Pigmei, europei e altri selvaggi

Citation preview

Percorsi 127

ANTROPOLOGIA

Serie diretta da Francesco Remotti

ULTIMI VOLUMI PUBBLICATI

Adriano Favole

Resti di umanità. Vita sociale del corpo dopo la morte Alessandro Gusman

Antropologia dell’olfatto Leonardo Piasere

I rom d’Europa. Una storia moderna Chiara Pussetti

Poetica delle emozioni. I Bijagó della Guinea Bissau Maria Arioti

Introduzione all’antropologia della parentela Alice Bellagamba

L’Africa e la stregoneria. Saggio di antropologia storica Enrico Comba

Antropologia delle religioni. Un’introduzione Gianluca Ligi

Antropologia dei disastri Marina Sozzi

Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia Stefano Allovio

Pigmei, europei e altri selvaggi Francesco Remotti

Cultura. Dalla complessità all'impoverimento

Stefano Allovio

Pigmei, europei e altri selvaggi

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 Seconda edizione 2012 www.laterza.it L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2012 Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9254-4

Premessa

«Odio i viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie spedizioni». Queste parole, con le quali Lévi-Strauss introduce il lettore ai suoi Tristi tropici, mi confortano nel momento in cui devo ammettere che questo libro, dedicato ai Pigmei, non è un libro sui Pigmei; per lo meno non lo è nel modo in cui ci si attenderebbe. Nel corso delle mie ricerche in Africa ho incontrato, prima in Burundi e successivamente nella Repubblica Democratica del Congo, gruppi pigmei. Con alcuni mi sono soltanto intrattenuto, con altri ho condotto interviste su tematiche specifiche. All’epoca, non avrei mai pensato di scrivere un libro su di loro; i Pigmei erano semplicemente i vicini di coloro su cui focalizzavo la mia attenzione: Bahutu e Batutsi (in Burundi), Mangbetu, Balika e Babudu (in Congo). Nonostante li abbia percepiti sempre ai margini delle mie ricerche, non potevo non accorgermi della loro condizione di ‘marginalità’ all’interno dei sistemi sociali indagati. I Pigmei erano gli ‘altri’ di ‘quegl’altri’ di cui mi occupavo: spesso da questi ultimi derisi e disprezzati, ma altrettanto spesso collocati al centro delle loro esistenze. Questo rapporto ambiguo divenne un tema cruciale su cui riflettere. Fu così che nel corso degli anni, e, in modo sistematico, a partire dal 2002, iniziai a raccogliere documentazione sui gruppi pigmei dell’Africa equatoriale. Non senza sorpresa, quanto più procedevo nell’indagine, tanto più rintracciavo analogie fra i Pigmei, immersi nelle loro foreste, e gli antropologi, immersi nelle loro accademie. Riflettere sulla marginalità dei Pigmei voleva dire riflettere anche sulla marginalità degli antropologi all’interno delle comunità intellettuali. Entrambi, Pigmei e antropologi, sembra abbiano a che fare con un non ben precisato ‘deficit di tradizione’. Questa evanescenza di tradizione diventerebbe la cartina di tornasole per attribuire ai Pigmei e agli antropologi una distanza da ciò che si ritiene essere V

‘cultura’: sarebbero gli altri, i vicini, coloro che poggiano su solide tradizioni continuamente celebrate, ad avere le carte in regola per possedere e indagare la cultura (siano essi i Mangbetu con la loro arte e le vestigia di un antico regno, siano essi i colleghi di qualsivoglia disciplina). Pascal Boyer (1989) ritiene che l’assenza di tradizioni sia il tema più importante dell’etnografia dei Pigmei e che, internamente a tale tema, si comprenda la supposta assenza di cultura fra gli stessi. Peccato che Boyer – riproducendo una moda diffusa – riduca l’etnografia dei Pigmei ai lavori di un solo antropologo, Colin Turnbull. Peccato che molti accademici non riescano a immaginarsi cultura eccellente ai margini o al di fuori di consolidate tradizioni intellettuali (ancor meglio se pensate come ‘nostre’, ‘occidentali’). La convinzione che l’eccellenza e la complessità culturale si possano rintracciare anche nei più sperduti luoghi del pianeta fa sfondo all’intero volume. Gli artefatti, le pratiche e le visioni del mondo dei Pigmei sfuggono, per la loro distanza e diversità, alle più celebrate tradizioni intellettuali, ma rientrano, per la loro equivalenza di valore, nel repertorio della cultura umana che non è tutto interno alle nostre tradizioni intellettuali. Se questo volume non è il frutto di una ricerca etnografica di prima mano, non è neppure una rassegna degli studi etnografici e antropologici sui Pigmei. Pur auspicando che il lettore possa comunque rintracciare molti dei temi e delle questioni ritenute centrali dagli studiosi dei gruppi pigmei, ho adottato una prospettiva che permette di intrecciare continuamente frammenti di etnografie pigmee con il significato del lavoro antropologico e la pervasività delle tradizioni intellettuali. Nella scelta e nell’organizzazione delle tematiche all’interno del volume, ho cercato di non alimentare l’idea che l’etnografia dei Pigmei sia relegata in gran parte nel passato e sia principalmente desumibile dalle ‘classiche’ indagini di Paul Schebesta e di Colin Turnbull. A tal fine ho limitato i riferimenti ai lavori di questi due studiosi e valorizzato l’abbondante etnografia sui Pigmei degli ultimi quindici anni. D’altronde i Pigmei sono nostri contemporanei, non sono relegabili al passato dell’umanità e neppure al passato della ricerca etnografica. Sempre per ciò che concerne la selezione delle tematiche trattate nel volume, ho evitato che il lettore non specialista potesse pensaVI

re che il repertorio culturale dei Pigmei – campioni di esotismo e primitività negli immaginari di molti – debba necessariamente essere composto in gran parte da riti, simboli, miti e credenze. Per tale motivo ho trascurato questi temi a vantaggio di altri in modo che le carte possano risultare sufficientemente mescolate; per esempio si incontreranno da un lato Pigmei dotati di navigatore satellitare e profondo senso estetico, dall’altro eruditi occidentali immersi in miti e credenze. Volendo selezionare due concetti cruciali per cogliere frammenti significativi del mondo dei Pigmei e ampiamente rintracciabili nelle pagine di questo libro, non avrei dubbi nell’indicare ‘interdipendenza’ e ‘spartizione’. Due concetti preziosi non solo nelle umide e minacciate foreste dell’Africa, ma nei nostri luoghi del sapere, dove l’antropologia si colloca come «un sapere che nasce sulla frontiera fra culture diverse» (Fabietti 1999: XII). Frequentare le frontiere, i margini fra culture, non significa essere marginali alla cultura; essa si nutre di interdipendenze e, lungi dall’essere patrimonio di pochi, si presenta spartita e distribuita universalmente molto più di quanto si pensi. Un professore universitario auspica una sorta di interdipendenza innanzitutto con i propri studenti ai quali si spera di dare qualcosa e dai quali si riceve molto. Per tale motivo mi preme ringraziarli per primi e sentitamente. In particolare, gli studenti che hanno seguito nell’a.a. 20042005 le mie lezioni di Antropologia culturale all’Università di Milano e quelle di Etnologia dell’Africa all’Università di Bologna. In entrambi i corsi dedicai un modulo didattico ai Pigmei dell’Africa. La partecipazione attiva e le sollecitazioni degli studenti contribuirono a selezionare alcune tematiche e a orientare le scelte che si trovano alla base di questo volume. Vorrei ringraziare amici e colleghi che mi hanno fornito indicazioni preziose, in particolare Marco Aime, Giampiera Arrigoni, Guglielmo Scaramellini, Andrea Pinotti, Nicola Scaldaferri, Daniela Pes, Alessandro Scarano, Valentina Beccarini, Maria Sapignoli, Sara Tagliacozzi e la compianta Anna Treves con la quale ho diviso, per anni, lo studio nel Dipartimento di Geografia e Scienze Umane dell’Ambiente. Ringrazio il direttore, Paolo Inghilleri, e i colleghi del Dipartimento per il proficuo e sereno clima in cui ho la fortuna di lavorare. È stato importante esporre pubblicamente alcune idee contenute nel libro alla Terza Giornata di Studi ‘Le Ricchezze dell’Africa’ (Università VII

di Milano, 2 aprile 2008), al Convegno in memoria di Bernardo Bernardi ‘Prospettive di studi africanistici in Italia’ (Università di Roma ‘La Sapienza’, 5-6 marzo 2009) e al Ciclo di Seminari del Corso di Laurea Magistrale in Antropologia culturale ed Etnologia (Università di Bologna, 29 giugno 2009). Agli organizzatori e ai partecipanti va il mio ringraziamento per l’opportunità, gli stimoli e le osservazioni. La mia infinita riconoscenza a Cristiana Natali, Adriano Favole e Francesco Remotti che hanno letto e corretto il manoscritto salvandolo da innumerevoli errori e arricchendolo con spunti e suggerimenti. Nei confronti di Francesco Remotti il debito di riconoscenza è in realtà un prezioso debito intellettuale accumulato in più di vent’anni. Alla piccola Chiara l’auspicio che, in un futuro non lontano, l’esempio dei Pigmei possa in parte rafforzare la sua già spiccata attitudine alla spartizione. A Brunella, con la quale ho il privilegio di spartire la vita, va il mio ringraziamento per aver seguito passo dopo passo la stesura del libro, dispensando consigli e commenti preziosi. A lei dedico queste pagine.

Pigmei, europei e altri selvaggi

I

Il libro dei Pigmei

1.1. Due sculture a confronto In occasione dell’esposizione universale di Chicago del 1933 organizzata per celebrare il centenario della città, vennero esposte al Marshall Field Museum of Natural History 104 sculture raffiguranti le razze umane. Questo insieme di opere scultoree, noto come Races of Man, fu realizzato da Malvina Hoffman, un’artista nata a New York nel 1887. Hoffman, dopo aver studiato nella sua città natale, ebbe la grande opportunità di continuare la formazione a Parigi dove conobbe Auguste Rodin con il quale lavorò per sedici mesi alla vigilia della Prima guerra mondiale (Decoteau 1990: 7). La permanenza a Parigi e l’influenza che Rodin esercitò su di lei risultarono determinanti nella crescita artistica, ma non sufficienti per poter raffigurare l’ampio spettro di ciò che, all’epoca, venivano definite ‘razze umane’. Era necessario viaggiare; per tale motivo, dopo essersi recata in Africa nel 19261, Malvina Hoffman, sempre accom1 Indipendentemente dal viaggio in Africa di Malvina Hoffman, il 1926 è un anno significativo per gli studi antropologici sull’Africa principalmente perché il grande antropologo britannico Evans-Pritchard inaugura la lunga stagione di ricerche antropologiche e intensive sul territorio africano recandosi fra gli Azande per il suo primo soggiorno di studio; nello stesso anno viene pubblicata la tesi di dottorato di Melville Herskovits (il primo antropologo ‘africanista’ statunitense) sulle aree culturali dell’Africa e a Parigi muore Maurice Delafosse, linguista, studioso, amministratore coloniale, figura rappresentativa degli interessi (scientifici e coloniali) sull’Africa sviluppatisi in Europa nel primo Novecento. Sempre nel 1926, a Londra venne fondato l’International African Institute (IAI) per meglio coniugare le ricerche scientifiche sull’Africa e le esigenze amministrative coloniali. L’IAI pubblicherà a partire dal 1928 la rivista «Africa», ancora oggi considerata una delle più importanti riviste di africanistica. Per una storia dell’antropologia africanista si veda Falk Moore (2004).

3

pagnata dal marito fotografo Sam Grimson, viaggiò per un anno intero (era il 1931) soggiornando alle Hawaii, in Giappone, Cina, Filippine, Bali, Giava, Singapore, Malesia, Myanmar, India e Sri Lanka. La notorietà e la fortuna della scultrice non furono particolarmente durevoli; all’indomani della Seconda guerra mondiale, conobbe un lento e progressivo declino nella critica. Al pari dell’artista, anche le sculture di Races of Man vennero in gran parte dimenticate: non furono più esposte in modo organico e dignitoso, subirono spostamenti all’interno del Field Museum e molte trovarono pace soltanto in angoli poco illuminati. La storica dell’arte Pamela Hibbs Decoteau (1990: 11) si è interrogata sui reali motivi di questo oblio. Un primo motivo sarebbe l’ampia estensione di una eventuale esposizione non confacente alle nuove filosofie museali incentrate sulla flessibilità di ciò che viene presentato e sulla valorizzazione di esposizioni temporanee. Un secondo e più importante motivo che spiegherebbe l’oblio di Races of Man è da ricercare nei radicali mutamenti delle prospettive antropologiche e del senso comune inerenti alle tematiche razziali. I responsabili del museo, pur confidando nel fatto che l’insieme scultoreo di Races of Man andasse contestualizzato in un’epoca in cui il paradigma razziologico determinava le classificazioni antropologiche e i discorsi sull’uomo, avevano il timore di urtare la sensibilità di coloro che si riconoscevano nelle minoranze etniche, componenti importanti del tessuto sociale americano. Fra le sculture di Malvina Hoffman riconducibili alle ‘razze’ del continente africano, emergono idealmente dalle nebbie del bacino del Congo un busto di una donna mangbetu (Mangbetu Tribal Woman), classica icona dell’esplorazione statunitense in Africa e logo della colonizzazione belga, e una ‘famiglia’ di Pigmei (Ituri Forest Pygmies) composta da un uomo intento a suonare il tamburo e una donna che tiene fra le braccia un bambino. In relazione a quest’ultimo gruppo scultoreo, la tensione addominale, l’ipertrofismo delle ginocchia contrapposte alle esili gambe, le espressioni facciali cupe ma dignitose sono, a detta della stessa scultrice (Hoffman 1936: 149), segni della sofferenza e della malnutrizione. La famiglia dei Pigmei nella sua totalità riflette la difficoltà dell’esistenza di un intero popolo2. 2 Su quanto i Pigmei possano essere considerati un ‘popolo’ o un ‘gruppo etnico’ si tornerà in seguito.

4

Fig. 1. Pygmy Family di Malvina Hoffman e Dissemination of Knowledge di Henry Herring (in Kemp 2000: 278)

L’immagine della donna pigmea con bambino della Hoffman ritorna in un articolo dello storico dell’arte Martin Kemp apparso alcuni anni fa sulla rivista «Nature». Il breve contributo dal titolo Type and Archetype. Hoffman and Herring in the Field Museum, Chicago (Kemp 2000) contiene una riflessione a partire dal confronto fra due statue: Pygmy Family di Hoffman3 e Dissemination of Knowledge di Henry Herring, realizzata nei primi decenni del Novecento secondo i canoni estetici del neoclassicismo (fig. 1). Le due statue, entrambe esposte al Field Museum e visibili con un solo colpo d’occhio dalla balconata che sovrasta la hall principale, rappresentano ambedue una donna che porta in braccio un bambino. Benché da un certo punto di vista siano molto simili, esse presentano evidenti differenze: scura (fatta di bronzo), increspata e rugosa l’una, candida espressione della perfezione greca l’altra. Su tali similitudini e contrasti, oltre che sul fatto di ritrovarle nello stesso 3 Lo stesso insieme scultoreo viene denominato da Decoteau (1990) Ituri Forest Pygmies e da Kemp (2000) Pygmy Family.

5

spazio espositivo, si innesta la riflessione di Kemp sulla persistenza degli archetipi estetici classici come filtri per attribuire valore a opere che nascono con finalità differenti come nel caso di Races of Man: sculture commissionate affinché un museo di storia naturale potesse presentare ai visitatori i diversi ‘tipi etnici’ sulla base dei paradigmi scientifici (tipologici e razziologici) del tempo. A ben vedere, l’accostamento delle due statue proposto da Kemp si presta a ulteriori considerazioni, utili a introdurre questioni, tematiche e prospettive affrontate nel presente libro. Nell’articolo di Kemp, la didascalia che affianca le foto accostate delle due statue recita «ethnic meets aesthetic». Al di là delle intenzioni di chi ha formulato la didascalia e dello stesso autore dell’articolo, l’impressione che se ne ricava non è tanto di un ‘incontro’ fra ciò che è etnico e ciò che è estetica, ma di una cesura rimarcata e inevitabile: da una parte l’etnico, dall’altra l’estetica. Una cesura che diventa dicotomia emblematica nel momento in cui si affiancano e contrappongono la quintessenza dell’etnicità esotica (la rugosa oscurità dei Pigmei dell’Africa) e la quintessenza del canone estetico occidentale (la levigata luminosità della Grecia classica). Questa cesura fornisce uno spunto per riflettere, con Kemp (2000), sulla persistenza degli archetipi estetici occidentali che affondano le radici nell’antica Grecia, oppure, con molti antropologi contemporanei (per esempio Gell e Hirsch 1999), sull’opportunità o meno di ritenere transculturale il concetto di ‘estetica’, considerato da molti indissolubilmente legato alla storia della filosofia dell’arte in Occidente e quindi fortemente etnocentrico, e da altri svincolato da eventuali criteri ‘estetici’ locali4. Tali considerazioni sono estremamente interessanti anche perché finiscono per annodarsi; tuttavia in queste pagine si vorrebbe percorrere un’altra strada e riferirsi a Claude Lévi-Strauss (1984) quando osava costruire un discorso unitario concernente i miti dei nativi americani e la musica di Wagner, non certo sulla base di una precisa sovrapposizione estetica, ma con l’intento, fra gli altri, di far percepire agli occhi del lettore occidentale la complessità e l’eccellenza di un corpus mitologico indigeno. Insomma, benché le due sculture in questione siano ovviamente prodotti artistici occidentali, ‘nostri’, il loro accostamento potrebbe

4

Al riguardo si veda l’utile antologia di scritti curata da Alberto Caoci (2008).

6

comunque far sorgere un interrogativo importante: in che termini siamo disposti a concedere complessità ed eccellenza estetica a eventuali riflessioni e produzioni ‘artistiche’ dei Pigmei dell’Africa? Precisando ancora una volta che in questa sede per ‘estetica’ si intende la riflessione sulla complessità e l’eccellenza della produzione di artefatti, occorre riflettere sul gradiente di questa eventuale concessione e supporre l’esistenza di almeno tre atteggiamenti: a) I Pigmei non hanno preoccupazioni di ordine estetico, non producono in modo complesso ed eccellente; eventuali loro artefatti, suoni o quant’altro sono incommensurabili con ciò che noi definiamo arte figurativa, scultura, musica ecc. b) I Pigmei hanno preoccupazioni di ordine estetico, la loro produzione artistica è riconosciuta e deve essere ricondotta a categorie preposte come per esempio quella di ‘arte etnica’, ‘primitivismo’ ecc. Anche i temi e i significati proposti nella loro produzione artistica sono riconducibili a categorie specifiche che noi occidentali abbiamo pensato essere adatte a descriverli (per esempio: ‘i primordi’, ‘il rapporto con la natura’, ‘la purezza’, ‘la semplicità’ ecc.). c) I Pigmei hanno preoccupazioni di ordine estetico e contribuiscono in modo equivalente agli altri ad arricchire ed estendere un unico repertorio di prodotti culturali. Essi contribuiscono con opere, riflessioni, astrazioni a una polifonia umana che ha per oggetto la cultura. Secondo la prospettiva (a), la cesura fra le due foto (etnico da una parte, estetica dall’altra) rispecchia la realtà e raffigura un dato ontologico: essa è una prospettiva che non lascia dubbi, è chiara e incontrovertibile. Tuttavia, è altrettanto certo e incontrovertibile che tale prospettiva è ritenuta non percorribile da molti, sicuramente da tutti coloro che da decenni hanno riflettuto sul riconoscimento e il valore degli artefatti e delle ‘performance’ altrui, anche attraverso una profonda revisione critica degli stessi concetti di arte e di estetica. La prospettiva (b) presenta sfumature al suo interno. Coloro che vi aderiscono non avrebbero difficoltà a riconoscere preoccupazioni estetiche e produzioni artistiche ai Pigmei (la loro musica, i disegni sul corpo e sulle cortecce battute ecc.), ma è una concessione che, sul piano della complessità e dell’eccellenza, va negoziata, definita, circoscritta; ciò risulterebbe indispensabile proprio nel momento in cui si affiancherebbe ai Pigmei, per esempio, la ‘perfezione’ dei canoni estetici della Grecia classica riscoperti a più riprese nella storia dell’arte 7

occidentale (rinascimento, neoclassicismo ecc.). Di fronte all’accostamento di Pigmei e Grecia classica, molti di coloro che aderiscono – come si è detto, con diverse sfumature – alla prospettiva (b) si sentirebbero a disagio nel concedere e ipotizzare equivalenze di valore. La prospettiva (c) – probabilmente molto diversificata al suo interno – si impegna a non porre condizioni nel momento in cui si ipotizzano e si riconoscono equivalenze di complessità ed eccellenze. È una prospettiva che tende a mescolare le carte, a immaginare le differenti visioni del mondo, i variegati universi concettuali, i diversi repertori culturali come ricco nutrimento della cultura universale, che non ha la forma di una solida palazzina del centro storico, dove i piani alti ‘valgono’ di più perché c’è maggiore luminosità e una vista migliore. Succede sempre più spesso che la sola adesione o formulazione di una qualche prospettiva (c) faccia insospettire coloro che quotidianamente si recano per lavoro ai piani alti (dove ci sono cultura alta e tradizioni intellettuali di prestigio). Essi temono che i fautori della concessione di equivalenze non vogliano far altro che gettare la statua di Herring dalla finestra per ritrovarsela, compiaciuti, in mille pezzi giù in cortile. Non si vede quale vantaggio o compiacimento ci debba essere nel guardare la perfezione greca, l’orgoglio artistico occidentale, frantumato sull’asfalto. C’è sicuramente malafede nell’augurarsi una siffatta rovina, ma c’è altrettanta malafede nel considerare ogni ipotesi di ripensamento dell’edificio della cultura come un tentativo di distruggerne il contenuto e di annichilirne il valore. A ben vedere, c’è chi ha contribuito al sospetto. Quando, per esempio, Francesco Remotti (1990, 1993a, 2000, 2003) auspica indagini che possano gettare la Modernità, l’Occidente, la Scienza nel ‘mucchio’ delle etnografie non valuta con attenzione l’effetto che potrebbe avere su chi lavora ai piani alti l’immagine di noi, con i nostri prodotti intellettuali e artistici, sbattuti «nel mucchio insieme agli altri» (Remotti 2003: 136). La scelta che si prefigurano questi ultimi – malgrado le rassicurazioni che Remotti sarebbe sicuramente disposto a fornire – è fra il barricarsi in casa o il contemplare dalla finestra un mucchio di macerie. In queste pagine, almeno per il momento, non si faranno ‘mucchi’, ma si proverà a ‘calare’ delicatamente in cortile la statua di Herring e collocarla a fianco della famiglia pigmea in bronzo di Hoffman per fare ancora un paio di considerazioni sul confronto fra le due statue e poi abbandonarle definitivamente nella hall centrale del Field Mu8

seum e addentrarsi, dapprima, nel fitto delle pagine di alcuni libri e, successivamente, nel fitto della vegetazione dell’Africa equatoriale. Le due statue, come si è già detto, sono per molti aspetti simili e per altri profondamente diverse. Un elemento che le differenzia inequivocabilmente è il modo in cui le due donne tengono fra le braccia il bambino. La donna pigmea stringe il bambino con entrambe le braccia e non sembra volerlo elevare più del necessario, non sembra neppure curarsene: in quel preciso istante il suo sguardo è altrove. La donna della statua di Herring tiene il bambino con un solo braccio, lo eleva sopra il proprio bacino, sta interagendo con lui per mezzo di un libro (forse glielo sta leggendo, oppure spiegando) che tiene con l’altra mano; il suo sguardo è compiaciuto. La donna è l’allegoria dei nobili sentimenti e la statua ha un nome che non lascia dubbi: Dissemination of Knowledge. Alla luce di queste considerazioni è possibile riformulare la questione su ciò che si concede o meno alla donna pigmea e con essa ai Pigmei in generale: quanto e in che termini si è disposti a concedere ai Pigmei la possibilità che siano in possesso di conoscenze degne di essere conosciute universalmente? Se la statua di Herring è l’allegoria della disseminazione del sapere scientifico che si reputa universale, allora i saperi e le conoscenze contenute nel libro e divulgate (disseminate) anche attraverso un museo di storia naturale sono rivolte non solo al candido bambino sorretto dalla candida donna, ma anche al bambino pigmeo sorretto dalla donna pigmea, in quanto sono saperi e conoscenze vere e reali universalmente. Quanto e in che termini si è disposti a concedere alla donna pigmea la capacità di diffondere saperi e conoscenze preziose, vere e reali (equivalenti) anche per il candido bambino della statua di Herring? C’è dell’ironia a voler attribuire ai gruppi pigmei – che come è risaputo sono società acquisitive basate sulla caccia-raccolta e tradizionalmente restie a praticare la coltivazione – il potere della disseminazione. Tuttavia è proprio questo termine dissemination a svelare ciò che davvero è in gioco. I Pigmei non praticano tradizionalmente la disseminazione di piante coltivabili e neppure praticano (lo fanno raramente) la disseminazione dei loro saperi, delle loro abilità e conoscenze in istituzioni divulgative, in ambienti accademici, in consessi scientifici, letterari e artistici. Al di là della validità delle singole ricerche e dei singoli lavori pubblicati, sono stati e continuano a essere soprattutto gli antropologi a ‘mettere in circolo’ informazioni 9

sulle loro forme di vita, sui loro saperi e sulle loro conoscenze. Tuttavia, viene da chiedersi: il lavoro degli antropologi è considerato una disseminazione di conoscenze (altrui) da coloro che a ragione o a torto si accollano il diritto e dovere di disseminare conoscenze? Gli scienziati e gli umanisti che meglio si identificano nell’allegorica statua di Herring (gli stessi che lavorano ai piani alti dell’edificio precedentemente evocato) sono sempre disposti a riconoscere nel sapere antropologico (un sapere degli antropologi ma, ciò che più conta, un sapere delle società studiate, compresi i Pigmei) capacità e liceità di disseminazione? Sembrerebbe di no. Occorre ammetterlo: in certi casi è una sensazione personale, discutibile e non totalmente argomentabile, ma in alcune occasioni è possibile registrare l’atteggiamento di ‘distinzione’ e di ‘recriminazione di un campo’ – per dirla con Bourdieu (1983). Un caso significativo è la reazione alla pubblicazione dell’importante volume di Francesco Remotti, Contro natura. Una lettera al Papa (2008). Un testo denso, ricco e argomentato sulla varietà delle forme di famiglia diffuse nelle più disparate società umane e sulla pretesa, da parte di alcuni, di ritenere ‘naturale’ (vera universalmente) una particolare forma di famiglia. Sulle pagine del quotidiano «Avvenire» del 7 marzo 2008 appare una recensione del libro di Remotti firmata dal filosofo del diritto Francesco D’Agostino, già presidente del Comitato nazionale per la bioetica e autore di più di trecento pubblicazioni, molte delle quali dedicate alla Grecia antica. L’insigne professor D’Agostino attacca con veemenza il libro di Remotti e gli antropologi culturali colpevoli di invadere campi altrui: ‘arroganti’ perché si ‘arrogano’, si attribuiscono indebitamente qualcosa: Consapevole di aver scritto una ‘lettera’ che «trasuda relativismo da tutti i pori», Remotti insiste però nel ribadire che l’umiltà è la prima virtù degli antropologi. Vorrei prendere sul serio l’illustre collega, ma – a mia volta in tutta umiltà – non ci riesco. Ancora una volta, infatti, Remotti dà prova non dell’umiltà, ma dell’arroganza che caratterizza gli antropologi culturali (alcuni ovviamente, non tutti!): quell’arroganza che si sostanzia nel voler trarre da un’analisi etnografica descrittiva conclusioni antropologiche di carattere normativo, invadendo così un ambito che non è di pertinenza etnologica, ma filosofica. Esiste una ‘verità della famiglia’ (D’Agostino 2008, corsivo nostro). 10

Ciò che si arroga Remotti è esattamente il diritto di poter praticare la disseminazione delle conoscenze con sementi raccolte in sperduti angoli di mondo; questa disseminazione ha luogo principalmente nelle aule universitarie dove i suoi studenti di Lettere e Filosofia (anni addietro, chi scrive, era uno di loro) percepiscono tutta la forza rigenerante del tuffo nel mucchio etnografico e molti di essi non possono eludere l’invito che lanciò Edward Said in una delle sue ultime interviste: «siate ospitali nelle vostre menti!». Per dirla nel linguaggio metaforico scelto per riflettere intorno alle due statue (di Hoffman e di Herring) è come se Remotti, dopo essersi fatto raccontare qualcosa dalla famiglia pigmea, andasse a esporlo al candido bambino già impegnato a recepire gli insegnamenti contenuti nel prezioso libro della candida donna. Nel fare questo, non vuole ‘gettare’, ‘travolgere’, ‘sminuire’ tutto ciò che rappresenta l’allegorica scultura neoclassica di Herring, non è questo il fine. Remotti, e con lui gli altri antropologi, vuole semplicemente attribuire un ‘libro’ (di saperi, conoscenze e abilità indigene) anche alla donna pigmea. Non più due sculture e un libro, bensì due sculture e due libri entrambi degni di essere letti e confrontati al fine di mostrare la parzialità delle scelte culturali, nostre e altrui, e l’ampio ventaglio di possibilità che sono date. È tutta qui l’arroganza di Remotti: pensare che i Pigmei abbiano qualcosa da insegnare a noi tutti, ritenere il sapere e le conoscenze dei Pigmei degni di rientrare nella polifonia universale della cultura. Quando Clifford Geertz (2001: 81) descrisse l’antropologo come un ‘mercante di stupore’ forse non immaginava di fornire un’immagine ‘accettabile’ del nostro lavoro agli occhi di molti intellettuali e accademici, secondo i quali l’antropologo deve, in tutta umiltà, raccontare stranezze e rendere disponibile la propria mercanzia per le esigenze ornamentali di eventuali acquirenti, lettori e fruitori, nulla più5. Per alcuni, l’antropologo deve fare l’etnografo e presentare descrizioni senza tuttavia arrogarsi il diritto di comparare, riflettere su ‘indebiti’ accostamenti, trarre conclusioni che possano confondere 5 Che non si tratti solo di ‘mercanzia ornamentale’ è bene espresso proprio da Geertz nel brano in cui definisce gli antropologi ‘mercanti di stupore’: «Con non poco successo [noi antropologi] abbiamo cercato di scuotere il mondo, tirando da sotto i piedi i tappeti, rovesciando tavolini da tè, facendo esplodere petardi. Compito di altri è stato quello di rassicurare, il nostro quello di destabilizzare. Fra australopitechi, bricconi, consonanti avulsive, megaliti, noi siamo insomma venditori ambulanti di anomalie, spacciatori di stranezze, mercanti di stupore» (Geertz 2001: 81).

11

le carte, disseminare il tarlo del dubbio travestito da saperi altrui. Ci sono i Pigmei, cacciatori e raccoglitori; ci sono gli antropologi, mercanti di stupore; e ci sono i pensatori autorevoli che disseminano conoscenze. Che ognuno resti al suo posto! 1.2. Realismo ontologico Far crescere idealmente fra le mani della donna pigmea il suo ‘libro’ di saperi e attribuirle conseguentemente liceità di disseminazione di conoscenze porta a riflettere sulla questione del relativismo. Affiancare i due libri, oltre alle due sculture, potrebbe avere come conseguenza la constatazione dell’esistenza di schemi concettuali differenti che rappresentano le cose in modo differente, sicché – come ha scritto Diego Marconi (2007: 81) chiarendo ciò che si intende per relativismo concettuale – «‘come stanno le cose’ dipende in parte dallo schema concettuale adottato». Dopo decenni di confronto e affinamento delle prospettive ermeneutiche fortemente critiche nei confronti della possibilità di giungere a una conoscenza oggettiva del mondo, il quale sarebbe dato attraverso schemi interpretativi basati su tradizioni specifiche, molta filosofia sembra ripiegarsi con evidenza e urgenza sul tema ontologico. Il punto di partenza è ancora una volta il concetto di ‘realtà’, non più per svincolarlo dalla verità, ma per riconnetterlo a essa. Se alcuni filosofi ricuciono con fermezza e prudenza tale vincolo partendo da una constatazione di buon senso che porta a intuizioni – evidenti anche se non sempre argomentate – della realtà (Marconi 2007: 3-8), altri si arrogano (peccato questo, a quanto pare, molto più diffuso di quanto pensi D’Agostino) il diritto di rivestirlo con un’armatura inossidabile e porlo a baluardo di una tradizione occidentale che merita difesa a oltranza. Al riguardo, è degna di attenzione l’affermazione del filosofo statunitense John Searle secondo il quale «senza troppe esagerazioni, questo concetto [il concetto di realtà] può essere definito come ‘la tradizione razionalista occidentale’» (2008: 25). Tale tradizione avrebbe prodotto qualcosa di unico permettendo di «descrivere e spiegare ampie porzioni di realtà in modo logicamente e matematicamente accessibile» (2008: 28). In questa avventura conoscitiva, l’Occidente avrebbe desunto dalla Grecia antica la nozione di costrutto teorico, la razionalità, la logica e la matematica, mentre 12

dal Rinascimento avrebbe appreso l’idea dell’esperimento sistematico. Da questo connubio nascono il ‘realismo’ delle scienze naturali e l’idea che la realtà esista indipendentemente dalle rappresentazioni umane. È coerente con il realismo riconoscere che vi sono ampie porzioni di realtà che sono di fatto costruzioni sociali [...]. Ma è un principio fondamentale della tradizione razionalista occidentale che vi siano anche ampie sezioni del mondo descritto nelle nostre rappresentazioni, le quali sono del tutto indipendenti da quelle come da qualunque altra possibile rappresentazione. L’orbita ellittica dei pianeti attorno al Sole, la struttura dell’atomo d’idrogeno e la quantità di neve sull’Himalaya, per esempio, sono completamente indipendenti sia dal sistema, sia dalle concrete necessità delle rappresentazioni umane di questi fenomeni (Searle 2008: 32-33).

La verità – secondo Searle – è un problema di ‘accuratezza della rappresentazione’ determinata dai principi fondamentali della tradizione razionalista occidentale: «un’affermazione è vera se e solo se l’affermazione corrisponde ai fatti» (2008: 35). Nel saggio che si sta prendendo in esame, Occidente e multiculturalismo, scritto nel 1995 e ripubblicato in Italia nel 2008, l’argomentazione di Searle si sviluppa pagina dopo pagina definendo i nemici di ciò che chiama ‘tradizione razionalista occidentale’ e ampliando progressivamente il raggio di pertinenza di tale tradizione (già a pagina 38, le ‘ampie porzioni della realtà’ diventano ‘per la maggior parte il mondo...’). Questi due sviluppi argomentativi si fondono in modo significativo nella seguente affermazione: «Il punto è che la verità oggettiva, o falsità delle pretese, è del tutto indipendente dalle motivazioni, dalla moralità, o persino dal genere, dalla razza o dall’etnia del loro fautore» (2008: 40). La verità è tale anche se i fautori di tale verità fossero riconosciuti razzisti, sessisti, fono-fallo-logo-centristi. I presupposti illuministici tanto cari a Searle, e a molti di noi, conducono necessariamente alla definizione dei metodi e degli scopi della scienza, la cui ‘efficacia’ conoscitiva nei confronti del ‘mondo che sta là fuori’ è appurata. Non per questo si può giustificare un’assoluta superiorità della tradizione razionalista occidentale o peggio, la sua unicità nella definizione di criteri oggettivi per stabilire l’eccellenza intellettuale in qualsivoglia ambito del sapere. Per Searle, la tradizione razionalista occidentale fornisce «standard razionali per valutare la 13

qualità intellettuale» (2008: 45); quel che è peggio è che tali standard si applicherebbero tanto alla chimica quanto alla letteratura, tanto alla fisica quantistica quanto alle arti figurative e alla storia medievale. John Searle, riflettendo sulle strutture dei curricula universitari e sulle letture assegnate agli studenti (ovvero, sulla formazione e ‘costruzione’ delle nuove generazioni), svela le carte in tutta onestà e franchezza: Se si abbandona l’impegno nei confronti della verità e dell’eccellenza intellettuale, che costituiscono il nucleo centrale della tradizione razionalista occidentale, allora sembra arbitrario ed elitario pensare che alcuni libri siano intellettualmente superiori rispetto ad altri. Al contrario, sembra naturale e inevitabile pensare che tutte le culture vengono create intellettualmente uguali (2008: 54-55).

Con queste premesse, il destino del ‘libro’ della donna pigmea è inevitabilmente quello di sciogliersi al sole dei tropici, ancor prima di essere letto, e il destino di un manipolo di antropologi (solitamente convinti della complessità delle culture e del valore intellettuale che diversi ambiti di queste culture possono avere) è quello di subire dileggio intellettuale e feroci accuse di arroganza da parte di qualche epigono di Searle. Partendo dal presupposto chiaramente espresso dal filosofo americano, che «un altro aspetto della tradizione razionalista occidentale è la sua caratteristica autocritica» (2008: 29), ci si attenderebbe almeno che, oltre ad accusare gli altri di arroganza, qualcuno si rendesse conto, in modo ‘critico’ e ‘razionale’, di quanta arroganza ci sia in affermazioni come quelle riportate poco sopra. Esemplari, al riguardo, sono le ultime pagine del saggio Multiculturalismo. La politica del riconoscimento di Charles Taylor (1993: 101-103), dove si insiste sulla ‘suprema arroganza’ nello scartare a priori la possibilità di equivalenza (di uguale valore). John Searle non è ovviamente solo in questa crociata per il riconoscimento della superiorità della tradizione razionalista occidentale. Francesca Rigotti, in un saggio dedicato alle basi filosofiche del multiculturalismo e del suo antagonista definito come ‘monoculturalismo’, sintetizza il pensiero di Allan Bloom, in confronto al quale John Searle pare pacato, titubante e possibilista: Allan Bloom ha affermato che le opere di Platone, Shakespeare, Leonardo o Kant rappresentano ‘oggettivamente’ le punte più elevate della 14

realizzazione artistica e filosofica dell’uomo e che se altre tradizioni non sono studiate non è per etnocentrismo o per volontà di esclusione ma perché non ne raggiungono l’eccellenza (Bloom 1995). Dobbiamo rispettare le persone eccellenti, insiste Bloom, non le persone in quanto tali, come vorrebbe la folle dottrina di Rawls che pensa che ognuno sia degno di stima da parte degli altri solo per il fatto di essere uomo, e che il medico o il poeta non dovrebbero guardare dall’alto al basso chi esercita attività frivole – come contare i fili d’erba (sic) – o corrotte. Insomma, benché si ponga come paladino del buon senso e delle cose come stanno, il monismo culturale può portare anche a esiti infelici come questo di Bloom (Rigotti 2006: 39).

Come viene raccontato in modo ‘efficace’, ‘alto’, ‘eccellente’ nel lungometraggio di Michel Ocelot Kirikú e la strega Karabà, liberamente tratto da una fiaba africana (le favole eccellenti non sono tutte di Fedro e dei fratelli Grimm!), ci si incattivisce quando si soffre molto. Di cosa soffrono intellettuali come Bloom e Searle? Searle soffre nel constatare l’inevitabile frattura nelle università statunitensi fra una subcultura dei ‘postmodernisti’ che «stanno tentando di mettere in discussione alcuni assunti tradizionali sulla natura della verità, dell’oggettività, della realtà e della qualità intellettuale» (2008: 24) e una subcultura dell’università tradizionale «dedicata alla scoperta, all’approfondimento e alla diffusione del sapere inteso in senso, appunto tradizionale» (2008: 22-23). La difesa della tradizione intellettuale è una preoccupazione connessa tanto alla produzione scientifica e artistica, quanto al controllo sui meccanismi di riproduzione accademica, al rafforzamento di certi settori disciplinari, all’istituzione di cattedre e al reclutamento dei professori e dei ricercatori. L’introduzione di nuovi dipartimenti accademici è un segno visibile del cambiamento. Meno visibile, ma di gran lunga più penetrante, è il cambiamento nella definizione stessa del singolo studioso. Poc’anzi ho detto che si era registrato un aumento nell’uso di argomenti ad hominem e di fallacie genetiche. Se la verità e la validità oggettive non esistono, allora si può anche mettere in discussione chi porta avanti una tesi e le motivazioni che lo spingono a far ciò, come anche mettere in discussione le sue pretese di validità e la presunta ‘verità’ delle sue conclusioni. Ma questa non è altro che la punta di un iceberg di un cambiamento ben più profondo della sensibilità. La nuova sensibilità viene spesso descritta (e 15

criticata aspramente) come ‘relativismo’, ma a mio avviso un’espressione migliore per definirla potrebbe essere ‘soggettivismo politicamente motivato’ (2008: 61).

Quando Searle specifica la definizione di questa nuova sensibilità sostituendo ‘relativismo’ a ‘soggettivismo politicamente motivato’ ha in mente il fiorire di dipartimenti e di competenze accademiche riconducibili ai Women’s Studies, Gay e Lesbian Studies, Afroamerican Studies ecc. i quali, a suo parere, contribuiscono a ridefinire l’idea di disciplina accademica «da quella di campo da studiare a quella di causa da portare avanti» (2008: 56). In una recensione del libro di Searle, il filosofo torinese Maurizio Ferraris (2008) parla di «pericoloso cortocircuito tra gli oggetti da studiare e le cause da difendere». Gli ‘scivoloni multiculturali’ (è il titolo della recensione) che molti filosofi stanno denunciando si riferiscono in massima parte allo ‘slittamento’ – che, a loro parere, sta avvenendo in certi ambiti disciplinari e accademici – dalle imprese conoscitive alle imprese politico-morali. Anche Diego Marconi sembra dar credito al relativismo quando è ‘concettuale’ ed ‘epistemico’ (ovvero quando riguarda ‘il modo in cui le cose stanno’), mentre nutre forti dubbi sulle affermazioni del relativismo morale (ovvero quando riguarda ‘il modo in cui le cose dovrebbero stare’), soprattutto nella versione di un ‘pluralismo delle equivalenze’ non argomentato. Le rigorose distinzioni di Marconi e le precisazioni di Ferraris, che si affretta a riconoscere il pericolo di «cadere dalla padella del soggettivismo politicamente motivato alla brace della critica del relativismo altrettanto politicamente motivata», rischiano di restare fragili puntualizzazioni che diventano un tutt’uno con le idee imbarazzanti di Bloom e molti corollari altrettanto imbarazzanti delle argomentazioni di Searle. In altre parole, diventerebbe un estenuante e continuo lavoro di microingegneria concettuale tenere distinti il ritorno a un sano ‘realismo ontologico’ auspicato da Ferraris e il richiamo di Searle ai principi fondamentali della tradizione razionalista occidentale nel nome della realtà e della verità. Non è difficile immaginare che il ritorno della centralità dell’ontologia e del realismo ontologico attizzerà la brace della critica al relativismo e fornirà munizioni insperate a coloro che dalle trincee (siano esse papali o baronali) sparano contro differenti bersagli, fra i quali si intravede l’arrogante antropologia culturale e il suo ruolo nei curricula universitari. 16

Detto questo, un po’ per credito nei confronti della filosofia, un po’ perché – come dice Remotti – l’umiltà deve essere la prima virtù degli antropologi, occorre confrontarsi con le argomentazioni di Searle, partendo dal presupposto che contengano indicazioni preziose per gli antropologi e per la definizione del compito conoscitivo delle discipline etno-antropologiche. A) In primo luogo risulta alquanto difficile liquidare o trattare con sufficienza la tradizione razionalista occidentale nel suo richiamo ai fatti reali e alla sua formula fondante: teoria + esperimento. Searle (2008: 29) sostiene infatti che i greci avevano «tutto il necessario per una teoria nel senso moderno del termine» e che l’Europa rinascimentale aveva aggiunto l’esperimento sistematico. L’antropologia culturale si è sempre confrontata con ‘teoria’ ed ‘esperimento’. Le ‘teorie antropologiche’ si dipanano lungo il Novecento, si riformulano nelle fasi di crisi e ripensamento, ma non vengono mai meno. Certo, l’antropologia postmoderna si oppone all’arroganza dell’Illuminismo, alla convinzione che le teorie consentano una conoscenza oggettiva del mondo e che possano essere apolitiche, ovvero non valutabili per i loro effetti sulla vita dei singoli (Layton 2001: 210); tuttavia, essa non è che una prospettiva (neppure univoca) all’interno dell’antropologia culturale, prospettiva che sicuramente ha arricchito e problematizzato il lavoro dell’antropologo, e nella maggior parte dei casi non ha implicato il congedo dalla teoria. Analogamente, è possibile sostenere che ‘l’esperimento’ abbia sempre fatto parte (in una qualche misura e in un qualche significato del termine) della ricerca etnografica e antropologica. Per esempio, l’efficace testo teorico dell’antropologo Leonardo Piasere si apre con un capitolo dal titolo ‘Degli esperimenti in antropologia’ dove, significativamente, si cerca in primo luogo di evitare il rifiuto postmodernista per la scienza e i suoi fondamenti: Evitando i fondamentalismi postmodernisti per tutto ciò che anche lontanamente può odorare di ‘scientifico’ e mantenendo una disposizione aperta e flessibile, quello che per il momento mi interessa sono i termini ‘esperimento’, ‘sperimentale’ e simili. Non mi interessa metterli a fuoco, ma cercare di capire se i casi canonici degli esperimenti fisici, che ne sono in qualche modo i casi esemplari, possono ‘estendere la somiglianza’ all’ambito antropologico (2002: 4-5). 17

L’esito dell’indagine porta Piasere a identificare l’attività principale dell’antropologo nell’esperienza (un termine etimologicamente non distante da esperimento) in quanto «gli antropologi hanno sempre acquisito conoscenze dirette facendo gli etnografi, cioè facendo esperienza degli altri» (2002: 27). Gli antropologi farebbero in tal modo un particolare tipo di esperimento: un esperimento di esperienza. Il richiamo all’esperienza non consente di affidarsi alla pura introspezione ma rimanda a una «effettiva presa in considerazione dei fatti empirici, senza esclusioni» (Herzfeld 2006: XV). B) Il secondo punto dell’argomentazione di Searle sul quale gli antropologi possono riflettere è la distinzione fra ciò che è da studiare e ciò che è da salvare. Secondo il filosofo statunitense, il soggettivismo politicamente motivato (ovvero, la forma di relativismo che si annida nel multiculturalismo d’oltreoceano) porta pericolosamente alla ridefinizione della disciplina accademica che non rimanda più a un campo da studiare, ma a una causa da portare avanti. Questo può essere vero se si analizzano alcuni contesti accademici statunitensi e alcune traiettorie e carriere di paladini dei Cultural Studies. Tuttavia, il riconoscimento di scivoloni e chine pericolose da ciò che si deve studiare a ciò che si deve salvare è spesso affermato senza una corretta argomentazione. Questo punto sarà più chiaro dopo avere riportato un brano della recensione del libro di Searle redatta da Ferraris e a cui si è fatto cenno in precedenza. Ferraris, per fini esplicativi e in modo accattivante, prova a individuare il punto di partenza di tale ‘china scivolosa’: Tutto era cominciato quando quell’insegnante di letteratura aveva detto che la poesia chicana [messicana] contemporanea è almeno altrettanto importante, sotto il profilo letterario, di Shakespeare. In fondo, era una affermazione mossa da un lodevole spirito di solidarietà nei confronti delle minoranze. Tuttavia, come osserva Searle [...] innescava un pericoloso cortocircuito tra gli oggetti da studiare e le cause da difendere [...] (corsivo nostro).

Sarebbe auspicabile che la conseguenzialità fra la valorizzazione di un prodotto intellettuale e le motivazioni solidaristiche di tale valorizzazione venga dimostrata caso per caso e non proposta, si suppone, per un pervasivo riferimento al concetto di ‘solidarietà’ formu18

lato da Richard Rorty (1989). Non sempre colui che valorizza qualcosa che si colloca fuori dalle tradizioni artistiche, intellettuali e scientifiche occidentali e asserisce una equivalenza con prodotti ‘alti’ della nostra tradizione, lo fa per solidarietà; anzi, ci si augura che l’equivalenza non sia in prima battuta basata su una motivazione morale e politica ma su motivazioni intellettuali. Ciò detto, è abbastanza ovvio che lo studioso dei saperi di altri gruppi e altre società desideri salvezza, sopravvivenza, pieni diritti nei confronti dei detentori di tali saperi. Come si spera di mostrare fra poche pagine, la riflessione sul concetto di ‘non finito’ espresso nei dipinti su corteccia battuta dei Pigmei Mbuti è almeno altrettanto importante della riflessione sul non finito espressa nelle sculture di Michelangelo e nella pittura di Guido Reni. Non per questo le motivazioni di tale equivalenza sono solidaristiche. La solidarietà con i Pigmei, la denuncia della loro condizione di vita e della denigrazione che devono subire sono fortemente auspicabili, ma non c’entrano nulla con l’equivalenza delle riflessioni sul ‘non finito’. Questo vale non solo quando ci si riferisce alle qualità intellettuali, ma anche nei riguardi delle forme di organizzazione sociale. Quando Remotti (2008) inferisce una equivalenza di ‘sensatezza’ tra il matrimonio monogamico diffuso in Occidente e il matrimonio poliandrico di alcuni gruppi tibetani, non muove da motivazioni solidaristiche nei confronti dei tibetani (ci sono ben altri motivi per essere solidali con loro), ma sviluppa la riflessione da presupposti intellettuali concernenti la dicotomia natura/cultura e la valorizzazione della molteplicità delle scelte di organizzazione sociale. Per evitare che si faccia leva in continuazione su tale conseguenzialità scorretta, occorre che i critici argomentino e dimostrino ciò che affermano caso per caso e che gli antropologi continuino a studiare le altre culture non perché degne di essere salvate, ma perché significative nel repertorio plurale delle culture. Se qualche docente di antropologia intendesse inserire nei programmi di studio un testo sui rom (probabilmente lo farebbe perché tira una brutta aria nell’Italia di oggi e auspicherebbe maggiore conoscenza della problematica da parte dei suoi studenti), dovrebbe giustificare la scelta alla luce della significatività della cultura rom, della raffinatezza dei loro prodotti culturali, della complessità della loro organizzazione sociale ecc.; ne conseguirà la valorizzazione dei loro saperi, delle loro forme di vita e delle molteplici abilità e tutto ciò produrrà probabilmen19

te un atteggiamento rispettoso nei confronti degli individui appartenenti a tale minoranza. Proprio nel momento in cui si assiste a una difesa a oltranza della tradizione intellettuale occidentale e i toni riecheggiano quelli di un angosciato Leo Strauss6, gli antropologi avrebbero buon gioco nel ricordare che negli anni in cui Strauss lanciava anatemi e si infervorava in difesa dell’Occidente (erano gli anni Sessanta), il quasi omonimo Lévi-Strauss non si limitava a piangere sui ‘tristi tropici’ e a trovare in quella tristezza solidaristica la sua grande forza argomentativa, ma proponeva una messe di dati etnografici che rotolavano nel mezzo della cultura alta dell’Europa e venivano presentati come intellettualmente significativi ed equivalenti. Le pagine iniziali de Il pensiero selvaggio, che strabordano di complesse e raffinate classificazioni indigene, sono al riguardo emblematiche. Se molti filosofi vedono la solidarietà (di Rorty) in tutti i tentativi di valorizzazione dell’alterità, molti antropologi, oggi sempre più ripiegati sul proprio mondo intriso di multiculturalismo, sono sempre più propensi a riconoscere, come determinante, il ruolo politico del loro lavoro (Herzfeld ne è un esempio) e ricercare le motivazioni alle proprie indagini in tale spinta morale e nelle denunce di sofferenza che ne conseguono7. Così facendo non fanno che legittimare coloro che denunciano la china scivolosa da ciò che dobbiamo studiare a ciò che dobbiamo salvare, con il rischio di non essere presi seriamente o di essere accomunati nelle critiche agli studi multiculturali che non coincidono affatto con l’antropologia culturale. Una strada per evitare le pastoie del multiculturalismo – e contemporaneamente salvaguardare lo scopo che già si prefiggeva LéviStrauss, ovvero essere una critica all’Occidente – può passare attraverso il potenziamento di studi antropologici incentrati sulle diffe6 Nei suoi attacchi alla modernità, al relativismo e al comunismo, Leo Strauss ricostruisce la tradizione filosofica sugli ideali politici. Questa ricostruzione, basata su una presunta continuità che parte da Platone fino a giungere a Nietzsche, diventa spesso un paradigma regolativo che si nutre del mito della tradizione intellettuale (Gunnell 1978). Come sarà più chiaro nella parte finale di questo capitolo, le tradizioni intellettuali si autoalimentano non solo per l’apporto e l’inclusione di ‘eccellenze’, ma per l’incessante autocelebrazione a cui sono sottoposte in un contesto argomentativo incentrato sulla continuità e cumulatività. 7 Un esito di tale clima è che si torna a definire alcune antropologie (o più semplicemente alcuni antropologi) come ‘borghesi’ (vedi Beneduce 2008: 16).

20

renti visioni del mondo, consapevoli che il ‘relativismo concettuale’ che emerge da equivalenze argomentate non è un’arma spuntata e stantia, ma una opportunità (non la sola si intende) per salvaguardare il valore e l’incidenza delle ricerche antropologiche nelle accademie e nella società. C) Una terza sollecitazione che gli antropologi potrebbero accogliere dal ‘serrate le fila’ di molta filosofia contemporanea intorno alla tradizione razionalista occidentale (intesa ‘alla Searle’) è prendere sul serio il richiamo al realismo ontologico. Senza dover rinnegare che la realtà è spesso socialmente costruita, che le comunità sono immaginate e le ritroviamo sui media e nella rete web, che i non luoghi sono ovunque e che l’alterità può essere scovata dietro l’angolo di casa, gli antropologi devono continuare testardamente ad andare a vedere ‘come le cose stanno’, o meglio, ad ‘andare là a vedere come le cose stanno’ (molti antropologi lo fanno). Il richiamo a una sorta di ‘realismo ontologico’ ha, per i filosofi e per gli antropologi, effetti diametralmente opposti. Molta filosofia, dopo aver vissuto decenni coraggiosi (o spregiudicati) di smontaggio di un intero apparato concettuale (paradigma, episteme, metafisica, verità, evidenza), decide di ‘serrare le fila’ intorno alla ‘questione dell’essere’, all’ontologia, in primo luogo come risposta a se stessa e come richiamo a una propria tradizione intellettuale più rassicurante. Ciò che potrebbe preoccupare molti filosofi è che ‘il pensiero debole’ del postmodernismo possa, alla lunga, indebolire non solo le categorie ontologiche e metafisiche, ma i pensatori di professione (quelli ‘autorizzati a pensare’ come D’Agostino)8. La sensazione è che la resa dei conti della filosofia con il postmodernismo sia più opportuno condurla sul territorio americano, non tanto perché Rorty è statunitense, ma perché il conflitto scivola verso il multiculturalismo e i bersagli diventano discipline non filosofiche9. Se il richiamo al realismo ontologico determina in filosofia una chiusura, tale richiamo determinerebbe in antropologia una rinnovata apertura; un’apertura in primo luogo spaziale.

8 È proprio Gianni Vattimo, principale difensore in Italia del pensiero debole, a denunciare uno dei principali limiti delle ‘nuove ontologie’: «[esse] non mettono in gioco l’esistenza del filosofo che parla e formula teorie» (2009: 43). 9 Il titolo originale del saggio di Searle è Postmodernism and the Western Rationalist Tradition, tradotto, non a caso, in italiano con Occidente e multiculturalismo.

21

Anche l’antropologia ha conosciuto decenni di ripensamenti che hanno scatenato un ‘ipocondrismo epistemologico’ (Geertz 1990: 78) inedito e hanno permesso di assumere maggiore criticità nei confronti del lavoro etnografico, dell’autorevolezza e dell’autorialità dell’antropologo. Uno dei punti su cui si è insistito è la denuncia dello sguardo allo-cronico di molta antropologia classica (Fabian 2000) e il conseguente richiamo alla contemporaneità dei mondi indagati. La denuncia di Johannes Fabian si è incentrata sulla mancanza di storicità rinvenibile nei resoconti di numerosi antropologi in cui l’oggetto di indagine è collocato fuori da una dimensione temporale (allo-cronismo). La predilezione per il ‘presente etnografico’ indifferente alla diacronia e alla soggettività (del tipo: gli Azande pensano..., i Dogon credono...) non solo colloca gli ‘altri’ fuori dal tempo, ma li espelle dalla dimensione temporale in cui è inserito l’antropologo (mancanza di coevità)10. A ben vedere, la denuncia dell’allo-cronismo si è accompagnata a un dilagante allo-topismo: ciò che non si concede più in termini temporali, lo si concede in termini spaziali. Lo sguardo allo-cronico è stato sostituito da uno sguardo allo-topico (o allo-tropico, da intendersi come ‘fuori dai tropici’) predisposto per dar conto di tutto ciò che caratterizzerebbe la contemporaneità: dinamiche globali, diaspore, forti flussi migratori. Il processo di deterritorializzazione coinvolge gli antropologi che si attrezzano con prospettive transnazionali, etnografie multisituate, e concetti come quello di ‘non luogo’. In un perfetto parallelismo con lo sguardo allo-cronico – dove al ‘primitivo’ viene sottratta la dimensione temporale o tutt’al più concesso il tempo arcaico delle origini – lo sguardo allo-topico (o allo-tropico) sottrae all’alterità la dimensione spaziale o tutt’al più, gli riserva un particolare e univoco posizionamento riconducibile al sistema mondo, ai non luoghi pervasivi, ai percorsi migratori, alla rete web ecc. Il richiamo a una sorta di ‘realismo ontologico’ in antropologia – forse sarebbe sufficiente parlare di ‘realismo’ – dovrebbe permet10 Non a torto Sally Falk Moore considera esagerate le accuse di Fabian: «L’accusa [di Fabian] con la sua forte indignazione politica è in ritardo ed esagerata. Basterà riflettere sul ruolo giocato dalla storia nell’opera di Alfred Kroeber, Julian Steward, Eric Wolf e Marshall Sahlins, o in E.E. Evans-Pritchard, Georges Balandier, M.G. Smith, Stanley Tambiah e in alcuni scritti di Clifford Geertz, per vedere che l’indiscriminata accusa di Fabian è senza dubbio esagerata» (Moore 2000: 440-441).

22

tere di vedere alterità degna di essere indagata anche in quei villaggi e in quegli sperduti angoli di mondo che continuano a essere abitati e frequentati da persone che seguitano a percepirsi indigeni di quei luoghi. Come ha scritto qualche anno fa Marshall Sahlins (1999), contrariamente alle previsioni e alle profezie, una delle lezioni che gli antropologi devono trarre dal secolo appena trascorso è che gli indigeni sono ancora là e sono ancora indigeni (riconoscibili attraverso le loro trasformazioni e nonostante i processi di deculturazione). Quando Michael Herzfeld (2006: 7) sostiene che gli antropologi non si devono più nascondere nei villaggi senza occuparsi della miriade di agenzie nazionali e internazionali, non dice che non bisogna mai più recarsi nei villaggi. Quando si afferma che non ha più senso tenere distinta un’antropologia del qui e un’antropologia dell’altrove non significa che occorra necessariamente stare qui. Un ultimo punto. Il richiamo al ‘realismo’ in antropologia dovrebbe permettere di salvaguardare i prodotti culturali del passato che testimoniano la ricchezza, la complessità e la molteplicità delle scelte culturali. Certo, oggi, nella contemporaneità, le cose potrebbero ‘non stare più così’, ma lo ‘sono state’ e in molti casi continuano a essere raccontate dagli indigeni. Sembra ingenuo affermare che le etnografie raccolte e sistemate per iscritto dagli antropologi del passato riportano le cose come lo ‘sono state’; così come pare impossibile che un antropologo oggi non sia consapevole dei contesti coloniali di esercizio del potere, delle prospettive teoriche superate in cui i dati venivano racchiusi. Tuttavia, una lettura critica dell’antropologia classica non dovrebbe giustificarne il disconoscimento; ogni azione risolutiva è di per sé violenta, lascia macerie e il rammarico di non aver accumulato sapere e la sensazione – che prima o poi si prova – di aver comunque buttato via il bambino con l’acqua sporca. Alla luce di queste puntualizzazioni di ordine teorico inerenti i rischi di chiusura etnocentrica del realismo ontologico e il richiamo a un maggior ‘realismo’ (in primis, territoriale) in antropologia, si intende iniziare il viaggio all’interno dei gruppi pigmei dell’Africa centrale. Molte questioni delineate nelle pagine precedenti troveranno appigli concreti per poter essere argomentate. È giunto il momento di andare a leggere alcune pagine del libro di saperi che idealmente stringe fra le mani la donna pigmea della scultura di Malvina Hoffman. Per fare ciò occorre uscire dalla hall 23

del Field Museum di Chicago e percorrere in lungo e in largo l’Africa centrale, ovunque sia possibile incontrare gruppi pigmei: dalla costa atlantica (Camerun, Gabon) fino alle colline dell’Africa interlacustre (Rwanda, Burundi, Uganda) passando per le umide foreste di mezzo (Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana). Gli stessi Pigmei, d’altronde, non capirebbero ancora a lungo questo indugiare nei musei e nelle accademie; i Pigmei – come riporta Colin Turnbull – giudicano le persone da come camminano in foresta. 1.3. Dove le termiti diventano api Con il termine ‘Pigmei’ si intendono – in modo improprio ma ormai ampiamente diffuso – molti gruppi etnici dell’Africa equatoriale che presentano fra loro differenze linguistiche, culturali e fisiche a volte rilevanti11. Benché non ci sia uniformità, ciò che li accomuna dovrebbe essere la bassa statura, lo stile di vita incentrato sul semi-nomadismo e sulla caccia-raccolta in foresta, quest’ultima, idealizzata (dove è presente) o rimpianta (dove sta scomparendo). A ben vedere, molti di coloro che negli ultimi decenni hanno condotto ricerche etnografiche fra gruppi pigmei ritengono che il termine ‘Pigmeo’ abbia un referente univoco più nell’immaginario occidentale che nelle foreste africane. Gli antropologi che hanno proposto visioni d’insieme e riflessioni comparative fra i gruppi pigmei dell’Africa (Bahuchet 1990, Hewlett 1996) sono concordi nell’individuare una decina di gruppi differenti dal punto di vista etnolinguistico. In queste pagine si farà riferimento (con piccole modifiche) alla classificazione in tre macrogruppi riportata da Serge Bahuchet (1990: 7) perché presenta alcuni vantaggi di chiarezza e semplificazione. 1) Bambuti. Con questo termine generico ci si riferisce ai Pigmei insediati nella regione nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo (ex Zaire). I Bambuti sono suddivisi al loro interno in almeno tre gruppi: gli Efe, gli Asua (o Asoa) e i Mbuti propriamente 11 Il termine ‘Pigmei’ è stato utilizzato anche per designare gruppi caratterizzati dalla bassa statura diffusi in altre parti del mondo (Malesia, Filippine, Nuova Guinea, isole Andamane).

24

detti. Questi ultimi sono famosi nella letteratura etnografica in quanto indagati dai primi etnografi che fecero ricerche sistematiche fra i Pigmei dell’Africa (Paul Schebesta negli anni Venti-Trenta e Colin Turnbull negli anni Cinquanta-Sessanta). 2) Babinga (in alcuni casi, Bayaka). Con questo termine si indicano i gruppi pigmei ‘occidentali’, ovvero insediati in alcune aree di Camerun, Gabon, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo. Più precisamente: Tikar, Kola o Gyeli (presenti nel sud-ovest del Camerun), Baka e Bangombe (nel sud-est del Camerun, nel nord del Gabon e nel nord del Congo), Aka e Mbènzèlè o Mbendjele (Repubblica Centrafricana e nord del Congo), Bongo o Akoa (Gabon e ovest del Congo). 3) Batwa e Bacwa. Questo frammentato e disperso gruppo di Pigmei ‘orientali’ si trova in Rwanda e Burundi nonché nelle regioni occidentali e sud-orientali della Repubblica Democratica del Congo. Nel corso del volume ci sarà modo di rifarsi a una prospettiva comparativa che permetterà di connettere fra loro alcuni dei gruppi sopra specificati; così come ci saranno parti del volume in cui i ‘Pigmei’ verranno considerati in modo indistinto ‘come se’ fossero una categoria omogenea e compatta. Per il momento è bene affrontare casi specifici dove si suppone possa emergere con chiarezza cosa si debba intendere per ‘sapere’ dei Pigmei, quanto questo sapere sia rilevante o irrilevante nel repertorio delle culture e quanto la consapevolezza di saperi ‘altri’ faccia intravedere l’incompletezza e la parzialità dei nostri. In una delle prime pagine del più noto resoconto etnografico sui gruppi pigmei, I Pigmei. Il popolo della foresta, l’antropologo britannico Colin Turnbull riporta dapprima la sensazione di vuoto e di silenzio che si prova a immergersi in una foresta pluviale tropicale, per poi riconoscere subito dopo quanto tale sensazione sia vissuta solo da chi è estraneo alla foresta. Essa non è silenziosa e tanto meno vuota: Chiunque abbia provato il senso di vuoto che dà il silenzio d’una foresta tropicale, sa che cosa provarono Stanley e i suoi compagni, che provenivano per di più da una regione aperta, di pianure ondulate, calde e luminose. Da allora molta gente, visitando la foresta dell’Ituri, o vivendoci, è stata colta dallo stesso senso di oppressione per la pesantezza della natura: l’umidità dell’aria; i giganteschi alberi impregnati d’acqua, sgocciolanti senza sosta, mai completamente secchi per le violente piogge che si susseguono regolari e monotone; la stessa terra, pesante, gonfia d’ac25

qua al minimo rovescio temporalesco. Più di tutto però opprime il silenzio irreale, il senso di isolamento e di solitudine che permea da tempo immemorabile ogni cosa. Queste sono, però, sensazioni di chi è straniero, di chi non appartiene alla foresta. A chi è della foresta, essa si rivela totalmente diversa [...]. Persino il silenzio è un mito. Se si hanno orecchie per sentirli, la foresta è piena di rumori, eccitanti e misteriosi, lamentosi e gioiosi (Turnbull 1979: 9).

Colin Turnbull, benché si riferisca qui alla foresta dell’Ituri – un’area piuttosto ampia della Repubblica Democratica del Congo nord-orientale dove sono presenti i Pigmei Mbuti – riporta una sensazione che si può avere in ogni angolo della foresta equatoriale africana. Turnbull ritiene che la foresta si riveli in modi totalmente differenti a coloro che ci vivono e agli stranieri; la foresta non si presenta sempre uguale a se stessa e indipendentemente da colui che ne fa esperienza. Appurato ciò, non si può dar torto a John Searle il quale, se interpellato, direbbe che la foresta pluviale tropicale del bacino congolese esiste indipendentemente dalle rappresentazioni, dalle percezioni e dal linguaggio. Attingendo dalla tradizione razionalista occidentale, tale foresta sarebbe descritta in termini scientifici: la sua definizione sarebbe stabilita sulla base di indici di piovosità, la sua morfologia sarebbe definita in termini geologici, il suo contenuto elencato con nomi scientifici della botanica, della zoologia e – perché no! – dell’etnologia. Dopo tale sforzo il sospetto è che permanga quella sensazione di vuoto e di silenzio, quella sensazione di aver fatto tutto con precisione, con esattezza e con disinteresse, ma che la ‘rappresentazione accurata’ che si ottiene sia tanto vera quanto incompleta. Questa sensazione è probabilmente alla base di imprese estremamente affascinanti dal punto di vista di chi scrive, come quelle condotte in tempi e luoghi diversi dell’Ituri da parte di studiosi giapponesi dotati di un forte interesse antropologico nei confronti dei Pigmei e di una solida preparazione nelle scienze naturali (i più noti: Mitsuo Ichikawa, Hideaki Terashima e Tadashi Tanno). Dalla fine degli anni Settanta del Novecento, una messe impressionante di dati indigeni (soprattutto di etnobotanica) sono stati da loro raccolti e comparati non tanto per solidarietà con i gruppi indigeni (la solidarietà di Rorty), ma per ampliare un repertorio comune (del genere umano) di conoscenze pensato sempre come incompleto; tali ricer26

che permettono di conoscere meglio la foresta attraverso la voce, le categorie e i concetti di chi la abita. In un lungo saggio scritto nel 1988 da Hideaki Terashima, Mitsuo Ichikawa e Masato Sawada, viene presentato parte del ‘sapere’ botanico dei Pigmei Efe e dei vicini Lese, ovvero il sapere relativo ai campioni di piante che è stato possibile raccogliere, nel tempo pur limitato dei periodi di ricerca, su indicazioni degli indigeni. Sempre all’interno del saggio, i dati raccolti vengono comparati con quelli contenuti negli studi di Tanno sull’etnobotanica dei Pigmei Mbuti. I ricercatori andarono in foresta con gli informatori quasi ogni giorno e raccolsero campioni indicati da loro come ‘utili’ o ‘aventi significati particolari’ e, sempre da loro, raccolsero informazioni sul posto. Tornati al villaggio, mentre si mettevano i campioni a seccare, venivano ottenute altre informazioni da tutti coloro che si trovavano lì. Il numero di campioni raccolti in questo modo fu di 280, con circa 400 indicazioni di utilizzo (Terashima, Ichikawa e Sawada 1988: 3).

L’intento è quello di incrementare il ‘sapere’ e «leggere dalla grande massa di conoscenze indigene delle piante, la loro filosofia della natura» (1988: 1, corsivo nostro). Le categorie di utilizzo in cui gli studiosi (su indicazione degli indigeni) hanno raggruppato le piante sono solo in parte riconducibili agli aspetti pratici della vita quotidiana (cibo, bevande, cultura materiale, veleni, narcotici ecc.); altre categorie rimandano ad ambiti più simbolici (religione, rituali, tradizioni orali, canti, aforismi, leggende, miti); altre ancora si connettono a settori del sapere che hanno corrispettivi accademici nelle nostre scienze – si pensi per esempio, alle conoscenze dei Pigmei inerenti all’importanza di determinati vegetali nella vita di specifici animali (etologia, zoologia), oppure alle classificazioni indigene delle piante usate nelle pratiche di cura e nella farmacopea. Al riguardo può essere significativo rilevare che i Pigmei Mbuti e Efe utilizzano 140 piante nella ‘loro’ medicina, numero relativamente modesto in confronto alle 400 specie medicinali in uso presso i Pigmei Aka (Ichikawa e Terashima 1996: 282). Il solo dato numerico è già sufficiente per far sì che possa sorgere il sospetto di trovarsi di fronte a un corpus di conoscenze degno di essere conosciuto e ‘disseminato’; è buon senso supporre che almeno alcuni usi di specie vegetali e alcune connessioni dei Pigmei 27

fra le piante e il mondo siano originali, inedite e degne di approfondimento anche ‘scientifico’. In aggiunta a ciò – come è stato espresso brillantemente da Lévi-Strauss nella prima parte de Il pensiero selvaggio – occorre concedere a ‘loro’, agli ‘altri’, un desiderio di ordine che risponde a logiche raffinate, dove l’osservazione e la sperimentazione svolgono un ruolo cruciale. Probabilmente non tutto il ‘libro dei saperi Pigmei’ è stato scritto con un linguaggio simile a quello della scienza, ma tale ‘libro’ è stato scritto e risulta eccellente; leggerlo significa dischiudere visioni del mondo e accedere a preziose ‘finestre sulla cultura’ (Ichikawa e Terashima 1996: 277). Per argomentare questo punto, Ichikawa e Terashima riportano una variazione locale sul tema della metamorfosi degli insetti. I Pigmei Mbuti osservano con attenzione il comportamento delle termiti alla fine della stagione delle piogge, quando tali insetti sono dotati di ali e volano fuori dal termitaio. L’osservazione accurata delle condizioni atmosferiche e del termitaio stesso permette loro di prevedere il momento esatto in cui le grandi termiti bandonge (Macrotermis) si involano e, conseguentemente, possono essere catturate per rientrare nella dieta dei locali. La meticolosità dell’osservazione è molto alta: piccole superfici del termitaio si assottigliano in modo quasi impercettibile dall’esterno; è il lento e silenzioso lavoro degli insetti che preparano le piattaforme di decollo. «Gli Mbuti sostengono che ‘quando il tempo migliora dopo un forte temporale, e il tipo di termiti più piccole, amatapatapa, si involano nella foresta, le più grandi bandonge voleranno alle prime luci del giorno successivo’» (1996: 276). Sulla base di questo calcolo, i Pigmei si recano al termitaio la sera precedente all’evento, ripuliscono il sito, preparano un falò con un legno particolare per attrarre le termiti in volo. Successivamente, essi scavano una buca dove convogliare le termiti e la attrezzano con barriere idonee a evitare la fuga degli insetti catturati. Sotto un riparo preparato dalle donne si attende pazientemente l’alba. I Pigmei Mbuti, dopo aver gestito una sequenza di atti con accuratezza, scrupolo e precisione che li ha portati a raccogliere il maggior numero di termiti possibile, «diventano meno diligenti» (1996: 277) e sembrano non curarsi del fatto che un considerevole numero di termiti alate riescono a fuggire. Questo comportamento apparentemente irrazionale viene giustificato dagli stessi Bambuti, in quanto sostengono che le termiti lasciate fuggire saliranno, ormai prive di 28

ali, sugli alberi trasformandosi in api (pecchie); queste produrranno miele che, nella stagione opportuna (sei mesi dopo la stagione delle termiti alate), verrà raccolto dai Bambuti. I Pigmei mettono ordine nel mondo degli insetti partendo dalla loro visione del mondo della foresta dispensatrice di beni preziosi in stagioni differenti – tema che verrà ripreso nell’ultimo capitolo. In questo caso, la connessione fra termiti e pecchie non regge e non si legge attraverso le categorie della nostra entomologia (termiti e api appartengono a due ordini tassonomici differenti: Isoptera e Hymenoptera); questo non significa che la connessione sia del tutto fantasiosa: termiti e pecchie sono effettivamente molto simili per dimensioni e forma, oltre a essere accomunate dalla vita sociale in colonie. Ciò che a prima vista sembra un abbandono della accuratezza è a ben vedere una specifica modalità di percepire il reale; una raffinata filosofia della natura in cui i Pigmei sono inseriti. Infatti, il tema della metamorfosi (di animali in altri animali e degli stessi Pigmei in animali) sembra essere ricorrente in diversi gruppi pigmei (per esempio Pes 2008). Al di là degli usi particolari del dispositivo della metamorfosi, emerge una esigenza descrittiva ed esplicativa dell’ambiente in cui si è inseriti che predilige una prospettiva atta a fornire una visione unitaria del mondo della foresta percepito come ‘vivente’ e ‘cangiante’. Tale visione riequilibra l’ansia di scomposizione tassonomica degli esseri organici. Questa sensibilità non è d’altronde lontana da ciò che esprimeva Goethe nel lontano 1807 giustificando l’impresa di individuare nella metamorfosi delle piante quel principio unitario che permetterebbe di cogliere «la molteplicità delle manifestazioni particolari dello splendido giardino del mondo» (Goethe 1983: 83): Osservando le cose naturali, ma soprattutto gli esseri viventi, col desiderio di penetrare nell’insieme organicamente collegato del loro esistere e del loro agire, noi crediamo di riuscirvi meglio scomponendoli in parti; e, certo, questo procedimento ci permette di fare molta strada [...]. Senonché questi sforzi analitici portati continuamente innanzi, recano in sé molti svantaggi. Ciò che prima era vivo è bensì scomposto in elementi; ma da questi non si può ricomporlo né, tanto meno, ridargli vita (1983, 42).

Fra i Bambuti, l’osservazione empirica e la percezione culturale si congiungono in questa variazione sul tema della metamorfosi de29

gli insetti contribuendo a spiegare la simbiosi fra i gruppi pigmei e le risorse della foresta, percepita, quest’ultima, come ‘vivente’. La metamorfosi supposta connette termiti e api fornendo un indizio prezioso sul significato profondo dei passaggi stagionali e sulla visione del mondo di uno specifico universo culturale. 1.4. Gli Mbendjele con il navigatore satellitare La foresta non è la stessa per tutti. Non tutti la vedrebbero punteggiata di termitai e alveari, non tutti avrebbero orecchio per ascoltare il rumore di api e termiti, non tutti sarebbero propensi a immaginare queste ultime trasformarsi in pecchie. Non c’è dubbio che, armati dei nostri ordini tassonomici, la foresta si riveli a noi estremamente complessa (non per questo ‘più’ complessa che ai Pigmei), ma l’eventualità (arrogante) di ignorare il punto di vista di chi ci abita (i Pigmei, per esempio) ci farebbe restare con un pugno di vuoti e silenzi. La verità ontologica della foresta sarà pure sacrosanta e di buon senso, ma è poca cosa; la foresta è vuota e necessita di essere riempita con le concezioni indigene. Finora si è concesso che ‘noi’ – produttori e disseminatori di conoscenze per merito della ‘tradizione razionalista occidentale’ – ci inoltriamo nella foresta pluviale del Congo in qualità di entomologi, biologi, zoologi, etnologi; questa è una visione edulcorata della realtà, le cose stanno in modo un po’ diverso. Dall’epoca delle grandi esplorazioni ottocentesche, l’Occidente ha pensato che il cuore di tenebra dell’Africa dovesse essere squarciato con la luce del progresso, della scienza e della vera religione. L’impresa che ne risultò – nell’Africa centrale come altrove – ebbe ben presto le sembianze dell’economia di rapina dei colonizzatori ovvero «sfruttare al minor costo possibile un territorio immenso, in gran parte forestale, difficilmente penetrabile e che offriva, in cambio, ricchezze naturali abbondanti, remunerative e immediatamente sfruttabili» (Coquery-Vidrovitch e Moniot 1977: 148). Dapprima avorio e caucciù poi diamanti, metalli preziosi e legname, un oceano di legname pronto a essere lavorato e venduto sul mercato internazionale. Anche in epoca post-coloniale, lo sfruttamento delle risorse forestali resta un punto cruciale nelle economie dei paesi della fascia equatoriale africana e il legname continua a svolgere un ruolo cen30

trale. Nel bacino del Congo, molte compagnie straniere e gruppi esterni alla foresta controllano le risorse locali, soprattutto per quanto riguarda il legname e il mercato della carne, coinvolgendo gli indigeni solo come manodopera, spesso sottopagata e sfruttata. In questo quadro, i Pigmei subiscono anche la discriminazione da parte di altri indigeni, coloro che abitano nei villaggi e sono dediti alla coltivazione dei campi; in molti casi, questi considerano i Pigmei come fossero animali da tenere lontano dai villaggi e ai quali non riconoscere alcun diritto. Come sottolineano Jerome Lewis e John Nelson (2006: 9), in questi primi anni del nuovo millennio si è assistito a un aumento della competizione nella corsa alle risorse forestali in diversi paesi dell’Africa centrale. Contemporaneamente si è verificato, negli stessi stati nazionali, un incremento dei progetti per la conservazione della biodiversità (ampiamente sostenuti a livello finanziario dalla comunità internazionale) con la conseguente ‘disseminazione’ di aree protette, parchi e riserve. La coesistenza di sfruttamento e conservazione determina strategie legislative nazionali garanti di un pur sempre difficile equilibrio. Una conseguenza immediata di ciò è stata l’introduzione di modelli di certificazione internazionale che assicurino il rispetto dei vincoli ambientali e sociali da parte delle compagnie per lo sfruttamento del legname. Una delle certificazioni dotate di maggior credito e molto nota fra chi opera nel mercato del legname in Africa centrale è quella fornita dalla Forest Stewardship Council (FSC), una organizzazione che ha sede a Washington e garantisce standard di sostenibilità ambientale e sociale. Le compagnie nazionali e internazionali che operano in Africa centrale sono ben consapevoli dell’importanza di tale certificazione, se non altro per una mera questione economica: il mancato coinvolgimento delle popolazioni locali (scelte dei siti, ricadute socio-economiche) implica il non ottenimento della certificazione e la sensibile riduzione dei permessi di sfruttamento e di quote di vendita (l’Europa permette un incremento del 30% per metro cubo importato, se il legname è dotato del timbro di certificazione). L’auspicio, ovviamente, è che oltre agli aspetti economici e strategici, si imponga sempre più il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni di foresta, affinché diventino artefici di processi di salvaguardia e patrimonializzazione del territorio e delle abilità implicate nel loro rapporto con l’ambiente. Questo è l’auspicio dell’antropo31

logo britannico Jerome Lewis, il quale negli ultimi anni ha affiancato la propria attività di ricerca etnografica presso differenti gruppi pigmei (Batwa, Mbendjele) con il sostegno ai gruppi indigeni della foresta (Mbendjele, Baka) nei progetti di mappatura del loro territorio (Lewis e Nelson 2006, Lewis 2007, Hopkin 2007). Uno dei progetti più interessanti ha preso forma nel 2004, quando la Congolaise Industrielle des Bois, CIB (compagnia, controllata da una multinazionale danese, concessionaria per il taglio di legname di 1.300.000 ettari di foresta nel nord della Repubblica del Congo) in collaborazione con la Tropical Forest Trust, organizzazione con sede in Svizzera che aiuta le compagnie a ottenere la certificazione FSC, decide di certificare le sue enormi concessioni. Per fare questo (ovvero rispondere agli standard di sostenibilità sociale) occorre coinvolgere i gruppi pigmei mbendjele ai quali viene riconosciuto il diritto di ‘marcare’ i siti della foresta che reputano importanti e degni di salvaguardia (luoghi di raccolta, di caccia, siti ritenuti culturalmente significativi, aree funerarie e quant’altro). Con il supporto della Helveta Ltd (gruppo informatico britannico) e con la consulenza antropologica di Lewis, è stato predisposto un sistema GPS (global positioning system, non dissimile da quelli in dotazione sulle autovetture) la cui tastiera è costruita a partire da una serie di icone pensate consultando i locali. In questo modo, gli Mbendjele, analfabeti, hanno l’opportunità di muoversi in foresta dotati dei loro GPS e realizzare autonomamente la mappatura senza dover essere coadiuvati da tecnici e ‘intrusi’. Le coordinate dei punti selezionati durante questo lungo lavoro, pensato dai locali come continuamente ‘in progress’, vengono inviate a un software che, sommando i risultati, presenterà una visione computerizzata della foresta non più vuota, ma culturalmente marcata. Questa visione computerizzata della foresta – ‘emica’, vicina all’esperienza pigmea, nei contenuti; ‘etica’, lontana dall’esperienza pigmea, nel supporto informatico – permetterà alle compagnie di legname di evitare le aree segnate e agli Mbendjele di patrimonializzare in modo inedito frammenti di foresta. Con la consapevolezza che faceva difetto a Candido di Voltaire, nessuno ritiene di essere nel migliore dei mondi possibili e, di conseguenza non è difficile avanzare dubbi e paventare rischi: si tratta di salvaguardare patrimoni o di concedere brandelli? Per quanto tempo ancora il dislivello di potere fra gli attori coinvolti (gruppi in32

digeni, stati nazionali e società multinazionali) non imporrà altre strategie meno conservative? Saranno accolte le richieste di abbassamento degli standard FSC puntualmente avanzate dalle compagnie per lo sfruttamento del legname? Senza volere sminuire l’importanza di tali interrogativi e auspicando uno stretto monitoraggio, è opportuno connettere il caso in esame (la mappatura satellitare effettuata dai Pigmei) alle tematiche fin qui trattate, ovvero, il riconoscimento dei saperi indigeni e il ruolo dell’antropologia. A) Benché la foresta possa avere una sua ‘verità’, una sua esistenza ontologica indipendente da ogni rappresentazione, i punti di vista e le ‘visioni del mondo’ su di essa delle compagnie del legno e dei gruppi pigmei sono molto diversi. Per le prime, la maggior parte dei siti di foresta sono uguali e indistinti (Hopkin 2007: 403); per i Pigmei invece la foresta non è affatto indistinta, ma è piena di luoghi utili, significativi e diversificati. Se si adotta la definizione di cultura proposta anni addietro da Remotti (1993b: 47): «la cultura è ‘segno’ impresso: è azione, o meglio la serie di azioni, mediante cui si imprimono segni su luoghi, corpi e loro manifestazioni», ne consegue che in entrambi i casi si assiste a una volontà di imprimere segni: le compagnie agiscono come abbattitori di alberi, i Pigmei come patrimonializzatori della complessità dei siti. La differenza fra compagnie del legno e Pigmei è una differenza culturale che, senza troppe difficoltà, permette di riconoscere ai Pigmei ‘eccellenza culturale’, la stessa che Searle e Bloom riconoscono essenzialmente all’Occidente. L’impatto più rilevante della tradizione razionalista occidentale sulla foresta non è certo determinato dalle raffinate analisi di ecologia culturale, ma dalle meno raffinate strategie delle compagnie del legno, alle quali si contrappone la visione complessa degli indigeni. Tale complessità si esprime attraverso una intricata differenziazione etno-ecologica, attraverso la quale si possono distinguere aree forestali molto diverse l’una dall’altra. Per gli Mbendjele, la foresta è ndima, ma a seconda delle caratteristiche del terreno, della vegetazione sovrastante e della presenza o meno di specifiche specie faunistiche, la stessa foresta può essere denominata con diversi termini: djutu, djamba, diko, ndima ya bisedja, tanda, ndobo (Lewis 2005: 64). Alla complessità ecologica si aggiunge una complessità determinata dagli usi e dai significati di specifiche aree (frammenti di foresta destinati ai cimiteri, alle attività rituali e religiose, alle innumerevoli varianti 33

di ciò che definiamo ‘caccia’ e ‘raccolta’, alla memoria collettiva ecc.). Attribuire valore e significato a una moltitudine di angoli della ‘foresta’ è strettamente connesso alla ricchezza del patrimonio di abilità che i gruppi pigmei possiedono e, come ricorda Tim Ingold (2001: 49), ‘abilità’ (skill) è sinonimo di cultura. Insomma, ascoltare ciò che i Pigmei hanno da dire sulla foresta significa salvaguardare e incrementare conoscenze e cultura, ridurre vuoti e silenzi. B) Il caso dei Mbendjele ‘con il navigatore satellitare’ consente un’ulteriore riflessione. La trama si svolge su un palcoscenico globale (organizzazioni internazionali, società multinazionali, strategie statali, diritti universali, tecnologia satellitare ecc.) che lascia intravedere ciò che Marc Augé (1993: 33, 1995: 166) definisce ‘il restringimento del pianeta’, ovvero, l’idea che nel mondo attuale, sempre più globalizzato e dominato da flussi migratori, trasporti veloci e processi di delocalizzazione economica e culturale, lo spazio venga vissuto e percepito come ‘ristretto’ e marcato da ‘non luoghi’: spazi a socialità ridotta e a bassa intensità di significazione culturale. Ora, la foresta dove vivono gli Mbendjele è uno spazio immenso che, lasciato nelle mani delle compagnie del legno, idealmente si restringe, in quanto rappresenta uno dei nodi (sufficientemente indistinto) di una rete globale su cui agiscono compagnie nazionali, agenzie internazionali e società multinazionali. Lasciata nelle mani dei Pigmei, la foresta si presta a essere ‘marcata’ dalla sua riconosciuta complessità ambientale, sociale e culturale. In tal modo, la foresta diventa densa di significati e idealmente si estende. E gli antropologi che fanno? Scelgono di essere presbiti o miopi? Di estendere o di restringere? Alcuni si tufferebbero con i Pigmei nella foresta sacrificando in parte (o in buona parte) l’orizzonte del network globale. Questi, riducendo la frequentazione dei non luoghi della sur-modernità, si ostinerebbero a voler conoscere i luoghi corrispondenti ai punti ‘marcati’ dai Pigmei pigiando sulla ‘sur-moderna’ tastiera del GPS in dotazione. Cercherebbero di cogliere i significati indigeni connessi a quei punti per poi idealmente unirli – come nel noto gioco da cruciverba – e indovinare frammenti di visioni del mondo altrui. Altri, molti altri, si piazzerebbero su un’altura per descrivere l’intero network dall’alto, scendendo di tanto in tanto per ‘multisituarsi’ nei molteplici nodi dell’intricato reticolo globale in cui anche i Pigmei e la loro foresta sono coinvolti. Questo permetterà loro di co34

gliere dinamiche e strategie globali, indagare le connessioni, le congiunture e le strategie socio-economiche dei vari attori coinvolti. Entrambe le prospettive presentano pericoli che sono facilmente intuibili: perdere di vista le connessioni, oppure, svincolare o sminuire l’analisi dei significati indigeni12. Nessuna delle due è immune dal rischio di fuggire da un orizzonte di senso per poterne cogliere meglio un altro ritenuto più rilevante. Ciò detto, non si può tacere il fatto che gli inviti a non nascondersi nei villaggi o nelle foreste (Herzfeld 2006), l’auspicio di un’antropologia ‘moderna’ più attenta alle congiunture che alle culture (Clifford 2002) e la sovravalutazione di un mondo ristretto e disseminato di non luoghi (Augé 1993) conducono inevitabilmente a prediligere un approccio dove la foresta è un punto di un network, piuttosto che un vasto ‘universo di punti’, densi di significati e di vite vissute. In tal caso, la foresta non si ‘fa densa’ e non si dilata, ma si restringe. Nel caso specifico, la ricerca di congiunture e la valorizzazione dei nodi di un network globale imporrebbero come oggetto di studio antropologico le strategie delle agenzie internazionali e delle multinazionali determinando la scelta dei terreni di ricerca. Così procedendo, non stupisce se la tastiera del GPS in dotazione diventasse antropologicamente più rilevante dei corrispondenti reali indicati dai Pigmei attraverso la mappatura satellitare. Il dito che indica la luna diventerebbe maggiormente degno di essere indagato rispetto alla luna stessa. Ciò non sarebbe del tutto auspicabile, almeno per il fatto che i Pigmei non vogliono patrimonializzare network globali e tecnologie satellitari, ma specifici siti disseminati nella foresta e coinvolti nelle loro pratiche dense di significati culturali. 1.5. I «pongo» dei Bambuti Le variazioni sul tema della metamorfosi e la mappatura satellitare eseguita dai Pigmei sono solo due esempi che illustrano il rischio del misconoscimento della densità culturale della foresta e del patrimo-

12 In riferimento all’utilizzo dei termini ‘miope’ e ‘presbite’ per denominare due approcci differenti nell’indagine antropologica (uno più attento ai significati e ai contesti locali, l’altro più attento alla dimensione globale) si veda il saggio di Adriano Favole dedicato al rito kava in Polinesia (Favole 2000).

35

nio di siti, abilità e conoscenze che i gruppi pigmei possiedono in relazione a essa. Fra gli scopi della ricerca antropologica c’è sicuramente quello di riconoscere e dar conto delle densità culturali; questo compito ‘quantitativo’, questo voler favorire ‘l’emersione’ dei pieni culturali coinvolge anche ciò che, a prima vista, può non essere ravvisato perché poco evidente. La cultura, d’altronde, non è sempre qualcosa di tangibile e reificato; e ciò è ancora più vero quando si maneggiano concetti e visioni del mondo. In questo quadro risulta estremamente significativo non accontentarsi dei ‘pieni’ e della ‘densità’, ma volgere lo sguardo ai ‘vuoti’, in quanto i ‘vuoti’ rientrano, con pieni diritti, nelle riflessioni culturali dei Pigmei13. Quello che si vuole mostrare in questa parte conclusiva del capitolo è ‘l’eccellenza culturale’ delle riflessioni locali sul ‘vuoto’ e sul ‘non finito’ compiute dai Pigmei mentre pensano e realizzano disegni su corteccia battuta. Un’eccellenza culturale che non emerge solo dalla constatazione della complessità e della raffinatezza di alcuni loro artefatti, ma anche dal confronto con ‘noi’, almeno con quelli di ‘noi’ che ‘noi’ pensiamo spesso connessi alla riflessione sul ‘vuoto’ e il ‘non finito’ nell’arte. Se alla fine – e con buona pace di Searle, Bloom e dei molti loro estimatori inconfessati e manifesti – qualche sconosciuta donna pigmea dovesse culturalmente eccellere nei confronti di Michelangelo, Guido Reni e Cézanne, ciò non stravolgerebbe nulla di assodato e non rappresenterebbe una denigrazione irriverente nei confronti di nessuno. Chi vorrà, potrà leggere in questo confronto, ancora una volta, l’arroganza degli antropologi e non una banale argomentazione di equivalenza dell’eccellenza e della complessità come invece si vuole proporre. Fra i molteplici usi delle piante che occupano i loro habitat, i Pigmei estraggono ampi frammenti di corteccia da alcune specie di alberi per farne indumenti; attualmente, questa pratica rischia di scomparire per la diffusione di tessuti provenienti dai villaggi e dalle città. Tadashi Tanno (1981: 33-35) elenca venti tipi di piante utilizzate a tale scopo dai Pigmei Mbuti, i quali scelgono accuratamen13 In questo caso, si tratta di ‘vuoti’ culturalmente programmati dotati di senso all’interno di un universo culturale. Tali ‘vuoti’ – come sottolinea Remotti proponendo una sorta di «tipologia delle ‘carenze’ e dei ‘vuoti’» (2005: 26) – devono essere distinti dai ‘vuoti’ riconducibili a lacerazioni e perdite subite.

36

te l’albero da cui estrarre la parte interna della corteccia che, opportunamente battuta, viene utilizzata per confezionare indumenti non prima di averla dipinta e ‘scritta’. La parte interna e fibrosa della corteccia è significativamente denominata, nel linguaggio tecnico della botanica occidentale, ‘libro’. Per una piacevole casualità (in verità, non del tutto casuale nella strategia narrativa di chi scrive), il tentativo intrapreso in queste pagine di riconoscere e attribuire un libro alla donna pigmea della scultura di Hoffman si concretizza fuor di metafora in quanto, come si vedrà, sono proprio le donne a tracciare segni e dipingere le cortecce battute. Insomma, da un punto di vista ontologico, la donna pigmea è al riparo da critiche: essa ha realmente fra le mani ‘libri’ sui quali traccia segni, scrive, dipinge. Sarebbe arrogante far finta di niente. Tornando alle venti piante utilizzate dai Pigmei Mbuti per ottenere abiti, occorre specificare che per quattro varietà di alberi (Antiaris welwitschii, Ficus preussii, ‘Lengbe’ e ‘Paputa’)14 i ‘libri’ sono estratti da esemplari giovani, mentre per le altre sedici varietà utilizzate, essi sono estratti in una determinata fase dello sviluppo della pianta. Si tratta di rampicanti legnosi che nel corso della loro crescita si attorcigliano a un grande Ficus. In questa fase del loro sviluppo, tali rampicanti vengono localmente denominati kumo. Crescendo, il kumo diventerà esso stesso un grande albero che avvolgerà interamente il Ficus uccidendolo. Raggiunta questa fase di sviluppo, il grande albero che si viene a formare non è più denominato dai Bambuti kumo ma pongopongo. Dai rami dei pongopongo, aventi 7-8 centimetri di diametro, si estraggono fasce di soffice corteccia interna per farne appunto indumenti. Queste fasce di corteccia sono denominate pongo. Per renderli ancora più morbidi, i pezzi di corteccia sono successivamente battuti con strumenti appositi ricavati da legno molto duro (Ixora odorata) o dall’avorio. Solo a questo punto i pongo sono pronti per essere dipinti. Le fasi di ricerca ed estrazione dei ‘libri’ sono di solito riservate agli uomini, mentre la decorazione con differenti tinture ricavate da particolari frutti è prerogativa delle donne, le vere artefici dell’arte figurativa pigmea.

14 Gli ultimi due sono i termini locali rispetto ai quali i ricercatori non hanno rintracciato il corrispettivo nella classificazione utilizzata in botanica.

37

Benché le regole e i canoni della trasposizione di figure geometriche, disegni astratti e linee che nell’insieme rappresentano la quasi totalità del repertorio rintracciabile, non siano univoci e condivisi in tutti i gruppi e da tutte le singole ‘artiste’, è possibile effettuare alcune considerazioni a partire soprattutto dal lavoro dello studioso di arte africana Robert Farris Thompson (1983, 1991). Questo studio è dedicato all’arte mbuti ed è stato reso possibile da una ricerca sul campo nella regione di Epulu (Ituri) risalente al 1982. Una delle prime domande che ci si pone dinanzi ai pongo pigmei riguarda i significati dei segni impressi. Per Farris Thompson (Thompson 1991: 68-80) questi segni rientrano nella più ampia categoria delle ‘scritture della foresta’ che comprende: a) le figure di corde o liane annodate che le ragazze e le donne mbuti costruiscono a scopo ludico; b) i segni che gli uomini tracciano sul suolo con le dita prima delle battute di caccia a scopo propiziatorio o di semplice comunicazione; c) il sistema delle foglie forate attraverso il quale i vari gruppi pigmei – soprattutto in tempi di conflitti – lasciano messaggi alle biforcazioni dei sentieri sotto forma di foglie perforate e tagliate in modo differente a seconda del gruppo di appartenenza; d) le pitture corporali effettuate sulla pelle in particolari circostanze e considerate dai Pigmei una valida alternativa all’espressione artistica rinvenibile sulle cortecce battute. Molti segni e figure delle ‘scritture della foresta’ vengono riproposti, con infinite varianti, sui diversi supporti naturali (cortecce, pelle, suolo) e rimandano all’universo ecologico dei Pigmei, ovvero, alla foresta stessa, alla fauna e alla vegetazione. Secondo i principali informatori di Farris Thompson (le donne di Apatinankene e Kenge, quest’ultimo già prezioso informatore di Turnbull), la combinazione, l’accostamento e la sovrapposizione di segni e disegni determinano il valore dell’artefatto. I pongo, in particolare, sono apprezzati e valutati sia per il loro potere espressivo connesso a un messaggio concreto, sia per il fatto di essere stati ben concepiti sulla base di criteri plastici apprezzati. Fra i 43 segni decodificati da Farris Thompson con i suoi collaboratori indigeni, si possono trovare rettili, mammiferi, uccelli, semi, piante, insetti della foresta circostante; reti, corde e liane che rimandano alle attività di caccia (fra i Bambuti si pratica la caccia con le reti) e di raccolta (le corde servono ad arrampicarsi sugli alberi per procacciarsi miele, e le reti per pescare nei fiumi). Altri segni riman38

dano a ciò che si vede la notte sulla volta celeste; altri ancora al movimento di certi animali, alle loro tracce lasciate sul terreno. Alcune donne sono riconosciute maestri d’arte di grande valore. Nekiado è maestra nella suddivisione del pongo in quadranti in modo che alcuni spazi si richiamano attraverso registri polifonici, mentre in altri si ottiene una dispersione di motivi. Bulanga – che predilige grandi disegni ovali, segni zoomorfi e sfondi puntinati – «in una composizione ha creato ciò che Bachtin definirebbe una ‘elasticità semantica’, trasponendo differenti aspetti della foresta in una visione nuova e stupefacente» (Thompson 1991: 78). I ‘libri’ sottratti agli alberi pongopongo narrano, in quanto tali, la forza avvolgente della foresta attorno a un Ficus. I legnosi rampicanti, prima di essere pongopongo, sono kumo e non smettono di crescere, di avvolgere e di stringere (al riguardo non si può eludere che in alcune lingue bantu della regione la radice -kum- rimanda all’idea del legare, del riunire, così come riunisce l’omukumo, una società segreta diffusa nel Kivu). Quando i pongopongo vengono scorticati e i pongo distesi e dipinti, la forza che sprigionano è ancora una forza avvolgente, amplificata e al contempo addomesticata dai segni tracciati dalle donne pigmee, che ricreano il mondo della foresta coniugando creatività, innovazioni stilistiche e una pervasiva «onomatopea visuale» (Thompson 1991: 78). Non stupisce, allora, che le madri avvolgano i neonati dentro pongo particolarmente decorati, quasi a voler simboleggiare la dolcezza e la forza protettiva della foresta sulle loro vite (Thompson 1991: 79). Al di là dei significati dei segni, l’estetica mbuti rimanda ad alcuni concetti particolarmente pregnanti. Le artiste intervistate da Farris Thompson (1991: 31-40) sottolineano innanzitutto l’esigenza della ‘diversità’ e la lotta all’uniformità. Il passaggio repentino da un motivo a un altro nel dipingere un pongo e il contrasto che così si viene a creare sono considerati criteri di eccellenza. «Noi cambiamo i disegni perché abbiamo bisogno della diversità nella nostra vita. Se noi passiamo da un motivo ad un altro nella decorazione, i pongo sono riusciti». Il valore artistico dell’opera è dato dalla diversità delle forme contenute in un unico frammento di corteccia battuta, dall’indice di complessità che ciò garantisce e anche dal modo in cui la composizione sincopa è ottenuta. Le artiste mbuti sottolineano l’importanza della tecnica dell’omissione per realizzare quelle ‘rotture improvvise’ che valorizzano le opere prodotte. La tecnica dell’omis39

Fig. 2. Pongo asoa (in Farris Thompson e Bahuchet 1991: 37)

sione, ovvero l’interruzione repentina del tratto, rimanda all’idea di ‘non finito’ e di ‘vuoto’ (bure, nella lingua parlata dai Pigmei Mbuti) in quanto, non di rado, l’artista lascia volutamente una parte del pongo completamente libero da segni impressi, oppure opta per una rarefazione progressiva dei segni (fig. 2). Benché l’effetto ottenuto possa far pensare a un’opera non ancora terminata, oppure abbandonata a metà per chissà quali motivi, il risultato è ancora una volta connesso alla lotta contro l’uniformità e consapevolmente le artiste mbuti sottolineano la non casualità di tali vuoti. I vuoti, affermano, valorizzano i pieni; il vuoto fa parte dell’arte. 40

L’idea di rottura repentina e di composizione sincopa rimanda non solo all’arte figurativa dei Pigmei, ma anche alla loro musica. L’etnomusicologo Simha Arom ha indissolubilmente legato il suo nome allo studio delle polifonie pigmee che a partire dagli anni Sessanta ha potuto registrare presso gli Aka della Repubblica Centroafricana. ‘Ostinato con variazione’ e ‘procedimento a hoquetus’ caratterizzano la musica pigmea e la connettono alle espressioni figurative contenute sui pongo (Meurant e Farris Thompson 1996). Questo avviene attraverso una comune valorizzazione delle sovrapposizioni e delle rotture. È significativo che il termine hoquetus, desunto dallo studio delle polifonie medievali e trasposto nelle analisi delle musiche africane (Nketia 1962, Arom 1985), non sia altro che la truncatio vocis, una sorta di tecnica dell’omissione (l’interruzione improvvisa del tratto) attraverso un altro canale espressivo (la voce, il canto). La valorizzazione estetica del ‘non finito’ e del ‘vuoto’ attraverso l’uso consapevole della tecnica dell’omissione e la composizione di polifonie attraverso il procedimento a hoquetus permettono di tornare sul tema della sconcertante e sempre attuale propensione al ‘monogenismo dell’eccellenza intellettuale’ secondo cui è sufficiente rovistare nella tradizione occidentale dalle gloriose radici e robuste crescite (greche, latine, cristiane, medievali, rinascimentali, moderne ecc.) per trovare l’origine e l’eccellenza dell’ingegno umano. Per esempio, lo studio e la classificazione di ciò che è ritenuto essere ‘polifonia’ si sono basati per molto tempo su un errore di valutazione intriso di etnocentrismo. Come riporta l’etnomusicologo Maurizio Agamennone (1997: 46): A cavallo fra Ottocento e Novecento [...] la consapevolezza diffusa fra gli studiosi limitava la classificazione di polifonia esclusivamente alle forme musicali documentate su fonti scritte, a partire dai secoli centrali del Medio Evo europeo. Questa periodizzazione iniziava con un termine post quem – i decenni in cui furono redatti alcuni trattati e codici con notazione di brani polifonici – che, estrapolato dalla cornice originaria, fu a lungo inteso come l’atto di nascita delle procedure polifoniche. Si determinò, così, un singolare errore di valutazione: le prime testimonianze di una occasionale procedura notativa vennero interpretate come l’avvento di una modalità sonora nuova, non sperimentata precedentemente, pur in assenza di cenni espliciti a tale innovazione nelle fonti stesse. 41

Anche per ciò che concerne ‘il non finito nell’arte’ non è difficile intravedere una propensione a ricondurre il tema a una ‘tradizione’ occidentale che da Leonardo, ma ancor più a partire da Michelangelo, si snoda attraverso le opere di Cézanne, per giungere allo scultore Auguste Rodin, il quale raggiungerebbe il culmine di una riflessione estetica finalizzata alla massima valorizzazione del ‘non finito’. Questo concetto lo si rintraccia assai frequentemente nell’arte moderna come risposta al superamento del concetto di forma. La volontarietà e la consapevolezza di tale risposta segnerebbero la distanza da quegli esiti di ‘incompiutezza’ casuali o riconducibili ad altre motivazioni. In questa breve e parziale sintesi dell’attribuzione di senso estetico al ‘non-finito’ nell’arte da parte degli storici dell’arte, emerge non solo l’abilità di esecuzione (pittorica o scultorea), ma la riflessione consapevole e volontaria sul valore estetico del ‘non finito’ che assume una progressione in senso cronologico. È il riconoscimento dell’eccellenza intellettuale di una certa tradizione artistica occidentale (neppure molto omogenea per ciò che concerne il ‘non finito’) che permetterebbe di individuare e sancire l’eccellenza artistica di specifiche opere e singoli artisti. Come sottolinea con lucidità Juergen Schulz (1975) a proposito del ‘non-finito’ michelangiolesco, si è fatta strada – a partire dal Vasari, che ne scrive subito dopo la morte del grande artista – un’interpretazione piuttosto pragmatica e poco concettuale dell’incompiutezza di molti lavori di Michelangelo, il quale avrebbe lasciato incompiute molte opere perché estremamente esigente nei confronti di se stesso e spesso insoddisfatto del lavoro raggiunto. Una sincera propensione alla perfezione scultorea avrebbe causato disaffezioni nei confronti di lavori in corso, piuttosto che affezioni a concetti quali il conflitto interiore fra realtà e ideale platonico e la valorizzazione dell’incompiuto e del frammento. Sarebbero stati successivamente gli storici dell’arte della modernità ad attribuire concetti ed elaborazioni teoriche moderne alla mente di Michelangelo, primo fra tutti il concetto moderno del ‘conflitto interiore’. Schulz esamina singolarmente le 42 opere di Michelangelo non finite: di queste solo 14 sono state intenzionalmente non portate a termine, ma in nessun caso ciò è stato il frutto della riflessione sul ‘non finito’ da parte dell’artista. Schulz (insieme ad altri studiosi da lui citati) non fa altro che recriminare un po’ di sano relativismo nel cogliere la visione del mondo (e dell’arte) propria di Michelangelo. Per argomentare accurata42

mente ‘come le cose stanno’ occorre un po’ di sensibilità antropologica e supporre visioni del mondo differenti che spesso, solo a posteriori e in modo ideologico, alcuni inanellano in una progressione cronologica dell’eccellenza intellettuale. Se i criteri della volontarietà e consapevolezza di una certa modalità esecutiva tesa a dar conto di un risultato estetico (il valore del non finito) sono criteri universali, allora è possibile sostenere che la consapevole riflessione estetica delle donne pigmee sul ‘non finito’ e le tecniche per ottenerlo rappresentano un’eccellenza intellettuale rispetto ai non finiti michelangioleschi. Viene da chiedersi allora perché Michelangelo è naturalmente connesso alle più ‘alte’ (eccellenti) espressioni del ‘non finito’ nell’arte, mentre Nekiado, Bulanga e le altre artiste pigmee sono bellamente ignorate benché non trascorrano il loro tempo a contare i fili d’erba – per dirla con il linguaggio sprezzante di Allan Bloom (§ 1.2) –, ma applichino consapevolmente modalità di esecuzioni finalizzate alla valorizzazione del ‘non finito’ e del ‘vuoto’ nell’arte. Qui, il discorso si complica notevolmente ed entrano in gioco concetti come quello di ‘cronologia’, ‘tradizione’ e ‘storia cumulativa del campo’ (Bourdieu 2005). Nella riflessione sul ‘non finito’ nell’arte, Michelangelo è un unicum e al contempo occupa una fase cronologica che molti esperti – ovvero, molti storici dell’arte – attribuiscono al suo ingegno. Il fatto di occupare una posizione all’interno di una tradizione è, di per sé, garanzia di valore. Ancor più se tale posizione corrisponde alle origini. È così che Michelangelo viene eletto a nobile iniziatore della riflessione sul ‘non finito’ nell’arte e che le sue opere ‘più moderne’ (per esempio la Pietà Rondanini conservata al Castello Sforzesco di Milano) diventano emblematiche di questo ruolo. Poco importa che la modernità della Pietà Rondanini sia attribuita alla fine della modernità e in modo anacronistico rispetto alla visione del mondo michelangiolesco. Poco importa che la Pietà Rondanini sia rimasta ‘non finita’ in quanto Michelangelo muore prima di portarla a termine (Schulz 1975: 367), se mai ne avesse avuto intenzione. Il rafforzamento di una ‘tradizione’ presuppone l’inclusione a posteriori del maggior numero di autori, artisti e opere che consentano di dimostrare l’esistenza della tradizione stessa. In base a tale meccanismo autopoietico di incremento del valore e di riconoscimento delle ‘eccellenze’ non stupisce che il grande pittore bologne43

se Guido Reni (1575-1642) venga inserito con tutti gli onori nella grandiosa riflessione – o meglio, narrazione a posteriori – sul ‘non finito’ (Pulini 2006: 49-51), benché si ricordi nella stessa occasione che il canonico felsineo Carlo Cesare Malvasia avesse le idee chiare sulla genesi ‘intellettuale’ dei suoi capolavori non finiti: il giorno dipingeva madonne e di notte dilapidava il proprio patrimonio al gioco, sicché si prodigò sempre più a vendere abbozzi per ricevere gli anticipi sulle commissioni e in tal modo pagare i debiti. L’affermarsi e la celebrazione di una tradizione intellettuale e artistica sono rese possibili dalla costruzione di un campo specifico, dal suo divenire autonomo e autoreferenziale, anche quando si parla di superamenti, avanguardie e rotture rispetto al passato. Pierre Bourdieu ne Le regole dell’arte affronta questo ordine di problematiche denunciando i meccanismi storici e sociologici attraverso i quali un’opera d’arte non può essere un semplice utensile e un artista non può essere un banale artigiano o un pittore della domenica (Bourdieu 2005: 369-409). Quando il campo dell’arte diventa autonomo allora si può parlare di arte, e ciò è reso possibile dall’emergere dell’insieme delle istituzioni specifiche che sono la condizione del funzionamento dell’economia dei beni culturali: luoghi di esposizione (gallerie, musei ecc.) istanze di consacrazione (accademie, salons ecc.), istanze di riproduzione dei produttori (scuole di belle arti ecc.), agenti specializzati (mercanti, critici, storici dell’arte, collezionisti ecc.), dotati delle disposizioni oggettivamente richieste dal campo e di categorie di percezione e di valutazione specifiche, irriducibili a quelle normalmente utilizzate nell’esistenza ordinaria e capaci di imporre una misura specifica del valore dell’artista e dei suoi prodotti (Bourdieu 2005: 376).

La tradizione intellettuale artistica si autoalimenta non solo attraverso la consacrazione dell’artista e la sua trasformazione in un personaggio memorabile e degno di narrazione, ma si nutre di testi teorici che sono «contributi alla conoscenza dell’oggetto [ma] sono anche e soprattutto contributi alla costruzione sociale della realtà stessa di tale oggetto e fanno perciò parte delle condizioni teoriche e pratiche della sua esistenza» (Bourdieu 2005: 379). Seguendo l’argomentazione di Bourdieu, le rappresentazioni accurate che sanciscono la misura dell’eccellenza intellettuale dei prodotti della tradizione razionalista occidentale – che secondo Searle, è bene ricordare, si applicherebbero tanto 44

alla chimica quanto alla letteratura, tanto alla fisica quantistica quanto alle arti figurative e alla storia medievale – non contribuiscono solo alla conoscenza, ma anche alla costruzione di tali prodotti. Michelangelo rimarrebbe impigliato nelle riflessioni sul ‘non finito’ degli esperti di estetica e di storia dell’arte per il fatto che «quel che succede nel campo è via via più legato alla storia specifica del campo, e a essa soltanto, quindi sempre più difficile da dedurre partendo dallo stato del mondo sociale nel momento considerato» (Bourdieu 2005: 386). Ne consegue che le visioni del mondo implicate si diradano, mentre le visioni del mondo e dell’arte totalmente avulse dal campo (per esempio quelle delle donne pigmee) semplicemente non esistono. I pongo dipinti dalle donne pigmee non sono prodotti della tradizione. Essi sono prodotti estranei alle tradizioni intellettuali e artistiche sviluppatesi in Occidente (quelle che contano di più nell’economia globale dei beni culturali). La mancanza, inoltre, di testi scritti che riportano canoni, cronologie, celebrazioni, biografie e quant’altro non aiuta di certo a riconoscere specifiche tradizioni indigene e non permette neppure di valorizzare singoli artisti, singole opere e originali riflessioni. Sembrerebbe che l’eccellenza intellettuale e artistica degli altri non sia una condizione necessaria e sufficiente per poter essere considerata tale da ‘noi’, almeno secondo le regole dell’arte. Dal momento in cui i pongo dei Pigmei sono entrati nelle gallerie d’arte e nei musei e che lo stesso Farris Thompson ha premura di ordinare la cronologia delle collezioni di pongo e di connettere i segni ai tempi primordiali, alla purezza e libertà dell’espressione estetica pre-storica, si potrebbe intravedere il traguardo di una loro valorizzazione culturale. In realtà, non si fa altro che chiedere ospitalità e asilo politico in un campo precostituito e dotato di regole proprie che nulla (o poco) hanno a che fare con le graduatorie dell’eccellenza intellettuale (a patto che queste abbiano un senso). L’antropologia ha lo scopo di gettare nel mucchio – in verità, ci si era impegnati a ‘calare’ delicatamente nel mucchio – le densità culturali altrui, la raffinatezza e complessità dei prodotti intellettuali e artistici degli altri. Questo non tanto per inserirli in un campo o in un frammento di campo costituitosi altrove, neppure per estendere universalmente e in modo acritico categorie e concetti occidentali, quanto per contribuire (anche attraverso comparazioni che mettano 45

insieme spregiudicatamente pongo pigmei e pietà michelangiolesche) al riconoscimento di altre eccellenze e altre complessità, ovvero, di una polifonia e di un repertorio variegato di ciò che è cultura, poiché, come sottolineano le artiste pigmee, «noi [si potrebbe dire noi tutti, Pigmei ed europei] abbiamo bisogno della diversità nelle nostre vite». D’altronde, anche a Malvina Hoffman, evocata all’inizio di questo capitolo, non è stato sufficiente andare a bottega a Parigi da uno dei grandi maestri del ‘non finito’, Auguste Rodin. La scultrice statunitense, per saperne un po’ di più sull’umanità, ha sentito l’esigenza di viaggiare nei più sperduti angoli di mondo. Sarebbe stato dopotutto arrogante da parte sua scolpire l’umanità intera limitando lo sguardo al Nord America e all’Europa. Malvina Hoffman volse il suo sguardo soprattutto verso l’Asia, verso ciò che si è soliti chiamare ‘Oriente’. A ben vedere, nel quadro delle tematiche che si stanno trattando, varrebbe la pena seguirla, almeno idealmente, in quanto sarebbe un errore macroscopico se, rovistando nel mucchio alla ricerca di ‘vuoti’ e di ‘non finiti’, non si riconoscessero al fianco di pongo pigmei e pietà michelangiolesche, le raffinate e complesse espressioni del ‘vuoto’ nell’arte delle culture orientali. Forse, se si continuasse nel fallace gioco di stilare le graduatorie delle ‘eccellenze intellettuali’, sarebbe opportuno riconoscere che è l’Oriente a primeggiare nelle riflessioni sul vuoto. Come sottolinea il filosofo Giangiorgio Pasqualotto (1992), la centralità del vuoto emerge con forza già nei testi degli antichi teorici dell’arte cinese e molti studiosi contemporanei, come François Cheng (1979), ritengono tale concetto la chiave di volta per comprendere il taoismo e il buddhismo chan e zen. Pasqualotto precisa, fin dalle prime pagine del suo volume, che il nucleo centrale dell’arte e della fruizione estetica orientale non è dato da una teoria del vuoto, ma da un’esperienza del vuoto ottenibile con la meditazione. Questo rimanda ad ambiti privilegiati di indagine estetica: 1) la cerimonia del tè (chanoyu), 2) la pittura a inchiostro (sumie), 3) la forma poetica haiku, 4) l’arte della disposizione dei fiori (ikebana), 5) i giardini a ‘paesaggio secco’ (karesansui), 6) il teatro no¯ (Pasqualotto 1992). Al fine del riconoscimento e della valorizzazione, la riflessione orientale sul vuoto nell’arte presenta alcuni indubbi vantaggi rispetto ai pongo pigmei. All’Oriente sono riconosciute tradizioni intellettuali, in quanto molti canali di trasmissione della tradizione sono omologhi a quelli occidentali. In Oriente sono rintracciabili testi 46

scritti ‘preziosi’ e ‘antichi’, cronologie ‘eroiche’ e biografie ‘memorabili’. Non se ne intravede fino in fondo il motivo, ma l’esistenza di questi e simili canali di trasmissione e l’aggettivazione relativa sono ‘di per sé’ garanzia di eccellenza e di riconoscimento del valore delle tradizioni intellettuali. Esse sono ancor più riconoscibili se tali tradizioni intellettuali dimostrano di essere ‘alte’, ‘elevate’, ‘superiori’, ovvero, di avere ‘hegelianamente’ a che fare con lo ‘Spirito’. Fra le sei azioni formalizzate e forme sensibili indagate da Pasqualotto, alcune sono chiaramente omologhe, ovvero hanno corrispettivi nella cultura alta dell’Occidente (pittura, forme poetiche, teatro), una (i giardini ‘a paesaggio secco’) potrebbe rientrare nella categoria sempre più valorizzata delle architetture del paesaggio; ma sono almeno due (la cerimonia del tè e l’arte della disposizione dei fiori) a non possedere tutti i sacri crismi per essere valorizzate come aspetti costitutivi di tradizioni intellettuali degne di questo nome. Disporre i fiori non è come contare i fili d’erba – direbbe, forse, Allan Bloom (§ 1.2) –, ma poco ci manca. Checché ne pensino gli orientali e gli studiosi delle culture orientali (come lo stesso Pasqualotto), pare difficile che i maneggiamenti per preparare una tazza di tè o per sistemare fiori recisi possano trovare entusiasta ospitalità nei nostri curricula universitari. La tradizione razionalista occidentale non ha tempo da perdere: peccato! Perché si è invece convinti che questi maneggiamenti dischiudano mondi, forniscano rappresentazioni accurate e testimonino ‘cultura’ al pari di altre espressioni maggiormente riconosciute. È con tale convinzione che ci si concentrerà, all’inizio del prossimo capitolo, sulla divisione della preda presso i Pigmei.

II

Da cacciatori a prede

2.1. Nelle viscere della cultura Nel primo capitolo si è cercato di mostrare come la cultura che alcuni definiscono ‘alta’ e le ‘eccellenze intellettuali’ emergano tanto dalle botteghe degli artisti rinascimentali quanto dalle nebbie della foresta del Congo. Nelle pagine iniziali di questo capitolo si vorrebbe mostrare come l’immagine di una ‘cultura alta’, che in termini evolutivi si collocherebbe come superamento di espressioni precedenti e primitive che nulla hanno a che fare con la rappresentazione accurata del mondo, è una visione quantomeno ideologica e parziale. Per fare questo occorre concentrare l’analisi su uno degli aspetti centrali della cultura dei gruppi pigmei: la caccia e la macellazione della preda. I cacciatori-raccoglitori, come i Pigmei dell’Africa, basano la propria economia sulla acquisizione dall’ambiente circostante della maggior parte delle risorse alimentari di cui necessitano (da qui il termine ‘società acquisitive’). Gli uomini sono generalmente dediti alla caccia (selvaggina), mentre alle donne sono riservate le attività di raccolta (tuberi, frutti ecc.). La caccia può avvenire con gli archi e le frecce, con le lance, oppure con le reti. Negli ultimi decenni si è ampiamente ridimensionata l’importanza della caccia come attività principale di apporto dietetico nelle società acquisitive e di conseguenza si è riconosciuta la centralità dei prodotti agricoli provenienti dai gruppi sedentari, valorizzata l’attività femminile della raccolta e svelata l’ideologia androcentrica del mito del cacciatore. Nonostante ciò, l’attività venatoria resta una chiave di lettura privilegiata per cogliere la particolare antropologia implicita dei gruppi pigmei. Che si tratti di una questione antropologica ancor prima che dietetica è testimoniato dall’analisi dell’iniziazione mbuti fornita da Co48

lin Turnbull (1957). I Pigmei Mbuti dell’Ituri partecipano con interesse e assiduità ai riti di circoncisione dei vicini gruppi di coltivatori (in primis i Babira). I Pigmei decidono di fare circoncidere i propri figli insieme ai figli dei Babira, ma tale rito (nkumbi) non ha per essi il valore iniziatico accordatogli dai vicini coltivatori: ovvero i bambini pigmei coinvolti ‘non diventano’ per mezzo del rituale ‘veri uomini’; semplicemente rafforzano il legame di cooperazione – per molti si tratta di vera dipendenza – che unisce una specifica famiglia pigmea a una specifica famiglia di coltivatori. Per rintracciare processi iniziatici mbuti, occorre volgere lo sguardo all’associazione maschile lusumba. Per i giovani mbuti, far parte di tale associazione significa essere considerati ‘veri uomini’ dagli altri membri adulti della banda e, per essere ammessi nel lusumba e poter partecipare alle riunioni dei maschi adulti e suonare l’omonimo corno (lusumba), occorre essere considerati cacciatori, ovvero aver cacciato ‘vera selvaggina’, ‘vera carne’, prede abbastanza grandi (per esempio un’antilope) da essere divise fra i membri del gruppo di cacciatori (Turnbull 1957: 206). La ‘vera carne’ è una preda divisibile e l’atto che rende possibile tale divisione (la cattura) è un atto che conferisce lo status di vero uomo. Presso i Pigmei Aka della Repubblica Centrafricana, colui che ha ucciso la preda non ne consuma alcuna parte (Bahuchet 1985: 375, 1990: 33). Il suo piatto resta vuoto; un vuoto altamente significativo in quanto rappresenta il grado zero della divisione e distribuzione successiva. Il tabu alimentare di colui che ‘acquisisce’ la preda dischiude un universo di significati utili a capire l’inedito concetto di proprietà degli Aka e la natura delle relazioni sociali interne al gruppo1. Proprio perché la preda è divisibile, essa esiste in quanto tale (come ‘vera carne’), e proprio perché la preda ‘è sua’, il cacciatore non ne dispone in termini alimentari. Per dirla con il linguaggio utilizzato da Lévi-Strauss per dipanare la questione del totemismo: il piatto vuoto di vera carne non è ‘buono da mangiare’, esso è ‘buono da pensare’, per pensare il gruppo nel suo insieme, il quale non è un ‘noi’ astratto, ma la somma delle relazioni sociali e delle regole che tiene uniti. La ‘vera carne’ e la sua divisibilità non coincidono con

1 Sulle modalità e il valore della ‘spartizione’ presso i Pigmei Aka si vedano i testi di Koichi Kitanishi (1996, 1998).

49

una questione di banale macellazione, ma rimandano all’idea di società e alle condizioni morali (nonché materiali) della sua esistenza. Prima di inoltrarsi, con l’aiuto delle indagini etnografiche di Bahuchet (1990), nelle complesse regole aka di spartizione della preda, è opportuno riflettere sul fatto che, nella nostra cultura, la valenza culturale della divisione di corpi morti non è di solito pensata in relazione alla semplice macellazione, ma deve rientrare in un quadro che le conferisca dignità intellettuale. Questi ambiti sono essenzialmente due: il sacrificio e la dissezione. Una delle più persistenti interpretazioni del sacrificio, risalente fino a Platone, legge il fenomeno come una modalità per ingraziarsi gli dei attraverso il dono di un animale ucciso. Saranno successivamente Hubert e Mauss (1899) a pensare il sacrificio come «un movimento verso il divino, attraverso la morte della vittima, e quindi in un ritorno al profano» (Bloch 2005: 48). Questa interpretazione, basata su una imprudente generalizzazione della dicotomia sacro/profano di chiara origine giudaico-cristiana, si ritrova nell’analisi che Evans-Pritchard (1956) dedica al sacrificio nuer e, a detta del classicista francese Detienne (1982), si inserisce in una lunga tradizione di studi che giunge fino a Ernst Cassirer e René Girard. Questa lunga tradizione aspira a rintracciare una teoria generale del sacrificio appoggiandosi a concetti per nulla generali, ma riconducibili all’eredità giudaica e all’idea cristiana del sacrificio come piena realizzazione di forme anteriori. L’impianto evoluzionistico che ne consegue «vede il sacrificio non cristiano come il primitivo precursore del disinteressato sacrificio di sé della divinità» (Bloch 2005: 50). L’universalizzazione di idee particolari (locali), siano esse giudaiche, induiste, cristiane o di altra origine, è un rischio che si corre sempre nel momento in cui si cerca di formulare teorie generali. È così che, a detta di Bloch (2005: 51), anche Detienne cade in errore, in quanto applica indebitamente al resto del mondo le idee greche sul sacrificio. Indipendentemente dalle opzioni interpretative, il dibattito sul sacrificio si snoda in massima parte attraverso il coinvolgimento dei livelli trascendenti della realtà (il dono alla divinità) e il rimando continuo alle fonti della Grecia classica e ai testi biblici. Tutto ciò fornisce ‘un’aura di rispettabilità’ e una ‘profondità culturale’ in cui racchiudere l’uccisione e l’abilità di fare a pezzi un corpo morto. L’altro ambito di nobilitazione delle pratiche di macelleria è la 50

dissezione scientifica. Come mostra acutamente lo storico della filosofia antica Mario Vegetti (1996), le origini della scienza occidentale si ritrovano in quelle pratiche di incisione del coltello sull’animale morto e dello stilo sul trattato scritto che riporta le osservazioni della dissezione stessa. La tradizione della doppia incisione – il connubio tra coltello e stilo – ha origine con Aristotele e si concretizza nelle pratiche della medicina razionale di Galeno. L’argomentazione di Vegetti illumina alcuni passaggi cruciali della storia del pensiero occidentale dove l’affinamento della purezza teorica (già cara ai pitagorici) si nutre e al contempo si smarca dai saperi materiali dei mestieri (pescatori, cacciatori, macellai). Se fra i grandi teorici del IV secolo a.C. Platone si affretta a mettere al riparo i filosofi-re dalla contaminazione della materialità dei mestieri, Aristotele sembra riconoscere quel secolare patrimonio di conoscenze materiali sugli animali vivi e morti unendo due momenti del metodo scientifico: le due polarità che avevano percorso conflittualmente la tradizione precedente. Da quella pitagorica, egli deriva l’esigenza della pura teoria, della conoscenza disinteressata [...]. Degli uomini delle technai, Aristotele condivide la spregiudicatezza di fronte all’animale, la familiarità del suo corpo, vivo o morto che sia; ma vi aggiunge una disponibilità ad uccidere senz’altro scopo che la conoscenza (Vegetti 1996: 41).

Pur riconoscendo le abilità pratiche e i saperi connessi, Aristotele inaugura quel lungo percorso di dissimulazione che cancella non solo le conoscenze di cacciatori e macellai, ma anche «l’origine sacrificale di molta parte delle conoscenze sui visceri degli animali» (Vegetti 1996: 45), in un quadro che si presterà a una lettura evoluzionistica: dalla macellazione per consumo alimentare, al sacrificio per esigenze religiose, alla dissezione per la verità scientifica. Se il sacrificio potrebbe essere visto come una modalità che mostra una rappresentazione accurata del rapporto fra gli uomini e gli dei e la dissezione una modalità di indagine che dischiude una rappresentazione accurata della natura anatomica interna ai corpi, la divisione della preda presso gli Aka parrebbe un atto che non rimanda ad alcuna rappresentazione accurata, ma a una semplice strategia di sopravvivenza. Ciò non è propriamente vero e qui di seguito si cercherà di mostrarlo. 51

2.2. L’arte di dividere la preda È bene chiarirlo nuovamente. Ciò che è in gioco in queste pagine non è soltanto l’equivalenza di eccellenza come nel caso dei pongo pigmei nei confronti della Pietà Rondanini di Michelangelo; qui è in gioco il valore culturale di espressioni (la disposizione dei fiori recisi, la divisione della preda ecc.) non immediatamente riconoscibili nel mercato riconosciuto delle tradizioni intellettuali. In cosa consiste la rappresentazione accurata che scaturisce dalla macellazione della preda presso i Pigmei? Cosa viene rappresentato con precisione attraverso le pratiche pigmee di macelleria? Quali valenze culturali e antropologiche posseggono tali pratiche? Proseguendo con ordine e concentrandosi principalmente sui Pigmei Aka della Repubblica Centrafricana, occorre innanzitutto domandarsi cosa sancisce il diritto di possesso della preda, dal momento in cui la caccia è quasi sempre collettiva e coinvolge da due a quaranta individui. Quando una preda viene uccisa, è necessario identificarne il ‘proprietario’ (konza), ovvero colui che disporrà dell’animale ucciso e ne gestirà la spartizione. Di solito, viene riconosciuto konza il cacciatore che ha colpito per primo la preda, anche se il colpo non è stato quello fatale. In realtà, come sottolinea Bahuchet (1990: 31), il proprietario della carne corrisponde al proprietario dell’arma che ha immobilizzato la preda. Nel caso di caccia con la lancia, la preda viene divisa fra i vari cacciatori che hanno partecipato alla battuta in modo complesso e diversificato a seconda del tipo di preda. La testa è sempre attribuita al ‘proprietario’, mentre singole parti specificate sono dovute a colui che ha colpito l’animale per secondo, ai cacciatori che hanno circondato l’animale e, in certi casi, a coloro che hanno aiutato a trasportare la carne al campo. Le parti non assegnate sul luogo della cattura sono destinate al campo nella sua interezza. Più l’animale è grande, meno sono le parti spartite subito dopo la cattura fra i cacciatori partecipanti alla battuta. A titolo di esempio, Bahuchet sottolinea come un pangolino gigante di circa 30 chili viene diviso in dieci parti, otto delle quali vengono attribuite e, fra queste, quattro spettano al ‘proprietario’; uno scimpanzè di circa 50 chili viene diviso in ventisette parti, nove delle quali vengono attribuite e, fra queste, tre spettano al ‘proprietario’; un gorilla di circa 175 chili viene diviso in trentadue parti di cui una sola attribuita, ovviamente al ‘proprietario’. 52

Nel caso di caccia con le reti, la logica della spartizione cambia sensibilmente, in quanto l’intero animale è dovuto al proprietario della rete (e quindi della preda) che riserverà due parti da dare rispettivamente ai primi due cacciatori che hanno afferrato e immobilizzato la preda nella rete. Essere i proprietari della rete è molto importante e per tale motivo i coltivatori abitanti dei villaggi che hanno relazioni con gli Aka ambiscono a prestare le proprie reti ai Pigmei per garantirsi l’approvvigionamento di selvaggina (in questo caso, metà preda è dovuta ai proprietari non-Pigmei della rete, metà ai cacciatori). L’immediata attribuzione e divisione della preda fra i cacciatori è solo la prima fase del sistema di spartizione in uso presso i Pigmei Aka. Una volta tornato al campo, ogni singolo cacciatore dovrà suddividere la carne a lui dovuta all’interno del proprio gruppo familiare. Anche questa fase di spartizione è fortemente regolamentata e presenta un carattere di obbligatorietà. Il cacciatore deve distribuire la carne a lui dovuta in quattro raggruppamenti parentali: moeto (‘moglie’), tae (‘padre’), ngoe (‘madre’) e koko (‘nonni’). Questi termini non corrispondono in modo univoco a singoli individui, ma rimandano a gruppi di parenti determinati in gran parte da due criteri: una ‘blanda’ patrilinearità e il principio della maggiore età. Ne consegue che la carne dovuta a moeto è materialmente data alla moglie, così come alla moglie del fratello maggiore del cacciatore e alla sorella più giovane della propria moglie (entrambe spose potenziali); le parti che spettano a tae vengono date al vero padre e al marito della sorella maggiore di sua madre; le parti di carne offerte a ngoe vengono date alla propria madre e alle sorelle della madre; infine, nell’ampia categoria koko rientrano molti individui con diritto a ricevere carne: i nonni paterni e materni, i fratelli e le sorelle del nonno paterno, il fratello maggiore della madre e il figlio più vecchio di quest’ultimo. Oltre alla prima spartizione immediata fra i partecipanti alla battuta di caccia e alla seconda divisione di carne interna ai gruppi di parentela dei cacciatori, è contemplata fra i Pigmei Aka una terza spartizione di carne, ormai cotta e cucinata. Questa spartizione non è rigida e obbligatoria come le prime due, ma dipende dalla quantità di cibo disponibile e da variabili connesse alla fluida costituzione della banda. In altre parole, è determinata da chi realmente vive nel campo in un dato momento e da valutazioni delle donne circa la di53

Fig. 3. Accampamento di Pigmei Asoa nei dintorni di Medje (Repubblica Democratica del Congo) (foto dell’Autore)

sponibilità di cibo da spartire ulteriormente. Sono le donne a cucinare e sono loro a gestire questa terza fase di spartizione. Parte della carne che giunge al campo viene fatta affumicare e inserita nei circuiti di scambio con i vicini coltivatori, ma la maggior parte di essa viene cucinata al momento e consumata. I prodotti raccolti e la selvaggina cacciata andranno a costituire gli ingredienti di una sorta di stufato spesso soggetto a spartizione. L’unità di misura per valutare la spartizione è ora il piatto di cibo cucinato e non più il pezzo di carne. I criteri di spartizione non sono i legami di parentela, ma la residenza nell’accampamento (inclusi gli ospiti), la cui costituzione varia a seconda del periodo ed è comunque soggetta a un’alta fluidità. Le stime effettuate da Bahuchet (1990: 36-38) indicano in primo luogo che la ‘circolazione di piatti’ varia notevolmente a seconda delle stagioni e quindi del tipo di risorse disponibili e del tipo di tecniche utilizzate per la caccia e per la raccolta; in secondo luogo, indica che i piatti ‘in entrata’ in ogni unità domestica sono maggiori dei piatti ‘in uscita’ (quattro-dieci piatti ricevuti per un piatto preparato per altri); in terzo luogo, che i piatti cucinati e di54

stribuiti raggiungono in prevalenza bambini, anziani e famiglie di cacciatori poco fortunati in quel determinato periodo. Bahuchet sottolinea come la logica che sottende alle prime due fasi di distribuzione è ciò che Sahlins ha definito ‘reciprocità generalizzata’, dove la restituzione di ciò che è dato non è garantita (perlomeno in tempi rapidi e certi), mentre la terza fase di distribuzione, quella che riguarda i piatti cucinati, è maggiormente centralizzata a livello di accampamento (fig. 3). L’etnologo francese, inoltre, invita a riflettere sul significato del termine konza (proprietario). Colui che è definito konza è effettivamente il possessore dell’arma (lancia) e dello strumento (rete) responsabile della cattura, ma ciò di cui è titolare non è tanto un oggetto, un’arma, una preda catturata quanto un principio etico di responsabilità individuale nei confronti del gruppo e delle reti di scambio con l’esterno (la carne è centrale in questi scambi). Serge Bahuchet nella parte finale del saggio del 1990 – i cui dati etnografici sono stati fin qui ampiamente utilizzati – effettua una ricognizione comparativa concernente altri gruppi pigmei (Mbuti, Baka e Gyeli) evidenziando, al di là delle differenze, la presenza e la centralità delle tre fasi di spartizione della preda, che rendono possibile su un piano materiale l’abbattimento del rischio di penuria alimentare. Questo è garantito in particolare dalla terza fase della spartizione. Sulla base dei dati etnografici riportati è possibile tornare a questioni più squisitamente antropologiche che emergono soprattutto nelle prime due fasi di spartizione. La questione centrale connessa alla caccia (così importante per capire il mondo dei Pigmei) non è tanto l’attività venatoria in sé, neppure l’abilità del singolo cacciatore e la retorica a essa correlata, quanto la possibilità della spartizione, la ‘rappresentazione accurata’ dei complessi legami interni a una comunità e l’etica della responsabilità del singolo cacciatore che si esplicita nella gestione della spartizione. La proprietà è responsabilità nei confronti del gruppo e lo statuto di vero uomo è riconosciuto a colui che agisce secondo la logica della spartizione. In tal modo si spiega sia l’iniziazione mbuti, ovvero ‘l’aver cacciato vera carne’ (carne ‘spartibile’) e implicitamente aver messo in pratica la logica della spartizione, sia il tabu alimentare del cacciatore aka (colui che è konza, proprietario della preda spartibile), il quale esprime in modo assoluto l’etica della responsabilità ‘spartendo e non consumando’. 55

La macellazione della preda presso i Pigmei acquista una valenza culturale, sociale e antropologica molto rilevante: essa è necessariamente connessa a una rappresentazione accurata e sofisticata delle relazioni sociali, ma rimanda anche a una idea di umanità dove i concetti di ‘proprietà’ e ‘consumo’ presentano significati inediti rispetto a ciò che noi siamo abituati a pensare. Tutto ciò non serve solo ai Pigmei per regolare la caccia, ma dovrebbe essere utile in termini generali per arricchire il dibattito intorno a tali concetti, mostrando altre possibilità di ‘consumo’, di ‘proprietà’, di ‘umanità’. Non è solo bizzarro sapere che alcuni individui si sentono veri uomini perché hanno catturato una preda ‘spartibile’, non è solo mercanzia che stupisce, ma è un’altra possibilità per pensare l’uomo, il mondo e le relazioni sociali. La centralità della spartizione acquisterà ancora più forza nell’ultimo capitolo del libro, quando risulterà chiaro come il tema della spartizione sia una chiave di lettura imprescindibile del modo in cui i Pigmei concepiscono il mondo: un pervasivo partner di spartizione. Sacrificio e dissezione sono sicuramente espressioni ‘alte’ ed ‘eccellenti’ dell’arte di fare a pezzi un corpo morto, ma non necessariamente l’eccellenza culturale della macelleria, al pari delle ‘filosofie’ e dei ‘saperi’ rinvenibili attorno a tale agire (fare a pezzi una carcassa), esige tali contesti. Gli universi di significati e le rappresentazioni accurate sottese al sacrificio e alla dissezione sono per noi soltanto più riconoscibili in quanto inquadrabili in tradizioni intellettuali note. Gli antropologi sono culturalmente predisposti e metodologicamente attrezzati a dischiudere universi di significati dalle ‘descrizioni dense’ di fatti di ordinaria quotidianità, siano essi combattimenti di galli sull’isola di Bali (Geertz 1987: 397-447) o spartizioni di prede in sperduti angoli dell’Africa. I saperi e le conoscenze non si annidano soltanto nelle classificazioni ‘colte’ rinvenibili nelle profondità delle viscere sezionate o nelle alte sfere trascendenti invocate sugli altari sacrificali2. Per esempio, in un classico del pensiero antropologico, Victor Turner (1976) fa emergere da una banale spartizione di una preda in un villaggio Ndembu (Zambia), le complesse stra2 Per quanto concerne il sacrificio nell’antica Grecia, risultano molto importanti le interpretazioni avanzate da Vernant e Detienne (1982) incentrate sulla valorizzazione della pratica culinaria e della lettura del tessuto sociale sottese alle attività sacrificali.

56

tegie politiche di un aspirante capo, le regole dell’organizzazione sociale e i conflitti che ne scaturiscono. La puntuale descrizione di questa anomala spartizione non è quindi la cronaca di una banale controversia di villaggio, ma il punto di partenza per tessere la trama e l’ordito di un complesso sistema culturale: Un giorno, nel 1947, Sandombu catturò un animale e divise la carne con i suoi consanguinei nel villaggio. Il fratello di sua madre, Kahali Chandenda, era headman del villaggio e avrebbe dovuto ricevere secondo la norma una zampa posteriore o il petto dell’animale. Sandombu comunque gli diede soltanto un pezzo di una zampa anteriore. Kahali la rifiutò dicendo che Sandombu aveva mostrato disprezzo nei confronti del proprio zio. Pochi giorni dopo Kahali si recò in un villaggio del territorio di chief Sailunga, distante circa 8 miglia dal villaggio di Mukanza, e prese con la trappola una antilope; mandò sua figlia con la carne al villaggio di Mukanza. Sandombu prese la carne e la divise, tenendo per sé e per le sue mogli petto, fegato, una delle zampe anteriori e la testa. Il giorno seguente Kahali fece ritorno; essendo Sandombu assente, chiese alla moglie di lui Malona (una Lunda dell’Angola) che gli desse del cibo, dato che a quel tempo egli non aveva moglie. La moglie di Sandombu cominciò a preparare il cibo con insolente lentezza, così che alla fine egli andò dalla propria sorella classificatoria Nyamwaha che gli diede cibo e birra. Quella notte la sorella di Sandombu e nipote di Kahali, Mangalita, andò da lui senza farsi scorgere e gli raccontò, con rabbia e vergogna, il modo in cui la carne era stata divisa (Turner 1976: 159).

Anche presso i Lese della Repubblica Democratica del Congo, la spartizione della preda è una questione molto seria. Quando un uomo cattura un animale, tiene per sé stesso alcune delle parti migliori, mentre il resto deve obbligatoriamente spartirlo all’interno del clan. Fra i Lese, come sottolinea l’antropologo Roy Richard Grinker (1994: 152-154), gli scismi fra i differenti clan e la suddivisione storica dei gruppi sono comunemente attribuiti al venir meno delle regole condivise di spartizione delle prede. Grinker riporta una serie di leggende e racconti locali in cui le ostilità e le divisioni sono ricondotte al fallimento di spartizioni di prede. Riconoscere cultura soltanto sulle supposte sommità che si ergono all’interno del proprio orizzonte di senso è una strada costellata di vuoti e silenzi. Chi la percorre con convinzione ha sempre la sensazione di un fastidioso rumore di sottofondo (o di fondovalle) fatto di 57

ruggiti, muggiti e belati, come ben sa Yoineh Meir, scannatore rituale in un bel racconto yiddish di Isaac Bashevis Singer (1984: 20-23): Yoineh Meir avrebbe dovuto diventare rabbino di Kolomir. Tuttavia [...] i chassidim di Kuzmir l’avevano spuntata, insediando un loro rabbino. Al fine di non lasciare Yoineh Meir privo di una fonte di sostentamento, lo avevano nominato scannatore rituale della città [...]. Erano trascorsi appena tre mesi da quando Yoineh Meir era diventato scannatore, ma il tempo pareva non passare mai. Gli sembrava di essere immerso in sangue e linfa. I suoi orecchi erano ossessionati dal chiocciare delle galline, dal canto dei galli, dal gorgoglio delle oche, dal mugghio dei buoi, dai muggiti e dai belati di vitelli e capre [...]. È consuetudine che lo scannatore riceva la milza e le trippe di ogni vacca. La casa di Yoineh Meir straripava di carne. [...] Yoineh Meir avrebbe voluto sfuggire a questo mondo materiale, ma esso lo perseguitava, l’odore dello scannatoio non se ne andava mai dalle sue narici. [...] Continuava a sfogliare il Trattato dei chassidim, Il frutteto, Il libro della creazione e L’albero della vita. Lassù, nelle sfere superiori, non vi era morte, non si scannava, non vi era dolore, stomaci o intestini, cuori, polmoni o fegati, membrane, impurità.

A volte, per sfogliare i libri degli altri occorre scorticare gli alberi (si pensi ai pongo) o smembrare le prede. Come se non bastasse, non di rado il ‘giro lungo’ presso le stranezze degli altri è una delle vie più brevi per tornare a riflettere su noi stessi e sorprendentemente rintracciare nei nostri ‘lassù’, nelle nostre ‘sfere superiori’, molti più stomaci, intestini, cuori, polmoni, fegati, membrane, impurità di quanto ci si aspetti3. Sorprende, infatti, sapere che il linguaggio, la retorica, l’eloquenza, la poesia hanno un debito importante nei confronti dell’arte del fare a pezzi un corpo morto. Come ha brillantemente mostrato Giorgio Raimondo Cardona (1988: 62-63), tutta la terminologia grammaticale greca si fonda sull’analogia con il corpo animale: l’articolo è un ‘piccolo arto’, il verso esametro può essere ‘acefalo’ ed è provvisto di ‘piedi’, ‘stomaco’ e ‘gambe’. A ben vedere, la terminologia della scrittura e del discorso emerge proprio dalla spartizione dell’animale, dal «corpo della vittima sacrificale, sezio3 È stato l’antropologo statunitense Clyde Kluckhohn a desumere dal gioco del baseball l’immagine dell’antropologia come disciplina che, compiendo il giro lungo, percorre ‘la via più breve per tornare a casa’; cfr. Kluckhohn 1979, Remotti 1990.

58

nato dal coltello del sacrificatore e spartito secondo il rituale. Termini a noi noti solo nel significato grammaticale quali ‘dieresi’, ‘comma’, ‘cesura’ sono innanzitutto termini del sacrificio e si riferiscono alla dissezione (tomaí ‘tagli’, lat. caesurae, kómma ‘ritaglio’ da kópto¯ ‘taglio’) e alla divisione (diaíresis, ‘spartizione’)» (1988: 62). Lo stesso Platone – colui che mette a riparo i filosofi-re dalla contaminazione della materialità dei mestieri (Vegetti 1996) –, non può evitare di affondare il coltello nella carne quando spiega a Fedro, per bocca di Socrate, uno dei due procedimenti che compongono la dialettica: «la capacità di suddividerlo [il discorso] nuovamente e per specie, seguendone le articolazioni naturali e cercando di non lacerare nessun pezzo come farebbe un cattivo macellaio» (Fedro, 265, e). Dieresi (dal greco diaíresis) è un termine rinvenibile nelle ragioni metriche classiche, nella filosofia antica e nella razionalità medico-chirurgica (è la separazione tra tessuti normalmente contigui). Dieresi è un concetto, che in altri termini e non necessariamente in greco o in latino, altre società (per esempio i Pigmei) collocano al centro della loro antropologia e visione del mondo. 2.3. Pigmei, nonostante tutto Si è accennato, poco sopra, agli studi sui Lese di Roy Richard Grinker. In realtà Grinker non studia i Lese, indaga piuttosto il rapporto fra i Lese e i Pigmei Efe, due gruppi distinti che nella foresta dell’Ituri formano un’unica società. Nel prosieguo del volume ci saranno occasioni per riflettere sul rapporto fra gruppi pigmei e gruppi di coltivatori insediati nei villaggi contigui alla foresta; ci sarà modo di mostrare come un’antropologia delle relazioni sia indubbiamente auspicabile in quanto i gruppi non vivono isolati e, lungi dal nutrirsi, in termini identitari, solo di se stessi, attingono ampiamente all’alterità. Per il momento, l’ottima etnografia di Grinker servirà come punto di partenza per presentare, in questo paragrafo, una sorta di parabola che si vorrebbe far percorrere idealmente ai Pigmei per meglio comprenderne le sorti e il destino. Dopo aver focalizzato nella prima parte del capitolo, il nucleo dell’antropologia pigmea (la caccia di successo, ovvero, la spartizione della preda), occorre domandarsi fino a che punto questo rappresenti un ideale di umanità che si è mantenuto saldo nel corso del tem59

po. Ci si chiede fino a che punto le continue interazioni fra gruppi, le varie forme di colonizzazione, i conflitti armati che hanno insanguinato l’Africa centrale, le dinamiche di sfruttamento interne ed esterne, il disboscamento e la corsa alle risorse minerarie abbiano minato le forme di vita e i sistemi di valori dei gruppi di caccia e raccolta dell’Africa equatoriale. Ci si chiede, inoltre, fino a che punto si può parlare di ‘riformulazione culturale’ e quando, invece, occorre riconoscere processi di forte deculturazione. È opportuno partire da Grinker e quindi dai Pigmei Efe dell’Ituri, in quanto l’antropologo statunitense è stato colui che più lucidamente ha mostrato come l’immagine dei Pigmei cacciatori e raccoglitori, isolati e armoniosamente integrati nella foresta sia in buona parte un mito costruito da tempo e rafforzato dall’etnografia classica. I gruppi pigmei, lungi dal vivere ‘sempre’ in foresta nutrendosi solo dei prodotti della caccia e della raccolta, hanno, probabilmente, ‘sempre’ vissuto in simbiosi con i gruppi di coltivatori insediati nei villaggi vicini, attingendo alle risorse dei campi coltivati e ai beni prodotti e commercializzati nei villaggi. Come mostra Grinker, i Pigmei si affidano simbolicamente e materialmente alla caccia e alla raccolta, ma con altrettanta assiduità si affidano materialmente alle coltivazioni. Ciò significa che i Pigmei sono coltivatori? Che l’immagine del pigmeo cacciatore appartiene solo all’immaginario? Occorre procedere con ordine, prudenza e con la consapevolezza che la condizione dei Pigmei è molto diversificata nel tempo e nello spazio. Grinker innanzitutto afferma – in disaccordo con altri studiosi (Bailey e Peacock 1989) – che i coltivatori lese non sono economicamente autonomi dai Pigmei Efe; nel sostenere ciò, non si riferisce all’apporto di selvaggina procurata dai Pigmei, ma alla forza lavoro di questi ultimi nei campi coltivati lese. I Pigmei Efe, cacciatori e raccoglitori, sono ‘anche’ coltivatori, nel senso che aiutano a coltivare i campi dei vicini rientrando nella complessa economia della ‘casa’ (house) lese. Senza il lavoro agricolo degli Efe, i campi lese sarebbero semplicemente più piccoli (Grinker 1994: 136). Gli Efe aiutano i Lese a pulire il terreno per predisporlo alla semina e successivamente, nei periodi in cui non viene esercitata la caccia, aiutano le donne lese a seminare e ad accudire i campi. Abbattere gli alberi e ripulire il terreno dalla vegetazione (anche con l’aiuto del fuoco) sono considerate in molte società, compresa quella lese, at60

tività maschili, degne dei maschi; la semina e i lavori agricoli successivi sono considerati lavori ‘da donne’. Di conseguenza, i maschi lese, dopo aver contribuito alla sistemazione del terreno, si sottraggono ai lavori agricoli lasciando la cura dei campi alle donne lese e ai Pigmei Efe. Questo contribuisce al processo di femminilizzazione degli Efe nella loro totalità, processo che, secondo Grinker, è il principale dispositivo di denigrazione dei Pigmei a opera dei vicini Lese. Il coinvolgimento degli Efe nei lavori agricoli degli ‘altri’ (i Lese) garantisce ai Pigmei l’apporto dei prodotti dei campi nella loro dieta, ma non ‘trasforma’ gli Efe in coltivatori. Essi continuano a pensare se stessi come cacciatori e continuano a considerare la caccia un’attività che li caratterizza come uomini e li differenzia dagli altri gruppi insediati nell’area. Si impone a questo punto un nodo interpretativo di non facile soluzione. Il coinvolgimento dei Pigmei nei lavori agricoli degli ‘altri’ è un elemento ‘tradizionale’ del loro sistema culturale oppure è un aspetto subentrato in una specifica fase storica? È credibile che la divisione netta fra due universi (caccia-raccolta da una parte e coltivazione-allevamento dall’altra) immaginati totalmente distinti e distanti sia più ideale che reale. Questo è evidente nel caso che si sta analizzando: gli Efe cacciano e raccolgono, ma in parte coltivano, i Lese coltivano, ma in parte cacciano, anzi, considerano la caccia l’attività più prestigiosa. Appurato ciò, è pur vero, come sostiene Bahuchet (1991a: 15) che, durante il periodo coloniale, l’imposizione delle colture e del lavoro obbligatorio agli abitanti dei villaggi ha determinato una maggiore richiesta di collaborazione, da parte dei gruppi coltivatori, ai loro ‘alleati’ (subalterni) pigmei. La colonia avrebbe avuto un effetto indiretto sui Pigmei: i nuovi amministratori pressarono i gruppi sedentari (quelli nomadi, come i Pigmei, era difficile controllarli) chiedendo loro un forte aumento di produzione di prodotti per l’esportazione; di conseguenza, i gruppi coltivatori pressarono i ‘loro Pigmei’ con richiesta di mano d’opera nelle coltivazioni per la colonia e per il loro sostentamento. Questo nuovo modello di interazione avrebbe quindi determinato un duplice incremento di subalternità (dei coltivatori nei confronti dei coloni europei, dei Pigmei nei confronti dei coltivatori sedentari loro vicini) e sarebbe in parte sopravvissuto – al pari di altre logiche di sfruttamento coloniale – anche in epoca contemporanea. 61

Il tema di una eventuale ‘rivoluzione agricola’ presso i Pigmei è ripreso da Georges Guille-Escuret in un saggio apparso nel 1998 sulla rivista «L’Homme». Nel quadro di un dibattito inerente il rapporto fra evento e struttura in antropologia, Guille-Escuret ricostruisce gli eventi che hanno portato a una sorta di ‘contagio’ delle pratiche agricole fra alcuni gruppi di Pigmei Aka della Repubblica Centrafricana, insediati a sud del fiume Lobaye, vicino ai villaggi abitati da Ngbaka e Ngando. Come aveva già sottolineato Bahuchet, i gruppi aka conobbero l’agricoltura in epoca coloniale, quando gli abitanti sedentari dei villaggi limitrofi si spinsero all’interno della foresta per sfuggire alle richieste di lavoro forzato dei coloni o per nascondere loro alcune coltivazioni. Fu allora (approssimativamente fra il 1925 e il 1945) che i Pigmei Aka iniziarono a coltivare appezzamenti vicino ai campi dei villageois4. Finita l’emergenza coloniale, queste esperienze agricole contigue diminuirono sempre più, ma l’esperienza dei campi in foresta non cessò del tutto. Alcuni Ngando e alcuni Aka continuarono a coltivare e a sfruttare antiche piantagioni di palme (Elaeis guineensis) dai cui frutti si ricava l’importante olio di palma senza il quale, dicono i Pigmei «si finisce per perdere l’appetito» (Guille-Escuret 1998: 109). Una sorta di continuità delle esperienze agricole in foresta permette a Guille-Escuret di connettere le antiche piantagioni coloniali a una nuova ripresa delle coltivazioni da parte degli Aka in epoca post-coloniale. Negli anni Settanta, questi gruppi pigmei si affidarono con sempre maggiore convinzione alla coltivazione. Sulla base dell’ipotesi dell’antropologo francese, questa ‘conversione’ non sarebbe stata dettata da una dinamica di acculturazione dei gruppi coltivatori limitrofi, ma da una libera scelta svincolata da univoche logiche di imitazione5. Anzi, i Pigmei avrebbero adottato le pratiche agricole non tanto per ‘avvicinarsi culturalmente’ agli abitanti dei villaggi, ma 4 Gli antropologi francesi che hanno lavorato presso gruppi pigmei usano il termine villageois per indicare gli abitanti dei villaggi, dediti di solito alla coltivazione e legati alle bande pigmee, che vivono nella foresta circostante, attraverso relazioni durature di scambio. 5 In molti casi le attività mimetiche sono interpretabili come attività di resistenza nei confronti delle forze egemoni (economiche, politiche e religiose). L’antropologia contemporanea è particolarmente attenta a registrare tali dinamiche in contesti di forte mutamento e riformulazione culturale.

62

per allontanarsi da loro, ovvero, per sfuggire alla dipendenza sempre maggiore dai prodotti agricoli provenienti dai villaggi. La fine del regime di Bokassa (un Ngbaka come i suoi due predecessori) non fece altro che accelerare questo desiderio di affrancamento dei Pigmei, giacché i soldati ngbaka, originari della Lobaye, furono rispediti a casa con le loro famiglie, causando un aumento della popolazione e incrementando la pressione sui Pigmei, percepiti e trattati come subalterni. La diffusione delle pratiche agricole fra i Pigmei Aka indagati da Guille-Escuret non implica un mutamento radicale. I Pigmei continuano a percepire la coltivazione come una pratica straniera da guardare con diffidenza; al contempo essi si dedicano ai lavori dei campi con originalità e slancio innovativo: coltivano prodotti che arrivano da lontano, utilizzano nuove soluzioni tecniche e sfasano i calendari agricoli dei propri campi per poter coltivare loro stessi e continuare ad aiutare i villageois (1998: 112-114). Un dato importante che emerge dalle indagini di Guille-Escuret riguarda la divisione sessuale del lavoro agricolo presso i Pigmei. Attraverso il confronto di sei comunità pigmee della regione, è possibile constatare come l’unica attività agricola svolta esclusivamente dagli uomini sia quella dell’abbattimento degli alberi preliminare alla preparazione del terreno coltivabile, mentre le attività svolte principalmente dalle donne sono quelle della cura dei campi e soprattutto della raccolta dei prodotti. Per mezzo della contrapposizione fra l’abbattimento degli alberi e la raccolta dei prodotti coltivati, è come se i Pigmei Aka della Lobaye preservassero nell’ambito delle attività agricole quella distinzione fra la caccia maschile e la raccolta femminile, distinzione tipica del loro mondo di foresta. Tale contrapposizione suggerisce inoltre un’ipotesi interpretativa alquanto suggestiva. Se è vero che alcuni gruppi di coltivatori insediati ai margini della foresta abitata dai Pigmei definiscono loro stessi ‘abbattitori di alberi’6 contrapponendosi in tal modo proprio ai gruppi pigmei che tradizionalmente non disboscano, anzi, preservano la foresta, è altrettanto vero che altri gruppi di coltivatori insediati ai margini della foresta abitata dai Pigmei si definiscono ‘coltivatori poco entusia6 Si consideri per esempio il caso dei Banande, coltivatori del Kivu, che si definiscono abakondi, abbattitori di alberi (Remotti 1994: 119-120).

63

sti’, come i Mangbetu (Allovio 1999), oppure, pur coltivando, considerano la caccia l’attività più prestigiosa, come ancora i Mangbetu, i Lese (Grinker 1994) e molti altri. L’ipotesi che si vuole avanzare è che definirsi ‘abbattitori di alberi’ nei villaggi di sedentari prossimi al mondo dei Pigmei non è una affermazione univoca di differenziazione dai Pigmei stessi e una adesione convinta al mondo agricolo, ma è piuttosto riconoscere il fascino e il prestigio di un mondo altro (quello dei Pigmei) di solito denigrato. I Pigmei sono i cacciatori per antonomasia e la maggior parte dei maschi adulti appartenenti alla maggioranza dei gruppi di coltivatori sedentari insediati nel bacino del Congo considera la caccia l’attività prestigiosa e caratteristica della mascolinità. ‘Abbattere alberi’ non è sinonimo di ‘coltivare’: è solo la prima fase del ciclo agricolo e idealmente non è ancora troppo ‘altra’ rispetto al prestigioso abbattimento delle prede (la caccia). ‘Abbattere’ è ancora un’attività ambiguamente sospesa fra la caccia e la coltivazione. Essere quindi ‘abbattitori di alberi’ significa smarcarsi dall’universo femminile del proprio gruppo (le donne generalmente curano i campi e raccolgono) e differenziarsi dai gruppi di Pigmei con la consapevolezza di un nodo irrisolto ben focalizzato da Grinker (1994: 158) nell’ambiguità di fondo dell’antropologia lese: noi maschi lese, denigriamo i cacciatori per antonomasia (i Pigmei), ma esaltiamo la caccia come vera attività maschile. È come se si affermasse che ‘noi coltivatori maschi’ non siamo del tutto coltivatori, la nostra esistenza è nel mezzo fra due mondi che sentiamo altri: le ‘nostre’ donne (coltivatrici) e i ‘nostri’ Pigmei (cacciatori); noi siamo ‘abbattitori’, ovvero un po’ coltivatori e, ciò che più conta, un po’ cacciatori (un po’ Pigmei). La modalità di ‘abbattimento’ dei coltivatori, li avvicina ai Pigmei, ma al contempo ne distrugge parzialmente l’habitat. Come si è visto poco sopra nel caso degli Aka a sud della Lobaye, gli stessi Pigmei, quando ‘diventano’ un po’ coltivatori sono in molti casi attenti a marcare la differenziazione sessuale dei lavori agricoli, escogitando una soluzione speculare, dove ancora una volta il maschio adulto si riserva fisicamente e simbolicamente ‘l’abbattimento’. È come se i ‘tagli’ inferti sulla preda durante l’atto antropologicamente fondante della ‘spartizione’ (§ 2.1) potessero in una qualche misura essere riprodotti nei ‘tagli’ inferti alla vegetazione nell’atto di ripulire un terreno e prepararlo alla semina. 64

I Pigmei Aka, per esistere come tali, per recuperare un ruolo meno subalterno nei confronti dei coltivatori correlati, hanno deciso di fare a meno degli stessi coltivatori per l’approvvigionamento dei prodotti vegetali dei campi. Come si è sottolineato in precedenza, se a prima vista potrebbe esser percepita come una scelta arrendevole e fallimentare, in quanto i Pigmei sono tradizionalmente cacciatoriraccoglitori contrapposti ai coltivatori dei villaggi, in realtà è un segno della loro volontà di esistere e di resistere contrapponendosi ai villaggi di coltivatori. Molti progetti di sviluppo che le agenzie governative e non governative propongono attualmente ai gruppi pigmei in diversi paesi dell’Africa equatoriale, vertono sulla sedentarizzazione e sull’incremento delle abilità agricole. A ben vedere, come sottolinea per esempio l’antropologo Berry Hewlett (2000) riferendosi al contesto camerunese, l’approccio degli agenti governativi e delle ONG internazionali nel proporre congiuntamente tali progetti, è molto diverso. Il governo nazionale investe nell’incremento delle abilità agricole dei Pigmei per meglio controllare gruppi marginali e nomadi che sfuggono (fin dall’epoca coloniale) alle tassazioni e a un’idea di moderna civilizzazione nazionale che non lascia spazio ai saperi locali. A loro volta, le ONG investono sull’incremento delle abilità agricole dei Pigmei per garantire loro l’affrancamento dai coltivatori, l’accesso ai servizi e alla salute (tutti aspetti non particolarmente sottolineati dal governo nazionale). Le politiche statali, lungi dal risultare ininfluenti in un campo di azione che spesso si pensa dominato dal binomio locale-globale, possono risultare estremamente contraddittorie nei confronti dei programmi di valorizzazione e salvaguardia delle culture indigene. L’introduzione delle pratiche agricole nel mondo dei Pigmei non rimanda sempre e in modo automatico a strategie di resistenza che si esprimono in riformulazioni socio-culturali. In molti casi, l’adozione delle pratiche agricole è il preludio alla disgregazione e a una violenta deculturazione che i Pigmei, purtroppo, hanno vissuto e continuano a vivere in alcune aree dell’Africa equatoriale più che in altre. Un caso emblematico di conversione agricola come preludio alla disgregazione socio-culturale è quello dei Pigmei Bagyeli (o Bakola) del Camerun (Loung 1959, Joiris 1994). Insediati nelle foreste occidentali del paese, non lontano dalla costa atlantica, i Bagyeli sono caratterizzati da un forte meticciamento con i gruppi bantu e 65

da una altrettanto forte sedentarizzazione. L’ineluttabile disboscamento li ha condotti fin dalla prima metà del Novecento ad adottare forme rudimentali di agricoltura. I programmi di sedentarizzazione e di ‘educazione alla coltivazione’ messi in atto dal governo camerunese a partire dagli anni Sessanta hanno ulteriormente minato il loro sistema di vita tradizionale. A differenza degli Aka indagati da Guille-Escuret, l’adozione di pratiche agricole da parte dei Bagyeli non ha garantito loro alcuna forma di autonomia economica e autosufficienza alimentare; anzi, ha favorito la loro proletarizzazione nel quadro delle piantagioni e delle industrie locali (Joiris 1994: 88). La faticosa coesistenza delle attività di caccia e raccolta – modificate quando non compromesse – e la loro condizione di marginalità sociale permettono il riconoscimento dei Bagyeli come gruppo separato dal resto della popolazione camerunese. L’ideale parabola evocata all’inizio del paragrafo, utile a sintetizzare e meglio comprendere – indipendentemente dalle traiettorie specifiche di ogni gruppo – le sorti e il destino di molti Pigmei non può non trovare l’esito più clamoroso nella difficile esistenza dei Pigmei Batwa del Burundi (de Carolis 1978) e del Rwanda (Kagabo e Mudandagizi 1974, Lewis 2001). Questo caso etnografico si allontana tristemente tanto dalla caccia di ‘vera carne’ dei Bambuti (§ 2.1), quanto dalla rinegoziazione delle proprie esistenze attraverso l’introduzione delle coltivazioni. Nell’Africa dei Grandi Laghi la popolazione è suddivisa in due gruppi principali riconducibili a una presunta specializzazione economica. In Burundi, come nel vicino Rwanda, i gruppi prendono il nome di Batutsi (i pastori) e Bahutu (i coltivatori). A questi due gruppi etnici se ne affianca un terzo (numericamente esiguo), quello dei Batwa, nome locale per denominare i Pigmei7. Le due componenti principali del tessuto sociale (hutu e tutsi) si combattono tragicamente da più di mezzo secolo con armi da taglio e da fuoco e si fronteggiano con pregiudizi e discriminazioni. I Tutsi dell’aristocrazia, inoltre, hanno storicamente segnato tale divisio7 Con il termine ‘batwa’ si definiscono i Pigmei non solo in Burundi e in Rwanda, ma anche in Uganda e nelle regioni centro-orientali della Repubblica Democratica del Congo. Secondo le stime disponibili (Lewis 2001: 5), i Batwa, nella loro totalità, ammonterebbero a 70.000-87.000 individui dispersi in un’area di circa 100.000 km2.

66

ne attraverso l’adozione di una dieta principalmente liquida basata sul latte e sul sangue bovino. Divisi su tutto, Bahutu e Batutsi sono accomunati dall’avere la stessa considerazione dei Pigmei Batwa, valutati al pari delle bestie (o poco più) e oggetto continuo di scherno e disprezzo. Fra i motivi del disprezzo, oltre alla sporcizia, alla puzza, all’incapacità di comportarsi in modo opportuno, sono contemplate anche le disdicevoli pratiche alimentari. Gli Hutu e i Tutsi ritengono che i Pigmei Batwa mangino ‘cose vietate’ (ovvero non rispettino i tabu alimentari), in particolare li disprezzano perché mangiano porcospini, uccelli e scimmie, ovvero prodotti non riconducibili alle attività di coltivazione e di pastorizia (de Carolis 1978: 53). Jerome Lewis (2001: 14), riporta alcuni termini spregiativi utilizzati in Rwanda per denominare i Batwa, alcuni dei quali fanno riferimento, ancora una volta, a pratiche alimentari ritenute ripugnanti (per esempio, abaterampango, ‘coloro che mangiano l’antilope’). Anche se lo volessero, per i Batwa non è semplice accedere ai prodotti coltivati e a quelli derivati dal bestiame, in quanto il disprezzo dei coltivatori hutu e dei pastori tutsi si esprime attraverso una vera politica di esclusione dalle attività produttive: ai Batwa è vietato coltivare e tanto meno allevare. Per quanto concerne il Burundi, la situazione è peggiorata molto con l’indipendenza del 1962 e la fine della monarchia ganwa, quando venne meno la protezione dei Batwa da parte del sovrano rundi e dei capi dell’aristocrazia, i quali, in cambio di servizi a corte, concedevano loro terre per coltivare e bovini da condurre al pascolo8. Negli anni Sessanta, la situazione di forte deculturazione fece dei Batwa un popolo marginale. Venuta meno la possibilità di creare rapporti particolari con sovrani e potentati di vari livelli, non restava a essi che concentrare ogni sforzo per la sopravvivenza sulla specializzazione artigianale della lavorazione della terracotta, un lavoro disprezzato da Bahutu e Batutsi. In tal modo i Batwa – impossibilitati a praticare la caccia e la raccolta per deforestazione, progressiva mancanza di selvaggina ed estensione di pascoli e campi coltivati, impossibilitati altresì a coltivare e a praticare la pastorizia per chiari ed espliciti divieti e discri8 Lo stesso legame privilegiato con la dinastia regnante si è concretizzato nel vicino Rwanda (Kagabo e Mudandagizi 1974, Lewis 2001).

67

Fig. 4. Donna mutwa lavora la terracotta a Gitega (Burundi) (foto dell’Autore)

minazioni – si trovarono, oltre a mendicare e ad accettare qualsiasi lavoro, a produrre vasellame in terracotta: contenitori vuoti da scambiare con prodotti alimentari o piccole somme di denaro utili a riempire i loro piatti. I Batwa divennero i fornitori principali di anfore per il sidro di banana, anfore per l’acqua, pentole per cuocere la manioca e altri cibi, piatti per il consumo. La testimonianza di un notabile di Butara, Marushwa, raccolta da de Carolis (1978: 147-148) negli anni Settanta, esprime molto bene l’ambivalenza dell’emarginazione: Una cosa è certa benché io non arrivi a spiegarmela, ed è che gli Hutu e i Tutsi disprezzano i Twa eppure si servono ad ogni momento di og68

getti usciti dalle loro mani. Le pentole in cui cuociono il cibo sono fatte dai Twa. Le anfore con le quali attingono acqua, quelle in cui mettono il sidro da bere, le altre che adoperano per offrire sidro alle autorità, provengono tutte dai Twa.

I Pigmei Batwa diventarono ‘il popolo dell’argilla’, ma questa trasformazione, lungi dal poter essere una strategia di resistenza, prende le sembianze di una precaria e fragile sopravvivenza in un contesto di violenta emarginazione. I ‘piatti vuoti’, che i Batwa vendono agli Hutu e ai Tutsi, si collocano idealmente in una posizione opposta ai ‘piatti vuoti’ dinanzi ai quali sedevano, orgogliosi, i giovani cacciatori aka dopo aver cacciato la loro prima ‘vera carne’. La traiettoria discendente della parabola esistenziale diventa chiaramente visibile. Come se non bastasse, la sempre maggiore difficoltà nel reperire argilla in territori svincolati da proprietà private e la diffusione negli ultimi decenni di contenitori e pentole in metallo e plastica fanno intuire l’esito fallimentare di questa ulteriore trasformazione. I Batwa, non riuscendo neppure più a vendere la propria produzione in terracotta, sono costretti a regalarla con la speranza di poter ‘capitalizzare’ relazioni sociali, potenziali veicoli di opportunità lavorative che, seppur misere, consentono di non fare affidamento solo sulla mendicità. Le parole di un mutwa (sing. di ‘batwa’) di Myangungu (Burundi), raccolte da Jerome Lewis nel luglio del 1999, rendono l’idea di questo inevitabile processo di impoverimento che, in relazione alla centralità antropologica della spartizione, prende le sembianze di un processo di de-umanizzazione espresso, non a caso, attraverso l’immagine di una spartizione perduta: Prima, quando uno di noi aveva della carne, ce la dividevamo. Ora, noi abbiamo così poco che facciamo fatica a nutrire la nostra stessa famiglia. Ognuno di noi deve occuparsi di se stesso. Se tu vieni mentre noi stiamo mangiando, ti invitiamo, ma non abbiamo abbastanza per dartene da portare via o per prepararla per la tua famiglia come si faceva prima (Lewis 2001: 11).

Questa de-umanizzazione, come si vedrà nel prossimo paragrafo, non rappresenta neppure l’esito più sorprendente di cosa i Pigmei possono diventare o di come i Pigmei possano giungere a immaginare se stessi. L’auspicio, come sarà chiaro a breve, è che il successivo caso 69

analizzato, concernente la denuncia di atti cannibaleschi nei confronti di Pigmei, possa davvero essere annoverato soltanto fra le metafore politiche-culinarie e non fra le strategie alimentari possibili. 2.4. Mangiare Pigmei Nel gennaio del 2003, in piena guerra civile, nella parte orientale dell’attuale Repubblica Democratica del Congo, i Pigmei Bambuti di Mambasa informano le organizzazioni umanitarie e i media che i soldati di Jean-Pierre Bemba (Mouvement pour la Libération du Congo) hanno ucciso, cucinato e mangiato alcuni loro parenti. Immediatamente vengono allertate Organizzazioni Non Governative e l’ONU, i quali indagano e producono un dossier che sarà inviato alla Corte internazionale sui crimini di guerra. Due anni dopo, gli accusatori ritrattano tutto davanti allo stesso Bemba, e affermano di essere stati spinti a muovere tale accusa dal governo di Kinshasa (all’epoca in guerra contro Bemba e i suoi uomini). Fino a che punto la ritrattazione permette di esimersi dal riflettere sul capo di accusa? In che modo connettere queste denunce di cannibalismo ad altri casi che hanno innescato accesi e recenti dibattiti sul cannibalismo alle isole Fiji e nella Repubblica Centrafricana? In un saggio pubblicato sul «Journal of Royal Anthropological Institute», l’antropologo Johan Pottier (2007) torna sulla vicenda ponendosi queste e altre domande. L’accusa, le opinioni di gruppi locali, le indagini di organismi internazionali e non per ultima la reazione dei media in Europa e in Congo formano una arena di discussione e dibattito dove, ancor prima della ritrattazione, si costruiscono due fazioni: coloro che non dubitano dei testimoni, anzi, considerano ed eleggono a prova lampante la stessa testimonianza (ONU, ONG, Chiesa) e coloro che dubitano fin dall’inizio e prendono le distanze dagli accusatori (stampa congolese e gruppi insediati in villaggi non distanti dagli accampamenti pigmei). Partendo dal presupposto che le prove documentate di cannibalismo (in ogni luogo ed epoca) sono molto rare, mentre le accuse di cannibalismo mosse agli altri, agli stranieri, ai nemici sono molto frequenti, è indubbio che il problema della veridicità o falsità delle affermazioni e testimonianze resta un problema reale sul quale si è in70

dagato, dibattuto e si continua a dibattere. Il caso in esame, tuttavia, è particolare, in quanto non solo si accusa qualcuno di pratiche cannibalesche – in questo, l’immaginario dei Pigmei potrebbe essersi nutrito del fatto che i soldati di Bemba erano Ngbaka, come lo era l’imperatore Bokassa, accusato di cannibalismo – ma si denuncia la propria condizione di vittime di pratiche cannibalesche. Benché non si possa relegare con certezza assoluta tali accuse nell’ambito dell’immaginario e dell’immaginazione, Pottier invita a riflettere sulla forza del cannibalismo come metafora politica di denuncia di una estrema sofferenza vissuta: in questo, i lavori di Steven Ellis (1999) sulla Liberia contemporanea vanno nella stessa direzione. La carne dei corpi dei Pigmei è ‘vera carne’ da spartire e da mangiare; il farsi carne da macello degli altri (si spera solo in termini metaforici) può rappresentare un estremo urlo di denuncia. Pare impossibile, ma l’urlo di denuncia potrebbe anche essere stato un estremo e meditato brandello di strategia di sopravvivenza; almeno questo è ciò che prospetta Pottier, il quale si concentra sull’identità degli accusatori e rileva come essi appartengano ai gruppi storicamente coinvolti in progetti di sviluppo e supporto promossi da singoli, da organizzazioni religiose o da agenzie europee e statunitensi per lo sviluppo. Diffondere l’immagine di vittime di atti cannibaleschi è stata forse la più efficace arma comunicativa che, attraverso la cassa di risonanza dei media, ha permesso di attirare l’attenzione e orientare forme di aiuto e di assistenza verso gruppi svantaggiati come i Pigmei. A ben vedere, la cosiddetta ‘Prima guerra mondiale d’Africa’, combattuta con l’apporto di differenti eserciti nazionali in territorio congolese a partire dal 1998, non è l’unico contesto di aperta ostilità in cui i Pigmei hanno pagato a caro prezzo la loro abilità in foresta e la loro perdurante marginalità. Durante la ribellione dei Simba (1964-1970) – sempre nella parte orientale del territorio congolese (al tempo Zaïre) – i Pigmei si sono trovati coinvolti, loro malgrado, in operazioni di guerriglia. Alcuni individui mbuti hanno aiutato gli abitanti dei villaggi a rifugiarsi in foresta per sfuggire alle incursioni dei ribelli; altri Pigmei Bambuti sono stati assoldati dalle parti in lotta (esercito governativo e ribelli Simba) come guide, essendo abili a muoversi in foresta e a sfruttarne le risorse. Nel 1970, venne catturato l’ultimo capo Simba, Kasongo, e significativamente venne giustiziato insieme con la sua guida mbuti (Hart e Hart 1984). 71

Ancora più pesante è stato il prezzo pagato in vite umane dai Pigmei durante i tre mesi in cui si è consumato il genocidio rwandese (aprile-giugno 1994) e in misura minore, ma altrettanto tragica, durante gli scontri avvenuti negli anni Novanta in Burundi (Lewis 2001: 25-28)9. La principale motivazione che ha portato molti Batwa a essere vittime degli scontri è il legame storico che essi hanno intrattenuto con le monarchie regnanti e i potentati locali. Come si è già accennato, non era raro che i Pigmei ottenessero terre e risorse in cambio di servizi a corte; questo fu sufficiente per supporre vicinanza e alleanza fra Batutsi e Batwa a dispetto di una situazione ben più complessa che ha visto i Pigmei mantenere in molte occasioni una distanza dalla politica al fine di salvaguardare una fragile neutralità. Tornando al caso della denuncia di cannibalismo a Mambasa, è evidente come la parabola che si è cercato di tratteggiare sia davvero giunta a termine. La rivoluzione agricola su cui si giocano oggi molti interventi a favore di gruppi pigmei è racchiusa fra due estremi altamente proteici. La sola differenza è che, all’inizio della traiettoria ascendente, la ‘vera carne’ dei Pigmei è rappresentata dalla carne spartibile delle prede e, nel particolare contesto iniziatico dei Pigmei Bambuti, dalla prima ‘vera carne’ orgoglio del giovane cacciatore dispensatore di cibo. Diversamente, al termine della traiettoria discendente, la ‘vera carne’ è rappresentata dai corpi degli stessi Pigmei, forse mangiati dai soldati di Bemba, sicuramente cannibalizzati come rappresentanti dell’ultimo livello di subordinazione in un contesto globale, nazionale e locale di violenza strutturale perdurante. Non molti anni fa, l’antropologo Maurice Bloch intitolò il suo eccellente libro comparativo sulla violenza rituale Da preda a cacciatore: un libro efficace, in cui Bloch cerca di dare un significato culturale alla violenza di ritorno contenuta in molte pratiche rituali. Orbene, il caso dei Pigmei ‘mangiati’ a Mambasa ha la forza di ribaltare perfettamente il titolo del libro di Bloch: non più ‘da prede a cacciatori’, ma ‘da cacciatori a prede’, tragica metafora culinaria che invita a riflettere sulle dinamiche politiche e di giustizia sociale dell’Africa contemporanea.

9 Il 30% dei Batwa rwandesi fu ucciso durante il genocidio e le ostilità che ne seguirono (Lewis 2001: 25).

72

2.5. Immaginari bulimici L’idea che i Pigmei, come individui e come gruppo, siano i soggetti stessi di indebite e violente appropriazioni e annichilimenti efficacemente espressi attraverso metafore alimentari e culinarie, si ritrova in un saggio dell’antropologo Stan Frankland (2009), il quale si affida a una metafora del disturbo dell’alimentazione parlando esplicitamente del ‘consumo bulimico di Pigmei’ avvenuto nel corso del Novecento. Per tutto il secolo appena trascorso, l’Europa è stata investita da una moltitudine di informazioni inerenti le culture ‘arcaiche’ e ‘primitive’, fra le quali i Pigmei hanno goduto di particolare attenzione e fortuna proprio nel nome della loro supposta primitività. Frankland deriva il concetto di ‘consumo bulimico’ da un riadattamento del concetto di cannibalismo materiale e simbolico utilizzato da Lévi-Strauss (1960) e più recentemente da Bauman (1993, 1997) per cogliere le modalità di appropriazione e incorporazione dell’altro. Se nel cannibalismo l’alterità viene metabolizzata attraverso un processo di assimilazione-trasformazione-eliminazione, nel ‘consumo bulimico’ l’altro viene trangugiato e vomitato più volte all’interno di modelli ripetitivi che garantiscono l’immutabilità dell’immagine dell’altro. L’immagine statica e idealizzata del pigmeo – piccolo cacciatoreraccoglitore che vive in armonia con la natura (la foresta) e testimonia i primordi di una umanità destinata a crescere (anche in termini di altezza) e a progredire nella tecnologia e nei saperi – inizia a prendere forma nella seconda metà dell’Ottocento quando l’esploratore e botanico tedesco Georg Schweinfurth li incontra nell’attuale Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo (1870) dedicando loro pagine memorabili del suo resoconto (1875). Le notizie incerte, fino ad allora fantasiose e mitologiche, della loro esistenza vengono dissipate e i ‘Pigmei’ diventano individui reali, degni di indagine ‘scientifica’ e soggetti ad appropriazioni estetizzanti. Dall’Africa centrale non giunsero solo le testimonianze dei viaggiatori ma, quasi fossero trofei di caccia, Pigmei in carne e ossa, ovviamente vivi, pronti a diventare fenomeni da baraccone in spettacoli itineranti e oggetti di indagine anatomica e antropometrica degli scienziati dell’epoca: i due Pigmei ‘di Miani’ lasciati in eredità alla Società Geografica Italiana e giunti in Italia nel 1874; i Pigmei ‘di Verner’ portati negli Stati Uniti nel 1904 ed esposti come curiosità etniche all’esposi73

zione universale di St. Louis; i sei Pigmei ‘di Harrison’, esibiti dapprima all’ippodromo di Londra (1905) e poi in giro per l’Europa. Nel prossimo capitolo ci sarà modo di tornare su queste storie alquanto inquietanti. Per il momento è sufficiente sottolineare che questi Pigmei contribuirono, congiuntamente alle informazioni che pervennero dall’Africa e alle aspettative dell’Occidente nei confronti di ciò che potesse essere definito ‘selvaggio’ e ‘primitivo’, a costruire il ‘mito dei Pigmei’, confezionato e riprodotto in modo seriale come immagine stereotipizzata dell’alterità. Stan Frankland (2009) identifica tre livelli di riproduzione di tale immagine: testuale, uditivo e visuale. A ogni livello avviene il consumo bulimico di Pigmei. A livello testuale, il mito dei Pigmei si rintraccia nella letteratura turistica, in primis nelle guide di viaggio e nelle brochures illustrative, nelle riviste come «National Geographic», nei fumetti e nella letteratura per ragazzi (Tintin e Tarzan), nei romanzi quali Congo di Michael Crichton. In questi casi e in altri, il pigmeo è l’immagine stereotipata del nobile selvaggio di Rousseau. A livello uditivo, la scoperta della musica dei Pigmei – avvenuta già durante il tour europeo dei Pigmei di Harrison a inizio Novecento – portò a una idealizzazione e mitizzazione delle loro abilità musicali quale segno di una differenza seducente e romantica riprodotta sempre uguale a se stessa quale omaggio continuo alle registrazioni di Simha Arom (Feld 1996). Secondo Stan Frankland, la ‘riduzione’ etnomusicologica dei Pigmei ha reso loro stessi muti e silenti, la loro voce risulta sovrastata dal suono dei loro tamburi, espressione efficace del mito continuamente riprodotto. A livello visuale, l’immagine della purezza primitiva e ‘paleolitica’ dei Pigmei ritorna, sempre uguale a se stessa, nei documentari e nei film, fino a essere rintracciata nei cartoon quali Topolino e Tom e Jerry in un destino di ‘disneyficazione’ prevedibile. Parallelamente agli effetti della riduzione etnomusicologica, che ha portato i Pigmei a essere muti e silenti, la riduzione cinematografica ha portato la realtà dei Pigmei a essere invisibile in quanto velata da una coltre mitica. Un ambito privilegiato di produzione dello stereotipo pigmeo e di consumo bulimico dello stesso è il turismo nel suo duplice risvolto: ‘qui’ nella riproposizione museale dell’altro esotico e dei suoi artefatti, ‘là’ nel contatto con il pigmeo, campione di primitività, durante i viaggi che da circa un secolo vengono organizzati con destinazione l’Africa centrale. 74

Per gran parte del Novecento, la visita ai Pigmei è stata una tappa fissa di un ripetitivo e sempre uguale circuito turistico che prevedeva in molti casi una tappa presso i Tutsi del Rwanda, con il chiaro intento di contrapporre la ‘bassezza del primitivo’ ad esempi di ‘alta civilizzazione africana’, il tutto inserito in un quadro di forti emozioni venatorie e naturalistiche esperite ‘alla scoperta’ o ‘a caccia’ di gorilla, okapi e altri animali selvaggi (Frankland 2001). In questo quadro, l’immagine stereotipata del pigmeo funzionava solo se veniva garantita l’autenticità e la purezza di una forma di vita che richiamasse figure dell’immaginario descrivibili in termini di primordi, origini, età della pietra, paradiso perduto, uomo naturale ecc. Le ripercussioni dell’immaginario occidentale nel mondo reale dei Pigmei sono continue e a volte inaspettate. Un esempio curioso è il destino del binomio pigmeo/gorilla (Frankland 2001: 242). Con l’uscita nel 1932 del film Congorilla di Martin e Osa Johnson, il binomio funzionò a tal punto che Pigmei e gorilla divennero protagonisti amati della foresta africana, inseparabili eroi esotici da ammirare e ‘consumare’ sulla tavola imbandita delle meraviglie e delle stranezze. Con l’arrivo nell’area di Dian Fossey nel 1963, tutto cambiò improvvisamente. A detta di molti (Frankland 2001, Lewis 2001) il forte astio della Fossey nei confronti dei Pigmei Batwa, accusati dalla naturalista di essere spietati bracconieri (accuse mai provate), e l’imporsi della sua idea di ‘conservazione’, tutta rivolta alla salvaguardia dei gorilla e all’indifferenza del destino di un intero popolo, portarono a scelte drastiche da parte delle autorità statali (rwandesi, ugandesi e congolesi). La trasposizione cinematografica della vicenda di Dian Fossey, Gorilla nella nebbia (1988) fu il preludio alla creazione di riserve naturali per i gorilla e alla espulsione dei Batwa dai loro secolari habitat – un’espulsione scandalosa per i capi d’accusa infondati (Lewis 2001: 24). Evidentemente, se la lunga coesistenza di Pigmei e gorilla non ha portato all’estinzione di questi ultimi, significa che i colpevoli di tale rischio recente non possono essere rintracciati su base etnica, anzi, come lascia intendere neppure troppo velatamente Jerome Lewis (2001: 23-24), l’attività di bracconaggio di molti non-Batwa e delle stesse autorità dei parchi, viene coperta da questa immagine dei Pigmei bracconieri fatta circolare ad arte. Nella contemporaneità, come si può constatare, la discriminazione e il pregiudizio prendono le nobili vesti della protezione della natura. L’esito finale, tuttavia, è ancora una volta inaspettato, giacché, 75

come riporta Frankland (2001: 242-243) riferendosi a vicende ugandesi, l’eco della battaglia di Dian Fossey per la preservazione dei gorilla di montagna e la creazione dei parchi hanno avuto come conseguenza un forte aumento del turismo nell’area. L’incremento del turismo ha comportato una puntuale organizzazione dei tour e delle tappe in modo da soddisfare le aspettative dei clienti sulla base del loro immaginario, il quale, ovviamente, si nutre tanto di animali selvaggi quanto di umanità ‘primitiva’ da poter visitare e fotografare. È così che solo recentemente, i Pigmei Batwa si sono accodati ai loro concorrenti gorilla per offrire un quadro di quasi umanità (la ‘quasi umanità’ dei primitivi Pigmei e la ‘quasi umanità’ dei grandi primati) molto appetibile per gli impulsi bulimici del turismo esotico e di avventura. L’unica accortezza affinché tutto funzioni per il meglio è che i Pigmei Batwa devono fare i Pigmei (possibilmente ai margini delle riserve), ovvero devono rinegoziare le loro esistenze dissimulando le notevoli trasformazioni del loro stile di vita e riproporre l’immagine di cacciatori e raccoglitori sempre accessoriati di arco e frecce, capanne e possibilmente poco vestiti. Questo esempio e altri a cui accenna Frankland mostrano come i Pigmei, benché marginali, siano in parte protagonisti e abili ad assumere ruoli attivi nel caotico gioco di specchi determinato dagli immaginari e dalle politiche adottate a vari livelli (locale, nazionale, globale). I campioni dell’alterità esotica diventano ciò che gli altri vogliono che essi siano nel fragile mercato locale delle piccole possibilità e nel fiorente mercato globale delle ‘curiosità etniche’. È ovvio che tali strategie di reflective ethnicity dei Pigmei si nutrono in primo luogo del mito dei Pigmei costruito nel tempo e al quale hanno contribuito anche alcuni lavori antropologici, in particolare i testi di Colin Turnbull.

III

Buoni da pensare

3.1. I Pigmei di Omero, Erodoto e Aristotele Seguendo le argomentazioni di Stan Frankland, si è appena sostenuto che i Pigmei, in certi contesti, diventano ciò che altri vogliono che siano. Ciò è vero a partire dal nome stesso (‘Pigmei’) con il quale si definiscono da tempo un gran numero di gruppi dell’Africa centrale. Non sono loro a essersi denominati Pigmei, non sono neppure i vicini – come spesso accade – ad aver affibbiato loro il nome di ‘Pigmei’, sono stati gli europei ad averlo scelto, una scelta inevitabile determinata da una lunga storia che affonda le sue radici nel terzo canto dell’Iliade di Omero: I Troiani avanzavano con grida e schiamazzo, come uccelli, quale è in cielo il grido delle gru che fuggono il maltempo e la gran pioggia e volano gridando alle correnti dell’Oceano portando ai Pigmei morte e sterminio (III, 2-6).

«Tutto inizia con Omero», afferma Serge Bahuchet (1993: 153) in un articolo dedicato all’invenzione dei Pigmei, ben sapendo che tutto inizia in realtà molto più tardi, nel marzo del 1870 quando l’esploratore tedesco Georg Schweinfurth vide i Pigmei alla corte di Munza, sovrano dei Mangbetu, dissipando una volta per tutte i dubbi dell’Occidente sull’esistenza di questo popolo e riportando notizie attendibili sul suo fortunato resoconto di viaggio (Nel centro dell’Africa). Solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quindi, i Pigmei ‘esistono realmente’ per gli europei ovvero da quando «una leggenda si è dissolta lasciando il suo nome a una cosa della realtà» (Janni 1978: 11). Di questa ‘cosa della realtà’ (i Pigmei) si è scritto nelle pagine precedenti e si continuerà a farlo fino alla fine del pre77

sente volume; tuttavia, è opportuno dedicare alcune pagine alla ‘leggenda dei Pigmei’ che in effetti ha inizio con Omero. Lo spazio che si vuole dedicare a questo argomento non è giustificato dalla sua importanza etnologica; anzi, si potrebbe dire che non c’entra nulla, che è ‘un’altra storia’ e, infatti, nella maggior parte dei testi etnografici e antropologici se ne fa solo un breve cenno. Nonostante ciò, i Pigmei si chiamano ‘Pigmei’ per il fatto che una favola, di cui si ha testimonianza fin dall’antichità, ha avuto fortuna attraverso i secoli. Questa favola, in un certo senso, non aggiunge nessuna pagina al ‘libro dei Pigmei’, al quale idealmente si sta cercando di dare forma, ma risulterà illuminante per ciò che concerne un altro obiettivo del presente volume: riflettere sulle grandezze e sulle miserie delle tradizioni intellettuali. In effetti, seguendo le argomentazioni proposte dall’antichista Pietro Janni – il cui testo sulla leggenda dei Pigmei è «il più recente e il più documentato» (Bahuchet 1993: 153) – emergono preziose indicazioni e lucide riflessioni che si riconnettono ai temi del primo capitolo rievocando, in una qualche misura, il confronto fra le due statue del Field Museum (quella dei Pigmei di Hoffman e quella neoclassica di Herring). Il punto di partenza di Janni riguarda l’interpretazione dei pochi versi di Omero in cui si accenna ai Pigmei. Il grande cantore dell’epica immaginava sicuramente i Pigmei come piccoli uomini; lo stesso nome rimanda al termine Pygmé che era una unità di misura. Difficile risulta dedurre dove questi Pigmei potessero essere localizzati e quindi l’eventuale effettivo riferimento ai Pigmei ‘reali’ dell’Africa centrale. Nel brano dell’Iliade sopra riportato «non si parla di sud, e ancor meno di Africa, come tanti hanno invece presupposto, in maniera implicita o espressa» (Janni 1978: 20). Omero parla di ‘Oceano’, ma questo non è necessariamente a sud, anzi, nella visione del mondo di Omero, l’Oceano è ovunque, è una sorta di ‘confine del mondo’. Per quale motivo allora questo passo è stato interpretato in epoche a noi vicine come una chiara indicazione geografica? Per Janni, si tratta di un caso paradigmatico della tendenza disastrosa di «proiettare nelle fonti più antiche ciò che si sa dalle più recenti» (Janni 1978: 21). È vero che le gru (citate nel brano insieme ai Pigmei) per fuggire la cattiva stagione avrebbero logicamente fatto rotta verso sud, verso l’Africa, ma come argomenta ancora Janni, nei poemi omerici non c’è traccia della conoscenza che la temperatura è funzione della latitudine. Insomma le nostre categorie, nozioni, con78

cetti non possono essere applicati a Omero e in generale al pensiero della Grecia antica senza rischiare una sorta di etnocentrismo anacronistico che ci fa leggere il passato in funzione dell’oggi. Come si può constatare, ci si trova di fronte a una critica analoga a quella, riportata nel primo capitolo, mossa da Juergen Schulz ai cantori di Michelangelo come maestro del non finito. Tanto per Omero, quanto per Michelangelo, il buon senso invita ad abbracciare un po’ di salutare relativismo per cogliere la loro visione del mondo. Un’inclinazione quasi irresistibile ha fatto trovare in Omero quel che non c’era [...]. Qualche volta un nome, o una qualunque espressione fortunata, sono decisivi nell’influenzare le opinioni correnti: Akka, Obongo etc. furono battezzati ‘Pigmei’ da chi credette almeno per un attimo ad un’identità fra loro e le creature del mito greco; poi l’identità del nome esercitò la potente influenza di cui sono cariche le parole, un’influenza cui tutti soggiacciamo senza accorgercene, e l’onus probandi non toccò più a chi affermava quell’identità, ma all’audace che avesse voluto negarla (Janni 1978: 24).

Audace dimostra di esserlo Pietro Janni che prova a smontare la certezza della connessione fra Pigmei reali e Pigmei della leggenda, mostrando, in primo luogo, come le fonti successive a Omero non aggiungano nulla di nuovo, anzi, se analizzate attentamente, permettono di dubitare del fatto che gli antichi facessero riferimento proprio ai Pigmei reali. È il caso delle Storie di Erodoto in cui si accenna a un gruppo di Namasoni avventuratisi a sud del Sahara (probabilmente nella regione del medio Niger) dove incontrarono uomini piccoli e neri. Erodoto non li chiama Pigmei, come non chiama Pigmei i piccoli uomini che il persiano Sataspe avrebbe incontrato navigando lungo le coste occidentali dell’Africa. Janni (1978: 31), con estrema lucidità, ci invita a riflettere sul fatto che, se Omero parla di Pigmei senza nominare l’Africa ed Erodoto quando parla dell’Africa non fa menzione dei Pigmei, allora non è lecito pensare che le fonti si debbano completare a vicenda e spiegarsi reciprocamente. Se di prima localizzazione si vuole parlare, occorre aspettare il secolo successivo (IV secolo a.C.), quando i Pigmei vengono collocati in India. Una collocazione che si impose a partire da Plinio il Vecchio (il quale, per la verità, localizzò Pigmei un po’ ovunque) e che ebbe particolare fortuna nel Medioevo. 79

Omero ed Erodoto hanno svolto un ruolo cruciale per tutti coloro che nei secoli a noi vicini hanno ritenuto, a quanto pare imprudentemente e con poco rigore metodologico, che i Greci dell’antichità conoscessero i Pigmei reali, ovvero, i gruppi dell’Africa centrale che solo di recente sono stati battezzati Pigmei. Pietro Janni, oltre a riflettere sui passi e sui versi riconducibili a Omero ed Erodoto e contenenti cenni sui Pigmei, riflette su un vuoto significativo. A ben vedere, dopo il riferimento nell’epica omerica e alcune tracce dei nani pigmei in frammenti di Esiodo (VIII secolo a.C.) concernenti popoli favolosi come i mostruosi Macrocefali e i semiferini Hemíkynes, si assiste a una lunga assenza dei Pigmei dai testi della tradizione. I motivi di questa assenza sono denunciati da Wilamowitz nel 1895 e fatti propri da Janni. Vale la pena riportare per intero il brano di quest’ultimo, in quanto significativo di come l’alterità venga accolta nelle alte produzioni culturali, quasi fosse un residuo comico, imbarazzante o semplicemente inutile: Dopo Esiodo la tradizione tace a lungo. È questo il periodo in cui per i Pigmei si compie la sfortunata sorte che Wilamowitz lamentava. La cultura e la poesia greca assumono quei caratteri che renderanno impossibile un accoglimento di temi così poco ‘classici’ come la zuffa tra uccelli e nani, e i Latini vi si conformeranno: quando Virgilio imiterà nell’Eneide la similitudine omerica ci metterà solo le gru senza i Pigmei. Con Omero essi avevano trovato ancora un angolino dove rifugiarsi, una similitudine dove il poeta non aveva disdegnato di evocare una credenza ben nota e forse addirittura popolare fra i suoi ascoltatori. I nuovi generi che sorgono ora, lirica e tragedia, non sanno più cosa fare colla vecchia favola; dal pantheon sempre più scultoreo delle credenze greche, almeno quali si riflettono nella letteratura, il popolo minuscolo è scacciato. I poeti che torneranno a parlare di Pigmei lo faranno cautamente, per lo più servendosene come di richiamo erudito, in tono qualche volta semiserio (Janni 1978: 25-26).

Più ci si eleva e più si fa fatica a riconoscere e ad apprezzare ciò che è altro e ciò che sta sotto (ciò che pare piccolo, ma anche ciò che è popolare) se non in una compassionevole e ingiustificata ironia; la nostra tradizione è maestra in questo. L’aspirante rabbino del racconto di Singer, evocato nel capitolo precedente, si rifugia ‘lassù’ per non trovare fegati, interiora e impurità, un mondo di starnazzi e belati che segna di ironia il tragico racconto ebraico. Shakespeare, per molti, è incommensurabile con tutto ciò che arriva da lontano e la 80

letteratura chicana (messicana), al confronto, un po’ fa tenerezza e un po’ fa sorridere. Si potrebbe concludere la breve rassegna con un’affermazione che, si suppone, abbia fatto riflettere gli antropologi formatisi con la filosofia: Kant non sapeva che farsene di Tahiti (Remotti 1990), così come i poeti della Grecia classica non sapevano che farsene dei Pigmei. Esplorando nella selva delle fonti antiche, più che rintracciare Pigmei reali ci si imbatte nel perdurante atteggiamento mentale della ‘distinzione’ e nella conseguente definizione di ciò che si pensa sia ‘eccellenza’. Questo atteggiamento, con ogni probabilità non esclusivo dell’Occidente, accomuna gli sguardi su Pigmei leggendari e Pigmei reali che per altre vie non avrebbero presumibilmente di che spartire. A riprova di questa distanza, Janni precisa che a rompere il lungo silenzio non è stato di certo un poeta, bensì Ecateo, un logografo del V secolo a.C., ovvero uno scrittore di discorsi e orazioni giudiziarie, un compilatore di cronologie che vedrà in Erodoto il suo più illustre successore. All’autorevolezza di Omero ed Erodoto si aggiunse quella di Aristotele che in un passo famoso della Historia animalium (VIII 12, 597 a) connette Omero con Erodoto e scrive: Le gru migrano dalle pianure della Scizia alle paludi che stanno a monte dell’Egitto, dove il Nilo ha la sua sorgente. Là si dice che esse assalgano i Pigmei: perché questa non è una favola (myˆthos) ma si tratta davvero di una razza di piccola statura, come piccoli (si dice) sono anche i loro cavalli. Fanno vita da trogloditi.

Per Janni non sono sufficienti le parole di Aristotele e la sua autorevolezza per affermare che gli antichi conoscessero i Pigmei. D’altronde, nei secoli successivi continuarono le dispute sulla loro esistenza e sulla loro localizzazione senza poter segnalare nuove e significative informazioni (durante l’Illuminismo si impose persino l’ipotesi di una loro collocazione nordica, in Scandinavia e Groenlandia). Una prova della distanza fra le favole e la realtà è fornita dalla variegata e continua presenza dei Pigmei nell’arte ellenica e romana. Questi non furono quasi mai raffigurati con le fattezze dei neri (ben conosciute dai greci e dai romani) ma solo come uomini del tempo rimpiccioliti. Analogo discorso può essere fatto per le raffigurazioni artistiche egiziane, dove i comici cacciatori di coccodrilli sono cari81

cature di autentici cacciatori nilotici e i Pigmei intenti a banchettare sono la caricatura dei cittadini di Alessandria (Janni 1978: 46)1. La sovrapposizione fra i Pigmei della leggenda e i Pigmei della realtà è solo un’ipotesi fra le tante; questo a dispetto sia della potenza della nominazione (i Pigmei reali ormai si chiamano Pigmei e ciò ha un effetto di ritorno sull’interpretazione della leggenda) sia del lungo e autorevole elenco dei sostenitori di tale sovrapposizione; lungo e autorevole elenco che però dovrebbe essere vagliato con la consapevolezza, presente in Janni, che «le autorità non si sommano quando si limitano a ripetere una dall’altra sempre le stesse congetture» (Janni 1978: 100). Quando, nel 1865, il viaggiatore franco-americano Paul Du Chaillu vide alcuni Pigmei nell’attuale Gabon e soprattutto quando Schweinfurth, cinque anni dopo, vide i Pigmei presso la corte del re mangbetu immortalandoli nel fortunato resoconto del suo viaggio, la leggenda dell’antichità iniziò a essere collocata sullo sfondo non prima di aver fatto esclamare a molti studiosi la veridicità delle fonti antiche. La scoperta dei viaggiatori venne «salutata da molti come l’evento provvidenziale che rendeva giustizia al calunniato sapere degli antichi» (Janni 1978: 117). Omero aveva ragione, questo è il succo delle scoperte ottocentesche in Africa centrale agli occhi di una moltitudine di appassionati e studiosi di antichità, i quali continuarono a citare in modo tendenzioso Erodoto, a far dire a Omero ciò che non ha detto, ad appellarsi all’autorità di Aristotele indipendentemente dal valore delle sue scarne affermazioni sui Pigmei. La macchina della ‘verità di Omero’ si basa su alcuni enunciati infidi: 1) una supposta ‘costante tradizione’, a patto di eliminare la scomoda, ma preponderante nel tempo, tradizione relativa ai Pigmei collocati in India; 2) l’autorevolezza di coloro che fanno affermazioni sui Pigmei, le quali devono essere necessariamente vere in quanto espresse da individui illustri e autorevoli. Il risultato è che gli errori diventano verità solo per il fatto di essere stati ripetuti autorevolmente un’infinità di volte. Se, come afferma John Searle, è disdicevole che importanti enunciati di verità vengano considerati falsi o di scarso valore nel caso siano espressi da individui razzisti, sessisti, fono-fallo-logo-centristi 1 Janni dedica alcune pagine (1978: 103-110) a confutare – o perlomeno a ritenere le fonti in possesso per nulla univoche – l’ipotesi che i Greci avessero conosciuto i Pigmei reali attraverso la mediazione dell’Egitto.

82

(§ 1.2), dovrebbe essere altrettanto scandaloso (spesso non lo è) che gli enunciati falsi o di scarso valore vengano considerati veri o importanti perché espressi da personalità autorevoli, riconducibili alle solide tradizioni intellettuali glorificate nelle nostre accademie e in un’infinità di scritti apologetici. Un esempio su tutti fornito da Janni, per permettere di cogliere lo spirito di questi scritti apologetici, è il volume di Paul Monceaux, La légende des Pygmées et les nains de l’Afrique équatoriale, pubblicato nel 1891: Lo spirito in cui quest’autore scrive è annunciato con chiare parole nel preambolo: si tratta di rivalutare le conoscenze degli antichi sull’interno dell’Africa, ingiustamente sminuite. Quasi tutto sapevano già i Greci: «I nostri viaggiatori e i nostri geografi non fanno altro che riprendere, precisare e completare l’opera dei grandi dotti greci» (Janni 1978: 119).

I Greci per fortuna non sapevano quasi tutto; i Greci sapevano molto poco, così come si sa molto poco all’interno di qualunque società. Per tale motivo, in ogni epoca e a ogni latitudine si incontrano esseri umani che lasciano la propria terra, o desiderano farlo, per avventurarsi fuori, per vedere cosa succede fra gli altri. Erodoto ne è un fulgido esempio, ma se solo avesse pensato che gli antichi, quelli ovviamente più antichi di lui, avevano già saputo quasi tutto, allora probabilmente le Storie non sarebbero state scritte, o perlomeno, non sarebbe valsa la pena scriverle. I viaggi, le scoperte, i lunghi soggiorni sul terreno, hanno permesso di aggiungere molto, di incrementare le conoscenze, di cogliere la pluralità delle forme di vita e delle risposte alle domande che tutti si fanno. Hanno permesso anche di incrementare la consapevolezza di quanto limitato, incompleto e parziale sia l’angolo di mondo da cui si parte. In un certo uso apologetico degli antichi che risuona ancora nei nostri centri del sapere, c’è molta più comicità di quanto si possa rintracciare in un manipolo di nani che lottano con le gru. Così come si prova tenerezza nell’assistere, in ogni epoca, al rimando continuo a radici rassicuranti, a tradizioni salde e costanti. Pietro Janni, dalla prima all’ultima pagina del suo libro, ne fa una questione di metodo e di rigore nell’uso delle fonti; un richiamo doveroso e importante, ma che non deve far scordare un’altra cruciale questione metodologica, cara agli antropologi, che emerge dalla vi83

cenda qui tratteggiata dei ‘Pigmei di Omero’. Schweinfurth segna uno spartiacque nella questione dei Pigmei non tanto per le sue doti intellettuali o per aver fornito descrizioni ineguagliabili sui Pigmei, quanto per ‘essersi recato là’, per averli incontrati. Solo nei primi decenni del Novecento, lo sviluppo del metodo etnografico basato sulla conoscenza diretta, sulla lunga permanenza e sulla profonda immersione nella cultura del luogo, ‘affinerà’ e darà nuovo spessore epistemologico alla dimensione del viaggio, permettendo un reale incremento della conoscenza delle altre società. L’autorevolezza di colui che ‘è stato là’ è un tema che in antropologia ha sviluppato dibattiti e fatto emergere contraddizioni e perplessità. Tuttavia, è difficile pensare di poter riflettere sull’esperienza del lavoro sul terreno ‘solo’ come problema epistemologico interno a una disciplina senza riconoscerne il ruolo, passato e presente, di cruciale spartiacque per il raggiungimento di specifiche conoscenze sui differenti universi di significati in cui sono immersi gli esseri umani nei più disparati angoli di mondo. È profondamente errato pensare che i Greci sapessero già tutto, così come è profondamente errato pensare che noi (moderni, post-moderni, sur-moderni) sappiamo tutto del mondo attraverso la comunicazione, la rete web, la facile e veloce mobilità. L’idea della completezza (di saperi e di informazioni) è una trappola che ci rende immobili e l’immobilità spaziale è il preambolo di una appagata ignoranza del mondo, oggi come nell’antichità. Franz Boas è stato, insieme a Bronislaw Malinowski, l’innovatore dell’antropologia attraverso il metodo etnografico; sorprendentemente è Franz Boas a fornire indicazioni cruciali a Janni per riportare il mito dei Pigmei in lotta con le gru «sul suo autentico sfondo». Lo studioso italiano di letteratura greca dopo aver ricordato che fonti cinesi riportano la leggenda di uomini piccoli in lotta con grandi uccelli, si affida agli studi di Boas sulla mitologia dei nativi americani del Nord-Ovest dove ricompare fedelmente la leggenda dei nani in guerra con grandi uccelli (Janni 1978: 130-132). Una leggenda, quindi, che attraversa tre continenti e che interroga gli esperti di mitologia, gli studiosi di simbologia comparata e coloro che indagano le realtà profonde dell’essere umano2. A questo punto, smarrito ogni 2 Si veda al riguardo il saggio di Rémi Mathieu (1990) in cui si fa riferimento alla curiosità dello stesso Lévi-Strauss (Lévi-Strauss e Eribon 1988: 182) per questo motivo mitologico.

84

possibile ancoraggio etnografico e con la volontà di non smarrire per strada l’argomento centrale di questo volume, è bene interrompere l’excursus nel mito, non prima di aver accennato al fatto che, forse, Boas vide davvero dei Pigmei, non certo in Africa centrale e neppure fra gli Indiani del Nord-Ovest, ma nelle città statunitensi, durante le esibizioni etnografiche di inizio Novecento: tristi ‘zoo umani’, manifestazioni dell’esotico alla moda di cui si parlerà fra poche pagine (§ 3.3), non prima di aver accompagnato idealmente Schweinfurth alla scoperta dei Pigmei. 3.2. I Pigmei di Schweinfurth Come si è già accennato, il passaggio dalla leggenda alla realtà avviene sul suolo africano nella seconda metà dell’Ottocento, quando l’esploratore Schweinfurth ‘battezza’ con il nome ‘Pigmei’, una volta per tutte, i gruppi africani che oggi sono noti con tale appellativo. In realtà, alcune testimonianze dei secoli precedenti fanno ritenere che i Pigmei fossero già stati ‘avvistati’ dagli europei. Nel 1600, il marinaio inglese Andrew Battell trascorse un lungo periodo nell’antico regno del Congo dopo esser stato fatto prigioniero dai portoghesi. Battell incontrò in un luogo imprecisato dell’attuale Angola, piccoli uomini «non più grandi di un bambino di 12 anni» denominati Matimbas e localmente conosciuti come abili cacciatori di elefanti (Bahuchet 1993: 162). Sempre nel secolo XVII, il geografo Olfert Dapper, nella monumentale Description de l’Afrique (1686) accenna all’esistenza nel regno di Lovango di un popolo, gli Jagos, che ottengono le zanne di elefante da piccoli uomini in grado di rendersi invisibili alla vista dei grandi mammiferi (Bahuchet 1993: 162). La sovrapposizione definitiva dei Nani dell’Africa ai Pigmei di Omero si predispone nel Settecento quando l’Abbé Antoine Banier (1729) si esercita a razionalizzare le leggende degli antichi alla luce delle scoperte geografiche del tempo: in quest’ottica, il poeta Omero non avrebbe fatto altro che rimpicciolire eccessivamente popoli poco conosciuti. Come riporta Bahuchet, «così facendo, Banier apre la via agli antropologi del secolo successivo, in primo luogo ad Armand de Quatrefrages [...], i quali discuteranno in dettaglio per mettere in relazione i racconti degli Antichi con le ‘razze’ umane scoperte di recente» (Bahuchet 1993: 162). 85

Benché il 30 giugno del 1865 Paul Du Chaillu incontri gli Obongo del Gabon, egli si limita a definirli ‘nani selvaggi di razza negra’ senza usare il termine ‘pigmeo’. Sarà, come già detto, George Schweinfurth a battezzare, una volta per tutte, i ‘Pigmei’. Questo atto non è soltanto un’attribuzione di nome, ma il riconoscimento esplicito di una tradizione. Il capitolo VI del suo resoconto di viaggio, Nel centro dell’Africa (Schweinfurth 1875), è interamente dedicato ai Pigmei incontrati presso la corte del re mangbetu. Nelle prime pagine, Schweinfurth connette in modo esplicito l’incontro con i Pigmei ai ‘poeti dell’antichità’, primo fra tutti, Omero. Lui stesso si sovrappone a Omero, ‘diventa’ Omero per valorizzare ancor più, agli occhi del lettore, l’incontro con i Pigmei e accrescere stupore e meraviglia al racconto. Il viaggio pigliava il carattere d’un’odissea, e mi appariva come l’illustrazione di un episodio omerico. Il Nilo, che vedevamo di giorno in giorno allargarsi, secondo i miei Nubii, usciva dall’Oceano che circonda l’Africa, e ci conduceva nel paese dove, al pari delle gru, avremmo dei nani da combattere (Schweinfurth 1875: 99).

L’attesa dell’incontro è scandita dagli incessanti racconti dei nubiani della spedizione che, durante le lunghe serate, ingannavano il tempo non tanto narrando le storie favolose delle Mille e una notte, ma storie di popoli nani dell’Africa centrale. Il resoconto di Schweinfurth trovava spazio, autorevolezza e dignità fra i racconti dei nubiani e il racconto di Omero. Il botanico ed esploratore tedesco era consapevole che il brano dell’Iliade inerente i Pigmei e le gru rappresentasse il punto di partenza di una tradizione che lui stesso aveva ora l’opportunità e il privilegio di consolidare e confermare: «Non soltanto i poeti classici: storici sobrii e geografi esatti hanno adottata la sostanza della tradizione poetica, ovvero si sforzarono, con ogni genere di congetture, di confermare l’esattezza» (Schweinfurth 1875: 100). Giunto alla corte di Munza, re dei Mangbetu, Schweinfurth chiese con insistenza di poter vedere «i minuscoli personaggi» di cui molti parlavano e solo dopo parecchi giorni la sua curiosità venne soddisfatta. Un mattino odo delle esclamazioni; m’informo, e mi dicono che Abd-es-Sâmate s’è impadronito d’un nano del seguito di Munza, per por86

tarlo a me: e vedo infatti entrar Sâmate con sulle spalle una strana creaturina, la cui testa si agita convulsamente e getta intorno delle occhiate piene di spavento. Il Kenusino depone il pigmeo sul seggio d’onore e l’interprete reale gli si colloca a fianco. Ho così finalmente sotto gli occhi un’incarnazione viva di questo mito che risale a parecchie migliaia d’anni fa (Schweinfurth 1875: 103).

Schweinfurth fu entusiasta dell’incontro e «con ardore facile a comprendere» per prima cosa ne fece un ritratto per poi investirlo con un’infinità di domande. La fretta di risolvere in un istante un dilemma lungo migliaia di anni traspare dal compiacimento dovuto al fatto che «in un paio d’ore il pigmeo è schizzato, misurato, festeggiato, e sottoposto a un minuzioso interrogatorio» (Schweinfurth 1875: 103). Benché la realtà stesse soppiantando il mito, l’esploratore tedesco non sembra disposto a volersene sbarazzare del tutto. Infatti, constatata la grande agilità del pigmeo nella danza, egli si domanda se le gru avessero mai potuto lottare contro tali individui. Nei giorni successivi, il desiderio di Schweinfurth nel vedere altri ‘esemplari’ pigmei venne soddisfatto. Benché non fosse riuscito a organizzare alcuna visita agli accampamenti dei Pigmei collocati in foresta e la permanenza fra i Mangbetu fosse troppo breve per approfondirne lo studio, Schweinfurth si ritenne fortunato nel poter osservare per lungo tempo un individuo pigmeo regalatogli dal re Munza in cambio di un cane. Nseviù, questo era il suo nome, lo seguì per diciotto mesi finché morì per dissenteria; a Khartum lo vestì come un ‘piccolo pascià’ e molti lo pensarono figlio dell’esploratore. Lo studio «attento e costante» di Nseviù si concretizzò essenzialmente nell’analisi delle sue caratteristiche fisiche e in un confronto con i dati fino ad allora pervenuti sui Boscimani dell’Africa australe. L’altezza era la variabile più importante al fine di decretarne l’autenticità come reperto di una specifica forma di umanità. Su questa base, molti Pigmei che si presentarono al cospetto di Schweinfurth ospite del re Munza vennero esclusi dall’osservazione a causa della loro statura troppo alta rispetto allo standard adottato dall’osservatore (1,50 m). È curioso che alcuni decenni dopo (1892) l’antropologo tedesco Helmuth Panckow propose di riservare il nome ‘pigmeo’ ai soli gruppi dotati di una altezza media non superiore a 1,50 m. (Bahuchet 1993: 165). L’interesse ossessivo per i dati antropometrici determinava lo sguardo degli studiosi del tempo e lo stesso Schweinfurth aveva fra 87

i suoi compiti quello di riportare in Europa non solo i dati delle misurazioni, ma reperti scheletrici fra i quali il cranio deteneva uno status particolare. Schweinfurth non si fece scrupolo nel richiedere ai Mangbetu i crani umani, possibilmente interi, in cambio di rame e non si fece alcuno scrupolo nel commentare la scarsa sensibilità del ‘suo pigmeo’ di fronte alle teste decapitate dei caduti durante gli scontri fra la carovana e le popolazioni locali. Nella guerra che ci fecero i Niam-Niam, mentre i miei Nubii erano quasi tutti fuori di sé dallo sbigottimento, egli giocava colle teste degli ABanga decapitati; e quando mi vide farle bollire per averne i cranii, la sua gioia non ebbe limiti (Schweinfurth 1875: 112).

Schweinfurth era un diligente raccoglitore di crani al servizio della scienza: se ne fece procurare dai Mangbetu e, durante il viaggio, lui stesso fece bollire le teste dei decapitati in battaglia per ricavarne crani puliti e pronti all’osservazione. Ciò che ne dedusse, senza fornire prove, fu che i crani ottenuti dai Mangbetu fossero i resti dei loro pasti cannibaleschi (Schweinfurth 1875: 56) e che il ‘suo pigmeo’ dimostrasse una particolare crudeltà nel giocare con le teste decapitate. Chissà cosa pensarono Mangbetu, Niam-Niam (Azande) e Pigmei nell’osservare il grande esploratore tedesco intento a far bollire le teste dei nemici uccisi e di tanto in tanto mescolare lo stufato per controllarne lo stato di cottura. L’esploratore tedesco avrebbe voluto condurre in Europa il ‘suo pigmeo’, ma Nseviù morì lungo il tragitto. Tuttavia, non dovettero passare molti anni affinché gli sguardi di europei e nord-americani potessero nutrirsi dell’esibizione di individui pigmei appositamente portati dall’Africa. Alcune di queste vicende, non meno assurde dello stufato di teste di Schweinfurth, verranno analizzate nel prossimo paragrafo. 3.3. I Pigmei di Verner, Harrison e Miani Fra Otto e Novecento ebbero grande fortuna, in Europa e in Nord America, le esposizioni universali. Queste imponenti manifestazioni erano note negli Stati Uniti come World’s Fairs, in Gran Bretagna come Great Exhibitions e in Francia come Expositions Universelles. Nel 88

1904 la città di St. Louis ospitò le Olimpiadi moderne e una importante World’s Fair dove un gruppo di Pigmei venne fatto esibire. Franz Boas, probabilmente, assistette alla loro ‘esposizione’. Tuttavia, a St. Louis Boas non ebbe quel ruolo riconosciuto di consulente etnografico che rivestì alla World’s Fair di Chicago del 1893. Alla fiera di St. Louis, l’antropologia venne pensata come strumento centrale e principale per mostrare i benefici del progresso e la superiorità della cultura dei Sassoni. Per tale motivo, probabilmente, gli organizzatori preferirono nominare come direttore e responsabile di tutto il ‘carrozzone pseudo-etnografico’, l’antropologo William McGee, aderente all’impostazione evoluzionistica di Morgan e lontano da quel relativismo di Boas che segnò in buona parte la via dell’antropologia moderna statunitense ma che, evidentemente, non rappresentava il principale paradigma della disciplina a inizio Novecento (Troutman e Parezo 1998). Benché qualcuno riferisca di una ‘attenta considerazione’ della fiera di St. Louis da parte di Boas (Bradford e Blume 1993, Baker 1994), occorre essere prudenti nel sovrapporre la passione di Boas per le ricostruzioni museali delle scene di vita a un improbabile entusiasmo dello stesso per l’impostazione evoluzionistica delle esibizioni etnografiche organizzate da McGee alla fiera di St. Louis. Al di là del ruolo di Boas, ciò che interessa nel contesto di queste pagine è che un manipolo di Pigmei3 partecipò alla fiera di St. Louis e la sua esibizione rappresentò una delle principali attrazioni dell’evento. A condurre i Pigmei dalla regione del Kasai (nell’attuale Repubblica Democratica del Congo) fino in Louisiana fu un missionario ed esploratore alquanto bizzarro, Samuel Phillips Verner, la cui vita – strettamente annodata per molti anni al destino di un pigmeo che decise di rimanere negli Stati Uniti dopo la fiera – è stata narrata dal nipote, Phillips Verner Bradford, in un volume il cui titolo non passa inosservato: Ota Benga. The Pygmy in the Zoo. Il libro narra la storia di Verner e di Ota Benga, «il primo africano della foresta a risiedere negli Stati Uniti d’America» (Bradford e Blume 1993: 17)4. Utilizzando uno stile accattivante, gli autori concedono molto sul piano narrativo e non sempre è possibile scindere la ricostruzione storica dalla fantasia del romanzo. D’altronde, su 3

I Pigmei esposti a St. Louis non erano probabilmente tutti Pigmei. Del volume di Bradford e Blume si è potuto consultare la traduzione francese pubblicata nel 1993. 4

89

Ota Benga e gli altri Pigmei della fiera di St. Louis non si dispongono di molte altre fonti, fra queste, gli articoli riportati sui giornali d’epoca, parecchi di essi contenuti nell’Appendice al volume. Gli occidentali che hanno incontrato i Pigmei d’Africa li hanno quasi sempre descritti come cacciatori [...]. Con Ota Benga la situazione è capovolta. Sembra che, nel caso specifico di questo libro, gli autori, siano i cacciatori e la storia della sua vita la preda (Bradford e Blume 1993: 19).

Fin dalle prime pagine dell’Introduzione, il racconto conferma, nei termini della strategia narrativa, la parabola dei Pigmei, prima cacciatori e successivamente trattati come prede. In effetti Samuel Phillips Verner, pastore presbiteriano appartenente a una famiglia schiavista, dopo aver trascorso alcuni anni fra i Bakuba del Kasai in qualità di missionario, rientra negli Stati Uniti e poco dopo fa di tutto per entrare in affari con McGee e proporsi quale agente speciale per il procacciamento di Pigmei da esibire alla fiera di St. Louis. La sua esperienza pregressa in Congo e l’esigenza irrinunciabile degli organizzatori di assoldare alcuni ‘esemplari’ appartenenti a una delle forme più bizzarre e primitive di umanità (i Pigmei, appunto) convincono McGee ad affidare a Verner il mandato di andare a recuperare urgentemente Pigmei in Congo e portarli alla fiera. Verner, dopo vicissitudini e difficoltà, riesce ad assoldare un manipolo di Pigmei Batwa insediati nella foresta circostante il regno kuba, i quali verranno portati negli Stati Uniti insieme a un altro pigmeo (Ota Benga) comprato dal missionario in un mercato di schiavi per un po’ di sale e tessuto (Bradford e Blume 1993: 138). I Pigmei diventarono presto i beniamini del pubblico e per buona pace degli organizzatori si dimostrarono abbastanza ‘docili’ e ‘mansueti’. Per esempio, diedero molti meno problemi rispetto a un manipolo di Zulu chiamati per mettere in scena una rievocazione storica della guerra anglo-boera; questi ultimi, appena seppero che nessuno li avrebbe pagati, tentarono di ribellarsi; alcuni di loro fuggirono confondendosi fra gli afroamericani e non furono mai più ritrovati (Bradford e Blume 1993: 151). I Pigmei non incutevano neppure il timore che molti provarono di fronte a un illustre ospite della fiera, il capo Geronimo, esposto come prigioniero di guerra, emblematico campione di malvagità e ridicolizzato al pari di un animale da circo. In una valutazione che rimanda maggiormente a un giar90

dino zoologico o per l’appunto a un circo, Verner sottolinea come i Pigmei si siano comportati quasi sempre in modo corretto nei giorni della fiera, eccetto quando malmenarono un fotografo perché scattò foto senza pagare. Ancora più sorprendente è leggere sul «Saint Louis Post Dispatch» del 26 giugno 1904 una valutazione che, al di là dell’apparente benevolenza, è intrisa di un affetto degno di animali domestici: «essi [i Pigmei] sono intelligenti, calorosi, eloquenti e hanno il senso della condivisione [...]. Se catturati giovani, se ne fanno eccellenti servitori»5. Nella cornice ideologica della fiera, i Pigmei evocavano l’idea dell’anello mancante dell’evoluzione, la fase intermedia fra le grandi scimmie e l’essere umano. La macchina del tempo rappresentata dall’esplorazione ottocentesca, che alimentava e perfezionava l’immagine di ‘selvaggi’ e ‘primitivi’ ritenuti attardati su livelli evolutivi inferiori, veniva approntata all’interno delle città moderne attraverso ogni sorta di ‘zoo umani’ (Lemaire et al. 2003). Molti visitatori della fiera di St. Louis nutrirono, con ingenua crudeltà, dubbi sulla natura umana dei Pigmei. Questi dubbi erano destinati ad accrescersi ogni qual volta Ota Benga apriva la bocca per mostrare i suoi denti volutamente scheggiati in modo che potessero sembrare tutti canini (modificazione in uso presso alcune popolazioni dell’Africa e delle Americhe). Ota Benga non tardò a capitalizzare i suoi denti mostrandoli ai visitatori dietro il pagamento di cinque cents. Questa triste modalità di ‘consumo’ dell’altro, e in particolare dei Pigmei, non si esauriva nella ingenua crudeltà di una folla confusa di visitatori (alcuni di essi si distinsero anche per angherie meno ingenue nei confronti dei ‘selvaggi esposti’), ma caratterizzava lo sguardo competente di antropologi fisici dell’epoca, dotati di ogni sorta di strumento di misurazione e pronti a classificare le varie forme di umanità secondo indici, valori e proporzioni corporee. I Pigmei di St. Louis, oltre a essere esibiti, vennero sottoposti ad accurate indagini antropometriche e prove fisico-attitudinali nel quadro di una penosa Olimpiade dei selvaggi denominata ‘Antropological Days’, manifestazione organizzata da William McGee, primo presidente della American Anthropological Association. La rifondazione dell’antropologia statunitense operata in quegli anni da Franz 5

Riportato in Appendice al testo di Bradford e Blume (1993: 293).

91

Boas sarebbe appunto servita a spazzare il campo da improvvisati studiosi dell’uomo, come lo stesso McGee, le cui idee cavalcavano un rozzo e schematico evoluzionismo teso a dimostrare l’inferiorità dei ‘selvaggi’ e la superiorità dell’uomo bianco (Harris 1971: 341-349). Come si è già accennato, la vicenda sul suolo americano di Ota Benga non si esaurisce con la World’s Fair del 1904. Il pigmeo venne dapprima ospitato nello Zoo del Bronx e più precisamente nella gabbia delle scimmie in compagnia di un orango con il quale si esibiva (Blume 1999). Successivamente, per l’intervento di alcuni paladini dei diritti umani, che deploravano l’ambiguo accostamento e le condizioni di vita psicologiche e materiali del malcapitato, e per l’intervento delle autorità religiose (pastori battisti) che condannavano un tale spettacolo darwinista in un paese che si dice cristiano, Ota Benga venne trasferito in un orfanotrofio e successivamente a Lynchburg, dove nel 1916 si suicidò6. Il caso di Ota Benga e dei suoi ‘colleghi’ Batwa non è la sola storia conosciuta di Pigmei esibiti in Occidente all’inizio del Novecento. Negli anni successivi alla fiera di St. Louis, in Gran Bretagna, era possibile assistere a uno spettacolo in cui venivano fatti esibire sei Pigmei del Congo (Green 1999). Ancora una volta il binomio cacciatore-preda permette di cogliere il senso dell’evento. A condurre i Pigmei in Gran Bretagna fu James Jonathan Harrison, militare di carriera e grande appassionato di caccia grossa. Harrison, attratto in Congo dalla recente scoperta di uno strano giraffide di foresta dotato di zampe posteriori zebrate (l’okapi), incontrò nel marzo del 1904 il «suo primo pigmeo» (Green 1999: 158) e da subito sognò di poter far vedere ‘dal vivo’ ai suoi connazionali ciò che era ormai entrato nell’immaginario europeo e nord-americano attraver6 «The New York Times» del 1° dicembre 2007 riporta la notizia della significativa visita effettuata poche settimane prima a Lynchburg da parte di un attivista pigmeo, Mr. Lonoa. Durante i tre giorni di incontri e conferenze Mr. Lonoa, accompagnato da altri Pigmei congolesi, ha presentato le problematiche attuali dei gruppi pigmei del Congo e il loro desiderio di lottare per l’ottenimento di diritti (§ 5.4). Gli studenti e gli abitanti di Lynchburg vollero in tal modo rendere onore alla memoria del loro sfortunato ‘concittadino’ Ota Benga (Keller 2007). Questo episodio ‘riparatore’ non relega completamente nel passato l’esperienza di Ota Benga. Nel 2002, in Belgio, otto Pigmei Baka furono ‘esposti’ in un parco faunistico sulle rive della Mosa e nel 2007 un altro gruppo di Baka fu ospitato, in occasione di un festival di musica, nello zoo di Brazzaville. Entrambi gli episodi sollevarono ovviamente polemiche e discussioni.

92

so la lettura di resoconti di viaggio e di testi contenenti riferimenti ai favolosi Pigmei. Harrison, in una inedita ‘caccia grossa’, riuscì nel suo intento di condurre una delegazione di sei ‘volontari’ (a detta di Harrison) del ‘piccolo popolo’ al fine di farli esibire in Europa. I sei Pigmei vennero istruiti affinché potessero rappresentare una scena stereotipata del loro mondo: ad alcuni venne chiesto di esibirsi armati di frecce e lance, altri dovettero danzare al suono del tamburo. Lo spettacolo era una strepitosa macchina del tempo che permetteva di avere un’esperienza diretta di ciò che dovette essere l’alba dell’umanità. La piccola statura degli ‘artisti’ rimandava all’infanzia del genere umano e all’infanzia intesa come età evolutiva in quanto spesso il pubblico percepiva il tutto come una recita di scolaretti. I sei Pigmei che si esibirono in alcune città della Gran Bretagna e in Germania, ebbero l’opportunità di visitare il Parlamento di Westminster e furono voluti a Buckingham Palace in occasione della festa di compleanno della Principessa Vittoria. In molte occasioni furono chiamati a esibirsi nelle residenze di numerosi aristocratici britannici. Il consumo bulimico cui accenna Frankland iniziò a delinearsi nel ritmo delle esibizioni, nella produzione di souvenir che potessero ricordare l’evento (foto ufficiali, registrazioni musicali, filmati e quant’altro) e confermare l’immaginario che già si possedeva su tali gruppi. Nel 1908 i sei Pigmei fecero ritorno nella foresta dell’Ituri lasciando un ricordo duraturo in coloro che assistettero alle esibizioni. La vicenda dei Pigmei di Harrison, comparata alla vicenda dei Pigmei di Verner, consente di riflettere sui rischi di una facile generalizzazione del fenomeno delle esibizioni etnografiche. Le due storie sono molto differenti; il contesto socio-culturale della Londra di inizio secolo differisce da quello di St. Louis; i risvolti morali delle vicende assumono sfumature diverse nei due casi. Nonostante ciò, non è difficile constatare come i Pigmei vengano percepiti in entrambi i casi come una ‘categoria dell’alterità’ buona da pensare e da esibire. I Pigmei esibiti sono la conferma tangibile e gratificante dei propri immaginari, siano essi quelli della superiorità della razza bianca, oppure quelli di una primitività estrema ambiguamente sospesa fra il mondo degli umani e quello degli animali. Ciò che colpisce nelle ricostruzioni di questi eventi è il ‘silenzio assordante’ dei Pigmei. Essendo ridotti a una ‘categoria dell’alterità’ piuttosto che percepiti come persone e gruppi di persone, essi risultano soggetti 93

a uno sguardo ‘categorico’ e quindi indifferente a cogliere la diversità e la complessità di quello che si sta osservando. Il Novecento, che si apre con queste esibizioni negli Stati Uniti e in Europa, sarà il secolo delle indagini etnografiche condotte anche presso i gruppi pigmei. In molte occasioni, la ricerca etnografica sul terreno rappresenta il momento in cui l’osservatore esterno vede frantumarsi le categorie che fino a poco prima riteneva solide e indistruttibili. I Pigmei, intesi come ‘categoria dell’alterità’, subiranno, negli ultimi decenni del Novecento, una analoga sorte non tanto perché viene meno la denominazione o il referente ontologico (in questo caso, antropologico) della denominazione, quanto perché l’universo dei Pigmei scandagliato dall’etnografia, ovvero da un metodo di indagine incentrato sulla lunga permanenza e sulla profonda conoscenza dell’altro, si mostrerà irriducibilmente ricco, complesso e variegato. Per raggiungere questa consapevolezza è stato necessario vivere con i Pigmei, parlare con loro e con i loro vicini, registrare ciò che essi avevano da dire, tutto questo in periodi di ricerca sul terreno tendenzialmente lunghi. Ciò può apparire ad alcuni, non a torto, semplicistico e ad altri ovvio; tuttavia è sempre bene ricordarlo e specificarlo, giacché i Pigmei hanno rischiato e rischiano ripetutamente di restare in silenzio, come è successo e ancora succede nell’ambito di specifici sguardi competenti della scienza. Questa tendenza a fornire ‘rappresentazioni adeguate’ e scientifiche dell’altro senza provare l’esigenza di ascoltarlo, in modo tale da far tesoro del suo raccontarsi, emerge in tutta evidenza già in occasione del primo viaggio documentato di Pigmei in Europa. Nel 1874, giunti dal Congo attraverso l’Egitto, arrivarono al porto di Napoli due ragazzi pigmei di 8 e 12 anni, lasciati in eredità alla Società Geografica Italiana da Giovanni Miani, esploratore di Rovigo deceduto nella terra dei Mangbetu. ‘I Pigmei del Miani’, alla cui vicenda l’antropologa Sandra Puccini ha dedicato un approfondito saggio7, viaggiarono attraverso l’Italia prima di trovare la loro definitiva sistemazione a Verona nella dimora del Conte Miniscalchi. Durante il viaggio, i due particolari ‘reperti’, furono osservati, misurati, analizzati e 7 Il saggio, apparso con il titolo Gli Akka del Miani. Una storia etnologica nell’Italia di fine secolo (1872-1883), è stato pubblicato in due parti nella rivista «L’Uomo», VIII, 1984, 1, pp. 29-58; 2, pp. 197-217. Successivamente è stato ripubblicato in Puccini 1999: 75-116.

94

classificati da importanti scienziati e studiosi del periodo; infine, come si confà alle rarità da museo difficilmente collocabili ed esponibili, vennero dimenticati (Puccini 1999: 76). Tralasciando i particolari dell’intera vicenda, è opportuno riprendere, in queste pagine, alcune riflessioni di Puccini sulle modalità di osservazione adottate da scienziati e studiosi di fronte ai due ragazzi pigmei definiti come appartenenti al gruppo ‘akka’. Le prime annotazioni scientifiche su di essi sono compiute dal viaggiatore-naturalista inglese Owen, dal medico e antropologo dilettante Panceri, dal medico lombardo Paolo Mantegazza e dal direttore del Museo di storia naturale di Milano, il naturalista Emilio Cornalia. Queste annotazioni sono essenzialmente incentrate sui caratteri razziali dei due Akka. Le descrizioni sono in certi casi minuziose e riportano un’attenta indagine sui corpi: dentizione, peluria, presenza dei testicoli nello scroto, angolo cefalico ecc. Gli interrogativi scientifici che si pongono questi ‘osservatori dell’essere umano’ riguardano l’autenticità del reperto (i due ragazzi pigmei sono autentici Pigmei?), la loro età e la loro collocazione lungo la scala evolutiva (sono uomini o scimmie?). Analoghe domande si pongono coloro che avranno l’opportunità di analizzarli e misurarli durante la loro permanenza a Roma – dove sono visitati da Orazio Antinori e Giovanni Beltrame – e a Firenze, dove sono soggetti a ulteriori analisi da parte di Enrico Giglioli, Paolo Mantegazza e Arturo Zannetti. L’eco della loro presenza in Italia ravviva il dibattito sui Pigmei fra gli scienziati di altri paesi europei: ne parlano alla Società Geografica di Parigi e alla Società Antropologica di Madrid. Lo stesso Georg Schweinfurth, di passaggio in Italia, ha l’opportunità di far visita a Tibò e Chairallà (i nomi affibbiati dallo stesso Miani ai ‘suoi’ due ragazzi pigmei). Il dibattito degli studiosi si incentra anche su un ulteriore tema di discussione: la loro definitiva sistemazione. Cornalia auspica che i due Pigmei vengano alloggiati in Sicilia, Panceri propone Napoli, «a nessuno verrà in mente di lasciarli in Africa o, magari, di riportarli nelle native foreste: schiavi erano alla corte di re Munza [capo mangbetu] e schiavi rimangono ora, sia pure nelle forme di un lascito testamentario» (Puccini 1999: 82). Alle accurate rappresentazioni razziali degli ‘Akka del Miani’ si affiancano ipotetiche affermazioni sul carattere, l’intelligenza, il comportamento. Cornalia li trova silenziosi e indifferenti all’ambien95

te circostante: «invano cercai di far brillare un sorriso sul loro volto atteggiato a mestizia, mista a certa tal quale stupidità» (citato in Puccini 1999: 81). Mantegazza e il suo collaboratore Zannetti esprimono giudizi sui ‘caratteri morali’ dominanti: i due ragazzi sarebbero ostinati fino all’impossibile e, se si insiste, «metteranno al servizio della loro ostinazione tutte le loro forze muscolari [...] e voi avrete dinanzi una bestia umana e non più un fanciullo ragionevole [...]. Persuadere quelle bestiole a volerci obbedire... tutto era inutile»8. Forse anche i cantori fondamentalisti della tradizione razionalista occidentale, proverebbero disappunto nell’assistere a questi attenti studiosi così abili a mostrare una ‘rappresentazione accurata della realtà’, a concentrarsi su ‘ciò che si deve studiare’, senza concedersi il dubbio di quanto siano inquietanti le modalità con cui si è approntato lo scenario dell’osservazione. Bambini comprati come schiavi, sradicati dalle loro abitudini, dagli affetti, dagli orizzonti conosciuti e allontanati dalla loro terra; messi a contatto con visi ignoti – anche se spesso pietosi ed interessati – con oggetti nuovi e misteriosi; ‘palpati’, interrogati in lingue incomprensibili; infine caricati su un piroscafo, nuovamente frastornati dalla curiosità della gente, dei fotografi, degli antropologi – come se non fossero abbastanza sconvolgenti i panorami nuovi, la vista delle città, gli spostamenti in treno. Come è possibile non stupirsi del fatto che due ragazzini di 8 e 12 anni circa [...] riescano ancora a giocare, a sorridere, a comunicare con gesti, ad apparire ‘umani’? (Puccini 1999: 86-87)

Continuando a riflettere sulle modalità di osservazione, sarebbe un esercizio di facile e sterile ironia insistere sulla fallacia del paradigma razziologico ottocentesco che fa da sfondo alle annotazioni scientifiche fin qui riportate, o ancora sul fatto che l’insigne direttore del Museo di storia naturale milanese, Cornalia, non avesse avuto di meglio da osservare che la posizione del testicolo sinistro di Chairallà, non ancora sceso nello scroto. Risulta più interessante, invece, notare come la minuziosa e insistente osservazione esterna della conformazione fisica, delle espressioni somatiche e dei tratti del volto dei due Pigmei mettano in luce come l’antropometria e la fisio8 Mantegazza, Zannetti, I due Akka del Miani, in «Archivio per l’Antropologia e l’Etnografia» 1874, IV, p. 155, citato in Puccini 1999: 93-94.

96

gnomica suppliscano una duplice assenza: l’ignoranza della lingua e la brevità dell’osservazione (Puccini 1999: 88). Queste due componenti (conoscenza della lingua e lunga permanenza sul terreno), così preziose per il metodo etnografico che si andrà affermando in seguito nello studio dell’uomo, permettono di mettersi in ascolto dei Pigmei, dischiudere frammenti del loro mondo e delle loro vite, evitare che il silenzio di chi è osservato perduri nel tempo. Nel capitolo successivo si vedrà come il rischio del silenzio si annidi anche nelle recenti indagini di genetica delle popolazioni: indagini che forniscono una rappresentazione adeguata, scientifica e misurabile della realtà, ma che smarriscono per strada la ricchezza, la complessità e la pluralità delle forme di vita che il metodo etnografico può fornire. Diversamente da come alcuni vorrebbero sostenere, il riduzionismo genetico delle forme di vita non dà conto della cultura, se non in minima parte e all’interno di una visione estremamente semplificata della realtà sociale.

IV

I geni dei Pigmei e la genialità della cultura

4.1. La genialità del genetista Nelle pagine precedenti si è potuto constatare come l’interesse nei confronti dei Pigmei sia cresciuto tra Otto e Novecento nel quadro del paradigma evoluzionista. Per molti studiosi del tempo, i Pigmei rappresentavano preziosi ‘reperti’ – da misurare, da studiare e da esporre – di una ipotetica ‘alba dell’uomo’; il presunto punto di partenza di un glorioso progresso della nostra specie il cui esito veniva fatto coincidere, non a caso, con l’Europa moderna e industrializzata. Il ‘pigmeo’, diverso nella conformazione fisica e nello stile di vita, era in effetti molto ‘buono da pensare’ come anello mancante del percorso di ominazione. Se nel corso del Novecento gli studi paleoantropologici hanno definitivamente sconnesso i Pigmei dal loro ruolo di ‘fossili viventi’ e affinato la datazione e lo studio dei veri resti fossili di ominidi, le ricerche sulla preistoria hanno confermato l’idea di una evoluzione umana che ha portato la maggior parte delle società ad abbandonare le attività acquisitive di caccia e raccolta a favore di attività trasformative di domesticazione di piante e animali. Di conseguenza, gli attuali gruppi di cacciatori-raccoglitori (come i Pigmei) hanno continuato e continuano a evocare un passato ‘primordiale’ almeno per ciò che concerne l’acquisizione delle risorse. Molti antropologi culturali hanno orientato le proprie indagini verso queste e altre tematiche ‘evolutive’ alimentando importanti dibattiti di cui si darà conto in seguito. L’emergere di ipotesi e di teorie evolutive all’interno della moderna antropologia culturale non è in contraddizione con la convinta presa di distanza dal paradigma ottocentesco dell’evoluzionismo unilineare. In base a tale paradigma, ogni singola società umana è inquadrabile all’interno di uno spe98

cifico grado di sviluppo di un’unica scala evolutiva che coinvolge tutti gli aspetti della cultura e che tutte le società devono percorrere. L’abbandono di tale prospettiva non ha nessuna implicazione sulla validità di puntuali e circostanziate analisi della tecnologia e del contesto ecologico che possono suggerire ipotesi e teorie evolutive inerenti a specifici aspetti della cultura senza necessariamente ispirare graduatorie di selvatichezza alla quale inchiodare l’intera produzione culturale di ogni singola società. Questa chiara presa di posizione contro l’evoluzionismo unilineare ha sicuramente incrementato la diffidenza degli antropologi culturali verso teorie o prospettive che prefigurino comparazioni fra società differenti sulla base del loro presunto maggiore o minore sviluppo, ma non per questo gli antropologi si sono congedati dal metodo comparativo e tanto meno dal voler riflettere sul tema dell’evoluzione. Quando il noto genetista Luigi Luca Cavalli Sforza afferma che «il termine ‘evoluzione culturale’ è stato persino proibito in antropologia culturale» (2008: 10) dimentica, per esempio, la lunga fase del neoevoluzionismo statunitense e in particolare un autore come Julian Steward che, a più riprese, si affida esplicitamente al concetto di ‘evoluzione culturale’ (Steward 1977) o, ancora, Tim Ingold (2001) che, come antropologo culturale, colloca il tema dell’evoluzione al centro delle sue raffinate teorie, in cui connette la storia umana e l’evoluzione biologica. L’attenzione che hanno riservato Cavalli Sforza e altri genetisti al tema dell’evoluzione e i loro importanti contributi allo studio genetico dei Pigmei meritano di essere illustrati in questo quarto capitolo dove sarà possibile, ancora una volta, intrecciare le indagini sui Pigmei con le grandezze e le miserie delle tradizioni intellettuali. È opportuno, a questo punto, fornire alcune informazioni sul ruolo della genetica nello studio dell’evoluzione. Le differenze fra gli esseri umani possono essere genetiche (di origine biologica) oppure culturali (dovute all’apprendimento). Sia le informazioni interne (biologiche, genetiche) sia le informazioni esterne (sociali, culturali) sono trasmesse da una generazione all’altra. La genetica è la scienza deputata allo studio dell’ereditarietà dell’informazione biologica. Nel corso del Novecento, essa è diventata una delle discipline centrali della biologia: all’inizio del secolo vennero rivalutate le leggi di Mendel (1865) sulla trasmissione dei caratteri ereditari; agli anni Cinquanta risalgono le scoperte di Watson e Crick sulla struttura a 99

doppia elica del DNA; più recentemente (anni Novanta), con il Progetto Genoma Umano, si è ottenuta la sequenza quasi completa del genoma dell’uomo (Hartwell et al. 2004). Il patrimonio genetico è una faccenda privata, in quanto il corredo ereditario di ogni individuo attinge da entrambi i corredi ereditari dei propri genitori ricombinandosi in modo inedito. Nonostante ciò, il patrimonio genetico è anche una questione collettiva in quanto, all’interno delle singole popolazioni, si assiste a una parziale omogeneità di alcuni tratti geneticamente trasmessi. In alcuni casi questa omogeneità interna a una popolazione è visibile (per esempio il colore della pelle), mentre in altri non è percepibile se non con esami specifici (per esempio, il gruppo sanguigno ‘0’ è quello prevalente presso i nativi americani). Sarà proprio lo studio del polimorfismo genetico che determina il sistema dei gruppi sanguigni (A, B, AB, 0) messo in relazione con l’appartenenza a specifici gruppi etnici, a inaugurare l’antropologia genetica nei primi decenni del Novecento (Cavalli Sforza 1996: 35). Lo sviluppo di specifiche ricerche di antropologia genetica prende spunto da alcuni presupposti molto importanti: a) numerose differenze genetiche sono determinate da mutazioni che avvengono in archi temporali molto ampi; b) il meccanismo della deriva genetica garantisce una tendenza alla omogeneità genetica all’interno di popolazioni numerose; c) la distanza genetica fra popolazioni è calcolabile. Sulla base di tali presupposti, Cavalli Sforza ha utilizzato modelli matematici e statistici in grado di mettere in relazione la dimensione temporale con la distanza genetica fra popolazioni differenti, la quale aumenta regolarmente con l’aumentare del tempo di separazione fra le stesse. In tal modo le informazioni genetiche sono state utilizzate come strumento storico atto a collocare nel tempo le separazioni e i rimescolamenti fra i gruppi (migrazioni). Questi studi sull’evoluzione genetica permettono di fare luce sulle modalità e le fasi di popolamento del pianeta corroborando e arricchendo le informazioni che giungono dalla datazione dei reperti fossili (Biondi e Rickards 2001). Il metodo è a dir poco geniale e i risultati ottenuti sono importanti. Se per alcune aree del pianeta le molecole si affiancano ai fossili nel difficile compito di ricostruire popolamenti e migrazioni, per quanto riguarda la foresta equatoriale africana la genetica delle popolazioni rappresenta a oggi l’unico metodo per tali indagini. Ciò è 100

dovuto al fatto che i suoli acidi dell’Africa centrale sciolgono il fosfato di calcio (principale componente delle ossa) e quindi non permettono la conservazione di resti fossili. Per quanto riguarda i Pigmei, si registra una duplice mancanza: mancano resti fossili di Pigmei nell’Africa centrale che permetterebbero lo studio della loro distribuzione geografica nel tempo e mancano (non sono stati trovati) resti fossili di Pigmei nei suoli asciutti del continente, indizio questo di una loro localizzazione a lungo termine all’interno della foresta. Nella ricostruzione dell’albero genetico relativo a 49 popolazioni africane, Cavalli Sforza riserva un ruolo importante ai gruppi pigmei rifacendosi a specifiche ricerche da lui condotte in Africa centrale1. Fra il 1966 e il 1985, il noto genetista italiano organizzò dieci spedizioni in Africa centrale riuscendo a studiare «un campione di parecchie migliaia di Pigmei appartenenti a più di una dozzina di tribù» e raccogliendo «una massiccia quantità di dati» (Cavalli Sforza L.L. e Cavalli Sforza F. 2007: 178). Il lavoro si svolgeva sempre con un’identica sequenza. I pigmei si disponevano in fila lungo i nostri tavolini da campo; uno di noi acquisiva i dati demografici di ciascuno (nome, età, figli, genitori, tribù ecc.) e gli metteva al collo un cartello con un numero di riconoscimento; seguiva la raccolta di dati antropometrici (altezza, peso, misurazione di testa e arti ecc.), poi una visita medica e da ultimo il prelievo di sangue e la raccolta di urina e feci. Queste ci erano utili soprattutto per lo studio dei parassiti; i pigmei si divertivano molto a questa nostra curiosa ricerca [...]. Da principio le nostre analisi si limitarono ai gruppi sanguigni e a una varietà di enzimi diversi. Negli anni Ottanta cominciò a diventare possibile esaminare direttamente il Dna e si sviluppò una tecnica di riproduzione cellulare che permette di ‘immortalare’ le cellule del sangue, mantenendole in vita e facendole riprodurre in laboratorio, così da conservare nel tempo il Dna dell’individuo e averlo sempre a disposizione dei ricercatori. Parte della ‘collezione’ di cellule e Dna di pigmei raccolta nel corso delle nostre spedizioni è oggi conservata alla Fondazione Jean Dausset – CEPH (Centre d’Etude du Polymorphisme Humain) di Parigi. Un mi-

1 L’albero genetico relativo all’Africa è ricostruito e commentato all’interno di un volume che ha come soggetto l’intera storia e geografia dei geni umani (Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza 1997). Alcune pagine del volume (pp. 333-338) riassumono i risultati di un precedente lavoro sui Pigmei di Cavalli Sforza (1986) integrandoli con nuovi dati.

101

gliaio di piccoli campioni di sangue sono tenuti sotto azoto liquido all’Università di Leida (2007: 184-185).

Al fine di calcolare le distanze genetiche all’interno dei differenti gruppi pigmei e fra Pigmei e altri gruppi africani, Cavalli Sforza definisce tre gruppi di Pigmei geograficamente distinti: i Pigmei orientali (Bambuti), i Pigmei occidentali (Biaka, Babinga) e i Pigmoidi. Questa tripartizione è sovrapponibile soltanto in parte alla tripartizione proposta da Bahuchet e riportata nel primo capitolo. La classificazione di Bahuchet tiene conto delle differenze fisiche, linguistiche e culturali, mentre la classificazione proposta da Cavalli Sforza si basa esclusivamente su dati genetici i quali – è bene precisare – acquistano valore euristico per ciò che concerne la storia del popolamento, solo all’interno di un quadro comparativo. Per meglio comprendere l’esigenza classificatoria di Cavalli Sforza, occorre aggiungere che tale quadro comparativo deve necessariamente avere la forma di un albero (una sorta di albero genealogico delle popolazioni); ne consegue che, all’interno dei gruppi pigmei, debba essere identificato un ‘gruppo antenato’ rispetto agli altri. I Pigmei Bambuti, la cui distanza genetica dagli altri Pigmei e dalle altre popolazioni dell’Africa subsahariana è elevata, si prestano a essere considerati gli antenati dei Pigmei. «Supponendo che i Bambuti siano il tipo pigmeo ancestrale [...] si è stimato che i Pigmei Biaka della Repubblica Centrafricana siano Pigmei soltanto per il 18,5%÷31%» (Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza 1997: 334), mentre i Pigmoidi sono Pigmei solo per il 19%÷25%. Il genetista italiano riconosce quanto sia ‘altamente ipotetica’ una storia genetica del mondo basata su «alcuni punti fermi e altri abbastanza ipotetici, tanto da dover essere considerati puro esercizio di fantasia» (Cavalli Sforza 1996: 224, corsivo nostro). Nonostante ciò, la fiducia è riposta nel modello teorico che sottende all’evoluzione biologica e, per tale motivo, Cavalli Sforza ritiene che tale modello si debba estendere, per analogia, anche all’evoluzione culturale dove la sostanza che si autoriproduce e si trasmette di generazione in generazione non è il Dna, ma sono le ‘idee’ «che formano non il genoma, ma il nostro corredo di conoscenze, costumi, e così via» (Cavalli Sforza 2008: 59). Così come per l’evoluzione genetica, anche per quanto concerne le teorie di Cavalli Sforza relative all’evoluzione culturale, è opportuno darne conto in queste pagine in quanto sono state applicate ai 102

Pigmei e in quanto avrebbero importanti ripercussioni sul ruolo e sul destino dell’antropologia culturale. Infatti, negli anni Ottanta, Cavalli Sforza sviluppa un modello della trasmissione culturale insieme a Marc Feldman (Cavalli Sforza e Feldman 1981) e successivamente applica, con grande entusiasmo e fiducia, tale modello ai Pigmei Aka (Hewlett e Cavalli Sforza 1986). In anni recenti, con altrettanta fiducia e rinnovato entusiasmo, Cavalli Sforza dà alle stampe un agile volume L’evoluzione della cultura (2004, poi ripubblicato nel 2008) esplicitando nella breve Prefazione il ruolo che vorrebbe assumesse: Spero che quest’operetta aiuti a suscitare l’interesse che l’argomento [l’evoluzione culturale] merita e che dia vita completamente nuova a una scienza che in America sta morendo e in Europa non ha mai fatto molta strada, l’antropologia culturale.

‘Operette’ che rifondino e diano vita nuova a intere discipline non vengono scritte tutti i giorni ed è quindi opportuno seguire le argomentazioni di Cavalli Sforza che giustificano l’estensione all’evoluzione culturale dello schema teorico formulato per spiegare l’evoluzione genetica. Innanzitutto, trasmissione, mutazione e selezione non avvengono solo a livello biologico, ma riguardano anche gli ‘elementi della cultura’, le idee. Queste vengono trasmesse dai genitori ai figli e ad altri soggetti ancora. Ciò può avvenire in modo conservativo oppure prevedere modifiche (mutazioni, appunto) o, addirittura, novità (idee nuove). «Un’idea, vecchia o nuova, è un circuito di neuroni» e, analogamente alle copie del Dna che «alloggeranno entro corpi di individui diversi, [...] l’idea può generare molte copie di sé in altri cervelli» (Cavalli Sforza 2008: 68-69). Solo a questo punto subentra un processo di selezione, ovvero, l’idea può essere accettata o meno, di solito sulla base dell’utilità e della funzionalità. Anche il drift (la ‘deriva’ che crea omogeneità interna a una popolazione) è osservabile nell’evoluzione culturale e la sua forza sarà proporzionale al fatto che sia un individuo a diffondere le idee su una massa di individui (il Papa che promulga dogmi per i cattolici, il monarca che ordina ai sudditi ecc.). In ultimo, è la migrazione ad accomunare evoluzione genetica e culturale. Per esempio, le regole esogamiche determinano la migrazione di geni e idee da un gruppo all’altro per mezzo dell’incorporazione di donne che giungono dall’esterno. 103

In questo quadro, la trasmissione svolge un ruolo cruciale e per tale motivo Cavalli Sforza elabora (con Feldman) un modello che ne dia conto attraverso la raccolta e l’analisi quantitativa di dati. Tale modello non definisce soltanto i modi di trasmissione, ma anche la velocità di trasmissione, introducendo una sorta di ‘orologio culturale’ che ricorda l’orologio molecolare degli studi sul drift genetico. Attingendo dal linguaggio degli epidemiologi, i due scienziati propongono due tipi fondamentali di trasmissione culturale: verticale (si pensi al rapporto genitori-figli) e orizzontale (dove età e rapporti di parentela hanno scarsa influenza). La trasmissione verticale è lenta, poiché «occorrono venticinque anni in media (una generazione) affinché un neonato diventi l’insegnante dei suoi figli» (Cavalli Sforza 2008: 83). Per quanto riguarda la trasmissione orizzontale dei tratti culturali, essa richiama il meccanismo per contagio diretto delle malattie infettive. La trasmissione può avvenire: a) da uno a uno (con le modalità di diffusione delle barzellette e dei pettegolezzi) senza limitazioni di età e di parentela. In questo caso, la velocità di trasmissione – e quindi di evoluzione culturale – può essere rapida. b) Da uno a molti, come nel caso della trasmissione di dogmi, ordini, nozioni da parte di leader religiosi, capi, insegnanti. In questo caso la trasmissione è molto rapida. c) Da molti a uno, un meccanismo di trasmissione che crea conformismo. Un caso in cui si è cercato di applicare questo modello al fine di verificare le modalità di evoluzione culturale è quello della trasmissione delle abilità presso i Pigmei Aka che vivono nel sud della Repubblica Centrafricana e nel nord della Repubblica del Congo. Cavalli Sforza insieme all’antropologo Barry Hewlett (1986) ha dapprima selezionato un campione di 72 individui (40 adulti, 16 bambini fra i 7 e i 12 anni e 16 giovani adolescenti) e successivamente stilato una lista di 50 abilità, lista non certo esaustiva, ma relativa alla maggior parte delle attività fondamentali: la caccia con le reti e con altre tecniche, la raccolta e la preparazione del cibo, la cura dei neonati, la spartizione delle prede, le danze e le canzoni, nonché altre particolari attività. A ogni individuo del campione è stato chiesto quali abilità possedesse e da chi le avesse apprese; i dati raccolti sono stati aggregati sia per abilità sia per trasmettitore indicato (padre, madre, entrambi i genitori, altri familiari, altri non familiari, abitanti dei villaggi, abilità autoapprese) e in altri modi ancora. 104

Alcune risposte hanno trovato conferma nell’osservazione diretta, mentre quelle fornite dai bambini sono state verificate, ove possibile, dalla testimonianza incrociata dei loro genitori. I due studiosi insistono sulla accuratezza delle risposte e sulla verifica dei dati; tali indicazioni, abbinate al fatto di lavorare con una metodologia quantitativa rigorosa, espressa numericamente con l’opportuna aggregazione dei dati, danno ai risultati ottenuti e presentati un’aura di scientificità molto elevata. Dai risultati emerge una prevalenza della trasmissione verticale con i genitori come principali trasmettitori (il padre per i figli maschi, la madre per le figlie); ciò implica, in base al modello, una lenta evoluzione culturale, ovvero un conservatorismo evidente. Inoltre, nell’analisi dei dati quantitativi sulla trasmissione culturale è possibile leggere le novità introdotte (uso della balestra come arma per la caccia e diffusione della coltivazione di manioca), in quanto i trasmettitori variano a seconda dell’età (Hewlett e Cavalli Sforza 1986: 233-298). A vent’anni da queste proposte teoriche e dalle relative applicazioni ai Pigmei, Cavalli Sforza sollecita gli antropologi culturali a ripensare il proprio lavoro sulla base del modello dell’evoluzione culturale da lui proposto. Il rigore scientifico e le intuizioni geniali del genetista vengono messe a disposizione di un’intera disciplina per rifondarsi e sopravvivere. L’invito è quello di diffidare delle sirene postmoderniste che diffondono una visione antiscientifica e denunciano la corruzione della scienza a opera di forze capitaliste (Cavalli Sforza 2008: 41). I ‘contagi’ postmodernisti – secondo il genetista italiano – sembrano diffondersi in modo preoccupante soprattutto nei dipartimenti americani di antropologia culturale, mentre l’antropologia sociale britannica «presumibilmente, non adotterà un atteggiamento contrario alla scienza» (Cavalli Sforza 2008: 41). Tuttavia, Cavalli Sforza registra uno ‘strano’ (a suo parere) commento fatto a suo tempo da uno dei decani dell’antropologia sociale britannica, Edmund Leach, il quale, intervenendo sulla teoria matematica della trasmissione culturale, avrebbe affermato di non gradire i modelli. Tale affermazione – lascia intendere il genetista – è il sintomo di un morbo (la visione antiscientifica) molto più diffuso di quanto sembri e che non tarderà a condannare il moribondo (l’antropologia culturale), se non alla morte certa, sicuramente alla sterilità conoscitiva. 105

Leech [in realtà è Leach, ma Cavalli Sforza lo scrive sbagliato] afferma di non gradire i modelli. È comprensibile che non piacciano i modelli matematici che in antropologia sono rarissimi (ma non del tutto assenti). Tuttavia, quando la scienza è passata per lo stadio puramente descrittivo, lo stadio successivo è quello di fare delle ipotesi e valutarne l’utilità in base a dati di osservazione, magari nuovi, ottenuti proprio allo scopo di controllare quel che ci si attende in base all’ipotesi (Cavalli Sforza 2008: 41).

Mosso da comprensione (e compassione), Cavalli Sforza spiega pazientemente – a Leach e agli antropologi culturali – che la scienza non può stare ferma allo stadio descrittivo, ma deve avanzare ipotesi, modelli, teorie per meglio interpretare e soprattutto spiegare i fenomeni osservati. Leach (deceduto nel 1989) sarebbe non solo d’accordo con questa missione della scienza, ma la sottoscriverebbe con entusiasmo e spronerebbe gli antropologi a formulare teorie sempre più raffinate. Leach – come ebbe già modo di esprimere il 3 dicembre del 1959 durante una lezione commemorativa su Malinowski tenuta alla London School of Economics – ha lamentato il fatto che molti colleghi stanno abbandonando la strada delle generalizzazioni comparative; hanno cominciato invece a scrivere storie dettagliate e impeccabili su popoli particolari. Questa nuova tendenza mi è causa di amarezze, perché sono ancora dell’idea che le scoperte degli antropologi racchiudano in sé implicazioni di carattere generale oltre che particolare (Leach 1973: 13).

Leach non è contrario alla formulazione di ipotesi, modelli, teorie, ma piuttosto si domanda in molte sue opere (per esempio 1961, 1979), con profondo senso critico, in che modo un modello dia effettivamente conto della realtà osservata e in che modo una teoria aggiunga qualcosa di nuovo a ciò che già si conosce (a suo parere, le tipologie e le comparazioni fine a se stesse sono tautologiche ed euristicamente inutili)2. Per Leach, non è corretto pensare che la cultura o la società siano «un tutto empirico costituito di un numero limitato di parti facilmente identificabili» (Leach 1973: 20) e meccanicamente predisposte ad analisi comparative. In un’ottica per nulla antiscientifica, Leach arriva a dire che l’antropologo, benché non deb2 Una disamina efficace dell’uso e della critica ai modelli in antropologia culturale è contenuta in Fabietti 1999: 159-187.

106

ba seguire il metodo che si addice a zoologi, botanici e meccanici, deve seguire il metodo dei matematici e degli ingegneri (Leach 1973: 21) senza accontentarsi di restare a un livello puramente descrittivo, che, se riscontrato presso i colleghi antropologi, come riportato poco sopra, risulta essere ‘causa di amarezza’. Tutto questo Cavalli Sforza pare ignorarlo e quindi avanza, con sicurezza, un dubbio, un’ipotesi da verificare al pari di molti passaggi argomentativi della storia genetica del mondo basata – è bene ricordare – su «alcuni punti fermi e altri abbastanza ipotetici, tanto da dover essere considerati puro esercizio di fantasia» (Cavalli Sforza 1996: 224, corsivo nostro): Sorge il dubbio, che sembra applicarsi al caso di molti studi di antropologia culturale, che il noto antropologo, come molti suoi colleghi, preferisse fermarsi sempre al livello descrittivo. Forse da uno studio accurato della opera di Leech [intende Leach] e di quella degli antropologi culturali contemporanei si potrebbe vedere se questa ipotesi ha qualche validità (Cavalli Sforza 2008: 42).

Non è necessario studiare accuratamente l’opera di Leach. È sufficiente una discreta conoscenza della storia dell’antropologia culturale (auspicabile per chi la vuole rifondare) per nutrire almeno il sospetto che Leach, come molti antropologi culturali o sociali, non ha un particolare atteggiamento antiscientifico. Forse, più semplicemente, Leach non si è convinto della bontà del modello ‘Cavalli Sforza - Feldman’ e forse sarebbe ancor meno convinto della necessità di porre tale modello, e ciò che ne consegue sul piano della trasmissione-evoluzione, alla base della rifondazione dell’antropologia culturale. In effetti, non è difficile restare perplessi a partire dalla discutibile nozione di cultura che fa da sfondo alle argomentazioni di Cavalli Sforza: una cultura depurata dai significati e dalle rappresentazioni locali, indifferente alla discrepanza esistente fra aspetti normativi e vita concreta, e identificabile – per dirla con Leach (1973: 20) – come «un tutto empirico costituito di un numero limitato di parti facilmente identificabili». Nel prossimo paragrafo, tornando a riflettere sui dati riportati da Hewlett e Cavalli Sforza sulla trasmissione culturale presso i Pigmei, si spera di poter mostrare come la totale fiducia nell’accuratezza di ciò che viene numericamente espresso, la valorizzazione del dato quantitativo senza attenzioni di ordine qua107

litativo e soprattutto l’indifferenza verso il punto di vista indigeno sacrificato sull’altare di una delle tante versioni di realismo ontologico, non sono sempre garanzie di incremento della conoscenza. 4.2. Elefanti nelle cristallerie di significati In un testo ampiamente autobiografico, Cavalli Sforza ricorda di essersi avvicinato allo studio della medicina dopo aver avuto una sorta di illuminazione entrando casualmente in un laboratorio di biologia dove si trovavano alcuni microscopi. L’idea di poter scrutare la realtà a forte ingrandimento lo entusiasmò tanto da indirizzarlo agli studi medici (Cavalli Sforza L.L. e Cavalli Sforza F. 2007). Anche molti antropologi si sono indirizzati allo studio dell’uomo dopo essersi entusiasmati a un metodo (quello etnografico) che permette di vedere ciò che spesso non si vede a prima vista. La lunga frequentazione di un contesto culturale facilita la comprensione della complessa ragnatela di significati (Geertz 1987) in cui ogni individuo è impigliato. Queste ragnatele di significati sono costrutti delicati come cristallerie; se non li si maneggia con i guanti dell’appropriatezza linguistica e concettuale rischiano di frantumarsi fino a diventare invisibili all’osservatore esterno. Quello che propongono Hewlett e Cavalli Sforza (1986) sono tabelle, ovvero ragnatele di numeri aggregati con rigore e spiegati attraverso un modello (il modello della trasmissione culturale a cui si è accennato in precedenza). I due ricercatori hanno domandato a 72 Pigmei Aka quali delle 50 abilità, preselezionate dagli stessi studiosi, si possiedono e da chi sono state apprese. I risultati, limitatamente alla prima tabella (Tab. 1) che presenta i dati percentuali aggregati per fascia di età, sesso e tipo di abilità acquisita, confermano in gran parte ciò che, in linguaggio non matematico, viene comunicato dai locali se interrogati su specifiche questioni. Per esempio, dalla tabella emerge che tutti i maschi di qualunque età sanno cacciare con la lancia, mentre nessun individuo di genere femminile ha acquisito questa abilità; oppure che pochi maschi adulti e adolescenti sanno preparare la manioca a fronte di una ampia competenza femminile in materia. In questi casi, i numeri non lasciano dubbi: esiste una chiara divisione sessuale del lavoro e i dati percentuali permettono di aumentare l’accuratezza e la precisione di tale considerazione. 108

Tabella 1. Conoscenza di specifiche abilità da parte dei Pigmei Aka riferite a sei categorie di individui ed espresse in valore percentuale (tabella liberamente tratta da Hewlett, Cavalli Sforza, 1986: 925. Rispetto all’originale, si è deciso di non riportare alcune abilità che sarebbero non chiaramente identificabili o di difficile interpretazione da parte del lettore). Abilità

Cacciare con la rete Fabbricare corde Fabbricare reti Uccidere nella rete Cacciare con la lancia Fabbricare balestre Preparare il veleno Cacciare l’elefante Trovare miele Trovare frutti Trovare funghi Portare il cesto Arrampicarsi sugli alberi Trovare igname Preparare la manioca Ricavare il vino di palma Tagliare alberi Fare il fuoco Costruire capanne Fabbricare asce Piantare la manioca Lavare i bambini Consolare i bambini Portare i bambini sulla schiena Accudire un neonato Somministrare cibo a un bambino Spartire il cefalofo (duiker, piccola antilope) Spartire l’elefante Spartire il miele Eseguire la danza libanda Eseguire la danza djengi Eseguire i canti di caccia Eseguire la danza elanda

Adulti (%)

Adolescenti (%)

Bambini (%)

M

F

M

F

M

F

100 100 100 100 100 35 85 90 100 100 100 40 100 100 20 100 100 100 80 100 55 85 95

100 80 20 100 0 0 0 0 95 100 100 100 0 100 100 40 100 100 100 15 100 100 100

100 100 100 100 100 12,5 50 87,5 100 100 100 100 100 100 25 100 100 100 62,5 100 12,5 0 100

100 100 12,5 100 0 0 0 0 100 100 100 100 0 100 100 87,5 100 100 100 0 100 100 100

100 100 25 100 100 0 0 12,5 100 100 100 37,5 100 100 0 100 100 100 12,5 100 0 0 100

100 100 0 100 0 0 0 0 100 100 100 100 0 100 87,5 0 100 100 100 12,5 87,5 37,5 87,5

95 90

100 100

100 75

100 100

87,5 0

90

100

50

100

0

75,0

100 80 100 65 95 100 85

100 80 100 40 80 95 85

100 100 100 75 100 100 100

100 100 100 75 100 100 100

100 100 100 100 100 100 100

100 100 100 62,5 100 100 100

109

100 100

A ben vedere, anche dove non ci sono dubbi, potrebbero sorgere interrogativi di questo tipo: siamo sicuri che gli intervistati stiano dicendo la verità sulle abilità che mettono in pratica? Al riguardo, i due ricercatori non sembrano sprovveduti, in quanto assicurano che l’osservazione diretta ha permesso in alcuni casi un controllo dei dati raccolti. Questo tuttavia non basta. È probabile che i maschi sappiano ‘realmente’ preparare la manioca e le femmine usare la lancia, ma che non lo dicano. Ciò non tanto per una propensione alla menzogna, ma semplicemente perché ammettere di possedere certe abilità è una questione connessa alle attese pubbliche sul genere, alla corrispondenza fra sé e le aspettative del gruppo inerenti la mascolinità e la femminilità. La questione era cara proprio a Edmund Leach, il quale insisteva sul fatto che c’è discrepanza fra: a) aspetti normativi (che determinano le aspettative sociali); b) ciò che la gente pensa, dice e non dice; c) il comportamento concreto delle persone. Con pari buon senso potrebbe apparire bizzarro il dato, contenuto nella stessa tabella e relativo all’abilità nel portare il cesto. Soltanto il 40% degli uomini adulti dichiara di saperlo fare, a fronte della totalità delle donne. Ora, non si sa quanti uomini portino o abbiano portato un cesto; è invece probabile che molti maschi adulti ‘pensino’ di saperlo fare, ma la maggioranza (60%) ritenga opportuno dichiarare di non possedere tale abilità per il semplice fatto che è una abilità caratterizzante il genere femminile in molte società di cacciatori e raccoglitori compresi i Pigmei3. Considerazioni di questo tipo se ne potrebbero fare molte a partire dai dati contenuti nel saggio di Hewlett e Cavalli Sforza (1986); ma in questa sede si vuole limitare l’analisi a una parte specifica della tabella 1, quella relativa alle abilità di divisione/spartizione delle prede. La scelta è giustificata dal fatto che la spartizione, come è emerso nel secondo capitolo, è una attività culturalmente molto si3

A titolo di esempio, si segnala il bel saggio di Pierre Clastres dal titolo significativo L’arco e il canestro apparso inizialmente sulla rivista «L’Homme» (2, 1966) e successivamente pubblicato come cap. V del volume La società contro lo stato. L’identità sessuale presso i Guayaki (Paraguay), racconta Clastres, passa attraverso l’uso esclusivo del canestro o dell’arco: «un cacciatore non sopporterebbe la vergogna di portare un canestro mentre sua moglie ha paura di toccare il suo arco. [...] se un individuo non riesce più a realizzarsi come cacciatore, cessa, nel medesimo tempo, di essere un uomo e, passando dall’arco al canestro, diventa, metaforicamente una donna» (Clastres 1984: 83-84).

110

gnificativa con implicazioni antropologiche notevoli; inoltre essa si presta ad argomentare le perplessità nei confronti del metodo di indagine proposto e del modello utilizzato. Le abilità incluse nella categoria in questione sono tre: spartire l’antilope (duiker), spartire l’elefante, spartire il miele4. È strabiliante notare come la totalità degli adolescenti (maschi e femmine) e dei bambini (maschi e femmine) intervistati abbiano risposto di possedere tali abilità. Gli autori del saggio ritengono che ciò sia dovuto a una esigenza di uniformità, ma non spiegano il perché sia richiesta uniformità nella spartizione. Certo, ci sono regole socialmente stabilite per la spartizione delle prede, ma ci sono regole altrettanto rigide per molte altre abilità. Inoltre, occorre notare che, secondo i dati riportati, l’uniformità delle conoscenze (abilità) relative alla spartizione (miele e prede) è garantita proprio all’interno della fascia di età dei bambini e degli adolescenti. È strano che tutti i bambini e tutti gli adolescenti posseggano abilità complesse come la spartizione di grosse prede (§ 2.2). Se si analizzano più attentamente i dati, con l’accuratezza sollecitata dagli scienziati, si nota che l’uniformità e l’eccellenza nelle conoscenze delle pratiche complesse di spartizione sono esclusiva dei bambini e degli adolescenti. Gli individui adulti (maschi e femmine), limitatamente per la ‘spartizione dell’elefante’ non sono tanto ‘abili’ quanto gli altri individui del campione e percentualmente si fermano all’80% contro il 100% di ragazzi, ragazze, bambini, bambine. Questo significa che quattro dei venti adulti maschi e quattro dei venti adulti femmine del campione hanno risposto di non sapere spartire la carne di una carcassa di un elefante ucciso, di non possedere tale abilità. Riassumendo, la totalità dei bambini e delle bambine conoscono le regole di spartizione dell’elefante e posseggono l’abilità tecnica per effettuare tale spartizione, mentre fra gli adulti il 20% non possiede l’abilità in questione. Se questa accurata lettura dei dati non ha ancora suscitato nel lettore una benché minima perplessità, sarà sufficiente trasformare in una scena di vita concreta i dati numerici della tabella: si immagini una carcassa di elefante di circa tre tonnellate e mezza di fronte alla quale otto adulti osservano stupefatti un bambino o una bambina di 4 Sull’importanza sociale del miele e le regole di spartizione dello stesso si veda Ichikawa 1981.

111

7 anni che divide l’animale in pezzi e attribuisce ogni parte a specifici parenti e individui del gruppo sociale. La scena è indubbiamente assurda, ma se si accetta uno sguardo critico sulla magia dei numeri e sulle sfavillanti possibilità di permutazioni dei dati, occorre ammettere che i dati dissimulano una scena siffatta. Per spiegare quello che si ritiene possa essere successo nella raccolta dei dati occorre affidarsi alla tanto vituperata ricerca qualitativa, povera di modelli matematici, lontana dal fornire accurate rappresentazioni scientifiche degne della nobile tradizione razionalista occidentale (§ 1.2) ma, in certi casi, estremamente efficace per conoscere ‘come le cose stanno’. L’etnologo Serge Bahuchet in un saggio, ampiamente citato nel secondo capitolo, dedicato alla spartizione delle prede presso i Pigmei, riporta una tabella relativa alle modalità di divisione degli animali catturati (in quante parti viene divisa ogni specifica preda, quante parti spettano a chi l’ha catturata, quante parti vengono attribuite a specifici individui o gruppi familiari). Anche questa tabella riporta numeri, ma si tratta di informazioni indigene e non di valori percentuali riferiti a un campione. Si tratta di informazioni numeriche ‘emiche’ che rimandano a pratiche locali e non aggregazioni numeriche ‘etiche’5. Per dirla con Geertz, sono numeri ‘vicini all’esperienza’. Come si è già ricordato in precedenza (§ 2.2), dalla tabella di Bahuchet si evince che i Pigmei Aka dividono, per esempio, uno scimpanzè in 27 parti, 9 delle quali vengono attribuite, di cui 3 al ‘proprietario’; un gorilla viene diviso in 32 parti di cui una sola attribuita, ovviamente al ‘proprietario’. Molte altre prede vengono contemplate nella tabella e fra queste anche l’elefante, ma in questo caso (in questo unico caso) i dati presentano una anomalia in quanto, in corrispondenza della colonna dove è riportato il numero delle parti in cui è divisibile la preda, per l’elefante non c’è un numero ma una parola, uncounted (‘innumerevoli’, ‘non contabili’). Anche per quanto concerne le parti attribuite i dati sottendono imprecisione: circa 5 (about 5) quelle attribuite, di cui circa 4 (about 4) al ‘proprietario’. Solo con queste informazioni è possibile andare a leggere il dato percentuale riportato da Hewlett e Cavalli Sforza. Fra gli adulti, ov5 Nella terminologia degli antropologi il termine ‘emico’ si riferisce alla descrizione e conoscenza di una cultura a partire dai significati e dai concetti di coloro che appartengono a tale cultura. ‘Etico’ si riferisce alla descrizione e conoscenza di una cultura a partire dai concetti, ritenuti universali, dell’osservatore esterno.

112

vero coloro che probabilmente sono più implicati nella pratica effettiva della spartizione, alcuni (il 20%) ammettono di non conoscere le modalità di spartizione dell’elefante, ovvero, includono nella risposta fornita (del tipo: ‘non conosco come si spartisce l’elefante’) il vuoto normativo e l’imprecisione delle regole. Questo è un punto molto importante, poiché la risposta negativa di quel 20% di adulti non va letta come indicazione di ‘mancanza di abilità nello spartire l’elefante’, ma come maggiore consapevolezza e conoscenza delle regole di spartizione delle prede compresa quella dell’elefante. Il dato numerico riportato da Hewlett e Cavalli Sforza afferma il contrario di ciò che afferma a prima vista. I due ricercatori aggregano i dati, riportano percentuali e infine traggono conclusioni e fanno considerazioni partendo dal presupposto scientificamente ineccepibile che ‘x + 1 > x’, ma questo è stato appena dimostrato che non è sempre vero. Se, come riportano chiaramente i due studiosi, i dati percentuali riferiti in corrispondenza all’abilità denominata share elephant indicano la conoscenza di tale abilità, allora 80 è maggiore di 100. Quello che emerge è un errore ininfluente nell’economia generale del saggio di Hewlett e Cavalli Sforza, ma evidentemente è una falla nel sistema (ce ne potrebbero essere altre) e soprattutto è la dimostrazione di una mal riposta fiducia incondizionata nei dati quantitativi raccolti, come se ci si trovasse su un tavolo da biliardo dominato dalle leggi della meccanica, piuttosto che su una ragnatela di significati collettivi, strategie individuali e interpretazioni sovrapposte. In relazione alle abilità possedute, e indipendentemente da quell’ormai famoso 20% di adulti che ‘non sanno’ spartire l’elefante, resta da spiegare l’alta diffusione e l’eccezionale uniformità nella conoscenza delle ‘abilità di spartizione’ nell’intero campione (72 Pigmei). Si potrebbe dire che, nelle risposte fornite, i Pigmei Aka, indipendentemente dal sesso e dall’età, fanno sfoggio delle loro reali o presunte conoscenze delle regole di spartizione. Per quale motivo? Come si è mostrato nel secondo capitolo, la possibilità della spartizione (l’aver ucciso ‘vera carne’) è una fase importante nel percorso iniziatico del giovane pigmeo; i veri uomini pigmei agiscono secondo la logica della spartizione. Il valore della spartizione trascende tuttavia la differenza di genere, giacché anche le donne partecipano alla logica della spartizione gestendo l’ultima fase della divisione delle risorse (la spartizione dei piatti). Un indizio importante sul valore della spartizione è contenuto in una sorta di etno-antropologia dei 113

Pigmei presentata da Axel Köhler e Jerome Lewis (2002) di cui si darà conto in seguito, alla quale però al momento è bene fare cenno. I due antropologi riportano i modi in cui i Pigmei Yaka concepiscono se stessi in contrapposizione agli abitanti dei villaggi, genericamente denominati bilo, e agli europei. I Pigmei interpretano le varie forme di umanità partendo dalla loro visione del mondo e dal modo in cui si collocano in un campo di forze regolato da una ‘economia cosmica della spartizione’ applicata a un ‘ambiente dispensatore’ (Lewis 2002: 298). L’ambiente così inteso, include non solo l’amata foresta, ma anche i villaggi, i progetti di sviluppo gestiti dai bianchi ecc. In questo quadro risulta significativo in che modo i Pigmei Yaka denominano ‘gli altri’: i ‘neri’, abitanti dei villaggi sono ‘gorilla’, mentre gli europei sono ‘maiali selvatici’. Köhler e Lewis precisano che i Pigmei utilizzano queste metafore animali non tanto per deumanizzare gli altri, ma per sottolineare quanto i bilo e gli europei abbiano un rapporto egoistico, arrogante e possessivo nei confronti delle risorse e un atteggiamento distruttivo nei confronti dell’ambiente. I bilo e gli europei, al pari dei gorilla e dei maiali selvatici ‘non sanno stare al mondo’, ovvero non praticano l’economia cosmica della spartizione. La questione è squisitamente antropologica: ‘spartire’ significa possedere una certa forma di umanità che è tipica – o viene ritenuta tipica – di ‘noi Pigmei’. È a questo significato profondo della spartizione che occorre ricondurre l’uniformità delle abilità di spartizione che emerge nei dati percentuali riportati da Hewlett e Cavalli Sforza. In questo caso i dati non ingannano, ma diventano significativi se letti attraverso le categorie antropologiche indigene di cui nessun modello matematico può dar conto. 4.3. Polimorfismi unilineari e mescolanze Le critiche mosse al modello di Cavalli Sforza e Feldman (con relativa applicazione alla trasmissione culturale presso i Pigmei) non scalfiscono i riconosciuti meriti scientifici del grande genetista italiano; ciò che si discute, invece, è la pretesa di riconoscere nei metodi e nelle competenze di una certa tradizione scientifica la strada ‘maestra’ per parlare di ‘antropologia’. L’argomentazione svolta nel paragrafo precedente intorno al rilevante tema della ‘spartizione’ fa emergere un 114

frammento importante dell’antropologia dei gruppi pigmei. Non si tratta di mera etnografia descrittiva da porre al servizio di chi si pensa legittimato a ‘fare e pensare l’antropologia’ in quanto possiede metodologie appropriate e scientificamente riconosciute. Fare emergere la ‘spartizione’ come chiave di comprensione di una specifica forma di umanità è di per sé una riflessione antropologica resa possibile da metodologie altrettanto appropriate e basate sul metodo etnografico (‘l’esperimento di esperienza’, per dirla con Leonardo Piasere). A ben vedere, non tutti coloro che lavorano con i dati genetici hanno analogo atteggiamento nei confronti dell’antropologia sociale e culturale. Per esempio, Giovanni Destro-Bisol (2005), riportando alcuni risultati di ricerche inerenti i polimorfismi unilineari6, auspica una stretta collaborazione con l’antropologia sociale e culturale. Anzi, il punto di partenza di un suo saggio del 2005 non è la superiorità di qualche metodo rispetto ad altri, ma la constatazione che gli esseri umani ‘sono’, in buona parte, le loro scelte culturali. Destro-Bisol, lavorando sui polimorfismi unilineari, vuole verificare la possibilità di rintracciare nella dotazione genetica i segni delle differenti scelte culturali. In altre parole, lo studioso si domanda quali siano i fattori culturali che influenzino i modi in cui i geni ricorrono nelle popolazioni. Anche in questo caso, le riflessioni sulle metodologie di ricerca e sulle tradizioni intellettuali si intrecciano con i Pigmei, i cui dati genetici sono ampiamente utilizzati da Destro-Bisol. L’opportunità di lavorare con i polimorfismi del Dna mitocondriale (trasmesso solo dalla propria madre) e del cromosoma Y (trasmesso solo dal proprio padre) permette di ‘leggere’ nella distribuzione degli stessi polimorfismi le pratiche matrimoniali, nonché la persistenza delle regole residenziali come la patrilocalità. Gli studi pionieristici di Seielstad, Minch e Cavalli Sforza, condotti sul confronto fra diverse popolazioni, hanno evidenziato differenze maggiori dei polimorfismi del cromosoma Y rispetto alle differenze dei polimorfismi del Dna mitocondriale; questo, secondo gli studiosi, è da porre in relazione alla maggiore migrazione delle donne nelle pratiche esogamiche (con conseguente aumento del drift e quindi del6 Si ha polimorfismo genetico quando in una popolazione coesistono due o più forme differenti di un gene. Alcuni polimorfismi vengono trasmessi solo per via materna, per altri la trasmissione è solo dal padre al figlio. In questi casi si parla di polimorfismi a trasmissione unilineare o polimorfismi unilineari.

115

l’uniformità genetica) e confermerebbe la persistenza della patrilocalità (Seielstad et al. 1998). Ricerche di poco successive (Hammer et al. 2001) condotte su un differente gruppo di popolazioni, arrivano a conclusioni molto diverse sulla persistenza della patrilocalità. È facile che questo sia dovuto al fatto che Seielstad e colleghi abbiano ricavato i dati da popolazioni di agricoltori e pastori (FP, Food Producers), mentre il campione su cui ha lavorato il gruppo di Hammer conteneva dati tratti anche da cacciatori-raccoglitori (Destro-Bisol et al. 2004: 1674). Destro-Bisol, insieme ad altri colleghi, ha provato quindi a verificare la variazione dei polimorfismi unilineari di 40 popolazioni africane in relazione a fattori socio-culturali. I dati sono stati aggregati principalmente in due gruppi: i produttori di cibo (FP) e i cacciatori-raccoglitori (HG, Hunter-Gatherers). Quest’ultimo gruppo include Pigmei dell’Africa centrale, Boscimani !Kung dell’Africa australe, Hadza e Hadzabe della Tanzania. L’analisi condotta mostra, in effetti, una evidente differenziazione fra la struttura genetica dei due gruppi che si accorda a tre specifici fattori socio-culturali caratterizzanti i cacciatori-raccoglitori (HG): 1) la bassa diffusione della poliginia rispetto ai gruppi produttori (FP); 2) l’applicazione meno rigida della patrilocalità; 3) le preferenze nella scelta del partner: flusso unidirezionale di donne dai cacciatori-raccoglitori (‘datori di moglie’) verso i FP (‘prenditori di moglie’) e flusso inverso unidirezionale maschile verso gli HG dovuto a rapporti extramatrimoniali, adozioni e divorzi (Destro-Bisol 2005: 96). L’interesse di queste ricerche risiede nel continuo confronto fra informazioni interne di tipo genetico e informazioni esterne di tipo socio-culturale. Il contributo dell’antropologia culturale agli studi degli antropologi fisici che lavorano con materiale genetico permetterebbe di migliorare le corrispondenze fra le due tipologie di informazioni attraverso un duplice intervento: a) problematizzare più opportunamente le unità di analisi; b) contestualizzare con precisione spaziale e temporale i fattori culturali scelti per l’analisi. L’identificazione dell’unità di analisi (la popolazione) è un problema non di poco conto nella gestione e classificazione dei dati genetici, soprattutto quando si ha l’intenzione di avanzare ipotesi inerenti il comportamento di interi gruppi. I dati genetici sono ricavati da singoli individui e gestiti ‘come se’ rappresentassero ‘popolazioni’ o altri insiemi molto ampi di individui; questi raggruppamenti, in 116

certi casi, vengono successivamente connessi a fattori socio-culturali desunti da singoli lavori etnografici circostanziati. Per esempio, la categoria HG utilizzata da Destro-Bisol è data dalle campionature effettuate da ricercatori diversi, in diverse parti dell’Africa e in tempi diversi su vari gruppi: Hadza, Hadzabe, Pigmei, Boscimani (questi due ultimi gruppi sono inoltre molto variegati al loro interno). I risultati dell’analisi genetica sono stati poi connessi a ‘fattori socioculturali’ desunti da pochi resoconti – il volume sui Pigmei di Cavalli Sforza (1986) e due voci enciclopediche dedicate rispettivamente ai Pigmei Aka (Bahuchet 1999) e ai Boscimani Ju/’hoansi (Biesele e Kxao Royal-/o/oo 1999) – ma estesi per generalizzazione a tutti i cacciatori-raccoglitori dell’Africa (la categoria HG). Non è detto che tale generalizzazione sia sempre errata, ma nella maggior parte dei casi occorre essere molto prudenti. Questa osservazione richiama l’ineludibile rischio del sovrapporre l’uniformità di dati genetici, spesso riscontrabile in ampie popolazioni o addirittura nell’intera specie, a particolarità culturali che non è detto ritornino con la stessa ampiezza e regolarità. Per esempio, quando Cavalli Sforza sostiene l’equivalenza fra DNA e ‘idee’, giustificando l’estensione alla trasmissione culturale dello schema teorico utilizzato per spiegare la trasmissione dei geni, riporta un esempio che lascia perplessi: così come il DNA mitocondriale è ereditato dalla propria madre, anche la religione, l’abitudine alla preghiera e la devozione sono di solito trasmesse dalla madre nel caso i genitori appartengano a fedi diverse (Cavalli Sforza 2008: 84). Questa affermazione non è assolutamente dimostrata se non in contesti ed epoche specifiche, oppure, all’interno di una più ampia osservazione del ruolo della madre nell’educazione dei figli nei primi anni di vita, ma, in tal caso, non riguarderebbe la sola religiosità. Un ulteriore problema connesso agli assunti socio-culturali degli studi di genetica delle popolazioni è la certezza che le etnografie contemporanee possano essere proiettate nel passato, prossimo, remoto e remotissimo. In altre parole, richiamando in un certo modo il concetto di ‘tasso evolutivo costante’ caro ai genetisti delle popolazioni, si potrebbe affermare che gli stessi genetisti abbiano bisogno di un ‘tasso culturale costante’ delle unità di analisi considerate (le popolazioni). Per esempio, la stessa persistenza nel tempo della categoria di cacciatori-raccoglitori (HG) potrebbe essere storicamente sfalsata, se si accettassero le ipotesi (per nulla assurde) dei ‘revi117

sionisti’ come Edwin Wilmsen (1989) il quale, in un noto dibattito intrattenuto con Richard Lee (se ne darà conto nel § 5.3), sostiene che l’attuale condizione di cacciatori-raccoglitori dei Boscimani (San) del Kalahari sia il frutto di un recente processo storico segnato dal confronto e dallo scontro con i gruppi pastori dell’area: La loro condizione di cacciatori e raccoglitori è una funzione della loro relegazione in una classe inferiore nello svolgimento di un processo storico iniziato prima di questo millennio e che ha raggiunto l’apice nei primi decenni di questo secolo. L’isolamento in cui si sostiene che siano stati trovati è una creazione del nostro modo di vederli, non della loro storia così come essi la vivono (Wilmsen 1989: 3, citato in Barnard 2002: 130).

Come è già stato sottolineato da Scott MacEachern (2000) in un saggio di commento ai dati sull’Africa contenuti in Storia e geografia dei geni umani di Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza, la genetica delle popolazioni non problematizza a sufficienza l’unità di analisi adottata, ovvero la popolazione. È euristicamente rischioso costruire intorno ai singoli dati genetici, tratti spesso da sparuti individui, aggregazioni collettive che a seconda dei casi e della convenienza vengono fatti corrispondere a gruppi nazionali (algerini, tunisini, libici, sudanesi, egiziani) o a gruppi etnici, questi ultimi intesi così come li intendevano gli etnologi classici (rigidi, omogenei, dai confini stabili, esclusi da processi di costruzione, di autoascrizione o di trasformazione fluida e continua). In base alle campionature disponibili, l’unità di analisi della popolazione indica, a seconda dei casi, ‘aggregazioni di individui’ molto differenti fra loro e difficilmente equivalenti. A titolo di esempio, fra le 49 popolazioni dell’albero filogenetico africano ricostruito da Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza (1997: 317) sono affiancati come unità di analisi equivalenti i Bambuti e i Sudanesi. I primi sono un piccolo gruppo etnico da non confondere nell’analisi con altri Pigmei e Pigmoidi e neppure con la nazione zairese (congolese) non contemplata nell’elenco; mentre i secondi (i Sudanesi) sono i rappresentanti di una nazione (la più estesa dell’Africa e una delle più variegate da un punto di vista etnico e culturale). Perché non essere più precisi nel secondo caso? Per il semplice fatto che la campionatura su cui si sono effettuate le indagini genetiche è di origine vaga, «provenendo in genere da un’area piuttosto ampia e non ben definita at118

torno alle città principali» (Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza 1997: 321). Ma, a questo punto, quale è il valore della comparazione fra le due unità? In che senso ‘Bambuti’ e ‘Sudanesi’ sono due popolazioni distinte, discrete e comparabili? Dove risiede la tanto rivendicata ‘rappresentazione accurata di come le cose stanno’ (Searle 2008)? Inoltre, se anche si ammettesse la liceità di siffatte unità di analisi, occorre riconoscere che questi gruppi non si comportano come palle da biliardo e i loro modi di interazione non sono semplificabili in una lista di innovazioni tecnologiche e migrazioni di massa così come emerge dalla ricostruzione della storia e geografia dei geni umani (MacEachern 2000: 370). Soffermandosi ancora sulla ricostruzione degli alberi filogenetici, è opportuno approfondire la questione della distanza genetica fra gli stessi gruppi pigmei. L’intento di Cavalli Sforza non sembra essere quello di risalire alla radice storica dei Pigmei, quanto quello di ricostruire le traiettorie e i tempi di migrazione dei gruppi pigmei lungo la fascia equatoriale dell’Africa. I Bambuti, ritenuti da Cavalli Sforza i più distanti geneticamente e i più ‘caratteristici’ (?!), meritano di essere considerati come ‘tipo pigmeo ancestrale’. Questa affermazione non è rilevante come risultato dell’analisi, ma è assunta come punto di partenza per determinare le distanze genetiche stimate: i Pigmei Biaka della Repubblica Centrafricana sono Pigmei soltanto per il 18,5%÷31%, mentre i Pigmoidi sono Pigmei solo per il 19%÷25% (Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza 1997: 334). Le distanze genetiche vorrebbero avere un valore storico, ovvero indicare i tempi di separazione fra le popolazioni. Infatti Cavalli Sforza, con il sostegno di analisi linguistiche ed etnografiche anch’esse congetturali, ipotizza una migrazione dei Pigmei verso Occidente; tuttavia, in che misura questa ipotesi sia sostenuta dai dati genetici (i dati della scienza) non è per nulla chiaro, in quanto la misurazione dei tempi di separazione è ‘perturbata’ dai fenomeni di mescolanza (Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza 1997: 102-111). Il dubbio può essere espresso con una domanda: la distanza genetica dei Pigmei occidentali dai Pigmei orientali è riconducibile alla remota separazione delle due popolazioni, oppure a fenomeni di mescolanza, anche recenti, con gruppi circostanti, che hanno inevitabilmente modificato il patrimonio genetico distanziandoli dai Bambuti? Non è facile rispondere. «In che misura i risultati siano credibili dipende dalla validità dell’ipotesi di un tasso evolutivo costante» (1997: 107) e stimare un tasso 119

di mescolanza per generazione, in modo da far rientrare la mescolanza nel calcolo, è impresa ardua. Non resta che affidarsi alle «abituali restrizioni all’esogamia [di popolazione]» (1997: 69) che nel caso dei Pigmei sembrano svolgere un ruolo importante. In altre parole, affinché i dati raccolti possano provare ciò che Cavalli Sforza vuole provare, ovvero una migrazione di una parte dei Pigmei ancestrali da Oriente verso Occidente, occorre supporre che la distanza genetica determinata dalla separazione dei due gruppi non sia stata influenzata in modo decisivo da flussi genici verso i gruppi pigmei occidentali. Per garantire ciò, l’argomentazione di Cavalli Sforza fa leva sul fatto che «quasi sempre» sono i gruppi coltivatori, che vivono in simbiosi con i gruppi pigmei, a prendere moglie fra i Pigmei e non viceversa. Questo prefigurerebbe un flusso genico ‘quasi’ unidirezionale (dai Pigmei ai coltivatori) per il fatto che «i bambini della coppia mista sono educati nell’ambito della cultura agricola» (Cavalli Sforza, Menozzi e Piazza 1997: 334). In tal modo, i nuovi nati ‘diventano coltivatori’ immettendo nel gruppo dei coltivatori mtDNA (DNA mitocondriale trasmesso solo per via materna) pigmeo. Per quale motivo occorre garantire l’unidirezionalità del flusso genico, o per lo meno la non rilevanza statistica del flusso genico opposto? Per il semplice fatto che se i Pigmei occidentali fossero ‘distanti’ geneticamente dai loro ‘cugini’ orientali (i Bambuti) a causa di mescolanze genetiche più o meno recenti con i coltivatori, tale ‘distanza’ non sarebbe una prova di una migrazione remota misurabile con la costante calcolabile del rapporto distanza genetica/ tempo. I dati resterebbero validi, ma non servirebbero a dimostrare ciò che Cavalli Sforza vuole dimostrare. L’argomentazione è molto fragile per il motivo che esiste un flusso genico inverso (dai coltivatori ai Pigmei). È lo stesso Cavalli Sforza ad ammetterlo parlando tuttavia di ‘casi infrequenti’ (connessi a unioni illegittime, donne divorziate che tornano fra i Pigmei con i loro figli) e senza peraltro indicare quanto questo influenzi la validità della sua ricostruzione. Più esplicitamente funzionali a far vacillare le conclusioni di Cavalli Sforza sono le affermazioni di Axel Köhler e Jerome Lewis (2002: 286) i quali, appoggiandosi a ricerche etnografiche contemporanee, sostengono che, mentre nell’Ituri (Pigmei orientali) i figli di una coppia mista (uomo coltivatore-donna pigmea) ‘diventano’ coltivatori, fra gli Yaka (Pigmei occidentali), i figli di una coppia mista ‘diventano’ Pigmei e sono incorporati negli ac120

campamenti di questi ultimi, garantendo un flusso genico ‘molto frequente’ dai coltivatori ai Pigmei. Cavalli Sforza racconta di come i Pigmei durante i primi contatti lo avessero pensato uno stregone (Cavalli Sforza L.L. e Cavalli Sforza F. 2007: 181). D’altronde, un individuo che va in giro per l’Africa a ‘cavare sangue’ e domandare campioni di urina e feci, se conosce gli africani, deve aspettarsi come minimo l’appellativo di stregone, ovvero, di colui che possiede una forza misteriosa. Nei sistemi di pensiero africani, la stregoneria è qualcosa di tangibile e reale, spesso viene pensata come qualcosa di fisico contenuto nei corpi: la stregoneria e gli stregoni esistono, sono reali e il loro agire è potente e verificabile. Nonostante ciò, le ricerche antropologiche hanno messo in evidenza una particolare funzione della stregoneria in Africa: essa serve come dispositivo narrativo per giustificare ed elaborare gli eventi che accadono, ricondurli a una logica condivisa. Anche la scienza, come altri innumerevoli ambiti del sapere (si pensi al diritto) si configura come qualcosa di tangibile, reale e visibilmente potente (efficace) sul piano conoscitivo e normativo, ma, al contempo, si presenta come un dispositivo narrativo culturalmente costruito, un modo di presentare le cose che di per sé infonde senso del rigore, logicità di pensiero e sentimento di grandezza di una tradizione. In questa ottica, Cavalli Sforza ‘è stregone’ (possiede una forza misteriosa) non tanto per i Pigmei ma per noi ‘moderni’ occidentali affascinati – come è giusto che sia – da colui che riduce, per il tramite delle ‘idee’, intricati sistemi culturali in circuiti neuronali e ‘legge’ la storia dell’umanità in piccoli campioni di sangue di piccoli Pigmei. La strumentazione messa in campo e le metodologie utilizzate sono garanzia di attendibilità e sembra importare poco che a monte e a valle di tali pratiche conoscitive ci siano una miriade di supposizioni, assunzioni, affermazioni altamente ipotetiche e addirittura ‘puri esercizi di fantasia’, come lo stesso Cavalli Sforza ammette (1996: 224). Il solco tracciato dalla tradizione razionalista occidentale e dalla sua figlia prediletta, la scienza moderna, diventa una trincea da cui sparare verso quegli strani ‘scienziati’ che, pur non masticando matematica, statistica e biologia, vorrebbero anche loro studiare l’uomo (anthropos-logos).

121

4.4. Nei nomi dei Pigmei A essere sinceri, tra l’antropologo che scarabocchia i suoi taccuini e lo scienziato dotato di strumentazione raffinata e metodologie rigorose esiste un gap di ‘percezione di attendibilità’ imbarazzante. Allo stesso modo, è deprimente per l’antropologo comparare una sua qualunque giornata di lavoro sul campo con la sequenza lavorativa dell’equipe di Cavalli Sforza fra i Pigmei, in parte già riportata (§ 4.1) e qui di seguito sintetizzata per intero: I pigmei si disponevano in fila lungo i nostri tavolini da campo; uno di noi acquisiva i dati demografici di ciascuno (nome, età, figli, genitori, tribù ecc.) e gli metteva al collo un cartello con un numero di riconoscimento; seguiva la raccolta di dati antropometrici [...], poi una visita medica e da ultimo il prelievo di sangue e la raccolta di urina e feci [...]. In 4-6 persone riuscivamo a esaminare fra i 40 e i 60 individui al giorno [...]. I campioni di sangue appena raccolti venivano immediatamente refrigerati, ponendoli in un frigorifero portatile alimentato da un generatore. Dopo tre giorni di visite e prelievi facevamo ritorno al campo base, da cui due di noi partivano in jeep per il più vicino aeroporto. Il sangue, sempre refrigerato, partiva per Parigi e di lì in Olanda per le analisi [...]. Percorrere centinaia di chilometri nel più breve tempo possibile, parte in foresta parte su strade pessime, era un impegno per lo più massacrante, ma in capo a 3-4 giorni dal prelievo, talvolta prima, i campioni raggiungevano in perfetto stato i laboratori europei (Cavalli Sforza L.L. e Cavalli Sforza F. 2007: 184-185).

Questo brano possiede un indubitabile potere di fascinazione. Esso narra una impresa conoscitiva e umana («un impegno per lo più massacrante») dove l’eccellenza e l’eccezionalità dell’impresa si nutrono di tecnologia, efficienza, organizzazione, velocità e fatica. Per certi aspetti, si potrebbe sostenere che la raccolta e l’invio in Europa dei campioni di sangue dal cuore di tenebra dell’Africa è un viaggio speculare a quello raccontato da Joseph Conrad in Cuore di tenebra. Speculare perché riflette un’impresa e perché il percorso si svolge in senso inverso dall’oscurità della foresta alla luminosità dei laboratori europei. Anche l’antropologia classica, in certi casi, ha provato a dispiegare un’analoga ‘potenza di fuoco’, con risultati che un antropologo contemporaneo troverebbe irritanti. Un caso emblematico è la metodologia, proposta da Marcel Griaule per descrivere esaurientemente una cerimonia funebre dogon. Lo storico dell’antropologia James Clifford (1999: 90) ne riporta un’efficace sintesi: 122

L’osservatore numero uno è posto sull’alto di una falesia non lontana dalla piazza del villaggio, con il compito di fotografare e annotare i movimenti su larga scala del rito; il numero due sta tra le donne mestruate da una parte; il tre si mescola a una banda di giovani portatori di torce; il quattro osserva il gruppo di suonatori; il cinque è in cima al tetto, «incaricato di sorvegliare le ali con i loro mille pettegolezzi e di andare con una certa frequenza insieme al numero sei alla casa del morto in cerca delle ultime notizie» (Griaule 1957: 49). Il numero sette osserva le reazioni delle donne e dei bambini alle danze in maschera e ai combattimenti rituali che si svolgono al centro della scena. Tutti gli osservatori annotano l’ora esatta delle loro osservazioni in modo che si possa poi ricostruire un quadro sintetico della cerimonia [...]. L’abbozzo sinottico così costruito verrà in seguito arricchito e corretto mediante procedimenti di «verifica» e di «commento».

Nella maggior parte dei casi gli antropologi hanno seguito e continuano a seguire il modello britannico dell’osservazione partecipante individuale e a nutrire molti più dubbi di quanti ne avesse Griaule sull’esito finale del proprio lavoro di campo. L’immagine ricorrente è quella dell’antropologo-etnografo curvo sul suo taccuino, dubbioso degli strumenti analitico-concettuali che possiede, soggetto a disorientamenti continui a causa di interpretazioni indigene che poco si adattano ai propri modelli e insicuro delle traduzioni. Nel leggere la sequenza lavorativa riportata da Cavalli Sforza, l’antropologo dovrà ammettere di non riuscire neppure a portare a termine con facilità e slancio le fasi preliminari della sequenza. Anzi, è prevedibile che alla prima domanda utile a compilare la scheda demografica individuale (la richiesta del nome) l’antropologo senta già il peso della fatica e proceda quindi con lentezza. Ciò non è dovuto a una cronica e imbarazzante incapacità umana e disciplinare, ma alla complessità che potrebbe fare da sfondo alle risposte attese. Il riconoscimento di questo ‘annidarsi ovunque’ della complessità culturale e il desiderio di mettere ordine in essa sono fra le più importanti motivazioni che spingono un individuo a scegliere l’antropologia come professione. Sembra impossibile, ma già a partire dalla richiesta del nome dell’interlocutore la complessità culturale potrebbe irrompere; in questo paragrafo si cercherà di dimostrarlo. Lo studio antropologico dei nomi propri ha conosciuto, intorno agli anni Sessanta del Novecento, un periodo alquanto denso di ricerche e pubblicazioni. Il saggio di Rodney Needham (1954) sul si123

stema dei tecnonimi e dei necronimi presso i Penan del Borneo inaugura idealmente tale periodo e diventa riferimento imprescindibile per successive indagini. A poca distanza temporale l’uno dall’altro, i due più influenti antropologi del secondo Novecento, Lévi-Strauss (1964) e Geertz (Geertz H. e Geertz C. 1964), scrivono pagine importanti sui sistemi di designazione e denominazione individuale. Per quanto concerne l’Africa, la rivista «Uganda Journal» pubblica, fin dal 1950, saggi sui sistemi dei nomi personali in varie società: Beattie (1957) ne scrive sui Nyoro e Middleton (1961) sui Lugbara7. Benché gli approcci teorici siano molto differenti e l’interesse nei confronti dei sistemi dei nomi nasca da sensibilità diverse, in tutti gli studi antropologici sopra riportati si tende a riconoscere la straordinaria complessità di tali sistemi e delle pratiche di attribuzione, la molteplicità dei criteri e delle scelte adottate, nonché la necessità di connettere i sistemi nominali a più ampie considerazioni antropologiche. Fra i Penan del Borneo (Needham 1954) un bambino è conosciuto con un nome proprio fin quando non muore un suo ascendente e il nome proprio verrà sostituito con un necronimico. Se muore uno zio paterno, il bambino sarà chiamato ‘zio paterno morto’ (ilun) e cambierà il necronimico al sopraggiungere di una nuova morte fra i parenti. Un individuo penan può cambiare anche sei o sette necronimici prima di diventare padre o madre; solo a quel punto il necronimico lascia il posto a un tecnonimico (padre di x, madre di x). Se il primogenito muore il tecnonimico sarà sostituito da un nuovo necronimico (‘figlio primogenito morto’). Un bambino può abbandonare il proprio nome per un necronimico anche per il sopraggiungere della morte di un fratello o di una sorella, ma nel caso successivamente nasca un nuovo fratello o sorella, allora riprenderà il nome proprio. Fra i Wik Munkan dell’Australia, un individuo possiede tre nomi personali: un nome ombelicale, un nome principale e un nome secondario. Come sottolinea Lévi-Strauss (1964: 202), questo sistema nominale rimanda a un sistema di denominazione più ampio, essenzialmente connesso ai nomi dei clan: «Tutti i nomi principali e secondari derivano dal totem o dagli attributi del totem e costituiscono quindi proprietà claniche. I nomi principali si riferiscono alla testa o alla metà 7 Altri studi importanti di ‘antroponimia’ in contesti africani sono quelli di Thomas Beidelman (1974) sui Kaguru della Tanzania, di Elizabeth Tonkin (1980) sugli Jlao Kru della Liberia e di Susan Suzman (1994) sugli Zulu del Sudafrica.

124

superiore del corpo dell’animale totemico, i nomi secondari alla gamba, alla coda, o alla metà inferiore del corpo». Oltre al fatto, curioso, di ritrovare una sorta di spartizione dell’animale anche fra i criteri di individuazione e dominazione, occorre ricordare che LéviStrauss ritiene che i modi con cui si formano questi e altri sistemi nominali siano analoghi ai modi con cui noi formiamo i nomi di specie. I Wik Munkan esprimerebbero esigenze classificatorie simili allo zoologo che formula un trinomio come Lutrogale perspicillata maxwelli per denominare la lontra in quanto «in moltissime società i nomi propri vengono formati nello stesso modo in cui le scienze naturali formano i nomi di specie» (Lévi-Strauss 1964: 221). Fra i Balinesi, gli individui si rivolgono l’un l’altro utilizzando, a seconda dell’età, della condizione e dei contesti, tre tipi di nomi differenti: nomi propri, nomi dell’ordine di nascita e tecnonimi. I nomi propri sono sillabe prive di significato affibbiati ai bambini e utilizzati (comunque di rado) fin quando l’individuo non si sposa e non genera. Come in molte altre società, si evita rigorosamente la duplicazione del nome proprio all’interno della stessa comunità, ovvero, esso deve restare un nome fortemente individuale ed esclusivo di un singolo. Come afferma Geertz (1987: 348), il nome proprio è una faccenda privata, lo si usa soltanto quando non c’è altra possibilità di denominazione. Per tale motivo, è di gran lunga preferito riferirsi a un individuo (fin da bambino) con il nome dell’ordine di nascita all’interno di un ciclo di quattro (wayan primo, njoman secondo, made o nengah terzo, ktut quarto) che ricomincia con il quinto nato (wayan). Malgrado la presenza di queste due possibilità di individuazione, il sistema nominale più utilizzato e più dignitoso è quello dei tecnonimi: ‘padre di x’, ‘madre di x’ appena nasce il primogenito, ‘nonno di y’, ‘nonna di y’, appena nasce il primo nipote. Così come Lévi-Strauss non si accontenta di elencare nomi propri a fine descrittivo, ma riconduce i sistemi nominali a più ampi sistemi di classificazione e a una generale esigenza di ordinamento, anche Geertz non si limita (non è interessato) a un livello descrittivo (di mera elencazione). I sistemi nominali infatti non consistono «in una semplice raccolta di utili cartellini» (Geertz 1987: 346), da appendere eventualmente al collo di chicchessia: essi vanno collocati in un più ampio agglomerato di elementi, utile a cogliere il concetto locale di persona. Per Geertz, il sistema dei tecnonimi balinesi è, in modo paradigmatico, un «frammento di cultura» (Geertz 1964: 125

103), dove la cultura, intesa come un sistema ordinato di simboli non rispecchia meramente la struttura sociale, ma fornisce un insieme di istruzioni, un ‘programma’ per agire in una vita sociale organizzata. E i Pigmei? Quanti nomi hanno? Come li scelgono? Pur non essendoci studi espressamente dedicati all’antroponimia presso i gruppi pigmei, è possibile avere qualche scarna informazione da ciò che riporta Colin Turnbull nei suoi lavori (1965: 101, 1979: 37). I Pigmei Bambuti possiedono un nome proprio (il ‘vero nome’), ma molti di loro preferiscono usare nomi differenti quando si trovano nei villaggi. Un individuo potrebbe arrivare ad avere addirittura quattro nomi, sicuramente non meno di due o tre. Per Turnbull, tutti hanno un vero nome, che usano preferibilmente fra loro, in foresta, e un nome in kingwana con cui sono noti agli abitanti dei villaggi. Questa dicotomia fra mondo interno e mondo esterno è sottolineata anche da Grinker per ciò che concerne i Pigmei Efe, i quali possiedono un ‘vero nome’ (abe mani) e ‘altri nomi’ (abe ika) in kiswahili e francese. Affidandosi all’impostazione interpretativa proposta da Turnbull, incentrata sulla dicotomia fra foresta e villaggio, la contrapposizione fra ‘nomi veri’ e ‘altri nomi’ connessi al mondo esterno ed espressi nelle lingue nazionali, coloniali e franche, riproporrebbe all’interno del sistema nominale la contrapposizione fra cacciatoriraccoglitori e coltivatori. Diversamente, affidandosi all’impostazione interpretativa di Grinker, incentrata sull’idea di una reale e profonda simbiosi delle due culture all’interno di un’unica società, il sistema nominale potrebbe essere visto come un dispositivo di rafforzamento di tale simbiosi in un campo di forze sbilanciato, dove i Lese vivono e si rappresentano il rapporto con i Pigmei Efe da una posizione di dominio e di controllo: sono i Lese a ‘possedere’ Efe (‘il mio Efe’, dicono) e non il contrario. Come si vedrà fra poco, il sistema nominale rafforza la simbiosi attraverso la pratica dell’omonimia e la suddivisione fra gruppi ‘datori di nomi’ e gruppi ‘prenditori di nomi’. Partendo dal presupposto che le forme referenziali come i nomi propri «non sono [...] soltanto delle etichette per identificare di chi o cosa si sta parlando, [ma] sono sempre dei modi per collocare le persone» (Duranti 2007: 69), i Lese pensano l’incorporazione degli Efe all’interno della propria società a partire da un aspetto previsto in certi sistemi nominali, l’omonimia (atu, nella lingua locale). Nelle leggende, l’origine della relazione di simbiosi fra Efe e Lese viene ricondotta a un primo incontro casuale fra due individui – rispettiva126

mente un Lese e un Efe – aventi lo stesso nome. Il riconoscersi omonimi (atu) è il punto di partenza di un intenso e duraturo rapporto di collaborazione e mutua assistenza. Se nelle leggende che narrano l’origine del rapporto di partnership l’omonimia si presenta nei suoi termini corretti e attesi – ovvero, due individui che hanno lo stesso nome –, nella realtà, invece, la relazione di omonimia atu si instaura fra un gruppo efe e un gruppo lese sulla base di quanto i Lese si impongono come ‘datori di nomi’ ai neonati efe. Come scrive Grinker, «le relazioni di omonimia si creano quando un Lese dà un nome lese a un nuovo nato del clan del suo partner efe (gli Efe, al contrario, non danno mai nomi ai Lese). Quando ciò avviene con una certa frequenza, i due gruppi vengono detti omonimi» (Grinker 1997: 136). Si tenga conto, inoltre, che l’omonimia e l’attribuzione di nomi riguardano i ‘veri nomi’ (abe mani) e non gli ‘altri nomi’ (abe ika) in kiswahili e francese. È probabile che in tal modo si crei una reale omonimia fra individui lese e individui efe, ma ciò che occorre rilevare è che il potere della nominazione determina la natura della simbiosi, pensata dai Lese attraverso un meccanismo di incorporazione che vede gli stessi Lese come unici agenti attivi. Così come esistono gruppi ‘datori di mogli’ e gruppi ‘prenditori di mogli’ (contrapposizione nota nella letteratura antropologica), esistono pure gruppi ‘datori di nomi’ e gruppi ‘prenditori di nomi’. Entrambe le dicotomie rimandano a dinamiche di potere e all’instaurarsi di logiche di dipendenza. ‘Prendere mogli’ e ‘dare nomi’ sono le attività più prestigiose e nel rapporto fra Lese ed Efe i primi se le riservano entrambe, in quanto, come è noto, sono i Pigmei che generalmente ‘danno mogli’ ai gruppi coltivatori e non viceversa. Chiariti questi aspetti, è possibile in chiave interpretativa compiere un ulteriore passo e riflettere su quanto le pratiche matrimoniali e i meccanismi di nominazione (in particolare, l’incremento di omonimia) rientrino in un più ampio progetto antropologico che trascende le dinamiche del potere e le logiche della dipendenza. Non è un caso che nella lingua dei Lese (utilizzata anche dagli Efe) il termine atu stia a indicare un duplice concetto: l’omonimia e la relazione cognatica fra individui di sesso diverso. Atu sono coloro che hanno lo stesso nome, così come le mogli dei fratelli e, per le donne, i fratelli dei mariti. Assodato che nessun uomo lese cercherebbe un partner sessuale fra le donne del clan efe con cui c’è rapporto atu e 127

neppure fra i gruppi cognatici, si può affermare che tutti gli individui atu (cognati e omonimi) sono soggetti, fra loro, a un divieto sessuale (Grinker 1994: 93). L’estensione verso l’esterno (verso individui estranei al patrilignaggio) della regola esogamica e in ogni caso del divieto di intrattenere rapporti sessuali è una evidente modalità di incorporazione dell’altro ed estensione delle relazioni di alleanza. Inoltre, l’equiparazione degli omonimi efe ai cognati è un modo per esprimere quanto i partner efe siano pensati come intrecciati e legati alle esistenze di ‘noi, Lese’. Al riguardo, è significativo che nella lingua dei vicini Mamvu (appartenente alla stessa famiglia linguistica dei Lese8) il termine atu sia stato tradotto in tedesco dal linguista Anton Vorbichler (1971: 60) con verschlingen, ovvero, ‘intrecciarsi’, ‘legarsi’, ‘annodarsi’, ‘attorcigliarsi’, tutti termini che danno l’idea della simbiosi. Come si è cercato di mostrare, il rimanere impigliati nella complessità culturale che scaturisce dalla banale richiesta del nome di colui con il quale si interagisce sul campo non è una conseguenza dell’inefficienza disciplinare (quella dell’antropologia culturale), ma un percorso di riconoscimento di tale complessità. Il fine ultimo è quello di fare emergere significati e concezioni del mondo senza precludersi confronti comparativi a livello regionale e connessioni più ampie. Proprio in quest’ottica è possibile estendere ulteriormente la rete di connessioni che si dipana dall’analisi della relazione atu. Per esempio, in una regione non lontana dai villaggi lese, altri gruppi di lingua sudanese centro-orientale, i Mangbetu, si ‘intrecciano’ e si ‘annodano’ con gruppi di Pigmei Asoa attraverso un’alleanza sancita con la pratica della circoncisione che i locali denominano noutu. Nel prossimo paragrafo si mostrerà che fra atu e noutu non c’è soltanto assonanza, ma una relazione più profonda. 4.5. Fratelli di sangue, finte madri e fratelli di latte Nel Congo nord-orientale, non lontano dai territori lese, vivono i Mangbetu, una popolazione sufficientemente nota in Occidente per il fatto di aver prodotto arte raffinata e aver fondato, nella seconda metà del XVIII secolo, un importante regno (Schildkrout e Keim 8

Lingue nilo-sahariane, sottogruppo ‘sudanese centro-orientale’.

128

1990, 1998, Allovio 2006). I gruppi mangbetu insediati nelle regioni più meridionali (meglio riferirsi a loro con il termine Medje-Mangbetu) intrattengono con i gruppi bantu vicini (Balika e Babudu) e con gruppi pigmei (Asoa) intense relazioni economiche e sociali. Una delle modalità per istituzionalizzare queste relazioni è organizzare in comune rituali di circoncisione con lo scopo di far diventare i bambini circoncisi amekenge, ovvero fratelli di sangue (Allovio 1999). Il rito di circoncisione denominato noutu non è un vero rito di iniziazione alla vita adulta, ma piuttosto un rito che sancisce un’alleanza, possibilmente interetnica, fra due famiglie. I bambini circoncisi nella stessa occasione rituale diventano appunto fratelli di sangue (amekenge) e per tutta la vita hanno l’obbligo di mutua assistenza e di mettere in comune i beni. La fratellanza di sangue è ritualmente sancita dalla reale mescolanza in un unico recipiente del sangue fuoriuscito dalle ferite dei circoncisi. Diversamente dalla maggior parte dei riti di circoncisione descritti nelle classiche monografie etnografiche, il noutu non è un rituale organizzato da un gruppo (villaggio, clan) e connesso al rafforzamento di una identità collettiva, ma l’esito finale di una iniziativa di un padre di famiglia che ritiene giunto il momento di circoncidere uno o più figli. Può succedere che altri individui del patrilignaggio di colui che organizza approfittino dell’occasione rituale per circoncidere i propri figli. Chi organizza avrà cura di scegliere con estrema attenzione la famiglia con la quale svolgere il noutu, ovvero la famiglia con cui ‘imparentarsi’ attraverso la fratellanza fittizia dei rispettivi figli. La scelta degli amekenge è una questione delicata poiché la fratellanza implica una teorica comunanza dei beni. Alcune regole sono di solito osservate: a) la famiglia è scelta con criteri amicali, economici o strategici, vale a dire, sulla base di vecchi rapporti di amicizia, possibilità di attingere a risorse non disponibili in loco, possibilità di avere aiuto e appoggio in territori con miniere, mercati, ospedali ecc. b) Deve essere garantita la dualità e simmetria del noutu, in quanto sono sempre coinvolte non più di due famiglie che mettono insieme, nello stesso evento rituale, un numero quasi uguale di bambini da circoncidere. c) La famiglia che si sceglie come partner nel rituale di alleanza tramite circoncisione deve essere preferibilmente al di là della cerchia dei parenti, meglio se appartenente a un altro gruppo etnico. I Medje-Mangbetu prediligono rintracciare i futuri amekenge 129

dei figli fra i Mayogo, i Balika, i Babudu e fra i Pigmei Asoa, tutti gruppi insediati nei territori circostanti. Anche fra i Balika e i Babudu si prediligono alleanze con la circoncisione interetniche e quelle con i Pigmei sono molto diffuse: di conseguenza molte famiglie di Pigmei della regione hanno ‘fratelli di sangue’ fra i gruppi bantu e sudanesi dei villaggi. La partecipazione dei Pigmei ai riti di circoncisione dei ‘neri’ non si registra solo fra gli Asoa; anche i più noti Pigmei Bambuti partecipano ai riti di circoncisione dei Babira e di altri gruppi del Congo orientale. Sulla natura di tale partecipazione, già Turnbull e Schebesta ebbero modo di dibattere a metà del Novecento: si tratta di uno sfruttamento dei Pigmei da parte dei neri o prevale la reciprocità negli scambi, nelle prestazioni e nel rispetto? Secondo Turnbull, i Pigmei Bambuti partecipano al rito di circoncisione dei neri (Babira, Bandaka e Bangwana) non tanto per condividerne il valore iniziatico quanto per collocarsi in modo formale nell’universo dei loro villaggi, pur conservando una notevole indipendenza e un forte ancoraggio alla foresta (Turnbull 1957: 209-210; 1965: 63-64). Per Schebesta tale interpretazione dissimulerebbe l’evidente sfruttamento dei Pigmei coinvolti nei riti di circoncisione dei villageois come subalterni e dipendenti (Schebesta 1958). La relazione fra Pigmei e neri è in effetti ambigua anche per ciò che concerne la partecipazione ai riti di circoncisione e il punto di vista dei neri e dei Pigmei – oltre che dei diversi studiosi – è differente. Per quanto concerne il noutu dei Medje-Mangbetu l’idea dell’alleanza e dello scambio reciproco è radicata, come testimoniano le parole di Emasiombe Anselme (il capo del villaggio di Mbongyi) il cui figlio ha l’amekenge fra i Pigmei: Si sono scelti i Pigmei per il noutu non per caso. I Pigmei danno carne e se c’è un lutto nella mia famiglia andranno a caccia per portare carne nei giorni del lutto. In molti casi loro chiedono abiti, sale, sapone, sigarette, olio ma soprattutto abiti. Anche noi andiamo da loro soprattutto per le lumache perché sono pratici di foresta e non si perdono (testimonianza riportata in Allovio 1999: 91).

Il noutu con i Pigmei viene presentato dai Medje-Mangbetu come costoso e rischioso, in quanto l’alleanza coinvolge un’intera banda i cui componenti, nel nome della fratellanza, possono ‘razziare’ i campi coltivati e fare incetta di prodotti agricoli. Questa visione sbi130

lanciata del noutu ha una forte componente ideologica, in quanto, se è vero che lo sforzo iniziale (connesso allo svolgimento del rituale) è a carico dei neri, costoro si garantiscono una fornitura frequente di selvaggina per molto tempo, difficilmente bilanciata da prodotti agricoli o industriali (abiti, sigarette). Per quanto riguarda la fratellanza che dovrebbe caratterizzare i rapporti fra gli amekenge e fra le rispettive famiglie, esistono forti divergenze fra ciò che si afferma e ciò che si fa e si pensa. I Medje-Mangbetu che hanno amekenge pigmei sottolineano il rispetto e l’uguaglianza nei rapporti instaurati con il noutu, tuttavia il termine akasibandrane (il mio pigmeo) ha un’accezione del tutto diversa dal termine nekweibandrane (il mio Medje; nekwe è il termine con cui gli Asoa denominano i Medje). Come emerge dalle parole dei villageois, intervistati durante la ricerca sul campo, la reciprocità, quando esiste, si limita agli scambi economici senza influire sulle distinzioni sociali: «i Pigmei sono proprietà dei Medje ma un Medje non può essere proprietà privata di un Pigmeo. I Pigmei dipendono molto dai Medje, mentre i Medje non dipendono dai Pigmei» (intervista a Mopoto Mapabuadi). Nonostante ciò, i Pigmei Asoa (localmente è molto usato anche il termine Aka) vivono il noutu come una opportunità finalizzata ad incrementare l’apporto di beni dei villaggi: Per noi la circoncisione è importante perché crea fra noi e i neri un clima positivo. Sono i neri che hanno invitato i pigmei a fare la circoncisione. La circoncisione si può fare anche fra Aka ma è meglio farla in un altro gruppo per avere vantaggi, perché quando ci si unisce con altri ci si scambiano delle cose. Il meglio è farla con i neri perché loro si prendono i bambini [a carico] e gli danno degli abiti e altre cose, sarà un aiuto illimitato (intervista a Monsiame, donna asoa).

Insomma, indipendentemente dai vari punti di vista, la fratellanza fittizia viene realmente creata e, di conseguenza, fra i due gruppi si instaura il divieto di instaurare relazioni sessuali: «può succedere che un Medje prenda moglie fra i Pigmei ma non sarà nella famiglia dei propri amekenge, bisogna che ci sia un po’ di distanza per potersi sposare» (Mopoto Mapabuadi). Se in termini strutturali il noutu rimanda alle relazioni patrilineari (si crea consanguineità fittizia), in termini funzionali esso è vissuto come un’importante estensione della propria rete di alleanze si131

mile alle relazioni cognatiche e matrimoniali9. La fratellanza che si viene a creare fra due circoncisi (gli amekenge) si esprime principalmente attraverso una forte alleanza fra i gruppi di discendenza a cui appartengono. Come per l’omonimia della relazione atu, anche la fratellanza del noutu non si esaurisce nel riconoscimento di una stretta relazione fra due individui (siano essi omonimi o ‘finti fratelli’), ma configura il rapporto di interconnessione fra due gruppi. Tale rapporto è caratterizzato da ambivalenza: da un lato si riconosce l’importanza paritaria dei Pigmei all’interno di un unico progetto di società segnato da simbiosi e interdipendenza, dall’altro i neri non perdono occasione per sottolineare l’inferiorità e la subordinazione di coloro con i quali si ‘legano’ e si ‘intrecciano’ escogitando, a seconda del contesto culturale, modelli, meccanismi, immagini differenti. La relazione si configura come ‘omonimia’ in un caso e come ‘fratellanza di sangue’ nell’altro. Atu e noutu sono modi della cultura, frammenti di configurazioni di significati che servono per agire e mettere ordine all’interno di una realtà sociale specifica. L’antropologia ha il compito di mostrare le differenze e le somiglianze fra queste configurazioni di significati, valorizzare le specificità delle scelte, dar conto della creatività umana e al contempo spiegare, proporre connessioni in grado di ‘mettere insieme’ le produzioni culturali e le configurazioni sociali. Atu e noutu non sono le sole modalità per pensare la relazione fra Pigmei e neri rintracciate nell’Africa equatoriale. A titolo di esempio e al fine di gettare lo sguardo comparativo anche fra i Pigmei occidentali può essere curioso riportare le modalità con cui si rappresenta localmente il rapporto Pigmei/neri nella chefferie di Nditam, situata 220 km a nord di Yaoundé (Abega 1997). La regione di Nditam è caratterizzata dalla compresenza di aree forestali umide e aree di savana. La contrapposizione ecologica è pensata anche attraverso l’opposizione di forme di umanità: la foresta è il luogo dei Pigmei Bedzang, cacciatori e raccoglitori, la savana è abitata dai Tikar, coltivatori. Analogamente a ciò che succede in altri contesti dell’Africa 9 La connessione fra i rapporti cognatici e l’idea di fratellanza è contenuta nella terminologia di altri gruppi di lingua sudanese; terminologia, ancora una volta, connessa al suffisso -tu. Per esempio, John Middleton riferendosi ai Lugbara riporta che «Il legame di affinità è incentrato sui rapporti tra i cognati otu, che dovrebbero considerarsi reciprocamente come uguali e fratelli» (1975, 130).

132

equatoriale dove i ‘neri’ coltivatori esprimono nei miti e nel linguaggio quotidiano il loro disprezzo per i Pigmei, anche i Tikar si rappresentano i Bedzang come individui fuoriusciti dall’animalità solo grazie al contatto con i coltivatori; malgrado questo processo di civilizzazione, i Pigmei restano, agli occhi degli abitanti dei villaggi, al limite del mondo umano e vengono ritenuti ladri, bugiardi e miserabili. I Tikar sono convinti di aver portato la cultura ai Bedzang (lingua, modi di abbigliarsi, utensili, riti funerari, culto delle divinità), ma questo non è sufficiente a dissolvere l’ambiguità interna al rapporto simbiotico che si nutre di una interdipendenza necessaria e antropologicamente fondante anche se spesso dissimulata. Come mostra opportunamente Séverin Cécile Abega (1997: 351-354), il ruolo dei Pigmei nella vita dei componenti la famiglia del capo di Nditam è molto significativa. Quando una delle mogli del capo scopre di essere incinta, saranno i Pigmei a darne l’annuncio al popolo nel corso di uno specifico rito. Alla nascita del principe, la madre non può allattare finché il neonato non abbia poppato dal seno di una donna pigmea per uno o più giorni. Saranno ancora i Pigmei a mostrare per la prima volta in pubblico e alla luce del giorno il piccolo principe. La regina sembra occuparsi della gestazione naturale, mentre i pigmei assicurano la nascita sociale e culturale del principe. Per tale motivo essi si inseriscono nelle articolazioni più importanti del suo ciclo di vita. Il capo e i suoi fratelli sono mezzi Bedzang e mezzi Tikar. Per tale motivo, i due capi di Nditam, in quanto questa comunità è governata da un capo e da un comandante, affermano forte e chiaro che i pigmei sono i loro fratelli, per lo meno fratelli di latte, poiché ognuno di loro ha poppato da un seno ndzan (Abega 1997: 532).

Alla luce di tale fratellanza, i regnanti di Nditam hanno cura di escogitare un modo per assicurare la discendenza nobile anche ai Pigmei. A tale scopo, viene scelta, fra le figlie del capo tikar, colei che dovrà svolgere l’importante ruolo di ‘madre dei Pigmei’; questa principessa dovrà facilitare i rapporti fra i due gruppi, accogliere i Pigmei a Nditam, preparare loro una apposita pietanza e organizzare feste in loro onore. I ruoli che i Pigmei assumono nella vita dei principi di Nditam sono riconosciuti e valorizzati: i Bedzang sono responsabili dei riti di 133

fecondità, apprezzati ritualisti nel corso delle esequie dei principi e preziosi terapeuti. Nei miti si narra che i Pigmei abbiano addirittura insegnato ai Tikar le pratiche della circoncisione e del coito. Se per la gente comune della chefferie, i Pigmei, popolo senza cultura, necessita di un continuo processo di civilizzazione, per i capi è opportuno elaborare un meccanismo di incorporazione che permetta loro di essere sovrani della foresta e della savana. Per fare ciò occorre non solo riconoscere i Pigmei Bedzang come importante componente del tessuto sociale, ma ravvisare il loro indispensabile apporto culturale. In sintonia con la tesi ‘interdipendentista’ di Grinker, Abega conclude affermando che «le due società hanno bisogno l’una dell’altra. Il re comanda i Bedzang, ma non può regnare senza di loro» (Abega 1997: 534). Giunti alla conclusione di questo quarto capitolo è opportuno percorrere a ritroso il tragitto compiuto nelle ultime pagine: principesse che diventano finte madri, coetanei che si scoprono fratelli di latte o di sangue, omonimi classificati come cognati. Agli omonimi ci si era arrivati riflettendo sulla complessità culturale che potrebbe scaturire dalla semplice richiesta del nome proprio. Riecheggiando ciò che Geertz sosteneva riguardo i tecnonimi balinesi, ovvero che fossero un paradigma della cultura, si ritiene lecito affermare che la questione dei nomi di persona (l’antroponimia) possa rappresentare degnamente un paradigma dell’antropologia. Infatti, se a prima vista i sistemi nominali conducono a pensare l’identità dei singoli e dei gruppi, a ben vedere ciò che emergono sono relazioni che a loro volta, in un’ottica comparativa, rimandano ad altre relazioni, altri legami espressi, non a caso, con il linguaggio della parentela, il più possente strumento per pensare e instaurare legami. Pare quindi del tutto normale, da un punto di vista metodologico, che dal domandare il nome proprio ai Pigmei, un antropologo arrivi a riflettere sulle relazioni fra i Pigmei e gli altri, si imbatta nell’omonimia come modello di simbiosi e da lì arrivi alla fratellanza con la circoncisione, a finte madri e fratelli di latte. Come sostiene François Laplantine, «l’antropologia è un pensiero della relazione» (2004: 29) e queste relazioni sono spesso tanto poderose quanto evanescenti e provvisorie. Sono infatti numerosi i modelli di relazione presenti nelle organizzazioni sociali, che non lasciano traccia nella natura, nella biologia dell’uomo. Omonimi, fratelli di circoncisione, fratelli di latte e finte ma134

dri dei Pigmei non lasciano traccia nei geni, ma testimoniano la genialità (la creatività) della cultura e forniscono le coordinate cognitive e comportamentali per pensare e agire all’interno di universi relazionali dotati di senso. Non solo queste finzioni (costruzioni) non lasciano tracce nei geni, ma rappresentano, da un lato, la prova evidente che i modi di interazione fra i gruppi non sono sempre riconducibili ai modelli matematici che pretendono di spiegare l’evoluzione culturale e l’adattamento e, dall’altro, che gli stessi modi di interazione non sono semplificabili in una lista di migrazioni di massa e innovazioni tecnologiche così come emerge dalla ricostruzione proposta dalla genetica delle popolazioni (MacEachern 2000: 370). Che farne di questa massa qualitativamente e quantitativamente rilevante di costruzioni culturali? Una soluzione sarebbe quella di sacrificarla (ignorarla) sull’altare di un metodo che, per preservarsi, deve selezionare con cura l’oggetto di analisi riducendo in gran parte la cultura a un elenco di innovazioni adattive. Diversamente, occorre ammettere l’alto grado di complessità e creatività (Favole 2009) presente nelle differenti società con il rischio di non venirne a capo e di rigettare i modelli teorici che vorrebbero fornire spiegazioni unitarie e generali. Dar conto dell’inesauribile repertorio di complessità e creatività culturale dell’essere umano senza per questo rinunciare a proporre interpretazioni, connessioni e spiegazioni è uno degli obiettivi principali dell’antropologia culturale. Si suppone che per mantenere tale obiettivo non siano necessari salvatori della disciplina che operano in realtà come distruttori (riduzionisti e oggettivisti di varia natura) e neppure distruttori della stessa che operano con la presunzione di salvarla (decostruzionisti radicali).

V

Noi, Pigmei

5.1. Scarsa cumulatività e ricchezza di dibattiti Gli antropologi, come si è affermato nel capitolo precedente, benché abbiano poca dimestichezza con le generalizzazioni e scarsa attitudine a formulare teorie forti, non sembra si accontentino di raggiungere il solo livello descrittivo. Appurato ciò, non si può nascondere il fatto che la scarsità (quando non si tratta di assenza) di teorie forti e modelli inossidabili crea un ineludibile problema di individuazione di un fondamento (di una tradizione) che si concretizza primariamente in una mancanza di cumulatività del sapere. Philip Salzman ha posto il problema in tutta la sua evidenza: Gli eroi e i seguaci di ogni nuova corrente screditano e respingono il lavoro di quelle precedenti considerandolo mal concepito e da dimenticare. Solo il nuovo panorama teorico del domani [...] ha un certo significato; per quanto riguarda gli errori precedenti, dateli alle fiamme perché contengono solo falsità e illusioni. C’è quindi da meravigliarsi, con modelli che cambiano più rapidamente di quanto cambiano le nostre automobili, che gli antropologi trovino delle difficoltà nel consolidare una base di sapere su cui costruire? (Salzman 1993: 69)

Avere a disposizione una solida base – o per lo meno illudersi di possederla – su cui costruire un sapere è rassicurante e permette di fondare una tradizione disciplinare che sia garanzia di prestigio e di valore. Questo sembra difficile che succeda in antropologia, una disciplina – per dirla con Roy Wagner (1992: 5) – «in cui un autore è obbligato a distillare la propria tradizione e il proprio consenso». Probabilmente il metodo etnografico potrebbe rivelarsi un buon candidato per rappresentare quella solida base, tuttavia, si tratta sol136

tanto di una base metodologica e non teorica, la cui ‘sacralità’, inoltre, è fonte di derisione in molta antropologia contemporanea. Già Evans-Pritchard avanzava dubbi sul valore del campo avulso da solide basi teoriche: L’importanza di solide fondamenta di teoria generale inizia a rivelarsi quando il ricercatore torna a casa per scrivere il libro sul popolo che ha studiato. Ho fatto molta, forse troppa, esperienza sul campo e ho scoperto da tempo che la battaglia decisiva non si combatte sul campo ma nella rielaborazione successiva. Chiunque non sia un completo idiota può fare il lavoro sul campo, e se il popolo su cui sta lavorando non è stato precedentemente studiato, inevitabilmente produrrà un contributo originale per la conoscenza. Ma si tratterà di una conoscenza teorica o fattuale? Chiunque può produrre un nuovo fatto: il punto è produrre una nuova idea (Evans-Pritchard 2002: 289)1.

Affermare che l’antropologia fatica a consolidare una tradizione non significa renderla immune dalle miserie delle tradizioni intellettuali; anzi, la miseria potrebbe avere proprio il volto di questa incapacità cronica a cumulare sapere e a costruirsi una base su cui edificare. In questo capitolo si cercherà di mostrare come le debolezze (le miserie) dell’antropologia, se opportunamente valutate, possono essere considerate ricchezze o per lo meno forme di vita disciplinare dignitose al pari di altre. Per fare ciò, si cercherà di attraversare indenni alcuni dei dibattiti più importanti che hanno coinvolto i Pigmei in qualità di cacciatori-raccoglitori e di indigeni. Attraversare indenni i dibattiti significa mantenere la consapevolezza che la loro ricostruzione non può essere l’approdo teorico e metodologico dello studioso, essa non esaurisce il compito dell’antropologo. La ricostruzione dei dibattiti delinea un tortuoso percorso di analisi; non spiega e non interpreta l’oggetto dell’analisi. La ricostruzione dei dibattiti mostra ‘come le cose stanno’ dentro a una disciplina, non ‘come le cose stanno’ fuori, nella realtà che la disciplina indaga. 1 Le parole pungenti di Evans-Pritchard possono far riflettere non solo gli antropologi. La feticizzazione del metodo e l’attribuzione del valore a un risultato soltanto perché ottenuto con rigore metodologico, anche se non aggiunge nulla al sapere e alla conoscenza, sono ricorrenti in molte discipline scientifiche e umanistiche.

137

A dispetto di una cumulatività del sapere antropologico che stenta a vedersi, ciò che si accumula ed è abbondante nella disciplina sono i dibattiti e le ricostruzioni dei dibattiti; questo potrebbe essere connesso alla mutevolezza dei modelli (Salzman 1993) e al tentativo di mettere un ordine teleologico a questa volubilità. Lungi dal voler svalutare i dibattiti (importanti, preziosi e significativi) e pensare sia inutile darne conto, si vorrebbe semplicemente proporre una sorta di ‘attraversamento fruttuoso’ dei dibattiti stessi. Gli antropologi, così come praticano forme di attraversamento culturale, possono praticare forme di attraversamento dei dibattiti, i quali non dovrebbero essere sabbie mobili, ma repertori di opzioni teoriche e chiavi di lettura. In questi ricchi repertori occorre fare delle valutazioni, occorre selezionare opzioni teoriche e scegliere chiavi di lettura non tanto sulla base delle mode teoriche e terminologiche ma in base all’efficacia degli attrezzi concettuali utili a descrivere, interpretare e spiegare ‘come le cose stanno là’, nel mondo esterno, fuori dai confini della propria disciplina. Per quanto concerne i Pigmei, si sono selezionati tre importanti dibattiti in cui questi sono stati coinvolti: il dibattito sulla teoria dell’opulenza originaria, la diatriba tradizionalisti/revisionisti e il dibattito sull’indigenismo. Lo scopo che ci si prefigge nelle pagine seguenti non è principalmente quello di dar conto di tali dibattiti, quanto quello di individuare una ‘opzione di lettura’ unitaria. Alla fine di questo percorso emergerà, non senza una giusta dose di ironia, che Pigmei e antropologi si assomigliano parecchio. 5.2. L’opulenza dei cacciatori-raccoglitori Un modo efficace per chi volesse dettagliatamente seguire lo sviluppo degli studi e dei dibattiti sui cacciatori e raccoglitori (alcuni studiosi preferiscono parlare di ‘società acquisitive’) è percorrere la storia trentennale dell’International Conference on Hunting and Gathering Societies (CHAGS). A partire dal primo convegno tenutosi nel 1978 a Parigi per iniziativa di Maurice Godelier, sono stati organizzati, a distanza di alcuni anni l’uno dall’altro, appuntamenti fissi di confronto fra i massimi esperti mondiali per fare il punto sugli studi e sulle prospettive di ricerca inerenti le società di caccia e raccolta. In verità, prima ancora dell’iniziativa di Godelier, ebbero luogo, 138

negli anni Sessanta, due importanti convegni fondativi degli studi del settore. Nel 1965 a Ottawa (Canada) il simposio Band Societies, organizzato da David Damas, rappresentò un primo importante confronto fra studiosi ispirato principalmente all’inquadramento tipologico proposto da Julian Steward (1977), il quale vedeva nelle organizzazioni a banda (caratteristiche delle società di caccia e raccolta) il livello più semplice di integrazione socioculturale e al contempo proponeva la suddivisione tipologica fra bande patrilocali e bande composite; suddivisione successivamente ripresa con alcuni correttivi da Elman Service (1983). Il convegno di Ottawa permise di gettare uno sguardo comparativo sulle società organizzate in bande con la speranza che lo studio dei cacciatori-raccoglitori contemporanei potesse aiutare a comprendere l’origine della vita sociale della specie umana. Il secondo convegno, Man the Hunter, si svolse a Chicago nell’aprile del 1966. Fortemente voluto da Sol Tax e organizzato da Richard Lee e Irven DeVore (Lee e DeVore 1968), rappresenta, per molti, l’atto di nascita degli studi sui cacciatori-raccoglitori, fornendo le coordinate più importanti dei dibattiti sviluppatosi nei decenni successivi. Ad accomunare le varie società e a determinare le comparazioni degli studiosi non era più la questione dell’organizzazione in bande, quanto la consapevolezza di un comune modello economico e culturale riscontrabile fra i cacciatori-raccoglitori contemporanei e ipotizzato come universalmente diffuso prima della rivoluzione neolitica. Come sottolinea Alan Barnard (1983: 194), fra i partecipanti prevalse un approccio rousseauiano, in base al quale i cacciatori-raccoglitori venivano percepiti come più ‘naturali’ e al contempo, non senza paradosso, più ‘umani’ rispetto ad altre forme di umanità. Già negli anni Sessanta e Settanta, l’incremento delle ricerche antropologiche presso gruppi di cacciatori-raccoglitori, compiute da giovani studiosi, mutò completamente i termini del confronto fra esperti. Un primo risultato fu la presa di distanza dal modello patrilocale della banda, la marginalizzazione della questione tipologica inerente le bande e la comune consapevolezza che l’organizzazione sociale dei cacciatori-raccoglitori sia descrivibile a partire da concetti quali ‘flusso’, ‘flessibilità’ e ‘fluidità’ (Barnard 1983: 196). Le nuove etnografie che si resero disponibili non solo contribuirono a rivedere gli assunti di Steward e Service sulle bande, ma proposero una nuova visione delle società di caccia e raccolta incentra139

ta sulla valorizzazione delle pratiche di scambio e condivisione interna delle risorse (già Lorna Marshall ne scrisse nel 1961 riguardo ai !Kung) e sulla tesi dell’opulenza originaria dei cacciatori-raccoglitori, ovvero l’idea che le società acquisitive raggiungano livelli di vita soddisfacenti pur minimizzando il tempo dedicato alle attività di sussistenza. Furono fondamentali, al riguardo, le ricerche di Richard Lee (1965) che mostrarono come i !Kung dedichino alle attività direttamente connesse alla sussistenza soltanto due o tre ore al giorno. Sahlins – basandosi sulle etnografie di Marshall, Lee e altri studiosi – formulò la teoria dell’opulenza originaria (original affluent society) al convegno del 1966, Man the Hunter. I cacciatori-raccoglitori, per soddisfare le proprie esigenze di sussistenza, lungi dal trascorrere il tempo alla continua ricerca del cibo, necessitano di poco lavoro rispetto ai coltivatori e ai moderni lavoratori dell’industria. Essendo i bisogni scarsi e i mezzi produttivi abbondanti, ne consegue che i cacciatori-raccoglitori hanno molto tempo ‘liberato’ dalle attività necessarie a garantirsi il sostentamento. L’argomentazione di Sahlins ebbe un duplice effetto sulla percezione delle società di caccia e raccolta: da un lato, rovesciò l’idea, ampiamente diffusa, di gruppi immersi in una cronica difficoltà nell’accumulare risorse sufficienti a un buon sostentamento, dall’altro avvalorò e rafforzò la visione del cacciatore-raccoglitore inteso come ‘uomo non economico’, poco interessato alla proprietà, al possesso e allo sviluppo del suo corredo tecnologico (Sahlins 1980: 13). La formulazione della teoria dell’opulenza originaria sviluppò un acceso dibattito all’interno del quale furono avanzate critiche al modello generalizzante proposto da Sahlins. Le ricerche etnografiche condotte fra gli Aché del Paraguay (Hawkes et. al. 1982) e fra i Gunwinngu dell’Australia (Altman 1984) mostrerebbero società di caccia e raccolta impegnate per molte ore al giorno nell’attività venatoria. Tale comportamento, secondo i critici, non rappresenterebbe un’eccezione, bensì la regola. Come chiarisce opportunamente Mariano Pavanello, il dibattito intorno all’original affluent society configura lo scontro fra l’opportunità di utilizzo di due differenti modelli matematici: Richard Lee si affida al concetto di «sforzo di sussistenza come quantità di tempo-lavoro allocato in funzione della cattura di cibo» (Pavanello 1993: 15), mentre i suoi critici applicano alle società umane i «mo140

delli matematici della dieta ottimale e della scelta dell’insieme ottimale delle risorse ambientali» (Pavanello 1993: 16). Se da un lato Pavanello sostiene che il modello proposto da Lee debba essere considerato uno strumento analitico di grande capacità esplicativa, egli ritiene che le conclusioni a cui giunge Sahlins, utilizzando i dati di Lee, poggino su una evidente contraddizione: Sahlins [...] non si rese conto della contraddizione in cui era caduto. Infatti è illogico definire non economico un comportamento che minimizza il costo (tempo-lavoro) e massimizza il risultato (livello nutrizionale). Prendendo alla lettera il suo ragionamento, sarebbe legittimo supporre che il comportamento dell’uomo della civiltà industriale è irrazionale in comparazione con i cacciatori-raccoglitori. Il suo comportamento sarebbe infatti determinato da un meccanismo che rende scarsi i mezzi attraverso una dilatazione senza fine dei bisogni [...]. Pertanto l’unico vero Homo oeconomicus sarebbe il cacciatore-raccoglitore con i suoi mezzi adeguati e i suoi bisogni limitati (Pavanello 1993: 13).

La denuncia del mancato riconoscimento della razionalità economica dei cacciatori-raccoglitori è ciò che caratterizza l’argomentazione di Pavanello, il quale, pur prediligendo in antropologia economica una prospettiva formalista con al centro la massima valorizzazione dell’unità tempo-lavoro, ammette l’impossibilità di formulare un modello unitario delle società di caccia e raccolta; ciò sarebbe dovuto all’ampia «variabilità nelle forme e nei modi organizzativi» (Pavanello 1993: 47). In effetti, nell’imponente letteratura sulle società acquisitive emergono differenti punti di vista dovuti, in primo luogo, alla diversità interna della categoria che si sta analizzando (Kent 1996). Il solo punto di convergenza fra i vari autori sarebbe, sempre secondo l’antropologo italiano, «il rifiuto delle categorie economiche e l’idea che la forma delle relazioni sociali [...] debba spiegarsi attraverso categorie di ordine sociale» (Kent 1996). In questo quadro, la reciprocità generalizzata connessa alla spartizione sarebbe la categoria per eccellenza abusata e, lungi dallo spiegare le relazioni sociali che sottendono la produzione, rappresenterebbe soltanto la giustificazione ideologica di un meccanismo economicamente razionale (Pavanello 1993: 70). Anche l’antropologa Nurid Bird-David (1996: 297) riconosce l’irriducibile varietà delle società di cacciatori-raccoglitori e ritiene 141

che tale varietà sia la causa principale della disaffezione progressiva degli studiosi nei confronti delle grandi generalizzazioni. Nonostante questo recente mutamento di rotta, per anni si perseguì l’obiettivo di rintracciare generalizzazioni sulla scia del convegno del 1966 (Man the Hunter) focalizzato a rinvenire regolarità all’interno e fra i gruppi di caccia e raccolta. Il successivo sviluppo delle indagini etnografiche ha accresciuto la consapevolezza di un mondo (quello dei cacciatori-raccoglitori) altamente variegato al suo interno, rendendo problematici i tentativi di generalizzazione e, al contempo, meno esplicative le regolarità individuate. La diversità sfugge alle griglie concettuali preposte a contenerla, ma questo non dovrebbe essere un motivo sufficiente per abbandonare ogni tentativo di raggruppamento della diversità. Si è giunti qui a un punto cruciale dell’argomentazione che si intende svolgere. Nello studio della cultura, occorre evidentemente perseverare nell’individuazione di schemi esplicativi avendo semmai cura di includere nell’azione di raggruppamento anche i modelli indigeni che possono aiutare a individuare quei modelli metaforici opportuni per dar conto di una forma di vita. Sono i modelli matematici (quelli inossidabili) e le teorie forti a mal tollerare qualunque residuo di diversità che sfugga all’inquadramento teorico poiché, per tali modelli e teorie, il fine è quello di generalizzare ‘una volte per tutte’ e quindi racchiudere l’intera gamma delle possibilità date. Quando Wittgenstein (1983: 63) dubita del fatto che un recinto con un buco sia «proprio come nessun recinto» esorta a concentrare i propri sforzi non tanto sull’idea o essenza di ‘recinto’, ma sui possibili usi reali e concreti di un recinto, inserendo tale uso in una visione coerente del mondo. A ben vedere, l’osservazione contenuta nelle Ricerche filosofiche è rintracciabile in un altro importante libro, di cui si parla fin dall’inizio di questo volume: ‘il libro dei Pigmei’. Come è stato riportato nel primo capitolo, i Pigmei Mbuti dimostrano grande accuratezza nell’organizzare le sequenze della raccolta delle termiti. Le meticolose osservazioni e la scrupolosa preparazione del sito risultano molto efficaci e permettono il successo delle operazioni di raccolta, sennonché, durante il raggruppamento e il trasporto della moltitudine delle termiti, molte di esse vengono lasciate fuggire (Ichikawa e Terashima 1996: 277). Quella che agli occhi dell’osservatore esterno pare essere una negligenza, agli occhi dei 142

Pigmei è il risultato di un coerente, intimo e fiducioso rapporto con la foresta: le termiti fuggite diventeranno api e queste produrranno successivamente il miele che gli stessi Pigmei raccoglieranno. Per i Pigmei Mbuti, il prezzo da pagare affinché venga garantita la vitalità di un ambiente in cui loro stessi vivono e con il quale interagiscono in un rapporto di ‘efficacia simbiotica’, è quello di lasciare per strada un po’ della moltitudine che si era riusciti a catturare. Questo non si spiega soltanto attraverso la regola vigente nell’economia delle società di caccia e raccolta, secondo la quale «qualunque sistema di sussistenza basato sulla cattura di elementi spontanei deve limitare il tasso di sfruttamento dell’ambiente entro una soglia di compatibilità al di sotto del tasso di riproduzione delle risorse» (Pavanello 1993: 14). Il tema della metamorfosi degli insetti nella visione del mondo mbuti è molto più significativo, in quanto i Pigmei che lasciano fuggire le termiti – in modo che diventino api e producano miele anche per i Pigmei – non solo garantiscono il mantenimento del sistema (alcune termiti lasciate fuggire, in effetti andranno a fondare altri termitai), ma testimoniano la fiducia e l’intimità dei Pigmei con un mondo, un ambiente dispensatore, irriducibilmente vivo e inglobante. Il concetto di ‘ambiente dispensatore’ (giving environment) è stato definito da Bird-David (1990) a partire dall’analisi del rapporto uomo-ambiente fra i Nayaka, cacciatori-raccoglitori dell’India fra i quali l’antropologa ha ripetutamente condotto ricerche sul terreno. La validità esplicativa di tale concetto è stato confermato dalla comparazione degli stessi Nayaka con i Batek della Malaysia e i Pigmei Mbuti. Bird-David ha potuto constatare che in queste società la foresta è percepita metaforicamente come ‘genitore’ e, al pari di ogni genitore, essa provvede a fornire cibo ai suoi ‘bambini’ senza supporre o esigere tornaconti o la restituzione di ciò che è stato dato2. Pensarsi d’altronde come ‘figli’ e ‘bambini’ della foresta accomuna diversi gruppi di cacciatori-raccoglitori. L’antropologa israeliana ha poi rilevato che fra i coltivatori Bette Kurumba (i vicini dei Nayaka) la natura è pensata come ‘antenato’ il quale non provvede a donare loro cibo se non in un’ottica del ‘dare, ricevere e ricambiare’. In particolare, sarebbero le offerte date agli 2

Ciò rimanda al concetto di ‘reciprocità generalizzata’ introdotto da Sahlins.

143

antenati a garantire la loro protezione sui campi. Il linguaggio della parentela, utilizzato in modo metaforico, risulta utile a definire il rapporto fra l’uomo e l’ambiente fra i Nayaka e, con modalità molto simili, fra i Batek e i Pigmei Mbuti. A ben vedere Bird-David si spinge oltre sostenendo che Nayaka, Mbuti e Batek «mostrano una variazione su un tema che è caratteristico dei cacciatori-raccoglitori in generale» i quali rappresenterebbero l’ambiente e il loro rapporto con esso attraverso metafore (Lakoff e Johnson 1998) basate su relazioni di parentela primarie e intime (Bird-David 1990: 194). Il saggio del 1990 dedicato al giving environment è in parte il preludio ad un altro saggio di Nurit Bird-David che apparirà due anni dopo sempre all’interno della prestigiosa rivista «Current Anthropology». Come si evince dal titolo del contributo, Beyond «The Original Affluent Society». A Culturalist Reformulation, esso permette di tornare sul lungo dibattito inerente la tesi dell’opulenza originaria la quale, dopo il rinvigorirsi delle critiche negli anni Ottanta, ha continuato a far discutere anche alle porte del nuovo millennio. Bird-David (1992), dopo avere riassunto i termini del dibattito, propone una rilettura della trattazione di Sahlins cercando di tenere distinti gli argomenti dagli eccessi retorici e polemici. Secondo la studiosa dell’Università di Haifa, Sahlins avrebbe polemicamente evidenziato quegli aspetti della teoria dell’opulenza originaria in chiara contrapposizione all’Occidente capitalista. La centralità del parametro tempo-lavoro nel confronto fra cacciatori-raccoglitori e occidentali finisce per dipingere questi ultimi come individui massacrati dal lavoro per soddisfare criteri di abbondanza che altri, attraverso la limitazione dei bisogni, raggiungono percorrendo l’alternativa ‘via Zen’ all’opulenza (Bird-David 1992: 27). L’attenzione di Sahlins è dirottata verso concetti (per esempio ‘via Zen’) avulsi dalla realtà dei cacciatori-raccoglitori, la cui comprensione sembra collocata in secondo piano rispetto all’intento polemico delle argomentazioni. Appurato l’importante ruolo che ebbe la teoria dell’opulenza originaria nel ribaltare i diffusi pregiudizi rispetto a forme di vita acquisitive considerate culturalmente e materialmente povere, Bird-David rimprovera a Sahlins di aver sopravvalutato la connessione fra tempo-lavoro e opulenza e aver sottovalutato un aspetto culturalmente importante dei cacciatori-raccoglitori che lui stesso intravide e che forse gli sarebbe stato sufficiente per cogliere la caratteristica 144

centrale dell’economia di molte società acquisitive: la grande fiducia, l’intimità e la familiarità con l’ambiente. Appoggiandosi nuovamente alla comparazione fra Nayaka, Batek e Pigmei Mbuti, Bird-David recupera dal saggio precedente il modello metaforico dell’ambiente dispensatore. Per quanto riguarda i Pigmei, il modello economico locale emergerebbe da una serie di indizi incentrati su come viene percepita la foresta. Essa è un genitore premuroso che ‘dona’ tutto (prede, miele, altri cibi) senza chiedere nulla in cambio (sacrifici, offerte), è un ‘ventre’ che tutto include (Mosko 1987) e ha premura di concepire e far crescere i suoi figli (i Pigmei si pensano come ‘figli della foresta’). Può succedere che la foresta si addormenti, ovvero che arrivi la morte e la sfortuna e che quindi debba essere svegliata con la musica e i canti del molimo (Turnbull 1960). Il modello economico locale emerge, in primo luogo, da queste metafore strutturali che non riguardano soltanto il rapporto fra gli esseri umani e la natura, ma, come verrà ripreso nel prossimo paragrafo, anche il rapporto fra gli stessi gruppi umani. Nell’argomentazione proposta da Bird-David, il modello metaforico dell’ambiente dispensatore acquista nuova forza se affiancato da un altro modello, ancora più efficace per spiegare una forma economica che è una forma di vita: ‘l’economia cosmica di spartizione’. Come si è più volte affermato in questo libro, la spartizione è un evento sociale molto importante fra i gruppi pigmei e fra i cacciatori-raccoglitori in generale. La spartizione è una pratica attraverso la quale si definisce e si mette in atto una forma di umanità, un modo di stare al mondo e di concepirlo. Questa tesi, espressa e sviluppata nei capitoli precedenti, si combina perfettamente con l’invito di Bird-David a collocare la ‘spartizione’ al centro dei modelli esplicativi dell’universo dei cacciatori-raccoglitori. La spartizione è un evento sociale che dimostra relazione, parentela, premura e affezione, oltre a essere rassicurante in termini di sicurezza alimentare (Bird-David 1992: 30). Il punto cruciale – afferma l’antropologa israeliana – è che i cacciatori-raccoglitori si relazionano all’ambiente naturale come se quest’ultimo fosse un partner di spartizione (sharing partners), anzi ‘l’ambiente naturale è un partner di spartizione’. Questa metafora rimanda a come i cacciatori-raccoglitori attribuiscono significato al loro ambiente e permette all’osservatore esterno di dare senso ai cacciatori-raccoglitori e alle loro strategie economiche e sociali. 145

In altre parole, le concettualizzazioni locali – che emergono in primo luogo nelle metafore strutturali del tipo: ‘la foresta è padre e madre’ – permettono di definire un modello metaforico – del tipo ‘l’ambiente è un partner di spartizione’ – che possa spiegare la realtà osservata, cogliendo, nella diversità etnografica, le variazioni sul tema di un modello esplicativo più generale. La variazione mbuti della metamorfosi degli insetti è, a sua volta, un indizio di una variazione locale (una versione indigena) dell’economia cosmica di spartizione. BirdDavid rimprovera a Sahlins di aver appena abbozzato le premesse di questa sharing way all’opulenza, ma di aver preferito, in chiave polemica anti-occidentale, la zen way all’opulenza, una via avulsa dalle concettualizzazioni locali, più efficace nel contrapporre polemicamente mondi che nello spiegare le società di caccia e raccolta3. 5.3. Tradizionalisti e revisionisti Il secondo dibattito che coinvolge i Pigmei nasce e si sviluppa lontano dalle foreste equatoriali dell’Africa. Ancora una volta è il Kalahari dei San (Boscimani) a essere il teatro principale del confronto fra studiosi. Richard Lee, uno dei più importanti studiosi dei gruppi boscimani, concentrò la sua attenzione sulle caratteristiche interne e ‘tradizionali’ dei gruppi san cercando in essi la forma di vita che potesse aver segnato una specifica fase evolutiva del genere umano. Studiati come se fossero isolati, i San appaiono, negli scritti di Lee e degli altri ricercatori riconducibili all’Harvard Kalahari Research4, la migliore esemplificazione di una forma di vita che ha preceduto l’addomesticamento di piante e animali. Pur riconoscendo i mutamenti sociali successivamente verificatisi, la ‘vita tradizionale’ degli isolati San rappresenta, agli occhi di Lee e della scuola di Harvard, una 3

David Kaplan in un saggio del 2000 insiste sui significati ideologici della teoria dell’opulenza originaria che, a suo parere, può essere letta come una versione moderna della teoria degenerazionista poiché negli scritti di Lee, DeVore, Sahlins e altri autori sembra aleggiare uno spirito rousseauniano secondo il quale qualcosa di prezioso fu perduto da quando l’umanità abbandonò lo stile di vita basato sulla caccia e raccolta (2000: 317). 4 L’Harvard Kalahari Research è un gruppo di ricerca interdisciplinare formato a Harvard da Richard Lee e Irvin DeVore per lo studio dei San, in particolare gli Ju/’hoansi di Dobe.

146

unità di analisi separata dai gruppi di allevatori insediati nelle vicinanze (Herero e Tswana). Questa impostazione dominò gli studi sui Boscimani (San) finché Edwin Wilmsen, negli anni Ottanta, inaugurò il cosiddetto Kalahari Debate criticando Lee per aver adottato un punto di vista che escludeva i contatti con gli allevatori bantu e al contempo valorizzava la continuità e l’integrità dei San come cacciatori-raccoglitori nella lunga durata. Per Wilmsen (1989) l’unità di analisi migliore è un campo regionale aperto, dove i differenti gruppi san e bantu interagiscono da molto tempo in un confronto impari per il controllo delle risorse. In questa prospettiva ‘revisionista’, i San non sono tradizionali cacciatori-raccoglitori, ma una classe inferiore coinvolta in un lungo e lento processo di impoverimento che ha raggiunto l’apice di ‘subalternità’ nei confronti dei vicini gruppi bantu all’inizio del Novecento, proprio quando si impone, invece, un’immagine dell’altro esotico che bene si adatta alla visione di Lee. Pur recependo alcuni aspetti della critica, Lee resta convinto che non si possa minimizzare la condizione di cacciatori-raccoglitori dei San, da intendersi come forma di vita ‘altra’ nel ventaglio delle possibilità. Inoltre, i tradizionalisti non sono per nulla persuasi che l’aver appurato intense e continuate relazioni fra gruppi bantu e san metta in discussione l’autonomia culturale dei cacciatori-raccoglitori (Solway e Lee 1990, Lee 1992). È in riferimento a quest’ultimo punto che il Kalahari Debate può essere idealmente trasferito nella foresta equatoriale dell’Africa (Köhler e Lewis 2002), in quanto l’idea che i Pigmei possano essere pensati e studiati indipendentemente dalle loro relazioni con i gruppi di coltivatori circostanti è da tempo soggetta a forti critiche. Le perplessità nascono dal facile riscontro che, nella contemporaneità, tutti i gruppi pigmei mantengono strette relazioni economiche, sociali e culturali con altri gruppi insediati nei villaggi. A ciò si aggiunge il fatto che le lingue utilizzate da tutti i gruppi pigmei sono le lingue dei loro vicini coltivatori. Queste constatazioni hanno creato da alcuni decenni un consenso fra gli studiosi relativo a una plausibile, lunga e complessa storia di interazioni fra Pigmei e ‘altri’ gruppi insediati nei villaggi. La prima dettagliata etnografia incentrata sulle relazioni fra Pigmei e villageois è quella di Colin Turnbull. Il noto antropologo britannico, in polemica con Paul Schebesta, ritiene che i Pigmei Mbu147

ti non debbano esser visti come gruppi dipendenti per la propria sussistenza dai prodotti dei villaggi. Turnbull ritiene che i Pigmei ‘oscillino’ fra due sfere di azione ben distinte: quando vanno a vivere nei villaggi, essi dipendono economicamente e culturalmente dai coltivatori, il loro rapporto è impari, la loro condizione è marcata dall’inferiorità. Nonostante ciò, appena i Pigmei si inoltrano in foresta, essi danno prova di una sorprendente autonomia e la loro vita torna a essere caratterizzata dall’armonioso rapporto fra l’ambiente naturale e le pratiche culturali che sono proprie dei cacciatori-raccoglitori. Roy Richard Grinker (1994), uno dei più convinti critici di Turnbull, si oppone a questa visione dicotomica del mondo pigmeo (la foresta vissuta separatamente dai villaggi) funzionale soltanto a idealizzare la foresta come luogo di pace e abbondanza, contrapposta al villaggio come luogo di soprusi, violenza e superstizioni. Se la foresta fosse il migliore dei mondi possibili e i Pigmei trovassero in essa le ragioni culturali ed economiche della loro autonomia, non si spiegherebbe perché i Pigmei vadano stagionalmente a vivere nei villaggi subendo rapporti di dipendenza. Al riguardo, l’argomentazione di Turnbull, incentrata sull’irresistibile apprezzamento dei Pigmei nei confronti dei cibi coltivati non sembra sufficiente a spiegare l’instaurarsi di un rapporto di subalternità così forte. Se da un lato il ‘tradizionalista’ Turnbull difende la specificità dei Pigmei e in primo luogo la possibilità dei Pigmei di vivere in modo indipendente e autonomo all’interno della foresta, dall’altro i ‘revisionisti’ (Hart e Hart 1986, Bailey et. al. 1989 e Blench 1999) sostengono che i Pigmei non sarebbero in grado di vivere in foresta senza l’apporto dei prodotti coltivati in arrivo dai villaggi e che la loro immagine di cacciatori-raccoglitori è un’immagine costruita nel corso del Novecento. In altre parole, per i revisionisti non è corretto differenziare i Pigmei dai gruppi vicini: si tratterebbe di un unico ‘popolo’ suddivisibile solo in base alla diversa accessibilità alle risorse. Come sottolineano Köhler e Lewis (2002: 284-285), una parte significativa del dibattito si è concentrato soprattutto sulla possibilità ecologica dell’autonomia. In base a puntuali ricerche condotte negli ultimi decenni5, risulta difficile affermare che è impossibile vivere ‘di 5 Per esempio, Bahuchet, McKey e de Garine (1991) sostengono che i contesti ecologici in relazione ai quali sono state proposte tesi revisioniste sono foreste monospecifiche (principalmente Gilbertodendron) e non foreste ‘a mosaico’ (caratte-

148

sola foresta’, anche se resta da spiegare il perché alcuni gruppi di Pigmei a noi contemporanei, pur avendo facile accesso a piante selvatiche (per esempio igname), non ne facciano grande uso, preferendo di gran lunga frequentare i villaggi. La foresta – per dirla con le parole di Bird-David – appare in effetti come ‘ambiente dispensatore’ a cui tutto provvede. Ma allora, per quale motivo i gruppi pigmei che ancora possono vivere di foresta (nel senso che non hanno ancora assistito alla sua sparizione) ricercano ovunque relazioni con coloro che sono esterni alla foresta? È sufficiente ricondurre la questione alla sola dimensione ecologica, dietetica, proteica oppure qualcosa di più complesso entra in gioco? Grinker (1992, 1994) ha svolto un ruolo importante nel ripensare la dipendenza svincolandola dalle sole considerazioni materiali dell’esistenza. Le implicazioni simboliche e culturali delle relazioni fra Pigmei e coltivatori permettono di comprendere un aspetto importante della simbiosi, ovvero, la forza che essa possiede nel costruire rappresentazioni simboliche dei differenti ‘noi’ implicati nella relazione. L’‘efficacia simbolica’ è strettamente connessa all’‘efficacia simbiotica’ in base alla quale i diversi gruppi si costruiscono e si pensano come prodotti dinamici delle relazioni interculturali6. Non è un caso, al riguardo, che Grinker inserisca le sue riflessioni antropologiche all’interno di una feconda prospettiva interazionista magistralmente inaugurata dallo studio di Leach (1979) sui Kachin e i San della Birmania secondo il modello ‘due culture, una società’. Al pari di Turnbull che resta impigliato nella dicotomia forestavillaggio, l’intero Kalahari Debate ‘della foresta’ (quello che riguarda i Pigmei) rischia di rimanere impigliato nella dicotomia indipendenza-dipendenza a fronte di una situazione osservabile segnata principalmente da interdipendenza. Forse non si potrà mai sapere se ristiche del bacino congolese) dove è più facile trovare igname selvatico. Ichikawa (1983) argomenta come la foresta fornisca ai Pigmei Mbuti di Teturi una dieta vegetale bilanciata; Sato (2001) dimostra che i Baka ricavano dalla foresta cibi vegetali sufficienti al loro mantenimento. 6 Significativamente Grinker interpreta in chiave simbiotica gli stessi pongo fabbricati e dipinti dagli Efe. Egli invita ad abbandonare ogni interpretazione dei pongo incentrata sull’arte dei primordi (Farris Thompson 1991) e al contempo propone di leggere i dipinti a partire dalla continua interazione dei Pigmei con i vicini coltivatori abitanti dei villaggi in quanto i pongo efe vengono continuamente discussi e in parte ideati insieme ai coltivatori lese (Grinker 1992).

149

in qualche epoca del passato e in qualche angolo della grande foresta congolese gruppi pigmei abbiano vissuto autonomi e indipendenti la loro vita di caccia e raccolta. È noto invece che oggi l’interdipendenza fra Pigmei e coltivatori è ovunque diffusa, eccetto per i casi limite in cui la grande foresta non esiste più (per esempio in Burundi e in Rwanda) o dove si è giunti alla proletarizzazione dei cacciatori-raccoglitori (per esempio nel Camerun dei Bagyeli). È sul tema dell’interdipendenza, sulla costruzione simbiotica delle traiettorie esistenziali che occorre porre l’attenzione7. Axel Köhler e Jerome Lewis (2002) contribuiscono in modo significativo a compiere un ulteriore passo avanti verso la comprensione di tale interdipendenza. Innanzitutto i due studiosi, pur riconoscendo a Grinker indubbi meriti, muovono alcune critiche importanti: a) la struttura duale della relazione analizzata da Grinker rischia di configurarsi come una riproposizione del modello di dipendenza ‘padrone/cliente’; b) l’ortodossia della simbiosi esclude a priori la possibilità che in qualche epoca e in qualche luogo ci possano essere stati gruppi pigmei autonomi dai coltivatori; c) l’analisi di Grinker, esplicitamente e consapevolmente basata sul punto di vista lese (coltivatori), omette la prospettiva efe (Pigmei) che è altrettanto importante nella definizione della simbiosi. Non è facile effettuare ricerche fra i Pigmei; gli studiosi ‘accedono’ alla foresta per il tramite dei coltivatori insediati nei villaggi; di solito sono essi a svolgere l’iniziale ruolo di interpreti e assistenti. Tutto ciò, lamentano Köhler e Lewis (2002: 291), determina l’accumularsi di etnografie sui Pigmei che, a ben vedere, sono in gran parte etnografie della visione dei villageois sui Pigmei. Ne consegue che l’approccio prevalente è quello dell’‘attore dominante’: i coltivatori sono gli attori che agiscono e decidono, mentre i Pigmei subiscono azioni, relazioni e immaginari. La critica a questo tipo di approccio non implica la svalutazione metodologica dell’adozione del punto di vista nativo. Come spiega efficacemente Grinker, la ricerca etnografica non si configura come un’osservazione dall’alto avulsa dai singoli punti di vista: occorre adottare un punto di vista ed esplicitarlo. Proprio per tale motivo, Köhler e Lewis denunciano le poche voci e le rare concettualizzazioni pigmee rintracciabili nella letteratura sui Pigmei. 7 Sulla relazione fra Pigmei e villageois si vedano anche i testi di Delobeau (1978, 1979) e di Kazadi (1981).

150

Focalizzando l’attenzione sui territori settentrionali della Repubblica del Congo, Köhler e Lewis prendono le distanze da ogni prospettiva dualista (‘due culture, una società’, ‘coltivatori/cacciatoriraccoglitori’, ‘padroni/clienti’) sostenendo che «le relazioni sociali interetniche sono di solito incastonate in costellazioni ‘multiculturali’» (Köhler e Lewis 2002: 292). Per esempio, i Pigmei Mbendjele mantengono attualmente relazioni formali con dieci gruppi bilo8 (villageois) etnicamente distinti e quattro gruppi di altri Pigmei, oltre a numerosi mindele (occidentali, cinesi e altri individui di origine asiatica). L’interesse dell’analisi di Köhler e Lewis risiede nel tentativo di far emergere dalle concettualizzazioni locali una sorta di etno-antropologia dei Pigmei – analogamente a ciò che aveva proposto Grinker in relazione all’etno-antropologia dei Lese9. Da ciò che raccontano gli anziani mbendjele, un tempo i Pigmei si riferivano ai bilo con il termine bamakaba (letteralmente, ‘coloro che daranno’), mentre con il termine bilo ci si riferiva più specificamente ai non-iniziati. Come si è già accennato nel capitolo precedente (§ 4.2), gli Mbendjele usano paragonare i bilo (intesi nel significato ‘moderno’ di villageois, black people) ai gorilla, poiché entrambi sono ‘grossi animali’ che dispongono di cibo abbondante, ma nei confronti dei quali occorre essere prudenti perché irascibili e pericolosi. Il raffronto è dovuto principalmente alla palese similitudine nei modi in cui bilo e gorilla si atteggiano nei confronti del territorio e delle risorse: spiccata aggressività, tendenza a demarcare aree forestali come se fossero proprie. Anche i mindele (white people) sono associati a specifici animali; essi sono denominati ‘potamoceri’ (potamochoerus porcus, una sorta di maiale della foresta) e, più frequentemente in passato, ‘elefanti’. Entrambe queste denominazioni si riferiscono alla percezione della ricchezza connessa ai bianchi. Gli elefanti sono la fonte del prezioso avorio e riserve di grandi quantità di carne; i ‘potamoceri’ sono grassi e hanno un elevato valore commerciale. 8 Con il termine bilo i Pigmei della regione denominano tutti i locali (black people) non-Pigmei. 9 L’attenzione di Jerome Lewis nei confronti delle concettualizzazioni locali (pigmee) emerge anche in un suo saggio (2008) incentrato sull’analisi di un concetto polisemico (ekila) molto diffuso fra i cacciatori-raccoglitori dell’Africa equatoriale. Ekila rimanda alle mestruazioni, al sangue, ai tabu, alla carne cacciata, al potere di certi animali, ai pericoli connessi alla riproduzione e alla produzione.

151

Inoltre i ‘potamoceri’, come molti bianchi che frequentano la foresta (disboscatori, naturalisti, ecologisti, scienziati ecc.), si spostano spesso in gruppo (Köhler e Lewis 2002: 293). I nomi di animali sono utilizzati anche dai bilo per denominare i Pigmei, ma il significato di tale correlazione si colloca su un piano del tutto diverso. Non di rado, i bilo si riferiscono ai Pigmei denominandoli scimpanzè con il chiaro intento di esprimere un giudizio di valore sulla loro umanità – o meglio, sulla loro non-umanità. I bilo si autodefiniscono konja (‘padroni’) e l’espressione ‘il mio mbendjele’ non indica di certo una relazione alla pari (come potrebbe essere ‘il mio amico’), ma inferisce a un possesso e a un controllo (come nell’espressione ‘il mio servo’). A differenza dei bilo, quando i Pigmei utilizzano termini di animali (gorilla, elefante, potamocero) per riferirsi agli ‘altri’ non lo fanno con intento denigratorio e deumanizzante. I Pigmei indagati da Köhler e Lewis costruiscono con i nomi di animali la loro antropologia non tanto pensando alla dicotomia umano/sub-umano, quanto caratterizzando gli ‘altri’ in relazione a ciò che Bird-David definisce ‘ambiente dispensatore’ che tutto include (‘noi Pigmei’, i villageois, i bianchi, gli animali, le risorse ecc.). È l’atteggiamento nei confronti delle risorse e il ruolo che si assume all’interno dell’ambiente dispensatore che implica l’analogia con una specie animale e dà forma a una specifica etno-antropologia. L’ambiente dispensatore non è per i Pigmei la foresta, ma il tutto. Esso include principalmente la foresta ma si estende fin dentro i villaggi. Una riprova di ciò è rappresentata dal massiccio utilizzo da parte dei Pigmei (a Oriente come a Occidente) delle metafore predatorie per descrivere ciò che si aspettano dalle relazioni con gli ‘altri’: già Turnbull (1965: 82) aveva constatato che i Bambuti utilizzano il linguaggio della caccia quando si recano presso i coltivatori per ottenere risorse esplicitando il loro intento di ‘mangiare gli abitanti dei villaggi’. In anni recenti, si è potuto verificare che le metafore predatorie vengono usate dai Pigmei per elaborare strategie nei confronti dei progetti della cooperazione internazionale le cui risorse sono pur sempre ‘carne’ da ‘cacciare’ e da ‘mangiare’ (Köhler e Lewis 2002: 297). Questo aspetto della visione del mondo dei Pigmei deve essere compreso molto bene, senza fraintendimenti. Non si tratta infatti dell’estensione ad altri ambiti delle strategie predatorie di foresta ma, in accordo con le tesi di Bird-David e Ingold, di «una fondamentale 152

caratteristica della percezione del mondo come un singolo campo sociale» (Köhler e Lewis 2002: 298). La simbiosi e l’interdipendenza, sempre secondo l’argomentazione di Köhler e Lewis, non si risolvono in una relazione duale (Pigmei-villageois), ma coinvolgono tutto e tutti in una ‘economia cosmica della spartizione’ (Bird-David 1992), dove alcuni, soprattutto i bilo-gorilla, sono meno propensi alla spartizione, ovvero, dimostrano una ‘umanità’ – una modalità di stare nel mondo e di leggere il mondo – perlomeno diversa da quella di ‘noi-Pigmei’. Come si può constatare, si è deciso in questa prima parte del capitolo di far convogliare i due dibattiti finora analizzati verso le metafore esplicative dell’‘ambiente dispensatore’ e dell’‘economica cosmica di spartizione’. Evidentemente è una scelta e non certo una via obbligata. Tanto più un modello esplicativo regge l’impatto con la diversità e la molteplicità, tanto più spiega e si rafforza. Occorre tuttavia non dimenticare che si tratta pur sempre di un recinto aperto provvisorio e revocabile, scelto perché raggruppa e chiarisce. Inoltre, l’argomentazione proposta da Köhler e Lewis, non solo permette di utilizzare e rafforzare le metafore esplicative emerse in precedenza (quelle di Bird-David), ma testimonia una prospettiva di analisi antropologica che si ritiene di grande efficacia. Le metafore esplicative in questione (‘ambiente dispensatore’ ed ‘economia cosmica della spartizione’) risultano efficaci nell’analisi delle concettualizzazioni indigene (gli ‘altri’ intesi a partire da metafore animali: ‘i bilo sono gorilla’, ‘i bianchi sono potamoceri’) e a loro volta permettono di spiegare gli usi e i significati di altre metafore, come per esempio quella secondo cui i Pigmei trovano coerente definirsi ‘bambini, figli’ della foresta, ma anche ‘bambini, figli’ dei villageois – come nel caso dei Pigmei Bedzang (§ 4.5) – e i villageois trovano altrettanto coerente definire i Pigmei come fossero i loro bambini. La connessione Pigmei-bambini deve essere letta e interpretata contestualmente all’universo di significati di colui che la esprime. Quando un abitante dei villaggi di coltivatori definisce ‘bambini’ o ‘figli’ i Pigmei inferisce, dal punto di vista di colui che pensa di essere ‘attore dominante’, una relazione sbilanciata di potere e la condizione di dipendenza dei Pigmei. La stessa metafora è condivisa e utilizzata dai Pigmei ma con tutt’altro significato. Infatti, i cacciatoriraccoglitori (fra cui i Pigmei) pensano e vivono la relazione con l’ambiente dispensatore come una relazione primaria di parentela (BirdDavid 1990): ‘la foresta è padre e madre’ e fornisce quello di cui si 153

ha bisogno. A ciò si aggiunge il fatto che l’ambiente dispensatore non è solo la foresta, ma il mondo intero (il cosmo) come singolo campo che include in primo luogo i villaggi vicini. Di conseguenza, nella visione del mondo dei Pigmei, definirsi o essere definiti come ‘bambini e figli dei villageois’ non ha nulla a che vedere con la subalternità e la dipendenza ma con l’economia cosmica della spartizione. In questo quadro si chiarisce ulteriormente la valutazione antropologica che i Pigmei fanno dei loro vicini coltivatori: essi, essendo parte integrante dell’ambiente dispensatore che è nella sua interezza ‘partner di spartizione’ appaiono spesso come ‘gorilla’, ovvero, tendono a marcare i territori e non sempre sono propensi a spartire e includere gli altri; in altre parole, aderiscono alla spartizione cosmica in modo decisamente aggressivo. Prima di affrontare il terzo dibattito in cui sono coinvolti gli studiosi dei Pigmei, occorre ammettere che, per cogliere un frammento della loro antropologia indigena e un aspetto importante della loro visione del mondo, si è fatto un massiccio uso di metafore strutturali (Lakoff e Johnson 1998). Alla disseminazione di tabelle e grafici dei testi di Cavalli-Sforza si è risposto disseminando queste ultime pagine di virgolettati. Dalla denuncia dell’opulenza di dibattiti si è passati all’opulenza delle metafore. Questo potrebbe essere motivo di perplessità nel lettore. Benché le metafore non siano l’unica strada per penetrare ‘altri’ universi di significati si ritiene di poterne giustificare il ricorso massiccio in quanto utili a oscillare più efficacemente fra concetti indigeni e concetti analitici. Lo scopo è quello di non perdere di vista le concettualizzazioni indigene e al contempo non rinunciare a una antropologia che chiarisca e raggruppi, ovvero che cerchi di dar conto attraverso interpretazioni e spiegazioni. 5.4. Concetti locali e diritti universali Il rapporto fra concetti indigeni e concetti analitici si ripropone nel terzo dibattito a cui si vuole fare riferimento: il dibattito sui diritti dei popoli indigeni e sull’uso del termine ‘indigeno’. Fin dagli anni Settanta del Novecento prese forma un movimento internazionale dei popoli indigeni preposto a sensibilizzare l’opinione pubblica e le agenzie internazionali (in primis l’ONU) sull’esigenza di legiferare in difesa delle minoranze discriminate all’interno dei differenti stati 154

nazionali. Il 13 settembre 2007, dopo un lungo e tortuoso percorso, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approva la risoluzione 61/295 adottando la Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni (Oldham e Frank 2008). I diritti a cui si fa riferimento nei 46 articoli della Dichiarazione concernono l’auto-determinazione, il possesso e l’uso della terra e delle risorse naturali, la libertà, il consenso informato e condiviso sui progetti di sviluppo, i meccanismi di riparazione e restituzione, il riconoscimento culturale e altri ancora. Come hanno sottolineato alcuni commentatori (2008: 6), la Dichiarazione non introduce criteri di distinzione rispetto ad altri popoli, ovvero, l’intento non è quello di ottenere nuovi ed esclusivi diritti, ma di estendere e garantire i diritti universali dell’uomo anche ai popoli indigeni. Paul Oldham e Miriam Anne Frank sottolineano l’importanza della Dichiarazione e le ricadute di essa sul lavoro degli antropologi: il documento approvato dalle Nazioni Unite non può essere ignorato dagli antropologi, anzi, esso deve responsabilizzarli ulteriormente su un piano deontologico per ciò che concerne la proprietà intellettuale, il consenso informato, e la verifica, sul campo, di quanto la Dichiarazione venga effettivamente applicata nelle politiche sociali e culturali. Gli antropologi, negli anni futuri, avranno modo di riflettere sul ruolo della Dichiarazione nella pratica della loro professione. Per il momento, si registra il coinvolgimento di molti antropologi nelle istanze per i diritti dei popoli indigeni. Nonostante ciò, gli antropologi non si sono interrogati soltanto sulle lodevoli questioni etiche e politiche: l’intera faccenda ha sollecitato un dibattito sui fondamenti teorici di tali rivendicazioni. In altre parole, benché l’antropologia sia interessata a ‘ciò che si deve salvare’ non perde giustamente di vista ‘ciò che si deve studiare’ e, conseguentemente, riflette su quale apparato concettuale e terminologico sia più adeguato per indagare la realtà. In particolare, l’approvazione della Dichiarazione ha seguito di pochi anni un acceso scontro fra antropologi sull’uso del termine indigeno e sui presupposti antropologici del movimento indigenista. A dar fuoco alle polveri è stato un articolo di Adam Kuper del giugno 2003 dove si critica ferocemente la liceità del termine ‘indigeno’10.

10 Già nel 2002, la rivista «American Anthropologist» aveva dedicato un numero (104, 4) al tema dei movimenti per i diritti dei popoli indigeni.

155

Questo, preferito in molti contesti nazionali al termine ‘nativo’, sarebbe usato dagli attivisti del movimento indigenista quale sinonimo di ‘primitivo’, ‘tribale’, ‘cacciatore-raccoglitore’, ‘nomade’. In tal modo, nel tentativo di appoggiare la lotta contro le discriminazioni, non si fa altro – secondo Kuper (2003) – che riesumare una serie di concetti che l’antropologia ha da decenni criticato e, ancor più grave, si recupera la categoria di ‘popolo primitivo’ quale categoria opportuna per riferirsi a gruppi umani contemporanei. Il primitivo risorge sotto le spoglie dell’indigeno e questo, a detta di Kuper, ha implicazioni teoriche e politiche gravi. Per Kuper, la categoria di indigeno, oltre a farci ripiombare in una visione essenzialista e romantica del ‘primitivo’, legittima la connessione fra le rivendicazioni socio-politiche e il valore del sangue e del suolo caro a nazisti e razzisti. Al di là dell’effetto dirompente della presa di posizione di Kuper, sono molti gli studiosi che hanno risposto alle critiche con argomentazioni convincenti (per esempio Ramos 2003, Kenrick e Lewis 2004). In primo luogo, il noto antropologo britannico non terrebbe conto del fatto che i gruppi minoritari sono agenti attivi nelle dinamiche con lo stato e il recupero della desueta terminologia coloniale (‘indigeno’, ‘primitivo’) rientra in una strategia di rivendicazione ben lontana dalle dinamiche di dipendenza e denigrazione di epoca coloniale. Un punto di vista equilibrato e sensato è stato espresso da Alan Barnard (2004) il quale, con l’intento neppure troppo velato di smorzare il tono eccessivo del dibattito, sottolinea come da un lato occorra riconoscere la problematicità teorica del termine indigeno, ma al contempo non indebolire localmente le rivendicazioni sulla base della più o meno corretta terminologia utilizzata per concretizzarle. Indigeno, al pari del termine etnia, dovrebbe essere usato in senso regolativo, spogliato da ogni riferimento essenzialista e declinato localmente attraverso il prezioso contributo della ricerca antropologica attenta alle concettualizzazioni, per l’appunto, indigene. Per quanto riguarda l’Africa, benché le rivendicazioni dei San (Boscimani) rappresentino il centro di sviluppo della questione ‘indigenista’, anche i Pigmei della fascia equatoriale si trovano a svolgere un ruolo importante nelle istanze per i diritti. Sono in particolare i Pigmei Batwa dell’Africa interlacustre e i gruppi pigmei proletarizzati del Camerun a cogliere nel movimento indigenista un’op156

portunità di riscatto11. In Uganda, Rwanda, Burundi e in parte del Camerun, i Pigmei sono stati inesorabilmente esclusi dall’uso e dal possesso delle terre; in primo luogo ciò è dovuto al fatto che i diritti sulle terre vengono pensati dagli stati nazionali come diritti di proprietà e coltivazione, oppure limitati da politiche conservative atte a creare parchi naturali e aree protette. In entrambi i casi, l’uso delle risorse ambientali per la caccia e la raccolta non è previsto e contemplato dalla legge. Se l’interlocutore su un piano giuridico e politico continua a essere l’amministrazione pubblica centrale e locale, nella pratica quotidiana le dinamiche di disuguaglianza e discriminazione si osservano nei rapporti che intercorrono fra i Pigmei e gli abitanti dei villaggi (i villageois, i neri, i black people, i coltivatori). Ne consegue che gli interventi di sostegno locale a favore dei Pigmei si declinano all’interno di questo rapporto spesso pensato rigidamente in termini dicotomici. Storicamente, tali interventi hanno seguito un doppio binario: in certi casi si è intervenuto con la convinzione di dover ‘liberare’ i Pigmei da stili di vita inopportuni (nomadismo, caccia e raccolta) e avviarli alla sedentarizzazione e alle pratiche agricole. Questa filosofia di aiuto è stata adottata in molte missioni cristiane con l’intento di diminuire il livello di dipendenza e discriminazione; la stessa filosofia di aiuto è spesso promossa dagli stati nazionali per giungere a un migliore controllo politico e tributario sui Pigmei. Se molti interventi pensati a favore dei forest people tendono in pratica a farli diventare village people, altri interventi intendono sostenere la lotta dei primi contro i secondi in una logica di aperta contrapposizione, dove i rapporti di forza che creano la dipendenza devono essere riequilibrati. In altre parole, o si diventa village people o si lotta contro di loro. 11 Negli ultimi dieci anni la rivista «Indigenous Affaire» ha dato ampio risalto alla questione pigmea ospitando molti contributi significativi (Kenrick 2000, Kenrick e Lewis 2001, Jackson 2003, 2004, 2006, Knight 2006, Mulvagh 2006, Lewis e Nelson 2006). In questi saggi e altri ancora, scritti dagli stessi attivisti Pigmei (Ilundu Bulambo 2001, 2003, Zephyrin 2001) è possibile rintracciare informazioni sulle differenti associazioni di Pigmei impegnate nella lotta per l’ottenimento di diritti e risarcimenti. La questione dei diritti non si dovrebbe limitare soltanto alle questioni sociali, sanitarie e territoriali, ma coinvolgere anche i prodotti culturali, come denuncia Steven Feld, per ciò che riguarda i diritti d’autore connessi alla musica dei gruppi pigmei ampiamente utilizzata in componimenti contemporanei (Feld 1996). Ulteriore ambito di riflessione sono i diritti connessi alla proprietà intellettuale delle conoscenze biologiche ed ecologiche indigene (Addison Posey 2000).

157

È interessante notare come, soltanto negli ultimi anni, sia emersa la consapevolezza che alle filosofie di intervento sopra esposte occorra contrapporre una terza via, forse più proficua (Kenrick 2005). La scommessa non è più quella di appoggiare la lotta dei Pigmei contro i villageois, e neppure quella di farli diventare villageois, ma di identificare e sostenere i processi indigeni di inclusione. A tal fine risulta davvero importante studiare le forme locali di simbiosi e di interdipendenza, oltre a valorizzare la percezione del rapporto da parte dei singoli attori coinvolti. In quest’ottica assumono nuova centralità quelle pratiche rituali e simboliche nei confronti delle quali, alla fine del capitolo precedente, ci si chiedeva che farne: l’omonimia atu fra Lese ed Efe, le fratellanze di sangue tramite la circoncisione fra Mangbetu e Asoa, le finte madri tikar dei Pigmei Bedzang e i loro fratelli di latte. A ben vedere anche questo terzo dibattito incentrato sulla questione dell’indigenismo conduce, oltre alla valorizzazione delle forme indigene di simbiosi e di interdipendenza, alle valutazioni compiute da Bird-David sulla concezione dell’ambiente. Infatti, se le rivendicazioni pratiche dei gruppi pigmei si basano sulle politiche di riconoscimento e sulle richieste di risarcimenti, le rivendicazioni antropologiche riguardano il diritto di vivere e pensare la terra svincolata dalle logiche della sedentarietà, della coltivazione e della conservazione naturalistica. I Pigmei rappresentano una ricchezza del repertorio sociale e culturale dell’umanità proprio dal momento in cui rammentano agli altri l’esistenza di un modo alternativo di stare al mondo, ovvero di percepire l’ambiente come entità dispensatrice e partner di spartizione. Questo modo alternativo di leggere il mondo e di abitarlo risulta, dove non già compromesso, irrimediabilmente in pericolo. La ricchezza e la varietà interna del mondo dei Pigmei lasciano spazio a un unico grido di denuncia in cui la stessa categoria approssimativa e generalizzante di ‘pigmeo’ ne esce rafforzata nel quadro di una politica tesa a ottenere riconoscimento. Nel 2005, migliaia di Pigmei si radunarono a Isiro nella Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo per protestare contro la progressiva deforestazione (Domenici 2006). Sullo striscione esposto durante la manifestazione si leggeva una frase lapidaria: Nous aussi les Pygmées nous existons.

158

5.5. Noi, Pigmei ‘Anche noi Pigmei esistiamo’. In che modo gli antropologi possono non far cadere nel vuoto questa richiesta di riconoscimento? Al pari di molti altri individui, essi hanno una strada obbligata: informare, sostenere ed eventualmente affiancare le comunità di Pigmei nelle istanze per i diritti avanzate a livello locale, nazionale e internazionale. Se tali istanze si nutrono di un armamentario terminologico e concettuale guardato con sospetto dall’antropologia contemporanea (l’essere ‘primitivi’, ‘primi cittadini’, ‘indigeni’ e pure ‘Pigmei’), ma consapevolmente selezionato dagli interessati per avanzare diritti in specifici contesti giuridici e politici, allora occorre muoversi con umiltà, tolleranza e lungimiranza. L’umiltà sarebbe dettata dalla consapevolezza che alla costruzione di tale armamentario, che piaccia o no, hanno contribuito in primo luogo gli antropologi del passato. Le miserie delle tradizioni intellettuali non riguardano solo gli altri; sarebbe arrogante e presuntuoso sostenerlo. Inoltre, è bene ricordare che sono le pratiche di agency a far riaffiorare tali concetti; più semplicemente, sono loro (i ‘nativi’, gli ‘indigeni’, i ‘Pigmei’) a scegliersi l’armamentario per difendersi. La tolleranza sarebbe dettata dal fatto che molti termini, pur non avendo referenti ontologici indiscutibili, rientrano in una miriade di dispositivi approntati per dare un senso alla realtà e per collocarsi nell’arena socio-politica. I termini, i concetti e le categorie mantengono usi regolativi, situazionali e relazionali. D’altronde, non sono proprio gli antropologi a suggerire in ogni occasione la lettura in termini regolativi dell’appartenenza etnica? Serve infine lungimiranza, perché si è ormai consapevoli che l’ortodossia della decostruzione dei concetti, ribadita con insistenza in qualunque consesso come un mantra disciplinare, può avere in certi casi effetti inaspettati. È sufficiente pensare che le compagnie di estrazione mineraria e le autorità di gestione delle aree naturalistiche fanno ormai espliciti riferimenti alle posizioni ‘anti-indigeniste’ di Adam Kuper per escludere dai contratti e dai protocolli ogni loro impegno per i diritti dei gruppi autoctoni danneggiati (Kenrick e Lewis 2004: 4); dopotutto, potrebbero affermare, gli indigeni non esistono e sono gli antropologi a sostenerlo. Appurato che gli antropologi possono sostenere la causa dei Pigmei, occorre domandarsi in che modo l’antropologia possa contri159

buire affinché i Pigmei esistano e lo facciano a lungo. In che modo l’antropologia contribuisce all’esistenza dei Pigmei? Le risposte possono essere molteplici, in questa sede tuttavia se ne predilige una in particolare. Essa dovrebbe perseverare nel riconoscere e valorizzare il contributo dei Pigmei – e più genericamente degli ‘altri’ – alla costituzione del repertorio polifonico della cultura umana; insinuare almeno il dubbio che, nel continuo processo di costituzione di tale repertorio, i Pigmei possano essere artefici e attori equivalenti al pari di altri protagonisti. Così facendo, risulterà inevitabile a ‘noi’ ricollocarci fra gli ‘altri’ e, lungi dal sentirsi assediati, osservare gli altri con rinnovato interesse e intensità. È un percorso che non vuole limitarsi a cogliere le equivalenze dei diritti (§ 5.4), ma si impegna a dar conto delle equivalenze di eccellenza e complessità dei prodotti culturali – per esempio i pongo (cap. 1) – e delle equivalenze di eccellenza e complessità delle pratiche – per esempio ‘l’arte della spartizione’ (cap. 2). Lévi-Strauss (1984), per questo aspetto, resta un maestro straordinario. Collocando il Parsifal di Wagner in mezzo ai miti amazzonici egli è consapevole di proporre una particolare lettura unitaria e universale della cultura che negli ultimi decenni ha mostrato il fianco alla critica degli antropologi, ma è altrettanto consapevole di quanto tale accostamento vada a modificare la natura del nostro sguardo sugli ‘altri’. Si potrebbe obiettare che l’impresa di Lévi-Strauss avesse senso trenta o quarant’anni fa, quando l’Occidente, dentro e fuori le accademie, doveva impratichirsi nel riconoscimento culturale di quei mondi ‘altri’ e lontani. Certo, è un’obiezione sensata; ma guardando a questo nostro tempo (dentro e fuori le accademie), guardando gli arroccamenti identitari, i ripiegamenti sulle radici, l’implosione degli orizzonti, si può davvero sostenere che qualcosa di sostanziale sia cambiato negli ultimi decenni? In antropologia, l’equivalenza è un concetto ambiguo e scivoloso, sicché bisogna distinguere fra equivalenza di significato ed equivalenza di valore. La ricerca antropologica è doverosamente attenta a ribadire la non equivalenza dei significati (le ragnatele di significati sono in buona parte tessute localmente), ma dovrebbe al contempo ribadire con insistenza l’equivalenza di valore, argomentandola caso per caso sulla base di considerazioni intellettuali prima ancora che etiche. In questo libro si è cercato di mostrare come la questione dell’equivalenza non riguarda soltanto il valore delle pratiche, delle con160

figurazioni e dei prodotti degli altri (compresi quelli dei Pigmei), ma anche il valore della stessa antropologia; in altre parole, è in gioco una sorta di equivalenza metodologica e teorica di questo sapere rispetto alle altre discipline. Gli antropologi nel confronto con gli studiosi di altri ambiti accademici (scientifici e umanistici) si sentono percepiti come fossero Pigmei: necessitano di riconoscimento e di essere presi sul serio con la loro mercanzia di stranezze, con il loro metodo traballante e con le loro teorie sfilacciate e poco rassicuranti – si veda ad esempio il confronto con certi genetisti (cap. 4). A una attenta analisi, gli antropologi assomigliano davvero ai Pigmei e tale somiglianza scaturisce in modo emblematico dal parallelismo fra le modalità con cui i Pigmei raccolgono le termiti e successivamente le portano al campo (§ 1.3) e le modalità con cui gli antropologi raccolgono i dati etnografici e successivamente li ordinano in categorie. Dopo una accurata fase di raccolta (di termiti e di etnografie) segue una fase di ordinamento approssimativo. Entrambi (Pigmei e antropologi) lasciano fuggire parte della molteplicità raccolta, non riescono a contenerla e imbrigliarla. I cesti dei Pigmei e le classificazioni (e teorie) degli antropologi possono sicuramente essere perfezionati, ma il problema per entrambi – Pigmei e antropologi – non è solo l’affinamento degli strumenti. Il problema (ma poi sarà davvero un problema?) è una certa visione del mondo che accomuna gli antropologi e i Pigmei: entrambi percepiscono ciò che li circonda come partner di spartizione. Cosa intendono i Pigmei per ‘partner di spartizione’ è già stato spiegato in precedenza, ma per gli antropologi che significa? Gli antropologi sono, fra le altre cose, cacciatori di frodo (Geertz 1988: 27) di forme di umanità differenti12. Essi hanno come destino professionale quello di ribadire la natura variegata e plurale del repertorio della cultura, un repertorio polifonico e multicentrico al quale contribuiscono con pari dignità tutte le società umane. Così come i Pigmei hanno una fiducia smisurata nei confronti di un ‘ambiente dispensatore’ che non ha limiti spaziali, gli antropologi han12 L’idea che gli antropologi siano per certi aspetti ‘raccoglitori’ e per altri ‘cacciatori’ è sviluppata anche da Francesco Remotti il quale afferma che «neppure ora, nell’èra di un’antropologia computerizzata, siamo in grado di smettere la nostra attività e i nostri costumi di raccoglitori» (1993c: 46); e ancora: «Chi sono gli antropologi, se non cacciatori di umanità?» (1988: 19).

161

no una fiducia smisurata nei confronti di questo repertorio percepito come inesauribilmente abbondante, non circoscritto e fortemente differenziato. Così come i Pigmei riconoscono il cosmo intero come ‘partner di spartizione’ (§ 5.2), gli antropologi ritengono che in qualsiasi angolo di mondo si possano annidare frammenti del repertorio culturale tanto significativi quanto quelli rintracciati dietro casa. Per gli antropologi il mondo, costellato di società differenti, è un grandioso partner di spartizione di cultura e umanità. Gli antropologi hanno messo in evidenza come il repertorio culturale assomigli molto di più a una dispensa, da cui tutti attingono e in cui tutti mettono, che non a un archivio dove non tutti i documenti sono degni di essere conservati e dove non tutti possono accedervi per consultarli. Inoltre, il repertorio della cultura è molto più simile a un caleidoscopio che non a un mosaico. In altri termini, è illusorio pensare all’esistenza di mondi separati (come i tasselli di un mosaico) dove ogni società tragga nutrimento dal proprio esclusivo repertorio con l’ulteriore illusione che esso sia ‘puro’, ‘incontaminato’, autenticamente indigeno, immobile e perenne. Anche i Pigmei, dopotutto, percepiscono il cosmo come una enorme dispensa. La logica predatoria dei Pigmei si ritrova nel viaggio etnografico e comparativo di quella particolare caccia che l’antropologo compie all’interno del repertorio culturale. Tuttavia, Pigmei e antropologi sembrano voler dire che nella foresta e nelle imprese conoscitive comportarsi ‘come i gorilla’ non è mai troppo opportuno. C’è sempre un fondo di aggressività nel marcare i territori, nel disdegnare la spartizione, nel rifiutare l’inclusione degli altri, nel pretendere di dissimulare, ridurre e controllare la diversità e la molteplicità una volta per tutte. L’antropologo raccoglie, raggruppa, ordina, compara, ma dalle sue cesta intrecciate vede fuggire da ogni lato – come fossero le termiti raccolte dai Pigmei – l’irriducibile diversità e molteplicità della cultura umana. Gli antropologi, benché percepiscano l’inevitabilità di tali fughe, potrebbero non riuscire a dipanare completamente il senso di insoddisfazione di fronte al proprio lavoro; sarebbero allora i Pigmei a rassicurali mostrando come queste fughe non abbiano molto a che fare con una mancanza di accuratezza, ma siano la misura della complessità e vitalità del tutto. Parafrasando Wittgenstein, direbbero che un recinto aperto è pur sempre un recinto, anzi, è il migliore dei recinti possibili in quanto contempla l’apertura. I Pig162

mei hanno molto da insegnare agli antropologi, anzi, i Pigmei avrebbero molto da insegnare a noi tutti. Giunti così alla conclusione del percorso qui delineato vale la pena tornare alle foto delle due statue messe a confronto all’inizio del libro. Dal modo in cui sono state accostate si può pensare, con un po’ di immaginazione, che la candida donna della statua di Herring abbia realmente distolto lo sguardo dal suo prezioso libro per volgerlo in direzione della donna pigmea. Evidentemente è soltanto un auspicio in quanto è forte il presentimento che in questo nostro tempo – segnato dall’arroccamento identitario, dal ripiegamento sulle radici e dall’implosione degli orizzonti – si sarà sempre più inclini ad apprezzare non solo gli alti componimenti della lirica e della tragedia classica, ma anche il loro prolungato silenzio nei confronti dei Pigmei, ridotti a bisbiglio derisorio (cap. 3). La sensazione è che lo stesso bisbiglio derisorio aleggi in molta antropologia timorosa di farsi percepire ‘tribale’ – ovvero, rinchiusa nei villaggi a danzare attorno al vecchio totem disciplinare, l’esotismo. Insomma, noi, dentro e fuori le accademie, purtroppo, non sappiamo proprio che farcene intellettualmente dei Pigmei. Sarà un’affermazione lapidaria ma – come direbbe John Searle – è una accurata rappresentazione della realtà. Per tale motivo, si pensa sia valsa la pena sfogliare e leggere alcune pagine del ‘libro dei Pigmei’.

Bibliografia

Abega S.C., 1997: Princes et chimpanzés. Le pygmée bedzang dans les représentations mentales des Tikar de Nditam (Cameroun), in «Anthropos», 92, pp. 523-534. Addison Posey D., 2000: Ethnobiology and Ethnoecology in the Context of National Laws and International Agreements Affecting Indigenous and Local Knowledge, Traditional Resources and Intellectual Property Rights, in Ellen R., Parkes P. e Bicker A. (a cura di), Indigenous Environmental Knowledge and its Transformations. Critical Anthropological Perspectives, Routledge, London. Agamennone M., 1997: Le voci del mondo, in AA.VV., Musiche tradizionali centrafricane, Settembre Musica, Torino, pp. 45-63. Allovio S., 1999: La foresta di alleanze. Popoli e riti in Africa equatoriale, Laterza, Roma-Bari. Allovio S., 2006: Culture e congiunture. Saggi di etnografia e storia mangbetu, Guerini, Milano. Altman J.C., 1984: Hunter-Gatherers Subsistence Production in Arnhem Land: The Original Affluence Hypothesis Re-Examined, in «Mankind», 14, pp. 179-190. Arom S., 1985: Polyphonies et polyrythmies instrumentales d’Afrique Centrale. Structure et méthodologie, 2 voll., Selaf, Paris. Arom S., 2003: «L’albero che nascondeva la foresta». Principi metrici e ritmici in Africa Centrale, in «Lares», 69, 2, pp. 371-387. Augé M., 1993: Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano (ed. or., Non-Lieux, Seuil, Paris, 1992). Augé M., 1995: Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia, Anabasi, Milano (ed. or., Le sens des autres. Actualité de l’anthropologie, Fayard, Paris, 1994). Bahuchet S., 1985: Les Pygmées Aka et la forêt centrafricaine, ethnologie écologique, Selaf, Paris. Bahuchet S., 1990: Food Sharing among the Pygmies of Central Africa, in «African Study Monographs», 11, 1, pp. 27-53. 165

Bahuchet S., 1991a: La Forêt du Haut-Zaïre: une mosaïque culturelle, in Farris Thompson R. e Bahuchet S., Pygmées? Peintures sur écorce battue des Mbuti (Haut-Zaïre), Editions Dapper, Paris, pp. 115-147. Bahuchet S., 1991b: Les Pygmées d’aujourd’hui en Afrique centrale, in «Journal des Africanistes», 61, 1, pp. 5-35. Bahuchet S., 1993: L’invention des Pygmées, in «Cahiers d’Études Africaines», 33, 1, n. 129, pp. 153-181. Bahuchet S., 1999: Aka Pygmies, in Lee R.B. e Daly R. (a cura di), The Cambridge Encyclopedia of Hunters and Gatherers, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 190-194. Bahuchet S., McKey D. e de Garine I., 1991: Wild Yams Revisited: Is Independence from Agriculture Possible for Rain Forest Hunter-Gatherers?, in «Human Ecology», 19, 2, pp. 213-243. Bailey R.C. et al., 1989: Hunting and Gathering in Tropical Rainforests. Is It Possible?, in «American Anthropologist», 91, 1, pp. 59-82. Bailey R.C. e Peacock N.R., 1989: Efe Pygmies of Northeast Zaire: Subsistence Strategies in the Ituri Forest, in de Garine I., Harrison G.A. (a cura di), Coping with Uncertainty in the Food Supply, Clarendon Press, Oxford, pp. 88-117. Baker L.D., 1994: From Cannibal to Animal: Exhibiting Ota Benga, in «Transforming Anthropology», 5, 1-2, p. 41. Barnard A., 1983: Contemporary Hunter-Gatherers: Current Theoretical Issue in Ecology and Social Organization, in «Annual Review of Anthropology», 12, pp. 193-214. Barnard A., 2002: Storia del pensiero antropologico, il Mulino, Bologna (ed. or., History and Theory in Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge, 2000). Barnard A., 2004: Indigenous Peoples. A Response to Justin Kenrick and Jerome Lewis, in «Anthropology Today», 20, 5. Bauman Z., 1993: Postmodern Ethics, Blackwell, London. Bauman Z., 1997: The Making and Unmaking of Strangers, in Werbner P., Modood T. (a cura di), Debating Cultural Hybridity: Multi-Cultural Identities and the Politics of Anti-Racism, Zed Books, London. Beattie J., 1957: Nyoro Personal Names, in «Uganda Journal», 21, pp. 99106. Beidelman T.O., 1974: Kaguru Names and Naming, in «Journal of Anthropological Research», 30, 4, pp. 281-293. Beneduce R., 2008: Introduzione. Etnografie della violenza, in «Antropologia. Annuario», 8, 9-10, pp. 5-47. Biesele M., Kxao Royal-/o/oo, 1999: The Ju/’hoansi of Botswana and Namibia, in Lee R.B. e Daly R. (a cura di), The Cambridge Encyclopedia 166

of Hunters and Gatherers, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 205-209. Biondi G. e Rickards O., 2001: Uomini per caso. Miti, fossili e molecole nella nostra storia evolutiva, Editori Riuniti, Roma. Bird-David N., 1990: The Giving Environment: Another Perspective on the Economic System of Gatherer-Hunters, in «Current Anthropology», 31, 2, pp. 189-196. Bird-David N., 1992: Beyond «The Original Affluent Society». A Culturalist Reformulation, in «Current Anthropology», 33, 1, pp. 25-47. Bird-David N., 1996: Hunter-Gatherer Research and Cultural Diversity, in Kent S. (a cura di), Cultural Diversity among Twentieth-Century Foragers. An African Perspective, Cambridge University Press, Cambridge. Blench R., 1999: Are the African Pygmies an Ethnographic Fiction?, in Biesbrouck K., Elders S., Rossel G. (a cura di), Central African Hunter-Gatherers in a Multidisciplinary Perspective: Challenging Elusiveness, CNWS, Leiden, pp. 41-60. Bloch M., 2005: Da preda a cacciatore. La politica dell’esperienza religiosa, Raffaello Cortina, Milano (ed. or., Prey into Hunter. The Politics of Religious Experience, Cambridge University Press, Cambridge, 1992). Bloom A., 1995: The Closing of the American Mind, in Arthur J., Shapiro A. (a cura di), Campus Wars, Westview, Boulder. Blume H., 1999: Ota Benga and the Barnum Perplex, in Lindfors B. (a cura di), Africans on Stage, Studies in Ethnological Show Business, Indiana University Press, Bloomington. Bourdieu P., 1983: La distinzione, il Mulino, Bologna (ed. or., La distinction, Les Editions de Minuit, Paris, 1979). Bourdieu P., 2005: Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Il Saggiatore, Milano (ed. or., Les règles de l’art, Seuil, Paris, 1992). Boyer P., 1989: Pourquoi les Pygmées n’ont pas de culture?, in «Gradhiva», 7, pp. 3-17. Bradford P.V. e Blume H., 1993: Ota Benga. Un Pygmée au zoo, Belfond, Paris (ed. or., Ota Benga: The Pygmy in the Zoo, St. Martin’s Press, New York, 1992). Caoci A. (a cura di), 2008: Antropologia, estetica e arte. Antologia di scritti, Angeli, Milano. Cardona G.R., 1988: I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza, Laterza, Roma-Bari. Cavalli Sforza L.L. (a cura di), 1986: African Pygmies, Academic Press, Orlando. Cavalli Sforza L.L., 1996: Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano. Cavalli Sforza L.L., 2008: L’evoluzione della cultura, Codice, Torino. 167

Cavalli Sforza L.L. e Cavalli Sforza F., 2007: Perché la scienza. L’avventura di un ricercatore, Mondadori, Milano. Cavalli Sforza L.L. e Feldman M.W., 1981: Cultural Transmission and Evolution: A Quantitative Approach, Princeton University Press, Princeton. Cavalli Sforza L.L., Menozzi P. e Piazza A., 1997: Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano (ed. or., History and Geography of Human Genes, Princeton University Press, Princeton, 1994). Cheng F., 1979: Vide et plein. Le langage pictural chinois, Seuil, Paris. Clastres P., 1984: La società contro lo stato. Ricerche di antropologia politica, Feltrinelli, Milano (ed. or., La société contre l’État. Recherches d’anthropologie politique, Les Editions de Minuit, Paris, 1974). Clifford J., 1999: I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino (ed. or., The Predicament of Culture. Twentieth-Century Ethnography, Literature and Art, Harvard University Press, Cambridge, 1988). Clifford J., 2002: Prendere sul serio la politica dell’identità, in «Aut-Aut», 312, pp. 97-114. Coquery-Vidrovitch C. e Moniot H., 1977: L’Africa nera dal 1800 ai nostri giorni, Mursia, Milano (ed. or., L’Afrique noire de 1800 à nos jours, Presses Universitaires de France, Paris, 1974). D’Agostino F., 2008: L’antropologo scava la fossa alla famiglia, in «Avvenire», 7 marzo 2008. de Carolis A., 1978: Il popolo dell’argilla. Pregiudizio etnico ed emarginazione sociale dei Twa del Burundi, Officina, Roma. Decoteau P.H., 1990: Malvina Hoffman and the «Races of Man», in «Woman’s Art Journal», 10, 2, pp. 7-12. Delobeau J.-M., 1978: Yamonzombo et Yandenga. Histoire des relations entre les gens du fleuve et les gens de la foret (XIX-XX siècle), in «Cahiers Congolais d’Anthropologie et d’Histoire», 2, pp. 43-55. Delobeau J.-M., 1979: Mythologie, anthropologie et histoire quelques réflexions à propos de certains mythes monzombo, in «Cahiers Congolais d’Anthropologie et d’Histoire», 4, pp. 43-55. Destro-Bisol G., 2005: Genetic Variation and Social Structure: A CaseStudy from Africa, in «Human Evolution», 20, 2-3, pp. 93-98. Destro-Bisol G. et al., 2004: Variation of Female and Male Lineages in Sub-Saharan Populations: The Importance of Sociocultural Factors, in «Molecular Biology and Evolution», 21, 9, pp. 1673-1682. Detienne M., 1982: Pratiche culinarie e spirito di sacrificio, in Vernant J.P. e Detienne M., La cucina del sacrificio in terra greca, Boringhieri, Torino (ed. or., La cuisine du sacrifice en pays grec, Gallimard, Paris, 1979). 168

Domenici V., 2006: Pigmei, ultima battaglia per la salvezza, in «Corriere della Sera», 28 marzo, p. 27. Duranti A., 2007: Etnopragmatica. La forza nel parlare, Carocci, Roma. Ellen R., Parkes P. e Bicker A. (a cura di), 2000: Indigenous Environmental Knowledge and its Transformations. Critical Anthropological Perspectives, Routledge, London. Ellis S., 1999: The Mask of Anarchy: The Destruction of Liberia and the Religious Dimension of an African Civil War, Hurst, London. Evans-Pritchard E.E., 1956: Nuer Religion, Oxford University Press, Oxford. Evans-Pritchard E.E., 2002: Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Raffaello Cortina, Milano (ed. or., Witchcraft, Oracles and Magic among the Azande, Oxford University Press, Oxford, 1976). Fabian J., 2000: Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, L’ancora del Mediterraneo, Napoli (ed. or., Time and the Other, Columbia University Press, New York, 1983). Fabietti U., 1999: Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari. Farris Thompson R., 1983: Painting from a Single Heart, Preliminary Remarks on Bark-Cloth Designs of the Mbute Women of Haut-Zaïre, Fred und Jens Jahn, München. Farris Thompson R., 1991: Naissance du dessin «nègre». L’art mbuti dans une perspective mondiale, in Farris Thompson R. e Bahuchet S., Pygmées? Peintures sur écorce battue des Mbuti (Haut-Zaïre), Editions Dapper, Paris, pp. 27-113. Farris Thompson R. e Bahuchet S., 1991: Pygmées? Peintures sur écorce battue des Mbuti (Haut- Zaïre), Editions Dapper, Paris. Favole A., 2000, Tra locale e globale. Il rito «kava» in Polinesia, in Scarduelli P. (a cura di), Antropologia del rito. Interpretazioni e spiegazioni, Bollati Boringhieri, Torino, pp. 190-214. Favole A., 2009: Creatività culturale, in «AM – Antropologia Museale», 8, 22, pp. 21-23. Feld S., 1996: Pygmy POP: A Genealogy of Schizophonic Mimesis, in «Yearbook for Traditional Music», 28, pp. 1-35. Ferraris M., 2008: Scivoloni multiculturali, in «Il Sole 24 Ore», 18 maggio, p. 40. Frankland S., 2001: Pygmic Tours, in «African Study Monographs», 26, pp. 237-256. Frankland S., 2009: The Bulimic Consumption of Pygmies: Regurgitating an Image of Otherness, in Robinson M. e Picard D. (a cura di), The Framed World. Tourism, Tourists and Photography, Ashgate, London, pp. 95-116. 169

Geertz C., 1987: Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna (ed. or., The Interpretation of Cultures, Basic Books, New York, 1973). Geertz C., 1988: Antropologia interpretativa, il Mulino, Bologna (ed. or., Local Knowledge. Further Essay in Interpretative Anthropology, Basic Books, New York, 1983). Geertz C., 1990: Opere e vite. L’antropologo come autore, il Mulino, Bologna (ed. or., Works and Lives. The Anthropologist as Author, Stanford University Press, Stanford, 1988). Geertz C., 2001: Antropologia e filosofia, il Mulino, Bologna (ed. or., Available Light. Anthropological Reflections on Philosophical Topics, Princeton University Press, Princeton, 2000). Geertz H. e Geertz C., 1964: Teknonymy in Bali: Parenthood, Age-Grading and Genealogical Amnesia, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», 94, 2, pp. 94-108. Gell A. e Hirsch E. (a cura di), 1999: The Art of Anthropology. Essays and Diagrams, London School of Economics, London. Goethe J.W., 1983: La metamorfosi delle piante e altri scritti della natura, Guanda, Parma (ed. or., Die Schriften zur Naturwissenschaft, 1807). Green J.P., 1999: A Revelation in Strange Humanity. Six Congo Pygmies in Britain, 1905-1907, in Lindfors B. (a cura di), Africans on Stage, Studies in Ethnological Show Business, Indiana University Press, Bloomington. Griaule M., 1957: Méthode de l’ethnographie, Presses Universitaires de France, Paris. Grinker R.R., 1992: Houses, Clans, and Cloth: Modeling an Inter-Ethnic Economy in Zaire, in «Museum Anthropology», 16, 3, pp. 41-52. Grinker R.R., 1994: Houses in the Rain Forest. Ethnicity and Inequality among Farmers and Foragers in Central Africa, University of California Press, Berkeley. Grinker R.R., 1997: Immagini di denigrazione: ineguaglianza strutturale tra raccoglitori e coltivatori nella foresta dell’Ituri, in Remotti F. (a cura di), Le antropologie degli altri. Saggi di etno-antropologia, Scriptorium, Torino, pp. 120-149 (ed. or., Images of Denigration: Structuring Inequality Between Foragers and Farmers in the Ituri Forest, Zaire, in «American Ethnologist», XVII, 1, 1990, pp. 111-130). Guille-Escuret G., 1998: La revolution agricole des Pygmées aka. De la structure dans l’événement et réciproquement, in «L’Homme», 38, 147, pp. 105-126. Gunnell J.G., 1978: The Myth of the Tradition, in «The American Political Science Review», 72, 1, pp. 122-134. Hammer M.T. et al., 2001: Hierarchical Patterns of Global Human Y170

Chromosome Diversity, in «Molecular Biology and Evolution», 18, 7, pp. 1189-1203. Harris M., 1971: L’evoluzione del pensiero antropologico. Una storia della teoria della cultura, il Mulino, Bologna (ed. or., The Rise of Anthropological Theory. A History of Theories of Culture, Crowell, New York, 1968). Hart J.A. e Hart T.B., 1984: The Mbuti of Zaire, in «Cultural Survival Quarterly», 8, 3. Hart J.A. e Hart T.B., 1986: The Ecological Basis of Hunter-Gatherers Subsistence in Africa Rain Forest: The Mbuti of Eastern Zaire, in «Human Ecology», 14, 1, pp. 29-56. Hartwell L.H. et. al., 2004: Genetics: From Gene to Genomes, McGrawHill, New York. Hawkes K., Hill K. e O’Connell J.F., 1982: Why Hunters Gather: Optimal Foraging and the Aché of Eastern Paraguay, in «American Ethnologist», 9, 2, pp. 379-391. Herzfeld M., 2006: Antropologia. Pratica della teoria nella cultura e nella società, Seid, Firenze (ed. or., Anthropology: Theoretical Practice in Culture and Society, Blackwell, Malden, 2001). Hewlett B., 1996: Cultural Diversity among African Pygmies, in Kent S. (a cura di), Cultural Diversity among Twentieth-Century Foragers. An African Perspective, Cambridge University Press, Cambridge. Hewlett B., 2000: Central African Government’s and International NGOs’ Perceptions of Baka Pygmy Development, in Schweitzer P., Biesele M. e Hitchcock R. (a cura di), Hunters and Gatherers in the Modern World. Conflict, Resistance, and Self-Determination, Berghahn Books, New York. Hewlett B. e Cavalli Sforza L.L., 1986: Cultural Transmission Among Aka Pygmies, in «American Anthropologist», 88, 4, pp. 922-934. Hitchcock R. e Biesele M., 2000: Introduction, in Schweitzer P., Biesele M. e Hitchcock R. (a cura di), Hunters and Gatherers in the Modern World. Conflict, Resistance, and Self-Determination, Berghahn Books, New York. Hoffman M., 1936: Heads and Tales, Charles Scribner’s Sons, New York. Hopkin M., 2007: Mark of Respect, in «Nature», vol. 448, 26 luglio. Hubert H. e Mauss M., 1899: Essai sur la nature et la fonction sociale du sacrifice, in «Année Sociologique», 2, pp. 29-138. Ichikawa M., 1981: Ecological and Sociological Importance of Honey to the Mbuti net Hunters, Eastern Zaïre, in «African Study Monographs», 1, pp. 55-68. Ichikawa M., 1983: An Examination of the Hunting-Dependent Life of the Mbuti Pygmies, Eastern Zaire, in «African Study Monographs», 4, pp. 55-76. 171

Ichikawa M., 2000: «Interest in the Present» in the Nationwide Monetary Economy, in Schweitzer P., Biesele M. e Hitchcock R. (a cura di), Hunters and Gatherers in the Modern World. Conflict, Resistance, and SelfDetermination, Berghahn Books, New York. Ichikawa M. e Terashima H., 1996: Cultural Diversity in the Use of Plants by Mbuti Hunter-Gatherers in Northeastern Zaire: An Ethnobotanical Approach, in Kent S. (a cura di), Cultural Diversity among TwentiethCentury Foragers. An African Perspective, Cambridge University Press, Cambridge. Ilundu Bulambo S., 2001: La situation actuelle des Pygmées en République démocratique du Congo, in «Ethnies», 15, 27, pp. 95-96. Ilundu Bulambo S., 2003: The Impact of Congolese Conflict on the Indigenous Pygmy Population, in «Indigenous Affairs», 3, pp. 18-22. Ingold T., 2001: Ecologia della cultura, Meltemi, Roma. Jackson D., 2003: Indigenous Advocacy in Central Africa, in «Indigenous Affairs», 4, pp. 8-13. Jackson D., 2004: Twa Women in the Great Lakers Region, in «Indigenous Affairs», 1-2, pp. 14-21. Jackson D., 2006: The Health Situation of Women and Children in Central African Pygmy Peoples, in «Indigenous Affairs», 1, pp. 38-45. Janni P., 1978: Etnografia e mito. La storia dei pigmei, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma. Joiris D.V., 1994: Elements of Techno-Economic Changes among the Sedentarised Bagyeli Pygmies (South-West Cameroon), in «African Study Monographs», 15, 2, pp. 83-95. Kagabo J. e Mudandagizi V., 1974: Complainte des gens de l’argile. Les Twa du Rwanda, in «Cahiers d’Études Africaines», 14, 1, pp. 75-87. Kaplan D., 2000: The Darker Side of the «Original Affluent Society», in «Journal of Anthropological Research», 56, 3, pp. 301-324. Kazadi N., 1981: Meprises et admires: l’ambivalence des relations entre les Bacwa (Pygmees) et les Bahemba (Bantu), in «Africa», 51, 4, pp. 836-847. Keller M., 2007: A Pigmy Traveler Gives Voice to a Marginalized People, in «The New York Times», 1 dicembre (fonte www.nytimes.com). Kemp M., 2000: Type and Archetype. Hoffman and Herring in the Field Museum, Chicago, in «Nature», vol. 405, p. 278. Kenrick J., 2000: The Forest Peoples of Africa in the 21st Century, in «Indigenous Affairs», 2, pp. 10-24. Kenrick J., 2005: Equalising Processes, Processes of Discrimination and the Forest People of Central Africa, in Widlok T. e Tadesse G.W. (a cura di), Property and Equality, vol. II, Encapsulation, Commercialisation, Discrimination, Berghahn Books, New York. 172

Kenrick J. e Lewis, J., 2001: Evolving Discrimination against the Forest People (‘Pygmies’) of Central Africa, in «Indigenous Affairs», 1, pp. 62-70. Kenrick J. e Lewis J., 2004: Indigenous Peoples’ Rights and the Politics of the Term ‘Indigenous’, in «Anthropology Today», 20, 2, pp. 4-9. Kent S. (a cura di), 1996: Cultural Diversity among Twentieth-Century Foragers. An African Perspective, Cambridge University Press, Cambridge. Kent S. (a cura di), 2002: Ethnicity, Hunter-Gatherers, and the «Other»: Association or Assimilation in Africa, Washington, Smithsonian Institution Press. Kitanishi K., 1996: Variability in the Subsistence Activities and Distribution of Food among Different Aged Males of the Aka Hunter-Gatherers in Northeastern Congo, in «African Study Monographs», 17, 1, pp. 35-57. Kitanishi K., 1998: Food Sharing among the Aka Hunter-Gatherers in Northeastern Congo, in «African Study Monographs», 25, 1, pp. 3-32. Kluckhohn C., 1979: Lo specchio dell’uomo, Garzanti, Milano (ed. or., Mirror for Man, McGraw-Hill, New York, 1949). Knight J., 2006: Indigenous Forest Peoples of Gabon Face Uncertain Future, in «Indigenous Affairs», 4, pp. 23-30. Köhler A., 2005: Money Makes the World Go Round? Commodity Sharing, Gifting and Exchange in the Baka (Pygmy) Economy, in Widlok T. e Tadesse G.W. (a cura di), Property and Equality, vol. II, Encapsulation, Commercialisation, Discrimination, Berghahn Books, New York. Köhler A. e Lewis J., 2002: Putting Hunter-Gatherer and Farmer Relations in Perspective. A Commentary from Central Africa, in Kent S. (a cura di), Ethnicity, Hunter-Gatherers, and the «Other»: Association or Assimilation in Africa, Washington, Smithsonian Institution Press. Kuper A., 2003: The Return of the Native, in «Current Anthropology», 44, 3, pp. 389-402. Lakoff G. e Johnson M., 1998: Metafora e vita quotidiana, Bompiani, Milano (ed. or., Metaphors We Live by, University of Chicago Press, Chicago, 1980). Laplantine F., 2004: Identità e métissage. Umani al di là delle appartenenze, Elèuthera, Milano (ed. or., Je, nous et les autres. tre humain au-delà des appartenances, Le Pommier, Paris, 1999). Layton R., 2001: Teorie antropologiche. Un’introduzione, Il Saggiatore, Milano (ed. or., An Introduction to Theory in Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge, 1997). Leach E.R., 1961: Pul Eliya. A Village in Ceylon, Cambridge University Press, Cambridge. Leach E.R., 1973: Nuove vie dell’antropologia, Il Saggiatore, Milano (ed. or., Rethinking Anthropology, Athlone Press, London, 1961). 173

Leach E.R., 1979: Sistemi politici birmani. Struttura sociale dei Kachin, Angeli, Milano (ed. or., Political Systems of Highland Burma. A Study of Kachin Social Structure, Athlone, London, 1954). Lee R.B., 1965: Subsistence Ecology of !Kung Bushmen, Ph.D. Dissertation, University of California, Berkeley. Lee R.B., 1992: Art, Science or Politics? The Crisis in Hunter-Gatherers Studies, in «American Anthropologist», 94, 1, pp. 31-54. Lee R.B., 2005: Power and Property in Twenty-First Century Foragers. A Critical Examination, in Widlok T. e Tadesse G.W. (a cura di), Property and Equality, vol. II, Encapsulation, Commercialisation, Discrimination, Berghahn Books, New York. Lee R.B. e DeVore I. (a cura di), 1968: Man the Hunter, Aldine Publishing Company, Chicago. Lemaire S. et al. (a cura di), 2003: Zoo umani. Dalla Venere ottentotta ai reality show, Ombre Corte, Verona (ed. or., Zoos humains. De la Vénus hottentote aux reality shows, La Découverte, Paris, 2002). Lévi-Strauss C., 1960: Tristi tropici, Il Saggiatore, Milano (ed. or., Tristes tropiques, Plon, Paris, 1955). Lévi-Strauss C., 1964: Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano (ed. or., La pensée sauvage, Plon, Paris, 1962). Lévi-Strauss C., 1984: Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino (ed. or., Le regard éloigné, Plon, Paris, 1983). Lévi-Strauss C. e Eribon D., 1988: Da vicino e da lontano, Rizzoli, Milano (ed. or., De Près et de loin, Odile Jacob, Paris, 1988). Lewis J., 2001: Les Pygmées Batwa de la région des Grands Lacs, Minority Rights Group International, London (ed. or., The Batwa Pygmies of the Great Lakes Region, Minority Rights Group International, London, 2000). Lewis J., 2005: Whose Forest Is It Anyway? Mbendjele Yaka Pygmies, the Ndoki Forest and the Wider World, in Widlok T. e Tadesse G.W. (a cura di), Property and Equality, vol. II, Encapsulation, Commercialisation, Discrimination, Berghahn Books, New York. Lewis J., 2007: Enabling Forest People to Map their Resources, in «Before Farming», 2, versione online, articolo 3, pp. 1-7, http://www.waspress. co.uk/journals/beforefarming/journal_20072/news/2007_2_03.pdf Lewis J., 2008: Ekila: Blood, Bodies, and Egalitarian Societies, in «Journal of the Royal Anthropological Institute», 14, 2, pp. 297-315. Lewis J. e Nelson J., 2006: Logging in the Congo Basin. What Hope for Indigenous Peoples’ Resources, and their Environments, in «Indigenous Affairs», 4, 2, pp. 8-15. Loung J.F., 1959: Les Pygmées de la forêt du Mil. Un group de Pygmées ca174

merounais en voie de sédentarisation, in «Les Cahiers d’Outre-Mer», 12, pp. 1-20. MacEachern S., 2000: Genes, Tribes, and African History, in «Current Anthropology», 41, 3, pp. 357-384. Marconi D., 2007: Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino. Marshall L., 1961: Sharing, Talking, and Giving: Relief of Social Tensions among !Kung Bushmen, in «Africa», 31, 3, pp. 231-249. Mathieu R., 1990: Le Combat des grues et des Pygmées, in «L’Homme», 30, 116, pp. 55-73. Meurant G. e Farris Thompson R., 1996: Mbuti Design: Paintings by Pygmy Woman of the Ituri Forest, Thames and Hudson, New York. Middleton J., 1961: The Social Significance of Lugbara Personal Names, in «Uganda Journal», 25, pp. 34-42. Middleton J., 1975: I Lugbara dell’Uganda, Officina, Roma (ed. or., The Lugbara of Uganda, Holt, New York, 1965). Moore S.F., 2000: L’etnografia del presente e l’analisi del processo, in Borofsky R. (a cura di), L’antropologia culturale oggi, Meltemi, Roma (ed. or., Assessing Cultural Anthropology, McGraw-Hill, 1994). Moore S.F., 2004: Antropologia e Africa, Raffaello Cortina Editore, Milano (ed. or., Anthropology and Africa, University Press of Virginia, Charlottesville, 1994). Mosko M.S., 1987: «The Symbols of ‘Forest’: A Structural Analysis of Mbuti Culture and Social Organization», in «American Anthropologist», 89, 4, pp. 896-913. Mulvagh L., 2006: The Impact of Commercial Logging and Forest Policy on Indigenous Peoples in the Democratic Republic of Congo, in «Indigenous Affairs», 4, pp. 16-22. Needham R., 1954: The System of Teknonyms and Death-Names of the Penan, in «Southwestern Journal of Anthropology», 10, pp. 416-431. Ngoun J., 2001: Les Pygmées et l’exploitation forestière industrielle: le cas des Bagyeli du Sud-Cameroun, in «Ethnies», 15, 27, pp. 97-101. Nketia J.H.K., 1962: The Hocket-Technique in African Music, in «Journal of the International Folk Music Council», 14, pp. 44-52. Oldham P. e Frank M.A., 2008: ‘We the Peoples...’. The United Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, in «Anthropology Today», 24, 2, pp. 5-9. Pasqualotto G., 1992: Estetica del vuoto. Arte e meditazione nelle culture d’Oriente, Marsilio, Venezia. Pavanello M., 1993: Le società acquisitive e i fondamenti razionali dello scambio, Franco Angeli, Milano. Pes D., 2008: Recours à l’invisible: persona e potere presso i Baka del Ca175

merun, in Beneduce R. (a cura di), Poteri e identità in Africa Subsahariana, Liguori, Napoli, pp. 279-306. Piasere L., 2002: L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Laterza, Roma-Bari. Pottier J., 2007: Right Violations, Humour, and Rhetoric: Making Sense of Cannibalism in Mambasa, Ituri (Democratic Republic of Congo), in «Journal of the Royal Anthropological Institute», 13, pp. 825-843. Puccini S., 1999: Andare lontano. Viaggi ed etnografia nel secondo Ottocento, Carocci, Roma. Pulini M., 2006: La parte muta. Incompiuto e frammento allo specchio dell’arte, Medusa, Milano. Ramos A.R., 2003: Comment (on The Return of Native), in «Current Anthropology», 44, 3, pp. 397-398. Remotti F., 1988: Il cibo degli antropologi, in «L’Uomo», 1, 1-2, pp. 3-24. Remotti F., 1990: Noi, primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri, Torino. Remotti F., 1993a: A ritroso, verso la modernità, in «Etnoantropologia», 1, pp. 13-33. Remotti F., 1993b: Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio del tempo e del potere, Bollati Boringhieri, Torino. Remotti F., 1993c: Antropologia, eros e modernità, in Fabietti U. (a cura di), Il sapere dell’antropologia. Pensare, comprendere, descrivere l’Altro, Mursia, Milano, pp. 41-55. Remotti F., 1994: Etnografia nande II. Ecologia, cultura, simbolismo, Il Segnalibro, Torino. Remotti F., 2000: Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari. Remotti F., 2003: Dal centro alla periferia e ritorno: antropologia culturale e sociologia del ’900, in Di Adila D. e Paglia L. (a cura di), Novecento. Itinerari scientifici, artistici e letterari del XX secolo, Società Dante Alighieri, Foggia, pp. 123-137. Remotti F., 2005: Riflessioni sulla densità culturale, in «Passaggi. Rivista Italiana di Scienze Transculturali», V, 10, pp. 18-40. Remotti F., 2008: Contro natura. Una lettera al Papa, Laterza, Roma-Bari. Rigotti F., 2006: Le basi filosofiche del multiculturalismo, in Galli C. (a cura di), Multiculturalismo. Ideologie e sfide, il Mulino, Bologna, pp. 29-44. Rorty R., 1989: La filosofia dopo la filosofia. Contingenza, ironia e solidarietà, Laterza, Roma-Bari (ed. or., Contingency, Irony and Solidarity, Cambridge University Press, Cambridge, 1989). Sahlins M., 1980: L’economia dell’età della pietra, Bompiani, Milano (ed. or., Stone Age Economics, Aldine-Atherton, Chicago, 1972). Sahlins M., 1999: What is Anthropological Enlightenment? Some Lessons 176

of the Twentieth Century, in «Annual Review of Anthropology», 28, pp. I-XXIII. Salzman P.C., 1993: Lo straniero solitario nel cuore di tenebra. Fatti e misfatti della vocazione antropologica, in Fabietti U. (a cura di), Il sapere dell’antropologia. Pensare, comprendere, descrivere l’Altro, Mursia, Milano, pp. 57-73. Sato H., 2001: The Potential of Edile Wild Yams and Yam-Like Plants as a Staple Food Resource in the African Tropical Rain Forest, in «African Study Monographs», 26, pp. 123-134. Schebesta P., 1958: Bambuti-Initiation, in «Kongo-Overzee», 24, 3, pp. 136-161. Schildkrout E. e Keim C., 1990: African Reflections. Art from Northeastern Zaire, American Museum of Natural History, Washington (con contributi di D. Demolin, J. Mack, T. Ross Miller, J. Vansina). Schildkrout E. e Keim C. (a cura di), 1998: The Scramble for Art in Central Africa, Cambridge University Press, Cambridge. Schulz J., 1975: Michelangelo’s Unfinished Works, in «The Art Bulletin», 57, 3, pp. 366-373. Schweinfurth G., 1875: Nel centro dell’Africa. Tre anni di viaggi e avventure nelle regioni inesplorate dell’Africa Centrale. Paese dei NiamNiam e dei Monbuttù, Fratelli Treves, Milano (ed. or., Im Herzen von Afrika. Reisen und Entdeckungen im Centralen Aequatorial Afrika während der Jahre 1868 bis 1871, F.A. Brockhaus, Leipzig, 1874). Schweitzer P., Biesele M. e Hitchcock R. (a cura di), 2000: Hunters and Gatherers in the Modern World. Conflict, Resistance, and Self-Determination, Berghahn Books, New York. Searle J.R., 2008: Occidente e multiculturalismo, in «Il Sole 24 Ore», Luiss University Press, Milano-Roma (ed. or., Postmodernism and the Western Rationalist Tradition, in Arthur J., Shapiro A. (a cura di), Campus Wars, Westview, Boulder). Seielstad M.T., Minch E. e Cavalli Sforza L.L., 1998: Genetic Evidence for a Higher Female Migration Rate in Humans, in «Nature Genetics», 20, pp. 278-280. Service E.R., 1983: L’organizzazione sociale primitiva, Loescher, Torino (ed. or., Primitive Social Organization. An Evolutionary Perspective, Random House, New York, 1971). Singer I.B., 1984: La luna e la follia, Longanesi & C., Milano (trad. dal testo americano The Collected Stories, 1981). Solway J.S. e Lee R.B., 1990: Foragers, Genuine or Spurious? Situating the Kalahari San History, in «Current Anthropology», 31, 2, 109-146. Steward H.J., 1977: Teoria del mutamento culturale. La metodologia dell’evoluzione multilineare, Boringhieri, Torino (ed. or., Theory of Cul177

ture Change. The Methodology of Multilinear Evolution, University of Illinois Press, Urbana, 1955). Suzman S.M., 1994: Names as Pointers: Zulu Personal Naming Practices, in «Language in Society», 23, pp. 253-272. Tanno T., 1981: Plant Utilization of the Mbuti Pygmies. With Special Reference to Their Material Culture and Use of Wild Vegetable Foods, «African Study Monographs», 1, pp. 1-53. Taylor C., 1993: Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano (ed. or., Multiculturalism and «The Politics of Recognition», Princeton University Press, Princeton, 1992). Terashima H., Ichikawa M. e Sawada M., 1988: Wild Plant Utilization of the Balese and the Efe of the Ituri Forest, the Republic of Zaïre, in «African Study Monographs», 8, pp. 1-78. Tonkin E., 1980: Jealousy Names, Civilised Names: Anthroponomy of the Jlao Kru of Liberia, in «Man», 15, 4, pp. 653-664. Troutman J.W. e Parezo N.J., 1998: «The Overlord of the Savage World»: Anthropology and the Press at the 1904 Louisiana Purchase Exposition, in «Museum Anthropology», 22, 2, pp. 17-34. Turnbull C.M., 1957: Initiation among the BaMbuti Pygmies of the Central Ituri, in «Journal of Royal Anthropological Institute», 87, pp. 191-216. Turnbull C.M., 1960: The «Molimo»: A Men’s Religious Association among the Ituri Bambuti, in «Zaïre», 14, 4, pp. 307-340. Turnbull C.M., 1965: Wayward Servants. The Two Worlds of the African Pygmies, The Natural History Press, New York. Turnbull C.M., 1979: I Pigmei. Il popolo della foresta, Rusconi, Milano (ed. or., The Forest People. A Study of the Pygmies of the Congo, Simon and Schuster, New York, 1961). Turnbull C.M., 1983: The Mbuti Pygmies: Change and Adaptation, Belmont, Wadsworth/ Thompson. Turner V., 1976: Rottura e continuità in una società africana. La vita in un villaggio ndembu, capp. IV-V, in Arrighi G., Passerini L. (a cura di), La politica della parentela. Analisi situazionali di società africane in trasformazione, Feltrinelli, Milano, pp. 147-207 (ed. or., Schism and Continuity in an African Society. A Study of Ndembu Village Life, Manchester University Press, Manchester, 1957). Vattimo G., 2009: Addio alla verità, Meltemi, Roma. Vegetti M., 1996: Il coltello e lo stilo. Le origini della scienza occidentale, Il Saggiatore, Milano. Vernant J.-P. e Detienne M. (a cura di), 1982: La cucina del sacrificio in terra greca, Boringhieri, Torino (ed. or., La cuisine du sacrifice en pays grec, Gallimard, Paris, 1979). 178

Vorbichler A., 1971: Die Sprache der Mamvu, Verlag J.J. Augustin, Hamburg. Wagner R., 1992: L’invenzione della cultura, Mursia, Milano (ed. or., The Invention of Culture, University of Chicago Press, Chicago, 1975). Widlok T. e Tadesse G.W. (a cura di), 2005: Property and Equality, vol. II, Encapsulation, Commercialisation, Discrimination, Berghahn Books, New York. Wilmsen E., 1989: Land Filled with Flies: A Political Economy of the Kalahari, University of Chicago Press, Chicago. Wittgenstein L., 1983: Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino (ed. or., Philosophische Untersuchungen, Blackwell, Oxford, 1953). Zephyrin, K., 2001: Une organisation indigène au Rwanda. L’exemple de la Caurwa, in «Ethnies», 15, 27, pp. 102-104.

Indici

Indice dei nomi

Abd-es-Sâmate, 86-87. Abega, S.C., 132-34. Addison Posey, D., 157n. Agamennone, M., 41. Aime, M., VII. Allovio, S., 64, 129-30. Altman, J.C., 140. Anselme, E., 130. Antinori, O., 95. Aristotele, 51, 81-82. Arom, S., 41, 74. Arrigoni, G., VII. Augé, M., 34-35. Bachtin, M., 39. Bahuchet, S., 24, 40, 49-50, 52, 54-55, 61-62, 77-78, 85, 87, 102, 112, 117, 148n. Bailey, R.C., 60, 148. Baker, L.D., 89. Balandier, G., 22n. Banier, A., 85. Barnard, A., 118, 139, 156. Battell, A., 85. Bauman, Z., 73. Beattie, J., 124. Beccarini, V., VII. Beidelman, T., 124n. Beltrame, G., 95. Bemba, J.-P., 70-72. Beneduce, R., 20n. Benga, O., 89-91, 92 e n. Biesele, M., 117. Biondi, G., 100.

Bird-David, N., 141, 143-46, 149, 15253, 158. Blench, R., 148. Bloch, M., 50, 72. Bloom, A., 14-16, 33, 36, 43, 47. Blume, H., 89 e n, 90, 91n, 92. Boas, F., 84-85, 89, 92. Bokassa, J.-B., 63, 71. Bourdieu, P., 10, 43-45. Boyer, P., VI. Bradford, P.V., 89 e n, 90, 91n. Bulanga, 39, 43. Buonarroti, M., 19, 36, 42-43, 45, 52, 79. Cardona, G.R., 58. Cassirer, E., 50. Cavalli Sforza, L.L., 99-100, 101 e n, 102-10, 112-15, 117-23, 154. Cézanne, P., 36, 42. Chairallà, 95-96. Chandenda, K., 57. Cheng, F., 46. Clastres, P., 110n. Clifford, J., 35, 122. Conrad, J., 122. Coquery-Vidrovitch, C., 30. Cornalia, E., 95-96. Crichton, M., 74. Crick, F., 99. D’Agostino, F., 10, 12, 21. Damas, D., 139. Dapper, O., 85.

183

De Carolis, A., 66-68. Decoteau, P.H., 3-4, 5n. De Garine, I., 148n. Delafosse, M., 3n. Delobeau, J.-M., 150n. Destro-Bisol, G., 115-17. Detienne, M., 50, 56n. DeVore, I., 139, 146n. Domenici, V., 158. Du Chaillu, P., 82, 86. Duranti, A., 126.

Grimm, W., 15. Grimson, S., 4. Grinker, R.R., 57, 59-61, 64, 126-28, 134, 148, 149 e n, 150-51. Guille-Escuret, G., 62-63, 66. Gunnell, J.G., 20n.

Ecateo, 81. Ellis, S., 71. Eribon, D., 84n. Erodoto, 79-83. Esiodo, 80. Evans-Pritchard, E.E., 3n, 22n, 50, 137 e n. Fabian, J., 22 e n. Fabietti, U., VII, 106n. Farris Thompson, Robert, 38-41, 45, 149n. Favole, A., VIII, 35n, 135. Fedro, 15, 59. Feld, S., 74, 157n. Feldman, M.W., 103-104, 107, 114. Ferraris, M., 16, 18. Fossey, D., 75-76. Frank, M.A., 155. Frankland, S., 73-77, 93. Galeno, 51. Geertz, C., 11 e n, 22 e n, 56, 108, 112, 124-25, 134, 161. Geertz, H., 124. Gell, A., 6. Geronimo, 90. Giglioli, E., 95. Girard, R., 50. Godelier, M., 138. Goethe, J.W., 29. Green, J.P., 92. Griaule, M., 122-23. Grimm, J., 15.

Hammer, M.T., 116. Harris, M., 92. Harrison, J.J., 74, 92-93. Hart, J.A., 71, 148. Hart, T.B., 71, 148. Hartwell, L.H., 100. Hawkes, K., 140. Herring, H., 5, 8-11, 78, 163. Herskovits, M., 3n. Herzfeld, M., 18, 20, 23, 35. Hewlett, B., 24, 65, 103-105, 107-10, 112-14. Hirsch, E., 6. Hoffman, M., 3 e n, 4-5, 8, 11, 23, 37, 46, 78. Hopkin, M., 32-33. Hubert, H., 50. Ichikawa, M., 26-28, 111n, 142, 149n. Ilundu Bulambo, S., 157n. Inghilleri, P., VII. Ingold, T., 34, 99, 152. Jackson, D., 157n. Janni, P., 77-81, 82 e n, 83-84. Johnson, Mark, 144, 154. Johnson, Martin, 75. Johnson, O., 75. Joiris, D.V., 65-66. Kagabo, J., 66, 67n. Kant, I., 14, 81. Kaplan, D., 146n. Kasongo, 71. Kazadi, N., 150n. Keim, C., 128. Keller, M., 92n. Kemp, M., 5 e n, 6. Kenrick, J., 156, 157n, 158-59.

184

Kent, S., 141. Kitanishi, K., 49n. Kluckhohn, C., 58n. Knight, J., 157n. Köhler, A., 114, 120, 147-48, 150-53. Kroeber, A., 22n. Kuper, A., 155-56, 159. Kxao Royal-/o/oo, 117. Lakoff, G., 144, 154. Laplantine, F., 134. Layton, R., 17. Leach, E.R., 105-107, 110, 149. Lee, R.B., 118, 139-41, 146 e n, 147. Lemaire, S., 91. Leonardo da Vinci, 14, 42. Lévi-Strauss, C., V, 6, 20, 28, 49, 73, 84n, 124-25, 160. Lewis, J., 31-33, 66 e n, 67 e n, 69, 72 e n, 75, 114, 120, 147-48, 150, 151 e n, 152-53, 156, 157n, 159. Lonoa, 92n. Loung, J.F., 65. MacEachern, S., 118-19, 135. Malinowski, B., 84, 106. Malona, 57. Malvasia, C.C., 44. Mangalita, 57. Mantegazza, P., 95, 96 e n. Mapabuadi, M., 131. Marconi, D., 12, 16. Marshall, L., 140. Marushwa, 68. Mathieu, R., 84n. Mauss, M., 50. McGee, W., 89-92. McKey, D., 148n. Meir, Y., 58. Mendel, G., 99. Menozzi, P., 101n, 102, 118-20. Meurant, G., 41. Miani, G., 73, 94-95. Middleton, J., 124, 132n. Minch, E., 115.

Miniscalchi, F., 94. Monceaux, P., 83. Moniot, H., 30. Monsiame, 131. Moore, S.F., 3n, 22n. Morgan, L.H., 89. Mosko, M.S., 145. Mudandagizi, V., 66, 67n. Mulvagh, L., 157n. Munza, 77, 86-87, 95. Natali, C., VIII. Needham, R., 123-24. Nekiado, 39, 43. Nelson, J., 31-32, 157n. Nietzsche, F., 20n. Nketia, J.H.K., 41. Nseviù, 87-88. Nyamwaha, 57. Ocelot, M., 15. Oldham, P., 155. Omero, 77-82, 84-86. Owen, R., 95. Panceri, P., 95. Panckow, H., 87. Parezo, N.J., 89. Pasqualotto, G., 46-47. Pavanello, M., 140-41, 143. Peacock, N.R., 60. Pes, D., VII, 29. Piasere, L., 17-18, 115. Piazza, A., 101n, 102, 118-20. Pinotti, A., VII. Platone, 14, 20n, 50-51, 59. Plinio il Vecchio, 79. Pottier, J., 70-71. Puccini, S., 94 e n, 95, 96 e n, 97. Pulini, M., 44. Quatrefrages, A. de, 85. Ramos, A.R., 156. Rawls, J., 15.

185

Remotti, F., VIII, 8, 10-11, 17, 19, 33, 36n, 58n, 63n, 81, 161n. Reni, G., 19, 36, 44. Rickards, O., 100. Rigotti, F., 14-15. Rodin, A., 3, 42, 46. Rorty, R., 19-21, 26. Rousseau, J.-J., 74. Sahlins, M., 22n, 23n, 55, 140-41, 143n, 144, 146 e n. Said, E., 11. Sailunga, 57. Salzman, P.C., 136, 138. Sandombu, 57. Sapignoli, M., VII. Sataspe, 79. Sawada, M., 27. Scaldaferri, N., VII. Scaramellini, G., VII. Scarano, A., VII. Schebesta, P., VI, 25, 130, 147. Schildkrout, E., 128. Schulz, J., 42-43, 79. Schweinfurth, G., 73, 77, 82, 84-88, 95. Searle, J.R., 12-18, 21 e n, 26, 33, 36, 44, 82, 119, 163. Seielstad, M.T., 115-16. Service, E., 139. Shakespeare, W., 14, 18, 80. Singer, I.B., 58. Smith, M.G., 22n. Socrate, 59. Solway, J.S., 147. Stanley, H.M., 25.

Steward, J., 22n, 99, 139. Strauss, L., 20 e n. Tagliacozzi, S., VI. Tambiah, S., 22n. Tanno, T., 26-27, 36. Tax, S., 139. Taylor, C., 14. Terashima, H., 26-28, 142. Tibò, 95. Tonkin, E., 124n. Treves, A., VII. Troutman, J.W., 89. Turnbull, C., VI, 24-26, 38, 49, 76, 126, 130, 145, 147-49, 152. Turner, V., 56-57. Vasari, G., 42. Vattimo, G., 21n. Vegetti, M., 51, 59. Vernant, J.-P., 56n. Verner, S.P., 73, 89-91, 93. Virgilio Marone, P., 80. Vittoria, principessa, 93. Voltaire (F.-M. Arouet), 32. Vorbichler, A., 128. Wagner, Richard, 6, 160. Wagner, Roy, 136. Watson, F., 99. Wilamowitz, U. von, 80. Wilmsen, E., 118, 147. Wittgenstein, L., 142, 162. Wolf, E., 22n. Zannetti, A., 95, 96 e n. Zephyrin, K., 157n.

Indice del volume

Premessa

V

I. Il libro dei Pigmei

3

1.1 Due sculture a confronto, p. 3 - 1.2 Realismo ontologico, p. 12 - 1.3 Dove le termiti diventano api, p. 24 - 1.4 Gli Mbendjele con il navigatore satellitare, p. 30 - 1.5 I «pongo» dei Bambuti, p. 35

II. Da cacciatori a prede

48

2.1 Nelle viscere della cultura, p. 48 - 2.2 L’arte di dividere la preda, p. 52 - 2.3 Pigmei, nonostante tutto, p. 59 - 2.4 Mangiare Pigmei, p. 70 - 2.5 Immaginari bulimici, p. 73

III. Buoni da pensare

77

3.1 I Pigmei di Omero, Erodoto e Aristotele, p. 77 - 3.2 I Pigmei di Schweinfurth, p. 85 - 3.3 I Pigmei di Verner, Harrison e Miani, p. 88

IV. I geni dei Pigmei e la genialità della cultura

98

4.1 La genialità del genetista, p. 98 - 4.2 Elefanti nelle cristallerie di significati, p. 108 - 4.3 Polimorfismi unilineari e mescolanze, p. 114 - 4.4 Nei nomi dei Pigmei, p. 122 - 4.5 Fratelli di sangue, finte madri e fratelli di latte, p. 128

V. Noi, Pigmei

136

5.1 Scarsa cumulatività e ricchezza di dibattiti, p. 136 - 5.2 L’opulenza dei cacciatori-raccoglitori, p. 138 - 5.3 Tradizionalisti e revisionisti, p. 146. - 5.4 Concetti locali e diritti universali, p. 154 - 5.5 Noi, Pigmei, p. 159

Bibliografia

165

Indice dei nomi

183 187