Per un nuovo materialismo. Presupposti antropologici ed etico-politici 9788878856424

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Per un nuovo materialismo. Presupposti antropologici ed etico-politici
 9788878856424

Table of contents :
PREMESSA
CAPITOLO PRIMO - FREUD DA L’INTERPRETAZIONE DELLE AFASIE AL PROGETTO DIUNA PSICOLOGIA. FUNZIONE E GENESI DEL LINGUAGGIO
CAPITOLO SECONDO - LE TRE LOGICHE DELLA MENTE DI FREUD
CAPITOLO TERZO - L’ETICA INCARNATA DI SPINOZA
CAPITOLO QUARTO - IL POSTMODERNO COME PROIEZIONE DELCORPO DI NIETZSCHE
CAPITOLO QUINTO - GUIDO CALOGERO ED ERNST CASSIRER: LA CRITICAALL’ARCAISMO DELL’ESSERE DI HEIDEGGER
CAPITOLO SESTO - I DUE CORPI DI MARX.CORPO GLORIOSO E CORPO INGLORIOSO
CAPITOLO SETTIMO - SVUOTAMENTO E SUPERFICIALIZZAZIONE DEL MONDO
CAPITOLO OTTAVO - FRAGILITÀ E LIMITI DEL RICONOSCIMENTO
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
Indice dei nomi

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LA CRITICA SOCIALE

ROBERTO FINELLI

Roberto Finelli (Roma, 1945) è studioso dell’idealismo tedesco, del pensiero di Marx e della psicoanalisi. Ha insegnato Storia della filosofia nelle Università di Bari e Roma Tre. Dirige la rivista «Consecutio rerum» (www.consecutio.org) 

PER UN NUOVO MATERIALISMO Presupposti antropologici ed etico-politici

ROBERTO FINELLI

Questo libro chiude una trilogia i cui momenti precedenti sono dati da Un parricidio mancato (2004), dedicato a un’analisi critica eterodossa del rapporto del giovane Marx con i suoi numi tutelari Hegel e Feuerbach, e Un parricidio compiuto (2014), che trattava della relazione ormai risolta del Marx maturo con Hegel. Nei capitoli-saggi che compongono il nuovo volume, l’autore, ampliando il discorso attraverso una lettura attenta di Freud, una ripresa di Spinoza, e con un confronto con la stessa tradizione postidealistica e antiheideggeriana del pensiero italiano (è una perla il capitolo su un maestro dimenticato come Guido Calogero), mette capo a un’originale proposta teorica: quella di un’antropologia filosofica dell’emancipazione basata su una visione bio-psicoanalitica della relazione corpomente nell’essere umano. Il fine è di concorrere così alla costruzione di una nuova etica sociale materialistica, al di là del vecchio materialismo storico, capace di sfidare le seduzioni più allettanti dell’individualismo atomizzante del consumo e del mercato.  Una prospettiva che interviene direttamente nell’odierna crisi generale della sinistra, mostrando come questa sia anzitutto di ordine teorico e poi anche politico.

PER UN NUOVO MATERIALISMO

www.rosenbergesellier.it

ISBN: 978-88-7885-6417 ISSN 2421-4140

€18,00

9 788878 856417

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la critica sociale collana diretta da Rino Genovese

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Una serie interdisciplinare di testi originali e traduzioni, tra filosofia, sociologia e analisi delle produzioni culturali, con un riferimento forte al problema della costruzione di una teo­ria sociale critica adeguata ai tempi, senza chiudersi in un’unica prospettiva e aprendosi a contributi diversi. Non solo per comprendere il presente e non dimenticare il passato, ma anche per non rassegnarsi all’ingiustizia dominante.

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Roberto Finelli

Per un nuovo materialismo

Presupposti antropologici ed etico-politici

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immagine in copertina: Sergi Barnils, Visió des de les cel.les del nivell inferior, 1998; tecnica mista su carta

Courtesy

Torino

Con il contributo della Fondazione per la critica sociale

© 2018 Rosenberg & Sellier Pubblicazione resa disponibile nei termini della licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0

www.rosenbergesellier.it è un marchio registrato utilizzato per concessione della società Traumann s.s.

prima edizione italiana, ottobre 2018 isbn 978-88-7885-642-4 LEXIS Compagnia Editoriale in Torino srl via Carlo Alberto 55 I-10123 Torino [email protected]

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INDICE



9 Premessa

17 Capitolo 1. Freud da L’interpretazione della afasie al Progetto di una psicologia. Funzione e genesi del linguaggio 65 Capitolo 2. Le tre logiche della mente di Freud 87 Capitolo 3. L’Etica incarnata di Spinoza 109 Capitolo 4. Il postmoderno come proiezione del corpo di Nietzsche 141 Capitolo 5. Guido Calogero ed Ernst Cassirer: la critica all’arcaismo dell’Essere di Heidegger 159 Capitolo 6. I due corpi di Marx. Corpo glorioso e corpo inglorioso 173 Capitolo 7. Svuotamento e superficializzazione del mondo 193 Capitolo 8. Fragilità e limiti del riconoscimento 213 Conclusioni 229 Bibliografia 235 Indice dei nomi

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Alla casa memoria di Luigi Esposito, psicoanalista “spinoziano” a Roma, in S. Francesco a Ripa, e di Emilia Giancotti, animatrice degli studi spinoziani e curatrice benefica del mio cursus honorum

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PREMESSA

Il tema di questo libro torna a connettere antropologia e politica, presumendo di riuscire a trovare, sia pure in modo ancora iniziale, una possibile e nuova risposta alla questione, antica e sempre reiterata, di cosa sia l’essere umano e quale possa essere una società che voglia rispondere adeguatamente a tale domanda. In tal senso il percorso teorico delle pagine che seguono prova a ricongiungere vita e politica. Non nel senso ormai abusato, e giunto a estenuazione, di «biopolitica». Quanto invece secondo la nobile lezione di Machiavelli per cui la politica è ciò che assicura la vita garantendola contro il gioco imprevedibile della sorte, della «fortuna». E che per questo aver cura della vita, per questo esserne la fonte primaria di protezione e sostegno contro la sua intrinseca caducità, è ab-soluta, sciolta e autonoma da qualsiasi criterio di distinzione morale tra bene e male, da ogni valore economico o etico o religioso. Perché questi sono tutti ambiti d’esperienza e di azione che possono solo conseguire e derivare dall’assicurarsi e istituirsi di quella sfera primaria1. La compenetrazione machiavelliana di politica e vita, per cui la politica è produttrice e non manipolatrice di vita, si distanzia sia dalla biopolitica di Foucault sia dalla concezione della politica come tecnica. Dalla prima, perché guarda al politico come principio fondativo, e non repressivo, del vivere; dalla seconda, perché ne rifiuta la definizione come insieme di istituzioni e regolamenti di mediazione tra individualità e interessi, presupposti della società civile. A tale riduzione della politica a tecnica della democrazia un’etica della politica come principio della vita oppone infatti la tesi che la politica non trova già compiuti i soggetti perché, invece di presupporli, li pone, li crea, essendone la condizione primaria, e sempre ripetuta, di generazione e riproduzione. Così questo libro propone una metacritica della politica. Ossia: un al di là della politica, quando questa viene ridotta a luogo della mediazione rappresentativa degli interessi presupposti di parte e quale ambito dello Stato, 1  Cfr. G. Sasso, Niccolò Machiavelli: I - Il pensiero politico, 3ª ed. ampliata, Bologna, il Mulino, 1993.

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per un nuovo materialismo

articolato nelle sue istituzioni e monopolista dell’uso legittimo della forza. Al di là, perché connessa e fondata, la politica-vita, in quella struttura della vita individuale di cui essa è reciprocamente fondamento e garanzia. Ma in tal senso una metapolitica non può che essere, nello stesso tempo, anche una metapsicologia, ossia essere strettamente compenetrata con un’antropologia trascendentale, quale definizione e studio della struttura costituzionale dell’essere umano. Perché, appunto, costituzione politica e costituzione dell’esistenza individuale rinviano nella loro reciprocità fondativa, l’una all’altra. Per qualche verso ritornando alla lezione di Platone quando nella sua Politeia stringeva, secondo la sua mirabile genialità, architettonica della polis e architettonica della psiche, struttura della città e struttura dell’anima, secondo un obbligo di strettissime concordanze e parallelismi. Solo che noi, abitanti della modernità, anzi dell’ipermodernità, compiuto il dovuto tributo alla grande ispirazione platonica, ovviamente non possiamo che guardare ad altre metapsicologie, tra cui domina, almeno per chi scrive, in modo fecondissimo d’insegnamenti, quella concepita da Sigmund Freud. In particolare perché la psicoanalisi di scuola freudiana, forse meno quella junghiana – escludendo del tutto da tale contesto virtuoso l’opera sulfurea e fumogena di Lacan – ha messo a tema un arricchimento, una complicazione, dei concetti di «società» e di «libertà» che non può non coinvolgere la natura di ciò che è politico e renderla bisognosa di una sua profonda e originale rielaborazione. Quanto al primo concetto, la tradizione psicoanalitica ha infatti significato l’apertura e la fondazione di uno spazio di societas interioris che si aggiunge e si connette a quella tradizionale di societas exterioris. La configurazione della mente umana in base a una compresenza di stanze o istanze psichiche, capaci tra loro di dialogo e sintesi o, al contrario, di scissione e repulsione, è principio costitutivo infatti di un nuovo tipo di socievolezza o insocievolezza, di natura interna o «verticale». La psicoanalisi, seguendo in ciò la grande riflessione sul corpo inaugurata nel Seicento da Baruch Spinoza quale societas di molti individui – «il corpo umano è composto di moltissimi individui di diversa natura, ognuno dei quali è assai composito»2 –, ha messo a tema una individualità umana, composta dall’eterogeneo di facoltà psichiche, il cui esito di concordia e compresenza è costantemente esposto a una possibilità di contrapposizione e scissione. 2  B. Spinoza, Etica, tr. it. a cura di P. Cristofolini, Pisa, Ets, 2010, II, Prop. XIII, postulato I, p. 99.

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premessa

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Da tale connotazione bina del concetto di società deriva di necessità una rielaborazione del concetto di «libertà», anch’esso da coniugare nel verso dell’interiorità verticale dell’essere umano. Giacché, dopo un secolo di psicoanalisi, libertà non può più avere unicamente il significato della libertà liberale come libertà negativa da ogni ingerenza o autoritarismo esterno o il significato della libertà comunista come libertà positiva di godimento, per ciascuno eguale, di beni e servizi. Perché acquista il significato ulteriore, accanto ai due precedenti, di libertà come affrancamento, il più ampio possibile, da ogni autoritarismo interno, da ogni violenza e censura interiore che una facoltà o una istanza della mente pretenda di esercitare sulle altre. Ed è proprio da tale conquista, da tale espansione e approfondimento, nelle scienze umane e sociali, di ciò che possa e debba significare libertà e società, io credo si debba avanzare nel concepimento di una nuova antropologia politica e di una nuova teoria dell’emancipazione. Una riproposizione della politica come etica della vita, ben al di là della politica come biopolitica o come tecnica della democrazia, può nascere infatti solo quando psicoanalisi e filosofia – cessando, la prima, di sapersi solo come mera tecnica terapeutica e, la seconda, di concepirsi come sapere di una soggettività disincarnata – concorrono a concepire una politica come etica del riconoscimento: nel doppio significato dell’acquisizione, in un rinnovato senso comune, di tale nuovo campo di valori fecondato dalla psicoanalisi e, nello stesso tempo, come insieme degli istituti del riconoscimento che pratichino la mediazione di socializzazione e individuazione. Giacché se l’essere umano coniuga la sua esistenza sull’interagire dei due assi costituzionali della sua natura, che sono da un lato l’asse verticale della relazione mente/corpo e dall’altro l’asse orizzontale della relazione soggettività/altre soggettività3, una politica del riconoscimento non potrà che significare la messa in campo di pratiche e istituzioni che, insieme a una pratica e a un’etica dell’eguaglianza, facciano della cura e della facilitazione dell’asse verticale, del valore cioè dell’individuazione emozionale ed esistenziale del singolo, una destinazione imprescindibile del loro essere e del loro agire. Ecco perché il percorso che si presenta in questo volume inizia con due saggi sull’opera di Freud. Perché è di lì che si avvia una fondazione scientifica dell’antropologia verticale e di tutte le relazioni che strutturano il sistema umano dell’interiorità. Due saggi che hanno lo scopo, lavorando su Freud – scienziato, insieme, della neurologia e della psicoanalisi – di 3   Cfr. su ciò la ricerca dello psicoanalista A.B. Ferrari, L’Eclissi del corpo, Roma, Borla, 1992.

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per un nuovo materialismo

argomentare quanto e come la tessitura verticale dell’essere umano, nella sua relazionalità interna di corpo e mente, di affetto e concetto, implichi un impianto di facoltà sensitive, immaginative, rappresentazionali, tendenzialmente sintetizzabili e integrabili con il linguaggio, ma non riducibili a linguaggio. Dunque un’esegesi del freudismo assai lontana dal lacanismo e dalla strutturazione linguistica dell’inconscio che Lacan ha preteso di porre a base della sua riformulazione delle categorie freudiane. Anche perché la condizione primaria di una metacritica della politica, che si muova secondo l’orientamento che qui si propone, è che si affermi una cultura dell’individuazione e dell’interiorizzazione, quanto più profonda possibile, della soggettività con se medesima, di contro alla retorica dell’intersoggettività e della funzione linguistica, dell’alterità, del multiculturalismo, del transindividuale, del comune, che ha invaso e devastato le scienze antropologiche, sociali e politiche, e in un certo senso anche psicoanalitiche, nell’ultimo cinquantennio. È il valore infatti della unicità e della irripetibilità di ogni esistenza individuale, del diritto di ognuno di non aver paura di rimanere solo con se stesso e di portare avanti un suo proprio, irriducibile ad altri, progetto di vita che va riaffermato di contro alla liquidazione e alla dissoluzione della soggettività individuale nella trama delle sue relazioni intersoggettive e orizzontali. Non per ritornare ovviamente alle trame logore dell’individualismo neoliberale ma per inaugurare pratiche del riconoscersi nella più propria individualità, consentite e facilitate da pratiche e istituzioni, del riconoscimento e dell’esser riconosciuto, pubbliche e sociali. A tal fine la rapida riflessione su Spinoza, che segue le pagine dedicate a Freud, e la sua rivoluzionaria concezione nel Seicento del nesso di mente e corpo, mi è sembrata d’indispensabile riferimento, sia per approfondire il tema della corporeità come luogo originario dell’etica del senso, che questo libro propone, sia per superare i limiti di una fondazione solo fisicalistica della pulsione corporea, ancora presenti nell’opera di Freud. Ma lascio al lettore la comprensione, spero meno ardua possibile, del nesso che lega l’intero percorso. Ossia del perché abbia posto come condizione di un nuovo materialismo e di un’etica politica che includa in sé un soggetto incarnato la critica profonda della teoria del corpo in Nietzsche e in Heidegger. E del come, per rifiutare in particolare la metafisica dell’Essere concepita dal pensatore di Messkirch, abbia avuto la necessità di rivolgermi a quei maestri del Novecento, come Ernst Cassirer e Guido Calogero, che ben avevano argomentato sulla natura arcaica e obsoleta di quella prima categoria.

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premessa

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Né viene sottratta a tale indagine e superamento critico l’antropologia e l’opera di Marx, che con la sua teoria del corpo glorioso tanti ritardi ha generato – al di là del lavoro geniale, di massima e insuperata scientificità, del Capitale – nel progresso reale dei movimenti di emancipazione. Infine, attraverso la critica e il confronto con la tematica ormai classica del riconoscimento, a partire ovviamente da Hegel fino ad Axel Honneth, ciò che viene delineata è l’ipotesi di un nuovo paradigma di antropologia politica basato sulla radicalizzazione e sulla polisemia del concetto di riconoscimento. Una radicalizzazione che, volendo stringere riconoscimento attraverso socializzazione e riconoscimento attraverso individuazione, non deve temere di mettere a confronto le problematiche della globalizzazione, come orizzonte ormai strutturale della contemporaneità, con quelle di una soggettività, come si è detto, alla fin fine incarnata: cioè che possa includere in sé e identificarsi con la propria materialità emozionale. Questo libro porta a compimento la trilogia che mi ero proposto di scrivere sul nesso marxismo/capitalismo/democrazia avvenire e che ha visto come suoi primi due atti i volumi di un Parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx e di un Parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel. Dalla rilettura dell’intera opera di Marx, vista nella peculiarità del suo rapporto con Hegel, che ho proposto in quei due volumi, è emersa una visione della società capitalistica contemporanea come attraversata e dominata dall’accumulazione di ricchezza astratta, fondata a sua volta sullo sfruttamento e l’accumulazione di lavoro astratto. Ne è derivata, in particolare, un’interpretazione del processo economico di produzione del capitale, attraverso produzione e vendita di merci, come un percorso onnipervasivo di svuotamento del mondo del concreto da parte di un vettore impersonale di realtà, qual è l’accumulazione di ricchezza astratta, che consegna il nostro modo di vivere sociale e la nostra esistenza personale a un elevato grado di esteriorità e di superficializzazione. Diversamente da interpretazioni tradizionali della contraddizione sociale e dell’alienazione umana, io ho provato a leggere la nuova era tecnologica della società moderna, a partire dalla rivoluzione digitale, come caratterizzata da una colonizzazione radicale del mondo del concreto da parte del mondo dell’astratto che lascia del primo solo un contorno di superficie, generando fenomeni di profonda mistificazione e dissimulazione ideologica attraverso le forme e gli effetti di tale superficie. Vale a dire che ho proposto una lettura del mondo contemporaneo come basato, non sulla «contraddizione», bensì

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sulla «dissimulazione», cioè su un processo di esteriorizzazione capovolto per il quale la realtà vera e profonda delle relazioni sociali tra classi, ceti, ed esseri umani appare alla superficie del vedere e dell’apparire come altra da sé e contraffatta in immagini deformanti e falsificanti. Snodo cruciale di questo passaggio, dalla centralità della contraddizione/ alienazione alla centralità dell’astrazione/dissimulazione, è stato l’avvio della nuova era tecnologica basata sul nesso «forza lavoro mentale / macchina dell’informazione», con la sostituzione nei processi di lavoro dell’uso della mente al posto dell’uso del corpo. Giacché, mentre con la tecnologia rigida del fordismo il comando sul lavoro veniva esercitato attraverso disciplina e coazione dall’esterno, ora con la rivoluzione informatica la disciplina lavorativa è interiorizzata nell’esercizio della mente, ma con l’apparenza di un esercizio, invece del tutto libero e immateriale, dell’attività mentale medesima, in quanto attività che non lavorerebbe più la durezza dei materiali ma solo la leggerezza dei simboli alfanumerici. In questo passaggio epocale da autoritarismo esterno ad autoritarismo interno si consuma l’abbandono del modulo di una modernità fondata sulla contraddizione e l’opposizione reciproca tra classi e si inaugura una ipermodernità postclassista e postfordista in cui ciò che vale è l’esteriorizzazione di un mondo della vita umana, colonizzato e svuotato dall’accumularsi di ricchezza astratta, in cui la rappresentazione e l’apparenza nega e dissimula l’essenza. Con la rivoluzione digitale il processo di valorizzazione della ricchezza capitalistica assume la parvenza di un processo lavorativo istituito sulla creatività e sulla spontaneità della mente soggettiva, su mansioni a elevato contenuto cognitivo, che richiederebbero la messa in campo, da parte del soggetto umano, delle sue capacità di attenzione e riflessione più personali e meno riducibili a norma. Com’è ben noto, è soprattutto la cultura del cosiddetto postoperaismo, che, ignara di ogni consuetudine teoretica e filosofica con la dialettica di essenza e parvenza e sedotta da una delle pagine più infelici e subalterne al progressismo positivistisco-scientifico di Karl Marx, quale quella nei Grundrisse sul General Intellect, è caduta nella trappola di prendere la parvenza per l’essenza e di non comprendere quanto la maggioranza del cosiddetto lavoro cognitivo incorpori norme, procedure di lavoro, e schemi cognitivi predeterminati e ad alto grado, immanente e silente, di disciplina e di controllo. Senza voler comprendere, insomma, come una dimensione strutturale della modernità, e ancor più della ipermodernità del tempo che attraversa le nostre vite, è il feticismo, ma non come lo proponeva il Marx del primo libro del Capitale o il primo Lukács, secondo uno schema di arcaico feuerbachismo, basato sul rovesciamento di soggetto e oggetto, bensì da interpretarsi quale dissimulazione di rapporti

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premessa

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sociali intrinseci di diseguaglianza e oppressione che si rispecchiano nello specchio deformante e isterico di soggettività solo presuntivamente tali e capaci di un potere fallace di autodeterminazione. Per tale totalizzarsi dell’economico a dimensione integrale e generale della società contemporanea  –  perché produce e riproduce a) tutta la ricchezza, b) le relazioni sociali e le loro asimmetrie, c) le immagini ideologiche che dissimulano quelle stesse asimmetrie – le mie ipotesi sono state, da più parti, criticate come totalitaristiche, come iscritte cioè a riprodurre pedissequamente le tesi della prima Scuola di Francoforte sulla natura della società capitalistica quale società di un dominio in grado di integrare ogni opposizione, lasciandone eventualmente l’estro e la velleità solo a ceti e soggetti al di fuori della società stessa: una sorta di weberiana gabbia d’acciaio, da cui sarebbe pressoché impossibile sottrarsi e dar inizio a qualsivoglia processo di trasformazione e liberazione. Questo mio ultimo libro si prova a obiettare a quelle critiche, non solo rivendicando il darsi nei due libri precedenti di una teorizzazione del processo di totalizzazione del sistema capitalistico profondamente diversa da quella concepita dai francofortesi, ma soprattutto proponendo l’ipotesi di una possibile trasformazione emancipativa attraverso una destinazione dell’antropologia psicoanalitica anch’essa lontana da quella fattane dai maestri di Francoforte, volti a utilizzare le categorie della psicoanalisi assai più in senso critico verso la società borghese che non in senso costruttivo e propositivo, riguardo a un’etica del futuro, come qui invece si tenta di fare. Anche perché tale mia proposta di una possibile etica del futuro si origina e si colloca, proprio per evitare utopie slegate dal presente ed estrinseci moralismi, in quella fessura generata dalla dialettica di essenza e apparenza, di svuotamento dell’interiore e di sovradeterminazione dell’esteriore, che ho posto a base della mia rilettura complessiva dell’opera di Marx: secondo l’alternanza, che ho visto in essa, di un umanesimo dogmatico, prima, e di un sistema di scienza dialettica, poi, che ben poco ha a che vedere con la coupure althusseriana e le sue aporie, a cui pure molti hanno preteso arbitrariamente di ricondurre le mie posizioni. Vale a dire che questo volume, come conclusione dei primi due, nasce là dove quelli finiscono, per provarsi a esplicitare e a disegnare il possibile che è immanente, e insieme negato, in quella scissura tra essenza e apparenza che costituisce, a mio avviso, il principio fondamentale di connessione e riproduzione della società nella quale viviamo. Perché, come si vedrà, spero con sufficiente chiarezza, nelle pagine che seguono, problema e soluzione possibile di un’etica e di una società del futuro si giocano proprio sulla natura bina di quel principium

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per un nuovo materialismo

individuationis  –  del riconoscimento cioè della soggettività individuale nella peculiarità della sua esistenza  –  che è valore centrale della storia della modernità, nel suo essere conclamato come necessario e irriducibile e, nello stesso tempo, nel suo essere, all’opposto, costantemente represso e negato. Vale a dire che proprio dagli interstizi di tale dialettica, di affermazione e negazione, io credo possa nascere, in modo né estrinseco né retorico – quale unica via di fuga dalla gabbia d’acciaio –, l’ipotesi alternativa, di socialità e d’individualità, che questo libro vorrebbe concorrere a costruire. Per altro, dire valorizzazione del principium individuationis non significa ovviamente opporre la cultura dei diritti civili a quella dei diritti sociali, dei diritti della persona contro quella dei diritti collettivi, com’è accaduto frequentemente negli anni recenti, nel dibattito sempre riproposto e mai risolto tra «libertà» ed «eguaglianza». E basti ricordare a tal proposito il conflitto che s’è aperto e mai più richiuso tra sinistra istituzionale e sinistra radicale, a partire dal 1968, tra valore nuovo dell’individuazione antiautoritaria e valore tradizionale della solidarietà e della non differenza comunista. Laddove l’ipotesi che qui si prova ad avanzare, nell’intrinsecarsi di antropologia psicoanalitica e antropologia politica, è che la libertà d’ognuno si possa attingere e produrre solo all’interno di istituzioni che siano, in grado differenziato, comuni, e che vi sia dunque un nesso inscindibile tra appropriazione dei diritti individuali e articolazione e funzionamento delle istituzioni sociali. L’auspicio è infatti quello che civiltà liberale e civiltà socialista si unifichino e si trascendano nella prospettiva di una sintesi ulteriore che non abbia a esporsi alla critica derisoria che Benedetto Croce, teoreta del prevalere unilaterale e assoluto del valore della libertà su quello dell’eguaglianza, svolse nei confronti di quel mio primo maestro che è stato Guido Calogero, e dell’impresa del suo «liberalsocialismo», giudicato dal filosofo napoletano come un «ircocervo», ossia come una figura immaginaria, che pretendeva di unificare la sacralità eterna dell’interiorità soggettiva con la scelta storicamente empirica di un’accidentale organizzazione sociale e di un’accidentale distribuzione egualitaria delle ricchezze. Anche perché il logoramento ormai irreversibile di paradigmi come quello dell’individualismo calcolante e mercatorio da un lato e quello del «comune» a tutti i costi dall’altro, ci obbligano, di necessità, a pensare, di contro all’intensificarsi del dolore di vivere del nostro presente, nuovi orizzonti di integrazione tra esistenziale e sociale, al cui compito di definizione e proposizione, le scienze umane di oggi e del futuro non possono più sottrarsi.

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CAPITOLO PRIMO FREUD DA L’INTERPRETAZIONE DELLE AFASIE AL PROGETTO DI UNA PSICOLOGIA. FUNZIONE E GENESI DEL LINGUAGGIO

1. Psicoanalisi come filosofia Ciò che è in gioco in questo libro è, di fondo, la questione di un nuovo materialismo. Nuovo, perché il materialismo più frequentato nel Novecento, quello storico e marxista, appare da tempo un paradigma teorico ormai consumato e inutilizzabile, dato che nel suo meccanicismo di struttura e sovrastruttura non ha mai posto realmente la questione della soggettività, della sua costituzione e complessità. Laddove per noi si tratta di mettere al centro dell’attenzione un nuovo paradigma antropologico che, distaccandosi dall’esaltazione marxiana della prassi, cioè della celebrazione dell’homo faber quale principio unico della storia, muova dalla materialità di un soggetto umano individuale incarnato in un corpo biologico-emozionale e, a sua volta, nel corpo sociale in cui quello s’iscrive. Ma superare la tesi che l’individualità umana sia dissolta nella relazione sociale, nella relazione con gli altri al plurale, significa anche superare il blocco e l’interdetto, che, in primo luogo Heidegger sul versante filosofico, e poi, al suo seguito, Lacan sul versante psicoanalitico, attraverso la mediazione di Kojève, hanno imposto, a mio avviso, a ogni possibile teoria dell’individuazione nella seconda metà del Novecento, avendo preventivamente dissolto l’esistenza umana nella differenza ontologica dall’Essere o nell’alterazione inesauribile con il Grande Altro. Entrambi questi autori hanno infatti costretto l’antropologia del soggetto umano a sacrificare, sul versante dell’interlocuzione linguistica e simbolica con l’Altro da sé, ogni riferimento ai dati sensoriali e corporei dell’esperire, generando in tal modo una cultura congelata in un orizzonte segnicoermeneutico autistico, disincarnato e autoreferenziale. Per questo, per ritornare a una visione materialistica dell’individuazione, questo primo capitolo narra dell’esperienza e della teoria che Freud ha elaborato nei lunghi anni dei suoi studi di neurologia prima di arrivare alla psicoanalisi. Per dimostrare come proprio in un contesto di discorso che oggi si direbbe riduzionistico, di indagine neuro-anatomica sulle patologie del linguaggio, il Freud trentacinquenne sia stato in grado invece

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per un nuovo materialismo

di concepire una teoria della rappresentazione profondamente originale e innovativa quanto a sintesi di fisico e psichico, ossia di neurologia da un lato e di psicologia filosofica dall’altro. Perché, a ben vedere, proprio di filosofia freudiana, di filosofia in senso stretto, è d’obbligo parlare a proposito del testo sulle afasie di cui ora tratteremo. Dato che il Freud studioso dell’apparato cerebrale, su un piano anatomico e neurologico, riesce a collocare nel cuore della neurologia corporea l’istanza dell’ermeneutica e dell’individuazione psichica. Riesce cioè con la sua teoria della «rappresentazione» a trovare i modi e i luoghi di quella mediazione tra fisico e psichico, su cui la storia della filosofia da sempre ha lavorato e pensato: almeno dall’introduzione dei termini phantasia e phantasma nei testi antichi di Platone, Aristotele e degli Stoici, fino alla rappresentazione (représentation) di Descartes e di lì in tutta la storia della filosofia moderna1. Riesce insomma Freud, con la sua distinzione tra Projektion e Repräsentation, a porre le basi per una vera e propria ermeneutica del corpo, che, almeno a parere di chi scrive, getta le basi per una risoluzione fecondissima di quella quaestio per eccellenza che è la questione del rapporto tra corpo e mente. Ma, ancor più, il testo freudiano sulle afasie è intrinsecamente filosofico, perché, forse anche oltre l’intento consapevole dello stesso Freud, mette in scena una valorizzazione delle funzioni di sintesi quali strutture portanti sia del corpo sia della mente umana che non può non richiamare, in termini analogici, la teorizzazione kantiana della soggettività come costruita essenzialmente su funzioni trascendentali di sintesi. Sottolineando che tale originaria valorizzazione della sintesi, posta a base del suo concepire fin dai primi scritti neurologici, rimarrà costante per tutta l’opera di Freud. Secondo un permanere, che ci dice in anticipo quale sarà la distanza tra l’effettiva tematica freudiana e la rilettura che poi ne farà Lacan: come si potrà ben vedere, oltre che dall’opposta valorizzazione/ svalorizzazione della funzione delle sintesi, dalle opposte teorie dell’Io che connoteranno in modo opposto Freud da un lato e Lacan dall’altro. Giacché, mentre per il maestro viennese l’Io sarà nell’essere umano l’istanza fondamentale di mediazione tra mondo interno e mondo esterno, appunto un’istanza centrale e irrinunciabile di sintesi, per l’intellettuale francese l’Io sarà solo un’immagine riflessa da uno specchio, un’immagine né vera né reale, ma capace di un enorme potere di seduzione. Così come, 1   Cfr. F. Napolitano, Materiali per una filosofia freudiana dell’afasia. Uno studio critico, in S. Freud, L’interpretazione delle afasie, a cura di F. Napolitano, Macerata, Quodlibet, 2010, pp. 133-211.

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funzione e genesi del linguaggio

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mentre per Freud l’Io con la sua capacità di porre in comunicazione e sintetizzare piani eterogenei di costituzione dell’essere umano, sarà l’istanza psichica da sviluppare e approfondire, per Lacan l’Io, costruito e identificato sull’immagine dell’altro, dovrà essere costantemente decostruito e superato. Aggiungendo che non a caso a tale concezione, sostanzialmente opposta, della funzione dell’Io si collegherà la loro diversissima teoria del linguaggio: per Freud, come vedremo, strumento di contenimento e di legame rispetto all’invasività della pulsione, per Lacan esposizione dell’essere umano a un ordine simbolico per il quale vive in uno stato di insuperabile estraneità rispetto a se stesso. Peraltro va anche detto che a non chiarire tale strutturale diversità tra l’opera di Freud e la versione datane da Lacan, ha concorso la complessità e le tortuosità dell’animo dello stesso Freud, il quale, da un lato ha sempre rivendicato l’appartenenza della psicoanalisi all’ambito del sapere scientifico e dall’altro non ha mai voluto evidenziare2, quasi fosse una diminuzione dell’originalità delle scoperte propriamente psicoanalitiche, il rilievo e la continuità teorica tra le categorie e le impostazioni concettuali del suo più che ventennale periodo di studi neurologici e la sua opera matura3. Funzione della sintesi, a base della costituzione neuroanatomica della mente, e rilievo, in essa, dell’apparato del linguaggio sono, per quello che qui interessa sottolineare, le due tematiche che maggiormente connotano lo scritto più significativo pubblicato dal Freud istologo e neurologo: il lungo saggio, o meglio la monografia, sulle afasie, Zur Auffassung der 2   Freud escluse dalla prima edizione completa delle sue opere, le Gesammelte Schriften, in 12 volumi, a cura di A.J. Storfer, iniziata nel 1924 tutti i suoi scritti di natura biologica, istologica e neurologica. Il medesimo criterio ha connotato la nuova edizione tedesca, iniziata subito dopo la morte di Freud, dei Gesammelte Werke in 18 volumi, edita dalla Imago Publishing Co., London, 1940-1968, entrata poi nel catalogo di Fischer, Frankfurt  a.M. Anche i dodici volumi dell’edizioni italiana delle Opere di Freud, edite da Boringhieri, a cura di C. Musatti, hanno seguito tale criterio editoriale. 3  Il primo scritto neurologico del giovane Freud risale al 1877 (Beobachtungen über Gestaltung und feineren Bau der als Hoden beschriebenen Lappenorgane des Aals, in Sitzungsberichte der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften, Mathematisch-Naturwissenschaftliche Classe, LXXV, I. Abteilung, Wien, 1877, pp. 419-430). È l’esito, com’è noto, della ricerca sulla struttura gonadica delle anguille svolta presso la Stazione zoologica sperimentale di Firenze, affidatagli da K. Claus, direttore dell’Istituto di Anatomia Comparata dell’Università di Vienna. Dopo tutta una serie, più che ventennale, di pubblicazioni di carattere anatomico-neurologico, bisogna giungere al 1897 per trovare l’ultimo saggio in tal senso, dedicato alla paralisi cerebrale infantile (Die infantile Cerebrallähmung, in Handbuch der speziellen Pathologie und Therapie, a cura di H. Nothnagel, IX, II. Teil, II. Abteilung, Wien, 1897).

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Aphasien. Eine kritische Studie (1891)4. Il modo in cui Freud presentava se stesso nel titolo dello scritto (Privatdozent für Neuropathologie an der Universität Wien) da un lato e la dedica dall’altro al «Dr. Joseph Breuer con amichevole ammirazione», ci dicono quanto quel testo freudiano si ponga a cavallo tra le ricerche neurologiche degli anni precedenti e le prime celebri terapie già d’orientamento psiconalitico cui, con il sostegno di Breuer, Freud si sta volgendo durante i primi anni novanta. Ed è curioso ricordare, a proposito di afasie e disturbi del linguaggio, il fatto che già durante il primo anno dei suoi studi universitari (1873-1874) egli avesse frequentato un corso sulla fisiologia della voce e del linguaggio tenuto da E.W. Brücke, direttore dell’Istituto di Fisiologia di Vienna, in cui Freud era stato ammesso come allievo ricercatore alla fine del 1876. L’importanza del testo sulle afasie, ben poco considerata dalla critica fino a qualche tempo fa, è stata progressivamente riconosciuta. Va detto, non solo sul piano più propriamente teorico, ma anche quale testo in cui si dà vita a un’accuratissima ricostruzione di storia delle idee relative all’argomento che negli ultimi trent’anni dell’Ottocento era divenuto il luogo d’incontro e di confronto di più discipline scientifiche, mediche e non: anatomia e neurologia del sistema nervoso, fisiologia e patologia medica, psicologia e linguistica. Si era formata infatti un’intera comunità internazionale di studiosi e ricercatori di elevatissimo livello scientifico (tra cui Theodor Meynert, Henry C. Bastian, John Hughlings Jackson, Adolf Kussmaul, James Ross, Carl Wernicke, Ludwig Lichteim, Berthold Delbrück) che, a partire dalla celeberrima relazione di Broca (1861) sulla connessione tra facoltà del linguaggio e lobo anteriore sinistro5, scriveva e argomentava sul tema delle afasie, con una discussione molto approfondita e prolungata tra i suoi diversi membri. 4   Zur Auffassung der Aphasien, Eine kritische Studie von Dr. Sigm. Freud, Privatdozent für Neuropathologie an der Universität Wien, Leipzig-Wien, Franz Deuticke, 1891 (cfr. un’edizione recente dello stesso testo, a cura di P. Vogel, Frankfurt a. M., Fischer, 2001). Per l’edizione italiana si rimanda al testo già citato, S. Freud, L’interpretazione delle afasie. Uno studio critico, a cura di F. Napolitano. L’accoglimento dello scritto freudiano non fu dei migliori: «Delle ottocentocinquanta copie che se ne stamparono  –  scrive Ernest Jones  –  ne erano state vendute duecentocinquantasette dopo nove anni, quando le restanti furono refuse. In nessuna biblioteca dell’Inghilterra ne esiste una copia» (E. Jones, Vita e opera di Freud, tr. it. a cura di A. Novelletto e M. Cerletti Novelletto, Milano, il Saggiatore, 1962, I, p. 266). Ma è indubbio che Freud assegnasse grande valore al suo saggio sulle afasie, esito, oltre che delle ricerche neurologiche di laboratorio dello stesso Freud, di un lungo e approfondito studio sull’ampia letteratura scientifica più aggiornata sull’argomento. 5  P.P. Broca, Sur le siège de la faculté du langage articulé avec deux observations d’aphémie (perte de parole), “Bulletins de la Société anatomique de Paris”, 1861, pp. 330-357.

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Freud ricostruisce con competenza e maestria, fino all’acribia, quel dibattito scientifico, collocandosi, senza timore alcuno, al medesimo livello dei suoi interlocutori, anzi al livello superiore di colui che presume di padroneggiare l’intera materia, di averla indagata secondi i diversi contributi scientifici, e di averla condotta a coerenza secondo le categorie e le soluzioni più adeguate. Del resto, come ben testimoniano le lettere a Wilhelm Fliess scritte al riguardo, la consapevolezza del valore, che egli attribuisce a questa sua fatica, è quanto mai evidente6. E converrà dunque capire subito qual è la trama concettuale di cui Freud rivendica la paternità e l’originalità. È il concetto di rappresentazione – concetto che sappiamo quanto sia denso e pesante, attraversato com’è da tutta la storia della filosofia e della gnoseologia  –  a introdurci, e da subito a sorprenderci, nell’interpretazione freudiana. Giacché, accanto alla più generale e consueta Vorstellung, qual è il termine tedesco che più tradizionalmente e più diffusamente anche Freud usa in questo testo, si accampa quello, assai meno usato nel lessico epistemologico tedesco, di Repräsentation. Questo termine infatti nella lingua tedesca, oltre a significare la presenza di un qualsiasi contenuto alla coscienza, indica – con un significato profondamente diverso che attiene, non all’ambito logico-gnoseologico, ma a quello politico-amministrativo  –  la «rappresentanza», ossia un corpo minore di delegati che, nelle istituzioni dello stato, a diversi livelli, rappresentano ed esprimono gli interessi, i convincimenti e i valori di un corpo sociale ben maggiore di sudditi o ceti o cittadini. In tale specifico significato Repräsentation entra nel lessico tedesco tra il Seicento e il Settecento, quando i principi o i sovrani dei multiformi stati tedeschi concedono, assegnando loro potere non legislativo ma solo consultivo, Diete o Assemblee, nelle quali i vari ordini o ceti della società premoderna inviano delegati per far conoscere al principe, signore e padre dell’intero 6  Il 2 maggio 1891 Freud scrive a W. Fliess: «Tra poche settimane sarò lieto di poterLe inviare un fascicolo sull’afasia, a cui mi sono dedicato con ardore. In questo lavoro sono alquanto temerario e duello tanto con il Suo amico Wernicke, quanto con Lichtheim e Grashey, non senza fare un po’ di solletico persino a quel torreggiante idolo di Meynert. Sono molto curioso di udire i Suoi commenti su questo scritto» (S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess. 1887-1904, tr. it. a cura di J.M. Masson, Torino, Bollati Boringhieri, 1986, p. 46). E in una lettera del 21 maggio del 1894, a proposito dello scarto che si dà tra il suo lavoro intellettuale e gli apprezzamenti altrui, scrive: «E per le cose realmente buone come l’afasia [c.m.], le ossessioni (di cui ora è imminente la pubblicazione), e l’etiologia e la teoria delle nevrosi non posso attendermi nulla di meglio che un rispettabile fiasco. C’è da rimanerne perplessi e un poco amareggiati» (ivi, pp. 96-97).

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stato, le esigenze e i problemi delle diverse realtà. La Repräsentation, o Repräsentanz – nella sua funzione di esprimere i bisogni dei sudditi a un sovrano che è Dominus ma anche Vater – è dunque una delle istituzioni tipiche della società cetuale germanica nel passaggio da una concezione feudale dello Stato, proprietà assoluta del principe, a una realtà sociale più policentrica, dove hanno acquistato potere e riconoscimento ordini e corporazioni. Ma appunto la Repräsentation è l’istituzione amministrativo-politica che consente al Principe di mantenere la centralità e l’unità del suo potere assoluto tenendo conto, nello stesso tempo, della varietà e dell’articolazione in ordini e ceti del proprio stato territoriale7. Ed è appunto, curvando il significato maggiormente psicologico e gnoseologico di Repräsentation con tale senso peculiare estraibile dal lessico giuridico-politico, che Freud utilizza tale termine in un passaggio chiave del suo testo afasiologico: esattamente quando si trova a discutere e a rifiutare, si torna a dire senza tentennamenti e timori, la tesi fortemente localizzazionista del suo maestro all’Università di Vienna, Theodor Meynert, professore di malattie del sistema nervoso. Il localizzazionismo, verso cui tendeva la maggior parte delle ricerche anatomo-neuropatologiche dell’epoca, mirava a definire una topologia quanto più possibile precisa, ampia e differenziata, delle varie località cerebrali in connessione con le diverse attività fisiologiche e patologiche dell’essere umano. In tale ambito era stata proprio la ricerca anatomoneurologica sul cervello svolta da Meynert, dal 1870 professore straordinario di Psichiatria all’Università di Vienna e direttore della prima Clinica Psichiatrica, a proporre il darsi di una relazione simmetrica e puntuale – da 1 a 1 – tra la corteccia cerebrale e la periferia del corpo umano. Vale a dire che a ogni percezione possibile, sensoriale o motoria, su qualsiasi parte del corpo umano corrispondeva, secondo Meynert, un luogo corrispondente della corteccia, verosimilmente una cellula, che racchiudeva la trascrizione, l’immagine in termini neurologici, della percezione della superficie corporea. A questa concezione dell’attività cerebrale come conseguenza di una «proiezione» della periferia sulla corteccia, Freud oppone il suo concetto singolarissimo di un’immagine nella corteccia cerebrale che si accende non attraverso Projektion quanto invece attraverso Repräsentation. 7  Cfr. la voce «Repräsentation», in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, K. Gründer, Basel, Schwabe, 1992, vol. 8, pp. 790-858, in particolare la sezione giuridico-politica (pp. 811-826), a cura di B. Haller.

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«Ebbene come si forma l’immagine corporea nella corteccia cerebrale collegata alla periferia mediante tali vie?», si domanda Freud, «Meynert chiama questa immagine “proiezione”, e alcune sue osservazioni inducono a pensare che egli ipotizzi una proiezione vera e propria, vale a dire l’esistenza nella corteccia di un’immagine punto per punto del corpo»8. Alla proiezione di Meynert, legata a una visione atomistico-speculare del percepire e del rappresentare, va invece opposta per Freud una concezione dell’immagine neurologica fondata sul rappresentare, nel senso peculiarmente politico che si diceva: tradotta cioè, nell’orizzonte neurologico del suo scritto, come un’attività di associazione e di sintesi connessa alla riduzione del numero di fibre in uscita dal midollo spinale rispetto a quelle in entrata. Credo si possa dimostrare la confutabilità dell’ipotesi di una proiezione in senso stretto del corpo nella corteccia, ossia sotto forma di un’immagine completa e topograficamente simile. Parto qui da un punto di vista che anche Henle ha preso in considerazione quando si è occupato di quest’argomento, cioè quello della riduzione del numero di fibre nel passaggio attraverso sostanze grigie. Infatti se si confronta il numero di fibre in ingresso nel midollo spinale col numero di fibre dei cordoni bianchi che se ne dipartono per collegarsi con parti superiori del cervello, troviamo che il secondo non costituisce che una frazione del primo. Secondo un calcolo di Stilling, a 807 738 fibre delle radici nervose corrispondevano solo 365 814 fibre di una sezione trasversale del midollo cervicale superiore. I rapporti del midollo con il corpo sono dunque di tipo diverso da quelli delle sostanze grigie superiori. Solo nel midollo spinale (e nelle sostanze grigie a esso analoghe) sono presenti le condizioni per una proiezione [Projektion], senza lacune della periferia del corpo; a ciascuna unità d’innervazione periferica può corrispondere nel midollo spinale un pezzo di sostanza grigia, e in caso estremo un unico elemento centrale. Ma a causa della riduzione delle fibre di proiezione attraverso la sostanza grigia del midollo spinale, un elemento di sostanza grigia superiore non può più corrispondere a una sola unità periferica, ma deve corrisponderne a più d’una. Ciò vale anche per la corteccia cerebrale, ed è perciò opportuno distinguere con nomi diversi anche questi due tipi d’immagine centrale. Se chiamiamo proiezione [Projektion], l’immagine nella sostanza grigia midollare, sarà forse opportuno chiamare rappresentanza [Repräsentation] l’immagine nella corteccia cerebrale, e dire che la periferia del corpo non è contenuta elemento per elemento nella corteccia, ma rappresentata in modo meno dettagliato attraverso fibre scelte9. 8  S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., p. 67. Il testo fondamentale di Theodor Meynert, cui si riferiscono le osservazioni di Freud è Meynert, Der Bau der Gross Hirnrinde und seine örtlichen Verschiedenheiten, nebst einem pathologisch-anatomischen Corollarium, “Vierteljahrsschrift für Psychiatrie in ihren Beziehungen zur Morphologie und Pathologie des Zentral-Nevensystems”, I, 1867, pp. 77-93.

 S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., pp. 70-71. [I corsivi sono nel testo di Freud].

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Una mossa teorica, si potrebbe dire, assai semplice, questo scarto freudiano da proiezione a rappresentazione, ma invece assai pregna di futuro, perché la ritroveremo, nel passaggio dalle ricerche neurologiche alla fondazione della psicoanalisi, con la definizione, riguardo alla nozione di pulsione, di Triebrepräsentanz: ossia di ciò che porta il corpo nella mente, che lo rappresenta, essendo esso medesimo non direttamente il corpo, ma solo il suo rappresentante nella psiche10. Ancora due anni più tardi, nel saggio intitolato Quelques considérations pour une étude comparative des paralysies organique et hystérique (1893), Freud confermerà la distinzione tra Projektion e Repräsentation già presentata in Zur Auffassung der Aphasien, argomentando che mentre nelle paralisi periferico-spinali c’è corrispondenza puntuale tra paralisi di un luogo periferico del corpo e luogo puntuale del midollo spinale – perché in tal caso si dà una proiezione perfetta, punto per punto, della superficie corporea sul midollo – nelle paralisi cerebrali viene colpito, non un singolo punto del corpo, quanto invece un’intera area della periferia somatica: a conferma della funzione sintetica dell’attività cerebrale, di contro a qualsiasi teoria empirista della sensazione, quale attingimento di un contenuto semplice, puntuale e univoco. A ogni elemento periferico corrisponde un elemento del midollo […]; la periferia è, per così dire, proiettata sulla sostanza grigia del midollo, punto per punto, elemento per elemento. Io ho proposto di chiamare paralisi di proiezione [paralysie de projection] la paralisi détaillée periferico-spinale. Diversamente avviene per quanto si riferisce alle relazioni tra gli elementi del midollo e quelli della corteccia. Il numero delle fibre conduttrici non sarebbe più sufficiente a fornire una seconda proiezione della periferia sulla corteccia. Si deve quindi supporre che ciascuna delle fibre che va dal midollo alla corteccia non rappresenti più un solo elemento periferico, ma piuttosto un gruppo di questi, e che, a sua volta, un elemento periferico possa corrispondere a diverse fibre spino-corticali. […] Io affermo perciò che la periferia non è fedelmente riprodotta sulla corteccia punto per punto, cioè non vi è proiezione vera e propria, ma vi è una relazione mediata da fibre per così dire rappresentative, 10  M. Solms, M. Saling (On Psychoanalysis and Neuroscience: Freud’s Attitude to the Localizationist Tradition, “International Journal of Psycho-Analysis”, n. 67, 1986, pp. 397-416) sostengono che il libro di Freud sull’afasia è il «first account of the dynamics of mental process», che «contains a detailed model of the speech apparatus», centrale nella talking cure e che in esso sono presenti «the germs of the theory of regression and the genetic point of view of psychoanalysis», così come «the beginning of a new attitude toward brain functioning which became the conceptual framework within which psychoanalysis could develop» (ivi, p. 399). Ma si veda anche l’accurato lavoro di M. De Lillo, Freud e il linguaggio. Dalla neurologia alla psicoanalisi, Lecce, Pensa, 2015.

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e propongo quindi che, per la paralisi cerebrale, venga usato il termine di paralisi di rappresentazione [paralysie de représentation]11.

Peraltro che l’attività cerebrale implichi una costante sintetizzazione di quanto avviene nell’estensione della superficie corporea – e che dunque già qui, in termini neurologici, si fondi l’implicito kantismo di Freud, nel senso della valorizzazione dell’attività mentale come riproduzione non mimetica, e di conseguenza come funzione non associazionistica, bensì come funzione sintetica di un molteplice – è testimoniato, sempre nel saggio sulle afasie, dalla confutazione di un’altra tesi di Meynert. Per questi infatti l’attraversamento, nel cervello, da parte di fibre cariche di sollecitudine nervosa di zone di sostanze grigie cerebrali, non modificava la natura del messaggio, o carica, veicolato dalla fibra in questione. Per Freud invece nell’attraversare una zona di sostanza grigia la fibra vede trasformare la sua funzione, perché nell’attraversamento si associa con altri stimoli sensoriali, uscendo in tal modo con un significato funzionale mutato. Prendiamo uno degli esempi a noi meglio noti: una fibra del nervo ottico veicola un’impressione retinica fino ai tubercoli quadrigemini anteriori; qui trova una terminazione provvisoria, e in sua vece si diparte dalla sostanza del ganglio un’altra fibra diretta verso la corteccia occipitale. Nella sostanza dei tubercoli quadrigemini ha però avuto luogo l’associazione dell’impressione retinica con la cinestesi oculomotoria; è perciò molto probabile che, fra i tubercoli quadrigemini e la corteccia occipitale, la nuova fibra non trasmetta più un’impressione retinica, bensì l’associazione di una o più di tali impressioni con sensazioni di movimento12.

Se Meynert teorizzava che una fibra bianca che proveniva dal midollo spinale, passando attraverso i nuclei grigi del cervello, non veniva alterata nella sua identità e funzione, per cui proiettava sulla corteccia direttamente lo stimolo della periferia del corpo, per Freud il fatto che i nuclei grigi ricevono ramificazioni da altre aree cerebrali implica invece che la fibra uscente dal nucleo, a seguito dell’attraversamento del nucleo e della connessione con altre provenienze, sia diversa dalla fibra entrante. Per Meynert, che in tema di decorso delle fibre dà risalto soprattutto al dato della connessione corticale, una fibra o un fascio di fibre conserva sempre la propria identità, per quante sostanze grigie abbia attraversato. […] Noi non possiamo più sostenere questo punto di vista […] dobbiamo accettare l’idea secondo cui una 11  S. Freud, Alcune considerazioni per uno studio comparato delle paralisi motorie organiche e isteriche, in Id., Opere 1892-1899, Torino, Boringhieri, 1968, vol. 1, pp. 72-73 [il corsivo è nel testo freudiano]. 12

S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., p. 74.

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per un nuovo materialismo fibra, nel suo decorso verso la corteccia cerebrale, abbia mutato il proprio significato funzionale ogni volta che riemerge da una sostanza grigia13.

Per cui sono proprio questi luoghi di sintesi e interconnessione, le sostanze grigie, ad apparire come i veri centri dell’attività cerebrale, «sono le sostanze grigie e non più i fasci di fibre a sembrarci i soli organi del cervello»14. Vale a dire, insomma, che a una concezione topologica dell’attività cerebrale, basata sulla continuità proiettiva da un luogo del corpo a un luogo della corteccia, deve subentrare una concezione sintetico-funzionale, per la quale Freud usa termini non a caso come Verbindung (congiungimento) e Verknüpfung (annodamento), che nel lessico tedesco rimandano a tipologie di connessione non accidentali ma intrinseche e strutturali. Tanto che a proposito della trasformazione che la riproduzione della sensazione della superficie corporea subisce attraversando le varie aree del cervello e ridisegnandosi a seconda delle connessioni in cui entra e da cui esce – a proposito cioè delle trasformazioni di significato che un elemento apparentemente semplice come la fibra nervosa acquisisce – Freud, anche qui non casualmente in un testo sulle patologie del linguaggio, usa un singolare quanto efficace paragone con l’alfabeto, il cui numero limitato di lettere di base dà luogo a un numero infinito di combinazioni. Notiamo solo che le fibre, giungendo alla corteccia cerebrale dopo aver oltrepassato le sostanze grigie, mantengono ancora un rapporto con la periferia del corpo, è vero, ma non possono più darne un’immagine topicamente simile. Per prendere in prestito un esempio dall’argomento di cui ci stiamo occupando, esse contengono la periferia del corpo come una poesia contiene l’alfabeto, in un riordinamento [Umordnung] che serve altri scopi, in una molteplice concatenazione dei singoli elementi topici, dei quali alcuni possono essere rappresentati più volte, mentre altri non lo sono affatto. Se si potesse seguire in dettaglio questo riordinamento che dalla proiezione spinale procede fino alla corteccia cerebrale, probabilmente si troverebbe che il suo principio è puramente funzionale e che i momenti topici sono mantenuti solo nella misura in cui coincidono con esigenze funzionali15.

Così alla prima sintesi, che già avviene nel midollo spinale attraverso la riduzione del numero delle fibre in uscita rispetto al numero di quelle in entrata, nel saggio freudiano si aggiungono e si avvicendano le sintesi, che accadono per moltiplicazione delle connessioni, attraverso le sostanze grigie del cervello: in un quadro complessivo che ci parla della natura 13

  Ivi, pp. 73-74.

14

  Ivi, p. 73.

15

  Ivi, p. 75.

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profondamente elaborata e processuale che l’attività neurologica e mentale possiede per questo primo Freud. 2. Un corpo ermeneutico e simbolo a se medesimo Ma per comprendere più adeguatamente in qual modo già per il Freud neurologico il corpo è in un certo senso una struttura ermeneutica che seleziona e ritraduce costantemente la propria interiorità, contestualizzandola, a seconda dei diversi ambiti del proprio sistema nervoso, secondo livelli distinti di sintesi e di funzione, è necessario, a mio avviso, rifarsi in particolare all’influenza esercitata sul Freud studioso delle afasie da John Hughlings Jackson, un protagonista anglosassone della storia della neurologia, che, seguace dell’insegnamento di Herbert Spencer, derivava da quest’ultimo la valorizzazione e l’estensione a tutti gli ambiti del sapere della teoria dell’evoluzionismo darwiniano. Coerentemente con il programma spenceriano Hughlings Jackson, applicando la dottrina di Darwin al sistema nervoso16, era giunto infatti a teorizzare la divisione dell’apparato nervoso in una gerarchia di ambiti che andavano da gradi di strutture e funzioni più semplici, più automatiche e meno specializzate, a strutture e funzioni più elevate, più specializzate, più complesse e meno automatiche (in termini anatomici rispettivamente il midollo spinale, il mesencefalo e il telencefalo)17. Da tale tripartizione anatomo-funzionale, connessa dalla scala evolutiva, ne aveva dedotto una teoria ricorsiva e reiterata della rappresentazione, secondo la quale una rappresentazione sensomotoria al livello più arcaico del sistema nervoso rappresentava in modo pressoché diretto le parti del corpo interessate, mentre il secondo e il terzo livello, rispettivamente ri-rappresentavano e ri-ri-rappresentavano, quella rappresentazione originaria, risignificandola e riadattandola alle loro funzioni superiori18. 16   «I will state what I believe to be the hierarchy of nervous centres, with accords with the doctrine of evolution [c.m.]» dichiara John Hughlings Jackson. Cfr. Evolution and Dissolution of the Nervous System (1884), in J. Taylor (a cura di), Selected Writings of John Hughlings Jackson, vol. 2, London, Hodder and Stoughtin, 1932, p. 53. 17   «Evolution is a passage from the most to the least organized; that is to say, from the lowest, well organised, centres up to the highest, least organized, centres, putting this otherwise, the progress is from centres comparatively well organized at birth up to those, the highest centres, which are continually organising through life» (ivi. p. 46). 18   «Il sistema nervoso centrale (parlo solo per il momento del sistema cerebrale) consiste di tre livelli, il più basso, il mediano e il più alto: questi, rispettivamente, rappresentano,

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Ma ancor più Hughlings Jackson ne derivava una concezione delle malattie e delle patologie di natura neurologica, quali in primo luogo le afasie, da intendersi come «dissoluzione», come un tornare indietro nel percorso evolutivo, come cioè un passare da un ordine di funzioni superiori a uno inferiore: dato che è appunto nella natura stessa dell’evoluzione, del progredire, che è contenuta la possibilità dell’involuzione e del regredire19. «L’affermazione “subire una dissoluzione” è del tutto equivalente all’affermazione “essere ridotto a un livello più basso dell’evoluzione”»20. La malattia, teorizzava Hughlings Jackson, non è questione di bene o di male, di ciò che è regolare o irregolare, bensì è questione di strutture che si mantengono e di strutture che si disgregano, cedendo il passo a strutture più arcaiche, che per la loro minore complessità hanno un grado più elevato di coesione. Si tratta di un processo regressivo, nel quale il paziente si trova a vivere secondo modalità che, per quanto stravaganti e assurde, al ricercatore si palesano come funzioni e prestazioni iscritte in una logica che in quanto logica non è patologica: ma che appunto è la logica di funzioni e modalità di vita pregresse dell’evoluzione. Io affermo che la malattia produce sintomi mentali negativi solo rispondendo alla dissoluzione e che tutti i sintomi mentali positivi (illusioni, allucinazioni, delusioni e condotte stravaganti) sono l’esito dell’attività di elementi nervosi che non vengono investiti da nessun processo patologico: nascono infatti solo dall’attività che si svolge al livello più basso persistente dell’evoluzione. […] Affermo che i sintomi mentali positivi dell’insanità del paziente sono la sopravvivenza dei suoi stati [un tempo] più adeguati: ossia la sopravvivenza del più basso, ma che un tempo è stato il più alto, livello dell’evoluzione. L’attività mentale più assurda e le più stravaganti azioni nelle persone malate sono la sopravvivenza di loro stati più adeguati. Dico “più adeguato”, non “ottimo”: perché in tale ambito l’evoluzionista non ha nulla a che fare con il bene o il male. Non ci dobbiamo meravigliare che il malato creda in ciò che noi chiamiamo le sue illusioni. Esse sono le sue percezioni. Le sue ri-rappresentano, e ri-ri-rappresentano tutte le parti del corpo. Per dare maggior rilievo a quest’ultima affermazione, ripeto che il livello più alto (la serie dei centri più elevati ossia l’“organo della mente“) ri-ri-presenta tutte, letteralmente tutte, le parti del corpo nelle più complesse combinazioni senso-motorie» (Remarks on Evolution and Dissolution of the Nervous System (1887), in Selected Writings of John Hughlings Jackson cit., p. 99). 19   «Dissolution being the reverse of the process of evolution just spoken of, little need be said about it there. It is a process of undevelopment; it is a “taking to pieces” in the order from the least organised, from the most complex and most voluntary, towards the most organized, most simple and most automatic» (ivi, p. 46). 20   «Hence the statement, “to undergo dissolution”, is rigidly the equivalent of the statement, “to be reduced to a lower level of evolution”» (ivi, p. 45).

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illusioni… non sono causate dalla malattia, ma sono il risultato dell’attività di ciò che è rimasto di lui (di ciò che la malattia ha risparmiato), di tutto ciò che c’è di lui. Le sue illusioni… sono la sua mente21.

Il Freud delle afasie è stato profondamente influenzato dalle teorie jacksoniane, pur se nella composizione del suo scritto vi sono certamente altre influenze dominanti come quella di H.C. Bastiat in primis, di A. Kussmaul, di J. Ross, di B. Delbrück. Ma qui quello che più preme dire, riguardo al debito che egli ha consumato con Hughlings Jackson, è che, mentre il neurologo britannico appare aver guardato assai più alla consistenza e alla struttura dei diversi livelli evolutivi del sistema nervoso, mettendo in rilievo quanto le ultime acquisizioni evolutive fossero le meno saldamente organizzate e coese e molto esposte dunque alle patologie della dissoluzione, Freud sembra invece guardare maggiormente al lavoro di associazione progressiva e di ri-presentazione o di re-interpretazione a cui il sistema nervoso sottopone i suoi dati senso-motori, dalle percezioni semplici che nascono alla periferia del corpo al percorso di riorganizzazione di senso e di funzione che subiscono nel transito da un livello evolutivo meno complesso a uno più complesso22. Ora è ben chiaro che, nell’ambito del discorso che stiamo ricostruendo, ci siamo serviti di una possibile analogia tra questo Freud e il Kant della Critica della ragion pura. Tale analogia va ovviamente assunta in senso metaforico e non letterale, perché non c’è alcun riferimento negli scritti neurologici di Freud all’opera di Kant, come invece accadrà in qualche, sia pure raro, passo, dell’opera matura23. Un riferimento effettivo ma assai   Ivi, pp. 46-47.

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  In una lettera a Fliess del 6 dicembre 1896 Freud scrive: «Ciò che è essenzialmente nuovo nella mia teoria è la tesi che la memoria è presente non una volta ma più volte, che è collocata in generi diversi di indicazioni. Ho postulato un simile genere di rearrengement qualche tempo fa (Aphasia) riguardo ai percorsi che portano dalla periferia [del corpo alla corteccia]» (S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess cit., p. 236). 23   Nella prospettiva interpretativa che qui si propone un testo utilissimo, assai ben informato e ben argomentato sul possibile rapporto tra Freud e Kant, è il saggio di Paolo Carignani, La «psiche estesa» tra Kant e Freud, da me letto in forma ancora di manoscritto e ora edito in inglese con il titolo Psyche is extended: from Kant to Freud, “International Journal of Psychoanalysis”, vol. 99, 2018, issue 3. E di Carignani cfr. anche Il corpo in psicoanalisi, in P. Carignani, F. Romano (a cura di), Prendere corpo, Milano, Franco Angeli, 2006. Va detto per altro che v’è un unico luogo nella sua opera in cui Freud, citando direttamente Kant sembra confermare, con il riferimento a una «psiche estesa», la genesi e la funzione della mente come rappresentante psichica della corporeità e una possibile nascita dello spazio esterno come proiezione del corpo interno, per una possibile fondazione della forma a priori kantiana dello spazio nell’estensione interna del nostro apparato psico-fisico. Questo luogo è un appunto del 22 agosto 1939, scritto un mese prima della 22

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indiretto a Kant potrebbe essere presente in queste pagine freudiane, solo nella misura in cui buona parte della cultura filosofica, ma anche scientifica, tedesca, e in essa necessariamente anche quella viennese, partecipava nella seconda metà del Novecento dell’egemonia culturale del neokantismo e del suo tema di fondo, dopo la stagione del romanticismo e dell’idealismo tedeschi, del ritorno a Kant. E in questo senso anche Freud non potrebbe non aver accolto nella sua formazione le istanze di un rifiuto di un qualsiasi realismo delle cose in sé e della valorizzazione dei trascendentali, cioè delle strutture della soggettività, come luogo e funzione di sintesi. Per altro, quanto a espliciti riferimenti filosofici, il Freud del saggio sulle afasie, mostra, soprattutto nell’ambito della logica e della epistemologia, di essere invece profondamente partecipe e immerso nell’ambito dell’associazionismo inglese. Non a caso le uniche opere di un filosofo che cita nelle pagine del suo scritto sono quelle di John Stuart Mill, cioè di quel pensatore profondamente immerso nella tradizione dell’empirismo e dell’associazionismo britannico, di cui Freud aveva già tradotto l’ultimo volume delle opere complete apparso in tedesco24. Per l’empirismo morte, in concomitanza della stesura del Compendio di psicoanalisi: «Lo spazio può essere la proiezione dell’estensione dell’apparato psichico. Nessun’altra derivazione è verosimile. Invece [di una] delle condizioni a priori kantiana nel nostro apparato psichico [Räumlichkeit mag die Projektion der Ausdehnung des psychischen Apparats sein. Keine andere Ableitung wahrscheinlich. Anstatt Kants a priori Bedingungen unseres psychischen Apparats. Psyche ist ausgedehnt, weiß nichts davon]» (S. Freud, Risultati, idee, problemi, in Opere cit., vol. 11, p. 566). Per una consolidata, quanto a mio avviso poco fondata, ipotesi di un Freud del tutto lontano dal kantismo cfr. P. Rieff, Freud: The Mind of the Moralist, Chicago, The University Press, 1959, p. 51. Anche A. Green scrive che «A priori non vi è opera filosofica più lontana dalla psicoanalisi di quella di Kant. […] Inoltre oggigiorno è nel kantismo che gli avversari della psicoanalisi trovano i loro argomenti per difendere un formalismo che ha assunto i colori dell’attuale cognitivismo» (Key Ideas for a Contemporary Psychoanalysis Misrecognition and Recognition of the Unconscious, London, Routledge, 2005, pp. 282-283, cit. in P. Caregnani, La «psiche estesa» tra Kant e Freud cit. Eppure i pochi ma significativi riferimenti a Kant sparsi per i vari scritti freudiani dimostrano un richiamarsi di Freud a tutte e tre le Critiche kantiane. Il riferimento a Kant è presente in L’interpretazione dei sogni (in Opere cit., vol. 3, pp. 71, 466), Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (ivi, vol. 5, pp. 10, 177), Totem e tabù (ivi, vol. 7, pp. 8, 31), Pulsioni e loro destini (ivi, vol. 8, p. 54), Al di là del principio di piacere (ivi, vol. 9, p. 214), Il problema del narcisismo (ivi, vol. 10, p. 13), Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie (ivi, vol. 11, pp. 174, 267). 24  Il testo di J. Stuart Mill tradotto da Freud è il volume 12 di J. Stuart Mill, Gesammelte Werke, Leipzig, Fues-Reisland, 1880. Il volume comprende vari scritti (Über Frauenemanzipation, Plato, Arbeitsfrage, Sozialismus) e viene tradotto da Freud all’età di 24 anni. Valerie Greenberg nel suo testo, Freud and his Aphasia Book (Ithaca-London, Cornell University Press, 1997), parla di una vera e propria anglofilia che avrebbe connotato il percorso formativo del giovane Freud. Questi, prima del suo viaggio a diciannove anni in Inghilterra, così scriveva al suo amico Silberstein: «Io leggo storia inglese, scrivo lettere in inglese, ascolto narrazioni in inglese e sono assetato di considerazioni da un punto di vista

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associazionistico, che muove da Locke, Hume, Berkeley e nell’Ottocento viene celebrato come la filosofia anglosassone par excellence da James Mill e dal figlio John Stuart Mill, la realtà in sé non ha alcuna legittimità d’esistenza, perché ogni oggetto e contenuto d’esperienza è null’altro che l’insieme delle sensazioni che ogni soggetto percepisce, dandosi ogni idea complessa e ulteriore della mente come una composizione delle idee o sensazioni primarie e semplici. Con la distinzione fondamentale, va aggiunto, rispetto alle sintesi trascendentali con le quali lavora la mente kantiana, che le leggi che strutturano la mente empirica non hanno nessun carattere di obbligatorietà e universalità estendibili all’intero genere umano, essendo generalizzazioni solo di fatti esperiti e osservati. E che appunto, l’esperienza offrendoci solo particolarità, solo casi singoli, ogni presunta verità generale è solo la formula abbreviata, prodotta per induzione e associazione, che consente di orientarsi nell’esperire, in un ragionare la cui finalità pragmatica e pratica è determinante. Ora in L’interpretazione delle afasie Freud aderisce senza dubbio alcuno a una prospettiva filosofica ed epistemologica di natura associazionistica, ma, si potrebbe dire con una implicita variazione kantiana, dovuta all’assenza anche nella sua visione di una possibile sensazione semplice, che non sia cioè sensazione già sintetizzata e composita, e, soprattutto, al fatto che il suo accoglimento dell’evoluzionismo cerebrale di Hughlings Jackson gli dà la possibilità di concepire luoghi della mente con logiche differenziate tra loro che non possono non richiamare, allora come oggi, la celebrazione kantiana nella Critica della ragion pura delle tre facoltà della mente umana, con le loro specifiche logiche e modalità di sintetizzare ognuna diversa dall’altra25. inglese» (S. Freud, Jugendbriefe an Eduard Silberstein, 1871-1881, a cura di W. Boelich, Frankfurt a. M., Fischer, 1989, p. 40). E. Jones, nella sua Vita di Freud, cita la lettera di Freud alla sua fidanzata Martha Bernays (16 agosto 1882), in cui descrive il viaggio in Inghilterra come quello che «ha avuto un’influenza decisiva nella mia vita» e dichiara di rileggere le opere «dei miei veri maestri – tutti inglesi o scozzesi» (E. Jones, Vita e opera di Freud cit., pp. 178-179). 25   Già E. Montgomery (1835-1911), autore di una monografia su Kant, dal titolo Die Kant’sche Erkenntnislehre widerlegt vom Standpunkt der Empirie. Ein vorbereitender Beitrag zur Begründung einer psychologische Naturauffassung (München, Ackermann, 1871), pubblicava nel 1899 sulla rivista “Mind” (XIV, 1899, pp. 488-510) un saggio, Mental Activity, nel quale dava testimonianza dello stimolo dato dalla filosofia di Kant alla psicologia sperimentale di tradizione empiristica anglosassone nel ricercare fattori unificanti della coscienza, al di là del suo costituirsi come una mera associazione di sensazioni. Cfr. O. Pallenberg, Kant nel dibattito sulla psicologia in «Mind» (1876-1891), “Studi kantiani”, vol. 19, 2006, pp. 81-99.

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È dunque il darwinismo, alla luce di un kantismo né dichiarato né sufficientemente consapevole, per quanto è dato congetturare, allo stesso Freud, che fa rileggere e reinterpretare, in modo originale, al giovane studioso viennese la tradizione dell’associazionismo empirista, così da formulare, al di là di ogni fondazione atomistica del medesimo, una teoria della radicale identità di sensazione e associazione. È il darwinismo cioè, su sottofondo kantiano, che consente a Freud di attingere alla tradizione dell’associazionismo inglese ma nello stesso tempo di trascenderla e di rifiutare il suo sostanziale meccanicismo. Giacché l’evoluzionismo di Jackson lo obbliga a superare la concezione lineare – principio cardine dell’associazionismo –, per cui dal semplice, per progressive addizioni, si giunge al complesso, concependo invece il semplice come fin dall’inizio mediato e significato dal complesso nel quale di volta in volta s’iscrive. Per Freud, funzione associativa, per la quale ogni sensazione o rappresentazione è sempre un processo di sintesi, e funzione reinterpretativa, articolata secondo i suoi vari livelli, sono intrinsecamente connessi. La sensazione, o rappresentazione, pensa Freud, è sempre un’associazione. Si può ora separare nel correlato psicologico della sensazione la parte della «sensazione» da quella dell’«associazione»? Evidentemente no. Sensazione e associazione sono due nomi con cui indichiamo diversi aspetti del medesimo processo. Ma sappiamo che entrambi i nomi sono astratti da un processo unitario e indivisibile. Non possiamo avere alcuna sensazione senza immediatamente associarla; per quanto dal punto di vista concettuale possiamo separare nettamente le due cose, in realtà esse dipendono da un processo unico che, prendendo avvio da una regione corticale, si diffonde all’intera corteccia. La localizzazione del correlato fisiologico è perciò lo stesso per la rappresentazione e l’associazione, e poiché localizzazione di una rappresentazione non significa altro che localizzazione del suo correlato [corsivo di Freud], dobbiamo rifiutarci di dislocare la rappresentazione in un punto della corteccia cerebrale e l’associazione in un altro. Al contrario, entrambi partono da uno stesso punto e in nessun punto si trovano mai in stasi26.

Abbiamo detto inoltre che la rappresentazione è una associazione nel senso peculiare di una rielaborazione, di una risistemazione [Umordnung], che sottopone il materiale dell’eccitazione proveniente dalla totalità della superficie corporea alle trame organizzative specifiche del sistema nervoso nel suo complesso, il quale sintetizza quel molteplice secondo le esigenze funzionali di volta in volta necessarie. Teoria della Umordnung che, com’è 26

 S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., pp. 79-80.

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funzione e genesi del linguaggio

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noto, costituirà un tema permanente e centrale nell’elaborazione freudiana della psicoanalisi27. Ma è dunque proprio qui che si colloca, io credo, l’origine – già nel contesto dei suoi studi neurologici, e in particolare di questo saggio dedicato all’afasia – della concezione più propriamente e più originalmente antropologica di Freud, che rimane acquisizione costante e fondamentale dell’intera sua opera. Ovvero la tesi che potremmo definire della natura simbolica dell’essere umano. Ma non nel senso che l’essere umano è l’animale che ha linguaggio e che utilizza simboli linguistici per entrare in relazione con il darsi del mondo. O meglio, certo anche in questo senso. Ma, per quello che qui interessa sottolineare, nel senso che l’essere umano è, in primo luogo simbolo in se medesimo, simbolo a se stesso, perché è formato da un insieme di livelli diversi di sintesi, in cui il livello e la funzione superiore ha l’obbligo, pena la malattia e la disgregazione, di integrare e dare nuovo significato a quelle inferiori. E dove simbolo sta a significare non ciò che sta per altro – che rimanda a un altro fuori di sé ed esteriore – ma un complesso che mantiene e conserva in sé le alterità interiori di se medesimo, integrandole nella sua logica superiore di vita. 3. Associazionismo e localizzazionismo Dal rilievo che il Freud del saggio sulle afasie ha assegnato alla funzione associativa non poteva che derivarne, come già si diceva, il rifiuto di aderire a un rigido localizzazionismo che ipotizzasse il collocarsi di ogni singola rappresentazione in una singola cellula cerebrale. Quale è dunque il correlato fisiologico della rappresentazione semplice o di quella che in sua vece ritorna? Evidentemente nulla di statico, ma qualcosa che possiede la natura di un processo28.

La storia del localizzazionismo cerebrale era stata aperta, com’è noto, da Franz Joseph Gall (1758-1828), che con una concezione integralmente localizzazionista delle funzioni psichiche aveva dato inizio allo studio delle 27   Nella stessa lettera già citata a Fliess del 6 dicembre 1986, dunque cinque anni dopo la pubblicazione di Auffassung der Aphasien, Freud scrive: «Come sai, sto lavorando all’ipotesi che il nostro meccanismo psichico si sia formato mediante un processo di stratificazione: il materiale di tracce mnestiche esistenti è di tanto in tanto sottoposto a una risistemazione [Umordnung] in base a nuove relazioni, a una sorta di riscrittura» (S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess cit., p. 236).

 S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., p. 78.

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varie aree della corteccia cerebrale. Con la tesi della possibilità di una localizzazione completa nel cervello di tutte le funzioni psichiche fondamentali, Gall, autore per altro verso quanto mai discusso, aveva assegnato un colpo radicale alla concezione cartesiana della mens quale pura res inextensa, del tutto separata dal corpo, facendone invece una parte estesa dell’organismo biologico. Come del pari la sua frenologia aveva messo profondamente in discussione la dottrina della Chiesa sulla natura immortale, unica e indivisibile dell’anima. Al di là di molti parallelismi arbitrari e fantasiosi tra sede organica e funzione psichica introdotti dalla sua ricerca, rimaneva comunque acquisita nella neurologia cerebrale del xix secolo la collocazione sovraorbitale nei due lobi frontali della funzione linguistica, teorizzata da Gall29. Contro tale localizzazione frontale bilaterale quale sede del linguaggio, Paul Pierre Broca aveva teorizzato nel 1861 la localizzazione del linguaggio nel solo lobo frontale sinistro, a seguito di riscontri autoptici tra lesioni situate nella terza circonvoluzione sinistra e la loro connessione con l’incapacità di articolare il linguaggio sonoro. E aveva inaugurato in tal modo, con l’interesse dedicato all’afasiologia, lo studio scientifico delle patologie del linguaggio. Carl Wernicke e Ludwig Lichtheim, nel solco della via di Broca, avevano poi teorizzato l’esistenza di centri del linguaggio connessi tra loro da vie nervose di conduzione, distinguendo, in seguito a lesioni del tessuto cerebrale, tra danneggiamento dei centri del linguaggio, o afasia centrale, e interruzione delle vie associative del linguaggio, o afasia di conduzione. Ma, appunto, nelle sue pagine afasiologiche Freud contesta la distinzione tra centri e vie di conduzione, proprio perché rimanda a un orientamento di studi e ricerche neurologiche che insiste troppo sul fattore della localizzazione. Mentre ci sforzavamo di trovare quali rapporti nella clinica dei disturbi del linguaggio confermassero l’importanza psichica dei centri del linguaggio […], ci siamo imbattuti in alcuni dati di fatto che ci hanno costretto a dubitare della correttezza di uno schema basato essenzialmente sulla localizzazione30.

Di contro all’eccessivo rilievo assegnato alla localizzazione Freud preferisce infatti sottolineare il rilievo da assegnare alla funzione, quale attività sistemica di un apparato in cui ciascun elemento è funzione, cioè dipende e condiziona, l’attività degli altri. 29  Sull’opera e la figura di F.J. Gall, cfr. G.P. Lombardo, M. Duichin (a cura di), Frenologia fisiognomica e psicologia delle differenze individuali in F.J. Gall, Torino, Bollati Boringhieri, 1997. 30

 S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., p. 34.

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Ci sembra ora che […] l’importanza per l’afasia del momento della localizzazione sia stato sopravvalutato, e che faremmo bene a occuparci nuovamente delle condizioni funzionali [c.m.] dell’apparato di linguaggio31.

I cosiddetti centri del linguaggio, a Freud e al suo ricercare anatomico e istologico, non appaiono come luoghi indipendenti l’uno dall’altro bensì come angoli di una vasta regione corticale, che coincide con l’intera regione associativa del linguaggio: i cui angoli o bordi più esterni sono a loro volta connessi con altri campi corticali adiacenti costituiti da elementi ottici, acustici, cinestetici. La regione associativa del linguaggio in cui confluiscono elementi ottici, acustici e motori (o cinestetici), si estende appunto tra i campi corticali di questi nervi sensoriali e i rispettivi campi corticali motori32.

Tanto che appunto, a muovere da tale rete di sovrapposizioni, intrecci e convergenze, che per Freud costituisce l’apparato neurologico del linguaggio, una lesione in un punto determinato non riesce a spiegare il come e il perché, in tal caso, non si dia distruzione integrale di linguaggio quanto invece afasie parziali e specifiche che non impediscono l’attivazione delle altre funzioni del linguaggio. E ciò deriva proprio dalla compresenza, dalla sinossi, di più relazioni che si danno e operano in una struttura reticolare. Per Freud non si tratta di rifiutare tout court il localizzazionismo, bensí si tratta di accoglierlo in una versione altamente flessibile e reticolare, per evitare di cadere negli estremi di una neurologia cerebrale che ancora con Wernicke, sulla scia della visione di Meynert, poteva credere che a ogni rappresentazione di parola sul piano psichico corrispondesse sul piano fisiologico l’occupazione di una sola e singola cellula: in una corrispondenza speculare secondo la quale ogni singolo evento neurologico dovrebbe rimandare a un singolo evento psichico. Laddove per Freud è invece necessario accedere al concepimento di una sorta di parallelismo asimmetrico tra corpo e mente, secondo il quale si può argomentare che la complessità dei processi sintetici sul piano neurofisiologico che attraversano il corpo tramite l’intero apparato del sistema nervoso si traducono, sul piano psichico del rappresentare, in una semplificazione del contenuto, in una rappresentazione semplice. E qui rappresentazione semplice, si badi bene, per Freud non sta a significare il ritorno a una fondazione gnoseologica ispirata all’atomismo empiristico, quanto invece lo scarto tra la complessità del processo Ivi, pp. 131-132.

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  Ivi, p. 186.

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neurologico che sottende un esperire rappresentativo della mente e la semplicità del contenuto mentale-rappresentativo di quel medesimo esperire. In psicologia la semplice rappresentazione è per noi qualcosa di elementare, che possiamo distinguere nettamente dai suoi collegamenti con altre rappresentazioni. Giungiamo così a supporre che anche il suo correlato fisiologico, la modificazione che a partire dalla fibra nervosa eccitata termina nel centro, sia qualcosa di semplice e localizzabile in un punto. Una trasposizione di questo tipo è naturalmente del tutto ingiustificata; le proprietà di questa modificazione devono essere determinate di per sé e indipendentemente dalle loro controparti psicologiche33.

Una concezione di parallelismo asimmetrico, come quella qui presentata da Freud, non può che rifiutare coerentemente ogni concezione causalistica del nesso corpo-mente. Per cui si può dire che anche qui il maestro viennese viene anticipando una nota fondamentale del suo pensare maturo, quale il rifiuto di ogni materialismo meccanicistico che concepisca, da un lato, il corpo come mero recettore passivo di impressioni e sensazioni dal mondo esterno e, dall’altro, la psiche come mera conseguenza, mero effetto dei movimenti corporei. Il corpo freudiano infatti già qui è profondamente attivo. Associa e combina nel transito dal midollo spinale al midollo cerebrale e, di lì, attraverso i diversi piani cerebrali. Esso insomma, già nella sua materialità, interpreta, perché congiunge e seleziona una molteplicità di dati producendo ogni volta la genesi di un significato che non è mai riproduzione del dato sensibile. Come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, quella che nell’ambito della coscienza appare una rappresentazione semplice e immediata, un contenuto chiaro ed evidente, è per questo Freud il risultato, non immediato né speculare, di complessi processi associativi della fisiologia del corpo. Ma se, appunto, la rappresentazione psichica è il risultato, in termini neurologici, dell’innervazione di più vie e percorsi fisiologici-cerebrali, la connessione corpo-psiche non può essere di immediata causalità quanto invece essere strutturata secondo una concomitanza parallela. E parallelismo significa appunto che non v’è continuità di connessione e di svolgimento, secondo un passaggio temporale dal primo al dopo, dalla causa all’effetto, dal fisico allo psichico, bensì corrispondenza: per la quale a un determinato accadimento fisico si accompagna e si connette sempre un determinato accadimento psichico. La catena dei processi fisiologici nel sistema nervoso probabilmente non è affatto in rapporto di causalità con i processi psichici. I processi  fisiologici non cessano 33

  Ivi, p. 78.

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funzione e genesi del linguaggio

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appena sono iniziati quelli psichici, anzi, la catena fisiologica procede, solo che, da un certo momento in poi, a ogni anello della catena (o ai suoi singoli anelli) corrisponde un fenomeno psichico. Lo psichico è così un processo parallelo a quello fisiologico («a dependent concomitant»)34.

Di nuovo è verosimilmente a Hughlings Jackson che Freud deve questa concezione, fondamentale, del parallelismo o concomitanza tra apparato nervoso e apparato psichico. Questi infatti, in Evolution and Dissolution, aveva rivendicato la natura essenzialmente materialistico-biologica della sua ricerca, ma proprio per accentuare, nello stesso tempo, la non riducibilità delle esperienze psichiche e mentali a fattori solo fisico-neurologici. E aveva in tal senso, contro ogni riduzionismo del mentale al cerebrale, elaborato quella che definiva la «dottrina della concomitanza» (doctrine of concomitance): Per quanto è possibile io ho considerato l’essere umano come una mera macchina (mere maschine). Certo è vero che in precedenti osservazioni ho usato spesso termini psicologici. Ma io ho avuto realmente a che fare solo con il sistema nervoso.: ho parlato delle condizioni fisiche che sottostanno alle condizioni mentali. A questo punto mi pronunzio sul rapporto della coscienza con gli stati nervosi. La dottrina che io sostengo è la seguente: 1) gli stati della coscienza (ma è dire la stessa cosa, gli stati mentali) sono del tutto differenti dagli stati nervosi. 2) Le due cose accadono insieme: per ogni stato mentale c’è un correlativo stato nervoso. 3) Malgrado le due cose accadano in modo parallelo, non c’è intromissione dell’uno nell’altro [although the two things occur in parallelism, there is no interference of one with the other]. Questa può essere chiamata la dottrina della concomitanza35.

L’adesione a un severo localizzazionismo non aveva impedito al neurologo inglese di rifiutare, senza dubbio alcuno, ogni dualismo tra mente e corpo ma nello stesso tempo di non coltivare in nessun modo riduzionismi dell’attività mentale a quella cerebrale: ritrovandosi, con la sua dottrina della concomitanza, in compagnia di alcuni degli spiriti e degli studiosi più significativi del suo tempo36. La teorizzazione del nesso mente/corpo  S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., p. 77. L’inglese è nel testo freudiano.

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 J. Hughlings Jackson, Evolution and Dissolution of the Nervous System cit., p. 72.   «A me sembra che la dottrina della concomitanza sia in ogni modo conveniente nello studio delle malattie nervose. Essa è sostenuta, o secondo una dottrina essenzialmente simile, da Hamilton, Mill, Spencer, Müller, Bain, Huxley, Du Bois, Laycock, Tyndall, Herman e David Ferrier. Chi accetta la dottrina della concomitanza non crede che volizioni, idee ed emozioni producano movimento o qualsiasi stato fisico. Non direbbero che una donna isterica non parla perché essa manca di volontà, che un afasico non parla perché ha perso la memoria delle parole, e che un paziente in coma non si muove perché ha perso coscienza. Al contrario essi vorrebbero dare, o cercare di trovare, spiegazioni materialistiche di incapacità fisiche. Io non cerco di mostrare quale è la natura della relazione tra stati mentali e stati nervosi» (ivi, p. 72). 35 36

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per un nuovo materialismo

del primo Freud non si discosta da questa impostazione: parallelismo e concomitanza non pongono in una successione temporale e causale processualità neuro-cerebrale e rappresentazioni psichiche ma le fanno coesistere nella loro eterogenea, ma pure compresente, presenza. 4. Un ulteriore grado di sintesi È un parallelismo asimmetrico, ma dominato e unificato in qualche modo dal motivo e dalla funzione della sintesi, che consente a Freud, in questo testo sulle afasie, di aprire una specifica e determinata riflessione su quella natura e costituzione dello spazio psichico che avrà una fortuna peculiare nello sviluppo del suo pensiero. È infatti la sintesi che si dà tra Objectvorstellung e Wortvorstellung (secondo la terminologia usata da Freud), la sintesi tra rappresentazione di oggetto e rappresentazione di parola che costituisce il luogo teoretico per eccellenza di quella che va definita la vera e propria filosofia di Freud, giacché tale sinossi rappresenta non solo un teorema invariato e centrale di tutta l’opera freudiana ma anche un luogo ricco di una pregnanza gnoseologica che va ben al di là dei confini della psicoanalisi. La sintesi di rappresentazione di parola e rappresentazione di oggetto è una sintesi di sintesi, in quanto entrambe, Wortvorstellung e Objektvorstellung, sono a loro volta, ognuna per sé, esito di una connessione funzionale di più elementi, secondo quanto mostra lo schema grafico che Freud acclude al suo testo37.

37   L’immagine qui riportata è tratta dal testo freudiano nella traduzione italiana a cura di F. Napolitano da cui si citano (p. 101), dato che vi sono aggiunte, rispetto all’originaria immagine inserita da Freud nel suo testo, le versioni italiane dei rispettivi termini freudiani.

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funzione e genesi del linguaggio

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La rappresentazione di parola è formata dal nesso di Klangbild (immagine sonora), Bewegungsbild (immagine motoria di fonazione), Lesebild (immagine di lettura), Schriftbild (immagine di scrittura). Vale a dire che l’esercizio della funzione linguistica è legata alla capacità di riprodurre suoni già uditi e, contemporaneamente, al possesso dei movimenti orali di pronuncia, come al possesso del modo in cui si legge e si scrive la parola in questione. La parola è dunque una rappresentazione complessa, consistente delle immagini menzionate o, altrimenti detto, alla parola corrisponde un intricato processo associativo in cui confluiscono i suddetti elementi di provenienza visiva, acustica e cinestetica38.

Tale concezione e raffigurazione della Wortvorstellung, come sintesi di quattro componenti, era del resto ben diffusa e accreditata nella letteratura scientifica contemporanea. Freud poteva trovare uno schema sostanzialmente analogo nell’opera di un altro neurologo anglosassone che, alla pari di Hughlings Jackson, ebbe rilevante influenza su di lui, H. Charlton Bastian, di cui qui va ricordato specificamente il saggio On Different Kinds of Aphasia, with Special Reference to Their Classification and Ultimate Pathology39, che contiene il diagramma qui sotto riportato.

  Ibidem.  H. Charlton Bastian, On Different Kinds of Aphasia, with Special Reference to Their Classification and Ultimate Pathology, “British Medical Journal”, 2, luglio-dicembre 1887, p. 933. 38 39

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Nella illustrazione e nella sistemazione teorica di Freud il venir meno di una delle connessioni possibili all’interno di una Wortvorstellung contrassegna una possibile afasia, o patologia del linguaggio. Le afasie nella loro tipologia più generale, senza considerare i diversi casi sottospecifici, si suddividono infatti in afasia sensoriale o auditiva, quale incapacità di sentire le parole, l’afasia motoria, quale incapacità di pronunciarle, l’afasia di lettura, quale incapacità di leggerle, e l’afasia di scrittura, quale incapacità di scriverle. Ognuna di queste patologie è legata per Freud a una lesione neurologica, a una lesione organica dell’apparato di linguaggio, a dimostrazione che per questo Freud la stesura del testo sulle afasie combina un approccio fortemente sintetico-funzionale con un approccio ancora moderatamente localizzazionista. Anche la Objectvorstellung è, a sua volta, il risultato di una sintesi, di Object-Associationen, formate dalla connessione di elementi visivi, tattili, cinestetici, olfattivi. Ma, diversamente dalla Wortvorstellung, conchiusa e strutturata nei suoi quattro elementi, la rappresentazione d’oggetto è aperta non solo a un maggior numero di impressioni sensoriali ma a una loro continua possibile addizione e variazione nel futuro. Tale distinzione/opposizione tra chiusura della rappresentazione linguistica e apertura di un contenuto psichico non linguistico di senso, elaborata e trasformata in ambito psicoanalitico, condurrà, nella cornice successiva della psicoanalisi, alla distinzione fondamentale tra freie Energie e gebundene Energie, energia libera ed energia legata. Ma ora quello che qui interessa maggiormente sottolineare è che per il Freud delle afasie la sintesi determinante, la sintesi delle sintesi, è quella che connette rappresentazione di parola a rappresentazione di oggetto, attraverso il congiungimento di immagine sonora della prima e immagine visiva della seconda. Come egli scrive nella didascalia che illustra l’immagine che abbiamo sopra riprodotto: La rappresentazione di parola sembra un complesso chiuso di rappresentazioni, la rappresentazione d’oggetto, per contro un complesso aperto. La rappresentazione di parola non è collegata con la rappresentazione d’oggetto a partire da tutte le sue componenti, ma solo dall’immagine sonora. Tra le associazioni oggettuali sono quelle visive a rappresentare l’oggetto, in modo analogo a quello in cui l’immagine sonora rappresenta la parola40.

Non c’è chi non noterà quanto qui, nella Objektvorstellung, Freud assegni il rilievo preminente, tra le altre componenti sensoriali, alla 40

 S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., p. 101.

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dimensione visiva, quasi nella continuità con la tradizione antichissima, d’ispirazione greca, che assegnava alla visione dell’occhio la maggiore capacità e testimonianza di accogliere ciò che possiede realtà e verità. Rilevanza della visione, che ovviamente giocherà un ruolo insostituibile nella Traumdeutung e nell’interpretazione di un’attività della mente quale quella onirica, a Freud apparirà fondamentalmente senza linguaggio. Ma, al di là di questo rilievo che pure acquista un forte significato nella ricerca della psicoanalisi contemporanea volta a indagare una psichicità pre­rappresentantiva, ciò che merita evidenziare è che per questo Freud il luogo più delicato, quanto a esiti patologici, della mente cerebrale di cui sta trattando, è proprio la connessione tra le rappresentazioni di linguaggio e le rappresentazioni senza linguaggio. Le diverse modalità dell’afasia confermano l’esistenza di questi componenti eterogenei del rappresentare, unificati, fisiologicamente, in una sintesi: La tesi che dobbiamo ora formulare sulla base della patologia dei disturbi del linguaggio va nel senso che la rappresentazione di parola è collegata mediante la sua terminazione sensoriale (immagini sonore) alla rappresentazione d’oggetto41.

E insieme confermano che proprio tale connessione, tra linguistico e alinguistico, tra significante e significato, costituisce l’asse più delicato, quanto a possibilità d’interruzione e di disfunzione nella mente ricostruita da Freud, delle patologie afasiche: «parecchie cose indicano che il collegamento fra rappresentazione di parola e rappresentazione d’oggetto è la parte più facilmente esauribile dell’attività di linguaggio, in un certo senso il suo punto debole»42. Per cui è solo la centralità di tale nesso, di tale sintesi, tra significato e significante, nell’attività della mente cerebrale, che spiega per Freud la caratteristica dell’essere umano, più propria e originale, di essere un essere simbolico. L’essere umano è tale perché connette la rappresentazione d’oggetto alla rappresentazione di parola, ovvero perché collega le scene della sua mente, prodotte dal concorso dei cinque sensi, e tendenzialmente indeterminabili nel variare sempre nuovo dell’esperire sensibile, alla determinazione fissa e conchiusa della parola. Simbolo e simbolizzazione, dunque, per questo Freud non si riferiscono a un segnale o a un segno che rimandino a una qualche realtà esterna, secondo una convenzione   Ivi, p. 102.

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  Ivi, p. 107.

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sociale stabilita, come per esempio può accadere con l’immagine della croce o della mezza luna nel caso di simboli religiosi, quasi fosse da rappresentazione d’oggetto a oggetto. Si riferiscono bensì a connessioni solo intracerebrali, che si danno tra elementi eterogenei dell’apparato rappresentativo. Anche perché per Freud, si è detto, non si può dare realtà esterna in alcun senso, ma solo rappresentazioni, quali modificazioni apportate dal modo esterno all’interno dell’apparato neuro-linguistico del corpo umano. Così, distinguendo tra afasia di prim’ordine (afasia verbale), in cui le patologie si riferiscono solo a disturbi tra i singoli elementi della rappresentazione di parola, e afasia di second’ordine (afasia simbolica), in cui la patologia colpisce invece l’associazione tra rappresentazione di parola e rappresentazione d’oggetto, Freud osserva: «Adopero il termine asimbolia in un senso diverso da quello in uso a partire da Finkelnburg, perché mi sembra che meriti d’essere denominato simbolico il rapporto tra parola e rappresentazione d’oggetto, più che quello tra oggetto e rappresentazione d’oggetto»43. «Simbolo» sta dunque a significare per Freud, con uno scarto di originalità assai profondo rispetto alla tradizione, il nesso che lega l’immagine sonora della parola con l’immagine visiva dell’oggetto, o immagine di cosa. Per cui, proprio a muovere dal convincimento della forte distinzione tra ambito della rappresentazione di parola e ambito della rappresentazione di cosa, egli può attribuire il termine di asimbolia a tutte le patologie del linguaggio, mentre definisce come agnosia il complesso delle patologie che si esprimono nell’incapacità di conoscere e sentire l’oggetto, indipendentemente dalla capacità linguistica. Del resto, a proposito di una trama rappresentativa che si forma tutta all’interno del corpo, non a caso il Freud delle afasie cita, come unico filosofo John Stuart Mill, con le sue due opere, Logik e An Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy. Giacché nel pensiero del filosofo inglese egli trovava la teorizzazione di una chiara distinzione tra mondo esterno e mondo interno e dunque la tesi che la rappresentazione non fosse accesso a un oggetto esterno nella sua materialità ma che fosse una rappresentazione d’oggetto solo in quanto modificazione interna della corporeità. Non c’è il minimo motivo di credere che quelle che chiamiamo le qualità sensibili dell’oggetto […] abbiano una qualche affinità con la sua natura. Una causa come tale non assomiglia ai suoi effetti; un vento di levante non è simile alla sensazione 43

  Ivi, p. 103

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di freddo, né il calore è simile al vapore dell’acqua bollente. Perché allora dovrebbe rassomigliare la materia alle nostre sensazioni? […] nulla conosciamo e possiamo conoscere del mondo esterno, salvo le sensazioni che ne proviamo44.

Analogamente a Mill, per Freud la Objektvorstellung è costituita da una sintesi, da una costruzione interiore all’essere umano («la stessa rappresentazione d’oggetto è a sua volta un complesso associativo delle più disparate rappresentazioni visive, acustiche, tattili cinestestiche e d’altro tipo ancora»45), motivo per cui, riferendosi alla filosofia di Mill, può dire che «dalla filosofia apprendiamo che la rappresentazione d’oggetto non contiene niente di più che questo [il complesso associativo], apprendiamo che la parvenza di una cosa […]» [Wir entnehmen der Philosophie, dass die Objektvorstellung außerdem nichts anderes enthalt, dass der Anschein eines Dinges]. Aggiungiamo solamente, a conferma di un rappresentare che sintetizza materiali e componenti null’altro che interiori, che, per caratterizzare un evento psichico interno al soggetto, Freud usa qui il termine Objekt, che nel lessico tedesco si connette intrinsecamente a Subjekt e si distingue sia dalla cosa separata e in sé, quale Ding, con il suo inevitabile richiamo alla kantiana Ding an sich, e, implicitamente, anche da Gegenstand, quale oggetto che sta di fronte ed è autonomo dal soggetto in questione. 5. La complicazione della pulsione Il cenno che abbiamo fatto all’influenza avuta sulla formazione freudiana degli scritti di Hughlings Jackson non dà conto sufficiente dell’incisività che quel rapporto ha avuto, in modo permanente, sull’intera opera, neurologica e psicoanalitica, di Freud. Il modello ricorsivo ed evoluzionistico jacksoniano della rappresentazione – per cui un medesimo setting neurologico viene riscritto e risignificato più volte a seconda dei vari livelli cerebrali, scalari per evoluzione, in cui si ripresenta – ha ispirato profondamente Freud non solo quanto alla sua concezione della malattia, prima neurologica e poi mentale, come dissoluzione/regressione di un livello organizzativo superiore, ma, si potrebbe dire metaforicamente, anche quanto al modo in cui si susseguono e si legano tra loro le diverse 44  J. Stuart Mill, Sistema di logica raziocinativa e induttiva, tr. it. di G. Facchi, Roma, Ubaldini, 1968, p. 57.

 S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., p. 101.

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fasi della storia delle idee e della biografia intellettuale dello stesso Freud. Perché il passaggio nella vita di studioso di Freud da L’interpretazione delle afasie al Progetto per un psicologia e poi all’Interpretazione dei sogni e alla Metapsicologia avviene, anch’esso, proprio secondo una modalità, io credo, ricorsiva e, insieme, ri-significativa: per la quale le strutture concettuali di fondo delle prime scritture rimangono invariate e, nello stesso tempo, profondamente modificate nel contesto rinnovato di senso degli scritti successivi. A testimonianza, c’è d’aggiungere, della fedeltà a se medesimo e dello svolgimento, travagliato ma coerente, di un’unica idea, nel quale in genere si svolge l’opera e la vita di un grande pensatore. All’interno di tale variare nel permanere, quella che ho definito una vera e propria filosofia della rappresentazione, basata sulla relazione di rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola, rimane la pietra di volta del pensiero freudiano. Anche e soprattutto quando il maestro viennese, si prova a elaborare quel Progetto di una psicologia che rappresenta il vero e proprio Giano bifronte del suo percorso di ricerca: collocato, com’è, a mezzo tra una descrizione e spiegazione neuro-fisio-patologica dei fenomeni psichici e una chiave esegetica di natura pulsionale, già di precorrimento psicoanalitico. Tra L’interpretazione delle afasie (1891) e il manoscritto del Progetto (1895) corrono gli anni delle Studien über Hystherie (1892-1895). E con lo studio dei casi delle grandi isteriche, com’è ben noto, nella vita clinica e teorica di Freud fa il suo ingresso il concetto di pulsione, di desiderio. La specificità dell’isteria, come complesso di sintomi e patologie che non rimandano ad alcuna lesione organica, rompe infatti il quadro localizzazionista – in cui, pur con tutti i limiti e i distinguo che abbiamo evidenziato, si era svolta fino ad allora la ricerca neurologica di Freud – e traduce l’oggetto della sua indagine dall’orizzonte della lesione a quello della pulsione. Giacché, con la messa da canto della lesione come causa della patologia mentale, entra in scena un altro soggetto d’azione e responsabilità psichica, alla identificazione e definizione della cui natura sarà dedicata l’intera storia della psicoanalisi. Si tratta infatti non di una lesione, di una frattura, di un venir meno d’alcunché – ossia non si tratta, potremmo dire in linguaggio filosofico, di un non-essere, di un meno-di-essere – bensì, all’opposto, di un riempimento, di un caricarsi di energia, ossia di un potenziamento, di un più-di-essere, che, irreprimibile nel suo accumularsi, non si destina ad altro che al proprio soddisfacimento di scarica. Tanto che è qui, in tale scarto tra lesione e pulsione, che si colloca lo scacco a cui, ab imis e sin dai primordi dell’impresa psicoanalitica, Freud espone a mio avviso, in una sorta di confronto anticipato e ideale,

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l’avventata mossa lacaniana, la quale presumerà e pretenderà di fondare la psicoanalisi proprio sul «non-essere» e sulla valorizzazione di quella «mancanza ad essere» che saranno categorie e principi istitutivi del pensare in autori centrali per la formazione di Lacan, quali, tra gli altri, si ricordava, sono stati Heidegger e Kojève46. Il termine pulsione, Trieb, compare esplicitamente nei testi freudiani solo nel 1905 con le Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie, ma, com’è ben noto, è già implicitamente presente nelle pagine freudiane del Progetto del 1895 con il dualismo dei processi di eccitazione che Freud colloca a base del funzionamento dell’apparato psichico. Eccitazioni d’origine esterna, da cui l’apparato psichico e l’organismo che lo sostiene possono fuggire e allontanarsi, ed eccitazioni d’origine interna, che per la loro natura interiore, non possono essere evitate ma solo «scaricate»47: secondo quel principio di inerzia neuronica, per il quale i neuroni tendono a liberarsi dalle invasioni d’energia, e con il quale il Freud (ancora in parte neurologo) del 1895 connota la vita del neurone. Tale distinzione tra eccitazione esterna ed eccitazione interna è, com’è evidente, fondamentale. Consente a Freud di teorizzare la specificità dell’apparato psichico umano come articolato in una funzionalità d’azione primaria e in una funzionalità d’azione secondaria, di spiegare la genesi dell’attività di pensiero e delle sue diverse modalità, tra cui emerge la peculiarità dell’attività onirica. Ma soprattutto consente a Freud d’inserire la sua prima concezione sistematica dell’apparato psichico, qual è depositata nel Progetto, in quella lunga storia del concetto di conatus che attraversa la cultura europea, scientifica e filosofica, almeno dal Seicento e che sottrae la concezione del corpo biologico-emozionale della mente psicoanalitica a un riduzionismo scientifico di tipo meccanicistico. Infatti, se il principio dell’inerzia neuronica e della tendenza a liberarsi da ogni condizione di eccitazione/dispiacere sembra ricondurre l’impostazione freudiana a un fisicalismo idraulico-meccanico di riempimento/svuotamento, ciò che di contro va messo in evidenza in questa prima formulazione freudiana è la dinamica della genesi delle pulsioni 46   Su ciò mi permetto di rinviare al mio Riflessioni sparse su identità, negazione, alterità, in F. Migliorino (a cura di) Scarti di umanità. Riflessioni su razzismo e antisemitismo, Genova, il melangolo, 2010, pp. 13-36. 47   «Con la [crescente] complessità dell’interno [dell’organismo], il sistema nervoso riceve stimoli dall’elemento somatico stesso – stimoli endogeni – che devono essere anch’essi scaricati. Questi hanno origine nelle cellule del corpo e determinano i bisogni fondamentali: fame, respirazione, sessualità. L’organismo non può sfuggirli come fa invece con gli stimoli esterni» (S. Freud, Progetto di una psicologia, tr. it. in Id., Opere cit., vol. 2, p. 202).

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corporee e, con esse, degli affetti. L’eccitazione endogena assegna al corpo freudiano un’attività, un principio di energia e di azione che non dipende da altro da sé e che affranca l’organismo in questione da ogni riduzione meccanico-cartesiana a figura di mera estensione che occuperebbe solo spazio e che riceverebbe impulso e movimento unicamente dall’esterno. Comprendere la teoria della pulsione in Freud significa così avere ben presente il dibattito su forza meccanica e forza viva, ossia su forza passiva e forza attiva, che ha attraversato l’Europa del Seicento, da Hobbes attraverso Spinoza fino a Leibniz. E che si riassume nella ferma contrapposizione, da parte di questi tre classici della filosofia moderna, alla dottrina cartesiana del movimento, nello spazio e nel tempo, quale risultante dal parallelogramma delle forze generato dall’incontro/scontro per contatto con i movimenti dei corpi esterni. Su questo tema la rottura di Spinoza con il suo maestro Descartes era stata definitiva, giacché per l’autore dell’Etica ogni esistenza ha in se medesima una forza attiva attraverso cui mira alla propria conservazione: «Ciascuna cosa, nel suo essere in sé, tende a continuare nel suo essere [in suo esse persevare conatur]»48. Il conatus è una potenza originaria di agire nei confronti degli altri esseri, che quando viene a realizzarsi conduce a gioia e a pienezza, laddove, quando viene meno, si trasforma in tristezza, cioè in passioni e affetti subalterni alla maggiore potenza degli affetti altrui. Il desiderio, o cupidità, coincide dunque con la nostra stessa essenza vitale: «La tensione alla conservazione di sé è l’essenza stessa di una cosa [Conatus sese conservandi est ipsa rei essentia]»49. Ma la dottrina del conatus, che sta a base dell’etica spinoziana, era stata, a sua volta, profondamente influenzata dalla teorizzazione sul conatus compiuta, poco prima, da Hobbes, un autore che, come è stato ben detto, «riduce tutte le funzioni cognitive della mente a funzioni conative»50. Conatus, o desiderio, definisce infatti nel sesto capitolo del Leviathan il movimento di approssimazione (come di allontanamento) a una cosa desiderata (o avversata), che sta a base di ogni attività spirituale. Il conatus, o appetito, o desiderio è ciò che muove l’agire e il conoscere dell’essere umano. Proviene dall’interno del corpo e dall’accumulazione 48

 B. Spinoza, Etica, tr. it a cura di P. Cristofolini cit., III, Prop. VI, p. 157.

  Ivi, IV, Prop. XXII, p. 261.  D. Bidney, The Psychology and Ethics of Spinoza. A Study in the History and Logic of Ideas, New York, Russell & Russell, p. 91. 49 50

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funzione e genesi del linguaggio

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di gradi appetitivi, nella loro dimensione minuscola, non immediatamente percepibili. Sebbene gli uomini privi di cultura non concepiscano alcun moto quando il corpo in movimento è invisibile, o quando lo spazio in cui quel moto si svolge è, per la sua limitata estensione, impercepibile, ciò non vuol dire che tali moti non esistano. Infatti uno spazio non è mai così piccolo da impedire che ciò che si muove su di uno spazio più grande di cui il piccolo è parte, si muova prima su quello. Questi piccoli principii di moto, nel corpo umano, prima che si manifestino nel camminare, nel parlare, nel colpire e in altre regioni visibili, sono comunemente chiamati tendenza [conatus]. Questa tendenza, quando è indirizzata verso la sua stessa causa, è definita appetito o desiderio51.

Il desiderio costituisce pertanto il principio originario della vita dell’essere umano, come del pari il suo verso negativo, costituito dall’avversione. Quando la tendenza si esplica in contrasto a qualche cosa, è generalmente chiamata avversione. Le parole appetito e avversione derivano dal latino e ambedue descrivono i moti di approssimazione e di allontanamento da una cosa52.

Ora questo non è certo il luogo per approfondire la tematica seicentesca del conatus, ma a latere di queste rapidissime note sull’antropologia hobbesiano-spinoziana del conatus, o desiderio, non può non aggiungersi la riflessione su quanto la tesi spinoziana che l’«Appetito […] non è altro che la stessa essenza dell’uomo»53 implichi anche un ripensamento radicale dell’etica e della filosofia morale, antica e medievale, riguardo alla definizione dei criteri di verità del bene e del male. Giacché ora non è più il conoscere, il giudizio che distingue tra il bene e il male, a dirigere l’azione e a farsi principio generale dell’agire – non è più il giudizio che guida e precede il desiderio – ma, viceversa, è l’intensità o meno del desiderio a farci conoscere la distinzione tra ciò che per noi è il bene e ciò che per noi è il male. Come scrive in modo chiarissimo a tal proposito Spinoza nella sua Etica: Risulta dunque da tutto ciò che a nulla noi tendiamo, nulla vogliamo, appetiamo, desideriamo, per il fatto che lo giudichiamo esser bene; ma al contrario, che noi giudichiamo esser bene qualcosa perché vi tendiamo, lo vogliamo, appetiamo e desideriamo54.  T. Hobbes, Il Leviatano, tr. it. a cura di R. Giammanco, Torino, Utet, 1965, I, p. 85.   Ibidem.

51

52

 B. Spinoza, Etica, tr. it a cura di E. Giancotti cit., III, Prop. IX, sc., p. 180

53

 B. Spinoza, Etica, [vedi supra] tr. it. di P. Cristofolini, III, Prop. XI, sc., p. 161.

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per un nuovo materialismo

Si desidera qualcosa in quanto questo qualcosa ci procura gioia e la gioia è il sentimento dell’acquisizione e del raggiungimento di una maggiore potenza nel nostro sforzo costante di autoconservarci. Come scrive nella Definizione dei moti dell’animo a conclusione del libro III: «La gioia è passaggio dell’uomo da minore a maggiore perfezione. La tristezza è passaggio dell’uomo da maggiore a minore perfezione»55. Sono queste due dimensioni del sentire, i sentimenti rispettivamente di gioia e tristezza, a farci percepire e conoscere ciò che è bene e ciò che è male. Talché il rovesciamento rispetto all’ontologismo antico – in cui è un ordine e un valore esterno, oggettivo, che determina attraverso la sua conoscenza, il comportamento del soggetto – appare radicale. Perché qui, appunto, non è più il conoscere, e il modello esterno e ideale, che dirige e comanda il sentire. Viceversa, è il sentire che sta all’origine dei valori morali. Bene e male non sono più principi esterni ma sono luoghi e dimensioni degli affetti e del loro volgere in intensità o verso la gioia o verso la tristezza. In modo non difforme da quanto già Hobbes nel Leviatano aveva argomentato, scrivendo: Qualunque sia l’oggetto dell’appetito, o desiderio, di ogni uomo, sarà sempre da lui chiamato Bene e l’oggetto del suo odio e della sua avversione Male, e quello del suo disprezzo, vile e privo di valore. Queste parole, Bene, Male, Spregevole, sono sempre usate in correlazione a chi le usa, perché non esiste nulla di assolutamente in sé, né alcuna regola universale riguardo al Bene e al Male che possa essere assunta dagli oggetti stessi56.

Ed è appunto tale priorità del sentire sul conoscere, dell’affetto sull’intelletto, che obbliga Spinoza a dichiarare che il conoscere di per sé non porta ad alcuna modificazione nella vita del soggetto umano se non a patto di farsi esso stesso un sentire e avere così la forza di contrastare o intensificare altri sentimenti e affetti. «La vera conoscenza del bene e del male non può coartare alcun moto dell’animo in quanto vera, ma solo in quanto la si considera come un moto dell’animo [quatenus ut affectus consideratur]»57. Il sentire, l’affetto inadeguato, non può essere eliminato da un giudizio vero, ma solo da un altro sentimento. «Un moto dell’animo non può essere dominato, né eliminato, se non per mezzo di un 55

  Ivi, tr. it. a cura di E. Giancotti cit., III, Definizione dei moti dell’animo, p. 217.

 T. Hobbes, Leviatano cit., p. 87. Sull’influenza di Hobbes su Spinoza a tal riguardo ha scritto assai bene E. Scribano, in La conoscenza del bene e del male. Dal Breve Trattato all’Etica, “Consecutio rerum”, 2012, n. 2, www.consecutio.org. 56

57

 B. Spinoza, Etica, tr. it. di P. Cristofolini cit., IV, Prop. XIV, p. 253.

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moto dell’animo contrario e più forte dell’animo da dominare»58. Così si può giudicare qualcosa come utile, e averne con ciò una conoscenza approfondita e appropriata, ma la conoscenza dell’utilità di qualcosa non è sufficiente per far percepire quella cosa come un bene. Perché quel che è veramente utile sia percepito come un bene, è necessario che l’agente percepisca l’accrescimento della sua potenza come un sentimento, ovvero che provi gioia, il che accade necessariamente, dal momento che ogni passaggio a una perfezione maggiore è percepito dalla mente come sentimento di gioia. Ora, riprendendo il discorso del Freud del Progetto di una psicologia, ciò che preme mettere in evidenza è quanto l’ingresso nell’impianto di questo manoscritto, ancora in buona parte neurologico, da parte dell’economia della pulsione e dell’eccitazione endogena implichi per il maestro viennese, ipso tempore, la teorizzazione della nascita della funzione dell’Io e, con esso, la riattualizzazione, in un contesto diversificato di senso, delle precedenti riflessioni su rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola già introdotte e definite nel trattatello sulle afasie. Per dire cioè quanto il Freud del 1895, il Freud cioè già della fase inaugurale della psicoanalisi, avesse ben chiaro che il linguaggio non è funzione o dimensione dell’inconscio. Giacchè la funzione linguistica nella pagine del Progetto è attività psichica tutta intrinseca alle necessità e all’operare dell’Io: tutta intrinseca cioè a quello che già qui Freud chiama processo psichico secondario, o processo del pensiero conoscitivo-linguistico, a differenza di quanto accade nel processo psichico primario fondato sul dominio della rappresentazione allucinatoria e, in quanto tale, del tutto privo di funzione e di uso del linguaggio. Nel paragrafo del primo capitolo del Progetto che ha per titolo “Introduzione dell’Io”, Freud scrive quanto segue: In realtà con la nostra ipotesi dell’attrazione di desiderio e di una tendenza alla rimozione, siamo pervenuti a un certo stato di ψ che non è stato ancora discusso. Entrambi questi processi dimostrano infatti che in ψ si è andata formando un’organizzazione, la cui presenza disturba decorsi che si son prodotti per la prima volta in un particolare modo. Questa organizzazione si chiama l’Io […]. Immaginiamo l’Io come una rete di neuroni investiti, ben facilitati in relazione l’uno all’altro […]. Ove dunque esiste un Io, esso deve inibire i processi psichici primari59.   Ivi, IV, Prop. VII, p. 245.

58

  S. Freud, Progetto di una psicologia cit., pp. 225-226.

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per un nuovo materialismo

L’Io nasce quindi per Freud come un ambito strutturato della psiche, il cui principio organizzatore e unificatore è quello d’inibire i processi psichici primari. L’Io è a sua volta composto dal campo della memoria e della sua connessione con la funzione linguistica: ovvero, in altri termini, l’Io è la sede della funzione giudicante, in cui questo Freud, riassume l’attività del pensiero conoscitivo, il cui scopo essenziale è l’identificazione e la coincidenza tra rappresentazione di memoria e percezione di realtà. L’Io, in quanto ambito strutturato e funzionale, include in primo luogo la memoria, come insieme di percorsi neuronici modificati da esperienze reali di soddisfacimento o dispiacere, la cui traccia primitiva ha lasciato facilitazioni – e dunque connessioni permanenti – tra i neuroni ψ, quali parti del cervello volti verso la percezione dell’interno del corpo/mente, a differenza dei neuroni φ, rivolti verso la percezione del mondo esterno. L’Io in quanto memoria «deve essere definito come la totalità delle cariche ψ»: cioè è definibile come il complesso delle esperienze passate registrate dalla mente in questione e come la rete di percorsi facilitati, di mappe neuronali si direbbe oggi, rispetto all’intero mondo del possibile non esperito, sedimentato da quelle tracce. […] […] la memoria è rappresentata dalle facilitazioni che esistono tra i neuroni ψ». Come tale, la memoria, quale sedimentazione di esperienze passate (di soddisfacimento e di non soddisfacimento, con le loro rispettive emozioni), costituisce l’essenza, la base di ciascuno di noi. Essa forma la cifra della nostra individualità, non riducibile e non eguagliabile a quella di nessun altro. È l’esito del nostro passato e contemporaneamente il filtro e la matrice del nostro futuro, perché attraverso di essa – attraverso cioè il configurarsi dei nostri ricordi emozionali – costruiamo il nostro futuro. La biografia della memoria, ossia la sintesi di gusti e disgusti, di attrazioni e repulsioni, di valori e disvalori esperiti, costituisce dunque il fondo del nostro carattere più proprio. Ma se l’identità dell’Io getta in essa le sue radici, alimentandosene quanto a direzione e a senso del vivere, lo stesso Io non può coincidere ed esaurirsi in essa, perché deve essere in grado di guidarne la carica quantitativa, se è necessario inibirla e, contemporaneamente, grazie all’attenzione, selezionare e definire il campo della percezione. L’Io ha il suo fondamento e la sua continuità d’identità nel sistema biografico-emozionale di ciascuno ma guarda, insieme, alla realtà e ai suoi principi. Ed è per tale sua strutturale funzione bina, di mediazione e sintesi, tra desiderio e realtà, che l’Io vive essenzialmente come coscienza, come presenza presente e avvertita a se medesima. Ma, va aggiunto, pronta a illanguidirsi e a venir

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meno tutte le volte che quella necessità di mediazione tra mondo interno e mondo esterno, sia nel verso fisiologico che nel verso patologico, debba venir meno, tornando così a risolversi l’Io-coscienza nell’Io-memoria. Per altro, a marcare questa continuità nella discontinuità tra Io‑memoria e Io-coscienza, va sottolineato che, secondo l’esposizione di Freud, è attraverso i percorsi facilitati della memoria che l’Io si procura l’energia indispensabile al processo secondario che mette in atto, ossia al lavoro del pensiero e della conoscenza, della riflessione e del giudizio. Giacché si carica di energia attraverso l’investimento di desiderio (o di avversione) che i bisogni endogeni, di provenienza corporea, impongono alla mente. Tali investimenti percorrono i percorsi facilitati e, in tal modo, arrecano costantemente energia al campo della memoria e, di lì, all’ambito dell’Io di cui la memoria è componente. Così l’Io, provvisto e caricato di energia, può volgersi al compimento della sua funzione specifica, che, paradossalmente, è quella di legare, con l’energia ricavata dal processo primario del desiderio, l’energia libera del medesimo processo primario, pronta, senza l’intervento dell’Io, a correre verso un suo soddisfacimento solo irreale e allucinatorio. Trattenere e legare il desiderio significa infatti impedire che, ripercorrendo la facilitazione mnestica depositata da un’originaria esperienza di soddisfacimento, la pulsione precipiti in una soluzione di soddisfazione solo allucinatoria, a cui poi seguirebbe un aumento della condizione di bisogno e della sofferenza a esso connessa. Allucinazione è una rappresentazione mnestica, cui impropriamente la psiche primaria assegna un valore di realtà (un segno di qualità nel linguaggio di questo Freud), ossia uno spessore e una consistenza di realtà, di cui per Freud è capace solo la percezione. E appunto l’attività dell’Io o della psiche conoscente è volta a impedire che il fantasma della rappresentazione mnestica – fantasma perché come nota Freud tutte le rappresentazioni mnestiche sono monotòne, cioè non hanno la qualità e la vivezza delle percezioni – sia così intensamente investito da desiderio, da essere appunto allucinato e vedere trasformato il suo statuto meramente rappresentativo in statuto di percezione reale. Il fantasma è dunque consustanziale al desiderio. Tanto da poter dire che il desiderio è null’altro che il bisogno, nel suo essere avvertito e reso presente nella psiche. Ossia che bisogno e desiderio nella teorizzazione di questo Freud non sono altro che le due facce di una stessa medaglia, che è definibile come bisogno quando è vista da un punto di vista solo corporeo come accumulazione e intensificazione di energia, dovuta alla crescita inaggirabile della pulsione endogena, e che è definibile invece come desiderio quando è considerata dal punto di vista della psiche in quanto

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scena rappresentativa che genera attrazione (o repulsione) e che, dal suo lato psichico, implica costantemente la possibilità che quella rappresentazione sia vissuta, non come tale, ma come allucinazione. Parafrasando un celebre scolio dell’Etica di Spinoza60 si potrebbe dire che si dà bisogno quando ci si riferisce al solo corpo e si dà desiderio quando ci si riferisce simultaneamente al corpo e alla psiche. In tale double face il desiderio, anche qui in modo assai lontano dalla teorizzazione lacaniana, mostra il suo possibile lato patologico non per una mancanza a essere bensì per una pienezza a essere: nel senso che, appunto, il desiderio dà luogo al delirio allucinatorio quando la rappresentazione mnestica viene investita in modo così massiccio da trasformarsi, per un eccesso di essere, da statuto rappresentativo a statuto percettivo. A che questo non avvenga, con la sofferenza che deriverebbe da un soddisfacimento solo allucinatorio, provvede per Freud l’Io, attraverso la specificità della funzione linguistica che gli è propria. Come può accadere infatti, secondo i termini del Progetto che «durante il processo del desiderare, una inibizione proveniente dall’Io conduca a un investimento moderato dell’oggetto desiderato, cosa che permette di riconoscerlo come non reale»61? Come spiega lo stesso Freud: «Il compito è adempiuto dall’associazione verbale. Questa consiste nel collegamento dei neuroni ψ con neuroni che servono alle rappresentazioni sonore e sono intimamente associati con le immagini verbali motorie»62. Così, se sul piano neurologico – che questo Freud ancora non abbandona – la funzione inibitoria dell’Io viene descritta come una «inibizione al flusso di Qη» attraverso l’investimento di neuroni collaterali che diminuiscono la portata dell’investimento/desiderio originario, sul piano psichico tale processo di diminuzione dell’intensità del desiderio – tale suo processo di trasformazione dall’assoluto al relativo  –  si esprime nella capacità del linguaggio di far intervenire un momento di attenzione e riflessione attraverso il distanziamento che il linguaggio, costituito da simboli sonori-verbali, riesce a porre tra i suoi simboli e il contenuto simboleggiato. Il linguaggio interrompe il fluire allucinatorio del desiderio immettendo nella psiche la realtà, pronunciata o meno, delle sue catene linguistiche. E appunto la catena linguistica incatena il desiderio, sospendendo l’impulso di questo alla propria realizzazione immediata: 60

 B. Spinoza, Etica, tr. it. di P. Cristofolini cit., III, Prop. IX, scolio.

61

 S. Freud, Progetto di una psicologia cit., pp. 231-232.

62

  Ivi, p. 263.

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ossia relativizzandolo attraverso la connessione e la mediazione con gli altri aspetti dell’esperire che inizialmente non rientrano nel suo statuto primario e allucinatorio. Il linguaggio diviene cioè ora il materiale percettivo della psiche, il contesto e il contenuto della sua azione di pensiero e di attenzione. Con i suoi segni verbali è in grado d’introdurre simbolicamente il mondo nella psiche e, attraverso tale operazione d’introduzione e di allargamento simbolico, è capace di de-assolutizzare il desiderio. Ma solo, com’è evidente, per poterlo effettivamente realizzare. Il pensiero conoscitivo, come scrive Freud nel Progetto, vive della messa in carica dei segni di linguaggio, che appartengono al contesto in sé differenziato e qualitativo del sistema dei segni verbali e, come tale, esso è distinto da un pensiero desiderante e primitivo, nel quale la scena rappresentativa è sotto il comando della dimensione solo quantitativa, e qualitativamente indifferenziata, della pulsione. Scopo del conoscere è dunque poter stabilire uno «stato d’identità [Identitätszustandes]»63 tra la rappresentazione solo immaginata della soddisfazione di un desiderio e la sua scena di soddisfacimento effettivo. È quello cioè di poter emettere un giudizio anticipante che consenta al soggetto in questione di agire e di muoversi secondo percorsi pratici che conducano realmente al venir meno della tensione desiderante. L’Io appare dunque essere costituito e organizzato secondo le funzioni, insieme, della memoria e del giudizio. Per cui è giunto il momento di specificare la funzione del linguaggio e dei neuroni ω. 6. Nascita e funzione del linguaggio Com’è noto Freud nel Progetto ha teorizzato la distinzione di tre sistemi neuronici, ognuno caratterizzato da una ben distinta funzione. Il sistema φ, che corrisponde alla sostanza grigia del midollo spinale, è in connessione con gli organi di senso a contatto con il mondo esterno ed è formato da neuroni del tutto permeabili che non oppongono resistenza al passaggio della carica di eccitazione nervosa. Sono neuroni che dopo lo stimolo ritornano alla loro condizione originaria e garantiscono in tal modo il variare continuo dell’esperienza in base al costante divenire del rapporto soggetto-oggetto. La loro funzione è quella della percezione.   Ivi, p. 236.

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Il sistema ψ corrisponde alla sostanza grigia del cervello, non ha contatto con il mondo esterno bensì è in rapporto da un lato con i neuroni φ, connessi con il mondo esterno, e dall’altro con le cellule dell’interno del corpo, con gli «elementi cellulari all’interno del corpo»64. Esso è formato da neuroni impermeabili, ossia che trattengono parte della carica nervosa e che perciò subiscono un’alterazione permanente del loro stato. Più specificamente vengono modificate alcune delle loro barriere di contatto con altri neuroni, cosicché si produce una facilitazione di connessione tra neuroni determinati rispetto ad altri, che va a formare un percorso privilegiato di memoria. La loro funzione specifica è quella della memoria, che nel Progetto freudiano appunto «è rappresentata dalle differenze delle facilitazioni esistenti tra i neuroni ψ»65. Sistema percettivo e sistema mnemonico sono connessi ma evidentemente, per la loro diversa funzione, anche profondamente eterogenei, dato che la memoria contiene solo ricordi e mai percezioni di esperienze in atto e dal vivo. Ma ciò che accomuna i sistemi φ e ψ, i sistemi, appunto, di percezione e di memoria, è che essi hanno a che fare solo con processi di carica e di scarica nervosa, elettro-chimici, i quali, come tali, ammettono solo una variazione di gradiente, di quantità. Per tale natura quantitativa essi non possono essere avvertiti dalla coscienza, la quale percepisce e avverte i propri contenuti solo perché ciascuno è diverso dall’altro, attraverso cioè una discontinuità di qualità. La coscienza ci dà ciò che noi chiamiamo qualità: sensazioni differenti in grandi varietà e modi e la cui differenza dipende dai rapporti con il mondo esterno. Entro questa differenza vi sono delle serie, delle somiglianze, e simili, ma non vi sono propriamente delle quantità. Possiamo chiederci come e dove abbiano origine le qualità66.

Ecco perché Freud deve ipotizzare l’esistenza di un terzo sistema di neuroni che egli chiama neuroni ω, che devono spiegare l’emersione e la funzione della «coscienza». La coscienza ha lo scopo fondamentale di introdurre realtà nell’apparato neuro-psichico al fine di una soddisfazione appunto reale, effettiva, non meramente allucinatoria, dei bisogni/desideri. È la parte dell’Io che 64

  Ivi, p. 21

65

  Ivi, p. 206 (Il corsivo è nel testo freudiano).

66

  Ivi, p. 25. Il sistema ψ, scrive Freud, è «privo di qualità» (ibidem).

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di momento in momento si accende e opera per mantenere in vita un organismo neuro-psichico in rapporto a un mondo-ambiente che costantemente muta. È la parte dell’Io che dunque da un lato affonda nei tracciati organizzati e sedimentati della memoria e che dall’altro elabora i segni di realtà, che, vedremo subito, comprendono rispettivamente la realtà delle variazioni prodotte dal mondo esterno sull’apparato dei sensi periferici e, dall’altro, la realtà mentale dell’attività discorsiva del pensare. Il sistema dei neuroni ω accoglie ed elabora segni di realtà, o percettivi o verbali, ponendoli in una relazione possibile con gli automatismi della fantasia propri dei tracciati di memoria del sistema ψ. È il tempo, con le sue alternanze di presenza e assenza, di prima e dopo, che costituisce il modo in cui il mondo reale ed esterno si fa interno e percepito dalla coscienza. I neuroni non lavorano, nell’ipotesi di Freud, con quantità di energia bensì con il «periodo», ossia la caratteristica temporale che connota l’eccitamento proveniente dal mondo esterno tramite gli organi di senso. Il periodo, nelle scienze naturali e in particolare in fisica, definisce l’intervallo di tempo che corre nei fenomeni oscillatori perché un punto, come la cresta di un’onda, torni, dopo un’oscillazione o una vibrazione, alla posizione e alla velocità iniziale. Il tempo del periodo è inversamente proporzionale alla frequenza ondulatoria perché quanto più aumenta la frequenza, vale a dire il numero delle oscillazioni, tanto più  diminuisce il tempo necessario a che un fenomeno torni ad avere le caratteristiche iniziali. Così per Freud la coscienza percepisce l’esistenza della realtà del mondo esterno attraverso la variazione di frequenze temporali che scandiscono il comparire, il farsi pienamente presente, l’affievolirsi fino allo scomparire e al farsi assente del contenuto percettivo considerato. Diversamente da quanto accade al sistema ψ, che ha la caratteristica di essere, come si diceva, monotòno, di essere privo cioè di quelle variazioni di intensità temporale e, con ciò, di quella forza e vivezza percettiva che connota ogni presa di coscienza reale. È sulla funzione del periodo, sulla presenza o meno della variazione di frequenza nel tempo  –  in questo passaggio non facile da comprendere nella trama del Progetto – che Freud fonda dunque il passaggio dal mondo fisico della misurazione e delle variazioni quantitative al mondo qualitativo e psichico della coscienza. Con il fortissimo rilievo, va detto, che nel suo discorso assume la distinzione tra rappresentazione con percezione e rappresentazione senza percezione, la quale di nuovo non può non richiamare Kant e la sua differenziazione fondamentale tra Erkennen (conoscere) e Denken (pensare). Dove l’Erkennen, che produce il conoscere

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vero, il sapere della scienza, muove dalla sensazione, ossia dalla modificazione che l’oggetto esterno, o noumenico, produce sulla nostra sensibilità. Mentre il Denken è un pensare che produce «un semplice ente del pensiero»67, perché il suo contenuto non è tratto dall’esperienza reale di sensazioni. La modificazione del corpo attraverso sensazione (Wahrnehmung, nel tedesco di Kant, ovvero, letteralmente, afferramento del vero) è così il criterio per distinguere la verità che attinge la realtà da un pensare solo congetturale e astratto che non potrà mai avere un riscontro di verità. La teoria di Freud della genesi e della funzione del processo secondario, cioè della coscienza e del pensiero, nasce da qui: da questo punto fondamentale e imperdibile del kantismo. È la percezione sensibile che distingue all’interno della psiche la realtà dalla fantasia, ossia che impedisce, per il Freud del Progetto, all’apparato neuro-psichico di realizzare nell’allucinazione il desiderio e di ricercarne, invece, la via della soddisfazione effettiva e reale. Con la differenza rispetto a Kant, per quello che qui maggiormente ci interessa, che, mentre in Kant il pensiero senza percezione si verticalizza nella luce abbagliante del concetto metafisico, in Freud il pensiero senza percezione si inabissa nelle trame incoscienti della memoria. Perché è ben chiaro che per il Freud del Progetto, e di lì per tutta l’intera sua opera, la capacità rappresentativa non coincide e non si esaurisce con la coscienza. Al di sotto della coscienza la vera capacità rappresentativa è costituita dall’enorme deposito delle rappresentazioni della memoria, dalle sue facilitazioni e dai suoi percorsi associativi. Ma appunto a che non si dia pensiero senza percezione, ossia a che non si dia il fantasma allucinatorio, è necessario per Freud il sistema ω che dispone di due funzioni di realtà: il «segno di qualità» che proviene dalla sensazione reale e i «segni di scarica verbale» che provengono dall’attività riflessiva di linguaggio, quale prassi della mente che nel suo darsi interrompe l’automatismo allucinatorio del desiderio. Già abbiamo detto che per Freud la nascita e la funzione dell’Io è quella di impedire all’organismo neuro-psichico l’esperienza del non soddisfacimento e del dolore. L’Io è l’organizzazione specifica, costituita da energia legata, che ha il compito di legare l’energia libera del desiderio che altrimenti ripercorrerebbe i percorsi associativi sedimentati dalle esperienze originali di piacere o di dolore. Tale inibizione avviene 67   I. Kant, Critica della ragion pura, tr it. a cura di G. Colli, Torino, Einaudi, 1965, Dial. trasc, Lib. II, Cap. II, p. 599.

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attraverso investimenti laterali che deviano il percorso dell’energia dalla via principale consolidata verso collegamenti nuovi, con neuroni laterali: se un neurone collaterale è simultaneamente investito, ciò opera come una temporanea facilitazione della barriera di contatto che sta tra i due neuroni, e modifica il decorso, che altrimenti si sarebbe indirizzato verso la sola barriera di contatto facilitata. Un investimento laterale [Seitenbesetzung] è quindi una inibizione [Hemmung] al flusso di Qη. […] Ove dunque esiste un Io esso deve inibire i processi psichici primari68.

Ora tale funzione inibitoria viene esercitata esplicitamente nel testo freudiano dal linguaggio. Perché attraverso i simboli verbali (in particolare attraverso le rappresentazioni auditive di parole) viene messo in scena nella mente un ambito più ampio di percorsi possibili del desiderio, tra cui scegliere quello più capace di produrre un soddisfacimento effettivo. L’Io lega così il desiderio del processo primario attraverso la sua imbracatura in una rete linguistica che, per la potenza virtuale rappresentativa intrinseca al linguaggio, lo inserisce in una scenografia mentale assai più articolata della rappresentazione della scena primaria. Sollecitato dalla modificazione del suo sentire interno e dalla crescita progressiva del suo bisogno/desiderio e, contemporaneamente, dalla inadeguatezza percettiva della realtà esterna, l’Io-coscienza mette in atto un pensiero indagante/giudicante che, attraverso aperture e tentativi simbolico-linguistici, deve giungere alla fine a ritrovare l’identità tra Wunschvorstellung (immagine di desiderio) e Wahrnehmung (percezione reale). Gli investimenti laterali che diminuiscono l’intensità del desiderio primario, trasformando la sua energia libera in energia legata, corrispondono, in termini di neuroni ψ, all’investimento di rappresentazioni di parola (specificamente della rappresentazione motoria di parola). L’azione del pensare parlando, del pensare attraverso simboli verbali, subentra all’azione allucinatoria della fantasia. L’uso delle parole, che implica una scarica motoria, traduce l’organismo neuro-psichico dal processo primario in una funzione più complessa che già introduce dentro di sé il mondo esterno, il principio di realtà, perché il linguaggio, il pensiero parlato, è già testimonianza di una realtà che sospende il pensiero meramente fantasticato. Il pensare attraverso parole è dunque già un agire, un lavorare. E non solo perché pensare attraverso le parole implica una innervazione e una scarica motoria di contro all’automatismo senza lavoro del pensiero allucinatorio. «I segni di scarica mediante il linguaggio sono anch’essi, in   Ivi, p. 146.

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un certo senso, segni di realtà, di realtà mentale e non di realtà esterna»69. Ma anche perché la parola, nella sua valenza simbolica di non essere, di non coincidere con la rappresentazione di oggetto cui è legata, compie il lavoro di raffreddare l’affetto, di sottrarlo al calore intollerabile del primario e di poter avere così di fronte a sé un contenuto rappresentativo senza esserne travolto dalla passione e dalla tensione che lo attanaglia. Ed è appunto la «percezione» (Wahrnehmung), secondo la più esplicita definizione kantiana del termine («la percezione è la coscienza empirica, cioè una coscienza in cui si trovi al tempo stesso una sensazione»70) a costituire lo scopo finale e determinante dell’intera attività del pensiero indagante e giudicante: quando cioè la scena ricercata del soddisfacimento del desiderio viene percepita attraverso i nostri sensi come reale e la coscienza del segno di realtà, o segno di qualità, ci avverte che quella scena non è un sogno o un delirio che si consuma solo nella nostra mente. Il pensiero, per Freud, lungi dall’essere contemplazione, è azione, la cui necessità è generata nel momento in cui nella vita della mente si apre una distanza, un gap, tra rappresentazione psichica interiore e realtà. Sanare quella distanza è l’esito di un lavoro vero e proprio che utilizza come suoi strumenti quel genere specifico e ulteriore di rappresentazioni che sono le rappresentazioni verbali, la cui natura intrinsecamente sonora e leggera consente di trattenere la motilità di un corpo e di un agire pronti a seguire l’istanza immediata del desiderio, di inibire dunque e raffreddare l’accelerazione emotiva, di utilizzare una quantità di energia ridotta rispetto a quella pulsionale per indagare il mondo circostante e di raggiungere infine la coincidenza tra lo psichico e il reale, attraverso un giudizio di identità. Quindi il giudizio è un processo ψ, reso possibile solo dall’inibizione esercitata dall’Io e messo in atto dalle differenze tra l’investimento di desiderio di un ricordo e un consimile investimento percettivo. Ne segue che, quando due cariche coincidono, la conseguenza sarà un segnale biologico per porre termine al pensiero e lasciare iniziare una scarica. Quando esse non coincidono, viene dato incremento all’attività del pensiero, alla quale verrà posto di nuovo termine quando esse coincideranno71.

Il lavoro del giudizio si svolge attraverso l’immagine motoria delle parole che, sospendendo l’energia della scarica del desiderio e inibendo i ricordi che la facilitano, dirigono l’attenzione a ricercare e a selezionare, dalle percezioni che provengono dal mondo esterno, tutti i nessi possibili 69

  Ivi, p. 271.

70

 I. Kant, Critica della ragion pura cit., Anal. Trasc., Libro II, Cap. II, Sez. III, p. 242.

71

 S. Freud, Progetto di una psicologia cit., pp. 232-233.

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e le vie di conduzione che avvicinano progressivamente all’oggetto ricercato. L’attenzione è così dispendio, attivo e intenzionale, di energia che preseleziona e preinveste quella porzione di realtà e di mondo esterno da cui verosimilmente può riemergere e tornare a riprodursi l’immagine originaria del desiderio, connessa questa volta a una sensazione-percezione. Le associazioni verbali sono le catene che trattengono il desiderio e che, nello stesso tempo, gettano la loro rete a stabilire connessioni possibili di realtà. «Pensare con la carica dei segni di realtà di pensiero o dei segni verbali è, quindi, la più alta, la più sicura forma del processo del pensiero conoscitivo»72. Tanto da derivarne per Freud, da tale destinazione riproduttiva e identificante del pensiero indagante, la struttura più classica del giudizio logico quale composizione di soggetto e predicato, dato che, nel passaggio dalla modalità primaria a quella secondaria dell’attività della psiche, la scena del desiderio rimane inalterata e a soggetto (nel senso etimologico di ciò che sta sotto e muove) dell’intero processo, mentre mutano i suoi stati accidentali, predicativi, che appunto variano dallo stato allucinatorio a quello reale. Né è necessario per Freud che nel pensiero parlato il linguaggio sia esplicitamente pronunciato. Perché una volta che la connessione tra rappresentazione di cosa e rappresentazione di parola si sia resa, per la ripetizione e la continuità dell’uso, certa e stabile, la rappresentazione di parola può essere accennata in una dimensione umbratile che non richiede un pronunciamento ad alta voce. È ben noto che quello che noi consideriamo pensiero cosciente si accompagna a un leggero dispendio motorio. […] la corrente delle innervazioni verbali, mentre il pensiero è in atto, è ovviamente molto piccolo. Noi non parliamo realmente, più di quanto realmente ci muoviamo allorché ci rappresentiamo un’immagine motoria. Ma la differenza tra rappresentare e muoversi è solo quantitativa, come ci insegnano gli esperimenti di lettura del pensiero. Quando pensiamo intensamente, ci può accadere di pensare ad alta voce73.

Segni di qualità/realtà provenienti dalle percezioni del mondo esterno da un lato e segni di qualità/realtà, dall’altro, provenienti dalle immagini motorie delle associazioni verbali cooperano dunque nell’accendere la presenza della coscienza e nell’orientare l’attività pensante dell’Io. L’attenzione si svolge e corre attraverso queste due dimensioni di segni, che confermano quanto il pensiero, se nasce ed è mosso dalle spinte   Ivi, p. 272 (corsivo nel testo).

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  Ivi, pp. 265-266.

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primarie e interiori dell’affetto, poi trova il suo dispiegarsi conoscitivo solo attraverso la messa in campo e l’uso del sistema linguistico. «Pensare con la carica dei segni di realtà di pensiero o dei segni verbali è, quindi, la più alta sicura forma del processo di pensiero conoscitivo»74. 7. La duplice eterogeneità dell’alterità Ma oltre a rendere possibile il processo secondario e il conoscere, oltre a distinguere tra memoria e allucinazione, il linguaggio svolge per il Freud del Progetto un’altra funzione di grande importanza. Infatti come «grido», come linguaggio preverbale, usando lo stesso percorso motorio-fonatorio che sarà poi quello utilizzato dalle associazioni verbali, esprime e comunica a un terzo esterno, a un altro, la tensione emotiva interiore che serra nell’urgenza del bisogno l’organismo neuro-psichico. L’innervazione della parola è originariamente una via di scarica per ψ, come una specie di valvola di sicurezza avente lo scopo di regolare le oscillazioni di Qη; è un tratto del canale che porta alla modificazione interna, unico mezzo di scarica fino al ritrovamento dell’azione specifica. Questo canale acquista una funzione secondaria in quanto serve ad attirare l’attenzione della persona cooperatrice (che è abitualmente l’oggetto stesso desiderato) sui desideri e il disagio del bambino; serve perciò allo scopo di condurre all’intendersi e viene a integrarsi nell’azione specifica75.

Il grido di dolore è originariamente una necessità biologica di scarica della tensione crescente tra l’urgenza del bisogno e l’impossibilità del suo soddisfacimento, ma è anche ciò che, attirando l’attenzione dell’altro, anticipa la funzione del linguaggio, quale attività volta all’intendimento reciproco. «Da questo punto non vi è che un breve passo alla scoperta del linguaggio»76. Il linguaggio, con le sue anticipazioni preverbali, implica dunque già nel Progetto un rapporto intrinseco con le due alterità che, poi in modo esplicito per il Freud psicoanalitico, formeranno le due polarità costituzionali dell’Io: l’alterità interna del corpo, che propone all’Io le pulsioni e i bisogni che non nascono dall’Io medesimo ma che l’Io può solo mitigare e modulare, e l’alterità esterna di un altro Io (o di altri Io), che, 74

  Ivi, p. 272.

75

  Ivi, p. 264.

76

  Ivi, p. 265.

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malgrado la sua natura di esistenza esterna, è anch’essa principio formativo e costituzionale dell’Io in questione. La specificità della specie umana è che il cucciolo dell’uomo attraversa un lunghissimo periodo di svezzamento, e di avvio all’autosufficienza personale, che non ha confronto con nessun’altra specie vivente. Ed è quanto verosimilmente già il Freud del Progetto registra e sottolinea quando afferma che il bambino dell’essere umano è incapace di provvedere da solo al soddisfacimento dei propri bisogni e che da tale impotenza nascono i sentimenti e il campo di questioni legate alla moralità. Infatti a proposito dell’impossibilità da parte del bambino di dar luogo a quell’azione che, trasformando il mondo-ambiente, soddisferebbe le sue pulsioni, Freud scrive: L’organismo umano è, dapprima, incapace di produrre tale azione specifica. Essa viene attuata mediante un aiuto esterno, quando un individuo maturo viene indotto a fare attenzione alle condizioni del bambino mediante una scarica lungo la via della modificazione interna. Tale via di scarica acquista pertanto la funzione secondaria estremamente importante dell’intendersi, e l’impotenza iniziale degli esseri umani è la fonte originaria di tutte le motivazioni morali77.

Si può dire pertanto che già nel Progetto sia accennata quell’antropologia, o teoria generale dell’essere umano, a cui Freud darà svolgimento con la sua opera psicoanalitica. Ossia la visione secondo cui l’organismo neuro-psichico dell’essere umano si compone della relazione strutturale a due alterità, eterogenee tra loro, ma indispensabili entrambe a costruirne e a riprodurne la vita. Tali due alterità, compresenti ma eterogenee tra loro, sono costituite da un lato dalle pulsioni del bios, del corpo, che, nel loro generarsi incontrollato e inarrestabile, costituiscono la dimensione noumenica della nostra interiorità e, per altro verso, dal darsi dell’esistenza dell’altro/i che è parimenti condizione primaria della riproduzione della nostra esistenza. Sono le due dimensioni dell’alterità che lo psicoanalista italo-argentino Armando B. Ferrari, approfondendo attraverso l’elaborazione di Bion l’opera di Freud, ha definito rispettivamente «asse verticale» e «asse orizzontale» di costituzione della soggettività umana. L’asse verticale concerne il rapporto corpo-mente. Esso suppone che la mente nasce per risolvere e soddisfare i problemi pulsionali del corpo e che dunque «il corpo è l’oggetto, per eccellenza, della mente ed è la sua realtà prima»78. Il pensiero cioè nasce in primo luogo per pensare il   Ivi, pp. 222-223.

77

 A.B. Ferrari, L’eclissi del corpo cit., pp. 29-30.

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corpo, per assumerlo come suo contenuto fondamentale e risolverne le esigenze attraverso l’elaborazione-modificazione della realtà esterna. Ma lo pensa non nel senso di avere rappresentazioni del modo di funzionare dei suoi organi. Lo pensa in quanto lo sente, in quanto sente i sentimenti di piacere e di dispiacere e tutte le loro possibili tipologie e combinazioni. Giacché il corporeo nella sua logica accumulativo-diffusiva non può essere rappresentabile, come abbiamo visto. Può essere solo rappresentato, nel senso della delega politica di cui abbiamo parlato all’inizio. Qui sta, io credo, se si volesse civettare in modo laico e materialistico con il linguaggio heideggeriano, la vera «differenza ontologica» che connota l’essere umano. Sta nella compresenza di corpo e mente e nel transito del corporeo dal mondo fisico-chimico della quantità a quello psichico della coscienza. Sta nella connotazione di «un ente che si autopercepisce in termini di corporeità (Uno) e di simbolicità (Bino)»79, perché appunto il corporeo si costituisce come un Giano bifronte che da un lato guarda alla materialità biologica e dall’altro guarda alla sua espressione nel nostro sentire. Al fondo dell’essere umano non c’è dunque la riproposizione della metafisica arcaica, non c’è l’Essere trascendente, che si occulta nel suo manifestarsi, di Martin Heidegger, ma unicamente l’inafferrabilità logica e conoscitiva del nostro corpo, che può essere bensì rappresentato e compreso solo attraverso il nostro sentire. O, per dir meglio, è l’intero asse verticale, nella sua sovrapposizione di funzioni, a dirci che, già nel Progetto di Freud, «rappresentante della pulsione» (Triebrepräsentant), «rappresentazione di cosa» (Sachvorstellung), «rappresentazione di parola» (Wortvorstellung) costituiscono tre ordini neuropsichici profondamente connessi, eppure tali che ciascuno di essi appare provvisto di una sua peculiare logica di funzionamento, legata a una fase specifica dell’evoluzione. E che proprio tale triplicità di piani, con tutte le forme possibili di connessione e di traduzione dell’uno nell’altro – ma ovviamente anche di sconnessione, fraintendimento e conflitto –, dà vita alla costituzione intrinsecamente simbolica dell’essere umano. Nel senso che, ciascun piano rimandando all’altro, il fondo emozionale-corporeo di ciascun essere umano può essere adeguatamente espresso e interpretato dalla propria mente come, viceversa, falsamente espresso, interpretato, deformato, fino a essere cancellato e rimosso.

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  Ivi, p. 30.

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funzione e genesi del linguaggio

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Diversamente dall’asse verticale, l’asse orizzontale concerne la relazione di un corpo-mente con un altro (o altri) corpo-mente e implica in prima istanza, non il riconoscere da parte di una mente del proprio corpo, ma l’essere riconosciuto o no del primo soggetto da parte di un altro essere umano. Il riferimento, assai rapido e sintetico, che Freud nel Progetto compie alla funzione comunicativa del «grido» e al richiamo dell’attenzione altrui, va sciolto e approfondito secondo le tematiche, più prossime a noi, della rêverie bioniana e della questione del «riconoscimento», tanto dibattuta e celebrata in area hegeliana. L’asse orizzontale è infatti costituito da relazioni originarie di riconoscimento o di disconoscimento che hanno una funzione fondamentale nella costruzione della soggettività. Come ha teorizzato Bion, la mente dell’essere umano può nascere, e dar vita a un sufficiente asse verticale, solo se viene a strutturarsi secondo l’esperienza, potremmo dire, di una mente al quadrato. Solo cioè se è pensata e contenuta da un’altra mente, in grado di dare contenimento all’onda marasmatica che il mondo della corporeità pulsionale immette nella mente di un essere umano, all’inizio ancora del tutto fragile e immatura. Per cui la mente nasce solo a mezzo della mediazione di un’altra mente, che accoglie e riceve le impressioni emotive e sensoriali della prima, sottraendole all’angoscia assoluta di devastazione e di morte che portano con sé, e restituendogliele in una timorosità sopportabile e relativa. Qui si colloca, io credo, il significato più originario e più pregnante dell’etica del riconoscimento che ormai, nelle più varie versioni, attraversa il dibattito della cultura contemporanea. Si colloca cioè nella pregnanza di tale incrocio tra asse verticale e asse orizzontale. Nel senso che, solo l’accendersi reale di una dimensione intersoggettiva – dell’essere effettivamente riconosciuto da parte di un altro  –  consente l’accendersi della dimensione infrasoggettiva, quale capacità di una mente di rendere presente e simboleggiare a se stessa la propria corporeità. Vale a dire che, sia pure in forma assai embrionale, già nel Progetto è contenuto l’incrocio dei due assi come struttura fondante la soggettività umana. Tanto che, a muovere da tale compresenza di verticalità e di orizzontalità, potremmo giungere ad affermare – sollecitando e radicalizzando di molto il discorso freudiano  –  che nella costruzione della soggettività umana il riconoscere precede il conoscere, giacché senza l’esser riconosciuto non si genera l’apparato per pensare i pensieri. E dove ben si comprende quindi come, in questo strutturarsi originario dell’umano, il riconoscere non segua e non derivi dal conoscere. Non significhi il ripresentarsi di un già conosciuto. Ma preceda il conoscere e in questa sua

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precedenza originaria faccia valere tutta la sua eterogeneità e irriducibilità rispetto all’asse verticale in cui si accende il pensiero. Eterogenei, ma compresenti e ben intricati tra loro, i due assi, visto che, nella lunga esposizione temporale della gracile mente infantile all’onda marasmatica dell’invasività pulsionale, il riconoscimento che ha luogo sull’asse orizzontale deve essere ripetuto e assai prolungato, affinché si possa consolidare un apparato per pensare che pensi le proprie emozioni come fenomeni da accogliere e da interpretare, invece che noumeni e cose in sé da espellere e da proiettare sul mondo esteriore. Ma su questa singolare applicazione della filosofia kantiana alla psicoanalisi e ai progressi, che, attraverso di essa, il pensiero originale di uno psicoanalista come Wilfred. R. Bion ha apportato alla tradizione e all’antropologia psicoanalitica, sarà opportuno riprendere il discorso nel prossimo capitolo. Qui per ora basti dire, ricordando quanto l’utilizzazione del Kant della Critica della ragion pura sia stata fondamentale anche nell’opera di Bion, che voler discorrere del nesso che si è dato fin dagli albori tra psicoanalisi e filosofia implica sottrarre il pensiero di Freud e dei suoi più fecondi seguaci alla tanto celebrata influenza determinante dei pensatori dell’irrazionale, come Schopenhauer e Nietzsche, e contestualizzarlo all’interno di un orizzonte filosofico che trova le sue ispirazioni imprescindibili nelle tradizioni dell’empirismo inglese e del neocriticismo kantiano. Anche perché solo una lettura dell’opera di Freud attraverso la rifrazione di Kant, come quella che qui si è proposta, vale, io credo, a sottrarre la cultura psicoanalitica a sterili contrapposizioni dualistiche, come spesso sono occorse, che hanno voluto contrapporre un’antropologia dell’inconscio a un’antropologia del conscio, il desiderio al logos, l’emozionale al linguistico. Laddove è proprio l’originaria rifrazione kantiana su un campo di lavoro neuro-evoluzionistico che consente di comprendere come, nell’ottica di Freud, la profondità, il luogo di senso, della vita degli esseri umani non sia di natura linguistica, bensì di natura quantitativo-affettiva, intessuta di pulsioni e dinamiche non verbali. Con la conseguenza che se il linguaggio non è il luogo del senso – il linguaggio non dà senso – esso pure contribuisce, in modo indispensabile, a far emergere, a proteggere e a far esprimere quel luogo più originario e più personale dell’esistenza umana, che è l’ambito corporeo-affettivo, nel contesto più ampio della socialità e del mondo esteriore.

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CAPITOLO SECONDO LE TRE LOGICHE DELLA MENTE DI FREUD

1. Pulsione, pensiero senza linguaggio, pensiero con linguaggio A) Rappresentazione come «Triebrepräsentant» (rappresentante pulsionale); B) rappresentazione come «Sachvorstellung» o «Ding­ vorstellung» (rappresentazione di cosa)1; C) rappresentazione come «Wortvorstellung» (rappresentazione di parola). Questi sono nello svolgimento dell’intera opera freudiana le tre componenti che concorrono a formare quell’atto elementare della vita della mente che Freud chiama generalmente «rappresentazione» (Vorstellung). Tre componenti, o è meglio dire tre funzioni, che nella diversità del loro agire, nella diversità delle loro tre logiche, spiegano per Freud la mente dell’essere umano come sintesi, come abbiamo già visto, di due relazioni che sono rispettivamente la relazione verticale della mente con il proprio corpo e la relazione orizzontale della stessa mente con un’altra mente. A) Il Triebrepräsentant (o nel lessico freudiano anche Triebrepräsentanz), sta a significare l’Affektbetrag, ossia l’importo o il carico di affetto, che si lega a una qualsiasi scena rappresentata e pensata della mente. L’ambito dell’affetto costituisce per Freud l’ambito che più propriamente coincide con il corpo: ma, si badi, con un corpo che è già anche avvertito come risonanza emozionale, psichica, interna a una mente. Si può definire tale natura originariamente bina, duale – perché al confine tra corpo e mente – dell’affetto o pulsione, come l’ambito intermedio tra quantità e qualità, ossia come l’ambito della traduzione di variazioni quantitative di energia cinestetica, elettrofisica ed elettrochimica, di natura somatica, in processi qualitativi avvertiti dalla mente come emozioni, nel senso etimologico di ciò che muove. 1   In Zur Auffassung der Aphasien (1981) Freud ha usato il termine di Objektvorstellung. Quello di Dingvorstellung appare nella Traumdeutung, mentre l’espressione analoga Sachvorstellung compare prevalentemente in Das Unbewusste.

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La Triebrepräsentanz, o rappresentazione pulsionale, è dunque una «rappresentanza», la quale traduce, in termini di sentimenti, processi e modificazioni di natura somatica. Scandita, per dirla schematicamente, secondo i due estremi, del piacere e del dispiacere, dell’attrazione e della repulsione, costituisce, secondo la prospettiva freudiana che qui stiamo ricostruendo, il luogo e la fonte del senso, nel significato di sentire se stessi. È l’ordine del sentire, e non del rappresentare, propriamente detto, o del pensare, perché ci viene dato e imposto da quel corpo che è l’esteriorità della nostra interiorità e come tale è la vera fonte inesauribile del significato del vivere: nella sua inesauribilità e verità mai completamente riducibile alla mente. Il Triebrepräsentant può dunque essere interpretato, nei termini del linguaggio filosofico, come il luogo e la genesi materialistici della trascendenza: del trascendersi di una soggettività all’interno di sé. Rispetto alle altre due funzioni rappresentative della mente, citate all’inizio, esso può essere definito come un ordine della mente di natura né eidetico-percettiva né linguistica. Infatti l’affetto pulsionale, nel complesso dell’opera freudiana, vive essenzialmente secondo il modo idraulico della diffusione: ossia, per la sua base originariamente quantitativa, esso si muove e si trasforma lungo scale di diminuzione o di crescita non sottoponibili a segmentazioni o articolazioni discontinue. È il luogo dell’energia emozionale, che Freud caratterizza come «energia libera» (freie Energie), che corre liberamente, e quanto più rapidamente possibile, verso il soddisfacimento del piacere o verso la fuga precipitosa dal dispiacere. B) Se nella Vorstellung freudiana il Triebrepräsentant è strutturato sul senso interno, la funzione che Freud definisce Objektvorstellung, Dingvorstellung o Sachvorstellung è la funzione della mente strutturata sui cinque sensi esterni, capace di dar vita a rappresentazioni percettive di varia natura, con una dominanza, nella prospettiva freudiana, eideticovisiva. Questo tipo di funzione rappresentativa, basata su materiale sensoriale-percettivo, è priva di linguaggio: produce rappresentazioni cosali senza la presenza di rappresentazioni e simboli verbali. Come abbiamo visto sostenere dal Freud preanalitico dell’Auffassung der Aphasien, la stessa rappresentazione d’oggetto risulta essere a sua volta un complesso associativo delle più diverse rappresentazioni di natura visiva, acustica, tattile, cinestetica e ancora d’altro genere: un complesso associativo in cui appunto ciò che non è presente è la rappresentazione di parola. Ma non è solo la mancanza di linguaggio ciò che connota la Sachvorstellung. È anche l’essere, come l’ha definita Freud, una

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rappresentazione «aperta». In altre parole, la mente attinge il contenuto di una rappresentazione, la consistenza di una cosa, valendosi, oltre che delle percezioni in atto, anche e soprattutto dell’attesa e dell’anticipazione  delle percezioni possibili che l’esperienza passata ha in qualche modo già connesse con quel contenuto percettivo. Dalla filosofia apprendiamo che la rappresentazione d’oggetto non contiene niente di più, e che la parvenza di una «cosa», delle cui diverse «proprietà» parlano quelle impressioni sensoriali, sorge solo perché, nella serie delle impressioni sensoriali ricevute da un oggetto, includiamo nella medesima catena associativa anche la possibilità di una vasta serie di nuove impressioni (J. Stuart Mill)2.

Di nuovo, potremmo aggiungere, un ulteriore e pressoché micrologico fattore di sintesi nel discorso freudiano, secondo il quale è più la proiezione/attesa del passato sul futuro, con l’innumerevole darsi dei possibili a definire l’identità e i contorni di un contenuto rappresentato che non la circoscrizione delimitata delle sensazioni presenti e reali. Cioè, assai più costruzione e sintesi nell’attività rappresentativa di cosa, nella Sachvorstellung, e assai meno rilievo e funzione assegnata all’intuizione e a un preteso accoglimento diretto e passivo del contenuto sensorialepercettivo. È quanto Freud accoglieva, anche qui, dalla teoria della rappresentazione di John Stuart Mill, a testimonianza di quanto anche nella tradizione epistemologica dell’empirismo inglese potesse darsi una filosofia del conoscere basata certamente sulla sensazione, quale si era data in tutta la filiera da Hobbes a Locke, da Hume a Berkeley, ma che, nella specificità della versione milliana, nella percezione del sensibile sottolineava assai più la funzione attiva che non quella passiva. Nel capitolo XI del testo citato in nota da Freud infatti John Stuart Mill scrive: Le sensazioni, malgrado siano l’originale fondamento dell’intero processo, devono essere considerate come una sorte di accidente dipendente da noi. Le possibilità sono molto più reali che non le sensazioni attuali, anzi quelle sono le vere realtà di cui queste sono solo rappresentazioni, apparenze o effetti. Quando si è giunti a questo stato della mente, da allora in poi noi non siamo mai consapevoli di una sensazione attuale senza istantaneamente riferirla a uno dei gruppi di possibilità in cui quella specifica sensazione rientra a far parte3.

 S. Freud, L’interpretazione delle afasie cit., p. 101.  J. Stuart Mill, An Examination of Sir William Hamilton’s Philosophy and of the Principal Philosophical Questions Discusses in his Writings, a cura di J.M. Robson, LondonToronto, University of Toronto Press - Routdledge & Kegan Paul, 1979, p. 181 (Ma cfr. l’intero cap. XI: The Psychological Theory of the Belief in an External World, pp. 177-187). 2 3

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Dato che la mente umana è capace di attesa (Expectation) e di associazione (Association), essa forma, oltre a quella in atto, delle sensazioni possibili, il cui contenuto atteso e anticipato è dato delle associazioni per contiguità e successione che si sono date nell’esperienza passata. Per cui, sottolinea Mill, più che di intuizione si tratta di acquisizione, appropriazione di un contenuto secondo le proprietà della mente. In base a questa proprietà della mente, la mia concezione del mondo in un momento dato consiste, solo in una piccola proporzione, di sensazioni in atto. Di queste attualmente io posso non averne affatto e in ogni caso esse sono la più insignificante porzione di ciò che apprendo. La concezione, che io mi formo del mondo esistente, comprende, insieme alle sensazioni che io percepisco, una innumerevole possibilità di sensazioni: [cioè l’intero ambito di quelle sensazioni che osservazioni passate mi dicono che potrei esperire ora, date determinate circostanze: insieme a una indefinita e illimitabile moltitudine di altre che io potrei avere in circostanze a me sconosciute, senza che io sappia di poterle avere]4.

La logica associativa che costituisce l’ambito del rappresentare cosale, a dominanza eidetico-visiva, non è quella quantitativo-diffusiva dell’affetto, bensì quella della combinazione-articolazione-sconnessione qualitativa di figure e dati sensibili, quali: suoni, odori, sensazioni tattili, immagini visive, che si determinano, si relazionano, si associano e si oppongono tra loro, attraverso contiguità spaziale o temporale, attraverso analogie o discordanze di forma, attraverso concordanze di colori, attraverso gradi e intensità di suoni. In mancanza della combinazione con la logica ulteriore della mente linguistica, la logica economica della pulsione, con la sua quantità di energia, si combina con la logica onirica della rappresentazione in modi singolarissimi, che Freud ha disvelato e teorizzato fin da L’interpretazione dei sogni, evidenziando, com’è ben noto, soprattutto i due processi inconsci della condensazione e dello spostamento: cioè le modalità di un pensare che, nel primo caso, è in grado di unire e sintetizzare molteplici catene associative e che, nel secondo caso, è in grado di spostare con estrema facilità l’investimento energetico da una rappresentazione ad altre rappresentazioni. Ma è proprio questo diverso tipo di pensiero che conferma la relativa indipendenza tra pulsione e rappresentazione, tra l’impatto di affetto e la scena del suo soddisfacimento, perché appunto è proprio l’appartenenza dell’emozione a un contesto al limite tra somatico e psichico e la sua non riduzione o traduzione nella rappresentazione   Ivi, p. 179.

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interamente psichica  –  a componente prevalentemente visiva avrebbe specificato Freud – a far sì che l’energia affettiva si possa staccare dalla rappresentazione, scorrere lungo vie associative e dar luogo alle combinazioni più che bizzarre dell’inconscio. È cioè la struttura del modo di pensare dell’inconscio, con la peculiarità della sua logica, distinta profondamente dalla logica linguistico-discorsiva, a conferma che v’è un sostrato corporeo energetico che viene postulato nella visione freudiana come luogo di un’economia, che non è ovviamente quella dei fattori quantitativi che stanno a base di tutte le operazioni del nostro apparato psichico. C) Infine la Wortvorstellung, o rappresentazione di parola, identifica la funzione simbolico-linguistica della mente. La logica che la governa e la struttura è quella che procede attraverso nessi e sintesi grammaticalisintattiche. Essa crea catene e connessioni di parole che hanno lo scopo di agganciare il prodotto delle due precedenti logiche (rappresentante pulsionale e rappresentazione d’oggetto), sollevandolo a un livello d’elaborazione psichica superiore che lo sottrae all’obbligo immediato della scarica. Il sollevamento e la presa di distanza simbolica dagli ordini psichici inferiori consentono a questo terzo ordine psichico di raffreddare e mitigare la portata dell’Affektbetrag attraverso un’opera di relativizzazione che coincide con l’attività del pensiero. Il pensiero discorsivo, o processo secondario, sottrae infatti il processo del desiderio, o processo primario, al suo isolamento allucinatorio legandolo e relativizzandolo, attraverso le parole-simbolo che ne consentono la presenza virtuale, a tutta una serie di elementi e considerazioni che attengono al piano della realtà. La simbolicità del linguaggio pubblico e ordinario si connette così intrinsecamente alla simbolicità verticale dell’essere umano, quale corpo che si fa presente a una mente, e il pensiero-linguaggio esplicita in tal modo tutta la sua origine, non contemplativa, ma pratico-esistenziale, il che significa contemplare e conoscere il mondo al solo fine di dare soddisfacimento alle proprie richieste emozionali: insomma per dar vita a un conoscere che sia al servizio del sentire. Cosicché, potremmo aggiungere noi, a muovere dall’esposizione che abbiamo proposto delle tre logiche freudiane, ogni possibile teoria del linguaggio non potrà che confrontarsi, oltre che ovviamente con lo studio sia dell’ordine sintattico-sintagmatico della lingua sia con quello dell’ordine semantico, anche e necessariamente con lo studio della sua funzione di adesione o lontananza, d’implicazione o rimozione, emozionale. A conferma di una dimensione, come si diceva, sempre insieme pubblica e privata del linguaggio, che torna a smentire la configurazione

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solo culturale e socio-pubblica assegnata da Lacan all’ordine del simbolico linguistico. 2. Psiche e linguaggio Ma dunque, a ben vedere, Kant più Hegel. Giacché questa è la coppia autorevolissima che in queste pagine io ho provato a utilizzare, al fine di esplicitare al meglio quello che, a mio avviso, risulta dalla riflessione di Freud sul linguaggio. Non perché questi due eroi eponimi della storia della filosofia moderna risultino tra le fonti della formazione freudiana o tra le letture approfondite della sua maturità. Ma perché ciò che qui si è utilizzato è, al di là della filologia, la valenza e la sollecitudine chiarificatrice dell’analogia. Freud costruisce infatti, analogamente alla distinzione kantiana delle facoltà, tre luoghi o funzioni della mente, che obbediscono rispettivamente a tre logiche diverse, strutturate secondo distinzione ed eterogeneità, e non secondo opposizione: la logica quantitativo-diffusiva della pulsione affettiva, la logica qualitativo-associativa attraverso nessi empirico-sensoriali della messa in scena degli affetti, la logica discorsiva del pensiero cosciente attraverso connessione di parole. Quando la sintesi di queste tre logiche si dà coerentemente ha luogo la fisiologia, la sanità dell’esperienza emotiva, attraverso il conseguimento di un suo soddisfacimento, non fittizio e illusorio, ma effettivo e reale. Ma appunto aggiungendo che, se tale struttura delle tre stanze della mente, per la sua compresenza di eterogenei, guarda al modello kantiano, il perseguimento del processo mostra analogie profonde con la Aufhebung hegeliana, con la teoria del superamento-compimento di Hegel. Perché qui, nella sintesi freudiana, non si dà opposizione tra pathos e logos, né conseguentemente repressione da parte del pensiero delle movenze del desiderio, ma appunto loro elevazione e, insieme, conservazione. Nel senso che viene superata la dimensione immediata e corriva del desiderio, destinata nella sua astrazione dal principio di realtà a naufragare nella disillusione e nella sofferenza. Ma che, invece, nella processualità fisiologica della psiche, viene superata per essere conservata e salvata (proprio come insegna la lezione dell’aufheben hegeliano): giacché solo il sollevamento e la relativizzazione attraverso il pensiero discorsivo traducono quell’astrazione rovinosa nella concretezza di un risultato. Quando, al contrario, la sintesi delle tre istanze non ha luogo, matura la malattia e la scissione, perché si hanno o tutte le forme

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nevrotico-psicotiche di una mente che desidera, rappresenta e agisce senza l’uso e l’ausilio della funzione simbolica o, all’altro estremo, di un pensiero che pensa il mondo e discorre linguisticamente nell’astrazione e nella separazione da una propria interna risonanza e significanza emotiva. Di nuovo basti pensare analogicamente, per quest’ultimo caso di pensiero disincarnato dall’affetto, a cosa accade nella Critica della ragion pura di Kant quando l’intelletto vuol far funzionare la mente in assenza di una datità sensoriale, abbandonando la certezza della scienza per l’incertezza e la dismisura delle idee metafisiche. Del resto è proprio il radicamento e la fondazione corporea della capacità di pensiero che ci dice quanto per Freud la funzione del linguaggio, nel suo coincidere con l’attività della coscienza, sia strutturalmente duale, perché istituita su una doppia valenza simbolica. Da un lato il linguaggio come funzione comunicativa pubblica, che utilizza i simboli semantici secondo una convenzione sociale, e dall’altro il linguaggio come funzione simbolizzatrice privata, che consente all’emozione di essere riconosciuta dalla mente e di farsi così simbolo, in essa, delle esigenze del corpo e dei livelli emozionali primari. Né si può sottacere il fatto che la radicalità e l’originalità di tale concezione del linguaggio in Freud sia tale da rimanere costante per tutto lo svolgimento del suo pensiero e da costituire, si potrebbe dire, la metacategoria dell’intera sua opera. Come abbiamo già visto, Freud ha cominciato a occuparsi esplicitamente dei problemi del linguaggio fin dal 1891, quando redige la voce «Afasia» per il primo volume del Dizionario Medico del Villaret e quando compone il testo di Zur Auffassung der Aphasien, che abbiamo in precedenza esaminato e dove viene teorizzata per la prima volta la relazione tra Objektvorstellung e Wortvorstellung quale la connessione più delicata, e più esposta a fratture, di una mente (qui ancora cervello) che rappresenta e pensa attraverso sintesi di composti. E nel Progetto del 1895 ci ha detto chiaramente – quando si domanda come possa nascere il pensiero osservante, ossia la coscienza che deve connettere ambito pulsionale interno e attenzione verso la realtà – che tale funzione è legata alla capacità del linguaggio di legare l’energia pulsionale del processo primario attraverso investimenti laterali che fanno entrare in gioco immagini verbali sonore e motorie. Vent’anni dopo, nel 1915, nel saggio L’inconscio (das Unbewusste) che include nella sua Metapsicologia, Freud concettualizza di nuovo in modo esplicito la distinzione, nella psiche, tra l’ordine rappresentativo con linguaggio e l’ordine rappresentativo senza linguaggio, teorizzando,

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senza ombra di dubbio, che è la presenza o meno di linguaggio che segna al livello della prima topica la differenza più chiara tra Inconscio e Preconscio-Conscio: secondo una teorizzazione pressoché opposta, anche qui, a quanto avrà poi a sostenere Lacan, che rovescerà, com’è ben noto, la tesi di Freud nella concezione dell’inconscio strutturato come un linguaggio5. Ciò che abbiamo potuto chiamare la rappresentazione conscia dell’oggetto si scinde ora nella rappresentazione di parola e nella rappresentazione di cosa; quest’ultima consiste nell’investimento, se non delle dirette immagini mestiche della cosa, almeno delle tracce mnestiche più lontane che derivano da quelle immagini. Tutto a un tratto pensiamo di aver capito in che cosa consista la differenza fra una rappresentazione conscia e una rappresentazione inconscia. Contrariamente a quanto avevamo supposto, non si tratta di due diverse trascrizioni dello stesso contenuto in località psichiche differenti, e neanche di due diverse situazioni funzionali dell’investimento nella stessa località; la situazione è piuttosto la seguente: la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente, mentre quella inconscia è la rappresentazione della cosa e basta. Il sistema Inc contiene gli investimenti che gli oggetti hanno in quanto cose, ossia i primi e autentici investimenti oggettuali; il sistema Prec nasce dal fatto che questa rappresentazione della cosa viene sovrainvestita in seguito al suo nesso con le relative rappresentazioni verbali. Abbiamo il diritto di supporre che siano tali sovrinvestimenti a determinare una più alta organizzazione psichica, e a rendere possibile la sostituzione del processo primario con il processo secondario che domina nel Prec. A questo punto siamo anche in grado di indicare con precisione cos’è che la rimozione ricusa nelle nevrosi di traslazione alla rappresentazione respinta: le ricusa la traduzione in parole destinate a restare congiunte con l’oggetto6.

Sembra non esservi dubbio nell’argomentare di Freud. Il passaggio tra le due diverse tipologie di relazione della mente agli affetti del proprio mondo pulsionale, che Freud ha definito rispettivamente «processo primario» e «processo secondario», è scandito dall’intervento del linguaggio, dalla funzione cioè della Wortvorstellung, la quale è in grado d’immettere e tradurre il complesso pulsionale-rappresentativo da un modo di funzionare del pensiero più arcaico ed elementare a una modalità più articolata ed elevata. 5   Su ciò mi permetto di rinviare ai miei saggi Riflessioni sparse su identità, negazione, alterità, in F. Migliorino (a cura di), Scarti di umanità, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2011, pp. 13-35; Materialismo «contra» spiritualismo. Sigmund Freud e Jacques Lacan, “Bollettino studi sartriani”, 2013, anno IX, biblink editori, pp. 111-129. 6  S. Freud, L’inconscio, tr. it. in Opere [1915-1917], vol. 8, Torino, Boringhieri, 1976, p. 85.

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Ma cosa accade, è lecito domandarsi, a tale funzione centrale assegnata da Freud al linguaggio nella connessione/distinzione tra pensiero conscio e pensiero inconscio quando, a partire dagli anni venti, con la nuova teoria delle pulsioni, e con l’inclusione nel campo pulsionale della pulsione di morte, Es, Io e Super-io ridisegnano in modo nuovo la struttura dell’apparato psichico rispetto alla precedente articolazione in Inconscio, Preconscio e Conscio? Quando l’inconscio non coincide più unicamente con il rimosso ma affonda sempre più, come Es, le sue radici nel soma, nella biologia del corpo e di lì detta le sue movenze originarie all’Io? Quando, a segno della profondità del passaggio dalla prima alla seconda topica, anche la censura si autonomizza a funzione specifica della psiche, traducendosi nell’istanza del tutto inconscia del Super-io? Ma quando soprattutto la pulsione di morte riscrive la natura del desiderio, caricandolo di componenti destrutturanti e distruttive? È il caso di rivolgerci al Compendio di psicoanalisi, l’ultima opera sistematica di Freud, per considerare la questione. Di quanto appunto la funzione linguistica, anche dopo la svolta del 1920, rimanga per Freud consustanziale o meno alla funzione della coscienza, e di contro assente o minoritaria nella vita inconscia della mente. Giacché anche qui, ancora una volta, troviamo inalterata la riproposizione da parte del maestro viennese della sostanziale coincidenza tra funzione linguistica e larga parte del pensiero conscio, insieme alla definizione del linguaggio come cerniera di confine e di transito tra vita conscia e vita inconscia della psiche. Anche nel Compendio, infatti, Freud distingue due fonti della coscienza. Da un lato le informazioni che attraverso le percezioni e le modificazioni degli organi di senso che derivano dal mondo esterno. «Il divenire cosciente è legato innanzitutto alle percezioni che i nostri organi di senso ricavano dal mondo esterno. Dal punto di vista topico, dunque, è un fenomeno che si verifica nello stato corticale più esterno»7. E dall’altro le informazioni che derivano «dall’interno del corpo, dai nostri sentimenti, i quali influenzano la nostra vita psichica perfino più imperiosamente che non le percezioni esterne»8. Ma affinché il mondo interno riesca a giungere alla coscienza è necessario anche qui che le scene emozionali e il pensiero del desiderio si connettano a rappresentazioni verbali che appunto costituiscono il medium percettivo con cui il mondo inconscio giunge a farsi conscio.  S. Freud, Compendio di psicoanalisi, tr. it. in Opere cit., vol. 11, p. 588.   Ibidem.

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per un nuovo materialismo Processi consci alla periferia dell’Io –, scrive Freud – e tutto il resto che è nell’Io inconscio: sarebbe questa la situazione più semplice che dovremmo supporre. Può darsi che in effetti le cose stiano così per gli animali, ma per gli uomini si aggiunge una complicazione in virtù della quale anche alcuni processi interni dell’Io possono acquistare la qualità della coscienza. Ciò è opera della funzione linguistica, la quale stabilisce uno stretto collegamento fra i contenuti dell’Io e i residui mnestici delle percezioni visive, e più ancora con quelli delle percezioni auditive9.

Del resto a proposito di quanto tale concezione del linguaggio costituisca, come dicevo, la metacategoria di tutta l’opera freudiana – la teoria dell’ordine del linguaggio nel suo rapporto con gli altri ordini della psiche  –  non si può non concludere considerando quanto già il Freud della Traumdeutung avesse concepito, come in nessun altro luogo della sua opera, sulla modalità inconscia di produrre pensieri senza linguaggio e su quanto la logica di composizione del pensare onirico differisca profondamente dalla logica del pensare propria della mente conscia-discorsiva. Il sogno com’è noto è per Freud la realizzazione di un desiderio attraverso allucinazione e sospensione del confronto con la realtà esterna. Tale sospensione del principio di realtà, e della conseguente ricerca del soddisfacimento del desiderio attraverso il ricorso al mondo esterno, comporta per Freud il prevalere della raffigurabilità sulla discorsività, ossia il darsi di un pensiero che si serve essenzialmente di sintesi figurative e sensoriali, più che non sintesi discorsive e articolate linguisticamente. Nel sogno – dirà poi Freud nelle Lezioni di introduzione alla psicoanalisi – si sperimentano ogni sorta di fatti, e a essi ci si crede […]. Prevalentemente si vive il sogno in immagini visive; possono esservi anche sentimenti, qua e là anche pensieri; anche gli altri sensi possono esperire qualcosa, ma in prevalenza si tratta di immagini.

La modalità espressiva del sogno si struttura secondo quello che Freud definisce «riguardo per la raffigurabilità» [Rücksicht auf Darstellabarkeit]: ovvero la capacità di mettere in scena un contenuto psichico essenzialmente concreto, fatto di materiale sensibile tra cui prevalgono le immagini visive, e di eliminare contemporaneamente ogni nesso di sintesi e di connessione mediato dai concetti astratti. I pensieri onirici latenti  –  scrive Freud ancora nello stesso testo  –  vengono quindi trasformati in una somma di immagini sensoriali e di scene visive. Lungo questo cammino avviene in essi ciò che ci appare tanto nuovo e sorprendente. Tutti i mezzi linguistici con i quali vengono espresse le relazioni di pensiero più 9

  Ivi, p. 589.

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sottili – le congiunzioni e le proposizioni, i modi della declinazione e della coniugazione  –  vengono meno, mancando per essi i mezzi di raffigurazione; come in un linguaggio primitivo privo di grammatica, solo il materiale grezzo del pensiero viene espresso, quello astratto viene ricondotto al concreto che ne costituisce il fondamento10.

Sulla tesi per cui il pensiero onirico si struttura come una modalità di pensiero che associa e compone fondamentalmente senza linguaggio, Freud in L’interpretazione dei sogni mi sembra del resto esprimersi con estrema chiarezza. Con l’attività del sogno, al pensiero capace di concettualizzazione e discorsività subentra un sistema associativo fatto di immagini e percezioni sensoriali. «Chiamiamo regressione il fatto che nel sogno la rappresentazione si ritrasforma nell’immagine sensoriale da cui è sorta in un momento qualsiasi»11. Il processo primario, quale si esprime attraverso il sogno, appare curvato e concluso in un orizzonte fondamentalmente percettivo-sensoriale, a dominanza rappresentativo-visiva. Ma proprio ciò implica che il pensiero senza linguaggio dell’inconscio possieda un linguaggio specifico e determinato. Ossia che il tipo peculiare di pensiero che si forma nella parte inconscia della mente utilizzi metodi peculiari e specifici di costruzione, di associazione e di sintesi, che non sono quelli propri della verbalizzazione. Se guardiamo al processo onirico come a una regressione all’interno dell’apparato psichico da noi adottato, possiamo senz’altro spiegare il fatto, stabilito per via empirica, che nel lavoro onirico tutte le relazioni logiche dei pensieri onirici vanno perdute o trovano soltanto espressione travagliata. Secondo lo schema, queste relazioni logiche non sono contenute nei primi sistemi Tmn, ma in altri situati più avanti, e nella regressione sino alle immagini percettive sono costrette a rinunciare alla loro espressione. Nella regressione, la struttura dei pensieri del sogno viene disgregata nella sua materia prima12.

Insomma nella parte inconscia della psiche, per il Freud della Traumdeutung, vengono meno le relazioni del logos, ossia del pensiero che lega e raccoglie attraverso catene linguistiche, e rimane un contenuto che va legato e composto altrimenti. Tant’è che lo stesso linguaggio quando è presente nell’attività del sogno compare per Freud solo nei termini di una scenografia immaginifico-rappresentativa che tratta i significanti verbali, 10  S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (Nuova Serie), tr. it. in Opere cit., vol. 11, p. 135.

 S. Freud, L’interpretazione dei sogni, tr. it. in Opere cit., vol. 3, p. 496.   Ibidem.

11

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le rappresentazioni di parole, alla stregua di rappresentazioni di cose e che tratta perciò le parole, ogni singola parola, secondo modalità associative che risultano del tutto eterogenee rispetto alle catene semantico-sintagmatiche del linguaggio vero e proprio. Per quanti discorsi e controdiscorsi possano esserci nei sogni, assurdi o sensati che siano l’analisi ci mostra ogni volta che il sogno ha colto semplicemente dai suoi pensieri frammenti di discorsi effettivamente fatti o uditi, procedendo poi con essi in modo estremamente arbitrario. Non soltanto li ha strappati dal loro contesto e ridotti a frammenti, accogliendone uno e scartandone un altro, ma spesso li ha anche connessi in modo nuovo, cosicché il discorso del sogno, apparentemente coerente, all’atto dell’analisi si scompone in tre o quattro frammenti. In questa nuova utilizzazione esso ha spesso lasciato da parte il significato che le parole avevano nei pensieri del sogno ed è riuscito a ricavare dal testo un significato completamente nuovo13.

«Condensazione» e «spostamento» (Verdichtung/Verschiebung) agiscono non solo sulle rappresentazioni visive ma anche su quelle auditive: visto che ogni immagine sensoriale, quale che sia la sua natura, nel suo slegamento dal piano concettuale, è utilizzabile dalla processualità inconscia. Il lavoro di condensazione dei sogni riesce particolarmente evidente quando sceglie a suoi oggetti parole e nomi. Infatti il sogno tratta spesso le parole come cose e le sottopone alle medesime combinazioni delle rappresentazioni di cose. Ne risultano creazioni verbali bizzarre e inconsuete14.

Su tale assenza generalizzata di logos, quale pensiero attraverso il linguaggio, si fonda dunque per Freud la natura alogica ma non illogica del lavoro onirico e di quelle sue due funzioni fondamentali che concorrono a produrre la scrittura geroglifica del sogno e che, abbiamo appena detto, sono, rispettivamente, la condensazione e lo spostamento. La prima, come è noto, unisce più contenuti rappresentativi e mentali secondo un modo per sovrapposizione e per giustapposizione che non è quello appunto per generalizzazione e astrazione concettuale e che sembra operare invece soprattutto attraverso una logica della somiglianza; mentre il secondo procede lungo catene associative che sembrano privilegiare la dimensione della contiguità. A conferma di tutto ciò deriva per Freud la negazione, per quanto riguarda il pensiero non discorsivo, del principio di non contraddizione. 13

  Ivi, p. 383.

14

  Ivi, p. 274.

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Tale principio, posto, com’è noto, nel libro quarto della Metafisica di Aristotele a base del pensiero discorsivo, e di lì divenuto principio originario dell’intera logica occidentale15, è dichiarato da Freud valevole per la sola parte conscia della mente, lasciando luogo, con il suo limite, a un’altra, o più, logiche e a un altro modo di funzionare del pensiero. Il principio di non contraddizione non si può estendere all’attività inconscia della mente, teorizza Freud, perché qui è appunto possibile proprio per il lavoro della Verdichtung e della Verschiebung, diversamente dal pensiero retto dal logos, che in una stessa immagine e nella medesima unità di tempo siano compresenti due contrari o, se si vuole, due catene ideative di significato opposto o, ancora, che una medesima scena stringa insieme uno o più significati, l’uno più esplicito e palese, gli altri più inconsueti e obliqui16. Ed è proprio su questo punto fondamentale che a mio avviso va appuntata l’attenzione per comprendere l’innovazione profondisssima cui ha dato luogo l’opera di Freud nell’ambito della cultura occidentale. Freud infatti non solo ha scoperto l’inconscio, accompagnandosi ad altri che, a dire il vero, lo avevano preceduto in vario modo nella sua scoperta, ma soprattutto ha codificato la struttura, le leggi, di questo modo di essere della psiche, che non sono quelle che governano il pensiero cosciente. Ha proposto cioè l’inconscio non come luogo di assoluto caos e privo dunque di ogni possibile ordine né quale luogo di una volontà assolutamente cieca e irrazionale, alla Schopenhauer. Bensì ha teorizzato l’inconscio come modo di funzionare della mente strutturato secondo legalità e principi: ma appunto legalità e principi che sono paradossalmente altri ed eterogenei rispetto alla struttura delle leggi del pensiero cosciente. A partire da L’interpretazione dei sogni Freud ha assegnato infatti all’inconscio le seguenti caratteristiche che ne improntano la struttura e che 15   «È impossibile che la stessa cosa, a un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto. […] Infatti è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia. […] non è possibile che i contrari sussistano insieme in un identico soggetto». Queste sono le tre formulazioni che nella stessa pagina Aristotele dà del principio che constata l’impossibilità della contraddizione (Metafisica, 1005b 20-35, tr. it. a cura di G. Reale, Napoli, Loffredo, 1978, I, p. 298). 16   Ancora nel 1933 , nella Introduzione alla psicoanalisi (Nuova serie) cit., Freud ripeteva che «Le leggi del pensiero non valgono per i processi dell’Es, soprattutto non vale il principio di contraddizione» (p. 185). Ma già nella Traumdeutung scriveva, sottolineando fortemente la cosa, che «il sogno non ha alcun mezzo per esprimere la relazione della contraddizione, del contrasto, del “no”» (L’interpretazione dei sogni cit., p. 300).

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rimangono invariate nel pensiero del maestro viennese anche attraverso il passaggio dalla prima alla seconda topica: a) assenza di tempo; b) traduzione dall’astratto al concreto e assenza di rapporti logici; c) assenza del principio di contraddizione; d) assenza della negazione. L’esperienza del tempo quale successione cronologica e quale susseguirsi di presenti, in cui il futuro si fa subito passato, appartiene solo ai processi mentali coscienti dell’essere umano. L’inconscio è infatti il luogo in cui la realtà psichica è la sola realtà: nel quale cioè la realtà mentale si scambia immediatamente con la realtà in quanto tale e in cui perciò non fa il suo ingresso quel principio di realtà la cui identità con la percezione del tempo nella teoria di Freud abbiamo già esposto. L’inconscio è senza tempo perché in esso non c’è il confronto con la realtà esterna della percezione ma solo con la realtà della percezione interna cosicché in tale regno dell’economia pulsionale scene e fantasmi legati a una profondità emozionale non possono che vivere di un’attualità e di una permanenza psichica senza tempo. L’assenza di tempo implica che nell’inconscio – per eccellenza nell’attività del sogno – non si possa dare per Freud la consecutio temporum, ossia la relazione tra il prima e il dopo, tra la causa e l’effetto, tra un agire e il suo scopo, tra la protasi e l’apodosi del periodo ipotetico, giacché nell’inconscio non sono presenti «i “se, perché, come se, benché, o-o” – e tutte le altre preposizioni senza le quali non possiamo comprendere una frase e un discorso»17. L’inconscio ha una modalità processuale per Freud essenzialmente figurativa e per tale icasticità concreta le relazioni, necessariamente più astratte, tra i concetti non possono essere espresse. «L’apparente pensare del sogno riproduce il contenuto dei pensieri del sogno, non i loro reciproci rapporti, nella cui istituzione consiste il pensare»18. Così nell’ambito di tale assoluto prevalere del pensiero concreto sul pensiero astratto, del pieno sul vuoto, è il «no» che non può aver luogo, come espressione e simbolo di un’assenza, di una opposizione, di una contraddizione. «Ho affermato poco fa che il sogno non ha 17

  Ivi, pp. 287-288.

18

  Ivi, p. 288.

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alcun mezzo per esprimere la relazione della contraddizione, del contrasto, il “no”»19. Nell’universo del concreto e della sua continuità non v’è spazio alcuno per la raffigurabilità di qualcosa di assente, di non immediatamente percepibile, che invece nella coscienza discorsiva si viene a esprimere attraverso il simbolo linguistico del non, della negazione. Anche perché non a caso è proprio nell’uso della negazione, come capacità di esprimere ciò che non è presente nella realtà o ciò che è solo falso, che esemplarmente si riassume la capacità simbolica del linguaggio. Per cui il venir meno del principio di contraddizione, che nel pensiero cosciente vieta di congiungere opposti e contrari nell’unità di una sola rappresentazione, come la scomparsa dell’uso della negazione, bene esplicitano quanto la logica dell’inconscio comandi un modo di pensare i pensieri che è radicalmente altro dalla modalità linguistico-discorsiva20. 3. Ambivalenza pulsionale e univocità scientifica Nel capitolo precedente è stato sottolineato quanto il primo scritto freudiano sulle afasie rivelasse la profonda influenza che l’opera di John Hughlings Jackson ha avuto sulla prima impostazione della ricerca   Ivi, p. 300.   Accanto all’opera di Bion, è al lavoro di Ignacio Matte Blanco (The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic, 1975) che si deve nel secolo scorso il rilievo di maggior vigore assegnato nella letteratura psicoanalitica alla diversità delle logiche che reggono rispettivamente la parte conscia e la parte inconscia della mente.«La fondamentale scoperta di Freud non è quella dell’inconscio, anche nel suo significato dinamico (pur così importante), ma quella di un mondo – che egli sfortunatamente chiamò l’inconscio – retto da leggi completamente diverse da quelle da cui è retto il pensiero cosciente» (L’inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica, tr. it. a cura di P. Pria, Torino, Einaudi, p. 105). Ma accanto alla messa in evidenza, quanto mai acuta e opportuna, delle leggi che danno ordine e struttura a quella che lo psicoanalista argentino ha definito la logica simmetrica dell’inconscio, l’interpretazione di Matte Blanco conclude in un dualismo metafisico-religioso che contraddice, a mio avviso, le sue acquisizioni preziose in campo epistemologico e che iscrivono la bi-logica della mente umana in un’opposizione tra mondo finito e mondo infinito, tra mondo visibile e discreto delle qualità e mondo invisibile e indifferenziato dell’Uno, che piega e deforma la psicoanalisi nel verso degli arcaismi dell’antica fiosofia eleatica e dell’opposizione parmenidea tra sfera dell’Essere e sfera del Molteplice. Sull’opera di Matte Blanco, cfr. M. Failla, Il linguaggio scientifico dell’inconscio in Matte Blanco. Una logica mista?, in G. Gallo (a cura di), Scienza e linguaggio nel Novecento italiano, Villa Santa (MB), Limina Mentis, 2012, pp. 207221; R. Lombardi, Formless Infinity. Clinical Explorations of Matte Blanco and Bion, London, Routledge, 2017. 19 20

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freudiana. La teoria della rappresentazione come ri-presentazione, elaborata dall’autore di Evolution and Dissolution of the Nervous System, abbiamo visto, ritorna nel saggio afasiologico attraverso l’introduzione del concetto, fondamentale non solo per la neurologia ma per la psicoanalisi freudiana, di Umordnung (riordinamento, risistemazione). Ogni evento psichico viene ri-significato e ri-contestualizzato a seconda della stanza o funzione psichica in cui la sua presenza viene scritta o ri-scritta. Stanze o istanze, che corrispondono darwinianamente a tappe successive dell’evoluzione e che regrediscono da contesti di sintesi superiore a contesti inferiori quando la patologia impedisce il percorso fisiologico della catena evolutiva. Ma la teoria complessiva della rappresentazione, quale permane in tutto lo svolgersi dell’opera di Freud, implica, come abbiamo già visto, oltre l’originaria matrice biologico-evoluzionistica, un forte valore filosofico, di profonda analogia con la Critica della ragion pura di Kant. Perché Freud, abbiamo detto, è stato capace di costruire una teoria della mente come sistema organico di tre logiche differenziate e di ricondurre tutti i fenomeni della psiche alla processualità di una corretta integrazione, o, viceversa, di patologica scissione, di tale apparato sistemico. Per dire insomma che è necessario attribuire intrinseco valore filosofico alla metapsicologia freudiana, se per filosofia si intende, come deve essere a mio avviso, un sapere che assume la prospettiva della totalità, quale capacità di ricostruzione coerente di un campo di esperienza, senza contraddizione o parzialità alcuna. E in tal caso dire che Freud è un filosofo non significa dire che la psicoanalisi debba apprendere dalla filosofia ma che, viceversa, la filosofia, che spesso è filosofia di un pensiero astratto e scorporizzato, deve imparare dalla specifica filosofia propria della psicoanalisi. Per altro, quanto la concezione freudiana dell’apparato psichico e  delle tre logiche, di cui abbiamo detto, rimandi, nella sua autonomia e originalità, non intenzionalmente ma analogicamente, alla dottrina kantiana delle facoltà, come complesso di istanze e funzioni mentali l’una non riducibile alle altre, è stato messo in luce nel dibattito psicoanalitico di terza generazione soprattutto per merito, com’è noto, di Wilfred R. Bion. Lo psicoanalista inglese ha infatti costruito, sulla scia del kantismo implicito nella concezione freudiana delle tre logiche, una cosiddetta «griglia» che teorizza una struttura assai composita e articolata di attività della mente, che dal cosiddetto pensiero concreto, dalla percezione elementare e immediata di impressioni sensoriali e di esperienze emotive, giunge, attraverso gradi progressivi

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di raffreddamento pulsionale, alla messa in opera di funzioni con capacità diversamente complesse di simbolizzazione e di astrazione, fino alle forme più elevate di scienza e conoscenza. Ma soprattutto, per quello che interessa specificamente il nostro discorso, Bion – andando in questo ben al di là di Freud  –  ha proposto un modello quanto mai fecondo sul funzionamento, normale o patologico, della mente umana, che ne esplora, oltre il vettore verticale della connessione tra corpo emozionale e mente rappresentativa-pensante, anche quello orizzontale della costituzione intersoggettiva, e del ruolo, giocato in essa, dall’alterità. L’aspetto che maggiormente colpisce nella concezione bioniana della mente è infatti che i pensieri vengono considerati come precedenti, dal punto di vista sia genetico sia epistemologico, alla capacità di pensare, come precedenti cioè alla formazione dell’apparato del pensiero. Giacché la nascita di quest’ultimo dipende paradossalmente dalla possibilità della mente in questione di essere accolta, contenuta e riconosciuta da un’altra mente. I «protopensieri», coerentemente con la teoria freudiana del processo primario come modalità del pensare finalizzata a liberare la mente nei termini più immediati dall’eccesso di stimoli che la invadono, possono rimanere non elaborati nella condizione di meri oggetti – «cose in sé» alla Kant, come le chiama Bion, per riferirsi a qualcosa che rimane estraneo e inconoscibile –, alle quali corrisponde un pensiero che agisce, invece di pensare. Nel senso che evacua ed espelle fuori di sé i pensieri-oggetti cattivi per la loro impellenza e invasività. Un apparato per pensare vero e proprio, che possa effettivamente mantenere dentro di sé e trasformare i pensieri epistemologicamente pre-esistenti, nasce infatti – ritiene Bion – solo se la mente in questione, specificamente quella del bambino, può proiettare e collocare le proprie emozioni e i propri bisogni in un’altra mente, capace della funzione materna, che li riceve, li metabolizza, in qualche modo li identifica e li riconosce, restituendoli tollerabili e trasformati alla prima mente21. Così in questo quadro bioniano la mente può funzionare: 21  Per questo aspetto della prospettiva teorica di Bion considera in particolare Una teoria del pensiero, in W.R. Bion, Analisi degli schizofrenici e metodo analitico, tr. it. di S. Bordi, Roma, Armando, 1970; ma anche Id., Gli elementi della psicoanalisi, tr. it. di G. Hautmann, Roma, Armando, 1979 e La griglia, in Il cambiamento catastrofico, Torino, Loescher, 1981. Della smisurata bibliografia su Bion, cfr. R. Lombardi, Il corpo nella teoria della mente di W.R. Bion, “Consecutio temporum”, n. 2, 2012, www.consecutio.org.

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a) o come un muscolo che scarica continuamente pensieri-oggetto rimasti allo stato di cariche energetiche intollerabili; b) o come un apparato che riesce a pensare i pensieri, avendo appreso attraverso l’opera di cura e di riconoscimento di altre menti, a entrare in contatto con le proprie emozioni, senza il terrore di esserne invaso. In tal modo con tale teoria del pensiero quale apparato per pensare i pensieri e quale attività della mente umana, che origina dall’interagire di fattori verticali e orizzontali della personalità, lo psicoanalista inglese ha fatto fare, io credo, un ulteriore passo in avanti a una filosofia della mente che tenga conto di un’etica della relazione, o del riconoscimento/disconoscimento, come condizione intrinseca e necessaria dell’istituirsi della capacità gnoseologica e logica del conoscere. Tanto che si può ben dire, a mio avviso, che Bion, accogliendo ed elaborando il progresso clinico e teorico già compiuto a sua volta da Melanie Klein con i concetti di «identificazione proiettiva» e dell’interazione dinamica fra la «posizione schizo-paranoide» e la «posizione depressiva», riscrive, con la sua teoria, possiamo dire, di una mente al quadrato le pagine hegeliane della Fenomenologia dello spirito dedicate al «riconoscimento», nel verso di una teoria epistemologico-relazionale della genesi del pensiero. In una concezione come quella bioniana, di un apparato di pensiero che inizia a funzionare solo se contenuto da un altro contenitore mentale, l’alterità, la presenza e la funzione di un’altra mente, è esplicitamente fattore originario di costituzione e di costruzione dell’identità soggettiva. Quello che si può definire il «fattore-Hegel», la relazione di riconoscimento o di disconoscimento da parte di un «altro-Da-sé», è altrettanto importante di quello che si può definire il «fattore-Kant», cioè il grado di capacità della mente di operare una sintesi verticale rispetto alle sue diverse funzioni emozionali e rappresentative o «altro-Di-sé». E se già il fattore-Kant ci parla della necessità di un’integrazione verticale del Sé, che è assai critica di una concezione empiristica della mente (alla Hume), quale supposto fascio di percezioni, è in verità il fattore-Hegel che, con la dipendenza strutturale dall’altro-Da-sé, colloca l’alterità nel cuore della soggettività e contribuisce a far comprendere come il dubbio, l’ambivalenza, la contraddittorietà costituiscano lo statuto di base del fondo emozionale della nostra soggettività, esposta all’aiuto indispensabile di un alter-ego, che, per definizione irriducibile all’ego, può farsi, da alterità integrativa e soccorrevole, alterità altra e ostile. E come di conseguenza la pretesa fondativa dell’empirismo, che ogni sensazione-percezione nel suo atomismo sia in sé univoca e semplice, cioè che l’esperienza umana si costruisca nello sviluppo e nel transito dal semplice al complesso, non possa essere accolta da una epistemologia della mente concepita alla luce della psicoanalisi.

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Vale a dire che, oltre l’analogia con il kantismo, è una forte ispirazione dialettica, per altro anch’essa mai consapevolmente esplicitata da Freud, che appare essere al fondo, della tematizzazione psicoanalitica. Non solo nel senso orizzontale dell’implicazione tra alterità e identità che abbiamo appena considerato. Ma anche nel verso verticale del dualismo pulsionale. Come ben si rivela non tanto nella prima topica freudiana, secondo la quale la pulsione sessuale si distacca e si autonomizza dalle funzioni di autoconservazione, quanto nella seconda topica dove il Todestriebe, la pulsione di distruzione e di dissoluzione delle relazioni, si oppone, si intreccia e si mescola costantemente con la pulsione erotica di costruzione e di difesa dei legami e dove appunto la natura di opposti delle diverse disposizioni emotive è assai più dialetticamente connotata che non nel precedente dualismo tra pulsioni sessuali e pulsioni dell’Io. Perché a ben pensare deve collocarsi proprio qui, nella strutturazione dialettica della materia psicoanalitica, il confine, il limen, di distinzione e separazione tra psicoanalisi e neuroscienze e uno dei motivi, se non il più determinante, secondo cui Freud ha dovuto metter da parte il suo Progetto di una psicologia del 1895 col suo intento di ridurre tutti gli atti mentali a processi cerebrali. Quella fondazione dialettica sta cioè nella messa a tema, dopo gli anni del Progetto, da parte dello stesso Freud della strutturale ambivalenza o complessità dei processi affettivi e pulsionali. Perché l’ambivalenza, che già il Freud della Traumdeutung sperimenta in prima persona in occasione della morte del padre e che gli apre il sentiero di senso della costellazione edipica, rivela un impasto pulsionale, la compresenza cioè, nello stesso momento di vita di un identico soggetto e riguardo al medesimo termine, di sentimenti di amore e di odio, la cui intrinseca contraddittorietà non è immediatamente trascrivibile né nell’atomismo fisiologico della struttura neuronica né nel linguaggio quantitativo della scienza né nell’atomismo gnoseologico dell’empirismo. Per dire cioè che è sempre l’al di là del principio di contraddizione a confermarsi come il passaggio che apre la distanza, di cui oggi particolarmente si discute, tra statuto della psicoanalisi e teoria dell’apparato mentale che ne deriva, da un lato, e, dall’altro, tra statuto delle neuroscienze e teoria dell’apparato cerebrale. Tanto più quando, nell’evolversi e nel complicarsi della biografia intellettuale di Freud, con l’Al di là del principio di piacere le pulsioni di vita s’intrecciano, come si diceva, indissolubilmente con il Destruktionstrieb. Né a caso il progresso più serio nella teoria e nella clinica psicoanalitica è avvenuto, dopo Freud, con la scuola inglese di quella Melanie Klein che ha fatto dell’aggressività e dell’invidia preedipica, quali

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riformulazioni appunto della freudiana pulsione di morte, un fattore ineliminabile nella formazione della soggettività umana. È la compresenza del fattore-Kant e del fattore-Hegel, dell’asse verticale e dell’asse orizzontale dell’esistenza, dunque che ci dice che per principio la soggettività non è mai identità semplice e puntuale, trascrivibile nel linguaggio non-contradditorio della scienza. E ciò proprio a partire dalla sorta di trascendenza interiore rispetto a se stessa che costantemente la struttura, alimentata dall’alterità del proprio corpo intrecciata con l’alterità del riconoscimento (o disconoscimento) dell’alter-ego: in un intreccio in cui l’oggetto del soddisfacimento e dell’amore è in pari tempo sempre anche potenzialmente sfuggente ed estraneo. Ma ancor più, di questa irriducibilità dell’umano al semplice, al lineare e al non-contraddittorio, dà conto il carattere originariamente e strutturalmente dialettico del bisogno-desiderio umano, istituito sempre sulla compresenza di atti d’incorporazione e di atti d’espulsione, di atti di affermazione e di atti di negazione. Per cui, considerando l’enorme progresso compiuto dalle neuroscienze grazie alle tecnologie digitali negli ultimi quarant’anni, va indubbiamente riconosciuto che il loro sviluppo ha fatto avanzare assai la nostra conoscenza della struttura e del funzionamento del sistema nervoso, in particolare con lo studio della genesi e delle funzioni delle reti neuronali, che ha aumentato enormemente la possibilità d’intervenire su patologie neurologiche. Ma a tutti coloro che lavorano a un progetto riduzionistico di naturalizzazione della mente e che, volendo tradurre il sistema rappresentazionale della mente in un sistema di processi elettrochimici, combattono il dualismo di mente e corpo, quale presunta e vieta riaffermazione delle distinzioni metafisiche tra materia e spirito, va riproposta criticamente, io credo, proprio l’esperienza teorica di Freud nel suo trascorrere dalla neurologia alla psicoanalisi e nella tematizzazione della contraddittorietà pulsionale. Dire ciò significa, naturalmente, affermare che il mondo-della-vita precede ed è più ampio di quello del logos e della conoscenza scientifica. E significa contemporaneamente che sentire non è conoscere. Questo non certo per acconsentire a irrazionalismi e a vitalismi antiscientifici, ma per proporre una concezione del senso dell’esperienza umana nella quale criterio ultimo di ogni nostro decidere e agire  –  il senso appunto del nostro vivere – non può collocarsi nel significato logico-scientifico, pubblico e condiviso, delle rappresentazioni, idee e concetti che a vario grado di astrazione vengono accolti e concepiti nella nostra mente, quanto invece nella forza assertoria delle emozioni e dei

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sentimenti che a essi si accompagnano. Giacché, per tutto quello che si è detto fin qui, se è ovvio che l’impeto dell’emozione va frenato perché possa nascere e funzionare la mente, fino alle sue prestazioni più elevate, quali le generalizzazioni della scienza e le leggi della matematica, l’emozione, in quanto fisicità o corporeità della mente, è ciò che è irriducibile al logos e alla misurazione scientifica, e proprio per tale distanza dalla delimitazione e dalla definizione del pensiero, essa rimane, io credo, la fonte e il criterio, mai esauribile, del senso del nostro esperire. Nell’impianto psicoanalitico d’ispirazione freudiano-bioniana il corpo costituisce la traduzione biologico-materialistica del noumeno di Kant, come già aveva compreso lo Schopenhauer del Mondo come volontà e rappresentazione, pur nei limiti del suo estremismo antirazionalistico. Il fenomeno di tale noumeno, o di tale «oggetto originario concreto», è il sentire: il Triebrepräsentant nella misura in cui viene accolto e avvertito nel mondo percettivo della mente. Questo significa che il noumeno corporeo non può essere, in quanto noumeno, né rappresentato né conosciuto ma può essere percepito e sentito. Quando questo non avviene, quando l’essere umano vive in una condizione di dissociazione di corpo e mente, immaginazione e pensiero, privi di un centro psico-sensoriale interno, producono menzogne, o illusioni e astrazioni: con la nascita di un conoscere che lavora su linguaggi e simboli non contaminati e puri da referenze emotive, un conoscere autistico e autoreferenziale che non attinge e non apprende dall’esperienza. La psicoanalisi che propone il corpo come principio gravitazionale dell’essere umano avanza dunque una nuova prospettiva materialistica alla filosofia e a tutte le scienze umane: in primis, come cercherò di argomentare nel seguito del mio discorso, alla filosofia politica. Il nuovo vertice di osservazione di questo rinnovato materialismo muove dall’assunto che l’esperienza dell’essere umano non è riducibile in termini simbolici, che l’essere umano non può essere ridotto e risolto in una relazionalità sociale e discorsivo-comunicativa, a meno di non intendere la simbolicità nel senso verticale del corpo che offre od occulta il senso e la direzione del vivere alla mente22. 22   È ai testi di Antonio Damasio che è d’obbligo fare riferimento per una prospettiva neurobiologica che, oltre quella psicoanalitica valorizzata in queste pagine, affermi quanto sia indispensabile la presenza del corpo a che vi sia attività cerebrale, e che i processi mentali trovino la loro base nelle mappe del corpo presenti nel cervello (A. Damasio, L’errore di Cartesio, tr. it. di F. Macaluso, Milano, Adelphi, 1995; Emozioni e coscienza, tr. it. di S. Frediani, Milano, Adelphi, 2000; Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, tr. it. di I. Blum, Milano, Adelphi, 2007).

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per un nuovo materialismo

Ora si tratta di assumere, con tutta la serietà che impone, questo nuovo vertice e provare a ridisegnare l’intero quadro di una rinnovata antropologia etico-politica, oltre a altre istanze, anche in base alla sua luce.

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CAPITOLO TERZO L’ETICA INCARNATA DI SPINOZA

1. Un’identità né indifferenziata né sostanzialistica La comprensione di quanto e come il corpo possa essere assunto come luogo del senso – e come tale senso si animi di un’evidenza che, prima che visiva, vuole essere un’evidenza del sentire, un’evidenza istituita sul benessere corporeo – ci sollecita a guardare indietro, all’Olanda del Seicento e, propriamente, all’Etica di Spinoza. Perché la filosofia del grande ebreo olandese ha offerto una prospettiva teorica sul rilievo del corpo nell’antropologia umana che non ha pari nella storia della filosofia e che, nella sua originalità, non solo rompeva con le visioni antiche e moderne del dualismo di mente e corpo, ma anticipava, anche, insights preziosissime per un’antropologia del futuro. Del resto il progresso e l’approfondimento della amplissima letteratura critica consentono di liberare ormai l’opera spinoziana dall’interdetto che su di essa aveva imposto la lettura hegeliana e di sottrarla al giudizio di «acosmismo» cui l’aveva condannata il maestro di Berlino nelle sue Lezioni di storia della filosofia. Il quale, com’è noto, aveva teorizzato che la filosofia di Spinoza, pure imprescindibile conquista della modernità per il suo radicale immanentismo, sarebbe una filosofia dell’identità: di una sostanza, cioè, unica e monolitica che non ammetterebbe dentro di sé discontinuità e differenze. La sostanza spinoziana «è quel medesimo che gli Eleati chiamarono ὅν». Ricollegando lo spinozismo all’eleatismo, la sostanza spinoziana all’Essere di Parmenide, e dunque mortificandone e contraddicendone l’appena affermata modernità, Hegel poteva infatti affermare che «il sistema di Spinoza è il panteismo e il monoteismo assoluto elevato nel pensiero. […] Egli sopprime il principio della soggettività, dell’individualità, della personalità, il momento dell’autocoscienza nell’essenza»1. 1  G.W.F. Hegel, Lezioni di storia della filosofia, tr. it. di E. Codignola, G. Sanna, Firenze, La Nuova Italia, 1973, III, pp. 109-141.

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L’Etica di Spinoza appare invece, alla luce degli studi più recenti, accogliere e approfondire il principium individuationis, facendone una struttura portante della propria costruzione2. Ed è appunto la profonda implicazione nell’Etica di una teoria dell’individuazione che consente di riflettere sul possibile rapporto, nella diversità dei rispettivi paradigmi epistemologi e antropologici, tra la filosofia di Spinoza e la psicoanalisi. È un rapporto questo che, a mio avviso, non va pensato secondo il modo dell’anticipazione e del precorrimento, bensì secondo quello della premonizione, o meglio – usando la celebre espressione di Bion – come una sorta di «memoria del futuro». Nel senso d’intendere i rischi d’estremizzazione teorica e, verosimilmente, anche clinica, che la filosofia spinoziana dell’individuazione può aiutarci a mettere a fuoco riguardo, in primo luogo, alla psicoanalisi moderna: sia nella sua versione più classica del freudismo, sia in quella, oggi sempre più diffusa e sulfureggiante, del lacanismo. L’intento, in queste brevi pagine dedicate a Spinoza, è dunque singolare, giacché ciò che si vuole è proporre l’orizzonte spinoziano quale contenitore, paradossalmente terapeutico, delle patologie teoriche della psicoanalisi. Il presupposto ineliminabile di tale confronto è che la messa in rapporto di Spinoza e la psicoanalisi entro un medesimo campo non avvenga attraverso una generica valorizzazione della tematica del conatus, non abbia luogo cioè attraverso l’iscrizione dell’antropologia spinoziana in una incontrollata esaltazione del desiderio e della potenza. Giacché quello che la psicoanalisi può guadagnare dal confronto con Spinoza si fonda proprio sull’approfondimento e la chiarificazione  –  dunque su una definizione quanto più possibile esplicita  –  di cosa sia, e cosa significhi, «desiderio» nell’intreccio con il tema e la questione decisiva dell’individuazione. Ma consideriamo alcuni passi che sono contenuti nel secondo libro dell’Etica, e particolarmente in quella sezione conosciuta dai frequentatori di Spinoza come Trattatello di fisica: Eth II, Prop. X: Ad essentiam hominis non pertinet esse substantiae, sive substantia formam hominis non constituit3. 2   Su questo tema cfr. F. Toto, L’individualità dei corpi. Percorsi nell’Etica di Spinoza, Milano-Udine, Mimesis, 2014. 3  «All’essenza dell’uomo non appartiene l’essere della sostanza, ossia la sostanza non costituisce la forma dell’uomo», B. Spinoza, Etica, edizione critica del testo latino e tr. it. a cura di P. Cristofolini, Pisa, Ets, 2010, pp. 86 sgg.

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Eth II, Prop. XIII, Lem. 1: Corpora ratione motus et quietis; celeritatis et tarditatis, et non ratione substantiae ab invicem distinguuntur4. Eth II, Prop. XIII, Lem. 3, def.: Cum corpora aliquot ejusdem, aut diversae magnitudinis a reliquis ita coercentur, ut invicem incumbant, vel si eodem, aut diversis celeritatis gradibus moventur, ut motus suos invicem certa quadam ratione communicent, illa corpora invicem unita dicemus et omnia simul unum corpus, sive Individuum componere, quod a reliquis per hanc corporum unionem distinguitur5.

Questi luoghi del Trattatello di fisica – così chiamato perché il luogo più esteso dell’intera sua opera in cui Spinoza tratta approfonditamente della costituzione dei corpi (umani e non umani)  –  escludono chiaramente una natura sostanziale dell’individuo. La singolarità, l’irripetibilità di un individuo, la sua impossibilità di confondersi con un altro, consistono in un determinato rapporto di rapporti, in una regola di scambio e di comunicazione di rapporti tra quiete e movimento: ovvero in una ratio specifica (certa quaedam ratio) che lega e sintetizza tra loro i plurimi individui diversae naturae che compongono il corpo complesso e, tra i corpi complessi, specificamente, il corpo umano. Ogni corpo complesso può essere identificato e definito infatti da una frazione, che pone in rapporto una certa quota di movimento con una certa quota di quiete. Ma quella frazione è a sua volta funzione delle numerosissime frazioni di moto e quiete che a loro volta definiscono le molte individualità, i plurimi individui diversae naturae, che compongono l’individuo. Di conseguenza l’individuo non è sostanza perché, per usare l’espressione del Cassirer di Substanzbegriff und Funktionsbegriff, è una «funzione», vale a dire una proporzione: nel senso di costituire un insieme che tollera una variazione di volume o quiete e/o una diminuzione/aumento di velocità in ogni singolo componente, purché quella variazione sia compensata da una variazione in senso opposto negli altri componenti. L’individuo va cioè concepito come una societas nella quale la norma costituzionale fondamentale è data dalla continua variazione proporzionale 4  «I corpi si distinguono tra loro in ragione del movimento e della quiete, della velocità e della lentezza, e non in ragione della sostanza», ibidem. 5   «Quando un certo numero di corpi della stessa o di diversa grandezza subisce dagli altri una pressione tale che essi si debbano addossare gli uni agli altri, oppure se si muovono allo stesso o a diversi gradi di velocità in modo tale da trasmettersi reciprocamente il movimento secondo una certa regolarità (certa quaedam ratio), diremo che quei corpi sono uniti tra loro e che tutti assieme compongono un solo corpo o individuo, il quale si distingue da tutti gli altri in virtù di questa unione di corpi», ibidem.

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dei molti uno: a patto di mantenere l’invarianza della costante che regola la comunicazione e lo scambio dei movimenti reciproci nel loro complesso. Come ha ben indicato quel grande studioso spinozista che è André Matheron, l’individualità di ciascun corpo, composto da una molteplicità di individui, può essere indicata secondo la formula matematica: + mⁿ v ⁿ m₁ v₁ + m ₂ v₂… ------------------------------------------------------------------------ = K +mⁿ m₁ +m₂… dove m sta per massa, ammettendo che la quantità della massa è funzione della quiete, v sta per movimento, e K individua e definisce la costante delle loro variazioni possibili, corrispondente appunto alla certa quaedam ratio di Spinoza6. La peculiarità di una tale costituzione è di avere un alto grado di elasticità. Sia nel senso fisiologico e ottimale, appena detto, che, data la costanza della sua ratio, una elevazione o diminuzione del rapporto tra velocità e quiete di un singolo componente, o di un gruppo di componenti (per esempio la maggiore eccitazione o velocizzazione di una parte del corpo) viene compensata dalla modificazione in senso inverso di altri componenti, che patiscono, per esempio, una minore attivazione e investimento. Sia nel senso, più patologico e asimmetrico, di un investimento così troppo univocamente concentrato su una o poche componenti da generare uno scompenso generale che allontana quel corpo dalla sua ratio ottimale, ma non in modo tale da condurlo a un’alterazione radicale della sua individualità. E ancora, infine, nel senso di un’invarianza della costante, della ratio, che viene comunque mantenuta, ma al ribasso, cioè attraverso un abbassamento generalizzato della quota di attivazione vitale di ciascuna componente. È secondo tali variazioni, rispetto al permanere o meno della costante costituzionale di ciascuna individualità corporea, che si spiega, materialisticamente, per Spinoza il trascorrere della vita da laetitia a tristitia e viceversa. Gioia o tristezza si danno a seconda che ci si avvicini o ci si allontani da quella costituzione data: questo è il fondamento, il principio, e, insieme, il fine, lo scopo, di ogni corpo vivente. Mai forse effettivamente 6   Cfr. A. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, Paris, Édition de Minuit, 19882, pp. 40 sgg.

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realizzato perché in genere il prevalere delle forze e dell’ambiente esterno impedisce il compiuto darsi della sua simmetria. Ma comunque ordine e meta costitutiva del vivere, iscritta com’è, con la sua configurazione irripetibile, nella potenzialità biologica di ogni corpo vivente. Qui dunque sta per Spinoza il divenire nel permanere. Ogni essere vivente nasce – per la sua storia precedente, potremmo aggiungere noi, socio-biologica – con una potenzialità data di realizzazione corporea. Sta al divenire della sua storia e del suo progetto di vita quanto e come realizzarla: quanto cioè portare a investimento e azione tutte le sue componenti, definite e relazionate secondo quello schema, o, viceversa, precipitare nella tristitia e in tutti i suoi affetti derivati, quando componenti fondamentali di quell’insieme vengano mortificate o represse. Vale a dire che la riproduzione dell’omeostasi può essere realizzata secondo una scala di diversi gradienti energetici. Ossia la stessa omeostasi, ammettendo gradi diversi di velocizzazione o meno della varie componenti di un corpo, può essere realizzata a gradi più bassi o invece più alti d’investimento energetico dei suoi componenti. Ed è proprio tale elasticità della ratio che consente la variazione del conatus nel suo trascorrere da tristitia a laetitia, percorrendo i diversi gradi della sua potenza o, viceversa, della sua impotenza. Né è un caso che proprio qui emerga la profonda differenza tra il conatus spinoziano e il conatus hobbesiano, al di là delle profonde analogie e dell’indubbia influenza che l’opera del filosofo anglosassone ha avuto, proprio riguardo al tema del conatus, sul pensiero di Spinoza. Perché il conatus di Spinoza ha a che fare con la riproduzione di una ratio che è relazione di molteplici relazioni, con la riproduzione di un corpo cioè che è intrinsecamente sociale e comunitario, in quanto «composto da moltissimi individui (di diversa natura), ognuno dei quali è assai composito»7, e in cui dunque la riproduzione si dà come sintesi di un molteplice complesso e assai differenziato. Vale a dire che in Spinoza proprio la complessità differenziata del corpo umano, che pure è garanzia di un possibile rapporto, non mono-, ma multi-culturale con il mondo esterno, è nello stesso tempo, proprio per la sua molteplicità, occasione di asimmetria e di estremizzazione, quale possibile dominio di un individuo o di pochi individui su tutti gli altri componenti lo stesso corpo. Il corpo spinoziano infatti, essendo sintesi di un molteplice, è unità che costantemente deve affermare la sua disposizione simmetrica sulla  B. Spinoza, Etica, tr. it. a cura di P. Cristofolini, II, Prop. XIII, Postul. I, p. 99.

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possibilità asimmetrica dei suoi membri, societas armonica che costantemente può dar luogo a una guerra civile e a una societas asimmetrica. Ma non sembra appunto che il conatus di Hobbes sia capace d’implicare la complessità di una simile societas interior, volto com’è ad affermare invece la semplicità di una pulsione biologica all’autoconservazione che ammette al massimo la distinzione tra «movimento vitale» e «movimento animale». Come scrive Hobbes nel Leviatano: Esistono due tipi di moto propri degli animali. Uno, quello vitale cominciato con la generazione dell’essere, continua ininterrottamente durante tutta la vita, e tale è costituito dalla circolazione del sangue, dal battito del polso, dalla digestione, dall’assimilazione, dall’escrezione… per le cui attività non occorre immaginazione. L’altro è il moto animale chiamato anche moto volontario, come il camminare, il parlare, il muovere qualcuna delle nostre membra nel modo in precedenza stabilito dall’attività spirituale8.

La prima tipologia di movimento è uguale per tutti i corpi e dev’essere riprodotta costantemente affinché si dia vita. Laddove il secondo, che è strumento della riproduzione del primo, varia a seconda delle cose del  mondo esterno che incontriamo e vediamo e che generano l’attività del conatus, distinta nei due movimenti animali fondamentali: quello del desiderio, se l’oggetto in questione è ritenuto utile alla riproduzione biologica, quello dell’avversione se, all’opposto, l’oggetto è immaginato biologicamente dannoso. Produzione biologica e prassi spirituale, movimento involontario e movimento volontario, moto vitale e moto animale, rimangono così in Hobbes l’uno esterno all’altro, l’uno mezzo e strumento dell’altro: il primo immutevole e universale per gran parte degli esseri viventi, movimento della pura e nuda vita, il secondo variabile e particolare a seconda dell’ambiente, delle circostanze e dell’agire interno e soggettivo dell’immaginazione, ma destinato ad alimentare il meccanicismo materialistico e riproduttivo del primo. Non dunque perché nell’antropologia di Hobbes non si diano affetti e passioni, come quelle della gloria e dell’onore, o della gelosia e della vendetta, che non possono non implicare una relazione e un confronto sociale e intersoggettivo tra più individui9. Ma perchè tali passioni appaiono essere solo prolungamenti e conferme di  T. Hobbes, Il Leviatano, tr. it. a cura di R. Giammanco, vol. I, Torino, Utet, 1965, pp. 84-85. 9   Cfr. F. Toto, Hobbes e il riconoscimento. Antropologia, morale, politica, “Consecutio rerum”, vol. 1, n. 2, 2017. 8

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quella passione primaria ed elementare consistente nella permanenza vitale del soggetto, nella sua capacità di continuare a durare e a vivere il più a lungo possibile. Per voler dire insomma che di fronte alla conservazione della pura biologicità della vita e dell’affermazione dell’individualità che essa comporta – di fronte a tale egoismo biologico e al bisogno di sicurezza che trascina – i sentimenti di gioia e di piacere finiscono coll’essere aspetti e modalità pressoché secondarie. A testimonianza di quanto sia difficile in un pensatore, pure profondissimo come Hobbes, riuscire a connettere in modo unitario animalità e umanità, individualità naturale e individualità socio-culturale. Il conatus, la pulsione all’autoconservazione, sembra pertanto permanere e coniugarsi in Hobbes in un orizzonte d’identità10. Il materialismo biologico di un corpo, fondamentalmente eguale per tutti, comanda e dà senso, nella sua iterazione senza differenze, alla multiformità del mondo storico-culturale. Ed è proprio per tale costituzione corporea, per tutti identica, che la condizione originaria, naturale e prestatuale, dell’essere umano può essere «uno stato di guerra di ciascuno contro l’altro»11. Giacché una compresenza di molti uno, di individualità tutte eguali, senza differenza alcuna tra loro, genera, non attrazione e relazione, quanto invece uno stato permanente di conflitto, di reciproca concorrenza e repulsione. Così, esposte a questo tipo di considerazioni, la distanza e le implicazioni antropologiche tra il conatus/desiderio di Hobbes e il conatus/ desiderio di Spinoza appaiono profonde e radicali. Giacché il conatus spinoziano, all’opposto di quello hobbesiano, si mostra carico di individualizzazione e differenziazione, funzione e luogo di sintesi, per ogni individuo diversi, del proprio molteplice corporeo. Ciò che è preminente infatti nella teoria spinoziana dei corpi è la loro nota costitutiva di differenza, anziché di identità: il fatto cioè che ogni corpo è caratterizzato da una legge di sintesi, da una ratio corporis, assolutamente individualizzata e non riducibile a quella degli altri. Individuazione, che è l’esito e il risultato dell’elevatissimo numero di componenti che entrano a far parte del 10  Cfr. A.M. Matheron, Individu et communauté chez Spinoza cit., pp. 86-90. Ma sull’influenza, per altri versi, profondamente positiva del principio hobbesiano del conatus, nel passaggio del pensiero di Spinoza da una iniziale concezione intellettualistica dei criteri del Bene e del Male a una definizione dei medesimi a partire da criteri affettivi, cfr. il saggio, già citato, di E. Scribano, La conoscenza del Bene e del Male. Dal Breve trattato all’Etica.

 T. Hobbes, Il Leviatano cit., p. 163.

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corredo biologico di un corpo e, conseguentemente, dell’estremo grado di variazione delle loro possibili combinazioni. Perché è appunto la crescita esponenziale del numero delle varianti – o «individui» come vengono definiti nell’Etica – all’interno di un singolo corpo individuale a distinguere per Spinoza il corpo umano dal corpo animale. Tanto meno semplice il corpo in questione tanto più capace di coincidere con la complessità e l’enorme articolazione del corpo umano e, nell’ambito di tale complessità, in grado di ammettere una vastissima possibilità di combinazioni individuanti. Anche perché, come si diceva, è proprio il fatto che il corpo umano è composto di moltissimi individui, eterogenei tra loro, e ciascuno dei quali a sua volta è composto di molti individui, che consente di dire a Spinoza che la capacità dell’essere umano di relativizzare una passione e di non esserne dominati – relativizzare cioè l’eccitazione di una sola componente del corpo – è legata alla considerazione e alla messa in valore di tutte le altre componenti della stessa corporeità. Vale a dire che è la costituzione multiforme dell’essere umano, già nella sua corporeità, composta di moltissimi individui, a formare la base materialistica della sua intelligenza, come capacità di superare la rigidità dello stimolo/risposta del mondo animale e di relativizzare l’immediatezza della pulsione nella rete multiculturale del suo organismo. Il conatus/desiderio di Spinoza, nella sua profonda distanza da quello hobbesiano, è dunque principio biologico già intrinsecamente antropologico, giacché connette insieme complessità e articolazione organico-biologica con individuazione e differenziazione antropologica, riscrivendo il materialismo di Hobbes, privo di una teoria multiforme dell’essere umano, nel verso di un materialismo antropologico, capace di muovere dalla concretezza dei corpi ma senza rinunciare a includere in quella realtà la peculiarità dell’esistenza e dell’individualità umana rispetto a quella naturalistico-animale. Da tale diversa ispirazione e meditazione sul concetto di conatus non poteva, per altro, che conseguirne problematiche filosofico-politiche profondamente diverse tra i due autori, anche se non casualmente accomunate dall’essere entrambe condannate nel 1674 dalla chiesa. La prima, quella del Leviathan di Hobbes, risolventesi in una concezione dispotico-autoritaria dello Stato, la seconda, quella del Tractatus theologico-politicus di Spinoza, concludente invece in una concezione democratica di uno Stato volta a garantire pienamente la libertà di pensiero e, in primo luogo, di parola, e insieme animata dalla compartecipazione collettiva alla difesa dei diritti eguali di ciascuno. Ma appunto

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conseguenze coerenti, entrambe le due impostazioni politiche, delle diverse antropologie del conatus: quella hobbesiana fondata sull’identità repulsiva dei molti identici uno, con l’obbligo, per mantenere la coesione sociale, di depositare ogni forza e autorità nell’Uno, ulteriore e senza dipendenza alcuna dai molti uno; quella spinoziana fondata sull’individualità singolare e differenziata dei corpi e delle menti, irriducibili nella loro moltitudine al comando di un Uno, a essi astratto e superiore. Anche perché, proprio in quanto il conatus spinoziano concerne individualità tra loro diverse e irriducibili, esso è per il filosofo olandese in grado di farsi principio organizzatore di una societas, oltre che interiore, anche esteriore. Vale a dire che è sia principio antropologico d’individuazione sia principio etico-politico di socializzazione. I diversi soggetti umani infatti si riconoscono reciprocamente e cooperano attraverso le proprietà comuni della loro esperienza emozionale-corporea, che appunto li accomuna: ma senza cedere nello stesso tempo, a ragione delle proprietà che invece li differenziano, a nessun possibile comunitarismo fusionale e indifferenziato. Essi sono in grado, attraverso il legame con l’altro/i, nell’intreccio e nella sovrapposizione degli aspetti comuni della loro esistenza, di aumentare il loro conatus e la loro potenza di vita. Sono così in grado di trasformare maggiormente il patire nell’agire, quanto a capacità, non di subire la forma delle emozioni ma di trasformarne l’energia in una trasformazione creativa e fattiva del loro mondo-ambiente. Ma senza rinunciare alla forza e alla gioia vitale dell’amor sui e della propria irripetibile individualità. Con quanto fin qui detto non si vuole in alcun modo sminuire l’influenza che il materialismo e il meccanicismo di Hobbes hanno avuto sul pensiero di Spinoza. La riflessione sul conatus hobbesiano, quale essenza fondamentale dell’umano volto all’autoconservazione sta infatti, come ha avuto modo di scrivere egregiamente rispetto a ciò Emanuela Scribano, alla base dell’evoluzione dell’etica di Spinoza da una fondazione intellettualistica dell’etica al concepimento di un’etica degli affetti: di un’etica istituita cioè, non sul conoscere, ma sul sentire. Nel Breve trattato Spinoza antepone ancora il pensiero al desiderio e alla volontà. Seguendo l’ispirazione intellettualistica che ha governato buona parte dell’etica antica, bene e male sono oggetti di discernimento e di ragionamento intellettivo ed è appunto il giudizio conoscitivo che vale a coglierli, distinguendoli, e a proporli, di conseguenza, come scopi d’azione al desiderio e all’agire pratico, «il desiderio è quell’inclinazione che la mente ha verso qualcosa che stima come buono; ne segue che prima che il nostro desiderio si diriga esteriormente verso qualcosa,

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noi abbiamo già concluso che tale cosa è buona»12. Nell’Etica invece l’argomentazione si capovolge. Non è il giudizio teoretico su ciò che sia il bene e su ciò che sia il male a condizionare e a guidare il nostro desiderio, bensì, viceversa, sono gli oggetti, le cose, del nostro desiderio e attrazione, come quelli della nostra repulsione  –  ossia i termini del nostro sentire – a dire alla nostra consapevolezza cosa sia bene e cosa sia male. È la forza dunque di ciò che muove la nostra attrazione o, viceversa, la nostra repulsione – la forza cioè del sentimento – che ci dice cosa sia il bene e cosa sia il male. Conseguentemente è bene ciò che produce gioia, che genera un accrescimento della nostra potenza di vita e di azione. «La conoscenza del bene è coscienza della gioia» scrive Spinoza, e la gioia viene definita, come abbiamo già visto, un passare da una perfezione minore a una maggiore. Accrescimento di perfezione da considerare sempre in riferimento alla legge originaria che identifica la nostra individuale e personalissima ratio corporis e che deve essere considerato come la possibilità di accedere all’investimento di quanti più possibili individui della nostra individualità, senza lasciarli cadere nella passività o nell’atrofia. È ora il sentire dunque il criterio che per Spinoza guida il conoscere, è il desiderio che guida il giudizio. «La conoscenza del bene e del male non è altro che un moto di gioia o di tristezza, in quanto ne siamo consapevoli»13. Ma, ancor più, ciò che deriva da questa genealogia dei valori morali a partire dagli affetti di laetitia e tristitia è la confutazione di una volontà umana come pretesa facoltà autonoma di dare inizio a un processo di azione. Non c’è libertà in questo senso per Spinoza nell’essere umano, se per libertà s’intende una volontà che, sciolta dal sentire, si pretende facoltà autonoma e responsabile di scelta. Il determinismo spinoziano su questo luogo fondamentale è senza dubbio alcuno, al pari del materialismo di Hobbes. «Questa tensione [conatus], quando si riferisce alla sola mente, si chiama volontà; ma quando si riferisce simultaneamente alla mente e al corpo, si chiama voglia [Appetitus]»14. La volontà è la trascrizione nei termini della sola coscienza mentale (tanto da poter generare l’apparenza di una facoltà autonoma) di un’appetizione che muove 12  B. Spinoza, Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, in Id., Opere, vol. II, a cura di F. Mignini, Milano, Mondadori, 2007, p. 161. 13

 B. Spinoza, Etica, tr. it. a cura di P. Cristofolini cit., IV, Prop. VIII, p. 247.

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  Ivi, III, Prop. IX, scolio, p. 159.

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dal corpo emozionale e dalla sua necessità di autoconservazione, per cui il desiderio è null’altro che l’appetito di cui siamo consapevoli. Come ben scrive Scribano: «Lo sforzo di perseguire quel che produce gioia, è un dato primitivo, non deriva da nient’altro, perché esprime la natura della mente, e le azioni che vengono chiamate volontarie non sono altro che espressioni di questo sforzo»15. Ed è appunto la critica presente nell’Etica a ogni etica che pretenda di istituirsi su presunte e inconcepibili autonomie dell’intelletto e della volontà, la critica radicale di ogni intellettualismo e volontarismo etico, a far dire a Spinoza che le passioni e gli affetti non possono essere vinte e domate da nessun atto conoscitivo, da nessun appello ad astratti ragionamenti e a forzature volontaristiche, ma solo dalla forza maggiore di altre passioni e di altri affetti. «La vera conoscenza del bene e del male non può coartare alcun moto dell’animo [affectum] in quanto vera, ma solo in quanto la si considera come un moto dell’animo»16. Non c’è alcun potere intrinseco della verità sulle emozioni, del concetto sull’affetto, del conoscere sul sentire. Giacché sugli affetti possono agire solo altri affetti, capaci di generare una maggiore gioia e una maggiore potenza di conatus: «Un moto dell’animo non può essere dominato, né eliminato, se non per mezzo di un moto dell’animo contrario e più forte del moto dell’animo da dominare»17. Ovviamente non perché il conoscere non sia fondamentale per la maturazione della vita umana nella filosofia di Spinoza. Non perché in essa vi sia la benché minima concessione all’irrazionalismo quale supposta valorizzazione dell’immediatezza della passione e del desiderio su ogni processo di mediazione ed elaborazione riflessiva. Ben lungi da ciò tutta l’Etica spinoziana è volta a sottrarre la mente umana alla pervasività e al dominio delle idee inadeguate, per procurare un sapere fatto di idee adeguate e coerenti tra loro. Ma per il parallelismo tra mente e corpo che connota l’antropologia di Spinoza – ossia per il fatto che nei termini della sua filosofia mente e corpo sono due attributi di una medesima sostanza e non, come in Descartes, due sostanze autonome ed eterogenee tra loro – si ha appunto conoscenza vera e adeguata quando non una sola parte, o individuo, del corpo viene eccitata e appassionata dal modo esterno ma quando un’eccitazione multiculturale del corpo, una 15  E. Scribano, La conoscenza del bene e del male. Dal Breve trattato all’Etica, “Consecutio rerum”, n. 2, febbraio 2012, www.consecutio.org.

 B. Spinoza, Etica, tr. it. a cura di P. Cristofolini cit., IV, Prop. XV, p. 253.

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  Ivi, IV, Prop. VII, p. 244.

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sua esposizione a più diversificati luoghi e ambienti della realtà esterna, consente alla mente, anziché di pensare e fissare una sola idea, di allargare lo sguardo a una maggiore molteplicità e ricchezza di idee tra loro in relazione. Nel senso cioè che v’è una gioia intrinseca al conoscere, nel passare da idea inadeguata a idea adeguata, che non può non rimandare ed essere parallela al darsi di una gioia del corpo che passa, nel medesimo processo, dal patire e subire una passione univoca e unilaterale all’agire di una corporeità vissuta e vitalizzata in modo multiforme e plurale. Dove appunto, di contro a un sapere disincarnato e anaffettivo, la connessione tra conoscere e sentire è strettissima. Si potrebbe aggiungere nel senso di una concordanza tra la lex corporis d’ognuno e i vari gradi delle legalità conoscitive che la mente di quel soggetto riesce a raggiungere. È infatti in tal senso che la lex corporis si reduplica e si riconosce, attraverso proiezioni dei segmenti di sé, negli universali, nelle leges concepti del conoscere, per cui si può affermare, come teorizza la proposizione VII, parte II, dell’Etica, che «Ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum». Il conoscere si basa su appartenenze e riconoscimenti: dalle somiglianze e dalle comunità più prossime a quelle, più universali, estensibili all’intero genere umano, fino a quelle ancora più universali delle scienze della natura e delle scienze matematiche: secondo moduli di appartenenza e riconoscimento materialistico-corporei assai lontani dalle facili analogie di microcosmo e macrocosmo. Dunque nessuna esaltazione dell’irrazionalismo e del sentimentalismo nell’Etica spinoziana ma un’antropologia del parallelismo corpomente che conduce il filosofo di Amsterdam a dire che nel conoscere della mente oggetto fondamentale del conoscere è il corpo, sia nei limiti della conoscenza immaginativa sia della conoscenza razionale. Che Spinoza sia stato fortemente influenzato nell’evoluzione del suo pensiero dalla teoria del conatus di Hobbes e della sua filosofia materialistica istituita sull’autoconservazione è assai verosimile. Anche perché l’influenza di Hobbes testimonia assai bene quanto l’opera di Spinoza sia uno dei luoghi più elevati, se non il più elevato, della cultura europea del Seicento, pari all’egemonia economica e civile che in quello stesso periodo stava esercitando sulla scena mondiale l’Olanda. Ma l’elaborazione che Spinoza compie del conatus di Hobbes appare, come abbiamo provato a dire, profondamente originale e ricca di svolgimenti futuri.

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2. Il desiderio come legge a se stesso Ma, dunque, come ci si domandava all’inizio, in quale senso tale concezione spinoziana dell’individuo come corpo complesso e del conatus come suo principio organizzatore può giovare, può arricchire la psicoanalisi: specificamente nel senso di scioglierne alcune aporie e alcune estremizzazioni fondative? È in primo luogo rispetto alla intricata e insidiosa elaborazione che Lacan ha fatto della psicoanalisi che, a mio avviso, l’onto-antropologia di Spinoza ci può essere d’aiuto. Soprattutto, credo che essa possa giovare rispetto alle rigidità dei dualismi che l’opera di Lacan ha voluto generare tra linguaggio e corpo biologico, tra desiderio e bisogno, tra cultura e natura, tra petits objects a e grand Autre, seguendo forse troppo dappresso la lezione di Kojève e proponendo una teoria dell’essere umano strutturalmente scissa, divisa in due: tra la mancanza a essere, la negatività, il non-essere del corpo biologico da un lato – sempre inteso negativamente come corpo in frammenti o come pulsione di morte, quale tendenza a morire, a ritornare, a perdersi nel grande corpo materno – e, dall’altro, l’identità culturale del Moi, prima immaginaria attraverso l’identificazione con l’immagine dell’Altro e poi simbolica attraverso l’introiezione delle leggi della cultura e l’interdetto del Nome del Padre. Com’è noto, l’identificazione umana si gioca per Lacan nell’intervallo tra assenza e presenza, tra l’assenza a essere propria del biologico che genera perennemente una domanda irrisolvibile di riconoscimento e le risposte identificanti ma sempre improprie che caratterizzano l’immaginario degli specchi e delle superfici non meno del simbolico dell’Ideale dell’Io, con la sua adesione a costumi e pratiche linguistiche date e presupposte. L’individuazione umana è cioè per Lacan un processo scandito da un’inesauribile alternanza: alternanza tra un meno di essere e un più di essere, tra un meno d’identità e un surplus di identità. Perché, ovviamente, l’identità che esiste a partire dall’altro è sempre e inevitabilmente eccedente, fuori misura rispetto al soggetto in questione – un surplus appunto che destabilizza – sia che derivi dall’alterità dell’immaginario, o che derivi dall’alterità della legge culturale e dal Nome del Padre. Con la differenza essenziale che per lo psicoanalista francese si dà tra l’identificazione immaginaria e l’identificazione simbolica: perché l’adesione immediata del soggetto all’immagine speculare di un doppio in cui precipita non consentirebbe quella consapevolezza di sé come soggetto perennemente in costruzione e mai riducibile a identità che invece sarebbe generata dal rispecchiamento in un Ideale per definizione

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irraggiungibile, ma comunque in grado di sospendere il soggetto nell’autenticità della non definizione, e dunque nell’apertura mai concludibile del suo desiderare. La pretesa originalità del lacanismo rispetto alla matrice biologica e materialistica della psicoanalisi di Freud appare dunque fondarsi su un radicale presupposto ideologico: cioè che il corpo non sia, in quanto corpo pulsionale ed emozionale, il luogo del senso, bensì il luogo del Nulla, di un buco nero che genera e alimenta continuamente un’assoluta mancanza di senso. Dove, come dovrebbe essere ben evidente, ciò che connota il pensiero lacaniano fin dalla sua origine è la sua iscrizione in un filone classico della cultura francese, d’ispirazione cartesiana, pronta per la raffinatezza della costruzione intellettualistica a scindere la res cogitans dalla res extensa e a ridurre la materialità corporea, priva di forze autonome, a semplice occasione e strumento dell’artefatto mentalistico e culturale. Senza ovviamente dimenticare l’influenza profonda dell’heideggerismo, con la sua predilezione di un Essere per la morte di fronte a un Essere per la vita, e quella del nichilismo russo che, attraverso Kojève, giunge nella prima metà del Novecento dalla metafisica del Nulla di Soloviev18. Ma, rispetto a tutto ciò, non va invece obiettato che è proprio tutta l’etica di Spinoza che ci esorta propriamente a non aver bisogno alcuno del Nome del Padre e del rinvio di questa costellazione simbolica, oltre che all’autorità dell’Edipo, al potere intimidatorio delle religioni monoteistiche? Il Trattatello di Fisica non ci dice infatti che, ben prima di una legge positiva, di cultura, è una legge di natura, una ratio del corpo, una proporzione numerica tra i molti individui che lo compongono, a costituire il principio ontologico e insieme il valore assiologico che definisce e rende chiaro il paradigma del nostro vivere? Non è proprio quella ratio corporea ed emozionale, nella sua simmetria e nelle sue asimmetrie, nella sua fisiologia e nelle sue patologie, a costituire il criterio, ultimo e primo, della distinzione tra bene e male? Aver bisogno del Nome del Padre significa negare, se interpretiamo correttamente Spinoza, la costituzione intrinseca del conatus, quale desiderio che trova la sua legge e il suo ordine, non in altro da sé, ma in se medesimo. Per Spinoza il conatus, il desiderio, non ha bisogno di configurazioni, limitazioni, repressioni imposte dall’esterno perché è legge a se 18   Sulla formazione e il percorso filosofico di Kojève cfr. D. Auffret, Alexandre Kojève. La philosophie, l’Etat, la fin de l’Histoire, Paris, Bernard Grasset, 1990.

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stesso. Ed è legge a se stesso ovviamente anche quando e perlopiù quella legge di proporzionalità vive ai livelli più bassi e meno intensi di scambi e di comunicabilità tra gli individui che compongono l’organismo. Perché la disattesa di quella regola di scambio e di comunicazione comporta immediatamente come pena tutti i gradi e le patologie possibili della tristitia e della passività. La potenza coattiva della legge è fin dall’inizio interiore e la distribuzione delle sue condanne e delle sue pene, come dei suoi premi e delle sue giubilazioni, sta nel trascorrere della vita affettiva da tristitia a laetitia19. Del resto il rifiuto di una pulsione di morte e di autodistruzione, come afferma la proposizione IV della parte terza dell’Etica («Nessuna cosa può essere distrutta se non da una causa esterna») e la natura positiva del conatus come «sforzo di perseverare nel proprio essere» ci dicono che la memoria del futuro che Spinoza ha lasciato in eredità alla psicoanalisi ben esortava a non fare del Nulla un principio, un vettore originario di costruzione di realtà: a non assumere cioè la mancanza a essere come natura originaria e universale dell’essere umano. Com’è avvenuto, secondo quanto si diceva, per una tradizione nichilistica contemporanea che neppure ha voluto intendere il nichilismo, à la Nietzsche, come transvalutazione di tutti i valori per l’affermazione di una individualità umana fortemente corporea20, quanto piuttosto come il convincimento originario e fondativo che il Non-essere, il Nulla, o, in altre parole, la differenza ontologica, possano essere costruttrici di realtà. Come se Spinoza non ci avesse già ammonito – con il rifiuto di un «Non essere» originario – da un ritorno a Parmenide. Come se non ci avesse cioè anticipatamente salvaguardato dal tornare a volgere lo sguardo verso il volto di un’antica Medusa che aveva sedotto mentalità ancora arcaiche con i miti ontologici dell’Essere e del Non-essere, e che aveva dato inizio alla filosofia occidentale con una modalità teorica succube ancora di un uso magico del linguaggio, prodigo nello scambiare significanti linguistici per forze e potenze ontologiche.

19   In un ordine del discorso diverso dal nostro, a questo proposito si rinvia al testo di P.  Godani, Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo, Roma, DeriveApprodi, 2014. 20 Una delle migliori trattazioni del corpo come luogo originario del senso in Nietzsche si trova in D. Frank, Nietzsche e l’ombra di Dio, tr. it. a cura di P. Doriano, Roma, Lithos, 2002.

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3. Al di là della pulsione di morte Ma la memoria del futuro di Spinoza, a mio avviso, ha effetti ancora più penetranti e critici sulla psicoanalisi. Il conatus di un corpo composto «ex plurimis (diversae naturae) individuis, quorum unumquodque valde compositum est», proprio a causa di tale sua multiforme socializzazione interna, è, come si è detto, in una relazione di comunicazione e di continuità vitale con la società del mondo esterno, con i molti corpi cui attingere per rigenerarsi e mantenere elevata la sua forza di azione. «Corpus humanum indiget, ut conservetur, plurimis aliis corporibus, a quibus continuo quasi regeneratur»21. Cosicché individuazione e socializzazione in Spinoza non appaiono polarità discordanti. La relazione con l’altro, nella misura in cui questi «si accorda con la nostra natura», aumenta il conatus e sembra «far quasi dire a tutti che l’uomo è Dio per l’uomo»22. Ora, a muovere da tale possibile conciliazione tra società interna e società esterna, tra natura e cultura, non si può non guardare con sospetto dubbioso la concezione che Freud ha sviluppato, più da filosofo della storia che non da psicoanalista, nel Disagio della civiltà, ma ancor prima in Totem e tabù. In questi scritti, com’è noto, il maestro viennese ha teorizzato la necessità per l’essere umano di una repressione e di un contenimento della potenza delle passioni a favore di una conservazione e riproduzione della vita sociale, proponendo una teoria dell’incivilimento basata sulla restrizione pulsionale e sulla necessaria diminuzione del grado di felicità. Ma a me sembra che tale filosofia freudiana della storia istituita su una scissione istituzionale, su una discontinuità radicale tra natura e cultura, sia, invero, il sintomo più esplicito delle difficoltà in cui s’è imbarazzato Freud quando ha preteso di superare i limiti della psicoanalisi, come teoria e clinica della cura dell’infrasoggettivo, per estenderla a chiave di volta dell’interpretazione di tutto l’accadere umano e generalizzarla a teoria dell’intersoggettivo, della storia e della società. Laddove una cosa è il rapporto che Freud ha genialmente inaugurato e scoperto tra processo primario e processo secondario quando si svolge all’interno della mente individuale, e un’altra, ben diversa, è l’irrigidimento al quale quella distinzione viene assoggettata quando la si estende all’opposizione tra natura e cultura. 21   «Il corpo umano ha bisogno, per conservarsi, di moltissimi altri corpi, dai quali viene di continuo quasi rigenerato», B. Spinoza, Etica, tr. it. di P. Cristofolini cit., II, Prop. XIII, Post. IV, p. 99. 22

  Ivi, p. 271.

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Nella teoria freudiana dello spazio intrapsichico la genesi e la funzione del processo secondario della coscienza consiste nella realizzazione effettiva della domanda pulsionale, altrimenti obbligata alla deriva patologica di una realizzazione del desiderio solo allucinatoria o alla sua conversione/deformazione nel sintomo. Ed è dunque una teoria del rapporto corpo pulsionale - mente psichica istituita sul nesso passione-azione, quale capacità della mente di farsi carico della propria bisognosità, ossia di assumere la responsabilità del proprio corpo emozionale. Laddove nella filosofia psicoanalitica della storia, il processo secondario si curva secondo una teoria, insieme romantica e nietzschiana, della cultura da intendersi come malattia, che respinge, quale ordine della civilizzazione e della legge, il processo biologico-pulsionale nell’al di là della natura. Dico filosofia della storia, perché quando Freud è voluto passare dallo spazio fecondissimo, ma pure limitato, della psicoanalisi alle teorizzazioni generali sulla storia dell’umanità, io credo che sia stato agito da una volontà imperialistica di reductio ad unum, coll’estensione meccanica delle modalità dell’agire individuale a quelle dell’agire collettivo. Ma appunto già Spinoza ci aveva insegnato che gli affetti sono non solo passioni, bensì anche azioni: sono non solo dipendenza dall’altro, ma anche conferme attive del Sé, che si relazionano al mondo senza rinunciare a sentirlo attraverso l’unisono  –  o come sarebbe meglio dire l’unisòno23  –  del proprio Sé: l’unisòno cioè della legge senza coazione, che lega nella sua proporzione aurea i molteplici individui che danno vita al Sé di ogni individuo. Per dire cioè che la teoria spinoziana del conatus come operare conforme alla propria natura, come agire volto al mantenimento e al potenziamento dell’unio corporis, ci consente forse di guardare ancor meglio la stessa natura del processo pulsionale per Freud. E di criticarne la troppo eccessiva esposizione al modello fisicalistico della scuola di Berlino di Brücke e di Helmoltz. Del cui principio base, la conservazione dell’energia, Freud utilizza la versione del principio d’inerzia, teorizzando l’apparato psichico come volto al mantenimento, al livello più basso possibile, di stimoli e di eccitazione. Per cui il funzionamento dell’apparato psichico, strutturato secondo il modello del cosiddetto arco riflesso, alberga una economia idraulico-quantitativa della pulsione consistente in una tendenza, in un conatus, alla scarica, quanto più rapidamente possibile, di ogni sua possibile tensione. 23   Cfr. in proposito A.M. Sassone, E si trasformò in un orecchio, “Consecutio temporum”, n. 1, 2011, www.consecutio.org.

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Ma appunto, osservando dall’angolo visuale di Spinoza, ciò che ci appare è che il modello idraulico freudiano della carica/scarica sia verosimilmente condizionato da un principio di conservazione dell’energia letto troppo radicalmente come principio d’inerzia e che questa lettura di Freud dell’economia energetica lo abbia poi, quasi inevitabilmente, condotto alla teorizzazione della pulsione di morte, ossia alla teoria della riduzione dell’energia interna a un organismo, fino a riportarlo a una condizione di stato inorganico. Per dire che è già lì, in un certo modo di concepire l’economia della pulsione, che verosimilmente si accende in Freud la fonte del futuro conflitto tra natura e cultura, tra principio di piacere e Nome del Padre, tra pulsione e individuazione. La teoria spinoziana del corpo come unisòno ci invita invece a una diversa economia della pulsione, ossia a stringere insieme economia della pulsione ed economia dell’individuazione e a concepire l’economia libidica non come la titillatio, l’eccitazione, di una singola componente del corpo, ma come una cooperazione/integrazione di un molteplice, da cui siano assenti rapporti di dominio e di soggezione, di sopra- e sotto-valutazione. Ci invita così a leggere la gioia della vita, la laetitia nel suo grado più elevato, come la messa in atto – la messa in azione – di tutte le componenti del corpo, nessuna esclusa, secondo quella regola di armonia e di potenzialità espressiva cui il corpo biologico-storico di ciascuno di noi viene consegnato alla sua nascita. Messa in azione proporzionata cioè di un corpo/mente, per cui il forte sentire di un affetto significhi non contraddizione e scissione con le altre parti e gli altri affetti del Sé, opposizione e dominio di un opposto sull’altro, ma coerenza e coincidenza vitale con tutte le altre parti biologico-emozionali della propria individualità, secondo una specifica e personalissima scala di valori. Per dire che in questa prospettiva a un’economia libidica istituita sulla scarica subentra un’economia libidica fondata sul riconoscimento e sulla valorizzazione, senza dominio e senza violenza, delle composite parti di un Sé, che dipenderebbe, sì, per la riproduzione della propria vita, dalla ricchezza delle relazioni che mantiene con il mondo esterno ma, appunto, senza rinunciare, ogni volta, al riconoscimento e al valore delle relazioni che costituiscono il proprio mondo interno. Derivando da tutto ciò una nuova concezione antropologica della ricchezza, secondo la quale ricchezza non significherebbe tanto manipolazione, accumulazione e consumo di beni e di soggettività altre da noi, quanto invece capacità, introvertita, di sentire e godere del proprio Sé.

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Del resto oggi anche la psicoanalisi sembra partecipare in modo sempre più convinto alla conclusione e all’estenuazione teorica di quell’orizzonte del postmodernismo che ha sedotto e obnubilato le menti dei più almeno nell’ultimo trentennio e la cui chiave di volta si poteva riassumere nella tesi che la tessitura della realtà non fosse altro che composta di trame linguistico-comunicative, che non fosse cioè altro che linguaggio24. Com’è ben noto, alla fine degli anni settanta del secolo scorso era venuta meno, anche per ragioni d’insufficienza teorica, la stagione – come la si è voluta definire con un brutto termine  –  delle ideologie e delle grandi narrazioni. Cosa che rimandava, dicendola in altri termini, alla crisi, rispetto ai problemi di una modernità matura, e all’impasse di quella cultura marxista, che pure per tutto il Novecento aveva esercitato una profonda egemonia, almeno in Europa, sull’intelligenza più radicale. Di qui era derivata, appunto agli inizi degli anni ottanta, una generalizzata trahison des clercs che, anziché approfondire ed elaborare le ragioni di quel drammatico deficit teorico, avevano preferito abbandonare del tutto la Weltanschauung così militarmente frequentata in precedenza e trasferirsi di sana pianta in altri orizzonti teorici fino ad allora condannati all’ingiuria di decadentismo e irrazionalismo. Così, di contro al realismo dell’economico, al privilegio delle categorie sistematiche e totalizzanti, all’uso di moduli e logiche dialettiche, gli intellettuali del postmodernismo hanno opposto l’ermeneutica di un pensiero debole, capace di interpretazioni infinite, data l’inesistenza, ora da tutti conclamata, di ogni possibile referente extralinguistico dell’agire e del sentire umano. A muovere da un pensiero, generato invece secondo una ferrea sistematicità, capace d’includere un’adesione prolungata al nazionalsocialismo, qual è stato quello di Heidegger, si è valorizzata la differenza ontologica contro ogni differenza dialettica e nella differenza inesauribile tra Essere, Esserci ed Ente celebrata e santificata dal pensatore della Foresta Nera si è visto il fondamento di un pensiero che di fronte al disvelarsi sempre ritraentesi dell’Essere ha potuto affermare il darsi, appunto mai definitivo, di un significato, per il suo essere sempre iscritto in protocolli comunicativi, a loro volta inesauribilmente interpretabili secondo ulteriori protocolli linguistici. 24   Per una critica di una psicoanalisi troppo esposta alle tesi di una onnipresenza del linguaggio cfr. il testo dello psicoanalista D. Chianese, Come le pietre e gli alberi, Roma, Alpes, 2015. Ma ancor prima cfr. R. Lombardi, Il corpo nella teoria della mente di W.R. Bion, “Consecutio temporum”, n. 2, 2012, www.consecutio.org.

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Di questa esaltazione mistica e incontrollata del linguaggio ha partecipato in una certa misura, io credo, anche la psicoanalisi in certe sue derive che hanno privilegiato, si vuole sperare più in sede teorica che non in sede di pratica clinica, assai più la dimensione dell’intersoggettività che non quella dell’infrasoggettività. Giungendo a teorizzare che l’esperienza psicoanalitica dovesse risolversi tutta nell’analisi del transfert e del controtrasfert, senza rimandare ad alcun evento passato precedente la relazione, perché questo avrebbe significato rimanere prigionieri di un metodo poliziesco arcaico, alla Freud, volto a ritrovare traumi presuntivamente accaduti nel passato e presuntivamente significativi ed esplicativi prima della relazione analitica. Né a caso di tale impostazione, che rifiutava del tutto ogni prospettiva storicistica e causalistica di contro alla pregnanza significativa e relazionale dell’hic et nunc, si è fatta sostenitrice principe la psicoanalisi ispirata alla scuola lacaniana, per la quale ciò che connota l’oggetto del desiderio psichico è per definizione un oggetto perduto definitivamente: l’oggetto di una perdita originaria e incolmabile, precluso grazie a tutti i dispositivi impedenti delle simbiosi immaginarie e delle leggi simboliche, e, proprio per tale inattingibilità, luogo non di soddisfazione, ma di attrazione permanente e irrisolvibile. Com’è ben noto, la curvatura dominante del lacanismo si è riassunta proprio in questo atteggiamento di dissoluzione di ogni fonte di senso che potesse far riferimento a un’oggettività extralinguistica e che, nell’ambito di questa dimensione del reale senza linguaggio, pretendesse di far valere come centro del significare una materialità biologica e corporea, fatta di scenografie rappresentative e carichi pulsionali, appunto non riducibili alla sola relazionalità intersoggettiva. Di contro a questo scenario, anticorporeo e antimaterialistico, l’Etica di Spinoza vale come baluardo critico, anticipato di tre secoli. Purché, come io mi provo a pensare, l’Etica spinoziana venga interpretata secondo un’analogia profonda con l’estetica, o meglio venga letta proprio come un’estetica. Ma non nel suo significato ristretto di teoria dell’arte e della distinzione del bello dal brutto ma, secondo la valenza originaria del suo etimo, come teoria del sentire/sentirsi. Come cioè teoria di una corporeità che, nella unicità irripetibile di ogni vita umana, codificata com’è nella ratio spinoziana del Trattatello di fisica, faccia valere la proporzionalità tendenzialmente armoniosa delle sue componenti come criterio ultimo del Bene e del Male. Del resto in tale ratio – quale proporzione per ognuno di noi diversa degli infiniti rapporti possibili delle parti di velocità e di quiete che ci

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compongono e che Spinoza pone a base della sua teoria dell’individuazione della sostanza – non è chi non possa non vedere una sorta di resumé archetipico del singolo individuo in questione, nella cui configurazione genetico-biologica si deposita tutta la peculiare catena dei corpi e delle menti di cui quell’individuo è l’esito e il risultato. In una sorta si potrebbe dire, anche qui originalmente anticipata, d’interpretazione dell’archetipo junghiano, che, sottratto a ogni dimensione spiritualistica, sarebbe in grado di essere letto e interpretato alla luce di un nuovo materialismo storico. Per il quale appunto ogni corpo, nato di donna, porta iscritto in sé, alla sua origine, la storia delle catene bio-antropologiche che lo hanno generato e che, come tali, ne costituiscono la base potenziale di attitudini e limiti, svolgimenti e divieti. Qui io credo giaccia per altro la traccia più intensamente spinoziana che sta a base della nascita e della problematica del primo idealismo tedesco, quando l’intensità dell’unione concettuale ed emotiva tra Hölderlin e Hegel impediva al primo di spegnersi nella follia e al secondo d’irrigidirsi nelle trame del sistema. Quando cioè la filosofia degli Stiftler di Tubinga si riconosceva nel bisogno di superare ogni forma di scissione, non solo filosofica, ma anche sociale e civile: di realizzare cioè, paradossalmente, la Rivoluzione francese senza il Terrore. E quando appunto Spinoza veniva riscoperto e assunto come ispiratore di un hen kai pan (un Uno/Tutto), la cui immanenza rimandava non al monismo astratto dell’ὅν (Essere), ma alla pienezza di un ἥν (Uno) consustanziato dalla totalità delle differenze, delle opposizioni e delle individuazioni25. Ma per poter ripartire da qui, dalle premonizioni che il materialismo estetico di Spinoza ci ha offerto e dalla memoria del futuro che la sua antropologia dell’armonia e della non violenza implica, occorre riattraversare, in modo va detto assai rapido, le filosofie che hanno offerto, a mio avviso, una visione fallace e impropria della corporeità, e, superando il loro interdetto, riprendere il problema all’altezza tematica e teorica cui lo scomunicato da ogni religione ce lo ha lasciato.

25   Cfr. V. Waibel, Philosophieren als Weg des Denkens. Anmerkungen zu Spinoza und Fichte mit einem Exkurs zu Hölderlin, in V. Waibel, M. Brinnich (a cura di), Affektenlehre und amor Dei intellectualis. Die Rezeption Spinozas im Deutschen Idealismus, in der Frühromantik und in der Gegenwart, Hamburg, Meiner, 2012, pp. 200-230.

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CAPITOLO QUARTO IL POSTMODERNO COME PROIEZIONE DEL CORPO DI NIETZSCHE

1. Nietzsche come «Naturphilosoph» Dire modernità e dire riconoscimento e valorizzazione della soggettività è, com’è ben noto, tutt’uno. Dire «modernità», nei termini delle sue idee dominanti e dei modi più diffusi del suo autosapersi, significa dire, almeno da Descartes in poi, ma soprattutto con Kant e Hegel, tempo ed epoca della «soggettività»: e della sua centralità nel dare senso e ordine al mondo. Il passaggio dall’antico al moderno, attraverso l’Umanesimo e la Riforma, ha significato, secondo le celebri pagine delle hegeliane Lezioni sulla filosofia della storia, il transito da una civiltà dell’Essere e dell’Oggetto, dell’etica collettiva e della valorizzazione del principio di autorità, a una civiltà che trova il principio di ogni vero nel consenso e nella approvazione della coscienza individuale. Le antropologie di Spinoza e di Freud, oggetto finora del nostro discorso, non hanno condotto a esaurimento e superato tale orizzonte della soggettività. Lo hanno arricchito e approfondito, conducendolo oltre la mente astratta e decorporeizzata. Ma senza travalicarlo e lasciarlo dietro di sé, bensì estendendolo nel verso di una cultura della sintesi e dell’integrazione: nel verso cioè di una dottrina della vita come possibilità di limitare e contenere quanto più possibili scissioni, censure e rimozioni di funzioni e parti del proprio Sé. La cultura postmoderna nasce invece dal superamento e dalla distruzione del valore della soggettività in quanto tale e di ogni dimensione di organizzazione e di sintesi che quella centralità ha sempre portato con sé. Di tale cultura – che nella sua rinuncia a radicalizzare i valori della modernità si atteggia secondo una configurazione neoconservatrice – eroe eponimo e fondatore è stato Nietzsche, e per questo sul corpo di tale autore proveremo ora a soffermarci.

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per un nuovo materialismo

Com’è noto per Nietzsche è il corpo, e certo non la coscienza e il pensiero riflessivo, a essere il luogo primario e fondamentale della vita: non solo di quella biologica, ma anche di quella culturale, scientifica, morale. Giacché il corpo con la sua disposizione costantemente variante di forze, con il suo articolare aristocrazie e subalternità, di volta in volta giudica e interpreta, valuta e sceglie. Ossia il corpo per Nietzsche, prima che un complesso di organi, è un fenomeno intellettuale e morale, che inaugura prospettive, preferenze, valori. È esso che svolge direttamente le funzioni attribuite dalla tradizione filosofica al pensiero e che, per tale incorporarsi del pensiero, non può che lasciare all’Io e alla vita della coscienza una funzione solo secondaria e derivata. Tale dottrina della riduzione dell’intera esperienza umana, attraverso ovviamente passaggi e mediazioni, a vita corporea ha costituito il fulcro dell’innovazione teorica, che molti hanno definito epocale, apportata da Nietzsche nella cultura di fine Ottocento. Qui si vuole provare invece ad argomentare quanto tale riduzionismo sia stato influenzato da una fisica della corporeità che, pur attraversata dalle scienze fisico-biologiche del suo tempo, è stata di fondo concepita ed elaborata secondo un impianto concettuale assai semplificato e monocorde. Parlare della teoria nietzscheana del corpo nel suo confronto con le scienze naturali, con particolare riferimento agli ultimi anni della sua attività (18851889), significa guardare al pensatore di Naumburg da una prospettiva alquanto inconsueta nella storia ormai assai ampia delle sue interpretazioni. Significa certo non sottovalutare il percorso di Nietzsche tra filologia classica, estetica, filosofia e critica della morale, fino a essere l’Immoralista e l’Anticristo per eccellenza, il rovesciatore e il martellatore di tutti i valori, l’inauguratore di una nuova e radicale filosofia del futuro. Ma, insieme a questo lato, imprescindibile della sua opera, di studia humanitatis, ciò che qui interessa considerare è piuttosto il Nietzsche studioso delle scienze naturali, perché anche queste hanno avuto un forte peso nell’elaborazione del suo pensiero e in particolare sulla sua concezione del corpo umano. Lo studio da parte di Nietzsche delle scienze naturali è presente fin dalla sua prima formazione scolastica e universitaria e non lo abbandona per tutto il suo percorso teorico e umano1. L’elenco, assai ampio, dei libri 1  Cfr. l’ormai datato ma sempre utile, A. Mittasch, Friedrich Nietzsche als Naturphilosoph, Stuttgart, Kröner, 1952, soprattutto pp. 102-127; A. Juranville, Physique de Nietzsche, Paris, Denoël-Gonthier, 1973; [Babette] E. Babich, Nietzsche e la scienza. Eroismo del pensiero e seduzione della verità, tr. it. a cura di F. Vimercati, Milano, Cortina, 1996; [Babette] E. Babich, R.S. Cohen, Nietzsche, Epistemology, and Philosophy of Science. Nietzsche and the Sciences II, Dordrecht, Kluver, 1999.

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il postmoderno come materializzazione del corpo di nietzsche

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dedicati ad argomenti scientifici nella sua biblioteca personale testimoniano la profondità e l’articolazione di temi che vanno dal meccanicismo e vitalismo in fisica e in biologia, alla fisiologia e alla chimica, al darwinismo e alla teoria degli atomi, alla critica del materialismo, al primo e al secondo principio della termodinamica2. Del resto già nel 1875 la sorella E. Förster-Nietzsche riferiva che il fratello progettava oltre alla «raccolta di un enorme materiale empirico sulle scienze dell’uomo [Menschenkenntnis]» anche «studi matematici, fisici e di scienze naturali»3. Ed è il caso di citare quanto lo stesso Nietzsche scriveva nel settembre del 1881 a Franz Overbeck: «Detto in confidenza: quel poco, che io sono in grado di leggere con i miei occhi, appartiene ora quasi esclusivamente a studi di fisiologia e di medicina (sui quali io sono stato istruito assai male – e devo ancora così tanto imparare)»4. A partire da questi rapidi cenni è possibile pensare che il concetto nietzscheano di «forza» (Kraft) non possa non essere stato influenzato dal dibattito scientifico che soprattutto in Germania, durante la seconda metà dell’Ottocento si è svolto su questo tema. In tale ambito Otto Caspari, per esempio, i cui testi erano presenti nella biblioteca di Nietzsche, è lo scienziato, che ricollegandosi alla grande tradizione di Leibniz, rifiuta ogni visione meccanicistica della natura e teorizza una concezione dinamica che identifica e risolve la realtà nella forza: Le forze sono il durevole e il permanente [Die Kräfte das Dauernde und Bleibende], per la qual cosa costituiscono l’essenza delle cose [das Wesen der Dinge], laddove gli stati materiali mutano fino a ridursi a stati imponderabili e a un minimo di materia. 2   Vi sono testi fondamentali della storia della scienza, soprattutto tedesca, dell’Ottocento, tra cui: Roger Boscovich, Theoria philosophiae naturalis, Ludwig Büchner, Kraft und Stoff, Otto Caspari, Der Zusammenhang der Dinge, Helmoltz, Über die Erhaltung der Kraft, Ernst Mach, Beiträge zur Analyse der Empfidungen und das Verhältnis des Physischen zum Psychiscen, Robert Mayer, Mechanik der Wärme, Carl W. Nägeli, Mechanisch-physiologiche Theorie der Abstammungslehere. Per l’elenco dei libri scientifici della bibiloteca di Nietzsche si rimanda allo Schriftum zu Nietzschen Naturphilosophie, posto in appendice a A. Mittasch, Friedrich Nietzsche als Naturphilosoph cit., pp. 361‑364. Ma si consideri anche l’elenco dei libri di carattere scientifico che Nietzsche professore a Basilea prende in prestito dalla biblioteca negli anni 1870-1874: Boscovich, Philosophia naturalis, Cantor, Mathematische Beiträge, Funke, Lehrbuch der Physiologie (2 voll.), Helmholtz, Tonempfindungen, Kopp, Geschichte der Chemie (2 voll.), Moedler, Das Wunderbare des Weltalls, Fr. Mohr, Theorie der Bewegung und Kraft, Poiullet, Physik (2 voll.), Zöllner, Natur der Kometen, Zöllner, Enzyklopädie der Physik (vol. 9). 3

 E. Förster-Nietzsche, Der jünge Nietzsche, Leipzig, Kröner, 1912, p. 387.

  Lettera del 20 settembre 1881, in F. Nietzsche, Epistolario (1880-1884), tr. it. di M.L. Pampoloni Fama, M. Carpitella, vol. IV, Milano, Adelphi, 2004, p. xx. 4

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Ogni teoria della natura ha come oggetto la scoperta di forze originarie [ursächlicher Kräfte]5.

Contro il materialismo meccanicistico che teorizza sul movimento, lo scontro e l’urto di corpi inerti, Caspari afferma che ciò che è da rifiutare è il superato e infantile modo di trattare del materialismo, che riduce il cosmo a un ciocco morto di legno e davanti al quale le forze, che qui non costituiscono l’essenza [das Wesen] della materia, ma solo i suoi predicati, ballano come il deus ex machina davanti al suo mondo. La materia non è altro che la somma delle forze, nelle quali essa si risolve [Der Stoff ist nichts als die Summe der Kräfte, in welche sich derselbe auflöst]6.

Ma per quanto riguarda la Kraftlehre di Nietzsche, la sua teoria ontologica della forza, l’influenza determinante sul suo pensiero appare averla avuta, anche secondo la più recente letteratura critica7, quanto a concezione dinamica degli atomi e della materia, l’opera del gesuita R.J. Boscovich, che Nietzsche già studia negli anni 1873-1874. Questi, nelle sue ricerche, aveva teorizzato che gli atomi non possono essere intesi come corpuscoli, come infinitesime porzioni di materia, perché sono dei punti di forza, Kraftpunkte, senza estensione alcuna. Per il gesuita dalmata-romano, i corpi non sono composti da una materia continua o da particelle materiali contigue ma da innumerevoli punti inestesi e indivisibili. Essi si risolvono in forze che, originariamente all’infinito repulsive, diminuiscono la loro repulsività con la diminuzione della distanza tra i punti medesimi, fino a trasformarsi in forze attrattive. Boscovich riduceva la massa dei corpi a relazioni di forze e concepiva tutti i fenomeni del movimento come prodotti dall’azione di energie di attrazione o repulsione. Come prosecutore e diffusore dell’opera newtoniana, riletta alla luce di motivi leibniziani, riduceva tutte le forze newtoniane all’unico principio: della repulsione tra punti atomo a distanze molto piccole tra loro e della repulsione al crescere della distanza8. Alla fine di agosto 5  O. Caspari, Die Zusammenhang der Dinge. Gesammelte philosophische Aufsätze, 1881, citato in A. Mittasch, Friedrich Nietzsche als Naturphilosoph cit., p. 104.

  Ivi, p. 105.   Sul rapporto tra l’opera di R.G. Boscovich e Nietzsche cfr. G. Whitlock, Roger J. Boscovich and Friedrich Nietzsche: a Re-examination, in B. Babich, Nietzsche, Epistemology, and Philosophy of Science: Nietzsche and the Sciences II cit., pp. 187-201. 6 7

8   Roger Joseph Boscovich (Rudier Josef Boskovic) era nato nel 1711 a Ragusa in Dalmazia, per entrare nell’ordine dei gesuiti nel 1744. Di molteplici interessi scientifici ha pubblicato un centinaio di trattati scientifici, per lo più scritti in latino, procurandosi una reputazione accademica e scientifica in tutta Europa. Ha lavorato nel campo dell’astronomia matematica, cercando di stabilire con maggior precisione, la legge della gravitazione universale di Newton.

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del 1883 Nietzsche scriveva a Heinrich: «Allora io ho approfondito la dottrina degli atomi fino agli elementi minimi [Quartanten] del gesuita Boscovich». Questi, continua Nietzsche, «è il primo ad aver dimostrato matematicamente che l’assunzione di punti-atomo solidi [erfüllter] è una ipotesi inutilizzabile dalla scienza più rigorosa della meccanica»9. Ma già in una precedente lettera allo stesso Köselitz, Nietzsche dimostrava di avere una approfondita conoscenza delle teorie scientifiche di Boscovich. Al pregiudizio dell’esistenza della ‘materia’ [Stoffe] ci si è ben opposti non da parte di un idealista ma di un matematico, cioè da Boscovich. Lui e Copernico sono i due più grandi oppositori dell’apparenza ingannevole. Dopo di lui non esiste più alcuna materia, se non come idea popolare. Egli ha portato a conclusione la teoria atomistica. La gravità di certo non è una “proprietà della materia”, semplicemente perché non c’è alcuna materia. La forza di gravità come la vis inertiae sono solo una forma fenomenica della forza (semplicemente perché non c’è nulla di altro che la forza [einfach weil es nichts anderes gibt als Kraft]10.

Se riguardo alla teoria della materia l’idea di fondo di Boscovich è che non vi sia materia, ma solo forza e che, conseguentemente, l’assunto di punti atomici solidi sia un’ipotesi inutilizzabile per la scienza fisica e meccanica, la rivendicazione degli atomi-forza contro la teoria degli atomi-materia non può non aver esercitato un forte influsso sul pensiero nietzscheano. Assumere infatti eine Kraft-Punkt-Welt [un mondo-fattodi-punti-forza] significa eliminare ogni residuo metafisico legato al concetto di sostanza. I fisici matematici non possono utilizzare gli atomi corpuscolari [die Klümpchen-Atome] per la loro scienza: conseguentemente si costruiscono eine Kraft-Puntk-Welt sul quale si possa contare11. Ma, per quello che qui interessa maggiormente, vale ricordare le sue ricerche sull’essenza e i fondamenti della materia, cui ha dedicato saggi come De materiae divisibilitate et de principiis corporum dissertatio (1748); De continuitatis lege et ejus consectariis pertinentibus ad prima materiae elementa eorumque vires (1754); De lege virium in natura existentium (1755). La sua opera maggiore è Philosophiae naturalis theoria redacta ad unicam legem virium in natura existentium, edita a Vienna nel 1758. 9   Friederich Nietzsche an Heinrich Köselitz (denominato da Nietzsche anche Peter

Gast), Ende August 1883, in Sämtliche Briefe: Kritische Studienausgabe, vol. 6, München, Deutscher Taschenbuch, 1986, p. 442. 10   Friederich Nietzsche an Heinrich Köselitz, 20. März 1882, ivi, p. 183. 11   F. Nietzsche, Werke: Kritische Studienausgabe, vol. 11, p. 40. In Al di là del bene e del male Nietzsche scrive: «Per quanto riguarda l’atomismo materialistico: esso fa parte delle cose meglio confutate che ci siano […] – grazie in primo luogo a quel Polacco, Boscovich, che, insieme con l’altro Polacco, Copernico, è stato finora il più grande e

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Né certo è da trascurare il fatto che nella teoria naturale di Boscovich il superamento di ogni metafisica della sostanza comporti la negazione del concetto di forza infinita (quale espressione, appunto, e manifestazione di un principio sostanziale) e, con il ritrovamento nel mondo naturale solo di forze finite, la negazione di ogni ipotesi creazionistica implicita nel concetto di una forza infinita. Tanto che a ragione, io credo, si sia argomentato del possibile influsso di Boscovich anche sulla dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno dell’identico, in quanto dottrina legata al mantenimento, sempre nuovo, di una determinata quantità di energia. Cosicché non a caso, riguardo a quanto fin qui detto, si deve notare che nella prima formulazione dell’eterno ritorno, datata autunno 1881, Nietzsche venga a usare proprio il concetto di forza per introdurre e connotare questo luogo fondamentale del suo pensiero. «Il mondo delle forze non raggiunge mai l’equilibrio, non ha mai un momento di riposo, la sua forza e il suo movimento sono egualmente grandi in ogni momento»12. L’eterno ritorno, rotta la concezione lineare del tempo, è il ritorno del valore assoluto e nuovo di ogni istante, da leggersi verosimilmente come campo di sempre nuove relazioni tra forze: dunque non come ripetizione inesauribile di cose ed enti finiti, ma come infinita durata e variazione di un campo di forze finite13. Infine in questa rapidissima rassegna non si può non tener conto di una figura come quella di Robert Mayer e del possibile influsso che la sua opera può aver avuto sul pensiero di Nietzsche. Il suo principio di conservazione dell’energia, teorizzando che la quantità di energia si mantiene costante attraverso tutti i cambiamenti di forma dell’energia, poneva indiscutibilmente il concetto di movimento come subordinato a quello dell’energia/forza e dava a Nietzsche la possibilità di concepire il gioco delle forze come la composizione di parallelogrammi di continua variazione ma senza distruzione di energia e capaci dunque, nel loro mutevole relazionarsi, comunque di un eterno ritorno14. Ma soprattutto, nel nostro vittorioso avversario dell’evidenza dei sensi. Mentre cioè Copernico ci ha persuasi a credere, contro la testimonianza di tutti i sensi, che la terra non sta ferma, Boscovich ci ha insegnato a rinnegare la fede nell’ultima cosa della terra che stava ferma, la fede nella sostanza, nella materia, nell’atomo come residuo terrestre, come pallottolina di massa» (tr. it. a cura di S. Giametta, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 50-51). 12  F. Nietzsche, Werke: Kritische Studienausgabe, vol. 9, p. 498.   Cfr. G. Whitlock, Roger J. Boscovich and Friedrich Nietzsche: a Re-examination cit., p. 196.   Il primo riferimento di Nietzsche a Robert Mayer è in una cartolina postale inviata da Genova a Peter Gast il 16 aprile 1881: «In libri essenziali e felici come quelli di Robert Mayer 13

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contesto di discorso, di Mayer va ricordata la dottrina della Auslösung, o dell’azionare, del mettere in azione, secondo la quale nel passaggio da uno stato a un altro, da un evento di natura a un altro, accanto a forze che lavorano, a forze di potente carica energetica, vi sono forze di minore consistenza, capaci però di dirigere, organizzare e dare forma alle forze più forti, ma in qualche modo più passive e meno vitali. Vi sono Wirkkräften, che prestano, che erogano lavoro e vi sono Auslösekräften, o dirigierende Kräften, o Trieb- o Richtkräften, che lasciano e fanno erogare il lavoro. La forza dell’azionare, dello sbloccare e mettere in azione, è una «forza catalitica» capace di sottrarsi alla visione meccanicistica della forza come mera quantità e di generare, attraverso un processo subitaneo e istantaneo di scioglimento e ricomposizione delle forze meno vitali, un nuovo stato della vita. Come già notava Mittasch nel suo testo: «La forza che agisce della natura produce lavoro, la forza che mette in azione fa prestare il lavoro: parimenti l’uomo è attivo o perché presta il lavoro o perché fa prestare il lavoro»15. Si può pensare che anche da tali sollecitazioni Nietzsche abbia potuto trarre la sua visione critica del nesso meccanico di causa ed effetto e soprattutto della continuità temporale in cui il meccanicismo causalistico pretende di iscriversi, per cui una determinata grandezza causale si traduce senza soluzioni di continuità nell’effetto corrispondente che produce. Ora appunto è verosimile pensare che anche da questo contesto Nietsche abbia tratto sollecitazioni alla sua visione del corpo del vivente, e in particolare di quello umano, come multiversum di forze, costantemente variabile e diveniente. Il corpo è una composizione di forze che muta e si altera continuamente e la sua vita è il divenire, costantemente nuovo e casuale, del parallelogramma di forze che, in ogni momento, si rinnova secondo il variare quantitativo/qualitativo di ciascuna. Il corpo è una composizione tra forze, ogni volta casuale: forze che, in ogni momento in modo diverso, si rapportano secondo una disposizione si può ascoltare una armonia delle sfere: una musica che è preparata e pronta solo per gli uomini della scienza». Nella biblioteca di Nietzsche è presente la seconda edizione (1873) della Mechanik der Wärme, insieme ai due saggi del 1876, Torricellische Leere e Über Auslösung. Nella stessa missiva a Gast, Nietzsche scrive: «Über Auslösung è per me la parte essenziale e preziosa del libro di Mayer» (lettera del 16 aprile 1881, in Die Briefe Peter Gasts an Friedrich Nietzsche, München, Verlag der Nietzsche-Gesellschaft, 1923-1924, vol. I, p. 110). 15   «Die Wirkkraft der Natur leistet Arbeit, die Auslösekraft lässt Arbeit leisten;

gleichwie der Mensch tätig ist, indem er Arbeit leistet oder Arbeit leistet lässt» (A. Mittasch, Friedrich Nietzsche als Naturphilosoph cit., p. 114).

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di conflitto e di dominio, che vede, ogni volta, da un lato forze dominanti e dall’altro forze dominate. La natura di una forza è quella di affermare la propria potenza. Ma questa si realizza solo attraverso il dominio di una o più forze inferiori, subordinandole, soggiogandole, impadronendosene. Cosa per cui l’essenza di una forza consiste sempre nel suo essere in un’unità con un’altra forza, in una relazione il cui carattere è sempre quello di dominare / essere dominato. La differenza di qualità tra le forze, che appare sempre in primo luogo come diversa capacità di agire e di reagire secondo il nesso di dominio/esser dominato che le lega, è data sempre, a ben vedere, dalla loro diversa quantità di potenza. Forze attive e forze reattive sono qualitativamente distinte, le une superiori e le altre inferiori, perché appunto la loro diversa qualità rimanda a diversi gradi di quantità. Ma senza ridurre univocamente la forza a quantità, pena la ricaduta in una visione meccanica. Perché a ben vedere la forza è sempre manifestazione, espressione, di una volontà, che è, appunto, Wille zur Macht, volontà di potenza. Ma una Wille zur Macht non unica, secondo quanto Nietzsche vedeva in Schopenhauer, bensì molteplice e, ogni volta, nuova e originaria a seconda del parallelogramma di forze in cui ciascuna di esse si iscrive. Perché la forza come espressione di volontà non può essere una, quasi fosse un principio monistico e metafisico, ma plurima e multiforme secondo le contingenze costantemente variabili della vita. Sembrerebbe quasi di avvertire in tale visione una sostanziale continuità con la fisica del corpo in Spinoza, di cui abbiamo trattato nel capitolo precedente, per la medesima natura attribuita all’organismo corporeo. Quando invece appare assai profonda la distanza della tematizzazione nietzscheana dall’Etica del pensatore seicentesco. Giacché se in Nietzsche, analogamente a Spinoza, il corpo è un plurimo, un composto di moltissimi elementi e componenti, è, a differenza di Spinoza, un multiverso che non si struttura mai in una identità, in una permanenza individuante, né, come accade invece in Spinoza, si struttura secondo un parallelismo possibile di corpo e mente e la possibile valorizzazione del mondo delle idee e della coscienza che ne consegue. Perché soggetto, individuo, io, coscienza, rappresentano per Nietzsche, com’è ben noto, solo disfunzioni, patologie, disvalori che si oppongono all’unico e vero valore della corporeità come luogo di vita e di volontà di potenza La vita di ogni corpo non è mai un continuum, nel segno di una persistente identità, ma è sempre il comporsi, secondo il caso, di un nuovo assetto di potenze e d’impotenze. Non c’è continuità, non ci sono strutture di permanenza e di legge nella vita del corpo, ma solo incontri e

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scontri, in cui, come nel lancio dei dadi, ogni volta si dà vita a qualcosa di non prevedibile e di nuovo. È quel darsi del divenire che Nietzsche teorizza con la dottrina dell’eterno ritorno. Ritorno non di un alcunché di già dato, non secondo il riproporsi circolare di una identità, di un essere identificabile, bensì ritorno, in ogni attimo, dell’assolutamente differente, di un sempre diverso configurarsi di nessi e di parallelogrammi tra forze, che toglie ogni dimensione di permanenza e di stabilità. L’eterno ritorno è infatti il paradosso di un ritornare che, nel suo ritornare sempre identico e a sé eguale, contiene e dà vita al suo più proprio opposto: alla pura e incontaminata differenza, al puro divenire, per il quale ogni momento non ha legame né condizionamento alcuno né con il passato né con il futuro. È il puro presente, capace di eternità, appunto perché, nel suo continuo riconfigurarsi, non dipende, non ha legami né con il passato né con il futuro, e dunque, proprio perché senza passato e senza futuro, attimalità del presente, ogni volta nuova e diversa. Pura natalità ingenerata e non causata. Ma è proprio qui, in tale paradossale concezione della temporalità, che costituisce il luogo più celebre del pensiero nietzscheano, che si colloca, nello stesso tempo, a mio avviso, la sua maggiore difficoltà e aporia. Perché, a ben vedere, l’assenza di ogni relazione col passato e col futuro consegna il presente a una irrelatività atomistica, nella quale ogni attimalità del presente è fuori – al di fuori – di ogni altra, di ogni altro presente. E in questa totale astrazione di rapporti, in questa totale coincidenza con se medesima, è un atomo identico e non differenziato dagli altri atomi. Vale a dire che al fondo del differenzialismo e dell’eraclitismo nietzscheano ciò che mina l’intero edificio è un motivo fortemente identitario che congela nella struttura sempre uguale del suo permanere ogni velleità di variazione e di divenire. Ma tale carattere intrinsecamente contraddittorio di una teoria dell’attimalità, dell’attimo assunto come principio astratto e assoluto del tempo, è ciò che sfugge alla riflessione di Nietzsche, che, a muovere da tale inconsapevolezza, costruisce una teoria della vita basata sull’insieme di questi filosofemi: 1) istituzione di una forza come relazione di autorità e di dominio tra una polarità attiva e polarità passive; 2) volontà di potenza come realizzazione fino al massimo possibile della differenza di quantità/qualità che si dà in un parallelogramma, ogni volta istantaneo, di forze determinate; 3) dottrina dell’eterno ritorno come inesauribile divenire e trasformarsi casuale, sempre nuovo, delle relazioni di dominio. Attraverso il compiersi e lo strutturarsi di questi filosofemi si dà lo svolgimento, per Nietzsche, della vita come affermazione di potenza,

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sana, dionisiaca, sovrumana. Al di qua di essi, si dà, invece, la vita non come azione ma come re-azione, la vita come affermazione rovesciata e dominio delle forze reattive, la vita come nichilismo. Tale non-vita, la volontà del nulla, è l’opposto della realizzazione della forza come volontà di potenza. Il nichilismo, come atteggiamento sia del corpo sia della mente, della prassi come della teoria, corrisponde alla presa del potere da parte delle forze, che, incapaci di proporsi come forze inauguratrici di azione e di differenza, reagiscono all’iniziativa di vita delle forze attive attraverso la valorizzazione di valori come l’eguaglianza e la solidarietà, il pensare logico e concettuale, la scienza e la morale, la filantropia e la religione, la democrazia e il socialismo. Le forze inferiori sono per definizione forze dell’invidia e del risentimento, della mera re-azione, appunto, contro la vita degli áristoi, delle forze individualizzanti e differenzianti. Non possono, in quanto inferiori, vincere direttamente il confronto con quelle superiori. Ma possono procurare d’indebolirle, separandole e dividendole in se medesime, diminuendole e limitandole, attraverso la proiezione e l’inganno, riguardo a ciò che è il loro originario potere. E fanno questo attraverso l’induzione di falsi e fallaci valori che generano negli áristoi la cattiva coscienza, il sentimento di colpa, costringendoli a scindersi appunto dal loro più autentico sentire e volere. Non a caso è la cattiva coscienza – la coscienza connessa ai valori del collettivo e del differenziato  –, la coscienza morale, a istituire la più significativa diversione della forza da se medesima e ad aprire a quella trasvalutazione dei valori della vita nel verso di quel nichilismo in cui si iscrive tutta la cultura occidentale, a muovere dall’affermarsi della Grecia del concetto, della Grecia cioè socratica e platonica, della Grecia apollinea, sulla Grecia dionisiaca. Ma la coscienza, va sottolineato, è per Nietzsche cattiva in quanto tale. Coscienza, ragione, scienza, filosofia, morale sono tutte istituzioni culturali al servizio delle forze inferiori e reattive. Costruiscono ordini, saperi, leggi, valori, comportamenti volti a garantire la sopravvivenza dei più, attraverso modalità di conformismo e di eguaglianza dei costumi che escludono ogni pratica di individuazione e differenziazione. Il meno forte ha bisogno di una mappa, di luoghi fissi di significato per potersi orientare nella vita, essendo antropologicamente incapace di vivere secondo lo spirito dionisiaco dell’eterno ritorno e della continua differenziazione del divenire. Tanto che si può dire che sia un darwinismo alla rovescia quello proposto da Nietzsche. La selezione per la sopravvivenza avviene attraverso i più deboli e non attraverso i più forti e si basa sull’intreccio, sulla

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coincidenza e sovrapposizione, tra deficit vitale e surplus concettuale. Tutto ciò che attiene a una dimensione di universalità, a una legalità che pretende di definire permanenze e invarianze, cade sotto la volontà del nichilismo, sotto la volontà del nulla della vita, e va interpretato, di volta in volta, in modo genealogico. Secondo, cioè, una relazione determinata di forze, ogni volta da studiare e analizzare nel gioco mai compiuto di affermazione e negazione, dominio e risentimento, divisione, scomposizione e rovesciamento: vale a dire quando le forze reattive prevalgono su quelle attive, sfuggendo alla loro iniziativa d’azione. È il conscio dunque, con le sue pretese di universalizzazione e di concettualizzazione, il luogo dell’inautenticità, il luogo di produzione della cultura quale disvalore che svalorizza la vita, mentre è nell’inconscio che si gioca l’autentico gioco delle pulsioni e delle passioni e si dà l’eterno ritorno del sempre diveniente. 2. Un corpo in proiezione È una raffigurazione ovviamente assai schematica e settoriale quella del Nietzsche che abbiamo voluto presentare in queste pagine come Naturphilosoph e del peso che nel suo pensiero deve aver avuto la scienza propriamente detta. Perché è ovviamente indiscutibile l’influenza che nella sua opera ha avuto lo studio delle scienze umanistiche, della filologia classica, della musica, della letteratura e della filosofia. È ben noto, e ormai acquisito in sede di letteratura critica, quanto la sua lettura del mondo greco presocratico, della filosofia greca prima del concetto, della poesia e della tragedia, lo abbia sollecitato a una formulazione di pensiero in cui la lotta, l’eris per dirla con Empedocle, prevale su una cosmologia dell’ordine e dell’equilibrio. È ben noto cioè quanto sia stata anche e forse soprattutto una lettura non apollinea della grecità preclassica a far maturare in Nietzsche una sensibilità verso una vita in cui il dinamismo, il contrasto, l’accadere come lotta/guerra è prevalente sulla quiete e sull’armonia. E basterebbe pensare ad autori come Goethe, Schelling, Schopenhauer, Novalis, Bahnsen, E. von Hartmann, Mainländer, per citare solo alcuni contemporanei che hanno pesato nella sua formazione nel senso di un Werden che prevale sul Sein, di una trasformazione che prevale sulla conservazione. Eppure, oltre tali riferimenti obbligati all’ambiente culturale e teoretico frequentato da Nietzsche sia nel verso delle Natur- sia in quello delle Geisteswissenschaften, non si può tacere di sottolineare, a mio avviso,

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quanto e come l’antropomorfizzazione – la risoluzione delle forze in una contrapposizione di volontà – messa in atto nel modo di trattare la complessità del corpo non possa non riflettere, nel linguaggio della concettualità teorica, anche la drammaticità dell’esperienza psicologica ed esistenziale vissuta in prima persona dallo stesso Nietzsche. E non si possa non evidenziare, quindi, quanto la vicenda del corpo privato di Nietzsche, di un corpo qua singulare, possa aver contribuito a generare, senza una sufficiente mediazione ed elaborazione, la sua filosofia generale del corpo quale fondamento unico dell’intera realtà, cioè la sua teoria del corpo qua universale. Per dire insomma che il discorso nietzscheano partecipa anche di un alto tasso di personalizzazione, che fa tralucere nella tessitura argomentativa dell’autore la fenomenologia di un’esperienza quotidiana, spesso dolorosissima, segnata da costanti variazioni di stati corporei e affettivi e da un’instabilità emozionale di fondo. Ma riscritta e ripensata attraverso la genialità di una scrittura discorsiva capace di illuminazioni e scorci, su momenti parziali del vivere, di originalità sorprendente. Giacché forse anche una riconduzione della filosofia nietzschiana alla psicologia del suo autore – avanzata ovviamente in termini assai cauti e prudenti data l’ampiezza degli studi e delle materie intrapresa da Nietzsche – può aiutare a spiegare la semplificazione, che Nietzsche mette in atto, della configurazione complessa e funzionale del corpo alla sola dimensione della forza: di una forza che, malgrado gli sforzi di Nietzsche di articolarla e moltiplicarla nella differenza, appare rimanere fissata e identificata attraverso una scala, alla fin fine solo quantitativa, di maggiore o minore attività, di maggiore o minore passività. Tanto che, di contro a tale concezione monoculturale e antropomorfa della forza come volontà di potenza e di dominio, non può che distaccarsi e prendere rilievo la concezione biodinamica del corpo – fatta propria, secondo quanto abbiamo visto, da Spinoza, prima, e da Freud dopo – come organismo vivente costituito dalla sintesi e dall’integrazione di più funzioni. Nell’opposizione tra dominio e integrazione, tra monoculturalismo e sintesi multiculturale, potremmo infatti compendiare il contrasto radicale, quanto a prospettiva antropologica di fondo e insieme teoria della cultura, che si apre tra la biologia metafisica e a forte grado di proiezione antropomorfica di Nietzsche e la biologia materialistica e organicistica della scienza e della psicoanalisi moderne. Giacché, come s’è detto, il paradosso della prospettiva nietzschiana è che la sua perorazione a favore del dionisiaco di contro all’apollineo, del diveniente e del multiversum di contro a ogni struttura di permanenza, si rovescia, a ben vedere, nella monotonia di una metafisica identitaria che pretende di spiegare l’intero

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darsi del mondo biologico e storico-culturale attraverso la reiterazione e la riproposizione, con composizioni gerarchiche del suo variare quantitativo, dell’unico fattore e principio della volontà di potenza. Per dire insomma che è qui, a tale livello di profondità ontologico-metafisica che si genera, a mio avviso, la matrice conservatrice del pensiero di Nietzsche. Assai più che non nelle sue pagine, ben più famose, contro il livellamento spersonalizzante della democrazia moderna, del socialismo e del cristianesimo, come pure hanno proposto molte interpretazioni volte in una disposizione eccessivamente ed estrinsecamente politica16. Sta cioè nell’aver connesso una critica puntuale e sensibilissima, delineata con grande anticipo, dell’anonimato e della massificazione della modernità a una filosofia della vita troppo meccanicisticamente e univocamente basata sull’idea della forza. Una visione cioè della biologia che trae ispirazione da un modello più propriamente cinematico-fisicalistico e che, come tale, rimane estranea e arretrata rispetto alle nuove scoperte e allo sviluppo della biologia contemporanea nel verso della biochimica cellulare e della genetica17. Tanto che, appunto qui, in tale riduzionismo fisicalistico, in tale costringersi di un paradigma di scienze della vita in un paradigma fisicalistico, a me sembra collocarsi, ripeto, l’origine e il fondamento del conservatorismo nietzscheano. Ma, come abbiamo detto, il motivo antropologico e psicologico, storico ed esistenziale, del conflitto e del dominio tra attivo e passivo, tra superiore e inferiore, tra essenziale e inessenziale, è troppo forte in Nietzsche per non condizionarlo e obbligarlo a concepire un biologico organizzato sulla fisica delle forze piuttosto che non sull’organizzazione e il raggruppamento sintetico di composti. Per cui, malgrado la notevole frequentazione da parte di Nietzsche, come si è detto, di testi significativi e aggiornati di scienza naturale, concernenti anche la biologia atomistica, la genetica, la chimica organica, ciò che di fondo si attesta nel suo pensare è una concezione del corpo come luogo della grande politica, in cui il vero fattore determinante è la direzione e l’intensità di una forza. Con la conseguenza di lasciar cadere ogni possibile valorizzazione di paradigmi organicistici o 16  Cfr. in tal senso D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico, Torino, Bollati Borighieri, 2002. 17   Si pensi, nell’ambito degli studi biologici di lingua tedesca, alla fondazione della biologia sulla teoria cellulare, alla concezione cioè che il corpo sia delle piante sia degli animali è costituito da unità elementari cellulari, nell’opera di J.M. Schleiden (Beiträge zur Phytogenesis, 1838) e di T. Schwann (Mikroskopische Untersuchungen über die Übereinstimmung in der Struktur und den Wachstum der Thiere und Pflanzen, 1839). E si consideri lo sviluppo della biochimica che dall’impostazione della teoria cellulare sarebbe derivato.

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di altra valenza sintetica, quali abbiamo visto operare invece nella teoria spinoziana dei «corpora». Del resto è proprio tale biologia meccanicistica, gravata da un forte riduzionismo fisicalistico e da un vettore esplicativo monofattoriale, che ha consentito a Nietzsche di annullare ogni positività alla coscienza pensante, ogni valore alle istituzioni culturali e sociali, ogni dignità alle configurazioni permanenti e identitarie della soggettività. Per altro non v’è dubbio alcuno che nei testi nietzscheani rimanga un fondo attualissimo e inesauribile di sollecitazioni per una lettura critica della modernità, che vale a esplicitare quale antropologia povera e gracile stia a base, per esigenza di rassicurazione e non di conoscenza, di identità e culture presuntivamente autosufficienti e di conclamato valore scientifico e razionale. Ma ciò su cui frana l’istanza dell’anarchismo dionisiaco di Nietzsche è la sua proposta di un’antropologia positiva costruita sulla divinizzazione dell’istantaneo e del sempre nuovo. Giacché è una proposta che, estremizzando il valore di un corporeo dilatato a scena primaria e unica dell’accadere, scinde ed espelle da sé ogni dimensione coscienziale-razionale dell’umano, impedendosi di trovare le fonti e le ragioni di configurazioni antropologiche e di nessi storico-sociali, articolati e complessi nella loro diversità. Vale a dire che con il pensiero di Nietzsche, in questo fedele lettore di Schopenhauer, si esaurisce – e qui va sottolineata la nostra concordanza e dipendenza dall’interpretazione già avanzata da Habermas18  –  quella dialettica dell’illuminismo dalle cui motivazioni profonde era nato l’idealismo tedesco, e quello di Hegel in particolare. Dialettica dell’illuminismo, come denuncia dei limiti, delle scissioni e delle incompletezze in cui si capovolge il progetto di liberazione sia del singolo sia dell’intera umanità avanzato dalla ragione illuministica, è infatti il titolo di un libro famoso che può essere retrodatato a esprimere il motivo più avanzato depositato già negli scritti giovanili di Hegel: quale necessità di affermare la centralità del soggetto umano come principio della società moderna, ma riconosciuto e fatto valere nella complessità e totalità delle sue istanze, senza rimuoverne o farne cadere alcuna. Dialettica dell’Illuminismo, nell’intenzione di Hegel, significa infatti in primo luogo dialettica del kantismo, quale rovesciamento della sintesi di Kant in una condizione opposta di scissione: proprio per l’insufficiente capacità, a parere di Hegel, assegnata da Kant alla ragione di sintetizzare e unificare tutte le regioni dell’umano, sia quelle infrasoggettive della soggettività individuale sia quelle 18  J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, tr. it. di E. ed E. Agazzi, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 86-108.

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intersoggettive dell’umanità in generale. Per dire insomma che la grande questione che si è aperta sulla natura e sui compiti della modernità tra criticismo kantiano e idealismo hegeliano è su quale sia l’identità e l’articolazione della soggettività che riesce meglio a radicalizzare e a realizzare una sintesi adeguata su un piano di totale immanenza antropologica e storico-sociale. Sia nel verso dell’integrazione verticale delle diverse facoltà di un singolo, sia nel verso di un’integrazione orizzontale tra individualità e società / genere umano. Coloro che affermano, al contrario, il valore dell’esistenza contro la storia, della singolarità contro l’universalità del genere umano, della verità dell’emozione contro l’astrazione della ragione, come a vario titolo fanno Kierkegaard, Schopenhauer e Nietzsche, fuoriescono da questa cornice – fuoriescono dalla dialettica dell’illuminismo – e abbandonano con la questione cruciale della modernità la possibilità medesima di compierla e migliorarla secondo i suoi valori originari e fondativi. Propongono l’Altrove dalla ragione, che esso sia l’autenticità dell’esperienza religiosa, dell’assenza di volontà, della volontà di potenza. Ma appunto Altro dalla ragione – e con ciò altro dalla modernità in quanto epoca storica di valorizzazione della soggettività e della sua radicalizzazione sintetica, finanche nelle forme della sua messa in scena solo fallace e apparente. È il corpo di Nietzsche che dunque, ponendosi a frammezzo della modernità, pretende di esaurirne ogni possibile via di trasformazione dialettica, proponendo come via d’uscita un’altra direzione, che, non a caso, cento anni dopo, è stata recuperata e fatta propria dal pensiero postmoderno: allo scopo appunto di abbandonare la modernità ed entrare in quell’altra epoca storica, di natura profondamente diversa quanto a formazioni economiche, sociali, culturali – quanto a tipologie antropologiche e prospettive filosofiche e di scienze umane – che si è voluto chiamare, non a caso, per evidenziare il transito da un’epoca all’altra, «postmodernità». Le teorie della postmodernità, quali che siano i loro ambiti di studio e riflessione, si riconoscono tutte nel rifiuto di ogni possibile articolazione dialettica della realtà e nella tesi generale, che ne consegue, della superficializzazione del mondo, nel farsi cioè superficie o segno della vita umana, senza rinvio alcuno a profondità o a stratificazioni eterogenee ma pure compresenti del reale: come, all’opposto, quella messa a tema dall’hegelismo tra essenza e apparenza, o dal marxismo tra struttura e sovrastruttura, dal freudismo tra inconscio e conscio, dalla linguistica tra significato e significante. La nuova epoca storica, affermano infatti i teorici della postmodernità, è quella che ha superato la distinzione/opposizione tra vero e

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falso, ogni possibile referente oggettivo ed extralinguistico della verità, e ha collocato al centro della scena del nuovo mondo il linguaggio, come catena di segni che vanno interpretate attraverso altre catene di segni: in una ermeneutica sostanzialmente inesauribile proprio perché è venuta meno ogni distinzione/opposizione tra soggetto e oggetto, tra segno linguistico-comunicativo e realtà extrasimbolica ed extramentale. Come sul piano della produzione economica è venuta meno l’opposizione e la lotta di classe tra proletariato industriale e capitalisti, che aveva connotato fin dall’inizio la modernità, a fronte di una circolazione sempre più globalizzata e sempre più senza ostacoli di denaro e di merci, come sul piano delle tecnologie, nei paesi occidentali, la rigidità e l’oppressione del lavoro alla catena di montaggio ha progressivamente ceduto al lavoro informatizzato su simboli alfanumerici, come alla grande fabbrica si è sostituita una filiera snodata e disseminata di segmenti policentrici, così sul piano più generale dell’insieme sociale la postmodernità ha significato l’avvento di una realtà e di un’antropologia liquida: in cui è decaduto il valore delle macrostrutture fisse e permanenti e hanno assunto sempre più valore configurazioni evenemenziali che si conchiudono nell’intensità del frammento. 3. Foucault: un corpo senza tecnologia Di tale quadro teorico, proprio del postmodernismo, figura centrale è stata l’opera di Michel Foucault, la cui ispirazione dal corpo nietzschiano, di contro a ogni tradizione dialettica, alimenta ancora, con il concetto di «biopolitica», larga parte degli studi di antropologia sociale e di filosofia politica contemporanei. Qui basti ricordare solo alcune note essenziali. La profonda attitudine alla ricerca empirica, fecondata da un fervido consenso teorico alla critica mossa dall’empirismo alla realtà degli universali, ha condotto Foucault alla denuncia di ogni pretesa di verità permanente e definitiva e al rifiuto di ogni supposta generalità umana. Contro qualsiasi ipostasi di una natura umana universale e onnipresente, contro ogni possibile definizione trascendentale della soggettività e del pensiero, Foucault ha sempre opposto una disposizione e una metodologia di ricerca empirica e contestuale. Secondo quanto teorizza, è essenziale non passare gli universali nella griglia della storia ma far passare la storia al filo di un pensiero che rifiuta gli universali. Giacché ogni fatto storico, ogni esperienza dell’umano costituisce una singolarità. Laddove le categorie dell’universalità sono solo astrazioni generiche, trans-storiche, che pretendono di imporre una supposta continuità all’accadere umano, il quale, al

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contrario, si spiega solo attraverso differenziazioni e dispersioni. Infatti ogni evento, anziché rimandare a una natura originaria e permanente, o a una ragione universale o a una struttura economica generalizzante, è sempre l’esito dell’incontro di più catene causali che ne fanno una singolarità irripetibile e casuale. Per cui la singolarità di un evento fisico, data l’impossibilità di ricondurla a idee generali, non può che essere strana, bizzarra e arbitraria. Da spiegare cioè ogni volta attraverso un lavoro storico, archeologico o genealogico, che ne evidenzi e ne espliciti il discorso ogni volta specifico e circostanziato, ovvero il dispositivo insieme di potere e di sapere che implicitamente lo produce e lo costituisce. Dato che appunto il fine di ogni ricerca, ben lungi dal rintracciare identità e permanenza, non può essere altro che quello di evidenziare differenze e discontinuità. Il grande merito di Foucault è stato quello di aver denunciato il nesso che legava nel marxismo Sovranità del Soggetto, Continuità della Storia e Palingenesi della Rivoluzione. Fin da Le parole e le cose Foucault mostra infatti assai lucidamente quanto il materialismo storico e il comunismo di Marx si siano fondati sul presupposto metafisico di una soggettività piena, organicamente unitaria e principio di ogni realtà, costituita dall’homo faber e dalla potenza ontologico-emancipativa del lavoro. Una soggettività, così coincidente con l’operosità costruttiva del suo operare, da non albergare dentro di sé egoismi e differenze d’interesse individuali, e da valere perciò come soggettività intrinsecamente universale. Su cui costruire un’intera filosofia della storia fatta di cadute, alienazioni e riappropriazioni, fino alla affermazione definitiva e palingenetica della sua universalità attraverso la rivoluzione. Contro la tesi marxiana della continuità della storia e della soggettività identica e assoluta, che l’attraverserebbe e la sosterrebbe, valida a ricondurre a sé ogni alterità, Foucault rivendica la potenza epistemologica della discontinuità dell’evento e della differenza. Opponendo alla dialettica hegeliano-marxiana l’archeologia e la genealogia di Nietzsche, egli è ritornato a Kant chiedendosi quali siano le condizioni di possibilità del darsi, ogni volta, sia degli oggetti sia dei soggetti, ma sottraendosi in pari tempo alla fissità trascendentale del soggetto kantiano. Soggetti e oggetti vengono di volta in volta prodotti dai sistemi di regole e dalle relazioni di potere all’interno dei quali si trovano collocati. All’interno cioè dei dispositivi, dei procedimenti, delle norme, dei saperi codificati nei quali nascono e prendono forma. Giacché i sistemi di verità non rimandano a realtà, da rispecchiare o meno, in una prospettiva ancora adeguazionistica del conoscere, bensì rimandano a sistemi di potere, e agli enunciati, ai discorsi, agli stili, alle pratiche, che li sostanziano, articolando distinti ruoli

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soggettivi e differenziati regimi d’oggetti19. Sapere e potere sono intrinsecamente connessi, così che nel cuore delle conoscenze, del sistema delle scienze, nei saperi codificati, alberga sempre una procedura di regole, un apparato governamentale, che deve essere fatto apparire attraverso uno scavo, un’archeologia del sapere. Dunque non esistono soggetti e oggetti prima e fuori delle relazioni enunciative che li costruiscono, plasmandoli e riconoscendoli secondo determinati ruoli e asimmetrie. Per cui «oggetti», come gli atti delinquenziali, le malattie mentali, la sessualità, le istituzioni politiche, propriamente non esistono, nel senso che non rimandano ad alcuna dimensione biologica o fisica indipendente e autonoma dal campo dei dispositivi di potere, dei rapporti di forza che gli danno forma e legittimità. Esistono solo modalità, processi di soggettivazione e di oggettivazione, che producono corpi, individui, saperi e che stabiliscono, autorizzandoli, i ruoli e i campi diversificati delle pratiche e degli enunciati. Secondo una concezione per la quale il potere non pratica una coercizione o una repressione dall’esterno, non si esercita nella modalità del dominio, ma si interiorizza lungo l’asse interiore dei convincimenti e dell’adesione volontaria e consensuale alle norme. E per la quale il potere non si concentra in un luogo o in un’autorità centrale e massimamente sovrana ma è diffuso in modo ramificato e policentrico, secondo relazionalità specifiche di luogo e di funzione, che danno luogo a «microfisiche» invece che a strutture generali e sistemiche. Del resto, è proprio tale composizione multicentrica della realtà, per la sua assenza in essa di vettori di astrazione e di universalizzazione, che conduce Foucault, secondo un’analogia profondissima con la microfisica delle forze di Nietzsche, a ritenere che ovunque vi sia un dispositivo di potere/sapere  –  data la sua struttura intrinsecamente asimmetrica  –  vi debba essere necessariamente, insieme alla polarità dominante, una polarità di resistenza, la cui insopprimibile presenza include e garantisce la possibilità di un rovesciamento, di una modificazione di quello stesso dispositivo. Vi è una libertà originaria e intrinseca all’umano che non può essere annichilita. Per Foucault […] la caratteristica prima delle relazioni di potere è la loro contingenza, la loro reversibilità, il loro carattere indefinibile, indecidibile […]. Insomma è la parte della libertà a risultare irriducibile, secondo Foucault, all’interno delle 19   «Invece di andare da un’esteriorità apparente a un “nucleo di interiorità” considerato essenziale, bisogna esorcizzare l’illusoria interiorità per rendere alle parole e alle cose la loro esteriorità costitutiva» (G. Deleuze, Foucault, Milano, Feltrinelli, 1987, p. 50). Ma di Deleuze su Foucault cfr. anche Id., Pourparlers, Paris, Édition de Minuit, 1990, pp. 115-161.

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relazioni di potere; una libertà che assume il volto della resistenza, della soggettivazione, del governo di sé20.

Anche perché è proprio la presenza della libertà, la sua natura, potremmo dire, quasi presupposta al gioco delle relazioni, che fa comprendere quanto il potere del dispositivo, anziché mero dominio e prescrizione, debba svolgersi secondo una inclusione e partecipazione dei subordinati. Debba essere cioè un potere pastorale, che si prende cura come un buon pastore del suo gregge. Essere cioè potere non governativo, ma governamentale, che addestra nello stesso momento in cui disciplina, che razionalizza nel momento in cui vince le resistenze. Un potere insomma che, ben diverso dal Leviatano di Hobbes e della sua natura sanzionatoria, penetri nell’intimo dei corpi e delle menti, incorporandosi e interiorizzandosi, dando vita, non a una politica come esercizio centralizzato del potere, ma alla diffusività molecolare di una «biopolitica». E appunto proprio per questo carattere non sistemico ma contingente dei dispositivi governamentali essere in grado di ammettere quelle che Foucault definisce «controcondotte», le possibilità di opposizione e contrapposizione all’assoggettamento: le possibilità cioè di opporre alla governamentalità quel governo del sé, quella «cura del sé», o soggettivazione personale contro la soggettività assoggettata del dispositivo, cui Foucault ha dedicato il suo ultimo interesse, con gli studi volti alla configurazione di una soggettività capace di scegliere e di agire nel modo antico, classico ed ellenistico, della cura di sé (epiméleia heautò), della padronanza di sè21. Ora, senza negare ovviamente le acquisizioni fecondissime che attraverso i testi di Foucault sono maturate sui mondi delle istituzioni totali così come sulle teorie e le pratiche della sessualità, quello che a me qui preme evidenziare è piuttosto il paradosso che, a mio avviso, stringe l’opera di Foucault proprio nel suo aver messo al centro dell’attenzione la disciplina e la manipolazione dei corpi. Giacché il rifiuto della cultura tedesca di tradizione dialettica è così radicale da parte dello studioso francese da condurlo a rimuovere, o a non porre come oggetto privilegiato della sua attenzione, proprio quel luogo della modernità che è stato per eccellenza la fucina del governo dei corpi e il luogo d’esercizio della biopolitica. 20  M. Bertani, Lavoro del pensiero ed esperienza della libertà. Ipotesi su Foucault, in P.P. Poggio (a cura di), L’altroNovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. 2, Milano, Jaca Book, 2011, p. 603. 21   Sulla «cultura di sé» cfr. M. Foucault, Le Gouvernement de soi et des autres: le courage de la vérité. Cours au Collège de France. 1983-1984, Paris, Gallimard-Seuil, 2009.

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Animato dall’istanza legittima di non intendere le relazioni sociali secondo le dimensioni della repressione e della sanzione, come spesso ha fatto buona parte della critica d’ispirazione marxista, bensì di indagare condotte, discorsi e saperi che assoggettano e disciplinano, egli ha infatti singolarmente mancato, a mio avviso, di porre al centro delle sue ricerche quell’uso e consumo della forza-lavoro che costituisce per il Marx degli scritti maturi il massimo luogo in cui i soggetti moderni vengono prodotti e assoggettati, consegnati come sono all’oggettività pretesa della scienza e della sua applicazione ai sistemi produttivi. Tanto che, se con l’acqua sporca spesso può essere gettato anche il bambino, i giusti rilievi che Foucault ha mosso alla metafisica del lavoro di Marx, propria del Marx del materialismo storico, si sono tradotti nel sostanziale azzeramento di quella sociologia del lavoro che il Marx del Capitale ha sviluppato con profondissima originalità con la sua teoria del macchinismo come sistema «macchina-forza-lavoro», della sua concezione matura del lavoro astratto industriale come profondamente diverso dalla sua antropologia giovanile del lavoro alienato, ossia della sua interpretazione della tecnologia come organizzazione produttiva intrinseca alla valorizzazione/accumulazione. Per dire insomma che Foucault ha studiato assai più quelli che Althusser ha definito gli apparati di Stato che non quell’apparato fondamentale della modernità che è stata l’officina e la fabbrica. Il fatto è che la biopolitica di Foucault, come buona parte del pensiero sociologico e politico del Novecento, anche nelle sue punte apparentemente più attente a temi economici e sociali, non ha mai posto l’attenzione sul modo in cui nella stesura del Capitale di Marx possa aver giocato profondamente l’influenza di quella vera e propria codificazione dell’uso dei corpi nei diversi ambiti della produzione economica che è stata la Technologie tedesca del Settecento, e la cui distinzione di significato da ciò che è Technik, o tecnica, costituisce, a mio avviso, lo snodo fondamentale per la comprensione del mondo moderno e contemporaneo. La Technologie è infatti quel complesso di discipline universitarie che, nel mondo del cameralismo tedesco del xviii secolo, avevano il compito di formare i burocrati cameralisti, cioè i funzionari del Principe destinati a organizzare, dirigere e controllare i diversi ambiti della vita economica e produttiva. La presenza di un potere fortemente centralizzato e capace di un intervento e di un controllo minuzioso sulla vita civile risaliva nei territori tedeschi a una tradizione fortemente patrimonialistica/paternalistica del ruolo del Principe di forte continuità con il diritto politico feudale. Il Principe, nel variegato mondo della Germania del Settecento, è infatti il possessore de iure dell’intero patrimonio territoriale, che a sua

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volta cede e affida alle diverse autorità, pubbliche e private, affinché gestiscano e riproducano la vita dell’insieme sociale. Ma proprio, in quanto padrone/padre, egli ha, nello stesso tempo, il compito di provvedere, non solo all’ordine, ma anche al benessere dei propri sudditi/figli: appunto attraverso una burocrazia cameralista che interviene con una legislazione e una regolamentazione estremamente accurata su tutte le attività della società civile. Così, diversamente dalla tradizione giuridico/politica inglese e francese, che s’indirizzava sempre più verso la separazione di società politica e società civile, di distinzione cioè tra autonomia del mercato e autorità dello Stato, nei territori e nei principati tedeschi durante il  Seicento e il Settecento si sviluppava una tradizione che identificava il potere politico con la connessione di Ordnung und Wohlfahrt, cioè con la compresenza di ordine e benessere. Per cui l’attività del potere politico non consisteva, come nella tradizione del liberalismo, nel garantire solo il gioco delle singole libertà individuali (Ordnung), ossia impedire che la libertà dell’uno invadesse e impedisse la libertà dell’altro, quanto invece nell’intervenire all’interno delle esistenze dei sudditi per imporre e realizzare una realtà del bene/benessere (Wohlfahrt), concepita e voluta dalla funzione paterna del Principe22. All’interno di questo contesto la Technologie tedesca del Settecento costruisce un discorso fortemente normativo sui processi di lavoro, che vengono definiti e codificati passo per passo come relazioni oggettive tra cose, tra enti e strumenti, di cui è parte anche la forza-lavoro umana, considerata, senza valorizzazioni umanistiche e antropocentriche, come funzione organica all’intero sistema produttivo. La Technologie è il sapere che consente al burocrate cameralista di esercitare potere, dominio [Herrschaft], sui processi di produzione, applicando a essi il metodo oggettivo delle scienze naturali e includendo in loro la funzione dell’attività umana come prassi da regolarizzare e condurre a un disciplinamento oggettivo. Senza che si possa tralasciare di considerare, in tale originaria costellazione tedesca di ciò che è il contesto di senso e la genesi della Technologie, l’influenza di una forte ispirazione luterana, che, pur muovendo da una concezione non paternalistica dell’autorità divina, concorreva poi all’accoglimento generalizzato del lavoro come funzione pratica istituita sull’obbedienza e l’obbligatorietà. Perché Lutero, com’è 22   Su tali temi il testo di maggior riferimento rimane quello di P. Schiera, Dall’arte di governo alle scienze dello stato. Il Cameralismo e l’assolutismo tedesco, Milano, Giuffrè, 1968. Dello stesso autore cfr. le voci Cameralismo, Società per ceti, stato di Polizia, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, Utet, 1992.

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noto, aveva rovesciato l’attribuzione antica della prassi lavorativa alla sola classe dei servi/schiavi di contro alla libertà dell’ozio del padrone, generalizzando a tutti gli esseri umani la condizione di servitù. Siamo tutti egualmente servi di Dio, come vuole la riforma protestante, a motivo della caduta del peccato originale e della finitudine che ci limita – e non figli di un premuroso e compassionevole Padre come vuole la Chiesa di Roma –, e per questo obbligati a vivere la vita come servizio, ovunque ci venga assegnato e prescritto. Di contro a tale significato di Technologie, come sapere che vede soggetto il burocrate cameralista e oggetto di prescrizione e di normazione l’homo faber, quale ente naturale all’interno di enti naturali, si è distaccato in ambito tedesco con il lemma Technik (almeno a partire dall’opera di Max Weber), e in ambito anglofrancese con il lemma Technique, il significato di «tecnica» come insieme di strumenti e di metodi di lavoro inventati e realizzati dall’intelligenza dell’homo faber per facilitare e aumentare la produttività del suo operare. Hanno così preso rilievo e sono divenuti sempre più dominanti l’uso e il significato di tecnica – diffuso e generalizzato in tutta la scienza economica e in tutta la sociologia moderna – come strumentazione che si colloca tra un soggetto del lavoro, che è appunto l’homo faber, e un oggetto di lavoro, costituito dal mondo naturale e sul quale il soggetto umano interviene con la sua attività razionale-strumentale per modificarlo e adattarlo ai suoi bisogni. Per quanto dilatate possono essere le sue dimensioni, con gli effetti negativi e problematici che giungono ad avere sulla vita nella modernità, il mondo della tecnica, in tale accezione, ha sempre più il significato positivo di conoscenza applicata alla produzione, di scienza applicata, che non quello di un campo di dominio e di normazione sul lavoratore in quanto portatore ed erogatore di forza-lavoro23. Partecipe della comune disposizione di buona parte della cultura francese dell’ultimo cinquantennio a liquidare ogni orizzonte della soggettività, anche Foucault è stato dunque incapace, io credo, di considerare il Capitale di Marx come il luogo di definizione della vera soggettività moderna, quale vita e accumulazione di un valore in processo, e, di conseguenza, estraneo a 23   Su questo tema è indispensabile fare riferimento all’ampia produzione, di G. Frison: cfr. Linnaeus, Beckmann, Marx and the foundation of Technology. Between natural and social sciences: a hypothesis of an ideal type. First Part: Linnaeus and Beckmann, Cameralism, Oeconomia and Technologie, in History and Technology, 1993, vol. 10, pp. 139-160; Beckmann, Marx, Technology and Classical Economics, “History and Technology”, 1993, vol. 10, pp. 161173. Ma si guardi dello stesso autore anche Technical and technological innovation in Marx, “History and Technology”, 1988, vol. 6, pp. 299-324.

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ogni riflessione approfondita sui temi della tecnologia e della sociologia dei processi di lavoro, ha costruito sulla microfisica nietzscheana delle forze la sua negazione di ogni gerarchia strutturale possibile dei piani di realtà e di ogni luogo possibile d’invarianza e di permanenza. 4. Il «corpo ontologico» di Martin Heidegger È del resto assai significativo che una medesima estraneità a una visuale sul moderno incentrata sulla diversa storia semantica di Technologie da un lato e di Technik dall’altro, con le diverse antropologie filosofiche cui quei due distinti lemmi rimandano, avesse già caratterizzato la tanto celebrata teorizzazione heideggeriana sulla tecnica. A conferma, nella mia visione, che anche una dottrina della tecnica, come quella heideggeriana, lontanissima dal tema nesso produzione di beni / produzione di corpi e basata invece sul principio ontologico dell’Essere, avesse mancato, com’è poi accaduto alla successiva biopolitica foucaultiana, di centrare il luogo cardine di produzione della modernità. Il lato più rilevante di quanto ha scritto Heidegger sulla tecnica, e che ha trascinato il consenso di un’intera generazione di studiosi  –  ignari o immemori di quanto si è appena detto riguardo alla diversa area di senso e di problematiche cui rimanda la Technologie del cameralismo tedesco rispetto alla Technique di area anglo-francese –, è la critica della definizione strumentale e antropologica della tecnica. «L’essenza della tecnica – scrive Heidegger  –  non è affatto qualcosa di tecnico»24. Non è un insieme di strumenti a disposizione dell’essere umano, né è dunque un mezzo in vista di fini. Perché è invece qualcosa di profondamente connesso alla questione dell’Essere, cioè al piano ontologico di una realtà che nella sua radicale alterità trascende e fonda, insieme, il piano dell’esistenza umana. La tecnica nel mondo greco è poiesis, produzione, e la produzione è ciò che fa apparire nel mondo qualcosa che prima non c’era. «Ogni far-avvenire di ciò che – qualunque cosa sia – dalla non-presenza passa e si avanza nella presenza è ποίησις, pro-duzione [Hervor-bringen]»25. Il produrre porta alla luce ciò che è nascosto. Lo disvela, lo libera. Lo lascia avanzare nell’avvento, nella presenza. Per questo la tecnica attiene, ben prima che all’ambito dell’utile, a quella del vero. «La tecnica è un modo del disvelare. La 24  M. Heidegger, La questione della tecnica, in Id., Saggi e discorsi, tr. it. a cura di G. Vattimo, Milano, Mursia, 1991, p. 5.

  Ivi, p. 9.

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tecnica dispiega il suo essere (west) nell’ambito in cui accadono disvelare e disvelatezza [Unverborgenheit], dove accade l’ἀλήϑεια, la verità»26. La tecnica nella Grecia antica non è un operare dell’uomo perché appartiene al disvelare, quale modalità precipua di un Essere che dal nascondimento si porta alla presenza, viene all’apparire. Rispetto a questo piano metafisico che emerge nella disvelatezza l’essere umano con la sua azione si carica di responsabilità: della responsabilità, appunto, di aiutare, di collaborare a far venire alla luce, a far-avvenire [Veran-lassen] quanto trapassa dalla nonpresenza alla presenza. L’essere umano produttore non è soggetto del processo dell’Hervor-bringen, del produrre. È solo colui che ascolta e risponde all’appello di ciò che emerge alla luce. E, in questo senso, è, come vuole la dottrina di Aristotele, causa efficiens accanto alle altre tre cause che caratterizzano l’operare (causa materialis, causa formalis, causa finalis). Dove causa, aithìa, sta a significare, secondo l’interpretazione che ne dà Heidegger, non ciò che è principio e messa in azione di un effetto, ma «ciò che è responsabile di qualcos’altro». Appunto come le quattro modalità della responsabilità di far venire alla luce quanto ha da disvelarsi e schiudersi alla presenza27. Ma tanto più ha a che fare con la storia dell’Essere, e non con la storia degli esseri umani, il discorso di Heidegger quando dalla tecnica antica passa alla tecnica moderna. Del resto propriamente storia [Geschichte] per Heidegger significa certamente, non storia delle azioni umane, quanto invece storia degli invii destinali dell’Essere. Le diverse epoche storiche si scandiscono in base ai loro diversi destini e «destino» [Geschick], com’è ben noto, secondo le celeberrime e tanto discusse etimologie heideggeriane, è sinonimo di invio, ogni epoca storica ubbidendo e rispondendo a   Ivi, p. 10.   Bisogna rivolgersi alla psicologia storica e in particolare agli studi di J.-P. Vernant (cfr. soprattutto Mito e pensiero presso i Greci, tr. it. di M. Romano, B. Bravo, Torino, Einaudi, 1982) per trovare un’interpretazione, lontana dalla mistica heideggeriana, che metta a tema in modo adeguato la visione della techne nel mondo greco quale orizzonte socio-culturale non riducibile al significato strumentale e antropocentrico acquisito dal termine «tecnica» nella cultura moderna. E che argomenti, in termini concettualmente perspicui, come e perché nel mondo greco antico la techne non potesse rimandare alla presunta centralità del cosiddetto homo faber. Gli studi della storiografia e della psicologia storica francese hanno dimostrato in modo assai convincente come l’uomo produttore nel modo greco classico sia figura secondaria e marginale rispetto a un ordo technicus iscritto strutturalmente nell’ordine della physis e come la techne sia produttiva in forza di una episteme, di una conoscenza che, nella sua priorità sottrae autonomia e valore all’atto costruttivo e pragmatico in quanto tale. Ma tale de-antromorfizzazione del concetto di techne nella cultura greca antica, all’opposto di quanto teorizzato da Heidegger, non ha alcuna fondazione nell’ontologia dell’Essere, anzi si definisce proprio in un superamento e in un affrancamento dell’Essere eleatico. 26 27

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una peculiare decisione dell’Essere. Così il tempo moderno è il tempo per eccellenza della tecnica perché esso risponde all’imposizione «che richiede all’uomo di disvelare il reale come “fondo”»28. Che il reale, la natura, sia fondo implica che essa «fornisca energia che possa come tale essere estratta [herausgefördert] e accumulata»29. Il fondo è la natura che ci sta di fronte non come oggetto ma come deposito di energie che possono essere portate allo scoperto, trasformate e immagazzinate, tali da poter essere impiegate per un ulteriore impiego. L’impiegabilità diventa il tratto caratteristico di una natura vista come deposito dei mezzi di un promuovere che mira a sua volta al promuovere, in una dilatazione enorme dell’operare. Ma appunto la tecnica non è strumento dell’uomo. Essa risponde alla provocazione dell’imposizione, scrive Heidegger, ma non la costituisce né la produce. Giacché l’imposizione a impiegare la natura come fondo appartiene all’atteggiamento con il quale, nell’epoca moderna, si disvela l’Essere. L’im-posizione è un modo destinale [Geschickhafte] del disvelamento, e precisamente il modo della pro-vocazione. Un modo destinale di questo tipo è anche quello del disvelamento pro-duttivo, la ποίησις. […] Il disvelamento è quel destino che, di volta in volta, repentinamente e in modo inesplicabile per qualunque pensiero, si spartisce nel disvelamento pro-ducente e nel disvelamento pro-vocante, e si impartisce all’uomo30.

È a partire dunque da una riattualizzazione di una categoria della filosofia, pure così arcaica ed estenuata, come quella di Essere, che Heidegger mette in atto la sua scorporazione del problema della tecnica dal corpo delle relazioni storiche e sociali e delle forme di vita che gli esseri umani hanno generato tra loro. Per assegnarlo a un modo della disvelatezza dell’Essere e farne la risposta a una richiesta, a un richiamo, che non proviene dall’uomo. Una scorporeizzazione, va aggiunto, apparentemente ricca di penetrazione e di originalità attinta nella descrizione della natura come fondo [Bestand], come luogo aperto all’impiegare e all’accumulare, ma che scotomizza, appunto, e rimuove quella relazione sociale di fondo che caratterizza e connota tutta la storia della modernità: e che consiste, almeno a mio avviso, come ormai avrà ben compreso il lettore, in quella relazione di valorizzazione e accumulazione del capitale, come ricchezza astratta, su cui Karl Marx ha scritto la sua opera fondamentale.  M. Heidegger, La questione della tecnica cit., pp. 17-18.

28

  Ivi, p. 10.

29

  Ivi, p. 23.

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Il concetto di tecnica nell’opera di Heidegger è lontano anni luce, come dovrebbe apparire evidente, dal concetto di tecnica/tecnologia presente negli scritti del Marx della maturità, di cui non a caso il pastore dell’Essere mostra di non avere sentore e conoscenza alcuna. Il significato di tecnica in Heidegger rimanda a un’ontologia e a una metafisica dell’Essere, cioè a una categoria, per chi scrive, arcaica e inutilizzabile della storia della filosofia, laddove in Marx rimanda a un’ontologia e a una metafisica del capitale, quale nesso sociale dominante e onnipervasivo della nostra modernità/ipermodernità, e, anziché rinviare alle avventure storico-religiose di un’astrazione linguistica reificata a Entità Suprema, comprende e struttura quel comando del corpo e della mente della forza-lavoro che è per «il Moro» la chiave di volta per comprendere, in tutta immanenza, il mondo e le relazioni sociali nelle quali viviamo. Del resto la dimensione del sostanziale venir meno della corporeità a me sembra essere la cifra generale di tutta la filosofia di Martin Heidegger, ben al di là del suo discorso sulla questione della tecnica e ben al di là di quella svolta (Kehre) del suo pensiero che segnerebbe il passaggio, secondo molti interpreti, da un’analitica esistenziale maggiormente volta ai modi dell’esistere dell’individualità umana a una filosofia che, privilegiando e dilatando la funzione dell’Essere, finirebbe con il collocare l’iniziativa umana nel fondo del palcoscenico. Giacché, anche nell’analitica esistenziale di Essere e tempo, è la sostituzione del corpo biologico dell’umano con il corpo ontologico – con un corpo cioè che prende senso da quel più proprio fondo esistenziale che è l’Essere – a garantire autenticità al progetto di vita di ognuno. In uno scambiarsi e collassare di corpi l’uno sull’altro, corpo biologico e corpo ontologico, che fa di Essere e tempo un libro che sembra approfondire con maestria la materialità emozionale del corpo umano proprio nel momento in cui, invece, la consegna a un’alterazione radicale indotta da quell’assolutamente Altro che è l’abissale natura dell’Essere. È insomma lo scarto epocale tra l’arcaicità e la consunzione della categoria di Essere da un lato e la sua riproposizione, all’opposto, come presunto massimo principio della contemporaneità e attualità della filosofia – proprio tale riproposizione operata con un decisionismo indubbio e inconcusso – che alimenta la potenza seduttiva, quasi fino alla sacralità, del discorso heideggeriano. Per cui non a caso Heidegger è stato definito «Führer della filosofia», come suona il titolo interrogativo di un saggio che Pierre Bourdieu ha dedicato al pensatore dell’Essere

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negli anni ottanta31, e la cui definizione appare congruo qui ricordare, in quanto è una sinossi che ben riassume il carattere apocalittico/palingenetico della filosofia di Heidegger e il radicalismo della rottura che essa ha preteso di muovere contro ogni continuità della storia e della civiltà occidentale: pari, appunto, alla radicalità della rottura che essa ha voluto porre nell’essere umano tra corpo biologico e corpo ontologico. E appunto la definizione di Heidegger come Führer della filosofia ben esplicita, io credo, quanto in una riproposizione paradossalmente moderna del principio ontologico il decisionismo, l’atto di volontà radicale, debba prevalere, fino ad annichilirlo, sul senso che viene dalla materialità e dalla emotività quotidiana e comune dell’esistenza. La grande maestria di Heidegger, soprattutto in Essere e tempo, è consistita, come si diceva, non nella capacità di riproporre il vecchio problema ontologico della differenza tra l’Essere e l’Ente, ma di riconiugarlo secondo una sensibilità e una problematica moderne, conseguite attraverso il suo discepolato husserliano, che incardinano il tema dell’Essere in quello della soggettività e delle sue strutture esistenziali, spiegate e concepite secondo modalità e causalità che vogliono essere assolutamente nuove e inedite. Das Sein, l’Essere, fondamento di ogni realtà e di ogni cosa esistente [Seiende], solo con un ente ha un rapporto privilegiato e speciale d’implicazione: con quell’ente che è l’essere umano e che, nel tedesco di Heidegger, viene definito Dasein (l’esserci qui, l’esistenza particolare e individualizzata). L’essere umano, il Dasein, a differenza di tutti gli altri enti esistenti, animati o inanimati, infatti, ha la caratteristica peculiare di non coincidere mai con se stesso. Egli è sempre intenzione e progetto. È sempre volto al futuro, è sempre un aver da essere il proprio essere. L’Esserci dell’uomo è cioè sempre in un costante superamento di sé, volto alla realizzazione possibile del suo essere più proprio. Per cui l’Esserci, diversamente dagli altri enti, non è mai una semplice presenza, coincidente con sé: è invece una costante differenza rispetto a se stesso, in una vicinanza-lontananza rispetto al proprio essere che, per tale sua strutturale apertura e mancanza interiore, lo fa esistenza protesa verso il futuro, radicale intenzionalità e trascendimento di sé. Il Da/sein è insomma un Esser/ ci in cui il qui dell’esistenza individuale è sempre diviso, scisso, anche nell’etimo del suo nome, dal suo essere. E proprio per questo, essendo l’esistenza umana il luogo in cui costantemente si discute, si problematizza 31  P. Bourdieu, Führer della filosofia? L’ontologia politica di Martin Heidegger, tr. it. di G. de Michele, Bologna, il Mulino, 1989.

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e si riflette sul proprio essere, essa è il canale privilegiato per comprendere la tematica ontologica e metafisica dell’Essere in generale. La distanza che struttura l’essere umano è dunque per Heidegger, non certamente quella che ci sta a cuore di corpo e mente, quella della risonanza emozionale del corpo biologico che dev’essere riconosciuta dalla mente umana, bensì quella tra il principio ontologico e non-umano dell’Essere e l’umanità dell’Esserci. Una distanza da un piano così abissalmente lontano dalla vita dei corpi umani e dalle loro necessità biologiche e materiali che, appunto non vi potrà mai essere, coincidenza e appropriazione tra l’esistenza del singolo e la dimensione metafisica, al di là della fisica, del suo principio originario. Dato che appunto esistenza vale come ex-sistentia, prendere senso cioè da qualcosa che permane in un Altrove, radicalmente separato e fuori di sé. Ma vediamo meglio cosa derivi dal plesso di differenze che Heidegger ha definito «differenza ontologica» e per il quale l’Esserci umano, non potendo mai afferrare completamente se stesso, è differente dal proprio Essere, ed è nello stesso tempo differente dall’esistenza di tutti gli altri enti, che non possiedono questa apertura dentro di sé. Quali conseguenze cioè derivino dalla messa in campo, in filosofia, della differenza ontologica e, in particolare, sia sul piano di ciò che tradizionalmente è stato chiamato soggetto, sia su quello di ciò che tradizionalmente è stato chiamato oggetto. Il fatto che una persona umana sia un Esser/ci, e dunque, come s’è detto, una costante apertura in se stesso, alla ricerca del proprio sé, implica che, per tale non coincidenza con sé, l’Esserci non possa avere di se stesso una percezione cognitiva – un’autointuizione chiara e distinta come accadeva con il cogito di Descartes e l’Ich denke di Kant  –  bensì non possa avere che un sentire, un sentimento, quella che Heidegger ha chiamato la «situazione» o la «tonalità emotiva» [Befindichkeit]: ossia un affetto, una spinta emozionale, sull’onda della quale l’essere umano, aperto in se stesso, apre progettualmente e intenzionalmente il mondo, dando così senso agli enti del mondo, che si mostrano appunto come utilizzabili, come mezzi impiegabili per i nostri scopi. È nell’affetto, nell’emotività, dunque – e non nel logos, nel pensiero conoscitivo attraverso il discorso e la ragione  –  che giace il fondo del Dasein: in un’emotività che dirige il nostro modo di vedere il mondo, di utilizzarlo e di disporlo, di conoscerlo e di ordinarlo. È nell’affetto, nella «cura» (Sorge), che giace la precomprensione, il nostro progetto di vita, prelogico e prerazionale, che dischiude e apre il senso del mondo, e che sta in relazione con le cose/enti, a seconda della loro utilizzabilità,

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impiegabilità o dannosità rispetto al nostro operare. Da questo punto di vista le cose non sono mai irrelate e altre dalla nostra esistenza, non sono mai un oggetto distinto e separato da un soggetto, perché esistono solo all’interno e per un progetto di realizzazione del Dasein. Laddove la conoscenza razionale, le scienze, che separano l’oggettivo dal soggettivo e che concepiscono un mondo esterno e indipendente dalla soggettività, sono solo un qualcosa di secondario, un’elaborazione derivata da tale modalità primaria ed emozionale di dare senso e significato al mondo. Le cose e gli accadimenti del mondo non sono dunque per Heidegger mai delle «semplici presenze», objecta, visti, considerati e riflessi da un osservatore – da un occhio – a essi esterno. Anche se questo modo di vedere il rapporto tra essere umano e mondo è sempre stato quello dominante nel pensiero occidentale e nella storia della filosofia. Le cose sono invece in primo luogo degli strumenti per, mezzi per un’azione: e lo strumento è costituito non da una cosa che sta meramente lì, che è solo presente, ma da un complesso di relazioni, di rimandi: all’uso per cui è utilizzabile, alle persone che se ne servono, al materiale di cui è fatto. Il mondo non è caratterizzato dall’oggettività, ma dalla «rimandatività» dei suoi utilizzabili, di cui è massima espressione il linguaggio, il quale è l’utilizzabile per eccellenza ed è composto da segni il cui uso è, appunto, null’altro che quello di rinviare a significati. Ma perché la vita dell’essere umano, il prendersi-cura dell’Esserci, non si ritrovi gettato nella progettualità impersonale e massificata comune a tutti, nella chiacchiera del Si che impedisce a ognuno di realizzare se stesso, è necessaria la decisione, come apertura rispetto al proprio poteressere più proprio, che individualizza il nostro vivere rispetto all’impersonalità e la deiezione di un’esistenza pubblica e collettiva. «L’Esserci, in quanto Si-stesso, è “vissuto” negli equivoci della comprensione ordinaria della pubblicità in cui nessuno decide e che, tuttavia, ha già sempre “deciso”. Decisione significa lasciarsi risvegliare dalla perdizione nel Si»32. Ora il passaggio fondamentale in Heidegger è che la decisione verso le possibilità più proprie è fondata sulla decisione anticipatrice della morte, in quanto questa è «la possibilità più propria e autentica» dell’essere umano. Cosicché solo attraverso «l’esser-per–la-morte», attraverso l’anticipazione della sua possibilità più propria, l’essere umano può raggiungere la sua lontananza più estrema da ogni realtà più comune e collettiva, può nientificare ogni rapporto estraniante con il mondo, e attingere  M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976, p. 362.

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quella nullità che è presupposto della sua libertà di scegliere ogni sua più propria possibilità in ogni situazione possibile. La decisione anticipatrice dell’essere-per-la-morte, attraversando e sostenendo l’angoscia davanti al nulla della morte, rende l’essere umano capace di nientificare la solidità di ogni dimensione gruppale, la necessità di ogni dipendenza di riconoscimento da parte del Si impersonale. Attraverso la mediazione del Nulla quella decisione traduce l’esistenza dal piano della necessità a quello della possibilità. Più precisamente la apre alla dimensione di volere e potere il possibile, del possibile che non apre su nulla di determinato ma che pure è assolutamente necessario. Con la conseguenza, per quello che qui c’interessa maggiormente sottolineare, che l’essere più propriamente in comune degli esseri umani è l’«essere per la morte», quale consapevolezza la più rigorosa, della finitudine del Dasein e della sua destinazione più autenticamente progettuale: istituita sull’assolutezza di una «possibilità» che nientifica ogni «necessità» imposta da contesti dati di storia e di vita, per aprire l’esistenza individuale a un orizzonte ulteriore. «L’essere-per-la-morte, come anticipazione della possibilità, rende possibile la possibilità e la rende libera come tale»33. A guardar bene dunque il Dasein in tanto è un Mitsein, un essere con gli altri, in quanto ha in comune con tutti gli altri un fondo, anzi il fondo che costantemente lo altera e lo rende improprio, nel senso della mancanza di proprietà, rispetto a se stesso. Vale a dire che l’individuo non incontra una comunità, bensì ne partecipa in modo originario attraverso la sua natura ex-statica, quale ex-sistentia, che si possiede solo rinunciando al suo esistere naturale e alterandosi nell’assolutamente Altro da cui deriva. Quell’assolutamente Altro che ci unifica a priori, ancor prima di essere fisicamente nati, perché apre da sempre il Dasein in un essere-con, in uno spazio comune con ciascun altro Dasein: a mezzo dell’espropriazione, ontologica e preoriginaria, che in anticipo il Sein compie del nostro Da/ sein, liberato da una rappresentazione riduttiva di sé quale semplice ente naturale e quale presunta presenza e padronanza di se medesimo. Così se il Dasein ha una costituzione che è intrinsecamente alterazione, in quanto ha a proprio fondamento l’assolutamente Altro, la sua più autentica appropriazione di sé consiste propriamente nell’espropriazione che gli arriva attraverso l’invio e la chiamata dell’Essere. La sua più autentica appropriazione significa nientificazione della sua corporeità storicobiologica, della catena generazionale, psichica e sociale, da cui nasce la 33

  Ivi, p. 319.

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sua individualità, e decisione dell’ accoglimento del Nulla, del non-essere della morte come luogo privilegiato di provenienza e di senso della sua esistenza. Il decisionismo radicale con il quale Heidegger ha curvato la lezione fenomenologica del suo maestro Husserl nel verso di una riproposizione onto-teologica della questione arcaica e consumata dell’Essere, riformulando in termini moderni un’ispirazione intrinsecamente religiosa, è pari  –  oltre che alla cecità abissale di vedere nel nazionalsocialismo di Hitler una nuova epoca dell’umanità tedesca ed europea – alla radicalità della scissione che un essere umano, rinominato Esserci, deve operare nei confronti del proprio corpo biologico ed emozionale. Ed è appunto questa mossa filosofica in pari tempo così audace e così genialmente reazionaria che legittima pienamente il titolo di Führer della filosofia e nello stesso tempo ci sollecita, con l’aiuto di antichi maestri, a ritornare criticamente sulla questione dell’Essere e a svelarne l’iscrizione originaria nelle nebbie di un orizzonte ancora magico e primitivo.

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CAPITOLO QUINTO GUIDO CALOGERO ED ERNST CASSIRER: LA CRITICA ALL’ARCAISMO DELL’ESSERE DI HEIDEGGER

Quando Guido Calogero, all’età di ventitre anni, si reca in Germania nel 1927, a spendere con la frequenza di due semestri presso l’Università di Heidelberg una borsa di studio per il perfezionamento all’estero, ha già composto nella sostanza la sua prima opera significativa: un’elaborazione della tesi di laurea sostenuta nel 1925, che apparve con il titolo I fondamenti della logica aristotelica, per i tipi fiorentini di Le Monnier. Nello stesso anno Calogero otteneva la libera docenza di Storia della filosofia, per divenire di lì a poco, nel 1931, all’età di soli ventisette anni, professore di ruolo nell’Università di Firenze, per passare poi, appena trentenne, a Pisa, a insegnare sia alla Sapienza pisana sia alla Normale. È appena il caso qui di sottolineare la precocità, non solo accademica, quanto di produzione storiografica e teoretica del giovane Calogero e quanto tale precocità ebbe a segnare successivamente, perfino drammaticamente, la sua intera vita. Anche perché di ciò ha scritto assai bene con la finezza psicologica e l’acume teoretico che lo caratterizza Gennaro Sasso1. Mentre ciò che qui più preme ricordare è che il Calogero ventitreenne che si reca a Heidelberg, dove seguirà per l’anno 1927-1928, corsi di Ernst Hoffmann, Klibansky, Jaspers e Rickert, ha già acquisito quel filosofema fondamentale e di lì irrinunciabile della sua visione del mondo, consistente nella distinzione tra «logo apofantico» e «logo semantico», che attraversa la sua interpretazione dell’intera logica aristotelica, vista come giustapposizione e intreccio tra una «logica noetica» e una «logica dianoetica». Logo apofantico (o logo asemantico) e logo semantico significano rispettivamente pensiero senza linguaggio e pensiero con linguaggio, ovvero che altro sia un pensiero che pensa secondo immagini e rappresentazioni, secondo scene e figure, che pensi cioè non in parole ma in idee, «se intendiamo questo termine – come scriverà poi Calogero nelle pagine più tarde dell’Estetica – nel suo originario significato greco, di forma visiva 1   Cfr. G. Sasso, Guido Calogero. Considerazioni e ricordi, in Id., Filosofia e idealismo. III. De Ruggiero, Calogero, Scaravelli, Napoli, Bibliopolis, 1997, pp. 127-176.

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dell’oggetto, di raffigurazione, presente all’occhio dello spirito, dell’immediato volto del reale»2, e altro un pensiero che si presenti come composizione di parole, in quanto quest’ultimo, connotato da una strutturale semanticità, quale rimando di un segno a un significato, in cui il destino dello strumento linguistico è quello di richiamare, oltre la sua immediata presenza, un altro contenuto mentale. Che, di contro alla tesi dell’estetica crociana dell’identità di intuizione ed espressione, una cosa sia per Calogero l’«ideazione diretta», quale forma di un pensiero costituito essenzialmente di rappresentazioni visive e di contenuti asemantici, e un’altra sia l’«ideazione parlata»3, in cui è la trama del linguaggio, con la sua valenza simbolica, a subentrare alla visiva intuizione delle cose. E che dunque una cosa sia il pensare in quanto ambito dell’intuizione e tutt’altra il pensare in quanto ambito della significazione-comunicazione. Ammettendo ovviamente Calogero che si dia molto pensiero in cui il contenuto semantico non sia immediatamente raffigurabile, perché costituito da concetti, come nell’espressione «Il pensiero classico concepì la divinità come adiafora e autosufficiente»4, dove è chiaro che i significati del logos nascono dallo stesso discorso che li genera, ma con la riaffermazione da parte del nostro autore che anche i concetti  –  ovvero i termini più astratti, più universali, che in prima istanza non sono oggetto di visione bensì prodotto di linguaggio – non possano che essere terminazioni, cioè rimandare alla fin fine, in ciascun parlante, proprio per la loro natura di segni che spingono oltre se stessi, alla tesaurizzazione e alla sedimentazione, con diverso grado di stratificazione, di esperienze mentali asemantiche e concrete. Due modalità del pensiero, quella asemantica e quella semantica, o nel linguaggio di Calogero interprete di Aristotele, quello della logica noetica e quello della logica dianoetica, che si organizzano rispetto a due diversi principi: rispettivamente il principio di determinazione e il principio di contraddizione, o meglio, il principio che evita la contraddizione. Il primo che ci dice che legge inevadibile e necessaria del nostro pensare è che, quale che sia il contenuto del nostro pensiero, esso non può mai essere l’infinito o l’indeterminato, bensì sempre un determinato tale proprio perché lascia fuori di sé l’intero campo di ciò che esso non è, e dove l’identità è sinonimo di determinatezza e il non essere sinonimo di  G. Calogero, Lezioni di filosofia, Estetica, III, Torino, Einaudi, 1960, p. 169.   Ibidem.

2 3

  Ivi, p. 183.

4

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alterità. «Lungi dal Tutto, e dal Nulla – scriverà Calogero nelle Lezioni di filosofia  –, sono sempre legato al Qualcosa»5. Il secondo principio, principio dianoetico di contraddizione, o principio dell’onestà dialogica e disserente come anche poi lo chiamerà Calogero, che esorta a chi compone e costruisce giudizi a non mutare durante l’esposizione l’«apofasi» in «catafasi» o viceversa, ovvero a vietare di porre ciò che si è costituito come affermazione o negazione rispettivamente, e, al contrario, come negazione o come affermazione. Tutto ciò per dire, di nuovo a proposito della precocità intellettiva e interpretativa di Calogero, che egli certamente non giunse sprovveduto sul piano sia teoretico sia storico-filosofico, malgrado la giovane età, all’incontro diretto con la cultura tedesca, quale sperimentò nei due semestri trascorsi a Heidelberg, in modo specifico con gli studi di filosofia antica di Ernst Hoffmann e con l’orizzonte culturale del neokantismo mediatogli da Heinrich Rickert, Raimond Klibansky e, per quello che qui maggiormente interessa, dal pensiero di Ernst Cassirer. E infatti è sull’influenza che su Calogero può aver avuto l’opera di quest’ultimo che a mio avviso lo sguardo va maggiormente fissato. Giacché nella Philosophie der symbolischen Formen, in particolare nel secondo volume, vengono svolte delle considerazioni sulla compenetrazione, nell’antico pensiero presocratico, tra linguaggio e realtà, tra simbolo e cosa simboleggiata, la cui analogia, anzi la cui pressoché identità, con le tesi calogeriane – esposte prima negli Studi sull’eleatismo del 1932, poi nei saggi di filosofia antica, composti tra il 1933 e il 1935 ed entrati a far parte del tardo volume sulla Storia della logica antica, volume I, L’età arcaica, pubblicato nel 1967 – risulta, a mio avviso, indubitabile. Nel complesso degli scritti di Calogero i riferimenti a Cassirer, a dire il vero, sono assai laconici e poco numerosi. Viene citato più volte negli Studi sull’eleatismo, ma non in riferimento alla Filosofia delle forme simboliche, bensì al saggio minore del 1925, Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon. Mentre nella Storia della logica antica viene citato due volte, la prima insieme all’Hoffmann autore di Die Sprache und die archaische Logik a proposito della «forte influenza esercitata dal motivo linguistico sulla logica arcaica»6, la seconda da solo e quale autore della Filosofia delle forme simboliche. Ma la scarsezza delle citazioni non contraddice il rilievo, su cui per primo ha riflettuto anche qui acutamente, 5

 G. Calogero, Lezioni di filosofia. Logica cit., I, p. 36.

6

 G. Calogero, Storia della logica antica, vol. I, L’età arcaica, Bari, Laterza, 1967, p. 97.

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per un nuovo materialismo

Gennaro Sasso7, della sostanziale affinità tra le tesi del filosofo amburghese, già elaborate nel 1923, e quella che sarà l’interpretazione calogeriana del cominciamento della filosofia greca, espressa in forma più ellittica prima con gli Studi sull’eleatismo e poi, inframmezzate da molti anni e da molte cose nella vita di Calogero, in forma più distesa ed esplicita nelle pagine della Storia della logica. L’adesione di Cassirer al neokantismo, quale corrente dominante la filosofia tedesca della seconda metà dell’Ottocento, si esprimeva, com’è ben noto, nell’espulsione dal criticismo di Kant di ogni possibile permanenza naturalistica e realistica. L’operazione teoretica del filosofo amburghese muoveva da una trasvalutazione e una ricollocazione della kantiana «cosa in sé» da limite esterno a limite interno del processo conoscitivo, attraverso la triplice lettura e definizione che ne dava in particolare sul testo dell’Erkenntnisproblem, e più complessivamente da un’antropologia basata sulla trasformazione del mondo passivo ed empirico delle impressioni in un mondo attivo di espressione e creatività spirituale. Il dato fisico, materiale, naturale nel soggetto umano vive per Cassirer costantemente risignificato, compreso e interpretato alla luce di un’attività di senso e di forma autonoma – sia essa il linguaggio, la conoscenza scientifica, il mito, l’arte, la religione – che trasvaluta il contenuto sensibile a essere corpo e simbolo di una funzione organizzativa appunto non sensibile ma spirituale e simbolica. In una articolazione di forme simboliche, il cui insieme organico costituisce l’intero mondo della cultura umana, ma la cui organicità non si sottrae a una tendenziale disposizione gerarchica a mano a mano che si proceda verso quell’agire simbolico per eccellenza che è la scienza, in cui ogni dato sensibile viene non solo risignificato secondo una logica altra ma addirittura dissolto nel suo preteso consistere fisico in quanto risolto in un puro fascio di relazioni. Ma ciò che qui interessa maggiormente sottolineare è la tesi della originaria indistinzione tra parola e cosa8, tra simbolo e simboleggiato che per Cassirer caratterizza sia la genesi del linguaggio sia la costituzione del pensiero mitologico e magico. Nel primo volume delle Forme simboliche Cassirer scrive infatti: «la prima riflessione sul mondo nel suo complesso è caratterizzata appunto dal fatto che per essa linguaggio ed essere, parola 7  G. Sasso, L’esegesi parmenidea di Guido Calogero, in Id., Filosofia e idealismo cit., pp. 177-299. 8   Di una «unlösischen Zusammenhang von Denken und Sprache» parla il già ricordato saggio di E. Hoffmann, Die Sprache und die archaische Logik (Tübingen 1925, p. 5) che G. Calogero recensisce nel “Giornale critico della filosofia italiana”, 5, 1925, pp. 296-305.

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critica all’arcaismo dell’essere di heidegger

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e significato non si sono ancora separati tra loro, ma appaiono a essa come un’unità indivisibile»9. E ancora: La parola non è designazione e denominazione, non è un simbolo spirituale dell’essere, ma è essa stessa una parte reale di esso. La visione mitica del linguaggio, che ovunque precede la visione filosofica, è da cima a fondo contrassegnata da questa equivalenza di parola e cosa. Per essa nel nome di ciascuna cosa è racchiusa la sua essenza. Alla parola e al suo possesso si legano immediatamente effetti magici10.

Svolgendo in forma di storia l’assunto teoretico fondamentale del suo neokantismo, secondo il quale l’attività dello spirito muove dalla natura, dall’oggettività, dall’empirico, dal presupposto di un mondo esterno ma solo per risignificarli e produrli attraverso la propria autonomia spirituale di senso e di funzione, Cassirer vedeva, prima della genesi della filosofia e del pensiero raziocinante-discorsivo, un mondo prefilosofico, un mondo mitico, per il quale il linguaggio non poteva che apparire come qualcosa di esterno, di dato, di oggettivo rispetto alla sfera dei parlanti. Ovvero un linguaggio mitico, che invece di essere animato da una sua funzione di convenzionalità e arbitrarietà simbolica, si proponeva come, non simbolo, bensì come cosa, ossia come identico alla cosa significata, in una inscindibile unità con essa. Come testimoniava, per eccellenza, il suo uso magico, per il quale l’uso e il possesso della formula di rito era in grado, non di simboleggiare, ma di modificare, operare e agire direttamente sulla realtà. Per la visione mitica, scriveva Cassirer, nel nome di ciascuna cosa è racchiusa la sua essenza. Alla parola e al suo possesso si legano immediatamente effetti magici. Chi si rende padrone del nome e sa usarlo, acquista così anche il suo dominio sullo stesso oggetto e lo fa proprio con tutte le forze che sono in esso. Tutta la magia della parola e del nome poggia sul presupposto che il mondo delle cose e quello dei nomi siano un’unica realtà perché costituenti un unico nesso di azione e in se stesso indiviso. La medesima forma di sostanzialità e di causalità vige in ciascuno di essi e li lega tra loro in un tutto in se stesso chiuso11.

Così per la mentalità magica l’identità tra nome e cosa, tra simbolo e simboleggiato è tale che il linguaggio ha una funzione, prima che simbolica e denotativa, pratica e performativa, perché appunto è suono/cosa/ azione che agisce, modificando e trasformando lo stato delle cose. 9  E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I, tr. it. di E. Arnaud, Firenze, La Nuova Italia, 1967, p. 63.

  Ivi, p. 64.   Ibidem.

10 11

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per un nuovo materialismo

Mito e linguaggio – afferma Cassirer – si trovano in continuo e reciproco contatto; i loro contenuti si appoggiano e si condizionano reciprocamente. Oltre all’immagine magica vi è la parola magica, il nome magico, che forma parte integrante della concezione magica del mondo. Ma anche qui il presupposto decisivo è che parola e nome non hanno soltanto una funzione espressiva, ma racchiudono in sé l’oggetto stesso e le sue potenze reali. Anche la parola e il nome non già indicano e significano, ma sono e agiscono12.

Ora in questa sede non interessa approfondire troppo, come pure si dovrebbe, i problemi e le difficoltà della riflessione cassireriana. Legate non tanto a una qualche facile sovrapposizione tra magia e mitologia, pure presente nel testo delle Formen, che per altro si accompagna, si potrebbe obiettare, nell’impianto di quei primi due volumi, alla consapevolezza da parte del filosofo amburghese di una chiara distinzione, nell’evoluzione cronologica della storia, tra magia e mito. «Il mito – scrive Cassirer nel primo volume delle Formen – non appena supera la fase della più primitiva “prassi” magica, che si sforza di ottenere un effetto particolare mediante l’applicazione di un mezzo particolare, e che quindi collega un singolo a un altro singolo nell’immediato operare, sia pure in una forma ancora così rozza e imperfetta, già penetra, così facendo, in una nuova sfera dell’universalità. In quanto forma conoscitiva è essenziale a esso, come a ogni altra conoscenza, il processo verso l’unità. Se le entità e le forze spirituali nelle quali vive il mito debbono essere dominabili dall’agire dell’uomo, esse debbono già mostrare in se stesse certe determinazioni permanenti […]. Quanto più il pensiero mitico procede nel suo cammino, tanto più le singole forze demoniache cessano di essere mere “divinità del momento” o “divinità particolari”; tanto più si rivela tra di esse una forma di subordinazione, una forma di organizzazione gerarchica»13. Anche perché l’aporia maggiore dell’opera di Cassirer appare collocarsi altrove, ossia nel rapporto tra il tempo della diacronia storica e il tempo senza tempo della struttura trascendentale che attiene a ogni forma del simbolico, in quanto ne definisce la funzione specifica in cui il simbolo informa ed elabora il dato della vita immediata, in modo appunto specifico e difforme da quello di tutte le altre forme. Vale a dire che la filosofia della cultura di Cassirer soffre della compresenza e della incongruenza in essa di due tempi, quello storico e diacronico da un lato dello sviluppo progressivo dalla magia, attraverso il mito e la religione, alla scienza moderna; 12

  Ivi, vol. II, pp. 59-60.

13

  Ivi, vol. I, pp. 64-65.

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e il tempo logico e sincronico, dall’altro, della pari dignità e legittimità trascendentale di tutte le forme simboliche, quanto alla capacità di ciascuna di trascendere l’esperienza come impressione e di tradurla nell’esperienza come espressione. Anche perché ciò rimanda al quesito di fondo di come si possa dare un’impressione che sia originariamente immune da interpretazione ed espressione, come pure deve teorizzare, senza darne spiegazione sufficiente, Cassirer con l’intero neokantismo, affinché su quell’embrione di vita passiva, di frammento interiorizzato di cosa-in-sé, possa accendersi e svilupparsi in tutta la ricchezza del simbolico la vita come spirito e come cultura. Quello che qui preme rilevare è altro, è l’intensità dell’analogia con la tesi cassireriana dell’indistinzione tra realtà e parola che appare caratterizzare gli scritti di filosofia antica composti da Guido Calogero, dopo il soggiorno tedesco, a cavallo tra gli anni venti e trenta. Si pensi naturalmente alle numerosissime voci composte per l’Enciclopedia Italiana sotto la direzione di Giovanni Gentile, agli Studi sull’eleatismo e ai diversi saggi sulla filosofia presocratica composti entro il 1935 e che entreranno poi a far parte, come si è già ricordato, del più tardo primo volume della Storia della logica antica. È noto – scrive Calogero – come la mentalità primitiva non distingua il significante dal significato, almeno nel senso che considera il primo sullo stesso piano di realtà proprio del secondo. La parola è pari alla cosa, in quanto ha la stessa esistenza e potenza della cosa. […] Come la distinzione della verità soggettiva dalla realtà oggettiva non è un’esperienza originaria ma il risultato di un processo storico, così l’estrazione della verità necessaria dalla sua contingente veste linguistica, la consapevolezza che il pensiero giusto è uno ma molte sono le parole che possono esprimerlo, si vien realizzando solo attraverso un prolungato corso di riflessioni, all’inizio del quale essa è ancor sostanzialmente ignota14.

Orbene è parimenti noto, possiamo aggiungere noi, anche a chi, da non specialista, frequenta gli studi di filosofia antica, quanto tale tema dell’indistinzione tra struttura del reale e sua espressione semantica, tra logos come esito del leghein, nel senso del raccogliere, in cui si stringe e si sintetizza la legge della realtà, e logos, come luogo del leghein, in quanto dire e comunicare – tale tema della coalescenza arcaica –, si sia fatto in Guido Calogero un criterio irrinunciabile, per non dire il canone per eccellenza, della sua interpretazione del mondo antico, sia in sede storiografica sia in sede teoretica, a partire almeno dall’esegesi dell’essere di  G. Calogero, Storia della logica antica cit., p. 44.

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Parmenide, quale principio ontologico in cui precipita e si sedimenta l’ipostasi e l’assolutizzazione della semanticità del verbo essere. Ma analogia non significa identità. Calogero giunge, come si diceva, con una caratterizzazione filosofica già avviata e in parte già consolidata all’incontro con la cultura tedesca e in particolare con l’orizzonte storiografico e teoretico del neocritismo. Cosicché le sollecitazioni che accoglie da Cassirer sul tema del linguaggio vengono curvate in una cornice categoriale già propria e personale. La differenza che si dà tra Cassirer e Calogero, e che giustifica a mio avviso la definizione del loro incontro ideale come un incontro a distanza, è quella tra un filosofo della cultura, in cui la struttura teoretica delle forme simboliche obbliga, abbiamo visto problematicamente, a una distensione di quelle medesime forme nell’evoluzione diacronica della storia, e un giovane filosofo che, addestrato alla scuola gentiliana dell’atto puro e alla pienezza di una luce della coscienza che non ammette gradi preconsci o prelogici, si occupa, assai meno di Cassirer, della storia del pensiero magico e mitologico, dedicando tutta la sua attenzione a quanto e come il non-filosofico produca degli effetti e dei filosofemi all’interno già della filosofia, a quanto cioè il mondo magico continui a operare e a generare strutture di pensiero in un mondo già non-magico. Si potrebbe aggiungere, con maggiore rigore del più maturo maestro amburghese, giacché mentre questi ha difficoltà a spiegare nel suo sistema come e perché si esca dalla totalità di una forma simbolica per accedere a un modo altro di simbolizzazione, ciò su cui riflette Calogero è invece proprio questo nesso, d’implicazione e d’intreccio tra due modi del rappresentare e del conoscere e sulle patologie filosofiche che da tale intreccio nascono e si strutturano. Insomma Calogero, per formazione culturale e attitudine teoretica, non è studioso del pensiero magico o delle antropologie primitive. Arriva a Heidelberg già con un ripensamento avviato della filosofia dell’atto di Gentile in una sua filosofia della presenza, che tematizza l’onnipresente e mai oggettivabile presenza della coscienza a se medesima, che fa cadere ogni possibilità di filosofia del conoscere, e per la quale ciò che è di vitale interesse non è la storia di ciò che la precede e sta fuori dei suoi confini bensì di ciò che all’interno della sua presenza la mina e la opacizza, rendendola incapace di usufruire e godere pienamente di sé. Tale attitudine, assai più teoretica che non storica, si sposa in Calogero con una profondissima e raffinatissima cultura filologica, attinente al mondo classico, greco in particolare, acquisita anche attraverso

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le vie facilitanti del proprio romanzo familiare15. E proprio tale endiadi mentale, fatta di disposizione alla chiarezza teoretica e di padronanza ricchissima della lingua greca, indirizza Calogero a una utilizzazione del paradigma dell’indistinzione arcaica tutta interna alla storia della cultura greca, alla ricerca delle trame linguistiche e teoretiche insieme che ne diano testimonianza e conferma. Come quando, considerando l’opera tragica di Eschilo, vi ritrova una ripetuta prova della persistenza dell’arcaico senso del linguaggio nel convincimento che il destino e la vicenda di vita di un singolo vengano serrati e iscritti nel suo nome. Documentazione massima di questa considerazione eschilea – scrive Calogero – è il coro dell’Agamennone – solo di qualche decennio posteriore all’età in cui fu presumibilmente composto il logos di Eraclito – in cui il nome di Elena è giudicato «verace» in quanto è interpretato come equivalente a elenaus, «distruttrice di navi»: chi le dette quel nome «la chiamò in modo assolutamente veritiero» [onomazen es to pan etetumos]16. Dove lo ionico étumon léghein vale come l’attico orthòn léghein, parlare esattamente: come colui che ha imposto all’argiva il nome di Elena, «qualcuno», come dice Eschilo, «che sfugge alla nostra vista, il quale, mercé la sua prescienza di quanto era destinato, diresse la sua lingua in modo da coglier nel segno»17. E a muovere di lì l’attività storiografica del filosofo romano è consistita ininterrottamente nel ricercare, scovare e definire con acribia e precisione tutti i luoghi in cui le esigenze del significante gli sono apparse prevalere sulle esigenze del significato, in cui cioè i modi di pronunciare la cosa appaiono condizionare e piegare secondo l’astrarsi e l’assolutizzarsi della loro logica linguistica i modi di pensare la cosa. Insomma, nel sottolineare la differenza più rilevante che si evidenzia nel nostro confronto ideale tra Cassirer e Calogero, e più in generale tra neocriticismo e filosofia d’ispirazione attualistica, va detto che l’interesse di fondo di Calogero, riguardo al tema della coalescenza arcaica, sia stato nell’indagare e utilizzare quel tema non nel suo darsi prima della filosofia

15   Il padre di Guido Calogero, Giorgio Calogero era stato professore di francese nei licei, mentre la madre Ernesta Michelangeli, figlia di Luigi Michelangeli, professore universitario di letteratura greca, era stata una delle prime studentesse laureate nell’Università di Messina e, come ricorda lo stesso figlio nella sua prefazione alla seconda edizione (1968) de I fondamenti della logica aristotelica, si era laureata in lettere con una tesi su La donna in Senofonte (Bologna, Andreoli, 1899) e in filosofia trattando de La missione della donna (Bologna, Zanichelli, 1901)».

 G. Calogero, Storia della logica antica cit., p. 75.

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  Ibidem (Eschilo, Agamennone, vv. 681-685).

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e della sua storia bensì nel suo porsi a principio e all’interno della filosofia. A voler dire cioè, secondo quanto si diceva all’inizio, che quell’incontro si è, verosimilmente, disposto secondo una linea tangenziale, per la quale l’indubitabile coincidenza e sovrapposizione in un punto teorico non ha impedito che lo svolgimento di un medesimo luogo musicale s’inscrivesse in romanzi sinfonici assai diversi tra loro. La filosofia non può nascere da se medesima, non può nascere come Minerva dalla testa di Giove. Deve, di necessità, nascere da ciò che la precede, dalla non-filosofia. E ciò che la delimita, per la natura dialettica del limite, non costituisce solo il suo esterno ma anche il suo interno, il suo principio. Per la mentalità arcaica, di cui partecipano ancora e in qualche modo i pensatori presocratici, il linguaggio è, in parte, ancora intrinsecamente performativo, produce realtà, è realtà. Così la dottrina parmenidea del to hón, dell’univocità e dell’assolutezza ontologica dell’Essere nasce da una fondamentale indistinzione compiuta nella riflessione dell’Eleate tra l’essere predicativo e l’essere esistenziale. Per Parmenide, appartenente al ceto aristocratico di Elea, depositario dell’antica cultura sapienziale, e partecipe di una mentalità linguistica attraversata ancora da una disposizione magico-sacrale, era impossibile pensare e, insieme, pronunciare verbalmente il non-essere, giacché quel termine implicava direttamente, preso nella sua assolutezza, un assoluto di nulla, un buco nero, una totale assenza di realtà e appunto, per tale intrinseca contradditorietà, era destinato non solo a non poter essere pronunciato ma addirittura a non poter essere concepito. Tanto che appunto, di contro a tale intrinseca impossibilità del non-essere, ontologica, logica e verbale (sul piano cioè della realtà, del pensiero e del linguaggio), è l’Essere, to hón, che si costituisce come unico principio. Un Essere conchiuso ferreamente in se medesimo, tale da essere paragonabile a uno sfero, intessuto di sola identità e coincidenza con sé, senza differenziazione e molteplicità alcuna dentro di sé, giacché qualsiasi alterazione e differenza, qualsiasi nascere e morire, ogni diversità implicherebbe il trascorrere da ciò che si era a ciò che non si è ancora e dunque di nuovo tornando a dare funzione e presenza a ciò il cui divieto è assoluto, qual è l’esecrabile non-essere. «E non è diviso, perché è tutto uguale. | Né in alcun punto soverchia, in modo da ostacolare la sua omogenea coesione | né in alcun punto cede, bensì è tutto pieno di quel che è. | […] Inoltre immoto e immutato nei termini dei grandi legami | è, senza inizio e senza cessazione, poiché la nascita e la morte | ben lungi furono respinte, e le ricacciò la convinzione verace»18. 18

  Parmenide, Fragm., tr. it. in G. Calogero, Storia della logica antica cit., pp. 135-136.

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A tal proposito appare quasi banale sottolineare quanto la dottrina calogeriana del cominciamento della filosofia, non come pienezza ma come assenza di verità, si differenzierà poi dall’interpretazione heideggeriana dei presocratici, quale tempo, com’è noto, per il pensatore di Messkirch, di una pienezza e di una prossimità al senso dell’Essere, che cederebbe, in seguito per tutta la storia della metafisica occidentale, da Platone fino ai moderni, in quella Seinsvergessenheit, in quella dimenticanza dell’essere e  in quella riduzione dell’Essere all’ente che sarebbe alla base della tecnica e della civiltà occidentale. Calogero incontrerà solo più tardi l’opera di Heidegger, cui dedicherà un saggio scritto nel 1942 e pubblicato solo nel 195019. Ma già da un giudizio pronunciato in uno scritto del 1932 si avverte la profonda avversione che mantenne per tutta la vita per il filosofo di Freiburg e per il peso che una marcata sovraesposizione di effetti linguistici ha avuto, a suo avviso, nel determinare la passione e la connotazione arcaica del suo filosofare. Bisognerebbe del resto dedicare una riflessione a parte al ruolo che ha avuto nella storia della filosofia moderna, e specificamente nell’opposizione tra filosofia dialettica di matrice hegeliana e filosofia heideggeriana della differenza ontologica, la diversa riflessione sul problema dell’origine della filosofia. Giacché mentre per Hegel l’inizio, come sinonimo di astrazione, è luogo di povertà e di pochezza d’essere, per Heidegger, com’è noto, è al contrario pienezza e autenticità d’essere: con i due diversi storicismi che ne sono derivati. Il Calogero, interprete degli antichi, accoglieva sulla questione del cominciamento la lezione hegeliana, attraverso la mediazione di Gentile ovviamente, ma anche di quanto dell’hegelismo era trascorso, come senso della storia e del suo divenire, nel neokantismo tedesco. Perché il ritorno a Kant dei neokantiani, non tanto nel Methodenstreit tra scienza e storia, quanto proprio con la Kulturphilosophie di Ernst Cassirer non poteva non riflettere l’acquisizione più profonda della filosofia hegeliana della storia quale trascorrere dello spirito dall’immediato al mediato, dalla povertà e dogmaticità dell’inizio alla maturità sempre più concreta e progressiva del divenire. Il cominciamento della filosofia, come esclusione eleatica dell’essere dal non essere o come logos eracliteo fatto della sintesi della loro opposizione, sta nella non-filosofia. E l’intera storia della filosofia, a muovere da quell’inizio, consisterà, per una quota considerevole delle sue forze, 19

 G. Calogero, Leggendo Heidegger, “Rivista di filosofia”, 1950, n. 41, pp. 231-249.

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nel lenimento e nell’affrancamento da quei problemi fallaci, di carattere ontologico e logico, che sono nati da un’originaria indistinzione tra le esigenze della realtà-verità pensata e le esigenze della realtà-verità parlata. Consisterà la storia della filosofia, in buona parte, per Guido Calogero, in una sorta di cura dalle patologie del linguaggio. Ma come si è detto, nella questione del cominciamento, Calogero si avvicina ai motivi concettuali di Cassirer almeno quanto, in pari tempo, se ne allontana. E a ulteriore dimostrazione di ciò sta il fatto che quella che in Cassirer è strutturata come una endiadi, di parola e cosa, in Calogero si struttura come una triade, come la triade di realtà, verità e linguaggio. Per la riflessione arcaica, scrive Calogero, la verità non si distingue dalla realtà: il vero non è qualcosa che, implicando un rapporto di rispondenza al reale che veracemente rispecchia, si contrapponga alla sua oggettività e venga perciò ad appartenere alla sfera soggettiva della consapevolezza […] Il Greco antico chiama ogni saldo contenuto della sua esperienza tanto hon, esistente, quanto alethes, vero20.

Non c’è ancora cioè un problema gnoseologico di come un soggetto possa conoscere e appropriarsi della realtà, perché ciò che è reale è immediatamente e contemporaneamente vero, l’aspetto per cui è reale è immediatamente l’aspetto per cui è conosciuto. «L’occhio contemplante si oblia ancora nella cosa contemplata: ed essa è nello stesso tempo esistente e manifesta, reale e verace, senza che tali attributi palesino la loro dualità»21. A questa originaria unità del vero col reale, della legge del pensato con la legge del reale, si aggiunge, per Calogero, come lui dice, in una «triunità arcaica»22, l’espressione verbale che fa un unico corpo con la realtà-verità. Tale unità originaria dell’esistente e del pensato non è d’altronde costituita esclusivamente di quei due termini. Il reale non è soltanto vero nel pensiero, è anche manifesto nella parola: l’espressione linguistica si aggiunge perciò come terzo elemento al binomio primordiale della realtà e della verità23.

Così, se nella mentalità arcaica regna il dominio dello stupore, il dominio della potenza del mondo, dell’oggetto sul soggetto – e questo può spiegare la predominante della componente del vedere, a prescindere da 20

 G. Calogero, Storia della logica antica cit., pp. 39-40.

21

  Ivi, p. 39.

22

  Ivi, p. 45.

23

  Ivi, p. 44.

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ogni uso pratico, nel rapporto dell’essere umano con il mondo, come ci ricorda ancora Aristotele nelle prime righe del primo libro della Metafisica –, Calogero mostra come quell’oggettività si faccia a sua volta contenitore di proiezioni e strutture della soggettività, in una compresenza di motivi e funzioni che spiega appunto, perché, a differenza di Cassirer, la mentalità arcaica può essere trasposta da Calogero a operare tutta nella filosofia e nella varietà del suo ragionare. Ed è appunto proprio tale ritrovare nell’indistinzione arcaica una varietà di piani coalescenti maggiore di quelli tematizzati nella lezione cassireriana che ha consentito al filosofo romano di sottolineare l’operare della coscienza primitiva non prima della filosofia ma già tutta nella filosofia. Modo di strutturarsi della realtà, modo di coglierla e percepirla nel conoscere e modo di esprimerla nel linguaggio, trapassano nella filosofia arcaica indistintamente l’uno nell’altro: a cominciare dal fatto che l’impossibilità di pronunciare linguisticamente il «non-essere» esclude il divenire e valorizza quel paradigma del peras, del limite, e del conchiudersi in un’autosufficienza che rimanda nello stesso tempo alla validità del principio di determinazione. Fin qui le nostre considerazioni, assai rapide, su Calogero antichista e sul suo confronto con il neokantismo, in particolare con la figura di Ernst Cassirer. Ma, in conclusione di queste, è difficile trattenersi dal considerare, anche qui brevemente, quanto il Calogero antichista abbia in qualche modo condizionato il Calogero della modernità. E questo proprio a muovere da quel primato poetico della determinazione su qualsiasi logica dianoetica della contraddizione che Calogero ha reso l’asse della sua interpretazione di Aristotele e contemporaneamente il perno della sua filosofia della presenza. Giacché com’è noto il cuore della vita della soggettività sta per Calogero nel tradursi nelle strutture della temporalità del paradigma della determinazione, per cui il contenuto della realtà-verità è sempre qualcosa, che lascia altro e oltre fuori di me, e non è mai né tutto né nulla. Così l’essere umano è l’eterno presentificarsi di un futuro che si fa passato, ossia il suo trovarsi sempre in una certa situazione di vita, in una forma determinata di esistenza, oltre la cui presenza c’è sempre l’alterità del futuro, il campo del possibile. Per cui Calogero può dire che nella struttura del presente e nelle sue relazioni col passato e col futuro la logica dell’identità si lega alla logica dialettica, guardando l’identità al contenuto del presente e l’alterità guardando invece al futuro. E soprattutto può dire che nella struttura dialettica del presente come trascorrere del futuro nel passato si esplicita la struttura dialettica della volontà umana come volontà libera, giacché l’altro è nella struttura stessa della vita.

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Ma ciò significa che per Calogero l’altro, l’alterità, il futuro del possibile non può mai essere ripetizione patologica dell’identità, iterazione obbligata di un presente inevadibile e immodificabile. L’altro per la sua strutturale natura dialettica è sempre, rispetto al presente, viva e operosa antitecità, ovvero campo fecondo di dinamiche di trasformazione. Per Calogero l’altro non può mai diventare l’altro dell’Io nel senso di altro dall’Io, giacché esso è viceversa sempre concepito come segmento interiore della struttura e dell’estensione dell’Io. E in questa impossibilità a concepire l’alterità anche come valenza che si può fare estranea, per non dire opposta, alla centralità dell’Io, in questa impossibilità ad accogliere il tema dell’Anderes come radicale estraneità e Unheimlichkeit, sta a mio avviso l’arcaicità del pensiero di Calogero, ossia la sua dipendenza dal modo antico di concepire l’alterità: in una permanenza nell’antico che non gli consente di aprirsi a quelle tematizzazioni moderne dell’Andersheit, che hanno argomentato, in vario modo, dell’altro non come conferma ma come smentita e scacco di una supposta padronanza dell’Io in casa propria. È ben nota la funzione determinante che nella sua ricostruzione della filosofia antica Calogero ha assegnato alla definizione platonica del mè hón nel Sofista quale sinonimo, non di opposizione ontologica, bensì di differenza e distinzione. Platone, col parricidio nei confronti di Parmenide, ha sciolto, a suo avviso, l’unicità eleatica dell’essere nella molteplicità delle idee, ordinando e dando senso al mondo attraverso la tassonomia delle idee. E ha articolato i legami di pertinenza e di non pertinenza delle idee tra loro proprio attraverso la negazione di un non-essere, che, affrancato da ogni valenza magico-sostanzialistica propria del nulla assoluto, giunge a farsi, nel dialogo platonico della maturità platonica, non-essere relativo. Vale a dire che la negazione, con il parricidio consumato rispetto a Parmenide, è divenuta ormai, non significazione di un nulla quale assenza totale, buco nero, di realtà, bensì simbolo linguistico della diversità, cioè della relazione di differenza tra domini distinti, tutti positivamente esistenti, ma identificabili e nominabili attraverso idee diverse. Con tale liberazione del non-essere Platone ha potuto concepire la sua logica dialettica come metodo della divisione, ossia proporre una conoscenza come capacità di «poter […] dividere per specie, seguendo le articolazioni naturali e cercare di non spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo cuoco»24. Come afferma nel Sofista le tre alternative 24   Platone, Fedro (265 e), in Dialoghi filosofici di Platone, a cura di G. Cambiano, vol. II, Torino, Utet, 1996, p. 204.

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fondamentali che può percorrere la divisione dialettica sono: 1) che un’unica idea ne comprenda e ne abbracci molte altre, che tuttavia rimangono esterne a essa ed esteriori l’una all’altra; 2) che un’unica idea conduca invece a unità molte altre idee; 3) che molte idee rimangano completamente distinte tra di loro25. La dialettica è perciò conoscenza che consiste nel sapere in qual modo un genere possa comunicare con altri generi e quale invece no. Ossia è la capacità di «dividere per generi e il non considerare diversa una specie che è identica né identica una che è diversa»26. Ma questo fondamentale passaggio del non-essere dal non-essere assoluto al non-essere relativo prima della filosofia platonica e poi al non-essere polisemico della filosofia aristotelica, se da un lato ha aperto e liberato la scienza antica come scienza della tassonomia del mondo attraverso generi e specie, dall’altro ha espulso un senso e una movenza radicale dell’alterità dall’orizzonte di quella cultura e di quel modo di percepire il mondo. Ha espulso cioè una funzione strutturalmente interna dell’alterità nella costituzione e nella formazione dell’identità. Generi e specie costruiscono un mondo in cui l’altro è solo un altro genere o un’altra specie, cioè è solo un diverso, un differente, ma appunto omogeneo e riconoscibile nella continuità di uno stesso ordine di realtà, di uno stesso kosmos. Mentre l’alterità eterogenea, lo αλλóτριον, designa ciò che è al di fuori di quel mondo ordinato e conoscibile, lo ξένον. E lo ξένον rimanda, nella varietà dei modi di pensare ciò che sta fuori, appunto all’esteriore, all’estraneo, allo strano, allo straordinario27. Come a dire che nella filosofia antica, per esprimerci molto en gros, il valore dell’identità, come salda permanenza di un ente all’interno dei propri confini, del proprio limite, appare prevalere su quello del divenire. E in tale prevalere dell’identico non si può non vedere, ancora, l’eco della valorizzazione parmenidea dell’essere.

25   «Dunque chi è capace di fare questo, distingue adeguatamente un’idea unica che si estende in ogni direzione attraverso molte altre, ciascuna delle quali se ne sta separata come un’unità, e molte idee diverse tra loro abbracciate esteriormente da un’idea unica e, d’altra parte, un’idea unica che attraverso molti interi si riannoda in un’unità e molte che sono completamente separate e distinte» (Sofista 265d, in Dialoghi filosofici di Platone cit., p. 460). 26   Ibidem. 27  Cfr. B. Waldenfels, Fenomenologia dell’estraneità, a cura di G. Baptist, Napoli, Vivarium, 2002, pp. 57-72.

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Calogero, interprete dell’antico, ha avuto il grande merito di ricostruire la storia della filosofia antica come progressiva emancipazione da ipostasi linguistiche fattesi principi e strutture della realtà e in tale laicizzazione progressiva del pensiero antico ha visto nel parricidio platonico di Parmenide e nella possibilità di pronunciare il «non essere» una, se non la, svolta fondamentale, anche seguendo in ciò la lezione del suo maestro, Giovanni Gentile, depositata nel primo volume del Sistema di logica. Ma l’acquisizione critica di quel tradursi del motivo dell’alterità assoluta nel motivo dell’alterità relativa ha rappresentato, in pari tempo, la curvatura insuperabile del suo pensiero. Il legittimo rifiuto di porre a base della realtà la contraddizione assoluta tra essere e non-essere, il legittimo rifiuto di accogliere il nulla come operatore, metafisico e logico, di realtà, si è poi svolto e conchiuso in una difficoltà a leggere i diversi volti dell’alterità, a ritrovare nell’alterità l’istanza dell’opposizione, ad ammettere cioè movenze e forze del non-Io all’interno della luce sempre presente dell’Io, e questo limite ha generato tutte le asprezze che, con la sua successiva Filosofia del dialogo, hanno segnato, a mio avviso, il suo nobile ma ben problematico, tentativo di tradurre la sua grande lezione sull’antico nella lettura e nella trasformazione etico-politica del moderno. Quello che comunque rimane valore imprescindibile dell’opera di Calogero, interprete raffinatissimo della cultura e della filosofia greca, è il coraggio teoretico, ma anche morale, di essere stato il primo studioso, a quanto mi risulta, nell’ambito degli studi italiani di filosofia antica, a non accontentarsi di quel consolidato paradigma dal mythos al logos che ha retto la storiografia filosofica antica per un lungo periodo, inclusa ovviamente la grande scuola classica, filologico-filosofica, dell’Ottocento tedesco. Calogero infatti non ha voluto pensare l’antico nell’ambito della cornice interpretativa consolidata e rassicurante della progressiva laicizzazione e razionalizzazione dell’atteggiamento teorico dell’uomo greco, secondo il passaggio graduale dalle antiche cosmologie e mitologie alla genesi e all’autosufficienza del pensiero discorsivo e razionale. Giacché, a muovere dalle sua profondissima conoscenza della lingua e della letteratura greca, è riuscito ad affisare, ben al di là del racconto mitologico, lo sguardo nelle patologie linguistiche del magismo e mostrare quanto l’inizio della filosofia sia stato profondamente condizionato da tale orizzonte non filosofico. Ma soprattutto è riuscito a proporre una visione dell’intera storia della filosofia quale percorso esposto in modo permanente alle insidie di quell’inizio razionalmente non controllato. In particolare quando la storia dell’ontologia e della metafisica torna a esser sedotta da ipostasi linguistiche tradotte in principi di realtà, pretendendo

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di trattare del vivere e dell’agire degli esseri umani alla luce delle storie dell’Essere e del Nulla. Per tutto ciò ho voluto riproporre in queste pagine la lezione sull’Essere e il Non-Essere di Guido Calogero, di cui sono stato allievo durante i miei studi universitari nei lontani anni sessanta all’Istituto di Filosofia dell’Università di Roma. Perché fin da allora mi era apparsa come il più solido baluardo contro la riproposizione dell’eleatismo che di lì a poco sarebbe tornato a trionfare con la diffusione della filosofia di Heidegger e della sua riproposizione dell’arcaismo dell’Essere28.

28   A muovere dalla riproposizione heideggeriana del tema dell’Essere tutte le filosofie del Novecento che tornano a fare principio del loro discorso la categoria di Essere rischiano, io credo, di ricadere nella disposizione paradossalmente arcaica e conservatrice, di fuga e rimozione dalla questione centrale e irriducibile della nostra modernità, qual è la questione della soggettività. In tal senso, muovendo dalla teoria heideggeriana dell’Essere come fondamento costante di alterazione dell’Esserci, anche una teoria dell’Essere quale quella di G. Simondon – celebrata negli ultimi anni come una «antropotecnica» emancipativa e innovativa – presenta un’ontologia dell’alterazione continua, che, riprendendo in termini di differenziali fisici di potenza, la forza vitale bergsoniana, cancella a mio avviso e suo malgrado, un’effettiva teoria dell’individuazione. L’Essere di Simondon è un Essere eccedente a se medesimo, con echi plotiniani e tardo schellinghiani: «Per pensare l’individuazione, si deve considerare l’essere non come sostanza, o materia, o forma, ma come sistema in tensione, sovrasaturo, al di sopra del livello dell’unità, che non consiste soltanto in se stesso, e che non può essere adeguatamente pensato per mezzo del principio del terzo escluso; l’essere concreto, o essere completo, ovvero l’essere pre-individuale, è un essere che è più di un’unità» (G. Simondon, L’individu et sa genèse phisico-biologique, Paris, Puf, 1964, p. 16, citato in B. Stiegler, Tempo e individuazione tecnica e psichica nell’opera di Simondon, www.philosophykitchen.com). Così l’individuazione per Simondon è il processo mai concluso dello sfasarsi e del differenziarsi di tale Essere in se medesimo, in una «trasduzione» in cui il pre-individuale e l’individuale sarebbero termini in relazione creati dall’operazione stessa: «La concezione dell’essere sulla quale riposa questo studio è la seguente: l’essere non possiede un’unità di identità, che è quella dello stato stabile in cui nessuna trasformazione è possibile; l’essere possiede un’unità trasduttiva, vale a dire che esso può sfasarsi in rapporto a se stesso, debordarsi da entrambi i lati del suo centro. Ciò che si intende come relazione o dualismo di principi è infatti espansione dell’essere, il quale è più che unità e più che identità; il divenire è una dimensione dell’essere, non ciò che gli consegue secondo una successione che sarebbe subita da un essere sostanziale e dato primitivamente. L’individuazione deve essere afferrata come divenire dell’essere, e non come modello dell’essere di cui esaurirebbe la significazione. L’essere individuato non è tutto l’essere né l’essere primo; invece di ghermire l’individuazione a partire dall’essere individuato, si deve afferrare l’essere individuato a partire dall’individuazione, e l’individuazione dall’essere pre-individuale, ripartito secondo molteplici ordini di grandezza» (ibidem).

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CAPITOLO SESTO I DUE CORPI DI MARX. CORPO GLORIOSO E CORPO INGLORIOSO

Un Marx ancora filosofo dell’identità Quanto detto sull’interpretazione che Guido Calogero ha dato della questione del cominciamento e della tematica dell’Essere, nei tempi e nelle scansioni rapide del nostro discorso, è valso, mi auguro, a confortare il mio convincimento che il tentativo apparentemente rivoluzionario di Heidegger, di prendere congedo dalla modernità e di sottrarsi al suo nichilismo, si sia consumato ed estenuato attraverso un impossibile ritorno al passato. A motivo di tale rivoluzione conservatrice, di tale regressione nell’arcaico, Heidegger partecipa, stringendosi in ciò a Nietzsche, a quell’abbandono della soggettività che costituisce il tratto più comune e caratterizzante le teorie del postmoderno. Infatti, assunto che la modernità in filosofia sia stata inaugurata dal cartesianesimo e dal suo fondarsi nell’autocoscienza del soggetto, la postmodernità non poteva che significare congedo dalla soggettività, muovendo appunto dal riconfigurarsi sempre nuovo del corpo pulsionale in Nietzsche o dall’abisso della differenza ontologica e della chiamata dell’Essere in Heidegger. Cosicché, a ben vedere, è proprio il corpo reale dell’essere umano – il corpo nella relazione di interiorità/esteriorità con la mente  –  che non riesce a essere visto e messo effettivamente a tema nelle filosofie di Nietzsche e di Heidegger. Con il primo perché il corpo in questione esplode e va in pezzi nel lancio sempre nuovo dei dadi, ossia, fuor di metafora, nel variare mai ripetibile del parallelogramma di reciprocità tra pulsioni attive e pulsioni passive. Con il secondo perché il prendersi cura autentico dell’essere umano non muove certo dal prendersi cura della propria corporeità e dalla ricerca di una intimità, di un abitare cioè presso il proprio corpo emozionale. Nell’ontologia esistenziale di Heidegger la situazione emotiva più autentica, quella dell’angoscia, conduce l’Esserci infatti a non-sentirsi-a-casa-propria, a sentirsi del tutto spaesato. A non

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comprendere se stesso a partire dal mondo degli enti intramondani di cui è parte anche il suo stesso corpo. Tanto che l’esperienza dell’angoscia, al fine di essere esperienza di libertà, ha da essere esperienza del Nulla. Giacché solo il Nulla nientifica ogni relazione e conduce a quello spaesamento che svincola l’Esserci da ogni legame e lo fa essere pura possibilità, radicale esser-possibile. Eppure, nel prendere le distanze dall’anarchismo pulsionale di Nietzsche e dall’analitica ontologico/esistenziale dell’Essere heideggeriano, da parte nostra non possiamo comunque non cogliere le ragioni profonde della critica postmoderna verso il pensiero moderno di una soggettività, fortemente conchiusa nella sua identità: critica che, com’è ben noto, proprio ai filosofemi di Nietzsche e di Heidegger si è intensamente alimentata. E che si è volta, con radicalità, sia contro la soggettività delle filosofie dell’autocoscienza sia contro la soggettività collettiva e di classe del marxismo e della sua filosofia della storia. Per cui è ora d’obbligo svolgere qualche riflessione su quel luogo centrale del pensiero moderno che è stata la filosofia del soggetto nell’opera di Karl Marx, con la teoria del corpo, o meglio dei corpi, che essa contiene. La prima concezione di ciò che sia «corpo», secondo quanto Marx teorizza nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, vede una distinzione tra corpo fisico e corpo quale tramite della vita del genere. Il corpo, ristretto alla mera riproduzione biologica e fisica di sé, è infatti per quel Marx un corpo disumanizzato che non si distingue dalle nature animali. Giacché natura significa qui, hegelianamente, un mondo di individui singoli, chiusi in un interesse meramente egoistico, volto alla loro mera riproduzione biologica e dunque a un’attività ripetitiva, a sé sempre uguale. La natura, secondo la lezione di Hegel che qui il giovane Marx fa appunto interamente sua, è il regno della vita da cui è del tutto assente la dimensione dell’alterità, della relazione costitutiva con l’altro, dell’universale. Tanto che vita meramente naturalistica è quella a cui condanna l’essere umano il regime della proprietà privata, con le sue divisioni e separazioni, e massimamente nel tempo moderno della società capitalistica, quando viene dissolto ogni legame comunitario e sociale e posto a principio dell’esistere l’individualità egotica, volta alla mera riproduzione di sé. Invece il corpo come tramite della vita di genere è il corpo che traduce e trasmette nel mondo oggettivo l’essenza e la potenza del genere – ossia il carattere comunitario, universale e perciò libero  –  che caratterizza e contraddistingue tra tutti i viventi, la vita dell’essere umano.

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L’uomo è un ente generico [Gattungswesen] non solo in quanto praticamente e teoreticamente fa suo oggetto il genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche […] in quanto egli si rapporta a se stesso come al genere presente e vivente; in quanto si rapporta a se stesso come con un ente universale e però libero1.

L’essere umano è un essere universale, non condizionato dalla nicchia naturale in cui è obbligata a svolgersi e a ripetersi la vita animale. È dotato di una coscienza pensante che lo sottrae alla fissità e alla coincidenza con un solo e limitato ambito di vita. Cosicché, in quanto «cosciente attività vitale», è intrinsecamente capace di universalizzarsi, rendendo corpo inorganico del proprio corpo l’intera natura fuori di lui. La vera vita è quella che non si limita a vedere nel mondo, negli oggetti, solo dei mezzi per soddisfare bisogni materiali, utilitaristici e pratici: bensì è quella che elabora l’oggetto, facendone lo specchio e il testimone della capacità creativa e innovativa del genere umano. È solo la continuità e l’illimitatezza di questo corpo di genere, in cui vengono superate tutte le opposizioni di soggetto/oggetto, spirito/materia, individuo/società, natura/storia, che garantisce una forma di vita adeguata all’essere umano, tant’è che solo in essa l’apparato sensoriale del vivente umano diventa veramente sensibile e percipiente, perché si dilata in un’estensione di campo universale che toglie ogni rigidità e discontinuità possibile tra interiorità ed esteriorità. L’uomo non si perde nel suo oggetto, solo se questo gli diventa oggetto umano o uomo oggettivo. Ciò è possibile solo quando questo oggetto gli diventi un oggetto sociale, ed egli stesso diventi a se stesso un ente sociale come la società diviene un ente per lui in questo oggetto. […] così i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale. È soltanto mediante la dispiegata ricchezza oggettiva dell’ente umano che vengono in parte sviluppati, in parte prodotti la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, un orecchio musicale, un occhio per la bellezza della forma, in sensi capaci di fruizioni umane, sensi che si affermano quali umane forze essenziali2.

Il corpo fisico, nella sua naturalità immediata, nel suo essere luogo obbligato e coattivo di bisogni, si oppone al corpo di genere, è altro, alienato da esso. Obbliga l’essere umano a rinunciare alla sua essenza di soggettività universale, e perciò incondizionata, facendo anzi della sua creatività e produttività, solo un mezzo per soddisfare la sua fisicità. 1  K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. a cura di N. Merker, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. III, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 301-302.

  Ivi, pp. 328-329.

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Invero anche l’animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche… Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l’uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà di se medesimo. […] Egualmente, in quanto il lavoro alienato abbassa l’attività autonoma, la libera attività, a un mezzo, fa della vita generica dell’uomo il mezzo della sua esistenza fisica3.

Questa opposizione corpo naturale / corpo sociale gioca a lungo nello svolgimento dell’opera di Marx. Né a caso si è parlato a tal proposito di un’«antropologia signorile» fortemente presente e assai operosa nel primo tratto dell’opera marxiana4, quale celebrazione e valorizzazione di un’umanità che sarebbe tale solo quando appunto affrancata dai bisogni del corpo e dalle fatiche cui obbliga il loro soddisfacimento. Giacché, a ben vedere, anche nel testo in cui si vuole depositato il canone del materialismo storico, e dunque del primato del materiale sullo spirituale, come L’ideologia tedesca, continua fortemente ad agire questo motivo dell’opposizione tra dimensione corporeo/naturalistica e dimensione corporeo/ sociale dell’essere umano: ovvero il paradigma di vita individuale contro vita di genere. Quando trasferisce la relazione oppositiva Individualismus contra Gattung nell’ambito della sua concezione più generale della storia, come fa nella Deutsche Ideologie5, Marx distingue nettamente tra Praxis e Arbeit, tra prassi e lavoro. La Praxis, o Selbstbethätigung, o menschliche Thätigkeit, è l’attività propriamente umana, in quanto è l’agire in cui l’essere umano, inteso come individualità collettiva, conferma, nell’oggetto che elabora o nell’azione che compie, fondamentalmente se stesso, ossia la sua non dipendenza dal determinato e la sua capacità di universalizzazione. È l’agire in cui il soggetto, attraverso l’elaborazione dell’oggetto e del mondo materiale, elabora e produce se stesso, oggettivando nell’oggetto le proprie   Ivi, pp. 303-304.   Su questo tema cfr. F. Rodano, Lezioni di storia «possibile», a cura di V. Tranquilli, G.Tassani, Genova, Marietti, 1986. 5   Mi riferisco per consuetudine alla Deutsche Ideologie di Marx ed Engels come se fosse un testo unitario, progettato come tale dai due autori e poi lasciato alla critica dei topi. Tale testo non è mai esistito, neppure nella mente di Marx ed Engels, come ha dimostrato assai bene la nuova edizione critica apparsa nel “Marx-Engels-Jahrbuch”, 2003, per i tipi della Akademie (Berlin, 2004). Cfr. in particolare le pp. 163-179 dell’Apparat che danno conto della Entstehung und Überlieferung dei diversi testi, scritti, come critica di Feuerbach e della Sinistra hegeliana, in tempi diversi e con contestualizzazioni diverse. 3 4

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facoltà, non finite e limitate di genere, ossia di specie vivente specifica e distinta da tutte le altre specie. È sinonimo, dunque, di un agire che, nel suo essere in grado di non subire passivamente il dato naturale e ambientale, implica, di necessità, cooperazione e partecipazione collettiva: appunto la dimensione e funzione del «genere». Arbeit designa, invece, con significato profondamente negativo, un agire finalizzato alla sola riproduzione materiale e corporea dell’essere umano nella sua individualità. Come tale, il lavoro è sempre attività passiva e, in quanto passiva, attività necessariamente divisa: divisa, perché separa l’individuo con il suo interesse egoistico da un interesse più generale e meno materiale, e divisa, perché in questa assenza di dimensione collettiva e comunitaria, obbliga ognuno, attraverso la divisione del lavoro, a un’operazione solo parziale. Così per il Marx della Ideologia tedesca la storia è sempre stata storia dell’Arbeit, del lavoro cioè in senso negativo: storia segnata dalla divisione del lavoro e dalle sue strutturali e ineliminabili scissioni e contraddizioni di classe. Ma con la maturazione della moderna società capitalistica il convincimento di Marx in quelle pagine è che sarebbe ormai prossimo il passaggio dall’epoca dell’Arbeit a quella della Thätigkeit, giacché nello stesso Arbeit starebbero giungendo a compimento le condizioni del suo superamento. Il capitalismo infatti, sviluppatosi fino alla creazione ormai del mercato mondiale, universalizza l’individuo, lo affranca da ogni limite di identità locale e nazionale, e lo pone in una condizione di «dipendenza universale» dalla produzione materiale (ma anche spirituale) di tutto il mondo. Il capitalismo, giunto alla sua maturità, produce una relazione di scambio universale, uno sviluppo e un intreccio globalizzato delle forze produttive, a cui partecipa ciascuno nella connessione con tutti gli altri. Produce perciò una tipologia di soggettività anch’essa universale. Ossia produce un individuo sociale, un individuo totale, non confinato a un contesto, a una natura, a un’identità particolari, bensì che fa esperienza, al di là di ogni limite, dell’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti. Nasce così un individuo che, per la dilatazione mondiale del suo corpo di relazioni, supera ogni determinatezza della natura e della propria vita biologica, per dar luogo a una natura superiore e artificiale in cui l’incontro con l’altro è sempre e solo intensificazione e arricchimento del proprio sé. È l’individuo dilatato nel corpo mondiale e artificiale dell’economico e della rinnovata antropologia di bisogno e godimento che ne deriva – l’individuo dilatato e universalizzato nel corpo del comune, l’individuo del genere storico e umano – che trascende e supera l’individuo del corpo e del genere naturale e biologico.

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Insomma, chiedendo scusa per la schematicità dell’esposizione rispetto a un tema così lungamente dibattuto nella letteratura critica su Marx, direi che in questo Marx (cioè nel Marx prima del Capitale) la valorizzazione presupposta dell’uomo sociale e comunitario riduce, fino all’annichilimento, lo spessore e l’autonomia della natura. Per cui quest’ultima, trascinata e risolta in un paradigma identitario e soggettocentrico, è solo oggetto di un soggetto, solo luogo di proiezione e di conferma della potenza fabbrile di un corpo glorioso, quale corpo intessuto solo di umanità comunitaria e solidale, che nella sua tessitura di corpo universale nulla deve alla pulsione egotica e biologica del corpo naturale. Tanto che la critica di spiritualismo dissolutore della realtà che Marx rivolge alla filosofia di Hegel nel terzo dei Manoscritti parigini del 1844 dovrebbe, paradossalmente, rivolgerla verso se medesimo, a conferma di quanto, come ho esposto altrove, la sua antropologia giovanile, auctore Feuerbach, sia, invero, del tutto subalterna, e non superiore, all’orizzonte hegeliano. Un corpo o una mente carichi di astrazioni Solo con le opere della piena maturità, larga parte dei Grundrisse e i tre volumi di Das Kapital, Marx giunge a proporre un altro paradigma della corporeità, che si allontana profondamente dal paradigma, appena considerato, di Individualità contra Universalità, di «Privato» contra «Comune», di Natura contra Storia e Kultur6. Nel Capitale infatti il corpo è identificato con l’Arbeitskraft, con la forza-lavoro: cioè con l’identità di un individuo astratto, la cui astrazione ora non concerne più la separazione del proprio interesse privato dall’interesse generale, ossia non concerne più la separazione dell’individuo dal «genere», bensì da ogni possibile forma di proprietà e possesso dei mezzi di produzione (terra, strumenti e macchine, materie prime, denaro, accesso al credito). La teorizzazione marxiana del corpo come forza-lavoro rimanda cioè alla separazione di un determinato gruppo sociale da ogni possibile rapporto con il mondo-ambiente a motivo dell’interposizione tra esso e l’Umwelt, l’intero mondo circostante, di un altro o più gruppi sociali che di quel mondo si fanno proprietari e possessori monopolisti. Con il che si crea sul piano storico-sociale, non l’individuo astratto e separato da tutti gli altri individui, ma una classe sociale «libera» (nel 6   Su ciò mi permetto di rinviare al mio La «crisi» di Marx come principio di comprensione dell’oggi, in M. Ponzi (a cura di), Karl Marx e la crisi, Macerata, Quodlibet, 2017, pp. 53-68.

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senso dell’esser priva) da ogni rapporto con il mondo-ambiente e dunque obbligata a vendere il proprio corpo/lavoro come unica fonte di sostentamento della propria vita. La separazione della proprietà dal lavoro appare come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro. Il lavoro posto come il non-capitale in quanto tale è: 1) lavoro non materializzato, inteso negativamente (esso stesso non ancora materiale; il non materiale stesso in forma oggettiva). Come tale esso è non-materia prima, non-strumento di lavoro, non-prodotto grezzo: il lavoro separato da tutti i mezzi e gli oggetti di lavoro, da tutta la sua oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione da questi momenti della sua realtà effettiva (e altresì come non valore); questa completa spoliazione, esistenza del lavoro priva di ogni oggettività, puramente soggettiva. Il lavoro come povertà assoluta: povertà non come indigenza, ma come totale esclusione dalla ricchezza materiale7.

Tale carattere del rapporto tra forza-lavoro e mondo esterno non può non implicare, a sua volta, una peculiare relazione tra forza-lavoro e mondo interno. L’assenza di relazioni-mediazioni con il mondo esterno implica infatti che la freie Arbeit, il libero lavoro, sia caratterizzato per Marx da una pari assenza di relazione-mediazione riguardo al nesso tra il corpo e la persona che di quel lavoro è portatrice. La persona, senza relazione-mediazione con il mondo esterno, è costretta infatti a essere solo corpo, «immediata corporeità». Cioè nel lavoro vivente o vivo (lebendige Arbeit), come anche Marx qui lo chiama, corpo e persona coincidono immediatamente, senza distanza possibile tra di loro. Senza che la persona appunto possa avere un’estensione di realtà e un ambito di senso in qualche modo maggiore o eccentrico rispetto al corpo. O anche [il lavoro], in quanto è il non-valore esistente e quindi un valore d’uso puramente materiale, che esiste senza mediazione, questa materialità può essere soltanto una materialità non separata dalla persona: una materialità coincidente con la sua corporeità immediata. Essendo materialità assolutamente immediata, essa è altrettanto immediatamente non-materialità. In altri termini: una materialità che non si colloca fuori dell’esistenza immediata dell’individuo stesso8.

L’individuo, in quanto diviso dal mondo esterno, è perciò non divisibile in se stesso, è corpo=persona, o persona=corpo. Immediata «materialità», che, in quanto incarnata e coincidente con una persona, è definibile anche come immediata «non-materialità». 7  K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), tr. it. a cura di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1976, vol. I, p. 244. 8   Ibidem.

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Tale invasività corporea nella persona, tale riduzione della persona a mero corpo, fa dell’essere umano un corpo in cui, aggiungiamo noi, la mente non può mai nascere all’interno ma è invece sempre deposta all’esterno. Sia come imposizione del bisogno e comando del consumo nella sfera della riproduzione sia come parte organica del sistema forza-lavoro / macchina dove l’uso della forza-lavoro è sincronico ai comandi e alle schede di lavoro del macchinario. In entrambi i luoghi della vita la forza-lavoro si costituisce perciò come un corpo senza mente propria e che di conseguenza può vivere solo come subalterno a una mente esterna. Marx è dovuto quindi passare dalla metafisica del corpo glorioso, dalla filosofia della storia fondata sulla dimensione prometeica e comunitaristauniversale dell’homo faber, alla scienza del capitale, alla scienza del presente, per attingere, con il concetto di forza-lavoro, una nuova prospettiva sul corpo di quel medesimo homo faber, visto ora, nella sua relazione di lavoro e di vita con il capitale, come incarnazione di «povertà assoluta»9. Queste due teorie del corpo  –  del corpo glorioso e del corpo inglorioso – convivono, paradossalmente, nella mente di Marx. O per dir meglio corrispondono a due distinti momenti del pensiero marxiano, l’uno più proprio degli scritti fino agli anni cinquanta, il secondo concepito certamente più tardi, nel cuore della maturità. Ma, va aggiunto, malgrado la 9   Né è un caso ovviamente che Marx maturi tale diversa visione del corpo umano, quale corpo che coincide con l’astrazione della forza-lavoro, solo quando comincia a pensare il rapporto tra natura e mondo umano in un modo notevolmente diverso dal dualismo e dalla teorizzazione della superiorità del mondo sociale sul mondo naturale che ha connotato tutta la sua produzione giovanile e della prima maturità legata alla elaborazione della teoria del materialismo storico. Con i Grundrisse e gli studi di preparazione al Capitale, non escludendo l’interesse, com’è ovvio, per l’opera di Darwin, la storia degli esseri umani si iscrive all’interno della storia naturale attraverso una serie di elementi invarianti, che costituiscono appunto le strutture generali e invalicabile della vita umana: come conferma la necessità per ogni società umana di realizzare costantemente attraverso il lavoro uno scambio organico con il mondo naturale, pena la repentina estinzione di ogni forma di vita, e come conferma la composizione invariabile di ogni processo di lavoro, scandito dalla tripartizione soggetto - mezzo - oggetto di lavoro. Laddove ciò che varia di queste componenti invarianti, naturalistiche e generiche, è (secondo la testimonianza delle pagine dei Grundrisse dedicate alla storia delle formazioni che precedono la società capitalistica moderna) la specificità sociale, di volta in volta, di combinarle e di realizzarle. Vale a dire che l’essenzialismo antropocentrico del «genere» si è venuto ora traducendo nelle «invarianti generiche» della specie umana all’interno della storia naturale. Sul concetto in Marx di «scambio organico» e della sua relazione con Darwin cfr. F. Vidoni, Natura e storia. Marx ed Engels interpreti del darwinismo, Bari, Dedalo, 1985; Id., Incidenza delle scienze della natura nel pensiero marxiano, in M. Cingoli, V. Morfino (a cura di), Aspetti del pensiero di Marx e delle interpretazioni successive, Milano, Unicopli, 2011, pp. 269-279; F. Raimondi, Marx, Darwin e la «storia critica della tecnologia», “Rivista elettronica della società italiana di filosofia politica” (disponibile in rete dal 16 giugno 2014), pp. 1-21.

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loro successione nel tempo, compresenti e utilizzate entrambe, fino alla fine della sua vita, dal Moro, che non ha mai esitato, forse in modo inconsaputo anche a se medesimo, a utilizzare l’una o l’altra a seconda della destinazione del suo pensare. Celebrando la potenza del corpo glorioso quando si trattava di esortare le classi popolari alla ribellione e alla radicalizzazione rivoluzionarie, e, viceversa, mettendo in scena l’astrattezza e la passività di vita del corpo inglorioso quando si trattava di fare scienza e di descrivere i processi oggettivi di una società che pone a suo principio l’accumulazione di ricchezza astratta. Né è a dire le complicazioni e i fraintendimenti che sono nati, nel campo teoretico della scienza come in quello pratico dell’agire sociale e politico, dal non aver tenuto saldamente distinte queste due diverse dottrine dell’umano e della prassi del lavoro, che vanno ben differenziate nell’essere la prima una filosofia della storia a base metafisica e organicistica, la seconda, invece, una scienza della modernità a muovere dal rilievo e dalla natura impersonale che assume la dimensione economica di contro a tutte le altre. Pur se, ripeto, l’origine di quell’intreccio, quando non vera e propria sovrapposizione e confusione, ha origine nella mente dello stesso Marx. Ma ciò che qui interessa porre in rilievo è proprio il lato della soggettività moderna di massa disegnato da Marx come il luogo della povertà e dell’astrazione assoluta, il lato cioè del corpo inglorioso di un’umanità misera e ab imis perduta e separata da se medesima. Perché è proprio qui, a mio avviso, che si colloca la radice più profonda e reale della nostra quaestio, che, ricordiamo, consiste nel ripensare e rifondare un’etica e una politica commisurate alla realtà più diffusa e profonda dell’oggi, da un lato, e dall’altro ai dettami della costituzione antropologica più avanzata che le scienze umane, in primis la filosofia e la psicoanalisi, sono giunte oggi a mettere a tema. La produzione di una soggettività astratta di massa va tutt’uno con la produzione della ricchezza astratta che caratterizza la specificità della nostra storia moderna e del nostro mondo contemporaneo. La conquista teorica forse più significativa raggiunta da Marx è stata, io credo, l’individuazione del fondamento della nostra società in una dimensione impersonale e non antropomorfa, come può essere una ricchezza consistente in una determinata quantità di denaro, che, per il suo essere quantità, non può avere altro scopo che quello di accrescere quantitativamente se medesima. È stata cioè la comprensione che il mondo dell’effettivo esperire, fatto di cose e merci concrete, di bisogni e desideri degli individui e di tutte le relazioni e gli scambi economici posti in essere per soddisfarli, è

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un mondo del concreto, attraversato e mediato, significato e messo in forma, da un altro mondo, qual è quello di una ricchezza astratta e dei canoni impersonali e obbligati della sua produzione e accumulazione. L’intendimento, insomma, che la vera scissione e contraddizione del mondo moderno consiste in primo luogo nel suo dualismo ontologico, di mondo dell’astratto e di mondo del concreto, e nella loro connessione dialettica per la quale la fantasmagoria e l’apparenza di un mondo di liberi attori dissimula e trasfigura l’agire di un vettore di realtà costruito su una logica solo accumulativa di espansione di sé. Ed è appunto su tale antropologia astratta e di massa che le scienze umane oggi devono riflettere, raccogliendo da questo lato l’indicazione e l’eredità più matura dell’opera marxiana, ma lasciando invece cadere il Marx del corpo glorioso e dell’antropologia organica e piena, principi basilari della metafisica riduzionista del materialismo storico e dell’inevitabile sbocco, messianico e conclusivo, della storia nella società socialista. Un’individualità astratta e intrinsecamente povera  –  astratta, prima che dal possesso del mondo ambiente, da se medesima, quanto ad astrazione/separazione tra corpo e mente – è dunque l’antropologia tipica che dobbiamo e vogliamo assumere come luogo di problematizzazione sociale del nostro discorso, se vogliamo fare di una politica utopica e del futuro il contenitore di un contenuto radicato nelle istanze reali dell’esistenza. Ma ripartire da una antropologia della povertà significa confermare di nuovo, nel tempo del nostro presente, informatico, liquido e postfordista, le note di quell’astrazione del lavoro e della persona che, stando alla configurazione fattane da Marx, potevano sembrare appartenere solo al capitalismo di «Macchine e grande industria», ossia alla scenografia del gigantismo della catena di montaggio e del taylorismo della misurazione e specializzazione estrema delle mansioni. Non a caso dai molti, se non dai più, si è detto infatti che con l’introduzione delle tecnologie informatiche e con il passaggio, che n’è conseguito, dal classico lavoro manuale al nuovo lavoro mentale si sarebbe conclusa un’epoca lunghissima della fatica e del lavoro umano come subalterno e alienato. La tecnologia informatica, basata sui computers o macchine dell’informazione, avrebbe avuto bisogno di prestazioni sempre più prossime all’agire comunicativo e dunque di un soggetto lavorativo capace di interagire con tutte le doti della sua intelligenza e conoscenza, ossia con un grado assai elevato di attività e di autonoma capacità di scelta. Secondo tale visione i contesti di produzione e di mercato sarebbero divenuti nell’economia postfordista e globalizzata, per l’organizzazione a rete che la connota, sempre più complessi e differenziati: dunque non

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standardizzabili e riducibili ad automatismi ma tali che, nella loro flessibilità, avrebbero rimandato, per essere affrontati e risolti, alla complessità e all’elasticità proprie appunto della mente umana. Perciò nell’ambito economico, della produzione e dei servizi, ci sarebbe stato bisogno di un sapere sempre più contestuale e concreto indirizzato verso una individualizzazione che ridurrebbe di gran lunga la validità scientifica del modello marxiano del lavoro astratto, utilizzabile verosimilmente solo per il capitalismo ottocentesco e il fordismo del Novecento. Con la società postfordista e postindustriale sarebbe aumentata dunque, secondo questa visione, e si sarebbe estesa ormai in larghissima misura l’efficacia del lavoro e del sapere concreto, la necessità dell’intervento personalizzato, rispetto a modelli standardizzati di comportamento10. Lavoro, si aggiungeva, quello cognitivo della new economy, basato sulla rivoluzione digitale e le reti di comunicazione, intellettivo e immateriale, non ostacolato della separazione dei corpi, dunque intrinsecamente comunitario e collettivo e capace, come tale, di proporsi a soggettività profondamente innovativa ed emancipativa sul piano dei rapporti storico-sociali11. Invece a me sembra che la produzione di massa di una soggettività povera e astratta continui a essere un dato persistente e invariante del nostro vivere, e ciò malgrado le trasformazioni assai profonde che la diffusione della tecnologia informatica comporta, senza ombra di dubbio, con sé. Si potrebbe dire infatti che mentre nel capitalismo fordista era il corpo a essere subordinato e integrato nel sistema macchina - forza-lavoro, ora, nel capitalismo flessibile, è la mente invece a essere subordinata 10   Per tale interpretazione del «lavoro cognitivo» cfr. G. Allegri, R. Ciccarelli, La furia dei cervelli, Roma, manifestolibri, 2011; degli stessi autori vedi anche Il Quinto stato, Milano, Ponte alle Grazie, 2013. Per una critica pertinente di questa prospettiva cfr. Ippolita, La rete è libera e democratica. Falso!, Roma-Bari, Laterza, 2015; C. Formenti, La variante populista, Roma, DeriveApprodi, 2016, in particolare pp. 125-153. 11   La presupposizione nella storia della società capitalistica contemporanea di una soggettività collettiva e comune, capace di radicalità culturale e politica, costituisce, a mio avviso, il peccato originale e il dogma ossessivo e ripetitivo della tradizione del cosiddetto operaismo italiano. Sia che si trattasse di operaio massa, operaio metropolitano, operaio sociale, moltitudine e general intellect, l’operazione teorica è sempre stata la stessa. Leggere l’astrazione della forzalavoro fordista o postfordista, come sinonimo di autonomia, di autosufficienza e di autogenerazione. Ossia leggere e ridurre il binomio marxiano di «forza-lavoro» nella semplificazione dell’unico sostantivo di «forza»: potenza che rovescia, precedendolo ontologicamente, ogni modo produttivo e sociale di organizzazione del capitale in un’autoaffermazione della propria natura comune e primigenia. Cfr. C. Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, manifestolibri, 2005; Id., Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano, in P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento cit., pp. 223-248.

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e integrata alla macchina dell’informazione. Talché, se nell’industrialismo classico ciò che era messo al lavoro era un corpo senza mente, ora, nell’epoca dell’informatica, ciò che è messa al lavoro è una mente senza corpo. Come si è visto nei capitoli precedenti, in una condizione non patologica e scissa dell’essere umano il senso del vivere e dell’agire è dato fondamentalmente dalla relazione per la quale il corporeo-emozionale, compresente ma irriducibile al mentale, rappresenta la fonte mai esauribile dell’attività interpretativa ed elaborativa della mente: in una costituzione verticale del senso che s’integra con quella orizzontale derivante dal rapporto del medesimo individuo con le altre soggettività. Nel nuovo tipo di lavoro mentale appare invece che il sistema macchina informaticaforza lavoro richieda una mente umana assegnata a una semantica decorporeizzata e anaffettiva. La sintassi del linguaggio informatico infatti, costruita sulla logica binaria dell’alternanza tra il sì e il no, riproduce ed elabora il mondo della vita secondo una formalizzazione astratta in quanto priva di contrasti e contraddizioni. Vale a dire che l’esclusione del sì dal no impedisce di esprimere l’ambivalenza che strutturalmente connota l’esperienza emotiva e proprio per questo può essere principio di un mondo informatizzato il cui orizzonte è quello della certezza analitica, anziché quello dialettico e multiverso dell’esperienza concreta. Così mi pare che l’astrazione del nuovo lavoro mentale sia quella di una mente la cui attenzione e cura, astratta dal senso e dal fondamento della corporeità, è tutta assorbita da un universo di immagini e simboli alfanumerici e da percorsi di lavoro predefiniti e depositati, con un minimo di variabili a disposizione dell’operatore, nelle schede del programma informatico. Non parlo ovviamente del caso di scritture e composizioni private, con alto contenuto di professionalità ed espressività, dove il computer vale come ampliamento enorme della memoria a disposizione di un soggetto con un elevato grado di riflessività e professionalità. Bensì del lavoro mentale generalizzato svolto da forza-lavoro salariata che si trova a operare con macchine informatiche che sedimentano dentro di sé non solo un enorme quantità di informazioni ma anche e soprattutto un’intelligenza artificiale che ne dispone e comanda regole d’uso e senso complessivo. Cioè di un lavoro mentale che nella sostanza si limita ad agire e a reagire rispondendo a comandi e domande già predeterminate e precodificate, e dunque con una comprensione assai limitata del senso e della destinazione dell’atto che compie. Per cui è certamente vero che oggi nei processi di lavoro intensamente informatizzati ciò che è messa al lavoro è la mente e non più il corpo, ma a me sembra con una fondamentale subordinazione e omologazione della coscienza che, astratta e separata dal suo vero luogo

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i due corpi di marx

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emozionale di senso, superficializza se medesima e si consegna a un codice e a una semantica che sono intenzionati e significati da altri da sé. Per chi vede nel Capitale di Marx, come accade a chi scrive, ancora la chiave di volta di comprensione scientifica della realtà nella quale viviamo, la storia della modernità è stata ed è essenzialmente storia del rapporto e del confronto tra capitale e forza-lavoro. È storia delle diverse epoche e stagioni tecnologiche in cui quel rapporto si è svolto, sia come padroneggiamento e disciplinamento del processo di lavoro, sia come assoggettamento, resistenza, e iniziativa di opposizione e di soggettivazione da parte del mondo del lavoro. Con il fordismo si era raggiunto alla fine un sostanziale equilibrio di forze, che ha visto spesso il mondo del lavoro far valere la sua capacità organizzativa e di autonomia nei confronti del comando del capitale, tale da sollecitare quest’ultimo a progettare e a dar luogo a quella nuova modalità e tecnologia del processo di lavoro, che oggi viene chiamata postfordista. Ma che il nuovo spirito del capitalismo abbia abbandonato il modello autoritario e gerarchico della grande fabbrica e si strutturi secondo un’organizzazione in cui il soggetto umano debba dedicare, attivamente e non più passivamente, tutta la sua attenzione mentale, emotività, concentrazione di vita al lavoro, non implica che quell’attività e coinvolgimento siano effettivamente autonomi e che, come è stato scritto, «il lavoro immateriale tende in definitiva a confondersi con un lavoro di produzione di sé»12: tanto da poter solennemente concludere che «la separazione fra i lavoratori e il loro lavoro reificato, e tra quest’ultimo e il suo prodotto è dunque abolita, dato che i mezzi di produzione diventano approcciabili e suscettibili di essere messi in comune»13. Al contrario, la concentrazione della mente nella nuova forzalavoro mentale di massa a me appare tutta volta a un linguaggio e a operazioni alfanumeriche il cui codice, come già dicevo, è posto al di fuori di quella mente medesima, con l’estraneità di fondo riguardo alle opzioni dell’operare su cui quel codice è stato programmato. E ovviamente è proprio il grado e la natura di tale nuova estraneazione a richiedere, per essere sufficientemente compresa e lavorata, tanto più attenzione e riflessione. Cosicché oggi, in questa nuova era tecnologica del capitalismo digitale, vien fatto di pensare, che sotto l’apparenza di una celebrata economia della conoscenza e dell’attivazione della mente d’ognuno, la coscienza subisca invece una radicale colonizzazione del suo agire e procedere, e 12  A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 12

  Ivi, p. 15.

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che il complesso delle sue funzioni, anziché esercizio di un’intelligenza legata al sentire, sia tutto diretto e obbligato a procedure di misurazione e quantificazione, cioè a produrre e a obbedire a un comune del tutto privo di individuazione. Del resto va detto che, non a caso, a fondamento dei programmi dell’intelligenza artificiale stia una concezione computazionale e senza corpo della mente umana, per la quale l’attività cerebrale sarebbe solo processo e calcolo di informazioni, che vengono accumulate ed elaborate attraverso le reti neuronali e le connessioni sinaptiche. Riuscendo a tradurre in linguaggio informatico, in linguaggio cioè quantitativo-binario i processi elettrochimici di un cervello umano, così riduttivamente concepito, senza connessione di senso con il fondo emozionale, sarebbe realizzabile, secondo tali artificial brain projects, la configurazione elettronica di cervelli artificiali. I quali, in forza di tale strutturale omologia, tanto più sarebbero in grado di dialogare con la mente umana, costituendo una continuità macchinica e sempre più impersonale di network neuronali14. Ma noi aggiungiamo con delle conseguenze emozionali e comportamentali a profonda esposizione patologica per un’umanità che viene consegnata a un linguaggio artificiale che rimuove ambiguità, ambivalenze e complessità del linguaggio emozionale: con una scissione psichica che deve trovare di necessità compensazione in identità deficitarie e non approfondite in se medesime. Per dire, insomma, quali effetti, opposti, di spersonalizzazione e di impossibilità a comporre comunità, si possano raggiungere da antropologie politiche che hanno valorizzato la sola dimensione linguisticocomunicativa e che hanno presunto di trovare nel general intellect della tecnologia informatica il luogo di una socialità matura ed emancipata. È su tutto ciò, dunque che io credo sia necessario riflettere per comprendere, senza retoriche e miti ideologici di facili soggettività collettive e comuni, quanto sia difficile, ma pure inevitabile, trovare oggi la strada di una ridefinizione di soggettività dell’emancipazione che muovano, non da potenza e ricchezza presupposte, bensì da povertà e vuoti esistenziali. Perché oggi tutti tornano a percepire che una indeterminatezza e un’incertezza radicali del vivere tendano a farsi sempre più dominanti e pervasive, di contro a immagini dello schermo che ben stentano a riempire e a compensare forme sempre più patologiche e deficitarie, nei modi di un’esperienza di massa, d’individuazione e appropriazione di sé.

14   Per una critica, in chiave psicoanalitica, di questo riduzionismo ed estremismo cognitivista cfr. L. Oddo, L’inconscio fra reale e virtuale, Bergamo, Moretti & Vitali, 2018.

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CAPITOLO SETTIMO SVUOTAMENTO E SUPERFICIALIZZAZIONE DEL MONDO

1. Un nuovo concetto di povertà È dunque da qui, da questa nuova definizione di ciò che sia povertà, che bisogna muovere, a mio avviso, per dar luogo a un nuovo paradigma di emancipazione personale e sociale, la cui configurazione possa riscrivere, nel senso del progresso, l’universo dei valori dell’umanità del nuovo secolo che abbiamo intrapreso. Le povertà del xx secolo, quelle più tradizionali, di natura materiale ed economica, non sono certamente scomparse. Ma quella che ora si avanza non attiene più all’antropologia della penuria che ha segnato, e continua per certi versi, a segnare la storia dell’umanità dai suoi primordi a oggi. Perché ciò con cui ci confrontiamo è, come abbiamo detto, una povertà di natura psichica, che forse anch’essa ha da sempre segnato la vita delle classi subalterne, ma che oggi si dà in una singolare, e mai esperita finora, sindrome patologica: nel dissimularsi, alla superficie, e nel rovesciarsi nel suo contrario. Tale da apparire, non condizione di miseria e di estinzione di soggettività, qual è in realtà, quanto invece momento di affermazione e di socializzazione di vita. Sono infatti l’atrofia dell’asse verticale dell’essere umano e, insieme, l’ipertrofia, isterica e compensatoria, del suo asse orizzontale – il non essere connessi con se stessi proprio attraverso l’essere connessi con tutti – ciò che connota sempre più l’umanità contemporanea. È la capacità di sentirsi – e di ritrovare nel proprio sentire emozionale il senso-guida della propria vita e il luogo ultimo, non confutabile da altri, della verità – che è venuta, a mio avviso, fondamentalmente meno, lasciando generalizzarsi e farsi coscienza comune un’attitudine alla superficie, al frammento, al percuotimento e alla seduzione dell’esteriore, che impedisce e vieta il darsi di eco e sonorità interiori, fino a escludersi dalla profondità corporea del proprio sentire. Come a dire che nell’ultimo quarantennio della nostra epoca si è vissuto, in particolare nei paesi del ricco Occidente – ma di lì divenendo cifra antropologica e culturale dell’intera globalizzazione –, un enorme

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processo di smaterializzazione e di decorporeizzazione emozionale del vivere, che altri hanno voluto chiamare anche, con termini ritengo meno adeguati, di «umanità liquida». Giacché il farsi liquidi e senza centro non coglie bene quanto e come l’esperienza dello svuotamento emozionale, che è divenuta configurazione psichica di massa, si sia accompagnata e dissimulata, nello stesso tempo, con l’investimento isterico e compensativo della superficie, con la sopravvalutazione eterodiretta delle paillettes e dei lustrini che spesso incorniciano il frammento, con la seduzione di una silhouette visiva, che nel contorno di una bellezza senza contenuto, cattura e mortifica lo sguardo di chi la subisce1. Tale catastrofe dell’emozione si è fatta esperienza riflessa, sul piano della coscienza colta e intellettuale, in quel complesso di teorie filosofiche, letterarie, estetiche, architettoniche, narrative, letterarie ma anche mass-mediologiche e legate alla formazione di un sapere diffuso, che sono state raggruppate sotto il termine di postmodernismo e che hanno costituito le forme del pensiero dominante nella cultura del pensiero occidentale degli ultimi decenni. Usando la categoria dell’antica metafisica filosofica di cui abbiamo discusso nel quarto capitolo, si potrebbe dire, per sintesi, che la cultura postmodernista ha raccolto tutti gli orientamenti che hanno presunto di risolvere l’Essere in Linguaggio, ovvero che hanno ritenuto di poter sciogliere e risolvere la realtà in un complesso di reti comunicative. Ritenendo cioè che l’esperienza umana, individuale e collettiva, si costituisse essenzialmente di una trama di atti linguistici e simbolici, capaci di dar luogo a una serie interminabile di atti ermeneutici: a muovere dall’assunto – apparso a un certo punto indiscutibile e parola d’ordine per entrare nella koiné intellettuale – che la realtà non possa mai essere attingibile nella sua fattualità e in una sua possibile evidenza pratico-emozionale ed extralinguistica. Il simbolico-comunicativo, si è sostenuto infatti da parte di tutte le culture del postmoderno, media e copre ogni possibile realtà materiale, creando un mondo virtuale di documenti solo letterari che consentono un’ermeneutica infinita, in cui ciò che prevale e dà senso è sempre e solo una relazione intersoggettiva, una esposizione all’Altro, senza rimando possibile a una strutturazione infrasoggettiva e materialistico-emozionale del senso. Di qui una visione dell’esperienza umana tutta costruita sulla 1   L’imprescindibile riferimento a questa teorizzazione, del nesso tra svuotamento dell’interiore e sovradeterminazione dell’esteriore, è F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di M. Manganelli, Roma, Fazi, 2007. Su questa impostazione teorica si muove anche la ricerca di M. Gatto, Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente, Macerata, Quodlibet, 2012.

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dimensione orizzontale-comunicativo-linguistica con l’esclusione di quella verticale, e pronta, per l’assenza di tale radicamento interiore, a decostruire l’identità più propria nella relazione o mimetico-fusionale o antagonistico-conflittuale con l’altro da sé. Tanto da concludere, la filosofia del postmoderno, nell’esaltazione di qualsivoglia attitudine anticodificatoria e nel valorizzare – contro ogni funzione del permanere e sintetizzare – ogni tesi del differenziarsi dei piani del vivere: celebrando con quel suo massimo e raffinato intellettuale, qual è stato Jacques Derrida, la risoluzione del pensare nella «decostruzione», nello smontaggio cioè raffinato ed estenuato di ogni istanza d’identità nel moltiplicarsi della differenza. Fino a proporre una concezione evenemenziale dell’individuo, concepito come una serie inesauribile di eventi, di puri avvenimenti: quale esito sempre diverso del fascio di relazioni, che, nell’accadere sempre vario dei contesti, ogni volta lo attraverserebbero e lo formerebbero. 2. La sovradeterminazione dell’esteriore Da tale estremizzazione ed esasperazione delle filosofie della postmodernità è nato un pensiero disincarnato, un pensiero senza corpo, critico di ogni principio extralinguistico del senso. Il quale, mettendo in scena una fenomenologia antropologica tutta risolta e dissolta nella relazione con l’A/altro – maiuscolo o minuscolo che esso fosse – ha rifiutato di coniugare insieme naturale e culturale, biologico e psichico, visti nella loro evidente connessione ma anche nella loro distinzione ed eterogeneità2. Ma è proprio in tale progressivo affievolirsi della verticalità dell’essere umano, è proprio in tale rimodellamento virtuale e postumano dell’umano, che si colloca, a mio avviso, oggi la radice di una condizione generalizzata di fragilità, esposta, nel corso dell’esistenza di ognuno, e in particolare delle giovani generazioni, ad assumere le configurazioni più varie della difficoltà e dell’angustia del vivere. È in tale svuotamento dell’interiore e, per compenso, in tale sovradeterminazione dell’esteriore, imbellettato e vaniloquente, che si genera l’atonia, l’assenza di emozioni e passioni profonde, di un’umanità – ancora, soprattutto giovanile – disusa a trovare nell’intensità dell’affetto la guida ultima del più proprio, e incomparabile, progetto di vita. Si rileggano in tal senso le pagine sempre 2   Su questo tema cfr. A.B. Ferrari, From the Eclipse of the Body to the Dawn of Thought, London, Free Association Books, 2004; A. Green, La Pensée clinique, Paris, Odile Jacob, 2002; R. Lombardi, Metà prigioniero, metà alato, Torino, Bollati Boringhieri, 2016.

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illuminanti di Kierkegaard sul peccato per eccellenza, principio di tutti i peccati, qual è la melanconia, conseguenza del non avere passioni, del non volere: potremmo noi aggiungere, in quanto assenza di un apparato mentale capace di scegliere e appunto d’intensamente volere. A/tonia, si è detto: ancor prima della paura e dell’angoscia, che ne sono conseguenze e derivati. Perché se fossero affetti che precedono, affetti primari, sarebbero comunque esperienze fortemente emozionali, in grado di generare, verosimilmente, prese di coscienza e motivazioni alla trasformazione. Laddove qui è proprio l’accensione del tono, del suono interiore, che non si dà, lasciando ed esponendo il potenziale soggetto a essere solo oggetto assoggettato alla voce, al desiderio, alla seduzione, come alla norma e al terrore indotti e imposti dall’altro esteriore, dall’altro/da/sé. Tale catastrofe dell’interiorizzazione, tale atrofia di un apparato per pensare, per dirla con le parole di Bion, che non riesce a pensare le sue più proprie emozioni, perché è invaso e strutturato solo dalla chiacchiera dell’altro, appare essere dunque il tratto più drammatico della trasformazione antropologica che l’umanità, e ovviamente in modo particolare le giovani generazioni, stanno vivendo. Una trasformazione che attraverso una superficializzazione dell’esperire distrugge il senso della storia, della continuità con le generazioni precedenti, dell’esistenza stessa del passato e genera un narcisismo estenuato, mite, senza passione, estraneo all’idea stessa di lavoro psichico e volto, senza profondità, non a vivere ma a meramente registrare la datità del mondo. Questa trasformazione antropologica ovviamente non nasce come Atena dalla testa di Giove. È l’esito, sul piano dell’esperire soggettivo, di un processo più profondo e oggettivo di esteriorizzazione e superficializzazione del mondo, che, in altri luoghi dei miei studi e delle mie ricerche, ho provato a definire come l’anima e l’estenuazione della civiltà moderna fondata sullo sviluppo e la crescita, fino alla globalizzazione dell’economia del capitale. Prendendo spunto da motivi e filosofemi presenti, ma non organizzati e condotti a coerenza nell’opera di Marx, la mia proposta è infatti quella di leggere il capitale come un fattore storico-sociale di universalizzazione e, insieme, di svuotamento/sovradeterminazione. La sostanza del capitale infatti, secondo la lezione di Marx, è quella di essere un continuo e inarrestabile processo di valorizzazione, ricchezza cioè che tende obbligatoriamente al suo arricchimento. È ricchezza monetaria, che, per la sua natura solo quantitativa e numerica, non può che aspirare a una accumulazione quantitativa di sé, e che, per promuovere la sua espansione tendenzialmente illimitabile e smisurata, è pronta a invadere e colonizzare con la sua logica l’intero mondo della qualità, ovvero l’intero mondo della natura e degli esseri viventi, umani e non umani.

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A partire da Marx si può dunque leggere l’economia capitalistica come organizzata attorno a un fattore di costruzione impersonale e astratto, delle cui leggi intrinseche e oggettive di movimento gli esseri umani (i possessori di capitale in primo luogo) sono agenzie personificate di realizzazione. Nel senso che la tendenza smisurata alla crescita, intrinseca alla natura originariamente monetaria del capitale, fa di quest’ultimo un vettore non antropomorfo di organizzazione di realtà, che come mondo 1, o mondo della quantità e delle sue leggi omologanti, invade e colonizza il mondo 2, o mondo delle qualità e delle differenze di vita. Di fronte a tale esigenza vitale dell’economia capitalistica – di una quantità che deve espandere continuamente il suo limite quantitativo – tutte le altre esigenze della vita umana, affettive, morali, etiche, estetiche, ecologiche, vengono meno. Come tale il capitale è un assoluto incondizionatamente quantitativo-accumulativo, per il quale si dà condizione di patologia e di crisi non appena la crescita diminuisce o s’interrompe. Ed è talmente necessario il suo automatismo di crescita da comandare anche quelle che sembrano le decisioni più liberamente soggettive e umane dell’iniziativa economica, come la scelta delle merci da produrre e le abilità imprenditoriali dei singoli possessori di capitale, che appaiono delle Charaktermasken3 3  Il termine «Charaktermasken» compare nel secondo capitolo del primo libro del Capitale, per essere poi riproposto in più luoghi della stessa opera: «Quindi i possessori di merci debbono riconoscersi, reciprocamente, quali proprietari privati […]. Le persone esistono qui l’una per l’altra soltanto come rappresentanti di merci, quindi come loro possessori. Troveremo man mano che la nostra esposizione procederà che le maschere economiche [Charaktermasken] caratteristiche delle persone sono soltanto personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra» (K. Marx, Il capitale, libro I, tr. it. di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1964, pp. 117-118). Già in Per la critica dell’economia politica Marx aveva scritto nel 1859: «I possessori di merci sono entrati nel processo di circolazione come semplici custodi di merci. All’interno del processo l’uno di fronte all’altro nella forma contrastante di compratore e venditore, l’un di pan di zucchero personificato, l’altro oro personificato. Allo stesso modo che il pan di zucchero ora diventa oro, il venditore diventa compratore. Questi caratteri sociali determinati non derivano dunque in alcun modo dall’individualità umana in genere, bensì dai rapporti di scambio di uomini, i quali producono i loro prodotti nella forma determinata di merci» (K. Marx, Per la critica dell’economia politica, tr. it. di E. Cantimori Mezzamonti, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 75). Nell’uso marxiano Maske non sembra rinviare alla maschera come velo che nasconderebbe la vera e autentica individualità di un singolo quanto invece all’incorporazione di un ruolo già socialmente predisposto e predefinito. Su questo nesso centrale, ma assai poco considerato, nell’opera marxiana tra svalorizzazione della presunta autonomia di un soggetto individuale e ruolo sociale come Charaktermaske, cfr. W.F. Haug, Charaktermaske, in Id. (a cura di), Historisch-Kritisches Wörterbuch des Marxismus, vol. 2, Hamburg, pp. 435-451; C. Hennig, Charaktermaske und Individualität bei Marx, “Marx-Engels-Jahrbuch”, 2009, pp. 100-122. Su tale dimensione teologica, a mo’ di deus absconditus, del capitale quale canone di produzione e

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da questo punto di vista: solo dei portatori di ruolo, come scrive Marx in Das Kapital. Vale a dire che gli esseri umani entrano sulla scena dell’economia capitalistica come maschere teatrali che non rimandano mai a singole storie di vita, ma sempre a stereotipi, a ruoli generali di comportamento, predeterminati e prescritti, che vengono poi interpretati e vissuti dai singoli attori. Ora, nella mia ipotesi interpretativa, il rapporto tra i due mondi, tra il mondo dell’astratto e il mondo del concreto, non si dà secondo la modalità della contraddizione, come ha sempre teorizzato il marxismo della tradizione. Bensì, e soprattutto nel tempo della globalizzazione, secondo la modalità dello svuotamento del mondo del concreto da parte del mondo dell’astratto. Ossia non attraverso coazione e dominio, dall’esterno, di un mondo sull’altro, ma attraverso progressiva assimilazione e compenetrazione dei due, per cui la logica dell’economico rende a sé subalterna e omogenea la ragione della vita. Solo che, essendo il vettore economico costituito dall’accumulazione di una soggettività astratta, e dunque non immediatamente percepibile ed esperibile, il processo si dà in una modalità per la quale la logica meramente quantitativa dell’economico pervade sì il mondo della vita, assimilandolo alle sue funzioni, ma lasciandone in pari tempo sopravvivere una mera silhouette di superficie. In un processo, appunto, che è di svuotamento del concreto a opera dell’astratto, ma che contemporaneamente, per compensazione, è di sovradeterminazione, di sovrainvestimento della superficie: quasi che l’accadere e agire fosse determinato e agito dai soggetti individuali e concreti della superficie, con i loro bisogni e gusti, mentre il vero soggetto rimane operoso nel profondo, con la sua logica esclusiva e autoriferita4. La sua logica è dunque quella di un principio fantasmatico di realtà che, proprio perché immateriale e astratto, metta in campo il suo operare attraverso la dissimulazione di una parvenza di superficie. E che costruisce pertanto la realtà di una costruzione sociale articolata, non secondo opposizioni e contraddizioni, bensì secondo un nesso di essenza e apparenza, di valorizzazione di ricchezza astratta, cfr. anche M. Pezzella, Insorgenze, Milano, Jaca Book, 2014, in particolare le sezioni dedicate alla «Teologia del denaro», pp. 105-200. 4   Per questa tematica alla luce di una interpretazione complessiva dell’opera di Marx mi permetto di rinviare ai miei testi, Astrazione e dialettica dal romanticismo al capitalismo (Saggio su Marx), Roma, Bulzoni, 1987; Un parricidio mancato, Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2004; Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014.

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per il quale un’interiorità sociale fatta di accumulazione e concentrazione di ricchezza appare invece come il libero gioco, sul mercato, di azioni e libere scelte individuali. Del resto, a suffragare questa mia ipotesi di lettura della modernità come istituita su un nesso dialettico, non tanto di contraddizione tra classi, quanto invece di dissimulazione per opposizione tra essenza e apparenza, vale richiamare la lezione più significativa di Horkheimer e Adorno sulla definizione della modernità quale dialettica dell’illuminismo. Cioè su un sistema di socialità che, mentre proclama i valori kantiani della libera autodeterminazione e del progresso di ragione come le caratteristiche irrinunciabili del moderno, li rovescia e li annienta nella creazione di una nuova barbarie e nell’assoggettamento del soggetto umano a una razionalità tecnico-strumentale che lo estranea da ogni contatto autentico con se stesso. 3. La faglia della modernità Ora è proprio su questa strutturazione intrinsecamente dialettica della società nella quale viviamo (basata, si torna a ripetere, non su una metafisica della contraddizione, ma su un rovesciarsi dell’essenza nell’apparenza), che può e deve innestarsi, a mio avviso, un nuovo discorso e un nuovo paradigma dell’emancipazione. A muovere cioè dal nesso oggettivo di essenza e apparenza, per non cadere, col nostro discorso, in un’esortazione e in un moralismo solo soggettivi. Dobbiamo dunque insinuarci in quella faglia, in quella distanza che nella società moderna e contemporanea si dà tra assolutismo dell’astratto economico da un lato e valorizzazione apparente della libera e autonoma soggettività dall’altro, per lavorare teoreticamente e concettualmente nelle trame di quel gap e vedere quanto sia possibile formulare un discorso che proponga una forma e una pratica dell’individuazione soggettiva più potente e vera di quella messa solo in scena, ma pure reclamata, dal darsi della società moderna. Del resto dire nascita e sviluppo della modernità ha sempre significato dire nascita e sviluppo dell’individuo come soggetto. Riguardo al prevalere nel mondo antico del collettivo sull’individuale, dell’ethos comunitario sulle scelte personali, della oggettività ontologica del vero rispetto all’opinione e alla certezza soggettiva, il mondo moderno, dalla proclamazione cartesiana del cogito ergo sum, ha significato che ciò che desse valore al vero fosse l’assenso e l’esperienza della coscienza individuale e che la

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libertà del singolo da ogni forma di autoritarismo, di comunitarismo, di tradizionalismo, fosse il principio costitutivo di fondo, economico, giuridico, culturale e politico della nuova organizzazione e istituzione della società. Per cui senza la messa in valore dell’individualità libera e autonoma è la stessa idea di modernità che non sarebbe concepibile, tanto tale valore ne costituisce un tratto imprescindibile e costitutivo. Ma appunto, per quello che abbiamo provato a dire sul nesso di essenza-apparenza quale struttura più profonda della modernità, quel valore è sempre stato coniugato nella storia del capitalismo moderno come imprescindibile e, in pari tempo, come solo apparente, in quanto la sua messa in valore doveva e deve essere solo una messa in scena che dissimula e occulta la sostanza di quella valorizzazione più vera che è l’accumulazione della ricchezza economica e della sua astrazione. Ed è proprio in questa faglia della modernità, in questa imprescindibilità dell’appello e della valorizzazione del soggetto, che è in pari tempo, il suo svuotamento e la sua riduzione a fantasma, che trova la sua radice il nuovo paradigma dell’emancipazione, di cui stiamo trattando, aperto sulla prospettiva di una reale individuazione. È cioè nel travaglio e nella pena di una promessa costantemente rinnovata e costantemente negata che si riapre la possibilità della ripresa di un discorso di trasformazione di forme sociali e di modelli individuali5. Ma ormai, dopo tutto il percorso 5   Naturalmente non è chi non veda che tale questione – di una contraddittorietà immanente alla realtà sociale ed esistenziale della modernità, che non muova, per quanto è possibile, da presupposizioni estrinseche all’argomentare – è la questione di fondo che ha sempre animato, con varie coniugazioni, la ricerca della Teoria critica della Scuola di Francoforte. A partire dalla Dialettica negativa di Adorno e dalla sua critica rivolta a un concetto di verità e di valore che si opponesse dall’esterno al mondo del falso e del disvalore e che non nascesse, invece, in modo immanente dalle vicende del negativo, ossia dalle medesime patologie della modernità. Ma la radicalizzazione, in tal senso, della dialettica hegeliana come processualità immanente a un contesto, ha continuato a scontare, nell’opera adorniana, anche per influenze nietzscheane, presupposizioni antropologiche che contraddicevano quel progetto. Di qui la svolta kantiana di Habermas, nel senso di riuscire a estrarre dalla quotidianità, del nostro vivere e parlare, paradigmi normativi di valore che derivino solo da un’autoesplicitazione e un’autocomprensione trascendentale del contesto, senza riferimento alcuno a principi presupposti. Ma anche qui scontando, io credo, un eccessivo formalismo universalista del paradigma trascendentale, con la conseguenza di un modello normativo troppo astratto rispetto alle forme e alle relazioni concrete di vita (quali quelle del reale agire comunicativo). In tal senso Axel Honneth ha provato a proporre un ritorno da Kant a Hegel, lasciando cadere l’impianto logico-metafisico dell’hegelismo, ma senza riuscire a superare i limiti di una struttura normativa e di un pensiero, che torna, anche nel suo discorso, ad apparire habermasianamente disincarnato. Né la ricerca della sua allieva Rahel Jaeggi e il suo tentativo di ritornare a un’analisi intrinseca delle patologie sociali, secondo l’ispirazione dell’hegelismo di Adorno, mi sembra sfuggire alla curvatura di un’antropologia che, priva di

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che abbiamo compiuto fin qui, non possiamo riaprire la questione della soggettività senza implicare nel gioco le acquisizioni ormai irrinunciabili maturate dalla teoria psicoanalitica: propriamente quelle che nell’Introduzione abbiamo già definito la complicazione e l’arricchimento psicoanalitici dei concetti di società e di libertà. La psicoanalisi infatti ci consegna una struttura multiversa, ma non dispersa, della individualità umana, animata da più logiche che possono socializzarsi e sintetizzarsi, così come pure non integrarsi tra di loro. Obbligando perciò ogni possibile teoria della ristrutturazione e della emancipazione sociale a tener conto dell’acquisizione del dato ormai incontrovertibile che si danno due ambiti, uno esteriore e l’altro interiore, da definire parimenti come società, ovviamente eterogenee tra loro, e che l’essere umano è costituito, sì da relazioni intersoggettive, ma del pari, anche e fondamentalmente, da relazioni infrasoggettive. Ma, complicazione e arricchimento del concetto di società non può che dire riformulazione e arricchimento del concetto di libertà. Giacché è appunto di nuovo la psicoanalisi che obbliga il nostro lessico etico-politico ad allargarsi verso un ulteriore concetto di libertà la cui definizione possibile è quella di non aver paura di rimanere soli con se stessi. Una libertà cioè che parla della nostra individuazione, della possibilità di divenire noi stessi attraverso un percorso tra pathos e logos sul nostro asse verticale che si svolga con il grado minimo di repressioni e censure. E dunque, in questo senso, libertà come affrancamento possibile, non da autoritarismi esterni, ma da autoritarismi interni. Sarà dunque obbligatorio confrontarsi con una sintesi certo non facile, ma irrinunciabile, da ricercare tra le tre libertà, di cui abbiamo già fatto cenno: la libertà liberale, la libertà comunista e la libertà dell’ascolto del corporeità e di una mediazione profonda con la psicoanalisi, s’ispira assai più all’antropologia dell’indeterminatezza di H.  Plessner e al pragmatismo americano dell’essere umano come problem-solving. Su tutto ciò cfr. le lucide osservazioni di L. Cortella, I problemi irrisolti della negazione determinata. Rahel Jaeggi fra contestualità e trascendenza, e di R. Genovese, A proposito di Rahel Jaeggi, “Consecutio rerum”, n. 3, 2017, www.consecutio.org. Il tentativo che in queste pagine si propone, invece, di una dialettica tra essenza e apparenza – ossia tra Essere sociale e Apparire dell’Essere sociale – quale dissimulazione della prima nella seconda attraverso svuotamento e surdeterminazione dell’opposto di superficie, è quello di estrarre un quadro normativo ed emancipativo del contesto dato proprio a muovere dall’antropologia messa in scena e in valore, ma nello stesso tempo dis-attivata, dall’immaginario oggettivo della circolazione e produzione di merci. Per una riflessione sull’ultima impostazione della Scuola di Francoforte mi permetto di rinviare al mio L’estenuazione democratica della Scuola di Francoforte. Note critiche su Axel Honneth e Rahel Jaeggi, “Consecutio rerum”, n. 4, 2018, www.consecutio.org.

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proprio sentire. Tutte e tre acquisizioni imprescindibili del progresso dell’umanità e, come tali, da stringere unitariamente nella formulazione di una società ad/venire. Tanto che si potrebbe dire che risolvere il problema del concepimento e della realizzazione di nuove forme di organizzazione sociale non potrà che coincidere e risolversi nel modo di condurre a chiarimento e a soluzione la questione della natura, appunto trinitaria, della libertà. Nell’orizzonte di tale nuovo paradigma emancipativo, socializzazione dovrà pertanto necessariamente coniugarsi con individualizzazione. Nel senso, è opportuno specificare, che a ogni modificazione dei rapporti di uso e di proprietà del mondo esterno dovrà accompagnarsi una modificazione nel grado e nella qualità di appropriazione del proprio mondo interno. Approfondimento della socializzazione e approfondimento dell’individualizzazione dovranno cioè costituire le polarità di un’endiadi: pena la ricaduta in modelli ormai storicamente superati o estenuati di civilizzazione. Com’è accaduto, da un lato, con il socialismo realizzato nell’Urss e la sua coniugazione del valore della sola eguaglianza, e dall’altro con il liberalismo occidentale e la coniugazione del solo valore della libera individualità. Ma è pur vero, nello stesso tempo, che dalla psicoanalisi, maturata tale estensione dei concetti di società e di libertà, sia necessario tornare alla filosofia sociale e politica, per provare a schizzare una teoria della socializzazione che si voglia cimentare con una funzione terapeutica di massa. Che voglia cioè concepirsi quale complesso di istituti e pratiche che pongano come fine pubblico, tra gli altri, anche quello della sottrazione della psiche individuale da una condizione di minorità e di dolorosa alienazione a se medesima. Tornare dalla psicoanalisi alla filosofia, perché, com’è evidente, la psicoanalisi non può eccedere il proprio peculiare statuto di relazione privata, tra due menti, consumata nello spazio delimitato di uno studio analitico. Mentre è proprio nello spessore, e nell’obbligo, della tradizione filosofica che possiamo e dobbiamo trovare indicazioni preziose proprio per una dilatazione e transustanziazione pubblica e civile della psicoanalisi. 4. Un puro concetto del riconoscere È nella filosofia classica tedesca, in particolare nella filosofia di Hegel, con l’introduzione e la valorizzazione del concetto di riconoscimento (Anerkennung), che s’incontra il tentativo più ricco e avanzato di coniugare insieme socializzazione e individuazione. Giacché riconoscimento nell’idealismo hegeliano sta a significare appunto che una soggettività individuale

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non nasce e non si costituisce se non attraverso la relazione e la mediazione con un altro, o con altri, che, riconoscendolo come soggetto, lo sollecitano, lo autorizzano e lo legittimano a essere tale. Anerkennen (riconoscere) significa che la soggettività umana non si dà attraverso il solo Erkennen (conoscere), come voleva la costituzione trascendentale della soggettività conoscitiva nella kantiana Critica della ragion pura. L’autocoscienza, il sapere di sé come soggetto che unifica attraverso le sintesi conoscitive il molteplice del mondo fenomenico, non basta più per Hegel, sollecitato in ciò dalla lezione di Fichte, a dare certezza e solidità di senso all’individuo. Ci vuole l’intervento dell’altro, o degli altri, che lo riconoscano e lo confermino come tale dall’esterno, mostrando che la sua validità e centralità come soggetto non è solo una certezza individuale, un’opinione personale, ma è anche, e soprattutto, verità oggettiva e reale, appunto perché vista, attestata e riconosciuta pubblicamente da altri. Tale definizione della natura dell’umano precede, e ovviamente confuta, ogni visione riduttivamente materialistica, specificamente quella del materialismo storico del Marx della Deutsche Ideologie, che, nell’intento di contrapporsi in modo, io credo, radicalmente estremo, ha del tutto rimosso tale lezione hegeliana e ha proposto una configurazione della natura umana come istituita sulla necessità e il soddisfacimento dei soli bisogni materiali6. Questa antropologia, non del conoscere, ma del ri-conoscere, che è antropologia dialettica, perché implica nel cuore dell’identità la funzione dell’alterità, trova il suo luogo più celebre nelle pagine della Fenomenologia dello spirito del 1807 dedicate alla dialettica di signore e servo7. Di cui qui però non conviene occuparsi analiticamente soprattutto perché quelle pagine della Fenomenologia iscrivono la relazione di riconoscimento tra due antagonisti in un orizzonte di conflitto e di lotta per l’onore fino alla morte che è fuori luogo rispetto al paradigma di valori che in questa etica terapeutica, estranea allo schema amico/nemico, vogliamo mettere in campo. Mentre qui interessa fissare l’attenzione su quel «puro concetto del riconoscere» (reine Begriff des Anerkennens), avanzato da Hegel nelle pagine che precedono immediatamente la relazione signore/servo e che, a 6   Sulla sostanziale estraneità delle grandi dottrine della modernità alle tematiche e ai valori di un’antropologia del riconoscimento cfr. F. Fistetti, U.M. Olivieri, Verso una società conviviale. Una discussione con Alain Caillé sul manifesto convivialista, Pisa, Ets, 2016, pp.  5-38. Ma, viceversa, sulla presenza del tema del riconoscimento già in Hobbes e in Rousseau cfr. F. Toto, Hobbes e il riconoscimento. Antropologia, morale e politica cit. 7  Sulla presenza del tema del riconoscimento nello Hegel prefenomenologico cfr. I. Testa, La natura del riconoscimento. Riconoscimento naturale e ontologia sociale in Hegel, Milano-Udine, Mimesis, 2010.

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mio avviso, rappresenta la teorizzazione più elevata assegnata, nell’intero sistema di Hegel, al riconoscimento come principio della filosofia pratica: tanto da valere come criterio normativo e valutativo di tutte le forme manchevoli e deficitarie di riconoscimento che contrassegnano le numerose e varie costellazioni storiche e culturali protagoniste, nel seguito di quelle pagine, della stessa Fenomenologia hegeliana. Nel testo che consideriamo Hegel, in un’unica pagina, riesce a descrivere il maturare di un’individualità ad autocoscienza, attraverso la relazione con l’alterità, in tre passaggi del riconoscimento/disconoscimento. Nel primo passaggio un’individualità, uscendo dal proprio mondo chiuso, fa esperienza dell’alterità, dell’esistenza degli altri. E in quel primo incontro o si perde nell’altro o vede nell’altro solo se stessa. Non riesce per la gracilità di quel primo rapporto e l’immaturità ancora del suo sé a mantenere la compresenza e la coesistenza dei due poli. Può sperimentare dunque quali due uniche modalità primitive del riconoscimento della presenza dell’altro oppure quella del divorare l’altro o dell’essere divorato dall’altro8. Nel secondo passaggio, l’individualità cerca di liberarsi da questa dipendenza dall’alterità, eliminando l’altro in quanto tale. Ma questa mossa regressiva, che vorrebbe far tornare l’autocoscienza alla sua condizione primitiva di isolamento, non può aver luogo. Perché una volta entrata a far parte del mondo dell’Io la figura dell’altro, una volta che l’alterità è divenuta interna all’orizzonte dell’Io, muoversi a negare e togliere l’altro significherebbe negare e togliere lo stesso Io9. È solo nel terzo passaggio che l’autocoscienza ritorna effettivamente in se stessa, appropriandosi realmente di sé senza dipendenza dall’altro, ma solo in quanto, nello stesso tempo, il suo ritorno in sé coincide con il libero lasciar essere dell’altro. Questo togliere in doppio senso questo suo esser-altro, è altrettanto un ritorno in doppio senso in se stessa; che, in primo luogo, essa, mediante il togliere, riottiene se stessa, perché diviene ancora eguale a se stessa mediante il togliere del suo esser-altro; 8   «Per l’autocoscienza c’è un’altra autocoscienza; essa è uscita fuori di sé. Ciò ha un duplice significato; in primo luogo l’autocoscienza ha smarrito se stessa perché ritrova se stessa come una essenza diversa; in secondo luogo essa ha così superato l’altro, perché non vede anche l’altro come essenza, ma nell’altro vede se stessa [sich selbst im Anderen]» (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, vol. I, tr. it. di E. de Negri, Firenze, La Nuova Italia, 1967, pp. 152-153). 9   «Essa deve togliere questo suo esser-altro; ciò è il togliere del primo doppio senso, ed è perciò di nuovo un secondo doppio senso; in primo luogo la coscienza deve procedere a togliere l’altra essenza indipendente e, mediante ciò, a divenir certa di se stessa come essenza; in secondo luogo provvede con ciò a toglier se stessa, perché questo altro è lei stessa» (ivi, p. 154).

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ma, in secondo luogo, restituisce di nuovo a lei stessa anche l’altra autocoscienza, perché era a se stessa nell’altro; nell’altro toglie questo suo essere, e quindi rende di nuovo libero l’altro [entläßt also das Andere wieder frei].

Traducendo ed esplicitando il linguaggio hegeliano alla luce di una prospettiva psicoanalitica, si potrebbe dire che solo quando un’autocoscienza riconosce l’altro nell’autonomia del suo progetto di vita, in terminologia hegeliana nel suo «esser-per-sé», può giungere a riconoscere finalmente se stessa. Solo quando cessa di considerare l’altro come campo da escludere e da cui difendersi o come campo da invadere e manipolare  –  riducendolo dunque a ogni modo a funzione variabile del sé  –, solo quando ha cessato di considerare l’alterità come strumento, positivo o negativo, della propria egoità, quella soggettività può avere accesso e finalmente impossessarsi del suo più proprio e irriducibile sé: in quanto appunto non gravata da un legame simbiotico con l’altro da sé10. È dunque solo la rottura dell’approccio e dell’atteggiamento fusionale, in cui l’altro è solo una continuazione, senza distanza e autonomia, del mio sé a consentire, secondo l’indicazione di questa pagina hegeliana, il darsi del «vero riconoscere»11: un riconoscere che consiste nel doppio senso di lasciare liberi se stessi solo e perché, contemporaneamente, si lascia libero l’altro di essere e vivere secondo la sua più propria misura. Si potrebbe dire che il soggetto nasce solo quando abbandona una condizione trascendentale preedipica, nella quale l’altro assume esistenza solo per il soddisfacimento della bisognosità del soggetto in questione. E quando appunto esperisce e attraversa invece la costellazione edipica che, per mezzo dell’intervento del terzo, rompe la relazione fusione a due e, nel contesto di una relazione triadica, obbliga l’individuo a maturare progressivamente una cura e una personalità personale della propria bisognosità12.

10   Su tali passaggi cfr. C. Iber, Selbstbewußtsein und Anerkennung in Hegels «Phånomenologie des Geistes», in A. Arndt, E. Müller (a cura di), Hegels «Phånomenologie des Geistes» heute, Berlin, Akademie, 2004, pp. 98-117.

 G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito cit., p. 155.   L’utilizzazione che in queste pagine propongo del «puro concetto del riconoscere» di Hegel va nel verso di mostrare le profonde unilateralità che, a mio avviso, segnano l’interpretazione avanzata da Kojève del riconoscimento hegeliano, letto come dinamica solo conflittuale con l’alterità e come genesi di un’opposizione ontologica tra bisogno e desiderio, la cui assolutizzazione dualistica ha costituito la base di molto pensiero francese contemporaneo, specificamente la deviazione heideggeriana imposta alla psicoanalisi da Lacan. Su questi temi mi permetto di rinviare al mio Riflessioni sparse su identità, negazione, alterità cit., e a Trame del riconoscimento in Hegel, “Postfilosofie”, 2007, pp. 47-69. 11 12

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In tal senso riconoscimento va inteso come il compiersi di un processo alla fine del quale nasce la capacità di un soggetto di riconoscere la propria bisognosità e di farsene curatore responsabile, senza delegarne il soddisfacimento ad altri. Un riconoscimento insomma che dovrebbe portare alla fin fine al disconoscimento di madri e padri13, giacché ciascuno dovrebbe essere padre a se medesimo, accogliendo come fondo costitutivo della propria legge di vita, prima che obblighi e comandamenti esterni, la norma interiore del proprio sentire, che lo allontani da estremizzazione e passioni unilaterali e lo consegni all’armonia e alla forza del proprio conatus. Dunque riconoscimento, in questo modo di prospettare la questione, significa, in primo luogo, riconoscersi. Riconoscimento, prima che dell’altro, di se medesimi e della propria complessità interiore: alla ricerca di un equilibrio e di una sintesi, tendenzialmente al più alto grado possibile di investimento e vitalità, del proprio multiversum emozionale. Giacché solo per tale priorità del riconoscimento come riconoscimento di sé è poi possibile concepire, in modo congruo e adeguato, il riconoscimento come riconoscimento dell’altro: dove l’altro venga visto, rispettato e legittimato nel suo più proprio e personale progetto di vita, senza essere ridotto a strumento e oggetto del progetto e della volontà di altri. L’amore di sé quale presupposto e condizione trascendentale dell’amore dell’altro: il riconoscimento di sé quale priorità e condizione del riconoscimento dell’altro. Questo è, io credo, il principio costituzionale, dal lato del diritto alla soggettività e alla persona, che deve caratterizzare il nuovo paradigma. E che mostra contemporaneamente, in chiave critica, la dimensione patologica e violenta dell’amore secondo il cristianesimo, coniugato nella versione del sacrificio e della rinuncia a sé per amore del prossimo. Come mostra, da un altro lato, l’arretratezza e l’arcaismo dell’antropologia del comunismo cosiddetto reale che si è estenuato, fino alla catastrofe del fallimento storico, nel rivendicare e nel celebrare la cultura della sola eguaglianza di contro ai presunti disvalori dell’individuazione e della differenza. Del resto ormai siamo ben consapevoli della violenza che sta alla base di ogni estremizzazione, di ogni coniugazione unilaterale di valori, e di quanto la bontà e la dedizione all’unico valore si rovescino, sempre e necessariamente, nella violenza manipolatrice dell’altro che si dichiara di voler proteggere e salvaguardare. Su questo l’opera di Nietzsche ha lasciato analisi irrinunciabili. Ma già la lezione hegeliana ci aveva ben 13  Svolge la medesima argomentazione, ma con un impianto teorico assai diverso, P. Godani, Senza padri, Roma, DeriveApprodi, 2014.

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istruito su come e quanto una scissione astraente con la fissazione che ne consegue su un unico polo di valori e di forme d’identità subisca il destino inevitabile del rovesciamento nell’opposto di sé, giacché ciò che rimuove della sua complessità ritorna sempre a minarne e a invalidarne la sua presunta originaria sicurezza e purezza. Dunque senza riconoscimento previo del sé non c’è riconoscimento autentico dell’altro. Non c’è possibilità di una relazione nella compresenza che lasci libero l’altro di essere e persistere nel proprio progetto di vita. Ma, come sappiamo dal cammino fin qui percorso, se non c’è riconoscimento dell’altro senza un previo riconoscimento del sé, è anche vero che a sua volta il riconoscimento del sé presuppone il previo esser riconosciuto da un altro. Come appunto ci ha insegnato la psicoanalisi: particolarmente con l’approfondimento dell’impianto freudiano compiuto da Bion e dalla sua concezione della nascita dell’apparato di pensiero come mente al quadrato. Il riconoscimento dell’altro, da parte di un sé, rimanda alla capacità del sé di riconoscere se medesimo, ma tale riconoscimento presuppone l’esser stato riconosciuto e contenuto, a sua volta, da un altro. Questo è l’intreccio e la complicazione di relazioni che sono sottese alla tematica del riconoscimento nella misura in cui si pretenda di farla valere come principio costituzionale di una nuova forma di società e di civilizzazione. L’asse orizzontale, lungo il quale si è concepito in genere svolgersi ed esaurirsi il processo del riconoscimento, non è concepibile, in una dimensione di simmetria e di compresenza di pari esperienze di individuazione, senza l’accensione del percorso sull’asse verticale. Per cui, nel passaggio dallo spazio privato della cura psicoanalitica a quello pubblico delle istituzioni e delle pratiche sociali, il compito è quello di provarsi a concepire luoghi e istituzioni della socializzazione che, mentre assumono come oggetto di produzione beni e servizi di valore universale, producano, nello stesso tempo, cura e produzione dell’individuale, nel senso di una cura e di una facilitazione attraverso cui ogni singolo individuo possa attingere la verticalizzazione del proprio sé. 5. Istituzioni del riconoscimento Dobbiamo cioè, io credo, proprio in base al fondamento antropologico di cui qui si discute e agli obblighi e norme che ne derivano, pensare pratiche e istituti sociali per così dire a doppia matrice di produzione. Nel senso che, mentre lavorano e producono un oggetto, lavorano e producono, nello stesso tempo, il soggetto, volgendosi a garantire che non vi sia

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asimmetria tra le due produzioni e che siano dunque organizzate in modo tale che le logiche ed economie dell’oggetto non prevalgano e dominino sulle logiche ed economie del soggetto. Le istituzioni fondamentali di una società futura dovrebbero cioè essere concepite in base al realizzarsi nella loro pratica di una doppia dimensione del riconoscimento. Da un lato il riconoscimento come dovere della cura e della salvaguardia dell’intero genere umano, nel senso che ogni prodotto oggettivo, sia materiale che spirituale, non dovrebbe entrare in contraddizione con i diritti alla vita di ogni essere umano, presente e futuro. Dall’altro il riconoscimento come diritto al riconoscersi di ogni essere umano, nel senso del diritto di ognuno a non aver paura di rimanere solo con se stesso: diritto per il quale ogni individuo oltre ad avere accesso alla ricchezza del mondo oggettivo, dovrà essere rispettato e facilitato nell’accesso al proprio mondo interiore e soggettivo. Tale socializzazione attraverso il riconoscimento, tale etica del riconoscimento, dunque rilegge e curva l’etica del riconoscimento di Hegel nel doppio verso del kantismo e del freudismo. Nell’ovvio convincimento che Kant e Freud abbiano costituito i due eroi eponimi della modernità, quali appunto gli eroi del pensiero che a essa hanno dato il nome e che, come tali, si sono istituiti quali maestri insuperabili della nostra civilizzazione. Kant, perché con la valorizzazione dell’universalità del genere umano quale principio supremo di ogni azione, non solo pratica ma anche teoretica, ha sostituito l’umano al divino e ha decapitato per sempre con il rasoio di Occam ogni istanza religiosa e trascendente, facendo dell’unità del genere umano il criterio, insieme, del vero, del buono, del bello14. Freud, perché con la scoperta del sesto continente, del continente dell’inconscio, 14   La genialità insuperabile di Kant, quanto a eroe eponimo e fondatore della modernità, consiste, com’è noto, nell’aver disegnato un nuovo sistema del sapere secondo l’applicazione e lo svolgimento di un unico principio, identificato nel carattere universalmente a priori del trascendentale. Giacché il trascendentale, che è funzione di universalità del vero, nella conoscenza scientifica, è il medesimo che si fa principio del bene dell’azione morale, quale azione estensibile e universalizzabile all’intero genere umano. E che costruisce il giudizio estetico sul bello, quale giudizio disinteressato che si generalizza attraverso l’universalità di quella ulteriore facoltà, che oltre la facoltà teoretica e oltre la facoltà pratica, è la facoltà basata sul quel «senso comune» [Menschenverstand] del bello che, come giudizio di gusto, presuppone comunità e socialità. Ma ciò che appunto è in questione è la capacità di queste facoltà sintetiche di sintetizzare un universale capace di dar conto realmente del molteplice e delle differenze individuali, come testimonia la amplissima discussione che su questo tema, dall’Idealismo e dal postkantismo, si è venuta accumulando e moltiplicando nel tempo, attraversando tutta la storia della filosofia moderna e contemporanea. Imprescindibile in tal senso è il riferimento alla lettura kantiana proposta da E. Garroni in Estetica ed epistemologia: rilflessioni sulla Critica del giudizio, Milano, Unicopli, 1998.

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ha allargato la geografia di quell’umano, scoprendo, accanto alla geografia dell’orizzontale, una dimensione di verticalità e profondità fino ad allora mai attinta o concettualmente acquisita dall’autocoscienza della specie. Ma appunto in questo singolare convenire di Kant, Hegel e Freud, quali ispiratori ineludibili del nostro domandare, va sottolineata la necessità e la compresenza di tutte e tre le figure gigantesche della modernità, affinché l’una integri l’altra nella costruzione del nostro campo tematico. Così non possiamo rinunciare alle acquisizioni critiche, mosse, prima, dalla cultura del romanticismo e poi dalla filosofia postkantiana dell’idealismo tedesco che hanno accolto ma nello stesso tempo problematizzato la ragione di Kant quanto al suo rapporto con il particolare e alla sua capacità di individualizzarsi. Perché proprio da quella critica, anche se talvolta non adeguata e troppo estrema, è nata comunque una teoria del riconoscimento che ha significato una maturazione preziosa quanto ai problemi e alla dimensione di un’antropologia dell’individuazione. Per tal verso la lezione di Hegel sul rovesciamento nell’opposto dell’illuminismo, sulla dialettica in negativo dei valori dell’illuminismo, è stata troppo incisiva e determinante nell’arricchirsi e complicarsi della cultura della modernità per essere trascurata e rimossa. La sua critica dei modi in cui le universalizzazioni troppo astratte e generiche dell’illuminismo finiscano col dare vantaggio e legittimazione a interessi di parte e a privilegi privati – le sue osservazioni cioè sulle modalità ideologiche e ingannevoli di fallaci infinitizzazioni di un finito – rimangono un patrimonio prezioso per la maturazione di un’etica del futuro. E ci sollecitano appunto a pensare alla necessità di livelli e tipologie della socializzazione e del riconoscimento intermedie, in cui la lontananza utopica della cosmopoli kantiana sia accolta come idea regolativa della storia umana ma nello stesso tempo vista nella sua attuale inattingibilità  e nella sua conseguente necessità di essere calata in orizzonti più limitati e concreti di integrazione sociale. Certo di Hegel, come vedremo subito tra breve, non si possono più accogliere gli istituti intermedi della mediazione sociale e del riconoscimento che egli è venuto proponendo, soprattutto nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts. Per la loro palese inadeguatezza storica, come proverò a spiegare nel capitolo seguente. Ma del grande maestro di Berlino di quell’opera, oggi non più riproponibile, rimane attualissima e feconda, io credo, una preziosa intuizione: ovvero che solo relazioni sociali di riconoscimento non mediate dal denaro possono compensare la durezza e l’impersonalità delle relazioni sociali basate sulla mediazione del denaro.

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Tanto che appunto in quella cornice di massima modernità per il suo tempo egli era giunto a riproporre l’etica e la solidarietà della corporazione [Korporation] premoderna come luogo di terapia e contenimento delle lacerazioni prodotte dalla modernissima istituzione del riconoscimento reciproco attraverso il mercato dello scambio di merci e di lavoro basato sulla mediazione del denaro. Perché l’idea hegeliana che la forma sociale del riconoscimento più concreta e più personalizzata si dia in istituzioni sociali che danno assai più valore al valore d’uso che non al valore di scambio – cioè non negli scambi del mercato ma nelle comunità corporative dei mestieri e delle professioni – ci offre l’opportunità di pensare che le istituzioni intermedie di una futura socializzazione individualizzante dovranno e potranno essere costituite solo da comunità o piccoli gruppi che concorrono alla produzione di un medesimo valore d’uso in una cooperazione non mediata dal denaro. Comunità che, nell’assenza di un medium impersonale di socializzazione, potranno guardare da un lato alla completezza qualitativa del valore d’uso che intendono produrre e dall’altro, nello stesso tempo, alla distribuzione delle funzioni di lavoro secondo il riconoscimento dell’individualità emotiva e biografica d’ognuno. Potremmo riassumere quanto detto ipotizzando, utopicamente, che una società ad/venire dovrebbe conformare i suoi istituti di produzione, materiale e culturale, secondo questi tre principi costituzionali: Produzione di beni, materiali e culturali, che non entrino in contraddizione con l’universalità del genere umano, presente e futuro, senza distinzione e discriminazione alcuna di nazionalità, lingua, religione, identità sessuale. Produzione di beni, materiali e culturali, che non entrino in contraddizione con la riproduzione del mondo-ambiente e la totalità della bio-sfera. Produzione di beni, materiali e culturali, che non entrino in contraddizione con pratiche e cure dell’individualizzazione, da praticarsi entro il perimetro di comunità o gruppi sociali di dimensioni limitate, non organizzate secondo la circolazione di denaro. Valga come esempio l’organizzazione possibile della istituzione scolastica, considerata nella filiera dei suoi diversi gradi e della sua intera articolazione. Giacché oggi, nei tempi di una sempre più accentuata globalizzazione, la produzione culturale e formativa della scuola non può ovviamente non porsi l’obiettivo di riuscire ad attingere e a diffondere i contenuti e i valori, nelle più varie discipline, più avanzati e più accreditati della cultura mondiale. Non può cioè non porsi l’obiettivo ottimale

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di attingere i contenuti più avanzati e universalizzabili del sapere umano. Ma tale universalizzazione del processo formativo non può svolgersi, in realtà, senza la presa in considerazione della specificità della storia e delle identità nazionali e locali: secondo quell’intreccio della dimensione orizzontale con quella verticale di cui stiamo trattando in queste pagine ormai da tempo. Nel caso esemplare dell’Italia questo implicherebbe, ovviamente, l’impossibilità di abbandonare la tradizione dell’umanesimo classico e moderno, greco-latino-rinascimentale, in cui affondano le radici della peculiarità della nostra storia e della nostra cultura. Tanto che, nello svolgimento di un pensiero utopico del futuro, si potrebbe pensare, come grande riforma dell’istruzione, all’estensione dell’obbligo scolastico dall’età di 16 a quella di 18 anni e alla generalizzazione del liceo classico all’intera popolazione giovanile: un liceo classico capace di mediare, a un alto livello formativo, sapere umanistico, sapere scientifico e sapere linguistico. Con la necessità conseguente di formare in modo adeguato una classe insegnante, obbligata ogni 6/7 anni a spendere un anno sabbatico, ovviamente remunerato, presso le istituzioni universitarie, per aggiornare e rivedere le proprie competenze di contenuto e di metodologia. Cosicché la stessa università dovrebbe profondamente riformarsi, dalla sua attuale costituzione, per poter svolgere adeguatamente tale compito rinnovato di formazione e di ricerca. Ma tale compenetrazione di orizzontale e verticale, di cultura dell’umanità e di cultura delle proprie tradizioni, dovrebbe ulteriormente caratterizzarsi e specificarsi nel verso della formazione di un gruppo/classe che si potesse far valere come luogo privilegiato di socializzazione rispetto a tutti gli altri interlocutori esterni, insegnanti compresi, e nel cui orizzonte di comunanza di età e di esperienza potesse nascere una comprensione e una tenerezza verso le differenti attitudini emotive e culturali che, limitando per quanto possibile le spinte aggressive e distruttive all’interno del gruppo, fosse facilitante nel verso del riconoscersi di ciascuno quanto al più proprio e irriducibile progetto di vita. Al di là di tale esempio specifico, ciò che vale dire è che l’umanità del futuro non potrà che confrontarsi con tale complicata questione del nodo di globalizzazione e di localizzazione particolare. La dimensione globale è un dato ormai irreversibile, generato dalle virtù universalizzanti del capitale, non conta dire con quante strutturali e gigantesche asimmetrie. Ma la grande lezione dell’illuminismo, e di Immanuel Kant in particolare, ci esortano a metabolizzare e a trasfigurare la durezza di quell’universalizzazione economica nell’orizzonte di una universalizzazione umanistica,

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costruita sull’integrazione e l’unità dell’intero genere umano. Anche Antonio Gramsci del resto, in un suo insospettato versante kantiano, ci esortava nei suoi Quaderni, a ritrovare il criterio di ciò che è vero, il principio della verità, non tanto in un conoscere che deve riflettere e adeguarsi a una realtà esterna, quanto in tutto ciò che concorre a produrre unificazione, tra intellettuali organici e gruppi subalterni in società classiste, e, quale finalità tendenziale della storia al di là delle società di classe, tra il corpo dell’intero genere umano. È dunque verosimilmente ormai matura per noi l’assunzione di tale Zeitgeist: assumere cioè responsabilmente tale canone – il condurre a unità del genere umano – come idea regolativa e finale, appunto secondo il senso precipuo di Kant, dell’intero processo della storia umana. Ma con la diversione, complicatissima ma non impossibile, di provare a realizzare quell’universale, regolativo della storia, secondo le differenze e le peculiarità delle storie particolari.

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CAPITOLO OTTAVO FRAGILITÀ E LIMITI DEL RICONOSCIMENTO

1. Genesi e storia del concetto moderno di riconoscimento La categoria di riconoscimento, come abbiamo detto, costituisce il cuore, la metacategoria della filosofia pratica di Hegel. Ora lo scopo delle pagine che seguono è quello di evidenziarne l’importanza e, nello stesso tempo, i suoi limiti strutturali, nella misura in cui questi mostrano di continuare a condizionare anche le teorie più interessanti e attuali di un’etica del riconoscimento, quali, tra le prime, quella avanzata da Axel Honneth. Va ricordato comunque che è Fichte, prima di Hegel, a introdurre nella letteratura filosofica moderna un uso originale del concetto di riconoscimento con il suo testo sul Fondamento del diritto naturale del 1796. «Il concetto di individualità – teorizza Fichte in quell’opera – è […] un concetto di relazione […]. Esso è possibile, in ogni essere razionale, solo nella misura in cui viene posto come completato da un altro. Esso non è quindi mai mio, ma per mia propria ammissione, e per ammissione dell’altro, mio e suo; suo e mio – un concetto comune, in cui due coscienze vengono riunite in una»1. La costruzione del diritto moderno deve muovere infatti non da una autonomia e una libertà presupposte del singolo ma dall’«esortazione», dallo stimolo e dalla sollecitazione alla libertà, che ogni singolo deve ricevere dall’altro, dall’esterno. Il diritto deve nascere cioè dal riconoscimento che altri fa della mia natura di essere razionale capace di autodeterminazione e dunque, nello stesso tempo, dalla limitazione alle proprie possibilità d’azione che altri s’impone per dare libertà al mio Io e all’espressione delle mie capacità d’azione. Tale riconoscimento e tale autolimitazione non possono che essere reciproci – infatti in tale moltiplicazione di reciprocità giace 1  J.G. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza, tr. it. a cura di L. Fonnesu, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 43.

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il fondamento del diritto – perché, se io a mia volta non riconoscessi l’altro come capace di autodeterminazione, priverei il riconoscimento che l’altro compie di me di valore e di autorità di legittimazione. Il diritto in questo modo nasce secondo Fichte non dalla limitazione di una libertà originaria del singolo ma dal reciproco riconoscersi e darsi libertà di entrambi i poli. Nasce da un comune offrirsi libertà, che colloca l’autocoscienza che ho di me, come soggetto libero e capace di autodeterminazione, nella coscienza che l’altro ha di me. La volontà pratica del Fondamento del diritto naturale è necessariamente finita a differenza dell’attività infinita dell’«Io» teoretico che Fichte ha posto a base del conoscere e della Dottrina della scienza. Nel mondo dell’agire pratico la volontà non può che essere empirica e finita. È legata alla rappresentazione dello scopo e la rappresentazione è sempre vincolata a un contenuto oggettivo che il volere trova dato e fuori di sé. Ma nello stesso tempo il volere di un soggetto razionale, per la sua natura intrinsecamente libera, secondo la lezione che Fichte accoglie fedelmente da Kant, non può che trovare solo in se stesso il principio causale della sua volontà. E tale contraddizione tra il limite dello scopo rappresentato e l’infinità della volontà libera si risolve per Fichte appunto attraverso un oggetto, attraverso un termine esterno, il cui contenuto d’agire consista in un’esortazione alla libertà, giacché in questo modo si media tra infinito e finito e la coscienza che si autodetermina a un agire libero accoglie tale possibilità, non a muovere dalla propria interiorità, ma come qualcosa di mediato da un dato oggettivo del mondo esterno2. Solo che in Fichte la funzione del concetto di riconoscimento si ferma qui. Si limita a giustificare l’idea del soggetto del diritto come persona, cioè a riconoscere e ad attribuire all’individuo quel carattere formale di autocoscienza e autodeterminazione razionale che torna kantianamente a farlo uguale a tutti gli altri esseri umani. Senza dare spazio alcuno a tutte le altre determinazioni di vita e di esperienza di quel soggetto nelle sue relazioni concrete con il mondo. Tanto che per quanto concerne lo 2   A proposito dell’esortazione da parte di un’altra autocoscienza alla libera attività spontanea di una coscienza, di un’esortazione che cioè è oggettiva perché posta al di fuori del soggetto in questione, Fichte scrive nel Fondamento del diritto naturale: «[…] è il carattere dell’oggetto che la libera attività del soggetto, nell’apprensione di esso, venga posta come ostacolata. Quest’oggetto deve però essere un’attività causale del soggetto, ma è il carattere di una tale attività causale che l’attività del soggetto sia assolutamente libera, e determini se stessa […]. Per trovarsi come oggetto (della sua riflessione) non poteva trovarsi come determinante se stesso all’attività spontanea, ma come a ciò determinato da parte di un urto esterno, che deve tuttavia lasciargli la sua piena libertà di autodeterminazione» (ivi, pp. 30-31).

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svolgimento della teoria del diritto e dello Stato in Fichte si ritorna a privilegiare l’istituzione pubblica come luogo di una coazione legittima che limita l’interesse egoistico di individui presupposti al nesso sociale e che dunque ritorna a proporre la visione e la problematicità di un giusnaturalismo che deve connettere antropologia egotica ed esteriorità obbligante della norma pubblica. Ma nello stesso tempo va detto che anche sul piano del conoscere, nell’ambito cioè della Dottrina della scienza, in Fichte opera, anche se non formulata esplicitamente, quella funzione primaria del riconoscere, quel risolversi del conoscere nel riconoscere, da cui deriva, a ben vedere, tutta la successiva trama, nelle sue diverse declinazioni, dell’idealismo tedesco. È Fichte infatti che, rispetto al concetto di sintesi in Kant quale unità teoretica del molteplice o quale derivazione di un contenuto dell’agire pratico dalla forma di pura ragione, propone un concetto di sintesi come unificazione degli opposti, come toglimento cioè di limiti reciprocamente escludentisi. Così come la stessa coscienza per Fichte non si struttura più, come in Kant, secondo l’unificazione di un molteplice, bensì secondo l’opposizione di Io e non-Io. Ed è dunque Fichte che fa del riconoscimento, del trovare nell’Altro o non-Io, l’Io, l’orizzonte ispiratore generale e complessivo della sua filosofia, al di là dell’utilizzazione specifica e parziale che ha assegnato alla funzione dell’Anerkennung nella Fondazione del diritto naturale. L’Assoluto di libertà che Fichte concepisce, ben oltre la sintesi kantiana, pretende che l’alterità del limite sia alla fine risolta nell’identità. Questo motivo del riconoscimento, come esser-presso-di-sé-nell’altro, pervade, a partire da questa sua matrice fichtiana, tutta la storia dell’idealismo tedesco, e per quello che qui ci interessa, trova la sua più esplicita rielaborazione nell’opera di Hölderlin e, immediatamente d’appresso, in quella di Hegel. Infatti la Vereinigungsphilosophie, la filosofia dell’unificazione di Hölderlin, nel momento stesso in cui accoglie il tema generale fichtiano della sintesi quale riconoscimento del Sé nel proprio Altro, lo elabora in un modo assai peculiare e originale, in quanto, mossa dalla necessità di superare ogni forma possibile di violenza, ne rifiuta l’assunto fondativo istituito sulla pretesa asimmetria e superiorità dell’Io sul non-Io. L’hen kai pan per Hölderlin è infatti concepibile come unità che si dà solo attraverso la scissione e l’opposizione, in cui le polarità contrapposte hanno pari dignità e legittimità nel comporre la totalità della vita e in cui dunque non si dà alcuna condizione di asimmetria e di dominio dell’uno sull’altro, dell’Io sul non-Io, del teoretico sul pratico, del razionale

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sull’emotivo, dell’individuale sul collettivo, del soggetto sull’oggetto, o viceversa. L’Uno è il bello, teorizza platonicamente Hölderlin, ma solo perché l’Uno è hen diápheron heautò, uno che differenzia se stesso, concordanza che si produce attraverso la dissonanza. È armonia del discorde che, in quanto bellezza, è oggetto ed esperienza, non di conoscenza concettuale, ma di sentimento e di amore3. E appunto l’amore per Hölderlin costituisce un metaprincipio ontologico e antropologico, il massimo vettore d’integrazione della realtà. Quale massima esperienza di una concordia discors, esso deve essere capace di stringere le movenze opposte, che sono da un lato quella del toglimento di ogni differenza tra il Sé e l’Altro e dall’altro quella della valorizzazione e dell’intensificazione del senso del Sé. Di essere cioè unificazione senza barriera alcuna con l’Altro e, contemporaneamente, appropriazione del più proprio, cioè esaltazione ed entusiasmo per il più specifico e personale Selbst. Né è un caso che Dieter Henrich, nei suoi studi sull’idealismo tedesco, abbia ricordato, a proposito di tale congiungimento tra Liebe e Selbst nella filosofia dell’unificazione Vereinigunsphilosophie di Hölderlin, l’influenza dello scritto, assai importante su tale motivo della compresenza di opposti, di Herder, dal titolo appunto Liebe und Selbstheit (Amore e Senso del sé )4. Anche il pensiero di Hegel partecipa, com’è ben noto, dell’intendimento fichtiano della filosofia come superamento delle opposizioni, come il generale processo di riconoscimento del Sé nell’Altro. E anche Hegel, come Hörderlin, è al di là di Fichte, in quanto non accoglie il primato unilaterale assegnato alla sola polarità dell’Io. Solo che, diversamente da Hölderlin, non può accettare l’amore come principio di mediazione e unificazione. Non ritiene cioè di superare le scissioni della modernità attraverso il Geist romantico, quanto piuttosto attraverso la propria originale teorizzazione della dialettica, secondo cui ciascun termine di un’opposizione deve svilupparsi e maturare fino a riconoscersi in se stesso come duplice, arricchito cioè dall’aver interiorizzato e riconosciuto in sé un’alterità, che fino ad allora aveva considerato come a sé esteriore ed estranea. Tale processo dialettico, di superamento di polarità inizialmente astratte perché identificantesi attraverso un’opposizione escludente 3   Su ciò mi permetto di rinviare al mio Mito e critica della forme. La giovinezza di Hegel 1770-1801 (prima ed. Roma, Editori Riuniti, 1996; seconda ed. Lecce, Pensa, 2009). Ma cfr. anche M. Cappitti, Filosofia dell’unificazione e teoria della soggettività in Hegel e Hölderlin, Lavagna, Zona, 2015. 4  D. Henrich, Hegel und Hölderlin, in Id., Hegel im Kontext, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1975, pp. 9-40.

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l’alterità, si fonda sulla funzione peculiarissima che Hegel assegna alla negazione, teorizzandola in modo assolutamente nuovo nella storia della filosofia come negazione assoluta, o negazione della negazione. Tale concettualizzazione del negativo lo intende infatti come la negazione che dal negare l’altro trapassa, attraverso un’assolutizzazione dell’azione del negare, a negare se medesima: a rivolgere cioè entro se medesima il negare e a togliere in questo modo tutte le limitazioni e identificazioni parziali di ogni coppia iniziale di opposti. Questo negare del negare in sede teoretica – soprattutto nella Scienza della logica  –  avviene attraverso procedimenti logico-predicativo-discorsivi, generando passaggi argomentativi che spesso, almeno a mio avviso, cedono a conclusioni improbabili e di natura sofistica. In sede pratica, in particolare nelle Realphilosophien di Jena e nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts, l’intera costruzione del mondo sociale, civile e politico avviene attraverso la negazione della negazione nella forma delle diverse tipologie del riconoscimento5. Le sfere delle relazioni interpersonali, di ambito familiare, socio-economico, socio-politico si istituiscono infatti per Hegel anch’esse secondo una doppia negazione, che nega da un lato l’individuazione astratta, come pretesa del singolo a chiudersi in una sua egotica autonomia, ma parimenti nega la socializzazione astratta qualora volesse esaurirsi in istituti e pratiche che negano l’individualità e la libertà del progetto di vita d’ognuno. Socializzazione e individuazione, nella modernità, devono procedere insieme e, se l’individuo deve negare la sua astrazione di persona autosufficiente, l’istituzione sociale deve negare se stessa quanto a separatezza e non accoglimento dalle esistenze concrete e differenziate dei singoli. Per superare tutte le aporie della lunga stagione contrattualistica, sintetizzabili nel problema di come individui presociali possano generare il nesso sociale, per Hegel formazione e sviluppo della soggettività individuale da un lato e modi e norme di funzionamento delle istituzioni sociali, dall’altro, devono intrinsecarsi, e appunto il riconoscimento reciproco, nelle due direzioni, è la tipologia di prassi che consente di dar luogo a tale endiadi: riconoscimento da parte del singolo della necessità e del valore della norma comune, dell’interesse generale, e, insieme, riconoscimento da parte della istituzione e della legalità collettiva, da parte cioè dell’interesse generale, dei diritti e del valore di ogni individualità. 5   Cfr. L. Siep, Anerkennung als Prinzip der praktischen Philosophie. Untersuchungen zu Hegels Jenaer Philosophie des Geistes, Hamburg, Meiner, 2014. Della prima edizione di questo testo (1979) esiste una traduzione italiana, Il riconoscimento come principio della filosofia pratica: ricerche sulla filosofia dello spirito jenese di Hegel, tr. it. di V. Santoro, Lecce, Pensa, 2007.

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Questa teoria di una prassi istituita sul doppio riconoscimento, o, ma è dire la stessa cosa, sulla doppia negazione implica che dunque per Hegel si dia un profondo parallelismo, anzi un nesso intrinseco, tra la molteplicità delle forme delle istituzioni sociali e la molteplicità delle forme dell’autocoscienza personale. A forme diverse, secondo gradi distinti di maturità dell’autocoscienza individuale, corrispondono luoghi e logiche istituzionali di socializzazione diverse. A gradi diversi dell’autoriconoscimento corrispondono modalità diverse dell’essere riconosciuto. In ciò consiste la grande innovazione sul piano del pensiero sociale e politico operata da Hegel fin dai tempi di Jena, e, come accennavo nell’introduzione, importantissima, a mio avviso, ancora e soprattutto oggi, per reimpostare la questione della politica, della democrazia e della socialità, al di la dell’arretratezza e della consunzione ideologica ormai delle opposte teorie del liberalismo e del comunismo. Gli istituti della socializzazione non muovono da un individuo già formato, già responsabile e autonomo, non contrappongono pubblico e privato, come avviene in forma rovesciata anche con la socializzazione comunista, bensì accompagnano e consentono la formazione dell’individualità. Anzi la loro pregnanza ed efficacia nel formare costumi e regole dell’agire collettivo si misura proprio nel loro farne non obblighi e limiti esteriori per la libertà di un soggetto già presupposto bensì condizioni intrinseche e facilitanti di un processo di soggettivazione. 2. Le tre sfere hegeliane della modernità In questo parallelismo tra il divenir soggetto del singolo e il configurarsi della istituzione sociale l’Hegel della Filosofia del diritto mette a tema tre ambiti e modalità del riconoscimento: l’ambito della famiglia fondato sul riconoscimento attraverso l’amore, l’ambito del sistema dei bisogni o mercato economico fondato sul riconoscimento attraverso l’eguaglianza economica e giuridica, e l’ambito della società civile organizzato su famiglie corporative attraverso il riconoscimento del valore e delle capacità professionali. Ma è una tripartizione, questa hegeliana, che, nel momento stesso in cui ha il grande merito di avere impostato originalmente e correttamente la questione del nesso individuazione-socializzazione, si dimostra incapace di chiudere e risolvere il problema che ha aperto e che, proprio per la sua aporeticità, continua a essere il problema per eccellenza del nuovo paradigma di un’antropologia futura. Giacché nell’orizzonte appena

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delineato del riconoscimento hegeliano a mio parere non riesce mai ad accendersi e a compiersi la doppia negazione che Hegel stesso ha posto come obbligo risolutivo dell’intera questione. In particolare perché nel discorso hegeliano non si compie la negazione della propria universalità che dovrebbe fare di sé ogni istituzione sociale, nella misura in cui la sua normatività si mostrasse insensibile e contraddittoria con una cultura e una prassi dell’individuazione. Nella istituzione della famiglia la modalità del riconoscere l’altro e dell’essere riconosciuto dall’altro è quella dell’amore, quella cioè di una relazione affettiva nella quale l’insieme familiare si prende cura e provvede ai bisogni di ogni componente. Nell’amore della famiglia ciascuno è riconosciuto nella peculiarità della sua individualità corporea, di quelle caratteristiche individuali che lo rendono diverso da ogni altro. Ma a ben vedere l’individualità di cui qui si tratta non ha ancora i tratti di una individualità veramente tale, differenziata e ineguagliabile rispetto alle altre dal punto di vista di una soggettività autenticamente spirituale, qual è quella che interessa Hegel, e che si realizza e si mostra nella capacità di gestire e provvedere autonomamente alla propria bisognosità. Nella famiglia infatti secondo le considerazioni critiche dello stesso Hegel il singolo vive solo come membro, come parte di un tutto, i cui ruoli e i cui comportamenti sono in qualche modo predeterminati (moglie, marito, figlia/o, madre, padre…). Tale esser membro comporta che la ragione dell’intero – la riproduzione e l’interesse della famiglia – prevalga ancora sullo sviluppo delle differenze individuali. Per dirla con le parole di Hegel la famiglia è ancora uno spirito immediato o naturale, dove le differenze tra i membri sono marcate ancora dalle diverse funzioni tra i sessi e le generazioni6. E dire natura per Hegel significa dire la sfera della vita in cui non può nascere il vero spirito, cioè una soggettività fortemente individuata, perché nel mondo naturale ciò che prevale è sempre la ripetizione dell’identità della specie, dei tratti universali del genere, che rendono le differenze tra i singoli inessenziali e accidentali, e che perciò separano il modo sempre uguale della vita naturale dal divenire sempre nuovo della vita storica e sociale. 6   «La sostanza etica è: aa) in quanto spirito immediato o naturale, la famiglia […] Lo spirito etico, considerato nella sua immediatezza, implica il momento naturale consistente nel fatto che l’individuo ha la propria esistenza sostanziale nella sua universalità naturale, nel genere. Si tratta del rapporto tra i sessi, qui però elevato a determinazione spirituale; unione dell’amore e della disposizione interiore della fiducia. Lo spirito, in quanto famiglia, è spirito senziente» (G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it. a cura di A. Bosi, Torino, Utet, 2000, III, §§ 517 e 518, p. 369).

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Nel mondo del diritto e del sistema economico dei bisogni il membro della famiglia è divenuto invece un individuo adulto e autonomo, un soggetto responsabile della propria bisognosità, che deve cioè soddisfare i propri bisogni, appunto, in prima persona. Lo fa attraverso il lavoro e lo scambio di quanto produce, in beni o servizi, sul mercato: quale istituzione peculiare della società civile moderna, nella quale la relazione tra i singoli avviene attraverso lo scambio delle merci e del denaro ed è relazione retta dall’equivalenza e dall’eguaglianza di valore delle cose scambiate. La relazione di riconoscimento reciproco che ha luogo così nella sfera economica moderna, oltre l’ambito familiare, è quella della eguaglianza, codificata per altro dalla sfera del diritto e delle leggi in cui ogni individuo vale appunto come persona, identica e senza privilegio alcuno rispetto a tutte le altre. Ma tale modalità del riconoscere e dell’essere riconosciuto è di natura formale, come sottolinea lo stesso Hegel, perché è fondata su un’eguaglianza di tutti che deve astrarre dalla specificità e dalla peculiarità della storia di vita d’ognuno. Non solo nella validità universale e imparziale della legge giuridica ma anche nella legge economica del mercato, dove ciascuno riesce a scambiare il proprio lavoro con quello degli altri solo se, sottoponendosi alla divisione generalizzata del lavoro, astrae un’attività specifica da tutte le altre e in essa si specializza. Per cui, con un lavoro diviso e astratto, condotto secondo regole e saperi codificati, produce un bene, che non è direttamente e concretamente consumato da lui stesso, ma che diviene un bene universale, a disposizione di tutti. Tutto l’ambito del riconoscimento nella modalità della reciproca eguaglianza, malgrado l’enorme allargamento di relazioni rispetto alla sfera della famiglia, è caratterizzato dunque da astrazione, cioè da nessi e pratiche socializzanti impersonali, che rendono complessa, difficile, piena di mediazioni, la cura e la salvaguardia dell’esistenza individuale. Il singolo deve riuscire a innalzarsi a delle competenze e a dei saperi astratti e universali, come deve tradurre il prodotto concreto del suo lavoro nell’astrazione del denaro, per poter tornare a godere e consumare liberamente nel suo spazio privato. Ma questo circuito da individuale a universale e di nuovo a individuale o da concreto ad astratto e di nuovo a concreto, nella sua possibilità di concludersi positivamente, implica anche la possibilità opposta di non chiudersi e di impedire che l’universale si faccia carico e cura dell’individuale. Tanto che lo stesso Hegel definisce la socializzazione attraverso il riconoscimento tra eguali come società o Stato d’intelletto, perché secondo la sua terminologia filosofica, l’intelletto, a differenza della ragione dialettica, è la modalità d’esperire del soggetto umano che tiene

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astrattamente separate le dimensioni della realtà che, all’opposto, necessiterebbero di essere implicate e mediate l’una nell’altra. A motivo di questa difficile compenetrazione tra individuale e universale, che può talvolta generare una estraneità tra movimento e leggi del mercato economico, da un lato, e riconoscimento e cura dell’interesse e dei bisogni del singolo dall’altro, Hegel non casualmente introduce la terza tipologia di socializzazione attraverso riconoscimento, che si realizza nella istituzione delle corporazioni attraverso il sentirsi riconosciuto nella propria dignità professionale. La corporazione è l’insieme dei membri di una professione che si riconoscono reciprocamente nella capacità di creare valori d’uso e prestazioni di servizio all’altezza qualitativa dei bisogni richiesti. Essa ripropone, diversamente dal sistema economico del mercato mediato dal denaro, una seconda famiglia, i cui membri non si mediano appunto attraverso scambio monetario ma si riconoscono per la dignità del loro manufatto e a muovere da questo valore comune sviluppano una solidarietà e una cura del singolo, anche in difficoltà e in povertà, che supera e compensa l’orizzonte egotico del sistema mercantile dei bisogni. Ma anche tale recupero di una istituzione premoderna – insieme con tutta una serie di interventi compensativi dei danni del mercato moderno a cura di quella Polizey che è istituto fondamentale del paternalismo assistenziale degli Stati assolutistici della storia tedesca del Seicento e del Settecento – esplicita le insufficienze della socializzazione/individuazione hegeliana attraverso riconoscimento. Giacché, per alleviare le asprezze di una socializzazione economica moderna che si compie attraverso l’astrazione del mercato e del valore di scambio, Hegel è costretto a compiere un’azzardata quanto improponibile giustapposizione di tempi storici, che mette insieme società mercantile moderna e società cetuale premoderna, valore di scambio e valore d’uso. A testimonianza, per quello che qui ci interessa sottolineare, di quanto nel complesso della filosofia pratica di Hegel il principio del riconoscimento non riesca ad attingere la necessaria doppia negazione per il darsi del suo effettivo compimento e come la negazione che l’istituzione comune o pubblica dovrebbe fare delle sue astrazioni non riesca mai effettivamente a realizzarsi. Anche perché uno dei motivi di fondo dell’antropologia hegeliana è il superamento da parte dell’essere umano di ogni sua componente corporeonaturalistica, la negazione cioè di tutto quanto attiene alla sfera della sensibilità, per attingere la sua più vera natura che è quella dello spirito, quale capacità di infinitizzarsi e di superare l’uomo naturale che non è l’uomo «come dev’essere», perché «con la sua interiore spiritualità deve superare la

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naturalità»7. A conferma, cioè, che strutturalmente sul piano antropologico e sociale la negazione hegeliana rimane negazione semplice, negazione del naturale a favore dello spirituale e non viceversa negazione dello spirituale a favore del naturale. Con la conseguenza che la socializzazione – non solo nella Filosofia del diritto del 1821 ma in tutto il complesso dell’opera hegeliana, fin dai manoscritti jenesi della Filosofia dello spirito oggettivo – finisce coll’esser concepita da Hegel come una messa in campo di processi conoscitivi e pratici, come di partecipazione a istituzioni, in cui il singolo vede consumare la propria individuazione e finisce coll’esser riconosciuto solo per quanto lo eguaglia e lo accomuna agli altri. Come a voler dire, insomma, che se il mistero ontologico della modernità è quello costituito da un’astrazione che si fa realtà, come ha poi ben inteso Marx con la sua scienza del Capitale, il sistema del riconoscimento hegeliano fallisce proprio nell’impossibilità di contrapporre alle istituzioni, in primo luogo economiche, dell’astratto un’antropologia di uno spessore e di una profondità materiali adeguata a resistere alla negazione semplice dell’individuale messa in campo, comunque, nello stesso disegno hegeliano da tutte le sfere istituzionali. 3. Il riconoscimento di Honneth e il pragmatismo americano Hegel dunque, individuando nel riconoscimento il vettore dell’integrazione sociale come dello svolgimento dell’identità personale, ha aperto e posto il problema di un ripensamento profondissimo dei modi di funzionare e di essere dei nessi di socializzazione in relazione a una realizzazione effettiva della soggettività individuale, al fine di superare tutti i limiti delle istituzioni moderne d’ispirazione liberal-contrattualista. Tale problema, non potendolo risolvere a causa delle aporie intrinseche al suo sistema, lo ha consegnato alla nostra coscienza di esseri umani del presente sollecitati a una trasformazione futura. In questo senso è ovvio che gli autori contemporanei che maggiormente hanno ripreso e riproposto il paradigma del riconoscimento come Charles Taylor e Axel Honneth lo abbiano fatto ispirandosi all’orizzonte hegeliano: per entrambi infatti l’essere riconosciuti è la condizione originaria perché possa nascere una soggettività non deformata e strutturalmente povera, 7   G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. a cura di G. Calogero, C. Fatta, La Nuova Italia, Firenze 1975, vol. IV, p. 147.

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quanto a capacità di riconoscersi e di valorizzare se medesima8. In particolare Honneth ha inteso superare i limiti troppo kantiani dell’etica del riconoscimento avanzata dal suo maestro Habermas, troppo conchiusa a suo avviso in una tipologia di umanità solo dialogica e discorsiva nel circolo di un’argomentare pubblico e democratico, per rivendicare la legittimità di lotte e conflitti che non possono non nascere quando le istituzioni sociali e pubbliche si mostrano impermeabili, se non ostili, al bisogno di riconoscimento che ognuno manifesta rispetto alle proprie imprescindibili esigenze di salvaguardia a) della sua integrità psico-fisica, b) della sua dignità di cittadino giuridicamente eguale a tutti gli altri, c) del suo onore lavorativo e professionale quale soggetto attivamente partecipe alla produzione del bene comune. Di contro all’universalismo astratto, al formalismo troppo kantiano del riconoscimento attraverso i trascendentali pratici impliciti nel discorso volto all’intesa di Habermas, Honneth ha rivendicato, con una rilettura singolare dell’etica hegeliana, una maggiore materialità e concretezza del paradigma del riconoscimento. E in tal senso, anche a differenza delle versioni comunitariste di tale paradigma, quale quella di Charles Taylor, che hanno sempre messo l’accento sulla lotta per l’accesso al riconoscimento giuridico, politico, culturale di gruppi e comunità minoritari ed emarginati, Honneth ha sempre concepito il Kampf um Anerkennung come una pratica rivendicativa finalizzata al valore dell’integrità personale del soggetto individuale, cioè a una possibile relazione di sintonia e di autenticità di ognuno con se medesimo. A tal fine Honneth ha proposto, com’è noto, di de-metafisicizzare l’etica hegeliana, di affrancarla cioè dalla sua iscrizione nella tessitura logico-dialettica del pensiero di Hegel, e di fornirne una versione laica ed aggiornata che consenta di estrarne quella tripartizione di valori che devono essere alla base di un effettivo riconoscimento del Sé e della lotta contro le forme esistenti del riconoscimento inadeguate e insufficienti: il valore dell’amore, quale modalità del riconoscimento nelle sfere familiari ed amicali, il valore dell’eguaglianza, quale riconoscimento dell’eguale attribuzione di diritti, e il valore dell’onore, quale riconoscimento della dignità della propria attività professionale. Eppure la proposta dello studioso tedesco, pur se assai importante nel verso di una radicalizzazione del principio del riconoscimento, non mostra di giungere veramente alla radice del problema della nuova etica che vuole essere oggetto del nostro discorso. Giacché egli da un lato ripropone 8   Cfr. F. Fistetti, Il paradigma del riconoscimento: verso una nuova teoria della società, “Postfilosofie”, vol. 1, n. 1, pp. 95-120.

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quella tripartizione sociale dei Lineamenti hegeliani tra famiglia, società civile e ordine professionale che oggi appare del tutto inattuale di fronte all’espansione di un economico capitalistico che mostra di invadere qualsiasi ambito della vita, sia individuale che collettiva, piegando l’apparente autonomia delle sfere concrete della vita alla logica astratta dell’accumulazione di ricchezza. E dall’altro, per quanto riguarda un’antropologia della soggettività, si richiama assai più alla filosofia sociale e al pragmatismo di George H. Mead che non alla tradizione della psicoanalisi di Sigmund Freud. Giustificando, io credo, con tale sua doppia movenza la critica di sociologismo che può essere mossa alla sua opera. Perché da un lato Honneth non ha coltivato sufficientemente la critica marxiana dell’economia politica e la sua lezione sul capitale come unico e vero vettore di realtà della società moderna e dall’altro, nella sua prospettiva antropologica, ha preferito guardare assai più a una psicologia sociale, a una psicologia cioè fondata sulle relazioni sociali e sugli interscambi relazionali, che non a una psicologia costruita sull’accesso interiore alla propria emotività e su un’epistemologia del proprio sentire. Per l’autore americano della prima metà del Novecento, com’è noto, l’Io penso nel senso kantiano, ossia l’autocoscienza quale capacità riflessiva dell’essere umano di rendere oggetto del suo pensiero se medesimo, non ha un’origine trascendentale ma una genesi del tutto sociale e relazionale. L’essere umano infatti riesce a prendere distanza da sé, farsi un Sé, e con ciò a rendersi capace di autocoscienza, solo quanto è in grado di assumere il ruolo e lo sguardo degli altri, quando cioè è capace d’immedesimarsi nelle reazioni da parte degli altri che il suo comportamento o le sue aspettative suscitano e producono. «Il Sé – scrive Mead – […] è essenzialmente una struttura sociale, e sorge nell’esperienza sociale»9. Il Sé nasce tutto nella relazione sociale. È legato all’esperienza del doppio, cioè della capacità di giocare altri ruoli rispetto a se stessi. E in quanto legato al gioco dei ruoli, alla spersonalizzazione dal proprio e all’incorporazione dell’altro, non ha alcuna fondazione fisiologica, né nel corpo dell’individuo né nella specificità del suo apparato cerebrale. «In primo luogo io direi che un tale “Sé” non si identifica con l’organismo fisiologico. L’organismo fisiologico gli è essenziale, ma noi siamo almeno in grado di pensare a un “Sé” separato dall’organismo fisiologico»10. Certo Mead sottolinea l’importanza di un sistema nervoso centrale «sufficientemente 9

 G.H. Mead, Mente, Sé e società, tr. it. di R. Tettucci, Firenze, Barbera, 1966, p. 157.   Ibidem.

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complicato» ed evoluto che consenta di accogliere e rinvenire un numero indefinito di risposte rispetto a una condizione d’esperienza problematica, e tra cui la mente seleziona quella che gli appare più opportuna, ma il contenuto, la tipologia, la normativa di quelle scelte possibili è tutta di natura relazionale-sociale. Se all’inizio di questo testo abbiamo ricordato la definizione di Freud della natura simbolica dell’essere umano come simbolo a se medesimo, per Mead l’esperienza simbolica dell’umano si realizza, in modo assai diverso, nella sua capacità di farsi altro, di interiorizzare e assumere il ruolo dell’altro, di mettersi dal punto di vista dell’altro, delle sue possibili risposte e reazioni (taking the attitudes of the others). La genesi della coscienza di sé, dell’autocoscienza, si genera in un processo di comunicazione in cui siamo da sempre inseriti e in cui il sé si forma proprio attraverso questo gioco di andata e ritorno dall’immedesimazione con altri. Il suo atto germinativo è il gesto, specificamente il gesto vocale quale luogo di formulazione ed espressione dei simboli linguistico-comunicativi. E la sua natura è appunto intrinsecamente semiotica, nel senso di produzione di segni con finalità comunicativa11. L’esperienza del mondo, l’avere a che fare con oggetti, è sempre mediata e significata dalla rete comunicativa e comune che lega gli esseri umani. E il significato delle parole fa riferimento proprio all’intesa di prassi e di pensiero che sorge e si sedimenta nella relazione sociale. Il significato in quanto tale, cioè l’oggetto del pensiero, sorge nell’esperienza attraverso la stimolazione che l’individuo esercita su se stesso nel senso di assumere l’atteggiamento dell’altro nella sua reazione verso l’oggetto12.

Nei significati linguistici si sedimenta un universale di senso che, lungi dall’esprimere emozioni intime e prospettive personali, idiosincratiche, si rifà alla verità di un comportamento, di un habitus, che è accolto e condiviso dall’intera comunità sociale. «Il pensiero si esprime in termini universali e l’universale è un’entità distinguibile dall’oggetto per mezzo del quale noi pensiamo l’universale stesso», afferma Mead, esprimendo, con questa valorizzazione dell’universale tutta la sua distanza dall’empirismo classico e dalla teoria naturalistica e immediatistica della sensazione che lo connota. «Il pensiero trascende tutte le situazioni particolari», tanto da 11   Cfr. su ciò il saggio assai esplicativo di R. Fabbrichesi, Il network della coscienza: un confronto tra Nietzsche e Mead, in A.M. Nieddu (a cura di), La filosofia sociale di George H. Mead, Milano-Udine, Mimesis, 2016, pp. 133-145.

  Ivi, p. 109.

12

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aver a che fare con caratteristiche che «irrilevanti per quanto riguarda i casi particolari […] sono irrilevanti per il tempo e possono essere definite come oggetti eterni o entità»13. Ma appunto l’universale del pensiero e dei simboli linguistici, ben lontano da ogni possibile paragone con l’idealismo platonico, è fondato e generato dalla natura sociale del pensiero stesso. Il significato delle parole, la natura non idiosincratica del pensiero, risiede nell’assunzione degli atteggiamenti e delle prospettive di tutti gli altri che la mente incontra nella sua esperienza, fino a sintetizzarsi nell’«altro generalizzato» che rappresenta la norma media e più diffusa di uno determinato comportamento. In una processualità, quanto a intensificazione del riconoscimento dell’altro e a maturazione progressiva del Self, in cui va distinta la funzione del play da quella del game. Il play indica infatti la capacità psichica di riconoscimento dell’altro, ma scandita in modo ancora lineare e atomistico. È il gioco come assunzione ogni volta della personalità e del comportamento di un singolo altro: un semplice succedersi – scrive Mead – di un ruolo all’altro, situazione che è naturalmente caratteristica della personalità del bambino. Il bambino è una cosa in un momento e una diversa in un altro e ciò che egli è in un momento non determina ciò che sarà in un altro. Il che è al contempo il fascino e il limite della fanciullezza14.

Mentre il game indica la capacità psichica di riconoscere le attitudini e i comportamenti di tutti gli altri che partecipano a uno stesso processo. È l’altro cioè, non come singolo, ma come altro generalizzato, che completa l’identità del Self, rendendolo capace di riconoscere e di interiorizzare nella sua egoità il costume e le pratiche sociali comuni all’intera società. Ma il Sé nell’essere umano, secondo Mead, non è formato solo dal rispecchiamento e dall’interiorizzazione dell’altro. Perché nel Sé dal Me si distingue l’Io. Il «Me è l’insieme organizzato degli atteggiamenti degli altri che un individuo assume»15. È il complesso delle risposte che l’individuo dà agli altri individui nella misura in cui considera e interiorizza dentro di sé l’atteggiamento degli altri. Mentre l’Io è invece la risposta specifica, la scelta che il Sé compie, riorganizzando e gerarchizzando ogni volta in modo diverso il mondo ambiente quale complesso di atteggiamenti

13

  Ibidem.

14

  Ivi, p. 174.

15

  Ivi, p. 189.

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sociali disponibili e a portata di mano. «L’Io è la risposta dell’individuo all’atteggiamento della comunità come questo si manifesta nella sua propria esperienza. La sua risposta a quell’atteggiamento organizzato di volta in volta ne determina il cambiamento»16. Già da un punto di vista organico-biologico generale non esiste una sensibilità meramente passiva, ma sempre una sensibilità che si accende solo a stimoli determinati, e dunque selezionati tra gli altri. Vale a dire che la costituzione, il carattere dell’organismo è un fattore determinante delle caratteristiche dell’ambiente in cui si trova», perché appunto l’individualità organica risponde, selezionandole, alle sollecitazioni dell’ambiente che sono utili alla sua sopravvivenza17. Nella scala dell’evoluzione solo forme di vita elementari, come il protoplasma, hanno potuto essere completamente passive di contro alle influenze del mondo esterno. Ma forme organiche più evolute non possono che determinare il loro rapporto con il mondo ambiente nel verso selezionatore del rapporto mezzo-fine allo scopo della propria conservazione. Tanto più nel contesto umano viene implicata un tipo di evoluzione nella quale l’individuo seleziona e costruisce l’ambiente in base alla propria sensitività. L’Io è appunto la funzione che all’interno del Sé produce costantemente una scelta, una selezione nelle configurazioni possibili del Me. Ed è la funzione dunque che introduce, attraverso tale risposta selettiva l’emergenza del nuovo e del non predeterminabile nell’ambiente in cui vive. Esso è la funzione che impedisce all’individuo di risolversi nel conformismo sociale, in quanto coincide con l’istanza psichica della spontaneità e della creatività, della risposta non obbligata alla sollecitazione della comunità. L’Io è il luogo dell’autonomia quale capacità di reazione personale e di scelta interlocutrice tra le molte maschere del gioco sociale, che proprio, nel loro essere molte, garantiscono la non coincidenza con nessuna e la possibilità di una distanza giudicatrice. Una distanza che dà spessore e identità all’Io, garantendone la possibilità di stabilire anche nuovi valori e nuove regole con cui ritornare sul campo sociale medesimo, sia in senso pratico-istituzionale che in senso teoretico-scientifico, modificandone errori, difetti e mancanze di   Ivi, p. 207.   «Ciò che si realizza è l’espressione della reazione della risposta organizzata dell’organismo all’ambiente, e tale reazione non rappresenta semplicemente una determinazione dell’organismo da parte dell’ambiente, in quanto l’organismo determina nella stessa piena misura in cui l’ambiente determina gli organi. […] Nell’organismo è presente una ben definita e necessaria struttura o gestalt di sensitività che determina selettivamente e in termini relativi le caratteristiche dell’oggetto esterno da esso percepito» (ivi, p. 147) 16 17

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procedure18. Essere membro di una comunità, esserne plasmato e modificato dall’Altro generalizzato è tutt’uno per Mead con la capacità da parte dell’individuo di modificare a sua volta la comunità. Se questa simultaneità e compresenza di polarità, individuale e sociale, non si dà, significa per Mead che non si dà una comunità di individui, bensì una dimensione fusionale di «folla», in cui non c’è liberazione del Sé individuale ma una condizione in cui individuo e comunità costituiscono un tutt’uno, senza distinzione e confine, e dove l’unità è determinata da un odio e da una lotta verso un Altro esterno19. Ora è proprio tale distinzione centrale tra Io e Me, che si colloca al centro della psicologia sociale di Mead, e che Honneth ha posto a base della sua proposta antropologica ed etica, operando una sostituzione e una contrapposizione con la classica coppia freudiana di Io ed Es, che a mio avviso ha impedito, nella sua problematicità, che il paradigma del riconoscimento raggiungesse quella radicalità e quella valenza di nuovo paradigma di critica sociale che Honneth ha inteso attribuirgli. Perché la genesi dell’Io nella riflessione di Mead non è né definita né argomentata. Non c’è nessuna derivazione o connessione dichiarata con il corpo del soggetto in questione, con una sua composizione pulsionale. La funzione dell’Io è quella della creatività e dell’allontanamento del Sé da ogni tipologia sociale data e presupposta, ma come e perché nasca tale funzione d’individuazione non è dato sapere all’interno dell’opera di Mead. È del resto certamente innegabile che la sua opera s‘inserisce in una prospettiva evolutiva non riduzionista per la quale la presenza e il ruolo della componente biologico-corporea è un fatto primario, indiscutibile e indispensabile alla vita, ma con il fermo convincimento che la dimensione della mente, cioè della coscienza e dell’autoriflessività, non possa essere spiegata e ridotta alla dinamica della sola fisiologia corporeo-cerebrale. Come d’altro canto Mead non ha mai aderito al comportamentismo con la sua asserzione che per lo studio del comportamento degli esseri umani valgano solo le condotte, le azioni, visibili ed esteriori, soggette all’osservazione altrui, e non certo l’esperienza interiore e l’introspezione della coscienza che, sfuggendo all’osservazione, non possono essere utilizzate per spiegare la vita dell’individuo. Mead ha ben chiaro che «l’atto esterno che noi osserviamo è solo una parte del processo che ha avuto inizio 18  Cfr. R.M. Calcaterra, Lo spazio ambiguo della creatività e A.M. Nieddu, Esperienze normative e orizzonte poietico, in A.M. Nieddu (a cura di), La filosofia sociale di George H. Mead cit., rispettivamente pp. 75-94 e pp. 207-222. 19

 G.H. Mead, Mente, Sé e società cit., pp. 226-228.

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all’interno»20, e che non si può ignorare l’esperienza interiore e mentale, cosciente e autoriflessiva, dell’essere umano. Ma se poi si va ad approfondire nella psicologia di Mead la complessità e l’articolazione di questo spazio interiore, e specificamente la natura e la funzione della mente, si constata che si riduce a ben poca cosa. Da un lato il cervello come complesso dei sentieri nervosi e, in parallelo, l’agire psichico, come complesso di atti verso persone e cose. L’«innervamento di certi gruppi di cellule nel sistema nervoso», cui corrisponde sul piano psichico la generazione di un’idea, è l’inizio di un’azione, il cui processo è comandato da quell’atto iniziale. Ma ciò che più conta è che l’accensione di quel sentiero neuronale, come risposta a uno stimolo esterno, è dovuto a una «attenzione» che ha selezionato gli stimoli del mondo esterno e che appunto con tale filtro rappresenta la funzione più creativa e più individualizzante della mente. La nostra attenzione converge su una cosa particolare. Non solo apriamo la porta a certi stimoli e la chiudiamo ad altri, ma la nostra attenzione è un processo sia organizzativo che selettivo. Quando rivolgiamo la nostra attenzione a ciò che stiamo facendo, noi raccogliamo selettivamente l’intero gruppo di stimoli che rappresenta l’attività successiva. La nostra attenzione ci permette di organizzare il capo in cui ci accingiamo ad agire. In questo caso l’organismo agisce determinando il proprio ambiente21. A me sembra insomma che nella psicologia di Mead tutta la vita psichica sia orientata in un confronto e in un tentativo di regolare e controllare il rapporto tra organismo individuale e mondo esterno, dove viene meno ogni profondità della dimensione e dello spazio privati 22. Il Sé di Mead vive in una relazione di comunicazione, attraverso il linguaggio, essenzialmente con il mondo esterno ed è l’interiorizzazione dei processi e dei valori sociali di comunicazione a dargli spessore e consistenza. Anche le emozioni, per quel poco che vengono trattate, sono considerate, come reazioni e legami con il mondo esterno, come ciò che anima il gesto quale forma archetipica di una comunicazione/risposta agli stimoli che arrivano dal mondo-ambiente. E la privatezza e l’individualità dell’Io rispetto al Me sembra nascere, anch’essa, non per una consistenza propria, ma   Ivi, p. 37.

20

  Ivi, p. 53.   «Mead […] non arrivò a fornire una definizione precisa del ruolo da assegnare al privato» (C.W. Morris, George H. Mead psicologo e filosofo sociale, prefazione a G.H. Mead, Mente, Sé e società cit., p. 18n). 21 22

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come controeffetto del complicarsi del mondo esterno, la cui moltiplicazione di stimoli obbliga alla nascita, per la sopravvivenza, di una funzione di selezione e attenzione. Ciò che dunque manca alla psicologia sociale di Mead è la profondità e l’articolazione complessa di quello che abbiamo chiamato l’asse verticale. La mente che egli ha teorizzato vuole essere una mente bio-sociale23. Ma a ben vedere le due componenti, quella biologica e quella sociale, rimangono separate a motivo dell’atrofica considerazione della prima, che rimane chiusa in una dimensione riduttivamente etologica e la cui mancanza di spessore consegna la mente umana a essere una mente estesa solo in senso orizzontale, una mente simbolica in cui di nuovo il simbolo, assai diversamente da Freud, nasce solo dall’intreccio dei fili dei valori e delle risposte della comunità. A conclusione di tutto ciò mi sembra insomma di poter dire che il maggior teorico contemporaneo del riconoscimento, qual è senza dubbio Honneth, riproponendo l’antropologia e la psicologia di Mead, non sia riuscito nel suo intento di fare dell’Anerkennung il paradigma desiderato di forme della socialità e dell’individualità adeguate alle problematiche dell’oggi. E questo perché, a mio avviso, non è riuscito a dare spessore e profondità sufficienti ai modi e alle esigenze dell’individualizzazione, privilegiando una teoria della creatività e dell’originalità dell’Io, come quella di Mead, che è lontanissima dalla profondità che sul piano dell’asse verticale la psicoanalisi ha scoperto nell’esistenza umana, a muovere dalla flessibilità, plasticità, ambivalenza, deformabilità che caratterizza la pulsione e l’intero corpo emozionale. Solo la psicoanalisi di Freud infatti, con la sua peculiarissima teoria della pulsione e delle tre logiche a essa connessa, è in grado di dare un fondamento – un fondo nel vero senso della parola – alla vita del singolo, non necessariamente riducibile a trame dell’intersoggettività. Solo la psicoanalisi di Freud cioè con la sua teoria della complessità e della sovrapponibilità dei piani della mente umana riesce a dare uno spessore e una legalità specifica e autonoma alla componente verticale dell’essere umano, tali da costituire il principio e la leva, come ho provato a dire fin dall’inizio, non solo per una pratica clinica ma per una rinnovata filosofia sociale e politica. Del resto questa rinuncia all’infrasoggettività per l’accentuazione e l’esaltazione della sola intersoggettività è ciò che connota, a mio avviso, complessivamente l’intera ispirazione teorica di quella componente determinante della cultura tedesca contemporanea rappresentata dalla 23

  Cfr. G. Baggio, La mente bio-sociale, Pisa, Ets, 2015.

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Rehabilitierung der praktischen Philosophie e che ha visto protagonisti, tra gli altri, Habermas, Jonas e appunto Honneth. Tutti autori, a cominciare dal ruolo preminente giocato da Habermas, volti alla rivalutazione e alla riattualizzazione del pragmatismo americano, perché dottrina, non del capitalismo e dell’imprenditorialità statunitense, come hanno preteso interpreti incolti e volgari, ma della praktische Intersubjektivität, cioè di un essere umano, non monadico ed egoitario, ma costituito e attraversato dalle relazioni private e pubbliche che lo stringono, orizzontalmente, all’alterità. Per altro va detto, ovviamente in modo di necessità schematico e sintetico, che l’intera Scuola di Francoforte, fin dai suoi primi e classici maestri, come Horkheimer e Adorno, ha sempre ritenuto che la società capitalistica moderna soffrisse di patologie della ragione: nel senso che la società capitalistica produce un uso deficitario di una ragione che invece sarebbe in qualche modo già potenzialmente immanente nell’ampiezza dell’orizzonte relazionale e culturale della modernità. Per Horkheimer la società capitalistica deforma una razionalità già presente nello sviluppo delle forze produttive. Per Adorno distrugge una razionalità presente in forme del conoscere e dell’apprendere imitative e prelogiche. Per Marcuse il capitalismo distrugge una razionalità già presente nelle forme eroticocreative della vita. Per Habermas impedisce lo sviluppo della razionalità implicita nelle forme dell’agire comunicativo e dell’intesa linguistica. La società moderna, affrancandosi dai limiti delle società premoderne, genera un potenziale di razionalità legato a forme di prassi comune, in cui ciascun individuo potrebbe pervenire all’autorealizzazione di sé attraverso l’ampiezza di relazioni generali di reciprocità. Ma tale potenziale viene limitato e deformato da una forma di organizzazione sociale che svuota di senso le relazioni intersoggettive facendo prevalere una razionalità solo strumentale-calcolante legata a un individualismo egoistico e consumistico. C’è insomma per tutti gli autori della Scuola di Francoforte una libertà cooperativa a base della modernità come ha ben compreso Hegel con la sua Filosofia del diritto e con la sua visione dell’etica contemporanea come istituita sul riconoscimento reciproco tra valore dell’individualità e valore dell’interesse pubblico. Ma la società dell’appropriazione capitalistica mortifica e patologizza, nei modi in cui si è detto, questa libertà cooperativa in potenza, generando in tal modo profonde sofferenze nella vita individuale e sociale. E producendo nello stesso tempo tutti i feticci ideologici e culturali, tutte le reificazioni e le dissimulazioni che sollecitano gli individui a sottrarsi alla cooperazione intersoggettiva e a concepirsi, invece, come atomi e come cose.

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Ma dire patologie della ragione implica ovviamente il darsi di uno stretto legame tra teoria e prassi, tra critica teorica e critica pratica, giacché la pratica etica e politica è resa possibile dalla stessa ragione che patendo e soffrendo aspramente le sue menomazioni, i suoi deficit, non può non aspirare alla sua integrità, mettendo in atto processi pratici di trasformazione sociale che mirino alla realizzazione della sua etica e libertà cooperativa. Il limite di questa impostazione, pure fecondissima di analisi e sollecitazioni critiche, sta, a mio avviso, in un eccesso di presupposizione: nell’assunto cioè di una natura o ragione in qualche modo comune, intersoggettiva, relazionale, mimetica dell’essere umano e della sua capacità di ragionare che verrebbe piegata e deformata, a motivo delle condizioni di vita nelle società capitalistiche da una ragione astrattamente individualistica. Tanto che da quell’eccesso di presupposizione è derivata una lettura della psicoanalisi come disciplina e clinica che avrebbe a che fare con l’inconscio solo quale sinonimo del rimosso. Perché appunto una tale definizione dell’inconscio – come inconscio rimosso – vede la vita della psiche come sostanzialmente vissuta e significata nella coscienza e nel pensiero razionale, solo il cui disfunzionamento, la cui patologia, produce, attraverso censure, scissioni e rimozioni, la caduta o lo spostamento di un contenuto, già una volta acceso nella mente, nella località psichica del rimosso. A testimonianza che anche la psicoanalisi, malgrado tutto e malgrado il suo sospetto nei confronti di una vita umana centrata nel suo pensiero cosciente, finirebbe col riaffermare la centralità della ragione, di cui le mortificazioni imposte dalla società capitalistica sarebbero solo deformazioni patologiche. Ma in questo modo non può aver luogo la doppia negazione che abbiamo detto essere presupposto indispensabile per un’etica del riconoscimento individualizzante. La razionalità qui – malgrado la rilevanza delle differenze che si danno tra pragmatismo americano e Scuola di Francoforte – è generata da una matrice essenzialmente sociale, intersoggettiva, il cui riconoscimento può condurre a un’individuazione che può essere solo realizzazione di ruoli già giocati e codificati nelle relazioni sociali. Dobbiamo dunque andare oltre. La traduzione del marxismo critico della Scuola di Francoforte nella direzione di un’etica del riconoscimento non ci ha condotto verso una messa a tema, teorica e pratica, di un’effettiva individualizzazione. Abbiamo bisogno di un paradigma di socialità che conquisti un livello maggiore d’incarnazione. E per questo, con una mossa circolare, conviene tornare al nostro inizio, per gettare un ultimo sguardo alle profondità dell’inconscio psicoanalitico.

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CONCLUSIONI

1. Per una critica della sesta tesi su Feuerbach Che l’inconscio non coincida con il rimosso costituisce, com’è noto, una tesi fondamentale nello sviluppo dell’opera di Freud, caratterizzando il passaggio dalla prima alla seconda topica. All’articolazione dell’apparato psichico secondo la distinzione di Inconscio, Preconscio e Conscio, Freud nella rielaborazione degli anni 1920-1923 sostituisce infatti la nuova articolazione di Es, Io e Super-Io, dove l’Es è il polo pulsionale della soggettività umana che contiene certamente contenuti rimossi e scissi da esperienze già compiute ma che, ora, è soprattutto la più antica, la più originaria fonte della vita psichica: espressione nella mente dello spessore e della sedimentazione della vita corporea. Di un corpo, che è primario e non derivato rispetto alla mente, e che nella sua struttura biologica sedimenta la storia dei corpi e delle generazioni che l’hanno preceduto. L’Es, in quanto non deposito in una mente di esperienze già compiute e rimosse, ma, viceversa, in quanto rappresentanza del corpo nella mente, è, come scriverà Freud successivamente nel Compendio di psicoanalisi, «la più antica di queste province o istanze della psiche: suo contenuto è tutto ciò che è ereditato, presente fin dalla nascita, stabilito per connessione, innanzitutto dunque le pulsioni che traggono origine dall’organizzazione corporea, e che trovano qui, in forme che non conosciamo, una prima espressione psichica»1. Tale profonda risistemazione del disegno freudiano può essere definita anche come un passaggio da una teoria delle stanze a una teoria delle istanze, nel senso che a una prima visione fortemente topologica e quasi spaziale dell’apparato psichico, in cui l’inconscio nasceva per scissione e dislocazione, appunto, da un luogo della mente a un altro, ora si sostituiva una visione che attribuiva a ciascuna delle diverse componenti, o istanze, della vita psichica una più forte caratterizzazione e autonomizzazione l’una 1

 S. Freud, Compendio di psicoanalisi cit., pp. 572-573.

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dall’altra, quale in primo luogo quella di un inconscio mai deducibile dal conscio, ed espressa, nella nuova scrittura di Freud dalla sostantificazione dei pronomi personali (Es, Io, Super-Io). Come per dire che con la trasformazione di pronomi in nomi e con la conseguente loro attribuzione dell’articolo determinativo, Freud ben esprimeva l’irriducibilità dell’uno all’altro dei fattori costitutivi della psiche umana e in particolare l’istanza primaria e primitiva dell’Es, nella sua derivazione biologica e storico-ereditaria. E concettualizzava in questo modo la vera e peculiare natura sociale dell’interiorità umana, non riducibile alla socialità esterna e all’insieme dei rapporti sociali, come suona invece la sesta e celebre tesi marxiana su Feuerbach, in cui Marx scriveva che «l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali [das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse]»2. Negli anni più recenti sempre di più la psicoanalisi ha discusso e approfondito il tema dell’inconscio vedendo in esso una dimensione psichica multiforme che può comprendere, per dirla assai schematicamente, una quadruplice tipologia dell’inconscio: pulsionale, innato, cognitivo e rimosso. Il primo è la fonte dei desideri, delle spinte, degli slanci. Corrisponde alla matrice pulsionale dell’essere umano, intrinsecamente legata alla ricerca dell’oggetto o alterità necessaria a soddisfarla ma profondamente distinta, come abbiamo già visto, dall’istinto animale, perché la pulsione è invariabile quanto a dimensione biologico-quantitativa ma estremamente plastica quanto a meta oggettuale e possibili vie e modalità del suo percorso. È la fonte, costantemente presente e attiva, della vita emozionale dell’essere umano connotata secondo la lezione freudiana di Eros e Thanatos, di desideri e odi, di tenerezze e rabbie, di slanci inclusivi e invidie distruttive. Spinte pulsionali che si possono realizzare, inibire e reprimere, rimuovere, modificare e spostare d’oggetto, sublimare. Senza che sia mai possibile eliminarle, anche solo in parte, e metterle sotto silenzio. Ma questa dimensione pulsionale s’iscrive in una struttura corporea innata, distinta per ciascuno di noi, che rimanda a sua volta a una storia generazionale diversa per ciascuna individualità. Tale struttura, già individualizzata, tale legalità originaria, è quanto abbiamo provato a spiegare con l’aiuto di Spinoza. È il grado, il tono di vitalità, l’unisòno potenziale con cui ciascuno di noi nasce, quale relazione e proporzione ottimale possibile dei diversi organi tra di loro: a sua volta esito e sedimentazione 2

 K. Marx, Tesi su Feuerbach, tr. it. in Opere, vol. V, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 4.

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conclusioni

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della relazione prenatale con la madre e della catena generazionale, non solo biologica ma anche psichico-culturale, che la precede. È l’inconscio innato, fortemente individualizzato e differenziato quanto a sua possibile graduazione, che determina, per ciascuno di noi in modo diverso, il grado più intenso e più profondo di piacere in quanto armonia corporis. La proporzione cioè che determina il grado di tolleranza alla frustrazione e di conseguenza, nella mediazione tra principio di piacere e principio di realtà, il grado di capacità dell’organismo biologico-psichico in questione di accogliere la realizzazione del desiderio, e di una pulsione specifica, nell’armonia e nella salvaguardia di tutte le altre componenti vitali dello stesso organismo. Con la possibilità implicita, in quella costituzione corporea, di tutte le patologie che possono derivare dal vivere e condurre secondo estremizzazioni e dismisure quella proporzione originaria di misura e di unisòno. È l’inconscio delle strutture innate che individualizza la filogenesi della specie nella ontogenesi del singolo, senza ridurla a una struttura organizzativa chiusa e predata, perché la combinatoria dei suoi molteplici elementi è quanto mai plastica e riformulabile. Sulla base di questa compenetrazione tra inconscio delle strutture innate individualizzate e inconscio pulsionale si costituisce la dimensione dell’inconscio che è stata definita dell’inconscio cognitivo non verbale, quale parte della nostra vita psichica che è in rapporto con il mondo esterno non attraverso il conoscere quanto invece attraverso il sentire. È quella parte della mente verosimilmente pre-rappresentazionale e preverbale che non usa linguaggi né di immagini né di parole per conoscere invece attraverso il sentire e il percepire. Esiste un inconscio che si può definire inconscio conoscitivo non verbale, che è stato molto elaborato dai cognitivisti che è stato molto elaborato dai cognitivisti ma anche dalla scuola psicoanalitica e che rappresenta la capacità dell’essere umano di conoscere l’ambiente, il mondo esterno, con modalità non verbali. Rappresenta la parte della nostra vita psichica che sente e non parla. Questo sistema è legato alla percezione, all’intuizione, e quindi ha a che fare con il ritmo, la musica, i gradienti visivi, uditivi, tattili, con tutto ciò che si conosce intuitivamente3 . Infine l’inconscio rimosso è quell’insieme di emozioni, di rappresentazioni, ricordi che producono dispiacere nel loro accesso alla coscienza e che nel loro essere esperite mettono in moto meccanismi di difesa, di 3  A. Correale, La rimozione primaria come funzione continua della mente, “Psicoanalisi e Metodo”, 2012, n. 11, p. 44.

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cui la principale è la rimozione che appunto genera una parte della psiche rimossa, allontanata dalla coscienza. Questa complessità e profondità dell’inconscio costituisce il fondo, il fondamento potenzialmente individualizzante, del nostro vivere, la cui appropriazione è esposta a possibilità costanti di alienazione e di spossessamento di sé, ma la cui inclusione nella nostra vita psichica costituisce la condizione fondamentale di una vita buona, quale coincidenza la più ampia possibile della coscienza di ognuno con il proprio sentire e quale fonte di un giudizio sul bene e sul male condotto attraverso la più ampia e più integra gioia emozionale – o al contrario attraverso la più deprimente tonalità affettiva – della propria corporeità biologico-psichica. Ovviamente questo radicarsi corporeo e intrapsichico della verticalità dell’umano non può aver luogo, come ormai più volte ho ripetuto, senza intrecciarsi con lo sviluppo, il potenziamento e l’arrichimento costante della dimensione orizzontale e interpsichico-relazionale dell’essere umano. Come scrive Clara Mucci, secondo le indicazioni più attuali delle scienze neurobiologiche: «la mente si forma nell’ambito delle interazioni fra processi neurofisiologici interni ed esperienze interpersonali e i collegamenti umani plasmano lo sviluppo delle connessioni nervose che sono alla base dell’attività del cervello»4. In termini neurobiologici la vita della nostra mente è basata sull’accrescimento progressivo delle connessioni sinaptiche che collegano in modo sempre più complesso ed elevato i neuroni della nostra materia cerebrale e del rivestimento di mielina che avvolge e protegge gli assoni del neurone, assicurando la neurotrasmissione. Tale processo di plasmazione e riplasmazione delle connessioni sinaptiche può estendersi sostanzialmente per la durata dell’intera vita. Ma la sua processualità espansiva che fa crescere il cervello dell’essere umano nel periodo post-natale di ben quattro volte è intimamente legata e condizionata dalla sollecitudine e dall’accoglimento dell’ambiente circostante. Le esperienze precoci, sia nel verso dell’essere riconosciuti e accuditi sia nel verso dell’essere disconosciuti e non visti, plasmano profondamente la biologia del cervello, la sua struttura e le sue funzioni, fino a generare, nel verso negativo, un’atrofia, una «malattia della plasticità neuronale»5. Il corpo, si potrebbe dire riallacciandoci alla lezione di Spinoza, ha in sé un originario principium individuationis, che raccoglie tutta la storia pregressa e intergenerazionale dell’individuo in questione e che si esprime 4  C. Mucci, Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale, Milano, Cortina, 2014, p. 24. 5

  Ivi, p. 40.

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nel potenziale di una legge proporzionale ottimale dell’equilibrio tra tutti i suoi componenti. Ma questa potenza di essere – di essere secondo la cifra esistenziale più irriducibile e propria di ciascuno – può passare effettivamente in atto e tendere ad avvicinarsi alla pienezza del suo potenziale solo attraverso le sollecitudini e la potenza a essere dell’asse orizzontale. Per dire cioè che il corpo come può tendenzialmente vivere della complessità e ricchezza di tutte le sue componenti, secondo la specificità della lex vitalis d’ognuno, unicamente se si sottrae all’investimento emozionale di una sola parte di sé e supera tale unilateralità d’affetto nella presenza attiva di tutte le altre. Ma questo può, a sua volta, accadere solo se l’orizzonte monoculturale della sua passione si toglie in un’articolazione e moltiplicazione di affetti che dipendono dalla moltiplicazione e dalla varietà dei suoi mondi ambientali. La passione si trasforma in azione, l’affetto passivo si trasforma in affetto attivo, in Spinoza, solo se il corpo si sottrae a una sua dipendenza univoca e monoculturale e sviluppa e asseconda la sua multiculturalità organica attraverso il multiculturalismo delle sue relazioni orizzontali. Ecco perché nella prospettiva antropologico-politica che stiamo cercando di delineare il corpo non può mai essere un tutto-corpo, come, di contro, la mente non può mai essere un tutto-mente, secondo una prospettiva di scissione che, alternativamente, ha percorso buona parte della cultura moderna. Visto che il tutto-corpo rappresenta l’esaltazione corriva di un dilagare pulsionale che non viene mediato dalla funzione contenitrice della mente, qual è stata per eccellenza l’antropologia proposta della filosofia di Nietzsche (oggi riproposta dall’anarchismo pulsionale di Deleuze), e, correlativamente, il tutto-mente rimanda alla sciagurata celebrazione di un pensiero che sarebbe tale solo perché affrancato dalle emozioni. Laddove un pensiero è veramente tale solo in quanto è elaborazione ed espressione di emozioni. È necessario infatti che vi siano un corpo e una mente che coesistano in modo tale che l’uno possa lasciare spazio all’altra: in una dimensione di compresenza, nella quale il corpo possa trovare il modo di esprimere tutta la sua potenza organizzante e individualizzante proprio attraverso la presenza di una mente che nel suo essere connessa in modo quanto mai vario con una pluralità di ambienti esterni e di altre menti sottragga il medesimo corpo alla invasione totalitaristica e monocorde della passione (in senso spinoziano), provandosi a restituirlo alla ricchezza e all’equilibrio del suo essere multiverso. Giacché nella proposta che stiamo delineando va sottolineato quanto il privilegio del sentire rispetto al conoscere-rappresentare non deve significare

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in alcun modo una sorta di valorizzazione ed estremizzazione romantica del sentimento di contro a ragione, ovvero dell’emozione/passione, in quanto tale, di contro a discernimento e giudizio. Perché dall’irrazionalismo è, com’è evidente, inevitabile e indispensabile rifuggire. E infatti è di nuovo la psicoanalisi che ci illustra le patologie e le sofferenze più estreme, fino alle psicosi, alle catastrofi dissolutivo-persecutorie, alle dimensioni di radicale confusione esistenziale, che è costretta a vivere una mente solo emozionale, che affonda le sue radici nelle esperienze primitive del corpo senza mediazione e sostegno del pensiero cosciente e della mediazione linguistica. In questo senso si fa chiara tutta l’importanza di un’antropologia che vede la costituzione dell’essere umano istituirsi sulla compresenza di un asse orizzontale di relazione con l’altro-da-sé e, insieme, di un asse verticale di relazione con l’altro-di-sé. E che sottolinea fortemente, nella compresenza, l’eterogeneità dei due assi, visto che hanno termini, modalità e funzioni della relazione profondamente diversi tra loro: giacché mentre nella prima dimensione è in gioco il comunicare/riconoscere/disconoscere, attivo e passivo, con gli altri esseri umani, nella seconda è in gioco il dialogare / riconoscere / reprimere / operare censura tra la coscienza e l’alterità del nostro fondo corporeo-emozionale. Essendo del resto proprio il darsi di tale strutturale eterogeneità nella compresenza a spiegare la complessità e l’estrema variabilità di tipologia di vita degli esseri umani6. Anche la recente e importante scoperta sul piano neurologico dei neuroni-specchio, io credo, vada inserita, per altro, in tale quadro teorico – dell’antropologia cioè dei due assi – giacché il rispecchiamento imitativo del gesto altrui sull’asse orizzontale non può non essere tradotto e risignificato dal senso dato dalla nostra peculiare e individuale emotività sedimentata e accumulata sull’asse verticale. Altrimenti, disconoscere tale eterogeneità dei due assi, conduce a una valorizzazione troppo univoca e semplice del rispecchiamento, con l’ipotesi che ne consegue di una possibile originaria e intrinseca socialità e comunità dell’essere umano7. 6   Tra i lavori di A.B. Ferrari, che è stato il primo teorizzatore dell’antropologia dei due assi, si rimanda oltre a L’eclissi del corpo. Un’ipotesi psicoanalitica, già citato, a A.B. Ferrari, A. Stella, L’alba del pensiero, Roma, Borla, 1998, e A.B. Ferrari, Corporeità e psichicità. Intervista di N. Bonanome, “Psiche”, 2003, n. 1, pp. 61-75. Ma si veda anche F. Romano, L’incontro tra Armando B. Ferrari e Wilfred R. Bion, in A. Ciocca, A. Ginzburg, D. Cataldi, M.P. Chiarelli (a cura di), Per una relazione analitica del paziente, Milano, Franco Angeli, 2016, pp. 119-142. 7   In tale semplificazione mi sembra cadere P. Virno in Saggio sulla negazione. Per una antropologia linguistica, Torino, Bollati Boringhieri, 2013.

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2. Dalla società del conoscere alla società del riconoscere È tale discorso sul corpo, e sull’inconscio che ne deriva, che, riprendendo il discorso freudiano ma nello stesso tempo sottraendolo a un riduzionismo alla sola dimensione sessuale, va posto, a mio avviso, alla base di una teoria e di una pratica della socializzazione basata sul riconoscimento. In tale contesto riconoscimento deve significare in primo luogo riconoscersi e individualizzarsi, lasciar parlare la propria corporeità ed emozionalità, interiorizzarsi. Perché, per citare ancora Spinoza, «quanto più ciascuno cerca il proprio utile e tende a conservare il proprio essere, tanto più è dotato di virtù»8. Tanto più vive in coincidenza con le leggi, i desideri e le misure della propria natura, tanto meno ha necessità di manipolare, strumentalizzare e oggettivare gli altri da sé ed è dunque capace di generare e praticare forme di riconoscimento dell’altro. Ma lo spirito del tempo, lo Zeitgeist della globalizzazione, narra, drammaticamente, di un’altra realtà, anzi, a ben vedere, di una realtà opposta a quella dell’individuazione e dell’interiorizzazione. La mondializzazione dell’economia del capitale, sia nella sua versione produttivo-mercantile sia nella versione finanziario-speculativa, ha messo infatti in moto quel gigantesco movimento di esteriorizzazione e di superficializzazione dell’esperire di cui già abbiamo parlato e di cui Guy Debord, ormai già molti anni fa, aveva parlato in La société du spectacle. Né vale obiettare, io credo, a tale riflessione sulla nostra ipermodernità come epoca storica dominata da un’astrazione reale, quale valore in costante processo di accumulazione, che tale tesi sia contraddetta dalla tessitura a macchie di leopardo della globalizzazione e dal coesistere in essa di culture e forme economiche molto differenziate che vanno dalla tecnologia informatica più avanzata con forza-lavoro estremamente qualificata, sollecitata a un’autoimprenditorialità autonoma ed emancipata, a produzioni fordiste ad alta intensità di lavoro, caratterizzate ancora dall’operaio-massa, fino a includere rapporti di lavoro semiservili o semischiavistici di tipologia precapitalistica. Perché la natura astratta della ricchezza accumulativa del capitale ne determina il suo polimorfismo proteiforme e la capacità di includere nella sua filiera accumulativa, e riscritte nella sua logica, temporalità storiche diverse e forme sociali di relazione apparentemente arcaiche. Ma secondo appunto una logica e una destinazione unica di accumulazione, attraverso scambio, alla fin fine, con  B. Spinoza, Etica, tr. it. di P. Cristofolini cit., IV, Prop. XXXV, cor. II, p. 271.

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forza-lavoro, di cui Marx ha definito il concetto, il protocollo generale di azione, nel primo libro del Capitale, secondo passaggi e modalità processuali derivate necessariamente dalla qualità astratta e impersonale, meramente quantitativa, di quella ricchezza. Salvo poi, ovviamente, dedicarsi a scrivere il secondo e il terzo libro del Capitale, per dimostrare come quell’unità sostanziale di fondo, costituita dal valore in processo, si realizzi concretamente nelle azioni dei mille capitali individuali, prodotti e guidati dalle scelte dei singoli capitalisti. L’ontologia dell’essere sociale moderno, assai diversamente da quanto ha teorizzato Lukács muovendo da una supposta metastruttura storica del lavoro concreto, si istituisce e si articola, nella nostra prospettiva, secondo il paradigma dell’astrazione e non secondo quello della contraddizione. La logica della ricchezza astratta e della sua accumulazione pervade il mondo del concreto, svuotandolo di senso autonomo e assimilandolo alle sue leggi. E produce nello stesso tempo, attraverso tale svuotamento e l’effetto di superficie che ne deriva, il mondo del concreto come mondo dello spettacolo e delle rappresentazioni apparenti. Per cui è legge strutturale della ipermodernità capitalistica che tra essenza e apparenza vi sia un nesso di rovesciamento e di dissimulazione nell’opposto e che l’orizzonte del nostro presente sia sempre più segnato dall’esteriorizzazione. In tale contesto di drammatico impoverimento e di generale superficializzazione di tutte le forme di vita, collettive e individuali, la questione del nesso possibile d’inclusione o di esclusione tra mente e corpo è attuale come non è mai stata. Anzi è da credere che sia la questione antropologica e biopolitica di fondo, senza partire dalla quale ogni proposta di trasformazione e miglioramento delle condizioni attuali di vita e delle relazioni sociali e istituzionali cade nella vanità moralistica del dover-essere. Ma come aggredire la gabbia d’acciaio, di weberiana memoria, costituita dalla potenza egemonica del sistema economico capitalistico e del suo estendersi a unica forma di vita del pianeta? Come avere a che fare con il suo strutturale processo di totalizzazione, per il quale l’economico capitalistico tende a realizzarsi come concetto nel suo significato più radicalmente etimologico (cum-capio), ovvero nel senso di ridurre alla sua logica l’intera sfera delle relazioni umane? Forse scegliendo la strada proposta, sia pure con argomentazioni diverse, da Arendt e da Habermas, di accantonare l’agire strumentale, il mondo dell’economia e del lavoro, un’umanità legata solo alla bisognosità del corpo, per coltivare essenzialmente uno spazio pubblico e democratico di agire comunicativo? Di praticare cioè l’eterogeneità di legalità e di valori tra agire naturalistico-strumentale e tra agire disserente-discorsivo e affidarsi solo alla ragione pubblica e illuminista della democrazia?

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Quasi una riproposizione della distinzione nella polis greca tra oikonomia e eleutheria, tra la sfera cioè della economia (della casa/oikos) affidata al lavoro servile e sfera delle istituzioni pubbliche amministrata dai cittadini liberi? Il dualismo tra agire strumentale e agire comunicativo riconferma e riproduce da un lato proprio quella scissione tra mente e corpo che si vorrebbe superare e dall’altro non mette a tema nel proprio orizzonte teorico la valenza, oggi quanto mai totalizzante dell’economico, di generare non solo l’enorme mercato delle merci e dei servizi e la riproduzione dei rapporti sociali fondamentali, ma con essi anche la configurazione più generale e più diffusa dell’individualità, con le sue forme stereotipate di sapere e di conoscenza. Sottraendo in tal modo consistenza di autonomia e di discorso proprio a quelle individualità che dovrebbero essere i protagonisti del formarsi, attraverso confronto e dialogo, di una opinione democraticamente condivisa! Ciò che è da ricercare è dunque una via critica e di trasformazione che possa coinvolgere e legare insieme l’ambito della ragione pubblica, delle forme della coscienza e del sapere, con l’ambito economico propriamente detto. Tanto più che l’affermarsi delle tecnologie informatiche e del lavoro mentale mette sempre più al lavoro le competenze cognitive dell’individuo, il grado del suo sapere e il percorso della sua formazione. È, insomma, la mente del singolo, il suo sviluppo e il suo controllo, a essere oggi al centro della questione sociale. Cioè di una questione che si stringe e si assomma in modo paradossale attorno a ciò che pure pretenderebbe essere il luogo dell’esperire più individuale, come l’interiorità e la coscienza del singolo e che, solo a muovere da tale cortocircuito e da tale invasione reciproca di ambiti, potrebbe essere espressa e denominata, negativamente, con il termine di biopolitica. Dopo l’estenuazione del marxismo della contraddizione, dopo il venir meno cioè della teoria dell’inevitabilità rivoluzionaria del contrasto tra sviluppo delle forze produttive e arretratezza dei rapporti sociali di produzione, il dibattito sui modi possibili per trovare una via di uscita da questa drammatica situazione di totalitarismo sociale ed esistenziale, ha preso vie varie e profondamente diversificate. Basti ricordare, come si è appena detto, la ricostruzione del materialismo storico proposta da Habermas e l’etica del discorso che ne è derivata, basata, in sintonia con la visione arendtiana della politica come «essere in comune», su un allargamento della democrazia istituito sul riconoscimento per tutti di eguali facoltà e capacità di partecipazione al dialogo pubblico e alla formazione della pubblica opinione. O la lotta per il riconoscimento, che, da Taylor a Honneth, ha indicato come obiettivo di una trasformazione sociale, non tanto il benessere materiale o la giustizia distributiva, quanto la valorizzazione della

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propria dignità da parte di soggettività collettive e individuali, che normalmente patiscono la sofferenza del disconoscimento e dell’esclusione. Oppure, per altro verso, la via intrapresa dalla Revue du Mauss [Mouvement anti-utilitariste en sciences sociales] e da pensatori come Serge Latouche e Alain Caillé, che hanno valorizzato, rispetto a ipotesi del progresso sociale più razionalistiche e più istituite sull’allargamento dei diritti, percorsi, che trovano la loro origine nell’antropologia di Marcel Mauss e nelle ricerche storiche di Karl Polany su La Grande Trasformazione, e più legati ai legami emozionali e affettivi del dono e del controdono. Con la conseguenza che, soprattutto dal lato del convivialismo francese, sono nate le proposte di limitare il potere del mercato e di un’economia di merci attraverso gli altri modi possibili di un’economia associazionistica, che potrebbe includere sia settori di economia cosiddetta sociale, perché costituita da cooperative di lavoratori che sostituiscono proprietari privati, sia settori di economia solidale in quanto caratterizzati appunto dallo spirito maussiano della reciprocità, sia l’ambito dell’open source dei cosiddetti creative commons, o risorse conoscitive messe in comune dalla rete, sia l’abito della sharing economy, o economia della condivisione, basata sul fatto che uno stesso bene può essere utilizzato da più persone ed essere sottratto a un regime rigido di proprietà privata. Né si possono dimenticare, sganciate dalla lex mercatoria della misurazione quantitativa e della mediazione del denaro, sempre dal lato dello sviluppo di una socialità affettiva, le teorie del care, della disponibilità a prendersi cura di condizioni di fragilità e vulnerabilità, come quelle di bambini, anziani e malati, che, nate nella cultura del femminismo per una relazione di solidarietà e di sostegno tra donne, si sono poi sviluppate in un ambito più generale, come istanza etica di una pratica del dono che fuoriuscisse dal limite e dall’obbligo della reciprocità. Né infine trascurare le sollecitazioni per una riproposizione e rivitalizzazione della sfera pubblica, sia in termini di riqualificazione economica che in quelli di attività culturale, avanzata da tutti coloro che, critici del neoliberismo e dell’attuale modello economico, non credono nella rivendicazione di una presunta capacità autorganizzativa della società civile e nell’esaltazione di una immediatezza che liquidi la funzione mediatrice dello Stato, perché partecipano di una visione che non riduce l’ambito costituzionale e giuridico a mera sovrastruttura e che non vede ancora la sovranità degli Stati nazionali essere superata da una global civil society 9. 9   Cfr. L. Pennacchi, Note (adesive e critiche) sul convivialismo, la denormativizzazione neoliberistica e la rivitalizzazione della sfera pubblica, in F. Fistetti, U.M. Olivieri (a cura di), Verso una società conviviale cit., pp. 113-138.

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Ma il limite di tutte queste ipotesi sta a mio avviso in un grado comune, sia pure per ragioni diverse, di unilateralità e di astrazione. Nella difficoltà cioè di stringere, su un piano reale, individuazione e socializzazione, dimensione privata e dimensione pubblica, attraverso un processo di trasformazione che giunga da un lato a sensibilizzare e a dar vita alla verticalità emozionale di ciascuno e dall’altro sia estensibile veramente a tutti. E che contemporaneamente non torni a lasciar cadere l’uno fuori dall’altro mondo del lavoro e della produzione economica da quello delle istituzioni e della produzione politica. Invece, per quello che si è detto fin qui, è la questione della mente, nel suo lato privato di spazio interiore e, insieme, nel suo lato pubblico di facoltà intellettive messe al lavoro ad apparire oggi il luogo privilegiato e di convergenza su cui operare e da mettere a nostra volta, in una direzione contraria, al lavoro, per provare a delineare un orizzonte di trasformazione materialisticamente incarnato e fecondo di futuro. Cosicché per tale centralità, pubblica e privata, della mente, è la scuola, io credo, considerata nell’intero suo percorso formativo, dalla scuola dell’infanzia all’università, a costituire quello che potrebbe rappresentare il campo decisivo per una politica di trasformazione e per una diversa e nuova modalità d’integrazione sociale. E che dovrebbe impegnare non solo le maggiori risorse culturali e morali di un paese ma anche i suoi più rilevanti investimenti economici, quale possibile volano di un’economia futura e di un rinnovato sistema occupazionale e di servizi. È cioè la scuola, intesa in tutta l’ampiezza della sua filiera istituzionale, a costituire oggi, a mio avviso, la questione biopolitica per eccellenza entro cui si gioca maggiormente un conflitto di classe non predeterminato e già giocato in partenza. La pietra di volta di questa scuola del futuro dovrebbe essere, in base a tutto quello di cui abbiamo discusso fin qui, l’endiadi di conoscere e riconoscere. O meglio, più che un’endiadi, la compenetrazione di conoscere e riconoscere. Nel senso che l’appropriarsi di qualsiasi programma conoscitivo, di qualsiasi informazione esterna e oggettiva, dovrebbe coniugarsi con un grado adeguato di riconoscimento e di appropriazione del proprio Sé, dei propri piaceri e dei propri dispiaceri, dei propri gusti e dei propri disgusti, delle proprie abilità come delle proprie disabilità. Educazione dovrebbe quindi significare un processo tendenziale di appropriazione del sapere oggettivo come al tempo stesso di appropriazione del sapere soggettivo: conoscenza del patrimonio culturale universale dell’umanità come nello stesso tempo conoscenza del proprio patrimonio emozionale più individuale e personale. Vale a dire insomma che il concetto non può

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aver luogo senza l’affetto e che la possibilità di una nuova configurazione di società e civiltà non potrà che basarsi su un pensiero incarnato. Ma questa scuola del conoscere/riconoscere, questa scuola del riconoscimento – nell’acquisizione di un patrimonio per tutti eguale – delle individualità e delle modalità peculiari d’ognuno, non potrà nascere se non attraverso il formarsi di quell’istituzione fondamentale del riconoscimento che è a mio avviso il gruppo-classe, che, limitato al numero di 15/20 componenti, deve riuscire a essere, nella condivisione di vita e di età, il luogo principe della socializzazione e del riconoscimento reciproco. Solo un gruppo-classe che proponga come suo scopo primario la sua identità di gruppo e la sua appartenenza a un comune tempo di vita può infatti spezzare quella catena concorrenziale e patologica del riconoscimento che oggi avviene tra studente e insegnante attraverso una verticalità individualistica ed escludente di altri. Solo una comunità, costituita da un gruppo di coetanei che dividono le medesime esperienze di vita e che propongono la loro identità di gruppo di contro ad altri gruppi e soprattutto di contro al mondo degli adulti, può infatti accogliere, riconoscere, sanzionare come perdonare, le diversità, le incertezze, le problematiche emotive, i gusti d’ognuno. Come per altro va sottolineato quanto il perseguimento dell’istituirsi del gruppo-classe come scopo fondamentale della scuola, accanto a quello della trasmissione del sapere, modifichi profondamente il ruolo dell’insegnante adulto, che cessa la sua funzione di selezionatore dei buoni di contro ai cattivi e diventa colui che, oltre a trasmettere le conoscenze, ha cura, come un supervisore analitico, che la pulsione di Eros, quella di costruzione di legami e comunità, prevalga nel gruppo su quella, sempre presente e compresente, di Thanatos, quale pulsione invidiosa e distruttiva di relazioni10. Dunque un progetto di scuola del ri-conoscere che si configuri esattamente come l’opposto della scuola del supposto conoscere che costituisce la realtà a noi contemporanea. La scuola di oggi muove infatti dal prendere a riferimento un modello individualistico-concorrenziale estratto dal mondo del lavoro. Lo studente, invece di far parte in primo luogo di un collettivo, è assunto come un utente/cliente che deve prospettare il suo percorso commerciale-bancario attraverso una contabilità di crediti e debiti e deve accumulare conoscenze e competenze secondo una cornice teorica orientata assai pragmaticamente, connessa profondamente con lo sbocco e la destinazione nel mondo del lavoro. Un orientamento 10   Devo la sollecitudine verso questi temi alle molte conversazioni con l’amica Teresa Mariano, studiosa della comparazione internazionale dei sistemi educativi,

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pragmatico d’ispirazione anglosassone ha sostituito lo storicismo europeo e ha posto a principio della scuola non più un adolescente o un’individualità comunque in formazione quanto invece un singolo, ritenuto già inizialmente soggetto autonomo e responsabile, capace di razionalità calcolante e pronto ad acquisire abilità, skills, da vendere e scambiare in un prossimo mercato del lavoro. Con una generale sollecitazione a studiare materie scientifiche e linguistico-comunicative assai più che non materie letterarie e filologico-storiche. E con le prime sperimentazioni e anticipazioni che contemplano già la progressiva marginalizzazione del ruolo della docenza identificata ormai solo come funzione a margine di una relazione didattica concepita come risposta da parte dello studente a programmi di studio impiantati su sistemi di automazione informatica. In un processo complessivo, il cui scopo di fondo a me appare essere quello di generare una popolazione studentesca che abbia dismesso ogni identificazione comunitario-collettiva e che, per la sua mancanza di profondità negli studi e in un personale processo d’individuazione, sia pronta, come vuoto a perdere, a essere riempita, nella sua prestazione come forza-lavoro adulta, da tecnologie e schede di lavoro predeterminate e prestabilite. Considerando le cose in tal senso, il caso italiano è stato quanto mai esemplare. La scuola della Repubblica, a partire dal secondo dopoguerra, ma sulla base di programmi scolastici risalenti all’iniziativa di Giovanni Gentile, con una forte impostazione umanistica e storicistica, è valsa come l’istituzione di maggiore respiro democratico, quanto ad acculturazione e formazione delle giovani generazioni e quanto a vettore di fortissima emancipazione e ascesa sociale, mantenendo appunto, per quanto fosse possibile, un equilibrio tra la dimensione quantitativa della scolarizzazione di massa e la qualità dei contenuti culturali. Ma è stato, paradossalmente, proprio un ceto politico-pedagogico di sinistra, che, dopo il suo passato iscritto in una sorta di «stalinismo democratico», per rifarsi una verginità liberistica al fine di mantenere privilegi e cariche di natura politica, ha devastato quel tipo precedente di scuola, cancellandone l’impostazione storicistico-umanistica e, con il pretesto di allinearla alla scuola degli altri paesi europei, l’ha omologata a un contenitore di informazioni up to date, prive di profondità e di radicamenti storici. Finendo, va aggiunto, con l’introdurre tale svuotamento, con l’annesso spirito bancario-finanziario dei crediti e dei debiti, finanche all’università, che, con lo scindersi del percorso formativo in laurea breve e in laurea magistrale, ha visto dequalificarsi radicalmente il suo livello culturale e di ricerca, riducendosi, quando va bene, alla produzione teorica e formativa di una scuola secondaria superiore.

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Solo la retorica verbale di molti della cosiddetta tradizione operaista e postoperaista, attiva particolarmente in Italia, ha potuto condurre all’abbaglio di vedere in questo processo di genocidio culturale e di svuotamento delle giovani generazioni la messa in atto di una comunità, all’opposto, di libera ed emancipata intellettualità, la produzione cioè di quel general intellect, di cui ebbe a parlare Marx, come ho già sottolineato, in una delle sue pagine più sciaguratamente retoriche, quanto a esaltazione acritica dello sviluppo delle forze produttive, contenute nei Grundrisse. Giacché a tali celebratori di un comunismo già in atto, di un comune da sempre già proprio delle classi subalterne, è potuto sembrare che il passaggio dal lavoro del corpo al nuovo lavoro della mente, dal lavorare sulla durezza di materie prime e semilavorati alla leggerezza dei simboli alfanumerici, significasse appunto la genesi di un’intellettualità diffusa, di una moltitudine di menti, capaci per il loro essere in rete, di comporre una forza libera ed emancipativa. Come se il semplice passaggio dalla mano alla mente, dal materiale all’immateriale, garantisse di per sé la genesi di una ratio universalis, di una potenza comunicativa generale oltre i limiti del corpo d’ognuno, secondo una mitologia che, a mio avviso, rimanda ancora all’effetto seduttivo che la retorica comunitaria del genere di Feuerbach ha esercitato sulla mente ancora gracile e incerta del giovane Marx. All’opposto per noi, come abbiamo detto, è proprio l’ontologia dell’economico, la sua strutturale necessità di alimentarsi di lavoro astratto, a richiedere, con il passaggio epocale dalla tecnologia fordista alla tecnologia informatica, un determinato tipo di scuola fondata sull’esteriorizzazione della mente e sulla rinuncia a quel vero pensare, che in tanto è pensiero del mondo solo in quanto è, insieme, pensiero del proprio corpo emozionale. La posta in gioco del futuro si giocherà dunque, sul piano esistenziale come su quello sociale, sul controllo della mente. La questione della scuola – ossia della formazione della mente sociale – sarà come non mai la chiave di volta della configurazione del tempo avvenire. Di contro alla società della conoscenza che si viene approssimando, e all’oscurantismo del prossimo medioevo che a mio avviso ne scaturirà, con la sua scissione tra proprietari e gestori dei codici informatici, da un lato, e manodopera intellettuale senza chiavi d’accesso dall’altro  –  con la sua scissione tra una borghesia supernazionale, consumatrice di un medesimo stile di vita raffinato e di beni di lusso di alta qualità, e masse enormi di popolazione costrette in una riproduzione di vita a bassissimo livello di qualità e di cultura – vale riaffermare la tesi gramsciana su una rivoluzione possibile

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solo quale esito di una riforma intellettuale e morale. E vale dire che principio primo di tale riforma, di tale utopia a confronto delle miserie del presente, potrà essere, insieme all’altro grande principio della riduzione della giornata lavorativa (di cui qui ora non è il caso di parlare), solo una scuola che sia istituzione del conoscere in quanto sia, al tempo stesso, istituzione del riconoscere11. La speranza, in conclusione, è ovviamente che l’antropologia del riconoscimento, com’è stata prospettata in queste pagine, possa valere, in qualche modo, alla discussione etica e politica su questi temi e alla opposizione, culturale e sociale, contro il prossimo medioevo venturo.

11   Cfr. su questo tema R- Bellofiore, G. Vertova (a cura di), Ai confini della docenza. Per la critica dell’Università, Torino, Academia University Press, 2018: in particolare il saggio, riedito, di L. Magri, La madre di tutte le riforme, pp. 93-112.

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per un nuovo materialismo

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INDICE DEI NOMI

Allegri, Giuseppe,
169 Aristotele, 18, 77, 132, 142, 153 Arndt, Andreas, 185 Auffret, Domenique, 100

De Lillo, Massimo, 24 Descartes, René,18, 46, 98, 109, 136 Du Bois, Raymond, 37 Duichin, Marco,34

Babich, Babette, 110, 112 Baggio, Guido, 210 Bain, Alexander, 37 Bastian, Henry Charlton, 20, 39 Bellofiore, Riccardo, 217 Berkeley, George, 31, 67 Bernays, Martha, 31 Bertani, Mauro, 127 Bidney, David, 46 Boscovich, Roger, 111 sgg. Bourdieu, Pierre, 134, 135 Broca, Paul Pierre, 20, 34 Büchner, Ludwig, 111

Eschilo, 149

Caillé, Alain,183, 222 Calcaterra, Rosa Maria, 208 Calogero, Guido, 12, 16, 142 sgg., 202, 229 Cantor, Georg Ferdinand, 111 Cappitti, Massimo, 196 Carignani, Paolo, 29 Cassirer, Ernst, 89, 141 sgg. Chianese, Domenico, 105 Ciccarelli, Roberto, 169 Cohen, Robert S., 110 Copernico,113, 114 Corradi, Cristina, 169 Correale, Antonio, 215 Cortella, Lucio, 181 Croce, Benedetto, 16, 42

Gall, Franz Joseph, 33, 34 Garroni, Emilio, 188 Gast, Peter (anche Köselitz, Heinrich), 113 sgg. Gatto, Marco, 174 Genovese, Rino, 181 Gentile, Giovanni, 147 sgg., 156, 225 Godani, Paolo, 101, 186 Gorz, André, 171 Gramsci, Antonio, 192 Grashey, Hubert, 21 Green, André, 30, 175 Greenberg, Valerie, 30

Damasio, Antonio, 85 Darwin, Charles, 27, 166 Delbrück, Berthold, 20, 29 Deleuze, Gilles, 126, 217

Fabbrichesi, Rossella, 205 Ferrari, Armando B., 61, 175, 218 Ferrier, David, 37 Fichte, Johann Gottlieb, 182, 193 Fistetti, Francesco,183, 203 Fliess, Wilhelm,21, 29, 33 Formenti, Carlo, 169 Förster-Nietzsche, Elisabeth, 111 Frank, Didier, 101 Foucault, Michel, 9, 124 Frison, Guido, 130

Habermas, Jürgen, 122, 180, 203, 211, 220, 221 Haug, Wolfgang Fritz, 177 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 13, 84, 107, 109, 122, 168, 178, 180 sgg. Helmholtz (von), Hermann, 111

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Hennig, C., 177 Henrich, Dieter, 196 Herder, Johann Gottfried, 196 Hobbes, Thomas,46 sgg., 67, 91 sgg., 127, 183 Hoffman, Ernst, 144 Hölderlin, J.C. Friedrich, 107, 195, 196, 229 sgg. Honneth, Axel,13, 180, 181, 193, 202 sgg., 221 Hume, David, 31, 67, 82

Morris, Charles W., 209 Mucci, Clara, 216

Iber, Christian, 185 Ippolita, 169 Jackson, John Hughlings, 20, 27sgg., 80 Jaeggi, Rahel, 180, 181 Jameson, Frederic, 174 Juranville, Alain, 110

Pallenberg, Olivia, 31 Parmenide di Elea, 87, 101, 144 sgg. Pennacchi, Laura, 222 Pezzella, Mario, 178 Platone,10, 18, 151, 154 Plessner, Helmuth, 181 Poiullet, C.S., 11

Kant, Immanuel, 29 sgg., 59 sgg., 64, 70, 71, 80 sgg., 109, 122 sgg., 136, 188, 191 sgg. Kierkegaard, Søren, 123, 176 Klibansky, Raimond, 141, 143 Kojéve, Alexandre, 17, 45, 99, 100, 185 Kussmaul, Adolf, 20, 29

Raimondi, Fabio, 166 Rickert, Heinrich, 143 Rieff , Philip, 30 Rodano, Franco, 162 Romano, Fausta, 137-218 Ross, James, 20, 29

Lacan, Jacques, 10, 12, 17 sgg., 72, 185 Laycock, Tyndall, 37 Lichtheim, Ludwig, 21,34 Locke, John, 31, 67 Lombardi, Riccardo, 79, 81, 105, 175 Lombardo, Giovanni P., 34 Losurdo, Domenico, 121 Lukács, György, 14, 220

Saling, Michael, 24 Sasso, Gennaro, 9, 144 Sassone, Anna Maria, 103 Schiera, Pierangelo, 129 Schleiden, Matthias Jacob, 121 Schopenhauer, Arthur, 64, 77, 85, 119, 122, 123 Schwann, Theodor, 122 Scribano, Emanuela, 49 Silberstein, Eduard, 30 Siep, Ludwig, 197 Simondon, Gilbert, 157 Solms, Mark, 24 Spencer, Herbert, 27, 37 Spinoza, Baruch, 10, 12, 46 sgg., 85, 88 sgg., 214 sgg. Stiegler, Berard, 157 Stuart Mill, John, 30, 31, 37, 42, 43, 67, 68

Mach, Ernst, 111 sgg. Mariano, Teresa, 224 Marx, Karl, 5, 13 sgg., 123 sgg., 159, 202, 214, 220 sgg. Matheron, Alexandre, 90, 93 Matte Blanco, Ignacio, 79 Mayer, Robert, 111, 114 sgg. Mead, George, Herbert, 204 sgg. Meynert, Theodor, 20, 35 Migliorino, Francesco, 45, 72 Mill, James, 31 Mittasch, Alwijn, 110 sgg. Mohr, Carl F., 111 Montgomery, Edmund, 31

Nägeli, Carl Wilhelm, 111 Napolitano, Francesco, 18, 20, 38 Nieddu, Anna Maria, 208 Nietzsche, Friedrich, 12, 64, 101, 109 sgg., 159, 160, 186, 205, 217 Oddo, Letizia, 172 Olivieri, Ugo M., 183, 222

Taylor, Charles, 202, 203, 221 Testa, Italo, 183 Toto, Francesco, 88, 93, 183 Tronti, Mario, 169

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indice dei nomi Vernant, Jean Pierre, 132 Vetova, Giovanna, 217 Vidoni, Franco, 166 Villaret, Albert, 71 Virno, Paolo, 218

Waibel, Violetta, 107 Wernicke, Carl, 20, 21, 34, 35 Whitlock, Greg, 112 Zöllner, J.K. Friedrich, 111

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la critica sociale

1. Gabriel Tarde Le leggi dell’imitazione Studio sociologico traduzione a cura di Filippo Domenicali 978-88-7885-159-7 pp. 384, 2012 2. Rino Genovese Un illuminismo autocritico La tribù occidentale e il caos planetario 978-88-7885-168-9 pp. 192, 2013 3. Christoph Türcke Il sogno di Gesù Psicoanalisi del Nuovo Testamento traduzione a cura di Tomaso Cavallo 978-88-7885-169-6 pp. 160, 2013 4. Marco Gatto Glenn Gould. Politica della musica 978-88-7885-270-9 pp. 160, 2014 5. Luc Boltanski Della critica Compendio di sociologia dell’emancipazione traduzione a cura di Francesco Peri 978-88-7885-337-9 pp. 240, 2014 6. Pierre Rosanvallon La legittimità democratica Imparzialità, riflessività, prossimità traduzione a cura di Filippo Domenicali 978-88-7885-363-8 pp. 314, 2015

7. Antonio Tricomi Fotogrammi dal moderno Glosse sul cinema e la letteratura 978-88-7885-376-8 pp. 320, 2015 8. Riccardo Donati Critica della trasparenza Letteratura e mito architettonico 978-88-7885-412-3 pp. 208, 2016 9. Rahel Jaeggi Forme di vita e capitalismo a cura di Marco Solinas 978-88-7885-474-1 pp. 168, 2016 10. John Dewey Filosofia sociale e politica Lezioni in Cina a cura di Federica Gregoratto, traduzione di Corrado Piroddi 978-88-7885-521-2 pp. 232, 2017 11. Nicolò Bellanca Le possibilità del futuro Economia e politica dell’immaginario 978-88-7885-577-9 pp. 192, 2018 12. Roberto Finelli Per un nuovo materialismo Presupposti antropologici ed etico-politici 978-88-7885-577-9 pp. 240, 2018

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LA CRITICA SOCIALE

ROBERTO FINELLI

Roberto Finelli (Roma, 1945) è studioso dell’idealismo tedesco, del pensiero di Marx e della psicoanalisi. Ha insegnato Storia della filosofia nelle Università di Bari e Roma Tre. Dirige la rivista «Consecutio rerum» (www.consecutio.org) 

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ROBERTO FINELLI

Questo libro chiude una trilogia i cui momenti precedenti sono dati da Un parricidio mancato (2004), dedicato a un’analisi critica eterodossa del rapporto del giovane Marx con i suoi numi tutelari Hegel e Feuerbach, e Un parricidio compiuto (2014), che trattava della relazione ormai risolta del Marx maturo con Hegel. Nei capitoli-saggi che compongono il nuovo volume, l’autore, ampliando il discorso attraverso una lettura attenta di Freud, una ripresa di Spinoza, e con un confronto con la stessa tradizione postidealistica e antiheideggeriana del pensiero italiano (è una perla il capitolo su un maestro dimenticato come Guido Calogero), mette capo a un’originale proposta teorica: quella di un’antropologia filosofica dell’emancipazione basata su una visione bio-psicoanalitica della relazione corpomente nell’essere umano. Il fine è di concorrere così alla costruzione di una nuova etica sociale materialistica, al di là del vecchio materialismo storico, capace di sfidare le seduzioni più allettanti dell’individualismo atomizzante del consumo e del mercato.  Una prospettiva che interviene direttamente nell’odierna crisi generale della sinistra, mostrando come questa sia anzitutto di ordine teorico e poi anche politico.

PER UN NUOVO MATERIALISMO

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PER UN NUOVO MATERIALISMO Presupposti antropologici ed etico-politici