Philosophia. L’età moderna [Vol. 2.1]

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Abbiamo bisogno di vette alle quali alzare lo sguardo, abbiamo bisogno di storie dettagliate dei grandi del passato per rendere concrete le nostre speranze di superarli, e ci è anche indispensabile l'idea di una «filosofia» in senso onorifico, l'idea che esistano (se solo avessimo l'accortezza di porle!) domande che ognuno dovrebbe farsi sempre e da sempre. RICHARD RòRTY

EDITORE BuLGARINI FIRENZE

Copyright © 2012

Prima edizione febbraio 2012

2

3

4

5

6

Ristampe 2017 2016

2015

2014

2013

2012

Finito di stampare per i tipi della Lito Terrazzi in Firenze

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www.bulgarini.it- info@ bulgarini.it

Quest'opera è frutto della condivisione intensa e continua non solo dei due autori, Sergio Givone e Francesco Paolo Firrao, ma anche dei curatori dei singoli volumi, Bruno Meucci (I), Massimo Menichetti (II) e Fausto Moriani (III), dell'autore del volume Seminari, Luca Mori, e di Alessandro Bussotti, per l'apporto nell'ideazione dell'opera. A Barbara Sandrucci si deve il Libro per il Docente. In particolare, per il presente volume, Bernardo Artusi e Samuele Calzone sono estensori del! 'unità l; Amalia Bettini ed Eros Antonio Guglietta sono estensori dell\mità 2; Eros Antonio Guglietta, Massimo Menichetti e Bruno Meucci sono estensori dell'unità 3; Amalia Bettini, Nicola Casanova e Fausto Moriani sono estensori dell'unità 4; Massimo Menichetti è estensore dell'unità 5. Le schede Ripensiamo insieme sono di Massimo Menichetti.

Indice

L:anima e la forza dell'amore L:uomo microcosmo 3.

La concordia filosofica: Giovanni Pico della Mimndola Il confronto con Ficino La «pace filosofica»

4.

Cusano e la dotta ignoranza l limiti della conoscenza umana Dio e il mondo

13 14 15 15 15 16 16 18

5. Adstotele nel Rinascimento:

Pietro Pomponazzi Aristotele nelle università Il divorzio tra fede e ragione

18 18 19

l'hitfSM

l

~':~c~~:~~ti:I,,.E}

La itlosofia dell'Umanesimo

L'Umanesimo in Europa

e del Rinascimento Rinascita e daffet·mazione dei valod umani Umanesimo e Rinascimento Un dialogo tra passato e presente L:intellettuale umanista Invenzione e condanna del Medioevo

L'Umanesimo e la sua fiodtura Alle origini della rinascita L:Umanesimo civile L:irradiamento della rinascita La fine del Rinascimento

Interpt·etazioni del Rinascimento: questioni· apet·te La tesi discontinuista La tesi continuista Le ambiguità del Rinascimento

1.

3 3 4 4 4 5 5 6 6 6

1.

Il primo Umanesimo

21

La fine dell'unità c:dstiana La diffusione della riforma e delle riforme La risposta della cristianità cattolica

:3.

Tt·a Rinascimento ed età moderna: Montaigne Il ritorno dello scetticismo

23 24 24 25 26 26 27

t~~~=~i~glg3

La filosofia della natura tra scienza e magia 1.

n natm·alismo dnasdmentale

Ruolo e significato della magia La filosofia della natura di Bernardino Telesio

30

Alle origini della scienza moderna

La lezione degli antichi

La rinascita di Platone: Mat·silio Fidno

11

Firenze e l'Accademia platonica

11

Giot·dano Bruno: la t•eligione della natut·a

Filosofia e religione

12

Ragione e magia

Leonardo da Vinci: arte e tecnica

2.

28 28 28 28 29

e Bet·na:a.·dino Telesio

9 9 9 10

La stagione dell'impegno

2.

21

Erasmo da Rotterdam: uno spirito libero e provocatorio

L:indagine sull'uomo

7 7 8 8

8~,~~J?I:I,Ig'\'~l

n confronto con la tt·adizione

Una t•ifot·ma della c:dstianità

Martin Lutero: il libero arbitrio e la grazia divina 2.

21

31 31

III

3.

Realismo politico e pensiero utopico

Il copernicanesimo, l'infinito universo, il panteismo

32

L'etica dell'«eroico furore»

33

L'anima e il mondo: il natm·alismo di Tommaso Campanella Religione e magia Conoscenza e metafisica

34 34 35

Niccolò Machiavelli: la disincantata lezione della storia

71

Thomas More: l'educazione alla felicità nel mondo di Utopia

74

Tommaso Campanella: il sogno di una formazione permanente

76

Ripensiamo insieme Bibliografie

Tt·a t·ealtà e utopia: la riflessione sulla poHtica 1.

Niccolò Machiavelli e l'analisi scientifica della politica Dall'impegno alla riflessione La politica come scienza Virtù e fortuna Le virtù del principe La «fortuna» del Principe

2.

Dopo Machiavelli: Guicdardini, Bodin, Botero

3.

llmtttlf;-W 37 37 38 38 39 40

Jean Bodin: sovranità e tolleranza Giovanni Botero: religione e ragione di Stato

42

Il pensiero utopico: Mot·e e Campanella L'isola che non c'è

43 43

La Città del Sole

44

IL FILO OEL PENSIERO

La :rivoluzione scientifica La macchina della natura Una nuova idea di scienza Il nuovo Prometeo Il confronto col pensiero rinascimentale

La concezione matematica del movimento Il moto secondo gli antichi (e i moderni)

50

Giovanni Pico della Mirandola: la dignità dell'uomo

50

IV

L'unificazione del mondo fisico

88

Una rivoluzione nelle coscienze

88

L'espedenza e il metodo

89

L'esperienza non è accumulo di memoria

89

L'esperienza e il procedimento induttivo

89

Copernico e la matematica del cielo 90 1.

Eliocentrismo e geocentrismo

2.

Gli erranti spiegati mediante modelli matematici

53

Marsilio Ficino: la divina follia dell'amore

56 56

Erasmo da Rotterdam: l'impero della follia

59

Libertà, peccato e grazia

86 86

Esperienza: scienza opposta alla metafisica 89

Centt·alità o mat•ginalità dell'uomo

Filosofia e follia

86 86

Oltre l'universo del pressappoco

La rivoluzione astt·onomica

46

85 85

87 87 87

Il compito della scienza

'TEMI IN DISCUSSIONE

Michel de Montaigne: i limiti della condizione umana

80 83

37

40 40 41

Il realismo di Francesco Guicciardini

71

63

Erasmo da Rotterdam: in difesa del libero arbitrio umano

63

Martin Lutero: il servo arbitrio

67

Come interpretare i fenomeni celesti

92 92 94

Verso un nuovo modello matematico

95

Copernico: una vita intenta allo studio del cielo

95

L'astronomia tolemaica

3.

90

4.

La rivoluzione copernicana

96

Un sistema coerente e armonico di calcolo Moti apparenti, moti reali 5.

L'eliocentdsmb: fonti, ispit·azioni, suggestioni l

l

96 97 98

Capitolo 3

r;;·z·T'c.:•;;c:.,.";;;c•;;;·}c,;:;J

Galileo e la nascita della scienza moderna 1.

La battaglia galileiana

2.

La formazione e la docenza universita:da

La portata rivoluziOnaria del copernicanesimçJ l

La lezione degli antichi

s. Le cosmologie dopo Copernico La mediazione di Tycho Brahe Keplero: l'armonia dell'universo

Dalla medicina alla matematica

98 98 100 100 101

Il periodo padovano 3.

Nuovi cieli e nuova scienza Il cannocchiale La crisi della cosmologia tradizionale

4.

Contro Aristotele: verso la definizione del metodo Interrogare la natura

Capitolo 2

e,;,-,::'~~;~'"-,~;;J ~:!.',:~~:;:;7_;: ~-~': '...~ ~

Bacon e l'interpretazione della natura 1.

Una modernà idea di scienza

2.

Il percorso e(iucativo e il prog:mmb;a di :ricerca

5.

L:autonomia dell'indagine scientifica

104 104

La difesa di Cope:a·nico La diffusione della lettera

s.

L:apparizione delle comete

104

3.

La polemica lcontt·o le filosofie tt adizionali

Il metodo galileiano

1

Il sapere storico La storia della cultura umana 4.

La natut·a, 1J conoscenza, i pt·egiudizi ! L:autonomia d~lla scienza Una realtà da soggiogare Limiti e pregiudizi della mente umana

5.

n nuovo metodo La critica della logica ordinaria L:induzione baconiana

s. Scienza e potenza dell'uomo Alla ricerca della forma Sapere è potere L:interpretazione della natura 7.

La tecnica La celebrazione delle arti meccaniche Scienza e utopia: la Nuova Atlantide

7.

105 105 106

L'attacco finale alla cosmologia della tt·adizione Copernico contro Tolomeo

B.

n processo e gli ultimi anni L:accusa e l'abiura

107 107 107 108 109 109 110 111 111 112 113 115 115 116

117 118 118 118 119 119 120 121 121 122 122 124

n manifesto della nuova scuola scientifica: Il Saggiatore

l

117

l frutti maturi del metodo

125 125 125 127 127 129 129 130

Capitolo 4

[1i~'Cl' _·,~~~;_·~~-~~~:~-';"_";"':-~t::·~::1

Newton e la fisica classica 1.

2.

La macchina newtoniana del mondo Lo scienziato e l'uomo Da Woolsthorpe a Cambridge e ritorno Newton e i suoi contemporanei Una personalità complessa

3.

Atomi e numeri Una nuova concezione del mondo Il moto come status: le leggi del movimento L: atomismo

131 131 132 132 133 133 133 133 134 135

v

4.

5.

Ei.

Il calcolo integrale e differenziale (o delle flussioni)

135

La meccanica razionale: il moto dei corpi

137

Il capolavoro di Newton

137

Cinematica e dinamica La fondazione della meccanica

137 137

Razionalismo e metafisica

La meccanica dei fluidi

139

Una ll'inascita a pat·tire dall'

La gravitazione univet·sale: il sistema dei mondo

139

Il sistema mondo

139

Gli scolii filosofici Il metodo e le sue regole

139

Ripensiamo insieme Bibliografia

*'tfu!!ICM' 183 183

Descat·tes: il soggetto come nuovo baricentt·o

184 184 184 184

140

l corpi celesti, la legge di gravitazione e Dio

141

Il dualismo Il razionalismo

Luce e colot·e

142

Le lezioni di ottica

142

IL FILO CEL PENSIERO

La grande stagione della filosofia moderna L:eredità cartesiana Il razionalismo radicale di Spinoza

143 144

Leibniz: il confronto con il meccanicismo Ragione e fede

TEMI IN CISCUSSICNE

Ragione e fede

148

Bruno: la superiore verità della filosofia

149

Galileo: due ambiti distinti della verità

151

Esperienza e metodo nella scienza modet·na Bacon: un nuovo sapere libero da pregiudizi

154 155

Bacon: l'interpretazione della natura Galileo: sensate esperienze e necessarie dimostrazioni

159

Galileo: la geometrizzazione della natura

161

Newton: esperimenti, induzioni e ipotesi

163

Le leggi della natum

157

165

Il moto dei pianeti

l 73

Copernico: il movimento uniforme, circolare e perpetuo dei corpi celesti

173

Galileo: il flusso delle maree

175

Keplero: l'anima e la forza del Sole

176

Newton e l'astronomia fisica: la forza gravitazionale

176

185 185 185 186 186 186

Problemi vecchi e nuovi

187

Mente e corpo Libertà o necessità delle azioni umane Il male e la bontà di Dio

187 187 187

Capitolo 1

!{!~~~~~1;_~

Descartes e la scoperta della coscienza 1.

Galileo: la misura e principi del movimento 165 Newton: il moto assoluto e le leggi del movimento 170

VI

La perdita dei riferimenti

Dal dubbio all'evidenza Dall'io a Dio

l colori e la scienza

178 181

e.

L'io alla dcet·ca della verità

188

Ricerca della verità e autobiografia

188

:n pt·oblema del metodo

189 189

Gli anni della formazione 3.

La scoperta del metodo Le quattro regole La certezza

4.

Dal dubbio al cogito Il dubbio generico Il dubbio iperbolico e l'evidenza del cogito

5.

188

Una cosa che pensa: il dualismo

191 192 192 194 194 196

Il dubbio metodico

198 198

Menti e corpi

199

La coscienza intellettuale l risultati dell'esercizio scettico

a. La ve:a.·acità divina Il salto metafisica: l'esistenza di Dio L'idea innata di Dio 7.

Il dto:a.·no al mondo sensibile: la distinzione reale Sentire, immaginare, intendere L'errore e l'unione tra mente e corpo

B. La morale: il pdmato della mgione Sentimenti, appetiti, passioni La morale prowisoria Il sommo bene

s.

n tnondo. e l'uomo La macchina del mondo La macchina del corpo umano

10.

11.

Algebra e geometda

200 201

205 205 206

5.

210 210 213

L'applicazione dell'algebra alla geometria

214

6.

L'eredità cartesiana: l'occasionalismo Nicolas Malebranche: in difesa del cristianesimo

216

Le sfide dello spinozismo

e. Vivet·e per la vedtà Ricerca della verità e passioni umane Censura e nascondimento 3.

Il fine della conoscenza Gli uomini schiavi di pregiudizi L'itinerario nella verità

227

Un itinemrio di libe:a.·azione: l'uomo e la mo:a.·ale

L'uomo libero dalle passioni

229 229 229 230

Una morale senza merito e senza colpa

231

Vive:a.·e in società: la politica Prerogative e limiti del potere politico

233 233 234

I didtti della coscienza: religione e tollet·anza

234

~~=~~ Leibniz, l'avvocato di Dio 1.

Una mente straordinariamente c:a.·eativa

I g:t·andi pdndpi dei nostd mgionamenti

243

Un'opera filosofica frammentaria

e. L'esistenza di Dio e la teodicea

219 220 220

Le dimostrazioni dell'esistenza di Dio Il migliore dei mondi possibili

3.

4.

222 222 222 223

I paradossi

della sostanza individuale La nozione di sostanza individuale Necessità assoluta e ipotetica 5.

236

La presenza del male

Filosofo di corte

218 218 219

234 235

236 237 238 239 239 239 240 241

Filosofia e progetti politici

La conoscenza: :a.·agione e intuizione contt·o immaginazione 222 La verità non fa «né ridere, né piangere»

226

Identificazione della sostanza divina con la natura

Libertà di pensiero e inviolabilità della coscienza

Spinoza: le tentazioni del pensie:t·o 218

Il Dio di Spinoza

Due capisaldi dello spinozismo: monismo e determinismo

Critica della Rivelazione

215 215 215

L'amore che non aspetta di esset·e amato

225 225

Stato di natura e società umana

7.

224

Una dimostrazione geometrica

Natura degli affetti

5~

1.

La vedtà mosu·a se stessa: la metafisica

Rapporto mente-corpo

208 208 209 210

La forma matematica della realtà

La ricezione di Descartes

4.

202 202 203

213 213

La diffusione della filosofia ca:a.·tesiana e dell'occasionalismo

Tre gradi della conoscenza

Le monadi, i ved atomi della natm·a Il dibattito sulla sostanza

245 245 245 246 246 VII

La monade è una forza immateriale

247

e. Ogni :monade è come un mondo intero 7.

249

Il grande orologiaio e l'at.-monia pt·estabilita

250

Il rapporto tra l'anima e il corpo

250

a. La libertà e la responsabilità mot·ale La vicenda di Sesto La scelta tra bene e male Una nozione problematica di libertà

251 252 253 254

1

Leibniz: l'armonia prestabilita

296

255

Esistono idee innate? Gli stimoli esterni e l'innatismo virtuale

255

298 301

La nuova antropologia

post-umanistica La t1ne dell'antropocentrismo Il crollo delle illusioni

conoscere

303 303

Pasca!, Hobbes e Vico a confronto 304

255 257

Nuove concezioni antropologiche

304

L'uomo, n metodo, le scienze Pascal e il mistero della natura umana

305 305

Hobbes: per una scienza della politica

305

Vico: per una scienza della storia

305

259

La complessità della dimensione umana

306

260

La ragione

306

La società

306

o. L'eredità di Leibniz

258

La lingua caratteristica

258

!.:ottimismo finalistico

258

Bellezza e verità IL FILO OEL PENSIERO

294

Ripensiamo insieme Bibliografia

s. Cotne le menti possono

Le «piccole percezioni» inconsce

Spinoza: il parallelismo

TEMI IN I:IISCUSSIONE

Certezza e verità Descartes: le regole del metodo Spinoza: l'evidenza della verità

265 267

Leibniz: l'innatismo virtuale

269

DioeUmondo Descartes: la «favola» del mondo Descartes: Dio e le leggi di natura

273 274

Spinoza: contro ogni antropomorfismo Leibniz: in difesa del finalismo

275 276 278

Newton: Dio signore e architetto dell'universo

279

Libertà o necessità delle azioni umane Descartes: in difesa della libertà

282 282

Spinoza: in difesa della necessità Leibniz: tra libertà e necessità

284 288

Mente e corpo Descartes: due sostanze distinte, in interazione tra loro Gassendi contro la distinzione mente-corpo Geulincx: l'occasionalismo

VIII

264

290 291 292 293

Pascal: la vita riflessa nel pensiero

308

1.

La fede pascaliana

308

2.

Un genio matematico

309

l primi studi La geometria, la meccanica e la prima conversione

309

3.

4.

310

La fisica e la t·illessione sul metodo 311 Il dibattito sull'esistenza del vuoto

311

Una moderna concezione della verità

311

La vocazione t•eligiosa e la polemica con i gesuiti

313

Il periodo mondano e la seconda conversione La polemica fra gesuiti e giansenisti

313 314

5. In difesa della fede Gli ultimi anni Un'eredità straordinaria l limiti della conoscenza Miseria e grandezza dell'uomo

316 316 316 316 318

s. Supet·bia, disperazione e dscatto

7.

dell'uomo

320

l limiti della filosofia

320

La destinazione ultima dell'uomo

320

Vico e le meraviglie della storia

344

La fatica di essere uomini

344

l primi studi e il confronto con la cultura del tempo

345

1.

Una ragionevole speranza

321

La verità del cdstianesimo

322

La dflessione sul metodo

345

Tre tipi di uomini

322

l diversi metodi della verità

Il messaggio del cristianesimo

322

Vero è ciò che si fa

345 346

La vera religione

323

Gli errori di Descartes, di Bacon e di Galileo

2.

3.

Hobbes: l'uomo e lo Stato 1.

325

Hobbes e il Leviatano

325

La nascita della moderna filosofia politica

325

Il pessimismo antropologico

326 4.

2.

3.

4.

5.

La storia, «scienza nuova»

348 348

La scienza della stoda

349

L:opera della vita: la Scienza nuova

349

Le finalità della storia

350

L:oggetto della storia e le sue fonti

351

Gli assiomi e la verità della storia

351

Sensi, fantasia, t•agione: la storia e le sue leggi

353

Tt·a guet•t•a civile, esilio e una set·ena vita da precettot·e

327

La mente umana e le età della storia

l primi anni: gli studi, i viaggi

327

Corsi e ricorsi

L:esilio volontario

328

Il ritorno in patria

328

Il pt·oblema della conoscenza: matedalismo e detet·minismo

329

La conoscenza e la certezza scientifica

329

La centralità del linguaggio

330

Il meccanicismo universale

332

La negazione del libero arbitrio

333

La fondazione del Leviatano

353 354

La sapienza poetica

355

Una sapienza radicata nel corpo Il lavoro della poesia

355 356

IL FILO DEL PENSIERO

358

5.

TEMI IN DISCUSSIONE

L'uomo

362

Pascal: la ricerca di una perduta felicità

363

335

Hobbes: la macchina desiderante

365

Gli scritti politici di Hobbes

335

Hobbes e il giusnaturalismo

Vico: poesia e fantasia all'origine della ragione

368

335

Bellum omnium contra omnes

336

Le leggi di natura

337

Il patto comune Forma di Stato e forme di governo

Le qualità e i limiti del «dio mortale>>

341

Il potere del Leviatano

341

Il cittadino e lo Stato

342

Stato e società

342

Stato e Chiesa

343

Scienza della natm·a e scienza dell'uomo 371 Pascal: spirito di finezza e spirito di geometria

371

338

Hobbes: il criterio del verum factum

374

340

Vico: la scienza nuova, la storia

376

La società umana: legge, giustizia e potere

378

Pascal: la giustizia terrena e l'ordine della carità

379

Hobbes: la fondazione razionale del governo Vico: il farsi storico dell'animale sociale

382 385

IX

La Rivelazione, la Chiesa, la t>t'ovvidenza Pascal: il giansenismo e la polemica contro i gesuiti Hobbes: la subordinazione della Chiesa allo Stato Vico: storia umana e prowidenza divina Ripensiamo insieme Bibliografia

Idee di sostanza

389 389 393 396 398 401

Idee, parole, cose

4.

Limiti e confini della conoscenza umana Natura e gradi della certezza l limiti della conoscenza certa La probabilità La fede

5.

Il pensiero politico: libertà e tollet·anza Il padre del liberalismo

lli'Mfii:-M

Libertà di coscienza e tolleranza

417 418 420 420 422 423 423 425 425 426

J

L'empirismo inglese Una cdsi epistemologica La rivincita del dubbio

La svolta empidsta: Lod(e Contro l'innatismo Il criterio del senso e i confini della conoscenza Critica dell'idea di sostanza L.:eredità di Locke

Gli sviluppi dell'empidsmo: Bet·keley e Hume Berkeley: il mondo come apparenza Hume: abitudine e credenza Il secolo della filosofia britannica

Capitolo 2

'fl;i'Ii."/Jl'WS?ii!JJliiM~.'11-14. Un persistente pregiudizio antropocentrico conduce però l'uomo a disconoscere questa verità, a negare la posizione umile e miserevole che occupa nell'universo. Montaigne accoglie senza sgomento la rivoluzione copernicana che ha detronizzato l'uomo dal centro del mondo ~>115-21. Dando sfogo alla sua presunzione, l'uomo si è uguagliato invece a Dio. Ha ritenuto di essere superiore a tutti e agli altri animali ~>121-29. Queste presunzioni sono però solo un frutto della sua immaginazione, privo di fondamento, di attendibilità ~>130-47. Per Montaigne, dinanzi all'infondatezza di tutte le presunzioni, occorre prendere atto che l'uomo non ha alcuna garanzia della verità perché non possiede nessun criterio per misurare con assolutezza e certezza le sue conoscenze. Tutta la conoscenza deriva dai sensi. Ma questi sono spesso ingannatori e pieni d'incertezza ~>148-70. Anche la ragione non può essere uno strumento affidabile, dal momento che niente ci assicura che essa sia veritiera. Non abbiamo infatti l'accesso diretto a una realtà esterna che ne verifichi l'attendibilità ~>171-87. L'uomo non può fidarsi dei sensi, non può attingere alle essenze, ossia alle cose come sono di per sé, se non per il tramite di apparenze, incapaci di garantire stabilità e certezza di giudizio ~>187-97.

Mi occorre infine vedere se è in potere dell'uomo trovare ciò che cerca, e se questa ricerca che egli ha perseguito da tanti secoli l'ha arricchito di qualche nuova forza e di qualche certa verità. Io credo che egli mi confesserà, se parla in coscienza, che tutto il frutto che ha tratto da una così lunga ricerca è di aver imparato a riconoscere la propria debolezza. L'ignoranza, che era naturalmente in noi, l'abbiamo, con lungo studio, confermata e constatata. È accaduto agli uomini veramente sapienti ciò che accade alle spighe di grano: esse si elevano e si innalzano, la testa dritta e fiera, finché sono vuote; ma quando sono colme e pregne di grano nella loro matu-

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llanitiì e presunzione dell'uomo

Critica dell'antropocent••ismo

rità, cominciano a diventar umili e ad abbassare il capo. Così gli uomini, dopo aver tutto saggiato e tutto sondato, non avendo trovato in quell'ammasso di scienza e in quella provvista di tante cose diverse niente di solido e di sicuro, e nient'altro che vanità, hanno rinunciato alla loro presunzione e riconosciuto la loro condizione naturale. [. .. ] La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l'uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell'universo, all'ultimo piano della casa e al pitl lontano dalla volta celeste, insieme agli animali della peggiore delle tre condizionfl; e con l'immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi. È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si uguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce loro? Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa se essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei? [. .. ] Consideriamo dunque per ora l'uomo solo, senza soccorso esterno, armato delle sue sole armi e sprovvisto della grazia e della conoscenza divina, che è tutto il suo onore, la sua forza e il fondamento del suo essere. Vediamo quanto egli possa resistere in questo bello stato. Che egli mi faccia capire con la forza del suo ragionamento su quali basi ha fondato quei grandi privilegi che pensa di avere sulle altre creature. Chi gli ha fatto credere che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di quelle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo, i movimenti spaventosi di quel mare infinito siano stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio? È possibile immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto il fatto che questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa ed è esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora dell'universo, di cui non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno comandarla? E quel privilegio che si attribuisce, di essere cioè il solo in questa gran fabbrica ad avere la facoltà di riconoscerne la bellezza e le parti, il solo a poter renderne grazie all'architetto e tener conto del bilancio del mondo, chi gli ha conferito questo privilegio? Ci mostri le credenziali di questo grande e bell'ufficio. [.. .] Ora, dato che la nostra condizione adatta le cose a sé e le trasforma secondo se stessa, noi non sappiamo più quali esse siano in verità; poiché niente ci perviene se non falsato e alterato dai nostri sensi. Se il compasso, la squadra e la riga sono storti, tutte le proporzioni che se ne traggono, tutti gli edifici che si costruiscono sulla loro misura sono necessariamente altrettanto imperfetti e difettosi. L'incertezza dei nostri sensi rende incerto tutto ciò che essi producono:

l. Le tre condizioni sono: l'acquatica, la terrestre e l'aerea.

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Non esiste 1111

criterio as!!olnto di ueritìì

Le apparenze determinano il giudizio in numiera sempre mutevole e soggettiva

Come nella costruzione di un edificio, se la regola è sbagliata fin dall'inizio, se la squadra è difettosa e devia dalla linea verticale, e la livella è ineguale da una parte, tutto necessariamente va di traverso e s'inclina, è storto, cede, pende in avanti, all'indietro, è disforme, sembra voler cadere in alcuni punti e cade di fatto, tradito dall'errore dei primi calcoli. Così il tuo giudizio sui fatti sarà necessariamente falso e viziato se si basa su dei sensi fallacf.2 Del resto, chi sarà capace di giudicare queste differenze? Come diciamo, nelle dispute di religione, che ci occorre un giudice non legato all'uno o all'altro partito, al di fuori di ogni scelta e preferenza, cosa che non è possibile fra i cristiani, anche in questo avviene la stessa cosa; di fatto, se è vecchio, non può giudicare del sentimento della vecchiaia, essendo lui stesso parte in questa disputa; se è giovane, lo stesso; sano, lo stesso; lo stesso se è malato, se dorme e se è sveglio. Ci occorrerebbe qualcuno esente da tutte queste qualità, affinché, senza prevenzione, giudicasse di queste proposizioni come a lui indifferenti; e in fin dei conti ci occorrerebbe un giudice che non esiste. Per giudicare le apparenze che riceviamo dagli oggetti, ci occorrerebbe uno strumento giudicatorio; per controllare questo strumento, ci occorre una dimostrazione; per controllare la dimostrazione, uno strumento: eccoci in un circolo vizioso. Poiché i sensi non possono chiudere la nostra disputa, essendo essi stessi pieni d'incertezza, bisogna che lo faccia la ragione; nessuna ragione potrà stabilirsi senza un'altra ragione: ed eccoci riportati indietro fino all'infinito. La nostra fantasia non si applica alle cose estranee, ma è fondata sulla mediazione dei sensi; e i sensi non abbracciano gli oggetti estranei, ma soltanto le loro proprie impressioni; e così l'immaginazione e l'apparenza non è dell'oggetto, ma soltanto dell'impressione e del turbamento del senso, e questa impressione e questo oggetto sono cose diverse; quindi chi giudica dalle apparenze giudica in base a una cosa diversa dall'oggetto. E se si dice che le impressioni dei sensi trasmettono all'anima la qualità degli oggetti estranei per rassomiglianza, come possono l'anima e l'intelletto esser certi di questa rassomiglianza, non avendo essi alcun rapporto con gli oggetti estranei? Allo stesso modo che chi non conosce Socrate, vedendo il suo ritratto non può dire che è somigliante. Ora, chi volesse giudicare comunque sulla base delle apparenze: eli tutte, è impossibile, poiché esse s'intralciano reciprocamente còn le loro contraddizioni e discrepanze, come vediamo per esperienza; o sarà forse che alcune apparenze prescelte regolano le altre? Bisognerà controllare questa scelta con un'altra scelta, la seconda con la terza; e così non se ne verrà mai a capo. Insomma, non c'è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né eli quello degli oggetti. E noi, e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa. Così non si può stabilire nulla di certo dall'uno all'altro, tanto il giudicante quanto il giudicato essendo in continuo mutamento e movimento.

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M. de Montaigne, Saggi, pp. 580, 584, 654, 799-801

2. Citazione da Lucrezio, De rerum natura.

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Filosofia e follia

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ra i filosofi del Rinascimento ricorre il tema della «follia", anche se con punti di vista e sfuma. ture differenziati. Il filosofo di Figline Valdarno, Marsilio Ficino, parla del "furore" divino che conquista l'anima innalzandola vet'~ so l'amore di Dio. Nel suo trattato Sopra lo amore o ver' Convito di Platone, Ficino si richiama esplicitamente al Simposio di Platone, non limitandosi però a un'esegesi dell'opera del filosofo greco e arricchendo il suo commento con fonti neoplatoniche e cristiane.

Tiziano Vecellio, Amore sacro e amom profano, 1514, Roma, Galleria Borghese.

Anche Erasmo. da Rotterclam tesse il suo celebre Elogio dellafollia, clisvelando la centralità della follia nella vita degli uomini: Erasmo sceglie però il linguaggio di una tagliente ironia per trattare in profondità il rapporto tra la verità e l'illusione, la saggezza e la follia. Anche in Erasmo il richiamo a Platone è evidente: la rievocazione del mito della caverna, con la sua dialettica tra apparenza e realtà, si incontra con la tensione fra l'amore terreno e quello celeste, fra la follia del mondo e la follia di Dio.

Marsilio Ficino: la divina follia dell'amore Il commento di Ficino al Simposio di Platone (o Convito, come viene definito nel testo) nasce nel contesto di un cenacolo che riuniva uomini di scienza e di cultura nella villa medicea di Careggi, vicino a Firenze, il 7 novembre 1468, per volontà di Lorenzo de' Medici. Come riferisce lo stesso Ficino, si voleva così ridar vita alla consuetudine dei primi discepoli di Platone che si riunivano in un simposio il giorno dell'anniversario della nascita e della morte del maestro. Il testo di Ficino, da cui è tratto il brano liilil1 e che è stato l'anima di quei nuovi intellettuali seguaci di Platone, se si richiama al Simposio platonico anche nella struttura, assegnando la pa-

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rola a diversi interlocutori che intervengono sul tema dell'amore, in realtà sviluppa un'interpretazione originale e coerente sul tema dell'amore, ricorrendo a fonti antiche neoplatoniche ed ermetiche. Ficino rievoca inoltre la tradizione volgare fiorentina di Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, al punto da tracciare un evidente parallelo tra la via dantesca e il percorso di ascesa che dall'éros terreno conduce all'agapé e all'amore celeste, attraverso un lungo itinerario di perfezionamento. Dall'amore per la bellezza si ascende all'amore per la bellezza dell'anima e, di qui, all'amore di Dio. Nella settima orazione, Ficino tratta il concetto di «furore», affidando a Cristofano Marsupini il commento al disèorso di Alcibiade nel Simposio platonico. L'amore volgare s'impossessa dell'individuo degradandolo a uno stato bestiale di pura passione carnale, la cui pazzia è una specie di tormento che mescola collera e malinconia, come ben spiega Socrate a Lisia nel Fedro ~>11-1 O; l'amore divino invece si manifesta attraverso quattro furori (la poesia, il mistero, la divinazione, l'amore) con cui Dio attira nuovamente l'anima alle cose superiori ~>111-21. Ficino delinea così un percorso di innalzamento dell'uomo a Dio, in cui le diverse specie di furore hanno il compito di ricondurre l'anima al suo ruolo di guida unitaria del corpo, capace di sconfiggere l'amore volgare. Ricorrendo alle fonti ermetiche, l'autore cristianizza riferimenti pagani, classici: così il furore poetico affidato alle Muse assume il compito primario di risvegliare, con la sua armonia, l'anima, distogliendola da attività che possono turbarla ~>121-32. Il mistero, affidato a Bacco, indirizza l'anima al culto del divino tramite sacrifici e purificazioni, che fanno uscire fuori di sé, «ubriacare» la mente, innalzando l'anima al di là della individualità del corpo ~>132- 36. Il terzo furore è la divinazione, il vaticinio, che compete ad Apollo, simbolo della capacità dell'anima umana di accogliere, diventare vettore della parola divina ~>136-39. L'ultimo furore, affidato a Venere, è infine desiderio di bellezza divina, amore del bene ~>l 39- 46. Alla luce di questa esposizione delle diverse funzioni di amore, Ficino rilegge anche il mito platonico della biga alata, il carro dell'anima, composto da due cavalli e dall'auriga, come sostenuto nel Fedro. Il furore poetico ha il compito di distinguere il cavallo buono (la retta ragione e opinione naturale) dal cavallo cattivo (dominato da una «fantasia confusa» e dagli appetiti sensibili); il furore misteriale sottomette questa parte immaginativa, sensitiva dell'anima a quella razionale, simboleggiata dal primo cavallo; il furore divinatorio indirizza poi l'auriga, ossia la mente all'unità, al divino, al bene, a cui il furore d'amore conduce, rapendo l'anima che si perde nella contemplazione della bellezza divina ~>147-71. Di tutti più grande è il furore dell'amore, l'unico che non ammette degenerazioni («contraffazioni») ed è in grado di spingere l'anima verso la bellezza divina, attraverso la mediazione della bellezza sensibile

L'amore «adulterat&:u>: la passione carnale

~>172-86.

12. Del danno dello amore vulgare. Ma acciò che noi parlando lungo tempo di questa pazzia non impazziamo, in brevi parole conchiuderemo: che tra le spezie della pazzia, la più strana è quella affannosa cura, dalla quale i vulgari innamorati sono giorno e notte tormentati: i quali durante lo amore prima s'accendono dalla collera: poi s'affliggono dallo umore melanc6lico. Onde in furia rovinano e quasi come ciechi non veggono in quale precipizio cascano. Quanto sia pestilenziale questo adulterato Amore per le persone amate e per le Amanti, copiosamente lo disputa Lisia tebano e Socrate nel Fedro di Platone: e chiunque così ama, chiaro lo sente. Ma che può essere peggio che questo, che lo uomo per tale- furore diventa bestia?

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13. De lo amore divino, e quanto è utile, e di quattro spezie di furori divini. Infino a qui si è detto de la spezie del furore che da malattia procede. Ma quel-

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la spezie di furore la quale Dio ci inspira, innalza l'uomo sopra lo uomo: e in Dio lo converte. Il furore divino è una certa illustrazione della Anima razionale, per la quale, Dio, l'anima da le cose superiori a le inferiori caduta, senza dubbio da le inferiori a le superiori ritira. [. ..] Il fm•ore divino e le sue specie

Il fm•ore poetico risveglia l'anima

Il furore sm::erdotale guida l'anima

Il furore della divinazione indica la meta

Il fm•ore di Amore

t1•ascina l'anima

La rilettura del fedro platonico

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14. [... ] Il furore divino è quello che a le cose superiori ci innalza: come nella diffinizione sua fu manifesto. Quattro adunque sono le spezie del divino furore: il primo è il furore poetico: il secondo misteriale cioè sacerdotale: il terzo la divinazione, il quarto è lo affetto dello Amore. La Poesia da le Muse, il misterio da Bacco, la divinazione da Apolline, lo Amore depende da Venere. Certamente lo Animo non può a essa unità tornare, se egli non diventa uno. E pure egli è fatto multiplice, perché egli è caduto nel corpo, in operazioni varie distratto, e inclinato alla infinita moltitudine delle cose corporee, il perché le sue parti superiori quasi dormono, le inferiori soprastanno alle altre. Le prime di sonno, le seconde di perturbazione sono piene. E insomma tutto lo Animo di discordia e dissonanzia è pregno. Adunque principalmente ci bisogna il poetico furore il quale per tuoni musicali desti le parti che dormono: per la suavità armonica addolcisca quelle che sono turbate: e finalmente per la consonanzia di diverse cose scacci la dissonante discordia, e le varie parti della Anima temperi. Non è però ancora abbastanza questo, perché nell'Animo resta ancora moltitudine, e diversità di cose. Aggiugnesi adunque il misterio appartenente a Bacco: il quale per sacrifizii, e purificazioni, e ogni culto divino, dirizza la intenzione di tutte le parti a la Mente, con la quale Iddio si adora. Onde essendo ciascuna delle parti dell'Animo a una Mente ridotta, già si può dire lo Animo un certo tutto dì più essere fatto. Bisogna oltre a questo il terzo furore, il quale riduca la Mente a quella unità, la quale è capo dell'Anima. Questo adempie per la divinazione Apollo; imperocché quando l'Anima sopra la Mente a la unità della Mente surge, le future cose prevede. Finalmente poi che l'Anima è fatto uno (quello uno dico il quale è in essa natura e essenza dell'Anima) resta che di subito a quello uno che sopra la essenzia abita, cioè a Dio, si riduca. Questo gran dono ci dà quella celeste Venere, mediante lo Amore, cioè mediante il desiderio della Bellezza divina, e mediante lo ardore del Bene. Il primo furore adunque tempera le cose disadatte, e dissonanti: il secondo fa che le cose temperate, di più parti un tutto diventano: il terzo fa un tutto sopra le patti: il quarto riduce a quello uno, il quale è sopra l'essenzia, e sopra il tutto. Platone nel Fedro la Mente data alle cose divine chiama nell'Anima Auriga, che vuole dire guidatore del carro dell'Anima. La unità dell'Anima chiama capo dell'Auriga. La ragione e oppenione che per le cose naturali discorre, chiama il buon cavallo; la fantasia confusa, e l'appetito de' sensi, chiama cattivo cavallo. E la natura di tutta la Anima chiama carro: perché il movimento della Anima, quasi come circulare da sé cominciando, in sé ritorna. Ove la considerazione sua venendo da la Anima, nella Anima si riflette. Attribuisce due ali a la Anima, con le quali a le sublimi cose voli. Di queste l'una stimiamo essere quella investigazione con la quale la Mente continuo a la verità si sforza: la altra ala, il desiderio del bene, per il quale la nostra volontà sempre arde. Queste patti della Anima perdono l'ordine loro, quando per la turbazione del corpo si confondono. Il primo furore distingue il buon cavallo, cioè la ragione e oppenione, dal cavallo cattivo cioè dalla fantasia confusa, e da lo appetito de' sensi. Il secondo sottomette il cavallo cattivo al buono: e il buono sottomette allo Auriga: cioè alla Mente: il terzo dirizza l'Auriga al capo suo, cioè a la unità, la quale è

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la cima della Mente; l'ultimo volge il capo dello Auriga inverso il capo dello universo, ove l'Auriga è beato. E quivi a la mangiatoia, cioè a la divina bellezza ferma i cavalli, cioè accomoda tutte le parti della Anima a sé suggette: e pone loro innanzi ambrosia da mangiare e da bere il nettare, cioè porge loro la visione della Bellezza divina, e mediante la visione il gaudio. Queste sono le opere de' quattro furori: de' quali generalmente Platone nel Fedro disputa: e propriamente del poetico furore nel Dialogo chiamato Ione: e del furore amatorio nel Convito. Orfeo 1 da tutti questi furori fu occupato: di che li suoi libri testimonianza fanno. Ma dal furore amatorio, spezialmente sopra gli altri furono rapiti Saffo, Anacreonte e Socrate. La superiorità del furore d'Amore

e le contraffazioni del furore divino

15. Di tutti i furori divini lo amore è il più nobile. Di tutti questi furori il potentissimo e prestantissimo è lo Amore: potentissimo, dico, perché tutti gli altri necessariamente hanno di lui bisogno. Perché non possiamo conseguitare Poesia, Misterii, Divinazione senza diligente studio, ardente pietà e continuo culto di Dio. Ma studio, pietà e culto non è altro che Amore: adunque tutti i furori stanno per la potenzia di Amore. E ancora lo Amore prestantissimo, perché a questo, come a fine gli altri tre furori si riferiscono: e questo prossimamente con Dio ci copula. Ma son quattro affetti adulterati i quali contraffanno questi quattro furori; il furore poetico è contraffatto da questa musica vulgare, la quale solamente gli orecchi lusinga. Il furore misteriale cioè de' sacrifizi, è contraffatto dalla vana superstizione della plebe. Il furore profetico, dalla fallace coniettura della arte umana. Quello dello Amore dallo impeto della libidine. Il vero Amore non è altro che un certo sforzo divolare a la divina bellezza, desto in noi dallo aspetto della corporale bellezza. Lo Amore adulterato, è una rovina da 'l vedere a 'l tatto.

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M. Ficino, Sopra lo amore o ver' Convito di Platone, pp. 147-151

Erasmo da Rotterdam: l'impero della follia L'opera di Erasmo, Elogio della follia, da cui è tratto il brano~, è diventata ben presto celebre per il suo brioso spirito ironico, per il divertimento fabulatorio e satirico che la pervade. Eppure anche una profonda e disincantata amarezza la attraversa e fa dire al suo autore che senza follia non si vive e, in quanto si vive e finché si vive, si deve essere folli. La follia, dunque, come elemento essenziale dell'uomo. Quell'uomo di cui si celebrava la dignità (Pico della Mirandola) e la sapienza mostra in Erasmo anche la sua insipienza. L'uomo è sì un «grande miracolo», ma nella sua drammatica contraddittorietà. Secondo Erasmo tutto il mondo si regge sulla follia, sull'oblio della realtà e sull'errore, sul rovesciamento delle leggi, degli Stati, delle arti; persino la religione vera è follia. L'intento dell'Elogio della follia consiste infatti proprio nella denuncia della falsa apparenza e dei falsi valori, laricerca del volto autentico dietro la maschera, ma sempre usando il linguaggio dell'ironia. A parlare in prima persona è la follia stessa, pronta a dimostrare nel crudo e amaro capitolo XXIX, come tutto sia finzione, rovesciamento della verità, e che la vera sapienza sia follia a dispetto della concezione stoica del saggio, con la sua idea di saggezza misurata e regolata interamente dalla ragione. Il vero sapiente, argomenta Erasmo, è il folle qualora il senno si ac1. Leggendario poeta tracio, alla cui opera si attribuisce l'origine clell'orfismo, un movimento religioso dell'antica Grecia.

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quisisca con l'esperienza, perché solo il folle affronta i rischi della vita, assecondando le pulsioni dell'animo e vivendo la virtù con slancio passionale, senza rinchiudersi in un mondo di libri e di parole ~11-16. Se per senno si intende invece un corretto giudizio, occorre allora, secondo Erasmo, considerare come ogni cosa contenga sempre due facce, presentando un duplice aspetto: come quel che è bello può essere giudicato brutto e la ricchezza può essere guardata come povertà, così di tutto può essere detto sempre il suo contrario ~>117-27. Erasmo spiega ed esemplifica infatti come un re, potente e ricchissimo di averi esteriori, possa essere giudicato poverissimo di beni interiori, se schiavo di vizi e di bisogni volgari. La duplicità della realtà è la maschera che cela la commedia della vita, la sua natura illusoria, che è anche la sua bellezza. Solo la più alta follia consente di raggiungere la consapevolezza ironica dell'insolubile connessione tra saggezza e follia e della loro dialettica coincidenza ~>128-65. Del resto, sehza follia non si accede alla felicità: tutte le passioni, infatti, sono il prodotto della follia, che è il tratto distintivo dell'uomo. Gli stoici, come Seneca, disegnano invece la figura di un saggio che non ha più niente di umano, concependo un'ideale di uomo solitario, irraggiungibile, insensibile, che nessuno vorrebbe mai come amico, nessuna maggioranza sceglierebbe come politico, nessuna donna desidererebbe come marito ~>166-1 04.

Il sapiente e il folle giudicati dall'esperienza

il sa11iente e il folle giudicati dalla loro capacità di giudizio

Ed ora se, dopo aver rivendicato a me stessa il vanto dell'energia e della capacità, rivendicassi anche quello del senno? Dirà qualcuno: sarebbe come mescolare il fuoco con l'acqua. Eppure credo di riuscire anche in questo, se appena mi presterete orecchio e attenzione come avete fatto finora. Per cominciare, se il senno è un frutto dell'esperienza, a chi compete meglio il vanto del suo nome: al sapiente, che un po' per pudore, un po' per timidezza di carattere non mette mano a nulla; oppure al folle, che non si astiene da niente, sia per mancanza di pudore sia per nessun calcolo del rischio? Il saggio si rifugia nei libri degli antichi, e non ne apprende che arguti discorsi; il folle, affrontando direttamente i rischi, ottiene, se non erro, il senno autentico. Ben lo vide, e lo si vede chiaramente, Omero quantunque cieco, quando disse: «Lo stolto s'istruisce agendo» 1 , Due infatti sono gli ostacoli principali all'acquisto della conoscenza della realtà: il pudore, che offusca lo spirito, e il timore, che additando i rischi dissuade dall'azione. Da tutto ciò affranca mirabilmente la follia. Pochi mortali intendono quanti altri vantaggi procurino la mancanza di pudore e un'audacia pronta a tutto. Ma se si preferisce intendere per senno quello consistente nella giusta valutazione della realtà, ascoltate, di grazia, quanto ne siano lontani coloro che esibiscono questo titolo. Anzitutto è assodato che ogni cosa umana ha come i Sileni di Alcibiade due facce diametralmente diverse l'una dall'altra2 • Quella che a prima vista sembra essere, come dicono, la morte, se guardata all'interno è la vita; e viceversa, quella che è la vita, è la morte, il bello è brutto, la ricchezza è povertà, l'infamia è gloria, l'istruzione è ignoranza, la forza è debolezza, l'aristocrazia è plebe, la gioia è tristezza, la prosperità è sciagura, l'amicizia è inimicizia, il benefico è dannoso; in breve, si troverà tutto repentinamente capovolto all'apertura del Sileno. Forse trovate il discorso troppo filosofico, ed io lo appianerò con l'aiuto, come si usa dire, di una Minerva più crassa3 •

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1. Riferimento a Iliade, XVII, 32. 2. Riferimento al Simposio di Platone, alla descrizione data da Alcibiade di Socrate che assomiglia a «quei Sileni esposti nelle botteghe degli scultori e foggiati dagli artigiani con zampogne e flauti in mano; aperti in due, essi mostrano all'interno immagini degli dèi". 3>. Proverbio: detto alla buona, in maniera piì:J comprensibile e chiara.

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Un re, chi non riconoscerà che è un ricco signore? Eppure, se manca dei beni interiori e se è insoddisfatto di tutto, chiaramente è poverissimo; se il suo animo è soggetto a un gran numero di vizi, è un volgarissimo schiavo. Nello stesso modo si potrebbe filosofare anche per tutto il resto, ma basti aver dato que- · sto esempio. Beh, ma a cosa miri? chiederà qualcuno. Ascoltate la conclusione. Se qualcuno çercasse di togliere la maschera agli attori che interpretano una commedia sul palcoscenico, per mostrare agli spettatori i loro volti veri e genuini, non sconvolgerebbe l'intera rappresentazione e non apparirebbe meritevole di essere cacciato a furor di popolo dal teatro con i sassi come mentecatto? All'improvviso spunterebbe un aspetto nuovo delle cose: chi prima era donna ora è uomo, chi prima giovane ora è vecchio; chi poc'anzi era un re, a un tratto è Dama'\ chi prima era un dio, a un tratto appare un omiciattolo. Davvero, se si toglie l'illusione, tutta la commedia è sconvolta. Proprio quella finzione, quel trucco attirano gli occhi degli spettatori. Ebbene, l'intera vita mortale che altro è se non una commedia in cui si entra mascherati e si interpreta ognuno, la propria parte, finché il capocomico fa uscir di scena? E questi impone di presentarsi anche con ruoli diversi, per cui chi poc'anzi faceva il re avvolto nella porpora, ora interpreta un servitorello in mal arnese. Tutto è una finzione, ma non esiste nessun'altra interpretazione della commedia della vita. La sapienza può essere Qui, se improvvisamente mi si levasse innanzi un sapiente cascato dal cielo e follia e la follia sapienza gridasse: «Costui, a cui tutti guardano come a un dio e a un signore, non è nemmeno un uomo, poiché si lascia guidare come una bestia dalle passioni; è uno schiavo della più bassa specie, poiché serve spontaneamente a tanti e sporchi padroni»; e acl un altro, intento a piangere la morte del genitore, ordinasse di ridere, poiché suo padre finalmente ha cominciato a vivere non essendo questa vita che viviamo nient'altro che una forma di morte; e un altro ancora, fiero dei propri antenati, chiamasse ignobile e bastardo poiché molto lontano dalla virtù, unica fonte eli nobiltà, e cosi parlasse di tutti quanti: cos'altro otterrebbe, se non di apparire a chiunque demente e forsennato? Come nulla è più folle di una sapienza intempestiva, così nulla è più imprudente della prudenza usata a sproposito. Agisce certamente a sproposito chi non si adegua alle circostanze, non cerca eli seguire la piazza, non si ricorda almeno eli quella regola del banchetto per cui «bevi o vai», e pretende che la commedia non sia una ·commedia. E invece vera prudenza la tua se, mortale quale sei, non vuoi saperla più lunga della tua condizione; se come tutta la massa umana o chiudi eli buon grado un occhio o sbagli anche tu urbanamente. Ma questa è proprio follia, obiettano. Non lo nego, purché dall'altra parte si ammetta che questa è la commedia della vita, che recitiamo. La sapienza · Il resto, o clèi immortali, lo dirò o tacerò? Ma perché tacerlo, se è più vero del della follia è l'unica vero? Però per una cosa tanto importante forse è· meglio far venire dall'Elicona guida possibile le Muse, che i poeti sogliano invocare molto spesso per pure sciocchezze. Asalla felicità sistetemi dunque per un poco, o figlie di Giove, mentre dimostro che non si può accedere alla famosa sapienza, la rocca della felicità, come essi stessi la definiscono, senza la guida della Follia. La sapienza Anzitutto si riconosce apertamente che tutte le passioni sono un prodotto deldella follia non rinnega la follia. Da questo segno distinguono il saggio dal folle: che l'uno è regolato le passioni dalle passioni, l'altro dalla ragione; per cui gli Stoici rimuovono tutti i turbaLa commedia della vita: tutto è finzione e masche1•a

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4. Chi era re si troverebbe dunque a essere uno schiavo, con riferimento acl Orazio, Sermones !.6.38; 2.5.18 sgg.

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La 111111ienza della follia non considero estraneo a sé nulla di umano

menti dell'animo dal saggio, come malattie. In realtà le passioni non solo funzionano da pedagogo per chi vuol raggiungere presto il porto della saggezza, ma addirittura agiscono da sproni e da pungoli in ogni pratica della virtù, in quanto spingono a buone azioni. Seneca protesta, sì, alto, come stoico al quadrato, per eliminare dal saggio qualsiasi passione senza eccezioni. Ma non è un uomo quello che egli lascia, cosi facendo, bensì piuttosto crea una specie di nuovo dio, mai esistito e destinato a mai esistere da nessuna parte. Ancor meglio e più apertamente: egli erige un simulacro marmoreo di uomo, inerte e completamente estraneo ad ogni sensibilità umana. Comunque, se a loro piace, si godano da soli il loro sapiente, lo amino come impareggiabile e abitino con lui nella città di Platone o, se preferiscono, nel mondo delle idee o nei giardini di Tantalo 5 . Chi infatti non fuggirebbe inorridito da uomo simile, come da un mostro e da uno spettro, sordo ad ogni sentimento naturale, assolutamente privo di affetti, non mosso da amore e pietà più che «dura pietra o l'immobile rupe del Marpeso, 6 ? Nulla gli sfugge, mai non sbaglia, tutto scruta come un Linceo7, tutto soppesa al millesimo, nulla perdona, è solo contento di se stesso, solo lui è ricco, lui intelligente, lui re, lui solo libero: in breve, lui solo è tutto, ma solo a suo giudizio, fastidioso com'è agli amici e amico, lui, di nessuno, pronto a mandare gli dei sulla forca e a condannare e deridere come pazzia qualunque cosa si faccia nella vita. Eppure una bestia simile è il famoso, perfetto sapiente. Dite voi: se si andasse ai voti, quale città vorrebbe avere un simile governatore e se l'augurerebbe come condottiero del suo esercito? Anzi, quale donna si augurerebbe o sopporterebbe un marito di questo genere, quale ospite un convitato di tali modi, quale servo un padrone con un tale carattere? Chi non preferirebbe un qualsiasi plebeo, della media degli uomini più folli, folle ma capace di comandare o di obbedire ai folli, gradito ai suoi simili, dico all'ampia maggioranza, affettuoso verso la moglie, piacente agli amici, convitato gentile, ospite affabile, insomma uno che «non considera estraneo a sé nulla di umano,t1? Ma già da un pezzo mi annoia . questo sapiente. Riconduciamo dunque il discorso ad altre piacevolezze.

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Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, capp. XXIX-XXX, pp. 79-89

5. Luoghi immaginari o inesistenti. 6. Il Marpeso era una montagna ricca eli marmo nell'isola eli Paro. Riferimento a Virgilio, Eneide, VI, 471. i. Linceo, uno degli Argonauti, eroe dalla vista acuta. 8. Riferimento acl un famo$0 motto eli Terenzio.

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Libertà, peccato e grazia 'Jl

L. Cranach il Vecchio, Adamo ed Eva,

1533, Berlino, Bode-Museum.

~ual è il significa!to !ilei )\leccato originale?

""t(]

rasmo e Lutero non si conobbero mai personal~D mente, ma fra l'umanista e il riformatore ci fu un J. significativo scambio epistolare (dal1516 al1524) ed entrambi conoscevano l'uno le opere dell'altro, condividendo un principio cardine della Riforma: la centralità della Sacra Scrittura e l'idea che il recupero dell'autenticità del messaggio cristiano passasse in primo luogo dal ritorno alla Bibbia come fonte della verità rivelata. Di fatto, nel 1524 Erasmo viene spinto da papa Leone X e dallo stesso re d'Inghilterra Enrico VIII a prendere posizione nei confronti della Riforma luterana e pubblica un testo polemico, che segna la rottura con Lutero, dal titolo De libero arbitrio, cui il riformatore risponde puntualmente l'anno seguente (1525) con il De servo arbitrio. La polemica è stata letta da molti studiosi come l'emblema della contrapposizione tra Umanesimo e Riforma. Certo è che da allora in poi i toni dello scontro fra Lutero ed Erasmo si faranno sempre più accesi. Si tratta, comunque, di una polemica rilevante perché Erasmo affronta direttamente un problema cruciale e cioè l'annipotenza di Dio e, per conseguenza, la libertà dell'uomo. Il problema del libero arbitrio riguarda, in effetti, il cuore stesso della teologia luterana, secondo la quale la salvezza raggiunge l'uomo solo per grazia e per la sola fede. Per rispondere a queste domande, si confrontano qui due immagini di Dio, due immagini di Cristo: per Lutero, Cristo è vero Dio e vero uomo che ha redento nel sacrificio della croce il contrasto insanabile tra il peccato e la salvezza, tra lo spirito e la carne. La salvezza offerta da Dio agli uomini in Cristo è frutto della sola Grazia di Dio: la natura dell'uomo è corrotta e la libertà dell'uomo non sussiste. La libertà e la giustizia sono dono di Dio che l'uomo da solo non può perseguire.

Erasmo, invece, vede Cristo come colui che riconcilia mente e cuore, coinvolgendo al tempo stesso ragione e fede. Se Lutero mette in primo piano la teologia della croce, e quindi il Cristo crocifisso, Erasmo propone il Cristo maestro nel tentativo di conciliare la sapienza pagana con il cristianesimo e formulando una nozione di giustizia e di libertà comuni a Dio e all'uomo, pur nella consapevolezza della sostanziale differenza tra la perfezione di Dio e l'imperfezione dell'uomo. La sua philosophia Christi interroga dunque le Scritture per trame orientamento per l'agire nella nostra vita: Cristo ha recato la salvezza al mondo e ha insegnato una filosofia che si integra col sapere umano rigenerandolo, conciliando teoria e prassi per costruire un mondo di amore e di pace.

Erasmo da Rotterdam: in difesa del libero arbitrio umano Nel suo scritto Su/libero arbitrio Erasmo mostra di avere soprattutto a cuore la dimensione etica del messaggio evangelico, con le sue conseguenze sulla vita degli uomini. Consapevole di affrontare uno dei temi più difficili, Erasmo afferma che non esiste labirinto più inestricabile di quello del libero arbitrio, affrontando la discussione attraverso una lettura critica della Sacra Scrittura e analizzando i passi a favore e contro il libero arbitrio. Il peccato ha oscurato

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la ragione ma non l'ha corrotta fino a spengerla, similmente, non ogni sentimento umano è carnale. Nel brano l!iiill, al fine di mostrare la possibile cooperazione tra grazia divina e libero arbitrio umano, Erasmo si serve di alcuni esempi: l'occhio umano malato a cui il medico restituisce la capacità di vedere, il padre che aiuta il bambino, ancora incapace di camminare, a rialzarsi ~11-23. Alla libertà dell'uomo, per quanto compromessa dal peccato originale e negata dalla teoria luterana della grazia divina, Erasmo non intende rinunciare: senza libero arbitrio non esiste infatti responsabilità umana e senza colpa è incomprensibile la giustizia divina ~12454. Del resto, le Scritture invitano continuamente alla conversione e al miglioramento di se stessi, segno che la volontà è libera di scegliere il bene e il male. Erasmo richiama così, succintamente, le assurde conseguenze dei difensori della grazia che negano libertà all'uomo: rischiano di rendere impraticabili i doveri pur contenuti nei comandamenti divini, ritengono l'uomo capace soltanto di peccare, anche se spinto dalla fede in Cristo ~>155-64. La soluzione della controversia tra sostenitori del libero arbitrio e della grazia divina risiede, secondo Erasmo, in una posizione di misura e di compromesso ~>165-83. Bisogna perciò evitare di aderire alle tesi di Pelagio o di Scoto, che nella difesa a oltranza della libertà hanno minacciato l'assolutezza della potenza divina, senza cadere nell'interpretazione opposta fornita da Lutero, che annulla ogni responsabilità e ogni merito umano ~184-97. L'uomo può così liberamente volgersi al bene e al male e la sua salvezza è resa efficace dalla grazia continua di Dio ~198-114.

lii[l1 Il peccato m•iginale ha corrotto

ma non annullato il libero a••bit••io umano

La grazia divina e la questione della giustizia di Ilio

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Proviamo a esporre il nostro punto di vista servendoci di un paragone. L'occhio umano, per sano che sia, non vede nelle tenebre; ma se fosse accecato non vedrebbe pii:t nulla neppure alla luce. La volontà, pure, ancorché libera, nulla può se si sottrae alla grazia: in piena luce colui che ha buoni occhi può chiuderli per non vedere nulla e può distoglierli da ciò che guardava per cessare di guardare ciò che ~ra capace di vedere. Ma colui che aveva gli occhi malati deve essere grandemente riconoscente per aver ricuperato la vista: deve gratitudine innanzitutto al creatore e poi al medico. Prima del peccato l'occhio era assolutamente sano, è il peccato che lo ha guastato. Che cosa può dunque attribuire a se stesso colui che vede? Può tutt'al più rivendicare a sé il diritto di chiudere o di distogliere gli occhi per paura della luce. Ascoltate ora un altro paragone. Il padre rialza il suo bambino, ancora incapace di camminare, che è caduto e gli fa vedere un frutto per attirarlo; ma la debolezza delle sue membra è tale che egli cadrebbe ancora se suo padre non gli tendesse la mano per sostenerlo e guidare i suoi passi. Così, condotto dal padre, il figlio arriva al frutto che il padre gli dà volentieri come ricompensa della sua camminata. Il bambino non avrebbe potuto rialzarsi se suo padre non l'avesse sostenuto, non avrebbe visto il frutto se suo padre non glielo avesse mostrato, non avrebbe potuto avanzare se suo padre non l'avesse continuamente aiutato nel suo incedere traballante e non avrebbe potuto prendere, infine, il frutto se suo padre non glielo avesse messo nelle mani. Che cosa potrà dunque attribuire a sé il bambino? Ha tuttavia fatto qualche cosa, ma non può vantarsi delle proprie forze dato che deve a suo padre tutto ciò che egli è. Applichiamo ora questi paragoni all'aiuto di Dio. Che cosa fa il bambino? Si appoggia quanto può su colui che lo rialza e cerca eli regolare i suoi passi deboli sui passi di colui che l'aiuta. Senza dubbio il padre avrebbe potuto trascinare il bambino contro la sua volontà e anche il bimbo avrebbe potuto non badare affatto al frutto tesogli; il padre poteva parimenti offrirgli il frutto senza pretendere che il bimbo camminasse, ma ha preferito agire così per il più gran bene del

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La l'esponsabilità umana

Le possibili contraddizioni di chi attribuisce solo alla grazia la salvezza umana

Tra i due partiti contl•apposti occorre tl•ouare una soluzione di misura

bimbo. Con tutto ciò non ho alcuna difficoltà ad ammettere che la conquista della vita eterna dipende ancor meno dalla nostra diligenza di quel che dipende il tesoro nascosto nella mano paterna, per il bimbo che corre verso di lui. Ancorché ci sembra di ridurre così a una parte minima l'importanza del libero arbitrio, pur tuttavia ciò sembra ancora troppo a certi autorP. Essi ci tengono a che la grazia sia il solo agente in noi e ci tengono a che la nostra anima rimanga interamente passiva, come un semplice strumento dello Spirito Santo; così il bene non può in alcun modo essere riconosciuto come nostro, salvo nella misura in cui piaccia alla bontà divina di riconoscercelo. La grazia, infatti, non opera tanto in noi per mezzo del libero arbitrio, quanto piuttosto sul libero arbitrio allo stesso modo che un vasaio agisce sull'argilla e non per mezzo dell'argilla. E quando si domanda loro che significato hanno le parole di «corona, e di «prezzo,: Dio- rispondono- corona in noi i suoi doni e fa del suo ptivilegio la nostra ricompensa, degnandosi di attribuirci ciò che ha operato in noi, onde associarci al suo regno celeste. Ma io non vedo come essi possano concepire una volontà che sarebbe libera ma non farebbe niente. Farebbero meglio a dire che questa volontà è agita dalla grazia in modo da coordinare la sua azione con la propria; allo stesso modo che, secondo i naturalisti, il nostro corpo ticeve dall'anima il ptincipio del movimento e senza l'anima non potrebbe muoversi; il che non gli impedisce, non solo di ricevere questo movimento, ma di comunicarlo ad altri corpi, per cui può partecipare alla gloria come ha partecipato alla pena. Ma se Dio agisce su di noi come il vasaio sull'argilla, di che cosa ci si potrebbe mai incolpare di male o di cosa di bene potremmo mai essere ritenuti responsabili? [. .. ] Non cercherò qui di dire per quali ragioni certi dottori moderni insegnino che tutti i comandamenti di Dio siano impraticabili da parte nostra: non è mio scopo. Ho semplicemente voluto mostrare che il loro zelo eccessivo nel sottolineare il ruolo della grazia nella nostra opera di salvezza li ha condotti a oscurare proprio questo ruolo e non vedo proprio come possano togliersi da certe contraddizioni nelle quali sono caduti. E così che dopo aver distrutto il libero arbitrio vogliono che l'uomo sia d'ora innanzi spinto ad agire dallo spirito di Cristo che è per essenza incompatibile con il peccato e ciò non impedisce loro di insegnare in pari tempo che l'uomo, anche dopo aver ricevuto la grazia, non è capace altro che di peccare. [... ] È dallo scontro di esagerazioni di tal genere che nascono i tuoni e i fulmini che oggi scuotono il mondo. E se ogni partito continua a difendere rabbiosamente le sue esagerazioni, prevedo che ci sarà tra le parti una lotta simile alla rivalità tra Achille ed Ettore che, per essere stati assai accaniti l'uno contro l'altro, poterono essere separati solo dalla morte. Si ha un bel dire comunemente che per raddrizzare un bastone ricurvo bisogna forzarlo nel senso opposto, ciò può essere vero quando si tratta di riforme di costumi, ma non mi azzarderei a dire che ciò sia da consigliare quando si tratta di definire dei dogmi.

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1. Il riferimento polemico è rivolto anche ad Andrea Carlostadio (1480-1541), riformatore tedesco, che

entrò in contatto con Lutero e con Zwingli. Con Lutero condivise molte dottrine,· ma ruppe in merito alla questione dell'Eucarestia, negando la presenza reale di Cristo.

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l contrapposti errori di Pel;1gio e di Lutei'D

lllibea•o arbitrio:

una realtà ii•J•immciabile

L'uomo si uolge

libeJ•amente al bene e la !JI'azia diuina lo assiste in &mmiera efficace

Sia che si esortino gli uomini, sia che si voglia frenarli, sempre vedo che si esagera. Così per dar fiducia al timido capiterà di dire: «Non abbiate timore, è Dio che parlerà e che farà tutte le cose in voi». Se si tratterà invece di mortificare uno spirito empio di autosufficienza, si dirà forse opportunamente che l'uomo non è che peccato; e contro quelli che pretendono mettere il loro insegnamento sullo stesso piano delle scritture canoniche senza dubbio si avrà ragione di affermare che l'uomo non è altro che un cumulo di menzogne. Ma quando nella ricerca del vero si propongono assiomi, io non penso che si possano usare paradossi tali da sembrare enigmi e, per parte mia, preferisco dar prova di misura. Senza dubbio Pelagio 2 è stato troppo largo nei confronti del libero arbitrio e Scoto ancor più, ma Lutero ha cominciato con il mutilarlo amputandogli il braccio destro, poi non contento di questo risultato lo ha sgozzato e interamente annullato. In quanto a me, preferisco la dottrina di quelli che concedono qualche cosa al libero arbitrio pur riconoscendo il potere più grande alla grazia. Non era quindi necessario evitare lo scoglio di Scilla dell'orgoglio per cadere nello scoglio di Cariddi della disperazione o della vigliaccheria; non era conveniente curare un arto lussato girandolo da tutte le parti ma rimettendolo a posto, e non si doveva impegnarsi a fondo contro il nemico che si aveva di fronte se c'era rischio di ricevere a sorpresa una ferita nella schiena. Teniamoci dunque alla soluzione di mezzo: ci sono pur opere buone, ancorché imperfette, e delle quali l'uomo non può valersi senza farsene un titolo per insuperbire: c'è pur qualche merito, ma bisogna riconoscere che se lo si è conquistato lo si deve a Dio. Chi sa fare un esame di coscienza non potrà non deporre subito ogni pretesa di arroganza accorgendosi di quanto la vita dei mortali sia fin troppo piena di debolezze, vizi e misfatti: ma non ci spingeremo fino al punto di dire che l'uomo, anche se giustificato, non è altro che un cumulo di peccato quando il Cristo stesso ci parla di una nuova nascita e Paolo di una nuova creatura~. Ma perché, ci si potrebbe dire, accordare un posto al libero arbitrio? Per avere qualche cosa da imputare giustamente agli empi che si sono volontariamente sottratti nascondendosi alla grazia divina, per allontanare da Dio ogni rimprovero calunnioso di crudeltà o d'ingiustizia, per cacciar lontano da noi la disperazione o la presunzione, per spingerei tutti all'impegno e allo sforzo. Queste sono le ragioni che hanno condotto quasi tutti gli autori ad ammettere il libero arbitrio; ma il libero arbitrio resterebbe inefficace senza l'aiuto continuo della grazia di Dio, il che è appunto ciò che ci impedisce ogni forma di orgoglio. Ma si potrà ancora dire: a che serve il libero arbitrio se non può far nulla da solo? Mi limiterò a rispondere: e a che cosa servirebbe l'uomo tutto intero se Dio agisse con lui come il vasaio con l'argilla o se Dio agisse su di lui come potrebbe agire su una pietruzza?

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Erasmo, Liberoarbitrio-Lutero, Servo arbitrio, 10, 11, 16, pp.lOS-114

2. Monaco originario della Britannia o clell'Irlancla, vissuto nei secoli IV-V, strenuo difensore del libero

arbitrio, negava che il peccato originale si trasmettesse automaticamente a tutti gli uomini. 3. 2Cor 5,17.

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Martin Lutero: il ser·vo arbitrio Alla diatriba di Erasmo{ Lutero risponde con un lungo testo in cui{ al tono di disputa dotta deWumanistal il riformatore risponde sentendosi ispirato dallo Spirito Santo e quindi attraverso asserzioni nette e perentorie. La differenza con Erasmo si coglie subito anche nel modo di leggere la Scrittura: occorre mettersi in ascolto della parola che proviene daWonnipotenza divinai non confrontandola con la sapienza degli esseri umani{ come fa Erasmo{ ma dando gloria aWonnipotenza divina neWascolto fedele. La Scrittura così rivela una tensione profonda fra peccato e salvezza{ carne e spirito{ morte e vita che lacera 1intera realtà. Secondo Luterol l'uomo non opera secondo una sua autonoma volontà, dipendendo sia dall'onnipotenza di Dio, sia dalla forza del peccato e della carne. Di fronte aWazione di Dio{ che salva dalla schiavitù del peccato e della morte donando libertà e vita nuova{ l{ uomo può solo ammettere la sua inadeguatezza e celebrare la misericordia del suo Creatore. Per Luterol il mondo è però continuamente insidiato daWopera distruttrice di Satana che attraversa la storia ed è chiamato a lottare finché il regno di Cristo si instaurerà vincendo il suo avversario. In questo senso{ la parola opera nella storia sempre una rivoluzione{ anche a prezzo di discordie e guerre: se Erasmo invoca la pace come bene supremo e unica risposta al Vangelo di Cristo{ Lutero afferma la necessità del turbamento e degli sconvolgimenti che derivano dalla parola di Dio{ la quale inevitabilmente è totalmente altro rispetto alla legge che governa il mondo. Nel brano ~iii~~ Lutero cita Paolo e Giovanni Evangelista{ per mostrare come ogni azione umana sia aWinsegna del peccato e come solo la fede sia in grado di salvare lluomo ~11-32. Sempre richiamandosi a Paolo{ Lutero osserva chef anche in coloro che hanno raggiunto la fede{ la lotta contro il peccato e le debolezzedella carne rimane accanita e continua ~133-47. Lutero prova di seguito a rispondere a coloro chef come Erasmo{ ritengono che senza libertà umana cadrebbe ogni imputabilità e responsabilità deWagire delle creature{ compromettendo la possibilità e Il esistenza stessa della giustizia divina. Lutero scrive{ che misurata sul piano della finita luce della ragione umana{ la condotta divina può apparire adesso ingiusta{ ma risulterà l{ espressione di una giustizia perfetta{ quando gli uomini raggiungeranno finalmente la luce della gloria di Dio ~148-73. A illuminare l{ uomo nella verità{ ci sono{ secondo Luterol tre luci{ tutte di origine divina ma gerarchicamente sovrapposte lluna aWaltral la natura{ la graziai la gloria; solo quesfultima è capace di dipanare ogni ombra e mostrare la vera giustizia divina ~>174-88. Lutero mostra poi come{ dal punto di vista strettamente razionale{ la prescienza divina 1

comporti l'onnipotenza di Dio e sia inconciliabile con la libertà dell'uomo

~189-97.

Chiude il brano un appello diretto di Lutero a Erasmo con un elogio deWumanistal del suo spirito critico e della sua onestà intellettuale. L:invito è a riconoscere la verità scritturale e divinamente ispirata del servo arbitrio e a schierarsi a sua difesa{ abbandonando ogni velleitaria argomentazione a sostegno della umana libertà t>l98-130.

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Arriviamo a quella parte di questo libro, l'ultima, nella quale dobbiamo, conformemente alle promesse, fare avanzare il grosso delle nostre truppe contro il libero arbitrio: ma non le faremo entrare tutte in linea. Come potrebbe un piccolo libro come il nostro compiere uno schieramento del genere quando la Scrittura tutta intera, fino all'ultimo iota \ è dalla parte nostra? ... Di tutta la no-

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1. Lettera dell'alfabeto greco.

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La giustificazi1me per sola fede

L'umana impossibilità di fare il bene

La giustizia diuina e la gloi'Ìa di Dio

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stra grande armata faremo avanzare soltanto due capi con qualcuna delle loro legioni: Paolo e Giovanni l'evangelista. Paolo, scrivendo ai Romani, comincia così la discussione contro il libero arbitrio e in favore della grazia (Rm 1,18): "L'ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ingiustizia degli uomini che soffocano la verità con l'ingiustizia" ... Che cosa significa ciò se non che sono degni della collera e del castigo divini? E la causa di questa collera sta nel fatto che essi fanno soltanto cose degne di .collera e di castigo, vale a dire sono empi e ingiusti e soffocano la verità prigioniera con l'ingiustizia. Dove è dunque questo potere del libero arbitrio capace di sforzarsi al bene? ... Quando Paolo parla dicendo "contro tutte le empietà degli uomini", è come se dicesse «Contro l'empietà di tutti gli uomini" ... Dice infatti, un po' più su [Rm 1,16): "Il vangelo è potenza eli Dio per la salvezza di chiunque crede; del Giudeo prima e poi del Greco" ... Il vangelo della potenza di Dio è pertanto necessario agli Ebrei come ai Greci, vale a dire a tutti gli uomini; affinché credano e siano salvati dalla collera divina ... Quali uomini potresti citarci che non siano sottoposti a questa collera quando anche i migliori, Ebrei e Greci, cadono sotto la condanna? ... Paolo sottopone tutti gli uomini alla collera eli Dio e dichiara che tutti gli uomini sono ingiusti ed empi. .. Questo passo paolinico condanna pertanto con forza il libero arbitrio; afferma che, malgrado tutte queste cose eccellenti, cioè la legge, la giustizia, la saggezza e tutte le virtù delle quali possa essere fornito, l'uomo resta empio, ingiusto e degno della collera divina ... Paolo stabilisce una netta linea eli divisione: ai credenti la salvezza per mezzo dell'evangelo: agli altri la collera; i credenti sono dichiarati giusti, gli increduli son dichiarati empi e ingiusti e sottoposti alla collera divina. Tutto ciò significa che la giustizia di Dio è rivelata nell'evangelo, vale a dire per mezzo della fede: perciò tutti gli uomini sono empi e ingiusti. .. [... ) Paolo insegna che presso gli uomini santi e pii lo spirito e la carne si combattono così violentemente da non riuscire a fare quello che vogliono. Ne concludo quanto segue: se la natura umana è così cattiva, anche presso quelli che sono stati rigenerati dallo Spirito, da non sforzarsi verso il bene, non solo, ma - anzi - da combatterlo e opporsi a lui, come potrebbe dunque sforzarsi verso il bene in quelli che non sono ancora stati spogliati del vecchio uomo e sono ancora sottoposti a Satana? Infatti Paolo non parla solo delle più grosse debolezze della carne, in virtù delle quali la Diatriba cerca eli eludere le affermazioni scritturali, ma enumera fra le opere della carne l'eresia, l'idolatria, i dissensi, le dispute, che regnano soprattutto nelle parti più nobili dell'uomo, vale a dire la ragione e la volontà. Se dunque la carne combatte in tal modo contro lo spirito presso i santi, combatterà ancor più accanitamente contro Dio presso gli empi e nel libero arbitrio. Perciò Paolo chiama tutto ciò in Romani 8 [v. 7) «inimicizia contro Dio". Vorrei ben vedere come si potrebbe indebolire questo argomento o difendere con il suo mezzo il libero arbitrio ... Darò un esempio per affermare la nostra fede e dare coraggio a quelli che sospettano Dio d'iniquità. Dio governa questo mondo corporeo nelle cose esterne in modo tale che se ci si uniforma al giudizio della ragione umana, si è obbligati a dire o che Dio non esiste, oppure che è ingiusto. Come dice il poeta: 14864. Ad ogni modo è sempre meglio evitare di allearsi con nazioni più potenti della propria, come dimostra la storia degli Stati italiani nei recentissimi eventi delle guerre innescate dalla Francia ~>165-75. Nel fondo, la natura umana non sembra mutare agli occhi di Machiavelli, che trova nella storia la conferma della sua visione della politica e anche un'inesauribile fonte di esperienze, per formare l'intelligenza e le virtù politiche con cui il principe può imparare ad affermarsi e a dare di sé una buona immagine anche favorendo il merito, le arti, la tolleranza e istituendo manifestazioni popolari ~>176-86.

li10j Un p••inci11e crudele e 11io: l'esempio !!toi'Ìco di Fe1•dinando d'Aragona

La cura dell'immagine di sé: Bernabò llisconti

Il pt•incipe deue semp1•e schierarsi e prende1•e posizione

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Come può un principe farsi stimare. l. Nulla procura tanta stima a un principe quanto il fatto di compiere grandi

imprese e di fornire un'immagine eccezionale di sé. In_questo periodo storico noi abbiamo il caso di Ferdinando d'Aragona [1452-1516], attuale re di Spagna. Lo si può quasi considerare un principe nuovo, perché da re debole che era, si è trasformato per fama e gloria nel primo re dei Cristiani. Esaminando le sue imprese è possibile ritenerle tutte grandissime e alcune straordinarie. All'inizio del suo regno conquistò la provincia di Granada e quell'impresa fu il fondamento del suo potere. Compì l'impresa in un periodo di relativa tranquillità, senza paura di incontrare ostacoli; grazie ad essa tenne occupati gli animi dei baroni di Castiglia che, impegnati nella guerra, non si preoccuparono di portare innovazioni. Ferdinando, allo stesso tempo, acquistava prestigio e potere nei loro confronti senza che se ne accorgessero. Con le ricchezze della Chiesa e del popolo armò le truppe e addestrò un suo esercito, capace poi di procurargli fama. Per compiere imprese ancora piì:t grandi e servendosi sempre della religione, si comportò da persona crudele e pia nello stesso tempo scacciando dal regno gli Ebrei e i Mori che erano stati convertiti a forza al cristianesimo offrendo in tal modo un esempio di persecuzione tanto miserabile quanto inconsueto. Con gli stessi pretesti diede l'assalto all'Africa, venne in Italia e negli ultimi anni ha attaccato la Francia. In tal modo ha sempre compiuto grandi imprese che hanno tenuto col fiato sospeso e pieni di ammirazione i sudditi, occupati a seguire il corso degli eventi. Le sue imprese sono nate le une dalle altre, così che il sovrano non ha dato tempo agli uomini per organizzarsi contro di lui. 2. Giova moltissimo a un principe fornire un'immagine eccellente di sé anche in politica interna, come ha saputo fare messer Bernabò Visconti [1323-1385], signore di Milano, che ha operato nel bene e nel male in modo straordinario, sia per quanto riguarda l'amministrazione dello stato sia nel comminare premi e castighi. Un principe deve soprattutto dare un'immagine di uomo grande e di ingegno eccelso. 3. Un principe viene stimato sia quando è un vero amico sia quando è un vero nemico, cioè quando dichiara apertamente da quale parte sta. È sempre meglio prendere posizione che mostrarsi neutrali perché se due potenti confinanti vengono alle mani, o sono tali che vincendo uno di loro si trovi a dover temere il vincitore, oppure no. In entrambi i casi sarà di maggior vantaggio schierarsi apertamente in conflitto. Nel primo caso infatti, chi non si schiera, sarà alla mercé del vincitore con grande piacere dello sconfitto e senza la possibilità di difendersi e di proteggersi. Chi vince non desidera alleati sospetti che non lo sorreggano nelle avversità; chi perde non può dare protezione a chi non è accorso in suo aiuto per cambiare le sorti del conflitto.

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ll'iiPIIllrti di alleanza

con amici e nemici

La neutralità non giova mai alla causa del principe

Non è comligliabile alleai'Si con un princi11e o una nazione più potente

Il principe o i suoi cittadini

4. Gli EtolP avevano chiamato Antioco in Grecia per scacciare i Romani. Antioco mandò degli ambasciatori agli Achei, che erano amici dei Romani, per convincerli a rimanere neutrali mentre i Romani cercavano di persuaderli a schierarsi con loro. L'argomento fu discusso nell'assemblea degli Achei, di fronte alla quale l'ambasciatore di Antioco ribadiva il consiglio di rimanere neutrali. L'ambasciatore romano però così si espresse: «Ciò che costoro vi consigliano, e cioè di non prendere posizione, è del tutto contrario ai vostri interessi: senza appoggio e senza dignità sarete preda del vincitore". 5. Chi non ti è amico cercherà sempre di convincerti ad essere neutrale, mentre chi ti è amico ti chiederà sempre di schierarti a viso aperto. I principi indecisi, per sfuggire ai pericoli immediati, scelgono spesso la via della neutralità, ma il più delle volte crollano. Nel momento in cui il principe si schiera coraggiosamente in favore di un contendente il quale vince, per quanto questi sia potente e 11 principe gli sia sottoposto, re.sla un debito di riconoscenza: gli uomini non sono mai tanto disonesti da ignorare del tutto la gratitudine. Le vittorie inoltre non sono mai così complete che il vincitore non debba avere delle cautele, soprattutto per quanto riguarda la giustizia. Se quello per cui il principe si schiera perde, sarà trattato dal perdente con onore. Se avrà bisogno, sarà aiutato nei limiti del possibile e alleato in una sorte che può capovolgersi. Nel secondo caso, cioè quando i contendenti sono più deboli, è ancora più saggio farsi coinvolgere nel conflitto. Se uno dei due vince, ed è impossibile che non succeda con l'aiuto del principe, gli resta comunque sottoposto. In tal modo infatti il principe contribuisce alla rovina di un contendente con l'aiuto dell'altro che è stato così stolto da ingaggiare un conflitto. Vincendo, inoltre, si mette interamente nelle sue mani. 6. Mi sento in dovere di consigliare a un principe di non stringere alleanza con uno più potente, se non quando vi è costretto, come ho già detto prima, perché in caso di vittoria rimarrà sempre un legame e qualunque principe deve evitare legami di dipendenza. I Veneziani si allearono con la Francia contro il Ducato di Milano anche se potevano evitarlo e ciò provocò poi la loro rovina. Quando invece non è possibile farne a meno come capitò ai Fiorentini quando il papa e gli Spagnoli attaccarono la Lombardia, allora il principe farà buon viso a cattivo gioco. Nessuno stato deve sentirsi tranquillo di un'alleanza; è meglio infatti che nutra dei dubbi, perché è naturale che spesso per evitare un problema si incorre in uno peggiore; la prudenza insegna a saper riconoscere i mali per scegliere quelli minori. _ 7. Il principe deve saper apprezzare le capacità e fare onore a chi eccelle in un'arte. Deve mostrarsi tollerante nei confronti delle attività che i suoi cittadini svolgono, siano essi il commercio o l'agricoltura o qualsiasi altra. Tutti devono poter migliorare le loro proprietà senza paura che vengano tolte e nessuno deve rinunciare ad avviare un'attività commerciale per paura delle tasse. Il principe deve gratificare tutti i cittadini capaci di prendere iniziative utili allo sviluppo dello stato. Nelle stagioni adatte deve favorire le rappresentazioni e le feste popolari e poiché ogni città è divisa in corporazioni o classi sociali deve rispettare ogni gruppo e intervenire presso di loro di persona o con donazioni, senza dimenticare però il suo prestigio e la sua dignità regale perché questi non devono mai venir meno.

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N. Machiavelli, Il Principe, pp. 149, 151, 153 1. Abitanti dell'Etolia, regione storica della Grecia centrale.

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Thomas More: l'educazione alla felicità nel mondo di Utopia L'Utopia di More ha avuto una grande fortuna, ma nella sua apparente semplicità sembra celare una complessità enigmatica, rispecchiata in qualche modo dalla varietà dei giudizi che ha suscitato nei suoi lettori lungo i secoli: More è apparso, per i marxisti, l'araldo del comunismo, per altri il difensore dell'imperialismo britannico, e agli occhi di molti quasi un sociolago cristiano. In realtà, l'Utopia non può essere esaurita da nessuna di queste definizioni. Se nel primo libro si può facilmente rintracciare la forte critica che More avanza nei confronti delle condizioni politiche e sociali dell'Inghilterra, sul finire del Medioevo, nel secondo libro si delinea nei dettagli la-vita di uno Stato immaginario, ovvero un progetto radicale di riforma della convivenza umana che tocca la struttura della famiglia, l'educazione, che è capace di proporre una cultura diffusa insieme alla condivisione dei beni materiali, in una parola, il progetto per una vita felice. Come mostra il brano proposto ii§!, l'istruzione in Utopia coinvolge tutti i giovani e tutti gli abitanti nel corso della loro vita, nelle ore libere dal lavoro ~11-1 O. Gli Utopiani non conoscono i nostri filosofi, eppure hanno appreso nelle arti e nelle scienze le medesime conoscenze, facendo quasi tutti le stesse scoperte. Non si disperdono in inutili disquisizioni logiche e dialettiche, ma concentrano il loro interesse in discipline utili, come l'astronomia e la meteorologia, rifiutando spiegazioni magiche e astrologiche ~111-34. Ma soprattutto gli abitanti di Utopia amano disputare sulla felicità, che essi sembrano identificare col piacere, in una inconsapevole convergenza con Epicuro, tacitamente richiamato nel testo dell'autore ~135-41. Una simile concezione etica convive coi principi di una religione interamente razionale, per i quali l'anima è immortale e tesa alla ricerca della felicità, creata da un Dio, somma bontà, che la giudicherà per quanto fatto nell'al di qua. Simili principi mitigano la ricerca del piacere senza snaturare l'uomo, indicandogli una virtù che non è impossibile da seguire, alimentando la speranza di una beatitudine che è una leggittima aspettativa ~141-59. Felice è così l'uomo virtuoso che vive secondo natura e che guidato dalla ragione riconosce la maestà divina, imparando a collaborare al bene e alla felicità degli altri e imparando a non ricercare in primo luogo soltanto il vantaggio personale. La felicità di ciascuno è inclusa infatti nella felicità degli altri. La virtù non è vissuta così dagli Utopiani come dovere e privazione, né con timore angoscioso della punizione divina ~>159-93.

l:'mt 11 ruolo dell'istruzione

La filosofia 11 ilsape••e utile

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Per quanto non siano molti di ogni città quelli che, dispensati dai lavori, vengono destinati alla sola istruzione, quelli cioè in cui sin dalla fanciullezza trovarono un'indole egregia, un ingegno straordinario e animo propenso agli studi, tuttavia tutti i ragazzi apprendono le lettere, e buona parte del popolo, maschi e femmine, per tutta la vita, consacrano agli studi letterari tutte quelle ore che, come ho detto, hanno libere dal lavoro. Apprendono il sapere nella loro lingua; non è infatti povera di parole, né aspra all'orecchio, né c'è alcuna che renda meglio il pensiero; è la stessa in generale che, un po' guasta e dove in un modo dove in un altro, si stende per una larga zona in quella parte del mondo. Di tutti i nostri filosofi, i cui nomi van gloriosi in questa parte del mondo, nemmeno la fama di uno purchessia era giunta ivi prima del mio arrivo, e tuttavia nel campo della musica e della dialettica, nelle scienze matematiche e in geometria han fatto quasi le stesse scoperte che i nostri antichi. Vero è che, come quasi in tutto sono all'altezza degli antichi, cosi restano molto inferiori alle invenzioni dei dialettici moderni. Infatti nessuna regola hanno scoperta di quel-

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L'etica e il problema della felicità

l princìpi

della religione

le che nei Parva Logicalia 1 qui comunemente si apprendono dai ragazzi sulle restrizioni, le amplificazioni, le supposizioni e altrettali sottilissime escogitazioni. E poi son tanto lungi dall'esser riusciti a penetrare entro l'intenzione seconda 2 , che fra essi nessuno c'è che abbia potuto vedere quel cosiddetto uomo in sé ovvero universale, sebbene, come sapete, sia proprio un colosso e più grande di qualsiasi gigante e noi poi ce lo mostriamo a dito. Sono però dottissimi quanto al corso degli astri e al moto delle sfere celesti, anzi si sono fabbricati anche strumenti di varia forma, per mezzo dei quali comprendono con maggiore esattezza i movimenti e la posizione del sole e della luna e così degli altri astri, che si veggono sul loro orizzonte. Del resto, non vaneggiano di amicizie e inimicizie di pianeti, in una parola di tutta quell'impostura del profetare il futuro dagli astri. Presagiscono piogge, venti e le altre mutazioni di tempo da certi segni ossetvati per lunga pratica; ma quanto alle cause di tutti questi fenomeni e al flusso del mare e alla sua salsedine e insomma all'origine e alla natura del cielo e del mondo, in parte ne parlano nello stesso modo dei nostri antichi filosofi, in parte, come sono in disaccordo quelli, così anch'essi, nelle nuove spiegazioni che presentano, non sono d'accordo con tutti gli antichi e nemmeno tra di loro in nessuna cosa. Nel campo della filosofia riguardante l'etica quei popoli fanno le stesse dispute che noi; sui beni dell'anima e del corpo e su quelli esteriori, e poi se il nome di beni convenga a tutti questi ovvero alle sole doti dell'anima. Discutono anche sulla virtù e sul piacere, ma il primo e principale problema per essi è in che cosa la felicità umana consiste e se in una ovvero più cose. Nel che veramente mi pare che pieghino troppo dalla parte che rivendica il piacere, in cui ripongono tutta o la maggior parte della felicità umana. E, per vostra maggior meraviglia, è nella religione che cercano il sostegno a una morale così voluttuosa, e sì che quella è grave e severa e quasi burbera e aspra. Mai infatti disputano di felicità senza unire alcuni princìpi tratti dalla religione con la filosofia che si fonda sulle spiegazioni: senza quelli credono che per la vera ricerca della felicità la ragione di per sé sia manchevole e fiacca. Tali princìpi sono: l'anima è immortale e nata per bontà di Dio alla felicità; dopo questa vita per le nostre virtù e buone azioni è assegnato il premio, per le nostre colpe il castigo. E sebbene queste credenze siano proprie della religione, pensano tuttavia che è la ragione quella che ci conduce ad ammetterle ed a crederle; se le leviamo di mezzo, nessun uomo sarebbe sì stupido, sostengono essi arditamente, da non credersi lecita la ricerca del piacere a dritto o a rovescio, badando solo che un piacere minore non ne impedisca uno maggiore, o a non cercarne uno che poi a sua volta abbiamo a ripagar col dolore. Sarebbe poi pretta pazzia, essi pensano, seguire una virtù rigida e difficile, non solo rinunziando a ogni dolcezza della vita, ma abbracciando anche spontaneamente il dolore, se non se ne dovesse aspettare alcun frutto; e quale può essere il frutto,_ se dopo morto, dopo aver passato cioè tutta la vita senza alcuna dolcezza, il che vuol dire infelicemente, non se ne ottiene nulla? Solo che la felicità, a loro modo di vedere, non è posta in qualsiasi piacere, ma soltanto in quello buono e

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l. I Parua Logicalia formavano l'ultimo capitolo delle Summulae di Pietro Ispano (1220-1277), dedicato appunto alla logica sul modello aristotelico e alla grammatica. Da notare in tutto il periodo l'ironia di More verso un sapere considerato verboso e fine a se stesso. 2. L'intentio prima nella filosofia scolastica è l'apprendimento dell'oggetto in sé, l'intentio secunda la collocazione dell'oggetto nella sua specie universale.

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La felicità è compatibile con la virtù

La felicità del p1•ossimo mm esclude la Jll'llpria felicità

onesto; alla felicità infatti, come a bene supremo, è spinta la natura umana dalla virtù stessa, a quale soltanto è data in retaggio la felicità, a detta degli avversari stessi. Definiscono infatti virtù vivere secondo natura, giacché a questo noi siamo stati da Dio conformati; e che poi segue la guida della natura colui che nel bramare o fuggir le cose obbedisce a ragione. La ragione infine accende anzitutto i mmtali ad amare e venerare la maestà divina, cui siamo debitori non solo della nostra esistenza, ma anche di poter ottenere la felicità; in secondo luogo ci insegna e ci spinge a vivere quanto meno è possibile in affanno e lietamente nel massimo grado, e ad offrirei a tutti gli altri come collaboratori, conforme ai vincoli di natura, per raggiungere lo stesso scopo. Infatti non è mai esistito un seguace della virtù così duro e rigido, uno spregiatore del piacere tale che t'imponga fatiche, veglie e miserie, senza ordinarti insieme di alleviare, per quanto un uomo può e deve, le miserie e le sventure altrui, e che in nome dell'umanità non creda sommamente lodevole per un uomo esser di salvezza e di sollievo agli altri, visto che è sommamente umano (e non c'è virtù più particolare all'uomo) addolcire le pene altrui e toglier loro ogni amarezza e restituire la vita alla gioia, cioè al piacere. Sarebbe straordinario forse che la natura spingesse qualcuno a rendere lo stesso servigio a se stesso? Giacché o la vita lieta, cioè nei piaceri, non è buona, e in tal caso non solo non devi assistere nessuno per quella, ma ritrarne tutto il meglio che puoi, come da danno mortale; ovvero, se non solo ti è lecito, ma sei in dovere di procurarla agli altri, come buona che è, perché non farlo a te stesso tra i primi, una volta che è conveniente che tu sia favorevole a te non meno che agli altri? Infatti, se la natura ti esorta ad esser buono verso gli altri, non per questo ti comanda di essere con te stesso spietato e inflessibile. Dunque la gioia nella vita, dicono gli Utopiani, cioè il piacere, ci viene imposto dalla natura stessa, come fine di tutte le azioni, e vivere secondo i dettati di natura vien definita la virtù. Or quando la natura invita i mortali ad aiutarsi l'un l'altro per una vita più lieta (e ben fa ad agire così, che non c'è nessuno così al di sopra del destino del genere umano da essere a cuore lui solo alla natura, la quale invece porge il seno ugualmente a tutti quelli che abbraccia nella comunanza della stessa forma), evidentemente ti comanda con insistenza di badare a non assecondare il tuo vantaggio, in modo da procurar danno agli altri.

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T. Moro, Utopia, pp. 81-85

Tommaso Campanella: il sogno di una formazione permanente Come emerge anche dall'opera di Campanella, è una caratteristica comune del pensiero utopico il grande rilievo dato all'educazione. In ogni città utopica ogni attività quotidiana è carica di significati educativi: a partire dall'architettura e dall'organizzazione urbanistica, fino al tipo di abbigliamento usato. Così pure il momento del pasto in comune è concepito come un elemento importante per la formazione della persona. Campanella uede fermamente nel potere dell'educazione che deve colmare la superficialità e l'insufficienza di quella data in tante famiglie, al punto da dare una centralità evidente e di rilievo alla riforma dell'intero processo educativo. L'opera finge un dialogo tra un Ospitalario (Cavaliere dell'Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni a Gerusalemme) e un Genovese (nocchiero di Colombo). Questi racconta della sua visita alla Città del Sole dopo aver fatto naufragio presso un'isola sconosciuta, durante uno

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dei suoi viaggi. Come leggiamo nel dialogo del brano~' i Solari, ovvero gli abitanti della Città del Sole, sono originari dell'India: molti di loro erano filosofi e decisero di dar vita a una società tesa a escludere qualsiasi proprietà privata su beni, mogli e figli, sul modello indirettamente richiamato della Repubblica platonica ~11-9. Cosl si proposero di eliminare ogni interesse privato, rafforzando il comune amore per la patria e i vincoli dell'amicizia quali moventi del loro agire sociale e cooperativo ~110-29. Della gestione dei beni comuni si occupano gli ufficiali, scelti fin da fanciulli in base al merito e alle diverse capacità dimostrate negli studi ~130-40. Tutti gli abitanti della Città del Sole iniziano il loro processo educativo già a tre anni per continuare a imparare tutta la vita. Non c'è distinzione tra uomini e donne; e anche il loro abbigliamento, spartano, funzionale alla difesa e alla guerra, si differenzia solo per la lunghezza. Tutti devono aspirare ad acquisire una formazione enciclopedica, imparando le lingue, le arti meccaniche, la matematica, la medicina. Già a tre anni cominciano a leggere, imparando le lettere dell'alfabeto dipinte sulle mura della città. Senza mai rinunciare alla necessaria attività fisica, dai sette anni si dedicano alle scienze naturali, dunque alla matematica e alle altre discipline ~141-54. Grande valore educativo è attribuito al lavoro manuale, preferibile a una cultura solo astratta. Nella città ideale di Campanella nessuno deve lavorare troppo a lungo, ma piuttosto tutti devono dedicare diverse ore al giorno alla lettura, allo studio, alle arti e alle attività sportive. Tutti i Solari partecipano cosl a una formazione comune e permanente ~>-155-60. A seconda delle attitudini, delle loro conoscenze, ciascuno svolgerà un ruolo nella città. In particolare gli ufficiali saranno scelti tra coloro che hanno eccelso nell'arte o nella virtù che si troveranno a governare. Su tutti svetterà il Sole, colui capace di distinguersi in ogni arte e scienza e di elevarsi alla visione totale d'insieme della metafisica e della teologia ~>-161-76. Solo la sapienza al potere può essere reale garanzia di buon governo, alieno da ogni tentazione di crudeltà, scelleratezza e tirannia ~>177-89. Gli ufficiali, gli uomini di governo, come tutti i Solari devono unire competenza tecnica, specialistica, a capacità critica e profondità culturale ~>190-1 05.

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Una società dove tutto è in comune

Ospitalario- Or dimmi degli offizi e dell'educazione e del modo come si vive; si è republica o monarchia o stato di pochi. Genovese - Questa è una gente ch'arrivò là dall'Indie, ed erano molti filosofi, che fuggiro la rovina di MogorP e d'altri predoni e tiranni; onde si risolsero di vivere alla filosofica in commune, si ben la communità delle donne non si usa tra le genti della provinzia loro; ma essi l'usano, ed è questo il modo. Tutte cose son communi; ma stan in man di offiziali le dispense, onde non solo il vitto, ma le scienze e onori e spassi son communi, ma in maniera che non si può appropriare cosa alcuna. Dicono essi che tutta la proprietà nasce da far casa appartata, e figli e moglie propria, onde nasce l'amor proprio; che, per sublimar a ricchezze o a dignità il figlio o lasciarlo erede, ognuno diventa o rapace publico, se non ha timore, sendo potente; o avaro ed insidioso ed ippocrita, se è impotente. Ma quando perdono l'amor proprio, resta il commune solo. Ospitalario- Dunque nullo vorrà fatigare, mentre aspetta che l'altro fatichi, come Aristotile dice contra Platone. Genovese- Io non so disputare, ma ti dico c'hanno tanto amore alla patria lo-

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l. I Tartari.

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Il governo della città e il c&•iterio del merito

Organizzazione degli studi

Un perfetto connubio tl·a ;n•ti libe&•ali

e meccaniche, tra speculazione e lavoro manuale

il sapere al potere

ro, che è una cosa stupenda, più che si dice delli Romani, quanto son più spropriati. E credo che li preti e monaci nostri, se non avessero li parenti e li amici, o l'ambizione di crescere più a dignità, sariano più spropriati e santi e caritativi con tutti. Ospitalario- Dunque là non ci è amicizia, poiché non si fan piacere l'un l'altro. Genovese- Anzi grandissima: perché è bello a vedere, che tra loro non ponno donarsi cosa alcuna, perché tutto hanno del commune; e molto guardano gli offiziali, che nullo abbia più che merita. Però quanto è bisogno tutti l'hanno. E l'amico si conosce tra loro nelle guerre, nell'infil·mità, nelle scienze, dove s'ahJtano e s'insegnano l'un l'altro. E tutti li gioveni s'appellan frati, e quei che son quindici anni più di loro, padri, e quindici meno, figli. E poi vi stanno l'offiziali a tutte cose attenti, che nullo possa all'altro far torto nella fratellanza. Ospitalario - E come? Genovese- Di quante viltù noi abbiamo, essi hanno l'offiziale: ci è un che si chiama Liberalità, un Magnanimità, un Castità, un Fortezza, un Giustizia criminale e civile, un Solerzia, un Verità, Beneficenza, Gratitudine, Misericordia, ecc.; e a ciascuno di questi si elegge quello, che da fanciullo nelle scole si conosce inchinato2 a tal virtù. E però, non sendo tra loro latrocini, né assassinii, né stupri ed incesti, adultèri, delli quali noi ci accusamo, essi si accusano d'ingratitudine, di malignità, quando uno non vuol far piacere onesto, di bugia, che abboniscono più che la peste; e questi rei per pena son privati della mensa commune, o del commerzio delle donne, e d'alcuni onori, finché pare al giudice, per ammendarli. Ospitalario - Or dimmi, come fan gli offiziali? Genovese- Questo non si può dire, se non sai la vita loro. Prima è da sapere che gli uomini e le donne vestono d'un modo atto a guerreggiare, benché le donne hanno la sopraveste fin sotto al ginocchio, e l'uomini sopra. E s'allevan tutti in tutte l'arti. Dopo li tre anni li fanciulli imparano la lingua e l'alfabeto nelle mura, caminando in quattro schiere; e quattro vecchi li guidano ed insegnano, e poi li fan giocare e correre, per rinforzarli, e sempre scalzi e scapiglP, fin alli sette anni, e li conducono nell'officine dell'arti, cositori4 , pittori, orefici, ecc.; e mirano l'inclinazione. Dopo li sette anni vanno alle lezioni delle scienze naturali, tutti; che son quattro lectori della medesima lezione, e in quattro ore tutte quattro squadre si spediscono; perché, mentre gli altri si esercitano il corpo, o fan li publici servizi, gli altri stanno alla lezione. Poi tutti si mettono alle matematiche, medicine ed altre scienze, e ci è continua disputa tra eli loro e concorrenza; e quelli poi diventano offiziali eli quella scienza, dove miglior profitto fanno, o eli quell'arte meccanica, perché ognuna ha il suo capo. Ed in campagna, nei lavori e nella pastura delle bestie pur vanno ad imparare; e quello è tenuto eli più gran nobiltà, che pitl arti impara, e meglio le fa. Onde si ridono eli noi che gli artefici appellamo ignobili, e diciamo nobili quelli, che null'arte imparano e stanno oziosi e tengono in ozio e lascivia tanti servitori con roina della repùblica. Gli offiziali poi s'eleggono da quelli quattro capi, e clalli mastri di quell'arte, li quali molto bene sanno chi è più atto a quell'arte o virtù, in cui ha da reggere, e si propongono in Consiglio, e ognuno oppone quel che sa eli loro. Però non 2. Incline. 3. A capo scoperto.

4. Sarti.

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Solo la sapienza pllÌI !Jill'llntÌI'Il

un buon governo

Alla competenza tecnica deve sempre unirsi profondità cultm•ale e competenze filosofiche

può essere Sole se non quello che sa tutte l'istorie delle genti e riti e sacrifizi e republiche ed inventori di leggi ed arti. Poi bisogna che sappia tutte l'arti meccaniche, perché ogni due giorni se n'impara una, ma l'uso qui le fa saper tutte, e la pittura. E tutte le scienze ha da sapere, matematiche, fisiche, astrologiche. Delle lingue non si cura, perché ha l'interpreti, che son i grammatici loro. Ma più di tutti bisogna che sia Metafisica e Teologo, che sappia ben la radice e prova d'ogni arte e scienza, e le similitudini e differenze delle cose, la Necessità, il Fato e l'Armonia del mondo, la Possanza, Sapienza ed Amor divino e d'ogni cosa, e li gradi degli enti e corrispondenze loro con le cose celesti, terrestri e marine, e studia molto bene nei Profeti ed astrologia. Dunque si sa chi ha da esser Sole, e se non passa trentacinque anni, non arriva a tal grado; e questo offizio è perpetuo, mentre non si trova chi sappia più di lui e sia più atto al governo. Ospitalario- E chi può saper tanto? Anzi non può saper governare chi attende alle scienze. Genovese - Io dissi a loro questo, e mi risposero: «Più certi semo noi, che un tanto letterato sa governare, che voi che sublimate l'ignoranti, pensando che siano atti perché san nati signori, o eletti da fazione potente. Ma il nostro Sole sia pur tristo in governo, non sarà mai crudele, né scelerato, né tiranno un chi tanto sa. Ma sappiate che questo è argomento che può tra voi, dove pensate che sia dotto chi sa più grammatica e logica d'Aristotile o di questo o quello autore; al che ci voi sol memoria servile, onde l'uomo si fa inerte, perché non contempla le cose ma li libri, e s'avvilisce l'anima in quelle cose morte; né sa come Dio regga le cose, e gli usi della natura e delle nazioni. Il che non può avvenire al nostro Sole, perché non può arrivare a tante scienze chi non è scaltro d'ingegno ad ogni cosa, onde è sempre attissimo al governo. Noi pur sappiamo che chi sa una scienza sola, non sa quella né l'altre bene; e che colui che è atto ad una sola, studiata in libro, è inerte e grosso. Ma non così avviene alli pronti d'ingegno e facili ad ogni conoscenza, come è bisogno che sia il Sole. E nella città nostra s'imparano le scienze con facilità tale, come vedi, che più in un anno qui si sa, che in diece o quindici tra voi, e mira in questi fanciulli». Nel che io restai confuso per le ragioni sue e la prova di quelli fanciulli, che intendevano la mia lingua; perché d'ogni lingua sempre han d'esser tre che la sappiano. E tra loro non ci è ozio nullo, se non quello che li fa dotti; che però vanno in campagna a correre, a tirar dardo, sparar archibugi, seguitar fiere, lavorare, conoscer l'erbe, mo una schiera, mo un'altra di loro. Li tre offiziali primi non bisogna che sappino se non quell'arti che all'offizio loro partengono. Onde sanno l'arti communi a tutti, istoricamente imparandole, e poi le proprie, dove più si dà uno che un altro: così il Potestà saperà l'arte cavalieresca, fabricar ogni sorte d'armi, cose di guerra, machine, arte militare, ecc. Ma tutti questi offiziali han d'essere filosofi, di più, ed istorici, naturalisti ed umanisti.

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T. Campanella, La Città del Sole, pp. 122-126

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RIPENSHAMO

La voce del contemporaneo

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~ Il filosofo italiano e storico della filosofia Eugenio

Garin sostiene che il ritorno agli antichi non fu per gli umanisti una semplice e pedissequa riproposizione di forme e di stili dimenticati, bensì «una rinnovata affermazione dell'uomo, dei valori umani, nei vari campi: dalle arti alla vita civile». Dopo esserti informato e documentato, prova a verificare questa affermazione mediante esempi tratti dalla letteratura e dall'arte. ~';l;;! Dopo aver allargato il punto di vista oltre la filoso-

fia, cerca di indicare quale dimensione umana viene affermata e quali valori vengono esaltati nel Rinascimento. Elabora uno schema di lavoro interdisciplinare finalizzato alla stesura di una tesina di approfondimento.

~NSIEME

Sintetizza le principali tesi difese da Pomponazzi, in merito alla filosofia della natura e all'anima umana, confrontandole col neoplatonismo e con la tradizione scola_stica. In 1 pagina di foglio protocollo.

~ Quali sono i principi e i fondamenti della conce-

zione magica della natura? Contrapponili all'indagine condotta da Bernardino Telesio, in 1 foglio protocollo.

T

Qual è stato il contributo di Giordano Bruno alla distruzione dell'universo aristotelico-tolemaico? In 8 righe.

~® Riassumi la critica che Giordano Bruno formula

contro il cristianesimo. ~ In che senso la riflessione di Machiavelli è all'origi-

ne della scienza politica? Rispondi sinteticamente in 4 righe. r;rì'Ì'il Qual è il rapporto tra virtù e fortuna nelle faccende

Lo sguardo della ta·adizione

t:tt::il Definisci i confini storici, i limiti cronologici interni ed esterni, nonché le coordinate geografiche deii'Umanesimo e del Rinascimento. In 8 righe. ~""" Qual è l'origine del termine «umanista»? Cos'è la

filologia? Cosa significa «distanza storica»? Rispondi a queste domande, prima in maniera sintetica (7 righe), poi articolando una breve trattazione (2 pagine di foglio protocollo), facendo esempi eriferimenti a opere e autori. ~ Quali sono le principali interpretazioni storiografi-

che del Rinascimento? Presenta le differenti tradizioni interpretative, menziona i loro principali esponenti, riproponi le argomentazioni, in non più di 2 pagine di foglio protocollo. ~4\>i.\1 Quali opinioni sulla libertà dell'uomo e sull'amore

di Dio dividono Marsilio Ficino e Pico della Mirandola? In 8 righe. ~ Riassumi l'analisi di Cusano sulla nozione di infinito,

collegandola alla teoria della «dotta ignoranza».

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umane e quale deve essere, secondo Machiavelli, l'atteggiamento del principe dinanzi alla realtà? In 8 righe. !llf~ Indica quali elementi di realismo ispirano le analisi

di Bodin, Guicciardini e Botero sul rapporto religione e potere. Confrontale in maniera schematica tra loro. ~1'3"" Su quali autorità e su quali argomentazioni Lutero

basa le sue interpretazioni del peccato originale e della grazia divina?

r;'7:i."' Elabora una sintesi del pensiero di Montaigne sull'uomo e sulla conoscenza, senza superare 1 pagina di foglio protocollo.

La parola ai filosofi ~i'lll Nel brano tratto dall'orazione di Pico della Miran-

dola ~p. 51 del tema «Centralità o marginalità dell'uomo» si parla di «mirabile e suprema felicità dell'uomo». In cosa essa consiste? Condividi que-

sta affermazione? Argomenta in non più di 2 pagine di foglio protocollo.

cp

C-j':il

Nelle parole di Montaigne (~ p. 53 del tema «Centralità o marginalità dell'uomo») riecheggiano molti argomenti degli antichi scettici, i cosiddetti tropi, vale a dire i modi della sospensione del giudizio. Trovali ed enunciali. Individua nel testo di Ficino ~p. 57 del tema «Filosofia e follia» quanti tipi di follia o di furore vengono menzionati e quali specie di amore ad essi vengono fatti corrispondere. Connetti poi la teoria del furore divino alla rilettura del mito platonico della biga alata. ·

EI4? Spiega il rapporto che lega in Dio l'anima umana e l'amore, secondo la concezione neoplatonica dell'essere elaborata da Marsi lio Ficino. Per rispondere utilizza anche il brano~ a p. 57 del tema «Filosofia e follia». In 8 righe. c:52 Secondo Erasmo, ciascuna cosa ha due facce. Imitando l'argomentazione erasmiana in~ p. 60 del tema «Filosofia e follia», che tramite la-figura del re mostra come la ricchezza sia povertà, divertiti a convincere un tuo compagno di classe che anche «il bello è brutto, l'infamia è gloria, l'istruzione è ignoranza, la forza è debolezza, la gioia è tristezza, la prosperità è sciagura, l'amicizia è inimicizia, il benefico è dannoso».

qp Elabora un confronto tra le diverse idee di follia, emerse dalle opere di Ficino ed Erasmo. Quali aspetti sembrano coincidere o divergere dalla dottrina degli «eroici furori» di Giordano Bruno? In 12 righe.

5f'ZJ Su quali aspetti convergono e su quali invece divergono le posizioni di Erasmo e Lutero? Quali diverse concezioni del cristianesimo emergono dal confronto? Dopo aver letto i brani~ e~ p. 64 sgg., del tema «Libertà, peccato e grazia», componi un piccolo saggio di 3 pagine di foglio protocollo ripercorrendo gli argomenti avanzati dai due autori sui temi del libero arbitrio, della grazia e della giustizia divina. cga Dopo aver letto il brano di Machiavelli ~p. 72

del tema «Realismo politico e pensiero utopico», prova a stilare un elenco delle virtù che convengono a un principe che voglia mantenere uno Stato. c-gu Confronta le proposte utopiche di More e Campanella(~-~ p. 74 sgg. del tema «Realismo politico e pensiero utopico» ), trovandone gli aspetti comuni.

Ll,ìlJ3 Comparando i testi di More e di Campanella riii2!~

p. 74 sgg. del tema «Realismo politico e pensiero utopico», individua le differenze tra le due proposte utopiche.

Prova a pensare da solo Elabora una breve trattazione delle seguenti questioni, esprimendo le tue personali valutazioni in riferimento alle posizioni concettuali espresse dai filosofi trattati nell'unità: ~ È utile studiare ancora oggi la riflessione e le ope-

re degli antichi? Perché sì, o perché no? ~;l'J Sovente si sente ripetere che nella scuola italiana il

retaggio umanistico sarebbe ancora troppo presente a scapito dello studio delle scienze e di un approccio più teorico e meno storico-letterario alle discipline. Condividi questa affermazione? ~M~ Perché, secondo te, la magia è tornata di nuovo e

sempre più ad appassionare e interessare con romanzi e film i giovani e i meno giovani? Credi che nell'attuale era della scienza e della tecnica ci sia ancora posto per una concezione magica della natura?

ca

3

Prova a documentarti sul tema della follia, interrogando la storia e la moderna psicologia. Ti accorgerai che non è facile definire la follia e che la figura del folle cambia nella storia e all'interno delle diverse culture. Chi è oggi, secondo te, il folle?

~ Qual è a tuo parere il rapporto tra etica e politica?

La morale personale deve sempre indirizzare le scelte che riguardano la politica, il fine e la collettività? Oppure la politica individua uno spazio autonomo dell'agire con propri principi e valori?

Gp lspirandoti alle utopie di More e Campanella, prova a stendere una possibile bozza di riforma dell'attuale modello educativo e formativo. ~ Oltre alle opere ricordate di More e di Campanella,

conosci altre utopie, antiche, moderne o contemporanee? Hai mai sentito parlare di anti-utopie? Informati ed elabora uno schema di ricerca, stilando una bibliografia, una sitografia, una filmografia. ~ Cos'è per te l'uomo? È ancora attuale, dopo Co-

pernico e dopo Darwin, nell'odierna era tecnologica, una concezione umanistica tesa a valorizzare la centralità e la dignità dell'uomo? Oppure ritieni l'opposta e disincantata analisi di Montaigne ancor più attuale della prima? Argomenta.

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, Altri orizzonti I1Mf'l Silvia Ronchey, L'enigma di Piero: l'ultimo bizantino e la crociata fantasma nella ri~ ve/azione di un grande quadro, Milano, Rizzoli, 2006. Il Piero del titolo del libro è Piero Della Francesca, uno dei maggiori pittori del Rinascimento italiano; l'enigma, che lo studio di Silvia Ronchey, insegnante universitaria di Civiltà bizantina, prova a risolvere, muovendosi tra saggistica e romanzo, è legato a uno dei quadri più straordinari dell'artista, la Flagellazione. Qual è il significato recondito di quest'opera? Quali misteriosi protagonisti Della Francesca ritrae nel quadro? Sono alcune delle domande i cui tentativi di risposta conducono l'autrice del libro a ricostruire le complesse vicende storiche, filosofiche e religiose di un periodo controverso, nel quale lo studio della prospettiva, il neoplatonismo, le vicende legate alla caduta di Costantinopoli e alla lotta contro l'Islam si intrecciano alle esigenze di rinnovamento religioso e culturale vissute dalle città italiane. ~ Paolo Rossi, Il tempo dei maghi, Milano, Raf-

faello Cortina editore, 2006. L'autore, che ha insegnato nelle Università eli Milano e Firenze, è tra i più accreditati studiosi italiani della sto-

ria della filosofia tra Cinquecento e Seicento. In questo libro, il suo interesse si rivolge al Rinascimento e ai suoi controversi rapporti con la rivoluzione scientifica del Seicento. L'autore trova emblematica eli questo passaggio la figura di Giordano Bruno, anticipatrice di tanti temi moderni, legata però anche al sapere magico, retaggio apparente del passato. Leggendo il libro, approfondisci la tua conoscenza sul tema, interrogandoti con l'autore sulle suggestioni, le curiosità, gli interessi che ancora oggi avvolgono la magia e la figura del mago. Come può la magia apparire più moderna, più attuale della scienza? ~

Michele Ciliberto, Pensare per contrari: di= sim::anto e utopia nel Rinascimento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005.

Come recita il titolo del libro, l'autore, che è professore eli Storia della Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, vuole infrangere una volta per tutte l'idea di un Rinascimento dominato da un pensiero unico, facilmente compendiabile in manuali e in formule. Come mostra anche la coppia oppositiva realismo-utopia, il Rinascimento è stato invece soprattutto un momento di confronto, di discussione, di pensieri opposti, talvolta presenti anche nelle opere dello stesso autore. Lasciandoti guidare dall'insegnante scegli uno dei saggi che compongono il libro e approfondisci la tua conoscenza del Rinascimento.

Verso un pensiero creativo ~ Tra i dibatti centrali nelle dispute filosofiche e teologiche dell'età rinascimentale, quello sul libero arbitrio ha

sublto svariate riformulazioni nel corso dei secoli ed è tuttora aperto. Scienziati e filosofi si confrontano, ad esempio, sul rapporto tra le basi corporee dell'attività che definiamo «volontaria» e la natura della «volontarietà» che attribuiamo alle azioni. Se le azioni sono correlate ad «attivazioni» di aree cerebrali e alla variazione di parametri chimici e fisici del corpo umano, fino a che punto si può parlare di una loro «volontarietà»? La «volontà» viene prima delle variazioni chimiche e fisiche del corpo, è concomitante ad esse, oppure ne è una conseguenza? In quest'ultimo caso, si può ancora parlare di «volontà» in senso proprio? ~ A che genere di fenomeni e di processi mentali alludono espressioni come «perdere il controllo di sé», oppu-

re «essere sopraffatto dal desiderio»? In che senso si può parlare di «debolezza della volontà»? E cosa ci dicono espressioni come le precedenti a proposito dell'uomo e della sua possibilità di agire «liberamente» e «volontariamente»?

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~

Nei diversi ambiti del regno animale, la «libertà» e la «libera volontà» non esistono? Soltanto dell'uomo si può dire che è «libero» o che possiede una qualche forma di «volontà»? Dove tracceresti il «confine», e in base a quali criteri?

Per idee, spunti e curiosità sulle domande precedenti, vedi il

~>l Seminario «Libertà».

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La rivoluzione

scientifica

L. Sabatelli, Galilei mostra il cannocchiale al doge, 1841,

Firenze, Museo della Specola, Tribuna eli Galileo. Nel particolare sono rappresentati: 1. Galileo Galilei, 2. il doge eli Venezia, Leonardo Donato,

3. Paolo Sarpi.

OcEANO ATLANTICO

V

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La macchina della natura l problema filosofico del macchinismo non si pone in funzione della macchina nella produzione, ma in funzione della sua influenza nella vita umana, in funzione delle trasformazioni che lo sviluppo del macchinismo le fa o le può far subire. Ciò è chiarissimo per Aristotele, che in un passo della Politica afferma che la schiavitù smetterebbe di essere necessaria se le spole e i plectri potessero mettersi in moto da soli.

I

A. Koyré, Dal mondo del pressappoco

all'universo della precisione, p. 49

Una m.mva idea di scienza • La costruzione delle macchine, in età moderna, ha reso possibile la realizzazione di quei processi di automazione che hanno esercitato tanta suggestione sull'immaginazione dell'uomo fin dall'antichità, come attestano le parole di Aristotele nella Politica. Secondo Alexandre Koyré (1892-1964), uno dei più autorevoli storici della scienza, l'incontro tra i filosofi e le macchine, per un verso, ha alinientato il mito di una età che vince la schiavitù e promette agli uomini la speranza di assaporare senza fatica i frutti di Demetra, la divinità greca che impersona la fertilità della Terra; e per un altro verso ha sostenuto il progetto di una conoscenza attiva capace di intervenire sulla natura per carpirne i segreti e modificarla. La rivoluzione scientifica, che ha il suo fulcro propulsivo nel Seicento europeo, è l'ambito del pensiero moderno in cui si afferma questa sintesi di sapienza e potenza.

Una delle principali caratteristiche del pensiero scientifico moderno è infatti proprio l'adozione di uno schema meccanico nella spiegazione razionale dei fenomeni naturali, che non separa il pensiero e la cosa pensata e colloca il principio all'interno della cosa stessa, di contro al vecchio modello platonico e aristotelico, nel quale, invece, il pensiero e la definizione stavano al posto della cosa e ne costituivano l'essenza. Se per Aristotele la scienza era soprattutto sapienza, contemplazione, conoscenza disinteressata, nettamente distinta dalla prassi e dall'arte tecnica, per i moderni, invece, comprendere scientificamente la natura significa anzitutto capire come essa funziona, riuscire cioè a scomporla nelle sue componenti elementari al fine di prevederla, controllarla e riprodurla nei fenomeni più complessi. Giustamente è stato dunque sottolineato che l'uomo moderno esprime un atteggiamento pratico di fronte alla vita, che esalta il valore dell'attività su quello della contemplazione. La vita attiva non può risolversi in speculazione teorica, perciò la scienza, come teorizza esplicitamente Francis Bacon (latinizzato in Bacone, 1561-1626), vuole dare all'uomo anche il dominio sulla natura. L'affermarsi di questa mentalità operativa è all'origine di una vera e propria rivoluzione nel pensiero moderno. È stato un evento epocale che per la sua portata ha prodotto profonde trasformazioni culturali.

Il nuovo Prometeo • Alcuni studiosi contemporanei, come Margaret Jacob (1943-), hanno posto anche l'accento sulle implicazioni sociali della nuova scienza, evidenziando i nessi fra il diffondersi delle nuove idee e l'affermarsi dei nascenti ceti della borghesia mercantile. Intenta alla costruzione di un mondo nuovo, la società moderna avrebbe rincorso il sogno di un'altra età dell'oro, illudendosi di potersi emancipare una volta per tutte dai bisogni della sfera naturale. Una nuova generazione di titani (coloro che sfidarono gli dei) è stata così celebrata e identificata nella figura dello scienziato moderno, descritto anche come un nuovo Prometeo, l'eroe greco che ha rubato il fuoco della tecnica e cambiato il mondo. Il confronto col pensiero rinascimenta!e • Senza dubbio la nascita della nuova scienza è stata preparata dall'Umanesimo e dal Rinascimento, ossia dalla rottura col Medioevo e dalla riscoperta del va-

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lore fattivo dell'uomo. Ma a differenza di quanto era accaduto per il pensiero rinascimentale, il moderno pensiero scientifico non intende contrapporsi soltanto al Medioevo, ponendosi in antitesi anche con l'antichità. Infatti, una caratteristica generalmente riconosciuta alla scienza moderna è la rottura con ogni autorità del passato. Ancora Bacon ma anche Galileo Galilei (1564-1642) hanno contrapposto, al rispetto verso la tradizione, l'importanza dell'esperienza diretta; hanno alimentato la polemica verso la cultura pedante e, soprattutto, hanno sostenuto la fiducia dell'uomo moderno rispetto al compito di costruire un modello di verità basato su nuovi parametri conoscitivi, quali l'osservazione e la verifica sperimentale. A differenza di tanta filosofia rinascimentale, gli scienziati moderni hanno poi rifiutato la concezione magica della realtà, tesa a sovrapporre, a loro giudizio, caratteristiche e aspettative umane alle leggi proprie e specifiche che sono della natura. Le potenti immagini filosofiche di Giordano Bruno e di Tonunaso Campanella che dipingevano un universo animato, identico a un grande organismo vivente, vengono così tacciate di antropomorfismo e progressivamente sostituite dall'idea di un mondo sempre più pensato come un meccanismo, per quanto complesso e sofisticato. A partire dalla seconda metà del XVI secolo, fino agli inizi del XVIII, Galilei, René Descartes (latinizzato in Cartesio, 1596-1650) e Isaac Newton (16421727) hanno contribuito a costruire la macchina newtoniana del mondo; hanno riconosciuto, cioè, in quella che poi diverrà la fisica classica un'inm1agine che esprime una visione del mondo e una teoria capace di giustificare la forma della verità scientifica. Un'idea condivisa dalle generazioni che si sono susseguite fino alle soglie dell'epoca contemporanea, avanzata superando ostacoli, resistenze ed esplicite condanne, e vissuta nella forma del conflitto possibile tra ragione e fede, religione e scienza.

La concezione matematica del movimento Il moto secondo gli antichi (e i moderni) • Il senso della rivoluzione scientifica all'interno della storia del pensiero occidentale va ricostruito soprattutto attraverso gli strumenti concettuali che hanno reso possibile la fondazione di una meccanica ra-

zionale, ovvero una concezione matematica del movimento. La scienza moderna si afferma infatti soprattutto grazie a una nuova concezione del moto. Nel pensiet·o scientifico degli antichi, a parte la rilevante eccezione degli atomisti, Democrito, Epicuro e Lucrezio, le cui riflessioni troveranno per altro ascolto e seguito tra i moderni, il moto ha avuto scarsa rilevanza ed è stato talvolta un tema problematico. Così se Eraclito ha ritenuto che tutto fosse in continuo moto e divenire, la scuola eleatica ha considerato invece irreale e apparente il mutamento. Più in generale, gli antichi hanno solitamente concepito il moto come un processo di cambiamento che investe i cot·pi, distinguendolo dalla quiete. In particolare, nella fisica di Aristotele a guidare il processo del mutamento sono le forme, ossia un mondo di essenze immutabili qualitativamente definite, che operano all'interno della materia ponendo in atto potenzialità già presenti nei corpi stessi. Unanime tra i fautori della scienza moderna è invece il rifiuto di tutto questo apparato metafisica di qualità e facoltà occulte nascoste, costituenti ultime della realtà materiale. Nel pensiero moderno, molte proprietà dei corpi divengono invece effetti e non principi del mutamento, il quale, nella valenza di spostamento locale, acquista la dignità di status permanente e indistruttibile come la quiete. Se gli antichi tendevano a separare il mutamento qualitativo (il cambiamento, come l'accrescimento ecc.) di un corpo dal suo movimento locale (il suo spostamento nello spazio), il pensiero moderno prova invece a ricondurre a quest'ultimo ogni fenomeno. I moderni scienziati comprendono cioè che moto e quiete non esistono nei corpi, ma che i corpi si trovano nello stato di quiete o di moto. È Galilei a sottoporre per la prima volta in maniera sistematica il movimento dei corpi a misurazione matematica. Egli considera il moto una quantità misurabile, una grandezza oggettiva, derivante dal rapporto fra peso e velocità. Sempre Galilei, attraverso una distinzione già rinvenibile nell'antica tradizione atomistica, e destinata a godere di un i1Jdiscusso successo nell'era della rivoluzione scientifica, sostiene che i corpi manifestano alcune pt·oprietà che sono da ritenersi oggettive, di contro a proprietà che sono invece puramente soggettive. Del primo genere sono la grandezza, la figura e, appunto, il movimento che sono davvero attribuibili ai corpi; soggettive sono invece proprietà come colori, suoni, odori, sensa-

zioni tattili, che sono in atto soltanto nel nostro senso. Le proprietà oggettive dei corpi sono qualità misurabili, quantificabili, riconducibili alla geometria e a un numero in grado di dare dimensione precisa, calcolabile. Il compito della scienza • Attraverso lo studio del movimento, dagli scienziati moderni i corpi vengono elevati così a oggetto privilegiato di indagine per le loro proprietà quantitative, misurabili. Una volta espunte le forme aristotelico-scolastiche, la materia, concepita nelle sue parti costitutive - atomi o corpuscoli-, assurge così alla dignità di sostanza. La ripresa di antiche teorie corpuscolar-atomistiche della materia riesce anche a saldare nel pensiero dei moderni fisica e matematica. La tradizione aristotelica, invece, concepiva gli enti matematici come astrazioni incapaci di moto, distinguendo gli oggetti fisici e materiali dai solidi studiati in geometria. Ricondotta adesso la materia a una sostanza omogenea, delle quattro cause aristoteliche (materiale, formale, finale, efficiente) rimane soltanto la causalità efficiente a costituire per i moderni un paradigma genuino della conoscenza scientifica, la quale concepisce ogni evento come un fenomeno di urti tra corpi eli diversa forma e grandezza in movimento. La scienza non indaga più quale sia il fine di un evento, non pretende di risalire alla sua essenza, non presuppone differenze qualitative nella sua materia. La scienza ha il compito esclusivo di scoprire come un evento accada, la legge che lo governa, e la fisica, una volta pensata come una meccanica, uno studio di corpi in movimento e in urto tra di loro, consente di determinare le diverse dimensioni del movimento e di rappreseptarle matematicamente e geometricamente per mezzo di li11ee. Un simile processo avviato da Galileo, proseguito da Descartes, è completato da Newton, che conferirà una compiuta forma matematica alle leggi del moto nei Philosophia naturalis p1·incipia mathematica.

La rivoluzione astronomica Oltre l'universo dei pressappoco • L'astronomia è l'ambito di ricerca dove per la prima volta si afferma il paradigma della precisione, ossia l'incontro tt·a filosofia della natut·a e matematica, che è stato capace di scardinare un'intera concezione del mondo.

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L'interesse per la struttura dell'universo, nel corso dei secoli XVI e XVII, è un tratto comune nei percorsi di ricerca di molti studiosi. n pensiero astronomico, man mano che il sapere della tradizione mostra i suoi limiti, diventa un terreno di scontro, anche tragico e drammatico, fra antico e moderno. Inizia Niccolò Copernico (1473-1543), la cui opera si radica ancora nel clima culturale del Rinascimento europeo, avanzando un'ipotesi eliocentrica, che pone il Sole e non più la Terra al centro dell'universo. Continua Tycho Brahe (1546-1601) mettendo in discussione, con le sue osservazioni e le sue teorie, l'esistenza di sfere cristalline eteree su cui ruoterebbero i pianeti e le stelle fisse. Prosegue Giovanni Keplero (15711630) definendo, tra l'altro, ellittica e non circolare l'orbita dei pianeti. Finirà Newton uniformando velocità, massa e distanze tra pianeti attraverso una legge di gravitazione universale, valida tanto nel mondo celeste quanto nel mondo terrestre. Nel frattempo le osservazioni col cannocchiale eli Galilei avevano suggerito conferme dell'ipotesi copernicana, avevano aperto la profondità degli spazi celesti e avevano incrinato l'idea della loro perfezione e della loro differenza sostanziale dal mondo terrestre.

L'unificazione del mondo fisico • L'astronomia costituisce così uno dei primi e più importanti capitoli della più generale rivoluzione del pensiero scientifico, perché è in essa che il pensiero matematico si dimostra inizialmente più dirompente: non soltanto un modello astratto ma anche capace eli trasformare l'intera immagine del cosmo. Ciò che appare sempre più chiaro negli studi sulla struttura dell'universo, e che giustifica il crescente interesse di scrittori e lettori, è infatti la contrapposizione di due distinte nozioni di realtà. Da una parte, gli antichi riconoscevano quale niondo reale un tutto finito e ordinato gerarchicamente. Una realtà in cui la disposizione dei corpi celesti rispondeva a un concetto eli armonia e l'ordine delle cose del mondo aveva un fondamento ontologico e ogni cosa occupava un posto nel mondo in base al proprio essere. La determinazione delle differenze specitìche aveva un carattere qualitativo: così l'universo era finito, conosceva un alto e un basso, luoghi perfetti e luoghi imperfetti, enti mutabili e immutabili. Dall'altra, invece, il pensiet·o moderno ha prodotto una nozione di realtà improntata su diversi parametri concettuali. Ha progressivamente introdotto l'idea di un universo aperto, sostituendo l'armo-

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nico simbolo della sfera con il concetto matematico dell'infinito. In tale universo si è scoperto che gli elementi non sono tenuti insieme dalla struttura materiale del mondo, ma dalle leggi matematiche. La realtà del moderno universo, inoltre, è stata unificata, sistemando tutti i componenti del cosmo sul medesimo piano fisico, di contro alla tradizione aristotelica che separava le sfere celesti, perfette, cristalline, incorruttibili e in moto circolare, dal mondo sublunare, luogo del cangiamento, dei moti violenti, rettilinei e imperfetti. Nel nuovo concetto di realtà, fisica celeste (l'astronomia) e fisica terrestre diventano interdipendenti ed entrambe vengono subordinate alla matematica e alla geometria.

Una rivoluzione nelle coscienze • n 1543, l'anno in cui apparve il De revolutionibus orbium coelestiwn (Le rivoluzioni dei co1pi celesti) di Copernico, è la data che potremmo assumere come contrassegno dell'inizio di una nuova era. L'ideale della precisione proprio della matematica, infatti, non solo ha fornito all'astronomo polacco gli strumenti per formulare una teoria rivoluzionaria nel campo astronomico. Questo ideale ha investito anche il pensiero e la cultura, contribuendo alla nascita di un uomo nuovo, spodestato dal centro dell'universo e costretto a prendere atto che le sfere celesti non ruotano soltanto per lui. Un uomo che ha saputo trovare nuovi strtlmenti per esercitare il proprio dominio sulle cose. I presupposti teorici che inducono Copernico a cambiare di posto ai corpi celesti sono quelli che producono una vera e propria rivoluzione anche nelle coscienze. n superamento del geocentdsmo e dell'antt·opocentdsmo, con il passare degli anni, produce trasformazioni di grande portata nell'ambito della metafisica e della teologia. L'uomo, scalzato dal centro del mondo, disorientato rispetto alla detenninazione dell'alto e del basso, del bene e del male, acqùista un nuovo criterio per orientarsi, fondandosi sui concetti resi disponibili dal pensiero matematico. n calcolo e l'esatta misurazione favoriscono il radicarsi di una teoda della conoscenza che consente la previsione dei fenomeni. Il nuovo paradigma è costruito sulla capacità di previsione, la capacità, cioè, di fondare la verità sulla base di nozioni definite e controllate dall'intelletto, che costituisce non solo l'ideale della scienza, ma anche il nuovo criterio di orientamento seguito dall'uomo moderno per conferire senso e valore alle cose.

L'esperienza e il metodo L'esperienza non è accumulo di memoria • Aristotele aveva inteso l'esperienza come un sapere che si è accumulato nella memoria, come un deposito nel quale si è sedimentato il nostro vissuto. Ancora contro Aristotele e la tradizione, la scienza moderna approfondisce e delinea una nuova concezione dell'esperienza. Due strade sono state seguite dai filosofi moderni: l'una ha svalutato l'apporto dei sensi; l'altra ha valorizzato il momento ossetvativo, sperimentale. Così, se Descartes ha delineato un metodo che ha fatto leva interamente sulla ragione e l'intelletto, sul modello intuitivo e deduttivo delle matematiche, Bacon, Galileo e Newton hanno difeso invece una concezione della scienza fondata anche sull'osservazione, conferendo alla scienza fisica quel carattere sperimentale che ancora oggi la contraddistingue. l'esperienza e il procedimento induttiuo • Nel Novwn Organum del1620, Bacon ha difeso il metodo induttivo, che dal senso e dall'analisi del particolare giunge a conclusioni universali, individuando una serie eli procedure di controllo e verifica sperimentali. Per Bacon, il nuovo incarico attribuito alla scienza consiste nel superare l'idea metafisica dell'armonia dell'universo e l'ingenua pretesa eli esprimere l'unitaria visione fra pensiero e realtà, magari partendo da un'intuizione originaria, una visione universale e necessaria della totalità delle cose. Il compito della scienza si realizza solo se il pensiero acquista consapevolezza eli sé e della sua attività. Per questo Bacon ci invita a distinguet·e l'immediata percezione sensibile della realtà, che dà luogo soltanto a una casuale e passiva riproduzione della realtà stessa, dalla pt·ocedura coscientemente e metodicamente costruita per controllare i fenomeni della natura.

Esperienza: scienza opposta alla metafisica • Un concetto ancor più scientificamente maturo di esperienza, inteso più propriamente come misurazione e controllo, emerge dalle riflessioni galileiane sviluppate all'interno dell'Accademia del Cimento.

L'istituzione scientifica, fondata a Firenze nel 1657 da Leopolclo de' Medici, costituiva lo sviluppo logico e naturale dell'insegnamento eli Galilei. Lorenzo Magalotti (163 7 -1712), in qualità eli segretario dell'Accademia, curò la pubblicazione dei Saggi dinaturali esperienze, avvenuta nel 1667 in concomitanza con la cessazione delle attività. In quest'opera, che raccoglie una serie eli esperimenti eseguiti nell'Accademia e poi descritti e commentati, viene celebrata la comune metodologia di ricerca, che consiste nel limitarsi acl accertare le relazioni fra i fenomeni oggetto eli indagine, tralasciando, invece, le questioni relative alla loro genesi. Le esperienze naturali condotte dagli accademici e descritte nel volume, escludendo ogni implicazione eli tipo metafisica, mirano all'accertamento esclusivo di quegli aspetti della realtà che possono essere quantificati e misurati. Gli esperimenti riguardano, per esempio, le costanti della temperatura eli glaciazione e di evaporazione dell'acqua, le connessioni fra il grado eli impurità dell'acqua e la variazione della temperatura eli glaciazione, il rapporto volumetrico fra acqua e ghiaccio, le variazioni indotte dal clima nel tubo torricelliano o barometro, gli effetti fisiologici legati al variare della pressione atmosferica. Tutte le ossetvazioni e le verifiche sperimentali rifuggono da ogni tipo eli approfondimento speculativo. Gli scienziati della scuola galileiana non sono interessati ad approfondire la nozione di sostanza o causa prima, non sono cioè interessati ad appurare né l'esistenza di un sostrato universale comune a tutte le cose che sono, né se c'è un Dio che ha creato e governa le cose del mondo. La messa al bando della metafisica sicuramente è legata alla volontà di evitare polemiche di natura filosofica teologica, ma è anche la conseguenza del nuovo modello di scienza che si afferma nella ricerca. Oltre al metodo sperimentale, Galileo ha perfezionato anche la procedura ipotetico-deduttiva della fisica, che muove dall'osservazione alla formulazione in termini matematici di un'ipotesi, dalla quale dedurre conclusioni verificabili sperimentalmente. Una sintesi perfetta di induzione baconiana, metodo galileiano e trattazione matematica troverà forma nell'opera di Newton, mediante osservazioni, esperimenti, formule geometriche e leggi naturali espresse in numeri.

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Copernico e la matematica del cielo 1 . La nascita del cielo ccmodernrm

Il sistema aristotelicn-tolemaico

A. Cellario, Harmonia Macrocosmica, 1660-61, carta che mostra i segni dello zodiaco e il sistema solare con il mondo al centro, Berlino,

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Eliocentrismo e geocentrismo Il merito riconosciuto unanimemente a Niccolò Copernico è di aver "lanciato» la Terra in cielo. La sua tesi, suffragata da una serie di dimostrazioni condotte attraverso il calcolo matematico, raccolte e pubblicate nel De revolutionibus orbium coe!estium, nel1543, prevede che il Sole sia il punto di riferimento del sistema dei pianeti e la Terra come gli altri corpi celesti giri intorno ad esso. Questo nuovo modello astronomico eliocentrico (dal greco hélios, «Sole>>), susciterà una rivoluzione culturale, la fine di un mondo, la nascita di un mondo nuovo. La rappresentazione copernicana del cosmo rovescia infatti un'antichissima concezione, sostenuta da generazioni di astronomi e ingegni illustri del passato che Claudio Tolomeo (II sec. d.C.) aveva raccolto e sistemato in un'opera conosciuta come Almagesto, e per questo detta «teoria tolemaica... Il sistema tolemaico o geocentrico rappresenta l'insieme dei pianeti racchiusi all'interno del cielo delle stelle fisse, l'ottavo cielo, nel quale si muovono in circolo, insieme al Sole, intorno alla Terra, immobile, al centro di tutto.

A. Cellario, Hanno-

nia Macrocosmica, 1708, il planisfero secondo Copernico, Berlino, Staatsbibliothek.

La teoria goecl.mti•ica e le sue im!ilicazioni fisiche ...

... teologiche e antropologiche

La teoria geocentrica nei suoi uspetti 11roblematici

Nella concezione scientifica del tempo, all'astronomia tolemaica si univa la descrizione dell'universo proposta dalla filosofia di Adstotele, che distingueva tra un mondo tet·t·estre, regno del mutamento e del divenire composto dai quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco), e un tnondo celeste, incorruttibile, costituito da una quinta essenza, cristallina e inalterabile. Se i cieli si muovevano di moto perfetto, circolare ed eterno, sulla Terra, di per sé immobile, i corpi seguivano invece movimenti imperfetti, lineari e destinati a terminare nella quiete. Di questo genere erano sia i movimenti nat01~ali, verso il basso dei corpi più pesanti (terra e acqua) o verso l'alto di quelli più leggeri (aria e fuoco), sia i movimenti violenti generàti da una forza, da un «impeto", capace di vincere la pesantezza o la leggerezza e strappare i corpi dalla quiete del loro luogo naturale. Questa concezione cosmologica, che saldava l'astronomia di Tolomeo alla fisica di Aristotele, non solo trovava conferma nelle Sacre Scrittut·e, ma aveva costruito nel tempo anche un sodalizio perfetto con la teologia e l'antropologia cristiane, ponendo l'uomo al centro del creato, in un luogo tuttavia imperfetto e lontano da Dio, rappresentazione esemplare della caduta, del peccato, ma anche della possibile speranza nel riscatto e nella salvezza. A muovere gli interessi di Copernico sono soprattutto gli aspetti prettamente astronomici del geocentrismo, ossia le misurazioni e i modelli di calcolo matematici che devono giustificare i fenomeni celesti. Del resto, se le idee costitutive della teoria geocentrica, ovvero la centralità della Terra e il moto del Sole intorno ad essa, sembravano aderire naturalmente al senso comune e all'esperienza quotidiana, il sistema astronomico che le spiegava unitamente al moto complessivo di tutti gli altri corpi celesti era tutt'altro che semplice. Infatti, il geocentrismo anelava incontro ad alcuni problemi cui si era cercato di rimediare ricorrendo a complicati modelli matematici, capaci di spiegare le anomalie del moto dei corpi celesti.

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A partire da questi studi, dall'analisi dei dati disponibili, Copernico avrà allora il genio di intuire che proprio l'ipotesi eliocentdca, assumendo il Sole come centro e la Terra in moto intorno ad esso, semplifica alcuni calcoli e risolve in modo brillante le principali difficoltà intorno alle quali si erano arrovellati gli astronomi antichi e medievali.

2.

Gli erranti spiegati mediante modelli matematici l'astronomia tolemaica • Copernico eredita dalla tradizione un sapere complesso

Le stelle fisse

Le ~------------------------------------------------

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La prima e la seconda regola hanno lo scopo eli limitare le cause alle quali possono essere ricondotti i fenomeni. E comunque le cause naturali devono essere espt·esse come quantità matematiche. • La terza regola parla delle qualità dei corpi: Le qualità dei corpi che non possono essere aumentate e diminuite, e quelle che appartengono a tutti i corpi sui quali è possibile impiantare esperimenti, devono essere ritenute qualità di tutti i corpi. I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, p. 603

La massa non è il peso

Qualità dei corpi sono l'estensione, la durezza, la mobilità, la massa o quantità di matet"ia. Si tratta di proprietà che noi percepiamo con i sensi. Le percezioni ci permettono di coglierle in relazione ai singoli oggetti, mentre l'esperimento garantisce riguardo alla generalizzazione anche alle particelle più piccole di materia che sfuggono ai sensi. Appurato che esistono proprietà che appartengono ai corpi in generale, tra di esse Newton non include la gravità: la gravità non è essenziale ai corpi, perché diminuisce man mano che ci si allontana dalla Terra. Ciò permette a Newton di distinguere anche tra la massa e il peso di un corpo, che è una forza variabile.

Ogni ipotesi è sottoposta alla regola dell'induzione

• La quarta regola riguarda l'induzione: Nella filosofia sperimentale, le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni devono, nonostante le ipotesi contrarie, essere considerate vere o rigorosamente o quanto più possibile, finché non interverranno altri fenomeni, mediante i quali o sono rese più esatte o vengono assoggettate ad eccezioni. I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, p. 606

Questa regola si rende necessaria, spiega Newton, affinché l'argomento dell'induzione non sia superato mediante ipotesi non supportate da verifiche sperimentali. È evidente che le regole servono a guidare il ragionamento filosofico. In modo particolare bisogna evitare che la verità delle proposizioni venga accertata attraverso la deduzione, ricavandola da altre proposizioni più generali prive di riscontro. Il criterio che garantisce la verità nella filosofia sperimentale riguarda esclusivamente l'interazione tra i fenomeni.

li Ilio pantoc1•atore

l corpi celesti, la legge di gravitazione e Dio • Subito dopo nel libro vengono descritti i fenomeni che riguardano i corpi celesti e cioè la rotazione di satelliti intorno a Giove o a Saturno, il moto dei pianeti intorno al Sole, l'orbita della Luna intorno alla Terra. Quindi, attraverso le Proposizioni, si dimostra che la gravità, la forza centripeta dei corpi celesti, che decresce in proporzione al quadrato delle distanze dai centri, è in grado di spiegare tutti i fenomeni conosciuti. Molte delle Proposizioni sono dedicate allo studio della Luna e al suo influsso sulle maree. Nell'ultimissima parte, infine, Newton si occupa anche della teoria riguardante le comete. Il libro si chiude con lo Scolio Generale, inserito nella seconda edizione, in cui emergono due temi fondamentali: da una parte, la concezione di Dio e, dall'altra, l'autonomia della scienza. Dio, secondo Newton, non è anima del mondo, ma signore dell'univet-so. La nozione del Dio pantocratore (dal greco pantokrator, «onnipotente,) è l'unica adeguata all'immagine matematica, meccanica e fisica del mondo emersa in queste pagine. Il Signore che regge il mondo, come si può osservare in tutti i mosaici bizantini e in molte altre raffigurazioni medievali, è la sola nozione teologica capace di integrarsi con la spiegazione scientifica dei fenomeni celesti. Come scrive Newton, Dio è la forza ot·dinatrice intelligente che tiene il mondo, lo conserva, lo governa:

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Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere senza il disegno e la potenza di un ente intelligente e potente. E se le stelle fisse sono centri di analoghi sistemi, tutti questi, essendo costruiti con un identico disegno, saranno soggetti alla potenza dell'Uno[. . .]. Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come signore dell'universo. E a causa del suo dominio suole essere chiamato Signore-Dio, pantokrator. I. Newton, Principi matematici di filosofia naturale, p. 792

Dalla fisica alla nmtafisica

G.

Prima parte: lo studio della rift·azione

Seconda parte: la tem•ia dei colori ~

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Newton sostiene inoltre nello Scolio di aver spiegato i fenomeni del cielo e del mare mediante la forza di gravità, ma di non aver fissato la causa della gravità: questa forza che nasce da qualche causa penetra fino al centro del Sole e dei pianeti. L'idea del Dio pantocratore che regge tutto l'universo è solo un'ipotesi sulla forza che regola l'universo. E questo procedimento non ha valore dal punto di vista della scienza. Un'ipotesi non può essere addotta come condizione necessaria e sufficiente per spiegare un fenomeno della dinamica, ovvero di quella parte della fisica che si occupa delle relazioni fra le forze. Il ricorso alla causalità divina rappresenta perciò uno sconfinamento nel campo della teologia e della metafisica. La scienza trova un suo limite nel suo metodo e non può sostituirsi alla metafisica e alla teologia. Dal punto di vista del metodo, il rigore dell'indagine scientifica è dunque fatto salvo, nonostante le aperture alla teologia. In verità, scrive Newton, non è possibile ricavare dai fenomeni la causa della gravità. Perciò si tratta solo di finzioni. È questo il luogo in cui è contenuta la famosa affermazione: hypotheses nonfingo («non fingo ipotesi»), Qualunque cosa, infatti, non derivabile dai fenomeni va chiamata ipotesi. E le ipotesi non trovano posto nella filosofia sperimentale.

Luce e colore le lezioni di ottica • In seguito alla nomina di professore di matematica presso l'Università di Cambridge, Newton decide di approfondire alcune intuizioni già elaborate negli anni della peste e del suo ritiro a Woolsthorpe. Tra il1669 e il1671, le sue lezioni sono dedicate allo studio dell'ottica, anche per tributare un doveroso omaggio a Isaac Barrow, che a questa materia aveva fornito contributi recenti e che si era dimesso dalla cattedra per !asciargli il posto. Il risultato di tale lavoro fu raccolto nell'Ottica del1704 e poi nelle Lezioni di ottica, un'opera pubblicata postuma nel1729, divisa in due parti. La prima è articolata in quattro sezioni e tratta: a) le rifrazioni dei raggi di luce; b) la misura delle rifrazioni; c) le rifrazioni dei piani; d) le rifrazioni delle superfici curve. La seconda parte è intitolata Origine dei colori ed è composta di una sola breve sezione nella quale viene esposta la dottrina dei colori, provata mediante esperimenti con i prismi. Nella prima parte, prendendo le mosse dalla recente invenzione dei telescopi, si mette in evidenza il problema delle aberrazioni. Muovendo dal presupposto che non tutti i raggi della luce hanno la stessa rifrangibilità, Newton spiega perché l'estremità circolare di alcune immagini appaia confusa. In un sistema ottico, una lente o uno specchio sferico possono inoltre condurre i raggi di proiezione verso due fuochi distinti. Da qui l'esigenza successiva di approfondire anche la misura delle rifrazioni, considerando innanzitutto l'angolo di rifrazione e successivamente il piano e la superficie curva. La seconda pa1te si occupa dell'abet"t·azione cromatica. Quanti si dedicano alla fabbricazione di telescopi, scrive Newton, si lamentano dei colori che assumono gli oggetti visti attraverso questi strumenti. Considerando questo problema, egli elabora una

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La

CIIUSII

del colm•e

Lo spetti'D della luce

Natura matematica e geometrica del colore

nuova teoria della luce e del colore. A lui si deve l'invenzione del prisma tt·aspat•ente che consente la scomposizione della luce bianca nei colori dell'iride. Quelli che si sono occupati finora dei colori, dichiara Newton, lo hanno fatto con superficialità, come i peripatetici che si sono limitati a indagarne le forme. Sulla scorta degli insegnamenti aristotelici hanno classificato i colori in base a un criterio acromatico: la chiarezza. Il sistema ha sì permesso di comprendere tutti i colori all'interno di una gamma che va dal bianco al nero e di considerare, per esempio, il giallo come il colore più luminoso, ma non ha sviluppato un'adeguata ricerca intorno alla vera natura del fenomeno e nemmeno ha spiegato perché i colori siano così tanti. La classificazione dei colori in base alla chiarezza permette di dire soltanto che un colore è il risultato di una combinazione che ha incorporato una maggiore o minore quantità di bianco o di nero. Ma sostenere che alcuni colori sono più o meno luminosi di altri non è sufficiente a spiegare come si sono prodotti. Aristotele ha ritenuto il colore l'estremità visibile di un corpo determinato, dando una definizione, osserva Newton, che riguarda la superficie colorata e non il colore. Solo la superficie può essere infatti definita l'estremità visibile di un corpo, mentre il colore spesso si vede anche là dove non c'è tale estremità come, per esempio, accade nell'iride, nel prisma, nel vetro e nei liquidi trasparenti. L'acqua del mare che presenta un colore verde non ha tale cromatismo a causa della superficie, bensì della massa. Allo stesso modo l'aria, che è trasparente e non è delimitata da alcun corpo denso, appare tuttavia di colore azzurro. Secondo Newton la causa del fenomeno così come della varietà dei colori si spiega solo a partire dall'angolo di incidenza della luce; e a diversi angoli corrispondono differenti colori. Newton sostiene che la luce non è infatti omogenea, bensì composta da raggi colorati, ognuno dei quali ha un angolo di rifrazione diverso. Avanzando una prova sperimentale, Newton mostra che un fascio di luce bianca può essere scomposto gt·azie a un prisma in uno spettro di luce colorata. Ogni raggio conserva sempre e soltanto quel tipo di colore che è suo per natura e produce un colore diverso solo se si mescola con un altro raggio, mentre il bianco e il nero, così come tutta la gamma dei grigi intermedi, sono costituiti dalla mescolanza di tutti i tipi di raggi. Inoltre, contro la prevalente teoria ondulatoria della luce, difesa da Descartes e da Christiaan Huygens (1629-1695), Newton avanza un'ipotesi corpuscolarista di spiegazione del fenomeno. l colori e la scienza • La teoria newtoniana sulla luce e il colore ha prodotto due importanti conseguenze: una investe l'epistemologia, l'altra l'estetica. Per quanto riguarda la prima, Newton ritiene che la ricerca intorno alle cause che producono i colori coinvolga così da vicino la geometria che lo studio dei colori va ad ampliare il campo di quelle discipline che costituiscono la matematica applicata. Come l'astronomia, la geografia, la navigazione, l'ottica e la meccanica, anche lo studio dei colori merita dunque di essere incluso nell'ambito della matematica. La seconda conseguenza riguarda la potenzialità espressiva della luce. Nelle accademie, in età classica, il colore veniva pensato in termini di chiarezza: una certa quantità di chiaro e di scuro produceva un determinato tono e il valore del colore era considerato a partire dalla luce; così anche la resa pittorica veniva considerata in base al grado eli chiarezza dei toni. La scoperta di Newton, che infrange il paradigma fino allora corrente, ha rinnovato l'interesse per la luce solare. La nuova concezione della luce, intesa come mescolanza di molti colori, ha riproposto l'attenzione verso le regole che la governano e la possibilità di esprimere emozioni. Più di un secolo dopo, gli impressionisti, per esempio, avrebbero utilizzato la luce non per coprire le cose di un morto biancore, ma per rivestirle di vibranti contrasti, derivanti da ricche scomposizioni prismatiche.

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IL FILO CEL PENSIERO

La rivoluzione scientifica La nascita della scienza moderna 111

Copernico, Tycho Brahe, Keplero, Galileo, Bacon e Newton sono tra i protagonisti indiscussi della rivoluzione scientifica, un'epoca di scoperte, dì studio e dì ricerca, capace dì costruire un nuovo sapere, una nuova mentalità.

• Molti sono i temi che hanno accompagnato la nascita della scienza moderna: il più dirompente è la critica al principio di autorità, strettamente congiunta alla definizione dì una nuova pratica dì ricerca, l'esperienza scientifica, basata su Il' osservazione diretta e controllata dei fenomeni. Ma decisiva è stata anche l'idea che solo l'applicazione della matematica e della geometria possa fornire all'indagine strumenti precisi dì analisi. m

Per i moderni il moto diventa inoltre un dato originario e misurabile, concepibile matematicamente in relazione allo spazio e al tempo. l corpi sono indagati nelle loro proprietà quantitative di massa, peso, grandezza, figura, ipotizzando una struttura corpu-

dove per primo si afferma il paradigma matematico della precisione, producendo con Copernico il rovesciamento dì antiche, comuni e radicate convinzioni, suffragate da autorità sacre e profane. 111

Come dichiara nella lettera dedicatoria che apre il De revolutionibus, Copernico vuole fornire un sistema più semplice e più coerente di calcolo di quello finora utilizzato nell'astronomia tradizionale. Rinunciando all'assunto geocentrico e assumendo un'ipotesi eliocentrica, Copernico elabora una spiegazione dei moti celesti capace di r_isolvere brillantemente anche alcune delle anomalie osservabìlì nelle orbite dei pianeti, come i moti dì retrocessione.

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La grandezza di Copernico risiede nell'aver ribaltato il consueto punto di vista, attribuendo alla Terra un moto di rivoluzione intorno al Sole e di rotazione sul proprio asse.

w Tycho Brahe è un astronomo matematico, ma anche

un instancabile osservatore dì fenomeni celesti; nel 1577 studia il passaggio di una cometa, giungendo a ipotizzare l'inesistenza delle sfere concentriche cristalline previste dal sistema aristotelico-tolemaico. Tycho non aderisce però al copernicanesimo, avanzando un sistema cosmologico misto, che mantiene la centralità della Terra con la Luna suo satellite e prevede la rotazione degli altri pianeti intorno al Sole.

scolare o atomica della materia. m Tutti questi fattori hanno prodotto la progressiva di-

struzione del sapere tradizionale, uniformando il mondo celeste e il mondo terrestre nelle leggi universali e matematiche del moto della materia,

aprendo progressivamente la strada a una concezione omogenea di natura sempre più assimilabile a una macchina, di cui l'uomo deve spiegarne il funzionamento al fine di prevederne e controllarne gli effetti.

Copernico e la matematica del cielo 111

Il 1543, l'anno dì pubblicazione del De revo!utionibus orbium coe/estium dì Copernico, può essere assunto come la fine dì un'epoca e l'annuncio dì una nuova era. L'astronomia è infatti il campo dì ricerca

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Keplero mette a frutto la mole di osservazioni rac-

colte dal suo maestro Tycho Brahe. Nel 1609 e nel 1619, egli giunge a formulare tre celebri leggi: sulla forma ellittica delle orbite dei pianeti, sul movimento dei pianeti intorno al Sole e sui rapporti delle loro relative velocità. Con le sue leggi, Keplero distrugge la tesi antica e secolare della circolarità e dell'uniformità dei moti dei corpi celesti, legata alla supposta perfezione del mondo celeste, fornendo gli elementi matematici necessari alla successiva formulazione newtoniana della legge dì gravitazione universale.

Bacon e l'interpretazione della natura

termini dinamici, quale legge che struttura un ente secondo determinate qualità. La forma rimanda così alla composizione ultima della materia, alla sua struttura corpuscolare, ossia allo schema latente e al processo latente in atto nelle particelle al verificarsi di determinati fenomeni.

m Il contributo di Bacon alla rivoluzione scientifica è

stato fondamentale nell'elaborazione dell'idea stessa di scienza moderna e nella definizione del metodo dell'esperienza scientifica. Bacon ha indicato come fine della scienza l'interpretazione della natura, celebrando nella Nuova Atlantide (1627) il connubio tra scienza e tecnica, sapere teorico e sapere applicato. Oggetto della scienza è la conoscenza d~lle leggi che autonomamente governano la natura, da non confondere con ciò che riguarda invece il campo della fede e della morale, il cui fine è la salvezza umana e l'obbedienza alla volontà divina. (l

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Propedeutico all'opera di rifondazione della scienza, indicata dal Novum· Organum (1620), è il riconoscimento dei limiti delle facoltà umane e dei pregiudizi che affollano la nostra mente: se gli idoli della tribù appartengono all'intera specie umana, gli idoli della · spelonca riguardano invece l'educazione propria di ciascuno uomo; a loro volta, gli idoli del foro dipendono dalle parole che spesso ingannano, unitamente agli idoli del teatro, ossia alle costruzioni filosofiche tramandateci, piene di falsità e di saperi inutili.

Galileo e la nascita della scienza moderna l!l

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Una volta riconosciuti i limiti e i pregiudizi umani, occorre poi sbarazzarsi del metodo finora utilizzato nella scienza, che ha privilegiato il sillogismo deduttivo, improduttivo di nuove conoscenze e legato al mero significato delle parole. !1l

m Per Bacon il metodo della scienza deve servirsi invece dell'induzione, basata su di un rigoroso canone osservativo, che proceda per gradi e per eliminazione progressiva di ipotesi. Bacon avanza perciò l'utilità di tre tipi di tavole osservative: le tavole di presenza che registrano un certo fenomeno; le tavole di assenza che annotano invece il suo non verificarsi; le tavole di grado che misurano la sua differente intensità. Alla raccolta dei dati segue l'induzione vera e propria, definita «vendemmia», che elimina servendosi anche di opportuni esperimenti cruciali tutte le ipotesi possibili fino a confermare l'unica in grado di spiegare tutte le occorrenze del fenomeno. 111

w Fine dell'induzione è cogliere la forma di un fenomeno, ossia la sua essenza, da Bacon concepita in

La vita di Galileo può essere assunta a emblema della rivoluzione scientifica. La sfida lanciata al sapere tradizionale, fin dagli anni eroici delle sue scoperte astronomiche, la risposta difensiva degli ambienti conservatori culminata nella condanna e nell'abiura del 1633 costituiscono i momenti cruciali di una vita consegnata all'ideale di scienza come ricerca continua e spassionata. Le scoperte di Galileo al cannocchiale, pubblicate nel 161 O, nel Sidereus Nuncius, aprono un mondo, disegnano spazi indeterminati, osservano cose finora mai viste, nuovi pianeti e nuove stelle, le macchie solari e le asperità della Luna. Le osservazioni di Galileo irrompono contro l'idea di un cielo perfetto, composto di quinta essenza; il moto dei satelliti di Giove sembra inoltre confermare l'idea che la Terra possa davvero non essere il centro del mondo. Galileo aderisce al copernicanesimo, alla cui difesa teorica dedicherà più di vent'anni dopo uno dei suoi capolavori, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, del 1632, il testo che gli costerà la condanna da parte della Chiesa cattolica. In quest'opera, Galileo inscena una disputa tra un tolemaico e un copernicano, divisa in quattro giornate, in cui si affrontano temi non soltanto astronomici ma anche fisici e metodologici. Il Dialogo definisce così principi fisici e di metodo destinati a diventare cardini della meccanica classica, come il moto inerzia le, la composizione dei movimenti e la relatività dei sistemi di riferimento inerziali. Sul problema del rapporto tra scienza e fede, Galileo interviene già dal1613 con le lettere a Benedetto Castelli e poi a Cristina di Lorena. In esse egli difende

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l'autonomia della scienza, osservando come questa sia rivolta esclusivamente allo studio della natura, a differenza della fede che concerne la salvezza dell'anima. Scienza e fede sono due verità che giungono da Dio e che non possono contraddirsi: l'una è scritta nel «grande libro della natura» in caratteri geometrici e matematici; l'altra è stata rivelata nei testi sacri, accomodandosi all'intelligenza e al sapere umano. 111

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Galileo approfondisce anche il problema del metodo, che trova nel Saggiatore (1623) una formulazione teorica articolata. Secondo Galileo, la natura deve essere indagata attraverso l'esperienza attiva, l'osservazione controllata. Le «sensate esperienze» costituiscono la base per formulare ipotesi da restituire e svolgere (in linguaggio matematico) secondo «necessarie dimostrazioni». La matematizzazione della fisica procede attraverso lo studio delle proprietà quantitative dei corpi (la forma, la grandezza, il peso, la velocità) che sono oggettive, di contro a proprietà qualitative come colori, suoni ecc., che dipendono invece anche dai nostri organi di senso. Fin dai primi anni di insegnamento, Galileo si era dedicato anche e soprattutto allo studio del moto, indagando il moto rettilineo uniforme, accelerato, di caduta dei gravi e dei proietti. Tali studi troveranno sistemazione nell'ultima opera, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze del 1638, interamente costruita secondo un rigoroso metodo ipotetico-deduttivo: ipotesi suffragate dall'osservazione, misurate e tradotte in leggi generali matematiche da cui dedurre fenomeni particolari da sottoporre a verifica sperimentale.

Einstein e con gli sviluppi della meccanica quantistica, la scienza si è aperta a nuovi suggestivi orizzonti. E

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Con le tre edizioni del1687, del1713 e del1726, i Phi/osophiae Natura!is Principia Mathematica di Newton portano a compimento la rivoluzione scientifica moderna, fornendo una completa teoria fisica del mondo e un compiuto paradigma di scienza, destinati a diventare classici e a resistere per secoli, almeno fino al XX secolo, quando, con la dottrina della relatività di

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All'ipotesi atomistica, corpularistica della materia rimandano anche gli esperimenti di Newton, resi pubblici nel 1704, coi prismi sulla scomposizione della luce bianca in colori.

m l Principia costituiscono un trattato completo di mec-

canica razionale. Nel primo libro Newton fissa anzi-

tutto le tre leggi fondamentali del moto dei corpi nello spazio: il principio di inerzia, di proporzionalità tra accelerazione e forza e di azione e reazione. Dopo aver trattato del moto nei fluidi, il terzo libro è dedicato all'astronomia e alla gravitazione universale, la legge in grado di unificare in una sola formula matematica il moto dei corpi terrestri e dei corpi celesti, dando coerenza e unità fisica alla rivoluzione copernicana. m

Newton e la fisica classica m

Le principali scoperte di Newton sono immediatamente successive al 1665 e investono il campo della matematica, dell'ottica e della fisica. Il calcolo delle flussioni permette a Newton di gestire l'infinitamente piccolo, applicandolo allo studio del moto, che viene così ricondotto a parametri esclusivamente matematici. Spazio e tempo, definiti assoluti da Newton, sono le coordinate uniformi, fondamentali, che permettono di studiare la realtà del movimento stesso. Ai punti geometrici corrispondono infatti atomi fisici che si muovono nel vuoto, sottoposti alla legge di gravitazione universale.

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Il terzo libro contiene anche le regole del filosofare: da ricordare sono soprattutto la prima, che invita a non ricercare più cause di quante sono sufficienti a spiegare un fenomeno; la seconda che stabilisce l'uniformità tra cause ed effetti; la terza mette in guardia la scienza dall'avanzare ipotesi per semplice deduzione, congettura. Come pura ipotesi, lo Sco/io Generale, con cui si chiude il libro, indica in Dio, reggitore dell'universo, la causa intelligente, architettonica dell'ordine del mondo, aprendo così il campo autonomo e specifico della ricerca scientifica sperimentale a prospettive metafisiche e teologiche di ordine superiore.

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l problema del rapporto tra ragione e fede attraversa tutta la filosofia cristiana per esplodere ancora una volta nella prima età moderna con la nascita della nuova scienza. Il primo e principale campo di battaglia su cui fede e ragione giungono a fronteggiarsi è il copernicanesimo, una teoria che stravolge secoli di filosofia e eli teologia, mette in discussione autorità sacre e profane, costringe a ripensare il ruolo e la posizione dell'uomo nel cosmo. Così le discussioni della tarda antichità e del Medioevo sul primato della ragione o della fede, sulla loro armonia o sulla loro opposta verità, tornano di stringente attualità, uscendo fuori dal mondo accademico, universitario. Emblematiche al riguardo sono le posizioni di Bruno e Galileo, entrambi difensori del copernicanesimo, ambedue condannati dal Tribunale dell'Inquisizione pur con esiti dranu11atici diversi. Nelle sue opere Bruno si pronuncia talvolta a favore dell'esistenza eli una doppia verità, l'una di fede e l'altra, opposta, eli ragione. Ma simili dichiarazioni sembrano soltanto degli abili espedienti atti acl adombrare esiti che risultano tutti a discapito della fede. Con Bruno emerge piuttosto il primato della ragione, o meglio della filosofia sulla fede, intesa quest'ultima come credenza volgare, dogmatica nelle Scritture; Bruno è un portavoce di una religione filosofica appannaggio eli dotti e sapienti, che guarda alla religione volgare come a un'impostura,

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uno strumento utile a controllare, anunaestrare il popolo, che senza guida, non saprebbe distinguere il bene dal male. Libero da impacci teologici, da timori reverenziali nei confronti delle Scritture, nella Cena delle ceneri Bruno difende allora la teoria copernicana, andando ben oltre le prove matematiche proposte dal De revolutionibus, sostenenendo anche l'infinità dell'universo e dei mondi e l'inu11ensità dello spazio privo di sfere cristalline, percorso da innumerevoli astri dotati di moto autonomo. Articolata, complessa e più favorevole alla religione rivelata appare invece la posizione di Galilei, per come emerge nelle Lettere a Castelli (1613) e a Madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana (1615). Galilei, infatti, distingue chiaramante i rispettivi ambiti eli competenza, ritenendo fermamente la Scrittura come la suprema autorità nel campo della morale e della salvezza. Fede e ragione sono verità complementari, che possono perciò convivere in perfetta armonia: la ragione, o meglio la scienza, che Galilei va definendo attraverso il metodo delle «Sensate esperienze, e delle «necessarie dimostrazioni,, ha il suo primato nelle questioni naturali, ambito di pertinenza anche della teoria copernicana, la cui verità, secondo Galilei, finirà con l'imporsi nel tempo, trovando sempre più conferma in prove, osservazioni e dimostrazioni.

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Bruno: la superiore verità della filosofia Il brano liiiJ di Giordano Bruno è tratto dalla Cena delle ceneri, un'opera in volgare italiano pubblicata nel 1584 a Londra. Lo scritto si compone di cinque dialoghi, che ricostruiscono discljssioni e avvenimenti attorno a un banchetto immaginato dall'autore e che si sarebbe svolto l'anno precedente, il 1583, il primo giorno di Quaresima a Londra. l dialoghi trattano di astronomia e difendono la validità della teoria copernicana, delineando anche l'originale posizione cosmologica di Bruno, la sua concezione infinita dell'universo e del moto dei pianeti, visti come grandi animali. Nel quarto dialogo Bruno entra direttamente anche nel merito della questione del rapporto tra ragione e fede, su come debba essere interpretata la Scrittura e su quale sia la sua finalità. Molti sono i protagonisti dell'opera: nei passi proposti compaiono Smitho, un inglese curioso e aperto alle novità filosofiche proposte da Copernico, e Teofilo, seguace ed espositore delle tesi astronomiche di Bruno. Smitho interroga subito Teofilo sui passi della Scrittura che negano il movimento della Terra, ammesso invece da Copernico e da Bruno. In risposta, Teofilo sostiene che la Rivelazione ha come oggetto principale la morale, la pratica del dovere e non l'insegnamento della filosofia naturale ~11-11. Di seguito precisa anche che la Rivelazione si rivolge al volgo ignorante, al fine di ammaestrarlo alla virtù, mentre non parla al sapiente, all'uomo di contemplazione ~11 0-16. Smitho accoglie le osservazioni di Teofilo, avanzando il paragone con lo storico, il quale, se vuole essere capito dal suo pubblico, non deve inventare vocaboli nuovi, o non rispettare le regole della scrittura. Smitho concorda cosl con Teofilo nel ritenere la Scrittura indirizzata esclusivamente al volgo, ricordando, del resto, come il sapiente non abbia bisogno neppure di essere ammaestrato su quel che deve fare, su cosa sia la virtù, perché capace di riconoscerlo da solo, con la propria ragione ~117-28. Citando poi il teologo e filosofo islamico AI-Ghazali, Smitho conferma la tesi secondo cui la legge, i precetti che costituiscono l'oggetto delle Scritture non hanno di mira la verità ma il bene e la convivenza pacifica del popolo ~128-32. Per ottenere questo scopo, nelle materie che riguardano la pratica, gli autori dei libri sacri sarebbero stati perciò oltre modo sciocchi se non si fossero conformarti al linguaggio del volgo. Cosl, anche nei riguardi della questione astronomica, il testo sacro ha adottato il geocentrismo per semplificare le cose. Infatti, se la Scrittura avesse detto che la Terra gira, anziché rimanere ferma, la sua parola avrebbe rischiato di ottenere minore credito tra il volgo, perché contraria alla verità apparente dei sensi ~132-40. Teofilo riprende la parola osservando che il sapiente non deve tuttavia rinunciare a confrontarsi con le Scritture, anche se deve andare oltre il significato letterale delle Scritture e interpretare metaforicamente proprio quei luoghi, indifferenti, che non hanno valenza pratica per il volgo ~140-58. Smitho conclude però che una simile distinzione tra senso letterale e senso metaforico ha finito spesso col legittimare soltanto l'uso arbitrario dei seguaci pedanti («pappagalli») di Platone, Aristotele, Averroè, che hanno letto nelle Scritture tutto ciò che confermava delle loro dottrine ~159-68.

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Perché la divina scrittura (il senso della quale ne deve essere molto raccomandato come cosa che procede da intelligenze superiori che non errano) in molli luoghi accenna e suppone il contrario 1 . TEOFILO - Or quanto a questo credetemi che se gli dèi si fussero degnati d'insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la prattica di cose morali, io più tosto mi accostarci alla fede de le loro reveSMITI-IO -

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1. In particolare, il passo successivamente citato nel testo è tratto dall'Ecclesiaste (Qo 1,5-6), in cui è scritto: «Il Sole sorge e il Sole tramonta, si affretta verso il luogo dove risorgerà".

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l libri divini non trnttann di questioni naturali, bensì di pratiche mo••ali l'iuolgendnsi al vnlgn

llgni comunicazione deve esse1'e cnmmism•ata al livello di comp1•ensinne dell'interlocntol'e

Le leggi e i tlreceUi contenuti nei libri diuini mirano a scopi pratici, non speculativi

La Sc1•ittura ha adottato il geocentrismo pm• adattarsi nl volgo

Al unlgo non si deve parlare illingaugyin della verità

lazioni, che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti. Ma (come chiarissimamente ogn'uno può vedere) nelli divini libri in servizio del nostro intelletto non si trattano le demostrazioni e speculazioni circa le cose naturali, come se fusse filosofia: ma in grazia de la nostra mente et affetto, per le leggi si ordina la prattica circa le azzione morali. Avendo dumque il divino legislatqre questo scopo avanti gli occhii, nel resto non si cura di parlar secondo quella verità per la quale non profittarebbono i volgari per ritrarse dal male et appigliarse al bene: ma di questo il pensiero lascia a gli uomini contemplativi: e parla al volgo di maniera che secondo il suo modo de intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale2 • SMITHO - Certo è cosa conveniente, quando uno cerca di far istoria e donar leggi, parlar secondo la comone intelligenza, e non esser sollecito~ in cose indifferenti. Pazzo sarrebe l'istorico che trattando la sua materia, volesse ordinar vocaboli stimati novi, e riformar i vecchi; e far di modo che il lettore sii più trattenuto a osservarlo et interpretarlo come gramatico, che intenderlo come istorico. Tanto più uno che vuol dare a l'universo volgo la legge e forma di vivere, se usasse termini che le capisse lui solo et altri pochissimi, e venesse a far considerazione e caso de materie indifferenti dal fine a cui sono ordinate le leggi, certo parrebbe che lui non drizza la sua dottrina al generale et alla moltitudine per la quale sono ordinate quelle; ma a savii e generosi spirti, e quei che sono veramente uomini, li quali senza legge fanno quel che conviene: per questo disse Alchazele filosofo, sommo pontefice e teologo mahumetano\ che il fine delle leggi non è tanto di cercar la verità delle cose e speculazioni, quanto la bontà de costumi, profitto della civilità, convitto di popoli; e prattica per la commodità della umana conversazione, mantenimento di pace et aumento di republiche. Molte volte, dumque, et a molti propositi, è una cosa da stolto et ignorante, più tosto riferir le cose seconda la verità, che secondo l'occasione e comodità. Come quando il sapiente disse «Nasce il Sole e tramonta, gira per il mezo giorno, e s'inchina a l'Aquilone", avesse detto «La Terra si raggira a l'oriente, e si tralascia il Sole che tramante; s'inchina a dai tropici, del Cancro verso l'Austro, e Capricorno verso l'Aquilone,'', sarrebbono fermati gli auditori a considerare: «Come costui dice la Terra muoversi? che novelle san queste?"; l'arrebono al fine stimato un pazzo, e sarrebe stato da dovera un pazzo. [. .. l TEOFILO- [. .. ]Parlare con i termini de la verità dove non bisogna, e voler che il volgo e la sciocca moltitudine dalla quale si richiede la prattica abbia il particular intendimento, sarre be come volere che la mano abbia l'ochio: la quale non è stata fatta dalla natura per vedere, ma per oprare e consentire a la vista. [. .. ] Dove dumque gli uomini divini parlano presupponendo nelle cose naturali il senso comunmente ricevuto, non denno servire per autorità; ma più tosto dove parlano indifferentemente, e dove il volgo non ha risoluzione alcuna: in quello voglio che s'abbia riguardo alle paroli de gli uomini divini, anca a gli entusiasmi di poeti, che con lume superiore ne han parlato; e non prendere per metafora quel che non è stato detto per metafora e per il contrario prendere per vero quel che è stato detto per similitudine. Ma

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2. Il concetto principale, l'insegnamento più impoltante. 3. Attento. 4. Il riferimento è ad Al-Ghàzàli, vissuto tra i\1058 e il1111. 5. Si tratta del brano dall'Ecclesiaste: Aquilone, Cancro, Austro e Capricorno sono delle costellazioni.

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La necessità di distinguere

tra senso metaforico e leUel•nle

La distinzione t1•a metafora e senso

letterale è stata spesso utilizzata in maniera arbitraria

questa distinzione del metaforico e vero, non tocca a tutti di valeria comprendere: come non è dato ad ogni uno di posserla capire. [... ]E se ben considerate molti passi della scrittura divina, gli dèi e ministri de l'Altissimo son chiamati «acqui", «abissi", «terre", e «fiamme ardenti»: chi lo impediva che non chiamasse «corpi neutri, inalterabili, inmutabili>•, «quinte essenze,, «parti più dense delle sfere", «berilli", «carbuncoli", et altre fantasie de le quali, come indifferenti, niente manco il volgo s'at-rebe possuto pascere? SMITHO- [. .. ] se non che alcuni pappagalli d'Aristotele, Platone, et Averroe, dalla filosofia de quali son promossi poi ad esser teologi, dicono che questi sensi son metaforici, e cossi in virtÌ:l de lor metafore le fanno significare tutto quel che gli piace, per gelosia della filosofia nella quale son allevati. TEOFILO - Or quanto siino costante queste metafore, lo possete giudicar da questo che la medesma scrittura è in mano di Giudei, Cristiani e Mahumetisti; sette tanto differenti e contrarie, che ne parturiscono altre innumerabili contrariisime e differentissime, le quali tutte vi san trovare quel proposito che gli piace e meglio li vien comodo: non solo il proposito diverso e differente, ma ancor tutto il contrario; facendo de un «SÌ», un «non", e di un «non", un «SÌ"."

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G. Bruno, La cena delle ceneri, pp 91-95

Galileo: due ambiti distinti della verità Il brano lliJE§ll di Galileo è tratto dalla Lettera a Madama Cristina di Lorena granduchessa diToscana del1615 e affronta, sia pur con stile più accorto e con tono più deferente, i medesimi argomenti della lettera a Benedetto Castelli del1613, ossia la questione della «verità» copernicana in rapporto al tema fede-ragione. All'inizio Galilei ricostruisce i termini di una polemica apertasi coi professori e coi teologi più retrivi e tradizionalisti, già dalla pubblicazione del suo Sidereus Nuncius nel161 O. Egli rimanda infatti alle scoperte fatte col cannocchiale e alle reazioni di alcuni dotti che non vollero neppure provare a raccogliere la sfida della testimonianza dei sensi, ancorati pregiudizialmente com'erano alle loro opinioni. Anziché produrre prove o argomenti naturali, costoro, osserva Galielo, spostarono il confronto sul campo della Scrittura, servendosi della fede in maniera strumentale, capziosa ~11-15. Secondo Galilei il tempo ha però lavorato finora a favore della verità delle sue tesi, confermando la validità del copernicanesimo. Di seguito egli sintetizza la nuova concezione astronomica per sommi capi, mostrando come egli abbia tentato di dimostrarla, non solo ragionando contro TOiomeo e Aristotele, ma anche avanzando nuove osservazioni, prove fisiche proprie, alludendo alla teoria delle maree, già elaborata in quegli anni ~115-29. Galilei entra poi direttamente nel merito del rapporto fede-ragione, richiamando la teoria geocentrica, che i suoi avversari troverebbero confermata dalle Scritture. In risposta, egli nota, anzitutto, che i testi sacri, che sono parola di Dio, non possono mai errare, una volta bene interpretati, sapendo distinguere tra il loro significato letterale e il loro significato metaforico. Molte nozioni contenute nelle Scritture sono state usate infatti per accomodarsi al volgo e far sì che questi potesse avvicinarsi e comprendere la parola di Dio. Non bisogna dimenticare, del resto, che l'obiettivo delle Scritture è la salvezza e l'insegnamento morale, temi, questi, che riguardano ogni uomo ~130-68. Nelle questioni naturali, continua invece Galielo, le uniche autorità riconosciute sono le «sensate esperienze» e le «necessarie dimostrazioni». Ma, come ribadisce l'autore, su tutto ciò che è superiore alla ragione e va al di là di prove scientifiche, le Sacre Scritture hanno piena autorità e competenza ~169-99.

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le scoperte astronomiche e lo scocmtrn cnn la tradizione

Gli argomenti capziosi t1•aui dalle Scritture

La teoria copernicana

appare c!mfea•mata di!III'!IOIIlllllti

!li natUI'il fisica

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al geocentrismo e in qualità di pa••nla di Dio non può mentire

La Scrittura ua intee·pretata distinguendo b•a s11nsn

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Multe affe&•mazioni

delle Scritture sono state allattate

all'intendirmmto ili!l UDi!lll

·Io scopersi pochi anni a dietro, come ben sa l'Altezza Vostra Serenissima, molti particolari nel cielo, stati invisibili sino a questa età; li quali, sì per la novità, sì per alcune conseguenze che da essi dependono, contrarianti ad alcune proposizioni naturali comunemente ricevute dalle scuole de i filosofi, mi eccitarno contro non piccol numero di tali professori; quasi che io di mia mano avessi tali cose collocate in cielo, per intorbidar la natura e le scienze. E scordatisi in certo modo che la moltitudine de' veri concorre all'investigazione, accrescimento e stabilimento delle discipline, e non alla diminuzione o destruzione, e dimostrandosi nell'istesso tempo più affezionati alle proprie opinioni che alle vere, scorsero a negare e far prova d'annullare quelle novità, delle quali il senso istesso, quando avessero voluto con attenzione riguardarle, gli averebbe potuti render sicuri; e per questo produssero varie cose, ed alcune scritture pubblicarono ripiene di vani discorsi, e, quel che fu pilt grave errore, sparse di attestazioni delle Sacre Scritture, tolte da luoghi non bene da loro intesi e lontano dal proposito addotti[. . .] È accaduto poi che il tempo è andato successivamente scoprendo a tutti le verità prima da me additate[ ... ] Persistendo dunque nel primo loro instituto di voler con ogni immaginabil maniera atterrar me e le cose mie, sapendo come io ne' miei studii di astronomia e di filosofia tengo, circa alla costituzione delle parti del mondo, che il Sole, senza mutar luogo, resti situato nel centro delle conversioni de gli orbi celesti, e che la Terra, convertibile in se stessa, se gli muova intorno; e di più sentendo che tal posizione vo confermando non solo col reprovar le ragioni di Tolommeo e d'Aristotile, ma col produrne molte in contrario, ed in particolare alcune attenenti ad effetti naturali, le cause de' quali forse in altro modo non si possono assegnare, ed altre astronomiche, dependenti da molti rincontri de' nuovi scoprimenti celesti. [...] e però diffidando ormai di difesa, mentre restassero nel campo filosofico; si son risoluti a tentar di fare scudo alle fallacie de' lor discorsi col manto di simulata religione e con l'autorità delle Scritture Sacre, applicate da loro, con poca intelligenza, alla confutazione di ragioni né intese né sentite. [... ] Il motivo, dunque, che loro producono per condennar l'opinione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, è, che leggendosi nelle Sacre lettere, in molti luoghi, che il Sole si muove e che la Terra sta ferma, né potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne séguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra. Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento; il qual non credo che si possa negare essere molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole. Dal che ne séguita, che qualunque volta alcuno, nell'esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale, potrebbe, errando esso, far apparir nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, non meno affetti corporali ed umani, come d'ira, di pentimento, d'odio, ed anca tal volta la dimenticanza delle cose passate e l'ignoranza delle future; le quali proposizioni, sì come, dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozzo e indisciplinato, così per quelli che meritano d'esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi, e n'additino le ragioni particolari per

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La Scrittura ha di mira il culto di Dio e la sahnma dell'anima Nelle questioni naturali, autm·ità sono le e«!limsate esperienze» e le «dimost•·azioni necessarie»

Le Sacre Sc1•itture hanno piena autorità su tutto ciò che è al di là della portata della scienza

che e' siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa dottrina così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione alcuna. Di qui mi par di poter assai ragionevolmente dedurre, che la medesima Sacra Scrittura, qualunque volta gli è occorso di pronunziare alcuna conclusione naturale, e massime delle più recondite e difficili ad esser capite, ella non abbia pretermesso questo medesimo avviso, per non aggiugnere confusione nelle menti di quel medesimo popolo e renderlo più contumace contro a i dogmi di più alto misterio. Perché se, come si è detto e chiaramente si scorge, per il solo rispetto d'accomodarsi alla capacità popolare non si è la Scrittura astenuta di adombrare principalissimi pronunziati, attribuendo sino all'istesso Iddio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che l'istessa Scrittura, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra, d'acqua, di Sole o d'altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i puri e ristretti significati delle parole? E massime nel pronunziar di esse creature cose non punto concernenti al primario instituto delle medesime Sacre Lettere, ciò è al culto divino ed alla salute dell'anime, e cose grandemente remote dalla apprensione del vulgo. Stante, dunque, ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo eli pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come qsservantissima essecutrice de gli ordini eli Dio; ed essendo, eli più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendimento dell'universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura inesorabile ed immutabile, e mai non trascendente i termini delle leggi impostegli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini; pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole eliverso sembiante; poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com'ogni effetto eli natura, né meno eccelentemente ci si scuopre Idclio negli effetti di natura che ne' sacri detti delle Scritture. Ma non per questo voglio inferire, non doversi aver somma considerazione de i luoghi delle Scritture Sacre; anzi, venuti in certezza di alcune conclusioni naturali, doviamo servircene per mezi accomodatissimi alla vera esposizione di esse Scritture ed all'investigazione eli quei sensi che in loro necessariamente si contengono, come verissime e concordi con le verità dimostrate. Stimerei per questo che l'autorità delle Sacre Lettere avesse avuto la mira a persuadere principalmente a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo: di più, che ancora in quelle proposizioni che non sono de Fide l'autorità delle medesime Sacre Lettere deva esser anteposta all'autorità di tutte le Scritture umane, scritte non con metodo dimostrativo, ma o con pura narrazione o anco con probabili ragioni, direi doversi reputar tanto convenevole e necessario, quanto l'istessa divina sapienza supera ogni umano giudizio e coniettura.

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G. Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana, in Opere

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a questione del metodo è uno dei principali nodi tematici dell'età moderna, connesso alla nascita di una nuova scienza, di un nuovo paradigma di verità, di una nuova concezione della natura. Metodo è infatti una parola che conserva la radice greca bod6s, letteralmente "la via", e indica il percorso che la ragione deve seguire per giungere alla conoscenza della velità. Bacon scrive un Nuovo Organo, un libro che deve prendere il posto dell'antico Organon di Aristotele, lo strumento per eccellenza che bisognava impiegare nel ragionamento, secondo i pensatori antichi e medievali. Per Bacon la natura è un'entità autonoma, che l'uomo deve conoscere e soggiogare, carpendone i segreti, scoprendo le leggi che Dio ha dato ad essa. A tal fine occorre avvicinarsi alla natura senza pregiudizi, procedere per induzione, per osse1vazioni controllate e verifiche sperimentali. Come è evidente già in Bacon, la novità principale del metodo della scienza moderna deriva dalla messa al bando delle percezioni sensibili e dell'esperienza quotidiana, che vengono sostituite dall'ideale della precisione e della misurazione. Tale applicazione si realizza nel corso della rivoluzione scientifica secondo due diverse prospettive. Una è la verifica sperimentale, propria del metodo baconiano, che consente la messa a punto di un nuovo concetto di esperienza. I moderni scienziati considerano esperienze oggettive e universali solo quelle eseguite in laboratorio e controllate dagli strumenti di misurazione e

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dalle leggi che governano i fenomeni. Le esperienze certe non sono né le percezioni che abbiamo del mondo esterno per il tramite dei sensi, né le vicissitudini della vita che costituiscono il nostro passato. Le esperienze scientifiche o esperimenti sono solo quelle pubblicamente riconosciute, basate su prove di laboratmio. L'altra applicazione favorisce la matematizzazione della scienza, conducendo ad una nuova forma di certezza. Ed è la via segnata da Galielo con le sue opere, contraddistinta sia dalle "sensate esperienze,, che dalle matematiche dimostrazioni. Come spiega nel Saggiatore la verità della scienza deve essere espressa in numeri e le teorie provate sperimentalmente, perché sono queste le condizioni che permettono eli esprimere le leggi universali che controllano i fenomeni della natura. n rigore del ragionamento matematico, la possibilità di eseguire calcoli esatti e eli fornire la dimostrazione di una legge fisica hanno favorito lo sviluppo delle cosiddette scienze esatte. La meccanica, l'astronomia, la fisica si sono sviluppate proprio a partire dall'assunzione di un paradigma matematico, esprimendo mediante formule le loro leggi e sviluppando le loro teorie attraverso sistemi più o meno complicati di calcolo. La natura matematizzata, posta fuori della cornice metafisica nella quale era tenuta per esempio dalla filosofia peripatetica, ha permesso eli cogliere un nuovo ideale eli conoscenza che troverà in Newton sintesi e sistemazione duratura.

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Bacon: un nuovo sapere libero da pregiudizi Nel preambolo all'/nstauratio magna (La grande instaurazione) ~,Bacon, parlando di sé in terza persona, spiega che l'attività più importante che l'uomo può svolgere sulla Terra è la conoscenza, ossia «il commercio della mente umana con le cose». Tutto l'impegno profuso in tale direzione rischia però di andare in rovina a causa degli errori, dei pregiudizi e delle false valutazioni, che avviluppano la mente degli uomini, ostacolando il cammino del progresso e della scienza ~11-21. Occorre secondo Bacon restaurare le fondamenta del sapere e su basi più solide ricostruirlo interamente ~122-29. L'autore si mostra consapevole della difficoltà e dell'ampiezza dell'opera; riconosce anche la parzialità dei risultati finora raggiunti da lui stesso e tuttavia avverte interamente la responsabilità di rendere noto il suo pensiero, al fine di avviare finalmente un processo storico e improcrastinabile ~130-51. Il metodo suggerito da Bacon~ per raggiungere la verità prevede la risoluzione di due problemi che riguardano l'intelletto: la formulazione dei giudizi in presenza degli «idoli», delle illusioni, delle false credenze della mente, o come altrimenti si vogliano chiamare tutte le umane convinzioni sedimentate nel tempo prive di fondamento, e l'incapacità di sfruttare al meglio le reali risorse della natura umana. Per correggere questi errori e tutti gli altri che da essi derivano è necessario seguire il processo attraverso cui si formano le prime nozioni nella mente e promuovere in questo modo la vera induzione ~11-9. Quest'ultima muove dall'osservazione sensibile, dalla raccolta di dati e dalla verifica sperimentale per giungere gradatamente alla spiegazione dei fenomeni naturali, cogliendone la forma. Come mostra in particolare il brano, anche l'indicazione degli idoli è tuttavia propedeutica alla scienza, giacché è fondamentale riconoscere quali siano e in cosa consistano i pregiudizi, che Bacon definisce: della «tribù», propri del genere umano ~11 0-15; della «spelonca», pertinenti a ciascun individuo ~116-27; del «foro», ossia del linguaggio ~128-36; del «teatro», prodotti dalle teorie filosofiche ~137-41.

La necessità di restaua•are inte!•amente il sape1•e dalle fondamenta

Tenendo per certo che l'intelletto umano procura a se stesso delle difficoltà e non sa far uso con moderazione e destrezza delle reali risorse che sono in potere dell'uomo e che eli qui deriva la grande ignoranza della realtà, e che infine da tale ignoranza dipendono mali innumerevoli, Francesco da Verulamio 1 ha ritenuto eli dover adoperarsi con tutte le forze per vedere se sia possibile restaurare integralmente, o almeno migliorare, quel commercio della mente con le cose al qual quasi nulla è paragonabile sulla Terra o almeno fra le cose terrene. Non c'è nessuna speranza che gli errori già invalsi e quelli che verranno in uso per tutti i tempi futuri (ave la mente venga abbandonata a se stessa) si correggano naturalmente o per la forza propria dell'intelletto o per gli aiuti e i sostegni della clialettica2 • Infatti le prime nozioni delle cose, che la mente riceve con facilità e passivamente, e custodisce, e accumula (e dalle quali deriva tutto il resto) sono viziose confuse e astratte dalle cose in modo del tutto casuale; nelle seconde nozioni e nelle altre il capriccio e l'incostanza non sono minori. In tal modo tutta questa ragione umana, della quale facciamo uso nello studio della natura, appare mal congegnata e mal costruita ed è simile a una magnifica costruzione sprovvista di fondamenta. E gli uomini, mentre ammirano e celebrano le immaginarie forze della mente, trascurano e perdono quelle

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1. Francis Bacon si riferisce a se stesso, tra i titoli da lui acquisiti figurava infatti anche quello di barone

di Verulamio. 2. Nel senso generale di logica, arte ciel corretto ragionare.

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la fondazione della scienza: mm sfida collettiva da affida&•e ai posteri

forze reali di cui potrebbero disporre se procurassero ad essa i debiti strumenti e se la mente assumesse verso le cose un atteggiamento di obbedienza invece di insultarle senza approdare ad alcun risultato. Resta dunque una sola cosa da fare: cominciare interamente da capo l'impresa con mezzi.più validi e intraprendere una totale Restaurazione, innalzata sulle dovute fondamenta, della scienze, della arti e di ogni umano sapere. Quantunque una tale impresa possa apparire a prima vista senza fine e superiore alle forze umane, nel suo compimento essa apparirà invece più saggia e prudente di tutto ciò che è stato realizzato fino ad oggi. Questa impresa condurrà a un qualche fine, mentre ciò che vien fatto ora nelle scienze è una specie di vertigine, di perpetua agitazione che non fa che avvolgersi su se stessa, come in un circolo. Bacone non ignora la solitudine che avvolge un'impresa di questo tipo e sa bene quanto sarà duro e difficile ottenere credito e fiducia; tuttavia non ha ritenuto di dover tradire se stesso e abbandonare la sua impresa prima di aver tentato e aver iniziato a percorrer la sola via che è accessibile alla mente umana. Infatti val meglio dare principio a un'impresa che può portare a un risultato, piuttosto che restare avviluppati, lottando e affannandosi perpetuamente, in una situazione che non ha alcuna via di uscita. Le due vie della contemplazione corrispondono infatti quasi completamente a quelle due vie dell'azione della quali si è tanto parlato: l'una, all'inizio ardua e difficile, sbocca in una pianura aperta; l'altra, che a prima vista appare facile e comoda, conduce invece fuori strada e a precipizi. Poiché ha molte incertezze sul fatto che queste idee possano venire in mente a qualcun altro, spinto principalmente dalla considerazione che fino a questo momento non ha trovato nessuno che abbia rivolto l'animo a simili pensieri, ha deciso di pubblicare i primi risultati che gli è stato possibile di raggiungere. Questa fretta non è motivata da ambizione ma da inquietudine: se gli capiterà di morire, resti almeno una qualche indicazione e progetto dell'impresa che aveva progettato; resti un qualche segno della sua volontà onesta e dedita al vantaggio del genere umano. Egli ha giudicato qualunque altra ambizione inferiore a quella che ha fra le mani. Infatti o ciò di cui si tratta non è nulla, o è cosa tanto grande che egli deve accontentarsi del merito stesso di aver avuto questa ambizione e non cercare una ulteriore ricompensa.

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F. Bacon, La grande instaurazione, pp. 515-517

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Quattro sono i generi di idoli che assediano la mente umana. Per farci intendere abbiamo imposto loro dei nomi: chiameremo il primo genere idoli della tribù; il secondo idoli della spelonca; il terzo idoli del foro; il quarto idoli del teatro. Ricavare i concetti e gli assiomi per mezzo dell'induzione vera: questo è senza dubbio il rimedio adatto per scacciare e rimuovere gli idoli. Anche l'indicazione degli idoli è tuttavia di grande utilità. Infatti la dottrina degli idoli sta alla interpretazione della natura come la dottrina degli elenchi sofistici sta alla comune dialettica 1 .

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1. Gli elenchi (o confutazioni) sofistici costituivano l'ultimo libro dell'Organon eli Aristotele dedicato al-

l'analisi degli argomenti fallaci.

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l11regiudizi della specie umana

l pl'll!Jiudizi

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dellinguaogiu

l pl'll!Jiudizi della filosofia

Gli idoli della tribù sono fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribù o razza umana. Pertanto si asserisce falsamente che il senso è la misura delle cose. Al contrario, tutte le percezioni, sia del senso sia della mente, derivano dall'analogia con l'uomo, non dall'analogia con l'universo. L'intelletto umano è simile a un specchio che riflette irregolarmente i raggi delle cose, che mescola la sua propria natura a quella delle cose e le deforma e le travisa. Gli idoli della spelonca sono gli idoli dell'uomo in quanto individuo. Ciascuno infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura umana in generale) ha una specie di propria caverna o spelonca che rifrange e deforma la luce della natura: o a causa della natura propria e singolare di ciascuno, o a causa dell'educazione e della conversazione con gli altri, o della lettura dei libri e dell'autorità dei coloro che vengono onorati e ainmirati, o a causa della diversità delle impressioni a seconda che siano accolte da un animo già condizionato e prevenuto oppure sgombro ed equilibrato. Cosicché lo spirito umano (come si presenta nei singoli individui) è cosa varia e grandemente mutevole e quasi soggetta al caso. Perciò giustamente affermò Eraclito che gli uomini cercano le scienze nei loro piccoli mondi privati e non nel più grande mondo a tutti comune. Vi sono poi gli idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del genere umano: li chiamo idoli del foro a causa del commercio e del consorzio degli uomini. Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi, ma i nomi vengono imposti secondo la comprensione del volgo e tale errata e inopportuna imposizione ingombra straordinariamente l'intelletto. D'altra parte le definizioni o le spiegazioni, delle quali gli uomini dotti si sono provveduti e con le quali si sono protetti in certi casi, non sono in alcun modo servite di rimedio. Anzi, le parole fanno violenza all'intelletto e confondono ogni cosa e trascinano gli uomini a innumerevoli e vane controversie e finzioni. Vi sono infine gli idoli che sono penetrati nell'animo degli uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li chiamo idoli del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono state accolte e create come altrettante favole presentate sulla scena e recitate, che hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico.

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F. Bacon, La grande instaurazione, pp. 559-561

Bacon: l'interpretazione della natura La seconda parte della Grande instaurazione di Bacon ha il compito di presentare la dottrina del migliore e più perfetto uso della ragione nell'indagine delle cose. Quest'arte deve rafforzare le facoltà dell'intelletto e ampliarle al fine di carpire i segreti della natura. La riforma del metodo di ricerca nell'ambito della scienza viene varata fornendo un nuovo strumento, una nuova logica in grado di soppiantare l'Organo di Aristotele. La logica elaborata da Bacon lii!2l si distingue dalla tradizionale dialettica per il fine, per le dimostrazioni e per il punto di partenza della ricerca ~>11-7. La nuova forma della razionalità non avrà nulla a che fare con la retorica, infatti non avrà valore nel campo dei discorsi e delle dispute dialettiche e diventerà lo strumento logico capace di favorire la progressiva conquista della natura da parte del genere umano "18-12. La nuova logica prende le mosse dall'invenzione e invece di studiare il sillogismo si occupa così dell'induzione. Il

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sillogismo è fatto di proposizioni, le proposizioni di parole e le parole sono le etichette e i segni delle nozioni, sostiene Bacon ~'-113-22. Di conseguenza la logica fondata sul sillogismo non fornisce garanzie adeguate a proposito della realtà di ciò che è razionale. Infatti le nozioni della mente possono essere vaghe, false o astratte in modo arbitrario dalle cose ~>122-30. L'induzione~, al contrario, è in grado di fornire un'interpretazione della natura, una volta corretta e distinta da quelle procedure frettolose, che dall'osservazione di pochi casi particolari volano immediatamente a facili e spesso fallaci generalizzazioni ~>11-16. L'induzione scientifica non ha nulla in comune con l'induzione dialettica, che è un mero procedimento di enumerazione che concerne i recessi della nostra mente ~>117-22. È un nuovo procedimento che parte dalla percezione sensibile e arriva in modo graduale agli assiomi «mediante legittime esclusioni e eliminazioni». L'induzione scientifica analizza l'espe-

rienza ed estorce i segreti alla natura

L'induzione è l'arte logica atta a vincere e costringere la natura

C1mtro il sillogismo deduttivo degli aristotelici

~>123-28.

L'arte che presentiamo (e che siamo soliti chiamare Interpretazione della natura) è una sorta di logica, nonostante esista una grande e infinita differenza fra quest'arte e la logica ordinaria. Anche la logica volgare dichiara di destinare e preparare aiuti e presidi all'intelletto: ciò è quello che la nostra arte e la logica ordinaria hanno in comune. Ma esse differiscono l'una dall'altra principalmente per tre ragioni: per il fine, per l'ordine della dimostrazioni e per il punto di partenza della ricerca. Il fine che questa nostra scienza si propone è di inventare non argomenti ma arti; non cose conformi ai principi, ma i principi stessi; non ragioni probabili, ma designazioni e indicazioni di opere. A un'intenzione diversa fa pertanto seguito un diverso risultato. Là infatti è l'avversario ad esser vinto e costretto alla disputa; qui è la natura ad essere vinta e costretta dall'opera. A un tal fine si accordano anche la natura e l'ordine delle dimostrazioni. Infatti nella logica volgare quasi tutto il lavoro ha per oggetto il sillogismo. I dialettici sembrano non essersi curati dell'induzione ricordandola brevemente e passando subito alle formule della disputazione. Noi respingiamo invece la dimostrazione per mezzo del sillogismo perché essa non produce che confusione e fa sì che la natura ci sfugga dalle mani. Quantunque infatti nessuno possa dubitare che due cose che si accordano con un termine medio si accordino anche fra loro (che è una specie di certezza matematica) tuttavia è qui nascosto un inganno: perché il sillogismo consta di proposizioni, le proposizioni di parole e le parole sono le etichette e i segni delle nozioni. Pertanto se le nozioni della mente (che sono come l'anima delle parole e le basi di tutta questa struttura e di questo edificio) sono vaghe, falsamente o arbitrariamente astratte dalle cose, non sufficientemente definite e delimitate e infine in molti modi erronee, tutto l'edificio crolla. Respingiamo dunque il sillogismo e non solo per ciò che concerne i principi (ai quali neppure i logici lo applicano), ma anche per quanto riguarda le proposizioni medie che senza dubbio il sillogismo produce e partorisce, ma che sono sterili di opere, remote dalla pratica e prive di valore relativamente alla parte attiva delle scienze.

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F. Bacon, La grande instaurazione, pp. 533-534

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L'induzione scientifica non p•·ocede pew• ueneralizznzioni,

né per enumel'lllinne di casi a t.a:mfe••ma di un'ipotesi

L'induzione scientifica sottopone le ipotesi Il CIIIIÌ!'ill:llllllllpi,

intnl'l'il!lamlo la natura

Lasciamo quindi al sillogismo e alle famose e vantate dimostrazioni di questa specie la giurisdizione sulle arti popolari e opinabili (delle quali non ci occupiamo); nella ricerca sulla natura noi facciamo uso dell'induzione sia per le proposizioni minori sia per le maggiori. Pensiamo infatti che l'induzione sia quella forma di dimostrazione che sostiene il senso, stringe da presso la natura ed è vicina alle opere, quasi mescolandosi con esse. Così anche l'ordine della dimostrazione viene invertito. Finora il procedimento era questo: dal senso e dai particolari si volava ai principi più generali come verso poli fissi intorno ai quali si svolgono le dispute; da questi principi poi si facevano derivare tutti gli altri mediante le proposizioni medie. Metodo, questo, senza dubbio molto rapido, ma precipitoso, inadatto a condurci alla natura e invece adatto e favorevole alle dispute. Secondo noi, invece, gli assiomi devono ricavarsi insensibilmente e gradatamente in modo da giungere solo in ultimo ai principi generali. Questi principi, in tal modo, riescono non puramente ideali, ma ben determinati e tali che la natura li riconosca come suoi propri e più noti a sé ed essi ineriscano al midollo delle cose. Ma dobbiamo apportare grandissimi cambiamenti anche alla forma stessa dell'induzione e al giudizio che per mezzo di essa si compie. Infatti quell'induzione di cui parlano i dialettici, e che procede per semplice enumerazione, è qualcosa di puerile che conclude precariamente ed è esposta al pericolo di una istanza contraddittoria\ essa coglie soltanto i fatti consueti e non perviene ad . una conclusione. Alle scienze è necessaria un'induzione di forma tale da risolvere e analizzare l'esperienza e concludere necessariamente mediante legittime esclusioni e eliminazioni. Se il tradizionale giudizio dei dialettici ha richiesto tanto lavoro ed ha affaticato tanti ingegni, ancor più ci si dovrà affaticare attorno a quest'alto, che non è ricavato soltanto dai recessi della mente, ma anche dalla viscere della natura.

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F. Bacon, La grande instaurazione, pp. 534-535

Galileo: sensate esperienze e necessarie dimostrazioni Dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, di Galileo Galilei, ricaviamo lo schema della nuova procedura per indagare i fenomeni naturali, conosciuto come metodo sperimentale. Secondo lo scienziato pisano per investigare correttamente la natura è necessario avvalersi delle «sensate esperienze» e delle «necessarie dimostrazioni»: le «sensate esperienze» servono a dimostrare la validità di un'ipotesi attraverso la prova di laboratorio; le matematiche dimostrazioni consentono invece la deduzione razionale delle leggi che governano certi fenomeni naturali. Le sensate esperienze del metodo non coincidono necessariamente con quanto testimoniato immediatamente dai sensi. Anche se ciò non significa che l'osservazione non sia importantissima: come si evince dal brano~' persino Aristotele, se avesse avuto a disposizione le indagini prodotte dai moderni, probabilmente non avrebbe parlato della perfezione e dell'inalterabilità dei cieli. Evidente il riferimento polemico non tanto ad Aristotele ma ai suoi seguaci, che nei secoli hanno rifiutato di osservare coi loro occhi ed evitato di riflettere sui

1. Un contro esempio.

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fenomeni celesti. Nonostante il riferimento implicito anche al cannocchiale che ha dischiuso alla vista cose mirabili, Galileo in questo brano osserva che i sensi, per coloro che conducono la ricerca scientifica, si rivelano talvolta inadeguati e in certi casi anzi risultano fallaci ~11-12. Come si ricava dal testo iii:EJ, Galileo, richiamando sempre Aristotele, invita lo scienziato a stare attento a non rimanere ingannato dalla semplice apparenza o rappresentazione del senso. Colui che si fida delle proprie percezioni, e non si preoccupa di controllare la natura dei fenomeni applicando il protocollo del metodo, resta nell'ignoranza e, come quell'uomo che cammina di notte per le vie, crede che la Luna lo segua con il suo stesso passo, quasi fosse una gatta che cammina sui tetti ~>11-12. L'apparenza, se non è corretta dall'intervento della razionalità, rischia di ingannare la vista. Implicito è il riferimento in questo brano alla teoria geocentrica, senz' altro più vicina della teoria copernicana alla testimonianza ingenua dei sensi che ci fanno credere che sia il Sole, e non la Terra, a muoversi. Lo scienziato moderno, inoltre, controlla la realtà conformandola a un modello matematico. Grazie al discorso, alla riflessione razionale, egli è in grado di forzare i propri sensi e mettere in relazione le «sensate esperienze» con le «necessarie dimostrazioni». L'ultimo brano lliifJI, tratto dalla lettera alla granduchessa Cristina di Lorena, sintetizza questi temi, mostrando come nell'indagine naturale si debba seguire questo metodo e non iniziare dall'autorità della Sacra Scrittura. Le leggi della natura sono infatti immutabili, la Scrittura si è invece adeguata all'intelligenza degli uomini di tutti i tempi ~>11-17.

~ Le sensate esperienze

[SALVIATI]: Ma per dar soprabbondante soddisfazione al signor Simplicio e tarlo, se possibile, di errore, dico che noi aviamo nel nostro secolo accidenti ed osservazioni nuove e tali, ch'io non dubito punto che se Aristotile fusse all'età nostra, muterebbe oppinione. Il che manifestamente si raccoglie dal suo stesso modo di filosofare: imperciocché mentre egli scrive di stimare i cieli inalterabili etc., perché nessuna cosa nuova si è veduta generarvisi o dissolversi delle vecchie, viene implicitamente a lasciarsi intendere che quando egli avesse veduto uno di tali accidenti, avrebbe stimato il contrario ed anteposto, come conviene, la sensata esperienza al naturale discorso, perché quando e' non avesse voluto fare stima de' sensi non avrebbe, almeno dal non si vedere sensatamente mutazione alcuna, arguomentata l'immutabilità.

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G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, p. 63

L'esperienza ingenua

[SAGREDo]: Se io potessi una volta incontrami in questo filosofo, che pur mi pare che si elevi assai sopra molti altri seguaci dell'istesse dottrine, vorrei in segno di affetto ricordargli un accidente che assolutamente egli ha ben mille volte veduto, dal quale, con molta conformità di questo che trattiamo, si può comprendere quanto facilmente possa altri restar ingannato dalla semplice apparenza o vogliamo dire rappresentazione del senso. E l'accidente è il parere, a quelli che di notte camminano per una strada, d'esser seguitati dalla Luna con passo eguale alloro, mentre la veggono venir radendo le gronde de i tetti sopra le quali ella gli apparisce, in quella guisa appunto che farebbe una gatta che, realmente camminando sopra i tegoli, tenesse loro dietro: apparenza che, quando il discorso non s'interponesse, pur troppo manifestamente ingannerebbe la vista.

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G. Galilei, Dialogo sopra t due massimi sistemi del mondo, p. 310 i

.':19-12. Il brano si chiude con una nota ironica di polemica contro l'autorità che Tycho Brahe e il suo sistema astronomico avrebbero guadagnato di recente tra i dotti filosofi, anche a scarto di Tolomeo. Come sembra di suggerrire implicitamente Galileo, il risultato è che l'autorità viene piegata non a misura della verità, m~ della convenienza ~>112-20. Inoltre, come si ricava da l!iEl!, è importante distinguere fra le qualità oggettive e soggettive. Per l'autore proprietà oggettive, ossia effettive dei corpi, sono la figura, la grandezza e il movimento: esse sono proprietà quantificabili e geometricamente definibili; le qualità soggettive sono invece quelle che «non esistono fuor dell'animale vivente» come i sapori, gli odori, i colori, che dipendono dall'incontro tra le proprietà oggettive dei corpi e i nostri organi di senso ~>11-17. Affinché esista un colore, un odore o anche un certo calore non bastano i moti, le figure e le grandezze diverse dei corpi; occorrono anche dei soggetti, dotati di organi, capaci di percepire, di entrare in contatto con le qualità oggettive del mondo esterno ~>118-23.

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matematici

Farmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all'opinioni di qualche celebre autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d'un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l'Iliade e l'Orlando furioso, libri ne' quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, né quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. Ma posto pur anco, come al Sarsi pare, che l'intelletto nostro debba farsi mancipio dell'intelletto d'un altr'uomo (lascio stare ch'egli, facendo così tutti, e se stesso ancora, copiatori, loderà in sé quello che ha biasimato nel signor Mario), e che nelle contemplazioni de' moti celesti si debba aderire ad alcuno, io non veggo per qual ragione ei s'elegga Ticonet, anteponendolo a Tolomeo e a Nicolò Copernico, de' quali due abbiamo i sistemi del mondo interi e con sommo artificio costrutti e condotti al fine; cosa ch'io non veggo che Ticone abbia fatta, se già al Sarsi non basta l'aver negati gli altri due e promessone un altro, se ben poi non eseguito.

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G. Galilei, Il saggiatore, in Opere, vol. I, pp. 631-632

ffJiEll Proprietà oggettiue dei corpi sono figura, grandezza, mouimento

Proprietà soggettive, dipendenti dai nostri organi son11 qualità come i colori, i smmi, gli odlll'i

Per tanto io dico che ben sento til·armi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch'ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch'ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch'ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo, ch'ella è una, poche o molte, né per veruna immaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch'ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l'immaginazione per se stessa non v'arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del soggetto nel quale ci parche riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l'animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch'esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse. [... ]Ma che ne' corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, ei richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via gli orecchi le lingue e 'i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell'animai vivente non credo sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l'ascelle e la pelle intorno al naso.

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G. Galilei, Il saggiatore, in Opere, vol. I, pp. 777-778, 780-781

Jl.. Nome latinizzato dell'astronomo Tycho Brahe (1546-1601).

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Newton: esperimenti, induzioni e ipotesi Il brano IU'.iEl è tratto dai Principi matematici della filosofia naturale di Newton, nello specifico, dalle quattro Regulae philosophandi (Regole del filosofare) che aprono il terzo libro. Dopo aver enunciato la terza regola che indica le qualità che possono essere attribuite oggettivamente ai corpi, Newton fornisce informazioni preziose sul metodo della ricerca scientifica. Le qualità dei corpi sono conosciute attraverso osservazioni, confermate da esperimenti e riconosciute come oggettive allorché persistano quantitativamente immutate nella materia, senza aumentare né diminuire. Gli esperimenti per scoprire e verificare simili qualità devono essere condotti sulla base dell'uniformità della natura e della sua semplicità ~>11-8. Newton sostiene che qualità oggettive dei corpi sono cosl da ritenere l'estensione, la durezza, l'impenetrabilità, la forza d'inerzia. Il senso, e non la ragione, è sempre la regola basilare su cui fondarsi: è col senso che attribuiamo, infatti, le qualità agli oggetti che percepiamo ~>18-13. Newton di seguito affronta il problema della divisibilità o dell'indivisibilità della materia, assumendo una posizione metodologicamente cauta: egli ritiene la materia divisibile all'infinito se considerata matematicamente; mentre assume la materia al momento indivisibile all'infinito da un punto di vista fisico. A favore dell'atomismo è anche in questo caso la regola del senso: giacché sperimentabile è stata finora l'indivisibilità della materia, mentre non ancora sperimentata la sua divisibilità all'infinito ~>113-21. L'ultimo capoverso anticipa l'applicazione della regola sperimentale anche alla legge di gravitazione universale. Esperimenti e osservazioni astronomiche mostreranno l'esistenza di una reciproca attrazione dei corpi, celesti e terrestri, la loro pesantezza o gravitazione ~>122"29. La gravità non sarà tuttavia insita nei corpi, come è invece la forza di inerzia, che appartiene alla materia e alle sue singole parti: se l'inerzia è infatti immutabile; la forza gravitazione invece muta, diminuisce in funzione della distanza ~>129-31.

le p••opt•ietà dei C!ll'pi sono scoperte dal senso, dall'osservazione

L'atomismo è conforme alla pratica sperimentale

La !JI'avità è una forza scoperta pe1• uia spe!•imentale, ma non è insita nei cor11i

L'estensione dei corpi non si conosce altrimenti che per mezzo dei sensi, né è percepita in tutti; ma in quanto spetta a tutte le cose sensibili, allora viene affermata di tutte le cose. [... ] Deduciamo che tutti i corpi sono impenetrabili non con la ragione, ma col senso. Gli oggetti che maneggiamo vengono riscontrati impenetrabili, ne concludiamo che l'impenetrabilità è una proprietà dei corpi in generale. Che i corpi siano mobili, e che a causa di forze qualsiasi (che chiamiamo forze d'inerzia) perseverino nel moto o nella quiete, deduciamo da queste proprietà dei corpi osservabili. L'estensione, la durezza, l'impenetrabilità, la mobilità e la forza d'inerzia del tutto nasce dall'estensione, dalla durezza, dalla impenetrabilità, dalla mobilità e dalle forze d'inerzia delle parti; di qui concludiamo che tutte le minime parti di tutti i corpi sono estese e dure, impenetrabili, mobili, e dotate di forze d'inerzia. E questo è il fondamento dell'intera filosofia. Abbiamo, inoltre, imparato dai fenomeni che le parti divise dei corpi, e contigue le une alle altre, possono essere separate fra loro, e che le parti non divise possono essere divise con la ragione in parti minori, come è evidente dalla matematica. In verità è incerto se quelle parti distinte e non ancora divise possano essere divise per mezzo delle forze della natura ed essere mutuamente separate. Ma se da anche un solo esperimento risultasse che, rompendo un corpo duro e solido, una qualunque particella non divisa subisce una divisione, concluderemmo, in forza di questa regola, che non soltanto sono separabili le parti divise, ma che anche quelle non divise possono essere divise all'infinito. Infine, se, in generale, per mezzo di esperimenti e di osservazioni astronomiche, risultasse che tutti i corpi che girano intorno alla Terra sono pesanti, e ciò in relazione alla quantità di materia in ciascuno di essi, che la Luna è pesante verso Terra in relazione alla propria quantità di materia, e il nostro mare, a sua

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volta, è pesante verso la Luna, e che tutti i pianeti sono pesanti l'uno rispetto all'altro, e che la pesantezza delle comete verso il Sole è identica, allora, si dovrà dire che per questa regola tutti i corpi gravitano vicendevolmente l'uno verso l'altro. [. .. ] Tuttavia, non affermo affatto che la gravità sia essenziale ai corpi. Con forza insita intendo la sola forza inerzia. Questa è immutabile. La gravità allontanandosi dalla Terra, diminuisce.

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I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, pp. 605-607

Il seguente brano~ è tratto dallo Sco/io generale, aggiunto da Newton alla seconda edizione dei Principi matematici della filosofia naturale, e contiene il celebre invito a non ammettere nella scienza ipotesi non suffragate dall'induzione. Newton osserva come la forza di gravità, ossia la legge con cui la sua fisica ha unito il cielo e la Terra in un unico principio, sia stata scoperta sperimentalmente per i suoi effetti, ma non rinvenuta nella sua causa. Senza dubbio una simile legge ha anche una causa, la quale, nota Newton, è però dì un genere del tutto particolare, operando in maniera diversa dalle cause meccaniche, non in ragione dell'estensione ma della massa di un corpo e agendo per di più a distanza secondo precise proporzioni ~11-8. Così la forza di gravità è rimasta comprovata dal moto dei pianeti, da quelli più vicini a quelli più lontani, anche nelle loro diverse distanze dal Sole (fino a quella massima in afelio), e verificata nella sua diminuzione in funzione del quadrato della distanza ~18-12. Al pari della causa, Newton ammette che anche le ragioni che governano simili proprietà della gravità sono ignote. La filosofia sperimentale deve però trattenersi dal tentare spiegazioni, ipotesi: nella scienza tutte le proposizioni, infatti, devono essere dedotte dai fenomeni, da esperimenti generalizzati per induzione. Senz'altro, conclude Newton, la legge di gravità esiste, è un dato sperimentale, capace di spiegare tutti i movimenti; ogni ulteriore considerazione sulla sua causa, sulla sua natura, è una mera ipotesi. ~112-20.

la caus11 della forza di gravità è ignota e opera diversamente dalle cause meccaniche

La filosofia

lllllll'imentale deue basarsi su induzioni e 111111 su mere ipotesi

Fin qui ho spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare mediante la forza di gravità, ma non ho mai fissato la causa della gravità. Questa forza nasce interamente da qualche causa, che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti, senza diminuzione della capacità, e opera non in relazione alla quantità delle superfici delle particelle sulle quali agisce (come sogliano le cause meccaniche) ma in relazione alla quantità di materia solida. La sua azione si estende per ogni dove ad immense distanze, sempre decrescendo in proporzione inversa al quadrato delle distanze. La gravità verso il Sole è composta della gravità verso le singole particelle del Sole, e allontanandosi dal Sole decresce costantemente in ragione inversa del quadrato delle distanze fino all'orbita di Saturno, come è manifesto dalla quiete degli afelii dei pianeti, e fino agli ultimi afelii delle comete, posto che quegli afelii siano in quiete. In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi. Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche. In questa filosofia le proposizioni vengono dedotte dai fenomeni, e sono rese generali per induzione. In tal modo divennero note l'impenetrabilità, la mobilità e l'impulso dei corpi, le leggi del moto e la gravità. Ed è sufficiente che la gravità esista di fatto, agisca secondo le leggi da noi esposte, e spieghi tutti i movimenti dei corpi celesti e del nostro mare.

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I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, p. 795

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a meccanica è una scienza che nasce con l'età moderna ed è fondata sul concetto di movimento che è stato formulato nel corso del Seicento. La meccanica è la parte della fisica che studia lo stato di quiete e di moto dei corpi ed esprime sotto forma di leggi le varie relazioni che caratterizzano lo spostamento dei corpi nello spazio. Gli antichi non avrebbero potuto concepire una ricerca rigorosa rivolta a determinare le leggi che presiedono allo spostamento dei corpi nello spazio. Euclide ha enunciato le leggi che governano i corpi statici della geometria, mentre filosofi come Eraclito e Zenone di Elea hanno relegato tutti i fenomeni della natura connessi con il movimento all'apparenza, all'incertezza dell'opinione. Neanche Aristotele, che è autore di una Fisica, ha saputo farlo. Egli ha studiato il movimento dei corpi riconclucenclo ogni cosa alla metafisica e alla teologia, con la dottrina della quattro cause e quella del motore immobile. L'acquisizione del nuovo concetto di movimento da parte dei moderni comporta innanzitutto il superamento della nozione metafisica di causa. Ciò che si muove non deve essere considerato in rapporto al divenire, cioè a un processo di cambiamento, a una mutazione derivante da un principio arcano che, oltre acl averla originata, la regola e la governa. In secondo luogo, il movimento deve essere riconosciuto come uno stato; non si tratta cioè di una proprietà delle cose, bensì sono i corpi che si possono trovare o nello stato di moto o in quello di quiete. Così come in passato la geometria ha studiato i corpi

nello stato di quiete, ora è possibile stucliarli anche nello stato di inoto. Il primo scienziato che ha sottoposto il movimento a misurazione è stato Galilei, che ha intuito la legge di inerzia, ha scope1to e argomentato in favore del principio della composizione del movimento e della relatività dei sistemi inerziali. Newton ha perfezionato le idee di Galilei e dei suoi predecessori esprimendole in forma di leggi matematiche. Egli ha saputo formulare il principio di inerzia, secondo il quale un corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, se non è costretto a mutare quello stato da una forza. Il secondo principio individua così la proporzionalità tra forza e azione e il terzo l'equivalenza tra azione e reazione.

Galileo: la misura e i principi del movimento Il primo principio che regola il movimento secondo Galilei, esposto nel primo brano ~iii~, è quello che successivamente fu chiamato inerziale: se un corpo non è ostacolato nel suo movimento da nulla che possa opporgli resistenza, conserva la propria quantità di moto. L'esempio proposto da Salviati è quello di una nave che circumnaviga in eterno il globo, senza interruzione, senza tornare indietro ~11-11. Accogliendo le osservazioni di Simplicio, Salviati conclude che un simile moto eterno debba riferirsi a un ente altrettanto eterno e

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incorruttibile ~112-28. Come mostra di seguito il brano, Galilei non riuscl mai a cogliere però compiutamente il principio di inerzia, in quanto egli non concepì il moto continuo in linea retta, ma solo come moto circolare. Al fine di rendere plausibile il moto circolare della Terra, come previsto dal copernicanesimo, Galilei esculde infatti, che alla Terra possa attribuirsi un moto rettilineo, comunque terminato, ossia temporalmente destinato a terminare nella quiete ~>129-50.

lil'ill Conseruazione del moto e mouimento circolare

Il p••incipio Ili inerzia: moti rettilinei e circolari

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[SALVIATI]: Voi equivocate, signor Simplicio, ed io voglio pur vedere di liberarvi dall'equivoco. Però ditemi: credete voi che una nave che dallo stretto di Gibilterra andasse verso Palestina, potesse eternamente navigare verso quella spiaggia, movendosi sempre con eguale moto? [SIMPLICIO]: Non altramente. [SALVIATI]: E perché no? [SIMPLICIO]: Perché quella navigazione è ristretta e terminata tra le Colonne e 'l lito di Palestina, ed essendo la distanza terminata, si passa in tempo finito: se già altri non volesse, col ritornare in dietro con movimento contrario, tornar poi a replicar il medesimo viaggio; ma questo sarebbe un moto interrotto e non continuato. [SALVIATI]: Verissima risposta. Ma la navigazione dallo stretto di Magellano per il mar Pacifico, per le Molucche, per il capo di Buona Speranza, e di lì per il medesimo stretto e di nuovo per il mar Pacifico etc., credete voi ch'ella si potesse perpetuare? [SrMPLicro]: Potrebbesi, perché essendo questa una circolazione, che ritorna in se stessa, con replicarla infinite volte si pottebbe perpetuare senza veruno interrompimento. [SALVIATI]: Adunque una nave in questo viaggio potrebbe durare a navigare in eterno. [SIMPLICIO]: Potrebbe, quando la nave fusse incorruttibile; ma dissolvendosi la nave, si terminerebbe di necessità la navigazione. [SALVIATI]: Ma nel Mediterraneo, quando anche la nave fusse incorruttibile, non però potrebbe muoversi perpetuamente verso Palestina, per esser tal viaggio terminato. Due cose adunque si ricercano, acciò che un mobile senza intermissione possa muoversi eternamene: l'una è che il moto possa di sua natura essere interinato e infinito; l'altra, che il mobile sia parimente incorruttibile ed eterno. [SIMPLicro]: Tutto questo è necessario. [SALVIATI]: Adunque già per voi stesso venite acl aver confessato, esser impossibile che mobile alcuno si muova eternamente di moto retto, essendo che il moto retto, o vogliate in su o in giù, voi stesso lo fate terminato dalla circonferenza e dal centro: sì che quando bene il mobile, cioè la Terra, sia eterna, tuttavia, per non essere il moto retto di sua natura eterno, ma sterminatissimo, non può naturalmente competere alla Terra, anzi, come pure ieri si disse, Aristotele medesimo è costretto a far il globo della Terra eternamente stabile. Quando poi voi dite che le parti della Terra sempre si moveranno all'ingiù rimossi gli impedimenti, equivocate gagliardamente, perché all'incontro bisogna impedirle, contrariarle e violentarle, se voi volete ch'elle si muovano; perché cadute ch'elle sono una volta, bisogna con violenza rigettarle in alto, acciò tornino a cader la seconda: e quanto a gli impedimenti, ·questi gli tolgono solamente l'arrivare

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al centro; che quando ci fosse un pozzo che passasse oltre al centro, non però una zolla di Terra si moverebbe oltre a quello, se non in quanto trasportata dall'impeto lo oltrepassasse, per ritornarvi poi e finalmente fermarvisi. Quanto dunque al poter sostenere che il movimento per linea retta convenga o possa convenir naturalmente né alla Terra né ad altro mobile, mentre l'universo resti nel suo ordine perfetto, toglietevene pur giù del tutto, e fate pur forza (se voi non le volete concedere il moto circolare) di mantenerle e difendere l'immobilità.

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G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, pp. 164-167

Il secondo principio~ è quello di composizione del moto. Se un corpo, per esempio una palla di cannone che viene fatta cadere dalla cima dell'albero di una nave, è sollecitato contemporaneamente da due diversi movimenti, quello verticale prodotto dal proprio peso e quello orizzontale che deriva dal movimento della nave, si comporta come se i due movimenti fossero intervenuti in due momenti diversi. Il moto orizzontale cioè non viene annullato da quello verticale, ma si compone con esso, nel senso che vi si aggiunge come se riguardasse un momento successivo. Per cui si dice che un corpo che si trova nella situazione che abbiamo descritto si muove lungo la risultante. Tuttavia l'osservatore vedrà cadere il corpo perpendicolarmente .,11-19. Un grave che cade dall'albero di una nave, mentre loscafo si sta spostando sull'acqua, conserva il moto inerziale della nave. Allo stesso modo, un corpo che precipita giù da una torre conserva il moto che ha in comune con la Terra prima che cominci a precipitare dalla sommità della torre. E un movimento comune a tutti i corpi che formano un determinato sistema non esercita alcuna influenza sul comportamento reciproco di quei corpi. Infatti, se la nave in un primo momento fosse stata ferma e in questo frangente si fosse verificata la caduta verticale, la palla di cannone si sarebbe fermata ai piedi dell'albero; muovendosi, in un secondo momento e per un tempo che equivale a quello della caduta, la nave condurrebbe la medesima palla nel punto lungo la traslazione orizzontale ~>120-43. Come osserva Salviati, l'esempio di ciò che accade sulla nave deve risultare analogo a quello che accade sulla Terra, lasciando in sospeso l'interpretazione da dare ai diversi movimenti ~>144-62.

lln ai'!JOmento contro il moto della Ter1•a

[SALVIATI] Dice Aristotele, argomento certissimo dell'immobilità della Terra essere il vedere noi i proietti in alto a perpendicolo ritornar per l'istessa linea nel medesimo luogo dove furono tirati, e questo, quando bene il movimento fusse altissimo; il che non potrebbe accadere quando la Terra si movesse, perché nel tempo che 'l proietto si muove in su e 'n giù, separato dalla Terra, il luogo dove ebbe principio il moto del proietto scorrerebbe, mercè del rivolgimento della Terra, per lungo tratto verso levante, e per tanto spazio, nel cadere il proietto percuoterebbe in Terra lontano dal detto luogo: sì che qui s'accomoda l'argomento della palla tirata in su coll'artiglieria, sì ancora l'altro usato da Aristotele e da Tolomeo, del vedere i gravi cadenti da grandi altezze venir per linea retta e perpendicolare alla superficie terrestre. Ora, per cominciar a sviluppar questi nodi domando al signor Simplicio, quando altri negasse a Tolomeo e ad Aristoteliche che i gravi nel cader liberamente da alto venissero per linea retta e perpendicolare, cioè diretta al centro, con quale mezzo lo proverebbero. [SIMPLICro] Col mezzo del senso, il quale ci assicura che quella torre è diritta e perpendicolare, e ci mostra quella pietra nel cadere venirla radendo,

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Il principio della composizione del moto

Un mmun argomentn

t1·atto poi' analogia contro il moto della Terra

senza piegar pur un capello da questa o da quella parte, e percuotere al piede giusto sotto 'l luogo donde fu lasciata. [SALVIATI] Ma quando per fortuna il globo terrestre si movesse in giro, ed in conseguenza portasse seco la torre ancora, e che ad ogni modo si vedesse la pietra nel cadere venir radendo il filo della torre, qual bisognerebbe che fusse il suo movimento? [SrMPLicro] Bisognerebbe in questo caso dir più tosto "i suoi movimenti», perché uno sarebbe quello con quale verrebbe da alto a basso, e un altro converrebbe ch'ella n'avesse per seguire il corso della torre. [SALVIATr] Sarebbe dunque il moto suo composto di due, cioè eli quello col quale ella misura la torre, e dell'altro con quale ella la segue: dal qual composto ne risulterebbe che 'l sasso descriverebbe non più quella semplice linea rett:'1 e perpendicolare, ma una trasversale, e forse non retta1 . [ .•. ] [SALVIATI] La difesa dunque d'Aristotele consiste nell'esser impossibile, o almeno nell'aver egli stimato impossibile, che 'l sasso potesse muoversi di un moto misto di retto e circolare; perché quando e' non avesse avuto per impossibile che la pietra potesse muoversi al centro e intorno al centro unitamente, egli avrebbe inteso che poteva accadere che 'l sasso cadente potesse veneri radendo la torre tanto movendosi ella quanto stando ferma, e di conseguenza si sarebbe accorto che da questo radere non si poteva inferir niente attenente al moto o alla quiete della Terra. [... ] [SIMPLicro] Oltre che ci è l'esperienza tanto propria, della pietra lasciata dalla cima dell'albero della nave, la qual, mentre la nave sta ferma, casca al piè dell'albero, ma quando la nave cammina, cade tanto lontana dal medesimo termine, quanto la nave ne tempo della caduta del sasso è scorsa avanti; che non son poche braccia, quando 'l corso della nave è veloce. [... l [SALVIATI] Ditemi, signor Simplicio: parv'egli internamente che l'esperienza della nave quadri così bene al proposito nostro, che ragionevolmente si debba credere che quello che si vede accadere in lei, debba ancora accadere nel globo terrestre? [SrMPucro] Sin qui mi è parso di sì; e benché voi abbiate arrecate alcune piccole disuguaglianze, non mi paion eli tal momento che basti a rimuovermi eli parere. [SALVIATI] Anzi desidero che continuiate, e tenghiate saldo che l'effetto della Terra abbia a rispondere a quel della nave, purché quando ciò si scoprisse pregiudiziale al vostro bisogno, non vi venisse umore di mutar pensiero. Voi dite: «Perché, quando la nave sta ferma, il sasso cade al piè dell'albero, e quando ell'è in moto cade lontano dal piede, adunque, per il converso, dal cadere il sasso al piede si inferisce la nave star ferma, e dal caderne lontano s'argumenta la nave muoversi; e perché quello che occorre della nave deve parimente accader della Terra, però dal cader della pietra al piè della torre si inferisce di necessità l'immobilità del globo terrestre». Non è questo il vostro discorso? [SrMPLICIO] È per appunto, ridotto in brevità, che lo rende agevolissimo ad apprendersi.

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G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, pp. 170-176

1. Anche Copernico (De revolutionibus I, 8) aveva asserito che i corpi in caduta libera si muovono contemporaneamente di due moti: un moto retto verso il centro della Terra e un moto circolare intorno al centro.

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Le difficoltà sollevate al termine del brano precedente, dove si assimila l'esempio della nave alla Terra e ai moti che in essa avvengono, muovono Salviati a formulare la tesi della relatività del moto, che è il terzo principio galileiano, e che si spiega sulla base dei due precedenti. Secondo lo scienziato pisano il movimento di caduta verticale è relativo, perché il corpo che cade determina uno spostamento estraneo al sistema nave e, per questo motivo, è un movimento che possiamo percepire in quanto siamo parte di quel sistema. L'altro, quello di traslazione orizzontale, essendo inerziale e comune sia alla nave sia al corpo che cade, non può essere ravvisato dai sensi. l nostri sensi pertanto possono ravvisare un movimento relativo al sistema, non quello del sistema stesso. Simili considerazioni sono riferite in liif.Ell al moto della Terra e all'impossibilità per ch'i è parte del sistema in moto di accorgersi se è davvero il Sole e tutta la volta celeste a muoversi o se è l'uomo e con il pianeta terrestre a ruotare ~>11-20. Siamo infatti nella seconda giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, dove Galilei sviluppa una serie di argomentazioni a favore del moto della Terra. Il primo, fondato sulla relatività, sostiene che, siccome la rotazione diurna è un moto comune a tutti i corpi esterni alla Terra, è molto più plausibile considerare le impressioni dei nostri sensi come un'immagine invertita della rotazione diurna della Terra da ovest verso est, piuttosto che fondare su di esse presunte verità scientifiche ~>121-36. Poi si sofferma sul moto inerziale e infine considera la composizione e l'indipendenza dei moti, osservando che con la Terra anche noi ci spostiamo, pur mantenendo ferma la nostra posizione relativa ad altri corpi terrestri H 37-52.

La relatiuità del moto l'ispetto al sistema di riferimento

Applicazione di tale

principio all'astr•onomia

[SALVIATI] Sia dunque il principio della nostra contemplazione il considerare che qualunque moto venga attribuito alla Terra, è necessario che a noi, come abitatori di quella ed in conseguenza partecipi del medesimo, ei resti del tutto impercettibile e come s'e' non f·usse, mentre che noi riguardiamo solamente alle cose terrestri; ma è bene all'incontro, altrettanto necessario che il medesimo movimento ci si rappresenti comunissimo di tutti gli altri corpi ed oggetti visibili che, essendo separati dalla Terra, mancano di quello. A tal che il vero metodo per investigare se moto alcuno si può attribuire alla Terra, e potendosi, quale e' sia, è il considerare ed osservare se ne i corpi separati dalla Terra si scorge apparenza alcuna di movimento, il quale egualmente competa a tutti; perché un moto che solamente si scorgesse, verbigrazia, nella Luna, e che non avesse che far niente con Venere o con Giove né con altre stelle, non potrebbe in venma maniera essere della Terra, né di altri che della Luna. Ora, ci è un moto generalissimo e massimo sopra tutti, ed è quello per il quale il Sole, la Luna, gli altri pianeti e le stelle fisse, ed insomma l'universo tutto, tranne la sola Terra, ci appariscono unitamente muoversi da oriente verso occidente dentro allo spazio di venti quattr'ore, e questo, in quanto a questa prima apparenza, non ha repugnanza di poter essere tanto della Terra sola, quanto di tutto il resto del mondo trattone la Terra. [. .. ] [SAGREDO] Se per tutta l'università degli effetti che possono aver in natura dependenza da movimenti tali, seguissero indifferentemente tutte le medesime conseguenze a capello tanto dell'una posizione che dell'altra, io, quanto alla mia prima e generale apprensione, stimerei che colui che reputasse più ragionevole il far muovere tutto l'universo, per ritenere ferma la Terra, fusse più irragionevole di quello che, sendo salito in cima della vostra Cupola (la cupola del Brunelleschi in Santa Maria del·

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Fiore 1 ) non per altro che per dare una visita alla città ed al suo contado, domandasse che se gli facesse girare intorno tutto il paese, acciò non avesse egli ad aver fatica di volgere la testa: e ben vorrebbero essere molte e grandi le comodità che si traesser da quella posizione e non da questo, che pareggiassero nel mio concetto e superasser questo assurdo, sì che mi rendersser più credibile quella che questa. Ma forse Aristotile, Tolomeo e il signor Simplicio ci devono trovare i loro vantaggi, li quali sarà bene che sien proposti a noi ancora, se vi sono, o mai sia dichiarato come e' non vi siena né possano essere. [SALVIATI] Io sì come, per molto che ci abbia pensato, non ho potuto trovar diversità alcuna, così mi par d'aver trovato che diversità alcuna non vi possa essere; onde io stimo il più cercarla essere vano. Però notate: il moto intanto è moto, e come moto opera, in quanto ha relazione a cose che di esso mancano; ma tra le cose che tutte ne partecipano egualmente, niente opera ed è come s'e' non fusse: e così le mercanzie delle quali è carica la nave, in tanto si muovono, in quanto, lasciando Venezia, passano per Corfìt, per Candia, per Cipro, e vanno in Aleppo, li quali Venezia, Corfù, Candia etc. resta, né si muovono con la nave; ma per le balle, casse ed altri colli, de' quali è carica e stivata la nave, e rispetto ala nave medesima, il moto da Venezia in Soria è come nullo, e niente altera la razione che è tra di loro, e questo perché è comune a tutti e da tutti è partecipato; e quando delle robe che sono in nave una balla si sia discostata da una cassa un solo dito questo solo sarà stato per lei movimento maggiare, in relazione alla cassa, che 'l viaggio di dua mila miglia fatto da loro di conserva.

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G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, pp. 141-144

Newton: il moto assoluto e le leggi del movimento Nato lo stesso anno della morte di Galileo Galilei, Newton ha raccolto l'eredità dello scienziato toscano e ha avuto il merito di unificare il lavoro dei pensatori che lo hanno preceduto in una nuova e potente sintesi. Come mostra la sua opera, la fisica moderna non è nata da osservazioni empiriche occasionali, ma è frutto piuttosto di una capacità di astrazione e di analisi che si sostituisce al senso comune: la spiegazione dei fenomeni fisici non è ricava· ta dall'esperienza immediata, come si evince dalla nozione di movimento. Come accade per la nozione di tempo, spazio e luogo, anche la nozione di moto per es· sere affrancata dai pregiudizi deve essere considerata in modo assoluto, scientificamente distinguendola dall'accezione volgare del moto. In ifiDl Newton distingue tra moto relativo e assoluto di un corpo, l'uno riferitoa un luogo relativo, l'altro a un luogo assoluto. Un corpo che si muove su di una nave in moto ha un movimento relativo, se riferito alla nave, assoluto invece se riguardato insieme al movimento della nave stessa. Se fosse in quie-

ll. Il Duomo di Firenze.

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te sulla nave in movimento/ la sua quiete sarebbe solo relativa/ non assoluta ~>11-9. Analoghe considerazioni coinvolgono i movimenti della nave rispetto al movimento della Terra e dei corpi e degli oggetti che si trovano su di essa/ in un crescendo di riferimenti che rimandano implicitamente ali/idea di uno spazio assoluto/ luogo rispetto al quale tutti i movimenti siano commisurabili ~>11 0-24. Newton/ inoltre/ ha trasformato la struttura della scienza fisica con le sue tre leggi del movimento !liE!l/ la prima delle quali è quella di inerzia/ che 1\Jewton esemplifica col moto dei proiettili H 1-1 O; la seconda riguarda la proporzionalità fra l'azione e la forza ,..111-20; la terza riguarda l/equivalenza fra azione e reazione ~>121-38.

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Moto assoluto e moto1•elatiuo

Il moto assoluto è la traslazione di un corpo da un luogo assoluto in un luogo assoluto, il relativo da un luogo relativo in un luogo relativo. Così in un nave spinta dalle vele, il luogo relativo di un corpo è quella parte della nave in cui il corpo giace, ossia quella parte dell'intera cavità che il corpo riempie e che dunque si muove insieme alla nave: e la quiete relativa è la permanenza del corpo in quella medesima parte della nave o parte della cavità. Ma la quiete vera è la permanenza del corpo nella medesima parte di quello spazio immobile nella quale la stessa nave si muove insieme alla propria cavità e all'intero suo contenuto. Di conseguenza, se la Terra è realmente in quiete, il corpo che era in quiete relativa sulla nave, si muoverà di moto reale assoluto con la stessa velocità con la quale la nave si muove sulla Terra. Se invece si muove anche la Terra, il moto vero ed assoluto del corpo nascerà in parte dal moto vero della Terra nello spazio immobile, in parte dal movimento relativo della nave sulla Terra: e se anche il corpo si muove di moto relativo sulla nave, il suo moto vero nascerà in parte dal moto della Terra nello spazio immobile, in parte sia dai moti relativi della nave sulla Terra, sia del corpo sulla nave; da questi movimenti relativi nascerà il movimento relativo del corpo sulla Terra. Se quella parte della- Terra, che la nave occupa, si muove verso oriente con una velocità di 10010 parti, e la nave viene trasportata dalle vele e dal vento verso occidente con una velocità di dieci parti; se, inoltre, un marinaio si muove verso oriente, sulla nave, con una velocità pari ad una parte: allora il marinaio si muoverà di moto vero e assoluto nello spazio immobile, verso oriente, con 10001 parti di velocità, e sulla Terra si muoverà di moto relativo, verso occidente, con nove parti di velocità.

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I. Newton, Principi matematici dellafilosofìa naturale, pp. 104-105

~ La legge di inerzia

Legger. Ciascun corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, eccetto che sia costretto a mutare quello stato da forze impresse. I proiettili perseverano nei propri moti salvo che siano rallentati dalla resistenza dell'aria, e sono attratti verso il basso dalla forza di gravità. Una trottola, le cui parti, a causa della coesione, di continuo si deviano l'una dall'altra dal movimento rettilineo, non cessa di ruotare, salvo che venga rallentata dalla resistenza dell'aria. I corpi più grandi dei pianeti e delle comete conservano più a lungo i propri moti sia progressivi che circolari effettuati in spazi meno resistenti.

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La pu·oporzia:malitìt tra azione e fot•za

Equhmlenza tra azione e reazione

Legge II. Il cambiamento di moto è proporzionale al forza motrice impressa, ed avviene lungo la linea retta secondo la quale la forza è impressa. Posto che una qualche forza generi un movimento qualsiasi, una forza doppia ne produrrà uno doppio, e una tripla uno triplo, sia che sia stata impresa di colpo e in una sola volta, sia gradatamente ed in tempi successivi. E questo moto (poiché è sempre determinato lungo la stessa direzione della forza generatrice) se è concorde e se il corpo era già mosso, viene aggiunto al moto di quello; sottratto se contrario, oppure aggiunto solo in parte se obliquo, così da produrre un nuovo movimento composto dalla determinazione di entrambi. Legge III. Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria: ossia, le azioni di due corpi sono sempre uguali fra loro e dirette verso parti opposte. Qualunque cosa pressi o tiri un'altra cosa, è pressata e tirata da essa nella stessa misura. Se qualcuno preme una pietra col dito, anche il suo dito viene premuto dalla pietra. Se un cavallo tira una pietra legata ad una fune, anche il cavallo è tirato ugualmente (se così si può dire) verso la pietra: infatti la fune distesa tra le due parti, per lo stesso tentativo di allentarsi, spingerà il cavallo verso la pietra e la pietra verso il cavallo; e di tanto impedirà l'avanzare dell'uno di quanto promuoverà l'avanzare dell'altro. Se un qualche corpo, urtando in un altro corpo, in qualche modo avrà mutato con la sua forza il moto dell'altro, a sua volta, a causa della forza contraria, subirà un medesimo mutamento nel proprio moto in senso opposto (ciò a causa della eguaglianza della mutua pressione). A queste azioni corrispondono uguali mutamenti, non di velocità ma di moto: sempre che sui corpi non agisca nessun altro impedimento esterno. I mutamenti di velocità, infatti, effettuati allo stesso modo in direzioni contrarie, in quanto i moti sono modificati in uguale misura, sono inversamente proporzionali ai corpi.

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.l n problema fondamentale dell'astronomia è il moto dei pianeti. Indipendentemente dalla forma circolare o ellittica che ad esso viene assegnata, è interessante confrontare le spiegazioni che filosofi e scienziati hanno dato di tale fenomeno. Secondo Copernico e Galileo è la loro natura circolare ad imprimere ai corpi celesti il moto rotatorio. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Galileo prova però a fornire una conferma del moto del pianeta Terra, ricorrendo anche al fenomeno delle maree. Keplero attribuisce invece al Sole un'anima e la forza di trascinare con sé tutti i corpi che ruotano nel suo sistema secondo orbite ellittiche. Newton ha fornito infine la spiegazione fondata sulla gravità. Egli attribuisce alla forza centripeta la causa che impedisce alla Luna e ai pianeti di allontanarsi in linea retta. Nel terzo libro dei Principia egli osserva infatti che la Luna non si allontana in linea retta dalla Terra, perché precipita continuamente su di essa, attratta dalla forza centripeta. Tale forza è inversamente proporzionale al quadrato della distanza.

G. Galilei, Fasi lunari, 1609, Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale.

Copernico: il movimento uniforme, circolare e perpetuo dei corpi celesti La fisica di Copernico, come la precedente fisica aristotelica, attribuisce il moto circolare ai corpi celesti per una ragione molto semplice: come dice Aristotele, è il solo moto uniforme che può continuare indefinitamente in uno spazio finito. C'è una differenza importante, però, che bisogna sottolineare: mentre per Aristotele la sfericità dei corpi celesti riguarda l'essenza della loro natura ed è una forma sostanziale, per Copernico i corpi celesti girano grazie alla forma sferica. È come dire che il primo giustifica l'adozione del moto circolare in base a una ragione metafisica, mentre il secondo lo adotta solo per una ragione meccanica.

Nel primo libro del De revolutionibus, da cui è tratto il brano seguente liitdll, Copernico spiega perché il mondo è sferico e perché anche la Terra è sferica e forma un solo globo con l'acqua, per poi soffermarsi sulla circolarità del moto dei pianeti. Il movimento prodotto dalla rotazione di una circonferenza è uniforme e in esso non si può determinare né l'inizio, né la fine ~11-5. Sulla base della teoria tolemaica, il testo descrive poi il moto apparente del cielo, «che i greci chiamano nuctemeron», parola composta da nyks (notte) e heméra (giorno), che vuoi dire «di una notte e di un giorno». Con

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le stelle tutti i corpi celesti («il Mondo intero») ruotano infatti da est a ovest intorno alla Terra, considerata immobile e misura di tutti i movimenti ~15-11. Oltre a questo movimento, il Sole, la Luna e gli altri pianeti compiono un moto definito retrogrado, cioè inverso a quella del moto da ovest verso est. Se il moto solidale con le stelle segna i giorni, i moti retrogradi danno invece la misura terrestre degli anni (il moto retrogrado del Sole), dei mesi (la Luna) ~111-15. Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno non ruotano sullo stesso punto in cui è imperniato il moto del Sole, ma corrono sulla «obliquità dello zodiaco». Il movimento dei pianeti inoltre non ha un unico centro, assumendo talvolta anche velocità diverse ~115-19. Il testo si riferisce anche agli epicicli e ricorda le anomale evoluzioni delle loro orbite, dovute ai movimenti sregolati dei pianeti chiamati erranti per antonomasia ~>-119-24. Dando lettura dei moti apparenti del cielo, Copernico intende, sia mettere a nudo le difficoltà della teoria tolemaica nel rendere conto dei fenomeni celesti, sia ricordare la profonda struttura matematica del cosmo, l'ordine e la circolarità del movimento ~>-124-32.

Il moto rotatorio

Movimenti di t•ivolnzione e di retroga•adazione secondo l'ottica geocentrica

L'o&•dine e la circola•·itiì del moto

Dopo ciò, ricorderemo che il movimento dei corpi celesti è circolare. Infatti la mobilità [propria] della sfera consiste nel ruotare in circolo, esprimendo con questo stesso atto la sua forma, nel corpo più semplice, dove non si può trovare principio né fine, né distinguere l'uno dall'altro, mentre per essa si muove su se stessa. Vi sono inoltre, in relazione alla moltitudine degli orbi, più movimenti. Di tutti il più evidente è la rivoluzione quotidiana, che i greci chiamano nuctemeron, ossia lo spazio di tempo del giorno e della notte. Per questa rivoluzione si crede che il mondo intero si muova da oriente verso occidente, eccettuata la Terra. Essa è considerata la misura comune di tutti i movimenti, poiché misurano il tempo stesso soprattutto con il numero dei giorni. Poi vediamo altre rivoluzioni quasi retrograde, ossia muoventisi da occidente ad oriente, in particolare quella del Sole, della Luna e dei cinque pianeti. Così il Sole ci dà l'anno, la Luna i mesi, i tempi più comuni; così gli altri cinque pianeti compiono ognuno il proprio circuito; e questi sono tuttavia diversi nella loro molteplicità. Prima di tutto perché non ruotano sugli stessi poli di quel primo movimento, ma corrono sull'obliquità dello zodiaco [l'eclittica]; poi perché nel loro stesso circuito non sembrano muoversi in modo uniforme. Infatti il Sole e la Luna appaiono talvolta lenti, talvolta più veloci nel loro corso. Inoltre scorgiamo le altre cinque stelle erranti talvolta anche retrocedere o fare di quando in quando soste. E mentre il Sole sempre procede nel suo retto cammino, queste errano in vario modo, talvolta verso austro, talvolta verso settentrione, e per questo sono dette pianeti [erranti]. Si aggiunga ancora che talvolta sono pilt vicine alla Terra, e sono dette al perigeo, altre volte più lontane, ossia all'apogeo. Nondimeno bisogna riconoscere che i loro movimenti sono circolari o composti di più cerchi, perché compiono queste ineguaglianze secondo una certa legge e con ritorni periodici, il che non potrebbe accadere se non fossero circolari. Solo il circolo, infatti, può riportare le cose passate, come ad esempio il Sole ci riconduce, con il suo movimento composto di circoli, l'ineguaglianza dei giorni e delle notti e le quattro stagioni dell'anno, e in ciò si riconoscono più movimenti giacché non può avvenire che un corpo celeste semplice sia mosso in modo ineguale da un solo orbe. N. Copernico, De revolutionibus orbium coelestium, pp. 47-51

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Galileo: il flusso delle maree Nella quarta giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Galileo si occupa del fenomeno delle maree~. La teoria che elabora per spiegare i flussi alterni dell'acqua del mare è erronea e tuttavia la spiegazione delle maree è interessante perché, secondo lo scienziato toscano, era una prova fisica a favore della teoria eliocentrica. L'errore consiste nel negare il ruolo dell'attrazione lunare sulle acque del mare e nel far dipendere il fenomeno dal moto di traslazione e di rotazione della Terra. Nel testo qui ri-

prodotto il fenomeno delle maree è addotto quale prova del moto della Terra ~>11-15. Secondo Galilei, l'acqua del mare, non essendo concatenata alla Terra ma libera di muoversi, come accade a quella contenuta in un vaso che gira su se stesso e contemporaneamente viene spostato in senso circolare intorno a un punto, si muove perché la Terra è in movimento ~>115-29.

Una prova in grado di da1•e una conferma fisica al moto della l'erra: le maree

Se la Tel'l'a fosse immobile l'acqua del mare mm fluirebbe né riflui••ehlie

[SALVIATI] Credo che l'immaginazione vostra, più che la vostra tardanza, abbia allungato il tempo; e per non lo prolungar pil:l, sarà bene che, senza interporre altre parole, venghiamo al fatto, e mostriamo come la natura ha permesso (o sia che la cosa in rei veritate stia così, o pur per ischerzo e quasi per pigliarsi giuoco de' nostri ghiribizzi), ha, dico, permesso che i movimenti, per ogni altro rispetto che per soddisfare al flusso e reflusso del mare attribuiti gran tempo fa alla Terra, si trovino ora tanto aggiustatamente servire alla causa di quello, e come vicendevolmente il medesimo flusso e reflusso comparisca a confermare la terrestre mobilità: gli indizi della quale sin ora si son presi dalla apparenze celesti, essendo che delle cose che accaggiono in Terra, nessuna era potente a stabilir più questa che quella sentenza, sì come a lungo abbiamo già esaminato, con mostrare che tutti gli accidenti terreni, per i quali comunemente si tiene la stabilità della Terra e la mobilità del Sole e del firmamento, devono apparire a noi farsi sotto le medesime sembianze posta la mobilità della Terra e fermezza di quelli; il solo elemento dell'acqua, come quello che è vastissimo e che non è annesso e concatenato al globo terrestre, come sono tutte l'altre sue parti solide, anzi che per la sua fluidezza resta in parte sui iuris e libero, rimane, tra le cose sullunari, nel quale noi possiamo riconoscere qualche vestigio ed indizio di quel che faccia la Terra in quanto al moto o alla quiete. Io, doppo aver più e più volte meco mediamo esaminati gli effetti ed accidenti, parte veduti e parte intesi da altri, che nei movimenti dell'acque si osservano, e più lette e sentite le vanità prodotte da molti per cause di tali accidenti, mi son quasi sentito non leggiermente tirare ad ammettere queste due conclusioni (fatti però i presupposti necessari): che quando il globo terrestre sia immobile, non si possa naturalmente fare il flusso e reflusso del mare; e che quando al medesimo globo si conferiscano i movimenti già assegnatili, è necessario che il mare soggiaccia al flusso e reflusso, conforme a tutto quello che in esso viene osservato.

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G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, pp. 493-494

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Keplero: l'anima e la forza del Sole NeWopera intitolata Astronomia nuova, del 1609, Keplero mette a confronto i due diversi indirizzi che possono essere seguiti dagli astronomi. L'indirizzo tolemaico raccoglie la maggior parte degli astronomi antichi e tratta i singoli pianeti separatarnente, facendo risalire la causa del loro movimento alle loro diverse orbite. Il secondo indirizzo, che include non solo i moderni ma anche alcuni astronomi dell'antichità, ricerca, invece, una causa comune per i differenti moti dei pianeti che appaiono assimilabili. La seconda schiera comprende Aristarco di Samo, Copernico e Tycho Brahe. L'ipotesi che formula Keplero intorno alla causa del moto planetario è diversa dalle precedenti !!Ula. Collocando i pianeti all'interno di orbite ellittiche ~11-3, egli fa dipendere il loro movimento dal Sole, che costituisce il centro del sistema, riconoscendolo come l'effetto di una forza magnetica ~13-12. Fa eccezione soltanto la rotazione stessa del Sole, per la quale Keplero ipotizza la presenza interna di un'anima ~112-13.

ll'fiiill 11 Soie: centi'O e forzo animato dell'uniuerso

Attraverso dimostrazioni molto laboriose e servendomi dei risultati di moltissime osservazioni, giunsi finalmente a stabilire che la traiettoria in cielo dei pianeti non è circolare, ma è una traiettoria ovale perfettamente ellittica. Dalla geometria appresi che una tale traiettoria viene descritta se si assegna al motore proprio dei pianeti la funzione di far oscillare il corpo lungo la linea retta che termina nel Sole. [. .. ]La mia costruzione fu infine terminata con l'aggiunta del tetto quando dimostrai che questa oscillazione deve essere prodotta da una facoltà rnagnetica corporea. I motori che sono propri dei pianeti appaiono in tal modo essere, con ogni probabilità, affezioni degli stessi corpi planetari, simili a quella affezione che è nel magnete che tende verso il polo e attrae il ferro. In tal modo tutto il sistema dei movimenti celesti è governato da facoltà meramente corporee, ossia magnetiche. Fa eccezione solo la rotazione locale del corpo del Sole, per spiegare la quale sembra sia necessaria la forza proveniente da un'anima.

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]. Kepler, Astronomia nova, pp.l65-166

Newton e l'astronomia fisica: la forza gravitazionale Grazie a Newton l'astronomia è diventata uno dei rami più importanti della matematica applicata. Egli ha individuato al suo interno tre parti distinte. Si può concepire un'astronomia sferica, che ha per oggetto la spiegazione dei fenomeni celesti partendo dal presupposto che la Terra sia al centro di un sistema di cui gli astri occupano la superficie. Si può concepire, inoltre, un'astronomia teorica, intendendo così la scienza che si occupa dei rapporti fra i corpi celesti: posizione relativa, lontananza, velocità. Si può intendere, infine, l'astrono· mia fisica, che ha per oggetto la scoperta dei princìpi dei moti celesti. La determinazione di tali princìpi è oggetto della meccanica razionale. L'astronomia fisica o newtoniana si differenzia dalle altre in quanto è in grado di ri· condurre i fenomeni alle leggi che li governano. E i fenomeni del cielo si spiegano mediante la forza di gravità, come scrive lo scienziato inglese nello Sco/io Generale dei Principi matematici della filosofia naturale. La gravità, diversamente dalle cause meccaniche, agisce non sulle quantità delle superfici delle particelle mosse, ma sulla quantità di materia solida~ ~11-12. Le proprietà intrinseche della gravit~, scrive Newton, non possono es· sere spiegate seguendo il metodo scientifico, cioè non possono essere dedotte dai feno·

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meni. Egli perciò si rifiuta di avanzare ipotesi non suffragate da leggi, perché le ipotesi non trovano posto nella filosofia sperimentale H 12-16. Sempre nel terzo libro dei Principi, la Proposizione IV del Teorema /ViE~ spiega che la Luna gravita verso la Terra, ed è sempre distratta da un moto rettilineo e trattenuta nella sua orbita dalla forza di gravità ,.11-12. In altre parole non si allontana dalla Terra, in quanto continua a precipitare su di essa ,.113-22.

La fimo di gravità

Le ipotesi della filosofia sperimentale

Fin qui ho spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare mediante la forza di gravità, ma non ho mai fissato la causa della gravità. Questa forza nasce interamente da qualche causa che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti, senza diminuzione della capacità, e opera non in relazione alla quantità delle superfici delle particelle su cui agisce (come sogliano le cause meccaniche) ma in relazione alla quantità di materia solida. La sua azione si estende per ogni dove ad immense distanze, sempre decrescendo in proporzione inversa al quadrato della distanza. La gravità verso il Sole è composta della gravità verso le singole particelle del Sole e, allontanandosi dal Sole, decresce costantemente in ragione inversa del quadrato delle distanze fino all'orbita di Saturno, come è manifesto dalla quiete degli afelii dei pianeti, e fino agli ultimi afelii delle comete, posto che quegli afelii siano in quiete. In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi. Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche.

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I. Newton, jprincipi matematici della filosofia naturale, pp. 795-796

La ualidità uniuersale della legge di !!l'imitazione

Se intorno alla Terra nuotassero numerose lune, come avviene nel sistema di Saturno o di Giove, i tempi periodici di queste [.. .] osserverebbero la legge dei pianeti trovate da Keplero, per la qual cosa le forze centripete di queste sarebbero inversamente proporzionali ai quadrati delle distanze dal centro della Terra. E se la più bassa di esse fosse piccola, e toccasse da vicino le cime dei monti più alti, la sua forza centripeta, per effetto della quale è trattenuta nell'orbita, sarebbe esattamente uguale alla gravità dei corpi sulle cime di quei monti, e accadrebbe che la medesima piccola luna, se venisse privata di tutto il moto col quale prosegue lungo la propria orbita, per la mancanza di forza centrifuga per effetto della quale era trattenuta nell'orbita, cadrebbe sulla Terra con la medesima velocità con la quale cadono i gravi sulle cime di quei monti, e ciò a causa dell'uguaglianza delle forze per causa delle quali cadono. E se la forza, per effetto della quale quella piccola luna più bassa cade, fosse diversa dalla gravità, e contemporaneamente quella piccola luna gravitasse sulla Terra come i corpi sulle cime dei monti, la medesima piccola luna, riunite entrambe le forze, cadrebbe con una velocità doppia. Per la qual cosa, poiché entrambe le forze, quelle dei corpi pesanti e quelle delle lune, sono dirette verso il centro della Terra, e fra loro sono simili ed uguali, avranno la medesima causa. Pertanto, la forza, per effetto della quale la Luna è trattenuta nella propria orbita, sarà quella stessa che siamo soliti chiamare gravità; e ciò affinché la piccola luna sulla cima del monte o non manchi di gravità o non cada con una velocità doppia di quella con cui i gravi sono soliti cadere.

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I. Newton, !principi matematici della filosofia naturale, pp. 622-623

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RIPENSIAMO INSIEME

copernicana dell'ipotesi eliocentrica. L'ipotesi di Copernico era del tutto nuova? In 8 righe.

Lo sguardo del contemporaneo ~ Alexandre Koyré indica nell'incontro tra i filosofi e

le macchine un elemento decisivo per la nascita della scienza moderna. Stando alle parole di questo studioso, il «macchinismo» andrebbe infatti a costituire un nuovo paradigma interpretativo della natura e del sapere. Prova a spiegare questa affermazione, richiamando per contrasto la concezione tradizionale, aristotelica, di natura e di scienza.

~ Servendoti dell'immagine a p. 100, illustra il siste-

ma ticonico dell'universo, descrivi la posizione della Terra, dei pianeti e il loro moto. Da cosa si evince che nel modello elaborato da Tycho Brahe non c'è più spazio per le eteree sfere cristalline e che in esso si assume il moderno concetto di orbita? In 10 righe. ~ Riassumi brevemente le tre leggi di Keplero e indi-

ca il valore dirompente di ciascuna di esse rispetto al tradizionale modello aristotelico-tolemaico. In 8 righe.

~ Quali nuove concezioni del moto e della materia

accompagnano la nascita del paradigma meccanico di spiegazione del mondo e della natura? ~ Fino a che punto il Rinascimento ha preparato la ri-

voluzione scientifica? Quali rapporti di opposizione e di continuità intercorrono tra la filosofia della natura rinascimentale e la scienza moderna?

Lo sguardo della tradizione ~ Cosa significa «unificazione del mondo fisico»? In

8 righe. E-'2"'121

Cosa vuoi dire per uno scienziato moderno «fare esperienza»? Ovvero, cos'è un esperimento e in cosa si differenzia dalla semplice osservazione? In 8 righe.

~ Riassumi la concezione astronomica aristotelico-

tolemaica, alla luce anche della teologia cristiana, soffermandoti a illustare il posto che in essa avevano l'uomo e la Terra, i diversi moti e le essenze che componevano i corpi celesti e terrestri. In 1 foglio protocollo. ~ Evidenzia le anomalie e le difficoltà dell'astronomia

tradizionale e presenta i diversi modelli che erano stati nel tempo elaborati al fine di «salvare i fenomeni», ossia per spiegare le apparenze senza rinunciare al paradigma geocentrico. In 1 foglio protocollo. ~ Moto apparente e moto reale dei pianeti: spiega

questa distinzione che è alla base dell'intuizione

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~ Illustra le scoperte di Galileo col cannocchiale e

mostra come ciascuna di esse minasse la concezione del mondo aristotelico-tolemaico. In 1 pagina di foglio protocollo.

T

Esponi la dottrina degli idoli di Bacon. In 8 righe.

~ Spiega in cosa consista la riforma baconiana del-

l'induzione e come essa si articoli nei suoi stadi e gradi. Hai a disposizione 1O righe. ~ Cos'è la forma secondo Bacon? E qual è il fine del-

la scienza? In 8 righe.

"W Quale rapporto intercorre tra ragione e fede, secondo Galilei? Qual è l'oggetto dell'una, qual è l'oggetto dell'altra? In quale linguaggio si presentano le due verità? Sono verità tra loro conciliabili o inconciliabili? In 12 righe. ~ Forma, personaggi e contenuti del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Componi una quarta di copertina in 1O righe. ~ Illustra la concezione del moto secondo Newton in relazione alle idee di spazio e tempo assoluti. In 8 righe. ~ Quale concezione della materia difende Newton? E qual è la sua applicazione nel calcolo differenziale e integrale? ~ Spiega il rapporto tra ipotesi e induzione in New-

ton, esemplificando mediante il nesso tra gravitazione universale e causalità divina.

La parola ai filosofi

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Come avrai letto nel tema «Ragione e fede» p. 148 sgg., sia Bruno, sia Galileo individuano nella pratica del dovere e nella morale l'ambito proprio e primario della Rivelazione. Le due posizioni sono però davvero convergenti? In 1O righe.

1112-;:n Senso letterale e metaforico delle Scritture secondo Bruno e Galileo, in 8 righe.

llli.J:ll «Sensate esperienze» e «necessarie dimostrazioni». Secondo Galileo cosa mostrerebbe ad Aristotele la «sensata esperienza» richiamata nel brano iii§ìl a p. 160 del tema «Esperienza e metodo nella scienza moderna»? Analizzando il brano successivo liiEJ, spiega che differenza passa tra una sensata esperienza e l'esperienza ingenua di un «accidente». Quale rapporto intercorre, secondo il brano liiiJl a p. 161, tra le sensate esperienze, le necessarie dimostrazioni e la verità divina. 0

lllli'lj.

Dopo aver letto il brano ~ p. 158 del tema «Esperienza e metodo nella scienza moderna», riassumi la critica di Bacon alla logica tradizionale e al sillogismo in particolare.

i!!!§"":J Metti a confronto i testi di Bacon (p. 155 sgg.) e di Galilei sulla scienza e il suo metodo, e prova a rintracciare elementi comuni e diversità. ~ Illustra l'argomentazione prodotta da Galilei a sostegno della distinzione tra qualità oggettive e soggettive dei corpi nel brano ~a p. 162 del tema «Esperienza e metodo nella scienza moderna». ~ Come risolve Galileo, nel brano~ p. 167 del te-

ma «Le leggi della natura», gli argomenti sulla caduta dei gravi avanzati dagli aristotelici contro il movimento della Terra? A partire dalla risposta a questa domanda enuncia anche i tre principi del moto galileiano. ~ Moto assoluto e relativo secondo Newton, produci degli esempi, simili a quello della nave nel brano~ p. 171 del tema «Le leggi della natura». Quale elemento fisico nuovo rispetto alle trattazioni di Galilei sopraggiunge nel brano di Newton ~p. 171?

~ Dalla lettura del testo di Copernico~ p. 174 del tema «Il moto dei pianeti», l'eliocentrismo appare essere davvero una semplice ipotesi matematica? A quale movimento del Sole si sta riferendo Copernico al termine del brano?

ffiìftr Riassumi l'argomentazione di Galilei sulla mobilità della Terra, basata sul fenomeno delle maree, brano~ p. 175 del tema «Il moto dei pianeti». In 8 righe.

Efìm Come avviene e mediante quali cause si produce, secondo Keplero, il movimento dei pianeti intorno al Sole, brano~ p. 176 del tema «Il moto dei pianeti»? Il Sole è un motore mobile o immobile? ~ Spiega il rapporto tra forza centrifuga e forza di

gravità, tra distanza e massa per come le esemplifica Newton in lii§Jp. 177 del tema «Il moto dei pianeti». In 8 righe.

Prova a pensare da solo ""'1"""" Sulla scorta delle parole del filosofo Karl Jaspers a

p. 115, confronta le vicende filosofiche e umane di Bruno e di Galilei. Soffermati sulle due personalità, sulle tesi da loro difese, sui metodi e sul diverso approccio dinanzi alla comune fiducia nella verità del copernicanesimo. In 2 colonne di foglio protocollo. ~ A Galileo e Bruno sono stati dedicati due film ita-

liani, non troppo recenti ma non per questo meno importanti: l'uno Ga/1'/eo della regista Liliana Cavani del1968, l'altro Giordano Bruno del regista Giuliano Montaldo del 1973. Prova a procurarteli, guardali e documentati anche sulle pellicole (registi, attori, successo ecc.). Stendi poi un resoconto dell'esperienza con le tue riflessioni personali. ~ La vicenda di Galileo continua ancora oggi a rima-

nere aperta, a far discutere e a mantenere viva la questione del rapporto tra scienza e fede, sui loro limiti e sui loro ambiti. Dopo esserti documentato, componi un saggio di non più di 4 colonne di foglio protocollo su questo tema, utilizzando anche le fonti che hai a disposizione nel testo. tò:l~ Uno degli aspetti più rilevanti della nascita del pen-

siero scientifico è lo scontro e la negazione del principio di autorità, a difesa della libertà di pensiero e di ricerca, anche in base al convincimento che non tutto ciò che è tradizione, antico, tramandato dai padri è vero per forza. Prova a riflettere su questo tema, in base anche alla tua eventuale esperienza personale. In 3 pagine di foglio protocollo. ~ Sapere e virtù, secondo la formula socratica? O sa-

pere è potenza, secondo la formula del moderno Bacon? Sviluppa questo tema problematico in 2 pagine di foglio protocollo.

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Altri orizzonti

~ Michele Camerota,

Galileo Galilei e la cultua ra scientifica nell'età della controriforma, Roma, Salerno Editrice, 2004.

Il libro, uno dei testi più recenti su Galileo, ripercorre la vita del grande scienziato pisano, le vicende e il clima storico del tempo. Inoltre, mantenendosi sempre leggibile e accessibile, si sofferma con precisione e rigore anche su temi più metoclologici e scientifici, sulle controversie fisiche e filosofiche, ricostruendo le diverse posizioni in campo. L'autore affronta infine la questione dell'accusa a Galileo, del processo e dell'abiura. Dalla lettura del libro, riuscirai ad apprezzare in tutta la sua interezza, complessità e profondità il contributo eccezionale fornito da Galileo alla scienza e al pensiero moderno. ~ Michael Hoskin,

Storia dell'astronomia, Mila-

no, Rizzoli, 2009.

Con stile divulgativo, non specialistico, il libro ricostruisce oltre 5000 anni - dal 3500 a.C. fino alle soglie del 2000 - eli conoscenze e eli ipotesi sul cielo, sui suoi fenomeni, sui suoi misteri. Prima di giungere a trattare

della rivoluzione copernicana e scientifica e poi delle scoperte più recenti, non tralascia eli trattare con divertita curiosità anche il sapere astrologico, o le antichissime concezioni, comprese quelle delle civiltà precolombiane o di paesi e culture apparentemente lontani, quali la Cina e la tradizione islamica. Si tratta di un'opera collettiva scritta da sei grandi studiosi internazionali, che puoi leggere iniziando dal tema che più solletica il tuo interesse. ~ Jean-Pierre Luminet, La parrucca di 1\lewton,

Roma, La LepreEdizioni, 2011.

L'autore del libro è uno dei più autorevoli e prolifici astrofisici francesi viventi, non nuovo a simili operazioni editoriali, a metà strada tra il saggio e il romanzo. Già il titolo irriverente anticipa l'approccio dell'autore nel trattare la vita e l'opera eli Newton, una personalità complessa, dal carattere difficile, a dispetto di tanta vulgata apologetica che ha spesso esaltato soltanto i tratti della sua genialità scientifica. Senza perdere in precisione di analisi nei passaggi che maggiormente attengono alla scienza e alla filosofia, Lurriinet riesce a romanzare la vita e il pensiero di Newton, soffermandosi anche sugli aspetti più esoterici e meno noti, come ad esempio l'interesse per l'alchimia o per la religione e la teologia, dimostrati dagli studi newtoniani sull'Apocalisse e sulle Scritture.

Verso un pensiero creativo ~ La rivoluzione scientifica del XVII secolo introdusse un metodo per dar corpo all'intuizione della matematizzabilità della natura: Galileo poté asserire che il libro della natura è «scritto in caratteri matematici» poiché riuscì a trovare formule (algoritmi) in grado di descrivere la dinamica di alcuni fenomeni naturali. Le formule hanno una proprietà singolare e sorprendente: una volta formulata la legge del movimento del pendolo, posso predire come si muoverà un pendolo con un filo molto più lungo o più corto di quelli che ho osservato. Ma fino a che punto la natura è traducibile in formule matematiche? Si possono descrivere in termini matematici fenomeni naturali complessi come la nascita di una pianta o l'evoluzione del tempo meteorologico? Fino a che punto la natura è «riducibile» (o, come si dice, «comprimibile») in algoritmi, e fino a che punto è davvero possibile «prevedere» l'evoluzione dei fenomeni naturali? -

~ l mutamenti nel modo di concepire la «natura» e i mutamenti tecnologici - che ridisegnano la capacità dell'uomo di osservare la natura e di interagire con essa - possono avere risvolti sul piano etico e politico? In che modo accade oggi e in che modo è accaduto in passato?

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~ Prima ancora della rivoluzione scientifica, nel 1435, nel trattato De pictura, Leon Battista Alberti espone un metodo per la rappresentazione in prospettiva del mondo visibile. La figura da rappresentare viene guardata attraverso un reticolo a maglie quadrate, che aiuta il pittore a «proiettare» l'immagine tridimensionale sul piano bidimensionale. La proposta di Alberti è stata illustrata da Albrecht Dlirer nel suo Underweysung der Messung (I quattro libri della misura, 1525), con l'aggiunta di un'asta verticale da cui traguardare.

La tecnica prospettica di Leon Battista Alberti anticipa tecnologie contemporanee, come quella alla base dei monitor dei computer, le cui immagini dall'apparenza continua sono in realtà composte di minuscoli «pixel», ossia di piccoli quadrati luminosi e colorati. Ma la prospettiva consente davvero una rappresentazione «fedele» del mondo visibile? Cosa significa «rappresentare» la natura?

Per idee, spunti e curiosità sulle domande precedenti, vedi il ~>l Seminario autonome e feconde di vera conoscenza, a differenza dei sensi che rimangono invece all'apparenza delle cose e possono spesso sviare dalla ricerca della verità. Ispirandosi così al modello dimostrativo della matematica e della geometria, Descartes elabora un metodo fondato sull'attività pura del pensare per intuizioni e deduzioni, screditando il valore della testimonianza dei sensi, vaga e confusa, talvolta ingannatrice e revocabile in dubbio. Secondo Descartes l'intelletto umano è infatti in grado di accedere a verità universali e necessarie (come il cogito, l'idea di Dio, i principi o gli assiomi generalissimi) innate, perché non derivate dai sensi, in grado di concatenarsi se condotte con metodo nel sapere certo e fondato della matematica, della geometria, della fisica, garantito nella sua immutabile realtà da Dio.

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La grande stagione della f"ùosofia moderna IL'ef•edità cartesiana • Il razionalismo e il dualismo eli Descartes hanno lasciato un'eredità ricchissima e complessa sulla quale si sono esercitate generazioni eli filosofi moderni. Alcuni eli questi, come il francese Nicolas Malebranche (1638-1715), si porranno più vicini alla prospettiva cartesiana approfondendo e provando a chiarire molte delle problematiche da essa aperte; altri, invece, come l'olandese Baruch Spinoza (1632-1677) e il tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), dal confronto con Descartes matureranno costruzioni interamente personali e alternative del razionalismo e della metafisica, in concorrenza tra eli loro. Interagiscono direttamente e dialogano criticamente con la prospettiva cartesiana anche le filosofie dell'inglese Thomas Hobbes (1588-1679), materialista, e del francese Pierre Gassendi 0592-1655), empirista. Con Descartes si apre quindi una grande stagione filosofica, nella quale, accanto ai notevoli contributi offerti dalla rivoluzione scientifica, i loro protagonisti

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elaborano potenti teorie della conoscenza e imponenti concezioni sistematiche del mondo, dell'universo, di Dio.

Il t•azionalismo radicale di Spirmza • Anche il pensiero di Spinoza prende avvio diretto dalle problematiche sollevate dalla filosofia cartesiana. Egli esalta ancor di più il razionalismo del metodo deduttivo caratteristico della scienza aritmo-geometrica per la sua capacità di dimostrare l'ordine eterno della realtà. A differenza del percorso seguito da Descartes, nessun dubbio metodologico precede o accompagna l'esposizione della sua filosofia, nella quale la verità si impone da sola ed è indice, norma, criterio di sé e del falso, per l'immediata certezza con cui si mostra. Di Descartes, Spinoza accetta il carattere geometrico della materia, ovvero l'identificazione di quest'ultima con l'estensione, e la concezione meccanicistica della natura corporea, operando tuttavia una semplificazione del concetto di sostanza. Se la sostanza è «ciò che è in sé e si concepisce di per sé>·, allora né le menti, né i corpi possiedono i requisiti per dirsi sostanze in senso proprio: entrambi infatti per sussistere hanno bisogno di altro, cioè di Dio. L'unica sostanza che esiste nell'universo, a rigar di logica deduttiva, è dunque Dio (monismo): l'unico, secondo Spinoza, che può vantare un'esistenza autosufficiente e indipendente da qualunque altra cosa. Tutto è in Dio e la divinità è la Natura stessa (Deus sive natura, «Dio ossia la natura . , come si esprime a più riprese Spinoza), ossia la totalità assoluta delle menti, dei corpi e di tutte le altre cose all'uomo ignote che compongono l'universo infinito. In Spinoza la critica all'antt·opocentrismo e alla concezione rinascimentale dell'uomo è totale eradicale. Tutto discende da Dio con fet·rea necessità causale, senza scopo, disegno o finalità; e niente di diverso nel mondo poteva o potrà accadere da quanto è accaduto o accadrà. Per Spinoza, a differenza ancora di Descartes, nemmeno l'uomo è libet·o divolet•e e il principio di causalità governa ciò che accade nel corpo, come nella mente. Leibniz: ii confronto con il meccanicusmo • Lo spinozismo appare a Leibniz come quanto di più affascinante e terribile il pensiero possa elaborare; nel filosofo olandese Leibniz vede infatti lo sviluppo più coerente e più pericoloso del cartesianesimo: la filosofia di Spinoza identifica Dio con la natura, annulla

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la libertà dell'uomo e con essa ogni re~;pcms;ab>ilità;"/ morale. Il monismo e il determinismo di Spinoza no perciò i principali bersagli polemici di Leibniz. Fin dagli esordi, già nel Discorso di Metafisica del 1686 Leibniz prende però anche le distanze da quello gli appare il loro presupposto, ossia la visione meccanicistica della natura di Descartes, difendendo invece l'utilità della nozione di causa f"male per comprendere lo scopo per cui l'universo sussiste. Tutto secondo Leibniz possiede infatti una ragione per esistere e tale ragione è il disegno superiore di Dio, l'essere perfetto che ha creato il "migliore dei mondi possibili". Il superamento del materialismo e del meccanicismo lo porta inoltre a pensare che le sostanze che compongono l'universo siano infinite (le monadi), create direttamente da Dio, e che non abbiano natura materiale, bensì spirituale. Come centri di energia, le monadi sviluppano il proprio essere in virtù di una forza interna, finalizzata a realizzare la maggior perfezione possibile. Anche su queste basi Leibniz propone una versione originale dell'innatismo, la dottrina difesa anche da Descartes, secondo la quale la nostra conoscenza non nasce tutta dall'esperienza dei sensi. Secondo Leibniz, infatti, nella nostra mente sarebbero già contenute delle predisposizioni a elaborare idee universali; perciò l'innatismo di Leibniz è anche detto virtuale: il nostro spirito possiede principi e idee innate non in modo consapevole, ma ancora inconscio o «Virtuale". Sono gli stimoli esterni a far emergere tali principi: i bambini, così, possiedono fin dalla nascita in forma inconscia verità come, ad esempio, quelle della matematica; la mente non è pe1tanto una tabula rasa, un foglio bianco, ma piuttosto un «blocco di marmo" che i sensi scolpiscono seguendo venature già presenti.

Ragione e fede • In Leibniz e in Spinoza la ragione si erge a giudice anche delle passioni irrazionali che muovono gli uomini nelle guerre di religione, nelle interminabili e sanguinose lotte politiche, che attraversano l'Europa del loro secolo. Per quanto il pensiero di Leibniz si costruisca in opposizione alla riflessione di Spinoza, concorde è la fiducia che anche il filosofo tedesco ripone nella potenza pacificatrice della ragione. Per Leibniz, essa è soprattutto calcolo e dunque anche capacità pratica di mediare, di limare le asperità contenute in opinioni diverse, anche di carattere religioso.

Del resto, secondo Leibniz il nucleo comune della religione dei cristiani conterrebbe una verità conforme alla ragione, mentre ciò su cui si dividerebbero le varie confessioni costituirebbe un ambito sovrarazionale, né contrario, né conforme alla ragione. Per Spinoza, invece, la ragione è superiore e distinta dalla religione. L'ambito entro cui si deve collocare la fede religiosa non è quello della conoscenza, bensì quello pratico-morale, a beneficio eli coloro che sono mossi solo dalle passioni e che non seguono i dettami della ragione. Per Spinoza la conoscenza del Dio autentico coincide del resto con la comprensione della natura e dell'universo, determinando un ideale morale di uomo razionale, libero dalle passioni.

Problemi vecchi e nuovi M€;mte e corpo • Importanti discussioni su tematiche classiche della filosofia attraversano l'età inaugurata dalla filosofia cartesiana coinvolgendo quasi tutti i filosofi del Seicento. Centrale e decisiva è la questione del rapporto mente/anima-corpo, ridiscussa alla luce del problematico dualismo cartesiano. Descartes si era infatti limitato a prendere atto dell'interazione tra mente e corpo, senza riuscire a spiegare come potessero comunicare due sostanze di genere totalmente diverso, l'una pensante, l'altra estesa e con niente in comune tra di loro. Nella concezione di Spinoza, le menti e i corpi non sono invece sostanze, bensì modi dell'unica sostanza Dio, ossia la natura, e da essa prodotte con necessità secondo concatenazioni causali parallele (parallelismo), in virtù delle quali all'esistenza di un corpo si accompagna sempre anche l'idea di esso. Leibniz prospetta un'ulteriore diversa soluzione pensando un universo interamente spirituale nel quale Dio ha introdotto fin dalla creazione un'armonia, una perfetta corrispondenza tra le percezioni delle monadi (armonia pt·estabilita). Dal canto suo Malebranche difende l'occasionalismo, la dottrina secondo la quale la mente e il corpo non interagiscono realmente tra di loro ma, all'occasione del loro rapporto, è Dio a intervenire causalmente secondo leggi generali.

Ma accanto a questi tentativi di salvare una dimensione spirituale, irriducibile a quella corporea, il filosofo inglese Thomas Hobbes, aveva già propugnato una concezione integrahnente materialistica che riconduceva i processi mentali a meccanismi di interazione fisica.

libertà o necessità delle azioni umane • Strettamente collegata al tema del rapporto mente-corpo è anche l'altra grande discussione intorno alla libertà o alla necessità delle azioni umane, colta adesso nel contesto di una concezione scientifica dell'universo e della natura interamente regolata dal principio della causalità efficiente. Da questo punto di vista si apre la questione dell'esistenza o meno di una determinazione causale assoluta anche nelle azioni umane, nei moventi che spingono a volere, ad agire. Anche su questo tema la posizione cartesiana era stata problematica. Alla difesa della libertà proposta da Descartes segue così in Spinoza la sua negazione e il difficile tentativo di Leibniz di rendere compatibili tra loro determinismo causale e finalità dell'agire umano. Contro la libertà umana si esprime anche il materialista Hobbes e trova difficoltà teoriche insormontabili Malebranche alla luce della sua teoria occasionalista che rende Dio l'unico agente del mondo. Il male e la bontà di Dio • La questione della libertà dell'uomo richiama e coinvolge a sua volta anche l'antica discussione sulla bontà e la giustizia eli Dio data l'esistenza del male nel mondo. È un tema avvertito in età moclet'na con straordinaria sensibilità soprattutto da Malebranche, la cui dottrina occasionalista rischiava eli rendere Dio causa di tutto e dunque anche del peccato e del male. Il filosofo cartesiano riconosce allora che Dio, pur potendolo prevenire dall'alto della sua onnipotenza, pet·mette il male, per non andare contro alla sua infinita saggezza che gli impone di agire sempre secondo leggi generali e non tramite miracoli, ossia interventi straordinari. Le difficoltà che anche questa soluzione conteneva non sarebbero però sfuggite acl un altro grande protagonista dell'età cartesiana, il filosofo francese Pierre Bayle (1647-1707), le cui analisi e le cui argomentazioni susciteranno l'immediato intervento di Leibniz, per poi rimanere ancora aperte nella successiva stagione filosofica illuminista in pieno XVIII secolo.

187

Descartes e la scoperta de a coscienza gni filosofo principiante conosce il meraviglioso processo di pensiero contenuto nelle Meditazioni. Richimniamone l'idea direttrice. Quest'idea mira a una completa r(forma della filosofia per farne una scienza con fondamento assoluto, il che implica, per Cartesio, una riforma corrispondente in tutte le scienze. Infatti queste non sono altro per lui che membra inseparabili della scienza universale, la filosofia. Soltanto entro la sua unità sistematica esse possono assurgere a scienze autentiche. Ma alle scienze, così come si sono storicamente formate, manca una tale autenticità, quella della .fondazione totale e ultima su intuizioni assolute, al di là delle quali non è possibile risalire.

O

E. 1-Iusserl, Meditazioni cartesiane, pp. 62-63

1. Il soggetto e il fondamento della scienza

L'io alla ricerca della verità Il passo del filosofo tedesco Edmund Husserl (1859-1938) sottolinea due aspetti importanti del pensiero di Descartes. Il primo riguarda il ruolo centrale che hanno le Meditazioni metafisiche (1641) all'interno della produzione dell'autore; il secondo pone l'accento sul fondamento delle scienze, sulla ricerca di ciò che le accomuna nella certezza. Husserl attribuisce al pensiero cartesiano il merito di aver vincolato la verità di ogni scienza alla ricerca filosofica di un fondamento assoluto trovandolo nell'iò, nel soggetto stesso che conosce, che fa scienza. Il valore delle Meditazioni consiste proprio nell'aver raccontato l'esperienza della fondazione totale e ultima, che inizia col dubbio e culmina nell'intuizione assoluta del cogito (dal latino cogitare, «pensare,), ossia dell'io nell'atto stesso di esistere come un «io che pensa", da cui cominciare a ricostruire l'unità sistematica del sapere certo, indubitabile, vero. Il t·acconto autobiografico, svolto da Descartes, non vuole essere una questione privata, né un espediente letterario, ma un modello di meditazione per ogni filosofo. Chiunque voglia avvicinarsi seriamente alla filosofia, come osserva ancora Husserl, deve almeno una volta nella sua vita ritrarsi in se stesso e cercare dentro di sé di distruggere tutte le scienze ritenute valide, per poi ricostruirle. La filosofia è saggezza ed è una ricerca che deve prendere le mosse dalla persona del filosofo.

Ricerca della verità e autobiografia • Il31 marzo 1596 René Descat"tes (latinizzato in Cartesio) nacque a La Haye, comune francese nella Touraine. Rimasto orfano della madre quando aveva poco più di un anno, tutta la sua infanzia fu condizionata da questo evento. Già in età matura ricordava ancora con vivido dolore questo avvenimento; si trattava però di un ricordo elaborato, nel quale la passione e la sofferenza, da una parte, e la ragione, dall'altra, avevano modificato l'ordine dei fatti. In una lette-

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ra indirizzata alla principessa del Palatinato Elisabetta di Boemia (16181680), egli infatti scrive che, venendo al mondo, ha causato la morte della madre:

Nato da una madre che pochi giorni dopo la mia nascita morì per un mal di petto, cagionato dai dispiaceri, avevo ereditato da lei una tosse secca e un pallore che conservai fino all'età di più di vent'anni, e chefaceva sì che tutti i medici che mi visitarono prima d'allora mi condannassero a morir giovane. R. Descartes, Lettera a Elisabetta, maggio o giugno 1645, p. 540

In realtà la madre morì un anno dopo la sua nascita, dando alla luce un altro figlio che, a sua volta, morì pochi giorni più tardi. Ma allora perché Descartes deforma il racconto? Il contenuto della lettera giustifica il ricorso alla propria vicenda biografica. Attraverso un aneddoto Descartes esemplifica l'idea che intende comunicare alla nobile corrispondente, affetta da una qualche forma di depressione. La confessione fatta alla principessa ha uno scopo preciso; si tratta di un efficace sostegno alla teoria che Cartesio sta .esponendo, secondo la quale la facoltà dell'immaginazione ha il potere di influenzare gli umori del nostt·o corpo. F. Hals, Ritratto di Anche se ha perso la madre quando aveva solo un anno e non quando è nato, René Descartes, 1649 ca., Parigi, Musée du Louvre. avrebbe avuto comunque una fondata ragione, nel corso della sua infanzia, per indulgere al dispiacere. Invece, attraverso l'esercizio dell'immaginazione, scrive alla principessa, è riuscito a vincere la melanconia e non ha assecondato l'inclinazione naturale prodotta dall'umore nero, detto atrabile, secreto dalla milza. La teoria che sta esponendo, perciò, non è fondata su astratti principi o sull'autorità di qualche moralista. Si tratta di una convinzione maturata riflettendo sulle passioni del proprio animo. È il frutto di una indagine condotta su se stesso attraverso l'osservazione e l'analisi che gli hanno permesso di cogliere in modo chiaro ed evidente le cause che sono all'origine dei moti dell'animo. L'autobiografia come Ancora una volta l'elemento autobiografico si mostra molto importante per capi· genere filosofico re il pensiero di Descartes. Non solo nelle lettere, dove potrebbe apparire scontato il riferimento confidenziale alla propria vita privata, ma anche nei saggi sono frequenti i passi autobiografici. Il racconto del proprio «io, ha almeno due funzioni: è un esempio ed è anche l'oggetto di una scoperta. Il passo della Lettera alla principessa Elisabetta è la pagina iniziale del racconto autobiografico che conduce, attraverso una serie di tappe intermedie, alla scoperta dell'io come pensiero. Un tale racconto viene sviluppato nel Discorso sul metodo, nelle Meditazioni meta:fisiche e nelle Regole per la guida dell'intelligenza.

2.

Il problema del metodo Gli armi della formazione • Nelle pagine iniziali del Discorso sul metodo (1637), Descartes parla degli anni della sua formazione, presso il collegio dei gesuiti di La Flèche. L'insegnamento, all'interno della rete di questi collegi che si estendeva in tutta Europa, era impartito in conformità con i principi morali di Ignazio di Loyola (1491-1556), fondatore dell'Ordine dei Gesuiti, i quali, a cominciare dal1599, venivano diffusi attraverso una raccolta di regole chiamata Ratio studiorum, alla quale dovevano attenersi i ret189

l

,

llualore degli studi tradizionali

La delusione

li significato della pl'ima pal'hl

del Discorso sul metodo

tori, gli insegnanti, i collaboratori e gli studenti. I programmi di studio prevedevano l'insegnamento, in latino, della grammatica, della retorica, dell'eloquenza, della filosofia e della teologia. La filosofia veniva studiata nei tre anni superiori, ed era insegnata attraverso l'opera di Aristotele nell'interpretazione di Tommaso d'Aquino, proclamato alla metà del Cinquecento dottore della Chiesa. L'insegnamento prevedeva lo studio della logica aristotelica ricorrendo soprattutto all'ausilio di commentari piuttosto che alla lettura diretta di testi originali. Venivano studiate anche la Fisica e il Cielo e, attraverso la Summa theologiae di Tommaso, la Metafisica e il trattato Sull'anima. Seguendo le orme del frat~llo Pierre, nel1607 Descartes entra nel collegio, che egli stesso reputerà una delle più famose scuole d'Europa. È soddisfatto prima di tutto per il trattamento: a causa della sua salute cagionevole, è infatti dispensato da alcuni uffici mattutini e gode del beneficio di restare a letto fino alle otto, mentre gli altri collegiali si alzavano alle cinque per una preghiera comune. Un'abitudine questa, di indugiare nel riposo mattutino, che lo accompagnerà anche dopo gli anni del collegio. Infatti, restare a letto sdraiato con le finestre aperte era la cura di distensione per combattere la tubercolosi. Ma, di fatto, la pratica sanitaria contro la tosse secca favorì la concentrazione della sua mente e indusse il giovane studente a dedicare queste ore mattutine alla soluzione di problemi matematici. Descartes convivrà sempre con la sua malattia, morendo di polmonite nel1650 alla corte della regina Cristina di Svezia, presso la quale, accettandone l'invito, si era trasferito l'anno precedente. Nel Discorso sul metodo, Descartes riconosce che, in gioventù, la scuola frequentata prometteva più di altre l'acquisizione di una conoscenza chiara e sicura di tutto ciò che pareva utile alla vita. Le lingue che si imparano, scrive Descartes, sonò necessarie per intendere i libri antichi; le favole che raccontano ravvivano lo spirito o lo innalzano con le storie di gesta esemplari. Tutte queste pratiche, comunque, giovano alla formazione del giudizio. La lettura dei buoni libri, osserva Descartes, è come una conversazione con i lari autori, le persone più illustri del passato e coi loro migliori pensieri. Descartes apprezza anche lo studio dell'eloquenza e della retorica; e, soprattutto, riconosce il valore della matematica, della teologia e della filosofia. Tuttavia, appena terminato il corso, Descartes confessa di aver mutato interamente opinione, comprendendo come tanto eli quel sapere apparisse ormai superato, nel metodo come nei contenuti. Trovandosi intricato in dubbi ed errori sempre più grandi, man mano che procede negli studi ammette di aver scoperto la sua ignoranza e, soprattutto, teme di dover rinunciare alla libertà del proprio giudizio, in quanto comincia a credere che non esista al mondo una scienza capace di insegnare in modo chiaro e certo come si distingua il vero dal falso. Ecco perché, non appena raggiunta l'età per potersi liberare dai suoi precettori, Descartes decide di cercare la verità in se stesso, oppure nel grande libro del mondo. A prima vista il racconto del Discorso sul metodo sembra ingenerare una contraddizione. Egli che è stato deluso dalla lettLF'a dei libri, perché in essi non ha trovato un criterio per rendere autonomo il proprio giudizio, scrive un libro e ci invita a leggerlo. Questo libro, però, non è come gli altri: non è composto eli precetti che noi dobbiamo seguire in modo acritico, né contiene un sapere in sé compiuto ereditato dalla tradizione. La prima parte del Discorso sul metodo è soprattutto un t·acconto di autoformazione, che crea un curioso gioco di specchi nel momento in cui viene steso sulla pagina. Solo rappresentando il proprio io, ponendolo come oggetto del giudizio altrui, si realizza secondo l'autore un efficace mezzo eli istruzione. A questo proposito, Descartes infatti scrive:

Può darsi eh 'io m 'inganni, e che prenda per oro e diamanti quello eh 'è soltanto un po' di rame e vetro: so bene quanto siamo soggetti a ingannarci in ciò che ci tocca,

190

e come anche i giudizi troppo favorevoli dei nostri amici ci debbano esser in sospetto. Ma io mi limiterò a mostrare in questo discorso le vie da me seguite, e a rappresentare con esso come in un quadro la mia vita, qffinché ognuno possa giudicarne; e così, apprendendo dalla voce comune quel che gli altri ne pensano, avrò un nuovo mezzo d'istruirmi da aggiungere a quelli di cui san solito servirmi. R. Descartes, Discorso sul metodo, p. 133

li Il racconto della ricerca della uerità

L'in nart·ante e l'io fondamento della certezza

3.

La scelta del racconto serve dunque a ravvivare lo spirito di chi legge, introducendolo a una stoda esemplare che ha come oggetto l'io dell'autore. Descartes crede sia doppiamente utile rappresentare la sua vita come in un quadro, mostrandola ai suoi lettori. È utile per chi legge, in quanto viene stimolato nella facoltà di giudicare: il compito delle favole e delle storie esemplari, come ha scritto del resto a proposito dei libri degli antichi, consiste appunto nello stimolarè il giudizio. Ma è utile anche per chi scrive, perché favorisce l'indagine intorno al vero. Rappresenlare il proprio io come in un quadro e sottoporlo al giudizio degli altri è funzionale a sviluppare una coscienza critica e a riconoscere sul piano metodologico come la pratica del controllo pubblico dei dati e delle procedure sia fondamentale in ogni ricerca della verità. Perciò, la storia del proprio io, sottoposta al vaglio della "voce comune,, costituisce per Descartes anche un nuovo strumento per istruirsi. Il metodo di cui Descartes narra la scoperta è innanzitutto un protocollo, ossia un insieme di procedure che guidano la ricerca. Egli sente il dovere di mostrarlo al pubblico, perché grazie alla sua applicazione ha fatto una delle più importanti scoperte dell'età moderna, riuscendo a isolare il ruolo dell'io, della coscienza nei processi della conoscenza; attraverso il racconto autobiografico mostra come ha condotto la sua ragione a riconoscere la verità e a fondare il sapere a partire da questo principio originario che è il proprio io.

la scoperta del metodo In una pagina famosa del Discorso sul metodo, Descartes narra le delusioni provate nel ricercare il vero una volta uscito dal collegio. Prima racconta di aver cercato nei libri, poi nel "gran libro del mondo, e, infine, in se stesso.

Appena l'età mi permise di uscire dalla tela dei miei precettori, abbandonai interamente lo studio, e risolsi di non cercare altra scienza fuori di quella che potevo trovare in me stesso o nel gran libro del mondo. Impiegai, dunque, il resto della mia giovinezza a viaggiare, a vedere corti e uomini d 'armi, a frequentare genti di altra indole e condizione, a far tesoro di una diversa esperienza per mettere me stesso alla prova nei casi che la fortuna mi offrisse e trarne, cos~ con la riflessione, qualche profitto. R. Descartes, Discorso sul metodo, p. 136

L'inctmta•o con Beekman

La ricerca nel mondo inizia quando decide di arruolarsi nell'esercito di Maurizio di Nassau, principe d'Grange, come volontario, a Breda, dove le truppe del principe erano di guarnigione nel 1618. Come lo studio dei libri, anche la vita nell'esercito fu dopo pochi mesi una delusione, compensata però dall'amicizia con un giovane brillante scienziato, da poco laureato in medicina: Isaac Beekman (1588-1637). Si racconta che il loro primo incontro sia avvenuto davanti a un manifesto che sfidava i lettori alla risoluzione di un proble-

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,'1

Gli anni dei uiaggi e lo nascita del metodo

ma matematico. Fra i due si sarebbe istaurato un proficuo scambio di idee e un costruttivo rapporto scientifico. Gli anni dei viaggi al seguito degli eserciti sono anche quelli della ricerca «nel gran libro del mondo,, in cui matura la moderna concezione scientifica e con essa il bisogno di fondare una nuova metodica della dcerca.

le quattro regole • Nella quarta parte del Discorso sul metodo, Descartes presenta finalmente il metodo da lui scoperto esponendo le quattro regole da seguire per cogliere con certezza la verità: l) la prima invita a non accogliere come vero nulla che non si conosca con evidenza essere tale. La mente, osserva Descartes, deve accogliere solo quelle verità che si presentano in modo chiaro e distinto, prive cioè eli oscurità e confusione, e sulle quali non è possibile avanzare alcun dubbio; 2) la seconda, dell'analisi, prescrive di ridurre ciascuna difficoltà da esaminare in tutte le parti in cui è possibile e necessario suddividerla; 3) la terza, della sintesi, consiste nel condurre con ordine i pensieri, iniziando dagli oggetti pitl facili e semplici da conoscere, per risalire progressivamente fino alla conoscenza di quelli più complessi; 4) l'ultima, la quarta, è la regola dell'enumerazione, in base alla quale, nel corso della ricerca, bisogna compilare rassegne complete e generali delle soluzioni intraprese, in modo da avere la certezza di non aver tralasciato nulla. Le regole di Descartes costituiscono esplicitamente un distillato del metodo matematico, il cui valore era stato subito riconosciuto dall'autore fino dagli anni del collegio. Attraverso analisi, sintesi e ordine procede, infatti, il sapere aritmo-geometrico nella risoluzione dei problemi e nella dimostrazione delle proprie verità, muovendo dalle più semplici alle più complesse, concatenando evidenze a evidenze.

la certezza • Una volta stabilito il metodo di ricerca della verità, è necessario spieL'applicazione del metodo

game anche il funzionamento, la sua capacità di gat·antit·e la vedtà del giudizio. Per applicarlo correttamente, secondo Descartes è indispensabile innanzitutto liberare la mente dai pregiudizi, evitando di mescolare congetture anticipate, frettolose, non dedotte esclusivamente da ciò che possiamo intuire con chiarezza ed evidenza. Il giudizio certo, che viene posto dall'autore alla base della conoscenza scientifica, è il prodotto di due atti del nostro intelletto, l'intuito e la deduzione. L'm.ffliii()ji~ è una verità evidente dell'intelletto, colta immediatamente come certa; è un'idea della mente, intorno alla quale non rimane assolutamente alcun dubbio; la [(;!f;C:!\:Ì~i(j:tì,~1 è una forma di conoscenza che consente di concludet·e necessariamente verso nuove verità a pat'tire da intuizioni date, già conosciute come vere. Come

Intuizione: dal verbo latino intueri, «Veder dentro", composto eli in, «dentro» e tueri, «guardare osservare». Il termine indica la conoscenza diretta e immediata eli una verità, senza ricorrere al ragionamento o a schemi intellettuali. Deduzione: dal verbo latino deducere, composto eli de e ducere, «trarre da»; in greco syllogism6s, "conclusione", dal verbo syllogizomai, «conchiuc\o,, «inferisco", "tiro le conseguenze,, In senso generale indica l'atto, il processo con cui si perviene tramite il ragionamento a una conclusione; o la verità che si desume da una proposizione piì:1 generale.

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accade nella geometria, per esempio, dove a partire da principi generali, assiomi primari, evidenti e indimostrabili, è possibile ricavare ulteriori verità attraverso dimostrazioni necessarie. L'unità dell'intelletto nella verità

Il principio da cui prende le mosse l'analisi scientifica della realtà è esposto nella prima delle regole e consiste nell'intuizione dell'unicità del critedo di verità, ossia nella mente che coglie se stessa come fondamento di ogni certezza ed evidenza e come principio unificante di tutte le scienze nell'umano sapere,

il quale permane sempre uno e medesimo, per differenti che siano gli oggetti a cui si applica, né prende da essi maggior distinzione di quanta ne prenda il lume del sole dalla varietà delle cose che illumina. R. Descartes,

Regole per la guida dell'intelligenza, p. 17

La certezza e l'evidenza che accompagnano la mente nella verità sono come la luce del Sole, che illumina l'ambito eli ogni scienza particolare. Per tale motivo non c'è bisogno eli racchiudere la mente in alcun limite, parcellizzanclo la conoscenza in molteplici discipline, distinguendo le une dalle altre. Compito della filosofia è scoprit·e la prima fra tutte le verità, quella che Descartes racconta nell'autobiografia: la scoperta del proprio sé, documentata attraverso l'esercizio del dubbio, è una fra le pagine più belle della storia della filosofia.

·--~~~.--------------------------------------------------------------------,

Il metodo cartesiana

Il nuovo metodo

h' Il

l corto

si compone di

quattro regole

l

d

garantire la verità del giudizio

l

attraverso

t

l'intuizione

(conoscenza immediata dell'evidenza)

l

che para alla

che sono

l

1. evidenza: accogliere solo idee chiare e distinte, non revocabili in dubbio 2. analisi: scomporre un problema nelle sue parti elementari 3. sintesi: ricomporre il problema secondo un ordine crescente di complessità

4. enumerazione: deduzione

(conclusione necessaria di altre evidenze, a partire dalle prime intuite]

assicurarsi di non aver tralasciato niente di utile

193

'l

4.

Dal dubbio al cogita Nelle Meditazioni metajisiche (Meditationes de prima philosophia), pubblicate a Parigi nel 1641, con l'aggiunta delle Obiezioni alla filosofia cartesiana di alcuni filosofi e teologi del tempo (tra cui Pierre Gassendi, Thomas Hobbes, Antoine Arnauld, Marin Mersenne) e con le Risposte dell'autore, Descartes avanza almeno tre tipi di dubbio. Il primo possiamo qualificarlo generico, l'altro è definito iperbolico, mentre il terzo svolge un ruolo propriamente metodico. Sono tutti e tre importanti per capirer quali criteri bisogna seguire al fine di ottenere le necessarie garanzie della certezza. • Il primo dubbio, generico, investe i sensi e l'immaginazione, ossia tutto quel sapere che intende riferirsi al mondo sensibile; • il dubbio ipet·bolico, ossia esagerato, intende minare anche la certezza che accompagna le conoscenze matematiche; • il dubbio metodico, infine, segue da presso la ricostruzione della verità, attenendosi all'esclusivo criterio dell'evidenza.

L'inganno dei sensi

Il dubbio generico • La Prima meditazione, attraverso il racconto autobiografico, ricostruisce la storia di un en·ore. A partire dai primi anni di vita, Descartes· dice di aver accolto come vere una quantità di opinioni false, di aver fondato il proprio sapere su principi malsicuri e a causa di ciò, nel momento in cui sta scrivendo, confessa di essere in preda all'incertezza e al dubbio. Si tratta eli un dubbio generico che sostiene il proposito eli disfarsi di tutte le false opinioni ricevute per accogliere solo quelle che risultano interamente certe. Lo sbaglio da cui è derivata l'incertezza che Descartes sta raccontando consiste nella fiducia riposta ingenuamente nei sensi. Chi cerca il vero, ovvero il certo, deve invece allontanarsi dall'opinione che le credenze vere siano quelle originate dall'attività sensoriale. Talvolta i sensi si rivelano infatti ingannatori, mostrancloci cose che, acl esempio per colore, dimensione, figura, appaiono diverse da quel che sono. La prima regola del metodo, che prescrive l'evidenza, invita dunque a diffidare di una conoscenza che, basandosi intet·amente sulla testimonianza dei sensi, non può escludet·e il dubbio.

Tutto ciò che ho ammesso jìno ad ora come il sapere più vero e sicuro, l'ho appreso dai sensi, o per mezzo dei sensi: ora ho qualche volta provato che questi sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno una volta ingannati. R. Descartes,

llnn ten••ia della CIIIIII!ICIIIIZil deue giustificare le apparenze sensibili

Meditazioni metajìsiche, p. 18

La certezza sensibile non viene bandita in modo assoluto dalla conoscenza; Descartes ci invita solo a non fidarcene interamente. È chiaro che in certi casi ciò che testimoniano i sensi corrisponde alla realtà. Ad esempio, quando prendo gli appunti e scrivo su un foglio di carta quanto ho appreso dalla pagina del manuale dedicata al dubbio di Descartes, non nutro incertezze intorno al fatto che la mano che ha in pugno la penna sia la mia mano, né che esista quella mano che sta scrivendo; né posso mettere in dubbio, ragionevolmente, che sia io a compiere le operazioni descritte. Incertezze di tale natura non avrebbero nulla a che vedere con la teoria della conoscenza, ma sarebbero forse il sintomo di una qualche patologia della mente, come nota anche Descartes. Gli aspetti problematici del sapere non investono le conoscenze necessarie per regolarsi nei casi della vita. L'esistenza del tavolo sul quale ho aperto il libro di filosofia

194

......

L'attività del soggetto nella conoscenza

e il quaderno degli appunti è una convinzione che nessuno vuole mettere in discussione; costituisce un fatto di cui né noi, né Descartes possiamo dubitare. I problemi emergono, invece, quando si cerca di analizzare la natura di questi fatti e si cerca di isolare gli elementi di cui si compongono; quando, cioè, si cerca di spiegare come siano possibili convinzioni di tale genere. Nell'ambito di quest'analisi, a Descartes va riconosciuto il merito di aver isolato l'attività del soggetto. Egli sostiene che, ogni qual volta accertiamo l'esistenza del tavolo, della mano, della penna e anche della nostra stessa persona, la conoscenza è ft-utto di una attività dell' è capace di ript·odurt·e l'immagine del mondo in maniera tanto più fedele quanto più opera nel pieno rispetto delle forme naturali. Perciò anche se una tale produzione viene eseguita all'insegna della stravaganza, come accade con alcune finzioni prodotte dall'immaginazione dei pittori, ad esempio le chimere o le sirene, l'artificio impiegato nel produrre tali forme bizzarre è comunque vincolato ai canoni della realtà. L'immaginazione, in questi casi, si limita a sovrapporre parti di corpi diversi, cosicché nelle nuove immagini possiamo sempre cogliere la coda di un pesce e il busto di una donna, o alcune parti del corpo di un leone, di una capra e di un serpente. Niente però, osserva perentoriamente Descartes, può garantire che anche la veglia non sia un sogno. Se rite-

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L'intelletto e le uea•ità matematiche

niamo di essere svegli e di non sognare è solo perché certe immagini ci appaiono con maggior chiarezza e distinzione rispetto a quando dormiamo, tanto da richiedere il nostro più sicuro assenso; tuttavia, continua l'autore, accade anche durante il sonno di assentire e di ritenere vere idee che sono però illusorie. È possibile pensare il mondo e le cose che lo costituiscono anche servendosi solo dell'intelletto, senza ricorrere ai sensi e all'immaginazione, combinando cose ancora più semplici e più universali dei corpi e dei singoli organi che li compongono. A questo genere di cose, dice Descartes, appartiene la natura corporea in generale e la sua estensione, la figura delle cose stesse così come la loro quantità o grandezza e il loro nurnero; e ancora il luogo dove esse sono e il tempo che misura la loro durata. Le idee che rappresentano tal genere di cose costituiscono l'oggetto di saperi come la matematica e la geometria che formano la stt-uttura costante di ogni nostra t·appresentazione del mondo, sia nella veglia, sia nel sonno, reale o fantastica che essa sia. La loro certezza appare perciò indubitabile a prescindere da ogni confronto con ciò che realmente esiste in natura:

Sia che io vegli o che dorma, due e tre uniti insieme formeranno sempre il numero cinque, e il quadrato non avrà mai più di quattro lati; e non sembra possibile che delle verità così manifeste possano essere sospettate di falsità o d'incertezza. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, p. 20

Lauertigine del dubbio: l'inesistenza della realtà sensibile

La possibilità dell'inganno

196

A questo punto il dubbio si tr;:tsforma però in una vera e propria vertigine che coglie il pensiero quando considera che l'intera attività del soggetto potrebbe non corrispondere alla natura corporea in generale, e dunque niente potrebbe esistere di ciò che pensiamo essere un ente sensibile. Ecco qual è il vero problema della verità secondo Descartes: la fisica, l'astronomia e tutte le altre scienze che, pur servendosi delle matematiche, si riferiscono alla realtà del mondo sono assai dubbie e incerte, come tutta la conoscenza che intenda rifer:irsi a enti sensibili per il tramite dell'immaginazione. Mentre l'aritmetica e la geometria, considerate di per se stesse, trattando di oggetti intellettuali sernplici e generali, senza preoccuparsi se esistano o meno in natura, contengono qualcosa di certo e indubitabile, ma ad esse potrebbe non corrispondere alcuna realtà se non una puramente astratta e mentale. DI dubbio iperbolico e !'eviden&:a di'el cogito • Il dubbio generico è giunto così a ipotizzare la completa de-realizzazione del mondo, ossia la possibilità che niente di t•eale corrisponda alle nostre idee. Come detto, l'aritmetica e la geometria potrebbero infatti costituire l'ambito di un sapere indubitabile, certo, al di là di ogni confronto possibile con una realtà extra-mentale. Ma anche la certezza che accompagna il sapere matematico, oltre il limite di ogni verosimiglianza, può essere ridotta al dubbio avanzando un'ipotesi iperbolica: l'esistenza di un genio maligno, un Dio malvagio che si diverte ad ingannarci ogni volta che pensiamo. Una simile possibilità, per quanto eccessiva, paradossale, renderebbe non solo tutta la vita rappresentata un grande sogno, ma anche un sogno non nostro, una rappresentazione indotta. Tale dubbio può allora portare a credere che anche la somma di 2 e 3 possa essere diversa da 5 e da qui, in maniera più estensiva e dirompente, a ritenere che non esistano nemmeno il cielo, la terra e lo spazio esteso, la figura e la grandezza dei corpi. Se dunque il dubbio generico aveva condotto a ritenens la conoscenza sensibile priva di un fondamento certo e assoluto, il dubbio iperbolico giunge a considerare tutto il sapet·e umano come un possibile inganno.

io !11101! !11111 CIISII che pensa

Tuttavia proprio un dubbio metafisica cosl radicale riesce a isolat·e una prima conoscenza, che va oltre la semplice certezza psicologica ed è vera con tutta evidenza, giacché neanche l'ipotesi del genio maligno può inficiare la certezza che io sono una cosa che pensa. Anzi è proprio tale dubbio a far risaltare con assoluta certezza questa verità evidente, indubitabile:

Non v'è dubbio che io esisto, s'egli m'inganna; e m'ingannifin che vorrà, egli non saprà mai fare che io non sia nulla fino a che penserò di essere qualcosa [.. .}. Questa proposizione: Io sono, io esisto, è necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco nel mio spirito. R. Descartes,

Meditazioni metafisiche, p. 24

Ognuno di noi è infatti libero eli dubitare intorno alle verità tramandate dai libri, sul contenuto delle proprie sensazioni o delle immaginazioni della nostra mente e ritenersi vittima, persino nelle sue convinzioni più certe, di una colossale illusione, ma di una cosa può essere certo: che, nel momento in cui esercita il dubbio o si ritiene ingannato, è comunque una cosa che sta pensando. Cogito ergo sum è una vedtà evidente, davanti alla quale svanisce ogni incertezza riguardo all'esistenza dell'io che sta dubitando. Ed è anche il punto di partenza capace di funzionare da criterio di verità pet· la ricerca successiva nel corso della quale Descartes scopre l'intima natura di tale io, ovvero più in generale la sua essenza come pensiero.

Dal dubbio al cogito L:analisi cartesiana inizia dal dubbio (mettere in discussione tutte le certezze)

i sensi (talvolta ingannano e producono illusioni)

l

attraverso

!

l'immaginazione (come in sogno, alle gJ immagini della nostra 1. dubbio --.~,-t-~ mente potrebbe non generico ~ corrispondere la realtà)

-2

de-realizzazione del mondo re-5r:or:.:t~a~ (niente di reale alla corrisponde alle nostre idee)

l'intelletto (le conoscenze matematiche sono certe, ma potrebbero risultare astratte) un genio maligno che 2. dubbio . c~e ~ inganna l'uomo anche nelle iperbolico lpo lzza conoscenze matematiche

per cui

tutto il sapere r> è un inganno l . tuttavia

t

il cogito è un principio . . , 'b'l per CUI l'io che pensa esiste su cu1 non e poss1 1e ....a: dubitare

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5.

Euidenza intuitiua ed euidenza deduttiua

L'autocmn:ienza

Una cosa che pensa: il dualismo BI dubbio metodico • Secondo Descartes, «io sono, io esisto» è una proposizione necessariamente vera tutte le volte che la pronuncio, o che la concepisco. È una verità che non è stata scoperta affidandosi ai sensi, ma che si è imposta alla mente in maniera immediata quale intuizione intellettuale. Tale certezza immediata dell'esistenza dell'io non è, però, sufficiente a farmi conoscere che cosa esso sia. Un'altra fondata certezza che estende l'orizzonte della conoscenza si può esprimere con la seguente proposizione: «io sono pensiero". Mentre la prima verità è immediatamente evidente, questa seconda è solo chiara e distinta, risulta, cioè, necessaria solo in seguito a un ragionamento. Il cogito ergo sum è il principio e il fondamento della conoscenza frutto di intuizione, non di dimostrazione; invece, l'identificazione fra il pensiero e l'io è il risultato di una deduzione ottenuta per via analitica, cioè provando a sviluppare, dalla prima evidente intuizione dell'esistenza dell'io, implicazioni necessarie, altrettanto certe e indubitabili. L'analisi condotta sulla prima certezza produce la forma del dubbio metodico, un dubbio critico, funzionale alla conoscenza, una procedura dimostrativa che consente di ricavare una serie di conseguenze necessarie, evidenti, ossia chiare e distinte a partire da una verità data: nella fattispecie, il dubbio metodico consente di dedurre che il pensiero è un attributo necessario dell'io, l'essenza stessa dell'io. A tal fine il dubbio metodico deve ricostruire il processo dell'autocoscienza, deve aumentare cioè il gt'ado di consapevolezza dell'io. Del resto l'io ha autocertezza del proprio esistere, senza sapere ancora esattamente che cosa sia e quali funzioni svolga. Attraverso l'esercizio del dubbio metodico Descartes scarta, allora, una serie di ipotesi riguardanti la natura dell'io. La proposizione «io sono un uomo", per esempio, non può essere accolta come vera, perché non è distinta ma confusa: «Uomo", infatti, è una nozione che si può ulteriormente scomporre in «animale" e «razionale''· Da scartare è comunque ogni riferimento a tutto ciò che è indistinguibile dal corpo, della cui esistenza è possibile dubitare senza pregiudicare la certezza dell'esistenza dell'io. La nozione dell'io si arricchisce in modo adeguato individuando dunque quella funzione che davvet·o contraddistingue l'io. Così viene presentato il problema da Descartes nella Seconda meditazione: Passiamo, dunque, agli attributi del! 'anima, e vediamo se ve ne sono alcuni che siano in me. I primi sono di nutrirmi e camminare; ma se è vero che io non ho corpo, è vero anche che non posso camminare, né nutrirmi. Un altro attributo è il sentire; ma egualmente non si può sentire senza il corpo: senza contare che ho creduto talvolta di sentire parecchie cose durante il sonno, che al mio risveglio ho riconosciuto non aver sentito di fatto. Un altro è il pensare e io trovo qui che il pensiero è attributo che mi appartiene: esso solo non può essere distaccato da me. Io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo? In vero per tanto tempo per quanto penso; perché forse mi potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d'essere o di esistere. Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlare con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, una intelligenza, una ragione, i quali sono termini il cui significato mi era per lo innanzi ignoto. Ora, io sono una cosa vera, e veramente esistente; ma quale cosa? L'ho detto: una cosa che pensa. E che altro? Ecciterò ancora la mia immaginazione per ricercare se non sia qualcosa di più. Io non sono quest'unione di membra che si chiama il corpo umano; io non sono un vento, un soffio, un vapore, e nulla di tutto ciò che posso fingere e immaginare, poiché ho supposto che

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tutto ciò non fosse niente; eppure, senza cambiare questa supposizione, io continuo ad essere certo che sono qualcosa. R. Descartes, Meditazioni metaflsiche, pp. 25-26

L'io èpensiei'O

li significato del verbo e11-16. Tuttavia, giacché l'uomo è capace di distinguere l'apparenza dalla verità, esiste davvero in lui una facoltà di andare al di là dei sensi. La coscienza stessa che abbiamo di noi stessi, come enti spirituali, dotati di anima e pensiero, è ad esempio una conoscenza che non deriva dall'esperienza ed è una conoscenza immediata e indubitabile ~>117-27. Come ricorda Leibniz, già i platonici, prima di Descartes, hanno considerato la conoscenza dell'anima più certa della conoscenza degli enti sensibili. Dunque, non nel mondo testimoniato dai sensi ma nell'io si trova il fondamento della certezza, il lume naturale che illumina la conoscenza ~>128-41. A parere di Leibniz, tante altre cose, oltre all'io, sono apprese per «lume naturale», senza l'ausilio dei sensi, come, ad esempio, gli assiomi logici (i principi di non contraddizione e di identità) o della matematica (il rapporto tra il tutto e le sue parti ecc.). L'esperienza sensibile, le osservazioni e gli esperimenti, pur indispensabili alla scienza, non hanno la stessa forza dimostrativa delle conclusioni che scaturiscono con necessità dal sapere razionale logicomatematico ~>142-55. Rispetto a Descartes, in Leibniz vi è una rivalutazione della conoscenza sensibile: essa rappresenta comunque un grado, seppur inferiore, di conoscenza. L'esperienza fornisce, senza dubbio, il materiale su cui la mente si esercita nel suo ragionamento puro e astratto 1>156-62.

l limiti della COI111SCI:lnlll sensibile

Noi ci serviamo dei sensi esterni come un cieco del suo bastone, secondo il paragone di un antico; essi ci fanno conoscere i loro oggetti particolari, che sono i colori, i suoni, gli odori, i sapori e le qualità del tatto. Ma non ci fanno conoscere che cosa siano queste qualità sensibili e in che cosa consistano: per esempio, se il rosso sia il volteggiare eli certi minuti globi che si pretende compongano la luce; se il calore sia un turbine eli una sottilissima polvere; se il suono si produca nell'aria, come i cerchi nell'acqua quando qualcuno vi getta una pietra, come pretendono certi filosofi: tutto ciò non lo vediamo, né potremmo comprendere come quel volteggiare, quel turbinio, quei cerchi, fossero pure veri, compongano proprio le percezioni del rosso, del caldo, del rumore, che noi proviamo. [. .. ] Siamo ben lungi dall'intendere le cose sensibili, come molti s'immaginano, anzi sono proprio ciò chemeno intendiamo. E benché ci siano familiari, non per questo le comprendiamo meglio, come un pilota non comprende meglio eli un altro la natura dell'ago magnetico che volge verso il nord, benché l'abbia sempre dinanzi agli occhi nella bussola, e benché non l'ammiri eli meno per questo. [. .. ] L'essere stesso e la verità non si apprendono interamente attraverso i sensi, giacché non sarebbe impossibile che una creatura avesse dei sogni lunghi e regolati, somiglianti alla nostra vita, in modo che tutto quanto credesse eli

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La necessità di andare oltrll la sensibilità: Ja COIIO!ICI!nZ!l intelligibile

La uel•itìi delle certezza matematiche non dipende dai sensi

Il rapporto tra sensi lll'ii!IÌOIIIl

appercepirel attraverso i sensi non sarebbe altro che pura apparenza. Occorre dunque qualcosa al di là dei sensi, che distingua il vero dall'apparente; ma la verità delle scienze dimostrative è esente da tali dubbi e deve servire anzi a giudicare la verità delle cose sensibili. Poiché, come hanno già osservato valenti filosofi antichi e moderni, se anche tutto ciò che credo di vedere non fosse che un sogno, sarebbe sempre vero che l'io che pensa sognando sarebbe qualcosa e penserebbe effettivamente in svariati modi, di cui bisognerà sempre che vi sia una ragione. Così è molto vero e degno di essere considerato quanto osservavano gli antichi platonici, che l'esistenza delle cose intelligibili, e particolarmente di questo io che pensa e che viene detto spirito o anima, è incomparabilmente più sicura dell'esistenza delle cose sensibili; così non sarebbe impossibile, parlando nel rigore metafisica, che non vi fossero in ultimo se non queste sostanze intelligibili e le cose sensibili non fossero altro che apparenze. Mentre la nostra scarsa attenzione ci fa prendere le cose sensibili per le sole vere. È anche bene notare che se trovassi in sogno (come in effetti è possibile) qualche verità dimostrativa, matematica o d'altro genere, sarebbe altrettanto certa che se fossi desto; il che mostra quanto la verità intelligibile sia indipendente dalla verità o dall'esistenza di cose sensibili e materiali fuori di noi. Tale concezione dell'essere e della verità si trova dunque in questo io e nell'intelletto, piuttosto che nei sensi esterni e nella percezione degli oggetti esteriori. Vi si trova anche che cosa significa affermare, negare, dubitare, volere, agire. Ma soprattutto vi si trova la forza delle conseguenze del ragionamento, che sono una parte di ciò che si chiama il lume naturale. [... ] È pure grazie a questo lume naturale che si riconoscono gli assiomi della matematica, come per esempio che togliendo da due cose uguali la medesima quantità, le cose che restano sono uguali a loro volta; che se su una bilancia vi sono cose uguali da una parte e dall'altra, la bilancia non penderà, il che si prevede bene senza averlo sperimentato. Su tali fondamenti vengono stabilite l'aritmetica, la geometria, la meccanica e altre scienze dimostrative, in cui in verità i sensi sono assai necessari per avere certe idee delle cose sensibili e dove gli esperimenti sono necessari per stabilire certi fatti, e anzi sono utili per verificare i ragionamenti, come una sorta di prova. Ma la forza delle dimostrazioni dipende dalle nozioni e dalle verità intelligibili, le sole capaci di farci giudicare che cosa sia necessario. [... l Resto tuttavia d'accordo che, nello stato presente, i sensi esterni ci sono necessari per pensare e, se non ne avessimo alcuno, non penseremmo. Ma quel che è necessario per un qualche cosa, non ne costituisce l'essenza. L'aria ci è necessaria per la vita, ma la nostra vita è diversa dall'aria. I sensi ci forniscono materia per il ragionamento e non abbiamo mai dei pensieri tanto astratti che non vi si -mescoli qualcosa di sensibile; ma il ragionamento richiede anche qualcosa di diverso da ciò che è sensibile.

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G.W. Leibniz, Lettera alla regina Sofia Carlotta intorno a ciò che è indipendente dai sensi e dalla materia, in Scritti filosofici, pp. 528-535

l. Nella terminologia introdotta da Leibniz, l'appercezione è la percezione autoconsapevole.

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Nel brano lill], tratto dai Nuovi saggi sull'intelletto umano, Leibniz affronta direttamente il tema gnoseologico che contrappone gli empiristi, coloro che sostengono con Aristotele la tesi della mente umana come tabu!a rasa, agli innatisti, quei filosofi che fin da Platone hanno riconosciuto la presenza o la capacità di risvegliare nella mente idee già presenti ~>-118. Leibniz discute in particolare la dottrina di John Locke, che nel Saggio sull'intelligenza umana (1689-90) aveva negato la dottrina dell'innatismo e difeso l'origine di ogni conoscenza umana dalla sola esperienza sensibile. Contro l'empirismo di Locke, Leibniz osserva anzitutto che non tutte le nostre conoscenze hanno origine dai sensi. L'esperienza sensibile, infatti, non è in grado di fornire conoscenze valide universalmente e necessariamente (sempre e ovunque), ma soltanto delle particolari esemplificazioni di verità di natura o di origine puramente intellettuale come sono gli oggetti delle matematiche pure ~'>19-23. Analogamente, anche la logica, come la metafisica e la morale, ossia la conoscenza razionale di Dio e delle sue volontà, contiene principi innati, interni alla ragione. Non è però facile per l'anima cogliere simili conoscenze senza emanciparsi dalla testimonianza dei sensi e senza considerare l'esperienza come momento di conferma, e non di scoperta, delle verità interne ~>124-33. Leibniz prova a riformulare la dottrina dell'innatismo, sostenendo che le idee e i principi universali, puri e astratti, siano presenti da sempre, sin dalla nascita, nella mente umana, ancorché solo in potenza, virtualmente, pronti a svilupparsi nel tempo grazie all'impulso della testimonianza particolare dei sensi. Prima dell'esperienza, la mente umana non è paragonabile a una tabu!a rasa, come vorrebbe Locke, e neppure a un blocco di marmo che rechi con sé delle lettere già scolpite, bensì delle venature, in grado di guidare le impronte lasciate dall'esperienza verso l'elaborazione di principi universali, unanimemente condivisi ~>134-47.

Contro l'empirismi!

Le verità dei sensi han1111 una p11rtata limitata e probabile

Si tratta di sapere se l'anima in se stessa è assolutamente vuota come una tavoletta sulla quale non è stato ancora scritto nulla, (tabula rasa) secondo Aristotele e l'autore del Saggio\ e se tutto ciò che vi è impresso proviene unicamente dai sensi e dall'esperienza; o se l'anima contiene originariamente i princìpi di più nozioni e conoscenze, che gli oggetti esterni risvegliano soltanto, in determinate occasioni, come credo con Platone e con la Scuola e così con tutti quelli che intendono in questo senso quel passo di S. Paolo (Rm 2,15), nel quale egli dice che la legge di Dio è scritta nei cuori. [... ] Donde nasce un'altra questione, se cioè tutte le verità provengano dall'esperienza, cioè a dire dall'induzione e dalle prove, o ve ne siano che hanno un altro fondamento. Giacché, se certi avvenimenti possono esser previsti avanti d'averne fatta qualsiasi esperienza, è evidente che portiamo in ciò qualcosa da parte nostra. I sensi, benché necessari per tutte le nostre conoscenze presenti, non san sufficienti a darcele tutte, in quanto essi non ci offrono se non esempi, cioè verità particolari o individuali. Ora, tutti gli esempi, che confermano una verità generale, in qualunque numero essi siano, non sono sufficienti a stabilire la necessità universale di questa medesima verità, giacché non consegue affatto che ciò che è accaduto debba accadere sempre nella medesima guisa. [.. .]. Donde appare che le verità necessarie, quali si trovano nelle matematiche pure, e particolarmente nell'aritmetica e nella geometria, devono aver principi, la prova dei quali non dipende dall'esperienza, e perciò neppure dalla testi-

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l. Il riferimento è a John Locke e al Saggio sul! 'intelletto umano.

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La matematica, la louica, la metafisic11 e l-11 0-27. La natura; l'oggetto di studio della fisica, è dunque interamente riconducibile alla meccanica, così da escludere miracoli e considerazioni riguardo scopi divini e cause finali.

ùi"&J?M

DESCRIZIONE DI UN NUOVO MONDO E DELLE QUALITÀ DELLA MATERIA CHE LO COMPONE

La creazione di uno spozin, nssio di una materia indefinita

Lasciate dunque che per un poco il vostro pensiero esca da questo mondo per venirne a vedere un altro, nuovissimo, che farò nascere in suo cospetto negli spàzi immaginari. I filosofi ci insegnano che questi spazi sono infiniti e, dato che sono stati loro a crearli, dobbiamo credere a ciò che dicono. Ma per non essere impediti e impacciati da quest'infinità rinunciamo al tentativo di toccarne il termine; penetriamovi solo quanto basta a farci perder di vista tutte le creature create da Dio cinque o seimila anni fa; e dopo esserci fermati in un certo punto, supponiamo che Dio crei di nuovo attorno a noi tanta materia che, ovunque la nostra immaginazione si stenda, non scorga più alcun luogo vuoto. [.. .] Supponiamo inoltre che questa materia possa venir divisa in tutte le parti e secondo tutte le forme immaginabili; e che ognuna di queste parti possa ricevere in sé tutti i movimenti da noi concepibili. E supponiamo ancora che Dio la divida davvero in parecchie di tali parti, più grosse le une, più piccole le altre; queste d'una forma, quelle d'un'altra, come ci piacerà di immaginarle. Ma che non le separi perciò l'una dall'altra in modo da !asciarvi un vuoto frammezzo; supponiamo che le distingua solo per la diversità dei movimenti che ricevono da lui, in modo che, dall'istante in cui le crea, le une comincino a muoversi da un lato, le altre da un altro; le une a muoversi più rapide, le altre più lente (o, se credete, a non muoversi affatto), persistendo in seguito nel loro movimento secondo le leggi ordinarie della natura. Dio infatti ha sì mirabilmente stabilito queste leggi che se, per ipotesi, non creerà nulla più di quanto ho detto, senza neppure portarvi ordine e proporzione, facendone il più confuso e ingarbugliato caos che i poeti possano descrivere, basteranno le leggi di natura a far sì che le parti del caos arrivino a districarsi da sé, disponendosi in bell'ordine, così da assumere la forma di un mondo perfettissimo, dove si potranno vedere, non solo la luce, ma anche tutte le altre cose, generali e particolari, che compaiono in questo mondo reale.

L'inizio del mnuimentn e iiiiiiSSII!J!JÌII dal caos

al cosmo

R. Descartes, Il mondo o trattato della luce,

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pp. 143-145

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Descartes: Dio e le leggi di natura Come mostra il brano~ tratto dai Principi della filosofia, Descartes deduce dall'essenza di Dio le leggi della natura, i principi della fisica. Siccome Dio è la causa prima del movimento e ne conserva sempre una eguale quantità nell'universo, è possibile pervenire alla conoscenza di certe regole che Descartes chiama leggi di natura. La prima legge: ogni cosa resta nello stato in cui è fino a che nulla cambia. L'autore deriva questa regola dall'immutabilità di Dio e della sua volontà t>11-13. Di seguito Descartes osserva come l'esperienza sensibile impedisca di cogliere la verità di un simile principio, mostrandoci moti che hanno invece termine, che tendono al riposo ~>113-25. La seconda legge: ogni corpo che si muove tende a continuare il suo movimento in linea retta ~>126-37. Descartes rileva di seguito anche la forza centrifuga con la quale un corpo tenderebbe ad allontanarsi dal centro e a proseguire un moto rettilineo ~>138-43. La terza legge: se un corpo che si muove ne incontra un altro più forte di sé, non perde nulla del suo movimento, e se ne incontra un altro più debole che egli possa muovere ne perde tanto quanto gliene dà. Anche in questo caso il principio deriva dalla causalità di-

vina e dalla sua azione continua

La 11rimalegge della lll!ÌIII'II: il principio d'inerzia

la sect:mda legge: il moto rettilineo uniforme

~>144-56.

Da questo anche che Dio non è punto soggetto a cambiare, e che agisce sempre nello stesso modo, noi possiamo pervenire alla conoscenza di certe regole, che io chiamo le leggi della natura, e che sono le cause seconde1 dei diversi movimenti che osserviamo in tutti i corpi, ciò che le rende qui molto importanti. La prima è che ogni cosa in particolare continua ad essere nello stesso stato per quanto può e che mai lo cambia se non per l'incontro con delle altre. Così noi vediamo tutti i giorni, quando qualche parte di questa materia è quadrata, che resta sempre quadrata, se non accade nulla d'altronde che cambi la sua figura; e che, se essa è in riposo, essa non comincia a muoversi da se stessa. Ma quando ha cominciato una volta a muoversi da sé, non abbiamo nemmeno nessuna ragione di pensare che debba mai cessare di muoversi con la stessa forza, durante il tempo che non incontra nulla che ritardi o arresti il suo movimento. Così che se un corpo ha cominciato una volta a muoversi, dobbiamo concluder che continua in appresso a muoversi, e che mai si ferma da se stesso. Ma poiché abitiamo una terra, la costituzione della quale è tale, che tutti i movimenti che si fanno vicino a noi cessano in poco tempo, e sovente per ragioni che sono nascoste ai nostri sensi, noi abbiamo giudicato fin dal principio della nostra vita che i movimenti che cessano così, per ragioni che ci sono sconosciute, si fermano da loro stessi, e abbiamo ancora adesso molta inclinazione a credere lo stesso di tutti gli altri che sono al mondo, cioè che naturalmente cessino da loro stessi, e che tendano al riposo, poiché ci sembra che ne abbiamo fatto l'esperienza in molte occasioni. E tuttavia non è che un falso pregiudizio, che ripugna manifestamene alle leggi della natura, poiché il riposo è contrario al movimento, e nulla si sposta per istinto della sua natura al suo contrario, o alla distruzione di se medesimo. [. .. ] La seconda legge che io noto nella natura è che ogni parte della materia, nel suo particolare, non tende mai a continuare a muoversi secondo linee curve, ma secondo linee rette, benché molte di queste parti siano spesso costrette a

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l. La causa prima è Dio stesso.

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llpt•incipio della mmserunzione del moto

spostarsi, poiché ne incontrano altre nel loro cammino, e quando un corpo si muove si fa sempre un circolo o anello di tutta la materia che è mossa insieme. Questa regola, come la precedente, dipende dall'essere di Dio immutabile e dal consetvare egli il movimento nella materia con una operazione semplicissima; poiché non lo conse1va come ha potuto esser qualche tempo prima, ma come esso è precisamente nello stesso istante che lo conserva. E benché sia vero che il movimento non si fa in un istante, nondimeno è evidente che ogni corpo che si muove è determinato a muoversi secondo una linea retta, e non già secondo una circolare [. .. l. Ogni corpo che è mosso in tondo tende senza posa ad allontanarsi dal circolo che esso descrive. E noi lo possiamo anche sentire con la mano, nel mentre che facciamo girare questa pietra in questa fionda; poiché essa tira e fa tendere la corda per allontanarsi direttamente dalla nostra mano. Questa considerazione è di tanta importanza, e servirà in tanto luoghi qui appresso, che noi dobbiamo osservarla accuratamente. [... ] La terza legge che io noto nella natura è che, se un corpo che si muove e che ne incontra un altro, ha minor forza, per continuare a muoversi in linea retta, che quest'altro per resistergli, esso perde la sua determinazione senza nulla perdere del suo movimento; e che, se ha maggior forza, muove con sé questo altro corpo e perde tanto del suo movimento quanto gliene dà. Così noi vediamo che un corpo duro, che abbiamo spinto contro un altro più grande e più duro e fermo, rimbalza verso il lato donde è venuto, e non perde nulla del suo movimento; ma che, se il corpo che esso incontra è molle, si ferma subito, poiché gli trasferisce il suo movimento. Le cause particolari dei cambiamenti che accadono ai corpi sono tutte comprese in questa regola, almeno quelle che sono corporee; poiché non mi curo ora di stabilire se gli angeli e i pensieri degli uomini abbiano la forza di muovere i corpi: è una questione che riservo al trattato che spero di fare sull'uomo.

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R. Descartes, !principi della filosofia, pp. 95-98

Spinoza: contro ogni antropomorfismo

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Il brano~ dì Spìnoza è tratto dalla prima parte dell'Etica, in particolare dallo Sco/io che segue la proposizione «Dio agisce per le sole leggi della sua natura e non costretto da alcuno». Secondo l'autore, la libertà di Dio consiste esclusivamente nel suo agire in assenza di costrizioni esterne e non nel suo agire senza necessità. Dio genera dunque il mondo senza essere costretto o forzato da qualcosa a lui esterno, ma non come causa libera. Dio non è cioè dotato del potere dì creare o dì non creare oppure dì creare un mondo diverso, come per Spìnoza finora ha invece ritenuto la maggior parte dei teologi e filosofi. Agli occhi dì Spìnoza appare anzitutto assurda la nozione stessa dì causa libera: asserire infatti che da una causa possa seguire o non seguire un effetto, significa considerare come causa ciò che invero non è affatto una causa ~11-6. A parere dì Spìnoza la concezione tradizionale condurrebbe o\tretutto all'idea di un Dio impotente, incapace dì produrre tutto ciò il suo intelletto intende. Soprattutto, per Spìnoza, ritenere che Dio possa produrre ciò che non ha prodotto condurrebbe a pensare ad un altro Dio, ad una causa prima con differente natura, e dunque a non parlare più del Dio che ha generato questo mondo ~114-34. lnvero per Spìnoza simili assurdità ed errori derivano dal considerare Dio come dotato di intelletto e volontà, quando a Dio non sarebbe attribuibile niente dì tutto ciò, almeno per co-

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me queste facoltà sono riconoscibili nell'uomo ~16-14. Spinoza richiama anche la proposizione XVI precedente «Dalla necessità della divina natura, devono seguire infinite cose in infiniti modi», per chiarire come l'esistenza necessaria di Dio comporti l'esistenza necessaria di tutte le cose che si danno in lui. Generando dall'eternità se stesso, Dio genera anche tutto ciò che si dà nel mondo e nel tempo, con la stessa necessità per cui dalla natu-

ra del triangolo segue che la somma dei suoi angoli interni è uguale a due retti ~>118-23. Spinoza difende una simile concezione come la più adeguata e la più consona a stabilire la perfezione e l'onnipotenza di Dio. Per l'autore si tratta però di una tecnica argomentativa, di una strategia retorica, atta a introdurre un'idea del divino che niente ha più a che fare col Dio della tradizione ortodossa.

Lo libertà diuina non è 1111 libero uolere

L'onnipotenza diuina non compo!•ta né intelletto, né uoh:mtiì, bensì la rooltiì totale del suo offoUOIU!CII!IIllli'ÌI'I

Altri stimano che Dio sia causa libera per la ragione che potrebbe fare in modo che le cose che abbiamo detto seguire dalla sua natura, cioè che sono nel suo potere, non avvengano, ossia non siano da egli stesso prodotte. Ma questo sarebbe lo stesso come se dicessero che Dio può far sì che dalla natura del triangolo non segua che i suoi tre angoli siano uguali a due retti; ossia che da una data causa non segua un effetto, il che è assurdo. Inoltre, più avanti, senza l'aiuto di questa Proposizione, mostrerò che alla natura di Dio non appartengono né l'intelletto, né la volontà. So naturalmente che ci sono molti che ritengono di poter dimostrare che alla natura di Dio appartengono un sommo intelletto e una libera volontà; dicono infatti di non conoscere niente di più perfetto da poter attribuire a Dio di ciò che è in noi somma perfezione. Inoltre, sebbene concepiscano Dio sommamente intelligente in atto, non credono tuttavia che egli possa far sì che esistano tutte le cose che egli intende in atto; poiché ritengono di distruggere in tal modo la potenza di Dio. Se egli avesse creato, dicono, tutte le cose che sono nel suo intelletto, non avrebbe potuto poi creare nulladi più, il che credono ripugnante alla sua onnipotenza; e perciò preferirono stabilire che Dio è indifferente a tutto e che non crea niente altro oltre ciò che ha decretato di creare con una certa qual volontà assoluta 1 . Al contrario, io credo di aver mostrato abbastanza chiaramente (vedi la Prop. 16) che dalla somma potenza di Dio, ossia dalla sua infinita natura sono fluite necessariamente, o sempre seguono con la stessa necessità, in infiniti modi, infinite cose, cioè tutte le cose, allo stesso modo in cui dalla natura del triangolo, dall'eternità e per l'eternità segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti. Per la qual cosa l'onnipotenza eli Dio è stata in atto dall'eternità e resterà per l'eternità nella stessa attualità. E in questo modo l'onnipotenza di Dio, almeno a mio giudizio, si stabilisce come molto più perfetta. Anzi (se è consentito parlare apertamente) gli avversari sembrano negare l'onnipotenza eli Dio. Sono infatti costretti acl ammettere che Dio intende infinite cose creabili che tuttavia non potrà creare mai. Infatti, altrimenti, se cioè creasse tutte le cose che intende, secondo loro esaurirebbe la sua onnipotenza e renderebbe se stesso imperfetto. Per stabilire, dunque, che Dio è perfetto sono portati a dover stabilire simultaneamente che egli non può fare tutte le cose alle quali si estende la sua potenza, cosa della quale non vedo che se ne possa immagin.are un'altra più assurda o più ripugnante all'onnipotenza eli Dio.

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B. Spinoza, Etica, pp. 102-103

1. Dopo aver presentato la concezione difesa dalla maggior parte dei filosofi e teologi, si fa qui accenno alla posizione cartesiana, che identifica in Dio intelletto e volontà.

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leibniz: in difesa del finalismo In questo scritto~ del1679, forse indirizzato al cartesiano Malebranche, Leibniz accosta senza indugi il Dio dì Descartes al Dio dì Spìnoza: a suo dire, nelle concezioni dì entrambi verrebbe infatti a mancare l'idea del Dio persona della tradizione cristiana. È da respinge. re non solo Spinoza, che ha esplicitamente negato volontà e intelletto in Dio, ma anche Descartes, che ha concepito Dio come pura potenza, la cui azione nella generazione dei mondo sì limiterebbe a rendere effettivo (imprimendo e mantenendo movimento) tutto ciò che la materia è in grado di produrre secondo leggi meccaniche ~11-7. Entrambe sono concezioni di Dio lontane dall'alimentare la devozione religiosa e la speranza degli uomini. Esplicita è anche la condanna della dottrina cartesiana della creazione delle verità eter-

ne da parte dì Dio. Leìbniz osserva infatti che il Dio dì Descartes, se cosl fosse, non avrebbe più come oggetto della sua volontà né il vero, né il bene, perché essi non preesìsterebbero nella sua mente. Cosl Descartes ha espunto dalla filosofia le cause finali, allontanandosi dalla via già tracciata con maestria da Platone ~17-18. Di contro Leibniz ripropone il finalismo e l'idea di un Dio persona che ha profuso nell'universo tutta la sua saggezza, scegliendo leggi semplici e generali e creando nel complesso il migliore dei mondi possibili.

Nel testo l'autore difende implicitamente questa concezione criticando il materialismo e il determinismo contenuti nella spiegazione cartesiana dell'origine del mondo a partire dai vortici, dai torrenti dì corpuscoli ~>118-29.

~~'il®,j Contro il Dio di Descartes e di Spinoza: lo saggeua o la finalità dell'azione divina

llnu:mdo di Desclll'tes; alpaa•i di quello di Spinozo, è desolante e p1•iuo di speranzo

Mi si dirà che Descartes fonda così bene l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima. Ma temo che, sotto le belle parole; si venga ingannati: l'essere perfetto di Descartes non è un Dio come lo si immagina e come lo si desidera, vale a dire giusto e saggio, che fa tutto per il bene delle creature, per quanto è possibile; ma è piuttosto qualcosa di simile al Dio di Spinoza, ossia il principio delle cose e una certa potenza sovrana, o natura primitiva, che mette tutto in azione e fa tutto ciò che è fattibile. Il Dio di Descartes non ha volontà né intelletto, giacché secondo Descartes non ha per oggetto della propria volontà il bene, né il vero come oggetto del proprio intelletto. Egli non vuole neppure che il suo Dio agisca perseguendo qualche fine e per questo espunge dalla filosofia la ricerca delle cause finali, sotto l'abile pretesto che non possiamo conoscere i fini di Dio; mentre invece Platone ha mostrato così bene che, essendo Dio l'autore delle cose, se Dio agisce seguendo la saggezza, la vera fisica è conoscere i fini e gli usi delle cose, dal momento che la scienza è conoscere le ragioni, e le ragioni di ciò che è stato fatto mediante intelletto sono le cause finali o gli intenti di colui che ha fatto le cose, che appaiono attraverso l'uso e la funzione che queste svolgono: ecco perché la considerazione dell'uso delle parti è tanto utile in anatomia. Ecco ,perché un Dio fatto come quello di Descartes non ci lascia altra consolazione se non una forzata pazienza. In qualche luogo Descartes afferma che la materia passa successivamente attraverso tutte le forme possibili, vale a dire che il suo Dio fa tutto ciò che è possibile fare e percorre, seguendo un ordine necessario e fatale, tutte le combinazioni possibili: ma a questo scopo basterebbe la necessità della materia, o piuttosto il suo Dio non è altro che quella necessità, o quel principio di necessità che agisce come può nella materia. Non bisogna dunque credere che

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quel Dio si prenda cura delle creature intelligenti piuttosto che delle altre: ciascuna sarà felice o infelice, a seconda di come si troverà ghermita nei grandi torrenti o vorticP, e ha ragione lui a raccomandarci la pazienza senza speranza (al posto della felicità). G.W. Leibniz, Sul cartesianesimo (a Malebranche?), in Scritti.fìlosofici, vol. I, pp. 215-216

Newton: Dio signore e architetto dell'universo Il brano~ è tratto dal celebre Sco/io generale aggiunto da Newton alla seconda edizione dei Principi matematici della filosofia naturale per respingere le accuse di ateismo che gli erano state rivolte. L'autore inizia considerando il magnifico e ordinato sistema del mondo che la sua fisica ha delineato: un sistema che dimostra l'esistenza di un unico disegno, di un unico progetto, di un'unica volontà intelligente creativa, la cui potenza tutto sembra abbracciare e assoggettare mediante la forza di gravità ~>11-8. Nei passi successivi Newton difende, non senza difficoltà, una concezione personalistica di Dio, scongiurando possibili interpretazioni panteistiche della sua teologia. L'autore precisa subito come Dio sia da pensare trascendente e non immanente alle cose, e non governi tutte le cose come anima, bensì come signore del mondo ~>19-20. Dio non è così un principio fisico, ma persona, forza sovrana: è somma perfezione, intelligenza, onnipotenza e anniscienza. La sua durata è eterna, la sua immensità è infinita, entro il tempo e lo spazio assolutamente considerati ~>120-20. Dio è perciò sempre e ovunque: in qualità di spirito, al pari dell'anima senziente umana, è indivisibile e sempre uguale e identico a se stesso nella sua sostanza ~-129-35. Egli, sostanza spirituale, immateriale, è inoltre onnipresente essendo ovunque; ogni cosa è perciò in lui, senza per questo perturbarlo o modificarlo, giacché in lui tutto rimane inalterabile ~>135-41. Gli uomini attribuiscono a Dio occhi, orecchi, cervello, utilizzando semplici metafore, ossia caratteristiche a loro note per indicare poteri e proprietà umane che Dio possiede in sommo grado e in forma perfetta e spirituale. Sono termini antropomorfici che risultano funzionali a pensare Dio nell'unico modo che è dato a chi, come l'uomo, non può conoscerlo direttamente ma solo indirettamente, osservando il suo dominio, ossia l'universo, il mondo che lo circonda ~>141-57. L'ordine e la finalità riscontrabili nell'universo sono allora sufficienti a dimostrare, da una parte la falsità dello spinozismo, ossia l'idea che l'universo possa essere il frutto di cieca necessità causale, dall'altra la verità dell'esistenza di una causa prima dotata di intelletto e volontà ~>157-67.

L'ordine e l'eleganza dell'universo testimoniano l'esistenza di 1111 unico lll'tefice potente e intelligente

Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere senza il disegno e la potenza di un ente intelligente e potente. E se le stelle fisse sono centri di analoghi sistemi, tutti questi, essendo costruiti con un identico disegno, saranno soggetti alla potenza dell'Uno: soprattutto in quanto la luce delle stelle fisse è della stessa natura della luce del Sole, e tutti i sistemi inviano la luce verso tutti gli altri. E affinché i sistemi delle stelle fisse non cadano, a causa della gravità, vicendevolmente l'uno sull'altro, questo stesso pose una distanza immensa fra di loro.

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l. Il riferimento è alla teoria cartesiana dei vortici nella formazione del mondo.

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Dio è il signore e il mondo intero è il suo dominio

Dio è eterno, infinito e onnip1•esente nel tempo e nello spazio

Dio non è corpo ma, in vh·tù della sua onnipotenza, può compiere tutte le azioni che attribuiamo ai corpi

Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come signore dell'universo. E a causa del suo dominio suole essere chiamato Signore-Dio, Pantokràtor1. Dio infatti è una parola relativa e si riferisce ai servi: e la divinità è la signoria di Dio, non sul proprio corpo, come vien ritenuto da coloro per i quali Dio è l'anima del mondo, ma sui servi. Dio è il sommo ente eterno, infinito, assolutamente perfetto: ma un ente senza dominio, benché perfetto, non è il Signore Dio. Infatti diciamo Dio mio, Dio vostro, Dio di Israele, Dio degli dei, Signore dei potenti; ma non diciamo eterno mio, eterno vostro, eterno di Israele, eterno degli dei; non diciamo infinito mio o perfetto mio. Questi appellativi non hanno rapporto con i servi. La voce Dio significa sempre signore: ma non ogni signore è Dio. La dominazione di un ente spirituale costituisce Dio, la vera dominazione il vero, la somma il sommo, la falsa il falso. E dalla vera dominazione segue che il vero Dio è vivo, intelligente e potente; e dalle restanti perfezioni segue che è sommo o sommamente perfetto. E eterno e infinito, onnipotente e onnisciente, ossia, dura dall'eternità in eterno e dall'infinito è presente nell'infinito: regge ogni cosa e conosce ogni cosa che è o può essere. Non è l'eternità o l'infinità, ma è eterno e infinito; non è la durata e lo spazio, ma dura ed è presente. Dura sempre ed è presente ovunque, ed esistendo sempre ed ovunque, fonda la durata e lo spazio. Poiché ogni particella dello spazio è sempre, e ogni momento indivisibile della durata è ovunque, certamente l'Artefice e il Signore di tutte le cose sarà sempre e ovunque. Ogni anima senziente nei diversi tempi, nei diversi sensi e organi di movimento è la medesima persona indivisibile. Le parti sono successive nella durata, coesistenti nello spazio, ma nessuna delle due è data nella persona dell'uomo o nel suo principio razionale, e molto meno nella sostanza pensante di Dio. Ogni uomo, in quanto sostanza senziente, è un unico e identico uomo durante tutta la sua vita in tutti e nei singoli organi di senso. Dio è un unico e identico Dio sempre e ovunque. È onnipresente non per sola virtù, ma anche sostanzialmente: infatti la virtù senza la sostanza non può sussistere. In esso gli universi sono contenuti e mossi, ma senza nessun mutuo perturbamento. Dio non patisce nulla a causa dei moti dei corpi: questi non trovano alcuna resistenza a causa dell'onnipresenza di Dio. E manifesto che il sommo Dio deve esistere necessariamente, e per la stessa necessità è sempre e ovunque. Di conseguenza egli è anche interamente simile a se stesso, tutto occhio, tutto orecchio, tutto cervello, tutto braccio, tutta forza sensoriale, intellettiva e attiva, ma in modo niente affatto umano, niente affatto corporeo; in modo a noi assolutamente sconosciuto. Come il cieco non ha idea dei colori, così noi non abbiamo idea dei modi con i quali Dio sapientissimo sente e capisce tutte le cose. E completamente privo di ogni corpo e di ogni figura corporea, e perciò non può essere visto, né essere udito, né essere toccato, né deve essere venerato sotto la specie di alcunché di corporeo. Abbiamo idea dei suoi attributi, ma non conosciamo affatto che cosa sia la sostanza di una cosa. Dei corpi vediamo soltanto le figùre e i colori, sentiamo soltanto i suoni, tocchiamo soltanto le superfici esterne, odoriamo soltanto gli odori e gustiamo i sapori; ma non conosciamo le sostanze intime con nessun senso, con nessun atto di riflessione; e, molto meno,

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1. Pantokràtor, Pantocratore, ossia forza di tutte le cose, signore dell'universo, dal greco péin (tutto) e krdtos (forza). -

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La finalità e la uerità presenti in nattn•a sono proue della volontà e della saggezza di Dio

abbiamo un'idea della sostanza di Dio. Lo conosciamo solo attraverso le sue proprietà ed i suoi attributi, per la sapientissima e ottima struttura delle cose e per le cause finali, e l'ammiriamo a causa della perfezione; ma lo veneriamo, invero, e lo adoriamo a causa del dominio. Adoriamo infatti come servi, e Dio senza dominio, provvidenza e cause finali non è altro che fato e natura. Da una cieca necessità metafisica, che è assolutamente identica sempre e ovunque, non nasce alcuna varietà di cose. L'intera varietà delle cose create, per luoghi e per tempi, poté essere fatta nascere soltanto dalle idee e dalla volontà di un ente necessariamente esistente. Allegoricamente, infatti, si dice che Dio veda, oda, parli, rida, ami, odi, desideri, dia, prenda, goda, si adiri, combatta, fabbrichi, fondi, costruisca. Infatti, ogni idea intorno a Dio deriva interamente, per similitudine, dalle cose umane, non certo perfetta ma tuttavia somigliante. Queste cose intorno a Dio: sul quale spetta alla filosofia naturale di parlare muovendo dai fenomeni.

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I. Newton, Principi matematici della filosofia, pp. 792-795

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ueste domande individuano un nodo tematico oltremodo classico del pensiero filosofico, con tutto il suo carico dirompente di implicazioni morali: se tutto è necessario, come è possibile concepire allora la responsabilità umana? Come è possibile attribuire un merito o una colpa a chi non poteva, né potrà agire diversamente da come ha agito o agirà? Tra il XVII e il XVIII secolo, la questione della libertà o necessità delle azioni, ossia del libero arbitrio (libero volere) o del determinismo, assume una portata tale da sollecitare il contributo di tutti i protagonisti della storia del pensiero moderno. Si delineano così le trame, le posizioni teoriche, le argomentazioni principali, su cui si sarebbe sviluppata anche in seguito l'intera discussione. Decisa, benché problematica, è la difesa della libertà avanzata da Descartes. Al rovescio, altrettanto risoluta è la negazione spinoziana del libero arbitrio umano. Ancora una volta articolata e complessa è la difesa della libertà da parte di Leibniz, nel tentativo di trovare un'ardua sintesi eli determinismo e finalismo.

P. P. Rubens, Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre (peccato originale), 1599-1600, Anversa, Rubenshuis.

Descartes: in difesa della libertà Ogni uomo, osserva Descartes nel brano liiiil\l, tratto dalle Meditazioni metafisiche, è certo della propria libertà, immediatamente, per esperienza. L'autore la identifica in quella libertà di giudicare che talvolta induce gli uomini anche a ingannarsi ~>-11-4. Come chiarisce subito Descartes, la libertà, di per sé, non è però la fonte dell'errore; né Dio, che ha donato all'uomo questo potere, può essere incolpato di azione imprudente o malvagia. La possibilità di sbagliare dipende infatti esclusivamente dalla imperfezione umana, dalla sua natura creatura le, dal suo essere un termine medio tra Dio e il nulla ~>14-20. L'uomo, infatti, non ha conoscenza di tutte le cose, né può pretendere di averla: Dio soltanto ha perfetta conoscen· za della realtà perché l'ha prodotta; l'uomo, invece, è soltanto una delle sue creature e il suo intelletto, la sua capacità di distinguere il vero dal falso, è limitata, è necessariamente finita ~>121-25. La libertà, ossia il potere di giudicare della volontà è invece illimitato, infinito e si estende oltre le idee chiare e distinte dell'intelletto, potendo cosl, per difetto di conoscen· za legato a questa possibile lontananza, generare un giudizio errato ~>-126-44. Come si rica· . J.-.- - - - - - - - - - - - - - 282

va di seguito, secondo Descartes, l'esercizio di una simile libertà di volere indifferentemente, di giudicare in un modo o in un altro, in totale indipendenza dall'intelletto è tuttavia il grado più basso della libertà, che nel suo grado più alto non è totale arbitrio e consiste invece nella determinazione del volere in base alla verità che soltanto l'intelletto può cogliere ~>145-61. Alla radice della libertà vi è comunque una reale indifferenza del giudizio, che è una prerogativa della volontà, rispetto alle rappresentazioni dell'intelletto. La volontà può insomma sciegliere o giudicare senza tener conto dei motivi e delle ragioni, può persino andare contro l'intelletto. In questa sproporzione tra intelletto e volontà, ossia nella maggiore estensione di questa rispetto a quello, è compresa però anche la possibilità per l'uomo di sba-. gliare, ingannarsi e peccare ~>162-72.

Dio 11011 è la causa dell'errore umano

L'errore dipende da una mancanla di pt!l'fezinne: l'intelletto umano è finito

Io sperimento in me stesso una certa facoltà eli giudicare, che, senza dubbio, ho ricevuto da Dio, come tutto il resto delle cose che posseggo, e poiché egli non vorrebbe ingannarmi, è certo che egli non me l'ha data tale ch'io· possa mai sbagliare, quando ne userò come conviene. E non resterebbe nessun clubbio su questa verità, se non se ne potesse, sembra, trarre questa conseguenza, che così, dunque, io non mi posso mai ingannare; poiché, se io ricevo da Dio tutto ciò che posseggo, e se egli non mi ha dato una facoltà per errare, sembra ch'io non debba mai ingannarmi. Ed invero, quando non penso che a Dio, io non scopro in me nessuna causa eli errore o eli falsità; ma dopo, ritornando a me, l'esperienza mi fa conoscere che sono, tuttavia, soggetto acl un'infinità eli errori, dei quali ricercando la causa più da vicino, io noto che non si presenta solamente al mio pensiero una reale e positiva idea di Dio, ossia d'un essere sovranamente perfetto, ma anche, per così dire, una certa idea negativa del nulla, cioè eli ciò che è infinitamente lontano da ogni sorta eli perfezione; e che io sono come un termine medio tra Dio e il nulla, cioè posto in tal modo tra il sovrano essere e il non-essere, che, a dir vero, non si trova nulla in me che possa inclurmi in errore, in quanto un sovrano essere mi ha prodotto, ma che, se mi considero come partecipante in certo modo del niente o del non essere, cioè in quanto non sono io stesso il sovrano essere, mi trovo esposto acl un'infinità di mancamenti, eli modo che non mi debbo stupire se m'inganno. Così io conosco che l'errore, in quanto tale, non è qualcosa eli reale, che elipende da Dio, ma è solamente un difetto; e pertanto che io non ho bisogno per errare eli qualche facoltà che mi sia stata data da Dio particolarmente per quest'effetto, ma che accade che io m'inganni pel fatto che la facoltà, che Dio mi ha dato per discernere il vero dal falso, non è in me infinita. [.. .] Dopo eli che, guardandomi più da vicino, e considerando i miei errori (i quali soli testimoniano che in me v'è dell'imperfezione), trovo che dipendono dal concorso di due cause, e cioè dalla facoltà eli conoscere che è in me e dalla facoltà eli scegliere, o libero arbitrio: ossia dal mio intelletto ed insieme dalla mia volontà. Poiché, con l'intelletto solo, io non affermo né nego alcuna cosa, ma concepisco solamente le idee delle cose, che posso affermare o negare. Ora, considerando così precisamente, si può dire che non si trova mai in esso alcun errore, purché si prenda la parola errore nel suo proprio significato. E benché vi siano, forse, un'infinità di cose nel mondo, di cui non ho nessuna idea nel mio intelletto, non si può dire per questo che esso sia privato eli tali idee, come di cosa dovuta alla sua natura, ma solamente che esso non le ha; perché, in effetti, non vi è nessuna ragione che possa provare che Dio avrebbe dovuto darmi una facoltà di conoscere più grande e piì:1 ampia di quella che m'ha

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Lauolimtiì è libera e infinita

La uera libertà Ì! volere secondo conoscenza

data; e per quanto destro e dotto operaio me lo rappresenti, io non debbo per questo pensare che egli avrebbe dovuto mettere in ciascuna delle sue opere tutte le perfezioni che può mettere in alcune. Io non posso neppure lamentarmi che Dio mi abbia dato un libero arbitrio, o una volontà assai ampia e perfetta, poiché, in effetti, io la sperimento così vaga e così estesa che non è rinchiusa in nessun limite. [... ] Poiché essa consiste solamente in ciò: che noi possiamo fare una cosa o non farla (cioè affermare o negare, seguire o fuggire); o piuttosto solamente 'in questo: che, per affermare o negare, seguire o fuggire le cose che l'intelletto ci propone, noi agiamo in modo, che non ci sentiamo costretti da nessuna forza esteriore. Infatti, affinché io sia libero, non è necessario che sia indifferente a scegliere l'uno o l'altro dei .due contrari; ma piuttosto, quanto più inclino verso l'uno, sia che conosca evidentemente che il bene ed il vero vi si trovano, sia che Dio disponga così l'interno del mio pensiero, tanto più liberamente ne faccio la scelta e l'abbraccio. E, certo, la grazia divina e la conoscenza naturale, ben lungi dal diminuire la mia libertà l'aumentano piuttosto, e la fortificano. Di modo che questa indifferenza che io sento, quando non sono portato verso un lato più che verso un altro dal peso di niuna ragione, è il più basso grado della libertà, e rende manifesto piuttosto un difetto nella conoscenza, che una perfezione nella volontà; perché se conoscessi sempre chiaramente ciò che è vero e ciò che è buono, non sarei mai in difficoltà per deliberare qual giudizio e quale scelta dovrei fare, e così sarei interamente libero, senza mai essere indifferente. Da tutto ciò riconosco che la facoltà di volere, che io ho ricevuto da Dio, non è di per se stessa la causa dei miei errori, perché essa è amplissima e perfettissima nella sua specie; e neppure la facoltà d'intendere o di concepire: perché, non concependo nulla, se non per mezzo di questa facoltà, che Dio m'ha dato per concepire, è fuori dubbio che tutto ciò che concepisco, lo concepisco come conviene, e non è possibile che in ciò m'inganni. Dunque, donde nascono i miei errori ? Da ciò solo, che, la volontà essendo molto più ampia e più estesa dell'intelletto, io non la contengo negli stessi limiti, ma l'estendo anche alle cose che non intendo, alle quali essendo di per sé indifferente, essa si smarrisce assai facilmente, e sceglie il male per il bene, o il falso per il vero. E questo fa sì ch'io m'inganni e che pecchi.

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R. Descartes, Meditazioni metaflsiche, IV Meditazione, pp. 51- 55

Spinoza: in difesa della necessità Nel brano~ tratto dall'Etica, Spìnoza confuta alcuni aspetti della concezione cartesiana e la sua critica dì libertà. Per Spìnoza, nella mente umana non sì dà alcuna volontà assoluta, li· bera dì scegliere e dì volere: la mente umana non è una sostanza, ma una modificazione del· l'attr-ibuto pensiero dell'unica sostanza, Dio. Perciò la mente non ha di per sé un potere di pensare o volere, ma pensieri e volizioni sì susseguono nell'uomo in virtù di cause che sono a loro volta determinazioni e modìfìcazioni del pensiero, quale attributo divino ~11-19. Co· me Spìnoza spiega dì seguito, non esiste un'astratta facoltà dì volere, bensì esistono nella mente umana singole volizioni, che altro non sono che affermazioni o negazioni conte· nute già nella rappresentazione dì ogni singola idea ~119-37. Cosicché concepire un'idea si· gnifica già di per sé affermare o negare qualcosa di essa. Ad esempio, come spiega altrove,

\/138-42.

Proposizione XLVIII. Nella Mente non vi è alcuna volontà assoluta ossia libera; ma la Mente è determinata a volere questo o quello da una causa che è anch'essa determinata da un'altra, e questa a sua volta da un'altra, e cosi all'infinito. Dimostrazione. La Mente è un modo certo e determinato del pensare (per la Prop. 11 di questa parte), e perciò (per il Coroll. 2 della Prop. 17 p. l) non può essere causa libera delle sue azioni, ossia non può avere una assoluta facoltà di volere e di non volere; ma (per la Prop. 28 p. l) deve essere determinata da una causa, che è anch'essa determinata da un'altra causa, e questa a sua volta da un'altra, ecc. C.V.D. Scolio. In questo stesso modo si dimostra che nella Mente non si dà alcuna facoltà assoluta di intendere, di desiderare, di amare, ecc. Donde segue che queste e simili facoltà o sono del tutto fittizie, o non sono altro che enti Metafisici, ossia universali che siamo soliti formare dai particolari. Così che l'intelletto e la volontà stanno a questa e quella idea o a questa e quella volizione nello stesso modo in cui la petreità sta a questa e quella pietra o in cui l'uomo sta a Pietro e Paolo. [... ) Proposizione XLIX. Nella Mente non si dà alcuna volizione, ossia affermazione e negazione oltre quella che l'idea, in quanto è idea, implica. Dimostrazione. Nella Mente (per la Prop. prec.) non si dà alcuna assoluta facoltà di volere e di non volere, ma soltanto volizioni singolari, e cioè questa e quella affermazione, e questa e quella negazione. Concepiamo, dunque, una certa volizione singolare, e cioè un modo del pensare, con il quale la Mente afferma che i tre angoli di un triangolo sono uguali a due retti. Questa affermazione implica il concetto, ossia l'idea del triangolo, ovvero non può essere concepita senza l'idea del triangolo. E lo stesso, infatti, se dico che A deve implicare il concetto di B o che A non può essere concepito senza B. Inoltre, questa affermazione (per l'As. 3 di questa parte) non può essere senza l'idea del triangolo. Questa affermazione, dunque, non può né essere, né essere concepita senza l'idea del triangolo. Inoltre, questa idea del triangolo deve implicare questa stessa affermazione, e cioè che i suoi tre angoli sono uguali a due retti 1 • Per la qual cosa, e viceversa, questa idea del triangolo non può essere né essere concepita senza questa affermazione, e perciò (per la Def. 2 di questa parte) questa affermazione appartiene all'essenza dell'idea del triangolo e non è nient'altro tranne che questa stessa idea. E quel che abbiamo detto di questa volizione (poiché l'abbiamo assunta a piacere), deve anche essere detto di qualunque volizione, e cioè che non è nulla oltre l'idea. C.V.D. Corollario. La volontà, e l'intelletto sono una sola e stessa cosa. Dimostrazione. La volontà e l'intelletto non sono altro che le ~:>le~:>~:>e volizioni e idee singolari (per la Prop. 48 di questa parte con il suo Scolio). Ma una volizione e un'idea singolari (per la Prop. prec.) sono una sola e stessa cosa, e dunque la volontà e l'intelletto sono una sola e stessa cosa. C.V.D.

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B. Spinoza, Etica, pp. 163- 169

l. Cfr. su questa dottrina il brano~ a p. 267 sgg. del tema «Certezza e verità", sulla verità in Spinoza.

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In una lettera indirizzata al medico Giovanni Ermanno Schuller di Amsterdam, suo seguace e ammiratore, da cui è tratto il secondo brano !lim, Spinoza prova a precisare la sua concezione della libertà, una volta riconosciuta l'universale necessità di tutti gli accadimenti fisici e mentali. La sua idea di libertà è compatibile con la necessità. La libertà di cui parla Spinoza non è infatti il libero arbitrio ossia il libero volere, bensì la capacità di esistere e di agire non costretto da altro, se non dalle leggi delle propria natura. Libero è in tal senso propriamente e unicamente Dio, che per esistere e per agire dipende solo da stesso ll>l1-17. Di seguito Spinoza tenta anche di confutare la celebre prova cartesiana basata sull'esperienza interiore della libertà, ricorrendo al paragone di una pietra che cade, consapevole di cadere ma ignara delle cause che la spingono a questo movimento: analoga è la credenza umana nel libero arbitrio, che è soltanto il frutto di un'illusione, dovuta all'ignoranza delle cause che determinano il nostro volere ll>l18-29; gli uomini credono falsamente di essere liberi, perché sono sempre consapevoli di ciò che vogliono ma non del perché vogliono una cosa anziché un'altra ll>l30-42. lnvero il volere umano è sempre determinato casualmente dalla differente forza degli appetiti, delle emozioni ~>142-48.

Un'idea di libertà compatibile con la necessità, che non esclude il determinismo

Valentissimo signore, il nostro amico]. B. 1 mi ha trasmesso la lettera che vi siete degnato di scrivermi, insieme con il giudizio del vostro amico 2 sul pensiero mio e di Cartesio circa il libero arbitrio, il che mi ha fatto molto piacere. E benché al presente, oltre la malferma salute, io sia distratto anche da un cumulo di cose, tuttavia, sia la vostra particolare gentilezza, sia, ciò che io apprezzo di più, il vostro amore per la verità mi obbligano a soddisfare il vostro desiderio per quanto lo possono le mie deboli forze. [. .. ] Passo dunque a quella definizione della libertà che egli dice essere mia, ma che io non so donde l'abbia presa. Io dico libero ciò che esiste e opera per la sola necessità della sua natura; costretto, invece, ciò che a esistere e a operare è determinato da altro secondo una certa e determinata ragione. Per esempio, Dio, per quanto necessariamente, esiste tuttavia liberamente, perché esiste per la sola necessità della sua natura. E così pure, Dio intende se stesso e tutte le cose in modo assolutamente libero, perché ciò discende dalla sola necessità della sua natura. Vedete, dunque, che io pongo la libertà, non nel libero arbitrio, ma nella libera necessità. Ma veniamo alle cose create, le quali tutte sono determinate a esistere e a operare da cause esterne, secondo una certa e determinata ragione. E per intendere questo chiaramente, pensiamo una cosa semplicissima. Per esempio, una pietra riceve una certa quantità di movimento da una causa esterna che la spinge, per la quale, cessato l'impulso della causa esterna, continua necessariamente ad esser mossa. Dunque, questo persistere della pietra nel movimento è coatto, non perché necessario, ma perché deve essere definito dall'impulso di una causa esterna. E ciò che si dice qui della pietra deve intendersi di qualunque cosa particolare, per quanto complessa e adatta ad una molteplicità di usi, perché ciascuna cosa, cioè, è necessariamente determinata a esistere e a operare da una qualche causa esterna, secondo una certa e determinata ragione.

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1. L'editore Giovanni Reiwertz eli Amsterdam. 2. Il riferimento è a Ehrenfriec\ Walther von Tschirnhaus (1651-1708), amico e corrispondente eli Spinoza. 1

11-5. Secondo Leibniz non possono essere sottoposte a necessità assoluta le azioni volontarie, perché queste non potrebbero mai essere compiute senza il nostro accordo. Riprendendo un termine già presente nella filosofia scolastica, Leibniz parla allora di una necessità morale: ossia di una necessità che interviene tra motivi e volere, non di origine fisica e meccanica, bensl immateriale, che non determina in maniera assoluta, ma solo ipotetica, secondo fini e non ciecamente

~>15-13.

Leibniz ritiene cosl di poter respingere la necessità di Spinoza (la necessità per essenza, con riferimento all'analogia tra l'essenza di Dio e l'essenza di un triangolo), senza abbracciare però nemmeno l'idea cartesiana di una libertà come indifferenza di equilibrio del volere e del giudizio ~>114-19. Riconoscere che la volontà segue sempre dei motivi comporta per Leibniz respingere ogni forma di fatalismo, di accettazione passiva degli eventi, ma significa anche riconoscere l'importanza che nella motivazione possono svolgere premi, punizioni, precetti ~>120-29. Al fine di non ricadere nella necessità assoluta, Leibniz ribadisce che la libertà è l'au· todeterminazione dell'uomo sulla scorta di motivi e ragioni, che non necessitano il vo· lere, bensì lo «inclinano», giacché non sono elementi fisici, meccanici in grado di costrin-

gere la scelta, come se essa fosse una ruota dentata mossa da ingranaggi ~>129-39.

Necessità iputetica e necessità assoluta

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Da respingersi è la necessità, contraria alla moralità, che renderebbe inutile ogni resistenza, quand'anche si volesse evitare in tutta sincerità l'azione necessaria e si facesse ogni sforzo per riuscirei. Ma è chiaro che ciò non è punto applicabile alle azioni volontarie, che non verrebbero compiute se non fossero volute. Del pari, la loro previsione e predeterminazione non sono assolute, ma presuppongono la volontà: se si è certi che saranno commesse, si è però certi

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la necessità morale: ipotetica secondo motiui che inclinano, 111111 necessitano

che le si vorrà. Tali azioni volontarie, unitamente alle loro conseguenze, non accadranno affatto qualsiasi cosa si faccia, e a prescindere che le si voglia oppure no: accadranno perché si farà, e perché si vorrà fare, ciò che le produce. E tutto questo è contenuto nella previsione e predeterminazione; anzi, ne costituisce il fondamento. La necessità di eventi siffatti è detta condizionale o ipotetica, o anche necessità delle conseguenze, perché presuppone la volontà e gli altri requisiti. Per contro, la necessità che distrugge la morale e rende il castigo ingiusto e la ricompensa inutile, è quella di ciò che sarà, qualsiasi cosa si faccia e si voglia fare: in breve, di ciò che è per essenza 1 • Ed è quella che si chiama necessità assoluta. Così, rispetto a ciò che è necessario assolutamente, non serve a nulla preparare difese e provvedimenti, proporre pene o ricompense, biasimare o lodare: ciò non cambierà nulla. Nelle azioni volontarie, al contrario, e in ciò che ne dipende, le prescrizioni, corroborate dal potere di punire e di premiare, sono molto spesso utili e sono incluse nell'ordine delle cause che fanno esistere l'atto. A tal fine giovano non solo l'attenzione e la sollecitudine, ma anche le preghiere, avendo Dio considerato anche queste preghiere prima di regolare le cose, tenendole nel conto dovuto. In questo senso il precetto Ora et labora, prega e lavora, conserva tutta la sua forza. Sicché, non soltanto coloro che, col vano pretesto della necessità degli eventi, affermano potersi trascurare quanto richiesto dagli affari, ma anche coloro che argomentano contro le preghiere cadono in quello che già gli antichi chiamavano «sofisma pigro, 2 . Pertanto la predeterminazione degli eventi da parte delle cause è appunto ciò che contribuisce alla moralità, lungi dal distruggerla; e le cause inclinano la volontà senza necessitarla. La determinazione di cui si tratta qui non è punto una necessitazione. [.. .l. Del pari, la volontà si determina per una tale inclinazione interna, senza che vi sia necessità. Posto che si abbia la più forte voglia concepibile- per esempio, una grandissima sete-, ammetterete che l'anima potrà sempre trovare qualche ragione per resistervi, non foss'altro che il desiderio di far vedere il proprio potere. Quindi, sebbene non ci si trovi mai in una perfetta indifferenza d'equilibrio, e l'inclinazione prevalga sempre in favore della decisione presa, essa non rende mai la decisione assolutamente necessaria.

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G.W. Leibniz, Saggi di Teodicea, pp. 497-498

1. Evidente il riferimento polemico a Spinoza che avrebbe assimilato la necessità ipotetica alla 'necessi-

tà logica o per essenza. 2. In altri luoghi Leibniz definisce anche «ragion pigra, qtJel sofisma, quel ragionamento falso e appa-

rente che portava secondo gli antichi a non curarsi eli niente, se non a vivere nel presente, visto che niente avrebbe potuto alterare il futuro.

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Mente e corpo

:rettamen:e intrecciata alla discussion.e sulla libertà e la quest10ne del rapporto mente/amma-corpo. La libertà dalla necessità ha infatti in Descartes un fondamento reale nel dualismo, ossia nella distinzione tra sostanza pensante e sostanza estesa. Le leggi della meccanica, le interazioni necessarie e deterministiche della materia alle quali anche il nostro corpo soggiace, trovano in Descattes un limite nella nostra mente, che è immateriale ed è libera nella sua facoltà di volere o giudicare. Il problema mente-corpo occupa un enorme rilievo nell'età cartesiana e ancora oggi le discussioni di filosofia della mente ripartono spesso da Descartes per confrontarsi con tutte le posizioni emerse nel dibattito moderno di Seicento e Settecento. La posizione di Descartes è dualista (mente e corpo sono due sostanze distinte) e interazionista (l'una è in grado di agire sull'altra e viceversa). A negare, invece, la possibilità eli un'interazione tra due sostanze distinte, come la mente e il corpo, sono anzi-

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M. C. Escher, Vincolo d'unione, 1956

tutto filosofi cartesiani come Guelincx e Malebranche, che avanzano l'ipotesi occasionalista, basata sull'onnicausalità eli Dio. Spinoza elabora invece una metafisica monista, nella quale pensiero ed estensione costituiscono due degli infiniti attribuiti dell'unica sostanza, Dio, ossia la natura. Tra le modificazioni che intervengono nei due attributi non vi è interazione, bensì parallelismo, data la loro comune origine in Dio. Leibniz riconosce invece una pluralità di sostanze, le monadi, eli natura spirituale, che non hanno tra loro alcun contatto e sono poste da Dio, al momento della creazione, in armonia prestabilita. Ad intervenire immediatamente nella discussione sono anche posizioni diverse, come quella di Gassencli che nega, contro Descartes, la legittimità della distinzione tra mente (anima) e corpo, e quella materialistica eli Hobbes, che ritiene che mente e corpo siano due sostanze omogenee, della stessa natcJra.

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Descartes: due sostanze distinte, in interazione tra loro Il brano~, tratto dalle Meditazioni meta fisiche, propone in apertura l'argomentazione cartesiana sulla distinzione reale tra mente e corpo: l'una è una sostanza immateriale e indivisibile il cui attributo è il pensiero, l'altra è una sostanza materiale estesa e divisibile ~>11-16. Descartes individua il possibile punto di incontro di queste due sostanze nel cervello umano. A suo parere, infatti, mente e corpo sono, di fatto, in interazione tra di loro: i movimenti volontari del corpo cominciano da un atto cosciente di pensiero; mentre è il corpo ad agire sulla mente quando questa ha impressioni, sensazioni, immagini della realtà esterna. In queste circostanze, nel cervello si formano delle immagini fisiche in grado di tradursi per mezzo della mente in oggetti di pensiero cosciente ~>117-22. Descartes spiega infine come si producono le sensazioni che dalle zone più periferiche del nostro corpo, mediante l'azione meccanica dei nervi, giungono a eccitare movimenti nel cervello ~>123-43.

lliiil~ Il corpo è divisibile, lo spirito è imlivisibile

Mentee1:m•pn cmmmicano tl'il 1111'0 att••averso il cervello e i nerui

Per cominciare, dunque, questo esame, osservo qui, in primo luogo, che vi è una grande differenza fra lo spirito e il corpo, perché il corpo, eli sua natura, è sempre divisibile, e lo spirito è interamente inclivisibile. Quando, infatti, considero il mio spirito, cioè me stesso in quanto sono solamente una cosa che pensa, io non posso distinguere parti, ma mi concepisco come una cosa sola ed intera. E sebbene tutto lo spirito sembri essere unito a tutto il corpo, tuttavia se un piede o un braccio o qualche altra parte è separata dal mio corpo, è certo che nulla perciò sarà distaccato dal mio spirito. E le facoltà di volere, di sentire, di concepire, ecc. non possono propriamente esser dette sue parti: perché lo stesso spirito s'impiega tutto intero a volere, ed egualmente tutto intero a sentire, a concepire ecc. Ma è tutto il contrario nelle cose corporee o estese; perché non ve n'è nessuna, che io non rompa facilmente in pezzi col mio pensiero, che il mio spirito non divida con ogni facilità in parecchie parti, e, per conseguenza, che io non conosca essere divisibile. Il che basterebbe ad insegnarmi che lo spirito ·o l'anima dell'uomo è interamente differente dal corpo, se già non l'avessi appreso per altra via. Io noto pure che lo spirito non riceve immediatamente l'impressione di tutto il corpo, ma solo del cervello, o forse anche eli una delle sue più piccole parti, cioè di quella dove si esercita la facoltà che chiamano il senso comune, la quale, tutte le volte ch'è disposta nella stessa maniera, fa sentire la stessa cosa allo spirito, sebbene, tuttavia, le altre parti del corpo possano essere diversamente disposte, come è attestato da un'infinità eli esperienze che non v'è qui bisogno di riferire. Io osservo inoltre che la natura del corpo è tale, che nessuna delle sue parti può essere mossa da un'altra un po' lontana senza poter essere egualmente mossa nella stessa maniera da ognuna delle parti intermedie, sebbene la parte più lontana non agisca affatto. Come, per esempio, nella corda A B C D che è tutta tesa, se si viene a tirare e a muovere l'ultima parte D, la prima A non sarà mossa in una maniera diversa da quella in cui si potrebbe egualmente farla muovere, se si tirasse una delle parti medie, B o C, e l'ultima D restasse nel frattempo immobile. E parimenti, quando sento dolore al piede, la fisica m'insegna che questa sensazione si comunica per mezzo dei nervi diffusi nel piede, che, trovandosi tesi come delle corde di là sino al cervello, quando sono tirati nel piede tirano anche, in pari tempo, il luogo del cervello donde vengono e nel quale vanno a finire, e vi eccitano un certo movimento che la natura ha istituito per far sentire dolore allo spirito, come se questo dolore fosse nel piede. Ma poiché

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questi nervi debbono passare per la gamba, per la coscia, per le reni, per il dorso e per il collo, per stendersi dal piede fino al cervello, può accadere che, sebbene le loro estremità, che sono nel piede, non siano punto mosse, lo siano invece alcune delle parti che passano per le reni o per il collo; il che, tuttavia, eccita nel cervello gli stessi movimenti che potrebbero esservi eccitati da una ferita ricevuta nel piede; ed in conseguenza di ciò sarà necessario che lo spirito risenta nel piede lo stesso dolore che se vi avesse ricevuto una ferita. E bisogna pensare qualcosa di simile di tutte le altre percezioni dei nostri sensi.

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Descartes , Meditazioni metafisiche, pp. 79-81

Gassendi contro la distinzione mente-corpo F[nita nel1640 la stesura delle Meditazioni metafisiche, Descartes fece circolare il manoscritto, raccogliendo una serie di obiezioni avanzate da alcuni tra i più dotti filosofi e teologi del tempo. Tra questi compariva anche Pierre Gassendi, il filosofo francese che aveva fatto proprio l'atomismo di Epicuro e di Lucrezio. Nel brano proposto~, Gassendi solleva una serie di critiche e di perplessità nei confronti della distinzione cartesiana tra mente e corpo. Anzitutto, ritenere che l'essenza della mente sia costituita dal pensare comporta che la mente pensi sempre, come Descartes del resto è pronto a riconoscere, nonostante, secondo Gassendi, molti esempi (il sonno letargico, il feto nel ventre materno) sembrino provare il contrario ~11-21. Gassendi mostra poi come mente e corpo appaiano invero indistinti e strettamente intrecciati tra di loro, nel processo della conoscenza e in tutte le funzioni vitali dell'essere umano. Al riguardo, al razionalismo di Descartes, Gassendi non fa altro che contrapporre la funzione primaria ed essenziale dell'esperienza sensibile, senza bisogno di richiamare il sensismo epicureo, ma ricorrendo a note formulazioni aristoteliche ~122-46.

La mente pensa sempre?

Voi aggiungete «che solo il pensiero non può essere separato da voi». Non vi si può negar questo, specialmente se non siete che uno spirito, e se non volete punto ammettere altra distinzione tra la sostanza dell'anima e la vostra, se non quella che nella scuola si chiama distinzione di ragione 1 • Tuttavia io esito, e non so bene se, quando dite «che il pensiero è inseparabile da voi", voi intendiate che, per tutto il tempo della vostra esistenza, non cessate mai di pensare. Certamente questo è molto conforme con quel pensiero di alcuni filosofi antichi, che, per provare che l'anima dell'uomo è immortale, dicevano ch'essa è in un continuo movimento, cioè, secondo la mia interpretazione, che pensava sempre. Ma sarà difficile persuadere qùelli che non potranno comprendere come possiate pensare nel mezzo d'un sonno letargico, o come abbiate pensato nel ventre di vostra madre. Al che aggiungo che io non so se voi crediate di essere stato infuso nel vostro corpo, o in qualcuna delle sue parti, fin da quando esso fu concepito nel ventre di vostra madre, o al momento della uscita. Ma non voglio tormentarvi ulteriormente su questo, e nemmeno domandarvi se ricordate quel che pensavate quando stavate ancora nel suo ventre, o subito do-

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1. Unà distinzione di ragione è diversa da una distinzione reale: quest'ultima è anche nella cosa e non soltanto, come la prima, il frutto eli un'analisi del pensiero. l

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Un unico nrdine che si esplica secondo due diuorsi attributi della medesima sostanza

Proposizione VII. L'ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l'ordine e la connessione delle cose. Dimostrazione. Risulta chiara clall'As. 4 p. I. infatti l'idea che ciascun causato dipenda dalla conoscenza della causa eli cui è effetto. Corollario. Ne segue che la potenza eli pensare eli Dio è uguale alla sua attuale potenza eli agire. Cioè che tutto ciò che segue formalmente 1 dall'infinita natura di Dio segue anche oggettivamente2 in Dio, con lo stesso ordine e con la stessa connessione. Scolio. Prima di procedere oltre dobbiamo richiamare qui alla memoria quello che abbiamo dimostrato prima; cioè che tutto ciò che può essere percepito da un intelletto infinito come costituente l'essenza della sostanza appartiene soltanto ad un'unica sostanza e, conseguentemente, che la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una e identica sostanza che è compresa ora sotto questo ora sotto quell'attributo. Così anche un modo dell'estensione e l'idea di quel modo sono una sola e stessa cosa, ma espressa in due modi; cosa che sembrano quasi aver visto confusamente alcuni Ebrei che affermano che Dio, l'intelletto di Dio e le cose comprese dallo stesso intelle.tto di Dio sono una sola e stessa cosa3 . Per esempio il cerchio esistente in natura e l'idea del cerchio esistente, che è anche in Dio, sono una sola e stessa cosa che si esplica mediante attributi diversi; e perciò sia che concepiamo la natura sotto l'attributo dell'Estensione, o sotto l'attributo del Pensiero, o sotto qualunque altro attributo, troveremo un solo e stesso ordine, ossia una sola e stessa connessione delle cause, troveremo cioè che le stesse cose seguono da una parte e dall'altra. E per nessun'altra ragione ho detto che Dio è causa dell'idea per esempio del cerchio soltanto in quanto è una cosa pensante, e del cerchio soltanto in quanto è una cosa estesa, se non perché l'essere formale dell'idea del cerchio non può essere percepito se non per mezzo di un altro modo del pensare come sua causa prossima e questo stesso a sua volta per mezzo eli un altro e così all'infinito, così che, fino a quando le cose sono considerate come modi del pensare, dovremo spiegare l'ordine di tutta la natura, ossia la connessione delle cause mediante il solo attributo del Pensiero, e in quanto le cose sono considerate come modi dell'Estensione anche l'ordine eli tutta la natura deve essere spiegato mediante il solo attributo dell'Estensione, e lo stesso intendo per gli altri attributi. Per la qual cosa, Dio, in quanto consta di infiniti attributi, è in realtà causa delle cose come esse sono in sé. E al momento non posso spiegare più chiaramente queste cose.

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B. Spinoza, Etica, pp. 127-128

1. Termine tecnico scolastico daformaliter, l'essere formale delle idee equivale alloro essere reale. 2. Altro termine tecnico scolastico, da objectivum, l'essere obiettivo delle idee equivale alloro con-

tenuto rappresentativo, che ha dunque realtà in un intelletto che le concepisce. L'essere obiettivo è distinto così dall'essere formale, che indica la realtà fisica delle idee fuori di una mente . .3. Probabile riferimento alle tesi di Maimonide (Moshe ben Maim6n, 1135-1204) e Leone Ebreo Oehuda Abravanel, 1463-1523).

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Leibniz: l'armonia prestabilita Originale è la posizione di Leibniz proposta nel brano li:i0!, secondo la versione contenuta nei Principi razionali della Natura e della Grazia, redatti nel1714. La soluzione proposta da Leibniz può essere definita come monista e non interazionista, perché riconduce tutta la realtà all'unica dimensione spirituale delle monadi. Il testo inizia definendo i concetti di sostanza e di monadi, le quali sono sostanze semplici, prive di parti, dal cui assemblamento scaturirebbero tutte le sostanze composte, come i corpi, e dalla cui indivisibilità deriverebbe l'unità e la vita delle anime, o spiriti, H 1-11. Leibniz individua poi nella percezione e nell'appetizione le qualità universali di ogni monade e nella loro incorruttibilità e indistruttibilità il carattere della loro eternità ~»112-29 Infine, giunge a spiegare il «mistero» della loro correlazione, negando ogni interazione reale e ricorrendo invece all'armonia prestabilita che fin dall'inizio Dio ha conferito alle diverse immagini del mondo che ogni monade a suo modo riproduce, passando, secondo le leggi dell'appetizione, da una rappresentazione a un'altra ~>130-49. Le monadi che costituiscono i corpi seguono la legge della causalità efficiente, studiata dalla fisica; le leggi che guidano le monadi anime rispondono invece al principio di finalità e seguono un ordine morale. Pur operando secondo leggi differenti, Dio ha posto in armonia mente e corpo come se avesse sincronizzato due diversi orologi ~>l 50-59.

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§ 1. La definizione della sostanza. Sostanze semplici (monadi) e sostanze com-

Le monadi sono sostanze semplici dal cui assomblnmento deriuann le sostanze com(l!i!lte

poste. La sostanza è un Essere capace di azione, ed è semplice oppure composta: a) la sostanza semplice è senza parti; b) la sostanza composta è un assemblamento di sostanze semplici, cioè di monadi- monas è una parola greca, che significa l'unità o ciò che è uno. Le sostanze composte, cioè i corpi, sono delle molteplicità; mentre le sostanze semplici, cioè le vite, le anime e gli spiriti, sono delle unità. Ed è necessario che ci siano sostanze semplici dappertutto, perché senza il Semplice non ci sarebbe affatto il Composto; e, di conseguenza, tutta la Natura è piena di vita. § 2. Qualità e azioni interne della monade: percezione e appetizione Poiché le monadi non hanno parti, esse non possono essere né formate né disfatte: non possono avere, per via naturale, né un inizio né una fine, e durano quindi finché dura l'universo, il quale muterà, ma non verrà mai distrutto. Esse, inoltre, non possono avere figura, altrimenti avrebbero delle parti. Pertanto una monade, sia in se stessa sia in ciascun momento [della sua esistenza], può essere distinta da un'altra solo per le sue qualità e azioni interne, cioè per le percezioni e le appetizioni: a) la percezione è la rappresentazione del Composto nel Semplice, ossia la rappresentazione di ciò che è esterno; b) l'appetizione è la tendenza [a passare] da una percezione all'altra, e costituisce il principio del mutamento della monade. Infatti la semplicità della sostanza non è per nulla eli impedimento alla molteplicità di queste sue moclificazioni, le quali anzi devono necessariamente trovarsi insieme nella stessa sostanza semplice, e devono consistere nella varietà dei rapporti con le cose che le sono esterne. Ciò è paragonabile a un centro o punto nel quale, per quanto semplice, si trovino un'infinità di angoli formati dalle linee che vi convergono.

Lo monadi non hanno inizio, né fine e si distinguono t1•a loro per: 1. percezione 2. appetizione

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§ 3. La monade come specchio vivente dell'universo. L'accordo fisico fra l'ani-

La monade, l'anima si r•appr•es1mta le affezioni delle monadi costitutive del suo r.orpo

Ogni monade costituisce m1 punto di vista diveno sul mondo

Esiste un'armonia prestabilita ti•a anima e corpo lmonade r.entl'ille e monadi del corpo!

ma e il corpo Nella Natura tutto è pieno; dappertutto ci sono sostanze semplici, realmente separate le une dalle altre in virtù delle azioni proprie che modificano continuamente i loro rapporti. Ora, ci sono sostanze semplici che costituiscono il centro di una sostanza composta (per esempio, di un animale) e il principio della sua unicità. Ciascuna di tali sostanze, o monadi distinte, è attorniata da una massa, la quale è composta da un'infinità di altre monadi che formano il corpo proprio di questa monade centrale; ed è in conformità alle affezioni di questo suo corpo che la monade centrale si rappresenta, come in una sorta di centro, le cose che le sono esterne. E questo corpo è organico quando forma una specie di automa o macchina della Natura: macchina non solo nel suo complesso, ma perfino nelle più piccole parti osservabili. Inoltre, poiché tutto è concatenato a causa della pienezza del mondo, ciascun corpo agisce su tutti gli altri, e ne subisce la reazione, in misura maggiore o minore secondo la distanza. Di conseguenza, ogni monade è uno specchio vivente, cioè uno specchio dotato di azione interna che rappresenta l'universo secondo il proprio punto di vista, e che è regolato così come è regolato l'universo stesso. E ancora: le percezioni nella monade nascono le une dalle altre in forza delle leggi delle appetizioni, ossia per le leggi delle cause finali del bene e del male - del bene e del male che consistono nelle percezioni osservabili, ordinate oppure disordinate; parallelamente, i mutamenti dei corpi e i fenomeni esterni nascono gli uni dagli altri in virtù delle leggi delle cause efficienti, ossia dei movimenti. C'è quindi una perfetta Armonia fra le percezioni della monade e i movimenti dei corpi, un'Armonia prestabilita fin dall'inizio tra il sistema delle cause efficienti e quello delle cause finali: ed è in ciò che consiste l'accordo e l'unione fisica dell'anima e del corpo, senza che l'una possa modificare le leggi dell'altro.

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G.W. Leibniz, Principi razionali della Natura e della Grazia, in Monadologia, pp. 37-39

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RIPENSIAMO INSIEME

La voce del contemporaneo ~ Un contemporaneo di Galileo, John Donne, ben

esprime nei suoi versi la fine del mondo antico, insieme allo sgomento e al disorientamento che accompagnano l'uomo moderno. Perché la «nuova filosofia» sconvolgerebbe ogni gerarchia, ogni «equa distribuzione», «ogni coesione» 7 Prova a chiarire i versi di Donne, aiutandoti con quanto già conosci dall'unità dedicata alla rivoluzione scientifica. ~ Quale rapporto si instaura tra quella «filosofia» che,

osserva Donne, «mette tutto in dubbio» e la nascita o la scoperta della soggettività, del ruCJ!o dell'io 7 Ein che senso la riflessione di Descartes è al riguardo esemplare?

~ Idee innate, avventizie e fattizie. Spiega questa di-

stinzione nella filosofia di Descartes e fai degli esempi. In 6 righe. ~ Per Descartes, in cosa consiste l'errore? E perché

Dio non può errare? In 8 righe. ~ Cosa significa «meccanicismo» 7 Esemplifica con

riferimenti alla fisica di Descartes e alla sua analisi del corpo umano. In 1O righe. ~ «Sostanza», «modo», «attributo». Definisci sinteti-

camente questi termini della tradizione, e poi, per i seguenti lemmi, indica quale di essi Descartes eSpinoza definirebbero sostanza, attributo o modo: «Dio», «mente», «corpo», «movimento», «estensione», «pensiero», «volere», «immaginare», «quadrato».

!llf'P Qual è il Dio dei pregiudizi, secondo Spinoza, e coLo sguardo della tradizione

'-"'1w Quali convinzioni gnoseologiche ed epistemologiche di fondo caratterizzano il razionalismo moderno? Illustra il tema soffermandoti sulle seguenti questioni: le fonti della conoscenza; i gradi di certezza della conoscenza; il metodo della scienza, ossia gli strumenti per avanzare nella conoscenza certa.

e·;z·"' Illustra le quattro regole del metodo di Descartes, proponendo come esempio applicativo l'analisi e la risoluzione di un problema di matematica o di geometria. ~ Quali tipologie di dubbio attraversano la mente del

filosofo, del meditatore? Riassumi il percorso che radicalizza sempre più il dubbio, fino all'evidenza del cogito. In 2 colonne di foglio protocollo. ~ Conoscenza confusa e indistinta dell'io - cono-

scenza chiara e distinta dell'io; conoscenza confusa e indistinta della materia - conoscenza chiara e distinta della materia. Per ognuna di queste quattro categorie proponi degli esempi. ~ In cosa consiste il dualismo cartesiano? In 8 righe. ~ Riassumi le dimostrazioni dell'esistenza di Dio

avanzate da Descartes. In 12 righe.

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me si forma tale credenza? Qual è, invece, il Dio della verità 7 E quali sono le sue caratteristiche? Componi un elaborato che non superi 4 colonne di foglio protocollo. ~ Definisci i seguenti termini, «monismo» e «deter-

minismo», riferendo\ i alla filosofia di Spinoza. Rispondi sinteticamente in 5 righe. ~ In quali termini, in un mondo rigidamente determi-

nato, è possibile ancora parlare, secondo Spinoza,· di libertà, di uomo libero? In 4 righe. ~ Riassumi il pensiero politico di Spinoza, sofferman-

doti su questi punti: la fase dello stato di natura, il passaggio alla società civile, il fine del potere, la migliore forma di governo e il rapporto tra Stato e Chiese. 1 foglio protocollo. ~ «Teodicea»: definisci prima il termine e poi riper-

corri l'argomentazione di Leibniz sul problema del male. Presenta una trattazione che non superi 1 pagina di foglio protocollo. ~ Illustra la distinzione tra verità di fatto e verità di

ragione e i rispettivi principi che le governano. In 5 righe. ~ Cosa sono le monadi? Per quali caratteristiche si di-

stinguono tra loro.

sti relativi al tema «Mente-corpo» p. 290 sgg., componi uno schema sulle opzioni riguardo il tema mente-corpo, distinguendo tra posizioni moniste o dualiste.

La parola ai filosofi !Gj::J Dopo aver letto il brano di Descartes t'ì.PIJU p. 265,

prova a enucleare gli elementi di debolezza e di forza che l'autore attribuisce alla logica, alla geometria e all'algebra apprese a scuola. Rintraccia gli aggettivi con cui Descartes qualifica queste discipline. Non superare 1 pagina di foglio protocollo.

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11u Indica le diverse difficoltà che le argomentazioni di Gassendi (!ili§ p. 292) e Guelincx (!liif§Jl p. 294) sol-

levano contro la soluzione cartesiana del rapporto mente-corpo.

q=:1 Rintraccia nel brano di Spinoza ~nel tema «Certezza e verità» p. 267, il primo, il secondo e il terzo genere di conoscenza. Presentali in sintesi, utilizzando al massimo 5 righe. ~_:]

Individua nel brano di Leibniz IJ,iiDJ, p. 269 del tema «Certezza e verità», quali tesi razionaliste sarebbero sottoscritte anche da Descartes e quali no.

~:::J Spiega l'associazione che Leibniz rintraccia all'ini-

zio del brano~, del tema «Certezza e verità» p. 271, tra la sua proposta gnoseologica e il pensiero di Platone.

Prova a pensare da solo Elabora una breve trattazione delle seguenti questioni esprimendo le tue personali valutazioni in riferimento alle posizioni concettuali espresse dai filosofi trattati nell'unità:

''f"' Siamo liberi o siamo determinati? Assumi prima il punto di vista del determinista avanzando le tue argomentazioni, poi rovescia l'impostazione e prova a difendere la libertà. Qual è la tua opinione? Su quali argomenti si fonda?

tE:§=:l Nel brano di Spinoza 11lli§], p. 277 del tema «Dio e

il mondo», sono ripercorse tre differenti opzioni riguardo al rapporto Dio e mondo, mente di Dio e creazione: quella difesa dalla maggior parte dei teologi, da Descartes e infine da lui stesso. Illustrale in un massimo 1Orighe.

~ Cos'è la mente? È solo cervello o qualcosa di più e

di diverso, magari di immateriale e persino immortale? Quale delle opzioni studiate si avvicina maggiormente alle tue convinzioni, e perché?

lilfj5-=:l Perché secondo Leibniz, in l§]'[ll p. 278 del tema

~--;::] L'esperienza del dubbio cartesiano, della possibilità

«Dio e il mondo», il Dio di Descartes sarebbe simile al Dio di Spinoza? Confronta l'argomentazione di Leibniz con il testo di Descartes (lll:ill p. 274) sulla favola del mondo.

che niente esista fuori della nostra mente, che tutto sia addirittura un grande inganno, è un tema che sarà ripreso dalla filosofia contemporanea e applicato al problema dell'intelligenza artificiale e della realtà virtuale. Anche alcuni film, come ad esempio il celebre Matrix, traggono spunto da questo tema. Prova a documentarti meglio, valutando una lista di film, già visti o da vedere, che potrebbero interessare la questione. Compila poi del-le recensioni filosofiche.

~ Confronta i brani di Descartes EiJtill e di Spinoza IJ::ii2I (nel tema «Libertà o necessità delle azioni

umane» p. 283 sgg.) riguardo al problema della libertà di scegliere e di giudicare: cosa sono per l'uno e per l'altro intelletto e volontà? Quale rapporto intercorre tra intelletto e volontà secondo Descartes e Spinoza? ~ In cosa consiste l'illusione della libertà, secondo

Spinoza? Ricostruisci l'argomentazione in~ p. 286 del tema «Libertà o necessità delle azioni umane». 1!:'9_]

Quale rapporto tra motivi, ragioni e volontà individua Leibniz in~ p. 288 del tema «Libertà o necessità delle azioni umane», al fine di salvare la libertà umana? Quale tipo di necessità è compatibile con la libertà e quale no?

illfo-'

«lnterazionismo», «occasionalismo», «parallelismo», «armonia prestabilita». Dopo aver letto i te-

c::~

«Il Dio dei filosofi». Prova a elaborare su questo tema un saggio che non superi 4 colonne di foglio protocollo, illustrando una o più concezioni del divino, elaborate dai moderni Descartes, Spinoza, Leibniz, utilizzando e citando anche i testi.

~ Nella tradizione filosofica, il termine «sostanza» in-

dica ciò che esiste di per sé ed è concepibile di per sé. Per Aristotele sostanze sono i sinoli, i composti di materia e forma, sostanze sono anche le divinità, che sono pure forme. Sempre per gli aristotelici, concepibili di per sé sono poi le essenze e le anime che nei si noli danno forma alla materia; inconcepibile invece senza una forma è il sostrato, la semplice

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RAZIONALISMO E METAFISICA

materia. la modernità distrugge l'antologia aristotelica avanzando nuove risposte ad antiche questioni: quali e quante sostanze costituiscono la realtà? Può la materia esistere dì per sé? Può la materia essere concepita dì per sé, ossia avere una propria essenza? Cos'è il divino e cos'è una pura forma, ossia uno spirito o un'anima? Prova a sviluppare queste riflessioni confrontandoti con uno dei filosofi moderni presentati nell'unità. Massimo 2 fogli dì protocollo.

nizio la morte del filosofo, sono verità storiche; a partire da esse l'autore, giornalista e storico americano, prova a ricostruire la vicenda e a risolvere il caso, seguendo la storia e le peripezie delle ossa di Descartes nei tre secoli successivi la morte. Un'opera che può servirti a comprendere aspetti diversi della ricca e complessa personalità filosofica del padre del razionalismo moderno e, ironia della sorte, del dualismo mente-corpo.

~ Matthew Stewart, Il corrtigiarso e l'eretico. .

LeibYBiE, SpiYBoEa e il destino di Dio nel mondo modemo, Milano, Feltrìnellì, 2007.

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~~~,., •+fN

Altri orizzonti

Teresa Moure, Le tre dorme di Cartesio, Milano, Corbaccio, 2008.

Il libro della Moure, scrittrice spagnola, è un romanzo storico, che unisce la vita di tre donne intorno alla figura e alla filosofia di René Descartes: una giovane di oggi, Inés Andrade, laureanda in filosofia, e due donne chè hanno conosciuto direttamente il filosofo durante la loro vita, legandosi a lui sentimentalmente e intellettualmente, ovvero la Regina Cristina di Svezia, che ospitò Descartes alla sua corte, ed Hélène Jans, levatrice ed erborista, da cui il filosofo ebbe un figlio non riconosciuto. Benché la personalità di Descartes sia soprattutto un pretesto per costruire una storia tra passato e presente sull'universo femminile, il libro può esserti utile anche ad avvicinare in maniera diversa la filosofia e uno dei suoi maggiori artefici.

'l Seminario «(S)ragione».

BIBLIOGRAFIA Opet·e da cui sono tmtti i testi Bayle, P. Dizionario storico-critico, a cura di G. Cantelli, Roma-Bari, Laterza, 1976. Descartes, R. Il mondo o trattato della luce, Roma-Bari, Laterza, 1998. -Iprincipi della filosofia, Bari, Laterza, 1967. - Meditazioni metafisiche, a cura eli S. Lanclucci, Roma-Bari, Laterza, 1997. - Opere, a cura di E. Garin, Bari, Laterza, 1967. Geulincx, A. Etica e metafisica, a cura di I. Mancini, Bologna, Zanichelli, 1965. Leibniz, G.W. Discorso di Metafisica, in Scritti filosofici, a cura di M. Mugnai ed E. Pasini, vol. 1, Torino, Utet, 2000. - Monadologia, Milano, Rusconi, 1997. - Nuovi saggi sull'intelletto umano, in Grande antologia filosofica, a cura di M.F. Sciacca, vol. XIII, a cura di V.

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Testi citati o consigliati Borges,J.L. La moneta di ferro (1976), a cura di C. Vian, Milano, Rizzoli, 1981. Donne,]. Liriche sacre e profane, a cura di G. Melchiori, Milano, Monclaclori, 1992. Givone, S. Il bibliotecario di Leibniz, Torino, Einaudi, 2005. Husserl, E. Meditazioni cartesiane 0930), Milano, Bompiani, 1989. Mugnai, M. Introduzione alla filosofia di Leibniz, Torino, Einaudi, 2001.

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La nuova antropologia

post-umanistica

P.P. Rubens, I quattro filosofi, 1611-12, Firenze, Galleria Palatina.

Malinesbury

._f. -..• oxfqrd,,·

La fine dell'antropocentrismo aledetto sia Copernico!" "Oh ob ob, cb e c :e~ tra Copernic:o!" (( esclmna don Elzgw, levandost su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia, "C'entra, don Eligio, Perché, quando la Terra non girava ... " "E dàlli! Ma se ba sempre girato!" ·Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse [ . .] Io dico cbe quando la Terra non girava, e l 'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene cbe potesse ri-uscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m 'avete insegnato, cbe la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare? [ . .] Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men cbe niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete cbe abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. [ . .],, Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare cbe per quanti iforzifacciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni cbe la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Perfortuna, l'uomo si distrae facilmente.

M

L. Pirandello, Il fu Mattia Pasca!, pp. 33-34

n crollo delle illusioni • Il brano, dal romanzo Il fu Mattia Pasca! di Luigi Pirandello (1867-1936), tratta con arguto umorismo della condizione dell'uomo moderno, ormai perduta la sua pretesa centralità nel mondo, infranta ogni sua presunta «dignità, e ridotti i racconti delle sue gesta e «calamità, a «storie di vermucci". Benché siano passati secoli dalla pubblicazione delle tesi di Copernico, dalla rivoluzione astronomica e scientifica, l'uomo, osserva Pirandello, non si è per niente abituato all'idea di non essere più il centro del mondo, tanto da rimanere ancora fortemente aggrappato a quelle illusioni «che la provvida natura aveva create a fin di bene... Suggestivo nel romanzo di Pirandello, fin dalla scelta del cognome del protagonista che dà il titolo al romanzo, è anche l'accostamento al filosofo Blaise Pascal (1623-1662). Il disorientamento dell'uomo moderno, perduta ogni centralità, è, infatti, un tema caratterizzante la filosofia di Pascal. Analogamente l'analisi, anch'essa richiamata da Pirandello, della condizione umana che non vuole interrogarsi sul senso delle cose, cercando di distrarsi per non pensat·e, costituisce un motivo ricorrente della riflessione pascaliana sull'esistenza umana. Pascal però non maledice Copernico, non rifiuta il disincanto del mondo prodotto dalla nuova scienza, bensl trova in questo nuovo scenado postumanistico l'occasione per ripensare da capo lanatura umana: Pascal muove cosl dal rinvenimento dei

limiti della ragione al fine di recuperare il significato profondo della fede, alla luce di un'appassionata quanto pessimistica diagnosi dell'esistenza umana. Alla presunzione di essere il centro dell'universo, Pasca! sostituisce una medietà incommensurabile, abissale tra il nulla e il tutto. Rispetto all'infinito, l'uomo è, infatti, nulla ma rispetto al nulla è pur sempre qualcosa. Di questi estremi, dell'infinito e del nulla, della fine e dell'origine, la ragione umana, da sola, non potrà mai pervenire a sapere qualcùsa di certo. Così si legge nei Pensieri, un'opera incompiuta, edita postuma per la prima volta nel 1670, alla quale, negli ultimi anni di vita, Pasca! aveva affidato il compito di difendere il valore.del cristianesimo e della fede:

Pe7'ché, inso1nma, che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estrem.i, il termine delle cose e illom principio 1"estano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile. B. Pasca!, Pensieri, 223, pp. 99-100

Pascal è stato un uomo di scienza, a suo agio con le macchine e i congegni della modernità, trovandosi ad ideare e fabbricare persino una prima rudimentale calcolatrice ed a legare il suo nome a importanti studi e ricerche nel campo della fisica e della matematica. Ma accanto alla ragione deduttiva Pasca! ha riconosciuto anche il valore conoscitivo del sentimento, per il suo carattere intuitivo e immediato. Egli è stato anche un uomo eli fede, pronto a concedere sempre più spazio nel corso della sua riflessione al peso della verità, contenuta ai suoi occhi, nella Rivelazione e nella religione cristiana. La sua complessa personalità ci ha lasciato una profonda analisi dell'uomo moderno, della sua ansia esistenziale, dei processi che lo dominano da sempre nelle vicende storiche e sociali.

Pascal, Hobbes e Vico a confronto Ntmue concezioni antropologiche • La scoperta dell'America e l'incontro con uomini «nuovi", con culture prima sconosciute, contribuiscono a mettere in discussione precedenti concezioni e convinzioni antropologiche, aprendo nuove prospettive di analisi.

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Le distinzioni temporali, le profondità della sembrano dispiegarsi ora nello spazio permettendo comparazioni, studi e raffronti tra tà diverse. Entro il quadro generale eli riassestamento e di rinnovamento di tutti i saperi, operato nel Seic cento, si stagliano anche le riflessioni sull'uomo, sulla società e sulla storia di Thomas Hobbes (15881679) e Giambattista Vico (1668-1744), per quanto sotto tanti aspetti diverse e alternative tra loro, nei presupposti, nel metodo, nelle finalità. Del resto,· Hobbes, Pasca! e Vico hanno vissuto anche in tempi e luoghi abbastanza lontani fra loro. Se il primo, inglese, e il secondo, francese, hanno attraversato buona parte del Seicento partecipi e protagonisti della rivoluzione scientifica e dei dibattiti del momento, condividendo i circoli e le frequentazioni culturali più impo1tanti dell'epoca, il terzo, napoletano, è nato ottant'anni dopo Hobbes, rimanendo in parte ai margini e volutamente estraneo agli sviluppi più recenti della discussione, spegnendosi nella propria città quando nei principali Stati europei il movimento illuminista stava per entrare nella fase più ricca e vitale. A questo riguardo anche Vico, perciò, è da considerarsi un uomo del Seicento, come Hobbes, Pascal, Descartes, Spinoza. Del resto accurate ricerche intorno alle fonti del suo pensiero hanno dimostrato che il filosofo napoletano - cultura classica a parte - si era formato studiando testi apparsi nel corso del XVII secolo. E soprattutto, dai primi anni del Settecento, rinunciò lui stesso a leggere libri nuovi e la redazione delle tre edizioni (1725; 1730; 1744) del suo capolavoro, la Scienza nuova, furono portate avanti in uno stato eli complessiva ignoranza intorno a quanto accadeva nella cultura europea. Sia pur entro contesti geografici e culturali diversi, le riflessioni eli Pasca!, Hobbes e Vico si collocano così entro quella vasta stagione filosofica maturata con la rivoluzione scientifica e apertasi con la filosofia cartesiana. Tuttavia, per quanto diverse e su molti temi anche estranee le une alle altre, le loro filosofie sono a loro modo tutte anticartesiane. Le loro riflessioni hanno condiviso anche una certa inattualità rispetto al periodo in cui sono state formulate, per conoscere invece una grande fot·tuna postuma, nel corso dei secoli XIX-XX. Il pensiero di Hobbes è divenuto così un caposaldo della riflessione politica del Novecento; la riflessione di Pasca! costituisce un'anticipazione di molte tematiche che il pensiero teologico e le filosofie esistenzialistiche del XX secolo avrebbero percorso; a

Vico, infine, hanno guardato non solo molte filosofie della storia dell'Ottocento, ma anche l'antropologia culturale del secolo appena trascorso. Le filosofie di Pasca!, Hobbes e Vico offrono tre grandi e diverse concezioni antropologiche a partire da differenti presupposti: entro un quadro sistematico del sapere, Hobbes ha di mira la definizione di una dottrina scientifica della politica; Pasca! muove invece dalla difesa della fede cristiana; Vico, infine, dall'esigenza di fondare una scienza della storia.

L'uomo, il metodo, le scienze Pt1scal e il mistero della natura umana • Se umanisti come Niccolò Machiavelli (1469-1527) e Michel Eyquem de Montaigne (1533-1592) si erano serviti dell'insegnamento degli antichi, della storia delle società e dei regimi politici per capire cos'è l'uomo, per Pasca! la natura umana è avvolta in un mistero comunque inspiegabile dalla ragione. Secondo Pasca!, a far luce sulla natura umana non giunge né la scienza, né la storia profana, bensì la fede attraverso il racconto biblico, che ricorda la perduta felicità del paradiso terrestre e la miseria dell'attuale stato di caduta dopo il peccato originale. Pasca! distingue nettamente tra una conoscenza di carattere storico-letterario, fondata sulla memoria e l'autorità, come lo è per lui anche la teologia, e una conoscenza scientifica, basata invece sul ragionamento e la dimostrazione. Oltre al metodo esclusivamente intuitivo e deduttivo, propugnato da Descartes, Pasca! esalta anche il momento dell'osservazione diretta e della ricerca sperimentale. Ciò nonostante, per Pasca!, la scienza non potrà mai bastare all'uomo, né potrà mai estendere le sue certezze su tutte le cose. Accanto a quelli della ragione osservativa e dimostrativa, Pasca! avanza i diritti del sentimento, una fonte immediata di conoscenza in grado di penetrare i primi principi delle scienze e di orientare le risposte alle questioni esistenziali che più da vicino riguardano gli uomini. Pasca! è un critico feroce delle presunzioni del raZionalismo cartesiano di spiegare tutto, ribellandosi soprattutto ad ogni tentativo di ridurre la fede alla ragione e di annullare il significato profondo di una religione storica e personale in formule astratte eraZionali.

Hobbes: per una scienza della politica • Diverso è il caso di Hobbes e di Vico, pronti invece a sfidare sul terreno di una possibile scienza dell'uomo la visione critica e pessimistica di Pasca!. La riflessione di Hobbes è più o meno coeva a quella di Descartes e ne condivide lo spirito integralmente deduttivo proprio delle matematiche per estenderlo allo studio dell'etica e della politica. Se la deduzione procede infatti dalla conoscenza delle cause alla conoscenza degli effetti, ne deriva allora, per Hobbes, che l'uomo può innanzitutto aspirare a conoscere con rigore deduttivo ciò di cui egli stesso è senz'altro l'artefice, la causa. La politica può dunque annoverarsi tra le scienze deduttive perché lo Stato, che è il suo oggetto, è un ente artificiale creato dagli uomini. Di Descartes, Hobbes rifiuta poi la concezione dualistica di una mente immateriale, distinta dal corpo, per difendere invece una concezione materialistica, nella quale ogni spiegazione scientifica risponde a un modello meccanico di interazione causale. Per Hobbes ogni accadimento, sia esso di natura fisica o psicologica, è dunque riconducibile a materia in movimento: come il movimento del braccio è dato dalla distensione o dalla contrazione di un muscolo, così una sensazione, un'idea, una volizione sono gli effetti di modificazioni materiali del sistema nervoso e celebrale. Vico: per una sciem::a della storia • Accogliençlo esplicitamente la tesi di Hobbes secondo la quale l'uomo può conoscere con ce1tezza ciò di cui è causa, anche Vico ha ambìto a fondare una nuova scienza, la storia. Secondo Vico, infatti, l'uomo può avere conoscenza della storia perché ne è co-autore insieme alla provvidenza divina. A differenza di Hobbes, Vico intende così indicare i limiti dell'umana conoscenza e denunciare, come già aveva fatto Pasca!, la presunzione umana di conoscere tutto, anche ciò di cui egli non è causa e di poter sondare i segreti della creazione divina. Nella fattispecie, per Vico, l'idea che l'uomo possa appropriarsi della natura e dominarla offende infatti il sentire religioso, pe1vaso di ammirazione per la creazione divina. È un errore anche l'idea che esista un solo metodo per progredire nella verità. Vico combatte soprattutto la pretesa cartesiana, accolta invece da Hobbes, di ricondurre tutto a categorie matematiche. La scienza della storia si oppone a questa semplificazione, accogliendo una pluralità di metodi. Secondo Vico, accanto alla t•agione deduttiva cartesiana ed hobbesia-

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i.

na, occorre operare anche per induzione, e recuperare e persino ampliare quel sapere lasciato in· eredità dalla tradizione umanistico-letterariafatto di studi retorici, erudite analisi linguistiche ed etimologiche, ormai sempre più trascurato dallo spirito matematico del tempo.

La complessità della dimensione umana La ragione • Con Hobbes, Pascal e Vico'entrano in scena anche concezioni della razionalità complesse e problematiche: tutti e tre mostrano infatti a loro modo come ciò che gravita intorno alla dimensione dell'umano agire ed operare sia caratterizzato invero da un intreccio di elementi differenti, ambigui e polivalenti. Accanto alla ragione, celebrata da sempre come la facoltà distintiva dell'uomo, giocano allora un ruolo primario, passioni, affetti, ma anche abitudini, immaginazione e fantasia. Secondo Hobbes la ragione è soltanto uno strumento di calcolo, potenziato nell'uomo rispetto agli altri animali per l'uso simbolico che egli fa del linguaggio. L'uomo usa il linguaggio per nominare infatti le cose, conferendo un significato universale all'esperienza, che altrimenti rimarrebbe sempre particolare. Egli è così in grado di valutare situazioni simili, prevedere effetti futuri, fino a sviluppare con la ragione la capacità di calcolare le conseguenze, derivandole dai nomi stessi che ha dato alle cose. Come si legge nel Leviatano, l'opera del 1651 che lo ha reso celebre, la ragione non è dunque una facoltà data o nata con l'uomo, perché è legata all'istituzione del linguaggio.

La ragione non è altro che il calcolo delle conseguenze dei nomi generali che sono stati stabiliti di comune accordo per notare e significare i nostri pensieri[. . .] Da ciò appare che la ragione non è nata con noi come la sensazione e la memoria e non si acquisisce soltanto per esperienza come la prudenza, ma la si consegue con l'industria. Th. Hobbes, Leviatano, I, V

Recependo e, anche in questo caso, stravolgendo la lezione umanista, per Pascalla ragione è la facoltà che rende grande l'uomo e allo stesso tempo la creatura più triste e miserevole dell'universo, perché gli dà consapevolezza della sua finitezza temporale:

l'uomo sa che deve morire, rimanendo sospeso, un'ineliminabile ignoranza, tra attese e speranze spetto al suo destino. L'angoscia di questo altal te stato d'animo è rimossa dalla ricerca senza del divertimento, di una distrazione che ~~·.. ~·L''-'' l'uomo a non pensare, a rifuggire da quella noia presto lo ricondurrebbe a rinnovare le domande con esse tutta l'angoscia del mistero. Invece tutto è storia e anche la ragione ne è prodotto: la ragionevolezza è un'acquisizione fati~ cosa della civiltà, che non è definitiva, bensì precaria e soggetta a ripiombare nella barbarie dei tempi in cui gli uomini, dopo la punizione divina, erano stupidi bestioni.

la S[l)cietà • Vico ritiene che anche le leggi e il diritto siano il frutto necessario della storia, dei successivi stadi, l'età degli dei, degli eroi, degli uomini che tutte le nazioni debbono attraversare. L'uomo è infatti un animale storico e storici sono tutti i suoi prodotti. Vi è una logica per Vico nelle umane istituzioni ed essa risponde agli stadi storici successivi, che si legano a quei principi psicologici che governano da sempre gli uomini, i sensi, poi la fantasia e infine la t·agione. A dominare inizialmente fu un sistema politico e morale che tutto faceva dipendere dal volere di Dio e degli deL Seguì l'età eroica dei grandi uomini, capaci di dominare su Nazioni e Stati. Infine si aprì il dominio della ragione, della civiltà, del diritto: I primi costumi {furono] tutti aspersi di religione e pietà, quali ci si narrano quelli di Deucalione e Pirra, venuti di fresco dopo il diluvio.! secondi furono collerici e puntigliosi, quali sono narrati da Achille. I terzi san qfficiosi, insegnati dal proprio punto de' civili doveri. [ . .] Il primo diritto fu divino, per lo quale credevano e sé e le loro cose tutte in ragion degli dei, sull'oppenione che tuttofussero o facessero i dei. Il secondo fu eroico, ovvero della forza, ma però prevenuta già dalla religione, che sola può tener in dovere la forza, ave non sono, o, se vi sono, non vagliano le umane leggi per fermarla [ . .], Il terzo è il diritto umano dettato dalla ragion umana tutta spiegata. G. Vico, Scienza nuova, IV, II e III

Per Pascal non vi è invece alcuna ragione realizzata o da realizzarsi nella storia e nei consorzi umani. Come a riunire in una prospettiva diversa le ana-

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st1

di Montaigne e Machiavelli, Pascal osserva che le società si reggono su convenzioni e leggi che variano da un posto ad un altro, da un'epoca ad un'altra, mantenute in vita solo dalla forza, dalla violenza o dal potere affabulatorio dell'immaginazione, di cui si servono i potenti e dall'abitudine, ossia da una sorta di assuefazione all'obbedienza da parte dei sudditi e dei cittadini.

Regina del mondo è laforza, non già l'opinione. Ma l'opinione è quella che usa la forza. È la forza a foggiare l'opinione. [. ..}I vincoli che tengon saldo il rispetto degli uni verso gli altri sono, in generale, vincoli di necessità. Bisogna, irifatti, che tra gli uomini ci siano diversi gradi, tutti volendo dominare, ma non tutti potendo/o, bensì alcuni soltanto. Figurimnoci, dunque, di vederli cominciare a costituirsi. È indubbio che essi si combatteranno tra loro .fincbé la parte piùf011e non riesca a opprimere la più debole, e ci sia, alla fine, un pm1ito dominante.[. . .} A questo punto entra in azione l'immaginazione. Fino a quel momento ha dominato la forza pura; d 'ora in poi, la forza si mantiene in un certo gruppo sociale per opera dell'immaginazione. B. Pasca!, Pensieri, 315, 319, pp. 137-138; 140

Alcuni aspetti di questa analisi spietata delle relazioni umane si ritrovano in Hobbes che ne rintraccia tuttavia la logica interna, per cui la forza deve cedere alla ragione ma fuori, a differenza di Vico, da ogni riferimento storico: lo Stato e le istituzioni sono infatti frutto del calcolo della ragione, attivata dalla potente passione della paura che muove gli uomini ad abbandonare una condizione pre-socìale (lo stato dì natura) dì pericolo e di insicurezza, riconoscendo alcune leggi universali che lo inducono a ricercare la pace, a stipulare con gli altri uomini un contratto e a dar origine con esso ad un potere superiore sovrano. Secondo Hobbes, l'uomo non è buono o socievole per natura come voleva da Aristotele in poi un'autorevole tradizione: è anzi una bestia feroce; fuori dai vincoli dello Stato e dalle leggi che ne regolano il comportamento, l'uomo è il peggior nemico per gli altri uomini. Ma a questa natura ferina si accompagna anche la paura della mot·te, che lo costringe a soppesare cosa sia per lui più conveniente fare. Non è, come sarà per Vico, un processo storico sorretto dalla provvidenza a condurlo alla ragionevolezza, alla vittoria del diritto sulla forza, bensì una necessità senza tempo fondata sull'analisi della natura umana.

F. Dubois, Il massacro di San Bartolomeo, 1572-84, Lausanne, Musée cantonal des Beaux-Arts ..

l.

Pascal: la vita riflessa nel pensiero l

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L 1.

\lohmtarietiì dell'atto di fede

a vita intima di Pasca! appare ai nostri occhi come una tragedia. Tragedia ' cb e si può riassumere in quelle parole del Vangelo: "Credo, soccorri la mia incredulità" (Mc 9,24). Il che non è propriamente credere nza voler credere. M. De Unamuno, L'agonia del cristianesimo

la fede pascaliana In queste parole del filosofo e scrittore spagnolo Miguel De Unamuno (1864-1936) il cuore della filosofia di Pascal viene riconosciuto nella fede, considerando la fede non solo come una questione di verità, ma anche come una questione di valore capace di dare un senso all'esistenza umana. Il libro di Unamuno si intitola L'agonia del cristianesimo e agonia, egli spiega, vuoi dire lotta. Agonizza chi vive lottando, contro la vita stessa e contro la morte; provando a superarle e a vincerle entrambe. Il pensiero e la vita di Pascal, avverte Unamuno, sono un caso concreto dell'agonia del cristianesimo. Blaise Pascal cercava nella fede uno stt-umento per oltrepassat•e i limiti della ragione, combattendo una battaglia estenuante contro tutti gli oppositori del vero cristianesimo, ma anche contro se stesso. Egli sottolineava la volontarietà dell'atto di fede, il suo rilievo di scelta assoluta, vitale, esistenziale: voleva credere anche contro la ragione, o meglio, promuoveva la sottomissione della t·agione alla fede:

Bisogna saper dubitare, ave occorre, asseverare, ave occorre, sottomettersi ave occorre: chi non fa così, non intende la forza della ragione. Taluni peccano contro queste regole o affermando che tutto è dimostrativo, perché non s'intendono di dimostrazioni; o, dubitando di tutto, perché ignorano in quali casi ci si debba sottomettere; o sottomettendosi in tutto, per non sapere in quali casi si debba giudicare. B. Pasca!, Pensieri, 136, p. 56

Le B'il!lioni del cuore

La ragione deve anzitutto ammettere la propria inadeguatezza a comprendere tutte le cose: alle domande su cosa sia l'uomo, quale sia il suo destino dopo la morte e quale sia il suo dovere non si può rispondere infatti con esperimenti o deduzioni. Secondo Pascal, l'uomo deve affidarsi ad altri strumenti: come egli sostiene si conosce con la ragiòne, ma si conosce anche con il cuore; alcune certezze si dimostrano razionalmente, altre invece si sentono. E proprio al sentimento, al cuore parlano le verità della fede:

Il cuore, e non la ragione, che sente Dio. Ecco che cos'è la fede: Dio sensibilé al cuore, e non alla ragione. B. Pasca!, Pensieri, 148, p. 59

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La scommessa

2.

La fm•mazione scientifica

Poiché Dio parla al cuore e non alla ragione, non ci si deve stupire, a parere di Pasca!, «eli vedere anime semplici credere senza tanti ragionamenti". Anche la fede degli ignoranti è vera fede e lo spirito divino è su costoro, benché essi non lo sappiano dimostrare. Di certo «non si crederà mai in maniera utile e con fede, se Dio non inclina il cuore». Ma non è per coloro che credono ispirati dall'amore di Dio che Pasca! scrive le sue riflessioni. La tecnica persuasiva che adotta è rivolta soprattutto a convincere se stesso e chi non vuol rinunciare anche alla ragione. Anche il celebre e discusso at·gomento della scommessa (in francese pari) a difesa dell'esistenza di Dio, presentato nei Pensieri, la sua opera più importante, non fa altro che confermare questa idea. Dato che non esistono prove razionali decisive, agli uomini non rimane altro che scommettere sull'esistenza di Dio e sperare di vincere questa scommessa, credendo in lui e nel paradiso. Infatti, benché le probabilità di vincere o di perdere siano le stesse, risulta più ragionevole, valutati cosli e benefici, credere in una «eternità di vita e di beatitudine" che non credere e lasciarsi andare ai piaceri pestiferi della vita mondana, che sono "nulla", perché si esauriscono con la morte. Come emerge anche da questo argomento la dcet·ca di una fede che dia speranza e senso alla vita è .n filo conduttore della religiosità pascaliana. Credere per vivere e per morire, credere per non sentirsi annichiliti dal «nulla, di un mondo senza Dio sono le convinzioni che lo hanno spinto da un lato a lottare strenuamente contro qualsiasi forma di contaminazione scolastica o umanistica del cristianesimo, e dall'altro a fare della sua stessa vita un esempio e modello di lotta.

Un genio matematico l primi studi • Oltre che alla lotta per il cristianesimo, Blaise Pascal è legato alla rivoluzione scientifica per i suoi importanti studi matematici e fisici e per la sua originale riflessione sul metodo. Soprattutto la prima parte della sua vita fu dedicata alla scienza. Pasca! morì a soli 32 anni, ma fu un genio precocissimo. Come primo maestro ebbe il padre, Étienne Pasca!, che, dopo la morte della moglie, abbandonò la carica di Presidente alla Cour cles Aides di Clermont e si trasferì a Parigi per dedicarsi all'istruzione dei tre figli: Blaise, nato il 19 giugno del 1623, e le due sorelle Gilberte e Jacqueline. Oltre ad essere un magistrato e un uomo di cultura dell'alta borghesia francese, Étienne possedeva una buona preparazione scientifica e nutriva uno spiccato interesse per gli studi matematici; ma soprattutto era in relazione con il gmppo di studiosi col quale ebbe rapporti anche Thomas Hobbes e che orbitava intorno a Marin Mersenne (1588-1648), unendo matematici e filosofi come Pierre de Fermat (1601-1665), Girare! Desargues (1591-1661), Gilles de Roberval (1602-1675), Pierre Gassendi (15921655) e René Descartes (1596-1650). Della formazione e degli eccezionali progressi di Pasca! siamo informati dalla sorella Gilberte, che ha scritto la biografia sia di Blaise sia di Jacqueline. I primissimi studi, impartiti dal padre precettore, riguardavano esclusivamente temi e ricerche sui principi fondamentali della linguistica e sulle regole della grammatica. Il giovane Blaise, però, di nascosto dal padre, almeno secondo il racconto della sorella, si dedicò anche allo studio della geometria, arrivando in modo autonomo alla dimostrazione della trentacluesima proposizione degli Elementi eli Euclide, il teorema che riguarda la somma degli angoli interni eli un triangolo. La veridicità dell'episodio è dubbia e sembra più un espediente letterario utile a confermare il ritratto del «genio» che la storiografia ci ha

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lasciato. Indubbio sarebbe risultato comunque lo straordinario talento matematico del giovane che, a soli 12 anni, incominciò ad accompagnare il padre alle riunioni del circolo di Mersenne. La frequentazione di questo gruppo di scienziati fu fondamentale per la sua formazione scientifica. Grazie all'infaticabile opera di mediazione e raccordo di Mersenne e alla corrispondenza mantenuta con altri uomini di scienza, francesi, italiani e inglesi, il giovane Pasca! visse in pdma persona gli anni della dvoluzione scientifica, gli entusiasmi per le nuove scoperte, il fervore delle polemiche scientifiche, la fiducia per l'apertura di nuovi orizzonti nella ricerca.

la geometria, la meccanica e la prima conversione • Stimolato da questo am-

Il Saggio sulle co11iche

e l'esag1•amma mistico

biente, Pasca! compose nel 1640, poco più che quindicenne, il suo primo lavoro scientifico, Essai sur !es coniques (Saggio sulle coniche). Il saggio impressionò in modo positivo Mersenne che lo valutò geniale e innovativo, anche se attirò le critiche di Descartes, che accusò Pasca! di plagio nei confronti di Girard Desargues. Benché il debito nei confronti di questo matematico fosse evidente, il testo di Pasca! si distingueva tuttavia per la chiarezza espositiva, il rigore e l'efficacia del linguaggio. Egli proponeva un metodo preciso per risolvere un problema altrettanto preciso: la costruzione dell'esagono iscritto, teorema noto con il nome di esagramma mistico, per il quale «i punti di concorso (ossia i punti di intersezione delle coppie di lati opposti B1-B2-B3) di un esagono iscritto in una conica sono tre punti in linea retta". Per giungere alla soluzione, Pasca! privilegiava l'intuizione rispetto all'analisi algebrica, procedendo poi per deduzione nell'esposizione delle proprietà delle coniche. Esagt·amma mistico L'immagine esemplificata il teorema di Pasca! nel caso di un esagono intrecciato, vale a dire un esagramma, una stella a sei punte. Il lato Al-A2 interseca il lato opposto A4-A5 in Bl; il lato A3-A4 interseca il suo opposto Al-A6 in B2; infine il lato A2-A3 interseca il suo opposto A5-A6 in B3. Bl, B2, B3 risultano allineati.

La macchina calcolatrice

L'incontro con il giansenismo: l'unica saluezza è la g•·azia di Dio

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Fra il1642 e il1645, per aiutare il padre che era stato nominato commissario per la riscossione delle tasse a Rouen, Pasca! si dedicò alla progettazione e alla costruzione della prima macchina calcolatrice, la cosiddetta «Pascaline». Il lavoro non fu facile, soprattutto dal punto di vista tecnico, perché prevedeva un impegno manuale e una particolare attenzione anche nella scelta e nello studio dei diversi materiali che componevano la macchina. Gli anni di Rouen sono importanti non solo per gli studi scientifici, ma anche per l'incontro con il giansenismo, un movimento religioso sorto all'interno del cattolicesimo verso la metà del XVII secolo, che riconosceva nella grazia, concessa da Dio secondo la sua imperscrutabile volontà, la sola possibilità di salvezza per gli uomini. Il giansenismo entrò nella famiglia Pasca! attraverso due medici, i fratelli Deschamps, chiamati a curare Étienne Pasca!, che si era ferito una gamba. I medici rimasero in casa Pasca! per alcuni mesi e convertirono l'intera famiglia. Blaise, soprattutto, rimase particolarmente coinvolto e, da quel momento, la sua riflessione sulla vita religiosa si concentrò sul problema della salvezza e sui dogmi cristiani della caduta e della redenzione.

3. Gli studi suluuoto e sull'equilibrio dei fluidi

L'espei•imento

iliTm•••icelli sulla pressione dell'aria

La necessità della proua Sflllrimentale

Discipline sto1•iche e discipline scientifiche

la fisica e la riflessione sul metodo BI dibattito sull'esistenza del Vl!.aoto • Prima di convertire tutto il suo interesse al richiamo della fede, Pasca! transitò dallo studio della matematica e della geometria alla ricerca fisica e sperimentale, lasciando anche in questo campo contributi fondamentali. Nel 1646 Pasca! cominciò in particolare a dedicarsi ai problemi riguardanti il vuoto e l'equilibrio dei fluidi. Un amico del padre, di passaggio da Rouen, volle provare a realizzare l'esperienza di Evangelista Torricelli (1608-1647), l'allievo di Galilei, che aveva verificato la pesantezza dell'ada utilizzando un tubo di vetro riempito eli mercurio («tubo barometrico", ossia capace di misurare la pressione dell'aria). Torricelli aveva osservato che una volta immerso in una bacinella contenente altro mercurio e lasciato libero di riversarvisi, il liquido, contenuto nel tubo, non fuoriusciva interamente, ma rimaneva in equilibrio, svuotanclosi solo in parte. Il fenomeno dimostrava non solo l'esistenza di una pt·essione eset·citata dall'ada sovrastante il liquido della bacinella, che non permetteva al tubo di liberare interamente il suo contenuto, ma anche l'esistenza del vuoto, generatosi nel contenitore, una volta immerso nella bacinella. L'esistenza del vuoto era stata ammessa nell'antichità dagli atomisti, ma era stata negata nei secoli successivi sulla base dell'autorità di Aristotele, che aveva proposto la teoria della naturale repulsione della natura per il vuoto (horror vacui). Secondo questa dottrina la natura ha orrore del vuoto e non permette che esso si verifichi, andando sempre a riempire lo spazio con altra materia, come quando l'aria gonfia immediatamente un mantice appena svuotato. Ma anche la moderna fisica cartesiana negava il vuoto e identificava spazio e materia, ritenendo infinitamente divisibili i corpi. La disputa, di grande rilevanza nell'elaborazione delle teorie seicentesche sulla materia, fra vacuisti, che sostenevano l'esistenza del vuoto, e plenisti diventa vero e proprio scontro dopo la pubblicazione, nel1647, delle Expériences nouvelles touchant le vide di Pasca!, resoconto dettagliato e metoclologicamente accurato dell'esperienza di Rouen. La pubblicazione suscitò immediatamente la reazione del gesuita padre Étienne Noel, rettore del Collegio di Parigi, il quale, riproponendo le convinzioni aristoteliche, sosteneva l'impossibilità del vuoto assoluto in natura. Pasca! rispose a queste obiezioni, condotte su basi puramente logiche, con una nuova esperienza, affermando che per stabilire la verità o la falsità dell'ipotesi dell'esistenza del vuoto occorreva cimentarsi in un'esperienza concreta, basata su fatti sensorialmente osservabili. L'esperitnento conclusivo venne fatto sul vulcano Puy-de-Dòme (1464 m.), dove Pasca!, ripetendo l'esperienza a diversi livelli di altitudine, dimostrò che l'altezza della colonna di mercurio diminuiva salendo verso la vetta, a riprova del fatto che quindi esisteva un rapporto tra la pressione atmosferica, che varia con l'altitudine, e il livello del mercurio nel tubo barometrico. I!Jna mt!:Dderna c!Jncezione della uerità • Di particolare interesse metodologico è la prefazione, rimasta incompiuta, al trattato sul vuoto, Fragment de préface du Traité du vide (1647). In quelle pagine, i frutti prodotti dai giovanili studi matematici, le curiosità stimolate dalle frequentazioni accademiche, gli interessi indotti dagli scienziati francesi e stranieri giungono a piena consapevolezza. La riflessione epistemologica di Pasca! sui metodi e sui fondamenti della conoscenza scientifica, oltre a nobilitare le arti meccaniche, esprime la moderna concezione della verità, l'idea del sapere come accumulo di esperienze e il concetto della conoscenza progressiva, contro l'utilizzo del principio di autorità nelle discipline scientifiche. Egli riconosce due gruppi di discipline: quelle storiche, tra cui annovera la storia, la giurisprudenza, la geografia e la teologia, che si fondano sulla memoria, in quanto

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Il sapere come accumulo di esperienze

La conoscenza

Pl'll!Jressiua

Contro ì fautm·i dell'ordine sistematico

si basano su ciò che è stato scritto, e per le quali ha valore il principio di autorità; e quelle scientifiche (la geometria, l'aritmetica, la fisica ecc.), che si fondano sull'esperienza e il ragionamento e per le quali il principio di autorità è inutile, perché in questi campi soltanto la t·agione ha diritto di giudicare con assoluta libertà. La distinzione proposta da Pascal abbatte l'antica separazione tra discipline intellettuali e manuali, superando la tradizionale antinomia fra arti meccaniche e arti liberali. L'autore è consapevole che l'impiego da parte degli scienziati di strumenti esatti di misurazione conferisce una sempre maggiore importanza ai processi artificiali e agevola una conoscenza effettiva della realtà. Tutto ciò che è meccanico sta perdendo l'antica connotazione negativa, diventando alleato della scienza, della verità. L'uso delle mani, lungi dall'apparire un'attività vile, viene insignito della stessa considerazione che in passato era riservata alle arti liberali. Insomma la nuova concezione della scienza, che Pascal propugna, intende abbandonare una volta per tutte l'antico primato dell'aspetto contemplativo su quello pratico della verità. Secondo Pascal, inoltre, il sapere consiste nel pt·ogt·essivo accumulo di espedenze nel corso del tempo, grazie allo sfot"Zo sostenuto da molti: questo consente al presente di sperare nell'avanzamento della verità. Se gli antichi non avessero aggiunto nulla di nuovo alle conoscenze che avevano ricevuto in -1 1-17. Contro la presunzione umana, basta osservare che l'uomo conosce una piccola porzione di finito, entro una natura che reca invece in sé l'immagine infinita del suo creatore ~>118-20. Anche nelle scienze deduttive e rigorose come la geometria le proposizioni sono infinite. Gli uomini

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muovono, infatti, da assiomi e premesse che non costituiscono tanto delle verità assolute, quanto semplicemente dei presupposti iniziali, oltre i quali la nostra conoscenza non può più penetrare e a partire dai quali, per via deduttiva, la nostra ragione ritaglia una porzione finita di oggetti conoscibili ~120-30. Pascal osserva che pochi filosofi, tra i quali Democrito a quanto risulta da un detto a lui attribuito, hanno avuto la presunzione di conoscere l'infinitamente grande ~131-33. l più, invece, hanno ritenuto possibile giungere all'infinita piccolezza; anche i loro tentativi, però, non potevano che fallire. Come inaccessibile è l'infinito, così lo è anche il nulla ~134-45.

Comelanaturaumana è cnslanr.he !a I:OIIO!li:I!IIZII che l'uomo auere delle cose è finita

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[... ] Perché, insomma, che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile: egualmente incapace d'intendere il nulla donde è tratto e l'infinito che lo inghiotte. Che farà, dunque, se non scorgere qualche apparenza della zona mediana delle cose, in un'eterna disperazione di conoscerne il principio e il termine? Tutte le cose sono uscite da~ nulla, e vanno sino all'infinito. Chi seguirà quei meravigliosi processi? Solo l'autore di quelle meraviglie le comprende nessun altro lo può. Per non aver considerato questi due infiniti, gli uomini si son vòlti temerariamente all'indagine della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. È strano che abbian voluto scoprire i principi delle cose, e giungere da questi sino a conoscere tutto, con una presunzione infinita come il loro oggetto: perché è certo che non si può concepire un tal disegno senza una presunzione o una capacità infinite, come la natura. Quando si è istruiti, si comprende che, avendo la natura impresso in tutte le cose la propria immagine e quella del suo creatore, esse partecipano quasi tutte della sua duplice infinità. Così, vediamo che tutte le scienze non conoscono termine nell'estensione delle loro ricerche: perché chi può mettere in dubbio, per esempio, che la geometria non comprenda un numero infinito di proposizioni? Le scienze sono infinite altresì nella moltitudine e nella sottigliezza dei loro principi: perché chi non vede che quelli che vengono proposti per ultimi non si reggon da sé, ma ne presuppongono altri, i quali, presupponendone a loro volta altri ancora, non ne ammettono nessuno che sia l'ultimo? Ma noi ci comportiamo con i principi che la ragione conosce per ultimi come con le cose materiali: dove chiamiamo punto indivisibile quello di là dal quale i nostri sensi non percepiscono più nulla, sebbene sia divisibile all'infinito, e per sua natura. Di questi due infiniti delle scienze quello di grandezza è assai più manifesto: onde pochi furono coloro che pretesero di conoscere ogni cosa. «Parlerò di tutto,, diceva Democrito. Molto meno manifesto è quello di piccolezza. I filosofi hanno creduto molto più facile arrivare a conoscerlo, ma tutti senza riuscirei. Donde quei titoli, tanto comuni, I principi delle cose, I principi della .filosofiat, e simili, altrettanto fastosi nella realtà, sebbene meno nell'apparenza, di quell'altro, che è un pu-

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1. Così Descartes aveva intitolato una delle sue opere.

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gno negli occhi: De amni scibili2 • Ci stimiamo naturalmente molto più capaci di giungere al centro delle cose che di abbracciarne la circonferenza. L'estensione visibile del mondo ci sorpassa in modo manifesto; ma, essendo noi a sorpassare le cose piccole, ci crediamo meglio capaci di dominarle. Eppure, per arrivare al nulla ci vuole tanta capacità quanta per giungere a comprendere il tutto: in entrambi i casi dev'essere infinita; a me pare che chi avesse conosciuto i principi ultimi delle cose, potrebbe giungere parimenti a conoscere l'infinito.

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B. Pasca!, Pensieri, pp. 99-101

Come mostra il brano iE, secondo Pasca! i primi principi sono sentiti e non colti dalla ragione umana. Pasca! al riguardo distingue tra spirito di finezza e spirito di geometria. Quest'ultimo procede da principi e da definizioni, deducendo conclusioni e teoremi. Lo spirito di finezza risale invece d'un colpo ai principi primi. Lo spirito di geometria ha per oggetto i principi chiari, evidenti che sono propri della scienza. Più vicini al senso comune sono invece i principi colti dallo spirito di finezza, per quanto siano numerosi e poco evidenti, trattando essi, come è implicito nel discorso di Pasca!, ciò che è oggetto di sentimento, non di ragione ~>l 1-13. Spesso chi possiede spirito di geometria è privo di spirito di finezza e viceversa: difficilmente infatti la «forza e dirittura di mente» che compete allo spirito di finezza può accompagnarsi anche all' «ampiezza di mente» che contraddistingue lo spirito di geometria ~>114-24. Vi sono perciò, osserva Pasca!, persone più propense al ragionamento, altre che invece penetrano immediatamente un problema, magari non riuscendo a ricomporlo in maniera analitica, secondo lo spirito di geometria ~>125-36 Come mostra l'autore in altri luoghi, tuttavia spirito di finezza e di geometria non sono tra loro in contrasto, giacché ogni deduzione si serve di principi primi colti intuitivamente, che non possono essere a loro volta dedotti, pena un regresso all'infinito, impossibile per l'uomo. Anche la geometria e la matematica si servono così di intuizioni non dimostrate, come la tridimensionalità dello spazio, i numeri, ecc. Spirito di finezza e di geometria utilizzano strumenti diversi: lo spirito di geometria ragiona, lo spirito di finezza sente. Conoscenza del cuore e della ragione trovano un loro riflesso anche nell'esperienza della fede religiosa, richiamandosi a vicenda ~>137-41.

l principi colti dallo dj

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sono chilll'i ed euidenti l Pl'incipi dello di fÌIII!lZII !lDIIiJ mm~er,ll!iii. pDCil euidenti

Differenza tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza. Nel primo i principi sono tangibili, ma lontani dal comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger la mente verso di essi, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si volga a essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionar male sopra principi così tangibili che è quasi impossibile che sfuggano. Nello spirito di finezza i principi sono, invece, nell'uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta aver buona vista, ma buona davvero, perché i principi sono così tenui e così numerosi che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, basta ometterne uno per cadere in errore: occorre, pertanto, una vista molto lim-

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2. Titolo di una delle tesi che Giovanni Pico della Mirandola intendeva proporre'al convegno di Roma

del1487.

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Lo Sllirito ili finezza è forza e dirittura di mente

Lo spirito di geomet1•ia è ampiezza ili mente

Lo spil•ito di geometria ragiona; lo sph•ito di finezza sente col cuore

pida per scorgerli tutti e una mente retta per non ragionare stortamente sopra principi noti. [... ] Varie specie di dirittura di mente: gli uni in un dato ordine di cose, ma non negli altri, dove si smarriscono. Gli uni deducono bene le conseguenze da pochi principi, e questa è dirittura di mente. Gli altri deducono bene le conseguenze delle cose in cui ci sono molti principi. Per esempio, gli uni comprendono a fondo i fenomeni dell'acqua, in cui ci sono pochi principi, ma le conseguenze sono talmente sottili che solo un'estrema dirittura di mente può coglierle. E costoro non sarebbero forse per questo grandi geometri, perché la geometria comprende un gran numero di principi, e una mente può esser di tal natura da intendere a fondo pochi principi, ma non da poter minimamente intendere le cose in cui ce ne sono molti. Ci sono, dunque, due specie di spiriti: l'uno che ha il dono di cogliere con vivezza e profondità le conseguenze dei principi, ed è lo spirito di giustezza 1 ; l'altro, che ha il dono di comprendere un gran numero di principi senza confonderli, ed è lo spirito di geometria. L'uno è forza e dirittura di mente; l'altro, ampiezza di mente. Ora, l'uno può essere senza l'altro; perché la mente può essere vigorosa, ma limitata, e può esser anche ampia, ma debole. Coloro che sono avvezzi a giudicare con il sentimento non intendon nulla nelle cose di ragionamento, perché vogliono capire sùbito d'un solo sguardo, e non sono avvezzi a cercare i principi. E gli altri, per contro, che sono assuefatti a ragionare per principi, non intendono nulla nelle cose di sentimento, perché vi cercano i principi e non riescono a coglierli con una sola occhiata. [... l Ecco perché coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l'hanno, noi possiamo darla solo per mezzo del ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente umana, e inutile per la salvezza.

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B. Pasca!, Pensieri, pp. 176-177

Hobbes: il criterio del verum factum Il brano W§Jl è tratto dal De homine di Hobbes e chiarisce il concetto di scienza attraverso il nesso tra «vero» e «fatto». Secondo Hobbes, scienza è propriamente soltanto la conoscenza deduttiva, ossia quella a priori che dalle cause deriva le conseguenze come suoi teoremi. Questa forma di conoscenza per la sua capacità di previsione è l'unica in grado di incrementare la potenza dell'uomo. Poiché scienza è conoscenza delle cause, l'uomo può avere scienza soltanto di ciò di cui è causa ~>11-14. Il modello di ogni scienza, ossia di ogni conoscenza a priori è la geometria, giacché, secondo Hobbes, essa è interamente costruita dall'uomo nei suoi principi, nelle sue definizioni "'115-22. Degli accadimenti particolari invece è possibile avere soltanto cognizione e non scienza, ossia una conoscenza a posteriori che dalla esperienza

1. Di finezza.

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delle conseguenze risale alle cause. Cosl che della natura, in quanto prodotto della volontà divina, è possibile avere soltanto «cognizione» e non scienza ~122-28. Nello studio della natura, la considerazione del moto e delle sue conseguenze comporta tuttavia anche una coscenza quantitativa, affidata alla matematica e alla geometria. Quella parte della fisica che è scienza a priori del moto è dunque una matematica mista, ossia una geometria applicata 1>128-41. Inoltre, se è possibile avere una conoscenza a priori, di ciò di cui è causa generatrice l'uomo, allora anche dell'etica e della politica è possibile avere scienza, perché il giusto e l'ingiusto nascono con l'istituzione di patti e leggi, garantiti dallo Stato, il quale è una creazione artificiale dell'uomo ~142-48.

La scienza IJI'IIcede a priori e dalle cause dm·i1111 necessariamente

gli effetti

La geometria è scienza a priori lllll'cilé creata dall'!ll'liitrio 11mano

La fisica, in qmmto scienza del moto, si nuvole della geomet1•ia

Per scienza si intende la verità dei teoremi, cioè delle proposizioni generali, vale a dire la verità delle conseguenze. Quando invece si tratta di una verità di fatto, si dice non propriamente scienza, ma semplicemente cognizione. Quindi la scienza grazie alla quale sappiamo che un teorema proposto è vero, è una conoscenza a partire dalle cause, cioè dalla generazione dell'oggetto, derivata mediante un retto raziocinio. Quella, invece, mediante la quale sappiamo solo che è possibile che un certo teorema sia vero, è una cognizione derivata attraverso un raziocinio legittimo dall'esperienza degli effetti. Ambedue le derivazioni si sogliano chiamare dimostrazioni, ma quella è preferibile a questa, e a ragione: è più vantaggioso infatti sapere in che modo usare nel modo migliore delle cause presenti, piuttosto che conoscere come fu ciò che è irrevocabilmente passato. Pertanto, agli uomini è stata concessa una scienza con quel tipo di dimostrazione a priori solo nel caso di quegli oggetti la cui generazione dipende dall'arbitrio degli uomini stessi. Dimostrabili sono pertanto molti teoremi circa la quantità, la cui scienza si chiama geometria. Poiché infatti le cause delle proprietà che le singole figure hanno risiedono nelle linee che noi stessi tracciamo, e le generazioni delle figure dipendono dal nostro arbitrio, non si richiede, alla conoscenza di qualsiasi proprietà di una figura, nulla più della considerazione di tutti gli elementi che conseguono alla costruzione che noi stessi facciamo delineando la figura. Quindi, che la geometria sia ritenuta e sia dimostrabile dipende dal fatto che noi stessi creiamo le figure. Di contro, poiché le cause delle cose naturali non sono in nostro potere, bensì nella volontà divina [.. .], non possiamo dedurre le loro proprietà dalle loro cause, dato che noi non le vediamo. Ci è invece concesso procedere deducendo le conseguenze da quelle stesse proprietà che vediamo, fino a poter dimostrare che le loro cause abbiano potuto essere tali o tal'altre. E questa dimostrazione si chiama a posteriori, e la scienza stessa, fisica. E poiché nelle cose naturali che si compiono grazie al moto non è possibile procedere neppure con un raziocinio a posteriori senza la cognizione di ciò che consegue a qualsiasi specie di moto, né si può procedere alle conseguenze dei moti senza la cognizione delle quantità, che è la geom~tria, non è possibile che il fisico non dimostri anch'egli con qualche dimostrazione a priori. Quindi la fisica, dico la vera fisica, che si fonda sulla geometria, suoi essere annoverata tra le matematiche miste. Infatti, si è soliti definire matematiche le scienze che si imparavano non attraverso l'abitudine e l'esperienza, bensì dai maestri, e mediante regole. Quindi è matematica pura quella che si occupa di quantità in astratto, in modo da non aver bisogno della cognizione dell'oggetto, come la geometria e l'aritmetica; miste sono invece le scienze nei cui principi si pren-

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L'etica e la politica sono scienza pe1•ché bene, male, ginsto e sbagliato sono 11rincipi istituiti dagli uomini

de in considerazione anche qualche proprietà dell'oggetto, come l'astronomia, la musica, la fisica e le parti della fisica che possono variare in ragione della varietà della specie e delle parti dell'universo. Anche l'etica e la politica, d'altronde, cioè le scienze del giusto e dell'ingiusto, dell'equo e dell'iniquo, si possono dimostrare a priori; in quanto che i principi grazie ai quali si conosce cosa siano il giusto e l'equo, e per contro l'ingiusto e l'iniquo, cioè le cause della giustizia, e precisamente le leggi e i patti, li abbiamo fatti noi. Infatti, prima clélla istituzione dei patti e delle leggi, non vi era alcuna giustizia né ingiustizia, e neppure alcun genere di bene o eli male pubblico, tra gli uomini come tra le bestie.

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Th. Hobbes, De homine, pp. 113-115

Vico: la scienza nuova, la storia Il seguente testo~ presenta alcuni passi tratti dal libro primo della Scienza nuova, precisamente dal capitolo 111 sui principi rilevanti per il metodo della scienza della storia. La distinzione vichiana degli ambiti rispettivi delle scienze dell'uomo e delle scienze della natura passa per il criterio hobbesiano del verum factum, in base al quale si conosce veramente solo ciò che si fa. L'uomo crea oggetti come le figure e i numeri e perciò perfettamente conosce la geometria e. la matematica; allo stesso modo, ha scienza della storia perché di essa è l'artefice insieme a Dio. L'uomo, invece, non ha creato la natura, esclusivo prodotto di Dio, per cui può conoscerla solo superficialmente ~>11-11. Poiché il mondo delle nazioni è stato prodotto dall'uomo, Vico prova a rintracciare i principi universali ed eterni, comuni all'agire di tutti gli uomini. Egli rileva per via induttiva che ogni società umana, per quanto lontana nello spazio e nel tempo, si è sempre fondata intorno a tre istituti: la religione, il matrimonio, il culto e la sepoltura dei morti ~112-22. Una simile ricognizione conferisce contenuto e conferma alla «degnità», ossia all'assioma introdotto da Vico nel capitolo precedente sugli Elementi, secondo il quale «idee comuni che fioriscono in luoghi e tempi diversi devono esser basate sul vero e non sull'arbitrio dei popoli» ~>122-28. L'esistenza di questi istituiti rivela anche l'azione di Dio nel corso della storia umana: proprio la religione, il matrimonio, il culto dei defunti allargano la naturale tendenza dell'uomo all'amor proprio, investendo prima la famiglia, poi la città, infine le nazioni. Senza mai smettere di amare se stesso, l'uomo attraverso questi tre istituti universali diventa infatti sempre più sociale ~>129-45. Ciò rivela la presenza di una guida provvidenziale della storia e lanatura specifica e originale di questa scienza, il cui oggetto, a differenza della geometria, non è interamente fatto dall'uomo, né a differenza della fisica interamente divino. La storia, dunque, procede in parte come la geometria, ma con oggetti che hanno più realtà e concretezza di punti e linee, perché si occupa anche della volontà divina 1>146-52.

Delm11mlo natua•ale, solo Dio può avere 11cienza porfetta; del mondo civile, anche l'uomo può avere scienza

i

Ma, in tal densa notte eli tenebre ond'è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono eli conseguire la scienza eli questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza, e tra-

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Esistono prim:itli universali che COilllell!!IIIIO 111111 1111t11r11

umana, cmmmi a tutti gli IIOIIlilli di tutte le epoche

Religione, matrimonio Il SII!IOitUI'II dei mm•ti hanno lll'lllllllinato nmor pa•oprio e finalità sociali

La storia è scienza, perché costruisce i suoi elementi

scurarono di meditare sù questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l'avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. [. .. ] Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni. · Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi ira loro lontane, clivisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morfi; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consegrate solennità che religioni, matrimoni e sepolture. Ché, per la clegnità che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, clebbon aver un principio comune di" vero 1 », dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità, e per ciò si debbono santissimamente custodire da tutte perché 'l mondo non s'infierisca e si rinselvi eli nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi principi eli questa Scienza. [... ] Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, essendo tiranneggiati dall'amor propio, per lo quale non sieguono principalmente che la propia utilità; onde eglino, volendo tutto l'utile per sé e niuna parte per lo compagno, non posson essi porre in conato le passioni per inclirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l'uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gl'imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza eli tutto il gener umano: l'uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l'utilità propia. Adunque, non da altri che dalla provveclenza divina deve esser tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l'umana società; per gli quali ordini, non potendo l'uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell'utilità: ch'è quel che dicesi «giusto», Onde quella che regola tutto il giusto degli uomini è la giustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divina provveclenza per conservare l'umana società. Così questa Sdenza procede appunto come la geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il costruisce o 'l contempla, essa stessa si faccia il mondo delle grandezze; ma con tanto più eli realità quanta più ne hanno gli ordini d'intorno alle faccende degli uomini, che non ne hanno punti, linee, superficie e figure. E questo istesso è argomento che tali pruove siena d'una spezie divina e che debbano, o leggitore, arrecarti un clivin piacere, perocché in Dio il conoscer e 'l fare è una medesima cosa.

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G. Vico, La Scienza nuova, libro I, III-IV, pp. 231-233, 240-245

1. È la degnità XIII.

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La società umana: legge, giustizia e potere

ui temi della politica e della giustizia, Pasca!, Bobbes e Vico si confrontano con l'ampia tradizione giusnaturalistica antica, medievale e soprattutto moderna, rinnovata dal filosofo tedesco Giovanni Althaus Altusio (1557-1638), e dal filosofo e giurista olandese Huig Van Groot o Ugo Grazio (1583-1645). Dello Stato e della società politica Pasca! propone una lettura amara e disincantata, che analizza gli aspetti meno evidenti del potere, come l'importanza dei simboli, dell'immaginazione, dell'abitudine e dell'assuefazione all'obbedienza. Ma soprattutto, le sue penetranti riflessioni mostrano la precarietà e l'inadeguatezza della nozione umana, terrena di giustizia, sempre e ovunque riconducibile all'elemento primario della forza e incomparabilmente non assimilabile alla carità incarnata da Gesù Cristo. Secondo Hobbes non esiste invece giustizia fuori dello

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Stato e lo Stato, che è essenzialmente forza, è una co--struzione artificiale degli uomini, derivata da un contratto. In Hobbes la creazione dello Stato avviene a partire da una condizione prepolitica, lo stato eli natura, che non è necessariamente una condizione storicamente esistita. Le passioni e la ragione umana spingono gli uomini a lasciare lo stato eli natura, a consociarsi e a cedere i loro eliritti e la loro forza allo Stato, il Dio mortale e terreno. La riflessione di Vico riconduce allo studio della storia umana, anche l'analisi del diritto, della forza, della giustizia. Egli arriva, nella parte finale della Scienza nuova, a discutere eli governo dopo un lunghissimo lavorio che ha portato l'autore (attraverso dòcumenti e reperti di ogni tipo) a tempi storici lontanissimi. Anche la politica non è comprensibile per Vico se non come prodotto della storia, sviluppo della natura umana, assistito dal piario della provvidenza divina.

Pascal: la giustizia terrena e l'ordine della carità Il brano !\\ii] dai Pensieri di Pasca! raccoglie una serie di considerazioni dedicate alla giustizia e ai fattori che governano da sempre le società umane. L'uomo, invero, ignora cosa sia la giustizia e ne è una riprova la constatazione che il giusto e l'ingiusto siano di fatto relativi; essi cambiano anzitutto nel tempp, tanto che ciò che prima appariva turpe e immorale può poi diventare lecito, cosl come può capitare anche il contrario; considerazioni sui tempi presenti ci mostrano poi che il giusto e l'ingiusto cambiano anche a seconda dei luoghi e quel che è vietato in un posto è consentito a un'altra latitudine, o anche semplicemente fuori dai confini di un territorio ~11-14. Benché i filosofi, osserva Pasca!, abbiano spesso parlato di leggi di natura, di norme morali eterne e immutabili di giustizia, tuttavia nessun Stato o consorzio umano le ha mai fatte proprie. Gli uomini hanno piuttosto corrotto la giustizia, piegandola alla forza e alloro vario capriccio ~>115-25. Pasca l riconosce che giustizia e forza debbano convivere nella società umana. La giustizia senza forza sarebbe infatti impotente ~>126-32. A imporsi però, per prima, è stata la forza e su di essa, non su criteri morali universali, è stata misurata la giustizia stessa. Nella storia e nelle umane società, si è sempre imposto come giusto ciò che è stato fatto apparire tale dalla forza, anche dell'opinione dei più, e dalla consuetudine ~>133-48. Dunque, soprattutto e originariamente, la «forza», osserva Pasca!, «è la vera regina del mondo» ~>149-58.

La giustizia um;ma uaB•ianel tempo e nello spazio

Nessuna legge naturale

ha 11111i assm1to portota llilÌIII'll'!illlll

Su che cosa fonderà l'uomo l'economia1 del mondo che pretende di governare? Sul capriccio del singolo? Quale confusione! Sulla giustizia? La ignora. Se la conoscesse, l'uomo non avrebbe certo stabilita questa massima, la più generale tra quante han corso tra gli Uomini: ognuno si attenga alle costumanze del proprio paese. Lo splendore della vera equità avrebbe conquistato tutti i popoli, e i legislatori non avrebbero preso come modello, invece di quella giustizia immutabile, le fantasie e i capricci dei Persiani e dei Tedeschi. La vedremmo radicata in tutti gli Stati del mondo e in tutti i tempi, mentre, per converso, nulla si vede di giusto o d'ingiusto che non muti qualità col mutar di clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano. decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche; l'entrata di Saturno nel Leone segna l'origine di questo o quel crimine. Singolare giustizia, che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là. Essi2 affermano che la giustizia non consiste in queste costumanze, bensì in leggi naturali, riconosciute in ogni paese. E, certo, lo sosterrebbero ostinatamente, se, tra le leggi umane che la temerità del caso ha disseminate, ce ne fosse almeno una di universale; ma il buffo è che il capriccio degli uomini si è così ben diversificato che non ce n'è nessuna. Il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni virtuose. Si può dar cosa più spassevole di questa: che un uomo abbia il diritto di ammazzarmi solo perché abita sull'altra riva del fiume e il suo sovrano è in lite con il mio, sebbene io non lo sia con lui?

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11.. L'ordinamento e il buon funzionamento eli una società. 2. I filosofi dogmatici, gli stoici e con essi tutti i giusnaturalisti.

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Il rapporto tl'il giustizia e forza nella società umana

La giustizia umana consegue dalla forza e dall'abitudine

Ci sono, senza dubbio, leggi naturali, ma questa bella ragione corrotta ha corrotto ogni cosa[ ... ]. Giustizia, forza. È giusto che quel che è giusto sia seguito, ed è necessario che quel che. è più forte sia seguito. La giustizia scampagnata dalla forza è impotente, la forza scampagnata dalla giustizia è tirannica. La giustizia senza la forza viene contraddetta, perché ci sono sempre malvagi; la forza senza la giustizia viene riprovata. Bisogna, dunque, congiungere la giustizia e la· forza, facendo in modo che quel che è giusto sia forte e quel che è forte sia giusto. La giustizia è soggetta a contestazione; la forza si fa riconoscere di primo acchito, e senza dispute. Perciò non si è potuto dare la forza alla giustizia, giacché la forza si è levata contro la giustizia, affermando che essa sola era giusta. E così, non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto. [.. .] Nelle cose ordinarie si osservano, come sole norme universali, le leggi del paese; nelle altre, l'opinione dei più. Per qual ragione? per la forza che vi è connessa. Onde i re, che posseggon la forza per altra via, non seguono la maggioranza dei ministri. Certamente, l'eguaglianza dei beni è giusta; ma, non potendosi fare in modo che sia forza obbedire alla giustizia, si è fatto in modo che sia giusto obbedire alla forza; non essendosi potuto rendere forte la giustizia, si è giustificata la forza, affinché la giustizia e la forza possano andare congiunte e regni la pace, che è il supremo dei beni. Perché si segue l'opinione dei più? Perché hanno più ragione? No, ma perché hanno più forza. Perché si seguono le antiche leggi e le credenze tradizionali? Perché sono le più savie? No, ma perché sono le sole in vigore, e così è eliminata ogni ragione di dissenso. [ ... ] È l'effetto della forza, non dell'abitudine, perché coloro che son capaci d'inventare sono rari; quelli numericamente più forti voglion solo seguire, e negano la gloria a quegli inventori, che la cercano con le loro invenzioni. E se questi si ostinano a volerla conseguire, e disprezzano quelli che nulla inventano, gli altri li coprono di nomi ridicoli e magari li bastonano. Non ci si vanti, dunque, di tale capacità e ci si accontenti di goderne tra sé e sé. Regina del mondo è la forza, non l'opinione.

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B. Pasca!, Pensieri, pp. 133-137

Nel brano~~ tratto dai Pensieri, Pasca l introduce tre ordini, tre livelli di grandezza da cui misurare e valutare l'esistenza umana. All'ordine della forza e del potere, alla corrotta idea di giustizia che impera tra gli uomini, Pascal contrappone l'ordine della carità, l'au· tentico piano di verità della morale cristiana. Un ordine diverso anche da quello della scienza, perché di origine soprannaturale ~>11-18. Le grandezze terrene, i piaceri mondani, segno di forza e potere, non interessano a colui che si dedica al sapere e alla scien· za. Superiore e incommensurabile è il terzo,ordine, ossia la santità, la grandezza che mo· strano coloro che, come Gesù Cristo, vivono «senza ricchezze e senza nessuna manifesta· zione esteriore di scienza» H 19-36. L'ordine della carità, della santità costitu.isce un regno spirituale che non è più di questo mondo, perché ad esso è infinitamente lontano e su· periore ~>137-45.

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L'm·dine deltnmsiero è dive••so dall'ou•dine

del potere

La grandezza

dell'ordine della corità è SOpl'lllllllltUrale

Lo spirito è superiore

al corpo; la carità è superim•e allo 1111irito

La distanza infinita che intercede tra i corpi e gli spiriti adombra la distanza infinitamente più infinita.tra gli spiriti e la carità, perché questa è soprannaturale. Tutto lo splendore delle grandezze terrene non ha nessun lustro per coloro che sono impegnati nelle ricerche intellettuali. La grandezza degli uomini eli pensiero è invisibile ai re, ai ricchi, ai condottieri eli eserciti, a tutti i grandi della carne. La grandezza della saggezza, che non è nulla se non viene da Dio, è invisibile alle persone carnali e agli uomini di pensiero. Sono tre ordini eli genere diverso. I grandi geni hanno il loro impeto, il loro splendore, le loro vittorie, il loro lustro, e non hanno nessun bisogno delle grandezze carnali, che non li riguardano affatto. San veduti non dagli occhi, ma dalle menti: e ciò basta loro. I santi hanno il loro impero, il loro splendore, le loro vittorie, il loro lustro, e non hanno nessun bisogno delle grandezze carnali o intellettuali, che non aggiungono né tolgono loro nulla. Sono veduti da Dio e dagli angeli, non dai corpi né dalle menti curiose: a loro basta Dio. Archimede, anche senza lustro mondano, sarebbe venerato egualmente. Non dette battaglie per gli occhi, ma donò a tutte le menti le sue invenzioni. Oh, come sfolgorò alle menti! Gesù Cristo, senza ricchezze e senza nessuna manifestazione esteriore di scienza, sta nel proprio ordine di santità. Non fece invenzioni, non regnò; ma fu umile, paziente, santo, santo a Dio, terribile ai demoni, senza peccato. Oh! come venne in gran pompa e in prodigiosa magnificenza agli occhi del cuore, che vedono la saggezza! Ad Archimede sarebbe stato inutile fare il principe nei suoi libri di geometria, sebbene fosse tale 1 • A Nostro Signore Gesù Cristo sarebbe stato inutile, per splendere nel suo regno di santità, venire da re; ma egli venne con lo splendore del suo ordine. È ridicolo scandalizzarsi della bassezza di Gesù Cristo, come se tale bassezza fosse del medesimo ordine della grandezza che venne a rivelare. Si consideri tale grandezza nella sua vita, nella sua passione, nella sua oscurità, nella sua morte, nell'elezione dei suoi, nel loro abbandono, nella sua segreta resurrezione e nel rimanente: la si vedrà così grande che non ci sarà più da scandalizzarsi per una bassezza che non c'è. Ma certuni sanno ammirare soltanto le grandezze carnali, come se non ce ne fossero di spirituali; e altri ammirano solo quelle intellettuali, come se nell'orcline della saggezza non ce ne fossero di infinitamente più elevate. Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi reami non valgono il minimo tra gli spiriti, perché questo conosce tutto ciò e se stesso; e i corpi, nulla. Tutti i corpi insieme e tutti gli spiriti insieme e tutte le loro produzioni non valgono il menomo moto di carità. Questo è eli un ordine infinitamente più elevato. Da tutti i corpi presi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: è impossibile, e di un altro ordine. Da tutti i corpi e da tutti gli spiriti non si potrebbe trarre un sol moto eli vera carità: ciò è impossibile, di un altro ordine, soprannaturale.

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B. Pasca!, Pensieri, 795, pp. 340-342

1. Come ricorda Plutarco nella Vita di Marcello, Archimede sarebbe stato un congiunto del tiranno

Ierone (V sec. a.C.).

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Hobbes: la fondazione razionale del governo l due brani seguenti sono tratti dal Leviatano di Hobbes. Il primo liiEI è dedicato a un'analisi dell'uomo nello stato di natura, quando il nemico principale di ciascuno è il suo simile, con il quale si trova in uno stato di guerra perenne per proteggere i suoi beni e raggiungere i propri fini H 1-12. Lo stato di natura è una condizione di vita misera, animalesca, dominata dal timore e dal terrore, che impedisce ogni progresso di sorta all' «operosa ingegnosità» degli uomini ~>113-22. Forse, si domanda Hobbes, non è mai esistito storicamente un simile stato di natura e tuttavia la condizione in cui vivono attualmente alcune popolazioni selvagge ne delinea i possibili contorni ~>123-32. Ma soprattutto, continua l'autore, lo stato di natura è la condizione in cui vivono i moderni Stati nazionali, in perenne condizione, di conflitto potenziale ~>133-42. Come ogni Stato sovrano è indipendente dall'altro, cosl nello stato di natura non esiste ancora un potere comune che imponga la legge e, vigendo una sostanziale eguaglianza in virtù del diritto di tutti sopra ogni cosa (ius in omnia), niente in questo ipotetico stato di natura è giusto o ingiusto ~>141-55. La paura della morte e la speranza di condurre una vita piacevole spingono gli uomini a ricercare la pace, ad abbandonare lo stato di natura e a trovare un accordo, ascoltando i dettami della ragione ~>156-61.

Lo stato di natura è una condizione potenziale o attuale !li guel'l'll tra gli uomini

Nello stato !li natura mm esiste industria, progresso, culhu•a

Lo stato di natura è la condizione in cui uhmnu i seluaggi e i cittadini in caso di gueu•ra civile

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Da ciò, appare chiaramente che quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La GUERRA, infatti, non consiste solo nella battaglia o nell'atto di combattere, ma in uno spazio di tempo in cui la volontà di affrontarsi in battaglia è sufficientemente dichiarata: la nozione di tempo va dunque considerata nella natura della guerra, come lo è nella natura delle condizioni atmosferiche. Infatti, come la natura del cattivo tempo non risiede in due acquazzoni, bensì nella tendenza verso questo tipo di situazione, per molti giorni consecutivi, allo stesso modo la natura della guerra non consiste nel combattimento in sé, ma nella disposizione dichiarata verso questo tipo di situazione, in cui per tutto il tempo in cui sussiste non vi è assicurazione del contrario. Ogni altro tempo è PACE. Perciò, tutte le conseguenze di un tempo di guerra, in cui ciascuno è nemico di ciascuno, sono le stesse del tempo in cui gli uomini vivono senz'altra sicurezza che quella di cui li doterà la loro propria forza o la loro propria ingegnosità. In tali condizioni, non vi è posto per l'operosità ingegnosa, essendone incerto il frutto: e di conseguenza, non vi è né coltivazione della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare via mare, né costruzioni adeguate, né strumenti per spostare e rimuovere le cose che richiedono molta forza, né conoscenza della superficie terrestre, né misurazione del tempo, né arti, né lettere, né società; e, ciò che è peggio, v'è il continuo timore e pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve. [.. .] Si può forse pensare che non vi sia mai stato un tempo e uno stato di guerra come questo, ed io credo che nel mondo non sia mai stato così in generale; ma vi sono molti luoghi ove attualmente si vive in tal modo. Infatti, in molti luoghi d'America, i selvaggi, se si esclude il governo di piccole famiglie la cui concordia dipende dalla concupiscenza naturale, non hanno affatto un governo e vivono attualmente in quella maniera animalesca di cui ho prima parlato. Ad ogni modo, si può intuire quale genere di vita ci sarebbe se non ci fosse un potere comune da temere, dal genere di vita in cui durante una guerra civile pre-

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Nello stato di natura uiuono gli Stati Slllll'ilni

Nello stato dì natur•a

non hanno luogo le nozioni di giusto e ili ingiusto

Palll'll e speranza munuono gli uomini a ricer•r.are cnn la ragione IIIIIIICil

cipitano abitualmente gli uomini che fino a quel momento sono vissuti sotto un governo pacifico. Ma qualora non fosse mai esistito un tempo in cui gli uomini isolati fossero in uno stato di guerra gli uni contro gli altri, tuttavia in tutti i tempi, i re e le persone dotate di autorità sovrana sono, a causa della loro. indipendenza, in una situazione di continua rivalità e nella situazione e nella pastura propria dei gladiatori, le armi puntate e gli occhi fissi gli uni sugli altri: vale a dire fortezze, guarnigioni e cannoni alle frontiere dei loro regni e spie che controllano incessantemente i Paesi vicini; questo è un atteggiamento di guerra. Ma poiché essi sostengono con ciò l'operosità ingegnosa dei loro sudditi, non ne consegue quella miseria che accompagna la libertà degli uomini isolati. Da questa guerra di ogni uomo contro ogni altro uomo consegue anche che niente può essere ingiusto. Le nozioni di diritto e torto, di giustizia e di ingiustizia non vi hanno luogo. Lacldove non esiste un potere comune, non esiste legge; dove non vi è legge non vi è ingiustizia. Violenza e frode sono in tempo di guerra le due virtù cardinali. Giustizia e ingiustizia non sono facoltà né del corpo né della mente. Se lo fossero, potrebbero trovarsi in un uomo che fosse solo al mondo, allo stesso modo delle sue sensazioni e delle sue passioni. Esse sono qualità relative all'uomo che vive in società e non in solitudine. A questa medesima condizione consegue anche che non esiste proprietà, né dominio, né distinzione tra mio e tuo, ma appartiene ad ogni uomo tutto ciò che riesce a prendersi e per tutto il tempo che riesce a tenerselo. E ciò basti per descrivere la triste condizione in cui l'uomo è realmente posto dalla nuda natura, benché abbia la possibilità di uscirne, possibilità che risiede in parte nelle passioni e in parte nella sua ragione. Le passioni che inducono gli uomini alla pace sono la paura della morte, il desiderio di quelle cose che sono necessarie a una vita piacevole e la speranza di attenerle con la propria operosità ingegnosa. E la ragione suggerisce opportune clausole di pace sulle quali si possono portare gli uomini a un accordo. Queste clausole sono quelle che vengono, in altri termini, chiamate le leggi di natura[. .. ]

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Th. Hobbes, Leviatano, pp. 101-104

Come spiega il brano~, anche la legge di natura scoperta dalla ragione è il frutto del timore e della paura di morire, di soccombere dinanzi alla forza del proprio simile. Hobbes distingue anzitutto tra diritto naturale e legge naturale: il diritto naturale è la libertà che ciascun inaividuo ha, nello stato di natura, di utilizzare tutto quello che è in suo potere per conservare il proprio essere ~>11-9; la legge naturale non discende invece da una condizione originaria, bensì da una prescrizione comune della ragione, che proibisce o vieta ciò che impedisce la conservazione della vita stessa ~>11 0-18. Nello stato di natura l'uomo gode del diritto naturale ma vive nell'insicurezza, spinto com'è a conservare la propria vita a ogni modo, anche a danno del suo simile ~>119-27. La ragione impone allora due leggi fondamentali: la prima è che si debba ricercare la pace, perché solo essa può garantire vita e sicurezza. Da questa legge discende la seconda per la quale si deve rinunciare alla propria forza, al proprio potere, se necessario al raggiungimento della pace ~>127-45. La ricerca della pace prescritta dalla legge naturale induce così gli uomini a stipulare un patto e a creare il Leviatano, il dio mortale, dispensatore di premi e punizioni, in cui forza e giustizia coincidono ~>146-76.

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lii!t~ Il diritto di lllltUI'II e la leg{Jil di natu1•a

Il di••itto Ili tutti su tutto rende insicu•·a la uita degli uomini

La prima legge è l'icercare la pace

La seconda legge impone che si possa ••inunciare al diritto naturale su tutto

Il DIRITTO DI NATURA, che gli scrittori chiamano comunementejus Naturale, è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo a questo fine. Secondo il significato proprio del termine, si intende per LIBERTÀ l'assenza di impedimenti esterni. Questi impedimenti possono frequentemente diminuire il potere posseduto da una persona per fare ciò che vorrebbe, ma non possono impedirle di usare il potere che le è rimasto nei modi che il suo giudizio e la sua ragione le detteranno. Ùna LEGGE DI NATURA (Lex Naturalis) è un precetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che proibisce ad un uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per conservarla, e di non fare ciò che egli considera meglio per conservarla. Sebbene, infatti, jus e lex, diritto e legge, vengano generalmente confusi da chi parla di questo argomento, essi devono invece essere distinti, perché il DIRITTO consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la LEGGE determina e obbliga a una delle due cose. Perciò la legge e il diritto differiscono tra loro come l'obbligazione e la libertà, che sono incompatibili nella stessa situazione. 'E poiché la condizione dell'uomo (come è stato affermato nel capitolo precedente) è una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro, e in questo caso ciascuno è governato dalla propria ragione e non esiste niente di cui egli sia in grado di servirsi, che non possa essergli di aiuto nel preservare la propria vita contro i nemici, ne segue che in una condizione di questo genere ciascuno ha diritto a tutto, anche al corpo di un altro. Perciò, finché dura questo diritto naturale di ciascuno a tutto, nessuno può avere la sicurezza, per quanto forte o saggio sia, di vivere per tutto il tempo che la natura permette solitamente di vivere agli uomini. Di conseguenza, è un precetto, o una regola generale della ragione, che ciascunQ debba cercare la pace per quanto ha speranza di attenerla, e che, se non è in grado di attenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura che è cercare e perseguire la pace. La seconda contiene l'essenziale del diritto di natura che è difendersi con tutti i mezzi di cui si dispone. Da questa legge di natura fondamentale, con cui si comanda agli uomini di cercare la pace, deriva la seconda legge, che si sia disposti, quando anche altri lo siano, a rinunciare, nella misura in cui lo si ritenga necessario alla pace e alla propria difesa, al diritto su tutto e ci si accontenti di avere tanta libertà nei confronti degli altri quanta se ne concede agli altri nei confronti di se stessi. Infatti, finché ciascuno detiene il diritto di fare tutto ciò che gli piace, tutti gli uomini sono nella condizione di guerra. Se però gli altri non rinunceranno alloro diritto, non c'è allora ragione che qualcuno si privi del suo, perché significherebbe esporsi come preda (cosa a cui nessuno è tenuto) piuttosto che disporsi alla pace. Questa è la legge del Vangelo: «qualunque cosa tu pretenda che gli altri facciano per te, falla tu per loro ... Ed è la legge di tutti gli uomini: quod tibifleri non vis, alteri nefeceris1 . [ .. .]

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1. Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te .

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Gli uomini trasferiscono tutto illo!'O potere e la lm•o forza a una soia persona 11 a una assemblea

Il Leuiatano, il dio mo1•tale

L'unico modo di erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall'aggressione di stranieri e dai torti reciproci - perciò procurando loro sicurezza in guisa che grazie alla propria operosità e ai frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfacentemente -, è quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo uomo o a una sola assemblea di uomini (che, in base alla maggioranza delle voci, possa ridurre tutte le loro volontà a un'unica volontà). Il che è quanto dire che si incarica un solo uomo o una sola assemblea di uomini di dar corpo alla loro persona; che ciascuno riconosce e ammette di essere l'autore di ogni azione compiuta, o fatta compiere, relativàmente alle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, da colui che dà corpo alla loro persona; e che con ciò sottomettono, ognuno di essi, le proprie volontà e i propri giudizi alla volontà e al giudizio di quest'ultimo. Questo è più che consenso o concordia, è una reale unità di tutti loro in una sola e stessa persona, realizzata mediante il patto di ciascuno con tutti gli altri, in maniera tale che è come se ciascuno dicesse a ciascun altro: Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest'uomo, o a quest'assemblea di uomini, alla condizione che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona si chiama STATO, in latino CIVITAS. E questa la generazione di quel grande LEVIATANO, o piuttosto (per parlare con maggior rispetto) di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio Immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, grazie a questa autorità datagli da ogni singolo uomo dello Stato, egli dispone di tanta potenza e di tanta forza a lui conferite, che col terrore da esse suscitato è in grado di modellare le volontà di tutti i singoli in funzione della pace, in patria, e dell'aiuto reciproco contro i nemici di fuori. In lui .risiede l'essenza dello Stato, che, per darne una definizione, è: Una persona unica, dei cui atti i membri di una grande moltitudine si sono fatti autori, mediante patti reciproci di ciascuno con ogni altro, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune. Chi incarna questa persona si chiama SOVRANO e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro si chiama suo SUDDITO.

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Th. Hobbes, Leviatano, pp. 105-106; 142-143

Vico: il farsi storico dell'animale sociale l brani riportano due passi tratti dalla Scienza nuova, in cui si affrontano alcuni fondamentali momenti di passaggio nella storia della civiltà umana: quando dalla natura ferina dei giganti rinacque l'uomo con l'età degli dei e quando dall'età degli eroi si verificò il passaggio all'età degli uomini. Nel primo~. Vico tratta dell'importanza dei matrimoni e sepolture come una delle prime e fondamentali istituzioni sociali. Siamo nei tempi oscuri in cui i giganti vengono frenati dal timore divino dei fulmini, e resi in tal modo sedentari. Anche gli istinti sessuali vengono dagli uomini appagati di nascosto, senza farsi vedere dagli dei; le donne sono ora trattenute presso di sé costituendo i primi nuclei familiari stabili. Come osserva Vico, pudore e religione contribuirono così a mantenere uniti i gruppi sociali ~11-18. Anche il matrimonio sorge con il concorso del timore nei confronti di una divinità e Vico sì industria nel descriverne i successivi passaggi, mostrando come questi istituti originari abbiano avuto continuità, ratifica pubblica e religiosa nelle antiche civiltà greche e romane ~119-29.

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Dal timore del fulmine diuinu i giganti abbandonano la condizione fe1•ina, im(llll'lllldll la virtù delrnnlore

Donne e uomini custitniscuno i primi nuclei sociali stabili

L'istituzione del matrimonio, monoglmlia e fedeltà

Cominciò, qual dee, la moral virtù dal conato\ col qual i giganti della spaventosa religione de' fulmini furon incatenati per sotto i monti, e tennero in freno il vezzo d'andar errando da fiere per la gran selva della terra, e s'avvezzarono ad un costume, tutto contrario, di star in que' fondi nascosti e fermi; onde poscia ne divennero gli autori delle nazioni e i signori delle prime repubbliche, come abbiamo accennato sopra e spiegheremo più a lungo appresso, ch'è uno de' gran benefici che la volgar tradizione ci conservò d'aver fatto il Cielo al gener umano, quando egli regnò in terra con la religion degli auspìci; onde a Giove fu dato il titolo di «Statore" ovvero di ,fermatore", come sopra si è detto. Col conato altresì incominciò in essi a spuntare la virtù dell'animo, contenendo la loro libidine bestiale di esercitarla in faccia al cielo, di cui avevano uno spavento grandissimo; e ciascuno di essi si diede a strascinare per sé una donna dentro le loro grotte e tenerlavi dentro in perpetua compagnia di lor vita; e sì usarono con esse la venere umana al coverto, nascostamente, cioè a dire con pudicizia; e sì incominciarono a sentir pudore, che Socrate diceva esser il «colore della virtù". Il quale, dopo quello della religione, è l'altro vincolo che conserva unite le nazioni, siccome l'audacia e l'empietà so n quelle che le rovinano. [... ] Da questa antichissima origine de' matrimoni è nato che le donne entrino nelle famiglie e case degli uomini co' quali son maritate; il qual costume natural delle genti si conserv9 da' romani, appo i quali le mogli erano luogo di figliuole de' lor mariti e sorelle de' lor figliuoli. E quindi ancora i matrimoni dovettero incominciare non solo con una sola donna, come fu serbato da' romani (e Tacito ammira tal costume ne' germani antichi, che serbavano, come i romani, intiere le prime originidelle loro nazioni, e ne dànno luogo di congetturare lo stesso di tutte l'altre ne' lor princìpi), ma anco in perpetua compagnia di lor vita, come restò in costume a moltissimi popoli; onde appo i romani furono diffinite le nozze, per questa propietà, «individuae vitae consuetudo", e appo gli stessi assai tardi s'introdusse il divorzio.

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G. Vico, La Scienza nuova, libro II, pp. 352-354

Nel secondo passo ifill- facendo un balzo nell'età degli uomini- egli descrive l'ascesa politica della plebe, che si oppone alla nobiltà e sipone al governo con la formazione delle repubbliche popolari. Finita così l'età degli eroi, del governo aristocratico, la repubblica scopre virtù come l'operosità, la generosità e individua il potere nella ricchezza ~>11-18. È in questa fase che nasce, secondo Vico, la filosofia nel suo valore formativo e nella sua valenza di riflessione razionale. Dalla filosofia deriva l'eloquenza, l'arte di parlare, fiorita aRoma ai tempi di Scipione ~>118-35. Una filosofia non più protesa al vero, un'eloquenza non più diretta a difendere il giusto e la virtù, accompagnano la decadenza delle repubbliche popolari, seguite dalle guerre civili e dall'anarchia. A porre rimedio è ancora una volta là provvidenza, stabilendo la monarchia, come accadde a Roma con Augusto ~>136-56. Laddove e allorquando non sia possibile per alcune nazioni superare la corruzione, a provvedere ad esse, sotto la guida di Dio, saranno le nazioni migliori che le assoggetteranno, le conquisteranno riducendole a loro province ~>157-68.

1. Come ha spiegato Vico, è la tendenza a tenere a freno le passioni, lasciando insorgere l'intelligenza.

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Il !J!IIII!!'III'I aristoct•ntico codeailnJ•epubblica 110polare

Èin questo contesto che mulce In filosofia

l'età della decadenza,

della corruzione, delle gnem~ ciuili

lltn•ouuidenziale lllllllliiUI!'IIII alla momwchia

Ma, col volger degli anni, vieppiù l'umane menti spiegandosi, le plebi de' popoli si ricredettero finalmente della vanità di tal eroismo, ed intesero esser essi d'ugual natura umana co' nobili; onde vollero anch'essi entrare negli ordini civili delle città. Ove dovendo a capo di tempo esser sovrani essi popoli, permise la provvedenza che le plebi, per lungo tempo innanzi, gareggiassero con la nobiltà di pietà e di religione nelle contese eroiche di doversi, da' nobili comunicar a' plebei gli auspìci, per riportarne comunicate tutte le pubbliche e private ragioni civili che ne stimavano dipendenze; e sì la cura nJ.edesima della pietà e lo stesso affetto della religione portasse i popoli ad esser sovrani nelle città: nello che il popolo romano, avanzò tutti gli altri del mondo, e perciò funne il popolo signor del mondo. In cotal guisa, tra essi ordini civili trammeschiandosi vieppiù l'ordine naturale, nacquero le popolari repubbliche: nelle quali, poiché si aveva a ridurre tutto o a sorte o a bilancia, perché il caso o 'l falo non vi regnasse, la provvedenza ordinò che 'l censo vi fusse la regola degli onori; e così gl'industriosi non gl'infingardi, i parchi non gli pròcligi, i providi non gli scioperati, i magnanimi non gli gretti di cuore, ed in una i ricchi con qualche virtù o con alcuna immagine di virtù non gli poveri con molti e sfacciati vizi, fussero estimati gli ottimi del governo. Da repubbliche così fatte - gl'interi popoli, ch'in comune voglion giustizia, comandando leggi giuste, perché universalmente buone, ch'Aristotile divinamente diffinisce «Volontà senza passioni,, e sì volontà d'eroe che comanda alle passioni- uscì la filosofia, dalla forma di esse repubbliche destata a formar l'eroe e, per formarlo, interessata della verità; così ordinando la provvedenza: che, non avendosi appresso a fare più per sensi eli religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia intendere le virtù nella lor idea, in forza della quale riflessione, se gli uomini non avessero virtù, almeno si vergognassero de' vizi, ché soltanto i popoli addestrati al mal operare può contenere in ufizio. E dalle filosofie permise provenir l'eloquenza, che dalla stessa forma di esse repubbliche popolari, dove si comandano buone leggi, fusse appassionata del giusto; la quale da esse idee di virtù infiammasse i popoli a comandare le buone leggi. La qual eloquenza risolutamènte diffiniamo aver fiorito in Roma a' tempi di Scipione Affricano, nella cui età la sapienza civile e 'l valor militare, ch'entrambi sulle rovine eli Cartagine stabilirono a Roma felicemente l'imperio del mondo, dovevano portare di séguito necessario un'eloquenza robusta e sappientissima. Ma - corrompendosi ancora gli Stati popolari, e quindi ancor le filosofie (le quali cadendo nello scetticismo, si diedero gli stolti dotti a calunniare la verità), e nascendo quindi una falsa eloquenza, apparecchiata egualmente a sostener nelle cause entrambe le parti opposte - provenne che, mal usando l'eloquenza (come i tribuni della plebe nella romana) e non più contentandosi i cittadini delle ricchezze per farne ordine, ne vollero fare potenza; [e], come furiosi austri il mare, commovendo civili guerre nelle loro repubbliche, le mandarono ad un totale disordine, e sì, da una perfetta libertà, le fecero cadere sotto una perfetta tirannide (la qual è piggiore eli tutte), ch'è l'anarchia, ovvero la sfrenata libertà de' popoli liberi. Al quale gran malore delle città adopera la provvedenza uno di questi tre grandi rimedi con quest'ordine eli cose umane civili. Imperciocché dispone, prima, eli ritruovarsi dentro essi popoli uno che, come Augusto, vi surga e vi si stabilisca monarca, il quale, poiché tutti gli ordini e tutte le leggi ritruovate per la libertà punto non più valsero a regolarla e tenerla-

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l popoli ÌOC!Ifi!ICÌ di gnuernarsi sar·anno uinti da altri miglian•i, secomlo il piano

prouuidenziale diuino

vi dentro in freno, egli abbia in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza dell'armi; ed al contrario essa forma dello stato monarchico, la volontà de' monarchi, in quel loro infinito imperio, stringa dentro l'ordine naturale di mantenere contenti i popoli e soddisfatti della loro religione e della loro natura! libertà, senza la quale universal soddisfazione e contentezza de' popoli gli Stati monarchici non sono né durevoli né sicuri. Dipoi, se la provvedenza non truova sì fatto rimedio dentro, il va a cercar fuori; e, poiché tali popoli di tanto corrotti erano già innanzi divenuti schiavi per natura delle sfrenate lor passioni (del lusso, della dilicatezza, dell'avarizia, dell'invidia, della superbia e del fasto) e per gli piaceri della dissoluta lor vita si rovesciavano in tutti i vizi propi di vilissimi schiavi (come d'esser bugiardi, furbi, calonniatori, ladri, codardi e finti), divengano schiavi per diritto natura! delle genti ch'esce da tal natura di nazioni, e vadano ad esser soggette a nazioni migliori, che l'abbiano conquistate con l'anni, e da queste si cònservino ridutte in provincie. Nello che pure rifulgono due grandi lumi d'ordine naturale: de' quali uno è che chi non può governarsi da sé, si lasci governare da altri che 'l possa; l'altro è che governino il mondo sempre quelli che sono per natura migliori.

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G. Vico, La Scienza nuova, pp. 701-703

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a questione del divino, del rappotto tra la Chiesa e il singolo uomo, tra la provvidenza, la storia e la società umana trovano in Pascal, Hobbes e Vic.o differenti risposte, entro contesti diversi di amilisi. Il tema della religione anima la riflessione di Pascal, ma permea in maniera diversa anche le opere politiche di Hobbes e l'interpretazione della storia di Vico. L'autorità ecclesiac stica ha costituito un problema concreto nelle filosofie di tutti questi autori e il confronto con la Bibbia è stato uno dei maggiori cimenti del loro pensiero. I testi qui ripmtati vogliono restituire soprattutto. le differenze nell'approccio, nei toni e negli scopi di Pascal, Vico e Hobbes. Pascal ha avversato qualsiasi riduzione della religione _ cristiana a strumento di potere. La distanza tra l'uomo e Dio, tra la società um~ma e la santità eli Cristo, tra la natura corrotta dell'uomo e quella integra prima del peccato è incolmabile se non dalla grazia, che Pascal, aderendo alla dottrina di Giansenio, rimette integralmente alla volontà divina. Vico è invece continuamente impegnato nella dimostrazione del manifestarsi nella storia e nella società umana della provvidenza, la quale riesce a sconfiggere nel tempo anche le azioni umane ad essa contrarie. La Scienza nuova è infatti una prova del senso provvidenziale della storia, è, nelle parole dell'autore, una «teologia civile". Viceversa Hobbes vuole dimostrare, Sacre Scritture alla mano, la subordinazione del potere religioso a quello civile, della Chiesa allo Stato. Lo fa rileggendo la Bibbia con una filologia razionalistica e materialistica, attenta ad ogni passaggio che consenta eli limitare l'intervento della religione nel mondo:

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Rembrandt, Mosè con le tavole della legge (part.), 1659, Berlino, Staatliche Museen.

Pascal: il giansenismo e la polemica contro i gesuiti L'incontro di Pascal col giansenismo avviene tra il1642 e il1645, negli anni trascorsi a Rouen. Ma solo nel 1654 egli avrebbe preso la definitiva decisione di abbandonare la vita mondana per ritirarsi a Port-Royal, presso la comunità giansenista che vi risiedeva. Tra il 1656 e il 1657 Pascal scrive le Lettere provinciali nelle quali, sotto lo pseudonimo di Louis de Montalte, risponde agli attacchi e alle condanne del giansenismo da parte delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche e dell'ordine dei gesuiti in particolare. L'opera di Pascal è costruita su di una finzione letteraria: la corrispondenza di Louis de Montalte con un amico che abita in provincia, che viene messo al corrente delle dispute religiose tra gesuiti e giansenisti. Il brano~, tratto dalla seconda lettera, affronta uno dei temi dottrinali su cui il giansenismo qualificava la sua interpretazione del cristianesimo, vale a dire la questione della grazia. La polemica di Pasca l si indirizza con arguzia verso le sottili distinzioni tra grazia sufficiente e grazia efficace, che dividevano tra di loro anche gesuiti e domenicani ~>11-17. A tale proposi-

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to Pasca! ha buon gioco nel mostrare come di fatto la posizione dei domenicani, giudicata ortodossa dai gesuiti, non differisca nella sostanza da quella dei giansenisti, che rimettono interamente alla volontà divina e non al libero arbitrio umano la grazia e la salvezza ~>118-32. l gesuiti sostengono invece che Dio abbia donato a tutti gli uomini una grazia sufficiente, che è nel potere del libero arbitrio di ciascuno rendere effettiva ~>132-45. l domenicani ritengono invece che senza un'ulteriore grazia divina, la grazia sufficiente rimanga inefficacie ~>146-66. 1 giansenisti, sbarazzandosi d'un sol colpo di tutte queste distinzioni, concordano coi domenicani nel ritenere la salvezza dell'uomo un dono esclusivo di Dio ~>167-80.

Secondo i !Jillluiti, tutti gli uomini godono di una grazia sufficiente, che illihei'IJ au•bitl•io può rendere efficace

Secondo i giansenisti, la grazia sufficiente è anche efficace in quanto diuinn

i domenicani l'itengono che Dio doni a tutti una grazia sufficiente, ma solo ad alcuni In grazia efficace

Signore 1 , mentre chiudevo la lettera che vi ho scritta, ricevetti la visita del signor N, nostro vecchio amico: eccellente occasione per soddisfare la mia curiosità, perché è molto informato delle odierne controversie e conosce alla perfezione il segreto dei Gesuiti, dai quali si trova ogni ora, avendo contatti con i principali. Dopo aver parlato della faccenda che lo aveva condotto da me, lo pregai di dirmi in poche parole quali siano i punti dibattuti tra i due partiti. [... ] Per dirla in breve, appresi che il loro contrasto, riguardo alla grazia sufficiente, sta in questo: che i Gesuiti pretendono che ci sia una grazia data generalmente a tutti, soggetta al libero arbitrio di modo che esso la rende a sua scelta efficace o inefficace, senza alcun altro ausilio di Dio e senza che da parte sua nulla manchi per agire effettivamente: ragion per la quale essi la chiamano 'sufficiente', perché basta da sola per agire. Mentre i Giansenisti pretendono, al contrario, che non ci sia nessuna grazia attualmente 'sufficiente' che non sia anche 'efficace'; ossia, che tutte le grazie che non determinano la volontà ad agire effettivamente sono insufficienti per agire, perché essi dicono che non si agisce mai senza 'grazia efficace'. Ecco dove sta il loro contrasto. M'informai allora della dottrina dei nuovi Tomisti2. «Essa è bizzarra - mi disse costui.- Costoro sono d'accordo con i Gesuiti nell'ammettere una grazia sufficiente data a tutti gli uomini. Ma sostengono nondimeno che gli uomini non agiscono mai con questa sola grazia; e che, per farli agire, occorre che Dio conceda loro una grazia efficace, che determini realmente la volontà all'azione, grazia ch'egli non dà a tutti. - Dimodoché, secondo tale dottrina- gli dissicodesta grazia è sufficiente senza esser tale. -Appunto: perché, se essa basta, non ne occorre nessun'altra per agire; e se non basta, non è sufficiente. - Ma -ripresi- che differenza c'è, dunque, tra costoro e i Giansenisti?- Che per lo meno i Domenicani, han di bnono questo: che non tralasciano di dire che tutti gli Ùomini hanno la grazia sufficiente. - Capisco, - risposi - ma lo dicono senza pensarlo, dacché aggiungono che, per agire, è necessario avere una grazia efficace, la quale non è concessa a tutti. Così, se essi sono conformi ai Gesuiti per un termine senza senso, sono loro contrari, e conformi ai Giansenisti, nella sostanza della cosa. - È vero. - Ma perché mai - ripresi - i Gesuiti sono alleati con loro? e non li combattono quanto i Giansenisti, giacché avranno sempre in loro potenti avversari, i quali, sostenendo la necessità della grazia efficace che determina, impediranno loro eli far trionfare quella che voi dite che vogliono sia soltanto sufficiente?

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ll. Pasca\ apre la sua lettera rivolgendosi al suo immaginario corrispondente, che risiede in provincia.

2. Sono i domenicani, come spiega di seguito Pasca!.

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La grazia efficace dei domenicani coincide con In grazia sufficiente dei gim1stmisti

Una critica ai r.alllilli sottili dei teologi

-Debbono guardarsi bene dal farlo,- mi rispose.- Bisogna trattare con maggior riguardo coloro che nella Chiesa sono potenti. I Gesuiti si appagano di aver guadagnato su loro questo punto: che per lo meno ammettono il termine di 'grazia sufficiente', pur intendenclolo a loro modo. Hanno così questo vantaggio: che possono, quando vogliono, far passare come ridicola e insostenibile l'opinione dei Domenicani. Infatti, una volta supposto che tutti gli uomini abbiano grazie sufficienti, nulla è più facile che conCluderne che la grazia efficace non è necessaria, dacché la sua necessità escluderebbe la sufficienza supposta. Ammisi con lui che eran molto abili; e, per profittare del suo consiglio, mi recai direttamente dai GiacobinP', alla porta dei quali trovai uno dei miei buoni amici, gran Giansenista, perché io ne ho in tutti i partiti, il quale cercava eli un Padre che non era quello che cercavo io. Ma, a furia di pregarlo, lo convinsi ad accompagnarmi; e domandai uno dei miei nuovi Tomisti. Costui fu felice di rivedermi. "Ebbene, Padre, - gli dissi - [... ] code~ta grazia concessa a tutti è 'sufficiente'?- Sì- mi rispose.- E tuttavia non sortisce nessun effetto senza la grazia 'efficace'?- È vero.- E, mentre tutti gli uomini hanno la grazia 'sufficiente', non tutti hanno quella 'efficace'? - È vero. - Ossia: di grazia tutti ne hanno a sufficienza, e tutti non ne hanno a sufficienza. Vale a dire, tale grazia basta, sebbene non basti: è cioè sufficiente di nome, insufficiente di fatto. In fede mia, Padre, codesta dottrina è davvero sottile. Avete forse dimenticato, lasciando il mondo, quel chè vi significa la parola 'sufficiente'? Non vi rammentate ch'essa implica tutto quanto è necessario per agire? Ma voi non ne avete smarrito la memoria: perché, per servirmi d'un paragone che vi sarà più chiaro, se a desinare vi dessero ogni giorno soltanto due once di pane e un bicchier d'acqua, sareste forse contento del vostro Priore, se vi dicesse che ciò è sufficiente a nutrirvi, col pretesto che, con qualche altro cibo che non vi dà, avreste tutto quanto vi sarebbe necessario per nutrirvi? Come vi permettete allora eli dire che tutti gli uomini hanno la grazia sufficiente per agire, dacché riconoscete che ce n'è un'altra assolutamente necessaria, che non tutti hanno? Forse che il crederlo è poco importante, e lasciate liberi gli uomini eli credere o no nella necessità della grazia efficace? Ed è forse indifferente dire che, con la grazia sufficiente, si agisce effettivamente? - Come! - disse quel buon uomo - Indifferente? E un'eresia, un'eresia formale. La necessità della 'grazia efficace' per agire è un articolo di fede: negarlo è un 'eresia. - Come stanno le cose, allora? - esclamai. - E qual partito debbo prendere? Se nego la 'grazia sufficiente', sono Giansenista. Se l'ammetto, come i Gesuiti, in guisa che la 'grazia efficace' non sia più necessaria, sono, a vostro giudizio, eretico. E se l'ammetto come voi, sostenendo la necessità della 'grazia efficace', pecco contro il senso comune, e sono uno stravagante, dicono i Gesuiti. Che cosa debbo fare, dunque, in questa necessità inevitabile di essere stravagante o eretico o Giansenista? E a che siamo ridotti, se soltanto i Giansenisti non sono in contrasto né con la fede né con la ragione, e si salvano a un tempo dalla in~:>ania e dall'errore?».

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3>. Era il nome con cui a Parigi si indicavano i domenicani, dal luogo in cui era situato il loro convento: Rue Saint-Jacques.

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Nel brano IlE, tratto dalla sesta lettera, l'autore finge di riportare il resoconto di un dialogo con un anonimo padre gesuita, mettendo in ridicolo la morale rilassata dell'ordine, la cosiddetta casistica, al fine di denunciare la trasformazione della fede da strumento di salvezza a mezzo di potere e di controllo della società. Il gesuita afferma che la tolleranza verso alcuni comportamenti dipende dall'esigenza di adeguarsi ai costumi di una società moderna, sempre più lontana dalla Chiesa: quest'ultima deve cercare di accogliere tutti, adeguandosl, se necessario, a una moralità meno intransigente ~>11-13. Nel trattare e considerare i peccati, il confessore gesuita valuta cosl i differenti tipi e classi sociali di persone, le loro condizioni economiche, il loro stato civile ecc. ~>-113-18. Di seguito, trattando il caso dei beneficiari, il brano dà un esempio della sottigliezza e della fondamentale ipocrisia che nasconde la casistica gesuita. Autorevoli esponenti della compagnia sono capaci di difendere l'indifendibile, soprattutto quando entrano in gioco privilegi e posizioni di potere. Secondo le loro sottili argomentazioni e distinzioni, persino la simonia, ossia la compravendita di benefici ecclesiastici, non può essere ritenuta immorale se il denaro precede e non segue l'acquisizione del beneficio ~>118-39.

La natura e la grauitiì del peccato um•iano 11 dipendono dai casi

La morale cambia a sem.mda del ceto e della condizione sociale del peccatore

«Ahimè!- rispose il padre 1 - il nostro scopo principale sarebbe stato di non stabilire ~altre massime che quelle del Vangelo in tutta la sua severità; e dal regolamento dei nostri costumi si vede bene che se noi tolleriamo qualche rilassamento negli altri è piuttosto per condiscendenza che per piano prestabilito. Ci siamo costretti. Gli uomini sono oggi tanto corrotti, che, non potendoli far venire a noi, bisogna che siamo noi ad andare loro incontro: altrimenti essi ci abbandonerebbero; peggio ancora, si lascerebbero andare completamente. È per trattenerli che i nostri casuisti2 hanno presi in considerazione i vizi cui la gente di ciascuna condizione è più attaccata, per stabilire delle massime così dolci - senza tuttavia offendere la verità - che per non esserne contenti si dovrebbe essere di ben difficile contentatura; infatti il progetto fondamentale della nostra Società per il bene della religione è di non respingere nessuno per non far disperare la gente. Abbiamo dunque massime per persone di ogni tipo, per i beneficiari, per i preti, per i religiosi, per i nobili, per i domestici, per i ricchi, per coloro che sono in commercio, per coloro i cui affari vanno male, per quelli che sono nell'indigenza, per le donne devote e per quelle che non lo sono, per le persone sposate e per quelle che conducono una vita dissipata. Insomma, nulla sfugge alla nostra previdenza." «Vale a dire, - gli dissi - che ce n'è per il clero, la nobiltà e il terzo stato. Ho proprio voglia di sentire." «Co. minciamo,- disse il padre,- dai beneficiari3 . Sapete quale traffico si faccia oggi dei benefici, tanto che, se si stesse a quello che hanno scritto san Tommaso e gli antichi, ci sarebbero moltissimi simoniaci nella Chiesa. Perciò è stato assolutamente necessario che i nostri padri temperassero le cose con la loro prudenza, come vi insegneranno queste parole di Valentia4 [. . .l. È la conclusione di un lungo discorso in cui insegna parecchi espedienti, di cui, secondo me, questo è il migliore. È a p. 2039 del t. III: "Se si dà un bene temporale per un bene spirituale", cioè del denaro per un beneficio, "e si dà il denaro come prez-

1. L'anonimo padre gesuita della finzione letteraria. 2. Gli esperti eli èasistica.

3. Ecclesiastici titolari eli un beneficio e eli una carica. 4. Gregorio de Valentia (1551-1603), teologo gesuita.

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La sottogiiezza dei !JIISIIÌtÌ può giungere persino anegal'll il peccato di simonia

zo del beneficio, è simonia palese. Ma se lo si dà come motivo che induca il beneficiario a conferirlo, non c'è punto simonia, anche se colui che lo conferisce consideri e aspetti il denaro come fine principale. Tannero 5 che è anche lui della nostra Società, dice la stessa cosa nel suo t. III, p. 1519, sebbene confessi "che san Tommaso vi è contrario, poiché insegna perentoriamente che è sempre simonia il dare un bene spirituale per uno temporale, se il bene temporale ne è lo scopo". Con questo mezzo noi impediamo una infinità di simonie. Infatti chi potrebbe essere tanto malvagio da rifiutarsi, sborsando del denaro per un beneficio, di portare la sua intenzione sul darlo come motivo che induca il beneficiario a cederglielo, invece di darlo come prezzo del beneficio? Nessuno è abbandonato da Dio fino a questo punto." «Sono d'accordo,- dissi - chi tutti hanno grazie sufficienti per fare un tale mercato.»

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B. Pasca!, Le provinciali, pp. 58-59

Hobbes: la subordinazione della Chiesa allo Stato Il brano proposto~ è tratto dal Leviatano di Hobbes e mostra inizialmente come la parola «Chiesa» abbia nelle Sacre Scritture diversi significati, ma che propriamente indichi la congregazione o l'assemblea dei cittadini, assumendo lo stesso significato che il termine ecclesfa aveva nelle p6/eis greche 1>11-20. La Chiesa appare così subordinata al potere del magistrato civile e non un organo indipendente o autonomo, se non ponendosi come un'assemblea illegittima, non autorizzata ~121-48. Sulla base di questa interpretazione, secondo Hobbes, non può esistere una Chiesa cristiana universale, perché non esiste di fatto un potere civile così esteso da riunire tutti gli Stati cristiani ~149-54. In ciascuno di essi, il Sovrano, il detentore del potere temporale, è dunque legittimamente anche il capo del potere spirituale, ossia il supremo magistrato della Chiesa cristiana ~154-66. Hobbes indica infine il pericolo al quale va incontro lo Stato che non sottopone il potere spirituale a quello temporale: la società civile può dividersi in fazioni, da una parte sostenitori della Chiesa, dall'altra i difensori del potere statale, col rischio di degenerare in una guerra distruttiva dello Stato ~166-77.

Il significato della parola e«Chies!l>>

La parola Chiesa (Ecclesia) nei libri della Sacra Scrittura significa diverse cose. Qualche volta (ma non spesso) viene presa come casa di Dio, cioè come tempio nel quale i cristiani si riuniscono per compiere pubblicamente i doveri sa. cri, come in I Corinzi 14.34: «Le vostre donne mantengano il silenzio nelle chiese". Il termine è, tuttavia, usato metaforicamente invece che nel senso di congregazione lì riunita; ed è stato da allora usato per indicare l'edificio stesso, al fine di distinguere i templi dei cristiani da quelli degli idolatri. Il tempio di Gerusalemme era la casa di Dio e la casa della preghiera; e tale è, ossia casa di Cristo, ogni edificio dedicato dai cristiani al culto di Cristo: Pertanto i padri greci la KuptaKi), casa del Signore; onde nella nostra lingua venne ad essere chiamata Kyrke e Church.

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5. Adamo Tanner (1572-1632), gesuita.

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La Chiesa Ìl subo1·diuata alpote&•e delm,..••i..t••,..tn

ciuile

Chiesa (quando non è intesa come casa) significa la stessa cosa che Ecclesia significava negli Stati greci, cioè una congregazione o assemblea di cittadini convocati per ascoltare un discorso del magistrato; discorso che, nello Stato di Roma, era chiamato Concio, come colui che parlava veniva chiamato Ecclesiastes o Concionator. Quando erano convocati da un'autorità legittima, si trattava di un'Ecclesta legitima - di una Chiesa legittima, EVO/-loç 'E1cK:À.TjO"ta -; mentre, quando venivano eccitati da un clamore tumultuoso e sedizioso, si trattava di una Chiesa confusa,' EKK:À.TjO"ta O"U)'K:8XWÉV1l (Atti, 19.39). [Chiesa] viene qualche volta presa anche per designare gli uomini che hanno diritto di far parte della congregazione ancorché non di fatto riuniti; vale a dire l'intera moltitudine dei cristiani, per quanto dispersi possano essere: come dove si elice che «Paolo si accaniva contro la Chiesa, (Atti 8.3), e in questo senso Cristo è detto essere Capo della Chiesa. Qualche volta [è intesa] come una certa parte dei cristiani, come in Colossesi 4.15: «Salutate la Chiesa che è in casa sua". Qualche volta anche come i soli eletti, come in Efesini 5.27: «Una Chiesa gloriosa, senza macchia o ruga, santa e immacolata»; il che si riferisce alla Chiesa trionfante o Chiesa avvenire. Qualche volta come congregazione riunita di persone che professano il Cristianesimo - vera o contraffatta che sia la loro professione-, come viene intesa in Matteo 18. 17, dove si dice: «Dillo alla Chiesa, e se disdegnerà di ascoltare la Chiesa, sia per te come un gentile o un pubblicano», Ed è in quest'ultimo senso soltanto che la Chiesa può essere intesa come un'unica persona; cioè, che si può dire che essa abbia il potere di volere, di pronunciarsi, di comandare, di essere obbedita, di fare leggi, o di compiere qualsiasi altra azione. Infatti, qualsiasi azione venga compiuta in un'àclunanza di individui, se priva dell'autorità derivante da una congregazione legittima, resta l'atto particolare di ciascuno di coloro che erano presenti e che hanno dato il loro contributo al suo compimento, e non è l'atto di tutti complessivamente, come costituenti un solo corpo; ancor meno l'atto eli coloro che erano assenti o che, pur essendo presenti, non erano favorevoli a compierlo. Conformemente a questo significato, definisco CHIESA una società di uomini professanti la religione cristiana, uniti nella persona di un unico sovrano, al cui co-

mando debbono riunirsi in assemblea e senza la cui autorizzazione non debbono riunirsi in assemblea. E, poiché in tutti gli Stati è illegittima quell'assem-

Non esiste una Chiesa llllÌIII!I'SIIIi! !Uillll!l'illlrl!

ai singoli Stati Slllll'llili

i.

blea che sia priva dell'autorizzazione del sovrano civile, anche quella Chiesa, che si riunisca in assemblea in uno Stato che le abbia proibito di riunirsi, è un'assemblea illegittima. Segue anche che non c'è sulla terra alcuna Chiesa universale alla quale tutti i cristiani siano tenuti a obbedire, dal momento che non c'è alcun potere sulla terra al quale siano soggetti tutti gli altri Stati. Vi sono cristiani nei domini eli parecchi principi e Stati, ma ciascuno di loro è soggetto a quello Stato di cui egli stesso è membro; e, conseguentemente, non può essere soggetto ai comandi di alcun'altra persona. Pertanto una Chiesa che sia nella condizione di poter comandare, giudicare, assolvere, condannare, o di compiere un qualsiasi altro atto, è la stessa cosa di uno Stato civile costituito da cristiani; ed è chiamata Stato civile, in quanto i suoi sudditi sono uomini, e Chiesa, in quanto i suoi sudditi sono cristiani. Governo temporale e governo spirituale sono solo due parole introdotte nel mondo per far sì che gli uomini vedano doppio e commettano errori nel riconoscere il .loro legittimo sovrano. Vero è che i corpi dei fedeli saranno, dopo la resurrezione, non solamente spirituali ma anche eterni; ma in questa vita sono grossolani e corruttibili. Perciò, in que-

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La divisione

tra 110tm•e spirituale epotel'lll tempm·ale è causa soltanto di fazioni e guerre civili

sta vita, non c'è altro governo, né dello Stato né della religione, fuori eli quello temporale; né insegnamento eli alcuna dottrina, che colui che governa sia lo Stato sia la religione abbia proibito che sia insegnata, cui sia lecito a qualunque suddito di aderire. Questo governante deve essere unico; in caso contrario debbono necessariamente seguire, nello Stato, le fazioni e la guerra civile, fra Chiesa e Stato, fra spiritualisti e temporalisti, fra la spada della giustizia è lo scudo della fede, e (quel che è più g1;ave), nel cuore eli ogni cristiano, fra il cristiano e l'uomo. I dottori della Chiesa sono chiamati pastori; e così son chiamati anche i sovrani civili, ma se i pastori non sono subordinati l'uno all'altro, in modo che ci sia un pastore supremo, agli uomini saranno insegnate dottrine contrarie, delle quali entrambe possono essere false e una deve esserlo necessariamente. Chi sia, secondo la legge di natura, quest'unico supremo pastore è stato già mostrato: egli è, precisamente, il sovrano civile; vedremo nei capitoli seguenti a chi la Scrittura abbia assegnato questo ufficio.

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Th. Hobbes, Leviatano, pp. 379-381

Nel brano ~' sempre tratto dal Leviatano, Hobbes discute le tesi del cardinal Bellarmino (Roberto Bellarmino, 1542-1621) sul potere temporale del papa. HobbEts respinge in linea di principio la possibilità che il potere di un capo religioso sia di tipo politico, ossia coercitivo ~>-1111. Il compito della religione cristiana è infatti di annunciare la prossima venuta del regno di Cristo. Ma il regno di Cristo non è ancora di questo mondo; e in questo mondo illegittimo e unico detentore del potere politico non può che essere il magistrato civile, la cui autorità deriva dal patto col quale gli uomini hanno abbandonato lo stato di natura ~>112-27. Compito della religione cristiana è di preparare l'uomo in attesa dell'arrivo del regno di Cristo; non è compito del ministro di Cristo costringere alla fede, né punire chi non crede ~>/28-47.

Il potere ecclesiastico rum è un pute1·e

CIU!I'citivu, politico, come invece vorrebbe il cardinale Bellarminu

Il cardinale Bellarmino, nella sua terza controversia generale, ha trattato un gran numero eli questioni relative al potere ecclesiastico del papa eli Roma e inizia con questa: se tale potere debba essere monarchico, aristocratico o democratico. Sono tutti tipi eli potere sovrano e coercitivo. Ora, se fosse chiaro che nessun potere coercitivo è stato lasciato loro dal nostro Salvatore, ma solo il potere eli proclamare il regno eli Cristo e di persuadere gli uomini a sottomettervisi, eli insegnare con precetti e buoni consigli, a coloro che si sono so ttomessi, cosa debbano fare per essere accolti nel regno eli Dio quando verrà, e che gli Apostoli e gli altri ministri del Vangelo sono i nostri maestri, non i nostri capi, e i loro precetti non sono leggi ma consigli salutari, allora tutta questa disputa sarebbe vana. Ho già dimostrato (nel capitolo precedente) che il regno eli Cristo non è di questo mondo; perciò neppure i suoi ministri (a meno che siano re) possono esigere obbedienza in suo nome. Infatti, se il re supremo non esercita il suo potere regale in questo mondo, con quale autorità si può pretendere obbedienza ai suoi ufficiali? Come mio Padre ha mandato me (così elice il nostro Salvatore), io mando voi. Ma il nostro Salvatore fu mandato per convincere gli Ebrei a far ritorno al regno del Padre suo e per invitare i Gentili a ricevere tale regno, non per regnare in maestà, neppure come luogotenente del Padre suo, avanti il giorno del Giudizio.

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Il m•istionesimo 11011 Cll!lti'ÌniJI.l

o credere, lumsì invito a prlllllirnrsi Ili regno di mn

Non si puiì punire

lo c•·edenza, 1111 pensiei'D, ma solo l'azione contrario alla legge

Il tempo che intercorre tra l'ascensione e la resurrezione generale non è chiamato regno ma rigenerazione, vale a dire preparazione degli uomini alla seconda e gloriosa venuta di Cristo, nel giorno del Giudizio. Ciò è evidente dalle parole del nostro Salvatore (Matteo 19.28): «Voi che mi avete seguito nella dgenerazione, quando il Figlio dell'uomo siederà sul trono della sua gloria, anche voi siederete su dodici troni"; e da quelle di san Paolo (Ejesini 6.15): «Avendo i piedi calzati della preparazione del Vangelo di pace". Questo tempo è paragonato dal nostro Salvatore alla pesca, vale a dire al conquistare gli uomini all'obbe!=lienza, non con la coercizione e la punizione ma con la persuasione; e perciò non disse ai suoi Apostoli che avrebbe fatto di loro altrettanti Nemrod, cacciatori di uomini, ma pescatori di uomini. È anche paragonato al lievito, alla semina e alla moltiplicazione di un granello di seme di senape; tutto ciò esclude la costrizione e, di conseguenza, non vi può essere in quel tempo alcun regno effettivo. Compito dei ministri di Cristo è evangelizzare, vale a dire proclamare il Cristo e preparare la sua seconda venuta, allo stesso modo in cui l'evangelizzazione di Giovanni Battista fu una preparazione alla sua prima venuta. E ancora: l'ufficio dei ministri di Cristo in questo mondo è di far sì che gli uomini credano e abbiano fede in Cristo. Ma non esiste relazione, né dipendenza alcuna, tra fede, costrizione e comando; la fede si fonda unicamente sulla certezza o sulla probabilità di argomenti tratti dalla ragione o da qualcosa in cui gli uomini già credono. Perciò in questo mondo i ministri di Cristo non hanno, in quanto tali, il potere di punire qualcuno perché non crede o contraddice ciò che essi dicono; dico che, dall'essere ministri di Cristo, non deriva loro alcun potere di punire: ma se, per istituzione politica, detengono il potere civile sovrano, allora possono senZ'altro punire legittimamente ogni opposizione a una qualsiasi loro legge.

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Th. Hobbes, Leviatano, pp. 403-404

Vico: storia umana e prowidenza divina Il brano~ è tratto dal primo libro della Scienza nuova di Vico e intende mostrare la coincidenza tra storia e teologia civile. Secondo l'autore la provvidenza di Dio, che finora i filosofi hanno voluto ricercare soprattutto nello studio della natura, mostra i suoi più evidenti segni nell'ambito del mondo civile, ossia dei prodotti storici dell'umanità. Anticamente, gli epicurei hanno creduto al caso, gli stoici a un destino cieco e inesorabile: entrambi hanno errato, non capendo che il mondo civile è frutto sia di Dio che dell'uomo e che la storia è proprio il terreno in cui trovano esecuzione in maniera manifesta l'azione della provvidenza e quella degli uomini ~>11-1 O. La provvidenza divina è riferibile tanto all'ordine fisico che domina la natura creata, quanto all'ordine civile, emerso nella storia delle umane istituzioni civili. Riflettendo sull'etimologia del termine «divino», il riferimento della provvidenza alla storia umana appare a Vico ancor più originario del riferimento alla natura. «Divino», osserva Vico, deriva, infatti,-da divinari, «indovinare», che significa conoscere ciò che è ignoto, nascosto agli uomini, vale a dire il loro futuro, predisposto da Dio e da essi eseguito ~>11 0-21. Divina è dunque anche questa capacità della coscienza umana di mediare tra il finito, il temporale e l'eterno, l'inifinito ~>122-29. Che vi sia una provvidenza a guidare le nazioni secondo ;.'1~.'---------------------'--------------------------

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schemi comuni e idee uniformi è così evidente da mostrare l'assurdità dell'ipotesi epicurea del caso. Ma che gli uomini siano soggetti attivi nell'eseguire i disegni generali è una prova della falsità anche della cieca necessità con cui gli stoici hanno interpretato l'azione della provvidenza ~130-40.

la scienza nuo11a il una teologia r.iuile, perché nel corso delhi sto1•ia è leggibile In presenza di 1111 segno della IJI'DIIIIidenzn

La sapienza e In lu:ml:à infinite di Ilio sono colte nello studio dei costumi uma11i

Perciò questa Scienza, per uno de' suoi principali aspetti, dev'essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina. La quale sembra aver mancato finora, perché i filosofi o l'hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei, de' quali questi dicono che un concorso cieco d'atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d'effetti strascina le faccende degli uomini; o l'hanno considerata solamente sull'ordine delle naturali cose, onde «teologia naturale", essi chiamano la metafisica, nella quale contemplano questo attributo di Dio, e 'l confermano con l'ordine fisico che si osserva ne' moti de' corpi, come delle sfere, degli elementi, e nella cagion finale sopra l'altre naturali cose minori osservata. E pure sull'iconomia delle cose civili essi ne dovevano ragionare con tutta la propietà della voce, con la quale la provvedenza fu appellata «divinità, da «divinari", «indovinare", ovvero intendere o 'l nascosto agli uomini, ch'è l'avvenire, o 'l nascosto degli uomini, ch'è la coscienza; ed è quella che propiamente occupa la prima e principal parte del subietto della giurisprudenza, che son le cose divine, dalle quali dipende l'altra che 'l compie, che sono le cose umane. Laonde cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per così dire, di fatto istorico della provvedenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del gener umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini ch'ella v'ha posto sono universali ed eterni. Per tutto ciò, entro la contemplazione di essa provvidenza infinita ed eterna questa Scienza ritruova certe divine pruove con le quali si conferma e dimostra. Imperciocché la provvedenza divina, avendo per sua ministra l'onnipotenza, vi debbe spiegar i suoi ordini per vie tanto facili quanto sono i naturali costumi umani; perc'ha per consigliera la sapienza infinita, quanto vi dispone debbe essere tutto ordine; perch'ha per suo fine la sua stessa immensa bontà, quanto vi ordina debb'esser indiritto a un bene sempre superiore a quello che si han proposto essi uomini. Onde la propia continua pruova che qui farassi sarà il combinar e riflettere se la nostra mente umana, nella serie de' possibili la quale ci è permesso d'intendere, e per quanto ce n'è permesso, possa pensare o più o meno o altre cagioni di quelle ond'escono gli effetti di questo mondo civile. Lo che faccenda, illeggitore pruoverà un divin piacere, in questo corpo mortale, di contemplare nelle divine idee questo mondo eli nazioni per tutta la distesa de' loro luoghi, tempi e varietà; e truoverassi aver convinto eli fatto gli epicurei che 'l loro caso non può pazzamente divagare e farsi per ogni parte l'uscita, e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con la qual vogliono avvinto il mondo, ella penda dall'onnipotente, saggia e benigna volontà dell'Ottimo Massimo Dio.

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G. Vico, Del metodo, in La Scienza nuova, libro I, pp. 241-243

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LA NUOVA ANTROPOLOGIA POST•UMANISTICA

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RIPENSIAMO INSIEME

La voce del contemporaneo ~

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Luigi Pirandello mostra, con ironica drammaticità, l'effetto irreversibile della ferita narcisistica procurata all'uomo dal copernicanesimo: dopo Copernico, l'uomo non è più infatti al centro dell'universo e la sua storia non è niente di dissimile, né di più grandioso delle storie e delle vicende che riguardano «vermucci», Antropocentrismo e finalità della natura vengono degradati a meri pregiudizi umani. Su questi temi elabora una sintesi delle conoscenze finora acquisite, Proponi un confronto tra la conceziDne antropologica rinascimentale di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola e quella post-umanistica di Blaise Pasca!: qual è il diverso rapporto uomo-mondo e uomo-Dio che esse profilano? Quale diversa concezione della condizione umana dipingono? Su quali strumenti e fonti fondano le loro opposte analisi?

~ Prova a raccogliere tutti gli aspetti della filosofia di

Pascal che si presentano come chiaramente anticartesiani, In 12 righe, ~ Spiega cosa sia il criterio del verum factum e rias-

sumi la posizione epistemologica di Hobbes, discutendo le seguenti coppie oppositive: induzione/deduzione; empirismo/innatismo; a priori/a posteriori. Illustra dunque il rapporto tra scienza e linguaggio, per come esso si articola nella geometria e nella fisica. In 1 pagina di foglio protocollo, ~

Spiega come si produce secondo Hobbes una volizione, Prova a servirti di esempi da te elaborati. In 1O righe,

~

Cosa differenzia il giusnaturalismo tradizionale dal giusnaturalismo moderno? E quali sono le originalità del giusnaturalismo di Hobbes? In 1 pagina di foglio protocollo,

~ Spiega l'origine e l'effetto del contratto che gene-

ra, nella teoria di Hobbes, lo Stato, il Leviatano, In 8 righe,

Lo sguardo della tradizione

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Qual è il contributo di Pascal alla questione del metodo della scienza? Ossia, come si inserisce c'riticamente il suo apporto entro le riflessioni di Descartes, Galileo, Bacon? In 8 righe.

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Scienze storiche e scienze della natura; arti liberali e arti meccaniche, Quale opinione esprime Pascal su questi temi nella Prefazione al Trattato sul vuoto? In 5 righe.

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ll:lf'fl Come risolve Hobbes il problema del rapporto tra

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Illustra la posizione di Pascal e dei giansenisti sulla questione della libertà umana e della grazia. In 8 righe, Per rispondere leggi anche il brano l1iilil a p, 390 Cosa significa conoscere col cuore? Cosa conosciamo col cuore? Ein quale rapporto questo genere di conoscenza si trova con la ragione? Rispondi spiegando e commentando il passo di Pascal a p, 317 del profilo, Leggi il passo dai Pensieri di Pascal riportato a p, 318 e spiega la metafora della «canna pensante», In 5 righe.

potere temporale e spirituale? Per rispondere confonta direttamente anche le parole dell'autore in ~.~p, 393 sgg, ~

Quali eccezioni solleva Vico al metodo cartesiano nella settima orazione, De nostri temporis studiorum ratione?

~

Su quali basi epistemologiche Vico critica le concezioni della scienza di Galielo e Bacon nel De antiquissima lta/orum sapientia?

~ Qual è il rapporto tra agire umano, storia dei popoli

e azione della provvidenza secondo Vico? Quali sono gli interlocutori polemici dell'autore al riguardo? In 8 righe. ~ Riassumi le principali caratteristiche delle tre età

della storia nella concezione vichiana, ~ Metti a confronto lo stato di natura hobbesiano col racconto dei bestioni e dei primi uomini di Vico, Vi sono analogie? E differenze?

La parola ai filosofi

Prova a pensare da solo

fZ'~ Dopo aver letto il brano di Pascal ~ p. 363 del

Elabora una breve trattazione delle seguenti questioni, esprimendo le tue personali valutazioni in riferimento alle posizioni concettuali espresse dai filosofi trattati nell'unità:

tema «L'uomo», spiega quale rapporto lega la distrazione, la noia, la miseria e la grandezza dell'uomo al mistero cristiano del peccato originale. In 1O righe. ~~CfB Dopo aver letto il brano liEil p. 366 del tema «L'uo-

mo», spiega come Hobbes ricavi dalla coppia base piacere/dolore passioni più complesse, come amore, odio, appetito, felicità ecc. ~""illl Cos'è la ragione umana secondo Hobbes? Rispon-

di riassumendo il testo 1/ii!JJ a p. 367 del tema «L'uomo». l'L~ Ricostr·uisci il significato del motto vichiano lavis

omnia piena («tutte le cose sono piene di Giove»), analizzando il brano~ del tema «L'uomo», p. 369. ~ Sulla scorta del brano di Pascali!im p. 373 del te-

ma «Scienza della natura e scienza dell'uomo», enuclea tutte le caratteristiche che si addicono a uno spirito di finezza e quelle proprie dello spirito di geometria.

r&:'F In che senso, secondo Hobbes, la fisica è una scienza mista? Di quali dimostrazioni a priori, questa scienza è passibile? E perché? Rispondi analizzando il brano di Hobbes l!i:a a p. 375 del tema «Scienza della natura e scienza dell'uomo». [i"''l'iìJ

Es.) del Saggio sull'intelletto umano, che gli impegni politici non gli permettono però di terminare. Solo durante gli anni della sua forzata permanenza in Francia (1675-1679) per motivi eli salute, Locke riprende gli studi e il suo ambizioso progetto filosofico, senza tuttavia ancora completarlo.

la Gloriosa Riuoluzhmo e ilt•itorno inputria

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L'esiliK», il rientro in patrio:u, la morte • Nel 1679 Locke ritorna a Londra con Lord Ashley, il quale è nominato Presidente del Consiglio del Re, nonostante la sua appartenenza al partito dei Whigs, attestato su posizioni critiche nei confronti della politica assolutista della Corona. Negli anni successivi si inasprisce la lotta fra i Tories, che sostenevano la successione del cattolico Giacomo Stuart, fratello ed erede eli Carlo II, e i Whigs, invece contrari a tale eventualità, al punto che, nel 1682, Lorcl Ashley, promotore di un'insurrezione antimonarchica, è accusato di cospirazione e costretto a rifugiarsi in Olanda. L'anno dopo, sentendosi ormai insicuro in patria, anche Locke, che dal 1680 aveva ripreso l'attività di insegnante ad Oxford, decide di lasciare l'Inghilterra per l'Olanda, ormai divenuto il paese rifugio dei dissidenti e dei cospiratori politici inglesi. Qui Locke riuscirà a comporre i Due trattati sul governo e a scrivere finalmente gran parte del Saggio, che già nel 1688 compare riassunto in una rivista francese. L'anno successivo, con la Gloriosa Rivoluzione sale al trono d'Inghilterra Guglielmo d'Orange (1689-1702), in nome della libertà, della religione protestante e del Parla-

mento. Tornato a Londra al seguito del nuovo sovrano, di origine olandese, Locke ha finalmente la possibilità di pubblicare e curare le edizioni delle opere scritte durante l'esilio e di conoscere Isaac Newton (1642-1727). Due anni più tardi, nel 1691, a causa delle precarie condizioni fisiche, per l'aggravarsi della sua vecchia malattia asmatica, si ritira dalle cariche pubbliche; lascia la città per trasferirsi in campagna. Morirà a Oates nella contea dell'Essex nel 1704.

2.

Finalità del Saggio sull'intelletto umano

L'origine della conoscenza l'intelletto osserva se stesso • Venti anni di travagliata e impegnata riflessione trovano compimento nella prima edizione (1689, ma postdatata al1690) del capolavoro di Locke, il Saggio sull'intelletto umano (Essay on Human Understanding), alla quale seguiranno altre tre edizioni, durante i restanti anni di vita, ricche di aggiunte, correzioni e precisazioni. Lo scopo dell'opera, dichiarato fin dall'Introduzione, è chiaro e ambizioso, presentandosi come il risultato di un'indagine complessiva sui fondamenti del sapere umano, ovvero indagare l'origine, l'indubitabilità e la vastità della conoscenza umana, { . .}i fondamenti e i gradi della credenza, dell'opinione e dell'assenso. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 31

L'oggetto di studio

Il metodo

Oggetto di studio del Saggio, come annunciato dal titolo stesso, è l'intelletto, da Locke definito il potere che la mente umana ha di conoscet·e, ossia di percepire idee. Il metodo proposto dall'autore è ispirato alla pratica sperimentale di Boyle e intende indagare l'intelletto sospendendo il giudizio su ipotesi non confermate dall'osservazione. Mediante l'introspezione, ossia l'osservazione interiore, l'intelletto deve dunque studiare se stesso, le idee che possiede, senza entrare nel merito di eventuali questioni puramente metafisiche sulla sua essenza. L'analisi proposta da Locke vuole essere inoltre strettamente psicologica, limitata cioè a una verifica di ciò che è puramente mentale, ossia semplice elemento cosciente del pensiero, astenendosi così anche da ulteriori indagini sulla struttura fisica e sul funzionamento della mente. L'intelletto deve insomma provare ad analizzare i propri contenuti di pensiero ricostruendo la lot·o «Storia••, ossia il modo in cui sono stati acquisiti o formati; da qui pervenire poi a stabilire i criteri della certezza e della verità di ogni conoscenza umana:

Non m'affannerò a esaminare in cosa consista la sua essenza [della mente], oppure con quali moti dello spirito o modificazioni del nostro corpo giungiamo a percepire qualche sensazione attraverso i nostri organi di senso o a formulare qualche idea nel nostro intelletto, e se la materia intervenga oppure no nel costituirsi di tali idee { . .} riterrò di non essermi impegnato invano nel meditare su tali argomenti se, usando questo metodo storico e semplice, potrò fornire una spiegazione del modo in cui il nostro intelletto acquisisce i concetti delle cose che ci sono propri, e se potrò stabilire i criteri dell'indubitabilità della nostra conoscenza. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 31

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Le tesi fondamentale

L'innatismo inglese

Secondo Locke

l'intelletto è all'origine una tabula rasa

Le lli'!JOmentazioni contro l'innatismo

Lo scopo del saggio è di mostrare come ogni conoscenza umana dedvi dall'espedenza sensodale. Locke ritiene infatti possibile indicare come ogni idea, qualunque essa sia, anche quella il cui contenuto sembra lontanissimo da ciò che possono testimoniare i sensi, abbia origine da questi ultimi.

Non esistono idee innate • Secondo Locke l'empirismo, che individua nei sensi l'origine di tutta la conoscenza umana, è l'unica dottrina gnoseologica difendibile, anche in virtù dell'assurdità e dell'inutilità della dottrina concorrente, secondo la quale nel nostro intelletto vi sarebbero invece conoscenze non derivate dall'esperienza e quindi date a prescindere da essa, ossia, in altri termini, innate. L'intero primo libro, dei quattro complessivi di cui si compone il Saggio, è così una critica dell'innatismo, dottrina trionfante tra i contemporanei eli Locke, caposaldo della riflessione cartesiana ma anche della speculazione inglese da Herbert di Cherbury (1583-1648) fino ai neoplatonici di Cambridge. Infatti, Herbert di Cherbury nel De veritate, pubblicato nel 1624, aveva sostenuto l'esistenza nella mente umana di principi eterni e immutabili (principia sacrosancta), autoevidenti e non derivati dall'esperienza, patrimonio comune e universale (notitiae communes) di conoscenze, massime morali e credenze religiose. I neoplatonici di Cambridge avevano ripreso questa dottrina per dare fondamento alla tesi eli una verità perenne presente nella filosofia platonica e nel cristianesimo. Secondo i filosofi di Cambridge, infatti, oltre alle verità della matematica, l'uomo è in grado eli attingere a principi morali universali e a nozioni, quali l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima, che sono alla base delle verità eli ogni confessione cristiana. Queste conoscenze non possono del resto avere origine dall'esperienza sensoriale, che invece fornisce soltanto testimonianza del particolare e di ciò che muta e diviene. Non solo dunque contro Descartes, che nelle sue opere aveva parlato tanto eli idee innate quanto eli assiomi o principi colti per lume naturale senza ricorrere alla testimonianza dei sensi, ma anche contro tutta questa ampia e autorevole tradizione di pensiero inglese, Locke nel primo libro del suo Saggio sostiene che, a prescindere dall'esperienza, l'uomo non ha invece alcuna nozione di Dio, né dei principi della religione; ma neanche nessun principio logico o nozione originaria è connaturata alla sua mente, come nessuna regola morale gode del privilegio di valere universalmente quale principio innato. Insomma, nessuna conoscenza di alcun tipo preesiste all'espet'ienza: il nostro intelletto, osserva Locke, «non è diverso da ciò che si suol chial'nare una tabula rasa"; esso è, in altri termini, all'inizio "senza idee e senza conoscenza,. La presunta realtà di principi innati, detti anche nozioni primarie o comuni, perché presenti in tutti gli uomini, «impressi nella nostra mente, e che "l'intelletto riceve fin dal primo momento della sua esistenza,, viene da Locke confutata attraverso una serie di argomentazioni, una delle quali sostiene che se tutte le idee fossero innate dovrebbero essere presenti anche nei bambini e negli idioti; ma così non appare affatto: È evidente che i bambini e gli idioti non hanno la benché minima percezione o

comprensione di tali principi [innati] e questa mancanza è sufficiente a distruggere quel consenso universale che dovrebbe essere il dato concomitante e necessario di tutte le verità innate. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 43

Un'altra argomentazione tende invece a mostrare come sia persino inutile presup· porre idee innate, visto che tutti gli uomini sono dotati di facoltà idonee a formarle da soli.

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Credo infatti si converrà facilmente che sarebbe inopportuno supporre che le idee dei colori siano innate in una creatura, alla quale Dio abbia donato la vista e la facoltà di ricever/e dagli oggetti esterni queste idee mediante i propri occhi. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 41

Anche gli assiomi Slllll.l dl:!i'ÌIIIitÌ •••

... dall'esperienza o dal significato delle IUU'ole

La &·elatività

dei costumi e delle credenze negal'innatismo

Come Locke mostrerà in seguito, anche proposizioni considerate assiomi, verità autoevidenti, quali il principio di identità («tutto ciò che è, è,) e di non contraddizione («è impossibile che la stessa cosa sia e non sia,), sono conoscenze generali dedvate dall'esperienza di casi pat'ticolari: è l'esperienza a mostrarci ad esempio che «l'idea di bianco è l'idea di bianco, e che «il rosso non è il blu" da cui deriviamo principi generali come quelli di identità e di non contraddizione. Locke mostrerà come alcuni dei principi considerati innati trovino inoltre il loro fondamento esclusivamente nel linguaggio umano, ossia nel significato attribuito alle parole, come nel caso della massima «l'intero è uguale a tutte le sue parti", ove per intero si intende appunto, per definizione, l'insieme delle parti. Nel corso dell'argomentazione del primo libro, ricca e articolata, Locke rafforza la sua critica, recuperando riflessioni di Montaigne e Gassendi, che facevano riferimento ai resoconti fatti da navigatori ed esploratori nelle terre dei nuovi continenti oltre Oceano e dell'estremo Oriente, per mostrare come la divet·sità cultut·ale ponga in serio dubbio la validità universale di certi principi e la presunta esistenza di un generale consenso delle genti (consensum gentium) su alcune nozioni e credenze fondamentali. Ma è nel secondo libro del Saggio che Locke completa la critica all'innatismo, mostrando come tutte le idee della mente umana siano acquisite dall'esperienza, giacché tutti i contenuti mentali sono riconducibili a dati fot•tliti dai sensi:

Supponiamo(. . .] che la mente sia, come si suo dire, un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo giunge ad esserne fornito? Da quale fonte si procura quel patrimonio sterminato che l'operosa e illimitata immaginazione dell'uomo ha raffigurato nella sua mente con una varietà quasi infinita? Da dove ha ricavato tutti gli elementi della ragione e della conoscenza? Rispondo a tutte queste domande con una sola parola: dall'esperienza. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 155

Genesi delle idee • Poiché alla nascita la mente umana è priva di contenuti conoscitivi, le idee derivano originariamente dai sensi (vista, tatto, udito, olfatto, gusto) e dalla riflessione, considerata da Locke come una sorta di senso interno: Le idee tulmplici: sensazione e ••iflessione

.. la prima fonte delle idee è la sensazione: «è evidente che gli oggetti esterni» che vengono a contatto con i nostri sensi producono «diverse idee al nostro spirito"; le idee di sensazione sono i primi atti del pensiero, e sono tali, idee come il dolce, il duro, il rosso, il freddo; .. la seconda fonte delle idee è la riflessione, con la quale siamo consapevoli delle operazioni compiute dalla nostra mente, una volte ricevute le idee di sensazione: sono ad esempio idee di riflessione il dubbio, il pensiero, la percezione e in generale tutte quelle idee che riguardano «operazioni, del nostro intelletto:

L'altrafonte dalla quale l'intelletto attinge, tramite l'esperienza, per fare provvigione di idee, è la nostra percezione interiore delle operazioni che compie la nostra

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mente quando si occupa delle idee di cui è fornita, operazioni che, una volta divenute oggetto di riflessione e di analisi della nostra anima, porgono al! 'intelletto un nuovo genere di idee. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 157

Passiuità dell'intelletto

Qualità p1•imarie e secondarie

Tutte le idee che derivano da queste due fonti originarie sono semplici, costituiscono cioè gli elementi primi, non ulte:dot·mente divisibili e scomponibili della conoscenza. Le idee semplici sono come atomi conoscitivi dalla cui composizione l'intelletto costruisce tutta la conoscenza umana nella sua complessità e varietà. Le idee semplici di riflessione ci fanno conoscere le operazioni interne di qualcosa che possiamo chiamare spirito o mente, mentre le idee semplici di sensazione ci mettono in relazione mediante il nostro corpo con il mondo esterno, di cui gli organi di senso ci fanno scoprire alcune qualità. Nel pet·cepire le idee semplici l'intelletto è passivo, ossia non può rifiutarsi di riceverle, non può ignorarle, né può alterarle o cambiarle. Ciò prova che non può essere l'intelletto a produrle. Fedele a un metodo puramente psicologico, introspettivo di indagine genealogica delle idee, Locke non indaga però ulteriormente il processo fisico che genera la sensazione, dall'azione della realtà esterna sugli organi sensoriali, fino a giungere all'intelletto e alla coscienza. Riguardo alla fedeltà o adeguatezza delle nostt·e rappresentazioni alla realtà estet·na, egli recupera tuttavia la distinzione, emersa nel dibattito scientifico e filosofico del Seicento e già ripresa nelle discussioni con l'amico Boyle, tra qualità pdmade e secondarie: le prime sono fondate sulle proprietà oggettive delle cose e producono in noi idee semplici come quelle di estensione, movimento, solidità, che sono dunque nelle cose così come le percepiamo; le seconde, per esempio i colori e i sapori, sono soggettive e dipendono dai nostri organi di senso. Se non vi fosse dunque nessun essere senziente al mondo, le cose non avrebbero odori, sapori, suoni, ma conserverebbero solidità, estensione, movimento e quiete. Queste ultime qualità sono perciò realmente nella materia, a differenza delle qualità secondarie o soggettive:

La solidità, l'estensione e la figura che ne è il limite, con il movimento e la quiete, di cui abbiamo le idee corrispondenti, sarebbero realmente nel mondo come esse sono, a prescindere dall'esistenza di un essere sensibile in grado di percepir/e; di conseguenza, abbiamo ragione di considerare quelle come reali modificazioni della materia e che siano esse a suscitare tutte le varie sensazioni percepite dal nostro corpo. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 685

l.'attiuitii dell'intelletto: le idee complesse

Una volta ricevuti i dati conoscitivi dai sensi, l'intelletto, combinando, confrontando o separando tra loro le idee semplici, comincia a comporre idee complesse. Per quanto la mente non possa dunque creare i contenuti elementari, che sono ricevuti passivamente, essa si attiva nella formazione di idee complesse a partire dalle idee semplici:

Come la mente è del tutto passiva durante la ricezione di tutte quelle idee semplici, così di per sé essa esercita innumerevoli atti, mediante i quali, costruisce altre a partire dalle quelle semplici, che usa come materiale e fondamenta per tutto il resto. J.

414

Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 277

La •svoltaidosoflcà di Lo~ke .· .

i

L'origine della conoscenza: le idee semplici

Dalla critica all'innatismo l

deriva e si contrappone

t

l'empirismo: tutta la conoscenza ha origine dall'esperienza sensoriale

l

in particolare

t

l'intelletto riceve passivamente

l dalla riflessione

dai sensi

l

le idee semplici di sensazione [distinzione tra qualità primarie e secondarie)

l

le idee semplici di riflessione (operazioni del nostro intelletto, una volta ricevute le idee di sensazione)

dalla cui combinazione

l'intelletto forma attivamente

le idee complesse

3. Tre tipi di idee complesse: modi, sostanze, i'elazioni

Le idee complesse: l'inconoscibilità della sostanza Sensazione e riflessione forniscono dunque il materiale col quale l'intelletto costruisce il sapere complesso. Sebbene le idee complesse siano varie e diverse tra di loro, Locke ritiene

tuttavia [. . .} che possano venir tutte ricondotte a queste tre principali categorie: 1. i modi: idee complesse, che, per quanto composte, non contengono in sé la supposizione di esistere di per se stesse, bensì sono considerate dipendenze o qffezioni delle sostanze; 2. le sostanze: combinazioni di idee semplici utilizzate per rappresentare cose particolari e distinte, di per sé sussistenti; 3. le relazioni: genere di idee complesse[.. .] che consiste nell'esaminare e confrontare un'idea con un'altra. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 283

Idee di modo • Le idee di modo si dividono a loro volta in idee di modo semplice e misto: nel primo caso, si tratta della ripetizione della stessa idea semplice, nell'altro di combinazioni di idee semplici diverse. ·-------------''~.:·"·,

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Le idee di modo semplice:

• spazio-temp11 l infinitezzn ed eternità

l • numeri

l

Di particolare importanza, tra i modi semplici, sono le idee di spazio, di tempo e dei numeri. Il tempo è l'idea dpetuta di durata, che otteniamo dall'avvicendarsi delle idee nella nostra mente; lo spazio, invece, è l'idea ripetuta di distanza, che avvertiamo tra due o più rappresentazioni nella stessa percezione. Conseguentemente, per Locke, anche delle idee dell'infinito e di eternità non abbiamo una conoscenza diretta, bensì derivata dalle idee di spazio e di tempo, in virtù della capacità della nostra mente di aggiungere spazio a spazio, tempo a tempo in maniera indefinita. Le idee dei numeri derivano dalla ripetizione dell'idea di un'unità, che accompagna ciascun nostro pensiero, ogni singola percezione, considerata in se stessa.

Fra tutte le idee che abbiamo non v'è nessuna che sia suggerita alla nostra mente tramite così tante vie, o che sia più semplice di quella dell'unità, o dell'uno:[. . .] ogni oggetto intorno al quale impegniamo i nostri sensi, ogni idea del nostro intelletto, ogni pensiero nella nostra mente, porta con sé questa idea. [. . .]Ripetendo questa idea nella nostra mente e sommando le ripetizioni fra loro, giungiamo alle idee complesse dei suoi modi. Così sommando uno con uno, otteniamo l'idea complessa di una coppia, combinando insieme dodici unitii, otteniamo l'idea complessa di una dozzina. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, pp. 359-361

• potere-volea•e-libertà

• bene e mole Le idee di modo misto:

• l'etica e i giudizi di ualore

Causa l effetto

416

Anche l'idea di «potere", alla quale Locke dedica un lungo capitolo nel quale si affronta la questione della libertà del volere umano, rientra nell'analisi del gruppo delle idee di modo semplice: potere è l'idea ripetuta di un'attività causale, così come esemplifica l'autore, diciamo che il fuoco ha il potere di sciogliere l'oro, o il Sole di sbiancare la cera, dopo aver rinvenuto simili relazioni costanti tra cause ed effetti. L'idea del volere è l'idea eli un particolare potere, attribuibile all'uomo, di iniziare un'azione sulla base di una preferenza della mente. La libertà è invece il potere di compiere o non compiere l'azione voluta. Nella prima edizione del Saggio, Locke sembra attribuire libertà soltanto all'agire dell'uomo e non alla sua volontà: egli rende infatti determinata la preferenza della mente sempre da un desiderio, suscitato dall'apparenza del piacere maggiore. Ma a partire dalla seconda edizione del Saggio (1694), Locke torna su questo capitolo e prova a correggere l'iniziale determinismo riconoscendo all'uomo un potere di sospendere il soddisfacimento di un desiderio. Tra le idee di modo semplice vi sono infine anche le idee di bene e eli male, riferite rispettivamente a ciò che arreca piacere e a ciò che arreca danno. Le idee di modo misto derivano invece dalla composizione di più idee semplici diverse tra loro. È nella loro elaborazione che secondo Locke è più riconoscibile il potere attivo della mente nella formazione di conoscenze complesse. Le idee di modo misto infatti possono prescindere dal rifedrsi a una realtà effettivamente esistente fuori della mente, che funga da modello per la loro composizione. A questo genere di idee appartengono tutte le nozioni morali e eli valore, come la bellezza, la sincerità, l'ipocrisia ecc. con le quali l'intelletto umano elabora esso stesso degli archetipi, ossia dei criteri per giudicare la realtà. Idee di relazione • Le idee eli relazione nascono invece da un confronto tra le idee dell'intelletto. La principale idea di relazione studiata da Locke è quella eli causalità, per la quale due idee si congiungono tra loro, richiamandosi l'un l'altra in qualità eli causa e di effetto: così il calore è causa della cera che si scioglie in una candela accesa; e la cera che si scioglie è effetto del calore.

Altre idee notevoli di questo genere sono quelle di bene e di male, considerate stavolta in senso morale o giuridico ossia in relazione alla violazione o all'ottemperanza di una norma divina o umana.

Lo sostlmza è l'ideo di 1111 sostroto, di un supplll'tll

lnconoscihilità della sostanza

Idee di sostanza • Ma è l'indagine del secondo gruppo di idee complesse, quelle di sostanza, che costituisce il cuore e il nodo problematico dell'intero Saggio, giacché sia le idee di modo, ad esempio di spazio, di tempo, di potere, sia di relazione, ad esempio di causa ed effetto, non sussistono di per sé ma sempre in riferimento a delle cose, o sostanze. Ad essere infatti in un luogo, in un tempo, a godere di certi poteri e qualità sono sempre idee di cose come un uomo, un cavallo, una pietra, l'acqua, il ferro, una mente ecc., ossia tutte le idee di cose che poniamo a supporto di determinate proprietà osservabili. Ad esempio una mela è ritenuta una sostanza in quanto fondamento di certe qualità sensibili come l'aver un colore, una forma, un profumo, un sapore, una dimensione; una consistenza; la mente è invece ritenuta una sostanza alla quale riferire operazioni, poteri e qualità attestati anche dalla riflessione come pensare, temere, desiderare. Locke fa dunque riferimento ad un'accezione tradizionale, aristotelicoscolastica della nozione di sostanza, quale realtà di per sé sussistente cui ricondurre qualità e poteri, che da soli non potrebbero sussistere. Per l'autore, le idee di sostanza sorgono pet·ché l'intelletto constata per espedenza come alcune idee semplici o certe idee di modo siano costantemente unite fra loro; e, ritenendo poi impossibile che tali idee si riferiscano a qualcosa che possa sussistere di per sé, pensa che vi sia un substratum, un qualcosa, che invece esiste senza dipendet·e da altt·o e che faccia loro da supporto. Ho percezione di pensare, temere, amare e poiché pensiero, timore, amore non sussistono da soli ma sempre si accompagnano alla coscienza di un me stesso che ama, teme e pensa, suppongo l'esistenza in me di una sostanza, uno spirito, una mente alla quale ineriscono simili poteri o affezioni. Analogamente, l'esperienza mi ha mostrato che il rosso, la dolcezza, la ruvidità sono sempre in connessione con la percezione di un corpo, di certe dimensioni e di particolare consistenza; e, poiché tutte queste proprietà e qualità non possono sussistere qa sole, le riferisco tutte all'idea di un unico sostrato corporeo, ad un qualcosa, che sia il fondamento della loro costante congiunzione. A prescindere dalle sue proprietà e qualità sensibili, l'idea di una sostanza per Locke rimane però ignota: è semplicemente una supposizione della nostra mente che nasce dalla constatazione di «Un certo numero di queste idee semplici [che] vanno costantemente insieme»: L 'idea che noi abbiamo, e cui diamo il nome generale di sostanza, non essendo al-

tro che il presunto, ma ignoto, sostegno di quelle qualità che scopriamo esistenti e che non immaginiamo possano sussistere sine re substante, senza qualcosa che le sorregga, quel sostegno lo chiamiamo substantia. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 529

Tale substratum è ignoto perché non è dconducibile a nessuna esperienza sensibile; non è infatti collegabile a nessuna delle nostre idee semplici originarie, essendo qualcosa che si suppone per definizione stare oltre esse. Insomma: la nostra mente combina insieme una serie di qualità, per riferirle a una sostanza che dovrebbe fare loro da supporto; ma all'interno dell'esperienza dei sensi e della riflessione non troviamo mai alcuna conoscenza diretta di questo presunto sostrato o sostanza. Ad esempio, quando la guardiamo o la mangiamo, non abbiamo esperienza della mela in quanto sostanza, ma soltanto di un certo sapore, un colore, una forma e un profumo,

417

ma oltre queste idee, quali sono ricevute attraverso le loro fonti appropriate, le nostre facoltà non giungono. [.. .]Dal che mi sembra probabile dedurre che le idee semplici che riceviamo dalla sensazione e dalla riflessione siano i conjìni dei nostri pensieri, oltre i quali la mente, per quanti sforzifaccia, non è in grado di avanzare di un passo. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 531

1:1111

Il confronto la Slllltii!Uil

cartesiana

Essenza reale Il

nominale

Analisi dei linguaggio

418

Analogamente, con la riflessione non cogliamo direttamente la nostra mente ma sempre e soltanto un io che pensa, che dubita, che odia ecc. Ciò non significa che non «esista una qualche costituzione reale, da cui deve dipendere qualche collezione di idee semplici coesistenti», anzi esiste senza dubbio, visto che le idee semplici di sensazione ci mettono in comunicazione con qualcosa che è fuori della nostra mente e la riflessione ci fa conoscere qualcosa in noi che pensa, dubita, desidera; il punto è che l'uomo non può conoscere che cosa siano di per se stesse queste sostanze. Ne conosce proprietà, poteri, ma non l'essenza, ossia «ciò senza di cui una cosa non è quella che è", che è l'attributo principale, la proprietà a fondamento di tutte le altre qualità, insomma, sostiene Locke, la loro struttura intima. L'estensione, ad esempio, così come la solidità e l'impenetrabilità sono senza dubbio proprietà dei corpi in quanto loro qualità primarie, ma nessuna di esse può essere identificata come l'essenza. Descartes ha invero individuato nell'estensione l'essenza dei corpi, ma senza che da essa risulti alcuna nozione chiara e distinta della materia, perché è possibile per la mente umana formare anche l'idea del vuoto, ossia di un'estensione che non è corpo. Analogamente chiamiamo sostanza spirituale quel sostrato che supponiamo costituire il fondamento di attività come pensare, ragionare, ritenendo che siano azioni di una sostanza che definiamo «Spirito". Descartes ha sostenuto che il pensiero in generale fosse l'essenza della mente, senza tuttavia fornire neanche in questo caso alcuna idea chiara e distinta di cosa sia davvero questa sostanza. Il pensiero è senza dubbio un potet·e, un'attività ma non può costituire anche l'essenza della mente, perché altrimenti dovremmo ammettere che questa pensi sempre. Invece, ancora una volta contro Descartes, che ha davvero sostenuto questa tesi, secondo Locke possiamo avere l'idea di una mente che non pensa, basta immaginarla privata dei sensi, o considerarla nello stato di sonno profondo.

Idee, parole, cose • Secondo Locke l'illusione di conoscere la sostanza delle cose risiede soprattutto in una falsa apparenza prodotta dal nostro linguaggio che ci porta a scambiare i nomi per le cose e a confondere le idee generali a cui si riferiscono i primi con le idee di sostanza riferibili alle seconde. La nozione eli essenza reale, che indica la proprietà costitutiva della sostanza, viene così confusa con quella puramente nominale, che è perfettamente conoscibile, perché soltanto utile a classificare convenzionalmente le sostanze in generi e specie. Su basi puramente linguistiche è dunque lecito definire i corpi come sostanze estese, le menti come pensanti e gli uomini come animali razionali, non dimenticando però che questi termini sono soltanto dei nomi, riferibili ad idee generali (corpi, uomini, menti ecc.) e non pill a idee di sostanze (questo corpo, questo uomo, questa mente). Come mostra approfonditamente nel terzo libro, mediante un'analisi del linguaggio umano, Locke si accorge bene che «c'è una connessione così stretta fra le idee e le parole, che è impossibile indagare la conoscenza senza prima chiarire anche "la natura, l'uso e il significato del linguaggio". Lo stretto legame dipende dalla convin-

1. La sv~Ìta Cdosoffça,diLocke ·

zione che le parole siano «segni delle idee», simboli che richiamano le idee delle cose: «lo scopo delle parole è di essere segni sensibili delle idee; e le idee per le quali esse stanno sono il loro significato proprio e immediato•• (Saggio sul! 'intelletto umano, p. 465). Il linguaggio nasce dunque dalla necessità di comunicare ed è, in quanto tale, convenzionale: a tal fine i nomi, cioè i segni, le parole, rendono generali e quindi comunicabili le nostre esperienze. I nomi generali sono dunque simboli di idee complesse che si formano attravet·so un processo di astrazione che elimina quelle determinazioni, per esempio spaziali e temporali, che fanno di ogni idea un qualcosa di unico e particolare. Così operando, la mente fabbrica idee in grado di rappresentare molte cose particolari; acl esempio l'idea generale di cane rappresenta cani di grandezza, di colore differenti, viventi in tempi e in spazi lontani tra loro:

Le parole sono generali quando sono usate come segni di idee generali, ed in tal modo possono venir applicate indifferentemente a molte cose particolari. [. . .} Quando perciò abbandoniamo i particolari, i generali che rimangono non sono altro che creature di fabbricazione nostra, la loro natura generale, altro non essendo se non la capacità loro conferita, dall'intelligenza, di significare o rappresentare molti particolari. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 466

Reali non sono dunque le idee generali ma i particolari concreti che esse rappresentano. Questa posizione, secondo la quale le idee generali sono pure costruzioni mentali, che non hanno un corrispettivo reale, è detta :riominaliStiCa3 ed in età moderna era stata difesa anche da Hobbes e Gassendi. L'essenza nominabile · Le essenze nominali sono perciò perfettamente conoscibili, perché sono gli è conoscibile uomini ad elaborarle attraverso definizioni puramente linguistiche, che si riferiscono a idee generali o astratte, come quando diciamo che l'uomo è un animale dotato di senso e eli ragione; in questo caso eleviamo alcune proprietà osservabili ad elementi costitutivi eli una certa idea generale eli uomo, utili a distinguerla da altre idee L'essenza l'eale generali come gatto, cane ecc. Ma in questo caso l'essenza si riferisce soltanto a un'iè inconoscibile dea generale eli uomo e non indica l'essenza t•eale, ossia ciò senza eli cui ciascun uomo nella sua particolarità e concretezza non sarebbe quello che è, che è la natura da cui dipendono tutte le sue proprietà, concrete e individuali, compresi quei poteri come il senso e la ragione, isolati convenzionalmente dalla definizione linguistica. A differenza eli un'idea generale, l'idea di sostanza intende infatti essere qualcosa eli reale, ossia il sostrato, il supporto effettivo di qualità e operazioni individuali, concrete. Il nominalismo

Benché forse il moto volontario insieme al senso e alla ragione, congiunto ad un corpo di una certa conformazione, componga un 'idea complessa alla quale io e altri ancora associamo il nome uomo in modo da costituire l'essenza nominale della

W

Nominalismo: il termine indica la dottrina dei filosofi che hanno ritenuto i generi e le specie (gli universali nel lessico aristotelico-scolastico) solo dei nomi con cui designare gli individui concreti, gli unici davvero esistenti; agli universali, infatti, non corrisponderebbe alcuna realtà. Una simile posizione è stata sostenuta da Roscellino (1050-1120) nell'ambito della questione degli universali, contrapponendola al realismo e al concettualismo. A riproporla nella prima età moderna in una versione integrale è stato Th. Hobbes e poi G. Berkeley e D. I-lume. Il nominalismo di]. Locke conferisce invece realtà psicologica alle idee generali, avvicinandosi alle posizioni dei concettualisti medievali.

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419

specie chiamata a quel modo, nessuno però dirà che quell'idea complessa sia la reale essenza e la fonte di tutte le operazioni che si possono trovare in ciascun individuo di quel tipo. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 817

L'attività dell'intelletto: la formazione del sapere complesso Le idee complesse

l

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sono

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di sostanza = unione di più idee semplici

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indicano cose sussistenti fuori della mente

possono non riferirsi a realtà effettiva m ente esistenti

di relazione = confronto di un'idea con l'altra (causa/effetto)

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essenze reali [substratum) non sono conoscibili

4.

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di modo semplice/misto = ripetizione della stessa idea semplice (spazio, tempo ... )

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essenze nomma l'1 sono conoscibili (elaborate da noi)

Limiti e confini della conoscenza umana Natur©l ~ ~;w~di dl!.ll!a c~ri;l!.l:l!:~i:il • Nel quarto libro Locke si occupa infine della natura della conoscenza, dei gradi e degli ambiti della certezza e della probabilità. Conoscet·e significa giudicare, ossia, secondo Locke, percepire l'accordo o il disaccot·do tra idee. L'autore distingue tre modalità di conoscenza: intuitiva, dimostrativa, sensoriale:

CIJIIOIICI!nZII intuitillll conoscenza ilimostl•atiua COnO!lCI!IIZil Sl!ll!lllriale

delle cose

l limiti della CIIIIIISCI!IIl.illllllilllil

420

l) se la percezione della connessione e dell'accordo o del disaccordo tra idee avviene immediatamente, la conoscenza è di tipo intuitivo; 2) se avviene, invece, per il tramite di idee intermedie, connesse intuitivamente tra loro, la conoscenza è di tipo dimostrativo; 3) se è data infine dalla sensazione, la quale ci fa essere certi di una realtà che è fuori di noi, essa è di tipo sensoriale.

Tutta la nostra conoscenza più certa dipende da queste tre modalità che presentano tuttavia gradi, limiti diversi di evidenza e confini di estensione. Evidente al massimo grado è l'intuizione, minor chiarezza può presentare la conoscenza dimostrativa, le cui prove dipendono da intuizioni tra loro connesse; evidenza ancor minore è da attribuire alla conoscenza sensibile che rende solamente certi dell'esistenza di qualcosa

La realtà della conoscenza

di reale, senza dare garanzie di verità su come effettivamente tale realtà sia di per sé, indipendentemente dalla sensazione che ne abbiamo. Ma anche il sapere più chiaro ed evidente dell'intuizione e della dimostrazione conosce i suoi limiti: siccome conoscere significa confrontare idee, un primo limite costitutivo di tutto il sapere umano concerne l'impossibilità di avet·e conoscenza di ciò di cui non abbiamo idea. Non soltanto la nostra conoscenza non può andare oltre le nostre idee, ma è anche ben più ristretta delle nostre idee. Questo secondo limite deriva dalla constatazione che l'uomo non può estendere la conoscenza intuitiva a tutte le relazioni tra idee, trovando prove capaci di dimostrare con certezza tutto ciò che conosce. Laddove le idee, infatti, non sono chiare e distinte, bensì oscure e confuse, come in ogni conoscenza che voglia trattare della sostanza delle cose, si vanifica la possibilità di avere evidenza intuitiva e dimostrativa. Il sapere certo ha dunque anche un confine preciso: nell'ambito della certezza, intuizione e dimostrazione sono modalità conoscitive che concernono anzi tutto le idee, non la realtà. Tutte le conoscenze più certe, fondate sull'intuizione e sulla dimostrazione, prescindono infatti nella loro verità dal confronto con la realtà. Sa peri come la morale, la matematica e la geometria hanno come loro oggetti idee complesse, forgiate dalla mente umana stessa, quali «archetipi che il nostro spirito costruisce per suo conto", per poi riferirli, applicarli alla realtà. Quando infatti contiamo, misuriamo o diamo giudizi di valore (bello, virtuoso, generoso ecc.) per Locke è la realtà che conformiamo alle nostre idee, non le idee alla realtà:

La conoscenza che un matematico ha di una qualsiasi delle verità o delle proprietà che appartengono a un cerchio o a una qualsiasi altra figura matematica è senza dubbio vera e certa, anche nelle cose realmente esistenti, poiché non si tratta più delle cose reali né si pretende che a esse facciano riferimento tali proposizioni se non come alle cose che realmente concordano con gli archetipi presenti nella sua mente. [. . .} La conoscenza morale è altrettanto suscettibile di certezza reale, quanto le verità matematiche [. . .]. Le nostre idee morali [. . .} come quelle matematiche, sono esse stesse archetipi e perciò idee adeguate e complete. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 1059

Cm•tezza intuitiva del p••oprio esiste1·e

La conoscenza è in gt•ado di mettere in contatto i due ambiti, il mondo mentale delle idee e la realtà esterna, solo la conoscenza sensoriale. Per mezzo eli essa possiamo attestare l'esistenza di oggetti «in virtù di quella percezione e coscienza che abbiamo dell'effettivo ingresso in noi di idee che vengono da essi"; il limite della certezza sensoriale è che solo l'attualità della sensàzione pet·mette di affermare con certezza la t•ealtà delle cose esterne. Una volta che esse non cadono più sotto i nostri sensi, potrebbero infatti anche smettere di esistere; la possibilità del loro sussistere (indipendentemente dal nostro percepirle) è data soltanto dalla fede nella creazione di un mondo da parte di Dio, immutabile nella sua volontà. Dell'esistenza di Dio e del proprio io, l'uomo può del resto avere una certezza che travalica la sensazione attuale. L'uomo ha infatti certezza intuitiva del proprio esistere e conoscenza dimostrativa di Dio. Attraverso una conoscenza intuitiva possiamo essere anzitutto certi del nostro esistere. Ne abbiamo conferma immediata e costante dall'esperienza: quando pensiamo, dubitiamo o percepiamo ad esempio dolore abbiamo una percezione tanto certa della nostra esistenza quanto dell'esistenza del dolore che proviamo. Locke richiama esplicitamente anche l'esperienza del dubbio cartesiano per fondare tuttavia la cet'tezza intuitiva del nostt·o esistere esclusivamente sulla testimonianza dei sensi, giacché non solo il dubbio ma qualsiasi nostro atto cosciente di pensiero ce ne dà conferma immediata. Sicuramente l'esperienza del dubbio è ancor

421

Certezza dimostratiua dell'esistenza di Dio

Mate1•ialità/ immate1•ialitiì della mente

più probante e significativa: infatti, Locke osserva che della verità del proprio esistere ci garantisce il fatto che possiamo dubitare di tutto ma non di noi stessi, giacché nell'atto stesso di dubitare abbiamo percezione tanto del dubbio, quanto di noi che dubitiamo, avvertendo immediatamente la certezza del nostro esistere. Ma anche di Dio, benché l'uomo non ne abbia alcuna idea innata, è perfettamente dimostrabile l'esistenza. Dal momento che qualcosa esiste, a partire dalla stessa certezza intuitiva che abbiamo del nostro esistere, qualcosa deve allora esistere sin dall'eternità. Infatti è intuitivamente certo, tanto quanto il nostro esistere, che dal nulla non nasce nulla; e, poiché nell'esistere di ciascun uomo non è inclusa la necessità di esistere, allora né l'uomo, né il nulla possono aver dato inizio alla propria esistenza, bensì Dio, un ente che esiste necessariamente di per sé. Di Dio possiamo sapere anche che è un ente pensante, perché è causa dell'uomo che è un essere altrettanto pensante e un effetto non può contenere più realtà della sua causa, altrimenti ancora una volta dovremmo ammettere che il nulla abbia potuto produrre qualcosa (il non pensiero produrre il pensiero); Dio è anche immatedale, giacché, come aveva decisamente asserito anche Descartes, appare impossibile attribuire alla materia un'autonoma e spontanea capacità di pensare e di agire.

Hlimiti della conoscenza certa • Non solo delle cose che esistono fuori di noi, ma anche dell'io e di Dio non è possibile conoscet·e la sostanza, l'intima essenza. Estremamente circoscritto e limitato, immerso nell'oscurità e nella confusione, rimane perciò il nostro sapere. Rispetto alla vastità delle cose, la compt·ensione dell'intelletto è estremamente ridotta, per quanto sufficiente a soddisfat·e tutti gli scopi umani. Come osserva Locke fin dall'Introduzione, il nostro intelletto è come una candela capace di far luce intorno a noi che non ha però l'intensità della luce folgorante del Sole. Non bisogna meravigliarci o lamentarci se molto del nostro sapere rimane perciò incerto, se tante delle nostre domande sono senza risposte razionali. Ad esempio, benché la ragione ci dimostri l'esistenza di Dio rimane per l'uomo irraggiungibile la comprensione della creazione del mondo materiale da parte di un ente puramente immateriale. Anche la questione circa l'immaterialità o materialità della mente umana non è risolvibile con assoluta certezza dalla ragione; per quanto sia irragionevole attribuire alla materia, come ha fatto Thomas Hobbes, un potere autonomo di pensare, non è tuttavia assurdo ipotizzare, vista l'umana ignoranza sulla sostanza delle cose, che l'onnipotenza di Dio abbia aggiunto al cervello o ad una parte di esso questo potere straordinario. Noi abbiamo le idee di materia e di pensiero, maforse non saremo mai in grado di sapere se un qualunque essere puramente materiale sia dotato di pensiero oppure no, essendo impossibile per noi, mediante la sola contemplazione delle nostre idee, senza alcuna rivelazione, scoprire se l'Onnipotente abbia dato a certi sistemi di materia opportunamente disposti la facoltà di percepire e di pensare, oppure non abbia congiunto e associato alla materia disposta in tal modo una sostanza pensante immateriale. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 1013

L'identità personale

422

In un capitolo, inserito a partire dalla seconda edizione, Locke noterà che persino il nostro io, della cui esistenza abbiamo una certezza intuitiva, non può essere identificabile come una sostanza che sussiste a prescindere dal ricordo continuo che noi abbiamo di noi stessi. È soltanto la coscienza, che «fa sì che ciascuno sia ciò che egli chiama se stesso,, a fondare la conoscenza di un'identità personale; dunque il filo della memoria è ciò che dà garanzia all'idea di un «io>• di sussistere e permanere.

...

La certezza: ambiti e limiti La conoscenza umana

l

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giudicare ----,li,_ percepire accordo l o disaccordo tra idee

e si divide in tre modalità

t

la conoscenza intuitiva

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par cui si ha

par cui si ha

certezza intuitiva

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non riuscire a pervenire all'idea di creazione

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non potere andare oltre il qui e l'ora

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oggetto di scienza

la probabilità • Fuori dell'ambito ristretto della conoscenza intuitiva, dimostrativa e attuale dei sensi, si apre dunque un vastissimo spazio per il sapere probabile, nel quale la concordanza tra idee, riferendosi a un'ignota sostanza, è solo supposta, le prove trovate sono sempre fallibili e persino le idee sono spesso apprese non direttamente ma per testimonianza altrui. Ne deriva che della natura, della realtà, per come essa è in se stessa non vi sarà mai scienza, ma soltanto conoscenza probabile, allorché anziché rintracciarvi relazioni, applicarvi la matematica e la geometria, se ne voglia indagare la sostanza, l'essenza. Il giudizio umano supplisce in questi casi alla certezza, soppesando diversi gradi eli probabilità, sulla base della conformità alla passata esperienza o vagliando l'eventuale ct·edibiUtà della testimonianza altrui. la fede • Basata anch'essa su di una testimonianza che richiede però il più alto grado di assenso, perché proveniente da Dio, colui che non può mentire, è infine la fede religiosa. Tale testimonianza ha il suo ambito specifico in una sfera del sapere che non è contraria alla ragione, bensì semplicemente superiore alle umane facoltà e in grado di supplire alla loro debolezza e fallibilità. È come se fosse un'altra luce che si aggiunge alla debole candela dell'intelletto umano: La fede è il consenso concesso a una qualsiasi proposizione non ottenuta mediante le deduzioni della ragione, ma sulla base della fiducia accreditata a chi la propone come proveniente da Dio con una qualche maniera di comunicazione che esula dall'ordinario. Questo modo di disvelare agli uomini delle verità è ciò che chiamo rivelazione. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, p. 1257

423

Contr•o il fanatismo

Per un cristianesimo ragionevole

Locke, rielaborando una distinzione già formulata da Boyle, individua un ambito del sapere in accordo con la ragione (according to reason), un altro contrario (contrary to reason), uno infine superiore (above reason) che è proprio della fede; egli distingue tra «proposizioni costruite su idee chiare e perfette», "proposizioni contrarie alle nostre idee chiare e perfette» e "proposizioni superiori alla nostra ragione». Se leprime costituiscono l'ambito estremamente ristretto della conoscenza razionale, le seconde risultano estranee sia alla ragione che alla fede e non hanno alcuna validità conoscitiva; le terze, invece, rappresentano il dominio e l'ambito di competenza propria della fede, di una conoscenza rivelata per via sovrannaturale, alla quale la ragione da sola non sarebbe potuta mai pervenire. Benché superiori, i contenuti della fede non sono dunque contt·ad alla ragione. Non è perciò giustificabile la posizione del fanatismo, ovvero, secondo un'espressione del tempo, dell'entusiasmo religioso, che invita invece a credere all'assurdo, all'incredibile e a scambiare la fede coi fantasmi dell'immaginazione, fomentando faziosità, odio e chiudendo al dialogo, al confronto. Su questi temi Locke sarebbe ritornato nel 1695 pubblicando in forma anonima La ragionevolezza del cristianesimo. In questo testo, egli mostra come il cristianesimo, liberato dai dogmi inutili e riportato al semplice testo evangelico, non sia in contrasto con la ragione. Si tratta infatti di ricondurlo a una religione semplice, senza quelle sottigliezze teologiche che spesso sono state soltanto causa di conflitti e lotte religiose. Locke individua nella fede in Cdsto e nel suo messaggio salvifico l'unico vero nucleo dogmatico, costitutivo di ogni cristiano. Il cristianesimo è perciò ragionevole, perché, anche se indimostrabile nel suo nucleo di verità di fede, non propone niente di irrazionale.

Oltre la certezza Laddove l'uomo non raggiunge certezza

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mediante la ragione

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un sapere che mira alla sostanza delle cose, alla realtà nella sua ignota essenza

424

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sapere superiore alle facoltà umane, ma non contrario alla ragione

Il pensiero politico: libertà e tolleranza

In difesa della libertà e dell'uguaglianza naturale degli uomini

Un contratto all'origine della società

li padlre del liberalismo • Dalla riflessione sui fondamenti e i limiti del sapere umano discendono anche le principali opere di argomento etico e politico, il nucleo originario e mai abbandonato di tutto l'impegno filosofico di Locke. In particolare, i Due trattati sul governo propongono un sistema completo di analisi sul fondamento della società civile e del potere politico di straordinaria attualità nelle discussioni del tempo, coevi alla nascita, con la Rivoluzione Gloriosa, della monarchia costituzionale inglese, che porranno Locke a padre di tutto il futuro pensiero liberale moderno. Il primo trattato è una fisposta polemica allibro Patriarcha or the Natura! Power qf Kings, di Robert Filmer (1588-1653), pubblicato nel1680, nel quale si difendevano l'assolutismo monarchico e il diritto divino dell'autorità del sovrano. Locke contesta in maniera articolata le argomentazioni di Filmer, opponendo il principio che per natut·a tutti gli uomini sono invet·o liberi e uguali; nessuno infatti nasce investito del diritto di comandare e governare sugli altri. Locke segue per questo tratto iniziale la dottrina di Hobbes, ritenendo anch'egli che la distinzione tra governanti e governati non sia di origine naturale, bensì artificiale. Come spiega in maniera articolata infatti il secondo trattato, la società civile è istituita da un patto consensuale tra gli uomini (contrattualismo), un libero contratto con il quale ciascun uomo esce dalla stato di natura e si impegna a sottomettersi alle decisioni della maggioranza: Essendo gli uomini [ . .}tutti per natura liberi, eguali e indipendenti,· nessuno può essere tolto da questa condizione e assoggettato al potere politico di un altro senza il suo consenso. Il solo modo in cui un uomo si spoglia della sua libertà naturale e assume su di sé i vincoli della società civile, consiste nell'accordarsi con gli altri uomini per associarsi ed unirsi in una comunità. ]. Locke, Il secondo trattato sul governo, p. 71

Lo stato di natu1•a

La legge naturale

e i diritti naturali

Diritto alla proprietà privata

Lo stato di natura, che precede la società civile, non è una sorta di «paradiso perduto", da cui gli uomini non avrebbero voluto allontanarsi, ma nemmeno uno stato perenne di guerra come aveva sostenuto Hobbes. Esso è semplicemente insicuro. Lo stato di natura non è neanche un regno privo di regole, giacché in esso vige una legge che deriva dalla natura stessa dell'uomo in quanto essere razionale; essa prescrive il rispetto di alcuni diritti: il diritto alla vita, alla libet-tà, alla proprietà, di cui godono tutti gli uomini. Tutti gli individui hanno infatti il diritto di conservare il proprio essere, di agire e pensare senza costrizioni o impedimenti e di godere dei loro beni. In particolare il diritto alla proprietà scaturisce da un pt·ocesso di appt·opriazione mediante illavot·o di beni, originariamente destinati a soddisfare il bisogno primario di sostentamento:

Dio, che ha dato il mondo in comune agli uomini, ha dato loro anche la ragione affinché se ne servissero nel modo più vantaggioso ed utile per la loro vita. La terra, e tutto ciò che in essa vi si trova, è data agli uomini per il loro sostentamento e il loro benessere. [ .. }!!frutto e la cacciagione di cui si nutre il selvaggio indiano, che non conosce recinzione e possiede in comune la terra, devono essere suoi, ed in tal modo, essere cioè parte di lui, che un altro non può più avervi alcun diritto, se non quando possa essergli utile per il sostentamento della sua vita. ]. Locke, Il secondo trattato sul governo, p. 27

..

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l limiti deltlotel'® politico l! ndiritto alla ribellione

Sul lavoro si fonda il diritto alla proprietà privata, in quanto nessun uomo ha il diritto di appropriarsi con la forza di beni che sono il frutto del lavoro altrui. Nello stato di natura il rispetto dei diritti è tuttavia alquanto precario: la proprietà rischia di essere espropriata con la forza; la vita e la libertà sono minacciate dall'aggressività altrui per la scarsità delle risorse disponibili. La società civile nasce perciò da un contratto per difendet·e i didtti dei suoi associati, tt·amite la creazione di un tet·zo, ossia di un arbitro, lo Stato, in grado di dare a tutti garanzia e sicurezza. L'origine dello Stato indica così anche quelle che sono le finalità e i limiti del potere dei governanti. Il popolo che ha delegato il potere ai governanti può cioè anche revocarne la fiducia: ogni forma di governo dispotica e assoluta, che ignori il consenso e calpesti i diritti naturali, non è più un potere politico legittimo. Dinanzi a questi abusi è quindi diritto della cittadinanza riappropriarsi della sovranità, resistere e se è il caso rovesciare il governo. Locke pone così le basi di una concezione liberale dello Stato, secondo la quale il governo civile è finalizzato a garantire i diritti degli individui (liberalismo).

libertà di coscienza e tolleranza • Deriva dal diritto alla libertà anche la neutralità dello Stato nei riguardi della religione. I «magistrati» (i governanti) si devono occupare del bene comune e non della coscienza degli individui: difesa e praticata deve essere perciò la tolleranza in materia di religione; l'uomo, infatti, per natura, non può essere costretto a far parte di nessuna Chiesa; egli decide spontaneamente di entrare nella società nella quale «crede di aver trovato la vera religione e il culto gradito a Dio», Queste tematiche sono presenti anche nella Lettera sulla tolleranza, pubblicata nel1689, ma scritta in Olanda quattro anni prima, e almeno in parte erano già contenute nel precedente Saggio sulla tolleranza del 1667, rimasto però inedito fino al 1876, dove si affermava nettamente la separazione dell'ambito religioso da quello politico e la rivendicaW. Hogarth, I seruitori dell'artista, 1750 ca., Londra, Tate Galle1y.

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Religione l politica

Nella Lettera sulla tolleranza Locke sostiene che lo Stato non ha alcun potet·e sulla religione, che è un fatto strettamente privato, e la tollet·anza «recipt·oca tt·a i cristiani» è ritenuta «il principale segno distintivo della vera Chiesa,, la cui virtù suprema dovrebbe essere la carità. Gli uomini, infatti, non possono essere «spinti con il ferro e con il fuoco ad abbracciare certi dogmi, poiché «il Cristo inviò i suoi ministri a soggiogare le genti e a raccoglierle in una chiesa, non con la spada o la violenza, ma piuttosto con il Vangelo e la pace. Il «magistrato, deve occuparsi quindi solo-della pace e della sicurezza politica, mentre il «ministro del culto, deve preoccuparsi della salvezza delle anime. Baluardo indispensabile della libertà di pensiero e di culto diventa così la netta separazione tra Stato e Chiesa:

Lo Stato è, a mio modo di vedere, una società umana costituita unicamente alfine della conservazione e della promozione dei beni civili. [. . .}La Chiesa è una libera società di uomini che si uniscono per adorare pubblicamente Dio nel modo che credono gradito alla divinità alfine della salvezza delle anime. ]. Locke, Scritti editi ed inediti sulla tolleranza, pp. 135-138

l culti anmu!slli

Anche se la fede è una scelta interiore che nessuna legge può regolare, il credente è comunque per prima cosa un cittadino che ha dunque diritti e obblighi che vanno al di là del suo credo religioso. Salvaguardata la piena libertà di coscienza, non possono perciò essere accettate religioni che abbiano dogmi e pratiche che si pongono in contrasto con le leggi della società. Anche l'ateismo, la posizione di chi nega l'assolutezza di regole morali, di chi non teme i castighi e le ricompense eterne deve essere ritenuto in sospetto. Poiché minacciano la fedeltà dell'individuo alle leggi e alla comunità civile di appartenenza, devono essere in particolare proibite quelle religioni che sono governate da un capo straniero, con esplicito riferimento al cattolicesimo, alla Chiesa di Roma.

1//ibera/ismo

Per natura tutti gli uomini sono liberi e uguali [liberalismo)

l

quindi

t

ogni uomo esce dallo stato di natura e si sottomette alla maggioranza, attraverso un pa tto consensuale

che ------p è insicuro

.l

T

1

vige il diritto: 1 l alla vita 2) alla libertà 3) alla proprietà

t

che dà vita

alla società civile, allo Stato

l i cui limiti sono fissati da: o diritto di ribellione dei cittadini .. neutralità nei riguardi della 1 . religione per CUI

l

religione e politica sono separate

.

ma In CUI

t

il cui fine è salvaguardare i diritti naturali

Empirismo e spiritualismo: la losofia di Berkeley 1 •

Filosofia e apologetica Chiunque voglia compiere un progresso effettivo nella conoscenza, deve consacrare la vecchiaia così come la giovinezza, la maturità così come i frutti precoci, sull'altare della verità. G. Berkeley, Siris, p. 692

Una pel'llllllalità filosofico cnmplessa

Il lascitn del pensiero di Berkeley

Erede della svolta lockiana, la filosofia di George Berkeley emerge per la radicalità che ha impresso allo sviluppo dell'empirismo moderno, per l'eccentricità della sua posizione e per le diverse prospettive che la sua riflessione ha consacrato sulbaltare della verità». Berkeley è stato un uomo eli scienza ma anche eli fede: un sacerdote, poi un vescovo anglicano, che non ha mai abbandonato la difesa della religione e del cristianesimo, né la fiducia nelle capacità di analisi e eli chiarificazione della ragione e della filosofia. Nel suo pensiero la forte influenza di Locke, presente soprattutto nel primo periodo della sua produzione, convive con la tradizione neoplatonica ed fermeJi_c~j sempre più preponderante, fino ad essere dominante nell'ultima sua opera, Siris (1744). Probabilmente nessuna categoria storiografica è capace di imbrigliare una filosofia che continua a provocare tanto le credenze più comuni e intuitive, quanto la riflessione concettuale: la tesi fondamentale difesa da Berkeley con maggiore vigore e acutezza è l'immaterialismo, ossia la negazione dell'esistenza di un mondo materiale esterno alla mente, e la parallela riduzione di tutta la realtà ad entità spirituali. Per quanto sia stata considerata bizzarra e paradossale, questa concezione continua a sfidare i suoi oppositori, a stimolare argomentazioni e analisi. Ma permangono al centro della discussione anche le considerazioni critiche di Berkeley, contenute nel De motu (Sul movimento, 1720) e in Siris, sul sapere scientifico, sulla pretesa di quest'ultimo di parlare della vera realtà, eli sostituirsi alla metafisica e alla religione. La dottrina dell'immaterialismo, ossia dell'inesistenza di un mondo materiale, costituisce il nucleo portante di tutte le opere redatte nella prima fase della riflessione di Berkeley: rappresenta il presupposto tacito della sua prima opera edita nel 1709, Saggio su di una nuova teoria della visione, ed è esplicitamente al centro del Trattato sui principi della conoscenza (1719) e dei Tre dialoghi tra Hylas e Philonous, editi nel 1713, che mettono a confronto due immaginari personaggi dai nomi evocativi (Hylas,

Et•tnetistno: dal latino hermeticus, "ermetico•, da Hermes, Ermete, corrisponendete al dio Mercurio dei latini. Nella mitologia greca Ermete è figlio di Zeus e di Maia, messaggero degli dei infernali e araldo di Zeus. In senso filosofico con questo termine si indica la dottrina esposta negli scritti ermetici, risalenti ai secoli II e III d.C. attribuiti acl Ermete Trismegisto e tradotti in latino da Marsilio Ficino. La filosofia ermetica è il risultato di una mescolanza di dottrine aristoteliche, stoiche e platoniche, intrisa di spirito mistico e religioso, composta anche di trattati a carattere magico, alchemico, astrologico.

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cd

dal greco hyle materia, «sostenitore del materialismo», l'altro Philonous, dal greco phil6s «amante», «amico» e nous «intelletto», «SOStenitore dello spiritualismo»), L'immaterialismo non compare invece esplicitamente nelle opere successive già ricordate, De matu e Siris. Non sembra trattarsi tuttavia di una sconfessione, peraltro mai formulata, quanto, forse, di una diversa impostazione a difesa della stessa concezione interamente spiritualistica della realtà.

l Freethinkers e l'attacco ai miste1•i e ai dogmi della religione

La J'Ìpresa di tematiche materialistiche e panteistiche

l «filosofi miruatin • Ciò che accomuna tutta la riflessione di Berkeley è il tentativo di definire gli ambiti della conoscenza umana, al fine di difendere una visione intellettuale pii:J ampia, fondata sulla verità della religione cristiana. L'impegno apologetico, in difesa del cristianesimo, è rivolto con forza da Berkeley soprattutto contro quella generazione di nuovi e radicali interpreti della filosofia di Locke maturata agli inizi Settecento, che nel dialogo del1732, Alcifrone o il «minuto filosofo", Berkeley definisce «filosofi minuti», ossia pensatori dalla mente finita e limitata, incapaci di comprendere la dimensione di ciò che è al di là dell'uomo, di ciò che non si può toccare con mano, di ciò che non si può comprendere, perché racchiude l'invisibile, il mistero, il divino. «Filosofi minuti», agli occhi di Berkeley, sono soprattutto i cosiddetti Freethinkers, i liberi pensatori, l'irlandese John Toland (1670-1722) e gli inglesi Anthony Collins (1676-1729) e Matthew Tindal (1656-1733), un manipolo agguerrito di pubblicisti che nei primi anni del Settecento aveva spostato la battaglia di Locke per la tolleranza e la libertà dal campo di ricerca di una «ragionevolezza., del cristianesimo al terreno ben più avanzato di una cdtica se1·rata alla tradizione, alla gerarchia ecclesiastica, ai misteri della fede, promuovendo un'idea di cultura e società da affrancare definitivamente da ogni tutela religiosa. Ma i liberi pensatori avevano riproposto e rinnovato, dopo Hobbes, anche e soprattutto concezioni materialistiche della realtà. Nel 1707-1708, Collins aveva sostenuto l'ipotesi della materialità della mentè, entrando in polemica con il più autorevole filosofo del tempo, il newtoniano Samuel Clarke (1675-1729). Richiamandosi al Saggio di Locke, questi aveva sostenuto la possibilità che Dio avesse dotato il cervello di un potere di pensare, per poi elaborare anche un'ipotesi propria che attribuiva tale capacità a un sistema di materia particolarmente strutturato, come il cervello, in grado autonomamente di operare. All'epoca in cui queste tesi di Collins conoscevano pubbliche condanne, il pensiero di]ohn Toland era già noto per il suo panteismo mate1'ialistico. Nelle Lettere a Serena (Letters to Serena, 1704), dedicate alla regina prussiana Sofia Carlotta (1701-1705), Toland, fingendo di confutare la dottrina spinoziana dell'unicità della sostanza, la correggeva in senso materialistico e la integrava attribuendo alla materia un principio spontaneo di movimento. Per Toland la materia non era soltanto estensione, come voleva Descartes, o impenetrabilità (solidità), come riteneva Locke, bensì anche attività. Implicito ma evidente era il possibile esito irreligioso, ateistico, di simili argomentazioni: per Toland, non soltanto Dio, l'ente eterno che esiste di per sé, coincide come in Spinoza con la natura, ma anche con l'essenza esclusivamente materiale di essa, la quale è capace di muoversi e dare seguito da sola a tutte le cose del mondo.

la risposta di Berkeley • Entro questo contesto pÒlemico si articola e si precisa la proposta filosofica di Berkeley: contro i «filosofi minuti» che pretenderebbero di eliminare dal linguaggio tutto ciò che è misterioso, riducendo e limitando la comunicazione alla semplice trasmissione di idee, egli rivendica il più ampio valore che riveste la parola, capace anche di evocare, ispirare e muovere l'animo attraverso suoni e l'uso di

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metafot·e, preghiet·e. È ancora contro i «filosofi minuti", che Berkeley si serve degli stessi strumenti derivati da Locke per mostrare come proprio l'empirismo apra a prospettive intellettuali piì:t alte e ampie:

Non c'è nessun esempio di debolezza nei liberi pensatori che susciti la mia indignazione, più della loro pretesa di ridicolizzare i cristiani come uomini di limitata intelligenza, e di passare, dal canto loro, agli occhi del mondo per persone di intelligenza superiore, e di più ampie vedute. Ma io lascio che ogni uomo imparziale giudichi chi possieda i sentimenti più nobili, chi le vedute più ampie: chi limita le proprie nozioni a pochi miserabili dati dei sensi, o chi invece innalza i suoi sentimenti al di sopra del modo di sentire comune. G. Berkeley, Filosofi minuti, p. 423

È soprattutto contro il rinnovato matedalismo dei «filosofi minuti" che Berkeley difende l'immaterialismo, la teoria opposta. Ed è infine per rivendicare un'autonoma dimensione spirituale della realtà che egli discute criticamente anche le teorie filosofiche e scientifiche dei seguaci di Newton, incapaci di distinguere tra metafisica e scienza, troppo fiduciosi nei poteri salvifici, onnicomprensivi di quest'ultima, risultando inconsapevoli alleati dei «minuti filosofi,. Per quanto essi si affannino, la fede non potrà mai essere sostituita o inglobata dalla scienza, perché questa secondo Berkeley non parla del mondo ma solo di come esso appare.

2.

Un uomo di scienza e di Chiesa l'adesione all'empirismo • La singolare personalità di George Berkeley è sancita fin dalla sua nascita. Egli nasce nel1685 nella cattolica Irlanda nei pressi di Kilkenny, da una famiglia di origine inglese e di fede anglicana. Compie i suoi studi al Trinity College di Dublino. Nei Commentari .filosofici (Philosophical commentaries), redatti tra il 1706 e il 1708, quando ancora è studente, risulta soprattutto evidente come la sua riflessione sia già fortemente condizionata dal Saggio sull'intelletto umano di Locke, di cui accoglie senza indugi la svolta empiristica: neanche per Berkeley esistono idee innate e le due uniche fonti della conoscenza sono la sensazione e la riflessione. Soltanto due anni dopo la laurea, nel 1709, pubblica la sua prima opera, il Saggio su una nuova teoria della visione, un testo di analisi e chiarificazione filosofica dalle implicazioni scientifiche nel campo dell'ottica e della geometria. In esso, Berkeley prova a dare una spiegazione dell'origine dell'idea complessa di spazio, senza ricorrere, come Locke, alla percezione di una distanza tra i corpi e il soggetto, ossia tra le cose e l'occhio che le vede. Credo che tutti siano disposti ad ammettere che la distanza, di per sé e immediatamente, non può essere vista. Infatti la distanza, essendo una linea perpendicolare all'occhio, proietta sul suo fondo solo un punto, il quale resta invariabilmente lo stesso, che la distanza sia maggiore o minore. G. Berkeley, Saggio per una nuova teoria della visione, p. 89

L'idea di spazio

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A differenza di quanto sostenuto da Locke nel Saggio sull'intelletto umano, secondo Berkeley non percepiamo dunque la distanza come lo spazio intercorrente tra noi e gli oggetti sensibili; bensì, dalla percezione di immagini più grandi e più piccole, attraver-

Il fenomenismo di Blll'keley

La fol'll1111azinne

compiuta dell'immaterialismo

Il sogno irrealizznto di r.osti'llire un collegio nel 116-29. l cinque sensi (vista, tatto, gusto, udito, olfatto) forniscono all'intelletto contenuti semplici, che provengono dall'esterno ~~>130-41. L'altra fonte delle idee semplici è un senso interno, che Locke chiama riflessione, ossia la percezione interiore di tutte le operazioni che la mente compie autonomamente, come volere, pensare, dubitare, ricordare ecc. ~~>142-50.

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Delle idee in generale e della loro origine

1. Le idee sono l'oggetto del pensiero. Non esistono idee innate

Poiché ogni uomo è consapevole di pensare e, quando pensa, eli impegnare la sua mente con le idee, è al di là eli ogni dubbio che gli uomini siano forniti di una quantità considerevole eli idee, simili a quelle espresse con le parole bian-

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chezza, durezza, dolcezza, pensiero, movimento, uomo, elefante, esercito, ebrezza, e altre ancora. Si porÌ:e pertanto al primo posto fra gli scopi della nostra indagine scoprire in che modo l'uomo si procuri tale moltitudine di idee. So bene ch'è opinione accreditata chegli uomini posseggono idee innate e caratteri originari impressi nella loro mente proprio agli albori della loro esistenza. Ho già esaminato diffusamente questa opinione, e credo che si acconsentirà più facilmente a quanto esposto nel libro precedente quando avrò mostrato da dove l'intelletto ricavi tutte le idee che possiede, e con quali modi e attraverso quali gradi esse possano giungere alla mente: per conseguire tale scopo mi richiamerò a ciò che ciascuno per proprio conto può osservare e sperimentare.

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Ogni idea ha una siu1 origine nell'esplwienzn sensibileester•n11 n nell'esperienz11 ili riflessione intel'llll

l sensi intl'lldm::mm

nella mente idee di qualità sensibili

La •·iflessione fornisce all'intelletto idee sulle operazioni deil11-11. Berkeley spiega poi che quando percezioni sensibili sono tra loro contigue e ripetute, spesso sono accomunate da un solo nome; cosl collezioni di idee sono unificate da nomi generali: mela, pietra, uomo ecc. ~>111-18. Comunque sia, ogni idea, ogni contenuto mentale, sia esso di immaginazione o sensibile, è tale perché riferibile a una mente che lo percepisce. Ad esistere come sostanze non sono le idee o le cose che esse rappresentano, bensì soltanto le menti, gli enti capaci di percezione ~>119-25. Ogni contenuto mentale si risolve infatti interamente nel suo essere percepito da una mente (esse est percepi) ~>126-42. Nel brano~, tratto sempre dai Principi della conoscenza umana, Berkeley nega fermamente che l'intelletto abbia un potere di astrazione ed esclude nella mente umana l'esistenza di idee generali, come sostenuto invece da Locke ~>11-8. Ad esistere nella mente umana sono sempre idee particolari di un certo e preciso contenuto, la cui realtà non può essere separata dalla dimensione mentale di semplice contenuto cosciente di pensiero. Quando pensiamo, ad esempio, a un uomo, pensiamo sempre a un uomo particolare; l'idea astratta non ha una realtà mentale, ma come già detto è solo un nome ~>18-28.

Idee Ili sensazione, idee ili riflessione, idee !Iella memlll'ia e dell'immaginazione

Le ideo generali sono nomi attribuiti a idee ri1111Mil 11 considerate collettivamente

La mente non è un'idea, bensì ciò che a·enile esistenti le idee percependole

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l. A chiunque esamini gli oggetti della conoscenza umana, risulta evidente che si tratta o di idee effettivamente impresse ai sensi, o di idee percepite prestando attenzione alle passioni e alle operazioni della mente 1 , o infine, di idee formate con l'aiuto della memoria e dell'immaginazione, componendo, separando o semplicemente rappresentando le idee percepite originariamente nei due modi suddetti. Con la vista, ottengo le idee di luce e di colori, con i loro diversi gradi e variazioni; con il tatto percepisco, ad esempio, il duro e il morbido, il caldo e il freddo, il movimento e la resistenza, in quantità e gradi maggiori o minori. L'odorato mi fornisce gli odori, il palato i gusti, mentre l'udito invia alla mente i suoni in tutta la gamma dei loro toni e nella varietà delle loro composizioni. Poiché si osserva che molte di queste idee vanno insieme, accade che siano indicate da un solo nome, e considerate un'unica cosa. Così, acl esempio, poiché si è visto che un certo colore, un certo gusto, un certo odore e una certa figura e consistenza vanno sempre insieme, essi vengono considerati un oggetto distinto, indicato con il nome eli mela. Diverse collezioni di idee costituiscono una pietra, un albero, un libro e altri oggetti sensibili; a seconda che essi siano piacevoli o spiacevoli, suscitano le passioni dell'amore, dell'odio, della gioia, del dolore e così via. 2. Oltre, poi, all'infinita varietà delle idee o oggetti della conoscenza, c'è qualcosa che li conosce o li percepisce, e vi esercita diverse operazioni, come il volere, l'immaginare, il ricordare. Questo essere attivo e percipiente è ciò che chiamo mente, spirito, anima o me stesso. Con queste parole non denoto nessuna delle mie idee, ma una cosa completamente diversa, nella quale esse esistono, o, che è lo stesso, dalla quale sono percepite: infatti l'esistenza di un'idea consiste nel venir percepita.

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1. Dopo aver introdotto la sensazione come fonte delle idee semplici, Berkeley fa riferimento anche alla riflessione .

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Esse est percipi

Chiunque sarà disposto a riconoscere che né i pensieri, né le passioni, né le idee formate dall'immaginazione esistono al di fuori della mente. Sembra egualmente evidente che le varie sensazioni o idee impresse ai sensi, comunque siano mescolate o combinate insieme (vale a dire, qualsiasi oggetto esse compongano), non possono esistere, se non in una mente che le percepisce. Credo che di questo si possa avere una conoscenza intuitiva, ove si consideri cosa significa il termine esistere quando viene applicato alle cose sensibili. Dico che il tavolo su cui scrivo esiste, cioè lo vedo e posso toccarlo; se uscissi dallo studio, potrei dire che esiste, intendendo che, se fossi nello studio, potrei percepirlo, o che qualche altro spirito lo percepisce effettivamente. C'era un odore, cioè era sentito; c'era un suono, vale a dire che era udito; c'erano un colore o una figura, cioè erano percepiti dalla vista o dal tatto: questo è il significato che attribuisco a simili espressioni, e ad altre analoghe. Mi sembra assolutamente incomprensibile ciò che si dice riguardo all'esistenza assoluta di cose non pensanti, senza nessuna relazione con il fatto che siano percepite. Il loro esse è un percipi: non è possibile che esistano al di fuori delle menti o delle cose pensanti che le percepiscono.

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G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, pp. 198-199

6§ Nella mente non esistono ideo astratto

La mente 11011 ha un potere di nst1•azione

Se qualcuno possiede questa meravigliosa facoltà di formare idee per astrazione, nessuno potrà dirlo meglio di lui: per quanto mi riguarda, mi accorgo di possedere la facoltà di immaginare, o di rappresentarmi le idee delle cose particolari da me percepite, e di essere in grado di comporle e di separarle in vari modi. Posso immaginare un u.omo con due teste, oppure il busto di un uomo unito al corpo di un cavallo; riesco anche a considerare la mano, l'occhio e il naso, ciascuno di per sé stesso, astrattamente o separatamente dal resto del corpo. Ma qualsiasi mano o occhio io immagini, deve avere una forma e un colore particolari. Così, l'idea di uomo che mi formo deve essere quella di un uomo bianco o nero, bruno, eretto o curvo, alto, basso o di media statura; per quanti sforzi faccia, non riesco a concepire l'idea astratta sopra descritta. È egualmente impossibile per me formare l'idea astratta di movimento indipendentemente dal corpo che si muove - un movimento che non sia né rapido né lento, né curvilineo né rettilineo; lo stesso si può dire per qualunque altra idea astratta. In tutta sincerità, ammetto di essere capace di astrarre, ma solo nel senso che posso considerare determinate parti o qualità separate rispetto ad altre, quando è possibile che le prime esistano effettivamente senza queste ultime, benché si trovino unite in qualche oggetto. Nego, però, di poter astrarre l'una dall'altra, concependole separatamente, quelle qualità che non possono esistere di per sé stesse; nego anche di poter formare una nozione generale astraendo dai particolari nel suddetto modo: queste sono le due accezioni proprie del termine astrazione. Ci sono fondati motivi per credere che la maggior parte degli uomini ammetterà eli trovarsi nelle mie stesse condizioni; la grande maggioranza degli esseri umani, che sono semplici e illetterati, non pretende mai eli possedere nozioni astratte. Si dice che queste siano difficili e che non le si possa ottenere senza studio e fatica: possiamo perciò ragionevolmente concludere che, ove esistano, esse sono patrimonio esclusivo dei dotti.

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G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, pp. 184-185

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Hume: la passività dell'intelletto Nella concezione di Hume emerge compiutamente la totale passività dell'intelletto umano nel processo della conoscenza. Nel brano lli:i@:ll è riportato l'inizio del primo libro del Trattato sulla natura umana (1739-40), con la fondamentale distinzione tra impressioni e idee. Nell'analisi condotta da Hume, sono di primaria importanza non tanto i contenuti sensibili (come per Locke), quanto la forza e la vivacità con cui essi si impongono alla coscienza. Le impressioni sono le percezioni immediatamente vissute con particolare intensità. Le idee sono invece le immagini illanguidite delle impressioni ricordate o immaginate. Hume spiega ulteriormente questa distinzione richiamando la differenza tra sentire (impressioni) e pensare (idee); una differenza che è soprattutto di grado, non di contenuti. Perciò l'autore ricorda come in situazioni o stati particolari della coscienza, come il sonno o la pazzia, impressioni e idee possano confondersi ~~>11-21. Di seguito Hume passa alla distinzione tra percezioni semplici e complesse, e riforma la sua massima empiristica secondo la quale impressioni e idee si corrispondono, ossia non esiste idea che non sia stata all'origine un'impressione ~~>122-39.

llfiEI La distinzione tra impressioni e idee coincide con la differenza tra sentire e pensal'll

Sia le impressioni, sia le idee possono essere Sllllllllici o complesse

Idee e impressioni si cor1•ispondono lìlllllPI'e

ORIGINE DELLE NOSTRE IDEE Tutte le percezioni della mente umana si possono dividere in due classi, che chiamerò impressioni e idee. La differenza fra esse consiste nel grado diverso di forza e vivacità con cui colpiscono la nostra mente e penetrano nel pensiero ovvero nella coscienza. Le percezioni che si presentano con maggior forza e violenza' possiamo chiamarle impressioni: e sotto questa denominazione io comprendo tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione ndla nostra anima. Per idee, invece, intendo le immagini illanguidite delle impressioni, sia nel pensare che nel ragionare: ad esempio le percezioni suscitate dal presente discorso, eccettuate quelle dipendenti dalla vista o dal tatto e il piacere o dolore immediato ch'esso può causare. Non credo che siano necessarie molte parole per spiegare questa distinzione. Ognuno vede subito da sé la differenza tra il sentire e il pensare. In generale è facile distinguere la loro diversità di grado, anche se in certi casi particolari è però possibile che si trovino estremamente vicini l'uno all'altro. Così nel sonno, nella febbre,- nella pazzia o in qualsiasi violenta emozione dell'anima, le idee possono avvicinarsi alle impressioni; e, dall'altra parte, talvolta accade che queste siano così deboli e tenui da non poterle distinguere dalle idee. Ma malgrado questa stretta rassomiglianza che troviamo in alcuni casi, esse sono in generale tanto diverse che nessuno può farsi scrupolo di classificarle separatamente e assegnare a ciascuna un nome speciale per metterne in rilievo la differenza .. Ma c'è un'altra divisione delle nostre percezioni da non trascmare, la quale comprende tanto le impressioni quanto le idee: quella delle percezmni in semplici e complesse. Le percezioni semplici, impressioni o idee, sono quelle che non permettono nessuna distinzione o separazione: le percezioni complesse, al contrario, posson essere distinte in parti. Benché un particolare colore, sapore e odore siano qualità unite insieme in questa mela, è facile vedere che non sono le stesse, sì che, quanto meno, possiamo distinguerle l'una daU'altra. Avendo dato, con queste divisioni, un ordine agli oggetti del nostro l§tudio, possiamo ora con maggiore accuratezza studiam.e le qualità e le r~laiYioni. La prima osservazione che salta agli occhi è la gmnde rassomiglianza tra jmpressioni e idee in tutto fuorché nel grado della loro forza e vivacità: que5te sem-

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brano, in certo modo, il riflesso di quelle. Per cui ogni percezione è, per così dire, doppia, potendo mostrarsi o come impressione o come idea. Quando chiudo gli occhi e penso alla mia camera, le idee che me ne formo sono l'esatta rappresentazione delle impressioni che ne ho ricevuto: non v'è circostanza nelle une che non si ritrovi nelle altre. Esaminando le altre mie percezioni, trovo sempre la stessa rassomiglianza e la stessa rappresentazione: idee e impressioni si corrispondono sempre.

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D. Hume, Trattato sulla natura umana, pp. 13-14

Il brano liii1!, sempre dal Trattato, mostra inizialmente il ruolo assunto dalla memoria nel collegare l'originaria impressione alla successiva riapparizione nella mente dello stesso contenuto come idea, ossia in forma meno vivace e più illanguidita ~11-8. Di seguito Hume analizza la funzione svolta da un'altra importante facoltà che è l'immaginazione: tutte le percezioni sono associate in idee complesse dall'immaginazione seguendo leggi del tutto involontarie, che trascinano l'intelletto con una «dolce forza»: le proprietà che muovono l'associazione per il tramite dell'immaginazione sono la rassomiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio, il nesso di causa ed effetto ~19-28. Le cause di questa attrazione sono al fondo ignote: l'analisi di Hume si limita a registrare i processi psichici che intervengono nella mente umana, senza pretendere di indagarne le origini ~129-42. Gli effetti di questa «dolce forza» sono però testimoniabili e notevoli: tramite essa e in maniera del tutto passiva si formano le idee complesse di relazione, modo e sostanza, che Locke aveva invece collegato a un'attività volontaria ~143-47.

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Un p1•im:ipio di !IS!IIICiiiZilllll! guida l'inmmgillllZione nella formazione di idee

complesse

IDEE DELLA MEMORIA E DELL'IMMAGINAZIONE L'esperienza ci dimostra che, quando un'impressione si è presentata alla mente, vi fa di nuovo la sua apparizione in forma di idea. E questo può accadere in due modi diversi: o nella sua nuova apparizione conserva in grado considerevole la sua primitiva vivacità, ed è, allora, qualcosa d'intermedio fra un'impressione e un'idea; ovvero perde totalmente quella vivacità, ed è un'idea vera e propria. La facoltà, per cui le impressioni si ripetono nella prima maniera, è chiamàta memoria; l'altra, immaginazione. [... ] LA CONNESSIONE O ASSOCIAZIONE DELLE IDEE Dato che tutte le idee semplici posson esser separate dall'immaginazione, e di nuovo unite nella forma che più le piace, le operazioni di questa facoltà sarebbero del tutto inesplicabili se non fosse guidata da princìpi universali che la rendano in certa misura uniforme in tutti i tempi e luoghi. Se le idee fossero interamente slegate e sconnesse, soltanto il caso potrebbe congiungerle; ma è impossibile che le stesse idee semplici si raccolgano regolarmente in idee complesse (come di solito accade) senza un legame che le unisca tra loro, senza una proprietà associativa, sì che un'idea ne introduca un'altra naturalmente. Questo principio d'unione fra le idee non deve esser considerato come una connessione indissolubile: infatti, questa già l'abbiamo esclusa dalla immaginazione; né, quindi, dobbiamo concludere che senza questo principio la mente non possa congiungere due idee: non c'è infatti niente di più libero di quella facoltà. Noi dobbiamo i~vece consid:rarlo semplicemente come :ma :lolce forza che comunemente s'tmpone, ed e la causa, fra l'altro, per cut le hngue

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Gli effetti straan•dinari dell' «attrazione» nel mondo 1mmtale

Le cause del (Jrincipio di associazione

sono ignote

Rassomiglianza, contiguità, causa ed effetto generano idee compiesse di relazioni, di modi, di sostanze

hanno tanta corrispondenza tra loro: la natura sembra indicare a ognuno le idee semplici più adatte ad esser riunite in idee complesse. Le proprietà che danno origine a quest'associazione e fan sì che la mente venga trasportata da un'idea all'altra sono tre: rassomiglianza, contiguità nel tempo e nello spazio, causa ed effetto. [. .. ] Questi sono, dunque, i princìpi di unione o coesione fra le nostre idee semplici, e nell'immaginazione tengono il posto della connessione indissolubile, con cui sono unite nella memoria. Vi è qui una specie di attrazione, la quale, come si vedrà, si trova ad avere nel mondo mentale, non meno che in quello naturale, degli effetti straordinari, mostrandosi in forme non meno numerose e svariate. Tali effetti sono evidenti dappertutto; ma, quanto alle sue cause, queste sono, per lo più, sconosciute, e non si può altro che riguardarle come proprietà originarie della natura umana, che non ho la pretesa di spiegare. Non vi è cosa tanto necessaria a un vero filosofo quanto quella di frenare il desiderio intemperante di cercare le cause: una volta stabilita una dottrina su un numero sufficiente di esperimenti, egli deve anestarsi soddisfatto, specie quando un ulteriore esame lo condurrebbe a speculazioni oscure e incerte. In questo caso la sua indicazione sarà molto più opportunamente diretta a esaminare gli effetti del suo principio che non a cercarne le cause. Ora, tra gli effetti di quest'unione o associazione delle idee, i più notevoli sono quelle idee complesse, comune oggetto dei nostri pensieri e ragionamenti, le quali nascono generalmente dall'uno o dall'altro dei princìpi colleganti le nostre idee semplici. Queste idee complesse possono dividersi in idee di Relazioni, di Modi e di Sostanze.

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D. Hume, Trattato sulla natura umana, pp. 20-25

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Apparenza e realtà l tema della differenza tra apparenza e realtà solleva domande antiche intorno alle quali, dopo il discredito gettato sui sensi dal razionalismo di Descartes, Spinoza e Leibniz, anche l'empirismo moderno si è interrogato, giungendo con Locke, Berkeley e Hume a posizioni diverse e alternative. Locke ha elaborato una concezione della conoscenza che può essere definita realistica. Le idee semplici ci mettono in comunicazione, in maniera anche adeguata, ossia vera, con una realtà materiale che è fuori della nostra mente. Dal canto suo Berkeley, sviluppa invece una concezione che potremmo definire idealistica della conoscenza: mediante i sensi non conosciamo cose, ma soltanto idee. Non è il mondo rappresentato dalle idee, bensì la mente di Dio a produrre le nostre percezioni sensibili. Il discrimine tra realtà e apparenza passa allora per Berkeley dalla distinzione tra idee che esistono anche nella mente di Dio e idee che esistono soltanto nell'intelletto umano, perché prodotte dall'immaginazione, dalla fantasia. Il punto di vista di Hume può essere considerato invece fenomenista: le idee dell'intelletto sono gli unici oggetti conosciuti e conoscibili per l'uomo, niente si può dire della realtà extramentale del loro contenuto, né a favore di una loro effettiva esistenza materiale, né di una loro natura puramente ideale o immateriale. Se la critica al realismo di Locke è funzionale in Berkeley a riconoscere in Dio, e non in un mondo esterno materiale, la causa delle percezioni sensibili, in Hume setve a ratificare l'impossibilità di andare al di là delle nostre percezioni e a rintracciare l'origine emotiva, passionale anche delle nostre credenze più profonde.

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F. Goya, Iljantoccio (part.), 1791-92, Madrid, Museo Nacional del Prado.

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Locke: idee e realtà Come mostra il brano~, tratto dal secondo libro del Saggio sull'intelletto umano, per Locke la conoscenza che deriva dai sensi rappresenta, almeno in parte, qualcosa di reale. Infatti, benché tutte le idee siano delle apparenze, nel senso di esistere soltanto in virtù di una mente che ne ha coscienza, tuttavia ai contenuti di alcune di esse corrisponde sicuramente qualcosa di reale. Locke osserva perciò che alcune idee sono meramente tali, ossia pure percezioni della mente, altre sono anche immagini esatte della realtà ~11-12. Dopo aver definito meglio cosa sia un'idea, ovvero un oggetto qualsiasi di percezione, Locke definisce «qualità» i poteri che hanno le cose esterne di produrre in noi delle idee ~113-23. Come precisa dunque l'autore, per idee egli intende i nostri contenuti. mentali; per qualità, invece, quei poteri che le cose esterne hanno di produrre certe idee in noi. Fuori di noi esistono dunque degli oggetti dotati di certe qualità che hanno il potere di produrre nella mente delle idee. Alcune di queste idee, continua Locke, sono oggettive, ossia i loro contenuti corrispondono effettivamente a qualità possedute dai corpi. Tali qualità o proprietà sono l'estensione, il movimento, la solidità, la figura. Queste qualità infatti non possono essere assolutamente pensate come separate dai corpi, qualunque cambiamento o mutamento questi ultimi possano subire. Sono qualità che appartengono a ogni particella corporea e che la mente ritiene costitutive anche delle sezioni più minute e impercettibili di materia. Locke definisce originarie o primarie simili qualità. Locke avanza l'esempio del chicco di grano, diviso in parti sempre più impercettibili e tuttavia sempre dotate di estensione, movimento, solidità, figura. Ciò a riprova del fatto che queste qualità ineriscono ai corpi, siano o non siano esse percepite dall'uomo ~>124-47. A contatto coi nostri organi di senso, le proprietà primarie dei corpi producono anche qualità che Locke definisce invece secondarie, quali sono colori, sapori ecc., che invece esistono soltanto nella nostra mente e non anche nei corpi. Locke menziona infine, come un altro genere di qualità, il potere di un corpo di produrre o alterrare le proprietà di un altro corpo. Cosl, ad esempio, il fuoco produce un nuovo colore nella cera sbiancandola. Tuttavia, osserva Locke, è sempre possibile ricondurre il potere del fuoco alle sue qualità primarie e le qualità alterate nella cera a qualità secondarie H 48-61.

Alcune idee esistono solo nella nostra mente, alt1•e cm•rispondnno

a mmlificazinni reali della materia

Altre considerazioni sulle idee semplici 7. Le idee della mente e le qualità dei corpi. Per meglio scoprire la natura delle nostre idee, e discorrere di esse in modo intelligibile, sarebbe opportuno distinguerle a seconda che siano idee o percezioni nella nostra mente, oppure modificazioni della materia dei corpi che producono in noi tali percezioni: così che noi non possiamo pensare (come forse si fa di solito) che le idee siano esattamente le immagini e le similitudini di qualcosa inerente al soggetto; la maggior parte delle idee che provengono dalla sensazione, presenti nella nostra mente, non possiedono una somiglianza con le cose esterne maggiore di quella che intercorre fra le nostre idee e i nomi usati per designare quelle stesse cose, sebbene quei nomi, non appena li udiamo, evochino in noi le idee cui si riferiscono. 8. Le nostre idee e le qualità dei corpi. Designo con la parola idea qualunque cosa la mente percepisca in se stessa, o l'oggetto immediato della percezione, del pensiero o dell'intelletto, e chiamo qualità di un oggetto il potere insito in esso di produrre una certa idea nella nostra mente. Così una palla eli neve ha il potere di produrre in noi l'idea eli bianco, di freddo e eli tondo: chiamo qualità i poteri eli produrre quelle idee in

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Estensione, movimento, solidità, figm•a sono qualità prima1•ie, che esistono effettivamente nei corpi

le qualità secondarie non esistono nei corpi

e sono sens11zinni prodotte in noi dalle qualità primarie

noi, così come sono presenti nella palla di neve; e, in quanto sono sensazioni o percezioni nel nostro intelletto, le chiamo idee. E se qualche volta parlo di quelle idee come se esse fossero presenti nelle cose stesse, vorrei fosse compreso che intendo significare con ciò le qualità di quegli oggetti che producono in noi quelle idee. 9. Qualità primarie e secondarie dei corpi. Di conseguenza le qualità considerate proprie dei corpi sono di due generi. In primo luogo quelle che sono assolutamente inseparabili dal corpo, in qualunque stato esso sia, ovvero quelle qualità che saranno sempre inerenti a esso, quali che siano i mutamenti e i cambiamenti che il corpo possa subire, o la forza che su di esso si possa esercitare. Queste qualità sono tali che i sensi costantemente le scoprono in ogni particella di materia, purché sia abbastanza grande da poter essere percepita e la mente le stima inseparabili da ogni particella di materia, anche quando sia troppo piccola per poter essere di per sé percepita dai nostri sensi nella sua singolarità. Si prenda per esempio un chicco di grano, lo si divida in due parti, ciascuna di esse conserva sempre estensione, solidità, figura e mobilità; lo si divida ancora, ciascuno degli elementi risultanti da questa ulteriore suddivisione manterrà le medesime qualità; ma lo si divida ancora, finché le parti divengano impercettibili: ciascuna di quelle particelle deve conservare tutte quelle qualità. Infatti una divisione (che altro non è se non ciò che fa un mulino, un pestello, o un qualsiasi altro strumento quando riduce un altro corpo in parti impercettibili) non può eliminare da un altro corpo le qualità della solidità, dell'estensione, della figura o della mobilità, lo può solo scindere in due o più distinte porzioni di materia, e tutte queste masse distinte, che prima componevano un'unica entità, enumerate dopo la divisione come altrettanti corpi distinti, ammonteranno a un certo numero. Chiamo queste le qualità originarie o primarie di un corpo, e penso sia agevole osservare che è da queste qualità che si producono nella nostra mente le idee semplici di solidità, estensione, figura, movimento o riposo, e numero. 1 O. Qualità secondarie dei corpi. In secondo luogo ci sono qualità che nei corpi consistono solo nel potere di produrre in noi differenti sensazioni a partire dalle loro qualità primarie, ossia tramite la grandezza, la figura, la struttura e il movimento delle loro particelle impercettibili, come colori, suoni, sapori, ecc. Le chiamo qualità secondarie. A queste si potrebbe aggiungere un terzo genere di qualità, ammesse unicamente come poteri di generare nei corpi altre qualità, sebbene siano qualità altrettanto reali nell'oggetto quanto quelle che, secondo l'uso comune, ho chiamato qualità secondarie. Infatti il potere insito nel fuoco di produrre un nuovo colore nella creta o nella cera, oppure una nuova consistenza sulla base delle sue qualità primarie, è certamente una qualità propria del fuoco quanto il suo potere di produrre in me una nuova idea o sensazione di calore o di bruciore, che mai avevo provato prima d'allora, mediante le sue qualità primarie, come la grandezza, la struttura, il movimento delle sue patti impercettibili. ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, libro II, cap. VIII, p. 215

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Berkeley: la verità come coerenza percettiva Come si ricava dal brano proposto~ dal Trattato sui principi della conoscenza umana, anche Berkeley, come Locke, ritiene che la mente umana possa ritenersi attiva quando compie volontariamente operazioni come il ricordare, l'immaginare ~>11-8. Essa è invece interamente passiva quando sente, ossia percepisce idee per il tramite dei sensi. Le sensazioni si impongono infatti alla mente, che lo si voglia o meno. Esse, a differenza dunque delle idee dell'immaginazione o della memoria, che possono essere suscitate volontariamente, devono necessariamente essere prodotte da qualcosa che non è la mente umana. Secondo Berkeley, le percezioni sensibili non possono essere prodotte però da un mondo materiale, perché esso non esiste fuori di una mente che lo percepisce. Niente può dunque essere cau-

sa delle sensazioni umane se non un'altra mente, un'altra volontà: la mente, la volontà di Dio ~>19-15. Rispetto alle idee di immaginazione, le idee del senso sono più vivaci, coerenti, regolate, ordinate. Dall'esperienza di questa continuità e coerenza, che esclude il caso, l'arbitrio dell'immaginazione, gli uomini costruiscono la rappresentazione di un mondo regolato dalla saggezza divina secondo leggi di natura, che permettono previsioni e regolari aspettative ~>116-35. l sensi non ci mettono in comunicazione con un mondo esterno realmente esistente, bensì con le idee, i pensieri, che sono nella mente di Dio. Le idee dei sensi sono dunque cose reali perché esistenti anche nella mente di Dio. Le idee di immaginazione sono invece chiamate soltanto immagini o idee, proprio perché possono sussistere anche soltanto nella mente umana, in qualità di copie o di rappresentazioni delle sensazioni, delle cose considerate reali. Reali, chiude precisando ancora una volta Berkeley, anche se sempre e comunque idee, inesistenti fuori da una mente che le percepisce ~>136-61.

hnmaginaa•e e a•ir.m·dare sono operazioni che la mente (IIIÒ compiere volontariamente

Le percezioni dei sensi sfuggono al potm·e

della volontà umana

Le idee del senso sono forti, vivaci, ordinate, cne•·enti e

mostrano un mondo regolato d11 saggezza divina secondo leggi di natura

28. Mi accorgo di poter suscitare a piacere idee nella mia mente, variando e spostando la scena con la frequenza che desidero. Basta soltanto che lo voglia, e subito questa o quell'idea sorgono nella mia fantasia: dallo stesso potere vengono cancellate, per lasciare il posto ad altre idee. Questo farsi e disfarsi delle idee fa sì che sia corretto qualificare la mente come attiva. Tutto ciò è certo e fondato sull'esperienza: ma quando parliamo di agenti privi di pensiero, o di idee suscitate indipendentemente dalla volontà, non facciamo altro che giocare con le parole. 29. Però, per quanto potere io abbia sui miei pensieri, mi accorgo che le idee realmente percepite dai sensi non dipendono nello stesso modo dalla mia volontà. Quando apro gli occhi in pieno giorno, non è in mio potere decidere o meno di vedere, né stabilire quali oggetti particolari debbano presentarsi al mio sguardo; la stessa cosa avviene per l'udito e per gli altri sensi: le idee impresse su di essi non sono creature della mia volontà. Dunque, c'è un'altra volontà o un altro spirito che le produce. 30. Le idee del senso sono più forti, vivaci e distinte di quelle dell'immaginazione; possiedono anche regolarità, ordine, coerenza; non vengono suscitate a caso, come accade spesso per le idee prodotte dalla volontà umana, ma presentano una successione regolare, cioè costituiscono una serie, la cui mirabile connessione testimonia a sufficienza la saggezza e la benevolenza del suo Autore. Ora, le regole fisse e i metodi stabiliti, secondo i quali la mente da cui dipendiamo suscita in noi le idee del senso, si chiamano leggi di natura; noi le apprendiamo per mezzo dell'esperienza, la quale ci insegna che certe idee sono seguite da certe altre idee, nel corso ordinario delle cose.

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Sulle idee del !llmso si fondala di previsione

Gli uomini Cl'edmm falsamente che alle 11ercezicmi del senso corr·ispondanu dei poteri e !Ielle 1111nlità l'Ila li

Cose chiamote reoli

e cose chiamate immagini 1111111'1 se111pre idee, che non esistono al ili fmu•i ili una mente chele pensa

31. Questo ci dà una certa capacità di previsione, che fa sì che possiamo regolarci utilmente nelle nostre azioni. Altrimenti, saremmo continuamente in imbarazzo: non sapremmo mai cosa fare per procurarci il minimo piacere, o per eliminare la pitl piccola sofferenza sensibile. Che il cibo nutre, il sonno ristora e il fuoco riscalda; che seminare al tempo della semina è l'unico modo per raccogliere il grano al tempo della mietitura, e, in generale, che per conseguire questi o quei fini sono necessari questi o quei mezzi: tutto ciò lo sappiamo non perché abbiamo scoperto una connessione necessaria tra le nostre idee, ma solo in seguito all'osservazione delle leggi di natura, senza le quali saremmo sempre incerti e confusi, e un uomo adulto non saprebbe comportarsi nelle evenienze della vita meglio di un bambino appena nato. 32. Tuttavia, quell'azione coerente e uniforme, che con tanta evidenza mostra la bontà e la saggezza dello spirito reggitore, la cui volontà costituisce le leggi di natura; quell'azione, dico, è ben lungi dall'indirizzare a sé i nostri pensieri, tanto che li fa errare alla ricerca di cause seconde. Infatti, quando percepiamo certe idee sensibili costantemente seguite da altre idee, e sappiamo che questa connessione non è opera nostra, attribuiamo senz'altro il potere e l'attività alle idee stesse, e crediamo che l'una sia la causa dell'altra, mentre non ci può essere nulla di più assurdo e incomprensibile. Così, ad esernpio, poiché abbiamo osservato che, quando si percepisce con la vista una certa figura luminosa erotonda, nello stesso tempo si percepisce con il tatto l'idea o sensazione chiamata calore, concludiamo che il sole è la causa del calore. Analogamente, percependo che il movimento o l'mto dei corpi è accompagnato da un suono, siamo inclini a pensare che quest'ultimo sia l'effetto dei primi. 33. Le idee impresse ai sensi dall'Autore della natura sono chiamate cose reali: quelle, invece, suscitate nell'immaginazione, essendo meno regolari, vivaci e costanti, vengono chiamate più propriamente idee o immagini delle cose che copiano o rappresentano. Ma anche le nostre sensazioni, per quanto siano vivaci e distinte, sono sempre idee, vale a dire che esistono nella mente, o sono da essa percepite, così come le idee formate dalla mente stessa. È vero che le idee del senso contengono un grado maggiore di realtà - sono, cioè, più forti, ordinate e coerenti delle creature della mente: ma questo non prova che esistano al di fuori di essa. Sono anche meno dipendenti dallo spirito, o sostanza pensante che le percepisce, in quanto vengono suscitate dalla volontà di un altro spirito più potente: eppure si tratta sempre di idee, e certo nessuna idea, debole o forte che sia, può esistere al di fuori di una mente che la percepisce.

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G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, pp. 213-215

il brano l!iE , tratto dai Tre dialoghi tra Hylas e Philonous, propone la celebre critica di Berkeley a un caposaldo della concezione realistica di Locke, ossia la distinzione tra qualità primarie e secondarie, le une ritenute oggettive, corrispondenti alla realtà, le altre puramente soggettive. Philonous, portavoce di Berkeley, ha già condotto il suo interlocutore, Hylas, ad ammettere con Locke che le qualità secondarie esistono soltanto nella nostra mente, dipendendo in tutto e per tutto dai nostri organi di senso ~>-11-17. Il passo successivo di Philonous consiste nel convincere che analogamente possono essere trattate le qualità cosiddette primarie, come ad esempio l'estensione. Infatti, anche la perce-

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zione di queste qualità può variare da soggetto a soggetto: una certa estensione può risultare grande se ad essa ci avviciniamo, più piccola se da essa ci allontaniamo. Una cosa che appare grande a un bruco può risultare minuscola a un uomo. Persino il microscopio fa sembrare enormi cose che a occhio nudo sono piccolissime ~>118-51. Philonous conduce così lentamente Hylas a riconoscere che anche le cosiddette qualità primarie, al pari di tutte le qualità sensibili, non esistono di per sé ma solo in una mente che le percepisce ~>152-80. Né, conclude Philonous, è possibile concepire la sostanza materiale senza una qualche qualità sensibile, come fosse un puro sostrato, un ente astratto e distinto persino dall'estensione, che anche i cartesiani gli attribuiscono ~>181-93.

Hylasaccnglie In distinzione tra qualità pi•imnrie e sec1.mllarie, ammettendo l'irrealtà di queste ultime

Anche le qualità p1•irmwie appaiono in base al senso come

relative e soggettive

HYLAS. - Confesso francamente, Philonous, che sarebbe inutile resistere ancora. I colori, i suoni, i sapori, in una parola tutte quelle che sono chiamate qualità secondarie, non esistono al di fuori della mente. Ma non si deve credere che questo tolga qualcosa alla realtà della materia e degli oggetti esterni: lo ammettono, infatti, parecchi filosofi, che pure sono lontanissimi dal voler negare la materia. Per comprendere meglio questo punto, devi sapere che i filosofi dividono le qualità sensibili in primarie e secondarie. Le prime sono l'estensione, la figura, la solidità, la gravità, il moto e la quiete; queste, sostengono, esistono realmente nei corpi. Le seconde sono quelle che ho elencato prima, cioè, in breve, tutte le qualità sensibili eccetto le qualità primarie; i filosofi asseriscono che queste sono semplici sensazioni o idee che esistono solo nella mente. Ma non dubito che tu sia al corrente di tutto ciò. Per quanto mi riguarda, da parecchio tempo sapevo che tra i filosofi circolava questa opinione, ma non ero mai stato pienamente convinto della sua verità sino ad ora. PHILONOUS.- Sei sempre dell'opinione, quindi, che l'estensione e le figure ineriscano a sostanze esterne prive di pensiero. HYLAS.- Sì. PHILONOUS. - Che accadrebbe, però, se gli stessi argomenti che si sono rivelati decisivi per le qualità secondarie potessero essere applicati con successo anche alle qualità primarie? HYLAS. - In tal caso dovrei per forza concludere che anch'esse esistono solo nella mente. PHILONOUS. - Credi che la stessa figura e la medesima estensione percepite dai sensi esistano nell'oggetto esterno, cioè nella sostanza materiale? HYLAS. - Sì. PHILONous. -E tutti gli altri animali hanno motivi altrettanto validi per pensare la stessa cosa della figura e dell'estensione che vedono e toccano? HYLAS. - Senza dubbio, ammesso che siano capaci di pensare. PHILONOUS. -· Rispondi a questa domanda, Hylas: credi che i sensi siano stati dati a tutti gli animali per la conservazione e il benessere della vita? O soltanto agli uomihi furono dati per questo scopo? HYLAS. - Non dubito che i sensi abbiano lo stesso scopo in tutti gli altri animali. PHILONous. - Allora, non è forse necessario che gli animali siano in grado di percepire, grazie ai loro sensi, le proprie membra, e quei corpi che potrebbero danneggiarle? HYLAS. - Certo. PI-IILONOUS. - Dunque si deve supporre che un bruco veda la propria zampa, e cose di grandezza eguale e persino inferiore, come corpi di dimensioni con-

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Nessuna differenza

sembra sussistere tra qualità primarie e qualità secondarie

È ililllllssibile concepir•e

la matet•ia senza attt•ibuirle una qualità

sensibile

siderevoli, benché a te sembrino a malapena discernibili, o· al massimo meri punti visibili. HYLAS. - Non posso negarlo. Pr-IILONOUS. - E a creature pii:1 piccole del bruco quelle cose sembreranno ancora più grandi. HYLAS. -Sì. PHILONOUS. - Quindi, ciò che tu riesci a scorgere a fatica, a un altro animale estremamente piccolo apparirà un'enorme montagna. HYLAS. -Lo ammetto. PHILONOUS. - E può una medesima cosa avere nello stesso tempo dimensioni diverse? HYLAS. - Immaginarlo sarebbe assurdo. PHILONOUS. -Ma da ciò che hai detto segue che sia l'estensione che percepisci tu, sia quella che percepisce il bruco, sia le estensioni percepite da animali ancora più piccoli, sono ciascuna la vera estensione della zampa del bruco: dunque, i tuoi princìpi ti hanno portato a sostenere una tesi assurda. HYLAS. -Sembra che vi sia qualche difficoltà a questo riguardo. PHILONOUS. - E ancora, non hai forse ammesso che nessuna proprietà realmente inerente a un oggetto può essere alterata, senza che si verifichi un mutamento nella cosa stessa? HYLAS.- Sì. PHILONOUS. - Ma quando ci avviciniamo a un oggetto o ci allontaniamo da esso, l'estensione visibile varia: a una certa distanza risulta dieci o cento volte pii:J grande che a un'altra distanza. Non ne segue quindi che l'estensione visibile non inerisce realmente all'oggetto? HYLAS.- Confesso che non so cosa pensare. · Pr-moNous. - Ti deciderai subito, se avrai il coraggio di trattare questa qualità con la stessa libertà di pensiero che hai usato per le altre. Non abbiamo concluso che né il caldo né il freddo erano nell'acqua, perché essa sembrava calda a una mano e fredda all'altra? HYLAS. - Sì. PHILONOUS. - Non abbiamo allora lo stesso diritto di concludere che in un oggetto non vi sono né l'estensione, né la figura, dal momento che esso appare a un occhio piccolo, liscio e rotondo, e all'altro occhio grande, scabro e angoloso, nello stesso tempo? HYLAS. - Sì. Ma questo può mai succedere? PHILONOUs.- Puoi fare l'esperimento quando vuoi, guardando con un occhio nudo, e con l'altro attraverso un microscopio. HYLAS.- Non so pii:1 come difenderla, eppure sono restio ad abbandonare l'estensione\ tante sono le conseguenze stravaganti che si potrebbero trarre da una simile concessione. PHILONOUs. -Stravaganti, dici? Dopo le ammissioni che hai già fatto, spero che non ti fermerai più davanti a nessuna opinione, per quanto possa sembrarti strana. D'altra parte, non sarebbe ancora più strano se quel ragionamento generale, che si è dimostrato valido per tutte le altre qualità sensibili, non fosse valido anche per l'estensione? Ove si ammetta che nessuna idea, né qualcosa di simile a un'idea, può esistere in una sostanza che non percepisce, deve se-

1. Nella filosofia cartesiana l'estensione era l'essenza dei corpi.

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guirne che nessuna figura o modo dell'estensione che possiamo percepire o immaginare, e di cui abbiamo idea, può inerire realmente alla materia; per non parlare della peculiare difficoltà che sorge quando proviamo a concepire la sostanza materiale in modo preliminare e distinto rispetto all'estensione, come substratum dell'estensione 2 . Qualunque sia la qualità sensibile considerata- sia essa la figura, il suono o il colore- sembra egualmente impossibile che sussista in ciò che non è in grado di percepirla.

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G. Berkeley, Tre dialoghi tra Hylas e Philonous, pp. 311-314

2. Riferimento polemico alla teoria dell'astrazione di Locke, qui sottintesa nella possibilità eli pensare a un'estensione in generale senza riferirla a un particolare corpo esteso.

Hume: lo scetticismo e la credenza Hume fa propria la critica di Berkeley alla distinzione lockiana tra qualità primarie e secondarie, ritenendo le percezioni mentali gli unici dati reali conoscibili dall'uomo. La critica al realismo assume in Hume però una valenza propriamente metodologica: il suo approccio vuoi essere infatti prettamente sperimentale, antimetafisico, estraneo tanto all'ipotesi di Locke sull'esistenza di un mondo materiale esterno, quanto alla teoria di Berkeley sulla realtà puramente spirituale dell'essere, considerate entrambe al di là di ogni possibile conferma empirica. A questo proposito, come mostra il brano ffiiDl tratto dal Trattato sulla natura umana, anche la fiducia stessa che riponiamo nell'esistenza reale di un mondo, nelle questioni di fatto, di cui le percezioni sensibili sarebbero testimonianza, può essere spiegata come una credenza che affonda in processi puramente emotivi e psicologici, legati all'immaginazione e ad associazioni mentali involontarie. Una cosa ci appare reale e la distinguiamo da un'altra, che riteniamo invece una pura fantasia della nostra mente, non perché la prima ci faccia scoprire entità che esistono davvero fuori di noi, ma semplicemente perché la sentiamo più forte e più vivace dell'altra ~>11-15 La credenza non dipende interamente dall'immaginazione, perché non riguarda tanto la natura o l'ordine delle idee, bensì la forza, la maniera di sentire della nostra mente ~>115-33 Come spiega Hume è possibile leggere il medesimo libro, come fosse un romanzo o una storia vera: in entrambi i casi non cambierebbe l'ordine delle idee e della trama della storia, diverso sarebbe l'effetto che si produce in termini di credenza nella mente del lettore ~>134-48. Come spiegherà altrove l'autore, la credenza trova inoltre fondamento in esperienze continue e ripetute.

la credenza nelle questioni di fatto è fondata sulla forza e sullauiuacitiì delle 1111rcezioni

Quest'operazione della mente, che forma la credenza nelle questioni eli fatto, è stata finora uno dei più grandi misteri della filosofia, benché nessuno abbia neanche sospettato che ci fosse qualche difficoltà a spiegarla. Per parte mia debbo confessare che ce ne trovo, e non piccola; e che, anche quando sento eli comprendere perfettamente la questione, non so come fare a trovar i tennini per esprimermi. Concludo, con un'induzione che mi sembra del tutto evidente, che un'opinione o credenza non è altro che una idea, diversa dalla finzione non per natura o per l'ordine delle sue parti, ma per la maniera con cui è concepita. Ma per spiegare questa maniera non trovo una parola che faccia pienamente al caso, e sono costretto a rimandare ognuno al suo proprio senti-

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La m•edenza dipende dal modo di sentiJ•e della mente

mento per una nozione perfetta di questa operazione della mente. Un'idea a cui si assente si sente diversamente da quella ch'è una mera finzione della fantasia; ed è.proprio questa differenza del sentire ch'io mi sforzo di spiegare con · le espressioni di forza o vivacità superiore, di maggiore solidità o fermezza o stabilità. Questa varietà di termini, che possono sembrare così poco filosofici, mira soltanto ad esprimere quell'atto della mente per il quale ogni cosa reale è a noi più presente delle finzioni, e conferisce a essa una maggiore importanza per il pensiero, sì che maggiore è anche la sua influenza sulle passioni e sull'immaginazione. Purché ci troviamo d'accordo sulla cosa è inutile discutere sulle parole. L'immaginazione ha il governo eli tutte le sue idee: può unirle, mischiarle, variarle in tutti i modi: può concepire gli oggetti in tutte le circostanze eli luogo e di tempo: e può parli, per così dire, innanzi ai nostri occhi con i loro veri colori, come se fossero esistiti realmente. Ma, poiché è impossibile che questa facoltà possa da se stessa arrivare alla credenza, è evidente che la credenza non consiste nella natura o nell'ordine delle idee, ma nel modo eli concepirle e eli renderle sensibili alla mente. Confesso ch'è impossibile spiegare perfettamente questo sentimento o maniera eli concepire. Ci sono parole che si avvicinano per il significato; ma il suo vero e proprio nome è quello di credenza, termine comune che ognuno capisce a sufficienza. In sede filosofica, poi, dobbiamo contentarci di affermare ch'essa è qualcosa eli sentito dalla mente, la quale distingue, così, le idee del giudizio dalle finzioni dell'immaginazione. Essa dà a loro maggior forza e influenza, le fa apparire pi\:1 importanti, le fissa nella mente, e ne fa princìpi che governano tutte le nostre azioni. Questa definizione ognuno può trovarla conforme al proprio sentimento e alla propria esperienza. Come mettere in dubbio che le idee alle quali assentian:io sono più forti, più ferme, più vive di quelle dei castelli in aria? Se uno si mette a leggere un libro come fosse un romanzo, e un altro come fosse una storia vera, manifestamente essi ricevono le medesime idee e nello stesso ordine; né l'incredulità del primo né la credenza del secondo impediranno loro eli dare al testo lo stesso significato. Quelle parole producono le stesse idee in entrambi, benché quanto affermano non abbia la stessa influenza su di loro. Il secondo ha una concezione più viva di tutti i particolari: egli penetra più addentro in quel che riguarda i personaggi del racconto; si rappresenta le loro azioni, i caratteri, le amicizie e inimicizie; e arriva sino a rappresentarsi i loro lineamenti, l'aspetto, la figura tutta quanta. Invece, il primo, che non dà nessun credito alla testimonianza dell'autore, ha una concezione più debole, più languida, di tutti questi particolari; e se non fosse per lo stile e per l'ingegnosità della composizione, la lettura non gli offrirebbe un grande svago. D. Hume, Trattato sulla natura umana, pp. 110-112

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Il criterio del senso

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empirismo moderno ridisegna completamente ambiti e confini del sapere umano, ponendo l'esperienza sensibile a criterio di verità. Nelle analisi eli John Locke, George Berkeley e Davie! Hume, il criterio del senso restringe eli colpo l'ambito della certezza e della scienza per allargare quello della probabilità e della congettura. Secondo Locke, benché l'uomo conosca qualità e proprietà reali delle cose, mai potrà tuttavia conoscere la loro sostanza, ossia la loro intima struttura. Sono conoscibili, infatti, le qualità sensibili ma non la sostanza cui esse ineriscono, perché essa è dalla mente solo supposta, non percepita sensorialmente. Dal canto suo, Berkeley mostra come, sulla base dell'esperienza sensibile, persino molte tesi formulate dalla scienza fisica, da Newton e dai suoi seguaci, siano mere congetture legate a nozioni come forza, spazio assoluto, che sono pure elaborazioni teoriche, prive di diretto significato empirico. Come spiega Berkeley, tali nozioni della fisica newtoniana hanno un'origine e una natura esclusivamente teorica, non fondata sul senso e sull'osservazione. Secondo Hume, infine, il principio stesso di causalità, che i moderni pongono a fondamento della loro concezione scientifica della natura, vale soltanto entro i

confini della probabilità, perché la necessità che l'intelletto umano scorge tra una causa e il suo effetto è soltanto una credenza, frutto di un'abitudine generata da un'esperienza costante e ripetuta. Niente di oggettivo, eli assolutamente vero o falso è possibile dire del mondo, della realtà fattuale.

locke: la sostanza, l'essenza, le parole e le cose Il primo brano liiiiil!, tratto dal secondo libro del Saggio sull'intelletto umano, propone l'analisi di Locke sulla genesi delle idee complesse delle sostanze. Esse sono formate da idee semplici che la mente umana osserva presentarsi sempre insieme, senza riuscire ad immaginare come queste possano esistere, se non supponendo un medesimo sostrato al quale tutte ineriscano ~>-11-1 O. Ma, chiarisce immediatamente Locke, tale supposto sostrato, per quanto necessario e realmente esistente, non potrà mai essere conosciuto dall'uomo r;.l11-15. Di cosa sia la sostanza, il sostrato, il supporto di certe qualità sensibili niente sappiamo, perché non ne abbiamo idea. l sensi ci forniscono infatti idee semplici ma non idee complesse. L'idea di sostanza è solo una supposizione che la mente necessariamente elabora; è un presunto sostegno, ignoto, anche se reale, perché esistenti sono le qualità sensibili che percepiamo ~>-116-41. Il brano successivo~. dal terzo libro, inizia con la definizione di essenza nominale, collegandola al significato di idee astratte, perfettamente conoscibili, ma corrispondenti soltanto a termini linguistici, nomi. Diversamente, l'essenza reale indica la costituzione delle sostanze, la loro struttura intima; capace di supporta re e sostenere qualità e proprietà ~>-11-17. L'essenza nominale accomuna in una nozione generale più individui, in base a caratteristiche e proprietà che riteniamo e rinveniamo comuni, e serve solo a classificare e catalogare le cose, come esemplifica Locke mediante gli esempi dell'oro e dell'uomo, richiamato anche per precisarne la differente nozione di essenza reale r;.l18-37. Come di seguito l'autore spiega, l'essen-

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za nominale non è l'essenza reale: l'una ha infatti il valore astratto e generale di una conoscenza generica, diversa da quella che discende dalla considerazione particolare e concreta che compete all'essenza reale. L'essenza reale indica invece la costituzione interna, intima della cosa, ciò che per definizione non conosceremo mai, dato che i nostri sensi ci comunicano soltanto proprietà e qualità di essa, ossia le sue manifestazioni sensibili ~138-55

Delle nostre idee complesse delle sostanze L'idea di sostanza è un'idea complessa che raccoglie idee semplici che si presentano sempre insieme

L'idea di sostanza è quella di un pre11unto

suppm•to, ignoto, I!IIPIIre reale

1. In che modo si formano le idee delle sostanze. Poiché la mente, come ho dichiarato, è provvista di un gran numero di idee semplici in essa convogliate dai sensi, così come essi le reperiscono nelle cose esteriori, o mediante la riflessione sulle operazioni della mente stessa, essa osserva che un certo numero di queste idee semplici si presentano sempre insieme. Poiché le parole sono confacenti alla comune cornprensione e si fa uso di esse per un rapido scambio, e poiché si presume che quelle idee appartengano a una sola cosa, raccolte così in un solo soggetto, esse sono designate con un solo nome. In seguito, però, per disattenzione, siamo inclini a parlare e a considerare come un'idea semplice quella che è invece una combinazione complessa di molte idee insieme, e ciò accade perché, come ho detto, non immaginando in che modo queste idee semplici possano sussistere per se stesse, noi ci adattiamo a supporre l'esistenza di un certo sostrato dove esse sussistono effettivamente e di cui sono il risultato, e perciò lo chiamiamo sostanza. 3. La nostra idea di sostanza, considerata in generale. Se qualcuno volesse interrogare se stesso a proposito della sua nozione di sostanza pura in generale, scoprirebbe di non possedere alcuna idea, ma solo una supposizione di un qualche sconosciuto sostegno di certe qualità capaci di produrre in noi idee semplici: qualità che comunemente vengono chiamate accidenti. Se si domandasse a uno quale sia il soggetto cui ineriscono colore e peso, egli non avrebbe niente da dire se non che riguardano parti solide ed estese; e se gli venisse chiesto a cosa siano inerenti quella solidità e quella estensione, in tal caso non si troverebbe in una posizione migliore dell'indiano menzionato prima [libro II, cap. XIII, § 19], al quale, poiché affermava che il mondo era sostenuto da un grande elefante, fu domandato su cosa poggiasse l'elefante, al che la sua risposta fu: su una grande tartaruga, ma poiché si insisteva per sapere che cosa sostenesse quella tartaruga dalla schiena così ampia, rispose che non lo sapeva. In questo caso, come in tutti gli altri in cui usiamo parole senza avere idee corrispondenti chiare e distinte, noi parliamo come i bambini che, interrogati su cosa sia una certa cosa che non conoscono, danno prontamente questa soddisfacente risposta: che si tratta di qualcosa,- e ciò, in verità, quando viene usata dai bambini come dagli adulti, non significa nulla più se non che essi ignorano di che si tratti e che della cosa che fingono di conoscere e di cui pretendono di parlare non hanno la benché minima idea distinta, rispetto alla quale sono perfettamente ignoranti e nella totale oscurità. Dunque, la nostra idea a cui diamo il nome generale di sostanza, non essendo altro che il presunto ma ignoto supporto di quelle qualità che scopriamo esistenti e che immaginiamo non possano sussistere, sine re substante, senza qualcosa che le suppmti, quel sostegno lo chiamiamo substantia, che, conformemente al valore effettivo della parola inglese substance, significa «Star sotto, sostenere". ]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, libro II, cap. XXIII, pp. 527-529

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Dei nomi e delle sostanze l'essenza 1101ninale co••risponde all'idea astratta; l'essenza reale alla costituzione particolm·e e conci•eta di ciascuna soutanza

l'essenza nominale non coincide cnn

l'essenza reale

Se l'essenza nominale è conoscibile, inconosciliile è inuer.e

l'essenza reale

2. L'essenza di ciascun tipo è un'idea astratta. La misura e il limite di ogni tipo o species\ quel che costituisce il tipo particolare e che perciò lo rende distinto dagli altri, è quel che noi chiamiamo la sua essenza, che non è altro se non l'idea astratta a cui è associato il nome; così che ogni cosa contenuta in quell'idea è essenziale a quel tipo. Sebbene in questo consista tutta l'essenza delle sostanze naturali che noi conosciamò, o per il cui tramite le distinguiamo in lipi, tuttavia def1omino ciò mediante il nome peculiare di essenza nominale, per distinguerla dalla reale costituzione delle sostanze da cui dipendono questa essenza nominale e tutte le proprietà di quei tipi: ed è questa, di conseguenza, corne si è già detto, che può essere chiamata l'essenza reale. Vale a dire che l'essenza nominale dell'oro è quell'idea complessa designata dalla parola oro, ossia, per esempio, un corpo giallo, di un certo peso, malleabile, che fonde ed è solido. Ma l'essenza reale è la costituzione delle parti impercettibili di quel corpo, da cui dipendono quelle qualità e tutte le altre proprietà dell'oro. Apparirà evidente a prima vista quanto siano diverse queste due cose, sebbene entrambe portino il nome di essenza. 3. L'essenza nominale e l'essenza reale sono differenti. Benché, forse, il moto volontario insieme al senso e alla ragione, congiunto a un corpo di una certa conformazione, componga un'idea complessa alla quale io e altri ancora associamo il nome uomo in modo da costituire l'essenza nominale della specie chiamata a quel modo, nessuno però dirà che quell'idea complessa sia la reale essenza e la fonte di tutte le operazioni che si possono trovare in ciascun individuo di quel tipo. Il fondamento di tutte le qualità che sono gli ingredienti della nostra idea complessa è qualcosa di ben diverso, e se noi avessimo una conoscenza tale di quella costituzione dell'uomo da cui discendono le sue facoltà di muoversi, di percepire e di ragionare e altri poteri ancora e da cui dipende il suo aspetto regolare, simile a quella conoscenza che è possibile abbiano gli angeli e come è certo l'abbia il suo Creatore, avremmo dell'essenza dell'uomo un'idea differente rispetto a quella che ora è compresa nella nostra definizione di quella specie, qualunque essa sia, e la nostra idea di un qualunque uomo particolare sarebbe del tutto differente da quel che è ora, quanto lo è la conoscenza di chi sia informato su tutte le molle, le ruote e altri congegni che compongono il famoso orologio di Strasburgo, rispetto alla conoscenza che ne ha un contadino che si limita a osservare il movimento delle lancette e ad ascoltare i colpi della soneria e a osservare solo taluni aspetti esteriori. [. ..] 9. Non è l'essenza reale quella che noi conosciamo. Pertanto non possiamo classificare né catalogare le cose e, di conseguenza, denominarle (che è lo scopo del classificare) a seconda della loro essenza reale, perché non la conosciamo. Nella conoscenza e nella distinzione delle sostanze, le nostre facoltà non ci conducono oltre un insieme delle idee sensibili che noi osserviamo in esse, insieme che, per quanto costmito con 'la maggiore esattezza e diligenza di cui siamo capaci, rimane tuttavia sempre più remoto dalla vera costituzione interna da cui discendono quelle qualità, di quanto non sia, come ho già detto, l'idea che ha un contadino a proposito del meccanismo interno di quel famoso orologio di Strasburgo, di cui egli osserva solo la figura e il

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movimento esterno. Non v'è pianta o animale, anche il più spregevole, che non confonda l'intelletto più comprensivo. Sebbene la consuetudine con le cose intorno a noi cancelli la nostra meraviglia, tuttavia tale familiarità non pone rimedio alla nostra ignoranza. Qualora arriviamo a esaminare le pietre su cui passeggiamo e il ferro che maneggiamo quotidianamente, scopriamo immediatamente di non sapere come siano fatti e non riusciamo a fornire alcuna spiegazione delle differenti qualità rilevate in tali oggetti. È evidente che ci rimane sconosciuta la loro costituzione interna, da cui dipendono le loro proprietà.

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]. Locke, Saggio sull'intelletto umano, libro III, cap. VI, pp. 815-817, 825

Berkeley: congetture e predizioni Il seguente brano~ è tratto dal De motu (Sul movimento, 1720) di Berkeley. La critica che egli conduce al linguaggio della scienza e alle asserzioni non basate su dati sensibili diretti ha esplicitamente la funzione di aprire lo spazio a spiegazioni puramente metafisiche e spiritualistiche della realtà. Secondo Berkeley, ritenere ad esempio che i corpi abbiano in sé una forza, un principio del moto è più oscuro e meno suffragato dall'esperienza che attribuire allo spirito, alla mente, la capacità di iniziare ogni movimento H 1-6. Come ha spiegato in precedenza l'autore, l'esperienza mostra infatti come l'uomo per sua volontà possa alzare un braccio e quindi iniziare un movimento, nei corpi sembra invece che il movimento si trasmetta e non si produca. Richiamando temi della metafisica cartesiana, Berkeley mostra inoltre come la nozione di corpo richiami quella del suo status di quiete o di movimento in base al principio della cor1servazione del moto nella creazione divina ~>-17-13. La filosofia naturale che si serve di osservazioni ed esperimenti non potrà mai sostituirsi a una metafisica, perché dovrà sempre presupporre principi di spiegazione più alti, relativi all'inizio assoluto del movimento, alla creazione della materia, al rinvenimento delle reali cause efficienti H 13-22. La metafisica rintraccia le cause; la scienza individua solo le leggi. Secondo Berkeley, infatti, occorre distinguere tra spiegazioni reali, che competono a un piano puramente metafisica, e le ipotesi matematiche della scienza, utili a formulare leggi generali di predizioni di fenomeni particolari ~>123-29. È indispensabile dunque non scambiare le nozioni, i termini tecnici del linguaggio scientifico per realtà e spiegazioni assolute della verità.

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Dio crea i curtli consermmdo in essi .la quantità di motn

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31. Risulta evidente, quindi, che quanti affermano l'esistenza, nei corpi, di una forza attiva, di un'azione o di un principio del moto, non basano affatto le loro asserzioni sull'esperienza, e fanno uso di termini oscuri e generali, che essi stessi non comprendono. Al contrario, quelli che considerano la mente il principio del moto fanno un'affermazione fondata sulla propria esperienza personale, e suffragata dagli uomini più dotti di ogni epoca. [. .. ] 34. I moderni considerano il moto e la quiete dei corpi due modi di esistenza, in ciascuno dei quali un corpo, per sua natura inerte, tende a perseverare finché su di esso non agisca una forza esterna: se ne può inferire che la causa del moto è identica a quella della quiete, ed è la medesima causa dell'esistenza dei corpi. Mi sembra anche che la causa dell'esistenza successiva di un corpo in parti diverse dello spazio, sia la stessa dalla quale dipende l'esistenza successiva di quel corpo in parti diverse del tempo. Ma la considerazione di Dio ottimo massimo, che ha creato e conserva tutte le cose; la dimostrazione dei mo-

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La metafisica mira alle cause reali La scienza stabilisce solo leggi, non cause

tivi per i quali tutte le cose dipendono dall'ente vero e supremo, pur costituendo la parte più eccelsa della scienza umana, sono di competenza della filosofia prima o metafisica e della teologia, piuttosto che della filosofia naturale, la quale al giorno d'oggi consiste quasi interamente negli esperimenti e nella meccanica. Quindi la filosofia naturale deve o presupporre la conoscenza eli Dio, oppure mutuarla da una scienza superiore; tuttavia, è verissimo che l'investigazione della natura fornisce alle scienze più elevate molti argomenti eccellenti per illustrare c dimostrare la sapienza, la bontà e la potenza di Dio. 35. La scarsa comprensione eli tutto questo ha indotto alcuni a rifiutare ingiustamente i princìpi matematici della fisica, perché non stabiliscono le cause efficienti delle cose. La fisica e la meccanica hanno soltanto il compito di fissare le regole - non quello di trovare le cause efficienti - dei fenomeni di urto e di attrazione, cioè, per dirla in breve, devono stabilire le leggi del moto, e fornire su tale base una spiegazione dei fenomeni particolari -non attribuire ad essi una causa efficiente.

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G. Berkeley, Sul movimento, pp. 438-440

Hume: la probabilità delle cause Il seguente brano~ dal Trattato sulla natura umana (1739-40) di Hume contiene la celebre analisi sul principio di causalità. L'autore mostra come il nesso di causa ed effetto sia il frutto di un'esperienza tra dùe eventi contigui nello spazio e in successione temporale. Sulla base dell'esperienza non troviamo niente di più che caratterizzi un evento come causa di un altro e questo come effetto del primo ~11-15. Hume osserva però che nell'idea di causalità è contenuto qualcosa di più della contiguità e della successione, ossia la relazione di connessione necessaria, secondo la quale se è dato un evento necessariamente ne seguirà un altro come suo effetto, o se è presente un effetto deve essere intervenuta di necessità, in precedenza, la sua causa ~>116-33. Per spiegare questa relazione di connessione necessaria, Hume avanza così anche l'esperienza di congiungimento costante, ossia l'osservazione ripetuta della contiguità e della successione temporale degli eventi ~>-134-43. A seguito di ripetute esperienze di eventi contigui e in successione temporale, chiamiamo il primo causa, il secondo effetto: allorché uno di questi eventi si presenti alla nostra percezione, l'immaginazione subito associa l'altro evento come sua causa o suo effetto. Questo ci fa credere in una connessione necessaria tra gli eventi che non ha alcun fondamento reale, bensì esclusivamente psicologico ~>143-55. Inutilmente dunque sulla base dell'esperienza, la ragione potrà inferire una conoscenza della causalità che possa raggiungere la certezza: che cause simili produrranno in futuro effetti simili a quelli passati è una conclusione che solamente l'esperienza può confermare. Tuttavia nella mente umana avviene davvero un processo di associazione che collega necessariamente una causa all'effetto solitamente esperito, che è però solamente il frutto dell'abitudine e dell'esperienza costante.

~il!~ L'idea Iii causalità è fornita dall'esperienza !li contiguità e successione

Avendo così scoperto, o supposto, che le due relazioni di contiguità e di successione sono essenziali a quella eli causalità, mi accorgo che sono costretto a fermarmi e che, quale che sia il caso particolare di causalità, non posso aggiungere altro. 11 movimento di un corpo è considerato come la causa, in seguito a un urto, del movimento d'un altro corpo. Considerati questi oggetti con la massima attenzione, trovo che l'uno si avvicina all'altro, e che il suo movimento pre-

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l'esperienza di una connessione necessaria definisce la causalità

La connessione necessaria è una relazione di congiungimento costante

cede quello dell'altro, sebbene senza un sensibile intervallo. È inutile torturarsi con ulteriori pensieri e riflessioni: qui è tutto quello che si può osservare in questo caso. Se uno vuollasciar da parte questo caso concreto, e definire la causa in generale dicendo ch'essa è qualcosa che ne produce un'altra, evidentemente non dice niente. Poiché, che cosa intende per produrre? Può darne una definizione che non sia quella stessa di causare? Si provi a darla: se ci riesce, mi dica qual è; altrimenti, s'aggira in un circolo vizioso, e dà un sinonimo invece di una definizione. Ci contenteremo, allora, di queste due relazioni di contiguità e di successione, come se ci dessero un'idea completa della causalità? In nessun modo. Un oggetto può esser contiguo e anteriore a un altro, e non esser considerato come sua causa. Bisogna prender in considerazione la relazione di connessione necessaria, che ha un'importanza ben maggiore delle due precedenti. [. .. ] Con la sola esperienza, dunque, possiamo inferire l'esistenza di un oggetto da quella di un altro. Quest'esperienza consiste in ciò: noi ci ricordiamo di aver avuto frequenti esempi dell'esistenza di una specie di oggetti, e rammentiamo anche che certi esponenti di un'altra specie di oggetti li hanno sempre accompagnati con una regolarità costante eli contiguità e successione. Così, ricordiamo di aver visto quella specie di oggetto che chiamiamo fiamma, e eli aver sentito quella specie eli sensazione che chiamiamo calore. Noi ricordiamo parimenti il loro costante congiungimento in tutti i casi passati. Senza tante cerimonie chiamiamo la prima causa e il secondo effetto, e inferiamo l'esistenza di questo dall'esistenza di quella. In tutti i casi particolari di quel congiungimento, tanto la causa quanto l'effetto furono percepiti dai sensi e insieme presenti alla memoria. Ma, quando ci mettiamo a ragionare su essi, noi percepiamo o rammentiamo soltanto uno dei termini, e suppliamo all'altro in conformità dell'esperienza passata. Pian piano siamo, così, arrivati a scoprire- quando, occupati in tutt'altro argomento, meno ce lo aspettavamo- una nuova relazione fra causa ed effetto: la relazione, dico, di congiungimento costante. La contiguità e la successione non sono sufficienti a farci affermare che di due oggetti uno è la causa e l'altro l'effetto, salvo che tale contiguità e successione non siano confermate in molti casi. Possiamo vedere adesso il vantaggio di aver abbandonato l'esame diretto di questa relazione, al fine di scoprire la natura di quella connessione necessaria che è parte tanto essenziale eli essa. Con questo mezzo possiamo sperare di giungere al fine propostoci; benché, a dir il vero, la scoperta della nuova relazione ci faccia progredire assai poco nel nostro cammino. Poiché essa implica semplicemente questo: che oggetti simili si sono sempre presentati in una relazione simile di contiguità e successione; e sembra evidente, almeno a prima vista, che con questo mezzo non potremo mai scoprire un'idea nuova, e potremo soltanto moltiplicare, ma non approfondire gli oggetti della mente. C'è ragione di pensare che quello che non impariamo da un oggetto, non lo impareremo da cento, se sono della stessa specie e perfettamente somiglianti per ogni lato. Come i sensi ci mostrano in un caso due corpi, o movimenti, o qualità, in certe relazioni di successione e contiguità, così la memoria ci presenta una moltitudine eli quei casi, nei quali, tuttavia, troviamo sempre ugualmente corpi, movimenti o qualità simili in relazioni simili. Dalla semplice ripetizione, anche all'infinito, di impressioni passate, non sorgerà mai un'idea nuova, originale, come quella della connessione necessaria, e in questo caso il numero delle impressioni non conta più eli una sola. D. Hume, Trattato sulla natura umana, pp. 89-90, 91, 100-101

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Il sé e l'identità personale

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