Questioni bioetiche e diritto ebraico 8880578286, 9788880578284

La bioetica è divenuta ormai il luogo di aspre controversie, ideali e di carattere pratico. Per offrire una adeguata con

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Questioni bioetiche e diritto ebraico
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Testi e studi del Meis VIII

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Pubblicazione promossa da:

E con il contributo di:

Goren Monti Ferrari Foundation

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Fondazione Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah

QUESTIONI BIOETICHE E DIRITTO EBRAICO A cura di Enrica Martinelli

Giuntina

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Copyright © 2019 Casa Editrice Giuntina Via degli Artisti 6/i, Firenze www.giuntina.it ISBN 978-88-8057-828-4

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Indice

Premessa di Simonetta Della Seta . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Presentazione di Rinaldo Bertolino . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 Enrica Martinelli, A modo di Incipit: l’apporto del pensiero religioso, anche ebraico, alla disciplina giuridica dei temi bioetici . . . . . . . 15 Avraham Steinberg, Jewish Bioethics . . . . . . . . . . . . . . . . 21 Rav Riccardo Di Segni, La Bioetica Ebraica su alcuni temi di dibattito attuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 David Gianfranco Di Segni, La rilevanza dell’analisi del DNA nel diritto ebraico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 Silvio Ferrari, “Maschio e femmina Dio li creò”. Cambiamento dell’identità di genere e diritti delle religioni . . . . . . 49 Francesco Lucrezi, Persona, vita, natura. Riflessioni tra scienza, religione e diritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 Roberto Mazzola, Fisicità, fede e diritto. Il problema del “corpo” tra diritti religiosi e diritto statuale . . . . . . . . . . . . . . . 65 Piero Stefani, Il «diritto» di avere un figlio. Divagazioni a partire da alcune figure bibliche . . . . . . . . . . . 75 Note biografiche degli autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83

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Premessa

Quando, all’inizio del mio incarico di Direttore del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, la Professoressa Enrica Martinelli venne a proporci la prima collaborazione con l’Università degli Studi di Ferrara per preparare assieme un convegno sulla bioetica che mettesse a confronto esperti cattolici e laici con il mondo ebraico, il MEIS non era stato ancora inaugurato. Eravamo totalmente impegnati con la preparazione della prima grande mostra che avrebbe anche configurato la prima parte del percorso permanente del museo. Ci trovavamo in piena fase di cantiere per il ripristino architettonico dell’ex carcere di Ferrara, e la sua trasformazione in uno spazio espositivo e museale. Eravamo occupati, insomma, a dare forma al progetto e a svilupparne la strategia, per riuscire ad inaugurare (13 dicembre 2017), alla presenza delle più alte Autorità dello Stato, un luogo rilevante, significativo, di riferimento per tutti gli italiani, e non solo. Eppure quella richiesta, che arrivava quando ancora non eravamo maturi a raccoglierla, non poteva andare delusa. Per tante ragioni. Era la prima volta che il prestigioso e antico Ateneo della città che ospita il MEIS proponeva al Museo di essere interlocutore. Inoltre, si trattava di collaborare su un tema attualissimo e per giunta totalmente nelle corde dell’esperienza ebraica ed ebraica italiana. Da sempre infatti l’ebraismo si interroga sulla vita. La creazione, e dunque il creato, sono al centro della narrazione ebraica, della legge ebraica, dell’etica ebraica e di ogni sua esplorazione scientifica e di pensiero, dalla più semplice, a quella più alta, mistica e metafisica. La cultura ebraica indaga, ingaggia, esplora su ogni aspetto della esistenza umana. È questo il nocciolo della legge orale, e quindi del Talmud, ampia, secolare ed infinita discussione scritta sull’etica ebraica. Solo per citare uno dei tanti esempi, nel trattato Yevamot (che riguarda la legge del levirato, al foglio 76a) appare una lunga discussione sul modo di ottenere il seme da un uomo al di fuori di un atto sessuale, in modo consentito dalla legge ebraica. Dibattito che risale al periodo tra terzo e sesto secolo dell’era volgare (d.C). Parlare di bioetica è dunque per gli ebrei una sfida antica quanto modernissima. Molto spesso, nella storia ebraica, e quanto mai in quella ebraica italiana, i grandi rabbini sono stati anche medici. Per questo interpellai subito Rav Riccardo Shmuel Di Segni, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma, il quale da anni, grazie alla sua preparazione nel campo, siede nel Comitato Nazionale di Bioetica, di cui oggi è vice presidente. Rav Di Segni si è dedicato alla promozione della conoscenza della bioetica ebraica presso il pubblico italiano con diverse pubblicazioni su riviste scientifiche, con lezioni, relazioni a convegni e partecipazioni a

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Premessa

tavole rotonde organizzati da Ordini professionali, Associazioni laiche e religiose, Società scientifiche. Rav Di Segni mi consigliò subito di invitare al convegno il Prof. Abraham Steinberg, esperto internazionale di etica medica e co-presidente del Consiglio Nazionale israeliano di bioetica. Il Prof. Steinberg accettò. Due delle più alte personalità ebraiche in materia erano state coinvolte ed immediatamente affiancate da Rav Gianfranco Di Segni, biologo e rabbino e da Rav Luciano Meir Caro, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Ferrara, che, con il suo saluto, ha aperto i lavori del convegno. Grandi esperti che, grazie alla magistrale regia della Professoressa Enrica Martinelli, si sarebbero confrontati a Ferrara con insigni giuristi, famosi accademici, teologi cristiani di riconosciuta preparazione, come il Prof. Rinaldo Bertolino, Professore Emerito ed ex Rettore dell’Università di Torino, il Prof Silvio Ferrari dell’Università di Milano, il Prof. Francesco Lucrezi dell’Università di Salerno, il Prof. Roberto Mazzola dell’Università del Piemonte Orientale e il Prof Piero Stefani della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano. D’altra parte, dialogo e confronto costituiscono un perno dell’attività del MEIS che, più che museo tradizionale, ha l’ambizione di costituire un laboratorio di pensiero e di scambio culturale. Su questa scia, il Museo avrebbe ospitato un anno dopo i dialoghi inter-religiosi organizzati dalla comunità di S. Egidio, nonché un dialogo sulle origini della vita che ha messo a confronto un teologo cristiano, Vito Mancuso, un’esperta di Cabbalà, Daniela Abrabanel, e uno scienziato laico, Alessandro Treves. È stato dunque grazie ad Enrica Martinelli e alla sua scrupolosa indagine giuridica sulla bioetica, che il MEIS ha avviato una proficua collaborazione con l’Università degli Studi di Ferrara, con la quale sono proseguiti contatti per iniziative comuni anche con il Pro-rettorato, con il Dipartimento di Economia e Management e con il Dipartimento di Studi Umanistici. Auspico che questa pubblicazione, curata dalla stessa Martinelli, e in stampa per la collana Giuntina-MEIS, possa essere di insegnamento per tanti, nonché aprire altre strade di fruttuoso confronto. Simonetta Della Seta Direttore Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah - MEIS

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Presentazione

Credo si debba dare atto all’intelligente idea e al pari, forte coraggio di Simonetta Della Seta, Direttrice del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, e a Enrica Martinelli, Professore nell’Università di Ferrara, della progettazione e della riuscita organizzazione del Convegno, in quella splendida Città il 9 novembre 2017, su Questioni bioetiche e diritto ebraico. Come, altresì, si deve motivatamente ringraziare la prof.ssa Martinelli per avere saputo puntigliosamente guidare alla presente, fortunata pubblicazione degli Atti dello stesso. Enrica Martinelli ne ha del resto introdotto le ricche pagine con un penetrante Incipit, denso per dottrina e per riferimenti bibliografici, nel quale ha provato convincentemente l’esigenza di un reale statuto epistemologico della bioetica; la radicale diversità dell’etica religiosa da quella secolare e, tuttavia, la fondata esigenza di una loro consentaneità e convergenza nel risolvere questioni bioetiche; la fondamentalità, infine, del pensiero religioso – in particolare di quello ebraico – nella formulazione della relativa dottrina e giurisprudenza. Nessuno più riuscito palcoscenico – davvero oserei dire – per la coerente introduzione alle tesi e ai temi, sapientemente illustrati nel presente libro. Anzitutto, penso si debba avere piena consapevolezza di come la bioetica sia divenuta ormai il luogo di aspre controversie, ideali e di carattere pratico, e di come, pertanto, sia stato altamente meritorio e apprezzabile lo sforzo degli Studiosi presenti al Convegno, noti esponenti ebrei da un lato e illustri giuristi dall’altro, per offrire una adeguata conoscenza, quando non una vera epistemologia, ai problemi etici trattati. Se sia vero (M.Weber) che la modernità ha prodotto un “politeismo etico” e che troppe volte (H.T.Engelhardt), forse superficialmente, ciascuno si pensa straniero alla posizione etica dell’altro, positivo è stato il tentativo del Convegno di ricercare una cultura – prima ancora, una conoscenza – e, del pari, una sorta di teologia etica, giuridica e razionale, per individuare quali siano i comportamenti da ritenersi migliori. Nel Convegno si è soprattutto cercato il dialogo, espletato il tentativo di individuare le soluzioni più opportune, all’interno di un discorso molto complesso. Ci si è specialmente provati a realizzare il severo e giusto ammonimento di F. D’Agostino (Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Torino 1996, p.73), secondo cui “La bioetica deve sottrarsi al dogmatismo della certezza e allo scettici-

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Presentazione

smo dell’incertezza”; a garantire inoltre, in modo permanente, “il contemperamento della unità e diversità” (F. Freni, Biogiuridica e pluralismo etico-religioso. Questioni di bioetica, codici di comportamento e comitati etici, Milano 2000, p.32). Si è altresì tenuto presente, a mio giudizio – quanto valido è stato qui l’apporto del pensiero giuridico e di quello ebraico, facitore reale, ancorché attore parziale di una cultura universale – di come i problemi bioetici, che trovano certamente il loro luogo specifico nell’interiorità della coscienza dell’uomo, non possano ridursi alla sola problematica privata, ma riguardino le “esigenze imprescindibili dell’etica pubblica, su cui si fonda la possibilità di una vita sociale ordinata” (F. D’Agostino, op. cit., pp. 133-134). Ritengo pertanto importanti e molto suggestive le pagine dei Relatori al Convegno, perché il loro contributo, profondo, chiaro e preciso, ha saputo offrire un ulteriore e significativo spiraglio nell’incerto statuto epistemologico della bioetica: sia quello dell’imprescindibile pensiero ebraico, sia di quello, logico e indispensabile, del pensiero teologico, letto in chiave rigorosamente giuridica. Plaudo pertanto, con consapevole soddisfazione, agli sforzi riusciti dei singoli Relatori, e al loro pensare, sapientemente critico, felicemente raccolto nelle dense pagine che seguono. Bene evidenzia Rav Avraham Steinberg, in Jewish vs Secular Medical Ethics,* che ci si trova qui innanzi alla espressione della più profonda ortodossia del pensiero ebraico, a Jewish-halakhic viewpoint, che – come è nella problematica coesistenza dei due sistemi in Israele – contrappone in una differenza “fondamentale” l’etica religiosa, fondata sul credo in Dio e sulla Sua Torah, derivata ab antiquo dalla Legge scritta e orale, a quella secolare. Nel giudaismo ortodosso si ha, così, che nessuna differenza corre tra leggi e regole e morali ed etiche, in quanto tutto deriva dalla rivelazione divina. Se mai, un possibile punto di incontro e di raccordo consiste nel fatto che il sistema etico ebraico non si limita a principi teoretici generali, ma individua sempre condotte pratiche e individuali. 1 L’analisi del prof. Steinberg sulla realtà dinamica ed evolutiva della Jewish medical ethics è tanto analitica, quanto approfondita. Il Relatore ne individua opportunamente quattro piani: la varietà di attitudini e discussioni, secondo cui la Halakhah affronta tutte le questioni etiche sollevate dalla scienza secolare e, quanto ai metodi di discussione ed analisi, la coerenza del metodo adottato. In relazione, poi, alle decisioni operative, da assumersi nel caso concreto, “Halakhah attempts to give final and operative decisions to questions posed to the rabbinic decisor”, pur se, con ogni evidenza, il Relatore constati trattarsi di “a religious-paternalistic approach which restricts the patient’s, as well as the physician’s autonomy”. Da ultimo, quarto elemento per una più penetrante identificazione della Jewish ethics, sono i principi basilari, così esposti in sintesi: – non esiste la parola diritto, intesa in senso moderno; – il Giudaismo preferisce l’approccio casistico per risolvere le questioni halakhiche, piuttosto che i principi generali; – riconosce l’assolutismo solo rispetto alle fonti divine della legge, nella conti-

* Gli articoli vengono citati secondo il titolo originario della Relazione tenuta al Convegno. Altrettanto avviene per il richiamo testuale dei brani, riportati nel testo.

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nua ricerca del “path of the golden mean, which is a proper balance between different values or laws in any specific case”; – sì che, in conclusione, può riconoscersi che nel Giudaismo il valore della vita umana è sempre supremo, nei confronti di ogni possibile qualità della vita. Rav Riccardo Di Segni, La bioetica ebraica su alcuni temi di dibattito attuale, prova in modo convinto la novità nella parola ‘bioetica’ e come, in realtà, già nella tradizione ebraica più lontana essa dovesse ravvisarsi nel confronto continuo della medicina con le regole da seguire nel caso singolo. Ne segue che la discussione sui rapporti tra medicina e halakhah sia estremamente antica, ma anche che, nell’ebraismo odierno, sia dato leggere una sensibilità continuamente aggiornata alla luce delle conoscenze attuali e dei nuovi dati. Di Segni ne trae la conclusione del grande interesse e della uguale curiosità del mondo giuridico e di quello accademico sulle reali posizioni ebraiche sui tanti temi bioetici nuovi. Il Relatore, che prende in considerazione i casi della omeopatia e delle madri uterina e ovulare, tiene però, anzitutto, a sgomberare il campo da ogni incertezza con il preliminare ricorso di ogni decisore rabbinico al valore del principio di razionalità e a quello del precedente. Netta ne risulta la contrarietà alla ipotesi della maternità surrogata, specialmente per l’esigenza primaria, qui vigorosamente difesa, della tutela del bambino. Merita peraltro evidenziare, da ultimo e a tutto tondo, il metodo di ricerca e di soluzione di ogni questione bioetica, fortemente difesi dal Relatore: “Trattare i problemi nuovi sulla scorta della tradizione è fondamentale, perché consente alle nostre conclusioni di avere autorità, autorevolezza, fondamento ed è una cosa fondamentale nella struttura della nostra società”. La relazione di Rav Gianfranco Di Segni, La rilevanza dell’analisi del DNA nel diritto ebraico, fonda prevalentemente su aspetti tecnici, adeguatamente studiati e sviluppati, che provano ed esaltano il valore il valore del DNA quale sede di ogni informazione genetica e segnalano la grande impresa della biologia molecolare nella conseguente decifrazione del codice etico. Riesce pertanto particolarmente interessante il risalto dato al genetic counseling, relativo alla maggiore frequenza di alcune malattie nella particolare storia del popolo ebraico, e al c.d. fingerpoint genetico, quasi una sorta di impronta digitale. Neppure tralascerei, poi, le utili indicazioni sulla paternità e maternità, che derivano dalle analisi del relativo DNA, bene evidenziate dal Relatore, anche se vi sia, a mio avviso, la tendenza del diritto ebraico a non ammettere il test quale prova decisiva per disconoscere la paternità. Specialmente a riguardo della ‘ebraicità’ delle madri e degli antenati immigrati in Israele, parzialmente sorretta, in eccezione, dalla analisi del DNA, sta però, scultorea, la conclusione dell’Autore, in tutto coerente alle considerazioni degli altri Relatori, sul fatto che “l’ebraismo e l’ebraicità sono fatti storici, famigliari, culturali, che vanno (sempre, sottolineerei) al di là del sangue o del DNA”. Riguardo alla trattazione giuridica dei temi bioetici – quale sviluppata nella apposita Sessione del Convegno – sembra opportuna una riflessione preliminare, che trova peraltro puntuale riscontro nella riflessione dei singoli Relatori, secondo cui ci si troverebbe di fronte a una avversione verso la regolamentazione giuridica dei temi

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bioetici trattati, quasi che essa si scontri con il carattere pluralistico delle moderne democrazie occidentali. Parrebbe che esse siano sempre più caratterizzate da un pluralismo di etiche; che mai possa venire imposta a singoli cittadini una medesima concezione morale. La giustezza della tesi, del resto, è adeguatamente rappresentata dalle molteplici soluzioni che il diritto offre ai molti temi di bioetica, quali sono adeguatamente illustrati nella Sessione. È peraltro vero che, ancorché sia sovente impossibile, rispetto alle tematiche biologiche, omologare sempre la morale al diritto, scienza, teologia e diritto vi risultano coinvolti di continuo; che – lo provano benissimo le relazioni raccolte negli Atti – “Il diritto deve adoperarsi per sviluppare e irrobustire sempre più un proficuo sistema di raccordi con e tra le molteplici visioni del mondo e della vita” (cfr. F. Freni, op, cit, p.164). Con un significativo riferimento a sentenze della Corte Costituzionale italiana e della Corte Suprema di Israele, Silvio Ferrari, Diritto delle religioni e bioetica interculturale, in lucide pagine e con sottile acribia costata come, al presente, l’identità di genere prevalga ormai su quella sessuale – quanto a dire che la sessualità dalla nascita riesce meno importante di quella scelta nella vita; come ne risulti oggi una più ampia concezione dell’autonomia di ogni individuo, cui viene riconosciuto il diritto di determinare la propria identità di genere. Dalla giurisprudenza segnalata e da siffatta, decisiva considerazione sul cambiamento del gender, l’illustre Relatore muove alla penetrante analisi della differenza tra diritto ‘secolare’ e quello ‘religioso’, fondato essenzialmente sul riferimento ultimo ai principi derivati dalla triplice realtà della creazione, della natura e della Rivelazione. In specie, quanto all’insegnamento dell’ebraismo ortodosso, il rifiuto di un tale cambiamento, motivato dal passo di Deut. 22,5: “La donna non si metterà un indumento di uomo”, poggia ultimamente su “un ordine naturale delle cose, riconducibile all’idea di creazione’, cui il Relatore sembra opporre la assenza dei più sicuri principi di oggettività e indisponibilità. Ne segue la puntuale osservazione della permanente differenza tra diritto statale e la religione: il primo, “strumento per garantire una pluralità di opzioni tra cui ogni persona può scegliere quella che ritiene più confacente alla propria sensibilità, con il solo limite del rispetto dei diritti altrui”; la seconda, che non può non riposare sulla eteronomia divina del proprio diritto, sulla “permanente costante della dicotomia tra autonomia ed eteronomia”. Da ultimo, Silvio Ferrari prova, in modo convincente, come la permanente tensione venga superata e diversamente risolta da luogo a luogo e secondo i differenti tempi, dal momento che le recenti innovazioni scientifiche e tecnologiche sembrano incrinare seriamente l’oggettività e l’indisponibilità dei dati naturali. La considerazione che la persona non sembra oggi più essere la base, il fondamento del diritto di ogni civiltà, viene giustamente contestata da Francesco Lucrezi, Natura, vita, persona. Riflessioni tra scienza, religione e diritto, rispetto alle dottrine ebraiche e al diritto che ne scaturisce, perché questo “non solo come religione, ma come cultura, modo di essere e di pensare, ne soffre meno, perché esso è sempre stato un sistema di doveri, non di diritti”. Lucrezi, che osserva giustamente come nella cultura contemporanea vita e persona siano oggetto di radicale ripensamento e significazione, trae così la motivata

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conclusione sulla feconda ispirazione che l’ebraismo contemporaneo può trarre dalla bioetica, “dalla secolare speculazione rabbinica e talmudica che da sempre si interroga su quali siano i limiti delle possibilità dell’intervento dell’uomo, perché fondati sulla responsabilità e sui doveri anziché sui presunti diritti”. Né manca al Relatore, che la approfondisce in modo dettagliato, la “piena consapevolezza dell’estrema limitatezza e finitudine dalla condizione umana; neppure, da ultimo – il che riesce insegnamento fecondo – che la bioetica non debba riuscire solo terreno di filosofia teoretica, ma piuttosto di quella morale. Essa infatti non si chiede, conclude brillantemente il Relatore, “come l’uomo sia o non sia, ma come possa o non possa, debba o non debba fare”. Nelle dense riflessioni della relazione, guidata da intelligente spirito critico e che muove a profili e soluzioni nuovi delle problematiche questioni trattate, Roberto Mazzola, Fisicità, fede e diritto. Il problema del ‘corpo’ tra diritti religiosi e diritto statuale, mostra come la lenta ricollocazione al centro del dibattito giuridico e di quello teologico del ‘corpo’ sia perennemente carica di contraddizioni. Tratta, acutamente, del problema del fine vita e della sospensione dei trattamenti sanitari; della ‘disidentificazione’ del corpo, nel senso che la vita di esso non è più la propria vita; anche della sua scomposizione: “Il corpo non solo può essere ormai riprodotto e moltiplicato, ma può anche essere distribuito nello spazio e nel tempo”. Ne consegue che il problema della disponibilità del proprio corpo sia “la linea di frattura fra l’interpretazione secolare e quella religiosa” e come la questione bioetica costituisca “uno dei nodi centrali della dialettica contemporanea fra pensiero religioso e laico”. Sapientemente, Mazzola ne individua e disegna l’ordito nello scontro tra la cultura creazionista, propria alle religioni rivelate, che di fatti limitano la disponibilità del proprio corpo, e quella laica, assai più liberale. Tuttavia, è giustamente severo l’ammonimento del Relatore a che questa ultima ponga sempre un argine ai pericoli di “frammentazione, manipolazione, riproduzione” del corpo umano: limite che, con molta energia, ravvisa darsi nel pieno riconoscimento della dignità umana. Da ultimo, ferma è la convinzione di Mazzola sulla perenne distinzione tra il linguaggio – e il portato – del diritto e quelli della morale. Al primo addita però, con vigore, un compito ‘aperto’, flessibile, in divenire: “Non quello di escludere, ma piuttosto di salvare tutte le possibilità e di lasciare autonomia e libertà d’azione morale, nel rispetto dei diritti umani fondamentali”. La relazione di Piero Stefani, Il ‘diritto di avere un figlio’. Divagazioni a partire da alcune figure bibliche, di tipo haggadico, narrativo, muove dalla costatazione dell’assenza nella Bibbia della fruizione e godimento di determinati diritti. Egli preferisce pertanto rappresentare, illustrandolo adeguatamente, il protagonismo femminile di alcune sue pagine: nel racconto, ad esempio, di Giuda e Tamar e nella situazione, davvero anomala, di Maria e Giuseppe. Sempre priva di una vera dimensione tecnica, la narrazione della Scrittura sa a volte sorridere per la presenza di inattesi e vertiginosi espedienti, che Stefani ama identificare con le vie di Dio, sempre tortuose e impenetrabili. Ne deriva la costatazione finale, velata di melanconia, che nella società liquida attuale il narrare scorre senza tregua, tanto da riuscire suo “dramma autentico” la perdita diffusa della haggadah, che conduce a una comunicazione meno autentica.

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Felicemente, così, le dense e ricche riflessioni svolte nel Convegno ferrarese vengono raccolte ora nelle pagine di questi Atti. A mio giudizio, merita rileggerle approfonditamente: si coglie infatti in esse, agevolmente, il prezioso e fecondo contributo del pensiero ebraico nella complessa e articolata regolamentazione giuridica di molti profili della bioetica attuale. Rinaldo Bertolino

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Enrica Martinelli A modo di Incipit: l’apporto del pensiero religioso, anche ebraico, alla disciplina giuridica dei temi bioetici

1. Per uno statuto epistemologico della bioetica Viviamo in un’epoca testimone di importanti conquiste scientifiche e tecnologiche, cui si accompagnano la scoperta e il dominio di forze naturali fino a ieri sconosciute. L’arricchimento delle risorse utilizzabili e delle conoscenze applicabili, amplia da un lato, in modo significativo, il panorama delle scelte possibili per l’uomo; postula dall’altro – in maniera imprescindibile – la soluzione di importanti questioni etiche. Lo sviluppo delle scienze e della tecnica, applicato ai delicati e complessi processi della vita, dal sorgere fino al suo spegnersi, dischiude infatti orizzonti promettenti ma, al tempo stesso, suscita interrogativi inquietanti sulla liceità delle ricerche e delle pratiche sul vivente. Da alcuni decenni, le problematiche generate dalle biotecnologie colgono le società occidentali impegnate in un dialogo, sovente in un antagonismo, tra il sistema di valori antico e il mondo, dominato dai saperi sperimentali, indotti dalle nuove scienze. 1 Da questo nasce la bioetica: un ponte tra scienza ed etica, 2 tra due “universi di discorso”, βίος ed έθος, 3 che prelude alla possibilità di un futuro degno dell’uomo. La fin troppo diretta assimilazione del concetto di bioetica alla radice etimologica ed una ambiguità equivoca, talora non scevra di retorica, nella definizione del concetto di vita, ha tuttavia provocato la giovane disciplina ad un allarme eticomorale nei confronti dei saperi sperimentali che, impadronendosi della vita umana e non, esistente o non ancora presente, ne violerebbero la sacralità, la dignità, il mistero.

1  Si vedano le riflessioni di Patrick Nerhot, Responsabilità giuridica e scienze sperimentali sul vivente, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 40/2017, pp. 1 ss. 2  Il termine “bioetica”, neologismo nella lingua inglese, fu usato per la prima volta dall’oncologo americano Van Rensselaer Potter, in un articolo del 1970, intitolato Bioethics: Science of Survival, pubblicato nel 1971, con altri saggi dell’Autore, nel volume Bioethics: Bridge to the Future. L’edizione italiana, a cura del Comitato di Bioetica di Messina, reca il titolo: Bioetica. Ponte verso il futuro, SICANIA by GEM s.r.l., Messina 2000. In particolare cfr. pp. 29 ss. 3  Suggestive le riflessioni di Roberto Mordacci, La nozione di vita umana in bioetica, in Rivista di teologia morale, 28 (1996), p. 379. A giudizio dell’Autore, i confini fra le due categorie sono fluidi e la nozione di vita ora si avvicina alla biologia in relazione all’etica, e talora all’etica in relazione alla biologia.

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Enrica Martinelli

L’“etica” – che in senso ampio non comprende la sola morale, ma include il diritto e le regole tutte, a fondamento religioso, ideologico, filosofico, autoritario, “da cui una vita individuale o sociale può essere governata” – 4 viene soprattutto declinata in “un’etica della vita al genitivo” (etica della sacralità, etica della qualità, etica della dignità) che impone ultimamente di ripensare e riformulare in termini più compiuti lo statuto epistemologico stesso della bioetica, che “risulta ancora oscillare tra la scienza, nel senso moderno del termine, la psicologia, il diritto e il sapere etico”. 5 In bilico sull’arduo crinale interdisciplinare, la bioetica è pressata da dilemmi relativi ai fondamentali temi dell’esistenza: il nascere, il morire, la salute, le possibilità di cura (per estendersi – in un’ottica sempre più condivisa – ai problemi riguardanti l’ambiente e gli esseri viventi non umani), relativamente ai quali non può decidere univocamente quale spazio lasciare all’oggettività e quale alla promessa. Questo nuovo confronto, su temi che rappresentano “la mappa di un mondo di valori in profonda trasformazione”, 6 penetra e scuote profondamente le comunità occidentali e ripropone, in ultima analisi, la antica contrapposizione tra “valori religiosi”, per vocazione limitativi e interdittivi, e “valori profani”, disegnati, al contrario, come liberali e tolleranti. 7 Anche nella comprensione della essenza della vita, il profano si pone come negazione del religioso e le scienze sperimentali – inadatte ad assimilarsi a un sistema valoriale – infondono nuovo vigore all’antico conflitto 8. Risulta, così, definitivamente infranto il quadro di una armonica convivenza tra tradizionale etica medica, 9 deontologia e diritto: vengono notevolmente ampliati i confini della medicina e delle altre scienze della vita, trasformate in saperi sperimentali, che preludono all’affermarsi di una “medicina dei desideri” 10 e reinterpretano in modo plurale i concetti di ‘cura’, di ‘salute’, di ‘malattia’ e da ultimo, di ‘vita’. L’intensità del dibattito bioetico, quasi componente essenziale della cultura del nostro tempo, agita in maniera trasversale tanto le aule parlamentari quanto l’opinione pubblica e da ultimo rivela la difficoltà della lettura e della interpretazione del metodo e del contenuto delle scienze sperimentali e della loro ostica armoniz-

  Cfr. Umberto Scarpelli, Bioetica laica, Boldini & Castoldi, Milano 1998, p. 61.   Maurizio Chiodi, Tra cielo e terra. Il senso della vita a partire dal dibattito bioetico, Cittadella Editrice, Assisi 2002, p. 7. 6  Antonio di Meo, Claudia Mancina, Prefazione, a Bioetica, a cura di A. di Meo e C. Mancina, Laterza, Bari 1989, p. VI. 7  Shai Lavi, From Bioethics to Bio-optics: The Case of the Embryonic Stem Cell, in Law, Culture and Humanities, vol. 4, n. 3, 2008, pp. 339 ss. Sulla base di una “historical observation”, l’Autore rileva che “the ethical divide does not cross religions, but rather divides religions within themselves by contrasting traditional visions with more modern approaches” (p. 435). 8  Patrick Nerhot, Responsabilità giuridica e scienze sperimentali sul vivente, cit., p. 2. 9  Disciplina che vanta una storia antica e una presenza consolidata nei curricula formativi. 10  Maria Moneti Codignola osserva “un mutamento significativo di paradigma della medicina, non più intesa come scienza e pratica terapeutica, volta alla cura della malattia e del dolore, ma intervento volto a modificare i processi biologici del corpo umano per piegarli ai desideri del ‘paziente’ e dunque per migliorare la qualità della vita’”. Cfr. Maria Moneti Codignola, Produrre uomini. La rivoluzione delle tecnologie riproduttive, in Produrre uomini, a cura di A. Bucelli, University Press. Libro, Firenze, 2006, p. 18. 4 5

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zazione con i (per taluni, della negazione dei) valori che motivano le obiezioni etiche. 11 2. L’etica religiosa nell’attuale contesto culturale È soprattutto la cultura religiosa a denunciare, nella pratica medica e nella ricerca scientifica sperimentali, la mancanza di tutela per la sacralità della vita e ad assegnare alla bioetica il dovere precipuo di individuare le barriere invalicabili dal tumultuoso progredire della scienza e della tecnica 12. Una simile impostazione nega, tuttavia, alla bioetica il possibile ruolo di approfondita e razionale riflessione, scevra da premesse metafisiche o universalistiche. Dietro – o più appropriatamente a monte – di ogni questione bioetica si pone difatti la doverosa tutela di libertà individuali fondamentali, relative alla vita – ma quale vita – e alla morte – ma quale morte – di ogni uomo. 13 In questa prospettiva, la bioetica riuscirebbe invece capace di imprimere al lento incedere della morale, della religione, della filosofia, del diritto il ritmo incalzante dello sviluppo scientifico e di suggerire scelte legislative chiare e rispettose della coscienza di ciascuno. In vero, le difficoltà dell’odierno dibattito sembrano radicare nel fatto che in seno alle comunità evolute emerge, e si accentua sempre più, la compresenza concorrenziale di culture, etiche e religioni – caratterizzate sovente dall’alto tasso di differenziazione – mentre si evidenzia una crescente incapacità di armonizzare il patrimonio etnico-culturale, dei singoli popoli trasmesso lungo l’arco dei secoli. Sulle questioni bioetiche, difatti, non esiste un terreno su cui poggiare fondamenta comuni: la discussione pubblica relativa a tematiche fortemente simboliche – quali, ad esempio, la fecondazione eterologa, la maternità surrogata, i trapianti di organi, le manipolazioni genetiche, l’alternativa etica tra ‘sacralità’ e ‘qualità’ della vita – ha, con ogni evidenza, provocato l’impossibilità di una scelta unanimemente condivisa. Lo straniamento che l’opzione etica può condurre con sé, a fronte del logorante 11  Secondo la lezione di Heidegger, “la scienza non pensa, non può pensare”. Cfr. Martin Heidegger, Was heisst Denken?, tr. it. U. Ugazio e G. Vattimo, Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1979, I, p. 41. 12  In Italia la bioetica è stata introdotta negli anni Ottanta ed ha incontrato notevole diffidenza. La situazione culturale del nostro Paese, caratterizzata dalla incisiva presenza di un forte pensiero cattolico e dalla netta sua contrapposizione al pensiero laico, ha per certo prodotto effetti rilevanti. Cfr. Antonio di Meo, Claudia Mancina, Prefazione, cit., loc. cit. 13  Lucido sostenitore di una bioetica laica – che non nega la rilevanza etica di Dio ma si pone etsi Deus non daretur –, Uberto Scarpelli sottolinea il peso del coinvolgimento profondo della scelta morale che impegna totalmente l’essere umano, “che risponde con tutto se stesso ai tremendi interrogativi circa la vita e la morte”. L’Autore ammette che la scelta di una posizione morale sia sempre personale ed abbia la stessa valenza di una professione di fede. Le differenze negli schemi di “un repertorio di significati e metodi” suscita nel Filosofo una “angosciosa meraviglia” e lo persuade che nelle questioni bioetiche il parere della maggioranza non può valere per tutti. Al pari della libertà religiosa occorre garantire, con rispettosa tolleranza, il diritto di ciascuno a comportarsi secondo coscienza, fino a che le scelte individuali non rechino danno ad altri. Cfr. Uberto Scarpelli, Premessa, in Rivista di filosofia, vol. LXXIV, ottobre 1983, nn. 25.27, pp. 3-4.

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contrasto tra differenti visioni della vita e del mondo e, in modo ancor più avvertito, la necessità di comprendere se l’agire biotecnico possa essere ancora qualificato come etico alla luce degli imperativi categorici della coscienza, pone al centro, innegabilmente, la riflessione religiosa e, attribuisce ad essa e alla sua cifra etico-morale la rilevante responsabilità di non ostacolare, di sostenere anzi, il progresso scientifico e tecnologico, avuto riguardo anche delle generazioni future. Nel campo della bioetica, possiamo dunque affermare, con la migliore energia, che Dio non è morto e contraddire l’antica affermazione di Friedrich Nietzsche: 14 tutto al contrario, il severo tribunale della storia ha dato torto a quanti avevano sentenziato la irreversibile irrilevanza sociale della religione. 15 Oggi, infatti, a fronte di un inarrestabile processo di globalizzazione e della progressiva perdita degli aspetti identitari, si assiste piuttosto ad una evidente rivincita del sacro e ad un rinnovato, continuo bisogno di religiosità. 16 Sì che, a ben vedere, la formazione di dottrine e prassi, individuali e collettive, che motivano la affermazione (o la negazione) dell’eticità in ogni comportamento biotecnico, in ultima analisi dipende da quale sia, nel concreto, la religione o il credo assunti, la spiritualità o la fede vissute, la concezione dell’esistente e il sistema di valori adottato. D’altro canto, negli attuali contesti sociali plurali e multiculturali, la concretizzazione comunitaria delle scelte bioetiche non può non tradursi nelle forme (e con i limiti) di un discorso giuridico: la riflessione si allarga, così, necessariamente, dall’etica delle scienze sperimentali alle strutture normative che le riguardano. 17 3. Un innovato e fecondo diritto religioso Nella fondamentalità di ogni diritto religioso per la regolamentazione giuridica dei temi bioetici, non v’è dubbio che la speculazione e la dottrina giuridica ebraica occupino una posizione di notevole interesse e di pari originalità.

14  “Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso! Come potremmo sentirci a posto, noi assassini di tutti gli assassini? Nulla esisteva di più sacro e grande in tutto il mondo, ed ora è sanguinante sotto le nostre ginocchia: chi ci ripulirà dal sangue? Che acqua useremo per lavarci? Che festività di perdono, che sacro gioco dovremo inventarci? Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?”: Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125, in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano, 1976, vol. XXV, pp. 213-214. 15  Si rinvia ad alcune opere esemplari sul tema: Sabino Acquaviva, L’eclissi del sacro nella società industriale, Milano, Edizioni di Comunità, 1961; William Hamilton, La teologia radicale della morte di Dio, Milano, Feltrinelli, 1969; John A. T. Robinson, Dio non è così, Firenze, Vallecchi, 1965. 16  Descritto bene, fra i molti, da Gilles Kepel, La rivincita di Dio. Cristiani, ebrei, mussulmani alla riconquista del mondo, Milano, Rizzoli, 1991 e da Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1998. 17  Il ‘biodiritto’ diviene lo strumento capace di cogliere gli impulsi etici presenti nello spazio comunitario per tradurli in regole per la soluzione dei conflitti bioetici. Al proposito si vedano, tra gli altri, Angelo Costanzo, Livelli del biodiritto nella società attuale, Ed. ISB dell’Istituto Siciliano di Bioetica, Acireale 2002; Silvana Castiglione, Nuovi diritti e nuovi soggetti. Appunti di bioetica e biodiritto, ECIG, Genova 1996.

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La Legge rappresenta l’essenza ontologica dell’ebraismo 18. La sensibilità religiosa ebraica è intensamente compenetrata nel sistema giuridico tanto da divenirne quasi suo diretto mezzo di espressione. L’ebraismo, in sostanza, non è solo religione né mero impianto normativo, quanto piuttosto la loro singolare simbiosi 19. Inoltre, un fenomeno certamente peculiare del mondo ebraico è che la religione, rigorosamente monoteista, assume e adotta un’insopprimibile vocazione pluralista 20 in ogni altro settore. Per conseguenza, la speculazione giuridica ebraica ha conosciuto, sin dal passato, una straordinaria evoluzione, stimolata e ravvivata dalle diverse scuole di pensiero, dalle opinioni, talora contrastanti, dei decisori (poskim), da differenti metodi interpretativi. Questa intensa e complessa opera di interpretazione e perpetuazione rappresenta la permanente ricchezza dell’halachah la quale, rispettosa delle opinioni antiche, accoglie le più moderne, risultato consapevole e fecondo nella decisione delle attuali problematiche. Si è in tal modo giunti, talvolta, a formule deduttive dirompenti, facilitate dall’uso dell’analogia più ampio rispetto a quello adottato nei sistemi giuridici laici e – come non sottolinearlo vigorosamente – dalla ferma vocazione al superamento del dato normativo formale, motivato e arricchito dalla dinamicità e dal pluralismo del diritto ebraico. 21 Siffatta metodologia traspare, in maniera peculiare e del tutto evidente, nella più recente riflessione ebraica sulle tematiche bioetiche. Nonostante l’ebraismo si sia occupato di bioetica fin dalle origini, 22 le problematiche scaturenti dalle scienze sperimentali si sono infatti poste all’attenzione del dibattito halachico solo dalla seconda metà del XX° secolo e rappresentano tuttora una sorta di ‘cantiere aperto’, il laboratorio nel quale testare le capacità, e i limiti, di un diritto religioso antico e tradizionalista nell’evolversi e nel riformarsi, guardando con consapevole interesse all’attuale progresso scientifico-tecnologico e ai principi fondamentali che reggono le moderne democrazie. Non è così dubbio che la speculazione ebraica sui temi bioetici stia conoscendo uno sviluppo importante. Un sempre più seguito movimento etico tende ad estendere

18  Il diritto ebraico non può dunque scindersi dall’osservanza religiosa; esso può ormai venire definito nella halachah come l’aspetto precettivo della religione ebraica. Per questo aspetto si rinvia, fra gli altri, a Alfredo M. Rabello, Introduzione al diritto ebraico. Fonti, matrimonio e divorzio, bioetica, Torino, Giappichelli, 2002; Aharon Lichtenstein, Does Jewish Tradition recognize an ethic independent of Halakhah?, in Contemporary Jewish Ethics, a cura di Menachem M. Kellner, New York, Hebrew Publishing Co, 1978, p. 102 ss.; Daniel B. Sinclair, Law and Morality in Halakhic Bioethics, in Jewish Law Association Studies, a cura di Bernard S. Jackson, 2, Atlanta, Scholars Press, 1986, pp. 143 ss. 19  Elliot N. Dorff, Jewish as a Religious Legal System, in Hastings Law Journal, 29 (19771978), pp. 1331 ss.; cfr, inoltre, Michele Graziadei, La giustizia nei monoteismi. Convergenze e divergenze, in Daimon, 4, 2004, p. 190. 20  Jonathan Webber, Modern Jewish Identities: the Ethnographic Complexities, in Journal of Jewish Studies, 43, 2, 1992, pp. 246 e ss. 21  Alfredo M. Rabello, Introduzione al diritto ebraico, cit., p. 4. 22  Viene, ad esempio, ricordata come scelta bioetica “quella delle due levatrici, nel primo capitolo del Libro dell’Esodo di non obbedire all’ordine del Faraone che chiedeva loro di sopprimere ogni neonato di sesso maschile”. Cfr. Riccardo Di Segni, Prefazione a Cesare Effrati, Aspetti di bioetica alla luce della tradizione ebraica, Proedi Editore, Milano 2010, p. 5.

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i valori della Torah al di fuori della tradizionale prospettiva antropocentrica e a porre una maggiore attenzione e una più penetrante tutela nei confronti del creato 23 muovendo dal fecondo lavoro di reinterpretazione creativa delle Scritture 24. Le tematiche bioetiche maggiormente discusse da una speculazione giuridica variegata e multiforme, 25 sono quelle che attengono alla vita dell’uomo, in ogni fase, dal momento dell’inizio a quello della morte. 26 Accanto alle argomentazioni fondate sull’osservanza della parte precettiva della Torah in piena sintonia con la tradizione scritta e orale che ad essa richiama “lungo una linea di continuità che conosce crescita ed evoluzione ma non cesure” 27, trovano infatti luogo ponderate riflessioni che, mentre si rifanno al pensiero etico-giuridico nella sua radice mosaica – peraltro non vincolante sul piano normativo – sanno modularsi secondo importanti filoni di pensiero giuridico e scientifico, certo meno tradizionali, ma pienamente idonei a suggerire un respiro più ampio e innovativo alle complesse dottrine e al ricco dibattito in corso sulle questioni etiche. 28 Le pagine che seguono ne sono sicura e felice testimonianza e provano come il genuino senso del diritto ebraico non si esaurisca nel rispetto e nella applicazione letterale della Legge, quanto, a motivo della fattiva partecipazione che ogni creatura ha nell’opera divina della creazione, contribuisca in maniera determinante al disvelamento dell’ampio orizzonte della dimensione del possibile per l’uomo.

23  Attraverso il vegetarianesimo o l’impegno per il benessere animale. A questo riguardo, si leggano, le persuasive pagine di Francesco Lucrezi, Appunti di diritto ebraico, Torino, Giappichelli, 2015, pp. 52-53. Cfr. inoltre Yechiel M. Barilan, The vision of vegetarianism and peace; Rabbi Kook and the ethical treatment of animals? in History of the human science, 17, 2004, pp. 69 ss. L’Autore osserva come un risveglio dell’attenzione verso i temi della bioetica sia già stato inaugurato da Spinoza e, in seguito, nei primi anni del XX° secolo, da Rav Cook, il primo grande rabbino sionista. 24  Diritto e vita. Biodiritto, bioetica, biopolitica, a cura di F. Lucrezi, F. Mancuso, Salerno, Soveria Manelli, 2010, pp. 517 ss.; Avraham Steinberg, Le regole della moderna etica ebraica, in Shalom, 22 settembre 2006. 25  Fra i molti, si vedano Daniel J. Lasker, Kabbalah, Halakhah and Modern Medicine, in Modern Judaism, 8, 1988; David J. Bleich, Bioethical Dilemmas, Hoboken, Ktav Pub. House, 1998. 26  Come si può dedurre anche dall’approccio dottrinale in materia. Cfr. fra i molti, Yechiel M. Barilan, Revisiting the Problem of Jewish Bioethics: The Case of Terminal Care, in Kennedy Institute of Ethics Journal, 13 febbraio 2003, pp. 141 ss.; Idem, Jewish bioethics: Rabbinic Law and Theology in their historical contexts, Cambridge, Cambridge University Press, 2013; Immanuel Jakobovits, Jewish Medical Ethics, New York, Bloch Publishing Company, 1959; David J. Bleich, Ethico-Halachic Considerations in the Practice of Medicine, Diné Israel, 7, 1976, pp. 87 ss. 27  Si veda Francesco Lucrezi, Appunti di diritto ebraico, cit., p. 71. 28  Aharon Lichtenstein, Does Jewish Tradition recognize an ethic independent of Halaakhah?, cit., pp. 110 ss.

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The Hebrew term mussar in the Bible refers to words of rebuke, teaching and warning, or the act of punishment for wrongdoing. Nowadays, this term is used in the sense of “ethics”, and it refers to proper conduct in life and includes basic principles concerning such proper conduct, both between man and God, and between man and his fellow man. A fundamental difference exists between Judaism and secular philosophical ethics in many facets of life. The basis, validity and source of Jewish ethics is rooted in the belief in God and His Torah whereas the basis of secular ethics is primarily humanism and rational intellect. Jewish ethics and law are derived from the written and oral law (the Bible and the Talmud, respectively), which were divinely given to Moses on Mount Sinai. The Jewish rules of law and principles of ethics include commandments governing the relationship between man and God, some of which have no rational or humanistic explanation, but also precepts governing man’s relationship to his fellowman which are logical and explainable in humanistic terms. The Torah and its precepts are continually interpreted and expanded by the rabbinic Sages of each generation who add protective rules and regulations and provide legal, ethical and personal guidance to the Jewish people. The following are some basic principles of Jewish ethics as viewed by Orthodox Judaism: In Judaism, there is no basic difference between laws and regulations and morals and ethics because both are integral parts of the Torah and their validity flows from the power of the Torah and the Divine revelation. Therefore, basic principles, discussions and debates on Jewish ethical issues do not differ from those of Jewish legal issues. This view is contrary to the social and secular systems of law and ethics. Jewish ethics includes the guidelines for proper conduct for man in relation to his fellow man as well as in man’s relation to God. Therefore, there is no difference in the binding nature of the law between the laws prohibiting stealing, killing, falsehood, revenge, carrying a grudge and the like, and the laws prohibiting idol worship, Sabbath desecration, eating on Yom Kippur, and the like. So, too, there is no difference between the obligations of giving charity, visiting the sick, burying the dead, caring for orphans and widows and their like, and the observance of dietary laws, eating unleavened bread (matzah) on Passover, sitting in the Sukkah on the holiday of Sukkot, and the like. This view is contrary to the humanistic approach in which only relations among human beings are dealt with.

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According to the Torah and Jewish law, one is obligated not only to refrain from doing bad but one must do good by being compassionate and charitable with one’s fellow human beings as it is written, turn from evil and do good (Psalms 34:15). These are two equal parts of the Jewish ethical obligation. Therefore, not only are harmful acts such as stealing, wounding and killing prohibited but there exist positive commandments: to give charity, to visit the sick, to be hospitable, to return lost objects and the like. This view is contrary to the legal approach which is primarily concerned with the avoidance of harm to others but does not require doing good to others. These Jewish principles require not only proper acts but also proper thoughts and intentions. The Torah forbids hatred, covetousness, revenge, carrying a grudge, and the like, and requires one to love God, to love one’s fellow man and to love a stranger and the like, in spite of the obvious difficulties in controlling one’s thoughts. One of the important Jewish ethical principles is to sanctify the profane and to raise every day human endeavor to a level of holiness. Some ethical and religious systems praise those who abstain from normal life’s activities, who are celibate, and who practice asceticism in various ways. This is not the normative Jewish view. Judaism does not demand the uprooting of one’s natural inclinations but an even more difficult task, that is the conquering and appropriate channeling of one’s natural instincts. To fight one’s evil inclination does not mean to withdraw from the world but to overcome the inclination while living in the world. This requirement is more difficult because it compels one to conduct oneself ethically during daily living which is full of ethical traps and obstacles. The Torah itself presents two types of teachings in regard to ethical conduct: the precepts and laws including specific obligations the stories about the ethical conduct of the Patriarchs and Matriarchs which should be emulated. Jewish ethical teaching involves general concepts and principles on the one hand, and specific rules and regulations on the other. The Bible cites a number of basic principles about the proper relationship between man and man, such as: Love your fellow man as yourself (Leviticus 19:18) – “this is a major principle in the Torah” (Jerusalem Talmud Nedarim 9:4); “what is hateful to you, do not do to your neighbor, that is the whole Torah, while the rest is commentary, go and learn it” (Shabbat 31a) Do not profane the name of your God (Leviticus 18:21), namely do not conduct yourself in a way that profanes the name of God You shall do what is righteous and good in the eyes of the Lord (Deuteronomy 6:18) Observe Justice and perform righteousness (Isaiah 56:1) Despise evil and love good, and establish justice by the gate (Amos 5:15) Do justice, love kindness, and walk humbly with your God (Micah 6:8) The righteous lives through his faith (Habakkuk 2:4) That you may walk in the way of the good, and keep the paths of the righteous (Proverbs 2:20) Its ways are ways of pleasantness, and all its pathways are peace (Proverbs 3:17), etc. However, the Jewish ethical system, like the halakhic system, is not satisfied with general theoretical rules alone but is filled with practical and individual guidelines. The Torah requires every human being to strive for perfection in one’s conduct

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vis-a-vis another person, in actions, in speech and in thought, and not just abstract general good behavior. Among the 613 biblical commandments, some can be clearly categorized as ethical in nature with regard to interpersonal relationships. They are as follows: To do good and to honor other people is exemplified by several precepts – honoring one’s parents, the prohibition against hating another person, even only in one’s heart, the requirement to honor elders and Torah scholars, and the obligation to love one’s fellow man. To avoid physically harming another is exemplified by the precepts thou shalt not kill (Exodus 26:13; Deuteronomy 5:16), thou shalt not steal (Leviticus 19:11), do not cheat your fellow man (Leviticus 19:13), do not rob (Leviticus 19:13), do not refrain from saving a life, do not encroach on another’s property, return lost objects and do not hide from this obligation, remove harmful objects from public places, save the pursued from the pursuer, etc. One must refrain from harming another even through speech or thought. Thus, do not covet your neighbor’s possessions, do not curse anyone, do not cause anyone to stumble even by only giving bad advice, do not be a tale bearer and gossip, rebuke your friend if his conduct is improper, do not shame your fellow man, do not seek revenge nor bear a grudge, honor elders and Torah scholars, do not aggrieve your fellowman through words, and keep your promises. Protection of weak segments of the population is exemplified by the precepts to love the stranger and not to oppress him verbally or monetarily, not to cause pain to any widow or orphan and to act on their behalf with extreme diligence and devotion, to give charity to the poor and to support the poor with loans, not to pressure them to pay off their loans, and to give the corners and gleanings and tithes to the poor as prescribed by Jewish law. To conduct one’s business dealings ethically involves the prohibition of taking or giving high interest on loans, to pay ones workers promptly, not to aggrieve others in business, and to allow field workers to eat while they work. Proper conduct in legal proceedings means not to testify falsely and to appoint proper judges and court officers. Judges should conduct themselves with righteousness, not accept bribes, and pay close attention to follow precisely all the details of the law. One may also not swear falsely. Proper conduct in sexual matters includes the prohibitions against adultery and other forbidden sexual relationships and activities and the obligations to provide one’s wife with clothing, shelter and sexual gratification. In addition to the afore described biblical ethical system, the rabbinic sages in the Talmud and thereafter also decreed and implemented ethical guidelines for moral conduct, both on a societal and on an individual level. Many ethical discussions are scattered throughout rabbinic literature including the Talmud and Midrashim. These discussions provide the foundation for the organized ethical theories and views in the Middle Ages and in more recent times. Discussions of medical ethical dilemmas from a Jewish-halakhic viewpoint go back to antiquity. The basic principles are already enunciated in the Bible and the Talmud and the rabbinic literature of all eras. Until recently, however, no specific term was used for medical ethics nor was this a separate area of study. Paralleling the advances in secular medical ethics has been the development of the field known nowadays as “Jewish medical ethics”.

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In recent years, many discussions of medical ethics and Jewish law have been published, some of which are based on conferences held in various countries. International conferences on Jewish medical ethics are also now quite common. Jewish medical ethics, in terms of the application of halakhic and Jewish ethical principles to the solution of problems, differs from secular medical ethics on four planes: the range of discussions and attitudes the methods of analysis and discussion the final conclusions and the basic principles. 1) The range of discussions and attitudes Halakhah addresses all the medical ethical questions which secular medical ethics raises, whether old or new. Halakhah also addresses specific medical issues that affect only Jews who observe the precepts of the Torah. The basic Jewish approach is the same for questions relating to the terminally ill, abortion, organ transplantation and questions relating to the treatment of patients on the Sabbath, the laws of seclusion or the laws of a menstruant woman. 2) Methods of analysis and discussion Jewish medical ethics analyzes medical ethical questions with the same methods and halakhic principles used for any halakhic analysis using basic principles and sources enunciated in the Talmud, Codes of Jewish law, and the responsa literature of all generations. The scientific or medical data are presented and the relevant halakhic sources are then applied to the data. It is not always easy to arrive at a halakhic conclusion regarding a medical question. A far-reaching knowledge of halakhah as well as an expert and precise understanding of the relevant scientific facts is required in order to arrive at the proper halakhic conclusion. From the time of the redaction of the Talmud until modern times, halakhic decision making has been done through the question-answer format. The ethical question is first identified, presented to the rabbinic decisor and ultimately answered. 3) Final conclusions Halakhah attempts to give final and operative decisions to questions posed to the rabbinic decisor. This is in contrast to secular medical ethics which views its function as defining the relevant ethical dilemma, sharpening the focus of the various views and not necessarily arriving at final and practical conclusions. Since time immemorial, however, Rabbis have differed in their opinions and not always is the final decision unanimous. The halakhic construct in resolving a medical ethical question is a tripartite one involving the patient and/or family, the physician, and the rabbinic decisor. The patient is obligated to seek the best possible medical care. He has the autonomous right to choose his physician and his rabbinic decisor and has the right to make his

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Jewish Bioethics

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personal wishes known. The physician is obligated to treat the patient and must use the best diagnostic and therapeutic interventions according to his knowledge and judgment. The rabbinic decisor is obligated to understand all the facts of the medical questions, to consider the views presented by the patient and the physician, and then to decide according to halakhic principles how to proceed in any given situation. His decision is binding on both patient and physician. It is obvious that this construct applies only to medical situations which have halakhic ramifications. Pure medical decisions are made by the physician. This construct can be termed a religious-paternalistic approach which restricts the patient’s, as well as the physician’s autonomy, and requires acceptance of the halakhic decision, but it negates personal paternalism. 4) Basic Principles The basic principles of Jewish medical ethics compared to secular medical ethics are the following: Jewish ethics, including Jewish medical ethics, is based on duties, obligations, commandments, and reciprocal responsibility. The word “right” in its modern sense meaning “I am entitled to it” does not exist in biblical or talmudic literature. By contrast, secular medical ethics is based heavily on the concept of rights and autonomy. This is a minimalistic view and justifies human decisions which cannot be criticized as long as they do no harm to others. Judaism, however, requires self-fulfillment based on obligatory and binding moral requirements which are beyond the personal, temporal feeling of individuals but rather founded on values mutually beneficial to society. Judaism in general prefers the casuistic approach to resolve halakhic questions. This means that one must examine each situation according to the individual circumstances and develop the response according to the specific details and characteristics of that situation using many of the basic halakhic rules and regulations and principles. This is the methodology of the rabbinic responsa literature and is ideally suited for medical questions where the circumstances differ from patient to patient. By contrast, the current approach of Western secular medical ethics uses a limited number of ethical principles and applies them to all situations involving medical ethical questions. Judaism recognizes absolutism only with respect to the Divine source of authority of Jewish law, the supreme authority of the prophets who speak the words of God and the eternity of Torah. Judaism does not in general subscribe to a set of principles and values as absolute imperative categories but rather favors a middle of the road approach, the “path of the golden mean”, which is a proper balance between different values or laws in any specific case. The ethical imperative for the average person is to conduct oneself properly with the appropriate balance between opposing values and to avoid extreme positions. Hence, for Judaism there is no definitive value which is absolute so that it takes precedence in every case or situation. Various values have different moral weight and there is a system for ascribing priorities in specific situations where conflicting values exist. This view is based on the principle that “the Torah was not given to ministering angels” but to ordinary human beings who, by definition, are not perfect, as stated by King Solomon, There is no righteous man on earth who only does good and does not sin (Ecclesiastes 7:20).

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Avraham Steinberg

The goal of studying and teaching Jewish medical ethics, as in all other areas of Torah learning, is to put Torah law and ethics into practice. Judaism is not just an academic discipline. The physician-patient relationship in Judaism is not a voluntary-contractual arrangement but a Divine commandment and obligation. The patient is commanded to seek healing from the physician and to prevent illness if possible. The physician is obligated to heal and is considered to be the messenger of God in the care of patients. The patient is not free to decide autonomously to refuse treatment which might be beneficial or save his life. He is prohibited from relying on miracles, but must do whatever is necessary to heal himself according to standard medical practice. In Judaism, the value of human life is supreme; therefore, to save a life, nearly all biblical laws are waived. This approach is in contrast to the secular ethical view which considers human life to be one of many values and often gives greater weight to “the quality of life”. Even in Judaism, the value of human life is not absolute and in certain rare and well-defined circumstances other values may supercede it. This, however, does not in any way diminish the supreme value of human life in Judaism. The emphasis placed on human life in Judaism exceeds that of most other religions. The four basic principles widely accepted in secular medical ethics nowadays are also accepted as important values in Judaism but they do not receive the same weight in the Jewish tradition. The principle of autonomy which is dominant in Western secular medical ethics is modified in Judaism. Judaism asserts that man was created in the image of God and that all people are, therefore, considered special and equal. Thus, Judaism requires that people must respect and help one another. Judaism also accepts a degree of patient autonomy in the physician-patient relationship. However, in certain situations in which autonomy conflicts with other fundamental principles of Judaism, such as the obligations to preserve one’s health and life, to avoid harming others and to do good for others, the halakhah may be in direct conflict with autonomy. In Judaism, man is said to have free will and choice. This does not mean that he is permitted to choose to live immorally or to violate Torah laws. A person is commanded to live within halakhah and thus his autonomy and free choice are restricted. Decision-making in areas which do not involve halakhah can be totally autonomous. However, in every life situation in which there is a clear halakhic position any Jew, be he physician or patient, must always act within the parameters of halakhah and not on one’s own inclinations and desires. The principles of beneficence and non-maleficence are clearly defined axioms in Judaism which prohibit the intentional harming of another person either physically, emotionally or financially, or by defamation or by an attack on objects owned by others. In addition, Jewish law clearly requires not only the avoidance of harm to others but the active doing of good to others. Sometimes, punishment is inflicted for not doing so. This approach is in contradistinction to secular law and ethics which usually only require one to avoid harm to others but do not obligate one to do good for others. Acts of kindness are considered praiseworthy but not specifically required in secular law and ethics as they are in Jewish law. Thus, coming to the aid of a stranger (”good Samaritanism”), considered a supererogatory act in most Western societies, is obligatory in Judaism.

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Rav Riccardo Di Segni La Bioetica Ebraica su alcuni temi di dibattito attuale 1

Grazie per l’invito a partecipare a questo importante convegno e anche delle parole introduttive. In questa relazione vorrei portare una testimonianza sull’impatto che la bioetica ebraica ha sia all’interno della comunità ebraica che al suo esterno. Parlando dell’interno, quando si parla di bioetica c’è anche un problema pratico: ma tutti questi ragionamenti e riflessioni come vengono trasmessi e utilizzati dal pubblico? Qui si crea una dinamica nella quale un membro della comunità, il cui rapporto con la tradizione può essere estremamente intenso o estremamente labile, che, sottoposto un determinato problema conflittuale, chiede delle indicazioni. Indicazioni che qualche volta la persona richiede per pura curiosità, altre volte chiede come suggerimento e altre volte ancora chiede proprio come istruzione pratica di comportamento, alla quale, rispettando l’autorità cui si rivolge, si atterrà rigorosamente. Quest’ultima eventualità diciamo che è un po’ più rara, però il dialogo della comunità con la ricerca di queste notizie è sempre più intenso. Come sapete, la parola ‘bioetica’ è una parola nuova nel vocabolario. Nell’ebraico tradizionale si è parlato molto più spesso di refuà wahalakhà, “medicina e regola da seguire”, cioè tutte le situazioni nelle quali l’osservanza della legge entra non in conflitto, ma in discussione con problemi medici. E da questo punto di vista, se la bioetica è disciplina nuova, almeno per il titolo, la discussione tra medicina e halakhà è una cosa estremamente antica. Nel campo pratico, alcuni esempi di problemi che vengono posti. Uno, come ha spiegato il professor Steinberg, è che esistono dei problemi rituali che sono specifici dell’ebraismo: quelli dell’osservanza del sabato, per esempio; un altro è quello di una pratica che è presente in tanti altri mondi religiosi, ma che nell’ebraismo assume forme particolari di rigore e di severità: i digiuni in determinate occasioni dell’anno. La domanda molto frequente è se il malato debba fare digiuno. In questo caso sono necessarie competenze abbastanza allargate, perché bisogna mettere insieme a quella rabbinica la competenza medica sulla gravità della malattia o sulla necessità di prendere determinati farmaci, che comporterebbero comunque anche l’assunzione di acqua o di cibi, e la situazione generale del paziente, misurata con le norme della tradizione. Un altro caso particolare in questo senso è: una donna incinta deve fare il digiuno del giorno del Kippur? Malgrado ci sia una tradizione antichissima di codificazione, su questo argomento continuano a essere prodotte nuove riflessioni e nor-

1  Il presente contributo rappresenta la riproduzione in forma scritta della relazione che Rav Riccardo Di Segni ha presentato al convegno “Questioni bioetiche e diritto ebraico”.

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Rav Riccardo Di Segni

mative rabbiniche. Come a dire che c’è una sensibilità continua e aggiornata alla luce delle conoscenze attuali e dei nuovi dati: per esempio, una statistica su parti anticipati in conseguenza del digiuno. Un tempo non si potevano fare queste statistiche, oggi si possono fare e queste vengono riportate sul tavolo dei decisori e vengono discusse. Questi sono tipi di domande che mi fanno molto frequentemente. Altre domande molto più drammatiche riguardano problemi di gravidanza: per esempio, una donna incinta, in piena salute, che scopre dalle analisi di essere stata infettata da un virus potenzialmente nocivo per il feto, come un citomegalovirus, chiede che deve fare. Ecco, in questi casi non è che c’è una risposta tranciante. La stessa halakhà, come ha spiegato il professor Steinberg, non è decisiva perché c’è un ventaglio di opinioni. In questo caso, il compito del rabbino è quello di documentarsi anche dal punto di vista scientifico, valutare l’entità del rischio e proporre alle persone una decisione in base all’entità del rischio. In un caso recente che mi è capitato, la possibilità che ci fossero danni al feto era dell’ordine del 5%, cosa che non autorizzerebbe un intervento di interruzione di gravidanza, ma questo divieto va messo con il condizionale in un colloquio sereno ed è una modalità di accompagnamento alla decisione. Un altro grande problema che viene sollevato, tra l’altro con drammaticità e urgenza, è quello del paziente terminale, in fin di vita, legato a delle macchine, in cui gli anestesisti dicono: “Non c’è speranza di vita, bisogna staccare il respiratore automatico, bisogna interrompere la somministrazione di dopamina nella fleboclisi”. E allora, in questi casi, come ci si comporta? È il momento di un colloquio molto penoso, drammatico, con la famiglia e anche qua non si possono dare soluzioni trancianti, ma dei suggerimenti che derivano in parte dalle conoscenze tecniche, in parte importante dalla conoscenza di quello che gli ultimi decisori hanno detto, e in altra parte anche dalla conoscenza della legislazione attuale, perché non ci si può muovere in questi ambiti se non si conosce che cosa dice la legge italiana su come si gestiscono questi problemi. Questo per dire qual è il “fronte interno”, il dilemma bioetico dentro la comunità. Ma la bioetica ebraica entra anche in dialogo con altri sistemi. Esiste una grande curiosità, nel mondo in generale e – questo convegno lo dimostra – nel mondo giuridico e nel mondo accademico, su quali siano le opinioni dei diversi mondi sulle scelte bioetiche. E in particolare esiste una vera curiosità sulla posizione ebraica su tanti argomenti. Posso riferire in merito sulla mia esperienza in una sede autorevole di confronto interdisciplinare e ideologico, il Comitato nazionale per la bioetica (CNB), del quale faccio parte da molti anni. Nelle sue discussioni che portano alla produzione di pareri e mozioni, talora si arriva all’unanimità, altre volte i punti di partenza sono molto lontani e si cerca di arrivare ad un minimo comune, e poi chi non è d’accordo o vota in minoranza o esprime dissenso. Come si colloca un ebreo, rappresentante della bioetica ebraica in questi ambiti? Su questo vorrei portare degli esempi, cominciando da un tema molto controverso dentro e fuori dalla comunità scientifica, quello della medicina omeopatica. Recentemente il CNB ha discusso il decreto sull’etichettatura dei medicinali omeopatici, in particolare sull’obbligo originario di stampare questa frase: “medicinale omeopatico senza indicazioni terapeutiche approvate”; come per dire: è una medicina, però non è chiaro a che cosa serva, in modo che il consumatore sappia di che si tratta. Il CNB, però, accettando la posizione scientifica accreditata, che nega il valore terapeutico delle sostanze omeopatiche, ha ritenuto che la dizione proposta non fosse sufficiente e ha chiesto che la nuova etichettatura sia molto più

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severa e che invece di dire “medicinale” si dica “preparato”: “preparato omeopatico di efficacia non convalidata scientificamente e senza indicazioni terapeutiche approvate”. Ma che cosa c’entra la bioetica ebraica in tutta questa storia? Quando mi è stato chiesto “ma voi che ne pensate”, ho raccontato quello che scriveva il compianto rav Abraham Blumenkrantz nella sua autorevole guida alle regole sulla festa di Pesach, la Pasqua ebraica. Una delle domande più comuni che un malato fa a un rabbino è: “Devo assumere una determinata medicina e questa medicina potrebbe contenere degli alimenti proibiti. Che posso fare?”. La regola è particolarmente rigorosa quando si tratta della Pasqua, in cui vige la proibizione di tutti i lieviti. Come ragiona un rabbino in questi casi? Deve distinguere tra la gravità della malattia, la modalità di assunzione del farmaco, la presenza di sostanze proibite in maniera rilevante o meno e così via: tutta una serie di distinzioni in base alle quali si arriva alla conclusione. Ma il rabbino Blumenkrantz cosa dice della medicina omeopatica? Che quando si tratta di un preparato omeopatico, la Pasqua o le regole della corretta alimentazione rituale non c’entrano per niente. La cosa è proibita, dice lui, perché si entra nell’ambito di un’altra proibizione biblica, quella della magia. Perché la magia? Perché prendere una sostanza e scioglierla oltre al limite di diluizione del numero di Avogadro, significa che questa sostanza non esiste più e che quindi stiamo facendo semplicemente un atto magico e non un atto razionale. E gli ebrei, per quanto siano fedeli di una religione, sono tenuti a comportarsi razionalmente e la magia è proibita. Sulla base di questi ragionamenti mi sono trovato perfettamente d’accordo sulla mozione del CNB. Ma ho sollevato anche un altro problema, con una sorta di “accanimento”, direbbero i bioeticisti. La norma precedente diceva che nell’etichetta del medicinale omeopatico deve essere riportata la denominazione scientifica del ceppo, cioè della sostanza che viene usata nel preparato e la sua diluizione. Un normale consumatore che legge l’etichetta, sa cos’è l’ apis mellifera oppure il natrium muriaticum? Di solito no, ma l’apis mellifera è l’ape, quella che fa il miele, e il natrium muriaticum, che viene venduto in una boccettina di pochi grammi a 25 euro, altro non è che il sale comune da cucina, portato a diluizioni estreme. Quindi il CNB ha chiesto che il nome, la denominazione scientifica del componente, sia accompagnata dalla sua traduzione italiana, in modo che l’acquirente sia consapevole di ciò che compra. Qual è il principio etico, ebraico, biblico? Semplicemente che non bisogna ingannare le persone! Un altro esempio, ben più complesso, è il famoso caso del Pertini. L’Ospedale Pertini di Roma è un ospedale nel quale si fa la terapia dell’infertilità. Il laboratorio del Pertini ha gestito contemporaneamente due coppie sterili, chiamiamole A e B. Dalla coppia A è stato prelevato il seme del marito che ha fecondato ovuli della donna, che hanno cominciato a svilupparsi allo stadio di blastocisti; la blastocisti deve essere entro poche ore inserita nell’utero della donna che desidera la gravidanza. Ma è successo che le blastocisti ottenute dalla coppia A sono state inserite erroneamente nel grembo della donna della coppia B, che ha cominciato brillantemente una gravidanza gemellare. Durante questa gravidanza, si è scoperto che lei stava crescendo embrioni che non erano biologicamente né del marito né di lei. Di qui si è scatenato il problema giuridico “questi bambini, quando escono, di chi sono?”. Su questo argomento c’è stato un appassionato dibattito nel CNB, contemporaneamente alla discussione che investiva l’intera società. Tra l’altro mettendo in evidenza che la legge italiana originaria che regola le questioni di maternità e paternità è del 1942 e che la madre è quella che partorisce il figlio. La questione è collegata a quella della maternità surrogata ed è argomento che sollecita un’ampia riflessione bioetica ebraica attua-

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Rav Riccardo Di Segni

le; il problema principale è: in una gravidanza in cui l’ovulo viene dato dalla donna A e l’utero è di una donna B e talora c’è anche una committente C, a chi attribuire la maternità? Abbiamo una maternità genetica ovulare, una maternità uterina o di parto e una maternità di committenza: tre madri in gioco e in possibile conflitto. Nel caso del Pertini avevamo due madri soltanto. Il problema è molto importante nella legge ebraica, perché nella legge ebraica, dal punto di vista identitario, è ebreo colui che nasce da madre ebrea, ma oggi che la madre può essere divisa in due parti – nel senso dell’ovulo e dell’utero, chi è la madre? I Maestri che hanno affrontato l’argomento si sono divisi su due posizioni: c’è chi sostiene la maternità ovulare, c’è chi sostiene la maternità uterina. Nel caso del Pertini come ci si comporta? Qui c’è un problema metodologico molto interessante, quello di come arrivare alla conclusione. E come ha spiegato il professor Steinberg, alla conclusione di questi argomenti ci si arriva portando e ragionando sulla casistica precedente che non è detto che sia decisiva, e le possibilità di ragionamento sono tali che ciascun decisore può arrivare a una conclusione differente. Per fare un esempio di questa casistica – è uno dei tanti, possibili esempi di fonti antiche alle quali ci si riferisce – ho portato il caso, presente nella halakhà antica, di un’alluvione. A seguito di un’alluvione un albero da frutto che cresce nel campo del proprietario A viene sradicato dal terreno dove sta e viene trascinato nel terreno del proprietario B, dove attecchisce e comincia a produrre frutti. L’albero era di A, il terreno di B. La frutta prodotta, di chi è? Su questo caso, già le fonti fanno una distinzione: se l’albero è stato sradicato con tutte le zolle di terra che circondavano le radici, questo appartiene di più al primo proprietario, ma se invece è soltanto l’albero da frutto che è stato sradicato, la frutta appartiene più al secondo proprietario che lo ha nutrito con la sua terra e ha consentito, grazie alla sua terra, la produzione della frutta; al massimo il secondo proprietario deve pagare al primo proprietario l’affitto dell’albero e non la frutta. Ora se trasportiamo questo discorso alla gravidanza e, invece dell’albero, pensiamo a una blastocisti, a un embrione fecondato che viene inserito nell’utero di un’altra donna, questo utero potrebbe essere come il terreno del secondo proprietario con le conseguenti deduzioni. Come ragionano i decisori sulla base di questo esempio? Dicono: “Ma siamo sicuri che la casistica vegetale e agricola possa essere rapportata alla casistica biologica umana? Siamo sicuri che quello che è un mero problema commerciale ed economico (la proprietà della frutta) possa essere riferito all’identità personale, l’identificazione della maternità?”. Questi accostamenti sono sempre molto difficili, richiedono perizie e sottigliezze. Ma quello che è importante è il metodo. Oggi ci troviamo, grazie agli sviluppi tecnologici, ad affrontare dei problemi che nell’antichità non erano neppure pensabili, ma farlo sulla scorta della nostra tradizione è fondamentale, perché consente alle nostre conclusioni di avere autorità, autorevolezza, fondamento ed è una cosa fondamentale nella struttura della nostra società. In questa discussione ho portato alla riflessione del CNB un’altra fonte: non la casistica sull’albero, ma un antico esempio giuridico a tutti noto, che però di solito non viene messo in evidenza per questi aspetti. Ed è il famoso giudizio di Salomone. Si tratta di due donne – nel caso specifico, anche se non lo si dice mai, erano due prostitute –, che dormivano insieme ciascuna con il suo bambino. Una mattina una delle due si sveglia e il suo bambino è morto, per cui prende quello dell’altra e dice: “Il bambino è mio”. Le due litigano e arrivano al giudizio davanti al re Salomone, il quale dice, per provocarle (non c’erano i test genetici!): “Visto che non vi mettete

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d’accordo, io prendo una spada, lo divido in due e fate mezzo per uno”. Allora una madre, quella vera, dice: “No, per carità, io voglio che questo bambino sia vivo e dallo a chi vuoi purché viva”. L’altra, che non era la madre, dice sì, è giusto che sia diviso in due, e in questa maniera si chiarisce la verità. Ma un aspetto rilevante di questo giudizio è che, in realtà, la preoccupazione del sapientissimo re Salomone era che questo bambino venisse affidato a una madre che lo tutelasse. Non era importante solo chi fosse la madre, ma anche la tutela del bambino. Rispetto alla tutela del bambino, tutto il resto passa in secondo piano. Quindi, quando un giudice deve affidare un bambino a qualcuno, la sua preoccupazione primaria quale dovrebbe essere, secondo l’insegnamento del re Salomone e, quindi, della bioetica biblica ebraica? Quello di affidare il bambino alle persone che possono accudirlo nel migliore dei modi possibili. Un principio condiviso dal CNB, che mentre afferma che sulla definizione della madre ci sono delle divisioni in campo bioetico e giuridico, sottolinea che la questione della tutela del bambino è un’esigenza primaria. Sempre a proposito di maternità surrogata, sappiamo che in Italia è proibita e questo dà luogo a un turismo fecondativo, per cui le persone che non riescono a ottenere gravidanze in Italia si rivolgono altrove. Ci sono organizzazioni che se ne occupano e vi sono banche di ovuli, di seme maschile e madri con uteri disponibili. Quando nasce il bambino, lo si porta nel paese del committente. In Israele c’è una legge che disciplina l’argomento, ma sono tali i paletti messi da questa legge – benché sia molto più facilitante della legge italiana – che un paio d’anni fa, quando c’è stato il terremoto in Nepal, c’è stata subito una spedizione israeliana che ha portato dal Nepal in Israele donne incinte e bambini, perché coppie o singoli senza figli in Israele si erano rivolti all’organizzazione nepalese che faceva queste cose. Perché in Nepal sì e non altrove? Perché sia il Nepal che gli Stati Uniti consentono le procedure di maternità surrogata, ma il prezzo degli Stati Uniti si aggira intorno ai 250.000 dollari e quello del Nepal intorno agli 80.000 dollari. Nella prospettiva che l’Italia faccia una legge su questo argomento, si tratta di problema molto delicato dal punto di vista etico. A parte la questione di chi possano essere i committenti legittimi – se deve essere una coppia legalmente formata, se può essere una coppia omosessuale, se può essere un single uomo o donna –, un altro problema è quello della mercificazione del corpo umano: è lecito pagare una prestazione del genere? Nel dibattito su questo argomento, il Comitato CNB ha detto in maniera molto decisiva: “La maternità surrogata è un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio, sottoposto come un oggetto a un atto di cessione. Il Comitato ritiene che tale ipotesi di commercializzazione di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento esplicita o surrettizia, sia in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali che emergono da tutte le dichiarazioni fatte in precedenza”. Quindi, una posizione molto forte e negativa, perché si tratta di commercializzazione del corpo femminile e anche di commercializzazione del bambino. Nell’ambito di questa discussione qualcuno ha detto: “Eh, ma questa cosa sta già nella Bibbia, perché la matriarca Rachele ha fatto la stessa cosa”. La storia biblica è questa: Rachele, la moglie del terzo patriarca, Giacobbe, non aveva figli e allora, nell’insistenza di questa richiesta, dice al marito: “Prenditi la mia schiava, mettila incinta in modo che io possa avere un figlio per me”. Questa richiesta di Rachele si può intendere nel senso che, quando nasce il bambino, me lo prendo io oppure che, assistendo al parto, accudendo la partoriente, che è una mia schiava, io posso avere

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da lei il dono della fecondità. Tutto questo porta a dire in modo semplicistico che la maternità surrogata è già presente nella storia della matriarca Rachele. In realtà, non è presente soltanto nella storia della matriarca Rachele, ma lo è già nella storia della matriarca Sara, due generazioni prima. Anche lei ha lo stesso problema, non riesce ad avere figli e quindi propone al marito Abramo: “Adesso unisciti con la mia serva, Agar, mettila incinta, in modo che io possa essere ‘costruita’ da lei”. È la stessa cosa? Si può semplificare? Vi sono delle analogie – il desiderio della gravidanza e un’altra persona che interviene –, ma anche delle differenze. Una delle differenze ovvie è che qua si sta parlando di modi naturali di procreazione, che sono ben differenti dalla provetta spedita per posta, quindi siamo già in un altro ambito. L’altra questione è la presenza e persistenza fastidiosa della donna che è rimasta incinta e che, nel caso di Sara e Agar, scatena una situazione conflittuale micidiale, per cui Sara a un certo punto caccia via Agar e il figlio. Quindi questo figlio non se lo prende lei, ma rimane della madre, a differenza della maternità surrogata, in cui c’è un contratto di affitto dell’utero e poi un’altra persona si prende il figlio. Nella Genesi invece questo figlio rimane della madre e viene cacciato via insieme a lei. Un famoso commentatore medievale, Nachmanide, nella Spagna del XIII secolo faceva notare che il figlio di Agar che viene cacciato via è lshmael, cioè Ismaele, il padre della nazione araba e musulmana, e quello che nascerà da Sara è Isacco, che è il padre del popolo ebraico; Nachmanide diceva che noi, come ebrei, stiamo ancora scontando la severità, se non la cattiveria, della matriarca Sara, perché i discendenti di Ismaele ce la fanno pagare. Un discorso molto attuale. Anche la storia di Rachele ha un seguito. Non sappiamo precisamente cosa succede, ma il bambino rimane dentro casa e non è il figlio di Rachele. Quindi, a differenza della maternità surrogata, queste storie bibliche sono un meccanismo per promuovere la fecondità, ma non per dare e sottrarre un bambino a chi l’ha cresciuto in grembo. Il punto interessante e paradossale di questo confronto, è che molti sostenitori della maternità surrogata utilizzano il modello biblico per giustificare qualche cosa che ritengono molto progressista. Ma il modello biblico ha un ulteriore problema. Le donne che sono state utilizzate per questa procedura erano delle schiave, quindi è stato fatto un abuso sul corpo delle persone. Il tema della schiavitù nella antica società ebraica è complesso. Nella Bibbia la schiavitù era ammessa, benché con modalità ben differenti dai sistemi antichi di schiavitù. C’erano meccanismi di tutela, e uno di questi era che gli schiavi ci sono per lavorare, ma non sono oggetti sessuali. Nell’antichità, gli schiavi erano giocattoli sessuali, a totale disposizione dei padroni e senza differenze di sesso, mentre secondo la tradizione legislativa ebraica dal punto di vista sessuale erano intoccabili. Nelle due storie bibliche citate, invece, c’è un superamento di questo fatto: probabilmente presupponeva il consenso delle donne, ma perché avere figli dal padrone poi significava un upgrade della loro condizione. Difatti, sia Agar che Bila dalla situazione di schiava passano alla situazione di concubina o di moglie. Il paradosso è oggi che per sostenere una posizione progressista che rompe gli schemi tradizionali si cerca un sostegno su casi di donne ridotte in schiavitù. Anche questo è un esempio interessante per dire quanto sia complessa la discussione bioetica e quanto sia utile e, in alcuni casi, veramente decisiva la riflessione ebraica su certi temi.

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David Gianfranco Di Segni La rilevanza dell’analisi del DNA nel diritto ebraico

1. Introduzione Quando il 25 aprile 1953 James Watson e Francis Crick pubblicarono il loro primo, breve, lavoro riguardo alla struttura del DNA su Nature, la più importante rivista scientifica al mondo (allora come oggi), fu subito chiaro che ci si trovava davanti a una conquista epocale nella scienza. Se fosse risultata esatta la loro ipotesi di una struttura a doppia elica, con i nucleotidi (i componenti delle due eliche) complementari l’uno all’altro, si sarebbe finalmente potuto spiegare il meccanismo della trasmissione dei caratteri ereditari da una generazione all’altra e si sarebbe anche potuto comprendere come l’informazione genetica è codificata. L’ipotesi di Watson e Crick, basata sulle analisi cristallografiche di Maurice Wilkins, Rosalind Franklin e collaboratori, si mostrò effettivamente esatta. La biologia molecolare poteva finalmente avere inizio. La prova che il DNA fosse la sede dell’informazione genetica, ossia fosse la sostanza che permette ai figli di qualsiasi essere vivente (animale, vegetale o batterico) di assomigliare ai propri genitori, era arrivata già una decina di anni prima, grazie alle ricerche sui batteri e sui virus. Fino allora si tendeva a pensare che i candidati più probabili per svolgere questo ruolo fossero le proteine. Ma anche dopo aver accertato che l’ereditarietà è in effetti trasmessa dal DNA, e non dalle proteine, mancava un modello che spiegasse come il DNA si potesse duplicare in modo esatto e trasmettere le informazioni dalla cellula-madre alla cellula-figlia; inoltre, era necessario spiegare come le informazioni presenti nel DNA fossero codificate. La struttura a due eliche complementari ipotizzata da Watson e Crick forniva la soluzione a entrambi questi problemi, che sono fondamentali per la comprensione della vita. 1 I nucleotidi del DNA consistono di quattro tipi: Adenina (abbreviato in A), Guanina (G), Citosina (C) e Timina (T). La sequenza nucleotidica su un’elica determina la sequenza nell’elica complementare, secondo questa regola: A è sempre di fronte a T, mentre C è sempre di fronte a G. Perciò, a una certa sequenza in un’elica, per esempio ACCTGTAGG, corrisponderà nell’elica complementare la sequenza TGGACATCC. Una doppia elica così costituita, lunga anche migliaia o milioni di nucleotidi, srotolandosi e aprendosi, può duplicarsi in modo esatto perché ciascuna delle due eliche originali funge da stampo per un’elica complementare. Le due nuove

1  James D. Watson, La doppia elica: trent’anni dopo, Garzanti, Milano 1982; Robert Olby, Storia della doppia elica e nascita della biologia molecolare, EST, Mondadori, Milano 1978.

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doppie eliche saranno identiche alla doppia elica originale (salvo errori di copiatura) e saranno trasmesse alle cellule-figlie. La doppia elica quindi assicura un meccanismo per la trasmissione ereditaria dell’informazione genetica da una generazione all’altra. La sequenza nucleotidica di ciascuna delle due eliche permette anche di ipotizzare che essa codifichi l’informazione genetica, così come le lettere dell’alfabeto consentono di mettere per iscritto un qualsiasi testo. Ma in che modo l’informazione contenuta nella sequenza del DNA si traduce nei caratteri di una cellula e di un organismo? La risposta a questa domanda, ossia la decifrazione del codice genetico, fu l’altra grande impresa della biologia molecolare dell’epoca d’oro, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso. Le componenti fondamentali che costituiscono le cellule sono le proteine, macromolecole biologiche composte da una sequenza di amminoacidi (di venti tipi diversi) che presiedono alla struttura e al funzionamento degli organismi viventi. Le proteine, infatti, costituiscono la struttura portante delle cellule e inoltre rappresentano la maggior parte degli enzimi, ossia i catalizzatori che permettono il metabolismo e la sintesi di tutti gli altri costituenti delle cellule, inclusi il DNA e l’RNA (un altro acido nucleico fondamentale per l’espressione del DNA e per la sintesi delle proteine) e i lipidi, i costituenti principali delle membrane che assicurano la presenza di una barriera fra l’esterno e l’interno della cellula. Le proteine sono formate da una sequenza di amminoacidi (da qualche decina fino a migliaia). La decifrazione del codice genetico ha permesso di capire come l’informazione inscritta nel DNA (sotto forma di sequenze di nucleotidi) si traduca in proteine (sequenze di amminoacidi). Ogni “tripletta” di nucleotidi (chiamata “codone”) corrisponde a un amminoacido (oppure a un segnale di “stop”, equivalente al punto fermo di un testo scritto che interrompe un brano o una frase di senso compiuto: nel caso del DNA, il segnale di stop si trova alla fine di un gene, l’unità elementare dell’insieme dei caratteri ereditari). Le ricerche che portarono alla definizione della corrispondenza fra sequenza nucleotidica e sequenza amminoacidica furono in buona parte effettuate da Crick. 2 La mutazione di un singolo nucleotide può avere effetti devastanti, perché la proteina che risulterà dall’espressione del gene mutato sarà in molti casi (a seconda del tipo di mutazione) modificata. Per esempio, nell’anemia falciforme la mutazione del nucleotide T in A nel DNA del gene della globina beta (che insieme alla globina alfa compone l’emoglobina) causa la sostituzione dell’acido glutammico con la valina nella sequenza amminoacidica della proteina. Ciò provoca una distorsione della struttura tridimensionale della globina beta con conseguente malfunzionamento dell’intera emoglobina (da cui l’anemia) e un’anomala struttura del globulo rosso che assume la caratteristica forma a falce. 3 Per dare un’idea della complessità dell’informazione presente nel DNA, possiamo confrontare la lunghezza del DNA di diversi organismi (fra i più studiati in genetica molecolare): nel batterio intestinale Escherichia coli il DNA è lungo 4,6 milioni di nucleotidi, nel lievito di birra Saccharomyces cerevisiae 13 milioni, nel moscerino della frutta Drosophila melagonaster 132 milioni e nell’uomo circa 3,2 miliardi di

2  Francis Crick, La folle caccia, Rizzoli, Milano 1990; Matt Ridley, Francis Crick: lo scopritore del codice genetico, Codice edizioni, Torino 2010; François Jacob, La logica del vivente. Storia dell’ereditarietà, Einaudi, Torino 1971. 3  Per una trattazione divulgativa ma rigorosa e ben fatta, vedi: Enzo Gallori, Atlante illustrato di Genetica, Giunti, Firenze 2008.

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nucleotidi. Da questi dati potremmo dedurre che la complessità di un organismo è proporzionale alla lunghezza del suo DNA. In realtà, le cose non sono così semplici. Se confrontiamo non la lunghezza del DNA bensì il numero dei geni presenti, la situazione cambia: nel batterio ci sono 4.600 geni, nel lievito 6.275, nel moscerino 13.767 e nell’uomo circa 23.000 geni. Questo risultato ha costituito una notevole sorpresa nel mondo scientifico, perché si tratta di un numero di geni non molto maggiore nell’uomo rispetto a organismi più semplici come il moscerino o il lievito. Si è pervenuti a questo dato dopo il sequenziamento dell’intero DNA umano, ultimato all’inizio di questo millennio. Prima si ipotizzava che il numero dei geni umani fosse dell’ordine di 100.000. La non corrispondenza fra lunghezza del DNA e numero di geni deriva dal fatto che la maggior parte del DNA (circa il 98,5%) non codifica per proteine. Una volta questo DNA non codificante veniva chiamato “junk DNA”, ossia DNA spazzatura. Oggi sappiamo che questa visione non è corretta, e il DNA non codificante è in buona parte la sede di sequenze regolatrici e di geni che codificano per molecole di RNA (e non di proteine). È anche grazie a questo DNA non codificante (e ad altre caratteristiche dell’espressione genetica che non possiamo qui approfondire) che i mammiferi (e l’uomo) sono molto più complessi di lieviti e moscerini. 4 È comunque vero che buona parte del DNA umano non codifica per una proteina, e questo dato è importante per quanto verrà qui discusso. Un altro dato di cui tenere conto è che due individui qualsiasi della specie umana sono uguali nel loro DNA, in media, al 99.9%, un risultato che va contro tutte le presunte argomentazioni a favore dell’esistenza di razze diverse, un concetto ormai screditato nel mondo scientifico. 5 Tuttavia, anche se la differenza fra il DNA di un individuo e l’altro è solo dell’1 per mille, visto che in totale ci sono circa 3 miliardi di nucleotidi nel DNA umano, si avranno 3 milioni di nucleotidi differenti fra un uomo e l’altro. Queste differenze fanno sì che ogni essere umano abbia un suo particolare profilo nucleotidico che lo distingue da qualsiasi altro individuo. La definizione della struttura del DNA e della sua funzione ha rivoluzionato la nostra capacità di comprendere come sono costituiti e come funzionano gli organismi viventi. La scoperta della doppia elica è uno spartiacque fra prima del DNA e dopo. Non si può tacere il fatto, tuttavia, che la ricerca genetica pone anche profondi interrogativi di natura etica, medica e legale. È auspicabile conoscere la sequenza del DNA di un singolo individuo? A cosa può essere utile? Oppure è controproducente e perché? Può portare a discriminazioni fra gli uomini? Può essere usata per conoscere la propria storia genealogica? Che interesse ha questo tipo di indagine? E da un punto di vista ebraico, sia della Halakhà (legge ebraica) sia della storia del popolo ebraico, ci sono particolari considerazioni che possono essere fatte? A tali domande questo contributo cercherà di rispondere. 2. Analisi del DNA: a cosa può essere utile? L’analisi genetica di un individuo può rilevarsi molto utile soprattutto nel cosiddetto “genetic counseling”, in cui si valuta la predisposizione genetica ad alcune

  Ibidem.   Luigi Luca Cavalli-Sforza, Telmo Pievani, Homo sapiens: la grande storia della diversità umana, Codice edizioni, Torino 2011. 4 5

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malattie ereditarie in vista della futura nascita di figli. In particolare, si esamina se si è portatori di un carattere difettoso recessivo (ossia latente), per cui pur essendo sani si possono generare figli malati se anche il partner è nella stessa condizione. Ogni individuo ha due copie di geni (a parte quelli presenti nei cromosomi sessuali, in cui la situazione è diversa). Certi geni, se mutati, possono causare malattie, qualora i figli ricevano da entrambi i genitori una copia del gene difettosa. Due coniugi portatori sani (eterozigoti) possono far nascere, nel 25% dei casi, figli omozigoti che saranno affetti dalla malattia genetica: per esempio la talassemia, una malattia del sangue abbastanza diffusa nel Mediterraneo (da cui il nome), in cui uno dei geni delle globine che compongono l’emoglobina è mutato, o la malattia di Tay-Sachs, in cui il difetto genetico (molto frequente fra gli ebrei di origine ashkenazita) riguarda un enzima intracellulare presente nel cervello e nel midollo spinale. In questi casi (come in decine di altre malattie ereditarie), se si riceve una sola copia (materna o paterna) del gene difettoso non si hanno particolari problemi di salute, ma se entrambe le copie sono alterate la malattia può essere letale o comunque grandemente invalidante. Nella valutazione della scelta del proprio partner, in particolare nelle prime fasi dell’incontro fra un uomo e una donna e soprattutto in zone o in popolazioni in cui queste o altre malattie ereditarie sono frequenti, è raccomandata l’analisi genetica dei due partner. Se entrambi i membri della coppia in via di formazione risultano portatori sani del carattere recessivo, possono essere invitati a riconsiderare la decisione di creare un’unione stabile oppure a non fare figli. Per coppie già formate, in certi casi si può valutare il ricorso alla fecondazione in vitro con successiva analisi embrionale per scegliere gli embrioni sani (negli Stati dove ciò è lecito). In altre circostanze, a gravidanza già in atto, si può ricorrere all’amniocentesi e altri metodi di analisi del feto per adottare eventualmente soluzioni adeguate, fra cui interventi intra-uterini, ove possibile, o per predisporre terapie da mettere in atto subito dopo la nascita. 6 Per la particolare storia del popolo ebraico, che in gran parte del tempo è consistito di un numero relativamente piccolo di individui nelle singole comunità di appartenenza e con un ridotto incrocio con membri di altre popolazioni, molte malattie genetiche risultano più frequenti fra gli ebrei, o meglio, fra ebrei di una stessa origine geografica (ashkenaziti, sefarditi, ecc.). Per la malattia di Tay-Sachs, per esempio, lo screening genetico dei portatori sani messo in atto negli ultimi decenni fra gli ebrei ashkenaziti sia nel Nord-America che in Israele ha ridotto di almeno il 90% l’incidenza della nascita di bambini affetti dalla malattia, che prima dello screening era di un malato su 3.600 nascite (mentre nella popolazione non-ebraica o non-ashkenazita l’incidenza è di uno su 360.000). Nella comunità charedìt (“ultraortodossa”) in Israele, grazie all’attività dell’organizzazione Dor yesharìm, si è arrivati praticamente alla totale assenza di nascite di bambini affetti da questa malattia. 7

6  Friederich Vogel, Arno G. Motulsky, Genetica umana, McGraw Hill, 2a ed., Milano 1988; Ricki Lewis, Genetica umana. Concetti e applicazioni, Piccin-Nuova Libraria, Padova 2011 (ed. orig.: Ead., Human genetics. Concepts and applications, McGraw-Hill Education, 12th edition, New York 2018). 7  Deena Zimmerman, MiDor leDor: Genetics and Genetic Disease: Jewish Legal and Ethical Perspectives, KTAV Publishing House, OU Press, New York 2013. La comunità charedìt, i cui membri generalmente seguono con scrupolo le direttive dei loro leader spirituali, è per sua natura più predisposta a intraprendere con rigore lo screening genetico e a comportarsi di conseguenza, dopo che i rabbini l’hanno approvato e incoraggiato.

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L’analisi del DNA si rivela utile anche per individuare eventuali fattori genetici di rischio riguardo a malattie ereditarie che possono insorgere nella persona stessa (non solo nei suoi figli). Per esempio, la predisposizione genetica al tumore al seno. In questo caso il test genetico può consentire l’avvio di appropriati trattamenti preventivi. Ovviamente, non si può tacere il fatto che è essenziale che le informazioni genetiche non siano di dominio pubblico. Bisogna evitare e condannare l’abuso da parte dei datori di lavoro o delle compagnie di assicurazioni che potrebbero utilizzare le informazioni genetiche a svantaggio dei lavoratori o degli assicurati. È importante quindi che ci sia una regolamentazione attenta a prevenire ogni tipo di illeciti e che tuteli la privacy. 8 3. Accertamento dell’identità di un individuo Un altro campo di indagine in cui si effettua l’analisi del DNA è quello legale. Tramite l’analisi di particolari sequenze o combinazioni di nucleotidi, in particolare nelle regioni del DNA non codificanti, che sono diverse fra un individuo e l’altro, si può determinare la presenza di qualcuno in un certo posto a partire da minime tracce di campioni biologici (sangue, saliva, capelli, ecc.). Si tratta di una sorta di “impronta digitale”, il cosiddetto fingerprint genetico, importante soprattutto quando è impossibile trovare impronte digitali vere e proprie, e anche perché, rispetto a queste ultime, possiede un livello di accuratezza maggiore. Un caso in cui si applica questo tipo di analisi è quando si vuole determinare con certezza la morte di una persona in caso di catastrofi o attentati terroristici, laddove solo pochi resti umani rimangono disponibili. Nell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11.9.2001, in cui morirono migliaia di persone, il test del DNA fu fondamentale per avere la certezza che coloro che si presumevano essere nei grattacieli fossero effettivamente periti nella tragedia. Anche molti ebrei erano presenti nei grattacieli al momento dell’attacco terroristico, ma non essendoci quasi più tracce dei corpi l’identificazione dei resti risultava impossibile nei modi usuali. In quel caso il rabbinato si espresse favorevolmente al considerare valida la prova del DNA per “liberare” i coniugi delle presunte vittime dal vincolo matrimoniale e permettere loro, eventualmente, di risposarsi. Senza tale certezza, infatti, non si può contrarre un nuovo matrimonio perché c’è il timore di commettere adulterio, una delle più gravi trasgressioni previste dal diritto ebraico. Si tratta della nota questione delle agunòt, le donne che rimangono “vincolate” perché il marito si rifiuta di concedere il divorzio o perché non si ha testimonianza certa della sua morte. Questo è uno dei più difficili problemi della Halakhà, e notevoli facilitazioni vengono messe in atto per arrivare a una soluzione che tuteli la donna. Ad esempio, si accetta come valida anche una testimonianza singola, mentre generalmente sono richiesti due testimoni. Il DNA estratto dai resti di un corpo, se riconducibile in modo pressoché sicuro a quello del marito e se ci sono altri riscontri probatori, è oggi accettato

8  Renato Dulbecco, Riccardo Chiaberge, Ingegneri della vita: Medicina e morale nell’era del DNA, Sperling & Kupfer Editori, Milano 1988; «Salute e Società», Polis genetica e società del futuro, a cura di Mauro Giacca e Carlo Antonio Gobbato, anno IX n. 3/2010, Franco Angeli, Milano 2010, pp. 143-170.

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dalle più importanti autorità rabbiniche come prova valida per la dichiarazione di morte. L’analisi del DNA viene anche utilizzata per l’identificazione dei resti umani in modo da permettere una degna sepoltura. Uno dei 335 trucidati nel massacro delle Fosse Ardeatine, compiuto a Roma dai nazifascisti il 24 marzo del 1944, a cui non era ancora stato possibile assegnare una identità, è stato recentemente identificato come Marco Moscati grazie all’analisi del DNA e la comparazione con quello dei parenti, così che i suoi famigliari possono ora avere una tomba su cui pregare. Ma il campo in cui l’analisi del DNA ha prodotto una vera e propria rivoluzione è quando viene utilizzata per accertare la colpevolezza di qualcuno in casi di omicidio o di stupro e più in generale per conoscere chi fosse presente sul luogo di un crimine. Sono noti a tutti i numerosi casi in cui si è arrivati all’identificazione di un assassino tramite la prova del DNA. La caratteristica del tipo di analisi è che non sempre si deve avere un indiziato: è possibile infatti identificare i parenti – anche già defunti – dell’ignoto colpevole (con il quale hanno in comune alcune caratteristiche del DNA) e poi, unitamente a indagini tradizionali, arrivare all’individuazione della persona a cui appartiene la traccia di DNA lasciata sul luogo del delitto o sul corpo della vittima. 9 4. Analisi di paternità L’analisi del DNA è anche utilizzata per appurare la paternità o la maternità. Il secondo caso è ovviamente meno comune, ma può rendersi necessario quando sussista il dubbio che alla nascita ci sia stato uno scambio di neonati (per errore o colpevolmente). Il primo caso è invece molto più frequente. Si pone quindi la domanda se e in che misura il test di paternità basato sul DNA sia valido. La rilevanza legale della questione, oltre al diritto etico di conoscere chi è il proprio padre e chi i propri figli, è connessa con gli obblighi (e i diritti) reciproci fra padri e figli. Nel diritto ebraico, e non solo, il padre ha l’obbligo, fra gli altri, di corrispondere gli alimenti ai figli e assicurarne l’educazione. I figli hanno diritto all’eredità dei beni dei loro genitori e anch’essi hanno determinati obblighi nei confronti dei genitori. È necessario quindi avere la certezza della parentela fra padri e figli. Inoltre, figli e figlie dello stesso padre (o stessa madre) hanno il divieto di sposarsi fra loro, per cui bisogna accertare la reale paternità: non tanto per permettere il matrimonio con una presunta sorella che si riveli non tale, un caso ovviamente raro, quanto piuttosto per impedire che qualcuno si sposi con una donna che non sa essere sua sorella. La questione del riconoscimento o disconoscimento di paternità è in realtà alquanto complessa perché, se dovesse risultare che il padre di un figlio non è il marito della madre ma una terza persona, potrebbe sussistere il caso di adulterio e il figlio sarebbe considerato mamzèr (figlio illegittimo), con tutta una serie di complicazioni legali secondo la Halakhà e notevoli ripercussioni di ordine psicologico e sociale. In questo caso, la prova del DNA non è generalmente ritenuta valida e non può essere portata come evidenza per attestare l’illegittimità della prole. C’è infatti la tendenza

9  Vedi per esempio il caso dell’omicidio di Yara Gambirasio, risolto grazie all’analisi del DNA e il cui omicida è stato definitivamente condannato all’ergastolo, come confermato dalla sentenza di Cassazione.

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da parte della normativa ebraica a limitare l’utilizzo dei test di paternità se ciò può portare alla determinazione dello status di mamzèr. La logica giuridica, seppur possa sembrare opposta a quella utilizzata per il caso delle agunòt, le donne “vincolate”, è in realtà simile. In entrambe le situazioni la prova del DNA si accetta solo per alleviare una condizione, non per inasprirla. Si accetta la prova per evitare la condizione di agunà ma non la si accetta per determinare lo status di mamzèr. La fonte per questo approccio si trova nella Mishnà, il testo base della normativa ebraica dopo la Bibbia, risalente a circa 2000 anni fa, dove alla fine del trattato di ‘Eduyòt si afferma che in futuro, quando il profeta Elia verrà ad annunciare il Messia, avrà fra i suoi compiti anche quello di chiarire lo stato civile delle famiglie. Mentre un’opinione nella Mishnà afferma che Elia allontanerà quelle famiglie che con la forza si sono autoproclamate legittime pur non essendolo, un’altra opinione sostiene che il profeta Elia accoglierà coloro che ingiustamente sono stati allontanati, ma non allontanerà chi ormai è entrato a far parte della comunità, seppur con la forza. Le prove, pertanto, si cercano per accogliere, non per allontanare (‘Eduyòt 8:7, con la spiegazione del rabbino italiano Ovadià da Bertinoro, vissuto nel 16° secolo, autore del commento più importante e studiato della Mishnà). Il brano citato termina con il versetto del profeta Malakhì (3:23), che si recita tutte le settimane il sabato sera e conclude la haftarà (brano dei profeti letto in sinagoga) del sabato che precede Pesach, lo Shabbat Hagadol: “E farà tornare il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i loro padri”. Fatte queste premesse, si può capire perché il test sul DNA, ove non sussistano timori di adulterio, è ammesso e considerato valido, mentre non viene preso in considerazione per dichiarare qualcuno mamzèr. Ci sono casi in cui il test di disconoscimento ha validità per il diritto civile (obbligo alimenti, eredità ecc.), ma non per lo status di mamzèr. Per esempio, se un tale ha il sospetto di non essere il vero padre del figlio presunto ed esegue il test di paternità con esito negativo (ossia, il test disconosce la sua paternità), può interrompere di attendere ai propri obblighi nei suoi confronti, ma il figlio non è considerato mamzèr, in assenza di altre evidenze valide dal punto di vista della Halakhà (per esempio, dichiarazioni da parte dell’uomo o della donna coinvolti, testimonianze di terze persone). La tendenza da parte del diritto ebraico a non accettare il test del DNA come prova per disconoscere la paternità ha l’origine in un test in uso già da tempo, di tipo completamente diverso: la determinazione del gruppo sanguigno. Il sistema più famoso, noto anche al grande pubblico, è costituito dai gruppi A, B, AB e 0 (= zero, ossia né A né B). Questi gruppi corrispondono a diverse proteine presenti sulla superficie delle membrane dei globuli rossi, la cui natura è importante stabilire per effettuare trasfusioni senza incorrere nella risposta immunitaria contro il sangue introdotto. In altre parole, è necessaria la compatibilità fra il sangue del ricevente e il sangue del donatore: chi è del gruppo A o del gruppo B può ricevere sangue solo da qualcuno che è del suo stesso gruppo o da chi è del gruppo 0, chi è del gruppo AB può riceverlo da chi appartiene a tutti i gruppi, mentre chi è del gruppo 0 può riceverlo solo da chi è del gruppo 0 (è il caso clinicamente più problematico). Altri gruppi sanguigni sono quelli legati agli antigeni Rh e MNS e altri ancora. Ai fini dell’argomento qui trattato, è noto già da un centinaio d’anni che i gruppi sanguigni sono trasmessi geneticamente. Il gruppo sanguigno dei figli è determinato da quello di entrambi i genitori. Il test sul gruppo sanguigno del figlio può essere confrontato con quello sul gruppo dei genitori e arrivare quindi, a seconda dei casi, a disconoscere la paternità o la maternità (con una percentuale di sicurezza di circa il 95%) o a consi-

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derarla compatibile (non però a dimostrarla, visto che molte persone condividono i diversi gruppi: è però possibile determinarne la probabilità). Un livello maggiore di sicurezza può essere raggiunto determinando gli antigeni di istocompatibilità (HLA), quelli che sono importanti per l’attecchimento o il rigetto del trapianto di in organo. 10 Quando, nel mondo ebraico, si pose il problema di utilizzare l’accertamento di paternità tramite i gruppi sanguigni, ci furono fin dall’inizio importanti autorità rabbiniche che non accettavano la validità del test. La motivazione formale si basava su un famoso passo del Talmud, in cui si afferma che ognuno ha tre genitori: madre, padre e il Creatore. Tutti e tre i “genitori” concorrono alla formazione del nuovo essere umano, ciascuno per diverse componenti. La madre fornisce ciò che è rosso (sangue, muscoli, colorito della pelle, capelli e il nero dell’occhio), il padre ciò che ha natura chiara (cervello, nervi, tendini, ossa, unghie e il bianco dell’occhio), mentre il Creatore provvede a darci l’anima, lo spirito, l’intelligenza e il raziocinio, le fattezze della faccia, la vista, l’udito, la parola, l’andatura (Talmud babilonese, Niddà 31a). Da questo brano si potrebbe dedurre che il sangue viene dalla madre, e quindi non è rilevante ai fini della determinazione della paternità. Alcuni rabbini non accettano questo tipo di argomentazione basata su un passo del Talmud, giacché va contro l’evidenza scientifica. Essi ritengono che quel passo vada inteso secondo le conoscenze scientifiche dell’epoca e non sia vincolante oppure che dovrebbe essere interpretato in senso figurato. D’altra parte, i rabbini che accettano il brano talmudico per negare la validità del test basato sui gruppi sanguigni, non lo fanno tanto per un’attitudine antiscientifica o perché siano legati a un’interpretazione letterale del Talmud, ma perché ritengono che si debba far di tutto – come detto sopra – per evitare il disconoscimento della paternità, con tutte le conseguenze morali, legali e psicologiche che questo comporterebbe. Altri rabbini sostengono che non c’è bisogno di negare validità al brano talmudico per l’analisi della paternità, perché in realtà i gruppi sanguigni non sono determinati dalla componente “rossa” del sangue (l’emoglobina), bensì dalle membrane cellulari, che possono essere attribuite (anche) al padre. 11 In conclusione, il test di paternità, basato sul DNA o sui gruppi sanguigni o sugli antigeni HLA, ha validità per accertare il disconoscimento, ma solo a fini civili, non per dichiarare qualcuno mamzèr. 5. Analisi genealogica tramite il DNA Un ambito in cui è oggi molto diffuso, a livello mondiale, l’utilizzo dei dati derivanti dalle sequenze di DNA è l’analisi genealogica. Si vorrebbe poter rispon  E. Gallori, op. cit., pp. 191-199.   Avraham Steinberg, Encyclopedia of Jewish Medical Ethics, trad. dall’ebraico di Fred Rosner, Feldheim, New York 2003, voci: Genetics; Paternity; Dov I. Frimer, «Establishing paternity by means of blood type testing in Jewish law and Israeli legislation», https://pdfs.semanticscholar. org/d11c/9b8fde990a02b4007953358dcbb18d9c2359.pdf, pp. 240-276; anche in Shenaton ha-Mishpat ha-Ivri: Annual of the Institute for Research in Jewish Law, 1978, pp. 219-242; e in AssiaJewish Medical Ethics, vol. I, May 1989, pp. 20-35. Sulle apparenti contraddizioni fra Bibbia e scienza, vedi: David Gianfranco Di Segni, «Isacco Lampronti, rabbino e medico a Ferrara, e le interrelazioni fra scienza e Torà nel Pachad Yitzchaq», in Medici rabbini. Momenti di storia della medicina ebraica, a cura di Myriam Silvera, Carocci editore, Roma 2012, pp. 61-73. 10 11

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dere a domande come: Da chi veniamo? A che gruppo etnico apparteniamo? Chi sono i nostri ascendenti e i nostri parenti, in linea verticale e orizzontale? Possiamo accampare diritti etnici? Possiamo richiedere la cittadinanza di un Paese sulla base del DNA? Per gli ebrei gli studi genetici riscuotono un notevole interesse da un punto di vista storico e scientifico anche per ricostruire la storia del popolo ebraico, le sue migrazioni da un paese all’altro, il livello di rimescolamento genetico con le numerose popolazioni in mezzo alle quali gli ebrei hanno convissuto per millenni e altre domande del genere. Per esempio, gli storici avevano avanzato già in passato l’ipotesi che l’ebraismo ashkenazita (ossia quello originato dall’Europa del centro-nord e nord-est) derivasse da ebrei italiani emigrati verso il nord nei primi secoli dopo l’anno 1000. Un’altra ipotesi è che buona parte della popolazione ashkenazita abbia avuto origine dalla popolazione dei Khazari, che si sarebbe convertita all’ebraismo verso la fine del primo millennio. 12 Queste ipotesi possono essere ora vagliate alla luce degli studi di tipo genetico. Le ricerche genetiche si basano sul fatto che la popolazione ebraica è stata per millenni abbastanza separata da altre popolazioni in misura tale da permettere il mantenimento e l’individuazione di alcuni tratti genetici comuni, come avviene per tutte le popolazioni relativamente isolate, per esempio in Sardegna. Questi marcatori genetici (ossia combinazioni di nucleotidi caratteristiche di un certo gruppo di individui) possono essere analizzati con le tecniche della biologia molecolare. Per quanto riguarda la popolazione ebraica, le prime ricerche di questo genere ebbero inizio con un’indagine sui kohanìm (plurale di kohèn, sacerdote). Secondo la tradizione biblica, così come narrata nel Libro dell’Esodo, il primo kohen/sacerdote fu Aharon, fratello di Mosè. Tutti i suoi discendenti maschi sono a loro volta kohanìm, a meno che non abbiano perduto la condizione sacerdotale per diversi motivi legali. C’è da precisare che non tutti coloro che portano il cognome Kohen (o sue varianti: Cohen, Coen, Cohn, Kahn, Kagan, Katz, Sacerdote/i ecc.) sono effettivamente kohanìm; viceversa, ci sono kohanìm che hanno cognomi del tutto scollegati dal termine kohen ma che hanno una tradizione di essere kohanìm. La condizione sacerdotale è trasmessa ai figli necessariamente per via paterna. Anche il cromosoma Y (uno dei due cromosomi sessuali) si trasmette solo per via paterna e solo ai maschi, mentre alle femmine i padri trasmettono il cromosoma X. Le madri forniscono solo il cromosoma X, sia ai maschi che alle femmine. I maschi possiederanno quindi la coppia di cromosomi XY, mentre le femmine avranno due cromosomi XX. Sulla base di queste premesse, si è ipotizzato che in individui con una tradizione familiare riconosciuta che li attesti come kohanìm si potrebbero trovare dei marcatori genetici nel DNA del cromosoma Y in maggiore frequenza rispetto ai non-kohanìm. Il fatto che i cromosomi X e Y siano in buona parte diversi (a differenza delle altre coppie di cromosomi) fa sì che la sequenza di DNA del cromosoma Y sia relativamente stabile, salvo mutazioni casuali che si possono accumulare soprattutto in regioni del DNA non codificante. Nelle coppie di cromosomi non-sessuali (denominati “autosomi”), invece, i due cromosomi omologhi di ciascuna coppia spesso si ricombinano, scambiandosi sequenze l’uno con l’altro, un fatto che nel giro di poche generazioni conduce a una notevole variabilità rispetto alle sequenze originarie.   Arthur Koestler, La tredicesima tribù, UTET, Torino 2003.

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Concettualmente, lo studio sul cromosoma Y dei kohanìm è simile per certi versi alle ricerche compiute dall’illustre genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza sulla diffusione dei cognomi (anch’essi trasmessi, in Italia e in molti altri paesi, per via paterna). 13 Effettivamente si è riscontrato che certi marcatori genetici possono essere individuati in frequenza maggiore nei kohanim. Si è anche determinato, tramite un confronto con l’analisi genetica di popolazioni non ebraiche in differenti aree geografiche, che l’origine dei kohanìm è di area mediorientale. Inoltre, calcolando il numero di variazioni (mutazioni) accumulatesi nel tempo, l’origine del tratto genetico dei kohanìm può essere fatta risalire a circa 3000 anni fa, una data compatibile con la tradizione storica del popolo ebraico. Ovviamente ciò non significa, dal punto di vista della legge ebraica, che chi possiede questa caratteristica genetica sia automaticamente considerato kohen: è infatti necessario che vi sia una tradizione familiare conclamata e riconosciuta dal resto della comunità per essere considerati kohen e per poter avere i doveri e i diritti sacerdotali. D’altra parte, una persona nota per essere kohen ma priva di tale sequenza non potrà mai essere squalificata dalla condizione sacerdotale. La legge ebraica in materia non cambia. 14 6. Il DNA mitocondriale Specularmente alle ricerche sul cromosoma Y, che hanno per oggetto gli uomini ebrei, è anche possibile analizzare il DNA mitocondriale, che fornisce indicazioni anche sulle madri. I mitocondri sono degli organelli che fungono da centrali energetiche all’interno delle cellule. Possiedono una catena di DNA relativamente corta ma la cui presenza è fondamentale. La particolarità rilevante, ai fini dell’analisi genealogica, è che i mitocondri, con il loro DNA, vengono trasmessi esclusivamente per via materna (sia ai maschi che alle femmine). C’è una caratteristica “religiosa” nella popolazione ebraica che si trasmette anch’essa per via materna, ed è la condizione di

13  Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi Milano 1996; Id., Il caso e la necessità. Ragioni e limiti della diversità genetica, Di Renzo editore, Roma 2007; Luigi Luca Cavalli-Sforza, Paolo Menozzi, Alberto Piazza, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 2000; L.L. Cavalli-Sforza e M.W. Feldman, «The application of molecular generic approaches to the study of human evolution», Nature Genetics, 33, 2003, pp. 266-275; Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Mondadori, Milano1993, dedicato «alle donne che ci hanno trasmesso i loro mitocondri» (vedi sezione successiva). 14  Per una trattazione divulgativa, vedi: Yaakov Kleiman, DNA & Tradition, The Genetic Link to the Ancient Hebrews, Devora Publishing, Israel 2006, dove si racconta come l’idea per questo tipo di ricerche venne al dr. Karl Skorecki, all’epoca a Toronto, quando un sabato, nella sinagoga da lui frequentata, venne chiamato alla lettura pubblica della Torah un kohen di origine marocchina. Skorecki, anche lui kohen, medico nefrologo che già conduceva ricerche di genetica molecolare, rifletté sul fatto che, nonostante la lontananza temporale e geografica fra lui, di origine est-europea, e il correligionario nord-africano, sarebbe dovuta esserci una qualche caratteristica genetica in comune. Fra i lavori specialistici, mi limito a segnalare quelli fondamentali: Karl Skorecki et al., «Y chromosomes of Jewish priests», Nature, 385, 1997, p. 32; Harry Ostrer, Karl Skorecki, «The population genetics of the Jewish people», Hum. Genet., 132, 2013, pp. 119-127; Doron M. Behar et al., «The genome-wide structure of the Jewish people», Nature, 466, 2010, pp. 238-242; Gil Atzmon et al., «Abraham’s children in the genome era: major Jewish diaspora populations comprise distinct genetic clusters with shared middle eastern ancestry», Am. J. Hum. Genet., 86, 2010, pp. 1-10.

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“ebraicità”. È noto che si è ebrei se si nasce da madre ebrea (a prescindere da chi sia il padre) oppure se ci si converte all’ebraismo. Dato che le conversioni all’ebraismo sono state, nella storia, relativamente di scarsa entità, è stato ipotizzato che negli ebrei si possano rintracciare degli specifici marcatori genetici nel DNA mitocondriale in frequenza maggiore rispetto alle popolazioni non ebraiche. Attraverso l’analisi delle mutazioni nel DNA mitocondriale si è anche potuto risalire a quattro madri “fondatrici” da cui discenderebbe buona parte della popolazione ebraica ashkenazita a partire da un periodo fra duemila e mille anni fa. 15 L’analisi del DNA mitocondriale è stata proposta (con molte polemiche) anche per accertare la condizione di ebraicità di qualcuno. Se non ci sono dimostrazioni legali della nascita da madre ebrea, si potrebbe attestarlo tramite l’analisi del DNA mitocondriale? Per “dimostrazioni legali” della nascita da madre ebrea si intende la presentazione di testimonianze da parte di persone attendibili o la produzione di documenti (certificati di nascita, ketubbà dei genitori, ossia il documento che attesta il matrimonio ebraico, foto di lapidi dei genitori o dei nonni in cimiteri ebraici, ecc.). Poiché il DNA mitocondriale proviene dalla madre, se un certo tratto è specificamente presente fra le donne ebree, il possederlo nel proprio DNA potrebbe essere una prova che si è nati da una donna ebrea. La sua assenza però non costituirebbe in alcun modo un disconoscimento dello status di ebreo, dato che, in primo luogo, la presenza dello specifico tratto di DNA non è assoluta, ma è solo maggiormente presente fra gli ebrei; in secondo luogo, si può essere ebrei se ci si converte all’ebraismo, e perciò se la madre di qualcuno o una sua antenata per via femminile si è convertita, il tratto di DNA “ebraico” non sarà presente ma la persona sarà indiscutibilmente ebrea. La questione se si possa o meno dimostrare il proprio essere ebreo sulla base del DNA mitocondriale non è affatto teorica. La “Legge del Ritorno” dello Stato d’Israele prevede che per poter immigrare in Israele, da qualsiasi parte del mondo, bisogna dimostrare di essere ebrei per nascita o tramite conversione, presentando opportuni certificati da autorità riconosciute.Anche i parenti non-ebrei possono immigrare nello Stato sulla base di tale legge, ma conserveranno lo status di non-ebrei ai fini matrimoniali e riguardo ad altre situazioni in cui l’appartenenza religiosa è rilevante (per esempio la sepoltura in un cimitero ebraico o la celebrazione della maggiorità religiosa). Soprattutto con la massiccia immigrazione di circa un milione di persone in Israele dall’ex Unione Sovietica nell’ultimo decennio del secolo scorso si è posto il problema di accertare l’ebraicità dei nuovi immigrati. Nella maggior parte dei casi i candidati che sostenevano di essere ebrei hanno potuto produrre documentazione sufficiente, in altri casi gli immigrati non-ebrei non erano comunque interessati a essere considerati ebrei, e in certi casi il candidato, pur sostenendo di essere di famiglia ebraica, non aveva la documentazione necessaria. In queste circostanze, l’analisi del DNA mitocondriale può essere presa in considerazione? Questo quesito è stato sottoposto nell’autunno 2016 all’attenzione del Rabbinato israeliano. Una donna aveva scoperto da poco di essere ebrea ma sua nonna materna (sopravissuta alla Shoah) si era rifiutata di aiutarla a ricercarne le prove. La nipote era desiderosa di essere accettata nella comunità ebraica e di osservare la Torah e i

15  Y. Kleiman, op. cit., cap. 3; Doron M. Behar et al., «The matrilineal ancestry of Ashkenazi Jewry: portrait of a recent founder event», Am. J. Hum. Genet., 78, 2006, pp. 487-497. Per l’ebraismo sefardita, meno studiato dal punto di vista genetico, vedi: Felice L. Bedford, «Sephardic signature in haplogroup T mitochondrial DNA», Eur. J. Hum. Genet., 20, 2012, pp. 441-448.

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precetti religiosi. La conversione (che in molti casi risolve situazioni dubbie come questa) non era fattibile, perché la donna era sposata a un non-ebreo che non era interessato a convertirsi (e non si può convertire una persona se il coniuge non fa altrettanto). I tentativi di cercare parenti che potessero testimoniare sulla sua ebraicità sono risultati infruttuosi, perché periti nella Shoah o morti da tempo. Non avendo altro modo di dimostrare la propria ebraicità, la donna ha fatto analizzare il proprio DNA ed è risultato che ella possiede effettivamente il tratto specifico presente in buona parte della popolazione ebraica ashkenazita. L’Istituto rabbinico Machon Eretz Hemdah, con sede a Gerusalemme e presieduto dai rabbini e giudici Moshe Ehrenreich e Yosef Carmel, interpellato per decidere se la prova del DNA mitocondriale fosse considerata sufficiente per considerare la donna ebrea in base alla Halakhà, ha prodotto un responso molto dettagliato, in cui si descrive sia la problematica scientifica che quella halakhica. Benché l’uso della tecnica a fini legali ebraici venga limitato, si arriva alle seguenti conclusioni che riassumono la questione (in traduzione libera dall’ebraico): Tutte le sequenze del DNA mitocondriale si trasmettono per via ereditaria ai discendenti soltanto dalla madre. Il padre non ha alcuna influenza sul DNA mitocondriale. Alcune sequenze specifiche sono note per essere presenti in percentuali molto alte in certe popolazioni ebraiche, come gli ebrei europei di origine ashkenazita. L’analisi del DNA mitocondriale non può costituire una prova di ebraicità, a meno che sia accompagnata da altre prove, anche se queste, da sole, non sarebbero sufficienti. Durante la Shoah molte comunità sono andate distrutte completamente. Contemporaneamente e dopo di ciò, la “cortina di ferro” ha separato gli ebrei della ex Unione sovietica sia dal Padre celeste sia dagli altri fratelli ebrei, osservanti della Torah e dei precetti, sparsi nel mondo. Questa situazione ha provocato che molti degli ebrei europei non abbiano più la possibilità di dimostrare la propria ebraicità con i mezzi usuali, quali documenti e testimonianze dei familiari. Perciò, nella nostra generazione è obbligo per noi aiutare queste persone a dimostrare la propria ebraicità secondo la Halakhà. L’analisi del DNA mitocondriale può fornire un grande aiuto a risolvere questo problema, perché può aiutare molti immigrati dall’ex Unione sovietica a provare la propria identità ebraica. Ci rivolgiamo quindi al Rabbinato Centrale d’Israele perché agisca di concerto con il Governo di Israele per dare la possibilità ai nuovi immigrati dall’ex Unione sovietica, che non sono riusciti a dimostrare la loro ebraicità e che desiderano farlo scegliendo di sottoporsi alla prova del DNA mitocondriale presso un laboratorio certificato e autorizzato, di provare a dimostrare la propria ebraicità con questo metodo, secondo la loro volontà e libera scelta […]. Dato che la maggior parte degli ebrei non possiede questi tratti specifici del DNA mitocondriale, anche chi sceglierà di sottoporsi all’esame e risulterà negativo non verrà minimamente danneggiato da tale risultato. 16

Sulla base di questo responso rabbinico, nel corso degli ultimi anni in Israele si è utilizzato il test del DNA mitocondriale per l’accertamento dell’ebraicità di alcuni casi dubbi, in particolare fra gli immigrati dall’ex Unione sovietica. La questione è uscita alla ribalta sulla stampa, suscitando polemiche e accuse reciproche fra esponenti politici di diverso orientamento e coinvolgendo anche il Rabbinato centrale e gli stessi rabbini capi.

16  Responsa B’mareh Habazak, Istituto Eretz Hemdah, Vol. 9, Second edition, 5777 (2016/2017), pp. 94-128; responso approvato da rav Zalman Nechemia Golberg, con appendice scientifica del prof. Karl Skorecki e del dr. Shai Tzur (del Laboratorio di medicina molecolare, Ospedale Rambam, Haifa) e con un’analisi matematica del dr. Shai Karmi e del prof. Nathan Klar.

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Da una parte si sostiene che il pretendere l’analisi del DNA per dimostrare di essere ebrei è una pratica umiliante, razzista e discriminatoria nei confronti degli immigrati russi. Dall’altra parte si replica che si tratta solo di casi isolati (una ventina nel 2018, a fronte di 400.000 immigrati che non sono considerati ebrei ma sono imparentati con ebrei) e si ribadisce che il test genetico non è obbligatorio ma è solo un metodo, facoltativo, per facilitare il riconoscimento di ebraicità, laddove non sia possibile procurare adeguata documentazione. L’alternativa, sostiene il Rabbinato, sarebbe intraprendere una procedura di conversione formale all’ebraismo, generalmente lunga e difficoltosa, peraltro non sempre possibile. Si contro-replica che non c’è bisogno di ricorrere alla scienza e alla tecnologia, è sufficiente basarsi sui codici legali ebraici classici per trovare le soluzioni alle diverse situazioni dubbie, senza dover ricorrere a test mortificanti, perché «l’ebraismo è una questione di appartenenza a una comunità, non è una faccenda che riguarda la razza e il sangue, come i nostri peggiori nemici hanno sostenuto». 17 I toni sono stati talmente accesi che qualche membro della Knesset (il parlamento israeliano), non a caso di origine russa, ha chiesto ai rabbini capi di Israele di dimettersi, accusandoli di comportarsi come l’Inquisizione. Alle accuse, rav David Lau, rabbino capo ashkenazita di Israele, ha risposto che: purtroppo ci sono immigranti che pur avendo diritto a immigrare in Israele sulla base della Legge del Ritorno non sono considerati ebrei secondo la legge ebraica. Chi si rivolge al Tribunale rabbinico deve lui stesso dimostrare di essere ebreo. I Tribunali rabbinici devono seguire ogni caso con sensibilità per aiutare e facilitare il riconoscimento. In certi casi sporadici può capitare che chi sostiene di essere ebreo non sia in grado di presentare la documentazione che lo certifichi o che si riscontri una contraddizione fra la documentazione e le parole del richiedente. In questi casi il Tribunale rabbinico ha la facoltà, esclusivamente per aiutare il richiedente, di consigliargli di sottoporsi al test del DNA affinché questo rafforzi la sua richiesta. Ma mai si dovrà obbligare qualcuno a eseguire un test del genere. Il test del DNA non dimostra l’ebraicità di qualcuno ma è di supporto nella pratica di riconoscimento. 18

7. Conclusione Alla luce di queste dichiarazioni e considerazioni, si può affermare che trovare una connessione con un’ascendenza ebraica tramite test genetici non ha, generalmente, alcuna rilevanza legale. Soltanto lo specifico test basato sul DNA mitocondriale può essere di supporto, in casi eccezionali, alle evidenze documentarie, qualora queste non siano definitive e non sia materialmente possibile ottenerne (per esempio, se si proviene da un paese dove tutte le documentazioni ebraiche presenti negli archivi o nei cimiteri siano andate distrutte, come in molti parti d’Europa a causa della Shoah). Saranno i giudici del Tribunale rabbinico a decidere, caso per caso, se accettare o no la prova del DNA mitocondriale. Va rilevato anche che, qualora ci siano testimonianze o documenti riconosciuti che attestino che una persona è ebrea per nascita o conversione, si è ebrei pure se il tratto genetico è del tutto assente. Il test genetico sul

17  Per esempio: Haaretz 4.2.19; Ynet (sito online di Yedioth Ahronoth) 25.2.19. Ringrazio Angelo M. Piattelli per avermi tenuto costantemente aggiornato sul dibattito svoltosi in Israele in merito a questa tematica. 18  Ynet 11.3.19.

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DNA mitocondriale può quindi al massimo confermare, a supporto di altre evidenze, ma mai negare la condizione ebraica. Gli studi genetici sul DNA cromosomale, pur non avendo alcuna validità legale, sono però di estremo interesse per la ricerca sulla genetica delle popolazioni. Sono molto meno rilevanti per l’analisi del singolo individuo. Sapere che si possiede un tratto genetico relativamente più comune fra gli ebrei, o meglio fra alcuni gruppi di popolazione ebraiche, non sembra possa ricoprire un sostanziale interesse. In ogni caso il tratto genetico non lo farà diventare “ebreo”. È interessante notare che gli scienziati sono convinti che la presenza di sequenze o combinazioni di nucleotidi tipiche nel DNA mitocondriale della popolazione ebraica sia una prova sufficiente per dichiarare con un’alta probabilità di essere nati da una donna ebrea. I rabbini sono molto meno propensi ad accettare questo tipo di prova e la utilizzano soltanto in via eccezionale, a supporto di altre evidenze e in situazioni particolari di assenza di prove usuali. Forse, dietro questa reticenza da parte dei rabbini, c’è la volontà di evitare che l’ebraicità sia associata a un retaggio di sangue e di DNA. Conosciamo bene la tragedia a cui ha condotto questo tipo di idea. L’ebraismo e l’ebraicità sono fatti storici, famigliari, culturali che vanno al di là del sangue e del DNA. La prova è che ci si può convertire all’ebraismo da qualsiasi religione o etnia si provenga. Ben vengano le prove a base del DNA se servono per effettuare ricerche di ordine legale, medico, scientifico, storico o per chiarire situazioni dubbie in supporto o in mancanza di altri dati. Ma non è opportuno associare automaticamente l’identità ebraica a una stringa di DNA. Basare l’identità ebraica o di qualsiasi nazionalità sulla base del DNA è improprio e fonte di distorsioni etiche, e anche sbagliato dal punto di vista della genetica delle popolazioni. Il popolo ebraico è un’unione di individui che hanno in comune una storia e una tradizione religiosa, culturale e linguistica: per questi motivi hanno anche, parzialmente, un’affinità genetica. Ma non si può parlare di “ebrei” come di un’unica popolazione dal punto di vista genetico, perché ci sono differenze fra ebrei ashkenaziti, sefarditi, italiani, yemeniti, etiopi ecc. Si tratta sempre di percentuali, di maggiore o minore frequenza di alcuni marcatori genetici che sono comuni anche ad altre popolazioni e non solo agli ebrei. Un altro concetto va chiarito. Quando si parla di marcatori genetici, non ci si riferisce a “geni”, che sono entità ben definite della genetica molecolare. Non esiste un “gene ebraico”, come del resto non esiste un gene per qualsiasi altra caratteristica complessa, per esempio il gene dell’intelligenza o dell’attitudine alla musica o alla pittura, anche ammesso che tali caratteristiche abbiano una componente ereditaria, oltre che sociale e ambientale. I tratti genetici che sono stati trovati in una percentuale maggiore presso alcuni gruppi di ebrei, nel cromosoma Y o nel DNA mitocondriale o in altri cromosomi, consistono in combinazioni di nucleotidi, ma non si tratta assolutamente di “geni ebraici”, come a volte si può trovare scritto sulla stampa sensazionalistica. Gli studi genealogici sono comunque in grande fermento e sicuramente assisteremo a nuovi risultati e forse sorprese. Recentemente, a fine dicembre 2018, si è svolto all’Istituto Weizmann di Rehovot, in Israele, il Congresso Internazionale “Genealogy and the Sciences”, con relatori da numerose discipline: non solo genetisti, ma anche matematici, storici, linguisti, antropologi, demografi, archeologi ed epidemiologi, il che dimostra come ormai la genealogia abbia raggiunto un livello di interesse dai vasti orizzonti. Oltre al Weizmann, sponsor del congresso era anche l’International Institute for Jewish Genealogy (IIJG) di Tel Aviv. Fra i tanti risultati

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emersi, notevole il dato secondo cui gli ebrei diasporici mostrano di possedere somiglianze genetiche sia fra di loro sia con le popolazioni non ebraiche circostanti, con una chiara origine mediorientale. Ma mentre gli ebrei iracheni e iraniani si sono separati dal resto delle popolazioni ebraiche all’epoca della distruzione del Primo Tempio di Gerusalemme, per mano dei Babilonesi nel 586 a.e.v., gli ebrei mediterranei come gli italiani, i greci e i turchi si distaccano all’epoca della distruzione del Secondo Tempio causata dai Romani (70 dell’e.v.). Gli ebrei ashkenaziti hanno un’origine molto più recente, a seguito della migrazione dall’area mediterranea verso l’Europa centrale e orientale, come già ipotizzato dagli storici. 19

19  Marco Soria, dalla relazione sul congresso in via di pubblicazione su La Rassegna Mensile di Israel.

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Silvio Ferrari “Maschio e femmina Dio li creò”. Cambiamento dell’identità di genere e diritti delle religioni

1. Cambiamento dell’identità di genere e diritti degli Stati Nel 2015 la Corte costituzionale italiana e la Corte Suprema israeliana hanno stabilito che è possibile cambiare identità di genere senza necessità di sottoporsi ad alcun intervento chirurgico. 1 Una persona con attributi fisici maschili può scegliere di avere una identità giuridica femminile e viceversa. Con queste due sentenze si è operata una dissociazione tra identità di genere e caratteri sessuali di una persona. La prima è il frutto di una scelta individuale e autonoma; i secondi sono la conseguenza di un dato di fatto biologico totalmente estraneo alla volontà del soggetto. Si nasce uomo e si può diventare donna (e viceversa) senza necessità di adeguare il dato anatomico alla scelta della propria identità ed il diritto rispecchia l’autodeterminazione della persona. Fino a due anni or sono la necessità di un trattamento chirurgico o medico era l’espressione della volontà dell’ordinamento giuridico di mantenere una corrispondenza tra il profilo fisico ed il profilo identitario di una persona: ora questa corrispondenza non è più ritenuta necessaria. Le decisioni delle due Corti si inseriscono in un processo assai più ampio che ha già interessato molti paesi europei dove è possibile cambiare la propria identità di genere senza necessità di sottoporsi a trattamenti medici di alcun tipo. In Europa 15 paesi riconoscono giuridicamente il cambiamento di genere senza obbligo di interventi medici 2 ed il loro numero è destinato ad aumentare dopo che il 6 aprile 2017 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha deciso che l’obbligo di sottoporsi a questi interventi viola il diritto al rispetto della vita privata. 3 In questo contesto vanno segnalati quattro recenti provvedimenti legislativi. In Danimarca una legge del 2014 consente ad ogni persona maggiorenne di cambiare la propria identità di

1  Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 221 dell11 novembre 2015, in http://www. cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2015&numero=221. In Israele la Corte Suprema israeliana ha accolto la richiesta di due cittadini che volevano modificare l’indicazione del sesso sulle proprie carte di identità pur in assenza di qualsiasi operazione di sex reassignement e, in seguito a questa decisione, il governo israeliano ha stabilito che l’intervento chirurgico non è necessario per ottenere il riconoscimento giuridico del cambiamento di gender. Cfr. Jason Pierceson, Sexual Minorities and Politics: An Introduction, London, Rowman and Littlefield, 2015, p. 168. Cfr. anche Israel recognizes sex changes without operation, in Haaretz, 18 gennaio 2015. 2  Cfr. Trans Rights Europe Map 2018 in https://tgeu.org/trans-rights-map-2018/ 3  Cfr. Affaire A.P., Garçon et Nicot c. France, Requêtes nos 79885/12, 52471/13 et 52596/13

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genere su semplice richiesta seguita da un periodo di riflessione di sei mesi. 4 Una legge analoga è stata introdotta nel 2017 in Belgio (con un periodo di riflessione di tre mesi) 5 e, già l’anno precedente, in Norvegia, dove non è necessario alcun periodo di riflessione e l’intero procedimento può essere svolto online. 6 A Malta una legge del 2015 consente il cambiamento della identità di genere attraverso una dichiarazione notarile. 7 L’interesse di questi provvedimenti legislativi sta nel fatto che il cambiamento dell’identità di genere viene sganciato da qualsiasi controllo medico, anche a fini semplicemente diagnostici. Ciò indica che questo cambiamento non è più finalizzato a sanare una situazione patologica, quale poteva essere il conflitto tra l’identità psicologica di una persona ed i suoi caratteri sessuali. Esso ormai rientra nell’area di disponibilità giuridica di ciascun individuo, rafforzando ulteriormente il principio di autodeterminazione che sta alla base delle due sentenze richiamate in apertura di questo intervento. Nei paesi europei ora indicati, il riconoscimento giuridico dell’identità di genere che si preferisce è un atto completamente libero, che una persona perfettamente sana tanto dal punto di vista fisico che da quello psicologico ha il diritto di ottenere. Le ragioni sottostanti a queste leggi e sentenze sono molteplici e, nelle loro radici più profonde, vanno ricondotte alla perdita di importanza della diversità sessuale dovuta all’evoluzione della tecnologia ed al conseguente cambiamento dei modelli culturali di riferimento. Ci stiamo affacciando su un mondo in cui la diversità sessuale potrebbe divenire meno rilevante per la procreazione e la sopravvivenza della specie umana e questa prospettiva, ancora lontana ma ormai entrata nella sfera del possibile, fa sì che la sessualità che si eredita dalla nascita divenga meno importante della sessualità che si sceglie durante la propria vita o, per usare i termini del dibattito corrente, che l’identità di genere prevalga sulla identità sessuale. Non è il caso di approfondire, in questa sede, l’analisi della cause dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale in materia di cambiamento di gender. Mi limiterò quindi a segnalare che l’opportunità di eliminare la necessità di qualsiasi trattamento medico per ottenere il riconoscimento giuridico del cambiamento di identità di genere è solitamente giustificata con tre motivi: questi trattamenti offendono l’integrità del corpo, la dignità della persona e la sua autodeterminazione. 8 In realtà l’elemento

4  Changing Legal Sexual Identity Simplified, in Global Legal Monitor, 3 July 2014, in http:// www.loc.gov/law/foreign-news/article/denmark-changing-legal-sexual-identity-simplified/ 5  Loi réformant des régimes relatifs aux personnes transgenres en ce qui concerne la mention d’une modification de l’enregistrement du sexe dans les actes de l’état civil et ses effets, 25 Juin 2017 (testo disponibile in http://www.ejustice.just.fgov.be/cgi_loi/change_lg.pl?language=fr&la=F&cn=2017062503&table_name=loi). 6  Il Gender Recognition Act è entrato in vigore il 1 giugno 2016. Cfr. Changing your gender in Norway as easy as filing a tax return, 27 settembre 2016, in https://www.thestar.com/ life/2016/09/27/changing-your-gender-in-norway-as-easy-as-filing-a-tax-return.html. 7  Gender Identity, Gender Expression and Sex Characteristics Act, approvato dal Parlamento maltese il 14 aprile 2015. La legge esclude esplicitamente la necessità di qualsiasi trattamento medico. Il testo può essere letto in http://justiceservices.gov.mt/DownloadDocument. aspx?app=lom&itemid=12312&l=1. 8 Cfr. Eliminating forced, coercive and otherwise involuntary sterilization. An interagency statement (OHCHR, UN Women, UNAIDS, UNDP, UNFPA, UNICEF and WHO), World Health Organization 2014, p. 7 in http://apps.who.int/iris/bitstream/10665/112848/1/9789241507325_ eng.pdf: “In many countries, transgender and often also intersex persons are required to undergo

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decisivo è l’ultimo. Trattamenti medici e interventi chirurgici restano infatti disponibili per le persone che li richiedano e ciò mostra come essi non sono in se stessi offensivi dell’integrità del corpo e della dignità della persona. 9 L’eliminazione di questi trattamenti è dunque la conseguenza di una concezione più estesa dell’autonomia dell’individuo a cui si riconosce il diritto di determinare la propria identità di genere indipendentemente non solo dal dato biologico ereditato dalla nascita ma anche dall’esistenza di qualsiasi stato patologico. 2. Cambiamento dell’identità di genere e diritti delle religioni Queste innovazioni legislative e giurisprudenziali hanno posto le religioni di fronte a nuovi interrogativi. Una persona che ha ottenuto il riconoscimento giuridico di una nuova identità di genere come dovrà essere considerata, in relazione alle norme dei sistemi giuridici religiosi che attribuiscono diritti e doveri differenti a seconda del sesso? Se ebrea e se ha assunto una identità maschile potrà fare parte del minian ebraico? Se musulmana potrà assumere il ruolo di imam e guidare la preghiera comunitaria? Benché i problemi determinati dal cambiamento di sesso non siano affatto recenti sarebbe vano cercare una unanimità di risposte tra le diverse religioni e all’interno di ciascuna di esse. 10 Focalizzerò quindi l’attenzione su tre religioni – ebraismo, cristianesimo e islam – e, più in particolare, sulle argomentazioni dei teologi e giuristi che contestano la liceità del cambiamento di sesso. Contrariamento ad una opinione diffusa, il mondo musulmano presenta posizioni abbastanza diversificate a questo proposito e, in seguito ad una fatwa dell’ayatollah Khomeini del 1987, 11 l’Iran ha riconosciuto la liceità degli interventi chirurgici necessari per cambiare il proprio sesso. Nella maggior parte degli altri paesi musulmani l’orientamento prevalente è quello di consentire interventi chirurgici che servano ad attribuire un sesso a persone che presentino caratteri fisici sia maschili che femminili ma di escludere la liceità di tali interventi quando questa ambiguità anatomica non sussiste. Questo orientamento è fondato sul fatto che gli esseri umani sono creati da Dio: “All

sterilization surgeries that are often unwanted, as a prerequisite to receiving gender-affirmative treatment and gender-marker changes (16, 64). According to international and regional human rights bodies and some constitutional courts, and as reflected in recent legal changes in several countries, these sterilization requirements run counter to respect for bodily integrity, self-determination and human dignity, and can cause and perpetuate discrimination against transgender and intersex persons (15, 64, 140, 141–146)”. 9  Ciò risulta chiaramente dalla sentenza del 20 luglio 2015, n. 15138, della Corte di Cassazione italiana, secondo cui la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali non può che essere il risultato di «un processo di autodeterminazione verso l’obiettivo del mutamento di sesso». L’intervento chirurgico costituisce quindi un legittimo percorso per adeguare l’immagine esteriore alla identità personale purchè esso sia riconducibile alla autodeterminazione del soggetto. La sentenza può essere letta all’indirizzo http://www.neldiritto.it/appgiurisprudenza. asp?id=11622#.Wf2vb3ZrzIU. 10  Per un panorama cfr. James Barrett, Transexual and Other Disorders of Gender Identity: A Practical Guide to Management, Oxford, Radcliffe, 2007, pp. 277-284. 11  M. Alipour, Islamic shari’a law, neotraditionalist Muslim scholars and transgender sexreassignment surgery: A case study of Ayatollah Khomeini’s and Sheikh al-Tantawi’s fatwas, in International Journal of Transgenderism 2017, Vol. 18, n. 1, p. 96.

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juristic religious opinions (fatwas) concerning the change of sex in a totally feminine or masculine human being with no physical abnormalities in his body (only due to the refusal of the person to accept his natal sex, i.e., in a transsexual) state that it is a religious doctrinal crime, as it changes ‘what God has created’”. 12 Un’altra fatwa, proveniente dall’Egitto, fa invece riferimento al diritto divino, affermando che “[t] his operation cannot be granted at the mere wish to change sex with no clear and convincing corporal motives. In that case it would fall under that noble Hadith which al-Bukhari relates through Anas: “The Messenger of God cursed the hermaphrodites among the men and the over-masculine women, saying expel them from their houses, whereupon the Prophet himself ...expelled one, and Umar expelled another one”. 13 Queste fatwa fondano la proibizione sull’interpretazione dei testi rivelati oppure sul rispetto del dato creaturale che si impone a tutte le persone, incluse quelle che rifiutano di accettare l’elemento biologico del sesso ricevuto all’atto della nascita. Questi due temi – rivelazione e natura – ricorrono ugualmente nei documenti delle autorità religiose dell’ebraismo ortodosso e del cristianesimo romano cattolico. L’argomento della natura sta alla base di un noto discorso del 2012 in cui Benedetto XVI ha criticato l’ideologia del gender, rilevando che per essa “il sesso non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire personalmente di senso”. 14 Coerentemente con questa impostazione, il Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari aveva già da tempo stabilito che “non si può violare

12  Ani Amelia Zainuddin and Zaleha Abdullah Mahdy, The Islamic Perspectives of Gender-Related Issues in the Management of Patients with Disorders of Sex Development, in Archives of Sexual Behavior, 2017, 46(2), pp. 353-60 (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/ PMC5272885/). Si veda anche M. Alipour, Transgender Identity. The Sex-Reassignement Surgery Fatwās and Islamic Theology of a Third Gender, in Religion & Gender, vol. 7, n. 2, 2017, p. 168 (https://www.religionandgender.org/articles/abstract/10.18352/rg.10170/). 13  Al-Tantawi, 8 giugno 1988, in M. Alipour, Islamic shari’a law, pp. 95-96. La fatwa conclude: “To sum up: It is permissible to perform the operation in order to reveal what was hidden of male or female organs. Indeed, it is obligatory to do so on the grounds that it must be considered a treatment, when a trustworthy doctor advises it. It is, however, not permissible to do it at the mere wish to change sex from woman to man, or vice versa”. Il testo è disponibile in Jakob Skovgaard-Petersen, Sex Change in Cairo: Gender and Islamic Law, in The Journal of the International Institute, vol. 2, n. 3, Spring 1995 (https://quod.lib.umich.edu/j/jii/4750978.0002.302/--sexchange-in-cairo-gender-and-islamic-law?rgn=main;view=fulltext;q1=skovgaard). Per un’ampia discussione delle fatwa pronunciate su questo argomento dalle autorità musulmane cfr. Serena Tolino, Transgenderism, Transsexuality and Sex-Reassignement Surgery in Contemporary Sunni Fatwas, in Journal of Arabic and Islamic Studies, 2017, 17, pp. 223-246. L’autrice conclude che “The analysis of those fatwas showed a general consensus on the permissibility of SRS [Sex Reassignment Surgery] for intersex people, as it is considered a therapeutic treatment. On the contrary, SRS for people who only have a “desire” to change their sex is strongly rejected by the great majority of Muslim jurists, at least in the Sunni context, as it is considered a way to change what God has created, which is a serious sin in Islamic law” (pp. 240-41). 14  Discorso del Santo Padre Benedetto XVI, 21 dicembre 2012, in http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2012/december/documents/hf_ben-xvi_spe_20121221_auguri-curia. html. Cfr. in tal senso Elio Sgreccia, Manuale di bioetica, vol. 1, Milano, Vita e Pensiero, p. 496: “Manipolare la sessualità per farla diventare di segno opposto equivale allora a manipolare il patrimonio genetico in senso alternativo: il corpo lo si riceve, il corpo è quello che è; altrettanto si deve dire della sessualità. […] l’uomo deve accogliere liberamente la sua natura così com’è, ivi compreso il fatto di essere già predeterminato. Egli infatti non è un essere chiamato all’esistenza di sua propria iniziativa”.

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l’integrità fisica di una persona per la cura di un male d’origine psichica o spirituale. Qui non si danno organi malati o malfunzionanti. Così che la loro manipolazione medico-chirurgica è un’alterazione arbitraria dell’integrità fisica della persona”. 15All’interno dell’ebraismo ortodosso la proibizione del cambiamento di sesso è frequentemente giustificata con il riferimento al passaggio biblico (Deut. 22:5) secondo cui “la donna non si metterà un indumento di uomo né l’uomo indosserà una veste da donna: perché chiunque fa tali cose è in abominio al Signore tuo Dio”. 16 In questo caso l’argomento prevalente non è fondato sulla natura umana ma sulla rivelazione divina. Creazione, natura, rivelazione: i tre principali argomenti addotti dalle autorità di queste religioni per opporsi al cambiamento di sesso attraverso un intervento chirurgico sono basati su un atto o una legge divina o naturale che precede l’uomo e non è posta dall’uomo. In questa prospettiva vi è poco spazio per l’autonomia e l’autodeterminazione dell’individuo che non può prevalere sul dato naturale o rivelato: “we have a God-given identity that is either masculine or feminine. One is a man or a woman because that is what the body given by God indicates”. 17 L’opposizione ad ogni intervento chirurgico volto ad aprire la strada al riconoscimento giuridico del cambiamento di gender si estende ovviamente – e si potrebbe dire, a maggior ragione – al riconoscimento giuridico di un analogo cambiamento operato in assenza di qualsiasi trattamento medico. 18 Come già si è detto, queste non sono le uniche posizioni che caratterizzano il mondo ebraico, cristiano e musulmano. Esse costituiscono però l’orientamento largamente prevalente e mi pare che la comune ispirazione ad esse sottesa riveli un dato di carattere più generale. La questione messa in luce dalla possibilità di cambiare sesso senza trattamenti medici o interventi chirurgici, infatti, pone in luce una differenza che divide in profondità i diritti degli Stati ed i diritti delle tre religioni qui considerati. In questi ultimi il divieto di cambiamento di sesso poggia su una legge – naturale o rivelata – che non è posta dall’uomo, che lo precede e ne limita il potere di autodeterminazione; nei primi il diritto di cambiare sesso esprime il potere dell’individuo di determinare la propria identità di genere senza alcuna limitazione posta non solo dalla legge rivelata ma anche da quella naturale. La possibilità di ottenere il riconoscimento giuridico di un’identità di genere senza la necessità di adeguare i

15  Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari, Carta degli operatori sanitari, 1995, n. 66, nota 148. 16  Cfr. Michael J. Broyde, The Establishment of Maternity & Paternity in Jewish and American Law, in National Jewish Law Review, 1988, 3, pp. 117-158 (https://www.jlaw.com/Articles/ maternity_appendix.html). Sul cambiamento di sesso nella prospettiva del diritto ebraico cfr. anche Shawn Markus Crincoli, Religious Sex Status and the Implication for Transgender and Gender Nonconforming People, in 11 FIU L. Rev. 137, 2015, in particolare pp. 144-148. 17  Commission on Theology and Church Relations. The Lutheran Church Missouri Synod, Gender Identity Disorder or Gender Dysphoria in Christian Perspective, 17 May 2014, disponibile all’indirizzo https://www.lcms.org/docs/3012. 18  La ragione sta nel fatto che, secondo la dottrina cattolica (e le altre religioni qui considerate sostengono posizioni analoghe) “ogni uomo viene al mondo come essere sessuato (uomo-donna). Se si accetta questo presupposto si capisce che nessuna persona può essere padrona, per così dire, della propria origine, né decidere arbitrariamente circa la propria identità sessuale, in quanto la sessualità è una dimensione originaria, creaturale e non derivata” (Luigi Sabbarese, Il matrimonio religioso non è possibile per chi ha cambiato sesso, in Toscana oggi, 26 novembre 2008).

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propri caratteri sessuali alla identità prescelta non fa che esaltare questo potere di autodeterminazione individuale, rompendo il rapporto tra identità giuridica ed identità fisica di una persona. In ultima analisi le leggi degli Stati rivendicano l’autonomia dell’uomo da qualsiasi legge divina o naturale, quelle delle religioni al contrario ne affermano la dipendenza ed il conseguente obbligo di rispettarle. La questione del cambiamento di sesso è uno dei punti dove questa differenza tra diritti “secolari” e diritti “religiosi”, che il più delle volte corre sotterranea ed invisibile, emerge con maggiore chiarezza. Si potrebbe obiettare che non mancano teologi e giuristi ebrei, cristiani e musulmani che hanno addotto molteplici ragioni a favore della liceità del cambiamento di sesso. Nel diritto ebraico il precetto di pikuach nefesh, cioè l’obbligo di salvare una vita umana, è stato preso in considerazione per consentire il cambiamento di sesso quando un individuo potrebbe essere spinto al suicidio dal conflitto tra la sua identità di genere ed il suo dato biologico. 19 Lo stesso argomento – salvare una vita umana – ricorre frequentemente nelle trattazioni dei teologi cattolici che sostengono la legittimità del cambiamento di sesso. 20 In ambito musulmano si è fatto riferimento alla necessità di evitare che il conflitto tra identità di genere e caratteri sessuali induca una persona a compiere atti che ne possano pregiudicare la vita eterna. 21 Tutte queste motivazioni sono fondate sul principio del male minore, cioè sull’idea che per evitare un danno di maggiore gravità sia possibile compiere una trasgressione di minore entità della legge divina o naturale. È una soluzione pragmatica di grande utilità per risolvere casi concreti ma essa non fornisce nuovi elementi per dare una soluzione non contingente al problema. Un’altra strategia, già ampiamente collaudata dalla giurisprudenza matrimoniale dei tribunali ecclesiastici, è quella di attribuire maggior rilievo alla nozione di integrità psichica della persona. In linea generale i diritti delle tre religioni qui considerate ammettono la possibilità di interventi chirurgici mirati a dare una precisa identità sessuale a soggetti che presentino caratteri sessuali sia maschili che femminili, con l’argomentazione che questi interventi sono diretti a correggere una situazione patologica confermando il carattere sessuale dominante in una persona. A partire da qui è possibile affermare che il conflitto tra identità di genere e caratteri sessuali di un individuo costituisca uno stato patologico che è analogo a quello di una persona che presenta fisicamente caratteri sessuali sia maschili che femminili, con la conseguenza che se è lecito intervenire chirurgicamente in quest’ultimo caso deve essere lecito compiere la stessa operazione anche nel primo. 22 Questa conclusione poggia su una

19  Per questo e altri argomenti cfr. Barrett, op. cit., pp. 277 ss. Cfr. anche Uriel Heilman, Orthodox rabbi wrestle with Jewish law and transgender issues, in The Times of Israel, 8 aprile 2016 in https://www.timesofisrael.com/orthodox-rabbis-wrestle-with-jewish-law-and-transgender-issues/ 20  Cfr. Maurizio Faggioni, Transessualità e matrimonio. Cosa dice la dottrina cristiana, in Toscana oggi, 30 ottobre 2017, in http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Transessualita-e-matrimonio.-Cosa-dice-la-dottrina-cristiana. 21  Si veda la questione che ha indotto l’ayatollah Khamenei a pronunciare una fatwa a favore della liceità del cambiamento di sesso (http://www.shiachat.com/forum/topic/235017471-ayatollah-khamenei-fatwa-on-transgender/). 22  Questa strada è seguita da alcuni esponenti dell’ebraismo ortodosso: “Orthodox Jewish legal discourse has increasingly spoken of transsexuality as a pathology, a form of rabbinically defined mental illness. The medicalization of transsexuality puts seemingly insular Orthodox writings in conversation with non-Jewish discourses, such as those of secular psychology and Catholic

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concezione più ampia di identità sessuale, che va oltre il dato anatomico e include anche quello psicologico. Ma anche in questo caso la legittimità dell’intervento di cambiamento di sesso è fondata sul presupposto dell’esistenza di una situazione patologica che l’intervento chirurgico mira a risolvere, non su quello di una libera determinazione della propria identità di genere presa da un soggetto che non è affetto da alcuna patologia. 23 E la strada su cui sembrano essere avviati i diritti dei paesi europei è proprio quest’ultima, come indicato dalle recenti leggi danese, maltese, belga e norvegese che non richiedono alcuna certificazione medica, neppure a livello diagnostico, per effettuare l’intervento chirurgico. Queste osservazioni mostrano che è possibile trovare un punto di incontro per risolvere i problemi delle persone che intendono cambiare il proprio sesso ma indicano anche che questa soluzione è fondata su un accordo pratico e contingente che lascia inalterate le due diverse posizioni iniziali. 3. Riflessioni conclusive Nel settembre 2017, la rivista “Il Regno” ha pubblicato un articolo di Paola Bignardi in cui si analizzano i dati di una ricerca dell’Istituto Toniolo sulla religiosità giovanile in Italia. La ragione principale che determina la sfiducia nella Chiesaistituzione viene individuata nel fatto che “l’istituzione ha un aspetto di oggettività, d’indisponibilità; s’impone al soggetto”. Nel caso della Chiesa cattolica questa sfiducia è aggravata da una difficoltà di comunicazione: “Della Chiesa non comprendono i linguaggi, che ritengono superati, astratti, incomprensibili”. 24 C’è un nesso tra queste rilevazioni e quanto scritto nelle pagine precedenti? Forse sì. Ebraismo, cristianesimo e islam insegnano che esiste un ordine naturale delle cose, riconducibile all’idea di creazione. Questo ordine ha caratteri “di oggettività, d’indisponibilità” e “si impone al soggetto”: proprio quelle caratteristiche che contraddistinguono in senso negativo la percezione giovanile dell’istituzione ecclesiastica. L’oggettività e l’indisponibilità di questo ordine naturale è messa in questione dal potere crescente di alterarne i contenuti: nel caso qui preso in esame, l’essere uomo o donna non è un fatto oggettivo determinato dalla nascita ma una scelta soggettiva che i progressi scientifici e tecnologici hanno reso possibile. I sistemi giuridici degli Stati occidentali (non tutti, ma una buona parte di essi) hanno preso atto della trasformazione culturale innescata da questi sviluppi e hanno abbandonato la pretesa di riflettere un ordine naturale oggettivo che si impone alle scelte dei consociati. Il diritto è divenuto lo strumento per garantire una pluralità di opzioni tra cui ogni persona può scegliere quella che ritiene più confacente alla propria sensibilità, con il solo limite del rispetto dei diritti altrui: questo passaggio è evidente nella pluralizzazione

bioethics” (Hillel Gray, The Transitioning of Jewish Biomedical Law: Rethorical and Practical Shifts, in Nashim: A Journal of Jewish Women’s Studies & Gender Issues, Number 29, Spring 5776/2015, p. 95). 23  È la conclusione a cui giunge Hillel Gray: “from the perspective of transgender persons and their allies, a medicalizing Orthodox rabbinic discourse is trailing recent efforts to depathologize SCS and transsexuality in mainstream society” (The Transitioning,op. cit., p. 97). 24  Paola Bignardi, Giovani, chi è Dio?, in Il Regno Attualità, 15 settembre 2017, pp. 501 e 502.

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dei modelli di matrimonio apprestata dai sistemi giuridici di molti paesi europei. I sistemi giuridici delle religioni non hanno compiuto questo passo e ci si può chiedere se possano compierlo senza rinunciare ad un proprio tratto fondamentale, l’eteronomia del diritto che affonda le sue radici più profonde nella volontà di Dio (rivelata o manifestata attraverso l’ordine naturale). Lo studio dei diritti delle religioni (di quello ebraico, in particolare) indica che questa tensione tra autonomia (umana) ed eteronomia (divina o naturale) del diritto è una costante della loro storia ed è stata risolta in molti modi differenti a seconda dei tempi e dei luoghi. Ma oggi il superamento di questa tensione è complicato da innovazioni scientifiche e tecnologiche che sembrano incrinare l’oggettività e indisponibilità del dato naturale su cui sono fondati tanto il cristianesimo quanto l’ebraismo e l’islam e favorire una religiosità del potenziale umano che ha trovato espressione in altre religioni, vecchie e nuove.

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1. Persona Ringrazio vivamente gli organizzatori di questo seminario – e segnatamente l’amica carissima Enrica Martinelli – per avermi invitato a prendere la parola in un consesso di così alto prestigio e in questa prestigiosa Università, a cui mi sento, da sempre, tanto legato. Un invito basato, certamente, su una sopravvalutazione delle mie competenze: parlare alla presenza di alcuni tra i massimi esperti del mondo di ebraismo e di bioetica – tra cui, in particolare, Riccardo e Gianfranco Di Segni e Avraham Steinberg – può certamente apparire, da parte mia, temerario. Ma mi limiterò a portare un piccolo contributo al dibattito, formulando alcune brevi considerazioni generali, svolte da semplice persona curiosa e interessata, ormai da tempo, a queste tematiche. Il tema concordato del mio intervento, “persona, vita, natura”, si presenta, evidentemente, di estrema latitudine. Ma mia intenzione è semplicemente avanzare qualche domanda su quale senso si possa attribuire, al giorno d’oggi, a questi tre concetti, su come e quanto i loro significati si siano modificati, così come sia cambiata la relazione tra l’uno e gli altri. Credo che le prime due delle tre parole che ho menzionato abbiano subito, negli ultimi anni, un profondo processo di risignificazione. Solo dieci anni fa, i contenuti a cui esse rinviavano erano molto diversi da quelli di oggi. Ho già avuto modo, recentemente, di formulare alcune osservazioni sul progressivo sgretolamento, nei nostri tempi, di quello che è stato per millenni il fondamento indiscusso della civiltà giuridica occidentale, ovverosia la visione antropocentrica del diritto (che vede ogni sistema e istituto giuridico non solo come una creazione umana – al pari di ogni altra costruzione culturale – ma anche al servizio dell’uomo, più esattamente, di determinate categorie di uomini, di volta in volta detentrici di specifici poteri) e i concetti fondanti di “soggetto di diritto” e di persona, ossia di entità potenzialmente titolari di situazioni giuridiche, attive o passive. Per millenni, com’è noto – con poche, incerte eccezioni –, solo gli uomini – alcuni uomini – potevano essere considerati “soggetti giuridici”, parti attive di rapporti interpersonali riconosciuti e vincolanti, titolari di obblighi e aspettative considerate e difese da una società e un ordinamento collettivo o statuale. E proprio la controversa categoria di persona valse a lungo a differenziare l’uomo-soggetto giuridico dall’uomo che non poteva (non ancora, o non più, o giammai) accedere a tale magica posizione di potenza (“Homo naturae, persona iuris civilis vocabulum” (Don., Comm. iuris civ. II. 9).

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Solo in alcuni determinati casi, e per alcune situazioni particolari (eredità, enti collettivi, città…), i diritti antichi arrivarono a riconoscere, in modo surrettizio, una forma di ‘personalità’ a realtà diverse da singoli, specifici uomini. Ma si trattava comunque sempre di agglomerati composti da uomini, o funzionali a essi. Gli animali subumani, individualmente intesi, restavano fuori, in ogni caso, nel mondo antico, dalla categoria di persona. Come ho avuto modo di osservare, l’intera storia della civiltà occidentale – con l’affievolimento e poi la scomparsa della manus maritalis, l’aumento delle emancipazioni dei filii familias, la progressiva erosione dei contenuti della patria potestas, l’incremento del favor libertatis e delle manomissioni servili, la dissoluzione del modo di produzione schiavistico, il riconoscimento dei diritti degli stranieri, le altalenanti spinte alla promozione sociale femminile – può essere ricostruita come una sorta di lungo (certo non costante e rettilineo, e – specie nell’Età di Mezzo – con vistosi momenti di arresto, o di arretramento) percorso di allargamento del conferimento della personalità giuridica, via via attribuita a cerchie sempre più ampie di soggetti. Ma proprio questa progressiva, esponenziale espansione del concetto di “personalità” giuridica (esteso, o in via di estensione, attraverso le più disparate finzioni giuridiche, a schiere sempre più larghe di soggetti: dagli enti impersonali agli animali, dai nascituri alle intere generazioni future [considerate titolari di un “diritto a ereditare” qualcosa da quelle precedenti], così come a quelle trapassate [possibili soggetti di un “diritto alla memoria”], dai patrimoni all’intelligenza artificiale, alle idee, all’ambiente, il creato tutto ecc.) ha portato, com’è stato notato, a una irreversibile crisi di questa categoria logica, che, nata per separare “soggetti” da “oggetti” di diritto, “titolari” da “non titolari” di diritti, appare sempre meno adatta a governare una realtà in cui ogni separazione e cesura, nel momento stesso in cui viene marcata, viene anche automaticamente e immediatamente messa in discussione. Ho avuto modo, in altra sede, di formulare alcune osservazioni su come e perché la persona non appaia più oggi la base, il fondamento del diritto e della civiltà, e come e perché questa funzione di presupposto logico e imprescindibile di qualsiasi attribuzione giuridica (come si è detto, di “diritto di avere diritti”) stia innegabilmente morendo, per essere forse, un domani affidata – chi sa dove, chi sa quando, chi sa da chi (e finché, beninteso, si potrà ancora continuare a parlare di “diritti”) – ad altre categorie, altre finzioni, che non sappiamo quali potranno essere. Ma ricordo che proprio in questa stessa aula, l’anno precedente, ebbi a dire che l’ebraismo – inteso non solo come religione, ma anche come cultura, modo di essere e di pensare –, di fronte a questo processo di crisi e di trasformazione, soffre meno di altre tradizioni di pensiero, in quanto esso – come ben spiegato, in particolare, dal mio Maestro Alfredo Mordechai Rabello – è sempre stato un sistema di doveri, non di diritti. L’uomo, nell’ebraismo, non è “padrone” di nulla, neanche della propria persona e del proprio corpo, e la sua posizione di “re del creato” è sempre stata intesa come una condizione non di potere, ma di responsabilità: nei confronti del Creatore, dei suoi simili, di se stesso, delle creature subumane (verso le quali esistono obblighi precisi e stringenti, presenti anche nelle leggi cd. noachidi, valevoli per l’intero genere umano) e dell’intero creato. Se è fatto “a immagine e somiglianza” di Dio (Gen. 1, 26), l’uomo è pur sempre l’ultima creatura vivente, non la prima, a essere stata creata (come gli viene ricordato nel Midràsh, con l’ammonimento a non sopprimere con noncuranza una zanzara, presente nel mondo da prima di lui). Per questo la bioetica – anche da parte di pensatori non ebrei, e neanche specificamente esperti di ebraismo – ha sempre tratto feconda ispirazione (con una tendenza in evi-

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dente crescita) dalla secolare speculazione rabbinica e talmudica, che, da sempre, si interroga su quali siano i limiti della possibilità di intervento dell’uomo nei confronti delle creature viventi e di tutta la natura, i suoi doveri e le sue responsabilità, anziché i suoi presunti diritti. Perché, com’è noto, se la parola “bioetica” è stata inventata solo nel 1970, e se, con le vertiginose scoperte scientifiche degli ultimi decenni, i confini dei suoi contenuti si sono andati immensamente espandendo (un fenomeno tanto vistoso da portare, così come abbiamo detto per il concetto di “persona”, a una evaporazione degli stessi confini epistemologici della disciplina [che, tra l’altro, in ragione della sua peculiare e ineliminabile funzione di collegamento e incrocio tra diversi saperi, non potrebbe, propriamente, essere definita tale]), le domande a cui essa rinvia esistono praticamente da sempre: da quando, avvertita, o costruita, un’idea di “alterità” di se stesso rispetto alla natura, l’uomo ha avviato a interrogarsi sulle modalità, le possibilità e le conseguenze delle sue azioni su di essa. Avvertendo, o creando, l’esigenza di un “dover essere”, di una legge e di un’etica. Così come sono stati immaginati, e da molto tempo, dei diritti non riguardanti le sole persone (Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur [Ulp., Dig. 1.1.1.3]), si può anche immaginare una civiltà umana di soli doveri, senza diritti. Ma chi sarà chiamato a rispettare questi doveri, in un mondo senza persone? 2. Vita Avendo menzionato la parola “etica” (inscindibilmente legata all’ebraismo), dobbiamo quindi passare al secondo lemma che compone il termine composto “bioetica”: bios, vita. Se il concetto di persona si riferisce, indubbiamente, a una categoria puramente culturale, e non ci stupiamo del fatto che esso possa essere attribuito, nei diversi contesti spaziali e culturali, a entità di tipo completamente diverso, fino a pochi anni fa l’idea di “vita”, espressa nelle varie lingue umane, ha conservato invece, nei millenni, una costante continuità di significato, andando a riguardare organismi innumerevoli (non a caso la parola ebraica corrispondente, chaiim, è al plurale: “vite”), ma tutti accomunati dal dato comune di essere generati, nascere, nutrirsi, svilupparsi, accoppiarsi, riprodursi, deteriorarsi e morire. Per gli antichi sumeri, egizi, cinesi e cartaginesi, così come per la generazione che ci ha immediatamente preceduto, erano “vita” gli uomini, i loro vari organi, gli animali, gli insetti, le piante, i batteri, le cellule. Non lo erano gli atomi, le pietre, l’acqua, l’aria, i fulmini, il vento, le stelle, le idee. Ma oggi le cose sono cambiate, in quanto, com’è noto, la tecnologia sta modificando, con rapidità impressionante, le leggi della vita. Non solo la biotecnologia crea organismi geneticamente modificati, innestando parti di esseri viventi in altri, e creando così nuove forme di piante e di animali, ma l’ingegneria biomedica produce anche i cd. cyborg, ossia esseri che combinano parti organiche e inorganiche, come animali dotati di arti bionici. È già possibile, e lo sarà sempre di più, restituire l’udito ai sordi e la vista ai ciechi, e senza miracolosi interventi divini, o prodigiose cure biologiche, ma attraverso l’installazione di microchip elettronici negli occhi e nelle orecchie. L’idea di resuscitare, attraverso un recupero del DNA, specie estinte da

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milioni o decine di migliaia di anni, come i dinosauri, o gli uomini di Neanderthal o i Danisova, potrebbe presto uscire dalle pagine di fantascienza e dalle sale cinematografiche, e trasformarsi in realtà, così come il progetto di creare in laboratorio nuove forme di vita. Oltre alla possibilità, già largamente praticata, di avere una madre genetica e una “portatrice” (il cd. “utero in affitto”), è anche possibile impiantare in un ovulo fecondato elementi di un soggetto terzo, facendo nascere individui col patrimonio genetico di più di due persone, così come, quantunque vietato dalla legge, è tecnicamente possibile intervenire sul DNA umano, per modificarlo. I miti del Golem, dell’Araba Fenice e di Frankenstein sono prossimi a diventare realtà vivente. Assistiamo a esperimenti di mammiferi che trasmettono segnali cerebrali a dispositivi esterni (muovendo, per esempio, un terzo braccio, situato anche in un altro continente), o di mosche-spia dotate di sensori elettronici incorporati, capaci di introdursi nei centri militari nemici, e di trasmettere i segnali captati dall’altra parte del globo. Ma non basta. L’ingegneria informatica non solo produce strumenti tecnologici al servizio dell’intelligenza umana, come i robot o i computer, ma sta studiando la possibilità, tutt’altro che irrealizzabile, di creare sistemi elettronici in grado di agire ed evolversi indipendentemente dal loro creatore. I virus informatici si replicano milioni e milioni di volte e, lottando contro i programmi antivirus, producono, nel cyberspazio, delle nuove forme di virus, che – come nota Yuval Noah Harari, «nessuno ha creato, e che subiranno una evoluzione non organica». Sarà presto possibile, continua Harari – divulgatore geniale e creativo, anche quando, forse, un po’ eccessivo – trasferire un backup del cervello umano in un disco fisso esterno, e poi inserirlo in un computer portatile, immettendovi tutti i dati della coscienza: memoria, intelligenza, senso identitario, emozioni. E spegnere quel computer potrebbe essere considerato qualcosa di simile a un vero e proprio omicidio. Si ipotizzano forme di coscienza, identità, memoria e volontà collettiva, condivise da diversi soggetti. Cominciano a essere prodotte e vendute opere d’arte prodotte autonomamente da programmi elettronici. Attenzione: nessuno ha spiegato a questi programmi come devono essere fatti i quadri o le musiche da realizzare, ma vengono esclusivamente forniti degli elementi di partenza (così come a uno scolaro si insegnano le note e i colori), sulla base dei quali lavorare. L’artista è il computer, non l’uomo, e potranno essere altri computer a giudicare se l’opera è bella o brutta. Ogni ipotetico confine posto al progresso delle neuroscienze viene inesorabilmente abbattuto. Le tre famose leggi della robotica di Asimov (1: un robot non può nuocere a un essere umano; 2: un robot deve sempre ubbidire all’essere umano, a condizione di non violare la prima legge; 3: un robot deve proteggere la propria esistenza, a condizione di non violare la prima e la seconda legge) hanno già cominciato a essere trasgredite. L’idea di immortalità (o “amortalità”), attraverso forme di crioconservazione, riproduzione, clonazione, moltiplicazione, “debiologizzazione”, “informatizzazione”, “rimaterializzazione” ecc. del corpo, o della mente, non appare più solo un’utopia, o un incubo. Tutto ciò, evidentemente, suscita inquietudine. L’idea di poter diventare (o che qualcuno, o qualcosa, possa farlo) degli dei immortali, com’è stato osservato, seduce, ma terrorizza. Ci tranquillizza pensare che le macchine, per quanto potenti, non potranno mai sostituirsi completamente a noi, per lo meno nella nostra capacità di amare, di compatire, di stupirci, di soffrire. Ma, probabilmente, non è vero. La biologia insegna che non c’è differenza tra pensiero ed emozione, e all’intelligenza artificiale si affiancherà fatalmente, si sta già affiancando, una emotività artificiale: al cervello elettronico, un cuore elettronico.

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Esiste già, secondo ogni evidenza, una “vita” non biologica, il concetto di “vita” sta inevitabilmente mutando, così come il confine tra “vita” e “non vita”. E la sensibilità, inoltre, si sta gradualmente spostando, dall’importanza del concetto astratto di “vita”, al significato, al senso dei suoi contenuti, a cominciare (sulle orme di Giobbe, del Qohelet, di Schopenauer e di Leopardi) dagli eterni problemi del dolore, della solitudine, dell’insensatezza (non a caso si parla sempre più spesso di creature, anziché “viventi”, “senzienti”). Ma, se l’etica, come abbiamo detto, nasce con la percezione di un’alterità, di una specificità della natura umana, considerata una forma di “vita” peculiare (per essere stata, secondo i credenti, così creata, o per esserlo diventata, per i non credenti, attraverso l’evoluzione naturale), ma comunque, innegabilmente, “vita”, che forme potrà essa assumere, che strade potrà mai prendere, una volta staccata dal concetto di bios? Potrà mai esistere un’etica non biologica? 3. Natura Se, riguardo ai due concetti di “persona” e di “vita”, abbiamo essenzialmente constatato come entrambi, al giorno d’oggi, siano oggetto di radicale ripensamento e risignificazione, la questione, riguardo all’idea di “natura”, si pone in modo diverso. Tale concetto, inteso come realtà esistente, percettibile, in qualche modo, dai sensi umani, non è cambiata nel tempo, né, possiamo dire, potrà mai cambiare. Per quante galassie, universi, dimensioni, energie, micro o macromondi sconosciuti si possano analizzare, scoprire, ipotizzare o immaginare, l’unica cosa certa è che essi, per il solo fatto di esistere – se esistono –, fanno parte della natura. La speculazione scientifica e filosofica, da sempre, ha analizzato i contenuti della natura, il suo essere e il suo divenire, si è interrogata sul problema se essa sia eterna e infinita, o delimitata nel tempo e nello spazio, se abbia un’origine, una fine e dei confini, se possano esistere delle realtà, di tipo divino o ideale, ad essa esterne e trascendenti, inattingibili sul piano sensoriale. Ma ogni speculazione su idee o divinità extra-naturali, ogni interrogazione, per dirla con Cicerone, “de natura deorum”, conferma, per se stessa, l’unicità del concetto di natura. Gli dei possono essere uno o mille, possono essere immanenti o trascendenti, mortali o immortali, possono avere creato l’universo o essere nati e morti in esso, ma la natura, qualsiasi cosa sia, è una sola. E se Dio, o gli dèi, sono fuori della natura, le parole che li definiscono, e i pensieri che ad essi si rivolgono sono comunque fatti di lettere, di sillabe, di entità simboliche che sono elaborazione di attività e di combinazioni neuronali. Ossia, di natura. La domanda che si pone, pertanto, è se sia possibile che la natura – perché le parole, e i pensieri, sono fatti naturali – possa condurre a qualcosa che è fuori di essa. Sulle eterne domande del tempo, dello spazio, dell’inizio, della fine, dell’universo, dell’infinito, sui misteri del reshìt, dell’olàm, del tohù va-vohù, dell’ein sof, dello tzim-tzum (la creazione dell’universo come un abbandono, una “ritirata” del Signore), com’è noto, il pensiero ebraico – da Maimonide al Maharal di Praga, da Spinoza a Rosenzweig, da Levinas a Neher – ha aperto delle porte su spazi – questi sì – sconfinati, ancora tutti da percorrere. Ma la bioetica, a cui è dedicata questa giornata, non è, per definizione, terreno di filosofia teoretica, bensì di filosofia morale. Non si chiede tanto cosa l’uomo sia o non sia, ma cosa possa o non possa, debba o non debba fare. Non a caso la prima domanda rivolta da Dio all’uomo non è stata “cosa hai fatto?” (Gn 4. 10), ma “dov’è tuo fratello?” (4. 9). E la vera colpa di Caino, forse ancora

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maggiore del fratricidio, è nella contro-domanda con cui risponde alla domanda del Signore: “sono forse il custode di mio fratello?”, ossia nella negazione della relazione tra gli uomini. Indipendentemente dal fatto che si pensi che quelle due domande provengano entrambe dalla natura, o che una delle due provenga da fuori di essa, ritengo che, in ogni caso, nella ricerca del loro significato si racchiuda tutto il senso della morale umana, comunque la si voglia intendere. Oggi, di fronte alla crisi del concetto di “persona”, e ai mutamenti dell’idea di “vita”, ci sembra molto più difficile capire cosa voglia dire “essere custodi”, e “di chi” lo si debba essere, così come resta controverso se, e in che misura, questo vincolo nasca solo dalla cd. “natura”, o da qualche altro luogo. Ma neanche migliaia di anni fa – quando non esistevano microscopi, computer, bioingegneria e intelligenza artificiale – tali quesiti trovavano facile risposta. Il senso della frase di Kant “il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”, così come dell’insegnamento De hominis dignitate, di Pico della Mirandola, sull’ambigua natura di Adamo, nasce con l’uomo, e morirà con lui. Così come con lui moriranno, presumibilmente, diritti e doveri, la cui storia avrà segnato di sé un frammento infinitesimale della storia della natura. Forse torneranno, tra qualche milione di anni, con altre specie viventi, o esistono anche, o sono già esistiti, a qualche milione di anni luce dal nostro pianeta, chi sa. Ma, in ogni caso, credo che la piena consapevolezza di questa estrema limitatezza e finitudine della condizione umana sia un elemento di forza, non di debolezza, e che proprio in essa si annidi il senso profondo dei diritti e dei doveri dell’uomo. Nota bibliografica Alcuni riferimenti al superamento del concetto di persona sono tratti, con modifiche, dal testo del mio intervento I diritti degli animali non umani, pronunciato nel corso del Convegno “Pensare giustizia tra antico e contemporaneo”, Università di Chieti-Pescara “Gabriele D’Annunzio”, 8-10/5/2018, in corso di pubblicazione negli Atti Congressuali, oltre che, con modifiche, negli Scritti in onore di Sebastiano Tafaro e sulla rivista Iura & Legal Systems. Sugli animali subumani, rinvio inoltre, per tutti, ai contributi pubblicati nella sezione Umano, non umano, disumano della silloge Diritto e vita. Biodiritto, bioetica, biopolitica, a cura di F. Lucrezi e F. Mancuso, Un. di Salerno, Soveria Mannelli 2010, pp. 515 ss.; Silvana Castiglione, La questione animale. Aspetti etici e filosofici, in Trattato di biodiritto. La questione animale, a cura di S. Castiglione, L. Lombardi Vallauri, Giuffrè, Milano 2012; Luigi Lombardi Vallauri, Animali: istruzioni per il non uso, in Trattato di biodiritto. cit.; Francesca Rescigno, Per una bioetica animale. Una nuova frontiera: i diritti degli esseri animali; Marianna Esposito, Dolore animale. In margine a una lettera dal carcere di Rosa Luxemburg, in Diritto e vita, cit., pp. 551 ss.; F. Rescigno, I diritti degli animali. Da ‘res’ a soggetti, Giappichelli, Torino 2005, Pietro Paolo Onida, Il problema della qualificazione dogmatica dell’animale non umano nel sistema giuridico-religioso romano, in Per una storia non antropocentrica. L’uomo e gli altri animali. Catalogo della mostra e Atti del convegno di studi, Archivio di Stato di Salerno, maggio 2009, a cura di E. Granito, F. Manzione, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Roma 2010, pp. 159 ss.; Marisa Tortorelli, L’animale e il sacro nel mondo antico, di prossima pubblicazione.

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Sulle sofferenze degli animali, importante la denuncia di Jonathna Safran Foer, Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, Guanda, Parma 2010. Specificamente sul rispetto degli animali nella tradizione ebraica, Aa.Vv, «Gli animali e la sofferenza. La questione della ‘shechità’ e i diritti dei viventi». La rassegna mensile di Israel, a cura di L. Quercioli Mincer, T. Zevi, vol. LXXVIII, 1-2 gennaio-agosto 2012; Pablo Lerner, Alfredo Mordechai Rabello, Il divieto di macellazione rituale (‘shechità koshèr’ e ‘halal’), Cedam, Padova 2010. Sul concetto e le mutazioni dell’idea di “persona”, per tutti, cfr. Roberto Esposito, Terza persona, Einaudi, Torino 2007, Osvaldo Sacchi, Antica persona. Alle radici della soggettività in diritto romano tra costruzione retorica e pensiero patristico, Satura Editrice, Napoli 2012; Sebastiano Tafaro, Diritto e persona: centralità dell’uomo, in Diritto e storia, 5(2006), consultabile online sul sito: http://www. dirittoestoria.it/5/Tradizione-Romana/Tafaro-Diritto-persona-centralita-uomo.htm. Sulla progressiva espansione della soggettività giuridica nel mondo antico, per tutti, cfr. Federico M. D’Ippolito, Francesco Lucrezi, Profilo storico istituzionale di diritto romano, IV ed., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2018. Sull’allargamento dei confini della bioetica, per tutti, Aa.Vv, Diritto e vita cit., Francesco Paolo Casavola, De hominis dignitate. Scritti di bioetica, a cura di L. Chieffi e F. Lucrezi, in corso di pubblicazione. Segnatamente sulla bioetica ebraica, Alfredo Mordechai Rabello, Introduzione al diritto ebraico. Fonti, matrimonio e divorzio, bioetica, Giappichelli, Torino 2002; Francesco Lucrezi, 613. Appunti di diritto ebraico I, Giappichelli, Torino 2015, Id., Ebraismo e Novecento. Diritti, cittadinanza, identità, Belforte, Livorno 2010. Le tre leggi della robotica furono formulate, nella raccolta di racconti di fantascienza, da Isaac Asimov, Io, Robot, 1950, ed. it., Mondadori, Milano 2003. Sull’intelligenza artificiale, per tutti, Yuval Noah Harari, Sapiens. From Animals into Gods. A Brief History of Humankind, 2011, ed. it. Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità, Bompiani, Firenze Milano 2018 (la cui citazione tra virgolette è tratta da pag. 507); Riccardo Notte, You Robot. Antropologia della vita artificiale, Vallecchi, Firenze 2005. Sui progressi delle neuroscienze, per tutti, Eric R. Kandel, James H. Schwartz, Thomas M. Jestell, Steven A. Siegelbaum, A. James Hudspeth, Principles of Neural Sciences, (Ia ed. 1985), IVa ed. it. (dalla Va inglese): Principi di neuroscienze, Zanichelli, Milano 2014; Joaquin Fuster, The Prefrontal Cortex, Va ed. London, San Diego, Waltham, Kidlington 2015. Sulla legge di natura, per tutti, Lucia di Cintio, “Natura debere”. Sull’elaborazione giuridica in tema di obbligazione naturale, Rubettino, Soveria Mannelli 2010. Sul tempo nell’ebraismo, rinvio, per tutti, a Tempo e Torah. Studi sul Giubileo ebraico, a cura di F. Lucrezi, Cuen, Napoli 1999, Id., Intervento alla Tavola Rotonda del 19/2/2007 in occasione della presentazione del libro La nascita. I mille volti di un’idea, a cura di R. Prodomo, Giappichelli, Torino 2006; Aa.Vv., Il futuro della bioetica. Una scienza nuova per il XXI secolo, a cura di R. Prodomo, Giappichelli, Torino 2008; Roberto Della Rocca, Con lo sguardo alla luna, Firenze 2015.

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Roberto Mazzola Fisicità, fede e diritto. Il problema del “corpo” tra diritti religiosi e diritto statuale

«Corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro», 1 non si tratta della pubblicità di una palestra, né la frase pronunciata da un atleta di bodybuilding, ma uno dei passaggi chiave di «Così parlò Zarathustra». Nietzsche, non a caso nel capitolo intitolato: «Dei dispregiatori del corpo», 2 muove nei confronti della cultura giudaico-cristiana una critica radicale proprio in merito alla questione del “corpo”: essa, infatti, sarebbe la principale responsabile dell’interpretazione esclusivamente ontologica di uomo a totale discapito della dimensione fisica. Al contrario, Zarathustra/Nietzsche credono nell’assoluta centralità del corpo; infatti, non solo l’anima «non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo», 3 ma dietro gli stessi pensieri e sentimenti, risiede un potente sovrano, «un saggio ignoto, che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo». 4 Una lettura dialettica di questo tipo è fondata o non? Si può affermare che nell’alveo del pensiero teologico di matrice abramitica perduri ancora una teologia anticorporalista? E, di riflesso, si può dire che il pensiero giuridico europeo, pur emancipandosi dalla sfera teologica, conservi un generale disinteresse verso la dimensione corporea dell’uomo? A prima vista si sarebbe tentati di affermare che in effetti, né alle religioni né ai diritti statuali vigenti interessi occuparsi più di tanto della sfera “corporale”. Nel primo caso l’attenzione per lo spirito sembrerebbe prevalere, per qualità e importanza, sulla meno nobile dimensione corporea; nel secondo, il fatto che per secoli il diritto abbia accettato di normare la realtà suddividendola in res e personae, preferendo l’astrattezza e l’artificialità della nozione di “persona” a quella di “corpo”, costituirebbe una prova a favore di un minore interesse verso la dimensione biologica dell’essere umano. 5 In verità le cose sono più complesse di quanto appaiano. Intanto, sotto il profilo religioso non è affatto vero che il corpo sia stato,

1  Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, (tr.it. a cura di G. Colli), Adelphi, Milano 1979, p. 35. Si veda per un approfondimento di questi profili Bernhard Casper, Sul senso del nostro corpo, in Corpo. Filosofi lungo l’Oglio, a cura di F. Nodari, Compagnia della Stampa Massetti Rodella Editori, Roccafranca (Brescia) 2010, pp. 23-46. 2  F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 34 ss. 3  Ibidem, p. 35. 4  Ibidem 5  Cfr. Cesare Massimo Bianca, Diritto Civile, vol. 1, «La norma giuridica i soggetti», Giuffrè, Milano 1978, pp. 137 ss. A questo riguardo per una lettura generale di queste categorie Angelo Falzea, Il soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Giuffrè, Milano 1939, ed ancora Alfredo Galasso, La rilevanza della persona nei rapporti giuridici, Jovene, Napoli 1974.

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almeno dalle tradizioni teologiche giudaico-cristiane, sempre e soltanto oggetto di disprezzo e voluta dimenticanza a esclusivo favore della dimensione spirituale. Solo alcuni orientamenti teologici di minoranza hanno sposato una visione spregiativa del corpo a esclusivo vantaggio dello spirito. Lo ha fatto il pensiero gnostico per il quale: «il mondo è cattivo, in quanto sottoposto al dominio di potenze malvage» 6 frutto delle scorie rilasciate dal Pleroma. Appare infatti implicito nell’ideologia gnostica «un invito, un incoraggiamento ad uscire anzitempo dal mondo; un’implicita predicazione, cioè, a favore del suicidio. Se, infatti, ci si convince che la realtà in cui ci troviamo è negativa, dannosa e falsa, si cercherà di fare tutto il possibile per uscirne e abbandonarla». 7 Prevalente in questo caso è una visione negativa del mondo e di tutto ciò che è materiale, compreso il corpo. Anche il Neoplatonismo si avvicina al modello “gnostico”: Plotino viveva costantemente nel tormento di essere racchiuso dentro un corpo, in quanto la sua essenzialità riteneva non avesse nulla a che fare con il proprio involucro di carne, considerato alla stregua di una vera e propria gabbia dell’anima. 8 Il cattolicesimo, anche se relativamente tardi con il Vaticano II, ha preso anch’esso le distanze con la Gaudium et Spes dall’impostazione del pensiero platonico e neoplatonico, per riscoprire l’importanza della dimensione corporea, superando, osserva Neri, 9 una lunga stagione di sospetto. L’uomo, per il magistero della Chiesa cattolica, in quanto unità di anima e corpo «sintetizza per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale. Allora non è lecito» – si legge in GS 14 – «all’uomo disprezzare la vita corporale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno». 10 In questo senso il rispetto del corpo rientra all’interno di quel dovere che il soggetto deve riconoscere, apprezzare e corrispondere come dono che finisce per sostanziare la sua insostituibile e intangibile singolarità. 11 Non

6  Il passo citato in Giuseppe Laras, Fisicità ed ebraismo, in Corpo. Filosofi lungo l’Oglio, cit., p.94. Si veda anche Henri Dominique Saffrey, Recherches sur le néoplatonisme après Plotin, in Revue Philosophique de Louvain, 82 (1991), pp. 354-357. 7  G. Laras, op. cit., p. 94. 8  Ibidem. Ovviamente tanto nella posizione gnostica che in quella neoplatonica il problema di fondo è dato dal rapporto fra corpo e anima. Dove si è convinti che la seconda sia superiore alla prima, l’atteggiamento verso la fisicità diviene negativo, ovvero v’è il rischio «di essere indotti» – osserva G. Laras, Fisicità ed ebraismo, cit., p. 95 – «a dare considerazione e preminenza alla sola realtà che è al di sopra e al di fuori della realtà fisica», ovvero di dare, in piena sintonia con il Fedone di Platone, dove si parla di anima come sostanza spirituale autonoma, «maggiore nobiltà intrinseca all’anima, appartenente ad un mondo lontano, ma superiore» – osserva sempre G. Laras, Fisicità ed ebraismo, cit. p, 97 – «rispetto a questa realtà terrena, fisica, che costituisce una delle parti, uno degli ingredienti del corpo». In riferimento a questi particolari profili della filosofia plotiniana, e in generale neoplatonica, si veda anche: Alessandro Linguiti, Plotino sulla felicità dell’anima non discesa, in Antichi e Moderni nella filosofia di età imperiale, Atti del II Colloquio internazionale, Roma 21-23 settembre 2000, a cura di A. Brancacci, Napoli 2001, pp. 213-236. 9  Marcello Neri, L’umana dignità di essere: annotazioni teologiche, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2015), p.76. 10  GS, 14, 1363-1364, in Enchiridion Vaticanum II, ed. Dehoniane, Bologna 1971, 9 ed., p. 795. 11  M. Neri, op.cit., p.76.

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basta, in verità nel rispetto del proprio corpo si realizza ben di più: la glorificazione di Dio, da cui il divieto assoluto per un cristiano di rendersi schiavo «delle perverse inclinazioni del cuore». 12 Più discontinuo il discorso per il diritto. Presente per lungo tempo nella dimensione giuridica in modo drammatico, il corpo per secoli ha raccontato di soprusi, di negazioni, di umiliazioni, di storie di punizione, di subordinazione, e di discriminazione. Con i codici civili dell’Ottocento il corpo sembra però sparire, limitandosi, da un lato ad accenni sul nascere e sul morire, dall’altro sostituendo con il concetto di “persona fisica” quello di essere umano identificato dal suo corpo. In Italia bisogna attendere gli anni ’30 del Novecento perché questo schema entri in crisi. Smarcandosi dalle categorie giustinianee, il diritto cominciò infatti ad osservare gli esseri umani, non più come astratte “persone fisiche” ma come “corpi”: anziani, giovani, malati, sani, trapiantati, tecnologizzati. Oggi il corpo si è ormai insediato nel mondo del diritto e ha imposto uno sguardo nuovo sulle classiche categorie giuridiche relative alla dimensione corporea. La Corte costituzionale italiana, rispettivamente nell’ordinanza n. 81 del 1986 13 e nella sentenza n. 471 del 1990, 14 affermò che il corpo umano non poteva più essere considerato «avulso dalla persona laddove tale inseparabilità non sussiste per i beni economici». 15 La cesura tra la realtà solo virtuale del diritto e quella concreta della corporeità è così giunta a una sintesi, respingendo e superando gli antichi modelli di chiaro stampo dominicale. Una svolta colta dall’art. 3 della «Carta dei diritti fondamentali dell’UE», là dove alla rubrica «Diritto all’integrità della persona» si dà concretezza ad una disciplina che riguarda direttamente il corpo e le modalità del suo governo. Dunque con tempistiche e dinamiche diverse, le religioni da sempre, il diritto più tardi e a fasi alterne, si ritrovano accomunati da un’eguale attenzione al “corpo”, luogo dove le traiettorie biologiche intrecciano quelle biografiche; spazio dove l’unità, per lungo tempo respinta, tra fisico e persona, si ricostituisce. Quali le ragioni di questo cambiamento? Da una parte, senza dubbio, lo sviluppo inarrestabile delle innovazioni scientifiche e tecnologiche applicate alla medicina, soprattutto nel campo dei trapianti e della dialisi, nonché il veloce diffondersi delle tecniche di procreazione assistita e delle diagnosi prenatali, per non parlare della diffusione delle tecniche di clonazione terapeutica e di ingegneria genetica. 16 Dall’altra, il ruolo importante avuto nel Novecento dai vari movimenti per il riconoscimento dei diritti civili. Essi hanno infatti imposto alle agende politiche del tempo, un dibattito serrato sulla liberazione del corpo, come testimoniano le pressioni esercitate dal femminismo e dalle lotte per la libertà sessuale, o la riflessione sui temi dell’aborto e dell’identità di genere. 17

  GS, 14, cit., p. 795.   Corte costituzionale, ordinanza 20 marzo 1986, n. 81, in 14  Corte costituzionale, sentenza 9-22 ottobre 1990, n. 471, in 15  Paolo Veronesi, Uno statuto costituzionale del corpo, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà – P. Zatti, Giuffrè, Milano 2011, p. 138. Si veda anche Stefano Rodotà, Il corpo “giuridificato”, in Trattato di biodiritto, cit., pp. 51-75; si legga anche Paolo Zatti, Maschere del diritto volti della vita, Milano, Giuffrè 2010, p. 65 ss., ed anche Michela Marzano, Straniero nel corpo. La passione e gli intrighi della ragione, Giuffrè, Milano 2004. 16  Cfr. S. Rodotà, op.cit., p. 53. Cfr. anche R. Esposito, Bios, Einaudi, Torino, 2004. 17  Cfr. P. Veronesi, Uno statuto, cit., p. 138. 12 13

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Questa lenta ricollocazione al centro del dibattito giuridico e di quello teologico del “corpo” è tuttavia carica di contraddizioni, e proprio il linguaggio narrativo, tanto dei fatti processuali, quanto delle narrazioni contenute nelle scritture sacre, lo sta a dimostrare in maniera incontrovertibile. Tre differenti racconti, a cavaliere fra diritto statuale e diritto religioso, narrano e descrivono con differente linguaggio, alcuni dei tre principali nodi irrisolti del rapporto fra corpo, religione e diritto. Prima narrazione. Durante l’ultima cena, così si legge nei Sinottici (Mt 26, 2628; Mc 14, 22-24; Lc 22, 19-20) 18, nel Vangelo di Gv 6, 53-58 19, nonché nella Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, versetti 11, 23-29, 20 Cristo disse: «Hoc est enim corpus meum». Espressione che, al di là dei complessi profili teologici, richiama un problema decisivo: quello di consegnare al proprio corpo la presenza del sé. 21 Chi parla si riconosce totalmente presente nel corpo. Detto diversamente, il linguaggio dell’appartenenza del corpo diviene un linguaggio d’identificazione, cosi che l’io finisce per identificarsi nel corpo e il corpo finisce per contenere e conservare a sua volta l’identità dell’essere umano: io sono, appunto, il mio corpo. Come osserva Zatti, «vivere il corpo è ciò che fa del corpo il mio corpo. Esso non è un oggetto. Sia che si tratti del mio corpo che del corpo di un altro, non ho altro modo di conoscere il corpo umano che viverlo, cioè assumere sul mio conto il dramma che mi attraversa e confondermi con esso». 22 La questione è gravida di conseguenze sul piano, bioetico e del bio-diritto. 23 Se si accetta, infatti, l’identificazione fra corpo e sé, il problema del fine vita, e quindi della distinzione fra ciò che è “vivo” e ciò che non è “non vivo”, assume un profilo del tutto particolare: infatti, al fondo della questione della sospensione dei trattamenti sanitari su una persona 24 che vive una condizione di estrema sofferenza, tanto da rendere la vita biologica insopportabile, ci sta la questione della disidentificazione tra il sé e il proprio corpo, nel senso che la vita del corpo non è più la propria vita. Questo solleva una serie di interrogativi di non facile soluzione:

  N.T., Vangeli Sinottici, in La Bibbia di Gerusalemme, Dehoniane, Bologna 1984, pp. 2074-

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  N.T., Vangelo secondo S.Giovanni, in La Bibbia di Gerusalemme, cit., pp. 2257-2316.   N.T., 1 Corinzi vv. 11,23-29, in La Bibbia di Gerusalemme, cit., p. 2469. 21  Una prospettiva sviluppata anche nella tradizione islamica sufista dove il concetto di fitra esprime, infatti, la natura “teandrica” dell’uomo. La sostanza primordiale e spirituale sempre presente, anche se oscurata dalla decadenza umana. L’uomo è in questa prospettiva, una creatura composta di diversi elementi che si manifestano in piani e gradi differenti. Come evidenzia infatti Yahya Sergio Pallavicini, Il ruolo delle comunità islamiche, ISPI, European Foundation for Democracy (2015), in p. 102, (visitato il 23 agosto 2017) fondamentale è la Presenza dello Spirito che si manifesta nella sua pienezza grazie alla centralità del Cuore che è il vero organo della conoscenza, della lettura dei segni divini e dell’ispirazione. «A questa costituzione sacrale, che fa dell’uomo un luogo privilegiato della Presenza divina, si lega la funzione di vicariato, la responsabilità della gestione sacrale della reazione nei suoi vari aspetti, ossia la gestione del mondo, della terra e della natura». 22  P. Zatti, Principi e forme del ‘governo del corpo’, in Trattato di biodiritto, cit., pp. 102 ss. 23  Si veda al riguardo Amedeo Santosuosso, Persone fisiche e confini biologici: chi determina chi, in Diritti e Costituzione. Profili evolutivi e dimensioni inedite, a cura di D’Aloia, Giuffrè, Milano 2003, pp. 145 ss. 24  Cfr. Commento alla sent. 467 si legga Natascia Marchei, La Corte europea dei diritti dell’uomo e il «diritto a morire, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2015), pp. 8596; Silvio Gambino, Diritto alla vita, libertà di morire con dignità, tutela della salute: le garanzie dell’art. 32 della Costituzione, in Forum di quaderni costituzionali. Rassegna. 2012. 19 20

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bisognerebbe ad esempio chiedersi se il diritto alla vita sia diritto alla sopravvivenza del corpo oppure diritto ad essere se stessi in vita; bisognerebbe domandarsi se il potere statuale sia legittimato ad imporre di essere ciò in cui non ci si riconosce più (il proprio corpo), imponendo alla persona di esistere contro la propria identità, sapendo che una società che imponga la sopravvivenza rischia di soffocare l’io, e con esso la dignità di uomo, mentre fa sopravvivere il proprio non – più corpo. Seconda narrazione. Nel 1974 il sig. Moore 25 venne ricoverato per un tumore in una clinica universitaria della California. Dopo essere stato sottoposto a vari trattamenti, l’analisi del sangue rilevò, con sorpresa, la presenza di una preziosa sostanza per la cura di altre forme di malattie cancerogene. A insaputa del paziente, anche al fine di trarre consistenti benefici economici dalla scoperta, i medici della struttura ospedaliera sottoposero il Sig. Moore a molteplici prelievi di sangue, di sperma, di frammenti di midollo osseo, fino a giungere all’asportazione dell’intera milza. Grazie a questo vero e proprio saccheggio di cellule, i quattro medici riuscirono, però, a brevettare un nuovo prodotto farmaceutico che, se da una parte consentì una più efficace lotta contro determinate patologie tumorali, dall’altra incrementò, in misura consistente, i loro patrimoni personali. Quattordici anni dopo la vicenda finì davanti ai giudici dello Stato della California. La parte attrice, venuta a conoscenza di ciò che per più di un decennio, a sua insaputa, era stato fatto al suo corpo, reclamò in giudizio il diritto di beneficiare di una parte degli ingenti profitti derivati dal prelievo delle sue cellule fatto senza il suo consenso. In primo grado il giudice riconobbe al Sig. Moore il diritto di proprietà sul suo corpo, e quindi legittima e fondata la sua pretesa di partecipare agli utili derivanti dall’espianto delle sue cellule. La decisione ovviamente finiva per ridurre il corpo al rango di “cosa”, ma paradossalmente lo avrebbe anche protetto da altri prelievi fatti a sua insaputa. In verità, quella sentenza “cosizzando” il suo corpo arrecava una grave offesa alla sua dignità di uomo, considerandolo alla stregua di un qualsiasi altro bene patrimoniale. Due anni più tardi, nel 1990, la Corte Suprema della California 26 ribaltò l’orientamento giurisprudenziale argomentando che il diritto di proprietà dell’individuo sul proprio corpo costituirebbe un ostacolo per le attività di ricerca, ma soprattutto, che in nome della dignità umana il Sig. Moore non poteva essere considerato proprietario del proprio corpo. Dunque non gli fu riconosciuto alcun diritto sulle sue cellule, poiché il corpo non ha lo status giuridico di bene. Alla parte attrice venne solo riconosciuto il diritto al risarcimento dei danni per abuso di confidenza. Il punto chiave sotteso a tale vicenda non è più quello identitario, ma, semmai, il fenomeno sempre più frequente della scomposizione del proprio corpo, come dimostra il moltiplicarsi delle banche dove possono essere depositate parti o prodotti di esso: gameti, sangue, tessuti, cellule, DNA, cordone ombelicale. Il corpo, non solo può essere ormai riprodotto e moltiplicato, ma può anche essere distribuito nello spazio e nel tempo: esso, osserva Rodotà, «è ormai inteso e definito come unità funzionale comprendente anche entità fisicamente collocate in luoghi diversi, unità che deve essere protetta anche per consentire la realizzazione del diritto di ciascuno all’autodeterminazione». 27

  David Le Breton, L’appartenance du corp, in Trattato di biodiritto, cit., p.86.   Caso Moore – Moore v. Regents of University of California (1990) 51, C3d 120. 27  S. Rodotà, Il corpo “giuridificato”, in Trattato di biodiritto, cit., p. 61. Si legga anche François Dagognet, Le corp multiple et un, Les Empecheures de penser en ronde, Le PlessisRobinson 1992. 25 26

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Ma è la Terza narrazione, quella che, nell’apparente semplicità della storia del Nazìreo contenuta nel quarto libro della Torah (Numeri, cap. VI), 28 contiene il filo rosso sotteso, tanto al tema della “identità” quanto a quello della “frammentazione” del corpo. Perché, si domanda nello specifico il Talmud, prescrivere un sacrificio espiatorio al Nazìreo 29 che si è imposto per un certo periodo di tempo di non bere vino, di non rendersi impuro attraverso contatti con i morti e di farsi crescere, senza mai tagliarli, capelli e barba? Che cosa c’è di male nel suo agire? Tradizionalmente si risponde evidenziando che vietare a se stessi ciò che non è proibito è male, in quanto significa disporre comunque oltre misura del proprio corpo infrangendo, in tal modo, la volontà divina. Ora, sia che si debba sciogliere il nodo tra il diritto alla vita e il diritto all’identità, sia che si debba definire quanto possa essere estesa nello spazio la nozione di corpo, e quindi di persona, o, appunto, si debba giudicare della legittimità o non di certuni atti dispositivi del proprio corpo, l’interrogativo comune sarà sempre quello dell’esistenza o meno di un limite alla disponibilità del proprio fisico. Questo è il punto nevralgico dove i diritti religiosi e i diritti secolari convergono scontrandosi, dove le antropologie entrano in competizione e il dualismo fra autorità religiosa e autorità statale deflagra. Il problema della disponibilità del proprio corpo diviene in tal modo la linea di frattura fra l’interpretazione secolare e quella religiosa di corpo generando una molteplicità d’interrogativi: il corpo è nostro, oppure ne siamo soltanto i comodatari gravati dall’obbligo di custodirlo e conservarlo con diligenza prima di abbandonarlo? Siamo o non, come si legge nel «Catechismo cattolico», «gli amministratori, non i proprietari, della vita che Dio ci ha affidato»? 30 Ammesso e non concesso che si sia realmente proprietari del nostro corpo, questo legittima la facoltà di fare qualunque cosa di esso? Se è vero, come evidenzia Natoli, 31 che la soggettività è il corpo in azione, può allora il mio “io” fare qualunque cosa nello spazio in cui vive e qualunque cosa del suo stesso corpo? Ancora, se v’è, come affermava Spinoza parlando di «idea corporis», un indissolubile legame fra corporeità e soggettività, è possibile pensare al proprio foro interno, alla propria coscienza, come ad un qualcosa di distinto e di autonomo dal proprio corpo, così che il destino dell’uno possa essere diverso da quello dell’altro? Dietro questa dicotomia v’è dunque tutta la complessità del rapporto fra il corpo e la propria coscienza nella sua dimensione dinamica e agente: da un lato la convinzione, cara a Kant, che non è possibile disporre del proprio corpo, poiché esso non è una res di cui poter essere proprietari, dall’altra la modernità che, con sempre maggior forza, ha imposto un altro paradigma, quello di un corpo che, in quanto mio, implica che sia possedibile, cedibile, espropriabile. Come osserva a questo riguardo Zatti «affermare un principio di sovranità riguardo al proprio corpo significa affermare un potere originario, vorrei

28  Cfr. G. Laras, Fisicità ed ebraismo, cit. p, 96 ss. Si legga anche il IV cap. del volume di Alfredo Mordechai Rabello, Introduzione al diritto ebraico. Fonti, matrimonio e divorzio, bioetica, Giappichelli, Torino 2002, pp. 231- 254. 29  Si veda anche Martin Buber, La Via santa (sulla tomba dell’Amico Gustavo Landauer), in Discorsi sull’ebraismo, a cura di A. Poma, Gribaudi, Milano 1996, pp.97-130. 30  Catechismo cattolico. Catechismo della Chiesa cattolica: Sezione Seconda. I dieci comandamenti, capitolo secondo «Amerai il tuo prossimo come te stesso», art. 5. 31  Cfr Salvatore Natoli, Corporeità, soggettività, relazione, in Corpo. Filosofi lungo l’Oglio, cit., pp. 165 ss.; Aa.Vv. Il corpo de-formato. Nuovi percorsi dell’identità personale, a cura di F. D’Agostino, Giuffrè, Milano 2002.

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dire naturale, nel senso in cui si connota una realtà che non è costituita dal diritto positivo. Proprio questo consente d’immaginare la relazione tra l’io-corpo e lo Stato in termini di confine, cioè di territorializzazione dello spazio del corpo definito, in parte da confini materiali (la pelle), in parte da confini legati alla percezione, ai contesti del vissuto e della relazione». 32 Ed è proprio intorno alla questione della “territorializzazione” del corpo che si sviluppa oggi una delle dinamiche più complesse nei rapporti fra potere statuale e potere religioso. La centralità del fattore antropologico e personalista alla base della questione “corpo”, da tempo sta mettendo infatti in crisi il principio di separatismo collaborativo o, quanto meno, ne evidenzia i limiti. Fra confessioni religiose e stato ci può essere un accordo su tutto. La convergenza tuttavia ha la maggiore possibilità di fallire là dove l’autorità religiosa si pronuncia o interviene su questioni antropologico-morali attinenti il governo del corpo. Qui sta la sfida più forte tra i due sistemi di pensiero: 33 la concezione biologicamente articolata e complessa di corpo e di persona propria della cultura laica, a fronte della visione metafisica, in gioco; la definizione dei limiti del ‘poter fare’ dell’uomo relativamente alla disponibilità del proprio corpo. La questione bioetica costituisce dunque uno dei nodi centrali della dialettica contemporanea fra pensiero religioso e pensiero laico, come dimostra la plurisecolare e per nulla sopita competizione tra potere temporale e potere spirituale per il controllo delle politiche sul corpo. La vera contrapposizione che caratterizza la post-modernità sembra infatti non essere tanto lo scontro tra differenti civiltà e religioni, ma semmai lo scontro tra cultura creazionista, che implica un limite alla disponibilità del corpo, e la cultura laica, fondata, in generale, sulla convinzione della totale emancipazione dell’uomo da Dio e, quindi, la piena disponibilità nell’uso del corpo. Non a caso Ratzinger nel 2005 scriveva: «Se si arriverà a uno scontro delle culture, non sarà lo scontro delle grandi religioni […] ma sarà per lo scontro tra questa radicale emancipazione dell’uomo e le grandi culture storiche». 34 Si deve dunque scegliere. Meglio un modello di governo del “corpo” fondato sulla convinzione che quest’ultimo appartenga a Dio, e solo in subordine all’uomo, oppure propendere per un modello liberale che ritiene moralmente legittima ogni forma di utilizzo del corpo, purché conforme ai diritti umani fondamentali? Optare per una, anziché per un’altra di queste soluzioni ha ovviamente conseguenze significative sul piano della bio-politica e del bio-diritto. 35 Tale scelta influisce infatti in maniera determinante sull’ammissibilità, prima ancora che giuridica, morale, di determinate pratiche come: l’inseminazione eterologa, la maternità surrogata, il suicidio assistito, il controllo delle nascite, la posticipazione del limite della morte, ovvero su come vada oggi reinterpretato tanto l’art. 5 c.c. quanto l’art. 32 Cost. comma 2, là dove non è previsto l’obbligo di trattamenti sanitari se non previsti per legge, e comunque mai contrari al rispetto della persona umana. La questione, tuttavia, è rilevante anche per un’altra ragione: essa costringe, infatti, a interrogarsi su tre decisive questioni connesse al processo di “giuridifica-

  P. Zatti, Principi e forme del ‘governo del corpo’, in Trattato di biodiritto, cit., p. 110.   Cfr. Maurizio Mori, La «de-teologizzazione» della bioetica e la nascita dell’etica come nuova istituzione specifica, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (2015), pp. 57-68. 34  Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, L’Europa nella crisi delle culture, in Communio. Rivista Internazionale di Teologia e Cultura, n. 200, marzo-aprile 2005, p. 25. 35  Cfr. Hugo Tristram Engelhardt, Manuale di bioetica, il Saggiatore, Milano 1999, pp. 41- 44 ed ancora Francesco D. Busnelli, Bioetica e diritto privato, Giappichelli, Torino 2001. 32 33

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zione” del corpo: i) come declinare la funzione garantista del diritto di fronte alle biotecnologiche; ii) che interpretazione dare all’art. 5 c.c.; iii) che tipo di rapporto debba intercorrere, oggi, su tali temi, fra morale e diritto. In merito al primo punto, tanto il diritto statuale quanto il magistero religioso, sebbene sulla base di modelli e concezioni diverse, convengono nella necessità di riconoscere nella “dignità umana” (art. 2 cost) l’argine da opporre ai pericoli insiti nei processi di frammentazione, manipolazione e riproduzione del corpo umano. Se le religioni lo fanno difendendo la dimensione spirituale e raccomandando, così scrive Rav Laras, 36 un impegno nella quotidianità della vita, verso un recupero del senso spirituale dell’esistenza, il diritto cerca di realizzare ciò richiamando piuttosto il principio generale di responsabilità, al fine di conservare unita e composta l’idea di persona. La giuridificazione, affermava Rodotà: «diviene così strumento di garanzia e fonte di responsabilità» 37. Essa impone l’individuazione di principi direttivi cui informare le bio-politiche. Esemplare al riguardo il Parere del Gruppo europeo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie (EGE) 38 dedicato agli aspetti etici dei dispositivi ICT impiantabili nel corpo umano. Mai come oggi, infatti, il corpo, là dove penetrato tecnologicamente dall’infinitamente piccolo, può subire una metamorfosi radicale, divenendo una “nanomachine”, un sofisticato sistema informativo in grado di produrre ininterrottamente dati analitici sulla sua condizione. La creazione, sottolineava Rodotà, «di questo nuovissimo ‘spazio interno’, dove le nanotecnologie possono produrre dati con un grado di “sensibilità” anche maggiore di quello dei sensibilissimi dati genetici, richiede ancora una volta un riferimento continuo ad una giuridicità fondata, in primo luogo, sui principi di dignità ed uguaglianza, proprio per evitare una riduzione della libertà della persona». 39 Per questa ragione, accanto ai principi fondamentali e tradizionali: dignità, non discriminazione, autonomia, inviolabilità del corpo, privacy, e altri principi ancora, concorrono a definire ormai i limiti degli interventi manipolativi. Quelli, intendo, di precauzione, necessità; proporzionalità; integrità e inviolabilità del corpo. Loro scopo, quello di tutelare i nessi tra la persona e le diverse articolazioni del suo corpo allontanando nuove forme di “scempio del corpo” che spesso nel corso della storia dell’Occidente hanno accompagnato la ritualità politica attribuendo allo smembramento del corpo un forte significato simbolico. In merito, poi, al secondo profilo, quello, per intendersi, relativo all’evoluzione interpretativa del diritto di disponibilità del proprio corpo ex art. 5 c.c., va sottolineato il graduale mutamento subito dal bene giuridico protetto dalla norma in esame. 40 Se un tempo quest’ultimo si riassumeva esclusivamente nel concetto di “integrità fisica”, attualmente a prevalere è il profilo concernente il diritto alla salute. Il cambio di orientamento non è di poco conto, in quanto alla luce dell’attuale interpretazione

  Cfr. G. Laras, Fisicità ed ebraismo, in Corpo. Filosofi lungo l’Oglio, cit., p. 99.   S. Rodotà, op.cit., p. 57. 38  European Commission – European Group on Ethics in Science and New Technologies, Ethical aspects of Ict implants in the human body, 2005. 39  S. Rodotà, Il corpo “giuridificato”, in Trattato di biodiritto, cit., pp. 57; Giampaolo Azzoni, L’arbitrarietà del corpo umano, in Corpo esibito, corpo violato, corpo venduto, corpo donato, a cura di F. D’Agostino, Giuffrè, Milano 2003, pp. 57-89. 40  Si legga per una visione generale del problema G. Alpa, Laicità e diritto privato, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale (Rivista telematica – aprile 2007), pp. 2-64. 36 37

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vanno considerati compatibili con la norma suddetta tutti gli atti di disposizione del proprio corpo che, anche se implicano una diminuzione permanente dell’integrità, risultano tuttavia funzionali al miglioramento complessivo della salute del disponente. La nozione di salute è infatti assai più ampia dello statico concetto d’integrità fisica e soprattutto, a differenza di quest’ultimo, viene espressamente tutelata a livello costituzionale consentendo conseguentemente una interpretazione più restrittiva dei limiti previsti dall’art. 5 c.c. finendo così per legittimare atti ritenuti favorevoli al benessere fisico, mentale e sociale dell’individuo, pur se produttivi di una menomazione permanente dell’integrità fisica. Ovviamente questa evoluzione interpretativa apre un altro fronte problematico: quello relativo alla definizione del concetto di “salute” che può riguardare, non solo i profili strettamente clinici, ma estendersi all’ambito estetico e sessuale fino a ricomprendere anche quello puramente edonistico. In dottrina si è da più parti sostenuto che se l’atto dispositivo del proprio corpo è del tutto sproporzionato o motivato da un controinteresse di scarso rilievo, gli interessi soggettivi del titolare cedono all’interesse dell’ordinamento che può arrivare a negare legittimamente la disponibilità del proprio corpo. Ma in presenza di una non macroscopica sproporzione fra interesse e controinteresse, il consenziente ha un certo margine di scelta ai fini dell’individuazione dell’interesse da sacrificare. Ovvio che questa impostazione sostituisce all’autoritarismo paternalistico dell’art. 5 c.c. un modello intriso di incertezza, dove il giudice diviene arbitro indiscusso, nel decidere, se debbano prevalere i valori dell’ordinamento o le scelte individuali. Infine, in merito al rapporto fra ordine morale-religioso e sistema giuridico, è evidente che il diritto, in sistemi ispirati ai principi di separatismo e laicità, parli un linguaggio diverso da quello della morale religiosa: esso, infatti, sopravvive e agisce solo se conserva una grammatica e una logica differente dagli altri linguaggi e dalle altre logiche. Il diritto statuale «perde identità se si con-fonde con gli altri linguaggi, con gli altri codici, con gli altri sistemi. Questo significa che le scelte ‘normative’ del diritto, sempre cognitivamente aperte, non potranno che investire sui propri codici; soprattutto, quando sono in gioco campi sensibili come il corpo, la vita, il bios». 41 Il diritto, per evitare con-fusioni, dovrà quindi consentire giuridicamente che la scelta morale di come disporre del proprio corpo sia sempre possibile, 42 ovvero dovrà creare le condizioni per consentire alle persone, intese come soggetti morali, di poter liberamente scegliere. Vietare, infatti, significherebbe precludere possibilità. Il linguaggio del diritto non è infatti il linguaggio della morale, 43 esso deve garantire il saving the changes, ossia salvare ogni possibilità, non tanto in nome di una astratta libertà, ma di un perseverare in esse uno. Non bisogna infatti dimenticare che compito del diritto, non è quello di escludere, ma piuttosto di salvare tutte le possibilità e di lasciare autonomia e libertà d’azione morale, ovviamente nel rispetto del limite dei diritti umani fondamentali, ricercando quel delicato bilanciamento fra inviolabilità e indisponibilità da una parte, e autodeterminazione dall’altra. 44

  Eligio Resta, L’identità nel corpo, Trattato di biodiritto, cit., p. 26.   Cfr. Beatrice Magni, I confini del corpo, in Trattato di biodiritto, cit., pp. 33 ss. 43  Cfr. Giuseppe Cricenti, I diritti sul corpo, Jovene, Napoli 2008. 44  Si legga Stephanie Henriette-Vauchez, Disposer de soi? Une analyse du discours juridique sur les droits de la personne sur son corps, L’Harmattan, Paris 2004, ed ancora il numero monografico della Rivista Democrazia e diritto, 1 (1996) sul tema del rapporto fra legge e corpo. 41 42

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Piero Stefani Il «diritto» di avere un figlio. Divagazioni a partire da alcune figure bibliche

1. Premessa Come evidenziato dal titolo, l’intervento non sarà né sistematico, né tanto meno di taglio giuridico. In questa luce, anche se l’espressione suona come una specie di ossimoro, il termine «divagazioni» va assunto in senso rigoroso. Se volessimo alzare il tono del discorso, dovremmo dire che il testo allude all’ambito dell’haggadàh e non già a quello della halakhàh. Cosa sia un discorso di stampo haggadico non è però facile a dirsi. A comprovarlo basta la più ripetuta delle definizioni; essa, facendo proprio un linguaggio negativo, si limita a dichiarare che l’haggadàh è tutto quello che non rientra nell’ambito della halakhàh. Ciò non significa che si possa parlare in modo svincolato da ogni regola. Nessun linguaggio lo consente, neppure quello haggadico; è così, oltre che per ovvie ragioni grammatico-sintattiche, anche per motivi ermeneutici; pure in questo campo vigono delle middot (regole). Il nostro sarà un contributo allusivamente haggadico. In termini più semplici, l’intervento adotterà un taglio di tipo narrativo. Nel titolo il termine «diritto» è posto tra virgolette. Parlando in senso generale non vi è nulla di improprio nel riferirsi a un «diritto biblico». Pur non essendo un termine interno alla Scrittura, l’ambito da esso definito esiste effettivamente. Parlare di diritti è però altra cosa dal riferirsi alla sfera del diritto. Nella Bibbia è assente non solo la terminologia, ma anche l’idea stessa di godere di determinati diritti. Non si scioglierebbe il nodo neppure se si ricorresse all’ambito del «dovere». Come indicato dal magistero di Yeshiyahu Leibowitz, l’unica dimensione presente tanto nel testo biblico quanto nelle sue successive derivazioni halachiche è quella eteronoma di precetto (mitzwàh). 1 Le nostre storie si collocano tutte in un ambito nel quale la messa in pratica dei precetti è labile o assente, ne consegue che la nostra impostazione sarà per forza di cose narrativa. Per sostenere questa opzione ci si potrebbe appellare anche a una caratteristica particolare della halakhàh ortodossa. Il comando «siate fecondi e moltiplicatevi» (Gn 1, 27) rientra di norma nel computo dei 613 precetti presenti nella Torah. Si veda, per esempio, il Libro dei precetti di Mosè Maimonide (il quale, per l’esattezza, la pone al 212° posto tra le mitzwot positive). 2 Tenendo conto anche dell’altro passo

1 Cfr. Jeshajahu Leibowitz, Ebraismo, popolo ebraico e stato d’Israele, Carucci-D.A.C., Roma 1980, pp. 21-57. 2  Mosè Maimonide, Il libro dei Precetti, Carucci-D.A.C., Roma 1980, p. 208.

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biblico secondo il quale «l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno un’unica carne sola» (Gn 2, 24), si conclude che l’esecuzione del precetto è di pertinenza maschile. In particolare la Mishnàh afferma che: «Un uomo non si asterrà dal dovere di essere fecondo e di moltiplicarsi a meno che non abbia già dei figli». 3 In breve, secondo un approccio halachico classico, l’iniziativa di sposarsi spetta all’uomo. Nelle storie bibliche di cui ci occuperemo vi è invece un predominante protagonismo femminile. Senza essere, come è ovvio, nelle condizioni di assurgere a una dimostrazione vera e propria, questo richiamo classico porta ulteriore acqua all’orientamento haggadico del presente contributo. 2. La voce dei sangui Nonostante l’egemonia riservata alla voce femminile, prenderemo le mosse dalla primigenia violenza intramaschile che vede come protagonisti Caino e Abele. Dopo l’uccisione del fratello minore da parte del maggiore, il Signore chiese a Caino dove fosse suo fratello, in risposta si sentì dire: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4, 9). Al che il Signore esclamò: «Cosa hai fatto? La voce dei sangui di tuo fratello (qol demè ahikha) grida a me dal suolo» (Gn 4, 10). Il tradizionale commento giudaico si chiede perché si faccia ricorso al plurale «sangui», insolito anche in ebraico. L’interrogativo non resta senza risposta. La ragione sta nel fatto che Abele (nome che in ebraico deriva da hevel, «soffio che svanisce») è stato ammazzato prima di aver messo al mondo una discendenza. Con la sua uccisione, oltre ad aver posto fine a una esistenza umana, si è stroncata anche la possibilità che Abele diventasse capostipite di vite future. 4 Caino ha quindi versato un sangue reale e molti sangui potenziali. La prospettiva a cui ora si è fatto cenno è però osservabile anche dall’altra parte, vale a dire da quella di colui che, pur non estinguendo alcuna vita, si astiene dall’atto del propagarla. Questa linea interpretativa è fatta propria sia dal Talmud sia dal Midrash: «Colui che si astiene dalla procreazione la Torah lo considera come se avesse versato sangue e diminuisse l’immagine di Dio». 5 L’orizzonte della formulazione resta maschile, si ripropone perciò la centralità del passo genesiaco: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due saranno una carne sola» (Gn 2, 24). L’unità della coppia è l’esito di un’iniziativa che parte da lui. Nella Bibbia le cose però non sempre si sono svolte in questo modo. In più occasioni la sete di avere una discendenza vede attivamente coinvolte anche donne. 3. «Lei è più giusta di me» Il protagonismo femminile nella Bibbia ha molte esemplificazioni. Non seguiremo un ordine cronologico. Il primo esempio infatti è quello che più bordeggia la sfera del precetto e del ruolo maschile collegato a un esplicito rifiuto di procreare. Si tratta della storia di Giuda e Tamàr, ma meglio sarebbe dire di Tamàr e Giuda (Gn   Il passo è ampiamente discusso nella Gemarà, cfr. b. Yevamot, 61b.  Cfr. m. Sanhedrin 4,5; Rashi a Gen 4,10 5 B. Yevamot 63b; Bereshit Rabbàh 34, 14. 3

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38). Da questo episodio deriva una parola nota anche a coloro che poco o nulla sanno della Bibbia, si tratta del termine «onanismo», il cui significato corrente travalica però quello presente nel testo biblico. La storia è una variante ante litteram della legge del levirato in base alla quale il fratello deve sposare la cognata restata vedova al fine di suscitare una prole al defunto (cfr. Dt 25, 5-10; Mt 22, 24). Qui non si tratta dunque di un utero impiegato per “conto terzi”, a esserlo è piuttosto il seme maschile: il cognato contribuisce a mettere al mondo un figlio che legalmente non sarà suo. Il racconto biblico afferma che Giuda figlio di Giacobbe diede in sposa Tamàr al proprio primogenito Er; senza spiegarne il motivo, la Genesi afferma che quest’ultimo divenne odioso agli occhi del Signore che lo fece morire. Tocca allora al secondogenito Onan sposare Tamàr, tuttavia egli: «ogni volta che si univa alla moglie del fratello disperdeva il seme per terra, per non dare una discendenza al fratello» (Gn 38, 9). Per questa ragione il Signore lo fece morire. Allora Giuda rispedì alla casa paterna Tamàr in attesa che il terzo figlio, Sela, avesse raggiunto una età confacente. Il terzogenito crebbe, tuttavia non fu fatto sposare alla donna. Tamàr allora si travestì da prostituta, ebbe un rapporto con Giuda che era andato in quella zona a motivo delle tosatura delle greggi; come garanzia del futuro pagamento Tamàr si fa dare dal suocero il sigillo, il cordone e il bastone. Quando giunse a Giuda la notizia che sua nuora era incinta «a causa delle sue prostituzioni», il suocero ordinò di condurla fuori e di bruciarla, ma Tamàr fece giungere all’interessato i segni di riconoscimento dicendo che il padre della creatura che portava in grembo era la persona a cui appartenevano quegli oggetti. Giuda li riconobbe e disse: «Lei è più giusta di me, io non l’ho data a mio figlio Sela» (Gn 38, 24-26). L’idea biblica di giustizia è varia ma è evidente che qui, attraverso un inganno, opera non già un diritto soggettivo della vedova, bensì l’imperativo di dare una discendenza al defunto. Ciò avviene però molto prima che ci sia un esplicito precetto in tal senso risalente al dono sinaitico della Torah. Quando si legge il trentottesimo capitolo della Genesi lasciandosi guidare dalla lettera, si prende atto della presenza di una strana sperequazione: in esso c’è un protagonismo del Signore nel far morire due maschi, mentre il concepimento appare frutto di un’iniziativa puramente femminile. In altri termini, il racconto comunica quanto l’etica non può dire, il primato dell’haggadàh non è scindibile da questo approccio. Il lettore del Nuovo Testamento trova una pista per rispondere al problema di che genere di giustizia si trattasse quella di cui è accreditata Tamàr. All’inizio del Vangelo di Matteo si trova una genealogia attraverso la quale passa la promessa messianica collegata alla discendenza di Giuda e di Davide. Essa non è lineare. A provarlo basterebbe la constatazione secondo la quale l’asse generazionale termina in Giuseppe presentato come sposo di Maria «dalla quale è nato Gesù» (Mt 1, 16): un albero genealogico maschile sfocia in una genitorialità femminile. Lo sposo scopre che Maria è incinta non per opera sua. Allora Giuseppe «poiché era uomo giusto» non volle accusare pubblicamente la propria moglie decidendo così di ripudiarla in segreto (Mt 1, 19). Che senso di giustizia vi è mai in ciò? Una possibile risposta sta nel rifiuto di Giuseppe di scambiare quanto appare per quel che è. Quando non sa decifrare un avvenimento, la persona giusta, in luogo di condannare, sospende il giudizio: «non giudicate per non esser giudicati» (Mt 7, 1). All’essere umano non è dato fare di più. La genealogia posta all’inizio del Vangelo di Matteo (1, 1-17) riguarda «Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo». In essa prima di quello di Maria compaiono i nomi di quattro donne: Tamàr (Gn 38), Rachab (Gs 2), Rut (Rt 3-4) e la moglie di Uria, vale a dire Betsabea (2 Sam 11, 1-12,24). Tutte le loro maternità furono contraddistinte da tratti “irregolari”. Tuttavia, nonostante le apparenze, anche quelle

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nascite furono conformi alla giustizia di Dio; esse anticipano, a loro modo, quanto sarebbe avvenuto in Maria e interagiscono con l’anomalia di una genealogia che termina in Giuseppe che pur non è presentato come padre di Gesù. Tra i quattro riferimenti il più pertinente al giusto Giuseppe è quello relativo a Tamàr e a Giuda: «Lei è più giusta di me» (Gn 38, 26). Sotto la maschera di un rapporto sessuale con una prostituta si annida un’opera di giustizia. Giuda aveva giudicato secondo le apparenze, perciò voleva condannare la nuora al rogo; non fece altrettanto il giusto suo discendente Giuseppe il quale, non sapendo capire, si astenne dal giudicare: in questo rifiuto si annida la sua umana giustizia disposta ad accogliere le tortuose e imprevedibili vie di Dio. 4. Le due figlie di Lot e la loro progenie Mentre la catastrofe si abbatte su Sodoma, Lot scappa con una parte della sua famiglia. Ai fuggiaschi è proibito volgersi indietro per vedere la punizione che si abbatte dal cielo. La moglie di Lot viola il comando ed è trasformata in una statua di sale (Gn 19, 25-26). Lot rimane solo con le sue figlie. La famiglia non avrà futuro, non ci sarà alcun nipote. La Bibbia chiama in causa questo gruppo familiare senza futuro per spiegare l’origine di due specifici popoli denigrati in Israele: i Moabiti e gli Ammoniti. Ci troviamo quindi di fronte a una storia eziologica. Le anonime figlie di Lot (la mancanza del nome vorrà pur dire qualcosa?) non si rassegnano al fatto che il loro padre resti senza discendenza; d’altra parte i loro promessi sposi si erano rifiutati di allontanarsi dalla città e questo rifiuto li condusse alla morte. Le due figlie sanno che la vita dentro il loro utero poteva germinare soltanto se avesse accolto un seme maschile. Di uomini non resta che il padre. Lo ubriacano, lo eccitano a sua insaputa e rimangono incinte di due figli rispetto ai quali Lot è a un tempo padre e nonno. Così viene descritta l’origine di Moav (etimo: «dal padre») e di Ammon (alla lettera Ben-Ammi «figlio del mio popolo»). Il racconto da eziologico diviene etimologico. Gli scampati alla distruzione, per avere posterità, osano l’inosabile. Per giustificare l’azione da lei progettata, la sorella maggiore dice alla minore (in base a una traduzione letterale): «Nostro padre è vecchio e non c’è uomo sulla terra per venire sopra di noi secondo la via di tutta la terra» (Gn 19, 31). Questa parole descrivono una specie di «stato di eccezione»: per conseguire lo scopo comune di mettere al mondo una progenie («la via di tutta la terra») occorre «giacere» con il padre, cioè praticare quello che di norma è considerato un tabù. Fino a oggi non mancano, è vero, casi in cui vi sono padri che violentano le proprie figlie, tuttavia resta ancora un fatto inusitato che ci siano le figlie capaci di ingannare i loro padri al fine di restare incinte. L’espediente praticato dalle figlie di Lot funziona. L’inseminazione “natural-artificiale” compiuta dal padre produce frutto. In un contesto leggendario si compie quanto in situazioni a noi prossime è affrontato e risolto in modo tecnico. È tipico della Bibbia ma anche della tradizione giudaica affermare che è solo il Signore ad avere le chiavi del grembo (cfr. per es. 1 Sam 1, 6). Il caso delle figlie di Lot è invece completamente “laico”, Dio non interviene in alcun modo rispetto al concepimento. Basta la «via di tutta la terra»: vi è un seme maschile che feconda un ovulo femminile. «L’Ammonita e il Moabita non entrerà nella comunità (qahal) del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore. Non vi entreranno mai, perché non vi vennero incontro con il pane e con

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l’acqua, nel vostro cammino quando uscivate dall’Egitto, e perché contro di te hanno pagato Balaam» (Dt 23, 4-5). Il libro del Deuteronomio propone una esclusione assoluta. Moav e Ammon sono l’«altro» con cui non bisogna aver rapporti. Tuttavia occorre anche sottolineare che il motivo di questo drastico rifiuto non chiama in causa alcuna storia incestuosa, la ragione è individuata nel comportamento assunto da quelle popolazioni quando gli ebrei, che godevano di una libertà precaria, stavano uscendo dall’Egitto. Tuttavia la repulsa globale di Moav va incontro a smentite: la protagonista principale del libro più femminile di tutta la Bibbia, quello di Rut, è una Moabita la quale, lungi dall’essere una estranea, sarà destinata a diventare, grazie a un matrimonio misto, antenata diretta del re Davide e quindi del Messia. Anche il libro di Rut è contraddistinto da una prassi che richiama abbastanza da vicino il levirato. In virtù di questo passaggio viene celebrato il matrimonio tra la vedova moabita e il ricco Boaz (si tratta di un brano che rende esplicita la presenza anche di una questione patrimoniale, cfr. Rt 4, 5). Per giustificare la contraddizione tra esclusione e inclusione, la tradizione giudaica si limitò ad appellarsi a un particolare lessicale che le consentì di sostenere che la lettera del Deuteronomio parla di Moabita al maschile e non già al femminile. L’escamotage, pur non essendo molto convincente, porta in qualche modo acqua al mulino all’idea in base alla quale i varchi si aprano soprattutto passando attraverso la componente femminile. Quando Boaz dichiara pubblicamente la propria intenzione di prendere in sposa Rut, gli anziani di Betlemme formulano un solenne augurio: Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che edificarono la casa d’Israele. Procurati ricchezza di Efrata, fatti un nome in Betlemme! La tua casa sia come la casa di Peres, che Tamàr partorì a Giuda, grazie alla posterità che il Signore ti darà da questa giovane! (Rt 4, 11-12).

Gli anziani propongono una specie di ricapitolazione della storia d’Israele privilegiando nomi femminili. Non si inizia con Giacobbe, ma con Rachele e Lia che edificarono la casa d’Israele (il nome ricevuto da Giacobbe, cf. Gn 32, 29). La nostra ultima sezione si presenterà perciò come una specie di ritorno all’origine. 5. Lia, Rachele e le altre due Nella Bibbia c’è un protagonismo femminile; manca la dimensione della tecnica, c’è però quella dell’espediente. Le esemplificazioni più evidenti sono nelle storie di Giacobbe e nella conseguente nascita delle tribù d’Israele. Giacobbe si presenta povero e senza doni a casa dello zio Làbano, ma quando scorge la cugina Rachele scocca la scintilla: scorrono lacrime, ci si scambia baci. Tutto avviene in modo diretto, ma perché l’amore a prima vista assuma la veste del matrimonio occorre passare per il padre. Quest’ultimo accoglie con affetto il nipote, tuttavia le regole rivendicano la loro parte. Non avendo portato nulla con sé, Giacobbe dovrà conquistarsi la moglie lavorando per sette anni al servizio del futuro suoce-

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ro: «così servì sette anni per Rachele: e furono ai suoi occhi come brevi giorni, tanto l’amava» (Gen 29, 20). Guardava a lei e non allo struggimento che ci assale quando l’oggetto del nostro desiderio ci appare lontano; la sua non fu un’attesa ripiegata su se stessa, lo sguardo e il cuore erano tutti diretti verso la persona amata, per questo l’attesa apparve breve. 6 Rachele condivideva con Giacobbe la peculiarità di essere sorella minore. Prima di lei era nata Lia. Nel cuore del cugino non c’era posto per la maggiore dagli occhi smorti. Venne il giorno delle nozze. Ci fu un banchetto e giunse il momento in cui il matrimonio rato doveva essere consumato. Tutto avvenne nel buio di una tenda. Giunti la luce del mattino Giacobbe scoprì che accanto a lui c’era Lia. Quella notte la logica della primogenitura (estorta da Giacobbe ai danni di Esaù, cfr. Gn 25, 29-34) aveva celebrato la propria rivincita. Làbano infatti giustifica il suo inganno dicendo che, secondo l’usanza, non si dà mai in sposa la minore prima della maggiore. Giacobbe però non si disperi, gli darà in moglie anche l’amata Rachele, a patto che, dopo, resti al suo servizio per altri sette anni. L’ingannatore a cui la benedizione indicava ogni bene si trova ora ingannato e costretto a servire lo zio per ben quattordici anni. Giacobbe si trova ad avere per moglie entrambe le sorelle. Làbano aveva dato alle figlie anche due schiave: Zilpa a Lia e Bila a Rachele. Inizia un gioco incrociato a quattro. In questo caso per il narratore il frutto del ventre era considerato dono diretto di Dio; in quella cultura la natura era dimensione ignota. Quasi fosse una forma di compensazione, il Signore rende feconda la trascurata Lia; Rachele invece era sterile. La maggiore partorisce in rapida successione quattro figli. L’umiliata Rachele, è costretta a ricorrere all’espediente che fu già di Sara (cfr. Gn 16,1-4); invita quindi il marito a congiungersi con la propria schiava; Bila mette al mondo due figli. Dopo quattro nascite il ventre di Lia si era chiuso; anche lei è quindi obbligata a servirsi della surroga della sua schiava Zilpa. Nascono altri due figli. Il primogenito di Lia, Ruben, è ormai grandicello e un giorno riporta alla madre dalla campagna della mandragore, pianta ritenuta afrodisiaca e che in ebraico ha la stessa radice semantica della parola «amore» intesa nel senso erotico del termine. Superfluo aggiungere che si tratta di una pagina biblica ben nota a Machiavelli. Sorge un contenzioso tra le due sorelle per il possesso dei fiori. L’esito della lite è imprevedibile: entrambi i ventri divengono fecondi; a Lia nascono altri due figli e una figlia, Dina; infine anche Rachele dà alla luce un figlio, Giuseppe (nome che ha in se stessa l’idea di «aggiungere» cfr. Gn 29, 31-30, 24). In questi passi si intrecciano in un nodo difficile da sbrogliare, l’espediente, la volontà di Dio e l’attivismo femminile. Più tardi, Rachele, che un tempo rivolgendosi al marito aveva esclamato: «Dammi un figlio altrimenti sono morta» (Gn 30, 1), avrebbe avuto un ultimo drammatico parto che le costò la vita. Grazie ad esso nacque Beniamino («figlio della destra»), secondo il nome impostogli dal padre; la madre invece l’aveva chiamato Benonì («figlio del mio dolore») (Gn 35, 16-18). In tutti gli altri casi i nomi (giustificati da significati legati a intraducibili assonanze ebraiche) furono imposti ai figli dalle madri sia libere sia schiave. Questi dodici fratelli rappresentano i capostipiti delle tribù di Israele: Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Neftali, Gad, Aser, Issacar, Zabulon, Giuseppe e, per ultimo, Beniamino.

6 Cfr. Martin Buber, Storie e leggende chassidiche, Arnoldo Mondadori, Milano 2008, pp. 956 ss.

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6. Conclusione Le storie e i racconti della Bibbia, vale a dire il mondo dell’haggadàh è un approccio che (con tutti i rilevanti mutamenti del caso) è nelle condizioni di comunicarci ancora qualcosa. Il protagonismo femminile biblico è un segno non tra i minori di questa possibilità. Tuttavia il riferimento vale assai più come metodo che come contenuto legato a prassi e società ormai troppo lontane dalle nostre. Saper raccontare storie e dare spazio all’iniziativa femminile oggi costituisce in ogni caso una priorità. Tuttavia, perché questa possibilità si realizzi, ci vuole un criterio ben diverso da quello imperante nei talk show, persino nel caso in cui questi ultimi siano “veri” e non già palesemente costruiti. Ai nostri giorni il contenzioso sulle regole è del tutto aperto. La bioetica è diventata non solo biopolitica ma anche biolegislazione. Gli Stati contano ancora. Per travalicare i confini geolegislativi del legale e dell’illegale basta prendere un adeguato mezzo di trasporto. Dal canto loro i confini tra il lecito e l’illecito sono non geografici ma etici. Alcuni li ritengono un discrimine assoluto, per altri sono invece linee di demarcazione legate a scelte soggettive. In questi casi le divisioni pervadono le società, le comunità religiose e civili, le famiglie e così via. Dalla reale o presunta violazione di regole più o meno condivise scaturiscono comunque vicende reali. Anche coloro che, in linea di principio, condannano fermamente determinate scelte, si trovano a confrontarsi con esiti che, sul fronte sia dell’inizio sia della fine della vita, incidono in modo consistente o addirittura costitutivo sull’esistenza delle persone. Per trovare un filo di senso occorre narrare quei fatti e farlo nel significato alto del termine. Non sempre ci si riesce. Nelle società liquide anche il narrare scorre senza tregua. Un dramma autentico della società contemporanea è che stiamo perdendo l’haggadàh della comunicazione autentica. La capacità narrativa e interpretativa applicata a vite reali si fa, di giorno in giorno, più asfittica.

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Note biografiche degli autori

Rinaldo Bertolino, Docente di Diritto ecclesiastico presso la Facoltà di Giurisprudenza di Padova, negli anni 1967-1978. Docente di Diritto ecclesiastico e canonico presso la Facoltà di Giurisprudenza di Torino dal 1978 al 2009. Preside della Facoltà di Giurisprudenza di Torino nel triennio 1988-1991. Rettore dell’Università di Torino negli anni 1996-2004. Membro del Comitato di Presidenza, responsabile per le Relazioni internazionali della conferenza dei Rettori e Segretario Generale della Fondazione CRUI (2000-2004). Rappresentante Generale della Conferenza dei Rettori delle Università italiane a Bruxelles (2004-2006). Membro eletto, in rappresentanza dell’Europa, nel Board della IAU (International Association of Universities) nel quadriennio 2004-2008. Ora è Professore Emerito di Diritto Canonico presso l’Università di Torino. È autore di numerose pubblicazioni, tra cui L’obiezione di coscienza negli ordinamenti giuridici contemporanei, Torino, 1967, L’obiezione di coscienza moderna. Per una fondazione costituzionale del diritto di obiezione, Torino, 1994, Il diritto ecclesiale tra coscienza dell’uomo e istituzione, Torino, 1989, Matrimonio canonico e bonum coniugum, Torino, 1995. È Direttore della Collana di Studi di Diritto Ecclesiastico e Canonico, edita presso la Giappichelli di Torino. Gianfranco Di Segni ha studiato all’Accademia talmudica di Strasburgo e al Collegio Rabbinico Italiano, dove ha conseguito il titolo rabbinico e di cui è attualmente coordinatore e docente di Talmud. Si è laureato in Biologia molecolare all’Università Ebraica di Gerusalemme e ha ottenuto il Dottorato di ricerca in Genetica medica presso l’Università La Sapienza di Roma. È stato visiting scientist per due anni alla University of Washington, Seattle, USA. È primo ricercatore presso l’Istituto di Biologia Cellulare del CNR, Roma. Ha pubblicato numerosi articoli su argomenti scientifici ed ebraici in libri e riviste specialistiche e divulgative. È coordinatore della nuova edizione italiana del Talmud di cui ha curato il primo trattato Berakhòt. È direttore della storica rivista “La Rassegna mensile di Israel” ed è membro del Comitato Nazionale di Bioetica Ebraica e del Comitato Etico dell’Ospedale Israelitico di Roma. Riccardo Di Segni, nato a Roma nel 1949, è il Rabbino capo di Roma dal 2001. Ha conseguito il titolo rabbinico al Collegio Rabbinico Italiano, del quale è direttore dal 1999 e dove insegna dal 1974. Laureato in Medicina e Chirurgia, Specialista in Radiologia Diagnostica, Fellow in Radiologia vascolare dell’University of Minnesota, è vice presidente della Conferenza Rabbinica Europea, vice presidente del Comitato

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Note biografiche degli autori

Nazionale per la Bioetica e presidente del Progetto di Traduzione del Talmud Babilonese per cui ha curato le edizioni dei trattati Rosh haShanà e Qiddushìn. Al suo attivo numerosissime pubblicazioni in riviste scientifiche e libri di pensiero e cultura ebraica. Silvio Ferrari, Professore di Diritto e Religione, Università di Milano. Visiting professor all’Università di Berkeley, Leuven, Princeton, all’Institute for Advanced Legal Studies di Londra e all’École Pratique des Hautes Études a Parigi. Insegna Diritto comparato delle Religioni alla Facoltà di Teologia di Lugano. Le sue pubblicazioni più recenti sono: Handbook of Religious Laws (Routledge, 2019), Religious Rules and Legal Pluralism (Springer, 2016), Handbook of Law and Religion (Routledge, 2015), Between Cultural Diversity and Common Heritage (Ashgate 2014). I suoi principali campi di interesse sono Diritto e religione in Europa, diritto comparato delle religioni (in particolare diritto ebraico, canonico ed islamico), diritti dell’uomo e religione. Francesco Lucrezi è professore ordinario di Diritto romano e Diritti dell’antico Oriente mediterraneo presso l’Università di Salerno, presso la quale dirige la rivista del Dipartimento di Scienze Giuridiche Iura & Legal Systems ed è membro del Senato Accademico. Insegna anche presso l’Università “Suor Orsola Benincasa” e l’Accademia di Belle Arti di Napoli. Precedentemente, ha insegnato presso le Università di Reggio Calabria, Chieti “Gabriele D’Annunzio”, Teramo, “l’Orientale” di Napoli, Campania “Luigi Vanvitelli” ed è stato Visiting Professor presso la Hebrew University of Jerusalem e Affiliated Professor presso la University of Haifa. Ha scritto numerosi libri e contributi in tema di diritti antichi, comparazione storico-giuridica, ebraismo, diritto positivo. Segnatamente riguardo alle questioni di bioetica, ha trattato, in diverse pubblicazioni, della posizione dei “soggetti deboli” (nascituri, stranieri, servi, donne, animali non umani) e ha curato le due seguenti sillogi: Diritto e vita. Bioetica e deontologia professionale (in collaborazione con F. Mancuso), Collana di Ateneo dell’Università di Salerno, Soveria Mannelli 2010, e F. P. Casavola, “De hominis dignitate”. Scritti di bioetica (in collaborazione. con L. Chieffi), Milano 2019. È membro del Consiglio Direttivo del CIRB (Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica), Avvocato e Giornalista pubblicista. Enrica Martinelli, Professoressa Aggregata di Diritto e Religione presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Ferrara, Membro del Consiglio Scientifico del Centro Interuniversitario Diritto, Religioni e Culture – Forum Internazionale Democrazia&Religioni (FIDR) e Membro della redazione della Rivista: Quaderni di diritto e politica ecclesiastica – Il Mulino. Referente scientifico per l’Università degli Studi di Ferrara del Progetto Internazionale: Prevenzione e interazione nello spazio trans-mediterraneo (PriMED) finanziato dal MIUR. È stata Membro italiano del Progetto approvato e finanziato dall’Unione Europea “European Studies on the interaction Religion and State” EuReSis NET. Nel 2013, 2015 e 2018 ha ottenuto incarichi di insegnamento presso la Faculty of Theology, Aristotle University of Thessaloniki. I suoi principali ambiti di ricerca riguardano il diritto comparato delle religioni, i temi della bioetica nel diritto ebraico, le problematiche matrimoniali nel diritto canonico ortodosso, i profili di nullità del vincolo matrimoniale nel diritto della chiesa latina.

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Roberto Mazzola, Professore ordinario di Diritto ecclesiastico e canonico presso il Dipartimento di Giurisprudenza, Scienze Politiche Economiche e Sociali (DIGSPES) dell’Università del Piemonte Orientale, Direttore del Centro Interuniversitario Diritto, Religioni e Culture – Forum Internazionale Democrazia & Religioni (FIDR), Membro del Comitato scientifico dell’European Consortium Churches & States e Membro della redazione della Rivista: Quaderni di diritto e politica ecclesiastica – il Mulino, nonché Responsabile scientifico del Progetto Internazionale: Prevenzione e interazione nello spazio trans-mediterraneo (PriMED) finanziato dal MIUR. Si è occupato di temi legati alla sicurezza e il fenomeno religioso e delle policies concernenti il fenomeno di pluralismo religioso in contesto normativo europeo. Ha fatto parte del board scientifico presso la Fondazione Astrid di Roma per l’elaborazione di una nuova proposta di legge in materia di libertà di religione e di coscienza. È membro, inoltre, del Consiglio scientifico del PhD europeo Gratianus presso l’Università di Parigi Sud dove ha ricoperto il ruolo di visiting professor, incarico svolto anche presso la Law School dell’Università di Vienna nel 2018. Piero Stefani insegna «Bibbia e cultura» presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e svolge il modulo di «Diritto ebraico e israeliano» presso l’Università Statale di Milano. È presidente del «Segretariato Attività Ecumeniche (SAE)», è coordinatore scientifico di Biblia, Associazione laica di cultura biblica e redattore della rivista «Il Regno» di Bologna. Fra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano, Gesù, il Mulino, Bologna 2012; traduzione e cura di Qohelet, Garzanti, Milano 2014; L’esodo della Parola. La Bibbia nella cultura dell’Occidente, EDB, Bologna 2014; «Gli uni e gli altri». La Chiesa, Israele e le genti. Una ricerca teologica, EDB, Bologna 2017; Il grande racconto della Bibbia, il Mulino, Bologna 2017. Avraham Steinberg è nato a Hoff, in Germania. Ha studiato presso l’Accademia Rabbinica della Yeshivat Harav Kook di Gerusalemme e successivamente ha studiato medicina e completato il suo tirocinio presso la Hadassa Medical School della Hebrew University di Gerusalemme. Il Professor Steinberg ha prestato servizio come ufficiale medico nell’aviazione israeliana. È stato medico interno nel reparto di Pediatria dell’ospedale Shaare Zedek e nel dipartimento di Neurologia dell’Albert Einstein College of Medicine e del Montefiore Hospital Medical Centre del Bronx, a New York. Ex-direttore dello Schlesinger Institute, il Professor Steinberg tiene lezioni presso numerose istituzioni accademiche e altri forum e lavora come medico nel dipartimento di Neurologia pediatrica dello Shaare Zedek Medical Centre. È inoltre Direttore del Centre for Medical Ethics, presso la Hadassa Medical School della Hebrew University, a Gerusalemme. Autore di numerose pubblicazioni sull’etica medica ebraica, sull’etica medica in generale e sulla storia della medicina e della neurologia pediatrica, Avraham Steinberg ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali l’Israel Prize nel 1999 per la sua Encyclopaedia of Jewish Medical Ethics.

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IN QUESTA COLLANA Ebrei a Ferrara, Ebrei di Ferrara. Aspetti culturali, economici e sociali della presenza ebraica a Ferrara, a cura di Laura Graziani Secchieri Conversos, marrani e nuove comunità ebraiche in età moderna. Atti del Convegno internazionale di studi organizzato dal Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, a cura di Myriam Silvera Vicino al focolare e oltre. Spazi pubblici e privati, fisici e virtuali della donna ebrea in Italia (secc. XV-XX), a cura di Laura Graziani Secchieri Gli ebrei nella storia del Friuli Venezia Giulia. Una vicenda di lunga durata, a cura di Miriam Davide e Pietro Ioly Zorattini I paradigmi della mobilità e delle relazioni: gli ebrei in Italia, a cura di Bice Migliau Nuovi studi su Isacco Lampronti storia, poesia, scienza e halakah, a cura di Mauro Perani L’eredità di Salomone. La magia ebraica in Italia e nel Mediterraneo, a cura di Emma Abate

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2019 da ABC Tipografia, Calenzano (FI)

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