè nessuno in essi ama lo Stato e il principe.

CAPO VI. Della forza difensiva degli Stati in generale.

Perchè 1 uno Stato sia forte, bisogna che la sua gran­ dezza sia tale che esista un preciso rapporto tra la rapidità con la quale si può mettere in atto contro di esso un'azione aggressiva, e la prontezza che esso può usare nel mandarla a vuoto. Poichè l'aggressore può subito spuntare dovunque, è necessario che chi si difende possa fare altrettanto, e, di conseguenza, che l'estensione dello Stato non sia grande, perchè possa essere in proporzione al grado di velocità che la natura ha dato agli uomini per spostarsi da un luogo ad un altro. La Francia e la Spagna sono esattamente della grandezza richiesta. Le forze sono in così buona comunicazione tra di loro, che possono spostarsi rapidamente ove è necessario; gli eserciti possono riunirvisi e passare tosto da una fron­ tiera all'altra; non c'è da temervi nessuna di quelle cose che hanno bisogno di un certo tempo per essere eseguite 2. I . I primi tre cpvv. del presente capitolo sono tratti dal cap. 20 delle Réfiexions sltr la monarchie universelle.

2. Sul rapporto fra le dimensioni della Francia e la sua forza militare e sul:a sua differenza dalla Persia e dagli altri Stati dispotici, cfr. Pensées,

LIBRO NONO

243

In Francia, per una ammirevole congiuntura, la capitale si trova più vicina alle differenti frontiere proprio in pro­ porzione della loro debolezza; e il principe da essa può con­ trollare meglio ogni parte del paese a seconda che viene a trovarsi più esposta. Ma 1 quando un vasto Stato, quale la Persia, viene at­ taccato, ci vogliono molti mesi perchè le truppe disperse possano riunirsi, ed è impossibile far eseguire loro marce forzate per un così lungo periodo di tempo, come si po­ trebbe fare per quindici giorni. Se l'esercito che si trova sulla frontiera viene sconfitto, esso si disperde sicuramente perchè le sue linee di ritirata sono lontane; l'esercito vitto­ rioso, il quale non incontra più resistenza, si avvicina a grandi tappe, giunge nei pressi della capitale, la circonda d'assedio, quando appena i governatori delle provincie sono stati avvertiti che c'è bisogno di aiuti. Quelli che ritengono prossima la rivoluzione, la affrettano non obbedendo. Poichè certi individui, fedeli unicamente se la punizione è vicina, non lo sono piji se essa è lontana: si occupano soltanto dei loro interessi particolari. L'impero si dissolve, la capitale viene espugnata, e il conquistatore disputa le provincie ai governatori. La 2 vera potenza di un principe non risiede tanto nella facilità ch'egli ha di fare delle conquiste, ma nella difficoltà che si ha ad attaccarlo, e, se mi si consente di dirlo, nel­ l'immutabilità della sua condizione. Ma l'ingrandimento degli Stati fa sì ch'essi mostrino nuovi lati da dove possono essere conquistati. Così, come i monarchi devono avere della saggezza per aumentare la propria potenza, non devono avere meno prudenza per !imitarla. Facendo cessare gli inconvenienti della piccolezza, devono tenere sempre gli occhi aperti su quelli della grandezza. I, p. 287, n. 271 (1 770), di cui varie parti erano destinate in origine alle Considéralions, come rivelano note marginali poi cancellate. r . Il cpv. è tratto dal cap. 21 delle Réfiexions sur la monarchie universelle. 2. Il cpv. è tratto dal cap. 19 delle Réfiexions sur la monarchie universelle.

PARTE SECONDA

244

CAPO VII. Riflessioni •.

I nemici di un gran principe 2 che ha lungamente regnato lo hanno le mille volte accusato, piuttosto badando, credo, alle loro paure che a giuste ragioni, di aver formato e cer­ cato di attuare un progetto di monarchia universale. Se vi fosse riuscito, nulla sarebbe stato più fatale all'Europa, ai suoi antichi sudditi, a lui, alla sua famiglia. Il cielo, che conosce ciò che realmente è vantaggioso, lo ha meglio servito procurandogli delle sconfitte di quanto non avrebbe fatto con delle vittorie. Invece di renderlo unico re d'Europa, lo favorì maggiormente rendendolo il più potente di tutti J. Il suo popolo, che, nei paesi stranieri, non è mai tocco se non da ciò che ha abbandonato; che, partendo dalla patria, considera la gloria come il sommo dei beni, e, nei paesi lontani, come un ostacolo al suo ritorno; che indispone per le sue stesse buone qualità, poichè pare aggiungervi un'ombra di disprezzo; che può sopportare le ferite, i pericoli e le fatiche, ma non la perdita dei suoi piaceri; che nulla ama di più della allegria, e si consola per la perdita di una battaglia con una canzonetta sul generale 4, non avrebbe mai potuto condurre a buon fine un'impresa che non può fallire in un paese senza fallire in tutti gli altri, nè perdere un'opportunità senza fallire per sempre.

1. L'intero cap. è tratto dal cap. 17 delle Réfle:rions sur la monarchie universelle.

2. Luigi XIV. 3· Nelle Réflexions cit. era qui inserito il seguente cpv.: " Ma quan­ d'anche egli avesse vinta la famosa battaglia nella quale ricevette la prima sconfitta [la battaglia di Hochstaedt, vinta nel 1 704 dal duca di 'Marlborough, come Montesquieu esplicitamente scrive in Pensées, I. fol. 438 v0, n. 362 ( 1 621)], la sua impresa, !ungi dall'essere compiuta, sarebbe stata appena cominciata; sarebbe stato necessario estender ancor più le sue forze e le sue frontiere. La Germania, che partecipava alla guerra quasi unicamente fornendo dei mercenari, l'avrebbe fatta diret­ tamente; il Nord si sarebbe sollevato; tutte le Potenze neutrali si sarebbero dichiarate e gli interessi dei suoi alleati sarebbero mutati ». 4· Cfr., per questo giudizio sulla Francia, X I X, 5·

LIBRO NONO

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CAPO VIII. Caso nel quale la forza difensiva di uno Stato è inferiore a quella offensiva. Disse una volta il sire di Coucy t al re Carlo V . È quel che si diceva dei Romani; è quel che esperimentarono i Cartaginesi; è quel che accadrà ad ogni potenza che abbia inviato lontano i suoi eserciti per rappacificare, con la forza della disciplina e del potere militare, quelli che in patria sono divisi da interessi politici o civili. Lo Stato si trova indebolito a causa del male che continua a restar vivo, ed è indebolito inoltre dal rimedio. La massima del sire di Coucy è una eccezione alla regola generale, la quale vuole che non si intraprendano mai delle guerre lontane; e questa eccezione conferma la regola, poichè vale soltanto contro coloro 2 i quali proprio hanno violato la regola.

CAPO IX. Della forza relativa degli Stati. Ogni grandezza, ogni forza, ogni potenza è relativa. Bisogna badare, quando si cerca di aumentare la grandezza effettiva, a non ridurre quella relativa. Verso la metà del regno di Luigi XIV, la Francia rag­ giunse il punto più alto della sua grandezza relativa J. La Germania non aveva ancora i grandi monarchi che ha avuto in seguito. L'Italia si trovava nella medesima situazione. La Scozia e l'Inghilterra non formavano una monarchia unica. L'Aragona non ne formava una con la Castiglia; le I . Enguerrand VII, sire di Coucy, uno dei più potenti feudatari franceSI del nord, morto in Ungheria nel 1397 dove si era recato per com­ battere i Turchi. 2. In A B si ha la seguente lezione: • contro coloro che le hanno intraprese anch'essi >. 3· Tuttavia il giudizio che Montesquieu dava di Luigi XIV era assai severo, cfr., per quanto riguarda la politica estera, Pensées, II, fai. 1 4 1 , n. 1302 ( I , p. 369, n . 595), frammento che f a parte dei Morceaux de ce que je voulois écrire sur l' histoire de France.

PARTE SECONDA

parti in cui era divisa la Spagna erano deboli, e la indebo­ livano. La Moscovia non era più nota in Europa della Crimea.

CAPO X. Della debolezza degli Stati confinanti 1 .

Quando si ha per paese confinante uno Stato che si trova in decadenza, bisogna guardarsi bene dall'affrettarne la rovina, poichè ci si trova, in questo caso, nella situazione migliore che si possa desiderare, dal momento che non c'è nulla di più comodo, per un principe, che trovarsi vicino ad un altro che riceve per lui tutti i colpi e gli oltraggi della avversa fortuna. Ed è raro che, con la conquista di un simile Stato, si guadagni in potenza effettiva quanto si è perduto in potenza relativa.

I . Il testo del cap. è identico. salvo lievissime varianti formali. a Pensées, I, p. 472, n. 689 ( 1 78 1 ) , in cui manca però l'ultima frase. Nello stesso senso cfr. Pensées, I, p. 333. n. 3 1 8 (1 780): " Un principe crede di diventare più potente grazie alla rovina di uno Stato vicino. Al contrario! In Europa le cose sono cosi disposte che tutti gli Stati dipendono gli uni dagli altri. La Francia ha bisogno dell'opulema della Polonia e della Moscovia, come la Guienna ha bisogno della Bretagna e la Bretagna del­ l' Angiò. L'Europa è uno Stato composto da molte province »; cfr. anche Réflexions sur la monarchie univcrselle, cap. 18: " Lo Stato che crede di aumentare la propria potenza grazie alla rovina dello Stato che gli è confinante, si indebolisce di solito con esso Tuttavia in seguito (X, 4) Montesquieu metterà in evidenza i vantaggi che un popolo infiacchito può trarre dall'esser conquistato. •·

L IBRO D ECIMO

DELLE LEGGI NEL LORO RAPPORTO CO� LA FORZA OFFENSIVA

CAPO I. Della forza offensiva. La forza offensiva è regolata dal diritto delle genti, che è la legge politica delle nazioni, considerate nel rapporto che esse hanno le une con le altre.

CAPO Il.

Della guerra.

La vita degli Stati è simile a quella degli uomini: questi hanno il diritto di uccidere per legittima difesa, quelli hanno il diritto di muover guerra per la propria conservazione 1. Nel caso della legittima difesa, io ho il diritto di ucci­ dere perchè la mia vita mi appartiene, come la vita di chi mi assale appartiene a lui; analogamente, uno Stato fa la guerra perchè la sua conservazione è giusta, come qualunque altra conservazione 2. Tra cittadini, il diritto di legittima difesa non implica la necessità dell'attacco. Invece di attaccare, essi non hanno che da ricorrere ai tribunali 3. Non possono quindi esercitare 1 . Cfr. Lettres Persanes, XCV in cui è già affermato il parallelo fra giustizia interna e guerra come atto di giustizia internazionale; cfr. pure il frammento Della natura delle cose che dipendono dal diritto delle genti, in Pensées, III, foll. 83-85, n. 1 8 1 4 (390), in cui tra l'altro è detto: « La guerra presuppone la difesa naturale •. 2. Cfr. FÉNELON, Examen de conscience sur les devoirs de la royaulé, art. XIII, § 27, dove si afferma che la guerra è giusta quando è fatta per difendersi dagli attacchi di un nemico ingiusto. J. Cfr. LocKE, Two treatises of Government, II, cap. 3, § 20.

PARTE SECONDA

questo diritto di difesa che nei casi subitanei, nei quali sarebbero perduti se attendessero l'aiuto della legge. Ma, tra le società, il diritto di legittima difesa implica qualche volta la necessità di attaccare, quando un popolo si rende conto che una pace più lunga darebbe a un altro Stato la possibilità di distruggerlo, e che l'attacco è in quel deter­ minato momento l'unico mezzo per impedire siffatta di­ struzione. Ne deriva che le piccole società hanno più spesso il diritto di fare la guerra che non le grandi, perchè più sovente si trovano nella condizione di dover temere la propria distruzione. Il diritto di guerra deriva pertanto dalla necessità e da un rigido rispetto del giusto. Se coloro che dirigono la co­ scienza o i consigli dei principi non si attengono a queste norme, tutto è perduto; e, se ci si vorrà fondare su principi arbitrari di gloria, di benessere, di utilità, fiotti di sangue inonderanno la terra. Non si parli, soprattutto, della gloria del principe: la sua gloria sarebbe il suo orgoglio, una passione, e non un diritto legittimo. È verò che la fama della sua potenza potrebbe aumentare le forze del suo Stato; ma la fama della sua giustizia le aumenterebbe del pari.

CAPO III. Del diritto di conquista. Dal diritto della guerra deriva quello di conquista t, che ne è la conseguenza 2: ne deve quindi seguire lo spirito. 1 . Si noti che nella prima edizione delle Lettres Persanes, Montesquieu aveya scritto: • Il diritto di conquista non è un diritto. Una società non può essere fondata che sulla volontà degli associati. Se essa è distrutta dalla conquista il popolo ridiventa libero: non si ha più una nuova società, e, se il vincitore vuoi formarne una, fa opera tiran'lica (lett. XCV) . Nel testo definitivo, comparso nel Supplément all'ediz. del 1754, questa rigida posizione è attenuata e Montesquieu si accosta allo schema dell'Esprit des Lois, pur mantenendo la condanna per quei casi in cui si annienti o si disperda il popolo vinto. 2. Cfr. I, 3· •

LIBRO DECIMO

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Quando un popolo è conquistato, il diritto che il con· quistatore ha sopra di esso segue quattro tipi di legge: la legge di natura, la quale fa sì che tutto tende alla conserva­ zione della specie; la legge del lume naturale, la quale vuole che noi facciamo ad altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi stessi; la legge che forma le società politiche, le quali sono tali che la natura non ne ha limitata la durata; infine la legge ricavata dalla cosa stessa. La conquista è una acqui­ sizione; lo spirito di acquisizione porta con sè quello di conservazione e di uso, e non quello di distruzione. Uno Stato che ne ha conquistato un altro lo tratta in una delle quattro maniere seguenti: continua a governarlo secondo le sue leggi, e non assume che l'esercizio del governo politico e civile; gli impone un nuovo governo politico e civile; ne distrugge la struttura sociale e la disperde in mezzo ad altre; infine ne stermina tutti i cittadini. La prima maniera è conforme al diritto delle genti che noi seguiamo oggi; la quarta è più conforme al diritto delle genti seguìto dai Romani 1 : sul quale argomento io lascio giudicare in qual misura noi siamo divenuti migliori. Bisogna rendere qui omaggio ai nostri tempi moderni, alla ragione presente, alla religione di oggi, alla nostra filosofia, ai nostri costumi. Gli scrittori del nostro diritto pubblico, fondati sulla storia antica, essendo usciti da casi rigidi, sono caduti in gravi errori. Sono finiti nel campo dell'arbitrio; hanno sup­ posto nei conquistatori un diritto, che io ben non com­ prendo, di uccidere: ciò che ha fatto trarre loro delle con­ seguenze terribili come il principio, e stabilire massime che gli stessi conquistatori, quando hanno avuto un minimo di buon senso, non hanno mai attuato. È chiaro che, quando la conquista è avvenuta, il conquistatore non ha più alcun 1. Nelle Considérations, cap. 6, è di opinione diversa., vi afferma infatti che i Romani non imponevano nessuna legge genera.le ai popoli vinti, accontentandosi di toglier loro ogni forza. militare; cfr. però quanto dirà nel cap. 6 e nel cap. XI, 19 dell Esprit des Lois, sui diversi indirizzi poli­ tici dei Romani a.! riguardo. '

PARTE SECONDA

diritto di uccidere, perchè non si trova più nel caso di legit­ tima difesa, nè in quello della propria conservazione. Ciò che li ha portati a queste posizioni, è che essi hanno creduto che il conquistatore avesse il diritto di distruggere la società; dal che hanno concluso che avesse pure il diritto di distruggere gli uomini che la compongono: falsa conse­ guenza derivata da un falso principio 1 . Poichè, quand'anche la società dovesse essere annientata, non ne deriverebbe affatto che dovessero essere annientati anche gli uomini che la formano. La società è l'unione degli uomini, e non gli uomini stessi; il cittadino può perire, e l'uomo soprav­ vivere. Dal diritto di uccidere durante la conquista, i politici hanno ricavato il diritto di ridurre in schiavitù; ma la con­ seguenza è altrettanto mal fondata che il principio 2. N�n si ha il diritto di ridurre in schiavitù che quando ciò è necessario per il mantenimento della conquista. L'obiet­ tivo della conquista è la conservazione J; la schiavitù non è mai l'obiettivo della conquista, ma può accadere che essa sia un mezzo necessario per assicurare la conservazione. In questo caso, è contro la natura delle cose che questa schiavitù sia perpetua. Bisogna che il popolo da schiavo possa divenire suddito. La schiavitù nella conquista è un fatto accidentale. Quando •, dopo un certo lasso di tempo, tutte le parti dello Stato conquistatore si sono legate con quelle dello Stato conquistato per mezzo dei costumi, dei matrimoni, delle leggi, delle associazioni, e di una certa conformità di spirito, la schiavitù deve cessare: poichè i I. Già BoDIN (De la République, I, 5) si era dimostrato contrario al diritto di uccidere i prigionieri e alla pretesa di farli schiavi. 2. È l'opinione di GROZIO (De iu1'e belli ac pacis, III, 7), di PUFENDORF (De officio hominis et civis, II, 1) e di LOCKE (Two treatises of Govemment, II, capi 4 e 7). ma l'origine di questa concezione è ben più lontana, essendo già affermata nell'antica Grecia, secondo quanto riferisce ARISTOTELE (Politica, I, 1 255 a) . Alla tesi di Montesquieu si uniformerà poi RoussEAU (Du contrai social, I, 4). Contro questa derivazione della schiavitù dal diritto di uccidere i prigionieri, Montesquieu si eleverà ancora nel cap. XV, 2. 3· Cfr. I, 3· 4· Il testo di questo periodo è quasi identico a quello di Pensées, II, fai. 99 v0 n. 1 227 (1885) riportato alla nota I del cap. 6.

LIBRO DECIMO

2) 1

diritti del conquistatore non sono fondati che sul fatto che queste cose non esistono, e che vi è una frattura tra le due nazioni, tale che una non può fidarsi dell'altra. Cosi il conquistatore che riduce il popolo in schiavitù deve sempre riservarsi dei mezzi (i quali sono innumerevoli) per farnelo uscire 1 . Non affermo qui delle cose vaghe. I nostri padri, che conquistarono l'impero romano, agirono in questo modo. Le leggi che essi fecero nell'ardore, nell'azione, nell'impeto, nell'orgoglio della vittoria, le mitigarono in seguito: le loro leggi erano dure, ed essi le resero imparziali. I Burgundi, i Goti ed i Longobardi volevano sempre che i Romani fossero un popolo vinto; le leggi di Eurico, di Gundobaldo e di Rotari resero concittadini i Barbari e i Romani •. Carlo Magno z, per domare i Sassoni, tolse loro la qualità di liberi e la proprietà dei beni. Ludovico il Bonario J li affrancò b: fu questo il miglior atto di tutto il suo regno. I tempi e la schiavitù avevano addolcito i costumi: quei popoli gli furono sempre fedeli.

CAPO IV. A lcuni vantaggi dei popoli conquistati. Invece di ricavare dal diritto di conquista delle conse­ guenze così funeste, gli scrittori politici avrebbero fatto a. Si veda il codice delle leggi dei barbari e il lib. XXVIII in seguito 4• b. Si veda l'autore incerto della vita di Ludovico il Bonario, nella raccolta del DucHESNE [Historiae Francorum scriptores coetanei, Parigi, r636-r649, 5 voll.], tomo II, p. 296. qui

1. Il Ms. (II, fol. 1 24 v0) cosi continua: « La leggenda ci narra che Circe, dopo aver cambiato gli uomini in bestie, trasformava ancora le frase passata in parte nel cap. XII, 27. Nel Ms. il bestie in uomini capitolo aveva termine dopo questa frase. 2. In A B manca l'ultimo cpv. e la nota relativa. 3· Già Carlo Magno aveva mitigato le sue prime severe disposizioni: con il Capitulare Saxonicum, del 797, aveva concesso ai Sassoni la parità giuridica con i Franchi. 4· Capi r -6. In A si ha soltanto il rinvio alle leggi barbariche e non al libro xxnn. "•

2)2

PARTE SECONDA

meglio a parlare dei vantaggi che questo diritto può conce­ dere talvolta al popolo vinto. Avrebbero avuto modo di intenderli meglio se il nostro diritto delle genti fosse seguìto esattamente, e se fosse stabilito in tutta la terra. Gli Stati che vengono conquistati non sono, ordinaria­ mente, nel fiorire delle loro istituzioni: la corruzione vi si è introdotta; le leggi hanno cessato dall'esser rispettate, il governo è divenuto oppressivo. Chi può dubitare che uno Stato simile non guadagnerebbe e non trarrebbe qualche vantaggio dalla conquista stessa '• se essa non avesse per fine la distruzione? Un governo giunto al punto in cui non può più riformarsi da sè, cosa avrebbe da perdere ad essere rifatto ? Un conquistatore che invada una nazione dove, tra mille astuzie e mille artifizi, il ricco si è insensibilmente assicurato una infinità di strumenti di usurpazione; dove l'infelice che geme, vedendo quelli che egli credeva abusi divenire leggi, si sente oppresso, e crede persino di aver torto accorgendosene; un conquistatore, dunque, può mutare violentemente tutto, e la sorda tirannide è la prima a subire le conseguenze. Si son visti, per esempio, degli Stati oppressi dagli appal­ tatori delle imposte venir liberati dai conquistatori, i quali non avevano gli impegni e le necessità del principe legittimo. Gli abusi si trovarono corretti senza che il conquistatore li correggesse nemmeno 2. Talvolta la frugalità della nazione conquistatrice l'ha posta nella possibilità di lasciare al vinto il necessario, che gli era stato tolto sotto il principe legittimo. Una conquista può distruggere pregiudizi nocivi e porre, se mi è concesso dirlo, una nazione in condizioni migliori. Quanto bene avrebbero potuto fare gli Spagnoli ai Mes­ sicani! Avrebbero potuto dar loro una religione mite: vi portarono invece una superstizione furiosa. Avrebbero poI . Cfr. IX, 10, nota I . 2. Cfr. Xl, 19 e XIII, 1 6 . Nello stesso senso si esprimerà anche HUME nel saggio Of taxes, in Political Discourses, Edimburgo, 1 752 (ediz. cit., I, pp. 358-g).

LIBRO DECIMO

tuto liberare gli schiavi, e resero schiavi gli uom1m liberi. Avrebbero potuto illuminarli sull'abuso dei sacrifici umam, e invece li sterminarono. Non concluderei mai se volessi riferire tutte le cose buone che essi non fecero, e le cattive che fecero '· Spetta al conquistatore por rimedio ad una parte dei mali che ha fatto. Io definisco in questo modo il diritto di conquista: un diritto necessario, legittimo e infelice, che lascia sempre da saldare un debito immenso per sdebitarci verso la natura umana.

CAPO

V.

Gelone, re di Siracusa.

Il più bel trattato di pace del quale la storia abbia par­ lato è, io credo, quello che Gelone concluse con i Cartaginesi. Egli volle che essi abolissero l'usanza di immolare i fan­ ciulli •. Cosa ammirevole! Dopo aver sconfitto trecentomila Cartaginesi, egli esigeva una condizione che non era utile che a loro, o piuttosto stipulava il trattato a favore del genere umano. I Battriani 2 facevano divorare i loro vecchi da grossi cani J: Alessandro lo proibì b, e fu un trionfo riportato sulla superstizione. veda la raccolta del signor di Barbeyrac, art. [cap. II).

a.

Si

b.

STRABONE, lib. Xl

nz

4•

I . Cfr. il riassunto rimastoci del Traité des devoirs (Oeuvres complètes, VII, p. 68) in cui è già espressa una severa condanna della colonizzazione spagnola. Sullo stesso argomento cfr. Pensées, II, fol. 1 2 3 , n. r268 (617) : « Gli Spagnoli dimenticarono i doveri dell'umanità ad ogni passo che fecero nella loro conquista delle Indie ecc. •; vedi inoltre Lettres Persanes, CXXI; Considérations, cap. 6 e Esprit des Lois, XV, 4· 2. Sia nel Ms. che in A B manca l'ultimo cpv. 3· Strabone riferisce che vittime di questa usanza erano, oltre ai vecchi, anche i malati. 4· È l' Histoire des anciens traités, Amsterdam, 1 739.

PARTE SECONDA

CAPO VI. Di una repubblica che conquista.

È contro la natura delle cose che, in una costituzione federale 1, uno Stato confederato ne conquisti un altro, come abbiamo visto ai nostri giorni in Svizzera Nelle repub­ bliche federative miste, ove l'associazione è tra piccole repubbliche e piccole monarchie, ciò stupisce meno. È pure contro la natura delle cose che una repubblica democratica conquisti delle città non desiderose di entrare nella sfera della sua democrazia 2. Bisogna che il popolo conquistato possa godere dei privilegi della sovranità, così come stabilirono i Romani agli inizi. Si deve limitare la conquista al numero dei cittadini che si stabilirà per la democrazia 3. Se una democrazia conquista un popolo per governarlo come suddito, essa pone in pericolo la propria libertà, perchè •.

a.

Per il Tockembourg 4•

1 . Cfr. Pensées, II, fol. 99 v0, n. I227 ( I 88s): È contro la natura della cosa stessa che, in una costituzione federale come quella svizzera, i Cantoni facciano conquiste gli uni a scapito degli altri, come è accaduto ultima­ mente (per i Protestanti nei riguardi dei Cattolici) . È contro la natura d'una buona aristocrazia che i cittadini tra cui vengono eletti i magistrati, il Senato, i Consigli, siano in numero cosi esiguo da costituire una pic­ colissima parte del popolo, come a Berna: poichè in tal caso si viene ad avere una monarchia a molte teste. È pure contro le leggi naturali che una repubblica che ha conquistato un popolo lo tratti sempre come sud­ dito e non come alleato, quando, dopo un notevole periodo di tempo, tutte le categorie si sono amalgamate fra loro, attraverso matrimoni, consuetudini, leggi, legami intellettuali: infatti le leggi del conquistatore non sono buone e tollerabili se non in quanto queste cose non esistono, e in quanto vi è un tal distacco fra i due popoli da non permettere all'uno di aver fiducia nell'altro ,; dopo il riferimento alla Svizzera vi è la nota • Messo nelle Leggi 2. L'argomento era già stato ampiamente trattato nello stesso senso da HUME nel saggio That Politics may be reduced lo a Science, in Essays Moral and Politica/, Edimburgo, I 74I (ediz. cit., tomo l, pp. IOI-3) . 3· Cfr. II, 2. 4· Allude alla valle di Toggenbourg, nel cantone di San Gallo. Nel I 7 I 2, i valligiani del Toggenbourg, dopo una lunga serie di conflitti iniziati nel I 7o6, sostennero una guerra con l'abate di San Gallo loro signore, per ottenere il riconoscimento della loro libertà. �ei Voyagcs (I, pp. I 82-4} Montesquieu riferisce di aver conosciuto a Firenze (quindi tra il I o dicem­ bre I 728 e il I5 gennaio I 729) un signor di Bezenval, svizzero, con il quale si intrattenne appunto di questa guerra e delle altre vicende politiche svizzere di quel periodo. •

».

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sarà costretta a conferire una troppo grande autorità ai magistrati che invierà nello Stato conquistato t . In quale pericolo si sarebbe trovata Cartagine se Anni­ bale avesse conquistato Roma! Cosa non avrebbe egli fatto nella propria città dopo la vittoria, lui che vi causò tanti sommovimenti dopo essere stato sconfitto •! Annone non avrebbe mai potuto pei"suadere il senato che non si dovevano inviare ulteriori aiuti ad Annibale se avesse fatto parlare soltanto la sua gelosia 2. Questo senato, che Aristotele J afferma esser stato così saggio (affermazione che la prosperità di quella repubblica non può che confermare) non poteva esser convinto che da ragioni sensate. Avrebbe dovuto essere troppo stupido per non capire che un esercito, a trecento leghe dalla patria, subiva necessariamente delle perdite che dovevano essere colmate. Il partito di Annone voleva che si abbandonasse Anni­ . bale b ai Romani. In quel momento i Romani non erano temibili: si temeva dunque Annibale. Non si poteva credere, si afferma, ai successi di Annibale; ma come dubitarne ? I Cartaginesi, sparsi in tutto il mondo, potevano ignorare ciò che stava accadendo in Italia? È appunto perchè non lo ignoravano che non si volevano inviare aiuti ad Annibale. Annone divenne più tenace dopo la battaglia della Trebbia, dopo quella del Trasimeno, dopo Canne: non era dunque la sua incredulità che aumentava: era la sua paura 4. Egli era a capo di una fazione. b. Annone voleva che si consegnasse Annibale ai Romani, come Catone voleva che si consegnasse Cesare ai Galli. a.

1. Cfr. però quanto affermerà al cap. XI, 19, che cioè una repubblica conquistatrice non può trasmettere la propria forma di governo. Hume, nel saggio citato, per dimostrare che le conquiste delle democrazie sono oppressive e dannose, citava proprio l'esempio dei governatori romani (op. cit., p. I O I ) . 2. In Considérations, cap. 5 , Montesquieu afferma più semplicistica­ mente che Annibale non ricevette aiuti dalla patria per gelosia del par­ tito avverso e per troppa fiducia dei suoi fautori. J. Cfr. VIII, 1 4 , nota 2, p. 223. 4 · Cfr. SAINT-EVREMOND, Réfiexions sur les divers génies du peupli!

PARTE SECONDA

CAPO VII. Continuazione del medesimo argomento. Un altro inconveniente hanno le conquiste fatte dalle democrazie. Il loro governo è sempre odioso per gli Stati assoggettati. Esso è monarchico apparentemente; ma, in realtà, è più duro, come ha dimostrato l'esperienza di tutti i tempi e di tutti i paesi r. I popoli conquistati si trovano in una triste condizione; essi non godono dei vantaggi della repubblica nè di quelli della monarchia. Ciò che ho detto dello Stato popolare si può applicare anche a quello aristocratico.

CAPO VIII. Continuazione del medesimo argomento. Così, quando una repubblica tiene qualche popolo sotto il proprio dominio, bisogna ch'essa cerchi di riparare gli inconvenienti che nascono dalla natura della cosa, dandogli un buon diritto politico e buone leggi civili. Una repubblica italiana 2 teneva dei popoli insulari sotto la sua dominazione, ma il suo diritto politico e civile nei romain dans les différents temps de la République, in Oeuvres meslées, tomo VIII, Parigi, 1684. 1. Cfr. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca, II, 2. 2 . Nel Ms. (II, fol. 135 r-v0) si ha la seguente lezione: « I Genovesi tenevano la Corsica nella soggezione, ma nulla era più corrotto del loro diritto politico e più violento del loro diritto civile. È noto quel trattato nel quale il senato promette di non far più mettere a morte nessuno in base alla " informata coscienza " del governatore. Si soil visti spesso, dei popoli domandare dei privilegi: in questo caso il popolo domanda, e il sovrano accorda, il diritto naturale stesso ». Dopo la parola • coscienza " si ha la seguente nota: e;; informata conscientia, nota che si trova pure in A B che hanno lezioni lievemente diverse dall'attuale. La correzione fu apportata a stampa già avvenuta sostituendo il foglio. Si osservi che già HUME, nel saggio That Politics ecc. citato, aveva indicato la Corsica come un esempio del malgoverno delle democrazie nei paesi loro sotto­ messi (Essays cit., p. 1 03). Per l'interesse che Montesquieu nutriva verso la Corsica, cfr. Spicilège, p. 199, dove riporta la Costituzione còrsa redatta nel gennaio 1 735 dal· l'avvocato Sebastiano Costa.

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LIBRO DECIMO

loro riguardi era difettoso. È noto quell'atto • di amnistia in base al quale nessuno sarebbe più stato condannato a pene afflittive oluzione presa da qualcun altro. Era questo il potere dei tribuni romani. Per quanto chi ha la facoltà di impedire possa avere anche il diritto di approvare, questa approva­ zione non è altro che la dichiarazione di non uso della facoltà di impedire e deriva da questa facoltà. Il potere esecutivo deve essere nelle mani di un monarca, perchè questa parte del governo, che ha quasi sempre biso­ gno di una azione subitanea, è meglio amministrata da uno che da molti, mentre ciò che dipende dal potere legislativo è spesso meglio ordinato da molti che da uno solo. Se non ci fosse monarca, e il potere esecutivo fosse affi­ dato a un certo numero di persone scelte dal corpo legi­ slativo 1, non ci sarebbe più libertà, perchè i due poteri si troverebbero riuniti, le stesse persone avendo talvolta parte - e potendo prenderla in ogni momento - all'una e all'al­ tra attività. Se il corpo legislativo non fosse convocato per un lungo periodo di tempo, non ci sarebbe più libertà. Perchè si verificherebbe una di queste due cose: o non ci sarebbero più risoluzioni legislative, e lo Stato cadrebbe nell'anarchia; o queste risoluzioni sarebbero prese dal potere esecutivo, ed esso diverrebbe assoluto. Sarebbe inutile che il corpo legislativo fosse sempre riunito z. Ciò sarebbe scomodo per i rappresentanti, e occu­ perebbe inoltre troppo il potere esecutivo, che non si cureI. Il c. d. governo convenzionale o d'assemblea. Cfr. LocKE, op. cit., II, cap. 12, § 143: « E poichè, data la debolezza umana, propensa ad im­ possessarsi del potere, le stesse persone, che hanno il potere di far leggi, possono esser fortemente tentate di avere fra le mani anche il potere di eseguirle sl da dispensarsi dall'obbedienza alle leggi che si fanno e acco­ modare la legge, sia nel farla che nell'eseguirla, al loro proprio vantaggio privato, e così giungere ad avere un interesse distinto dagli altri membri della comunità, contrario al fine della società e del governo, perciò, dunque, nelle società ben ordinate, in cui si ha il dovuto riguardo al bene della totalità, il potere legislativo è posto nelle mani di diverse persone, le quali, regolarmente adunate, hanno, di per sè o congiuntamente con altre, il potere di far leggi, e quando le abbiano fatte e si siano di nuovo sepa­ rate, sono soggette alle leggi ch'esse stesse hanno fatte, il che è un nuovo e stretto impegno ad aver cura a farle per il pubblico bene "· 2 . Cfr., oltre al passo precedente, cap. 13, § 153: « Non è necessario, e neppur conveniente, che il legislativo sia sempre in funzione . ..

•·

PARTE SECONDA

rebbe di eseguire, ma di difendere le prerogative e il diritto che ha di eseguire. Inoltre, se il corpo legislativo fosse continuamente riu­ nito, potrebbe accadere che senz'altro si supplisse con nuovi deputati a quelli morti nel frattempo. In questo caso, se mai il corpo legislativo fosse corrotto, non ci sarebbe più rimedio. Quando diversi corpi legislativi si succedono l'uno all'altro, il popolo, che ha cattiva opinione del corpo legi­ slativo in carica, ripone giustamente le speranze in quello che lo seguirà, ma, se il corpo fosse sempre lo stesso, il popolo, vedendolo corrotto, non spererebbe più nulla dalle sue leggi: diverrebbe preda del furore, o cadrebbe nel­ l'apatia. Il corpo legislativo non deve riunirsi di propria inizia­ tiva r , perchè si suppone che un corpo abbia una volontà soltanto quando è riunito. Se non si riunisse per decisione unanime, non si saprebbe dire quale parte compone real­ mente il corpo legislativo, se quella riunita o l'altra. Se avesse poi il diritto di aggiornarsi da sè, potrebbe accadere che non si aggiornasse mai, ciò che sarebbe pericoloso, nel caso in cui volesse attentare al potere esecutivo. D'altronde, esistono periodi più convenienti l'uno rispetto all'altro per la riunione del corpo legislativo: bisogna dunque che sia il I. Di parere contrario era invece Hobbes il quale afferma che l'opi­ nione " che la legge pubblica non ha altro sindacato che il parlamento . . . è vera soltanto l à dove i l parlamento ha il potere sovrano e può riunirsi e sciogliersi a sua discrezione, perchè se qualche altro ha il potere di scio­ glierlo, ha anche il diritto di sindacare, e per conseguenza di sindacare il loro sindacato, e se non l'ha, allora chi esercita il sindacato sulle leggi non è il parliamenlum, ma il rex in parliamenlo » (Leviatano, II, XXVl. 6) . Anche Locke (op. cit., cap. 13, § 153) aveva sostenuto che il legislativo " può radunarsi e esercitare la sua legislatura nei tempi stabiliti dalla sua costituzione originaria o dal suo proprio aggiornamento, oppure, se non si è stabilito il tempo in nessuno di questi due modi, e non è stato pre­ scritto alcun altro modo di convocazione, a suo piacimento, perchè il potere supremo, essendo collocato nel legislativo dal popolo, contmua a trovarsi in esso ed esso può esercitarlo quando vuole ecc. » . Tuttavia, contro l'opinione di Hobbes, Locke sosteneva che quando il potere di convocare e sciogliere il legislativo spettasse all'esecutivo, questo conti­ nuava ad essere sottoposto a quello (loc. cii., §§ 154 e 1 56). Come si vede il problema che preoccupa i due filosofi inglesi è un probiema di sovranità, mentre Montesquieu si propone di regolare positivamente il funziona­ mento dei poteri onde assicurare la libertà del cittadino.

LIBRO UNDICESIMO

potere esecutivo a regolare il periodo e la durata di queste assemblee, in rapporto alle circostanze che gli son note 1 • Se il potere esecutivo non ha il diritto di arrestare le iniziative del corpo legislativo 2, -J.Uest'ultimo diverrà dispo­ tico; poichè, dal momento che potrà conferirsi tutto il potere che vorrà, annienterà tutti gli altri poteri. Ma non bisogna che il potere legislativo abbia reciprocamente la facoltà di arrestare quello esecutivo, poichè, avendo già l'esecuzione dei limiti per sua natura, è inutile frenarla; senza contare che il potere esecutivo si esercita sempre J su oggetti mo­ mentanei. Il potere dei tribuni romani era difettoso appunto perchè arrestava non solo la legislazione, ma anche l'esecu­ zione, e ciò causava grandi mali. Ma se, in uno Stato libero, il potere legislativo non deve avere il diritto di arrestare quello esecutivo, ha però il diritto, e deve avere la facoltà di esaminare in qual maniera le leggi che ha promulgato sono state eseguite; vantaggio che ha un governo di questo tipo su quello di Creta e di Sparta, ove i cosmi 4 e gli efori s non rendevano conto della loro amministrazione. Ma, quale che sia questo esame, il corpo legislativo non deve avere il potere di giudicare la persona 6, e di consc� 1 . Cfr. Lo c K E , loc. cit., § I 56 . 2. Nel Ms. (II, fol. I 77 v0) si ha la seguente nota: « È l'inconveniente delle leggi della Polonia ». 3· Sia il Ms. (II, fol. 1 78) che A B hanno « quasi sempre ». 4 · Cfr. ARISTOTELE, Politica, Il, I 2]2 a-b. 5 · Cfr. ARISTOTELE, Politica, II, 1 270 b. 6. Nel Ms. (II, fol. 1 79) si ha la seguente nota cancellata, passata poi in parte ,nel cpv. seguente: « A Cnido gli A mymones non potevano esser chiamati in giudizio nemmeno dopo la loro amministrazione. Essi erano come i Re d'Inghilterra ». Di parere nettamente contrario era invece Locke, il quale dedica gran parte degli ultimi due capitoli della sua opera ( 1 7 e I 8) a giustificare il diritto di resistenza, affermando anzi esplicitamente (cap. I 8, § 240) che il potere di giudicare « se il principe o il legislativo agiscono in modo contrario alla fiducia posta in loro » spetta al popolo (cfr. anche § 2 4 2). Anche nei confronti della prerogativa regia, Locke aveva affermato che il popolo aveva il diritto di ritirarla qualora fosse male esercitata (cap. 1 3, § I64) e di resistervi qualora fosse esercitata abusivamente (ibid., § 168). L'atteggiamento di Locke è strettamente legato alla realtà storica del suo paese, mira ad una giustificazione filosofico-politica delle due rivoluzioni che spezzarono l'assolutismo degli Stuarts, mentre Mon­ tesquieu afferma il principio strettamente giuridico della irresponsabilità

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PARTE SECONDA

guenza la condotta di chi esegue. La sua persona deve essere sacra, perchè, essendo egli necessario allo Stato affinchè il corpo legislativo non divenga tirannico, se fosse accusato o giudicato, non vi sarebbe più libertà. In simili casi lo Stato non sarebbe affatto una monarchia, ma una repubblica non libera. Dal momento che chi esegue non può agir male se non ha dei cattivi consiglieri e che odiano le leggi come ministri, benchè queste li favoriscano come uomini, questi ultimi possono esser ricercati e puniti. È questo il vantaggio del tipo di governo esaminato su quello di Cnido, ove, non permettendo la legge di chiamare in giudizio gli amimoni •, anche dopo che avevano terminato il loro periodo di amministrazione b , il popolo non poteva mai farsi rendere conto dei torti che gli venivano fatti. Benchè, in generale, il potere giudiziario non debba essere unito ad alcuna parte di quello legislativo, questa regola è soggetta a tre eccezioni fondate sull'interesse parti­ colare di chi deve essere giudicato. I grandi sono sempre esposti all'invidia, e, se fossero giudicati dal popolo, potrebbero trovarsi in pericolo, e non godrebbero del privilegio, che ha ogni cittadino anche umile in uno Stato libero, di essere giudicati da un loro pari. Bisogna dunque che i nobili siano fatti comparire non din­ nanzi ai tribunali ordinari della nazione, ma davanti alla parte del corpo legislativo che è composta di nobili. Potrebbe accadere che la legge, la quale è al tempo stesso chiaroveggente e cieca, fosse, in certi casi, troppo a. Erano dei magistrati che il popolo eleggeva ogni anno. Si veda Stefano di Bisanzio 1 • b. Si potevano accusare i magistrati romani dopo lo scadere della loro magistratura. Si veda l'affare del tribuno Genuzio in DIONIGI n'AucARNASSO, lib. IX [cap. 37]. (politica) del capo dell'esecutivo, che sarà accolto dal diritto costituzionale moderno. 1 . Amymoni, dal greco &:[1Uf1WV, senza rimprovero. PLUTARCO (Quae­ stiones Graecae, IV) li chiama amnemones, id est imntemores ed afferma che erano nominati a vita, in numero di sessanta ed erano scelti fra gli ottimati.

LIBRO UNDICESIMO

rigorosa. Ma i giudici non sono, come abbiamo già detto, se non la bocca che pronunzia le parole della legge, degli esseri inanimati che non ne possono moderare nè la forza nè la rigidezza. È dunque quella parte del corpo legislativo che, come abbiamo or ora detto, è, in altra occasione, un tribunale necessario, che deve esserlo pure in questo caso: spetta alla sua autorità suprema moderare la legge in favore della legge stessa, pronunziandosi meno rigorosamente di essa. Potrebbe anche accadere che qualche cittadino violasse, negli affari pubblici i diritti del popolo, e commettesse dei delitti che i magistrati costituiti, non sapessero o non voles­ sero punire. Ma, in generale, il potere legislativo non può giudicare, e lo può ancor meno in questo caso particolare, ove esso rappresenta la parte interessata, cioè il popolo: non può essere quindi che accusatore. Ma davanti a chi accuserà? Si abbasserà di fronte ai tribunali della legge, che gli sono inferiori, e composti da altri individui che, essendo anch'essi popolo, sarebbero influenzati dall'autorità di un così grande accusatore ? No: bisogna, per conservare l'autorità del popolo e la sicurezza del singolo, che la parte legislativa del popolo accusi di fronte alla parte legislativa dei nobili, la quale non ha gli stessi suoi interessi nè le stesse passioni. È il vantaggio che ha questo governo sulla maggior parte delle repubbliche antiche, ove si verificava l'abuso che il popolo era al tempo stesso giudice ed accusatore '· Il potere esecutivo, come abbiamo detto, deve prendere parte alla legislazione in base alla sua facoltà di impedire, senza di che sarebbe presto spogliato delle sue prerogative. Ma se il potere legislativo prende parte all'esecuzione, il potere esecutivo sarà egualmente perduto. Se il monarca prendesse parte all'attività legislativa con la facoltà di statuire, non ci sarebbe più libertà. Ma dal I. Nel Ms. (II, fol. 1 8 1 vo) si ha quindi il seguente cpv. cancellato: E questa disposizione costituisce la via più moderata che sia al mondo per supplire alla magistratura degli efori e al Consiglio dei Dieci di Venezia "

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PARTE SECONDA

momento che è però necessario che prenda parte all'attività legislativa per difendersi, bisogna che ne partecipi cc ·1 la facoltà di impedire. La causa del cambiamento del governo di Roma risiede nel fatto che il senato, il quale aveva una parte del potere esecutivo, e i magistrati, che detenevano l'altra, non posse­ devano, come il popolo, la facoltà di impedire. Ecco dunque la costituzione fondamentale del governo di cui parliamo. Essendovi un corpo legislativo diviso in due parti, l'una terrà a freno l'altra grazie alla reciproca facoltà di impedire. Entrambe saranno vincolate dal potere esecutivo, il quale lo sarà a sua volta da quello legi:;lativo. Questi tre poteri dovrebbero restare in riposo o nel­ l'inazione. Ma, poichè per il movimento necessario delle cose sono costretti a funzionare, saranno costretti a farlo di concerto 1 . Il potere esecutivo, non facendo parte di quello legisla­ tivo che per la sua facoltà di impedire, non può entrare nel dibattito degli affari 2. Non è neppure necessario che 1. Cfr. le osservazioni che in proposito fece Hume a Montesquieu nella sua lettera del IO aprile 1749: " I nostri compatrioti sono molto orgogliosi dell'approvazione da voi data alla loro forma di governo, di cui sono, e con qualche ragione, cosi innamorati. Ma si potrebbe osservare che, se le forme semplici di governo sono per loro natura soggette all'abuso, perchè in esse non vi è alcun contrappeso, d'altro canto le forme com­ plicate nelle quali una parte reprime l'altra, sono, come le macchine com­ plicate, facili a guastarsi a causa del contrasto e dell'opposizione delle parti » (Corr., Il, p. 1 76) . Già lo storico ugonotto Rapin-Thoyras (I66I­ I 725) aveva osservato che le prerogative del sovrano, dei grandi e del popolo vi sono [in Inghilterra) cosi temperate le une dalle altre che si sostengono vicendevolmente. Al tempo stesso ciascuna di queste tre potenze, che partecipano al governo, può frapporre degli ostacoli invin­ cibili alle iniziative che una delle altre due, o persino tutte e due insieme, volessero prendere per rendersi indipendenti » (Dissertation sur les Whigs et les Torys, L'Aja, 1717, p. 4). 2. In questo caso l'esempio inglese non veniva in soccorso a Montc­ squieu, anche Locke infatti, riferendosi all'Inghilterra, affermava che il sovrano aveva parte nel legislativo (op. cit., cap. 1 3 , § 151) ed ammet­ teva anzi che, indipendentemente dal legislativo, godesse della prerogativa, cioè del " potere di deliberare, secondo discrezione, per il pubblico bene senza la prescrizione della legge, e talvolta anche contro di essa (op. ci t., cap. 14, § 160), pur ammettendo che la prerogativa fosse subordinata al volere del popolo. Montesquieu invece non fa parola della prerogativa e limita l'intervento dell'esecutivo nella funzione legislativa ad un semplice diritto di veto. •



LIBRO UNDICESIMO

proponga delle risoluzioni, perchè, potendo sempre disap­ provarle può respingere le decisioni delle proposizioni che non avrebbe voluto fossero avanzate. In qualche repubblica antica, ove al popolo in corpo toccava il dibattito degli affari, era naturale che il potere esecutivo li proponesse e li dibattesse insieme; senza di che si sarebbe verificata, nelle risoluzioni, una strana confusione. Se il potere esecutivo delibera sulla imposizione dei tributi diversamente che col suo consenso, non ci sarà più libertà, perchè legifererà proprio nella parte più importante della legislazione 1 • Se il potere legislativo delibera, non di anno in anno, ma per sempre, sulla imposizione dei tributi, corre il rischio di perdere la propria libertà, perchè il potere esecutivo non ne dipenderà più, e quando si detiene un diritto simile per sempre, è indifferente che sia il proprio o quello di un altro. Lo stesso accade se esso delibera, non di anno in anno, ma per sempre, sulle forze di terra e di mare che deve affidare al potere esecutivo. Affìnchè chi detiene il potere esecutivo non possa tiran­ neggiare, bisogna che le forze armate che gli sono affidate provengano dal popolo, ed abbiano lo stesso spirito del I. Cfr. LocKE, op. cit., cap. I I , § I4o: « È vero che il governo non può sostenersi senza gravi spese, ed è opportuno che chiunque partecipi della sua protezione paghi, dei propri averi, una parte proporzionale per il suo mantenimento. Ma ciò deve sempre aver luogo col suo consenso, cioè a dire col consenso della maggioranza, dato o direttamente dai membri della società o dai loro rappresentanti da essi eletti; perchè se uno pretende il potere di imporre e levare tasse sul popolo di sua propria autorità e senza il consenso del popolo viola con ciò la fondamentale legge della proprietà, e sovverte il fine del governo Anche in Francia del resto la teoria che le tasse dovessero essere votate dai rappresentanti della nazione era assai diffusa. Fénelon aveva scritto in proposito: • Voi sapete che un tempo il re non prendeva nulla dai suoi popoli in virtù della sua sola autorità: era il Parlamento, cioè l'assemblea della nazione, che gli accordava i fondi necessari per le esigenze straordinarie dello Stato. All'infuori di questo caso il re viveva dei suoi domini. Che cos'è stato a mutare tutto ciò se non l'autorità assoluta che i re si sono arrogata ? (Examen de conscience, art. III, § I 8 ) . Su questo stesso fatto aveva attirato l'attenzione di Montesquieu anche Boulainvilliers, come chiaramente mostrano le citate Remarques (Pensées, cit.) ; del BoULAINVILLIERs si veda inoltre in proposito il Mémoire sur la convocation d'une Assemblée d' E.tats Généraux (in Mémoires présentés à Mgr. le due d'Orléans, L'Aja e Amster­ dam, I ]2], tomo I, p. 1 2 ) . ».



2. Si crearono diversi pretori, e si attribuì a ciascuno una sola di queste questioni. Si conferì loro per la durata di un anno il potere di giudicare i delitti che vi erano connessi, dopodichè essi andavano a governare la loro provincia. A Cartagine il senato dei cento era composto di giudici a vita Ma a Roma i pretori erano eletti per un anno, e i giudici per un periodo ancor più breve; poichè li si chiamava in carica per ciascuna causa. Si è visto nel capitolo sesto di questo libro come, sotto certi governi, questa disposi­ zione favorisse la libertà. I giudici furono scelti nell'ordine dei senatori fino ai tempi dei Gracchi. Tiberio Gracco 1 fece ordinare che fossero presi tra i cavalieri: mutamento così considerevole che il tribuna si vantò di aver spezzato le reni all'ordine dei sena­ tori grazie ad una sola rogazione. •.

•.

veda TITo Lrvw, prima deca, lib. IX [cap. z6], sulle congiure di Capua. a. Così si fece per le indagini relative alla morte di Postumio, nell'anno 340 di Roma. Si veda TITO Lr vro [IV, so] . b. Questo giudizio fu tenuto nell'anno 567 di Roma. c. Lib. VIII [ma XXXVIII, 54] . d . CICERONE, in Bruto [cap 27] . e. Come risulta da TITo LrviO, lib. XXXIII [cap. 46], il quale dice che Annibale rese la loro magistratura annuale. .

1. Fu in realtà Caio Gracco a 1ar approvare, nel secondo anno del suo tribunato (123 a. C.), questa legge, in base alla quale le liste dei giurati per i processi civili e le quaestiones penali straordinarie fossero formate di cavalieri.

PARTE SECONDA

Bisogna rilevare come i tre poteri possano essere ben distribuiti in rapporto con la libertà della costituzione, benchè non lo siano altrettanto in rapporto con la libertà del cittadino. A Roma, dato che il popolo deteneva la mag­ gior parte del potere legislativo, una parte del potere esecu­ tivo e una parte del potere giudiziario, si trattava di con­ trobilanciare un grande potere con un altro. Il senato aveva sì una parte del potere esecutivo, qualche ramo del potere legislativo •, ma questo non era sufficiente per controbilan­ ciare il popolo. Era necessario che il senato prendesse parte al potere giudiziario, cosa che avveniva quando i giudici erano scelti tra i senatori. Quando i Gracchi privarono i senatori del potere giudiziario b, il senato non potè più resistere al popolo. Essi colpirono dunque la libertà della costituzione per favorire la libertà del cittadino, ma questa si perdette con quella. Ne risultarono infiniti mali. Si mutò la costituzione in tempi nei quali, nell'ardore delle discordie civili, esisteva appena una costituzione. I cavalieri non costituirono più quell'ordine medio che univa il popolo col senato, e la catena della costituzione fu spezzata. Esistevano anche delle ragioni particolari che dovevano impedire di trasferire l'esercizio del potere giudiziario ai cavalieri. La costituzione di Roma era fondata sul principio che essi dovevano essere soldati, i quali possedevano so­ stanze a sufficienza per rispondere della propria condotta di fronte alla repubblica 1• I cavalieri, essendo i più ricchi, formavano la cavalleria delle legioni z. Quando la loro dignità venne accresciuta, essi non vollero più servire in questa a. I senato-consulti avevano efficacia per un anno, quan­ d'anche non fossero stati confermati dal popolo. DIONIGI n'Au­ CARNASSO, lib. IX [cap. 37], p. 595, e lib. XI [cap. 5 4] , p. 735 3. b. Nell'anno 630.

x.

Cfr. Xl, 6. non essi soli, 3· Cfr. II, 2 .

2. Ma

cfr. TITo

LrviO, Historiae, V, 7·

LIBRO UNDICESIMO

milizia; fu necessario reclutare una cavalleria: Mario prese ogni sorta di gente nelle legioni, e la repubblica fu perduta •. Inoltre, i cavalieri erano gli appaltatori delle imposte della repubblica; erano avidi, seminavano le disgrazie nelle disgrazie, e facevano nascere i pubblici bisogni dai pubblici bisogni. Lungi dal conferire a simili individui il potere giu­ diziario, sarebbe stato necessario porli continuamente sotto gli occhi dei giudici. Bisogna dire, a tutta lode delle antiche leggi francesi, che esse hanno stabilito nei confronti delle persone d'affari delle norme ispirate alla stessa diffidenza che si serba ai nemici. Quando a Roma i giudizi furono attribuiti ai cavalieri, non ci furono più virtù, più ordine, più leggi, più magistratura, più magistrati. Si trova una descrizione ben sincera di ciò in qualche frammento di Diodoro Siculo t e di Dione: .

LIBRO DODICESIMO

329

aver cospirato contro l'imperatore, e di essersi servito, a questo scopo, di certi segreti che rendevano gli uomini invisibili. È scritto, nella vita di questo imperatore •, che si sorpreGe Aronne mentre stava leggendo un libro di Salo­ mone, la cui lettura faceva comparire legioni di dèmoni. Ora, supponendo nella magia una potenza che arma l'in­ ferno, e partendo da questa supposizione, si considera colui che viene chiamato stregone come l'uomo più adatto a turbare o rovesciare la società, e si è portati a punirlo senza misura. L'indignazione cresce quando si attribuisce alla magia il potere di distruggere la reli.g:ione. La storia di Costan­ tinopoli b ci insegna che, per una rivelazione avuta da un vescovo 1 che un miracolo era cessato per la stregoneria di un individuo 2, questi e suo figlio furono condannati a morte. Da quanti fatti prodigiosi non dipendeva questo delitto ? Che le rivelazioni siano un fatto frequente, che il vescovo ne avesse avuto una, che essa fosse vera, che un miracolo fosse in corso, che questo miracolo fosse cessato, che vi fosse della magia, che la magia potesse distruggere la reli­ gione, che quell'individuo fosse un mago, che egli avesse compiuto, infine, quel determinato atto di magia. L'imperatore Teodoro Lascaris l attribuì la propria ma­ lattia alla magia. Agli accusati non si concesse altra prova a discarico che maneggiare un ferro rovente senza bruciarsi. Sarebbe stato necessario, presso i Greci, essere mago per giustificare la propria magia 4. Tale era l'eccesso della loro a. NICETA, Vita di Manuele Comneno, lib. IV [cap. 7]. b. Storia deU'imperatore Maurizw, di TEOFILATTO Qib. 1], cap. I I. I.

Il vescovo . di Eraclea.

2. Paulinus quidam, civis haud obscurus et doctrina liberali instructis­

simus, riferisce Teofilatto. 3· Teodoro Lascaris imperatore di Nicea dal 1 206 al 1 222. 4 · Cfr. XXVIII, 17 dove pur condannando siffatto genere di prova, ne attenua il carattere straordinario, mettendola in relazione col fisico più robusto di quei tempi.

33°

PARTE SECONDA

idiozia, che al delitto più incerto del mondo aggiungevano le prove più incerte 1 . Sotto il regno di Filippo il Lungo z , gli Ebrei furono cacciati dalla Francia, sotto l'accusa di aver avvelenato le fontane per mezzo di lebbrosi. Questa assurda accusa deve render dubbiosi su tutte quelle che sono ispirate dall'odio pubblico. Non ho detto con ciò che non si debba punire l'eresia; dico che bisogna essere molto circospetti nel punirla l,

CAPO

VI. Del delitto contro natura •.

A Dio non piaccia che io voglia diminuire l'orrore che si ha per un delitto che la religione, la morale e la politica insieme condannano. Bisognerebbe proscriverlo anche se non facesse che dare a un sesso la debolezza dell'altro s, e preparare ad una vecchiaia infame attraverso una giovinezza vergognosa. Ciò che io ne dirò gli lascierà tutta la sua in­ famia, e non attaccherà che l'arbitrio tirannico che può abusare persino dell'orrore che di un simile delitto si deve avere. Poichè questo delitto è, per sua natura, nascosto, è accaduto spesso che qualche legislatore lo abbia punito in base alla deposizione di un fanciullo: ciò significa aprire una porta ben grande alla calunnia. >. Poste queste premesse, io ragiono cosi 1: l'Asia non ha zona temperata, e i luoghi posti in clima molto freddo con­ finano direttamente con quelli a clima molto caldo, vale a dire la Turchia, la Persia, il Mogol, la Cina, la Corea e il Giappone. In Europa, al contrario, la zona temperata è molto vasta, per quanto comprenda paesi dai climi assai differenti tra loro, dal momento che non vi è alcun rapporto tra i climi della Spagna e dell'Italia e quelli della Norvegia e della Svezia. Ma, poichè il clima si fa insensibilmente più rigido man mano che dal sud si va verso il nord all 'incirca in proporzione alla latitudine di ciascun paese, vi avviene che ogni nazione ha un clima simile a quello degli Stati vicini, che non esistono differenze notevoli e che, come or ora ho detto, la zona temperata è molto vasta. Ne deriva che in Asia le nazioni forti confinano diret­ tamente con quelle deboli; · i popoli guerrieri, valorosi e attivi, sono vicini a popoli effeminati, pigri, irresoluti: biso­ gna dunque che questi vengano conquistati, e che quelli siano conquistatori. In Europa, al contrario, le nazioni confinanti sono di forza eguale: i popoli hanno all'incirca un pari coraggio. È questa la ragione fondamentale della debolezza dell'Asia e della forza dell'Europa, ragione che a.

La Tartaria

è

quindi come una specie di montagna piatta.

I. Cfr. Pensées, Il, foll. 195, n. 1356 (769), dove in breve è enunciato il concetto espresso nei tre cpvv. seguenti: esistenza di una zona tempe­ rata in Europa, che manca invece in Asia, e sue conseguenze politiche.

LIBRO DICIASSETTESIMO

453

non mi risulta Sia stata rilevata prima di me 1 . È per questo che in Asia non accade mai che la libertà si accresca; mentre in Europa aumenta o diminuisce a seconda delle circostanze. Per quanto la nobiltà moscovita sia stata ridotta in schiavitù da uno dei suoi prìncipi z, si vedranno sempre in essa dei fremiti di impazienza che il clima del sud non concede. Non vi abbiamo forse visto per qualche giorno il governo aristocratico 3? Se un altro regno del nord 4 ha perduto le sue leggi, si può fare affidamento nel clima, non le ha certo perdute in maniera irreparabile. CAPO IV. Conseguenze. Ciò che abbiamo detto si accorda con le vicende della storia. L'Asia è stata soggiogata tredici volte: undici volte dai popoli del nord, due volte da quelli del sud. Nei tempi passati, gli Sciti la conquistarono tre volte; i Medi e i Per­ siani una volta; e così i Greci, gli Arabi, i Mongoli, i Turchi, I. Già Aristotele aveva affermato che « i popoli nei paesi freddi e nel­ l' Europa hanno esuberanza d'impulsività, ma sono difettosi d'intelligenza e di attitudini all'organizzazione: perciò vivono costantemente nell'indi­ pendenza, ma difettano d'una vera struttura di governo, e non sono in grado di dominare sui vicini. I popoli asiatici d'altra parte sono intelli­ genti e industri, ma moralmente fiacchi e perciò vivono abitualmente in sudditanza e in servitù. La stirpe ellenica invece, collocata in una regione, media tra questi per posizione geografica, partecipa del ca­ rattere degli uni e degli altri, essendo coraggiosa e intelligente: perciò vive continuamente in libertà, con governi possibilmente perfetti, con la capacità di dominare su tutti, qualora fosse riunita in un solo stato • (Politica, VII, 1 32 7 b). 2 . Pietro il Grande. 3· Alla morte di Pietro II ( 1 9 gennaio 1 730) il consiglio supremo segreto, chiamando a succedergli Anna duchessa di Curlandia, impose dei limiti all'autorità imperiale e ottenne di governare con essa, instaurando cosi un governo oligarchico. Anna però, giunta a Mosca, strappò il 25 feb­ braio gli impegni poco prima firmati. 4· Allusione alla Danimarca, cfr. l 'accenno fattovi anche in Considé. rations, cap. 1 5 . Con le cosiddette « leggi regie • (Kongelov) emanate il 14 novembre 1665, la costituzione danese veniva modificata in senso asso­ lutistico. Simile regime durò per circa due secoli. Fonte di queste notizie è Laurent Anglinel de La Beaumelle ( 1 726-73), letterato prcte�t;:, che mi sembra più in armonia con il testo. Le Réflexions hanno lo stesso testo di A B. 5 · Storico goto del sec. VI, autore dei De rebus Geticis e del De regno­ rum ac temporum successione. La citazione di Montesquieu è inesatta, Jornandes cosi scrive: Ex hac igitur Scanzia insula quasi officina gentium ... Gothi ... memorantur egressi (De reb. Gel., 4). L'isola Scanzia, la Scandia di Tolomeo (Geogr., I, 10), non è altro che la penisola scandinava.

LIBRO DICIASSETTESIMO

457

le montagne sono meno coperte di neve, ed i fiumi, ingros­ sando in misura minore •, non formano grandi barriere. Il potere deve esser quindi sempre dispotico in Asia, poichè, se la schiavitù non fosse estrema in quei paesi 1, si produrrebbe una divisione non adatta alla natura del paese. In Europa la divisione naturale forma numerosi Stati di media estensione, nei quali il governo delle leggi non è incompatibile con la conservazione dello Stato, anzi, la favorisce talmente che, senza di esso lo Stato va in deca­ denza e diviene inferiore a tutti gli altri. In questo modo si è formato uno spirito di libertà che rende ogni parte d'Europa molto difficile da sottomettere e soggiogare da parte di una forza straniera altro che con le leggi e l'utilità del suo commercio. Al contrario, regna in Asia uno spirito di servitù che non l'ha mai lasciata, tanto che, nella storia di quel paese, non è possibile trovare un solo tratto che riveli uno spirito libero: non 2 vi si troverà mai altro che l'eroismo della servitù.

CAPO

VII. Dell'Africa e dell'A merica.

Ecco quanto sono in grado di dire sull'Asia e sull'Eu­ ropa. L'Africa si trova in condizioni di clima simili a quelle dell'Asia del sud, ed è nello stesso grado di schiavitù. L'Ame­ rica b, distrutta e ripopolata dalle nazioni dell'Europa e dell'Africa, non può a tutt'oggi rivelar bene il proprio carata. Le acque si perdono o evaporano prima di raccogliersi, o dopo essersi raccolte. b. I piccoli popoli barbari dell'America sono chiamati Indios bravos dagli Spagnoli: sono infatti ben più difficili da sottomet­ tere che i grandi imperi del Messico e del Perù. 1. Cfr:. X, 1 6. 2 . Quest'ultima frase non è compresa nel testo delle citate Ri!flexions; confrontala con quanto detto in V, 12.

PARTE TERZA

tere, ma ciò che conosciamo della sua storia passata è assai conforme ai nostri princìpi.

CAPO VIII.

Della capitale dell'impero

•.

Una delle conseguenze di ciò che abbiamo detto è che è molto importante, per un gran principe, sceglier bene la sede del suo impero. Chi la sistemerà a sud rischierà di perdere il nord, e chi la sistemerà a nord conserverà facil­ mente il sud. Non parlo di casi particolari. Se la meccanica ha i suoi attriti, che spesso mutano o arrestano i calcoli della teoria, la politica ha anch'essa i suoi.

-1.

Il capitolo manca sia nel Ms. che in A B.

LIBRO DICIOTTESIMO DELLE LEGGI NEL LORO RAPPORTO CON LA NATURA DEL TERRENO

CAPO l. In che modo la natura del terreno influisce sulle leggi. La bontà delle terre di un paese vi stabilisce naturalmente un regime di servitù. I contadini, che costituiscono la parte principale del popolo, non sono molto gelosi della propria libertà: sono troppo occupati, e troppo dediti ai loro affari particolari. Una campagna ricca teme il saccheggio, teme un esercito. (( Chi è adatto a formare il partito dei buoni ? - diceva Cicerone ad Attico - Saranno i commercianti e i contadini, per i quali, a meno che noi non immaginiamo che siano contrari alla monarchia, tutti i governi si ras­ somigliano, purchè li lascino tranquilli ? 1 )). Pertanto il governo di un solo si trova più facilmente nei paesi fertili, e il governo di molti nei paesi che non lo sono: ciò che talvolta costituisce un compenso. La sterilità dell'Attica vi originò il governo popolare, e la fertilità di Sparta quello aristocratico. Infatti, a quei tempi, non si desiderava in Grecia il governo di uno solo: ora, il governo aristocratico ha maggior rapporto degli altri con il governo di uno solo. •

a.

Lib. VII [lett. 7].

I. In Pensées, III, fol. 257 vo, n. rg6o ( r 88 3 ) vi sono delle Riflessioni sulla durata del governo inglese indirizzate a William Domville, nelle quali, riportando lo stesso passo di Cicerone, osserva che non lo si può applicare all'Inghilterra. r

"•

PARTE TERZA

Plutarco a ci dice che . Tacito parlava con esat­ tezza. Infatti, moltissime leggi dei codici c barbarici conten­ gono diverse disposizioni contro chi distruggesse le cinte di queste terre, e chi penetrasse nella stessa casa. Sappiamo, grazie a Tacito z e a Cesare J, che le terre coltivate dai Germani non erano concesse loro che per un anno, dopo di che ridiventano pubbliche. Essi non avevano come patrimonio che la casa e un pezzo di terra cintato -

a Tit. 62. b . Nullas Germanorum populis urbes habitari satis notum est, ne pati quidem inter se iunctas sedes; colunt discreti, ut nemus placuit. Vicos locant, non in nostrum morem connexis et cohae­ rentibus aedificiis; suam quisque domum spatio circumdat.

De

morib. Germ. [cap. I 6 ] . c . L a legge degli A l a m a n n i , cap. I o, e l a legge d e i Bavari ti t. I O, § § I e 2.

1 . jACQUES EcHARD (1644-1 724). erudito domenicano, pubblicò le Leges Francorum Salicae et Ripuariorum (Parigi, 1 720), riproducendo le lezioni di vari Mss. e tra le altre il testo pubblicato dall'HEROLD nelle sue Originum ac Germanicarum A ntiquitatum libri (Basilea, 15571 in base ad un Ms. di Fulda ora perduto. Montesquieu ha seguito, come risulta dalle sue citazioni, il testo dell'Herold (vedilo in HESSELS, Lex salica: the ten texts with the glosses and the Lex emendata, Londra, r 88o). 2. Germania, cap. 26. 3· De bello gallico, VI, 22.

LIBRO DICIOTTESIMO

475

attorno alla casa •. È questo il patrimonio particolare che apparteneva ai maschi. Infatti, perchè avrebbe dovuto appartenere alle femmine, le quali entravano in un'altra casa ? La terra salica era dunque quell'appezzamento di terreno cintato che apparteneva alla casa dei Germani, ed era la sola proprietà che essi avessero. I Franchi, dopo la con­ quista, acquistarono nuove proprietà, e si continuò a chia­ marle terre saliche. Quando i Franchi vivevano in Germania, i loro beni erano costituiti da schiavi, mandrie, cavalli, armi, ecc. La casa e la piccola porzione di terra che la circondava erano naturalmente date ai figli maschi che dovevano abitarvi. Ma quando, dopo la conquista, i Franchi ebbero ottenuto grandi estensioni di terreno, si trovò ingiusto che le fem­ mine e i loro figli non potessero averne parte. Si introdusse cosi una usanza che permetteva al padre di chiamare alla successione la figlia e i figli di essa. Si fece quindi tacere la legge, e le successioni di questo genere dovettero essere comuni, giacchè se ne fecero persino delle formule b. Tra tutte queste formule, ne trovo una singolare •. Un nonno chiama i suoi nipoti alla successione insieme ai suoi figli e alle sue figlie. Cosa era diventata dunque la leg.ge salica? Evidentemente in quei tempi non era più osservata, oppure l'uso continuo di chiamare le figlie alla successione aveva fatto considerare come il caso più ordinario la loro capacità di succedere. Se la legge salica non aveva per oggetto una certa prefe­ renza per un sesso rispetto all'altro, aveva ancor meno quello di assicurare una perpetuità di famiglia, di nome o a.

Questo recinto viene chiamato curtis nelle carte. b. Si veda MARCULFO, lib. Il, formm. ro e 12; l'appendice di Marculfo, form. 49 e le antiche formule, dette formule di SIRMOND 1 , form. 22. c.

Form. 55, nella raccolta del Lindembroch.

I . Cosi dette dal nome del loro editore, il gesuita J acques Sinnond ( 1 559- 1651), noto erudito amico del Baronio.

PARTE TERZA

di trasmissione di terre: tutto ciò non rientrava affatto nell'abito mentale dei Germani. Era una legge puramente economica, che attribuiva la casa, e la terra annessa alla casa, ai figli che dovevano abitarla, e ai quali, quindi, con­ veniva maggiormente. Non c'è che da trascrivere qui il titolo degli allodi della legge salica, questo testo così famoso del quale tanti hanno parlato, ma che così pochi hanno letto: