Diritto e società. Elementi di sociologia del diritto
 9788858118399

Table of contents :
Presentazione
Capitolo primo. La sociologia del diritto
1. Definizione e oggetto
2. Visioni sociologiche generali
3. Concetti e tematiche fondamentali
4. Campi d’indagine e sviluppo della sociologia del diritto
5. Il metodo
Note
Capitolo secondo. Il diritto
1. Premesse
2. Le norme come concetto sociologico
3. Le norme giuridiche
4. Uno o più sistemi giuridici?
5. Ordine ed entropia dei sistemi giuridici
6. Funzioni del sistema giuridico
Note
Capitolo terzo. Diritto e azione
1. Concetti generali
2. L’azione giuridica generica
3. L’azione giuridica specifica
4. Identità ed «etichette»
5. Le sanzioni giuridiche
6. Effetti dell’azione giuridica
Note
Capitolo quarto. Diritto e istituzioni
1. Terminologia
2. Il governo
3. I diritti fondamentali
4. La giurisdizione
5. La famiglia
6. La formazione della ricchezza
7. La conservazione e l’impiego della ricchezza
Note
Capitolo quinto. Diritto e ruoli
1. Ruoli, status e gruppi
2. Giuristi e operatori giuridici
3. Legislatori
4. Avvocati
5. Giuristi accademici
6. Giudici
7. Conflitti fra ruoli
Note
Capitolo sesto. Diritto e opinioni
1. Un rapporto biunivoco
2. Dal diritto alle opinioni
3. Dalle opinioni al diritto
4. Opinioni e obbedienza alla legge
5. Dissenso parziale e globale
Note
Capitolo settimo. Ipotesi
Riferimenti bibliografici

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Manuali Laterza

Vincenzo Ferrari

Diritto e società Elementi di sociologia del diritto

Editori Laterza

© 2004, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: luglio 2015 www.laterza.it

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858118399 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Sommario

Presentazione Capitolo primo. La sociologia del diritto 1. Definizione e oggetto 2. Visioni sociologiche generali 3. Concetti e tematiche fondamentali 4. Campi d’indagine e sviluppo della sociologia del diritto 5. Il metodo Note

Capitolo secondo. Il diritto 1. Premesse 2. Le norme come concetto sociologico 3. Le norme giuridiche 4. Uno o più sistemi giuridici? 5. Ordine ed entropia dei sistemi giuridici 6. Funzioni del sistema giuridico Note

Capitolo terzo. Diritto e azione 1. Concetti generali 2. L’azione giuridica generica 3. L’azione giuridica specifica 4. Identità ed «etichette» 5. Le sanzioni giuridiche 6. Effetti dell’azione giuridica Note

Capitolo quarto. Diritto e istituzioni 1. Terminologia 2. Il governo 3. I diritti fondamentali 4. La giurisdizione 5. La famiglia 6. La formazione della ricchezza

7. La conservazione e l’impiego della ricchezza Note

Capitolo quinto. Diritto e ruoli 1. Ruoli, status e gruppi 2. Giuristi e operatori giuridici 3. Legislatori 4. Avvocati 5. Giuristi accademici 6. Giudici 7. Conflitti fra ruoli Note

Capitolo sesto. Diritto e opinioni 1. Un rapporto biunivoco 2. Dal diritto alle opinioni 3. Dalle opinioni al diritto 4. Opinioni e obbedienza alla legge 5. Dissenso parziale e globale Note

Capitolo settimo. Ipotesi Riferimenti bibliografici

Presentazione

Questo volume si propone di offrire una sintetica introduzione alla sociologia del diritto, che possa servire soprattutto a coloro che si accingono ad affrontare per la prima volta questa disciplina. La riforma universitaria basata sui crediti e sulla distinzione fra lauree brevi e lauree specialistiche ne ha offerto lo spunto e l’occasione, per invito della stessa Casa editrice che ha suggerito di scriverlo. Così esso rispetta alcuni limiti nelle dimensioni e nella scelta degli argomenti. Le prime sono state contenute il più possibile, pensando all’uso che potranno farne studenti invitati a leggere anche altri scritti nella stessa materia e soprattutto a preparare altri esami, spesso molto più corposi. I secondi sono stati selezionati e ordinati a partire da una definizione della disciplina, che è stata proposta nel primo capitolo e ripresa punto per punto in quelli successivi. Con qualche aggiunta, la trattazione si è limitata ai temi principali, quelli che nessuna sintesi di sociologia del diritto potrebbe tralasciare. Su ciascun tema, l’intento è stato quello di raccordare l’analisi degli istituti giuridici con concetti sociologici essenziali. Naturalmente, come non sono stati trattati alcuni aspetti non secondari della sociologia del diritto, così non tutti i concetti sociologici più correnti sono stati richiamati e applicati. Tuttavia si confida che, argomento per argomento, il lettore trarrà conferma di quanto detto all’inizio del primo capitolo, che la sociologia del diritto è una branca specialistica della sociologia e si distingue dalla scienza giuridica per oggetto, metodo e finalità, anche se – questo punto va sempre ribadito – essa non può essere affrontata approfonditamente senza una conoscenza adeguata non solo delle istituzioni giuridiche, ma anche della cultura giuridica e del metodo con cui i giuristi svolgono il loro compito e costruiscono la loro scienza. Se è vero infatti che fare della sociologia del diritto significa porsi, come si suol dire, dall’esterno del sistema giuridico, è anche vero che è meglio assumere questa prospettiva dopo esserne passati all’interno, e non fuggevolmente. Coerentemente con la sua finalità, il lavoro si mantiene sempre su un livello istituzionale nel senso accademico della parola, limitato cioè a quegli aspetti

essenziali, introduttivi, che formano la base di un sistema di conoscenze scientifiche. Non è stato però concepito come un mero riassunto di altri e più vasti lavori, in particolare dei Lineamenti di sociologia del diritto, apparsi nel 1997 con un primo volume sottointitolato Azione giuridica e sistema normativo, sempre per i tipi di Laterza. Ovviamente molti argomenti compresi in quell’opera sono stati qui ripresi. Ma il modo con cui sono stati affrontati è stato diverso, soprattutto più semplice e discorsivo. È parso infatti che questa fosse la scelta migliore non solo per presentare i concetti a un pubblico non iniziato, ma anche, e non sembri strano, per aprire la via a riflessioni critiche su di essi e per discutere fra cultori della disciplina. Su quasi tutti gli argomenti infatti l’intento è stato quello di fissare dei punti fermi sulla base di conoscenze già acquisite e su questi ragionare sul presente e, quando possibile, anche sul futuro. Il tema del rapporto fra mutamento giuridico e mutamento sociale, che di solito costituisce una parte a sé stante dei manuali introduttivi di sociologia del diritto, è stato dunque affrontato sui singoli punti, giacché ogni istituto giuridico – e ogni fenomeno sociale con esso correlato – va osservato nella sua statica e nella sua dinamica, in fondo distinguibili solo per comodità. Nella società tutto scorre e il diritto stesso, in linguaggio musicale, è un perpetuum mobile, anche se è difficile dire se scorra in una sola direzione, verso un fine, o una fine, oppure segua una ciclicità, magari per periodi incomparabilmente più lunghi rispetto a quelli cui siamo avvezzi dalla nostra concezione della storia. L’economia del lavoro ha imposto, oltre che di trascurare molti temi, di non offrire soluzioni. I problemi posti dalle grandi trasformazioni degli ultimi decenni sono stati soltanto accennati. Come influiranno sul diritto, e ne saranno influenzate, le tecniche di intervento sul genoma, l’incontrastabilità delle comunicazioni che permettono interferenze nella sfera più intima della riservatezza, la de-spazializzazione e la de-temporalizzazione che la rivoluzione informatica ha portato con sé nei rapporti economici e sociali? Come si ricostruiranno a livello internazionale meccanismi di formazione del consenso, quindi delle leggi, che sostituiscano o integrino i meccanismi statuali logorati dalla globalizzazione? Sono quesiti che il libro a volte pone, ma non aspira a risolvere, e che d’altronde ancor oggi attendono risposte adeguate, non solo dagli scienziati sociali. E sono anche, in fondo, quesiti che non solo investono teorie di ampio raggio – come direbbe Robert K. Merton – per cui sarebbe arduo trovare risposte che abbiano il conforto di rilevazioni empiriche, ma per la loro generalità consigliano molta prudenza e inducono a

sottolineare ancora una volta che ogni risposta è sempre provvisoria e ipotetica, non solo nelle scienze sociali: l’insegnamento di Renato Treves è rimasto, sotto questo profilo, indimenticabile. Così concepito dunque il libro, pur proponendosi di fissare delle basi, intende soprattutto stimolare degli interessi e delle curiosità, appagabili con l’ausilio di altre letture storiche e teoriche oltre che, se possibile, con l’esperienza della ricerca sul terreno. Non era qui possibile né ripercorrere lo sviluppo della sociologia del diritto a partire dalle sue origini, né discutere nei dettagli, criticamente, gli apporti teorici di qualche importanza, né infine abbondare con i riferimenti a dati empirici. Ogni scelta di questo genere avrebbe appesantito e squilibrato il lavoro. Per questo anche la bibliografia citata, pur abbastanza ricca, si è tendenzialmente concentrata sui trattati o sulle monografie, piuttosto che sugli articoli di riviste, e sulle opere italiane piuttosto che su quelle straniere, cercando solo di non trascurare, soprattutto fra queste ultime, quei lavori che hanno lasciato tracce permanenti. Molte altre opere, pur importanti, sono state fatalmente trascurate e saranno semmai scoperte dal lettore in una successiva fase di studi. Anche l’apparato di note è stato ridotto al minimo, benché non completamente eliminato. Le note sono state usate solo per alcune precisazioni che fornivano qualche elemento non trascurabile, ma che, inserite nel testo, avrebbero reso meno scorrevole la lettura. Poche come sono, è sperabile che neppure gli studenti le ignorino, come fanno consuetamente, e non senza qualche ragione. Un cenno merita anche il titolo dell’opera, Diritto e società. A questa formula, come noto, è legata molta parte della storia e dello sviluppo della sociologia del diritto. Le espressioni Law and Society, Derecho y Sociedad e Droit et Société, benché semanticamente più vaste di «sociologia del diritto», designano comunemente la nostra disciplina, rispettivamente nelle culture anglofone, ispanofone e francofone. Dunque la scelta non avrebbe bisogno di essere motivata, se non vi fosse un problema teorico, sollevato dalla teoria sociologica sistemica, la quale ha segnalato da tempo che l’abbinamento di queste due parole è impreciso. Secondo questa visione infatti il diritto non si contrappone alla società, né vi si identifica, ma piuttosto ne è una parte, in quanto sottosistema del sistema sociale complessivo, come suggerisce il titolo di un noto libro di Niklas Luhmann, Das Recht der Gesellschaft (1993). Bisogna quindi avvertire che, scegliendo come titolo Diritto e società, non si è voluto aderire all’una o all’altra posizione teorica, ma solo rendere omaggio a una tradizione linguistica che, fra l’altro, un folto gruppo di sociologi del diritto

italiani ha recentemente riconfermato, fondando nel 2002 un’associazione che porta appunto questo nome e che sta svolgendo una rimarchevole attività. In certo modo, il titolo vuol essere anche di buon auspicio per questa iniziativa. È quasi superfluo dire che anche quest’opera scaturisce da una lunga serie di discussioni con maestri e colleghi italiani e stranieri, allievi, studenti di vari paesi e di varie generazioni. Questi contatti non sono meno preziosi delle letture perché non solo arricchiscono, ma altresì servono a mettere in ordine le idee trovando negli interlocutori riscontri immediati e percepibili. Senza questi riscontri con persone con cui si condividono per anni impegni, dubbi e riflessioni in un settore della cultura, nessun lavoro scientifico sarebbe possibile. I ringraziamenti sarebbero quindi numerosi, decisamente troppi per poter essere espressi uno per uno, fra l’altro col rischio di incorrere in dolorose quanto involontarie dimenticanze. Fanno eccezione i miei familiari, cui debbo il clima sereno con cui ho potuto lavorare, quasi sempre nei giorni festivi e nelle altre ore libere in città, ma anche fuggendo dalla città nella pace alpestre di Solda, che una volta di più si è rivelata, anche per la presenza di amici e l’ambiente ospitale, oltre che per antiche memorie, particolarmente propizia: molti punti, a cominciare dalla struttura del libro e dei singoli capitoli, cioè la cosa più importante, li ho chiariti ragionando con me stesso su quei sentieri. V. F. Milano-Solda, marzo 2004

Capitolo primo. La sociologia del diritto

1. Definizione e oggetto La sociologia del diritto – o sociologia giuridica – si può definire la scienza che studia il diritto come modalità d’azione sociale. Essa appartiene al novero delle scienze sociali e più specificamente alla sociologia, di cui rappresenta una branca specializzata, ma dotata di un alto grado di autonomia. Infatti, come vedremo, da un lato la sociologia del diritto condivide con la sociologia le principali visioni teoriche, alcuni fondamentali concetti e tematiche, e soprattutto i metodi d’indagine, ma, dall’altro lato, deve adattare tutto ciò alle peculiarità di un oggetto – il diritto – che si situa al centro di una riflessione plurisecolare condotta con grande raffinatezza da un ceto professionale quasi sempre elitario, quello dei giuristi. Spesso tale riflessione si è concentrata sullo studio formale dei singoli istituti e delle singole norme giuridiche. Altrettanto spesso, tuttavia, essa ha indagato sui rapporti fra il diritto e altri elementi della vita sociale, scendendo sul terreno etico, economico, politico e, in senso lato, filosofico. Per questo si può ritenere che la sociologia del diritto abbia origini molto più antiche della nascita della sociologia come scienza, risalente alla metà del secolo XIX. Studiare il diritto come modalità d’azione sociale significa indagare sulle azioni umane che ad esso s’ispirano, comprenderne il senso e verificare se, e fino a qual punto, esso sia socialmente condiviso, descriverle nel loro corso temporale, individuarne gli effetti concreti e ricondurre tali indagini a una visione teorica complessiva che dia conto della posizione che in un ambito di relazioni sociali ricopre il diritto, visto nel suo complesso e nelle sue parti. Da questa definizione risulta chiaramente che il sociologo del diritto affronta il suo oggetto – il diritto – da una prospettiva differente rispetto a quella del giurista impegnato nell’analisi e nell’applicazione del diritto positivo, del «giurista positivo», come si usa dire. In sintesi, possiamo infatti dire che agli occhi del giurista positivo il diritto viene assunto come un elemento costante, il presupposto e l’orizzonte del suo operare. Agli occhi del sociologo, al

contrario, il diritto compare come una variabile, da considerare e misurare in relazione ad altre variabili influenti sull’azione umana. Per illustrare questa differenza possiamo fare un esempio, tratto dalla legge 1 dicembre 1970, n. 898, Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, il cui testo originario prevedeva, all’art. 3, commi 1 (lett. b) e 2, la possibilità di chiedere lo scioglimento del matrimonio civile o la cessazione degli effetti civili del matrimonio canonico per effetto dell’ininterrotta separazione coniugale, di fatto o legale, purché nel primo caso fossero trascorsi almeno due anni prima dell’entrata in vigore della legge e, nel secondo caso, fosse trascorso un cospicuo lasso temporale a partire dalla comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale: cinque anni in via generale, elevati a sei o a sette quando vi fosse l’opposizione della controparte e ricorressero particolari circostanze. Di fronte a questa norma, il compito del giurista consisteva e, con le variazioni intervenute1, ancora consiste nel risolvere i quesiti interpretativi che essa pone e indicarne l’interpretazione teoricamente più corretta. Per esempio, che cosa deve intendersi per «separazione di fatto» e con quali prove deve essere dimostrata? Premesso che un ricongiungimento temporaneo di coniugi separati legalmente può essere considerato un «comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione» (art. 157 c.c.) e, conseguentemente, interrompere il decorso di quel termine, che cosa deve intendersi con questa locuzione? Occorre un ricongiungimento fisico e spirituale protrattosi per qualche tempo (e quanto tempo?), oppure può bastare un fuggevole incontro? Questo compito interpretativo, il giurista lo affronterà avendo riguardo alla lettera della norma in questione, alla sua funzione teorica (la cd. «ratio»), ai suoi rapporti con altre norme e, infine, ai principi generali dell’ordinamento. Su queste basi formulerà il suo giudizio. Ben diverso, riguardo alla stessa norma, è il compito del sociologo del diritto. Ispirandosi alle teorie sociologiche sul rapporto fra norme e azioni sociali, e sull’evoluzione della compagine familiare, si chiederà per esempio se la norma in questione, teoricamente indirizzata a sollecitare ripensamenti da parte dei coniugi separati, abbia davvero prodotto questo effetto o non abbia invece provocato effetti difformi rispetto alle intenzioni con cui fu emanata. Constaterà allora che, sebbene l’indice di divorzialità degli italiani sia stato sin dall’inizio fra i più bassi d’Europa, la riconciliazione di coniugi separati è un evento del tutto eccezionale, tanto da far pensare che quel termine non abbia pressoché mai suscitato ripensamenti. Per converso, si chiederà se la

previsione di un termine tanto lungo non abbia indotto molti coniugi separati e non divorziati a dar luogo a convivenze more uxorio con nuovi partner e così contribuito a indebolire, anziché a rafforzare, il significato sociale dell’istituto del matrimonio, andando in senso opposto alle intenzioni dichiarate dal legislatore2. Tradotti tali quesiti in ipotesi, il sociologo del diritto cercherà di rispondervi attingendo a conoscenze già accumulate, oppure svolgendo una personale ricerca con le tecniche appropriate. Si formerà quindi un’opinione che, eventualmente, apporterà un contributo allo sviluppo della teoria di riferimento. Da questo esempio possiamo trarre una conclusione dicendo che, mentre il giurista positivo svolge un compito al contempo teorico e pratico, descrittivo e prescrittivo, il sociologo del diritto, al contrario, svolge un compito esclusivamente teorico e descrittivo. A differenza del giurista positivo, egli non è infatti chiamato a indicare ad alcuno la corretta via da seguire. Piuttosto, è chiamato a stabilire correlazioni tra fenomeni, a descrivere la successione degli eventi, a darne una spiegazione teorica: in sintesi, a informare. Altri, il giurista stesso oppure il politico, potrà trarre da queste informazioni spunti per assumere decisioni3. Quanto detto sin qui non basta tuttavia a delineare il campo d’indagine della sociologia del diritto. Ciò sarà possibile soltanto dopo aver descritto in generale l’ambito scientifico in cui essa s’inquadra che, come detto, è quello della sociologia.

2. Visioni sociologiche generali Non è possibile descrivere qui in dettaglio gli sviluppi della sociologia, che coprono più di centocinquant’anni di storia4. Vi sono però alcuni punti, assai rilevanti per la sociologia del diritto, che non possono essere trascurati e che vanno quindi succintamente ricordati. Anzitutto va ricordato che la sociologia, le cui basi furono poste da Auguste Comte (1798-1857), è nata come parte integrante di un sistema complessivo di pensiero ispirato al positivismo filosofico. Fondamento di questa corrente, come noto, era l’affermazione dell’unità metodologica di tutte le scienze e la riduzione a scienza della stessa filosofia. In questo quadro, la sociologia fu quindi concepita come lo studio scientifico dei comportamenti sociali, diretto a fornirne, attraverso l’osservazione, spiegazioni nomologiche: scoprendone cioè le leggi (in senso naturalistico) che li governano. Tale modo di pensare, tipico

di un periodo caratterizzato da grande fiducia nel progresso e nelle capacità umane di dirigerlo attraverso le scoperte scientifiche, non era monolitico al suo interno ed era peraltro condiviso, sia pure con rilevanti differenze, anche da altre correnti di pensiero, come quella marxista che negli stessi decenni si veniva sviluppando. Benché alcuni fondamenti di questo sistema di pensiero siano rimasti fermi – soprattutto, e sia pure con diverse accentuazioni, l’importanza cruciale dell’osservazione – altri sono stati messi in discussione sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento: per esempio, in generale, l’idea che la conoscenza dei fenomeni sociali possa muovere induttivamente dal concreto all’astratto, dal singolo fenomeno osservabile alle «leggi» sotto cui dovrebbe ricadere; inoltre, la pretesa di condurre lo studio dei mutevoli comportamenti umani secondo il modello delle scienze naturali, commisurate al carattere, ritenuto allora ricorrente e invariabile, dei fenomeni che ne costituiscono l’oggetto. I fatti sociali, si disse, non sono come i fenomeni naturali. Per poterli osservare e ricondurre a spiegazioni generali, occorre anzitutto comprenderli, cioè intenderne il senso o, se si preferisce, il significato, che gli esseri umani esprimono attraverso atti di comunicazione composti di segni più o meno complessi e operanti a livelli simbolici più o meno alti a seconda del grado di sofisticazione di ciascuna cultura. Inoltre, i fatti sociali dipendono da pensieri, punti di vista e atti di volontà dei soggetti agenti e dunque possono, a differenza degli eventi naturali, sottrarsi alle previsioni sulla loro ricorrenza. In breve, i comportamenti umani, benché si muovano nei limiti non amplissimi consentiti dall’ambiente naturale, sono entro questi limiti, in gran misura, liberi: non sono atti meccanici, ma piuttosto azioni che i soggetti pongono in essere in virtù di qualche motivazione, che si dirigono verso qualche obiettivo e alle quali chi agisce attribuisce appunto un senso, che può essere, o non essere, socialmente condiviso. Osservazioni di questo genere hanno suscitato vive discussioni e indotto non pochi pensatori – si pensi, in Italia, a Benedetto Croce e a Giovanni Gentile – a negare tout court che si potesse dar luogo a una scienza sociologica. In questa luce, è stata fondamentale l’innovazione apportata da quegli studiosi che hanno incentrato l’attenzione precisamente sul carattere simbolico e libero del materiale umano che costituisce l’oggetto della sociologia. Fra costoro, va specialmente ricordato il tedesco Max Weber (1864-1920), che fondò una sociologia precisamente incentrata sul concetto di azione e definita «comprendente» (verstehende Soziologie), in quanto protesa a

«comprendere l’azione umana secondo il suo senso», a «spiegarla causalmente nel suo corso», cioè secondo le variabili concatenazioni di cause ed effetti, e, infine, a formulare bensì «leggi generali», basate tuttavia su semplici correlazioni statistiche e capaci di suggerire previsioni non certe, ma esclusivamente probabilistiche. Fondamentale, in questo quadro di pensiero, è lo strumento metodologico che Weber elaborò al fine di indirizzare la comprensione del senso dell’azione umana: i cd. «tipi ideali» o «idealtipi». Muovendo dal principio che la conoscenza umana procede, non dal concreto all’astratto, ma dall’astratto al concreto, lo studioso segnalò la necessità di condurre l’osservazione delle forme concrete di azione sulla base di categorie concettuali astratte, elaborate prima di iniziare l’osservazione. Un esempio significativo di questo modo di procedere riguarda proprio il punto di partenza stesso della sociologia weberiana, cioè il concetto di azione sociale o «agire sociale», che può essere compreso e spiegato, secondo Weber, attraverso le motivazioni che vi inducono, e riportato a quattro tipi ideali: l’agire razionale rispetto alla scopo, che mira strumentalmente a conseguire finalità coerenti con i mezzi di cui l’attore dispone; l’agire razionale rispetto al valore, che mira alla realizzazione di valori o ideali in cui il soggetto crede, indipendentemente dalle conseguenze materiali; l’agire tradizionale, che il soggetto compie «per abitudine acquisita», riproducendo irrazionalmente modelli costantemente ripetuti; l’agire affettivo, che il soggetto compie dando voce a sentimenti o disposizioni d’animo, sempre di natura prevalentemente irrazionale (Weber, 1922, vol. I, pp. 2123*). Questa tipologia costituisce, per il sociologo, una sorta di guida, di binario entro cui condurre l’osservazione delle forme concrete di azione, che egli riporterà al modello astratto cui più si avvicinano, anche se nessuna potrà mai identificarsi appieno con quel modello. Analoga operazione Weber ha compiuto con molti altri concetti sociologici – fra cui anche il diritto, centrale nel suo pensiero – sino a dar luogo a una teoria sociologica sistematica che si presenta, in certa misura, come una grande galleria di tipologie. Weber pervenne a questa ridefinizione dell’oggetto e dei compiti della sociologia sulla base della convinzione che lo statuto epistemologico di questa scienza (e di altre affini, come la storia, l’economia e la stessa scienza giuridica) fosse qualitativamente diverso da quello delle scienze naturali. Questa convinzione è oggi meno diffusa. Se, come afferma uno dei massimi sociologi contemporanei, l’inglese Anthony Giddens, «la scienza consiste nell’uso di metodi di indagine sistematici, nel pensiero teorico, nella sistemazione logica degli argomenti,

allo scopo di sviluppare un corpo di conoscenze riguardanti un determinato oggetto di studio» (Giddens, 1993, p. 26*), allora non solo la sociologia è una scienza – cosa che nessuno oggi pensa di mettere seriamente in discussione – ma altresì può stabilirsi una linea comune fra il campo delle scienze cd. «naturali» e quello delle scienze umane, cui la sociologia appartiene, insieme ad altre discipline affini. In effetti, si può notare che, accanto alle sostanziali differenze che indussero Weber ad apportare le innovazioni appena ricordate, esistono anche sostanziali convergenze fra i due grandi campi del pensiero scientifico. Una convergenza importante consiste nell’adozione, tanto nelle scienze naturali, quanto nelle scienze umane, di una prospettiva generale sistemica. Un sistema può definirsi semplicemente come un «complesso di elementi interagenti» (von Bertalanffy, 1969, p. 97*). Qualsiasi oggetto di studio può essere rappresentato in questo modo: così l’individuo vivente, in quanto composto da organi che funzionano coordinatamente secondo un programma inscritto nel suo codice genetico; così la città, in quanto insieme coordinato di elementi fisico-materiali e culturali, di reti comunicative; così il pianeta Terra, rappresentabile appunto come un «eco-sistema», o come un sistema di ecosistemi, composti ognuno da una moltitudine di elementi coinvolti in incessanti processi fisici e chimici; così ogni sistema stellare, i cui elementi, dalle stelle ai pianeti sino al più piccolo asteroide, si influenzano reciprocamente; e così pure, infine, tutti i sistemi stellari nel loro insieme, dato che anch’essi appaiono collegati nel loro moto perpetuo. La sociologia non si è mai sottratta al fascino della prospettiva sistemica, sin dalle sue origini: era comune infatti tra i sociologi ottocenteschi l’idea che la società fosse una totalità composta non solo da individui, ma anche dalle loro relazioni coordinate. Nel corso del XX secolo tale prospettiva sistemica è rimasta valida, ma è stata seguita con maggiore o minore rigidezza, e in modo più o meno esplicito, a seconda delle diverse correnti di pensiero e anche dei diversi momenti storico-politici. Se pressoché ogni analisi sociologica s’ispira all’idea sistemica che gli aggregati sociali siano costituiti da elementi fra loro interagenti e interdipendenti, vi sono infatti forti differenze circa il concetto stesso di sistema e il suo utilizzo nella teoria. Il modo più rigido con cui la visione sistemica trova applicazione in sociologia è quello che ritroviamo come fondamento e fulcro della maggiore corrente di pensiero sociologico, che si suole definire funzionalistica, in quanto fondata sull’idea che ogni società umana costituisce appunto un insieme di

elementi interagenti, ognuno dei quali coopera in modo relativamente ordinato, attraverso le funzioni che svolge, al benessere o al miglior stato del sistema complessivo: una visione che, com’è facile vedere, guarda agli aggregati sociali allo stesso modo con cui si guarda a un organismo vivente5. Questa prospettiva, i cui primi fondamenti teorici si ritrovano nella grande, pionieristica opera del francese Emile Durkheim (1858-1917), autore centrale anche per la sociologia del diritto, viene sviluppata da molti autori, fra cui vanno qui ricordati l’americano Talcott Parsons (1902-1979) e il tedesco Niklas Luhmann (1927-1998). Si tratta di due studiosi che risentono entrambi fortemente dell’influenza di Weber, in quanto insistono sul carattere culturale e simbolico dell’interazione umana, e che inoltre rappresentano, in certo modo, l’uno la continuazione dell’altro: ma nel passaggio dall’uno all’altro avvengono alcuni mutamenti di rilievo, su cui occorre fissare l’attenzione. Parsons, come Durkheim, rappresenta ogni società come un aggregato di individui, o «attori sociali», i quali interagiscono stabilmente rispondendo ad aspettative sociali connesse agli status e ai ruoli che ricoprono nella società stessa. Essere genitore, coniuge, politico, insegnante, commerciante, è cosa che suscita aspettative sia da parte del soggetto interessato, sia da parte di coloro che con esso entrano in relazione. Questi status e ruoli, che si presentano come fasci di aspettative e di norme sociali convergenti su ciascun soggetto (Dahrendorf, 19644), costituiscono per Parsons l’intelaiatura di base, la struttura di un sistema sociale. Essi possono bensì entrare in conflitto fra loro, e anche ogni singolo individuo che ricopra più ruoli può, in effetti, vivere interiormente dei conflitti di ruolo molto aspri. Complessivamente tuttavia, grazie all’organizzazione sociale complessiva e alle istituzioni in cui essa si articola – famiglia, scuola, organismi politici ed economici, giurisdizione – i diversi ruoli cooperano, come accennato sopra, al mantenimento della struttura nel suo stato migliore (Parsons, 1951). Ogni organizzazione, ogni istituzione, si presenta in tal modo come un sistema parziale d’azione che, svolgendo le funzioni sue proprie, coopera armonicamente con altri sistemi nell’interesse del tutto, mantenendo il sistema complessivo in tendenziale equilibrio: per esempio, secondo Parsons, il sistema giuridico svolge una funzione «integrativa», in quanto, rendendo più sicuri, più agevoli e meno conflittuali i rapporti fra i ruoli, favorisce la coesione sociale (Parsons, 1962). Questa visione, nata negli anni del New Deal e raffinata man mano dall’autore nel corso della sua prestigiosa carriera, fu accusata di rappresentare

in forme scientifiche, ma al tempo stesso edulcorate, per dir così, il cd. «sogno americano», l’idea di una società armonica, ricca di chances individuali, fondata su un consenso generalizzato attorno a grandi valori, in breve, tendente al massimo di perfezione possibile in un mondo imperfetto. Soprattutto alla fine degli anni Sessanta essa fu investita da veementi critiche il cui fulcro consisteva nell’accusa, mossa a Parsons e ai suoi seguaci, di ignorare le asimmetrie, le diseguaglianze, i conflitti che dividono ogni società, comprese quelle più sviluppate, in gruppi distinti e spesso contrapposti (Gouldner, 1970). Altre critiche, non meno severe, furono mosse contro l’idea-base che ogni elemento del sistema sociale, ogni sotto-sistema, attraverso le funzioni svolte, cooperi necessariamente al benessere e all’equilibrio generale: concetti questi, si disse, indimostrabili e troppo contaminati da preferenze ideologiche6. A queste critiche ha cercato di rispondere Niklas Luhmann, autore che, rispetto a Parsons, trasfonde nella propria visione sociologica una più approfondita conoscenza del fenomeno giuridico. La teoria luhmanniana inverte la prospettiva parsonsiana e, raccogliendo più decisamente l’insegnamento weberiano, sposta ancor più l’attenzione dagli individui che agiscono ai modi simbolici del loro interagire. Così essa rappresenta la società non già come un insieme di esseri umani collegati da relazioni di ruolo, ma come una rete di sistemi composti da atti di comunicazione dotati di un senso sociale (Luhmann, 1974). Ogni sistema – giuridico, politico, economico ecc. – compare ora, pertanto, come una mera struttura significativa, indirizzata cioè a conferire un senso particolare alle aspettative d’azione sociale, e si presenta come uno strumento che si costituisce per adempiere a funzioni essenziali per la vita umana. Noi viviamo, sottolinea Luhmann, in un ambiente che ci pone continuamente delle sfide e rende incerte e tormentose le nostre aspettative: un ambiente complesso, in quanto presenta un eccesso di possibilità rispetto a quelle concretamente attuabili, e inoltre contingente, perché incerto, aperto a eventi mutevoli e imprevedibili: non solo accadimenti naturali, ma anche, e non meno importanti, le spesso incalcolabili decisioni umane (Luhmann, 1972, p. 40*). Ecco allora che i sistemi sociali sorgono per orientare e rendere più agevoli le nostre scelte concrete: essi intervengono nell’ambiente per ridurne la complessità e per rendere più stabili e affidabili, cioè meno contingenti, le nostre aspettative. Si pensi proprio al sistema giuridico che, discriminando fra ciò che è lecito e ciò che è illecito, serve appunto a permettere di decidere fra aspettative incompatibili – il creditore e il debitore, il datore e il prestatore di

lavoro – e a stabilizzare socialmente le nostre aspettative «più forti», quelle che, trovando conforto in qualche norma, non siamo disposti ad abbandonare quando vengono tradite: aspettative che, per questa ragione, si definiscono normative e che si contrappongono alle aspettative cognitive, quelle che siamo, invece, disposti ad abbandonare in caso di delusione7. È chiaro che nel passaggio da Parsons a Luhmann si risente la consapevolezza che la società umana può essere indagata in termini sistemici solo a condizione di attenuare la rigidezza concettuale, di rifiutare l’idea secondo cui i sistemi sociali sono qualcosa di stabile, di «dato» aprioristicamente, di «chiuso» in se stesso. E Luhmann, in effetti, raccoglie nella sua teoria molti stimoli in tal senso. Tuttavia, egli mantiene fermi i presupposti più forti della sua visione sistemica, che anzi porta a conseguenze di grande sofisticazione, rifiutandosi oltre un certo limite di «aprire» i propri schemi. Come Parsons, sebbene non esplicitamente, egli rappresenta ancora l’organizzazione umana in termini integrativi, come un insieme in cui diversi sistemi sociali coesistono e cooperano, se non a mantenere un equilibrio, quanto meno a risolvere problemi essenziali della vita sociale. Altri autori, negli stessi anni di Luhmann, costruiscono visioni più aperte. Così avviene, per esempio, con le cd. «teorie del conflitto», che provengono storicamente da due filoni, quello marxista, risalente alla teoria di Karl Marx e Friedrich Engels, e quello liberale, risalente alla teoria economica di Adam Smith, alla teoria politica di John Stuart Mill, alla teoria sociologica di Herbert Spencer e, in tempi più recenti, allo stesso Max Weber. Tratto comune tra i due filoni, che mantengono un’alta vitalità durante tutto il Novecento, è l’idea che la società umana non sia armonicamente integrata, ma, come detto sopra, divisa in gruppi fra loro contrapposti. La differenza tra i due filoni è che, mentre il primo rappresenta questa contrapposizione in termini tendenzialmente dicotomici, come conflitto fra due classi portatrici di opposti interessi – la borghesia e il proletariato – e a ritenerla rimediabile solo attraverso il successo dell’una sull’altra (per esempio Miliband, 1973), il secondo la rappresenta in termini pluralistici, come incontro-scontro fra interessi di molteplici gruppi che nascono e spariscono, si scompongono e si ricompongono, in una serie continua di rapporti in cui i conflitti possono conflagrare oppure trovare soluzioni temporanee di tipo istituzionale, senza peraltro mai estinguersi (per esempio Dahrendorf [1957], 19592). Appare chiaro che anche queste teorie, seppure dichiarino talvolta esplicitamente di rifiutare la teoria sistemica, ne applicano il nocciolo

essenziale, laddove rappresentano le azioni sociali in modo interattivo, cioè in collegamento reciproco, spesso determinato o mediato da istituzioni che operano in modo relativamente stabile. Fra queste, nuovamente rilevano le istituzioni giuridiche, di cui i teorici del conflitto sottolineano la dipendenza dal potere economico e/o politico e, di conseguenza, il volto ambiguo, la pieghevolezza, l’attitudine a sostenere le ragioni ora dei forti, ora dei deboli, a garantire la pace sociale o a fomentare la guerra. Le teorie dell’integrazione e le teorie del conflitto guardano entrambe alla società, e ad ogni grande aggregato sociale, sinteticamente nel suo insieme, ovvero, per usare una metafora, dall’alto: sono cioè teorie macro-sociologiche. Altre teorie sviluppatesi nel corso del secolo XX scendono nell’arena dei rapporti sociali e li esaminano più analiticamente, dal basso, situandosi al margine della psicologia sociale e presentandosi come teorie micro-sociologiche. L’azione sociale appare così sminuzzata nelle sue singole e quotidiane manifestazioni. Ma anche queste teorie, se ben si osserva, pur distogliendo lo sguardo dai grandi sistemi, rispettano i fondamenti essenziali della prospettiva sistemica, in quanto precisamente esaminano dei micro-sistemi di relazioni, azioni e comunicazioni sociali: la vita di coppia, la famiglia, un complesso particolare di relazioni industriali, commerciali o politiche. Su questo terreno ha operato con successo la corrente interazionistica, nata a Chicago negli anni Venti, la quale si caratterizza per aver studiato gli aspetti più problematici dell’intersoggettività, ciò che rende agevole o ardua l’interazione fra i soggetti, le loro intese o i loro fraintendimenti, spesso determinati dal fatto che essi conferiscano o meno alle azioni lo stesso senso, diano alle loro parole lo stesso oppure un diverso significato. Il lascito di queste teorie, le cui assonanze con la teoria weberiana sono evidenti e le cui influenze sulle teorie macro-sociologiche sono scontate (anche Parsons e Luhmann, fra gli altri, ne hanno risentito), è di particolare importanza per la sociologia del diritto. Vedremo infatti che il diritto, dal punto di vista sociologico, si presenta precisamente come un sistema di peculiari atti di comunicazione e che buona parte della sua efficacia in una società dipende proprio dal comune riferirsi dei soggetti agenti – dei cittadini comuni come degli operatori giuridici – agli stessi usi linguistici, oltre che agli stessi valori cui si ispirano le norme giuridiche. Una forte influenza ha esercitato, soprattutto in tempi recenti, quell’altra corrente di pensiero micro-sociologico che s’ispira all’idea della scelta razionale: una corrente nata non per caso sul terreno economico e politico, là dove

prevale l’azione, appunto, razionale-strumentale, rivolta a conseguire il massimo risultato col minimo sforzo. Anche qui l’attenzione s’incentra sistemicamente sul condizionamento reciproco dei soggetti interagenti, che appare dipendente dalle chances di cui essi dispongono e dalle loro capacità di intuire le situazioni e di giocare convenientemente le loro carte: questo accostamento conduce infatti a vedere l’interazione sociale come un gioco (game) con vincitori e vinti, secondo le prospettive della teoria dei giochi. Vi sono settori della sociologia in cui questo modello di ragionamento, benché presenti dei limiti derivanti dal fatto che non tutti i soggetti agiscono (o credono di agire) razionalmente e spesso sono mossi da impulsi irrazionali, può trovare utile applicazione: e qui va ancora annoverata la sociologia del diritto, sia perché i rapporti giuridici coinvolgono molti aspetti della vita umana che i soggetti cercano di tutelare con scelte razionali, sia perché i sistemi giuridici si ispirano essi stessi a canoni di razionalità, sia, infine, perché il diritto stesso presenta forti analogie con il gioco regolato, come si dirà anche in seguito. Concludendo, vi sono dunque dei punti comuni fra le diverse correnti di pensiero sociologico. Un primo punto consiste nella pressoché generale convinzione che la sociologia presenti un carattere peculiare in quanto il suo oggetto, la società umana, non è un dato obiettivo, ma piuttosto un costrutto, cioè il frutto di una costruzione culturale cui partecipano tutti gli attori sociali, cioè gli innumerevoli individui che agiscono, comunicano, cooperano o confliggono, ivi compresi coloro che, nella veste di studiosi, osservano e descrivono scientificamente tali interazioni. Tutti gli attori sociali infatti non solo contribuiscono, con le loro percezioni, a delineare le fattezze dell’«oggetto-società», ma altresì, rappresentando questo oggetto e formulando previsioni sul suo sviluppo, contribuiscono a mutarlo, giacché gli aggregati sociali non sono inerti ma tendono a reagire anche alle rappresentazioni che ne vengono fornite, ora uniformandovisi, ora sottraendovisi8. Un secondo punto consiste nella tendenza, pure quasi generale, ad adottare una prospettiva sistemica elastica e aperta, che parte dal punto di vista dell’interdipendenza e della covariazione sia di tutti gli elementi di ciascun sistema di azioni sociali, sia di tutti i sistemi fra loro. Di questi sistemi l’odierna sociologia riconosce sia il carattere culturale-simbolico, che va compreso nel suo senso, come precondizione di ogni analisi e osservazione, sia la costante mutevolezza. Si riconosce sempre più, altresì, che queste

caratteristiche dipendono dalle scelte dei soggetti stessi, i quali indirizzano le azioni verso finalità prefissate e sono i primi a conferire loro, appunto, un senso. In altre parole, i soggetti, rimossi dalla scena nelle versioni più astratte della teoria sociologica funzionalistica, alla Luhmann, vi sono tornati sino a far riscoprire un concetto di società che alla fine del secolo XIX era stato elaborato da un altro grande sociologo tedesco, Georg Simmel (1858-1918): la società intesa come «Vergesellschaftung», cioè come continuo associarsi e interagire fra i soggetti e i sistemi costituiti dalle loro interazioni (Simmel, 1908). Vedremo che in questo movimento continuo il diritto è sempre rilevante, anche se, nell’organizzazione dei rapporti sociali, i suoi caratteri e il suo peso variano a seconda delle epoche, degli ordinamenti economici, dei regimi politici, delle forme culturali.

3. Concetti e tematiche fondamentali Ogni sistema d’azione sociale può essere osservato in modo sincronico o diacronico. Nel primo caso esso viene, per così dire, fotografato in un momento specifico, nel secondo viene filmato in movimento. Il primo tipo di osservazione è essenzialmente statico, il secondo dinamico, in base a una terminologia che risale ad Auguste Comte, fondatore della sociologia. Benché questa distinzione sia alquanto artificiosa dato che, come disse Eraclito duemilacinquecento anni or sono, «tutto scorre», ed è quindi illusorio «isolare» un momento singolo nel continuo procedere della vita sociale, essa tuttavia risponde a un’esigenza di comodità analitica perché serve soprattutto a individuare i fattori principali del mutamento sociale e a distinguere le variabili indipendenti dalle variabili dipendenti di ogni sistema d’azione sociale. Ai fini dell’analisi sincronica della società, il primo e più intuitivo quesito che si pone al sociologo è se essa sia, al suo interno, unitaria o differenziata; se l’eventuale differenziazione interna corrisponda a una diversità di posizioni sociali, aspettative, accesso ai beni materiali o simbolici, in breve, a una diversità di ruoli e di status; se, infine, questa eventuale diversità sia rigida o elastica, se cioè i soggetti siano, e fino a che punto, costretti ad accettarla ovvero possano rifiutarla. È un quesito aperto se siano mai esistite società perfettamente ugualitarie. L’ideale di una società ugualitaria è certo ricorrente nella storia umana, sotto forma, a volte, di ritorno auspicato a una primitiva e perduta età dell’oro, altre volte di auspicata conquista di una perfezione mai raggiunta in passato. È pur

vero tuttavia che la realtà ha quasi sempre tradito questo ideale. Anche presso aggregati sociali cd. «semplici», non letterati, caratterizzati da una debole differenziazione nello svolgimento delle attività sociali fondamentali, come la cura della prole, la ricerca e la preparazione dei cibi, la produzione di oggetti e utensili, gli antropologi hanno osservato sostanziali differenze di trattamento fra soggetti, per esempio in base alla forza fisica o al potere politico in senso lato: un fattore, quest’ultimo, di costante discriminazione nella storia umana. In sintesi, l’esperienza passata e presente rivela pressoché ovunque l’esistenza di una stratificazione sociale, cioè di una suddivisione delle società in diversi strati. Diverso è, peraltro, il tipo di stratificazione riscontrabile nei vari contesti, così come sono correlativamente diverse le posizioni sociali, cioè gli status e i ruoli, che gli individui possono ricoprire. Comune a tutte le società conosciute è la suddivisione in gruppi, forme più o meno stabili di aggregazione sociale che possono dipendere da relazioni di consanguineità, età, genere, vicinato, gioco, fede religiosa, lavoro, appartenenza etnica o linguistica, affinità culturale, idealità politica, passione sportiva. Tali gruppi sono ovunque visibili, ora in modo trasparente, ora attraverso adeguati filtri osservativi, in quanto la formazione di un gruppo può servire da schermo per l’organizzazione di un gruppo diverso per identità o finalità9. Singoli individui possono far parte di diversi gruppi, spesso senza problemi, ma non di rado dovendo fronteggiare laceranti conflitti d’identità, che possono imporre scelte drastiche. A fungere da divaricatore possono ricorrere diversi fattori, la cui forza di attrazione può condurre ad aderire totalmente alla vita di un gruppo, abbandonando ogni altra relazione sociale. I gruppi possono essere infatti mutuamente compatibili o repulsivi. Possono cooperare, integrarsi, fondersi, oppure combattersi mirando alla reciproca eliminazione. Possono essere facilmente accessibili, porosi, aperti, oppure chiusi, protetti da interferenze esterne, gelosi tutori di un’identità reale o supposta, spesso enfatizzata per imitazione, differenziazione, reazione alle sfide di gruppi diversi. Soprattutto in presenza di gruppi chiusi la differenziazione interna delle società può consolidarsi in forme rigide, spesso consacrate dalla forza solenne di norme, giuridiche o non giuridiche. Abbiamo allora forme di stratificazione particolarmente resistenti, come nel caso della società indù, divisa per caste. Alle caste gli individui appartengono dalla nascita per ascrizione, indipendentemente dalla loro volontà, e ne fanno parte sino alla morte senza possibilità di mutare la propria posizione sociale. La resistenza di tale sistema

appare chiara se si considera che esso è sopravvissuto al divieto di discriminazioni castali sancito dalla Costituzione indiana del 195010. La storia offre molti altri esempi di stratificazione rigida. Nell’Europa medioevale, il sistema feudale contemplava una stratificazione per ceti: varie posizioni politico-sociali che dall’imperatore scendevano sino alla servitù della gleba, passando per molti strati intermedi e combinandosi con una differenziazione per prestazioni economico-sociali coincidente, nel tardo Medioevo, con la diversificazione per corporazioni di arti e mestieri. Anche le società moderne, la cui nascita si fa convenzionalmente coincidere proprio con l’abolizione delle strutture medievali, presentano fenomeni simili. È nei riguardi di tali società che le teorie del conflitto, già ricordate, hanno tematizzato la suddivisione in classi, gruppi sociali caratterizzati dalla condivisione da parte dei membri di una particolare posizione, determinata, a seconda delle teorie, dalla proprietà e dal controllo dei mezzi di produzione, oppure dalla disponibilità di quote più o meno ampie di potere politico. Il principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini, sancito da tutte le moderne costituzioni, non ha mai inciso a fondo sulla stratificazione di classe, ancor oggi riscontrabile nel diverso accesso dei singoli individui di tutte le società sviluppate a ruoli, status, ricchezze, potere sociale. Ed è significativo che una sorta di stratificazione di classe si sia presentata anche in quelle società dell’Europa orientale che hanno sperimentato sino alla fine degli anni Ottanta il cd. «socialismo reale», rivolto precisamente alla graduale abolizione della stratificazione di classe. In quei contesti gli analisti (Gilas, 1957) hanno riscontrato che l’accentramento del potere attorno all’oligarchia del partito dominante dava luogo alla formazione di gruppi privilegiati, con una ineguale distribuzione di ricchezze che si è resa ben visibile nel momento della crisi di quei regimi. A seconda della rigidità della stratificazione, varia sensibilmente la cd. «mobilità sociale», cioè il passaggio di individui e anche di gruppi da uno strato all’altro. Tale mobilità è un fatto eccezionale nelle società in cui le posizioni sociali sono, come detto sopra, ascritte, cioè imposte agli individui dalla tradizione culturale o dalla legge. L’indice di mobilità sociale, invece, è più alto nelle società in cui le posizioni sociali, anziché ascritte, sono scelte, frutto di volontaria opzione dei soggetti. Queste società si caratterizzano per abbattere le barriere giuridico-formali che vietano o limitano i passaggi da uno strato all’altro, anche se, come avvenuto con le caste indù, tali politiche non comportano l’eliminazione dei vincoli sostanziali, più resistenti di quelli

formali. Inoltre, in tali società libere, più che in quelle rigide, la mobilità assume caratteri tanto ascendenti, quanto discendenti. Come è più facile salire i gradini della scala sociale, acquisire status più remunerativi e prestigiosi, così è anche più facile scendere quei gradini per incapacità, condizionamenti esterni rilevanti, fortune avverse: tutti eventi che possono investire il destino di singoli individui o anche di interi gruppi sociali. Anche un’osservazione sociologica limitata a pochi decenni rivela che intere categorie di cittadini hanno mutato la propria condizione sociale salendo o scendendo i gradini di quella scala11. La struttura normativa che sottostà alla differenziazione sociale presenta un carattere istituzionale. La parola «istituzione» possiede molti significati anche in sociologia. Fra questi, quello forse più consolidato rappresenta l’istituzione come un complesso normativo di qualunque genere che struttura durevolmente un campo d’azione sociale12. Questa definizione, la cui utilità rispetto al diritto appare intuitiva, ha il merito di non restringere il concetto a quelle sole forme d’azione che si sono cristallizzate in organizzazioni ufficiali e di mostrare che anche pratiche sociali meno formali, ma pur sempre ricorrenti, sono atte ad influenzare le scelte individuali e collettive. In questo senso non solo la famiglia, il matrimonio, l’azienda, la contrattazione collettiva, che sono regolate da norme giuridiche, ma anche talune abitudini sociali – il pranzo natalizio, la cena sociale, la ciclica distribuzione di premi – sono «istituzioni» al pari del parlamento, del governo, della magistratura o, più in generale, del diritto, non di rado più convincenti di queste nell’ottenere l’adesione spontanea dei consociati. Le istituzioni sono al contempo stimolo all’azione umana e frutto dell’azione stessa. Esse sono create in vista di finalità da conseguire e per questa stessa ragione indicano, con maggiore o minor forza, le vie e i mezzi per conseguirle. La loro importanza è ben visibile attraverso l’osservazione delle azioni che vi s’ispirano, ora ossequienti alla tradizione, ora devianti sotto la spinta di interessi settoriali che subordinano o strumentalizzano quelli generali: cosa, questa, indirettamente intuibile dal fatto che uno dei terreni in cui il conflitto sociale è più aspro è precisamente quello che riguarda il controllo delle istituzioni più rilevanti. Dalle istituzioni è facile passare all’analisi diacronica, che si concentra sui fattori che contribuiscono a modificare l’assetto di una società nelle sue interne articolazioni e che sono nient’altro che il frutto di azioni umane organizzate e preordinate al raggiungimento di finalità di medio o lungo

periodo. Tra questi fattori alcuni presentano un’importanza particolare in quanto presenti, sia pure con diverso peso, pressoché in tutte le riflessioni sociologiche di ampio respiro. Un ruolo fondamentale è rappresentato dalla produzione, intesa in senso lato come modalità con cui gli esseri umani, sfruttando le forze naturali attraverso la tecnologia disponibile in ogni momento storico, si procurano le risorse necessarie per la vita, non solo materiale, sul piano individuale come su quello sociale. Il soddisfacimento di simili esigenze rappresenta un prius, senza il quale ogni altra esigenza perde di consistenza e di significato. Questa elementare considerazione ha indotto molti sociologi e politologi a conferire al fattore produttivo un primato su ogni altro aspetto della vita sociale. Emblematico è il caso di Durkheim che, analizzando le varie forme di solidarietà sociale, cioè i vincoli che tengono unita una società umana, individuò precisamente nella divisione del lavoro il fattore determinante che provoca il passaggio storico fra le società cementate da una solidarietà cd. «meccanica», caratterizzate da un basso indice di differenziazione sociale, alle società in cui prevale una solidarietà cd. «organica», caratterizzate da una moltitudine di posizioni sociali, convergenti o concorrenti: una teoria, il cui rilievo per la sociologia del diritto appare chiara se si pensa che lo studioso francese indica nel diritto stesso «il simbolo della solidarietà sociale», cioè il modo con cui essa si manifesta, la spia che permette di osservarla scientificamente (Durkheim [1893], 1930). Ancor più drastica è sul punto la teoria marxista, che individua come base primaria della vita sociale precisamente il modo di produzione, inteso come la combinazione tra le forze produttive, cioè le risorse naturali e le conoscenze tecnologiche, e i rapporti di produzione, ovvero l’organizzazione sociale e giuridica mediante la quale tali forze vengono sfruttate. Ma sarebbe un errore pensare che il peso della produzione sia stato ignorato da teorie diverse, anche rivali della teoria marxista. Il moderno liberalismo infatti condivide col marxismo non solo una visione conflittuale della società, ma altresì, almeno in parte, il riconoscimento dell’importanza fondamentale dell’organizzazione produttiva: l’idealtipo dell’homo oeconomicus, il soggetto astratto che produce o scambia beni e servizi ispirandosi al principio della massimizzazione del profitto, è infatti il fulcro della teoria economica liberale, che se ne avvale per fornire, come già detto, una spiegazione razionale delle scelte umane più essenziali. La divergenza fra marxismo e liberalismo verte semmai sul diverso peso che le due teorie conferiscono a un altro fondamentale fattore di dinamica sociale,

il potere, che per la teoria marxista si pone in posizione subordinata rispetto alla sfera economica, mentre per la teoria liberale è un concetto ampio, riguardante sia la sfera economica, sia altre sfere d’azione umana, quella politica innanzitutto, intesa anch’essa nella sua più vasta accezione. Per la prima teoria, in breve, l’organizzazione economica è la variabile indipendente, da cui dipende, fra l’altro, anche l’organizzazione politica; per la seconda, la variabile indipendente è rappresentata dal potere: categoria generale da cui dipendono le forme particolari di dominio e di subordinazione, nel campo economico come in ogni altro. Del potere sono state date diverse definizioni, fra cui la più ricorrente in sociologia, a partire da Weber, è quella che lo configura come la capacità di soggetti individuali o collettivi di far seguire alle proprie intenzioni, attraverso decisioni, le azioni e i risultati, ottenendo obbedienza da parte di altri soggetti. Questa forma di supremazia si esercita sia nella sfera privata, sia nella sfera pubblica, due campi d’azione sociale che si usa distinguere anche se il confine fra essi non è netto e cambia continuamente nella storia. Nell’ambito pubblico, il potere si manifesta soprattutto attraverso la capacità di influenzare scelte che si definiscono «politiche» in quanto coinvolgono indistintamente i membri di una pólis, cioè di una cittadinanza in senso lato: una città, una comunità, uno Stato. Tale è l’importanza di questa forma di potere, che nel parlar comune il concetto stesso ha finito per designare esclusivamente il complesso delle prerogative, formali o sostanziali, che spettano ai governanti, e far dimenticare che anche costoro soggiacciono spesso a poteri più forti, esercitati in altri settori della vita sociale, per esempio religioso o economico. In ogni caso il potere politico rappresenta un formidabile strumento d’azione e di mutamento sociale, la cui rilevanza appare ben chiara, e non per paradosso, proprio quando i suoi detentori cercano di occultarlo e lo esercitano in forme indirette, per esempio attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione che ovunque svolgono la funzione determinante di diffondere quel corredo di conoscenze, a volte fuorvianti, su cui si costruiscono il consenso sociale e il cd. «immaginario collettivo». Un terzo potente fattore di dinamica sociale è rappresentato dalla cultura. Questa parola non va intesa restrittivamente come possesso di sofisticati strumenti di conoscenza e di analisi critica, ma nel senso più ampio che si è diffuso soprattutto sul terreno dell’antropologia. Essa designa infatti l’intero complesso di concezioni, conoscenze, idee, norme, valori, cui s’ispira una popolazione nel suo vivere quotidiano e nel conferirvi dei significati, e investe

quindi sia la sfera degli scambi simbolici, sia quella degli scambi materiali, anch’essa ricca, del resto, di simbologia. Prima ancora dell’espressione letteraria o artistica, della formalizzazione matematica o della capacità di scoprire ed esprimere sinteticamente le leggi della natura, è «cultura» il modo di sfruttare l’ambiente, di cucinare i cibi, di interpretare i segni naturali. In ogni aggregato sociale, inoltre, sono visibili diverse subculture, cioè culture di gruppi particolari, ora integrati ora divergenti rispetto alla maggioranza dei suoi membri. Il ruolo della cultura nella dinamica sociale non può sfuggire. Ogni azione umana, cioè ogni atto consapevolmente indirizzato a produrre conseguenze nel mondo esterno e nel corredo di relazioni del soggetto agente, trae ispirazione e, al tempo stesso, configurazione da qualche elemento del complesso mondo culturale in cui il soggetto si muove. Tra questi elementi, precisamente le norme ricoprono un’importanza fondamentale. Esse infatti consacrano concezioni e valori in forma prescrittiva, traducendosi in modelli d’azione che vincolano l’agente, fissando limiti al suo agire, e al contempo lo attraggono verso la meta prefissata. In realtà non è errato dire che gli uomini si muovono costantemente in un orizzonte spiccatamente culturale e di questo orizzonte le norme costituiscono una parte non certo marginale. Ai fini del mutamento sociale, è particolarmente importante il ruolo delle subculture. Ovunque la subcultura femminile si differenzia da quella maschile contribuendo alla dialettica del rapporto fra i generi. Così pure la subcultura giovanile, visibile in molti campi, linguistico, associativo, ludico, è un potente motore di cambiamento generazionale. Nelle società contemporanee, fortemente differenziate, il mutamento politico è spesso il prodotto dell’azione di subculture devianti, che esprimono valori concorrenziali rispetto a quelli dominanti. Tutti questi fattori dinamici, combinandosi, inducono all’azione. Essi sollecitano, per esempio, la formazione o la trasformazione di gruppi sociali, che si fanno paladini di interessi generali o settoriali, e danno luogo a movimenti sociali, cioè a iniziative coordinate, spesso in conflitto con altri gruppi più consolidati, in vista del loro riconoscimento in forme normative istituzionali. Ogni movimento sceglie il campo normativo, formale o informale, che appare più consono alla tutela di quegli interessi: una giovane coppia, definibile «un movimento collettivo a due» (Alberoni, 1978) può lottare per ottenere riconoscimento dalle famiglie dei due partner. Più i movimenti sono vasti e compositi, più il campo d’azione che li impegna è

quello politico, nel senso stretto, dove le norme e le istituzioni acquisiscono un carattere formale-giuridico. Qui la lotta collettiva diventa, come vedremo in seguito, autentica lotta per il diritto. I movimenti sociali sono un motore rilevante del mutamento sociale, in quanto cooperano a produrre trasformazioni non temporanee che modificano l’assetto generale di una società. Lo studio del mutamento rappresenta un campo particolarmente complesso per l’analisi sociologica, che deve cercare di comprendere il diverso peso di ciascun fattore di mutamento e di intendere in special modo quanto l’azione umana sia condizionata da fattori esterni, per esempio fisico-ambientali, e sia capace di farsene interprete in ogni momento storico.

4. Campi d’indagine e sviluppo della sociologia del diritto Alla luce di quanto sin qui detto, risulta ora più facile esaminare in maggiori dettagli il campo di indagine della sociologia del diritto. Dovrebbe apparire chiaro infatti che la sociologia del diritto si occupa di inserire il diritto nel quadro generale offerto dalla sociologia, di comprenderne i caratteri e di esaminare in qual modo esso interferisce con altri fattori caratterizzanti l’azione umana. Per far ciò, essa guarda al diritto sia nel suo complesso, cioè a interi ordinamenti giuridici, sia nelle sue parti, coincidenti con i singoli istituti – o istituzioni13 – che la scienza giuridica, la legislazione, la prassi giuridica hanno individuato e distinto nel corso dei secoli: l’organizzazione costituzionale, il matrimonio, la proprietà, il contratto, il reato e la sua repressione, la tutela dei diritti soggettivi e via dicendo. Secondo una felice espressione, la nostra disciplina segue il diritto come fosse la sua ombra (Bobbio, 1971, p. 273), osservandone i processi formativi e applicativi da quel peculiare angolo visuale che è stato descritto nel primo paragrafo e trasfondendo le proprie osservazioni nelle categorie teoriche e concettuali tipiche della sociologia. E dunque, richiamando queste categorie, sopra descritte succintamente, si può ora dire, ancor più particolareggiatamente, che la sociologia del diritto si occupa: a) di ogni sistema giuridico, dei suoi nessi strutturali, delle sue origini, delle sue funzioni, dei suoi rapporti con altri elementi del sistema sociale complessivo e con altri sistemi giuridici; b) del rapporto fra previsioni normative giuridiche, azioni e comportamenti, nonché dei processi decisionali che conducono a definire socialmente azioni e

comportamenti come leciti o illeciti; c) delle singole istituzioni giuridiche viste nel loro contesto sociale, cioè in relazione ai fondamenti culturali, alle esigenze, ai movimenti, agli interessi e ai rapporti sociali che le riguardano e ne influenzano la nascita, l’efficacia, le funzioni specifiche, il mutamento, la scomparsa; d) dei ruoli socio-professionali coinvolti nei processi di formazione e di applicazione del diritto, quali legislatori, giudici, giuristi, avvocati ecc., e delle rispettive organizzazioni; e) della conoscenza e delle opinioni del pubblico sul contenuto delle norme giuridiche, sulle loro radici culturali e sui valori che vi sono sottesi. Dallo studio di questi problemi, che presentano carattere ora macrosociologico, ora micro-sociologico, il sociologo del diritto trarrà lo spunto per compiere importanti riflessioni. In che misura un sistema giuridico riflette la cultura e i valori di una popolazione o, invece, ne diverge? Il diritto riflette gli interessi dei gruppi dominanti, oppure contribuisce a controllarli nell’interesse generale? Svolge una funzione integrativa, irenica, cioè apportatrice di pace, o invece svolge una funzione polemogena, cioè fomenta i conflitti, anziché sopirli? Tempera le disuguaglianze sociali, o consacra e rafforza la stratificazione esistente? Assorbe o rifiuta i concetti e i valori di sistemi normativi collaterali? Convive con questi sistemi o li combatte? Più in generale ancora: perché nasce il diritto? È una variabile dipendente o indipendente rispetto alla politica o all’economia? Fino a che punto esso indirizza, e indirizzerà, le azioni umane? Risulta dunque evidente che la sociologia del diritto apporta un contributo particolare, per oggetto e per metodo, alla riflessione su questioni che sono patrimonio anche di altre discipline. Anzitutto la storia del diritto, il cui campo d’indagine si distingue dalla sociologia del diritto, sostanzialmente, per il sol fatto che quest’ultima si dedica con strumenti appositi soprattutto all’osservazione della realtà presente, senza peraltro trascurare la conoscenza del passato, così come un buon storico, del resto, non può trascurare la conoscenza del mondo in cui vive, che fornisce continuamente ipotesi per la comprensione degli avvenimenti passati. Inoltre, vi è una prossimità fra sociologia del diritto e antropologia giuridica, che studia specificamente il ruolo della cultura nella formazione e nello sviluppo delle idee giuridiche, concentrandosi soprattutto sugli scambi e sugli scontri culturali e assumendo come oggetto privilegiato, in particolare, i diritti di tradizione orale. Ed infine, è particolarmente chiara l’affinità tra sociologia del diritto e filosofia del

diritto, tanto che in molti paesi, Italia inclusa, la nascita e il consolidamento della sociologia del diritto sono stati frutto dell’azione di alcune correnti di pensiero filosofico-giuridico e di filosofi del diritto interessati a fondare le loro riflessioni in base all’osservazione concreta del fenomeno giuridico14. Un rapido sguardo allo sviluppo recente della sociologia del diritto metterà ora in luce sia la ricorrenza delle problematiche sopra ricordate, sia la prossimità fra la nostra disciplina e le discipline affini. Qui non è naturalmente possibile ripercorrere la storia della disciplina. Ha notato Renato Treves che dall’Ottocento in poi essa è venuta sviluppandosi mediante l’apporto di tre correnti di pensiero: quella della sociologia generale, quella delle dottrine politiche e quella della scienza giuridica, soprattutto d’ispirazione antiformalistica. Le prime due correnti hanno condotto studi di carattere macro-sociologico, aventi a oggetto il fenomeno giuridico nella sua globalità («il diritto nella società»); la terza ha condotto studi di carattere micro-sociologico, volti a scoprire le radici sociali delle singole istituzioni giuridiche («la società nel diritto»). Secondo l’autore, un’autentica e matura sociologia del diritto si è imposta, nella prima metà del Novecento, solo con quegli studiosi che hanno saputo combinare entrambe queste visioni e costruire una visione complessiva, sia macro-sociologica, sia microsociologica (Treves, 1987)15. Guardando alla seconda metà del Novecento, nel cui corso la sociologia del diritto si è imposta non solo come scienza autonoma, ma anche come disciplina accademica, possiamo constatare, a seconda dei periodi, una prevalenza ora di tematiche macro, ora di tematiche micro, peraltro con frequenti e spesso riusciti tentativi di collegare i due piani. Questa breve storia può essere suddivisa, grosso modo, in quattro fasi. Un prima fase, dopo la fine della seconda guerra mondiale, è caratterizzata dalla forte influenza del modello della sociologia americana, ispirato a un’integrazione fra riflessione teorico-generale, di ispirazione non solo funzionalistica, ma anche interazionistica, e ricerca sul terreno. Questo modello fa breccia tra i sociologi del diritto anche in aree geografiche di diversa tradizione, come l’Europa occidentale e il Giappone. Si registra così una forte spinta verso la costruzione di un sapere sociologico-giuridico che muova dall’osservazione empirica dei fenomeni giuridici verso la costruzione di teorie che possano fornirne una spiegazione coerente. I sociologi del diritto iniziano dunque a studiare nei diversi paesi fenomeni di varia natura come la produzione, l’applicazione e la disapplicazione delle leggi, gli effetti diretti e

indiretti di queste, le trasformazioni subite da istituti giuridici rilevanti come la proprietà, le successioni e il matrimonio, il prestigio del diritto. Costituito nel 1962 un Comitato di ricerca in sociologia del diritto nell’ambito dell’Associazione internazionale di sociologia16, studiosi di vari paesi lanciano l’idea di ricerche comparative su temi come la conoscenza e l’opinione del pubblico sulle norme giuridiche, le professioni giuridiche e, soprattutto, i sistemi di giustizia. Su quest’ultimo tema si registrano ricerche di ampio respiro in vari paesi, fra cui l’Italia, dove la complessa indagine su L’amministrazione della giustizia e la società italiana in trasformazione, avviata nel 1962 dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale di Milano, viene affidata alle cure di Renato Treves, che la dirige e ne trarrà successivamente le conclusioni secondo una prospettiva tipicamente sociologico-giuridica17. Con la fine degli anni Sessanta e la contestazione politico-culturale di quel periodo, questo modello di sociologia del diritto viene messo in discussione in favore di un accostamento più spiccatamente teorico e, al contempo, politicamente impegnato, secondo una prospettiva che in America assume caratteri di radicalismo critico, soprattutto con il movimento assai vivo dei cd. «Critical Legal Studies», mentre in Europa viene a congiungersi con la visione marxista, assai influente in molti paesi. Viene proposta con forza una sociologia del diritto impegnata a sostenere le ragioni delle classi subalterne e a descrivere, in termini di denuncia, le modalità e i luoghi in cui si esercita più crudamente il controllo sociale: la repressione penale, le istituzioni totali (carceri, ospedali psichiatrici), la fabbrica, la marginalizzazione del dissenso politico, la famiglia stessa in quanto suddivisa in ruoli dominanti e ruoli subordinati. L’onda della contestazione politica si attenua gradualmente a partire dalla seconda metà degli anni Settanta e viene a coincidere con l’irrompere, sulla scena della sociologia del diritto, di una grande ripresa della riflessione teorico-generale. Emblematica di questa svolta in Europa è soprattutto l’opera già ricordata di Niklas Luhmann, che riprende e sviluppa la «grande teorizzazione» di Talcott Parsons, dedicando molta parte della sua monumentale opera precisamente al sistema giuridico, visto come sottosistema relativamente autonomo del sistema sociale globale, secondo una prospettiva che deliberatamente rifugge dall’osservazione empirica settoriale (Luhmann, 1972, 1974, 1993). Anche sull’altra sponda dell’Atlantico, accanto alle sempre vive ricerche vertenti su vari settori del diritto, specialmente quello giudiziario, non mancano contributi teorici di grande rilievo, come

quello di Lawrence M. Friedman, storico e sociologo del diritto, che pure analizza il sistema giuridico secondo una prospettiva globale, ma attento agli aspetti anche più minuti della sua vita concreta, legati specialmente al suo «impatto» e alla sua efficacia (Friedman, 1975). Senza che venisse meno il grande interesse per la teoria generale sociologicogiuridica, che ha ispirato anche rimarchevoli studi italiani, verso la seconda metà degli anni Ottanta e soprattutto con l’inizio degli anni Novanta si assiste alla nascita di un accostamento più eclettico, nuovamente attento all’integrazione fra teoria e ricerca sul terreno, ma soprattutto sensibile alle nuove dimensioni del diritto in rapporto alle innovazioni tecnologiche e ai mutamenti sociali di fine millennio. Emergono così i temi connessi con le biotecnologie, la rivoluzione telematica, il depauperamento ambientale, la globalizzazione economica, le migrazioni di massa, secondo una prospettiva incentrata sempre più sui diritti fondamentali degli individui e dei gruppi, a volta a volta ricondotti nella categoria dei diritti cd. «di cittadinanza» o nella più vasta e universale categoria dei diritti umani. Anche la teoria generale assume questo punto di vista, spingendosi sino a tentare autentiche rivoluzioni tematiche nel modo di concepire sociologicamente il diritto, secondo categorie innovative (Santos, 1995).

5. Il metodo Come detto all’inizio, la sociologia del diritto condivide con la sociologia anche il metodo d’indagine, che consiste in uno stretto collegamento fra teoria e osservazione. Fissato il proprio oggetto d’indagine ed esplorato il campo teorico in cui esso si situa, lo studioso si pone degli interrogativi e li traduce in ipotesi, cioè risposte preventive, che gli sono dettate anzitutto dalla teoria di riferimento, inoltre dalle conoscenze già acquisite sull’argomento e infine, non meno, dalle sue intuizioni. Predispone poi le tecniche di ricerca che paiono più adatte a saggiare le ipotesi stesse sul terreno. Svolta la ricerca, in base alle informazioni ottenute, perviene quindi a confermare, correggere o, se necessario, abbandonare le ipotesi di partenza in favore di altre. Al termine della ricerca, avrà dunque ancora in mano delle ipotesi più ampie, elaborate e articolate, che gli serviranno per ricominciare a osservare a un livello più alto e a riflettere, con «immaginazione», su problemi più generali (Mills, 1959). È ben chiaro che questo procedimento, tipico delle scienze sociali, si

differenzia dal procedimento caratteristico della matematica e della logica, che pure assumono delle ipotesi come punto di partenza di ogni ragionamento. L’ipotesi matematica infatti è ritenuta assiomaticamente inconfutabile e conduce, attraverso deduzioni, alla dimostrazione di una tesi18. Se la tesi non viene dimostrata, è perché le deduzioni sono errate; se viene dimostrata, il procedimento si chiude. Nelle scienze sociali, al contrario, il procedimento rimane sempre aperto. L’ipotesi non confutata dall’esperienza diventa semplicemente il punto di partenza per altre e più approfondite osservazioni, e così via, di ipotesi in ipotesi, con un percorso «senza fine», unended, come l’ha definito il filosofo Karl Popper, che più di ogni altro ha insistito sul fatto che la scienza aspira a rimuovere dubbi, più che a fornire certezze (Popper, 1976). Come accennato, il primo passo che lo studioso deve compiere all’inizio della ricerca consiste nel riferimento a una teoria: non esiste infatti scienza senza teoria, che non si traduca cioè in complessi di asserzioni generali e coerenti volte a dar ragione di un fenomeno o di una classe di fenomeni. Il riferimento alla teoria è preliminare rispetto alla fissazione delle ipotesi e alla determinazione delle tecniche di indagine, perché nessun problema che solleciti la curiosità di un ricercatore si colloca in un vuoto. Anche i problemi più nuovi – si pensi alle biotecnologie più recenti o alla rivoluzione telematica – acquistano senso scientifico se collegati a un universo di conoscenze già accumulate e coordinate secondo parametri teorici. Naturalmente, più gli argomenti sono nuovi, più è facile che il ricercatore, giunto al termine dell’indagine, sia stimolato ad apportare variazioni alla stessa teoria, anche attingendo all’insegnamento di teorie diverse e perfino rivali. Infatti non va dimenticato che la contrapposizione di teorie scientifiche è spesso dettata da motivazioni sociali, cioè dalla necessità, avvertita dagli scienziati, di presentare le rispettive visioni teoriche nel modo più «puro», spesso coincidente con quello più estremo. Ma un’analisi critica delle teorie rivali, in ogni campo, mostra che spesso – non sempre – queste contrapposizioni sono fallaci e che entro certi limiti esse sono integrabili e compatibili. La teoria, in sintesi, è suscettibile di mutamenti. Le sue asserzioni, per quanto generali, sono anch’esse ipotetiche: se non lo fossero, non sarebbero esposte a dubbi, cioè aggredibili dagli strumenti critici della confutazione e sarebbero quindi non-scientifiche. Una teoria che venga assunta come inconfutabilmente vera in se stessa si traduce in un insieme di articoli di fede. Esce così dal mondo scientifico per assumere caratteri meta-scientifici, o metafisici, e si espone fatalmente a confutazioni radicali, che spesso ne

coinvolgono anche gli aspetti vitali. È quanto accaduto in Europa, dopo gli anni Settanta, con la teoria marxista, spesso presentata come assolutamente vera contro lo spirito critico del suo fondatore19, col paradossale risultato che la caduta dei regimi del cd. «socialismo reale» ne ha provocato il discredito sociale, travolgendone anche quelle parti che l’esperienza non aveva confutato. Compiuti questi passi preliminari, il ricercatore deve scegliere le tecniche appropriate di ricerca empirica20. Queste tecniche, che i metodologi della ricerca sociale hanno portato a livelli molto raffinati, si suddividono convenzionalmente in qualitative e quantitative21. Metaforicamente parlando, nel primo caso il ricercatore si cala nella realtà studiata, ne osserva dall’interno tutti gli aspetti anche minuscoli, vivendoli assieme ai protagonisti, e ne fornisce un’interpretazione, una descrizione e una spiegazione senza ricorrere a formulazioni numeriche. Nel secondo caso, il ricercatore si colloca in una posizione più distaccata, affronta la realtà studiata sulla base di un numero predefinito di categorie e di variabili, osserva e quantifica i fatti più significativi, collega fra loro le diverse osservazioni e fornisce le proprie interpretazioni, descrizioni e spiegazioni attraverso formulazioni numeriche: ricorrenze statistiche, rapporti tra variabili, indici della consistenza di variabili o di complessi di variabili. La scelta di tecniche qualitative o quantitative dipende bensì dall’impostazione culturale del ricercatore, ma anche, e primariamente, dall’oggetto della ricerca. Alcune ricerche, per esempio su gruppi etnici minoritari, si conducono presso campioni di popolazione troppo ridotti perché le osservazioni possano tradursi in dati statistici significativi. Ancora, le indagini che un ricercatore svolge in una comunità, registrando ogni particolare della sua vita – stili culturali, segni anche minuscoli di comunicazione interindividuale, espressioni proverbiali, riti – si traducono in notazioni difficilmente organizzabili secondo categorie prefissate. Quando invece la ricerca prenda le mosse dalla conoscenza già estesa di alcune variabili fondamentali – per esempio rivelatrici della struttura elementare di una società quanto a genere, fasce d’età, professionalità, condizione civile – e sia possibile rivolgersi ad ampi campioni di popolazione, allora i metodi quantitativi appariranno non solo opportuni, ma inevitabili. Entrambe queste tecniche si basano sull’osservazione da cui si traggono le informazioni, cioè quei dati che permettono al ricercatore di soddisfare la sua curiosità scientifica, di arricchire il suo panorama di conoscenze, di formarsi

un’opinione. L’osservazione dunque si rivolge alla fonte delle informazioni, che può essere di varia natura. Una fonte primaria è la testimonianza dei soggetti con cui si entra in contatto. La prima e più ovvia operazione di un sociologo che voglia rendersi conto dei motivi che inducono gli esseri umani ad agire è raccogliere tali testimonianze, condurre cioè delle interviste. Questo metodo, il più ricorrente in sociologia, va commisurato alle caratteristiche sociali degli intervistati e ai rapporti che sussistono fra questi e gli intervistatori. Se esista fra questi comunanza di linguaggio e di concetti culturali, sarà più facile utilizzare strumenti artificiali come i questionari, appositamente predisposti con batterie di domande chiuse, cioè con risposte predefinite fra cui l’intervistato dovrà semplicemente scegliere, oppure di domande aperte, cui si risponde liberamente, senza vincoli. Se manchino tali requisiti e, per esempio, l’intervistatore debba accostare gli intervistati attraverso particolari filtri culturali, magari con l’ausilio di un mediatore culturale che funga da interprete, si raccomanderà il ricorso a interviste totalmente libere, i cui risultati saranno raccolti dall’intervistatore con un registratore, o con appunti, eventualmente scritti ex post per non turbare gli intervistati. Il dialogo, in questi casi, non sarà strutturato e sarà, piuttosto, frutto della vita comune che il ricercatore conduce con i gruppi sociali oggetto del suo studio, sia che ne faccia o ne diventi parte, sia che, invece, se ne distingua e venga socialmente riconosciuto come estraneo. Quando si conduce questo tipo di osservazione, attraverso il dialogo, bisogna sapere che le informazioni fornite dagli intervistati possono essere inaffidabili, non necessariamente per mala fede, ma anche, semplicemente, per la normale tendenza delle persone a rappresentare se stesse e i propri simili secondo una percezione determinata da molti elementi culturali e psicologici. La stessa identità di ognuno di noi, del resto, è funzione della nostra e dell’altrui percezione di noi stessi. Questa notazione, fondamentale in psicologia, non è meno importante in sociologia. Il ricercatore dovrà dunque adottare tutti quegli accorgimenti che permettono di ridurre al minimo, se non proprio di eliminare, il rischio di prospettazioni fuorvianti. Una fonte di informazioni non meno importante delle testimonianze è costituita dai documenti, cioè dai materiali attraverso cui gli esseri umani forniscono rappresentazioni, narrazioni, indicazioni, opinioni, indicazioni di volontà, proprie o altrui. Tali documenti possono avere i caratteri più vari, essere espressi attraverso segni non solo linguistici, ma anche iconici (disegni,

fotografie, film) o musicali. L’umanità produce una quantità formidabile di documenti, da cui le scienze storiche e sociali non possono prescindere. Rispetto alla testimonianza, lo studio dei documenti presenta il vantaggio di una almeno apparente oggettività. Mentre l’intervistato reagisce al contatto con il ricercatore, il documento è, in questo senso, inerte. Anche al documento il ricercatore rivolge, per dir così, delle domande, non diversamente che a un intervistato: ma le risposte sono già contenute nel documento stesso, anticipate e non posticipate. Eppure, anche qui il ricercatore deve porsi in modo critico. Il documento può ingannare non meno di un intervistato. Può essere materialmente falso, oggetto cioè di una contraffazione. Può poi essere autentico, ma fornire false indicazioni. Può altresì essere frutto di fraintendimento, ignoranza o confusione nelle mente del suo redattore. Infine può essere autentico e veridico, ma non rappresentare la realtà sociale circostante e non prestarsi quindi a generalizzazioni. Come le informazioni ricavabili da testimonianze, così anche i documenti possono essere interpretati in modo puramente qualitativo, o anche quantitativo. L’analisi qualitativa della documentazione è la più tradizionale, avendo alle spalle secoli di cultura letterata. L’analisi quantitativa, frutto di elaborazione moderna, può a sua volta presentare grandi vantaggi. Se si dispone di un notevole numero di documenti omologhi, rappresentativi della medesima realtà e dello stesso periodo storico, il conteggio numerico della ricorrenza di alcuni elementi, di certe espressioni linguistiche, di certe immagini, anche di certi errori, può rivelare, attraverso il freddo linguaggio dei dati, realtà che a prima vista è difficile, se non impossibile, scorgere con nettezza. Spesso l’autentica volontà e la cultura di chi redige un documento si nascondono dietro la cortina delle parole: compito dell’interprete è scostare quella cortina, andare cioè al nocciolo del contenuto. In questo consiste, per l’appunto, la cd. «analisi del contenuto». Ognuna delle tecniche di ricerca sociologica succintamente menzionate in precedenza trova applicazione in sociologia del diritto. In qualunque dei suoi campi, le informazioni necessarie al sociologo del diritto possono essere tratte dal vivo, attraverso rapporti personali, oppure attingendo a una documentazione. Anche qui, la scelta dipende soprattutto dalla natura della ricerca. Se questa ha per oggetto le opinioni del pubblico su certe norme, o il rispetto di certi diritti soggettivi, può essere opportuno o perfino indispensabile chiederlo direttamente a un campione di quel pubblico, il che

non esclude che interessanti informazioni possano essere tratte da altre fonti, per esempio dall’esame di dati statistici i quali rivelino che quelle norme vengono sistematicamente disapplicate o quei diritti sistematicamente violati. Se la ricerca ha per oggetto dei comportamenti giuridici formali lungo un vasto lasso di tempo, potrà essere necessario ricorrere a una documentazione. Può trattarsi di documenti giuridici in senso stretto, che formalizzano atti volti a conseguire effetti giuridici (leggi, contratti, testamenti, atti giudiziari, atti amministrativi), oppure di documenti che semplicemente informano sul diritto (atti parlamentari, giornali scritti o teletrasmessi, cronache). Tale informazione può essere non solo diretta, cioè vertente specificamente su istituti o norme giuridiche, ma anche indiretta, come accade con le fonti letterarie. Romanzi, commedie, tragedie, poemi forniscono spesso preziose informazioni giuridiche: un forte movimento culturale e metodologico, cd. di «Law and Literature», pratica e raccomanda questo metodo, che risulta essenziale soprattutto per le società antiche e molto suggestivo per il sociologo del diritto22. Un serio problema va tenuto in conto quando si applicano le tecniche della sociologia al campo del diritto. Il materiale giuridico, soprattutto quello contenuto nei documenti giuridici, è interpretabile anzitutto in senso giuridico-dogmatico, secondo le finalità proprie del lavoro del giurista, a suo tempo descritte. Di questo significato il sociologo non può non tener conto, ciò che gli impone di conoscere approfonditamente il diritto e l’ermeneutica giuridica prima di cominciare a svolgere ricerche; ma non potrà neppure darlo per scontato, perché il suo compito, anche nei confronti di questo materiale, non consiste nell’indicare il significato più corretto delle espressioni, ma censire le varie espressioni usate e formulare quesiti sui loro effetti concreti.

Note 1 La legge 6 marzo 1987, n. 74, Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, ha introdotto modifiche a questa normativa, riducendo il termine quinquennale a tre anni, eliminando i termini più lunghi di sei e sette anni e, per la separazione di fatto, prescrivendo che il termine biennale debba decorrere dal 18 dicembre 1970. 2 La rilevanza che ha assunto il fenomeno delle convivenze senza matrimonio negli ultimi decenni sembra confermare questa ipotesi (Pocar, Ronfani, 1992). 3 La distinzione fra sociologia del diritto e scienza del diritto, che viene qui proposta, discende dall’insegnamento di autori come Max Weber e Hans Kelsen (Treves, 1987), ma non è da tutti condivisa. Importanti correnti di pensiero giuridico, infatti, sostengono che la scienza del diritto abbia ad oggetto, prima che le norme, i comportamenti sociali osservabili di carattere normativo e pervengono

a far coincidere di fatto scienza e sociologia del diritto. Per una esposizione dei diversi punti di vista e di significative controversie sull’argomento cfr. V. Ferrari (1997), pp. 60 sgg. 4 Varie sono le opere che affrontano questo argomento, trattandolo ora dal punto di vista storico (Collins, 1994; Wallace, Wolf, 1991), ora dal punto di vista teorico (Smelser, 1991; Giddens, 1993), ora da entrambi (Crespi, 1994, 2002). 5 Infatti si dice comunemente che questo accostamento s’ispira a una «metafora organicistica». 6 Rilievi simili avevano suscitato già da anni seri tentativi di risposta da parte di sociologi funzionalisti che avevano segnalato la possibilità che singole istituzioni sociali operino in senso non funzionale, ma disfunzionale, e quindi pregiudichino, anziché favorire, il mantenimento dell’equilibrio sociale (Merton, 1949; Levy, 1952). 7 La distinzione fra aspettative cognitive e aspettative normative appare chiara dalle più comuni esperienze di vita. Si pensi, per esempio, all’aspettativa d’amore. Se all’affermazione di Tizio «io ti amo», Caia risponde «io no», la reazione più probabile sarà di tipo cognitivo, nel senso che Tizio, magari dopo qualche insistenza, abbandonerà la pretesa. Nel tempo attuale, e nella società occidentale laicizzata, ciò accade il più delle volte anche nell’ambito di un matrimonio e, in questo caso, ne scaturisce spesso la separazione fra i coniugi. Ma in Italia, fino a tempi non lontani, se un marito veniva respinto dalla moglie aveva ottime probabilità di mantenere ferma «normativamente» la propria aspettativa e persino di farsela riconoscere da un tribunale in base agli obblighi giuridici imposti ai coniugi dalle norme sul matrimonio. 8 Ci si riferisce alla notissima teoria della «profezia che si autoadempie», formulata da R.K. Merton (1910-2003), uno dei padri della sociologia contemporanea (Merton, 1949). 9 Nei sistemi politici autoritari, per esempio, capita spesso che si formino gruppi formalmente consentiti i quali svolgono nascostamente attività politica contraria al governo. In Polonia alla fine degli anni Settanta l’opposizione utilizzò un sindacato, Solidarność, per sfidare il regime che non permetteva la costituzione di partiti politici anticomunisti. Nel Paese Basco, durante il regime franchista spagnolo, l’opposizione locale fondò molteplici «società gastronomiche» presso le quali veniva di fatto programmata e organizzata la lotta politica. 10 Il testo costituzionale ha proibito ogni discriminazione per motivi di «religione, razza, casta, sesso, luogo di nascita» (art. 15) e abolito l’intoccabilità come concetto e nella pratica (art. 17). 11 Rispetto all’anteguerra è per esempio sintomatica, in Italia, la notevole perdita di status sociale della categoria degli insegnanti elementari e medi, i cui redditi sono stati penalizzati sia in valori assoluti, sia, ancor più, in relazione ad altre categorie, soprattutto a causa della debole capacità contrattuale delle relative rappresentanze sindacali. 12 Questa definizione vuol esprimere sinteticamente quello che è stato ritenuto il nocciolo comune delle varie definizioni più ricorrenti secondo una opinione autorevole (Gallino, 1983, pp. 402, 405). Essa implica un certo grado di condivisione, da parte degli attori sociali, dei significati e delle finalità delle strutture normative di cui si tratta, elemento su cui giustamente insistono alcuni autori (Pennisi, 1998). 13 Si ricorda che la lingua inglese usa una sola parola, «institutions», per designare tanto le «istituzioni» in generale, quanto gli «istituti» del diritto. 14 In particolare va segnalata l’opera di Renato Treves (1907-1992), sia sul versante scientifico, sia su quello dell’organizzazione culturale anche a livello internazionale (cfr. Ferrari, Gridelli Velicogna, 1992; Ferrari, Ghezzi, Gridelli Velicogna, a cura di, 1997).

15 Treves individua tre figure di grandi studiosi, pur diversi fra loro, Max Weber, Georges Gurvitch e Theodor Geiger, che definisce per queste ragioni «fondatori» della sociologia del diritto. 16 Il Research Committee on Sociology of Law fu fondato su proposta dell’americano William M. Evan e del polacco Adam Podgórecki e fu presieduto dalla fondazione sino al 1974 da Renato Treves. Oggi, con circa 400 soci, svolge un’importante funzione di collegamento fra gli studiosi di molti paesi, attraverso l’opera di gruppi di ricerca, l’organizzazione di convegni e il coinvolgimento nella direzione scientifica dell’International Institute for the Sociology of Law, che opera dal 1989 nella città di Oñati (Spagna) grazie al sostegno del governo della Comunità autonoma basca e ospita attualmente la più ricca biblioteca e la più ampia base di dati al mondo nel campo della disciplina. La sociologia del diritto conta poi sull’apporto di numerose associazioni costituite su base nazionale (anche se aperte a studiosi stranieri), fra cui spicca l’americana Law and Society Association, fondata nel 1964, che pubblica «Law and Society Review», la più diffusa rivista della disciplina. 17 Da questa ricerca scaturirono ben tredici volumi apparsi fra il 1967 e il 1976 ad opera non solo di sociologi del diritto, ma anche di giuristi, storici del diritto ed economisti. Cfr. la sintesi in Treves (1972). 18 Questa rappresentazione comune del procedimento matematico prescinde dal fatto che anche le ipotesi matematiche possono ritenersi confutabili se si cambiano i principi generali da cui si parte. 19 Il metodo critico, consistente nel disvelamento della realtà occultata dalle ideologie, è infatti il nucleo più profondo dell’insegnamento di Karl Marx, come rivela, fra l’altro, il sottotitolo della sua opera principale: Il Capitale. Critica dell’economia politica. 20 Fra i tanti manuali che illustrano le diverse tecniche della ricerca empirica in sociologia si segnalano, per completezza, Bailey (1992) e Corbetta (1999). 21 Questa distinzione è convenzionale perché ogni ricerca impone anzitutto la soluzione di problemi qualitativi e la stessa quantificazione consiste nella traduzione in entità misurabili di concetti e osservazioni di natura qualitativa. 22 Cfr. Mittica (1996) e Ost (2004) per significativi esempi di lettura di fonti letterarie classiche in chiave sociologico-giuridica.

Capitolo secondo. Il diritto

1. Premesse Il presente capitolo affronta la prima delle aree tematiche della sociologia del diritto (cfr. supra, pp. 25 sgg.) e tratta pertanto del diritto in generale, cioè del sistema giuridico, dei suoi fondamenti, dei suoi caratteri strutturali e delle sue prestazioni funzionali primarie. È necessario premettere all’analisi alcune importanti precisazioni. La prima verte sul concetto di «diritto» che, nel corso dei secoli, e a seconda delle prospettive, è stato definito nei modi più vari. Per «diritto» si è inteso ora il complesso delle norme positive ritenute vigenti e obbligatorie dal potere politico, senza considerazione del loro contenuto e della loro pratica efficacia; ora quelle norme che in virtù del loro «buon» contenuto meritano obbedienza sul piano morale, non importa se riconosciute o meno dal potere; ora quelle sole norme positive che vengono di fatto osservate dai consociati e/o applicate dai tribunali; ora il complesso istituzionale delle norme e degli organismi che le emanano, amministrano e applicano; ora il complesso delle relazioni intersoggettive socialmente riconosciute da cui promanano diritti soggettivi e correlativi doveri. Sulle diverse definizioni di diritto sono state costruite teorie e concezioni filosofiche che si sono duramente contrapposte, spesso traducendo in lotta di contenuti e di ideali dei meri dissidi terminologici originati dal diverso significato attribuito dai contendenti alla parola «diritto». Ogni grande controversia filosofica e storica di ogni tempo sul concetto, l’essenza e la definizione del diritto, in realtà, può essere letta in questa chiave (Williams, 1945). Qui va detto che ognuna delle definizioni di «diritto» sopra indicate è astrattamente proponibile: la validità di ognuna dipende da un punto di vista specifico. Ebbene, dal punto di vista sociologico appare opportuno non distaccarsi troppo dai significati che nel contesto delle relazioni sociali si attribuiscono

più comunemente alla parola «diritto», nonché da quegli atti e da quelle parole che più spesso vengono socialmente associati all’idea del diritto. Occorre cioè partire dalla cultura giuridica, sia quella diffusa presso il pubblico generico, sia quella praticata da quei gruppi ristretti, là dove esistono, che hanno a che fare professionalmente con il diritto, cioè i cd. «operatori giuridici»: la «cultura giuridica interna», come l’ha efficacemente definita Lawrence Friedman (1975, pp. 325 sgg.*). Se si parte dalla cultura giuridica, è facile constatare che, fra i vari concetti che vengono comunemente associati all’idea di diritto, quello che più costantemente compare è il concetto di norma. Non vi è quasi descrizione del diritto, esplicita o implicita, tecnica o generica, semplice o sofisticata, orale o scritta, che non contenga, da solo o assieme ad altri elementi, un riferimento al fatto che una popolazione, un gruppo sociale, regola il proprio agire secondo modelli d’azione più o meno consolidati. Ciò appare già ben chiaro nelle società di tradizione orale, come dimostra la ricerca antropologica. In tali contesti le testimonianze raccolte attorno al «diritto» informano primariamente su «ciò che si fa» e per questo «si deve fare», perché «è sempre stato fatto»: dunque su norme e, correlativamente, sulla reazione sociale che scaturisce dalla loro trasgressione (Hoebel, 1954). Le società letterate, a loro volta, riferiscono del loro diritto attraverso una molteplicità di fonti scritte, soprattutto provenienti dalla cultura interna, le quali si concentrano sempre primariamente su norme, pur diverse nei tempi e nei luoghi: ora si tratta di regole consuetudinarie tramandate da generazioni, ora di leggi o decreti emanati da un’autorità politica, ora di precetti tratti dalle opinioni di giuristi professionali, ora di principi estrapolati dalle decisioni dei giudici. In ogni discorso specializzato sul diritto questa informazione sulle norme costituisce il nucleo attorno a cui ruota ogni altra descrizione, vertente sui processi formativi e applicativi delle norme stesse, sui loro fondamenti etici, sulle loro conseguenze politiche e via dicendo. Il sociologo del diritto – ma anche lo storico, l’antropologo, il politologo, l’economista – che cercasse di costruire una propria visione del diritto trascurando questo materiale normativo si esporrebbe al grave rischio di allontanarsi dal campo stesso delle sue osservazioni e di rendere più ardua la comunicazione proprio con i soggetti la cui azione rappresenta il fulcro della sua riflessione. Per queste ragioni, sul piano definitorio, useremo il termine «diritto» per designare un insieme di norme aventi alcuni caratteri che verremo indicando. Non seguiremo quindi la proposta di coloro che stimano necessario allargare il

concetto di diritto sino a comprendervi, oltre alle norme, anche tutte le attività connesse con la loro creazione e applicazione. Sebbene tale connessione sia evidente, questa proposta rischia infatti di far assumere alla parola un’estensione eccessiva, tale da far scomparire il confine fra le norme giuridiche e fenomeni attinenti ad altre sfere d’azione sociale, per esempio politica o amministrativa. Se è «diritto» anche ciò che si fa per il diritto o attraverso il diritto, allora tutto è diritto, perché, come si vedrà in seguito, ogni azione possiede una sua diretta o indiretta rilevanza giuridica sulla base di una o più norme. Ciò detto riguardo al diritto, concepito come insieme di norme, viene spontaneo denominare questo insieme «sistema giuridico», dato che l’aggettivo «giuridico», nella lingua italiana, è comunemente usato come qualificativo corrispondente alla parola «diritto». Anche qui, naturalmente, ci imbattiamo in un delicato problema terminologico. Infatti l’espressione «sistema giuridico», con i suoi equivalenti in altre lingue, compare in sociologia del diritto prevalentemente con un più ampio significato. Per esempio, Lawrence Friedman parla del «sistema giuridico» (legal system) – e anche del «diritto» (law) – come di una unità complessa che comprende sia una «sostanza», costituita dalle norme, sia delle «strutture», costituite da quegli apparati decisionali (parlamenti, magistratura, amministrazioni) che fanno o applicano le norme (Friedman, 1975, p. 35*). A sua volta, Niklas Luhmann usa analoga espressione (Rechtssystem) per designare «tutte le comunicazioni sociali che vengono formulate con riferimento al diritto» (Luhmann, 1981, p. 61*), dando l’impressione di separare il concetto di «diritto» da quello di «sistema giuridico»1. Così ancora William Evan, uno dei padri della nostra disciplina, parla di «sistema giuridico» (legal system) con riferimento a un complesso strutturale organizzato, composto da «valori, norme, ruoli e organizzazioni» (Evan, 1990, p. 47). Analoga tendenza si riscontra anche in teoria del diritto: un noto libro di Michel Van de Kerchove e François Ost, molto influente fra i sociologi del diritto, adotta l’espressione «sistema giuridico» (système juridique) per indicare «la totalità dello spazio in cui si dispiega il diritto», e pertanto, oltre alle norme, anche gli atti con cui queste vengono messe in esecuzione, applicate e gestite (Van de Kerchove, Ost, 1988, p. 52). Ancora va detto che ognuna di queste definizioni è astrattamente proponibile, sia perché si tratta di scelte terminologiche, corrette se assunte in coerenza con un quadro teorico e adeguatamente giustificate, sia perché, se per «sistema» s’intende un mero «complesso di elementi interagenti» (cfr.

supra, p. 9), è ben chiaro che tutte le entità concettuali riferite nelle varie definizioni sono per l’appunto rappresentabili in termini sistemici: così le sole norme, così anche l’insieme costituito dalle norme e da altri elementi, quali azioni, valori, apparati decisionali, ruoli, comunicazioni. Tutti questi elementi infatti sono collegati e tutti possono essere esaminati sia isolatamente, sia in relazione reciproca, secondo l’ordine che meglio rivela il senso del loro collegamento. A seconda delle diverse scelte, semplicemente, singole connessioni appariranno in una prospettiva diversa, ora intra-sistemica, ora intersistemica, a seconda della definizione adottata2. Ciò detto, pare opportuno adottare l’espressione «sistema giuridico» nella sua accezione più ristretta, per designare l’insieme delle norme giuridiche, sulla cui natura sistemica, o sistematica, i giuristi peraltro insistono da secoli (Cappellini, 1984-85; Losano, 2002), quindi come equivalente di «diritto», non solo per la ragione semantica appena ricordata, ma anche, e soprattutto, perché le accezioni più vaste dell’espressione, pur diffuse e autorevolmente sostenute, sebbene fra loro diverse, inducono a confondere due concetti che proprio l’analisi sociologica impone di distinguere: da un lato il sistema delle norme giuridiche, dall’altro il sistema delle azioni collegate alle norme giuridiche. Quest’ultimo può anche essere diversamente definito. Dal sociologo francese Pierre Bourdieu (1930-2002), si può per esempio mutuare l’espressione «campo giuridico» (champ juridique) (Bourdieu, 1986), che sembra particolarmente felice3. È comunque evidente che la diversità delle prospettive e delle relative scelte terminologiche non pregiudica in alcun modo la possibilità di dialogo e di integrazione fra le rispettive visioni teoriche, purché sia sempre chiaro il significato delle espressioni a volta a volta impiegate.

2. Le norme come concetto sociologico L’etimo latino della parola norma, che significa «squadra», è il miglior punto di partenza per analizzare sociologicamente questo concetto. Una squadra infatti è uno strumento che guida e misura un’azione, nella specie un tratto grafico. In questo caso la misura è quantitativa, traducibile in numeri. Per altri tipi d’azione avremo altre «misurazioni», in senso traslato. Una preghiera individuale può essere rapportata a una condizione spirituale, o a un modello esteriore, o ad entrambi: la sua «misura» sarà data da una norma individuale, o da una norma sociale, o dalla loro combinazione. Lo stesso può dirsi di

qualsiasi azione sociale: un saluto, una dichiarazione d’amore, una promessa, un dono, l’assunzione di un debito morale o materiale, una minaccia, una lesione, anche un silenzio. Ognuna di queste azioni può venire rapportata a un modello preesistente che offre, come la squadra, una guida e una «misurazione». La misurazione coincide in questi casi con una rappresentazione e, eventualmente, una valutazione. La norma è pertanto un modello al quale un’azione si rapporta, oppure può rapportarsi, oppure deve rapportarsi. Una norma può esaurire la sua funzione nella sfera psichica del soggetto agente senza venire a conoscenza di altri. Molte nostre azioni s’ispirano a modelli che non comunichiamo, spesso neppure a noi stessi. Tali modelli, centrali nell’analisi psicologica, possono interessare indirettamente anche il sociologo, sia perché, inducendo all’azione, producono effetti sociali, sia perché alle loro radici vi sono spesso norme socialmente diffuse che il soggetto ha interiorizzato. Diretto e centrale per la sociologia è invece l’interesse per quelle norme che acquistano forma espressiva e vengono comunicate, assumendo carattere sociale. In tal caso esse si presentano come dei messaggi, cioè atti illocutori che, partendo da una fonte, o emittente, si dirigono verso uno o più riceventi, entrando così in uno spazio discorsivo o, con altra espressione, in un circolo semiotico: un argomento, questo, che impone alcune importanti considerazioni. Anzitutto bisogna soffermarsi sulla struttura, appunto, semiotica delle norme, partendo dal fatto che esse, in quanto atti di comunicazione, sono composte di segni, cioè di unità espressive il cui significato deve essere desunto dal riferimento a dei codici. La dipendenza dei segni dai codici è evidente. Il semplice segno «P» possiede un significato diverso a seconda che il codice di riferimento sia quello dell’alfabeto latino, nel qual caso esso evoca il suono della lettera «pi», oppure quello dell’alfabeto greco, o dell’alfabeto cirillico, nel qual caso evoca il suono della lettera latina «erre», cioè un’altra lettera. La parola «viola» può indicare un fiore, uno strumento musicale o un nome di donna: la corretta interpretazione di questo segno complesso dipende dal riferimento a codici non solo linguistici, ma anche, a seconda del caso, botanici o musicali od onomastici, oltre che a un contesto discorsivo. A un livello di complessità ancora maggiore si colloca l’enunciato «ti voglio bene»: qui i codici di riferimento sono molteplici e coinvolgono sia concetti, sia sensazioni emotive, che vanno intuite prima che comprese. Infine, entrando nel mondo normativo,

prendiamo la seguente espressione: «Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno» (art. 2043 c.c.). Il livello di complessità segnica è ora molto più alto. Questa frase infatti rinvia a numerosi codici, a cominciare da quello linguistico: persino il pronome «colui», grammaticalmente maschile, potrebbe essere interpretato nel senso che l’espressione escluda i soggetti di genere femminile. Abbiamo poi codici semantici, generali e speciali. Che cosa significa la parola «danno»? Indica un sacrificio materiale, monetizzabile, o comprende anche sacrifici d’altro genere, privi di riscontro economico? E che cosa indicano le parole tecnico-giuridiche «obbliga», «doloso» e «colposo»? Abbiamo infine il riferimento, nientemeno, a un codice fisico-filosofico. Che cosa significa «cagionare»? In che senso e in quali casi possiamo dire che un’azione sia stata «cagione» di un danno? A quale idea di «causa» si riferisce la frase, attraverso il verbo «cagionare»? Viene qui in luce un punto cruciale: la comunicazione umana dipende dal fatto che emittenti e riceventi dei messaggi si riferiscano agli stessi codici e ne traggano le stesse informazioni. Il distratto russo Igor, di fronte al segno «P», che magari simbolizza un messaggio normativo (si pensi a un segnale stradale), può cadere in equivoco leggendo «erre». La persona totalmente ignorante di musica classica può scambiare lo strumento viola per l’omonimo fiore. Le parole «ti voglio bene» possono ingenerare equivoci nati da sentimenti spesso indistinti e complessi di chi parla o di chi ascolta. Ancor più problematico è il caso della proposizione normativa di cui all’art. 2043 c.c. Qui entrano in gioco, accanto al riferimento a codici, anche opinioni. Sulla causalità sono state scritti milioni di parole da filosofi, fisici, biologi, giuristi. Più o meno consciamente bisogna dunque scegliere una teoria, che sarà diversa a seconda della cultura e della prospettiva specifica di ognuno: il filosofo andrà alle radici metodologiche del problema, il giurista si chiederà quale idea di causa, magari rozza, abbia avuto in mente il legislatore, e forse se ne sentirà vincolato. Un altro punto importante da affrontare concerne il percorso che le norme compiono nello spazio discorsivo in cui l’emittente le ha indirizzate. La rappresentazione elementare dei percorsi compiuti dai messaggi è lineare, da un emittente a un ricevente: anche in questo caso, fra i due estremi si frappone un mezzo, cioè un medium, che trasmette il segnale originario e, nel trasmetterlo, può convogliare elementi di disturbo – rumori, inframmettenze – che ne ostacolano la comprensibilità4. Ma la comunicazione sociale non è mai così semplice. Persino fra due parlanti essa riprende, o almeno echeggia,

elementi di discorso che provengono da sfere sociali più ampie e che, spento quel dialogo, potranno ulteriormente diffondersi. Col crescere del numero dei parlanti, aumenta l’influenza dei media nella trasmissione dei messaggi. Per paradosso, il culmine si raggiunge con la comunicazione normativa generale, vertente su norme di legge, per definizione indirizzate non a uno o più riceventi individualizzati, ma a una moltitudine indistinta di riceventi. Già complessi in partenza, tali messaggi entrano in uno spazio indefinito, in cui molteplici media, individuali e di massa, intervengono a trasmetterli e ritrasmetterli, ognuno obbedendo a specifiche modalità comunicative. Un medium individuale come l’avvocato, richiesto di un parere su una norma, si atterrà anzitutto alle regole ermeneutiche che dettano un metodo interpretativo e, inoltre, riferirà sui principali orientamenti della giurisprudenza. Quella stessa norma, immessa nel circuito comunicativo attraverso i mass media, che sono tenuti a rispettare degli spazi predefiniti e a tradurre il linguaggio tecnico in linguaggio comune, potrà subire ben più ampie deformazioni. Non solo la cultura del trasmettitore, per esempio un giornalista, ma anche le sue opinioni e i condizionamenti di ruolo cui è soggetto potranno influire sul significato del messaggio. Nel corso del viaggio attraverso i media, i messaggi normativi subiscono l’influenza di altri e rilevanti fattori. Il trascorrere del tempo, per esempio, modifica il costume e con esso il linguaggio. Espressioni quali «comune sentimento del pudore», generiche ma foriere di emozioni, hanno acquisito nel corso dei decenni ben diversi significati. Lo spazio geografico opera in modo altrettanto decisivo. Nelle diverse regioni il concetto di «onore», che pure è centrale in ogni cultura, assume una connotazione differente, sia presso il pubblico, sia presso gli operatori giuridici. Molto rilevante, soprattutto nell’attuale fase di globalizzazione economica e culturale, è la diversità dei lessici e dei sistemi semantici delle varie lingue: si consideri che se l’inglese, da un lato, è divenuto la lingua franca internazionale, di uso universale, e i modelli giuridici di origine anglosassone si stanno diffondendo in tutto il mondo, dall’altro lato molte espressioni giuridiche anglo-americane, tipiche del sistema di common law, non hanno equivalenti precisi nelle lingue dell’Europa continentale e pongono serissimi problemi di traduzione. Non secondaria è poi l’influenza esercitata dalle varie subculture nel processo comunicativo: in Italia si può ipotizzare che avvocati, giudici e notai, posti di fronte alle stesse norme, ne forniscano interpretazioni diverse, più formali fra i notai, meno formali fra giudici e avvocati.

Fra tutti gli elementi che influiscono sulla comunicazione normativa e, pertanto, sulla univocità o equivocità dei significati dei messaggi concernenti norme, uno si staglia per importanza sociologica: gli interessi dei soggetti interagenti possono essere convergenti, ma anche divergenti. Anzi, diciamo pure che la divergenza di interessi, piuttosto che la convergenza, rappresenta la regola e non l’eccezione quando si tratta di norme. Di fronte al già citato art. 2043 c.c. e alle incertezze che può presentare una locuzione come «cagionare un danno», è assai probabile che la vittima di un atto lesivo propenda per un’interpretazione estensiva e per converso il suo autore propenda per un’interpretazione restrittiva. Non va poi trascurato il fatto che, quando ci si muove su un terreno conflittuale, l’ambiguità delle espressioni può essere un mezzo efficace per evitare gli scontri. Ciò accade spesso in sede di approvazione delle leggi. In tali casi un messaggio normativo, che presenta sempre uno «spazio di indeterminatezza» (Kelsen, 1934), compare in termini ancor più equivoci, o vaghi (Luzzati, 1990), lasciando campo aperto a molteplici e difformi interpretazioni. Queste molteplici interpretazioni potranno apparire più o meno accettabili agli occhi del giurista positivo. Dal punto di vista della sociologia delle norme conta il fatto che esse circolano tutte in uno spazio comunicativo: sono cioè altrettante norme, modelli d’azione capaci di influenzare le aspettative e le azioni sociali nei modi più difformi5.

3. Le norme giuridiche Quanto appena detto vale per tutte le norme. Occorre ora delimitare il campo normativo per ritagliarvi l’area delle norme giuridiche. Un primo passo consiste nel distinguere le norme a seconda della loro minore o maggiore istituzionalità e nel cercare le norme giuridiche fra quelle più istituzionalizzate. I modelli comportamentali possono essere più o meno stabili. Vi sono modelli che nascono e muoiono in una situazione sociale contingente. Due persone che, incontrandosi per strada, vogliono evitarsi, possono silenziosamente accordarsi su un modello normativo effimero, dettato dalle circostanze: una potrà cambiare marciapiede, l’altra entrare in un bar. Questi sono bensì comportamenti comuni, non modelli d’azione istituzionali rispetto a quella finalità specifica. Esaminiamo ora un’azione sociale ricorrente, il saluto, che presenta un’ampia gamma di variazioni. Dalla totale libertà dell’atto in sé (salutare o non salutare) e dalla sua modalità espressiva inizia una

scala lungo la quale troviamo la mera opportunità di salutare, poi l’obbligo sociale di farlo come si preferisce, indi l’obbligo di farlo secondo modalità definite, come nel caso della vita militare. Più si sale la scala, più il saluto appare un’azione istituzionale. Al culmine nessuno dubiterebbe di essere entrato nell’area del diritto: il saluto del militare è codificato nei regolamenti e ritenuto obbligatorio senza frontiere, anche verso il superiore di un altro esercito. Ora, sarebbe arbitrario limitare l’ambito giuridico al solo vertice della scala. Per esempio, può essere che l’obbligo di salutare, e di farlo in modi rituali, sia contemplato nello statuto di un’associazione privata: in tal caso, sarebbe arduo disconoscerne la natura giuridica. Simile, a prima vista, sembra il caso di una famiglia o di un’azienda: qui l’obbligo di salutare i membri più anziani è di solito prescritto da codici comportamentali orali non meno vincolanti di uno statuto formale. Il livello di istituzionalità è analogo: eppure non pochi studiosi esitano a definire «giuridico» quell’obbligo. La realtà dunque è che la scala dell’istituzionalità delle norme è una linea non spezzata, ma continua, lungo quale è difficile tracciare, fra le norme istituzionalizzate, un chiaro confine fra ciò che è giuridico e ciò che non lo è, tanto che l’indicazione di quel confine dipende in buona misura dai diversi punti di vista degli osservatori. Soprattutto per questo motivo possiamo dire che, ai fini della definizione sociologica del diritto, questo requisito è certamente una guida utile, ma non decisiva: un elemento necessario, ma non sufficiente. Un secondo passo consiste nel restringere ulteriormente l’area della giuridicità a quei modelli che convogliano, direttamente o indirettamente, un obbligo o dovere a carico di qualcuno e che, a sostegno di ciò, sono collegati a una sanzione. Questo elemento può darsi per scontato. Il collegamento fra obbligo giuridico e sanzione è un punto fermo della dottrina giuridica tradizionale, da cui non bisogna troppo distaccarsi, e rappresenta il cardine della teoria cd. «normativistica» del diritto, cui può essere accostata questa stessa trattazione in quanto rappresenta il diritto come un sistema di norme. Va anzi detto che, proprio nelle concezioni normativistiche più note, il tema dell’obbligatorietà e della sanzionabilità possiede un rilievo non solo teorico-filosofico, ma anche sociologico. Ispirandosi a Kant, Hans Kelsen fa coincidere tali elementi con la struttura cd. «ipotetica» della norma giuridica che – a differenza della norma moralecategorica – si presenta con la forma «se X, allora Y». La più perfetta rappresentazione di questa struttura formale si ritrova nelle norme di un

codice penale, per esempio: «chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene [condizione X], è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni [conseguenza Y]» (art. 624 c.p.). Partendo da questa struttura Kelsen, benché distingua nettamente la sua dottrina pura del diritto dalla sociologia del diritto, formula una considerazione teorico-sociologica della massima importanza: attraverso la pressione psicologica esercitata dal timore della sanzione – egli dice – chi detiene il controllo dello strumento giuridico può utilizzarlo come una «tecnica sociale» di condizionamento dei comportamenti (Kelsen, 1934, pp. 45 sgg.*). Per ottenere l’effetto sociale Z [rispetto della proprietà], un legislatore non ha che da definire «illecito» il suo contrario X [furto] e porlo come condizione al cui verificarsi dovrà seguire la sanzione Y [reclusione]. Norberto Bobbio, massimo seguace italiano di Kelsen, aggiunge un tassello di pari importanza sociologica, precisando che l’azione X può essere non solo illecita, ma anche lecita, e Y, correlativamente, può rappresentare per l’agente non solo uno svantaggio, o un sacrificio, ma anche un vantaggio, sotto forma di incentivo o di premio, cioè di una «sanzione positiva» che taluno avrà l’obbligo di conferire (Bobbio, 1977). Si recupera così un concetto teorizzato da un grande precursore della sociologia del diritto, Jeremy Bentham (1748-1832), quello di «ricompensa» (reward), che nel corso del Novecento ha avuto una rilevanza sociale di tutto rispetto. Anche in sociologia, peraltro, il collegamento fra diritto e sanzione appare spesso in posizione centrale. Si pensi a un classico come De la division du travail social di Emile Durkheim, che individua nel diritto il «simbolo» della solidarietà sociale: il diritto, secondo l’autore, si rivela precisamente attraverso il tipo di sanzione che viene socialmente praticata in caso di trasgressione, al fine di riannodare i vincoli di solidarietà che il trasgressore ha turbato; così abbiamo sanzioni prevalentemente repressive o prevalentemente restitutive, rispettivamente nelle società a basso oppure alto indice di divisione del lavoro (cfr. infra, pp. 87 sgg.). Sul binomio doverosità-sanzionabilità occorre però brevemente riflettere. Anzitutto va detto – lo sottolineano anche i normativisti più puri – che non tutti gli enunciati normativi cui si riconosce natura giuridica contengono il riferimento a una sanzione. Le norme di un codice civile si limitano ad attribuire diritti soggettivi e obblighi o semplicemente a fornire definizioni, quale, per esempio: «il contratto è l’accordo di due o più parti, per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale» (art. 1321 c.c.). Tuttavia, ciò che conta non è la struttura sintattica della singola norma,

che può non presentarsi in forma ipotetica, quanto piuttosto il modo con cui è organizzato l’intero sistema normativo. Sotto questo profilo, appare chiaro che anche gli enunciati privi di riferimenti alla sanzione sono collegati in qualche modo, diretto o indiretto, a obblighi e a previsioni di tipo sanzionatorio. Per esempio, nel caso del diritto civile bastano poche norme a indicare le sanzioni collegate ai vari comportamenti: nullità, annullabilità, risoluzione, rescissione, risarcimento, prescrizione del diritto, decadenza dall’azione; oppure, sul fronte delle sanzioni positive, erogazione di premi, interessi agevolati, sconti, che taluno avrà diritto di ottenere e talaltro l’obbligo di conferire. Altri e più seri problemi, sul punto, nascono in ordine all’individuazione dei soggetti cui compete il potere di stabilire e di applicare le norme giuridiche. Qui dobbiamo compiere un altro passo nella nostra direzione aggiungendo un ulteriore elemento che spesso si ritiene tipico del diritto, ancora nella tradizione kantiana: l’eteronomia, cioè il fatto che il modello normativo viene imposto da qualcuno, che ha o si arroga il potere di farlo, a qualcun altro, che quel potere riconosce o è costretto a riconoscere. Questo requisito non è accettato da tutti gli studiosi, nemmeno di scuola normativista. Sia Kelsen, sia Bobbio, per esempio, lo respingono osservando che le norme giuridiche possono essere frutto non solo di imposizione, ma anche di libera scelta, come nel caso dei contratti: non solo eteronome dunque, ma anche autonome. In realtà, proprio una prospettiva sociologica induce a mantenere fermo il requisito dell’eteronomia. È infatti facile constatare che le norme sono comunemente il risultato di una contrapposizione di interessi fra soggetti individuali o collettivi, cosa che appare visibile anche quando due parti private sembrano scegliere concordemente, come nei contratti, i modelli cui si atterranno in futuro. Gli schemi contrattuali infatti rivelano fedelmente il potere contrattuale dei contraenti: quando il loro rapporto è egualitario, i diritti e i doveri reciproci tendono a equilibrarsi; quando è disegualitario, la bilancia tende a pendere da una parte, che si riserva più diritti che doveri6. Così intesa, l’eteronomia appare un requisito di indubbia importanza, proprio perché contiene, quanto meno per implicito, un riferimento al potere di fare e applicare le norme: un potere che, a sua volta, si esercita spesso secondo procedimenti definiti da altre apposite norme, che appunto attribuiscono poteri normativi generali o specifici, e ne regolamentano l’esercizio. Ma di quale «potere» deve trattarsi? Max Weber ha risposto a questo quesito con una formula notissima: abbiamo «diritto» – egli dice – quando la trasgressione delle norme possa dar luogo a una «coercizione (fisica o psichica)

da parte di un apparato di uomini espressamente disposto a tale scopo» (Weber, 1922, vol. I, p. 31*)7. Questa formula suggerisce che, affinché una norma sia giuridica, occorre che almeno ex post, dopo che viene trasgredita, sia prevedibile che qualcuno, dotato di autorità, intervenga a ripristinare l’ordine violato. Si profila così l’ulteriore requisito della giudizialità, o giustiziabilità, che molti autori ritengono coessenziale al diritto (per esempio Carbonnier, 19943, p. 320) e che, se ben si osserva, può considerarsi un riflesso della stessa struttura ipotetica delle norme: la formula «se X, allora Y» esprime precisamente l’idea che vi sia qualcuno che affronta il dubbio e, se lo risolve accertando che effettivamente è accaduto X, allora dovrà dar luogo alla conseguenza Y (V. Ferrari, 1987, p. 55). Vi sono, invero, studi antropologici che hanno segnalato l’esistenza di società in cui non è visibile nessuna figura di giudice, così come siamo abituati a concepirlo; ma si può replicare dando per scontato che quel giudizio può essere emesso da qualunque soggetto, individuale o collettivo, persino dalla parte offesa, in società di tradizione orale, debolmente differenziate o «decentrate», nelle quali l’inflizione di sanzioni è lasciata all’iniziativa di chi ha subito un torto socialmente riprovato e agisce simbolicamente per conto della comunità (Kelsen, 1934, pp. 11314*). Ma anche questo non basta. Per convincersene, basta proporre un esempio ricorrente in filosofia del diritto ed esaminare un enunciato normativo come «o la borsa o la vita», indirizzato a un soggetto da una «banda di briganti» che operi abitualmente in un territorio (Kelsen, 1960, p. 57*). Qui abbiamo tutti gli elementi che sinora abbiamo attribuito alla giuridicità: l’istituzionalità, la doverosità e la sanzionabilità, l’ipoteticità, l’eteronomia, il potere, anche la giudizialità, giacché colui che formula l’enunciato può considerarsi delegato a farlo secondo le regole del suo gruppo, a valutare caso per caso e ad agire di conseguenza, rispondendo al gruppo cui appartiene secondo un codice normativo vincolante. Dobbiamo riconoscere caratteri di giuridicità a questa norma? Il quesito, cui viene istintivo rispondere negativamente, investe invece problemi di grande complessità. Un modo per affrontarli consiste nell’aggiungere al mosaico dei requisiti della giuridicità un’ultima, importante tessera, quella della pretesa di completezza, o universalità del sistema normativo di cui si tratta. Si può cioè riservare la qualifica di «giuridico» a quei soli sistemi di norme che, oltre a presentare gli altri caratteri già individuati, permettono altresì di valutare qualsivoglia azione o evento che possa accadere in una società

determinata. Questo in effetti è ciò che tutti i sistemi giuridici pretendono di fare, direttamente o indirettamente. Anche l’azione non contemplata da alcuna norma, scritta o consuetudinaria, può essere oggetto di giudizio: chi volesse impedirla, ne sarebbe a sua volta impedito in nome del principio giuridico generalissimo per cui tutto ciò che non è vietato è permesso; oppure la si vieterebbe a chi volesse compierla, se (sfortunatamente) quella società si regolasse secondo l’opposto principio per cui tutto ciò che non è esplicitamente permesso è vietato. Siamo giunti, a questo punto, alla norma cd. «di chiusura» di un sistema normativo, che tutto permette di includere, in negativo o in positivo. Contro questa opinione, potrebbe opporsi che esistono sistemi normativi che regolano soltanto alcuni aspetti della vita e che sarebbe arduo non definire «giuridici». Si può però obiettare che tali sistemi, o hanno anch’essi pretesa di completezza, pur delegando ad altri sistemi di trattare relazioni particolari, o sono collegati a sistemi giuridici completi, già formati o in via di formazione. Per fare esempi, il diritto della Chiesa cattolica appartiene al primo tipo. La cd. «lex mercatoria», complesso di norme liberamente scelte con cui gli operatori economici regolano i loro scambi commerciali a un livello transnazionale, appartiene al secondo tipo in quanto recepibile nei sistemi giuridici nazionali8 o parte di un sistema transnazionale di diritto in fieri. In base a questo principio possiamo trattare il caso della norma enunciata dalla «banda di briganti». Se essa non appartiene a un sistema normativo universalistico, se cioè è l’espressione di un gruppo che, rispetto a un ambiente sociale entro il quale comunemente agisce, opera in senso trasgressivo, «deviante», si può convenire che non solo quella norma, ma tutto il sistema normativo di cui fa parte – quello secondo cui la banda di briganti regola i rapporti interni fra i propri membri – non sia «giuridico». Se tuttavia quel gruppo sociale controllasse un territorio e operasse secondo questa «legge», basata sulla spoliazione del prossimo, il problema teorico si complicherebbe alquanto: vi sono in effetti esempi storici di tribù che mantengono simili comportamenti come modus vivendi normativo (Simhadri, 1979). Questa conclusione dunque si presenta più che altro come una convenzione linguistica, che si può raccomandare per non abbandonarsi a una forma radicale di relativismo concettuale. Ma che sia una convenzione, e niente più, lo si comprende non solo quando si nota che illustri giuristi hanno riconosciuto carattere giuridico anche alle norme delle associazioni criminali (Romano

[1918], 1977, pp. 122 sgg.)9, ma anche, e soprattutto, quando si approfondisca ulteriormente l’argomento, affrontando un tema centrale nella sociologia del diritto soprattutto di oggi: quello dell’alternativa fra monismo giuridico e pluralismo giuridico.

4. Uno o più sistemi giuridici? In base alla convenzione linguistica appena suggerita si può negare che le norme secondo cui si regola un’associazione come la Mafia, o altre dello stesso genere, abbiano carattere «giuridico». Infatti il sistema normativo mafioso, pur esigendo obbedienza da parte dei suoi membri, non ha pretesa di universalità, cioè non rivendica una competenza su qualunque azione sociale i membri stessi compiano, ma anzi consente e perfino incoraggia la regolamentazione di molte azioni da parte di altri sistemi normativi, a cominciare proprio da quello dello Stato, in cui l’associazione opera sfruttandone molti canali istituzionali. Ma questa stessa convenzione pone già degli interrogativi quando si abbia a che fare con altre realtà sociali. Si può per esempio pensare all’Italia del biennio 1943-45, quando nel paese si contrapponevano due regimi politici, ognuno con pretesa di universalità, quello monarchico riconosciuto dagli alleati anglo-americani, che controllavano militarmente il meridione, e quello fascista-repubblicano riconosciuto dai tedeschi, che controllavano militarmente il settentrione. Il regime monarchico e gli alleati riconobbero come rappresentante legittimo del governo nel Nord il CLNAI, Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia, i cui militanti erano, per contro, definiti «banditi» dal governo fascista-repubblicano, e come tali trattati, senza riconoscimento delle prerogative riconosciute ai militari dalle convenzioni internazionali di guerra. Esistevano allora in Italia due sistemi giuridici, o soltanto uno? Da un lato si può dire che entrambi i regimi, i quali si differenziavano bensì sul piano cruciale del diritto costituzionale (il governo fascista-repubblicano riteneva decaduto il re e abrogato lo Statuto Albertino), tuttavia dichiaravano di parlare a nome dell’Italia intera e nella vita quotidiana applicavano lo stesso corpo di leggi, civili, penali e amministrative. Per questa ragione, si può essere tentati di rispondere che esisteva un solo sistema, optando fra i due. Ma si può anche dar rilievo a un soverchiante stato di fatto e rispondere che i sistemi erano due, anche se a ogni individuo era chiesto, esplicitamente, di obbedire all’uno e di disobbedire all’altro. Anzi, proprio per riconoscere sino in fondo lo stato di fatto, si può anche aggiungere al quadro i

sistemi giuridici delle forze occupanti (gli alleati avevano addirittura coniato e diffuso una speciale moneta, le cd. «am-lire»), quello specifico del movimento partigiano (che giunse a proclamare delle repubbliche indipendenti) e infine, non certo secondario, quello della Chiesa cattolica. In breve, al quesito si può rispondere scegliendo in base a presupposti aprioristici che, scientifici o ideologici che siano, presentano sempre un certo grado di arbitrio. Una situazione meno tragica, ma teoricamente più delicata, altrettanto ricorrente nella storia, è quella descritta da Antonio Pigliaru, giurista sardo, riguardo al sistema normativo della cd. «vendetta barbaricina», l’ordinamento consuetudinario praticato dalle comunità pastorali della Barbagia e basato su un codice orale che al contempo consente e prescrive ai membri di opporre reazioni socialmente riconosciute a ogni torto subito (Pigliaru, 1959). Qui abbiamo un complesso di regole che, lungi dall’intersecarsi col sistema giuridico dello Stato italiano, vi si contrappone finché possibile: tra le regole spicca infatti quella, del tutto significativa, che vieta di collaborare con la giustizia statale. Non abbiamo due governi, ognuno dei quali parla a nome della stessa entità politica e sociale, ma una comunità che, inclusa forzosamente in una più ampia entità, apparentemente se ne distaccherebbe volentieri: se avessero potuto farlo, i pastori barbaricini si sarebbero probabilmente autoregolati – e molti, forse, ancora si autoregolerebbero – escludendo dalla scena lo Stato italiano. Con decisione quindi Pigliaru parla di questo sistema come di un «ordinamento giuridico», benché disconosciuto e anzi combattuto dallo Stato per incompatibilità delle sue norme con quelle nazionali. Ma anche questa risposta può prestarsi a critiche. Siamo sicuri che la comunità pastorale barbaricina, nella sua grande maggioranza, escludesse ogni forma di identificazione con lo Stato italiano? E che dire della più estesa popolazione della zona? Non per nulla una delle più belle testimonianze letterarie di quel periodo della storia sarda, quella di Salvatore Satta, brillante giurista e, in privato, ottimo romanziere, pur riconoscendo che la società nuorese si divideva allora, come la Gallia descritta da Cesare, «in tre parti» (borghesi, contadini, pastori), non nota una così irriducibile scissione fra i tre gruppi sociali (Satta, 1979, p. 26). Esempi come questi sono classici per ogni teoria del diritto, e ben diffusi anche quando, fino a tempi recenti, fra i giuristi predominava indisturbata la concezione monistica e statalistica del diritto, fondata sul principio di sovranità e di totale monopolio di ogni Stato sul proprio diritto. Ipotesi simili, del resto, erano già state avanzate, e tradotte in teorie, da molti decenni, a

volte provenienti, e non per caso, da esponenti di minoranze etnico-culturali: importante, perché quasi simbolica, quella sostenuta da Eugen Ehrlich (18621922), giurista austriaco appartenente alla comunità ebraica di Czernowitz, in Bucovina10, che nelle sue opere si esprime con forza a favore del pluralismo giuridico, osservando che il diritto, nella sua forma «vivente» (lebendes Recht), nasce e si sviluppa nei più diversi gruppi sociali, da cui promana quella pressione psicologica che induce i singoli a rispettare le norme. Norme che lo Stato, dal canto suo, potrà o meno riconoscere e far proprie (Ehrlich, 1913)11. Ma nei secoli la situazione non è sempre stata quella dell’Europa fra Ottocento e Novecento. Nel periodo medioevale l’intreccio di poteri era tale che lo stesso concetto di Stato si presentava in termini molto sfumati (PadoaSchioppa, 2003). E così pure nel tempo attuale, per una sorta di storico revirement, il mondo si presenta con contorni sempre più sfumati e complessi. La crisi dello Stato quale produttore monopolistico di diritto è apparsa in modo sempre più evidente di fronte alle trasformazioni sociali contemporanee, già preannunciate sin dall’Ottocento, ma da ultimo apparse in forme vistose: annullamento degli spazi e dei tempi, globalizzazione economica e culturale, porosità dei confini, migrazioni di massa, rivendicazioni di gruppi e sottogruppi, consapevolezza della dipendenza «di tutto da tutto», in un mondo divenuto minuscolo, ove azioni e reazioni di ogni tipo, non importa se coerenti e contraddittorie, paiono tutte connesse in una sorta di sistema che tutto ingloba e che tuttavia risponde a un ordine effimero e precario. È ben chiaro che in un mondo siffatto l’idea semplificante di un mondo ordinatamente suddiviso in tante unità statuali ben delimitate l’una dall’altra, ognuna sovrana nel proprio territorio e collegata con le altre da una solida rete istituzionale – il diritto internazionale classico – non può più reggere, almeno agli occhi della scienza sociale, impegnata a descrivere fattualmente la realtà. E difatti il tema del pluralismo, centrale nel dibattito politico, culturale ed economico, è divenuto un luogo privilegiato anche nella riflessione sul diritto, in forme sempre più radicali, a misura che il potere normativo dello Stato veniva eroso, metaforicamente, sia dall’alto, con l’intervento di nuove forme di sovra-nazionalità e di trans-nazionalità (dall’Unione Europea al Fondo monetario internazionale, dalla riorganizzazione del commercio internazionale all’universalizzazione dei diritti umani), sia dal basso, col moltiplicarsi di rivendicazioni culturali, etniche e perfino campanilistiche. Come negare ai sistemi normativi che nascono e operano sopra e sotto i

confini dello Stato i caratteri della giuridicità? Così in sociologia del diritto si è giunti a descrivere il mondo attuale come un tutt’uno solcato da numerose reti di interlegalità (Santos, 1995), nelle quali ciascun soggetto si trova contemporaneamente immerso, dovunque viva e con qualsiasi «etichetta» di cittadino: a seconda dei casi i suoi atti sono regolati dalla consuetudine familiare, da una legge religiosa, da una legge dello Stato di appartenenza, da una direttiva di un’organizzazione sovra-nazionale come l’Unione Europea, da una regola informale di un’impresa il cui centro direzionale si trova all’estero, da una normativa economico-finanziaria imposta da un potere pure esterno. In sintesi, si staglia un panorama che vede molti sistemi giuridici ora intrecciarsi, ora combattersi, in un ambiente complesso e continuamente mutevole, profondamente segnato da diversità culturali, usi locali, asimmetrie di potere e conflitti che ne derivano, rivendicazioni di ogni genere, fondate su sistemi normativi spesso neppure praticati da una popolazione individuabile, ma semplicemente pensati, «concepiti» in funzione della lotta politica (Arnaud, 1981, pp. 333 sgg.). In questa situazione complessa, dove fenomeni di universalismo convivono con fenomeni di localismo e dove con i confini geografico-politici sfumano anche le delimitazioni di competenze e di giurisdizioni, parlare di pluralità di sistemi giuridici, concorrenti su ciascuno spazio fisico, sembra dunque inevitabile (Olgiati, 2001; Arnaud, 2003). Quanto meno, lo è dal punto di vista descrittivo, tipico della sociologia del diritto. Altro è il discorso se ci spostiamo sul piano prescrittivo, tipico della scienza giuridica pura, che impone, come si è visto nel primo capitolo, delle scelte pratiche. Un conflitto che opponga due o più soggetti e cerchi, come sempre avviene (anche in caso di guerra) una soluzione giuridica, deve necessariamente essere regolato secondo il riferimento normativo almeno prevalente a un sistema giuridico, con esclusione di ogni altro, se non in posizione subordinata. Può trattarsi di un sistema transnazionale, come quello che già citato della lex mercatoria, o di un sistema nazionale, eventualmente integrati da norme e istituti occasionalmente recepiti da un altro sistema. In ogni caso il giudice o l’arbitro chiamato a decidere deve appunto scegliere e dichiarare prescrittivamente un orientamento di fondo verso un sistema: cui spetterà fra l’altro, in via primaria, dare esecuzione alla decisione. Questa necessità prescrittiva contribuisce a far sopravvivere nella cultura giuridica un orientamento monistico-statalistico. Tale orientamento, poi, possiede un’altra forza che lo sorregge: su di esso si basa tuttora l’ordinamento internazionale

incentrato sulle Nazioni Unite. Né va dimenticato che la più forte chiave di lettura alternativa a questa visione tradizionale è quella che descrive l’odierno assetto del pianeta nei termini di un «impero universale» che, pur ammettendo differenze al proprio interno, si caratterizza per l’accentramento sostanziale dei poteri politici ed economici attorno a élites sociali consolidate e privilegiate cui spetta l’ultima parola. Ancora uno Stato, dunque, sebbene di nuovo tipo (Hardt, Negri, 2000). Come si vede dunque la questione della pluralità e dei rapporti fra sistemi giuridici presenta molte sfaccettature, non sempre scontate. Scegliere fra le diverse teorie è essenzialmente una questione di punti di vista. La trattazione che precede, basata appunto sulla diversità dei punti di vista, conduce alla conclusione che pluralismo e monismo sono teorie opposte soltanto in apparenza, occupando due distinte sfere di analisi, appunto rispettivamente descrittiva e prescrittiva12. Diverse conclusioni potrebbero trarsi da altre prospettive, per esempio politico-ideologiche: ma per semplicità possiamo prescinderne in questa sede.

5. Ordine ed entropia dei sistemi giuridici Come «insieme di elementi interagenti», ogni sistema presenta un proprio ordine interattivo. I singoli elementi, cioè, si rapportano l’un l’altro secondo modalità ricorrenti, non sempre facilmente percepibili. Scoprire i meccanismi che regolano l’interazione sistemica non è impresa facile, soprattutto se si parte dal presupposto, ormai comune a tutte le scienze, che nessun sistema può essere considerato isolatamente, giacché tutti i sistemi sono fra loro in relazione e, pertanto, reciprocamente influenti: non solo i sistemi naturali fra loro, né i sistemi sociali fra loro, ma gli uni e gli altri in connessione, giacché natura e cultura si influenzano reciprocamente. Naturalmente il sistema giuridico, concepito come insieme di norme secondo la definizione illustrata in precedenza, non fa eccezione a quanto appena detto. Abbiamo già visto che le norme, una volta enunciate socialmente, sono atti di comunicazione, cioè messaggi destinati a circolare in uno spazio discorsivo e a informare coloro che ne vengono raggiunti. Dai fattori che, nel loro percorso, intervengono a trasmetterne e modificarne il significato dipende la quantità e la qualità delle informazioni che i messaggi stessi convogliano. Quantità e qualità possono essere, e sono spesso, in disaccordo. Un sistema che dia molte informazioni vaghe o contraddittorie è quantitativamente ricco, anzi sovrabbondante, ma

qualitativamente povero: la sua potenzialità informativa, per paradosso, è bassa e inaffidabile proprio perché è troppo alto il numero delle informazioni fornite. Un sistema di questo genere, in sintesi, è entropico, in quanto presenta una grande quantità di unità informative tendenzialmente «equiprobabili» (Eco, 1994, p. 25) e, pertanto, tali da accrescere, anziché risolvere, i dubbi di chi lo interroga. Per analizzare il sistema giuridico in questa chiave, bisogna partire da un dato cruciale: la dipendenza del significato delle norme giuridiche dai diversi soggetti che intervengono a interpretarli per trasmetterne e ritrasmetterne i significati. Come già ricordato, tali soggetti possono concordare o no sui significati, riferirsi agli stessi o ad altri codici, in breve intendere o fraintendere i messaggi. Ciò può avvenire soprattutto in una comunicazione sociale diffusa, in cui i messaggi che entrano in circolo, passando da soggetto a soggetto, subiscono una quantità di rifrazioni, come in un prisma dalle molte facce. Qui va segnalato uno dei massimi paradossi della scienza giuridica, soprattutto d’ispirazione formalistica. Da un lato essa proclama alcuni principi che riflettono una potente esigenza di ordine, al contempo scientifica ed etica: certezza del diritto, unità del sistema giuridico, mancanza di lacune, uguaglianza di trattamento dei casi simili, attitudine del sistema, in breve, a fornire una chiara risposta su ogni dilemma comportamentale, l’unica risposta scientificamente corretta fra molte ipoteticamente possibili. Dall’altro lato, la pluralità dei soggetti che intervengono nei processi interpretativi, rispondendo a diverse esigenze e riflettendo diverse ispirazioni, di fatto moltiplica le interpretazioni, cioè il numero di messaggi normativi circolanti, ognuno dei quali presentato con un crisma di unicità. Per ironia della sorte, le biblioteche giuridiche non sono altro che grandi raccolte di interpretazioni normative tutte presentate come le uniche corrette, eppure tutte diverse. Si può anzi dire che, quanto più una cultura giuridica «interna» è sofisticata, tanto più numerose sono le interpretazioni che produce, rispondendo a sollecitazioni di vario tipo: interessi in conflitto di parti contrapposte, condizionamenti economici e politici, opposti orientamenti ideologici, spesso solo l’ansia degli interpreti di offrire contributi scientifici originali. Tutto ciò accresce l’entropia del sistema, che è l’esatto opposto del principio d’ordine da cui la ricerca dell’«unica risposta corretta» è ispirata. Come ogni sistema, in particolare informativo, i sistemi giuridici oscillano dunque fra ordine ed entropia, ovvero, se si preferisce, fra ordine e disordine (Van de Kerchove, Ost, 1988). Fra questi estremi esiste una ciclicità storica,

un pendolo che oscilla fra l’uno e l’altro, sebbene con periodi irregolari, dal momento che l’oscillazione dipende da molti fattori, spesso imprevisti. Vi sono nella storia giuridica momenti in cui prevale una cogente esigenza di ordine e, per esempio, le regole giuridiche che una popolazione pratica, o che i suoi giudici applicano, vengono raccolte e ordinate sistematicamente sino a formare un «codice» nel senso ampio del termine, cioè una fonte di conoscenza e al contempo una chiave di interpretazione: si pensi alle XII Tavole romane, alla compilazione giustinianea, alla codificazione degli Stati nazionali moderni. Una volta che una simile opera è compiuta, tuttavia, il tempo non si ferma, i rapporti sociali mutano, gli interessi contrapposti e le novità tecnologiche spingono ad aprire strade diverse da quelle che l’opera stessa traccia. Così, quasi inavvertitamente, e persino se la legge lo vieti, il lavorio degli interpreti e, ancor prima, l’immaginazione creatrice degli individui cominciano a modificare il quadro erodendolo, arricchendolo, integrandolo, accompagnandolo con innovazioni, prassi, glosse, chiose, interpretazioni estensive o restrittive, raccomandazioni, che gradualmente si consolidano nella vita sociale diventando istituzionali. Così il sistema che taluno – un’assemblea elettiva, un principe illuminato, un dittatore – ha cercato di ordinare si disordina nuovamente, divenendo via via più entropico, sino a far risorgere a tempo debito una nuova ansia ordinatrice, che darà vita a un’altra fase di riordino e, fatalmente, di successivo disordinamento: perché l’idea che un qualunque nuovo ordine normativo sia definitivo è ovviamente illusoria, come nella storia del diritto è stato mille volte detto. Uno dei compiti della sociologia del diritto è precisamente quello di «leggere» i sistemi giuridici in questa chiave e individuare le variabili che influiscono sull’oscillazione fra ordine e disordine. La storia contemporanea è prodiga di stimoli e documenti in questo senso. Nella sua relativamente breve storia unitaria, l’Italia ha conosciuto ben due codificazioni nel campo civile, due nel campo penale, due in quello della procedura civile, quattro in quello della procedura penale. Ognuno di questi interventi di riordino generale è stato seguito da una moltitudine di settoriali interventi integrativi, correttivi, modificativi, abrogativi, questi ultimi, spesso, non dichiarati. A lato dei codici, è venuta crescendo in modo alluvionale la legislazione speciale in ogni campo del diritto. Si può dire che l’entropia sistemica abbia raggiunto culmini inusitati, se uno dei più rigorosi civilisti italiani ha potuto esclamare, alla fine degli anni Settanta, che stavamo vivendo «l’età della decodificazione» (Irti, 1979), e se si è calcolato che le norme vigenti nel paese sono più di 200.000,

ognuna delle quali soggetta a diverse interpretazioni sotto la sfida dei fatti. Negli ultimi decenni, questo sistema già complesso e non poco caotico è venuto poi arricchendosi sotto l’influsso della normativa di provenienza esterna, soprattutto quella comunitaria. Quali fattori hanno influito su ciascun mutamento? Quali hanno apportato ordine, quali entropia? E non vi sono anche fattori che apparentemente accrescono il livello di entropia, ma in realtà operano in senso ordinatore? E infine, si è sicuri che l’ordine formale di un sistema giuridico sia preferibile a un certo – non eccessivo – grado di entropia? Alcune incertezze interpretative, che aprano la via a corrispondenti libertà interpretative, in particolare del giudice, non possono divenire, talvolta, utili valvole di sfogo di un sistema che, altrimenti, potrebbe essere rifiutato in blocco? Si è sufficientemente riflettuto sul fatto che, se da un lato, un diritto altamente entropico, come quello descritto da Cesare Beccaria nelle prime parole del suo splendido trattatello13, è un pessimo diritto perché non permette nessuna previsione affidabile ed è lasciato all’arbitrio dei singoli decisori, dall’altro lato le dittature spesso si caratterizzano proprio per creare un diritto perfettamente ordinato e «certo», a uso e consumo del dittatore?

6. Funzioni del sistema giuridico A che cosa serve il sistema giuridico ovvero, con altra terminologia, a quali funzioni adempie il diritto? Questo quesito è inevadibile perché costituisce il nucleo più naturale e profondo del pensiero scientifico, quello che induce a chiedersi il «perché» delle cose. In sociologia, la ricerca di questo «perché», cioè delle cause, o delle ragioni, per cui nascono, sopravvivono e scompaiono certe istituzioni sociali si è imposta sin dalle origini con tale prepotenza, che su di essa, come si è ricordato, si è sviluppata la teoria funzionalistica, o struttural-funzionalistica, il cui nucleo originario è costituito dall’idea che le istituzioni, appunto, esistono in quanto svolgono delle funzioni, cioè cooperano a mantenere una società nel suo stato migliore o «in equilibrio», come spesso si è detto con un’espressione che un grande scienziato sociale italiano, Vilfredo Pareto (1848-1923), aveva in realtà applicato più al campo specifico dell’azione economica che a quello dell’azione sociale in generale. Questo modo di affrontare l’argomento ha condotto la scuola funzionalistica a fornire note spiegazioni «funzionali» riferite al sistema giuridico. Abbiamo

già ricordato (cfr. supra, p. 11) che secondo Parsons, «il principe dei funzionalisti», come spesso viene definito, il sistema giuridico svolge una funzione primaria di tipo «integrativo». Il sistema giuridico – egli dice – «serve infatti a mitigare gli elementi potenziali di conflitto e a lubrificare i meccanismi dei rapporti sociali». E prosegue: «In effetti, solo con l’adesione ad un sistema di norme il sistema di interazione sociale può funzionare senza degenerare in conflitti aperti o latenti». Il diritto, in sintesi, esiste ne cives ad arma ruant, come dice il brocardo latino, e compie adeguatamente questa sua funzione se – specifica l’autore – quattro problemi essenziali vengono risolti: la legittimazione del sistema giuridico di fronte ai cittadini, la corretta interpretazione delle norme, l’efficacia del meccanismo sanzionatorio e il buon funzionamento della giurisdizione (Parsons, 1962, pp. 86 sgg.*). Nel suo tentativo di rifondare il funzionalismo su nuove basi, Luhmann fornisce una spiegazione altrettanto generale, ma più astratta, affermando che tutti i sistemi sociali esistono in quanto permettono di «ridurre la complessità» e che, fra i vari sistemi (economico, politico, organizzativo, affettivo ecc.), quello giuridico svolge questa funzione ponendo in opera un meccanismo selettivo basato sul codice binario «lecito-illecito» (Recht-Unrecht). Ogni decisione giuridica – egli sottolinea – si riduce a scegliere fra questi due poli. E questo semplice meccanismo, generalizzato e applicato a una moltitudine di dilemmi comportamentali, contribuisce a dare sicurezza, armonia, affidabilità, stabilità alle aspettative «normative», quelle che non si è disposti ad abbandonare. Infatti il diritto, dice Luhmann con una famosa formula, trova la sua ragion d’essere sociale nella «congruente generalizzazione delle aspettative normative di comportamento» (Luhmann, 1972, p. 127*). Simili rappresentazioni del diritto e delle funzioni sociali che esso svolge non sono certo peregrine, dal momento che riecheggiano opinioni consolidate nei secoli. Tuttavia, presentano il vizio di osservare soltanto un lato della realtà. Utilizzando proprio il lessico funzionalistico, si può dire che esse guardano esclusivamente alle cd. «eu-funzioni», cioè ai contributi positivi apportati da un elemento del sistema sociale al benessere dell’intero sistema. Senonché, è proprio questo il punto debole dell’intero edificio del funzionalismo sociologico. Innanzitutto, è pacifico – e lo riconoscono anche funzionalisti di spicco, come Robert K. Merton – che vi sono elementi del sistema sociale che non giovano affatto al benessere o all’equilibrio del sistema complessivo, in quanto svolgono, non già delle «eu-funzioni», quanto piuttosto delle «disfunzioni»: l’abitudine, ormai istituzionalizzata in Italia, di condonare le

evasioni fiscali e gli abusi edilizi difficilmente potrebbe essere ritenuta utile per la generalità dei cittadini, malgrado gli effimeri vantaggi che può trarne l’erario. Ma, più in generale, com’è possibile individuare, descrivere e fissare in un punto preciso il «miglior stato», lo «stato d’equilibrio» di una società? Da un lato, sulla definizione di tale stato giocano prepotentemente delle preferenze soggettive, per cui ciò che secondo Tizio è equilibrato e utile non lo è affatto secondo Caio, donde una radicale differenza di vedute fra loro circa gli effetti «funzionali» o «disfunzionali» di questa o quella istituzione: non dimentichiamo che una delle istituzioni sociali più radicate e ritenute benefiche, come la scuola, è stata vivacemente attaccata nelle sue radici (Illich, 19712). Dall’altro lato, lo stesso concetto di «equilibrio», soprattutto se applicato a un sistema simbolico come sono tutti i sistemi sociali, è esso stesso simbolico, quasi metaforico, sia per l’elevato numero di variabili che entrano in gioco, sia perché, come già ricordato, «tutto scorre» anche nella vita sociale, per cui l’equilibrio, semmai esiste, è sempre e comunque precario, aperto oggi a fattori apparentemente squilibranti che possono, chissà, produrre domani assetti più equilibrati. Il peso di queste considerazioni appare in chiara luce proprio quando si guarda al diritto. Qual è il miglior stato di un sistema giuridico e qual è, in connessione, il miglior stato dei rapporti sociali che il sistema giuridico regola? Come si è accennato, e si vedrà anche in seguito, una normativa perfettamente efficace, che consegue gli effetti voluti da chi l’ha prodotta, può provocare dissensi, lacerazioni, conflitti e, precisamente, squilibri sociali, per usare il lessico funzionalistico. In breve, non si può ignorare l’ambiguità del diritto, la sua natura di phármakon, cioè medicamento o veleno a seconda delle dosi, degli usi e dei punti di vista (Resta, 1992). Tutto ciò induce ad affrontare il tema delle funzioni del diritto in modo da evitare il rischio di conclusioni troppo aperte a contaminazioni ideologiche, incapaci di dar conto dell’operare concreto di tutti i sistemi giuridici, indipendentemente dalla loro accettabilità etico-politica. In breve, si tratta di salvare il metodo dell’analisi funzionale, che conduce a chiedersi il «perché» dell’esistenza delle istituzioni sociali, senza pagare prezzi troppo elevati alla teoria funzionalistica o addirittura rifiutando tale teoria in favore di altre visioni generali della società, in particolare quella conflittualistica già ricordata a suo tempo. Ciò non è impossibile una volta che si intenda il concetto stesso di «funzione» – fra i più tormentati del lessico scientifico – in senso soggettivistico e intenzionalistico: non come contributo apportato da un elemento

allo stato di un sistema, oggettivamente inteso, ma come contributo apportato da un elemento a un progetto d’azione sociale di chi opera su quel sistema, o attraverso di esso. Un accostamento di questo genere conduce a delineare un quadro meno edulcorato, ma più realistico, del problema. Già molti anni or sono un grande giurista americano, Karl N. Llewellyn (1893-1962), aveva dedicato un noto saggio a descrivere le seguenti «funzioni universali» del diritto in modo neutrale, rifiutando cioè le scelte ideologicamente orientate: «soluzione dei conflitti», «orientamento preventivo», «allocazione dell’autorità» e «predisposizione delle procedure legittimanti», tutte prestazioni concorrenti, a parer suo, a fornire a una società una guida generale «attorno a qualcosa, verso qualcosa» (Llewellyn, 1940, p. 1387). La linea indicata da Llewellyn è sembrata fertile a molti autori, che l’hanno seguita con variazioni più o meno sostanziali. Infatti essa ha permesso di isolare alcune prestazioni funzionali che, per dir così, il sistema giuridico «non può non svolgere» e che appaiono, a un esame analitico, assorbire nella loro generalità ogni altro concetto. In un precedente contributo, chi scrive ha sostenuto che tre di esse, in special modo, presentano tali caratteri: l’«orientamento sociale», il «trattamento dei conflitti dichiarati» e la «legittimazione del potere». Così appare che le norme giuridiche – esaminate da un punto di vista conflittualistico e senza residui ideologici – effettivamente orientano azioni e aspettative sociali, sebbene in modi ora uniformi, ora difformi, sino a disorientare; offrono bensì strumenti per gestire i conflitti una volta resi espliciti e pubblici, ma possono anche, con quegli stessi strumenti, aggravarli e fomentarli; e infine, grazie alla loro potenza simbolica, offrono argomenti, a volte più apparenti che reali, per convogliare consenso su qualsiasi tipo di potere, buono o cattivo, democratico o autocratico (V. Ferrari, 1987). Nell’analisi funzionale del diritto svolta al di fuori della teoria funzionalistica, ci si può spingere anche oltre, sino a cercare, non le funzioni, ma la funzione del diritto: un concetto onnicomprensivo che riassuma tutti gli altri. Due esempi sono, in questo senso, particolarmente significativi. Secondo una formula molto ricorrente nella tradizione sociologica, il diritto adempirebbe a una funzione generale, riassuntiva di ogni altra, di controllo sociale. Questo concetto, che può essere inteso in senso «debole», come mera capacità degli individui di influenzarsi a vicenda con mezzi adeguati (Abbagnano, 1951), viene di solito impiegato in sociologia nel suo senso più forte, come attività rivolta a indirizzare gli individui a tenere comportamenti

conformi a finalità generali di ordine e di pace sociale, secondo la visione di coloro che detengono il potere. In questa prospettiva, ricorrente soprattutto – ma non solo – nella letteratura marxista, il diritto appare essenzialmente come uno strumento di dominio di alcuni su altri: la borghesia sul proletariato, i governanti sui governati. Si tratta di una visione che enfatizza il ruolo degli istituti giuridici indirizzati alla repressione, specialmente penale, e che infatti viene propugnata e applicata soprattutto dalle correnti della «criminologia critica» (Baratta, 1982; Melossi, 2002; Garland, 2001). Lungi dal negare che tale visione abbia un suo fondamento, soprattutto quando si parli di sistemi politici autocratici, caratterizzati da forti concentrazioni di potere, si può però osservare che, in simmetria quasi perfetta con le visioni «eu-funzionali» di origine funzionalistica, essa rappresenta soltanto un lato della realtà, quello più crudo: il diritto è infatti più complesso, è frutto anche di intese fra pari e, non meno, di battaglie e di vittorie anche dei deboli contro i forti (si pensi ai diritti umani), in nome di un ideale di giustizia che al diritto non può non essere correlato. Proprio il tema della giustizia ricorre in un altro tentativo di scoprire la funzione del diritto, quello che Lawrence Friedman conduce nel suo The Legal System. Dopo aver censito molte funzioni che gli studiosi riconoscono come tipiche delle istituzioni giuridiche, l’autore incentra l’attenzione appunto sulla giustizia, che ricorre sin dall’origine della riflessione umana sul diritto, e si chiede: «Cos’è dunque questa giustizia che, parlando in senso generico, il sistema giuridico dovrebbe procurare?». La risposta che dà l’autore trasporta sul terreno sociologico un concetto filosofico risalente ad Aristotele: «ai nostri fini – egli dice – si può dire che la giustizia ha a che fare con aspettative e apporzionamenti» (Friedman, 1975, p. 62*). Così, nella sua raffigurazione, esiste una funzione del sistema giuridico che riassume tutte le altre: quella «allocativa», che si dispiega soprattutto sul terreno economico e consiste nel distribuire beni e servizi scarsi secondo progetti di distribuzione che riflettono, a loro volta, la distribuzione del potere politico in ciascuna società. Questo contributo di Friedman si segnala per la sua lucidità. Anche su di esso, tuttavia, è lecito chiedersi se non riveli solo un lato della realtà. Proprio in termini aristotelici si può ricordare che la giustizia non è solo «distributiva», destinata ad allocare risorse scarse, ma anche «commutativa», rivolta a commisurare e soppesare fra loro valori diversi: e questi valori non attengono solo a risorse scarse, né riguardano soltanto l’ambito economico, per quanto

rilevante. Certamente la giustizia è un tema che, come accennato, non può essere dimenticato quando si parla di diritto. Tuttavia, tralasciando ogni considerazione sul fatto che essa sia o meno definibile, è opportuno separare questo tema da quello delle funzioni, proprio per non confondere fra loro due piani ben distinti di discorso, quello della realtà e quello delle idealità14.

Note 1 Questa interpretazione si impone, perché se «sistema giuridico» e «diritto» coincidessero, la definizione luhmanniana conterrebbe lo stesso concetto tanto nel definiens quanto nel definiendum e sarebbe pertanto logicamente inaccettabile. Tuttavia nel lessico luhmanniano la parola «diritto» (Recht) viene usata ora con riferimento alle norme giuridiche, ora con riferimento al sistema complessivo, come sopra definito (e l’espressione «Rechtssystem», in effetti, può essere tradotta anche «sistema del diritto»). 2 Per cogliere la differenza fra le definizioni succitate, si pensi che la lettera di un creditore, che intima al debitore di pagare sotto comminatoria di azione giudiziaria, rientra nel «sistema giuridico» secondo la definizione di Luhmann; secondo le definizioni di Friedman e di Evan è un atto di comunicazione sociale che informa di un’iniziativa che verrà indirizzata verso il «sistema giuridico» e solleciterà una risposta da parte delle sue strutture, nella specie quella giudiziaria; secondo la definizione qui adottata è un atto di comunicazione che si fonda sul «sistema giuridico» e preannuncia l’intenzione di sollecitare la risposta di un altro sistema, quello giudiziario (cfr. V. Ferrari, 2000). 3 Con la terminologia prescelta si attua una scelta decisa che si distanzia parzialmente da quella adottata in V. Ferrari (1997), cap. IV e passim, ove si è evitato tout court di usare l’espressione «sistema giuridico» per la sua polisemicità. 4 Si pensi agli equivoci che possono nascere, in una campagna militare, dalla comunicazione di ordini, normativa per definizione, via telefono da campo. 5 Ad analoghe conclusioni perviene la teoria generale del diritto di ispirazione antiformalistica e realistica (cfr. Tarello, 1980, p. 38). 6 Si pensi ai contratti per adesione, redatti su moduli o formulari che una parte potente propone all’altra, la quale può solo accettarli o respingerli in blocco. 7 Cfr. sul tema Andrini (1990), con ampia bibliografia. 8 Cfr. la sentenza della Corte di Cassazione, 8 febbraio 1982, n. 722, in «Foro italiano», I, 2285, che ammette il ricorso ai mezzi di coercizione dell’ordinamento giuridico interno per garantire l’efficacia delle sanzioni previste da tale complesso di norme. Sulla lex mercatoria cfr. l’ampio lavoro di Marrella (2003). 9 Santi Romano (1875-1947), insigne costituzionalista siciliano non sospettabile di anti-statalismo (durante il regime fascista fu presidente del Consiglio di Stato), è l’autore di una delle prime concezioni pluralistiche moderne del diritto nel suo L’ordinamento giuridico ([1918], 19773). 10 Ora Cernovcy, in Ukraina. 11 Non è un caso neppure il fatto che la teoria di Ehrlich sia nata in una regione dell’Impero austroungarico, la più interessante organizzazione politica pluralistica della storia moderna. Ma va sottolineato

che idee consimili vengono propugnate, nello stesso periodo, anche nell’ambito di Stati centralistici, come nel caso di Santi Romano, cit. alla nota 9. 12 Ad analoghe conclusioni sembra pervenire M. Jori sulla base di considerazioni filosofico-analitiche (Jori, 1976). 13 «Alcuni avanzi di leggi d’un antico popolo conquistatore, fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti Longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni, che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi» (Beccaria [1764], 1965, p. 3). 14 Così fa Treves parlando di «fini» e non di «funzioni» del diritto precisamente con riguardo alla realizzazione della giustizia, intesa come combinazione di libertà e uguaglianza (Treves, 1987, pp. 323 sgg.). In senso conforme cfr. anche V. Ferrari (1987), pp. 217 sgg.

Capitolo terzo. Diritto e azione

1. Concetti generali L’azione giuridica è una modalità specifica dell’azione normativa che, a sua volta, è una modalità specifica dell’azione sociale. Agire socialmente significa – nella classica accezione di derivazione weberiana – compiere atti destinati a produrre effetti che non si esauriscono nella sfera individuale dell’attore, ma coinvolgono anche altri soggetti1. Tali atti possono essere intelligenti o stupidi, adatti o inadatti agli scopi perseguiti. Il senso – o significato – che vi attribuisce l’attore può essere, o non essere, compreso e condiviso da altri. Gli effetti sociali che ne conseguono, a loro volta, possono essere conformi o difformi rispetto alla volontà di chi agisce. Infatti essi dipendono da molti fattori: le volontà di tutti coloro che interagiscono, i modi con cui vengono compiuti, comunicati e percepiti, i mezzi più o meno appropriati di cui ciascun soggetto dispone e, infine, l’interferenza di eventi esterni. Tutti questi fattori possono operare sui soggetti sia in senso frenante, sia in senso attraente: possono cioè limitare o ampliare la loro libertà d’azione. A volte essi sono prevedibili, altre volte imprevedibili e imponderabili, sino a far deviare il corso dell’azione o a spezzare la catena dei suoi effetti. Agire normativamente significa orientare l’azione propria o altrui secondo modelli normativi di qualsiasi natura – religiosa, morale, di costume, giuridica – o, se si preferisce, ricorrendo a un concetto elaborato dal logico finlandese Georg H. von Wright (1916-2003), subire o esercitare una pressione normativa (von Wright, 1971, p. 171*). Le norme possiedono un’importanza cruciale nella determinazione all’azione e nel suo svolgimento. Anch’esse operano tanto in senso frenante, quanto in senso attraente: possono limitare l’azione scoraggiandola, vietandola, incanalandola entro binari obbligati, così come possono liberarla suggerendola, proteggendola, vietando o limitando azioni contrarie. La loro forza consiste soprattutto nel fatto che esse sono dirette a giustificare l’azione, cioè a legittimarla, presso i soggetti che interagiscono con l’attore o presso il pubblico che assiste al suo svolgersi o ne viene informato. È

raro imbattersi in un’azione che non abbia motivazioni o riferimenti di tipo normativo. Anche l’azione cd. «anomica», teorizzata da grandi sociologi come Durkheim e Merton, che si svolge al di fuori di un orizzonte normativo identificabile, è spesso il risultato di uno smarrimento dell’attore nella foresta di norme che metaforicamente cinge le azioni umane, soprattutto nel mondo attuale, caratterizzato da una pluralità di ordinamenti morali, religiosi e anche giuridici, fra cui è spesso difficile scegliere. Agire giuridicamente significa orientare l’azione propria o altrui in relazione a norme giuridiche. Il diritto rappresenta un potente fattore di orientamento sociale. Anzitutto, a livello psichico, esso suggerisce un’immagine «positiva» dell’azione, in termini sia linguistici (è «diritto» ciò che non è «storto» o «rovescio»), sia etici, per la sua associabilità con l’alto ideale umano di giustizia: le sue norme possono convincere perché, in certo modo, si autogiustificano per il sol fatto di essere giuridiche. Inoltre, anche quando non riesce a convincere, il diritto possiede una grande forza persuasiva, incutendo timore per il suo collegamento con il potere politico in senso lato, che è anche, in larga misura, potere sanzionatorio2. Infine, per la sua complessa articolazione, per il ritualismo e il tecnicismo che vi sono connessi, può facilmente piegarsi a numerosi usi, anche strumentali o ingannevoli, concepiti in funzione degli interlocutori3. Soprattutto ai livelli sociali più alti, il dominio sullo strumento giuridico – purtroppo – può anche permettere di legittimare, con decisioni generali o particolari, grossolane ingiustizie e soperchierie. L’azione giuridica può svolgersi in forma generica, quando le norme giuridiche cui si ricorre per agire si indirizzano in forma di messaggio a un pubblico indifferenziato di destinatari, oppure in forma specifica, quando i destinatari sono singolarmente individuati o individuabili. Tratteremo queste due modalità d’azione nei due paragrafi che seguono.

2. L’azione giuridica generica Parlare di azione giuridica generica significa parlare di «norme generali e astratte», nel lessico della scienza giuridica. Rispetto a questo materiale normativo, la prospettiva sociologica si propone di scoprire come esso nasca, si diffonda e influisca su azioni e aspettative sociali. Ciò significa indagare su processi interattivi complessi, di natura essenzialmente comunicativa. Conviene soffermarsi soprattutto sulla legislazione che, a partire

dall’illuminismo, la cultura giuridica dei paesi di civil law ha posto al vertice delle fonti di diritto sacrificandovi totalmente o parzialmente le altre fonti tradizionali, come la consuetudine, il precedente, i concetti dottrinali. La dottrina politica che sorregge tale cultura rappresenta la legge come il frutto della decisione di un organo politico sovrano, che esprime in forma di precetti vincolanti per tutti quella che Jean-Jacques Rousseau chiamava la «volontà generale» di un popolo. Tralasciando i rari casi di autocrazia totale, quest’organo coincide pressoché ovunque con un parlamento, ente collettivo che manifesta quella volontà attraverso procedure formali. Ma che cosa si cela dietro queste procedure? Quali volontà effettivamente prevalgono? Quali fattori influenzano le decisioni? Chi, alla fine, «ottiene qualcosa» e «come», per riprendere il titolo di un famoso saggio di scienza politica (Lasswell, 1936)? Analizzato sociologicamente, il processo legislativo rivela che esiste una molteplicità di attori sociali, i quali intervengono nelle sue varie fasi, a cominciare da quelle che precedono il suo avvio effettivo e che, spesso, sono fondamentali. È qui infatti che comincia a svolgersi più o meno discretamente l’attività lobbistica, consistente nelle iniziative assunte dai gruppi organizzati interessati all’emanazione, o alla mancata emanazione, di una legge annunciata, per ottenere dai gruppi politici più influenti promesse corrispondenti ai loro interessi: presso le sedi dei parlamenti – esemplari i casi degli Stati Uniti e dell’Unione Europea – operano agenzie permanenti, specializzate in questa attività. E ancora qui si svolge spesso un gioco politicocomunicativo della massima importanza. Gli attori politici infatti ben sanno che il processo che inizia può non arrivare in fondo: statisticamente, questa eventualità è molto frequente. Essi sanno però altrettanto bene che nella società mediatica ciò che conta è soprattutto dare una notizia, indipendentemente dal suo contenuto, che può essere anche vuoto. Annunciare pubblicamente che una legge sarà emanata è cosa che produce effetti di per sé. Non solo manifesta sollecitudine del ceto politico verso un problema, che può aver destato emozione, ma può indurre altresì una convinzione diffusa che quella legge esisterà effettivamente o addirittura esiste già. Un’attenta analisi dei giornali scritti o parlati rivela frequenti casi di confusione fra leggi annunciate e leggi emanate, soprattutto nei titoli, oltre i quali il lettore o l’ascoltatore medio spesso non procede. Queste tecniche, per paradosso, si sprecano soprattutto durante le campagne elettorali, quando il parlamento che deciderà non esiste ancora, ma si può ipotizzare che la maggioranza dei fruitori dei media sorvoli su questo particolare.

Avviato l’iter legislativo, sono sempre molti gli attori che compaiono sulla scena o agiscono dietro le quinte. Le lobbies esterne continuano a operare e anzi intensificano le pressioni, particolarmente efficaci nelle fasi in cui le discussioni si svolgono in forma meno rituale, per esempio nelle commissioni parlamentari, dove maggioranze e opposizioni assumono ruoli più sfumati. Si formano in questa fase anche lobbies interne di parlamentari, non di rado trasversali rispetto agli schieramenti politici, rappresentative di posizioni particolari, attente a sfruttare ogni opportunità. Nei sistemi bicamerali si deve poi tener conto di ciò che avverrà nell’altro ramo del Parlamento. Si formano così coalizioni non dichiarate, pronte a intervenire al momento buono. Nell’aula parlamentare prevalgono atteggiamenti più rituali e prevedibili. Ma a quel punto entrano in gioco i numeri, i sistemi di votazione, le scelte del presidente di turno, le assenze impreviste, il tempo che passa e soffoca il dibattito. Alcune leggi devono essere votate entro un termine tassativo, come le leggi di programmazione economico-finanziaria o di conversione dei decreti-legge. L’ansia di concludere favorisce mediazioni e speculazioni dell’ultimo istante. Sapere che una legge sarà comunque approvata favorisce la presentazione di emendamenti, a volte estranei al suo contenuto, che può non essere facile respingere. Nei casi più rilevanti le influenze esterne, per esempio dei media, possono accompagnare e condizionare l’iter legislativo sino alla fine. Da una serie di azioni così complessa è facile che il progetto originario esca alla fine ampiamente cambiato, a volte sfigurato. Se le maggioranze non sono sufficienti e compatte ed è necessario acquisire il consenso di settori delle minoranze, bisogna fare concessioni ispirate a una diversa filosofia. Ma anche per ottenere compattezza da parte di una maggioranza è necessario fare concessioni. Un parlamento è un’arena di conflitti che spesso sono più aspri fra gli esponenti di una maggioranza, o dello stesso gruppo politico, che non fra maggioranza e opposizione, dove assumono aspetti ripetitivi, dunque più controllabili. Se non è possibile accordarsi sulla sostanza delle norme, non è infrequente che le parti si accordino sulle parole, sfumando i significati, sorvolando su contraddizioni e oscurità, e rendendo problematica l’applicazione della legge che sarà emanata. Una legge vaga, oscura o contraddittoria, tuttavia, produce anch’essa degli effetti, perché non è altro che una tappa intermedia di un processo comunicativo che proseguirà per lungo tempo. Per esempio, proprio a causa dei suoi difetti, essa susciterà più interpretazioni. Il potere esecutivo sarà costretto a precisarne il contenuto con documenti normativi generali –

circolari, comunicazioni – destinati a vincolare l’azione amministrativa. I tribunali emetteranno sentenze difformi sinché, eventualmente, si consoliderà un’opinione prevalente che, sotto forma di massima, svolgerà la stessa funzione sociale che spetta alla legge stessa. Chi interverrà nella catena di comunicazioni sociali sui contenuti della legge – media individuali come i giuristi, media di massa specializzati – presenterà quella massima, ancora, sotto forma di regola generale. Effetti socialmente rilevanti spesso si producono anche se una legge si riveli del tutto inapplicabile, perché ogni provvedimento giuridico di qualche rilevanza opera anzitutto a livello simbolico. Il fatto che una legge sia emanata permette ai suoi proponenti di usarla come strumento di propaganda. È ben vero che gli oppositori possono, a loro volta, criticarla pubblicamente. Senonché i due schieramenti si rivolgono a uditori solo parzialmente comuni, perché ognuno risponde primariamente ai propri elettori, e dunque il potenziale simbolico della legge può esprimersi in entrambe le direzioni. E bisogna anche ricordare che in alcuni casi, non rari, una legge esistente ma inoperante può giovare a entrambe le parti, «l’una soddisfatta della sua esistenza, l’altra della sua mancata applicazione», e favorire una tacita intesa fra esse, come informa una nota ricerca di sociologia del diritto (Aubert, 1965). L’esempio fatto non dev’essere generalizzato. Esistono anche procedure accelerate e leggi chiare. Ma, se si pensa che ogni norma, come già visto, si presta a più interpretazioni, che le interpretazioni si moltiplicano col passare del tempo, che le leggi, programmate per regolare stabilmente rapporti futuri, possiedono sempre un’alta capacità di resistenza e che, peraltro, esistono periodi di iper-produzione legislativa, si può comprendere come mai negli ultimi decenni la fonte legislativa statale sia entrata in crisi e siano emerse, o riemerse, fonti di diritto alternative. Gli Stati stessi hanno reagito a questa crisi e creato alcune di queste fonti: si pensi al trasferimento di poteri normativi generali, benché non sempre dichiarati, alle autorità indipendenti, chiamate a intervenire anche con provvedimenti normativi generali in settori molto delicati dal punto di vista tecnico-scientifico, come le telecomunicazioni, la privacy, l’antitrust, ma non meno delicati dal punto di vista politico, tanto da suggerire dubbi circa la loro effettiva legittimazione democratica. Strumenti di questo genere tuttavia non bastano. Il mondo attuale presenta un assetto complesso e contraddittorio, in cui forti tendenze globalistiche si confrontano con non trascurabili tendenze localistiche, tanto che si è coniato il vocabolo «glocalismo» per designare questa combinazione di forze, ora

concorrenti ora integrabili (Ford, 1998; Olgiati, 2001). La normazione statale viene sfidata da un sistema giuridico transnazionale che si va formando e nel quale operano sia fonti giurisdizionali, sotto forma di precedenti giudiziari o arbitrali influenti di fatto se non vincolanti di diritto, sia fonti negoziali, sotto forma di regole create privatamente da giuristi per regolare i rapporti, non fra singoli, ma nell’ambito di comunità economiche allargate, sia, naturalmente, fonti autoritative, che emanano norme generali non diverse dalle leggi, ma con procedure più agili ed elastiche, e intendimenti più pragmatici: si pensi alla copiosa regolamentazione che promana dagli organi dell’Unione Europea. Al contempo, essa viene sfidata dall’interno degli stati stessi, non solo da normative locali o settoriali, ma anche dalla rinascita della consuetudine, fonte tradizionale che la cultura codicistica aveva respinto ai margini della vita del diritto. Questo fenomeno è di grande interesse. È infatti chiaro che molte norme generali, anche quando paiono prodotte da qualche autorità, altro non sono che il consolidamento storico di consuetudini normative già affermate. La legislazione può seguire questa interazione, ma non soffocarla, perché essa procede sollecitata da innovazioni che spesso un legislatore non è neppure in grado di percepire. Per esempio, una novità percepita tardivamente dai legislatori dei paesi sviluppati è stata l’esplosione di rivendicazioni di autonomia da parte di gruppi sociali, antichi o nuovi, stanziali o migranti, impegnati a proclamare una propria distinta identità e a riscoprire appunto consuetudini giuridiche che, storicamente, ne furono l’espressione. L’azione giuridica generica si manifesta oggi con questa moltitudine di modelli comportamentali, che sembra dar ragione alla famosa opinione pluralistica di Georges Gurvitch, secondo cui «lo Stato non è altro che un piccolo lago profondo nell’immenso mare del diritto che lo circonda da ogni parte» (Gurvitch, 1932, p. 152).

3. L’azione giuridica specifica Possiamo ora volgere lo sguardo all’interazione giuridica fra soggetti singoli, individuali o collettivi, che nasce dalla loro tendenza a stabilire ed estendere il più possibile le rispettive sfere di autonomia, in un mondo caratterizzato da scarsità di risorse e dai conflitti che ne scaturiscono. Non siamo più nel campo della normazione generale, ma in quello della normazione individuale, consistente nell’indirizzare modelli normativi a soggetti concreti. Il riferimento ai conflitti è indispensabile per intendere le caratteristiche

sociologiche di queste azioni, a cominciare da quella più comune, il contratto. È questa un’istituzione di primaria importanza storica e politica, oltre che giuridica: si pensi al contrattualismo, che dal Seicento in poi spiega e giustifica il potere politico in quanto risultato di un accordo contrattuale, libero e autonomo, che conferisce a un sovrano, individuale o collettivo, poteri di governo – una teoria che ha incontrato recentemente un rinnovato successo (Rawls, 1971) – o alla teoria di Henry S. Maine (1822-1888), liberale dell’epoca vittoriana, secondo cui nelle società «progressive» le posizioni sociali sono liberamente scelte per contratto nel corso della vita, anziché automaticamente acquisite alla nascita in forza dello status familiare e sociale ereditato (Maine [1861], 1972). La questione cruciale riguardo al contratto è però proprio quella dell’autonomia. Concettualmente infatti il contratto nasce dall’incontro delle libere volontà delle parti: libere di dar vita, o meno, all’accordo, e libere, inoltre, di trasporvi le proprie scelte, sia pure coordinate con quelle della controparte. Ma fino a che punto esiste effettivamente tale libertà? Anche nei regimi economici liberistici, che l’affermano e sacralizzano, molti sono i limiti che la vincolano, spesso giustificati con forti ragioni di pubblico interesse. Nel corso del Novecento le politiche di welfare hanno indotto molti governi occidentali a intervenire d’autorità nell’area della libertà contrattuale, dichiaratamente a favore delle parti più deboli. Tali strategie, che hanno suscitato riflessioni scettiche sulla sopravvivenza del contratto come manifestazione di autentica autonomia privata (Gilmore, 1974; Atiyah, 1979), hanno avuto effetti a volte opposti rispetto alle attese. La costituzione di monopoli pubblici in alcuni settori-chiave dell’economia, come l’elettricità, le comunicazioni, i trasporti o le fonti di energia, si è spesso tradotta, anziché in vantaggi, in gravi sacrifici per l’utente medio, privato di ogni potere contrattuale e costretto a pagare prezzi più alti di quelli potenziali di mercato: esattamente come sarebbe accaduto in regime di monopolio privato. Negli ultimi due decenni del Novecento, in nome di un rinnovato liberismo, si è imposta un’inversione di rotta, con privatizzazioni, riapertura di alcuni mercati, libertà di contrattazione delle condizioni e dei prezzi. In questo clima è rinata una fiducia anche teorica nel contratto (McNeil, 1981; Scheiber, 1998). Ma il panorama non è troppo cambiato. Infatti il mercato libero, se privo di regole, tende a convertirsi nel proprio contrario favorendo la formazione, se non di monopoli, almeno di oligopoli e di cartelli, come rispettivamente dimostrano, in Italia, gli esempi delle telecomunicazioni e

delle assicurazioni: due mercati in cui il contraente medio difetta tuttora di una seria possibilità di negoziare clausole e prezzi. Delle regole sono indispensabili anche per scongiurare manovre speculative in settori, come il commercio minuto, in cui il libero gioco della domanda e dell’offerta dovrebbe teoricamente garantire equilibrio fra i contraenti e stabilità dei prezzi: ancora si pensi al processo inflattivo indotto da tali speculazioni nel nostro paese con l’introduzione dell’euro. Questi esempi rivelano che un regime di perfetta libertà ed equilibrio delle parti in materia contrattuale è, in realtà, solo un modello teorico verso cui orientarsi, mantenendo aggiornato e costante un apparato di controllo e di riequilibrio delle posizioni. Anche tale apparato, tuttavia, non deve essere soffocante. Il pericolo che corre la politica antimonopolistica dell’Unione Europea è precisamente quello di irretire l’azione economica in una fitta foresta di regole troppo minuziose, senza con ciò riuscire a circoscrivere il potere dei contraenti più forti e a contenerne le spinte monopolistiche. La libertà contrattuale non implica solo potere negoziale, ma anche fiducia nella controprestazione. Questo antico tema, contemplato da tutti i sistemi giuridici, possiede una chiara rilevanza sociologica. Ancora pochi decenni fa un noto studioso americano di law and society, Stewart Macaulay, poteva dire che, accanto agli aspetti formali e scritti che accompagnano e consacrano la formazione e l’esecuzione di un contratto importante, gli aspetti personali «non contrattuali», collegati al rapporto di fiducia reciproca fra le parti, apparivano fondamentali anche in presenza di alti valori economici. La parola data, la stretta di mano, la telefonata cordiale, dunque un intero apparato di comunicazioni verbali e di spontanee intese, perfino subliminali, contribuivano a definire il «vero» contesto sociale entro cui le parti disciplinavano i propri rapporti (Macaulay, 1963). In pochi decenni, il processo di formalizzazione e di razionalizzazione, che la classica teoria di Max Weber ha attribuito all’azione sociale nel suo complesso, e giuridica in specie, pare aver conquistato il campo delle relazioni contrattuali, facendovi trionfare la forma scritta, con tutto il suo potenziale simbolico (Suchman, 2003), mentre i rapporti personali paiono relegati sullo sfondo. Ciò si può spiegare sia con la struttura attuale delle comunità economiche e commerciali, il cui centro propulsore si colloca nelle grandi metropoli, tutte collegate economicamente nella metaforica rete universale, atomistica e spersonalizzata, delle cd. «global cities» (Ford, 1998), sia con la persistente diversità di culture, che impone particolari cautele alle parti quando redigono uno schema

contrattuale a dimensione transnazionale. Ne consegue una chiara tendenza alla standardizzazione, soprattutto in alcuni settori, come i trasporti, le spedizioni, le affiliazioni commerciali (il cd. «franchising»). Qui si esalta il ruolo dei tecnici del diritto, anch’essi sempre più collegati in una rete che li raccorda e che funge, al tempo stesso, come una sorta di camera di compensazione dei conflitti fra le parti che, latenti se non manifesti, sempre accompagnano i rapporti contrattuali dall’inizio alla fine. Infatti il contratto, esempio tipico di autonomia se i contraenti vengono considerati congiuntamente, manifesta chiarissimi aspetti di eteronomia se essi vengono considerati separatamente e si fa luce sulle strategie e sulle tattiche che ogni contraente pone in essere per garantirsi il massimo vantaggio possibile. Altre forme d’azione giuridica specifica presentano questi caratteri di eteronomia in modo ancora più diretto. Ciò vale per il testamento, strumento tipico di trasmissione intergenerazionale di ricchezze e di status, e anche, atipicamente, di ammonimenti, valori, sentimenti d’affetto o di avversione. La popolarità di questo strumento giuridico, con cui un soggetto può vincolare in modo assai restrittivo l’azione dei suoi successori, varia a seconda delle culture e dei sistemi giuridici. Nei regimi di cd. «testamentary freedom», prevalente nei paesi di common law, pur con variazioni notevoli da luogo a luogo, il testamento è più diffuso che nei regimi di cd. «partage forcé», introdotto dai rivoluzionari francesi dell’89 e basato sull’istituto della quota di riserva – la «successione necessaria» del nostro codice civile – e sull’uguale suddivisione dei patrimoni fra i successibili dello stesso grado. Anche in questi ultimi tuttavia – tipico il caso dell’Italia – l’atto di ultima volontà può servire ad apportare correzioni non marginali a quella che sarebbe la sorte del patrimonio se il de cuius morisse intestato e non di rado, con adeguati accorgimenti, anche per disapplicare o aggirare le norme sulla quota di legittima (V. Ferrari, 1972; Gulotta et al., 2003). In quest’ultimo caso il testatore confida nella futura obbedienza spontanea degli eredi sfavoriti: cosa che, in se stessa, è rivelatrice del grado di pressione psicologica, non solo normativa, che l’atto di ultima volontà permette di esercitare grazie al suo alto grado di simbolismo. L’eteronomia si fa più vistosa man mano che – riferendoci a una dicotomia dogmatica, quantunque sociologicamente e storicamente poco rigorosa – dal campo «privato» ci si sposta gradualmente verso quello «pubblico». L’azione giurisdizionale è l’esempio più tipico, di grande interesse sociologico per evidenti ragioni. Innanzitutto, l’iniziativa di un soggetto è qui

diretta, per definizione, contro un altro soggetto: il conflitto, che nei rapporti umani è spesso latente, si manifesta esplicitamente assumendo carattere formale anche nelle definizioni; come il giurista puro parlerà di «controversia», così il sociologo potrà parlare di «dispute» (Abel, 1974), per segnalare precisamente il fatto che lo scontro è uscito in campo aperto ed è quindi «pubblico», in quanto esposto alla pubblica attenzione. Inoltre, proprio per questo carattere di pubblicità, le parti assumono ruoli formali – «attore»4 e «convenuto», «plaintiff» e «defendant» – che incanalano le loro azioni entro binari precostituiti. Anche in regimi giuridici che riconoscono ampia libertà d’azione ai protagonisti del processo, le armi di cui ciascuno di essi dispone, non sempre pari, sono prescritte e non possono essere cambiate. Ancora, il rapporto interattivo, che in origine può aver avuto una dimensione bilaterale, come nel campo della giustizia civile, si arricchisce per l’intervento di altri soggetti, con altri ruoli: il giudice, innanzitutto, portatore di una simbologia sociale arcaica ma proprio per questo potente, i difensori delle parti, che filtrano le domande, le traducono in linguaggio curiale, le «trattano» per renderle compatibili con le regole del gioco e, non ultimo, il pubblico esterno che nei casi più rilevanti osserva, commenta, interviene, pervenendo talvolta a condizionare gli esiti di quel gioco (V. Ferrari, 1987, pp. 191 sgg.). Infine, appunto, questa complessa interazione si configura più che mai come un gioco, un game nel quale vi saranno vincitori e perdenti, definiti come tali da un suggello solenne e dotato di efficacia formale e sostanziale: la sentenza. Un gioco, aggiungiamo, i cui esiti dipendono da una tale molteplicità di fattori da renderlo spesso poco prevedibile. Il fattore più rilevante che influisce sul processo è la capacità di assorbimento di quel sistema d’azione relativamente autonomo, che pressoché ovunque è istituzionalmente designato per gestirlo: il sistema giudiziario. Metaforicamente, questo funziona come una successione coordinata di filtri e di valvole. Se qualcosa, in qualunque fase, occlude, intralcia o ritarda il flusso di azioni, i conflitti non trovano soluzione istituzionale soddisfacente e rischiano, rifluendo, di scaricarsi altrove, nel migliore dei casi in forme di cd. «giustizia alternativa», nel peggiore in forme di azione diretta sconfinanti nella devianza. Ciò trova un chiaro riscontro empirico. È da queste variabili cd. «endogene», cioè attinenti al sistema giudiziario in se stesso, piuttosto che dalle variabili cd. «esogene», relative agli eventi esterni (indici di natalità, di incremento demografico, di sviluppo industriale ecc.), che soprattutto dipendono i flussi di litigiosità nel campo della giustizia civile (Pellegrini,

1997), mentre in quello della giustizia penale l’evidenza di un rapporto sempre minuscolo fra notizie di reato e sentenze di condanna incentiva «razionalmente» alla devianza (Marselli, Vannini, 1999; Clark, 2003). Ma anche se il sistema assorbe quel flusso e lo «tratta» con efficienza e rapidità, non è sicuro che i suoi esiti producano gli effetti voluti da chi ha iniziato il gioco o l’ha subito. La sentenza del giudice infatti definisce la questione solo sul piano giuridico-formale. Che il soccombente l’accetti e la rispetti, anche una volta che sia definitiva, è tutt’altra questione. Vi sono casi di liti pluridecennali, addirittura secolari, che nessuna sentenza è riuscita a dirimere (Masia, 1992). L’efficacia dell’azione giudiziaria dipende in primo luogo dalla pratica eseguibilità delle sentenze, per cui occorrono mezzi non sempre disponibili, ma in secondo luogo, e non meno, da altri fattori. Per esempio il favore o il disfavore sociale verso le norme generali con cui il giudice motiva le proprie decisioni, l’autorevolezza del singolo decisore, l’atteggiamento dei media verso le une o verso l’altro, tutto ciò influenza il contesto sociale in cui ogni sentenza va a produrre effetti e può essere decisivo nel sollecitare atteggiamenti di acquiescenza o di resistenza. Particolarmente immediato è il carattere eteronomo e autoritativo della cd. «azione amministrativa». La storia di questa modalità d’azione è antichissima: dall’antico Egitto all’Impero bizantino, dalla Spagna seicentesca all’Impero ottomano, dall’Impero austro-ungarico alla Germania guglielmina, dalla Francia napoleonica all’Italia unitaria in tutta la sua storia, sempre siamo in presenza di forti apparati burocratici. L’amministrazione rappresenta un’esplicazione tipica del potere politico, tanto più forte quanto maggiore è il controllo che le élites governanti possono esercitare sulla vita di una popolazione. Essa infatti si traduce in atti discrezionali e «mirati» dei detentori di potere, difficilmente contrastabili, sia perché immediatamente esecutivi salvo rimedi eccezionali, sia perché forniti di una forte legittimazione simbolica, il pubblico interesse, sia, infine, perché sorretti da una non meno forte giustificazione normativa: come ogni sentenza giudiziaria, così ogni atto amministrativo, anche se discrezionale, si presenta come l’applicazione doverosa di una qualche norma generale. La presenza di un apparato di norme generali poste a sostegno di atti particolari può suggerire l’idea che l’azione amministrativa possa ispirarsi a modelli di razionalità, essere cioè programmabile individuando finalità chiare e mezzi adeguati a raggiungerle. Altrettanto, può far supporre che il potere dei burocrati possa essere controllato e arginato. Di questi fattori tiene conto la

più nota teoria sociologica della burocrazia, quella di Max Weber, secondo cui il processo di «razionalizzazione» che caratterizza le società moderne si accompagna per l’appunto alla crescita di un ceto burocratico preposto a realizzare i fini indicati dal potere politico rispettando le indicazioni normative del potere politico. Lo stesso Weber, peraltro, segnala che le maglie della burocrazia possono divenire talmente intricate da trasformarsi in una «gabbia di ferro», contrastabile solo riconoscendo alla classe politica il potere di inventare nuove regole (Weber, 1918, p. 36*): col limite, tipico di molti sistemi, che mentre le élites politiche mutano in funzione delle scelte elettorali, i burocrati godono di una stabilità garantita dalla legge, che li rende inattaccabili, veri e propri «specialisti», di fronte ai quali il detentore del potere può venire a trovarsi «nella situazione del dilettante» (Weber, 1922, vol. II, p. 293*). Per comprendere il rilievo del potere burocratico occorre indagare, altresì, sulla funzione realmente esercitata dalle norme che disciplinano l’azione amministrativa. Queste forniscono spesso una giustificazione o una motivazione più apparente che reale e operano soprattutto permettendo ai funzionari di trasferire altrove, in alto o lateralmente la responsabilità delle scelte effettive, che sono spesso molto più discrezionali di quanto la normativa non dica (Mayntz, 1978, pp. 241 sgg.*). Nella loro complicata minuziosità, esse forniscono soprattutto uno schermo protettivo generale che sovente occulta scelte di potere arbitrarie: per una spia significativa, si pensi all’azione esplicata dai governi che, perduta la fiducia, rimangono in carica «per l’ordinaria amministrazione» eppure operano senza incontrare sostanziali controlli5. L’eteronomia non è una prerogativa solo dei pubblici poteri, ma è caratteristica di ogni organizzazione complessa, anche privata. Tutta l’attività imprenditoriale si regge sul principio della discrezionalità che compete all’imprenditore nel sistema gerarchico piramidale che scende dai vertici alla base di un’azienda. È vero che una serie di norme di varia provenienza – che per esempio pongono vincoli al contratto di lavoro – sono dirette a limitare quella discrezionalità. Tuttavia entro questi limiti il potere imprenditoriale è insindacabile e si traduce in potestà normativa, sia generica (si pensi ai cd. «codici aziendali»), sia e soprattutto specifica, consistente in sanzioni positive (promozioni) o negative (negate promozioni, declassamenti, trasferimenti) collegate a comportamenti spesso neppure codificati, ma considerati caso per caso.

4. Identità ed «etichette» L’azione giuridica, generica e specifica, produce una moltitudine di effetti sociali, fra cui rileva in primo luogo, come già accennato, la costituzione di identità e di conseguenti status e ruoli giuridicamente definiti e distinti. Da ciò dipende la formazione di un campo di aspettative sociali. Qui va segnalata con forza la distanza che corre fra la norma regolatrice e i sottostanti rapporti che essa regola. Le formule giuridiche hanno (e non possono che avere) pretesa di oggettività, in quanto devono guidare prescrittivamente delle scelte concrete. Proprio per questo, tuttavia, le identità costituite dal diritto tendono a essere rigide e formali come maschere teatrali. Ogni sistema di norme giuridiche è leggibile anche come una grande galleria di tipi identitari sconfinanti nell’astrazione, perché normativamente definiti secondo un sistema definitorio che li distingue, li classifica, li ordina, li istrada sui binari di un’interazione preordinata in tutti i dettagli. In una lucida analisi strutturale André-Jean Arnaud, giurista e sociologo del diritto francese, analizza e disseziona in questa chiave il Code Napoléon, nella sua versione originale ottocentesca, leggendolo come una sorta di commedia pirandelliana, in cui i soggetti perdono la loro corporeità e ricompaiono come figure, nel senso etimologico del termine, maschere appunto: «il maggiore d’età», «il figlio», «la donna sposata», ed anche «l’assente», «il presuntivamente morto» non sono persone concrete, ma piuttosto dei tipi ideali giuridicamente costituiti e posti su una scena in cui muovono mosse prestabilite, come su una scacchiera vivente (Arnaud, 1974). Ugualmente idealtipiche sono tutte le altre figure giuridiche più ricorrenti, benché riferibili a soggetti concreti: il «creditore pignoratizio», il «terzo di buona fede», il «responsabile civile» oppure, nel processo, l’«attore», il «debitore esecutato», il «condannato». Uguale sorte subiscono le cose e le relazioni fra esse: un «bene», un «patrimonio», un «nesso causale» sono espressioni i cui referenti non sono oggetti percepibili o entità pensabili scaturite dalla comune interazione linguistica, ma concetti costruiti artificialmente e sovrapposti alla realtà. Questo gioco delle astrazioni giuridiche non conosce confini. Il diritto costituisce identità tanto esoteriche da non potersi definire se non con simboli, come il «de cuius», che designa un defunto, «della cui eredità si tratta», che però gioca sull’ipotetica scacchiera la parte idealtipica di un soggetto attivo, se autore di un testamento, o di spettatore passivo, se morto intestato,

o persino di vittima, se la sua volontà regolatrice viene messa in discussione dai suoi «successibili». E altresì il diritto, regno della fictio come il teatro, inventa identità virtuali, appunto «fittizie», come la «persona giuridica» o il «trust», dietro cui scompaiono i soggetti che concretamente operano nella vita economica e sociale. Naturalmente esistono differenze fra i diversi sistemi giuridici quanto ad astrattezza delle identità normativamente costituite. Il sistema codicistico di origine illuministica ha segnato in materia la tappa più estrema, nel tentativo di garantire certezza attraverso un ordine concettuale razionale e assiomatico. Altri sistemi, come il ius commune di origine romana, la common law angloamericana e anche, probabilmente, il diritto commerciale transnazionale di nuova formazione, sono più elastici, perché mutevoli rispetto alla (relativa) immutabilità di un codice. E in genere l’opera degli interpreti, sollecitata dalle inevitabili ambiguità del linguaggio giuridico e dei mutamenti che esso subisce col trascorrere del tempo, serve senz’altro anche a rendere meno rigide le identità giuridicamente costituite. Ma nessun sistema giuridico riesce a far coincidere perfettamente le identità formali che scaturiscono dalle sue norme con quelle più sostanziali che scaturiscono dall’interazione sociale. La realtà dei rapporti sociali – bisogna ricordarlo – non manca neppure essa di teatralità e di finzione, tanto da aver ispirato teorie cd. «drammaturgiche» dell’azione sociale come quella, famosa, di Erving Goffman (Crespi, 1994, pp. 224 sgg.). Ma le identità sociali sono assai più mobili di quelle giuridiche, in quanto frutto di incessanti comunicazioni in cui assumono rilevanza le percezioni soggettive, degli individui e dei gruppi sociali. L’interazione sociale è paragonabile a un gioco di mille specchi mobili, tutti diversi, in cui tali percezioni si rifrangono, si ripercuotono e si modificano. Le identità sociali e anche gli atteggiamenti e le condotte che vi s’ispirano sono un effetto di questo gioco di infinite rifrazioni. Se vi è, anzi, un pericolo per la vita di una società, è proprio quello della cristallizzazione delle identità sociali attorno a dei clichés standardizzati, frutto di emozioni e di semplificazioni estreme, come nel caso dei fondamentalismi etnici e religiosi (Remotti, 1996). Attraverso la sua attività ordinatrice e tipizzatrice, il diritto conferisce alle identità sociali un certo grado di stabilità e di affidabilità delle aspettative di ruolo e di status che vi sono connesse. L’identità di «padre», che deriva dalla combinazione tra un fatto naturale e un criterio di riconoscibilità sociale, si rafforza nel momento in cui, accertata giuridicamente la paternità attraverso un riconoscimento formale o una presunzione di legge, è socialmente noto

che taluno potrebbe intervenire d’autorità a garantire l’esercizio di certi poteri decisionali e anche il godimento di certe immunità (si pensi all’esercizio, tuttora consentito, di un certo grado di coazione fisica verso i figli a scopo correttivo) e, correlativamente, a garantire l’osservanza di certi obblighi verso i figli o la madre di questi. In breve, il diritto irrigidisce l’identità sociale di questo soggetto, definendo e rafforzando attorno a lui un campo di aspettative comportamentali. Se queste verranno deluse, è più probabile che alla delusione venga opposta una ferma reazione. Per definizione infatti le aspettative rafforzate dal diritto sono normative – il diritto, come si è visto, è norma, convincente e persuasiva – e difficilmente verranno abbandonate. Questo campo di aspettative sociali giuridicamente rafforzate può essere più ampio, ma anche più ristretto, di quello che il diritto stesso definisce prescrittivamente. Proseguendo nell’esempio fatto, non solo i figli e la madre di questi, ma anche altri soggetti appartenenti a una cerchia parentale o sociale allargata, cui non compete alcun potere giuridico di iniziativa, potranno reagire alla delusione delle aspettative convergenti sul padre col supporto di pressioni psicologiche, o addirittura fisiche, se quelle aspettative vengano deluse. In questi casi il diritto, affondando le radici in un sentimento naturale, ottiene socialmente di più di quello che si propone. Ma può anche accadere il contrario. Nel caso, per esempio, in cui la paternità sia stata attribuita in modo virtuale – si pensi all’inseminazione artificiale cd. eterologa della moglie, cui il marito abbia prestato consenso6 – con gli stessi effetti giuridico-formali che conseguono alla paternità naturale, è probabile che la reazione sociale in caso di delusione delle aspettative comportamentali gravanti su quel «padre» giuridico sia più debole e differenziata, dipendendo da scelte culturali soggettive, più sofisticate e meno radicate. Qui il diritto ottiene meno di quello che si propone. Discrasie di questo genere fra norme giuridiche e opinione sociale possono ingenerare forti delusioni nei confronti del diritto stesso. Molti rimangono negativamente colpiti quando constatano che il diritto offre troppo pochi o troppi mezzi di reazione, in rapporto alle posizioni sociali che costituisce o riconosce e che sono spesso, in effetti, poco comprensibili a chi ignori i fondamenti della scienza giuridica. Non è sempre facile, dopo più di un secolo dall’abolizione del carcere per debiti, convincere un creditore insoddisfatto che il debitore inadempiente non può essere condannato alla detenzione. Meno facile ancora è far comprendere al comune cittadino il peso

e il significato delle identità fittizie che il diritto inventa e nelle quali la distanza fra realtà giuridica e realtà sociale (ed economica) è più marcata. Un concetto come la persona giuridica è difficilmente spiegabile e giustificabile agli occhi di un cittadino ignaro. Del resto il giurista stesso ben sa che occorre un forte apparato di regole per evitare che simili strumenti giuridici, pur preziosi per l’attività economica, si prestino a strategie incompatibili con le loro finalità istituzionali: è noto, per esempio, che la personalità giuridica delle società commerciali, combinata con la debolezza dei controlli essenziali e l’eccessiva macchinosità di certe procedure – si pensi a quelle concorsuali – permette a imprenditori spregiudicati di pianificare strategicamente inadempienze in grande stile. Il rapporto fra diritto e costruzione di identità si manifesta in tutta la sua delicatezza nel campo della cd. «devianza», di cui la sociologia e la criminologia, nel corso della loro storia, hanno dato molte spiegazioni, fra le quali spicca quella che, per l’appunto, fa riferimento agli effetti «etichettanti» provocati dall’attività decisionale degli enti preposti al controllo sociale, e che va sotto il nome di labelling theory – teoria dell’etichettamento – assegnatole sin dalle sue origini negli anni Sessanta presso la scuola americana dell’interazionismo simbolico. Come ricordato a suo tempo (cfr. supra, pp. 61 sgg.), le norme sociali, e quelle giuridiche in ispecie, svolgono una funzione primaria di orientamento sociale attraverso la prospettazione, in forme prescrittive, di modelli d’azione. Questi modelli coprono un’ampia gamma, dalla massima libertà sino al divieto assoluto, attraverso una serie di modalità intermedie – si pensi alle varie figure teoriche classificate dalla scienza giuridica, come le facoltà, gli oneri, le condizioni, i termini ecc. – che qualificano più specificamente le azioni graduandone il rilievo giuridico a seconda di circostanze particolari. A ogni modello possono rapportarsi azioni, volontarie o involontarie7, che possono essere rappresentate, rispetto ai contenuti normativi, nei termini alternativi di conformità oppure di non conformità o devianza: parola, quest’ultima, che è entrata nell’uso comune del lessico sociologico, e soprattutto criminologico, anche se, ovviamente, l’alternativa in questione si applica non solo alla sfera della reazione penale, ma a qualunque settore del diritto e, del resto, a qualunque forma di normatività. Dal punto di vista pragmatico, l’applicazione delle qualifiche di conforme e di deviante a una classe di azioni astrattamente individuate, oppure a singole azioni concrete, dipende da decisioni, che vengono assunte e comunicate lungo

le varie fasi dell’azione giuridica. Sono queste decisioni che, sociologicamente, attribuiscono le qualifiche – o le «etichette» – di cui stiamo parlando. Queste decisioni possono ispirarsi al sentire comune di una popolazione, ma anche rispondere a sollecitazioni provenute da influenti settori minoritari di essa o ad esigenze occasionalmente avvertite in circostanze particolari. Si pensi a un classico esempio attinto dalle opere giovanili di Karl Marx, quello della raccolta di legna caduta nei boschi, che una legge approvata dalla Dieta della Renania definì e punì come «furto» in danno dei proprietari dei boschi stessi, benché si trattasse di un diritto collettivo secolare (il legnatico) riconosciuto in capo alla «povera gente» (Armut)8: un diritto consuetudinario – protestava Marx nel riferire delle discussioni parlamentari sulla «Rheinische Zeitung» – che artificiosamente veniva mutato «in un monopolio dei ricchi» e in un delitto da una decisione politica (Marx [1842], 1975, p. 191). Questo famoso testo non dice nulla di molto diverso da ciò che, più di un secolo dopo, diranno i labelling theorists quando segnaleranno che la qualifica di «deviante» non è tanto una caratteristica intrinseca della singola azione, quanto il frutto di «etichette» (labels) imposte all’azione stessa da parte di chi detiene il potere definitorio e/o sanzionatorio, a livello generale o individuale. Se infatti è per definizione «etichettante» l’emanazione di una legge, lo è altrettanto la sentenza di condanna emessa da un giudice, e sotto due profili: da un lato perché perpetua, nella catena sociale di comunicazioni, il significato istituzionalmente negativo attribuito all’azione, dall’altro perché pone metaforicamente sulla fronte di un soggetto concreto appunto una «etichetta», che condizionerà in futuro tanto l’opinione e le aspettative sociali nei suoi confronti, quanto le sue stesse azioni. Chi porta pubblicamente lo stigma di «deviante» – per quanto sia libero e responsabile delle proprie azioni – ha maggiore probabilità di essere socialmente isolato e, proprio per questo, di frequentare subculture devianti ed essere indotto a deviare nuovamente, oltre che di vedere stigmatizzati come devianti gli atti che compie9. Tuttavia, le etichette di conforme e di deviante non sono né concettualmente rigide né fisse nel tempo, per ragioni già illustrate, che si riportano sia alla discrepanza fra le astratte e tipizzate previsioni giuridiche e i concreti eventi della vita sociale, sia alle caratteristiche del linguaggio con cui le une e gli altri sono espressi. In particolare gli enunciati normativi – come detto più volte – sono soggetti al lavorio incessante degli interpreti, che si traduce in una loro moltiplicazione. Se una norma si presta a diverse interpretazioni, è evidente che la classificazione degli atti come conformi o

devianti dipende non tanto da quella norma in sé, quanto dalle sue varie interpretazioni: ciò che è conforme secondo un’interpretazione è deviante secondo un’interpretazione diversa. Gli esempi potrebbero essere infiniti. Infatti è difficile incontrare una norma giuridica che non dia adito a dubbi e non solleciti interpretazioni restrittive o estensive, più o meno rigorose o fantasiose, basate su un metodo ora letterale, ora sistematico, ora teleologico, a seconda dei casi e dei momenti. Da quanto detto risulta con evidenza un apparente paradosso. Da un lato il diritto agisce irrigidendo la realtà e tipizzando le figure sociali. Dall’altro, persino le figure più tipiche, come quelle di conforme e deviante, che nascono dall’essenza normativa del diritto, presentano caratteri di alta relatività (Ghezzi, 1995). Questo fenomeno appare in chiara luce – una luce inquietante – soprattutto nel nostro tempo, se si pensa all’enorme imponenza della legislazione, compresa quella penale, che ha reso sempre più incerta e mutevole la valutazione e la previsione giuridica. In un panorama così confuso si perdono di vista anche i concetti stessi di lecito e illecito, e con essi i valori di fondo che dovrebbero ispirare permessi e divieti giuridici: giacché le etichette di cui stiamo parlando appaiono sempre più passeggere e sfumate.

5. Le sanzioni giuridiche Come già ricordato, il riferimento a sanzioni è un tratto fondamentale dell’azione giuridica. La prospettiva di una sanzione rafforza l’aspettativa di chi agisce in quanto è indirizzata a influenzare la condotta di coloro cui l’azione si rivolge. Nella cultura generale, e anche nell’uso più comune del linguaggio, il termine «sanzione» coincide con l’idea di un castigo o almeno di uno svantaggio inflitto in conseguenza di una trasgressione. Questa visione, che vedremo essere restrittiva, è ben consolidata storicamente. Essa discende dalla concezione del diritto come sistema di doveri, la cui inosservanza non può essere tollerata e pertanto comporta, in certo modo automaticamente, una reazione afflittiva, socialmente doverosa e socialmente assistita, anche se può essere lasciata all’iniziativa privata della parte offesa, come nel caso della lex talionis, tipica delle società che si usava definire «primitive» e che oggi si definiscono più propriamente «non differenziate» o «decentrate», in quanto prive di un articolato potere centrale. La concezione classica della pena come «retribuzione» meritata dal reo e, come tale, a lui «dovuta» (perfino, secondo

alcune teorie, come suo «diritto») risponde a questa concezione. Fra queste sanzioni, che possiamo definire «negative», è consuetudine stabilire alcune distinzioni, fra cui rileva soprattutto quella fra sanzioni repressive e sanzioni restitutive, centrale nella teorizzazione di Emile Durkheim, già ricordata (cfr. supra, p. 48). Le sanzioni repressive mirano a infliggere al trasgressore un male che si ritiene proporzionato all’azione trasgressiva: è dunque, tecnicamente, uno scambio di «male contro male», un doppio male, giustificato dalla convinzione che il soggetto che ha subito la trasgressione e/o la comunità tutta intera si sentano appagati o rinfrancati dalla sofferenza patita da chi ha provocato la loro sofferenza. È dunque un meccanismo che agisce a livello simultaneamente psicologico e simbolico. Le sanzioni restitutive, come rivela l’etimo latino della parola, mirano a restituere, cioè a riportare, a spese del trasgressore, la situazione materiale nella condizione in cui si trovava prima della trasgressione. Se un muro è stato illecitamente eretto, dovrà essere abbattuto; se un passaggio è stato chiuso, dovrà essere riaperto; se un sacrificio economico è stato provocato, dovrà essere ristorato direttamente, o indirettamente attraverso il risarcimento del relativo danno. Nel suo De la division du travail social, Durkheim suggerisce alcune famose correlazioni fra questi due tipi di sanzioni e due tipi corrispondenti di diritto e di solidarietà sociale: le sanzioni repressive prevalgono nelle società poco differenziate al loro interno, a solidarietà cd. «meccanica», le sanzioni restitutive nelle società molto differenziate, caratterizzate da una molteplicità di ruoli sociali, a solidarietà cd. «organica» (Durkheim [1893], 1930). Ciò comporterebbe, in chiave storica, un progressivo aumento delle seconde in rapporto alle prime. Questa teoria, invero, coglie solo un lato della realtà. L’enorme sviluppo del diritto civile e commerciale ha sicuramente ampliato il campo delle sanzioni restitutive, arricchendolo non solo di tipi nuovi, ma anche di nuove modalità: pensiamo alle forme sempre più ricorrenti di inibitoria, che operano anticipatamente per evitare che sia prodotto quel danno cui sarà connessa una sanzione, appunto, restitutiva. Tuttavia, lo studio dei diritti di alcune società cd. «primitive» ha messo in luce che presso di esse esistono da tempo immemorabile, accanto a sanzioni repressive, anche sanzioni restitutive: in quei contesti, per esempio, l’omicidio poteva essere ripagato alternativamente con la morte dell’uccisore oppure con risarcimenti in natura o in denaro a favore della famiglia della vittima. Per converso, le complesse società contemporanee non hanno affatto abbandonato la pratica delle sanzioni repressive, ma l’hanno solo resa più elastica e meno meccanica.

Infatti dall’Ottocento in poi il ricorso alla sanzione penale, afflittiva, da parte dei governi, si è esteso dal campo delle trasgressioni ritenute intollerabili dalla cultura comune a quello dei comportamenti che, senza offendere la cultura comune, sovvengono a esigenze momentanee dell’azione politica, soprattutto nel campo economico: per usare una classica terminologia, dai cd. «mala in se» ai cd. «mala quia prohibita». Vengono infatti inventate figure di reato talmente artificiali e fantasiose da lasciar perplessi anche gli specialisti10 e da sovraccaricare enormemente il peso della giustizia penale. Peraltro, il potere politico si dimostra in molti casi disposto a transigere su varie figure di reato. Molte sono depenalizzate, altre possono essere condonate a condizioni variabili, anche se riguardano settori, come le devastazioni ambientali, nei quali la maggioranza dei cittadini reclama interventi repressivi severi (Giasanti, Maggioni, 1979). Per influenzare i comportamenti, comunque, le norme giuridiche non utilizzano solo la minaccia di afflizione, ma anche altre tecniche di condizionamento: premi, onorificenze, incentivi, aperture di credito, sconti, opportunità di vario genere. Queste tecniche alternative non sono una novità, come dimostra l’indagine storica: si pensi alla distribuzione di terreni pubblici ai militari romani che lasciavano il servizio. Vi è però una novità linguistica: infatti la teoria generale del diritto, osservata una sostanziale omologia fra le varie tecniche di condizionamento normativo, ha esteso il senso della parola «sanzione», che è venuto a designare tanto le sanzioni negative, che infliggono svantaggi, quanto le sanzioni positive, categoria che comprende tutti i vantaggi che il diritto può offrire in cambio di comportamenti non solo conformi, ma anche «superconformi», cioè particolarmente graditi a chi pone le norme. Su questa tecnica di condizionamento, già analizzata da Bentham (Facchi, 1994, pp. 53 sgg.), si sono svolte utili riflessioni da parte di chi, recentemente, ha notato che essa si è diffusa soprattutto durante la lunga fase dell’interventismo statale nella vita economica, costellata di politiche di incentivazione, fino a scorgervi un tipo particolare di prestazione del diritto, definibile come «funzione promozionale» in contrapposto alla «funzione repressiva», tipica delle società liberali ottocentesche, astensioniste in economia (Bobbio, 1977; Aubert, 1983). Il fenomeno, di tutta rilevanza, non è venuto meno neppure con la crisi del cd. «welfare state» ed anzi ha invaso, in forme diverse, anche altri settori del diritto, compreso quello penale. I condoni di reati, sopra ricordati, possono essere considerati una tecnica di incentivazione, sia pure indiretta e ambigua11, ma ancor più calzante è

l’esempio della politica della «premialità» o del cd. «pentitismo» seguita dal legislatore italiano a partire dagli anni Ottanta per combattere alcuni tipi di reati (mafia, terrorismo politico) scambiando rivelazioni con sconti di pena. Il patteggiamento, che il nuovo codice italiano di procedura penale ha introdotto riproducendo in parte il modello americano (il cd. «plea bargaining»), in cui si permette all’imputato che ammetta la colpevolezza di concordare col pubblico ministero una pena ridotta, è un altro significativo esempio di questo tipo di politica. Nel campo delle sanzioni positive sono necessarie alcune precisazioni. È usuale distinguere tali sanzioni a seconda che intervengano a posteriori o a priori rispetto al fatto cui sono riferite. Nella prima categoria si classifica tipicamente il premio; nella seconda si annoverano l’incentivo, lo sconto, il credito agevolato. Questa distinzione non è inesatta, ma va meglio specificata. Il premio può non essere affatto collegato all’azione desiderata, ma semplicemente conseguirne in modo anche inatteso. Il soldato o il civile che compie un atto di eroismo, di solito, non agisce per ottenere la medaglia al valore che, forse, gli verrà assegnata. A sua volta un incentivo – si pensi all’investimento economico di un’azienda in un’area depressa, o all’assunzione di invalidi civili – può essere semplicemente promesso in cambio di un’azione anch’essa promessa, e materialmente erogato dopo il compimento di quell’azione. Similmente accade con lo sconto di pena o di altri favori processuali promessi all’imputato in cambio di rivelazioni. Abbiamo qui dunque due fasi: prima lo scambio di promesse, poi gli atti concreti. Quest’ultimo rilievo porta l’attenzione su un’altra questione non marginale, il collegamento che spesso – non sempre – sussiste fra sanzioni positive e sanzioni negative. L’incentivo promesso all’imprenditore che investe in un’area depressa dovrà essere erogato e, se ciò non avverrà, questo potrà chiederlo (o chiedere una prestazione equivalente o risarcitoria) col supporto di sanzioni negative a carico della parte inadempiente. Non diversamente, l’imputato che faccia rivelazioni false si vedrà non solo negato lo sconto di pena ma, con ogni probabilità, anche aggravata la situazione processuale. È certo che non basta minacciare o promettere sanzioni per ottenere una spontanea adesione alle norme. Questa dipende da un complesso di fattori, in parte sociali in parte individuali, e la prospettiva di una sanzione non è altro che uno di questi fattori, dal peso variabile a seconda dei luoghi, delle culture e, non meno, delle modalità applicative. La previsione razionale che una sanzione negativa, pur prevista, non sarà applicata per inefficienza

dell’apparato organizzativo cui spetta farlo, certamente induce alcuni a trasgredire. Ancora, la previsione di più sanzioni afflittive in successione temporale ottiene un successo decrescente (Friedman, 1975, pp. 145 sgg.*). Caso tipico, il carcere. La prospettiva di essere arrestati desta in genere molto più timore la prima volta che le volte successive, anche perché, prescindendo dalle questioni di «etichettamento» sopra considerate, è più facile che il carcere svolga una funzione criminogena, di scuola di reato, piuttosto che di recupero sociale del reo, come suggerito dall’ideologia carceraria ufficiale. Perfino la minaccia della pena di morte, come già osservava Cesare Beccaria, ha effetti di gran lunga inferiori a quelli che si potrebbero supporre. I gravi reati per i quali può essere applicata sono infatti spesso commessi al di fuori di un calcolo razionale. Il calcolo razionale è invece molto influente quando si tratta di sanzioni, negative o positive, che comportano svantaggi o vantaggi economici. L’evasione fiscale non può essere combattuta con la minaccia di sanzioni pecuniarie che, anche per l’incerta applicazione futura, sono comunque inferiori al profitto che essa assicura con certezza. Nel campo delle sanzioni positive, un simile calcolo può produrre effetti perversi rispetto alle previsioni. Soprattutto in periodi di crisi economica, la concessione di incentivi finanziari, per esempio, può dar vita a una catena di speculazioni. In Italia vi sono casi di industrie costruite con gli incentivi statali e poi rivendute allo Stato a prezzi quintuplicati, con gran vantaggio degli imprenditori interessati e corrispondente sacrificio delle finanze pubbliche.

6. Effetti dell’azione giuridica L’azione giuridica è intrinsecamente teleologica, cioè rivolta per definizione a produrre effetti entro una sfera più o meno vasta di rapporti sociali. Chi agisce attraverso il diritto, dal livello più ampio di un’assemblea costituente sino a quello più ridotto di un atto amministrativo o esecutivo, lo fa per raggiungere degli obiettivi. Se gli obiettivi perseguiti dall’attore sono raggiunti, è convenzionale dire, in sociologia del diritto, che l’azione è stata efficace. Per efficacia del diritto – di una legge, di un contratto, di una sentenza – s’intende infatti la produzione di effetti sociali corrispondenti alle intenzioni di chi ha agito, che «vanno nella direzione voluta» (Friedman, 1975, p. 101*). L’indagine sociologica sull’efficacia consiste dunque nel rapportare dei fatti osservabili a dei

precedenti progetti d’azione, secondo una prospettiva opposta rispetto a quella della scienza giuridica, che usa il termine «efficacia» del diritto per designare la potenzialità di una norma a conseguire i suoi effetti tipici12. In base a quanto detto sinora, dovrebbero risultare chiare l’importanza e la complessità di questo problema. Infatti, come più volte ricordato, fra la previsione astratta di un comportamento, contenuta in una norma, non importa di quale tipo (legge, principio giurisprudenziale, concetto dottrinale, clausola contrattuale), e la concreta esplicazione di comportamenti vi è sempre, se non la certezza, almeno una forte probabilità di non perfetta coincidenza. Quanto detto a proposito delle identità vale anche per i comportamenti. Previsioni teoriche e azioni concrete presentano un problema simile alla quadratura del cerchio: ci si può avvicinare alla perfezione – col procedimento di «esaustione» noto ai cultori di geometria analitica – senza poter pervenire alla totale corrispondenza fra le due aree. La perfetta corrispondenza fra norma e azione – o fra «law in the books» e «law in action»13 – è resa difficile da una serie di circostanze di chiara evidenza. Innanzitutto una norma, generale o individuale, non costituisce quasi mai l’inizio di un processo comunicativo, ma è semplicemente un atto che s’interpone in un processo già iniziato e che continuerà dopo la sua comparsa sulla scena. Una legge è il prodotto dell’azione coordinata di più soggetti e, una volta emanata, influenzerà un gran numero di aspettative e di azioni, in larga misura dipendenti dalla prospettazione offertane dai media individuali o di massa. Un contratto scaturisce dalla percezione di esigenze, calcoli e discussioni fra i contraenti e, una volta stipulato, metterà in moto una serie di meccanismi coinvolgenti l’intervento, il più delle volte, di altri soggetti. Lo stesso dicasi per ogni altro atto normativo, dalla concessione amministrativa al testamento, dall’elezione di un sindaco alla sentenza di un giudice. Sono cioè molteplici i fatti che, metaforicamente, entrano nel filtro della norma e, passati attraverso questo filtro, ne fuoriescono. Molti di questi fatti sono prevedibili e previsti, altri non lo sono. Sull’efficacia di una normativa, e sull’azione giuridica in genere, giocano spesso eventi inattesi – naturali, economici, politici, sociali – che fanno deviare un corso programmato di eventi. Inoltre, l’azione giuridica interviene quasi sempre in un campo di relazioni conflittuali, latenti se non manifeste. Essa dirime fra interessi contrastanti, accogliendone alcuni e respingendone altri. Ciò è ben chiaro nel caso di una sentenza, specialmente (ma non solo) nel campo civile: ciò che ottiene una parte non può ottenerlo la parte avversa. Altrettanto chiaro appare nel caso di

un contratto, che regola interessi contrapposti. Ma non è meno evidente nel caso di una legge. Si pensi alla drastica delimitazione, decisa recentemente in Italia con legge 19 febbraio 2004, n. 40, della cd. «procreazione assistita». Entrata in vigore, essa produrrà inevitabilmente uno spostamento di opportunità economiche a favore di alcuni soggetti rispetto ad altri, per esempio i centri di assistenza stranieri rispetto a quelli italiani. Anche le leggi che ampliano il campo dei diritti soggettivi spesso escludono implicitamente soggetti diversi da quelli contemplati. Ciò vale a dire che l’azione giuridica, nel definire un campo di conformità, definisce con ciò stesso, simultaneamente, anche un contrapposto campo di devianza in cui confluisce spontaneamente un certo numero di soggetti, attratti dal semplice obiettivo di tutelare i propri interessi contro le previsioni normative14. Torna qui in luce il tema, essenziale e già accennato parlando di sanzioni, dell’obbedienza alla legge o a ciò che, come un contratto, un atto amministrativo o una sentenza, ha forza di legge e corrispondente legittimazione istituzionale. Vi è certo una tendenza sociale all’obbedienza spontanea, anche alla norma ritenuta ingiusta. Ma questa tendenza, che esprime un’importante virtù civica – la virtù socratica – ha i suoi limiti, oggettivi e soggettivi. I limiti oggettivi risiedono anzitutto nel contenuto della norma che reclama obbedienza. Anche il cittadino più virtuoso, spesso proprio questo cittadino, arretra di fronte a estreme violazioni del suo quadro etico, tant’è che nei paesi più civili sono tutelate alcune importanti obiezioni di coscienza alla legge. Più in generale, dipendono dal prestigio complessivo di cui gode un ordinamento giuridico presso una popolazione (infra, pp. 175 sgg.). I limiti soggettivi dipendono ovviamente dall’atteggiamento dei singoli individui. A fronte di chi accetta di sacrificare i propri interessi, vi è chi li persegue con determinazione in ogni circostanza, aggirando o violando la norma se non può cambiarla. Ancora, vi sono norme di difficile se non impossibile applicazione. Questo fenomeno è talmente noto che trova storica rispondenza in un antico brocardo: «ad impossibilia nemo tenetur». Questo principio di diritto, tuttavia, non costituisce un antidoto all’adozione di norme, soprattutto generali, che non potranno trovare applicazione concreta. L’applicazione di molte leggi dipende non soltanto dalla retta comprensione e dall’obbedienza dei suoi destinatari, ma anche dalla c.d. «implementazione», con cui s’intende precisamente il complesso di mezzi attraverso i quali essa può raggiungere i suoi obiettivi. Tali mezzi sono spesso di natura economica,

che possono venire a mancare in itinere, per fatti sopravvenuti (un’inflazione, un aumento dei prezzi di materie prime, un’oscillazione valutaria, speculazioni pubbliche o private), ma possono essere mancati sin dall’inizio: non sempre infatti i calcoli sulla copertura finanziaria di una legge sono esatti. Ai mezzi economici si aggiungono quelli organizzativi, i quali possono essere deficitari (mancanza di personale adeguato, carenze di organico, assenze impreviste) ma anche eccessivi: in molti casi è proprio il sovraccarico di incombenze amministrative – non di rado deliberatamente voluto da qualcuno – che pregiudica l’applicazione di una legge. Infine, abbiamo già visto più volte che la determinazione del contenuto di una normativa dipende dalle interpretazioni che se ne danno. Più una norma è ampia, più sono le sue interpretazioni possibili. Più una norma è antica, più si affollano interpretazioni diverse. Più è generica, più è arduo interpretarla letteralmente ed è necessario ricorrere ad altri metodi interpretativi, fra cui quello risalente alle «intenzioni» di chi l’ha posta. Ma quali sono le «intenzioni» di un organo collegiale come un parlamento, in cui molte persone cooperano alla produzione di una legge con diverse, e sovente opposte, «intenzioni»? Questo problema è talmente noto, da aver suggerito alla scienza giuridica una elegante scorciatoia: le intenzioni del legislatore possono ricavarsi dalla logica intrinseca della legge, dalla sua cd. «ratio», desumibile anche dalla sua collocazione sistematica nell’ordinamento normativo. Questa ricerca, tuttavia, oltre a non impedire l’accumulo di interpretazioni, trova un ostacolo quasi insormontabile nel sovraccarico di leggi, come accade oggi in molti paesi sviluppati, e nella loro fattura spesso caotica e, appunto, irrazionale. Un discorso analogo può farsi per molti atti normativi di natura individuale, benché questi possano apparire, e spesso effettivamente siano, per la loro specificità, più chiari e univoci di una norma generale. In molti casi i problemi interpretativi posti da un contratto o da un testamento non sono meno gravi di quelli posti all’interprete di una legge. Ciò accade comunemente quando la redazione non sia opera di un operatore giuridico, ma non mancano esempi di atti provenienti da giuristi, persino sentenze, di dubbia comprensibilità e dunque suscettibili di orientare diversamente le azioni di soggetti diversi. Tutto ciò illustra alcuni punti fermi per il sociologo del diritto. In primo luogo, il giudizio di efficacia del diritto, come quello di conformità e di devianza, è relativo, non tanto alla singola espressione normativa, quanto a tutte le sue più ricorrenti interpretazioni. La legge che appare efficace a Tizio

può apparire totalmente inefficace a Caio se questi ne accolga una distinta interpretazione. In secondo luogo, una normativa può sortire effetti corrispondenti a intenzioni non dichiarate, ma pur sempre presenti fra coloro che l’hanno voluta o perfino hanno dato mostra di osteggiarla. La legge italiana sul cd. «equo canone» (27 luglio 1978, n. 392) fu emanata con l’obiettivo, dichiarato e concordato da una larghissima maggioranza parlamentare, di calmierare il prezzo dei canoni delle locazioni abitative. Di fatto ottenne l’effetto contrario. Scomparvero dal mercato le locazioni abitative che furono sostituite da «libere» locazioni commerciali. Il numero di appartamenti sfitti crebbe a dismisura. I prezzi dei canoni locatizi aumentarono sino alle stelle e furono pretesi in nero, in molti casi con modalità estorsive. Nell’impossibilità di trovare un’abitazione in locazione, molti si indebitarono con mutui bancari esosissimi per acquistare una casa in un periodo di alta inflazione e corrispondenti tassi di interesse. I piccoli proprietari di appartamenti sfitti corsero a svenderli alle grandi società immobiliari che ne fecero incetta. Molti centri urbani si svuotarono degli abitanti. In breve, quel provvedimento apparentemente egualitario si tradusse in una delle più grandi speculazioni della storia italiana. Si può certamente dire che la maggioranza che lo votò sbagliò i calcoli, ma si può anche supporre che settori non secondari di essa, e settori dell’opposizione, avessero previsto con precisione gli effetti che si sarebbero prodotti e giocato su queste previsioni. In terzo luogo, e conclusivamente, l’area degli effetti del diritto, voluti o non voluti, dichiarati o non dichiarati, attesi o non attesi, è quasi sempre più ampia di quella dell’efficacia, che per conto suo può perfino ridursi al minimo e perfino svanire. Riguardo a questa più vasta area si parla, sociologicamente, di impatto del diritto (Friedman, 1975, pp. 101 sgg.*): concetto che si riferisce all’insieme dei comportamenti e degli eventi che possono essere messi in relazione diretta o indiretta con la normativa di cui si tratta.

Note 1 Il concetto di agire sociale è particolarmente complesso, soprattutto se si considera la natura prevalentemente simbolica attraverso cui si esprimono le azioni umane. Per una panoramica delle diverse teorie e una ricostruzione critica del concetto cfr. Crespi (1999). Sul rapporto fra regola e azione, in sociologia del diritto, cfr. G. Ferrari (1988). 2 In questo senso il diritto orienta non solo l’azione di chi rispetta le norme giuridiche, ma anche quella di chi vi trasgredisce, come sottolinea Max Weber: «anche il ladro orienta il proprio agire in base alla

‘validità’ della legge penale, e perciò cerca di nasconderlo» (Weber, 1922, p. 29*). 3 Si pensi alle parole che Manzoni mette in bocca a don Abbondio, a giustificazione del rifiuto di celebrare le nozze fra Renzo e Lucia: «sapete voi quanti siano gli impedimenti dirimenti? [...] error, conditio, votum, cognatio, crimen, cultus disparitas [...]. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet...» (I promessi sposi, cap. II). 4 Interessante la coincidenza di questo termine col concetto sociologico, che indica appunto l’assunzione di un ruolo socialmente riconoscibile. 5 Nella storia dell’Italia repubblicana, vi sono stati casi di governi costituiti appositamente per questo scopo e rimasti in carica, anche in periodo pre-elettorale, per un tempo sufficiente ad attuare scelte amministrative (per esempio, nomine di propri di rappresentanti nelle cariche di enti pubblici, blocco o sblocco di somme per lavori pubblici) congruenti con i loro programmi. 6 Questa eventualità è stata esclusa in Italia dalla legge 19 febbraio 2004, n. 40, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita. 7 I modelli giuridici regolano anche gli effetti di accadimenti fisici o naturali: si pensi alla responsabilità che grava sul proprietario di un edificio per il crollo dello stesso (art. 2053 c.c.). 8 Questo ed altri diritti collettivi, inalienabili e imprescrittibili in linea di principio, sono tuttora praticati in buona parte del mondo malgrado i numerosi tentativi di abolizione compiuti dai legislatori moderni. In Italia sono raggruppati sotto la dizione di «usi civici», storicamente diffusa ma atecnica, adottata dalla legge 16 giugno 1927, n. 1766, Conversione in legge con modificazioni del Regio Decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del Regio Decreto 28 agosto 1924, n. 1484, e del Regio Decreto 16 maggio 1926, n. 895 sulla stessa materia, che, senza grande successo, ne ha previsto in via di principio la «liquidazione», pur con qualche tenue temperamento. 9 La labelling theory distingue fra «devianza primaria» e «devianza secondaria», riferite agli atti che rispettivamente precedono e seguono il processo di stigmatizzazione. 10 È altamente significativo che la Corte costituzionale italiana, posta di fronte ad un reato artificiale assolutamente inimmaginabile, rispetto al quale, nel processo di merito, l’imputato aveva protestato la propria buona fede, abbia creduto di dover stabilire che non sempre l’ignoranza della legge penale è inescusabile, vulnerando uno dei cardini della cultura giuridica (Corte cost., sentenza n. 364/1988). 11 È appena il caso di osservare che l’aspettativa di poter condonare i reati costituisce anche un forte incentivo a commetterli. 12 Ovvero: una legge è giuridicamente «efficace» dal momento in cui entra in vigore e tale rimarrà fino alla sua abrogazione, anche se non conseguirà gli effetti previsti; un contratto è giuridicamente «efficace» quando, secondo l’accordo delle parti, divengono operativi i rispettivi diritti e obblighi (per esempio, un contratto soggetto a condizione sospensiva diventa «efficace» quando la condizione si avvera), indipendentemente dal fatto che effettivamente gli uni siano vantati e gli altri adempiuti. 13 La paternità originaria di questa espressione, resa celebre da uno scritto di Roscoe Pound del 1910, si deve in realtà al sociologo Arthur Bentley (Tarello, 1962, p. 114). 14 Come osserva Eligio Resta: «il sistema giuridico è quella parte del sistema sociale che nello stesso tempo produce i conflitti e crea rimedi per risolverli, perché non può con leggerezza sciogliere i paradossi senza crearne degli altri» (Resta, 1997, p. 199).

Capitolo quarto. Diritto e istituzioni

1. Terminologia La parola «istituzione», d’uso comune nel linguaggio politico, giuridico e, più latamente, scientifico, possiede diversi significati. Anziché adottarne uno proprio, la sociologia ne ha ulteriormente accresciuta l’estensione semantica. Con un’accurata analisi, Luciano Gallino è giunto a distinguervi ben dieci diversi campi di significazione, aggiungendo peraltro che essi contengono tutti un elemento comune (Gallino, 1983, p. 405). Tale elemento comune, come si ricorderà, può essere espresso dicendo che per «istituzione» si può intendere un complesso normativo di qualunque genere che struttura durevolmente un campo d’azione sociale (cfr. supra, p. 20). Questa definizione presenta alcuni vantaggi. In primo luogo comprende in sé tanto l’elemento dinamico, quanto l’elemento statico, che la parola stessa esprime nel parlar comune, designando simultaneamente un processo verso un risultato e il risultato ottenuto1. In secondo luogo, assumendo per base il parametro normativo, si adatta particolarmente all’analisi sociologicogiuridica, concentrata sul rilievo che in alcune istituzioni assume la disciplina giuridica. In terzo luogo, permette di comprendere in una sola categoria un’ampia serie di sistemi consolidati d’azione giuridica che, pur diversi fra loro, presentano importanti tratti comuni e perciò si prestano a considerazioni simili, teorico-metodologiche: un parlamento o una giurisdizione, un’azienda o una famiglia. Dev’essere però chiaro che anche questa scelta definitoria, come altre precedenti, ha carattere stipulativo o, per dirla con parole più comuni, artificiale. Non è infatti l’unica possibile e proprio per questo va intesa in modo elastico. In questa prospettiva esamineremo alcune importanti istituzioni, con l’intento di descriverne in chiave sincronica la struttura giuridica essenziale e in chiave diacronica il mutamento nel tempo. È infatti sulle singole istituzioni, più che sul sistema giuridico in generale, che si può misurare il rapporto fra diritto e mutamento, tema classico della sociologia del diritto.

2. Il governo Usiamo l’espressione «governo» non già in senso stretto, per designare l’organo costituzionale che negli Stati moderni esercita il potere esecutivo, ma in senso lato, mutuato dalla scienza politica, per designare il complesso di attività inerenti alla direzione politica di un paese e spettanti, oltre che all’organo esecutivo, anche, per esempio, all’organo legislativo. Ne teniamo qui distinta l’attività giurisdizionale, non perché non svolga funzioni di rilevanza politica – tutt’altro, come vedremo – ma per la sua intrinseca caratteristica di presentarsi pressoché ovunque in modo relativamente separato dal resto dell’organizzazione costituzionale, in nome di un principio generale di indipendenza che, almeno a parole, viene riconosciuto al giudice in ogni sistema giuridico. L’azione di governo attiene all’esercizio di una somma di poteri e consta di un complesso di decisioni, in positivo o in negativo, giacché anche la mancata decisione comporta pur sempre una scelta, spesso gravida di conseguenze. Essa si svolge su vari piani – economico, sociale, culturale, «politico» in senso stretto, cioè afferente alla lotta tra partiti e fazioni – in modi formali o informali. Compito delle scienze sociali è indagare sul collegamento fra questi piani e modalità d’azione. La sociologia del diritto, in particolare, studia l’azione formale di governo, cioè le decisioni espresse dalle élites politiche di un paese sotto forma di atti giuridici – leggi, decreti, ingiunzioni, concessioni ecc. – o para-giuridici, come i progetti di legge, le discussioni parlamentari, le proclamazioni d’intenti, le circolari: tutto ciò che prepara, accompagna, segue o giustifica l’azione giuridica in senso stretto. Tutto questo materiale viene indagato dal sociologo del diritto come variabile, nel quadro di processi complessivi d’azione in cui formalità e informalità si alternano o s’intrecciano e il diritto può svolgere funzioni ora sostanziali, ora di pura facciata, grazie alla sua potenzialità legittimatrice. In ogni società, si può dire, ogni azione, quindi anche l’azione di governo, ha maggiori probabilità di essere accettata socialmente quando si presenta in forme giuridiche e apparentemente rispettose del diritto vigente. In questo senso la classe politica di un paese occupa la posizione più strategica. Essa infatti possiede un diretto controllo sul diritto poiché ha il potere di riconoscerlo e di applicarlo, ma soprattutto di cambiarlo. Anche in Inghilterra, patria di un diritto consuetudinario storicamente radicato, leggibile attraverso i precedenti giudiziari, il Parlamento sovrano potrebbe

abrogare la common law e imporre un diritto interamente statute, cioè legislativo. Tanto più forte, questo potere, nei paesi di civil law, che hanno assegnato alla legge di origine politica, come noto, il primato sulle fonti di diritto. Esistono bensì dei limiti a questi poteri, spesso consacrati in forma di atti giuridici «superiori»: la Magna Charta, l’Habeas Corpus, le costituzioni, le carte dei diritti umani. Ma questi limiti sono sempre soggetti a variazioni. Con motivazioni più o meno fondate – la «ragion di Stato», una guerra, un pericolo esterno, la costruzione di una società «nuova» – i governi possono cercare di limitarli o rimuoverli, creando, abrogando o semplicemente disapplicando le norme che li garantiscono. L’azione di governo tuttavia non si svolge in un vuoto. In qualsiasi regime la classe politica compie azioni che si ripercuotono sulla società esterna, che pertanto invia a quella continue sollecitazioni dalla forza direttamente proporzionale alla capacità dei gruppi sociali di organizzarsi, aggregare consensi e condizionare il governo. Ciò può avvenire attraverso partiti o sindacati riconosciuti, o attraverso altri gruppi di pressione, operanti in modo informale, anche contro la legge vigente. Spesso questi gruppi di pressione sono direttamente rappresentati ai vertici della classe politica, a volte la condizionano dall’esterno esercitando poteri, per esempio economici, che la trascendono o da cui essa dipende. Esiste dunque sempre una comunicazione tra governanti e governati, anche perché, come composizione sociale, i due mondi non sono del tutto distinti, ma relativamente integrati, anche nelle società altamente stratificate e persino nei regimi autoritari. Con linguaggio sistemico, la comunicazione fra governati e governanti può descriversi come una successione di inputs e di outputs. Ricevute sollecitazioni dall’esterno, la classe politica può rigettarle in blocco oppure recepirle, accogliendole o filtrandole, modificandole, compensandole con sollecitazioni d’altra natura o provenienza. Emetterà quindi decisioni che esprimeranno con maggiore o minore chiarezza la sua volontà. Nella storia moderna, segnata dalla divisione del mondo in tanti Stati sovrani, la legge formale è stata lo strumento principale, sebbene non l’unico, con cui tale volontà è stata espressa. Abbiamo già visto come la legge possa provocare effetti difformi rispetto alle intenzioni di chi l’ha emanata. A maggior ragione, quindi, essa può non rispondere alle attese di chi, dall’esterno, l’ha sollecitata. In questo caso essa rigenererà un processo politico già in corso o ne produrrà uno nuovo, con gli stessi o altri protagonisti. Il conflitto, che sempre sussiste in forme latenti fra chi decide e chi subisce le conseguenze delle decisioni, potrà

divenire manifesto e, nei casi più difficili, difficilmente mediabile attraverso i canali istituzionali ufficiali dell’ordinamento. Nei confronti del diritto, su cui esercita un forte controllo, la classe politica può assumere una posizione variabile, su una scala dalla pura ricettività passiva al più spinto interventismo proiettivo. Può limitarsi ad applicare consuetudini giuridiche socialmente diffuse, rafforzandole con la sua autorità esecutiva e mirando a conservare le strutture sociali esistenti, così come può cercar di mutare tali strutture incidendovi con leggi innovatrici, tese a programmare il futuro. Questa prospettiva innovatrice e interventista è stata la filosofia dominante per tutta l’era moderna in gran parte del mondo, benché in forme e con esiti diversi nei tempi e nei luoghi. Appartengono a questa filosofia, e risalgono alla fine del XVI secolo, le prime leggi inglesi sulla recinzione delle terre (Enclosures Acts), trasformate da arativo a pascolo, e le conseguenti leggi contro il vagabondaggio che – disse Marx – furono volte a colpire e indirizzare verso la nascente industria manifatturiera le popolazioni contadine espulse dalle loro antiche residenze (Marx [1867], 1975, vol. I, p. 879). Simili caratteri e finalità hanno le leggi dei rivoluzionari francesi che, fra il 1789 e il 1793, aboliscono i privilegi feudali, il maggiorascato, i fedecommessi, le decime, le servitù personali, ponendo le basi di quell’opera razionalizzatrice che sarebbe stato, nel 1804, il Code Napoléon. Ma non è diversa la natura della legislazione che, sotto la spinta della questione sociale e nella prospettiva di proteggere le posizioni più deboli, ha caratterizzato sino a tempi recentissimi la cd. «stagione del welfare state» soprattutto nell’Europa occidentale, né quella, di pur diverso contenuto, emanata dai regimi del cd. «socialismo reale», nell’Unione sovietica e nell’Europa orientale, mirante a una totale ristrutturazione della società. Ciò che accomuna tutta questa cospicua attività legislativa degli ultimi due secoli è stato l’obiettivo (e il mito) della modernizzazione mediante il diritto o, secondo una formula risalente agli inizi del secolo XX (Pound [1923], 1946, pp. 191 sgg.*), ma ricorrente soprattutto fra gli anni Cinquanta e Sessanta, l’idea del diritto come strumento di ingegneria sociale, particolarmente efficace grazie alla potenzialità dissuasiva o incentivante delle sanzioni, negative o positive, collegate ai comportamenti (Podgórecki et al., 1996). È pressoché consolidata, e condivisa da scienziati sociali di diversa ideologia, l’opinione che negli ultimi tre decenni del Novecento questa politica interventista si sia involuta in una spirale incontrollabile determinata dalla rincorsa fra aspettative sociali, istanze rivolte al sistema politico, aumento dei

compiti delle pubbliche amministrazioni, crescita corrispondente della burocrazia, aumento della spesa pubblica e correlativamente della tassazione, sino al punto in cui i mezzi disponibili, non solo economici, sono divenuti insufficienti a far fronte al sovraccarico (overload) di impegni che i governi erano chiamati ad assolvere e gli Stati hanno subito una crisi finanziaria di vaste proporzioni. Questa teoria meriterebbe di essere verificata nei dettagli e differenziata per tempi e per luoghi. Ma non vi è dubbio che essa esprima più di un nocciolo di verità. Uno sguardo attento agli sviluppi più recenti rivela infatti come negli ultimi due decenni si sia prodotta un’altra e non meno significativa spirale. Da un lato, la constatazione che il sistema non era più in grado di sovvenire alle esigenze diffuse frustrava una serie crescente di aspettative sociali – normative per definizione – trasformandosi in delegittimazione delle élites politiche e degli stessi sistemi giuridici. Dall’altro lato, le élites reagivano, in molti casi, chiudendosi fra le mura del cd. «Palazzo», precludendosi la comprensione dei nuovi movimenti sociali e monopolizzando per sé e per i propri clienti le risorse residue, come spesso avvenuto in tempi di grave crisi: fra i tanti esempi, si pensi alla Francia prerivoluzionaria. Da ciò, fatalmente, un’ulteriore accelerazione del processo di delegittimazione, a stento contrastato con le tecniche di manipolazione informativa messe a disposizione dei governi dai mezzi d’informazione di massa. Questa spirale, accelerata dalle proteste sociali per la compressione delle libertà fondamentali, ha letteralmente inghiottito in pochi anni i regimi dell’Europa orientale. In Italia, dove il debito pubblico ha assunto dimensioni macroscopiche negli anni Ottanta, ha prodotto una crisi politica senza precedenti, ancora irrisolta. Altrove, in regimi politici più solidi, ha provocato comunque incrinature visibili, fra cui rileva soprattutto la disaffezione elettorale. Quasi ovunque si è radicata la convinzione che la sfera di intervento governativo nelle attività economiche e sociali fosse da ridurre drasticamente, se non da smantellare, e con essa tutto il complesso sistema di regole indirizzate a disciplinarla. Le politiche cd. «di de-regulation», avviate dapprima in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e poi diffuse in molti paesi – in modo vistoso nell’Europa orientale – ne sono state la conseguenza, insieme con la fiducia nella capacità autoregolatrice del mercato, tuttora esaltata in molti ambienti intellettuali non solo dell’Occidente. Tuttavia il ritiro dello Stato dalle incombenze e la crisi della legislazione statale non significano tanto una «de-regolazione», quanto piuttosto uno

spostamento dell’attività di regolazione giuridica da alcune istituzioni ad altre. Certo si aprono spazi all’autoregolamentazione privata: si teorizza infatti la formazione di un diritto cd. «riflessivo», in cui l’autorità politica si limita a fissare per legge delle procedure rispettando le quali i singoli soggetti sono liberi di stabilire i contenuti dei loro rapporti, secondo una visione tipicamente liberale (Teubner, 1989). Che questa autoregolamentazione abbia, presso le diverse società, effetti legittimanti per le élites dominanti e per i sistemi giuridici, non è però sicuro. Se, oltre a procedure rigide, non esiste anche una cornice esterna di contenuti fondamentali da rispettare, la logica del mercato conduce, come già ricordato, al predominio di alcuni soggetti su altri: non all’autonomia, ma a un altro tipo di eteronomia. E in un’economia globale, dove abbondano gli strumenti per sottrarsi ai controlli, questo esito è particolarmente visibile. Il potere politico che sta lentamente perdendo peso a livello statale, ne sta lentamente – ma non ancora sufficientemente – acquistando a livello sovranazionale attorno a strutture più proporzionate alla dimensione effettiva dei rapporti sociali. La formazione di un sistema giuridico europeo, che si è dapprima affiancato a quelli degli Stati-membri dell’Unione e li sta ora progressivamente inglobando, è la miglior prova dell’insopprimibilità del governo, con compiti attivi, nelle società complesse. Basta dire che l’attività delle istituzioni comunitarie – Consiglio, Commissione, Parlamento, Corti di giustizia – opera anche, dichiaratamente, secondo una prospettiva teleologica, mirante a realizzare gli obiettivi fissati dai trattati o da accordi di settore. Gli strumenti giuridici che si sono date sono forse più elastici, ma non meno proiettivi e programmatici di quelli dello Stato moderno. Che questi strumenti siano idonei a creare consenso o a suscitare dissensi, a produrre legittimazione o delegittimazione, uguaglianze o disuguaglianze, non dipende tanto dalla loro natura intrinseca, quanto dalle possibilità che più soggetti vi influiscano da posizioni non troppo squilibrate.

3. I diritti fondamentali Si è detto sopra che esistono limiti all’esercizio del potere politico e al controllo dell’autorità politica sul diritto di un paese. Questa dottrina ha radici antiche. Rappresenta infatti il nucleo del giusnaturalismo, la teoria filosoficogiuridica secondo cui esiste, sopra la sfera del diritto positivo, la sfera superiore di un diritto naturale cui il diritto positivo deve – entro certi limiti –

uniformarsi. Il contenuto di questo diritto naturale è stato diversamente descritto a seconda delle epoche e delle ideologie. L’apporto della filosofia giuridica e politica dell’epoca moderna, a partire dal XVII secolo, simbolicamente col pensiero liberale di John Locke, è precisamente consistito nella teoria dei diritti, secondo cui gli esseri umani nascono «liberi e uguali», titolari quindi di diritti innati (inborn rights) che l’autorità politica è chiamata a tutelare, e coordinare in caso di conflitti, ma non può disconoscere senza compromettere la propria legittimazione. Infatti, in questa prospettiva, il potere politico trova la sua origine legittimante in un contratto sociale tra uomini liberi e un «sovrano» – monarca o assemblea elettiva – chiamato a governarli nel rispetto di quei diritti. I quali, non per nulla, sono in gran parte ritenuti «diritti dell’uomo», oltre (e prima) che «del cittadino», come recita la Déclaration del 1789. Ai fini di un’analisi sociologica importa osservare che questa teoria, resistendo ad aspre critiche, è venuta sviluppandosi nel corso di tre secoli, fino a configurarsi come una struttura di pensiero e di azione ben consolidata: una istituzione, appunto, come dice Niklas Luhmann in un noto scritto (Luhmann, 1965). Questo consolidamento, in altri termini, è frutto di un processo di istituzionalizzazione e conseguentemente di positivizzazione – cioè di riconoscimento dei diritti in forma di norme positive, nazionali o internazionali – che è andato di pari passo con una costante espansione della sfera dei diritti stessi (Bobbio [1990], 19922). Il fenomeno, di grande importanza, ha suggerito vari tentativi di periodizzazione storica, fra cui va ricordato soprattutto quello del sociologo inglese Thomas H. Marshall in occasione di alcune lezioni tenute all’Università di Cambridge nel 1949 (Marshall, 1963). Secondo l’autore, che parla non di «diritti umani» o «fondamentali», ma di «diritti di cittadinanza» (citizenship rights), riferendosi a quelle prerogative che dovrebbero corrispondere allo status di «coloro che sono membri a pieno diritto di una comunità» (ivi, p. 24*), si possono individuare tre diverse fasi nel movimento dei diritti, rispettivamente quelle dei diritti civili, dei diritti politici e dei diritti economico-sociali. Questa concezione marshalliana, ampiamente discussa, ha il merito di correlare lo sviluppo dei diritti fondamentali con quello del concetto moderno di libertà. Infatti la fase dei diritti civili riflette la concezione più profonda e cd. «passiva» della libertà, intesa come «libertà da» (freedom from), cioè dalle interferenze ingiustificate di qualsiasi soggetto (pubblico o privato) nella sfera individuale: libertà di coscienza, di pensiero, di espressione, di religione, di

movimento, di associazione, di contrattazione, di godimento dei propri beni. Il dovere corrispondente a tali diritti grava su tutti, a cominciare da chi governa, e ha natura essenzialmente negativa poiché si concreta in una mera astensione. La fase dei diritti politici, a sua volta, riflette una concezione diversa e attiva della libertà: non più «libertà da», ma «libertà di» (freedom of), consistente nella partecipazione, per esempio col voto, ai processi decisionali che impegnano un’intera comunità. Il dovere corrispondente a questi diritti, gravante soprattutto sui governanti, è anch’esso attivo e consiste nell’ammettere i cittadini alla partecipazione e nel predisporre le necessarie strutture. La fase, infine, dei diritti economico-sociali riflette una visione ancor più attiva della libertà. Poiché la libertà da interferenze e la libertà partecipativa rischiano di rimanere lettera morta se, a causa della stratificazione sociale, non sono sorrette dal godimento di beni essenziali (nutrimento, alloggio, salute, istruzione, indipendenza economica), sull’autorità politica deve gravare l’obbligo di rimuovere gli ostacoli che impediscono tale godimento, mediante politiche redistributrici e uguagliatrici, volte ad avvantaggiare «i meno avvantaggiati», come a fine secolo XX dirà John Rawls con una felice formula (Rawls, 1971, p. 83*). In breve, com’è stato osservato (Peces-Barba, 1991), se la prima fase coincide col liberalismo, la seconda coincide con la democrazia – due dottrine coordinabili ma concettualmente distinte2 – e la terza col socialismo, quanto meno nella sua versione riformista3, e sfociante nella concezione già ricordata dello stato del benessere (welfare state). Ed è la combinazione della dimensione individualistica e di quella collettiva che ne sancisce, col riconoscimento in forma di legge positiva, la vitalità e l’autorità (Palombella, 2002). Ma il movimento dei diritti non si è fermato alla fase del riformismo sociale. I mutamenti dell’ultima parte del secolo XX hanno indotto gli studiosi a individuare due nuove fasi – quarta e quinta – nel suo sviluppo. La quarta fase, dei cd. diritti culturali, o di identità, ha comportato un radicale mutamento di prospettiva. Mentre le due precedenti – e nel fondo anche la prima – erano espressione di una concezione umanistica tendenzialmente egualitaria, questa nuova fase ha espresso una visione tendenzialmente opposta, verso il riconoscimento delle diversità (Bobbio [1990], 19922, pp. 67 sgg.). Il rilievo di questa svolta non va colto solo dal lato delle rivendicazioni che ne scaturiscono e che possono tradursi tanto in pretese di trattamento uguale malgrado la diversità quanto in pretese di trattamento differenziato in virtù delle diversità. Più di questo aspetto, non nuovo, conta il fatto che questa

svolta sottende la visione di una società non unitaria, ma frantumata in una moltitudine di posizioni diverse, tutte degne di specifica considerazione in virtù di una serie potenzialmente infinita di differenziali: il genere, l’età, la condizione civile, economica e lavorativa, la religione, la lingua, la scelta sessuale, lo stato fisico o psichico, l’istruzione, le vicissitudini della vita, e via dicendo, tutti fattori convergenti a definire l’identità di ognuno per differenziazione e, al tempo stesso, per somiglianza con altri individui e, quindi, per appartenenza a un gruppo sociale. Questo fenomeno, tipico delle società – appunto – altamente differenziate, tanto più se multiculturali e interessate da forti processi migratori (Belvisi, 2000; Facchi, 2001), ha prodotto un rincorrersi di rivendicazioni in nome di diritti soggettivi dichiarati non disconoscibili perché «umani» e, entro certi limiti, anche una moltiplicazione di riconoscimenti in termini di diritto positivo, sotto forma di carte emanate dalle organizzazioni internazionali: riconoscimenti raramente accompagnati dall’indicazione dei criteri necessari per dirimere i conflitti fra posizioni contrapposte che una tale frantumazione fatalmente comporta e che provocano alcune conseguenze paradossali. Per esempio, la rivendicazione dell’identità di un gruppo sociale per caratteri religiosi, culturali, etnici, può indurre non solo a lottare per la sua autonomia o indipendenza, ma anche a disconoscere i diritti più elementari di coloro che si differenziano dal gruppo collettivamente (minoranze etniche o linguistiche) o individualmente: con il che, si perviene al paradosso di negare l’identità in nome del diritto all’identità. La quinta fase dei diritti fondamentali, che si è andata configurando alla fine del Novecento, ha preso avvio da alcuni eventi di grande rilievo che hanno modificato a fondo il quadro in cui si era abituati a pensare e ad agire (Rodotà, 1992; Frosini, 1993; Pocar, 2002). Si può procedere per esempi. La scoperta del DNA e le sue applicazioni hanno permesso di mappare il genoma delle specie viventi e di interferire sul loro patrimonio genetico. Le tecniche di fecondazione artificiale e di crescita dell’embrione in vitro si sono specializzate sino a rendere possibile la clonazione di esseri viventi, anche umani. Le tecnologie informatiche hanno annullato le dimensioni spazio-temporali, rivoluzionato le comunicazioni e permesso forme di invasione incontrollabile nella vita privata. La corsa allo sviluppo economico ha prodotto uno sfruttamento massiccio delle risorse naturali e un’alterazione artificiale dei già precari equilibri naturali. La proliferazione di ordigni nucleari operabili in pochi attimi, in un clima di sospetto che induce ad azioni belliche preventive,

comporta il rischio che anche un banale errore di valutazione possa produrre reazioni a catena fino alla devastazione totale. Questi e altri fenomeni possono apparire fra loro assai diversi. In realtà essi, prescindendo dal fatto che – compreso l’uso dell’energia nucleare – non producono solo effetti negativi, hanno un tratto comune che impegna precisamente il terreno dei diritti. Infatti pongono gli uomini di fronte a scadenze nuove nel rapporto non solo coi loro simili ma, ancor più, col mondo circostante e li sfidano non singolarmente, ma globalmente, in vista di un futuro che potrebbe compromettere l’abitabilità del pianeta. Per questo si può parlare, per la quinta fase, di diritti diffusi, spettanti non a singoli individui o gruppi, ma a generalità indistinte di esseri, attuali o potenziali: non sono in gioco solo i viventi, ma anche coloro che potranno vivere (o non vivere), cioè le future generazioni di uomini e anche di «animali non umani» (Pocar, 1998). La filosofia animalista, affermatasi negli ultimi decenni, è un complemento di questa visione che reinserisce l’uomo nel contesto naturale, mitigandone l’arroganza e sancendone, piuttosto, la fragilità. In questa prospettiva globalistica, associata alla crisi già ricordata dello Stato moderno, si rafforza l’idea originaria che descrive i diritti fondamentali come «umani». In compenso, perde di consistenza il loro radicamento civico e politico, che invece non può che esservi associato. Come già accennato, infatti, l’organizzazione internazionale, basata sui rapporti fra Stati, non ha ancora gli strumenti necessari, soprattutto giurisdizionali, non solo per bilanciare diritti contrapposti, ma soprattutto per vincere le resistenze sempre frapposte al loro riconoscimento e godimento (Ferrajoli, 2001). Non va infatti dimenticato che i diritti fondamentali sono sempre stati conquistati contro qualcuno che aveva il potere, di fatto o di diritto, di negarli, quindi anche di sopprimerli.

4. La giurisdizione Si è già detto (cfr. supra, p. 50) che l’attività giurisdizionale può ritenersi coessenziale al diritto. In effetti, se si prescinde da alcuni esempi di aggregati sociali del tutto indifferenziati al loro interno, è pressoché impossibile incontrare esempi storici di società in cui non esista una figura di decisore collettivo o individuale chiamato a risolvere problemi, in senso lato, di convivenza sociale, in modo normativo, traendo cioè spunto e ispirazione da norme, scritte o non scritte, socialmente consolidate oppure enunciate per

l’occasione sulla base di quella che può definirsi la «cultura giuridica» di quella società. La giurisdizione è un’attività «politica» nel senso ampio della parola. In molte società, del resto, si confonde col potere politico in senso stretto, di cui costituisce un’esplicazione, spesso la più tipica fra quelle che lo caratterizzano, tant’è che moltissimi sono i casi storici in cui il vertice del potere giurisdizionale coincide col supremo vertice politico4. Molti sono anche i casi storici di autorità politiche intermedie che assommano in sé amministrazione, giurisdizione e legislazione, anche perché non sempre, soprattutto nelle società antiche, questa distinzione esiste. Specialmente là dove vige un diritto consuetudinario, mentre può esservi o non esservi un’attività legislativa, l’enunciazione di nuovi principi normativi generali, parificabili a nuove leggi, è precipuamente compito di giudici, svolto in base a casi concreti: così è avvenuto per secoli, e in parte ancora avviene, nei sistemi giuridici di common law. La separazione del potere giurisdizionale dal resto dell’attività politica e di governo stricto sensu, sebbene non sconosciuta nelle società antiche e medievali europee, è un tratto caratteristico degli Stati moderni, in buona parte frutto della stessa filosofia che ha dato vita al movimento dei diritti fondamentali come forma di difesa dall’arbitrio dell’autorità politica. Poiché l’arbitrio è direttamente proporzionale alla concentrazione di potere, se n’è dedotta la necessità di spezzare il potere per funzioni, divise fra soggetti diversi e fra loro «bilanciati» (balance of powers nell’espressione anglosassone) in modo che nessuno fosse incontrollabile. Rispetto alle altre funzioni individuate a tal fine – legislativa ed esecutiva – quella giudiziaria ha assunto un compito ulteriore, di grande importanza: assoggettare alla legge anche l’autorità politica. Per questa ragione l’idea di un potere giudiziario separato da questa coincide con quella dello stato di diritto. Per la stessa ragione, i rapporti fra potere politico e potere giudiziario sono sempre in tensione manifesta o latente, come si vedrà in seguito. Così concepita, la giurisdizione dello Stato moderno è oggetto di specifica regolamentazione, sotto il duplice profilo dell’organizzazione interna e delle procedure da osservare per le sue prestazioni funzionali (Rebuffa, 1993; Guarnieri, Pederzoli, 2002). Nei paesi europei di civil law, questa disciplina è particolarmente rigida. I giudici sono solitamente funzionari statali di carriera, formati e selezionati in base alle capacità tecnico-giuridiche. I loro rapporti formali col mondo esterno e fra loro stessi sono regolati dalla legge, alla quale

– e alla quale soltanto – devono ritenersi soggetti, benché ne siano, di fatto, liberi e spesso creativi interpreti. La loro autonomia è spesso garantita dalla presenza di organi costituzionali ad hoc, in Italia il Consiglio superiore della magistratura, da loro stessi controllati e in gran parte formati. Tutto ciò concorre a definire sociologicamente il loro mondo come un ambiente relativamente chiuso, con tendenze corporative. Le regole di procedura, a loro volta, sono fissate in codici processuali speciali, tanto rigorosi da sconfinare nell’astrazione concettuale. Nei paesi di common law la normativa è più pragmatica e i confini stessi fra giustizia e politica sono più sfumati. I giudici possono essere scelti dal governo fra avvocati o professori di diritto, come pure, in alcuni luoghi, eletti dalla comunità di appartenenza. I loro mandati sono spesso, soprattutto nei gradi intermedi, limitati o revocabili. Le procedure sono anch’esse meno formali. E tuttavia la coesione interna dei giudici e il loro prestigio sociale sono sempre forti. La regola dello stare decisis, che li vincola a rispettare i loro stessi precedenti, ma conferisce loro il potere formale di adattarli alle sempre diverse circostanze di fatto, li colloca in certo modo sopra la stessa legge, che può mutare in virtù delle loro decisioni. Un potere, questo, che ai vertici di un sistema costituzionale assume grande rilevanza, come dimostra il ruolo dei cd. «Law Lords» in Inghilterra5 o della Corte suprema federale negli Stati Uniti6. In sintesi dunque, indipendentemente dal tipo di diritto vigente, la giurisdizione si presenta ovunque con i caratteri di un sistema d’azione sociale ben definito, molto complesso nei suoi meccanismi interni e nei suoi rapporti esterni, che non sono solo costanti e istituzionali, ma anche fondamentali per importanza. Verso questo sistema convergono per definizione istanze nate da conflitti spesso intensi, che possono opporre singoli individui, ma anche coinvolgere, come nel campo penale, sentimenti e interessi sociali diffusi (Tomeo, 1973; Bilotta, 2003). Sono istanze che – salvo marginali eccezioni – reclamano un riconoscimento formale in termini di ragioni e di torti: nel senso etimologico della parola, una de-cisione, cioè un giudizio dirimente che istituisce fra torto e ragione una netta frontiera demarcatrice e che otterrà rispetto sociale in proporzione diretta con la legittimazione e l’autorevolezza di chi lo esprime (Ferrarese, 1984). Da tutto ciò emerge come lo studio sociologico della giurisdizione presenti diversi aspetti (Treves, 1972). Uno di questi, certamente importante, è quello dell’efficienza delle sue prestazioni, che ha suggerito studi ispirati alla logica economicistica del rapporto fra «costi e benefici». Questo tema è tutt’altro che

trascurabile. Anche considerando le specificità qualitativa della giurisdizione, il rapporto costi e benefici appare in molti casi tanto squilibrato da trasformarsi precisamente in un potente fattore di delegittimazione del sistema giudiziario e con esso dell’intero diritto di un paese. Un profilo di grande rilievo, perché coinvolgente il diritto fondamentale, internazionalmente sancito, a un «processo equo e pubblico in tempi ragionevoli»7, è quello dell’eccessiva durata dei giudizi. Tale problema è avvertito in molti paesi, anche di common law, ma raggiunge in Italia il suo acme non solo per gli indici di durata media, ma anche per gli indici di frequenza media dei processi che non vengono risolti in «tempi ragionevoli», tanto che il nostro paese è stato di gran lunga il più colpito dalle condanne emesse per questo motivo dalla Corte europea dei diritti umani (Nascimbene, Sanna, 2003; Pannarale, 2003), fino all’emanazione di una legge (cd. «legge Pinto», 28 marzo 2001, n. 89) che, al fine di alleggerire questo peso gravante sull’immagine stessa del nostro paese, ha di fatto peggiorato la situazione imponendo al cittadino leso da ritardi intollerabili di esperire un’azione risarcitoria dinanzi al giudice italiano prima di poter adire la Corte europea. La ricerca delle cause dei ritardi è un problema di non facile soluzione. In Italia, l’attenzione degli studiosi si è appuntata sul grave carico di lavoro medio gravante su giudici e pubblici ministeri, sulle norme processuali, ritenute troppo soffocanti, sulla cultura professionale dei giuristi, ritenuta troppo causidica, sulle deficienze infrastrutturali e sugli appesantimenti burocratici che, assieme all’insufficienza dei mezzi economici disponibili, provocano numerose strozzature nell’iter processuale8. Ognuna di queste spiegazioni coglie una parte di verità, ma presta anche il fianco a smentite, soprattutto se si compara la situazione italiana con quella di paesi in cui l’attività giudiziaria è altrettanto cospicua e il personale addetto, a volte, molto meno numeroso. La prospettiva economicistica è comunque soltanto parziale e non deve far perdere di vista gli aspetti connessi al tipo specifico di azioni che competono alla giurisdizione. Il sistema giudiziario infatti non è un’azienda. Mentre un imprenditore può rifiutarsi di produrre in perdita e non accettare, quindi, certi ordini, un ufficio giudiziario non può rifiutare, in via di principio, nessuna istanza legittimamente proposta, anche se infondata e costosa in termini di mezzi e di energie: anzi, proprio i casi più importanti – si pensi ai processi contro la criminalità organizzata, soprattutto su scala internazionale – sono anche quelli più difficili, lunghi e costosi. Varie sono, a questo proposito, le ipotesi sociologico-giuridiche da

sperimentare. In primo luogo quelle riguardanti la struttura del corpo giudiziario: formazione culturale iniziale e progressiva dei magistrati, reclutamento, composizione, provenienza familiare, mobilità orizzontale sul territorio e verticale nell’organizzazione, rapporti istituzionali e paraistituzionali (per esempio sindacali). In secondo luogo, quelle riguardanti la sua cultura giuridica, cioè il modo, a volte formalista e puramente applicativo, a volte antiformalista e creativo, con cui esso guarda al diritto e alle norme generali che ispirano le sue sentenze. In terzo luogo quelle, non meno rilevanti, riguardanti la sua ideologia, cioè il complesso di valori che vi predominano, con riferimento tanto ai compiti che svolge (ideologia interna), quanto al mondo che lo circonda, su cui le sue decisioni producono effetti (ideologia esterna). Ognuno di questi aspetti esige accostamenti metodologici appropriati, come elaborazione di dati statistici generali, interviste su questionario, colloqui in profondità (Morisi, 1999; Quassoli, Stefanizzi, 2002). I profili culturali e ideologici si prestano soprattutto a un’osservazione diretta e prolungata dell’azione quotidiana e all’analisi qualitativa o quantitativa di documenti, soprattutto delle sentenze, che offrono spie di grande interesse (Schubert, 1965; Reale, 2000). Un’analisi completa del sistema giudiziario contribuisce a far capire quali siano i suoi rapporti con i sistemi d’azione che con esso interagiscono – famiglia, economia, professioni libere, politica in senso stretto, media – e per quali ragioni esso acquisti o perda prestigio presso una cittadinanza. Un indice importante dell’atteggiamento generale verso la giurisdizione di un paese è la percentuale di conflitti che essa riesce a filtrare e a risolvere, in rapporto a quella che prende altre strade. Fra queste, interessano oggi soprattutto alcune alternative istituzionali alla giurisdizione. Oltre alle già ricordate autorità indipendenti, che svolgono compiti normativi non solo generali, ma anche speciali, rileva soprattutto la tendenza dei governi a istituire giurisdizioni cd. «laiche» (i giudici di pace italiani, i magistrates inglesi) e forme di cd. «ADR» (Alternative Dispute Resolution) indirizzate a «trattare» i conflitti in modo informale, in vista della loro soluzione amichevole, negoziata con o senza l’intervento di un mediatore (Abel, 1982; Pisapia, 2000; Alexander, 2003).

5. La famiglia La famiglia è un’istituzione sociale di primaria importanza e come tale oggetto privilegiato di analisi sociologica. Malgrado ciò, la sua stessa definizione

costituisce un problema. Le opinioni su ciò che deve considerarsi come «famiglia», infatti, variano secondo le scelte metodologiche e ideologiche. Per esempio, una prospettiva antropologica, che si concentri su società matrilineari con rapporti sessuali promiscui, porta a ravvisare una famiglia nel gruppo esteso che riunisce una donna, la sua discendenza, i suoi fratelli, senza considerazione per la paternità naturale che, viceversa, assume rilevanza diretta nelle società patrilineari, monogamiche e poligamiche. A seconda del peso che si attribuisce rispettivamente ai fattori biologici e culturali, si può parlare o meno di famiglia riguardo a una coppia di persone conviventi e legate da rapporti affettivi ma non sessuali. La visione cristiana incentra l’attenzione sul matrimonio, escludendo a volte dal concetto di famiglia i nuclei raccolti attorno a coppie non sposate o, in casi estremi, perfino sposate civilmente. Una visione laica può accettare di usare la parola per ogni tipo di aggregazione, purché dotato di un minimo di riconoscibilità e di stabilità. A complicare il quadro vi sono poi i mutamenti che storicamente interessano la compagine familiare modificandone il concetto stesso. Nel breve volgere di una generazione o poco più – si legge in uno studio americano della metà del Novecento, famoso benché non immune da critiche – il processo generale di differenziazione sociale ha investito la famiglia trasformandone la struttura dal tradizionale modello esteso, comprendente ascendenti, discendenti e collaterali, al modello cd. «nucleare», formato da una coppia di coniugi e dalla prole (Parsons, Bales, 1955). In tutti i paesi sviluppati dell’Occidente la tendenza alla nuclearizzazione sembra aver subito da ultimo una forte accelerazione portando alla formazione di nuclei familiari sempre più ristretti e mutevoli: coppie sposate con o senza prole, coppie libere eterosessuali e omosessuali, famiglie monogenitoriali (Zanatta, 1997). Si tratta di aggregati sociali molto diversi, che tuttavia hanno in comune alcuni tratti, in particolare la volontà di dar vita a nuclei tenuti insieme da vincoli di varia natura – certo, in prevalenza affettivi e collegati alla riproduzione della specie – e relativamente differenziati rispetto al mondo circostante. Un punto, quest’ultimo, di grande importanza per il sociologo del diritto. Proprio in quanto gruppo sociale differenziato, la famiglia, comunque concepita, costituisce sempre un sistema normativo. Al suo interno si praticano e si trasmettono regole, spesso accompagnate da sanzioni, in sostanziale autonomia. Non solo i minori, ma anche gli adulti rispondono di queste regole in famiglia e se ne fanno spesso rigidi custodi. La famiglia è il primo e più forte meccanismo sociale di inclusione-esclusione, che definisce

un’appartenenza e un’identità, sia nell’autopercezione dei suoi membri, sia nella percezione degli estranei. Il fatto che le norme fondamentali che una famiglia pratica al proprio interno siano ampiamente condivise all’esterno non attenua la relativa separatezza di ogni nucleo, anzi la rafforza. Una società eticamente molto omogenea, come sono quelle rurali o pastorali, tende a rispettare le famiglie come microcosmi indipendenti e sovrani9 e a non tollerare le defezioni individuali. Sono piuttosto le società disomogenee e differenziate che aprono spazi e ammettono diversità, mutamenti e fughe dei singoli dal gruppo di origine, attenuando il peso spesso oppressivo delle gerarchie familiari. Quanto detto aiuta a comprendere il rapporto peculiare che s’instaura fra la normativa che nasce e si consolida spontaneamente nei gruppi familiari, i quali naturalmente recepiscono, elaborandole, le influenze esterne, e quella di produzione politica che interviene a regolamentare i rapporti familiari in modo autoritativo. Fra questi due mondi – e fra le corrispondenti culture giuridiche – vi è sempre una tensione latente, con alterne fasi. A volte il primo s’impone sul secondo, o perché resiste ai mutamenti o perché li provoca, anticipandoli nel costume. Il principio di uguaglianza nei rapporti intra-familiari, pur enunciato dagli spiriti liberali più aperti, ha immensamente faticato a imporsi non solo negli ambienti rurali, timorosi soprattutto della suddivisione delle terre, ma anche negli ambienti cittadini delle società industriali dell’Ottocento e del Novecento. Di fronte a questa resistenza il diritto ufficiale è spesso arretrato, rinunciando a tradurre in norme i valori cui dichiarava di ispirarsi, mantenendo a lungo una sorta di neutralità rispetto ai conflitti familiari e trincerandosi dietro l’autorità maritale e paterna. Si è così talmente cristallizzato da essere, a sua volta, sopravanzato dal costume sociale che si diffondeva e, di fatto, si praticava in molte famiglie. Le riforme del diritto di famiglia nei paesi europei, per esempio in Francia negli anni Sessanta – cui contribuì anche con ricerche d’opinione Jean Carbonnier, civilista e sociologo del diritto – e in Italia negli anni Settanta, hanno soprattutto preso atto di relazioni sociali già consolidate ed eliminato vincoli che la società aveva già messo in discussione: in Italia, si pensi al divorzio, alla parità fra i coniugi, alla patria potestà congiunta, alla parificazione tra figli legittimi e figli naturali, alla riconoscibilità dei figli adulterini. Altre volte, forse più raramente, il diritto di formazione politica s’impone sul costume. Tralasciando gli effetti che anche riforme come quelle menzionate

hanno avuto sui settori sociali più resistenti al cambiamento, si può pensare alla diffusione di un diverso modo di concepire il rapporto fra adulti e minori. L’idea che i minori siano soggetti di diritto e titolari di diritti, non solo teorici e passivi, ma anche attivi, secondo la formula delle cd. «Tre P» (Protection, Provision, Participation), e che il rispetto di questi diritti non possa essere lasciato alla mera discrezionalità dei genitori, in quanto la preminenza spetta all’interesse del minore, è nata forse prima nel dibattito scientifico e politico, a livello soprattutto internazionale, che nella cultura familiare (Ronfani, 2001). Indipendentemente da come sono sopraggiunti, i mutamenti intervenuti recentemente nei sistemi normativi delle famiglie occidentali rivelano alcune tendenze di fondo. Proprio gli esempi appena fatti sono significativi. Le aperture che hanno caratterizzato i rapporti intra-familiari sono leggibili sociologicamente come conferma di un movimento generale di queste società «da un modello fondato sullo status a un modello fondato sul contratto» (Pocar, Ronfani, 2003), nella terminologia di Henry S. Maine ([1861], 1972), o, in altri termini, da una società piramidale, basata sull’autorità, stratificata e ostile al mutamento, a una società «orizzontale», basata su scelte individuali, sulla mobilità e su continui mutamenti di ruoli, come dice Lawrence Friedman (1990, 1999) nel corso di analisi estese ad ogni altro ambito rilevante d’azione sociale. Questi segni sono ben visibili in alcuni settori, soprattutto nel rapporto di coppia. Anche in un paese a basso indice di divorzialità, come il nostro, si notano significative tendenze, come la diminuzione percentuale dei matrimoni religiosi rispetto a quelli civili, l’incremento del numero di coppie non sposate, il controllo delle nascite e, tutt’altro che irrilevante, la scelta generalizzata di regolamentare separazioni e divorzi in modo non contenzioso, ma negoziale (Maggioni, Pocar, Ronfani, 1988; Maggioni, 1990). Di fronte a questi fenomeni si assiste nuovamente a una sorta di recesso dell’autorità politica dalla sfera familiare, motivato dal rispetto di un sistema non più di rigide gerarchie, ma di libere scelte. Così sono state rimesse in discussione e in gran parte accantonate proposte di intervento autoritativo, come, in Italia, l’istituzione di un «tribunale della famiglia», richiesta con forza ancora in anni recenti. Per contro, nel campo dei diritti dei minori l’interventismo della pubblica autorità si è, come già detto, accentuato. La tutela dell’interesse del minore, cardine della politica internazionale in materia, è ritenuta in molti paesi un problema di pubblica rilevanza, che giustifica la concessione di ampi poteri

discrezionali a giudici, assistenti sociali, psicologi, amministratori: si pensi all’allontanamento coatto dalla famiglia naturale, all’affidamento, all’internamento in una comunità, all’adozione. Compiti che nel sistema italiano spettano a un organo giurisdizionale ad hoc, il Tribunale per i minorenni. L’equilibrio che s’instaura fra queste opposte tendenze è sempre instabile. Innanzitutto, la famiglia è l’oggetto di un perenne conflitto di valori morali che vede impegnati fronti contrapposti, di equiparabili dimensioni e poco disposti a compromessi (V. Ferrari, 1995). Su questo conflitto influiscono fattori calcolabili, come le organizzazioni politiche o le possibilità di accesso ai media, ma anche imponderabili, per esempio fatti, magari isolati, che però destano forti emozioni pubbliche. Da tali fattori dipendono oscillazioni di opinione che si proiettano sul sistema politico provocandovi aggregazioni e disaggregazioni. Così possono determinarsi inattese inversioni di tendenza. L’approvazione della già citata legge italiana sulla procreazione assistita (n. 40/2004), che ne preclude l’accesso alle donne sole, vieta la fecondazione cd. eterologa e impone alla donna di sottostare comunque all’inseminazione artificiale anche se, per qualunque ragione, abbia cambiato idea, s’ispira a un quadro di valori familiari ben diverso da quello che era parso affermarsi negli ultimi decenni, sia pure fra contrasti e ambiguità, soprattutto nel campo dei rapporti fra i sessi (Pitch, 1998). È legittimo chiedersi se il Parlamento, decidendo, abbia ritenuto di registrare una variazione di costumi o sia deliberatamente andato in controtendenza rispetto a questi. Sul conflitto normativo in campo familiare influisce non poco, nelle società più sviluppate, il fenomeno migratorio. Questa variabile è oggetto da tempo di attenzione soprattutto nei paesi europei di più antica immigrazione, come la Gran Bretagna e la Francia. Particolarmente rilevante è la diffusione del modello islamico di famiglia, per certi versi specularmente opposto a quello occidentale: rigida differenza di ruoli fra uomo e donna, forte gerarchizzazione nei rapporti fra maschi e femmine e fra genitori e figli, alti tassi di natalità, concezione estesa piuttosto che nucleare del gruppo familiare. Come reagisca questa cultura al confronto con quella individualista e liberale è un problema aperto. Ricerche accurate rivelano tendenze contrastanti soprattutto fra le giovani generazioni, divise, a volte drammaticamente, fra l’assimilazione dei modelli occidentali e l’adesione, o il ritorno, ai valori tradizionali, di origine soprattutto religiosa (Rude-Antoine, 1997). Su questa scelta non pesano solo influenze religiose, familiari, scolastiche, mediatiche,

ma anche politiche: per esempio, appare discriminante la presenza o meno di un imam al vertice dell’organizzazione di gruppo (L. Mancini, 1998). Problemi in parte analoghi presenta l’immigrazione cinese, che pratica un tipo di familismo laico caratterizzato da forte sinergia fra i membri del gruppo e da accentuato isolamento rispetto alla società di accoglienza. I problemi della famiglia, e le tensioni che ne scaturiscono, sono di natura non solo etica e culturale, ma anche economica. A distanza di un ventennio dalla crisi registrata del welfare state, si osserva oggi nei paesi occidentali, accanto a fenomeni di vistoso arricchimento di gruppi non esigui, anche e soprattutto una difficoltà economica che colpisce strati via via più ampi della società, con graduale innalzamento della soglia media della povertà. Il fenomeno si ripercuote pesantemente sulle famiglie e facilmente solleciterà, oltre a rinnovate istanze generali di giustizia redistributiva, anche nuove richieste di intervento sociale per attutire difficoltà familiari che non sono solo questioni private ma anche, com’è stato detto, una «questione di Stato» (Commaille, 1996).

6. La formazione della ricchezza Con l’espressione «formazione della ricchezza», di stampo ottocentesco, intendiamo il complesso delle attività sociali rivolte alla produzione e allo scambio di beni e servizi. Questo tema, oggetto delle scienze economiche, si colloca storicamente all’origine della stessa sociologia, nata come tentativo di indagine complessiva dei problemi posti con la rivoluzione industriale e con la questione sociale che vi era connessa. Tutta la grande sociologia fra Ottocento e Novecento assume come base essenziale della propria riflessione i processi economici e lavorativi, che poi daranno vita a branche speciali della disciplina (sociologia economica, industriale, del lavoro, delle professioni). Fin dalle origini questa riflessione si articola su due principali tendenze: quella che, sulle orme di Marx, individua un’unità sostanziale fra economia e sociologia e quella che, sull’esempio di Weber, ritiene le due scienze separate e assume come oggetto le interrelazioni fra dinamiche economiche e dinamiche sociali d’altra natura, fra cui quelle giuridiche. Queste due prospettive comportano visioni distinte proprio sul punto del rapporto fra economia e diritto. La prima porta a considerare il diritto come una variabile dipendente dall’economia e a ritenere che i mutamenti economici siano destinati, almeno «in ultima istanza», a provocare corrispondenti mutamenti nel sistema delle regole

giuridiche, vincendone ogni resistenza. La seconda porta a considerare i due sistemi d’azione come reciprocamente indipendenti e a ritenere che non solo il mutamento economico possa provocare mutamento giuridico, ma che, altresì, mediante il diritto si possa intervenire sull’economia, indirizzandola e governandola. Benché il rapporto fra diritto ed economia rivesta un’importanza cruciale, la sociologia del diritto vi ha prestato sinora minore attenzione del dovuto. Anche tematiche, come i rapporti di lavoro, in cui l’impatto delle regole viene in luce con evidenza, sono state affrontate raramente con gli strumenti tipici di questa scienza, soprattutto empirici. A questa relativa disattenzione hanno spesso sopperito non solo sociologi di altra specialità, ma anche giuristi. È dal campo della scienza giuridica che è nato un intero filone di studi, cd. «di Law and Economics», i quali appunto studiano come le regole influiscano sui comportamenti economici, per esempio indirizzandoli verso modelli più o meno efficienti di rendimento. Si tratta di studi che, pur differenziati da quelli di sociologia del diritto, ne condividono in gran parte oggetto e metodo. Naturalmente esistono significative e crescenti eccezioni rispetto al quadro ora delineato. A parte i classici come Marx e Weber, un’importante corrente di studi di sociologia economica, nata in America ma diffusa anche in Europa, si definisce «istituzionalistica» appunto per il fatto di aver introdotto nei suoi schemi analitici, in primo piano, il rilievo delle decisioni giuridiche, legislative e giurisdizionali, nell’indirizzare la condotta dei governi e dei cittadini. Il suo più noto rappresentante, John R. Commons, dimostrava già all’inizio del secolo scorso, con precisi esempi, come influissero sull’azione collettiva le decisioni della Corte suprema federale degli Stati Uniti (Commons, 1924). A distanza di molti decenni, un’impostazione non diversa da quella di Commons viene seguita in vari lavori dichiaratamente di sociologia del diritto, anche in Italia. Un volume dedicato all’impatto delle sentenze della magistratura in tema di leasing illustra, con l’ausilio di dati empirici finemente elaborati, come il giudice, soprattutto in una fase di crisi dello strumento legislativo, intervenga selettivamente a modificare assetti ed «equilibri» economici (Raiteri, 1990). Riferendosi soprattutto al caso americano, un altro volume affronta il tema più generale del rapporto fra diritto e mercato, presentando quest’ultimo come un’istituzione sociale che contribuisce a regolare la società, ma a sua volta subisce i condizionamenti inevitabili delle decisioni giuridiche: anzi – afferma l’autrice – la stessa «istituzionalizzazione del mercato è [...] impensabile a prescindere dall’assunzione di un garante

esterno, sia esso la morale o il diritto» (Ferrarese, 1992, p. 72). In effetti è questo il punto essenziale del tema che stiamo trattando. Anche se volessimo riconoscere, come fa il marxismo, la preminenza sostanziale dell’economia nelle vicende sociali, non potremmo comunque dimenticare che i comportamenti economici, come rivela l’etimo della parola eco-nomía, che fa riferimento ad attività ordinatrici e distributrici10, sono tali in quanto seguono delle regole. Può trattarsi di regole tecniche suggerite da un’interpretazione di processi naturali, come pure di regole di condotta scelte dal soggetto agente in conformità a quelli che ritiene essere i suoi interessi, oppure scaturite dall’interazione di più soggetti, che si incontrano e trattano. In ogni caso vi è qualcuno che agisce orientandosi secondo modelli d’azione. Le regole giuridiche – come sappiamo – non sono altro che una parte dell’universo normativo cui si ispirano gli attori sociali nel loro agire economico. Che queste regole possano trovarsi in dissonanza rispetto ad altre, per esempio le regole tecniche dettate dalla scienza o dalla tecnologia, e agiscano in senso frenante piuttosto che attraente, non significa che esse non influiscano sui comportamenti. Ciò vale a dire che i mercati non tanto «si autoregolano», quanto piuttosto acquistano differenti caratteri a seconda delle regole che i soggetti applicano nel loro interagire (Irti, 2004). Se, come già detto, un forte squilibrio originario di posizioni permette ad alcuni soggetti di imporre ad altri una regolamentazione, con ogni probabilità l’operare di questa aggraverà gli squilibri iniziali, fino a renderli incolmabili. Queste considerazioni aiutano a definire il compito della sociologia del diritto di fronte alle grandi trasformazioni che il campo economico ha subito negli ultimi decenni con l’adozione di tecnologie che hanno impresso una forte accelerazione a processi, come la cd. «globalizzazione», che, in se stessi, non sono tipici della sola epoca contemporanea, ma si presentano oggi con caratteri peculiari. E si tratta di processi in cui le regole giuridiche operano come una variabile di sicura importanza. Si pensi al rapporto fra produzione e organizzazione delle attività lavorative. Nel corso del Novecento, nei paesi sviluppati, il lavoro è stato oggetto di una disciplina giuridica ritagliata sulla dimensione della grande impresa a forte concentrazione di manodopera e indirizzata, da un lato, ad assecondare e rafforzare le regole tecniche e organizzative ritenute proprie di tale sistema produttivo – per esempio il lavoro parcellizzato cd. «tayloristico»11 – dall’altro lato a rispondere alle rivendicazioni dei lavoratori, rappresentati da forti organizzazioni sindacali e politiche. Fra questi due poli, in perpetua tensione,

si sono stabiliti momenti di relativo equilibrio grazie all’adozione di strumenti che hanno permesso di canalizzare i conflitti entro ben definiti binari istituzionali. La contrattazione collettiva ne è l’esempio più tipico, anche se variabile a seconda dei contesti: verticistica in Italia non solo durante il fascismo, ma anche, con ovvie variazioni, dopo la guerra, più articolata in Gran Bretagna, dove il sindacalismo di base ha mantenuto a lungo una forte influenza. Questa modalità di trattamento dei conflitti ha avuto tale successo da espandersi dal campo della produzione a quello degli scambi, dai grandi ai piccoli complessi produttivi, dal settore privato a quello pubblico, e da suggerire a Ralf Dahrendorf, influente sociologo anglo-tedesco, l’ipotesi che nelle società liberal-democratiche si fosse avviato un processo di «scioglimento dei fronti del conflitto industriale» (Dahrendorf [1957], 19592, p. 406*). In poco tempo questo panorama è decisivamente mutato. La dimensione mondiale dei mercati e degli spostamenti ha indotto a trasferire molti processi produttivi in luoghi che permettevano grandi risparmi sui costi di manodopera. Le innovazioni tecnologiche hanno reso possibile eseguire a distanza moltissime operazioni, accelerando i processi di automazione soprattutto in alcuni settori: si pensi all’introduzione della teletrasmissione nel campo editoriale. Le conseguenze sull’organizzazione del lavoro sono vistose. Soprattutto nei paesi più avanzati, vi è una tendenza alla riduzione dimensionale, a volte frantumazione, delle grandi unità produttive, con espulsione di manodopera sia pur compensata da una valorizzazione dei lavoratori rimasti in servizio (de Terssac, 1992). Si assiste poi ovunque a una moltiplicazione di piccole unità produttive, anche familiari, che sfruttano la distribuzione capillare di tecnologie avanzate e nelle quali operano lavoratori isolati. Da ciò conseguono un indebolimento del potere negoziale dei lavoratori, una crisi di rappresentatività sindacale impensabile sino a pochi anni or sono e, quindi, una tendenza pressoché inarrestabile all’erosione del sistema complessivo di garanzie giuridiche poste a sostegno del lavoro. Si pensi alla flessibilizzazione degli orari, all’estensione del precariato, all’accelerazione di molti ritmi di lavoro. Il taylorismo, in relativa crisi nella produzione materiale, sembra invadere il campo della produzione virtuale: nelle banche e nelle borse vi sono schiere di impiegati obbligati a svolgere migliaia di operazioni identiche – digitare ordini di acquisto e di vendita – senza poter commettere errori. Soprattutto – cosa vistosissima in Italia – si pensi alla formazione di una massa di lavoratori formalmente «autonomi», la cui dipendenza dalle imprese per cui lavorano è molto più sostanziale di quella

tipica del rapporto di subordinazione. In tutti questi fenomeni si può dire che il diritto abbia agito soprattutto da variabile dipendente. Innovazioni tecnologiche e mutamenti politici, che hanno spostato gli equilibri negoziali, hanno prodotto o stanno producendo modifiche nel campo delle regole. In altri casi, tuttavia, le regole giuridiche sembrano capaci di provocare mutamenti rilevanti e di agire come variabile indipendente. La diffusione di nuovi modelli contrattuali funge in molti casi da volano per tali mutamenti. Si pensi alla diffusione del franchising, con cui si è posto un correttivo all’organizzazione mondiale delle imprese multinazionali, rendendo più evanescente il rapporto fra queste e le loro estensioni nei vari paesi del mondo, dove gli affiliati producono sulla base di semplici licenze, con totale esonero delle case-madri da ogni responsabilità verso lavoratori, fornitori, creditori. E si pensi anche alle straordinarie dimensioni dell’economia illegale, che dipendono in molti casi da scelte normative, ora sbagliate, ora deliberate. È del tutto notorio che la corruzione amministrativa è incentivata dall’esistenza di norme che concedono agli amministratori un potere discrezionale, così come è notorio che il divieto di commercio di alcuni beni – anche se sorretto da ragioni morali, come nel caso di alcune droghe – ne ingigantisce il valore sul mercato illecito provocando impressionanti accumulazioni di ricchezza capaci persino di condizionare la vita politica di interi paesi.

7. La conservazione e l’impiego della ricchezza Questo tema ci introduce in un altro campo di indagine di grande importanza giuridica, quello della proprietà e degli istituti che vi sono più strettamente correlati. L’argomento, antico e vastissimo, ha impegnato accanto ai giuristi d’ogni epoca schiere di storici, filosofi, antropologi, politologi, economisti e sociologi, che l’hanno affrontato ora con intenti descrittivi, per spiegare l’origine e lo sviluppo delle varie forme proprietarie, ora con intenti prescrittivi, per fornire giustificazioni al mantenimento, alla limitazione o alla soppressione della proprietà, ora sovrapponendo i due piani in modo esplicito o implicito. Nessun altro istituto giuridico ha sollecitato tante riflessioni e, non meno, emozioni. Il diritto di proprietà infatti possiede due caratteri opposti, entrambi evocativi di forti sentimenti: da un lato rafforza l’indipendenza del singolo individuo dalla società circostante, dall’altro sanziona le disuguaglianze

fra individui, sancendo e rafforzando la stratificazione sociale. Se si enfatizza il primo carattere si perviene, come nella teoria liberale di derivazione lockiana, a sacralizzare la proprietà, a definirla come un diritto umano innato da proteggere politicamente e da estendere in vista della formazione di una società, quanto più possibile, «di liberi e uguali». Se si enfatizza il secondo carattere si perviene, come nella teoria marxista, a individuare l’origine della proprietà nell’appropriazione materiale di uno a danno di molti, a definirla quindi non come un diritto, ma piuttosto come un privilegio, o un furto, a reclamarne, se non la pura soppressione, almeno la severa limitazione, come condizione imprescindibile per la formazione di un’autentica società di liberi e uguali. Molte teorie sulla proprietà, soprattutto quelle più estreme, cercano conforto nelle sue radici originarie, ritrovandovi ora forme di collettivismo, ora forme di individualismo. Ora le teorie interpretano il collettivismo come inizio di un’evoluzione che conduce naturalmente all’individualismo, ora, all’opposto, ritengono quest’ultimo una tappa intermedia destinata a sfociare in un definitivo collettivismo. La discussione sulla proprietà ha assunto caratteri particolarmente tesi e drammatici nell’Ottocento, col consolidarsi dell’economia capitalistica e l’avvento della società industriale, alla cui base si colloca precisamente la proprietà, sia nella visione dei suoi sostenitori, sia in quella dei suoi critici. Dagli uni essa è vista come condizione indispensabile per la fondazione, il controllo e la gestione dell’industria e del commercio, e pertanto intesa come diritto assoluto, non assoggettabile a limitazioni nell’interesse generale e liberamente scambiabile, senza distinzioni qualitative o quantitative, di beni o di valori. Dagli altri è vista in primo luogo come fonte storica e al contempo effetto di un’accumulazione originaria di ricchezze che ha permesso ai capitalisti di acquisire i mezzi necessari per dar vita all’attività industriale; in secondo luogo, come cardine di un sistema di rapporti produttivi che permette al proprietario di quei mezzi – i mezzi di produzione – di appropriarsi anche dei prodotti, «alienandone» i produttori materiali, cioè i lavoratori salariati. Da ciò uno scontro politico e ideologico che ha caratterizzato tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento, in gran parte ruotante sulla questione della proprietà dei mezzi di produzione, che l’ideologia liberale vuol riservare, distribuita, a molti individui privati e l’ideologia socialista, nella sua versione marxista, chiede invece di collettivizzare e affidare allo Stato. Alcuni fattori sono intervenuti nel corso di questo lungo periodo ad attenuare la durezza dello scontro, sul piano pratico come su quello teorico.

Dal punto di vista pratico, le proteste sociali che hanno cominciato a diffondersi fin dalla metà dell’Ottocento hanno imposto l’adozione di strumenti normativi che hanno migliorato le condizioni di vita dei lavoratori salariati, permettendo loro un vasto accesso alla proprietà dei beni materiali. Si è trattato di misure private, come nel caso, già citato, della contrattazione collettiva, delle mutue assicuratrici, delle cooperative, oppure pubbliche, soprattutto nel campo della tassazione, che ha assunto caratteri sempre più spiccati di progressività permettendo ai governi di operare in senso assistenziale e redistributivo. In questa luce è stato riscoperto, sia pure limitatamente, il valore non solo individuale della proprietà, che alcuni documenti normativi hanno cercato di ridefinire in senso sociale (art. 42, c. 2, Cost.). Queste politiche cd. «di welfare», facilitate dalla condizione di opulenza economica dei paesi che le adottavano rispetto alla maggioranza dei paesi del mondo, hanno avuto un andamento ascendente sino agli anni Settanta, quando sotto l’influsso di crisi economiche internazionali si è manifestata la già citata crisi finanziaria degli Stati, che ne hanno decretato, se non la fine, la drastica limitazione. Dal punto di vista teorico, sempre dalla metà dell’Ottocento hanno cominciato a diffondersi dubbi sulla correttezza di visioni fondate su alternative secche quali «proprietà-lavoro salariato» o «proprietà-alienazione». Può sembrare singolare che tracce di questi dubbi si trovino nello stesso Marx, che già nelle opere giovanili registra fenomeni di dissociazione tra forma e sostanza della proprietà e, in età matura, osserva perplesso fenomeni come la diffusione delle società cooperative e delle società azionarie, in cui la figura del proprietario scompare dalla scena: forme di «capitalismo collettivistico» che possono essere ingannevoli ma che apportano comunque elementi di variazione al suo schema fondamentale di analisi sociale. Dall’opposto versante politico si compiono passi nella stessa direzione. A fine Ottocento Leonard T. Hobhouse, pensatore liberale inglese con forti venature socialiste, compie osservazioni non dissimili. Si delinea così, con questi e altri contributi, il clima nel quale interverranno, rispettivamente nel 1929 e nel 1932, due opere che porranno sul tappeto con chiarezza, in termini socio-giuridici, il tema della dissociazione fra proprietà e controllo della ricchezza. La prima di queste opere perviene ancora da un pensatore socialista austriaco, Karl Renner, che analizza in chiave storico-teorica l’evoluzione della proprietà sottolineando che essa è rimasta intatta nelle forme lungo le

varie fasi dell’economia capitalistica. E tuttavia – egli osserva – dapprima queste forme regolavano il dominio materiale dell’uomo su beni visibili e tangibili, come la terra, la casa, i beni utilizzabili per la produzione e il consumo, trasmissibili agli eredi. Successivamente il controllo della ricchezza ha assunto forme diverse, sempre più astratte, come i rapporti obbligatori, i titoli di partecipazione azionaria, le opere dell’ingegno e simili. In questa situazione, in cui muta il sostrato economico, la proprietà, a causa dell’immutevolezza delle sue forme, «perde la propria indipendenza e la propria autosufficienza, esercita la propria funzione solamente in collegamento con altri istituti giuridici». L’autore conclude dicendo che, se nell’economia contemporanea la proprietà si diffonde, se si disperde e smarrisce la sua funzione, diviene assurdo colpirla con provvedimenti restrittivi che ne vulnererebbero, nel migliore dei casi, soltanto apparenze o frammenti (Renner, 1929, pp. 205 sgg.*). La seconda opera proviene da un politologo liberale americano, Adolf A. Berle, che insieme all’economista Gardiner C. Means indaga sulla distribuzione della capitale azionario nelle grandi società anonime americane e dimostra che esso è talmente disperso e polverizzato che nessun «proprietario» è in grado di intervenire decisivamente nel controllo e nella gestione delle imprese (Berle, Means, 1932). Si inaugura così, a lato di questa teoria, un’intera stagione di studi di ispirazione «managerialistica», i quali insistono, in termini anche estremi, sul fatto che la dissociazione fra proprietà e controllo ha spogliato i proprietari di ogni potere effettivo e conferito tale potere ai manager delle grandi società. Così impostato, il tema della dissociazione fra proprietà e controllo della ricchezza, su cui insistono molti autori, diviene un luogo centrale di riflessione per larga parte del Novecento. Nel 1942 Joseph Schumpeter, economista americano di origine austriaca, pur partendo da premesse marxiste e preconizzando il crollo del capitalismo, parla di «evaporazione della sostanza della proprietà» e scrive: «Così, la moderna società per azioni, pur essendo un prodotto del processo capitalistico, socializza la mentalità borghese; riduce continuamente il campo d’azione del movente borghese; non solo, ma tende a minarne le basi» (Schumpeter, 1954, p. 151*). Nel 1957 Ralf Dahrendorf fonda sulla separazione fra proprietà e controllo la sua teoria liberale del conflitto sociale, i cui protagonisti non sono più le due classi marxiane della borghesia e del proletariato, l’una proprietaria, l’altra esclusa dalla proprietà dei mezzi di produzione, ma più gruppi differenziati in base a un’ineguale, ma

continuamente mobile, distribuzione di posizioni di autorità, cioè di potere legittimo, non solo economico, ma anche politico (Dahrendorf [1957], 19592). Una visione, questa, che negli stessi anni trova una conferma nell’osservazione che forti concentrazioni di potere e di ricchezze economiche, con conseguente stratificazione sociale e formazione di «nuove élites» di funzionari politici, si registrano anche nei paesi del cd. «socialismo reale», che pure avevano collettivizzato i mezzi di produzione (Gilas, 1957). La validità di questa teoria dev’essere messa al vaglio dei mutamenti dell’ultimo scorcio del Novecento. Da un lato, le concrezioni di potere nei paesi del cd. «socialismo reale» si sono irrigidite fino a provocare l’esplosione di quei regimi, a dimostrazione che non solo la proprietà individuale dei mezzi di produzione è fonte di disuguaglianze e di stratificazione sociale. Dall’altro lato, tuttavia, alcuni fenomeni sono intervenuti a rendere più articolato il panorama delle società capitalistiche. L’economia finanziaria ha creato forme sempre più astratte e ormai virtuali di controllo della ricchezza, lontane dalle rigidezze dell’istituto proprietario classico e caratterizzate da grande mobilità, coinvolgendo settori sempre più ampi di popolazione. Attraverso i fondi pensione e i fondi di investimento, per esempio, i lavoratori acquistano titoli di partecipazione al controllo delle loro stesse imprese. Ciò sembra confortare la teoria in questione. Ma il problema non è così semplice. Basta in effetti formare sindacati di controllo che riuniscano una minoranza compatta di azionisti per acquisire il potere di gestione nelle grandi società commerciali quotate in borsa. Spesso, anche nei paesi più sviluppati, questo controllo è solidamente in mano a un singolo imprenditore o a una famiglia. In questi casi il titolo di partecipazione conferisce un potere corrispondente o addirittura superiore al suo valore formale. Naturalmente si può obiettare che, in termini strettamente giuridici, non si tratta di «proprietà», ma si può anche replicare che si tratta di nuove forme approntate dal diritto per configurare diversamente la stessa proprietà (Gliozzi, 1981, p. 101). D’altronde, come negli anni Venti rilevava Thorstein Veblen, pensatore radicale americano, il fatto che dei proprietari «assenteisti», meri titolari di azioni, ricavino vantaggi economici da processi produttivi su cui non esercitano un diretto controllo non sminuisce affatto l’importanza del loro ruolo e del loro potere sui processi economici generali di un paese (Veblen [1923], 1994). E non si può neppure dimenticare che in molti paesi, l’Italia in special modo, la proprietà tradizionale, «fisica», è largamente diffusa non solo – come ovvio – sui beni tradizionali, in particolare immobili, ma anche nel complesso industriale

quando si tratta di piccole e medie imprese. La distribuzione più o meno squilibrata delle ricchezze in una società dunque non dipende tanto dalla forma giuridica con cui il controllo su di esse viene esercitato, quanto dalle possibilità di accesso alle posizioni sostanziali che permettono appunto di esercitare quel controllo, limitando al minimo le interferenze altrui. E compiendo osservazioni su scala non nazionale, ma mondiale, si vede facilmente che la distribuzione delle ricchezze privilegia settori del tutto minoritari della popolazione, con una incalcolabile distanza fra gli estremi. Così, tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, la proprietà in senso lato (o, se si preferisce, in senso economico, come controllo indisturbato di beni), pur non essendo l’unico strumento di potere, continua a essere assai rilevante. Non è un caso che la maggiore discussione di filosofia politica degli ultimi anni veda ancora contrapposti, da un lato, i liberals e, dall’altro, i communitarians, gli uni schierati a favore dell’individualismo, anche proprietario, gli altri indirizzati alla realizzazione del «bene comune», un concetto che implica anche un certo grado di uso sociale delle risorse; mentre le posizioni intermedie assumono ancora, come in passato, quelle fattezze riformistiche che hanno ispirato le politiche di welfare (Selznick, 1992). Rinascono anche dalle ceneri forme di collettivismo che il liberismo economico e la concezione assolutistica della proprietà, adottata dai codici moderni, avevano seccamente abolito. In tutti i paesi si sono riscoperti i cd. «commons», diritti di uso promiscuo delle terre, limitativi del diritto di proprietà, come pure casi di proprietà collettive antiche di secoli, sopravvissute alla rivoluzione individualistica12. Su questa riscoperta si innestano rivendicazioni antiche, come nel caso degli aborigeni australiani e degli indiani canadesi che hanno ottenuto il riconoscimento giuridico dei loro diritti sulle terre degli antenati, e anche nuove battaglie, motivate da esigenze varie, dalla tutela dell’ambiente alla difesa dell’identità culturale: argomenti a volte autentici, a volte addotti retoricamente a copertura di speculazioni private.

Note 1 Si pensi alle due seguenti espressioni: «l’Assemblea costituente decise l’istituzione della Corte costituzionale» e «la Corte costituzionale è un’istituzione della Repubblica». 2 La distinzione è particolarmente visibile nella politica italiana dell’Ottocento, dove al movimento liberal-monarchico simbolicamente rappresentato da Camillo di Cavour si è contrapposto il movimento

democratico-repubblicano simbolicamente rappresentato da Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi. 3 Il socialismo cd. «scientifico», derivato dalle dottrine di Karl Marx e Friedrich Engels, ha visto per lungo tempo con grande sospetto il movimento dei diritti e le politiche riformiste, ritenute un mezzo di pura razionalizzazione del capitalismo e del potere della borghesia. 4 Come annota un autorevole storico del diritto, il potere medievale è prima di tutto iurisdictio: «si è principi perché si è giudici, giudici supremi» (Grossi, 1995, p. 131). 5 I Law Lords sono i 12 membri della Camera dei Lord che svolgono funzioni di Corte suprema di giustizia. 6 La Corte suprema federale è composta da 9 giudici designati e nominati dal presidente degli Stati Uniti, con mandato illimitato, previo consenso del Senato. 7 Cfr. per esempio art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. 8 Si pensi che la sola esazione dell’imposta di registro sugli atti giudiziari civili, oltre a non trovare una giustificazione razionale trattandosi di atti forniti di data certa, comporta una perdita di tempo calcolabile in tre-quattro mesi, cioè circa un quarto del tempo medio di durata (400-450 gg.) di un giudizio di primo grado. 9 Così per esempio nella società pastorale della Sardegna interna sino agli anni Cinquanta del secolo XX (Pira, 1978). 10 La desinenza nomía deriva dal verbo greco νέμω, che fra i vari significati ha anche quelli di «distribuire» e «assegnare». 11 Ci si riferisce alla teoria dell’organizzazione scientifica del lavoro, elaborata dall’ingegnere americano Frederick W. Taylor (1865-1915) e incentrata sulla scomposizione delle mansioni e sull’affidamento a ogni lavoratore di compiti ripetitivi, come nel caso del cd. «lavoro in catena». 12 Cfr. in Italia l’«Archivio Scialoja-Bolla. Annali di studi sulla proprietà collettiva» (2003), che testimonia la rinascita di queste tematiche.

Capitolo quinto. Diritto e ruoli

1. Ruoli, status e gruppi Più volte abbiamo ricordato che in sociologia gli individui non compaiono tanto come entità psicofisiche, quanto come portatori di ruoli e correlativamente di status, cioè come punti di convergenza e di irradiazione di norme e aspettative sociali. Ciò non significa ignorare la natura psicofisica dei singoli esseri umani, ma sottolineare che esiste una costante interazione fra individualità e socialità. Non solo i progetti razionali di vita, ma anche le passioni del singolo traggono linfa e alimento dall’organizzazione sociale che, a sua volta, ne viene influenzata. Da questa interazione sorgono incessantemente forme di aggregazione sociale, ampie o ridotte, solide o effimere, a seconda degli ambienti, dei sistemi normativi, delle influenze esterne e, non meno, degli eventi naturali. Si pensi ancora alla forma di aggregazione umana più diffusa, la famiglia, per constatare come i suoi assetti mutino storicamente in dipendenza di queste circostanze. Nel campo giuridico, normativo per definizione e, anzi, caratterizzato da una normatività particolarmente forte e stabile, i ruoli che gli individui acquisiscono possiedono anch’essi un notevole grado di visibilità sociale e di stabilità. Anche in società non letterate, rette da norme consuetudinarie, può accadere che un individuo – Hammurabi, Mosè, Licurgo – o un gruppo di individui – un consesso di ottimati, un parlamento – imponga alla moltitudine nuove regole di vita, fissandole in documenti più o meno solenni e sacrali: legislatori, nell’ampio senso del termine. Anche in società antiche – si pensi soprattutto a quella romana – esistono soggetti che hanno col diritto maggiore dimestichezza dei comuni cittadini, cui offrono consigli su come comportarsi: avvocati, come si dice comunemente. E infine, quasi ovunque sono fisicamente identificabili quelle figure di soggetti che intervengono a decidere su casi controversi e a dirimere conflitti, ispirandosi a criteri normativi diffusamente praticati o, comunque, accettati dalla maggioranza di una popolazione: giudici, nel senso ampio della parola. Questi soggetti, che

esercitano una «signoria sul diritto», nella felice espressione di uno studioso belga (Van Caenegem, 1987), si stagliano spesso dal resto della società in quanto rispondono, nel loro agire, ad aspettative sociali forti e consolidate come sono quelle protette dal diritto. Questi ruoli sociali, e altri prossimi, possono fondersi o distinguersi. Possiamo dire che più una società si differenzia al proprio interno, articolandosi in un gran numero di posizioni, più il diritto tende a divenire complesso e patrimonio di soggetti tecnicamente specializzati nella sua applicazione, nella sua formazione e nella sua stessa comprensione, e tuttavia anch’essi differenziati per funzioni sociali espletate (Luhmann, 1972, 1981). I ruoli giuridici, così distinti, tendono a solidificarsi dando vita a gruppi di individui che li condividono e, sia pure con ampie variazioni, a status sociali paragonabili. Tali gruppi sono tanto più forti e coesi, quanto più ruoli e status di appartenenza corrispondono a posizioni socialmente privilegiate per disponibilità economiche, influenze politiche o prestigio culturale. Uno dei tipici compiti della sociologia del diritto è studiare questi gruppi nelle loro articolazioni interne, nei loro rapporti reciproci e, infine, nelle relazioni che essi intrattengono con ogni altra aggregazione sociale. Si tratta di reti complesse di interazioni sociali, il cui studio è basilare per comprendere sociologicamente non solo il fenomeno giuridico, ma più in generale l’assetto politico di una società. Il diritto infatti è il principale riflesso simbolico, non solo del sentire comune e della moralità diffusa in una società, ma altresì della distribuzione del potere: che è anche, se non soprattutto, potere di creare, interpretare e applicare norme giuridiche.

2. Giuristi e operatori giuridici Prima di analizzare i singoli gruppi è necessario fissare l’attenzione su una questione al tempo stesso di contenuto e di terminologia. Sin dal Medioevo (ma, entro certi limiti, anche nell’antichità) esistono scuole istituzionalmente indirizzate a creare esperti di diritto. Tali scuole, come noto, sono all’origine del sistema universitario e del concetto stesso di università. L’antichissima Università di Bologna nacque alla fine dell’XI secolo come Studium in cui maestri e allievi convenuti da ogni parte d’Europa esaminavano e commentavano i testi fondamentali del diritto romano, specialmente il Digesto di Giustiniano, non solo con finalità teoretiche, ma anche e soprattutto con la finalità pratica di individuare le regole del vivere civile in un mondo che,

rispetto al tempo della redazione di quei testi, era profondamente mutato. Da questa pratica, su cui si sviluppò la Scuola dei glossatori, scaturirono una sistematica e una dogmatica di alto profilo (Padoa-Schioppa, 2003, pp. 123 sgg.). Da quella e altre scuole consimili uscirono per secoli esperti di diritto che potevano poi ricoprire ruoli diversi, di solito intercambiabili, nelle rispettive società: in sintesi, uscivano dei «giuristi». Altrettanto è avvenuto nella modernità. Le scuole di diritto sono rimaste parte integrante e spesso centrale di università sempre più estese e articolate, man mano che il sapere veniva differenziandosi in diversi campi. Nei vari sistemi universitari le facoltà giuridiche hanno assunto, naturalmente, caratteri parzialmente diversi. Dal secolo XIX in poi, il modello francese di cultura giuridica ha privilegiato un metodo d’insegnamento esegetico, basato sull’analisi dei testi legislativi e specialmente dei codici. In Germania, è prevalso per molto tempo un accostamento storico e concettualistico, fortemente legato alla tradizione romanistica. In Italia, si è seguita a lungo una via intermedia fra queste due. In Inghilterra, il sistema di common law ha indirizzato lo studio soprattutto verso l’analisi dei casi concreti alla luce dei principi generali di diritto estrapolati dai precedenti giudiziari. Negli Stati Uniti, questo metodo casistico (case method) è diventato, ed è tuttora, la base essenziale dell’educazione giuridica fornita dalle grandi law schools, dove peraltro insigni giuristi lo hanno spesso piegato alle loro esigenze sistematiche e dogmatiche. Differenze vi sono anche nella durata degli studi, ora quadriennale, come nella tradizione italiana, ora quinquennale, come accade in Spagna e in Portogallo, ora triennale come in Inghilterra e anche negli Stati Uniti, paese in cui, peraltro, si accede alle law schools dopo aver conseguito una laurea di primo livello in qualche altro settore scientifico. E infine vi sono chiare differenze, assai rilevanti dal punto di vista sociologico, quanto ai rapporti fra questi studi e il mondo professionale: a volte la laurea in diritto dà accesso immediato a una o più professioni giuridiche, di avvocato, giudice o notaio, altre volte è solo la condizione necessaria per sostenere esami di accesso all’una o all’altra di tali professioni, regolati in forma ora pubblica ora privata. Queste differenze non devono far dimenticare che vi è un’unità culturale di fondo che accomuna coloro che escono dalle scuole di diritto, tanto da suggerire che il mondo dei giuristi costituisca una «comunità» nel senso più aperto della parola (Cotterrell, 1995). Tale unità consiste nell’educazione a osservare i rapporti sociali attraverso degli schemi normativi, non importa di

quale origine o natura, a interpretare le norme secondo metodi che, con le ovvie differenze, sono ovunque molto simili, a rapportare le norme stesse fra loro in modo sistematico e, infine, a usare questa forma peculiare di sapere nella vita pratica. In sintesi è una particolare forma culturale – la cultura giuridica interna – ciò che riunisce, oltre le differenze professionali specifiche e perfino sopra le frontiere dei vari paesi, questo particolare ambiente intellettuale, che presenta caratteri similari non solo nel mondo occidentale, ma anche altrove: le scuole di diritto islamiche, ebraiche o indù educano anch’esse i loro allievi a guardare il mondo attraverso lo specchio delle norme giuridiche con metodi analoghi ai nostri. È questo uno specchio che, come già detto, abbraccia potenzialmente tutta la realtà e sotto tal profilo presenta pregi e difetti. Da un lato, fornisce una preziosa chiave di lettura delle relazioni umane, che funge da bussola soprattutto per prevenire i conflitti o per gestirli appropriatamente quando risultino inevitabili. Dall’altro lato, può anche deformare la rappresentazione del mondo inducendo a credere che questo corrisponda alle previsioni e ai concetti del diritto: cosa, questa, particolarmente delicata quando i laureati in giurisprudenza non abbiano acquisito altra esperienza oltre quella delle norme, abbiano cioè studiato solo ciò che regola e non ciò che viene regolato1. Da tutto ciò comunque emerge, accanto a una cultura, una mentalità, spesso una psicologia, che può variare entro un’ampia gamma di posizioni individuali, ma che rende riconoscibili in ogni parte del mondo coloro che l’hanno assorbita. Questo ambiente intellettuale, come l’abbiamo chiamato, pur così caratterizzato e relativamente uniforme sotto ogni cielo, è difficilmente classificabile in termini sociologici. Nemmeno in ciascun singolo paese si può dire che coloro che condividono questa inconfondibile formazione culturale, siano una precisa aggregazione sociale, cioè una classe, un’associazione, un’istituzione, un’organizzazione e perfino un gruppo, cioè la forma più debole di aggregazione dotata di un certo grado di stabilità. Naturalmente essi possono dar vita settorialmente all’una o all’altra di queste formazioni sociali, e si tratta di formazioni di particolare rilievo. Ma nessuna di queste li raggruppa tutti, almeno nelle odierne società complesse, salvo rare eccezioni. Storicamente, si può dire che essi siano stati per lungo tratto un ceto, concetto centrale nella riflessione di Weber (1922, vol. I, pp. 303-304*), come suggerisce l’esperienza storica che ha visto spesso i giuristi, accomunati non solo dalla stessa cultura giuridica, ma anche dalla stessa privilegiata estrazione sociale, rendersi protagonisti nelle vicende politiche di molti paesi. Ma

sarebbe difficile oggi pervenire a questa conclusione. Il numero di laureati, in particolare di laureati in materie giuridiche, è cresciuto a dismisura, ha interessato tutte le classi sociali e corrispondentemente ha subito un processo di mobilità sociale soprattutto discendente, e anche di relativa disgregazione, che in alcuni paesi, fra cui l’Italia, è ben visibile. Una riprova di questa difficile classificabilità degli esperti di diritto si ritrova a livello linguistico. La parola italiana «giurista», che è tradizionale e richiama etimologicamente l’idea di una compiuta formazione giuridica, possiede oggi un’estensione semantica più ristretta, venendo usata per designare specificamente il teorico del diritto o il professore universitario di materie giuridiche: essa non comprende in un solo insieme l’avvocato, il giudice e il notaio, ma se ne distingue. Nulla di male, ovviamente, se tornando alla tradizione la si usasse per designare la figura che abbiamo descritta e si parlasse anche di «ceto di giuristi»: ma si deve aver coscienza che si tratta di distanziarsi dagli usi più comuni. Analoghe considerazioni potremmo fare con altre lingue, sia pure con variazioni2. Ciò che conta, tuttavia, è soprattutto segnalare che i problemi di classificazione e di definizione si trasformano in problemi di traduzione da un idioma all’altro e spesso di incomprensione, col risultato di viziare non di rado i pur necessari esperimenti di comparazione fra sistemi giuridici e ruoli professionali. Per risolvere questi problemi la sociologia del diritto si è dotata di un’espressione generica, «operatori giuridici», per designare unitariamente coloro che svolgono professioni o ricoprono ruoli connessi col diritto. È questa un’espressione un po’ troppo vaga, che peraltro presenta un vantaggio, legato a un’ulteriore peculiarità dell’argomento che stiamo trattando: se, da un lato, gli esperti usciti dalle scuole di diritto non costituiscono un chiaro raggruppamento sociale, dall’altro lato i gruppi e i sottogruppi di operatori giuridici professionali non sono sempre e necessariamente composti da esperti di diritto.

3. Legislatori Un perfetto esempio di ruolo giuridico che può essere ricoperto da persone inesperte di diritto è naturalmente quello di coloro che partecipano ai processi legislativi, quale membri di un parlamento o di altro simile consesso. Lo studio di questo ruolo – già affrontato in precedenza sotto altro profilo – è oggetto precipuo della sociologia politica, che incentra l’attenzione, fra gli

altri temi, precisamente sulle cd. «élites politiche», di cui tali figure di attori sociali sono parte essenziale, più che della sociologia del diritto. Ma i rapporti che s’instaurano fra i detentori di potere politico, i loro gruppi più o meno stabili, le forme di cooperazione e gli episodi di scontro che li riguardano presentano grandissimo interesse anche per il sociologo del diritto, dato che influenzano potentemente sia la legislazione, sia le relazioni con altri gruppi coinvolti nella vita delle istituzioni giuridiche. Punto di partenza dell’analisi socio-giuridica è la constatazione che questo ruolo occupa un posto centrale nei sistemi politici moderni, soprattutto democratici, in quanto insignito di una legittimazione popolare ed espressione della stessa sovranità. Non per caso infatti la potestà legislativa dei parlamenti viene definita in diritto costituzionale con la formula della «discrezionalità del legislatore», che sottende l’esercizio del potere normativo sovrano. È una discrezionalità non assoluta, in quanto è limitata da norme costituzionali che definiscono un quadro esterno oltre il quale essa non può spingersi, ma le norme limitatrici, nella maggior parte dei casi, sono anch’esse frutto di decisioni di assemblee costituenti che in passato hanno esercitato la sovranità a un livello ancora più alto. Da ciò deriva in ogni caso ai legislatori un’alta consapevolezza di ruolo, che solo in parte può essere attenuata dalla coscienza di dover rispondere a poteri esterni, a volte più influenti dell’elettorato di riferimento, dalla necessità di sottostare a logiche di gruppo e di leadership e anche dal fatto di dipendere, nella formulazione dei singoli atti legislativi, da decisioni di funzionari o da giudizi di esperti che fungono da interfaccia col mondo esterno e «tecnico» del diritto (La Spina, 1989, pp. 432 sgg.). Constatazioni di questo genere sono naturalmente diffuse fra i parlamentari e possono provocare anche sentimenti di delusione o di frustrazione, ma difficilmente vulnerano la sensazione di appartenere, appunto, a una cerchia sociale privilegiata. Carattere strutturale inevitabile di questa cerchia è però, non già la sua unità, ma la sua divisione. Naturalmente nessun gruppo sociale, anche d’élite, è mai tanto coeso al proprio interno da non conoscere tensioni e conflitti. Tuttavia tali fenomeni di solito appartengono, se così si può dire, alla patologia della vita associata. Nel caso dei parlamenti e, più in generale, delle élites politiche, essi invece appartengono alla fisiologia delle relazioni di potere e sono, anzi, istituzionali. Un parlamento è un’aggregazione strutturata di gruppi, divisi, di avversari politici. È importante indagare sulle cause e sugli effetti di queste divisioni.

Tradizionalmente, i raggruppamenti parlamentari corrispondono ai partiti politici che operano all’esterno, a contatto con i cittadini. Il numero e la natura di queste aggregazioni sociali dipende da molte variabili, storiche, etniche, culturali, che differenziano un paese dall’altro. Fra queste variabili non va trascurata, per la sua importanza socio-giuridica, quella della legge elettorale. Una notissima teoria, risalente agli anni Cinquanta, osserva una relazione tendenziale, da un lato, fra sistemi elettorali maggioritari a turno unico e dualismo dei partiti (come nel Regno Unito e negli Stati Uniti) e, dall’altro lato, fra sistemi elettorali proporzionali o maggioritari a due turni e pluripartitismo (come in molti paesi dell’Europa continentale) (Duverger, 1957, pp. 266 sgg.*). Questa regola non va intesa in senso formale. Ciò che conta infatti non è tanto il numero dei partiti rappresentati in Parlamento, che possono essere numerosi anche nei sistemi maggioritari3, quanto appunto la loro tendenza a riunirsi o a dividersi prima e dopo ciascuna elezione. I regimi elettorali proporzionali tendono a spostare l’asse del sistema politico sul potere legislativo, a esaltare le sue diverse articolazioni e ad ampliare lo spazio di libertà decisionale di ognuna. I regimi maggioritari, soprattutto a turno unico, tendono a spostare l’asse sul potere esecutivo e a favorire la formazione di gruppi parlamentari più stabilmente divisi fra una maggioranza e un’opposizione. Nei primi, il governo è più esposto alla mutevolezza degli umori dei partiti e dei loro leader, quindi meno stabile, le sue decisioni scaturiscono da confronti meno cristallizzati e possono, per questo, essere meno nette nei contenuti, ma più facilmente accettate dalle minoranze. Nei secondi, il governo è più stabile, i gruppi parlamentari giocano ruoli più rigidi e rituali, le decisioni possono essere più nette, ma in compenso vengono più facilmente percepite come imposizioni dalla minoranza soccombente. Nel valutare l’uno o l’altro regime va tenuto conto anche del clima, di collaborazione o di contrapposizione, che si crea fra le parti in conflitto e che si trasmette sull’attività legislativa: nei sistemi bipolari è facile che la maggioranza che si impone in un’elezione disfi ciò che ha fatto la maggioranza precedente, non solo per radicale diversità di opinione, ma anche, non di rado, per pura ritorsione4. Oltre all’influenza dei sistemi elettorali vi sono altri elementi che intervengono a dividere o riunire gruppi e sottogruppi parlamentari, e a influenzarne le decisioni. Fondamentale è la distinzione dei parlamentari a seconda del potere che detengono nei rispettivi partiti. La posizione defilata e marginale (backbench, nel gergo parlamentare inglese) non garantisce sempre e

comunque obbedienza dei gregari verso i capi, ma a volte, soprattutto in votazioni segrete e risicate, può stimolare spostamenti dell’ultimo istante, gravidi di conseguenze. La lotta politica, inoltre, si sviluppa spesso all’interno del singolo gruppo, oltre che fra gruppi: è infatti anzitutto con i propri compagni di partito che si combatte per ottenere riconoscimenti e visibilità. E infine, è rilevante la distinzione dei parlamentari secondo alcune classiche variabili sociologiche: storicamente l’origine e la professione, in tempi più recenti il genere. Sull’origine, intesa come provenienza geografica, non c’è bisogno di soffermarsi, perché è un dato istituzionale, corrispondendo alla suddivisione di un paese in collegi elettorali. Le aggregazioni trasversali di parlamentari della stessa regione sono frequenti soprattutto nell’attività di routine, che non sfocia in decisioni di grande rilievo politico. L’importanza della variabile professionale è anch’essa ben nota. Fra i vari esempi, quello più ricorrente segnala precisamente che nei moderni parlamenti di nomina elettiva i giuristi, specialmente gli avvocati, hanno quasi sempre costituito un gruppo particolarmente folto e influente: un fenomeno, questo, che pur attenuato perdura ancora nel nostro tempo. Sulla rilevanza della variabile di genere si è riflettuto ancora poco, benché la presenza di donne nelle assemblee parlamentari sia quasi ovunque un fatto consolidato da molti decenni. I non molti studi sull’argomento hanno messo in luce la propensione delle parlamentari a concentrare l’attenzione sui temi della famiglia e dei minori. Ma questo argomento induce ad altre, meno scontate ipotesi di lavoro. Sarebbe importante verificare, per esempio, se le donne non siano più disposte degli uomini a stabilire forme di cooperazione fra gruppi rivali, non solo su temi che coinvolgono l’identità femminile, ma in generale. E non sarebbe irrilevante riproporsi il tema, spesso affrontato dai politologi, del rapporto tra forme di organizzazione del consenso, leggi elettorali e presenza femminile nelle istituzioni rappresentative: non può sfuggire il fatto che i recenti mutamenti intervenuti nella vita politica italiana – crisi dei partiti tradizionali, adozione di un sistema elettorale quasi-maggioritario – si siano accompagnati a una forte diminuzione della presenza femminile nel Parlamento. Proprio il tema del mutamento induce a ulteriori riflessioni sul ruolo attuale dell’élite politico-parlamentare. Negli ultimi decenni tutti i paesi – sviluppati e non, democratici e non – hanno visto mutare profondamente le forme di aggregazione politica. Sotto l’incalzare di alcuni fenomeni, quali la crisi del welfare state e la spettacolarizzazione mediatica del dibattito politico, anche i

partiti politici tradizionali più radicati si sono trovati davanti a una drastica alternativa: o cambiare assetti e funzioni, o sparire. La funzione classica di cinghia di trasmissione fra società e istituzioni, che la cultura politica moderna e le stesse costituzioni assegnano ai partiti, si è rivelata sempre più ardua. In alcuni luoghi – l’Italia degli anni Ottanta è un buon esempio – è stata rimpiazzata da un’attività di «scambio» politico-economico, che ha visto impegnati i vertici di ciascuna formazione e alcuni strati di popolazione direttamente o indirettamente impegnati ad aggregare consensi elettorali. Ciò ha comportato – come già ricordato – un distacco sempre più profondo fra élites politiche ed elettorato comune, escluso da quegli scambi, e tale distacco è diventato più profondo man mano che, da un lato, le risorse economiche si riducevano e, dall’altro, crescevano a dismisura i costi della politica. Ne è conseguito un progressivo isolamento delle élites rispetto alle società di appartenenza, visibile per esempio nella progressiva riduzione, in tutti i paesi sviluppati, degli indici di partecipazione elettorale. La crescita esponenziale della corruzione politica, endemica in tutte le società, ma più o meno grave a seconda dei luoghi e dei periodi, non è che il riflesso di questi fenomeni: più profondo l’isolamento dei rappresentanti, più alte le pretese dei rappresentati, più vivo il timore di perdere il potere, più costosi i meccanismi indirizzati a conservarlo, con i suoi privilegi. La storia ha spesso presentato questo tipo di involuzione a spirale, che di frequente incontra un punto di rottura improvviso e drastico, a volte rivoluzionario, comportante un cambiamento profondo nella distribuzione del potere politico e nella configurazione sociologica dell’élite, che può venire parzialmente o interamente sostituita. Altri fenomeni hanno investito il ruolo delle tradizionali élites politicoparlamentari, in ogni parte del mondo: soprattutto quello, già visto in precedenza, della crisi della legislazione rispetto alle fonti sovra-nazionali e sub-nazionali di diritto statuito, giurisdizionale, negoziale, consuetudinario. La duplice sfida globalistica e localistica ha eroso i fondamenti della sovranità statale, di cui quelle élites erano depositarie, a favore di altri gruppi sociali, come i vertici delle istituzioni dell’Unione Europea e quelli del Fondo monetario internazionale o della Banca mondiale, le grandi società multinazionali o anche molte organizzazioni non governative che concorrono a delineare il diritto presente e futuro (Ferrarese, 2000). Fattori di questa natura, storicamente ricorrenti, incidono prepotentemente sulle relazioni fra i gruppi professionali coinvolti nella vita del diritto e, in certa misura, anche se non interamente, danno conto di quanto è

recentemente avvenuto in vari paesi sviluppati, in particolare in Italia.

4. Avvocati È probabile che la figura dell’avvocato nasca quando un sistema giuridico acquista un grado anche modesto di tecnicità, e forse coincida con la diffusione, in una società, della scrittura stessa. L’interpretazione delle parole scritte esige infatti una competenza segnica che non è patrimonio di tutti ed è tanto più rara quando i termini usati possiedano un significato distinto dal parlare comune e ricavabile nell’ambito di un particolare sistema segnico e simbolico: come avviene con qualsiasi, pur rudimentale, insieme di prescrizioni giuridiche. Così possiamo osservare che anche in società in cui non è ammessa la rappresentanza processuale della parte esistono consiglieri che forniscono alla parte stessa i mezzi tecnici della difesa, sotto forma di consigli orali o scritti, talvolta molto articolati: nella Grecia classica la parte compariva in giudizio personalmente ma si avvaleva di documenti, assai somiglianti alle odierne memorie difensive, predisposti da retori esperti di diritto5. Quando la parte può farsi rappresentare in giudizio e vediamo così riunite le due storiche funzioni dell’avvocato – assistenza e rappresentanza – questo ruolo professionale tende a consolidarsi e ad acquisire un prestigio sociale direttamente proporzionale alla delicatezza dei compiti svolti, che investono rapporti umani cruciali e spesso si arricchiscono anche di significati politici in senso lato. L’avvocato che tratta rilevanti questioni per clienti importanti dinanzi alle magistrature più alte funge, modernamente parlando, da interfaccia non solo fra il mondo dei privati e l’arena pubblica, ma anche, sovente, fra istituzioni statali. Questa premessa spiega come l’avvocato sia quasi sempre appartenuto e, in molte società ancora appartenga, a strati sociali elevati. Se è questa la sua origine familiare, è più facile che un giovane acceda all’avvocatura. Se un giovane accede all’avvocatura provenendo da strati meno privilegiati, col ruolo acquisito guadagna anche la promozione sociale. L’indagine storica conferma questo dato, soprattutto per le società altamente stratificate e a basso indice di diffusione della cultura letterata: non solo antiche, ma anche moderne (PadoaSchioppa, 2003, pp. 293 sgg., 407 sgg.). Nelle società liberali tra fine Ottocento e inizi Novecento il ceto forense presenta ancora molti caratteri tipici del notabilato di origine patrizia, pur provenendo quasi ovunque dai

severi studi giuridici sopra descritti e pur dovendosi confrontare, almeno nei contesti cittadini, con un’economia vivace e ramificata. Il mutamento socioeconomico gli impone un cambiamento che l’accompagna lungo tutto il Novecento, dal notabilato verso forme di professionismo sempre più organizzato e meno distaccato dal mondo degli affari concreti (Powell, 1988; Tacchi, 2002). Ma si tratta di un’evoluzione che, pur comune a tutte le società avanzate, è lenta e ostacolata da molte resistenze, tanto che può dirsi solo parzialmente compiuta, e con caratteri pur sempre peculiari rispetto ad altre professioni (Abel, Lewis, 1988). Questa peculiarità dipende storicamente da vari fattori. Innanzitutto si può osservare nel ceto forense un certo grado di familismo autoriproduttivo. La professione viene spesso tramandata da padri a figli, che ereditano non solo dei beni economici – studi professionali, clientele, «nome» – ma anche dei rapporti sociali, un sapere e uno stile comportamentale. Ciò perpetua nelle generazioni una tradizione che è anzitutto culturale e, nella più parte dei casi, reca i segni di un tipico individualismo ovunque visibile. Un secondo e forte elemento di peculiarità si riscontra nell’organizzazione della professione. Da secoli gli avvocati sono riuniti in organismi che possono variare da luogo a luogo nel nome e nella configurazione – corporazioni, collegi, ordini, associazioni – ma che presentano tutti caratteri comparabili, fra cui uno svetta per importanza: il controllo sull’etica professionale, col potere disciplinare che vi è associato e che viene esercitato in un regime di ampia autonomia – caso tipico di «ordinamento normativo autonomo» (Olgiati, 1990, pp. 131 sgg.) – rispetto al mondo esterno. Questo associazionismo non contraddice né minaccia lo spirito individualistico che accomuna gli avvocati, ma piuttosto lo protegge e contribuisce a perpetuarlo. Un terzo fondamentale fattore di peculiarità consiste poi, naturalmente, nello stesso contenuto dell’attività forense, che presenta un elemento di forte, ma in realtà solo apparente, contraddittorietà. L’avvocato, in quanto consigliere e «filtro» che s’interpone nei rapporti fra privati oppure fra questi e il potere giudiziario, è contemporaneamente interprete accreditato di un sistema di regole giuridiche, che lo vincola, e rappresentante di interessi che collidono con interessi altrui e che pertanto qualcuno – la controparte, un pubblico accusatore – riterrà in collisione precisamente con quel sistema. Questa ambivalenza è inevitabilmente foriera di tensioni che coinvolgono l’avvocato nei confronti del proprio rappresentato ancor prima che verso la controparte o il giudice. Tuttavia l’avvocatura ha elaborato nei secoli meccanismi culturali che permettono di assorbire tali

tensioni, delineando una sorta di spazio libero entro cui l’avvocato può, e deve, muoversi nella protezione degli interessi privati: uno spazio che riguarda sia l’organizzazione e/o la ricostruzione dei fatti che attendono una regolamentazione normativa in un contratto o in una sentenza giudiziale, sia l’individuazione e l’interpretazione delle norme applicabili a quei fatti. La continua riproposizione di questi meccanismi ha fatto sì che l’avvocato, sempre a contatto con l’alternativa fra lecito e illecito, abbia contribuito storicamente tanto a conservare i sistemi giuridici con atteggiamenti tradizionali, quanto a modificarli con innovazioni creative, non di rado rivoluzionarie. Altrettanto, certamente, ha fatto anche il giudice, ma muovendosi entro limiti più ristretti. È impossibile, e scientificamente imprudente, costruire una sociologia della professione di avvocato senza tener conto di questi caratteri peculiari, che storicamente presentano l’avvocatura come un corpo sociale ben definito, fortemente coeso (un’autentica unitas multiplex) e dotato di un forte sentimento identitario. Tuttavia, nella seconda metà del Novecento molti nuovi fattori sono intervenuti a mutare questo quadro, tanto da porre sul tappeto quesiti assai rilevanti sul futuro dell’avvocatura. Alcuni di questi fattori riguardano la composizione sociologica della professione legale. Rilevantissimo è stato l’accesso delle donne nell’avvocatura (Schultz, Shaw, 2003). Dapprima un fatto eccezionale, poi minoritario, negli ultimi anni la presenza femminile è diventata paritetica e ormai tendenzialmente maggioritaria, come effetto non solo dell’emancipazione della donna, ma anche del sempre più evidente distacco fra studenti e studentesse, a favore di queste, nel rendimento scolastico, anche nelle facoltà giuridiche e negli esami di accesso alla professione. È certamente osservabile anche nelle donne una decisa introiezione di alcuni valori professionali emersi dalla storia, ma non vi è dubbio che esse siano portatrici di una cultura generale diversa, tendenzialmente meno formale e più pragmatica, i cui riflessi sulla cultura giuridica e sul diritto stesso dovrebbero essere attentamente studiati. Si può ipotizzare per esempio che le donne offrano un ponte più solido fra professione e società, contribuendo a rendere meno profondo il distacco fra i due mondi. Ugualmente importante è stato il forte aumento numerico degli avvocati. Questo fenomeno è un riflesso della forte mobilità sociale della seconda metà del Novecento, che ha aperto l’istruzione universitaria ai ceti meno privilegiati e fortemente incrementato il numero di laureati, anche in

giurisprudenza. La tendenza è generale nei paesi sviluppati, anche quelli in cui il ceto avvocatizio ha tradizioni più elitarie, come la Francia (Boigeol, 2003), benché ogni paese offra le sue peculiarità. In Italia per esempio, dove l’istruzione superiore presenta ancora indici fra i più bassi d’Europa, è stata accelerata dalla liberalizzazione degli accessi alle facoltà universitarie introdotta alla fine degli anni Sessanta, che ha spezzato la storica omogeneità culturale dei laureati, soprattutto in giurisprudenza, ed è oggi ulteriormente incrementata dalla debolezza del mercato del lavoro intellettuale subordinato, che assorbe sempre meno laureati nelle imprese – banche, compagnie assicuratrici, pubbliche amministrazioni – e incentiva quindi molti giovani a tentare la via della libera professione per ripiego, anziché per convinzione. Le conseguenze sono molteplici. La competizione fra avvocati diventa sempre più dura, particolarmente in periodi di crisi economica, e si traduce in una forte pressione sui principi dell’etica professionale, che vacillano, sulla stessa cultura forense, che ne esce profondamente modificata, e anche sul sentimento identitario della categoria che risulta indebolito rispetto al passato, soprattutto dove i numeri sono particolarmente alti, come in Italia. Accanto a questi fattori di mutamento, altre sfide hanno investito il mondo dell’avvocatura. Da decenni si è notato che le grandi imprese, soprattutto se operanti su una dimensione transnazionale, fruiscono di servizi legali interni molto agguerriti e, quando si rivolgono ai liberi professionisti, indirizzano le loro richieste preferibilmente verso grandi studi organizzati secondo criteri di economicità, distribuzione razionale del lavoro, gerarchizzazione dei rapporti interni, e attrezzati ad affrontare ogni problema mediante l’opera di molti avvocati specializzati nei più diversi settori del diritto, nazionale e internazionale. Questo modello di organizzazione dei servizi giuridici, che porta il professionismo legale a coincidere con una forma particolare di imprenditoria di ampio respiro, si colloca all’estremo di una linea continua che, all’altro estremo, incontra ovunque una moltitudine di studi mediopiccoli, anche individuali, i quali assorbono un lavoro diverso per valori in gioco, tipo di clientela e caratteri della prestazione. Mentre il grande studio può offrire un’assistenza a tutto campo, il piccolo studio è costretto dalla specializzazione imperante a praticare, se non una sola, comunque poche aree del diritto. Si perde così, gradualmente, la figura classica dell’avvocato che, forte di una cultura giuridica e soprattutto di un metodo, è capace di affrontare indifferentemente le questioni civili, penali, amministrative. La realtà dei grandi studi di stile americano ha acquisito negli anni

un’evidenza così vistosa – soprattutto a causa della loro ramificazione in molti paesi del mondo – da suggerire note ipotesi sociologiche secondo cui la professione di avvocato starebbe per fronteggiare, o avrebbe già sperimentato, un cd. «big bang». I grandi studi, trasformati in grandi imprese, diverrebbero vere e proprie «multinazionali del diritto» e, con la loro attività di «megalawyering» (Flood, 1996), diverrebbero protagonisti nella costruzione di un nuovo ordine giuridico internazionale, subendo solo la concorrenza di altre grandi organizzazioni impegnate nel campo legale, come le società finanziarie e di revisione (Dezalay, 1992). Al di fuori di questo modello non vi sarebbe futuro, se non molto marginale, per la professione di avvocato. Questa visione, che ha trovato sostenitori soprattutto in America, anche presso l’avvocatura locale (American Bar Association), è probabilmente viziata da eccessivo semplicismo. Essa trascura proprio quegli elementi di peculiarità che caratterizzano l’avvocatura e non registra alcune controtendenze, visibili soprattutto là dove l’organizzazione della professione presenta caratteri più fortemente corporativi. Per esempio, nei paesi europei di civil law gli studi legali vanno attestandosi su una dimensione intermedia, che permette di attrarre clientele selezionate con l’offerta di una gamma di servizi relativamente ampia e, al tempo stesso, con rapporti personalizzati. Nella stessa Inghilterra, più esposta alle influenze americane, i barristers mantengono la posizione di privilegio, emersa dal Medioevo, che li abilita a comparire davanti alle corti superiori, e i solicitors, i quali svolgono tradizionalmente attività istruttorie e di intermediazione, hanno arricchito il loro campo d’intervento in ambiti, come quello contrattuale, che costituiscono il primo obiettivo dei grandi studi multinazionali: ma né gli uni né gli altri sembrano aver acquisito le dimensioni di questi ultimi. Nella valutazione dell’ipotesi del big bang devono poi entrare altre variabili, anch’esse trascurate dai suoi assertori. In primo luogo, il modello della grande law firm si diffonde esclusivamente in quelle grandi aree metropolitane in cui si concentra il potere finanziario, mentre nei medi centri urbani e soprattutto in provincia gli studi professionali, pur riorganizzandosi, riflettono ancora tenacemente il modello tradizionale e offrono servizi su larga scala a clientele tutt’altro che secondarie quanto a peso economico. In secondo luogo, ci si può chiedere come influisca sulla professione la possibilità, sempre più estesa, di offrire e rendere servizi per via telematica attraverso Internet. La diffusione capillare dello strumento informatico, così come nella produzione e negli scambi ha favorito il ruolo delle piccole e medie aziende a detrimento di quelle grandi,

potrebbe fare altrettanto anche nella professione legale (Kritzer, 1999). Con tutto ciò, è innegabile che le sfide affrontate dall’avvocatura sono molte e le previsioni su come esse verranno affrontate non sono affatto certe. Per stabilire ipotesi, è indispensabile distinguere fra tendenze generali, riscontrabili in molti sistemi, e casi particolari di sistemi specifici. Nel caso dell’Italia e di altri paesi latini, non va trascurata la crescente concorrenza che viene portata all’avvocatura da parte del notariato nell’ampio settore stragiudiziale civile. In Italia, i notai godono di una posizione di monopolio per la redazione di molti atti, escono da una formazione più selettiva di quella forense e, rispetto agli avvocati, costituiscono una élite ristretta, essendo una categoria a numero chiuso. Il loro sapere è più formale, il loro stile interpretativo più letterale, ma proprio per questo il loro servizio può dare maggiore sensazione di certezza e, quindi, maggiore affidamento (Olgiati, 1996, pp. 131 sgg.).

5. Giuristi accademici Nella panoramica che stiamo tracciando non possono essere trascurati quegli esperti di diritto che svolgono professionalmente il compito di operare sul materiale giuridico – concetti, norme, precedenti – con finalità teoriche. Costoro cooperano a costruire una rete di conoscenze sui sistemi giuridici e a diffonderle, con diversi stili narrativi, presso pubblici differenziati: la comunità scientifica cui appartengono, i pratici del diritto, gli studenti di materie giuridiche. Si tratta di un compito che, come già ricordato (cfr. supra, pp. 3 sgg.) è al contempo descrittivo e prescrittivo o, per usare un apparente paradosso, critico e dogmatico. Il giurista puro «legge» il dato normativo e successivamente ne rivela il senso che ritiene corretto, quindi vincolante. Quanto più la sua voce è autorevole, tanto più la sua opinione verrà seguita nella dottrina e nella pratica, fino a diventare fonte di diritto, ufficiale o ufficiosa, come spesso avvenuto nella storia (Lombardi, 1967). A questo ruolo sociale corrispondono gruppi di persone la cui coesione è garantita da un dato istituzionale particolarmente forte, quello accademico. L’appartenenza al mondo universitario fornisce un criterio di riconoscimento che supera i confini di un singolo paese anche in ambiti disciplinari, come la giurisprudenza, in cui la dimensione nazionale e locale possiede un peso rilevante. Entro questi confini, essa configura poi un campo di influenze e di poteri che vanno dalla selezione dei laureati sino alla cooptazione dei docenti,

quindi all’autoriproduzione della categoria. Infine, verso il mondo esterno esibisce una garanzia ufficiale di scienza che possiede un valore quanto meno presuntivo, sino a prova contraria. Tutti questi fattori concorrono a elevare nel gruppo un senso di autocoscienza che, se diviene eccessivo, rischia di provocarne l’isolamento, come non di rado è accaduto nella storia. Anche riguardo al ruolo di questo gruppo sociale occorre costruire ipotesi distinte a seconda dei sistemi e dei paesi. Vi è un primo elemento che differenzia fra loro i giuristi accademici dei diversi paesi e che non va trascurato, benché possa apparire a prima vista marginale. In alcuni luoghi, essi sono esclusivamente dedicati alla ricerca scientifica e alla didattica universitaria, mentre in altri, come l’Italia, essi sono in buona parte, anche se non tutti, simultaneamente impegnati, oltre che in tali compiti, in una professione giuridica, primariamente l’avvocatura, più raramente il notariato o la magistratura. Dove le due professioni sono incompatibili, la scienza giuridica accademica costituisce un gruppo a sé stante, altamente autoreferenziale, impegnato in confronti che si esauriscono soprattutto al proprio interno e che, all’esterno, dialogano soprattutto con istituzioni comparabili: nei paesi di common law, soprattutto l’alta magistratura. Dove, invece, esse sono compatibili, la maggioranza dei giuristi accademici, oltre ad appartenere alla comunità scientifica nelle sue diverse articolazioni, costituisce anche un settore minoritario di una categoria molto più ampia, di cui necessariamente condivide alcuni valori portanti, e anche, soprattutto, le principali funzioni. Ciò può dar luogo a tipici conflitti di ruolo. Il giurista accademico che è anche avvocato, se da un lato attinge dall’esperienza di rapporti concreti spunti che vivificano la sua riflessione teorica e, di conseguenza, anche la sua testimonianza didattica, dall’altro lato può trovarsi nell’imbarazzante condizione di dover constatare che la tesi dottrinale che gli pare più corretta, e che magari ha sostenuto pubblicamente, è quella che meno si addice agli interessi del suo cliente. Anche in tali casi esistono meccanismi di contenimento delle tensioni di ruolo, come sorvolare sulla contraddizione, puntare sulla specificità del caso, correggere in funzione di questa specificità la visione teorica, suggerire al cliente un’altra strategia o, infine, rinunciare alla difesa: ma ognuna di queste decisioni comporta prezzi che possono essere molto alti. Vanno poi colte alcune importanti differenze culturali, che pure riguardano la categoria dei giuristi accademici. L’identità di costoro differisce a seconda della specifica tradizione giuridica in cui ognuno si è formato. Nel mondo

occidentale, per esempio, vi è una storica differenza di impostazione teorica e metodologica fra giuristi appartenenti rispettivamente alle tre grandi aree di pensiero giuridico: quella illuministica, specialmente francese, secondo cui il diritto coincide primariamente con la legge statuita e il giurista ha compiti puramente esegetici, quella storico-concettualistica, specialmente germanica, che identifica il diritto con un insieme di relazioni intersoggettive che assumono senso giuridico attraverso il riferimento a concetti dottrinali e, infine, quella di common law, inglese e nordamericana, secondo cui il diritto di un paese affonda le radici in una tradizione leggibile soprattutto attraverso i precedenti giudiziari. Ma anche all’interno di ciascun paese troviamo una varietà spesso profonda di stili e accostamenti. In Italia, dove le prime due concezioni si sono combinate e la terza esercita un’influenza oggettiva, quantunque non riconosciuta, annoveriamo un’ampia gamma di scuole di diritto, differenziate soprattutto per la diversa attenzione riservata al dato normativo letterale, per la preferenza accordata all’uno o all’altro metodo interpretativo – letterale, sistematico, teleologico – e per l’ambito di discrezionalità riconosciuto agli interpreti. Da questa diversità scaturisce una tale moltitudine di opinioni, da suggerire l’ipotesi che il nostro paese sia uno dei massimi produttori al mondo di teorie giuridiche. Forse in nessun altro luogo le norme giuridiche hanno dato adito a tante diverse interpretazioni: una considerazione, questa, che si riallaccia all’ipotesi già avanzata (cfr. supra, p. 59) secondo cui, quanto più una scienza giuridica è sofisticata, tanto più essa contribuisce ad accrescere, anziché a ridurre, la complessità di un sistema giuridico. È interessante chiedersi oggi se queste differenze, la cui origine si perde spesso nelle profondità della storia, non siano destinate ad attenuarsi per effetto dei fenomeni di globalizzazione che non investono solo l’economia o la cultura di massa, ma anche, e non poco, la cultura specialistica nei vari campi del sapere. Questa tendenza all’uniformità non ha bisogno di essere dimostrata nel campo delle scienze cd. «dure», matematiche, fisiche, naturali, che parlano da sempre lo stesso linguaggio. Nelle scienze umane, la situazione è diversa. Le diverse opzioni religiose, filosofiche, ideologiche, politiche interferiscono spesso nelle teorie scientifiche sulle attività e le relazioni umane, anche quando queste affermano di rispettare la «grande divisione» metodologica tra fatti e opinioni. Nel diritto, la diversità è accresciuta dalla specificità dei sistemi giuridici, soprattutto se considerati indipendenti, sovrani e coincidenti con precise entità statali, secondo la tradizione moderna.

Tuttavia, come già detto più volte in precedenza, i confini fra queste ultime sono oggi assai meno netti e i segni di un diritto sempre più uniforme sembrano diffondersi sopra ogni frontiera. A un diritto più uniforme non può che corrispondere un pensiero giuridico anch’esso tendente a maggiore uniformità. Lo dimostrano la diffusione crescente, nella cultura di civil law, di concetti e stili argomentativi tratti dal mondo di common law, la fortuna di accostamenti tematici e metodologici interdisciplinari come l’analisi economica del diritto, e, negli ultimi periodi, l’intensificarsi di scambi giuridici transnazionali che mirano alla costruzione di sistemi universali di regolamentazione dei settori più aperti agli effetti della rivoluzione informatica: la privacy, il diritto d’autore, i mercati finanziari e dei valori mobiliari, lo spamming, la pirateria informatica e simili. Vi è pure da chiedersi se i ritmi sempre più accelerati dei rapporti e degli scambi non possano divenire sempre meno compatibili con le esigenze della scienza che impone dubbio metodico, riflessione e tempi adeguati. I grandi sistemi di dogmatica giuridica del passato sono stati il frutto di ricerche di molti anni, sebbene a volte turbati da innovazioni legislative che rischiavano di trasformare «intere biblioteche in carta straccia», come disse causticamente un critico ottocentesco della scienza giuridica (Kirchmann [1848], 1938, p. 18*). Questo modo di procedere, cauto e ponderato, è stato già messo in crisi dall’iperproduzione legislativa della seconda metà del Novecento, che ha vulnerato l’unità e la stabilità dei sistemi giuridici. Come può resistere la riflessione teoretica di fronte, per esempio, a un’economia che inventa quotidianamente meccanismi nuovi di trasferimento in tempo reale di ricchezze da una parte all’altra del globo, o a una criminalità che sfrutta canali comunicativi che nessuno riesce a ostruire? Questi quesiti attendono ancora una convincente risposta da parte della sociologia del diritto.

6. Giudici I giudici sono per definizione decisori di un conflitto, che può opporre soggetti singoli o collettivi, privati cittadini o istituzioni. Non tutti i conflitti culminano con una decisione giudiziale. Questa anzi è la soluzione istituzionale più estrema fra varie possibili: l’abbandono puro e semplice della contesa, il negoziato bilaterale che induce a una conciliazione, la mediazione di un terzo che avvicina i contendenti suggerendo loro una regola solutoria, la

decisione di un arbitro che le parti liberamente scelgono fissandone i poteri e, infine, appunto la decisione di un giudice6. Questa soluzione può essere obbligata, ma anche libera. È obbligata per l’imputato nel processo penale, se la pubblica accusa decide di procedere, cosa che, di fatto, può non accadere. È libera, entro certi limiti, nel processo civile. In ogni caso, si differenzia da tutte le altre modalità di trattamento dei conflitti sotto alcuni essenziali e convergenti profili: in primo luogo, il giudice non è scelto dai contendenti, ma è loro assegnato dal sistema giuridico; in secondo luogo, procede secondo un metodo che, parimenti, è in gran parte pre-definito dal sistema stesso; in terzo luogo de-cide nel senso etimologico della parola, cioè separa, con un taglio netto, ragioni e torti; in quarto luogo, non suggerisce ai contendenti una regola con cui risolvere la contesa, ma, in via di principio e seppure con eccezioni, la impone, in quanto la ritiene vincolante non solo per loro, ma anche per se stesso. Ciò premesso, appaiono subito chiare le ragioni per cui coloro che svolgono continuativamente questo compito, che implica non solo terzietà, ma anche autorità rispetto ai contendenti, ricoprono un ruolo sociale molto peculiare. Sono infatti figure che si distaccano dal resto della società, nel duplice senso della parola: sono posti in una posizione che è al contempo di particolare visibilità – spesso, ma non necessariamente, di privilegio – e, non raramente, di relativo isolamento. Quanto detto vale soprattutto per i giudici che svolgono il loro compito in modo professionale come unica o almeno preponderante attività. Questo idealtipo di giudice, come già ricordato, è venuto imponendosi soprattutto nelle democrazie liberali degli ultimi due secoli, come corollario del principio di separazione dei poteri e del concetto stesso di stato di diritto, entrambi coessenziali all’idea di una magistratura forte e indipendente che giudica secondo una legge «uguale per tutti». Non è però un tipo omogeneo, uguale ovunque. In primo luogo, il giudice professionale può essere, o meno, un esperto di diritto: quando lo è – e spesso le eccezioni prevalgono sulla regola – può provenire da altra professione giuridica, di solito l’avvocatura, come in Inghilterra, o da una formazione giuridica superiore ad hoc, come in Italia. In secondo luogo, i giudici professionali si differenziano decisivamente in base alla durata, limitata o illimitata, del loro mandato. In terzo luogo, si differenziano a seconda del modo con cui vengono selezionati. Essi possono essere investiti della funzione giudicante per diritto ereditario o per dignità di carica, come i Law Lords inglesi; eletti da una cittadinanza come molti county

judges americani; nominati dal potere politico più o meno discrezionalmente, su un scala che va dai justices della Corte suprema degli Stati Uniti, insediati dal presidente col consenso del Senato, ai magistrati francesi e italiani, che sono formalmente insediati con decreto del ministro della Giustizia, ma in base ai risultati di pubblici concorsi diretti a vagliarne impersonalmente le capacità soprattutto, se non esclusivamente, tecnico-giuridiche. Pregi e difetti di queste figure tipiche, che possono presentarsi in forma pura oppure mista, sono oggetto di continua discussione non solo scientifica, ma anche, come ovvio, politica. Ciascuna di esse presenta una sua peculiarità. Il giudice nominato discrezionalmente dal potere politico può esserne asservito se la sua carica è revocabile, mentre in caso contrario detiene un forte potere, sia verso i governanti che l’hanno scelto, sia, e ancor più, verso i loro successori. Scegliendo un giudice della Corte suprema, la cui carica è vitalizia, il presidente degli Stati Uniti sa bene che influenzerà molte future scelte politiche del paese, dove i precedenti giudiziari sono fonte di diritto. Il giudice eletto da una cittadinanza con mandato a termine risponde del suo operato alla maggioranza degli elettori che l’ha votato. È quindi probabile che ne segua desideri e valori, ma anche, pericolosamente, pregiudizi, emozioni e umori. Per questo, può anche essere più esposto alla corruttela. Il giudice che proviene dagli alti gradi dell’avvocatura sentirà di appartenere a una ristretta élite intellettuale, la cd. «noblesse de robe»; per contro, comprenderà più facilmente le ragioni delle parti private, di cui ha avuto diretta esperienza. Infine, il giudice che esce da un concorso «tecnico» e gode di inamovibilità si sentirà protetto rispetto al mondo esterno, in tutte le sue articolazioni, dal vertice politico alla base dei comuni cittadini; costruirà le sue decisioni con uno stile tendenzialmente neutro, asettico, presentandole come necessitate, anche quando saranno, come spesso sono, frutto di libera creazione; e tenderà, più delle altre figure, a separarsi anche psicologicamente dal resto della società. Quest’ultimo idealtipo di giudice professionale è forse quello che più facilmente assume un’identità di gruppo. Nei paesi che l’hanno adottato, l’associazionismo dei magistrati è particolarmente forte e agguerrito, soprattutto se al vertice dell’ordine giudiziario è posto un organo di autodisciplina e autotutela, come il nostro Consiglio superiore della magistratura. La separatezza del giudice dalla società esterna è in tali casi sancita istituzionalmente col corredo di regole, in parte codificate, che la circoscrivono irrigidendola. La magistratura viene così a configurarsi come un’autentica subcultura, che elabora una propria visione del mondo e un

proprio stile di rapporti sociali. Può essere molto articolata e anche conflittuale al proprio interno (Pappalardo, 1987), ma si presenta all’esterno come un corpo compatto. L’immagine dei suoi rappresentanti si situa in equilibrio fra il professionismo di prestigio e l’alta burocrazia (Pagani, 1969) e si differenzia, quindi, da quella degli alti giudici di provenienza forense, che piuttosto si presentano come una élite, non solo professionale, ma anche politica (Paterson, 1974). La professionalità del giudice presenta luci e ombre. Garantisce il massimo di indipendenza, ma allontana il comune cittadino dalla giustizia, che viene da molti percepita come un mondo estraneo da cui scaturiscono provvedimenti, spesso dolorosi, esito di incomprensibili ritualismi. Per evitare questo inconveniente, la maggioranza dei sistemi di giustizia ancor oggi contempla figure di giudici non professionali, che affianca o sostituisce ai giudici professionali. Anche queste figure non costituiscono un insieme sociale omogeneo. A un capo di una ideale linea continua incontriamo soggetti che solo occasionalmente sono chiamati a giudicare, come nel caso, diffusissimo e cruciale per importanza, dei giurati popolari, cui compete, a seconda dei casi, di decidere assieme ai giudici professionali, come nelle corti d’assise italiane o francesi, o autonomamente, come nel sistema americano in cui le giurie formulano un verdetto e al giudice togato spetta di trarne le conseguenze con una sentenza che lo rende esecutivo. All’altro capo, troviamo soggetti, a volte esperti di diritto a volte no, che svolgono continuativamente o regolarmente l’attività giurisdizionale, come i magistrates inglesi e i giudici di pace italiani. L’interesse sociologico del sistema delle giurie è consolidato a partire da un classico della ricerca sociologica d’oggetto giudiziario (Kalven, Zeisel, 1966)7, sebbene ostacolato da difficoltà metodologiche derivanti dalla segretezza delle procedure. I dati disponibili rivelano che i giurati, se lasciati soli, decidono in base a un sentimento di giustizia, più o meno razionale o istintivo, che coincide con la cultura giuridica media di una popolazione, dando maggior rilievo ai fatti rispetto alle categorizzazioni giuridiche. Nel caso di collegi misti, con giurati e giudici togati, l’equilibrio si sposta sulle questioni giuridiche, spesso processuali: i giurati avvertono spesso un timore reverenziale che può influire sulle decisioni. Ma essi sono normalmente la maggioranza e possono quindi decidere contro il parere dei giudici togati. In tali casi, a questi non rimane che trasfondere fra le righe delle sentenze, che essi stessi scriveranno, dei dubbi che diverranno altrettanti segnali per il giudice d’appello affinché riformi la decisione.

I giudici cd. «laici» che svolgono continuativamente la loro attività hanno anch’essi stimolato la ricerca sociologica e suggerito ipotesi di certo interesse. Nel tempo attuale, le loro figure sono espressione di un movimento di giustizia alternativa e informale, cd. «ADR» (Alternative Dispute Resolution), che si è diffuso in molti paesi, come reazione ai vizi della giustizia professionale: ritualismi quasi esoterici, costi esorbitanti, durata eccessiva dei giudizi. Questo movimento è tuttora in piena espansione, ma ha messo in luce una caratteristica peculiare: la tendenza dei giudici non professionali a divenire professionali, a rendere il loro ruolo più stabile e visibile, a diffidare dell’informalità e a dar vita a procedure decisionali più formali e rituali (Abel, 1982; Engle Merry, 1990).

7. Conflitti fra ruoli Le figure professionali sin qui descritte, pur diverse fra loro, coprono lo stesso spazio d’azione sociale. Esse infatti occupano tutte il campo giuridico (Bourdieu, 1986), concorrono al controllo del diritto, attraverso cui possono indirizzare od ostacolare l’azione altrui. È dunque facile comprendere come esse si trovino in conflitto, almeno latente, tant’è che uno dei problemi più ardui che il costituzionalismo moderno ha cercato di risolvere – e non ha mai perfettamente risolto – è consistito nel definire il più rigorosamente possibile le loro aree di rispettiva influenza. Questa delimitazione di confini, si sottolinea, non riguarda solo le figure detentrici di un pubblico potere, come i politici e i giudici, ma anche le figure private, o semi-private, come gli avvocati e i giuristi accademici. Infatti, tralasciando il fatto che il confine fra pubblico e privato non è mai del tutto definito, in quanto è frutto di ideologie normative che cambiano col tempo, è noto che anche i giuristi privi di poteri normativi formali detengono pur sempre poteri sostanziali d’intervento sul diritto. Essi formulano e diffondono interpretazioni, sistematizzano il sapere giuridico, influenzano legislatori e giudici, orientano l’agire dei propri interlocutori, inventano e formalizzano modelli contrattuali, fungono da giudici privati. E in molte epoche e molti paesi – si pensi all’Europa continentale dell’età intermedia – svolgono questi compiti in modo ufficiale o semi-ufficiale. La storia del diritto può essere sociologicamente letta, o riletta, anche in questa chiave, ripercorrendo le fasi di questo conflitto fra ruoli giuridici, tenuto conto preliminarmente di alcune sue caratteristiche peculiari. In primo

luogo, è un conflitto che impegna gruppi sociali privilegiati, anche se l’uno o l’altro di questi possa farsi interprete di istanze provenienti dalla base della piramide sociale: con lessico marxista si potrebbe dire che si tratta di un conflitto non fra classi sociali, ma fra settori diversi di una classe elevata. In secondo luogo, è un conflitto che si esprime in forme simboliche e retoriche. Il simbolismo è imposto dalla natura stessa del materiale giuridico su cui verte, che è simbolico per definizione, e dal fatto più generale che le armi usate dai contendenti consistono in parole e in messaggi inviati non solo all’avversario, ma spesso, soprattutto nel tempo attuale, al pubblico esterno. La retorica dipende dal fatto che l’oggetto del contendere è appunto il diritto, cioè un simbolo che i contendenti presentano in termini positivi, sia che si erigano a difensori del sistema giuridico vigente, sia che si presentino come paladini di un sistema alternativo ritenuto più giusto e più «naturale». In terzo luogo, il conflitto viene condotto ora apertamente fra i duellanti, ora per interposte persone. Esistono ruoli collaterali che fungono da cerniera nei rapporti fra i ruoli principali: eserciti e milizie, polizie, pubblici ministeri, burocrati, dirigenti e militanti di partiti, sindacalisti, banchieri, imprenditori, giornalisti, intellettuali, tutti costoro possono schierarsi più o meno apertamente con gli uni e con gli altri, non necessariamente per tutelarne gli interessi, ma anche e soprattutto in ragione degli interessi più generali che gli uni e gli altri tutelano. Il conflitto fra ruoli giuridici è nient’altro che un riflesso particolare di lotte sociali più ampie. In queste lotte i detentori di ruoli giuridici possono non essere protagonisti: lo sono, nel momento in cui le istanze sociali si traducono in pretese di riconoscimento giuridico. Ogni epoca presenta ben chiare le evenienze di questo conflitto, ma per brevità dovremo concentrarci su pochi esempi, da cui emerge anche l’alternanza dei diversi ruoli nella veste di temporanei vincitori. Per un primo e celebre esempio, si può pensare al momento della crisi finale del diritto intermedio europeo – Inghilterra esclusa – caratterizzato da una pluralità di fonti, fra cui predominava il corpus delle regole «comuni» di origine romanistica, desunte dalla compilazione giustinianea e soggette, nei secoli, ai rimaneggiamenti e alle interpolazioni dei giuristi. In quel mondo si può dire che fossero appunto i giuristi pratici, avvocati privati o consiglieri di un principe, a godere del primato fra «i signori del diritto», in senso sostanziale e anche formale. Soltanto costoro padroneggiavano la complicata rete dei concetti giuridici e, a seconda dell’abilità, potevano appellarsi a questo o a quel responsum per controbattere con successo la tesi avversa e convincere un

giudice. Contro questo elegante mosaico concettuale, reso più complicato dall’interferenza delle fonti legislative di varia origine – dall’imperatore sino al più piccolo feudatario – e dalle prassi giurisdizionali anch’esse variabili e imprevedibili, si erige fra il Seicento e il Settecento la filosofia giuridica illuministica che ne reclama la soppressione e la sostituzione con poche chiare leggi, rappresentative di un diritto naturale, ritenuto espressione della radice antropologica dell’uomo o della sua razionalità. Questa singolare combinazione di giusnaturalismo e di positivismo giuridico conduce a una delle maggiori rivoluzioni nel campo giuridico, cioè all’adozione di codici che nelle intenzioni dei proponenti dovevano condensare il nucleo del diritto e racchiuderlo in uno spazio ben definito, in modo che non sorgessero dubbi o discussioni su ciò che fosse lecito o illecito. Non per nulla, varato il Code Napoléon, il legislatore francese cerca di limitare l’attività dei commentatori. È questo, nell’età moderna, il primo successo del politico-legislatore, che rivendica a sé, come rappresentante del popolo, il controllo totale del campo giuridico, da attuarsi con valenze ora democratiche (Cattaneo, 1966), ora assolutistiche (Tarello, 1976). Quel messaggio illuministico, come noto, non si ferma in Francia, ma si propaga ovunque in Europa. In Inghilterra trova in Jeremy Bentham un profeta che, con la sua visione gius-positivistica, utilitaristica e individualistica, influisce potentemente – «più d’ogni altro corpo di opinioni»8 – sul pensiero dei giuristi e sulla riforma per via legislativa del diritto inglese. Tuttavia, neppure Bentham giunge a scalfire il nucleo più profondo della common law inglese, basata sulla centralità della giurisdizione e sulla vincolatività dei precedenti. Ma ciò che avviene in Germania è, se possibile, ancora più significativo. Qui una figura di giurista, Friedrich Carl von Savigny insorge apertamente contro l’illuminismo e il codicismo, rivendicando il carattere concettuale, dottrinario e consuetudinario del diritto, opponendosi a chi propone di importare al di qua del Reno il fortunato modello francese. Grande esperto di diritto romano, Savigny afferma con forza il primato della scienza giuridica sulla legislazione politica e rivendica come prioritaria rispetto alla codificazione la sistematizzazione concettuale e l’unità degli studi (Savigny, 1814). Su queste basi metodologiche, prende origine da lui la Scuola storica tedesca, che per tutto l’Ottocento, fino all’emanazione del codice civile (BGB) avvenuta nel 1900, rispetterà il primato del concetto giuridico di origine romanistica sulla norma statuita: ovvero, il primato del giurista sul legislatore.

Un altro non meno celebre esempio si incontra negli Stati Uniti, dove avviene un fatto curioso, di grande significato sociologico. In quel sistema di common law, la discussione giuridica parte tendenzialmente da un caso concreto e pertanto s’incentra sul precedente giudiziario che, riguardando un caso analogo, possiede forza vincolante in nome del principio di stare decisis. Ma nella moltitudine di precedenti la selezione del caso analogo non è semplice, tanto meno in un mondo nuovo in tumultuoso mutamento, dove la regola stessa dello stare decisis incontra gravi difficoltà di applicazione. Così avvocati e giudici, nei processi, finiscono per adottare una sorta di casistica guidata, restringendo il campo delle scelte alle raccolte di «casi e materiali» (cases and materials) organizzate dai cattedratici delle grandi law schools con finalità didattiche. Su questi casi, spesso paradigmatici proprio per la loro singolarità, si concentrano discussioni sempre più formali, da cui scaturisce una giurisprudenza ripetitiva che trasfonde meccanicamente nelle sentenze, attraverso operazioni logiche, opzioni interpretative che in realtà provengono dalla dottrina. In questo modo, nella ricerca del precedente, il giudice viene rimosso dal centro della scena che gli compete in un sistema di case law. Questa prassi provoca una reazione da parte di giuristi diversamente orientati, alcuni dei quali insigniti di alte funzioni giudiziarie, che proclamano la libertà del giudice di interpretare ogni caso secondo la sua specificità – i casi, infatti, sono tutti potenzialmente diversi – e di cercare il precedente più idoneo prestando attenzione soprattutto alle conseguenze fattuali delle regole giuridiche che si estrarranno dalla soluzione giudiziale (Holmes [1897], 1920). Si inaugura così un modello rinnovato di scienza giuridica, d’ispirazione antiformalistica, «realistica» e, in una particolare versione, dichiaratamente «sociologica» (sociological jurisprudence) in virtù della dimensione sociale dei fatti prospettati al giudice e delle regole da applicare nel giudizio (White, 1952, pp. 86 sgg.*; Tarello, 1962). Anche qui, dunque, abbiamo una sorta di regolamento di confini, che sposta dapprima l’asse dai giudici ai giuristi, poi nuovamente dai giuristi ai giudici, in pochi decenni. Fra i molti altri esempi possibili, possiamo sceglierne uno tipicamente italiano. Se si esamina l’evoluzione del diritto in Italia negli ultimi decenni, è facile scorgere i segni di un conflitto, non di breve periodo, fra «i signori del diritto». Nel secondo dopoguerra si manifesta una netta contraddizione fra la legislazione ordinaria, emanata dal regime fascista, e la costituzione repubblicana, fondata su principi democratici. In situazione di grave conflitto

politico, determinato dal clima di guerra fredda, il Parlamento non tocca i codici, nucleo sostanziale di quella legislazione, pur impegnandosi nell’emanazione di leggi speciali che nel tempo finiranno per divenire preponderanti. La dottrina giuridica, per lungo tempo, conforta questa tendenza politica conservatrice con argomenti teorici di forte presa. Per esempio, elabora la teoria che distingue fra norme costituzionali immediatamente efficaci e norme costituzionali «programmatiche», di cui viene così giustificata la mancata applicazione, e, in campi caratterizzati da lacunosità legislativa, come quello dei rapporti di lavoro e sindacali, offre argomenti che finiscono per surrogare surrettiziamente la legge lacunosa (Tarello, 1967). Questo precario equilibrio viene rotto dalla giovane generazione di magistrati, che fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, aderendo al nuovo clima politico che culminerà con la cd. «svolta a sinistra», rivendicano la libertà di interpretare la legge ordinaria alla luce dei principi costituzionali. Tale tendenza dichiaratamente antiformalistica si propaga dalla giurisprudenza alla dottrina e si rafforza gradualmente sino a culminare nella teorizzazione, all’inizio degli anni Settanta, del cd. «uso alternativo del diritto», inteso come libera interpretazione della legge secondo gli interessi delle classi meno privilegiate (Barcellona, 1973): una formula che raccoglie solo una minoranza di studiosi e di giudici, ma che indica la rivendicazione di un ruolo predominante della dottrina e della giurisprudenza, rispetto al legislatore, nel dibattito giuridico. Il potere politico – apparente paradosso – non contrasta questa tendenza, anzi l’asseconda per lungo tempo, sino ad assegnare ai giudici, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, eccezionali poteri discrezionali nel campo penale, volti a combattere la violenza politica che in quel periodo dilaga. Le leggi speciali che fra il 1979 e il 1982 offrono condizioni privilegiate ai «collaboratori di giustizia» (i cd. «pentiti») in cambio di informazioni, vanno in questa direzione. Si raggiunge in questo periodo il culmine del potere giudiziario, tanto che – terribile effetto – molti atti di terrorismo politico si dirigono contro i magistrati in virtù precisamente del loro ruolo cruciale. Saranno alcuni settori della magistratura i primi a rivendicare un ritorno ai ruoli costituzionali e uno spostamento delle responsabilità, e dei relativi poteri, verso il legislatore. Anche questo equilibrio è dunque molto precario e si rompe definitivamente quando, all’inizio degli anni Ottanta, la magistratura, soprattutto requirente, appunta l’attenzione sulla corruzione politica facendo uso, spesso discrezionale, degli stessi strumenti eccezionali a sua disposizione,

soprattutto nell’utilizzo delle dichiarazioni dei «pentiti». Qui, con l’appoggio corale dell’avvocatura, si innesta immediatamente una dura reazione del sistema politico, che lancia una campagna volta ad ampliare i limiti della responsabilità civile dei magistrati, rigidamente circoscritta dalla legge. Questa campagna culmina nel 1987 in un referendum, che abroga queste norme limitative e darà luogo a una legge che, pur ampliando l’ambito di responsabilità, rimarrà del tutto inapplicata. Frattanto si giunge alla cd. «vicenda di Tangentopoli», che coglie la classe politica in piena crisi dovuta all’erosione, non prevista, della tradizionale maggioranza di governo. La crisi precipita in un vuoto politico, che esalta per un breve periodo il ruolo della magistratura anche nell’immaginario collettivo: all’inizio degli anni Novanta le facoltà di giurisprudenza sono prese d’assalto da schiere di studenti, molti dei quali aspiranti magistrati. Ma con la riorganizzazione della classe politica, nel corso del decennio, l’asse ricomincia a inclinare verso il legislatore. Tutto l’assetto della giurisdizione viene messo in discussione. L’élite politica reclama la separazione di carriere o quanto meno di funzioni fra giudici e pubblici ministeri; denuncia il ruolo «politico» del Consiglio superiore della magistratura; teorizza una gerarchia fra i tre poteri fondamentali che vede al vertice la legislazione e il governo, in quanto forniti di legittimazione democratica, e in posizione subordinata la magistratura, in quanto priva di tale legittimazione; e perviene nuovamente a proclamare il ruolo puramente applicativo e meccanico del giudice, sino a ipotizzare sanzioni nei casi di interpretazione libera, non letterale, della legge scritta: un’impossibile utopia che Giustiniano e Napoleone avevano già coltivato senza successo9. Altri esempi sarebbero proponibili: fra i tanti, quello del diritto delle Comunità europee, nel quale l’equilibrio si è continuamente spostato, nei decenni trascorsi dal Trattato di Roma, dalle istituzioni politiche ed esecutive – Consiglio dei ministri, Commissione (assai meno il Parlamento) – alle istituzioni giurisdizionali – la Corte di giustizia e dal 1989 anche il Tribunale di primo grado – e da queste a quelle, con prevalenza ora del diritto statuito – regolamenti, direttive – ora del diritto di formazione giudiziaria, che ha contribuito non meno del primo alla costruzione del sistema giuridico comunitario. Anche qui si conferma con chiarezza che nel campo giuridico gli attori principali si disputano continuamente spazi di potere e di intervento.

Note

1 Un innegabile vantaggio del sistema educativo degli Stati Uniti consiste precisamente nel fatto che le law schools siano scuole di secondo grado. 2 Quanto detto a proposito dell’italiano «giurista» può valere anche per il francese «juriste» o per il castigliano «jurista». L’inglese «lawyer», che etimologicamente esprime lo stesso concetto generale di «giurista», viene usato pressoché ovunque per designare l’avvocato, sia pure in una vasta accezione del termine, mentre «doctrinal writer» e «legal analyst» esprimono l’idea del giurista accademico e «jurist», infine, esprime spesso quella di teorico generale del diritto. 3 In Italia, dopo l’introduzione nel 1993 di una legge elettorale quasi-maggioritaria, il numero dei partiti rappresentati in Parlamento, anziché diminuire, è cresciuto a dismisura. 4 Questo difetto è stato riscontrato in passato anche nel sistema maggioritario ritenuto più perfetto, quello britannico. 5 Per averne un’idea, si rileggano le orazioni dei retori greci, per esempio di Lisia, con l’occhio dell’avvocato o del giudice. 6 Questa tipologia delle modalità di soluzione delle dispute può essere espressa con l’acronimo ANMAG (Abbandono, Negoziato, Mediazione, Arbitrato, Giudizio). Fra le ipotesi socio-giuridiche più interessanti vi è quella che individua una relazione fra queste diverse modalità da un lato e, dall’altro, i diversi tipi di disputa, le relazioni fra i contendenti e i contesti sociali in cui la disputa si svolge. 7 Cfr., recentemente, le testimonianze di giurati raccolte in AA.VV. (2002). 8 Così Albert V. Dicey, nel corso delle sue lectures del 1905 su diritto e pubblica opinione nell’Inghilterra del XIX secolo (Dicey [1904, 1914], 1930, p. 69). 9 Sui conflitti fra ruoli giuridici nelle vicende politiche italiane la letteratura è vastissima: cfr. per esempio Cazzola, Morisi (1995); Bruti Liberati, Ceretti, Giasanti (1996); Pizzorno (1998); Berti et al. (1998).

Capitolo sesto. Diritto e opinioni

1. Un rapporto biunivoco Quando la sociologia del diritto iniziò ad affermarsi come disciplina accademica autonoma, fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo XX, il tema delle conoscenze e delle opinioni sociali sul diritto parve uno dei più importanti e promettenti. Presero così avvio vari studi, spesso etichettati con l’acronimo KOL (Knowledge and Opinion about Law), diretti a misurare, in diverse realtà culturali e sociali, gli atteggiamenti verso istituti del diritto o verso comportamenti ad essi riferiti (Kutschinsky, 1970; Podgórecki et al., 1973; Giasanti, Maggioni, 1979). Da questi studi, pur frammentari, uscirono informazioni preziose sui prevalenti atteggiamenti sociali in molti campi significativi, come i rapporti familiari, la devianza economica ed ecologica, il dissenso politico, l’obbedienza e la disobbedienza alla legge. Per ragioni varie però – non ultime, alcune critiche teorico-metodologiche – questa vena si inaridì, pur con rimarchevoli eccezioni1. Tuttavia, il tema è cruciale. Fra i motivi che inducono a rispettare o a violare le prescrizioni giuridiche, non sono affatto secondari quelli derivanti dall’immagine sociale del diritto, i quali sono spesso all’origine di importanti eventi storici. E lo studio di questi motivi coinvolge rilevanti problemi teorici, spesso affrontati nella storia della sociologia del diritto. Il rapporto fra diritto e opinioni è biunivoco. Il diritto influenza le opinioni individuali e collettive, e queste, a loro volta, influenzano la formazione e la pratica del diritto. Questa reciproca influenza si dispiega e si rivela soprattutto sul terreno della cultura giuridica. Con questo concetto, che ha suggerito varie definizioni (Friedman, 1975; Nelken, 1997; Pennisi, 1998; Nelken, Feest, 2001), si può intendere il complesso di cognizioni, idee e valori attraverso cui gli attori sociali selezionano, interpretano, concettualizzano e organizzano le informazioni concernenti il diritto e le traducono in stimoli, impressioni, convinzioni e, eventualmente, azioni giuridiche, cioè pretese sorrette da una forte e peculiare giustificazione normativa, cioè da una forte legittimazione.

L’analisi che segue sarà precisamente dedicata a esaminare in qual modo, attraverso il filtro della cultura giuridica, si esplica il rapporto fra diritto e opinioni. Per necessità scinderemo il ragionamento in due parti distinte, esaminando prima l’influenza del diritto sulle opinioni e successivamente il rapporto inverso, cioè l’influenza delle opinioni sul diritto.

2. Dal diritto alle opinioni Il diritto – si ricorderà – è un sistema di norme enunciate in forma di messaggi, diffusi presso uditori di varia natura e ampiezza. Si tratta qui di analizzare come avvenga questa diffusione e quali effetti produca sul pubblico dei ricettori. Una premessa è necessaria. Sia nelle società che producono diritto statuito, attraverso processi legislativi, sia e ancor più in quelle che adottano un diritto consuetudinario, radicato nel corso di generazioni, i messaggi giuridici non incontrano, nel loro percorso, una tabula rasa. In generale, la cultura non solo preesiste a ogni atto di comunicazione e, come già accennato, gioca un ruolo decisivo nel determinarne la ricezione, ma si presenta, altresì, come una complessa struttura di reti interconnesse entro cui i messaggi vengono continuamente riflessi e reinterpretati. I mezzi di comunicazione istituzionali, in particolare quelli di massa, sono solo una parte, sia pure rilevante, di questa struttura, di cui fanno parte anche molti altri media, interpersonali o di gruppo. La cultura giuridica di una popolazione, dal canto suo, presenta caratteri peculiari. Da un lato, affonda le radici nel mondo dei valori e del sentimento morale, con cui frequentemente si confonde: la distinzione fra diritto e morale, infatti, è una tipica, e mai del tutto assorbita, acquisizione della modernità occidentale e della cultura sofisticata. Dall’altro lato, tocca nel vivo il campo degli interessi, direttamente o indirettamente, non solo per coinvolgimento, ma anche per emulazione, imitazione, opposizione. La notizia del fallimento di una grande impresa, che travolge migliaia di lavoratori e di risparmiatori, sollecita emozioni generali, non solo da parte dei soggetti che ne hanno tratto svantaggi o vantaggi. In breve, i messaggi giuridici toccano almeno potenzialmente corde abbastanza sensibili della psiche umana. Tutto ciò non significa che le norme giuridiche, una volta entrate nel circuito comunicativo, non possano produrre anche drastici mutamenti di opinione, oltre che comportamentali. Ma, poiché il loro impatto è sempre

filtrato da sistemi percettivi che combinano elementi di comprensione con elementi di valutazione, la loro attitudine ad influenzare le opinioni, e soprattutto a modificarle, dipende fortemente dall’abilità di chi li formula e li emette – che possiamo definire i media della comunicazione giuridica – a penetrare questo sistema e a graduare l’espressione secondo le capacità di comprensione e i prevedibili atteggiamenti di coloro cui ci s’indirizza. Anche i media della comunicazione giuridica, come già ricordato, possono essere individuali o di massa. Fra i primi, come ovvio, si annoverano gli esperti di diritto, soprattutto coloro che fungono da tramite fra cittadini e istituzioni formali, cioè avvocati, notai, giuristi accademici. Nell’interagire col pubblico costoro non solo si fanno latori di messaggi indirizzati deliberatamente a in-formare, cioè ad influire su un campo di opinioni modificandole, ma altresì svolgono opera di mediazione culturale, non diversamente, mutatis mutandis, da un traduttore linguistico. Infatti i giurisperiti sono depositari e tutori di quella cultura giuridica interna che si caratterizza per un alto grado di tecnicità e di autoreferenzialità, sia sul piano semantico e lessicale, sia su quello pragmatico. Essi sono chiamati non solo a svelare o chiarire i significati degli enunciati normativi e dei fatti concreti che ad essi si rapportano, ma a formulare previsioni su come altri soggetti, per esempio giudici, si comporteranno in relazione a quei significati e alle altre variabili che influiscono sui processi decisionali. Di questo complesso sistema di significazione e d’azione chi non è giurista di formazione stenta a impadronirsi, soprattutto se coinvolto solo occasionalmente in rapporti giuridici poco più che elementari. Sarebbe però un grave errore restringere solo ai giuristi il ruolo di media individuali della comunicazione giuridica. Il processo di socializzazione che riguarda gli esseri umani soprattutto in giovane età consiste in gran misura nell’apprendimento di modelli comportamentali, molti dei quali hanno natura giuridica: si pensi al rispetto per l’autorità parentale o scolastica, al principio del neminem laedere, alla condanna degli atti di vandalismo. Dietro questa normatività esplicita, esiste poi un campo di cognizioni e di valori sociali che rappresentano il retroterra di ogni sistema giuridico: la solidarietà familiare, i concetti di giusto e di ingiusto, di colpa e di peccato, la dimestichezza con la natura circostante, il rispetto delle istituzioni e dei riti. Tutto ciò concorre a formare le opinioni giuridiche, anzi, normalmente quelle più resistenti sull’arco di una vita, ed è trasmesso in forme normative, spesso col supporto di sanzioni, da attori sociali istituzionali che non sono, se non casualmente,

giuristi: genitori, parenti, insegnanti, sacerdoti. Il modo con cui operano questi soggetti nella formazione delle opinioni giuridiche e il risultato della loro azione, benché raramente studiati, presentano grande interesse per la sociologia del diritto2. Nelle società tradizionali, soprattutto se a basso indice di scolarità, la formazione delle opinioni attorno al diritto è scaturita per secoli, essenzialmente, dall’azione di questi attori sociali singoli, giuristi o non giuristi. È stata cioè soprattutto un fatto di comunicazione interpersonale, graduata nella quantità e nella qualità dei messaggi lungo la scala della stratificazione sociale. A partire dall’invenzione della stampa, con la diffusione dei giornali e successivamente con la scolarizzazione diffusa, anche il campo d’azione giuridico è divenuto oggetto di comunicazione collettiva e i media di massa hanno iniziato a svolgere un ruolo rilevante in questo processo comunicativo. La comunicazione attraverso i mass media è oggetto di una letteratura sterminata, che però solo in tempi recenti ha iniziato ad affrontare il tema specifico della trasmissione dei messaggi di contenuto giuridico. Con le inevitabili peculiarità che la caratterizza, si può studiare questo tipo di comunicazione con gli stessi parametri che valgono in generale, per quanto riguarda sia le modalità con cui essa si svolge, sia gli effetti che esplica sulle opinioni. Le modalità della comunicazione dipendono anzitutto dal fatto che essa avviene secondo regole tecniche che, in buona misura, entrano in gioco come variabile indipendente, determinante per il senso stesso dei messaggi, come suggerisce il celebre aforisma di Marshall McLuhan: «il mezzo è il messaggio» (McLuhan, 1964, p. 31*). Queste regole rappresentano il criterio di riconoscimento della categoria professionale giornalistica, che sulla loro interiorizzazione e sul loro rispetto fonda gran parte della sua stessa identità. I giornalisti sono depositari delle regole tecniche della comunicazione di massa quanto lo sono i giuristi riguardo alle regole giuridiche, e per di più devono rispondere della loro applicazione a superiori gerarchici in strutture aziendali molto complesse, le imprese editoriali. Le regole di cui si tratta riguardano il modo con cui il messaggio viene confezionato in rapporto alle finalità perseguite con la sua diffusione. Così nel giornalismo scritto il messaggio è funzione, da un lato, di scelte politico-informative che influenzano la determinazione degli spazi, la collocazione nel giornale e nella pagina, i caratteri grafici, gli eventuali supporti iconici; dall’altro, di corrispondenti

scelte espressive – semantiche, lessicali, «combinatorie» delle singole unità informative – che investono non solo il testo scritto da un giornalista, ma anche, e usualmente ad opera di un altro giornalista, la titolazione (Dardano, 1986, pp. 45-46). Altrettanto, con le ovvie diversità, avviene nel giornalismo radiofonico, con l’aggiunta della voce, che varia a seconda del timbro, del tono, dell’enfasi. Nel giornalismo televisivo, infine, a tutti questi elementi si aggiunge con tutta la sua potenza un’immagine che non è fissa come la fotografia, ma in movimento e che, per questo, attira e spesso assorbe l’attenzione dello spettatore favorendone la passività e distogliendolo dal contenuto del testo, spesso non corrispondente all’immagine se non per associazione generica3. Tutto ciò confluisce in quella che potremmo chiamare la regola aurea della comunicazione giornalistica: la selettività, sia nella scelta dei fatti di cui riferire, sia nella loro trasformazione in notizia. Così molti fatti di potenziale interesse semplicemente scompaiono dalla scena: ignorare qualcosa è l’espressione della massima discrezionalità informativa. Altri fatti, ridotti a notizia, vengono riferiti, ma il loro impatto dipende dalla collocazione, misurabile su alcune note scale: «evidenza-occultamento, dilatazione-contrazione, collegamento [con altre notizie]-isolamento» (Dardano, 1986, p. 50). Le regole giornalistiche attingono linfa da una cultura professionale orientata secondo l’effetto che si vuol produrre sui lettori e che si crede – a ragione o a torto – che sarà prodotto. Naturalmente vi sono forti differenze da una testata all’altra, dipendenti da diverse variabili. Secondo il pubblico dei lettori di riferimento, le testate si collocano lungo una scala che va dal tecnicismo al sensazionalismo4. Secondo la linea politica, procede dall’indipendenza (mai totale) alla dipendenza (che, invece, può essere totale e formale, da un proprietario o da un partito). Secondo la dimensione, va dall’internazionalismo di una «New Herald Tribune» o di un «BBC World Service» al localismo delle gazzette o delle televisioni di provincia. Tutto ciò influisce sulle notizie in modo tanto determinante da suggerire la conclusione – mille volte ripetuta – che i media di massa non tanto riferiscono sulla realtà, quanto piuttosto la costruiscono, ingenerando un’omogeneità di opinioni temperabile soltanto con l’accesso dei fruitori a una molteplicità di fonti di diversa ispirazione: ma sono rari (specialmente in Italia) coloro che si informano su più fonti, soprattutto straniere. La rilevanza di tutto ciò sulla formazione delle opinioni giuridiche è palese. La maggior parte dei cittadini viene informata di questioni giuridiche

esclusivamente dai mass media, in particolare la televisione. Riceve quindi notizie selezionate e confezionate in base alle esigenze preponderanti del messaggio e degli orientamenti, e interessi, di chi lo formula o lo ispira. E rispetto alla complessità tecnica del diritto, riceve notizie drasticamente semplificate e, in molti casi, deformate. La deformazione non è necessariamente deliberata, anche se i casi di falsificazione non sono rari, ma dipende spesso dal fatto che la cultura giornalistica funge, appunto, da inconsapevole specchio deformante. Per esempio, ricorre abbondantemente ai cd. «clichés», stereotipi suggeriti dalla fantasia espressiva che s’insinuano nel linguaggio fino a diventare comuni pur difettando di precisione: si pensi a espressioni come «pretori d’assalto», «covi eversivi», «porto delle nebbie» e, soprattutto, «pentiti», che hanno dominato per anni nel linguaggio mediatico italiano d’oggetto giuridico. Inoltre, se non sorretta da adeguate conoscenze tecniche, possiede degli istituti giuridici una visione peculiare. Alcuni vengono mitizzati5, altri fraintesi, con risultati a volte abnormi6. Significativa anche la diffusione di espressioni e concetti stranieri. Dalla sovrabbondanza di film americani d’oggetto giudiziario nei programmi televisivi italiani sono scaturiti l’uso comune di «custodia» di minore, anziché di «affidamento», e di «compagnia», anziché di «società commerciale», la sensazione diffusa che il divorzio debba essere «concesso» da un coniuge all’altro, mentre la legge italiana ne conferisce il diritto a certe condizioni, e soprattutto una concezione adversarial del processo, che non ha giocato un ruolo secondario nel preparare la strada all’emanazione del codice di procedura penale del 1989 e all’introduzione nel nostro sistema di un istituto come il patteggiamento delle pene fra imputato e pubblico ministero. Tutt’altro che trascurabile è la diversa attenzione che i media prestano ai diversi settori della vita giuridica. In un sistema di diritto legislativo, come quello italiano, la stampa e la televisione incentrano l’attenzione soprattutto sull’attività giurisdizionale. Ciò è ovviamente spiegabile in virtù della fisica concretezza dei casi giudiziari, che «fanno notizia», di fronte all’astrattezza e generalità della legislazione. Tuttavia, induce a relegare sullo sfondo provvedimenti normativi generali anche importanti, soprattutto se di provenienza comunitaria. Riguardo all’Unione Europea, i media italiani, salvo eccezioni, ignorano alcuni fondamenti essenziali del suo sistema giuridico, come la supremazia del diritto comunitario rispetto a quello nazionale, la diretta applicabilità dei regolamenti e delle direttive del Consiglio, financo l’esistenza di alcune istituzioni, come il Tribunale di primo grado o il

Comitato economico e sociale. Altri istituti, come il cd. «principio di sussidiarietà», rilanciati da alcune sedi politiche, sono trattati alla stregua di stereotipi e non adeguatamente rappresentati nel loro significato e nei loro usi. Per contro, l’attenzione dei media convoglia sulla magistratura un fascio di luce che moltiplica le aspettative sociali e politiche rispetto alla sua azione. Il fenomeno, incandescente negli ultimi due decenni, è in realtà antico e non certo limitato all’Italia7. Qui, ben prima che esso esplodesse e portasse con sé un sovraccarico di servizi giornalistici sui grandi processi, un’esemplare ricerca, condotta su alcuni film d’oggetto giudiziario, aveva rivelato che alcune pellicole propagavano con successo un’immagine di giudice ben diversa da quella ufficiale, ma di forte presa popolare: il giudice non come interprete della legge, ma piuttosto come «interprete del conflitto sociale», dispensatore di giustizia sostanziale anche oltre la legge formale (Tomeo, 1973). Ma questa tendenza ha luci e ombre. Contribuisce ad avvicinare al pubblico il mondo della giustizia, rendendolo più familiare e meno esoterico. Per contro, induce i magistrati stessi a cercare visibilità mediatica e i cittadini, dal canto loro, a scorgere nel giudice un arbitro del diritto molto più discrezionale di quanto non sia realmente e a indirizzare sulla magistratura, a seconda dei casi e delle ideologie, lodi o critiche eccessive8, fino ad atti di intimidazione e, in casi estremi, anche di violenza. Conclusivamente, se è vero che le notizie giuridiche vengono sempre filtrate e rielaborate da preesistenti sistemi culturali, cognitivi e valutativi, è anche vero che i mezzi di informazione di massa influiscono non poco – e sempre più – sull’immagine, appunto, massificata del diritto, fino a «dare le vertigini e a rendere irreale la realtà» (Supiot, 1990, p. 295). Naturalmente questa conclusione è estrema. Esistono una buona e una cattiva informazione e la differenza dipende dall’educazione civica e dalla pratica delle libertà fondamentali. Fra queste spicca la libertà di informazione, che è garantita in Italia dall’art. 21 Cost. e su cui però grava un sottile ma tenace equivoco. Infatti per «libertà di informazione» s’intende comunemente solo la libertà di informare, cioè di fondare, organizzare e gestire fonti di informazione. Tuttavia nei settori più delicati, quello televisivo soprattutto, il successo di un’impresa di comunicazioni dipende dalla disponibilità di spazi – le frequenze – e di rilevanti risorse economiche. Ciò favorisce la formazione di monopoli, arginabili solo attraverso una regolamentazione severa che non può che avere origine politica. Solo se si parte dalla considerazione che la libertà costituzionale di informare ha senso esclusivamente in quanto esiste

correlativamente e primariamente la libertà costituzionale dei cittadini di informarsi, attingendo a molte fonti differenziate, questa regolamentazione può avere un’impronta pluralistica e diffondere una conoscenza critica delle istituzioni giuridiche e del loro uso da parte dei pubblici poteri.

3. Dalle opinioni al diritto Che il diritto dipenda dalle opinioni sociali può sembrare un’ovvietà. Si è già ricordato che almeno nelle norme e negli istituti fondamentali ogni sistema giuridico riflette il sentimento morale comune. Inoltre, gli studiosi hanno spesso insistito sul fatto che persino nelle relazioni sociali più squilibrate la parte dominante deve poter contare entro certi limiti sul consenso e sulla cooperazione della parte dominata. La questione, peraltro, è essenzialmente di qualità e di misura. Il diritto può rappresentare alcune opinioni e non altre, aderire alle idee e alle aspirazioni di una maggioranza o di minoranze influenti, essere aperto agli stimoli provenienti dai governati o dipendere esclusivamente, o prevalentemente, dalla volontà dei governanti. Molte utopie e anche molte dottrine giuridiche hanno coltivato l’idea che la legge debba discendere dall’alto, un demiurgo o un sovrano, individuale o collettivo, dichiaratosi interprete insindacabile del benessere dei cittadini o dei sudditi. Lo stesso illuminismo, pur fondato sulla centralità dell’uomo e della sua ragione, ha predicato a volte la democrazia, a volte l’assolutismo: anche l’idea di un diritto esclusivamente legislativo e codificato riflette, a volta a volta, entrambe queste posizioni. Il tema della democrazia è in effetti il perno attorno a cui ruota ogni moderna riflessione su questo argomento. Quasi simbolicamente, si collocano su questa linea due opere uscite in Inghilterra a mezzo secolo di distanza l’una dall’altra. Nella prima, un giurista dell’età vittoriana, Albert V. Dicey, si propone di «dimostrare la stretta dipendenza della legislazione, e perfino dell’assenza di legislazione, in Inghilterra durante il XIX secolo, dalle diverse correnti di opinione» (Dicey [1904, 19142], 1930, p. 1). La visione dell’autore è orgogliosamente anglocentrica. Egli dà atto, citando alcuni pensieri di David Hume, di quel grado di fisiologica corrispondenza che ovunque esiste fra diritto e opinioni, ma tiene a distinguere quei pochi paesi in cui l’opinione pubblica è libera di farsi udire ed esercita una positiva influenza sul legislatore. Fra questi paesi, egli dice, l’Inghilterra svetta, smentendo il luogo comune per cui sarebbe, rispetto ad altri, inguaribilmente conservatrice. La public opinion,

dapprima individualistica e liberale, poi tendenzialmente «collettivistica» e democratica, avrebbe influito sul Parlamento in modo tale che l’intero diritto inglese, continuamente aggiornato per via legislativa, ha mutato profondamente faccia in molti settori vitali – libertà individuali, commercio, lavoro – malgrado la resistenza vittoriosa del diritto casistico e giudiziario contro l’ideale europeo continentale della codificazione: di cui Dicey non manca di osservare gli effetti, a suo dire, paralizzanti (ivi, p. 7). Nel secondo libro, uscito nel 1959 a cura di Morris Ginsberg, sociologo della London School of Economics, si riprende il discorso di Dicey con l’ausilio di noti specialisti e si mette in luce come un’opinione pubblica ispirata a valori ugualitari abbia da un lato spinto il legislatore a procedere sempre più avanti sulla strada del welfare state, ma dall’altro rifletta, anche nelle sue divisioni interne, posizioni più aperte e informali, precorrenti quella che sarebbe stata chiamata la post-modernità (Ginsberg, 1959)9. Come si forma un’opinione sociale sul diritto e come si propaga in modo da ottenere udienza e riscontro presso il sistema politico? La risposta potrebbe prendere le mosse dalla visione classica delle democrazie liberali, secondo cui alla base delle società si percepiscono delle esigenze, queste esigenze vengono concettualizzate, sono fatte proprie in forma di aspettative da gruppi organizzati (interest groups) che le solidificano in opinioni formali e le canalizzano in forma di istanze nei partiti politici, i quali, operando da gruppi di conflitto (conflict groups), le filtrano e le trasmettono al legislatore (Dahrendorf [1957], 19592). Questa descrizione non è scorretta, in quanto riproduce quello che è appunto il cammino istituzionale delle istanze politiche. Tuttavia, essa rappresenta il lato formale delle cose e va integrata da alcuni elementi sostanziali, che ne delimitano la validità, pur senza pregiudicarla interamente. In primo luogo, non può darsi per scontato che le esigenze vengano percepite alla base di una società in modo del tutto libero e spontaneo. In molti casi è così, per esempio nella sfera della vita familiare, soprattutto quando viene direttamente intaccata da eventi esogeni di rilievo, come un improvviso aumento dell’inflazione. In molti altri casi, tuttavia, la percezione dei bisogni è il frutto di un’interazione più complessa, che può avere andamento circolare, dalla base ai vertici e viceversa, e anche puramente discendente: per esempio, il senso di insicurezza derivante da episodi di criminalità dipende fortemente dall’enfasi con cui questi sono trattati dai media (Mosconi, 2000). Nelle società cd. «opulente», infatti, molti bisogni sono

indotti dall’azione di coloro che saranno chiamati a soddisfarli. Il sistema mediatico, appena descritto, funge da cassa di risonanza di molte esigenze che primariamente partono da quei gruppi sociali privilegiati che vi hanno accesso e soprattutto da coloro che li controllano. Che costoro possano farsi interpreti di sensazioni già percepite più o meno confusamente da una cittadinanza, è senz’altro vero. Ma è altrettanto vero che, in questi casi, è proprio il riconoscimento mediatico ciò che trasforma quelle sensazioni in opinioni. Che questi rilievi siano fondati, lo conferma una lunga tradizione di studi, soprattutto di mercato, da cui emerge come i bisogni sociali siano in gran misura «creati» dalla pubblicità dei prodotti. Non meno, lo confermano indagini e riflessioni sociologiche afferenti al campo politico e giuridico che ci interessa. In un libro del 1956, Charles Wright Mills, sociologo americano di ispirazione radicale, dedica alcune pagine alla «trasformazione del pubblico in massa», un tema già trattato da altri autori nei decenni precedenti10 e anticipato nell’Ottocento dalle celebri analisi di Alexis de Tocqueville nel suo De la démocratie en Amérique (1835-1840). «Pubblico» e «massa» sono per Mills due entità sociali ben distinte. Quanto al primo, vi è – egli dice – sostanziale parità numerica fra coloro che esprimono le opinioni e coloro che le subiscono; le comunicazioni sono organizzate in modo che qualunque opinione espressa pubblicamente possa essere discussa e contraddetta; le opinioni nate dalle discussioni possono sfociare in azioni efficaci; infine, gli organi di governo «non penetrano nel pubblico, che pertanto agisce in maniera più o meno autonoma». Quanto alla seconda, vi è una fondamentale disparità numerica fra coloro che esprimono un’opinione e coloro che la subiscono; la comunicazione è organizzata in modo tale da impedire la discussione e la confutazione; «il passaggio dall’opinione all’azione è controllato dall’autorità»; infine, la massa non è autonoma, perché in essa «penetrano, anzi, gli agenti dell’autorità, riducendo irrimediabilmente le possibilità degli individui di formarsi un’opinione attraverso la discussione» (Mills, 1956, pp. 318-20*). Le posizioni di Mills vengono ribadite, pochi anni più tardi, da Jürgen Habermas, sociologo e filosofo tedesco, in un libro dedicato esplicitamente all’opinione pubblica che, dopo una lunga ricostruzione storica, termina denunciando il carattere fittizio di questo concetto e proponendone la «dissoluzione». L’autore contrappone «due campi di comunicazione politicamente rilevanti: da un lato il sistema delle opinioni informali,

personali, non-pubbliche; dall’altro il sistema delle opinioni formali e istituzionalmente autorizzate». Nota come le opinioni non-pubbliche siano decisivamente influenzate dai «luoghi comuni» dell’industria culturale, mentre le seconde hanno carattere «quasi-pubblico», in quanto possono formarsi e circolare in ambiti sociali privilegiati e ristretti, e ricondursi a «istituzioni ben determinate». L’unica possibilità di integrazione fra i due campi è legato all’esistenza di un «terzo campo», quello della «mediazione critica», possibile «solo con la partecipazione dei privati a un processo di comunicazione formale condotto attraverso gli elementi pubblici interni alle organizzazioni», come i partiti e le associazioni (Habermas, 1962, pp. 291-92*). Nel puntare lo sguardo sull’associazionismo politico, Habermas coglie senz’altro nel segno: in particolare il partito è alla base di tutti i sistemi costituzionali moderni, non soltanto democratici, quale cinghia di trasmissione delle istanze che dalla società estesa si dirigono ai vertici delle istituzioni pubbliche. Tuttavia, pur in un libro già così pessimistico, la sua posizione sul punto risulta fin troppo ottimistica. Innumeri studi politologici hanno infatti messo in luce la tendenza dei partiti nelle società massificate ad assumere una configurazione strutturale che rende sempre più difficile lo svolgimento di questa funzione istituzionale. Accanto ai leader, e di supporto a questi, i partiti tendono a privilegiare i ruoli funzionariali rispetto a quelli creativi e quindi a far crescere strutture burocratiche dedite soprattutto all’autoconservazione. Soprattutto nei momenti di crisi economica, queste strutture tendono – come già accennato – a monopolizzare per sé gli scambi con i vertici politici e ad isolarsi dalla società esterna. Il fenomeno è vistoso nei regimi totalitari a partito unico, ma anche nelle società democratiche si è presentato, nella seconda metà del Novecento, in modi evidenti. Ne è scaturita una crisi generale della cd. «forma-partito», divenuta particolarmente acuta man mano che la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, soprattutto la televisione, imponeva cambiamenti radicali nei ritmi, nelle forme e nelle sedi stesse della lotta politica, trasferita sugli schermi dalle piazze e dai luoghi di lavoro. Questo fenomeno, avvertito in molti paesi europei – i partiti nord-americani hanno altre caratteristiche – ha assunto in Italia proporzioni particolarmente ampie (Cermel, 2003). In questa realtà, alcuni movimenti hanno accentuato la loro chiusura elitaria e operato sulla base sociale soprattutto mediante operazioni di immagine: in questi casi l’induzione artificiale di bisogni e di opinioni è divenuta strategica. Altri movimenti hanno cercato un contatto con la base, operando bensì

attraverso i media, ma individuando forme di aggregazione diretta del consenso. Questa strategia si presenta con due diverse forme. La prima è quella del referendum, istituto di democrazia diretta di grande suggestione perché permette a un universo di elettori di esprimere una volontà vincolante per i pubblici poteri su argomenti, spesso, di grande rilevanza giuridica: si pensi, per l’Italia, al divorzio, all’aborto, alla responsabilità dei magistrati, alla tutela dell’ambiente. Ne emergono, come vedremo, significative spie del consenso o del dissenso sull’azione di governo. Accanto ai suoi pregi, non possono tuttavia tacersi i limiti dello strumento referendario. Da un lato, esso impone di semplificare rudemente – con la secca alternativa sì-no – problemi a volte molto complessi, che esigerebbero conoscenze specialistiche e decisioni articolate. Dall’altro, l’iniziativa referendaria proviene pur sempre, di regola, da settori della stessa classe politica. Ogni partito vi prende posizione cercando di volgere il voto a proprio favore, così strumentalizzando il tema in discussione e contribuendo a sminuire o perfino frustrare il significato dell’espressione popolare. L’altra forma tipica della comunicazione diretta, anch’essa sempre più popolare in Italia (Rinauro, 2002), è il sondaggio d’opinione, con cui non si interroga un universo, ma un campione di popolazione, traendone informazioni e suggerimenti. Il sondaggio permette di rivolgere al pubblico domande più articolate di quelle referendarie e di tastarne il polso con frequenza. Non per nulla esso non è solo un mezzo di comunicazione politica, ma anche una tecnica consolidata di ricerca sociale, soggetta al rispetto di precise regole metodologiche. Anche questo strumento, naturalmente, presenta dei limiti. I dati che ne emergono, in primo luogo, possono rivelarsi fallaci. Nella storia dei sondaggi elettorali, che offrono subito il riscontro del voto, non sono rari i casi di fallimento delle previsioni: proverbiali quelli dell’elezione del presidente degli Stati Uniti nel 1936 e delle elezioni politiche in Gran Bretagna nel 1992. In secondo luogo, non va trascurato il rischio di manipolazioni. Come per il referendum, l’iniziativa del sondaggio proviene normalmente, se non dai vertici dell’élite politica, da sue diramazioni, o da settori potenti della società civile: imprenditoria, grandi giornali, grandi sindacati. Influenzati da questi centri di potere, i ricercatori possono indirizzare le risposte degli intervistati formulando le domande in modo acconcio o ponendole in un ordine che induca risposte ripetitive (il cd. effetto di traino). In questo caso, paradossalmente, il campione fornirà della

pubblica opinione un’immagine che, pur essendo fallace, provocherà dei mutamenti nella stessa opinione pubblica. Così alla fine questa non influenzerà il potere, ma piuttosto ne sarà influenzata. Con tutto ciò, non si intende certo sostenere che le opinioni sociali, da cui il diritto dovrebbe trarre alimento e legittimazione, siano una mera finzione in virtù della loro fragilità, disorganizzazione e, quindi, manipolabilità da parte dei titolari del potere politico e mediatico. La questione è ancora un fatto di grado e di misura, sempre dipendente dalla pratica delle libertà. Come nel caso dell’influenza del diritto sulle opinioni, così anche nel caso inverso dell’influenza di queste sul diritto, è cruciale la libertà di informazione che, ovviamente, è soprattutto libertà dei cittadini di accedere a fonti differenziate per farsi sentire, non solo per sentire.

4. Opinioni e obbedienza alla legge Si è già ricordato che sono molte le motivazioni che inducono a obbedire alla legge (cfr. supra, pp. 91-92). Si obbedisce per scelta morale di fondo perché l’ordine giuridico è un bene più importante anche delle proprie opinioni più radicate: è la scelta di Socrate, che rifiuta la fuga e, innocente, accetta la condanna a morte, o di San Tommaso, che la motiva in un famoso passo della Summa Theologiae, o di quegli ebrei, di cui parla Primo Levi in Se questo è un uomo, che «per mettersi in ordine con la legge», nel 1943, affluiscono spontaneamente al campo di raccolta consegnandosi alle truppe che li deporteranno nei luoghi di sterminio (Levi, 1974, p. 12). Si obbedisce, altresì, per paura di una sanzione negativa, o perché allettati da una sanzione positiva, eventualmente dopo aver calcolato più o meno lucidamente rischi, vantaggi e svantaggi. Si obbedisce anche perché l’ordine di obbedire proviene da un’autorità, legittima o perfino illegittima, senza neppure porsi il problema se quell’ordine fosse, esso stesso, legittimo: è questa la posizione più comune degli imputati di crimini di guerra, dai processi di Norimberga degli anni Quaranta a quelli odierni, davanti al Tribunale penale internazionale dell’Aja. Fra le motivazioni che inducono a obbedire alla legge, le opinioni sono dunque una variabile accanto ad altre, forse neppure la principale. Ragionando a contrario, si nota infatti che molti episodi di disobbedienza o, se si preferisce, di devianza, non sono dovuti a un’opposizione convinta verso la legge trasgredita, ma ad altri motivi: ancora il calcolo, naturalmente, e in molti casi l’arroganza, la deliberata volontà e persino il piacere di violare una norma

che pure si considera giusta, o di nuocere ad altri, come accade con gli atti vendicativi, vandalici o semplicemente «gratuiti». Pur senza essere determinanti, tuttavia, le opinioni non sono certo irrilevanti nell’indurre a obbedire o a disobbedire. Si può supporre che solo una minoranza di soggetti – anche se non del tutto esigua11 – sia disposta a obbedire sempre e comunque alla legge, pur se ritenuta ingiusta. Per la maggioranza delle persone vi sono recessi della coscienza in cui nessun legislatore, giudice o giurista può penetrare, dettando una regola e pretendendone l’incondizionato rispetto. Recessi in cui anche il prestigio del diritto, il senso del dovere, la considerazione dell’ordine superiore o della pace sociale cedono il passo all’obiezione. Obiezione di coscienza, appunto, che può indurre alla disobbedienza civile. Il tema ha solidissime radici nella filosofia politica moderna12, perché si riallaccia a due questioni di grande rilievo: in primo luogo, la tutela delle diversità e delle minoranze; in secondo luogo, il concetto e la pratica della democrazia. Dal primo punto di vista ci si chiede sino a che punto sia legittimo per un governo pretendere dai cittadini omogeneità di idee e di comportamenti, anche in un sistema democratico che permette il libero confronto delle opinioni. Dal secondo punto di vista, ci si chiede se un certo grado di disobbedienza non trovi sempre giustificazione nel fatto che nessuna democrazia è perfetta: abbiamo appena visto che proprio la formazione e la canalizzazione delle opinioni nel sistema politico incontra comunque delle difficoltà. Argomenti di questa natura hanno condotto il pensiero liberale, da Locke in poi, ad ammettere entro certi limiti la disobbedienza e a concettualizzarla in termini di diritto soggettivo, spesso definito come diritto di resistenza. In tempi recenti, questa posizione ha trovato autorevoli sostenitori in filosofi che l’hanno trattata nel corso di opere di largo respiro (Rawls, 1971, pp. 303 sgg.*; Dworkin, 1977, pp. 268 sgg.*). Nello sviluppo storico della questione, si individuano con chiarezza quelle tendenze che hanno caratterizzato il movimento dei diritti fondamentali, già trattato supra (pp. 104 sgg.). L’obiezione di coscienza, con i suoi correlati della disobbedienza e del diritto di resistenza, è venuta modificandosi, secolarizzandosi ed espandendosi. Al suo originario fondamento categorico, che induce il singolo a dire «in coscienza, non posso» in nome di un soverchiante principio etico che si autogiustifica, si è aggiunto un fondamento ipotetico, o teleologico, che induce il singolo a rifiutare l’obbedienza in vista della realizzazione di una finalità di breve o di lungo termine, di ampio o

anche di piccolo raggio (Montanari, 1976). A un suo radicamento essenzialmente religioso, si è aggiunto l’apporto della filosofia laica, che ha giustificato la disobbedienza in nome di principi razionali ispirati alla convivenza pacifica o alla costruzione di un ordine politico alternativo (Moskos, Chambers, 1993). A una visione restrittiva, che limitava la sfera della disobbedienza ad ambiti circoscritti, come il tradizionale rifiuto di portare le armi per motivi religiosi (Horeman, Stolwijk, 1998), si è venuta contrapponendo una visione molto più estesa, che ha ammesso l’obiezione in altri campi, anche come conseguenza del riconoscimento di nuovi diritti, con conseguenze spesso conflittuali. Così, al diritto di aborto o al diritto di eutanasia, dove hanno trovato riconoscimento, si è accompagnato il diritto del medico di rifiutare i relativi interventi; al diritto dell’autorità scolastica di pretendere dagli studenti uniformità di atteggiamenti anche esteriori, si è contrapposto il diritto di costoro di esibire la propria diversità, per esempio religiosa13. Così posta, la questione dell’obiezione di coscienza rivela tutto il suo carattere problematico. Non si tratta più di opinioni che possono essere o meno recepite dalle istituzioni politiche e dal sistema giuridico. Si tratta di opinioni che si contrappongono su un terreno, come quello dei valori, in cui i margini di compromesso per soluzioni negoziate sono per definizione ristretti, non solo per l’atteggiamento intransigente delle parti, ma anche perché molti conflitti di questa natura sono come giochi a somma zero: o tutto o niente. Fra il diritto di abortire della donna e il diritto del medico di rifiutare l’intervento non vi è una soluzione intermedia ipotizzabile, nemmeno se imposta dalla legge, perché le parti affermano diritti ritenuti superiori a qualunque legge positiva. Senonché il diritto non può ritirarsi di fronte a nessun conflitto, per non renderlo endemico, e di fatto interviene continuamente, a livello nazionale e sovranazionale, a dirimere questi contrasti. Anche per questo è importante verificare come si distribuiscano le opinioni sociali su singoli temi di obbedienza e di disobbedienza alla legge. Dalle indagini empiriche possono emergere risultati di interesse non trascurabile. Per esempio, in una ricerca svolta in Italia su un campione di 1.770 studenti universitari negli anni 1987 e 1988, furono poste agli intervistati domande a scelta binaria (giusto/ingiusto) sui seguenti 10 items, concernenti altrettante ipotetiche fattispecie di disobbedienza alla legge differenziate per importanza e, pertanto, non tutte coinvolgenti questioni di diritti fondamentali: a) l’obiezione di un giudice che si dimetta per non

infliggere la pena di morte per alto tradimento; b) l’obiezione di un giudice che si dimetta per non infliggere la pena di morte per omicidio; c) l’obiezione di un medico che si rifiuti di applicare una legge che imponga di interrompere il trattamento a un paziente con elettroencefalogramma piatto; d) l’obiezione di un medico che rifiuti di interrompere una gravidanza a richiesta dell’interessata; e) l’obiezione contro il servizio militare in caso di mancanza di servizio alternativo; f) il rifiuto di un giudice di infliggere la pena detentiva nel caso di un furto commesso da un infradiciottenne; g) il rifiuto di pagare allo Stato una quota di imposte pari alla quota di spesa pubblica riservata al bilancio militare; h) il mancato rispetto del divieto di sosta in un centro urbano; i) la circolazione di veicoli pesanti in giorni di divieto; j) l’apertura di negozi fuori dall’orario prescritto dall’autorità amministrativa. Scontata la massiccia condanna delle lievi infrazioni indicate negli ultimi tre items, su tutti gli altri emersero significative spaccature del campione. Il massimo indice di disapprovazione (61,7 per cento) si riscontrò sull’obiezione alla pena detentiva del minore, il massimo indice di approvazione (54 per cento) sull’obiezione all’eutanasia, sempre con forti minoranze di opposto avviso, mentre su altri problemi le forze in campo tendevano a eguagliarsi: l’obiezione all’aborto era approvata dal 45,4 per cento e disapprovata dal 43,5 degli intervistati (con un 11,1 di incerti); l’obiezione al servizio militare raccoglieva il 44,2 per cento di disapprovanti e il 44,6 di approvanti (con un 11,2 di incerti). Fra questi estremi si collocavano le altre fattispecie (V. Ferrari, 1995). L’esperimento fu ripetuto su un campione ancora più vasto di 2.545 soggetti, in massima parte studenti, nei due anni seguenti, 1989 e 1990, con un’impostazione teorica parzialmente diversa, incentrata sul conflitto fra diritti umani, e fornì dati non dissimili. La spaccatura del campione in due tronconi di analoghe dimensioni si ripropose su questioni cruciali come l’ipotetico divieto di predeterminare il sesso dei nascituri, la facoltà del giudice di autorizzare l’aborto di una minorenne contro la volontà dei genitori, la repressione penale dell’aborto, anche in un caso non di dolo, ma di colpa grave, il diritto delle coppie non sposate di adottare un bambino, l’obiezione di coscienza del medico di fronte a interventi di aborto, mutamento di sesso, circoncisione. Su tutti questi items, in sintesi, emergevano due concezioni opposte dell’integrità personale, praticate da gruppi disposti a combattersi ad armi comparabili, se non pari. Molto meno marcata appariva invece la polarizzazione su items afferenti alla sfera dei rapporti politici ed economici, quali la privacy, gli obblighi di assistenza, i rapporti di lavoro, la concentrazione

dei media, il diritto di voto degli immigrati, la diffusione delle ideologie basate sull’uso della violenza: qui le maggioranze si manifestavano in modo più netto esprimendo valori liberali ed egualitari (ibid.). Vivo interesse destava anche la disaggregazione di questi dati secondo le classiche variabili sociologiche. L’appartenenza di genere, il credo religioso, la cultura di provenienza, l’origine familiare rivelavano differenze interessanti, ma non apparivano determinanti. Del tutto decisivo invece si dimostrava l’orientamento politico. Pressoché su ogni item gli atteggiamenti si collocavano in modo graduale sulla scala destra-centro-sinistra, con le due estreme molto distanti fra loro. Questo breve sguardo ad alcuni dati empirici non basta certo a giustificare conclusioni solide. Occorrerebbe non solo considerare altre ricerche, ma anche e soprattutto compararle su un livello interculturale, differenziando paesi e condizioni politico-sociali14. Tuttavia, anche queste poche osservazioni mettono in luce un punto nodale dell’analisi sociologica del diritto, quello del dissenso. Anche in paesi di lunga tradizione storica e culturalmente omogenei il diritto vigente non ottiene unanime e convinta adesione persino su aspetti molto delicati della vita umana: anzi, sembra quasi che proprio su tali aspetti il contrasto sia più vivo e sembra altresì che, in molti casi, non solo consistenti minoranze, ma addirittura maggioranze si collochino, non per paradosso, su posizioni devianti rispetto alle norme. L’idea di una «maggioranza deviante» non è nuova. Fu in effetti lanciata sul terreno della discussione scientifica da un noto libro-manifesto che raccoglieva alcune autorevoli riflessioni e testimonianze, convergenti nel denunciare con forza l’irrimediabile stratificazione delle società occidentali, in cui una ristretta élite esercita un «controllo sociale totale» su masse, maggioritarie, di individui marginali (Basaglia, Basaglia Ongaro, 1971). L’esperienza dei trent’anni trascorsi da quel volumetto induce a conclusioni meno estreme, soprattutto sul fatto che «l’ideologia del controllo sociale totale» sia una caratteristica delle sole società occidentali, ma non può certo distogliere l’attenzione dal conflitto almeno potenziale che oppone governanti e governati su temi nodali in tutte le società, non solo quelle occidentali. In termini sociologico-giuridici, la questione che si pone riguarda il limite entro cui un sistema giuridico può tollerare il dissenso e con quali mezzi, allorché esso aggrega ampi gruppi di persone e, pertanto, investe il sistema stesso non nei singoli istituti, ma più in profondo, sino a mettere in discussione l’intero sistema giuridico.

5. Dissenso parziale e globale Un dissenso sociale verso il diritto può essere motivato indifferentemente da scelte di valore o di mera opportunità, e assumere varie forme, manifeste o latenti. Per esempio, in Italia si può riscontrare un sentimento diffuso di sfiducia nell’amministrazione della giustizia, riferito non tanto al livello professionale dei magistrati o alla qualità «tecnica» dei servizi resi, quanto alla cronica incapacità del sistema di rendere tali servizi in tempi ragionevoli. Questo sentimento, di cui l’attuale classe politica si fa spesso portavoce, viene riferito esplicitamente dal pubblico quando si svolgono ricerche sull’argomento15, ma è anche desumibile indirettamente dai comportamenti sociali. L’inefficienza, sotto questo profilo, del sistema giudiziario induce infatti la cittadinanza a scegliere altre vie per risolvere i conflitti. A seconda del tipo di controversia, del valore economico o simbolico dei beni in discussione, del rapporto fra le parti, della necessità di prendere decisioni più o meno rapide, dei costi e dei rischi inerenti a ciascuna decisione, potrà cercare un accordo negoziale, affidarsi a mediatori o ad arbitri, abbandonare la pretesa o, all’opposto, agire direttamente, anche in modi illeciti. Queste pratiche sociali alternative sono spesso frutto di decisioni quotidiane, silenziose, che la gente assume senza dichiararlo pubblicamente. Un succedersi di tali comportamenti, dal significato implicito, può erodere gradualmente le fondamenta sociali di un’istituzione e, a lato, far nascere e prosperare un’istituzione alternativa: un equivalente funzionale, come si dice nella sociologia funzionalistica. Vi sono molti istituti del diritto che perdono efficacia in questo modo e vanno, come si dice tecnicamente, in desuetudine. Si pensi all’affiliazione, che il legislatore del 1942 introdusse nel codice civile (artt. 404 sgg.) col proposito non dichiarato di risolvere situazioni familiari «difficili» (per esempio, dare un crisma di regolarità a rapporti non dichiarati di filiazione adulterina) e che non ebbe quasi nessuna applicazione sino alla sua abrogazione disposta con la legge 4 maggio 1983, n. 187, che riformò l’adozione speciale e con l’occasione introdusse l’istituto dell’affidamento, istituzionalizzando una pratica già diffusa socialmente. Così pure, si pensi al modo con cui un contratto come il leasing, provenuto dai sistemi di common law attorno agli anni Sessanta, è venuto istituzionalizzandosi e gradualmente sostituendosi (anche per opportunità fiscali) a figure tipizzate dal codice civile, come la vendita con patto di riscatto, o la vendita con riserva della proprietà.

Anche norme inderogabili, perfino penali, possono subire questa sorte, andando in desuetudine, sebbene non nel senso tecnico-giuridico della parola. Così è accaduto col reato di aborto, previsto dagli artt. 545 sgg. del codice penale, riguardo al quale, fino all’abrogazione disposta con la legge 22 maggio 1978, n. 194, si sono contate poche decine di denunce e di sentenze a fronte delle molte decine di migliaia di interruzioni volontarie di gravidanza; e così pure col reato di adulterio previsto dall’art. 559 del codice penale, al cui proposito si poterono notare anche casi di implicito rifiuto di intervento da parte della magistratura, prima che la norma fosse dichiarata incostituzionale16. Interessanti rilievi possono essere suggeriti dall’istituto del referendum, come spia del consenso o del dissenso verso il diritto. Si è già visto sopra che questo istituto di democrazia diretta può considerarsi espressione di un’opinione inequivoca quando il quesito proposto agli elettori sia relativamente semplice e non coinvolga problemi tecnici di particolare difficoltà. Nei casi della legge n. 898/1970 sul divorzio o della legge n. 194/1978 sull’interruzione volontaria della gravidanza, confermate rispettivamente dai referendum del 1974 e del 1981, come in quelli della soppressione dell’ergastolo, respinta sempre nel 1981, o delle leggi sul finanziamento pubblico dei partiti, abrogate nel 1978 e nel 1993 (ma prontamente riapprovate dal Parlamento), si può ritenere che i risultati esprimessero un preciso orientamento di fondo, anche se le motivazioni dei singoli votanti potevano derivare, a volta a volta, da una più o meno chiara percezione, nei dettagli, del contenuto normativo delle norme proposte per l’abrogazione. Molto più arduo è interpretare i risultati quando i quesiti referendari siano complessi nella formulazione e investano questioni tecnicamente o scientificamente complesse, come in molti casi accade: per esempio, in Italia, con i referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati e sull’impiego dell’energia nucleare a scopi pacifici, e perfino con i referendum degli anni Novanta sulle leggi elettorali, le cui conseguenze potenziali sono oggetto di studi fondati su complicati modelli matematici. A rendere più difficile l’interpretazione del voto, in questi casi, intervengono altri problemi, fra cui l’effetto cd. «di traino» che può essere provocato dal simultaneo svolgimento di più referendum in una stessa data: la tendenza psicologica a replicare più volte la stessa risposta a domande diverse, che induce i sociologi ad adottare tecniche appropriate nella redazione di questionari, può manifestarsi anche di fronte a una moltitudine di schede che contengono tutte, su un lato, le scritte «sì» e «no» in caratteri cubitali e,

sull’altro lato, molte righe in cui compaiono, scritte con caratteri minuscoli, riferimenti normativi a volte difficilmente comprensibili anche per i giuristi. Problemi di questa natura possono anche favorire – come detto in precedenza – un certo grado di manipolazione dell’opinione pubblica, soprattutto se i media, come spesso accade, non riferiscano esattamente (o addirittura tacciano) ciò su cui si chiama una popolazione a pronunciarsi. Tuttavia, non si può negare che anche in tali casi l’esito di un referendum vertente su istituti del diritto rappresenti una spia tutt’altro che trascurabile di sentimenti popolari di consenso o di dissenso, non tanto sugli istituti di cui si tratta, quanto sulle posizioni delle parti politiche in conflitto e perfino su un intero sistema, o sottosistema, di relazioni giuridiche e soprattutto politiche. La maggioranza schiacciante che nel 1991 si espresse per l’abrogazione della norma che consentiva l’indicazione di più preferenze nell’elezione della Camera dei deputati fu espressione, ben oltre il piccolo problema tecnico sul tappeto, di un sentimento popolare antigovernativo anticipato di un anno rispetto all’esplosione degli scandali cd. «di Tangentopoli». Analoga indicazione pervenne nel 1993 con l’abrogazione delle norme sul recupero proporzionale nell’elezione del Senato della Repubblica, che confermò, più che un favore per il sistema elettorale maggioritario, un chiaro desiderio di cambiamento del sistema politico17. Che il cambiamento potesse prodursi attraverso queste modifiche, così proposte, era tutt’altro problema, ma furono pochi coloro che avanzarono, discussero e, soprattutto, recepirono questo argomento. In casi come questi viene in luce la potenzialità simbolica delle decisioni giuridiche in cui si proiettano, in modo spesso indiretto, volontà o disegni politici di varia provenienza. È ben noto che si può lanciare un referendum abrogativo non con l’intento di abrogare una o più singole norme, ma col proposito di suscitare, prima o dopo l’abrogazione, modifiche più o meno sostanziali nel sistema legislativo: molti referendum abrogativi, in questo senso, sono di fatto referendum propositivi. E così pure, benché nei sistemi totalitari il referendum sia un’arma tipicamente usata dai dittatori, può anche accadere, e non solo in democrazia, che movimenti minoritari possano usarlo per sfidare maggioranze consolidate: questo è avvenuto in Italia, in alcuni casi appena citati, in Francia nel 1969, quando una sconfitta referendaria indusse alle dimissioni il generale De Gaulle, e perfino nel 1988 in Cile, quando la lunga dittatura del generale Pinochet fu travolta nello stesso modo. Quando attraverso strumenti di espressione politica – il referendum non è l’unico – pervengono indicazioni di questo genere, è probabile che un intero

sistema, come detto, stia perdendo o abbia già perso, in tutto o in parte, la sua legittimazione, cioè la sua attitudine a ottenere adesione spontanea alle decisioni politiche e spontanea obbedienza alle norme giuridiche in cui queste, in gran misura, vengono simbolizzate. Siamo allora di fronte a una di quelle evenienze, ricorrenti nella storia, che possono decidere, anche per secoli, della sorte di un popolo o di un paese. L’élite di governo che viene messa in discussione può aprirsi al cambiamento, come può anche ignorarlo e rifiutarlo. Nel primo caso, il cambiamento può essere effettivo, ma anche apparente. Le vicende italiane di Tangentopoli hanno bensì travolto una formula politica consolidata da mezzo secolo – un sistema parlamentare fondato su governi di coalizione imperniati sul centro politico – e sono state accompagnate da un sostanziale mutamento delle leggi elettorali in senso maggioritario, ma non ne è scaturito un sistema alternativo radicalmente diverso: vi è bensì una polarizzazione degli schieramenti, ma in compenso il numero di partiti, anziché ridursi a due o tre, è fortemente aumentato, rendendo difficili come in precedenza gli accordi fra i partner della stessa coalizione. Nel secondo caso, di rifiuto del cambiamento, una reazione tipica dell’élite politica è quella di acquisire la legittimazione con altri mezzi. In un lucido studio il sociologo del diritto polacco Adam Podgórecki (19261998), uno dei pionieri della disciplina, esamina questi mezzi col proposito di integrare la famosa teoria weberiana che distingue tre tipi ideali di legittimazione politica: quello tradizionale, basato sul ripetersi di pratiche istituzionali, quello carismatico, basato sulle doti superiori di un capo, e quello razionale-legale, basato sulla gestione del potere attraverso un sistema di regole che fissano tanto le finalità quanto i mezzi per conseguirle, vincolando non solo i governati, ma anche, entro certi limiti, gli stessi governanti (Weber, 1922, vol. I, pp. 210 sgg.*). A questi tipi Podgórecki, che ha in mente soprattutto i regimi politici dei paesi del cd. «socialismo reale» dell’Europa orientale, ne aggiunge altri. Una classe di governo – egli dice – può cercare di acquisire la «legittimazione attraverso la falsa coscienza» (legitimacy supported by false consciousness), cioè utilizzando massicciamente quel classico strumento ideologico che viene definito, sin dall’antichità, «la menzogna del potere» (Chiodi, 1979), a volte con l’aggiunta dell’aggettivo «nobile». Può inoltre indurre la convinzione che ogni altra alternativa sarebbe peggiore di quella presente, nel qual caso abbiamo una «legittimazione a vicolo cieco» (dead end legitimacy). Può altresì incoraggiare un sistema articolato di corruzione e di scambi sotterranei di favori illeciti (legitimacy based on «dirty togetherness»). E

infine può contare su una «legittimazione oppressiva» (oppressive legitimacy), concetto con cui l’autore intende non tanto un’oppressione diretta del governo sui governati, ma la pratica sostanziale da parte di questi ultimi di modi di vita divergenti da quelli ufficiali e fondati sul «diritto intuitivo» della gente (Podgórecki, 1991, pp. 73 sgg.). L’impiego più o meno abile di questi strumenti può consentire a una classe di governo di uscire dalla crisi o di prolungare la propria sopravvivenza per qualche tempo. In caso contrario, essa può naufragare e trascinare con sé il sistema politico e tutto l’apparato giuridico che avrebbe dovuto legittimarlo. È la situazione che si definisce usualmente nei termini di rivoluzione e che ancora Podgórecki concettualizza col termine di «‘avant-garde’ legitimacy» con riferimento a quei gruppi di potere che si insediano col dichiarato proposito di cambiare radicalmente un regime politico, o in senso democratico, o in senso totalitario (ivi, pp. 84-85). Il concetto di rivoluzione ha una lunga storia nella filosofia del diritto e anche nella scienza giuridica, che l’hanno lungamente discusso anche in termini formali e definitori (Cattaneo, 1960). Ad alcuni autori esso appare tanto centrale da suggerire un’interpretazione della storia giuridica non per evoluzioni, ma appunto per rivoluzioni. Ben nota è la rilettura della storia suggerita da un eminente giurista americano, Harold J. Berman, che nell’introduzione a uno studio dedicato soprattutto al diritto medievale sostiene che la storia dell’Occidente è stata segnata da «sei grandi rivoluzioni», tre delle quali – quella americana del 1776, quella francese del 1789 e quella russa del 1917 – così definite da coloro che vi presero parte, e le altre tre – la Reformatio di Gregorio VII, la Riforma protestante in Germania fra il 1517 e il 1555 e la Great Rebellion, e poi Restauration, in Inghilterra fra il 1640 e il 1688 – chiamate all’inizio con altri nomi ed eventualmente, come nel caso inglese, ribattezzate solo tardivamente col termine rivoluzione18. Ognuno di questi avvenimenti ha portato con sé, dice Berman, «violenti sconvolgimenti» e rovesciato il precedente sistema politico, economico, religioso, culturale, mediante un cambiamento «fondamentale, rapido, violento, duraturo del sistema sociale nel suo complesso», cercando la propria legittimazione in «una norma fondamentale, un passato remoto, un futuro apocalittico» (Berman, 1983, pp. 41-42*). Su questa tesi vi sarebbe molto da discutere. Si potrebbe per esempio dubitare che, dati i tempi medi di sviluppo degli avvenimenti storici nei periodi di riferimento, possano definirsi «rapidi» dei mutamenti apportati

nell’arco di quasi mezzo secolo, come nel caso inglese. Così si potrebbe eccepire sul fatto che una rivoluzione debba necessariamente essere violenta. Se per violenza si intende la coazione fisica esercitata sulle persone, è ricorrente non solo negli eventi rivoluzionari, ma anche nella vita comune, la possibilità che una rivoluzione avvenga anche in modo pacifico. La transizione spagnola dalla morte di Franco nel 1975 al 1978 è in effetti trascorsa in questo modo. Infine ci si potrebbe chiedere se nel corso della storia occidentale, le cui radici Berman colloca giustamente nella cd. «età intermedia» criticando le comuni periodizzazioni storiche, non vi siano stati altri avvenimenti rivoluzionari di ampiezza paragonabile: per esempio, la fondazione e poi la caduta dei grandi imperi coloniali, o la guerra civile americana con l’abolizione della schiavitù. Con ciò, non vi è dubbio che la prospettiva dello studioso americano, che presenta uno sviluppo della storia per saltus, anziché per fasi evolutive come spesso si immagina, abbia dei pregi, il primo dei quali è mostrare che gli eventi storici sono frutto di conflitti prima che di accordi. Tuttavia l’aspetto più interessante di questa tesi storica consiste nel limite che l’autore stesso vi introduce con riferimento al diritto. Berman descrive alcuni caratteri tipici, benché non permanenti, del diritto occidentale: distinzione fra istituzioni giuridiche e non giuridiche (per esempio religiose), ruoli professionali specifici collegati alle prime, formazione professionale ad hoc dei giuristi, rilievo essenziale della dottrina giuridica (che funge, egli dice, come una sorta di «meta-diritto»), organicità del sistema giuridico inteso come un corpus unitario e coeso, capacità del sistema stesso di autoriformarsi, ricerca di una logica interna e implicita nel sistema, supremazia del diritto sulle autorità politiche, alto grado di competizione fra giurisdizioni e sistemi normativi, cioè di pluralismo giuridico, e infine una costante tensione fra idealità e realtà del diritto (ivi, pp. 24-29). Questi caratteri appaiono a Berman tanto forti da suggerirgli una considerazione che certo non sorprende gli storici del diritto, ma che va rimarcata. Ognuna delle rivoluzioni succitate, egli dice, «ha generato un nuovo sistema di diritto, comprensivo di molti dei principali obiettivi della rivoluzione, che ha portato cambiamenti alla tradizione giuridica occidentale, ma che alla fine si è collocato all’interno della tradizione stessa» (ivi, p. 42, corsivo nostro). Berman tocca invero un punto essenziale circa il rapporto fra rivoluzione e diritto. La rivoluzione americana non è riuscita a respingere interamente la common law inglese e il principio dello stare decisis, pur restringendone la portata. La rivoluzione francese ha abolito gli istituti più tipici della féodalité e

dichiarato di fondare un nuovo diritto, ma il Code Napoléon ha ripristinato e quasi cristallizzato un ordine giuridico, recependo apporti dottrinali consolidati nell’Ancien Régime. Lo stesso Lenin ha ben presto spento gli ardori rivoluzionari e impostato una «nuova politica economica», ripristinando istituti, per esempio successori, aboliti pochi anni prima. Dopo di lui Stalin impone una svolta statalistica e formalistica nella scienza giuridica sovietica, che fa giustizia sommaria delle teorie antiformalistiche e dissacranti germogliate durante la rivoluzione. Come si spiegano questi fatti, e tanti altri simili? Col fatto, non certo sorprendente, che ogni governo rivoluzionario cessa di esserlo nel momento stesso in cui s’insedia, in quanto la politica è un fatto di persone e di ruoli sociali che si disputano spazi di autorità, più che di ideologie e di programmi? Oppure col fatto che il diritto, alla fine, prevale sulle vicende politiche e dunque simboleggia non solo la volontà dei governanti, ma una volontà più diffusa, la «politicità» aristotelica dell’essere umano?

Note 1 In Italia, recentemente, cfr. per esempio Mosconi (2000). 2 Si è notato per esempio che gli adolescenti tendono a adottare atteggiamenti convenzionalistici nei confronti dell’autorità (Tomeo, Cerutti, Biancardi, 1975). Sarebbe molto interessante verificare quanto ciò dipenda non solo dall’azione diretta degli educatori, ma anche dall’influenza dei libri di testo (per esempio i «sussidiari» delle scuole elementari), che non sono stati ancora studiati dal punto di vista del loro ruolo nell’educazione giuridica. 3 Casi tipici sono riscontrabili proprio in tema di notizie giuridiche. Una riforma del diritto del lavoro è solitamente associata all’immagine di operai che manovrano macchinari in una qualsiasi industria, una riforma sanitaria ai corridoi di un qualsiasi ospedale, una modifica del codice della strada al traffico su una qualunque autostrada, e simili. 4 Si pensi al «Financial Times» e, all’estremo opposto, al «The Sun». 5 È caratteristica la visione quasi mistica che i giornalisti hanno dei provvedimenti d’urgenza o eccezionali previsti dalla legge processuale (per esempio l’art. 700 del codice di procedura civile e l’azione di comportamento antisindacale di cui all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori). 6 Su una grande testata italiana si sono confusi il codice di procedura civile col codice civile e la Corte europea dei diritti dell’uomo con la Corte di giustizia delle Comunità europee. Vari media confondono la Corte di giustizia internazionale dell’Aja, organo dell’ONU risalente al 1946, con la Corte penale internazionale, pure insediata all’Aja, ma di recentissima istituzione. Nei servizi e nelle discussioni televisive sulla legge italiana che ha sensibilmente alleviato la repressione del falso in bilancio, si è dato sempre per scontato che essa non si applichi ai falsi commessi prima della sua entrata in vigore, ignorando che legge penale più favorevole al reo è retroattiva. Inutile soffermarsi sul peso di questi equivoci presso l’opinione pubblica non specialistica. 7 Cfr. per esempio il numero XXVI di «Droit et Société», uscito nel 1994, in cui si illustra una

situazione simile a quella italiana, mettendo in luce fra l’altro la tendenza dei mezzi di comunicazione di massa a presentarsi come «mediatori alternativi» rispetto a quelli istituzionali, in particolare la magistratura (spec. i contributi di J. Commaille, pp. 11 sgg. e di A. Garapon, pp. 73 sgg.). 8 Per esempio, da due sondaggi d’opinione svolti nel 2003 da Morris Lorenzo Ghezzi, nell’ambito di una più vasta ricerca interdisciplinare su L’amministrazione della giustizia nell’Italia del 2000 (i cui risultati appariranno entro il 2005), è risultato chiaro che questi atteggiamenti dipendono decisivamente dalla posizione politica (gli indici di fiducia sull’operato dei giudici sono nettamente più bassi nel centrodestra rispetto al centro-sinistra): cosa su cui non può non aver influito l’azione dei media più diffusi negli opposti schieramenti. 9 Riletto oggi, questo libro appare pionieristico, laddove per esempio segnala la necessità di rifuggire da regolamentazioni troppo rigide e verticistiche nel campo delle relazioni industriali e dei rapporti di lavoro. 10 Soprattutto il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset nel suo libro La rebelión de las masas (1930). 11 Questa riserva è suggerita, oltre che dalla ricorrenza storica di violenze e persecuzioni giustificate con l’obbligo di eseguire ordini, anche dalla famosa (e discutibile) ricerca sperimentale in cui un (finto) learner fu posto di fronte a (finti) teachers, inconsapevoli della finzione e istruiti a infliggere al learner, col (finto) consenso di questo, scosse elettriche di intensità crescente al crescere di risposte errate a quesiti logici. Malgrado le (finte) reazioni del learner, molti teachers non cessarono di somministrare scosse e alcuni raggiunsero la massima intensità, comportante la simulazione di una reazione semiagonizzante, in nome del rispetto delle regole concordate (Milgram, 1971). 12 Cfr. un’ampia ricostruzione storica e critica in Cosi (1984). 13 Come noto, la questione è divenuta incandescente in Francia per il rifiuto di alcune studentesse islamiche di rinunciare al velo, da cui è scaturita la legge che vieta indifferentemente a tutti gli studenti l’ostentazione di qualsiasi simbolo religioso nei locali delle scuole pubbliche. 14 Per un interessante tentativo di comparazione, che tiene conto anche dei dati italiani esposti in Giasanti, Maggioni (1979), cfr. Kwaśniewski (1984). 15 Nella ricerca condotta da Ghezzi (supra, nota 8) la larghissima maggioranza degli intervistati ha espresso questa critica, mentre solo minoranze, pur non esigue, hanno manifestato sfiducia o dissenso su altri punti significativi dell’ordinamento giudiziario. 16 Ricordo un caso in cui il Pretore di Milano, nel 1967, assolse per non aver commesso il fatto due imputati che avevano esplicitamente ammesso la colpevolezza, pur di non affrontare l’eccezione di incostituzionalità, proposta esplicitamente dalla difesa, ma, per così dire, «non registrata» dal magistrato. La Corte costituzionale, che aveva respinto tale eccezione nel 1961, l’avrebbe poi accolta con la sentenza n. 126 del 19 dicembre 1968 (limitatamente all’adulterio semplice, di cui ai primi due commi dell’art. 559 c.p.), seguita dalla sentenza n. 147 del 3 dicembre 1969, che dichiarò illegittimi il terzo e il quarto comma, relativi alla relazione adulterina, e l’art. 560 riguardante il concubinato. 17 Quello fu in effetti il quesito trainante di tutta la consultazione referendaria, nella quale furono raggiunte maggioranze su tutti i quesiti, che contemplavano fra l’altro la soppressione di tre ministeri (Partecipazioni statali, Agricoltura e foreste e Turismo e spettacolo) e l’abrogazione della legge allora vigente sull’uso di stupefacenti e sostanze psicotrope. Che il quesito tecnico sulla legge elettorale avesse meno presa del tema politico di fondo, sarebbe stato dimostrato sei anni dopo, quando in diverso clima politico la proposta di abolizione della quota proporzionale nell’elezione della Camera dei deputati, pur ottenendo la grandissima maggioranza dei voti, non fu approvata per mancato raggiungimento del quorum di votanti, necessario per la validità del referendum.

18 Solo nel 1688-89, precisa Berman, gli eventi dell’ultimo mezzo secolo inglese furono denominati The Glorious Revolution, termine poi entrato nell’uso.

Capitolo settimo. Ipotesi

Abbiamo terminato l’ultimo capitolo con due interrogativi sul tema della rivoluzione e sul rapporto fra diritto e potere politico. Questi interrogativi vanno integrati sulla base delle esperienze storiche più recenti delle nostre società. Il quadro attuale viene comunemente descritto nei termini della globalizzazione, una parola che è diventata, più che popolare, quasi magica: una chiave che apre tutte le porte nella discussione scientifica e politica. Come tutte le opinioni correnti, anche questa non va né accolta senza riserve, né respinta per snobismo intellettuale, ma esaminata criticamente. Un accostamento critico al problema rivela anzitutto una realtà che ogni storico può confermare. La cd. «globalizzazione» non è una novità del tempo attuale, ma un fenomeno ricorrente nei secoli, nei fatti e nelle idee. L’Impero romano era un’entità globale, che contemplava al suo interno molti fenomeni simili a quelli odierni: scambi senza frontiere dei prodotti, migrazioni di massa dalle aree povere a quelle opulente, culminanti nella capitale universale. Il Sacro Romano Impero non ha mai raggiunto, se non in rari momenti, una dimensione effettivamente globale, neppure nell’area su cui estendeva la propria teorica giurisdizione, ma la sua forza ideale ha ispirato per molti secoli azioni politiche e riflessioni teoriche, ed è stata a lungo contrastata da un’altra visione globalistica, quella della Chiesa cattolica romana, universale per definizione. Dimensioni potenzialmente globali hanno avuto i commerci durante il Medioevo, compatibilmente con la tecnologia e i trasporti del tempo, simboleggiati dalla figura di Marco Polo. Furono globali la via della seta, la spinta dei mercanti lombardi verso il Nord dell’Europa, poi la conquista delle Americhe, il colonialismo, la Compagnia delle Indie, e quel libero movimento dei capitali e delle merci da cui scaturì, nel 1848, il grido di battaglia – «Proletari di tutti i paesi, unitevi» – di un movimento politico anch’esso universalistico per definizione, dunque «globale», come il socialismo. Il diritto ha seguito puntualmente ogni spinta globalistica, pur

differenziandosi a seconda delle epoche e delle culture. Il diritto romano, originariamente regola dei soli cives di Roma, venne adattandosi con il ius honorarium e il ius gentium alle dimensioni sempre crescenti dello Stato e divenne universale. Come tale Giustiniano lo fece riordinare nel VI secolo, benché il suo dominio fosse ristretto all’Oriente, nel quadro di un disegno politico di riunificazione imperiale. Il ius commune si diffuse in tutta Europa irraggiandosi inizialmente da un centro culturale universale come l’Università di Bologna, dove gli studenti di tutto il continente, pur rappresentativi di diverse Nationes, si riunivano e comunicavano fra loro e coi loro maestri nella stessa lingua universale, il latino, e si laureavano in utroque iure, diritto civile e diritto canonico, entrambi «globali». Non meno universale è stata l’utopia bimillenaria del diritto naturale, dettato a seconda delle visioni dalla phýsis, da Dio, dall’insocievolezza o dalla socievolezza naturale dell’uomo, dalla sua ragione. In pieno trionfo dello Stato sovrano, fra Seicento e Settecento, l’illuminismo rilancia questa utopia sotto forma di diritti umani, concettualmente universali, dando origine a un movimento capace di resistere a formidabili sfide filosofiche e soprattutto storiche. Gli stessi codici moderni, espressione-principe del nazionalismo giuridico, vengono esportati e recepiti in tutto il mondo, così come saranno ovunque esportati e recepiti i modelli giuridici nati nelle aree di common law per facilitare le transactions su scala globale: il leasing, il franchising, i performance bonds, lo swap, da ultimo i modelli contrattuali del cd. «e-commerce». Con tutto ciò, naturalmente, si intende solo sottrarsi alla suggestione delle parole e segnalare la storica ricorrenza delle vicende umane più rilevanti, non certo negare che l’odierna condizione umana presenti delle peculiarità, che invece esistono e su cui vanno commisurati, appunto, gli interrogativi da porre sul tavolo della sociologia del diritto attuale. E si tratta, beninteso, di peculiarità di non poco conto. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un fenomeno congiunto di detemporalizzazione e di de-spazializzazione che non ha precedenti nella storia umana. La rivoluzione informatica ha annullato i tempi della comunicazione simbolica e ridotto al minimo anche quelli di molte produzioni materiali: un ordine d’acquisto di azioni viene trasmesso in un attimo da un capo all’altro del mondo, portando al culmine l’interrelazione sussistente, non da oggi, fra tutte le borse dei grandi centri finanziari. Un libro può essere teletrasmesso in trenta secondi da New York a New Delhi, dove costa infinitamente meno stamparlo e rilegarlo, e da qui verrà restituito entro pochi giorni all’editore

americano, confezionato, per la distribuzione. Così l’annullamento dei tempi comporta simultaneamente l’annullamento degli spazi, che sono, a loro volta, erosi da un altro fenomeno, anch’esso nuovo per l’umanità: la fine, se non compiuta, ormai prossima, della terra incognita, delle aree vergini da scoprire e sfruttare. Sempre più numerosa, l’umanità vive in spazi sempre più ristretti, soggetta a una sorta di claustrofobia che la sospinge fuori dai confini del pianeta e, sulla Terra, a lottare più duramente di prima per espandersi, ogni gruppo a spese del suo vicino. La devastazione ecologica è un riflesso non solo di dinamiche economiche e industriali difficilmente controllabili, ma anche di questa ansia di abbattere barriere soffocanti. L’annullamento, o la riduzione al minimo, delle dimensioni spaziotemporali, assieme all’evoluzione tecnologica, influisce enormemente sulla vita privata, sulla cultura e sull’organizzazione sociale. Se, da un lato, ne derivano incontestabili vantaggi soprattutto per quegli strati sociali che hanno diretto accesso agli strumenti tecnologici avanzati, ne derivano anche svantaggi e problemi generali che non possono essere ignorati. La sfera personale è divenuta sempre più perforabile da messaggi, minacce e controlli invasivi, la cui fonte, quando è identificabile, è comunque inattingibile, incondizionabile. Ben oltre il diritto alla privacy – il right to be let alone tematizzato a fine Ottocento – viene intaccato niente meno che quell’ambito privato per la cui protezione nacque la prima fase dei diritti umani modernamente concepiti, quella della libertà negativa, la libertà dalle interferenze ingiustificate. La sfera culturale tende a conformarsi agli stili, alle espressioni e alle abitudini che i media più potenti propagano senza confini. Contro questa tendenza all’uniformità vengono inutilmente erette barriere censorie che, come tutte le censure, lasciano passare i prodotti meno qualificati; o vengono opposte ideologie fondate su un concetto tanto accattivante quanto oscuro e indefinibile, come l’identità collettiva – etnica, religiosa, culturale – che è la base tanto di inoppugnabili rivendicazioni di autonomia, quanto di violente discriminazioni fra gruppi e all’interno di essi. Alla stratificazione sociale tradizionale, fra privilegiati ed emarginati, sempre più evidente soprattutto se osservata su scala globale, si affianca ora quella più sottile derivante dalla disponibilità individuale di tecnologie, e di correlative capacità tecniche, il cd. «digital divide», che pone confini netti all’interno di ogni singola società, oltre a segnare più decisamente che in passato il distacco culturale fra generazioni. Fra i tantissimi quesiti che questa realtà problematica pone riguardo ai

rapporti fra diritto e società, alcuni sembrano preponderanti. La diversa concezione del tempo e dello spazio con cui dobbiamo confrontarci induce fatalmente a osservare lo scarto che esiste fra i processi normativi tradizionali, soprattutto quello legislativo, e i processi economici, sociali e politici del mondo attuale. In effetti questo scarto appare a prima vista enorme, incolmabile. Per riformare con legge un sistema pensionistico nazionale occorrono anni di trattative politico-sindacali e di discussioni parlamentari. Per contro, la catastrofe finanziaria di una sola società quotata in borsa – si pensi alla Enron per limitarsi a un esempio straniero – può azzerare in pochi giorni, o in poche ore, il valore dei fondi-pensione di milioni di persone. La diffusione mondiale di ricchezze di origine illecita soverchia ogni tentativo di sottoporre a controllo giuridico i modi con cui quelle ricchezze vengono localmente prodotte. L’inevitabile macchinosità di un processo penale svolto secondo regole garantistiche difficilmente si accorda con la velocità con cui i reati vengono commessi e reiterati, soprattutto su una dimensione internazionale: contrapporre l’irrinunciabile due process of law al terrorismo internazionale può talora far pensare mestamente, sebbene erroneamente, a una carica di cavalleria lanciata contro missili intercontinentali. Non vi è dubbio che per ovviare a questo scarto così vistoso sia stato già avviato un processo di ristrutturazione transnazionale del diritto, con la costruzione di sistemi normativi improntati non solo a elasticità, mutevolezza, rapidità, ma anche a uniformità, in cerca del massimo di certezza (Gessner, Cem Budak, 1998). Come già ricordato più volte nel corso di questo volume, ciò accade soprattutto nell’ambito di relazioni economiche di grande rilievo, che tendono ad autoregolarsi senza passare per i filtri delle legislazioni statali e ad affidarsi a strumenti elastici di bilanciamento e di composizione dei conflitti. In questi fenomeni si è vista la vittoria del diritto contrattuale e della giurisdizione, mutevoli e contingenti, rispettivamente contro l’istituto proprietario e la produzione legislativa di diritto, rigidi e immutabili (Ferrarese, 2002). Eppure, sembra di poter dire che questo quadro, benché suggestivo, rappresenta solo un lato della realtà. Esso infatti ritrae quel settore di umanità che, pur possedendo una quota immensamente rilevante di potere, ricchezza e influenza politica, è comunque strettamente minoritario. Rispetto alla grande maggioranza, che non dispone di tali strumenti, non informa. Non dice, per esempio, a quale legge e a quale giudice può efficacemente affidarsi il singolo lavoratore o il singolo creditore di un franchisee locale, i cui interessi

siano travolti dalla crisi finanziaria del suo franchisor all’altro capo del mondo. Non dice come può essere impedito a una società del cd. «Primo Mondo» di appaltare la produzione a imprenditori del «Terzo Mondo» che sfruttano massicciamente il lavoro minorile, là dove la sovrabbondanza di manodopera fa sì che i minori sfruttati, per triste paradosso, siano dei privilegiati rispetto ai disoccupati cronici, e ostacola quindi ogni serio tentativo di organizzazione sindacale. In sintesi, non dice come può essere regolato il godimento di diritti fondamentali pur riconosciuti positivamente e consacrati dalle carte internazionali, e soprattutto i casi sempre più frequenti di conflitto fra diritti: se va universalmente protetto il diritto a manifestare la propria identità religiosa di fronte alla società circostante, quindi a indossare il velo islamico contro ogni divieto, non va anche protetto il diritto a rifiutare un’identità, ad allontanarsi da una religione, a togliere quel velo, se viene imposto? In breve, la ristrutturazione transnazionale del diritto è largamente incompleta. E questa incompletezza va forse interpretata nei termini di un’altra contraddizione, non sempre adeguatamente colta dagli studiosi: la contraddizione fra potere e governo o, se si preferisce, fra potere e autorità. Mentre il potere, cioè la concreta possibilità di influire sugli eventi con le proprie decisioni, di determinare aspettative e azioni altrui, di controllare il movimento delle ricchezze e degli esseri umani, appare in forme ben chiare, si manifesta in forme non meno chiare un vuoto di governo, specialmente di governo democratico. La crisi della dimensione statale, sfidata da un ambito sconfinato d’azione sociale, ha riproposto a livello globale quelli che furono i grandi problemi del Medioevo e che furono all’origine del consolidamento degli Stati sovrani: la garanzia della pace interna e la regolamentazione dei rapporti esterni su basi di mutuo riconoscimento. Mentre lo Stato moderno offriva – imperfettamente – queste garanzie attraverso un sistema giuridico individuabile e articolato, confluente con tutti gli altri nel diritto internazionale, la dimensione globale, caratterizzata da frontiere porose e incerte, ora aperte ora chiuse a capriccio dei soggetti più forti, non presenta nessuna autorità che appaia in grado di svolgere questo compito. Esistono bensì sistemi parziali di norme e frammenti di potere giudiziario su una scala tendenzialmente globale, ma non sono chiari né i criteri di compensazione normativa fra interessi e diritti in conflitto, né tanto meno i meccanismi di composizione di questi conflitti. In breve, non esiste un governo riconoscibile, men che meno un governo democratico, anche se esistono strumenti capaci di imporre questa o quella volontà dei soggetti più forti.

Com’è stato lucidamente osservato, ne risultano forse amplificate «le stesse contraddizioni che travagliarono nel XIX secolo lo stato liberale e la società industriale» (Marconi, 2002, p. 33) e le sostanziali incertezze proprio sulla funzione che il diritto stesso, quale regolatore sociale, potrà svolgere in futuro (Heydebrand, 2001). Qui, probabilmente, si situa il quesito di fondo su cui formulare non solo ipotesi sociologico-giuridiche per il futuro prossimo, ma anche auspici per un’accettabile regolamentazione politico-giuridica delle relazioni umane. Per le une e per gli altri, quindi a livello sia descrittivo, sia prescrittivo, sono da evitare tanto le fughe all’indietro, quanto le fughe in avanti, che spesso si incontrano compiendo giri di 360 gradi e sperimentando la segreta circolarità delle cose umane. Fra le prime si annovera l’illusione che la globalizzazione possa tornare sui suoi passi e si possa tornare a una quieta e democratica riproposizione della sovranità statale e del diritto che ne scaturisce. Una illusione perché, come disse Uberto Scarpelli quasi quarant’anni fa, pur nella sua difesa del positivismo giuridico tanto connesso allo statalismo, «lo stato moderno [...] è in crisi, crisi interna e crisi esterna: il mondo di domani, o di domani l’altro, non sarà più il mondo degli stati» (Scarpelli [1965], 19972, p. 218). Fra le seconde, incontriamo l’illusione che la globalizzazione possa essere democraticamente governata a livello mondiale, in modo che tutte le contraddizioni possano trovare armonica soluzione presso una sola, inevitabilmente remota, camera di compensazione. L’una e l’altra illusione non fanno i conti con la forza agglutinante del potere effettivo, quello che si esprime attraverso le norme, ma anche contro le norme. Ciò che occorre dunque è individuare il punto in cui questo potere possa essere bilanciato ed eventualmente contrastato da altro potere di paragonabile efficacia, rappresentativo di valori e interessi generali: l’autorità di un governo democratico, appunto. È qui che si deve fermare lo sguardo e costruire ciò che è possibile: non l’utopia in senso forte, cioè la società perfetta, ma l’utopia in senso debole, cioè il disegno cui mirare, anche se non perfettamente realizzabile. All’inizio degli anni Novanta, Maurice Duverger offrì una bella testimonianza di utopia «debole», segnalando e al contempo auspicando la suddivisione del mondo in macro-regioni, formate dall’unione di vecchie unità politico-statuali attorno a valori e interessi comuni (Duverger, 1994). Al termine di quel decennio, parole di uguale ispirazione furono pronunciate da Federico Mancini, illustre giurista e giudice comunitario, con specifico

riferimento all’Europa (F. Mancini, 1998). E in effetti quello delle grandi organizzazioni territoriali sembra oggi l’unico possibile punto di equilibrio, benché lontano dalla perfezione. Un punto di equilibrio politico che potrebbe esprimere un’organizzazione giuridica interna abbastanza articolata da bilanciare una moltitudine di istanze diverse e simultaneamente operare all’esterno per la costruzione di un ordine internazionale negoziato e non imposto.

Riferimenti bibliografici

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