Philosophia. Illuminismo, Romanticismo, Idealismo [Vol. 2.2]

Table of contents :
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Abbiamo bisogno di vette alle quali alzare lo sguardo, abbiamo bisogno di storie dettagliate dei grandi del passato per rendere concrete le nostre speranze di superar/i, e ci è anche indispensabile l'idea di una «filosofia» in senso onorifico, l'idea che esistano (se solo avessimo l'accortezza di porle!) domande che ognuno dovrebbe farsi sempre e da sempre. RICHARD RORTY

SERGIO GIVONE FRANCESCO PAOLO FIRRAO

A CURA DI MASSIMO MENICHETTI

2 B Illuminismo, Romanticismo, r!!!!f BULGARINI

EotTORE BuLGARtNt FtRENZE

Copyright© 2012

Prima edizione febbraio 2012

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Ristampe 2017 2016

2015

2014

2013

2012

Finito di stampare per i tipi della Lito Terrazzi in Firenze

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www.bulgarini.it- [email protected]

Quest'opera è frutto della condivisione intensa e continua non solo dei due autori, Sergio Givone e Francesco Paolo Firrao, ma anche dei curatori dei singoli volumi, Bruno Meucci (I), Massimo Menichetti (II) e Fausto· Moriani (III), dell'autore del volume Seminari, Luca Mori, e di Alessandro Bussotti, per l'apporto nell'ideazione dell'opera. A Barbara Sandrucci si deve il Libro per il Docente. In particolare, per il presente volume, Nicola Casanova è estensore dell'unità 6, Massimo Menichetti è estensore dell'unità 7, Leonardo Lotito è estensore dell'unità 8. Le schede Ripensiamo insieme sono di Massimo Menichetti.

La collaborazione aii'Enciclopédie: la battaglia finale

Indice 3.

11Mtft€M

L:Europa vista dall'esterno Ceti intermedi e separazione dei poteri

La filosofia dell'Illutninismo I lumi di un'epoca Una filosofia militante La ragione illuminista La circolazione delle idee :.c.:':;J

La culla dell'Illuminismo: il laboratorio inglese '1 •

Sensismo e materialismo Il sensismo di Condillac

l liberi pensatori e la critica ai misteri

518 518 519

D'Holbach: materialismo e ateismo

Newton e il suo circolo: in difesa di una religione naturale

520

La teoria del sentimento morale

522

Shaftesbury e le origini della scuola scozzese Hutcheson: senso morale e utilitarismo 3.

5.

La Mettrie: il materialismo integrale

Alle origini dell'Illuminismo

2.

Una voce potente per le nuove idee: l'Enciclopedia 539 D'Aiembert: l'eredità di Locke e Newton 539 Diderot: ironia e filosofia 539 La pubblicazione deii'Enciclopédie 541 Quesnay e la fisiocrazia 541

518

L'elaborazione del deismo: libero pensiet·o e newtonianesimo

La dflessione sulla società e sull'economia Mandeville e la favola delle api Smith: simpatia e liberismo economico

Helvétius: sensismo e utilitarismo

Lo sguat·do intenso di Rousseau

522 524

2.

524 524 525

3.

n pensie:t•o politico: dal secondo Discorso al Contratto sociale

La religione del cuore

549 549 549 551 552 552 555

La t•ottm·a con i philosophes e con Ginevt·a

556

Il decennio più fecondo: 1753-1762

Js

Le premesse: illibertinismo et-udito e Pierre Bayle Dalla Francia all'Inghilterra Un precursore dell'Illuminismo La critica alla teologia

2.

L'emblema di un secolo: Voltaire La diffusione del pensiero inglese Il confronto con la metafisica: il deismo La conoscenza storica Contro l'ottimismo metafisica

546

Un'esistenza disordinata e travagliata 546 Natura e cultura: il primo Discorso 547 L:illuminazione di Vincennes 547 1750: l'anno del successo 548

1.

La gestazione del Contratto sociale Il simbolo di un'epoca

La Francia, patria adottiva e centro di irradiazione dei lumi 528 1.

542 542 544 544 545

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Il secondo Discorso

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537 537 537

4.

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Capitolo '1

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Leggi, governi e società: Montesquieu

535

528 528 528 530 531 531 532 533 534

l principi del Contratto sociale

4.

La scelta della solitudine e la difesa dell'ottimismo Il romanzo epistolare: la Nuova Eloisa Il confronto sulla madrepatria, Ginevra 5.

L'ottimismo antropologico dell'Emilio Un romanzo pedagogico L:originaria bontà dell'uomo

556 556 557 558 558 560

III

a. La solitudine pdma del tdonfo postumo In fuga dai nemici

Deismo e ateismo

561 561

Voltaire: il deismo Rousseau: «il culto del cuore» D'Holbach: l'ateismo

I lurni in Europa 1.

Ripensia1na insieme Bibliografia

La dflessione in Italia sull'economia, la politica e il didtto 562 L.:llluminismo napoletano L.:llluminismo milanese e Cesare Beccaria l fratelli Verri e l'esperienza del «Caffè»

2.

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Le voci della :ragione dalla Germania La filosofia del diritto di Thomasius Ragione e sistema: l'influenza di Wolff La nascita dell'estetica: Baumgarten La complessa riflessione di Lessing

562 563 564

l1f5fHJ Il criticismo di Immanuel Kant La e «spirito ili sistema»

Una voce potente per le nuove idee: l'Enciclopedia D'Aiembert: l'eredità di locke e Newton • La collaborazione all'Enciclopedia di Voltaire e di Montesquieu, quest'ultimo con un Saggio sul gusto, intreccia il pensiero di altri due grandi protagonisti dell'Illuminismo francese, che di quell'opera furono curatori, coordinatori, forza propulsiva. Si tratta diJean-Baptiste d'Alembert e di Denis Diderot, entrambi autori anche di un autonomo contributo filosofico. Jean-Baptiste d'Alembert 0717-1783) è versato soprattutto nella matematica e nelle scienze naturali, ma allarga gradualmente i suoi interessi all'epistemologia (dalle parole greche epistéme, «Sapere fondato" e l6gos, "ragione", «discorso,), ossia a considerazioni sui fondamenti della scienza, giungendo nel 1759 alla pubblicazione degli Elementi di filosofia. La sua impostazione, debitrice delle idee di Newton e Locke, dconduce la conoscenza all'esperienza e fonda la scienza fisica sulla sperimentazione. Il suo scritto più famoso e importante è comunque legato all'Enciclopedia, ed è quel Discorso preliminare nel quale troviamo enunciati i principi di tutta l'opera cui D'Alembert collabora in qualità di codirettore (insieme a Diderot) fra il1751 e il1758, redigendo anche molte voci importanti. Nel Discorso, D'Alembert delinea una genealogia delle scienze, della mot·ale e della politica inserita nel contesto dello sviluppo della società umana. La conoscenza ha origine dai sensi, dall'esperienza; la sua funzione è legata al soddisfacimento dei bisogni naturali del singolo e degli individui in società. Da conoscenze inizialmente rudimentali, connesse a necessità primarie elementari, il sapere è andato nell'uomo raffinandosi, ampliandosi, specializzandosi, sulla base dello sviluppo sempre più complesso e articolato della società. A muovere questa evoluzione delle conoscenze umane sono le tre funzioni con cui opera la mente sugli oggetti di pensiero: la memoria, la ragione e l'immaginazione, ossia la capacità di ricordare, di riflettere, di produrre e di creare, cui corrispondono tre discipline, la storia, la filosofia e le belle arti. Inoltre, nel Discorso è presente la polemica illuminista a favore dello contt·apposto allo :J ·OJ "C c

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analitici a priori giudizi tautologici, universali e necessari, che non ampliano la conoscenza

analitici a posteriori articolazione insensata

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Una rivoluzione copernicana • Alla luce eli queste considerazioni, il problema generale eli partenza da cui muove tutta la metafisica, ossia l'esistenza eli conoscenze pure indipendenti dall'esperienza, si traduce nell'indagine sulla possibilità eli giudizi sintetici a priori. Una volta attestata infatti l'esistenza eli giudizi sintetici a priori, operativi nelle scienze, occorre chiedersi come essi siano possibili. Sostenere, infatti, che le strutture dell'essere e del pensiero spontaneamente coincidano, come quando Galilei ha parlato eli un mondo e eli una natura scritti in caratteri matematici, sarebbe avanzare un'ingiustificata pretesa metafisica, una sorta di atto eli fede che non metterebbe per niente la scienza al riparo dallo scetticismo. Ritenere viceversa che il pensiero si adatti e si conformi alla realtà, significherebbe ricàclere eli nuovo nell'empirismo e far dipendere interamente la nostra conoscenza dall'azione della realtà fuori di noi, perdendo ogni possibilità di conoscere con universalità e neçessità. L'unica strada percorribile per giustificare la possibilità di giudizi sintetici a priori è allora quella di far dipendere da essi l'esperienza stessa e dunque far sì che sia la realtà a modellarsi sul soggetto e non viceversa. Non rimane per Kant perciò alternativa se non quella di dconsidet·are da capo il ruolo dell'uomo nel processo complessivo della conoscenza, valutandolo come un soggetto anche attivo e non soltanto passivo. Questo cambio radicale di prospettiva che sposta dall'oggetto al soggetto il perno della teoria della conoscenza è presentato da Kant in un celebre passo della Prefazione alla seconda edizione del 1787 in analogia alla rivoluzione compiuta da Copernico in astronomia:

G. Doebler, Ritratto di Immanuel Kant, 1791, Konigsberg, Museum Stadt Konigsberg.

Qui è proprio come per la prima idea di Copernico; il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l'esercito degli assi ruotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare l 'osservatore, e lasciando invece in riposo gli astri. Ora in metafisica si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda l'intuizione degli oggetti. Se l'intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe sapere qualcosa a priori; se l'oggetto invece (in quanto oggetto del senso) si regola sulla natura della nostra facoltà conoscitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità. I. Kant, Critica della ragion pura, Prefazione alla seconda edizione, pp. 20-21

Al fine eli comprendere questo nuovo rapporto tra oggetto e soggetto, Kant distingue tra mateda e forma della conoscenza: -la prima è data a posteriori dall'esperienza sensibile e consiste eli contenuti; - la seconda deriva a priori dalle modalità con cui operano le facoltà conoscitive umane e riguarda l'ot·ganizzazione, ossia la maniera in cui la materia è strutturata in conoscenza. Se il contenuto del conoscere dipende così dall'oggetto, la forma spetta invece al soggetto ed è da lui aggiunta. Cosicché anche la succitata legge di causalità non dovrà essere pensata come il contenuto di una verità innata, bensì come un principio operativo della conoscenza, costituito dalle modalità con cui le facoltà umane organizzano e ordinano a priori il materiale sensibile.

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Nella discussione sui fondamenti che divide empiristi e razionalisti, Kant ritiene allora che si possa concordare con i primi che tutta la conoscenza cominci, ct·onologicamente, con l'espedenza sensibile, ma condividere coi razionalisti che non tutto il sapet·e dedvi, logicamente, dai sensi:

Non c'è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l'esperienza; da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi { . .}. Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l 'esperienza, non perciò essa deriva tutta dall'esperienza. Infatti potrebbe essere benissimo che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che noi riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di conoscere vi aggiunge da sé. I. Kant, Critica della ragion pura, Introduzione, pp. 39-40

L'oggettività è funzione dell'uniuel'll165-74. Spazio e tempo definiscono cosl i limiti conoscitivi dell'uomo, al quale non è data altra intuizione se non quella sensibile ~>175-84.

Spazio e tempo sono intuizioni: sono il senso esterno e il senso intel'lll.l

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Mediante il senso esterno (una delle proprietà del nostro spirito) noi ci rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi, e tutti insieme nello spazio. Quivi sono determinate, o determinabili, la loro forma, grandezza e reciproche relazioni. Il senso interno, mediante il quale lo spirito intuisce se stesso, o un suo stato interno, non ci dà invero nessuna intuizione dell'anima stessa, come di oggetto; ma c'è tuttavia una forma determinata per la quale soltanto è possibile l'intuizione del suo stato interno, in modo che tutto ciò che spetta alle determinazioni interne vien rappresentato in rapporti di tempo. Il tempo non può essere intuito esternamente, come non può essere intuito lo spazio quasi qualcosa che sia in noi. Che cosa sono dunque lo spazio e il tempo? Sono entità reali? O sono soltanto determinazioni, o anche rapporti delle cose, ma tali che apparterrebbero ad esse anche in sé, ancorché non intuite, oppure son tali che appartengono soltanto alla forma dell'intuizione, e perciò alla costituzione sog-

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Lo spazio !come il tempo) 111111 è 1111 CiliiCilttO

empirico

Lo spazio (come il tempo! non è m1 concetto discm•siuo

Spazio e tempo hanno idealità trascendentale

gettiva del nostro spirito, senza la quale cotesti predicati non potrebbero esser riferiti a veruna cosa? [. . .) 1. Lo spazio non è un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne 1 • Infatti, affinché certe sensazioni vengano riferite a qualcosa fuor di me (cioè a qualcosa in un luogo dello spazio diverso da quello in cui mi trovo io), e affinché io possa rappresentarmele come esterne e accanto le une alle altre, quindi non solo differenti ma anche in luoghi differenti, deve esserci già a fondamento la rappresentazione dello spazio. Pertanto, la rappresentazione dello spazio non può esser nata per esperienza da rapporti del fenomeno esterno; ma l'esperienza esterna è essa stessa possibile, prima eli tutto, per la eletta rappresentazione. 2. Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori, la quale sta a fondamento eli tutte le intuizioni esterne. Non si può mai formare la rappresentazione che non vi sia spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non si trovi nessun oggetto. Lo spazio vien dunque considerato come la condizione della possibilità dei fenomeni, non come una determinazione dipendente da essi; ed è una rappresentazione a priori, la quale è necessariamente a fondamento di fenomeni esterni. 3. Lo spazio non è un concetto discorsivo 2 o, come si dice, universale dei rapporti delle cose in generale, ma una intuizione pura. Perché, primieramente, non ci si può rappresentare se non uno spazio unico, e, se si parla di molti spazi distinti, si intende soltanto parti dello stesso spazio unico e universale. Non è possibile che queste parti precedano lo spazio unico ed universale, quasi suoi elementi costitutivi (dai quali risulti poi l'insieme), ma non sono pensate se non in esso. Esso è essenzialmente unico, in esso la molteplicità, quindi anche il concetto universale di spazio in generale, si forma esclusivamente su limitazioni. Ne segue che, quanto a quello, una intuizione a priori (non empirica) sta a base di tutti i concetti di esso. [... ] Noi possiamo quindi solo dal punto eli vista umano parlare di spazio, di esseri estesi, ecc. Ma, se uscissimo dalla condizione soggettiva nella quale soltanto possiamo conseguire un'intuizione esterna, dal modo, cioè, in cui possiamo venir modificati dagli oggetti, l'idea di spazio non significherebbe più nulla. Questo predicato viene attribuito alle cose solo in quanto esse appariscono a noi, sono cioè oggetti della sensibilità. La forma costante di questa recettività, che chiamiamo sensibilità, è condizione necessaria di tutti i rapporti, in cui gli oggetti sono intuiti come fuor di noi; e, se si astrae da questi oggetti, essa è una intuizione pura, che porta il nome di spazio. [... ] Noi affermiamo dunque la realtà empirica dello spazio (rispetto a tutta l'esperienza esterna possibile), e nondimeno l'idealità trascendentale di esso: ossia, che lo spazio non è più nulla, appena prescindiamo dalla condizione della possibilità di ogni esp~rienza, e lo assumiamo come qualcosa che stia a fondamento delle cose in se stesse. [. .. ] Il tempo non è qualcosa che sussista per se stesso o aderisca alle cose, come determinazione oggettiva, e che perciò resti, anche astrazion fatta da tutte le condizioni soggettive della intuizione eli quelle: perché nel primo caso sarebbe qualcosa che, senza un oggetto reale, sarebbe tuttavia reale~. Per quanto ri-

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l. Sarebbe un concetto empirico se lo spazio fosse qualcosa di oggettivo, come vogliono Clarke e

Newton. 2. Riferimento alla concezione dello spazio eli Leibniz.

3>. Tale sarebbe nell'alternativa proposta da Newton e Clarke.

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e tempo stabili!ICIIIIII i limiti conoscitiui dell'uomo

All'lllllllll 111111 Ìl data altra intuizione oltre quella sensibile

guarda il secondo caso, come determinazione o ordine inerente alle cose stesse, non potrebbe precedere gli oggetti come loro condizione, ed esser conosciuto e intuito a priori per mezzo di proposizioni sintetiche. Ciò che invece ha luogo, se il tempo non è altro che la condizione soggettiva per cui tutte le intuizioni possono accadere in noi. Giacché allora questa forma delle intuizioni interne può essere rappresentata a priori, cioè prima degli oggetti. [. .. ] [... ]Il tempo è dunque unicamente condizione soggettiva della nostra (umana) intuizione (che è sempre sensibile, cioè in quanto noi veniamo modificati da oggetti), e non è nulla in se stesso [.. .]. Ciò non astante, rispetto a tutti i fenomeni, quindi anche a tutte le cose, chè ci si possono presentare nell'esperienza, esso è necessariamente oggettivo. Non possiamo dire: tutte le cose sono nel tempo, perché, nel concetto delle cose in generale, si fa astrazione da ogni specie di intuizione delle medesime, laddove questa è la condizione speciale per cui il tempo entra nella rappresentazione degli oggetti. [... ] Le nostre osservazioni dimostrano quindi la realtà empirica del tempo, cioè la sua validità obbiettiva rispetto a tutti gli oggetti, che possano mai esser dati ai nostri sensi. E poiché la nostra intuizione è sempre sensibile, così non può esserci dato mai nell'esperienza un oggetto, che non sia soggetto alla condizione del tempo. Per contro noi contestiamo al tempo ogni pretesa a realtà assoluta, nel senso che, anche indipendentemente dalla forma della nostra intuizione sensibile, inerisca assolutamente alle cose come loro condizione o qualità. Tali proprietà, spettanti alle cose in sé, non potranno mai esserci date mediante i sensi. In ciò dunque consiste l'idealità trascendentale del tempo, secondo la quale esso non è niente, ove si prescinda dalle condizioni soggettive dell'intuizione sensibile, e non può esser considerato né come sussistente né come inerente agli oggetti in se stessi (senza rapporto alla nostra intuizione). I. Kant, 0'itica della ragion pura, pp. 67-79

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Razionalismo, empirismo, criticismo a pos1Z1one filosofica che Kant espone nella C1'itica della ragion pura matura da un lungo confronto sia con il razionalismo eli Leibniz e di Wolff, sia con l'empirismo di Locke e di Hume. L'indagine eli Kant prende le mosse dalla natura sintetica e a priori dei principi su cui si basano le scienze, dopo aver mostrato l'insufficienza che ai suoi occhi manifestano in maniera diversa le soluzioni precedenti: i razionalisti rischiano eli incorrere in asserzioni dogmatiche, che confondono scienza e metafisica, gli empiristi finiscono col negare la possibilità stessa eli una scienza della natura. I brani seguenti provano a ricostruire le posizioni di Leibniz, Hume e Kant, emblematiche eli una discussione da considerarsi nei suoi temi di fondo ancora aperta. Il razionalismo eli Leibniz propone una concezione eli scienza che ha un fondamento metafisica, teologico: la matematica è garantita dall'intelletto eli Dio, la fisica dal volere divino. L'empirismo eli I-lume indica invece nelle facoltà dell'uomo ambiti e limiti della conoscenza: la fisica si fonda sullo studio dei fatti e dà origine a un sapere meramente probabile; la matematica è invece un sapere certo, esatto, che tratta però di idee, solo eli ragionamenti astratti. Dal canto suo, Kant ritiene che la matematica e la fisica

· ·~,ual è il 'fon(!Jamen!l!o (!Iella cAosc:enza umana?

E.-L. Boullée, Progetto pe1· un tempio della Ragione o della Natura, 1793-94, Firenze, Galleria degli Uffizi.

abbiano il medesimo statuto epistemologico: non siano astrazioni e conservino validità universale e necessaria. Dalla scoperta dei giudizi sintentici a priori, Kant muove così alla ricerca delle condizioni che rendono possibili tali saperi, rintraccianclole appunto nelle forme a priori, del conoscere umano: spazio, tempo (le intuizioni pure della sensibilità) e categorie (i concetti puri dell'intelletto).

Verità di fatto e verità di ragione: metafisica e teologia in Leibniz Il seguente brano l!ilDI, tratto dalla Monado!ogia di Leibniz, inizia con la distinzione tra i «due grandi principi» senza i quali tutte le nostre conoscenze sarebbero impossibili: il principio di non contraddizione (A non è non A); e il principio di ragion sufficiente per il quale esiste sempre una ragione perché un fatto accada in un modo e non altrimenti ~11-11. l due principi governano due specie diverse di verità: le verità razionali, la cui negazione è impossibile, perché comporta una contraddizione; le verità fattuali che si riferiscono all'esperienza e riguardano tutti i fatti particolari che sono accaduti, accadono e accadranno nel mondo. Se l'opposto delle verità di ragione è impossibile, l'opposto di una verità di fatto è invece possibile ll>i12-15. Come mostra di seguito il brano, le verità di ragione sono tutte le verità necessarie, perfettamente evidenti e infallibili, che sono proprie della logica e delle matematiche e sono dimostrabili a partire da assiomi o da idee originarie percepite come verità autoevidenti, ricondotte a definizioni, assiomi e postulati ll>[16-25. Anche il mondo dei fatti non è il regno del caso e la scienza della natura ne studia i principi e le leggi che lo regolano, ancorandosi a una metafisica che è al tempo stesso una teologia. Nel mondo naturale non è infatti possibile, a differenza del sapere matematico, risalire in un nu-

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mero finito di passi ai principi originari. Ogni causa ne richiama un'altra e questa ancora un'altra, senza poter ripercorre esaustivamente l'infinita varietà e la moltitudine di dettagli che compongono la natura ~126-38. Ogni evento è spiegabile infatti attraverso le ragioni sufficienti che hanno contribuito a determinarlo, e nel procedere a ritroso nella serie infinita delle cause la mente umana perviene a dimostrare a posteriori l'esistenza necessaria di una ragione prima, ossia Dio che è fuori della concatenazione, avendo ad essa dato origine ~139-47. Le verità di fatto nella loro contingenza dipendono dunque in ultima istanza dalla scelta buona e saggia di Dio, che ha creato il migliore dei mondi tra gli infiniti possibili, come chiarisce Leibniz al termine del brano. Nulla esiste senza una ragione, cioè niente si verifica senza una causa preordinata dalla scelta immutabile di Dio che è causa prima di tutti gli effetti. Infatti, se le verità logiche e matematiche sono reali perché costitutive eternamente dell'intelletto di Dio e vere in tutti i mondi possibili, le verità di fatto dipendono invece dalla sua volontà di creare questo mondo anziché un altro ~148-61. La realtà delle verità eterne costituisce così anche una prova a priori dell'esistenza di Dio: solo Dio è infatti l'ente necessario la cui possibilità è al contempo anche realtà ~162-72. Il brano si chiude polemizzando contro coloro che, seguendo Descartes, hanno ritenuto soggette al volere divino anche le verità eterne e non solo quelle di fatto ~>173-79.

&:11 l due 11rincipi, di mm contraddizione e di l'il!liou sufficiente

Le due verità e il c;u•attere analitico delle matematiche

II. La conoscenza spidtuale e il suo elevarsi a Dio a. I due pdncipi conoscitivi fondamentali: non-contraddizione e t·agion sufficiente I nostri ragionamenti si fondano su due grandi principici: -- Il principio di contraddizione1 , in virtù del quale giudichiamo falso ciò che implica contraddizione, e vero ciò che è opposto o contraddittorio al falso. -- Il principio di ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo che qualsiasi fatto non potrebbe essere vero o esistente, e qualsiasi enunciato non potrebbe essere veridico, se non ci fosse una ragion sufficiente del perché il fatto o l'enunciato è così e non altrimenti- per quanto le ragioni sufficienti ci risultino per lo più ignote. b. Le verità mzionali in genemle Ci sono pure due specie di verità, quelle razionali e quelle fattuali: - le verità razionali sono necessarie, e il loro opposto è impossibile; - le verità fattuali sono contingenti, e il loro opposto è possibile. Quando una verità è necessaria, se ne può trovare la ragione [sufficiente] mediante l'analisi, risolvendola in idee e verità più semplici fino a giungere alle verità originarie. Ed è appunto mediante l'analisi che i matematici riducono i teoremi speculativi e i canoni pratici a definizioni, assiomi e postulati. Ci sono infine idee semplici di cui non si può dare nessuna definizione; e ci sono pure assiomi e postulati- o, in breve, principi originari- che non possono essere dimostrati, e che d'altronde non hanno bisogno di dimostrazione: si tratta degli enunciati identici, il cui opposto contiene una contraddizione esplicita2 .

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1. Nel testo il "Principio di non contraddizione, e il "principio di contraddizione, sono la stessa cosa. 2. Esempi di questo genere sono proposizioni quali, «A è A» «A non è nonA", "ogni cosa è quale è», «og-

ni cosa è simile o uguale a se stessa» ecc.

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L'infinita serie delle ragioni sufficienti prova la necossità di 111111 causalità prima divina

c. Le verità fattuali e la dimostrazione a posteriori dell'esistenza di Dio Ma la ragion sufficiente si deve trovare anche nelle verità contingenti o fattuali, cioè nella serie delle cose sparse per l'universo delle creature. Qui la scomposizione in ragioni particolari potrebbe proseguire indefinitamente di dettaglio in dettaglio, per via dell'immensa varietà delle cose naturali e della divisione dei corpi all'infinito. C'è infatti un'infinità di figure e di movimenti presenti e passati che confluiscono nella causa efficiente del mio scrivere attuale, e c'è un'infinità di piccole inclinazioni e disposizioni della mia anima, presenti e passate, che confluiscono nella causa finale di questo atto. Ora, poiché tutti questi dettagli implicano unicamente altre contingenze anteriori oppure più dettagliate - ciascuna delle quali ha a sua volta bisogno di essere analizzata perché se ne possa rendere ragione-, per questa via non si ottiene affatto un vero progresso. È pertanto necessario che la ragion sufficiente o ultima sia al di fuori della catena o serie di tali dettagli delle contingenze, per quanto infinita possa essere questa serie. E così la ragione ultima delle cose dev'essere in una Sostanza necessaria, nella quale i dettagli dei mutamenti si trovino in modo eminente'\ come nella propria fonte: ed è questa Sostanza ciò che noi chiamiamo Dio. E siccome tale Sostanza è ragion sufficiente di tutti quei dettagli - i quali sono quindi legati fra loro in modo universale -, [si deve dire necessariamente:] Esiste un solo Dio e questo Dio è sufficiente. [. .. ]

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d. Le verità eterne e la dimostrazione a priori dell'esistenza di Dio È vero altresì che Dio è la fonte non solo delle Esistenze, ma anche delle Es-

Le verità razionali, matematiche, hanno il loro fondamento nell'intelletto diuinu

senze in quanto reali, vale a dire: è anche la fonte di quel Reale che è contenuto nel Possibile. L'Intelletto di Dio è infatti la regione delle verità eterné, ovvero delle Idee da cui tali verità dipendono. Senza l'Intelletto divino, dunque, nessun Reale sarebbe contenuto nel Possibile, e non solo non esisterebbe nulla, ma nulla potrebbe mai esistere. Infatti, se c'è realtà nelle Essenze- cioè nei Possibili, ossia nelle verità eterne-, è senz'altro necessario che questa realtà si fondi su qualcosa di esistente e di attuale, e quindi sull'Esistenza dell'Essere necessario, nel quale l'Essenza implica l'Esistenza. In altre parole, all'Essere necessario è sufficiente essere possibile per essere in atto. Così, solamente Dio, ovvero l'Essere necessario, ha questo privilegio: posto che il suo Essere sia possibile, Egli non può non esistere. Ora, già questo è sufficiente per conoscere a priori l'Esistenza di Dio; nulla può infatti impedire la possibilità di ciò che non comporta nessuna limitazione, nessuna negazione e, di conseguenza, nessuna contraddizione. Abbiamo quindi dimostrato a priori l'Esistenza di Dio mediante la realtà delle verità eterne.

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3>. Eminenterè un termine tecnico scolastico per indicare quella causa che contiene l'effetto in virtì:J della sua perfezione. 4. Eterne in quanto esistenti nella mente eterna di Dio.

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Le uerità di fatto sono fondate sulla uoh:mtà e la scelta di Diii

Ma l'abbiamo già dimostrata anche a posteriori muovendo dall'Esistenza degli Esseri contingenti, i quali possono infatti avere la loro ragione ultima o sufficiente soltanto nell'Essere necessario, cioè in quell'Essere che ha in se stesso la ragione della sua Esistenza. Sebbene le verità eterne dipendano da Dio, non bisogna tuttavia credere che esse siano arbitrarie e che dipendano dalla sua Volontà - come pare abbiano sostenuto Cartesio e, dopo di lui, Poiret5 . Ciò vale soltanto per le verità contingenti, il cui principio è la convenienza, ossia la scelta del meglio. Non vale invece per le verità necessarie, le quali dipendono unicamente dall'Intelletto di Dio e ne costituiscono l'oggetto interno.

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G.W. Leibniz, Principi dellajìlosojìa o monadologia, pp. 73-79, parr. 31-46

Hume: le verità di fatto e il ruolo della credenza e dell'abitudine Tutte le scienze, secondo Hume, dalla matematica alle scienze della natura, dalla morale alla religione, dalla logica alla politica, sono in relazione con la natura umana e su di essa soltanto devono fondarsi. Una scienza dell'uomo deve a sua volta basarsi sull'osservazione e l'esperienza, respingendo ipotesi non suffragate dalle impressioni originarie. Il criterio del senso costituisce il discrime tra ciò che è scienza e ciò che è metafisica, pura e astratta speculazione. Come mostra il brano~. tratto dal Trattato sulla natura umana, tutta la conoscenza dell'uomo ha infatti originE: dalle impressioni dei sensi e si risolve nella percezione di relazioni che riguardano idee o fatti. Rassomiglianza, proporzione di quantità e di numero, gradi di una qualità, contrarietà sono relazioni immutabili, finché non mutano le idee stesse degli oggetti correlati. Tali verità riguardano pertanto soltanto idee e si scoprono semplicemente confrontando e ispezionando le nostre percezioni ~>11-7. Relazioni di tempo e luogo, identità, causalità sono invece apprese interamente dall'esperienza, giacché esse possono variare, senza che vari l'idea degli oggetti correlati ~>17-19. Tali verità riguardano dunque i fatti e come Hume mostrerà altrove, trattando in particolare della relazione di causalità, costituiscono il contenuto di una fisica, ossia di una possibile scienza della natura e non godono di certezza dimostrativa, bensì di gradi diversi di credenza, basati su di un'abitudine contratta con la ripetuta esperienza. Anche le relazioni tra idee si colgono spesso intuitivamente, ossia immediatamente, senza il tramite del ragionamento, della dimostrazione ~>120-33. Fa eccezione la relazione di proporzione di numero su cui si fonda la matematica, che origina un sapere esatto interamente riconducibile al ragionamento. La conoscenza matematica è tanto più certa ed esatta quanto più rimane a un simile livello di astrazione, come nel caso dell'algebra, dell'aritmetica; già la geometria presenta un grado di minor esattezza e certezza ~>134-47. Il riferimento alle impressioni sensibili, ad esempio nelle misurazioni, apre infatti un margine incolmabile di approssimazione, di inesattezza. Per quanto sia trattabile matematicamente, la geometria ha secondo Hume un'eliminabile origine nelle apparenze, ossia nell'immaginazione e nei sensi ~>148-73.

5. Pierre Poiret (1646-1719), teologo protestante, inizialmente vicino al cartesianesimo.

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Relazioni di idee e relazioni tra fatti

Alcame t•elazioni ta•a idee sono oggetto di intuizione

Algebra e a1•itrnetica: scienze cet•te perché 111111 ClliiCerilOilll fatti

Ci sono sette specie di relazioni filosofiche: rassomiglianza, identità, relazioni di tempo e di luogo, proporzione di quantità e di numero, gradi di una qualità, contrarietà, causalità. Queste relazioni possono essere divise in due classi: quelle dipendenti interamente dalle idee messe a confronto, e quelle che possono mutare senza che mutino le idee. Dall'idea di un triangolo dipende la relazione di uguaglianza dei tre angoli a due retti, e questa relazione non varia fin che non varia l'idea; invece, la relazione di contiguità e di distanza fra due oggetti può mutare per una semplice alterazione del posto che questi occupano, senza nessun mutamento degli oggetti in se stessi, ossia delle loro idee: e che essi occupino quel posto, dipende da mille imprevedibili accidenti. Questo è anche il caso dell'identità e della causalità: due oggetti, se anche sono perfettamente somiglianti e si mostrano, in diverso tempo, nello stesso posto, possono essere numericamente differenti; così, poiché il potere di un oggetto di produrne un altro non può mai esser scoperto semplicemente dalla loro idea, è evidente che causa ed effetto sono relazioni che veniamo a conoscere con l'esperienza, e non già con ragionamenti o riflessioni astratte. Non c'è un solo fenomeno, anche dei più semplici, del quale si possa dar ragione con le qualità con cui gli oggetti si presentano a noi, o che potremmo prevedere senza l'aiuto della memoria e dell'esperienza. Di queste sette relazioni filosofiche restano, dunque, soltanto quattro, che, dipendendo unicamente dalle idee, possono essere oggetto di conoscenza e di certezza: la rassomiglianza, la contrarietà, i gradi di qualità, la proporzione della quantità o del numero. Tre di queste si colgono a colpo d'occhio, e sono oggetto piuttosto d'intuizione che di dimostrazione: la rassomiglianza di alcuni oggetti colpisce subito gli occhi, o meglio la mente, e di rado esige un secondo esame; e lo stesso avviene per la contrarietà e per i gradi di una qualità. Come dubitare che l'esistenza e la non-esistenza non si distruggano l'una l'altra, e non siano perciò del tutto incompatibili e contrarie? È vero che dei gradi di una qualità, come il colore, il sapore, il caldo o il freddo, non si può giudicare con esattezza quando la loro differenza sia molto piccola; tuttavia è facile giudicare che uno è superiore o inferiore a un altro quando la differenza sia considerevole, e questo giudizio lo formuliamo sempre a prima vista, senza far ricerche o ragionamenti. Anche per le proporzioni di quantità o eli numero può darsi che noi riusciamo a constatare a colpo d'occhio la superiorità o inferiorità fra numeri e figure, specialmente dove la differenza è grande e notevole; ma l'uguaglianza, o altra proporzione esatta, possiamo, a una prima osservazione, soltanto congetturarla, tranne che si tratti di numeri molto piccoli o di porzioni molto limitate di estensione che possano esser abbracciati in un istante, e ci diano la sicurezza eli non cadere in grave errore; e in tutti gli altri casi è giocoforza stabilire le proporzioni con una certa libertà, o procedere in modo più o meno artificioso. Abbiamo già notato, infatti, che la geometria, ossia l'arte con la quale stabiliamo le proporzioni delle figure, benché superi tanto in universalità ed esattezza i vaghi giudizi dei sensi e dell'immaginazione, tuttavia non raggiunge mai una precisione perfetta. I suoi primi principi sono pur sempre ricavati dalla comune apparenza degli oggetti; e quest'apparenza, se uno considera la prodigiosa sottigliezza di cui è capace la natura, non può dar mai la certezza. [... ] L'algebra e l'aritmetica sono le sole scienze, nelle quali possiamo muoverei attraverso una serie di ragionamenti anche molto intricati con perfetta esattezza e certezza. Noi possediamo un criterio preciso, col quale possiamo giudicare

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La geometria, la cui origine è nelle applll'enul sensibili, è meno certa ed esatta della matematica

dell'uguaglianza e della proporzione dei numeri; e secondo ch'essi corrispondono, o no, a quel criterio, ne determiniamo le relazioni senza possibilità di errori. Quando due numeri sono combinati in modo che uno abbia sempre un'unità corrispondente a ciascuna unità dell'altro, noi diciamo che sono uguali; ed è appunto perché non abbiamo un simile criterio di uguaglianza nell'estensione che la geometria non può affatto esser ritenuta una scienza perfetta e infallibile. [... ] La ragione per cui ascrivo quel difetto alla geometria è che i suoi princìpi originari e fondamentali sono derivati meramente dalle apparenze: ora, si potrebbe pensare che quel difetto debba sempre accompagnarla, e impedirle di raggiungere, nel confronto degli oggetti o idee, un'esattezza maggiore di quella che gli occhi o l'immaginazione, da sé, son capaci di conseguire. Concedo che quel difetto l'accompagna sempre, sì da impedirle di aspirare a una completa certezza; ma, poiché i suoi princìpi fondamentali dipendono dalle apparenze più facili e meno fallaci, essi godono nelle loro conseguenze di un grado di esattezza che queste, per se stesse, sarebbero incapaci di avere. È impossibile che l'occhio possa determinare che gli angoli di un chiliagono sono uguali a 1996 angoli retti, o anche solo avvicinarsi con congetture a questa proporzione; ma quando determina che due rette non possono coincidere, o che non possiamo tracciare più d'una linea retta fra due punti dati, i suoi errori non possono esser mai di gran momento. Ora, è la natura propria e l'utilità della geometria di tenerci fermi a tali apparenze che, a causa della loro semplicità, non possono indurre in grave errore.

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D. I-Iume, Trattato sulla natura umana, pp. 82-85

Kant: il criticismo e la filosofia trascendentale A differenza di Hurne, secondo Kant la validità un'1versale e necessaria della geometria e della fisica è indiscutibile tanto quanto la validità della matematica. Ma sbagliano anche i razionalisti a fondare la garanzia della certezza della scienza della natura su di una metafisica dogmatica, che non tiene conto dei limiti e dei confini dell'umana conoscenza. Per Kant tutte le scienze (anche le matematiche) si fondano su giudizi sintetici a priori indipendenti dal· l'esperienza, che si applicano però ad essa rendendola universale e necessaria. La realtà di simili giudizi giustifica una filosofia trascendentale, tesa a ricercare le condizioni per le quali è possibile per l'uomo avere conoscenze a priori. Come recita allora l'inizio del brano~ tratto dall'Introduzione alla Critica della ragion pura, la matematica e la geometria si basano su conoscenze a priori, che sono però sintetiche

e non analitiche: per quanto infatti sia indiscutibile, come indicato da Leibniz, che i matematici svolgano le loro dimostrazioni sulla base del principio di non contraddizione, tuttavia i principi da cui partono, le premesse originarie su cui si fondano tutti i loro ragionamenti sono basate sulle intuizioni pure del tempo (l'aritmetica) e dello spazio (geometria) ~11-20. Analogamente sono sintetici e a priori giudizi contenuti nei principi della fisica pura, come quello di permanenza della sostanza o di azione e reazione, o di causalità, non menzionato in questo brano, ma a cui Kant dedicherà successivamente molte pagine .,121-25. In tutti questi casi il giudizio non deriva dall'analisi dei concetti assunti e tuttavia esprime una relazione universale e necessaria, che non può essere ricavata a posteriori, bensì pensata esclusivamente a priori ~125-32.

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l giudizi matenmtici sono sintetici

lb•itmetica e nl!lllml!tran 111111 cence!'llllllil analisi di bensì intuizioni

l p1·im:i11i della fisica

contengono giudizi sintetici, come quello di perlnanenza della sostanza e di azione e reazione

I giudizi matematici sono tutti sintetici. Questa proposizione pare sia sfuggita sinora all'indagine di quanti hanno analizzato la ragione umana, e anzi par proprio opposta alle loro congetture, sebbene sia incontestabilmente certa, e molto importante nel seguito. Infatti, poiché si trovava che le deduzioni dei matematici procedono tutte secondo il principio di contraddizione (richiesto dalla natura di ogni certezza apodittica) così si credeva che anche i princìpi fossero conosciuti in virtù dello stesso principio eli contraddizione; e in ciò si sbagliavano; perché una proposizione sintetica può sempre esser conosciuta secondo il principio di contraddizione, ma solo a condizione che si presupponga un'altra proposizione sintetica, dalla quale possa esser dedotta; non mai in se stessa. [.. .] La proposizione aritmetica è [.. .] sempre sintetica; ciò che si fa tanto più tanto manifesto, quanto più alte sono le cifre che si prendono: perché allora risplende chiaro che noi potremmo girare e rigirare i nostri concetti a piacer nostro, ma, senza ricorrere all'aiuto dell'intuizione, mediante la semplice analisi dei nostri concetti non potremmo mai trovare la somma. Altrettanto poco analitico è un qualsiasi principio della geometria pura. Che la linea retta sia la più breve fra due punti, è una proposizione sintetica. [.. .] Qui deve perciò chiamarsi in aiuto l'intuizione, mediante la quale solamente è possibile sintesi. [. .. ] 2. La fisica Cphysica) comprende in sé, come principi, giudizi sintetici a priori. Addurrò in esempio soltanto un paio eli proposizioni, come quella che in tutti i cangiamenti del mondo corporeo la quantità della materia resta invariata; oppure quest'altra, che in ogni comunicazione eli movimento l'azione e la reazione saranno sempre uguali tra loro. In entrambe non soltanto è chiara la loro necessità, e pertanto la loro origine a priori, ma è chiaro altresì che sono proposizioni sintetiche. Giacché nel concetto della materia io non penso la permanenza, ma solo la sua presenza nello spazio, in quanto lo riempie. Perciò io oltrepasso realmente il concetto della materia, per aggiungervi a priori qualche cosa che in quel concetto non pensavo. La proposizione, dunque, non è analitica ma sintetica, e tuttavia pensata a priori; e lo stesso si dica delle altre proposizioni della parte pura della fisica.

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I. Kant, Critica della ragion pura, pp. 39-53

Dopo aver individuato le forme a priori del conoscere, spazio e tempo nell'Estetica trascendentale e le dodici categorie nell'Analitica dei concetti, Kant si sofferma ampiamente nell'Analitica dei principi sulla spiegazione della relazione di causalità, mostrando il suo carattere sintetico e la sua validità a priori, come si può vedere nel brano~. La necessità del principio di causalità, che Hume aveva fondato sull'esperienza e l'abitudine, deriva invece per Kant dal suo essere costitutiva dell'esperienza stessa: la causalità è, in particolare, il modo in cui il soggetto pensa, secondo una regola, il succedersi delle sue rappresentazioni nel tempo. La connessione tra le rappresentazioni avviene cioè per opera dell'immaginazione in base al senso interno, l'intuizione del tempo 1»11-6. L'immaginazione connette una rappresentazione come precedente a una seconda ritenuta successiva non in base alla semplice percezione, ossia al susseguirsi delle diverse esperienze soggettive, bensì secondo la necessità di una regola che rende oggettiva una simile successione ~>16-16. Tale regola è proprio la causalità, che pensa in maniera necessaria un evento come effetto, ossia conseguenza di un altro. Il principio di causalità non è dunque derivato per induzione

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dall'esperienza, come vuole Hume, bensl si applica all'esperienza in maniera universale e necessaria, affinché sia possibile una conoscenza oggettiva dei fenomeni. Le diverse e particolari esperienze costituiscono dunque delle esemplificazioni di un principio generale, che l'intelletto impone alla natura quale sua legislazione universale ~>116-25. Kant osserva che se i fenomeni fossero cose in sé avrebbe ragione Hume a ritenere impossibile l'esistenza di una necessità oggettiva tra cause ed effetti. Secondo Kant una necessità oggettiva invece si dà, sia pur nella realtà solo fenomenica della conoscenza umana, ossia nell'unificazione del molteplice sensibile secondo successione temporale ~>126-35. Come mostra l'esempio della nave che scende la corrente, la categoria di causa pensa le rappresentazioni che si succedono nel tempo, secondo lo schema della irreversibilità, ossia secondo un prima e un dopo in successione necessaria ~>136-52. Solo coslla successione può essere attribuita oggettivamente al fenomeno e non soltanto alle rappresentazioni del soggetto ~>153-76.

La causalità è il modo in cui l'immaginazione

connette nel tempo due rappresentazioni

L11 causalità è 111111 con11essio11e oggettiva, 111111 sugoettiva, llllCilSSIII'Ìil, llllll

der•ivata li. Riferimento polemico a Hume e alla sua analisi della relazione di causalità.

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i.

~ filosofia moderna ha percorso e approfondito 1l problema del fondamento e della natura della morale, conoscendo contributi originali con Hobbes, Mandeville, con i teorici del sentimento morale Shaftesbury e Hutcheson, con il razionalismo di Leibniz e di Wolff. Entro questo quadro complesso e composito, le riflessioni sulla morale di Hume e di Kant costituiscono senza dubbio due delle principali alternative teoriche più vive e presenti nel dibattito contemporaneo. Sia Hume, sia Kant hanno condiviso l'idea che l'oggetto specifico dell'etica non sia il mondo così come è, bensì il mondo per come dovrebbe essere. Entrambi hanno inoltre fondato l'etica sulla natura umana: l'uno basandola però su di un sentimento, l'altro su eli un comando della ragione.

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Entrambi hanno provato a confutare anche le posizioni alternative. Hume si è confrontato con l'intera gamma eli teorie etiche razionaliste fino a quel momento elaborate, in particolare con la dottrina difesa da Locke, che assimilava le nozioni morali ai costrutti della matematica, e con la concezione del newtonlano Clarke, che riteneva i principi etici eterni e immutabili relazioni iscritte nella natura delle cose, perfettamente conoscibili dalla ragione e dall'intelletto umano. Kant difende invece il suo razionalismo etico riconclucenclo ogni dottrina alternativa, che si richiami alla sensibilità e al sentimento, all'edonismo e all'epicureismo e dunque all'egoismo e alla fonte possibile di ogni immoralità. A fondamento della moralità, secondo Kant, sono la ragione e la libertà di scelta.

Morale e sentimento: Hume Il brano~ di Hume è tratto dal terzo libro Sulla morale del Trattato sulla natura umana e sviluppa un ampio confronto critico col razionalismo. Chiari sono i riferimenti iniziali all'antico stoicismo, secondo il quale la virtù è vivere conformandosi alla ragione, e al moderno .giusnaturalismo che ha indicato l'esistenza di leggi eterne e immutabili, valide anche per il volere divino. Secondo Hume, ogni forma di razionalismo etico converge sulla tesi che la moralità, al

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pari di ogni verità, sia colta dalla ragione mediante confronto tra idee ~>11-11. Il primo argomento che Hume avanza contro questa concezione rileva come l'intelletto e la ragione, a differenza delle passioni, non svolgano alcuna funzione pratica, essendo di per sé incapaci di determinare la volontà umana. Dunque se la nostra conoscenza della moralità derivasse dalla ragione non avrebbe alcuna ricaduta sulla condotta umana ~>112-21. Successivamente Hume, con un secondo argomento, mostra come la moralità non consista nella scoperta di relazioni tra idee. La morale non è oggetto di una conoscenza intellettuale, passibile addirittura di dimostrazione razionale alla stregua degli enti della matematica e della geometria come aveva ritenuto Locke ~>122-38. Gli esempi del parricidio, dell'incesto sono tesi a provare che le stesse relazioni, considerate immorali e turpi in riferimento all'uomo, sono naturali e innocenti, se riferite al comportamento di altri esseri viventi ~>139-86. Hume rifiuta poi anche l'idea che il giusto e l'ingiusto siano relazioni di fatto, magari eternamente iscritti nella natura delle cose, come sostenuto dal filosofo newtoniano Samuel Clarke ~>187-92. Nell'analisi del più efferato delitto non esiste alcun fatto che di per sé possa rendere immorale questo atto. Per scoprire dove risieda il vizio occorre rinvenire sì un fatto, che però non è più oggetto della ragione o dell'intelletto, bensì del sentimento. Il fondamento della moralità non risiede infatti nell'azione, ma nel sentimento di approvazione o disapprovazione verso certe azioni, che sorge nell'uomo ~>192-114.

Chiude l'analisi di Hume il celebre passo che condanna i consueti modi di riflettere dei filosofi, i quali hanno provato a derivare doveri e valori da considerazioni razionali o da descrizioni sull'essere e sul mondo. La moralità riguarda essenzialmente un dover essere, ciò che vorremmo che il mondo e l'essere fossero e non ciò che di fatto sono. Il passo enuncia quella che poi sarà chiamata «legge di Hume», secondo la quale tra essere e dover essere esiste una distinzione da non oltrepassare ingiustificatamente, come sempre finora invece è stato tentato dai filosofi che dalla descrizione di fatti, di comportamenti, di realtà date, hanno provato a derivare giudizi morali e di valore ~>1116-131.

Il confJ•onto critico col a•azionalismo etico

Primo !II'!JOillo!lto contro il l'azinnaiismo: le llii!ISioni, e non la l'ii!Jione e l'intelletto, SIIIII!JIIIIIIIIIlil fllllZÌOilll

pratica

Quei sistemi che affermano che la virtù non è niente altro che il conformarsi alla ragione; che ci sono tra le cose, un'armonia e una disarmonia eterne, uguali per ogni essere razionale che le considera; che le misure immutabili del giusto e dell'ingiusto impongono un obbligo non solo alle creature umane, ma anche alla stessa Divinità: tutti questi sistemi condividono l'opinione che la moralità, come la verità, venga colta semplicemente mediante idee e mediante la loro giustapposizione e il loro confronto 1 • Perciò, per giudicare questi sistemi, non dobbiamo far altro che considerare se con la sola ragione sia possibile distinguere tra il bene e il male morale, o se per metterei in condizione di fare questa distinzione si debba avere il concorso di qualche altro principio. Se la morale non avesse naturalmente alcuna influenza sulle passioni e sulle azioni umane, sarebbe vano darsi tanta pena per inculcarla; e non vi sarebbe nulla di più sterile della molteplicità di regole e di precetti di cui abbondano tutti i moralisti. [.. .] Quindi, poiché la morale ha un'influenza sulle azioni e sulle affezioni, ne consegue che essa non può derivare dalla ragione, e ciò in quanto la sola ra-

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1. Il riferimento polemico di Hume è amplissimo, andando a colpire tutte le concezioni razionalistiche

dell'etica, che hanno trattato di norme morali- immutabili e oggettive. Oltre a Locke e a tutta la tradizione giusnaturalistica, i riferimenti più diretti di Hume sono alle teorie del newtoniano Clarke.

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ii ! :

Secondo ar!Jomonto: iluizio o la uirtù non risiedono in l'olazioni tra idee

L'esempio delparricidio

gione, come si è già dimostrato, non può mai avere un'influenza del genere. La morale suscita le passioni e produce o impedisce le azioni. La ragione di per se stessa è del tutto impotente in questo campo. Le regole della morale, perciò, non sono delle conclusioni della nostra ragione. [... ]Ma per essere più precisi e per dimostrare che una filosofia solida non può mai difendere questa eterna e immutabile armonia o disarmonia delle cose, possiamo soppesare le considerazioni seguenti. Se il pensiero e l'intelletto fossero da soli in grado di fissare i confini del giusto e dell'ingiusto, il carattere del vizio e della virtÌ:l o dovrebbe risiedere in certe relazioni degli oggetti, o essere un dato di fatto che il nostro ragionamento dovrebbe scoprire. Questa conclusione è evidente. Poiché le operazioni dell'intelletto umano si dividono in due specie, il confronto di idee e l'inferenza di dati di fatto, se la virtù fosse scoperta dall'intelletto, dovrebbe essere oggetto di una di queste operazioni, né esiste una terza operazione dell'intelletto che potrebbe scoprirla. Alcuni filosofi si sono laboriosamente impegnati a diffondere l'opinione che la morale sia suscettibile di dimostrazione 2 , e per quanto nessuno eli essi sia mai stato capace di progredire di un solo passo in queste dimostrazioni, pur tuttavia danno per scontato che questa scienza possa essere portata a una certezza eguale a quella della geometria e dell'algebra. Secondo questa ipotesi il vizio e la virtù devono consistere in certe relazioni, in quanto da ogni parte si conviene che nessun dato eli fatto è suscettibile di dimostrazione. [.. .] Ma per rendere più chiare e più convincenti queste considerazioni generali, possiamo delucidarle con alcuni esempi particolari, nei quali questa qualità del bene e del male morale è riconosciuta con la massima universalità. Di tutti i delitti che le creature umane sono capaci di commettere, l'ingratitudine è il più orrendo e innaturale, specialmente quando è rivolta contro i genitori, e si rivela soprattutto nei casi di ferite e di morte. Tutti gli uomini lo riconoscono, gente comune e filosofi; ma solo tra i filosofi nasce il problema se la colpevolezza o la bruttezza morale di questa azione venga scoperta in virtù di un ragionamento dimostrativo o venga invece percepita mediante un senso interno e con un certo sentimento che nasca naturalmente quando si riflette su questa azione. Questo problema sarà rapidamente risolto in senso contrario alla prima di queste due tesi, se riusciremo a dimostrare che le stesse relazioni sono presenti in altri oggetti senza che siano accompagnati dalle nozioni di colpa o di iniquità. [... ] Quindi, per sottoporre tutta la questione a tale prova, scegliamo un oggetto inanimato, come una quercia o un olmo; supponiamo che con la caduta dei suoi semi esso faccia germogliare ai suoi piedi un alberello che, crescendo progressivamente, alla fine sorpassi e distrugga l'albero genitore; mi domando: in questo caso risulterebbe mancante una qualche relazione, rintracciabile invece nel parricidio o nell'ingratitudine? L'uno non è forse la causa dell'esistenza dell'altro? E il secondo non è forse la causa della distruzione del primo, allo stesso modo di quando un figlio uccide suo padre? Non basta replicare che manca una scelta o una volontà. Infatti nel caso del parricidio la volontà non genera delle relazioni differenti, ma rappresenta solo la causa da cui procede l'azione, e di conseguenza la volontà produce le stesse relazioni che, per la quercia o l'olmo, sorgono da altri princìpi. Sono la volontà o la scelta che determinano un uomo a uccidere suo padre, e sono le leggi della

2. Il riferimento è alla dottrina difesa da Locke nel suo Saggio sull'intelletto umano.

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L'esempio dell'incesto

La mm·alità non consiste in nessun

dato di fatto

Le distinzioni morali Sllllll O!J!Ji.!UII

del sentimento

materia e del moto che determinano un alberello a distruggere la quercia da cui è nato. Quindi le medesime relazioni hanno qui cause differenti, ma pur tuttavia le relazioni sono sempre le stesse: e poiché la loro scoperta non si accompagna in nessuno dei due casi con una nozione di immoralità, ne deriva che questa nozione non nasce da tale scoperta. Ma per scegliere un caso in cui la rassomiglianza sia ancora maggiore, sarei ansioso di sapere: perché l'incesto nella specie umana è un delitto, e perché la stessa azione e le stesse relazioni tra gli animali non hanno la minima turpitudine e bruttezza morale? Se si risponde che questa azione è innocente tra gli animali poiché essi non possiedono una ragione in grado di scoprire la sua turpitudine, mentre per l'uomo, essendo egli dotato di questa facoltà che dovrebbe farlo attenere al suo dovere, la medesima azione diviene immediatamente criminosa; a chi sostenesse ciò replicherei che evidentemente il ragionamento è circolare. Infatti, prima che la ragione possa percepire questa turpitudine, la turpitudine deve esistere: di conseguenza essa è indipendente dalle decisioni della nostra ragione, ed è più propriamente il loro oggetto che il loro effetto. Secondo questo sistema, quindi, ogni animale che possiede senso, appetiti e volontà, cioè a dire tutti gli animali, deve essere capace di tutte le stesse virtù e gli stessi vizi in base ai quali lodiamo e biasimiamo le creature umane. L'unica differenza sta nel fatto che la superiorità della nostra ragione può servire a scoprire il vizio o la virtù, e in questo modo può accrescere il biasimo o la lode. [. ..] Questo ragionamento non solo dimostra che la morale non consiste in certe relazioni, che sono invece gli oggetti della scienza; ma se l'andremo a esaminare ci dimostrerà con eguale certezza che la moralità non consiste in nessun dato di fatto che si possa scoprire con l'intelletto. Questa è la seconda parte della nostra argomentazione, e se riusciremo a renderla evidente, potremo concludere che la morale non è un oggetto di ragione. Ma può mai esserci difficoltà a dimostrare che il vizio e la virtù non costituiscono dei dati di fatto la cui esistenza possiamo inferire con la ragione? Prendiamo un'azione ritenuta viziosa, ad esempio un omicidio premeditato; esaminiamola da tutti i punti di vista e vediamo se riusciamo a scoprire il dato di fatto, o esistenza reale, che chiamiamo vizio. In qualsiasi maniera la prendiate troverete solo certe passioni, motivi, volizioni e pensieri; non vi sono altri dati di fatto. Il vizio sfuggirà completamente fino a quando considerate l'oggetto. Non potrete mai scoprirlo fino a che non volgerete la vostra riflessione al vostro cuore in cui troverete che è sorto un sentimento di disapprovazione nei confronti di questa azione. Ecco allora un dato di fatto, ma oggetto del sentimento e non della ragione. Esso si trova in voi, non nell'oggetto. Così, quando dichiarate viziosa un'azione o un carattere, non intendete dire niente altro che, data la costituzione della vostra natura, voi provate un senso o un sentimento di biasimo nel contemplarli. Il vizio e la virti:J possono, perciò, essere paragonati ai suoni, ai colori, al caldo e al freddo che, secondo la filosofia moderna, non sono qualità degli oggetti, ma percezioni della mente; questa scoperta in morale, così come l'altra in fisica, deve essere considerata come un rilevante progresso delle scienze speculative, sebbene anch'essa come l'altra abbia in pratica un'influenza minima o nulla. Niente può essere più reale o interessarci di più che i nostri sentimenti di piacere e dolore, e se questi sentimenti sono favorevoli alla virtù e sfavorevoli al vizio, non occorre certo niente altro per regolare la nostra condotta e il nostro comportamento.

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Non bisogna confondei'll il pi;mo

dell'essere, dei fatti, col pi;mo del doue1· I!SfUII'!l 1 dei llllillri

Non posso evitare di aggiungere a questi ragionamenti un'osservazione, che può forse risultare di una certa importanza. In ogni sistema di morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l'autore va avanti per un po' ragionando nel modo più consueto, e afferma l'esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è e non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti. Ma poiché gli autori non seguono abitualmente questa precauzione, mi permetto di raccomandarla ai lettori, e sono convinto che un minimo di attenzione a questo riguardo rovescerà tutti i comuni sistemi di morale e ci farà capire che la distinzione tra il vizio e la virtù non si fonda semplicemente sulle relazioni tra gli oggetti e non viene percepita mediante la ragione.

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D. I-lume, Trattato sulla natura umana, pp. 482-497

Ragione e libertà: Kant Nei suoi scritti morali, Kant discute molteplici e diverse posizioni teoriche. Nel brano proposto~ tratto dalla Critica della ragion pratica, Kant enuncia la preliminare distinzione tra massime che sono principi soggettivi e particolari dell'agire e leggi, principi questi ultimi che hanno invece validità oggettiva e universale ~11-5. L'autore esclude inizialmente che la moralità possa essere fondata su di un sentimento, perché nessuna considerazione di piacere o dispiacere, che è materia della facoltà di desiderare, è in grado di dar vita a leggi, principi universali, validi per ogni essere razionale ~16-13. l principi fondati sul desiderio sono infatti sempre empirici e a posteriori e dunque contingenti e particolari ~114-27. l sentimenti di piacere e dolore costituiscono perciò soltanto delle massime, dei principi materiali riconducibili ai moventi dell'amor di sé o della ricerca della propria felicità, che mai possono aspirare a diventare leggi ~128-34. Capovolgendo perciò la prospettiva di Hume, la possibilità che esistano leggi pratiche, valide universalmente, risiede per l144-51. Il fine dell'estetica è la perfezione della conoscenza sensibile. Tale fine è la bellezza, espressione di perfezione e ordine H 52-55

lli'.iml L'oggetto dell'estetica è la COIIIl!itllllZII sensibile

L'estetica è una scienza in grado di introdurre alle scienze della•·agione e dell'intelletto

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Intt·oduzione l. L'estetica (teoria delle arti liberali, gnoseologia inferiore, arte del pensare in mo-

do bello, arte dell'analogo della ragione) è la scienza della conoscenza sensibile. 2. Il grado naturale delle facoltà conoscitive inferiori, sviluppato con la sola pratica senza alcuna conoscenza disciplinare, può essere detto estetica naturale, ed esser distinto, come è d'uso anche per la logica, in estetica innata (l'ingegno bello innato) e acquisita; questa a sua volta la si può distinguere in dottrinale e applicata. 3. Fra le applicazioni principali dell'estetica artificiale, che si aggiunge a quella naturale, ci sarà: (l) preparare la materia adatta per le scienze che devono essere conosciute in modo preminente con l'intelletto, (2) adattare alla comprensione comune le conoscenze scientifiche, (3) estendere l'affinamento della conoscenza anche al di là dei limiti di ciò che possiamo conoscere in modo distinto, (4) fornire buoni principi a tutti gli studi più gentili e alle arti liberali, (5) nella vita comune, a parità di condizioni, eccellere nella ' condotta. [. .. ] 6. Alla nostra scienza si potrebbe obiettare: che le cose sensibili, le immagini fantastiche, le favole, le passioni e così via, siano indegne dei filosofi e poste al di sotto del loro orizzonte. Rispondo: (a) il filosofo è uomo fra gli uomini, e non fa bene se ritiene estranea a sé una parte tanto grande della conoscenza umana, (b) si confonde la teoria generale di ciò che è pensato in modo bello con la prassi e con l'esecuzione singola. 7. Obiezione: la confusione è madre dell'errore. Rispondo: (a) ma è condizione indispensabile per la scoperta della verità, dal momento che la natura non fa un salto dall'oscurità alla distinzione. Dalla notte, attraverso l'aurora, si arriva al pieno mezzogiorno; (b) bisogna aver cura della confusione appunto perché non ne nascano i tanti e tanto grandi errori che sono abituali in chi non se ne cura; (c) non si raccomanda la confusione, ma si corregge la conoscenza, nella misura in cui una qualche confusione è necessariamente mescolata ad essa. 8. Obiezione: la conoscenza distinta è superiore. Rispondo: (a) presso uno spirito finito lo è solo negli affari più importanti; (b) porre una cosa non esclude l'altra; (c) proprio per questo innanzitutto procediamo a dirigere secondo regole conosciute distintamente ciò che deve essere conosciuto in modo bello, augurandoci che da questa possa sorgere in futuro una distinzione tanto più perfetta (cfr. §§ 3, 7). [... ] 10. Obiezione: l'estetica è arte, non scienza. Rispondo: (a) queste non sono attitudini contrapposte. Quante di quelle che un tempo erano solo arti non sono ora anche scienze? (b) Che la nostra arte possa essere oggetto di dimostrazione lo proverà l'esperienza, ed è evidente a priori, perché la psicologia e altre scienze filosofiche forniscono principi certi; che meriti di essere elevata a scienza lo insegnano alcune delle applicazioni dell'estetica ricordate, fra le altre, nei §§ 3-4. [... ]

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, '"''"'""" ha il compito di elevare i le facoltà infel'iiii'Ì

Il fine dell'estetica è !a bellezza

12. Obiezione: le facoltà inferiori, la carne, devono piuttosto esser debellate che eccitate e rafforzate. Rispondo: (a) si richiede dominio, non tirannide, sulle facoltà inferiori; (b) a tale scopo, fino a quel punto che è possibile ottenere per via naturale, l'estetica condurrà quasi per mano; (c) le facoltà inferiori, nella misura in cui sono corrotte, non devono essere eccitate e rafforzate dagli estetici, ma piuttosto da essi guidate perché non si corrompano ancor di più con attività sbagliate oppure, col pigro pretesto di evitarne l'abuso, non ci si privi dell'uso di un talento concesso da Dio. [... ] I. La bellezza della conoscenza 14. Fine dell'estetica è la perfezione della conoscenza sensibile, in quanto tale (cfr. § 1). E questa è la bellezza. Occorre invece guardarsi dall'imperfezione di questa conoscenza, in quanto tale (cfr. § 1). E questa è la bruttezza.

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A.G. Baumgarten, L'Estetica, pp. 27-30

Soggettività e relatività del bello: Hume Nel seguente brano~ di Hume, tratto da La regola del gusto del1757, il bello, al pari del brutto, il suo contrario, emerge da un giudizio che non si riferisce a nessuna qualità che è propria delle cose in se stesse, ma soltanto a uno stato mentale di chi percepisce la bellezza. Non c'è dunque una regola assoluta del bello, perché la sua percezione è del tutto soggettiva. Come suggerisce l'autore richiamando una nota sentenza, il giudizio estetico, al pari del senso esterno di gusto, rende inutile ogni disputa, perché ciascuno è legittimato a difendere la propria opinione soggettiva e personale ~>11-11. Resta tuttavia possibile individuare delle regolarità e delle convergenze nel gusto, che sono però puramente empiriche e non possono avanzare alcuna pretesa di valere necessariamente e universalmente in tutti i luoghi e in tutti i tempi 1>112-24. Tali uniformità dipendono anzitutto dalla conformazione fisica dei nostri organi di senso, dallo stato in cui si trova chi avanza un giudizio di gusto, anche in virtù della sua educazione e dei suoi pregiudizi ~>12538. Del resto, osserva Hume, è possibile educare gli uomini al gusto estetico, esercitando la loro immaginazione alla squisitezza, ossia affinando il loro sentimento e abituando la loro ragione a non avanzare pregiudizi ~>139-55.

La bellezza, conu1 la brulttezl!a. è assolutamente B'elatiua e soggettiva

L'unifm·mità nei giudizi di ousto 111111 ha alcun significate uniuersale

La bellezza non è una qualità delle cose stesse: essa esiste soltanto nella mente che le contempla, ed ogni mente percepisce una diversa bellezza. È persino possibile che una persona percepisca una bruttezza là dove un'altra prova un senso di bellezza: ogni individuo dovrebbe accontentarsi del suo sentimento personale, senza pretendere di regolare quello degli altri. La ricerca della bellezza reale o della bruttezza reale è altrettanto feconda quanto la pretesa di determinare ciò che è realmente dolce o ciò che è realmente amaro. Secondo la disposizione degli organi lo stesso oggetto può essere tanto dolce che amaro; e la sentenza ha giustamente stabilito che è inutile disputare sui gusti. È naturalissimo, e persino necessario, l'estendere questo assioma al gusto dello spirito, oltre che al gusto corporeo. [... ] È evidente che nessuna regola di composizione può essere fissata mediante ragionamenti a priori. [... ] Il loro fondamento è quello stesso eli tutte le altre scienze pratiche: l'esperienza; e non sono altro che osservazioni generali relative a ciò che si è trovato piacevole in tutti i paesi e in tutte le epoche. [. ..] Sebbene

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Anche fattori fisici e psicologici influiscono determinando il giudizio

Il pi•egiudizio condiziona soprattutto il sentimento della bellezza

L'educazione estetica

tutte le regole generali dell'arte siano fondate soltanto sull'esperienza e sull'osservazione dei sentimenti comuni della natura umana, non dobbiamo però immaginare che, in ogni occasione, i sentimenti degli uomini debbano essere conformi a queste regole. Sono fra le emozioni più sottili dello spirito, e dinatura molto tenera e delicata; esse richiedono il concorso di molte circostanze favorevoli per poter agire, con facilità ed esattezza, in conformità dei loro princìpi generali stabiliti. Il minimo impedimento esteriore che queste piccole cause incontrino, o il minimo di disordine interno, ne disturba il movimento e confonde l'operazione di tutta quanta la macchina. [... ] Partendo dalla struttura originale della fabbrica interiore 1 si può calcolare che certe particolari forme o qualità piaceranno, e che altre dispiaceranno; e se il loro effetto mancherà in qualche caso particolare, ciò deriva da qualche evidente difetto o imperfezione dell'organo. Un uomo con la febbre non sosterrebbe che il suo palato è adatto a decidere sui sapori, né uno, che fosse affetto da daltonismo, pretenderebbe di dare un verdetto intorno ai colori. In ogni creatura vi è uno stato sano ed uno difettoso e si può supporre che soltanto il primo è in grado di darci una vera regola del gusto e del sentimento. [.. .] Capitano accidenti e situazioni particolari che o gettano una falsa luce sugli oggetti, o impediscono al vero di mandare all'immaginazione il sentimento e la percezione giusti. Una causa evidente per cui molti non possono sentire il sentimento giusto della bellezza è la mancanza di quella «squisitezza, dell'immaginazione che è necessaria per essere sensibili a queste che sono fra le emozioni più raffinate. [... ] È noto che, in tutte le questioni che si sottopongono all'intelletto, il pregiudizio è nocivo al sano giudizio e guasta tutte le operazioni delle facoltà intellettuali; ma non è meno contrario al buon gusto, né ha meno efficacia nel corrompere il nostro sentimento della bellezza. In entrambi i casi è compito del «buon senso, il neutralizzarne l'influenza; e da questo punto di vista, come da molti altri, la ragione, anche se non è una parte essenziale del gusto, è per lo meno una condizione perché quest'ultima facoltà possa operare. In tutte le nobili produzioni del genio vi è una reciproca relazione e corrispondenza delle parti: e le bellezze o i difetti non possono venir percepiti da colui il cui pensiero non sia abbastanza capace di comprendere tutte queste parti, e confrontarle fra di loro allo scopo di percepire la coerenza e l'uniformità dell'insieme.[. .. ] I princìpi generali del gusto sono uniformi nella natura umana: e quando v'è qualche variazione nei loro giudizi si può, di solito, osservare l'esistenza di qualche difetto o perversione nelle facoltà, difetti che derivano o dal pregiudizio, o dalla mancanza di pratica o dalla mancanza di squisitezza; e vi sono dei giusti motivi per approvare un gusto e riprovarne un altro. D. Hume, La regola del gusto, vol. I, pp. 347-350

1. Dall'analisi fisica dei nostri organi eli senso.

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Il bello: un piacere universale e necessario secondo Kant Come mostra il brano lliE tratto dalla Critica del Giudizio, secondo Kant il giudizio di gusto sul bello non è un giudizio conoscitivo, determinante, bensì riflettente; schierandosi con gli empiristi e contro Baumgarten, Kant ritiene dunque che il riferimento alla bellezza non riveli nessuna qualità dell'oggetto, bensì soltanto un sentimento di piacere del soggetto. Il giudizio di gusto esprime una finalità che è solo formale e soggettiva, ossia non riferita né a un concetto né a un oggetto, bensì fondata su di un sentimento di piacere che sorge solo da un accordo tra la rappresentazione dell'oggetto e le nostre facoltà conoscitive, istaurando un libero gioco tra immaginazione e intelletto .,.11-22. A differenza di quanto sostenuto dagli empiristi, tuttavia, il giudizio di gusto sul bello non deve essere confuso con un giudizio su ciò che è meramente piacevole, vale a dire su quel che piace in maniera puramente soggettiva e relativa. Come vorrebbero i razionalisti, anche per Kant il giudizio di gusto aspira davvero, come tutti i giudizi determinanti, a rinvenire qualcosa che sembra appartenere in maniera necessaria all'oggetto e non solo al soggetto .,.122-48. Secondo Kant, infatti, il giudizio sul bello, fondandosi sul principio riflettente a priori della finalità, esige di essere condiviso, perché connesso a condizioni universali e necessarie che sono proprie della capacità di ogni giudizio umano ~149-67.

ED il bello è 1111 sentimentn

di piacere che sorge da un accordo t1•a la rappresentazione dell'oggetto e l'intelletto

Il giudizio di gusto ad 1111!1111111!1'1:! ualiditiì universale e oecessaria1

Quando il piacere è legato con la semplice apprensione (apprehensio) della forma di un oggetto dell'intuizione, senza riferimento di essa ad un concetto in vista di una conoscenza determinata, la rappresentazione non è riferita all'oggetto, ma unicamente al soggetto; e il piacere non può esprimere altro che l'accordo dell'oggetto con le facoltà conoscitive che sono in giuoco nel Giudizio riflettente, e in quanto vi sono in giuoco, e quindi soltanto una finalità soggettiva formale dell'oggetto. Giacché quella apprensione delle forme nell'immaginazione non può mai avvenire, senza che il Giudizio riflettente almeno le paragoni, anche inintenzionalmente, con la sua facoltà di riferire le intuizioni ai concetti. Ora, se in questa comparazione l'immaginazione (come facoltà delle intuizioni a priori) si trova d'accordo spontaneamente con l'intelletto, come facoltà dei concetti, mediante una rappresentazione data, ed è suscitato un sentimento di piacere, allora l'oggetto deve essere riguardato come conforme al fine rispetto al Giudizio riflettente. Un giudizio cosiffatto è un giudizio estetico sulla finalità dell'oggetto, e che non si fonda sopra alcun concetto dato dell'oggetto, né ne fornisce alcuno. Si giudica cioè la forma dell'oggetto (non l'elemento materiale della sua rappresentazione, come sensazione), nella semplice riflessione su di essa - senza alcuna -mira a un concetto che se ne potrebbe ricavare - come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un tal oggetto; e questo piacere viene pure considerato connesso con tale rappresentazione in modo necessario, e quindi non solo per il soggetto che apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante in generale. L'oggetto allora si chiama bello, e la facoltà di giudicare mediante tale piacere (e, per conseguenza, universalmente) si chiama gusto. Poiché, infatti, il fondamento ciel piacere è posto soltanto nella forma dell'oggetto rispetto alla riflessione in generale, quindi non in qualche sensazione dell'oggetto, ed anche senza riferimento ad un concetto che contenga uno scopo: ciò che si accorda con la rappresentazione dell'oggetto nella riflessione, di cui le condizioni a priori hanno un valore universale, è solo la legittimità, nel soggetto, dell'uso empirico del Giudizio in generale (unità dell'immaginazione e dell'intelletto); e, poiché que-

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sta concordanza dell'oggetto con le facoltà del soggetto è contingente, ne risulta la rappresentazione di una finalità dell'oggetto rispetto alle facoltà conoscitive del soggetto. Ora questo piacere, come ogni piacere, o dispiacere che non sia prodotto dal concetto della libertà (vale a dire, mediante la determinazione anteriore della facoltà superiore di desiderare, per via della ragion pura), non può essere mai considerato secondo concetti come necessariamente legato con la rappresentazione di un oggetto; ed invece deve essere riconosciuto come congiunto necessariamente con quella, soltanto mediante la percezione riflessa, e, per conseguenza, come tutti i giudizi empirici, esso non può attribuirsi alcuna necessità oggettiva e pretendere a priori alla validità universale. Ma il giudizio di gusto, come tutti i giudizi empirici, ha soltanto la pretesa di esser valido per ognuno; ciò che, malgrado l'intima contingenza di esso, è sempre possibile. Ciò che vi è qui di strano e di singolare è che non un concetto empirico, ma un sentimento di piacere (e quindi nessun concetto), debba essere dal giudizio di gusto attribuito ad ognuno, come se fosse un predicato legato alla conoscenza dall'oggetto e debba esser congiunto con la rappresentazione dell'oggetto stesso. Un giudizio singolare eli esperienza, quello, per esempio, di colui che in un cristallo di rocca percepisce una goccia d'acqua mobile, esige con ragione di essere condiviso da tutti, perché esso è stato dato secondo le condizioni generali del Giudizio determinante, sotto le leggi di una esperienza possibile in generale. Allo stesso modo pretende con ragione al consenso di ognuno colui che, riflettendo semplicemente sulla forma di un oggetto, senza aver in vista alcun _ concetto, prova piacere, sebbene questo giudizio sia empirico e singolare, perché il fondamento di questo piacere si trova nella condizione universale, sebbene soggettiva, dei giudizii riflettenti, cioè nell'accordo finalistico, richiesto da ogni conoscenza empirica, di un oggetto (di un prodotto dell'arte o della natura) col rapporto delle facoltà conoscitive tra loro (l'immaginazione e l'intelletto). Sicché il piacere nel giudizio di gusto dipende, è vero, da una rappresentazione empirica, e non può essere legato a priori con un concetto (non si può determinare a priori quale oggetto debba accordarsi col gusto, e quale no: bisogna farne esperienza); ma il piacere è fondamento di tale giudizio sol perché si ha coscienza che esso riposa unicamente sulla riflessione e sulle condizioni universali, sebbene soltanto soggettive, dell'accordo della riflessione stessa con la conoscenza degli oggetti in generale, rispetto al quale accordo la forma dell'oggetto è conforme al fine. I. Kant, Critica del Giudizio, pp. 49-53

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a questione sull'origine del male che risuona con forza nelle parole di Agostino d'Ippona (354-430 d.C.), di Severino Boezio (480-526 d.C.), era già stata sollevata in età pagana da Epicuro e dai suoi seguaci contro la concezione del destino difesa dagli stoici. È un problema antico, quello che il filosofo francese Pierre Bayle (1647-1706) ripropone anche in età moderna con nuova forza e drammaticità nel suo Dictionnaire historique et critique (Dizionario storico e critico) pubblicato a Rotterclam nel 1697. A Bayle replica Leibniz pubblicando nel 1710 i Saggi di teodicea (dai lemmi greci théos, "clio, e da dilee, «giustizia", ovvero "dottrina della giustizia eli Dio•.), nei quali difende una concezione ottimistica, tesa a negare o sminuire la realtà del male nel mondo. A poco più eli quarant'anni dai Saggi di Teodicea, a seguito del terremoto eli Lisbona del 1755 in cui persero

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la vita 30.000 persone, la questione conosce un nuovo sussulto con l'intervento di Voltaire e l'immediata contro replica di Rousseau. Per Voltaire il disastro è la riprova che Dio non si occupa dell'uomo, del suo destino ed è una confutazione eli fatto dell'ottimismo eli Leibniz. Nella sua replica Rousseau difende invece risolutamente la bontà di Dio, non rinunciando all'ottimismo e alla speranza nella provvidenza divina. Pure Kant interviene nel dibattito, scrivendo Storia e descrizione naturale dei fenomeni più considerevoli del terremoto che alla fine del l 755 ha scosso gran parte della terra. Ma sul tema il filosofo eli Konigsberg sarebbe tornato acl interrogarsi anche nella fase matura della sua riflessione, utilizzando gli strumenti della critica e i risultati acquisiti dalla filosofia trascendentale, come mostra lo scritto del 1794 Sul fallimento di ogni tentativo di teodicea.

Voltaire e la critica dell'ottimismo leibniziano Voltai re scrive il Poème sur le désastre de Lisbonne subito dopo il terremoto di Lisbona del 1755, sull'onda emotiva generata dalla tragedia. l riferimenti polemici alla dottrina di Leibniz sul migliore dei mondi possibili e alla teoria del «tutto è bene» sono espliciti, evidenti, continui ~~>11-7. Così com'è diretta la critica rivolta contro tutti quei filosofi e teologi che, come Malebranche, si appellano alla saggezza di Dio e alle leggi generali che governano la natura, senza prevedere miracoli o interventi divini straordinari jl>l8-18. Piene di sarcasmo sono le parole di Voltaire rivolte contro le superstizioni del popolo, prontamente alimentate dal clero, che chiamano in causa la punizione divina. Disperata è infine la conclusione di Voltaire, che nell'onnipotenza di Dio non riesce più a scorgere elementi di speranza jl>l19-48.

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lii[ll Dopo il terremoto di Lisbona risulta insostenibile ••itenere ancora che ««tutto è bene»•

È impossibile !JÌIIStifical·e Ilio dinanzi a un simile disast1•o

Ogni speranla 11111111111 sembra l'idursi a pura illusione

O infelici mortali! O terra degna di pietà! O cumulo spaventoso eli tutti i flagelli! Successione eterna eli inutili dolori! Filosofi illusi, che gridate Tutto è bene, accorrete, contemplate queste orrende rovine, queste macerie, questi detriti, queste ceneri miserancle, queste donne, questi bambini ammucchiati l'uno sull'altro, queste membra disperse sotto i marmi infranti; centomila sventurati divorati dalla terra, che terminano i loro giorni miserevoli sanguinanti, straziati e ancora palpitanti, sepolti sotto le loro case [.. .l. Udendo le grida semisoffocate delle loro voci spiranti, scorgendo lo spettacolo spaventoso delle loro ceneri fumanti, direte forse: «È questo l'effetto di leggi eterne che presuppongono la scelta di un Dio libero e buono,? Direte, vedendo questi mucchi di vittime: «Dio si è vendicato, la loro morte è il prezzo dei loro delitti»? Quale errore, quale delitto hanno commesso questi fanciulli schiacciati, sanguinanti, sul seno materno? Lisbona, che più non esiste, ebbe forse vizi maggiori di Londra, di Parigi, immerse nei loro piaceri? Lisbona è distrutta, e a Parigi si danza. Animi spregiudicati, spettatori tranquilli, mentre contemplate il naufragio dei vostri fratelli morenti, indagate in pace le cause delle tempeste: ma quando avvertite i colpi della sorte avversa, diventando più umani, piangete al pari di noi. Credetemi, quando la terra schiude i suoi abissi, il mio lamento è senza colpa e le mie grida legittime. Partecipi dei nostri mali, concedete il lamento a noi, che siamo da ogni parte circondati dalle crudeltà del fato, dalle furie dei malvagi, dalle insidie della morte, che siamo sottoposti agli assalti di tutti gli elementi. È l'orgoglio, voi dite, l'orgoglio ribelle, a pretendere, stando male, di poter stare meglio. Anelate a interrogare le rive del Tago; frugate fra le macerie eli quella sanguinosa devastazione; domandate ai morenti, in questo giorno di terrore, se è l'orgoglio che grida: «Cielo, soccorrimi! O cielo, abbi pietà dell'umana miseria!". Tutto è bene, voi dite, e tutto è necessario. Come? L'universo intero, senza questa voragine infernale, se non avesse inghiottito Lisbona, sarebbe stato peggio? Siete certi che la causa eterna che fa tutto, che sa tutto, che creò tutto per sé, non potesse gettarci in queste tristi atmosfere senza aprire dei vulcani in fiamme sotto i nostri passi? Imporreste tali limiti al supremo potere? Gli proibireste eli esercitare la sua clemenza? L'artigiano eterno non ha forse nelle sue mani mezzi infiniti per realizzare i suoi piani? In tutta umiltà, senza offendere il mio padrone, io vorrei che questo abisso eli zolfo e di salnitro in fiamme avesse fatto avvampare i suoi fuochi nel fondo dei deserti. Rispetto Dio, ma amo l'universo. Quando l'uomo osa gemere per un flagello così tremendo, non è orgoglioso, ahimè! È soltanto sensibile. [. .. ] Un giorno tutto sarà bene, ecco la nostra speranza. Tutto è bene oggi, ecco l'illusione. I dotti m'ingannavano, e Dio solo ha ragione. Umile nei miei sospiri, sottomesso nella mia sofferenza, non mi levo contro la Provvidenza. Mi vedeste un tempo cantare con tono meno lugubre le seducenti leggi dei dolci piaceri: altri tempi, altre abitudini: ammaestrato dalla vecchiaia, condividendo la debolezza degli uomini smarriti, cercando un-po' di luce in una notte fitta, sono soltanto capace eli soffrire, non so mormorare. Un califfo, una volta, nella sua ultima ora, al Dio che adorava disse questo, come sola preghiera: «O unico re! O unico essere privo di limiti! Io ti reco tutto ciò che tu non possiedi nella tua immensità, i difetti, i rimpianti, i mali e l'ignoranza,. Ma avrebbe potuto aggiungere la speranza. Voltaire, Il sommo male. Poema sulla legge naturale. Poema sul disastro di Lisbona, pp. 117-124

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L'irrinunciabile speranza: la replica di Rousseau a Voltaire Voltaire aveva inviato una copia del suo Poema anche a Rousseau, convinto di riceverne apprezzamento e condivisione. La reazione dell'interlocutore, affidata ad una lettera del18 agosto del 1756, da cui è tratto il brano~. è invece inattesa e spiazzante, nonché destinata a deteriorare definitivamente i rapporti fra i due. Nell'ottimismo di Leibniz, Rousseau trova una consolazione irrinunciabile: la speranza nell'esistenza di una divinità buona alla quale credere nonostante tutto ~>11-19. A differenza di Voltai re, Rousseau non è disposto a barattare l'onnipotenza con l'infinita bontà di Dio ~>120-32. Del resto, egli osserva come il male che è scaturito dal disastro di Lisbona dipenda in gran parte dall'uomo: non dipende certo da Dio, se gli uomini non hanno costruito solide case; non è colpa di Dio, se anziché mettersi al riparo, gli abitanti di Lisbona hanno cercato di salvare i loro averi esponendosi così ancor di più al rischio e alla morte ~>133-43. Oltretutto il terremoto è apparso come una catastrofe divina solo perché ha colpito Lisbona, una città popolosa, al centro di comunicazioni internazionali e all'attenzione della pubblica opinione europea. Lo stesso evento non avrebbe avuto la stessa eco se fosse accaduto nel deserto o in una città lontana dagli occhi e dal cuore degli Europei ~>143-55. Il terribile evento di Lisbona, secondo Rousseau, non dissolve il problema tra credere e non credere, rimanere credenti o diventare atei; la questione della fede non si risolve con la ragione, bensì con la fede stessa. E credere in Dio significa per lui immacabilmente credere in un Dio buono

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l'ottimismo consola, irmitn alla e alla speranza

~>156-72.

Vi riferirò senza giri di parole non tanto delle bellezze che ho individuato nei vostri due poemi- il compito spaventerebbe la mia indole pigra- e nemmeno dei difetti dei quali si accorgeranno forse lettori ben più bravi di me, ma dei dispiaceri che in questo momento offuscano la gioia che pur provo dai vostri insegnamenti. [... l Rimproverate a Pope 1 e a Leibniz di insultare i nostri mali sostenendo che tutto è bene e ingigantite talmente il quadro delle nostre miserie che ne aggravate il peso: invece delle consolazioni in cui speravo, voi finite col rattristarmi [.. .] State in guardia, Signore, accade esattamente il contrario di ciò che sostenete. Quell'ottimismo che trovate tanto crudele mi consola, tuttavia, di quegli stessi dolori che descrivete come insopportabili. Il poema di Pope allevia i miei mali e mi invita alla pazienza; il vostro inasprisce le mie pene, mi spinge a lamentarmi e, togliendomi tutto all'infuori di qualche briciola di speranza, mi porta alla disperazione.[ ... ] «Uomo, sii paziente,, mi ricordano Pope e Leibniz, "i tuoi mali sono una conseguenza ineluttabile della natura umana e della costituzione di quest'universo. L'Essere eterno e benevolo che lo dirige avrebbe voluto tenerli lontani da te: tra tutte le varianti possibili ha scelto quella che aveva meno male e più bene o, per dire la cosa più brutalmente, se non ha fatto meglio vuoi dire che non era possibile farlo». Ora, cosa mi dice, invece, il vostro Poema? «Soffri per sempre, infelice. Se esiste un Dio che ti ha creato, senza dubbio è onnipotente; poteva evitarti tutti i mali: non sperare, dunque, che questi abbiano mai fine; perché non c'è altro motivo per la tua esistenza, oltre la sofferenza e la morte». Non capisco come una simile dottrina possa risultare più consolatrice dell'ottimismo e della stes-

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1. Il riferimento è al poeta inglese Alexancler Pope (1688-1744), il cui poema Saggio sopra l'uomo (Essay on man, 1732-1734) celebrava la divina bontà e saggezza. l

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sa fatalità. Confesso che per me è ancora più crudele del manicheismo. Se il problema dell'origine del male vi costringeva a intaccare qualcuna delle perfezioni di Dio, perché voler giustificare la sua potenza a scapito della sua bontà? Se è necessario scegliere tra i due errori, personalmente preferisco il primo. [... ] Inoltre, credo di aver dimostrato che eccetto la morte, che è un male solo se la si considera alla luce del modo con cui la aspettiamo e ci prepariamo ad essa, la maggior parte dei mali naturali di cui siamo afflitti sono anch'essi opera nostra. Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case eli sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto. Ciascuno sarebbe scappato alle prime scosse e si sarebbe ritrovato l'indomani a venti leghe di distanza, felice come se nulla fosse accaduto. Ma bisogna restare, ostinarsi intorno alle misere stamberghe, esporsi al rischio di nuove scosse, perché quello che si lascia vale più di quello che si può portar via con sé. Quanti infelici sono morti in questo disastro per voler prendere chi i propri abiti, chi i documenti, chi i soldi? [... ] Avreste voluto - e chi non l'avrebbe voluto! - che il terremoto si fosse verificato in una zona desertica, piuttosto che a Lisbona. Si può dubitare che non accadano sismi anche nei deserti? Soltanto che non se ne parla perché non provocano alcun danno ai Signori delle città, gli unici uomini di cui si tenga conto. Del resto, ne provocano poco anche agli animali e agli indigeni che abitano, sparsi, questi luoghi remoti e che non temono né la caduta dei tetti, né l'incendio delle case. Ma che significa un simile privilegio? Vorrebbe forse dire che l'ordine del mondo deve assecondare i nostri capricci, che la natura deve essere sottomessa alle nostre leggi e che per impedirle di provocare un terremoto in un certo luogo basta costruirvi sopra una città? Ci sono avvenimenti che ci colpiscono di più o di meno a seconda della prospettiva dai quali li si considera e che perdono buona parte dell'orrore che suscitano inizialmente quando si prende a esaminarli da vicino. [.. .] Se riporto tali diverse questioni alloro comune principio mi sembra che si riferiscano tutte all'esistenza di Dio. Se Dio esiste, è perfetto; se è perfetto, è saggio, onnipotente e giusto; se è saggio e onnipotente tutto è bene; se è giusto e onnipotente la mia anima è immortale; se la mia anima è immortale trent'anni eli vita non son nulla per me, mentre sono forse necessari alla conservazione dell'universo. [.. .] Quanto a me, vi confesserò francamente che non mi sembra che i lumi della ragione abbiano dimostrato né il "Pro" né il «contro" in merito a questa importante questione e che se il teista basa il suo sentimento solo sulle probabilità, mi pare che l'ateo, con ancor minor precisione, poggi invece il suo semplicemente sulle possibilità opposte. Inoltre, le obiezioni di entrambe le parti sono sempre insolubili perché poggiano su cose delle quali gli uomini non hanno alcuna idea precisa. Ne convengo in tutto e per tutto, e tuttavia credo in Dio con la stessa forza con cui credo in qualunque altra verità, perché credere o non credere sono le cose al mondo che meno dipendono dalla mia volontà. Lo stato del dubbio è una condizione troppo violenta per la mia anima. Quando la mia ragione è indecisa, la mia fede non può restare a lungo in sospeso e decide senza di essa. Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe. L'illuminismo e lajìloso.Jìa del disastro, pp. 23-32

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Kant: il fallimento della teodicea e la fede morale Il brano di Kant l§iE è tratto da uno scritto del 1794, Sul fallimento di ogni tentativo di teodicea. Come recita il titolo, Kant non ha dubbi: tutti i tentativi di teodicea finora prodotti al fine di scagionare Dio dall'accusa della presenza del male nel mondo sono falliti, perché hanno valicato i limiti della ragione umana, andando oltre ciò che essa può conoscere fondatamente riguardo Dio e il suo eventuale governo del mondo. Ciò non significa tuttavia che si debba rinunciare alla ragione, perché è anzi un diritto dell'uomo sottoporre ad esame ogni dottrina, ogni credenza ~11-9. Dinanzi al tribunale della ragione, il difensore della causa divina non può respingere ogni dubbio e ogni argomento contrario, semplicemente trincerandosi dietro l'indimostrato assunto iniziale della supposta bontà o saggezza di Dio ~11 0-23. Né può utilizzare argomenti muovendo dall'esperienza, circa la bellezza e la bontà esistenti nel creato, perché dinanzi a queste considerazioni è impossibile per l'uomo avere il dono dell'onniscienza e concludere che non sarebbe stato possibile un mondo migliore. Del resto, argomenta implicitamente Kant, è sempre possibile indicare anche esempi di controfinalità, come terremoti, catastrofi, dolori e sofferenze, che affliggono e hanno afflitto da sempre gli uomini ~123-30. Il fallimento della teodicea non dimostra però nemmeno il contrario, ossia come vorrebbe Voltai re che non esiste una guida saggia della natura ~131-38. Kant invita allora a riconoscere come la fede in un Dio somma bontà e giustizia trovi un fondamento esclusivamente nell'uso pratico, cioè come postulato morale della nostra ragion pura. Una simile posizione che aveva trovato già formulazione nella Critica della ragion pratica e nella Critica del Giudizio vede in questo testo un'esemplificazione suggestiva nella figura biblica di Giobbe. Nonostante tutte le avversità che improvvisamente lo colpiscono e gli argomenti dei suoi amici che chiamano in causa la giustizia divina per spiegarli, Giobbe rimane fedele al dovere, risoluto nel difendere una fede fondata esclusivamente sulla sua coscienza morale ~139-1 03.

L'mmma pa•etesa di giullical'll e sottoporr•e al tribunale della ragione ogni dottrina

Ogni teodicea è destinata a fallire dinanzi alla l'agione nel suo uso teoretico

Per teodicea s'intende la difesa della somma saggezza del creatore del mondo dalle accuse mossele dalla ragione per quel che di contrario al fine si riscontra nel mondo. Questo si chiama perorare la causa eli Dio, sebbene questa causa altro non sia, in fondo, che quella della nostra ragione che, presuntuosamente, non riconosce in questo caso i propri limiti; una causa che, in verità, non è delle migliori, ma che pure può essere patrocinata, nella misura in cui, messa da parte quella presunzione, l'uomo ha il diritto, come essere razionale, di sottoporre ad esame, prima di accoglierla, ogni affermazione, ogni dottrina che si imponga al suo rispetto, acciocché questo rispetto sia sincero e non simulato. [... ] L'autore d'una teodicea acconsente pertanto a che questa causa sia portata dinanzi al tribunale della ragione, e s'impegna, come avvocato della difesa, a difendere la parte accusata con una confutazione in piena regola eli tutte le imputazioni rivoltele dalla parte avversa: egli non ha pertanto il diritto, nel corso del processo, di respingere queste accuse sollevando d'autorità una eccezione d'incompetenza del tribunale dell'umana ragione (exceptionem fori); in altre parole, non può liquidare le accuse strappando all'avversario il riconoscimento della suprema saggezza del creatore dell'universo, avvalendosi poi di questo riconoscimento per dichiarare privi di fondamento, anche senza averli presi in esame, tutti i dubbi che potrebbero essere sollevati contro tale saggezza; deve invece consentire le obiezioni, e, dal momento che esse non recano in al-

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!.'esempio biblico di Giobbe

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cun modo pregiudizio al concetto di saggezza suprema, deve far chiarezza ponendo in luce la loro inconsistenza e rendenclole vane. In una cosa soltanto, tuttavia, non è necessario che egli vada a impelagarsi, e cioè nell'impresa acldirittura di dimostrare la suprema saggezza di Dio muovendo da ciò che insegna in questo mondo l'esperienza; anche perché a questa dimostrazione non gli riuscirebbe assolutamente di pervenire, essendo necessaria l'onniscienza per riconoscere in un mondo dato (così come esso si mostra nell'esperienza) quella perfezione di cui si possa dire con certezza che non è possibile che ve ne sia una piì::t grande nella creazione e nel governo del mondo. [. .. ] Ora, l'esito di questo processo dinanzi al tribunale della filosofia è: che fino acl oggi nessuna teoclicea ha realizzato ciò che aveva promesso, ossia di giustificare la saggezza morale nel governo del mondo di fronte ai dubbi sollevati contro di essa, dubbi ispirati da ciò che ci dà a conoscere in questo mondo l'esperienza: anche se, naturalmente, questi dubbi che si presentano sotto forma di obiezioni non sono in grado neppure di dimostrare - per quel che riusciamo a comprendere dell'attitudine della nostra ragione riguardo a questa stessa saggezza- che nel governo del mondo saggezza non vi sia. [. .. ] Giobbe viene presentato come un uomo nella cui vita è possibile trovar ritmito tutto ciò che si può immaginare per renderne completo il godimento. Di buona salute, ricco, libero, è a capo di altri uomini che può render felici, vive in seno ad una famiglia felice, circondato da amici cari; e soprattutto (quel che più conta) in pace con se stesso nella sua limpida coscienza. Improvvisamente tutti questi beni, eccetto l'ultimo, gli vengono strappati da una cruda sorte inflittagli come prova. Una volta riavutosi dallo stato di prostrazione per questo inatteso e brusco capovolgimento, egli prorompe in lamenti sulla sua cattiva stella; a proposito della quale tra lui e i suoi amici accorsi con l'asserito proposito di consolarlo si giunge presto ad una disputa in cui ciascuna delle parti, a seconda del proprio modo di pensare (ma soprattutto secondo la posizione in cui si trova), espone la sua particolare teodicea, al fine di arrivare ad una spiegazione morale di quel triste destino. Gli amici di Giobbe parteggiano per il sistema che riconduce tutti i mali del mondo alla giustizia divina. Essi sarebbero altrettante pene per i crimini commessi; e se in verità non ne possono indicare alcuno di cui si sia reso responsabile l'infelice, essi tuttavia credono di poter giudicare a priori che egli non può non averne qualcuno sulla coscienza, che altrimenti la giustizia divina non avrebbe reso possibile che egli fosse infelice. Giobbe, invece- che afferma con indignazione che la sua coscienza non gli muove per l'intera sua vita nessun rimprovero, e che per quel che riguarda gli inevitabili difetti umani, Dio stesso saprà bene di averlo fatto creatura fragile- si pronuncia per il sistema della incondizionatezza del decreto divino. «Egli è unico- afferma- ed egli fa come vuole». Su ciò che affermano entrambe le parti, ricorrendo a ragionamenti man mano sempre più sottili, non . c'è da notare granché; tanto più merita attenzione, dunque, il modo in cui lo dicono. [... ]Dio fa a Giobbe l'onore di porre dinanzi ai suoi occhi la saggezza della propria creazione, soprattutto nei suoi aspetti impenetrabili. Egli gli concede di gettare uno sguardo sugli aspetti belli della creazione, dove fini che l'uomo riesce ad afferrare mettono in chiara luce la saggezza e la benevola provvidenza dell'autore del mondo; ma anche sugli aspetti terrificanti, indicandogli gli effetti della sua potenza, e tra questi anche cose terribili e distruttrici, ognuna delle quali, considerata per sé e in rapporto alla sua specie, è invero disposta finali-

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Una fede fondata

sulla moralità

sticamente; epperò rispetto alle altre cose e agli stessi uomini ognuna appare deleteria, controfinale e stridente con un disegno universale ordinato con bontà e saggezza; eppure nel far ciò egli dimostra l'ordine e la conservazione del tutto, che rivelano la saggezza dell'autore del mondo, anche se nello stesso tempo le sue vie, già per noi imperscrutabili nello stesso ordine fisico delle cose, non possono che esserci ancor più celate quando si tratta del loro rapporto con l'ordine morale (ancor più impenetrabile alla nostra ragione). E la conclusione è che mentre Giobbe riconosce d'aver parlato non già da sacrilego, giacché egli è cosciente della propria onestà, bensì solo in maniera incauta di cose troppo elevate per lui e che non intende, Dio scaglia la sua condanna contro i suoi amici perché essi non hanno parlato di Dio altrettanto bene (ossia secondo coscienza) quanto il suo servo Giobbe. Se si considera ora la teoria sostenuta da ciascuna delle due parti, quella dei suoi amici sembrerebbe implicare una ragione più speculativa nonché una più devota umiltà; e Giobbe, probabilmente, condotto dinanzi a un qualunque tribunale di teologi dogmatici, dinanzi a un Sinodo, ad un'Inquisizione, a una Venerabile Classe, oppure ad un qualunque Alto Concistoro del nostro tempo (uno solo escluso 1 ), sarebbe andato incontro ad una ben triste sorte. La semplice sincerità del cuore e non il privilegio dell'intellezione, l'onestà che ci porta a confessare apertamente i nostri dubbi, la ripugnanza a simulare convinzioni da noi non sentite, tanto più dinanzi a Dio (dove questa furberia è oltretutto priva di senso): san dunque queste le qualità che hanno fatto propendere il giudizio divino per la superiorità dell'uomo sincero, impersonato da Giobbe, sul pio adulatore. Ma la fede che gli derivò da una sì profonda risoluzione dei suoi dubbi, ossia semplicemente convincendosi della sua ignoranza, poteva anch'essa sorgere unicamente nell'anima d'un uomo che in mezzo ai dubbi più atroci riusciva a dire (XXVII, 5, 6): «Finché non viene la mia fine, non voglio allontanarmi dalla mia pietà,, ecc. Con questa disposizione d'animo egli dava prova di fondare non la sua moralità sulla fede, bensì la fede sulla moralità: nel qual caso la fede, per quanto debole possa essere, è però d'un genere più puro e più autentico; un genere che fonda una religione della buona condotta, e non già interessata prioritariamente al favore divino.

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I. Kant, Scritti sul criticismo, p. 141 sgg.

1. Probabile riferimento all'Oberconcistorium (Alto Concistoro) di Berlino, di orientamento liberale.

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___- ] IL CRITICISMO DI IMMANUEL KANT

RIPENSIAMO INSIEME

La voce del contemporaneo

~ Qual è il significato della «rivoluzione copernicana»

compiuta da Kant nella conoscenza? In 8 righe.

ll!1!llfli!l Cosa intende sostenere Richard Rorty affermando che «la verità non può essere là fuori» 7 Quale rapporto tra mondo, pensiero e linguaggio umano, a suo parere, si affermerebbe sempre più alla fine del XVIII secolo?

~ Definisci il significato che i seguenti lemmi assumo-

no nella filosofia kantiana: «trascendentale»; «idea», «concetto», «dialettica», «ragione», «sensibilità», «intelletto», «paralogismo», «antinomia».

rmpa Spazio e tempo in Kant: fornisci una definizione di

Lo sguardo della tradizione ~

~

~

«Cosa posso sapere?», «Cosa devo fare?», «Cosa posso sperare?». Sono i tre interrogativi intorno ai quali ruota tutta la filosofia kantiana attraverso un confronto con la cultura del suo tempo. A tale proposito, quali risposte forniva l'empirismo di Locke e di Hume? E quali invece il razionalismo di Leibniz e Wolff? Per rispondere recupera le tue conoscenze essenziali su Hume (unità 5) e sull'Illuminismo tedesco (unità 6). In 2 fogli protocollo. Compila una scheda delle opere precritiche di Kant; per ciascuna di esse indica il titolo, la data di pubblicazione e un succinto riferimento all'argomento (es. «rapporto metafisica scienza»; «dimostrazioni esistenza di Dio» ecc.) e agli autori o alle correnti filosofiche discusse (es. «Leibniz», «empirismo inglese» ecc.). Nella Dissertazione del 1770 compare già una distinzione destinata a diventare centrale nella filosofia critica kantiana. Quale? Che genere di rapporto sussiste tra conoscenza intellettuale e conoscenza sensibile nella Dissertazione e quale sarà invece la posizione di Kant su questo stesso tema nella Critica della ragion pura?

~

Illustra il significato del criticismo kantiano all'interno della discussione tra empirismo e razionalismo. In 8 righe.

~

Illustra la classificazione kantiana dei giudizi, proponendo esempi da discutere in classe.

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queste nozioni e poi mostra la loro relazione con la matematica e la geometria. In 12 righe. ~ Cosa sono le categorie? Definisci il significato del

termine, richiamando anche Aristotele e precisando la funzione che svolgono nella conoscenza secondo Kant. Illustra infine i passaggi che conducono a una deduzione metafisica e a una deduzione trascendentale delle categorie.

lllftJ'I Che cos'è l'io penso e quale ruolo svolge nella conoscenza secondo Kant? In 8 righe. ~

Ricostruisci l'analisi kantiana che dagli schemi trascendentali giunge ai principi puri dell'intelletto, definendo inizialmente cosa siano gli uni e cosa siano gli altri.

~

In 2 pagine di foglio protocollo, riassumi la critica kantiana alla psicologia, alla cosmologia e alla teologia razionali.

~

Illustra la distinzione kantiana tra moralità e legalità, tra moralità e santità, soffermandoti sulla nozione di dovere e di intenzione. In 12 righe.

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Esponi la distinzione tra massime e leggi, utilizzando le seguenti coppie concettuali: oggettive l soggettive; universali l particolari; materiali /formali; a priori l a posteriori.

lll'f!l Imperativi ipotetici e imperativi categorici: definisci il significato generale di imperativo e poi specifica la differenza che intercorre tra imperativi ipotetici e categorici; illustra inoltre le tipologie di imperativi ipotetici che Kant ha discusso nelle sue opere morali e le formulazioni che egli ha dato del

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principio della moralità, ossia dell'imperativo categorico.

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RIPENSIAMO INSIEME -

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~~ Illustra il rapporto tra legge morale (imperativo

smo, empirismo, criticismo» p. 693 sgg., elabora un confronto tra le diverse concezioni che gli autori (Leibniz, Hume, Kant) propongono delle verità matematiche e geometriche. Esse sono analitiche o sintetiche? Quali sono i loro rispettivi fondamenti?

categorico) e libertà umana nel contesto della deduzione trascendentale della Critica della ragion

~ Analizza il brano lli:iì::] a p. 700 del tema «Razio-

~ Spiega perché l'imperativo categorico comporti di

per sé l'autonomia della volontà. In 8 righe.

Critica, tra giudizi determinanti e giudizi riflettenti. Presenta dunque il principio di finalità e la distinzione interna ai giudizi riflettenti. In 12 righe.

nalismo, empirismo, criticismo» e spiega in quale modo la categoria di causa rende diversa la percezione di una nave che scende la corrente dalla visione di una casa. Come si applica in questi esempi la categoria di causa? Perché, osserva Kant, se e solo se i fenomeni non sono cose in sé è possibile fondare la connessione oggettiva di causa ed effetto 7

~ Riepiloga le principali posizioni teoriche suWesteti-

~ Leggi il testo ~iii~ di Hume a p. 703, tratto dal te-

ca che fanno da sfondo alla Critica del Giudizio, al fine di chiarire in cosa consista la rivoluzione copernicana operata da Kant anche in questo ambito di riflessione. In 1O righe.

ma «Il fondamento della morale» e identifica gli argomenti elaborati dall'autore contro il razionalismo e contro la tesi che le distinzioni morali siano dati di fatto.

~ Illustra l'analisi kantiana dei giudizi di gusto sul bel-

~ Sintetizza in 1O righe il brano iEI di Kant a p.

lo, secondo quantità, qualità, relazione e modalità. In 1O righe.

706, tratto dal tema «Il fondamento della morale».

pratica. .,;~ Perché in Kant si parla di fede razionale pratica? In

8 righe ~ Riassumi la distinzione, che Kant illustra nella terza

~ Ripercorri l'analisi kantiana sul sublime matemati-

~ Che tipo di conoscenza è, per Baumgarten, l'estetica nel brano riiiJII p. 71 O del tema «Il bello e

co e dinamico. In 8 righe.

l'esperienza estetica» 7 Anche per Kant, l'estetica è una forma di conoscenza?

l!il.t!" Che cos'è per Kant l'arte umana e qual è la funzione del genio? In 8 righe.

"l'lfl

~ Esiste per Hume un bello oggettivo? Cosa ne

pensa Kant? Ovvero cosa di «strano e singolare» avviene, secondo Kant, nei giudizi di gusto? Come nasce il piacere estetico, secondo Hume e secondo Kant? Argomenta citando i passi dai brani ~-iE, p. 711 sgg. del tema «Il bello e l'esperienza estetica».

Riassumi le riflessioni di Kant sulla finalità della natura, soffermandoti sulla nozione di finalità esterna e interna, fine ultimo e fine definitivo.

La parola ai filosofi "'~"ifllll Confronta tra loro le concezioni di spazio e tem-

po in Leibniz, Newton e Kant, esaminate nel tema «Spazio e tempo» p. 688 sgg., rispondendo alle seguenti domande: contro chi sostiene Kant che «lo spazio non è un concetto empirico» nel brano !!ii.§;~ p. 6907 Quale argomentazione avanza l13658. Così, spiega Schelling, è stato ricondotto il sistema al suo inizio, al suo punto di avvio, ossia all'assoluto, la cui intuizione intellettuale originale trova esclusivamente nell'opera d'arte manifestazione, oggettività ~>159-67. L'arte è dunque la forma suprema dell'attività dello spirito umano; del resto anche la filosofia e la scienza sono scaturite dall'arte e dal mito, e nell'arte e nel mito secondo Schelling sono destinate a riconfluire ~168-81.

l'opera d'arte è sintesi di attività conscia e inconscia

L'opera d'm•to IIIIIJI'!ra ilpi•oprin tempo, aprendosi a infinite intet•pretazioni

l'arte rimnnpone l'infinito nel finito creando bellezza

L'opera d'arte riflette per noi l'identità di attività conscia e di attività priva di coscienza. Ma l'opposizione di queste due attività è infinita e vien superata senza ricorrere a qualsivoglia intervento della libertà 1 • Il carattere fondamentale dell'opera d'arte è perciò un'infinità priva di coscienza. Oltre quanto vi ha messo con un'intenzione manifesta, l'artista sembra aver esposto nella sua opera, per dir così istintivamente, un'infinità che nessun intelletto finito è capace di sviluppare interamente. Prendiamo, per illustrare in modo perspicuo, un solo esempio: la mitologia greca, di cui non si può negare che contenga un senso infinito e simboli per tutte le idee, è nata in seno a un popolo e in una maniera tali, l'uno e l'altra, da far ritenere impossibile un'intenzionalità permanente nell'invenzione e nell'armonia con la quale il tutto si trova unificato in un unico vasto insieme. Così avviene per ogni vera opera d'arte, perché essa, quasi vi fosse in lei un'infinità di intenzioni, è capace di un'infinita interpretazione, benché non si possa mai dire se questa infinità sia stata presente nell'artista medesimo o si trovi soltanto nell'opera d'arte. Al contrario, nel prodotto che unicamente simula il carattere dell'opera d'arte, intenzione e regola affiorano in superficie e paiono così delimitate e circoscritte che il prodotto non è altro che l'impronta fedele dell'attività conscia dell'artista e, con ciò, un oggetto soltanto per la riflessione, ma non per l'intuizione, la quale ama sprofondarsi in quel che intuisce e può trovar quiete unicamente nell'infinito. Ogni produzione estetica muove dal sentimento di una contraddizione infinita, quindi bisogna altresì che il sentimento che accompagna il compimento del prodotto artistico sia quello di una soddisfazione infinita, e questo sentimento deve a sua volta trapassare nell'opera d'arte stessa. L'espressione esterna dell'opera d'arte è pertanto l'espressione della quiete e della calma gran-

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l. Riferimento critico all'idealismo eli Fichte, che prevedeva una ricomposizione eli io e non-io nell'atti-

vità infinita, libera e conscia dell'io.

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l'arte most1•a l'assoluto, l'identità originaria

Nell'arte, mondo l'eale e idealo si incontrano nella IUI!J!Jettiuità del genio e nell'oggettiuitiì della suaope1•a

La filosofia deli'al'h! è il culmine del sistema

dell'idealismo

Nella poesia mmflniramu1 la filosofia e la scienza 11er il t1•amite di llllll nnoua mitologia

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dezza, persino laddove si tratta di esprimere l'estrema tensione del dolore o della gioia. Ogni produzione estetica procede da una separazione, in sé infinita, delle due attività che in ogni libero produrre sono separate. Ora, giacché queste due attività devono essere presentate nel prodotto come unite tramite questo prodotto medesimo, un infinito sarà così esposto in modo finito. Ma l'infinito esposto in modo finito è bellezza. Il carattere fondamentale di ogni opera d'arte, che comprende in sé i due precedenti, è allora la bellezza, e senza bellezza non v'è opera d'arte alcuna. [... ] Se l'intuizione estetica è unicamente quella [intellettuale] divenuta oggettiva, è evidente che l'arte sia l'unico vero ed eterno organo della filosofia e insieme l'unico documento che rende testimonianza sempre e incessantemente a ciò che la filosofia non può esporre esternamente, e cioè il privo di coscienza nell'agire e nel produrre, e la sua identità originaria con il conscio. Appunto perciò l'arte è per il filosofo quel che vi è di supremo, perché gli apre per dir così il sancta sanctorum ove in eterna e originaria unione, quasi in un'unica fiamma, arde ciò che nella natura e nella storia è separato, e ciò che nella vita e nell'agire, come nel pensiero, deve eternamente fuggirsi. La visione della natura che il filosofo si costruisce artificiosamente è per l'arte quella originaria e naturale. Ciò che chiamiamo natura è un poema che giace nascosto in una segreta, meravigliosa scrittura. Se però l'enigma potesse svelarsi, vi potremmo riconoscere l'odissea dello spirito che, mirabilmente ingannato, rifugge se stesso nell'atto di cercarsi; giacché attraverso il mondo sensibile, al pari del senso attraverso le parole, traluce stentatamente come in una semidiafana nebbia quel paese della fantasia cui aneliamo. Ogni splendido dipinto nasce, per dir così, allevarsi dell'invisibile sipario che separa il mondo reale da quello ideale, e non è altro che l'apertura attraverso cui ci vengono incontro nella loro pienezza quelle figure e quelle regioni del mondo fantastico che soltanto imperfettamente tralucono nel mondo reale. Per l'artista la natura non è più di quel che è per il filosofo, cioè solamente il mondo ideale che appare tra permanenti limitazioni, soltanto il riflesso imperfetto di un mondo che esiste non fuori di lui, ma in lui. [. .. ] Concluderemo pertanto con le osservazioni seguenti. Un sistema è compiuto quando è ricondotto al suo punto d'avvio. E questo è esattamente il caso del nostro sistema. Infatti proprio quel fondamento originario di ogni armonia fra il soggettivo e l'oggettivo, fondamento il quale poteva venir esposto nella sua originaria identità unicamente tramite l'intuizione intellettuale, grazie all'opera d'arte è stato tratto completamente fuori dal soggettivo ed è divenuto del tutto oggettivo, dimodoché abbiamo progressivamente condotto il nostro oggetto, l'io stesso, sino al punto in cui noi stessi stavamo quando iniziammo filosofare. Ora, se soltanto l'arte riesce a rendere oggettivo, con valore universale, quel che il filosofo può esporre unicamente in modo soggettivo, c'è da attendersiper trarre qui ancora questa conclusione- che la filosofia, così com'è scaturita ed è stata nutrita dalla poesia nell'infanzia del sapere, e con essa tutte quelle scienze che per mezzo suo vengono recate a perfezione, una volta giunte alla loro pienezza, come altrettanti singoli fiumi riconfluiranno in quell'universale oceano della poesia da cui erano uscite. Quale poi sarà il tramite del ritorno della scienza alla poesia, non è in generale difficile a dirsi, questo termine intermedio essendo esistito nella mitologia, prima che fosse avvenuta questa se-

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parazione la quale ora sembra insuperabile. Ma come possa nascere una nuova mitologia, che non sia invenzione del singolo poeta ma di una generazione nuova che quasi rappresenti, per dir così, un unico poeta, ciò è un problema la cui soluzione si può attendere solamente dai futuri destini del mondo e dal corso ulteriore della storia.

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F.W.J. Schelling, Sistema dell'idealismo trascendentale, pp. 563-567, 579

Hegel: verità e «morte» dell'arte In questo brano Fii:E), tratto dalle Lezioni di estetica, Hegel ricorda come l'arte sia un momento dello spirito assoluto, trovandosi perciò sul medesimo terreno della religione e della filosofia. Differenzia l'arte dalla religione e dalla filosofia la forma, ossia la modalità con la quale essa rende cosciente al soggetto il suo contenuto di verità ~11-8. Proprio dell'arte è operare nell'immediatezza e «sorprendere» l'assoluto ancora in maniera sensibile, mediante intuizione e sentimento. L'arte intende cogliere l'assoluto immediatamente in una forma e in una figura sensibile oggettiva; la religione invece perviene all'assoluto nella dimensione della soggettività. Momento oggettivo e soggettivo del sapere assoluto trovano sintesi nella filosofia ~19-12. La bellezza è dunque la verità colta nell'individualità di un elemento sensibile, l'opera d'arte appunto. il legame con la sensibilità diventa tuttavia minimo nella poesia, che non opera tramite la materia, se non mediante suoni, segni ~113-21. Per quanto la poesia si avvicini così a forme superiori di sapere assoluto, l'arte secondo Hegel rimanda comunque sempre ad altro, a ciò che la supera: essa è infatti una forma iniziale della verità, tipica dell'infanzia del mondo, alla quale poi, anche storicamente, sono succedute la religione e la filosofia ~>122-33. In particolare la religione ha schiuso col cristianesimo, soprattutto nella versione luterana, l'infinito valore dell'interiorità del singolo, andando oltre ogni manifestazione sensibile, oggettuale dell'assoluto, di Dio ~>133-41. il mondo che si è dischiuso alla razionalità con la filosofia è definitivamente il «dopo» dell'arte, ciò che sembra per Hegel averne decretato in qualche modo la morte, non reale, ma intesa come oltrepassamento del suo senso, che porta l'uomo ad andare al di là dell'arte, non sopprimerla ~141-51.

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~ All'intorno del sapere a!lslllnto, l'arte occupa il primo mnmentn, PI'I:!S!!IItllllllll!IÌ

nella fol'ma dell'immediatezza e della sensibilità

L'arte, in quanto si occupa del vero come oggetto assoluto della coscienza, appartiene anch'essa alla sfera assoluta dello spirito, trovandosi perciò per il suo contenuto sul medesimo terreno della religione nel senso specifico del tennine, e della filosofia. Infatti, anche la filosofia non ha altro oggetto che Dio ed è così essenzialmente teologia razionale e, in quanto al servizio della verità, culto perenne 1 . Data questa eguaglianza di contenuto, i tre regni dello spirito assoluto si differenziano solo per le forme in cui essi portano a coscienza il loro oggetto, l'assoluto. [... ] La prima forma, ora, di questa apprensione, è un sapere immediato e proprio perciò sensibile, un sapere nella formà e figura del sensibile ed oggettivo, in cui l'assoluto viene ad intuizione e sentimento. La seconda forma è la coscienza rappresentante, la terza infine il libero pensiero dello spirito assoluto 2 •

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1. La filosofia ha come suo culto la verità; suo oggetto è Dio in quanto l'assoluto. 2. Le tre forme sono rispettivamente l'arte, la religione, la filosofia.

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llleganu'l dell'arte con la sensibilità è minimo nella poesia, la fimna più uicina alla religione e alla filosofia

rarte è llestiuata a trapassare nella religione, come mosti·a anche la storia

La ••eli!JÌillll'l si suiluppa dall'arte ma pui la supera

1\!ell'epm:a ctmtemporanea l'arte semln·a auer esaurito la sua flmzìnne di mediazione con l'assoluto

La forma dell'intuizione sensibile appartiene all'arte, cosicché l'arte è quella che presenta alla coscienza la verità sotto forma sensibile, anzi, sotto una forma sensibile che ha in questa sua apparenza un senso ed un significato più alti, più profondi, ma che non vuole però con il medio sensibile (per mezzo dei sensi) rendere apprendibile il concetto come tale nella sua universalità; poiché proprio l'unità di esso con l'apparenza individuale costituisce l'essenza del bello e della sua produzione ad opera dell'arte. Quest'unità si realizza nell'arte, a dire il vero, anche nell'elemento della rappresentazione e non solo in quello dell'esteriorità sensibile, e ciò avviene particolarmente nella poesia~. [. .. ] Come l'arte ha il suo prima nella natura e nella sfera finita della vita, così ha pure un dopo, cioè un ambito che a sua volta oltrepassa il suo modo di concepire e manifestare l'assoluto. Infatti l'arte ha ancora in se stessa un limite e passa quindi a forme più alte della coscienza. Questa limitazione determina anche il posto che noi siamo soliti assegnare all'arte nella nostra vita odierna. L'arte non vale più per noi come il modo più alto in cui la verità si dà esistenza. Nell'insieme il pensiero presto si è opposto all'arte come rappresentazione sensibilizzatrice del divino; presso gli Ebrei e i maomettani4 per es., perfino presso gli stessi Greci, come si può vedere dalla ferma opposizione di Platone agli dèi di Omero e di Esiodo 5 . Nel progredire dello sviluppo culturale di ogni popolo giunge in generale l'epoca in cui l'arte rimanda oltre se stessa. Gli elementi storici del cristianesimo, per es., l'apparizione di Cristo, la sua vita e la sua morte, hanno offerto all'arte e soprattutto alla pittura numerose occasioni di svilupparsi, e la Chiesa stessa ha coltivato o lasciato fare l'arte. Ma quando l'impulso al sapere e alla ricerca ed il bisogno di una spiritualità intima provocarono la Riforma, anche la rappresentazione religiosa fu allontanata dall'elemento sensibile e ricondotta all'interiorità dell'animo e del pensiero. In questo modo il dopo dell'arte consiste nel fatto che è innato allo spirito il bisogno di esser soddisfatto solo del proprio interno, come della vera forma della verità. L'arte ai suoi inizi lascia ancora sussistere un che di misterioso, un presentimento pieno di mistero, uno struggimento, perché le sue produzioni non hanno ancora completamente tratto per l'intuizione immaginativa tutto il loro contenuto. Ma se il contenuto compiuto è compiutamente venuto a rilievo in forme artistiche, lo spirito lungimirante ritorna da questa oggettività, allontanandola da sé, nel suo interno. Quest'epoca è la nostra. Si può, sì, sperare che l'arte s'innalzi e si perfezioni sempre di più, ma la sua forma ha cessato di essere il bisogno supremo dello spirito. E per quanto possiamo trovare eccellenti le immagini degli' dèi greci, e vedere degnamente e perfettamente raffigurati il Padreterno, Cristo e Maria, tuttavia questo non basta più a farci inginocchiaré.

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G.W.F. I-Iegel, Estetica, pp. 118-121

3>. Hegel riconosce la poesia come la forma artistica meno legata alla sensibilità e dunque più vicina alla forma rappresentativa della religione e di qui alla filosofia. 4. Le cui religioni vietavano di riprodurre immagini eli Dio. 5. Simili condanne si ritrovano in passi della Repubblica e delle Leggi. 6. Ilegel accoglie la concezione luterana della religione come cullo ~oprallullo lnleriore, dialogo personale con Dio e la verità.

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Il sapere e l'assoluto ' j.

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Ecome pmo il so9getto, un ente finltq e temporale come l'uomo, con0scerlo?·

l termine "assoluto" deriva dal latino absolutum e significa «Sciolto, libero da legami e limiti". L'idealismo e il Romanticismo hanno largamente utilizzato questa parola, sia come aggettivo, per indicare un pensiero che ha abolito l'inconoscibile noumeno kantiano, sia come sostantivo, per identificare l'oggetto ultimo della conoscenza umana, vale a dire la realtà autentica e suprema, principio di ogni cosa. Ad andare oltre Kant, a spezzare i vincoli terreni dell'umano sapere, è stato per primo Fichte, secondo il quale l'assoluto è l'io, il principio infinito, creatore eli ogni realtà, a cui l'io empirico, finito eli ciascun uomo, può approssimarsi in un processo di continua e perenne opposizione e confronto con il non-io, ossia con l'oggetto, con la natura. È l'io infinito a porre infatti il non-io come limite, per affermarsi come soggetto libero. Nelle versioni giovanili del suo sistema, Schelling concepisce invece l'assoluto come un'indifferenziata identità di soggetto e oggetto, di spirito e natura, colta dal filosofo per intuizione intellettuale e riprodotta dal genio nell'opera d'arte. Dopo l'iniziale adesione all'idealismo eli Schelling, Begel elabora un percorso originale che identifica l'assoluto con la verità e la verità con lo sviluppo completo, dialettico della realtà e della razionalità. Hegelmostra come l'assoluto sia il processo conoscitivo che conduce il soggetto, attraverso difficili e complesse esperienze, conoscitive e pratiche, individuali e collettive, a riconoscersi nello spirito di un'epoca e di un popolo attraverso l'arte, la religione, la filosofia. Nel corso della sua riflessione

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C.D. Friedrich, Le bianche scogliere di Riigen, 1825-26, Lipsia, Museum der Bilc\enc\en Kiinste.

più matura, I-Iegel valorizzerà soprattutto l'idea della verità come sistema filosofico, come capacità di cogliere, sviluppare e articolare tutta la realtà nella logica, nella filosofia della natura e nella filosofia dello spirito.

Fichte: l'io infinito e i principi della conoscenza Il primo brano liEll riporta le pagine famose dei Fondamenti di tutta la dottrina della scienza, secondo la prima edizione del 1794, nelle quali Fichte espone i tre principi basilari della sua concezione idealistica. L'autore intende ricercare e rinvenire un principio che sia veramente primo e dunque non dimostrabile, non ricavabile da altro e che sia al contempo il fondamento di tutto quel che segue ~11-11. Fichte muove così da una proposizione vera in maniera autoevidente, il principio di identità A=A, che esprime una connessione necessaria (se A è, allora A è identico a se stesso), valida indipendentemente dall'esistenza effettiva di A. Un simile principio non è posto dunque dall'oggetto, bensì dal soggetto, giacché è nell'io che deve essere dato A, af-

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finché esso sia riconosciuto come uguale a se stesso. Logicamente, prima che sia dato A, occorre allora che sia dato l'io. La proposizione io=io seppur analoga nella forma a A=A è diversa nel significato: infatti essa è assoluta, perché pone immediatamente, a differenza di A=A, anche l'essere stesso dell'io, risolvendosi nella proposizione io sono io ~112-47. Questa proposizione è a fondamento di qualsiasi altro atto tramite il quale l'io. giudica. Come scrive l'autore, sintetizzando il primo principio, l'io pone dunque se stesso ~148-55. Anche il secondo principio che pone invece il non-io è autoevidente, come la proposizione logica per cui A è opposto a non A ~1 56-68. Ma come l'identità del primo principio era posta nell'io e dall'io, così anche l'atto dell'opporre accade nell'io in esclusivo riferimento a esso. Così l'io ponendo se stesso in virtù del primo principio, oppone immediatamente entro di sé anche la possibilità di ciò che è altro da sé, ossia non-io ~169-85. L'oggetto esiste dunque in quanto posto dall'io, o più precisamente, dalla legge dell'opposizione, senza la quale nessun opposto potrebbe venire riconosciuto come tale. Quindi non è l'oggetto (già presupposto) che fonda il non-io, ma è il principio del non-io che pone l'oggetto in quanto qualcosa di opposto all'io ~>186-94. Anche il non-io è così posto dall'io e nell'io, cosicché il terzo principio concilia l'opposizione entro il limite della coscienza empirica, finita di ogni singolo io. lo e non-io si limitano infatti solo in qualità di singole percezioni di un io e di un non io, sempre tra loro correlati. Il non-io nega l'assolutezza dell'io e l'io nega l'assolutezza del non-io: eppure entrambi sono possibili solo all'interno di un'unica coscienza che li pone, che ha coscienza di essi e della loro opposizione. Solo questa coscienza superiore li contiene giustificandoli entrambi ~>195-115. Nel terzo momento l'io non è più l'io assoluto, infinito, unico del primo principio, né il non-io è la pura negazione del secondo principio, bensì è limite, ostacolo posto per essere tolto, affinché l'io empirico si appropri della sua originaria attività di io assoluto. L'io empirico è reso unico nella coscienza dall'io infinito, assoluto ed è reso diverso da questo solo nella sua opposizione a un non-io che lo limita, lo divide H 116-129.

il fondamento

llell'iotea·alloUrina della scienza deue riCili'CIIrlli iDilli

pi·im:i11io lllltoevidente

Il A:::A i!nutoeuidente nella sua forma

Il primo principio Noi dobbiamo ricercare il principio assolutamente primo, assolutamente incondizionato di tutto l'umano sapere. Dovendo essere principio assolutamente primo esso non si può dimostrare né determinare!. Esso deve esprimere quell'atto che non si presenta, né può presentarsi, tra le determinazioni empiriche della nostra coscienza, ma sta piuttosto alla base di ogni coscienza, e solo la rende possibile [. . .]. Sulla via in cui inizia la riflessione noi dobbiamo partire da una proposizione tale che ognuno ce la conceda senza contraddirci. [. .. ] Appena è accordata questa proposizione, deve essere in pari tempo accordato come atto ciò che noi vogliamo porre a base dell'intera dottrina della scienza [.. .]. l. Ciascuno ammette la proposizione: A è A (altrettanto che A =A, poiché questo è il significato della copula logica); ed invero senza minimamente pensarci su: la si riconosce per pienamente certa e indubitabile. [. . .] 2. Affermando che la proposizione precedente è certa in sé, non si pone che A sia. La proposizione A è A, non è per nulla equivalente a quest'altra: A è, ovvero: c'è un A 2 . [. .• ]Ma si ponga: se A è, allora A è. Con ciò non si discute af-

l. Sarebbe così fondato da altro, e non potrebbe più essere il principio assoluto. 2. La proposizione afferma un principio logico eli identità e non antologico eli esistenza.

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La forma di questa ueritìì il dat11 dall'io

e

escl11siu;1mente nell'io

La io=io oltre l';mtoeuid!mza logica fot•male, imponemlosi como llill'itiì anche ontolo,gico: io sonu io

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il11rimo pr•inci11io: l'io pone se stesso

fatto se in generale vi sia o non vi sia A. Non si tratta qui del contenuto della proposizione ma solamente della sua forma [... ]. Quindi con l'affermazione che la proposizione precedente è assolutamente certa, è posto questo: che tra quel se e questo allora c'è un rapporto necessario; ed è il rapporto necessario tra i due che viene posto assolutamente e senza alcunfondamento. Io chiamo provvisoriamente questo rapporto necessario X. 3. Ma riguardo alla questione se A medesimo sia o no, con ciò nulla ancora è stato posto. Sorge dunque la domanda: sotto qual condizione dunque A è? a) X almeno è posto nell'Io e dall'Io, poiché è l'Io che giudica nella proposizione precedente, e a dir vero giudica secondo X come secondo una legge; la quale dunque vien data all'Io e poiché vien posta assolutamente e senza alcun fondamento ulteriore, deve esser data all'Io dall'Io stesso. b) Se e come A in generale sia posto, noi non sappiamo; ma poiché X deve indicare un rapporto [.. .] così, almeno in quanto vien posto quel rapporto, a è posto nell'Io e dall'Io, come lo è X. X è possibile soltanto in relazione ad un A; ora X è realmente posto nell'Io: quindi anche A deve esser posto nell'Io, in quanto X è riferito all'Io 3 . 4. [.. .] Ciò vuol dire: è posto che nell'Io [.. .l vi è qualcosa che è sempre uguale a sé, sempre uno e identico; l'X assolutamente posto si può anche esprimere così: Io = Io, Io sono Io 4 . 5. [... ]Ma la proposizione: Io sono Io, ha un significato tutto diverso dalla proposizione: A è A. Infatti quest'ultima ha un contenuto solo ad una certa condizione5. Se A è posto, esso è certamente posto come A, col predicato A. Ma con quella proposizione non è ancora per nulla deciso se esso in generale sia posto6 e quindi se sia posto con un qualunque predicato. La proposizione: Io sono Io vale invece incondizionatamente ed assolutamente, poiché è uguale alla proposizione X; essa vale non solo quanto alla forma ma anche quanto al suo contenuto. In essa l'Io è posto, non sotto condizione ma assolutamente, col predicato di eguaglianza con se stesso; esso è dunque posto; e la proposizione si può anche esprimere così: Io sono. [. .. ] 6. [... ] Con la proposizione: A =A si giudica 7 • Ma ogni giudizio è secondo la coscienza empirica un atto dello spirito umano [. . .l. b) Ora a fondamento di quest'atto sta qualcosa che non è fondato su nulla di superiore, cioè X= Io sono. c) Perciò questo è il fondamento assolutamente posto e fondato su se stesso. [.. .] Quindi il porsi dell'Io per se stesso è la pura attività di esso. L'Io pone se stesso ed è in forza di questo puro porsi per se stesso; e viceversa; l'Io è e pone il suo essere in forza del suo puro essere 8 . [. .. ]

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Il secondo principio Per la stessa ragione per la quale il primo principio non poteva essere né dimostrato né dedotto, non lo può essere neppure il secondo [. . .l.

3. Sia X, la legge d'identità, che A sono posti dall'io, come tali, sono.

4. Si passa dal principio logico eli identità, puramente formale, X, al principio d'identità riferito all'io, il quale diventa al contempo un principio antologico.

5. Questa condizione è l'io che la pone. 6. Se A è posto, è posta con ciò solo l'identità eli A con se stessa, non l'esistenza eli A in generale. 7. Giudizio in senso kantiano, come connessione eli soggetto e predicato per il tramite di una copula. 8. È questa l'identità idealistica di pensiero ed essere, riferita innanzi tutto all'io.

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lltJrinr.ipio «non A è diuerso da An è autoeuhlente

è

Anche I'DIIIlllrre atto posto dall'io che accede nell'io

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li !lllCillldO !ii'ÌIIcipio: all'io si oppone assolutamente llllililii··Ìil

lo Il IIOII·Ìil tl'llllllllll una r.om:iliazione, limitandosi a uicenda, senza distruggersi

l. Ciascuno riconosce senza dubbio come pienamente certa e inclubitata la proposizione: -A non è = A9 , ed è poco probabile che da qualcuno se ne domandi la dimostrazione. [... ] [Ciò equivarrebbe a chiedere] sotto qual condizione della forma del puro atto è posto il contrario di A? È questa condizione che si dovrebbe poter dedurre dalla proposizione: A=A, se la proposizione su enunciata dovesse essa medesima esser dedotta. Ma la proposizione: A=A non può dare affatto una tale condizione, poiché la forma dell'opporre è così poco compresa nella forma del porre, che le è anzi piuttosto opposta. L'atto d'opporre si produce perciò senza alcuna condizione ed assolutamente [.. .]. Perciò tra gli atti dell'Io si presenta un atto eli opporre, con la stessa certezza con cui, fra i fatti della coscienza empirica, si presenta la proposizione: -A non

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=A.[ ... ]

5. [... ] Ogni contrario in quanto contrario è assolutamente in virtù eli un atto dell'Io, e per nessun'altra ragione. L'esser opposto in generale è assolutamente posto dall'Io . .6. Se si vuole porre un -A qualunque, si deve porre anche un A10 . [ ... ] (L'opporre è possibile solo a condizione dell'unità eli coscienza tra ponente e opponente. Se la coscienza del primo atto non fosse connessa con la coscienza del secondo, il secondo porre non sarebbe allora un opporre, ma un porre puro e semplice. Solo riferendosi acl un porre esso diventa un opporre). [.. .] 9. Nulla è posto originariamente tranne l'Io; questo soltanto è posto assoluta. mente. Perciò soltanto all'Io si può opporre assolutamente. Ma ciò che è opposto all'Io è =Non-io. 10. Come è certo che tra i fatti della coscienza empirica si presenta l'incondizionato riconoscimento dell'assoluta certezza della proposizione: -A non = A, altrettanto certo è che all'Io è opposto assolutamente un Non-io. [.. .l. 11. In forza della pura opposizione del Non-io all'Io il contrario eli tutto ciò che appartiene all'Io deve appartenere al Non-io. [. .. l Se io voglio rappresentare una cosa qualunque, debbo apporla al rappresentante. Ora può e dev'esserci assolutamente nell'oggetto della rappresentazione un X qualunque per cui esso si manifesta come alcunché da rappresentare e non come il rappresentante: ma che tutto ciò in cui si trovi questo X non sia il rappresentante bensì qualcosa da rappresentare, questo non posso impararlo da nessun oggetto; piuttosto, in generale, un oggetto c'è soltanto se si presuppone quella legge). [. .. ]

Il terzo principio B 2. Tanto l'Io quanto il Non-io sono entrambi prodotti eli atti originari dell'Io [. . .l. 3. Ma secondo le conclusioni precedenti, l'atto il cui prodotto è il Non-io, l'opporre, non è punto possibile senza X. Perciò X stesso dev'essere un prodotto ed invero un prodotto di un atto originario dell'Io [.. .l. 4. La forma di quest'atto è pienamente determinata dal compito su detto. Per suo mezzo l'Io ed il Non-io opposti debbono essere conciliati[ .. .] senza che si distruggano reciprocamente. Le opposizioni su elette debbono essere accolte nell'identità dell'unica coscienza11 . 9. NonAnonèA. 10. Il principio d'opposizione dipende da quello d'identità, ed entrambi dall'io che li pone. 11. Ossia nell'io assoluto del primo principio.

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-135-45, Se Schelling

aveva posto l'assoluto all'inizio del suo percorso speculativo, Hegel ribadisce qui, come la verità, il tutto, possa mostrarsi solo alla fine, al termine dello sviluppo ~>145-51.

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llii1![l Nella sua forma ;mhmtica, scientifica, la lllll'itiì puiì essere colta solo dal concetto, 11011 dal sentimento 11 da un'intuizilllli! immediata

Critica dell'idealismo di Sr.helling, che dall'intnizione immediata dell'assoluto pi'OUI! a derivare tutto l'essl.u'e

Il Ulll'il, l'assoluto, è il tutt11 chn si compie

solo alla fine del (li'ocesso dialettico

La figura autentica in cui la verità può esistere è soltanto il sistema scientifico della verità stessa [.. .]. La vera figura della verità è dunque posta nella scientificità, e dò equivale a dire che la verità trova l'elemento della propria esistenza solo nel Concetto. Io so tuttavia che questo sembra essere in contraddizione con una concezione [della nostra epoca]. [.. .] Se dunque come vuole tale concezione, il vero esiste solo in ciò che, o meglio, solo come ciò che una volta viene detto intuizione, un'altra volta sapere immediato dell'Assoluto, religione, essere[ ... ], allora ciò che significa che per l'esposizione della filosofia si esige proprio il contrario della forma concettuale. Da questo punto di vista, infatti, l'Assoluto dev'essere non concepito, ma sentito e intuito; non il suo concetto, bensì il sentimento e l'intuizione che lo concernono devono avere diritto alla parola ed essere espressi. [... ] [Altri] millantano di dominare pure ciò che non è ancora ordinato; in tal modo danno l'impressione di assoggettare ogni cosa all'Idea assoluta, la quale sembra perciò essere conosciuta nella sua interezza ed essere assurta a scienza pienamente dispiegata 1 . Se però lo si considera più da vicino, un tale dispiegamento mostra di non essersi realizzato mediante il plasmarsi eli un'unica e medesima cosa in forme diverse: esso è piuttosto l'informe ripetizione dell'identico, il quale, applicato solo esteriormente al diverso materiale, riceve una monotona parvenza di diversità. Se lo sviluppo non consiste in altro che in una tale ripetizione della medesima formula, l'Idea, pùre per sé inclubitabilmente vera, resta eli fatto sempre e soltanto al suo inizio. [... ] Tutto ciò [... ] è molto lontano dal compimento di ciò che si richiede nella conoscenza scientifica, molto lontano cioè dalla ricchezza che scaturisce da se stessa e dalla differenza autodeterminantesi delle figure. Si tratta piuttosto di un formalismo monocromatico che perviene alla differenza del contenuto solo perché essa è già nota e disponibile. [. .. ] Un tal formalismo vuole spacciare la sua monotonia e l'universalità astratta per l'Assoluto[ ... ] [e] con la stessa sicumera si attribuisce ogni valore all'idea universale in questa forma di irrealtà e assistiamo al dissolvimento eli ciò ch'è differenziato e determinato; o per meglio dire, vediamo sollevato a dignità speculativa un procedimento che precipita ogni differenza e determinazione nell'abisso del vuoto. [... ] Secondo il mio punto di vista [... ] tutto dipende dal concepire ed esprimere il vero non tanto come sostanza, bensì propriamente come soggetto. [... ] La sostanza vivente costituisce l'essere che è veramente soggetto, che è veramente reale, solo nella misura in cui essa è il movimento del porre-se-stessa, solo in quanto è la mediazione tra il divenire-altro-da-sé e se stessa. In quanto soggetto, la sostanza è la negatività pLrra e semplice, e proprio per questo è lo sdoppiamento del semplice, è la duplicazione opponente che a sua volta costituisce la negazione di questa diversità indifferente e della sua opposizione: solo questa uguaglianza restaurantesi2 , solo questa riflessione entro se stesso nell'essere-altro - non un'unità originaria in quanto tale, né immediata in

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1. Dopo aver criticato in generale l'irrazionalismo, insito in tante posizioni intuizionistiche e sentimen-

talistiche dei romantici, Hegel si confronta direttamente qui col sistema di Schelling in particolare. 2. Nel senso di ricomposizione di un'identità attraverso la mediazione della negazione, che è un ritor-

no all'uguaglianza, ma anche un'elevazione consapevole eli essa.

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quanto tale- è il vero. Il vero è il divenire di se stesso, è il circolo che presuppone e ha all'inizio la propria fine come proprio fine, e che è reale solo mediante l'attuazione e la propria fine. [... ] Il vero è il Tutto. Il Tutto, però, è solo l'essenza che si compie mediante il proprio sviluppo. Dell'Assoluto, infatti, bisogna dire che è essenzialmente un risultato, che solo alla fine è ciò che è in verità. E appunto in ciò consiste la sua natura: nell'essere realtà, soggetto, divenire-se-stesso.

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G.W.F. Hegei, Fenomenologia dello spirito, pp. 53-55, 65-69

Il brano~, tratto invece dalla Prefazione alla Scienza della logica, illustra il concetto hegeliano di contraddizione dialettica, che è alla base della concezione dell'assoluto quale risultato. Hegel precisa che il momento dell'antitesi, della contraddizione dialettica, non annulla, non azzera la tesi, benslla nega nella sua determinazione e finitezza aprendo il sapere all'infinito, a tutto ciò che la tesi non era ~>11-11. In questo processo il sapere si autoalimenta, elevandosi a momenti sempre più complessi e ricchi di realtà ,.111-17. Come emerge dal brano IlEI tratto dalla Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto (1821), un'opera della piena maturità, la dialettica è sia uno strumento del pensiero, sia la legge che governa lo sviluppo della realtà stessa. Hegei stabilisce infatti la perfetta coincidenza di realtà e razionalità, come recita il celebre motto iniziale, a cui segue la critica dei due atteggiamenti contrari possibili: quello di coloro che negano la razionalità del reale e quello di chi nega realtà alla razionalità. Coloro che negano la razionalità della realtà, considerando il presente come qualcosa di vano, perdono aderenza con l'esistente, trasformando i loro discorsi e i loro giudizi in saccenteria inutile e vuota ~>11-8. D'altra parte, coloro che negano invece realtà al razionale svalutano l'idea a mera opinione astratta e inservibile alla comprensione della realtà e del presente ~>18-11. La filosofia autentica muove invece dalla convinzione della implicazione reciproca di realtà e razionalità per rintracciare nel temporale e nel transeL[nte, ossia nella realtà del presente, l'idea, l'eterno, il razionale, l'immanente verità. L'idea entrando nell'esistenza concreta, ossia facendosi realtà, produce anche l'accidentale, il molteplice, ciò che è irreale per la scienza, che non è oggetto della filosofia ~>111-20. La filosofia, precisa perciò Hegel, esemplificando con la materia del presente trattato, vale a dire lo Stato, non ha come obiettivo la descrizione di come il mondo dovrebbe essere, ma di come esso è nella realtà e nella razionalità ~>121-28. La filosofia, al pari di ogni individuo, è figlia del suo tempo; non può saltare il presente ma anzi ha l'obiettivo di comprenderlo in pensieri, ossia ricondurlo a concetti, all'idea, alla verità, alla sua dimensione eterna ~>129-36. Perciò, conclude Hegel, nella costruzione di un sapere assoluto, la filosofia giunge sempre al termine, quando la verità è già maturata, comportandosi come la nottola di Minerva, la civetta cara alla divinità, che inizia a volare solo al tramonto, quando il giorno si è ormai concluso ~>137-47.

L'antitesi non è una neoazione elle annulla ogni contenuto; essa è art•icchimento, sintesi

L'unico punto per ottenere il progresso scientifico[. .. ] è la conoscenza di questa proposizione logica, che il negativo è insieme anche positivo, ossia che quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto, ma si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare, vale a dire che una tal negazione non è una negazione qualunque, ma la negazione di quella cosa determinata che si risolve, ed è perdò negazione determinata. Bisogna in altre parole, saper conoscere che nel risultato è essenzialmente contenuto quello da cui esso risulta; - il che è propriamente una

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tautologiat, perché se no, sarebbe un immediato, e non un risultato. Quel che resulta, la negazione, in quanto è negazione determinata, ha un contemito. Cotesta negazione è un nuovo concetto, ma un concetto che è superiore e più ricco che non il precedente. Essa è divenuta più ricca di quel tanto ch'è costituito dalla negazione, o dall'opposto di quel concetto. Contiene dunque il concetto precedente, ma contiene anche di più, ed è l'unità di quel concetto e del suo opposto. Per questa via deve il sistema dei concetti, in generale, costruir se stesso e completarsi per un andamento irresistibile, puro, senz'accogliere nulla dal di fuori.

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G.W.F. Hegel, Scienza della logica, pp. 29, 31-32, 36

1. In senso etimologico, una tautologia è una «ripetizione dello stesso" ed è sinonimo eli proposizione

ovvia.

IE:EI La t•ealtà è razionale e la t•azionalitiì è t•eale

L'idea entra nella t•ealtà producendo anche accident;alità, forme esistenti che non sono oggetto della filosofia

Compito della scienza !filosofica) dello Stato è pei•ciò comprendere

l'essere e non tratteggiare utopie, ndover• essere»

Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. In questa convinzione sta ogni coscienza non prevenuta, e così pure la filosofia, e questa procede di qui nella considerazione così dell'universo spirituale, come di quello naturale. Se la riflessione, il sentimento o qualsiasi forma abbia la coscienza soggettiva, riguarda il presente per un qualcosa di vano, è al di là di esso e giudica da saccente, essa si ritrova in uno spazio vano, e giacché essa ha realtà soltanto nel presente, così essa stessa è soltanto vanità. Se d'altro verso l'idea passa per ciò ch'è soltanto un'idea, una rappresentazione in un'opinione, la filosofia al contrario procura l'intellezione che nulla è reale all'infuori dell'idea. Quel che importa allora è conoscere, nella parvenza di ciò ch'è temporale e transeunte, la sostanza che è immanente e l'eterno che è presente. Poiché il razionale, che è sinonimo dell'idea, allorché esso nella sua realtà entra in pari tempo nell'esistenza esterna, vien fuori in un'infinita ricchezza di forme, fenomeni e configurazioni, e circonda il suo nucleo con la scorza variopinta nella quale la coscienza dapprima dimora, che soltanto il concetto trapassa, per trovare il polso interno e pur nelle configurazioni esterne sentirlo ancor battere. Ma i rapporti infinitamente molteplici che si formano in questa esteriorità, grazie al parer dell'essenza in essa, questo materiale infinito e la sua regolazione non è oggetto della filosofia. [... ] Così dunque questo trattato, in quanto contiene la scienza dello stato, dev'essere nient'altro che il tentativo di comprendere e di esporre lo stato come un qualcosa entro di sé razionale. Come scritto filosofico esso non può far altro che esser lontanissimo dal dover costruire uno stato come dev'essere; l'insegnamento che in tale scritto può risiedere, non può tendere ad insegnare allo stato com'esso dev'essere, bensì piuttosto com'esso, l'universo etico, deve venir conosciuto. Hic Rhodus, hic saltus 1 •

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1. «Qui è Rodi, qui è il saltO>•: citazione da una favola ascritta a Esopo, dal titolo Lo spaccone. La frase

circolava già dall'antichità come proverbio, per indicare la necessità eli misurararsi con la realtà, anelando al eli là delle chiacchiere, Hegella introduce per riformulare la tesi della coincidenza eli realtà e razionalità.

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La filosofia è figlia del suo tempo, il quale deue essere compreso nella sua razionalità

La filosofia compr·ende

la l'ealtà solo quando essa si è interamente dispiegata nella sua l'iiZÌIIIIIliità.







Comprendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Per quel che concerne l'individuo, del resto, ciascuno è un figlio del suo tempo; così anche la filosofia, è il tempo di essa appreso in pensieri2 • È altrettanto insensato figurarsi che una qualsiasi filosofia vada al di là del suo mondo presente, quanto che un individuo salti il suo tempo, salti al eli là di Rodi. Se la sua teoria nel fatto va al di là eli quello, se egli si costruisce un mondo come dev'essere, esso esiste sì, ma soltanto nelle sue opinioni, -in un elemento duttile, nel quale si lascia imprimer l'immagine eli tutto quel che si vuole. [. .. ]Per dire ancora una parola a proposito del dare insegnamenti su come dev'essere il mondo, ebbene, per tali insegnamenti in ogni caso la filosofia giunge sempre troppo tardi. In quanto pensiero del mondo essa appare soltanto dopo che la realtà ha compiuto il suo processo eli formazione e s'è bell'e assestata. Questo, che il concetto insegna, mostra necessario parimenti la storia, che soltanto nella maturità della realtà l'ideale appare di fronte al reale e che quell'ideale si costruisce il medesimo mondo, appreso nella sostanza di esso, dandogli la figura d'un regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo.



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G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, pp. 14-17

2. Richiamo a F. Bacon e a un passo del Novum Organum.

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Stato e nazione: i protagonisti della storia

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interesse per la storia universale è sorto in epoca illuminista, investendo temi come il progresso, la civilizzazione e la perfettibilità dell'essere umano. Il Romanticismo eredita questa discussione elaborando nuove concezioni, introducendo questioni e prospettive di analisi diverse, spesso in aperta ed esplicita contrapposizione alla precedente stagione filosofica. I romantici si servono dell'analogia tra la storia e lo sviluppo di ciascun uomo, al fine di recuperare una concezione organica dei processi storici. Una tale visione compare già nella riflessione di Herder, considerata come un momento necessario di preparazione al Romanticismo. Centrale nella cultura romantica e per la storia ottocentesca è anche il ruolo che rivestirà il termine "nazione",

inteso come incarnazione in un singolo popolo di una entità spirituale (Dio, l'assoluto) e opposto dai romantici alla nozione precedente, giusnaturalistica e contrattualistica, di Stato, ritenuta priva di legame col tessuto vitale e sanguigno del popolo. Dinanzi alle truppe francesi napoleoniche, dopo la sconfitta subita dalla Prussia nel 1806, Fichte difenderà proprio questa idea di nazione per spronare il popolo tedesco a risollevarsi e a riprendere in mano le smti del proprio destino. Sulla nozione di Stato, che è nazione, cultura e lingua, ma anche entità pubbli11-8. Herder paragona la storia a un dramma teatrale, in cui ogni attore recita solo una scena, ignorando come questa si colleghi agli atti successivi ~>18-12. Quel che avviene nelle vicende della storia accade anche considerando l'immensità e la complessità dell'universo, di cui ciascuno conosce soltanto una porzione, a partire da quella da lui occupata, sentendosi perciò al centro e illudendosi che tutto ruoti intorno a sé ~>113-21. Analogamente, osserva Herder, ciascuno di noi, ogni tempo, tutti i popoli hanno ritenuto di essere il centro e il motore della sto-

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ria, credendo di essere protagonisti, di conoscere i fini e partecipare a realizzarli. lnvero, esiste un unico disegno divino, impossibile da cogliere con un solo sguardo, giacché la maniera in cui Dio ha intrecciato i destini è ignota e l'apporto dato da tutti i popoli, da tutte le

epoche e da ciascun individuo è decisivo

1\lon è possibile cogliei'!! il senso della storin se non nella totalità delle sue vicende, riconoscemlo il valore di ogni l!llllCa

Ciascuna epoca crede di essere pi•utagonista della Stlli'Ìil, lli'DIII'Ìil come l'uomo tende Il illudersi di essere al centl•o dell'uniuersu

Ogni popolo, ogni epoca, ogni singolo indiui!luo com:nrl'e al disegno divino e al corso uniuersale della storia

~122-34.

Nell'umanità ritroviamo, in tutta la terra e per tutti i paesi, un medesimo invisibile germe a fondamento della felicità e della virtù, germe che viene in luce diversamente sviluppandosi, in-diverse forme e pur mantenendo sempre un'unica proporzione e unione interiore di forze; [. .. ] per quanto riguarda l'umanità doveva esistere un gran disegno totale di Dio, disegno che non può essere abbracciato dallo sguardo di una singola creatura, proprio perché non tende affatto come sua meta a qualcosa di singolo, e specialmente non ai filosofi o ai monarchi in trono del secolo XVIII; perché tutte le scene nelle quali ogni attore ha soltanto la sua parte per agirvi e essere felice, tutte le scene possono formare un complesso unico [. .. ] di cui nulla può sapere il singolo attore chiuso in se stesso, ma che lo spettatore può tuttavia guardare dal debito punto di vista e nella pacata aspettazione di quanto seguirà e verrà a compirla. Osserva l'universo intero, dal cielo alla terra; che cosa è mezzo, che cosa è fine? Non è tutto mezzo per milioni di fini? Non è tutto fine per milioni di mezzi? La catena dell'onnipotente e onnisciente Bontà si vien intrecciando, legando in mille diversi modi, ma ogni anello della catena là non è che un anello: pende alla catena e non vede affatto donde penda infine la catena tutta. Quasi fosse in sogno, ognuno si sente al centro, può vedere trasognato ogni cosa intorno a sé come se tutti i raggi e i flutti convergessero sul punto in cui egli si trova: o bella illusione! Ma il grande orizzonte di tutti questi flutti, raggi e centri apparenti, dov'è, che è, dove va? E come potrebb'essere altrimenti nella storia del genere umano? Tutte queste ondate ed età che si susseguono altro non possono essere se non il piano architettonico dell'onnipossente Sapienza. [. .. ] In tutto questo universo vivo o morto ti ritrovi tu forse centro esclusivo dove tutto venga a convergere o non piuttosto non fai altro che collaborare (dove, come, quando?- chi te l'ha chiesto?) a più alti e ignoti fini? A fini cui concorrono la stella mattutina e la piccola nube, tu stesso e il verme che vai ora calpestando. [. .. ]L'uomo dei lumi dell'ultima ora non soltanto pretende d'essere l'uditorio universale, ma vuole egli stesso farsi l'ultimo accento, riassuntivo di tutti gli accenti. Specchio di tutto il passato e rappresentante dello scopo ultimo per cui furon composte le scene tutte. [... ] Ma checchè io sia, la voce dal cielo in terra mi grida che al mio posto significo anch'io qualcosa. [.. .] Io non son trascurato affatto, nessuno mi è anteposto, la sensibilità, l'attività, la capacità sono ripartite nell'uman genere.

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].G. Herder, Ancora una filosofia della storia per l'educazione dell'umanità, pp. 94-97

Fichte: popolo e nazione Nell'inverno 1807-08 Fichte pronunciò all'Accademia delle Scienze di Berlino 14 Discorsi alla nazione tedesca. Solo un anno prima la Prussia era stata sconfitta e Berlino occupata dalle truppe napoleoniche; lontana e remota appariva ancora la possibilità del riscatto che Fichte teorizzava e difendeva con fervore retorico e lucidità filosofica.

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In questo quadro si colloca il brano~. tratto dal quarto discorso, nel quale Fichte indica il motivo del primato dei Tedeschi sugli altri popoli nella fedeltà alla lingua originaria,

mostrando di converso le conseguenze negative derivanti dall'abbandono, da parte di un popolo (a causa di trasmigrazioni), della vitale sede originaria. Il presupposto su cui fondare una coscienza nazionale è dunque il primato linguistico e culturale del popolo tedesco rispetto ad altri popoli di stirpe germanica, come i Franchi, progenitori degli odiati neoconquistatori ~11-5. La lingua avrebbe ricadute di ordine spirituale anche negli usi e nei costumi, persino nell'esercizio e nelle forme di organizzazione del potere, monarchica e assoluta nel caso francese, confederata e limitata per i Tedeschi ~15-9. Di seguito Fichte propone un'interessante origine naturale della lingua, rifiutando la tradizionale concezione artificiale o convenzionale: attraverso il linguaggio parla la natura umana stessa, i concetti si fanno suoni ~11 0-16. Nella lingua materna si sommano le intuizioni più profonde di un popolo, il suo modo di vedere, di comprendere, di interpretare il mondo ~117-26. Un popolo che adotta una lingua straniera non solo lascia la lingua materna e recide le proprie radici, ma acquisisce e si appropria di un morto strumento incapace di creare nuova vita e cultura. Della lingua straniera il nuovo popolo recepirà significati, suoni e grafemi, ma non lo spirito originario naturale che tramite essa si esprimeva ~127-38. Per quanto i conquistatori di territori e di linguaggi potranno contribuire allo sviluppo della lingua adottata, la loro parola conserverà sempre il riflesso di una cultura che si è interrotta, che è morta ~138-46.

liEII Il destino dei Tedeschi è legato alla fedeltà alla te1•ra e alla lingua originaria

Atl:rauerso la lingua parla la natm•a umana

La lingua madre esprime la natura di

llil jll.ljllllil

La prima differenza tra il destino dei tedeschi e quello degli altri popoli di origine germanica è questa: che i tedeschi rimasero nelle sedi primitive del popolo originario, gli altri migrarono verso nuove contrade; i tedeschi conservarono la loro lingua e la svilupparono, gli altri adottarono una lingua straniera che a poco a poco a modo loro trasformarono 1 • Da questa differenza iniziale si svolsero le differenze ulteriori[ .. .] e per esempio, che nella sede primitiva, secondo l'antica usanza germanica, si mantenesse la confederazione statale sottoposta a una sovranità con potere limitato; mentre nelle sedi straniere, secondo l'anteriore usanza romana, si trapassasse pil:t facilmente alla forma monarchica. [. .. ] La lingua in generale e in ispecial modo la nomenclatura degli oggetti per mezzo di suoni prodotti dalle corde vocali non dipende da decisioni e premeditazioni cervellotiche; esiste invece una legge fondamentale secondo cui ogni concetto assume, attraverso gli organi, un suono: quello e non un altro. [... ] Non è dunque l'uomo che parla ma attraverso lui parla la natura umana e si comunica ai suoi simili. Bisognerebbe dunque ritenere che ci sia una sola lingua, espressione necessaria della natura, dovunque. [.. .] Dopo millenni, e dopo tutte le trasformazioni che durante un tale periodo la forma esterna della lingua di quel popolo ha dovuto subire, essa resta pur sempre unica, originaria, viva forza vocale della natura [.. .]. La lingua madre umana, influenzata dagli organi vocali di un popolo allorché articolò i primi suoni, sommata con tutti gli sviluppi che questi primi suoni subirono in determinate circostanze, costituisce finalmente la lingua attuale di un popolo. Perciò una lingua resta sempre la stessa lingua. [. .. ] Così stan le cose in una lingua, che fin dalle prime parole sbocciate in mezzo al popolo, si è sviluppata in armonia con la vita sociale di esso, senza accogliere elementi estranei non esprimenti le intuizioni vissute del popolo stesso [.. .l.

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1. Il riferimento polemico è all'origine germanica dei Franchi, poi tradita con la migrazione nei territori della Gallia, dell'attuale Francia, adottando il latino e da qui il volgare.

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RecideJ'e il legame con la lingua iii'Ìginaria significa

CIIRSil!llllli'SÌ

a una lingua mot•ta, incapace di creare nuova cult111'a

Tutto il contrario accade invece quando un popolo, rinunciando alla propria lingua ne adotta una straniera [... ]. Ben più importanti invece le conseguenze per ciò che riguarda la parte spirituale della lingua2 . Infalli per gli oriundi del paese (Galli) che parlano la propria lingua, questa parte è venuta lentamente e progressivamente forgiandosi nel modo che già dicemmo; per i nuovi conquistatori di essa (Franchi}~ il simbolo contiene un paragone con un'immagine sensuale che essi han già superato da tempo senza darle un equivalente spirituale, o che non hanno ancora avuto [. . .]. Tutto dò che potranno fare, in tal caso, è farsi spiegare il simbolo e la sua portata spirituale; riceveranno così la piatta e morta storia di una forma straniera ma non mai una cultura propria, mai delle immagini evidenti e feconde di nuova vita; arbitrarie appariranno loro dunque quelle forme come già la parte materiale della lingua. [. .. ]Potranno è vero i conquistatori[ ... ] per quanto è possibile muovendo da un punto morto, un bel giorno, a modo loro, riprendere lo sviluppo vitale della lingua adottata; resterà tuttavia quella parete separatoria, contro la quale lo svolgimento della lingua, considerata come forza della natura, uscendo dalla vita, è venuta a spezzarsi, e oltre la quale, rientrando nella vita, è tornata a fluire. Sebbene una tale lingua [... ] abbia l'apparenza di corrente viva, avrà pur sempre nelle sue profondità una parte morta; la scissione dal suo vecchio mondo spirituale e l'ingresso nel nuovo l'hanno separata dalla sua viva radice.

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].G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, pp. 76-85

Il secondo brano~ è tratto invece dall'ottavo discorso, dedicato alle definizioni di «popolo» e di «amor di patria». Fichte precisa anche cosa debba intendersi per nazione, difendendo il valore assoluto, divino, eterno che per il singolo deve avere il riconoscimento .delle proprie radici e della propria origine. Popolo, spiega Fichte, è un'unità spirituale che trova il suo sviluppo nella storia secondo una legge che lo cementa in un unico organismo. Popolo non è dunque una semplice somma di individui ~11-13. Ma è una modalità di convivenza che l'autore definisce, per la sua durevolezza e perpetuità, «manifestazione del divino». Nel caso· del popolo tedesco l'unità, l'identificazione che costituisce il valore aggiunto è data, come ha mostrato il brano precedente, dalla lingua originaria, perciò Fichte riprende anche la polemica contro l'amore per il diverso, per le altre lingue e culture, l'esterofilia ~113-20. Per Fichte, popolo e patria sono nozioni più originarie di quella di Stato, la quale riguarda invece soltanto il meccanismo istituzionale politico, che regola i rapporti tra cittadini. Popolo e patria costituiscono invece l'elemento divino, perpetuo, entro cui il singolo può accedere a un destino che travalica la sua finitezza e la sua temporalità ~>120-46. Lo Stato non deve essere perciò solo un mezzo per le aspirazioni e il godimento dei singoli cittadini: lo Stato deve essere un fine e solo l'amor di patria può governarlo oltre gli scopi immediati verso obiettivi più alti e duraturi ~>147-58. Solo facendo parte di un popolo e in esso riconoscendosi, il singolo radica infatti il suo essere nelle generazioni che lo hanno preceduto e apre la sua vita, il suo agire alle generazioni future, che lo seguiranno.

2. L'espressione linguistica eli oggetti spirituali, e non semplicemente sensibili e naturali. 3>. Allude all'insediamento dei Franchi in Gallia, e dunque all'origine del francese.

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~ Il popolo è un !II'!IIIUÌ!IIIIII,

inl'tmitÌi

spirituale accomunata da 1111 elemento che ne identifica carattere e suil1111110 storico

L'esterofilia nega il significato spirituale · della nazione

Solo il popolo è garante dell'etel'ilità lp!wpetuitàJ terrena dell'indiuiduo

la vita della nazione è l'unico valore deltlatriota, di chi ama la Jlllii'Ìa

Popolo e patria rappresentano il diuino io terra

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Ecco dunque il significato della parola «popolo,, dal punto di vista di un mondo spirituale: quel complesso di uomini conviventi permanentemente e permanentemente riproducentesi sia naturalmente che spiritualmente, stando esso sotto una speciale legge di sviluppo dell'elemento divino che esso ha in sé. La comunanza di questa «speciale legge, è appunto ciò che cementa questo complesso di uomini nel mondo eterno e quindi anche nel mondo temporaneo, facendone un tutto organico e tutto pervaso di sé. Quanto al suo contenuto, questa legge può essere afferrata nel suo complesso, come l'abbiamo tracciata per i tedeschi in quanto popolo originario, vagliando le manifestazioni di un tal popolo, essa potrà essere ancor meglio compresa in certe sue precisazioni; ma nessuno che viva permanentemente sotto il suo influsso - a lui ignoto- potrà mai penetrarne a fondo tutto il concetto, anche se sente con tutta evidenza che una tale legge esiste. [... ] Quella legge di sviluppo dell'elemento primitivo e divino determina e compie ciò che si è chiamato il «cat·attere nazionale di un popolo». Da queste ultime conclusioni risulta chiaro che uomini i quali- conforme abbiam descritta l'esterofilia- non credono a un elemento originale in se stessi né a uno sviluppo di esso, ma solo a un moto circolare della vita fenomenica, e che in grazia di questa credenza diventano effettivamente quali si credono, tali uomini, di cui si può appena dire che esistano, non costituiscono un popolo, né possorio avere un carattere nazionale. La fede dell'uomo bennato nella perpetuità della sua opera anche quaggiù in terra si fonda quindi sulla speranza della perpetuità del popolo ond'egli è nato e del carattere di esso, secondo quella misteriosa legge, e senza che elementi estranei e non conformi a quella legislazione vengano a inquinarla. Tale carattere è l'elemento eterno cui egli affida la propria eternità e quella delle sue opere, l'eterno ordine delle cose in cui egli ripone il suo eterno. Ora egli deve volere questa perpetuità, poiché essa sola è per lui il vincolo e il mezzo di prolungare a vita eterna il breve tratto della sua vita mortale. La sua fede e il suo sforzo a fondare qualcosa di imperituro, il concetto secondo cui egli concepisce la propria vita come vita eterna, è il vincolo per mezzo del quale egli lega intimamente a sé dapprima la sua nazione, poi tutta l'umanità, e allarga il suo cuore fino a farlo capace di accogliere tutte le aspirazioni di essa fino alla fine dei secoli. Questo è l'amore per il suo popolo, fatto di rispetto, fiducia, gioia di appartenervi, orgoglio di discenderne. Il divino si è manifestato in lui, e l'elemento originario si è degnato di eleggerlo a proprio ricettacolo e diretto mezzo di diffusione nel mondo; ed ecco perché il divino continuerà a fluire da lui. Sarà attivo, operante, si sacrificherà per esso. La vita soltanto come vita, come una serie di giorni mutevoli, non ebbe mai valore ai suoi occhi; egli non la desiderò che come sorgente di cose eterne; ma solo la perpetuità della sua nazione unita a indipendenza gli può garantire questa eternità; per salvarla dev'essere disposto a morire affinché la patria viva, e in essa viva la sola vita che conta per lui. [... l Se non ebbe per tradizione una patria, compiangiamolo; chi invece l'ebbe - e nel suo cuore cielo e terra, visibile ed invisibile si compenetrano creandogli un cielo reale e schietto -, combatte sino all'ultima goccia di sangue per tramandare a sua volta intatto alla posterità il caro retaggio. [. .. ] «Popolo" e «patria" in questo significato, come portatori o garanti dell'eternità terrena, come ciò che quaggiù può essere eterno, sorpassano di molto lo «stato" nel senso comune di questa parola, di molto «l'ordine sociale" quale s'intende correntemente, e quale, secondo questo concetto, lo si costituisce e

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mantiene. Questo vuole un sicuro diritto, pace interna, e che ciascuno colla sua operosità provveda a se stesso, e trovi il suo appagamento sensuale, finché Dio vorrà dargli vita. Ma tutto ciò non è che mezzo, condizione, impalcatura di quel che vuole l'amor patrio: il fiorire del divino nel mondo, sempre più puro, più perfetto, più prossimo al limite nel suo infinito perfezionarsi. Perciò l'amor di patria deve governare lo stato come suprema incontrollata istanza, in quanto lo limita nella scelta dei mezzi necessari al suo scopo immediato: la pace interna.

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].G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca, p. 175

Hegel e il tribunale della storia Il seguente brano IIU':::] è tratto dalle ultime sezioni dei Lineamenti di filosofia del diritto e affronta il tema dello Stato, sintesi dell'eticità, nel suo secondo momento: il «diritto statuale esterno». Hegel vi chiarisce anzitutto in quali rapporti stiano gli Stati tra di loro, osservando come nessun diritto internazionale possa limitare la sovranità di ciascuna entità, avendo la stessa validità di un semplice e mero contratto. La situazione, che regna tra Stati sovrani, è cosl molto simile a quella che interviene tra singole persone in uno stato di natura o pre-statale, in cui può contare solo la volontà dei contraenti ~11-1 O. Perciò, di seguito, Hegel critica come utopica e astratta la concezione kantiana di una pace perpetua da realizzarsi sul riconoscimento di un diritto internazionale. Secondo Hegel, non è la pace, benslla guerra la situazione intrinseca, immanente alle relazioni tra Stati ~111-21. Del resto nelle guerre, nella lotta tra Stati, nelle finalità che muovono i popoli ad agire si manifesta il corso della storia e con esso il tribunale del mondo, un tribunale inappellabile come spiega Hegel, annunciando il trapasso verso l'ultimo (il terzo) momento dello Stato, «la storia del mondo» ~122-29. La storia del mondo non è potenza, violenza o cieco destino, bensì ragione, sviluppo dello spirito, realizzazione della sua essenza, che è libertà ~130-35. l popoli sono gli esecutori della storia del mondo e sono chiamati a questo compito una sola volta ~136-50. Non solo dei popoli ma anche dei singoli si serve la ragione nel farsi storia, elevando di volta in volta sulla scena individui universali, come Alessandro Magno, Cesare, Napoleone, che pur animati da fini personali, dalla ricerca di fama e di onori muovono il corso universale delle epoche ~>-151-67. Secondo Hegel, in questo sviluppo i principi che si sono realizzati in popoli ed epoche storiche diverse sono stati quattro: 1) il regno orientale, in cui la libertà è confinata soltanto nella volontà assoluta del despota dinanzi alla quale tutti gli altri sono sudditi ~>168-75; 2) il regno greco, che apre le porte alla libertà degli individui, pur determinando una classe di schiavi ~>176-84; 3) il regno romano, in cui la libertà si realizza universalmente nel diritto ~>185-95; 4) il regno germanico, in cui la libertà si realizza nei diritti e nei doveri dei cittadini che discendono dallo Stato ~>196-1 03.

diritto internazionale, inteso come il diritto universale, che deve valere in sé e per sé tra gli stati, a differenza del contenuto particolare dei trattati positivi, è che i trattati, come tali che su eli essi si basano le obbligazioni degli stati l'uno verso l'altro, devono venir rispettati. Ma poiché il loro rapporto ha per principio la loro sovranità, ne deriva ch'essi sono in tal misura l'uno verso l'altro nella situazione dello status naturae, e i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale costituita a potere sopra di essi, bensì nella loro volontà particolare. Quella determinazione uni§ 333. Il principio fondamentale del

Ciascuno Stato è snu••ano e niente di supe1•iore (luiì !imitarne hl SII111'1111ÌtÌI

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Gli Stati si ti'DIIano tra loro in una condizione di stato

di iillhll'll, di guna•ra latente

Gli Stati e i princìpi degli spi1•iti del popolo sono i protagonisti della storia, che è realizzazione dello spi1•ito uniue&•sale

Ogni popolo secondo il suo principio particnlal'll è pm•tatore dello sviluppo dello spirito

Il ruolo dei popoli e degli indiuidui

nella storia

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versale rimane perciò nel dover essere, e la situazione diviene un'alternanza del rapporto conforme ai trattati e della soppressione del medesimo. Non c'è alcun pretore, al massimo àrbitri o mediatori tra stati, e anche questi soltanto in modo accidentale, cioè secondo volontà particolari. La concezione kantiana di una pace perpetua grazie a una federazione di stati, la quale appianasse ogni controversia, e come un potere riconosciuto da ciascun singolo stato componesse ogni discordia, e con ciò rendesse impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone la concordia degli stati, la quale riposerebbe su fondamenti e riguardi morali, religiosi o quali siano, in genere sempre su volontà sovrane particolari, e grazie a ciò rimarrebbe affetta da accidentalità. § 334. La controversia degli stati può quindi, in quanto le volontà particolari non trovano un accordo, venir decisa soltanto dalla guerra. [. . .] § 340. [... ] I princìpi degli spiriti del popolo a cagione della loro particolarità, nella quale essi hanno la loro realtà oggettiva e la loro autocoscienza come individui esistenti, sono limitati in genere, e i loro destini e fatti nel loro rapporto dell'uno all'altro sono la dialettica apparente della finità di questi spiriti, dalla quale lo spirito universale, lo spirito del mondo, in tanto si produce come illimitato, in quanto è esso che esercita il suo diritto- e il suo diritto è tra tutti il supremo - su di essi nella storia del mondo, come in tribunale del mondo.[. .. ] § 342. La storia del mondo non è il mero giudizio della potenza dello spirito, cioè la necessità astratta e priva di ragione di un cieco destino; bensì, poiché lo spirito è ragione in sé e per sé, e il di lei esser-per-sé nello spirito è sapere, essa è lo sviluppo, necessario sulla base del concetto soltanto della libertà dello spirito, dei momenti della ragione e quindi della eli lui autocoscienza e della eli lui libertà, -l'interpretazione e realizzazione dello spirito universale. [.. .] § 344. Gli stati, popoli e individui in questo travaglio dello spirito del mondo si levano nel loro determinato principio particolare, che nella loro costituzione e nell'intera ampiezza della loro situazione ha la sua interpretazione e realtà, di cui essi sono a sé coscienti e nel cui interesse sono immersi, essi in pari tempo sono inconsci strumenti e membri di quell'interno travaglio, nel quale queste figure dispaiono, ma lo spirito in sé e per sé prepara ed elabora a sé la transizione nel suo prossimo superiore grado. [. .. ] § 347. Al popolo al quale tale momento compete come principio naturale, è demandata l'effettuazione del medesimo nel processo della sviluppantesi autocoscienza dello spirito del mondo. Questo popolo è nella storia del mondo, per questa epoca, - ed esso può far epoca in essa soltanto una volta-, il popolo dominante. Di fronte a questo suo diritto assoluto d'esser rappresentante del presente grado di sviluppo dello spirito del mondo, gli spiriti degli altri popoli sono privi di diritti, ed essi, come coloro la cui epoca è passata, non contano più nella storia del mondo. [... ] § 348. Al culmine di tutte le azioni, quindi anche di quelle storico-mondiali, stanno individui da intendere come le soggettività realizzanti il sostanziale. Come si addice a queste viventi forme del fatto sostanziale dello spirito del mondo e così immediatamente identiche con il medesimo fatto, quest'ultimo è a loro stesse nascosto e non oggetto e fine, anche l'onore del fatto medesimo e gratitudine esse non hanno presso i loro contemporanei (ivi stesso) né presso l'opinione pubblica dei posteri, bensì come soggettività formali soltanto presso questa opinione hanno la loro parte come fama immortale.[ ... ]

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_:;~i::/.-~::~>~::.-~~:·~~-~~;~_;~·l 21-28. La filosofia positiva, basandosi sull'esperienza (studiando la mitologia e la Rivelazione), s'incarica di dimostrare questi due punti insolubili dal punto di vista della filosofia negativa.

~~iii§'~

Filosofia positiva e filosofia negativa sono complementari: con la t•agione !llllldll!llllli'llniO

il 11011

di Dio, il Dio esistente

CiiiiCi!UO

Ora, la filosofia positiva fa conoscere appunto ciò che nella negativa era rimasto come inconoscibile, e rialza di nuovo la ragione che era stata piegata verso il basso, in quanto l'aiuta a raggiungere la reale conoscenza di ciò che essa ha imparato a conoscere come suo esclusivo, permanente e non perdibile risultato. [... ] La negativa potrebbe stare per sé e non sapere nulla della positiva, se cioè fosse in grado di rinunciare a ogni conoscenza reale; ma come potrebbe essa fare questo se si determina come filosofia?[ ... ] Se essa chiama se stessa filosofia, come potrebbe opporsi alle esigenze che le si collegano universalmente? Le si chiederà il Dio esistente, non la mera idea di Dio. Come guadagnerà quest'ultimo che in essa sta come inconoscibile? [. . .] La filosofia razionale non si occupa del realmente esistente, ma della potenza di esistere. L'Ultimo che può esistere, però, è la potenza che non è più potenza, ma che, in quanto è l'esistente stesso, è puro atto. [. . .] Anche questo Ultimo è anzitutto solo concetto, nella filosofia negativa. [... ] La potenza che non è potenza, ma essa stessa atto, non è in virtù del passaggio a potentia ad actum; se essa esiste, può essere solo a priori, può avere l'essere solo come Prius. [. .. ]Dall'essenza, dalla natura, dal concetto di Dio[ ... ] non segue in eterno nulla più di questo: che Dio, se esiste, dev'essere l'esistente a priori, in altro modo non può esistere; ma da ciò non segue che egli esista1 . [. .. l Ma questo, che non è null'altro, che non ha alcun concetto se non quello di essere l'esistente (e con questo essere precedente al suo concetto incomincia la filosofia positiva), questo non è ancora in alcun modo Dio, come è anzi facile riconoscere in Spinoza, il cui più alto concetto è appunto quel meramente esistente che egli stesso [. .. ] chiama Dio, ma che non è Dio. [.. .] L'errore di Spinoza [... ]consiste quindi nel fatto che egli non ha mostrato come appunto quel meramente esistente - il quale in questo riguardo non è Dio, non è Dio natura sua[. .. ]- sia effettivamente, actu, secondo l'esistenza, a posteriori Dio.

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F.W.J. Schelling, Filosofia della Rivelazione, pp. 249-259

Hegel: l'assoluto e la religione In questo brano~ emergono bene le caratteristiche della rappresentazione come forma della religiosità. la religione coglie Dio, l'assoluto con immagini, ossia rappresentazioni che stanno però per altro, per qualcosa che non è più oggetto dei sensi e di intuizione come nel caso dell'arte. La religione ha infatti innanzi tutto un carattere simbolico o allegorico: di-

Jl. Schelling sta criticando il tradizionale argomento antologico.

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ce una cosa (il significato immediato che ha forma esteriore e sensibile), per intenderne un'altra (un significato mediato, interiore, un contenuto spirituale) ~11-12. La religione usa meta·fore per esprimere in forma rappresentativa ciò che non è rappresentabile. Hegel avanza l'esempio del rapporto tra Dio e Cristo, come Padre e Figlio, genitore e generato, che costituiscono immagini idonee a esprimere con qualcosa di immediatamente noto un contenuto spirituale che trascende ogni intuizione sensibile H 12-17. Hegei ricorda inoltre che, come nel mito e in ogni storia, così anche nella religione cristiana, ad esempio nel racconto di Gesù, sia presente sempre un duplice aspetto: è un racconto divino in un racconto umano ~118-25. Più in generale, la religione espone contenuti eterni, divini tramutandoli in racconti di eventi che accadono nello spazio e nel tempo ~126-32. La religione mostra così anche il suo carattere disgiuntivo, ossia non necessario, accidentale, come esemplificato nel rapporto creativo tra Dio e il mondo, che è lasciato concettualmente indeterminato, e soltanto accostabile per immagini a eventi naturali come la generazione, la nascita ~133-39. Questa ambiguità di immagine e concetto si mostra evidente nel linguaggio devozionale religioso, che rappresenta ad esempio Dio come onnisciente, suprema bontà e giustizia, giustapponendo forme del pensiero non connesse ancora in concetti. La religione pone cioè i contenuti, ossia la verità, nel pensiero, ma non la colloca ancora nel concetto stesso.

La religione non riesce insomma a liberarsi del tutto dalla sensibilità per proiettarsi nella pura idealità o concettualità ~140-49. La religione mostra il suo non essere più intuizione sensibile, ma nemmeno ancora concetto, preconizzando così il passaggio del sapere assoluto verso il momento più alto e sommo della filosofia ~149-65.

~ii.'[~

La religione esprime l'assolnto111lr immagini utilizzate come simboli o allego&·ie

Dietro l'allegm•in, il simbolo, la ••eligiooe l'llppresenta alti'O, lo spirito

Dio si trova per l'uomo dapprima nella forma della rappresentazione; si può parlare per questo anche di intuizione. Ma non si tratta qui dell'intuizione sensibile. [... ] Appartengono alla rappresentazione in primo luogo le forme sensibili, le figurazioni; noi possiamo distinguerle chiamandole immagini; possono chiamarsi, in generale, immagini le forme sensibili nelle quali il contenuto principale, il modo principale della rappresentazione, è ottenuto dall'intuizione. Di queste noi abbiamo subito la coscienza che esse sono proprio solo immagini, che hanno un significato differente da ciò che in primo luogo esprime l'immagine, come tale, che è un simbolo, o un'allegoria; ci troviamo dinanzi a un duplice significato, l'uno immediato, l'altro interiore, che è quello che si vuole significare. Questo è da distinguersi dal primo che è esteriore. Vi sono così nella religione molte forme delle quali sappiamo che sono metafore. Quando noi diciamo che Dio ha generato il Figlio sappiamo bene che è solo un'immagine; «figlio», «generatore» danno la rappresentazione di un rapporto conosciuto che, come sappiamo bene, non deve essere pensato nella sua immediatezza, ma deve significare un altro rapporto che è all'incirca simile a questo. [... ] La storia di Gesù [. .. ] certamente è per la rappresentazione e nel modo della rappresentazione, ma ha anche un altro lato. La storia di Gesù ha un doppio aspetto: è una storia divina, e non solo storia esteriore, che deve essere considerata come storia ordinaria di un uomo; ma piuttosto una storia che ha il divino per suo contenuto[ .. .]. Questo è l'intimo, il veridico, il sostanziale di questa storia ed è appunto ciò che è oggetto della ragione. Contiene in sé un significato, un'allegoria, come accade per il mito, ma ogni storia in generale ha questo doppio aspetto. [... ] La religione è per la coscienza comune [. .. ] un contenuto che essenzialmente si presenta dapprima in forma sensibile, un seguito di azioni, di determinazio-

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La r•eligione l'imanda al com:eUo ma non lo detel'lllÌIIil, lllln lo spiega, non lo !liustifica

La religione, muovendosi nella

forma della l'appresentazione,

non I'Ìesce a liberarsi del sensibile e a rn!loiungere l'idea

La religione è il momento inte••medio del sapere assoluto, che prelude alla filosofia

ni sensibili, che si susseguono una dopo l'altra nel tempo e si pongono le une accanto alle altre nello spazio. Il contenuto è empirico, concreto, svariato; le connessioni stanno in parte le une accanto alle altre nello spazio, in parte le une dopo le altre nel tempo. Ma in pari tempo questo contenuto ha la sua interiorità; vi è in esso lo spirito che agisce sullo spirito. [. .. ]Così per esempio la creazione del mondo è una rappresentazione. Dio stesso è questa rappresentazione [. .. ]; da una parte Dio e dall'altra il mondo. [.. .] Ora, se noi diciamo: il mondo è creato, indichiamo con ciò un'attività del tutto diversa da un'attività empirica [. .. l [mal non abbiamo ancora alcun concetto; la connessione di ambedue i lati non è posta nella forma della necessità 1 , ma è espressa o per analogia con la vita naturale e gli avvenimenti naturali, o è indicata come cosa tale che deve essere per sé del tutto peculiare e inconcepibile. [. .. l Anche se esse provengono dal pensiero [. .. l sono tutte rappresentazioni per la forma, perché sono determinazioni che si riferiscono semplicemente a loro stesse, sono nella forma dell'indipendenza. Quando noi diciamo: Dio onnisciente, suprema bontà, giustizia, noi abbiamo certo determinazioni di contenuto, ognuna delle quali è semplice e autonoma accanto alle altre. [. .. ] Noi abbiamo visto che nella rappresentazione il contenuto essenziale è posto nella forma del pensiero; ma con ciò non è ancora posto come pensiero. La rappresentazione si comporta negativamente verso il sensibile e l'immaginario, non è però al punto da liberarsi assolutamente dal sensibile, prendendo posto così nella perfetta idealità. Questa viene raggiunta solo nel pensiero reale, che eleva le determinazioni sensibili del contenuto a determinazioni generali del pensiero, a momenti interni o alla determinatezza propria dell'idea. Poiché la rappresentazione non è questa concreta elevazione del sensibile all'universale e il rapporto negativo verso il sensibile non significa altro che essa non è veramente liberata dal sensibile; essa è ancora essenzialmente inviluppata in esso e ha bisogno del sensibile, in quanto essa stessa è questo conflitto contro il sensibile. Il sensibile dunque le appartiene essenzialmente, anche se non deve mai farlo valere come indipendente2 • [. .• ] Perciò la rappresentazione sta ora in una costante irrequietezza tra le intuizioni immediate e sensibili e il pensiero vero e proprio. La determinatezza è di specie sensibile; è presa dal sensibile; ma si è introdotto in essa il pensiero, o il sensibile si è elevato al pensiero sulla via dell'astrazione. Ma il sensibile e l'universale non si compenetrano ulteriormente; il pensiero non ha ancora completamente superato questa determinazione concreta sensibile e se il contenuto della rappresentazione è anche in sé generale, è tuttavia attaccato alla determinazione del sensibile e ha bisogno della forma della naturalità. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, vol. I, pp. 161-166

1. Si potrebbe cioè pensare erroneamente che Dio, pur essendo tale, possa anche non creare. 2. Perché esso deve significare un contenuto spirituale.

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RIPENSIAMO INSIEME

La voce del contemporanea _,- Prova a sostanziare le parole del filosofo tedesco Nicolai Hartmann che definiscono la stagione dell'idealismo tedesco «un'ondata di sistemi incalzantisi e superantisi l'un l'altro», individuando in uno schema di lavoro: a) la critica al noumeno kantiano e il passaggio all'idealismo in Fichte; b) l'assoluto in Schelling e il superamento dell'idealismo fichtiano; c) le critiche di Hegel alle concezioni dell'assoluto di Fichte e di Schelling.

.,- Come e in quali termini l'assoluto si manifesta nella storia e nell'arte, secondo il Sistema dell'idealismo trascendentale di Schelling? In 8 righe. ~ Assumendo la prospettiva della filosofia dell'identi-

tà di Schelling, qual è la natura del «finito infinito» e qual è invece quella del «finito finito»? In 5 righe. ~ Illustra le ragioni della critica che Schelling rivolge

al panteismo spinoziano nelle Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana del 1809. Quale concezione di Dio intende difendere Schelling? In 1O righe.

~ Distingui e presenta sinteticamente le varie fasi che

Fichte, Schelling, Hegei hanno attraversato nell'elaborazione del loro pensiero, approfondendo o aprendo nuove prospettive.

La sguardo della tradizione

~ Esponi la dottrina delle potenze presente nell'ulti-

ma fase del pensiero di Schelling e il suo corrispettivo positivo nella filosofia della mitologia e della Rivelazione. In 1O righe . .,.,. Chiarisci il significato del motto hegeliano: «Ciò che è razionale è reale, ciò che è razionale è reale». In 7 righe.

~ Definisci le seguenti categorie elaborate da Schiller

~ Spiega i tre momenti della dialettica hegeliana, in-

in 3 righe ciascuna: a) anima bella; b) ingenuo; c) sentimentale.

dicando le facoltà coinvolte nel processo e il significato della negazione, dell'antitesi. In 7 righe.

~ Esponi la concezione di natura che emerge in Goe-

~ Esponi il contenuto della Fenomenologia dello spi-

the e in Holderlin, enucleando dal testo i termini di confronto con la corrispettiva visione seicentescasettecentesca (e kantiana) e con la filosofia panteistica di Spinoza. In 15 righe.

rito, cominciando a spiegarne il titolo. In 1O righe.

~ Riassumi i tre principi fondamentali dell'intera dot-

trina della scienza di Fichte. In 8 righe.

~ Colloca e riassumi i momenti attraversati dalla

«coscienza» nella Fenomenologia dello spirito. In 7 righe.

lllf!tl Colloca e riassumi i momenti principali dell'«autocoscienza» della Fenomenologia dello spirito. In 7 righe.

~ Spiega perché secondo Fichte la differenza tra

idealismo e dogmatismo riguarda anche una scelta di vita tra libertà e necessità? In 7 righe. ~ Quali argomenti sorreggono l'iniziale tesi ficthiana

dello Stato come «male necessario» e quali considerazioni sono elaborate invece successivamente per difendere una concezione totalitaria? Quale delle due concezioni di Stato è romantica, quale più illuminista? E perché? In 12 righe.

T

Mostra il percorso tracciato dalla filosofia trascendentale di Schelling attraverso le tappe o epoche dell'io. In 8 righe.

T

Colloca e riassumi i momenti principali della «ragione» nella Fenomenologia dello spirito. In 7 righe.

lllf.7l Presenta il sistema hegeliano nelle partizioni generali dei suoi momenti dialettici. In 5 righe. ~ Cos'è la logica in Hegel? In cosa differisce dalla lo-

gica aristotelica e dalla logica trascendentale kantiana? In 1O righe. ~ Quale differenza intercorre tra la moralità e l'etici-

tà secondo Hegel? Quale delle due rappresenta un'istanza superiore? E perché? In 8 righe.

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LA STAGIONE DELL'IDEALISMO

~ Chiarisci la visione hegeliana dello Stato, con riman-

~ Rintraccia in ~-!iii§)-~ p. 814 del tema «Il sa-

di al contrattualismo, al giusnaturalismo. In 1Orighe.

pere e l'assoluto» tutte le occorrenze del termine «concetto» e compila una mappa delle parole che a esso sono accomunate e che a esso sono contrapposte; come può il concetto diventare soggetto)? Come si configura il rapporto tra concetto e idea in ~? Qual è il compito della filosofia, se per Hegel la verità è il risultato che solo alla fine si compie?

~ Indica e presenta brevemente quali sono per Hegel

i quattro regni storico-mondiali, con riferimenti anche al brano~ p. 841 del tema «Stato e nazione: i protagonisti della storia».

La parola ai filosofi ~ Confronta i brani liE p. 799 e~ p. 800 del te-

ma «Il genio e la verità dell'arte», rispettivamente di Schlegel e Novalis, e individua le caratteristiche che ciascun autore attribuisce alla poesia romantica. Qual è il ruolo che essi riservano all'arguzia? ~ Schiller e Schelling vedono l'esperienza estetica co-

me una sintesi, dando però spessore e sostanza di verità diversa al genio e all'arte. Riferendoti ai testi liiiiJ p. 797 e~ p. 801, del tema «Il genio e la verità dell'arte» sviluppa questo argomento proponendo un confronto tra i due autori. ~ Perché l'arte secondo Hegel è destinata a essere

superata da altre forme di sapere assoluto? Rispandi argomentando e citando da~ p. 803 del tema «Il genio e la verità dell'arte». ~ Leggi il brano IWJiill p. 806 del tema «Il sapere e l'as-

saluto» e prova a rispondere alle seguenti domande: a) in cosa consiste la differenza tra A=A e io=io relativamente a quanto indicato da Fichte con «X»? b) Perché il secondo principio, al pari del primo, non è dimostrabile, non è deducibile? c) Perché soltanto in virtù del terzo momento è possibile dire che l'io e il non io dei primi due momenti sono divenuti «qualcosa»? ~ Leggi ed esamina~ p. 811 del tema «Il sapere e

l'assoluto». A cosa si riferisce Schelling quando parla di un parallelismo tra natura e intelligenza? In cosa consiste l'elemento subiettivo e in cosa invece l'elemento obiettivo della conoscenza? Dopo aver individuato quale sia la tendenza della scienza della natura, distingui i compiti della filosofia della natura e della filosofia trascendentale.

~ Riassumi la concezione della storia di Herder, enu-

cleando in particolare la critica a «l'uomo dei lumi», contenuta in liiSil!l p. 819 del tema «Stato e nazione: i protagonisti della storia». ~ Leggi i brani ilE-l'iii.§] p. 820 del tema «Stato e na-

zione: i protagonisti della storia» e motiva le risposte alle seguenti domande: in cosa consiste il primato del popolo tedesco secondo Fichte? Può l'esterofilia caratterizzare un popolo? In quale entità si incarna il divino, nella nazione o nello Stato? Cos'è il «fiorire del divino del mondo»?

llliftr Leggi il

brano~ p. 823 del tema «Stato e nazione: i protagonisti della storia»: quale concezione della storia emerge? In cosa differisce dalla visione proposta da Herder? Qual è il significato e il ruolo storico che Hegel conferisce alle nozioni di popolo e di nazione? Trovi elementi di vicinanza o di distanza dalla posizione sostenuta da Fichte nei Discorsi alla nazione tedesca?

~ Perché Fichte definisce in~ p. 827 del tema «Fi-

losofia e religione» la coscienza un'immagine? A cosa si contrappone l'idea di immagine, e di cosa la coscienza è immagine? In che senso anche l'essere divino è immagine? E di cosa è immagine quest'ultimo? ~ Riferendoti al brano~ p. 832 del tema «Filosofia

e religione», indica quali elementi rendono per Hegel la religione un momento intermedio del sapere assoluto, tra arte e filosofia. ~ Attendendoti al brano ~'ii§~ p. 828 del tema Filoso-

fia e religione», prova a individuare nel testo imomenti della creazione infradivina ed extradivina, collegandoli alla dialettica tra libertà e principio del male in Dio e nell'uomo individuata da Schelling.

~ Proponi un raffronto tra la concezione della natura

~ Con opportuni rimandi al testo llii:5ll p. 830 del te-

in Schelling e in Fichte, anche alla luce delle tesi sostenute da quest'ultimo in lim p. 81 Odel tema «Il sapere e l'assoluto».

ma «Filosofia e religione», illustra la distinzione proposta da Schelling tra filosofia negativa e filosofia positiva.

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Prova a pensare da solo

espressive del pensiero? Oppure l'arte riesce ancora a cogliere la verità, l'assoluto, come ritenuto da Schelling nelle prime formulazioni del suo sistema? Quale arte è oggi capace più delle altre di rappresentare il proprio tempo?

Elabora una breve trattazione delle seguenti questioni, esprimendo le tue personali valutazioni in riferimento alle posizioni concettuali espresse dai filosofi trattati nell'unità: ~ Popolo e nazione. Medita sul significato romanti-

co di queste parole, collegando le tue conoscenze filosofiche alla storia dell'Ottocento, dalla Restaurazione alla fine del secolo. Prova quindi a raccogliere documenti letterari e iconografici di supporto alla stesura di un saggio breve di ambito storico-politico. ~ Pace o guerra. Prova a farti un'idea personale sul

problema, ricostruendo le concezioni elaborate da Kant, Fichte ed Hegel e ancor prima da Hobbes. È possibile una pace tra Stati? Perché sì, o perché no? Quale via per la pace ha indicato l