Polemiche di metafisica. Quattro dibattiti su Dio, l'Essere e il Nulla 9788888613123

"Fabrizio Turoldo ha studiato, con il solido e pacato rigore che lo caratterizza, una serie di questioni ontologich

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Polemiche di metafisica. Quattro dibattiti su Dio, l'Essere e il Nulla
 9788888613123

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Fabrizio Turoldo ha studiato, con il solido e pacato rigore che lo caratterizza, una serie di questioni ontologiche fondamentali, prendendo a riferimento il pensiero di Gustavo Bontadini, uno dei grandi maestri di metafisica del Nove­ cento italiano. Forse il più grande. L'insegnamento di Bontadini in questo libro è, per un verso, debitamente collocato nello scenario del dibattito filosofico contemporaneo e, per altro verso, esplorato attraverso alcuni suoi critici, che sono stati anche suoi interlocutori privilegiati (Faggiotto, Berti, Severino). L'orchestrazione dell'insieme è sapientemente unificata dalla domanda metafi­ sica per eccellenza: la domanda intorno al senso dell'essere. Turoldo attraversa il proprio campo d'esplorazione con una permanente e paziente disposizione all'ascolto delle ragioni del protagonista e dei suoi com­ primari. Così l'intreccio della polemica lievita naturalmente. Ne viene, in fili­ grana, quasi un confronto essenziale tra la scuola milanese di metafisica, che fa capo all'insegnamento di Bontadini, e la scuola padovana di metafisica, che fa capo all'insegnamento di Marino Gentile. Niente è trascurato per dare al lettore di prima mano tutti gli ingredienti teorici per capire. Nel contempo, una sorta di filo di Arianna viene pure offerto discretamente per capire alla seconda potenza: non solo, cioè, per capire che cosa si viene dicendo in una polemica a più voci di alto profilo speculativo, ma anche per suggerire da che parte sta, secondo Tu­ roldo, la verità della cosa. Turoldo illumina e quindi ordina in modo persuasivo il senso del dibattito onto­ logico di cui, intanto, riferisce scrupolosamente. Le tesi ontologiche primarie della ricerca di Fabrizio Turoldo non sono, comunque, invadenti o astrattamente sovrapposte agli autori, bensì accennate o dichiarate o alluse con rispettosa fer­ mezza. O fatte emergere direttamente dal contesto polemico. Dalla Presentazione di Carmelo Vigna

Fabrizio Turoldo ha conseguito il dottorato di ricerca in filosofia presso l'Università di Venezia e si è perfezionato a Parigi. Oltre che agli studi di ontologia, di cui testimonia il presente libro, si è dedicato a questioni epistemologiche e antropologiche nel libro Verità

del metodo. Indagini su Pau/ Ricoeur (Padova, 2000) e a problemi di etica e bioetica in

una

serie di articoli e saggi comparsi sulla rivista «Religione e Scuola» e neli'opera

collettanea Gli strumenti delsapere contemporaneo. II. I concetti (Torino, 1997).

Lire 20.000 € l 0,33

FABRIZIO TUROLDO

POLEMICHE DI METAFISICA

Quattro dibattiti su Dio, l'Essere e il Nulla Presentazione di Carmelo Vigna Con un saggio di Enrico Berti

Cafoscarina

Fabrizio Turoldo, Polemiche di metafisica. Quattro dibattiti su Dio, l 'Essere e il Nulla

© 200 1 Fabrizio Turoldo ISBN 88-886 1 3- 1 2-9

Edizione: Libreria Editrice Cafoscarina Pscrl Calle Foscari, 3 259, 3 0 1 23 Venezia www . cafoscarina.it

Prima edizione Marzo 2001 Stampato in Italia presso LCM Selecta Group - Milano

A

Monica

INDICE

11

Presentazione

Carmelo Vigna

Parte Prima LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO 15 17 21 24 30 38 41 42 49

Perché l a metafisica? La caduta della pregiudiziale kantiana L 'essenza del postmodemo Violenza e metafisica Fenomenologia, ermeneutica e metafisica Filosofia analitica e metafisica Metafisica e vita Finalità del presente studio Nota bibliografica

Parte seconda OMAGGIO A BONTADINI 51

Omaggio a Bontadini. Osservazioni sulla coerenza interna e sugli sviluppi del pensiero bontadiniano.

Parte terza L 'ESSERE, 69 75 76 77 82 84 89 92

IL

NULLA E IL DIVENIRE

Premessa La polemica Bontadini-Severino Il concetto di differenza ontologica La ridefinizione non nichilistica del divenire Un nuovo tentativo di soluzione dell 'aporia Ogni ente è immutabile? Appendice: Severino, Bontadini e Tommaso Quadro sinottico della disputa Bontadini-Severino

Parte quarta PRINCIPIO DI CAUSALITÀ E NOZIONE DI ESSERE COME ATTO

93

Parte quarta - sezione prima Il problema

96

Parte quarta - sezione seconda La strategia di Bontadini

96 99 l 00

Il teorema metafisico La fondazione ontologica del principio di causa I limiti della strategia teorica bontadiniana

102

Parte quarta - sezione terza La strategia di Faggiotto

l 02

1 04

Dimostrazione elenchica del principio di ragion sufficiente e inferenza metafisica I limiti della strategia teorica di Faggiotto

1 05

Parte quarta - sezione quarta Considerazioni conclusive

1 05 1 07 1 09 111

L'essere come atto L' opposizione tra essere e nulla L'idea dell 'assoluto Quadro sinottico della disputa Bontadini-Faggiotto

Parte quinta L'IDENTITÀ E LA DIFFERENZA

1 13 113

Parte quinta - sezione prima La teoria del giudizio- Istituzione de/l ' aporetica

1 18 1 26

Il pensiero dell'identità e la teoria del giudizio: Emanuele Severino Il pensiero della differenza e la teoria del giudizio: Enrico Berti Identità, differenza e teoria del giudizio

128

Parte quinta - sezione seconda L a semantizzazione dell 'essere- Istituzione dell 'aporetica 8

128 1 35

La polemica tra Gustavo Bontadini ed Enrico Berti intorno alla semantizzazione deli' essere Nota Parte quinta - sezione terza

137

Una proposta per la soluzione de/l 'aporetica

137 140

L' essere come relazione Il principio di identità-non contraddizione come garante della nozione di essere come relazione

145

A proposito di identità e differenza Enrico Berti

153

Alcuni rilievi Emanuele Severino

9

PRESENTAZIONE

Sono lieto di presentare un altro libro di Fabrizio Turoldo. Dopo le recenti e apprezzate ricerche epistemologiche su Ricoeur, che incalzano le pagine del filosofo francese con un rimando costante all' orizzonte dell'ontologia meta­ fisica 1, Fabrizio Turoldo ha studiato, con il solido e pacato rigore che lo ca­ ratterizza, una serie di questioni ontologiche fondamentali, prendendo a ri­ ferimento il pensiero di Gustavo Bontadini, uno dei grandi maestri di meta­ fisica del Novecento italiano. Forse il più grande. L'insegnamento di Bon­ tadini in questo libro è, per un verso, debitamente collocato nello scenario del dibattito filosofico contemporaneo e, per altro verso, esplorato attraver­ so alcuni suoi critici, che sono stati anche suoi interlocutori privilegiati (Faggiotto, Berti, Severino). L'orchestrazione dell ' insieme è sapientemente unificata dalla domanda metafisica per eccellenza: la domanda intorno al senso dell'essere. Turoldo attraversa il proprio campo d'esplorazione con una permanente e paziente disposizione all' ascolto delle ragioni del protagonista e dei suoi comprimari. Così l 'intreccio della polemica lievita naturalmente. Ne viene, in filigrana, quasi un confronto essenziale tra la scuola milanese di metafisi­ ca, che fa capo all'insegnamento di Bontadini, e la scuola padovana di me­ tafisica, che fa capo ali 'insegnamento di Marino Gentile. Niente è trascurato Cfr. F.

Turoldo, Verità del metodo. Indagini su Pau/ Ricoeur, ll Poligrafo, Padova, 2000.

CARMELO VIGNA

per dare al lettore di prima mano tutti gli ingredienti teorici per capire. Nel contempo, una sorta di filo di Arialllla viene pure offerto discretamente per capire alla seconda potenza: non solo, cioè, per capire che cosa si viene di­ cendo in una polemica a più voci di alto profilo speculativo, ma anche per suggerire da che parte sta, secondo Turoldo, la verità della cosa. Che è poi il vero capire. E la verità della cosa, quanto al senso dell'essere, sta per Tu­ roldo nella decisiva lezione aristotelica e poi tommasiana della molteplicità del senso dell'essere, ma secondo una certa unità. Che l'essere sia uno e molteplice nel contempo, vien mostrato dal nostro giovane studioso argo­ mentando l 'impossibilità di separare le due attribuzioni trascendentali. Tu­ roldo fa vedere, cioè, l 'indifendibilità di una concezione univocistica del­ l'essere, imputabile in qualche modo a Bontadini, ma soprattutto a Severi­ no, e anche l 'indifendibilità di una concezione multivoca (tendenzialmente nominalistica) dell 'essere, imputabile in qualche modo a Berti.

È da dire, comunque, che nessuno degli autori discussi nega recisamente l'una o l' altra attribuzione trascendentale e che, quindi, le critiche di Turol­ do vallll o considerate piuttosto come avvertenze d'una possibile deriva. Re­ sta, tuttavia, il fatto che, negli autori investigati, elementi di «squilibrio» analitico sono rintracciabili, e a volte in modo rilevante. Di qui la distanza critica di Turoldo sempre, però, accompagnata da una aperta simpatia per i suoi autori. Questa distanza critica si può cogliere facilmente attraverso una insistenza di Turoldo solo apparentemente linguistica, cioè l 'insistenza a declinare l 'essere come ente. «Ente», meglio di «essere », significa infatti, nella nostra lingua, «ciò che è», ossia ciò che originariamente appare; e lo significa co­ me una relcdone originaria di essenza («ciò») e di esistenza («che è»), do­ ve i due lati realmente si distinguono e, insieme, vicendevolmente si deter­ minano. L'unità dell'ente, nella sua forma radicale, è, per Turoldo, questa vicendevole o reciproca determinatezza (l'essenza è sempre l 'essenza di una certa esistenza e l ' esistenza è sempre l ' esistenza di una certa essenza); la molteplicità dell ' ente, di nuovo nella sua forma radicale, è, per Turoldo, questa diversità e irriducibilità dei suoi due lati, almeno nella nostra espe­ rienza storica. Questa irriducibilità è indubbiamente fonte di aporie, vorrei io aggiungere, concordando con Turoldo, ma non in sé e per sé, bensì per via del fatto che la diversità a noi storicamente appare nella forma domi­ nante della separatezza o della divisione, quando l ' ente, in generale, diviene e soprattutto quando l' ente diventa niente (la lezione insuperabile di Bonta­ dini, valorizzata da Turoldo, sta in questa magistrale indicazione speculati­ va). Perciò la soluzione dell' aporetica non può andar oltre il toglimento di 12

PRESENTAZIONE

questa separatezza, cioè oltre il toglimento del negativo dell' essere. Non vieta affatto, la soluzione dell 'aporetica, d'intendere il fondo dell'essere co­ me unimolteplicità, perché, appunto, la molteplicità, se non implica separa­ tezza o divisione, non dice nulla contro la purezza e l'assolutezza dell'es­ sere. Rispettando fedelmente questa indicazione ontologica fondamentale, che è il patrimonio di una tradizione altissima e veneranda (la tradizione aristote­ lica e tommasiana), Turoldo illumina e quindi ordina in modo persuasivo il senso del dibattito ontologico di cui, intanto, riferisce scrupolosamente. Le tesi ontologiche primarie della ricerca di Fabrizio Turoldo non sono, co­ munque, invadenti o astrattamente sovrapposte agli autori, bensì accennate o dichiarate o alluse con rispettosa fermezza. O fatte emergere direttamente dal contesto polemico. Propriamente, le si coglie nelle scelte della sequenza redazionale, in certe attenzioni contenutistiche, nella indicazione benevola delle fragilità argomentative qua e là evidenti. Turoldo è cauto e fine, anche perché si muove tra metafisici e non vuole certo far cattiva stampa alla metafisica. Vuole, semmai, difenderla e ono­ raria. Onoraria, onorando la memoria di Bontadini. Tanto che questo libro può esser letto, in ultima istanza, come un affettuoso «omaggio a Bontadi­ ni» (titolo che Turoldo ha apposto alla seconda parte del suo lavoro). Giu­ stamente, perché Bontadini ha riproposto nella filosofia italiana del Nove­ cento la questione della metafisica con una originalità difficilmente supera­ bile. Si capisce, allora, perché il sottoscritto, che ha imparato da Bontadini, desidera affidare con particolare piacere, agli estimatori della metafisica e pure ai suoi avversari, e il libro e l ' autore.

Carmelo Vigna

Università Ca' Foscari di Venezia

13

LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

l. Perché la metafisica?

Il problema fondamentale della metafisica è il problema di Dio. Così infatti pensava anche Aristotele, il quale considerava la metafisica «fra tutte le scienze la più divina», non solo per il fatto che «Dio possiede questa scienza in grado supremo», ma anche, e soprattutto, perché «essa è scienza delle co­ se divine» 1• L' interesse di cui la metafisica è stata fatta oggetto nel corso dei secoli si spiega dunque considerando che il suo problema fondamentale, os­ sia il problema di Dio, è anche il problema fondamentale dell 'uomo. Dio, comunque lo si voglia intendere, rappresenta infatti il compimento ultimo e più esaustivo del desiderio umano; quel desiderio che, se Dio fosse una pura illusione, sarebbe perennemente condannato alla frustrazione e allo scacco, dato che nessun oggetto finito sarebbe in grado di arrestarne la corsa. Em­ blematica, a questo proposito, è la posizione di un autore come Sartre che, negando una risposta positiva al problema di Dio, è costretto a risolvere il desiderio umano in una tensione assurda e disperata, per principio votata allo scacco. Ben diversa è invece la prospettiva di un autore come Lévinas che, rispondendo positivamente al problema di Dio, concepisce il desiderio come una tensione infmita, destinata a essere definitivamente appagata da un Bene assoluto. Ma il problema di Dio è anche il problema del senso della realtà: ci si domanda se la realtà abbia un senso, se essa risponda a un proARISTOTELE, Metafisica, E l,

1026a 1 8-23.

POLEMICHE DI METAFISICA

getto a cui è stata ordinata, o se essa sia semplicemente opera del caso. Di qui l 'importanza della metafisica: essa ha per oggetto un solo punto, l ' esi­ stenza di Dio, ma questo punto è anche l'omne punctum, ossia il punto che, da solo, è capace di cambiare di segno tutta la realtà nei suoi singoli aspetti. Spesso, infatti, la soluzione che viene data ai problemi della vita quotidiana dipende da quella scelta di fondo. Uno dei maggiori studiosi contemporanei di bioetica, lo spagnolo Diego Gracia, descrivendo qualche caso clinico molto problematico e cercando la soluzione concreta a quel caso specifico, conclude che la scelta finale dipende dall' opzione fondamentale (pro o con­ tro Dio) che si è preliminarmente fatta. Trattando dell 'aborto, ad esempio, egli scrive che «chi vede nelle cose e nella vita dei doni gratuiti, difficil­ mente vorrà danneggiarli volontariamente, soprattutto quando si tratta di un dono tanto importante come la vita»2 • Inoltre, mettendo a confronto le due opzioni pro e contro l' aborto, egli rileva che si tratta di «due posizioni di­ verse rispetto all'aborto, che dipendono da due atteggiamenti anch'essi di­ versi di fronte alla vita, alla realtà e al fondamento della vita e della realtà»3 • La stessa cosa, si potrebbe osservare, vale anche a proposito dell'eutanasia e di molti altri problemi. Hegel, nell'Ottocento, lamentava l ' eclissi della metafisica e scriveva che «un popolo civile senza metafisica» è «simile a un tempio riccamente or­ nato, ma privo di santuario» 4 , non immaginando neppure che la crisi più grave di questa veneranda scienza sarebbe venuta nel secolo successivo, proprio come reazione agli eccessi metafisici hegeliani. I post-hegeliani, fossero essi positivisti, marxisti od esistenzialisti, erano infatti uniti da un comune intento demolitorio nei confronti della metafisica. Questo scenario filosofico è comunque radicalmente mutato nel corso degli ultimi trent'anni. Innanzitutto il neopositivismo antimetafisico, morto assieme al suo princi­ pale dogma - quel principio di verificazione che, in quanto inverificabile, risultava del tutto contraddittorio -, ha lasciato il suo posto alla fùosofia analitica, ormai tutt'altro che antimetafisica. Inoltre il marxismo, che attri­ buiva alla fùosofia il compito di trasformare la realtà, anziché semplice­ mente interpretarla, ha subito il contraccolpo del crollo delle sue fallimenta­ ri realizzazioni storiche. L'esistenzialismo, infine, è confluito nell'altra grande corrente filosofica che, assieme alla fùosofia analitica, domina il pensiero contemporaneo, ovvero l ' ermeneutica, la quale, analogamente alla

D. GRACIA, Fondamenti di bioetica. S1'iluppo storico e metodo, Cinisello Balsamo (MI),

4

1 993, p. 462. Ibidem. G. W. F. HEGEL, Scien=a della logica, trad. it. di A. Moni, Bari, 1 974, 16

p.

4.

LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

filosofia analitica, non risulta affatto dichiaratamente e compattamente an­ timetafisica. Dunque, possiamo dire di trovarci oggi alle soglie di un rilancio in gran­ de stile dell 'impresa metafisica? Molti indizi condurrebbero proprio in que­ sta direzione. Proviamo allora a ragionare un po' su questo tema, alla luce delle prospettive dei maggiori pensatori presenti sull'odierno scenario filo­ sofico, sia italiano che internazionale.

2. La caduta della pregiudiziale kantiana Il pensiero kantiano ha costituito una delle forme più radicali di critica alla metafisica, forse quella che ha più sedotto gli spiriti antimetafisici e, sen­ z'altro, quella che ha maggiormente influenzato la contemporaneità 5• L' es­ senza dell'obiezione posta da Kant nei confronti del sapere metafisico con­ siste nella rilevazione che l ' essere trascende il conoscere e che, perciò, la scienza dell 'essere è impossibile. Questa critica concentra, in estrema sinte­ si, il lungo percorso compiuto dalla filosofia moderna, la quale «può essere raffigurata come un mazzo di fili che convergono e si annodano in Kant per poi tornare a divergere in molte direzioni »6• La critica kantiana è inoltre profondamente credibile perché proviene da un pensatore che, a differenza di Hume (l'altro grande antimetafisico del tempo), nutriva un' acuta sensibi­ lità e un sincero interesse per la metafisica, tanto da giungere ad affermare che «il vero e durevole bene del genere umano dipende dalla metafisica>/ . Oggi, però, per unanime riconoscimento, la critica kantiana alla metafi­ sica viene ricondotta a un ingiustificato presupposto, assunto dogmatica­ mente da tutti i pensatori moderni: il presupposto «gnoseologistico» o «fe­ nomenistico». Se prendiamo in esame due filosofi così diversi tra loro quali il razionalista Cartesio e il suo avversario materialista Hobbes, ci accorgia­ mo subito che essi condividono il comune presupposto secondo cui l'e­ sperienza è costituita da fenomeni, da modalità dell 'io e, non, da entità og­ gettive o da realtà naturali. Questa tesi, che possiamo definire fenomenisti­ ca, è dogmatica, perché acquista significato solo in rapporto a un oggetto che trascende la coscienza e che, in quanto trascende la coscienza (cioè in quanto non viene sperimentato), non può che essere un mero presupposto.

divenuto usuale, in «oramai, dopo Kant . >>.

Era infatti

.

un

certo periodo, liquidare la metafisica con

un

laconico

.

G. BONTADINL Studi di.filosofia moderna, Brescia, 1 966, p. 343. I. KANT, Lettera a Mendelsson, 8 aprile 1 766. Nell 'edizione degli scritti kantiani curata dali' Accademia prussiana, vol. X, p 70. 17

POLEMICHE DI METAFISICA

Tra l' oggetto esterno che provoca la rappresentazione e la rappresenta­ zione stessa esiste, secondo i moderni, lo stesso rapporto che c'è tra prende­ re un pugno e vedere le stelle: il pugno è la causa del nostro veder le stelle, anche se le stelle non sono esattamente la rappresentazione del pugno. li fe­ nomenismo moderno, in altri termini, si fonda su di una concezione «bali­ stica» della conoscenza, secondo cui la sensazione consiste nella reazione suscitata nel cervello da un moto proveniente dall'esterno. Hobbes avvalora questa concezione osservando che un colpo inferto al nervo ottico fornisce sensazioni analoghe a quelle provocate dalla luce. Come le stelle non sono la rappresentazione del pugno, così anche colori, suoni, sapori, ecc., non so­ no qualcosa di oggettivo, ossia di esistente al di fuori del soggetto. Vero og­ getto è ilfons emanationis di quei moti che hanno portato alla reazione sen­ sitiva del soggetto, cioè l ' estensione e il movimento, ossia quelle che i mo­ derni chiamavano «qualità primarie». La difficoltà di questa teoria, ovvero il circolo vizioso che essa produce, sta però nel fatto che, a ben pensarci, anche le qualità primarie sono, in fon­ do, delle nostre rappresentazioni. Nessuno è mai uscito dal pensiero per os­ servare com'è fatta una qualità primaria non pensata. Non è infatti possibile uscire dal pensiero per conoscere ciò che sta al di là del pensiero: sarebbe come voler saltare sopra la propria ombra, o come voler raggiungere l'oriz­ zonte. Che esista il mondo al di là delle nostre rappresentazioni non lo si può sapere per esperienza, ma solo per un calcolo razionale la cui premessa non è provata. La presupposizione di un oggetto esterno che provoca la sen­ sazione non è, in altri termini, frutto dell 'esperienza, ma di un' interpretazio­ ne metafisica dell' esperienza stessa. Eliminato il presupposto gnoseologistico dei moderni 8 si ritorna oggi al realismo del senso comune a cui si fermavano gli antichi, ma con un'impor­ tante nuova acquisizione, che permette di superare alcune ingenuità del sen­ so comune. Il senso comune è infatti persuaso delle seguenti due tesi: l) che esistano degli oggetti reali esterni al conoscere; 2) che questi oggetti reali noi li conosciamo, cosi come sono, attraverso l'influsso che essi esercitano sui nostri sensi. Ora, queste due convinzioni si contraddicono tra di loro, perché, se gli oggetti sono esterni al conoscere, allora ciò che percepiamo sono solo i fenomeni e non gli oggetti stessi cosi come sono. Se, invece, co­ nosciamo cose reali, queste cose non possono definirsi esterne al conoscere. I moderni denunciano la contraddittorietà e l' incompossibilità di queste due

II dualismo, si badi bene, va superato, ma solo in quanto presupposto! È possibile, in linea teorica, riscattare il presupposto attraverso una mediazione speculativa, che dimostri l'esi­ stenza di una realtà che travalica l'esperienza. Nel fenomenismo moderno, al contrario, questa dimostrazione manca del tutto. 18

LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

convinzioni fondamentali del senso comWle, tenendo per buona la tesi dua­ listica, secondo cui le rappresentazioni sono frutto dell' azione di Wla causa esterna al conoscere, a scapito di quella realistica, che considera oggettivo il contenuto della rappresentazione. I contemporanei, al contrario, compren­ dono che la tesi dualistica è inficiata da Wl errato presupposto e, dWlque, non trovano ragioni per negare l 'evidenza della tesi realistica, secondo cui noi conosciamo le cose così come esse sono nella realtà. Il fenomenismo moderno ha avuto il pregio di evidenziare la difficoltà di tenere insieme le due tesi del senso comWle, mentre la contemporaneità ha individuato, tra le due tesi, quella che era da scartare. DWlque, il recupero del realismo, come si vede, non consiste in Wl ritorno puro e semplice al pWlto di partenza. Il primo a mettere in discussione il presupposto infondato del fenomeni­ smo moderno è Berkeley, il quale osserva, contro Hobbes e Locke, che pro­ prio il pWlto di vista empiristico, da cui i due filosofi partono, conduce alla negazione della causa esterna, cioè della materia. Se le nostre conoscenze sono costituite solo da idee come possiamo, chiede Berkeley, sapere che esiste Wla causa esterna alle idee, che produce le idee stesse attraverso la sua azione meccanica? Berkeley si avvede che il mondo materiale, se viene concepito come lUla realtà che sta al di là della manifestazione fenomenica, costituisce Wl mero presupposto. Se il mondo sta dietro lo scenario dei dati non può, infatti, essere esso stesso Wl dato: se lo fosse andrebbe inferito o dimostrato, ma è proprio questa inferenza dimostrativa a non trovare spazio nei testi dei filosofi fenomenisti. Con Berkeley, di conseguenza, cade la di­ stinzione, tipicamente moderna, tra qualità primarie e qualità secondarie. Il secondario, infatti, si dice come tale in rapporto a Wl primario: caduto que­ sto cade la stessa secondarietà. Infatti, se non c'è più lUla cosa dietro la sen­ sazione, il contenuto della rappresentazione sale - o risale - al rango stesso di cosa. Questa preziosa acquisizione, però, convive in Berkeley con forti residui fenomenistici che la rendono ancora precaria. Dopo aver negato le qualità primarie Berkeley, infatti, conclude dicendo che tutto è fenomeno e nulla è reale, non avvedendosi che, venuta meno la secondarietà di alcWle qualità rispetto ad altre, ogni cosa sale al rango di qualità primaria. Berkeley crede invece che esistano solo fenomeni e, caduta la distinzione tra qualità primarie e secondarie, relega tutte le qualità nella funzione di secondarie. Inoltre anche Berkeley, come Locke e Cartesio, ritiene che le idee attual­ mente percepite dai sensi - le idee che «impressionano» i nostri sensi - sia­ no l'effetto di Wl'azione esercitata sulla mente da parte di lUla realtà esterna. L'unica differenza sta nel fatto che, secondo Berkeley, questa realtà non può essere materiale, cioè eterogenea al pensiero, ma spirituale e dWlque omoge­ nea a esso. Per questo egli individua nella Mente infmita di Dio la causa esterna che rende possibile l' impressione delle idee nella nostra mente. 19

POLEMICHE DI METAFISICA

Sarà l 'idealismo a eliminare definitivamente il presupposto dualistico, ben oltre le incertezze di Berkeley e, soprattutto, dopo la sua grande riaf­ fermazione in Kant. L'idealismo concepisce infatti il pensiero come una totalità intrascendibile, che si adegua - intenzionalmente o rappresentativa­ mente - all'essere stesso, alla realtà totale, sia pur pensata solo indetermi­ natamente. Gli idealisti osservano infatti, contro Kant e contro i fenomeni­ smi (e in fondo anche contro Berkeley), che non si può pensare qualcosa di non pensato. Questa potrebbe sembrare una banale tautologia, ma, se ci si riflette bene, in questa tautologia è contenuta una formidabile critica contro tutta la tradizione moderna. Le «qualità primarie dei fenomenisti», la «cosa in sé» di Kant e persino la «Mente inftnita» di Berkeley, sono, infatti, realtà che, pur essendo al di là o al di fuori del pensiero, vengono, ciononostante, pensate. Anche se si pensa a qualcosa che possa trascendere il pensiero, come, ad esempio, l'ignoto, oppure ciò che è solo potenzialmente conosci­ bile, se ne riscatta, per ciò stesso, la trascendenza rispetto al pensiero. Si potrà anche pensare a un'epoca in cui l'uomo non era ancora apparso sulla terra e in cui, di conseguenza, non esisteva il pensiero. Ma, appunto, si pen­ serebbe quell' epoca. Siamo qui di fronte a due lati o a due aspetti del pen­ siero: quello psicologico e quello intenzionale. Pascal, che non era affatto un idealista, aveva chiara questa distinzione quando affermava che «secon­ do lo spazio l 'universo mi comprende e mi inghiotte come un punto, ma se­ condo il pensiero sono io che lo comprendo»9• Affermare l' intrascendibilità del pensiero non significa dire che noi siamo chiusi in esso, come se si trat­ tasse di una prigione da cui non possiamo più uscire, perché l ' essere chiusi nel pensiero è, in realtà, un essere chiusi nell' essere aperti, cioè un esser confinati nella manifestatività. Il pensiero è intrascendibile, ma dentro il suo cerchio c'è l'essere: non dobbiamo preoccuparci per il fatto di non poter uscire dal pensiero, perché quello che si desidera attingere è dentro di lui, non fuori. Il vero significato dell'idealismo, inoltre, non consiste nella tesi della creazione dell' essere da parte del pensiero. Il concetto di creatività è stato utilizzato in opposizione a quell' idea secondo cui le rappresentazioni sono il risultato dell'azione di una causa esterna, cioè in opposizione a quella concezione passiva del pensiero che aveva contagiato lo stesso Ber­ keley. Il significato profondo della creatività attribuita dagli idealisti al pen­ siero consiste, invece, nell ' indicazione dell' originaria unità intenzionale dell'essere e del conoscere. E, una volta riconosciuta questa originaria unità, si riapre il sentiero della metafisica, ovvero della scienza dell'essere, perché viene a cadere l 'obiezione kantiana dell 'esteriorità dell 'essere al conoscere.

9

B. PASCAL, Pensées, fr. n. 1 13 (ed. Lafuma; Bnmschvicg 20

fr. n. 348).

LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

Kant ha scritto delle pagine bellissime sulla metafisica, alcune persino ca­ riche di una nostalgia struggente per un sapere dal quale l'umanità avrebbe sempre continuato a rimanere affascinata e di cui egli, suo malgrado, doveva indicare il superamento. «Che lo spirito umano rinunci un giorno a ogni ricer­ ca metafisica», scrive infatti Kant, «è così poco da attendersi come che, per non respirare sempre un'aria impura, noi preferissimo un giorno di astenerci affatto dal respirare. La metafisica vivrà quindi sempre nel mondo, anzi, me­ glio, vivrà sempre in ogni uomo, specialmente in ogni uomo capace di riflette­ re: ciascuno, in mancanza di un criterio comune, se ne costituirà uno alla sua maniera)) 10 • Kant, con queste belle parole, è stato facile profeta, perché subito dopo la stagione kantiana la metafisica ha ripetutamente invaso la scena filo­ sofica, dall'idealismo sino ai giorni nostri, alternando entusiasmi a provvisorie battute d'arresto. Sbagliava invece Kant nel definire impura l'aria della meta­ fisica ed era spinto a sbagliare a causa dell'eredità dualistico-fenomenistica che gli proveniva dalla filosofia moderna a lui antecedente. Ora la filosofia contemporanea ha ormai defmitivamente archiviato questo presupposto. Un grande passo in questa direzione è stato fatto da Husserl, il quale, sotto lo sti­ molo del pensiero di Brentano, ha correttamente precisato il concetto dell'in­ tenzionalità del pensare. Le nostre rappresentazioni, osserva infatti Husserl, non possono essere intese come modalità del pensiero, al contrario è il pensie­ ro che, con la sua attività, intenziona il reale rispecchiandolo. Il rosso, ad esempio, è un oggetto visto e, non, una modalità della coscienza: è il muro a essere rosso e non la coscienza! La coscienza è coscienza del rosso, dove il genitivo («del rosso))) esprime soltanto quello che Husserl (e prima di lui Brentano) chiamava il rapporto di intenzionalità: la coscienza intenziona il rosso, ossia ha il rosso come suo oggetto e, non, come sua proprietà ontologi­ ca. In ambito anglossassone questa preziosa acquisizione era stata raggiunta molto prima che in Europa continentale. Nel 1 903 il filosofo inglese G.E. Moore, in un celebre articolo dal titolo The Refutation of Jdealism 1 \ aveva infatti sostenuto tesi molto simili a quelle di Husserl.

3. L 'essenza del postmoderno La parabola del fenomenismo moderno si chiude con l' affermazione dell 'i­ dentità tra idealismo e realismo. La realtà viene riportata nel cerchio del co10

11

I. KANT, Prolegomena =11 einer jeden kiinftigen Metaphysik, die als Wissenschaft ll'ird aziftreten konnen, in Gesammelte Schriften, Akademieausgabe, Berlin 1900 e ss, B. IV, 367; trad. It. Di P Martinetti, Milano, 1958 (2), p. 213. G. E. MOORE, The Refotation qfIdealism, «Mind», n. s. 12, 1903, p p . 433-53. 21

POLEMJCHE

DI METAFISICA

noscere e il conoscere si presenta come il semplice aprirsi all'essere. Questa semplice verità lascia però del tutto indeterminato il volto dell'essere: af­ ferma che il pensiero interpreta il reale, ma senza precisare il senso di que­ sta interpretazione. Il reale resta, come totalità, avvolto nel mistero e, di conseguenza, resta celato anche il senso dell'esistenza umana. Resta, cioè, misterioso o problematico, il senso del «mondo umano», in quanto non se ne sa l 'origine prima, la destinazione ultima, e, più in generale, il rapporto di questo mondo con la totalità. Il pensiero ha per oggetto l'essere, ma l'es­ sere che è oggetto del pensiero rimane avvolto dal problema e il suo senso rimane del tutto indeterminato. Questa indeterminatezza costituisce la cifra fondamentale del postmodemo, ovvero di quella stagione che si è affacciata sulla scena filosofica dopo la crisi dell' idealismo, l'ultima grande filosofia della modernità. Indeterminatezza è sinonimo di crisi, cioè di difficoltà da parte del pen­ siero a determinare il senso della realtà. Questa crisi veniva salutata con entusiasmo da molti circoli culturali e, anche in Italia, alcuni intellettuali non esitavano a defmirla benefica. Secondo Antonio Banfi ( 1 887- 1 957), ad esempio, la crisi di valori tradizionali che si ritenevano ancorati a una de­ terminata - ferma, rigida, immutabile - concezione del reale, rappresentava un grosso guadagno, il più importante, perché portava alla scoperta del­ l 'uomo autentico, autore del proprio destino, libero di muoversi lungo le vie dell'invenzione, fuori dai ceppi di una tradizione ormai solo paralizzante: l' «uomo copernicano» (o «galileiano»), frutto di un sapere «aperto». Ciò non impediva a Banfi di riconoscere la dimensione metafisica, tanto che egli parlava di dimensione trascendentale, o di problematizzazione filosofica, che si produrr ebbe riferendo ogni particolare contenuto all'Intero. Il pro­ blematicismo di Banfi, fondandosi sull'inesauribilità della relazione sog­ getto-oggetto, risulta in perfetta continuità con l'ultimo idealismo italiano, visto che in un autore come Gentile idealismo non significa certo né onni­ scienza né, tantomeno, esaurimento della relazione soggetto-oggetto. L'i­ dealismo, al contrario, indica solo che la ricerca, il dubbio, il problema è interno all 'atto del pensiero: una verità certamente scarna, ma, al tempo stesso, incontrovertibile. A conclusioni analoghe a quelle di Banfi è giunto anche Ugo Spirito ( 1 896-1979), un filosofo che, a differenza dell'europeo Banfi12 , è forte­ mente radicato nella tradizione italiana, attraverso il discepolato compiuto alla scuola di Giovanni Gentile. Da Gentile Spirito aveva inizialmente ac­ colto l 'idea di un ripensamento della filosofia hegeliana, che ne scardinasse 12

Banfi

ha subito le influenze della Scuola di Marburgo e della fenomenologia husserliana.

Egli fu tra i primi a introdurre il pensiero di Husserl nel nostro paese.

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LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

dialetticamente il sistema e che mettesse in crisi l ' idea di un sapere definito una volta per tutte. Gentile aveva sottoposto a critica e dissolto dialettica­ mente l'ordinamento hegeliano del reale all'interno di un sistema stabile di determinazioni, adducendogli contro delle istanze - avanzate dalla fllosofia e dalla cultura posthegeliana - le quali lo scardinavano nei particolari e, più ancora, nella pretesa di totalizzazione sistematica. Al termine di questo sgretolamento restava in piedi la pura e nuda dialettica. Pensiero pensato e fatto risultavano essere infatti dei prodotti del pensiero pensante o dell' atto, cioè della dialettica. Spirito però obiettava a Gentile che l' attualismo, men­ tre scalzava tutte le precedenti posizioni, al tempo stesso trasformava l'Atto attuale del pensiero in quell 'assoluto che, per tanto tempo, si era invano cer­ cato fuori di esso. La dialettica, secondo Spirito, dopo aver dialettizzato tutto, doveva procedere a dialettizzare anche se stessa. Questa obiezione di Spirito interpretava indubbiamente lo spirito dei tempi, dava uno statuto teoretico al diffuso scontento nei confronti dell' idealismo e apriva il campo alle nuove espressioni della fllosofia contemporanea. Eppure occorre osser­ vare che essa corrisponde a una autenticazione piuttosto che a una confuta­ zione dell'idealismo gentiliano. La dialettizzazione della dialettica, infatti, costituisce una riconferma della intrascendibilità della dialettica. Si trascen­ de la dialettica dialettizzata ma non la dialettica dialettizzante (il pensato, non il pensante! ). La critica di Spirito, in altri termini, tratta l' attualismo come se fosse un'ennesima incarnazione dell 'intellettualismo, cioè come se fosse un nuovo rispecchiamento dell 'essere. Sia Banfl che Spirito avanzano dunque istanze problematicistiche, con la differenza, però, che quello di Banfl si contìgurava come un problematici­ smo trascendentale, mentre quello di Spirito era, piuttosto, un problematici­ smo situazionale. Il che significa che per Banflla problematicità è una con­ dizione inalterabile, insuperabile; mentre per Spirito è una condizione che si può (e si desidera) trascendere. Ne La vita come ricerca13 Spirito esprime infatti la speranza di trovare, speranza che può volgersi nelle direzioni più diverse. In alcuni passi Spirito sembra addirittura aprire la strada alla meta­ fisica, come possibile via d'uscita dal problematicismo, anche se questa apertura si trova in contrasto con l' altra sua idea, secondo cui ogni defmi­ zione dell' assoluto lo relativizza, perché ogni metafisica si risolve in una fisica, ovvero in una fisicizzazione, o limitazione, dell ' assoluto. La vera metafisica, secondo Spirito, sarebbe allora quella che si rassegna a lasciare l'assoluto avvolto dalle nubi della problematicità. Il problematicismo, di cui abbiamo presentato in estrema sintesi le prin­ cipali istanze, costituisce dunque l ' inevitabile esito dell'ultimo idealismo. 13 U.

SPIRITO, La vita come ricerca, Firenze, 1948 (3" ed.). 23

POLEMICHE DI :METAFISICA

Esso rappresenta però, al tempo stesso, una posizione filosofica nella quale è difficile restare soddisfatti, per il motivo, strutturale, che la speranza vuoi tradursi in appagamento e che il problema anela alla soluzione. Ed è per questo che né Banfi, né Spirito si sono fermati al problematicismo. Banfi si è avvicinato al neomarxismo e Spirito al neoscientismo, dottrine che, come si può osservare, non si situano più sullo stesso piano dell' idealismo e del problematicismo, sul piano, cioè, della pura e critica teoreticità. Dunque, dopo l'idealismo gentiliano e la sua coerentizzazione problematicistica si è aperta la strada alle diverse opzioni ideologiche e alle diverse fedi, senza che nessuno possedesse un criterio per metterle in relazione e per preferirne una a un'altra. La situazione dell'uomo contemporaneo è quella di sentirsi gettato in un mondo e in un linguaggio di cui egli è solo spettatore e uditore. Egli si trova ad ascoltare parole molteplici e contraddittorie, parole che si elidono tra di loro e che lo lasciano disorientato. In questo panorama scon­ solato sembra che solo la forza, in mancanza di un criterio razionale, possa consentire a una fede di prevalere sull'altra e di imporsi alla moltitudine. Ecco allora che vengono ad acquisire un ruolo fondamentale i mezzi di co­ municazione di massa, gestiti da lontani centri di potere, in base a sofisticate tecniche di manipolazione del consenso. Ecco inoltre che la riflessione contemporanea sente sempre più urgente la necessità di interrogarsi sul ruolo della tecnica e sul senso della violenza. La tecnica ormai consente di imporre una fede sulle altre in modo arbitrale, ossia senza che questa fede possieda un maggiore valore di verità rispetto alle sue antagoniste. Tutto ciò si chiama comunemente violenza ed è per questo che proprio sul tema della violenza occorre ora spostare l 'attenzione.

4. Violenza e metafisica Una delle accuse più frequenti che la cultura post-modema rivolge alla me­ tafisica è, senza dubbio, quella di violenza. Questa accusa è stata formulata per la prima volta in modo esplicito e anche letterariamente efficace da Nietzsche, il quale, nella sua Genealogia della morale14, pensava di poter smascherare, dietro i grandi sistemi metafisici, l' opera della «morale del ri­ sentimento». TI «Dio buono» e la morale dei metafisici sarebbero infatti, se­ condo Nietzsche, il prodotto della violenza repressa (il «risentimento», ap­ punto) covata da tipi umani malriusciti quali sono i filosofi e i sacerdoti. Il filosofo, in particolare, viene rappresentato in Genealogia della morale, 14

F. NIETZSCHE, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, trad. it. F. no, 1992.

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Masini, Mila­

LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

come un «animale che non ha coma né morde», ma che, dietro l 'infelicità di una vita sacrificata agli studi, nasconde una volontà di potenza inaudita. Egli, infatti, non si curerebbe del proprio sacrificio, pur di trionfare, attra­ verso le sue idee, in un arco di tempo superiore a quello della sua singola esistenza, con conseguenze su tutta l 'umanità e pur di compiere, in questo modo, la propria vendetta contro il mondo. Tipi umani malriusciti quali il filosofo, il sacerdote e l' asceta, mostrano infatti, all 'apparenza, un profondo disinteresse per le cose di questo mondo, mentre in realtà covano in loro una fortissima volontà di dominio sugli altri. La loro morale, che Nietzsche de­ finisce «morale degli schiavi», è l'unico modo e l'unico strumento attraver­ so cui essi possono prevalere sugli altri; essi infatti sono individui costituti­ vamente deboli, che utilizzano la metafisica e la morale che su di essa si fonda, per soggiogare i forti. La loro morale predica la democrazia, il socia­ lismo, l'amore per il prossimo, l'uguaglianza, e così via. Essa viene legitti­ mata da metafisiche che, dietro un presunto manto di oggettività, inventano mondi superiori per poter calunniare e insudiciare questo mondo e per ri­ durlo a mera apparenza. Il risentimento dei metatìsici, secondo Nietzsche, ha proibito gli istinti più sani, gli istinti cioè che legano l 'uomo alla terra: la gioia, la salute, l'amore della vita, la forza, l 'intellettualità superiore, facen­ do diventare dovere e virtù comportamenti quali il disinteresse, il sacrificio di sé, la sottomissione. Alla morale degli schiavi Nietzsche contrappone la morale aristocratica dei forti, che nasce da una trionfale affermazione di sé. L'accusa di violenza lanciata da Nietzsche contro la metafisica è stata più tardi ripresa da Jaspers e da Heidegger. Secondo questi due autori la metafisi­ ca avrebbe sconvolto quell'unità del Tutto che era invece evidente agli occhi dell'uomo prima della comparsa del pensiero filosofico. L'unica differenza tra le loro due analisi emerge al momento dell 'individuazione della causa di que­ sta rottura: Jaspers infatti la imputa all'irruzione della cultura giudaico-cri­ stiana nell'Occidente greco, mentre Heidegger la attribuisce all'avvento del platonismo e della metafisica. I due autori, comunque, ritrovano la loro con­ cordia quando si tratta di identificare l'essenza violenta della metafisica nel suo legame con la tecnica 1 5 • La metafisica costituirebbe infatti, a loro dire, un'operazione di dominio intellettuale sul mondo, dominio garantito dai prin­ cipi della logica e dall'idea-mito di una verità oggettiva, intesa come perfetta adeguazione del pensiero al reale. La metafisica occidentale, inoltre, avrebbe

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Heidegger ritiene, infatti, che «il dominio della metafisica» si manifesta «nella forma della tecnica moderna e dei suoi sviluppi imprevedibili e frenetici» (Die onto-theologische Ver­ fassung der Metaphysik, in Identitiit und Differen::, Pfullingen 1990, p. 64) e che «la tecni­ ca [... ] si fonda sulla storia della metafisica» (Brief uber den , in Platons Lehre von der Wahrheit, Bem 1975, p. 88).

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POLEMICHE DI METAFISICA

forgiato una visione del mondo perfettamente funzionale al dominio tecnico sul mondo, perché basata sull'idea di un Dio onnipotente, creatore di ogni co­ sa dal nulla e, dunque, garante supremo della manipolabilità delle cose. Se­ condo i due autori, infine, sarebbe con l'avvento del cristianesimo che questa tendenza, già presente nella metafisica greca (dove il dio è, tutt'al più, un su­ premo architetto e, mai, un creatore ex nihilo ), sarebbe stata condotta alle estreme conseguenze. È il Dio biblico infatti che, nel libro della Genesi, co­ manda ad Adamo di disporre liberamente delle cose del modo, create unica­ mente perché egli se ne serva. In Italia l'accusa di violenza è stata rivolta in anni recenti alla metafisica dal «pensiero debole», una corrente filosofica che fa capo a Gianni V attimo e che propone una razionalità alternativa rispetto a quella tradizionale, con­ siderata «forte». Questa proposta è particolarmente suggestiva perché rac­ coglie le istanze antimetafisiche presenti nei testi di Nietzsche, Heidegger, Jaspers, Derrida, ecc., riconducendole a un minimo comun denominatore, ossia alla polemica contro una metafisica intesa come un sapere veritativo e stabile che, in quanto tale, si presenterebbe come forte e, dunque, come «violento». La cifra della debolezza risulta di estremo interesse, perché esprime il desiderio di far posto alla molteplicità dei saperi e la preoccupa­ zione per un possibile irrigidimento dell'apparato categoriale classico. De­ bolezza significa confessione della condizione di finitezza della conoscenza umana e riconoscimento dei suoi limiti. In questo senso il pensiero debole raccoglierebbe la migliore eredità del kantismo e dell'ermeneutica, se il fine di Kant era quello di individuare limiti e spazio di validità del sapere e se lo scopo dell'ermeneutica è, a sua volta, quello di mostrare la fmitezza del­ l'umano comprendere. Sottolineare le forme della caducità, dell' insicurezza e dell 'infondatezza, che la razionalità filosofica e scientifica sperimentano in molti dei loro tentativi di sistematizzare la conoscenza del reale, è uno dei compiti che la filosofia deve continuamente esercitare. Solo mettendo con­ tinuamente la ragione di fronte alla sua debolezza possiamo infatti agire ef­ ficacemente contro le varie forme del dominio intellettuale e culturale, con­ tro l ' arroganza di chi è convinto di avere sempre in tasca la verità e, proprio per questo, si mostra poco disposto al dialogo e piuttosto incline all'im­ posizione. Debolezza significa flessibilità, capacità di adeguazione al cam­ biamento, possibilità di una lettura fresca degli eventi, che sappia andare oltre la rigida applicazione di vecchie strutture interpretative sclerotizzate e stabili. Pensiero forte e pensiero debole, però, non sono due contraddittori, come li vorrebbe presentare V attimo, ma due contrari. L 'unilateralità di chi intende la razionalità filosofica sempre e solo come razionalità forte costi­ tuisce un errore speculare rispetto a quello di chi, altrettanto unilateralmen­ te, attribuisce al pensiero sempre e comunque la cifra della debolezza. Se 26

LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

l' essere è plurivoco, allora è plurivoco anche il vero; se sono molti i signifi­ cati dell'essere, molte sono di conseguenza anche le modalità della cono­ scenza dell'essere. Paul Ricoeur, con il solito equilibrio che lo ha sempre contraddistinto, ha molto insistito su questo concetto, istituendo un parallelo tra le diverse zone dell'adeguazione e i trascendentali della tradizione me­ dievale. Il vero, il buono, il bello, ecc. sarebbero infatti, secondo Ricoeur, diverse modalità dell 'essere a cui corrisponderebbero diverse modalità del vero: la verità teoretica, la verità pratica, la verità estetica e così via16• Se il pensiero metafisico riconosce la complementarietà tra razionalità forte e ra­ zionalità debole viene allora a cadere l' accusa di violenza rivolta contro di esso da Vattimo. Violenza ci sarebbe, infatti, solo se un discorso debole si presentasse come forte per mettere a tacere gli altri. li sostenitore di un par­ tito politico che pretendesse di attribuire al programma del proprio movi­ mento il valore dell'incontrovertibilità e dell'assolutezza si esporrebbe, co­ me è ovvio, alla tentazione della violenza e del dominio. Le dittature sono nate infatti quando si sono affacciati sulla scena movimenti politici che pretendevano di essere portatori di verità assolute, che potevano essere im­ poste senza il consenso e a fin di bene. Si pretendeva infatti di conoscere ciò che era bene per gli altri meglio degli altri stessi. E invece, ogni ideologia politica non può che essere un pensiero debole, come già ci insegnava Ari­ stotele. La morale e la politica sono infatti saperi della prassi, che hanno per oggetto realtà divenienti, rispetto a cui non si può dare episteme, ma solo doxa. Se, invece, diciamo che il tutto è maggiore della parte e presentiamo questa proposizione come una proposizione forte, non facciamo alcuna violenza. In questo caso abbiamo a che fare con realtà stabili su cui è possi­ bile formulare delle conoscenze stabili. Anzi, negare queste verità signifi­ cherebbe fare violenza; violenza, cioè, alla ragione. La violenza, in altri termini, accade quando una verità è tenuta ferma per semplice decreto, cioè in modo dispotico e arbitrario (sic volo, sicjubeo): questo, in fondo, è anche il senso della polemica galileiana contro l ' ipse dixit. L'uso violento della ragione si verifica anche quando si nega qualsiasi possibilità di produrre un sapere forte, ossia quando si afferma che qualsiasi discorso è sempre, neces­ sariamente, debole. Perché delle due l 'una: o la negazione del sapere forte è, a sua volta, un discorso forte, di cui si devono, però, fornire delle ragioni che ancora non si vedono; oppure la negazione del sapere forte è una nega­ zione debole, ossia una negazione che non esclude la possibilità della futura ostensione di una qualche verità stabile. Quest'ultima potrebbe essere la formulazione più coerente del pensiero debole e, con questa formulazione, 16

Vedi P. RlCOEUR, Per zma ontologia indiretta: l 'essere, il vero, il giusto (e/o il buono), «Aquinas», III,

pp.

483-499.

27

POLEMICHE DI METAFISICA

saremmo ritornati, molto semplicemente, alla riproposizione del problema­ ticismo situazionale di Ugo Spirito. Le riserve nei confronti del sapere forte possono nascere per il fatto che questo pensiero, producendo un sapere sta­ bile, sembrerebbe chiudere la strada al dialogo, lasciando spazio a chi, con­ vinto di possedere la verità, pretendesse di imporla ai suoi simili. Non sono queste riserve di poco conto, perché filosofare significa essenzialmente dialogare, con sé o con altri e, chi è sicuro di possedere la verità, viene a volte preso dalla tentazione di non ridiscutere più questa sua verità, né con sé, né con altri. Eppure, occorre anche dire che non c'è dia-logo se non c'è logo e che, dunque, il dialogo non consiste in una semplice mediazione tra istanze opposte, in nome del rispetto reciproco. Ci sono infatti delle occa­ sioni in cui uno dei due dialoganti è nella ragione e l'altro nel torto e, a volte, il torto di certe posizioni è dimostrabile, vuoi perché si autocontraddi­ cono, vuoi perché contraddicono qualche evidenza logica o fenomenome­ nologica, vuoi, ancora, perché contraddicono qualche proposizione assolu­ tamente fondata. Se non si riconosce questo, allora il valore teorico di una tesi non può essere dato da altro che dalla sua efficacia pratica. Se non esi­ ste la verità ci sono solo fedi, ciascuna delle quali vuole, arbitrariamente, che il senso del mondo sia di un certo tipo piuttosto che di un altro. Non si vedrebbe, in questo caso, che cosa potrebbe decidere dello scontro tra le molteplici volontà, se non la loro forza, che è anche forza di persuasione. Se non esiste la verità non si vede, inoltre, per quale ragione vada sostenuto ancora quel rispetto del prossimo sul quale il dialogo stesso si fonda. Per­ ché, infatti, il prossimo doVTebbe essere rispettato? «Questa domanda», se­ condo Emanuele Severino, «rimarrebbe senza risposta, per il fatto che la fede nel rispetto del prossimo ha "valore" solo come fede vincente, cioè come fede che riesce a imporsi sulle fedi altemative» 17 • Dunque, non si può confutare la metafisica semplicemente facendone la genealogia e dicendo che al suo fondo c'è il risentimento di individui mal­ riusciti. Così come non è sufficiente dire, come faceva Freud, che Dio è una proiezione del padre, per negame l'esistenza. La metafisica potrà pure esse­ re frutto del risentimento o della proiezione, ma il problema reale è quello di sapere se le proposizioni che essa afferma sono vere o false. Molte possono essere le ragioni per cui gli uomini credono in Dio o in un ordine delle cose simile a quello descritto dalla metafisica; a volte queste ragioni non sono nobili, a volte non lo sono per nulla, ma ciò non significa che, per questo, Dio non debba esistere. La genealogia e il sospetto non possono mai pro­ nunciare una parola definitiva.

17 E.

SEVERINO, La violen=a del dialogo, in n parricidio mancato, Milano,

28

1 985, p. 129.

LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

Un'analoga difficoltà incontrano le critiche heideggeriane e jaspersiane, le quali non entrano affatto nel merito delle proposizioni metafisiche e delle loro dimostrazioni. Discutibile risulta inoltre la loro tesi secondo cui «Dio sarebbe il primo tecnico e la tecnica l'ultimo Dio» e che, dunque, l ' idea moderna dell 'assoluta manipolabilità di tutte le cose avrebbe come garante il Dio biblico e come conseguenza inevitabile la devastazione della natura. Una lettura attenta di Genesi rivela, infatti, che la natura è, certamente, ciò di cui l' uomo può disporre, ma solo secondo un ordine stabilito dal Creato­ re. In questo senso sarebbe piuttosto il pensiero antimetafisico moderno che, attribuendo all'uomo la radice della totalità del senso, avrebbe spalancato le porte a un utilizzo indiscriminato della tecnica. Nella concezione giudaico­ cristiana, al contrario, la natura non è un oggetto assolutamente disponibile a qualsiasi manipolazione, perché l'uomo è concepito come il vicario di Dio su questa terra. Ed un vicario, si sa, deve sempre rispondere dell'uso che fa del potere a Colui che questo potere gli ha fornito. Infine: è proprio vero che la nascita della metafisica costituisce un'esplosione di violenza, per il fatto che sconvolge quell'unità del Tutto in cui si cullava il pensiero prefilosofi­ co? Sembrerebbe proprio di no, perché la civiltà mitico sacrale, come osser­ va molto persuasivamente Réné Girard, intende il sacro in modo fondamen­ talmente ambivalente, ossia come un doppio mostruoso. Il divino presente nel mito è, in altri termini, un divino in continua trasformazione, che intrat­ tiene rapporti ambigui con l 'umano, ossia rapporti che si stagliano su di uno sfondo di inaudita e originaria violenza. Con il cristianesimo, al contrario, crolla la maschera deforme di un divino ambivalente e viene alla luce un Dio sollecito verso l 'uomo, un Dio che non ammette esitazioni nella sua di­ sponibilità, sino a giungere al proprio sacrificio nella figura del Figlio. In questo senso si potrebbe addirittura ribaltare l 'accusa di Heidegger e Jaspers, dicendo che la metafisica può essere violenta solo nella misura in cui continua a trascinarsi dietro qualche residuo della concezione mitica, che concepisce la violenza come originaria. L'alienazione filosofica, in altri termini, non starebbe nel distacco della filosofia dal mito, ma in un distacco in alcuni casi non ancora soddisfacente18 •

18

La linea interpretativa che ho qui delineato a proposito del rapporto tra violenza e meta­ fisica viene sviluppata in modo più articolato nell'interessante e documentato saggio di Carlo G. CHIURCO dal titolo D ruolo teoretico della vio/en=a nel rapporto uomo-mondo, ne Il problema della rela=ione uomo-mondo, Padova, 2000, pp. 305-33. 29

POLEMICHE DI METAFISICA

5. Fenomenologia, ermeneutica e metafisica 1 9 L'ermeneutica costituisce, insieme alla filosofia analitica, una delle due gran­ di correnti che si spartiscono lo scenario del pensiero contemporaneo. Essa rappresenta uno sviluppo della fenomenologia husserliana e, nel pensiero di molti autori contemporanei, continua a intrecciarsi con la fenomenologia da cui è nata, tanto che sarebbe più corretto parlare di una corrente fenomeno­ logico-ermeneutica, piuttosto che di una corrente semplicemente ermeneuti­ ca. Per queste ragioni ci pare utile far partire la nostra riflessione sulla pre­ senza della metafisica nel pensiero contemporaneo da un' analisi dei testi di Husserl, ossia di colui che è stato l' iniziatore della fenomenologia e il mae­ stro di Heidegger, a sua volta padre dell' ermeneutica. Husserl è particolarmente chiaro nel descrivere i rapporti che intercorro­ no tra la fenomenologia e la metafisica. «lo vorrei», scrive infatti il filosofo, «per evitare malintesi, indicare che la fenomenologia, come noi l'abbiamo compiuta innanzi, esclude solo ogni metafisica ingenua che abbia a che fare con le cose in sé che costituiscono un controsenso, ma non esclude in gene­ rale la metafisica»20 . Anzi, potremmo aggiungere noi, non solo la fenome­ nologia non esclude la metafisica, ma essa la implica persino, se con il ter­ mine «metafisica» si vuole indicare semplicemente la filosofia prima. Nelle lezioni del semestre invernale 1 923-24 dedicate alla Erste Philosophie, Husserl si propone infatti «il compito storico di dare alla fenomenologia la forma di sviluppo di una filosofia prima» (così appunto recita il titolo della prima lezione). Che poi la ftlosofia prima costituisca una delle varie decli­ nazioni della metafisica è Husserl il primo ad amm etterlo. «Come è noto», osserva infatti il filosofo, «il termine di "Filosofia prima", introdotto da Ari­ stotele per indicare una disciplina filosofica, venne sostituito nell'era post-a­ ristotelica dali' espressione "metafisica", entrata accidentalmente neU 'u­ so»21 . La filosofia prima, inoltre, si dice tale, secondo Husserl, per la sua 19

Le cose che qui vengono dette in modo molto succinto sono esposte in maniera più distesa

e approfondita in un bel saggio di Angela ALES BELLO dal titolo Fenomenologia e me­ tafisica (Seconda naviga;;ione. Annuario di filosofia, Milano, 2000, pp. 17 1-219), dal

quale ho ricavato molte delle informazioni qui riportate. Altrettanto utile, sia per la stesura

20

21

di questo paragrafo che per quella del paragrafo successivo, mi è risultata la lettura del saggio, come sempre penetrante e informatissimo, di Enrico BERTI La prospettiva metqfi­ sica tra analitici ed ermeneutici, Seconda nm•iga;;ione. Annuario di filosofia, Milano, 2000, pp. 45-62. E. H USSERL, Cartesianische Meditationen und Pariser Vortriige, «Husserliana», L Den Haag 1 963; trad. it. di F. Costa Medita;;ioni cartesiane e Discorsi parigini, Pisa 1 990, pp. 209-10. Id. , Erste Philosophie, I , «Husserliana», VII, 1956; trad. it. Storia critica delle idee, a cura di G. Piana, Milano 1989, p. 202, nota l . 30

LA :METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

universalità, per la sua fondatezza e, soprattutto, per il fatto di essere pre­ supposta da tutte le filosofie seconde e da tutti gli altri rami del sapere. Hus­ serl usa spesso l'espressione di «scienza rigorosa» come sinonimo di filoso­ fia prima22 e osserva che l 'idea di una filosofia prima intesa come scienza rigorosa si ritrova già nel pensiero di Platone. In Platone, nota infatti Hus­ serl, è presente l'idea di una filosofia prima intesa come «scienza della tota­ lità dei principi puri (apriorici) di tutte le conoscenze possibili e della tota­ lità delle verità aprioriche incluse sistematicamente in esse, quindi da esse puramente deducibili »23 • Dunque, il termine metafisica è inteso, innanzitutto, in Husserl, come si­ nonimo di filosofia prima e di scienza rigorosa24• Ma, accanto a questa ac­ cezione del termine ne convivono almeno altre due nei testi husserliani. A volte infatti «metafisica» sta a indicare una «filosofia seconda» che si occu­ pa dei problemi ultimi dell 'esistenza25 , mentre altre volte ancora acquisisce un'accezione negativa, ossia quella di una ricerca priva di fondamento26 • 22

23

24

25

Id. , Philosophie als strenge Wissenschaft, in «Logos », 1 9 1 1 ; trad. it. di F. Costa, La filo­ sofia come scien:;a rigorosa, Pisa 1 990. Id. , Storia critica delle idee, cit . , p. 34. Nel paragrafo 60 delle Medita::ioni cartesiane, quando Husserl espone i suoi risultati «metafisici », intende la metafisica come filosofia prima. In quest'opera egli dice infatti di intendere la metafisica come «conoscenza ultima dell'essere . . che in origine era stata fondata come filosofia prima» (Id. , Medita::ioni cartesiane, cit. , p. 1 9 1 . ), arrivando persino a identificare la fenomenologia con quella che egli chiama metafisica trascendentale (lbid , p. 1 96). In questa accezione il termine «metafisica» indica l ' applicazione dell'eidetica alla vita fattuale, nel tentativo di assumere i problemi sommi della metafisica tradizionale nella di­ mensione trascendentale della filosofia prima. Scrive infatti Husserl: «Attraverso l 'inter­ pretazione ultima, che si sviluppa nell'applicazione della fenomenologia eidetica, dell'es­ sere oggettivo in esse indagato come fatto (Faktum) e attraverso la considerazione Wliver­ sale, postulata dalla fenomenologia, di tutte le regioni dell'oggettività in relazione alla co­ munità universale dei soggetti trascendentali, il mondo intero, il tema universale delle scienze positive, ottiene un 'interpretazione «metafisica», cioè un 'interpretazione tale da rendere priva di senso scientifico la ricerca di Wl 'interpretazione diversa» Id. , Storia criti­ ca delle idee, cit., p. 202, nota l . L a metafisica, intesa in questo senso, trova spazio in molte opere di Husserl, i l quale non esita a prendere in esame lo stesso problema di Dio. n paragrafo 58 delle Idee per una fe­ nomenologia pura, ad esempio, ha per titolo La trascenden::a di Dio neutra/i:::;ata. In que­ sto brano Husserl riflette sulla teleologia immanente che caratterizza il mondo, la quale si manifesta, ad esempio, nello sviluppo degli organismi e nella continua crescita dei tesori della cultura. Questa teleologia rinvia inevitabilmente a un «fondamento» ultimo. Certo, la coscienza è il riferimento del senso e, se noi non esistessimo, non ci sarebbe per noi nem­ meno il mondo e il suo fondamento; questo però non significa che il mondo e il suo fon­ damento metafisico non esistano indipendentemente dalla nostra esistenza. L ' essere asso­ luto, spiega infatti Husserl, «sarebbe trascendente non solo rispetto al mondo, ma anche ri­ spetto alla coscienza "assoluta". Sarebbe dWlque un "assoluto" in senso totalmente diverso 31

POLEMICHE DI l\1ETAFISICA

I discepoli di Husserl sono stati in grado di far interagire la fenomenolo­ gia con le grandi questioni della metafisica meglio di quanto fosse stato ca­ pace di fare Husserl. Questo per il semplice fatto che spesso essi conosce­ vano meglio di lui la tradizione filosofica. Husserl, infatti, era un matemati­ co che aveva iniziato a far filosofia sotto l' influenza di Brentano, con l ' in­ tento programmatico di andare direttamente alle «cose stesse», piuttosto che ai testi della tradizione. Inoltre gli allievi maggiori di Husserl lo avevano incontrato dopo aver acquisito altrove una solida formazione filosofica. È questo, ad esempio, il caso di discepoli diretti come Martin Heidegger, Hedwig Conrad-Martius, Edith Stein, oppure indiretti come Maurice Merle­ au-Ponty e Jean-Paul Sartre. Alcuni di questi autori, proprio per questo mo­ tivo, riuscirono a operare una sintesi tra le principali istanze della fenome­ nologia husserliana e le tematiche tipiche della tradizione metafisica classi­ ca, a cui invece Husserl non si mostrava molto sensibile. La maggiore difficoltà che si frapponeva tra il pensiero di Husserl e la metafisica classica era costituita dall'accettazione da parte del filosofo del dogma positivistico secondo cui l'esistenza è semplicemente fattualità. Egli, per questo motivo, non lavorava sul tema metafisico classico relativo al rapporto tra essenza ed esistenza, ma su quello del rapporto tra fatto ed es­ senza, cercando di cogliere il senso (o l'essenza) della fattualità. Certo, an­ che il tema dell' essenza è passibile di sviluppi metafisici, come mostrano le riflessioni di Husserl sulla teleologia, ma questi sviluppi prendono una dire­ zione diversa da quelli tipici della metafisica classica. Husserl, in altri ter­ mini, non si poneva la questione radicale «perché l'essere e non il nulla? », questione che prima di lui si era posto Leibniz e che si porrà il suo allievo Heidegger. Egli, invece, come i positivisti, dava per scontato che le cose fossero e ne ricercava semplicemente l 'essenza. La fenomenologia post-husserliana, al contrario, è ricchissima di svilup­ pi metafisici. Significative risultano essere in questo senso le opere della fenomenologa Hedwig Conrad-Martius, i cui titoli sono perfettamente indi­ cativi del profondo interesse di questa autrice per la metafisica classica-

26

dall 'assoluto della coscien::.a, come d'altra parte sarebbe un trascendente in senso total­ mente diverso dalla trascendenza nel senso del mondo» Id. , Ideen ::.u einer reinen Phiino­ menologie und Phiinomenologischen Philosophie I, «Husserliana», III, 1 950; trad. it. di E. Filippini Idee per zmafenomenologia pura e una .filosofia fenomenologica, Torino 1 965, p. 128. A questo essere assoluto, però, Husserl solamente accenn a , limitando poi di fatto l ' analisi alla sola coscienza pura. Nelle Medita::.ioni cartesiane Husserl oppone infatti la metafisica trascendentale alle av­ venture metafisiche, intese come eccessi speculativi o discorsi non fondati (Id. , Medita::.io­ ni cartesiane, cit., p. 1 96).

32

LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

mente intesa (Onto/ogia del reale, del 1 923 27 e L 'essere, del 1 957 28). La Conrad-Martius compie infatti un percorso di avvicinamento al pensiero classico e alle sue grandi questioni metafisiche, criticando in particolare nel­ la fenomenologia l' impostazione tendenzialmente idealistica, dovuta al mo­ do di intendere la riduzione trascendentale. L'orientamento realistico pre­ sente nel pensiero di Conrad-Martius è rinvenibile anche nel pensiero di Edith Stein, l'altra grande fenomenologa allieva di Husserl. La Stein è chia­ ramente influenzata, come lei stessa ammette nella prefazione a Essere fi­ nito e Essere eterno29 , dall'opera della Conrad-Martius, anche se, nella ri­ flessione della Stein, l'interesse per il pensiero classico e la curvatura meta­ fisica della costruzione speculativa risultano ancora più pronunciati. La Stein ribadisce l 'accusa di idealismo nei confronti del maestro, accusa già avanzata dalla Conrad-Martius, ma da un punto di vista diverso e, a mio av­ viso, assai più interessante (almeno per quanto riguarda gli sviluppi metafi­ sici della critica): l 'idealismo di Husserl, infatti, risiederebbe, secondo la Stein, non tanto nel modo di intendere la riduzione alla coscienza, ma nel­ l' attenzione esclusiva per l'essenza e nella mancata considerazione del mo­ mento attuale-reale. L 'indagine ontologica della Stein, al contrario, non ri­ nuncia alla ricerca del significato dell 'essere, ma integra l ' analisi del mo­ mento gnoseologico, a cui la fenomenologia husserliana si era arrestata, con l'analisi del momento attuale-esistenziale. Questo secondo aspetto si presta a sviluppi metafisici non meno che il primo: l ' analisi dell'essenza, come ha mostrato Husserl, conduce alla via teleologica, mentre la considerazione se­ condo cui le essenze hanno un' esistenza e l 'ulteriore considerazione secon­ do cui questa essenza non è autonoma, conducono alla via cosmologica. Scrive infatti la Stein: «Ciò che dà l ' essere a me, e che nello stesso tempo colma di senso questo essere, deve essere non solo padrone dell' essere, ma anche padrone del senso: nell ' essere eterno è contenuta tutta la pienezza del senso ed esso non può attingere se non da se medesimo il senso con cui vie­ ne ricolmata ogni creatura, allorché è chiamata all 'esistenza»30 • Maurice Merleau-Ponty, altro grande fenomenologo di scuola husserlia­ na, è particolarmente colpito dal tema husserliano del mondo, mondo che viene colto innanzitutto attraverso la dimensione corporea e di cui il corpo è parte. Per questo Merleau-Ponty, come molti altri fenomenologi francesi, tra 27 28 29

30

H. CONRAD-MARTIUS, Realontologie, in «Jahrbuch filr Philosophie und ph!lnomenolo­ gische Forschung», VI, 1 923. Id. , Das Sein, Milnchen 1 960. E. STEIN, Endliches und ewiges Sein. Versuch eines A ujstiegs =um Sinn des Seins, Werke, II, Freiburg 1 950; trad.it. di L. Vigone, Essere finito e Essere eterno, revisione e presen­ tazione di A Ales Bello, Roma 1 999 (3). Ibid , p. 145. 33

POLEMICHE DI METAFISICA

cui Sartre, Ricoeur e, più recentemente, Mare Richir, cerca di uscire dalla sfera ristretta del cogito per estendere l 'applicazione del metodo eidetico alla sfera della corporeità e del mondo emotivo, con risultati diversi e a volte opposti rispetto a quelli raggiunti dalle scienze oggettivanti (fisiologia, medicina, ecc.), che tradizionalmente si erano occupate di questi domini. Il tema della corporeità richiama, in Merleau-Ponty, quello del rapporto tra visibile e invisibile e quest'ultimo, a sua volta, apre il varco alla metafisica. Il visibile del mio corpo, osserva Merleau-Ponty, rimanda a ciò che non è visibile, pur essendo annunciato nelle pieghe del visibile: l'invisibile è un positivo assente, un nascondimento determinato dalla finitezza della nostra apertura al mondo circostante. Scrive infatti Merleau-Ponty: «Si deve com­ prendere che è la visibilità stessa a comportare la non-visibilità. Nella misu­ ra in cui io vedo, io non so quello che vedo . . . e ciò non significa che non ci sia qui niente, ma che il Wesen in questione è quello di un raggio di mondo tacitamente toccato» 3 1 • E conclude: «lo sono contro la finitezza nel senso empirico, esistenza di fatto che ha dei limiti: ecco perché sono per la metafi­ sica. Ma essa non è nell'infinito più che nella finitezza di fatto» 32 • Le origini heideggeriane dell ' ermeneutica, oltre che la professione di antimetafisicismo di alcuni suoi esponenti, quali ad esempio Vattimo, non debbono trarre in inganno, perché il rifiuto della metafisica non è in alcun modo connesso con le ragioni stesse dell'ermeneutica e non è nemmeno professato dalla maggior parte dei rappresentanti di questa corrente. In fon­ do lo stesso Heidegger, quando propone il superamento della metafisica oc­ cidentale, ormai ridotta a una fisica, cioè a una scienza dell 'ente particolare ( oggettivabile, rappresentabile, disponibile, utilizzabile), per il fatto che in essa l' essere verrebbe ridotto a ente, non fa altro che proporre una nuova metafisica (cioè una «oltre-fisica»). Del resto tutto il pensiero di Heidegger vive della reinterpretazione di antichi concetti metafisici quali quelli di esse­ re, ente, nulla, ecc. Inoltre, Heidegger, pur accettando il metodo fenomeno­ logico del suo maestro Husserl, decide di applicare questo metodo a un par­ ticolare fenomeno, che era sfuggito all 'attenzione del maestro: il fenomeno della manifestazione dell'essere nell'ente. Con Heidegger, insomma, la fe­ nomenologia finisce prima per sconfinare nell ' ontologia e, poi, quasi per identificarsi a essa. Heidegger non nega affatto la possibilità della metafisi­ ca, anzi ritiene che occorra pens àre in modo nuovo la metafisica. La vecchia metafisica dell'Occidente, secondo Heidegger, obiettivava l'essere attraver­ so un pensare di tipo rappresentativo. La nuova metafisica, al contrario, ha 31 32

M. MERLEAU-PONTY, Le visible et l 'invisible, P ari s 1 964 ; trad. it. di A Bonomi, n vi­ sibile e l 'invisibile, nuova edizione a cura di M. Carbone, Milano 1 993, p. 259.

Ibid. , p. 263.

34

LA METAFISICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO

il compito di rintracciare un pensiero e un linguaggio non obiettivanti e per farlo può trovare aiuto nel dire poetante, che è disponibilità e che non conta su alcun risultato3 3 • Il lasciar parlare le cose di Husserl diventa, in Heideg­ ger, ascolto dell ' essere. Qualcosa di simile, anche se in senso più minimali­ sta, possiamo trovare anche in Vattimo. Vattimo infatti dichiara di oltrepas­ sare lo stesso pensiero heideggeriano, da cui peraltro prende le mosse, eli­ minando l ' essere e riducendo ogni ente a «evento»: in Vattimo non trovia­ mo più la «differenza» heideggeriana tra essere ed ente, ma le molteplici differenze tra i vari enti. Eppure anche Vattimo alla fine (si veda il suo ul­ timo libro

Credere di credere,

Milano,

1996)

riconosce che l' «e-vento »,

come dice la parola stessa, è un «venire da» altro e non da se stessi, e che pertanto noi siamo un' iniziativa iniziata da altri, come diceva anche Parey­ son, il suo maestro.

In

questo riconoscimento, che apre lo spazio al credere,

o, meglio, al credere di credere, è possibile rintracciare una vera e propria metafisica in nuce, cioè una «metafisica debole». Metafisica debole che del resto costituisce la prospettiva ultima anche del pensiero di Gadamer, il quale sostiene la possibilità di una metafisica della finitudine, ossia di una metafisica che non pretenda di essere un sapere assoluto, definitivo e ogget­ tivo, o una conoscenza esaustiva dell'intera realtà (incompatibile con la no­ stra finitezza). Una metafisica, in altri termini, talmente indebolita da coin­ cidere, alla fme, con la stessa ermeneutica. Un autore invece che, dopo essersi formato alla scuola della fenomeno­ logia e dell ' ermeneutica si è decisamente orientato verso l' ontologia e la metafisica, passando attraverso l' etica,

è

Hans Jonas. Jonas, infatti, dopo

aver studiato filosofia e teologia con Husserl, Bultrnann e Heidegger, ha de­ dicato i suoi primi studi allo gnosticismo, applicando a questo campo di ri­ cerca l ' analisi esistenziale heideggeriana3\ per poi passare all ' elaborazione di una filosofia della realtà organica, approdando infme all ' etica e all ' onto­ logia. Quest'ultima tappa del suo cammino risulta per noi di estremo inte­ resse perché l ' etica, ossia la dottrina del dover essere, deve, secondo Jonas,

33 34

M. HEIDEGGER, Phiinomenologie und Theologie, Frankfurt a. M. 1 970; trad it. di M. De Feo, Fenomenologia e teologia, Firenze 1 974. Scrive infatti Jonas: «Quando molti anni or sono mi dedicai allo studio dello gnosticismo, mi accorsi che molti punti di vista acquisiti alla scuola di Heidegger mi permettevano di vedere aspetti del pensiero gnostico non prima avvertiti. Ed ero sempre più impressionato dali ' aria di famiglia di ciò che appariva invece del tutto estraneo. Sono propenso a credere, guardando indietro, che fu l 'emozione per questa affmità oscuramente sentita, che mi attirò per prima nel labirinto gnostico» H. JONAS, The Gnostic Religion. The Message of the Alien God and the Beginnings of Christianity, Boston 1 95 8 ; trad. ital. Lo Gnosticismo, To­ rino 1 99 1 (2" ed. ), p. 3 3 5 . 35

POLEMICHE DI METAFISICA

necessariamente fondarsi sulla scienza dell'essere, ovvero sull'ontologia35 • Anche una fede, osserva Jonas, può fornire una base all 'etica, ma la metafi­ sica ha il vantaggio di fondarsi sulla ragione e di contenere perciò un ap­ pello universale. «Malgrado tutto», scrive infatti Jonas, «la mia speranza poggia in ultima analisi sulla ragione umana, quella ragione che già si è di­ mostrata così straordinaria neli' ottenere il nostro potere e che ora deve as­ sumerne la guida circoscrivendolo. Dubitare di essa sarebbe irresponsabile e significherebbe un tradimento di noi stessi »36 • Un autore, infine, che si inserisce molto bene nella corrente che stiamo esaminando, perché è partito dalla fenomenologia, allargandone fin da su­ bito l ' ambito di applicazione (alla maniera di Sartre e Merleau-Ponty), per poi approdare all' ermeneutica, è Paul Ricoeur37• Ricoeur critica, esatta­ mente come fecero a loro tempo Edith Stein ed Hedwig Conrad-Martius, il residuo idealistico ancora presente nel pensiero husserliano, fornendo in questo modo alla propria formulazione della fenomenologia una chiara o­ rientazione ontologica38 • Ricoeur infatti prende congedo dall'idealismo bus-

35

36 37

38

Ecco infatti come si esprime il nostro filosofo: • Ancora: «L ' identità delle identità che qui stiamo considerando - l ' iden­ tità cioè delle identità in cui si trova lo stesso essente - non può essere nemmeno la vanificazione delle differenze per le quali ogni identità si di­ stingue dalle altre. ( . . . ) Da un lato, quindi, è necessario che tali identità si­ gnifichino lo stesso, siano lo stesso significare (e questo significare è l ' identità di tali identità); dall' altro lato è necessario che tali identità non 10 significhino lo stesso, e cioè siano delle differenze» • Non si vede, in que­ sto caso, come sia possibile non vanificare le differenze e mantenere la di­ stinzione tra le identità, se il giudizio che pone in relazione le differenti identità viene concepito come un ' assoluta identità. Scrive Severino: «La forma adeguata, che si mostra al di sotto della forma "A è B", è dunque: "A è includente B". Infatti, che un insieme di de-

IO

lvi, p. 1 50. lvi, pp. 1 66- 1 67. 1 16

L'IDENTITÀ E LA DIFFERENZA

tenninazioni sia includente una di queste determinazioni (dove questo esse­ re cosi includente è il predicato di quel certo insieme) non è un'afferma­ zione contraddittoria solo se questa determinazione non è isolata dalle altre determinazioni di tale insieme; giacché, se non è isolata, la sua relazione alle altre determinazioni di tale insieme costituisce un significato che è identico al significato in cui tale insieme consiste ; e cioè il soggetto dell' af­ fermazione che un certo insieme di determinazioni è includente una di que­ 11 ste determinazioni è identico al predicato» • L ' osservazione di Severino non mi pare convincente. Va infatti rilevato che il soggetto dell ' affermazione secondo cui un certo insieme di determi­ nazioni è includente una di queste determinazioni, non sarà mai identico al predicato, per il semplice fatto che dicendo che il tavolo è tavolo o che il tavolo è bianco o che il tavolo è di legno diamo delle informazioni diverse ai nostri interlocutori. Non è vero che il contenuto semantico di ciascuna di queste affermazioni è identico a quello di ciascun ' altra, altrimenti dire che il tavolo è tavolo, che il tavolo è bianco o che il tavolo è di legno, significhe­ rebbe dire la stessa cosa. Ma così non è. Severino ripete spesso che l ' essere della copula non può che significare identificazione. Se essere non significasse identità o identificazione, dice Severino, allora essere implicherebbe l ' esclusione dell ' identità o dell' iden­ tificazione. Ma proprio qui a me sembra annidarsi l ' errore fondamentale di Severino, relativamente alla teoria del giudizio: per Severino la copula con­ siste o in un' identità o in un' esclusione dell ' identità

(aut-aut). A

chi gli oh­

bietta che il giudizio non può consistere solo in un' identità, Severino ri­ sponde: «se essere non significasse identità o identificazione, allora essere escluderebbe di significare identità e quindi, dicendo che a è b, si direbbe l ' esclusione dell ' identità tra a e b, cioè si affermerebbe la differenza tra a e b, e cioè dicendo che la lampada è spenta noi diremmo che la lampada non è 12 spenta» • Ma è proprio questa alternativa secca, questa dicotomia che Seve­ rino pone, dicendo che il giudizio o è identità o è il suo contrario, che trovo poco persuasiva. Se il dire è necessariamente identificare, il dire implica certo una contraddizione. Ma il dire non potrebbe costituirsi come dire se, al tempo stesso in cui indica l ' identità, non implicasse anche la non identità. Il dire implica tutte e due le cose insieme, esso non è né assoluta identità né assoluta differenza: la dicotomia posta da Severino è una falsa dicotomia

Il 12

lvi, p. 142 . Cosi argomentava Severino al Convegno sulle «Strutture del sapere filosofico», tenutosi all 'Università di Venezia nella primavera 1 993, i cui atti sono stati pubblicati in C. VIGNA (a cura di), Strutture de sapere .filosofico, Venezia, 1 997. 1 17

POLEMICHE DI METAFISICA

perché, in questo caso,

tertium datur.

Il dire presuppone necessariamente

l ' identità e la non identità (al tempo stesso, ma non sotto il medesimo ri­ spetto): in questo senso si dice che il giudizio è una relazione.

li dire impli­

ca, necessariamente, il costituirsi di una relazione e, quindi, implica la ne­ gazione sia dell ' identità fra i termini, sia della loro assoluta irrelatività e quindi del loro isolamento. L ' essere, presente nella copula, va inteso come significante «è identico a (sotto un certo aspetto)» e «è diverso da (sotto un cert'altro aspetto)».

A.2.

Il pensiero della differenza e la teoria del giudizio:

Enrico Berti All ' ultimo scritto di Emanuele Severino è opportuno accostare, per un utile confronto, un libro di Enrico B erti, pubblicato alcuni anni fa, intitolato

Contraddi=ione e dialettica negli antichi e nei modemi 13 • In questo

testo, in­

fatti, Berti formula una teoria del giudizio opposta a quella di Severino. Il libro di Berti ripercorre l' intera storia del pensiero occidentale, per portarne alla luce le varie concezioni della dialettica e della contraddizione. La tesi che costituisce l ' asse portante del libro afferma che la concezione del giudizio presente nel pensiero moderno è viziata da una concezione uni­ vocistica della copula, che i moderni hanno ereditato dal più antico pensiero greco, attraverso la mediazione del platonismo e della filosofia tardo­ scolastica. Berti, dunque, ci fornisce il quadro storico all 'interno del quale poter collocare il pensiero severiniano. Berti inizia la sua analisi

da Parmenide, che mette a tema per primo nella

storia della filosofia il senso della contraddizione. Com ' è noto Parmenide sentenziava l ' assoluta impossibilità del non essere; sul significato di questa assoluta impossibilità, gli inte1preti hanno molto discusso, nel tentativo di comprendere se il divieto parmenideo riguardasse l ' essere inteso in senso esi­ stenziale oppure l' essere inteso in senso attributivo. Secondo Berti, però, la questione non riveste un' importanza decisiva perché, in fondo, la radice tanto dell ' assoluta impossibilità di non esistere, quanto dell ' assoluta impossibilità di non essere

in un certo modo è la stessa: l'univocità dell ' essere. È impossi­

bile non esistere, se si pensa l ' essere solo come essere assoluto, ossia in ma­ niera univoca; è impossibile non essere in un certo modo, solo se si ammette che questo sia l 'unico modo in cui è possibile essere. Parmenide considera i predicati «è» e «non è» come forme necessarie, essenziali, ossia come predi­ cazioni di identità. Se dico di tma cosa non solo che è, ma anche che non è 13

E. BERTI, Contraddi=ione e dialettica negli antichi e nei moderni, Palermo, 1 987. 1 18

L'IDENTITÀ E LA DIFFERENZA

possibile che non sia, considero l'esistenza di quella cosa come appartenente alla sua stessa essenza. Oppure, se dico di una cosa non solo che

è in un certo

modo, ma anche che non è possibile che non sia in quel certo modo, considero quel certo suo attributo come appartenente alla sua stessa essenza. L ' al­ ternativa tra due necessità, però, non dà origine a un' opposizione per contrad­ dizione, ma a un'opposizione per contrarietà e, tra i contrari, si dà sempre un 4 medio 1 • Le due necessità a cui danno luogo le proposizioni : «è necessario che sia» ed

«è necessario che non sia», potrebbero infatti essere entrambe fal­ per accidens e il modo di essere secondo

se, se si ammettesse l 'attribuzione

contingenza. Conclude allora Berti : «Alla luce di questa interpretazione il si­ gnificato della prima via consiste nell' affennare la necessaria identità del­ l'essere con se stesso, si tratti di un'essenza includente necessariamente l'esistenza o, più semplicemente, di un' essenza includente necessariamente

altri predicati. Questo secondo caso darà origine, molti secoli più tardi, al co14

Aristotele ha esposto nel De interpretatione (spec. capp. 5 e sgg. ) la nota dottrina concer­ nente i rapporti tra proposizioni in cui compaiono predicati opposti, richiamata spesso dai medioevali nelle loro Summu/ae di logica. In quest'opera Aristotele distingue tra opposi­ zione secondo la forma (proposizione positiva e proposizione negativa) e opposizione se­ condo la quantità del soggetto (proposizione universale e proposizione particolare), mo­ strando come l'intreccio delle due connotazioni può dar origine a tutte le forme possibili di opposizione tra le proposizioni. L 'opposizione, infatti, può essere istituita sia a livello del soggetto e del predicato, sia a livello del solo predicato. Nel primo caso avremo l'oppo­ sizione di contraddittorietà, nel secondo caso avremo l'opposizione di contrarietà (o di subcontrarietà, se i due soggetti non sono universali, ma particolari). L'opposizione che ri­ veste il maggior interesse speculativo è quella di contraddittorietà, perché due proposizioni contraddittorie sono tali per cui una nega tutto ciò che l 'altra afferma. Esse dunque saranno sempre l 'una vera e l ' altra falsa, cosa che non accade per le proposizioni contrarie (posso­ no essere entrambe false), né per le proposizioni subcontrarie (possono essere entrambe vere). Questo schema può essere esteso alle proposizioni di tipo modale (necessaria, im­ possibile, possibile, contingente), le quali si oppongono assolutamente, ovvero per con­ traddizione, se da una parte si pone la necessaria (equivalente all 'universale affermativa) e dall'altra la contingente (=particolare negativa), da una parte l 'impossibile (=universale negativa) e dall' altra parte la possibile (=particolare affermativa). Le proposizioni a cui fa riferimento Berti sono: «Ogni ente è necessariamente esistente» e «Nessun ente è necessariamente esistente», che sono due proposizioni tra loro contrarie le quali, dunque, possono essere entrambe false, perché si potrebbe dare il caso in cui alcuni enti esistono necessariamente, mentre altri esistono non necessariamente. Si oppongono invece per contraddizione le proposizioni «Ogni ente è necessariamente esistente» e «Al­ cuni enti non sono necessariamente esistenti». Se, invece che attribuire o negare l 'esistenza necessaria, si attribuisce o si nega la necessità di una certa modalità dell ' esistenza, ci si viene a trovare in una situazione analoga. Le due proposizioni «Ogni ente è necessaria­ mente in un certo modo» e «Nessun ente è necessariamente in un certo modo» sono con­ , trarie e tra di esse si dà medio. Le proposizioni contraddittorie saranno invece, in questo caso, le seguenti: «Ogni ente è necessariamente in un certo modo» e «Alcuni enti non sono necessariamente in un certo modo». 1 19

POLEMICHE DI METAFISICA

siddetto "principio di identità", formulabile con "ogni cosa è identica a se stessa", o

"ens est ens", o "quidquid est, esf', o

"A=A". Perciò si può dire che

Pannenide è stato, se non il creatore, ahneno il precursore della logica 15 dell'identità» • Secondo Berti, il pensiero di Pannenide è governato dalla lo­ gica dell ' identità e, dunque, della necessità, per cui tutto ciò che è reale è ne­ cessario e tutto ciò che non è necessario è impossibile. A livello logico ciò equivale ad ammettere solo i giudizi di identità e di necessità, a livello ontolo­ gico ciò equivale ad ammettere solo l 'esistenza di Dio e a proclamare l ' illusorietà di tutte le cose (le quali, secondo Pannenide, sono puri «nomi »). Pannenide, in questo senso, non è il primo filosofo che ha formulato il princi­ pio di non contraddizione, ma colui che ha formulato quella tesi da cui, in se­ guito, deriverà il principio di identità. Questa logica dell' identità porterà Stilpone e i Megarici ad assumere la predicazione tautologica come unica predicazione possibile e a escludere, di conseguenza, qualsiasi altra forma di predicazione. Analogamente Menedemo di Eretria, erede della scuola di Fedone di Elide, ammetteva solo le proposi­ zioni affermative e, tra queste, solo quelle semplici, probabilmente per il fatto che quelle complesse introducono una differenza tra il soggetto e il predicato, differenza che Menedemo considerava inammissibile. A sua volta Antistene, prima ancora di Stilpone, affermava che di ciascuna cosa si potesse affermare solo la sua nozione propria (una nozione unica di una cosa unica). B erti poi ricorda che Eraclito e i suoi epigoni, al contrario degli Eleati, assolutizzavano la contraddizione, per il fatto che l'esperienza attesta l'unità degli opposti, diversamente da quanto vorrebbe la ragione. Il contrasto tra le due scuole, però, è solo apparente, osserva Berti, perché è proprio quella concezione angusta della contraddizione e quella logica univocistica del­ l ' essere e del giudizio, che aveva caratterizzato la scuola eleatica, a far pen­ sare agli eraclitei che l ' esperienza attesti la contraddizione. In Platone, invece, inizia a farsi strada quella concezione multivoca dell' es­

sere e del giudizio che verrà poi pensata a fondo da Aristotele. Nel

Fedone si dice che le realtà sensibili partecipano delle Idee e, per

questo motivo, una determinata realtà sensibile può patire predicati opposti. Simmia, si dice infatti nel

Fedone, è più grande di Socrate e più piccolo di

Fedone, perché, rispetto a Socrate partecipa dell 'idea di grandezza e, ri­ spetto a Fedone, di quella di piccolezza. Ciò che viene escluso è che l 'idea di grandezza possa essere piccola o che l ' idea di piccolezza possa essere grande. Dunque, Platone formula, per primo, l ' idea che i contrari possono

15

lvi, p. 1 6. 1 20

L' IDENTITÀ E LA DIFFERENZA

inerire allo stesso soggetto, ma successivamente o sotto diversi aspetti, anti­

cipando, così, il principio di non contraddizione aristotelico 1 6 •

Aristotele ha dimostrato l ' insostenibilità della contraddizione nel libro IV della

Metafisica,

dove si dice che «è impossibile che la stessa cosa appar­

tenga e non appartenga alla stessa cosa contemporaneamente e sotto il me­ desimo rispetto» 1 7 • Aristotele, al contrario di Parmenide, non dice che è impossibile che una certa cosa non appartenga a una certa cosa, o che

è

impossibile che una certa

cosa non esista. Aristotele dice soltanto che è impossibile che ciò accada contemporaneamente e sotto il medesimo rispetto, perché la predicazione ne­ cessaria vale solo nel caso in cui vi sia una perfetta identità tra soggetto e pre­ dicato, quando, cioè, il predicato fa parte dell 'essenza stessa del soggetto. Non vale, invece, nel caso di tutte le predicazioni accidentali, o di fatto, o empiri­ che. «Ciò che distingue la formulazione aristotelica

da quella parmenidea»,

osserva Berti, «è, come abbiamo detto più volte, la multivocità della nozione aristotelica di essere, che si oppone all'univocità (implicita o inconscia) della nozione parmenidea di essere. Per Aristotele il verbo "è" non dice né la sola essenza, né la sola esistenza del soggetto di cui viene predicato, e, se ne dice l'esistenza, dice sempre un' esistenza determinata, avente un significato diver­ so a seconda della categoria a cui il soggetto appartiene; e se non ne dice l'esistenza, ne può dire o l'essenza, o qualsiasi altro predicato, non apparte­ nente necessariamente a esso » 1 8 • 16

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Platone, pur non possedendo la distinzione tra univocità e multivocità nel modo chiaro in cui essa verrà formulata da Aristotele, esprime com\Ulque questo concetto. La tradizione, infatti , gli attribuisce la famosa dottrina non scritta dei principi, secondo cui tutte le cose hanno come principi l'Uno e la Diade indefinita, cioè l 'Uno e i Molti. Nel Fedro, nel Sofista, nel Politico e nel Filebo la dialettica è posta in connessione con i due procedimenti caratteristici del «rilUlire» (synagoghe') e del «dividere» (diairesis) le idee. Si tratta, in termini aristotelici, di ricondurre più individui a un 'unica specie e più specie a un unico genere e di distinguere, all'interno di un unico genere, le diverse specie e, ali 'interno delle specie, i diversi individui. Osserva Berti: «Ciò che permette di unificare specie diverse sotto un unico genere è !'"identico", espresso mediante l'uso del verbo esse­ re, mentre ciò che permette di distinguere specie diverse in un IUlico genere è il "diverso", espresso mediante l'uso del "non essere", dunque l 'identico e il diverso, ovvero l'essere e il non essere, sono espressione rispettivamente di unità e molteplicità e sono le condizioni essenziali, cioè i principi, della dialettica, entrambi indispensabili e complementari l 'uno all'altro, esattamente come l '\Ulo e i molti di Parmenide, di cui sono in fondo un'altra ver­ sione» lvi, p. 94. ARIST01ELE, Metafisica, IV 3, 1 005 b 1 9-20. BERTI, Contraddi=ione e dialettica negli antichi e nei moderni, cit. , p. 1 06. Aristotele stesso ha voluto sottolineare la propria distanza da Parmenide attraverso la formulazione del pdnc che troviamo nel De interpreta/ione: «è necessario che l'ente sia quando è, e che 121

POLEMICHE DI METAFISICA

n carattere polisemico dell' essere viene rigorosamente dimostrato da Aristotele mediante il celebre argomento secondo cui l ' essere e l ' uno non sono dei generi (quali sarebbero se si predicassero in un senso solo), perché essi si predicano anche delle proprie differenze. Il genere, al contrario del­ l ' essere e dell ' uno, non si predica delle proprie differenze, perché, se esso si predicasse delle proprie differenze, le differenze sarebbero delle specie ac­ canto alle altre e non servirebbero più a distinguere una specie dali' altra. Il genere «animale» si predica della specie