Per un nuovo umanesimo. Come ridare un ideale a italiani e europei 9788828202486

Il diametro della terra è di 13.000 chilometri, e ne abbiamo già oltre 14.000 occupati da muri, filo spinato, barriere c

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Per un nuovo umanesimo. Come ridare un ideale a italiani e europei
 9788828202486

Table of contents :
Indice......Page 65
Frontespizio......Page 4
Descrizione......Page 2
PREMESSA. Dai classici e dal popolo......Page 7
1. Diventa ciò che sei......Page 10
2. Libera la cultura......Page 16
3. Democrazia e bene comune......Page 22
4. Identità democratica......Page 27
5. Nuova laicità......Page 33
6. Migranti e muri......Page 41
7. Quale antimafia? Quale legalità?......Page 47
8. Quale bellezza salverà l’Europa?......Page 54
9. Nuovo Umanesimo......Page 59

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Il diametro della terra è di 13.000 chilometri, e ne abbiamo già oltre 14.000 occupati da muri, filo spinato, barriere che non risolvono, ma anzi aggravano i problemi. I muri, inoltre, non sono solo quelli fatti con il cemento e i mattoni, ma quelli delle menti, delle visioni, delle paure. Oggi l’Europa dei muri sta soffocando la sua antica identità, ha smarrito il suo fine e il suo ideale, mentre l’Unione corre il grave rischio di disintegrarsi e lo Stato democratico è in crisi tra contraddizioni del sovranismo, impoverimento diffuso ed emergenza economica e criminale. Cosa si può fare per invertire una deriva così pericolosa? Occorre ricostruire anzitutto la nostra identità di italiani ed europei, sconfessando la sua negazione da parte della globalizzazione neoliberista e abbattendo i muri alzati dal sovranismo populista. Come? Attraverso un Nuovo Umanesimo che orienti le differenze e crei un rinnovato ideale. Don Luigi Ciotti e il filosofo Vittorio V. Alberti firmano un saggiomanifesto in cui spiegano la necessità di un programma educativo, sistematico e a lungo termine volto a rianimare l’ideale europeo, che parta da scuole e università per ricucire la società.

Don Luigi Ciotti (1945) fonda nel 1965 a Torino il Gruppo Abele, realtà di accoglienza, proposta culturale, educativa e «politica». È presidente di Libera, nata nel 1995, che coordina oltre 1600 associazioni per il contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione, e lavora per una cultura della legalità e della responsabilità.

Vittorio V. Alberti (1978), filosofo e scrittore, è membro della Consulta scientifica del Cortile dei Gentili e officiale del Dicastero per lo sviluppo umano integrale. È direttore della rivista «Sintesi Dialettica» e tiene un videoblog su «HuffingtonPost». Il suo ultimo libro è Pane sporco. Combattere la corruzione e la mafia con la cultura (Rizzoli 2018). Progetto grafico: theWorldofDOT www.solferinolibri.it

Solferini

LUIGI CIOTTI VITTORIO V. ALBERTI

Per un Nuovo Umanesimo Come ridare un ideale a italiani e europei

www.solferino.it © 2019 RCS MediaGroup S.p.A., Milano Proprietà letteraria riservata ISBN 978-88-282-0248-6 Prima edizione: aprile 2019

Per un Nuovo Umanesimo

Premessa Dai classici e dal popolo di Luigi Ciotti e Vittorio Alberti I muri non sono solo quelli fatti con il cemento e i mattoni, ma quelli delle menti, delle visioni, delle paure. Il diametro della Terra è di 13.000 chilometri, ma ne abbiamo già oltre 14.000 occupati da muri, filo spinato, barriere che non risolvono, ma anzi aggravano i problemi. Oggi l’Europa dei muri sta soffocando la sua identità, l’idea stessa di Europa giace sotto le ceneri, mentre l’Unione corre l’oscuro, storico rischio di disintegrarsi. Tuttavia, oggi possiamo immaginare una rinascita. Due domande: l’Italia e l’Europa credono nel futuro? Come animare un ideale europeo, democratico e umanista? Se non rispondiamo, perderemo sul piano storico. In questo libro non diremo cosa dobbiamo, ma cosa possiamo fare, a partire dalla realtà: essa supera l’idea, ma le idee cambiano la realtà. È patetica la declamazione dei buoni princìpi del «dover essere» senza fare i conti con il presente, reale disagio materiale, spirituale, culturale delle persone. Vogliamo, invece, presentare un fine, uno scopo, una meta che ci attragga, un ideale in cui credere nel tempo in cui l’Unione non è all’altezza dell’idea di Europa, la quale, essa stessa, sembra essersi smarrita. Per comprendere tanti guai del nostro tempo c’è una grande questione da affrontare, l’identità. Perché la cultura perde terreno e credibilità? Perché c’è il sovranismo? Perché le forze di progresso non hanno argomenti convincenti? E ancora: perché i partiti politici sono vuoti di ideali? Perché non c’è una cultura politica dell’integrazione? Perché un ragazzo che nasce a Londra o a Parigi entra nell’Isis? Perché sono in crisi la democrazia e l’idea di Stato? Perché il rafforzamento di mafie e corruzione? Sono questioni che hanno al centro l’idea di identità: chi sono io e chi siamo noi. Già, perché solo attraverso il rapporto con gli altri sappiamo se la nostra vita ha senso, se è una vita che cerca verità e giustizia, libertà e bellezza. Se è una vita che tende a costruire, a distruggere, o all’indifferente apatia. Italia e Europa non sono solo espressioni geografiche, ma civiltà. I grandi

dilemmi socio-politici del tempo attuale vanno affrontati a livello di spazio europeo, non di singola nazione. Ma per compiere questo va rigenerata una base ideale che sia in grado di fondare l’agire sociale e politico, un’idea culturale centrata sui nostri classici, che muova dalle persone più indifese e disagiate. Ecco il nuovo umanesimo che qui proponiamo: umanesimo da, per e attraverso il popolo, un piano che sia popolare, che agisca dunque a partire da dove la demagogia sovranista, l’afasia dei progressisti o presunti tali e il marketing neoliberista generano i peggiori effetti. Le forze sociali, intellettuali, politiche riformatrici non hanno un vocabolario in grado di arginare il nazional-populismo, anche oltre i confini europei. Questo libro offre tale vocabolario partendo dall’identità, della quale il nazional-populismo diffonde un’idea priva di storia. Il fine è contrapporre a essa la definizione di identità in ricerca che superi quella sovranista e quella globale neoliberista. Tale idea, che riteniamo sia la più autentica, le contesta entrambe. Oggi il grado di umanità si è corrotto. L’altro-da-noi è trascurato, respinto, umiliato anche con l’indifferenza e il silenzio. Basta guardare come trattiamo i giovani, i migranti, i poveri, chi vuole lavorare e ha delle ambizioni, ma è privo di «amicizie utili». Il nostro Paese – duole dirlo – ha tradito la Costituzione, i sogni e gli ideali di chi l’ha scritta. L’aumento della povertà, la perdita del lavoro, il talento girato in corruzione, la dispersione scolastica, l’analfabetismo di ritorno, la riduzione o lo smantellamento dei servizi sociali, la potenza di mafie e corruzione, il linguaggio imbarbarito, sono fenomeni indegni di un Paese che voglia essere democratico non solo di nome ma di fatto, un Paese civile. Ma non siamo solo noi ad aver tradito. L’Europa intera dovrà rendere conto delle sue politiche. Da un lato l’indifferenza o lo scaricabarile degli Stati fondatori, dall’altro la vergogna, intellettuale e morale, dei muri e dei fili spinati. Le riforme però non bastano. Occorre un cambiamento radicale, non soltanto politico, una rivoluzione delle coscienze: ed ecco la leva culturale. Occorre riflettere a fondo sulle nostre vite disorientate e riscoprire gli altri, fuori ma anche dentro di noi, prima di tutto come azione intellettuale. Ed ecco perché più che mai la solidarietà deve farsi giustizia. Solidarietà e giustizia non possono essere separate, altrimenti l’impegno sociale non incide sulle cause politiche ed economiche delle ingiustizie, di cui rischia anzi di

diventare la foglia di fico, l’inconsapevole complice. L’impegno sociale non è mai neutrale ma sempre intrinsecamente politico. Stiamo correndo tre grandi rischi: la morte della democrazia europea, un nuovo conflitto globale, una catastrofe ecologica. Gli scenari che abbiamo davanti sono: la nascita di un’Europa a due velocità con i Paesi del Sud sempre più in difficoltà oppure la disgregazione dell’Europa stessa a causa delle forze politiche di ispirazione neonazionalista. Se non vogliamo accettare questi esiti, abbiamo bisogno di costruire iniziative politiche che abbiano alla base la cultura, il pensiero, una identità ideale coerente con la nostra civiltà. Tale prospettiva è un nuovo umanesimo che sia base dell’Europa sociale. Un progetto, questo, trafitto da un lato dal neoliberismo che ha provocato la crisi e, dall’altro, dalle forze nazionaliste e sempre più apertamente neofasciste che stanno speculando sull’aumento delle disuguaglianze fomentando la guerra tra poveri – guardandosi bene dal rimediare alle cause che l’hanno generata – e imputando colpe ai migranti. Vogliamo confrontarci e lavorare con tutti coloro che accettano questa premessa, che non si sono arresi all’apparente impossibilità di cambiare le cose, che ritengono il diritto all’esistenza un obbligo di civiltà e la povertà un crimine contro l’umanità. Per questo, possiamo progettare e rimettere al centro della ricostruzione democratica e sociale i diritti di coloro che abitano il nostro continente, partendo da quanti sono in difficoltà e potrebbero in assenza di speranza farsi sedurre dall’odio e dal rancore come risposta ai nostri fallimenti collettivi.

1 Diventa ciò che sei Identità e Umanesimo di Vittorio Alberti Come dare forza alle idee democratiche di progresso ora che sono inefficaci? Le idee diffuse dal campo democratico e progressista sanno di vecchio e, in genere, puntano solo su un moralismo del «dover essere», slegato dalle concrete, direi corporee paure e opposizioni delle persone. L’impoverimento, la solitudine, l’inefficienza, i privilegi e la corruzione generano rabbia e sfiducia, angoscia e paura. E se in una periferia disagiata, una persona oppressa da questi mali si sente fare – magari da un salotto televisivo – un discorso di civiltà, apertura, cultura, sentendosi accusata, sia pure indirettamente, di ignoranza e grettezza, questa persona giudicherà buonista quel discorso, retorica da ricchi che si possono permettere il lusso di essere, nel loro cinismo, «mentalmente aperti». Ecco perché le idee democratiche di progresso sono viste come «cose da privilegiati», da élite. Cosa c’è alla base? La sfiducia in coloro che, non solo nel campo politico, hanno guidato, e nella validità delle loro affermazioni. Di qui la fame di giustizia che, naturalmente, diventa aggressiva perché nutrita da un senso di tradimento da imputare a quelle dirigenze le quali, a loro volta, essendo state selezionate, il più delle volte, non in base a formazione culturale e capacità esecutiva, non potevano rispondere alle grandi urgenze del nostro tempo, proprio per inadeguatezza, se non talvolta per corruzione. Inoltre quei «ricchi» non hanno idee forti né nuove, né talora la credibilità per controbattere in modo convincente alle motivazioni, ora ragionate ora viscerali, a partire dalle quali prende forza, invece, non solo in Italia, la prospettiva sovranista. La risposta a quei mali può essere invece un’altra, una risposta filosofica e popolare, che ponga il primato dell’istruzione generale. Mi riferisco anche alla povertà, la quale è sì materiale, ma letta in chiave intellettuale è il privarsi (farsi poveri) di idee fisse, di pregiudizi. In questo senso, come povertà di spirito, è la base per la più potente apertura mentale, per il più alto libero pensiero, che non significa «farsi ignoranti», bensì, al contrario, sviluppare la capacità di ricercare e riconoscere gli elementi di libertà della cultura. Il nuovo umanesimo, quindi, deve essere povero, nel senso intellettuale appena indicato, e nel senso sociale, poiché deve partire dalle e

fra le persone impoverite. In questo modo, la risposta sarà – e sarà percepita – come vera, autentica, seria, vicina alla periferia come al centro, e non solo proclamata, ma organizzata. Insomma, occorre ascoltare e analizzare quelle passioni oppositive e, partendo da qui, prosciugare gli argomenti di chi le fomenta e sfrutta. Occorre, insomma, dare la parola a chi soffre, altrimenti non avrà altra illusione che finire tra le braccia della demagogia sovranista o populista, come oggi si dice. Questa è un’operazione intellettuale, culturale. I retori e i demagoghi ci sono sempre stati, e la democrazia non è solo una procedura, non è solo votare a maggioranza, ma la possibilità per le persone di prosperare nel diritto e nel dovere, in libertà e giustizia, ed è accrescimento generale del sapere. Nel 2018 ha scritto bene il Censis: sovranismo psichico, italiani incattiviti, società disunita e, aggiungo, senza sogni né modelli. Il problema è intimamente culturale, e la cultura è l’argine prima del precipizio, perché l’ignoranza crea mostruosità sociali e politiche. Che la cultura sia «roba da ricchi» proviamolo a dire a un ricercatore precario – uso non a caso questa parola parlando di università, perché il precarius è colui che prega (da prex, in latino «preghiera») – che è costretto a pietire per avere. Diciamolo a questo precario che guadagna tre lire, magari è figlio di persone umili e ha avuto la singolare idea di affermarsi attraverso studio e fatica. Egli parla la lingua detta dell’élite, ma la sua condizione materiale è di altro segno. Da quello stato di disperazione avvelenata di tanti, oggi possiamo uscire con l’ambizione che viene dalla conoscenza, la quale ispira un ideale in cui credere. Come? Partendo dal principio, dal discorso umile, dal latino humus, «terra», cioè dall’autenticità di ciò che proviene dalla mia origine, dalla mia identità. Ma cos’è questa nostra identità? L’omologazione, secondo il neoliberismo globale che uniforma e livella, o l’idea statica, oppositiva, difensiva del sovranismo demagogico? Nessuna delle due. Non si può contestare l’idea sovranista di identità senza insieme criticare quella globalista del neoliberismo alla quale, negli ultimi decenni, si sono assoggettate anche le forze di progresso intellettuali e politiche. La nostra identità profonda, di noi italiani ed europei, è in ricerca, non è né indistinta o diluita, né chiusa e schierata in difesa, ed è sempre stata dinamica e in confronto con l’altro-da-sé, anche, purtroppo, quando la ricerca

è stata conquista armata: Hegel definì l’Europa «un leone affamato». Crisi è parola di origine greca, vuol dire «scegliere». Ora che tutto è in crisi si possono ridefinire le categorie del pensare. Il fine è credere in un futuro di libertà e giustizia. Ma come? Andando alla migliore intelligenza del nostro passato per metterci nei panni di Ulisse che passò attraverso Scilla e Cariddi, che oggi sono l’omologazione globale e il sovranismo, le due idee estreme di identità che mettono a rischio il connubio tra libertà e giustizia proprio dell’Europa. Da un lato, la globalizzazione neoliberista, con la sua riduzione-a-uno che logora le diverse culture, dall’altro il sovranismo che innalza muri per difenderle. Salviamo le culture dalla prima e dalla seconda azione. Le singole variegatissime culture, i singoli passati dell’Europa sono minacciati a morte da entrambe queste forze. Ma ora possiamo liberarli. A illuminare questa rigenerazione, i classici. È questa l’operazione mentale, intellettuale, esistenziale che può permettere all’Italia e all’Europa di diventare ciò che già sono: potenza culturale nel mondo, declinando però la «potenza» non in termini di conquista armata. L’Italia e l’Europa hanno perso da tempo il primato militare, politico, economico, ma possono conquistarne uno culturale che qui chiamiamo nuovo umanesimo. Niente buonismo di maniera, né idee novecentesche riproposte come piagnistei, ma istruire tutti sulla nostra identità, dopo i decenni di degrado nel quale è precipitata l’offerta culturale, a partire dal linguaggio. La definizione adeguata è corruzione culturale. La situazione è molto seria e minacciosa perché è in corso un cambiamento d’epoca storica, ed è urgente indirizzarlo con ambizione filosofica, che non significa «sapere elitario», ma discorso alla città: ecco l’humus e il popolo, al quale tutti apparteniamo. Cultura per la città italiana ed europea, la quale si è costruita nella storia ricercando fuori da sé, con la curiosità, la scoperta e, abbiamo detto, purtroppo anche con la guerra, e che ora si è ridotta a volare basso, senza ambizione e coraggio, costruendo muri anche mentali e, insieme, uniformandosi a modelli non suoi. L’Italia, anche se noi italiani non lo sappiamo, è una potenza culturale, non nel senso bellico ma del pensiero, dello stare al mondo, dell’ingegno, al di là della trita retorica, oggi in voga, sull’eccellenza e la bellezza. Scrive Dostoevskij, grande classico: «Ti ha viziato tanto il realismo contemporaneo, che non puoi più tollerare nulla di fantastico». Sembra parlare a noi che abbiamo il capo chino, senza speranza di futuro. E si badi

che la crisi attuale è anche crisi dell’idea di progresso: non si pensa più che il futuro possa essere migliore di passato e presente. Umanesimo significa portare l’antico, il classico a oggi, e farlo vivere nella concretezza della mia vita. Il classico è tale perché discute il presente, il moderno, perché moderno viene dall’avverbio latino mŏdŏ, che significa «ora», «in questo momento». Se una cosa è moderna, cioè di questo momento, non resta come non resta il momento, mentre il classico è tale perché resta, non subisce il trascorrere del tempo e, insieme, pone sempre nuove domande e nuove risposte. Ma come possiamo procedere? Non facendo l’elogio erudito del classico ma facendolo parlare alla mia vita, poiché il classico è tale perché parla in ogni tempo alla mia vita. E per quale ragione possiamo compiere questo? Per credere nel futuro, in un’idea ambiziosa, cioè non costipata, chiusa in difesa, di Italia e di Europa. Ed ecco il durissimo compito della cultura. Per imboccare la strada dell’umanesimo occorre formare la persona, con la letteratura che educa al sentimento, con la filosofia che addestra al pensiero critico, con la storia che ti dice chi potrai essere. Le pulsioni le abbiamo per natura, poi arrivano le emozioni, che sono la risonanza emotiva che le cose producono (o dovrebbero produrre) in me. Infine, i sentimenti, che sono culturali, si apprendono cioè con l’educazione: i loro nomi si imparano attraverso le favole, i miti, i classici. Questo va insegnato in tutte le scuole, tecniche e non tecniche, ma senza trasformare il classico, come diceva Umberto Eco, in qualcosa che ti impongono a scuola, e che quindi ti annoia. Occorre, invece, attrarre al classico, non imporlo. E a partire dal classico creare nuove alleanze, in primo luogo tra scuola e università, in modo da focalizzare la rigenerazione della società in questa continuità e comunicazione fra contesti e istituzioni. Il demagogo promette sicurezza e benessere usando la fascinazione e gli umori; trasforma la politica nell’annuncio della promessa, e le persone – impaurite, disorientate, impoverite – comprensibilmente lo seguono. I demagoghi prosperano lì dove il ceto medio si impoverisce, e se si impoverisce il ceto medio la democrazia frana perché si corrode la possibilità delle persone di migliorare la propria condizione sociale. Allora, da un lato, demagogia e retorica dei muri; dall’altro (quello dei «progressisti») incapacità di mettere in campo argomenti che non siano

moralismi. Sullo sfondo, il nostro declino. Occorre mettere a fuoco le attuali rivendicazioni morali di giustizia e libertà per costruire un’idea di progresso coerente con la vera identità culturale europea, e, dentro quella europea, l’identità italiana può offrire una enorme ricchezza in cui credere. Dico «credere» perché non crediamo più in niente. Ovunque, in fondo anche fra chi sostiene idee di aggressiva chiusura, dettate dai mali di cui abbiamo accennato all’inizio, c’è grande nostalgia di qualità, cioè di educazione. Una dolorosa nostalgia della possibilità di aprirsi, di rigenerarsi intorno all’educazione, alla qualità, e più giro l’Italia più vedo che, allo stesso modo, nei contesti ricchi così come in quelli poveri questa nostalgia risuona in tante forme. Oggi c’è un rischio di fascismo? Intanto, certamente di democrazia autoritaria, con pochissimo pensiero critico, repressiva e fondata su visioni grette e meramente oppositive. Ricordo Vittorio Foa, con il quale ho avuto il privilegio di avere un lungo colloquio diversi anni fa. Si commosse quando parlò dell’Europa attuale, ricordando la mentalità di quando era bambino, al tempo della Prima guerra mondiale. «Sembra incredibile un’Europa unita» mi disse, «allora le persone non osavano neanche immaginarla.» Con questa sua affermazione, andiamo con la mente alla formidabile idea del programma Erasmus, che dobbiamo alla tenacia della fondatrice Sofia Corradi, pedagogista, alla quale dedichiamo questo capitolo con la consapevolezza del rischio abissale che stiamo correndo, ma anche dell’opportunità che abbiamo di farci potenza culturale. Il primo passo è diventare ciò che si è, conosci te stesso e niente di troppo, credendo in queste nuove ma antichissime idee, ora che non ne abbiamo più. Se perdiamo lo spirito critico, saremo gregge, e il gregge vuole solo una cosa: un capo. Se manca lo spirito di conquista, che è conoscere e scoprire, l’Europa muore. Se ci chiudiamo, ci corrompiamo e moriamo. Prima ho parlato di sentimenti perché ci potrà salvare anche la nostra grande estetica. Oggi la parola Europa evoca purtroppo istituzioni distanti e incomprensibili. L’Unione può essere riformata come conseguenza di una rianimata idea di Europa, quella dell’Erasmus e di Erasmo – il «principe degli umanisti europei», secondo la celebre definizione di Federico Chabod – quella della Scuola di Atene di Raffaello. La verità è che abbiamo sete di utopia, di un nuovo ideale che sia in contatto con la nostra profonda autenticità. Oggi si parla di pensiero unico,

ma c’è un pensiero? O forse non siamo neanche più capaci di pensare o, peggio, capiamo solo l’utile? Ancora peggio si può parlare di sentimento unico, o di pulsioni uniche, le stesse per tutti, che significa essere massa. Allora, identità né globale né sovranista, ma inesauribile ricerca: cercare ricercare scoprire conquistare convertirsi, spirito inquieto, spirito dell’inquietudine, e dialettica. La storia europea ha distrutto i confini e oggi erigiamo muri. L’Europa del dopoguerra fino al 1989 è tramontata, ha esaurito la sua spinta propulsiva. I giovani dopo quella data hanno patito tale declino e tuttavia sono europeisti nell’esperienza. Ma credono nell’idea di Europa? Conoscono questa idea, le sue motivazioni originarie e i suoi esiti possibili? L’Europa nasce da una grande idea, ma qual è oggi il suo fine? L’Europa è tecnica ma anche cultura. Costruiamo il fine, la missione da dire al mondo per rammendare la società e organizzare la ri-nascita sulla base dell’istruzione. Il risultato sarà una nuova idea di identità fondata sull’umanesimo. Per credere, però, bisogna ideare ma anche organizzarsi. Ora passo la parola a Luigi, per il quale siamo un Paese malato d’individualismo, poco portato a collaborare, a condividere.

2 Libera la cultura Memoria, Conoscenza, Impegno di Luigi Ciotti L’umanesimo europeo dunque, riguardo il quale vorrei ricordare le parole pronunciate da papa Francesco il 6 maggio 2016, quando gli è stato conferito il premio Carlo Magno: «Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. […] Che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro fratelli?». Per rigenerare la società attraverso una concreta operazione culturale e, quindi, credere in ideali di progresso occorre esercitare la memoria, per ricordare, vivere e realizzare, perché la memoria è un deposito di esperienza senza la quale non si comprende e costruisce nessun futuro. L’Italia non è ancora libera. Se misuriamo la libertà col metro della dignità – quello più giusto e affidabile – la libertà nel nostro Paese non è ancora un bene comune universale. Non è libero infatti chi è povero, chi è senza lavoro, senza casa, chi non ha i mezzi per curarsi, chi non è stimolato a conoscere, a studiare, a realizzarsi. Non è libero chi cade in dipendenze come quella del gioco d’azzardo, alimentata da pubblicità ipocrite e truffaldine. Non è libero chi è oppresso nella solitudine, schiacciato dai bisogni, privato dei diritti. Sono milioni, in Italia, le persone non ancora libere. E questa mancanza di libertà è intrecciata con le paure, quelle stesse che, come scriveva Vittorio all’inizio, vanno capite come prima cosa per riorganizzare una risposta non solo di proclami. Ma quali e quante sono le paure? C’è innanzitutto la paura del sentirsi soli, abbandonati, che deriva dalla perdita del legame sociale, del senso di comunità. La paura che invade una società frantumata, dove i rapporti si sono deteriorati a causa della logica del profitto che ci fa percepire gli altri non come simili e fratelli, ma come complici o avversari. Poi la paura che nasce dal vuoto culturale, dall’analfabetismo di ritorno, dall’incapacità o dalla difficoltà di leggere i cambiamenti, dal sentirsi sovrastati da meccanismi e logiche incontrollabili. La paura che le nostre vite

siano in mano a incognite e fattori imprevedibili. La paura che apre lo spazio alla superstizione, al mercato delle illusioni e, da lì, a forme di condizionamento e di potere. Poi c’è la grande paura economica. Paura di un sistema che non protegge più le persone, che distrugge il lavoro o lo degrada a prestazione occasionale e indegnamente retribuita, che alimenta le disuguaglianze e smantella lo Stato sociale, il sistema di servizi e di garanzie che ha consentito la prosperità delle democrazie. C’è la paura della perdita di memoria e dunque della perdita d’identità, perché per sapere chi siamo bisogna sapere da dove veniamo, dobbiamo includere la nostra storia in una storia più grande che ci precede e che abbiamo il compito di sviluppare. Il nostro Paese soffre di una grave emorragia di memoria. Tanta gente non sa, per esempio, cos’è stata la guerra, cosa il Rinascimento o cos’è stato il fascismo, o ne conosce versioni manipolate, strumentali, superficiali… La memoria celebrativa, d’occasione, è contraria alla vera memoria. Ma lo è anche l’informazione sbrigativa, compulsiva, che ci sommerge di notizie ma non ci aiuta a contestualizzarle, a capirne il significato profondo. Un’altra paura sulla quale dobbiamo riflettere è la paura dell’altro, del diverso, dello straniero. Una paura tra le più pericolose, perché può generare ostilità, aggressività e perfino odio. Anche qui la radice del male è l’ignoranza, perché si odia solo ciò che non si conosce. Conoscere è smettere di odiare, è scoprire che l’altro è meno diverso di quello che ci appare. Conoscere è riconoscersi, è scoprire l’altro non solo fuori ma dentro di noi. Per questo l’immigrazione è una sfida cruciale del nostro tempo, quella che più di altre ci pone di fronte a un bivio: da una parte diventare una società aperta, giusta, accogliente; dall’altra diventare una società chiusa, diffidente, dominata da aggressività e paure. Non dobbiamo invece temere gli speculatori e gli imprenditori della paura. I tanti che, in diversi ambiti, lanciano l’allarme e vendono false promesse e soluzioni. Non dobbiamo averne paura perché possiamo contrastarli con gli strumenti della ragione e della conoscenza, con l’impegno costante e condiviso. Ma prima dobbiamo guardarci dentro con onestà e rigore (conosci te stesso e diventa ciò che sei…). Se le paure sono aumentate è anche perché non abbiamo saputo interpretare i cambiamenti in atto e inventarci nuove forme di lotta e di impegno. Non basta protestare contro l’aggressione ai

diritti, bisogna anche chiederci cosa abbiamo fatto per difenderli! In troppi hanno preso questo impegno sottogamba, lo hanno assunto solo a parole. E il risultato è un Paese non ancora libero, dove i nemici si chiamano oggi corruzione, mafie, disoccupazione, povertà, ignoranza. Mali che hanno una radice comune nell’indifferenza, nel disprezzo per il bene comune, nel divorzio tra etica e politica e tra libertà e responsabilità. Separata dall’etica, la politica non produce ma riduce la speranza. A volte la ruba. Separata dalla responsabilità, la libertà si degrada ad arbitrio, a prepotenza, a ingiustizia. Occorre un nuovo umanesimo e portare la Liberazione a compimento, strapparla dal guado in cui vegeta, dalla palude in cui langue. Come può procedere un Paese quando a prevalere – a ogni livello e ambito – sono le divisioni, le rendite di potere, i calcoli e i piccoli cabotaggi? Quando la politica oscilla tra sdegnosi rifiuti e compromessi al ribasso? Quando la «crescita» che tutti auspicano è impedita da quella che troppi permettono: la crescita delle ingiustizie e delle disuguaglianze, della povertà e della disoccupazione? Occorre un nuovo umanesimo che ci faccia superare gli egoismi, le rivalità, le contese. Che ci liberi dalla malattia del potere che tutto corrompe se non viene assunto con coscienza e responsabilità, se non viene vissuto come servizio. Occorre un nuovo umanesimo che ci faccia guardare al di là di noi stessi, della sfera privata, che ci spinga all’interesse per il bene pubblico, per la vita comune e condivisa, che ci faccia osare orizzonti più grandi di quelli dell’io. I mali di cui soffriamo sono sotto gli occhi di tutti, ma sono occhi spesso distratti, rassegnati o persino complici. L’esclusione dei giovani dal mondo del lavoro è il grande scandalo di questo tempo. Un segno di egoismo ma anche di ottusità, perché un Paese che non punta sui giovani è un Paese che sbarra la strada al proprio futuro. Spesso si discute di certi comportamenti aggressivi e violenti, ci si indigna di fronte a quei giovani che mancano di rispetto agli insegnanti, che si prendono gioco di loro, che arrivano a insultarli e persino a intimidirli. È giusto censurare – sono comportamenti intollerabili – ma è necessario anche riflettere sulle nostre responsabilità. Che razza di mondo abbiamo consegnato a questi ragazzi? Cosa può diventare un giovane dentro un sistema dove ciò che conta è il suo essere consumatore, non persona, non cittadino?

Un sistema che ti chiede di metterti in mostra, di diventare «famoso», di «farti conoscere», ma non ti dà i mezzi per conoscere te stesso, per scoprire chi sei attraverso le relazioni, la conoscenza, il talento, le passioni? Se guardiamo all’uso e abuso di droghe – tra cui una, pericolosissima, che troppo sbrigativamente molti avevano dato per superata: l’eroina – bisogna pensare ai drammi interiori di tanti ragazzi, alla loro angoscia di non essere accettati e riconosciuti dalla «società dell’io», di non rivelarsi all’altezza di obiettivi ossessivamente proposti come prioritari: la bella apparenza, la ricchezza, il successo. Le droghe compensano provvisoriamente vuoti e frustrazioni, danno l’illusione di poter riuscire là dove si è fallito. Ecco allora che dobbiamo interrogarci sul malessere giovanile, sulle forme sommesse o gridate in cui si esprime, e chiederci se non sia anche frutto di un vero e proprio tracollo educativo e culturale. Chiederci se a scatenare queste forme di violenza e di rifiuto non sia un’ansia di protagonismo frustrata e non indirizzata. Ma anche dobbiamo guardare i tanti giovani che – anche grazie a realtà che hanno saputo accoglierli, accompagnarli e valorizzarli – si stanno impegnando a costruire una società più giusta e più umana. Un giovane è per sua natura aperto alla vita, affamato di conoscenza, animato da domande profonde e inquietudine positive. Un giovane non si accontenta di sapere che una cosa esiste, vuole anche sapere perché esiste, qual è la sua essenza e quale il suo scopo. Sente il bisogno d’interlocutori che prendano in seria considerazione le sue domande, il suo bisogno d’interrogare e interrogarsi. Adulti che sappiano essere presenti senza essere soffocanti, tolleranti senza essere indifferenti. Che lo mettano in condizione di essere autonomo, di costruire percorsi in cui l’energia possa scorrere alla giusta tensione, in argini né troppo stretti né troppo larghi. «Educarci» dice una bella massima orientale «è come far volare un aquilone: se si tira troppo la corda o la si tira troppo poco, l’aquilone cade.» Come la scuola e la famiglia, anche il contesto sociale svolge un ruolo decisivo. La cittadinanza comincia quando ci si sente parte attiva di un contesto, quando da anonimo spazio di transito e di consumo la città diventa «immagine riflessa» di una mappa interiore di affetti, relazioni, stupori. Quando è città che fa posto ai giovani e non si limita a dare loro un posto. E mettendoli in condizione di «vedere» e non solo di guardare, di «ascoltare» e non solo di sentire, di «capire» e non solo di sapere, permette loro di sentirsi a pieno titolo cittadini.

Guardiamo poi al lavoro, architrave della nostra Repubblica. Non è lavoro quello che riduce la persona a funzione, a mezzo di profitto. Non è lavoro quello che non tiene conto dei suoi bisogni e delle sue speranze. Non è lavoro quello che assicura la massima parte dei profitti alle multinazionali, che non investe socialmente, che non ha una visione di bene comune. L’Italia è uno dei Paesi dove le disuguaglianze hanno toccato i livelli più alti. Ma non chiamiamole più disuguaglianze, chiamiamole ingiustizie. Disuguaglianza è un concetto astratto, che rimanda a una differenza matematica. Ingiustizia è un concetto che richiama il sopruso del forte verso il debole. Alla base di una disuguaglianza c’è sempre un’ingiustizia. La parola chiave, ancora una volta, è responsabilità. Ma è una parola che deve essere a sua volta rivisitata e rafforzata. Non più solo responsabilità di quello che facciamo ma anche di quello che non facciamo. Se oggi il male è ancora così forte è anche perché le ingiustizie si sono alleate con le nostre omissioni. Il male non è solo di chi lo commette, ma anche di chi guarda e lascia fare. La Costituzione non descrive – come sostengono i suoi critici – un Paese astratto. Parla di un Paese saldato dai diritti e rafforzato dai doveri, un Paese dove la legalità sia scritta, prima che nei codici, nelle coscienze; un Paese dove «fuorilegge» siano le disuguaglianze e i privilegi, la povertà materiale e culturale, i razzismi e le discriminazioni. Parla il linguaggio della democrazia che è linguaggio di corresponsabilità: alfabeto del «noi» e non monologo dell’io. A tutti noi sta il compito di parlarlo e di tradurlo in atti di giustizia, di speranza, di libertà. A tutto questo dobbiamo rispondere non solo a parole ma assumendo le responsabilità che ci assegna la Costituzione. La prima è la responsabilità della memoria. Dobbiamo conoscere e far conoscere da cosa nascono quelle pagine di storia e di vita: le lotte, l’impegno e i sacrifici che le hanno generate, la riflessione che ne ha accompagnato la scrittura, le speranze che ne hanno salutato l’approvazione. Seconda responsabilità è quella della conoscenza. La democrazia vive di coscienze inquiete, di persone che amano la giustizia e ricercano la verità. Terza responsabilità è quella dell’impegno. La Costituzione non ammette una cittadinanza formale o intermittente, non prevede che ci occupiamo della «cosa pubblica» solo in determinate circostanze, come le tornate elettorali.

Ci chiede di essere cittadini a tempo pieno, partecipi, attenti, informati. Pronti a denunciare le ingiustizie, ma pronti anche a rimboccarci le maniche, a contribuire al cambiamento che desideriamo. La Costituzione – scritta settant’anni fa per rispondere al fascismo, al razzismo, alla guerra – ci interpella. Non è solo una carta, né solo la legge fondamentale dello Stato, è un progetto di cui noi dobbiamo essere gli esecutori. Chi ha scritto la Costituzione – e chi si è sacrificato per farla nascere – ce l’ha consegnata non come una rendita, ma come «un patto di amicizia e fraternità» di cui ciascuno di noi deve essere «custode severo e disciplinato realizzatore» per usare le parole di Umberto Terracini. Ecco allora che ricordare non basta: occorre un cambiamento etico, una rivoluzione delle coscienze. Occorre l’impegno di tutti, autentico, quotidiano. Per Giovanni Dossetti, uno dei padri costituenti, quest’impegno era condizione imprescindibile: «L’unica possibilità e la condizione pregiudiziale di una ricostruzione» scrisse nel 1945 «stanno proprio in questo: che una buona volta le persone coscienti ed oneste si persuadano che non è conforme al vantaggio proprio restare assenti dalla vita politica e lasciare quindi libero campo alle rovinose esperienze dei disonesti e degli avventurieri». Quanti disonesti, corrotti e avventurieri abbiamo conosciuto, fuori e dentro la politica! Quando si parla di cultura è di questo che parliamo. Cultura non è solo acquisizione di sapere, competenza tecnica, formazione professionale. Cultura è innanzitutto apertura di menti e di cuori, è lavoro di intelligenze e intreccio di passioni. Non c’è cultura senza libertà.

3 Democrazia e bene comune Politica, Chiesa, Eresia di Luigi Ciotti Oggi chi è l’elettore? La democrazia sta procedendo a sondaggi, alcuni pilotati, senza alcuna idea e disegno, lasciando che sia il consenso di volta in volta a decidere la direzione. Questa è la morte della politica, il via libera ai veri spacciatori di illusioni, quelli esperti di slogan e semplificazione. In queste fessure si insinuano mafie, corruzione, furberie, illegalità. I social network sono strumenti formidabili di consenso e dunque di potere, strumenti su cui si sono lanciati i politici più scaltri con l’intenzione di creare un rapporto diretto, disinvolto e fintamente paritario con l’elettore, ma gli elettori con questa metodologia e con questo uso di quello strumento vengono ridotti al rango di seguaci, di fan e tifosi. Dobbiamo stare attenti a questa modalità che va a scavalcare i tempi e modi della democrazia. Per parlare di città dobbiamo prima interrogarci sul senso attuale dell’essere cittadini, sul senso dell’abitare le città senza perdere il legame umano e sociale che fonda una comunità. In un’epoca in cui la dimensione comunitaria è ridotta (ma non soffocata) il legame tra i cittadini dovrebbe manifestarsi nella corresponsabilità, nell’impegno per il bene comune. Non tutti, però, ne sono coscienti. Viviamo una crisi di corresponsabilità. Il noi si è sfilacciato, è diventato a volte un artificio retorico, una maschera di potere e di interessi privati. La corruzione, il furto di bene comune, la privatizzazione degli spazi pubblici, hanno profondamente inciso sull’anima delle città, che oggi è un’anima ferita, smarrita, disorientata. La cultura dell’individualismo – le relazioni solo esclusive e opportunistiche – è la prima responsabile di una crisi che è economica negli effetti, ma etica e culturale nelle cause. E la politica? Essa nasce per governare le città, per garantire la giustizia sociale e la pacifica convivenza. Nasce cioè dall’etica. Politica è etica della comunità, servizio per il bene comune. Da tempo, però, assistiamo a un divorzio tra politica ed etica. La politica non serve il bene comune, ma le logiche dell’economia finanziaria. Si è snaturata, ha tradito la sua essenza. Nell’enciclica Laudato si’, papa Francesco denuncia questo tradimento: «La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti

possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica». Gli effetti del divorzio si vedono a livello globale: crescita delle disuguaglianze, aumento della povertà e della disoccupazione. Ma si vedono anche a livello nazionale, locale e cittadino. In molte città è precipitata la qualità dei servizi, si sono formate nuove sacche di povertà ed emarginazione. Si sta delineando un mondo a doppia corsia. Da una parte quello dei privilegiati, dall’altra quello dei poveri, degli immigrati, dei profughi. Una spietata logica selettiva che richiama quella descritta da Primo Levi nei Sommersi e i salvati. Inoltre, i beni comuni non possono obbedire alla logica del «mercato». La salute, l’istruzione, la casa, il lavoro sono l’ossatura di una comunità, la sua fonte di vita. Questi beni sono vita, e la vita non è una merce in vendita. L’economia senza etica finisce per divorare se stessa. Anche noi siamo implicati in questo furto di speranza. Non basta puntare il dito perché la politica è anche il frutto delle nostre scelte, lo specchio dei nostri atteggiamenti. Non basta nemmeno la solidarietà, la quale rischia di diventare complice se interviene senza denunciare le cause politiche della povertà, la quale non è mai una fatalità. Quale speranza in questo contesto? La speranza parte dalle periferie. È l’orizzonte indicato da Francesco sin dal primo giorno di pontificato. Le periferie geografiche ma anche esistenziali. Il papa ci dice che non solo la Chiesa, la comunità cristiana, ma tutto il mondo laico costruisce il futuro uscendo dai confini, dalle certezze, dagli egoismi, facendosi viandante di speranza per le persone escluse, respinte, emarginate, umiliate. E saranno i poveri a fornirci le coordinate del nostro futuro. Saranno loro l’anima di nuove e autentiche «Città del noi», il noi che implica il bene comune. Essere poveri è duro, vuol dire non avere sempre tutto il necessario. E questo non è giusto, perché i beni della terra sono per tutti. Essere poveri significa guadagnarsi l’essenziale a vivere con tanta fatica e a volte con sacrificio. E questo non è giusto perché il lavoro deve nobilitare l’uomo, non schiacciarlo. Essere poveri significa vivere nella precarietà e nell’insicurezza. E neppure questo è giusto perché l’eccesso di precarietà ci pone in una condizione disumana. Essere poveri significa essere emarginati. E non è giusto perché ogni persona ha dignità e diritti come tutte le altre. E tutte possono fare qualcosa per garantire che questa dignità e questi diritti siano universali. Ma come nasce una vocazione al bene comune? Se guardo alla

mia esperienza non posso non pensare alla strada come a un terreno fertile, propizio. Strada intesa non solo come spazio urbano, geografico, ma come luogo d’incontro, di relazione con l’«altro», con l’«imprevisto», con il «diverso». Spesso con il «trascurato», con lo «scartato», con il «dimenticato». Il bene comune si costruisce a partire dai rapporti umani, dalla capacità di ascoltare, di accogliere le parole dell’altro, le sue speranze, le sue paure, i suoi bisogni. Dalla capacità di mettersi nei suoi panni. Il bene comune resta una nozione astratta se non parte dal bene concreto di chi ci è accanto. Se manca questa formazione di base, l’azione sociale e politica restano sterili, non producono bene comune, o peggio, lo distruggono o lo rubano. La crisi che stiamo attraversando ha la sua causa principale nella povertà di relazioni, nella perdita di legame sociale. In una società frantumata l’idea di bene comune viene soffocata sul nascere dagli egoismi e dagli individualismi. Per questo, per costruire bene comune sono necessarie professioni e competenze, ma da sole non bastano: ci vuole appunto la vocazione che, a sua volta, chiede responsabilità. Ma qual è, in questo contesto, il ruolo e la responsabilità del cristiano? Innanzitutto, un cristiano non può essere intollerante né soltanto tollerante: ci sono forme di tolleranza che possono sfociare nell’indifferenza, di cui forniscono una versione ipocrita e «presentabile»: tollero perché non mi riguarda, tollero perché non lede i miei interessi. Il cristiano deve sentire sulla propria pelle i bisogni degli ultimi, le loro speranze, le loro paure e ovviamente anche le loro gioie. Le enormi disuguaglianze del nostro tempo ci dicono che il nostro Paese non solo è malato: lo è gravemente. È malata la democrazia come forma di governo chiamata a garantire a tutte le persone una vita libera e dignitosa. Questa garanzia da tempo non esiste più: vale solo sulla carta, mentre nei fatti è continuamente smentita. Libertà, dignità, lavoro sono diventati – da diritti – privilegi, beni solo per chi se li può permettere. Di fronte alla crescita della sofferenza sociale non possiamo stare zitti ma soprattutto non possiamo stare inerti. Questa crisi, prima che economica, è una crisi dell’etica e della politica. Dell’etica, perché chiama in causa tanti egoismi, tanti menefreghismi, tante piccole e grandi corruzioni e illegalità. Della politica, perché nasce da una gestione del bene pubblico spesso condizionata da interessi privati se non

illeciti. Nessuno ha la ricetta in tasca. È innegabile, però, che la ricostruzione di speranza non può che ruotare attorno alla parola uguaglianza, come ci ricorda l’articolo 3 della Costituzione. La politica esca dai tatticismi e dalle spartizioni di potere, riduca le distanze sociali e si lasci guidare dai bisogni delle persone, a partire da quelle più in difficoltà: probabilmente quei terribili dati sulla povertà, sulla disoccupazione, sulla dispersione scolastica, cominceranno una timida, ma decisa, inversione di tendenza. In un contesto così desolato, così doloroso, la Chiesa e i cristiani sono chiamati a fare la loro parte, a guardare il Cielo senza dimenticarsi le responsabilità della Terra, a riconoscere nella figura di Cristo la condizione dei milioni di «poveri cristi» vittime di ingiustizie, lasciati senza lavoro, emarginati, respinti, perseguitati. Non c’è incompatibilità, anzi c’è totale convergenza fra la servitù al Signore e il servizio per il bene comune. Il comandamento «non uccidere» non riguarda più solo gli atti di violenza diretta contro il nostro prossimo, ma anche forme di violenza indiretta, di umiliazione, di riduzione delle persone a merce, a cose, infine a rifiuti. Non è un caso che papa Francesco abbia parlato di un «sistema ingiusto alla radice», di una «economia che uccide». Un sistema – bisogna aggiungere – che ha permesso nel nostro Paese (ma non solo) l’espansione delle mafie e il dilagare della corruzione. La violenza cambia nella forma, ma non nella sostanza e negli effetti. Ai «morti vivi» delle mafie, fanno eco i «morti vivi» dell’economia. Il Vangelo oggi parla in tante realtà di base, nel loro impegno, nelle loro positive inquietudini, ma parla anche in modo netto nella voce più alta della Chiesa. C’è chi ha usato, a proposito di questo papato, parole come «svolta», «rinnovamento», persino «rivoluzione», ma credo che quella impressa da papa Francesco sia piuttosto una radicale conversione, un ritorno al Vangelo, alla sua essenzialità spirituale, alla sua intransigenza etica, al suo intrinseco significato politico. Per questo tanti laici vedono in questo papa e in questa Chiesa un inedito punto di riferimento, lo strumento che più efficacemente di altri può ristabilire il valore della dignità umana, e promuovere la più urgente delle riforme: quella delle coscienze. Mi sia ora concesso un paragone, che non credo forzato, tra le speranze

suscitate dal Concilio Vaticano II e quelle accese dalla nostra Costituzione. Entrambi disegni realizzati solo in minima parte, «carte» che non si sono fatte «carne», cultura, vita. Sta a ciascuno di noi – in questo tempo di poca speranza e di pochi diritti – il compito di scrivere quei propositi e orientamenti nelle coscienze, nelle scelte e nei comportamenti quotidiani. Gesù Cristo è un eretico. Viene crocifisso perché smaschera la violenza e l’ipocrisia del potere che schiaccia la dignità e la libertà delle persone. Oggi queste dignità e libertà continuano a essere calpestate, dunque c’è un grande bisogno di eresia di cui per prima la Chiesa deve farsi portatrice. La libertà di pensiero rischia di essere una cosa astratta se le persone non sono libere anche su altri piani, altrettanto essenziali. Oggi eresia vuol dire mettere la propria libertà al servizio degli altri, impegnare la propria libertà per liberare chi ancora libero non è. Vuol dire non accontentarsi dei saperi di seconda mano, mettersi in gioco, ribellarsi al sonno delle coscienze, non rassegnarsi alle ingiustizie, non credere che la povertà sia una fatalità. Vuol dire non cedere alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza, le malattie spirituali della nostra epoca. Tra chi crede e chi no, il dialogo è sempre più urgente perché l’impegno per la giustizia, per i diritti, per la dignità non può che essere un impegno comune al di là dei riferimenti culturali e spirituali. Ma anche urgente perché è arrivato il tempo di andare oltre certi steccati, certe categorie. Il cardinale Martini ha citato una volta queste parole di Norberto Bobbio: «La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa». Il problema non è allora distinguere (e magari alzare steccati) tra credenti e non-credenti, tra fede e ragione, ma promuovere la libertà e la responsabilità. Se vengono trasformate in certezze granitiche, se non si lasciano toccare dal dubbio, dallo stupore, dalla complessità e dal mistero della vita, fede e ragione possono diventare ostacoli alla ricerca di verità.

4 Identità democratica Ideale, Potenza, Europa di Vittorio Alberti Abbiamo appena letto la parola chiave dell’identità, anche nel campo politico: ricerca. Se io cerco, credo di poter trovare. Ma perché inizio a cercare? Cosa mi motiva, al di là dell’interesse? L’ideale, cioè credere di poter cambiare le cose. Da diverso tempo questo motore ideale si è dissolto perché non si crede a un fine, a un orizzonte che dà senso. Fino alla caduta del Muro di Berlino c’erano le ideologie e il mondo era ordinato in due sistemi contrapposti fondati su filosofie contrapposte. Poi questa situazione è franata nel momento in cui iniziava a imporsi anche un altro evento storico, la formidabile rivoluzione tecnologica. La caduta del Muro e la rivoluzione tecnologica sono i due avvenimenti che hanno cambiato il mondo nella storia recente. In seguito, l’11 settembre e la crisi del capitalismo finanziario iniziata nel 2008 hanno offerto ulteriori elementi di comprensione per ripensare la nostra posizione storica generale. A partire dalla caduta del Muro e dalla rivoluzione tecnologica, la politica ha perso l’ideologia, ma purtroppo anche gli ideali. Ora non si farà un’analisi descrittiva del fenomeno, ma si proporrà una via per rigenerarli. Questo libro è indirizzato a questo, a offrire un progetto educativo e uno sfondo per promuovere un’identità politica democratica che abbia l’umanesimo come ispirazione e motivazione. Abbiamo detto che la crisi attuale è anche crisi dell’idea di progresso, cioè non si crede più che il futuro sia migliore del passato e del presente. Quindi, se il futuro non promette, cioè non è percepito come il luogo del miglioramento, perché impegnarmi oggi? Piuttosto, mi muoverò solo nel presente cercando di stare bene quanto possibile, ma senza farmi illusioni sul futuro. Questa è la nostra storia degli ultimi decenni, e di qui il fulminante 52º rapporto del Censis: italiani incattiviti e senza sogni. Come uscirne? Due cose: l’ideale si anima (o ri-anima) conoscendo le cose. Se io conosco, sono informato dei problemi e posso rigenerare in me il senso della giustizia per pensare alla loro soluzione. Ma per fare questo ho bisogno di credere che il futuro, grazie alla mia azione, possa essere migliore

del presente. Voglio, insomma, un ideale. Il nuovo umanesimo del quale stiamo parlando e sul quale alla fine faremo una proposta operativa è qui: 1) attraverso l’istruzione e l’educazione conoscere la nostra identità; 2) sulla base di questa conoscenza, muoversi in modo coerente con le nostre migliori radici, secondo il nostro passo più autentico; 3) la conoscenza genera l’impegno – sia pure per interesse – per costruire, cambiare, migliorare; 4) per compiere questo salto intellettuale e morale, al centro dell’apprendimento dell’identità poniamo la nostra estetica. I cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci – maggio 2019 – vanno messi in questa prospettiva: non anniversario formale o dovere imposto, ma «uso» umanistico di Leonardo. Cosa significa umanistico? Portare al presente questo portentoso classico riconoscendolo nella mia vita. L’umanesimo cos’è, al nocciolo? Portare a me il classico per costruire, sulla base di esso, un nuovo classico che superi ma non neghi il primo. Leonardo come immagine di ricerca: tradotto per me significa vedere le sue opere come un sublime e tormentato tentativo di trovare qualcosa. In breve: riconoscere me, le mie angosce e i miei entusiasmi, nelle sue opere. Ma come vederli raffigurati in esse? Istruendomi su Leonardo, non per dovere, ma per attrazione, perché i classici affascinano e ci aiutano a dare un nome a ciò che proviamo, ci rendono liberi da condizionamenti ideologici, di marketing, di gruppi e di poteri, ci suggeriscono soluzioni, anche per rigenerare l’agire politico. E l’elaborazione culturale ha un dovere sociale e politico, perché oggi occorre un nuovo discorso alla città. Come ridare, dunque, ideale all’Europa oggi che le istituzioni comunitarie sono da riformare e che l’idea di pace, prosperità, democrazia nata faticosamente dalle ceneri della Seconda guerra mondiale (e dopo millecinquecento anni di massacri) è gravemente minacciata? Quella grande idea va estratta dalla polvere rendendola viva e operante: ecco la ragione profonda e drammatica della cultura, che rende questa una cosa bella, non un dover fare. Anche senza l’esperienza della guerra, i giovani, abbiamo detto, sono europeisti nei fatti. Lo sono anche nell’Inghilterra della Brexit, e se il Regno Unito è uscito dall’Unione non è pensabile un’Europa senza Regno Unito. La cultura dice questo. Federico Chabod scrive che la fede in alcuni valori supremi, morali e spirituali, è la civiltà europea. Essa supera i confini degli Stati, ma oggi non basta essere europeisti. Ecco perché proponiamo di ripartire

dall’apprendimento della nostra identità, della quale si sta dando una visione falsa per andare contro l’unione continentale, una visione fatta di paura e muri figlia dell’altra idea, quella dell’omologazione imposta dal neoliberismo globale. L’unica carta da giocare contro queste due istanze è anche la più bella che abbiamo ed è l’umanesimo, un nuovo umanesimo che ricrei il sentimento e la conoscenza europei, orientando le differenze verso un fine per ricostruire, sulla base di questo e sospinti da tale ideale, la struttura istituzionale dell’Unione Europea centrandola sulla persona e quindi sul primato democratico di giustizia e libertà. Questo significa ricordare la promessa dei fondatori, De Gasperi, Schuman, Adenauer, Spinelli e altri, non per farne celebrazioni doverose, ma protocollari e polverose, ma per farli vivere come classici, come Leonardo, Michelangelo, il romanico, Goethe, Dante, Cervantes, Mozart… L’Europa è democrazia, diritti e doveri di giustizia e libertà, del lavoro e dell’impresa. Possiamo essere questo nel mondo, essere potenza su e per questo. Se invece ripetiamo le formule ormai inefficaci dell’europeismo tout court saremo travolti dai fautori del «padroni a casa nostra», che padroni lo saranno sempre meno, perché se il sovranismo reagisce alla pressione sovranazionale della finanza contrapponendo a essa il nazionalismo, cioè il primato esclusivo del singolo Stato, non opera nell’interesse della comunità nazionale poiché, disgregando l’Europa, consegna tale Stato agli interessi finanziari sovranazionali. Il risultato sarà una spietata guerra commerciale tra i nostri staterelli per attrarre investimenti, a detrimento della democrazia. L’Unione, per non deflagrare, va riformata valorizzando le sue molteplici specificità, senza ridurle a uno. In altre parole, che le leggi siano uguali per tutti, ma le normative devono tenere conto delle peculiarità. Uguaglianza non significa spianare le diversità. Pensiamo per esempio a certe normative sui prodotti agricoli che mortificano grandi tradizioni. Il difficile equilibrio è tutto qui: nella possibilità di fare unità nella diversità, perché se si valorizzano tutte le diversità migliori, secondo un’articolazione unitaria, l’Unione avrà un futuro di sviluppo vero, di democrazia e di pace. Ma con l’Unione è necessario riformare anche i partiti: vanno organizzati su scala continentale, resi democratici attraverso la dialettica e il voto interno e definiti a partire da un’identità culturale che sia in grado di motivarne e guidarne in modo coerente l’elaborazione di programmi. Cosa significa oggi essere socialisti, popolari, liberali? Oggi queste identità culturali sono solo formali. Vanno quindi aggiornate (elaborazione culturale) per poi motivare

l’agire politico. Occorre, inoltre, una nuova idea di formazione per il personale politico. Si formi nei luoghi di lavoro, nelle carceri, negli ospedali, nelle scuole di centro e periferia, nelle università, nei commissariati, per capire bene la società, e studi, pratichi lo studio e la capacità organizzativa senza inseguire, ma ambendo a guidare, ideando e presentando la visione da realizzare. L’impoverimento del ceto medio colpisce la democrazia e favorisce i demagoghi. Il sovranismo è reazione rabbiosa all’omologazione neoliberista. Non si può quindi criticare il sovranismo populista senza criticare il neoliberismo, ammettendo che il liberalismo deve rigenerarsi. Oggi c’è una storica crisi dell’idea di Stato e di democrazia: è in crisi il patto fondativo tra società e autorità politica liberal-democratica. In questo contesto, il sovranismo impiega il populismo, il quale, in se stesso, è antidemocratico. Ripartiamo dal principio e chiediamoci: è legittima l’Unione Europea? Sì, ma perché? Ripartiamo dalle basi, dalle motivazioni originarie. E di qui rinnovare la legittimità dell’Unione intorno a un fine vero per il tempo attuale. Perché nasce uno Stato? Esiste ancora il patto tra persone e poteri pubblici sui cui si fonda lo Stato, secondo la nostra storia? Se oggi, come dice giustamente Jürgen Habermas, non cambia la «facciata» dello Stato di diritto, sotto di esso crescerà l’onda populista-autoritaria. Quindi franeremo tutti. Ecco cosa intendevo all’inizio quando, parlando delle idee attualmente messe in campo dai progressisti, le definivo inefficaci e vecchie. Ed ecco il perché di questo libro, che vuole impostare una risposta al problema. Sarà democratico il nostro futuro? In politica è necessario un fine, non una narrazione, in base al quale orientarsi per la futura Europa al di sopra degli interessi economici. Un pensiero che motivi la decisione, soprattutto nei giovani, che da diversi decenni di politica non ne vogliono sapere. Una vera democrazia rappresentativa è accogliente non per ragioni moralistiche, ma perché essa è forte tanto più la sua parola, il suo pensiero, la sua ragione, sono dialoganti in sé, sono dia-logo con l’altro-da-sé, cioè non ergono ristretti recinti mentali. È ambiziosa, ecco perché non li erige, fermo restando che il dialogo non è un’avventura semplice o impastata di «buonismo». Certo che occorre una sovranità, ma occorre una nuova idea di Stato dei cittadini, un potere vero dei cittadini, che rafforzi l’Unione come istituto

democratico, cioè una sovranità più rappresentativa e articolata, ben strutturata sulla divisione dei poteri, nella quale convivano diverse identità e idee intorno a un orizzonte che slanci in avanti, che dia senso. Non solo, quindi, intorno a normative o economia. Ecco il nuovo umanesimo europeo, che imprime forza anche a leggi, normative ed economia. Nessuna delle istituzioni oggi esistenti risponde alle necessità, agli interessi, alle proiezioni della nostra epoca. La crisi è tra società civile e Stato, cioè la società non vede più lo Stato come l’agente dello sviluppo, perché le questioni economiche, finanziarie, tecniche, scientifiche, sociali, culturali non possono più essere governate solo all’interno del singolo Stato. Questo non significa certo abbattere il singolo Stato, ma occorre articolarlo bene con gli altri in modo da rendere questo poliedro (Unione fra diversi) l’agente dell’accordo tra società e potere civile secondo le storiche necessità attuali. Se finisce la ricerca del sapere, cioè lo sviluppo del sapere (cfr. agente dello sviluppo), lo spirito europeo muore. Se finisce la fame del leone, il vero spirito europeo, che è Odissea, pellegrinaggio, ricerca e scoperta, si spegne. La radice dell’Europa è la conquista del sapere. L’urbs, la città, è orbis, mondo, ed è sapere per fare, per realizzare. Occorre dunque un nuovo patto per rifondare lo Stato, perché la forma attuale del singolo Stato europeo non basta più a governare i processi globali. Dove regge ancora lo Stato tradizionale? Nei grandi spazi come la Cina, la Russia eccetera, ma in questi imperi, quale forza hanno le conquiste civili e umane del cittadino che concepiamo in Europa e che oggi rischiano di franare riportandoci a un passato che volevamo morto e sepolto? Lo sviluppo del sapere, che secondo Francis Bacon fonda la legittimità dello Stato moderno, non si fa più entro i confini dello Stato nazionale. Esso è tipico della storia europea, come la scienza e la filosofia, ma oggi possiamo reagire mettendo al centro l’identità in ricerca, autentico spirito europeo, per governare le questioni entro un grande spazio che a un tempo non livelli le singolarità, per non essere divorati e per non divorarci come nel passato. Questo grande spazio è l’Europa unita. Il nostro Machiavelli voleva unire l’Italia perché assisteva alla formazione dei grandi Stati europei, contro i quali un’Italia divisa in piccoli ancorché potenti Stati, com’era all’epoca, non poteva competere. Aveva ragione. Infatti, il nostro declino è partito da lì, proprio perché non ci siamo uniti allora. Ebbene, oggi l’Europa può riprendere la lezione del classico

Machiavelli. Se i singoli piccoli Stati europei non si uniscono in nome di un grande fine, i grandi Stati extraeuropei ci divoreranno. Il fiorentino Machiavelli parla anche all’Europa di oggi. Ecco la nostra cultura in Europa, ecco il nuovo umanesimo europeo. Il sovranismo è un colossale abbaglio. Alla fine del Quattrocento, con la formidabile scoperta dell’America vi fu la prima mondializzazione, e noi italiani siamo andati a picco. Ora possiamo andare a picco tutti noi europei se non riacquisiamo un nostro ideale. Uno dei compiti del XXI secolo, dice Jacques Le Goff, sarà ricercare ciò che nelle religioni, nelle culture, nei sistemi ideali c’è di universale, ma non nel senso “ottimistico” della globalizzazione neoliberista, ma nel senso di rintracciare lo specifico dentro la casa dell’universale, affinché questo specifico esalti l’universale e non ne sia schiacciato. Universale, quindi, nel senso delle cose in sé: ecco l’autenticità, l’identità. Inoltre, è necessario capire la diversità dei passati: per esempio, quando parliamo di «laboratorio europeo» non possiamo interpretare allo stesso modo il presente di Francia o Italia, e quello di Polonia e Ungheria. Tutte queste nazioni vivono tempi differenti, storie diverse, cioè passati diversi, quindi non vanno giudicate tutte allo stesso modo come se il mondo vivesse un’unica dimensione del presente. Cosa fare, allora? In questo contesto, chi deve conciliare il più possibile questi diversi tempi e passati? La cultura e la politica, che Platone definì l’arte del possibile rapporto fra gli uomini. Ecco, l’Europa del nuovo umanesimo potrà essere questo e, su questo, affermare il suo primato nel mondo.

5 Nuova laicità Integrazione, Pensiero, Rinnovamento di Vittorio Alberti Immanuel Kant parla di diritto, non di filantropia, e nel 1795 scrive che ogni uomo ha «diritto comune al possesso della superficie della terra sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere». Domanda: noi abbiamo una filosofia dell’integrazione in grado di generare una politica continentale? O forse pensiamo che un fenomeno storico come il grande movimento dei popoli si possa affrontare con singoli atti d’emergenza o anche non di emergenza ma slegati fra loro, sia nel senso del respingimento che nel senso dell’accoglienza? Tali questioni rivelano che il nostro è un cambiamento epocale e interrogano la ragione profonda dell’Europa, dunque interpellano la sua identità: che cos’è l’Europa. E la politica, se vuole essere il vero luogo della decisione (si parla tanto di primato della politica), non può che rifarsi a un’elaborazione culturale, cioè avere alle spalle un pensiero che si nutra di ideali, non ideologismi. Nella nostra storia, la prima qualità europea è stata la ricerca, lo abbiamo detto, come curiosità, come approssimarsi, come scienza, come conquista. Ma un secondo tratto tipico è sempre stato un senso di superiorità per il quale l’altro veniva prevalentemente misurato in rapporto subalterno rispetto ai nostri princìpi. Se, per esempio, in un Paese non europeo si rispettano i diritti umani, civili, sociali come sono concepiti da noi, quel Paese è buono, altrimenti è cattivo. Questo è comprensibile e anche giusto, perché noi siamo arrivati a tale evoluzione passando attraverso il sangue. Comprensibile e giusto, a patto però che questa impostazione non determini uno scontro di civiltà, ma piuttosto una maggiore indagine, una maggiore dialettica, un maggiore impegno intellettuale. In base a quel senso di superiorità, si parla piuttosto di tolleranza. Se io ti tollero, ti sopporto, quindi per così dire mi colloco sopra di te, e lo stare sopra è il significato originario della super-stizione, con la quale si sta sopra le cose, ma senza conoscerle: piuttosto ci si crede sulla base degli umori. Sto dicendo che la politica deve tornare a misurarsi con il pensiero, non

può solo inseguire slogan manichei, buoni solo a compattare forze in un momento che fugge, salvo ricadere poco dopo nel problema. In breve, la nostra identità è sì in ricerca, quindi mai diluita o recintata, ma è eurocentrica, e questo si può capire dal fatto che la nostra sete di conquista e conoscenza ha fatto sì che la lingua della globalizzazione fosse la lingua europea: il capitalismo, il comunismo, la democrazia cosa sono se non prodotti europei? E così anche le scoperte, la scienza, la filosofia, cosa sono se non prodotti dello spirito europeo? Ora però abbiamo la possibilità di compiere un progresso. Fare, sì, dell’Europa il modello mondiale dei diritti di libertà e giustizia, come abbiamo detto, e in virtù di questo il luogo dell’identità in espansione, non recintata. Ma ora possiamo farne una potenza culturale che non pretenda di dire che solo ciò che essa produce è il meglio che ci sia al mondo, cioè una forza che entri in dialettica con le altre culture senza preventivamente guardarle dall’alto in basso (anche quando se ne è affascinati), e senza, per questo, cedere su questioni fondamentali alle quali ci ha portato la nostra evoluzione storica, in primo luogo i diritti umani. Ma tale mancanza di cedimento non significa troncare la discussione, bensì conoscere, superare pregiudizi e presentare argomenti. Ripeto: il dialogo è fatica della contrapposizione. L’umanesimo fu conflitto. Noi oggi ne abbiamo una visione stereotipata, da cartolina, ma fu un bagno di sangue, dal quale però nacquero grandi opere. Fu periodo di profonda crisi, come lo è il nostro, ma allora si rispose alla crisi con la potenza del pensiero, mentre ora si risponde con la mediocrità. Quella che oggi possiamo costruire, attraverso il nuovo umanesimo, è un’Europa che sia ponte tra passato e futuro, che stabilisca il confronto e la dialettica delle idee, ma senza il massacro, bensì con il riconoscimento reciproco, che non è sentimentalismo, ma la condizione per rendere quel contrasto il motore per costruire la qualità. Il riconoscimento fra opposti oggi manca perché da un lato si è chiusi in un io fatto di esteriorità, nel quale non ci sono parole per descrivere l’interiorità, e dall’altro si rincorre la sola quantità di consenso, non solo in politica, cosa che di fatto porta a squalificare ciò che si dice e ciò che si fa, perché più si svuota l’espressione più si raggiunge la comprensione dei tanti. Il populismo del quale oggi si parla in politica non è populismo, che fu un atteggiamento politico ben circoscritto nella storia, ma demagogia pura. Se l’Europa si fa dia-logo in ricerca, potrà anche scoprire quante frecce ha

nella sua faretra, cioè potrà passare in rassegna i suoi princìpi per rafforzarli, discutendoli e guardandoli da più angolazioni. L’omologazione ci ha fatto dimenticare anche questo. Il pensiero e il sentimento unico (che poi non sono né pensiero né sentimento) ci hanno fatto dimenticare le nostre specificità, a partire dal linguaggio del pensiero, che viene prima di quello della parola. Oggi, oltre al destino dell’Europa, è in gioco quello dell’Occidente, la «terra del tramonto», dal latino occasus. Per non tramontare definitivamente possiamo trasformarci senza tradirci: dialogare sul serio, quindi dibattendo con le altre visioni, consapevoli che al nostro interno non ce n’è una sola, anzi: l’identità in ricerca è tale perché poliedrica, inquieta, ed ecco perché l’omologazione, la corruzione culturale, è micidiale, perché rende tutto basso e dozzinale. Ecco la strada per diventare una potenza culturale mondiale che parli (anche aspramente) con tutte le visioni. Ecco l’opportunità in cui credere, con la consapevolezza che l’altro-da-me non è semplice da affrontare, è o può essere un pro-blema – parola greca che significa «qualcosa che ti si lancia addosso». Può essere qualcuno da temere: per questo lo devo conoscere, e io sarò autenticamente e potentemente europeo se saprò trovare la strada per comunicare con lui. Perché? Perché ho bisogno di lui, per capirmi e sopravvivere in modo coerente con la mia identità di europeo, la quale non è una morta gora circondata da un muro. Oggi possiamo muoverci al nostro passo, cioè al passo che viene dal presente che siamo in virtù del nostro autentico passato. E se la nostra storia dice che in cima a tutto ci sono i diritti umani, dialogare con l’altra cultura non significa arretrare su questo, ma entrarvi in dialettica. Tradotto in politica, significa non consentire per legge, per esempio, l’infibulazione, e al tempo stesso significa concepire un’integrazione vera, che passi cioè attraverso l’informazione, l’eliminazione dei pregiudizi, il confronto acceso, concreto e sociale. Per farlo è fondamentale il dibattito e l’azione sociale della cultura in modo che sia essa, nelle sue divergenze tormentose, a informare poi l’azione politica. Ecco perché per tutto questo sono fondamentali la scuola, l’università e il lavoro. Perché poi le idee della cultura si incarnano nei sentimenti, nell’esistenza reale delle persone, e scuola, università e lavoro non sono luoghi di formazione meccanica, ma dell’educazione complessiva della persona. Ma per compiere tale grande passo dobbiamo gettarci alle spalle le vecchie categorie che ancora ci ingabbiano impedendoci di leggere il mondo

attuale. Sto parlando di una vecchia idea di laicità, intesa ancora come scontro tra libero pensiero e «inquisizione», perché le migrazioni, l’integrazione, la convivenza, la xenofobia, chiamano in ballo l’idea di laicità. La parola laico viene dal greco laòs che significa «popolo», quindi laico vuol dire «di popolo». Di passaggio, chiedo: il popolo esiste? Il popolo al quale ci riferiamo quando parliamo della democrazia ateniese è quello che intendiamo noi? No, il dèmos greco, fondato sul sangue e sulla terra, è altra cosa rispetto al populus romano, fondato sull’obbedienza alle leggi, anche se si nasceva ai confini dell’impero. Oggi il popolo esiste come sfera pubblica. Esistono le singole persone più del popolo, e queste vanno intese come soggetti responsabili, altrimenti si dà nutrimento ai demagoghi che, dall’antichità a oggi, continuano ad affermare che il popolo è santo mentre i dirigenti sono corrotti. Inoltre, un’altra cosa fondamentale: cerchiamo di abbandonare la parola massa, è offensiva e spersonalizzante, e in nome di essa si sono commessi crimini efferati. Massa felice di individui infelici, scrive Leopardi. Popolo è termine nobile se significa riunire le persone intorno a ciò che esse sono come esseri umani: un esempio fra tutti, la prima parte della nostra Costituzione. Ma torniamo al concetto sfuggente e difficile di laicità. Il laico, fin dal Medioevo, era un non ecclesiastico. Il suo era uno stato giuridico, non una posizione culturale o politica. Poi con i secoli la parola ha assunto ulteriori significati riguardanti il rapporto tra fede e ragione, ma in particolare tra fede e politica, e tra Chiesa e Stato. In questa materia siamo ancora carichi di pregiudizi ideologici che contrappongono in modo netto laico con religioso e credente con non credente. Ma la storia attuale esige un rinnovamento che parta da un riposizionamento delle categorie di fede e ragione, nel quale le ragioni della fede vedano in quelle della sola ragione non un’istanza incompleta o materialista, e quelle della sola ragione riconoscano in quelle della fede una dignità nella ricerca della verità. Mi sto riferendo all’inconsistenza culturale delle definizioni rigide, che sono tali in virtù di motivazioni storico-politiche che non esistono più. Una domanda: chi crede senza considerare il non credere? E chi non crede senza considerare il credere? Se si ricerca la verità muovendosi da filosofi, vanno considerate, nella ricerca, le due possibilità senza pregiudizi, anche per rafforzare la propria idea di partenza. Una nuova idea di laicità potrebbe

avere questa definizione: nella ricerca della verità non scarto nessuna pista fra quelle in campo, perché in ogni cosa, anche la più impensabile, si può rintracciare un segno, sono le difficoltà e le scoperte della vita a dircelo. Capiamo ora quanto questo terreno sia complicato e quanto abbia potentemente a che vedere con la libertà del pensiero, intesa proprio come apertura mentale che combatte il pregiudizio. Ebbene, oggi abbiamo la possibilità storica di tornare a ragionare di queste cose in modo più libero, più sciolto, senza gli steccati provenienti da un passato di oppressioni e pregiudizi oppositivi. Il movimento dei popoli sollecita una nuova idea di laicità: richiede, insomma, un’evoluzione di mentalità nella concezione del rapporto tra politica, cultura e religione. Perché, prima di tutto? Perché siamo sempre più in contatto con visioni dove il rapporto fra religione e cultura e tra religione e politica non è come da noi, e per affrontare bene queste posizioni (siamo in grande ritardo) e quindi concepire in modo profondo l’integrazione, dobbiamo partire noi stessi da qui, proprio per capire chi siamo e a che punto siamo, fermo restando che anche noi, al nostro interno, abbiamo cento distinzioni su questi argomenti. Per esempio, la laicità anglosassone vede la religione come fattore di libertà, mentre quella di matrice francese la vede come negatrice del libero pensiero. Le cause sono storiche e vanno conosciute, anche perché il modello multiculturale anglosassone e il modello di integrazione alla francese sono falliti entrambi: si sono formati ghetti, incomunicabilità, paura e addirittura sono venuti fuori i foreign fighters, che sono tali proprio a causa di un problema di identità. E ora un po’ di punti per chiarire: 1) con il tramonto delle ideologie, la politica ha perso motivazione e orizzonte ideale, ma oggi possiamo dare identità culturali alla politica (e ai partiti) senza la zavorra dell’ideologismo del passato, perché possiamo ripartire dall’essere umano così com’è, senza ingabbiarlo in un sistema ideologico chiuso; 2) sta cambiando il ruolo della religione nella sfera privata e pubblica a causa delle crescenti spinte della società multietnica, multiculturale, multireligiosa, anche nelle sue forme più radicali o integraliste. Allo stesso tempo, la nostra società tende a riferire la religione solo alla sfera privata o al solo ambito della cultura. Apro una parentesi doverosa: quanto male hanno fatto i neocons e ora i sovranisti a vedere il cristianesimo come bandiera dell’Occidente? Hanno dato forza al terrorismo internazionale al quale faceva gioco l’idea scellerata dello scontro di civiltà e hanno reso il cristianesimo una cosa di viscere, buona a fare

guerre, peraltro inconcludenti sul piano politico. C’è continuità tra i neocons dell’era Bush e i sovranisti di oggi, e noi qui intendiamo contestare la loro impostazione. Chiudo la (lunga) parentesi, e vado al punto 3): la vita individuale e sociale è solcata da uno stato di sfiducia intrecciato all’individualismo. La cifra del nostro tempo è la corruzione culturale, perché siamo individualisti e l’individualismo è chiusura in se stessi: siamo chiusi e spezzati. Cosa significa, del resto, la parola corruzione? Dal latino cum-rompere, «rompere con», «rompere insieme», quindi scissione interiore che poi determina scissioni nella società. Mutando l’idea di politica e il ruolo della religione, con esse non può che mutare anche il loro rapporto, dunque tutte le direttrici racchiuse nella laicità: non più solo relazione tra Chiesa e Stato, ma evoluzione verso, per così dire, una dilatazione delle forme storico-culturali con le quali sinora la si è intesa. Non si tratta di imporre la cappa plumbea di un’istanza confessionale lesiva di ogni libertà, né di soffocare ogni espressione delle fedi, né tanto meno di rinunciare alle conquiste della civiltà e del diritto. Piuttosto, si tratta di fare un salto ulteriore: uscire addirittura dalla pur positiva strettoia del dialogo fra credenti e non credenti. Sto proponendo di superarlo sul piano filosofico. Con una nuova laicità non occorrerà organizzare incontri nei quali tutti saranno buoni e dialoganti, ma piuttosto si ricercherà insieme la verità, per vie ora distinte ora comuni, ma senza presentarsi all’incontro con la maglietta di una squadra A e una B. Piuttosto, tutti avranno magliette diverse e si sarà uniti dalla ricerca. Uno degli attori in campo è il cristianesimo, in particolare il cattolicesimo – dal, intorno o in opposizione al quale si è sviluppato prioritariamente nei secoli il concetto di laicità – e sicuramente quanto afferma papa Francesco rappresenta un’opportunità per gli scenari di laicità che offre sul piano intellettuale (a partire dall’idea di anticlericalismo). Del modo con il quale Francesco – sto parlando di cultura – sta infatti presentando la Chiesa cattolica, occorrerebbe approfittarne sul piano storico: i pensanti tra i non cristiani e i cristiani dovrebbero prendere la palla (storica) al balzo. Ma i cattolici cosa fanno? Incastrati per decenni nei valori non negoziabili, non sviluppano un pensiero laico innovativo che usi le potenzialità offerte da Francesco. L’Europa è stata fondata da cristiani democratici come Adenauer, De Gasperi, Schuman. Dov’è finita la loro lezione intellettuale antisovranista e antidemagogica? Lo ricordo perché uno dei rischi, anche autoritari, di dis-

integrazione per l’Europa si annida proprio in seno al cattolicesimo. Al tempo stesso, nel campo non cattolico, di origine liberale o socialista, quale idea di laicità si intende avere? Si è ancora fermi a una prospettiva per così dire giacobina o radicale o tardo-illuministica? Quella che, per capirci, in genere è detta «laicismo»? Si sono fatti bene i conti con la propria posizione nell’attuale situazione storica? Tutte queste idee e posizioni vanno misurate con il tempo presente e con gli effetti culturali, politici e di mentalità che determinano. Insomma, è ora di discutere e superare i ferri vecchi del Novecento. Dobbiamo scandagliare e iniziare a rideterminare tutto questo, sul piano filosofico e poi politico. Non è stato fatto, e il risultato è che in trent’anni – cioè da quando le migrazioni sono straordinarie – non abbiamo elaborato una cultura politica dell’integrazione. Personalmente respingo la distinzione netta tra credente e non credente e tra laico e religioso, e identifico la laicità con la filosofia. Non vedo scontro tra filosofia, scienza e religione nella ricerca della verità, perché nessuno possiede tutta intera la verità. Essa si ricerca e non è mai chiara nel suo insieme, e così la rincorrono la ragione come la fede, le quali, in questo senso, non possono essere statiche, chiare e distinte. Esse sono in indagine continua e hanno i loro strumenti. Inoltre, nella ricerca della verità, alla filosofia-scienza e alla fede c’è anche da aggiungere l’arte, della quale parleremo. Se il fine è la ricerca del vero lungo strade diverse, ora distinte ora intrecciate, ora sbagliate ora giuste, la struttura di queste facoltà e attività della persona è la stessa: è, insomma, procedere senza pregiudizi. E la nuova laicità non deve far altro che metterle tutte ai blocchi di partenza, lasciando naturalmente che si pongano anche in dialettica tra loro. Io ho studiato filosofia, quindi non premetto nulla alla ricerca. Un teologo forse farà diversamente e uno scienziato farà un’altra cosa ancora. Ma la questione centrale è che nessuno dei tre può partire con un pregiudizio ideologico sul proprio metodo. I risultati raggiunti in fatto di ricerca della verità hanno pari dignità, se sono ben argomentati o se sono sinceramente sentiti, per esempio nella mistica o nell’arte, o se si raffronta la filosofia con gli avvallamenti dell’esistenza. Oggi, per superare gli antichi steccati, i pregiudizi oppositivi e le mentalità ristrette espresse da formule che oppongono o distinguono con la scure esseri umani e idee, come laici e cattolici, o credenti e non credenti,

occorre traguardare l’infinita pianura della verità, come la chiama Platone. In essa c’è la piena libertà del pensiero, la quale oggi, essa stessa, corre un rischio letale a causa dell’omologazione imposta dall’impero delle mode e dal dominio della tecnica. Quello della nuova laicità non è un sapere dato una volta per tutte, fermo, statico, imperativo per autorità, ma un percorso dinamico e sempre aperto, ma non per questo debole o non rigoroso o confuso. Il discorso non è chiuso, non è completo, quindi continuiamo a ricercare, a ragionare, a dialogare, perché la verità si cerca nella relazione, e d’altronde abbiamo da combattere anche il pensiero calcolante oggi dominante, per il quale capiamo solo ciò che è utile. Altro che capire ciò che è vero, bello e buono! Anche contro questo abominio, dentro la cultura europea, quella italiana può addirittura aspirare ad acquisire il primato, come l’aveva durante l’umanesimo e il Rinascimento.

6 Migranti e muri Europa, Umanità, Giustizia di Luigi Ciotti I muri, i fili spinati, le frontiere fortificate non sono solo disumani, sono anche inutili. Il corso della storia non lo si può fermare ma lo si può certo governare, e governare, in questo caso, significa appunto cominciare a ridurre le disuguaglianze e le ingiustizie, gli squilibri sociali e climatici, facendo in modo che ogni persona, a ogni latitudine, possa vivere una vita libera e dignitosa: lavorare, abitare, aver garantite un’istruzione e un’assistenza sanitaria. Solo così la migrazione può essere contenuta in limiti fisiologici, smettere di essere un disperato esodo che nessun muro o legge potrà mai fermare. Per governare fenomeni globali occorrono risposte globali, con buona pace della retorica sovranista e delle sue allarmanti derive nazionaliste, fasciste e razziste. C’è chi afferma che questa risposta globale sia un’utopia dettata dal «buonismo». Ma allora era buonismo anche quello che ha ispirato la Dichiarazione universale dei diritti umani e la nostra Costituzione nel 1948 o la Convenzione di Ginevra sui rifugiati nel 1951: documenti che hanno inteso archiviare una stagione di barbarie e di oppressione inaugurandone una di libertà e di democrazia. Se questa è utopia, l’alternativa è la guerra, esito inevitabile – insegna la Storia – degli egoismi degli Stati-nazione. La criminalità organizzata da sempre lucra sull’assenza di un’offerta di beni e servizi legali da parte degli Stati. Così anche nel campo delle migrazioni: i gruppi criminali sopperiscono alla chiusura delle vie di accesso legale al territorio dell’Unione Europea con viaggi costosi e pericolosi per le persone costrette ad affrontarli in fuga da persecuzioni, guerre, cambiamenti climatici e povertà estrema. I governi e le organizzazioni internazionali si preoccupano di ostacolare un flusso di persone che sono i primi a provocare con politiche di sfruttamento e di conquista. L’immigrazione forzata degli ultimi trent’anni è frutto anche di un nuovo colonialismo. Di una politica di conquista e di un’economia che il papa ha definito «di rapina». Ci sono oggi milioni di persone condannate a vita dal proprio luogo di nascita. In Libia, ogni giorno, migliaia di individui diventano facile preda di bande criminali che ormai da anni sequestrano, torturano, stuprano e

uccidono coloro che non riescono a pagare onerosi riscatti. Tutto ciò con la complicità di pubblici poteri locali di dubbia o nulla legittimità che beneficiano dell’attenzione, spesso dell’appoggio, di quella stessa Unione Europea che pone la tutela della vita e della dignità di tutti gli uomini e di tutte le donne tra i suoi valori fondanti. Di fronte alla scala e alla gravità di questi reati, tanto più odiosi in quanto commessi a danno dei più deboli e per pura finalità di arricchimento, il numero dei casi portati davanti alla giustizia nei nostri 28 Paesi appare ancora sconsolatamente irrisorio. Pur conscia dei limiti all’esercizio dell’azione penale e degli ostacoli fattuali e giuridici alla raccolta delle prove, l’Unione Europea non può e non deve accettare passivamente il consumarsi di una tragedia così epocale, ma predisporre strumenti normativi e operativi per rendere più agevole individuare i colpevoli e perseguirli con determinazione. Nell’era dell’informazione globale è impossibile fingere di non sapere cosa succede al di là del Mediterraneo senza diventarne complici. Un’Unione Europea consapevole e responsabile dovrebbe dotarsi di un quadro giuridico e operativo per togliere alla criminalità il monopolio sulla gestione delle migrazioni e perseguire senza riguardi i responsabili di quest’ignobile tratta di esseri umani. Non è in questa direzione, però, che si sta muovendo l’Europa. L’immigrazione è anzi sempre più ridotta a un problema di sicurezza, ordine pubblico e difesa delle frontiere, tanto che la commissione preposta ha previsto per il periodo tra il 2021 e il 2027 un aumento del 2200% del Fondo europeo per la difesa (da 0,59 a 13 miliardi di euro!) con finanziamenti ad hoc per l’industria militare. In buona sostanza si continua a credere che l’erigere muri e il rimpinguare arsenali rappresentino la risposta a una tragedia che nasce dalla dissennatezza politica e dal cinismo economico dell’Occidente ricco e «progredito». E dire che il fallimento di questo modello politico-economico è sotto gli occhi di tutti: oggi oltre centoventi milioni di cittadini europei sono a rischio di povertà e decine di milioni già in povertà assoluta. Una recente ricerca della fondazione parigina Abbé Pierre stima che siano oltre undici milioni le persone in Europa prive di residenza, cosiddette «senzatetto». Cos’altro, del resto, ci si poteva aspettare da misure «suicide» che in dieci anni hanno tagliato 2300 miliardi di euro dai fondi per le politiche sociali e del welfare in generale, destinandone al contempo 3000 per il salvataggio delle banche? In questo snodo storico c’è inoltre un orizzonte oscuro e minaccioso,

quello del razzismo. Il razzismo è un fenomeno strisciante che ha alle spalle una lunga gestazione. Non emerge mai a caso. All’origine, insegna la storia, ci sono sempre condizioni economiche, sociali e culturali critiche, prossime al collasso, e un grave vuoto politico. Di tale vuoto i primi ad approfittare sono i demagoghi, che cavalcano la paura e lo smarrimento della gente per trasformarlo in odio verso il diverso, e al tempo stesso offrono scorciatoie e ricette illusorie per superare la crisi. Da una tale piaga non si guarisce se non ripristinando la democrazia, non solo come sistema politico ma come sostanza del vivere nella condivisione e corresponsabilità dei diritti fondamentali: la casa, il lavoro, l’istruzione, l’assistenza sanitaria. È un compito che chiama in causa non solo la politica propriamente detta, ma la coscienza e l’impegno di ogni persona e ogni cittadino. Sull’accoglienza dei migranti le parole più profonde e vere le ha pronunciate, ancora una volta, papa Francesco. Il 14 gennaio 2018, in occasione della Giornata del Migrante e del Rifugiato, ha parlato delle paure che suscita l’immigrazione. Paure «legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano» perché «non è facile entrare nella cultura altrui, mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze». Paure, dunque, che non costituiscono un peccato perché: «Peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità. […] Peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata d’incontro con il Signore». Non si potrebbe dire di più e di meglio. Le parole del papa sottolineano l’importanza dell’incontro con l’altro come fondamento del nostro essere umani, e ci invitano a impedire che la paura del diverso e dello straniero diventi il criterio delle nostre scelte e dei nostri giudizi. Parole sulle quali tutti dovrebbero riflettere, ma in particolare chi sta cercando di trasformare una tragedia umanitaria in una questione di sicurezza e di ordine pubblico. Certe misure – nel nostro Paese e non solo – hanno l’evidente scopo di ostacolare l’accoglienza e rendere plausibili, anche sulla base di un’informazione tendenziosa o apertamente manipolata, azioni che trascendono ogni limite etico, ogni senso minimo di umanità. L’obiettivo è rappresentare il migrante come un pericolo e un potenziale criminale, comunque sia una persona da respingere, arrestare o scaricare di nascosto oltre frontiera alla stregua di uno scarto ingombrante e inquinante (accade lungo il confine ovest tra Francia e Italia a Bardonecchia e a Claviere, ma

anche lungo quello orientale tra Italia e Slovenia e poi da lì in Croazia e Bosnia, fuori dall’Unione Europea). Azioni favorite dal vuoto o dalla debolezza legislativa (un trattato come quello di Dublino va contro ogni principio di condivisione e corresponsabilità) e da accordi internazionali che appaltano la «gestione» dei migranti a dittature repressive come la Turchia o Stati in mano a bande armate e gruppi criminali come la Libia. Azioni infamanti di cui l’Europa – culla dei diritti umani e della democrazia – dovrà un giorno rendere conto. È fondamentale allora, a fronte di tale emorragia di umanità, denunciare le violenze, le ipocrisie, le manipolazioni. Non si tratta – come dicono gli impresari della propaganda – di essere «buonisti», ma di esercitare la ragione e l’analisi onesta delle cose, quindi proporre misure che tengano conto della realtà e non la occultino sotto la grancassa degli slogan. L’immigrato non è il «nemico»: è la vittima. Ma la falsificazione del reale è arrivata a un punto tale che, in un’Europa dove pure sono state varate misure importanti per la tutela anche extraprocessuale delle vittime (direttiva 2012/29/UE), riguardo ai migranti è in atto un vergognoso rovesciamento di ruoli e responsabilità: le vittime vengono rappresentate come colpevoli, trasformate in capri espiatori su cui indirizzare un malcontento e un’insofferenza che hanno radici nelle omissioni della politica, subordinata a logiche economiche distruttrici dei beni comuni, della solidarietà e della giustizia sociale. Se le migrazioni hanno toccato negli ultimi trent’anni i picchi che conosciamo è a causa di un sistema politico ed economico che ha prodotto laceranti disuguaglianze, sfruttato e depredato intere regioni del pianeta, concentrato enormi patrimoni in poche mani, dichiarato guerre per l’appropriazione esclusiva delle materie prime e di conseguenza costretto – le migrazioni sono di fatto deportazioni indotte – milioni di persone a lasciare gli affetti, i legami, le case. Ma se le cose stanno così (e ormai anche i sostenitori più accesi del neoliberismo faticano a negarlo), chi è il «nemico»? Gli immigrati o un sistema economico che il papa ha definito «ingiusto alla radice» e una politica che lo ha favorito, spalleggiato, se non addirittura rappresentato? Se governata, l’immigrazione diventa per chi accoglie non solo un’opportunità ma una necessità. L’Europa – e il nostro Paese in particolare – è un continente di diffusa denatalità con conseguente innalzamento dell’età media della popolazione. A livello mondiale le tendenze demografiche (figlie come sappiamo di fattori economico-politici) sono destinate a spostare assetti

consolidati. Se la tendenza attuale troverà conferma, fra meno di quindici anni, nel 2033, avremo una popolazione di 8,4 miliardi di abitanti (1,56 miliardi di più) di cui il 58% (4,9 miliardi) in Asia e il 19% in Africa (attualmente è il 9%). I Paesi sviluppati conosceranno nel loro insieme un forte calo: dal 17,6% al 7%! Non è allarmistico dire che, senza una decisa inversione di marcia, il rischio sui tempi lunghi è l’estinzione e su quelli brevi una sempre più marcata irrilevanza politica ed economica. Diventa allora imprescindibile una «iniezione» di umanità giovane e anche «diversa», capace di arricchire e modificare costumi e culture cariche di storia ma incapaci ormai di reggere il confronto con la realtà e di leggerne i cambiamenti, e una politica che sappia guardare lontano, impegnata a realizzare speranze e non a speculare sulle paure, non può che prenderne atto. Per tornare a noi, il fallimento dello ius soli, una legge per costruire futuro e per dare a seicentomila bambini figli di genitori stranieri ma nati in Italia il diritto, la responsabilità e anche l’orgoglio di sentirsi italiani, è un esempio di come quella politica sia nel nostro Paese merce sempre più rara. Mi piace al riguardo ricordare il recente gesto del sindaco di Ceraso, un paese in provincia di Salerno, che in coraggioso dissenso alle attuali tendenze ha conferito la cittadinanza onoraria a tredici minori figli di genitori stranieri. L’accoglienza, prima che un atto di generosità, è un atto di civiltà. Tutte le comunità, Paesi, Stati che hanno fatto la storia sono nati dalla capacità di accogliere e di includere, di assorbire la ricchezza umana e culturale che veniva da fuori. Ma civiltà significa anche intelligenza. Accogliere è intelligente perché chi viene accolto, sostenuto nelle sue necessità materiali e psicologiche, ascoltato nel suo bisogno di esprimere la paura, l’angoscia, le speranze soffocate dal dolore e poi messo nella condizione di sentire la nuova terra come un contesto amico, maturerà nei confronti di questo nuovo contesto un profondo senso di gratitudine. Ecco il miracolo del riconoscimento: chi viene riconosciuto diventa a sua volta riconoscente. L’accoglienza insomma semina speranza e genera futuro. La diffidenza e la chiusura fanno solo terra bruciata, fuori ma anche dentro di noi. Sarebbe bello che tanti altri sindaci diano, come quello di Ceraso, segni di speranza e di umanità. Oggi nel mondo ci sono – secondo i dati ONU – quasi 66 milioni di migranti di cui quasi 23 milioni di rifugiati, più della metà minorenni. E dieci milioni di apolidi, persone a cui sono state negate una nazionalità e l’accesso

ai diritti fondamentali: la salute, il lavoro, l’istruzione, la libertà di movimento. Ogni minuto venti persone sono costrette ad abbandonare le proprie case e i propri affetti da un sistema economico che mercifica le nostre vite, definito da papa Francesco «ingiusto alla radice». Un sistema che si alimenta del commercio delle armi e della privatizzazione dei beni comuni, che produce sofferenze sociali e disastri ambientali. I migranti sono le vittime, gli anelli deboli di questo sistema: prima sfruttati e poi scartati. Ma una politica spregiudicata e cinica li spaccia come problema. Ecco allora i patti scellerati con le dittature, a cui si chiede di arrestarli prima che arrivino in Europa. Patti in nome del populismo, che è l’esatto contrario dell’amore per il popolo. Il populismo usa il popolo, strumentalizza la sua rabbia, compra il suo consenso in cambio di illusioni. C’è infine un aspetto insieme etico e spirituale, umano ed esistenziale: l’incontro con l’altro non è solo una scelta di coscienza. È anche una struttura dell’esistenza. Nessuno di noi, nel momento in cui è venuto al mondo, sarebbe sopravvissuto se non fosse stato accolto, se non avesse trovato mani e cuori capaci di abbracciarlo, nutrirlo, proteggerlo. L’accoglienza è vita che sorregge la vita, vita che si apre e si moltiplica, che non ha paura di ciò che viene perché vede in ciò che viene il suo stesso futuro.

7 Quale antimafia? Quale legalità? Corruzione, Responsabilità, Coscienza di Luigi Ciotti Come mai continuiamo a parlare di mafie? Per un nuovo umanesimo inteso come risposta culturale che riguardi tutti è di primaria importanza discutere di ciò che nega ogni possibilità di liberazione dell’essere umano: le mafie e la corruzione. Un grande problema, su cui occorre «mettere testa» a più livelli: investendo in cultura, conoscenza, formazione, promuovendo politiche sociali e dando sostegno e maggiori strumenti alla magistratura e alle forze di polizia. Ma, in generale, a che punto è la lotta alle mafie? Oltre che sul piano repressivo e giudiziario, oggi le mafie vanno combattute su quello culturale e sociale. Da un lato, indagini, arresti, processi. Dall’altro scuola, educazione, lavoro. È questa la costellazione della lotta alle mafie, ed è compito della politica garantire a ciascuno di questi elementi le risorse e gli strumenti necessari: non sempre è accaduto. Inoltre, va ben compreso che il contrasto alla mafia non può prescindere dalla lotta alla corruzione, che non è solo l’apripista delle mafie, ma ormai il loro metodo prevalente. Nell’epoca dell’economia di mercato le organizzazioni criminali hanno meno necessità di ricorrere alla violenza diretta: ottengono coi soldi quello che prima ottenevano soprattutto con le armi. Il risultato è che sono più ricche, più forti ma anche più invisibili e, dunque, impunite grazie all’area grigia tra legale e illegale, all’intreccio fra crimine economico, crimine organizzato e crimine politico. Serve ancora l’antimafia? Due considerazioni. La prima: le mafie non sono un mondo a parte, ma una parte del nostro mondo. La seconda: il problema non sono soltanto i poteri illegali, ma i poteri legali che si muovono illegalmente. Sull’antimafia è tempo di fare una riflessione seria, attenta, coraggiosa. Oggi, a parole, tutti si dicono contro le mafie, ma poi scopriamo cose strane, scopriamo che a organizzare una manifestazione antimafia sono gli stessi mafiosi, scopriamo che dietro certe realtà che sventolano la bandiera dell’antimafia ci sono intrallazzi, irregolarità, reati. Scopriamo insomma una strumentalizzazione, un abuso. Allora, dobbiamo capire che essere contro le mafie è un fatto di coscienza e di

responsabilità, non una carta d’identità da esibire a seconda delle circostanze. Troppi si nascondono dietro l’antimafia, perciò l’antimafia è malata, e non penso soltanto all’antimafia dei mafiosi o degli affari, strumento per accaparrarsi finanziamenti o per dare lustro e slancio a carriere. Parlo anche di un’antimafia conformista, parlata, che si accontenta di verità «ufficiali», che non fa ricerca, non studia, non si documenta. L’associazione Libera connette e coordina oltre milleseicento realtà appartenenti a mondi e riferimenti diversi, unite dall’impegno. Una piccola ma significativa parte d’Italia che coi suoi limiti, le sue contraddizioni, i suoi errori si è messa in gioco, ponendosi non solo a parole il problema delle mafie. Appena nata, nel 1995, Libera raccolse un milione di firme per chiedere l’approvazione della legge sull’uso sociale dei beni confiscati, una legge dietro la quale c’era l’intuizione e il sacrificio di Pio La Torre, tra i primi a capire che le mafie vanno aggredite dal punto di vista economico e che le loro ricchezze sono furti di bene comune. Oggi abbiamo una legge che viene presa come riferimento da molti Paesi che si stanno chiedendo come affrontare il problema – per esempio il Messico – ma è una legge, paradossalmente, non ancora applicata in tutte le sue potenzialità, in tutta la sua efficacia. Non è questa la sede per addentrarsi in problemi squisitamente tecnici (posto che dietro un problema tecnico c’è sempre un vuoto politico), è certo però che in determinati ambiti le cose non funzionano per problemi burocratici, per investimenti mancati o inadeguati, per mancanza di strategia. Un esempio: le imprese confiscate alle mafie. Su 1703 imprese confiscate, solo 34 sono state messe nella condizione di riprendere la produzione, di generare un’economia pulita, di salvare i posti di lavoro. Ma è il meccanismo della confisca che va in generale migliorato, potenziato, reso più efficace ed effettivo. Libera è presente nelle scuole, ha collaborazioni con un gran numero di università, ma promuove anche insieme a migliaia di giovani progetti attraverso lo sport (Libera la natura), la musica (Musica contro le mafie), il teatro e il cinema (Cinemovel). L’arte e lo sport sono formidabili strumenti di aggregazione ma anche di crescita umana e culturale se l’estetica e l’etica riescono a fondersi in armonica unità, se il sentimento del bello cresce insieme alla coscienza del bene. L’obiettivo è insomma da un lato far conoscere le mafie al di là del semplice aspetto criminale, come fenomeni che hanno ricadute sociali ed economiche enormi, tali da incidere sulla vita di ciascuno di noi, dall’altro formare non tanto alla legalità – parola ormai

abusata e snaturata – ma alla responsabilità, che è la scoperta dell’essenza relazionale della vita, dell’altro non solo fuori ma anche dentro di noi, la base quindi di una società più giusta e più umana. È questo l’orizzonte educativo e culturale che ha ispirato molti anni fa il progetto E!State Liberi!, che oggi coinvolge un gran numero di giovani in momenti di formazione e impegno in cooperative agricole sorte sui terreni confiscati alle mafie. Vere palestre di libertà e responsabilità, ossia di cittadinanza. La stessa cura Libera l’ha posta nel rapporto con i familiari delle vittime, a cui siamo stati vicini sin dall’inizio. Sono persone che non hanno avuto, salvo eccezioni, né verità né giustizia, persone le cui ferite non chiedono una generica solidarietà, ma una concreta corresponsabilità. È la chiave con cui parliamo di memoria. Ricordare è essenziale perché un Paese che ignora il suo passato, a cominciare da quello doloroso, è un Paese senza identità e senza anima, ma la memoria non può essere ridotta a retorica, non può essere un ricordare allo scopo di archiviare o, peggio, imbalsamare. Le vittime innocenti delle mafie non hanno messo in gioco la loro vita per avere intitolata una via, una piazza, una manifestazione, ma per un ideale di giustizia che tocca a noi ereditare e realizzare. Essendo la criminalità organizzata un problema ormai globale, necessita di una risposta globalizzata: Libera ha promosso e costruito reti internazionali, in particolare in Europa e in Sudamerica, senza mai distogliere lo sguardo dal nostro Paese, dove pure è possibile costruire insieme la speranza. È in questa direzione che si muove per esempio il progetto Liberi di scegliere, in collaborazione con alcuni tribunali dei minori, con la Direzione nazionale Antimafia, con la Conferenza episcopale italiana e il Dipartimento per le Pari opportunità. Le organizzazioni criminali devono fare oggi i conti con una significativa dissidenza interna promossa soprattutto da donne e madri che vogliono per i propri figli un futuro non segnato dalla violenza e dalla morte. Garantire una concreta alternativa di vita ai minorenni provenienti da famiglie o contesti di mafia – e a quei famigliari che si dissociano dalle logiche criminali – è in tal senso rispondere a un grido di aiuto ma è anche un colpire dall’interno le basi della mentalità mafiosa. In gioco non c’è solo una legittima richiesta di libertà e di dignità, ma la possibilità di estirpare le radici di una pseudocultura che nell’annullamento delle coscienze, nella cieca obbedienza a boss e padrini, nell’accettazione fatalistica al vincolo di sangue, trova da sempre il suo punto di forza. C’è chi ha parlato di Libera come di una specie di multinazionale, chi ha

detto che le cooperative sui beni confiscati sono nostre. Menzogne. Libera promuove quelle realtà, le sostiene – per esempio attraverso il consorzio Libera Terra – ma ciascuna partecipa autonomamente ai bandi pubblici, ciascuna è libera di articolare, nel rispetto di un’etica condivisa, il proprio progetto. E tutto questo significa occupazione, dignità. Solo l’indotto di pasta, olio, vino, dà lavoro a oltre mille persone. Sono piccoli numeri, direte. Ma la speranza, come la vita, inizia dai semi, dalle piccole cose. Da molti anni Libera si batte perché la confisca e l’uso sociale dei beni siano adottati a livello europeo e l’impegno ha conseguito un risultato importante. Nel 2014 è stata infatti approvata la direttiva 42, che nell’articolo 10, al punto 3, dispone che gli Stati membri valutino se «adottare misure che permettano di utilizzare i beni confiscati per scopi di interesse pubblico e sociale». Un grande passo avanti fortemente richiesto anche da diverse componenti della società civile europea e adottata grazie alla proposta della Direzione generale Affari interni della Commissione europea. Già in alcuni Stati sono stati introdotti uffici nazionali per il recupero e la gestione dei beni, nonché forme di riutilizzo in modo diretto e indiretto dei beni mobili e immobili confiscati ai fini della creazione di fondi di finanziamento di promozione di progetti pubblici e per il risarcimento delle vittime. Il crimine paga, purtroppo. In quale misura lo spiega bene una recente ricerca dell’Europol, la polizia europea, dove si parla di ben cinquemila organizzazioni criminali diffuse e operanti nei Paesi dell’Unione. Realtà che si caratterizzano per strutture flessibili, adattabili ai più diversi contesti, e dedite non solo ad attività illecite tradizionali come il traffico di droga – che continua a rappresentare la massima fonte di profitti, circa 24 miliardi di euro all’anno secondo Europol – o ormai consolidate come la tratta delle persone e il traffico dei migranti, ma a nuovi «mercati» come quello del commercio online di beni e servizi illeciti: droghe sintetiche, merci contraffatte, armi, specie protette, carte di credito. Realtà di cui finalmente si ammette la presenza e si riconosce il pericolo, ma il cui contrasto richiede strumenti operativi e legislativi all’altezza. Manca per esempio a livello europeo un articolo di legge che individui e colpisca il reato di associazione mafiosa come il nostro 416 bis. C’è stata una certa resistenza, al di là delle Alpi, a parlare di mafie, come se esse fossero una prerogativa del nostro Paese e come se quei gruppi criminali non perseguissero, pur con metodi diversi, finalità tipicamente mafiose. Per questo è bene ribadirlo: la mafie non sono un mondo a parte ma parte

del nostro mondo. La forza delle mafie poggia sull’indifferenza e sull’egoismo, le malattie spirituali della nostra epoca, sull’interesse privato che divora il bene pubblico, sull’individualismo insofferente delle regole e incapace di distinguere tra libertà e arbitrio. La prima riforma, allora, è una riforma delle coscienze, dei nostri comportamenti, delle piccole e grandi scelte quotidiane. Una recente ricerca sulla disoccupazione ha rilevato che il 61% dei disoccupati è disposto ad accettare un posto di lavoro in un’attività dove la criminalità organizzata ha investito per riciclare denaro, mentre una percentuale non trascurabile di persone – una su dieci – compirebbe piccoli reati pur di condurre una vita più dignitosa. Secondo un altro sondaggio, un italiano su cinque non avrebbe problemi a recarsi in pizzerie, bar o negozi dietro ai quali ci sono le mafie se questo consente di risparmiare. Sono segnali inquietanti, e la riprova che il lavoro educativo e culturale, l’opera di informazione e di denuncia, i percorsi nelle scuole e nelle università a poco servono se manca a monte l’impegno per eliminare le disuguaglianze, per garantire a tutte le persone occasioni di lavoro, di libertà, di dignità. Prima che un fatto criminale, la mafia è un problema politico che affonda le radici nel vuoto dei diritti, nella trasformazione dei diritti in privilegi. Occorre dunque reprimere, dotare la magistratura, le forze di polizia di tutti gli strumenti necessari, ma prima di tutto occorre un impegno per il bene comune, della politica e della società tutta, una società che, più che civile, preferisco chiamare responsabile. Ma cosa sono diventate le mafie? Lo dice chiaramente la Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi nella relazione conclusiva del 7 febbraio 2018. In essa si legge che «le organizzazioni mafiose storiche italiane hanno fatto registrare ampie trasformazioni, assumendo formule organizzative e modelli di azione sempre più multiformi e complessi», quindi che «le mafie sono cambiate, ma la loro identità è sempre legata al raggiungimento di potere e di ricchezza». Quali sono, in estrema sintesi, gli aspetti che più caratterizzano il nuovo crimine organizzato? Primo: «Progressivo allargamento del raggio d’azione in territori diversi da quelli di origine storica; […] l’accresciuta mobilità territoriale, nazionale e internazionale, attraverso il consolidamento di network». Secondo: «Assunzione di profili organizzativi più flessibili, spesso reticolari, con unità dislocate su territori anche lontani e dotate di autonomia decisionale». Terzo: «Più accentuata vocazione imprenditoriale espressa

nell’economia legale e nei mercati». Quarto: «Mutamento dei rapporti con i contesti sociali e con i territori», dove il minore ricorso alla violenza diretta e all’intimidazione è reso possibile da una maggiore capacità di stabilire legami di cointeresse con imprese, pubblici funzionari, categorie professionali, politici, membri della massoneria deviata. Tutti attori della cosiddetta «area grigia», lo spazio relazionale al confine tra legale e illegale all’interno della quale le mafie hanno ormai stabile collocazione. I mafiosi non sono altro rispetto all’area grigia, sicché essa non è prodotta da un’estensione dell’area illegale in quella legale, ma da una commistione tra le due aree, ovvero dall’esistenza di confini mobili, opachi, porosità tra lecito e illecito. Per questo oggi non si può parlare di mafia senza parlare di corruzione. Il nostro Paese è malato di corruzione, la quale è l’avamposto delle mafie. C’è una vasta zona grigia in cui ormai è difficile stabilire dove finisce la mafia propriamente detta e dove inizia la mafiosità, la mentalità che ha inquinato tanti ambiti della vita sociale. E tale continuità emerge anche da recenti inchieste, dove il legame fra mafie, corruzione, criminalità comune o riciclata dal terrorismo attraversa segmenti della politica, dell’imprenditoria, persino della cooperazione. Le mafie stesse oggi sono mafie «imprenditrici», capaci di muoversi nei mercati finanziari, di reclutare competenze e professionalità, d’investire e di ampliare i loro fatturati. E di fare da «banche» per tanti piccoli e medi imprenditori in difficoltà. Ci sono due realtà che la crisi non ha sfiorato, anzi ha reso più forti. Le potenze economico-finanziarie, che da ricche sono diventate ultraricche, e le mafie, che hanno approfittato di un sistema che obbedisce alla logica del profitto e dell’accumulo indiscriminato, non certo a quella della giustizia sociale, del lavoro, del bene comune. Ecco allora, tornando alla questione dell’antimafia, c’è un’altra parola su cui occorre interrogarsi, oggetto di abusi e strumentalizzazioni: la parola legalità. Dobbiamo innanzitutto chiederci: quale legalità? La legalità che serve la giustizia o quella asservita al potere? La legalità che condanna il sopruso o quella che lo legittima? La legalità che tutela i diritti o quella che afferma i privilegi? Non sono mancati (per esempio, le leggi ad personam) esempi di questa legalità distorta, espressione di una politica che non bada al bene comune; così come abbiamo visto una legalità celebrata in pubblico e calpestata in privato. Come antimafia, legalità non è una parola malleabile, da calibrare a

seconda delle occasioni. Prima che nei codici, le leggi sono scritte nelle coscienze, sono quella voce che ci ricorda le nostre responsabilità e le nostre omissioni, e che di fronte a un bivio ci suggerisce sempre la via impegnativa. Non ci si educa dunque alla legalità ma alla responsabilità. Ed è un educarsi che dura tutta la vita, perché la vita ci offre sempre occasioni di essere responsabili, ossia di essere pienamente vivi. Le mafie non sono un mondo a parte, sono parte di questo mondo dove la regola del profitto e della ricchezza facile e illecita prevale sulla regola del bene comune. Ecco allora i vantaggi della corruzione, che garantisce gli stessi profitti e desta meno allarme sociale. Ecco l’espandersi delle «zone grigie», perché corruzione significa questo: che tra crimine organizzato, crimine politico e crimine economico è sempre più difficile distinguere. Nella lotta alla mafia a parole ci sono tutti, ma troppe parole sono logore o finte: abbiamo bisogno di parole vere, verificabili nelle scelte, nei fatti, nei comportamenti. C’è chi quest’urgenza la sente e la fa propria. In molti ambiti del contrasto alle mafie sono stati fatti notevoli progressi. Magistrati, amministratori, forze di polizia: c’è chi si è opposto con coraggio, intransigenza, senso dello Stato e del bene pubblico alla violenza mafiosa e alla corruzione morale e materiale che la rende possibile. E basta andare a Palermo per cogliere un clima molto diverso da quello di trent’anni fa. Palermo oggi è una città viva, con tante realtà positive, impegnate a dimostrare che c’è una parte rilevante di cittadini e di siciliani che non vuole essere associata a Cosa nostra e alle forme di omertà e complicità che la favoriscono. Persone consapevoli che essere cittadini è la più bella e alta responsabilità. Non basta chiedere alla politica, alle amministrazioni, alle istituzioni. Come cittadini siamo chiamati a fare la nostra parte, quella che ci assegna la Costituzione, il primo dei testi antimafia, ineguagliato «vademecum» per costruire democrazia e giustizia sociale, quindi libertà. Sconfiggeremo le mafie quando la società tutta sarà in grado di fornire come diritto ciò che esse spacciano come favore, quando non ci limiteremo a chiedere un cambiamento ma lo testimonieremo nelle nostre scelte e nei nostri comportamenti. Quando saremo il cambiamento che sogniamo.

8 Quale bellezza salverà l’Europa? Estetica, Etica, Ricerca di Vittorio Alberti Nel libro della Genesi, dopo la creazione è scritto: «E Dio vide che era buono». Ma l’originale aramaico dice «che era bello». Bello o buono? Oppure bello con buono? Giustizia e bellezza, nella nostra storia, hanno un intimo intreccio a partire dai greci, per i quali l’etica e l’estetica (parole greche) erano due qualità della virtù, due facce della stessa medaglia. Perché noi abbiamo sviluppato una grande arte? Perché nel cristianesimo il Dio si è fatto uomo, quindi Dio si può rappresentare: ecco l’arte, la quale costituisce un terreno formidabile di laicità perché in essa c’è fusione tra fede e sapere. Un’opera di Michelangelo, per esempio il Giudizio universale, coinvolge chi è cristiano e chi non lo è. È nello stesso tempo un soggetto religioso e culturale, valido per chi non ha rapporti con il cristianesimo o addirittura detesta la Chiesa, così come per chi li ha. Anzi, di più: da quell’immagine si capisce che la distinzione netta tra credente e non credente non è valida perché se io, da filo-sofo (cioè da amico del sapere che in quanto tale tende al sapere, cioè non è egli stesso il sapere) cerco la verità, devo considerare sia le ragioni del non credere sia le ragioni del credere, e quelle tumultuose opere d’arte mettono in figura questa ricerca. Non sono opere concettualmente statiche, indiscutibili, concluse, ma l’espressione di un tormento. Siamo d’accordo che Michelangelo sia uno dei segni sommi della nostra identità? E siamo d’accordo che la nostra identità, che vediamo in lui, sia universale, globale, ma senza imporre omologazione? Ecco che, di conseguenza, un’opera di Michelangelo è un itinerario di libero pensiero che esprime il più alto carattere di ricerca della nostra identità. Né muri, né uniformazione. Se non leggiamo queste cose in modo filosofico, cioè andando a indagare su ciò che pensiamo assodato, già acquisito, non comprenderemo la natura dinamica dell’identità italiana e più in generale europea, e tramonteremo. La filosofia nasce dal dolore, dal terrore e dalla meraviglia. A partire da questo, essa cerca la verità. E quali sono le piste per cercare la verità? Filosofia, scienza, religione e arte, sul terreno accidentato dell’esistenza. Un

brano di Mozart, un quadro di Caravaggio o una terzina di Dante dicono meno verità di una formula fisica, di un concetto filosofico o di una preghiera? L’arte muove e commuove, ma purtroppo lo stiamo dimenticando perché oggi essa non è estetica, cioè non è né bella né brutta. Mi riferisco in particolare alla pittura, alla scultura o alle cosiddette installazioni. Se perdiamo quella bellezza profonda che viene dalla storia, per esempio a causa dell’attuale architettura identica a Roma come a Tokyo, a Stoccolma come a Dubai, smarriamo quel «muove e commuove», cioè perdiamo il bello e la possibile rappresentazione del buono. Questo preambolo per chiedere: quale bellezza salverà l’Europa? La bellezza del suo linguaggio, forse? Oggi esso è corrotto. Dove manca la parola, manca anche il pensiero. Se non sappiamo assegnare una parola a un pensiero, questo pensiero non può esserci. E così degradiamo nella bruttezza, che è un fatto estetico (più che etico), e verso la bruttura che è un fatto etico (più che estetico). Cosa fa di un oggetto un’opera d’arte? Un semplice oggetto esaurisce in sé la sua funzione: lo guardo e so cos’è. L’opera d’arte, invece, porta lo sguardo oltre, e io continuo a cercare la sua funzione, la sua identità, il suo segno. Sto ricercando. Noi, più di ogni altro, siamo ricchissimi di queste opere, che sono identità in infinita ricerca. E questo perenne andare oltre, nell’opera d’arte, appartiene alla ragione ma primariamente alla sensazione e al sentimento, al quale possiamo educarci. La bellezza che proviene dalla nostra storia è contrasto, il quale è lotta ma anche messa a fuoco, definizione del tratto. Karl Jaspers, nel 1922, scrisse che guardiamo l’opera d’arte come quando ammiriamo una perla, senza badare al fatto che la perla è, in realtà, la malattia della conchiglia. La perla, cioè la bellezza di un’opera d’arte, è una malattia, quindi l’arte è inquietudine, turbinio anche folle di sensazioni e sentimenti. E questa inquietudine supera ogni muro e, allo stesso tempo, è unica nella sua espressione e tale deve restare, senza standardizzarsi, senza omologarsi e omologare. La nostra si sta trasformando in una sorta di semiciviltà orale e visiva, nella quale non si legge più ma si guarda e ascolta. Torneremo al Medioevo con le sue pitture educative per poi riavvicinarci alla scrittura? Questa forse può essere l’unica illusione buona in quest’epoca dal linguaggio imbarbarito

sull’altare della comunicazione, non più mezzo ma fine. Dico «illusione» perché il Medioevo, tra tanto sangue, fu colossale trionfo della bellezza e del pensiero. Dimentichiamo l’espressione «secoli bui» e la stessa parola Medioevo, cioè età in mezzo ad altre età, che non assegna a quel tempo la sua giusta rilevanza. Ascoltiamo ora un grande classico, il filosofo greco Eraclito – VI secolo avanti Cristo – che dice che il fuoco e l’acqua sono mentre diventano, mutano senza negarsi. La loro è un’identità dinamica. Come il fuoco e l’acqua, l’Europa apprenda l’unità del molteplice che la compone mentre avanza nel confronto con l’altro-da-sé. E se deve difendersi, lo faccia come ci si difende in una discussione, non ponendo muri prima che inizi la conversazione alla quale, inoltre, a volte, è anche necessario costringere l’interlocutore. E oltre a questo, essa si difenda dalla corruzione culturale, cioè dall’omologazione, dal degrado espressivo che ci travolge e prostra. L’identità, come si vede, si apprende e muta come si evolve la ricerca. Non è data alla nascita e viene dalla relazione: noi siamo nel momento in cui ci separiamo. Da chi? Dal grembo materno: prima eravamo due, io e mia madre, poi divento uno. Già da qui si capisce che la relazione crea l’identità. Poi, crescendo, sono gli altri a darmi gli elementi per costruirla via via. Il «chi sono io» mi arriva dagli altri quando essi mi riconoscono o disconoscono. Quindi l’identità viene dalla relazione anche quando questa è indifferenza e dolore. E ora la parola a Friedrich Nietzsche che, nel 1887, fece una previsione sul futuro chiedendosi cosa fosse il nichilismo. Questo: «Che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al: perché?», manca il senso. In altre parole, non si crede più che le cose contengano verità. Ecco perché non c’è un ideale politico verso il quale andare, perché non si crede che sia vero, perché franando le ideologie si è persa la fiducia che ci fosse verità, in esse e in tutto ciò che non fosse verità tecnica. Come recuperare, quindi, terreno e salvare l’Italia e l’Europa dalla disintegrazione sociale, culturale e politica? Come abbiamo detto, grazie ai classici, valorizzando fra essi la nostra estetica, parola greca che significa «sensazione» perché essa, per prima, ci fa sentire. Ora vi racconto un fatto importante. Cinquant’anni anni fa, nel 1969, è stato rubato a Palermo un capolavoro di Caravaggio, la famosa Natività, il quadro ancora oggi più ricercato al mondo. L’opera fu trafugata da Cosa nostra e non è stata mai ritrovata. Oltre a chiederci dove sia finito questo

quadro, domandiamoci perché è male che la mafia l’abbia fatto sparire. Cosa colpisce di noi, della nostra libertà, questo furto? E poi, perché la mafia, nel 1993, ha messo delle bombe in luoghi della nostra identità spirituale e culturale? San Giorgio al Velabro, via dei Georgofili vicino alla Galleria degli Uffizi, San Giovanni. Non sto chiedendo la ragione specifica del furto e delle bombe, ma il perché simbolico della scelta di quei luoghi e la conseguenza del furto. Se non rispondiamo, se non apriamo il nostro pensiero alla comprensione seria di questi interrogativi all’apparenza ovvi, è inutile anche cercare il quadro rubato o sarebbe stato inutile ricostruire le parti distrutte dalle esplosioni. Rispondere a queste domande significa muoversi in modo filosofico e capire la nostra identità anche come detentori di giustizia e libertà, quindi come cittadini. Di qui, la forza etica della nostra tradizione estetica. La mafia ha negato la nostra identità di giustizia e bellezza, la nostra capacità di educarci, dunque la nostra possibilità di armarci di libertà. Ecco cosa ha fatto sottraendoci Caravaggio e piazzando quelle bombe, ed ecco la necessità ormai drammatica dell’educazione umanistica contro ciò che la mafia e la corruzione impongono. Identità e arte: in greco antico l’id della parola identità ha la stessa radice del verbo greco che significa «vedere». L’identità quindi è una cosa che si vede: «L’anima non pensa mai senza immagini» dice Aristotele, e secondo Platone «il filosofo dipinge immagini nell’anima». Attenzione: dipinge, non scrive. Cosa significa, dunque, perdere la nostra arte? E cosa può dirci Caravaggio, che in sé è tormento della ricerca, per salvare l’Europa? Chiediamoci questo per educarci e scoprire in queste cose ciò che possiamo diventare. Ecco l’umanesimo: capire i quadri del passato per conoscere le esperienze, anche pratiche, dei nostri predecessori. Dice questo il grande e compianto Federico Zeri, per il quale, inoltre, più è ampio il divario tra cultura elitaria e cultura di popolo, più la cultura elitaria si vanifica. Le nostre arti non sono solo fonte di sensazione estetica, ma arsenale del mio linguaggio interiore ed esteriore: per usare una parola audace ma chiara, sono armi per affrontare la vita da persona libera. «Conosci te stesso» dice l’oracolo di Delfi, ma chi è il più sapiente? È Socrate, il quale afferma: «So di non sapere». Come è possibile? Da un lato conosci e, dall’altro, non so? Da questa (apparente) contraddizione tra conosci e non so si comprende la ricerca continua dell’identità, che significa

diventare ciò che si è, scoprire la mia virtù, ciò a cui sono chiamato, la mia vocazione, il mio talento. E diventare e scoprire sono verbi del movimento, della ricerca, non di un cortiletto circondato da un muro. Ed è scoprendo la mia virtù che poi potrò credere nell’impegno per la giustizia della potenzaEuropa che è unità di diversità, somma di differenze senza muri, dinamica e poliedrica. Ecco le idee per il nuovo umanesimo, ed è in questo senso che possiamo partire dalla cultura, che ci muove personalmente dal profondo, perché essa supera ogni barriera. Cos’è l’identità dell’Europa? Lo chiedo ancora. Ricerca, non stasi; attacco, non difesa. L’Europa di oggi è quella pensata dagli umanisti, che sembrava impensabile fino a settant’anni fa. Inoltre, cosa molto importante, le materie dette umanistiche si chiamano così perché costruiscono la persona, la formano, cioè la educano, e dobbiamo riflettere sul fatto che la pedagogia umanistica del Tre, Quattro, Cinquecento era volta alla formazione di un uomo impegnato nella sfera civile. Machiavelli esalta Roma non facendone un idolo da contemplare seduti su una sedia, ma «usandola», in modo umanistico, per costruire un nuovo metodo. Il pellegrinaggio di Dante, Socrate che disse che la vita senza ricerca non è vita, Leonardo mai stanco di ricercare, le scoperte di Ulisse, la dialettica tra bene e male, ricchezza e povertà, tenebra e luce che emerge dalle tele di Caravaggio, la lotta dolorosa del cavaliere errante Don Quijote, le domande di Amleto, sono la stessa cosa. Modelli classici per oggi? Sì, ma come? Non facendone icone da osservare per dovere accademico, ma specchi vivi per capire la mia vita e credere nel cambiamento. Così potremo rimettere l’uomo al centro anche del processo storico, in un nuovo umanesimo politico. Dice Kant che il bello è senza concetto, cioè di esso non si può argomentare in modo razionale. Ed è senza scopo, cioè è inutile, non serve. Ma dà senso alla vita, fa vivere. Non si può fare un discorso razionale sulla bellezza perché essa rientra nei sensi, ma è dai sensi che inizia la conoscenza ed è dalla conoscenza che inizia l’impegno. Attenzione: c’è l’estetica, ma anche l’an-estetica, che significa non sentire più. Non anestetizziamoci. Abbiamo sotto gli occhi un patrimonio inestimabile al quale appassionarci non per dovere ma per riconoscerci in esso personalmente, ciascuno al suo passo, e questo può rendere l’Italia la punta avanzata del riscatto dell’Europa unita, ambiziosa, libera, che procede nel mondo verso un fine di giustizia e libertà.

9 Nuovo Umanesimo Proposta per un programma di Vittorio Alberti e Luigi Ciotti Giungendo ora alle conclusioni, ci auguriamo che sia stata chiara l’intenzione di porre la conoscenza, l’istruzione e l’educazione alla nostra identità in ricerca quale prima necessità per costruire un ideale che ci porti via dalla corruzione culturale nella quale ci troviamo. Questa corruzione contiene anche la corruzione-reato, la quale, muovendosi oggi in un contesto culturalmente degradato, avanzerà sempre di più fino a soffocarci. Questo è un discorso filosofico alla città, nel suo senso più politico, che quindi interpella anche l’azione politica. La politica può rendere possibile un vasto programma di risanamento anche morale che sia in grado di mobilitare le energie sociali utili, necessarie ed efficaci per dare credibilità e forza all’azione di rigenerazione culturale. Tale intervento non può non essere prioritariamente svolto nelle scuole e nelle università quali sedi naturali della memoria e della formazione dei giovani, quali grandi laboratori della libertà. Noi proponiamo di avviare un processo che connetta questi due gradi dell’educazione. In Italia, infatti, c’è un solco profondo che divide scuola e università, e una rigenerazione umanistica che realizzi gli intenti che qui abbiamo cercato di rappresentare passa attraverso una loro fruttuosa alleanza. Ma parlando primariamente di scuola, quali possono essere i soggetti capaci di costituire i credibili mediatori di un messaggio di così fondamentale importanza? È evidente che tale compito, che deve aggiungersi all’attività didattica, non può gravare sui soli insegnanti. Occorre un vero e proprio piano di intervento sistematico, continuo e diffuso sull’intera platea degli studenti che mobiliti in primo luogo i soggetti istituzionali di garanzia della legalità (magistrati di ogni ordine e grado, prefetti, questori, carabinieri, guardia di finanza, polizia di Stato, polizia penitenziaria) oltre che, e soprattutto, gli intellettuali (filosofi, storici, scrittori, giuristi, economisti, scienziati, artisti, e anche media e editori), i rappresentanti delle religioni, con le loro azioni educative, sociali e istituzionali (pensiamo per esempio ai cappellani delle carceri e degli ospedali); poi imprenditori, sindacalisti, professionisti, artigiani, testimoni, vittime, figure insomma che unite e riunite nel luogo dell’educazione possano ricucire la società e siano capaci di portare

all’attenzione dei giovani esperienza e approfondimenti concreti di pratiche che nessun insegnante, da solo, può rappresentare. Un progetto che riguardi tutti, partendo da chi è più disagiato, facendo delle periferie il centro, anzi superando la distinzione fra centro e periferia. Qualcuno disse che con la cultura non si mangia. La politica di migliore qualità degli investimenti in cultura dimostra il contrario. Un serio programma di divulgazione formativa, metodica e continua, all’identità umanistica, all’etica istituzionale e all’intelligente legalità democratica non può non tenere conto dei numeri. Nelle scuole ci sono circa otto milioni di studenti e circa ottocentomila insegnanti: platea, questa, che rende credibile un serio programma decennale di divulgazione specifica, di istruzione e educazione. Cosa ha colpito la mafia quando all’inizio degli anni Novanta ha portato il suo attacco allo Stato? Ripetiamo: i simboli dell’identità culturale e spirituale che, così, possono rappresentare – con questo progetto – il terreno fondamentale per la ricostruzione, riunendo il bello al giusto. Perché gli intellettuali e perché i media? Per offrire una visione umanistica dei dilemmi sociali, affinché non siano letti solo nella loro specifica qualità tecnica e perché il servizio compiuto da un intellettuale a vantaggio di una scuola o di un’università responsabilizzi l’intellettuale stesso, lo educhi a una funzione sociale democratica. E educhi e responsabilizzi l’addetto dei media, il quale oggi svolge un ruolo di notevole rilevanza nella formazione delle coscienze e del discorso pubblico. Tutte le forze della società devono vigilare affinché tutti i bambini e i ragazzi vadano a scuola e all’università serenamente e che tale atto li faccia sentire protagonisti della società. Devono sentirsi protagonisti a partire da questo, educandosi a vedere questo come metro primario per emergere nella vita. Noi oggi, purtroppo, non crediamo fino in fondo che l’impegno possa migliorare le cose. Per crederci abbiamo bisogno di vedere tutte le forze presenti e riunite, anche nella dialettica fra loro, intorno a un ideale umanistico non episodico. Non solo: torneremo a crederci attraverso maestri credibili che appassionino ai problemi. E attraverso media che diano informazioni che formino e arti che emozionino. A quel punto crederemo in un mondo diverso e faremo corpo sociale per scrivere regole di convivenza serie, razionali. Siamo certi che questo progetto educativo, sistematico, continuo e a

lungo termine possa animare un ideale europeo in cui sperare, attraverso la presenza viva delle forme antiche, dei classici, per ridare autenticità, per andare avanti in accordo con le nostre radici che non prevedono chiusura, ma il massimo della creatività. In questo senso, rianimando una qualità generale del linguaggio pubblico, possiamo costruire un Nuovo Umanesimo che elabori una idea di integrazione capace di ispirare una politica intimamente europea sulle migrazioni e la convivenza; un’istruzione multipolare, non più solo eurocentrica ma al tempo stesso coerente con la nostra autenticità; un «umanesimo della natura», che oggi manca perché della natura vediamo solo l’utilità. Ebbene, possiamo pensare una morale che includa, insieme all’uomo, anche gli enti di natura, che veda quindi la questione naturale come anche sociale, che esalti gli uomini decentrandoli, vedendoli cioè non come il centro autoreferenziale del mondo. Ancora: elaborare una nuova strategia per arginare il disagio culturale che induce alla domanda di droghe; immaginare una nuova estetica per ridonare commozione a un’arte che oggi non ne dà più; nella lotta alla mafia, aggiungere lo sguardo filosofico a quello della repressione, dell’inchiesta, della politica, dell’economia, della spiritualità. L’umanesimo storico prevedeva la polifonia dei saperi, così come oggi occorre una polifonia dell’Europa: unità nella diversità. Un Nuovo Umanesimo vede la cultura come base del vivere civile, e le lettere come nutrimento dell’animo. Ecco cosa significa portare all’attuale Leonardo o Caravaggio, anche perché essi – come classici – ci donano l’alfabeto emotivo senza il quale il nostro linguaggio ora corrotto non sa più dare un nome alle nostre sofferenze, spalancandoci così le porte alla più cupa solitudine. In questo modo potremmo risorgere nella qualità, della quale, come abbiamo detto, c’è grande nostalgia, tanto più tragica perché coperta dal cinismo, da un realismo pessimista senza respiro e ambizione. Ora possiamo slanciarci in avanti e arginare le diverse forme d’inquinamento che deprimono le nostre vite. C’è un evidente inquinamento della Terra, ma c’è anche un più subdolo ma non meno devastante inquinamento di molti ambiti della vita sociale e relazionale, della vita politica e di quella economica. C’è l’inquinamento della perdita del sacro: non solo il sacro trascendente delle religioni, ma quello immanente della Terra e della vita terrena. C’è un inquinamento delle menti e dei cuori che impedisce di vedere l’anima della Terra, di provare cura per ogni forma di vita che nasce e si rinnova, che

muore per lasciare spazio a nuove forme di vita. C’è l’inquinamento della sete sfrenata del potere e del denaro. Quando il denaro non è più mezzo ma fine, valore assoluto, la vita si inquina, diventa una merce, una «cosa», un bene da comprare e da vendere, da sfruttare e infine da scartare. E si corrompono il pensiero e la cultura, cioè anche lo sguardo più acuto rischia di farsi superficiale, vede solo «cose» e non presenze, solo individui e non persone, solo pezzi separati e sparsi di realtà e non la vita nella sua complessa realtà organica, nella sua armoniosa rete di relazioni. In questo contesto riveste enorme importanza la conversione ecologica, che vede i mali della natura come mali sociali. Conversione ecologica vuol dire sentirci parte di quel tutto – pensiamo alla ricerca della vera natura in Caravaggio e Leonardo – dal quale ci crediamo separati e che perciò sfruttiamo, deprediamo, uccidiamo. Conversione ecologica vuol dire salvarci da una distruzione che è, infine, suicidio. Vuol dire aprire gli occhi su noi stessi e sulla necessità di passare dall’«io» al «noi» e dal «noi» al «tutto». Possiamo estendere il concetto di giustizia all’ambiente non solo come oggetto di reato, ma anche come soggetto di diritti. Sarebbe un salto culturale importantissimo, che allo stato attuale solo il Perù e l’Ecuador hanno avuto il coraggio di compiere. Da una decina d’anni le loro Costituzioni parlano dei diritti della Terra. Abbiamo, infatti, bisogno di una giustizia ambientale e di una giustizia sociale, perché i disastri ambientali e le ingiustizie sociali sono facce di un unico dilemma. Ma attenzione, questo non è misticismo, fuga dal reale, bensì immersione nella realtà più profonda, acquisizione di una coscienza al tempo stesso ambientale, sociale, storica, politica, culturale. Se non partiamo da questa rivoluzione del pensiero e del sentimento sarà difficile liberarci dall’inquinamento e dalla corruzione nelle sue forme più varie, al di là dello scambio di denaro e di favori: la corruzione dei rapporti e delle parole; la corruzione del pensiero; la corruzione delle forme autentiche; la corruzione della propaganda politica e la corruzione dei titoli finanziari tossici; la corruzione dell’informazione compiacente e la corruzione dello sport truccato dal doping, solo per richiamarne alcune. Le leggi, beninteso, sono fondamentali. E ben vengano quelle capaci di colpire alla radice la corruzione e le mafie. Ma una legge non sorretta dall’etica, da comportamenti coerenti e responsabili, rischia di restare lettera morta o al massimo di diventare una norma osservata solo per convenienza o per timore, senza una vera adesione interiore. Ecco perché la lotta alla

corruzione è una questione innanzitutto educativa. Abbiamo sì bisogno di leggi, e in particolare di leggi che sappiano graffiare le coscienze e aprire nuove prospettive. Ma abbiamo soprattutto bisogno di percorsi educativi di grande respiro, capaci di attrarre, far conoscere, responsabilizzare, generare il desiderio di ricercare i propri talenti. Per fare tutto questo, è ora di buttarci alle spalle la distinzione tra cultura «alta» e «bassa» e ripartire dalla base, dall’humus, dalla radice. Dalla piazza e dalla strada. La strada è maestra di vita. Lo è in quanto luogo di domande, di stupori, anche di smarrimenti. Luogo di realtà autentica, non deformata dalla menzogna o dalla retorica. Luogo di verifica dei saperi, dove l’astrazione si misura – e a volte si scontra – con il concreto della vita. Ma la strada è innanzitutto luogo d’incontro, di relazione, dove le persone si riconoscono come persone, depongono le maschere, gli atteggiamenti, le identità posticce. E in questo contesto di rinnovata ambizione, sostenuta dal nostro più intelligente passato, come possiamo anche solo concepire una società che respinge e discrimina? Una siffatta società è debole perché la sua parola è impaurita, e reagisce con rabbia alla propria debolezza. Ecco allora che l’impegno sociale, che rifiuta la delega, la neutralità, l’indifferenza, gli imperativi della società dell’io, assume oggi un significato più che mai politico. Oggi accogliere è diventato di per sé un atto «eversivo». Si accoglie per riconoscere, per denunciare i sistemi esclusivi e le logiche discriminatorie. Si accoglie per saldare la solidarietà con la giustizia. Si accoglie per affermare i diritti e la dignità delle persone. Si accoglie per valorizzare l’intelletto e il libero pensiero. Tre parole per l’impegno: corresponsabilità, cioè sapere che le ingiustizie poggiano su complicità e silenzi, ma si avvantaggiano anche degli argini troppo deboli di una legalità formale, scritta più nei codici che nelle coscienze. I codici, sia chiaro, sono importanti, soprattutto se garantiscono il bene collettivo. Ma coscienze più inquiete, più coinvolte, più aperte al dubbio e alla ricerca di verità, gli ingredienti dell’umanesimo, non avrebbero permesso alla nostra democrazia di ammalarsi. La seconda parola è continuità, cioè trasformare l’indignazione passeggera in sentimento duraturo, in motivazione che nutre l’azione e da essa si lascia nutrire. Quanti indignati di ieri sono i rassegnati, o peggio, i cinici di oggi? La denuncia è necessaria, ma acquisisce pieno valore solo quando viene confermata dai fatti.

La terza parola – che ha valore intellettuale forse prima che morale – è condivisione, cioè sapere che da soli non andiamo da nessuna parte. Ecco cosa ci dicono le nostre radici, cosa ci dice Leonardo, e su cosa ci ammonisce l’anniversario del Trattato di Versailles che, dopo la Prima guerra mondiale, ha determinato le condizioni per l’avvento del nazismo. Prestiamo grande attenzione: oggi l’Europa corre un rischio mortale di disintegrazione e cupa regressione. Uniamoci, in modo dialettico, senza uniformarci, intorno all’umanesimo per farla tornare ambiziosa, senza muri, senza paura di ciò che è: identità inquieta e polifonica che cerca e ricerca senza stancarsi mai. Senza stancarsi mai di rinnovare la giustizia e la libertà. Ecco il Nuovo Umanesimo.

Indice PREMESSA.

Dai classici e dal popolo (L. Ciotti e V. Alberti) 1. Diventa ciò che sei (V. Alberti) 2. Libera la cultura (L. Ciotti) 3. Democrazia e bene comune (L. Ciotti) 4. Identità democratica (V. Alberti) 5. Nuova laicità (V. Alberti) 6. Migranti e muri (L. Ciotti) 7. Quale antimafia? Quale legalità? (L. Ciotti) 8. Quale bellezza salverà l’Europa? (V. Alberti) 9. Nuovo Umanesimo (V. Alberti e L. Ciotti)