Per leggere C.E. Gadda
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TESTI

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- C. E GADDA

BONACCI EDITORE ROMA

PER LEGGERE collana diretta da Carlo Muscetta

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PER LEGGERE

CCEaGADDA a cura di EpuarDo

BONACCI

MELFI

EDITORE ROMA

proprietà letteraria riservata

© Bonacci editore, Roma 1986 ISBN 88-7573-063-6

AVVERTENZA

Il presente volumetto si propone di facilitare un primo accostamento ai testi di Carlo Emilio Gadda attraverso una campionatura limitata ma quanto più possibile rappresentativa. È risultata purtroppo inevitabile la completa esclusione di varie opere di non scarso rilievo, quali la Meditazione milanese, Le meraviglie d’Italia, il pamphlet antifoscoliano, ecc.; tuttavia gli ambiti ai quali i testi assenti sono riconducibili (per i casi addotti, rispettivamente: la speculazione filosofica, la produzione saggistica, la satira antiretorica) sono stati in larga misura illuminati ricorrendo ad altri specimini. Del resto è quasi superfluo sottoli neare che il volumetto non aspira ad essere un sostituto, bensî un incentivo al rapporto diretto con i testi di Gadda nella loro integrità, una preparazione e un ausilio a letture autonome. Qualche precisazione può essere necessaria riguardo all’apparato delle note. Il loro primo obiettivo è di facilitare la comprensione letterale di un testo complesso e stratificato qual è quello gaddiano. Si è cosî abbondato, per esempio, nell’illustrazione degli inserti dialettali, soprattutto di quelli in milanese (vale a dire in un vernacolo che non è mai adeguatamente entrato in una circolazione nazionale attraverso i mezzi di comunicazione di massa); mentre è sembrato possibile limitarsi a più sporadici chiarimenti lessicali in casi come quello del vulgatissimo romanesco. In secondo luogo — sempre in funzione delle più elementari esigenze di decifrazione — le note vertono sulle meno aperte tra le fitte allusioni (storiche, geografiche, naturalistiche, autobiografiche, ecc.) che danno al testo gaddiano un aspetto parossisticamente e parodisticamente « enciclopedico ». Infine (riservate quasi sempre alle introduzioni ai brani le osservazioni di carattere stilistico e retorico) si sono in genere segnalate nelle note le più importanti emergenze, nella pagina di Gadda, di un ricco intertesto (che spazia dai classici latini agli scrittori contemporanei). Varie ragioni hanno imposto di volta in volta limiti diversi allo sviluppo di questo apparato. Solo con parsimonia, ad esempio, si sono gravate di supplementi esplicativi le celebri note d’autore, fino a lasciarne del tutto sguarnite quelle di soggetto scientifico o filosofico nell’Adalgisa. E solo in misura relativamente contenuta si è fatta corrispondere, alla crescente complessità degli ultimi testi, una simmetrica

3)

proliferazione di chiarimenti in nota. Due esempi: appena nelle sue linee maestre è stata seguita, nel commento, la trama delle ambiguità e delle permutazioni oniriche di una delle più dense sequenze del Pasticciaccio (brano V.3); nessuna prolissa (e in ogni caso insufficiente) parafrasi in lingua è stata accostata alla pullulante polifonia dialettale su temi aiscrologici della favola n. 180 (brano VI.1).

Autolimitazioni non soltanto imposte dall’ovvia consapevolezza del carattere delirante di ogni aspirazione a un commento « esaustivo » (anche solo imperfettamente) di un testo di tale complessità; ma anche suggerite dalla volontà di lasciare al lettore, nel suo procedere, spazi gradualmente più ampi per esercitare le capacità acquisite i itizere di orientarsi nel testo — e di perdervisi, anche, attivamente e lucida-

mente.

LA VITA E LE OPERE

VI

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Ji

1893: nasce a Milano il 14 novembre. Il padre, Francesco Ippolito, lavora nel campo dell’industria della seta, nel quale tenterà speculazioni poco avvedute, che rapidamente lo rovineranno. La madre, Adele Lehr, di padre ungherese (Francesco Ippolito la sposa da anziano, avendo atteso il matrimonio di una propria figlia di primo letto per passare a seconde nozze), è una

donna

«energica,

sana, colta », ma

che lascerà, con

la

sua severità, un marchio doloroso nella vita del figlio. 1899-1900: quando già le sue condizioni economiche sono compromesse il padre investe ciò che rimane dei suoi risparmi nella costruzione di una « strampalata » casa di campagna a Longone, in Brianza, simbolo di uno status sociale ormai pressoché perduto. Questa impresa inopportuna aggraverà la povertà dell’infanzia e dell’adolescenza di Carlo Emilio, e la « fottuta casa » di Longone tornerà come una presenza ossessiva di primo piano anche nella sua opeta.

1909:

muore

il padre.

1912:

pur avendo mostrato notevoli attitudini pet le lettere, Carlo

Emilio si iscrive, per volontà della madre, alla facoltà di Ingegneria dell’Istituto Tecnico Superiore di Milano (oggi Politecnico).

1915-1919: interrompendo gli studi universitari si arruola come volontario tra gli alpini col fratello Enrico, che in seguito passerà all’aviazione. Catturato nella rotta di Caporetto, è prigioniero in Austria e a Cellelager in Germania (dove gli sono compagni Ugo Betti e Bonaventura Tecchi). Nel gennaio del 1919 è di ritorno a Milano, dove apprende della morte (23 aprile 1918) dell’adorato fratello Enrico in un banale incidente aereo alla vigilia di una licenza. Le esperienze traumatiche della guerra e della prigionia, nonché del desolato ritorno, sono registrate, col loro alone di torturanti elaboraconzioni nevrotiche, nel Giornale di guerra e di prigionia,

9

temporaneo agli avvenimenti; e riemergeranno insistentemente in molti testi futuri. 1920:

laurea in ingegneria elettrotecnica; fessionale (Sardegna, Lombardia).

inizio dell’attività pro-

1922-1924: soggiorno di lavoro in Argentina, presso la Compafiia General de Fésforos. 1924:

ritorno a Milano. Studi di filosofia; insegnamento di matematica e fisica presso il Liceo Parini. Nel marzo, subito dopo il rientro, allettato dal premio messo in palio da Mondadori per un inedito, comincia a lavorare a un romanzo, che non porterà a termine. Ne rimangono i « Cahiers d’études », pubblicati solo postumamente nella loro integrità, sotto uno dei titoli prospettati da Gadda (Racconto italiano di ignoto del novecento); ma negli anni seguenti lo stesso Gadda ne riprenderà i temi o ne estrarrà brani per la pubblicazione (è il caso, ad esempio, dell’Apologia manzoniana apparsa su « Solaria » nel 1927).

1925:

prepara una tesi su Leibniz, che tuttavia non presenterà.

1925-1931: lavora a Roma presso la Società Ammonia Casale (viaggi di lavoro in Belgio, Francia, Germania). 1926:

inizia

1928:

la collaborazione

alla rivista

scrive il saggio filosofico Meditazione postumamente)

e inizia il romanzo

fiorentina

« Solaria ».

milanese (pubblicato

La Meccanica

(che rimane

incompiuto e sarà pubblicato nel 1970). 1931:

le Edizioni di «Solaria » pubblicano La Madonna dei filosofi.

1931-1934:

il suo primo libro,

lavora nei servizi tecnici della Città del Vaticano.

1934:

esce, ancora presso le Edizioni di « Solaria », Il castello di Udine, che vincerà il premio Bagutta. i

1936:

il 2 aprile muore la madre. L’anno seguente Gadda si libera finalmente della casa di Longone. A ridosso di questi avvenimenti si colloca la stesura della Cognizione del dolore: sette puntate del romanzo (che rimarrà incompiuto come tutte

10

le opere maggiori di Gadda) usciranno tra il 1938 e il 1941 sulla rivista « Letteratura ». 1939:

pubblica presso Parenti Le meraviglie d’Italia, una raccolta delle sue prose giornalistiche.

1940:

abbandona definitivamente la professione di ingegnere (lasciata e ripresa già varie volte a partire dal 1931) e si trasferisce a Firenze, dove conta di vivere del suo lavoro di scrit-

tore e approfondisce i contatti con gli ambienti letterari. In realtà il momento si rivelerà dei meno propizi a una simile conversione di carriera: gli anni della guerra e del primo dopoguerra divoreranno i risparmi di Gadda e renderanno irrisori i proventi della sua attività di scrittore, riducendolo — sulla fine del decennio — alla miseria, alleviata dal soccorso di amici milanesi e di mecenati come Raffaele Mattioli. Escono in questi anni L’Adalgisa, raccolta di « disegni milanesi » (Le Monnier, 1944), e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (a puntate su « Letteratura », 1946-1947).

1950:

l’insostenibile situazione fiorentina è risolta con un trasferimento a Roma, dove, per intervento di G. B. Angioletti, Gadda è chiamato a collaborare al Terzo Programma radiofonico. Pubblica negli anni seguenti Il primo libro delle favole (Pozza, 1952) e le Novelle dal Ducato in fiamme (Val lecchi, 1953; Premio Viareggio nel settembre).

1955:

nel giugno dà le dimissioni dal suo incarico alla RAI. Esce presso Sansoni il Giornale di guerra e di prigionia.

1957:

è pubblicato in volume presso Garzanti, modificato e accresciuto, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (Premio degli Editori nel dicembre). È l’inizio del successo di Gadda presso il grande pubblico: gli anni seguenti vedranno la pubblicazione

di numerosi

testi inediti, o usciti solo in rivista,

o comunque trascurati al loro primo apparire, fuorché da una ristretta cerchia di lettori.

1958: 1963:

raccoglie un’ampia selezione della sua produzione saggistica nel volume I viaggi la morte, per Garzanti. è pubblicata in volume, presso Finaudi, La cognizione del dolore, accompagnata da un saggio di Gianfranco Contini one (Prix International de Littérature nel maggio); in un’edizi

11

successiva il testo sarà arricchito di due «tratti» inediti. Gadda diventa sempre più un punto di riferimento essenziale nel dibattito letterario, e l’oggetto di un’attenzione, se non di un culto, che spesso però scatena l’insofferenza dell’Ingegnere.

1967: esce presso Garzanti il saggio « psicanalitico » sul fascismo Eros e Priapo (Da furore a cenere).

1973:

12

muore a Roma il 21 maggio.

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DI GUERRA E DI PRIGIONIA » E LE LETTERE

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Come lo stesso Gadda indicava nella Intervista al microfono del 1950 (poi raccolta nel volume I viaggi la morte), all'origine della complessa scrittura dei suoi testi più noti sta una serie di tentativi giovanili nelle direzioni apparentemente più disparate. Si tratta innanzitutto di una produzione in versi, che non sarà rappresentata in questo volumetto anche perché a tutt’oggi non è edita che parzialmente, e si attendono ancora i risultati del lavoro che ad essa sta dedicando la giovane filologia gaddiana. Un obiettivo successivo è stato « il saggio, la sognata mezzoria filosofica da leggere all’Istituto di Scienze Lettere e Arti, da inviare ai concorsi accademici, dove si è premiati d’una medaglia di bronzo ». I testi di questa categoria saranno evocati, per economia espositiva, quando ne rintracceremo le propaggini nella produzione narrativa. Ma un’importanza decisiva hanno soprattutto i diari e le lettere, in cui — col reagente del violento coinvolgimento autobiografico — gli strumenti linguistici in via di acquisizione nell’ambito lirico-descrittivo e in quello saggistico-filosofico si ibridano tra di loro, nonché con altri di diversa natura, e cominciano ad essere adibiti a fini propriamente marrativi: con risultati che spesso preludono già a quelli che saranno conseguiti nei grandi testi della maturità. È dunque indispensabile almeno un rapido sondaggio in questo campo, che tocchi il Giornale di guerra e di prigionia e le lettere, delle quali varie raccolte sono apparse negli ultimi anni. *

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Il Giornale di guerra e di prigionia (pubblicato nel 1955 e in edizione accresciuta nel 1965) raccoglie quanto si è conservato delle note stese quasi quotidianamente da Gadda — « addirittura in buona copia, come vien viene » — durante la sua partecipazione alla prima guerra mondiale come alpino: note che vanno dal pe-

15

riodo di istruzione a Edolo (agosto 1915) al servizio in prima linea, e dalla prigionia in Germania al doloroso ritorno in patria nel 1919 (mancano alcuni quaderni, smarriti nei giorni della rotta di Caporetto e in successivi spostamenti). Caratteristico del Giornale è il particolare « militarismo » con cui è affrontata ed analizzata l’esperienza bellica, un « militarismo serio » (l’espressione è di Gadda: vedi il brano II.2), ben diverso da quello estetizzante di D'Annunzio o da quello truculento dei manifesti futuristi. Per Gadda la Grande Guerra è — e tale rimarrà sempre nel suo giudizio — « necessaria e santa », perché egli vi vede la continuazione del processo di costruzione dell’Italia, e l'opportunità di pervenire ad « una vita nazionale più pura e più alta e forse più serena ». In realtà l’intero Giornale non è che la registrazione delle crudeli smentite che questa speranza incontra alla prova dei fatti. Inetti, per la più parte, si rivelano i generali: « asini, asini, buoi grassi, pezzi da grand hétel, avana, bagni; ma non guerrieri, non pensatori, non ideatori, non costruttori; incapaci d’osservazione e d’analisi, ignoranti di cose psicologiche, inabili alla sintesi ». Ma non molto migliori appaiono «i nostri uomini » della truppa: certo eroici nell’attuare, mal attrezzati, piani d’attacco dementi, e tuttavia troppo spesso pigri, sporchi, imprudenti, rissosi, pertinaci nel costellare diffusamente dei propri escrementi gli immediati dintorni delle trincee. Questa realtà deludente innesca la crisi personale di Gadda. Frustrato nel suo disperato bisogno d’ordine («il pasticcio e il disordine mi annientano ») e nel suo desiderio « di fare qualcosa per questa porca patria, [...] di nobilitare in qualche maniera quel sacco di cenci che il destino vorrebbe fare di me », Gadda precipita nella depressione, che la prigionia esaspererà ulteriormente, ridestandone le antiche radici: « sentii con intensità spasmodica che non un sotriso di giocondità ha rallegrato i miei giorni distrutti; ho patito tutto, la povertà, la morte del padre, l’umiliazione, la malattia, la debolezza, l'impotenza del corpo e dell’anima, la paura, lo scherno, per finire a Caporetto, nella fine delle fini ». A ciò si aggiunga un lancinante senso di colpa, già acuto nei giorni della prigionia («Io mi sento finito: sento di non aver fatto a bastanza per la patria e per il mio superamento morale... »), ma addirittura devastante una volta appresa, di ritorno a Milano, la morte del fratello: « Perché Dio non ha ascol-

16

tato la mia fervente preghiera del ’15, del ’16, di sempre: “La guerra prenda me e non Lui”? » (Intorno a questo ossessivo rimorso per la propria sopravvivenza si legga una pagina del ’24, Preghiera, qui brano II.3). Si delineano insomma nel Giorrale alcuni temi fondamentali che si ritroveranno in tutta l’opera di Gadda: la volontà d’ordine frustrata dal « pasticcio » (nella vita civile come in quella dell’individuo, nei progetti di conoscenza del reale come in quelli miranti all’opera letteraria classicamente organica e perfetta), le analisi di un moralista bizzoso, il torturante, patologico senso di colpa... ._ Quanto al piano della scrittura, sono ancora limitate, nel Giornale, le irruzioni del pastiche — vale a dire l'imitazione e la contaminazione deformante di linguaggi e testi altrui —, che sarà uno degli aspetti più appariscenti dei successivi testi gaddiani, e il più soventemente rilevato dai critici, a lode o a condanna, ma sempre con un certo disappunto dello scrittore. Non per questo il modello di prosa da cui il Giornale prende le mosse, frutto di una buona cultura « liceale » e di una amorosa frequentazione dei classici, in particolare latini, rimane immune

attentati:

da altri, ripetuti

li opera la stessa paradossale varietà dei temi (effusioni

liriche si alternano, nel Giorzale, a osservazioni tattiche, a rilievi

ingegnereschi, persino alla dimostrazione di un teorema di geometria, subito battezzato « del Gaddus ») e più ancora l’azione grottesca di dispositivi retorici, come quello che si può vedere in opera nel brano che segue.

DAL « GIORNALE I.1 [IL PASTICCIO

DI GUERRA

E DI PRIGIONIA »

ITALIANO]

Una disfuzione dell’apparato burocratico, che blocca il sottotenente Gadda, è all’origine di questa impennata bizzosa, una delle molte che vengono scatenate, nel Giornale, dallo spettacolo del vizio italiano del disordine e del pasticcio. Lo sfogo si allarga progressivamente fino a toccare il tema della radice narcisistica del disordine sociale; e se la trattazione di tale tema, nella prospettiva « militaristica » di questo primo Gadda, appare certamente ristret-

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ta nei confini di una denuncia dell’inettitudine bellica degli italiani, essa contiene tuttavia il germe delle memorabili invettive di Gonzalo contro l’Io, nella Cognizione del dolore, e dell’analisi del narcisismo come motore della degenerazione fascista in Eros e Priapo. Accanto a tracce minime, di tono ancora in parte goliardico, della tendenza al pastiche (nella veste trilingue che viene conferita al Ministero della Guerra), si noti soprattutto, nel brano proposto, il ricorso già efficacissimo alla figura retorica dell’euzzerazione. Qui adibita alla descrizione del tipico tavolo d’ufficio degli italiani, sotta di microcosmo dominato dal caos, l’enumerazione ritornerà costantemente nei testi di Gadda, con esiti via via più complessi ed ambigui, come una struttura portante privilegiata della ricorrente rappresentazione-esorcizzazione del disordine e del « pasticcio » da parte dell’Ingegnere.

Passando ad altro argomento, ricevetti dal mio amico Besozzi l’assicurazione che né al Comando Supremo (in una prima lettera) né al Ministero of Krieg (in una cartolina ricevuta ora) esiste né esisté mai alcuna pratica, relativa al passaggio di complemento del sottotenente di M. T. Carlo Emilio Gadda. Questo mi fa impazzire dalla rabbia, poiché la persecuzione che la burocrazia (personificata dal disordine e dall’insufficenza mentale di tutti i miei compatrioti) esercita su me, mi atterrisce. Nella mia vita di studente, per le carte necessarie all’esonero dalle tasse; nel chiedere la nomina alla M. T. nell’aprile maggio giugno 1915 (quando le mie carte languirono in un ufficio, per disordine, dal 1 aprile al 30 giugno, ritardando di 3 mesi la mia nomina e quindi la mia anzianità e facendomi fare la figura di averla chiesta solo dopo lo scoppio della guerra, mentre la domanda era del 27 MARZO 1915 [lettera a Lulù]) e ora, dopo aver fatto un corso al Tonale, dopo esser stato promosso « buono con 3 », nel fatto che non m’arriva nulla, dal gennaio a questa parte; in tuttociò si vede una sfortuna bestiale, che mi abbatte. Tra 1°8° fanteria e il 5° alpini e la Commissione di avanzamento avranno imbastito tali pasticci, che non è più possibile uscirne. Che porca rabbia, che por18

chi italiani. Quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti, impareranno a tener ordinato il proprio tavolino da lavoro? A non ammonticchiarvi le carte d’ufficio insieme alle lettere della mantenuta, insieme al cestino della merenda, insieme al ritratto della propria nipotina, insieme al giornale, insieme all’ultimo romanzo, all’orario delle ferrovie, alle ricevute del calzolaio, alla carta per pulirsi il culo, al cappello sgocciolante, alle forbici delle unghie, al portafogli privato, al calendario fantasia? Quando, quando? Quand'è che questa razza di maiali, di porci, di esseri capaci soltanto di imbruttire il mondo col disordine e con la prolissità dei loro atti sconclusionati, proverrà alle attitudini dell’ideatore e del costruttore, sarà capace di dare al seguito delle proprie azioni un legame logico? Perché farmi perdere tre mesi al Tonale? Se non volete passarmi di complemento, cosa che dovrebbe interessare più a Voi che a me, perché è a Voi, italiani, che difettano uomini che vogliano andare al fronte, mentre per me andare al fronte è solo un piacer mio; se non volete passarmi di complemento, non istituite il corso, non offritemi di andarci, non fatemi perdere 3 mesi. Volete o non volete? Volete si o volete no? Volete sf? bè allora sia sf fino alla fine, e, quando son passato, nominatemi. Volete no? Bè: allora non aprite il corso, non mandate un ordine del giorno in cui si chiede ai terribili di passare di complemento. Porci ruffiani, capaci solo di essere servi, e servi infedeli e servi venduti, andate al diavolo tutti. Non siete degni di chiamar vostri figli i morti eroici. Combattere tra soldati che hanno paura di una fucilata, che ingialliscono al rumore del cannone nemico, che se la fanno addosso al pensiero d’un pericolo lontano, e #07 perché hanno moglie e figli (non raccontatemi mai una tal balla!) ma solo Io, per paura personale, paura di me, paura di io, paura di esso come questi, tra del proprio Io, del proprio Io-me, combattere

sono due o tre dei miei giannizzeri che il diavolo li scoglioni, gravische gusto è? Non nego che il sacrificio della vita sia simo per tutti: che gravissimo appaia anche a me:

ma l’uomo

deve essere uomo e non coniglio: la paura della prima fucilata, 19

della prima cannonata, del primo sangue del primo morto, è una paura da tutti: ma la paura continua, incessante, logorante che fa stare Cebellini Manerbi e Mainetti rintanati nel buco come delle troie incinte, è roba che mi fa schifo. Bene: basta altrimenti passo la mattinata a scrivere ingiurie al mio paese, dove viceversa il coraggio e l’eroismo non mancano. Ma il disordine c’è: quello c'è, sempre, dovunque, presso tutti: oh! se c'è, e quale orrendo, logorante, disordine! Esso è il mare di Sargassi per la nostra nave. CEG.

24-7-1916.

DA « L’INGEGNER FANTASIA. LETTERE A UGO BETTI 1919-1930 »

1.2 [UN FUNERALE

PREFIGURATO]

È la parte più ampia di una delle ultime lettere (Roma, 11 gennaio 1930) allo scrittore Ugo Betti, conosciuto durante la prigionia. Informazioni sul «lavoro ingegneresco » e sulle difficoltà che ostacolano il lavoro letterario inttoducono una grottesca fantasia sul proprio funerale, che anticipa una delle pagine più intense della Cognizione del dolore (vedi il brano IV.3).

Le mie notizie recenti, eccole. Dopo essere guarito del mal di stomaco e aver scritto 2/3 del romanzo! di cui forse ti avrà parlato Tecchi, sono rientrato alla Società Casale ? nello scorso aprile-maggio e ho lavorato a Terni tutta l’estate. Re-

centemente ho avuto un breve congedo per Natale. Il lavoro ingegneresco mi ha tagliata netta ogni altra possibilità e anche il libro delle mie cianfrusaglie promesso a Carocci? e per il 1 La Meccanica (su questo romanzo, che rimarrà incompiuto, cfr. il cap. seg.). 2 La Società Ammonia Casale, per la quale Gadda lavorò dal 1925 al 1931 (e come collaboratore esterno fino al 1940). 3 Alberto Carocci, direttore di « Solaria », nelle cui edizioni uscirà nel 1931 il libro in questione, La Madonna dei filosofi.

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quale ho già sborsato qualcosa, è in sospeso. Cercherò di fare almeno quello. — Il guaio è che col nuovo anno 1930 (e cioè a giorni) io sono stato destinato dalla mia società a eseguire il montaggio degli impianti all’estero. Partirò quindi a giorni per la Germania e dividerò il mio tempo fra Germania, Francia, e Belgio: dove abbiamo impottanti lavori nelle zone carbonifere. — Se mi scrivi subito a Milano troverò passando le tue notizie, con grande piacere. — Passano gli anni, e vado ancora ciabattando per il mondo, per racimolare una minestra al giorno, da defecarsi poche ore dopo. Mi domandano se ho intenzione di prender moglie: « ... E lei non pensa a scegliersi una compagna?... ecc. ecc. ». Quando era il maggio del 15 mi dicevano che “Stavo bene” vestito da alpino. « Pari più bello, pari più lungo, pari più grosso, (pari più fesso.) » Quando starò crepando, mi chiederanno se ho bisogno una limonata. Sono, insomma, pieni di delicatezza. AI funerale ci sarà probabilmente uno scheletrito cavallo, con gualdrappa nera argento, paraocchî, e pennacchio nero: il quale lf per lî non si capirà bene che cosa diavolo possa simboleggiare. A ogni passo del comatoso quadrupede il pennacchio gli oscillerà su quella testa carcassa, vuota d’ogni imagine: e dagli occhî velati gli verrà fuori una specie di marmellata di susine: sulla serpa avranno issato un cocchiere ottantreenne con una feluca neroverde per lunghe acquate novembrine, non senza prima avergli messo in mano delle redini, (in omaggio a una vecchia consuetudine locale), raccomandandogli che le tenga più strette che può e che non si pisci addosso. Arrivando tireranno il fiato tutti perché quel cocchiere mummificato, nonostante la feluca di contrammiraglio, tutti tealmevano che potesse rotolar giù di cassetta da un momento uno. di invece due via portar da l’altro, e allora ce n'erano Questo funerale potrebbe riuscire insomma una cosa mol. 21

to decorosa: qualche signora potrebbe tentare una piangiutina ‘ (o piantarello), soffiandosi il nasetto in un fazzolettino listato di nero: qualche semizio o ex-cugino si sarà provveduto d’una cravatta nera proprio per la circostanza. Ci saranno forse anche degli erbaggi e qualcheduno “dirà due parole di saluto” belando un’adeguata porzione di luoghi comuni in italianonaviglio 5, con trenta o quaranta errori di grammatica al massimo.

L'ufficiale dello stato civile sbaglierà per l’ultima volta il cognome straniero di mia madre , che in mia vita ho letto sui passaporti come Levi, Lelli, Ledi, Leliri, scritto da analfeti? calabro-siculi della questura. Intanto suonerà mezzogiorno e tutti potranno finalmente andare a far colazione.

4 Calco del milanese piangiudina. 5 «In italiano contaminato col milanese » (i navigli erano, prima dell’interramento della gran parte di essi, l’elemento più caratteristico dell'urbanistica ambrosiana): nota l’uso, non inconsueto in Gadda, di un sostantivo in funzione aggettivale. 6 Adele Lehr, di padre ungherese. 7 « Analfabeti »: «la deformazione linguistica gaddiana, oltre a suggerire, con l’elisione delle lettere 4 e £, la condizione di individui che non conoscono neppure le lettere iniziali dell’alfabeto, perviene ad una composizione grottesca e spregiativa saldando i due termini: anal-feti » (Ungarelli).

22

II DAL « RACCONTO ITALIANO » AL « CASTELLO DI UDINE »

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Il bando del Premio Mondadori per un romanzo inedito spinge nel marzo 1924 Gadda — tornato «in grande abbattimento e incertezza » dall’Argentina — a realizzare il desiderio, già a lungo coltivato, di cimentarsi in una prova narrativa di vasto respiro. Dei « Cahiers d’études » — cosî li designa lo stesso Gadda — vengono destinati a raccogliere i materiali in vario modo connessi alla redazione del progettato Racconto italiano di ignoto del novecento. Si tratta da una parte di « note critiche » e « note compositive », cioè di riflessioni sui problemi posti dalla diverse fasi dell’ideazione

e della realizzazione,

e dall’altra di « studî », cioè

di brani più o meno elaborati da integrare nel romanzo. Tutti questi materiali sono classificati e datati, spesso in forma ridondante: e benché i risultati tendano ad essere paradossalmente caotici, anche un tale apparato è una testimonianza dell’impegno riservato all’impresa. In realtà la posta dei « Cahiers » è decisiva per Gadda: è in gioco, infatti, il passaggio dalle prime prove liriche e diaristiche o da esperimenti nell’ambito del racconto, alla narrazione spiegata, al romanzo. E ciò in un momento in cui, nelle varie letterature dell’Occidente, le strutture narrative tradizionali stan-

no rivelando sempre più chiaramente il loro stato di crisi: una crisi che si manifesterà, infine, anche nel corso della ricerca perseguita negli stessi « Cahiers ». È tuttavia necessario sottolineare con Dante Isella (curatore della esemplare edizione critica dei « Cahiers ») che «il punto di partenza del Racconto è ancora e proprio il confronto con la nozione ottocentesca di romanzo; la sua entrata in crisi e i successivi decorsi sono frutto dell’esperimento di questi mesi, una conseguenza non un a priori ». Più precisamente, il punto di riferimento fondamentale dell’operazione gaddiana è Manzoni,

di cui Gadda

(vedi brano II.2)

si propone di riprendere e ampliare il progetto — che sta alla base dei Promessi sposi — di rappresentazione critica di un pro-

25

cesso di corruzione della collettività e dei singoli. Nel caso del Racconto italiano, il processo di degradazione della vita sociale italiana, che la narrazione dovrebbe descrivere, è quello che Gadda ha già visto in opera durante l’esperienza della guerra, offrendone a caldo, nel Giorzale, una prima frammentaria analisi. Nella trama del romanzo (che non è qui possibile riassumere adeguatamente. anche per l’indecisione nella quale Gadda ha lasciato molti suoi nodi) il quadro grosso modo delineato nel diario bellico si arricchisce di un precoce tentativo di rappresentare gli esordi del movimento fascista. Su questo sfondo è messa in scena l’involuzione e l’autodistruzione del protagonista, Grifonetto Lampugnani, un personaggio di eletta natura (in parte autobiografico) che giungerà infine all’assassinio della donna amata. La vicenda di Grifonetto incarna cosîf, emblematicamente, una tesi essenziale del romanzo, quella dell’inestricabile rapporto « polare » tra bene e male, normale e abnorme: una tesi sulla quale Gadda ritornerà con in-

sistenza nella sua Meditazione filosofica come nei successivi testi di finzione. Quanto alle questioni di tecnica narrativa, di particolare interesse è l’approfondita riflessione dedicata nelle « note compositive » al problema del punto di vista, di cui è nota la centralità nella speculazione di scrittori e teorici contemporanei, da Henty James a Michail Bachtin. In questo campo Gadda propone un’analisi estremamente acuta dell’opposizione (e delle contaminazioni possibili) tra i due modi fondamentali di narrazione: la narrazione che egli definisce « ab exteriore », che si ha allorché gli eventi sono

visti, come

dall’alto, da un

narratore

esterno

alla vicenda;

e la narrazione « ab interiore », nella quale il narratore è identificato con un personaggio. Una varietà analoga a quella dei punti di vista, se non maggiore, si registra sul piano delle possibili soluzioni linguistiche: fin dalle primissime note (vedi il brano II.1) Gadda si dimostra consapevole tanto della molteplicità delle « maniere » di cui egli dispone, quanto della propria costituzionale riluttanza a compiere scelte decise ed esclusive in tale ambito. È facile comprendere, a questo punto, come la stessa natura accanitamente analitica del lavoro di Gadda nei « Cahiers» ne abbia reso impossibile la cristallizzazione conclusiva nella natrazione unitaria ed organica, di tradizione ottocentesca, che pure era il suo obiettivo di partenza. Il progetto del Racconto italiano sfocia dunque in un « fallimento » — ma in un fallimento estre-

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mamente produttivo. Constatata — o piuttosto accanitamente perseguita, contro gli stessi progetti di partenza — l’impossibilità dello sbocco più prevedibile e regolare, il cantiere dei « Cahiers », infatti, non chiuderà mai veramente. Nella sua produzione successiva — dalla Madonna dei filosofi alle Novelle dal Ducato in fiamme, dall’Adalgisa alla stessa Cognizione del dolore — Gadda attingerà al seminario dei « Cahiers » temi, spunti, sequenze narrative. Spesso ne preleverà interi brani che, più o meno rimaneggiati, saranno pubblicati autonomamente: è il caso dell’ Apologia manzoniana, apparsa su «Solaria » nel 1927, o di Preghiera, inclusa nella Madonna dei filosofi nel 1931 (qui brano II.3). Ma il risultato più importante, al di là dei recuperi materiali, consisterà proprio nell’aver posto in modo irreversibile, anche se con una consapevolezza ancora necessariamente parziale, i punti d’avvio fondamentali dell’intera ricerca narrativa gaddiana. *

*o*

Anche i tentativi successivi conosceranno lo scacco e l’incomquapiutezza. In primo luogo La Meccanica, il romanzo intorno al al o risalgon pagine alcune (ma 29 1928-19 le Gadda lavorerà nel di smaa popolan di figura una Zoraide, scena in mette che ’24), e lo stugliante bellezza, il marito Luigi (un artigiano socialista) un segna ca Meccani della imento L'esper dente Paolo Velaschi. deabilità impratic della a coscienz di presa la verso passo ulteriore digressioni gli schemi ottocenteschi: la narrazione è rallentata da malgrado lingua, la lgisa; dell’Ada temi e che anticipano atmosfere da animata è tà, omogenei ata controll di ideale un sia operante regola, naturalistifughe verso il dialetto o il pastiche, ancora, di

ere molti camente giustificate, e tuttavia tali da lasciar intraved Novella finito, non torso e singolar altro un Di sviluppi futuri. o

avanti, trattand seconda, pubblicato solo nel 1971, si dirà più della Cognizione del dolore. nel 1931, nelle Il primo libro di Gadda ad essere pubblicato, ma La Mao, romanz Edizioni di « Solaria », non sarà dunque un Due rac. natura varia di testi di donna dei filosofi, una raccolta e CiTeatro ti, ambien di ioni sentaz rappre conti con vivacissime virtuo(una gna campa nema, incorniciano Manovre di artiglieria da osi mitologiche e da sistica « descrizione magnificata da due ipotip enti riuniti sotto framm otto e ») raro diverse locuzioni dell’uso

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il titolo di Studi imperfetti, nei quali il genere della « prosa d’arte», di moda in quegli anni, è portato ben oltre l’intensità consueta. A conclusione è collocato il pezzo che dà il titolo al volume, un racconto dal tono linguistico per lo più alto e patetico, che sfrutta nuclei narrativi già abbozzati nel Racconto italiano. Vi si intrecciano le vicende di Maria Ripamonti, una dolce e tragica figura di giovane donna, e dell’ingegner Baronfo, afflitto da una nevrosi scatenata da tormentose vicende personali, e attratto dal rifugio della filosofia. Singolarmente (ma Gadda si spingerà ben più oltre in questa direzione) elementi autobiografici sono disseminati tanto nel personaggio di Maria (il cui lutto per il promesso disperso in guerra echeggia quello di Gadda per il fratello caduto) quanto in quello di Baronfo (per il quale si veda il brano

II.4). Li

Sempre

presso

le Edizioni

I,

di « Solaria » esce, nel 1934, I

castello di Udine, un’altra raccolta di prose diverse. La prima parte riprende, su un tono costantemente alto, i temi militari del Giornale, sottolineandone le implicazioni etiche. Nelle sezioni seguenti le coordinate della « prosa d’arte », nelle quali molte pagine si inscrivono, vengono in varia misura e in vario modo forzate. Una poetica della deformazione è del resto professata fin dal saggio liminare Tendo al mio fine: lo strumento principe ne è la sfasatura dei codici rispetto all’oggetto, della quale un esempio particolarmente saporoso può essere quello offerto, in Crociera mediterranea,

dall’adibizione

di uno

strumentario

raffinatissimo

alla descrizione dei diporti abbastanza banali dei passeggeri del « Conte Rosso ». Inoltre, lungo tutto il volume, i livelli del testo, già moltiplicati dal gioco delle allusioni colte e dalle doppiezze dell’ironia, si accrescono ulteriormente per il controcanto continuo delle note dell’immaginario Dott. Feo Averrois: un alter ego dell’autore, al cui commento — di volta in volta commosso o pedante o sarcastico — si finge che gli Editori di « Solaria » abbiano affidato ii compito di rendere « meno oscuro, ai più chiari Ingenii d’Italia », il dettato del « convoluto » Ingegnere.

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DAL « RACCONTO ITALIANO DI IGNOTO DEL NOVECENTO » II.1 [LA GAMMA Nota Cr 2. —

DELLE

(24 marzo

MANIERE] 1924 —

Ore 16.30.)

Tonalità generale del lavoro: È una grossa questione. Le maniere che mi sono più famigliari sono la (a) logico-razionalistica, paretiana !, seria, cerebrale — E la (b) urzoristico-ironica,

apparentemente seria, dickens-panzini. Abbastanza bene la (c) umoristico seria manzoniana; cioè lasciando il gioco umoristico ai soli fatti, non al modo d’esprimerli: l’espressione è seria, umana: (vedi miei diarii, autobiografie.). Posseggo anche una quarta maniera (d), enfatica, tragica, « meravigliosa 600 », simbolistica, che forse è meno fine e di minor valore, ma più adatta a un’impressione diretta e utile a « épater le bourgeois. » Questa maniera d si avvicina alla poesia, è interessante, ma contrasta grandemente con le altre e credo che sarebbe difficile legarla e fonderla. — Finalmente posso elencare una quinta maniera (e), che chiamerò la maniera cretina, che è fresca, puerile, mitica, omerica, con tracce di simbolismo, con stupefazione-innocenza-ingenuità. È lo stile di un bambino che vede il mondo: (e che sapesse già scrivere.) — A quale afferrarmi per l'attacco alla gloria? Mi rincresce, mi è sempre rincresciuto rinunciare a qualcosa che mi fosse possibile. È questo il mio male. Bisognerà o fondere, (difficilissimo) o eleggere. Vedrò in altra nota. — 24.3.1924



Ore 16.30. —

1 Cioè modellata sullo stile delle analisi dell’economista e sociologo Vilfredo Pareto (1848-1923).

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II.2 [LA « TRAGEDIA » ITALIANA] Nota Co —

3. —

25 marzo 1924 —

Ore 12. —

Uno dei miei vecchî concetti (le due patrie) è l’insufficienza etnico-storico-economica dell’ambiente italiano allo sviluppo di certe anime e intelligenze che di troppo lo superano. Mio annegamento nella palude brianza. Aneliti dell’adolescenza verso una vita migliore. — Militarismo serio, etc. — Si può dire che è una continuazione e dilatazione del concetto morale Manzoniano: « uomini e autorità che vengon meno all’officio e sono causa del male della società, fondamental-

mente buona. » Cosîf A. Manzoni. Io dico estendendo: « Non solo autorità, ma anche plebe e tutto il popolo che vien meno alle ispirazioni interiori della vita, alle leggi intime e sacre e si perverte. — Tragedia delle anime forti che rimangono impigliate in questa palude. Se grandi, con loro vizî, pervertono popolo (rea-

zione sociale dell’attività individuale); a sua volta popolo con suo marasma uccide anime grandi (reazione individuale della perversione o insufficienza sociale). — » Manzoni concetto morale-civile. To concetto più agnostico-umano. Vorrei quindi rappresentare nel romanzo la tragedia di una persona forte che si perverte per l’insufficienza dell’ambiente sociale. — È questa una caratteristica della storia sociale d’Italia: (Foscolo andato a male, Scalvini suicida, etc. Rinascimento; Risorgimento: migliaia di esempî. Dante stesso) e non meno caratteristica della tragedia inversa che chiamerò Manzoniana: (male sociale provocato da mancanza

dell’individuo). —

Se il

disertore provoca la rovina dell’esercito; il cattivo esercito spegne l’entusiasmo dei buoni che vi militano.

È questa anche la mia tragedia. Il tipo che deve gestire questo pensiero non deve però assomigliare a me, avendo io anche caratteri involutivi miei 30

personali indipendenti dall'ambiente. Deve essere un buon tipo di razza. Forse avvierò questo tipo al fallimento e alla tragedia — o almeno alla tragedia intima, mascherata da un esteriore accomodamento.

DA « LA MADONNA

DEI FILOSOFI »

II.3 PREGHIERA È un breve brano dei « Cahiers », passato a far parte con questo titolo del gruppo degli Studi imperfetti nella Madonna dei dalfilosofi. Vi si effonde un iperbolico senso di colpa, scatenato innuad e fratello al Guerra, Grande nella ssuto, l’esser sopravvi parte merevoli commilitoni caduti: tema già dominante nella ricoramente ossessiv finale del Giornale (Vita notata) e in seguito rente nei testi della maturità.

Ho pensato molte volte di voi, poveri morti, sebbene dovessi accudire al lavoro di ufficio e mi sentissi, anche, poco bene. Siccome si richiede diligenza in ogni adempimento, cosî più definii con seguitare gli atti del lavoro: e a voi non ho e il ragione la pareva mi che dicato quel cosî intenso dolore, senso della mia vita. poter Radunando ogni pensiero più puro, avrei voluto ina, determ tutto Chi a comporre una preghiera che, rivolta vivete voi come Ma, vi ottenesse una infinita consolazione. o bene che nella luce ed io mi dissolvo nell’ombra, cosî capisc sovveque comun è certo impossibile che possa la mia miseria suona, non nire alla vostra fulgidità. E poi, forse la mia voce

non può essere udita. che non doChe devo fare? Quando cammino, mi pare quando nel mezvrei. Quando parlo, mi pare che bestemmio; Di

zogiorno ogni pianta si beve la calda luce, sente che colpe e vergogne sono con me. Perdonatemi! Io ho cercato di imitarvi e di seguitarvi: ma sono stato respinto. Certo è che commisi dei gravissimi errori, e cosf non fu conceduto che potessi inscrivermi nella vostra Legione. Cosî mi sono smarrito. Ma penso di voi, compagni morti. Vi sono monti lontani, terribili: ed ecco le nuvole sorgono, come sogni, o come pensieri, dai monti e dalle foreste.

II.4 [L'INGEGNER

BARONFO]

Precoce ma già tipico esponente di una lunga serie di personaggi gaddiani « autobiografici », l'ingegner Cesare Baronfo mutua dal suo autore il destino di reduce dalla Grande Guerra, lacerato tra gli impegni di una professione frustrante e un’intima vocazione « filosofica ». E mutua ancora (e soprattutto) un lungo catalogo di rigetti e di bizzose insofferenze: contro il « mondo del dopoguerra », popolato di arroganti « pervenuti », con relative « analfabetissime donne »; contro la « civiltà Mediterranea », ingorgo fragoroso di mandolini, romanze veriste, guafti canini; contro se stesso, infine, tormentato dal dubbio «di esser lui Ja colpa di tutto », incapace com’è di un rapporto non traumatico con la realtà. È il referto, dal di dentro, di una « nevrastenia », che anticipa per molti versi il vasto ritratto di Gonzalo nella Cognizione del dolore; dove tuttavia una maggiore complessità di scrittura permetterà di integrare in un dettato alto e patetico una gamma ancor più ampia di elementi deformanti e parodici.

L’ingegner Baronfo era titolare di una floridissima azienda di rappresentanze, ereditata dal padre, e da lui figlio molto onorevolmente gestita negli anni che si soglion chiamare calamitosi, dopo il Politecnico e dopo la guerra. Secondo una affermazione della sua portinaia, certa signora Dirce, non meglio qualificata, (era però, come lingua, di primissima scelta), egli aveva recentemente « allargato il suo giro d’affari ». La 32

signora Dirce sapeva servirsi a tempo e luogo di precise designazioni tecniche. Ma questo allargamento del giro non riguat-

dava il giro finanziario e contabile della ditta, sf i veri e propri giri topografici del veloce ingegnere, che avevan finito per assumere ed osservare un ritmo frenetico. Non era ancor scese da un direttissimo, che già il suo bagaglio veniva issato con pena su di un altro, già sibilante. Il suo campo d’affari raggiungeva da tempo amene cittadine dell’Italia Centrale, dove il padre, tenacia e fatica, aveva elaborato anno per anno una « numerosa ed affezionata clientela », che con pari affetto e in numero non minore di adepti soleva accogliere tutti i suoi concorrenti, a ogni sùbita ventata che scompigliasse inopinatamente i listini. Adesso Baronfo aveva preso a spingersi, per gli acquisti, nella Prussia Settentrionale e, per le vendite, in Puglia e in Sicilia: e pare intendesse fino a Malta ed a Tripoli e nel « vicino » Oriente; — ma ci voleva un nuovo passaporto. Egli non osava confessare a se medesimo che forse un motivo altro da quello del lucro poteva avergli suggerito cosî lunghi, cosî intensi viaggi, contrariamente ai consueti desiderî delle sue ossa. Gli è che l’anima sospinge talora le povere, stanche ossa, come una crudele fustigatrice: e, da quella simulatrice che è, dice che lo fa a fin di bene. I treni caldi e stanchi sussultano in corsa agli aghi delli scambi e la mente, che aveva cominciato a dimenticare nel sonno numeri e listini, riscossioni penose, clienti morosi dal sorriso pieno di umiltà dilatoria o di signorilità fallimentare, nuove ordinazioni disbranate dalla concorrenza famelica e fatte, anche quel poco rimasto, iperbolicamente ipotetiche, la mente è ridesta di colpo ad altre e non meno mordenti angustie. Quali pensieri o sogni cullavano l'ingegner Baronfo ai bruschi urti del fuggente vagone? Forse una lenta neve sulle acute case di Norimberga o di Bruges, un fuoco di tre legni, una tepida moglie, una dolce bimba, dai grandi occhi ammirati, a cui regalasse ogni confetto e ogni bambola bella. Certo è che penose incertezze gli sconquassavano quel focherello. 5)

L’implacabile compagna delle sue notti di riposc gli aveva attribuito, non si sa come, a lui, proprio a lui, quella irrimediabile « gaffe » che ormai aveva preso il nome e la consistenza di Gigetto. Luigi, figlio di Cesare, dicevano gli atti: e questo Cesare era lui, non certo il proconsole antico. Ma proprio lui? Un ingegnere, un calcolatore, un viaggiatore? Ma se passava in treno sei notti su sette, come poteva essergli capitata una storia simile? Eppure Gigetto gli assomigliava ogni giorno di più; se lo prendesse nostalgia della balia, raggiungeva strillando le ultime note del cantino, ma il « volume » era terrificante. Teneva dei Baronfo anche nel carattere, non si poteva non riconoscerlo. Ma sua madre, Emma Renzi, sua madre, non aveva accolto i soli omaggi di un Baronfo, quella strega forsennata! Pellicce, gioielli, cappelli; ingegneri, medici, giureconsulti; scarpini, calze, giarrettiere, colonnelli; ed anche un figlio! Un figlio, povero cristo, ha fame per diciott’anni. Ai primi denti, le cose presero una piega istero-epilettica. Sposarla non ne volle sapere: piuttosto si sarebbe lasciato revolverare, come nei giornali. Le spaventose scenate con cui Emma Renzi l’aveva accolto poi a ogni nuovo dente che Gigetto mettesse (quaranta coinquiline alla finestra, in ascolto) avevano avuto per lui ripercussioni un po’ dure, ma era il minore de’ mali, sulla scelta degli alberghi, degli antipasti, dei piatti, dei vini, delle pesche, cadauna lire quattro, susina uno e venti, dei sarti, dei posti a teatro. Ma si erano ripercosse altresi sulle sue opinioni circa « l’ignobile materialismo degli psicologi contemporanei ». Il dubbio atroce che l’anima fosse daddovero tutt'uno con il sistema nervoso, filtratogli sottilmente nell’ossa, cominciò ad ossederlo. Allora, per allontanar questo spettro, finî per spendere altre duemila lire in bagni, visite mediche e sciroppi ricostituenti, ingombrando la casa d’una collezione inverosimile di bottiglie, bottigliette, scatole, fiale, bòssoli e fialette, che non ardî più di gettare, nella tema di perder di vista qualche medicamento più efficace degli altri. Qualche volta, dominato dall’idea che « più ne prendo e più mi fa bene », prendeva delle indigestioni impressionanti, a base 34

di fòsforo o di ferro o d’arsenico, o di tutt’e tre insieme, e solo una energica purga e una dieta di allesso poteva controbilanciare l’effetto di quei potenti energetici. E fini anche, come dicemmo, per ottemperare nel modo più assoluto ai suggerimenti di un quinto o sesto neurologo specialista, questo qui però di Milano !, che, per sole cinquanta lire, lo esortò « a distrarsi, a viaggiare (sic), e a non permettere che le idee lugubri gli entrassero a sua insaputa nel cervello, il quale aveva indubbiamente bisogno di serenità e di riposo ». Per soprannumero gli rifece poi in senso inverso l’apologo di Menenio Agrippa: che il cervello non deve voler tutto per sé, ma anche l’intestino, e il fegato col relativo cistifèle, e le gambe ed i piedi e i polmoni e il filone della schiena han pur diritto a un certo qual trattamento. Al qual conclusivo epifonema ?, sinceramente plaudiamo. Quando finalmente si ammalò davvero, l'ingegner Baronfo cominciò a trovar che la vita non vale la fatica di viverla, la vita, ch'è « l’ombra d’un sogno fuggente » 5, secondo il parere di un trovatore fenomenalista: e lo « spirito » solo è quello che conta. E a furia di pensare allo spirito, s’era dato a riaprire certi libri vecchi e dimenticati da tempo, che negli anni di giovinezza eran passati sul suo tavolino e qualche non ignobile pensiero avevano acceso dentro la sua inquetissima anima. E di pensiero in pensiero, anche per certa dimestichezza di persone assai colte, per certa frequenza d’un cenacolo 1 Baronfo ha precedentemente consultato, tra gli altri, un neurologo romano, alle cui massicce prescrizioni di protojoduro si alluderà 4 più avanti. i 2 Sentenza posta enfaticamente a conclusione del discorso. 3 Parole di Jaufre Rudel nell’omonimo componimento di Carducci in Rime e ritmi (« Contessa che è mai la vita? / È l’ombra di un »). sogno fuggente / La favola è finita, / il vero immortale è l’amor (fiorito Con ricorso straniante alla terminologia filosofica il trovatore il nella prima metà del secolo XII) è definito « fenomenalista » perché i attribuirgl testo carducciano, nello scorcio che ne offre Gadda, sembra l’apla convinzione che della realtà (della « vita ») sia conoscibile solo l’essenza. non e a parenza fenomenic

a)

di « cerebrali », e per l’amicizia viva e la stima che professava a un compagno di liceo, laureatosi in filosofia e in filologia, gli era venuta la grama idea di levarsi dagli affari e dai treni, dai « soliti » alberghi e dall’« ampio e ben illuminato » ufficio: e di mandare l’affezionata clientela a carte quarantotto. E di dedicar la sua vita al pensiero, allo « spirito »: e di incamminarsi, non osava confessarlo, per una via seminata di spine: la via dei filosofi. La tendenza a rivangare e criticare ogni cosa ce l’aveva sempre avuta: piantava poi a metà lavoro la vanga nella indocile terra, lasciando che la sterpaglia seguitasse a viver nel sole. Vivere e lasciar vivere, sogghignava. Ma poi era anche che il mondo del dopoguerra gli pareva troppo sciatto, troppo volgare, troppo dominato dal caffè concerto e dai rivenditori di motociclette, troppo popolato d’asini in tocco e di villani indomenicati: con analfabetissime donne, sazie d’ogni cibo, sdraiate nelle fanfaronesche automobili de’ spaccamonti falliti. Ma certo erano le fisime della nevrastenia. Tutto era per lui ombra o tortura. Il grammofono « gli demoliva i nervi »; il mandolino gli strappava concitate apostrofi contro « la civiltà Mediterranea » e, subito dopo, la veemente e circostanziata asserzione della preminenza morale della razza eschimese, che non lo suona; il piano degli steps e delle barcarole.... era un serrar di mascelle che una stretta eguale non la producono gli stricnidi e il tètano; i cani, quando abbaiano a ogni più futile caso, li avrebbe remunerati versando loro con un imbuto del burro fritto e ben rosolato nelle orecchie; e ai loro padroni nell’umbilico; mentre invece la cattiva sintassi e l’enfasi spropositata di alcuni concittadini gli erano cagione d’oscuramenti, di vertigine e d’agorafobia; e le prodezze de’ nuovi architetti gli davano il giallo dell’itterizia. Certi imparaticci poi, recitati a gran voce dai concionanti droghieri, improvvisatisi economisti della nuova Europa, gli parevano indegni d’un venditore ambulante di fazzoletti. Prese ad odiare Puccini, Leoncavallo e Mascagni, che l’Italia ed il mondo universo salutavano coi nomi della gloria. Sognava falò accesi da cataste di mandolini:

36

e di coronare

imperatore

d’Occidente

un

samojedo

sordo.

E odiò anche, d’un odio cupo, senza sapere chi fosse, Giambattista Pedrazzini, al di cui nome era intitolata la via, dove abitava: e dove c'erano tutti insieme grammofoni e man-

dolini, maschietti urlanti a rincorrersi e serve discinte e padrone poco cognite di storia della filosofia, e automobili di pervenuti e beccai e droghieri e sparanti motociclette e cani e cagnette e lattai. Cosî, un po’ per la salute e un po’ per questa manfa filosofica, aveva ceduto l’azienda a chi non aspettava di meglio

e s'era, come dicono, ritirato, a trentaquattr’anni. Aveva di che vivere: avrebbe fatto studiare Gigetto, il più era levarlo

da quelle granfie. E studiava filosofia. De’ suoi malanni si consolava rammemorando la gracile giovinezza di Cartesio e la tubercolosi che rapî Spinoza quarantacinquenne all’affetto de’ rabbini, e alla cristiana benevolenza di tutti i dottori di tutte

le confessioni cristiane. Non sempre però gli pareva di trovar in sé la fede e la forza per tirar avanti in quella desolata strada: «e se fosse un'invenzione de’ preti? », si chiedeva l’Innominato, del misterioso al di là, nel buio castello; « e se fosse un’invenzione

de’ filosofi? », si chiedeva del mondo l’ingegner Baronfo, atterrito, in Via Giambattista Pedrazzini N. 28, piano terzo, ‘, mentre il grammofono d’un coinquilino, « dai cieli bigi » lentabeneficî de’ castello gli demoliva in pochi giri tutto il mente accumulati a furia di protojoduro. E intanto l’azienda l'aveva liquidata; e altri tettavano. Allora, guardate un po’, pensava di esser lui la colpa di lui l’asitutto, e non la « civiltà Mediterranea »; lui l’abulico, mano, fra dire, cosî per eva, no; con una vita che gli si dissolv

rivoltella, con una vita senza capo né coda. Pensava allora alla

al porto dov'era, se era carica, scarica: e, per associazione, alla le, pretore al a, questur alla d’arme, al rinnovo, ai bolli,

Puccini: 4 Rodolfo nel Quadro primo della Bohème di ». . Parigi.. oli comign / mille dai fumar bigi / guardo

« Nei cieli

DA

gnata.... a quel.... giovanotto 5. (Non osava più dire, neanche tra sé, « quel calabrese », per paura che il Padreterno lo sen-

tisse e ne riferisse al titolare). E riconosceva, preso dai brividi dell’umiltà, d’aver avuto torto: torto marcio. Non bisogna aver dispregio a nessuno, ché cui oggi si dispregia, domani è più alto di noi. Eppure sentiva di non essere un pusillanime. Le medaglie, le ferite‘. Era la bontà personificata: ecco. Un po’ acre talora, ma galantuomo. Un po’ di malumore, un po’ distratto, come capiva poi in ritardo da certe irrimediabili gaffes; ma era la nevrastenia! Queste crisi di impersonalismo o di inelezione, come amava di definirle, lo coglievano talora tra un filosofo e l’altro, quando la zuppa era più tremenda o più grama.

DA

«IL CASTELLO

II.5 LA FESTA

DI UDINE »

DELL’UVA

A MARINO

È la descrizione (di cui si riproduce qui la parte centrale) di una festa popolare nella nota cittadina della Campagna Romana. Ma il godimento, da parte del gitante Gadda, dei coloti e dei rumori « giocondi e salubri » della festa, è turbato dalla prefigurazione di ciò che lo aspetta al suo ritorno a sera in città, nella « contrada senza uva »: la tortura degli isterici fragori operistici (esemplificati dalla Carzzen di Bizet guafta da Radio Roma-Napoli) riversati nei timpani del «cittadino Gadda » dall’apparecchio di rin bar sottostante alla sua abitazione. La stizza suscitata da questo pensiero irritante esplode in una delle sfrenate fantasie sadiche di rivalsa (puntigliosamente corredate di precisi dati tecnici) abituali nei testi di Gadda: come l’ustione di cani e padroni con burro fuso nel brano della Madonna dei filosofi riportato sopra; o i massacri con mitragliatrice e le impiccagioni con corda-

5 Il robusto garzone diciannovenne, uno scontro col quale aveva fruttato a Baronfo una legnata in testa e un processo (perduto). 6 Riportate nella prima guerra mondiale.

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me di qualità superiore, su cui medita Gonzalo nella Cognizione In questa occasione lo strumento « voluttuosamente » vagheggiato da Gadda per l’immaginatia vendetta è un tubo di dinamite: la cui esplosione — nel sogno iperbolico del mite e compîto Ingegnere — proietta tutt'intorno al detestato apparecchio radio

fonico, con surreale materializzazione, pezzi di Carmen, corna di toro, nacchere. Placato, Gadda può tornare ad immergersi nella festa, nel mare dei suoi « rumori gioviali », attratto dai richiami intrecciati dei venditori e dalla trionfale ed allettante esibizione della porchetta (la cui descrizione preannuncia le superbe pagine

stimolate

dallo

stesso

oggetto

nella

seconda

parte

del Pastic-

ciaccio).

zi

Dalla terrazza del sagrato (non so dove, suona una banda) ecco la nebulosa pianura della Campagna, dove si incastonano, minimi e bianchi, i dadi delle case disperdute. Fumante qua e là d’un lieve esalare di cenere; sono treni rotolanti lontano: o un incendio vano di stoppie, che bruciano incontro all’autunno. Con addosso una camicia sudata e appiccicaticcia, nel lago

torrido e opaco del vento scirocco !, eccomi a contemplare le cose della campagna e della festa, esule verso l’uva fuor dal giardino senz’uva dei lombardi aforismi e delle milanesissime « moralités ». Guardo con impegno la torre e le gialle mura delle Monache Francesi di Grottaferrata sull’opposto colle, di là dal vallone: e sento con impegno recitarmi ? i nomi di Borghetto e dell’Abbadia: pare che il Della Rovere l’abbia affidata al Sangallo, ne ha tutta l’aria. Oltre i muri diruti di Castel Savello, ma un poco a sinicome sommersi 1 Giornata umida, caldissima. Sensazione d’esser. Eccomi a con« . mitigava non torrido vento del in un lago; che l’alito riconsola il Ns., templare.... »: la ingenua allegrezza della festa paesana Poi, all[usione] un attimo, delle ambasce e della sua desolata miseria. ASZAal: [N. gente sua di sicuro e ioso sentenz tono al ASIE 2 «...recitarmi....»: da una guida improvvisata ENAFASB

39

stra, lontane ed altissime, le antenne della stazione radio di Morena. Ulivi e vigne sui colli e poi la campagna color cenere: l’uva è « fatta », cioè matura. Dei razzi, a un tratto, mi disimpegnano 5: arrivati appena

in cielo, schioppano * con un tuono d’inferno e fanno un fracasso ancora meglio che i timpani e i piatti della ferocissima banda. Qui due ragazze li chiamano > castagnole, « mo’ spàreno le castagnole »: i rumori della festa sono giocondi e salubri, chiari i lor nomi sulle belle bocche. Quando nelle mie camere

timpaniche avrà preso alloggio il Silenzio 9, forse anche il mio animo sarà ricondotto alla sua giusta pace: una consolante assenza di «desideri» e di «affanni » albergherà nel mio

« Seno ». Per il momento

(taccio dei desideri) ma

« l’affanno » è

tutto nel pensiero del Musagete 7; che mi avvelena la mia festa; perché a piombo sotto la mia camera c’è un bar con otto clienti:

nel bar vive il Musagete e stanotte,

a Roma, non so

che sorpresa mi prepara, ma certo làida. Dopo la festa, dopo il lavoro, cittadino non immemore d’alcuni doveri 5, io ciò il Musagete. Questo è quello che Dio riserba all’uomo implorante silenzio, dopo il traino del dovere cigolante: socchiudo appena le palpebre.... « Radio Roma-Napoli... ». Scaturiscono dalle interiora proprie del Musagete divine musiche, voci di becco, e rimbombano piene d’un lirismo defecatorio nella contrada senza uva. Sento avanzarsi un toreador,

3 Intendi: dalla guida [N. 4. A.]. 4 «....schioppano.... », dal lomb. s-ciopàa = scoppiare [N. d. A.]. 5 «....li chiamano....»: oltre che di lieta meraviglia linguistica, si tratta d’un’altra qualità di letizia, alla vista delle due giovani. « ....I lor nomi...» = i nomi degli ingredienti della festa [N. d. A.]. 6 Cioè «quando sarò rimminchionito del tutto; o forse quando sarò sotterra. Amb[iguo]»

[N. d. A.].

7 L’apparecchio radiofonico viene designato con l’appellativo di Apollo, « guida delle Muse ». * n falsa modestia, si attribuisce alcune perfezioni civiche

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sento una spagnola? che strilla fino a mezzanotte, e un caprone che la rimbecca. Vanno avanti per ore e ore, interrotti solo da quella dolce didascalfa: « Radio Roma-Napoli. Abbiamo trasmesso.... » Sf, cara, sf lo so, gioia, lo so che so, lo so anche senza che me lo dichi. Una Questo nella terra che fu del marinese un tempo avevano fabbrica e bottega loro

cosa avete trasmesbella porcheria. Carissimi !° e dove Gasparo di Salò, i

Guarnieri, gli Amati, gli Stradivari !!. « Invecchiare! Morire! », penso dal sagrato a Marino, guardando terrorizzato l’autunno. Ma il Musagete non morirà mai! Cerco nel piano i taciti archi degli acquedotti, la scia dei fuggenti treni. Faticherò la mia vita. Riposerò. E sopra il mio riposo strillerà la spagnola. Sopra i timpani del cittadino Gadda la implacata spagnola avrà vinto. « Radio Roma-Napoli... ». Iracondo contro il garofano rosso e pazzo d’odio contro tutte le nàcchere, medito sul sagrato della Sagra dell’uva, medito una polpetta di dinamite. Me la rimastico voluttuosamente, come una cicca consolatrice: ne penso accuratamente le di-

mensioni: venticinque centimetri, facciamo anzi trenta. È un bel tubo, no? Penso al diametro interno: quattro centimetri, un pollice e tre quarti. Penso la nuvola di calcinacci che fa-

rebbe, più gloriosa che quelle del Tiépolo, con una sirena di

pompieri in arrivo. 9 La gitana Carmen, protagonista — col torero Escamillo e col briopera gadiere dei dragoni Don José (il « caprone ») — dell'omonima di Bizet. a un 10 Giacomo Carissimi (1605-1674), da Marino Laziale, figlio Tivoli, poi ad bottaio, di sangue marchigiano. Maestro di cappella a Collegio GerAssisi, (*27-°30), poi nella chiesa di sant’Apollinare del o Manelli, Francesc di o Discepol motî. dove Roma, a manico Ungarico, arriva allo Handel. maestro ad Alessandro Scarlatti: traverso lo Steffani « Le amorose passioni Mottetti, cantate, Missae, Oratorii, Concerti sacri. legge di soppressione di Fileno » (Bologna, 1647) è opera desiderata. La disperdimento e il il cagionò Roma, di francesi anni negli Gesuiti, de’ i in copie o in superstit lavori I carte. e memorie lui di guasto delle A.]. d. [N. ]) I[taliana opedia] (E[ncicl edizioni rarissime. — 11 Tutti celebri liutai italiani.

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Intanto briciole e farina di Musagete ripioverebbero giù dal cielo, con pezzi di coscia di Carmen da mezz’etto l’uno, con le castagnette incastagnate, con frantumi di corni di toro e di toreri.... Tutta una voluttuosa pioggia sopra gli elmi dei pompieri ciechi, in un polverone indescrivibile... I petali del garofano rosso verrebbero giù per conto loro adagio adagio, in modo da essere qui domani mattina.... Dum rediens fugat astra Phoebus !. E mi ingolfo cosî nei numeri e nei colori della festa, rasserenato, placato. Mi circondano con il loro aspetto familiarmente allegro ed ingenuo: sono rumori gioviali, non raschiano l’epigastro: mi assordano e mi prendono a mezzo, me fuori d’ogni umana brigata, come un vagabondo che si accolga alla cena del di di festa e non mi chiedono s’io fossi chierico !* o stanco soldato. Navigo fra la gente dei borghi d’Alba, fatta di figliole per bene, e di maschi indomenicati, pacati e sani; mandorlata di ciclisti di Roma: mi sento delle ruote di bicicletta tra i ginocchi !, mi sento carezzare affettuosamente le reni e contro la schiena un gran caldo molle, come il thermògene 4, dedicato proprio alla mia pleura. È una signora enorme, che lo scirocco e il vin di Marino hanno resa carezzevole e termogenica, tutta in un felice bagno di sudore. Mi sorride, materna. Le cedo il passo, cavaliere quale son sempre. Un’onda di grida mi leva fuori dalla melma del mio destino, pesci fritti!, fiori de cocuzza !, magra magra! (attributo esimio della porchetta), alla 1 Orazio, Odi, III, 21, v. 24: «finché Febo tornando non metta in fuga le stelle ». 13 «.....chierico...» = clericus = studente o laureato in filosofia. Amara all[usione] ai suoi studi, che il lavoro ingegneresco gli vieta di petseguire. E ancora soldato [N. d. A.]. 14 Riferisci l'avvenimento alla manfa dell’ordine e della compostezza formale, ch’è delle più elette qualità del Ns. [N. d. A.]. 5 Di ovatta senapata, oppure termoelettrico. Si applica al petto e alla schiena per cura de’ bronchi infreddati, de’ polmoni, della pleura [N. d. A.]. 16 « ....cocuzza...» = zucca. Fiori di zucca impastettati e soffritti: è una ghiottoneria romanesca. « ....Magra....»: la porchetta è tanto più pregiata e sàpida quanto più è magra [N. d. A.].

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manna de Marino signori!, (che è l’uva), baccalà fritto!, focacce cor buco!, alla vera manna! bisogna magnà giovinotti!

giovinotti tenetevi in forze! mentre le ragazze dalle scarpe di finto serpente inducono in ogni pensiero sereno, con dolci o languidi o puri occhi: mentre dei canarini gialli mi volano davanti al naso, vellutati batùffoli di sei soldi, compreso l’elastico che li fa volare; e il canarinaro strilla, mercante ottimista, nel folto d’una quindicina di monelli biondi, dal muso sudicio di succo d’uva come i pulcini di crusca !. Strilla il concorrente più temibile, venditore-zavorra ! d’un mazzo di palloni rossi, sferici o lunghi, uno bleu: a cui si rivolgono in un disperato sospiro altri volti, con biondi o neri anelli di riccioli, e tastano tra le manine quei rotondi, e fiutano lo strano odore della levità rattenuta. Strilla anche quello che vende gli anelli e le boccole, dopo d’aver disteso a terra il suo tappetino cremisi, in riva alla fiumara della gente, e sul tappetino le più preziose, le più rare gioie: metà imbonisce i presunti fidanzati, metà protesta con chi gli mette i calcagni sul tappeto a rischio di macinare quelle gioie: e chi calpesta protesta contro il protestante. Le gemme le salva l’aiutante di tra le scarpe del popolo, racimolando accorato i rubini incompresi e i misconosciuti lapislàzuli: dei polli fritti passano alti da mano a mano sopra le teste !? di chi non ha ordinato nessun pollo fritto, ma c'è chi vuole le patate ed è risospinto via dall’incalzare del destino, e defraudato delle giuste patate; quand’ecco una musica di mandolini e guitarre, portata innanzi da giovini biancovestiti, fende trionfalmente la calca: (e tutti si fanno da parte, ammirati); come da noi nei borghi la leva, quando cantano Ma 17 JI pulcino, veramente, si insudicia il becco, non il muso. tenerezza di quel passi!, data la poca età delle creature comparate, e la £ becco [N. d. A.]. palloni ai rispetto zavorra da funziona palloni dei 18 Il venditore ma medesimi [N. d. A.]. mano a qual19 Il friggitore, urlando, li aveva davvero messi in altro in seconda fila cuno in prima fila, perché li passasse a qualche pezzo, alto levati, od in terza. Ma si era sbagliato e i polli girarono un A: ENSg banco sul prima di tornare

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; 3 FORCE, p ) in coro: « ....tosann tiress indrée — lassée passà la leva.... » ° . Ma è questo un plotone austero e decoroso di bianchi mandolinisti, operai dalle fabbriche: sul loro viso la chiarità, la compostezza latina ed albana. A ogni passo, col pollice, danno anche un pizzico o una grattatina al primo cordone, e ne viene un susurro dolce in cadenza, quasi di mormorante guitarra: ma poi non si sente più nulla tra i catafalchi delle porchette, funzionanti da piloni laterali a contener la brentana ?!. « Magra, magra! » Abbaiano, presso la defunta porca, una megera fu-

rente, e il suo terzo marito. « Magra, magra! » I latrati con-

vincono all’acquisto una comitiva di energumeni, ma più lo squisito colore della porchetta: ch'è un marrone chiaro da non poter dire, tutto lustro, morbido e croccante ad un tempo: e dentro, la polpa, un grigio carne senz’osso, dove il rosmarino ha combinato miracoli. Abbandonata sul suo catafalco, dimostra, invece dei visceri, l’opulenza dell’infarcitura, rosmarino, aglio, patate, il timo e l’orfgano, tutti i misteri delle erbe e della terra latina, e dei sapori meravigliosi. Altre ragazze sopravvengono, cercando a salvar i piedini, che i serpenti a sonagli di Busto Arsizio e i pitoni di Varese 2 hanno cosî morbidamente, cosî amorosamente calzato. E dietro loro altri giovini, alcuni con il viso infarinato e una bicicletta alla mano, (ripulita già dai calzoni del prossimo), altri dilaniando una pagnotta infarcita di quella porchetta: sotto la

20 «Ragazze fatevi addietro — Lasciate passare la leva....», non senza un disdicevole secondo senso, dacché, per la ruvidezza ampia del canto, quella leva si trasforma in lceva (ce celtico): che è[N pannocchia di granturco [N. d. A.]. 21 «....brentana....» = fiumara di piena, voce veneta. I fiumi si imbrigliano, da lato, con vari modi di frangi-corrente. P. e. lunghi sacchi di rete metallica riempiti di ciottoli, e disposti normalmente al corso PNISASTANIE 2 I calzawrifici di Lombardia sono un vanto della industre gente lombarda. La moda delle scarpine in pelle di serpe (1931) li indusse a tramutare in cobra i più onesti vitelli: nell’apprestamento della qual serpentesca metamorfosi superarono in un battibaleno il Dante e l’Ovidio [N. d. A.].

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morsa delle potenti mascelle, rosmarino e aglio vengono striz zati fuori in un subito, lateralmente, da quel po’ po’ di sandwich, mentre che gli occhi gettano fiamme senza direzione prestabilita e grosse gocciole di sudore decadono giù per la fronte, stillando da ciocche màdide dei capelli. [...]

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protestava sommessamente l’amato »), anzi la fortifica nella sua volontà di ascesa sociale, di « evolversi [...] in una borghese perfetta, in una “signora” al cento per cento ». La rievocazione delle tappe salienti di questa prosaica epopea meneghina da parte del narratore è provocata e incorniciata dalle

battute di una conversazione dell’Adalgisa, ormai vedova, con El sa, una giovane donna anch’essa entrata per matrimonio nella famiglia del ragionier Biandronni. Ne deriva un intreccio articolatissimo di interventi del narratore, discorso diretto e discorso indiretto libero, che preannuncia i risultati del Pasticciaccio (e alla

presentazione di quest’ultimo, alla sezione V, si rinvia per considerazioni più dettagliate su questi problemi). Un tale gioco di piani narrativi si ritrova, naturalmente, anche nel brano qui riprodotto, nel quale il narratore sviluppa e integra i temi introdotti dall’Adalgisa nella sua celebrazione del marito defunto: tutto un quadro della città e dell’epoca viene cosîf delineato a partire dalla saga del « povero Carlo ».

Il povero Carlo, per quanto affetto da onestà cronica, utilizzava il suo diploma di ragioniere « amministrando » alcune case popolari in corso Vercelli, ma giù in fondo, però: e « on para de palazz de siori in via Brisa.... che domà quii.... » !: e rivedeva seralmente i conti ad alcuni droghieri de’ più pe-

1 «Un paio di palazzi di signori in via Brisa... che solo quelli... ».

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pati tra il Pontaccio e il Terraggio, passando anche da via San Giovanni sul Muro. Questi droghieri, immersi da anni in un’atmosfera mista di zafferano e pottorico ? tra scatole di biscotti Wafer, non lo erano altrettanto nella computisteria, poveracci. Come dice anche solo il nome, Carlo!, egli era un bravo e bell’uomo. I suoi baffi, al loro tempo, avevano trionfato in Libia, terrore del deserto. Neri e guglielmini sotto il casco, sublimi in vetta al mehàra, perseguirono implacabili alcuni beduini dagli occhi cisposi; e li avevano fugati ogniqualvolta. I beduini, accoccolati nel rovescio delle dune, avvistavano quei baffi a tre chilometri e mantenevano poi il vantaggio per tutta la corsa. Quei baffi avevano innamorato una mora, ma una mora vera, di Tobrùk: nonché un paio di morettone un po’ più nostrane, svoltando fuori da corso Vercelli, giù, giù, per i sentieri e lungo i filari dei salci, fino alla cascina Caccialèpori. E poi altre more, da mangiare, colte qua e là, in Valassina, « lunghesso » le siepi che circoscrivono campi di patate o di granturco: delle di cui foglie silicose, cra cra cra, larghe e lustre, le vacche sono amantissime. Carlo tornava dalle sue passeggiate suburbane con delle scarpe da masnadiero, che facevano la disperazione della serva. Pareva un « ingegner civile » reduce da misurazioni di terre. Per quanto avesse avuto cura di rimboccarsi i pantaloni, la Giovanna doveva lasciarli seccare « e poeu gratà e spazetà on di quando in quando una qualche para d’or » *, > rompendosi cancellazione delle pillàcchere. devota unghia sul panno, nella

2 «Portorico »: caffè dell’isola di Porto Rico nelle Grandi Antille. Misture varie di sedicente Portorico e sedicente Moka, in realtà di caffè brasiliani e raramente arabi o africani, costituivano le altrettante « specialità » de’ diversi droghieri e caffettieri [N. d. A.]. Il 3 Durante la conquista del paese da parte italiana (1911-12). nelle operadromedario africano (mehàra) fu comunemente impiegato circondata zioni belliche, che toccarono anche Tobrùk, città dell’interno, da quelli, » i guglielmin « detti sono ragioniere del baffi I dal deserto. coevi, del Kaiser Guglielmo II. 4 «E poi grattare e spazzolare un paio d’ore ».

DI

Tornava quasi affannato, con la bocca mezzo aperta al respiro, le labbra infebbrate, e un grande appetito in corpo: un po’ « sperlusciato » 5 nei capelli e nei baffi, i due grandi e lucidi occhi un po’ spauriti, il viso incavato, l’animo piegato a clemenza. Soprattutto, diceva lui, « stràkk me n’àsen » ‘. Unico « vero amore » l’Adalgisa! l’esaudimento di questo amore aveva però richiesto tutta una complicata procedura, delle visite piene di sorrisetti, dei brindisi in famiglia: la lieta sciarpa, infine, del sindaco. « Del resto, non bisogna credere che pensasse dumà a gòdere » ”, affermò l’Adalgisa con un moto d’orgoglio. « Lo studio, la scienza, erano il suo pane. Non era certo uno che viveva pet il ventre. Nelle poche ore libere, studiava sui libri. Continuava a leggere fino alla una, in letto, che io ero già bell’e addormentata. Si occupava di tante di quelle cose! Faceva delle raccolte. Le raccolte, oltre ai ritratti dei paesaggi della Libia *, erano il suo più grande ideale ». E infatti accumulava sistematicamente, nelle scatole disusate delle scarpe e dei biscotti di Novara, doviziosi strati di pezzetti di buste « con tutti i francobolli del mondo »: ma non solo quelli vecchi del Venezuela o della Martinica, sî anche quelli di jeri l’altro, e del Regno d’Italia. Del Regno d’Italia, anzi, con la venerata effige di Sua Maestà, ne arrivò a possedere un duemila. Tutte le migliaia di pezzi di busta avevano sedimentato in ventitre scatole di ex-biscotti le quali, in cima a un armadio, guai a chi le toccasse. L’Adalgisa aveva

5 « Sperlusciato » (dial. mil.): coi capegli arruffati ossia scarmigliati [N. d. A.1]. 6 «Stanco come un asino ». 7 «Domà a gòdere »: soltanto a godére: in un italiano raggiunto partendo dal dialetto: gòt si tramuta in gòdere. Cosî talvolta il romano ha sédere per sedére; da séde. «Si metta a sédere — basta cosî » PNSEGIZANI: 8 « Ritratti dei paesaggi della Libia». Ritratto per « fotografia »: in un italiano massinellico. Altrettanto « dei paesaggi », che è ridevole oltreché pleonastico [N. d. A.; Massinelli fu una delle più popolari macchiette meneghine create dal comico Edoardo Ferravilla (1846-1915)].

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finito per convincersi: chi pò savell??, che forse, un giorno, magari, si sarebbe anche.... potuto realizzare... Ed oltre che appassionato filatelico era un dilettante mineralogista: parlava di cassiterite e di orneblenda, di schisti e di faglie: di stato crioscopico, di allotropia, di rocce peridoticoserpentinose.... Più che la « geometria dei cristalli », però, « che quella, magari, l’è minga pan per i me dent.... », lo interessavano invece « i minerali in se stessi »; si lisciava i baffi, stirandoli e filandoli come da una conocchia, con un gesto un po’ alla zuava; « ....che la natiira, domà dervî i oecc, l’è talment varia... talment infinida.... » !. E apriva davvero sui suoi ascoltatori due occhi nerissimi, rotondi, da intimidire i bambini. Dei « minerali in se stessi » aveva riempito più d’un armadio di casa, e una credenza vecchia, dei nonni, e i tiretti della scrivania, la mensola d’un caminetto senza canna, i due

tavolini della « sala de ricéf » !!, il più grande e il più piccolo.

Per tutta la casa abbondavano

i fermacarte

(di calcite o di

solfo) e, in conseguenza, le carte. I bimbi, crescendo, ebbero il permesso di giocare con alcuni minerali dei più tenaci e dei meno avvenenti, ma fu loro proibito di « consumarli ». Ciò non ostante, fra i residui della spolveratura e della spazzatura, nella « lana » che veniva stanata da dietro i mobili, e già magari in prossimità dell’atra — ch'è, da noi, come la bocca d’un domestico Erebo — riiéra si reperivano quasi ogni giorno, sotto alla scopa, delle briciole

9 «Chi lo può sapere? ». 10 «Non è mica pane per i miei denti...» [...] «... perché la na». tura, solo ad aprire gli occhi, è talmente varia... talmente infinita... 11 « Sala per ricevere ». ol12 « Riiéra », (dial. lomb.), è la fossa delle spazzature di casa, ricavato nel treché il letamaio. Per estensione, quel condotto verticale domestico « riff » muro, a guisa di canna fumaria, pet il quale il di cantina. Diserbatoî appositi negli to precipita vien a) (= spazzatur dell’Autore plauso il ha milanese, urbana edilizia spositivo tipico della professori, un altro [Nota dell’Autore a Un « concerto » di centoventi « disegno » dell’Ada/gisa].

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di solfo cristallizzato, delle lamette o scagliette, ahi ahi, di mica; talora dei minuzzoli di ortoclasio. Le donne, è ovvio, congiuravano di celare lo scelus al pater-familias, deviandone i complessi talenti, a colazione, verso un qualche altro ramo dello scibile: o addirittura verso il prosciutto. Di San Daniele? Certo: vero San Daniele. « È buonissimo, proprio! » conveniva lui. Ma poi lo scelus finiva per trapelare dalle fenditure della reticenza, come il sospetto d’un incesto dalla casa delle Vestali. E non c’era passeggiata nei monti, a Intronno, né bagno di mare, a Varazze, che non ne discendesse o non ne uscisse greve di testimonianze geologiche o talassologiche, di conchiglie, ricci, cavallucci duri, secchi in breve come un’ala di pollo arrosto troppo arrostito: o gelatinose meduse, enfiate della loro utticante idropisfa. O, giù dai dirupi, silice. O pulverulenta dolomite. Il « periodo glaciale », poi, lo zavorrava senza misericordia. O con il brusfo o il ronzio, in una qualche tasca, d’un qualche notturno silfoide. O d’un cervo reluttante, d’un disperato calabrone. L’Adalgisa disse delle parole latine: avvicinò con gran sicurezza, ma naturalmente non riusci a pronun-

ziarli, i nomi del carabus violaceus e del purpurascens e s’imbrogliò poi del tutto nel carabus glabratus, un vero scioglilingua. La sua memoria di vedova e la sua bravura di donna milanese in un battibaleno menò sterminio degli sciagurati: una pioggia di beccacce sotto i colpi d’una carabina a tre canne. Aveva, dei nomi difficili imparati dal marito, l’idea che fossero assolutamente necessari a comprovare la sua qualità di « signora » e la sua fedeltà postuma di Adalgisa: e che in ogni modo bisognava pronunziarli come gnente fosse, con l’aria più naturale del mondo. Questi càlabi eran le prede più frequenti nei boschi, dis sepolti da sotto mucchi di fogliame e di rami fradici, inseguiti poi con le pinze, in un batticuore, dopo il cataclisma: quando 58

irraggiavano in celere fuga sull’umidore denudato della terra, a celarsi nuovamente dentro le borraccine ed i muschi.

Perché infine il povero Carlo! era anche entomòlogo, ragione per cui diverse signore di mia conoscenza, tra le più .

3 Il «povero

Carlo » ha radici e sviluppo

nell’epoca

« positivi

stica ».

Università Popolare. Biblioteche circolanti: bibliotechine. Circolo degli Impiegati Civili: (con le maiuscole, in Galleria V. E.: analogo ai Circoli degli Ufficiali). Unione Cooperativa: (emporio generale, ripartito per argomenti ossia voci di vendita, sul tipo dei Grands Magasins francesi): notevole nella Milano 1895-1905. Fondata già da Luigi Bùffoli; azioni da lire 10 perché anche l’impiegatuccio (gergale piemontese «travèt ») € l'operaio e in genere il consumatore-acquirente potessero costituirsene azionisti e in certo modo « controllare » l’azienda. L’idea motrice (a sfondo giustizia sociale) era anzi quella che il soprappiù di lucro accantonato dall’emporio nella felice esuberanza della sua propria auto-gestione, ritornasse a mano al consumatore-acquirente-azionista: sotto forma tangibile di dividendo (detto allora « frutto » o « interesse »), cioè ripartizione utili. Banca Popolare Cooperativa Anonima di Milano, fondata (1865) dall’allora giovanissimo Luigi Luzzatti poco dopo quella di Lodi (1865: prima in Italia) e coeva pure a quelle di Cremona e Bologna (1865). Mutue Cooperative Incendî: (cioè di auto-assicurazione de’ soci contro gli). « L'idea cooperativa » e « il movimento (= prassi) cooperativo » «si sviluppano » in tutta Europa dal 1840 circa, « apostoli » in Germania Schulze-Delitzsch (casse rurali) e Raffeisen: (banche cooperative). In Italia Francesco Viganò e l’infaticabile Luigi Luzzatti (Venezia, 1 marzo 1841; Roma, 29 marzo 1927; economista, sociologo, filantropo, docente universitario, ministro del Regno, senatore del detto, ornato di pappafico) legano i lor nomi al movimento cooperativo e delle « banche popolari » e « casse rurali »: da 4 banche di tipo cooperativo nel 1865 si perviene a 140 nel 1880, a 694 nel 1890, a 736 nel 1908. (Acme dello sviluppo fra il 1880 e il 1890). Azioni da lire 5 a lire 50, negli intenti suddetti. Il dispositivo di legge del 1882, « regolamentando la materia », stabilisce l’obbligo (già consuetudine) della nominatività superabidelle azioni. Dispositivi statutari limitarono a un massimo (non le) le azioni da possedersi pro capite: per es. tante fino alla concorrenza intestarne massima di lire 5000 a persona. Donde la comune pratica di o coopealla moglie e ai neonati: sono gli anni dei pargoli cooperatori, rativi: o addirittura cooperativi-incendi. in Altre note: bigliardi, e bigliardo a domicilio, (sala da bigliardo coi e scure, casa), birre austriache e però boeme, e tedesche, e chiare (e dispute relativi zelatori: vini e liquori francesi: prime birre italiane di (Bagno Milano a nuoto, da piscina prima da: connesse): pallacor visiera, con ciclista da i berrettin e te) arrancan Diana): ciclismo (pesante, o sotto il gioggi desueti: calzoni « knickerbocker », cioè con cinturin Società di ritrovo nocchio: calzettoni. Scherma e ritrovi schermistici.

DI

colte anzi della nostra società, lo dicevano professore d’etimologia. La sua « passione », la sua « specialità » furono i coleotteri. Dapprima aveva tentennato, aveva svolazzato qua e là, come ad orizzontarsi, nel campo infinito: «la natiira l’è tal(Clubs) come la Società Patriottica, la Società del Giardino, il Club dell'Unione, e molt’altre: dalle più « aristocratiche » o grasso-borghesi alle popolari e popolarissime. Salotti, in quelle, sale di lettura, salone da ballo, (ivi, poi, conferenze: e proiezioni luminose accompagnatorie con la « lanterna magica »), divani di velluto rosso, sale da gioco (dòmino, scacchi), ristorante, gabinetti con le prime maioliche. In queste il gioco delle bocce, lo spaccio delle bibite: pergola eventuale. Rarissimi gli occhiali da sole (alpinisti su nevaio o ghiacciaio), oggi (1943) comuni e direi indispensabili al gagà e alla dàttilo per attraversare il sagrato; diffuso (alla totalità della popolazione) il pitale, oggi onninamente inibito dagli architetti e arredatori igienisti e quadrangolari: (ma il Nostro obdura, pervicace nell’eresia). Non ancora asfaltate le grandi strade di comunicazione e però polverone indescrivibile; non ancora gli ski, né i traumi (fratture, distorsioni) che vi conseguono; molto alpinismo e alpinismo popolare: e però stelle alpine, scarpe alpine: (ditte specializzate, come l’Anghileri a Lecco e a Milano): inaugurazioni di rifugi alpini, costruiti a spese di volonterosi oblatori, con Messa celebrata da sacerdotealpinista: talora dedicati al nome di Garibaldi (Giuseppe) o al Duca degli Abruzzi: (Luigi Amedeo di Savoja-Aosta, duca degli). Il Club Alpino Italiano fondato (1863) da Quintino Sella ingegnere minerario, biellese: (C.A.I. è « calli » nei dial. lomb.). Colui che il Carducci dileggia quale adescatore politico, «il lungi operoso tessitor di Biella s’impiglia, — ragno attirante in vano, dentro le reti sue », fu, oltreché statista di gran dignità e pareggiatore di bilancio, alpinista e cristallografo eminente: primo scalatore italiano del Monviso. Il suo nome è ricordato ad onore dalla sellafte, raro (Savoja) fluoruro magnesio (Mg FI,) e identico alla belonesite (Vesuvio):

cosî come

il nome

di Tancredi de Gratet

de Dolomieu è ricordato dalla dolomite: carbonato doppio di calcio e magnesio Ca, Mg (CO,),. I nomi de’ minerali derivano spesso dai nomi degli scopritori, o classificatori. Presenza ed efficienza di carrozze e cavalli, e corriere a cavalli con tettuccio (dette « giardiniere »), nelle vie di città minori e, più, nelle strade di campagna: indi polpette cavalline e pipî cavallino a ogni piè sospinto, per via. Tafàni e stalle in città. Fanaliere a petrolio. Lumi a gas, accesi al crepuscolo dal gasista, mediante pertica piròfora. Calcio e automobilismo ai primi vagiti. Nessun «camion »: carrozzone dei ladri e « furgoni » postali a cavalli: qualche auto pubblica o padronale (1906) di carattere difficile e gargarizzativo, o esplodente e pedente: autista con pelliccia da orango, occhialoni, berrettone a visiera. Atletica leggiera. A Milano la « Pro Patria » e la « Forza e coraggio »: (rivali). Fumo ferroviario: relitti del detto in conche auricolari, nei capegli, sopraccigli, nelle narici. Frequente il «carbone nell’occhio »: cocca del

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ment granda, talment infinida!... » Poi però, poco a poco, aveva preso a ragionare, a restringersi. Trovò che bisognava « specializzarsi », saper resistere alle tentazioni dissolvitrici dell’Enciclopedia. « Siamo nel secolo della specializzazione », enunfazzoletto adibita al estràrnelo. Trombette ferroviarie di ottone, assai pese, avvinte da cordone verde. Iterati pè-pè alla partenza. Rari i gabinetti a tenuta idraulica. Reticella o retino per chiappare le farfalle durante le gite: (sàcculo di rete con imboccatura a cerchio: e astato quest’ul-

timo). Merende bonarie sull’erba, con tono da caccia all’elefante, capitolo «bivacco ». Cautele contro le macchie di verde-erba sugli abiti: (cocò, gonne, ginocchia). Tralascio gli articoli gastronomici e beverativi, come il latte e pangiallo da San Giorgio (24 aprile) in poi. Donne e uomini in abiti pesi: e le donne accollati (collo inguainato nel «collo» dell’abito sostenuto da «ossi di balena»). Gambe delle donne rigorosamente e sempre nascoste: (salvo le ballerine sul palcoscenico: sole gambe visibili). Stivaletti femminili insino al polpaccio, con allacciatura di stringhe interminabili. Ardite (« scollacciate », sic) vignette di «scandalosi» libelli, o giornali d’umore, scoprivano la caviglia (inguainata dallo stivaletto) dell'eroina (notoriamente affetta dal titolo di « svergognata »), destando l’allarme delle autorità. Gesto estremo della « danseuse » quello del rialzare la gonna in sul davanti, palesando stivaletto-caviglia. Lirica dei « piedini ». Psicopatici (due o tre in Europa) innamorati di stivaletto usato, ossia borzacchino usato (il brodeguin di Baudelaire): che funge da feticcio erotico un po’ per tutti. Cappelloni da signora, e spilloni per amarrarli ai capegli: questi accomodati nel « chignon » (malloppo) in sull’occipite e in un tettuccio (spagn. fejadillo) con frangetta, sulla fronte. Parasole estivo: usato anche da uomini: in tal caso di seta verde-scura o marrone. Preti con parasole nero, lungo le strade di campagna. Busti (per le donne) con «stecche di balena»: donde: « mettersi il busto, slacciare il busto », ecc.: moda femminile del « vitino » ossia vita stretta, torturante più che cilicio: donde « vitino adorabile, il di lei estetico (= grazioso) vitino ». Sottane di lana e di seta fino a terra; e terminate nello « spazzolino » (= fettuccia a spazzola, cimòsa a spazzola) tutto il giro; spazzolino che veniva a spazzare il marciapiede. Doviziosa infangatura invernale. Le gonne da passeggio con strascico (2 a 4 palmi secondo eleganza): continua manovra del detto a evitare le sudicerie e i relitti stradali: canini, cavallini, e d’altri mammiferi ancora. Attimi di ritardo nella richiusura degli usci e de’ battenti, a lasciar prima strisciare tutto lo strascico (detto «coda »), quasi di una serpe che si rimbuchi. Nei balli, speciali attenzioni agli strascichi delle dame. « Quadriglia » e « Lancieri ». Cappelli maschili di varie fogge: anche usato ana bombetta: (milan. cardanello): che era copricapo elegante: il pacora il cilindro (baut-de-forme), di altissima distinzione. Pregiato na, con nama (costosissimo) e comune l’estiva paglietta (milan. magiostri

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ciava autorevolmente: ipnotizzando gli interlocutori coi grossi occhi e coi baffi, gli uni e gli altri nerissimi. Trascurò cosî a poco a poco calabroni e farfalle, mosche e cimici: abbandonò al loro destino lepidòtteri, imenòtteri e etimo probabile da màg = maggio, e magiostra = fragola). Uomini con pantaloni rimboccati: (contro il fango, la polvere): pratica usuale nell'inverno. Mutande delle donne fino a metà polpaccio e anche più giù, talora campaniformi cioè a imbuto rovescio: con giri di merletti e di svoli a insalata, in numero crescente secondo il rango, dalla sartina alla regina Vittoria. Pantaloni degli uomini senza la piega. Non anco il rossetto né la tinteggiatura femminile del viso e degli occhi: non anco il crayon. Baffose e baritonali scenate da parte di mariti e padri, tonitruanti per un po’ di cipria della figliola o mogliera. Uomini baffuti come Vercingetotige, specie gli «ingegneri civili ». Predilezione per le stoffe a quadretti, specie pantaloni estivi e panciotto. Grossa catena d’orologio (oro o argento) sull’emisfero addominale, sul panciotto: (succeduto al medioevale giustacuore). Grosso e cipollone orologio in un taschino del detto. All’attacco della catena, breloque: cioè pendaglio: con ritratto (all’ipoclorito sodico) di persona amata, e assai capelluta quando non integralmente calva: pieno di bruscoli di tabacco, il breloque, e da rompersi le unghie ad aprirlo. I denti guasti, (riconsegnati dal cavadenti-estrattore al proprietario-paziente), religiosamente serbati lungo i decenni in uno scampoletto di velluto scarlatto. Ai bagni di mare, le donne (signore) in costume da bagno nero o bleu-scuro, accollato: giubbetto e sottana e mutandone nere o bleuscure, con ornamenti multipli di svoli, e di « spighetta » rossa: scarpaccini di corda: spesso, le calze, anche all’enttare in acqua: in difetto, caviglie pallide, color mozzarella: cappelloni di paglia contro l’estate: il sole paventatissimo. Conferenze pubbliche su tutti un po’ gli argomenti dello « scibile umano »: e talora a pagamento: e tuttavia frequentate. Conferenzieri specialisti: (Antonio Fradeletto, Innocenzo Cappa). Tra i piedi dei lari il « positivismo » sparpagliò apparati e apparecchi « scientifici » d’ogni maniera, e macchine da tavola e da cucina: pinze speciali per gli asparagi, spremilimoni di vetro a cortona dentata, ferri a uncino e a cucchiaino raspante per estrarre la medulla dall’osso-buco, casseruole lunghe da bollirvi la trota, pere di gomma d’ogni calibro, schiaccianoci e cavaturaccioli di non più veduto modello. Appese al muro (della camera da letto maggiore, o del guardaroba) l’apparato per l’entetoclisma, ancora usatissimo, con ricco metraggio di cannula in gomma, da raggiungere ogni più remoto (e scaravoltato) cocò. Appese termometri in ogni dove, da dentro e da fuori finestra, barometri, sia torricelliani che aneroidi ed altri, igrometri: e talora i tre insieme. Frate o ballerina con la tunica o la sottanella che trascolora cangiando di rosa in azzurro, da « bello » 0 «secco » a « tempesta ». Per tutta casa dovizia di fermacarte: (fetta di stalagmite, dipintavi

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ditteri: non volle più saper di rincòti, « roba de pomada merciiridal » !, soggiungeva ridacchiando, con un’a baritonale, lunga dai 18 ai 22 secondi. Si liberò d’ogni scoria enciclopedica, si specializzò. Puntò sugli scarabei. Tutta questa crisi, diobono, dopoché alla fiera di Sant'Ambrogio, una domenica, s’era imbattuto in un volume scompagnato del Fabre, che aveva accompagnato in seguito con l’opera del Pirazzoli: « I coleotteri italiani — Nozioni elementari » e con il libro di Eger Lessona: « Il raccoglitore naturalista ». L’Adalgisa, a dir vero, non vedeva di troppo buon occhio questa nuova « inclinazione » del marito, ne era anzi un po’ seccata. Ma poi vi aveva tacitamente aderito, pensando tra sé e sé: « meglio questo che i vizzi,.... o un quai cornett.... » !. Tanto che dopo lunga lotta interiore, sentendosi con le spalle al sicuro dal lato miée, Carlo aveva osato cedere alla tenta-

erubescenza vesuviana o approssimata cupolaglia di San Marco): conchiglie marine in funzione di, talora fastosissime: ammassi di cristalli grezzi idem idem: pirite, ematite, pirolusite, solfo in cristalli. Cannocchiale d’ottone con treppiede, sfoderabili a volontà l’uno e l’altro per veder la luna dal terrazzo: vetro affumato per le eclissi di sole. Cannocchiali da montagna. Scatoloni di macchine fotografiche, allora parallelepipedi: e irremovibilmente tali. Atlanti. Carte topografiche, connesse con le gite e col C.A.I.: frequenze geologòfile e cristallòfile. (Orologi a cucùlo (col cucùlo che non funziona); libri « scientifici »; le prime e rare maioliche in qualche orinatoio di lusso; altri in marmo carrarese. Candelieri e candele e lampade a petrolio. Raccolte di insetti, specie farfalle. Soldati col keppî d’incerato, e la nappina, e la visiera: coi pantaloni lunghi e le ghette. I primi impianti d’acqua potabile ne’ borghi di riviera e di campagna, da vincere le epidemie ricorrenti del tifo. Polemiche relative. Stuzzicadenti di penna d’oca temperata, reggi-penna d’argento. Canspanoni grandinifughi. Cioè batterie di tromboni rivolti al cielo, da a brani: rare contro le nubi « sature di grandine » e i nembi, per farle in avanti ancora le grandinassero. Lo scrivente ne vide una (1905?) poggi sui che non se antiaeree, batterie come po’ un Brianza. Piazzate villaggio), in campagna. Capanno del custode-borbardiere (sagrestano del della polcon le necessità della manovra e le artificerie, cioè gli scartocci vere pirica. A ogni epoca la sua saggezza [N. GARA ; 14 « Roba da pomata mercuriale ». ». «moglie miée: avanti, più »; cornetto qualche 15 «O un

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zione d'un nuovo acquisto, un’offerta proprio vantaggiosa, bisogna convenirne, anzi una « vera » occasione: uno dei primi atlanti sistematici in Italia: Il Catalogo dei Curculionidi Sici-

liani del geometra Vitale. L’Adalgisa, rabbonitasi alquanto, prese a rivivere in una elisia mansuetudine, o come nella dolcezza de’ rimpianti, quelle ricerche fervorose del povero Carlo: i coleotteri, proprio, erano modi della divina Sostanza !. Nella vivezza appassionata del ricordo, nel sopravvivente orgoglio della donna, della sposa, ogni captato curculione diventava un atto di amore. Raccozzando alla brava nomi e fatti, commossa, venne poi a puntuar meglio il discorso, d’una qualche lacrima, di reiterate e impeccabili soffiate di naso. Sospirava, dopo ogni pausa, dolorosamente, come quando si ricordano le nobili cose del passato e dei compagni dispariti. Andava cosî rappezzando in uno

strano arazzo quei curiosi avvenimenti

etimologici (o

entomologici, se preferite) che avevano occupato i suoi anni belli, dopo l’urlo dei parti. E li risognava davanti la testimonianza di Elsa, in una luce attenuata, di memoria. Pel tramite d’un sacro, indissolubile vincolo, quei fatti le avevano comunicato non forse la passione dell’indagine, « de vorè ravanà !” de per tiitt », ma almeno «el rispetto della Sciensa », cosî assicurava. « Come quel giorno.... ch’el m’è tornàa a cà consciàa, ma consciàa.... » Levò le mani inguantate a nascondere il volto, e 16 « Modi della divina Sostanza »: BENEDETTO SPINOZA, Etica, libro primo, def.: « Per modum intelligo substantiae affectiones, sive id, quod in alio est, per quod etiam concipitut ». I modi sono determinazioni (limitazioni, negazioni parziali, e però momenti individui, e probabilmente « esseri » particolari e fenomeni singoli) degli attributi (due: estensione, pensiero) della unica sostanza: (Dio: ens absolute infinitum: ragione suprema e universa, occludente in sé la totalità de’ suoi modi) [N. d. A]. 17 «Ravanà »: con etimo probabile da rava = rapa. Accudire a tirar le rape, nell’orto: essere chinati in faccende: e però rimovere labotiosamente alcunché: e dunque indagare lo scibile e l’empirfa: darsi pena a scartabellare ne’ libri e a rimettere in sesto il mondo [N. d. A.1.

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quasi a smorzare, un attimo, la fulgidità del ricordo. « Madonna Santa!.... pareva che fosse caduto in un lago di palta!.... » 55. Era caduto infatti in una specie di pantano, fra la roggia Brisighella e la roggia Scondiida, ch'era straripata, quest’ultima: in territorio di San Colombano al Lambro, in campagna, dov'erano andati « per San Péder », a trovare certi parenti pieni di polli. Il dolce piano, quel pomeriggio, nel sole fulgidissimo, brusiva di amori e di voli. S’era cavata la giacca, s'era sporto avido, con il retino, per una preda di larve: e anche ditischi adulti, magari: cosî almeno riferirono i testimoni. Ma quei vigorosi nuotatori, subodorate le intenzioni del retfno, (lo lumarono subito, dal sotto in su), via! s'erano spiccati come altrettante spole dall’erbe e dagli steli subacquei, dove pareva invece che ci dormicchiassero: e lui dietro! col suo retino, bravo! come ci fosse probabilità di raggiungerli! In maniche di camicia com'era, teso fino all'ultimo il braccio, Dio com'era peloso!, perché aveva rim-

boccato la manica. Attaccandosi con la sinistra a un ramo, sî!

finché il ramo si scerpò netto: e lui patapùmfete!: dentro come un salame fino al collo. Una nuvola di fango lo aveva sùbito circondato. Quelli intanto bucarono via l’acqua come siluretti felici, scampati nei roridi e verdi regni, fra i capegli dell’erbe e dell’alghe: salvi dal loro profilo ellittico o parellittico, che offre, credo, un minimum di resistenza, che segna un optimum della forma natante. E devono aver raggiunto quest’ottimo nella pertinace evoluzione della discendenza, in un loro amore del meglio e poi del perfetto, educendo dalla grossolanità primigenia il garbo del capo, del corsaletto e dell’èlitre, sforzandosi di tendere, tendendo all’elisse, entro paludi, o gore morte nelle golene !? de’ fiumi: ogni acqua ferma un bacino da esperimen18 «Lago di palta»: lago di fango: (dial. mil.). Rio de la Palta in è scherzosamente il Rio de la Plata, per gli immigrati lombardi: I A.].. d. [N. limoso quanto 19 Le zone pianeggianti intorno al letto di un fiume, che vengono coperte solo ad acque alte.

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ti, ogni specchio livido un mondo da perforare col pensiero: traverso generazioni e millenni raggiungendo il loro laborioso integrale isoperimetrico °°.

DA 20 « Laborioso

integrale

isoperimetrico ».

Problemi isoperimetrici: (o massimo) trattate e periglioso capitolo dell’analisi. Isoperimetro è detto il problema, da molti invece la risoluzione (algebrica) del problema: indipendentemente dal contenuto dello stesso: (geometrico, meccanico, o altro). Un siffatto nome deriva per estensione (antonomàsia e sinéddoche) da ciò che il « problema della brachistocrona » 0 « problema di minima discesa» cioè discesa in un tempo minimo, (proposto da Giovanni BerNoUILLI in Acta Eruditorum, giugno 1696: risoluto dal detto e, altrimenti, dal di lui fratello Giacomo, in Id. Id., maggio 1697), è affine ai problemi di dato perimetro e massima area, di eguale ossia pari perimetro, di «iso-perimetro », già considerati dai Greci. Analiticamente il problema generale del calcolo delle variazioni dà luogo alla ricerca di un algoritmo ossia forma algebrica y, funzione incognita (in partenza) della variabile x, tale che renda massimo (o minimo) l’integrale definito, fra limiti assegnati, di una funzione nota F contenente la y, le sue derivate, e la x. Un isoperimetro classico, al quale il Nostro aveva forse il pensiero, è il problema di Newton (Principia matbematica ecc., Londra 1686, libro II, sezione VII, propos. 34, scolio): formulabile in questi termini: « Cercate la curva passante per due punti dati, rotante intorno a un asse dato, generante il solido che incontra la minima resistenza alla immersione in un liquido, nella direzione dell’asse ». Cioè qual sagoma deve avere un proietto, per es. un siluro, per incontrate a prora la minima resistenza da parte del mezzo liquido attraversato. (Ipotesi quadratiche del Newton sulla resistenza del liquido in rapporto alla velocità del proietto). È questo il primo (1686) problema di variazioni. I ditischi non li hai a ritenere e’ siano solidi di rotazione, come accade essere al pezzo tornito di Isacco Newton; ma insomma le curvature principali, (il « garbo » delle costruzioni navali), come quelle di un po’ tutti i natanti, e i volanti, tendono in essi a risolvere per evoluzione (costruzione biologica della specie) problemi di minima resistenza. Altro problema naturale di minimo, da noi umani solubile per procedimento derivatorio, (calcolo differenziale), è il problema di « superficie minima » della chiusura di fondo nelle cellette a prisma esagonale dell’arnia. Vi accenna MauRIZIO MAETERLINK nel suo libro La vie des abeilles. La chiusura di fondo d’ogni celletta prismatico-esagonale è costituita da tre facce rombiche inclinate rispetto all’asse della cella. L’inclinazione dei tre rombi è tale da resultarne minima la totale superficie e però minimo l’impiego di cera, a parità di volume racchiuso = capienza della cella. L’operaia-ape ha risolto il problema biologicamente e d'istinto, se pur d’istinto si tratti, o non invece di ragione. Il fisico

una ragguardevole classe di questioni di minimo nel cosiddetto «calcolo delle variazioni », arduo

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In dodici o quindici scatole di legno, pavimentate ognuna del suo soprafondo di sughero e questo, poi, coperto d’un foglio bianco a coordinare rettilinee ?!, su infiniti spilli, davanti gli occhi sgranati de’ due bimbi, il povero Carlo aveva meticolosamente infilzato gli Scarabei e i Ditischi infiniti della natura, i Cebrioni, i Curculioni, i Cerambricidi, i Buprèssidi, gli Elatèridi: le fuggitive Cicindèle odorate di rosa e di muschio, lucide come Giovanna d’Arco nella loro corazza di acciaio chiuso, brunito; poi gli infaticati Ateuci e le Silfi, e tutta la genfa saluberrima dei beccamorti agresti e silvani. I più piccini, i pidocchietti minimi della terra infinitamente materna, li conse-

gnava invece (con un punto di un suo speciale mastice o balsamo) a un piccolo cataletto di midolla di sambuco: e infilava poi nel cataletto lo spillo più esile, da lato, per non guastare il morto. La preparazione e il ritaglio dei cartellini occupò talvoled entomòlogo Réaumur (Renato Antonio Ferchault de, 1683-1757) propose la questione al matematico Koenig: il quale, col sussidio del calcolo, reperi che l’angolo acuto dei rombi doveva resultare di gradi 70 e minuti 34, affinché la superficie di ogni cella risultasse minima. (Gli angoli de’ rombi dipendono dalla inclinazione di essi loro sull’asse). Colin Mac Laurin calcolò 70 e 32, Cramer 70 e 31. Le api avevano secoli. adottato e ritengo seguano ad usare 70 e 32, maclaurizzando ne’ Il riscontro sulle celle dell’arnia, voglio dire del favo, mediante misura fisica di precisione, è dovuto a Maraldi: (Giacomo Enrico, 1665-1729, astronomo: nipote di Cassini). delle I problemi isoperimetrici, radunati poi e sistemati nel calcolo analisti, e dedegli ce indagatri à l’assiduit via via no occuparo i, variazion ine delgli eminenti fra essi: da Newton e dai Bernouilli, cioè dall’orig, L’HòLegendre Danalisi infinitesimale, ai di nosri: Mac Laurin, Eulero, Weierstrass, ecc.; pital, Borda, Jacobi, Gauss, Delaunay, Ostrogradski, Torino 1736 - Paautore principe sommo Lagrange (Giuseppe Luigi, e di quell’Acrigi 1813), nel 1766 e per vent'anni a Berlino, president[N. d. A.]. ico napoleon senatore ultimo da Eulero: cademia dopo o scatole «A coordinate rettilinee ». Il fondo delle bacheche, 21 sughero (per infilarvi a vetri, per collezioni di insetti, è pavimentato di osa, di quella usata gli spilli): e sòpravi una carta millimetrata giallo-r do l’animalùcolo ponrimiran talché sti: macchini dai e i ingegner . dagli trale del fondo nosi

valutarne

le dimensioni

contro

il reticolo

millime

[N. d. A.].

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ta, nell’ultim’anno, il ragazzo più grande. Intere domeniche! Coi ditini nelle forbiciacce, intento al lavoro, serio serio, ogni tanto si passava la puntina rossa della lingua sul labbro di sopra. La grande ansia della famigliola era che il pigidio — (con questo vocabolo si dimanda il didietro dei coleotteri, cioè l’ultimo segmento addominale) — potesse vuotarsi, come talora avvenne, dopo morte, all’atto dell’infilzameno. Rimaneva allora moscio moscio, preda d’una mortificante tendenza all’ingiù. « Ah! quel pigîdi, quel pigidi! », sospirò l’Adalgisa in dialetto. Elsa dovette ridere. « Una volta abbiamo litigato per il veleno: perché bisogna mazzarli ? alla svelta, soffocandoli nel vasetto, povere bestie. Bisogna metterci dentro un po’ di bambagia, nel vasetto, imbevuta d’un qualche acido, soja mf, un qualche cosa che li sofèghi subito, capisci? L’alcool non va, perché i e fa diventà smòrt.... sf, insomma, gli porta via il suo colore naturale... L’arsenico neanche tirare a mano. Sicché voleva doperare a tutti i costi il cianuro.... Cara te!.... con due ragazzi in casa! E allora, siccome ha visto che io volevo impormi, lui alza la voce ankamò pusé de mi.... che con la scienza non si può di-

scutere, quel che ghe voeur ghe voeur.... Va ben, ma mi pensi ai mè fioeu, mi me fa di tò bordòkk!.... Dio Madonna!.... Pèna senti bordòkk.... momenti el me lasa andà una sberla... Poer fiolàsc! ». La soffata di naso fu inevitabile. « E poi, nelle scatole, ci metteva un vetro di orologio a rovescio, sul fondo, con una specie di olio giallo per preservarli dalle càmole, dai vermi.... Oh! Dio mio! non mi ricordo più come si chiamava.... pèta, pèta....* un nòmm come vetriò2 « Mazzarli »: ammazzarli; «bombagia» = ovatta di «soja mi» = che ne so, che so io; «soféghi» = soffochi; « smort » = impallidire, scolorare; « doperare » = adoperare; « pusée » = ancor più; «bordòkk» = scarafaggi; «pèna» = Vocabolario dell’Adalgisa [N. d. A.]. 23 « Aspetta, aspetta ».

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cotone; diventà ankamò appena.

lo.... cetriòlo.... benzonitrolo.... pèta....; nitrobenzolo!.... adesso m’è venuto in mente! che sentiva di mandorle. Oppure l’essenza di urbano.... cioè.... de.... mirbano, che ti fa venire un tal mal di testa!.... Insomma abbiamo proprio litigato ». Le si velàrono gli occhi. « Quelle poche settimane di campagna, o al mare, non lo crederai, ma andava in giro tutta notte con la lanterna, pieno di pinze... lo prendevano per matto.... Di giorno col retfno.... con le sue scatole e la sua cartucciera. Ah! Signore!.... Ma almeno, poverino, può dire di essersi divertito, quei pochi anni,

di aver goduto la vita....»; si soffiò il naso; « di aver fatto qualche cosa anche lui, a sto mondo, povero ragazzo! .... ». L’Adalgisa era diventata un molino a vento. Il suo cervello formicolava e brusiva di ricordi, come un campo, a giugno, di insetti e di voli, di zampe e di èlitre. Ricordò la famosa cattura dell’Ateuco, lo scarabeo nero perfino i re dell'Egitto, ma pensa un po’ che epoca suche « perstiziosa in confronto alla scienza del di d’inkoèu #, lo veneravano come un animale sacro, come un pavone... » Carlo aveva raccontato mille volte la storia, ai ragazzi divertiti, a tavola: « Per quanto... al momento che si è dietro a mangiare... cara tel.... tant petitosa l’è poeu minga.... » ?. Erano al mare, verso Viareggio, l’anno che avevano fatto i corni a Varazze suscitando le proteste del nobile Gian Maria e alcuni tentennamenti ironici della sarcastica parrucca di donna Eleonora: « quel Carlo! » Dove la sabbia scottava sotto i piedi: e lui ci andava apposta: si appostava lî delle ore, in

agguato. Il forte e nero animale gli era apparso a un tratto, sul dorato fulgore dell’arena. Avvedutosi dell’uomo, si era dato

sisubito a fare il morto, raccogliendo le zampe, acquattandosi, o... sassolin d’un ... mulando l’indifferenza levigata d’un ciottolo Una grossa e rotonda pallottola gli stava davanti, ossia dietro: 24 « Del giorno d’oggi ». 2 «Tanto appetitosa non

è»:

i (la storia dell’Ateuco)

[N. d. A.].

69

Carlo

s’avvide,

riflettendoci,

che l’ipocritone

aveva

cammi-

nato a ritroso... Vele erano nel mare, lontane.

Sul fronte del nerissimo insetto il ragioniere, felice, riconobbe l’epistòma, cioè la potente pala dentata, quasi uno spazzaneve di locomotiva. Dopo un po’, vedendo che non succedeva nulla di nuovo, quella brutta bestia riprese la fatica. Puntava sulle zampe anteriori e retrocedeva in una sicurezza perfetta, come se ci vedesse dal pigîdio. Ogni volta bisognasse afferrava la pallottola con le posteriori ed ecco, ecco la sospingeva all’insù, terribilmente, valicando con la tenacia di Sisifo le piccole dune, le increspature dell’arena; a noi un nulla, ba-

stioni enormi a lui. La pallottola, perfettamente sferica e infarinata come una polpetta, era venti volte più grossa dell’Ateuco, ma doveva averlo inebriato col suo profumo, come l’odor

solo della « borsa » °° inebria il pugile alla lotta. E la sfera ascendeva, lenta: si sublimava sopra la repulsione di quella pazienza color pece, superava i tenebrosi divieti della gravità. Trasgredito il vertice, ripiombava rotolando nella gravità. L’Ateuco, infaticato, la sospingeva per monte e per valle fino alla dimora di sua donna: che attendeva, ansiosa, per il piccolo, per la imminente larva, quella balia provvidenziale. Accorsero dei ragazzi di bronzo, ignudi. Carlo, tutto chino, con un batticuore, aveva già estratto le pinze. Con quelle afferrò l’Ateuco mentre si dibatteva furente, lo rinchiuse nel vasetto.... Un ragazzo prese invece la pallottola, eccitato a conquistar la sua parte di fortuna; che però la senti molle e anzi gli si spiaccicò fra i diti: « Ma un vedi che la è cacca, ettù bischero!.... », strillarono ridendo i compagni. Quello rimase esterrefatto, con la polpetta stiacciata fra i quattro diti: poi corse alla battima dicendo madonnabona madonnabona ziohàne. « Era proprio l’Ateucus Sacer Linnaei! », confermava poi

26 Il compenso

70

per l’incontro, nel gergo della specialità.

la voce baritonale di Carlo ai soli adulti, a Milano, in sala de ricéf, tra la diàspora dei cristalli e dei sassi. « I Geotrùpidi e gli Ateuci », seguitava, mutando l’accavallatura delle gambe ed esibendo a mezz'aria una lunga scarpa nera, l’altra, che a sua volta oscillava col polso, « una volta che si sono assicurati la preda, ne traggono delle grosse pallottole, maa.... confezionate a regola, in ciascuna delle quali la femmina depone un uovo.... » La preda era poi nient’altro se non la materia che i ragazzi avevano chiamato.... col suo nome. Le voci come tràggono o ridùcono, proparossitone di passaggio a Milano”, esaltavano la sua fierezza eloquente, piena di lampi neri degli occhioni e di una calda comunicativa. Si lisciò i baffi, anche quella volta, se li appunti col gesto largo dello zuavo: « Cosî, appena nato,.... il principino trova il mangiare bell’e pronto... tale e quale come fosse un figlio di papà.... « L’Ateucus Sacer è ben raro da noi”: il mio, giusto, 22 Sdrucciole, e quindi di colore esotico nel contesto linguistico lombardo, dominato dalla tendenza verso le ossitone (o tronche): cfr.

Il terrore del dàttilo (1953), in I viaggi la morte. 28 Nel mirabile Fiore della Mirabilis di RiccARDo BACCHELLI, è pure descritta la ostinata retrogressione, l’indaffarato zampettare dell’Ateuco: capitolo quarto, pagine 209, 210, 213 dell’edizione Garzanti 1942. La spoglia d’un Ateuco, detersa dall’onda, è raccolta dal Brederus sulla spiaggia del Battifredo di Ugliancalda (= Forte dei Marmi), non lungi da Viareggio. Alcune osservazioni dell'Autore circa la struttura degli insetti (pagina 210) e l'infinito rigoglio della vita (pag. 213) possono (ovviamente) accompagnarsi ad alcuna delle mie, o del mio personaggio. Ma il dramma è altro, e ben più complesso, e Ruben Brederus I fatti è persona d’altra nascita e levatura e formazione che il Carlo. e occasioni come ta protagonis dal patiti sono natura di e gli aspetti coun di L’analisi nulla. nel e trasgredir suo del direi simboli necessari giansenistica tale parallelismo, a cui si fa parallela altresi la concezione a pagine della grazia imperscrutabilmente da Dio datane o tolta, sfocia esperienza). meravigliose, d’una incredibile validità. (Mia personale puntare in ‘ Desidero notare che I/ Fiore della Mirabilis è uscito a 1942 dicembre 16 al ottobre 1° del a Antologi Nuova della sei numeri del numero col celebrate son vi scarabeo dello - Anno 77. Le glorie Il mio Ateuco, im16 dicembre 1942, fascicolo 1696, pp. 98, 99, 100. Tesoretto, almanacco balsamato nel 1934, vide la luce dell’eternità ne Il fine del 1940. Legdello Specchio, 1941. Mondadori, stampato in sulla

7a!

l'ho trovato vicino a Viareggio, ed è stato un caso, un puro caso, che posso ringraziar la fortuna.... Anche in Libia, del resto....»: crollò il capo. « Noi abbiamo l’Ateucus Pius », e diceva noi con un certo sussiego, per dire noi a Milano. « E poi,

frequentissimo, neanche parlarne, il Geotrùpes Stercorarius.... ». « Che cos'è mai la natura! », dicevano gli ascoltatori ammirati. « Ogni generazione spiana la via alla generazione seguente! », concedette il buon ragioniere distendendo i sopraccigli, guardando lontan lontano, nel vuoto. Si lisciò ancora i baffi, nerissimi, affusolandoli tra pollice e indice, come doveva fare il maestro di caccia di Napoleone III: « ....spiana la via ai venturi! gli prepara il nido.... ». Cosî disse, pur intuendo che il nido in discorso non era un vero e proprio nido, nello stretto significato della parola: dato che era la pallottola. « È il sogno di poter allevare i nostri figli nel benessere... nella sicurezza del domani,.... di vederli crescere forti, generosi, con l’orgoglio di sapersi nostri figli!.... E questo lo cerchiamo, lo otteniamo a prezzo di qualunque sacrificio.... valendoci della fatica, dei risparmi sacrosanti di tutta una vita! ». « Propi inscî! Ben detto! », rincalzarono tutti. Scopersero poi, felicitandosi reciprocamente della scoperta con dei nuovi « ben detto! vorevi propi dill anka mî » ?, che i risparmi, per l’appunto, possono essere paragonati al.... alla.... sf, insomma, a quella polpetta. Un'altra volta si trattò invece del Necrophorus, anzi di tutta una confraternita di Necrofori, al margine d’un sentiero, nei campi. Una puzza! Era un topo marcio. E vi lavoravano intorno come dan-

nati: a scavare, a tirare, da seppellirlo prima che facesse giorno, da metterlo in arca. L’humus, che è femmina, funzionava da givi a pp. 463-66. In quel Tesoretto pp. 449-478, buona parte del racconto dell’Adalgisa e del povero Carlo [N. d. A.]. 2 «Proprio cosî! [...] volevo proprio dirlo anch'io ».

2

Cassa di Risparmio. Carlo, con ali ai piedi lungo i sentieri della notte, aveva seguitato l’indizio di quell’odorino: giunto sull’epicentro si chinò, mettendo avanti la lanterna. Il naso, che aveva trasmesso ai figli moltiplicato per due, gli era stato fedele in misura maggiore d’ogni previsione. La stella di Espero dava luce di acetilene lontana al cantiere, la lampada lo rischiarò a giorno, improvvisa. Scoperti cosî a un tratto, quei brulicanti gli parvero maestri d’ascia in cantiere, come a Varazze; o come in bacino, a e calafàti carenaggio d’un puttanone di quelli, « che navipel Genova, ». I topi marci lucrano indulgenza plenaria ponno car non quel che più conta, il funerale gratuito. e, appo i Silfoidi, Una disciplina e un « affiatamento » inimitabili animavano quella benemerita Compagnia della Misericordia: a cui il mirifico Padre Eterno, in premio della di lei buona volontà e insospettata perizia, e d’una encomiabile resistenza ai gas tossici, aveva conceduto in privilegio il succulento cadavere. «Ne ho raccolti un cinque o sei.... Con le pinze, sigira!, per minga tocà el ratt con i man*.... « Questi necrofori, una volta seppellita la sua brava carogna, ci banchettano dentro, felici... » (Era felice anche lui). « Dénter in del venter, in di biisèkk del ratt.... » ?°. Si stirò i baffi. « Poi si accoppiano », e questa brutta parola fu pronunziata da un Carlo straordinariamente serio; « indi vi depongono i uovi.... ». Un’àgape sacrificale, un banchetto totemico. Poi l’orgia,

a pancia piena, nella pancia del topo morto. Il futuro assicurato: una prole felice. Cosi tutto è fecondo, nella infinita fecondità di natura.

e incatra30 Gli operai addetti a rendere stagni gli scafi, mediant celebre alla ne appartie 10) XXI, , (Inferno segue che matura. La citazione descrizione dell'Arsenale di Venezia. 31 « Certo!, per non toccare il topo con le mani ». 32 «Dentro il ventre, nelle budella del topo ».

73

Il guaio fu « quando le cose precipitarono ». Al ricordo, l’Adalgisa levò il fazzoletto della borsetta, la cui molla, nel

venir chiusa, fece un tràc assai nitido. « Con due figli da tirar su, capirai! ». Aveva dovuto « ridursi »: assolutamente. « Ma dove metterla, tutta quella roba? ». Il trasloco tragico fu una specie di cataclisma. La tromba marina della disdetta l’aveva aggirata e ravvolta via verso il buio, forzandola a smaltire sui due piedi un quattro quintali di sassi: per non dire dei ricci, dei conchiglioni, e alcune lunghe stanghe di calcio *, pezzi di stalagmiti: come candele smoccolate. « E senza alcun profitto, senza poterne ricavare un centesimo! » Anzi: « quas quasi dovevo pagargli io il trasporto... Ah! Madonna, che momenti!.... Che momenti ho passato!.... Domà il Signore lo sa!.... » E fortuna ancamò che il capomastro di casa Ingegnoli era buono come il pane. Aveva da colmare una buca, nella fabbrica nuova lf a due passi, pènna foeura * di via Pisacane. I « minerali in se stessi » finirono If. I facchini del trasloco, invece, « che sono come le bestie », avevano perfezionato la disgrazia. Anzitutto nell’agguantare le prime teche venutegli fra le mani, le avevano « scorlîte » ® con una tal mancanza di riguardo, da disincagliare issofatto alcuni Curculioni dei meno felicemente infilzati, o forse un po’ troppo secchi, ormai. E anche dei Bupressidi. I costoro cadaveri avevano preso a vagabondare nel sepolcreto inseguiti dal ciotolino del mirbano, il quale, essendo un vetro d’orologio, non solo era andato in briciole lui, ma aveva anche infranto il vetro della teca. Poi, come non bastasse, e nonostante una tremenda intemerata dell’Adalgisa, avevano deposto alcune delle quindici scatole, le più preziose naturalmente, quella dei Geotrùpidi fra l’altre, davanti a una ruota del furgone: dove ci si leggeva sul fianco, 3 «Lunghe stanghe di calcio »: in realtà di carbonato Ca CO;: stalattiti e stalagmiti [N. 4. A.1. P # Domà: «solo»; ancamò: «ancora»; pènna focura: uOri ». 35 « Scorlfte » (dial. mil.): squassate, scosse [N. d. A.].

74

di calcio «appena

a lettere cubitali, Fratelli... Fratelli.... che so io!: e subito dopo le avevano completamente dimenticate. (Lo sdegno, al solo ricordo, dové metterle in subbuglio il fegato). Ne

conseguf,

appena

mossi

i cavalli, un

appiattimento

definitivo della più eletta società de’ Geotrùpidi e de’ Curculioni, oltreché delle Blatte. La Blaps Mortîsaga, alta e pretensiosa sulle zampe e dura e crocchiante sotto il calcagno, sì ridusse ad essere niente più che la proiezione ortogonale * della sua propria superbia.

DA

ACCOPPIAMENTI

«I RACCONTI.

III.2 L'INCENDIO

GIUDIZIOSI »

DI VIA KEPLERO

È uno dei più riusciti esempi di descrizione di una catastrofe, per cui l’Ingegnere ha dimostrato una costante predilegenere un zione, esercitandovi tutte le sue più bizzarre risorse umoristiche: sugli si vedano, in questa antologia, la breve ma selvaggia fantasia Marino a dell’uva Festa nella dinamite, alla effetti di una vendetta na (II.5) e le pagine sull’irruzione del fulmine a Villa Giuseppi nella Cognizione (IV.1). Qui

la catastrofe,

abbattendosi

su uno

stabile

milanese,

è

o — l'occasione della vorticosa rassegna — in una sorta di spaccat fiamme. delle are l’incalz sotto i, inquilin di folla di una variegata Gadda nel È una applicazione su vasta scala del virtuosismo di visto abbiamo che mettere a partito quegli schemi enumerativi di e Giornal del pagine dalle fin a lui particolarmente congeniali

iva, disegno) è la 36 « Proiezione ortogonale » (geometria proiett dioggetto secondo od figura una di punti dei foglio trasposizione su perossia ali ortogon e loro fra le paralle one) rettrici (linee di proiezi immagine e quello di pendicolari al piano del foglio. Il contorno della dimensioni identiche e ogni sua parte resultano perciò avere forma della figura rappresentata, alla forma e alle dimensioni dell’oggetto 0 one centrale. (Linee di proiezi la con avviene quanto a te contrariamen [N. d. A.]. finita) za distan a centro un da ti proiezione emanan

VD:

guerra. Risorsa ambigua, l’enumerazione (analizzando la Cogrnizione torneremo più diffusamente su questo problema): strumento di una sognata descrizione esaustiva del reale, ma anche espressione di una resa panica davanti alla sua molteplicità, ora vissuta (come in questo caso) con effetti di scatenata

allegria, ora (come

nella Cognizione) con la consapevolezza annichilente di uno scacco.

Se ne raccontavano di cotte e di crude sul fuoco del numero 14. Ma la verità è che neppur Sua Eccellenza Filippo Tommaso Marinetti! avrebbe potuto simultanare quel che accadde, in tre minuti, dentro la ululante topaia, come subito invece gli riusci fatto al fuoco: che ne disprigionò fuori a un tratto tutte le donne che ci abitavano seminude nel ferragosto e la lor prole globale, fuor dal tanfo e dallo spavento repentino della casa, poi diversi maschi, poi alcune signore povere e al dir d’ognuno alquanto malandate in gamba, che apparvero ossute e bianche e spettinate, in sottane bianche di pizzo, anzi che nere e composte come al solito verso la chiesa, poi alcuni signori un po’ rattoppati pure loro, poi Anacarsi Rotunno, il poeta italo-americano, poi la domestica del garibaldino agonizzante del quinto piano, poi l’Achille con la bambina e il pappagallo, poi il Balossi in mutande con in braccio la Carpioni, anzi mi sbaglio, la Maldifassi, che pareva che il diavolo fosse dietro a spennarla, da tanto che la strillava anche lei. Poi, finalmente, fra persistenti urla, angosce, lacrime, bambini, gridi e straziati richiami e atterraggi di fortuna e fagotti di roba buttati a salvazione giù dalle finestre, quando già si sentivano arrivare i pompieri a tutta carriera e due autocarri si vuota-

1 Il fondatore del futurismo aveva diritto al titolo di Eccellenza come membro dell’Accademia d’Italia, istituita da Mussolini. « La “simultaneità”, qui evocata dal brillante neologismo simzultanare, era una categoria notissima della produzione futurista (Simzultaneità è uno dei titoli della raccolta poetica di Soffici, 1915, e Poemi simultanei futuristi il fondatore del movimento seguitava a pubblicare nel 1933, ma Vi sione simultanea alla finestra si chiama anche un quadro di Boccioni, 1912) » (Contini). Il neologismo compare anche nell’Adalgisa (in apertura di Quando il Girolamo ha smesso....).

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vano già d’un tre dozzine di guardie municipali in tenuta bianca, ed era in arrivo anche l’autolettiga della Croce Verde, allora, infine, dalle due finestre a destra del terzo, e poco dopo del quarto, il fuoco non poté a meno di liberare anche le sue proprie spaventose faville, tanto attese! e lingue, a tratti subitanei, serpigne e rosse, celerissime nel manifestarsi e svanire, con tortiglioni neri di fumo, questo però pecioso e crasso come d’un arrosto infernale, e libidinoso solo di morularsi? a globi e riglobi o intrefolarsi* come un pitone nero su di se stesso,

uscito dal profondo e dal sottoterra tra sinistri barbagli; e farfalloni ardenti, cosî parvero, forse carta o più probabilmente stoffa o pegamoide bruciata, che andarono a svolazzare per tutto il cielo insudiciato da quel fumo, nel nuovo terrore delle scarmigliate, alcune a piè nudi nella polvere della strada incompiuta, altre in ciabatte senza badare alla piscia e alle polpette di cavallo, fra gli stridi e i pianti dei loro mille nati. Sentivano già la testa, e i capegli, vanamente ondulati, avvampare in un’orrida, vivente face. Urlarono le sirene dalle ciminiere o dagli stabilimenti vicini verso il cielo torrefatto: e la trama criptosimbolica delle cose elettriche perfezionò gli appelli disperati dell’angoscia. Dalle stazioni lontane, spalancatesi, le batterie delle autopompe fuoruscirono in corsa, impulsi pronti e celeri a sovvenire a ogni sùbito male delle fiamme, nel mentre l’ultimo pompiere del quinto drappello, spiccato un salto, gli riusci d’abbrancare con la sinistra l’ultimo ferro del reggiscala dell’autoscala di coda già in voltata fuori del portone, e viceversa con la destra si finiva ancora d’abbottonare la bottoniera della giacca di servizio. attraverso un 2 Moltiplicarsi, come l’uovo fecondato nella rzorula, nell’attrinte consiste ismo «neolog Riglobi: azione. processo di segment ndente (come buire il prefisso r7- a un sostantivo senza verbo corrispo » (Contini). sarebbe invece in giri e rigiri di contro a globi e riglobi) ritor3 « Avvolgersi » (in un contesto catastrofico affine il lemma fulmine: cfr. bradel to movimen al o applicat ne, Cognizio nella nerà no IV.l).

VA

La sonnolenza impomatata dei guidatori d’automobile che falciano via con il parafango i ginocchi de’ claudicanti vecchi alle svolte e, svaccati dentro macchina, ma saette pazze di fuori, stracciano via i cantoni ai più garibaldofrusti * marciapiedi della metropoli, ecco sonerie elettriche premonitrici li bloccarono improvvisamente

ai cantoni, poi, subito, l'avvento

delle trasvolanti sirene. Inchiodati i tram, i cavalli trattenuti al morso dal cavallaro, disceso di serpa: i cavalli col carro contro il culo, l’occhio, all’angolo, imbiancato da un ignoto motivo di terrore. Gli effetti dell’incendio, lî per lî, furono terrificanti. Una bimba di tre anni, Flora Procopio di Giovan Battista, lasciata sola in casa con un pappagallo, dal seggiolone dove l’avevano issata e imprigionata chiamava disperatamente la mamma senza poterne scendere, e grosse lacrime come disperate perle le gocciavano e rotolavano giù, dopo le gote, per il bavaglino fradicio con su scritto « Buon Appetito », fin dentro la polta ° papposa d’un suo caffelatte dove a poco a poco ci aveva messo a bagno tutto un bastone di pan francese evidentemente mal cotto più alcuni biscotti di Novara o di Saronno che fossero, ma di tre anni loro pure, questo è certo. « Mamma, mamma! » urlava terrorizzata; nel mentre di là dall’altro capo della tavola il variopinto uccello, col suo rostro a naso di duchessa, ch’era solito stimarsi® e andare tutto in visibilio e in sollucchero non appena i ragazzi lo apostrofavano di strada « Loreto, Loreto », e anche in superbia, oppure lo prendeva una specie di malinconia e di letargo senza rimedio, o invece se lo incitavano « Vudei, Loreto, canta!... desédes... canta Viva l’Italia!... Vudei, baisciòn d’on Loreto! »”, allora appena sentire quel « canta » lui rimbeccava con un dolce gorgoglio « Kanta- ti » 8, 4 I consunti marciapiedi della zona di Porta Garibaldi, a via Keplero. « Poltiglia, polenta ». « Pavoneggiarsi » (calco del milanese stirzdss). «Ehi, [...] svegliati [...]! Ehi, Loreto bavoso! ». « Canta tu». DANA

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prossima

questa volta invece, povera creatura, altro che Kanta-tî! Oh Dio, sf, difatti, per vero dire, un certo sentore di bruciaticcio lui lo aveva già percepito, se pur senza troppo inquietarsene:

ma quando però vide i petali di quella cosî sinistra magfa traversargli in diagonale diretta la finestra aperta e poi entrargli in camera come tanti pipistrelli infuocati e mettersi a lambire gli sdrusci della tappezzeria secca e la taparella gialla, di stecchi di frassino, arrotolata coi suoi cordigli frusti nella parte superiore del vano, allora prese tutt’a un tratto a squittire anche lui dal fondo del gozzo tutto quello che gli venne in men-

te, tutto in una volta, come fosse una radio: e sparnazzava im-

paurito e pauroso verso la bimba, con impeti sùbiti, mozzati ogniqualvolta dopo mezzo metro di sbatacchiamento, dalla perfidia inesorabile della catenella che per una zampa lo legava al paletto. Si diceva che in gioventù avesse appartenuto al generale Buttafava, reduce dalla Moscova e dalla Beresina, indi al compianto nobile Emmanuele Streppi?: una gioventù riposata e piena d’idee, in Borgospesso !°: e fosse riuscito a battere in longevità non soltanto lo Streppi, ma tutte le più venerande figure del patriziato lombardo, di cui, del resto, andava dicendo corna ai passanti. Stavolta però, di fronte a quel volo di tàllevi !! affocati che parevano vaporat via dalla zecca maledetta di Belzebù, aveva perso al tutto la trebisonda: pareva impaza zire: « Hiva-i-Ità-ia! Hiva-i-Ità-ia! », s'era messo a squittire zampa alla tesa catenella la con do squatciagozzo, svolazzan in una meteora di penne e fra un subisso di carta arsa e fuliggine, nella speranza d’arrivare a propiziarsi la sorte, mentre ta la bimba strillava « mamma, mamma! » ed urlava terrorizza tura l’impugna con tavola sulla battendo pianto, dentro il suo 33, del cucchiarone. Finché un certo Besozzi Achille di anni longevità » (Contini). 9 «In realtà il conte Greppi, di leggendaria one, parallela a Napole Monte via di a 10 Una aristocratica travers 11: : via Manzoni. sono delle grosse 11 Le faville che si levano dall’incendio (i talleri to). d’argen che, austria monete

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pregiudicato in linea di furto e vigilato speciale della Regia Questura, disoccupato, siccome era costretto, in causa della disoccupazione, a dormir di giorno per poter esser franco a sbrigare un qualche lavoruccio nottetempo, caso mai ce ne fosse di bisogno, e nonostante la vigilanza, tanto da guadagnarsi un boccon di pane anche lui, povero cristo, cosî fu una vera fortuna e gran misericordia di Sant'Antonio di Padova, bisogna proprio dirlo a voce alta, e riconoscerlo, questa di questo vigilato speciale che dormiva proprio al piano di sopra e nella stanza di sopra, dalla signora Fumagalli: in una ottomana in famiglia; che appena capito il pericolo subito s’era fatto coraggio, lf per lf, tra la paura e il fumo, un fumo che vantava su dalla tromba delle scale come la fosse un camino, e tutte quelle donne precipitanti in vestaglia o in camicia di gradino in gradino, e i gridi, e i bimbi, e la sirena dei pompieri in arrivo. Sfondò l’uscio dei Procopio, a calci, a spallate, e salvò la creatura e l’uccello; e anche un orologio d’oro che c’era sul comò, che però poi quello si dimenticò di restituirlo, e tutti credettero che fosse stata l’acqua dei pompieri, con cui, pet poter spegnere il fuoco, avevano inondato la casa da cima a fondo. Il Besozzi aveva udito le grida: e sapeva che la bambina era sola: perché verso le cinque del pomeriggio era l’ora, giusto, che soleva sbarcare dall’ottomana sulle banchine della risveglia coscienza, tutte ingombre di fastidi con la questura; che si fregava gli occhi, si grattava un po’ qua un po’ là, specie dentro la zazzera, e finiva col metter la testa sotto il rubinetto dell’acquaio; che si asciugava, — con un asciugamano color topo di chiavica, — che si pettinava — con un suo mezzo pettine tascabile, verde, di celluloide: — e poi, tòltine uno a uno con gran delicatezza i capegli che vi s’erano impigliati li contava e li consegnava uno dopo l’altro all’acquaio rigutgitante di pile di scodelle e di piatti unti dalla cucina alla casalinga della « pensione » della Isolina Fumagalli. Poi, sbadigliando, s’infilava quei quattro cenci, e quelle due torpediniere vecchie delle scarpe mezzo sfatte dal sudore dei piedi, fin80

ché usciva risbadigliando sul pianerottolo e prendeva stracco stracco a bazzicar giù e su le interminabili scale, pieno di pretesti, e ogni tanto saettava fuori dai buccinatorii! il dardo liquido della saliva sui gradini o sul muro, svogliato e inuzzolito ad un tempo, con l’ossa ancor molli dall’ottomana, nella speranza d’un qualche buon incontro. Incontro, oh, si sa, con una qualche casigliana di quelle, e ce n’era delle stagne! e prosperose; e decise: e poi svelte a sbatacchiare i tacchi giù per i gradini tatîc e tatàc fino in fondo, e fino fuori della porta: che qualcheduna di sicura non ne mancavano davvero al numero 14, con tutto che il Keplero c’è fior di negozianti, ormai, che in questi ultimi anni ci sono andati a star di casa con la famiglia. Sicché quel giorno aveva incontrato la madre, una dispettosa!; e sapeva dunque che la bambina era rimasta sola col pappagallo. E cosî la salvò. E anche il Loreto. Avrebbero un po’ imparato chi era, lui, e com'era fatto di dentro; e come li compensava della superbia; e con tutte le grane che la questura andava dietro a piantargli, giorno e notte. Va ben l'orologio: quant’a quello, è un altro conto, si sa: peggio per loro se lo avevano lasciato sul comò, nel momento proprio che gli va a fuoco la casa. « L'incendio », dissero poi tutti, «è una delle cose più terribili che sia ». Ed è vero: fra la generosità e la perplessità de’ pompieri d’oro: fra cataratte d’acqua potabile sopra le ottomane pisciose e verdi, ma stavolta minacciate da un ben brutto rosso, e, sopra i cifoni !* e i credenzoni, custodi magari d'un mezz'etto di gorgonzola sudato, ma leccati già dalla fiamma come il capriolo dal pitone: con zampilli, spilli liquidi, dai serpi inturgiditi e fradici dei tubi di canapa, e lunghe, lancinanti zagaglie dagli idranti d’ottone, che finiscono in bianche di porzazzere e nube nel cielo dell’agosto torrido: e isolatori

12 mento 13 14

il rigonfiaMuscoli delle guance, la cui contrazione determina (lat. buc(c)ira). che si produce suonando una tromba o un corno « Sode » (milanesismo). «Comodini » (calco del milanese cif6n).

81

cellana semi-usti cader giù a pezzi a frantumarsi del tutto contro il marciapiede patapràf!: e fili di telefoni bruciati che svolavano via nella sera dalle lor mensole fatte roventi, con penisole nere e volanti di cartone e mongolfiere di tappezzeria carbonizzata, e giù, tra i piedi degli uomini, e dietro le scale mobili, anse e rigiri e impennate di tubi che sprizzano zampilli parabolici da tutte le parti della mota della strada, vetri in briciole in un pantano d’acque e di melma, pitali di ferro smaltato ripieni di carote buttati giù di finestra, ancora adesso!, contro gli stivaloni dei salvatori, i gambali dei genieri, dei carabinieri, degli ingegneri comandanti dei pompieri: e il protervo e indefesso cic-ciàc e cicfc e ciciàc, delle ciabatte femminine a raccoglier pezzi di pettine, o schegge di specchio, e immagini benedette di San Vincenzo de’ Liguori ! dentro lo sguazzo di quella catastrofica lavanderia. Una donna incinta, altro caso pietosissimo, ed era già al quinto mese!, dal panico e dall’angoscia del trambusto e forse anche, però, soffocata da quel fumo delle scale, che appena aprir l’uscio glie ne soffid dentro una ventata da far paura, si sentî venir male e svenne: proprio sul pianerottolo, nel tentar di scappare. E questa la salvò per miracolo certo Pedroni Gaetano del fu Ambrogio di anni 38, facchino alla stazione centrale, dove aveva da riprendere il turno alle sei e mezza. Inviato da Dio! se si pensa che, per portare o smuovere un baule cosî, bisogna esser gente puranche pratici. Egli stava per uscire, sufolando come un merlo, dall’uscio disopra ancora della Isolina Fumagalli, reduce da una certa robusta galanteria, sulla quale il Signore è quasi certo che dovesse aver chiuso almeno un occhio. E, dopo il congedo, si sentiva liberato e leggiero e incline più che mai alla protezione dei deboli, dei derelitti: prese su la paglietta, se l’aggiustò in capo, e accendendo un mezzo toscano sognava già il governo e l’incanalamento totalitario di tutti e venticinque i bauli e le valigie e le cappelliere I 15 Ibrido di San Vincenzo Liguori.

82

de’ Paoli

con

Sant’Alfonso

Maria

de’

d’una qualche americanessa rognosa, di quelle spirlunghe e prepotenti, che vanno intorno con il bastone da uomo, fra il Ve-

nezia e il Gottardo, il Bologna e il T. P.! Quand’ecco che, invece dell’americana, ti cominciano le urla e il casino e il fumo su dalle scale appena aprir l’uscio, che a momenti

non era da vederci. Fu un momento

brutto,

raccontava quella sera, uno dei più brutti proprio della sua vita. Diede subito una voce alla donna, ch’era ancora alle prese col rubinetto, con un bigoncioletto-bidet, con certe sue pentoline e gran travasi d’acqua, ma piantò lf subito ogni cosa, sapone e salvietta e mastello e acqua e tutto, e la si infilò in un battibaleno una specie di vestaglia cinese, o giapponese che fosse, e senza por tempo in mezzo la si mise immediatamente a strillare « ah! Madonna, ah, Madonna!, la mia pelizza, la

mia pelizza! », e volle prendere fuori la borsetta dal comò, e lui allora la prese per un braccio e la trascinò fuori cosî com'era, con addosso quel kimono di Porta Volta! e senza neanche le mutande, in zoccoletti da camera che però uno lo seminò subito giù per le scale; e tirandosela dietro per una mano cercarono scampo sprofondando tutt'e due in quell’asfissia paurosa. Lui, poi, con due o tre calci, cosî, d’istinto, mandò in frantumi la prima vetrata, passandoci davanti: e il fumo, allora, fuori anche di là. Poi, sotto, a momenti inciampavano nella donna svenuta, riversa contro lo stipite; e allora con l’aiuto dell’altra, che zoppicava dal piede senza zoccolo e vo-

leva scappare per conto suo, a ogni costo, ma brancò e la tenne forte e le gridò sulla faccia o tr... », riuscirono tutt'e due dopo una fatica un sudore infiniti a portarla fin da basso, dove tiga e gli infermieri della Croce Verde, se Dio

lui invece l’ab« devi aiutare, e un terrore e c’era già la letvolle, e oramai

i pompieri. P.: Trieste16 Treni provenienti da o diretti verso tali località (T. i Parigi). di Porta 17 Cioè acquistato, assai poco esoticamente, nella zona Volta.

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Invece la signora Arpàlice Maldifassi, cugina del famoso baritono Maldifassi, Eleuterio Maldifassi! ma sî!... andiamo! che aveva cantato anche alla Scala, in del! 1908... nel « Mefistofele »... durante la stagione primaverile, oh! un trionfo, un

vero trionfo! e una gloria autentica della nostra Milano, quella nel cercate di precipitarsi in salvo insieme a tutti gli altri, urtata e sballottata dall’« egoismo », secondo raccontò poi, « degli inquilini del quinto », che piovevano giù dalle scale come tante lepri, non va a prendere con la scarpetta, brutti vigliacchi! tra il gradino di marmo di Carrara e il ferro storto e mal combinato della ringhiera? Ma sicuro! Ed ecco perché la si era rotta una gamba, diceva lei: ma in realtà s’era soltanto slogata una caviglia al primo gradino, scivolando nello spavento e perché non sapeva dove mettere i piedi, col tacco tatàcco ! tutto ambizioso di guadagnare quei sei o sette centimetri, come ce li hanno le donne. E tutto, poi, perché aveva voluto salvare a ogni costo il ritratto del suo Eustorgio, povera donna, e i suoi preziosi, ch’erano anche quelli un ricordo del suo povero Eustorgio, ed era rientrata di corsa a riprenderli fuori dal comò: che proprio quella mattina li aveva liberati dal Monte, col denaro restituitole dalla Menegazzi. Quando si dice le combinazioni! Immaginarsi quello che dovette provare anche lei, Dio! Dio!, si inortidisce solamente a pensarlo, non dico poi a riferirlo, quando in uno spavento e in una confusione di quel genere la si sentî sbatacchiata contro la ringhiera, e poi contro il muro, dallo « spietato egoismo della natura umana », e poi di nuovo contro la ringhiera a rischio di precipitare nel vuoto! e allo spavento e alla debilità del sesso si aggiunse tutt’a un tratto anche lo strappo al piede, quello spasimo improvvisamente lancinante seguito da un dolore otribile di tutta la gamba, per cui cadde seduta sull’orlo d’un gradino e poi slittò giù con il culo ancora per un poco, in un tobòga orribile, a ogni nuovo tracollo di gradino in gradino 18 «Nel» (milanese). 19 « Vocabolo alterato in un binomio

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onomatopeico » (Contini).

acciaccandosi e riacciaccandosi di bel nuovo l’osso sacro ogni volta, o coccige che dir si voglia, che andava cosî poco difeso dalla deficienza dei glutei, di cui fin da giovane era tanto dolorosamente mal provveduta, povera signora Maldifassi! Tossiva e starnutiva nella fuliggine acre e strillava: « Sofèghi 2! Sofèghi; ahi ahi la mia gamba, salvatemi! per caritàa del Signor! ahi, ahi! Madonna, Madonna, la gamba, la gamba, sofèghi! sofèghi! ». E non finiva più di emettere senari a coppie dalla bocca scontorta; dall’anima terrificata, dal corpo straziato. E la dovette trascinar giù per le scale, fra urla inaudite di dolore e in quella tosse e in quel fumo orrendo, il bravo garzone muratore e avanguardista Ermenegildo Balossi di Gesualdo, d’anni 17, da Cinisello, il quale, in mutande, e con un pallore nel viso, era in procinto di salvare le sue proprie gioie anche lui, non impegnabili queste, ahimè!, a nessun Monte. Almeno monti di pietà, dal momento che si sta parlando di quelli. Anche qui... si vide proprio il dito del Signore. Perché il Balossi era piovuto a piedi nudi dal tetto dove accudiva a rigovernare le marsigliesi ? malconce, dopo la furibonda grandinata della settimana avanti, ch’era stata sui diversi tetti della zona imparziale e solenne, come tutti i malanni che si dan l’aria di discendere dalla divina provvidenza, o giustizia che sia. Lavorava verso il tardi, dacché nel pieno meriggio su quelle tegole arroventate c’era da morir cotti, e col cervello insolato; la testa stretta nella benda d’un suo fazzolettone rosso e giallo, e meglio che mai riparata dalla spessezza de’ capelli, ch’erano come il vello d’una pecora, ma incipriato di calce: e si teneva anche, come s’è veduto, piuttosto leggero di panni, con una canottiera color celeste stinto sul dorso, di tessuto Viscosa e trasparente, e tutta buchi, che pareva una car-

20 21 dai 14 22

« Sòffoco » (milanese). Inquadrato nell’organizzazione ai 18 anni. Tipo di tegola piana.

n paramilitare

fascista

sata dei giovani

85

tavelina infradiciata nel sudore. I suoi piedoni enormi, tozzi e carnosi, dai diti corti, carnosi, e divaricati e aperti a ventaglio, offerivano alla porosità biscottata dei tegoli un attrito particolarmente pregiato dai capimastri e dagli assistenti edili di tutta quanta Milano, ed erano insomma quanto di più adatto ci fosse in tutta la muratoria e garzoneria milanese da mandarlo su per i pioventi per sette lire al giorno ad aggirare i camini come una fantasima, a strusciarsi, come un gatto impa-

vido, lungo le grondaie e i colmigni. Il suo « posto nel mondo » dunque, a dirla con Virgilio Brocchi, se l’era guadagnato per titoli, non ammanigliato alle raccomandazioni, e al per via della via. E durante tutto sto laborioso pane perdeva ininterrottamente 4 bindelli dalle caviglie, come un Ermes di Cinisello cui gli si fossero sfrigolate in bindelli le ali dei piedi. Il maestro, impillaccherato di calce i baffi e la risecca faccia, tutta rughe, con quella fiorita di nèi bianchi, ma adesso stanco e vinto dal pandemonio, lo chiamava lamentosamente dal fondo pauroso delle scale: « Oh, Gioànn! oh, Gioànn! » e spiegava piagnucolando a tutte quelle frenetiche in fuga dentro le lor ciabatte, cariche di terrore e di fagotti e bimbi urlanti, che c’era ancora un ragazzo sul tetto, « el magiitt, el me magiitt », che su in solaio ci doveva essere « el Gildo, el magiitt, el Balòss de Cinisèll »: e poi si dava di nuovo a ingiovannare la tromba fumosa di quelle infernali scale, di sotto in alto, ma sopraffatto dalle urla di tutti. Nessuno tornava in2 Popolare scrittore il cui cognome è ripreso ironicamente, sempre nei Racconti, in San Giorgio in casa Brocchi. Qui si allude al suo Posto nel mondo, celebrazione dei valori della borghesia lombarda. 24 « Gioànn, gioannin» vien chiamato dai muratori lombardi il garzone o aiuto, secondo una curiosa contaminatio dei due ètimi, l’onomastico Giovanni, che è nome generico di maschio, e il sostantivo giovane, da cui giovanino, che equivale l’italiano giovinetto. « Magiitt », in designazione ufficiale, è ancora il garzone muratore. « Bindello » è fettuccia. Le quattro fettucce delle mutande lunghe. « Sfrigolarsi » è sbriciolarsi friggendo, qui usato per decomporsi e cioè tramutarsi a prezzo di una diminuzione: in lingua « sfriggolare » è dare il suono di che sfrigga [N. d. A.].

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dietro di certo all’idea del magiitt, e le più, poi, non lo udivano neppure. Finché apparve anche lui sull’ultima rampa, stravolto, rosso, macero nel suo sudore, con quella benda rossa e gialla del fazzolettone intorno alla testa, con un baffo nero sulla guancia, con in braccio la signora Maldifassi ululante « ahi ahi! la mia gamba!, la gamba la gamba! Signor madonna jutèmm vi alter! » ® e intanto però la stringeva in d’una mano un sacchettino di tela e la si vedeva che non lo voleva mollare a nessun patto: e lui con le mutande in posizione bassa di estrema demergenza, che quasi quasi stavano già per venir meno, inciampando a ogni nuovo gradino nei bindelli coi ditoni aperti dei piedi, come due pettini. L’aveva presa e la reggeva per le ascelle, da dietro, e con un ginocchio, o con l’altro, a ogni gradino le faceva come un seggiolino momentaneo sotto il sedere magro, derelitto, badando a serbar l’equilibrio e a non ruzzolar giù tutt'e due uno sopra l’altro fino in fondo alla rampa. Tanto che poi gli diedero l’encomio, il giorno dello Statuto!, al valor civile; povero e bravo ragazzo! che se l’era proprio meritato. E anche un altro poveraccio, il vecchio Zavattari, la scampò per un pelo. Soffriva d’asma e di catarro bronchiale, costui, da anni. Una forma grave, tanto che neppur l’agosto milanese poteva mitigare le sue sofferenze, ed erano tutti più che persuasi, oramai, che fosse un caso incurabile. Un qualche blando lenimento a tanta pena se lo procurava con l’osservare il letto fino a mezzogiorno, e la tavola poi fino alle sei della sera, dove ci rimaneva tutto il dì la tovaglia, lercia, e un fiascone di Barletta 25, « la mia medesìna », come lo chiamava, senza far caso delle macchie di vino e di pomodoro, e di caffè, né inquietarsi del macello di stecchi piegati in due e di tutto il briciolame sopravanzato a quel po’ di gorgonzola e di luganeghino fino ® 25 « Signore, Madonna, aiutatemi voi! ». a » (mila2% Corposo vino da taglio pugliese; medesìna, « medicin di maiasalsiccia nese); lugàrnega è designazione lombarda e veneta della le e di altri insaccati locali.

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alle tarde ore. Da quel fiasco — seduto a tavola, con un gomito sulla tovaglia da cui penzolava la sinistra inerte — il vecchio Zavattari andava mescendosi via via per tutto l’assonnato e ciondoloso pomeriggio un mezzo bicchiere via l’al«on mezz biceròtt » e « on alter mezz biceròtt », e con tro, mano oscillante, la destra, a quando a quando se lo recava sotto ai baffi, il biceròtt; e cosî non la finiva più di centellinare e di assaporare (lunghi assaporamenti e clamorose stappature del palato), come fosse nettare ambrosio, quel panerone ?” rosso, maturato su a ferragosto dalle cantine della Martesana 8, che gli lasciava due millimetri d’una polta violacea sulla lingua barbugliosa ?: e grosse stille vermiglie, poi, sui baffoni pioventi, di Belloveso °° rincoglionito nel catarro. Che parevano, tant’eran vive e vermiglie, le stille del Sacro Cuore o dell'Addolorata in una pittura del Cigoli *. E anche lo sguardo, del resto, velato, immalinconito, affisato lontan lontano dentro il cielo della slòngia *, con le due metà superiori dei bulbi celate dalle palpebre ricadenti, in una specie di sonnodella-fronte, anche lo sguardo assumeva una tal quale intonazione di Sacro Cuore, cosî, un po’ alla Keplero #, ma era invece il sacro fiasco che funzionava in pieno. Cosî, ore e ore, col gomito su quel letamaio della tovaglia pomodoro-Barletta, 27 « Pànera» è panna: dialetto milanese. « Panerone » è panna assai densa: e dicesi, nel gergo de’ bevitori, d’un vino corposo e dimolto tinto, il quale non manchi di deporre sulla lingua de’ buongustai la desiderata fanghiglia: senza che verrebbe incriminato d’esser vinello, sangue di rana, e cosî via [N. d. A.]. 28 Regione nei dintorni di Milano. 2 «Borbottante »: per il concorso dei fattori fisiologici dell’età e dell’impiccio della poltiglia vinosa. 30 Mitico eroe gallo, fondatore di Milano. 31 Ludovico Cardi, detto il Cigoli (Castello di Cigoli, 1559 - Roma, 1613) è autore di compunte immagini devozionali, tra manierismo e barocco. ; ® Fiacca, stanchezza, voglia di far nulla: in dialetto lombardo [N. d. A.]. 33 «Cioè “nello stile di via Keplero”, ma con l’avvertenza che il più famoso ritratto (nel seminario protestante di Strasburgo) del grande astronomo ha un aspetto leggermente imbambolato » (Contini).

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con la mano a penzolare, e l’altra, se non mesceva o centellinava, a grattarsi il ginocchio; cosî grugnolava * e ronfava di gola per delle ore intere, lungo tutto il declino del pomeriggio, sudato, dentro l’afa e il lezzo della camera, ch’era piena di polvere, con il letto ancora da prender aria, la federa color lepre; coi pantaloni sbottonati da cui usciva una cocca della camicia di notte, con due ciabattazze fruste infilate nei piedi nudi e verdastri, con il respiro breve che pareva scorrere su biglie di muco, coccolando con l’amorevolezza d’una mammina giovine quel suo catarro sommesso di catacomba, una colla che barbugliava, a lente bolle, in un pignattone dimenticato sul fuoco. Questo Zavattari, consocio della ditta Carabellese Pasquale, in via Ciro Menotti 23, esercivano tra tutt'e due un negozio di pesce atlantico a buon mercato della Genepesca è, pescato coi motopescherecci « Stefano Canzio » e « Gualconda» e qualche volta il « Doralinda »; ma tenevano a prezzi molto convenienti anche le ostriche di Taranto, e frutti di mare in ghiaccio di entrambe le sponde. E la gli andava anche abbastanza mica male, rifilando quei pezzi di mostri verdi delle profondità marine alle massaie esterrefatte del Cir Menott; le quali, tutte prese dentro l’idea del risparmio, erano poi assolutamente sprovviste de’ più pallidi requisiti necessari a poterli cucinare come che fosse, dei liocorni simili. Ma tutto questo non c'entra: quel che si voleva dire è che il vecchio, al primo sopravvenire dell’idea del brucio e alle prime grida di spavento su dalle scale e dal cortile, il vecchio Zavattari, per quanto arrivato oramai alla stupefazione e al torpore più consolanti, aveva tentato anche lui, in una sorta d’allucinata angoscia del fisico, di dirigersi verso la finestra per tentare di aprirla, perché nella raggiunta ebetudine la i 3 «Incrocio di grugnire e grufolare » (Contini). è nella 35 «Il cognome Carabellese è pugliese; via Ciro Menotti la Genepesca, una parte orientale di Milano, fuori porta Monforte; oceanica (Compasocietà pet l’esercizio e la conservazione della pesca -macedonia” come “parola PESCA, grande della italiana le GENEra gnia scrive il Migliorini)» (Contini).

89

credette chiusa, mentre eta sempre stata aperta durante tutto il pomeriggio: un’angoscia fisica, primordiale, che gli aliava come una fiamma fatua d’attorno a quel moncone d’istinto: ma non gli riuscî se non di rovesciare il fiasco del Barletta, semivuoto e imbecillito anche lui; e gli si erano invece spalancate tutta un tratto le cataratte dei bronchi e allentati, nel contempo, i più valorosi anelli inibitivi dello sfinctere anale, sicché fra urti di tosse terribili, mentre un fumo acre, nerissimo, gli principiò a filtrare in casa dalla toppa della serratura e da sotto l’uscio, nello spavento e nella congestione improv-

visa, preso dall’orrore della solitudine e del sentirsi le gambe cosî di pasta frolla proprio nel momento del maggior bisogno, finî, anzitutto, con l’andar di corpo issofatto dentro la veste notturna: a piena carica: e poi per estromettere dalle voragini polmonari tanta di quella buona roba, che son sicuro che non ce la farebbe di certo neanche il mar di Taranto, con tutte le sue ostriche, a poterne pescar fuori di compagne. Lo salvarono i pompieri, con le maschere, abbattuto l’uscio a colpi di accetta. « Se véd ch’el foégh el gh’a dàa la moviida » *, sentenziò il capo drappello Bertolotti a salvataggio ultimato. Penosissimo, e purtroppo ferale, il caso del cavalier Carlo Garbagnati, l’ex-garibaldino del quinto piano: uno proprio dei mille di Marsala, e dei cinquantamila del cinquantenario di Marsala. Perché, non ostante le urla della domestica Cesira Papotti, s'era ostinato a voler portare a salvazione le sue medaglie, contro ogni evidente criterio di opportunità, e perfino i dagherròtipi e due piccoli ritratti a olio di quando era giovine, cioè all’epoca di Calatafimi. Ora, il trasporto del medagliere d’un garibaldino, specie in una contingenza di panico totale come fu quella, non è un problema cosî semplice come potrebbe parere a prima vista. Finî che anche lui fu colto dall’asfissia, o da un qualche cosa di simile, e lo dovettero

36 «Si vede

90

il fuoco

l’ha messo

in movimento ».

andar a portar via i pompieri anche lui, se vollero salvargli la pelle, a rischio di lasciarcela loro. Ma le cose purtroppo precipitarono, data anche l’età, ottantotto anni!, e il vizio di cuore, e un penoso restringimento uretrale di cui soffriva da tempo. Sicché l’autolettiga della Croce Verde, al quinto viaggio, si può dire che non era arrivata ancora alla guardia medica di via Paolo Sarpi, che già l’avevano fatta voltare indietro di volata verso l’obitorio della clinica universitaria, là in fondo alla città degli studî di dietro del nuovo Poletecnico ”, macché in via Botticelli! più in là, più in là! in via Giuseppe Trotti, si, bravi, ma passato anche via Celoria, però, passato via Mangiagalli, e poi via Polli, via Giacinto Gallina, al di là di Pier Gaetano Ceradini, di Pier Paolo Motta, a casa del diavolo.

37 «Con fonetismo meridionale, a significare, proprio in relazione a uno degli istituti più tradizionalmente milanesi, la mutazione etnica conseguente all’abbondante immigrazione nella metropoli. Da segnalare che, mentre la “guardia medica di via Paolo Sarpi” (fra porta Sempione e porta Volta) è un punto topico della cronaca giornalistica, la finale toponomastica urbana è un caotico divertimento dell’autore: alcuni nomi sono inventati (Trotti, Polli, Motta), alcuni alterati (via Giulio Ceradini), l’itinerario irrazionale (le vie Celoria, Mangiagalli, Botticelli da nord a sud in quest'ordine alla Città degli Studi, le vie Gallina e Ceradini riportano di qua dall’asse verticale di circonvallazione verso il centro). A questo modo si andrebbe veramente “a casa del diavolo”; > ma i nomi inventati o manipolati imitano, con parodia ben celata, tra elementi autentici, lo stile della toponomastica milanese » (Contini).

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197

mutande, come fosse stata sua, quella piscia. E le frittelle di letame compresso che s’erano disquamate di sotto agli zoccoli quadrupedanti, ora messe a « pan moin » !! nella piscia. Nella sala dove lui e sua madre dovevano

soli entrare e resistere;

e attendere. Le loro anime dovevano, sole, aspettare come il ritorno di un qualcheduno, negli anni.... di qualcheduno che non aveva potuto finire.... finire gli studî.... O forse aspettavano soltanto il volo del gentile angelo modellato dalla notte, dalle palpebre mute, dalle ali d’ombra.... Gli studî, forse, erano

stati finiti.... La laurea

l’aveva

mollata egualmente, il Colombo ”.... coi timbri col Vittorio Emanuele.... La laurea ad honorem. La laurea dei morti... Nella casa, il figlio, avrebbe voluto custodita la gelosa riservatezza dei loro due cuori soli. L’ira lo prese. Ma la constatazione di quella pluralità sconcia lo vinse: si senti mortificato, stanco. In quei giorni le lettere di alcuni conoscenti erano arrivate. Lo incitavano a dar termine ad un suo lavoro, ch’essi, in perfetta buona fede, supponevano fosse un romanzo, e, quel ch’era più commovente da parte loro, un bel romanzo. Stando alle loro cordiali espressioni pareva che il Maradagal non potesse più capire nella pelle dalla voglia del suo roman-

zo, mentre in realtà i grandi proprietari terrieri del Serruchén, immigrati nel paese dalla vecchia Europa durante la seconda metà del secolo 17°, erano solo preoccupati di allevare e di tosare i merifios della Cordillera. Ed egli era un uomo, non ostante le apparenze e la valigetta di cartone, di criterio piuttosto forte e, direi, temperato. Nessuna illusione. Sapeva benissimo che cosa sarebbe arrivato dopo tutta la fatica e l’inutilità, dopo la guerra e la pace e lo spaventoso

I! Ammollate come 12 Questa battuta va della Scuola d’Ingegneria conferito al figlio Caduto

138

«pane a zuppetta nel vino» (lomb.). interpretata nel senso che il Rettore di Facoltà di Pastrufazio si chiamasse Colombo e avesse la laurea ad honorem [N. d. A.].

dolore; in fondo, in fondo a tutto, c’era, che lo aspettava, il vialone coi pioppi, liscio come un olio. Coi pioppi dalle tergiversanti foglie, nella bionda luce, il viale della Recoleta !, in asfalto, dove gli scarafaggioni elettrificati ci scivolavano sopra in silenzio che parevano nere ombre già loro, con bauli argentati, trapezoidali. La cassa di zinco, dentro, ch'è obbligatoria per legge nel Maradagal, costituiva un monopolio del Munici-

pio, che la faceva pagare ottocento pesos ai dolenti. Ottocento.... Nessun dolente, certo, dopo di lui, e ghignava tra sé e sé dalla gioia solo a pensarci: absint inani funere neniae luctusque turpes et querimoniae !; il Municipio lo avrebbe preso in gobbo, stavolta. Doveva metterci lo zinco per nulla e portarlo alla Recoleta a gratis, e sbrigarsi anche: perché la sua supposta nobiltà d’animo dopo alcune ore, e tra lo scandalo, avrebbe cominciato a emanare un fetore insopportabile. Il Municipio doveva portarlo alla Recoleta a sue spese, ah! ah! Gargarizzò su dallo stomaco una sua feroce risata, con la trippa rideva. Ottocento lire, la cassa di zinco. Il Municipio di Pastrufazio stavolta lo prendeva in del gdepp ”. Sapeva, sapeva. Ciò non ostante gli piaceva talora di fantasticare: e si lasciava fare come una carezza, da chi? da chi? se non dalla vana luce d’un pensiero, labile come raggio d’autunno. Immaginava che qualche sodalizio gli avrebbe regalato un piccolo orologio, da polso, visto che nessuna donna ci aveva pensato, mai: nessuna donna? la mamma, la povera mamma. Fantasticava che la patria maradagalese lo incuorasse a perfezionare quel suo scarabocchio di romanzo:

13 Sta per il lungo Viale Certosa, a Milano, percorso dai (« gli scarafaggioni elettrificati »), che porta al Cimitero Maggiore, Musocco (la « Recoleta », con travestimento creolo già segnalato alla del brano precedente). i 14 Vedi l’introduzione al brano. 15 «Sul groppone » (lomb., preceduto poche righe sopra dal in lingua: in gobbo).

tram o di n. 28

calco

199.

e te molesta incita di poner fine al Giorzo per cui, cercato, a lo stranier ti addita !.

Ma sapeva benissimo che se ne fregavano tutti, nel modo più completo, e che il romanzo, legato a dei personaggi veri e a un ambiente vero, era stupido quanto i personaggi e l’ambiente. Stai fino! C’era altro da fare e a cui pensare, nel Maradag4l e in tutto il Sudamerica a quei lumi di luna. E soprattutto era certo, o quasi, di doversi considerare un deficiente. Un romanzo! Con dei personaggi femmine! Con quel po’ po’ di pratica che Cristo gli aveva fatto fare, tanto non intorpidisse, della psiche umana! Della psiche! E anche della sua stessa. Quelli lo videro appena. Richiuse precipitatamente la porta: dalla scala, bestemmiando, si fece ad uscire sul terrazzo. I polli sparnazzarono via, folli. Piumicine ridiscesero, lente, soffici, sulle foglie dell’olea. La vampa si attenuava. Nubi transitavano, dalla montagna, in quel cielo, cosî sereno ed ampio da parere infinito. Valicavano i lontani crinali. Avanzavano, carovane pazienti: come le generazioni degli umani verso il futuro. Il terrazzo, di piastrelle di cemento, consunte e per-

16 Dall’apostrofe del soccorritore al poeta stramazzato per via, nell'ode La caduta di Parini. Nella sua concione, il soccorritore ricorda non solo queste sollecitazioni della patria milanese, ma anche i termini della lode che essa rivolge a Parini: « [La patria] Te sublime, te immune / Cigno da tempo che il tuo nome roda // Chiama gridando intorno », eco della stessa ode di Orazio (II, 20) da cui Gadda estrae il distico sui funerali respinti. Ma la città che esalta con formule oraziane il suo poeta si guarda dall’assicurarne la sussistenza materiale, aggiunge il soccorritore; e anch'egli rivela presto la sua natura perversa incitando con petulanza il Parini a una remunerativa prostituzione di sé e della propria musa. Con la citazione della Caduta (purché, ancora una volta,

si consideri

l’intero contesto

originale del frammento

esibito) Gadda

evoca dunque un aspetto particolare di quel processo di dissoluzione della condizione ideale emblematizzata dal cigno oraziano, che è uno dei temi principali del brano: vale a dire il fenomeno sociale della disarmonia tra lo scrittore « moderno » e la collettività.

140

ciò porose, era asciutto e caldo, carovanato da quel prurito interminabile delle formiche. E dal folto, forse, dell’edera, là, là, dove oscillava un corimbo, Puck!, forse: o il ramarrofolgore a meditare il suo guizzo. Il figlio si appoggiò, chinandosi, (data l’altezza della persona), al parapetto di legno. E guardava; forse, ascoltava. C'erano, davanti a lui, dal prato, i mandorli, coi diritti rami nel cielo, che il peone aveva ferocemente bacchiato, (nottetempo però) senza più foglie quasi; una drupa bleu, invece, con pruina, porgevano gli arditi polloni de’ susini: le pere butirro, a spalliera, erano più dure di certo del più duro sasso del Serruchén. Ma San Carlo avrebbe rimediato a ogni cosa. Il figlio guardava, guardava, come per sempre. Di certo anche, ascoltava. Per intervalli sospesi al di là di ogni clausola, due note ! venivano dai silenzi, quasi dallo spazio e dal tempo astratti, ritenute e profonde, come la cognizione del dolore: immanenti alla terra, quandoché vi migravano luci ed ombre. E, sommesso, venutogli dalla remota scaturigine della campagna, si cancellava il disperato singhiozzo.

17 Il folletto del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. 18 Il grido del chiù, o assiolo, un rapace notturno (delle Striges), migratore, che soggiorna tra primavera ed estate in Europa, nei siti alberati.

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Il primo nucleo di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana è prodotto da Gadda a Firenze nell’immediato dopoguerra, in un periodo di intensa felicità creativa malgrado la crescente precarietà delle sue condizioni materiali. Cinque puntate del nuovo romanzo sono ospitate su « Letteratura » nell’arco del 1946 (secondo le date ufficiali: in realtà nel 1946-1947). Nell’estate del 1946 o del 1947

Gadda ne riprende e porta a conclusione il plot (che in « Letteratura » rimaneva ancora aperto) in un «trattamento » cinematografico, Il palazzo degli ori, che non verrà mai realizzato e sarà edito solo postumamente. Negli anni seguenti, tuttavia, il romanzo viene abbandonato: Gadda vi ritornerà solo dopo la parentesi dell'impiego romano presso il Terzo Programma radiofonico (19501955), su proposta dell’editore Garzanti che lo pubblicherà nel 1957. I primi sei capitoli della versione in volume riprendono quattro delle cinque puntate uscite su « Letteratura », cui si aggiungono quattro nuovi capitoli: ci soffermeremo più avanti sulle motivazioni addotte da Gadda per questa notevole espunzione di un’intera puntata. Nella ripresa cadono inoltre, o vengono incorporate nel testo, le note che nella redazione in rivista, per dirla con lo stesso Gadda, « orchestravano di significazioni e di motivazioni laterali il referto schematico, per quanto minutamente scenografato, del giallo ». Altri considerevoli rimaneggiamenti riguardano le componenti dialettali romanesche e molisane, che vengono messe a fuoco più correttamente con l’aiuto di esperti; il sistema interpuntivo, radicalmente trasformato; l’onomastica dei personaggi, ecc. Ancora una volta, nel Pasticciaccio, Gadda affida un ruolo decisivo ad un personaggio profondamente autobiografico, anche se i suoi tratti esteriori non sono più, come in Gonzalo, quelli dell’ingegnere milanese, bensi quelli molisani del dottor Francesco Ingravallo, funzionario della mobile

a Roma. Oltre, infatti, a con-

ferirgli molto della propria umbratile e ferita psicologia, Gadda

145

fa di Ingravallo, fin dalle pagine d’apertura, il portavoce della propria filosofia, e in particolare della nozione — centrale nel romanzo — della intricata pluralità delle cause: Sosteneva,

fra l’altro, che le inopinate

catastrofi

non

sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Un altro tratto, non meno importante, che accomuna don Ciccio a Gadda è l’interesse per la psicanalisi, inconsueto in Italia nel periodo fra le due guerre, e concordemente avversato tanto dall’ideologia fascista e dalla cultura cattolica, quanto dalla filosofia idealistica dominante. La vicenda di cui Ingravallo è l’inquieto e partecipe indagatore è ambientata a Roma nei primi mesi del 1927. Il regime fascista sta assumendo

i suoi caratteri definitivi,

e Mussolini

fa

le sue prove in sempre più plateali vesti di capo carismatico: a questo scenario Gadda dedica ora pagine, orta rapidi incisi violentemente

sarcastici,

i cui temi

e il cui tono

conosceranno

un

pieno sviluppo in Eros e Priapo. Ma più che la Roma fascista che comincia a delinearsi, il teatro del delitto — o meglio dei delitti — è, immediatamente, la vecchia Roma postumbertina, una Roma di trafficanti arricchiti e di « pescecani ». Appunto in un palazzo di pescecani al 219 di via Merulana, « intignazzato e grigio », che la fantasia popolare ha battezzato «il palazzo dell’Oro », abita Liliana Balducci col marito Remo, un ricco commerciante. È attraverso il filtro delle riflessioni di Ingravallo, ospite a una cena in casa Balducci, che Liliana viene presentata: bellissima, ricchissima, ancor giovane, ma come velata di una mestizia profonda, di cui il commissario (con lucidità professionale, malgrado un vago innamoramento platonico) rintraccia le radici dell’ossessione di una maternità mancata. A questo difetto Liliana tenta di supplire « adottando » una dopo l’altra come « nipoti» ragazze dei Casteili Romani (da dove sono reclutate anche le giovani serve di casa Balducci). Nelle sue protette Liliana trova immaginaria mente la propria figliolanza impossibile; e nel contempo venera

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in esse, non senza un risentimento latente, la loro potenziale fecondità di prossime madri. L’ambiguità di questi rapporti è già emersa in modo inquietante (come Ingravallo accerterà in seguito) nel caso della penultima « nipote », la selvaggia e provocante Virginia: la relazione della pupilla con la protettrice si è caricata, allora, di tensioni omosessuali, ed è occasionalmente sfociata in sinistri benché larvati exploits sadici di Virginia nei confronti della smarrita Liliana. Appena qualche settimana dopo la cena dai Balducci, Ingravallo è di nuovo nel palazzo di via Merulana, questa volta nell’esercizio delle sue funzioni: una coinquilina di Liliana, la « contessa»

Menegazzi

(una

matura

vedova

pittorescamente

isterica),

è stata rapinata a mano armata dei suoi gioielli da un giovane ignoto introdottosi nel suo appartamento. Le indagini sono appena avviate, indirizzate da alcuni indizi verso la zona dei Castelli, quando un nuovo e più atroce delitto è consumato nel « palazzo dell’Oro »: Liliana viene trovata sgozzata (e rapinata delle sue gioie, come si scoprirà con qualche ritardo). Sconvolto, Ingravallo ferma dapprima il cugino di Liliana, che ha dato l’allarme, ma che risulterà estraneo all’assassinio. Si fa strada allora l’ipotesi che i due delitti possano essere collegati, e forse opera di uno stesso criminale: le indagini si concentrano quindi sulla pista dei colli Albani, sulla quale ha condotto il caso Menegazzi, e tentano di far luce sul mondo che gravita intorno al laboratorio della vecchia Zamira, ruffiana, maga di paese e ricettatrice. Per questa via si giunge presto al recupero dei gioielli della contessa. Le indagini continuano con un interrogatorio dell’ultima serva dei Balducci, Assuntina (Tina), presso il letto del padre morente: incalzata, la ragazza nega disperatamente di aver ucciso Liliana. Il romanzo si chiude qui. Il trattamento cinematografico, al contrario (ma va notato che in esso la vicenda presenta numerose varianti rispetto al romanzo

anche nelle parti comuni

ad ambedue), porta l’uno e l’al-

tro caso fino alla completa risoluzione. Viene raggiunto, e ucciso mentre fugge, in un conflitto a fuoco con i carabinieri, il rapinatore della Menegazzi: è Enea Retalli, un giovane al quale la domestica Tina aveva involontariamente fornito informazioni sull’entità del potenziale bottino in casa della contessa. E viene infine scoperta l’assassina di Liliana: è l’ex-« nipote » Virginia, che in

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uno stato quanto meno prossimo alla follia ha trucidato e depredato la sua protettrice. Insomma, adeguandosi alle esigenze imposte dalla sua specifica destinazione, il trattamento cinematografico si mantiene in qualche modo più ligio alle convenzioni di un giallo normale; e snoda (due volte) fino allo scioglimento consolatorio la sequenza canonica: delitto / ricerca / scoperta-punizione del colpevole (ristabilimento dell’ordine violato). Il romanzo lascia invece sospeso questo schema, realizzando cosî quella sovversione degli istituti del giallo, di cui abbiamo già sondato la portata trattando della Cognizione del dolore e della Novella seconda. La ricerca suscitata dall’assassinio non si configura, dunque, come la progressione verso «uno svelamento risolutotio e tranquillizzante (sarebbe un’illusione, un alibi)», bensî come una dolente presa di coscienza del disordine e del male, « una cognizione del dolore » (Ceccaroni). In questa prospettiva non va vista soltanto l’omissione, nel romanzo, della cattura dei colpevoli, ma anche l’espunzione, nella versione in volume, della quarta puntata di « Letteratura », nella quale veniva esplorato a fondo, fino a cogliervi nitidamente le

premesse della tragedia, il rapporto tra Virginia e Liliana. All’indomani della pubblicazione, Gadda affermava che il sacrificio della puntata era dovuto « alla necessità base del racconto, la salvaguardia del suspense ». Egli taceva così sulla propria crescente riluttanza (le cui conseguenze sono evidenti a una lettura comparata delle due redazioni) a entrare in descrizioni di esplicita oltranza erotica. Ma soprattutto, consapevolmente o meno, nella sua giustificazione Gadda lasciava in ombra il fatto che nei gialli « not-

mali » il meccanismo del suspense fornisce in realtà più incentivi e pimenti che intoppi sostanziali alla progressione lineare della ricerca verso la soluzione; laddove la caduta della puntata quarta, cancellando una massa di indizi a carico di Virginia, ritarda in maniera eccessiva il focalizzarsi dell’indagine (del racconto) verso la conclusione, e contribuisce piuttosto a scatenare ciò verso cui Gadda è irresistibilmente condotto, contro tutte le leggi del genere: vale a dire un dispiegamento ipertrofico, incontrollabile, della ricognizione del « pasticcio », lungo una rete sempre più fitta di percorsi. La ricerca su un episodio criminale si dilata, di conseguenza, nella storia naturale e nella saga di due mondi. Da una parte il mondo dei pescecani (e della città), dominato dal culto della roba,

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dell’oro: e dall’ansia della riproduzione come generazione di eredi ai quali trasmettere l’oro, il feticcio che garantisce visibilmente l’identità e l’eternità della gers, della stirpe. Dall’altra il mondo della Campagna Romana, connotato per contrasto con i tratti del vitalismo e dell’erotismo più pieni. La fecondità prorompente di questo mondo — dalla quale Liliana è come magnetizzata — è ben diversa da quella propria del mondo dei pescecani, funzionale all’eternizzazione del possesso: è una fecondità più immediatamente pulsionale, radicata nell’elementarità della biologia, una sorta di fenomeno cosmico o tellurico. Ecco quindi la rappresentazione assumere un pronunciato colorito mitico; pur nel loro stato degradato i personaggi laziali vengono insigniti di nomi virgiliani, reliquie di una eredità arcaica che vive tuttavia in loro: Enea, Anchise, Venere, Ascanio, Camilla... E lo stesso antro vir-

giliano della Sibilla va incontro a una trascrizione triviale nel laboratorio di Zamira, centro ctonio, tenebroso, della apparente solarità della Campagna, luogo di precipitazione delle possibilità di male latenti nella chiarità albana. Da questo punto di vista il romanzo intero appare come una esplorazione del rapporto tra questi due mondi: un rapporto predatorio (ciascuno dei due mondi cerca di appropriarsi del capitale, finanziario o biologico, dell’altro) che assume fatalmente, al suo culmine, la forma di una ca-

tastrofe. Sarebbe tuttavia riduttivo assumere questa grande opposizione come una chiave di lettura privilegiata: non a caso Gadda tende a insistere vistosamente su di essa soprattutto nel Palazzo degli ori, dove tale « semplificazione » è in linea con la volontà di adeguarsi almeno in parte agli standard correnti di fruibilità cinematografica. Nel romanzo, la trama dei rapporti è non solo — ovviamente — assai più vasta, ma anche più riluttante alla gerarchizzazione.

In concreto,

l’analisi dei vari livelli del testo mette

in

evidenza una straordinaria molteplicità di relazioni binarie, non insolite nel resto dell’opera di Gadda (e innanzitutto nella Cogrizione), ma particolarmente percepibili qui per la loro estrema proliferazione. È stato cosî mostrato (da Arnaldo Ceccaroni) come uno

schema basato sulla corrispondenza speculare dei temi governi la distribuzione, lungo i capitoli dell’intero romanzo, dei segmenti delle due storie (caso Menegazzi e caso Balducci); e analoghi schemi speculari sono stati esperiti, a livello retorico, nell’organizzazione di pagine-chiave come la descrizione del cadavere di Liliana.

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A ciò si aggiungano le corrispondenze e le riprese di elementi, non contenute in una misura binaria, da un capo all’altro del romanzo; e ancora, lo spirito sistematico con cui sono sviluppate le serie di variazioni sugli epiteti del Duce, o sui capelli di Ingravallo, o sui gioielli... Accanto a questi intrecci di relazioni, il fenomeno nel quale il « pasticcio » si manifesta più prepotentemente come principio costruttivo del testo è il suo vertiginoso plurilinguismo, per cui il Pasticciaccio si presenta come un crogiolo di dialetti (e di linguaggi particolari). A un livello minimo di complessità la presenza dei dialetti si riscontra ovviamente nei dialoghi: ecco il romanesco della maggior parte dei personaggi, il napoletano del dottor Fumi (uno degli inquirenti), il veneziano della contessa Menegazzi e, caso già più complesso, la parlata di Ingravallo, che tende a contaminare romanesco, napoletano e natio molisano. Ben più articolata ed interessante l’adibizione del dialetto nell’ambito del « discorso indiretto libero », il procedimento (frequentissimo nell’intera opera di Gadda) che consiste nell’incorporare nella narrazione, in forma indiretta ma senza formule di collegamento (quali « disse », « pensò », ecc.) le parole o i pensieri di un personaggio. In effetti Gadda trasforma progressivamente dall’interno il discorso indiretto libero, rendendo in molti casi sempre meno identificabile il personaggio al quale esso va attribuito. Su questa strada un primo passo viene compiuto quando il discorso indiretto libero materializza, per cosî dire, delle « voci » che emergono dall’indistinzione collettiva di un « coro », anonime ma individuabili quanto alla posizione nel gruppo sociale di appartenenza e all’ethos espresso: tali, ad esempio, le voci « popolari » (attribuibili agli spettatori presenti, ma al limite anche a spettatori puramente ipotetici), voci ora commosse, ora ciniche, ora torbidamente eccitate, che nella descrizione del cadavere di Liliana si alternano a quella di Ingravallo e a quella di un superiore narratore « tragico ». Non mancano del resto, fin qui, autorevoli precedenti: giustamente è già stato avanzato, a questo proposito, il nome di Verga. Ma un passo ulteriore viene spesso compiuto da Gadda, soprattutto nei quattro capitoli aggiunti nella redazione in volume: gli inserti dialettali tendono a perdere, allora, anche il residuo legame con questi « personaggi » anonimi, virtuali, ma ancora in qualche modo caratterizzabili, e diventano semplici componenti di un variegatissimo magma linguistico in vorticoso movimento.

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In altre parole, viene cosî a cadere — per porzioni significative del testo saddiano — la giustificazione mimetica del ricorso al dialetto: il dialetto non è (o non è in primo luogo) funzionale alla rappresentazione di un personaggio, di un ambiente, ma è innanzitutto l’oggetto di una manipolazione linguistica autonoma. Prima ancora che negli impasti degli ultimi capitoli, questa tendenza nonmimetica è già evidente nella composizione del lessico romanesco dell’intero romanzo, dove non di rado ricorrono lemmi, mutuati direttamente dai sonetti del Belli, che non hanno alcun riscontro nell’uso del momento storico in cui è collocata la vicenda. E del resto lo stesso Gadda, in un saggio coevo alla gestazione del Pasticciaccio, Arte del Belli (1945;

ora in I viaggi la morte), lascia

bene intendere perché egli consideri esemplare il lavoro di un Belli, o di un Porta, sul dialetto: in Belli, in Porta, il dialetto non è mai assunto come qualcosa di già dato — oggetto di riproduzione meccanica, al limite estetizzante —, ma al contrario ne vengono riattivate le possibilità creative, lo spontaneo « maccheronismo », i molteplici, costitutivi meccanismi di « deformazione ». La deformazione, in particolare, è, secondo l’interpretazione gaddiana della lezione di Belli e di Porta, il vero e proprio motore della produttività linguistica del dialetto; e quindi la garanzia della sua dirompenza nei confronti di « una lingua piovutane in penna da una tradizione stenta, da una scuola uggiosa ». Nulla di più lontano, si aggiunga, dalla maggior parte delle contemporanee esperienze neorealistiche, nelle quali il dialetto usciva raramente dai confini di una utilizzazione bozzettistica, meramente naturalistica. E si comprende bene la stizza talvolta manifestata da Gadda per la possibilità che proprio per le sue componenti dialettali, malintese, il Pasticciaccio venisse frettolosamente collocato in un filone al quale, tra l’altro, egli non aveva mai risparmiato il proprio sarcasmo.

V.1 [L'ASSASSINIO

DI LILIANA

BALDUCCI]

Sono passati tre giorni dalla rapina alla Menegazzi e le indae. gini sono avviate sulla pista offerta dalla sciarpa del colpevol viene quando Marino, a Ingravallo sta per concedersi una puntata

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raggiunto dalla notizia del secondo crimine, l’assassinio di Liliana Balducci. L’accenno di descrizione del paesaggio urbano romano, con cui il brano si apre, porta rapidamente ad una icastica digressione sullo stadio dell’evoluzione del regime fascista all’epoca della vicenda del romanzo: una digressione che presenta, in scorcio, temi (le performances spettacolari del Duce, il fanatismo femminile per la sua fallica figura) che saranno sviluppati più distesamente in Eros e Priapo. Si noti come la messa a fuoco del delitto si compia per approssimazioni successive, da diversi punti di vista: la concitata relazione dell’agente Porchettini (detto Sgranfia) a Ingravallo, le reazioni della folla curiosa davanti al portone del « palazzo dell’oro », infine la descrizione del cadavere della vittima, a sua volta condotta — come si è già fatto notare — per mezzo di un intarsio variegato di voci (dai commenti di tono popolaresco fino alle ricche reminescenze

baudelairiane).

Erano dunque le undici. Il dottor Ingravallo stava per salire sul tram, all’angolo di via D'Azeglio. Le poche macchine a disposizione della polizia vagavano raminghe pel septimonzio !, o impegnate a foro o a terrazza, o ar Pincio o ar Gian-

nicolo, cosî: magari pe portacce a spasso queli signori, dell’era dell’egira 2, l’arti papaveri de la fezzeria: o se faceveno una pennichella, ar Colleggio Romano, come tanti strucchioni * de piazza, però pronte pe daje er giro puro a loro, nun se sa mai. C'era di gran visite di plenipotenziati dell’Irak e di capi

1 «Entro la cerchia dei sette colli» (lat. Septizzontium). 2 L’era islamica (che si inaugura con l’Ègira, cioè con la fuga di Maometto dalla Mecca nel settembre del 622): sta, ironicamente, per l’era fascista, che fu computata dalla marcia su Roma. L’arti papaveri de la fezzeria: «gli esponenti maggiori della gerarchia del regime »; si noti, in fezzeria (da fez, il copricapo adottato nella divisa fascista), lo spregiativo rapporto fonico (paronomasia) con fesseria, nonché l’assonanza supplementare con schifezza. © x 3 «Vecchi cavalli »: lemma di probabile derivazione da Belli, che però lo usa sempre in traslato (ad es. nel sonetto 11 dell’ed. Vigolo, Pio ottavo: «Un gran brutto strucchione de Pontefisce »).

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di stato maggiore del Venezuela, in quei giorni, un andirivieni de gente piena de patacche: riversati a branchi sul molo Beverello* dagli scalandroni d’ogni più roco piroscafo. Ereno i primi boati, i primi sussulti, a palazzo, dopo un anno e mezzo de novizzio, del Testa di Morto in stiffelius, o in tight: ereno già l’occhiatacce, er vommito de li gnocchi: l'epoca de la bombetta, de le ghette color tortora stava se po dî pe conclude: co quele braccette corte corte de rospo, e queli dieci detoni che je cascaveno su li fianchi come du rampazzi ° de banane, come a un negro co li guanti. I radiosi destini ° non avevano avuto campo a manifestarsi, come di poi accadde, in tutto il loro splendore. La Margherita”, di ninfa Egeria scaduta a Didone abbandonata, varava ancora il Novecento, el noeufcént, l’incùbo dei milanesi di allora. Vacava* alle mostre, ai lanci, agli oli, agli acquerelli, agli schizzi, quanto può vacarci una gentile Margherita. Lui s’era provato in capo la feluca, cinque feluche. Gli andavano a pennello. Gli occhi spiritati dell’eredoluetico oltreché luetico in proprio ?, le mandibole da sterratore analfabeta del rachitoide acromegà-

4 Molo del porto di Napoli, che sarà menzionato ancora nel romanzo come approdo di turiste straniere bramose di maschi latini. Gli scalandroni sono un tipo di passerelle mobili per l’imbarco e lo sbarco di passeggeri e merci. 5 « Grappoli » (rom.).

6 Topos della propaganda fascista, qui ripreso sarcasticamente per alludere alle disfatte venture (antffrasi). 7 Margherita Sarfatti (1883-1961), intellettuale del regime, promotrice del movimento artistico Novecento (contro l’impressionismo, pet un ritorno alla monumentalità « classica »). Intima amica di Mussolini, fu con lui condirettrice di « Gerarchia », la rivista culturale del fascismo, e ne scrisse la biografia (Dux, 1926). Da questa condizione di confidente (accostata da Gadda a quella della ninfa Egeria, mitica consigliera del re Numa Pompilio) la Sarfatti non solo passò poi allo stato di « Didone abbadonata », ma in quanto ebrea fu in ultimo costretta all’espatrio in Francia e negli Stati Uniti. 8 «Si dedicava» (latinismo). 9? Con diagnosi di stampo positivista il delirio di Mussolini è fatto derivare da sifilide, propria e degli ascendenti. Quanto all’acromegalia, è un’ipertrofia facciale (nonché delle mani e dei piedi) provocata da un’iperfunzione dell’ipofisi.

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lico riempivano di già l’Italia Illustrata: già principiavano invaghirsene, appena untate de cresima, tutte le Marie Barbise d’Italia, già principiavano invulvarselo, appena discese d’altare, tutte le Magde, le Milene, le Filomene d’Italia: in vel bianco, redimite ! di zàgara, fotografate dal fotografo all’uscire dal nartece, sognando fasti e roteanti prodezze del manganello educatore. Le dame, a Maiano o a Cernobbio, già si strangullavano ne’ su’ singhiozzi venerei all’indirizzo der potenziatore d’Italia. Giornalisti itecaquani lo andavano intervistare a palazzo Chigi, le sue rare opinioni, ghiotti ghiotti, le annotavano in un’agendina presto presto, da non lasciarne addietro un sol micolo. Le opinioni del mascelluto valicavano l’oceano, la mattina a le otto ereno già un cable, desde Italia, su la prensa dei pionieri !, dei venditori di vermut. « La flotta ha occupato Corfù! Quell’uomo è la provvidenza d’Italia ». La mattina dopo er controcazzo: desde la misma Italia. Pive ner sacco. E le Magdalene, dài: a preparar Balilli a la patria. Le macchine de la questura « stazzionaveno »: ar Collegio Romano. Ereno le undici der dicissette marzo e il dottor Ingravallo, a via D'Azeglio, aveva un piede sur predellino e teneva già con la man destra, a ghindarsi ? in tramme, il poggiamano di ottone. Quando il Porchettini trafelato gli sopravvenne: « Dottor Ingravallo! dottor Ingravallo! » « Che vòi? Che te sta succedenno? » « Dottor Ingravallo, senta. Me manna er commissario capo, » abbassò ancora la voce: «a via Merulana... è successo un orrore... stamattina presto. Hanno telefonato ch’ereno le

10 « Incoronate » (latinismo). Il martece, appresso, è il vestibolo delle basiliche paleocristiane. . 1 «Dall'Italia, sulla stampa degli emigranti» (in questo caso, nei paesi dell'America Latina). Le lettere di Gadda dall'Argentina testimoniano la sua attenzione all’eco che i progressi del fascismo trovavano nella comunità italiana locale. Più avanti, desde la misma Italia: « dalla medesima Italia ». 12 « Issarsi ».

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dieci e mezza. Lei era appena uscito. Il dottor Fumi lo cercava. Tratanto m’ha mannato subbito a vede, co due agenti. Credevo quasi de trovallo là... Poi ha mannato a casa sua a cercallo. » « Be’, che è stato? » « Lei ce lo sa già? » « C’aggia sapé? mo me ne jevo a spasso... » « Hanno tajato la gola, ma scusi... so che lei è un po’ parente. »

« Parente ’e chi?... » fece Ingravallo accigliandosi, come a voler respingere ogni propinquità con chi si fosse. « Volevo dire, amico... »

« Amico, che amico! amico ’e chi? » Raccolte a tulipano le cinque dita della mano destra, altalenò quel fiore nella ipotiposi !* digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli. « S'è trovato la signora... la signora Balducci... » «La signora Balducci? » Ingravallo impallidî, afferrò Pompeo per il braccio. « Tu sei pazzo! » e glielo strinse forte, che a lo Sgranfia parve glielo stritolasse una morsa, d’una qualche macchina. « Sor dott6, l’ha trovata suo cugino, il dottor Vallarena... Valdassena. Hanno telefonato subbito in questura. Mo è là puro lui, a via Merulana. Ho dato disposizzione. Mi ha detto che lo conosce. Dice, » alzò le spalle, « dice ch’era annato a trovalla. Pe salutalla, perché ha d’annà a Genova. Salutalla a quell’ora? dico io. Dice che l’ha trovata stesa a terra, in un lago de sangue, Madonna! dove l’avemo trovata puro noi, sul parquet, in camera da pranzo: stesa de traverso co le sottane tirate su, come chi dicesse in mutanne. Il capo rigirato un tantino... Co la gola tutta segata, tutta tajata da una parte. Ma vedesse che tajo, dotté!» Congiunse le mani come im13 Termine retorico che in senso proprio designa una descrizione cosî viva da rendere quasi presente la cosa o la persona rappresentata; qui indica, per estensione, non un fenomeno verbale ma un gesto espressivo. Apuli è l’antica denominazione degli abitanti della Puglia.

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plorando, si passò la destra sulla fronte: « E che faccia! ch’a momenti svengo! Già fra poco dovrà vedello. Un tajo! che manco er macellaro. Mbè, un orrore: du occhi! che guardaveno fisso fisso la credenza. Una faccia stirata, stirata, bianca da paré un panno risciacquato... che, era tisica?... come si avesse fatto una gran fatica a mottf... » Ingravallo, pallido, emise un mugolo strano, un sospiro

o un lamento da ferito. Come se sentisse male puro lui. Un cinghiale co una palla in corpo. « La signora Balducci, Liliana... » balbettò, guardando negli occhi lo Sgranfia. Si tolse il cappello. Sulla fronte, in margine al nero cresputo dei capelli, un allinearsi di gocciole: d’un sudore improvviso. Come un diadema di terrore, di dolore. Il volto, per solito olivastro-bianco, lo aveva infarinato l’angoscia. « Andiamo, va’! » Era madido, pareva esausto. Giunti a via Merulana, la folla. Davanti il portone il nero della folla, con la sua corona de rote de bicicletta. « Fate passare, polizia. » Ognuno si scostò. Er portone era chiuso. Piantonava un agente: con due pizzardoni e due carabinieri. Le donne li interrogavano: loro diceveno a le donne: « Fate largo! » Le donne voleveno sapé. Tre o quattro, deggià, se sentî che parlaveno de nummeri: ereno d’accordo p’er dicissette, ma discuteveno sur tredici. I due salirono in casa Balducci, l’ospitale casa che Ingravallo conosceva, si può dire, col cuore. Su le scale un parlottare di ombre, il susurro delle casigliane. Un bimbo piangeva. In anticamera... nulla di particolarmente notevole (il solito odore di cera, l’ordine abituale) eccettoché due agenti, muti,

attendevano disposizioni. Sopra una seggiola un giovane col capo tra le mani. Si alzò. Era il dottor Valdarena. Apparve poi la portiera, emerse, cupa e cicciosa, dall’ombra del corridoio. Nulla di notevole si sarebbe detto: entrati appena in camera da pranzo, sul parquet, tra la tavola e la credenza piccola, a tetra... quella cosa orribile. Il corpo della povera signora giaceva in una posizione 156

infame !, supino, con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto: come se alcuno avesse voluto scoprire il candore affascinante di quel dessous, o indagarne lo stato di nettezza. Aveva mutande bianche, di maglia a punto gentile, sottilissimo, che terminavano a metà coscia in una delicata orlatura. Tra l’orlatura e le calze, ch’erano in una lieve luce di seta, denudò se stessa la bianchezza estrema della carne, d’un pallore da clorosi: quelle due cosce un po’ aperte, che i due elastici — in un tono di lilla — parevano distinguere in grado, avevano perduto il loro tepido senso, già si adeguavano al gelo: al gelo del sarcofago, e delle taciturne dimore. L’esatto officiare del punto a maglia, per lo sguardo di quei frequentatori di domestiche, modellò inutilmente le stanche proposte d’una voluttà il cui ardore, il cui fremito, pareva essersi appena esalato dalla dolce mollezza del monte, da quella riga, il segno carnale del mistero... quella che Michelangelo (don Ciccio ne rivide la fatica, a San Lorenzo) aveva creduto opportuno di dover omettere ®. Pignolerie! Lassa perde! Le giarrettiere tese, ondulate appena agli orli, d’una ondu14 Eco di Une Charogne di Baudelaire (al quale, insieme con Arthur Rimbaud, Gadda dedicò il saggio che dà il titolo alla raccolta { viaggi la morte): « Au détour d’un sentier une charogne infàme / Sur un lit semé de cailloux, // Le jambes en l’air, comme une femme lubrique, / Brolante et suant les poisons, / Ouvrait d’une facon nonchalante et cynique / Son ventre plein d’exhalaisons» (« Sul sentiero, a una svolta, una carogna infame / era su un letto sparso di sassi, // proprio come una donna lasciva, a gambe all’aria, / che ardente e madida di veleni, / apriva con un atto di noncuranza cinica / il ventre gonfio e puteolente »; traduzione di Carlo Muscetta). Ad altri versi di Une Charogne sugli umori emanati dal cadavere sembra richiamarsi {ma meno puntualmente) la rappresentazione della ferita di Liliana, più avanti. Il resto della descrizione gaddiana riprende invece un secondo e analogo testo baudelairiano, Une Martyre, dove compaiono i nuclei tematici delle vesti scomposte sul cadavere (in particolare le calze), dello sguardo vuoto, ecc.; per brevità si segnaleranno in nota solo alcuni di questi riscontri. 15 Nel nudo giacente dell’Aurora, sul monumento a Lorenzo de’ conMedici nella Sagrestia Nuova in San Lorenzo, a Firenze: omissione forme a canoni rappresentativi in vigore già nell’arte greca.

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lazione chiara di lattuga !: l’elastico di seta lilla, in quel tono che pareva dare un profumo, significava a momenti la frale gentilezza e della donna e del ceto, l’eleganza spenta degli indumenti, degli atti, il secreto modo della sommissione, tramutata ora nella immobilità di un oggetto, o come d’uno sfigurato manichino. Tese, le calze, in una eleganza bionda quasi una nuova pelle, dàtale (sopra il tepore creato) dalla fiaba degli anni nuovi, delle magliatrici blasfeme: le calze incorticavano di quel velo di lor luce il modellato delle gambe, dei meravigliosi ginocchi: delle gambe un po’ divaricate, come ad un invito orribile !”. Oh, gli occhi! dove, chi guardavano? Il volto!... Oh, era sgraffiata, poverina! Fin sotto un occhio, sur naso!... Oh! quel viso! Com'era stanco, stanco, povera Liliana, quel capo, nel nimbo, che l’avvolgeva, dei capelli, fili tuttavia operosi della carità. Affilato nel pallore, il volto: sfinito, emaciato dalla suzione atroce della Morte. Un profondo, un terribile taglio rosso le apriva la gola, ferocemente. Aveva preso metà il collo, dal davanti verso destra, cioè verso sinistra, per lei, destra per loro che guardavano: sfrangiato ai due margini come da un reiterarsi dei colpi, lama o punta: un orrore! da nun potesse vede. Palesava come delle filacce rosse, all’interno, tra quella spumiccia nera der sangue, già raggrumato, a momenti; un pasticcio! con delle bollicine rimaste a mezzo. Curiose forme, agli agenti: parevano buchi, al novizio, come dei maccheroncini color rosso, o rosa. « La trachea, » mormorò Ingravallo chinandosi, « la carotide! la iugulare... Dio! » Er sangue aveva impiastrato tutto er collo, er davanti de la camicetta, una manica: la mano: una spaventevole colatura

16 « Pizzo increspato ». 17 Ancora un’eco di Ure Charogne (cfr. n. 14), ma anche della Martyre, il cui aspetto evoca «un amour ténébreux, // Une coupable Joie et des fétes étranges / Pleines de baisers infernaux » («un tene broso amore, // un colpevole gaudio e feste inusitate / con amplessi infernali »; trad. Muscetta): passo, quest’ultimo, citato con grande rilievo da Gadda nel saggio su Baudelaire di cui s'è detto (cfr. n. 14).

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d’un rosso nero, da Faiti o da Cengio (don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto nell’anima, povera mamma!) *. S’era accagliato sul pavimento, sulla camicetta tra i due seni: n’era tinto anche l’orlo della gonna, il lembo rovescio de quela vesta de lana buttata su, e l’altra spalla: pareva si dovesse raggrinzare da un momento all’altro: doveva de certo risultarne un coagulato tutto appiccicoso come un sanguinaccio.

Il naso e la faccia, così abbandonata, e un po’ rigirata da una parte, come de chi nun ce la fa più a combatte, la faccia! rassegnata alla volontà della Morte, apparivano offesi da sgraffiature, da unghiate: come ciavesse preso gusto !, quer boja, a volerla sfregiare a quel modo. Assassino! Gli occhi s'erano affisati orrendamente: a guardà che, poi? Guardaveno, guardaveno, in direzione nun se capiva de che, verso la credenza granne, in cima in cima, o ar soffitto. Le mutandine nun ereno insanguinate: lasciaveno scoperti li du tratti de le cosce, come du anelli de pelle: fino a le calze, d’un biondo lucido. La solcatura del sesso... pareva d’esse a Ostia d’estate, o ar Forte de marmo de Viareggio, quanno so sdraiate su la rena a cocese, che te fanno vede tutto quello che vonno. Co quele maje tirate tirate d’oggiggiorno. 18 È il tema autobiografico, associato qui a Ingravallo, dell’esperienza bellica (Faiti e Cengio rinviano alla topografia della prima guerra mondiale) e dello strazio della madre per il figlio minore caduto. 19 Quasi una trascrizione-riduzione, da parte di una «voce» popolaresca, del tema (fantasmatico) del godimento sadico dell’assassino, quale è evocato interrogativamente nella Martyre baudelaitiana: « L'homme vindicatif que tu n’as pu, vivante, / Malgré tant d’amour, assouvir, / Combla-t-il sur ta chair inerte et complaisante / L’immensité de son désir? » («E quel vendicativo uomo, che ancor vivente / non saziasti d’amore, / seppe sulla tua carne inerte e compiacente / placar l’immensa voglia? »; trad. Muscetta). Si notino i maschili (« quer boja», « Assassino! »), oggettivamente depistanti (l'omicida è una donna, Virginia, l’ex-« nipote » di Liliana), benché giustificati dal punto di vista degli inconsapevoli spettatori ai quali ne è implicitamente attribuita genere l'enunciazione: e tuttavia, a un altro livello, l’inversione del dimenevoca anche, discretamente, un tema fondamentale, quello della infine sione omosessuale sottesa al rapporto di Virginia con Liliana, e Baudelaire al delitto, una sorta di stupro trasposto (non diversamente aveva riservato il maschile « satyres » alle sue Ferzzzes dannées).

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Ingravallo, a capo scoperto, pareva lo spettro di se stesso. Domandò: « L’avete mossa? » « No, dottore, » gli risposero. « L’avete toccata? » « No.» Del sangue era stato portato attorno dai tacchi, da le suole di qualcuno, sur parquet de legno, che poi si vedeva bene che ci aveveno messo drento li piedi, in quer pantano de spavento. Ingravallo si irritò. Chi era stato?! « Sete na massa de burini! » minacciò. « Brutti caprari de la Sgurgola! »

V.2 [LE « NIPOTI »] È il secondo interrogatorio di don Lorenzo Corpi, consigliere spirituale della Balducci, dopo i funerali di quest’ultima. Sollecitato dagli inquirenti (Ingravallo e Fumi) don Corpi passa in rassegna la serie delle « nipoti », nell’« adozione » delle quali Liliana ha cercato una compensazione alla maternità mancata. Essenziali antecedenti del delitto vengono dunque introdotti in questo ampio, articolato flash back: in cui si alternano l’ottica del sacerdote, lucida a dispetto di una certa professionale reticenza, e quella dei due inquirenti — dei quali uno, Ingravallo, particolarmente pronto a decifrare le tracce del viluppo « erotico » che si delinea, di don Corpi.

velatamente

ma

insistentemente,

dalla

relazione

Celebrata la messa, impartita l’assoluzione a la cassa, e poi, dentro Campo Verano !, benedetta la fossa, dove caddero bianchi gigli e garofani tra disperati singhiozzi « addio, Liliana, addio! », il nero Ingravallo si mise a le costole di don Lorenzo, come un boxer al fianco d’una giraffa, addobbata pe la quale, e non lo mollò più fino in sacrestia. Lo lasciò spogliare, lo caricò su l’automobile sua (pe modo de dî, uno sca-

torcio!), s° ’o portò a Santo Stefano ?. 1 Il cimitero di Roma. t. Alla Questura, nei pressi della chiesa di S. Stefano del Cacco (cosî denominato da una scultura egizia chiamata popolarmente « ma-

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Dove, introdottolo da Fumi, questi manifestò l’opinione... che l’esimio sacerdote potesse recar loro qualche lume additivo circa le condizioni... spirituali della compianta signora: si da facilitare all’autorità di pubblica sicurezza un più approfondito esame del caso e la definitiva stesura « dicimmo, d’ ’o referto psicologico ». Qualche virgoluccia, qualche puntino sugli i, l’accorata prudenza di don Corpi ce l’aggiunse, al refertosintesi. Le visite e le implorazioni della Balducci, ai Santi Quattro 5, a certe stagioni liete nel cielo, o men tristi, erano si poteva dire cotidiane. Tanto al confessionale che all’altare de la Madonna: oppure in canonica, lungo li portici, torno torno il « bel chiostro der tredicesimo secolo ». Il cielo quadrato era tutto luce, come da eterna presenza dei confessori, dei quattro: uno per lato. La povera anima domandava un aiuto alla sua pena: la dolce parola della speranza, la misericorde parola della carità. Fede ne aveva lei più di tutti. Don Lorenzo notò, senza venir meno alla ingiunzione sacramentale, fondandosi in modo esclusivo sulle confidenze extra-sacramentali e sulle invocazioni di chi lo aveva eletto depositario delle proprie angosce, notò ch’egli poteva pienamente confermare quanto sopra, cioè quanto era emerso dalla incertezza amnesica del poi, confortata dalla questura a farsi certa e veridica, e dall’intuito e dalla integrante sagacia del cugino e, perché no? del marito £. Autorevole e massiccio dopo quel primo e oramai superato imbarazzo de la prima vorta? (gita a Roccafringoli, ritardo, per quanto involontario, nel « presentarsi all’autorità » e nel « produrre il testamento della defunta signora »), coi capelli a spazzola, in un tono di chiaroveggente pietà che com-

cacco »), che verso la fine del brano ricompare nella inevitabile deformazione « Santo Stefano der Cacchio ». 3 La chiesa di don Lorenzo Corpi, dedicata ai Santi Quattro Coronati (i «confessori» Severo, Severiano, Carpoforo e Vittorino): alle pendici del Celio, non lontano da via Merulana. 4 Rispettivamente il giovane Giuliano Valdarena e Remo Eleuterio Balducci, precedentemente interrogati. 5 Il primo interrogatorio di don Corpi.

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portava lucidità piena del giudizio di merito, affermò, quasi giurando, che la povera morta era un’anima delle più caste, delle più pure, intenzionalmente... « Comme sarebbe a dî? » fece il dottor Fumi. Lui seguitò. Le lunghe scarpe nere e stralucide sembravano conferir valore alla testimonianza: un tale impiego di brill, un cosî energico intervento del gomito (di chicchessia), non ponno sovrapporsi alla menzogna e al disordine. L’idea del divorzio e dell’annullamento del matrimonio, a parte le difficoltà canoniche, le sembrava abominevole: no, Liliana, nun ce voleva crede. Troppo « amava » e rispettava er marito, l’uomo da lei scelto: datole, un giorno, da Dio. La sua disperazione e la sua speranza (vana) si erano coagu-

late in una follia malinconica (don Ciccio lo capi al volo, ma il dottor Fumi un po’ dopo, e all’incirca): trovavano come un riscatto in quel proposito, in quella fisima (gli scappò detto), in quella gran bontà dell’adozione: proprio dell’adozione legale di una creatura. Ma intanto pareva aspettare, aspettà: come si sperasse, un giorno, de poté avé quarche cosa de mejo: attendeva di giorno in giorno un bambino, d’anno in anno: da chi poi? un bambino futuro, il futuro figlioccio: ormai lui, don Corpi, nun se raccapezzava da dove, o da chi. «’O cuggino! » esclamò il dottor Fumi. E intanto, come per ingannà la disperazione, adottava. Adottava « provvisoriamente », adottava pe modo de dî. A parole, adottava: benché, però, aveva sostituito un testamento con l’artro. Tre vorte aveva rivoluta indietro la busta gialla, co li cinque sigilli de ceralacca. Tre volte j’aveva spiccicato i sigilli, poi ne aveva ricreata la figura. « Testamento olografo di Liliana Balducci. » Adottava, a parole, se pure in una effusione vera dell'animo, con tutta la sincerità d’una speranza: risorgente a ogni nuovo incontro: a ogni nuovo abbandono delusa. Adottava provvisoriamente quel po’ po’ de regazze: una teoria, omai, un’infilata di perle. Una mejo de quell’artra. Quattro, se n’era già tirate in casa in tre anni, una dopo l’artra, contandoce la Gina, poverella. Con buona permissione del sor Remo: che je diceva « fa’ 162

come te pare, fa’ come credi », ogni vorta, pur d’avé un po’ de pace in famija, p’un artro pezzetto. Pur de sapé ch’era in casa con quarche compagnia de donne, mentre lui se la svignava co Cristoforo dietro a la lepre, a provà li cani sur Cimino. E in ogni modo previo parere di don Corpi. Il quale, con tante anime intorno, con tanto da fare in chiesa, e non conoscendole affatto, quele ragazze (manco sapeva chi ereno, de che parte veniveno), s’era limitato ogni volta a consiglià prudenza, prudenza, cosî affermò ed era verisimile che cosî fosse, ad ammonirla (« me senta! »: ma lei, da quel’orecchia, nun ce voleva sentf), a diffidarla dal dissipare in quel modo, e in repentine avventure del sentimento, il dono... il tesoro... di una coscienza ineffabile della grande missione della donna: che le veniva, certo, da Dio. Quattro! in tre anni! « Un gran

core, povera signora Liliana. » E accarezzava le domestiche, e je perdonava sempre, si rompeveno

un piatto. Le confortava

a sperare

nel Signore.

Che loro, viceversa, più che la speranza era la paura, che ciaveveno: de fa er pupetto prima der tempo, magara. Il Signore, je diceva, e aveva tutte le raggione, nun lascia mai mancare la vita a chi desidera la vita, e la continua resurrezione della vita. « È un desiderio ch’hanno molte, » pensò Fumi. Don Lorenzo, con ogni riguardo pei vivi, per la povera « defunta », accennò dunque alle tre giovani che Liliana Balducci aveva accolte in luogo di figliole e poi dimesse: e ai vari motivi che man mano avevano determinato la secessione, più o meno facile, più o meno spontanea, delle tre pupille mancate. La quarta, ora, la Gina de Zagarolo, ch’era la nepote in carica, beneficiava per tutte. Li carabinieri de Tivoli aveveno già interrogato la madre, e il macellaro” pure; la Irene. Spinaci voleva vent a Roma: ma quando sentî che la Gina 6 Eco, al di là delle intenzioni di Liliana, della metafora sessuale boccacciana della « resutrezion della carne » (Decamzeron, III, 10): donde il commento di Fumi. 7 L’attuale convivente della madre, Irene Spinaci.

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era ar Sacro Core s’azzittò: tant’è tanto... che ce veniva a fa? A buttà li sòrdi? Che manco ce li aveva pe montà in treno? Don Lorenzo, vinta quarche esitazione, apri dunque la scarsella d’una... caritatevole prudenza. Prima je fece fa, su le ginocchia, un par de giri ar cappello, adagio adagio: co quele mano (e co queli piedi) che pareva san Cristoforo *. Adescato, benché prete, dai vividi e patetici occhioni der dottor Fumi (p’una volta officiavan loro, invece de la lingua), si arrese alla trazione magnetica di quei bulbi cosî dolcemente rotanti, ognun de’ due in parallelo con l’altro, ne’ rispettivi castoni, cioè nella legatura delle palpebre: nere iridi, come di velluto fondo, come due spere di tormalina? sotto all'ombra vellutata e un po’ malinconica dei cigli: fiamme accorate e

tuttavia fulgenti della persuasione e delle dialessi a scivolo, in quel volto bianco, paterno, pensoso, invitante: accogliente come una trappola. Di sotto a quell’altro grifo appeso al muro del Predappiofezzo ! in cornice, che gli faceva gli occhi del babàu a le mosche secche sur muro derimpetto: prolati i labbri in un suo broncio baggiano, di maccherone treenne, da innamorare tutte le Marie Barbigie d’Italia: co in coppa a ’a capa ’o fez, co ’o pernacchio dell’Emiro. Emiro de sàbet gràss !. Tre giovani. La prima, la Milena, una ragazzetta co le

8 L’agiografia e l’iconografia, specie se di destinazione popolare, hanno conferito a San Cristoforo tratti giganteschi, talora ai limiti del comico. È probabile che tema e tono dell’allusione (come di un’altra simile, alcune pagine più avanti) siano stati suggeriti da due sonetti dedicati da Belli al santo (nn. 798-799 dell’ed. Vigolo): «San Cristofeno è un zanto grann’e ggrosso / Un po’ più dd’un facchino de Ripetta, / Che a ppiedi scarzi e cco la ggente addosso / Passava un fiume come la bbarchetta ». ? Gemma spesso di colore nero lucido. 10 Mussolini: l’epiteto è ottenuto innestando sul nome del paese e (Predappio) una condensazione di fesso e fez (il copricapo fascista). 1! Pernacchio = pennacchio: (dial. napolitano). Sàbet gràss = sabato grasso, sabato di carnevale: (dial. milanese) [N. d. A., su «Letteratura »].

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lentiggini, dopo appena un mese di quei buoni mangiarini dei Balducci, e co quer materazzo de lana sotto, e l’imbottita sopra, in der letto, aveva sùbito principiato a metter polpa: du meloncini ritonni sotto la camicetta: un discreto emisfero, dietro. Ma insieme co la polpa de vitella j’era cresciuta pure la voja de rubà, e de dî bucie in proporzione. Rubava di credenza: e di borsellino sur comò: e mentiva co la bocca. La lingua le andava dietro alle unghie senza manco pensacce come la coda dietro ar culo, si uno è un cavallo. Un giorno, poi, a guastaje er letto, la donna ciaveva trovato una candela: una Mira-Lanza de Torino !, de quele candele toste d’allora: che doveva avella presa fori dar pacco novo de cucina, che ce stava de riserva, ne la credenza: pe quanno che manca la corrente, certe volte. Lei, pronta, disse ch’era per accennela a la Madonna: perché j’aveva fatto un fioretto a la Madonna: ma nun ciaveva prosperi: e s’era addormita co la candela a letto. Il dottor Ghianda visitò la ragazza, je fece beve l’acqua de cedro, ch'è un carmante bono pe certe fantasie de li nervi, e quarche goccia, tre vorte ar giorno, d’acqua antisterica de Santa Maria Novella de Bologna che la fanno distillà li frati cor filtro, che so’ speciali. (Tale, poi, la conferma: dalle canorità merulane della sora Pettacchioni !#.) Comunque, a scanso di malintesi, ’o professore fu richiamato, fu pregato da Liliana di voler dare un consiglio. Corrugò la fronte un momento, guardandola con un accenno 12 Augusta Taurinorum, e nomine tauri: quod animal in eorum signis vexilloque conspicitur. Hic rectius « Genova» pro « Taurino » legendum [N. d. A., su «Letteratura»: « Augusta dei Taurini, dal nome del toro: il quale animale si vede sui loro emblemi” e vessilli. Qui si dovrebbe meglio leggere “Genova” in luogo di “Torino” ». Genova è infatti la sede della Mira-Lanza; la sua sostituzione con Torino sembrerebbe tortuosamente allusiva all’utilizzazione autoerotica delnome l'oggetto, sfruttando le connotazioni sessuali del toro evocato dal della città piemontese. Oltre alla nota, nel testo pubblicato in volume tratti più è caduto (in conformità a un criterio di attenuazione dei sull’adataudaci, di cui s'è già detto) un passaggio con particolari tecnici tamento della candela alla nuova destinazione impropria]. 13 La portiera del «palazzo dell’oro ».

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di sorriso, lezio !* da papà severo e bonario in lui abituale co li pupi. Era un pediatra di molto merito. Si titillò con tre diti il ciondolino de la catena d’oro, sul panciotto. Spianò dopo un attimo di sospensione la fronte, tirò un lungo fiato, conzigliò, « me pare er mejo », di rispedire la pupetta ai relativi genitori: li quali però non esistevano, né l’uno né l’altra. Dimodoché dopo un po’ di tempo, azzeccato un pretesto ragionevole, venne restituita agli « zii »: previamente confortati a ricévela de ritorno da un bel vaglia bancario color verdemare de quelli cosî psicotonici della nostra diletta Comit. « La Banca Commerciale Italiana... pagherà, tàc, tàc, tàc, per questo bel signorino qui color acquamarina, la somma di lire...» Con più sono, meglio è !. Don Corpi allungò le gambe, rattenuto co l’avambracci er cappello, come uno scudo su la panza, incrociò i ditoni delle du mano; che gli caddero in grembo. La seconda pupilla, già ventenne o ventunenne, la Ines, quella, dopo un po’ de tempo era andata a nozze: un matrimonio in piena regola. Aveva sposato un bravo giovane, di Rieti, figlio di buoni proprietari, studente all’ottavo anno di legge: il corso completo durò dieci anni. Lei, un bel giorno, propio quando le tenerezze de Liliana le s'erano più addensate sul capo, se n’uscî, tutt’a un tratto, « che voleva seguire la sua vocazione ». E la seguf: con eccellenti risultati. Dall’avventura filiale, e urbana, aveva dedotto un po’ di dote, aveva tacimolato un corredo: un par de valigge sane de biancheria co li pizzi. Affetta, com’era, da una forma classica di lungimiranza muliebre, non però di tipo graffignone come la precedente, s’era saputa cattivare tutto il cuore della madrina, cosî materno, o dolcemente sororale (Liliana aveva un otto o nove anni più di lei) e aveva agito con pertinace assiduità in una determinatezza infallibile, minuto per minuto, e nella premeditazione sistematizzata d’ogni pro14 « Vezzo affettato ». 5 «Con piisée hiin, l’è mèj»: « Letteratura »].

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(dialetti lombardi)

[N. d. A., su

prio gesto o sorriso o parola o frullo, o sguardo o bacio: quelle che contraddistinguono il tacito volere della donna, quand’ha un « carattere »: maestra, a volte, nel suggerire una idea senza neppur disegnarne verbalmente il contorno: per accenni, per prove e controprove laterali, per mute attese: dandole un avvio d’induzione, come lo statore all’indotto: con la stessa tecnica onde suol circondare e proteggere (e dirizzare al bene) i primi passi al primo barcollare d’un parvolo: incanalandolo però dove vuol lei, che è dove lui potrà far pipî nei modi più dicevoli, e con rilasciamento esauriente. La Ines. L’avventura urbana! Dalle chiarità mattutine del Galilei ‘6, quando l’officio e il mistero lateranense, quando la verde allegrezza del sagrato accolgono dentro le mura il burino col divoto segno della croce, rattenuto il ciuccio per un attimo, ih! dai fastigi d’oro, a vespero, o di rubino Ue

dalle cavate piene del Maderno, del cui arco è scaturito nei secoli senza ritorno, in lode di Maria Madre, l’inno indelebile; dai PV e dai BM e dai dieci buchi der disco der telefono,

e dallo scatolone della radio che aveva messa fuori uso un quattro vorte, la premeditante coturnice ! s’era portata a casa

di 16 Di Alessandro Galilei (1691-1736) è la facciata della basilica MeruS. Giovanni in Laterano, prossima ad una delle estremità di via evolana. L'altra estremità sbocca nella piazza di S. Maria Maggiore, poli i insomma sono chiese due Le seg.). n. (cfr. cata subito dopo maggiori) dello schema viario urbano (imperniato sulle sette basiliche più facilmente familiari a Ines nel suo soggiorno presso i Balducci. (169917 Del prospetto di S. Maria Maggiore, di Ferdinando Fuga XIII del 1781), che incorpora l’antica facciata con splendenti mosaici o generiarco ») secolo. Con metafore violinistiche (la «cavata », l’« di Carlo Mavento all’inter poi allude si ») inno (1’« camente musicali aspotcolonna una e antistant piazza nella eresse derno (1576-1636), che ola con una statata dalle rovine della basilica di Massenzio, coronand a « Maria Madre », tua bronzea della Madonna col Bambino: omaggio III alla Vergine poco come del resto l’intera basilica, dedicata da Sisto di Madre di Dio (Condopo il conferimento a quest’ultima del titolo : 431). cilio di Efeso, calco dal latino co18 Trascrizione parodisticamente alta (con un romanesco (frequentivo turnix, « quaglia ») di quajja, il comune appella te in Belli) di una donna giovane e prospera.

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una certa sbrigativa attitudine a rammendar le calze alla finanziera, cioè prendendo er buco a giro largo, coll’ago e cor filo: e poi, daje, dopo quel rapido periplo la tirava a gloria, e ce mozzicava subito er filo, co li denti. Un rinnaccio ! de classe! Che manco la principessa Clotilde. Uno sbrozzolo °°, un pallettone da schioppo sott’ar carcagno, che te sentivi ariconsolà er core, pe tutta quanta la festa. Come tante pieghe orogenetiche 2! verso il culmine d’una montagna a cono: de quelli coni che bucano le nuvole, che so’ poi li pedalini der Signore. Aveva recato allo sposo-studente, oltre ai giorni sereni e alle dolci notti della comunione delle anime e delle lingue, j’aveva portato... quanto una regazza je po portà de più pratico e de più gradito, a uno studente-sposo: una gran disinvol-

tura nello stirare i pantaloni, dopo avenne affiarati ?? un sei o sette para al Balducci. Quella, se sa, era stata la sua disciplina, il suo gradus ad Parnassum. Chi non fa non falla. E sbajanno s’impara. La terza, la Virginia! don Lorenzo abbassò le palpebre, guardando a terra, benché uomo fatto, poi levò gli occhi ar cielo mezzo seconno come a di: nun fateme parlà! Congiunse le pie manone in una breve altalena sotto ar naso, davanti ar barbozzo #: un va e vieni in der piano dell’azimut, di tipo italico decente: « Mejo nun parlanne! » aveva l’aria d’implorare dal dottor Fumi. Bisognava parlarne. I due commissari attendevano: Ingravallo anzi all’impiedi, cupo, agitando nervosamente una gamba. I dieci ditoni del gigante si abbandonarono sul grembo, interzati stretti l’uni all’artri: pettine e contropettine: quasi d’un apostolo de travertino, de quelli che stanno in piedi su la balustrata, sopra ar cornicione de San

19 « Rammendo » (rom.). 20 « Bi*orzolo » (rom.).

21 «Prodotte dal processo formativo di una montagna ». 22 «Strinati» (rom.). 23 « Mento » (rom.).

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Giovanni Laterano. Dieci chili de ossi de ditacci p’acciaccà le noci, in quella fossetta nera d’ ’a sottana: in dove scegneveno neri neri a correse dietro tutta la carovana de li bottoni da prete: che nun aveva né principio né fine, come il catalogo dei secoli. Le due scarpe in riposo, lustre, color beccamotto, non più di tutto il rimanente d’altronde, priapavano * fuoti da la vesta che pareveno du affari proibbiti, bivaccavano per conto loro incontro a quell’artre der dottor Fumi, fin sotto a la greppia de le scartoffie, fra le quattro gamme der tavolo: con dentro, de certo, du pezzi de piedoni doppi de San Cri-

stoforo de sasso 7.

« Mbè, la Virginia? » Poco a poco se scoprì er carattere:

la vitalità spavalda, la strafottenza del tipo. Risultò che la fascinatrice aveva fascinato due anime: in due direzioni disgiunte. Le donnette, anzi, dicevano che l’aveva stregati tutt’e due: e ciaveveno presi li nummeri. La sua procace bellezza, la sua salute, de diavola de corallo dentro de quela pelle d’avorio, i suoi occhi! davvero c’era da crede che avessero ipnotizzato marito e moje: «queli modi prepotenti », quell’aria un po’ de campagna, che rivelaveno, però, « un gran core sincero » (Pettacchioni) o, com’ebbe a dire sorridendo e corrugando a un tempo le ciglia nel tic professionale il dottor Ghianda, «una pubertà facinorosa ». Al quale professore Ghiandola, senz’esserne dimandata, la Virginia j’aveva fatto vede la lingua con una estromissione rapidissima e un altrettanto pronto richiamo in cassa, de tipo automatico a punta dritta ch’era un brevetto suo: sostenendo indi col gelido imperio di tutto il volto, se pure con una scintilla di malizia negli occhi, il di lui sguardo irritato, solfortoso: pieno di corruccio e di vapori di catrame. Sentendolo chiamar piedatra, o piedastro, con rispetto granne, da tutte le signore de la scala A, ma da quarcuna pure de la B, aveva creduto che l’egreggio sanitario, che vedeva annà su e giù pe le scale der palazzo co quela palan2 «Si protendevano con turgidezza fallica » (neologismo gaddiano). DI Gf olagn 8:

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drana de beccamorto a faje caccià li vermi a li pupi, fosse, ar medesimo tempo, ’o callista ’© monzignore, cioè di don Lorenzo: che fosse questo anzi, il mestiere base del palamidone . Idea che una volta entratale in capo, nessuno era più stato buono di levargliela. Le dimensioni de le fette ?”? de don Lorenzo j’aveveno dato la sicurezza d’esser nel giusto, a crede che pe un tanto piede ce volesse un piedatra de quer calibro. Del resto, ammappela! du fianchi in gloria, du seni de marmo: du zinne toste che ce voleva lo scarpello: con quel dar di spalle a ogni tratto, superba, e quelo spregio der labbro, come a di: merda a voi! Sissignori. Dopo mute ore la bizzarra protervia, la crudele risata: con quei denti bianchi a triangolo come d’uno squalo, come dovesse laniare er core a quarcuno. Quegli occhi! da sotto le frange nere delli cigli: che sfiammavano a un tratto in una lucidità nera, sottile, apparentemente crudele: un lampo stretto, che sfuggiva a punta, de traverso, come una bugia delatrice della verità, che non

anco proferita vorrebbe già smorire sul labbro. « Era una regazza capricciosa, ma tutta core, » opinò dopo un’ora il pollarolo, convocato a sua volta. « Una gran bona fija, credeteme: je piaceva de fa la sfacciatella, » confermò la moje der pizzicarolo de via Villari: « Ah! la Virginia der terzo piano? com’era sempateca! » « Quella? quella cià er diavolo da la parte sua, » diceveno l’amiche. « Quella cià Farfarello in corpo. » Ma una, ch’era de li monti de Pàtrica, je scappò detto

un po’ diverso: « quella cià Farfarello in culo »: e subbito se fece rossa. Il commendator Angeloni, estratto da Regina Coeli per un’ora, tanto sf da faje pijà una boccata d’aria puro a lui, pover’uomo, e titillato a Santo Stefano der Cacchio ”, subbito ritirò la testa in de le spalle come intimidita lumaca: 2 Specie di lunga finanziera, ma, per traslato, anche « sciocco ». 27 « Piedi» (rom.). 2 Un inquilino del « palazzo dell’oro », fermato per i sospetti destati dalla sua equivoca reticenza negli interrogatori (sarà poi rila-

sciato).

2 Vedi n. 2.

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« Mbò, » si limitò a mugliare, mettendo un par d’occhi malinconichi, da paré un bove de malumore: gialli, je s’ereno fatti, in pochi giorni, a la Lungara ®°: « m’aricordo che l’avrò intruppata pe le scale un par de vorte, ma nun la conosco pe gnente: nun posso dî gnente, » sentenziò, « d’una persona che non conosco. Era la nipote dei Balducci, m’hanno detto. » Una volta, più volte (riferf ancora don Lorenzo), senz’aver forse molto presente in quel punto la « figura » o la « posizione » di madre che Liliana Balducci intendeva assumere, lei, cioè la Virginia, in casa, a via Merulana, fuggitivo ne li treni in fuga il marito, carente la serva, lei aveva abbracciato e baciato la signora. « Quanno je pijaveno certe f...urie. » Don Lorenzo riescî a salvar l’effe: con la sicura voce della carità riferf: lei, in que’ momenti, delle due l’una: o je dava de vorta er cervello, o fussi che se credeva de dové fa la parte ar teatro. Certo è che lei abbracciava e baciava la padrona. « Padrona? » interruppe il dottor Fumi aggrottando i cigli. « Padrona, madrina: fa lo stesso. » La baciava come po bacià una pantera, dicennole: « Sora mia bella Liliana, voi site »a Madonna pe mme! » poi, basso basso, in un tono di ardore anche più soffocato: « Ve vojo bene: bene, te vojo: ma una vorta 0 l’antra me te magno »: e le strizzava il polso, e glie lo storceva, fissandola: je lo storceva come in una morsa, bocca contro bocca, de sentisse er fiato der respiro in bocca, l’una co l’artra, zinne contro zinne. Don Corpi rettificò, è naturale: « Vojo dî: accostandosi a lei cor seno e col volto. » Ma tanto Ingravallo che er dottor Fumi aveveno capito a la prima. Un giorno, in un accesso d’amor filiale, davvero je mozzicò un’orecchia: che Liliana se spautî, quela volta. Madonna! aveva provato un dolore! Era corsa fino a li Quattro Santi ar galoppo. Pallida, ansimando, gli aveva mostrato quella parte

30 Via della Lungara, su cui sorge il carcere di Regina Coeli.

Ivi

che si chiama antilòbo, ancora puntato de quella coroncina... de queli denti! Ammàppeli! Cosî pe gioco... Brutti scherzi, però. Si quell’è un gioco. Allora aveveno cercato de tiralla in chiesa, « de faje dî un po’ d’orazzione bone, più orazzione che poteveno. L’orazzione, se po dî, so” er bijetto p’er Paradiso: o armeno p’et Purgatorio, chi cià la valigia grossa, che ar dazzio der Paradiso nun ce passa... a la prima. Orazzione? Macché! Lei te le cantava ner naso, da tirà li schiaffi, come uno stornello, de queli stornelli romani che se canteno su la ghitara... malinconichi, tra naso e gola: oppure sgrullanno *! la capoccia tutto et tempo, co l’occhi a la punta de le scarpe, merememè merememè grazzia plena in zulla vena, come a volé pijacce p’er bavero a tutti quanti, la Madonna compresa. La Madonna! Dico io! Una lagna da fa dormi li pupi. Vergognosa! Che si c'è quarcuno che po aiutacce, a sto monno, quella è propio la Madonna, e lei sola: perché ar Signore... me pare a me che stamo a fa de tutto per faje pijà certe ff... rrasche. » Salvò l’effe: ancora una volta. O magari col velo, ma co la testa in aria, a messa granne, in una sorta di felice astenia, o di attediata ecolalia *: se distraeva, cor paternostro de madreperla che j’aveva tigalato Liliana: teneva er libretto all’incontrario, da non poté leggelo, manco si ciavesse capito quarche cosa. La festa der Corpus Domini... nun aveva avuto er core de rifaje er verso de li canonici de San Giovanni, all’ufficio? co la voce d’omo? che solo er diavolo poteva avejela prestata, in quer momento. Che li Santi in trono pareveno protestà tutti quanti, benché dipinti, perché propio j’aveva fatto perde la pacienza. Lui l'aveva guardata in faccia, interrompendosi de cantà... seduto alla destra de monsignor Velani. Poi, dopo messa, je n’aveva dette quattro là pe là, sotto ar portico, quanno erano annate 31 « Scrollando » (rom.).

® Fenomeno patologico di ripetizione role altrui (o anche proprie).

72

passiva,

meccanica,

di pa-

a salutallo, a lei e a Liliana! Ma lei, pe tutta contrizione, aveva arzato le spalle, quela bestiaccia: « da sentisse rode le mano ». E alzò e spalancò la mano sopra il tavolo, di cui tanto Fumi che Ingravallo dovettero alfine strabiliare.

V.3 [IL SOGNO

DEL BRIGADIERE]

Sul far del giorno il brigadiere Pestalozzi si sta recando in motocicletta dalla caserma dei carabinieri di Marino al laboratorio della vecchia Zamira, per indagini legate al caso Menegazzi. Per via egli ricorda il sogno occorsogli nella notte. Elementi attinenti all’indagine in corso costituiscono, appunto, il nucleo principale di residui diurni che il lavoro del sogno ha messo a partito, operando su di essi la sua attiva deformazione. Più esattamente, i dati provenienti dalla sfera dell’indagine (cioè, basilarmente, la lista della refurtiva e le generalità della vittima, non nota personalmente al brigadiere) non entrano nel processo onirico che come materiali linguistici offerti ad una manipolazione virtualmente illimitata. Il testo gaddiano che mette in scena il sogno appare insomma strutturato secondo una analogia non banale con i meccanismi onirici individuati in sede clinica dalle analisi inaugurali di Freud e dalla loro ripresa, in anni recenti, da parte di Jacques Lacan. Il caso più rappresentativo, in questa prospettiva, è senz'altro quello del « topazio » (uno dei gioielli della lista), che il lavoro del sogno (o del testo) assume, piuttosto che come oggetto, come puro significante. Anzi, dal significante /topazio/ (come già segnalava Roscioni) viene isolato un fonema, /z/, semplice o raddoppiato, che diventa l’elemento generatore di una lunga serie: /topazio/, /topazzo/ (e /topaccio/), /pazzo/, /giallazio/, e in progressive irradiazioni /stradazia/, /cazziata/, /sbronza/, /veneziana/, ecc. Altre serie si sviluppano, per intrecciarsi con quella del « topazio », dalle generalità della Menegazzi incrociate con la denominazione del sito, il Circeo, che si profila all’orizzonte della zona delle indagini. La « marchesa » rapinata assume cosî le vesti della omerica maga Circe, e si tramuta in una grottesca e lussuriosa « contessa Circia » (probabilmente non senza rapporto con « cicia», che è in Belli uno dei nomi della « madre de le sante »,

173

cioè del genitale femminile). Analoga contaminazione dell’ambito toponomastico: la sede della maga (tradizionalmente collocata appunto nel Circeo) viene designata ora come Castel Porcano, ora come Castel Porcino, deformazioni di Castel Porziano, sito presso Roma — che non ha nulla a che fare col Circeo, ma il cui nome, tanto più nelle due deformazioni gaddiane, evoca la trasformazione in porci operata da Circe sugli uomini di Ulisse nell’Odissea. Qui la « maga dalla tabacchiera in apertura (perpetua) » guida, nella notte, un baccanale-sabba di ninfe infoiate (trasposizione, sul registro allucinato del sogno, della truppa delle equivoche lavoranti di Zamira, che lo stesso brigadiere conosce personalmente in funzioni meno ortodosse che quelle di cucitrici). È su questa scena che irrompe, infine, lo « spiritato ratto », il « topazio » — ormai con connotati pienamente fallici —, per arrestarsi, in un anti-

climax sconcertante, davanti alla «trappola», natamente « ingessata », della maga.

che risulta inopi-

Il brigadiere filava in discesa verso li Du Santi !. Era giornata lasca 2, il dolco* aveva bevuto ai padùli. Ma il vento di corsa e qualche rada stilla, come un pallin di schioppo nella faccia, gli presagivano l’alacrità dell'indagine, e dei fruttiferi interventi nelle utili ore del mattino. Dando di clacson addosso a un oco, il quale indugiava a paperar di culo nella via, stritolò una mezza bestemmia fra i denti: fu allora proprio che gli riemerse e rilampeggiò nella mente, allucinata dal risveglio a ora presta, l’interminabile sogno della notte. Avea veduto nel sonno, o sognato... che diavolo era stato capace di topazzo. Aveva pazio? un vetro che ingrossava,

sognare?... sognato un sfaccettato, ingrandiva

uno strano essere: un pazzo: un topazio: che cos’è, infine, un to-

una specie di fanale giallo giallo, d’attimo in attimo fino ad essere poi subito un girasole, un disco maligno che gli sfuggiva rotolando innanzi e pressoché al disotto della ruota della mac-

1 La località sulla via Appia, dove si trova il laboratorio di Zamira. 2 « Afosa, dal clima stagnante ». 3 « Aria tiepida, sciroccosa ».

174

china, per muta magia. La marchesa lo voleva lei, il topazio, era sbronza, strillava e minacciava, pestava i piedi, la faccia

stranita in un pallore diceva delle porcherie in veneziano, o in un dialetto spagnolo, più probabile. Aveva fatto una cazziata al generale Rebaudengo petché i suoi carabinieri non etano buoni a raggiungerlo su nessuna strada o stradazia, il topazio maledetto, il giallazio. Tantoché al passaggio a livello di Casal Bruciato il vetrone girasole... per fil a dest! E’ s’era involato lungo le rotaie cangiando sua figura in topaccio e ridarellava topo-topo-topo-topo: e il Roma-Napoli filava filava a tutta corsa dietro al crepuscolo e pressoché già nella notte e nella tenebra circèa, diademato di lampi e di scintille spettrali sul pantografo ‘, lucanocervo ® saturato d’elettrico. Fintantoché avvedutosi come non gli bastava a salvezza chella rotolata pazza lungo le parallele fuggenti, il topo-topazio s’era derogato di rotaia, s'era buttato alla campagna nella notte verso le gore senza foce del Campo Morto e la macchia e l’intrico del litorale pometino: le donne del casello strillavano, gridavano ch’era ammattito: lo fermassero, lo ammanettassero: il locomotore lo rincorreva in palude, coi due gialli occhi tutta perscrutava e la giuncaia e la tenebra fino laggiù, dove i nomi si diradano, appiè il monte della contessa Circia, ove luminarie e ghirlande dondolavano sopra le altane a lido, nello spiro seròtino del mare. Nereidi, ivi, appena emerse dal flutto e subito ignudàtesi della lor veste d’alghe e di spuma fra l’andirivieni dei camerieri in bianco e de’ sifoni diacci e delle fistule,

solevano allegrare la notte fascinosa di Castel Porcano. La contessa, tra languide nenie, dimandava una fiala al sonno, all'oblio: ai ghirigori vani, agli smarrimenti del sogno. Del sogno di non essere. A Castel Porcino, sotto festoni di pere gialle da due watt e palloncini sbronzi e dolcemente obesi nell’alitare e nello smorire d’ogni mèlode, la maga dalla tabacchiera in apertura (perpetua) elicitava al fiuto gli imminen. 4 Il dispositivo per la presa di corrente sul tetto dell’elettromotore 5 «Cervo volante ».

175

ti suini 5, coloro che di quel filtro, e di quell’olezzo, erano per tornare in porci grifuti, dopo essersi fatti orecchiuti asini a la scuola: del manganello del machiavello. Già le alunne si divincolavano, bianchissime eccettoché il trìigono cesputo 7, da ogni torquente * veto dei padri, si stotcevano in un muta profferta: che di moresca lenta e ritenuta sarabanda s’esaltava a mano a mano fino al ritmo trocàico d’una estampida?, ove il bàttito risoluto del piede regalasse fiere arsi al piancito: mentre la sùbita erezione e lo scotimento e del collo e del capo ridava all’abisso i capelli, significando la indomita alterezza e della cervice e dell’animo, ribadita dal taratatà delle nàcchere. Intervenendo indi nel coro l’aggressione degli ignudi (e non per anco ebefatti)!° la stampita si esasperava a sicinnide !, a danza simulatamente apotropàica: una frotta di spaurite mamillone facevan le viste d’aborrire un branco di satiri, di farsi schermo e ricovero e delle mani e della fuga avverso

i rubescenti e fumiganti lor tirsi !: di già mezzo imbecillati, per vero, dalle trasmodate officiature #: del naso. Piombatogli in quel punto tra le gambe come la nera félgore d’ogni solletico e d’ogni nero evenire !, il topaccio pazzo aveva impaurato a un tratto le belle. Schegge d’un cuore esploso, erano

6 « Andava invitando coloro che stavano per esser mutati in porci ad annusare ». 7 Il triangolo del pube. 8 « Costrittivo, torturante ». ? Moresca, sarabanda, estampida (poco più avanti starzpita) sono nomi di danze medioevali e rinascimentali, introdotte qui con relativa indifferenza alle loro caratteristiche reali. Trocaico è il ritmo basato su un piede composto di una lunga e di una breve; darsi è il tempo forte, occupato nel caso dalla lunga. 10 « Non ancora istupiditi ». 11 Una danza dionisiaca: « simulatamente apotropàica » (cioè solo fittiziamente volta a esorcizzare un male incombente) perché le compagne della « contessa Circia », come è del resto precisato subito dopo, con i loro scomposti movimenti si limitano a fingere terrore per i « satiri», di fatto concupiti. 12 I bastoni delle baccanti: ma qui metaforicamente i falli dei satiri. 13 « Eccessive prestazioni ». 14 « Compimento, accadimento ».

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schizzate via in ogni direzione in ogni canto, dimesso d'un subito, alla sola vista di quella spititata pantegana, il loro ancheggiato e mamillante ! sacerdozio. Ed erano gridi ed acuti da non dire mentre saettava qua e là il baffone come cocca di balestra !, nera acuminata polpetta. Molte, smemoratesi d’essere ignude, avevano fatto il gesto d’abbassar la gonna ai ginocchi, a proteggere una delicatezza indifesa: ma la gonna se la sognaveno. E la delicatezza artrettanto. Così, nel delirio, avevano domandato scampo alla fuga, agli specchi del padùle, all’ombre dei giunchi, alla notte, all’argentata macchia dei lecci, dei pini a lido, alle risciacquature libere del lido, signoreggiato da bulicante !” maretta: altre, poetesse ed oceanine precipiti da le scogliere lunari del citcèo, s’erano buttate a le spume del frangente. Ma la contessa Circia ebriaca arrovesciava il capo all’indietto, ricadendole i capelli zuppi (mentre palloncini gialli ridevano e dondolavano in cinese) nella torpida benignità della notte: zuppi d’uno shampo di white label: la fenditura della bocca, quale in un salvadanaio di coccio, s’inarcava sguaiata fino a potersi appuntare agli orecchi, le spaccava il volto come il cocomero dopo la prima incisione, in due batti batti, in due sottosuole di ciabatta: e dagli occhioni strabuzzati, che gli si vede il bianco di sotto a l’iridi come d’una Teresa ! riposseduta dal demonio, le gocciolavano giù per il volto lacrime etiliche, stille azzurrine: opalescenti perle d’un contrabbandato Pernod. Invocava la fiasca 15 « Praticato con oscillazioni delle mammelle »._ 16 « Come

la cocca

;

della freccia (o l’intera freccia, per sineddoche)

dalla corda della balestra »; cfr. Inferzo, XVII, 136: «si dileguò come a ; da corda cocca ». 17 « Ribollente », con risonanze dantesche: « bulicame » è detto il sangue bollente del Flegetonte in Inferro, XII, 117 (e cfr. anche i \ . XIV, 79): 18 Riferimento all’iconografia corrente dell’estasi (qui tramutata in possessione diabolica) di Santa Teresa d’Avila, il cui esempio più celebre è fornito dal gruppo del Bernini in S. Maria della Vittoria a Roma: la grande mistica vi è raffigurata in un deliquio quasi erotico, col capo per traartovesciato; offerta al dardo infuocato di un serafino che sta passarla.

LALA

del ratafià, chiamava le sovvenzioni del Papà, del Papè, del grande Aleppo !; dell’invisibile Onnipresente, ch’era, tutt’al contrario dell’Onnivisibile fetente ?? salutato salvatore d’Italia, onnipotente nel praticare il solletico, ogni maniera di solletico: quanto era quello impotente a combinare checchefosse, e men che meno le sue verbose bravazzate. Stillava perle azzutrine, lacrime di àloe, di terebinto e di wodka: arrovesciato il capo, smarriti nella notte i capelli, coi due diti pollice indice con un topazio giallo cadauno aveva sollevato la gonna, sul davanti, palesato a tutti che ciaveva le mutanne. Ce l’aveva, la santa donna, le mutanne: sî sf sî ce l’aveva ce l’aveva. Lo spiritato ratto aveva infilato quella via, ch’era la via del dovere, per lui e per l’annasante sua fifa, le rampicava ora le cosce come un’edera, grasso e nel suo terrore fremente, la faceva ridere e ridere a cascatella grulla, smaniare dal solletico: ecco là: ce l’aveva di cartone e di gesso, le mutanne, quella volta. Perché una volta in vita le avevano ingessato la trappola. Il brigadiere filava, crepitando secco, in direzione delli Du Santi, con il milite abbrancato alla vita, che strizzava le palpebre al venir del vento, infastidito dalla polvere. La delusione lo ridestò di colpo. Il tempo in cui diremmo si distendano i sogni ha viceversa la rapidità diaframmante d’uno scatto di Leika, si misura per fulgurativi tempuscoli, per infinitesimi del quarto ordine sul tempo orbitale della terra, detto comu-

nemente solare, tempo di Cesare e di Gregorio ?!. Ed ecco ora, di là da la flottiglia di nubi che bordeggiava le scogliere dell'oriente, l’opale in rosa, il rosa addensarsi e stratificarsi nel carmino: la lividura ovunque, a bacfo ?, del giorno appatito: poi, alfine, dal crinale, il sopracciglio splendido: un punto di 19 L’aiuto del diavolo («invisibile Onnipresente ») designato con termini derivati dall’enigmatica invocazione di Pluto in Inferno, VII, 1 (« Pape Satàn, pape Satàn aleppe! »). 20 Mussolini. 21 Scandito dal calendario (riformato da Giulio Cesare nel 46 a. GA e corretto nel 1582 da papa Gregorio XIII). 2 «A tramontana », 0 forse meglio, qui, genericamente: nelle parti lontane dall’oriente, dove la luce dell’aurora non giunge che smorzata.

178

fuoco, d’in vetta al crinale degli Ernici o dei Simbruini l’insostenibile pupilla: lo sguardo sagittato raso del bellone, del fanalone *. Le grige latitudini del Lazio si acclaravano e formavano a plastico, emergendone rivestite di porpora, quasi come dîruti miliari * del tempo, le schegge delle torri senza

nome.

V.4 [LA GALLINA

DI ZAMIRA]

Ancora una famosa « digressione », che ha come oggetto una gallina che interrompe con la sua irruzione (e successiva defecazione) il colloquio del brigadiere Pestalozzi con Zamira. È, tra l’altro, uno degli esempi ormai canonici degli esiti estremi della tendenza gaddiana alla proliferazione del dettaglio. Apparentemente frutto — come si è già osservato — di una esigenza filosofica (descrizione esaustiva dei fenomeni, costruzione di un sapere compiutamente sistematico), l’espansione del dettaglio si realizza di fatto in dispositivi testuali che distruggono ogni possibilità di totalizzazione e unificazione conoscitiva (e narrativa).

In quel punto, come evocata di tenebra, dall’usciolo soc-

|

chiuso della scaluccia approdante in bottega (di cui li regazzini fantasticavano, altri favoleggiavano e più d’uno pe via de la lettura de la mano avea pratica), si affacciò e poi zampettò sul mattonato freddo qua e là con certi suoi chè chè chè chè tra due cumuli di maglie, una torva e a metà spennata gallina, priva di un occhio, e legato alla zampa destra uno spago, tutto nodi e giunte, che non la smetteva più di venir fuora, di venir su: tale, dall’oceano, la sàgola interminata dello

2 Il sole, bellone

forse

anche

con

allusione

al suo

correlativo

mitico (Apollo), e faralone con più ovvio riferimento al suo aspetto luminoso (ma fanale è anche, gergalmente, l'occhio, con ripresa dunque della metafora della pupilla solare). » 24 I cippi o le colonne che indicavano le distanze nelle strade tomane.

pz)

scandaglio ove il verricello di poppa la richiami a bordo e tuttavia gala! d’una barba la infronzoli, di tratto in tratto: una mucida 2, una verde alga d’abisso. Dopo aver esperito * in qua in là più d’una levata di zampa, con l’aria, ogni volta, di saper bene ove intendeva andare, ma d’esserne impedita dai divieti contrastanti del fato, la zampettante guercia mutò poi parere del tutto. Spiccicò l’ali dal corpo (e parve estrinsecarne le costole per una più lauta inspirazione d’aria), mentre una bizza mal rattenuta le gorgogliava già ner gargarozzo*: una catarrosa comminatoria 5. A strozza invelenita principiò a gor-

gheggiare in falsetto: starnazzò spiritata in colmo alla montagna di que’ cenci, donde irrorò le cose e le parvenze universe del supremo coccodè, quasi avesse fatto l’ovo lassù. Ma ne svolacchiò giù senza por tempo in mezzo, atterrando sui mattoni con nuovi acuti parossistici, un volo a vela de’ più riusciti, un record: sempre tirandosi dietro lo spago. Parallelamente allo spago e alla infilata dei nodi e dei groppi, un filo di lana grigio le si era appreso a una gamba: e il filo pareva questa volta smagliarsi da reobarbara? ciarpa, di sotto al ridipinto 1 «E ancora il fregio». 2 Propriamente « ammuffita »; ma qui vale piuttosto «come stillante muco ». 3 « Provato, tentato ». 4 «Gola» (rom.). 5 Etimologicamente, « minaccia » (ma usualmente il termine indica, nel linguaggio giuridico, un particolare tipo di condanna pecuniaria). 6 Condensazione degli aggettivi reo e barbaro: come nella quasi coeva Battaglia dei topi e delle rane (1959), ora in Il tempo e le opere, dove «reobarbari » sono i dialetti per coloro che li accusano (a torto, secondo Gadda) di «disintegrare » la lingua e di corrompere la cultura. L'appellativo converrebbe alla sciarpa verde del rapinatore della Menegazzi (ciarpa vale tanto «straccio » che «sciarpa »): sciarpa che il giorno precedente i militi hanno appunto cercato nel laboratorio di Zamira, sospettando che sia stata affidata a costei per essere tinta. E nel Palazzo degli ori è infatti da Zamira che essi ottengono, grazie a queste pressioni, « le generalità del delinquente » (scena 182). Ma nel Pasticciaccio questa trama viene alterata: ‘a questo punto della narrazione una delle lavoranti di Zamira, Clelia, ha già avuto modo di informare nascostamente i carabinieri sull’identità del ricercato e sulla sorte della sua sciarpa, che (sembra potersi capire) è ora approdata

180

ciarpame. Una volta a terra, e dopo un ulteriore co co co co non si capî bene se di corruccio immedicabile o di raggiunta pace, d’amistà, la si piazzò a gambe ferme davanti le scarpe dell’allibito brigadiere, volgendogli il poco bersaglieresco pennacchietto della coda: levò il radicale del medesimo, scoperchiò il boccon del prete” in bellezza: diaframmò al minimo, a tutta apertura invero, la rosa rosata dello sfinctere, e plof! la fece subito la cacca: in dispregio no, è probabile anzi in onore, data l’etichetta gallinacea, del bravo sottufficiale, e con la più gran disinvoltura del mondo: un cioccolatinone verde intorcolato alla Borromini * come i grumi di solfo colloide delle acque àlbule?: e in vetta in vetta uno scaracchietto di calce, allo stato colloidale pure isso, una crema chiara chiara, di latte pastorizzato pallido, come già allora usava. Di tutta quell’aerodinamica, naturalmente, e del conseguente sgancio del gianduiotto, o boero che fosse, la Zamira ne profittò pe non risponne !°: intanto che dei piumicini a ricciolo, nevosi e teneri come d’un papero infante, persistevano ad alto a mezz'aria mollemente ondulando, da parere anelli in dissolvenza, del fumo d’una sigheretta. Nel prodigio nuovo l'imperativo del Pestalozzi vani. Lei la si levò ratta di seggiola con tutto il podere cilestrino, la si diè a ciabattare e a sventolar la gonna dietro alla torva, zinale non aveva, e a garrirla:

presso la ditta Ciurlani di Marino; e infatti la « ciarpa » nel laboratorio non suscita affatto l’attenzione dei militi. L’attributo — « reobarbara» — affibbiato all’equivoco cencio (rifiuto o sciarpa) rimane cosi nel testo come una presenza lessicale piuttosto enigmatica: un fossile, in un certo senso, di un precedente stato di elaborazione del plot, con dubbie motivazioni attuali. In verità, nonché la «ciarpa», è qui lo stesso tessuto narrativo a «smagliarsi » irrimediabilmente, come accade con significativa frequenza in questi capitoli aggiunti nell’edizione in volume. | | 7 «Il posteriore ». 8 Spiraliforme, come il lanternino della cupola di Sant'Ivo alla — Sapienza, di Francesco Borromini (1599-1667). — 9? Gruppo di sorgenti solforose presso Tivoli. 10 Al brigadiere interrogante, che poco più avanti la stessa Zamira adula promuovendolo a « maresciallo ».

181

« Via! via! zozzona,

spurcacciona!

Una partaccia cosî, zozza

che nun se’ altro! al signor maresciallo! » Tantoché la zozza in parola, tuttavia gargarizzandosi di mille cocococò, e scaracchiandoli infine tutti in una voita al soffitto in un chechechechè riassuntivo, per quanto doppiamente ancorata e dallo spago e dal filo, la si levò a volo fino sul ripiano della credenza: dove, incazzatissima, e rivestita sua

dignità, la depositò, nel vassoio di peltro, un altro bel caccheronzolo, ma più piccinino del primo: pif! Con che sembrò aver evacuato il disponibile. La paura (dei carabinieri) fa novanta.

182

VI « IL PRIMO LIBRO DELLE FAVOLE » ED:

DA « L’ADALGISA » 1. [Il « povero Carlo »]

245

IV

DA «I RACCONTI. ACCOPPIAMENTI GIUDIZIOSI » 2. L'incendio di via Keplero .

75

«LA COGNIZIONE DEL DOLORE » .

93

1 [Lesville]

V.

-

101

2. [Capitolo II della Parte ET.

109

3. [La «cognizione del dolore »]

133

«QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DE VIA MERULANA » .

143

1. [L'assassinio di Liliana Balducci]

151

2. [Le « nipoti »]

3. [Il sogno

«IL PRIMO PO

.

160

?

173

del brigadiere]

4. [La gallina di Zamira] VI

;

LIBRO DELLE

179

. FAVOLE » ED « EROS E PRIA-

183

»

DA « IL PRIMO

LIBRO DELLE

FAVOLE »

1. [Cinque favole]

183

DA «Eros E PRIAPO. (DA FURORE A CENERE) » 2. [Mussolini « Priapo Ottimo Massimo »] .

193

VII SUL LINGUAGGIO

E SULLA

SCRITTURA

DALLE « NORME PER LA REDAZIONE DI UN TESTO RADIOFONICO » 1. [Alcune regole basilari] DA «I VIAGGI LA MORTE » 2. Lingua letteraria e lingua dell’uso .

201

204 208

Nota ai testi

215

Antologia della critica

217

Bibliografia essenziale

230

Proposte di ricerca .

239

246

Finito di stampare nel mese di novembre 1986 dalla TIBERGRAPH s.r.l. Città di Castello (PG)

IIIMRAMIAI ANA

PER-:LEGGERE Collana diretta da Carlo Muscetta

Gli approcci metodologici più moderni sollecitano alla lettura del testo e la mettono al primo posto, risolutamente. Ma la civiltà audiovisiva tende a farci regredire alla cultura orale. È il momento in cui la società e la scuola possono e devono invertire questa tendenza, rieducando al gusto della lettura e proponendo suggestioni dirette e nuove. È l’ora di ritrovare innanzitutto l’uomo nello scrittore, le profonde motivazioni psicologiche e sociali, morali e civili della scrittura. Riscoprire il valore perenne dell’umanesimo, per non ridursi a servi della macchina. Saper leggere per saper scrivere per saper pensare per saper vivere.

Lire 12.000 ISBN 88-7573-063-6