Primo amore e altri affanni

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Da quando questa celebre raccolta di rac­ conti è apparsa per la prima volta nel

1958,

Harold Brodkey è il "grande assente" della letteratura americana. N on ha più pubbli­ cato un solo libro, eppure c'è chi lo consi­ dera tra i massimi scrittori viventi. La sua reputazione artistica è andata crescendo in misura pari al suo silenzio; i suoi lettori più fedeli, tra cui critici e scrittori che di solito non dispensano lodi facilmente, seguono con estrema attenzione le rare apparizioni del suo lavoro. Da vent'anni, infatti, Brod­ key lavora al libro della sua vita, un grande romanzo intitolato

A Party oJ Anima/s, di

cui sono usciti alcuni frammenti sul "N ew Yorker" e su altre riviste. Prima ancora che il romanzo esca, si favoleggia che sarà uno dei capolavori del N ovecento: "è un' opera geniale" ha scritto un critico su "Vanity Fair" . Intanto Harold Brodkey ha passato i cin­ quantacinque

anni.

Alto

e

longilineo,

quest'uomo che ha posato per Richard Avedon comincia ad avere la barba un po' grigia, e vive della fama acquisita con

Pri­

mo amore e altri affanni, quando era una

giovane promessa, al tempo in cui anche Philip Roth e John Updike pubblicavano i loro primi racconti. "Lo conobbi che era appena uscito da Harvard," ricorda Wil­ liam Maxwell, suo editor al "N ew Yorker" trent'anni fa, "e le sue prime storie mi par­ vero brillanti. N essuno scriveva come lui." I recensori videro in Primo amore l'opera di "uno scrittore eccezionalmente dotato, af­ fascinante per la freschezza della sua sensi­ bilità, con una straordinaria padronanza della lingua e una vena di humour del tutto personale" . Il libro è uno splendido ritratto, in nove racconti, di una certa gioventù americana degli anni Cinquanta, cresciuta tra belle villette nei quartieri residenziali, college e viaggi in Europa: colta, benestante e con­ venzionale, ma percorsa da inquietudini e desideri nuovi. Dal primo bacio al primo fi­ glio, attraverso la felicità di un'offerta di matrimonio e lo sgomento della scoperta

In sovraccoperta:

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Harold Brodkey PRIMO AMORE E ALTRI AFFANNI Traduzione di Grazia Rattazzi Gambelli

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Riva Editori

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ISBN 887798007-9

Titolo originale:

First Love and Other Sorrows Copyright © 1954,1955,1957 Harold Brodkey

Copyright © 1988 Serra e Riva Editori, Milano I edizione: gennaio 1988

,

Primo amore e altri affanni

A William Maxwell

Lo stato di grazia

Esi ste una particolare gradazione di mattoni rossi - un rosso cupo, quasi melodioso, profondo e venato di blu - che è la mia infanzia a St. Louis. Non l 'infanzia vera: ma quella finta, che si estende dal primo albeg­ g iare della consapevolezza fino al giorno in cui si lascia la casa per eIlt rare all 'Università. Quella grada­ zione di mattoni rossi e fogliame verde è St. Louis in estate (l ' inverno è soltanto un cielo grigio e un autobus affollato e impronte umide sul pavimento di linoleum della scuola), e quei mattoni e un cielo pallido sono la primavera. Sono anche la solitudine e lo st rano, morti­ ficato stupore del bambino la cui fam iglia è stata col­ pi ta da una serie di sventure. Ricordo bene quel colore di mattoni, soprattutto sul retro della nos tra casa; era su tutte le case di quel­ l ' i solato e anche su quella dove abitava Edward un bambino al quale badavo le sere in cui i suoi genitori andavano fuori . Venendo da scuola, passato il viale e i suoi orrori (la visione dei negozi di ciabatti no, i magaz­ zi ni di articol i da pochi centesimi, i parrucchieri, i negozi di an imal i domestici, il teat ro di Tivol i e l'al lo­ ra chiuso Pi ggly-Wiggly, che sarebbe poi diventato « Da Kroge r»), passato il posto dove sorgeva il temp io mas son ico costruito nel lo st i le di un antico monumen­ to eg i zio e i due enormi piedestal li di cemento che -

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fiancheggiavano i l viale (che cosa s,o stenessero non rie­ sco a ricordarlo, ma su ciascuno di essi, dipinto in mar­ rone, c 'e ra un grosso cuore e l 'informazione che una certa Erica amava un certo Peter), passato l 'ufficio postale, costruito ai tempi della depressione, in matto­ ni gialli e c romo, mi affrettavo verso i l momento in cui finalmente, sull 'altro lato della strada, oltre il viale che portava all 'autorimessa degli Appartamenti Castle­ reagh, sarei arrivato dove cominciavano gli alberi, le grandi case di matton i ros so scuro e la vuota quiete. Nel mezzo di quella quiete e di quei mattoni rossi, c 'era il mio quartiere, il luogo terribi lmente familiare, dov 'ero un esule meno a disagio che i n qualsiasi altro posto. Lì c'e rano due robinie, che mi sembravano tanto belle, forse perché erano piccole e potevo abb racciarle non soltanto con la mente o con il cuore ma p roprio con le mani . Poi veniva una casa in mattoni rossi (ma non p rop rio della sfumatura giusta) dove viveva un ragazzo che conoscevo e due bellissimi fratelli, i quali erano anche forti e gentili ma molto più vecchi di me e assolu­ tamente p rivi di ogni interesse nei miei confronti . Poi, un vicolo asfaltato e un altro panorama, che trovavo orrendo ma tristemente confortante, di autorimesse, buche per la cenerc, pali del telegrafo e cortili delle case ad appartamenti - compresa la nostra - su un lato, e di cortili delle case padronali sul l 'altro. Cono­ scevo parecchia gente degli appartamenti ma nessuno delle case padronali e questa era per me, naturalmen­ te, la prova definitiva della dolorosa miseria nella qua­ le e ro caduto, della profondità del mare che mi aveva sommerso. Ero proprio sul fondo e guardavo in alto, attraverso l 'acqua, att raverso le mobili stri sce di luce .. . attraverso, oh ! complicazioni infinitamente più numerose di quelle che potessi affrontare, guardavo una barca a vela sospinta dal vento, un ragazzo che ave­ va una famiglia, una casa, come tutti gli altri . Avevo tredici anni, ero alto u n metro e ottanta e lO

pesavo sessantacinque chili. Pe r quanto ll1i rodessi fe rocemente per i l lll i o aspetto (avevo orecchie spor­ genti e capelli che semb ravano fil di ferro) sapevo però anche di essere attraente. Qualche ragazza ll1i aveva sorriso, ll1a nessuna di quelle che avrei potuto amare e certo nes suna di quelle sette od otto divine della scuo­ la secondaria che frequentavo. Fin dal secondo anno, avevo avuto sempre i voti più alti - più alti di chiun­ que altro avesse lll a i frequentato quella scuola - e sba­ lordivo i miei compagni . Quel che più l i sbalordiva era che, per quanto potevano vedere, non mi costava alcu­ no sforzo; era come un gioco di prestigio. Non ll1i importunarono, non mi tormentarono ll1ai; mi lascia­ rono semplicemente in disparte. Ma ero conosciuto come « l 'enciclopedia ambulante » e l' unica cosa che fui capace di fare, in questa situazione, fu rinchiuder­ mi in me stesso. Guardando indietro, sono quasi certo che avre i potuto avere amici, se avessi saputo fare i l passo giusto, e che a tenerli lontani d a ll1e non e ra la mia condizione, ma il mio orgoglio scostante; però non ne sono sicuro. Avevo pochi ssimi vestiti e anche quei pochi me li aveva passati un cugino più grande. Non riuscii mai a ve stirmi come gli altri ragazzi. Il nostro appartamento e ra al terzo piano. Di soli­ to, salivo per l e scale posteriori, esterne all 'edificio e sostenute da un 'intelaiatura di acciaio. Le preferivo una forma morbosa, come toccars i un punto dolente per assi curarsi che ci sia ancora - perché e rano ripide e b rutte, con i b idoni dell a spazzatura sui pianerottoli e la b i ancheria stesa fuori ad asciugare, ll1entre la por­ ta principale si apriva su un cortile dove c rescevano cespugl i di rose e le scale erano di un marmo locale g iall o chiaro, fresco e piacevole agli occhi e al tatto. Arrivato al l a nostra porta, ap rivo lo schermo di rete e ch i amavo forte per vede re se mia madre e ra in casa. Se non c 'e ra, vol eva di re, di solito, che era andata a t rovare mio padre, i l qual e agon i zzava da quatt ro anni ll

all 'ospedale e ne avrebbe impiegati alt ri due per mori­ re del tutto. Per quel che ne so, questo fu l 'unico segno di carattere che mostrò in tutta la sua vita é suppongo non fu cosa da poco, ma io speravo, qualche volta per­ sino pregavo, che morisse - non soltanto perché così non av rei più dovuto tornare all 'ospedale, dove le camere dalle pareti bianche e rano piene di odori e di vecchi ammalat i (e di una tangibile paura che mi dava la sensazione di un ' inte riore caduta senza fine, come quando si affonda nel l ' inconscio sotto l 'effetto dell'a­ nestet ico), ma perché mia madre avrebbe potuto risposarsi e farci tutti ricchi e felici un 'altra volta. A quel tempo, era ancora piacente, ancora accesa dalla st rana incandescenza della bellezza fi sica e c'era un uomo che l 'aveva amata per vent 'anni e l 'amava anco­ ra e voleva sposarla. Desideravo tanto che mio padre morisse, ma lui non si decideva. Se mia madre era in casa mi preparavo a qualcosa di sgradevole, perché a lei non piaceva che mi sedessi e mi mettessi a leggere; detestava vede rmi leggere. Voleva mandarmi fuori, all 'aria ape rta, dove sarei potuto diventare un atleta ed essere un ragazzo come gli altri, conosciuto ed apprezzato da tutt i. La riempiva di rabbia vede re che non le davo ascolto e ap rivo un libro; una volta mi si precipitò addosso, il viso acceso di collera, afferrò il libro (doveva es sere Org og lio e pre g iudizio), e lo scara­ ventò dal la finestra del terzo piano. Allora, me ne restai seduto e tentai un sorri setto sprezzante, pen san­ do che fosse un po' pazza, con quel la sua rabbia esage­ rata, e così sciocca da non capire che potevo anche non essere come lei mi voleva. Ma adesso penso - for­ se con malinconia - che fosse soltanto di sperata, spin­ ta agli estremi dal la sua ansia di salvarmi . Sentiva, sapeva, in realtà, che sarebbe venuto il momento in cui , come un acrobata, avrei dovuto montare sulle sue spalle e sulle spal le di tutte le cose che aveva fatto per me e gettarmi in una vita che non poteva i mmaginare 12

(la vita che sto conducendo ades so) e se voleva man­ darmi fuori avvolto in luoghi comuni, in un corpo da atleta, con il dovuto ri spetto per il denaro, e ra perché pensava che questa fosse la più calda protezione . Ma al lora, a tredici anni , potevo solo chiedermi come mai una persona tanto bel la potesse es se re tanto in sopportabile. Non so come, riusciva a farsi odiare ben più di quanto l 'amas si, anche se poi , prima di addormentarmi, avrei pen sato al suo viso, lasci ando che la memoria cominc ias se dal delicato incurvarsi delle palpebre e inseguisse tutto intorno il tenue gioco di omb re e di incavi e di ossa e il vago ricordo del suo petto caldo. Allora mi sembrava che questa vis ione di lei, ritta in piedi in una mezza luce (come probabil­ mente dovevo averla vista una volta quando ero più piccolo e a letto mal ato, forse, per quanto non riesca a ricordarlo), fosse bella, per me, soltanto come il dise­ gno di un antichi ssimo tappeto persiano sbiadito dal tempo. Nella mia visione, come nel tappeto, potevo segui re le linee del disegno dentro e fuori e p rovavo un indefin ibile piacere, ma non voleva dir quasi nulla per me, oppresso com'ero dal problema di es sere suo figl io. Anche il fatto di essere ebreo mi dava fastidio, per­ ché significava non poter essere mai uno degli eletti - i bion di atl eti dal fascino disinvolto. Se la mia famiglia fosse stata ricca, forse avrei sentito diversamente, ma ne dubito. Mia madre aveva una cugina che io cniamavo zia Rachele e di solito andavamo a t rovarla t re o quattro vol te l'anno. Era una cosa che detestavo. Viveva in quel lo che chi amavano il Ghetto, una zona di vecchie case, nel la parte commerciale di St. Loui s, con piccoli portici sul davanti e due porte, una al piano di sopra e una al piano di sotto. La maggior parte della gente viveva in quel le case sol tanto in attesa di potersi tra­ sfe ri re in un posto migliore; a nes suno era mai piaciu13

to ab itare là. E per questo, i l quartiere si faceva notare pe r l a sua t rascuratezza; l 'e rba non e ra mai ben taglia­ ta, le pe rsiane non venivano ridipinte, nes suno s i p ren­ deva cura del posto né lo amava. Era l ì che vivevano g l i immigrant i quando arrivavano col t reno da New Y ork, p rima di poters i t rasfe ri re nella parte residen­ ziale della c ittà, negli appartamenti vicino al Delmar Boulevard e magari nelle zone periferiche - Clayton, Laclede o Ladue . Zia Rachele viveva al piano di sotto. La stanza di soggiorno era molto piccola e aveva una tappezzeria color giallo scuro che la zia non cambiò mai . E neanche la pul iva mai; una vol ta vi feci un segno per vedere se l 'avrebbe pulita e lo ritrovai sem­ p re tale e quale . L'arredamento e ra vi stoso e spavente­ vole; era come quel momento dell ' incubo in cui le cose si mettono così male che uno decide di svegl iarsi. A me toccava sempre sedere sul divano, u n divano che s i espandeva in grandi curve rigonfie di c rine e di finto amoerro color magenta scuro e marrone e verde scu­ ro, in una stanza che non riceveva luce da nessuna par­ te. Al di là dalle vecchie, con sunte tende di sat in, com­ p rate di seconda mano, c'era aria fresca e la luce del sole, ma non l ' avreste mai saputo. Quel lo che zia Rachele e ra riuscita a mette re insieme, comprando i mob i l i nei negozi più a buon mercato, e ra molto simile a una bicocca di campagna. E c 'erano semp re quegli odori , di minestra di cipolle e di a g l io e di bietole. E ra l'unico posto i n cui m i most rassi sgarbato verso mia madre in pubbl ico. Era sempre pieno di gente che appena conoscevo ma che conosceva me: dovevo esi­ b i rm i . Mia madre m i diceva: « Di ' ai signori qual i sono stat i i tuoi voti sulla pagella », oppure: « Recita la poe­ sia che p iaceva tanto a Miss Huntington. » E ra i l momento i n cui l a sen sazione d i i rrealtà s i faceva p iù forte. Guardando indiet ro, ades so, penso che fosse l a loro veemente p ressione a spaventarmi; dovevo diven­ tare ricco e famoso e dare così s igni ficato e valore a 14

tutte le loro t ribolazioni . Ma io non volevo quella responsabilità. In ogni caso, se ero veramente destina­ to a diventare quello che volevano diventassi e se dove­ vo essere quello che ero, era aspettarsi t roppo da me che li accettass i cos ì com 'erano. Dovevo superarli e disprezzarli, ma p rima dovevo essere con loro - e que­ sto non era giusto. Era come se le mie palpeb re fossero tenute aperte a forza e dovessi vedere cose che non volevo vedere. Mi sentivo COll1e se avessi preso parte a qualcosa di vergognoso e per questa ragione non fos si più una per­ sona per bene. Era come le mie p rime esperienze ses­ suali: e se qualcuno fos se venuto a saperlo ? Se tutti se ne fos sero accorti ? . . Come diavolo avrei mai più potu­ to essere fiero e spensierato ? Avevo letto t roppi lib ri di scrittori inglesi e della Nuova Inghil terra e volevo ormai solo cose graziose e istruttive, veder soltanto case rivestite di legno, bian­ che su verdi p rati . Potevo sempre consolarmi col pen­ siero che il mio cervello mi avrebbe reso famoso (il cervello serviva a qualcosa, no ?), ma allora sarebbero stati i miei bambini ad avere una buona infanzia, non io. lo ero irrevocabilmente defraudato ed era l ' irrevo­ cabilità che mi faceva male e che alla fine mi allontanò da ogni ragionevole adattamento alla vita, fino a con­ durmi alla convinzione che i sogni dovevano avverarsi o altrimenti non valeva proprio la pena di vivere. E se i sogni si avveravano, allora, in un modo o nell 'altro, avrei avuto la mia infanzia, un giorno. ·

Se mia madre era in casa quando tornavo da scuo­ la, poteva darsi mi dicesse che la signora Leinberg ave­ va telefonato e voleva che andassi a badare ai bambini e al lora mi trovavo immerso in un alt ro dei di lemmi di quegl i ann i . Dovevo fare quel lavoro pe r guadagnarmi i sol di del la col azione a scuol a e c'erano volte in cui , con sideran do il di lemma che dovevo affrontare dai 15

Le inberg, avre i preferito non mangiare o mangiare poco piuttosto che fare il bambinaio. Ma non c 'era scelta. Mamma aveva già accettato per me· e si era fat­ t a promettere dal l a signora Leinberg di non fare mol­ to tardi e non privarmi così del sonno. Di solito mi ave­ va già preparato un panino imbottito da mangiare, in modo che potessi precipitarmi là in tempo per consen­ t ire al signore e alla signora Leinberg di andare fuori a pranzo. In ogn i caso, mangiavo il mio panino leggen­ do, tanto per ri farmi, e poi partivo. Mentre andavo dai Leinberg, scendendo per le scale di dietro, dondolan­ domi, come al solito, appeso al la ringhiera, per raf­ forzare i muscoli delle b raccia, pensavo con un senso di smarrimento a quello che ero e desideravo che le cose fossero diverse, e non capivo me stesso né la mia solitudine né il senso di crudele privazione che la vi sta della st rada sotto esprimeva. C'era un b reve t ratto di strada t ra il nostro cortile e l 'edificio in cui abitavano i Leinberg, ma facevo sem­ pre una piccola deviazione sino alle mie due robinie e mi fermavo qualche minuto ad amarle; per quel che ne sapevo allora, non amavo niente altro. Poi giravo a destra e att raversavo la strada pas­ sando accanto a un edificio che formava un angolo ret­ to con la strada, di fronte a una specie di piccolo pen­ dio, che era stato una volta lo scavo fatto per un altro edificio, mai cost ruito a causa della c ri si . Dal l 'altra parte del pendio, c'e ra un gruppo di t re fabbricati e il terzo e ra quello dei Leinberg, con appartamenti di almeno otto camere, la scala di servizio incorporata nell 'edificio e le autorimes se degli inquilini. Tutto ciò lo rendeva speciale e di lusso, qualcosa di eccezionale nel quartiere. Il signor Leinberg aveva una fabbrica di prodotti farmaceutici che andava molto bene. Lo giudicavo un uomo in gamba ma non lo ricordo molto chiaramente e potrei anche sbagl iare; a quei tempi non guardavo 16

mai gli uomini in faccia ma giravo la testa con un sen­ so di timidezza e di imbarazzo: avrebbero potuto indo­ vinare quanto profondamente desiderassi essere uno di loro. Certo l 'atmosfera di quegli anni di guerra - erava­ mo nel 1943 - era quella dei rapidi arricchimenti; per tutti quelli che potevano lavorare, naturalmente. In ogni caso, egli si stava arricchendo ed era soltanto questione di tempo e poi i Leinbe rg si sarebbe ro t ra­ sferiti, da quella casa di appartamenti, a Laclede o a Ladue in una casa propria da quarantamila dollari, con un acro o più di terreno intorno. La signora Leinberg era molto graziosa; bruna come mia madre ma non cosÌ bella. Anzitutto, era t roppo piccola; era al ta sÌ e no un metro e mezzo e io torreggiavo letteralmente sopra di lei . In secondo luo­ go, non era per niente regale. Ma non aveva mai i denti macchiati di rossetto e i suoi vestiti erano quasi sem­ pre nuovi e i suoi occhi , dolci . (Gli occhi di mia madre erano incomprensibili: un palcoscenico buio sul quale venivano rappresentate indistinte scene di folla, e tut­ to quello che uno poteva percepi re era tumulto e dramma, né aveva importanza quanto durasse l 'atte­ sa; le luci non si accendevano mai e la scena non veni­ va mai spiegata.) La signora Leinberg mi invitava, di solito, a se rvi rmi nel frigorifero e poi mi scriveva il numero di telefono del posto dove stava per andare. « Tieni Edward in fondo all 'appartamento, cosÌ non di sturberà la piccola » mi diceva. « Se la piccola si sve­ g li a, prendila in braccio immediatamente. È molto importan te. Non pren devo mai su Edward e me ne penti rò sempre. » Lo diceva ogn i volta, anche se potevo vede re Edward che spiava appiattato nel corridoio di di si mpegno, in at tesa che i suoi genitori se ne andas se­ ro; al lora av rebbe potuto correre fuori e sal tarmi addos so e il nostro mondo sarebbe tornato vivo un 'al­ t ra \tol ta. Eg li ascol tava, il piccolo vi so - aveva set te 17

anni - fatto smorto dalla fe rita e çlallo sforzo di pene­ trare quella fe rita per comp renderla. La s ignora Leinberg diceva ancora: « Telefonami, se la bambina si sveglia » e poi , in tono concil iante, al marito: « Verrò a casa un momento per farla riaddor­ mentare e torne rò subito al la festa. » Poi, a me: « Ma la bambina dorme quasi semp re, perciò non ti preoc­ cupare. » « Andiamo, Greta. Lo sa che cosa deve fare » diceva il signor Leinberg, con impazienza. Sentivo sempre una nota di disprezzo nella sua voce, disprezzo per la moglie, per Edward e per me. Me ne stavo lì, in piedi vicino al frigorifero, guardando dall 'alto in basso quei due piccoli coniugi . Il padre di Edward aveva una voce gelosa e petulante. « Andia­ mo, G reta » diceva spazientito, e a me: « Saremo a casa per le undici. » « Edward va a letto alle nove » aggiungeva la signo­ ra Leinberg e la sua voce era acuta e simile a quella di un uccel lo, ma t remula di confusione e di incertezza. Poi era come spazzata fuori dal la porta principale, un elegantis simo scampoletto di donna, nella scia del marito. Quando la porta si chiudeva, Edward si preci­ pitava nell' ingresso e si aggrappava alle mie ginoc­ chia, se stavo ancora guardando i suoi genitori, ma se e ro rivolto verso di lui si buttava contro il mio petto e nelle mie braccia. « A che cosa giochiamo, questa sera ? » Questa e ra la sua p rima domanda e a me toccava pensare . Tremava di eccitazione perché sapevo inven­ tare pe r lui giochi meravigliosi, come i suoi sogni a occhi aperti . Poiché era un bambino, si fidava di me quasi ciecamente e io potevo fare qualsiasi cosa di lui. Finché non andai all 'Università e non cominciai final­ mente a essere come tutti gli altri , ebbi sempre questo st rano potere sui bambini. Nella camera da letto di Edward c 'e ra un grande 18

arlll a dio con uno scolllp arto per i ve stiti, un lavabo, un tavolino pieghevole e quindici o venti ripiani . Il tavolo e i ripiani erano pieni zeppi di giocattoli, giochi vari e attrezzi sportivi . lo possedevo un Monopoli che avevo ereditato da lll i a sorella maggiore, un vecchio guanto da baseball (era talmente da poco prezzo che non osai lll a i adoperarlo di fronte ai lll i ei compagni di classe, i quali avevano veri guanti fi rmati da veri giocatori) e una collezione di cartoline. La p rima voI ta che vidi quell 'arlll a dio, p raticamente esplosi di gioia; tirai giù tutto, giochi, giocattoli, e li provai, uno dopo l 'altro, insieme con Edward. A Edward piaceva particolar­ lll e nte il fatto che non seguivamo lll a i un gioco fino alla conclusione lll a passavamo da uno all 'altro appe­ na dopo qualche lll o ssa, finché quel saltare diventava il vero gioco e il tono delle nostre risate, il vero diverti­ ll1ento. Stavo così bene in quella stanza sul retro, solo con Edward nell'appartamento, perché finalmente e ro io il capo; e non solo per questo, ma perché nessuno lll i vedeva. Non c 'e ra nes suno, lì, che potesse guardarmi dentro e pensare a quello che avrei dovuto es sere e a come avrei dovuto comportarmi; ero sempre stato ter­ rorizzato di quello che la gente poteva pensare di me, come se l ' immagine che gli altri si facevano fosse una goffa e grossolana creatura che avrei dovuto affronta­ re se avessi preso una st rada sbagliata. Qui non c 'erano strade. Edward e io prendevalTIo le pistole e ci davamo la caccia l'un l 'altro - intorno al letto. Altre volte, vi saltavamo sopra, fingendo che fos­ se la torretta armata di una nave da gue rra in naviga­ zione per da r battagl ia alla flot ta giapponese nel l 'O­ ceano Indiano. Edward chiudeva gl i occhi e si rotolava beato quando gridavo : « Boom ! Boom ! Boom ! » « Sta affondando ! Sta affondando, vero ? » « No, scemo ! Abbiamo sol tanto colpito la ciminie­ ra. B i sogna sparare ancora. Boom ! Boom ! » •

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Edward s i premeva le dita sulle palpebre in uno spasmo di gioia incontenibile. Il suo del irante corpici­ no di bimbo cadeva teso all ' indietro sui cuscini soffici e rimbalzava e la sua schiena si inarcava; uno scoppio di ri sa eccitate e affannose gli sgorgava di bocca, come una cascata di foglie in primavera, una esplos ione di li llà in fiore. Sotto il letto, in una t rincea (Edward aveva un cappello da lupetto dei boy-scout e io avevo il suo elmetto da soldato, in plastica) respingevamo le orde gialle da Guadalcanal. A Edward piaceva moltis simo venir ferito. « Mi hanno colpito ! » gridava. « Mi hanno colpito ! » Si p remeva la mano contro lo stomaco e si contorceva sul pavimento. « Mi hanno p reso nella panCIa . . . » Non mi andava quel suo farsi ferire cosÌ p resto, perché allora lo spettacolo era finito; sia il suo che il mio senso realistico non potevano permettere che uno fosse ferito e poi si rialzasse in piedi . Ricordo come fu entusiasta quando escogitai l ' idea che uno, dopo esse­ re stato ferito, poteva diventare un altro; cos Ì ment re strisciavamo sotto il letto, decidevamo di essere otto o dieci o venti marines, dieci ciascuno, per farci feri re, uccidere e mutilare, come giudicassimo conveniente, ri servando un certo numero di superstiti in modo che, usciti carponi di sotto il letto, potevamo assalire la posizione giapponese sotto il tavolo della sala da p ran­ zo e lasciarla dis seminata di cadaveri . Edward e ra particolarmente in gamba nel gioco della polizia, molto più complesso e difficile. Per que­ sto gioco, andavamo in cucina e io gl i dicevo che ci avevano avvisati per telefono di un delitto. A eccezione di quando si giocava a Tarzan, non t rovavamo mai necessario essere personaggi particolari, però aveva­ mo sempre un nome. Nel gioco dei poliziotti, e ravamo di sol ito Sam e Fred. Ricevevamo una telefonata che ci diceva chi era stato assassinato e allora tornavamo in .

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camera da letto a esaminare il cadavere e ad interro­ gare le persane sospette . Sparavo domande a una sedia vuota . Qualche volta Edward si stancava di esse­ re il mio aiutante, si lasciava andare sulla sedia e face­ va la parte del tremante indiziato. Altre volte si mette­ va a quatt ro zampe e girava per tutta la stanza, ispe­ zionandola con una lente d'ingrandimento, mentre io tempestavo e gridavo al sempre astuti ssimo sospetta­ to: « Dove eravate, signora Cucurbiti (ri satine di Edward) alle dieci, quando il signor Cucurbiti (risata senza ritegno e piena di gusto, di Edward) fu ucciso con il col tello da dolci ? » « Ehi, Fred ! Ho trova to delle macch ie di san g ue. » La voce di Edward vib rava in una buona imitazione di un eccitato poliziotto della radio. « Macchie di sangue ? Dove, Sam ? Dove ? Potrebbe esserci la traccia per ri solvere il caso. » Edward era in grado di so stenere la Commedia del l'Arte per ore, se volevo. Era un ragazzino delicato e precoce che soffriva della malattia di non essere amato. Quando giocavamo, il suo cuore sembr"ava rit rovare se stesso, e il difficile mondo nel quale la sua indefinibile fa.me restava insaziata e le madri e i padri erano figure confuse e lontane - e lontano, troppo lon­ tano, quel punto dolente per poterlo mai raggiungere, toccare, guari re - quel mondo scompariva, insieme con il mondo in cui io non avevo muscoli abbastanza sviluppati e non ero abbastanza audace per conqui­ starmi la mia parte di stima. (Che cosa poteva ave r indot to mia madre a sposare quell 'imbeci lle che non era stato capace di tene rsi stretto il suo denaro ? Ri cordavo quando avevamo una casa più grande ed ero stato felice; perché, lei, aveva lasc iato che tutto questo fini sse ?) Mi an gust iava che la madre di Edward aves se così poco amo re per lui e tanto invece per la fi gl ia, e che il pad re di Edward non apprezzasse l ' intel­ li genza del bambino - egl i pen sava che Edward fosse 21

un rammoll ito e un effeminato .. Avrei potuto inse­ gnare a Edward atteggiamenti vi ri l i . Ma suo pad re non aveva mol ta considerazione di me : ero solo un bambinaio e un rammoll ito, anche . E pe rché, allora, Edward avrebbe dovuto avere da suo padre più consi­ de razione di quanta ne avessi io ? No, non lo avrei ama­ to e non gli avrei dato spiegazioni. Questo, natu ralmente , era il mio te rribile dilem­ ma. La sua casa, per quanto più grande del la mia, era fatta dei medesimi mattoni ross9 scuro, e io non vole­ vo amarlo. A ogni modo, era una cosa vergognosa per un ragazzo del la mia età vole r bene a un bambino. E chi era Edward ? Non e ra certo brillante e in gamba come e ro stato io alla sua età. Alla sua età avevo già vi sto il male negli occhi del la gente e avevo comincia­ to, già allora, a costrui re le mie difese. Ma la famigl ia di Edward era as sai più ricca e il freddo soffio della insicurezza (dove trove remo i soldi ?) non aveva ancora lacerato la sognante c risalide del la sua fanciul lezza. Egli era ancora immerso nel l ' indistinto umido stupo­ re delle ali ripiegate che avrebbero potuto aprirsi se qualcuno lo avesse amato; fo rse, come l ' inconsapevole farfalla, egl i ancora sperava p rimave ra e calore. Come fanno male, le ali, ripiegate cosÌ, in attesa; tanto male, sinché non si atrofizzano. Ecco, io avevo t redici ann i e Edward sette e voleva che lo amas si, ma non era grande e forte abbastanza per aiutarmi. Non poteva far sÌ che i suoi genitori divi­ dessero con me il loro benes sere e le loro comodità, non poteva costringerl i a darmi un posto nella loro casa. Edward era come la maggior parte della gente che conoscevo: an sioso e bi sognoso del mio amore; perché ero un tipo speciale e sapevo inventare giochi meravigliosi che erano meglio del cinema, meglio di quello che il suo cuore potesse desiderare. Ero un sogno diventato realtà. Ero brillante e pieno di vi rtù (nes suno sapeva che di tanto in tanto rubavo nel nego22

zio da dieci cents il pezzo) e abbastanza att raente, for­ se persino molto att raente, ero spesso dive rtente e sempre interes sante, avevo letto tutto, sapevo tutto e a scuola avevo voti inc redibili : naturalmente, volevano che li amassi ! Mamma, i miei insegnanti, mia sorella, le ragazze a scuola, gli al tri ragazzi , tutti volevano che io li amassi. Ma io volevo che mi amassero prima loro. Nessuno lo faceva . Ero fiero e sol itario e aspro, quando tornavo impettito da scuola, passavo l 'ufficio postale, tutto mattoni gialli e cromo, e i miei due albe­ ri di robinie (acqua, acqua dappe rtutto e non una goc­ cia da bere) e non c 'era nessuno che mi amas se per pri­ mo. Vedevo centinaia di vigliaccherie negli occhi del la gente che conoscevo, migliaia di difetti , mil ioni di debolezze . Se dovevo amare per primo, avrei amato soltanto la perfezione. Naturalmente, avrei potuto far loro del bene se li avessi amati. No, mi dicevo, perché dovrei dar tutto, se a me non danno niente ? Quanti colpi e quanti timori e quanto salire per quelle scale di servizio mi avevano reso così ? Non lo so. Tutto quello che so è che Edward aveva bisogno del mio amore e io non gl ielo volli dare . Avevo solo tredici anni . Non c 'è molto che si possa rimp roverare a un ragazzo di tredici anni, ma non penso ai rimproveri; pen so a tutti gli anni che avrebbe ro potuto es sere . . . se sol tanto avessi saputo allora quello che so adesso. Lo spreco, l 'orrib ile sp reco. Ecco, la storia è tutta qu i . Il ragazzo ·c he ero, il bambino che era Edward. Questo, e il te rribile deside­ rio di volgermi di col po e di correre indietro, gridan­ do, per i corridoi del tempo, u rlando al ragazzo che ero, cercan dolo fino a scova rlo e picchiandogli forte sul petto: « Amalo, maledetto idiota, amalo. »

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Primo amore e altri affanni

A St . Louis, verso la fine di marzo, la fanghiglia riempie i rigagnoli , mucchi di neve sporca fiancheg­ giano i gradini dei portici e sembra che ogni cosa stia soffocando nell 'abbraccio di una stagione che dura t roppo a lungo. I radiatori sibilano lamentosamente, nes suno riesce a essere paziente, il vento strappa lacrime dagli occhi , le nuvole sono gonfie di t ristezza. Donne con sciarpe intorno alla testa e i piedi affondati in scarponcini foderati di pel liccia p rocedono attenta­ mente in mezzo a chiazze di ghiaccio che si sta liquefa­ cendo. Semb ra che l ' inve rno debba durare per sem­ p re, che que sta sia la decisione della Natura e che non vi sia niente da fare. All 'età in cui mia madre mi raccomandava conti­ nuamente di stare attento a non accaldarmi t roppo, la p rimavera cominciava esattamente la sera in cui pe r la prima volta avevo il permesso di andar fuori dopo p ranzo e diverti rmi a dar calci alle scatole di latta. I l te rreno era bagnato, i o riuscivo a infangarmi , malgra­ do mi sembrasse di usare tutte le precauzioni per evi­ tarlo, mia madre mi richiamava a casa, nel buio, e quan do mi vedeva mi chiedeva: « Che cosa ti sei fat­ to? » E io ri spon devo, pieno di speranza: « Niente . » Ma al tempo dei miei sedici ann i, il momento dell' arrivo del la primave ra fu , come tan te al t re cose, assai meno 27

preciso. In marzo e al l ' inizio di apri le, cominc iava l 'alle­ namento, in palest ra; gl i esami semest ral i arrivavano e se ne andavano; le gemme comparivano sugli ace ri mac­ chiando di ros so tutti i rami; ma era ancora inve rno e io, in classe, mi scoprivo con st rane sensazioni, lunghe sol­ lecitazioni alla primave ra e a tutto quello che essa por­ ta. Poi, una sera, e ro seduto allo scrittoio facendo il compito di t rigonomet ria e sentii mia sorella che torna­ va a casa dal l 'ufficio; sent ii il rumore dei suoi tacchi alti che picchiettavano sul marci apj. ede e mi resi conto che, pe r la p rima volta dal l 'autunno, tutte le finest re della casa e rano ape rte. Mia sorel la stava arrivando per il vialetto davanti alla casa. Gua rdai giù, attraverso una ragnatela di rami pieni di gemme e le gridai che era p ri­ mavera, per Dio. Ella alzò le spal le . . . e ra molto disti nta, mia sorella, e non approvava i miei modi - sal ì rapida­ mente i gradini e sparì sotto la volta del portico. Corsi giù per le scale. « L'autobus era affollato, que­ sta sera » disse mia sorella, appendendo il soprabito. « Non pot evo neanche respi rare . È un vestito cos ì pesante, questo. » « Hai bi sogno di un vestito nuovo pe r la p rimavera » di sse mia madre e i l viso le si i l luminò tutto. E ra seduta nella stanza di soggiorno con il giornale della sera in grembo. Insieme, apri rono il giornale sul tavolo del la sala da p ranzo per guardare la pubblicità. « Dovremo arrangiarci con qualche panino, questa sera » disse mia madre rivol gendosi a me. Mio padre e ra morto e mia madre voleva far c redere che si cucinas se esclusivamente pe r me, unico uomo di casa. « Guarda ! questo è p roprio elegante ! » esclamò mia madre, osser­ vando il giornale. « Montaldo ha sempre vestiti molto bel l i . » Sospi rò e se ne andò in cucina, lasciando la porta aperta in modo da poter parlare con mia sorella. « Novanta dol lari non è poi tanto per un bel tailleu r, non ti pare ? » 28

« No » rispose mia sorella. « Non credo. Ma, vera­ mente, non voglio un tai lleur, questa primavera. Vor­ rei un vestito color azzu rro cielo, con una scol latura rotonda che scop ra un po' le spalle. Non sto bene con i tailleur. Non sono ancora vecchia abbastanza. » Aveva vent i due ann i . « E ho la facc ia t roppo rotonda» aggiunse a voce bassa. Mia madre di sse: « Non sei troppo giovane per un tailleur. » Voleva di re anche che non era troppo giova. ne per sposarSI. Mia sorella mi guardò e disse: « Mamma, ti pare che si faccia la barba abbastanza spes so? Ogni quanto te la fai? » « Ogni tre giorni» ri sposi, e il col lo e le guance mi avvamparono. « Be' , prova ogni due giorni . » « Sì, cerca di essere più cu rato» di sse mia madre. « Sono sicu ra che alle ragazze non piacciono i giova­ notti con i peluzzi sul mento. » « Credo sia troppo fiero della sua barba per rader­ sei a» osservò mia sorella e fece una ri satina. « Mi fa pena l 'uomo che ti sposerà» dissi . « Perché tutti credono che tu sia una dolce creatura e non lo sei affatto. » Mia sorel la mi rivolse un sorri so pieno di compat i­ mento e tornò a guardare il giornale. Si no all 'età di quattro ann i, ero vi ssuto in una grande casa rivestita di legno bianco che si affacciava sul Missis sippi, nel la parte sud di St. Louis. Quella casa, in mezzo ad altre egual men te ricche, aveva un portone per le carrozze, un ce rbiatto di ferro sul prato e una vasca con i pesci rossi. Una vol ta chiesi a mia mad re perché avessimo lasciato quel la casa. « Aveva­ mo perduto tutto il nost ro denaro, ecco perché. Tuo pad re si fi dava t roppo degl i altri » disse . « Riusciva sempre a fa rs i abb indolare. » 29

Mia madre non era venale né avara - salvo b revi pe riodi che non s i ve rificavano s p esso - ma era con­ vinta che con il denaro ave ssimo pe rduto una buona parte della nost ra dignità e della nostra fel icità. Non voleva guardare la vita in un granello di sabbia, voleva guardarla dal le spiagge della Riviera, in un vestito di panama bianco. Non diment icherò mai i l suo stupore quando ci portò a vedere quella che sarebbe stata la nostra nuo­ va casa - indossava la sua pel liccia più bella, per ostentazione, suppongo - e io dfs si che quella casa mi p iaceva. Aveva nove stanze, una finestra coi vetri colo­ rati nell'ingresso; e dei vicini da una parte e dall 'altra, per tutto l ' i sol ato. Lei la detestava. Quando si fece più avant i negl i anni, camb iò, diventò meno altera. Si pettinò con i capelli raccolti sulla nuca, indossò vestiti scuri e diceva spesso: « Non sono più una donna giovane » e cominciò a e ssere orgogliosa delle sue qualità p ratiche. Ma restò ri solu­ ta; aveva visto un mondo che noi non ricordavamo t roppo chiaramente e voleva che riusci s simo a tornare in quel mondo. « Avevo tutto » disse una volta a mia sorella. « E ro bella. E ravamo ricchi. Non hai idea di quel che volesse di re. Se fossi morta a t rent 'anni, sarei morta assolutamente felice. » Ma l 'e ssere p ratica non le riusciva faci le. Nel fon­ do, non e ra p rat ica, e ogni primave ra mi riporta il ricordo di mia madre che sc ruta da vicino, sorpresa, i bocciol i di tulipano nella sua aiuola. E mi riporta quel­ l 'aria di ne rvosa efficienza du rante le grandi pul izie di p rimavera. « Faresti meglio a mettere in ordine gli scaffali del tuo armadio, questa sera, » mi avvertiva « perché domani Tillie e io dobb iamo ent rarci con l 'aspirapolvere e butteremo fuori tutto quello che tro­ ve renlO. » Un anno dopo l ' altro, correvo di sopra per mettere in salvo i m iei tesori , persino quando avevo sedici anni ed ero p roprio sul punto di imbarcarmi in 30

una grossa faccenda, la cui natura al momento non avrei saputo nemmeno immaginare. I miei tesori con­ sistevano nella mia collezione di cartoline, duemila­ cinquecento cartoline in tutto, ordinate alfabetica­ mente per stati, Stati Uniti e altri paesi del mondo (la cosa sorprendente era che io vivessi a St. Louis), un vecchio guanto da baseball, la mia raccolta di foglie, due libri osceni a fumetti, vinti a poker a un incontro internazionale di boy-scout, la mia col lezione di palli­ ne di vet ro e trentacinque pagine di meditazioni segre­ te tutte scritte a mano. Tutta questa roba doveva esse­ re t rasportata nella rimessa e nascosta in mezzo agli att rezzi, fino a quando la frenesia delle grandi pul izie non fosse esaurita; al lora la riportavo clandestina­ mente al piano di sopra. Dopo cena, quando la stagione si e ra fatta più cal­ da, mia madre, mia sorella e io sedevamo di solito nel­ la ve randa sul retro, t ra le omb re e le foglie nuove e l 'odore di insetticida e la luce delle lampade di casa, che aderiva agl i alberi come strisce di carta gial la. In gene re, la radio era accesa e mia madre, un libro in grembo e un 'espressione assorta, ascoltava i program­ mi di varietà e rideva. Di solito si annoiava; la sua vita era mossa soprattutto dal b ruciante desiderio di risa­ lire la c resta sottile del prestigio sociale. Quando suo­ nava il telefono, si alzava e a lunghi passi entrava in casa e se la telefonata era per mia sorella, la chiamava con voce venata di t rionfo. A vol te, la se ra, mia madre lavava i capel li a mia sorella. Mia sorella sedeva di fronte al catino nella camera da bagno di mamma, un asciugamano sul le spal le, sorridendo. Dalla mia camera, dal l 'altra parte del corridoio, la sent ivo chiacchie rare dei giovanot ti che conosceva, que l l i con i quali era u scita, quelli con i qual i avrebbe vol uto usci re e quel l i che non avrebbe toccato neppure con un bas tone lungo tre met ri. Mia madre la inte rrom peva raccontandole del la propria 31

scalt rezza, le sue serate e i suoi successi quando era gi ovane, qualche vol ta scherzosamente, ma qualche vol ta con mal inconia, perché rimpi angeva'tante cose. Poi, tutte e due com inciavano a catalogare gl i ammi ra­ tori di m ia sorella: uno o due erano di buona famiglia, uno aveva soldi, un alt ro - ragazzo povero - aveva un bril lante futuro, e poi il gruppo dei cari buoni ragazzi che erano sempl ici riempitivi e rappresentavano il nume ro supplementare di appuntamenti che innalza­ vano m ia sorella al rango di ragazza molto corteg­ , giata. In queste conversazioni , m ia madre t i rava fuori spes so l ' argomento del decoro. Appuntamenti a ore tarde non erano una cosa decorosa, e non lo era fl i rta­ re con al tri ragazzi olt re a quello con i l quale si usciva di sol ito, né lo era piantare in asso un ragazzo senza ragione. Poi m ia madre cercava anche di i struire m ia sorella in altre materie, che avevano a che fare con l 'opportunità di tenere a freno la passione onde evita­ re una situazione imbarazzante per i l ragazzo e un disast ro per la ragazza. Mia sorella si i rri tava. « Non so perché tu dica queste cose» diceva. « lo m i compor­ to beni ssimo. Mol to megl io delle altre ragazze che conosco.» La sua i rritazione faceva piacere a m ia madre che sorrideva e diceva che soltanto le belle ragazze pos sono permettersi di comportarsi bene, e allora tutte e due si mettevano a ridere. Mi chiedevo sempre perché mia madre non pren­ desse per scontati i succes si di mia sorella: era grazio­ sa, aveva un sacco di appuntamenti, i l telefono squi lla­ va in continuazione. Dov'era i l pericolo? E perché doveva semp re farle la predica? Una volta, mia madre le disse che non avrebbe dovuto bal lare con troppi ragazzi , alt rimenti avrebbe allarmato e fatto allontanare i più seri. Mia sorella si stava vestendo per il ballo di primavera al circolo. Arrogante e sott ile, splendente come una ninfa dei fiu32

mi nel suo alone di bottiglie e vasetti e vestiti leggeri ebbe un violento scatto di col lera: urlò che a lei piace­ va ballare . Chiusi la porta del la mia camera, ma pote­ vo ancora senti rle. « Non essere così stupida » conti­ nuava a ripetere mia madre, e ancora e ancora. « Per favore, non esse re stupida. . . » Poi mia sorella, quasi piangendo, disse che voleva divert i rsi, ecco tutto ! Arri­ vò il suo ragazzo e scesi per farlo entrare; quando tor­ nai su stavano ridendo, tutte e due. Mia madre disse che tentava solo di aiutarla; dopo tutto, mia sorella non aveva il senso della realtà e la sua bellezza non sarebbe durata in eterno. Mia sorel la, aprendo la por­ ta del la sua camera, disse a bassa voce: « Durerà anco­ ra un bel po' . » Non dimenticherò mai il tu rb inoso fruscio della sua iInmensa gonna bianca, mentre veniva verso di me nel corridoio. Il vi so era stranamente quieto, come visto nella luce del la luna, i capelli morb idi e splen­ denti , le mani piegate in fuori al polso, come fiori . « Come sei bella ! » gridai. Sorri se e poi, con una specie di solennità, fece un gi ro su se stessa e la lunga gonna si sol levò e ricadde come la spuma di un'onda. Era così bella che non potevo quasi sopportarlo. L'abbrac­ ciai e lei rise. Più tardi, quella sera, chiesi a mia madre perché si preoccupasse tanto. Non era forse abbastanza corteg­ giata mia sorella ? La mamma e ra seduta in cucina, in una vecchia e sbiadita vestagl ia gialla e stava bevendo un bicchiere di latte caldo. « Tu non sai niente di que­ ste cose » disse, e con tale freddezza che mi alzai da tavola e mi precipitai in camera mia. « So quel che dico » gridava mia mad re quando di scuteva con mia sorella. « Devi darmi retta. La gente chiacchiera ... Non sai chi puoi incontrare a un appun­ tamento; è bene accettare persino se il ragazzo non ti piace . .. Le ragazze devono essere mol to accorte. Tu non pensi a niente. Non cred i che in cinquant'anni 33

abbia imparato che cos 'è che fa gi rare i l mondo ? E allora dammi retta, so quel che dico . . . » Ma il viso di mia sore lla era cosÌ radioso, il suo fascino 'CoSÌ inten­ so, gettava indiet ro i capelli b iondi con un gesto cosÌ rapi do, sicuro, arrogan te e pieno di vanità, che nes su­ no, pensavo, nessuno avrebbe potuto dubitare che tut­ to quello che faceva non fosse giusto. Anch' io volevo es sere arrogante . Non volevo porta­ re gl i occhia l i né es sere uno di quei ragazzi grossolani e senza spi rito che mia sorella disprezzava. Ero dal la sua parte, per quel che lei mi consentiva di essere. E ra la maggiore, e spesso si spazientiva con me. Semb ravo non capi re tutto quello che implicava l 'essere dalla sua parte. Una se ra dopo l'altra, la vedevo tornare a casa dal lavoro, stanca - aveva un posto di segretaria in un ospedale e lo detestava - e due ore dopo scendeva le scale per salutare il suo ragazzo, il volto impegnato in un 'espressione seria oppure i n un largo, luminoso sor­ ri so, secondo l 'umore o i l posto in cui i l suo caval iere l 'avrebbe portata quella sera. Un concerto o un film d'arte la rendevano seria; il ri storante di lusso ed esclusivo portava il sorri so sul suo volto. Scendeva le scale picchiettando con i tacchi alti , un lieve, inconsi­ stente mantel lo gettato sul braccio, la borsa e i guanti in una mano e l 'altra appoggiata sul la ringhiera. Nella incerta luce gialla del candelabro dell ' ingresso, la col­ lana e gli orecchini scinti llavano debolmente; e qual­ che vol ta, specie se era vestita con particolare ricerca­ tezza, diciamo un abito nero con una profonda scolla­ tura, perché dovevano andare a cena al circolo, mal­ grado la sua gaiezza, c 'era intorno a lei un 'aria di prigionia. Faceva parte del suo fascino. Nel l 'immensa gonna bi anca, andò al ballo di primavera al circolo e tornò portando a mia madre la notizia che aveva destato l 'interesse di Sonny Bruster, i l figlio maggiore di M. F. Bruster, un banchiere molto ricco: più che l 'in34

teresse, si vide poi, pe rché egli cominciò a telefonarle in ufficio qua-s i ogni giorno e a portarla fuori quasi ogni sera. Mia madre passava al telefono buona parte del pomeriggio, spiegando alle amiche che mia sorella non era fidanzata. Era c riminale, diceva, la maniera di spettegolare di certa gente. E ra sol tanto uscita col ragazzo una dozzina di volte. Avevano appena comin­ ciato a conoscersi un po'. Poi mia madre cominciò a ricevere telefonate; qualcuno aveva sentito di re da un'amica della signora B ruster, che la signora B ruster aveva detto che suo figlio aveva intenzioni serie nei confronti di mia sorel la, che e ra una g raziosissima s impatici s s ima ragazza di ott ima famiglia. . . Mia madre si fregava le lIlani , esultante. Si fece imprestare denaro dai fratel li e ogni settimana mia sorella aveva un vestito nuovo. Mia sorella tornava a casa dal lavoro e correva su a cambiarsi. Sonny sarebbe arrivato alle sette pe r por­ t arla fuori a cena. Si liberava del le scarpe con un cal­ cio, contorcendosi si toglieva il vestito e in sottoveste si p recipitava qua e là. « Mamma, non riesco a t rovare i miei orecchini ! » « Quali orecchini, cara ? » « Le perle, quelle piccole piccole, che ho comprato a Pasqua di due anni fa per portarle col vestito nero.. . » E ra immensamente soddisfatta di sé, le piaceva che la gente parlasse di lei, le piaceva essere invidiata. « Mamma, sai che cosa mi ha detto oggi Cecilia John son ? Mi ha detto che Beryl Feringhaus - sai quel­ la del l 'agenzia immobil iare - ha il cuore spezzato per­ ché c redeva che Sonny B ruster volesse fidanzars i con lei . » Fece una risat ina nervosa. I suoi lunghi capelli e rano ingarbugl iati e mia madre e ra capitata col petti­ ne sop ra un nodo. « Fo rse dov re s ti tagl iart i i capelli » disse mia mad re, ce rcando di nasconde re la p ropria ecci tazione 35

e di conse rvarsi prat ica. Durante, questo periodo, sta­ va vivendo l ' imminenza del la ricchezza. Ogni qualvol­ ta si arrestava in quel che stava facendo è alzava la testa, la sua facc ia appariva i lluminata di vi sioni . Nel la primavera dei miei sedici anni, quello che più desideravo al mondo era di riuscire a es sere qual­ cuno, da grande. Non sapevo che ci potesse essere alt ro modo per farsi amare. Il mio miglior am ico era un ragazzo che si chiamava Preston, che aveva già una folta barba. Era un t ipo timido e sfortunato nei suoi rapport i con gli alt ri, e voleva fare il fi sico. Aveva pochi ssima immaginazione e compativa chi l 'aveva. « Tu e la tua parola "bello" ! » diceva con disprezzo, st ringendosi il naso pe r imitare la mia voce. « Dimmi, che cosa significa "bel lo"? » « Qualcosa che desideri » rispondevo. « Tu sei un esteta » diceva Preston . « lo sono uno scienziato. Ecco la differenza. » Avevamo l ' abitudine di telefonarci quasi ogni sera e facevamo l u n g h e e p rofonde d i s c u s s i on i p e r telefono. Quando era con una ragazza, Preston le si sedeva accanto e la fissava stoli damente. Qualche volta, verso la fine della serata, cominciava a re spi rare forte ed elaborava qualche gesto audace. Prendeva la mano della ragazza e la guardava con occhi ardenti e pieni di desiderio, oppure mormorava complimenti senza sen­ so. Piaceva alle ragazze, le qual i sfuggivano facilmente alle sue maldestre b rame. Scioglievano le mani dal la sua stretta e gl i dicevano di telefonare ancora, ma dopo qualche appuntamento Pres ton diceva disgusta­ to: « Tutto quello che fa è parlare . È una frigida o qual­ cos 'altro . . . » Ma la ve ri tà e ra che aveva paura di urtar­ le, di fare qualche mossa sbagl iata e, in realtà, non le aveva mai corteggiate sul serio. A scuola, Preston e io avevamo, nel pomeriggio, la 36

medesima aula di studio. L'aula di studio era nella b ibl ioteca, satura del fiato di cen tocinquanta studenti e della leggera e mol le brezza di una pri mave ra ormai sul fini re, nonché di libri : era i l crocicchio del mondo. Preston e io fi rmavamo all 'uscita separatamente e c i incont ravamo poi ai gab inetti . Lì , c i appoggiavamo a una delle pareti divi sorie e parlavamo. Preston era pieno di pensieri ; era tormentato da tutte le sue i dee. « Sai che cosa significa la relativi tà? » mi chiedeva. « T i rendi conto come essa interessi ogni p i ù piccolo detta­ gl io del la vita di ogn i giorno?» Oppure poteva essere Sp inoza ad agitarlo: « Diciottesimo secolo, ma pe r Dio que llo era un uomo razionale ! » lo passeggiavo su e giù, metà ascoltando, metà fantasticando, desideran­ do ardentemente che i l m io nome potesse appari re nel la l i sta di persone che, secondo Preston, avevano i requ i s i t i del la grandezza. Oppure parlavamo dei nostri problem i pe rsonal i. « lo non sono un ragazzo simpatico» dicevo; « sono t roppo chiu so. » « E perché pensi che sia così?» chi edeva Preston. « Non so » d icevo. ( Sono vergine. Influi sce su una quant ità di cose, questo. » « Senti, » disse Preston un giorno « tu forse non se i un ragazzo faci le, ma puoi piacere. Il tuo guaio è che sei uno snob » e s i mise a camm inare avant i e indietro sul pavi mento di mat tonelle bianche, facendom i la caricatu ra. Si lasciò c iondolare in avanti , abbassò gli occhi , tese i l mento in fuori e riuscì a dare al la sua fac­ cia una esp ressione stupida e in tenta. « Sono io?» gridai, desolato. « Be ' , p iù o meno » di sse Preston. Oppu re, appoggiat i al davanzale della finest ra, con la testa protesa fuori, nel la luce dorata del pome rig­ gio, guardando le ragazze de lla cl asse di g i n nastica che ti ravano d 'arco sot to gl i albe ri, parlavamo de l se sso. 37

Com incia nel bambino picçolo » disse Preston, una volta. « E dura per semp re ! » « I santi riescono a starne fuori » di ssi io, luttuosa­ mente. « Un corno, ci riescono ! » ribatté Pres ton. In bas so, sul fianco della col l ina, le ragazze tendevano gl i archi . I leggeri ve stiti ve rdi da ginnastica svolazzavano con­ tro i loro corp i . « Non sono carine ? » chiese P reston, eccitato. « Non sono meravigl iose ? » Dopo scuola, Preston e io andavamo fuori pe r l 'al­ lenamento. Il campo di al lenamento era una pista di cene re che ci rcondava il campo di rugby. Un pendio umido ed erboso conduceva su, in cima, all 'entrata degli spogl iatoi della scuola. « Fatevelo di corsa tutte le sere, ragazzi » ci incitava l ' istruttore - il vecchio Mackyz, un pancione con i capelli grigi e ondu lat i alla fine dell 'allenamento. « Correte, ragazzi, perché è prop rio quando vi sentite assolutamente esausti che dovete cercare di dare di più. È i l di più, ragazzi, che fa i campioni. » E a questo punto se ne restava lì, umi le e commosso dal le sue stesse parole. Prima del l 'allenamento, per scaldarci i muscoli, facevamo, di solito, tutto i l campo e ritorno a pas so veloce, « alzando bene le ginocchia. » La grande inutil i­ tà di questo movimento mi riemp iva di qua lcosa che somigliava all 'esal tazione; e, da ogni lato, intorno a me, i miei compagn i, in ordine sparso, trotterellavano cos Ì, « alzando bene le ginocchia ». Che felici tà. « Il terreno è t roppo elast ico » borbottava Pres ton. « Cat tivo pe r i muscoli. » Preston correva i l migl io. E ra di corporatura mas siccia e sgraziato; Mackyz diceva che non aveva disposizione, ma correva con accani­ mento e diventò un buon mezzofondi sta. lo correvo i 400 met ri. E ro alto e sot tile e per quan to Mackyz dices se che av rei dovuto riuscire bene, non era cOSÌ. Mackyz diceva che mi mancava l 'entusiasmo. « Voi che «

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studiate siete tutti eguali » diceva. « Non ci mettete il cuore. Vi ri spa"rmiate. Siete tutti un b ranco di bidoni. » Cercavo di curare il mio malconcio entusiasmo. Quan­ do correvo, Mackyz sb raitava come un forsennato: « Batti il terreno più forte. Batti , con quei piedi ! Scat­ ta, ragazzo ! SCATTA ! Non stare a gingillarti, per amor di Dio.. . » Dopo una corsa, mi buttavo su un monticello di te rra vicino al t raguardo, sotto un albero di sicomo­ ro, dove ogn i giorno l 'assi stente allenatore ci scavava un nuovo fossetto per vomitarci. Di solito, t re o quat­ t ro ragazzi mi raggiungevano e ce ne stavamo sdraiati lì, esausti, col petto in fiamme, troppo deboli per muo. verCl. E come se non bastas sero gli altri miei problemi mi veniva addi rittura da piangere sul mio aspetto ogni qualvolta guardavo un ragazzo di nome Joel Bush. Joel era così incredibilmente bello, che nessuno dei ragazzi riusciva quasi a sopportarne l 'esistenza. I suoi t ratti non erano particolarmente virili o decisi e non era un bel tipo di ragazzo - era solo bello. Semb rava una statua strofinata con miele e ce ra calda, per darle un tono dorato, e nella purezza dei suoi lineamenti , nelle segrete p roporzioni del viso e del corpo che lo facevano così bello in quella particolare maniera, por­ tava, a ogni istante, la minaccia della seduzione. Con­ t rariatemi, semb rava di re, e vi avrò in pugno. Vi farò innamorare di me e vi trasformerò in asini. Ognuno di noi lo evitava o gli si arrendeva; gli insegnanti faceva­ no a meno di sorprenderlo mentre copiava, i ragazzi non lo prendevano mai in giro e nessuno lo mandava al diavol o. Un giorno, finita la scuola, lo vidi che salu­ tava una ragazza e ment re la lasciava per raggiunger­ mi (s tavamo andando ve rso gl i spogl iatoi), le disse: « Ti aspetto qu i alle cinque e mezzo. » L'al lenamento non fi niva p rima delle sei , e io capii beniss imo che non ave­ "va nes suna in tenzione di incont rarsi con lei; pe rò quando poi m i chiese alcune informazioni sugl i esperi39

menti che avevamo fatto nell 'ora di fi sica, invece d i trattarlo come uno che s i era appena comportato da mascalzone, gl i di s s i tutto quello che sapevo. Non c i raggiungeva mai sotto l 'albero di si comoro e correva senza sforzo. Passava i l traguardo, i l petto che si sollevava sotto la magl ietta macch iata di sudo. re, s i arrampicava sulle tribune e se ne re stava a sede­ re al sole. Lo guardavo un pomeriggio, mentre sedeva lì asciugandosi la facci a dal sudore e volgendo la testa di qua e di là. A un certo momento, essa fu tutta d'ar­ gento, tranne le cavità carbonizzate degl i occh i e i l momento dopo era giovane e perfetta, l a testa che tutti conoscevano come la sua. Mackyz lo vide e gl i gri dò di mettersi la magl ietta prima di prendersi un raffreddore. Mentre se la infi la­ va, Joel gridò: « Uhuuu ! vada a fa rsi friggere ! » e Mackyz ri se dive rtito. Sparpagliati qua e là sul campo da rugby, c 'erano alcuni ragazzi che lanciavano le bracci a in alto e poi le abbassavano energicamente sino a toccare le punte dei piedi , altri stesi sulla schiena biciclettavano con le gambe in aria. Mi alzai e andai ve rso di loro per fare un po' di pas so di allenamento e lancio di ginocchia in alto. Guardai Joel. « Mi sto raffreddando » dis se. Conti­ nuai a camminare e proprio in quel momento uno stormo di corvi si alzò in volo diet ro la que rcia sulla col lina e riempì il cielo del suo vib rante movimento. Tutti, persino Preston, s i fermarono e guardarono in su. Gli uccelli sal irono in semicerchio e poi planarono dolcemente, come la lama di una falce, le ali allargate, abbandonandosi su una sottostante corrente d'aria, finché furono a sei o sette met ri da te rra; al lora agita­ rono le ali con un rumore simile a quello di lenzuola sbattute e si lib rarono in alto portandosi dietro le loro omb re, su, per la digradante geomet ria di cemento delle tribune, olt re la bella e rigida persona di Joel , lontano nel cielo. 40

Che ve ne pare ? » di sse Mackyz. « Il più grosso stormo di corvi che abbia mai vi sto. » « Perché non è andato a p rendere il fucile e non ne ha buttato giù un paio ? » g ridò Joel. Tutti si vol tarono. « Così li avrebbe avuti sottomano quando le fosse toc­ cato di doverne mangiare qualcuno » 1 di sse Joel. « Fai un gi ro di pista » urlò Mackyz, ment re la sua faccia di cuoio diventava rossa sino alle radici dei capelli grig io ferro. « Voleva solo sche rzare » dissi io, colpito dalla rea­ zione di Mackyz. Mackyz mi guardò e aggrottò la fronte. « Fa ' un g iro anche tu e non chiacchierare tanto. » Mi tol si il camiciotto, lo buttai sull'erba ed entrai in pi sta. E appena ebbi cominciato a correre, il mondo mutò. I corpi che si agitavano sul verde del campo di rugby e rano parti di una scena ricordata, non una cosa reale, di quel preciso momento. Tutto il segreto dello sforzo, dis si a me stesso, consiste nel tener duro. Per niente al mondo avrei voluto fermarmi, in quel momento; eppu re, niente, neanche se come p remio avessi potuto diventare bellis simo, niente avrebbe potuto compensarmi del puntigl ioso dolore di quello sforzo. A metà pista, Joel mi raggiunse, poi rallentò e corse di fianco a me. « Mackyz non guarda » disse. « Fi liamocela sul la collina. » Guardai e vidi che Mackyz stava allineando la squadra per il salto in alto. Joel partì decisamente verso la cima- del la colli­ na e io lo seguii. « Sta diven tando vecchio » osservò Joel, lasciando­ si cadere seduto e cercando con lo sgua rdo Mackyz ol tre la cresta della col l i na, poi si sdraiò. « Dài, scemo, buttati giù. Vuoi che Mackyz ti veda ? » «

I

M odo d i d i re che sign i fica: Ri mangiarsi

)e

proprie pa role. (N. d. T. ) 41

M i sent ivo a di sagio; quel moqo di scherzare pote­ va andar bene pe r Joel , pe rché « faceva lo sforzo », lui, ma se Mac kyz pescava me, mi cacciava fuori della squadra. Lo feci osservare a J oel . « Oh ! Mackyz prende tutto troppo sul serio. Questo è i l suo guaio » repl icò lui. « È sempre in agitazione per qual cosa. E non so perché la facc ia tanto lunga. Hai notato come i vecchi la fanno lunga per tutto ? » « Mackyz non è poi tanto vecchio. » « E va bene, hai notato come gli uomini di mezza e tà la fanno lunga per tutto ? » Pochi secondi dopo, come per caso, mentre guardava di sotto in su le foglie del la quercia, disse: « Stanot te ho fatto . . . » « Sul serio ? » dissi. Si allargò le dita sulla faccia, senza dubbio per vederle diventare arancione nella luce del sole, come fanno i bambini . « Sì » disse. Dal campo di rubgy veniva il rumore dei ragazzi che avevano cominciato l 'al lenamento del salto in alto. Mackyz g ridava: « Attent i , partite con il piede sinistro - uno, due, t re, - alzare ! ALZARE ! DANNAZIONE ! Stendete quelle maledette gambe, stendetel e ! Non andrete a pezzi ! Cri sto Santo ! Avete la sabbia sotto, no ? » I pass i dei saltatori p roducevano una serie d i colpi sordi, poi una pau sa, e poi il rumore del l'atterraggio sulla sab­ bia. Alzando i l capo, potevo vedere la fila dei ragazzi che aspettavano di saltare, quello in testa che scattava nella corsa, balzava da terra e lanciava le braccia i n atletica implorazione . « È stato deludente » disse Joel. « Come ? » chiesi . « Non è proprio niente di speciale. » Fui scosso da questa dichiarazione. « Vuoi dire che i libri . . . » « Completamente diverso. » Si gi rò imb ronciato, e raspò con le dita nella terra. « È come masturbarsi, come una masturbazione coi fiocchi . » 42

Forse la ragazza non ci sapeva fare. » « Era una donna fatta. » « Sì, ma . . . » « Era proprio una donna fatta, t i dico ! Sapeva quel che faceva ! » « Oh ! » esclamai . Poi , dopo un istante: « Senti, non ti dispiacerebbe raccontarmi quello che le. hai detto ? Sai, se m i capitasse un'occas ione, non saprei proprio cosa di re . lo . . . » « Non ricordo » ri spose J oel . « Ci guardammo appe­ na in faccia e poi lei si fece tutta lacrimosa e mi disse di spogl iarmi. » Restammo l ì per un po' sdraiati, nell 'ultimo sole del pomeriggio e poi dissi che sarebbe stato meglio tornar giù. Scendemmo camminando dalla parte di diet ro della collina e aspettammo che Mackyz non guardasse, p rima di balzar fuori e tornare in pista. Il salto continuò ancora per quindici o venti minu­ ti; poi Mackyz alzò le b raccia in un gesto di benedizio­ ne. « Va bene, bambocci . . . tutti in pi sta per un giro veloce. E questo vale anche per te, bidone » disse rivol­ gendosi a me e agi tando il di to. Tutti i ragazzi si misero in fila e si mossero verso la pista. La luce del sole fluiva in lunghi raggi bas si sul tetto del la scuola. U rtan doci e scherzando, comin­ ciammo a correre. « Più presto » gridava Mackyz. « Più presto ! Che cosa avete ? ! semb rate un branco di ragaz­ zini ! Più presto ! Cri sto santo, più presto ! » «

Poiché Preston, nel l 'accanito sforzo di diventare un mezzofondi sta, correva tre gi ri ogni uno degli al tri ragazzi , era semp re l 'ul timo negl i spogl iatoi . Arrivava sfini to, respi ran do con difficol tà, qualche volta doveva addi ri ttura appoggiarsi con una mano al l 'armadietto, mentre si svestiva. Tut ti gl i alt ri si erano già fatta la docci a da un bel po' ed erano quasi pronti per usc i re. A voI te qualcuno osservava che, a corre re in quel 43

modo, Preston si sarebbe ri dotto, le gambe a monconi, oppure che stava cercando di suic idarsi pe r far piace­ re a Mackyz. Preston sorrideva con aria assente, men­ t re cercava di rip render fiato e, in un certo senso, io ero semp re stupito di quanta poca attenzione si faces­ se a Preston, quanto lo si lasciasse in disparte, e solo. Non di rado, Joel dava spettacolo negli spogliatoi, camminando sulle mani, cantando canzoni sconce, impegnandosi in qualche discussione o altro. Preston ent rava nel la doccia. lo parlavo con Joel, vestendomi adagio, perché di sol ito aspettavo Preston . Quando ero completamente ve sti to, lo spogliatoio era ormai vuoto e Preston stava ancora strofinandosi con l 'asciugama­ no. Poi, invece di spicciarsi a indossare i vestiti, si pas­ sava e ripassava la mano sul petto per arricciolarsi quei pochi peli cascanti. « Su, muoviti ! » dicevo di sgu­ stato. « Mordi il freno ! » diceva lui, con quella sua flem­ ma da naturalista che mi rendeva furioso. « Mordi i l freno ! » Gli occorreva mezz'ora per vestirsi. Se ne stava davanti allo specchio e non finiva più di flettere i muscoli e ammi rare la l inea che i pettorali disegnava­ no sul suo largo torace, e aspettava sempre sino all'ul­ timo a mettersi la camicia, persino dopo essersi petti­ nato. Trovavo sconcertante la sua vanità; era ben lon­ tano dal l 'essere bello, con quella bocca pesante, le sopracciglia ce spugliose e le spalle massicce e cascan­ t i , ma gli piaceva vedersi nello specchio e si rigi rava e si rimirava da ogni possibile angolo, mentre s i abbot­ tonava la camicia. Odiava J oel. « Ecco un tipo che non varrà mai molto » diceva. « Non è coraggioso e non è neppure molto intelligente . Non capi sco perché tu desideri tanto piacergli . . . a meno che tu non sia un cretino. Ti lasci t rasportare dagli occhi nei tuoi giudizi. » Incassavo senza di r nien­ te perché volevo che Preston facesse un pezzo di stra44

da con me. Mi sembrava quasi vergognoso dover tor­ nare a casa da solo. Finalmente era p ronto ed emergevamo dalla scuo­ la ormai deserta nel morente pomeriggio. Mentre camminavamo, Preston m i arringava sulla mia man­ canza di concetti fondamentali e di c riteri di giudizio. La sete che avevo di ottenere qualche incarico a scuo­ la o di essere p reso in considerazione, Preston la liquidava come un segno di pidocchiosa vigliaccheria borghese. Mi t rovavo d'accordo con lui (non mi piace­ vo per niente) ma che si poteva fare ? « Potremmo scappare di casa » disse una volta Preston, e guardò i l ci elo stringendo gli occhi . « Fare i vagabondi . Lavora­ re in fabb rica. Andare al bordello . . . » Mi appoggiai al t ronco di un albero e Preston rimase con un piede sulla st rada e l 'alt ro sul bordo del marciapiede e per un po' c i lanciammo e ri lanciammo sassolini . « Siamo condannati » di sse Preston. « Condannato » era una delle sue parole p referite, ins ieme con « cultura » , « cinetico » e « l 'As soluto » . « Apparteniamo a una cul­ tura moribonda » finÌ. « Penso che tu abbia ragione » convenni . « Certo semb ra proprio cosÌ. » Ma poi ripresi animo. « Dopo tutto, non è poi cosÌ grave come es se re pazzi o qual­ cosa d'alt ro. » « Non si rivelerebbe adesso » di sse Preston tetra­ mente. « È ancora allo stato latente . Verrà fuori più tardi . Ved rai . Dopo tutto, tu vivi ancora in famiglia e hai quel tuo fascino idiota . . . » Lo interruppi ; non avevo mai ricevuto un compli­ mento da lui p rima di allora. « Non ho detto che tu sia affascinante » ri prese. « Ho det to che hai un fascino i diota. Sai come com­ portart i in pubbl ico. Ecco tut to. » Al l 'angolo del l a s t rada dove di sol i to ci separava­ mo, P re s ton si fe rmò un momento: « Non c 'è rimedio » di sse. ·

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Dio mio, lo pensi prop rio ? » , chiesi. « Onestamente, s ì . » E se ne andò verso casa. Cammi nai a pas so di al lenamento per un paio di isolati e poi mi tastai i muscol i del lo stomaco. Arrivato a un acero che aveva un ramo basso e di ritto, presi la rincorsa, saltai e dondolai dal ramo, mentre un grande autobus ve rde passava ondeggiando, pesantemente, i finestrini pieni di facce stanche che guardavano la strada che scorreva via e me che pendevo dal ramo e sorridevo. Ero condannato, ma .con molta probabil ità ero affascinante ! Entrai di corsa per la porta principale e chiamai : « Mamma ! Mamma ! » « Che c 'è ? » rispose . Era seduta nella veranda e c 'e ra, sulla soglia, una piccola piuma di fumo di siga­ retta. Si udiva l 'indistinto mormorio della radio tenu­ ta bassa. « Niente » dissi. « Sono a casa, ecco tutto. » A pranzo, poi, avrei cercato di passare inosserva­ to, insaccandomi sul la sedia e pensando ai miei compi­ ti, ma mia madre e mia sorella si accorgevano sempre dei miei umori . « Come è andato l 'allenamento, oggi ? » mi avrebbe chiesto mia sorel la, in tono lievemente . I ronICO. « Bene » avrei risposto io, a bassa voce . Allora, mia madre e mia sorella si sarebbero scam­ biate uno sguardo. Dovevo sembrargli ridicolo, pom­ poso e leggermente assurdo, come tutti i maschi . Quasi ogni sera, Sonny B ruster arrivava a casa nost ra a bordo della sua decapottabile gialla. La gros­ sa macchina scivolava dolcemente arres tandosi al bor­ do del marciapiede e Sonny si dava una rapida occhia­ ta nel lo specchietto ret rovi sore, passandosi una mano sui capelli. Poi scendeva e con la mano si spolve rava i pantaloni, t roppo occupato con l a sua timidezza per notare i bambini che giocavano lì intorno. Ma quelli interrompevano i loro giochi e restavano a guardarlo. «

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lo aspettavo sulla porta p rincipale e lo conducevo nel soggiorno. Camminavo davanti a Sonny perché avevo osse r­ vato che non poteva t rattene rsi dal guardare su per le scale ment re att raversavamo l 'ingres so, come a far appari re magicamente mia sorella - l ì sul l ' istante con l 'intensità del suo desiderio, e io odiavo vederglie­ lo fare . Mi sedevo sulla sedia gialla con lo schienale alto e Sonny si sistemava sul divano e mi chiedeva notizie del l ' al lenamento oppu re se avevo già scelto l 'università. « Dovresti pensarci attentamente » diceva. « lo c redo che Princeton sia più distinta di Yale . » La sua voce ben educata e gentile e ra accurata­ mente inespressiva. Nei suoi modi c 'era una sfumatu­ ra di durezza pe r rammentare agli altri e a se stesso che e ra ricco e che non avrebbe affatto tol lerato una mancanza di riguardo nei suoi confronti . Ma mi piace­ va. Mi trattava con grande cortesia e mi andava l 'idea di averlo come cognato, e qualche volta pensavo a tutti i vantaggi che mi sarebbero venuti se mia sorella lo avesse sposato. Poi lei compariva in cima alle scale, pronta per uscire, e Sonny balzava in piedi. « Sei pronta ? » escla­ mava, come se non avesse mai osato sperare tanto. Mia sorella gli tendeva il mantel lo e lui con elaborata premura l 'aiutava ad indos sarlo. Potevano es sere le otto o poco più. Le lampade della strada erano accese ma sembravano pall ide perché non era ancora del tut­ to buio. Di sol ito, Sonny le apriva lo sportello della macchina, ma qualche volta lei con una rapida mano­ vra lo precedeva; faceva di corsa gli ultimi gradini, apriva lo sportello e s ' infilava dentro prima che Sonny potesse fa re un gesto. Sonny non era il primo ragazzo ricco che si fosse i n namorato di mia sorel la; era il quarto o il quinto. Negl i al tri casi c 'erano state scene tra lei e mia madre, che esal tava le qual i tà del giovanotto, ment re mia 47

sorella ribatteva che era troppo gjovane per sposars i e non voleva ancora rinunc iare a dive rtirsf. Ogni volta aveva vi nto lei , e ogni volta i l ragazzo era stàto manda­ to a spasso, mentre la mamma semb rava avesse il cuo­ re spezzato e diceva che mia sorella stava prendendo a calci la fo rtuna. Con Sonny semb rava dovesse accade re la stessa cosa. Mia sorella rimpiangeva di non poter andar fuo­ ri con un sacco di ragazzi invece che con uno solo. Una volta si lagnò che Sonny e ra geloso e viziato. C 'erano momenti in cui semb rava che Sonny le piacesse mol­ t issimo, ma alt re vol te, la sera, scendendo le scale, lo salutava freddamente e lui stava sulla difensiva, impaurito, e vedevo bene che la disapprovazione di lei era la cosa che temeva di più al mondo. Mia madre semb rava non accorgersene, o se mai , non lo dava a vedere. Poi una sera, che ero seduto in camera mia a fare i compiti, le sent ii sal i re le scale insieme. Ent rarono in came ra di mia sorella: « Pen so che Sonny stia prendendo la cosa molto seriamente » di sse mia madre. « È piccolo » ribatté mia sorella « e non è neppure mol to interes sante, mamma. » « Semb ra molto innamorato di te. » « Non è per nul la un tipo divertente » ripeté mia sorella. « Mamma, stai attenta ! Mi stai spazzolando t roppo forte ! Mi fai male ! » Rinunciai a continuare i l compito e ascoltai . « Sonny è un ragazzo mol to intelligente » di sse mia madre. « Viene da una famiglia molto per bene. » « Non me ne importa » b rontolò mia sorel la. « Non vogl io sprecarmi con lui . » « Sprecarti ? » E ri se. Mi alzai e mi avvicinai al la porta. Mia sorella era seduta al tavolo di toletta, i capel li splendenti come vet ro e gli occhi chiusi. Mia madre camminava avanti e indiet ro, gesticolando con la spazzola dei capelli. « È 48

lui quello che si spreca » osservò. « Chi pensi di essere, in ogni caso ?" Noi non siamo nessuno. » « Ma io sono carina » p rotestò mia sorella rabbio­ samente . Mia madre alzò le spalle. « Il mondo è pieno di ragazze carine. Di più: è pieno di ragazze carine e ric­ che . Insomma, Sonny è un ragazzo molto simpa tico . . . » « Lasciami stare ! » Mia sorella rialzò i capelli dalle spal le e li tenne raccol ti in una massa morbida sulla sommità del capo. « Sonny è un cafone ! Un cafone ! » « È un bel ragazzo ! » gridò mia madre. « Ma che ne sai, tu ? » ribatté mia sorella, gridando pure lei. « Tu sei vecchia, santo Dio ! » L'aria vib rò. Mia sorella si alzò e guardò mia madre, inorridita di quel che aveva detto. Tol se le mani dai capelli, che le si rovesciarono sulle spalle, chiari, asciutti, morbidi . « Non me ne importa » disse improvvisamente, e mi sfiorò passando, volò in bagno e chiuse la porta a chiave . E tutto fu silenzio. La sola traccia di lei, in quel momento, era il lieve profumo, nella sua camera, della es senza di fiori che usava quel­ la p rimavera. « Oh ! è proprio una pazza » disse mia madre e vidi che piangeva. « Non sa che sta facendo . . . ma perché è cosÌ sciocca ? » Posò la spazzola dei capelli, alzò le mani alle guance e cominciò a pizzicarsele. Tornai nella mia camera e chiusi la porta. Quando ne uscii, un'ora più tardi, mia madre era a Ietto e leggeva una rivi sta; dal l 'aspetto, semb rava che l ' avessero ferita in una dozzina di posti. Mia sorella era in camera sua, seduta davanti allo specchio. I capelli, tutti ti rati indietro sul collo, le ricadevano sul­ le spalle in commoventi piccoli riccioli indifesi . Era i n tenta a studiare la sua immagine allo specchio. (Sono van i , i fiori ? Lo sono, gli alberi ? Sono consumati dal l a vani tà, i giorni in cui sono in fiore ?) Alzò un dito e lo premet te contro il labbro inferiore per vede re, 49

penso, se sarebbe stata più carina se il labb ro invece di essere così l i scio ave sse avuto un l ieve solco nel ' mezzo come lo hanno alcune ragazze. Poco tempo dopo, mia madre, che non era né stup i­ da né crudele, suggerì a mia sorella di smettere per un po' di vedere Sonny. « Finché tu abbia p reso una deci­ sione » di sse. « Altrimenti potresti spezzargli il cuore, sai . Digl i che hai bi sogno di un po' di tempo per ri flet­ tere . Capi rà. E penserà che sei ., una ragazza matura e . serIa. » Sonny scomparve da casa nostra. Adesso, la sera dopo pranzo, noi t re sedevamo nella veranda. M ia sorella alzava gl i occhi , ansiosa, quando suonava i l telefono, m a l e chiamate non e rano mai per lei . Nessu­ no dei suoi antichi corteggiatori sapeva che aveva smesso di uscire con Sonny, e dopo un certo tempo, quando i l telefono suonava, si controllava e faceva fin­ ta che la cosa non la interes sasse oppure diceva, con tono i rritato: « Chi può essere ? » Cominciò anche a ri spondere al telefono (non l 'aveva mai fatto prima perché non era bene per una ragazza mostrarsi t roppo impaziente) e allora si guardava t ristemente nel lo specchio del l 'ingresso mentre diceva: « Sì, Preston, è qui . » Cercava di leggere. Scorreva qualche pagina e poi posava il l ib ro e guardava fi ssamente, attraverso i vetri, la notte e le macchie di luce sugl i alberi . Ascolta­ va con m i a madre i p rogrammi di varietà del la radio e rideva distratta quando mia madre rideva. Mi punzec­ chiava. « La tua posizione non è corretta » diceva, oppu re: « Dove l i i mpari quei modi ? Mamma, si com­ porta come un teppista o qualcosa di simile. » Un'al tra vol ta, disse: « Se non faccio un buon matrimonio, ti t roverai nei guai . Sei troppo pigro p e r riuscire a cavartela da solo. » D iventava sempre più inquieta. G i ocando con la col lana, ruppe i l l accio e le perle roto­ larono a terra spargendosi per tutto i l pavimento; so

c 'era qualcosa di fol le nel modo in cui si diede a recu­ perare le piccole rotolanti gocce di luce. Capii che non sapeva quel che stava facendo; non era poi cosÌ sicura di tutto come semb rava. Fu difficile e penoso arrivare a questa conclus ione, che si fissò in me profondamen­ te. Perché non me ne e ro reso conto prima ? Mi parve anche che mi odiasse, quasi . Neanche questo avevo notato, prima. Mi chiesi come avessi potuto es sere cosÌ cieco. Comprendendo quanto mi fossi sbagliato su questo fatto, sentii che tutte le mie convinzioni e ra­ no in pericolo. Ad esempio, noi non eravamo necessa­ rialnente una famiglia felice, con i più n1e ravigliosi destini in attesa per mia sorella e per me . Potevamo commettere errori e scegliere male. L'infelicità e ra una cosa reale . E ra persino possibile che . . . Come mi sentii stanco di studiare il viso di mia sorella ! Arrivai al punto che avrei fatto qualsiasi cosa pur di non dovermi t rovare con le due donne nella veranda. Dopo t re settimane, Sonny tornò. Nes suno mi dis­ se mai se venne di sua iniziativa o se fu formalmente invitato, ma una sera la decapottabile gialla si fe rmò davanti a casa nostra: era tornato. Adesso quando mia madre guardava mia sorella e Sonny che alla sera se ne andavano nel la macchina di lui, si gi rava dal la fine­ stra sorridendo. « Credo che tua sorella abbia trovato un ragazzo che può ri spettare » osservava, oppure: « Saranno mol to fel ici ins ieme » e al tre fiduciose osser­ vazioni del gene re, cui non riuscivo a trovare alcun fon damento, ma nelle quali m ia madre credeva con tutti gli anni e i ricordi a sua dispos izione, con tutto i l peso del suo pas sato e del suo amore per m i a sorella. lo me ne andavo a telefonare a Preston . Di sol i to, m i sten devo sotto il tavolo della sala da pranzo, cos Ì ben prote tto e i solato, e ment re chiacchie­ ravamo guardavo in su e os servavo come erano uniti i pezzi di mogano. Mantenendo i l telefono s t ret to al l 'o51

recchio con la spal la, tenevo il libro in a�r ia, sopra la testa: facevamo fisica, una materia piuttosto dura per me. « Preston, » chiesi una sera « che cos 'è, in nome di Dio, che fa funzionare un sifone ? » I sifoni funzionavano - tutti lo sapevano - e quasi gemevo nel chiede rlo. Preston mi spiegò la teoria e ment re parlava io aggrottavo le sopracc iglia, respi ravo pro­ fondamente dal naso, sbi rciavo gli incomprensibili diagrammi del libro e pensavo al sesso, alla dignità dell 'uomo, alle me ravigl ie della mente. Ogni tanto, Preston diceva: « Capisci ? » e io sospi ravo. Era pri­ D1avera e ogni cosa intorno a me e ra piena di signifi­ cato: se soltanto fossi stato libero - libero dal la scuola, libe ro da mia mad re, libero da doveri e inibi­ zioni - se soltanto avessi potuto essere in groppa a un cavallo ! . . . Dov'era il mondo ? Non lì, non vicino a D1e, non sotto il tavolo della sala da pranzo. . . « Non completamente » mentivo, temendo di scoraggiarlo. « Ma ci sono quasi . Ripetimelo solo un'altra volta. » Ed egli ripeteva ancora e ancora, ment re io aggrotta­ vo la fronte, respi ravo forte e sbi rciavo. E poi la cosa accadde ! « Ho capito ! » esclamai . « Ho capito ! ho capito ! » E ra la pressione atmosferica ! Come dia­ D1ine non e ro riuscito a visualizzare la press ione atmosfe rica ? Adesso potevo vederla. E non avrei più potuto non vede rla; era lì, nella mia mente, solida e indi strutt ibile, una colonna biancastra poggiata sul­ l 'acqua. « Accidenti ! » dissi « la scienza è meraviglio­ sa ! » e scaraventai il lib ro di fi sica nel soggiorno. « Veramente me ravigliosa. » « Sono le leggi della natura » dichiarò Preston con un tono di disapp rovazione. « Non mescolarci il senti­ mento. » Una sera che mia sorella e Sonny non avevano appuntamento pe r uscire, m ia madre dette un colpet­ to al mio piede che sporgeva di sotto il tavolo della sala da pranzo. « Ho la sensazione che Sonny pot rebbe ,

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telefonare » bisbigliò. Dissi a Preston che dovevo attac­ care e, carponi, uscii di sot to il tavolo. « Ho l a sen sa­ zione che st iamo arrivando al punto » disse mia madre. « Tua sorella è nervosa. » Rimisi il telefono sul tavol ino. « Ma, mamma . . . » dissi, e il telefono squi llò. « Sst » fece. Il telefono squillò tre volte. Mia sorella, al l a de ri­ vazione di sopra, disse: « Pronto . . . Oh, Sonny . . . » Mia madre mi guardò e sorri se. Poi mi tirò pe r la manica finché abbas sai la testa e mi sussurrò all 'orec­ chio: « Saranno molto felici . . . » Uscì nel l ' ingresso e si fermò ai piedi del la scala. « Digl i che può venire » bisb igl iò con foga. « Certo » stava dicendo mia sorella al telefono. « Mi piacerebbe . . . Se vuoi . . . Ce rto . . . » Mia madre cont inuava ad ascoltare, il capo incli­ nato da una parte e la luce che le batteva sul volto che ormai mostrava il segno degl i anni, poi cominciò a mimare le risposte che m ia sorella avrebbe dovuto dare - dolci « sì » , dignitosi « no » e piccol i scoppi di risa pieni di lus inghe. Mi precipi tai nel l ' ingresso e uscii di casa. I lampio­ ni erano accesi e c 'era la luna. E le voci dei bambini: « Vedo Digger. Uno, due, t re, sei preso, Digger . . . » Due isolati più avanti, l 'orologio del la chiesa presbiteriana scandiva le ore. Proprio al lora una bambina l asciò il suo nascondigl io nella nostra siepe e cors� stri l lando verso il tronco del l 'albero che faceva da tocco. « Tren­ tuno; trentuno ! Libero tutti ! » Tutti i prigionieri, che se ne erano stati sedu ti con aria sconsolata sui parau r­ ti del l a Old smobile del signor Karmgut, balzarono in piedi con grida di gioia e subito si sparpagl iarono nel bu io. Alzai l a faccia - quel l 'esasperan te e l emen to, la mia faccia - e guardai incan tato la notte e l e c i me ondeg­ gian t i degl i albe ri e i rami che s i muovevano avan ti e 53

indiet ro e la luna tonda incast rata nel cielo notturno, che mutava in madreperla i vicini nastri di nuvole. E ra tutto as solutamente raro e come senza tempo. Che terribile senso di infel icità ! Camminai sul bordo del marciapiede, tenendomi in equil ib rio con le b raccia allargate. Le fronde degl i alberi si protendevano ai lati della strada, riempivano l 'aria del loro fruscio e t rattenevano la luce dei lam­ pioni. Guardai dent ro le case ill uminate. Rannicchia­ ta come una bambina in un angolo del divano del sog­ giorno, la signora Kearns leggeva un lib ro. Nella casa accanto, att raverso le foglie di un 'alta pianta, vidi i Lewi s tutti in piedi nel centro della stanza. Arrivato al l ' angolo, misi un b raccio intorno al palo col nome della strada e mi chinai lì, sopra la grata del tomb ino dove, negli anni scors i, io e i miei amici avevamo per­ duto forse un centinaio di palle da tennis. Quante e quante vol te, al l ' irrlb runi re, avevamo interrotto i l nostro gioco e c i e ravamo raccolti intorno alla grata, guardando la nostra palla che galleggiava laggiù, nel buio ! Nell 'isolato successivo, la luce del portico dei Cul­ len e ra accesa e vidi il signore e la signora Cullen che sal ivano in macchina. Eleonora Cullen e ra nella mia clas se a scuola ed e ra uscita sovente con Joel. I suoi geni tori andavano fuori e perciò, se era in casa, dove­ va essere sola. A meno che non fosse andata in bibl io­ teca, pen sai men t re la macchina partiva, oppure a una riunione al suo c i rcolo. Mentre rimanevo lì a guardare la casa dei Cullen, la luce del portico s i spense . U n minuto p i ù tardi, senza fiato p e r la corsa, ero sotto il portico buio e suonavo il campanello. Non c'e ra luce nell'ingresso p rincipale, ma la porta e ra aperta e sentii arrivare qualcuno. E ra Eleonora. « Chi è ? » chie se. « Sono io » di ssi. « Hai da fare ? Vuoi veni re un po' fuori a chiacchierare ? » 54

Si fece più vicino alla porta a rete e vi schiacciò i l naso. Era pallida, senza t rucco. « Ce rto » ri spose. « Devo infilarmi le scarpe. Non sono di buon umore o qualcosa di simile. » « Benissimo. Neanche io lo sono. Ho solo voglia di parlare con qualcuno. » Mentre aspettavo che Eleonora u scisse, vidi arri­ vare Mattie Seaton che camminava a lunghi passi rasente il marciapiede. Era nella squadra di allena­ mento. « Ehi, Mattie ! » gli gridai . « Salve ! » « Che c 'è di nuovo ? » « Non molto ! » disse . « Hai fatto t rigonometria ? » « No, non ancora. » « Esci con le i ? » chiese, indicando la casa. « No » mentii. « Be', devo andare a fare i compiti » disse. « Ciao ! » gli gridai dietro. Sapevo dov'era diretto: a casa di Nancy Ellis, due isolati più in là. « Chi e ra ? » chiese Eleonora uscendo sotto il porti­ co. Si e ra pettinata e si era dato il rossetto. « Mattie Seaton. » « Si è incollato a Nancy » osservò Eleonora. « Ha preso una cotta per lei . . . » Sedette su una sedia di metal lo verniciata di bianco e io, di fronte, sulla rin­ ghiera del portico. Rovistò in tasca e tirò fuori un pac­ chetto di sigarette. « Una sigaretta ? » chiese. « No, sono in allenamento. » Ci guardammo, poi lei guardò al trove e io mi guar­ dai le scarpe. Stavo seduto lì e sent ivo che mi piaceva semp re di più. « Com 'è che sei di catt ivo umore ? » le chiesi . « lo ? Oh, non so. Come hai capito che ero di cattivo umore ? » « Me lo hai detto tu. » Potevo appena distinguere il suo vi so e i l colore spento delle sue mani nel l 'oscu ri tà. ·

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« Sai , credo di non es se re sostanzi almente una pe r­ sona fel ice » spiegò Eleonora, a un tratto. « Ho sempre creduto di esserlo . . . La gen te si aspetta cne tu lo sia, specialmente se sei una ragazza. » « Non m i sorprende affatto. » Un soffio di vento rimise in movimento le fogl ie. « Sta pe r piove re » dissi . Eleonora si alzò, li sc iandos i la gonna gialla e gettò la sigaretta fuori del portico; la piccola punta di b race atterrò sul l 'erba. Si accorse che la stavo guardando. Alzò una mano e la portò ai capelli. « Forse avrai nota­ to che sono più b rutta del solito, questa sera. » Si chi­ nò sulla ringhiera del portico, accanto a me, appog­ giandosi alle mani. « Stavo cercando di fare geomet ria » disse a bas­ sa voce. « Ma non ci riuscivo. Mi sentivo stupida. Allora mi sono messa a piangere . Per questo sono orribile. » « Mi semb ra che tu stia bene » replicai . « Mi sem­ b ra che tu sia carina. » Mi chinai in avanti e appoggiai la guancia sulla sua spal la. Poi mi rial zai rapidamente, arros sendo. « Non mi piace senti rti così scontenta di te » mormorai . « Così mini la fiducia in te stes sa. » Eleonora si raddrizzò e vol se il viso verso di me, nella luce della luna. « Sei bella » esclamai impetuosa­ mente. « Non lo avevo mai notato prima. Ma lo sei . » « Aspetta » di sse Eleonora. Gli occhi le si riempi ro­ no di lacri me. « Non entusiasmarti ancora di me. Devo di rti qualcosa prima. Si tratta di Joel. » « Non hai bisogno di di rmi niente » dichiarai . « So che esci con lui . Capi sco. » « Ascoltami ! » disse con impazienza, bat tendo un piede. « Non esco più con lui . Joel ! . . . » Si p remette le man i sugli occhi . « Oh, è orribile ! » esclamò. Un pi ccolo brivido di interesse mi att raversò. « D 'accordo » di ssi. « Ma non mi importa se non me lo di ci . » 56

Vogl io dirtelo ! » esclamò. « Soltanto, sono un po' imbarazzata. Ma tra un minuto andrà tutto bene. » « Domenica sera siamo usciti . . . » riprese dopo qual­ che secondo. Erano andati a Clayton, da Medart , a mangiare un hamburger. Joel l 'aveva convinta a bere una bottigl ia di birra e la bi rra le aveva fatto veni re un tal sonno che aveva appoggiato la testa sullo schienale e aveva chiuso gli occhi . « Che tipo di macchina ha, J oel ? » chiesi . « Una Buick » di sse Eleonora, sorpresa dalla mia domanda. « Capisco. » Mi raffigurai il parafango di una Buick, e la bella faccia di Joel, e poi, audacemente, aggiunsi la mallO di Eleonora, con le unghie rosicchiate, che tene­ va la mano di Joel . Ascoltavo soltanto per metà, poiché avvertivo i preliminari turbamenti di una invidia cosÌ profonda che mi avrebbe reso infel ice per settimane. Guardai i l cielo al di sopra della mia spalla; le nuvole avevano cancel lato la luna e tutto era diventato più oscuro. Dal l ' i solato accanto, nell'improvvisa calma, udii i bambini gridare, lanciando strilli da Babilonia mentre giocavano a prendere a calci le latte . Le loro voci si stavano facendo stanche e i rritate. « E allora sentii la sua mano sul mio . . . » Eleonora, semi sommersa nell 'omb ra, mi stava indicando, sul suo petto, il punto dove Joel l 'aveva toccata. « Tutto qui ? » dissi, sorridendo imp rovvi samente. Ora non avrei più dovuto mori re d'invidia. �( Ma non è niente ! » « Gl i . . . gl i ho dato uno schiaffo ! » esclamò. Le tre­ mavano le labb ra. « Oh, non avevo in tenzione . . . Volevo pi uttosto . . . Oh ! È tutto cosÌ terrib i le ! » gridò. Scese i gradini e corse nel p rato, si appoggiò al tronco di una quercia. La segui i . La calma che precede il temporale riempiva il cielo, l 'aria in mezzo agl i alberi , gl i spazi bui tra i cespugli . « Dio ! » gridò Eleonora « come odio tu tto ! » «

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Il cuore mi batteva forte e pon sapevo perché. Non avevo mai immaginato che avrei potuto sentir­ mi così . . . che avrei potuto arrestarmi at limite di quella st rana emozione che si allargava dentro di me come una infinita prateria tutta in omb ra. Mi sem­ brava un mi racolo che gli esseri umani potessero e ssere così complessi. « Ascolta, Eleonora, » mormo­ rai « non ti p reoccupare. Mi sei semp re piaciuta. » Inghiottii e mi feci più vicino; due st risce umide le scorrevano giù pe r le guance . Alzai il braccio e con la manica della camicia le asciugai le lacrime. « Pen­ so che sei meravigliosa ! Penso che sei veramente in gamba ! » « Tu mi di sprezzi » disse. « Lo so che mi di sprezzi . Ne sono sicura. » « Come pot rei, Eleonora ! Come potrei, p roprio io ? » esclamai . « Non sono nessuno, io. Sono stato rovinato dalla mia eredità. » « Anche tu ! » esclamò tutta contenta. « È p roprio questo che non va in me ! » Un improvviso sibilo frustò l 'aria e poi le p rime gocce di pioggia percos sero la strada. « Presto ! » gri­ dò Eleonora, e corremmo sotto il portico. Due lampi il luminarono il cielo nero e l 'acqua venne giù a tor­ renti . Presi la mano di Eleonora, e re stammo l ì a guardare la pioggia. « È p roprio un temporale » dis se. « Ti senti a disagio perché abbiamo cominciato soltanto que sta sera ad esse re amici ? » chiesi. « Cioè, senti che ti è andata male e ti accontenti della secon­ da scelta ? » Ci fu un lungo silenzio e tutto intorno e ra il rumore della pioggia. « Non c redo » mormorò infine Eleonora. « E tu ? » Alzai le sopracciglia e dissi: « Oh, no, non me ne importa niente. » « Ne sono contenta » disse. Stavamo in piedi , vicini. Parlavamo febbrilmente. 58

A me la geometria non piace ! » disse Eleonora. « Non vedo a che serva. Dicono che eserciti la mente, ma io non ci credo . . . » Mi tolsi gl i occhial i. « Eleonora . . . » sussurrai. La baciai appassionatamente, e poi mi gi rai , picchiando i pugni uno sull 'al t ro. « Scusami » mormorai con voce rauca. Quel bacio era durato un bel po' e mi e ra sem­ b rato di morire. Eleonora guardava le lunghe, oblique linee di piog­ g ia che cadevano appena fuori del portico, grigie nel­ l 'oscurità; respirava molto in fretta. « Sai una cosa ? » disse. « Potrei farti delle uova strapazzate. Sono una b rava cuoca. » Appoggiai il capo contro il muro di mat­ toni e dissi che mi sarebbe piaciuto. In cucina, si mise il grembiule e si diede da fare, con gran rumore di tegamini e di posate; parlava a scatti . « Penso che una ragazza dovrebbe saper cucina­ re, non t rovi ? » Mi fece rompere le uova in una ciotola, t re uova che ruppi con stile. « Oh, ma sei b ravo ! » esclamò, e com inciò a sbatterle con una forchetta, mentre io mi sedevo sul tavolo di cucina e la guardavo. « Lo sapevi che la maggior parte delle uova non diven­ tano pulcini ? » mi chiese. Andando verso il fornello mi passò p roprio vicino e le sue guance e rano così accese e i suoi occhi così b ril lanti, che non potei fare a meno di chinarmi e di baciarla. Diventò ancora più rossa e si prec i p i tò verso il fornello. lo sedevo sul tavolo di cuci­ na, dimenando le gambe e sorridendo t ra me. Improv­ visamente si udì un rumore proprio fuori della porta posteriore. Saltai giù dal tavolo e assunsi un atteggia­ men to corretto vicino all ' acquaio. Eleonora si gelò. Ma nes suno aprÌ la porta, nessuno comparve. « Fo rse è caduto un ramo » d i ssi. El eonora annuÌ. Poi fece una smorfia e si guardò le man i . « Non so perché ci siamo agitati tanto. Non stia­ mo facendo nien te d i male. » « È il modo come gl i al tri ti guardano » d i ssi. «

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Sì, è p rop rio questo » ammise. « Sai, credo che i miei gen itori si ve rgogn ino di me. Ma un giorno gli farò vedere . Farò qualcosa di st raordinariò e resteran­ no sbalorditi. » Tornò vicino al fornello. « Quando ve rranno a casa i tuoi ? » chiesi. « Sono andat i a uno spettacolo con due film. Non è possib ile che escano p rima delle undici. » « Pot rebbero vede rne uno solo » osservai . se hanno pagato « Oh, no ! » disse Eleonora. « No, per due . . . » Mangiammo le nostre uova strapazzate e lavammo i piatti e guardammo la pioggia dal le finestre del sog­ giorno, senza accendere la luce. Ci baciammo per un po', e poi ci sentimmo entramb i inquiet i e imba razzati . Le sue labb ra erano gonfie; andò i n cucina e sentii che faceva scorrere l 'acqua; quando tornò si era pettinata e si era ridato il rossetto. « Non mi va di restare in casa » dis se, e mi condusse fuori sotto il portico. Restammo lì, abb racciati. La pioggia stava di radando. « Ciao, p ioggia » disse Eleonora con t ristezza. Era come guardare un sipario che si alzasse lentamente tutt' intorno alla casa. Sotto i lampioni, gli alberi scin­ tillavano. «

Quando mi diressi ve rso casa, non pioveva più. L'acqua gocciolava sulle foglie degl i alberi . Piccoli pennacchi di nebbia erano sospe si sull 'asfalto bagnato della strada. Camminavo con molta cautela pe r non far rumore. Non volevo incont rare nessuno, perciò me ne andai per il vicolo che conduceva a casa dal lato poste­ riore. Al l 'inizio, c 'e ra un alto lampione di ghisa, in sti­ le pseudo vittoriano, con il fanale a forma di urna, in vetro smerigl iato; la sua luce lattiginosa colava giù pe r i l vicolo, illuminando la facciata di alcune rimesse st ranamente t ranquille e, qua e là, le fogl ie bagnate dei cespugli e delle viti rampicanti che cintavano i cor60

tili e si riversavano in tale p rofusione sugli steccat i da nascondere i '-fossi della cenere, rendendo il vicolo, a p rimavera, un posto delizioso. Quando ero più giova­ ne, mi ero arrampicato su quei fossi, su quei mu retti di mattoni seminascosti dalla intricata vegetazione, a cercare t ra i rifiuti vecchi specchi rotti, logore sciarpe con la frangia, pezzi di carta da pacchi a di segni, e te sori del genere. Ma adesso me ne andavo per il vico­ lo, camminando come in trance sull 'asfalto bagnato. Sognavo ad occhi aperti: ero sdraiato con la testa sulla spalla nuda di Eleonora e udivo i l lento, regolare suo­ no del suo respiro, ment re cominciavo ad addormen­ tarmi. Ero arrivato nella parte più oscura del vicolo, proprio al cent ro che nes suna luce raggiungeva, e nel mio sogno mi girai e baciai le mani di Eleonora, la sua gola . . . poi scattai di corsa giù per il vicolo, saltando le pozzanghere e slittando sul bagnato. Arrivai all 'altra estremità del vicolo e mi fermai sotto il lampione. Respi ravo con difficoltà. Di fronte a me, dall 'altra parte della strada, c'era­ no due donne, una sul marciapiede, l 'altra sui gradini della casa, che si teneva le braccia st rette cont ro il pet­ to. « Non è un dolore forte, » diceva la donna sul mar­ ciapiede « ma è pers istente. » « Mia cara, mia cara » disse l 'altra. « Non correre rischi . . . non alla nostra età . . . » E una coppia, un ragazzo e una ragazza, ri sal iva la strada, tornando dal teat ro Tivoli. La ragazza s ' ingob­ biva per non semb rare più al ta del ragazzo, che e ra molto più piccolo e si alzava sulla punta dei piedi a . ogn I pa s so. Strappai un grappolo di lillà e lo odorai , ma poi non seppi più che farmene; non volevo gettarlo via, e al la fi ne me lo ficcai ne lla tasca dei pantaloni. Con un balzo sal tai la siepe dent ro casa nost ra e atte rrai nel cort i le, spaventando un gatto che sb ucò fuori dai cespugli e corse a zig zag att rave rso il prato 61

buio. La paura fu tale che mi sentii le gambe mol li. Mi aggiustai bene la camicia e mi l i sciai i càpel l i . D ' im­ p rovviso mi guardai la punta delle dita; eràno sfocate nel buio e umide di lillà: me le portai impetuosamente alle labb ra e le baciai . La cucina era buia. Non c 'era alcun rumore in casa, as solutamente nulla, e un t remito mi percorse. Accesi la luce della cucina e frettolosamente mi esaminai in cerca di qualche segno di quel lo che mi era accaduto. Guardai la camicia, i pantaloni. Mi strofinai la faccia con tutte e due le mani. Poi spen si la luce e scivolai nel soggiorno, che e ra buio esso pure e cosÌ l ' ingresso. La luce del portico e ra accesa. Corsi su per la scala princi­ pale e mi fermai quasi in cima; c 'era la luce accesa in camera di mia madre. E ra a letto, seduta con i cuscini dietro l e spalle e una rivi sta appoggiata in grembo e sulla rivi sta un blocco di carta da lettere . « Ciao ! » dissi. M i aspettavo che mi rimproverasse perché ero tor­ nato tardi, ma lei mi guardò per un momento con aria solenne e poi disse: « Sonny ha chiesto a tua sorella di sposarlo. » Poiché non avevo potuto lavarmi l a faccia, alzai una mano e la tenni t ra guancia e mento per nasconde­ re una eventuale t raccia di ros setto. « Si sposeranno in giugno » p roseguÌ mia madre. « Sono andati a casa di lui per l 'anello. P raticamente la p rima cosa che ha fatto quando è arrivato qui è stata di chiedere a tua sorella di sposarlo. Erano tutti e due cosÌ . . . E rano tutti e due cosÌ fe lici ! Fanno una bellissi­ ma coppia . . . Oh ! se l i avessi visti ! » E ra emozionatis sima. Mi diressi verso la porta per andarmene. « Dove vai ? » chiese mia madre. « A l e t t o » r i s pos i s o rp re s o . « Sono i n a l l en a­ mento . . . » 62

Dovresti star su ad aspettare tua sorella. » « Le lascerò un biglietto. » In call1era ll1ia, tirai fuori dalla tasca i l bianco grappolo di lillà e lo ll1isi sullo scrittoio. Scrissi: « Ho sentito la novità e penso che è ll1agnifica. Congratula­ zioni. Svegliall1i quando arrivi. » Infilai i l biglietto nel­ lo specchio dell a sua toletta. Poi tornai nella ll1ia stan­ za e cOll1inciai a svestirll1i. Di soli to dorll1ivo nudo, ma decisi che avrei fatto ll1eglio a metterll1i un pigiama nel caso che mia sorella fosse entrata e ll1i avesse sve­ gliato. Non so quanto tempo dopo, sentii un rumore e balzai a sedere sul letto. Avevo dormito. Mia sorel la stava sulla porta della camera. Aveva un vestito blu con una fila di bottoncini bianchi lungo tutto i l davan­ ti e guanti bianchi . « Sei sveglio ? » sussurrò. « Sì. Dov 'è mamma ? » « Giù » disse ll1ia sorella, entrando nella stanza. « Sta scrivendo i telegramll1i . Vuoi vedere l 'anello ? » E si sfilò il guanto. Accesi il lume accanto al letto e lei tese la mano. L'anello era d'oro con uno smeraldo e quatt ro diaman­ ti intorno. « Era di sua nonna » spiegò mia sorella. Annuii . « Non è quello che i o . . . » disse e sedette sulla sponda del letto e dimenticò di completare la frase. « Dimmi, » continuò « pensi che sia \'eramente ricco ? » Poi mi rivol se uno sguardo t riste, di t ra le ciglia. « Vuoi sape­ re una cosa terribile ? L'anello non ll1i piace: . . » « Sei infelice ? » chiesi. « N o, solo sottosopra. Fa paura, i l mat rimonio. Non ne hai idea. Ho avuto i b rividi tutta la sera. Pot rebbe veni rmi una polmonite. Hai una sigaretta ? » Ri sposi che sarei andato a p renderne una giù. « No, ce n 'è qualcuna in camera mia » di sse. « Andrò a prende rl e. Sai , Sonny e io abbiamo parlato di te. Ti manderemo al l'unive rsità e tutto il resto. Abbiamo progettato t u t to, questa sera. » Giocò con i «

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guanti pe r un po' e poi disse, guardandosi la punta del­ le scarpe: « Ho paura. E se Sonny non riu scisse negli affari ? » Si girò ve rso di me . « Capisci che" cosa voglio dire ? È così giovane . . . » « Non sei obbligata a sposarlo » dissi . « Dopo tutto, . seI . . . » « Non puoi capi re » m ' interruppe mia sorel la preci­ pitosamente, prevenendo un consiglio che non voleva. « Sei ancora t roppo giovane. » Ri se. « Sai che mi ha detto ? » Proprio in quel momento, mia madre chiamò dal fondo della scala: « Senti, come ti suona ? "Cara G re­ ta . . . " È un telegramma-lettera e c 'è una quantità di parole a disposizione e ho pensato che a G reta sarebbe piaciuto se avessi cominciato cos ì . È tanto suscettibi­ le, sai. Mi senti ? » « Devo andare » sussurrò mia sorella. Mi guardò e poi di colpo si chinò a baciarmi sulla fronte. « Dormi » sussurrò. « Sogni d'oro ! » Si alzò e uscì nel corridoio. « . . Dodie si è fidanzata questa sera » lesse mia mad re. « Si è fidanzata . . . va bene così ? » Indos sai vestaglia e pantofole e uscii nel corridoio. Mia sorella stava appoggiata alla ringhiera e parlava del telegramma-lettera con mia madre che e ra i n fon­ do alla scala. Scivolai alle sue spalle, giù per la scala posteriore, sino in cucina. Trovai del pollo freddo in frigorifero, misi il piatto sul tavolo, strappai una . . COSCIa e comIncIaI a mangIare. La porta della scala si aprì e comparve mia sorella. « Anch'io ho fame » disse. « Non so perché. » Si diresse verso il tavolo e si chinò sul pollo. « Ho idea che le emozioni mettano appetito. » Mia madre aprì la porta a battenti che dava nella sala da pranzo . « Siete qui ! » di sse. Era rossa e accalda­ ta. « Devo pensarci sopra ancora un po' e poi scriverò tutto da capo » disse a mia sorella. E a me: « Mangi a quest'ora di notte ? » .

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Mia sorella disse che anche lei aveva fame. « C'è un po' di minestra » di sse mia madre. « Vuoi che te la ri scaldi ? » E imp rovvisamente i suoi occhi si riempi rono di lac rime, e tutto a un t ratto cominciam­ mo a baciarci, ad abbracciarci e a sorridere e a fa re felici pronostici l 'uno per l 'altro, lì nella bianca cucina piena di luce . Ci conoscevamo l 'un l 'altro da tanto tempo e c 'erano tante cose che tutti e t re ricordava­ mo . . . I nost ri sorri si, i nostri sguardi di approvazione vagavano da viso a viso. C 'era un senso di estrema cor­ tesia nel l 'aria. Ci stavamo comportando come ci saremmo comportati, un giorno, alla stazione, al matrimonio di mia sorella, alla nasci ta del suo primo figlio, alla mia laurea. Era la prima delle nos tre riu­ nioni di famiglia.

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La lite

Arrivai a Harvard da St. Louis nell 'autunno del 1948 . Avevo una borsa di studio, una madre vedova e la reputazione di essere un b ravo ragazzo, capace di lavorare sodo. Quel lo che la mia borsa di s tudio non riusciva a coprire, me lo guadagnavo lavorando la sera del mercoledì e il sabato ed evitavo strenuamente di ricorrere al la modesta ma non insufficiente rendita di mia madre. Durante l 'estate tra il primo e il secon­ do anno di univers ità, morì mia nonna che mi lasciò in eredità cinquemila dollari . Lasciai il lavoro, mi com­ prai un vestito di fl anella grigio e un paio di scarpe di camoscio chiaro ed ent rai nella redazione della rivista lette raria del l 'Università. Incont rai Duncan Leggert alla prima riunione editoriale alla quale presi parte. E ra stato di rettore per un anno intero, e in quella par­ ticolare sera era infuriato per un racconto che tutti volevano pubblicare e che trattava di un bambino sen­ sibile e infel ice. « Perché quel bambino non dov rebbe essere infel ice ? » gridava Duncan . « È un tale scocc ia­ tore ! » Il racconto fu accettato e Duncan abbandonò la . . rIun Ione . Due se re dopo, al l ' i mbrun i re, men t re camminavo lungo l a Massachusetts Avenue, vidi Duncan che guar­ da va n e l l a ve t rin a d i un negozio d i d i sch i , un 'esposi­ zione d i a l b u m d i ope re l i riche. Fi sch iettava: « Piangi, 69

piangi » della Travia ta e appa riva " come al sol ito, palli­ do, bello e inavvicinabile . Stetti lì, accant·o a lui, sin­ cl té non alzò lo sguardo e al lora gli dissi che pensavo avesse ragione pe r quel racconto. « Ce rto che avevo ragione » disse abbas sando quei suoi pazienti occhi in attesa. « Quelli confondono l 'es­ sere sordido con l 'avere talento. » Ent rammo in un bar-tave rna e sedemmo in uno scomparto di legno illuminato da uno di quegli scintil­ lanti j uke box nei quali si int roduce una moneta e si schiaccia un bottone e il Wurl itzer, a un chi lometro di distanza, si mette a suonare. Da p rincipio ero qua si soffocato dalla timidezza, ma chiesi a Duncan che cosa avesse intenzione di fare quando fosse laureato (sosti­ tuendo proprio all 'ultimo « laureato » a « g rande ») e lui di sse: « Niente. » Restai senza parole . Duncan si tolse la sigaretta di bocca, rimase per un momento a guar­ da re la b race rilucente e poi disse calmo, con una buo­ na dose di t ristezza nella voce : « Sono ricco. » Poi alzò il capo, mi guardò negli occhi, accennando un sorriso e aggiunse: « Schifosamente ricco. » E ro completamen­ te affascinato. Gli chiesi quanto. Dis se, allegramente: « Un paio di milioni, se il mercato tiene. » L' idea di par­ lare con uno cosi ricco mi dava un tale piacere che scoppiai in una ri sata idiota. Mi chiese perché ridessi, ma io non glielo dissi . Da p rima parlammo con misura, come uomini fat­ t i , o piuttosto come ragazzi che li imit ino; ma poi, cost retti dall ' impulso di una p rofonda e inesplicabile simpatia, continuammo a chiacchierare sino all 'una di notte. Duncan disse che la rivi sta letteraria del l 'Uni­ vers ità non era altro che un giornale di auto-compas­ sione e che le parti non di lettantistiche e rano roba da far venire i vermi. C redeva fermamente, disse, che la maggior parte dell 'infelicità fosse solo una posa. « È un modo di renders i interes santi . » Persino nel suo tono più arrogante, Duncan aveva 70

sempre una nota di disperazione nel la voce . « La gente ha quello che si meri ta » dichiarò. « Perché dovrei cre­ dere nelle tragedie ? Non ne ho mai vi sta una. I raccon­ ti dovrebbero avere un lieto fine; la gente dovrebbe essere più interessante; tutti dovrebbero avere mag­ gior buon gusto. » « La cosa importante » osservò mentre si piegava in avanti dal suo angolo e di segnava facce nello zuc­ chero che aveva versato sul tavolo « è ave re talento. Nessuno si preoccupa che tua madre ti abbia amato o no, se sei scemo. E la maggior parte del la gente è sce­ ma » aggiunse t ris temente. « Questa è una democrazia » di sse più tardi . « Quin­ di dovrei considerare tutti miei eguali. Invece, no ! La gente stupida mi fa star male. lo penso che Whitman sia un poeta schifoso e Willa Cather una deficiente e il vecchio Huckleberry Twain mi dà la pelle d'oca. E c 'è di più; se c 'è qualcosa che non posso sopportare è una razione eccessiva di bontà immacolata. » Repressi un . sorrISO. Mi sembrava che stesse dicendo tutto quello che avevo sempre pensato e mai espresso. Sin da quella prima sera, fummo amici . Suppongo che ogni amicizia debba avere un nocciolo di recipro­ ca necessità. lo ero stanco di quello che ero stato. Ero pieno di provinciale ottimi smo circa la mia capacità di cambiare. Proprio da quella prima sera, mi proposi fermamente di vivere la mia vita secondo le teorie che Duncan andava esponendo. Ma non erano le sue idee che ammi ravo e volevo. Quello che volevo era la sua raffi nata distinzione, la sua schiettezza e la sua con­ vinzione che quello che pensava fosse ve ramente importante . E volevo rassom igliarli. Era molto alto. Aveva lIna lunga faccia pal lida, liscia e arrogante. Camminava di noccol ato e spesso se ne stava seduto per ore in mezzo alla gente, senza di re una parol a, qualche vol ta senza che la mi nima espressione att ra71

versasse il suo bel viso. Ma ,poi poteva mettersi improvvi samen te a parlare, specie se si ·stava di scu­ tendo, e al lora parlava sovraecci tato, gesficolava , e a volte diceva cose senza sen so e poi , più tardi , non si dava pace perché pen sava di aver fatto la fi gura del cretino. Lo trovavo affascinante, in quei momen ti. Quel lo che mi sgomentava era quel suo restare senza parola per un colore, per il gesto di saluto di una bel la donna, per un 'automobile o pe r il modo in cui ondeg­ giavano i capel li di una ragazza. Restava lì, tutto teso ed eccitato, come preso da un improvviso rapimento. Quando aveva quel le calme estasi , io mi sentivo imba­ razzato per me stes so, perché ero incapace di divide re l 'emozione di un amico. Ma dopo un po' di tempo che conoscevo Duncan , la bellezza che sembrava elett riz­ zarlo toccava anche me. Duncan mi faceva vedere for­ me meravigl iose nelle nuvole. Tutto quel lo che diceva mi chiariva a me stesso, oppure mi metteva un 'arma in mano e la sua amarezza mi colpiva come una lama di luce e, inzuppato com 'e­ ro nel nebbioso ottimi smo di casa mia, mi portava una mordente chi arezza. Mi stavo liberando più in fretta pos sibile delle mie convinzioni t radizionali, ma e ra un lavoro difficile; dovevo anzitutto localizzarne le radici e poi strapparle. E l 'atteggiamento disincantato di Duncan, ogni vol ta, era infinitamente utile. Facevo del mio meglio per parlare come lui, con frequenti pause affascinanti e piccoli svolazzi di disprezzo. Però se Duncan sentiva che quel lo era il momento della gentilezza, tutta la sua anima e il suo conto in banca, la sua macchina, il suo guardaroba, il suo tem­ po erano tuoi . Mi preoccupavo del la gente che ce rcava di approfittare di lui; ma sebbene avesse una pessima memoria per i numeri di telefono e per i nomi del la gente, non dimenticava mai quanto avesse speso e dove e con chi . Le ragazze si innamoravano spesso di lui. Sembra72

vano t rovare irre si stibile quel suo mi sto di melanco­ nia e di arro g anza. Da prima, Duncan si comportava con cavalleria addi rittura opprimente, accendeva loro la sigaretta, gliela spegneva e le portava fuori quando gl ielo chiedevano. Ma, presto o tardi, cominciava a sentirsi incast rato, ces sava di accendere sigarette e smetteva di ri spondere al telefono. Il numero di persone che vedevamo quel l 'anno dimi nuì cost antemente, sia che decidessimo che erano condannate a essere gente ordinaria, sia che non andas sero d 'accordo con noi ; e furono cancellate dalla li sta delle nostre conoscenze. Ent rambi credevamo che se foss imo stati accorti e avessimo fatto le cose pe r bene, avremmo potuto evitare di diventare come i nost ri vecchi. « Ti danno consigli, » sottol ineava Dun­ can « non si fermano mai a considerare ciò che tu pen­ si di quello che sono diventati . » Pensavamo che se aves simo viaggiato per un tempo sufficiente, spingen­ doci abbastanza lontano, saremmo arrivati in un luo­ go dove ognuno apprezzava le cose che tu apprezzavi, e parlava la tua lingua, dove ognuno conosceva il tuo valore senza che tu dovessi perdere la dignità e la cal­ ma per dimost rarlo. In questo luogo che noi cercava­ mo, non ci sarebbe mai stato bi sogno di vantarsi, né di far conve rsazione per pietà di una brutta ragazza, né di sentirsi mortificati per i propri genitori . Una sera di gennaio, ment re Duncan e io camminavamo lungo il fi ume Charles - faceva freddo e c 'era nebbiq - giuram­ mo di non nasconderci mai la verità l 'un l 'altro, di ri conosce re semp re i nostri errori , di ammi rare reci­ p rocamente le nostre vi rtù, di diventare uomini di valore e di an dare in Eu ropa insieme, quell 'estate, per un anno, lasciando l ' Unive rs ità, qualsiasi cosa i nostri geni tori dicessero o facessero al riguardo. Ci saremmo po rt at i l e b i ciclett e, saremmo stati frugali, avremmo fatt o un a vit a sem pl ice e sana, avremmo approfon dito l a nost ra cul tura e raffinato la nost ra ed ucazione. 73

Mia madre si oppose violentemente quando le dis­ si che avevo intenzione di andare in Europ a con Dun­ can. Disse che stavo sciupando l 'eredità è che sarei finito male pe r pura ostinazione, e tutto per il cattivo esempio di Duncan. Duncan disse che, ce rto, mia madre aveva ragione. Mi sbronzai e dissi a Duncan che mia mad re poteva andare al l' infe rno e lui mi guardò, con occhi sbarrati per l 'ammi razione. Come poteva mia madre compete­ re con Duncan ? Tutto c iò che vQlevo, quell'anno, e ra di assomigliargli . In giugno salpammo da Halifax per Southampton, sull 'Aquitania. Appena le ve rdi col line intorno ad Hali­ fax si allontanarono e la nave fu in mare aperto, Dun­ can mi disse: « Penso che dovresti sc rivere un a bel la lette ra a tua madre. Sei stato piuttosto scortese con lei, al telefono. Questo è uno dei t uoi difetti » aggiunse e fece una smorfia per mostrare che non gli piaceva parlare così ma che doveva farlo per mantenere fede alla nost ra p romes sa. « Hai così poco tatto. D 'alt ra parte, sei mol to più dinamico di me. Vorrei assomi­ gliart i di più. » « Ma non mi as somigl i » ribattei, schietto a ogni costo. « Non devi preoccupartene, » aggiunsi subito « perché mi piaci moltissimo così come sei . . . » E ravamo liberi dall'Università e da ogni control lo; ci modellavamo l 'uno sull'altro, ci p roteggevamo l 'un l 'alt ro dal pericolo di es sere mediocri. Duncan mi posò la mano sulla spal la per un momento e sorrise, poi camminammo insieme sul ponte pe r fare un po' d'esercizio p rima di p ranzo. L'uomo di valore doveva essere anche fisicamente prestante. , Rimanemmo in Inghilte rra il tempo giusto per vedere la Torre di Londra, la National Gal le ry, i gran­ di magazzini Scott e pe r decidere che il cibo era immangiabile, e quindi p rendemmo il t raghetto a 74

Newhaven . Appoggiati al parapetto, vedemmo le rive di Francia sorge re dalle onde, verdi e piene di p ro­ ll1esse. Quando sbarcammo a Dieppe, la ll1ia gioia, lascia­ temelo dire, la ll1ia gioia si alzò come uno stormo di uccelli sorpresi. Tutto ciò che vedevo o udivo, l 'intera città color pastello, le case se rene e p lacide come le verdi acque del porto, ogni cosa eccitava un nuovo bat­ tito delle b ianche ali. A uno dei moli, un gruppo di bat­ telli da pesca s i affollava in una confusione di alberi, gli scafi verdi e neri e rossi, ricurvi come fette di melo­ ne. Lungo tutto il porto c'era una fila di case, con qua e là un vuoto o un mucchio di macerie o un pezzo di muro. Ma questi erano i colori delle case: verde palli­ do e rosso malva, giallo chiaro come un tenue raggio di sole, rosa sbiadito e un grigio l ievemente azzurro­ gnolo. E poi, appollaiate sul fianco di una collina, le immemori rovine di un castello. Lo sguard o di Duncan percorse amorosamente tutto il quadro. « Ogni città dovrebbe avere un castel­ lo » disse. La camera dell 'albergo e ra vecchia, col pavimento inclinato e un solo enorme letto di ottone. Non c'e rano tappeti sul pavi mento di legno e neanche tendine alle alte finest re alla francese, che non chiudevano bene a causa delle intelaiature deformate. Fuori dalla fine­ stra, t re strade conve rgenti forlnavano un'isola t rian­ golare con platani e aiuole a di segni di fi�ri gialli. Alcuni operai in abiti grigi e pesanti stivali sedevano su panchine dj piet ra e bevevano vino. Le facciate del­ le case lungo la st rada erano decorate con pesant i archit ravi e qua e là con smi lze cariatidi, a un tempo frivole e ordi nate. In lontananza si alzava un'elegante gugl ia e un suono di campane gal leggiava nel l'aria sino a noi . Ci lavammo la faccia e i denti, ci cambiam­ mo, cantando pe r tutto il tempo, e poi , dal momento che e ravamo in F ranc ia, partimmo in cerca di donne . 75

Da p rima camminammo lungo la spiaggia e vedem­ mo la sol ita coll ezione di alberghi: Grana Hotel, Uni­ vers Hotel, Windsor Hotel . . . E rano tutti danneggiati dai bombardamenti e alcuni operai si affrettavano dentro e fuori gl i interni diroccati, portando mattoni. Alt ri ope­ rai stavano si stemando tozze colonne di cemento nel l a balaustra che correva lungo la st rada, dividendola dal­ la riva rocc iosa; come gli operai finivano una parte, arrivava un'al t ra squadra con grosse perforat rici pneu­ matiche e faceva buchi nelle colonne, smussava gl i angoli e scheggiava le scanalature. Duncan e io guarda­ vamo affascinati e infine ci rendemmo conto che stava­ no « invecchiando » la balaustra. Fra pochi anni, la gen­ te avrebbe dimenticato che la balaustra e ra stata ripa­ rata dopo la guerra; l 'avrebbero guardata come antica e indistruttibile, un legame con il passato. Duncan e io ci di rigemmo verso la parte più alta del­ la riva, per lo più rocciosa, e poi giù, alla sottile striscia di sabbia che costeggiava l 'oceano. La spiaggia era qua­ si deserta, ma c 'erano piccol i gruppi di persone sedute o sdraiate su dei teli. Semb ravano blocchi di figure stra­ namente corpose . L'unico rumore era quello del le mac­ chine pneumatiche affaccendate a rifare il passato. Il canale era grigio e senza navi , simile a una striscia di cielo in un arazzo sbiadito. Duncan disse che appena avessimo imbarcato i bagagli per Parigi, avremmo dovuto partire in bicicletta e andare a vedere Mont Saint-Michel e « È come una piccola isola » spiegò. « Vi hanno lavorato per una quantità di tempo. Ormai deve essere assolutamente perfetto. » Lungo la strada per tornare all 'albergo, incontram­ mo parecchie donne. Solo una ragazza e ra graziosa: correva, con il legge ro vestito a disegni che le sbatteva cont ro la persona robusta e le b racc ia che si muovevano avanti e indietro, e soltanto un colpo di pi stola avrebbe potuto fermarla.

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In un momento di autoaffermazione, di ssi che Mont Saint-Michel non mi interes sava in modo parti­ colare e che era fuori mano, per di più; non vol evo che Duncan pensasse che lo seguivo supinamente. Con mia sorp resa, egli si arrese e la mattina seguente, sulle nostre biciclette, partimmo per Parigi . Avevamo due sacche da viaggio e un sacco a pelo, ciascuno. Pas sam­ mo per Arques-la-Batai lle e Neuf-chàtel, per Forges­ les-Eaux e Gournay-en-Bray. La campagna era verde e vedemmo, pas sando, le guglie di granito color lavanda secca di vecchie chiese battute dalle intemperie. Dun­ can raccontava storiel le di sé quando era bambino, imbarazzanti e orribi lmente divertenti . Una, la rac­ contò ment re stavamo nuotando in un piccolo stagno vicino alla strada. Ri si così forte che un contadino con la faccia solcata da rughe profonde e grandi mani ter­ rose venne a vedere chi fossimo. A Pontoi se, ci sedemmo su una terrazza che si affacciava sul fiume e guardammo i fuochi d'artificio del giorno della Bastiglia, nel cielo notturno, sopra Parigi . Il giorno in cui ent rammo a Parigi, passammo ore avanzando in bicicletta attraverso sobborghi che non finivano mai , e poi a mezzogiorno, finalmente, ci t rovammo d' improvviso in PIace de la Concorde, con i giochi d'acqua delle sue fontane e i giardini delle Tui­ leries in fiore. E un mattino ci svegliammo in un cam­ po di grano, circondati dai chiari steli delle spighe e vedemmo all 'orizzonte, avvolte d'omb ra e indi st inte, le guglie di Chartres. E a Beaugency pass a mmo una intera gi ornata a far niente, su una striscia di sabb ia del la Loira, con una famigl ia di sette ragazze, tutte bionde, tutte graziose, tutte innamorate di Duncan . (( Ci scriverete, ve ro ?») N on so, esattamen te, quan do en t rambi decidem­ mo che l ' al t ro non e ra degno di quel paradi so. Ciò che ben ricordo è che divenne semp re più diffici l e dec i de77

re in quale albergo ci saremmo fermati, in quale risto­ ran te avremmo mangiato, quale st rada av remmo preso. Sempre più spesso accadeva che uno di noi tirasse i l fiato profondamente e si girasse dall'altra parte, guardasse il panorama e dicesse: « Bene, tutto come vuoi tu . . . » Sullo sfondo di parole di forzata cortesia, ricordo il t ramonto a Blois inondare il cielo di un ros­ so violento, e i viali interminabili di Chambord; allo stesso modo ricordo che due , rondini sfioravano in volo le acque della Loi ra, stridendo e battendo le obli­ que ali appuntite . Ricordo la voce di Duncan a Che­ nonceaux (il cielo era pieno di nubi come bianche cupole) che diceva: « Non è che mi importi veramen­ te . . . suppongo che dovremmo . . . » e la voce gli tremava di risentimento. Avevamo deciso di vedere l 'ovest della Francia (l 'idea era soprattutto mia) perché lì av remmo incon­ t rato meno americani. Ma in verità avevo un 'altra ragione. Per quel che ne sapevo, l 'ovest era privo di posti diffic ili come Chartres. A Cha rtres, avevo avuto tutte le reazioni sbagliate. Chi avrebbe mai immagina­ to che la cosa migl iore da farsi con la cattedrale, fosse di andare in una pasticce ria, comprare una scatola piena di cioccolatini al liquore e biscotti all ' amarena, e poi sedersi sull 'aiuola d'e rba di fronte all 'ingresso e guardare i campanili, sprofondati in un coma alla cioccolata ? Duncan sembrò disgustato quando di ssi che la cattedrale era bella: perché uno dovrebbe senti­ re queste cose così profondamente da non poterle esprimere, anzi, da non vole rle esprimere . A Duncan piaceva i l Pernod. A me faceva male. Duncan dete stava parlare con la gente. lo parlavo con tutti. Il mio vocabolario francese e ra migliore del suo. La sua pronunc ia e ra migliore della mia. Mi fec i straordinariamente attento a non i rritare Duncan pri­ ma di colazione. Non mi sembrava però che lo apprez,

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zasse particolarmente o che ri spondesse con pari accortezza. Per la cinquantesima volta, lo giudicai sleale. Arrivò il momento in cui non potei più soppor­ tare i l suono della sua voce, e le sue idee. Dopo aver viaggiato con Duncan giorno e notte, senza sosta, per cinquantatré giorni, i miei sensi e rano come soffocati dalla consapevolezza della sua continua presenza. Attraversammo il piatto paesaggio della Vandea, con le sue distese paludose di erba color giallo chiaro e frumento e prati verdi, le sue bianche fattorie, e i suoi minuscoli ponti apribili su fiumi e canali: due stu­ denti di università, abbronzati e pieni di salute, in pan­ taloni corti e maglietta, così furiosi l 'uno contro l 'altro che andavano sulle biciclette a quattro o cinque metri di distanza. Quando una rara automobile ci superava, mi chiedevo se Duncan l 'avrebbe vista in tempo, ma la vedeva sempre. C'era nell 'aria un 'umidità appiccicosa. I villaggi e rano i solati uno dall 'altro, e quando ne raggiungeva­ mo uno, le case e rano chiuse e ostili. I frances i e rano barricati nelle loro fresche camere dagli alti soffitti, intenti a tagliars i pezzi di pere mature con coltellini dal manico di madreperla, mentre noi passavamo in bicicletta per le strade calde e polverose, solo per emergere, al di là della ctiiesa grigia e del caffé di stuc­ co bianco, ancora nella piatta e sconfinata campagna. Il caldo era insopportabile. A Luçon, abbandonam­ mo la strada principale e ci dirigemmo nU9vamente verso il m are, a un vil laggio che la carta indicava come La Trance e che si rivelò poi consistere in t re o quattro case situate lungo la strada. Appena oltrepassato La Trance, la nost ra st rada si inerpicò sin sulla sommità di un 'altu ra e vedemmo che la piatta, e rbosa campa­ gna si ingobbiva nell'altura sulla quale stavamo, per poi fl ui re nella baia di Bi scagl ia, senza spiaggia né paret i di roccia. L'erba dei prat i, ve rde e lucente, ondeggiava nel la b rezza salata del mare e si mescolava 79

con l 'acqua. Si poteva vedere l:erba che continuava sotto la superficie del mare, a perdita d 'occhio, proba­ bilmente sino al limite della bassa marea. Alcune muc­ che sguazzavano nell 'erba, al pascolo; intorno agli zoc­ coli bolle d 'aria aderivano come col lane. Ragazzi e ragazze francesi, abbandonate le biciclette nell 'erba, nuotavano sui prati sommers i. A pochi met ri dalla riva, battelli da pesca con gli scafi dipinti in b lu e gial­ lo, dondolavano su e giù all'ancora. Mi fermai e chiamai Duncan, che continuò per qualche metro e poi si fermò. Andai verso di lui, con­ ducendo a mano la bicicletta. « È veramente bello, no . . . » comInCIaI. Duncan si girò verso di me e con voce scoppiettan­ te di rabbia, disse: « Devi sempre dire qualcosa ? Ti senti p roprio obbligato, come in chiesa a mettere la monetina nella cassetta delle elemosine ? » Pedalammo in silenzio per tutto il resto della gior­ nata. Al t ramonto, ci fermammo a La Rochelle, dove le antiche fortificazioni ugonotte ancora ci rcondano il piccolo porto, e t rovammo una stanza in uno strano vecchio albergo vicino alla stazione. La camera da let­ to aveva due grandi letti di ottone con materassi rigon­ fi che frusciavano ogni volta che ci muovevamo. Il retro della casa comprendeva anche una stal la. L'odo­ re dei cavalli permeava la nostra stanza, che aveva un grandi ssimo graticcio di rose rampicanti fuori della finestra. Le rose erano in fiore . Tutta la notte galleg­ giammo sul flusso e riflusso dei due odori stranamen­ te complementari; e press'a poco ogni ora, sentivamo un t reno arrivare o partire. .

Il giorno seguente, sempre in bicicletta, ci diri­ gemmo verso Bordeaux. A metà pomeriggio, stavamo correndo senza mai rallentare né chiedere di riposare . Raggiungemmo Bordeaux alle sette di sera ed entram­ mo immediatamente in un caffè, ordinammo una bot80

tiglia di vino e cominciammo a lit igare. Parecchie vol­ te, il camerieroe , un mas siccio basco dal le sopraccigl ia nere, venne correndo in punta di piedi , un roseo ton­ do dito alle labb ra, e noi accennammo di sì e dicem­ mo: « Pa rdon, pa rdon » e abbassammo la voce. Sembrava che Duncan non potesse sopportare i l modo mio di fischiare mentre mi facevo la barba, il modo di parlare ai camerieri , il fatto che sorridessi persino quando mi sent ivo male. « È l 'aria del paesel­ lo che ha questa influenza sul carattere ? » chiese. Con tutta la forza dei miei polmoni, di ssi a Dun­ can che era pueri le, che era un figlio di cagna con vel­ leità artistiche e uno snob . « E tu sei un maleducato » ribatté lui . « Stai sb rai­ tando in un caffè. » Di sse che mi aveva sempre considerato un cafone intelligente ma che non aveva mai avuto idea di quan­ to fossi davvero maleducato. « Benissimo » rep licai, alzandomi in piedi. « È cos ì allora ! Così ! Vieni fuori. » Con aria solenne uscimmo dal caffè. Il cameriere ci corse dietro e ci sventolò il conto sulla faccia. Dovemmo controllare il conto e pagarlo. Come al soli­ to ci avevano maggiorato i prezzi . Non mi e ro mai reso conto s ino a quel momento di quanto Duncan mi fosse caro e quante cose mi avesse insegnato. Mi resi anche conto che Duncan pesava sette o otto chili più di me. . Camminammo un po' conducendo a mano le bici­ clette. « Tutti i miei amici hanno finito col rivelarsi dei cialtron i » osservò Duncan amaramente, a un cer­ to punto. Poi, dopo un po' , aggiunse a mezza voce: « Una vol ta volevo essere come te . . . ) e io pensai che mentisse solo per farmi sentire peggio. Arrivammo a una st rada deserta fiancheggiata da magazzini . Duncan appoggiò la bicicletta contro un muro, io buttai a terra la mia. Faccia a faccia avan81

zammo l 'uno verso l 'altro. « Sono ,così furioso che cer­ cherò di spaccarti il muso » disse Duncan: Ci scambiammo qualche colpo e poi i nòst ri sguar­ di si incont rarono. Vergognosi, ci tirammo indiet ro e abb assammo i pugni. Duncan sedette sul l 'orlo del marciapiede, t i rò fuori le sigarette e me ne offerse una. « Mi hai ferito nei sentimenti » dissi . « Era quello che volevo. » « Al lora volevi dire quello che hai detto ? » « Certo » affermò. « E tu, no ? » « Certo. » Convenimmo che avremmo dovuto separarci. « Dove pot rò incontrarti, a Biarritz ? » chiese Duncan; avevamo spedi to lì, per nave, i nostri ab iti, in un baule. « Alla stazione » ripos i. « Quando ? » Ti rai fuori la carta geografica e cercai di calcolare quanto tempo ci sarebbe voluto. « Al diavolo » dissi, alla fine. « È t roppo difficile fare il conto. Ci andremo insi eme, in bicicletta. » « Oh ! » Duncan era deluso. « Bene, come vuoi tu . . . » Ci alzammo dal marciapiede e p rendemmo le b ici­ clette. « La tua sacca si è allentata » avvertì Duncan, cor­ tesemente. « Grazie. » Eravamo t roppo depressi pe r riusci re a trovare la strada con l 'aiuto delle nost re Michelin, e Bordeaux, come Parigi, è afflitta da sobborghi senza fine . All 'una del mattino vagavamo ancora fuori strada, sfiniti dal­ la violenza del nostro confl itto emotivo. Finalmente, dopo aver abbandonato la speranza di poter t rovare un campo dove dormi re, ci sistemammo nel cimitero di una chiesa, vicino a una siepe fiorita e sotto un pic82

colo Ill e lo. StendeIll m o i nost ri sacchi a pelo e ci sdraiaIll Illo . Di- lì a poco, ci cominciò a prudere. Proba­ bilmente, ci eravamo sdraiati su un formicaio. A ogni modo, in men che non si dica, i nostri sacchi a pelo b rulicavano di in setti. Parlammo di alzarci e di rimet­ terci in cammino, ma il pensiero di risal i re in biciclet­ ta e ra davvero t roppo per entramb i . Restammo lì, inerti, grattandoci ogni tanto, immersi nell 'odore dei fiori, nel silenzio del cimitero, nel b rusio degli insetti. Sopra di noi , immensa e indi stinta, la chiesa. Di tanto in tanto, UIl autocarro passava sulla strada con un rumore sordo, ma e rano quasi tutti diesel, e i diesel fanno un rumore piacevole. Alla fine, Duncan cominciò a parlare. Di sse che ora, dal momento che stavamo per separarci, poteva confessarmi che non c 'e ra niente di vero in quello che aveva detto alla riunione della rivi sta letteraria. Si vergognava di non dire mai niente a quelle riunioni e così aveva preparato alcune battute e qualche motto di spirito e aveva deciso di usarli, non importa quale fosse l 'argomento in di scussione. Disse che era stato molto contento quando mi ero mostrato d'accordo con lui, ma aveva t rovato piuttosto faticoso cercare di mantenersi all 'altezza del la mia ammi razione. « Mi rie­ sce difficile pensare » disse. A ogni modo, aveva sem­ pre creduto che il suo snobismo fosse qualcosa di psi­ cologico, che avrebbe potuto arrivare a correggere col tempo, e lo i rritava terrib ilmente che io fossi sempre pronto a prenderlo tanto sul serio, fino a farne una fi losofia. Mol te delle cose che diceva, aggiun se, le dice­ va tanto per dire qualcosa. « Non puoi stare sempre zitto. » Lo seccava, disse, che io non ave ssi visto dent ro di lui . E questo gli dimos trava che ero uno scemo. Si sent iva insieme col pevole e supe riore. Gli spiaceva di avermi ingannato, ma in realtà aveva voluto venire in Eu ropa sop rattutto pe r piantare la scuola che lo an noiava a mo rte. Gli rinc re sceva che foss imo arrivati 83

a od iarci l 'un l 'al tro sino a quel punto, ma pensava che fosse una cosa inevitabile dal momento ch·e l u i era una ' persona così dappoco. Un autocarro passò sobbal zando pesantemente sul l 'acc iot tolato, con lo scappamento aperto. Sopra di me , att rave rso la fil igrana dei rami , potevo vede re le stelle. G l i dissi che lo perdonavo. Ri spose che m i era gra­ to e aggiunse che gl i dispiaceva di averm i ferito nei miei sent imenti . Era sicuro che l a mia ab itudine di parlare di fronte a un pezzo di panorama o a un monu­ mento nazionale sarebbe senza dubb io piaciuta alla maggior parte del le persone con le qual i avrei avuto a che fare nel l a mia vita. Sottovoce , gl i diedi del bastardo. Ci feri mmo senza risparm io, confessando che era­ vamo ent rambi i rreparab ilmente disonest i , incapaci di una sincera relazione, p ieni di difetti. Finalmente, dopo un lungo silenzio, ripresi a parlare e dissi che avremmo dovuto cercare di andare d'accordo, ma non mi riuscì di pe rsuaderlo. Un po' biasimava viol ente­ mente se stesso, un po ' insultava me. Era sorprenden­ te, però, quanto affetto ci fosse nel l 'aria e quanto ci sent issimo tristi tutti e due, come tutto sembrasse senza speranza. Il giorno dopo, all 'alba, trovammo la strada per uscire dal la città, depressi e silenziosi . Scopri i che esi­ ste un tipo di imbarazzo che non ha confini. Ogni ora rivelava nuove e ancora inesplorate regioni. A mezzo­ giorno, in un piccolo caffè, a un crocicchio sotto gl i alberi, bevemmo due bottiglie di vino e il nostro ri ser­ bo s i sciol se abbastanza da pe rmetterci di parlare, ma con difficol tà e con una quantità di fuggevoli sorri si, senza mai guardarci veramente in faccia. Ri salimmo in b icicletta e ricominciammo a peda­ lare, ondeggiando di qua e di là, sb ronzi come erava­ ITlO . La strada era piena di autocarri che portavano 84

alla spiaggia giovani di Bordeaux, per la vacanza di fine settimana. Avevano tutti una faccia fresca e fidu­ ciosa, il naso appuntito, gli occhi chiari. Si sporgevano dal dietro dei loro autocarri e ci affe rravano per la maglietta (e cos ì gli autocarri ci rimorchiavano su per le salite) e scoppiavano in ri sa rumorose ed eccitate quando scop rivano che soffrivo il solletico. Quando Duncan cantò tutta la canzone Le Poisson dans l 'eau che aveva imparato su un vecchio di sco di Trenet, i giovani france si, ammassati sui loro autocarri scoper­ ti sotto il caldo cielo meridionale di agosto, applaudi­ rono, gridando: « C 'est joli, ça! » Su una lunga sali ta, la mia maglia si strappò. Pas­ sando da autocarro ad autocarro, e ravamo rimasti indietro; questo era l 'ul timo della fila. Quasi mi strap­ parono la maglietta di dosso, l 'autocarro grugnì sulla salita e scomparve oltre la cima, e Duncan e io fummo sol i in mezzo a un bosco di betulle. Guardai Duncan e mi sentii contrariato di essere lì con lui . Il bosco di betulle era bello; t ra le pallide e fragili foglie, cadeva­ no raggi di sole, in tutte le di rezioni. Mentre, oscillan­ do, passavo da un lato all 'alt ro della strada, mi sem­ b rava che gli alberi si chinassero verso di me, mi sfio­ ras sero la faccia con la punta dei rami e poi ondeggias­ sero via; oppure, in di scesa, mi pareva che gli alberi si piegassero indietro, come quando un bambino di segna la velocità. Alle curve, gli alberi sembravano alzarsi e prendere il volo verso di cielo. D'improvviso fummo nel mezzo di uno sciame di farfalle gialle; l ' a ria ne era piena; le loro ali battevano e tremavano; erano dapper­ tutto Ci sbattevano sull a fronte, sugl i occhi, si infila­ vano nei nostri vesti ti, morivano sul le ruote del le bici­ clette. Inorridito, Duncan fermò la bicicletta e poi len­ tamen te cominciò a farsi strada in mezzo al la nuvola gial la . « Ce rca di n on toccarle » disse. « Si rompono le al i, se le tocchi; muoiono. » Ero troppo ubriaco anche solo per essere capace di ral len tare. Avanzai al la cieca .

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t ra le farfal le, st rizzando gl i occhi, bestemmiando quando una sbatteva su una ruota e restav a schiaccia­ ta. All ' ultimo, una farfalla mi finì in un oèchio e l 'oc­ chio rimase spalancato in una improvvisa pietà; t ra esso e il cielo c'e ra un lieve velo gial lo intessuto di fini ssime venatu re; il velo palpitò, cadde. Chiusi gli occhi e andai a sbattere cont ro un albero. In si lenzio, Duncan mi aiutò a rialzarmi. Pedalam­ mo, a fianco a fianco, ancora ub riachi , ma non come p rima. Di tanto in tanto, le nostre biciclette sbandava­ no l 'una contro l 'altra. Una mano di Duncan aveva un taglio dove aveva u rtato contro il mio manubrio in uno degli sbandamenti . La mia maglietta strappata sbatte­ va nel vento. Alle quattro, raggiungemmo Arcachon, un piccolo cent ro di villeggiatu ra con numerosi stabilimenti bal­ neari e chilomet ri di villette. Si sentiva l 'odore del mare, l ' acuto, salso odore che p roveniva dalla baia, il p rofumo dei gl icini e delle pinete sul le colline intorno. Passammo attraverso il paese e arrivammo a una grande villa di mattoni rossi, quadrata e in stile vitto­ riano, con una grande serra a mezzogiorno, verso i l mare. Il giardino era pieno d i gardenie e d i piccoli alberi di limoni. Pas sammo le biciclette olt re un muretto, ci facemmo strada attraverso gli alberi, sca­ valcammo un altro muro e fummo sulla spiaggia bianca. Mi lasciai andare sulla sabbia e Duncan, accanto a me, mormorò: « Una spiaggia è una spiaggia è una spiaggia. » Dal punto in cui e ravamo, la spiaggia s i incurvava in una stretta lingua di sabbia, dove qualcu­ no stava facendo un pic-nic, e continuava più a sud, fuori di vista. Dal l 'alt ra parte, t re o quattro persone stavano sdraiate sotto un omb rellone rosa e giallo. Dissi : « Nuotiamo sin là e vediamo se poss iamo uni rci a quelli del pic-nic ? » Duncan mi guardò spaventato. Cominciò a t remare . Mi girai dall 'alt ra parte. 86

Le onde della baia erano scintillanti e azzurre. Pic­ cole barche dal le vele colorate incrociavano al largo. La marea era bassa e centinaia di piccoli scafi in secco semb ravano sdraiati sulla sabbia, alcuni con l 'albero, altri senza, alcuni piccoli come dinghi, altri più gran­ di, con il tondeggiante, quasi voluttuoso scafo dei bat­ telli d'acqua bassa. Duncan era così a disagio che cominciò a costruire un castello di sabbia. lo cercai nella sacca appesa die­ tro alla bicicletta, tirai fuori un blocco di carta da let­ tere e cominciai a scrivere a mia madre. « Cara mamma, siamo appena arrivati ad Arca­ chon , una piccola città francese che è un posto di vil­ leggiatura ed è molto interessante. Duncan e io stiamo passando giorni meravigliosi e impariamo una quanti­ tà di cose come ti ave,\To detto che sarebbe avvenuto, e per questo volevo venire in Europa. Vedi, avevo ragio­ ne a proposi to del viaggio e . . . » Buttai via il blocco di carta, mi avvicinai carponi a Duncan e cominciai ad aiutarlo a costruire i l suo castello. Ma ancora non si decideva a guardarmi in faccia. Presi la bicicletta, andai in paese e tornai con panini al p rosciutto, due bottiglie di acqua minerale e due bottigl ie di vin o rdinai re. In qualche modo doveva­ mo pur passare l a sera. Quelli del pic-nic sulla punta impaccarono la loro roba e scomparvero. L'ombrellone rosa e giallo fu chiuso, arrotolato e portato via. Restammo soli sulla spiaggia. Duncan si aggiustò un posto per le spalle, raccogl iendo un monticello di sabbia dietro la testa in modo da poter guardare i battelli sul l 'acqua. Bevem­ mo forte, smettendo, ogni tanto, solo per correre in acq ua e nuotare per qualche bracciata in mezzo ad al ghe che, con la bas sa marea, arrivavano sino al pelo del l ' acqua. Stab i l immo che per questo, perché era bassa marea, l a spiaggia era così deserta. « D i o ! » di sse Duncan, d 'un t ratto. « È un vero 87

infe rno. » Per di spe razione, cominc iammo a lavorare al castello di sabbia. Le torri si mol tiplicarono, si mol­ tiplicarono i fossati e i ponti, si alzarono pinnacol i, zi g­ g ura t babilonesi, piramidi maya, campanili cristiani, piramidi egizie, minareti arabi. Il nost ro castello diventò una città. La ci ttà cominciò a espande rs i sulla spiaggia met ro per met ro, sempre più imponente, sempre più mal inconica. Nel fresco della sera, un ragazzino biondo uscì dal­ la villa di mattoni ros si e cominciò a giocare da solo nel giardino. Portava un camiciotto alla marinara, pantaloncini corti e un paio di sandaletti . Duncan stava ammirando il castello. Eravamo di nuovo piuttosto b rilli. « È sul serio un bel castello » osservò t ristemente . « Se avessi la macchina gli farei una fotografia. Varrebbe l a pena di conse rvarlo, no ? » D'accordo, era un magnifico castello, ma, al diavolo ! non sapevo proprio che cosa farne. « Pot remmo pren­ derlo a sas sate » suggeri i . Il ragazzino gi ronzolò lungo il muro, con aria indifferente, e si mise a guardarci att raverso il cancel­ lo: un braccio intorno a una delle sbarre e l 'altro posa­ to più in alto. Rimase lì appeso, di segnando, a caso, con la punta del sandalo, nella sabbia che il vento ave­ va spinto nel giardino. Vide i l castello e sgranò gli occhi. Il ragazzino e Duncan si guardarono l 'un l 'altro; poi il ragazzino si gi rò e andò a sedersi dietro i l muro. Vedevamo soltanto un pezzo di gamba. « Si annoia » disse Duncan, con tono dispe rato. « È infelice. È una cosa che non pos so sopportare. » Ricordo che camminammo in punta di piedi dovevamo aver confuso il ragazzino con le farfalle sino al muro e sporgemmo i l capo al di là. « Salve ! » disse Duncan. « Bonjou r » di sse i l bambino. « Non riesco a ricordare neanche una parola di francese » mi disse Duncan. Si protese olt re il muro, 88 .

ansioso: « Voulez-vous . . . Come si dice giocare ? » gridò, girandos i verSo di me. Non lo sapevo. Me ne stavo appoggiato al muro per tenermi su. Il ragazzino ci guardava; era ben educato, non impaurito ma incurios ito. Infine, Duncan si sporse, prese il bambino e lo fece pas sare al di sopra del mu retto. La faccina del bimbo diventò pal lida. « Les b rigands ? » chiese con un fi lo di voce . Duncan non sen­ tì; portò il bambino sino alla città-castello e ve lo posò di fronte . « Tuo, » dis se, con un largo gesto, « tutto tuo. » Il ragazzino guardò Duncan e gli rivolse un fug­ gevole sorri so. « Avanti, » disse Duncan, con tono paziente, « su, gioca con il castello. Sfascialo, se vuoi. Non me ne importa. » La testa del barrlbino, piegata da un lato, rimase immobile. Le piccole mani strette l 'una nell 'altra. Duncan si lasciò cadere in ginocchio e con il viso sof­ fuso d'emozione di sse: « Non ti faccio paura, vero ? Sono un vigliacco, io. Non pos so farti paura, vero ? » « C01n ment, Monsieur? » disse il bambino. Era pros simo al le lacrime. Gentilmente, Duncan prese la mano del bambino e la batté su uno degl i zigg ura t. Un po' di sabbia franò rotolando. D-u ncan indicò il ragazzino e poi il castello. Poi, sempre tenendolo per mano, fece un giro intorno al castello. Il ragazzino cominciò a sorridere. Guardò Duncan. « Oui » disse Duncan con eccitazione. « Per te . Votre » gridò trionfante. « Pour vous, s 'il vo u s plaft. . . o quel che sia. »

« Pour moi, Monsieur? » « Oui » di sse Duncan. « Oui. » Tout le cha teau ? Vra imen t ? » Il bambino batté le

«

. manI .

Un po' p i ù tardi, proprio ment re stavamo finendo una supe r-galleria a tre strade e Duncan mi stava chie89

dendo: « È felice, adesso, no ? Non ho u rtato la sua sen­ sibilità, vero ? » udimmo una voce femmin ile. Il ragaz­ zino gridò qualcosa in ri sposta, e una donna arrivò correndo, una donna al ta, bel la, con grandi occhi azzurro-chiari dal l 'espress ione preoccupata. Si preci­ pitò sul bimbo e lo afferrò e quando lui fu in salvo t ra le sue b raccia, si voltò e ci osservò sospettosamente. Eravamo ub riachi e con la barba lunga, gli occhi iniet­ tati di sangue e i vestiti sporchi . Duncan fece un inchi­ no di classe e spiegò che eravamo americani. La donna diede in una esclamazione e poi un sorriso apparve sulla sua faccia. Fece qualche passo avanti e st rinse la mano di Duncan . « Enchan tée, Monsieu r » disse b ru­ scamente e poi ancora: « Enchan tée », ment re stringe­ va la mano anche a me. Restò l ì un momento, col bam­ bino in b raccio, parlandoci lentamente e garbatamen­ te, in un francese accurato. Ci chiese da che parte del­ l 'America venissimo, e annuì alle nostre risposte. Ci chiese se aves simo intenzione di restare in Francia per molto tempo, e quando dicemmo un anno, annuì anco­ ra e di sse che eravamo « t rès sa ges » . La sua voce e ra insieme profonda e morbida. Da prima, Duncan e io la guardammo fi ssamente; poi Duncan s i riprese e mi lanciò un'occhiata seve ra, e al lora entrambi, intimidi­ ti, guardammo a terra. Se avevamo bisogno di acqua, di sse, potevamo andarla a prendere alla porta di die­ t ro. Doveva andare a p reparare la cena per i nonni del bambino. Suo marito l avorava sino a tardi, a Bor­ deaux. Ci strinse di nuovo la mano, e poi, sempre col bambino in b raccio, rient rò in giardino. Aveva una gonna celeste che si gonfiò contro le sbarre del cancel­ lo, mentre lo rinchiudeva. Il vino e ra finito. Il t ramonto stava cominciando e il suo roseo splendore si rifletteva sul le rotule delle ossute ginocchia di Duncan. Egli tornò a sedersi sul la sabbia, parlando e ammucchiandosi la sabbia sulle gambe. « Sai cos 'è che rende così belle le loro figure ? Il 90

lavoro. Non usano tutte quelle pidocchiose invenzioni scansa-fatiche . Si piegano, camminano, vanno in bici­ cletta. Hai vi sto com'era sottile la sua vita ? È inutile cercar di sostenere che le donne americane sono alt rettanto graziose. » « Questo non è vero » dissi io. « La Francia è bella, però . . . » Tutto intorno a me l 'aria e ra p rofumata e il t ramonto andava spiegando per il cielo i suoi lunghi nastri colorati . « Capisci . . . È la p rima volta che la vediamo. Sono sicuro che l 'America . . . » Duncan s ' infuriò. Disse che e ro ostinato e polemi­ co. Proprio perché non mi adattavo. Dopo tutto, non avevo detto neppure una parola a quella donna. « È ve ro, » ammisi pigramente « ma è stato perché ero tanto impressionato che non potevo parlarle. » Mi appoggiai sul gomito e lo guardai. Sorridevo, un po' incerto, è vero; come si sorride a un fratello maggiore o a qualcuno indicibilmente caro, di cui si desidera ardentemente l 'approvazione. Duncan mi guardò di sbieco. Poi, qualche secondo dopo, scoppiammo a ridere, come se fossi stato molto spiritoso. Le omb re, azzu rre, liquide, si andavano addensan­ do sulla spiaggia. E noi eravamo lì, noi due, con tutte le nost re paure e i nostri difetti, con tutte le speranze alle quali non c redevamo realmente, e i nost ri insuc­ cessi; eccoci lì, diciannove e venti anni . Da una delle case lungo la spiaggia arrivò la voce di un grammofo­ no che suonava La Vie en Rose. Duncan cominciò a canti cchiare la canzone. La gentile,z za della F rancia si di ffondeva intorno a noi come la notte che stava scen­ dendo. Ascoltavo Duncan e il lontano grammofono e come in sogno lo scroscia re delle onde e sapevo che avrei supe rato la prova del la mia giovinezza e sarei stato pe rdonato.

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Educazione sentimentale

Erano le otto di una calda sera di settembre e tutte le campane di Harvard battevano le ore. Elgin Smith, stanco di studiare, se ne stava sui gradini della biblio­ teca Widener - quei larghi , scomodi gradini di stile romano - e st rizzava gli occhi guardando lontano, per­ ché, a quanto dicevano, faceva bene alla cornea e alla retina. Pensava, ma non ai suoi impegni scolastici . Pensava a quel che doveva essere innamorarsi, adora­ re una ragazza e mettere la propria vita ai suoi piedi. Si disprezzava perché temeva di essere incapace di una vera passione e perché credeva che soltanto le persone passionali valessero qualcosa e tutte le altre fos sero supe rficiali. Frequentava i corsi di letteratura inglese, tedesca e italiana, di storia antica e medioeva­ le, e ognuna di queste mate rie e ra piena di avvenimen­ ti che semb ravano farsi beffe di lui, poiché sembrava­ no di re che il significato della vita, il culmine dell 'esi­ stenza, il nocciolo degli eventi era una ce rta emozione che gl i era est ranea e ve rso la quale aveva, molto pro­ babilmente, un atteggiamento troppo razionale. Pe r­ ciò se ne stava sui gradini della biblioteca così scon­ vol to dall 'inquietudine che sol tanto la forza di gravità semb rava ri uscisse a tene rlo insieme. Era mol to alto, un metro e novan ta, magro e nodo­ so. Aveva la testa piccola, di forma strana (il suo com95

pagno di stanza, Dimitri, lo accusava qualche volta di rassomigl iare a un cuneo di formaggio) e il naso a bec­ co. Voleva diventare p rofes sore di filologia' comparata e credeva nella Bel lezza. Studiava in continuazione e c 'erano momenti in cui e ra sbalordito dalla sua capa­ cità di lavorare tanto. E ra noto perché piangeva al cinema. Non era privo di attitudini atlet iche . Chissà come, si era convinto di essere un t ipo st ra­ no e di poter piace re soltanto a ragazze st rane come lui, poverette che non avevano ·n iente di meglio, e que­ sto gli b ruciava. E ra destino che p roprio quella sera dovesse vede­ re una ragazza che saliva i gradini della biblioteca Widener, una ragazza di media statura, dai corti capelli neri, con un soprabito chiaro che le ondeggiava dietro perché camminava molto in fretta, quasi cor­ rendo, e la curva della sua fronte, e i l taglio degli occhi tolsero il fiato a Elgin. E ra cos ì graziosa, aveva un por­ tamento così distinto e un 'aria di così sano e arrogan­ te compiacimento, che Elgin sospirò e pensò che que­ sta e ra un tipo di ragazza niente affatto strana, che avrebbe apportato indescrivibili benefici al ragazzo che le fosse piaciuto e alla sua fiducia in se stesso. Era p roprio i l tipo di ragazza ben lontana dal sentirsi infe­ l ice, quel t ipo contento di essere al mondo, che, egli c redeva, non si sarebbe mai innamorata di lui. Portava i l ib ri stretti al petto. Elgin la seguì con gli occhi su per le scale; poi vol se il capo; le narici g li si dilatarono per l 'emozione; ed ella era scomparsa, sva­ nita nella biblioteca. « Quest'anno, di sicuro » pen sò, guardando i l cielo. « Adesso che ho quasi diciannove anni . » Allargò le b raccia, e le foglie degli alberi che già stavano facen­ dosi secche all ' avvicinarsi dell ' autunno, frusciarono nella brezza. Pensò alla ragazza una volta o due nei giorni seguenti, ma l ' interesse per lei non mise ve ramente 96

radici finché non la vide un 'altra volta, due settimane più tardi, a una festa dell ' Unive rsità Radcliffe, alla Cabot Hall . Fu in una delle sale illuminate a luci atte­ nuate, dove le coppie danzavano instancabilmente in una quasi totale oscurità. Elgin stava dondolandosi, fermo allo stesso posto (non e ra un buon ballerino) con una ragazza che lo aiutava nel suo tedesco, quan­ do scorse la sua vi sione della biblioteca. Come la musi­ ca riprese, girò t ra le coppie, cercandola per portarla via al suo cavaliere, secondo l 'uso studentesco, ma quando le arrivò vicino, si gi rò e si di resse verso la parete, dove riprese fiato e si accorse di essere spa­ ventato. Fu il colpo che lo ferÌ in misura fatale. Rendendos i conto di essere spaventato da quella ragazza, cominciò a senti rsene attratto, cosÌ come gli uomini che c redo­ no di essere vigliacchi desiderano la guerra per poter dimost rare che non lo sono. O forse c 'era qualche altra ragione. La ragazza aveva un aspetto che colpiva; la sua giovinezza e il suo sguardo fie ro e puli to davano fiducia. Quale che fosse la ragione, Elgin cominciò a pen­ sare a lei seriamente. Appariva nella sua mente in un alone di luce splendente ogni qualvolta incontrava nel­ le sue letture certe parole. (