Ritratto di Gadda
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LE LATERZA 39001023646030

di Gadda Gian

Carlo

Ferretti

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Universale 700

Laterza

© 1987, Gius. Laterza & Figli

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Gian

Carlo Ferretti

RITRATTO DI GADDA

Editori Laterza

1987

Finito di stampare nel febbraio 1987 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-2857-3 ISBN 88-420-2857-6

Avvertenza

Dei testi gaddiani vengono qui privilegiate tendenzialmente le prime edizioni in volume o le edizioni integrate e accresciute, e ciò anche nei casi, frequenti, di successivi interventi rispetto alle precedenti stesure: purché non vi si oppongano sostanziali differenze nell’analisi e valutazione, o ragioni di reale funzionalità a rispettive e diverse fasi considerate. Vien fatta qualche altra eccezione laddove la segnalazione di tali interventi o il ricorso a una precedente stesura possano essere utili al discorso. Tutto ciò, entro i limiti di un lavoro che dei testi stessi non si propone di inseguire filologicamente le varie rielaborazioni e destinazioni. Nelle citazioni vengono riportate tra parentesi quadre (o sottolineate) le varianti relative alle eventualità qui pre-

viste, oltre che naturalmente le eventuali note di chi cita. Le citazioni riproducono sostanzialmente le trascrizioni dei vari curatori o editori. Nel caso di testi inediti, si sono rispettate la partizione dei capoversi, la punteggiatura e la grafia, correggendo soltanto le sviste più evidenti.

Una tavola all’inizio del volume reca le abbreviazioni e le voci bibliografiche dei testi gaddiani utilizzati o citati nei vari capitoli, salvo segnalazioni particolari, riportate al piede della prima pagina del capitolo relativo. Nel corso della trattazione non viene ripetuta la abbreviazione ma riportato soltanto il numero di pagina, quando il riferiVII

mento sia immediatamente successivo a quello di uno stesso testo. Dai testi elencati e dagli eventuali apparati delle relative edizioni, sono per lo più tratte le notizie biobibliografiche di cui non si esplicita la fonte. Le date che accompagnano i titoli, si intendono di massima come date di stesura, salvo diverse indicazioni esplicite o implicite del contesto, e salvo quei possibili interventi posteriori che non inducono sempre Gadda a modificare le date stesse nelle edizioni in volume. Per ogni informazione bibliografica ulteriore, si rimanda comunque fin d’ora al Saggio di una bibliografia gaddiana, a cura di Dante Isella, in C. E. Gadda, Le bizze del capitano in congedo Ppast95#ssg.

e altri racconti, Adelphi, Milano

1983°,

Gli stessi criteri generali accennati in questa Avvertenza, valgono infine per i contributi su Gadda (ma le date, in questo caso, sono per lo più di prima edizione), nel quadro di un discorso che della sua fortuna critica intende soltanto cogliere alcuni momenti essenziali e funzionali al presente ritratto. Si devono qui ringraziare Giorgio Zampa conservatore dell'Archivio Vieusseux, Domenico De Robertis, e le case editrici Einaudi e Garzanti, per aver gentilmente concesso

di consultare lettere inedite gaddiane. Un ringraziamento particolare si deve poi a Dante Isella, Giuseppe Marcenaro e Gian Carlo Roscioni, per le informazioni e i suggerimenti forniti, e a Roscioni altresì per alcuni preziosi spunti critici. Questo lavoro è stato « chiuso » nell’agosto 1986.

ABBREVIAZIONI

Autobiografia

AAG

in A. Guglielmi,

Carlo Emilio

Gadda, Letteratura italiana. I contemporanei, II, Marzorati, Milano 1963. Accoppiamenti giudiziosi - I racconti 19241958, Garzanti, Milano 1963. Le bizze del capitano in congedo e altri racconti, a cura di D. Isella, Adelphi, Milano

AG

1983?, Cinema (Secondo tempo), 1926-27, a cura di R. Rodondi, in « Strumenti critici », ottobre NO 324

Cattaneo

GL

Cattaneo

LR

cdp CADL

cdu Citati cdp

Dichiarazioni e notizie in G. Cattaneo, Il gran lombardo, Garzanti, Milano 1973. Notizie in G. Cattaneo, Letteratura e ribellione, Rizzoli, Milano 1972. La cognizione del dolore, con un saggio introduttivo di G. Contini, Einaudi, Torino 1970. La cognizione del dolore, I, in « Letteratura », luglio 1938: XIII ivi, ‘sennaio: 1939: tivi gennaio 1940. Il castello di Udine, Solaria, Firenze 1934. Frammenti inediti di cdp in P. Citati, Il male invisibile, in « il menabò 6 », Einaudi, Torino NO63%

IX

EP. GASP

Eros e Priapo (Da furore a cenere), 1944-63?, Garzanti, Milano 1967.

Il guerriero, l’amazzone, lo spirito della poesta nel verso immortale del Foscolo - Conversazione a tre voci, ivi, 1958.

GGP

Giornale

IA

Einaudi, Torino 1965. Intervista a A. Arbasino, 1959-64, in A. Arbasino, Sessanta posizioni, Feltrinelli, Milano

di guerra

e di prigionia,

1915-19,

171 IAM IDM

Intervista a A. Moravia, in « Corriere della Sera », 17 dicembre 1967. Intervista a D. Maraini, 1968, in D. Maraini,

E tu chi eri?, Bompiani, Milano 1973. Incantagione e paura, in « Giornale d’Italia », 21-22 gennaio 1966; poi in «Nuovi Argomenti », aprile-giugno 1976 (da cui si cita). Intervista Tv, 1972, in « Studi cattolici », giugno 1973.

L’Adalgisa - disegni milanesi, Le Monnier, Firenze

1944.

Carteggio dell'ing. Carlo Emilio Gadda con l’« Ammonia Casale S.A.» 1927-1940, a cura di D. Isella, ed. non venale promossa dall’Ammonia LAM

LB

Casale

S.A., Verona

1982.

Lettere agli amici milanesi, 1915-69, a cura di E. Sassi, Il Saggiatore, Milano 1983. L’ingegner fantasia - Lettere a Ugo Betti 19191930, a cura di G. Ungarelli, Rizzoli, Milano

1984. LEV

Lettere a Enrico Vallecchi, 1946-54, in « Nuo-

LF

vecarte », gennaio-febbraio 1984. Il libro delle Furie, III, in « Officina », set-

LFV

tembre 1955. Lettera a F. Vacca, 1902, a cura di T. Poggi

LG

Salani, in « Strumenti critici », gennaio 1986. Tre lettere di C. E. Gadda a Silvio Guarnieri, 1931-32, a cura di M. Carlino e F. Muzzioli,

in « L'ombra

d’Argo », a. I, nn. XxX

1-2, 1983.

LGC

Lettere 1929-69 in P. Gadda Conti, Le cowfessioni di Carlo Emilio Gadda, Pan, Milano

LGP

Lettera a L. Gadda in Podestà, 1970, a cura di G. Podestà, in « Lettere italiane », aprilegiugno 1978. Lettere a una gentile signora, 1935-64, a cura di G. Marcenaro, con un saggio di G. Pontiggia, Adelphi, Milano 1983. Lettera a A. Mondadori, 1945, in AA. VV., Alberto Mondadori, Il Saggiatore, Milano 1977. Lettere 1926-36 in Lettere a Solaria, a cura di G. Manacorda, Editori Riuniti, Roma 1979. A un amico fraterno - Lettere a Bonaventura Tecchi 1920-1963, a cura di M. Carlino, Garzanti, Milano 1984. La Meccanica, 1924-29, ivi, 1970. La Madonna dei filosofi, Solaria, Firenze 1931. Le meraviglie d'Italia - Gli anni, Einaudi, Torino 1964. Meditazione milanese, 1928, a cura di G.C. Roscioni, ivi, 1974. Nota introduttiva a frammenti da Mm, in « Solaria », luglio-agosto 1932. Novella seconda, 1924-32?, Garzanti, Milano LICHAI Il primo libro delle favole, Pozza, Venezia 11952: Papà e mamma, frammento da M, in « Solaria », cit. Il palazzo degli ori, 1947-48, con una nota di A. Andreini, Einaudi, Torino 1983. Piani di sole e liste, 1919, in «Strumenti critici », giugno 1967. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano 1957. Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, I, in « Letteratura », gennaio-febbraio 1946; II,

1974.

LGS

LM

LS

LT

PIECE

PSL

QPL

XI

ivi, marzo-aprile 1946; III, ivi, maggio-giugno 1946; IV, ivi, luglio-agosto 1946. Racconto italiano di ignoto del novecento (Cabier d’études), 1924-25, a cura di D. Isella,

RIN

Einaudi, Torino Roscioni

cdp

Roscioni

DP

RQP TO UP VM

1983.

Note e frammenti inediti di cdp in G.C. Roscioni, La conclusione della « Cognizione del dolore », in « Paragone », dicembre 1969. Abbozzo per un indice bibliografico e frammento inedito di cdp in G.C. Roscioni, La disarmonia prestabilita, Einaudi, Torino 1969. Risvolto editoriale per QP, cit. Il tempo e le opere - Saggi, note e divagazioni, a cura di D. Isella, Adelphi, Milano 1982. Una poesia, 1915, in « il menabò 6 », Einaudi, Torino 1963. I viaggi la morte, Garzanti, Milano 1958.

RITRATTO

DI GADDA

Capitolo primo * IL FORMIDABILE

LORD

KITCHENER

Nella nascita di Gadda a Milano, il 14 novembre 1893, si possono già rintracciare alcune primissime linee del suo ritratto. L’illuminismo e romanticismo lombardo, Manzoni, Cattaneo, il positivismo; i valori tecnico-scientifici e industriali della borghesia ottonovecentesca, l’etica del lavoro e dell’efficienza, della competenza e della produttività, il mito della capitale morale (LFv 103); la tradizione familiare di professionisti (anche ingegneri), funzionari, imprenditori, insegnanti (con un ministro, tra gli altri, e una nobildonna); l’« importanza psichico-immaginativa » dei paesaggi e delle figure umane di Milano, Monza, la Brianza; e ancora, « fotti immagini risorgimentali, senso nazionale fin dall’infanzia » (AAG 1052. Cfr. anche LFV 103): un retroterra culturale, un’eredità di comportamenti e di idee, un mondo di suggestioni e di affetti, oggettivamente minato da un’irreversibile crisi storica, politica, esistenziale, e perciò quasi predisposto ad accogliere e ap-

profondire la crisi personale e segreta del giovane Gadda. « Un’infanzia tormentata e un’adolescenza anche più dolorosa »

(ROP),

un’« inesistita

giovinezza »

(ITv

367)

segnata da frustrazioni sociali, privazioni d’amore e condi 10nw VM

Qui tra l’altro Gadda passo di PLF 18. Come lavoro (1949).

autobiografizza

esplicitamente

un

venzionali doveri. Da un lato dunque, le disastrose contraddizioni del padre tra ambizioni e possibilità, la « fottuta casa di campagna a Longone » (AAG 1052) da lui ostinatamente voluta e accresciuta, le difficoltà finanziarie e i sacrifici materiali di tutta la famiglia soprattutto dopo la sua morte (per Carlo Emilio, anche il disagio dell’essere borghese ma povero: IpM 10, 18); e dall’altro, una madre « energica, sana, colta » (AAG 1051), al tempo stesso severa con i figli quanto generosa verso gli estranei, e principale responsabile verso Carlo Emilio di una vocazione letteraria « sabotata » (IA 195. Cfr. anche ITV 367-8), con l’imposizione della più remunerativa carriera politecnica e ingegneresca. Tutti questi motivi, con relativi risentimenti e recriminazioni, torneranno ossessivamente e violentemente nelle

pagine future di Gadda, e in particolare nella Cognizione del dolore. Ma, almeno fino all'immediato dopoguerra, appatitanno come rattenuti o dissimulati o contraddetti (nelle lettere e nel diario di guerra e di prigionia) dalle dichiarazioni di amore struggente per la madre e di commossa ammirazione per le sue « abnegazioni eroiche » (GGP 162), dal riaftermato proposito di laurearsi (287, 303), da un’accettazione di quella educazione e tradizione che durerà ancora a lungo; e fors’anche (ptima nello studente e poi nel sottotenente Gadda) da un’ingenua o scherzosa ricerca di risarcimenti: il fantasioso titolo di « Duca di Sant'Aquila » (GGP e LAM passim), nato da un gioco di ragazzi, e le ascendenze illustri più o meno fondate, ed esplicitate in successivi scritti (MM 219. AAG 1051), con impliciti riflessi nel Gonzalo Pirobutirto d’Eltino della stessa Cognizione. Intanto, le pagine del diario in cui tornano le « immagini

di tristezza,

di dolore,

di sgomento », i ricordi

delle « sventure familiari », delle devastanti « violente emozioni » e di «tutte le tempestose e terribili circo4

stanze

della sua vita intima

e privata » tra infanzia

e

giovinezza (GGP 80, 133, 190), lasciano affiorare il conflitto tra un equilibrio originario (reale o mitizzato a posteriori: « visioni di felicità perduta », « d’un bene petduto » sul nascere: 48, 218. RIN 9. MM 68-9), un ordine formale imposto e vissuto come dolore esso stesso o come doloroso rimedio ad altri dolori (quello che Gadda

chiamerà

d’un educatoio

il « duro carcere

tridentino », con « antidoti laicali [...] non

borromeianomeno

tòssici

della disciplina catechistica »: vm 21), e l’interiore squilibrio, nevrosi, disordine, provocato da quelle sventure (ccp passire). La storia di Gadda del resto, sarà anche la storia della vana e inesausta ricerca di un ordine con-

cretamente praticato e intimamente posseduto, nella quale egli non potrà non valersi per lunghi periodi, anche dei valori di fondo a quell’ordine formale sottesi: per lo stesso oscuro sentimento di odioamore che li accomuna alla madre, o per contraddittoria ritornante necessità. Il diario che viene scrivendo sui suoi quaderni nel 1915-19,

tra retrovie

e fronte, prigionia

e dopoguerra,

svela la prima fase del processo. Gadda vive i suoi ideali risorgimentali e unitari di tradizione familiare (e di educazione sociale e scolastica), e la sua partecipazione volontaria alla guerra, al tempo stesso come oggettiva necessità e personale bisogno di un vero ordine. Necessità cioè di disciplina motivata, di praticità consapevole, di quella concretezza che viene da uno stretto rapporto tra analisi del reale e capacità di fare, contro le « ciarle », incertezze, insipienze, sterili proteste, « enfasi » retoriche (29). Le doti di conduttore che Gadda ammira in lord Kitchener, « il formidabile organizzatore della guerra inglese » (118), presuppongono perciò determinazione e intelligenza, energia e competenza. Di un colonnello caduto per avventatezza, scrive: « la patria, o bestia porca, non vuole la tua

vita per il gusto di annoverare un valoroso di più: vuole 5

la tua costante vigilanza, il tuo pensiero, la tua riflessione, l’analisi, il calcolo. » (32-3) E in generale, il richiamo ai

doveri militari si intreccia con l’esigenza di una specifica capacità di ideazione, progettazione, realizzazione; il rigore etico e la responsabilità civile, al rigore tecnicoprofessionale; gli ideali patriottici, ai valori lombardi di efficienza e di utilità. In questo senso allora, le ruberie e trascuratezze, gli opportunismi e personalismi di ufficiali e soldati, sono per Gadda soprattutto « orrendo, logorante, disordine! » e la maggior colpa dei comandi è la « cinica indifferenza » per DA 24 15 65)

«il loro

mestiere » (43-4,

Anche il suo personale bisogno di ordize partecipa di quello stretto rapporto tra ideali patriottici ed efficienza: « desiderio di partire, e d’essere a posto », di combattere per « poter fare qualche cosa di utile, di serio ». E ancota: « Ci vuole la mia dose di idealismo, di pazienza, di speranza, di fede inalterabile, per tirare avanti fra tante delusioni e amarezze. / Sotto di noi una trentina di metri lavora il genio a belle e ben combinate trincee, a robusti reticolati; meno male. » (59, 157, 253) La sua « speranza d’una vita nazionale più pura e più alta », coincide poi con la « fiducia in un miglioramento delle sue forze » e del suo « sentire » (80); e l’azione in guerra significa per lui superamento della nevrosi e del disordine interiore, riscatto dai fallimenti, frustrazioni, umiliazioni della vita passata. L’esperienza è tuttavia rovinosa. Ben presto il « disordine », l’incompetenza, l’irresponsabilità dell'ambiente mi-

litare, gli appaiono del tutto ingovernabili e incomprensibili, manifestazioni di una « imbecillità », « bestialità », « asineria », volgarità universale, pur nei dichiarati tratti borghesi (18, 33, 51, 65,-165, 170-2, 224, 300, 338. LAM

21). Le invettive contro generali e ministri, « mucche gravide », « acquosi pancioni », « porci ruffiani », per la 6

loro colpevole conduzione della guerra, sono tanto violente quanto impotenti, anche per il « patto infrangibile di disciplina » che gli impone il silenzio (ccp 43, 166, 236): il Giornale di guerra e di prigionia sarà pubblicato soltanto nel 1955. Ma ancor più bruciante è la constatata sua personale impotenza pratica, inguaribile debolezza e incapacità a « volere » e decidere, dirigere e organizzare, comandare e punire. L’interiore disordine (acuito dalla rabbia disperata per il disordine e la stupidità scoperti proprio laddove egli cerca un vero ordize), lungi dall’essere superato in un equilibrio tra « comprendere » e « agire » (80), insorge

continuamente

a divaricare

i due

termini, manifestandosi perciò soprattutto come problematicità eccessiva esasperata tormentosa, « sensibilità morbosa che atterrisce ad ogni ostacolo, ad ogni prova » (76, 234), difficoltà o impossibilità di rapporti con gli altri (« inetto a vivere » si definirà più tardi: vm 22). L’« inazione forzata » (GGP 157) che per lungo tempo lo tiene lontano dal vivo della battaglia, ne appare quasi la paradossale accentuazione e conferma. Gadda si trova cioè a recitare con un oscuro senso di colpa, la versione sofferta e innocente di quella inconcludenza e insipienza che egli stesso condanna nelle sue versioni colpevoli. Per tutte queste ragioni, egli resta irrimediabilmente segnato e posseduto da una nevrosi ancor più complicata e complessa, nella quale le motivazioni farziliari si intrecciano a quelle della nuova esperienza: con relativi conseguenti disturbi psicosomatici tra l’altro, che lo accompagneranno per tutta la vita. D'altra parte, l’ordine quasi maniacale « nelle sue cose », dagli oggetti personali alla routine militare (123, 132, 161, 170, 195), la precisione che sembra materializzarsi nella sua grafia chiara e regolare e che resterà un tratto costante delle sue abitudini e dei suoi comportamenti (cdu 185), non sono che l’estensione forse in7

consapevole dell'ordine formale impostogli dall’educazione familiare (e sociale e scolastica), praticato ora come

illu-

sorio e debole argine, armatura, difesa da quel devastante disordine interiore ed esterno: quella stessa grafia ne subirà le violentazioni, nelle stesure più martoriate o irrisolte. Certamente più concreto l’equilibrio tra competenza e realizzazione che il futuro ingegner Gadda riesce a raggiungere nel progettare e costruire fortificazioni o baracche « ben fatte » (GGP 78, 196, 246), e più gratifi-

cante il piacere tecnico-professionale di osservare e descrivere quelle austriache, di elaborare strategie e tattiche, eccetera: tutte esperienze, comunque, vulnerabili e circoscritte. Da cui, la concomitante ricerca compensatoria di evasioni o consolazioni o risarcimenti, come l’ambizione di scrivere lettere e diari per la « posterità » (19, 94, 169-70), un progetto di romanzo, le letture (Balzac o Zola, Leopardi o Tolstoj): compensazioni alle quali Gadda dovrà tornare a ricorrere nell’ancor più difficile condizione della prigionia, soprattutto con lo studio del tedesco. Qui l’umiliazione « insostenibile » della cattura dopo Caporetto, e « il dolor bestiale » del « mancare all’azione » (269, 271, 276, 291), esasperano in lui i sensi di colpa e di inutilità. Dal Diario di prigionia che Gadda scrive nella Baracca 15 del lager di Celle nell’Hannover (dove incontra Ugo Betti e Bonaventura Tecchi), affiora anche la paura di essere considerato per sempre un vile, di non poter documentare in alcun modo (neppure con il diario relativo, smarrito) la sua partecipazione di « bravo soldato » alla battaglia (273-4). Mentre la vergogna lo induce a interrompere la corrispondenza con gli amici milanesi e già compagni di corso all’università. Gadda finisce così per sentire la sua intera esperienza di guerra come uno smacco definitivo, come un’occasione di riscatto irrimediabilmente perduta. Il ritorno nel gennaio 1919 a casa, a Milano, e la 8

notizia della morte in guerra del fratello Entico, avranno su di lui l’effetto di un vero e proprio annientamento. Le lettere e il diario lo documentano in modo drammatico. Enrico aveva sempre rappresentato per Carlo Emilio ciò che egli non sapeva né poteva essere: un'immagine di « fervorosa ed elegante adolescenza », di salute e di « voglia di vivere » (LAM 8, 24. GGP 64, 234), di equilibrio appunto tra comprendere, volere e fare. Un modello irraggiungibile eppur presente, oggetto di un ammirato amore che poteva portare Gadda ad augurarsi di morire al suo posto: rendendo così in qualche modo utile la sua « inutile » presenza in vita e in guerra (271, 275). La scomparsa di questo modello è perciò da lui vissuta come la « sua stessa morte » (357), « vuoto assoluto » (LB 33), disperazione estrema, proprio mentre si scontra con il « disordine » più che mai incomprensibile e ingovernabile

della società del dopoguerra, tra imboscati e profittatori, ideali traditi e agitazioni sociali. « Il pensiero della patria si confonde con gli altri dolori » (GGP 377), e il sempre più incontrollabile disordine interiore che ne deriva, fa saltare ormai l'ordine formale del rispetto e dell’obbedienza. Esplodono così i dissensi verso la madre, per « il rifiuto ingiustificato » al matrimonio della figlia Clara, o per la « fottuta casa» che comincia a delinearsi come emblematico motivo di divisione e di privazione: «la Mamma [...] vuol più bene ai muri di Longone, alle seggiole di Milano, che a me, che a Clara malata. » (365, 375) È probabilmente qui, nel quadro di un’esperienza familiare e filiale sentita come fallimentare, che si può rintracciare la prima ragione della gaddiana misoginia e phobie du mariage, come potrebbe confermare nel diario e nelle lettere, il passaggio dagli amori di guerra (la « gentilissima signorina » inaccessibile o le cameriere « condiscendenti »: LAM e GGP passim) alle avversioni degli anni Venti (LB 66-7, 72, 105). Che sarà poi uno dei >)

motivi di fondo della sua furia antinarcisista e antiesibizionista, nei confronti di Napoleone, Foscolo e Mussolini. Va ancora osservato che il ricordo del fratello e della sua morte, momento fondamentale di tutto questo processo, tornerà continuamente nel Gadda futuro, con riferimenti più o meno espliciti, e con una vera e propria ossessione legata alla data di quella stessa morte: il 23 aprile 1918, come si legge anche nella epigrafe dettata da Gadda stesso per la tomba, nel cimitero di Longone. Il « ventitré » diventa infatti per lui un numero portatore di sventura, o comunque carico di significati negativi. Ecco allora, i ventitré anni di occasioni perdute e ideali

falliti, in un

personaggio

in parte

autobiografico

(RIN

116); o i ventitré anni del vertennio fascista (EP 10, 13); o l’odiato Foscolo, « con tutto l’ardore de’ suoi ventitré anni » (cAsP 19); la stessa data del 23 (« Ho avuto la tua lettera da Montana lunedì 24, datata il 20, timbrata in partenza 21. Questi tre numeri sono ‘buoni’, almeno

per me

[...].»:

LGc

127); o altri « ventitré»

apparen-

temente casuali (vm 20). Sono da registrare inoltre il si-

lenzio dore, tema cabala

di Gadda sul numero 23, forse per rispetto o puin una risposta a « Epoca » dell’8 marzo 1952, sul « I numeri e le lettere che preferiscono: quasi una », e il lapsus di una lettera del 1970 alla cugina

Luisa Gadda in Podestà, che data la morte del fratello al « 18 ottobre 1918 » (LGP 211). Cui fa da pendant quello di una lettera del 1931 a Tecchi, datata « 9 ottobre 1915 » (LT 97). Forse con sottintesi in certo senso

rove-

sciati: una possibile rimozione nel primo caso, e il ricordo ossessivo della guerra nel secondo. Appare davvero curioso a questo punto, che Gadda già nel diario, circa due anni prima della morte del fratello Enrico, scriva: « la diffidenza, che è la ventitreesima legge del mio spirito [....]. » (ccP 124) Mera variante?

coincidenza

o successiva,

10

e significativa,

Sempre a proposito della risposta a « Epoca » si può registrare infine, nel quadro generale di quella contrastata e conflittuale tensione di ordize, la predilezione di Gadda per il numero 2, come « araldo della discriminazione o dilemma », « imagine della emulazione e della gara e della concorrenza che ci adduce al perfetto, della botta e risposta che ci costringe a duellare, dei piloni del ponte che ci permetterà di trascorrere verso l’infinito ».

Capitolo secondo *

POVERO

TAURUS

Le lettere si saldano perciò al diario nella ricostruzione di questa prima fase, con una sostanziale continuità e consonanza. E alle lettere si ricorrerà diffusamente per la ricostruzione di tutte le fasi successive, vagliandone fin dove possibile l'attendibilità interiore o assumendole come il suo modo di vivere le varie esperienze della biografia privata e pubblica, della produzione intellettuale @ letteraria. Il Gadda dunque che in tutti questi anni si muove tra le piccole soddisfazioni di una trincea ben costruita e la consolazione solitaria di un libro amato, non sembra avet preso una decisione netta e definitiva sul suo futuro. Ancora nel diario del 1918 egli « percola » tra la matematica che « tanto gli piace » e il lavoro filosofico e letterario,

e appare

comunque

intenzionato

a conseguire

il

« brevetto d’ingegnere » (ccP 287, 303). Eppure, di fatto, la sua scelta è stata compiuta da tempo proprio con il diario, scritto per essere letto, prima o poi. Qui Gadda nasce

narratore

di una

« vicenda

umana » (come

dichia-

retà più tardi: vm 109-10), che è la sua propria e quella degli altri, muovendo al tempo stesso dal « desiderio di conoscere e di approfondire » e dalla sua esperienza di * Bdc VM

La passeggiata autunnale (1918). Come lavoro (1949) e Intervista al microfono

12

(1950).

«umiliato e offeso ». Si può dire che la sua scrittura, fin dall’inizio, è tutta organica, funzionale a quella « vicenda umana »; che è anzi mzateriata di essa. Non a caso, nello scritto del 1923 che rappresenta la prima voce letteraria

della sua bibliografia, recensendo un libro di poesia dell’amico Betti, Gadda ne sottolinea con generosa ammirazione la « dolorante cognizione delle leggi dentro cui si consuma

una cara e rapida fiamma:

la vita! » (LB 139).

La cognizione e il dolore: un’endiadi che già circola più o meno implicitamente nel diario, e che è sottesa a quel ricorrente conflitto tra tensione verso un ordine posseduto, verso una piena consapevolezza conoscitiva, e incontrollato-incontrollabile

disordine

interiore,

rabbiosa

impotenza contro il disordine esterno. Con tutte le implicazioni ideali, culturali, esistenziali della sua fallita esperienza di uomo-figlio e di ufficiale-patriota. Gadda del resto nasce narratore zel diario e dal diario, anche per questo: partendo da questa constatazione di fallimento. Quasi che, considerando ormai irraggiungibile e irrealizzabile il mito (e riscatto) del grande conduttore e organizzatore, egli decida di spostare sul terreno della vocazione « sabotata », del lavoro intellettuale e letterario, quella stessa ricerca di un alto equilibrio tra pensare e fare, tra idealità, competenza, e volontà, decisione, e più precisamente

tra ana-

lisi, progettazione e realizzazione. Il diario 1916 ne fornisce una prova esplicita. Pochi giorni dopo aver dichiarato tristemente la sua « incapacità di comandare e rabbia di non saper decidersi a nulla » nella vita al fronte, viene illuminato e confortato « dalle speranze dell’opera futura »: « Il desiderio e la passione dello studio, dell’analisi e della indagine, della creazione conclusiva, [...] la speranza di racquistare la calma, la felicità (nel senso puramente psicologico della parola, intesa come esuberanza di energia spirituale), la equilibrata norma

del pensiero

e della vita lo.

[...].»

(GGP 206, 218)

Non più, perciò, ricerca di un risarcimento

consolatorio,

ma affermazione di una scelta di fondo, pur nell’indistinzione delle aree disciplinari e professionali. Ha comunque un significato che Gadda affermi questa scelta proprio scrivendo, e che proprio nel violento rifiuto dell’« enfasi » retorico-patriottica, del protagonismo sciocco, delle « ideologie diarroiche e delle speranze asinesche sui miglioramenti di un mondo tisico marcio per forze puramente ideali », delle « chiacchiere » insipienti e inconcludenti (29-30, 118); che proprio in questo rifiuto Gadda anticipi sorprendentemente le future ritornanti li-

nee della sua corrosiva e sarcastica rappresentazione dello scrittore « vate », falso « profeta » e falso « combattente », esibizionista e narcisista (e come

comunato tiranno:

tale, implicitamente

ac-

talora alla figura del « super-maschio » e del EP passi), impegnato

a infiammare

genti e far

sventolar bandiere con la sua « nebuloveggenza verbosa », e a « evadere precisi compiti noètici, o pratici, responsabi-

lità conoscitive definite » nelle sue « accensioni mistiche » (vm 10-7. Cfr. anche 1A 205, 209). Già nel diario del resto, Gadda dichiara di non aspirare al « Gradus in Parnassum » e di non voler essere « mai un poeta laureatus » (ccp 303), completando così il suo implicito (e polemico)

ideale di scrittore. Mentre nei saggi futuri, tanta della sua divertita e divagatoria immaginosità sarà probabilmente dettata anche dall’intenzione di allontanare da sé ogni sospetto di presunzione e seriosità accademica o va-

tesca, oltre che colpirne ancora una volta (più o meno indirettamente) i campioni. Questo atteggiamento complessivo evidenzia poi ulteriormente la specificità del suo atteggiamento politico.

Gadda vive in modo tutto personale l’iter che va dai valori risorgimentali e unitari all’interventismo, dal trauma del reduce nel dopoguerra al nazionalismo, sul filo appunto dell’antiretorica e dell’antiprofetismo, del rigore 14

etico

e tecnico,

dell’ordine

inteso

come

concretezza

di

analisi e di iniziativa efficiente, come responsabilità civile, e così via. Il suo antidemocraticismo è anzitutto rifiuto di ottimismi e speranze illusorie e inattive (e perciò perniciose), e il suo antisocialismo è rifiuto del disordine, di tutto ciò insomma che nega ai suoi occhi quel nucleo di istanze e valori. Il passaggio di Gadda dal partito nazionalista al partito fascista nel ’21, rientra almeno formal-

mente in quell’iter. Gadda scambia cioè il fascismo per l'ordine lungamente cercato, ma la sua decisione appare significativamente povera, se non priva (nelle lettere in cui egli ne riferisce a Betti) delle motivazioni e implicazioni di quel nucleo specifico. Si tratta in realtà di un ordine estrinseco e difensivo rispetto all’incomprensibile disordine esterno: « Assistei allo sbarco di numerosi contingenti fascisti, in ordine e tranquillità perfetta, alla Stazione Centrale. » (LB 77)

In scritti successivi, più meditati e sofferti, questo motivo ritrova la complessità di certe pagine del diario. Nel Cabier d’études (1924-25) Gadda vede nel fascismo « una reazione netta, pratica, umana contro il nodo-

gordiano della balordaggine ideologica accumulata dal secolo 18°. e 19°. » Con esplicito riferimento a « socialismo e cattolicismo (Discordanza pensiero-azione [...]. Frenesia dell’assoluto e incapacità del graduale e del possibile) » (RIN 38), e con relativa polemica contro i rispettivi movimenti politici e con i preti. Ma il protagonista dell’incompiuto Racconto italiano di ignoto del novecento, il fascista Grifonetto, finisce per incarnare proprio l'eccesso (e la tragedia) di un’idea e di una volontà non sorrette da una « visione critica », e compromesse dal « marasma » e dal-

l'« insufficienza dell'ambiente sociale vive abbastanza esplicitamente in una (« anima grande », « persona forte ») denza filosofico-letteraria, il motivo 15

». Dove Gadda rifigura di superuomo di trasparente ascendel suo personale e

complessivo fallimento, la sua incapacità di un vero equilibrio pensiero-azione (« mio annegamento », « aneliti dell’adolescenza »), e ne cerca la giustificazione nella responsabilità e nei limiti della società (15, 95, 112): tutti motivi di fondo del suo diario di guerra e di dopoguerra. Il Giornale rappresenta dunque un’esperienza e un’opera per più versi fondamentale. Affermare che in esso c'è già quasi tutto Gadda, significa esprimere un vero e proprio giudizio critico. C’è infatti la radice del suo dolore e il dolore manifestato, la tensione (e scrittura) cognitiva e la deflagrazione emotiva (e formale), la maturazione contrastata dell’uomo e dello scrittore, gli ideali e valori dichiarati e le impotenze pratiche, una ricerca di equilibrio e di ordize sostanzialmente fallimentare, e così via: una mistione eterogenea e centrifuga che si fa opera compiuta, compatta, assoluta, proprio per un concorso di conflitti e di opposti. Questa paradossale compiutezza si manifesta anche nella estrema varietà e ricchezza (essa stessa anticipatrice) di forme, generi, atteggiamenti: l’invettiva e l’evocazione, la confessione autobiografica e la cronaca obiettiva, la descrizione naturale e il ritratto umano, e la vasta gamma del suo già straordinario erciclopedismo, che lo vede spaziare dalla riflessione etico-politica al disegno tecnico alla citazione letteraria: « Io vedo la divina città [Venezia] esposta alla bassezza del furore nemico come Ruggero vide Angelica bianca e nuda esposta alla fame dell’Orca, mentre il flutto dell’oceano attico le lambiva i piedi marmorei. » (GGP 218) La produzione gaddiana precedente al diario e pubblicata, è assai esigua. Gadda stesso parlerà di « conati giovanili anche poetici » (AAG 1052), rimasti largamente inediti. Ad essi non appartiene Una poesia del 26 febbraio 1915, suo primo testo letterario riconosciuto per averne egli autorizzato la pubblicazione nel 1963, insieme a una diversa stesura di questo stesso anno. È una dichiarata 16

polemica con Whitman e con i « moderni democratici », una parodia degli ideali di fratellanza e ottimistica fiducia nel presente e nell’avvenire, che anticipa la contrapposizione (nel diario) tra le chiacchiere e ideologie improduttive, e la volontà di fare, la capacità di « sintesi della realtà » (UP 7-8). Echi del diario si trovano poi nella sua primissima prova narrativa La passeggiata autunnale, scrit-

ta durante la prigionia e pubblicata sempre nel ’63 (la « vicenda umana » e il paesaggio, l’ordine e il pensiero disgiunto dall’azione: Bdc 110, 114, 116, 189), e in un altro componimento poetico del 1919, Piani di sole e liste, pubblicato nel ’67 (la presenza « umana », la « conoscenza » del « feroce male »: PsL 261-2). Ma La passeggiata autunnale rivela anche, con grande anticipo, il gaddiano gusto del « groviglio », dell’« imbroglio » (il morto, l'indagine, le congetture), di cui il diario aveva offerto soltanto un implicito indizio nel 1915: «il bel tempo tornato, la lettura di un romanzo poliziesco del Romanzo Mensile hanno calmato un po’ il mio spirito. » (GGP 49)

Rispetto al diario comunque, le vere novità e ulteriori anticipazioni sono da cercarsi piuttosto nelle lettere 19151916 (talora anche nelle successive), dalle quali del resto Gadda dichiara di voler trarre « un poemazzo » (LAM 17). La carica iperbolica, irridente, deformante, caricaturale, che nel diario è quasi sempre interna all’indignazione e all'ira, in molte lettere diventa rappresentazione ironica, autoironica, divertita: con giochi e storpiature verbali, onomatopee, nonsense da allitterazioni o associazioni 0 consonanze (talora, probabilmente, di suggestione futurista), e con le prime tracce di sperimentalismo plurilin-

guistico. Oltre a una diffusa presenza di forme dialettali lombarde, romanesche, toscane che è verosimilmente un riflesso del pluridialettalismo militare (insieme al ricordo

della bambinaia grossetana:

rTv 368), si possono infatti 17

trovare accostamenti di linguaggio colto e triviale e dialettale già funzionali alla vivacità del racconto: « come mi disse quel territoriale con la giacca slacciata che con un fustone di cicoria fiorita in mano conduceva al macello un toro paralitico che al vedergli due coglioni grossi come la tua testa e la mia e la lingua fuori allo svolto d’una strada presi uno stremizzio che se l’avesse preso la mia o la tua signora ci avrebbe reso padre all’istante, e lui, cioè il territoriale, mi fè constatare che detto taurus camminava con le gambe rigide al ginocchio ta tic, ta tuc ed era perciò diventato bono come la mollìca: e per questo l’ammazzavano, povero taurus: mentre finché fece disperar la gente e riempirsi le brache ai tenenti degli alpini lo coltivarono come un dio, dandogli a mangiare tutte le primizie per tenergli vìscoro il manganello idraulico. » (LAM

23)

Con tutto questo la scelta di fatto compiuta da Gadda con la sua produzione 1915-19 resta per così dire sotterranea, quasi inconfessata a se stesso, affidata a pagine segrete, a un’incerta

« posterità », e comunque

destinata

a una lunga attesa di pubblicazione: un diario, alcuni scritti letterari inediti, lettere private. Anche dopo, come documentano almeno in parte le autolimitazioni e reti-

cenze nelle lettere all’amico «Betti tra il 1919 e il ’22, Gadda non sembra avere una piena consapevolezza e sicurezza dei suoi interessi, competenze e possibilità letterarie. Proprio in questi anni del resto, superata la fase di più grave prostrazione, riprende lezioni ed esami al Politecnico, si laurea in ingegneria elettrotecnica e lavora

presso alcune ditte italiane: facendo tutto ciò « non senza dolore e malessere » e « per via del manzo a lesso », ma anche con intelligenza, scrupolo, interessamento (LB 31, 37, 45, 55), e quasi cercando in tal modo

di ricomporre

con l’autorganizzazione dello studio e con il concreto esercizio della professione, un pur limitato equilibrio e ordine 18

personale. In questo momento cioè la prospettiva di Gadda potrebbe essere, e in parte sarà, quella di una convivenza più o meno contrastata di attività e discipline diverse: «Io, ingegner fantasia, con penisole e promontorî nelle lettere, scienze, arti, varietà [...].» (48) Una spinta a scelte ulteriori gli verrà, ancora una volta, da una « vicenda umana »: quella vissuta in Argentina tra la fine del 1922 e i primi del ’24, e documentata sempre nelle lettere a Betti. Il suo dichiarato « desicerio di conoscere, di vedere, di studiare, anche un po’ di operare, fra genti diverse », portato lontano dal mondo del disordine e dolore giovanile, oltre che dagli affetti e dalla patria (68, 78, 80), sembra

sottintendere

la pur contrastata

ri-

cerca di un’autonoma e ordinata esperienza personale, professionale ed esistenziale. Quasi una cognizione cercata nel distacco dal dolore. Ma significativamente il viaggio e il soggiorno

argentino, oltre a ricomporre

temporanea-

mente quell’equilibrio tra pensare e fare nell’« ingegnere », stimola la sua « fantasia »: come mostrano le vivaci e acute notazioni su realtà, problemi, figure sociali ed umane, eccetera, che verosimilmente non si esauriscono nelle lettere, se Gadda stesso farà coincidere con questa fase una serie di « note con ritratti di persone » (AAG 1052), riaffioranti del resto in non poche future pagine di suggestione sudamericana. Questa accentuata disposizione a « vedere »,

capire e « scrivere », e il proposito di intraprendere collaborazioni giornalistiche, sottintendono una ulteriore presa di coscienza dei suoi interessi e capacità di scrittore, pur nel quadro di residue irrisolutezze e modestie (LB 80, 93,

95). Non è certo un caso che egli pubblichi proprio ora per la prima volta in un giornale di Buenos Aires un suo scritto letterario, l'ampia recensione al Re Pensieroso di Betti, e che al tempo stesso si firmi « Ing. Carlo Emilio Gadda » (144).

19

Capitolo terzo *

UN CANGURO

NEL GIARDINO

Con il rientro in Italia a Milano, ai primi del 1924, si apre per Gadda un periodo cruciale e decisivo. Dopo una breve interruzione egli riprende il lavoro di ingegnere dal 1925 al ’31 presso la Società Ammonia Casale a Roma, con trasferte in Germania, Francia e Belgio (per « inondare l'Europa di ammoniaca »: LGC 14), e con un lungo soggiorno a Milano tra il 1928 e il ’29 « in causa di un guasto allo stomaco » (LB 123), dovuto anche a « manifestazioni di depressione nervosa » (LAc 24). Ma l’insofferenza viene sempre più maturando, pur tra continue indecisioni, ripensamenti, rinvii. Le lettere a Betti, Tecchi

e Carocci ne recano tracce crescenti, soprattutto a partire dal 1926, anno d’inizio della collaborazione a « Solaria »: il desiderio di liberarsi dalla « schiavitù ingegneresca » diventa un vero e proprio leitmotiv (LT 49. LB 111. LS 149). Si moltiplicano

STO

vm

contemporaneamente

le ricerche

di

Apologia manzoniana (in « Solaria », gennaio 1927), Postille a una analisi stilistica (in « Letteratura», aprile giugno 1937), Il latino nel sangue (in «L’Illustrazione italiana », maggio 1959), e La battaglia dei topi e delle rane (ivi, novembre 1959). Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche (1929), Meditazione breve circa il dire e il fare (1936), Lingua letteraria e lingua dell’uso (1942), Come lavoro (1949) e Intervista al microfono (1950).

20

una professione più vicina o meno lontana dai suoi interessi letterari e filosofici. Le lezioni di matematica e fisica (private e al liceo Parini) nel 1924-25, e il reiterato proposito di laurearsi in filosofia (iscritto fin dal 1922, riprende gli studi nel ’24), sottintendono forse l’intenzione di darsi all'insegnamento. Nella laurea, poi, Gadda vede un titolo utile per ottenere altri impieghi: le trattative per un posto al Vieusseux o alla biblioteca dell’Università di Firenze, vanno avanti dal 1926 al ’29 (LT 41-2, 55-6, 69, 75-7). Mentre, almeno a partire dal ’28, inizia la ricerca

di collaborazioni

giornali

con

e riviste

(LB

121).

Del resto, già da questi essenziali accenni a una sua confusa

ma

insistente

ricognizione,

traspare

una

sempre

più intensa attività di studio, frequentazione intellettuale e personale produzione. Oltre a impegnarsi fino al 1930 negli esami di filosofia e nella tesi su Leibniz (LT 74), Gadda si emancipa per così dite dall’amicizia quasi esclusiva e incondizionata per Betti, e attraverso Tecchi e Carocci sviluppa rapporti con l’ambiente solariano: Bonsanti, Montale, Franchi, Loria e altri. E appunto con la collaborazione a « Solaria » ha inizio la prima vera stagione produttiva dichiarata di Gadda: quella cioè che coinciderà per molti anni con la sua bibliografia. Escono così, dal ’26, quattro Studi imperfetti, Apologia manzoniana, I viaggi, la morte,

Teatro, Cinema,

La Madonna

dei filosofi: cui si aggiungono altri scritti in questa e altre sedi. Mentre dal ’28 inizia la costruzione della sua opera prima, che comprenderà molti di questi scritti, intitolandosi all’ultimo. i D’altra parte, come già nel recente passato, c’è anche e più ancora in questa fase una produzione gaddiana sommersa, che resterà a lungo inedita e che ha i suoi esempi più cospicui nel Cabier d’études 1924-25 (nato dall’intenzione di partecipare a un concorso Mondadori per romanzo inedito, e comprendente in realtà brani dell’incompiuto 21

Racconto italiano di ignoto del novecento, insieme a note e appunti relativi ad esso) e nella Meditazione milanese (1928), approdo della sua esperienza scientifico-filosofica. Le due edizioni postume, e lo studio di Gian Carlo Roscioni che precederà la seconda (La disarmonia prestabilita), illumineranno appunto in diverso modo un ulteriore e aggrovigliato sorzzzerso, per il quale si rimanda fin d’ora alle cure e allo studio relativi. Matura perciò in Gadda un sempre più consapevole e sicuro orientamento verso una attività e produzione intellettuale e letteraria, decisamente alternativa a quella di ingegnere. Egli si pone anche, fin dal ’24, problemi di strategia personale, che riguardano la conquista del lettore (RIN 91, 106-8), e l'affermazione del suo lavoro letterario e della sua imzzzagine: « devo cercare, se voglio dedicarmi ai nostri studî preferiti, di farmi un po’ conoscere. Questo non si può ottenere che per gradi. C'è una carriera, una routine anche in ciò. » (LT 46) Il contraddittorio processo

decisionale si conclude nel 1931, con la significativa coincidenza di tre avvenimenti: le dimissioni dall’Ammonia Casale, con la motivazione ufficiale di gravi problemi familiari e di una personale stanchezza (LAc 47-54), che convergono peraltro con quella insofferenza verso la professione; la pubblicazione addì 14 aprile 1931 della Madonna dei filosofi nelle edizioni di Solaria, preceduta da una puntigliosa cura della veste editoriale e dal pagamento delle spese di stampa, e seguita da un’intensa attività promozionale presso possibili recensori, da parte dello stesso autore (come documentano le lettere a Tecchi e a Carocci);

e l’inizio di una collaborazione abbastanza continuativa (e finalmente pagata, sia pur « pochissimo ») all’« Ambrosiano », grazie anche all’interessamento concentrico di Tecchi, Bacchelli, Linati, del redattore capo Scarpa e del cugino Gadda Conti (L6c 16. LT 96).

« Adesso mi devo mettere seriamente a lavorare: Am22

brosiano e mio lavoro letterario », scrive nel novembre 1931, allo stesso Tecchi, e lo invita ad andarlo a trovare nella sua nuova casa milanese di Via Monte Leone 2, « poiché non ha più ramificazioni in Via San Simpliciano »,

dove aveva abitato a lungo con la madre e la sorella (99). È questo un distacco che, anche se non definitivo, completa idealmente l’intero processo. Si ripropone in certo senso quella ricerca di un’esperienza personale autonoma che già Gadda aveva vissuto con il soggiorno argentino, e che ora entra a far parte del suo nuovo programma di vita e di lavoro. La scelta è perciò compiuta e completa, anche se Gadda avrà per l’ingegneria « ritorni di fiamma necessitante nel 1932, 1936-37 » (AAG 1053) e anche dopo, come risulta dal carteggio Gadda-Ammonia Casale, collaborando con questa stessa società e lavorando nei servizi tecnici della Città del Vaticano. Tutta la fase che va dal rientro in Italia al ’31, è attraversata da un rapporto molto stretto e intenso con Tecchi, sentito come l’amico fotte e protettivo fin dai giorni della prigionia (gli sarà dedicato il Giornale) e al di là di quella stessa esperienza; l’amico che capisce la sua nevrosi e che lo sostiene nella continua difficile riconquista di quell’equilibrio tra pensare e fare, proprio in una fase di così tormentato trapasso. Nelle sue parole Gadda trova sempre «un ricostituente morale [...], un ipofosfito, uno stricno ». Non c’è praticamente problema di questi anni su cui Tecchi non gli fornisca consiglio, incoraggiamento, aiuto: fino al suggerimento di pubblicare il suo primo libro e a un « generoso intervento » per le spese dell’edizione. (GGP 300. LT 52, 62, 78) Il carteggio e l’amicizia del resto, continueranno anche in seguito. Ma il travaglio che ritarda continuamente la sua scelta alternativa, con una tesi di laurea non finita e con un atteggiamento elusivo nelle trattative di lavoro, nonostante l’attrazione di Firenze, non ha soltanto la sua spiegazione 25

in oggettive difficoltà e soggettive paure, o nell’attaccamento ai valori lombardi delle « buone scarpe » e della « vita utile » rispetto alla « soffitta » e alle « farfalle » letterarie (LB 116-7. LT 55-7. AAG 1052). Più precisamente, queste ragioni ne sottintendono altre. Come già in pas-

sato, Gadda vive nella professione di ingegnere anche una personale possibilità di equilibrio e ordize, limitato e vulnerabile ma non illusorio, che un lavoro più discontinuo e dispersivo può mettere irrimediabilmente in crisi (le sue lettere all’Ammonia Casale riflettono infatti puntiglioso impegno, minuzioso scrupolo ed estremo rigore), e vive in essa una possibilità altresì di cognizione e di stimolo per la sua attività letteraria; mentre non altrettanto efficace e proficuo in tal senso, forse, appare a Gadda un impiego statale di comodo. L’esperienza ingegneresca in sostanza, ha avuto e avrà sempre qualche rapporto non superficiale con la poetica della « vicenda umana ». Gadda stesso, tra ironia e autoironia, attribuisce l’originalità delle sue prime prove a questo: « posso portare qualche cosa della mentalità zotica del mestiere nella regione degli specialisti e dei raffinati: ne verrà un pasticcio curioso. Come soggetto strano, come giraffa o canguro del vostro bel giardino: ecco quel che posso valere. » (LT 43-4). Quell’esperienza poi, non è del tutto estranea neppure alla singolare e anomala formazione di Gadda (« soggetto strano » vuol dite anche questo), in tempi di rondismo, umanesimo tradizionale e idealismo dominanti. Interessi letterari prevalenti nell’adolescenza (classici latini, Omero, Dante,

Ariosto),

ma

interessi

« logico-matematici » dopo

il liceo (« Einstein, la teoria della relatività, più tardi la teoria dei ‘quanti’, De Broglie »); in seguito Spinoza,

Leibniz, Kant, e in generale gli « storici letterati » Guicciardini e Machiavelli, o gli storici dell’Otto-Novecento francese e inglese (1A 195-7. Cfr. anche GGP 287). Legato

poi al primo incontro con la teoria dell'evoluzione il gio24

vanile distacco dal cattolicesimo, per una

« religiosità »

confusamente identificata con la scienza (IpM 13). Gadda dichiara anche suoi contatti con la psichiatria, psicologia e psicoanalisi, dai « precursori » a Freud, già dal 1926, con approfondimenti negli anni Trenta (MM 193, 211, 265. IA 195-6); e la sua testimonianza è significativa an-

che al di là di qualche forzatura delle date, su cui si tornerà. Egli sente inoltre come sostanzialmente complementari i suoi interessi « logico-matematici » e « logicoteoretici », la filosofia e la letteratura (ro 103-4) e la

psicoanalisi stessa, con una tensione sperimentale cognitiva della propria e altrui « vicenda umana »: che è poi anche il senso profondo del suo riaffermato erciclopedismo. Uno sperimentalismo dunque, che vuole fondarsi su una concretezza,

funzionalità,

rigore,

razionalità,

capacità

anali-

tica, in qualche modo scientifica, e che si ricollega perciò alla gaddiana istanza di antiretorica e antiprofetismo (in un saggio del ‘36 Gadda parlerà della « ricerca ‘ scientistica’ » come feconda « empiria »: vM 36-7). Tutto questo spiega poi quale sia la discriminante fondamentale di altre sue scelte giovanili, rievocate più tardi: « Il Carducci, prosatore e poeta, è stata la mia let-

tura per molti anni dell’adolescenza, dopo prima del D’Annunzio. I tre nomi stanno tre schegge d’una bomba, lo so: e tuttavia rono così. » (112) Fin dal diario Gadda

il Manzoni e fra loro come le cose andamanifesta pet

Manzoni un’ammirazione e simpatia che diventa momento

più-o meno esplicito della sua polemica contro l’enfasi retorica e le « ciarle » inconcludenti dell'ambiente militare: in lui vede infatti un « insigne maestro e profondo esemplificatore » di « sapienza » e di « metodo dell’analisi », un patrimonio di insegnamenti pratici ed etici nel presente (ccp 29-30). In seguito, nell’Apologia manzoniana (la cui prima

stesura

risale al ’24), Gadda

esalterà

tra

l’altro il linguaggio vivo, parlato, comunicativo dei Pro25

messi sposi, nel segno appunto della concretezza, funzionalità, necessità (To 20-1, 29).

La stessa ragione che contribuirà a fargli conservare amorosamente e a lungo dentro di sé la « scheggia » manzoniana, contribuirà a fargli abbandonare (almeno dichiaratamente) le altre due, come mostreranno anche scritti successivi. Carducci e D'Annunzio verranno infatti in diverso modo coinvolti nella polemica verso la « purezza e lindura faraonizzata » della « presunta monolingua », al tempo stesso pomposa, declamatoria, « burbanzosa », € arbitraria, iniziatica, « imprecisa, titubante, vagellante nello sfumato d’una indeterminatezza che vorrebbe alonarsi di vaghi sensi poetici »: con feroci sarcasmi sul secondo, vate « esibitivo » e falso combattente (LT 41. LGc 43. TO 62-79. Cattaneo GL 45-6. IA 206-10). Questi motivi tor-

neranno

anche

insieme

all’elogio

e valorizzazione,

pet

contro, dei « contributi espressivi delle tecniche », con la

loro cura e nitidezza, « diligente e felice esattezza », e della efficacia, « vis rappresentativa », « vivezza e urgenza espressiva » dei dialetti e dei loro parlanti popolati (e dei loro poeti, naturalmente: Porta e soprattutto Belli); elogio che si viene e verrà concretizzando anche in una personale e consapevole disponibilità nei confronti dei dialetti e gerghi delle sue città: Milano, Firenze, Roma (vm 80-5. TO 64-9. Cattaneo GL 45). La significativa compresenza inoltre, di una dichiarata simpatia per «il forzato plurilinguismo dei viventi operosi e operanti i loro traffici », e della implicita teorizzazione di un plurilinguismo eruditissimo quanto funzionale, nel saggio sul latino, « lingua razionale », « logica », di grande « chiarezza formale », completerà idealmente tutto il discorso (10 50, 53-5, 60).

Già nel saggio sulle tecniche del ’29, del resto, Gadda delinea una tipologia, volutamente e paradossalmente estesa, dei parlanti « elaboratori » di quel « materiale espressivo » che uno

scrittore non 26

può ignorare:

« agti-

coltori, avvocati, operai, preti, ingegneri, ladri, puttane, maestri, nottambuli, monache, bancarottieri, marinai, madri, ex-amanti, marchese, politicanti, vecchi danarosi, fattucchiere, malati, notai, soldati. Tutti, tutti; [...] ciascuno nell’ambito suo e nella sua espressione potente, [...] per-

ché vincolato a un riferimento pragmatico [...]. » (vm 82) Naturalmente,

dirà

in

seguito

Gadda,

come

non

può

prescindere « l’artefice dalla materia » fornitagli « vividamente, stupendamente » dai parlanti popolari, così egli deve essere ben consapevole della complessità del processo di formazione della lingua nell’« universa vita della società », e della necessità di « una disciplina allungata e pertinace », di perfezionamenti e studi da parte sua (93-6).

Sono comunque e soltanto, questi, alcuni momenti di un discorso pressoché ininterrotto in Gadda, come via via si vedrà. Ma gli anni Venti, oltre a far maturare scelte di professione, di poetica e di vita, segnano il passaggio dalla precaria parentesi del compromesso di transizione e dell'equilibrio circoscritto, alla vera e propria ricerca (preannunciata nel diario) di un più alto equilibrio dentro la stessa produzione intellettuale e letteraria. Già la storia esterna degli esordi ufficiali evidenzia peraltro un travaglio irrisolto. Dalle lettere a Tecchi e dall’edizione postuma del Cabier d’études (che fa luce anche sulla parte inedita dei più o meno relativi quaderni), emerge una complicata massa di « membra disiecta » (LT 48), con diversi succes-

sivi sviluppi e destini (almeno fino all’Adalgisa, edita nel °44), tra frammenti pubblicati o tuttora inediti; ed emerge altresì la lunga laboriosa costruzione dell’opera prima, tra ripensamenti e rinvii. Cui si intrecciano l'aspirazione irregolare di Gadda al sistema filosofico con la Meditazione milanese e i tentativi falliti di romanzo. Viene prefigurato così quel conflitto tra tensione di 2

ordine, compiutezza, progetto, e difficoltà a chiudere, concludere, definire, che darà vita tra l’altro a una vera e

propria selva bibliografica di pubblicazioni sparse in una miriade di sedi o soltanto annunciate, con combinazioni, trasferimenti e destinazioni svariate (una preziosa mappa di orientamento è fornita da Dante Isella nel Saggio già citato). Sono queste le linee esterne, appunto, di un conflitto che segna e segnerà sempre più in profondo l’esperienza di Gadda, continuando un processo ben noto. Ora anzi egli evidenzia nella sua produzione narrativa un motivo che invita a una riconsiderazione e integrazione di quel processo, laddove parla (proprio nel ’31) della « sua solita velenosità anti-borghese » (89). Il « disordine » e l’« imbecillità » universale con cui Gadda si scontra, tra guerra e dopoguerra, hanno infatti per lui anche il significato di un tralignamento o degenerazione di quei valori borghesi di ordine, efficienza, operosità, rigore etico e tecnico in cui si risolvono gli stessi valori della famiglia, patria, consorzio sociale; e che sono per lui, nonostante tutto, i valori (gli spunti antiborghesi di matrice fascista, pur evidenziati dal Cahier, sono in questo senso secondari: del resto Gadda non collaborerà al « Bargello »). La presa di coscienza della propria impotenza e vulnerabilità verso questo universo disordizato suscita in Gadda odio, ma anche paura, come prova il suo atteggiamento doppio, di attacco e di difesa, nel comune segno di un crescente isolamento misantropico. Ne scaturisce prima un furore segreto, chiuso nel diario «come in una tomba » (GGP 236), che si avventa contro il mondo dei generali e dei ministri; e dopo, un furore affidato alle sue pagine narrative, che dai piccoli protagonisti di quella involuzione e tralignamento, si estenderà progressivamente ai miti, simboli, riti, istituzioni, linguaggi, di quella stessa tradizione borghese fino a investire quegli stessi valori, ormai rifiutati essi stessi come svuotati e 28

inattivi, tra risentimento e nostalgia. Ma in entrambi i casi, quel furore è e sarà accompagnato da un comportamento opposto, nei rapporti interpersonali e pubblici: uno schermo di « gentilezza » quasi eccessiva, insistita, dichiarata, di ossessiva ossequiosità, di ampolloso rispetto, pet difesa e paura appunto. Il diario, le lettere e le testimonianze di questi primi decenni, ne forniscono esempi numerosi ed emblematici di tutto un comportamento futuro: dalla incapacità di comando nei rapporti gerarchicomilitari (« troppo gentile »: ivi) alle esagerate e spesso immotivate cortesie, giustificazioni, alibi, scrupoli, scuse, nei rapporti di lavoro (LGc 13, 16). Con ulteriori preoccupazioni nel dedicare «a una signora » e nell’affidare alle lettrici un’opera, La Madonna dei filosofi, dove « sono espressioni talora un po’ scabrose » (LS 298, 302).

Questa alternanza di « gentilezza » esterna e di interno furore si sviluppa e svilupperà in un circolo vizioso, alimentato anche dalla accettazione subìta o inconsapevole o tattica di un originario condizionamento educativo e dal titornante ricordo delle frustrazioni personali e sociali patite tra infanzia e giovinezza:

con una conseguente rin-

novata rabbia di rivalsa. D’altra parte, la ricorrente preoccupazione per possibili reazioni dei suoi bersagli letterari, e la convivenza nel suo stesso comportamento pratico ed esterno; di rabbia e timore, aggressività e timidezza, complesso di superiorità e inferiorità (e persecuzione), ombrosità e cerimoniosità, scontrosità e reverenza, già evidente in queste prime fasi (ccp 182, 192, 206, 337-8. LS#60-kL6c86, 13,16. Lt L14)} non è-e-non-sarà'che

la proiezione di quella più profonda doppiezza di attacco e difesa verso il mondo esterno. Gadda soffrirà sempre di questa condizione doppia, tanto da volersi « identificare » con Don Abbondio e con la sua paura ragionata e coerente (IA 200.1).

La riconsiderazione del processo trova al tempo stesso 29

la sua prima ragione e il suo fondamentale completamento nel tortuoso rapporto di odioamore per la madre, nell’infelicità giovanile come ritornante eterna ferita, nel disordine interiore della nevrosi (e in un’esperienza psicoanalitica cognitiva e dolorosa), che viene e verrà complicando e approfondendo quella doppiezza di ossequio formale e rabbia antiborghese, fino a rimescolare tutte le carte. Negli anni degli esordi ufficiali il motivo si manifesta biograficamente con particolare acutezza, in un’alternanza tra forte attaccamento e distacco (anche fisico) dalla famiglia e dal

suo « inferno », tra rispetto e dissacrazione dei suoi valori (im 52 62773, 998302)

045; 815 8749099:

109

LACRATED

NS

Tutto questo processo può spiegare dunque non

sol-

tanto perché Gadda non supererà mai quella impotenza e vulnerabilità nei rapporti pratici, ma soprattutto perché non riuscirà mai a realizzare pienamente nella sua produzione letteraria quell’ideale di alto equilibrio tra tensione conoscitiva e ordine posseduto, tra analisi, progettazione e opera, inteso anche come coerente operatività intellettuale e realizzazione di sé: quell’ideale che, dopo le sue sconfitte di figlio e soldato, egli persegue come scrittore (« Non sono, non riesco ad essere [...] uno scrit-

tore ‘ equilibrato ’ [...]. »: vm 23). Il suo intero curriculum sarà segnato e condizionato da quel ritornante furore (e dolore), e da quel desiderio di personale rivalsa dalle frustrazioni di un’educazione e tradizione borghese fallita che ha pur convissuto a tratti con quell’ideale; e la letteratura tenderà a diventare «lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta » (110). In generale poi la « vicenda umana », momento fondamentale e fecondo della sua produzione > ne sarà anche momento di contraddizione e conflitto. In questo viluppo di sconfitte e rivalse, che può arri30

vare fino al furore totale portato quasi al di là degli stessi dichiarati obiettivi, si può rintracciare la radice prima della deformazione gaddiana, come mezzo e forma di rapporto con la realtà o addirittura come intrinseca specificità di essa (« Il grottesco [...] non si annida nella pravità macchinante del fegato dell’autore [...], semmai nel fegato macchinatore della universa realtà. »: cdp 32-3). Una deformazione che esercitandosi attraverso o sopra i vari livelli e forme del suo sperimentalismo plurilinguistico, può andare

dal sottile gioco

(o liberata

comicità)

come schermo e linimento del dolore alla distaccata ironia in funzione critico-conoscitiva, dall’autocontemplazione divertita o sconsolata come maturazione di consapevolezza al disperato e vendicativo accanimento sarcastico, e così via in una vastissima gamma. La stessa scrittura perciò, conferma la sua profonda radice « umana ». Già in una lettera del ’26 del resto, nel teorizzare la sua propensione ad accogliere le espressioni di quella vasta tipologia di parlanti, « oltre che quello che il cervello suggerisce bizzarramente per le sue nascoste vie », Gadda si chiede: « Altrimenti che cosa se ne fa di tutta la vita? » (LT 47)

Il discorso narrativo che deriverà da tutto questo si risolverà, o in forme diverse e diversamente motivate di evidente incompiutezza, o in una singolare e paradossale unità fondata sul concorso dei conflitti e degli opposti;

e comunque in uno sperimentalismo che troverà la sua originalità e fecondità proprio nella convergenza-contrasto tra quell’istanza di funzionalità, chiarezza, quell’attenzione alla vivezza dei linguaggi radicati in concrete esperienze, e il dolore, la vendetta, l’ossessione nevrotico-esistenziale, e perciò in definitiva anche tra la mimesi e la deformazione.

Capitolo quarto *

LO SPLENDORE

DI ZORAIDE

Le prime prove narrative segnano una fase molto preliminare di tutto il processo descritto. In particolare, gli scritti inediti di questi anni sono altrettanti falliti tentativi di romanzo o di novelle romanzesche (e quindi anche di conquista del vasto pubblico: Ns 163): recando talora nella loro stesura o nel titolo stesso (Novella seconda) tracce delle tormentate gestazioni e progettazioni gaddiane.

Ma questa loro incompiutezza, pur lontana dalla ricchezza e originalità delle incompiutezze future, ne anticipa una difficoltà di fondo. Quasi che Gadda, nell’affrontare alcuni motivi dolorosi e segreti della sua esperienza autobiografica, non riesca ancora a risolverli in una narrazione da lui accettata e in certo senso anche a renderli pubblici. Nella progettazione e stesura del Racconto italiano di ignoto del novecento (1924-25) anzitutto, il programmatico recupero del grande romanzo ottocentesco (nomi ricorrenti sono infatti quelli di Manzoni, Stendhal, Balzac, Zola, Dostoevskij) e di « una rappresentazione un po’ compiuta della società » italiana del dopoguerra, si scontra direttamente e rovinosamente con l’urgenza di un « materiale vissuto » in cui fermentano i passati fallimenti

* VM

I viaggi, la morte (1927), Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche (1929), Arte del Belli (1945) e Come lavoro (1949).

32

e sconfitte: « recare a salvamento questi disperati commentarii della tragica, terribile vita. » (RIN 9) Riproponendo un motivo di fondo della crisi novecentesca allora,

« il caos del romanzo », lungi dall’essere la controllata « emanazione » di quella società, si rivela come la proiezione incontrollabile di un caos interiore; e « l’intreccio » della « vita » risulta in definitiva troppo « ingarbugliato » per poter trovare espressione compiuta nell’« ‘ intreccio ’ dei vecchi romanzi ». Tutto il Cahier vive in sostanza di un acuto e irrisolto conflitto tra « programma prefisso » e « discontinuità », disordine. (13, 15, 35, 39, 86-7) Ne deriva un coacervo narrativo-diaristico generante molteplici nuclei, abbozzi, lacerti. Una incompiutezza per così dire più definita e ordinata, rispetto al ribollente laboratorio del Cabier, caratterizza La Meccanica, Novella seconda e Notte di luna: nelle prime due, e nella prima soprattutto, per una maggiore capacità di interazione tra romanzesco e vissuto; nell’altra invece, per una sostanziale esclusione o esteriorizzazione dell’esperienza autobiografica e per la prevalenza di un impianto riduttivamente neoverista. Tutti testi scritti tra il 1924 e il ’30, rintracciabili in parte o in embrione nella intricata ragnatela dei progetti, rielaborazioni e bibliografie gaddiani, e pubblicati in due libri autonomi molto più tardi, insieme a un testo di poco posteriore e a sé stante, La casa: una sorta di rassegna di variazioni paradossali e iperboliche sull’ingegneria moderna e sull’architettura « razionalista », che tende a esaurirsi nel pezzo di bravura, nell’esercitazione a freddo, non del tutto estranea peraltro alla preparazione di pagine future sul motivo della casa e della villa appunto. Più interessante dunque La Meccanica, che riprende spunti già incontrati ma soprattutto ne anticipa di nuovi, trovando comunque il suo limite nella giustapposizione irrisolta di diversi livelli di scrittura, situazioni narrative, 33

divagazioni storiche, isolate impuntature. È una storia milanese di « pasticci » e « garbugli » (M 12) popolari e borghesi, tra amori e piccola criminalità, emancipazioni difficili e consolidate fortune, sullo sfondo della guerra: case di ringhiera e studi notarili, operai e studenti, industriali e serve. Verso il mondo popolare Gadda manifesta qui due atteggiamenti apparentemente contraddittori. Anzitutto, la dichiarata « umana simpatia per l’Umanitaria » (LGc 12) come emblema di una fase storica dello sviluppo di Milano e come luogo di « immediata attività pratica [...] nella fiera delle speranze, de’ sogni e delle parole », si estende al personaggio di Luigi Pessina, che ne è l’umile e appassionato eroe: artigiano autodidatta, socialista istruito e retto, e soprattutto nuova incarnazione del vagheggiato equilibrio tra « idee » e « opere » (M 34, 47, 57), che evidentemente per Gadda può anche arrivare a trascendere ogni divisione politica. Ma questa simpatia per un mondo popolare primonovecentesco viene meno con l’avvento della guerra: da un lato Gadda incarica un altro personaggio di quel mondo, vistosamente repulsivo e opportunista, di predicare contro la « maledetta guerra dei signori », dall’altro riprende con virgolettature o allusioni polemiche gli slogan della propaganda socialista antinterventista (18, 23-4, 79-84).

Le pagine che anticipano invece qualcosa del miglio Gadda sono quelle in cui un atteggiamento di ironia divertita e pensosa si concretizza già in strutture narrative e personaggi definiti, secondo due procedimenti: l’introduzione di commenti impliciti e di riferimenti letterari, che rovesciano efficacemente situazioni volutamente tradizionali (« Da quello specchio [...] l’immagine femminea di Zoraide risfolgorava per meravigliosi romanzi: un dannunziano in ritardo ne avrebbe cavato seduta stante uno sproloquio di capolavoro.» 9. Cfr. anche 8-11); e una spe34

rimentazione

che porta nel linguaggio letterario-colto la

contaminazione dialettale (lombardo-veneto), l’onomatopea,

il parlato, la terminologia medica o tecnico-militare, l’elencazione onnicomprensiva,

eccetera

(19 sgg., 51, 90, 138).

Le pagine sulla bella popolana Zoraide e sul suo amore per il giovane borghese Paolo Velaschi sembrano recare, pur sempre dietro un velo di ironia, tracce sensibili e natrativamente risolte, del gaddiano « materiale vissuto » (tracce altresì più significative che nelle pagine frammentarie del Cahier, dalle quali pur traspariva il contraddittorio atteggiamento di Gadda nei confronti della donna). Torna qui in particolare il problema della misoginia e della phobie du mariage gaddiana, documentato almeno dagli anni Venti (LB 66-7, 72. 105. LGc 13) e decisamente prioritario rispetto alla sua supposta omosessualità. AI fondo della fallita esperienza autobiografica, familiare e filiale, sembra esserci soprattutto la variante di una situazione classica: la madre odiosamata come emblema di severità e dovere (l’educazione cattolico-borghese)

e al tempo stesso di femminilità e amore. Il blocco sessualeaffettivo verso le altre donne perciò, si intreccia (e com-

plica) con un blocco per così dire moralistico-classista; da cui una impossibilità di rapporti veramente impegnativi (di classe e di amore) prima, e di rapporti tout court dopo. Se ne può verificare l’avvio nel passaggio appunto dalla fase giovanile delle esperienze sessuali fugaci e ancillari (già segnata peraltro da una inaccessibile signorina di buona famiglia), consumate nell’emergenza ed eccezionalità della guerra e fuori dal contesto sociale-istituzionale e familiare-materno,

alla fase che vede Gadda entrare

o

rientrare nel mondo delle responsabilità adulte e filiali, e dei codici tradizionali di comportamento. Più tardi del resto, tra gli ostacoli che dividono dalla donna, porrà « la severità del caso e del costume » (vm 19). Zoraide potrebbe rappresentare allora Ja mitizzazione 35

di una compiuta e desiderabile femminilità, come risarcimento letterario di quel blocco, come « riscatto » da quell'impotenza: esercitato ancora attraverso un personaggio popolare, non soltanto come espediente per accentuarne i tesori naturali (Mm 10-2), ma soprattutto come transizione

necessaria (e confortata da una diretta seppur passata esperienza) a più ardui e ancora lontani obiettivi borghesi: via via fino alla Liliana Balducci del Pasticciaccio. Transizione ritornante in Gadda, come motivo dominante rispetto agli spunti ammirativi per le signore di buona

famiglia (ampiamente contraddetti peraltro da accanite deformazioni spesso contestuali) o alle divagazioni astrattamente figurative sulla bellezza muliebre in generale. L’unica eccezione

in questo

senso

sarà, almeno

in parte,

donna Elsa Caviggioni nell’Adalgisa (1944). Cade qui opportuna una breve riflessione sulla supposta omosessualità di Gadda, leitmotiv di una vasta aneddotica parlata e, in modo implicito o allusivo, anche scritta. Ora, se la sua complessa misoginia è largamente documentabile, e rappresenta un motivo problematico tutto interno alla sua biografia e alla sua opera, non altrettanto si può dire della sua omosessualità, della quale anzi non si trova praticamente traccia: e questo rappresenta già di per sé un argomento piuttosto consistente per avanzare forti riserve. Nessuno scrittore omosessuale del Novecento, si può dire, ha mantenuto un tale silenzio

in proposito, né Gadda ne avrebbe taciuto, con quella furia di autoconfessione che esplode in tante sue pagine. Quell’aneddotica e convinzione piuttosto diffusa è stata certamente favorita da un tortuoso sentimento di odioamore pet la madre e di odio per il padre, che della omosessualità può essere la premessa, e da una misoginia sempre più accentuata che può aver attirato appunto sulla sua vita privata sospetti ai quali in certi casi Gadda ha forse inteso rispondere indirettamente. Senza contate poi 36

una possibile simpatia da parte sua, verso gli omosessuali come diversi. Un nesso di problemi, sul quale comunque si tornerà.

Nella Meccanica dunque, lo splendore e la sensualità del corpo di Zoraide si vengono caricando di una sottile, intensa problematicità: la « doverosa » fedeltà al marito Luigi e l'attrazione non resistita verso Paolo Velaschi, vissuta anche come desiderio di evasione da una condizione povera e tetta in un mondo di giovani « pettinati » e di « case termosifonate » (34-9, 46, 91). Mondo di cui Paolo, con la sua gioia di vivere, forza e bellezza e « passione della meccanica », è dirompente espressione (101 sgg.), con sottintesi ricordi forse del fratello Enrico, e con ulteriori implicazioni autobiografiche: la madre di Paolo, infatti, « che ne è innamorata, lo sognava ingegnere », ma lui di studi non vuol saperne (123-4). Da questi due personaggi e dal loro rappotto in sostanza, sembrano trasparire molti dei doveri subìti, desideri bloccati, sogni frustrati, modelli irraggiungibili, impossibili trasgressioni, privazioni dolorose (tra infanzia e giovinezza e oltre) dello scrittore stesso, che vela e al tempo stesso disvela questa sua consapevolezza proprio attraverso quegli scarti di pensosa ironia. Un’altrta spia autobiografica significativa potrebbe essere un ricordo di Paolo, che è poi anche un ricordo dichiarato di Carlo Emilio (LB 71-3): « E sulle rupi dei Corni di Canzo, in discesa, il biancore delle mutande. Da sotto in su, mentre porgeva alla bella una mano, ecco la dolce lattuga del ’15, ecco l'elastico: e una banda deliziosa d’una deliziosa stoffa, che non era più tela, e non ancor calza. » (M 108) Allora il risentito sarcasmo verso una certa borghesia, con il suo birignao sussiegoso, la sua retorica della stupidità e del luogo comune, la sua taccagneria e pseudocultura, il suo pacifismo ipocrita, al di là della nota polemica contro imboscati e opportunisti (LGc 12. M 116-8, 136-7), 37

sembra anche volet colpire un mondo che al tempo stesso è portatore e traditore della tradizione da Gadda dolorosamente scontata: più precisamente, portatore di valori formali e traditore dei valori reali di essa. Un altro risvolto insomma, di quella personale « vendetta » contro il passato e presente delle sue frustrazioni e sconfitte, inibizioni e instabilità, privazioni e nevrosi. In questo senso, anche la nota che Gadda premette alla pubblicazione di alcuni frammenti della Meccanica in « Solaria » (1932), va molto

al di là del pur esplicito motivo degli imboscati borghesi, nel quadro di quelle sue amarezze e ire per tutti i responsabili del « ‘male’ che precedette l’intervento e stagnò sulla guerra »: « Non è nel mio modo la denuncia diretta del mio dolore. Talvolta esso va travestito di scherno [...].» (NM 16) Dove c’è anche un’allusione al segreto e gridato dolore del diario. Novella seconda, anche se ripropone certi motivi tematici e procedimenti espressivi della Meccanica, rivela maggiori difficoltà e incertezze di realizzazione, documentate altresì dalle note, e una scrittura complessivamente meno

risolta. Ne sono un segno vistoso certi confusi in-

serti filosofico-scientifici, di matrice vagamente positivistica e lombrosiana, richiamati in parte dallo stesso avvenimento ispiratore della novella: un processo di matricidio svoltosi nel ’28 a Milano. Ma qui soprattutto si cela il tentativo da parte di Gadda, di giustificare o assolvere il figlio matricida nella realtà e nel romanzo. Nella realtà, invocando per l’imputato « larghe attenuanti e certamzente la semi-infermità mentale » (Ns 9); nel romanzo, riconducendo le colpe della madre e le « tare » ereditarie del figlio nel cerchio di una ineluttabile « fatalità », di un cupo determinismo biologico-sociale, e modificando pro-

fondamente

la vicenda:

«il ragazzo sciagurato, corrotto,

vittima non ha ucciso la madre, ma

ha solo presenziato,

nell’impossibilità di aiutarla, all’uccisione di lei. » (14-5, 38

28-9, 45, 53-4, 66, 163-4. Cfr. anche mm 165, 211) Se si considera infatti il sempre più acuto risentimento di Gadda verso la madre in questi anni, e in queste pagine l'insistenza sulla psicologia e la esplicita citazione di Freud (NS 14-5, 26-7) sia pure in un contesto prefreudiano

gnificativa anche nell’ipotesi di una variante più e si pone altresì mente a quello che sarà il motivo e tormentoso del matricidio nella Cognizione del si può ipotizzare che già in Novella seconda Gadda più o meno

inconsciamente,

come

da un pensiero

(si-

tarda), oscuro dolore, rifugga terri-

bile e inaccettabile, da una qualsiasi possibile sua identificazione con il personaggio di un matricida (mentre non si possono del tutto escludere autobiografici sottintesi, seppur deformati, nel motivo delle « tare » come conseguenza di una vicenda familiare sbagliata). Lo stesso dichiarato e consapevole ricorso al « romanzesco » e al giallo sembra rientrare nell’inconfessato proposito, anticipando anche da questo punto di vista La cognizione (163). Non è ben chiaro invece fino a che punto la polemica contro le ipocrisie moralistiche e doppiezze cattolico-borghesi dei « tempi », sia motivata dalla sua difesa del reo, o non sottintenda altresì fermenti critici contro il regime (« Noi viviamo una vita fittizia e strana, oggi in Italia, dopo il 1923-24 [...].»), anche se nel quadro di un riaffermato nazionalismo,

(9-10,

12-3, 30,

di progettazione

e costru-

e: fascismo

antisocialismo

AS960LT42, 33). Della gaddiana difficoltà

zione, con esiti di diversa incompiutezza e in seguito anche di contraddittoria unità, la Meditazione milanese (1928) rappresenta per così dire la versione teorica. Le

incongruenze del pensiero, divagazioni dell’immaginazione, intrusioni della biografia, diventano le caratteristiche stesse di quest'opera originale, anticipando anche certe invenzioni delle opere future. La linea tendenziale del discorso di Gadda esce dalla polivalente « sua aggrovigliata filo39

sofia », all’interno e al di là delle fonti dichiarate o ricostruite dalla cura dell’edizione postuma: Spinoza, Leibniz, Kant, il positivismo, Darwin, Pareto, la fisica einsteiniana,

il costruttivismo, eccetera. Il motivo di fondo è appunto quello di una contrastata tensione cognitiva, di una conflittuale ricerca di ordine, riaffermate proprio nella più acuta consapevolezza della loro precarietà. L’aspirazione al « sistema » è attraversata infatti dalla constatazione di una sua inevitabile e intrinseca arbitrarietà, contraddittorietà, non-assolutezza (pluralità di sistemi), relazionalità esterna, « indeterminatezza derivante dalla impossibile chiusura » e da un ineliminabile residuo di inesplicabilità (MM 76, 178-80, 254, 257, 266); e il reiterato proposito di « mettere in ordine il mondo », si scontra con la presa

di coscienza di un « magma » che « difficilmente si può incanalare » (172-4, 270, 373. Cfr. anche vm 193. NS 45).

Questa consapevolezza dell’« infinita complessità del reale » e della infinita molteplicità delle cause e degli effetti (MM

16, 76-9, 100, 238, 262, 278), sembra conver-

gere con un drastico ridimensionamento delle pretese di dominio del soggetto, con una sarcastica contestazione del sistema quando sia « pensato [...] nel suo io saputello di pacco postale chiuso e inceralaccato » (78-9, 174, 180,

238, 257, 266). Gadda rappresenta perciò il soggetto in arduo equilibrio sulla « tolda traballante » di un oggetto che non gli dà certezze e che è in costante mutamento, o lo vede « accampato nel mondo » mentre si chiede « continuamente e angosciosamente

‘ perché? ’ » (99, 201). Su

questa strada Gadda arriva a delineare un processo conoscitivo nel quale il soggetto è « una somma di relazioni intervenenti » come « nucleo deformante », e l’oggetto «una pluralità deformabile » all’infinito. Insomma, « conoscere è inserire alcunché nel reale, è, quindi, deformare

il reale », secondo un processo « perenne » e secondo la « molteplicità dei significati ». (7, 78-9, 99-100, 40

187)

Questa sostanziale riduzione del soggetto e dell’oggetto a « un indestricabile groviglio di relazioni », che si realizza attraverso la deformazione, l’inserimento, 1’« introduzione di relazioni sempre diverse », sembra alludere in Gadda a una « realtà totale » tanto molteplice, mobile, deformabile, aperta a « tutte le combinazioni [...] logicamente possibili », quanto intrinsecamente non-modificabile. Tutto il suo discorso del resto, rimanda a qualcosa di preesistente e condizionante: « non si inventa o crea exnihilo nella mia filosofia, ma si aggruppa, si ordina, si chiarisce, si finalizza, si fornisce di piano o coscienza, ciò che prima era barlume o possibilità [...].» (13, 80, 188, 238, 349) Si possono cogliere in queste pagine importanti sottintesi di poetica, che vengono esplicitati in un saggio già

citato del ’29 (Le belle lettere e i contributi espressivi delle tecniche) e che si ricollegano a tutto il discorso sul plurilinguismo. Ogni scrittore, dice in sostanza Gadda, si trova a misurarsi con un linguaggio « preesistente », nato

da una « storia-esperienza » e da un « lavoro collettivo », e costituito da realtà o materiali « relativamente intangibili ». Lo scrittore ne risulta perciò condizionato come il cavatore dal granito. Per elaborare un suo personale « supersignificato », egli deve rimuovere, « coordinare », o disgregare, ricostruire, una materia espressiva quanto mai resistente e riluttante, con « fatiche indicibili ». Tutte le operazioni che lo scrittore deve (e in realtà può) compiere, presuppongono la pesante presenza del « già fatto », « già concreto »: creare sarà sempre « ricreare », e l’arte sarà « euresi », con un sottinteso significato di ritrovamento, scoperta, « sintesi operatrice » dentro la preesi-

stente complessità e infinità del linguaggio 0, come Gadda conclude, della stessa vita. (vm 77-80, 87-9, 91) Il ridimensionamento dell’io (scrittore) dunque, e la sottolineatura

di

un’esperienza

condizionante, 4l

rimanda

ancora

una volta alla poetica della « vicenda umana ». Nell’altro saggio di questa fase, I viaggi, la morte

(1927), ripren-

dendo anche motivi già noti, Gadda contrappone una letteratura di « sedenti », che « sognano sognando, ma vivendo vivono », a una letteratura di « viaggiatori » (i « simbolisti puri») che «sognano vivendo e così non vivono »; la « meditazione dei problemi etici, una cura prammatica », « la realtà dell’arco e del ponte » dei primi, all’« avidità del nuovo » ad ogni costo, « corsa nello spazio puro » e « tragico nulla » dei secondi (178, 181, 187, 1595):

La dichiarazione di poetica si farà ancor più personale e disvelatrice in un saggio successivo, Cozze lavoro (1949): dove le linee fondamentali del discorso considerato fin qui, dalla Meditazione milanese in poi, prendono luce dalla « necessità dei riferimenti a una vita, a una biografia interna ed esterna », tra « puerizia atterrita » e « disciplina militare » e altre angosce e sconfitte. Così, la demolizione

dello « scrittore-creatore » e « demiurgo » tradizionale, la riduzione dell’« immagine-feticcio » dell'io a « groviglio, di rapporti fisici e metafisici » (con l’ausilio dichiarato delle teorie fisico-matematiche, biofisiche, psicologiche), il suo mortale duello conoscitivo ed espressivo con la ferrea « cosa giudicata » o « narrata », la teorizzazione di una impossibile normalità (nella quale « bambinesche certezze » nascondono inconsapevoli e ben più gravi nevrosi), si risolvono nella riaffermata « sua identità di ferito, di smarrito, di povero, di ‘ dissociato noètico ’ » ma intelligente nel « mareggiare degli eventi mortiferi » e nell’« oceano della stupidità ». (9-13, 23-5) Qui Gadda riprende inoltre, e ad un tempo, gli altri motivi della Meditazione e un suo saggio sul dialetto del Belli (1945) come « spostamento spastico della conoscenza dal tritume delle correnti obbligative » (169; ma uno spunto analogo è già presente in RIN 112). La « parola », scrive, « convocata sotto penna

42

non è vergine mai », ma è sempre « di tutti », rimandata da « popoli e dottrine ». È ancora una volta, perciò, sul già detto, già noto e già pubblicato che lo scrittore deve esercitare tutto il suo « arbitrio inventivo », la sua deformazione, il suo «‘impiego spastico’», per ottenerne

«un

significato nuovo », « una dissoluzione-rinnovazione

del valore », così sfondando « il setaccio de’ Cruscanti ». (vm 19-20) Il cerchio, ancora una volta, si chiude: nelle stesse pagine emergono alternativamente i tratti più o meno

netti di un dolorante autoritratto e di un arduo programma di lavoro che si ritrova a fare i conti con le ferite e sconfitte del passato, tra irrisione, disprezzo, polemica, o distacco autoironico, disincantato autocompatimento, euristica lucidità, fino all’affermazione di una necessitàarbitrio di inventare. Più che liberatoria di un discorso letterario e saggisticoletterario dall’interno della « sua aggrovigliata filosofia » perciò, la Meditazione milanese appare anticipatrice e chiarificatrice (per l’autore stesso e per i suoi lettori) di motivi

che lasceranno tracce profonde in quel discorso, e che fin d’ora arricchiscono di ulteriori implicazioni il suo modo di vivere la crisi novecentesca.

Capitolo quinto *

IL RAGAZZO

FERITO

La Madonna dei filosofi si colloca a questo punto della produzione letteraria di Gadda, a prescindere dalle date di stesura dei suoi singoli testi e di costruzione del volume, per una sua complessiva maturità. Nel contesto produttivo portato in luce dalle edizioni postume, essa appare peraltro, almeno per alcuni aspetti, come un’opera di transizione. C'è nel suo processo costruttivo una rinuncia al diffi* Fondo G. De Robertis, Archivio Vieusseux, cfr. in particolare le lettere inedite di Gadda del 20 giugno 1931 da Milano e del 6 giugno 1934 da Roma a G. De Robertis, Firenze (ma si vedano un po’ tutte le lettere gaddiane di questo Fondo, datate tra il 1931 e il ’35), e la lettera del 14 settembre 1934 da Milano allo stesso, Firenze, pubblicata in Giuseppe De Robertis. Mostra documentaria, catalogo a cura di M. C. Chiesi e M. Marchi, Firenze, Accademia di Scienze e Lettere « La Colombaria », 14-28 ottobre 1983, pp. 29-30 (un brano anche in «Rinascita», 21 ottobre 1983), e poi raccolta in Appendice a Giuseppe De Robertis, a cura di L. Caretti, Olschki, Firenze 1985, pp. 106-7. Fondo G. Natoli, ivi, lettera inedita di Gadda del 28 agosto 1931 da Milano a G. Natoli, Ruta (Genova); parzialmente citata da A. Andreini in Studi di filosofia e critica offerti dagli allievi a Lanfranco Caretti, II, Salerno, Roma 1985, p. 734. A. Bocelli, in Almanacco letterario, Bompiani, Milano 1932 e ’35. G. De Robertis (1931 e ’34), Scrittori del Novecento, Le Monnier, Firenze 1940. A. Gargiulo (1931 e ’35), Letteratura italiana del Novecento, ivi. C. Linati, in « L’Ambrosiano », 9 maggio 1931.

44

cile (impossibile) recupero dell’impianto romanzesco tradizionale, che può sottintendere sia certe suggestioni frammentistiche contemporanee, sia invece l’avvio di un più lungo e tortuoso cammino verso una unità narrativa antitradizionale; e c'è in alcune sue parti, un’alternanza non

risolta di diversi livelli di scrittura che risente anche della già descritta travagliata gestazione: alla quale non sono estranee le ricorrenti preoccupazioni di Gadda nei confronti di una prosa, la sua, che egli giudica (pur dietro uno schermo di cerimoniosità) troppo realistica, « dimessa », dialettale, «impura », o addirittura « triviale », per potersi accostare al « nitore di ‘Solaria’» (LT 43-7. Ls 60). Può essere significativo allora, che pro-

prio nei testi maggiormente segnati da quell’alternanza (l’ironico-divertito, l’evocativo-retorico, il truculento nelle Manovre di artiglieria da campagna, che non a caso nell'edizione Einaudi 1963 recherà la variante di un sottotitolo; o la « preghiera », il diario, il ritratto di una condizione umana o canina negli Studi imperfetti), cette pagine gaddiane tendano a fissarsi in una loro autosufficienza (talora cristallizzandosi, appunto, in veri e propri frammenti),

con

una

ridotta

interazione-mobilità

interna

e una tendenziale sproblematizzazione, e con punte di travestimento e abbellimento letterario. Ben più fermentante e ricca, pur nella perdurante intrinseca oggettiva disorganicità della raccolta (risolta in una giustapposizione), la compiutezza formale degli altri singoli testi. La problematica, privata e non, che Gadda è venuto maturando in questi anni, si risolve interamente, senza grumi residui, in una prosa colta, con essenziali e felicissimi scarti, affidati a termini eruditi, preziosi, o tecnici, specialistici (di discipline extraletterarie), o popolari, dialettali (lombardi, ma non soltanto), e con un prevalente

atteggiamento di ironia sottile, distaccata, più che di risentito, coinvolgente sarcasmo. 45

In Teatro la rappresentazione di un melodramma venta

smascheramento

impietoso

di una

grottesca

di-

specu-

larità (borghese) cantanti-pubblico, nel comune segno dell’enfasi retorica, del cattivo gusto, di un’approssimazione ignorante, di una presuntuosa vacuità e goftaggine. Qui l'operazione caricaturale di Gadda si muove su un vasto fronte: il neologismo (il valletto « coinglutito nel vortice Sardanapalesco »), la terminologia scientifica (il maestro direttore che macera il frac « di ammino-acidi, di composti albuminoidi varî e di altre sostanze azotate »), il falso sublime (« Raccontò del suo crin [...]; non trascurò l’alma »), l’umile-quotidiano (la scimitarra come « posateria presso l’acquaio » 0 lo strascico come « scopatrice stradale »); € ancora, l’elencazione paradossale (« pubblicani, farisei, dentisti, tornitori di gambe di seggiola »), il raffronto iperbolico (« il mastoide indafarato come un ascensore »), la citazione (« È il connubio delle arti. »), e così via (MdF 14-5, 17-8, 21, 23). Dove c’è sempre un intento sottilmente e consapevolmente critico, che si muove tra un livello alto, in funzione derisoria e ridicolizzante della mediocrità e volgarità, e un livello basso, in funzione

demistificatoria e disvelatrice della presunzione e della ridondanza. In Cinema Gadda opera un duplice rovesciamento, sociale e linguistico. Qui un ragazzo istruito, distinto, ma povero, con il peso dell’educazione, del dovere e della privazione insieme, cerca evasione, svago e avventura nel popolare e domenicale Corso e Cinema-Teatro Garibaldi a Milano, nella sua animazione libera, disinibita, trasgressiva, felicemente disordinata e rumorosa, piccola « Baja dei Sogni ». L’uso della contaminazione (e deformazione ironica) bassa, allora, si rovescia appunto, e diventa sottile accentuazione di una simpatia e partecipazione a questa vita libera e schietta: dal dialettale (« gnente », « cucchiarino », « vedaremo ») al triviale in registrazione diretta 46

(« accamaònna

e orcoìo ») eccetera.

Mentre

il mineralo-

gico « ortoclasio » o il riferimento storico alle « penne » di Lamarmora,

continuano

a contrassegnare

sussiegosi e

supponenti personaggi borghesi, che sono poi altrettanti isolati e insopportabili richiami alle convenzioni e norme cui si vuole sfuggire. (86-8, 90, 93, 100, 102, 104) Il Corso Garibaldi di queste pagine, tra l’altro, riunisce tutta una folla di sarte, soldati, bottegai, signore piccolo botghesi, serve, giovanotti in bretelle o con scarpe di vernice, di città e di campagna, che sembra raffigurare idealmente un campione dei futuri parlanti gaddiani, e in particolare

della zona dialettale-gergale del suo universo plurilinguistico (andando anche ad arricchire quella sua paradossale tipologia). L’accostamento

tra i due testi ha ulteriori sottintesi,

che rimandano alla più o meno esplicita contrapposizione (anche in LS 16, 51-2, 60) tra il teatro lirico come commistione arbitraria di forme, rituale mondano, obbligo sociale borghese, e il cinema come divertimento popolare e moderno: un atteggiamento che trova consonanze in un numero di « Solaria » del marzo 1927 sul cinema appunto (dal quale Gadda viene forse stimolato: la stesura complessiva di Cinezza è del 1926-27), e che converge comunque in parte con altre predilezioni antielitarie e antintellettualistiche di Gadda, come il « carnevale teatro popolare », il romanzo poliziesco e il pubblico relativo (16, 60. Ns 163), il suo stesso plurilinguismo. Per il ragazzo protagonista e io narrante dell'omonimo racconto dunque, il cinema è soprattutto evasione nell’evasione, « sogno » nel « sogno » (« l'oblio momentaneo del male »: LS 60), momento culminante della breve eccitante avventura di Corso Garibaldi (mde 104). La folla e lo spettacolo popolare insomma, come liberazione temporanea dagli obblighi e impedimenti

familiari e sociali (borghesi).

tempo » di Cizema

del resto, da Gadda 47

Un « secondo

amputato

allo

stadio di inedite di pubblicato e proprio

prima stesura (presente nelle cartelle rimaste uno dei quaderni che ospitano il Cabier, sarà postumo), ha anche il significato di un vero omaggio allo spettacolo popolare, con protratti

« sogni » americani (c 277 sgg.).

Nel primo tempo di Cinezza perciò, Gadda riesce a riscattare senza violenza dalla sua esperienza biografica giovanile, una figura-proiezione rasserenata di sé, nella quale le fitte e dolorose implicazioni problematiche sono filtrate attraverso un’autocontemplazione tra divertita e affettuosa. Ma pur dietro questo velo, il ragazzo si trova a scontare una sua inguaribile diversità: «‘ signorino ’ » ma povero, escluso dalla solidarietà dei veri poveri e dalla benevolenza delle presunte « signore », e diviso tra senso del risparmio e innocenti « eccessi », egli finirà per smarrire anche l’unica occasione di rapporto umano. Una bimba, che lo aveva guardato senza disprezzo né pregiudizio, «con una serenità limpida e fervida », primo « essere umano » a offrirgli un « viaggio tra i vivi», scomparirà nella folla (mde 88-9, 101, 104); mentre nella parte amputata, a film finito, se ne andrà addirittura con un altro (c 279). Il velo sembra

così lacerarsi, facendo

presagire la fine di quell’« oblio momentaneo » e l’ineluttabilità di quel destino « di ferito, di smarrito, di povero » non soltanto di nichelini. Ecco allora che in generale, quel sottile disincanto, quella contaminazione bassa, quella consapevolezza di una ferita inguaribile, rappresentano altresì un rovesciamento della mitologia giovanile nostalgico-elegiaca di tanta letteratura di memoria di questi anni (e anche dei successivi). Un analogo filtro ironico-affettuoso e divertito-sofferto, con amaro disvelamento finale, e una scrittura ulteriormente arricchita (tra colloquiale, dialettale, e aulica, culta,

con un gusto vivo per l’aneddotica storica o genealogica, una filosofia molto inventiva, e un ruolo premonitore del 48

paesaggio splendente o livido), regolano il racconto che dà il titolo al libro, lasciando intravedere una fitta tessitura di motivi biografici e ideologici gaddiani: la polemica contro il « prurito democratico » o contro « il mondo del dopoguerra », il risentimento per la mai finita casa di campagna (Mde 111, 116, 133), e altro ancora. La Madonna dei flosof ruota intorno alla storia di una ragazza da marito della buona società lombarda, tra il ricordo di un amore perduto e l’avvio contrastato di un nuovo amore possibile. I tre protagonisti sono ancora una volta dei borghesi arzorzali e vulnerabili, e per quanto riguarda i due uomini, fortemente autobiografici (con tratti che anticipano qualcosa del futuro Gonzalo): un

Emilio « taciturno », un po’ strano, poeta precoce, « figlio di un

commerciante

rovinato »;

una

Maria

Ripamonti,

nobildonna senza più titolo, di delicato sentire, insofferente ai compromessi del buon partito, e incline agli amori complicati; e l’ingegner Baronfo, ritiratosi a trentaquattro anni dall’azienda, con ingombranti fardelli privati (una donna, un preteso figlio) e una « nevrastenia mescolata con la filosofia » (115-8, 142). Tre destini di sconfitta, e la ricerca difficile e tenace, da parte di Maria, di « qualcosa di vero », di una vita fuori dal sogno. Che sembra realizzarsi con l’ingegner Baronfo, in un’affinità tra diversi, anche se la conclusione drammatica, a forti tinte, romanzesca, contrastante con l’intero svolgimento del racconto, assume quasi il significato opposto, di un’irruzione della vita dentro il sogno. Baronfo non muore e Gadda parla vagamente di « pubblicazioni » matrimoniali, ma evita il lieto fine così come aveva evitato lo scioglimento tragico: che avrebbero entrambi riportato la storia entro linee prevedibili e in qualche modo liberatorie. Il finale apparentemente « ‘si bourgeois’» (come una malevola voce commenta) non chiude il discorso ma al contrario lo riapre sul destino di un altro « ferito », « smarrito », « povero », 49

il figlio illegittimo, affidato a mani estranee: « E così cominciò anche lui la sua vita, fra i tacchini, e veli tenui di nebbie. » (114-5,

121, 165-6)

Si direbbe quasi che Gadda, in questi due racconti, voglia riaffermare in extremis la precarietà di una così aderente traduzione del « materiale vissuto » in scrittura,

di una così armoniosa ricomposizione degli opposti e dei conflitti (linguistici e problematici), di una così rattenuta espressione delle personali rivalse. L'esperienza autobiografica insomma, riprende alla fine il sopravvento, e « l'oblio momentaneo » cede nuovamente al « male ». Può essere significativa a questo proposito, la risposta di Gadda a un referendum di « Solaria » sulle « tendenze » degli scrittori italiani (dicembre 1931), dove giocando sull’ambiguità del « fine » come « finalità » e come « morte », egli mette a nudo la sua condizione di « umiliato dal destino », le ferite della giovinezza e della vita (cdu 13-4). Sottili conferme a tutto questo sembra portare il problema della donna, riproposto dai personaggi della bimba e di Maria Ripamonti pur nella forte sublimazione della loro femminilità e desiderabilità, e delle relative implicazioni autobiografiche dei due personaggi maschili (il ragazzo e l’ingegnere): problema che Gadda risolve significativamente

e rispettivamente

in un amore

innocente

e

per così dire extraistituzionale, e in un responsabile amore adulto e istituzionale-borghese, l’uno tristemente finito e l’altro violentemente avversato sul nascere (quasi i risvolti eguali e contrari di una stessa difficoltà). Dove poi gli uomini sono (autobiograficamente, ancora) dei borghesi anomali. La Madonna dei filosofi infine, chiarisce bene i sottintesi di partenza e al tempo stesso alcuni importanti aspetti dell’atteggiamento antiborghese di Gadda: che colpisce la borghesia nel momento in cui essa svuota o adultera

i suoi

stessi

valori

di cultura, 50

arte,

gusto,

rigore

tecnico, eccetera

meno

(in Teatro), così come

direttamente

lismi, convenzioni,

i compromessi, supponenze,

ne colpisce più o

conformismi,

costrizioni

forma-

(in Cigema

e

nel racconto eponimo), mentre mostra di rispettarla nelle sue attività pratiche e produttive (ricordate quasi per contrasto nel finale di Teatro, appunto: MdF 27), a riconferma del suo supremo criterio dell’equilibrio tra parlare, pensare e fare. Nel Castello di Udine Gadda compie un altro passo e sposta decisamente al passato i valori della « vecchia classe », di « quella ricca borghesia milanese, che [...] è stata una realtà, delle più attive e più salde, nella vita economica e morale della patria » (a differenza della classe avida, volgare e « variopinta, venuta su all’ultimo »), anche

se « altrove poi deride e stramaledice

anche quella » (cdu 69). La Madonna dei filosofi dunque, è opera di transizione, ma con una forte spinta in avanti. I tre racconti maggiori

realizzano una prima, risolta (e talora mirabile) sintesi delle componenti fondamentali dell’esperienza gaddiana: la poetica della « vicenda umana » (e scopertamente autobiografica), la formazione intellettuale anomala, un’istanza antielitaria di fondo, una mimesi-deformazione cognitiva e critica (sui versanti opposti del mondo popolare e borghese), uno sperimentalismo plurilinguistico fatto di funzionalità e di distacco, una tensione di unità e di ordine sempre sul punto di rompersi, con tutte le relative implicazioni via via considerate. Con quest'opera comunque,

e con i saggi, Gadda si presenta come uno scrittore controcorrente e irregolare per i tempi. La stessa collaborazione a « Solaria », se rientra certamente nell’eclettico quadro di interessi intellettuali e aperture sperimentali della rivista, vi incontra anche dichiarate difficoltà. In generale poi, le preoccupazioni di Gadda per il « rigore eccezionale dei direttori di Solaria », o il suo sentirsi « come soggetto strano [...] del loro bel giardino », al51

ludono a un ben più vasto orizzonte di possibile estraneità e incomprensione: così come (a proposito di alcuni racconti della Madonna dei filosofi) la motivazione difensiva della « caricatura » dei suoi concittadini, o l’alternanza tra personali pruderies e polemici timori per eventuali censure moralistiche, sottintendono anche la consapevolezza di un’opera in qualche modo scomoda, ostica, irritante, nei confronti del clima letterario dominante (LT 42-9. LS 60-1, 298, 302). Pochi anni dopo, per esempio, una serie di attacchi letterari precederà (contribuendovi, probabilmente) la censura moralistica al Garofazo rosso di Vittorini. Di fatto Gadda appare, fin dal suo primo ingresso nel mondo letterario, un isolato e un diverso; una diffusa incomprensione critica farà per lungo tempo di lui uno stravagante (e più o meno importante) minore. Per quanto

riguarda anzitutto la sua fortuna negli anni Venti-Trenta, e in patte anche oltre, non è il caso di insistere ancora sulle ragioni legate alla sua formazione intellettuale fortemente anomala e insolita, in una fase che vede convergere almeno su questo punto (come si è detto già) rondismo, umanesimo tradizionale e idealismo. Qualche considerazione particolare merita peraltro, anche per le sue implicazioni più specifiche, quell’orizzonte di cultura, letteratura, gusto, riassumibile in un novecentismo

inteso nella

sua più vasta accezione, che condiziona l’intero periodo. Un orizzonte nel quale confluiscono

esperienze e correnti

in parte diverse, dalla stessa « Ronda » ai moderni

agli

ermetici ad altre influenze, secondo alcune costanti di fondo. L’impeccabile immobilismo stilistico, la restaurazione classicistica, il petrarchismo, e l’essenzialità lirica, la « poesia pura », la «libertà » metrica e ritmica; la « letteratura come vita », la poesia come atto mistico,

l’« assenza » come poetica e come comportamento, e la prosa poetico-consolatoria, l’evocazione nostalgica, la vena 52

intimista: tutto questo concorre a fare del novecentismo il terreno privilegiato dell’autosufficienza, sul quale si incontrano la tradizione postsimbolista della lingua privata e dell’oscurità allusiva, le tendenze aristocratiche e conservatrici della tradizione monolinguistica (e antidialettale), le antiche e nuove separatezze del letterato italiano nei confronti della società e della storia. Il novecentismo finisce così per qualificarsi come sostanzialmente formali stico, evasivo, squisito, e la sua pur diversificata idea di prosa (dalla prosa d’arte alla memoria elegiaca) reca una fondamentale istanza antinarrativa, il rifiuto del romanzo come discorso sulla realtà. Quanto la personalità intellettuale e letteraria di Gadda (al di là di certe suggestioni passeggere) sia in contrasto con un tale orizzonte, appare perciò fin troppo chiaro. I suoi saggi infatti non entrano nell’attenzione e circolazione critica, e La Madonna dei filosofi, nonostante l’impegno promozionale dell’autore stesso e dei suoi amici (documentato dalle lettere a Tecchi e Carocci) deve registrare

recensioni

caute,

perplesse,

insufficienti,

o più o

meno esplicitamente riduttive, oltre che l’esclusione dal premio Viareggio e dal premio Fracchia. Sorte sostanzialmente non diversa avrà la successiva produzione degli anni Trenta, anche se I/ castello di Udine registrerà un più diffuso interesse complessivo (testimoniato tra l’altro dal premio Bagutta, con relativa eco di stampa) e le prime rare eccezioni critiche: in particolare, l’avvio del fondamentale discorso di Gianfranco Contini. Anche a prescindere dalle motivazioni del novecentismo, non è poi una mera curiosità che nelle recensioni alle due prime opere circoli con insistenza la definizione di « umorista » (da Linati a Gargiulo), pur con tutte le possibili variazioni e aggettivazioni; definizione che si ritrova nei bilanci di Bocelli sull’Almanacco letterario, per La Madonna dei filosofi e per Il castello di Udine appunto. 23

Restano

comunque

e soprattutto

significativi in tutta

questa fase, i ricorrenti giudizi limitativi di Giuseppe De Robertis: una figura egemone di quell’orizzonte alla quale Gadda guarda, come traspare da certe lettere degli epistolari citati e da quelle (in parte inedite) a lui indirizzate, con rispettoso timore e « deferente » umiltà, fino a dedicargli altresì più tardi L’Adalgisa. Di particolare interesse una lettera del 14 settembre 1934 nella quale Gadda, dopo aver ringraziato De Robertis della recensione al Castello di Udine, così gli scrive: « Comprendo quanto vi possa essere di meno accettabile nella mia faticata scrittura: forse, ove avessi la forza di liberarmi dalle mie ossessioni, il suo suggerimento potrebbe guidarmi a una purità e a una castità d’alto tono. Ma il gorgo mi prende: anche nel racconto a cui sto lavorando; e che la ricerca espressiva ritarda, ritarda: e forse troppo contàmina. / Eppure questa ricerca non è studio d’effetti, è appassionata indagine, ‘vedere che cosa si scopre’. È fenomeno necessario, ineluttabile. Quanto al libro, capisco che al di là della guerra la materia sia povera. Vi sono anche ostacoli a una ‘ mia’ realtà. / Avrei voluto che almeno la ‘Fiera di Marino” si salvasse nel suo giudizio: ivi il ‘“barocco’ ha un senso di adesione al reale barocco del nostro ambiente, del nostro costume, delle nostre feste. — Pazienza! » Dove è ben chiara un’apparente giustificazione e riaffermazione di fatto, di tutto il travaglio e dolore, di tutta la tensione cognitiva ed esperienza di vita, di quanto cioè di potentemente e fecondamente impuro e oscuro (rispetto al criterio supremo della « purità ») agisce all’interno della sua scrittura. E dove Gadda esplicita inoltre quel nesso mimesi-deformazione già operante nella sua opera. Un'altra lettera del 28 agosto 1931, a Glauco Natoli, integra idealmente quella istanza extraletteraria. Gadda spiega infatti come nel saggio di Natoli sul Sorel di Stendhal, lo avesse tra 54

l’altro « specialmente colpito » (anche perché lo sentiva come « uno dei suoi motivi ») « l'osservazione che nel personaggio convergono fatalità o almeno termini del mondo esterno e che lo ‘svolgimento’ psicologico deve comi prenderli. » Molte altre lettere di Gadda, anche posteriori, riflettono poi la sua amarezza e ira per l’incomprensione che lo circonda (LT 135-6. LGS 129), e le relative incertezze sulle sue reali capacità (LGC 19. LT 118), con variazioni autoironiche e polemiche su quella sua marcata e contraddittoria diversità: « Io sono incomprensibile, assurdo, barocco, sgrammaticato, banale, inesperto della vita; sono poi un grammatico, un pedante, uno che vuol fare sfoggio di cultura, fuor di proposito: inoltre non posseggo senso ritmico e la mia prosa è antimusicale fino alla cachessia, mentre c’è tanta bella prosa in giro, piana, melodiosa. » (LG 156) Un po’ da tutti gli epistolari inoltre, esce negli anni Trenta un atteggiamento e comportamento antistituzionale per così dire, che nel confermare o atricchire quella sua anomala personalità di letterato, adduce altre possibili spiegazioni del suo isolamento e fors’anche della sua precaria fortuna. Basterà considerare l’avversione pet i « faraoni eternizzati » delle Giubbe Rosse a Firenze, il

disprezzo per la « bohème », il distacco dai piccoli rituali della corporazione letteraria, che richiamano appunto i v4lori lombardi di concretezza e praticità, il contrastato ma ritornante ricorso alla professione ingegneresca come personale (seppur limitato e vulnerabile, sempre) equilibrio, la polemica contro i retori e i vati, e così via (LGS 52, 54.

Lec 46-7, 49-50. LT 146). Cui si aggiungono la nota introduttiva al Castello di Udine, « fatta apposta per irritare l’Areopago », e un’attività recensoria irregolare, consape-

vole di non essere gradita ai « ‘sopracciò ’ della critica » (SS SIETE

In generale

ELSA 20)

poi, l’imzzagine 25

di Gadda

negli anni

Trenta è quella di un autore editorialmente poco (o niente) fortunato; costretto a stampare i primi libri a sue spese (non riesce a ttovare un veto editore neppure per la sua seconda opera), deve interessarsi perfino della distribuzione in libreria, della pubblicità, eccetera (Ls 373, 375, 495 50275045075

11ArE

41142 Gaitaneo

FERS69)

Capitolo sesto *

I CONTI

DELL’INGEGNERE

Gli anni Trenta sono per Gadda anni difficili, oltre e ben più che per il faticoso ingresso nel mondo letterario. Come risulta un po’ da tutti gli epistolari, egli vive affannosamente tra Milano, Roma e Firenze (sognando sempre di stabilirsi in Riviera), tra la dolorosa casa materna e i fastidi delle camere ammobiliate, tra complicazioni pratiche legate ai trasferimenti e malattie di più o meno chiara origine psicosomatica, tra continui problemi economici e decisioni professionali contraddittorie. Certo, Gadda ha ormai scelto: collabora a giornali e riviste,

* VM

Contini cdu

Meditazione

breve circa il dire e il fare (1936) e Tecnica e poesia (1940).

G. Contini, Prizzo approccio al Castello di Udine, 1934, in Esercizi di lettura, Einaudi, Torino

1974. G. Contini, Pretfesto novecentesco sull’ottocentista Giovanni Faldella, 1947, in Varianti e altra linguistica, ivi, 1970. Contini GTE G. Contini, Carlo Emilio Gadda traduttore espressionista, 1942, ivi. Contini L’A G. Contini, Nota, in L’Adalgisa di C.E.G., Einaudi, Torino 1963. Contini sP G. Contini, Introduzione ai narratori della Scapigliatura piemontese, 1947, in Varianti e altra linguistica, cit. Genova nella cultura italiana del Novecento, catalogo a cura di G. Matcenaro, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1983. Contini GF

57

pubblica alcuni libri, amplia i rapporti intellettuali (frequentando tra gli altri, a Firenze Bonsanti, Montale, Contini, Bo, Landolfi; a Milano, Vittorini, Ferrata, Bacchelli e Raffaele Mattioli, dedicatario di tante sue opere future),

e tende a fare di tutta questa sua attività una vera e propria professione (iscrivendosi anche all’albo dei pubblicisti), ma non ci riesce. Da cui la necessità di intermittenti e sempre meno sopportabili lavori ingegnereschi.

Vani infatti i tentativi di estendere efficacemente e proficuamente le collaborazioni giornalistiche, e scarsi i risultati ottenuti nella ricerca di traduzioni, come documentano soprattutto le lettere alla « gentile signora » Lucia

Rodocanachi: dalla cui villa di Arenzano passano fin dagli anni Trenta intellettuali come Montale, Sbarbaro, Vittorini, e lo stesso Gadda, ricevendo tra l’altro dalla intelligente e affascinante ospite non trascurabili aiuti (rimasti a lungo sconosciuti) nella stesura di lavori editoriali e di traduzioni, che essi imperturbabilmente firmano con il loro solo nome. Si vedano in proposito l’introduzione di Giuseppe Marcenaro a LGS, e il catalogo da lui curato per la mostra su Geova nella cultura italiana del Novecento. La vicenda biografica gaddiana di questi anni dunque, al di là di tante contingenze più o meno oggettive, appare attraversata e caratterizzata da una instabilità, inquietudine, insofferenza, disordine, vulnerabilità al 724le, che rimandano pur sempre alla sua nevrosi via via complicantesi e alla sua irregolarità intellettuale, non senza interazioni sottili naturalmente. In particolare Gadda, nel distaccarsi progressivamente dalla professione di ingegnere, il cui limitato equilibrio non compensa più le insofferenze crescenti,‘ non riesce appunto a conquistarsi una professione di scrittore (con un'estesa, solida e stabile rete di collaborazioni giornalistiche, editoriali, eccetera), a indiretta conferma di una contrastata tensione di equilibrio

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e di ordine che attraversa al tempo stesso la sua produzione letteraria, la sua pratica sociale e il suo ruolo intellettuale. Stretto perciò tra una professione di ingegnere e una professione di scrittore che, entrambe per motivi quasi opposti, con la loro saltuarietà e parzialità, precarietà e insufficienza rispettivamente, ripropongono e acuiscono vecchie e nuove frustrazioni e sconfitte, Gadda sembra cercare un'alternativa, limitata anch’essa e temporanea ma significativa, in un’esperienza che di entrambe quelle professioni di fatto partecipa: una serie di articoli tecnologici prima e autarchici dopo, pubblicati in varie sedi, nei quali appunto si intrecciano laboratorio espressivo, competenza ingegneresca, e quello che Gadda sente come un possibile ruolo sociale e un’etica responsabilità di divulgatore e propagandista. L'ideologia di cui Gadda si fa qui portatore vede via via convergere la sua fiducia di intellettuale moderno (e di letterato anomalo) nel progresso tecnologico, e il suo nazionalismo e patriottismo, all’insegna dell’autarchia. L’adesione al fascismo allora, in questi articoli esplicitamente dichiarata, sembra trovare motivazioni meno estrinseche o contraddittorie che nel passato. Ma ancora una volta prevale su tutto, come discriminante pressoché onnivalente, il criterio gaddiano del rapporto tra ideali e competenza, tra pensare, volere e fare, applicato in questo caso, contestualmente, tanto alla sua personale esperienza di articolista quanto all’ideale autarchico che vi è sotteso. D’altra parte, l’elogio del lavoro italiano interno a quell’ideologia tecnologico-nazionalistica, ricorre spesso con riferimenti autobiografici nelle lettere e in altre pagine dedicate a esperienze in Italia e all’estero (RIN 31, 78. vm 72-5), e torna nel Castello di Udine a connotare prove di perizia e funzionalità; così come vi torna il motivo (già circolato in Gadda) dell’avversione 59

per l'Inghilterra, « damigella Ginevra » e la Società delle nazioni, non senza sfumature

emblemi

di tutto

antisemite, quasi altrettanti

ciò che ostacola e compromette

quel

lavoro ai suoi occhi (cdu 69, 125, 145).

L’autocensura praticata da Gadda sugli articoli raccolti con altri nelle Meraviglie d'Italia (1939), togliendo i più espliciti riferimenti a Mussolini e al regime ma lasciando immutato il sostegno alla politica economica fascista, ha verosimilmente ragioni soprattutto letterarie e di gusto: l’espunzione cioè dell'ideologia (Gadda del resto, pubblica articoli analoghi anche dopo). E tuttavia, gli stretti rapporti con intellettuali già orientati in senso antifascista (come risulta dai nomi e dalle testate che Gadda frequenta in questi anni), e una lettera dello stesso ’39 ad alcuni mesi dal Patto d’acciaio, sugli « assassinî tedeschi » e sull’« eredoalcoolico loro Fihrer, mostro sadico » (LT 139), possono far pensare anche ad altre ragioni, implicitamente

confermate dalla Cognizione del dolore, come si vedrà. Si può ipotizzare allora, che negli ultimi anni Trenta venga maturando contraddittoriamente in Gadda un tendenziale e progressivo distacco dal fascismo, o quanto meno un insieme di insofferenze nei confronti di esso. È anche questo un aspetto della intensa, articolata e disordinata progettualità e produttività che caratterizza l’esperienza di Gadda in tutto il decennio, e che in certe sue opere ripropone la costante dell’eterogeneità, dell’incompiutezza, di una incapacità o rinuncia alla costruzione, almeno in senso tradizionale. Scrive nel ’32: « tenderei a sfaccettare la mia produzione: un libro satirico, uno lirico, uno fantastico. » E ancora:

« ho in cantiere molto

lavoro, ma faccio a sbalzi, estroso e incapace di finire. » (109-10) In particolare, oltre a scrivere pagine che restano per ora inedite, Gadda pubblica numerosi scritti, ricavandone alcune raccolte: sull’« Ambrosiano », « Solaria» e «L'Italia letteraria» (1931-33), gli scritti del 60

Castello di Udine (Solaria 1934); ancora sull’« Ambrosiano » e « Gazzetta del popolo », « Corrente », « Il Tesoretto » (1934-39), quelli delle Meraviglie d’Italia (Parenti 1939); e ancora sulla « Gazzetta del popolo », e « Panorama » e altre sedi (1936-41), quelli degli Armi (ivi 1943). Inoltre su « Letteratura » (1938-41), esce La cognizione del dolore; su « Campo di Marte », « Il Tesoretto », « Corrente » (1939), una serie di favole, pubblicate con altre più tardi nel Prizzo libro delle favole (1952);

e in varie sedi scritti di diversa sotte e destinazione. Ma questi sono sostanzialmente anche gli anni di gestazione o stesura dei disegni milanesi che andranno a costituire L’Adalgisa (1944). La stagione è comunque aperta dal Castello di Udine, dove Gadda torna anzitutto sui motivi fondamentali della sua esperienza di guerra e del diario. Perché proprio ora? Si può formulare con cautela un’ipotesi. Gadda ba ormai scelto anche nel senso di uno spostamento sul terreno della produzione intellettuale e letteraria, di quella ricerca di una piena realizzazione di sé, di un personale equilibrio tra pensare e fare, progettare e costruire; e riaffronta perciò, proprio su questo terreno, l’esperienza di vita che aveva segnato e confermato il fallimento pratico di quella stessa ricerca. I/ castello di Udine sembra comunque sottintendere una sorta di personale chiusura di conti, che riguarda anche e ancor più L’Adalgisa, come approdo di un processo (antifamiliare e antiborghese: i doveri da lui subìti e i valori dagli altri traditi) avviato con La Meccanica e La Madonna dei filosofi. Ma c’è dell’altro. L’avvenimento più importante e « terribile » di questa fase, è certamente la morte della madre nel ’36 (125-6), alla quale seguono due esperienze in diverso modo liberatorie (e tra loto connesse) di quello « spaventoso groviglio » (Les 60) di odio-amore e di risentimento-dolore che ha sempre segnato la gaddiana 61

condizione di figlio: la vendita ad ogni costo della casa di Longone (LT 126. Lec 45) e la stesura « di getto » della Cognizione del dolore (imm 19). Cui si può forse

aggiungere, almeno in parte, il trasferimento definitivo a Firenze nel dicembre del ’40, e sia pure nel quadro di ragioni pratiche (« la vita costa la metà che a Milano »: LGC 41) e letterarie (il giro fiorentino: LGS 118, 120. IA 190): che dovranno fare i conti con vecchie e nuove dif-

ficoltà e « angoscie », anche in coincidenza della guerra e di tutte le conseguenze relative, non ultimi gli sfollamenti (Les 118,121, 128, 146. Lt 146, 149) Lec 577-4461055)

A Milano « ho lasciato tutto quello che è incancellabile dalla vita di un uomo: dolori, sofferenze, lavoro, povertà, umiliazioni di ogni genere », scrive all'amico Tecchi (LT 145-6). Richiamando così implicitamente analoghe e passate e pur contrastate prese di distanza dalle persone e luoghi della sua infanzia-adolescenza « attertita » e della sua « inesistita giovinezza », alla ricerca di un’esperienza e maturazione personale autonoma: dal soggiorno argentino al trasloco del 1931. II castello di Udine si apre dunque con «i cinque cosiddetti ‘ articoli di guerra’ » che, come annota Gadda, « ebbero vincoli di rigorosa unità infino dalla gestazione » (cdu 98), anche se si tratta di una « unità » fondata sul contrasto e sul conflitto. Questa prima parte trova comunque la sua costante più generale in una prosa colta, intessuta di arcaismi o citazioni latine, ricca di riferimenti storici o aneddotici, di visioni naturali; e una prosa in cui il termine dialettale (« le gambe sifoline » dell’imboscato o la « sgagnosa » del generale tanghero), l’onomatopea (lo « zazazazazà » del taglio capelli da importe al soldato riottoso) o l’accostamento aulico-triviale (« Monte Nero ed il Krasij perduti su nell’eccelsitudine delle lor nebbie, come la testa cogliona di Giove nel guazzabuglio olimpico delle sue nuvole »), vengono assunti in funzione 62

intrinsecamente polemico-critica o ironico-polemica (25, 27, 49, 51). Sostanzialmente superate sono poi qui le suggestioni del frammentismo e della prosa d’arte (anche se della seconda si avranno ritorni). Al di là di certe apparenze, il peso e la carica dei valori etici e delle personali passioni rendono ogni testo al tempo stesso compatto e deflagrante. Anche quando sembra di avvertire il sospetto dell’abbellimento letterario, se ne scopre ben presto la consapevole funzione di contrasto. Basta confrontare (si tratta pur sempre di cannonate) le « nuvolette rosse, come nei quadri dei martiri » delle Manovre (Mde 39), con i « batuffoli bianchi » sopra le carovane

dei muli, i quali a Caporetto (scrive Gadda) sembrano quasi pronunciare, « povere, care bestie! » la storica frase di Amatore Sciesa diretto al patibolo (cdu 51): dove il feroce sarcasmo dell’accostamento cade in un contesto di trasparenti critiche agli alti comandi. Ma i cinque « articoli di guerra » pur dentro queste costanti molto generali (di cui va esplicitata anche una contaminazione dialettale e gergale meno marcata rispetto agli altri), presentano una notevole varietà di atteggiamenti, contenuti e livelli espressivi, all’interno e al di là della stessa annotazione gaddiana: « d’attorno a un nucleo lirico (Udine) o etico (Elogio-Calvi) si aduna, si coagula una certa quantità di materia

espressiva, come

reminiscenza. » (98)

Elogio di alcuni valentuomini è forse il testo più alto, irradiante la sua forza ideale su tante altre pagine: una prosa ferma, severa, ora lapidaria ora veemente,

sorretta

e sostanziata da un grande rigore etico, da un senso profondo dei valori sottesi al gaddiano patriottismo e interventismo. La denuncia delle conseguenze catastrofiche di una concomitanza tra «la guerra e il dibattito sulla guerra », 0 di un « entusiasmo » che non sia radicato e duraturo, o di un « parlare della guerra e della pace come di un mito »; e ancora la valorizzazione della « premedi63

tata certezza » e dello « scire » nelle fulminee decisioni dei condottieri, il richiamo alla loro tremenda responsabilità di dover decidere delle altrui vite (impiegare bene le energie e il sangue dei soldati, saper essere umili e al tempo stesso saper cogliere le « correlazioni complesse » che « legano il loro esercito al resto del mondo »): tutto questo ripropone una ben nota istanza antiprofetica e antiretorica, ma portata con nuova e più acuta consapevo-

lezza sui nodi essenziali del necessario rapporto tra idealità ed efficienza, strategia e « cose tecniche », intelligenza e volontà, conoscenza e azione. Che si esprime anzitutto nell’esigenza di una piena e intima compenetrazione e possesso dei propri fini e dei mezzi per raggiungerli (22-3, 2567823).

Perfino quello che può apparire come un atteggiamento meramente

(e inevitabilmente)

elitario-classista,

trova

in

questo e altri testi della prima parte più specifiche motivazioni: i comandanti d’armata che devono esser forniti di « diplomi in regola », o gli ufficiali che « devono avere un’anima » ed essere cioè « alfabeti », e per contro «i lavoranti-parrucchieri » il cui compito è quello di « tosar teste ventenni dagli occhi di bove » (28-9, 49), rimandano a una divisione di ruoli nel segno della praticità e del fine da raggiungere. D'altra parte, nel quadro delle sue critiche ai generali e ai disfattisti, trasparenti anche se contenute (per la nota « impossibilità di un diario di guerra »), Gadda può arrivare a rivalutare gli stessi deprecabili « brontolamenti » dei soldati, quando i comandi diano prova di irresponsabilità e inettitudine: come nel caso di quel fattorino di buon senso, « ambrosiano impagabile! praticissimo di traslochi, autocarri, cavalli », che se la prende con la costruzione « d’un sol ponte » a CapoTett0,t(25,626/.229-

3943-5152

641005):

Dei valori etici e tecnici dell’Elogio, è tutto pervaso

64

il testo che si intitola appunto a quella Impossibilità, con il suo riaffermato senso del dovere militare e delle tradizioni patriottiche: dal « motivato obbligo » delle scelte all’« esperta gioia » degli ‘adempimenti (38, 44-5, 54-5). Leitmotiv dichiaratamente polemico, «la sua rabbiosa retorica », « patriottarda

e militaresca », come

veemente

quanto lucida, gridata quanto coerente esaltazione di quella esperienza, e come riaffermazione-confessione in particolare delle ragioni della sua personale partecipazione (che torna anche nei testi successivi):

dove è interessante

soprattutto la nuova presa di coscienza di quanto essa sia stata decisiva, formativa, feconda. Gadda infatti avverte abbastanza chiaramente che il senso di sconfitta e di -fallimento di allora (testimoniato dal diario) per l’irraggiungibile mito-riscatto del grande conduttore e organizzatore, nascondeva in realtà la conquista di qualcosa di meno ambizioso forse, ma certamente più attivo in profondo: «una disciplina vissuta », la « compiuta immedesimazione del suo essere con la sua idea », un’esperienza di abbandonata e liberata umanità. (34-47, 56-7) Nell’« articolo » su Caporetto (Dal castello di Udine verso i monti) sembra quasi che la difficoltà a control.

lare e sottacere l’ira, risentimento, odio pet i responsabili della disfatta, si traduca anche in una difficoltà a realizzare pienamente quella sua originale convergenza-conflitto tra livelli diversi, intorno al « nucleo lirico » dichiarato: il sarcasmo sprezzante, l’ironia cognitiva, la rievocazione commossa, quella sua « retòrica », il pronunciamento solenne, eccetera. Mentre la tensione talora si allenta, in

Compagni di prigionia, per la tentazione della memoria nostalgica, per un certo eccesso di tenerezza e generosità verso gli amici e se stesso, con momenti di autocontemplazione ora felicemente autoironica ora troppo compassionevole-compiaciuta, che si accentuano e incupiscono 65

(questi ultimi) nell’Imzzzagine di Calvi, per una preoccupazione difensiva del suo destino di prigioniero, le cui ragioni sono evidenti nel diario. Con tanta maggior forza si stagliano allora certe figure del passato, fissate in una condizione di tragica precarietà, di morte (morale e fisica) incombente: « un tenente del genio: portava gli occhiali, altissimo della persona e curvo, con il polmone trapassato da una pallòttola e appena rimarginato, non guarito. Era studente di matematica, e divenimmo amici: un’amicizia fragile e secca, nel gelo morale della disperazione, come quei fiori, vitrea piuma, che un soffio dissolve. » (90-1)

Scritti relativamente minori tutti gli altri, sostanzialmente esterni alla pur contrastata « unità » dei primi cinque, seppur caratterizzati da ritornanti motivi. Negli scritti d’occasione di Crociera mediterranea c’è la « derisione » lieve e feroce dell’« avventura » turistico-borghese, soprattutto attraverso il contrasto tra le meraviglie artisticonaturali e il banale bavardage dei visitatori, gli encausti pompeiani e l’evocazione della sala da pranzo della signora Giavannazzi, « l’Etna grigio-roseo » emergente dal « cobalto dello Jonio » e la « caccia delle interiezioni » (« chi si meraviglia in ah, e chi si meraviglia in oh ») dei passeggeri in pigiama. Anche quando il racconto sembra abbandonarsi alla bella pagina, al preziosismo cromatico, alla contemplazione en artiste, o a un dichiarato « barocchismo » paesistico-figurativo, ecco che spuntano « gambe micamal pelose » di milionari in vacanza o lottizzazioni di divine foreste, a ricordare

103-4,/107; 115, 117, 152:3)

più prosaiche

realtà.

Risvolto popolare della borghese Crociera, come

(88,

Ci

nema rispetto a Teatro, è poi in certo senso La festa dell'uva a Marino: una « indemoniata festa » paesana, raccontata in un linguaggio fortemente contaminato (dialetto

66

laziale, con richiami lombardi), tra contemplazione divertita e sottile senso di esclusione (195). Gadda chiude la sua raccolta con gli interventi nella polemica tra contenutisti e calligrafi di quei primi anni Trenta. Le punte sono soprattutto per i primi, ma « non sono risparmiati neanche » gli altri (LT 114), in una serie di pagine finemente allusive, metaforiche, ironiche, con momenti di autentica comicità (e con proseguimenti in L’A 385). Il vero bersaglio di Gadda, alla fine, è la superfluità, marginalità, ininfluenza, della pur « elegantissima » polemica tra gli « opposti partiti »: cui viene contrapposta, con sarcasmo volutamente brutale, la inelegante ma « necessaria » polemica « mangiativa ». La « calligrafia » e il « contenuto » che suggellano interventi e volume, sono infatti quelli di un « povero Cristo », morto con la « miseria addosso » (cdu 200, 227, 250). Funzionali ai vari scritti e al tempo stesso caratterizzate da una loto autonoma originalità, sono poi le note: che Gadda attribuisce a un immaginario dottor Feo Averrois, di trasparente ispirazione dantesca. Sono vere e proprie note esplicative, confessioni personali, citazioni, commenti critici, riferimenti eruditi, divagazioni, pretesti, notizie, nelle quali Gadda continua spesso il gioco del suo sdoppiamento, su una ben nota gamma di toni e livelli. Ne scaturisce un apparato puntiglioso, minuzioso, e tuttavia iperbolico, proliferante: un commento al testo che da esso risulta inscindibile, e insieme un testo sul testo, che al limite si potrebbe leggere come cosa a sé. In una lettera (inedita) a De Robertis del 6 giugno 1934, già citata, Gadda spiega efficacemente questo nesso tra funzionalità e autonomia: « Le ‘ note? hanno avuto lo spunto

da un suo suggerimento del 1931, ma si sono dilatate e deformate. Nella mia mente esse hanno un fine: esse mi sono costate della fatica stilistica. Il fatto che io abbia 67

accolto il suo suggerimento mostra quanto esso fosse geniale e divinatorio. Ma era difficile per me, per la mia forma mentale, pensare a una pura e semplice annotazione: ho dovuto assolutamente ironizzarla, fingere che essa fosse dedicata ai giovani del liceo, e ancora poi raggiungere talora un tono polemico o burlesco: (non sempre.) / Pure non ne sono scontento: il tentativo è nuovo ed era difficile cavarsela. Così le note vengono a costituite una specie di risonanza o coro al testo. — » E aggiunge che esse recano in sé « un reale valore di documento esegetico », destinato a rivelarsi sempre più con il tempo. Il castello di Udine viene salutato alla sua uscita, da un memorabile

scritto di Contini

che (riferendosi

anche

alla Madonna dei flosof) fissa con grande intelligenza e sicurezza alcuni punti fondamentali: a cominciare da « quanto di risentimento, di passione e di nevrastenia covi dietro al fatto del ‘ pastiche ’; per che immane sfogo pratico un autore si decida a scritture così mescidate, scandalose ». Questo è anzi il ‘vero leitmotiv continiano:

una prosa « tutta provocata: mica », dallo

« sforzo

dal malumore,

testimoniale », e

dalla pole-

« tutta

utile »,

« al di qua del metodo disumano » che la distacca dall’« occasione » per consegnarla alla « fraude metafisica ». Uno scrittore nel quale la bella pagina « non rimane gratuita », nel quale convivono « il meditatore e il poeta » quasi a salvarlo dal « finire virtuoso e tecnicista », nel quale insomma non si riesce a trovate « un atto di scrittura non sollecitato dall’uomo ». (Contini cdu 151-3, 156-

157) Compare qui anche il motivo della « deformazione » linguistica (157), che Contini sviluppa in alcuni scritti degli anni Quaranta (estesi un po’ a tutta la produzione di Gadda e alle sue traduzioni da Salas Barbadillo e Quevedo del 1941), evidenziandone i vari livelli dialettali, aulici,

arcaistici,

tecnico-scientifici,

manipolati

tra

umo-

rismo e lirismo, caricatura e moralismo, parodia e indi68

gnatio

(Contini

eTE

304-5),

e riconducendola

sempre

a

un’« urgenza pratica od ostinazione d’intelletto », che ne spiega anche l’intrinseca carica « distruttiva e costruttiva » al tempo stesso, quasi « esterna al linguaggio, sostitutiva del linguaggio » (Contini GF 582). « L’anima di Gadda si muove fra i poli sentimentali della reazione furente a una determinata vita borghese (del suo, diciamo, antivittoria-

nesimo ambrosiano) e della disperata elegia innanzi al volto più mortale della condizione umana. » (Contini GTE 304) Contini

indica inoltre ascendenze

affinità consonanze,

tracciando una genealogia tanto complicata quanto conseguente, che dominerà la critica futura, spesso con forzature più o meno arbitrarie da parte di essa. Ecco dunque i nomi di Dossi (e Calandra) e Joyce, i macaronici (Folengo) e Rabelais, Lucini e Linati, l’espressionismo vociano (Contini cdu 151-2), e quindi una linea Dossi-Lucini-Linati nel segno di «una violenza linguistica, una varietà di espressionismo » (Contini sp 534), e Porta, Cagna e Faldella, il secentismo barocco (Contini GrE 304-5 e GF 581),

e «i moderni, sulle rive del Seveso o su quelle della Liffey, o magari della Senna » (Contini sp 540). Più tardi ancora, aggiungendo nuove affinità e parentele, Contini confermerà il motivo di fondo del suo discorso: « la rottura e l’energica manipolazione delle forme linguistiche ereditarie in rispondenza a una lacerazione morale e cono-

scitiva rivela, pur con premesse e realizzazioni molto diverse, una profonda

connivenza

con l’ultimo Joyce, con

l’espressionismo tedesco, e semmai con qualche minore conterraneo di Rabelais (da Céline a Audiberti). In tale funzione di letteratura antiletteraria è da ravvisare la sicura importanza del nostro scrittore su un piano internazionale. » (Contini L’A IX)

Il richiamo di Contini alle traduzioni di Gadda e alle relative consonanze,

porta a rintracciare 69

più in generale

nello spagnolismo gaddiano un punto d’incontro tra varie esperienze: l'Argentina e le conseguenze letterarie, certi aspetti del suo « barocco », e così via. E sarà da ricordare un passo dell’Apologia manzoniana, significativo di un’intima partecipazione e personalizzazione: « Tra le due espressioni conduttrici, Don Chisciotte, Don Abbondio, si palesa il dolore dell’uomo che concepisce la vita come realtà, sorretta da un fine morale. Spagna, Lombardia!

Don Alessandro vi ha poste a fronte, nella sua indagine atroce. » (TO 27)

Capitolo settimo *

LA SOMARESCA

TRIBÙ

Gadda sembra dunque voler chiudere i conti non soltanto con l’esperienza della guerra, ma anche con quella familiare-educativa ed etico-classista: che significa poi portare a compimento la sua « vendetta » e « riscatto » verso il mondo (borghese) dei doveri imposti e subìti, dei valori dichiarati e stravolti. L’Adalgisa (1944) appare perciò anche come l’approdo di un processo iniziato negli anni Venti, con La Meccanica e La Madonna dei filosofi, continuato con molte pagine del Castello di Udine e soprattutto con una serie di « disegni milanesi » che dell’Ada/gisa stessa non entreranno a far parte, rappresentandone l’ideale preparazione. C’è infatti negli anni Trenta un succedersi e talora accavallarsi di stesure e progetti in questo senso, che lo documentano già dall’esterno. Mentre è significativo che Gadda collochi più o meno implicitamente tutto questo processo e L’Adalgisa al di qua della guerra e dei coinvolgimenti relativi, come appare da certe lettere

E KE

Bdc VM

L'incendio di via Keplero, 1930-35 (in « Il Tesoretto », Primi Piani, Milano 1940), e San Giorgio in casa Brocchi, 1931-52 (in «Solaria», giugno 1931). Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus - Alcune battute per ‘il progettato libro, 1933, e Le bizze del capitano in congedo, in « Corrente », 15 e 31 gennaio 1940. Meditazione breve circa il dire e il fare (1936) e Come lavoro (1949).

71

(il volume « era destinato a tempi normali e sereni »: LGC 60) e dal fatto che nelle note al volume stesso, spesso esplicitamente datate al ’43, la guerra sia sostanzialmente ignorata.

Gadda inizia dunque nel 1930 L'incendio di via Keplero e l’anno dopo scrive San Giorgio in casa Brocchi, sui quali racconti tornerà a lavorare, pubblicandoli in varie sedi a partire, rispettivamente, dal 1940 e ’31; nel ?31 scrive altresì La fidanzata di Elio, rielaborata nel ’32 e compresa poi nel Castello di Udine (dove costituisce la punta di un discorso peraltro più diffuso). Ancora nel °32 Gadda interroga Tecchi su quel suo progetto di « un libro satirico, come ‘S. Giorgio in casa Brocchi’ — di 5 o 6 pezzi così » (LT 109), e riprende in mano

nica anche per pubblicarne (Ls 368). Del

1934-35

tre frammenti

è Ronda

La Mecca-

in « Solaria »

al Castello,

pubblicata

nel ’39 sul « Tesoretto », frammento di un nuovo tentativo di romanzo, Ur fulmine sul 220, che nasconde una prima redazione di quelli che saranno gli ultimi testi dell’Adalgisa. Mentre la gestazione e stesura della Cognizione del dolore a partire dal ’36 e la sua pubblicazione in « Letteratura » trail 1938 e il ’41, si intrecciano alla vera e propria costruzione dell’Adalgisa « con dieci racconti del decennio » (L6c 60), pubblicati su « Letteratura », « Il Tesoretto », « Primato », « La Ruota » e altre sedi (1938-43).

A tutta questa fase (di cui si sono indicate le lince essenziali) presiedono significativamente alcune lettere del 1931-34, che esplicitano strategie e bersagli. Gadda vuole « essere il Robespierre della borghesia milanese », ‘della « sacra e buseccherita città della saggezza moraleggiante, consigliante, sentenziante, giudicante e stentatamente gram-

maticante »:

nei confronti

della quale

dichiara

insoffe-

renza, terrore, « odio », e propositi letterari di « satira »

e « velenosità » (LT 89, 92, 109. LAM 72

44, 46). Anche in

questo senso San Giorgio in casa Brocchi sembra introdurre alla fase di gestazione e costruzione dell’ Adalgisa, anticipandone motivi e modi. «La novella [...] è una satira dell’ossessione conservatrice e moralistica di una famiglia signorile milanese » (LT 92), che cerca di preservare in ogni modo il suo rampollo dalle tentazioni del mondo, incarnate (anche letteralmente) in una procace cameriera. Un racconto che richiama tra l’altro, per certi aspetti, La fidanzata di Elio, dove il protagonista contrappone il ricordo incantato di

una « donna d’altri » alla fidanzata appunto, ricca quanto parsimoniosa, « inarrivabile massaia! » quanto « rigorosamente monda di ogni vena di sensualità » (cdu 168-9).

Il leitmotiv più o meno esplicito dei due racconti è quello dell’uomo giovane stretto tra la normalità dei falsi doveri cattolico-moralistico-borghesi e l’anormalità di una libertà vietata. Se ne può trovare una variante in un raccontino minore dell’Ada/gisa (Claudio disimpara a vivere), dove un altro uomo giovane vive come un impedimento alla « dolcezza di veder Doralice così splendida », le attenzioni da lei prestate ai suoi supponenti e sussiegosi parenti (borghesi). Con un’eco, forse, delle antiche gaddiane privazioni d’amore. Il motivo dell’insofferenza pet i falsi « doveri », circolante nei tre racconti, ha comunque il suo vero eroe nel « signorino » Brocchi, con la conclusiva trasgressione nelle braccia della bella popolana: che evoca al tempo stesso la fugace avventura adolescenziale di Cizemza e soprattutto

il mito prorompente di Zoraide, sullo sfondo di una ritornante misoginia nei confronti dei personaggi femminili borghesi del racconto (accentuata negli interventi successivi all’edizione solariana del ’31 quasi a far risaltare ulteriormente il contrasto). Può essere inoltre curioso notare

che la pur diversa ma egualmente apprensiva madre del « giovinetto Velaschi », nella stesura solariana 1932 di 75)

un frammento della Meccanica, risulta « nata dei conti Brocchi » (PM 20 sgg.). Le ben note e fitte implicazioni autobiografiche di tutti questi riferimenti, possono spiegare allora perché nelle ultime pagine di Sar Giorgio in casa Brocchi Gadda non satireggia (e non contamina) più, diventa per così dire improvvisamente serio, con qualche lieve sorriso: come per un più intimo e personale coinvolgimento. Mentre il processo complessivo degli altri due racconti evidenzia indirettamente il ruolo ancora pretestuoso e sostanzialmente esterno dei personaggi femminili borghesi, quando siano oggetto di desiderio e di amore. Ma San Giorgio in casa Brocchi anticipa i disegni dell’Adalgisa soprattutto in una feroce satira antiborghese che si esprime tra l’altro nell’accanita imposizione di difetti fisici ai personaggi (preferibilmente femminili, appunto) come materializzazione di interiore volgarità e grossezza, e nello smascheramento di rituali e travestimenti (il decoro della stupidità, la vanità dell’ignoranza, la retorica del pregiudizio, la sofisticatezza della pruderie), attraverso un linguaggio rifatto sul parlato medio, con

interventi colti o scarti dialettali in funzione deformante e critico-polemica: i « sirventesi elettromeccanici » indirizzati dagli studenti alla bella cameriera, con turbamento e disgusto della contessa Brocchi; o la banalizzazione quotidiana di una eruditissima divagazione sul « scior avocatt » Cicerone, campione dei benpensanti; o il gioco di allusioni sull’« Etica » dello zio Agamennone, « il libro scritto da un Brocchi, per un altro Brocchi! » (AG 67, 69, 98). Il microcosmo popolare dell’Incendio di via Keplero (135 sgg.), rappresentato con una divertita carica plurilinguistica non priva di simpatia, si può allora considerare come il rovescio di quei primi « disegni » borghesi (non è forse un caso che Gadda lo ripubblichi proprio di seguito a Sar Giorgio in casa Brocchi): un po” come Cinema 74

rispetto a Teatro, e La festa dell’uva a Marino rispetto alla Crociera mediterranea, nel segno comune di un disordine libero e felice. È una simpatia che si ritrova nei confronti di certi lavoranti, vecchie serve, garzoni, in questo o quel « disegno » dell’Adalgisa: dove peraltro si profila altresì un mondo popolare degradato, come livello estremo di una universale stupidità (soprattutto nei due « tratti » che L’Adalgisa ha in comune con La cognizione). Ma L’Adalgisa è tutto questo, e molto molto di più; è, in sostanza, la prima grande opera di Gadda, dopo il suo diario. Dove il dopo non sta a indicare un livello gerarchico di valore, ma un livello narrativo successivo e altro: nel senso che L’Adalgisa realizza quella diversa unità, da Gadda cercata dopo i falliti tentativi di romanzo, e realizza altresì in essa e con essa le istanze di fondo che a quegli stessi tentativi avevano presieduto. E anche in questo senso conclude un processo. (Del resto, la stessa Adalgisa doveva essere un romanzo nel progetto originario di Gadda, come confermerebbero i pezzi mancanti conservati nell’archivio Garzanti.) In sostanza, una raccolta di testi autonomi ciascuno in se stesso, e al loro interno divaganti, proliferanti, riproducenti quasi all’infinito tutta una serie di itinerari urbani, interni, ritratti, parentele e genealogie, antecedenti familiari e sociali, spaccati di costume, squarci contemplativi e riflessioni arbitrarie,

excursus

storico-artistici,

evocazioni

e

invettive,

elencazioni e cataloghi, dissettazioni tecniche o filosofiche più o meno personalizzate, regressioni autobiografiche, e via dicendo; ma testi, al tempo stesso, che proprio attraverso una forte interazione di queste spinte eterogenee e centrifughe nell’intero volume (e attraverso e al di là di motivi tematici e personaggi ritornanti), finiscono per realizzare una complessiva, otiginalissima discordia concors. In questo quadro L’Adalgisa matura, approfondisce, accresce, complica la gamma dello sperimentalismo gaddiano 1

(e quindi anche del suo dichiarato « barocchismo » e « macaronismo »: L’A 207), con risultati del tutto nuovi.

Qui anzitutto la contaminazione plurilinguistica della sua prosa colta è più estesa, e realizzata piuttosto per compenetrazione o attrito che per intreccio o scarto, con un processo di più profonda trasformazione: fino a risultarne intimamente e dinamicamente pervasa o soffusa di bavardage piccolo-medio borghese e/o « dialetti lombardi » (ma anche fiorentinismi e altro ancora), arcaismi o termini tecnico-scientifici, neologismi, latino o francese, gergo della « lingera » o registrazione del parlato triviale, via via fino al « maradagalese », in una serie infinita di acquisti più o meno beffardamente oltraggiosi dei purismi vecchi e nuovi (con relative sottolineature ironiche o autoironiche in nota: 134, 203, 205, 207 e passi). Una prosa, ancora,

che porta a piena maturazione quel contrasto-rapporto contestuale, circolante nella produzione di Gadda, tra mimesi e deformazione, impietosamente esercitate sul mondo e linguaggio eletto a bersaglio, attraverso i vari gradi più o meno

controllati

del suo

furore,

dall’invenzione

ono-

matopeica al gioco di associazioni e assonanze, dalla trasformazione delle figure retoriche fino allo stravolgimento verbale o semantico. Così rimettendo continuamente in moto quel processo centrifugo-centtipeto, quella esplosiva convergenza, quella sempre rinnovantesi discordia concors. Mai come in queste pagine del resto, l’intervento o commento dell’autore in prima persona, era stato tanto scopertamente esplicito, tradizionale, intrusivo, e tuttavia tanto dinamizzante, intrinseco, (auto)ironicamente invertivo (91, 124, 129, 185-6, 242, 373). Mentre, analogamente, l’accostamento alto-basso (tra « Atena flautante »

e l'avvocato

Cazzuola, i « càthari » e i polli di donna

Giulia, e così via: 18, 35, 55-6, 60, 126) non aveva mai sviluppato e irradiato una così ricca e mobile e mobili-

tante pluralità e insieme complementarietà di usi e signi76

ficati: dall’ironico al sarcastico, dal caricaturale al divertito, dal comico al comico-grottesco, come livelli diversi di un atteggiamento di fondo tra vrogritivo, critico-polemico, vendicativo, demistificatorio, eccetera. Anche la formazione intellettuale anomala, e specificamente filosofico-scientifica, appare qui più fermentante e creafiva, contribuendo in‘timamente per esempio a un personalissimo sincretismo Leibniz-Darwin-Freud e altri, sotteso alle motivazioni dell’« oscuro » e « inconscio » tendere, volere, scegliere, aggrumatosi nell’uomo « traverso i millenni » (358, 424-5).

L’Adalgisa si presenta dunque come un’opera nella quale l’interna ribollente e instabile molteplicità e complessità viene continuamente rifusa e per così dire compressa in una

tenuta

sempre

sul punto

di rompersi, ma

a suo modo perfetta: opera brulicante di motivi centrifughi, eccentrici nel senso letterale, che tuttavia, anche quando Gadda sembra abbandonarsi al puro gioco verbale o elencatorio o labirintico, finiscono per essere funzionali a quel processo di mimesi-deformazione esercitato nei confronti di una piccola e media borghesia milanese degli anni Venti-Trenta, elevata a modello di ignoranza, bruttezza, volgarità, conformismo. Si possono ricordare fin

d’ora le variazioni sul « ciapàll » (prenderlo, il tram) a caricatura della « società musogònica » che si accalca verso il Conservatorio, in una faticosa ripetizione del rito sociale domenicale e in un coro soddisfatto di luoghi comuni (251-2, 256); la divertita allusività dei cognomi, di un architetto Basletta, di una contessa Chiappini o di un N.H. Cipriano de’ Marpioni; le pagine in cui Gadda scatena

tutta

la sua

furia satirico-elencatoria

ville di arricchiti e falliti in una

Brianza

(le mostruose

travestita da

Sudamerica, 141-3, o le straripanti e inutili collezioni del ragionier Carlo marito dell’Adalgisa, 359 sgg.); il gusto iperbolico-deformante del « groviglio » e del « laberinto »

(103-4), che nella descrizione di complicate « migliorìe » UE

edilizie, o nell’arruffio di gomitoli e matasse con cui una pretenziosa gentildonna fa ammattire i commessi fuori orario, o nella inestricabile « giungla degli indirizzi e delle omonimie » e delle parentele (103, 118 sgg., 192-4), sem-

bra voler colpire un mondo piccolo, mediocre, avviluppato nelle sue

convenzioni

o manie,

e ammantato

di suppo-

nenza, ridondanza, pomposità, enfasi (significativo, in questo senso, anche il leitmotiv dei titoli nobiliari, qui rovesciato rispetto a certi spunti autobiografici gaddiani). Le stesse note, esplicative o divaganti, e pur sempre personalizzate, sono nell’Adalgisa più strettamente funzionali ai vari livelli del suo atteggiamento e discorso, di quanto non lo fossero nel Castello di Udine. I motivi di fondo dei falsi doveri subìti e dei veri valori traditi, che presiedono a tutto questo, sono esplicitamente introdotti dai primi due testi. Notte di luna, già presente nel Cabier d’études in forma pressoché definitiva (RIN 40-4; a differenza dell’altro testo omonimo, presente anch’esso nei quaderni gaddiani), sta quasi a testimoniare proprio in apertura la

lontana radice di una protratta resa di conti. Più precisamente, già ben chiara allora e accentuata nella nuova stesura e nelle relative note, una sfida ai divieti, una sorta di pronunciamento trasgressivo, affidato alle figure di un volontario garibaldino, di un giovane amante, e di soldati « èslegi », ciclisti arditi, muratori con maglie bucate, meccanici con scarpe che ricordano passati balli domenicali, tutto un mondo popolare di fatica ma anche di libertà. Quella « nostra ventura », scrive Gadda, « nessuno la impedirà »; e commenta in nota, quasi liberando la prosa aulica e severa di allora, in una delle sue elencazioni ironicoparadossali: « Nessuno degli abilitati a pronunziare un veto, a formulare o ad imporre (altrui) il dettame della legge: padri, pedagoghi, poliziotti, pompieri, bambinaie, maestri, sacerdoti, filosofi, suocere, ufficiali di picchetto, 78

guardie daziarie, ronde e pattuglioni 44 oc, moralisti varî, ecc. ecc., o addirittura il governatore di Maracaibo. » (L’A 3 sgg., 12) In questo contesto tendenzialmente trasgressivo e liberato si può forse interpretare un’altra nota, pur con estrema cautela e riserva, come una sorta di apparente excusatio non petita, o di implicita difesa da sospetti di omosessualità nei suoi confronti. Commentando la frase « dove alcuno aspetta moviamo », Gadda scrive che « ‘alcuno’ è sessualmente agnostico (ambiguo) », e insieme alle varie ipotesi di possibile incontro amoroso tra « maschio » e « femmina », avanza quella di «un parisesso », ma per motivi che amorosi non sono, come lavoro, gioco, conversazione, furto (12). Si potrebbe addirittura osservare che nel Cabier la stessa frase reca una sfumatura vagamente più personale o comunque meno oggettiva: « dove alcuno ci aspetta, muoviamo [...].» (RIN 40) Il secondo testo, Quando il Girolamo

ha smesso...., è anche il ritratto satirico di una borghesia quasi inevitabilmente o ladra o sciocca, sullo sfondo delle ultime vestigia e ricordi gloriosi dell’onestà, efficienza, fiducia: « L’onorato nome della città laboriosa era stato issato a guisa di stendardo (mendace) sulle antenne della truffa: [...] con una callidità scempia e appunto perciò diabolica, in quanto agiva nel confronto di cervelli e di anime scempiate. » (L’A 35-6, 39) Dove la parola-chiave scempio, nei suoi diversi significati, sembra voler evidenziare quell'inevitabile nesso. Il contrasto tra le benemerenze della « vecchia classe » e lo spirito di rapina, imprevidenza, impreparazione, della nuova, torna del resto in molti disegni milanesi, ma in generale al di là di questo tende a prevalere, investita dal ritornante e totalizzante furore gaddiano, l’immagine e presenza di una « città industre » quanto responsabile essa stessa di uno svuotamento, e degenerazione dei valori della famiglia, cultura, lavoro, nel 79

formalismo retorico, ossessione proprietaria, produttività esasperata, disdegno passatista o compiaciuto snobismo intellettuale per il facile « scandolo », che mascherano comunque un fondamentale cattivo gusto (257-8, 274, 328292)

Preannunciata nel Castello di Udine, si afferma e accentua perciò qui come vera discriminante quella che passa tra presente e passato, con ulteriori più o meno

note im-

plicazioni: l’amore-nostalgia tecnico-professionale per la cosa ben fatta, e per contro la rabbiosa condanna del: dilagante « malfare », da una parte (le già citate ville); e dall’altra, l’evocazione sottilmente elegiaca o affettuosamente divertita di luoghi e colori e figure di un mondo « aurato » e gentile, superstiti o minacciati o scomparsi (287). Motivi compresenti anche in una prosa narrativa

del 1933, dove Gadda .emblematizza una dolce antica Brianza di piante e ville venuste, invasa e stravolta dagli « artefici della ricchezza e della bruttezza lombarda » (Bdc 13-7); e in scritti più tardi, dove egli rivive il contrasto

tra mondo naturale e « edilità » distruttiva come un momento della sua dura esperienza e formazione giovanile (vm 22-3). Sarà poi da ricordare in questo quadro, a partire appunto dal Castello di Udine, l’insofferenza per i rumori cittadini, di automobilisti, motociclisti e « musicanti di strada » (cdu 161. Bdc 36 sgg. PLF 20, 22), che in altre opere diventa spesso fobia per il rumore tout court, con un riassorbimento delle implicazioni industrialmetropolitane nella nevrosi. È peraltro interessante notare come

in certe pagine e

note dell’Ada/gisa, al di là dei diretti bersagli della dilatazione e deformazione satirica, l'ingegner Gadda venga delineando il « disegno » di una trasformazione tecnologica e industriale di Milano e della Lombardia, che interessa la panoramica urbana e il paesaggio naturale, le figure sociali e i ruoli produttivi, i modelli di vita, i costumi e 80

consumi dei ceti più privilegiati, e che in certo senso anti-

cipa aspetti di una futura (nel bene e nel male) modernità. Di fronte alla realtà del fenomeno, Gadda sembra oscillare tra l'ammirazione professionale e partecipazione ideologica al Progresso, e la condanna etica e odio viscerale per quegli strati borghesi che ai suoi occhi ne sono gli indegni o inadeguati rappresentanti, tendenzialmente elevati poi a emblema tout court della borghesia milanese e italiana. Sono dunque i rappresentanti della « città industre » eppur tralignante, i protagonisti maschili dei disegni milanesi: impresari di pulizia, professionisti e segnatamente ingegneri, commercianti del ferro, industriali del cioccolato, amministratori pubblici, senatori con molte presidenze di società, e così via. Felicemente ed efficacemente riassuntivo in questo senso, il corrosivo ritratto (I ritagli di tempo) dei nobili Caviggioni, « ingegneri tendenziali », promotori di associazioni meneghine e benefiche, lettori « entusiasti del Guerin Meschino », inutilmente dediti a imparare « un po’ di tedesco », scopritori di Virgilio Brocchi e di scrittori « specializzati in mayerlingheria », severi nell’abito e nella faccia « atteggiata al pensiero » (L’A 186196): quasi un autoritratto di Gadda in negativo. Sarà appunto un Caviggioni (in Ur « concerto » di centoventi professori) a liberarsi con sollievo dal « calvario » del concerto e altresì dall’« arpione senso-del-dovere » dell'abbonamento pagato (243), affidando l’incarico di accompagnarvi la giovane moglie Elsa al nipote, neoingegnere dal « bel cranio tagionativo di dolicocefalo biondo » (248): con una ironizzazione molto serrata, articolata (e accentuata dall’allusione a Pitigrilli) del rapporto tra « ottusità mercantile » e « valori dello spirito ». Che Gadda ripropone in uno dei « tratti » sudamericani, tra il cav. Bertoloni preoccupato delle conseguenze finanziarie e legali di un fulmine viperino, e i cimeli del vate « maradagalese » 81

(dove è facile riconoscere la iperbolica caricatura del Vittoriale e di D'Annunzio: 148 sgg.). Ma è sui personaggi femminili, mogli, figlie, suocere, zie, nipoti, che si accanisce maggiormente Gadda, per quel risentimento più acuto e privato che tortuosamente e oscuramente riconduce alla odiosamata figura materna i più dolorosi doveri e divieti. La « velenosità anti-borghese » fa veramente tutt'uno, allora, con la misoginia e le ben note implicazioni di un amore sempre frustrato. Sono gentildonne segretamente impudiche o insopportabili giovani « diavolesse », timorate spose di ottusa risolutezza o invereconde « bassaridi », assillanti padrone e suocere tiranniche: un mondo femminile di ipocrisia, deformità, invadenza, stupidità, trivialità, supponenza, cattiveria. I rispettivi vizi dei personaggi maschili e femminili si ricongiungono e si esaltano poi nella vita familiare, regolata dalla doppiezza, in una infinita varietà di vecchie e nuove combinazioni: tra affettività ossessivamente esibita, ignoranza travestita da praticismo, pochezza enfiata a presunzione, tirchieria ammantata di amorevolezza, e altri motivi anticipati da Sar Giorgio in casa Brocchi. Culmine di questa satira antiborghese e antifamiliare (e gaddiana phobie du mariage) è l’iperbolizzazione caricaturale e iterazione irridente di episodi, atti, oggetti minimi e quotidiani, in un coro di rumorosi entusiasmi, seriosi pronunciamenti, convinzioni cocciute, autoritarie pretese: quasi convenzionali e vuote enfatizzazioni di altrettante convenzioni e vuotaggini (in un saggio del ’36 Gadda si diffonde sul ruolo del « vaniloquio » nel rapporto maschio-femminafamiglia: vm 33-5). Esemplari in questo senso i de’ Marpioni in Quattro figlie ebbe e ciascuna regina, dove la frequente pipì della piccola Maria Giuseppa assurge a evento supremo e regolatore della vita di familiari, servitù, parentado tutto, in un diluvio di vezzeggiamenti e sbaciucchiamenti, che Gadda enfatizza appunto in una serie 82

scatenata

di sinonimi

sul leitmotiv della « saliva » e di

tutti i relativi organi, portatori e dispensatori (L’A 108).

Ed esemplare altresì il Carlo dell’Adalgisa, nella rievocazione del suo incontro emozionato e felice con uno scarabeo nero impegnato a spingere faticosamente una pal lottola di cacca « fino alla dimora di sua donna: che attendeva, ansiosa, per il piccolo » (364). Tutte pagine in cui Gadda raggiunge anche effetti di irresistibile comicità. Ma ci sono negli ultimi testi, legati dall’episodio del concerto e dalle conseguenze relative, tre personaggi femminili che fanno eccezione: la giovane e bella donna Elsa Caviggioni, sospettata dal parentado di relazione adultera con il nipote accompagnatore, ma attratta in realtà da un fattorino del marito; la « suocera universale » donna Eleo-

nora, implacabile e perfida propalatrice di quei sospetti « nel soma della somaresca tribù (gnecchico-recalcatocaviggionica) » (312-3, 401); e l’Adalgisa animata da una rabbiosa e rancurosa ricerca di personali indiretti risarcimenti e vendette, attraverso il supposto adulterio della cognata Elsa. Con l’Adalgisa Gadda costruisce uno dei suoi personaggi più sentiti e più grandi. Bella e vivace ragazza del popolo, « piscinina » di sartoria, cantante lirica « di quint'otdine » e « per breve stagione » (attraverso la quale Gadda rivive certe sue infatuazioni giovanili nel « retrologgione » del Fossati, del Carcano e del Garibaldi: 373376, 379); poi sposa amorosa del ragionier Carlo mal tollerata dai di lui parenti, e perciò vedova recriminante sul suo passato di occasioni perdute e di cattiverie subìte. Nell’Adalgisa Gadda sembra riaffermare il suo mito muliebre-popolare con un più accentuato sorriso, che implicitamente recupera anche il dileggiato teatro lirico (0ggetto comunque più tardi di calorosi e raffinati omaggi); e in lei sembra incarnare al tempo stesso con ammirazione e simpatia ironico-affettuosa, l’altro mito della donna 83

di popolo ferita e indurita dall'esperienza crudele di un mondo sociale non suo, e perciò costretta ad armarsi di « carattere » e « lingua » nel sostener le sue cause. Una donna capace di farsi « borghese perfetta » e di comprimere senza adulterarla la sua natura originaria, e perciò pronta a farla esplodere in un’acredine quasi riscattata dalla recessità e Con più o meno cazioni personali trasgressioni già

dal dolore. (328, 345, 385-6, 391, 397) esplicite e sottilmente interagenti, implida parte di Gadda: le brevi, innocenti emblematizzate in Cinemza, non senza al-

lusioni forse a una stagione biografica precedente la sua misoginia; e il nodo di passate frustrazioni giovanili e successive

vagheggiate

rivalse.

C'è dunque un’attiva contraddittorietà che arricchisce il personaggio dell’Adalgisa e che l’accosta paradossalmente a quello di donna Eleonora, la più sprezzante tra i suoi parenti emarginatori. Nella cui immarcescibile vecchiezza, condiscendente superiorità, moralistica vocazione, Gadda sembra voler rintracciare le ultime corrotte (o fedeli?) vestigia di quella che era stata una gran dama, tanto spietata e autoritaria quanto intelligente e colta, rappresentante della classe che aveva preceduto telefono e automobile, pseudocultura esibìta e piccolo utilitarismo (303-4, 402-3): con un atteggiamento che passa progressivamente

dall’accanimento sarcastico all’ammirazione quasi timorosa. La ex popolana Adalgisa dunque e l’aristocratica Eleonora sono figure sociali ed umane di transizione, insetite e intruse in un contesto borghese che non è il loro: abusiva e osteggiata l’una, estranea e temuta l’altra, e tuttavia in diverso modo entrambe vincenti alla fine, nei confronti di quel mondo che Gadda detesta. È comunque donna Elsa, la vera eccezione emergente dal generale contesto misogino-antiborghese. Il personaggio ha vari aspetti che l’avvicinano alle due ideali eppur tanto diverse consorelle: una sua sottile diversità rispetto all’ot84

tuso, volgare e crudele mondo borghese cui appartiene, per una pena segreta che ne sottolinea una intima e delicata complessità (un matrimonio di convenienza, la mancata maternità), e per il suo ruolo di vittima nobile e innocente delle dicerie sul nipote, e al tempo stesso di donna trasgressivamente attratta da un giovane di classe sociale inferiore, rappresentante di quel mondo popolare libero dai falsi doveri. Ma la sua bellezza rattenuta (in «un abito molto casto e semplice »: 324), e tuttavia irradiante o immaginata, e descritta da Gadda in una prosa ferma e calda e quasi adorante (ironizzando la troppo « povera prosa »: 326), rappresenta una fase nuova nel processo iniziato con Zoraide: anche se si tratta ancora di una bellezza nascosta, quasi vietata, e lontana dal corpo

svelato e violato di Liliana Balducci. La mitizzazione letteraria di Elsa in sostanza, sposta su un personaggio femminile borghese quel risarcimento di ben noti locchi sessual-affettivi e moralistico-classisti, e al tempo stesso evoca un soprassalto di « rimpianti: come il ricordo d’una irripetibile gioia del vivere, d’una luce, che giorni crudeli ne avessero allontanata per sempre » (ivi). Quasi i risvolti complementari, letterario e autobiografico, di una felice stagione perduta, o forse soltanto sognata. Nell’atteggia-

mento

autobiografico-letterario

pagine si incontrano

che

e intrecciano

è sotteso

a queste

perciò, con nuova

ric-

chezza e complessità, motivi che avevano già circolato più o meno separatamente ed esplicitamente in altre opere gaddiane: la consonanza con i borghesi diversi e anomali, la simpatia per i trasgressori o vittime dei divieti, il personale risarcimento dai blocchi ritornanti, l’evocazione di un passato o sogno « irripetibile ». E ha certamente un significato che ancora una volta il nome di Freud con relative implicazioni, venga fatto proprio nell’ultimo di questi testi, che è poi anche l’ultimo del libro (358, 424). C'è comunque ancora in questi stessi testi e nell’in85

sieme del libro, una forte mediazione letteraria della personale esperienza gaddiana, mentre è soltanto nei due « tratti » presenti sia nell’Adalgisa sia nella Cognizione del dolore, che si delinea il più originale e difficile tentativo di compiutezza fondato sul conflitto: una scrittura tutta materiata di « vicenda umana », non in un diario ma in un’opera narrativa di invenzione: con tutta una serie di implicazioni e complicazioni che si vedranno a

suo tempo. Nel primo dei due « tratti » (Strane dicerie contristano i Bertoloni) compare l’autobiografico Pirobutitro, « il figlio della Signora », misantropo e diverso pet certe « manìe d’ordine e di silenzio », pet « certo rovello interno », pet un « male invisibile » (161, 178-9). Su di lui si esercitano le più maligne congetture della gente (e in questo il personaggio ha qualche consonanza con Elsa), che vedono peraltro particolarmente attivi e accaniti i rappresentanti di un mondo subalterno ottuso, conformista, astioso, bru-

tale, e che vengono dilatate e iperbolizzate da Gadda con un atteggiamento che alterna e intreccia l’attacco di una deformazione sarcastico-grottesca alla difesa (anche come velo al dolore) di una prorompente comicità: bastino a quest’ultimo proposito le pagine sulla favoleggiata e feroce gola di Pirobutirro (165 sgg.). Nell’altro « tratto » (Navi approdano al Parapagal) affiora come in un risvolto, la verità che « il figlio » nasconde alla malvagia incomprensione collettiva: è un Gonzalo tetro, cupo, funereo, « stanco », con i segni di quel dolore e rancore che hanno le loro radici nell’oscuro groviglio di privazioni materiali e affettive, frustrazioni sociali e segrete, personali e pubbliche sconfitte, dell’esperienza filiale e militare. Di qui un’ostilità-compassione e odio-amore per la madre, e un ancor più violento furore per la tradizione-educazione cattolico-borghese, rivissute come espressioni complementari di quel mondo di doveri subìti 86

e valori traditi. (211-2, 216, 221-2) È dunque questo il centro ideale di tutta l’opera, la sua profonda e disvelata motivazione. Non certo a caso qui la misoginia e la « velenosità anti-borghese » passano dalla caricatura divertita e dal feroce sarcasmo, a una disgustata rabbia, di cui Gadda investe le « maree d’uomini e di femmine » rappresentanti ai suoi occhi della nuova ricchezza e del nuovo piacere, detentori o partecipi (o sedicenti tali) di fortune facili e sinistre, bruttezze fisiche e morali turpitudini, sfarzose ineleganze e libidini proprietarie, vacui narcisismi e apparenti rispettabilità; maree sciabordanti contro un « approdo di demenza » e ripugnante bassezza (213-8). Ne deriva un duplice furore-dolore: per le passate frustrazioni di una « incenerita giovinezza » (212) e

per quelle presenti di un mondo che finisce per sporcare, corrompere, adulterare ogni possibile oggetto (presente e passato) di quei desideri frustrati: benessere, status, realizzazione di sé, libertà di scelte, eccetera. Spingendo così Gonzalo-Gadda a una diversità più che mai negatrice, disperata, fondata sull’introversione e sul rifiuto. Qui veramente ogni mediazione letteraria cade. Perfino quando, come per un raggiunto limite di insoppottabilità a un dolore svelato a se stesso nella sua più profonda radice, Gadda sembra cercare ancora uno schermo o una tregua nell’effetto comico-grottesco o nella dilatazione ironico-iperbolica di minimi gesti rituali; perfino in queste pagine la tensione non riesce ad allentarsi, e la pagina si rompe nello scatto di actedine e nell’attacco diretto (« quanto è fesso! », « potessero anche essere dei bischeri », « pensieri fessissimi », « sibariti in trentaduesimo, che avrebbero fatto pena a un turco stitico », e così via: 224-8).

Capitolo ottavo

GLI

ALIBI

DI GONZALO

La complicata vicenda editoriale della Cognizione del dolore, assai più di altre appare significativa di un interno e irrisolto travaglio. Eccone le linee essenziali, già anticipate in parte. Gadda la scrive in un breve arco di anni (n (127) 0132) 142. Eco 47 Les (84) ine pubblicaiscite « tratti » in « Letteratura », e alcuni anche nell’ Adalgisa e in successive raccolte, riunisce in un volume del 1963 i sette

« tratti»

medesimi

(con

varianti che non ne modificano

numerose

correzioni

e

peraltro la sostanza), fa-

cendo seguire in rivista vari materiali inediti a cura di altri, e nel ’70 un volume accresciuto, °63 è integrata di altri due « tratti ».

dove

l’edizione

Un primo livello di lettura della Cognizione richiama motivi.e personaggi largamente autobiografici già incontrati qui: la villa, la madre, il figlio, e una nebulosa di voci e di figure diverse e talora contrastanti, che tende all’indistinto di una incomprensione ottusa e crudele. Il figlio dunque, con le sue ire retrospettive e presenti pet le privazioni e i sacrifici materiali e affettivi, subìti nel nome della proprietà («le pere »: cdp 87, 94), e per le materne generosità e attenzioni nei confronti degli « altri »; ire che si vengono esercitando con indiscriminata violenza, contro la memoria paterna e i beneficiati della madre («il nipotino », il peone, le donne di casa), e perfino contro di lei, tra rancore e rimotso, autopuni88

zione e gelosia, acrimonia e pietà, disperato odio e struggente amore (cfr. LT 125-7. Lec 42. LGS 84. IDM 19-21). Oggetto fragile e ormai incolpevole di quei risentimenti, la vecchia madre è l’immagine di un tempo tutto consumato e di uno strazio immedicabile (l’altro figlio caduto),

di un dolore nel dolore e di una cognizione nella cognizione; nel buio della sua angoscia, la presenza-assenza di Gonzalo è temuta e desiderata, e comunque teneramente amata. Sono queste le linee più evidenti di una ricerca portata alla « più lontana sorgiva » del dolore di GaddaGonzalo, a «una zona profonda, inespiabile, di celate verità » (cdp 119, 187). Ed è qui che si verifica la frat-

tura più netta nei confronti dell’esperienza e del discorso culminati nell’Adalgisa. La perseguìta « vendetta » e « riscatto » di Gadda, che si era manifestata nella mimesideformazione di un definito mondo sociale, familiare e femminile (la borghesia, Milano), come emblematico colpevole delle sue infelicità, frustrazioni, sconfitte, si vien risolvendo qui nella rivisitazione di un intero personale processo, nella discesa alle ragioni e radici e ferite più lontane e segrete del disordine interiore, della nevrosi, del « male »: vedendo così accentuarsi l’autoanalisi e la tensione liberatoria, e vedendo altresì veramente e intimamente congiunti i termini della ricorrente più o meno esplicita endiadi cognizione e dolore (cognizione, cioè, come conoscenza e coscienza). L'atteggiamento antiborghese e misogino e la consonanza con i diversi viene petciò completamente introiettato e interiorizzato nella diversità di Gadda-Gonzalo. Mentre la deformazione critica allarga indefinitamente il suo fronte e l’arco dei suoi

obiettivi. i Ne deriva anzitutto la condanna e rifiuto di una intera tradizione di colpe dei padri e delle madri: « tutto l’acheronte della mala suerte brodolato giù dal senno e 89

dal presagio dei padri, che vi leggevano ilari, giulivi, in quel fiume di catrame, la cara normalità della contingenza, la ingenuità salubre del costume villereccio. » (113) La furiosa requisitoria si estende così dall’ottimismo della proprietà e della normalità alla « munificenza pirobutirrica » e alla « affabilità popolareggiante » (124, 214), a una falsa e convenzionale socialità, fino a insultare e inaledire quelli che appaiono ormai a Gadda come i simulacri dei valori e istituzioni della tradizione e società borghese, le maschere bugiarde di una universale e colpevole stupidità e insensatezza: « il sacro nome di Pastrufacio (il Garibaldi del Maradagàl) e il Prado, e Lukones, ed Iglesia, e i rispettivi campanili, con le campane, i sindaci, i parroci, i cocchieri, e via via tutto il Serruchén maledetto e testa di càvolo [...]; tutte le infinite ville del Serruchén, i calibani gutturaloidi della Néa Keltiké [...].» (182-3) È un immaginario mondo (una Lombardia e Brianza suda-

mericana) di proprietari, subalterni e funzionari, in cui tende ad annullarsi non soltanto ogni distinzione di classe, ma anche ogni possibile riferimento a una precisa esperienza e realtà: a differenza, oltre che dell’Ada/gisa, del diario stesso e di tutte le altre opere. Quelle istituzioni e valori del resto, appaiono impotenti e ridicole (ancora una volta, colpevolmente) nei con-

fronti dell’imprevedibilità, arbitrarietà e ineluttabilità delle forze oscure: le procedure e perizie giudiziarie, e la « fulgurazione così inopinata »; la « solidarietà civile » o « superiore società delle anime », e « la folla imbarbarita degli evi persi »; i rimedi e rappresentanti ufficiali della scienza medica, e l’impenetrabilità del dolore e del « male » (62-3, 106, 119, 144, 169, 206). Qui Gadda non rappresenta-deforma un ordire vuoto, come nell’Adalgisa, bensì un preteso ordize che è solo il risvolto di un universale disordine: che arriva poi a manifestarsi negli stessi grandi eventi regolatori della vita e del destino umano. Le guerre 90

sono perciò episodi senza senso né conclusione

(44, 66),

e gli aspetti politico-sociali che si avvicendano l’uno all’altro sono soltanto i volti apparentemente diversi della immutabilità, inanità, parvenza, ripetitività (e ancora una volta, stupidità e insensatezza) di una storia che tende

quasi a coincidere con la natura, con la « banalità superflua del cielo » (115, 179, 212).

Nel dialogo immaginario tra editore e autore che Gadda premetterà all’edizione 1963, il riferimento alle « calamità catastrofizzanti » d'Europa nel 1939-45 e prima ancora, anziché spiegare (come egli dichiara) l’interruzione della Cognizione e la sua incompiutezza, illumina un motivo anche

altrove

(LT 139.

AAG

1053)

intrecciato

alla

morte della madre e al relativo drammatico sommovimento interiore (arricchendo così le motivazioni della genesi e sviluppo dell’opera). Morte e sommovimento cui Gadda accenna trasparentemente poche righe dopo, evocando la sua esperienza di infanzia e di giovinezza: « Il testo [...] riverbera per altro le tragiche, livide luci o le insorgenze tenebrose d’anni precedenti e lontani; di fatti, di mutazioni che sono e saranno forse di sempre, interni ed esterni ai cuori, alle menti mortali. » (cdp 31) La « sce-

menza

del mondo » e « inanità della cosiddetta

storia »

(34), sono perciò al tempo stesso una motivazione dell’opera e una tappa fondamentale del processo di auto-

analisi attraverso di essa. Va poi notato come nella Cogrizione la progressiva dilatazione ed emblematizzazione del microcosmo sudarzericano, sia tutta intessuta di allusioni critiche al regime fascista, che si traducono di fatto in altrettante connotazioni negative: falsa sicurezza e « soperchieria » reale (il Nistitto de vigilancia para la noche, il riferimento agli anni

1925-33,

la guerra:

43-45,

140), ottusità

benpen-

sante (l’appartato Gonzalo, visto dalla gente come « un vigilato della gendarmeria »: 74), stupidità di origine 3A

proprietaria (gli agricoltori « di razza indubbiamente àriana »: 109), giustizia ancor più iniqua che impotente (’’« aquila [...] grassa, furba, ed ingorda »: 138), velleitaria esibizione di forza (« petto in fuori, busto eretto »: 192). Tanto che certe varianti aggiuntive più esplicite dell'edizione ’63 appaiono perfettamente consonanti

con

il contesto

ironico-critico

di « Letteratura »:

«una distinta famigliuola, come p. e. d’un funzionario statale, dogane o catasto o genio civile [o battaglia del grano]» (cdpL, 1, 45 e cdp 69); «lo hidalgo reluttava ai salotti, alle opinioni delle signore [patriottarde] » (cdpL, v, 96 e cdp

178). Tutti

riferimenti

e allusioni

dunque, che indicano già nel fascismo e nelle sue guerre, e nel relativo consenso borghese (e femminile), la versione più aggiornata di quello svuotamento e corrompimento degli antichi valori, e un aspetto vistoso della universale e criminosa falsità, dissennatezza, assurdità della storia. Nella Cognizione muta anche il significato della disperata introversione e diversità di Gonzalo, rispetto a quello del contesto dell’ Ada/gisa: dove Gadda distingueva ancora tra classe borghese produttiva e « scempia », perfino nella tendenziale indiscriminata condanna di esse. Nel nuovo contesto infatti, la discesa alle radici di quel doloroso nodo privazione-proprietà e sacrificio-socialità, con la sua universalizzazione di colpe e di insensatezze, comporta la caduta di ogni possibile distinzione tra vecchia e nuova classe, produttività e rapina, competenza e insipienza, la vanificazione della « città industre » eppur tralignante, fino alla liquidazione dello stesso « Progresso » come sinonimo di distruzione (89), e al superamento della stessa contrapposizione tra passato e presente. Da cui, appunto, l’estre-

mizzazione e dilatazione di quella diversità in una asocialità totale e assoluta, all’interno della quale tende altresì a dissolversi la contraddittoria ma finora abbastanza definita ideologia di Gadda. Il quale inoltre, nel personaggio di 92

Gonzalo e attraverso di esso, sembra quasi voler svellere l'ingegnere dallo scrittore, emarginandolo dalla vicenda vera e propria con

quanto

l’ingegnere

stesso

reca in sé

dei valori lombardi di operosità competente e produttiva. La asocialità di Gonzalo si definisce dunque in relazione a quell’indistinto mondo di proprietari, subalterni e funzionari, la cui angustia affaristica e mentale, elementare logica praticistica e attivistica, brutale utilitarismo, chiuso convenzionalismo, vede in lui e nel suo « male » soltanto privilegio materiale e parassitismo sociale (75 sgg., 108). Gonzalo perciò, all’avidità proprietaria e gregaria, frenesia di successo e di status, formalismo gerarchico e vanaglorioso, rumotoso

vitalismo e ottimismo, in-

teressata superficialità e rozzo strumentalismo, oppone una condizione di decaduta nobiltà e svalutato possesso, di solitudine cupa e infelice, di tormentata vita interiore, di dolorante inazione. La sua misantropia è estraniazione dalla falsa socialità e dalla retorica del « focolare » (99);

la sua furia iconoclastica contro la tradizione dei padri e delle madri, è anche smascheramento delle false virtù (« A schiacciar sotto i piedi un orologio d’oro.... che cuore! »: 97);

il suo

disinteressato

esercizio

dell’intelligenza

(leg-

gere, scrivere) è la risposta a una bestialità che può manifestarsi come opportunismo infingardo e fraudolento, o cieco e ottuso produttivismo, come deformità sporcizia fetore (« la miseria e il giallore della poveraglia »: 75) o sfarzo boria vanità (i figli dei nuovi ricchi, « varati finalmente nel sciocchezzaio con tutti gli onori e i carismi »: 193). Per contro, la sua apparente avarizia e possessività, è rifiuto della legalità esosa e dell’ufficialità oppressiva (140, 144, 146, 148, 206), o difesa rabbiosa e gelosa degli oggetti del suo stesso odioamore (la madre, la villa, le memorie) dalle intrusioni e pretese di tutti gli « altri » (127, 134, 205-6, 214-5). Perché il vero possesso è appunto quello del silenzio e della solitudine: « Via, via! 25,

fuori!.... fuori tutti! Questa è, e deve essere, la mia casa.... nel mio silenzio.... la mia povera casa.... » (127).

Un insieme di motivi, questo, che trova diffuse conferme in un frammento escluso dal volume (Roscioni pp 134-6).

Nel

dialogo

immaginario

citato,

Gadda

esplicita

il

viluppo di «ossessione » psicopatologica e « lucidità razionalità », ira e raziocinio, che imuove Gonzalo nei confronti dei furbi carrieristi calcolatori e dei poveri umili o comunque sprovveduti, e la « sua esasperata consapevolezza della bestiaggine comune » (cdp 35), alludendo anche ai rari e brevi momenti di comprensione e compa-

timento nei confronti dei secondi, pur complessivamente coinvolti nella sua furia o polemica: momenti che riguardano, verosimilmente, la Battistina (96) e talora, nel segna appunto della "LO dezza il medico (118-9). Qui Gonzalo viene poi definito un « reazionario », non tanto (come Gadda suggerisce) nel senso di una dichiarata superiorità e aristocrazia intellettuale verso tutti gli altri, quanto piuttosto nel senso di un rifiuto indiscriminato della società organizzata e del suo sviluppo, della « cosiddetta storia » e delle sue apparenze confortevoli. Ma c’è in lui «un giudizio » ulteriore: nel quale Gadda intreccia la sua personale e privata recriminazione per le giovanili privazioni, e la denuncia'da parte di Gonzalo delle aberranti ingiustizie e parzialità di una pubblica amministrazione e assistenza, mascherate da una « ritualistica borghese » che è ormai soltanto un aspetto dell’« imbecillaggine generale del mondo » (34-7). Dove Gadda evidenzia. tra l’altro, il nesso fondamentale e già presente nel suo discorso, tra privata « vendetta » e istanza etica di fondo, riaffermata qui contro ogni istituzione. In questo quadro, allora, la finale riaffermazione (sempre nel dialogo) che « l’idea patria è chiara, [...] ben ferma » in Gonzalo (37), non è che un estremo, patetico e tardo tentativo di autoconvincimento. 94

L’intero processo fin qui descritto, con la discesa alle radici e la presenza totalizzante della madre, con la visione di una universale stupidità e la caduta di ogni distinzione di classe (e perciò educazione e costume), comporta poi l'impossibilità di risarcimenti letterario-muliebri, e una misoginia tanto più indiscriminata e violenta (94, 122, 133, 191). Gonzalo ha momenti di furia così incontrollata e delirante, insultante e acre, nella stesura a caldo di « Letteratura », che Gadda è portato ad intervenire con numerose varianti correttive nell’edizione ’63, in quello che appare come il passo forse più tormentato nel passaggio dalla rivista al volume. Gadda-Gonzalo se la prende con le campane della « munificenza pirobutirrica »: « Animalesca sicìnmide, offerivano la trippa o poi la rivoltavano contro monte [...], bassaridi androgìne alla livido municipalistica d’ogni colono. Arrovesciate nella impudicizia e nella stoltezza, esibivano alternamente i batacchi priapi, come pistilli pazzi, pesi, o la inanità incaparbita della cervice [...]. Briache e turpi, altalenarono [...]. » (cdpL, n, 100) « Furibonda sicìnnide, offerivano il viscerame o poi lo rivoltavano contro monte [....], baccanti androgìne alla lubido municipalistica d’ogni incanutito offerente. Arrovesciate nella stoltezza e nella impudicizia, esibivano alternamente i datocchi, come pistilli pazzi, pesi, o per la fame del povero la inanità incaparbita della cervice [....]. Ebbre di suono, altalenarono

[...].» (cdp 111)

Tutto il discorso fin qui condotto porta a una prima conclusione. L’asocialità nevrotico-esistenziale e l’odio intellettual-viscerale che, con quelle tortuose implicazioni di amore e pietà, Gadda-Gonzalo viene avventando contro i padri e le madri, e contro il microcosmo sudamericano (i primi, tra l’altro, patetici anticipatori di quella libidine e ossessione del possesso da cui è dominato il secondo), reca in sé una carica eversiva tanto più forte quanto più

disarmata, fuori comunque da ogni possibile risarcimento cb)

o consolazione. Certo, l'intelligenza e consapevolezza e cultura di Gonzalo, filtrate da una tradizione aristocratica e cortese, pur esercitando tutta la loro sprezzante superiorità critica e demistificatoria nei confronti degli atti e personaggi di quel mondo, sembrano manifestare una loro precarietà e impotenza (« il tenue ragnatelo di ogni filosofia »: 216) nei confronti dell’ineluttabile insensatezza che è la vera sostanza di quello stesso mondo e dell’intera storia. L’« io » come «impotenza a predicar nulla di nulla » rischia, per umiliante paradosso, di confondersi con l’io « impennacchiato » e « animalesco » (123-6) che incarna quell’universo (con una estrema radicalizzazione e generalizzazione del ridimensionamento condotto nella Meditazione milanese); così come, pet una logica perversa, il disordine interiore di Gonzalo rischia di venir coinvolto in quel generale disordine. Quella stessa sua condizione di asocialità è un pesante fardello, quel « distacco dai vivi » è « più forse patito che voluto » (102). Ma la figura dolorante e sconfitta di Gonzalo, la sua disarmata contestazione, il suo io ambiguo e confuso, riemerge sempre da queste difficoltà e pericoli, facendo veramente (come scrive ancora Gadda nel suo dialogo immaginario) della sua « dissocialità » una «continua critica della dissocialità altrui » (37), in tutte le relative manifestazioni contingenti e universali. Anche le pagine (nel « tratto » della visita medica) segnate dall’abbandonata immobilità del corpo di Gonzalo in uno scenario di « candore » quasi mortuario, e da una serie di variazioni dell’« orizzontale

sul bianco » (104-5),

quasi a sottolineare la sola possibile liberazione da un aborrito mondo di attivistico e rumoroso disordine, il solo possibile ritrovamento di un ordire estremo; anche queste pagine, ben lungi dal significare una tregua o una resa, sono in realtà il risvolto perfetto del « furore nero » (206),

96

ne recano tutto l’interno travaglio di rifiuto, « vendetta » e autocoscienza.

Nella Cognizione dunque, come già nel diario, c'è il dolore e la sua radice, la tensione critico-cognitiva e il furore, ma con la rivisitazione di un intero processo del quale lo stesso diario segna solo il primo seppur fondamentale momento di riflessione e di sfogo. È, questa della Cognizione, un’esperienza che ha in sé ed esige troppo dolore. La scelta narrativa allora, assume un diverso significato, sia rispetto al diario sia rispetto alla mediazione letteraria dell’Ada/gisa: come scelta necessaria di uno schermo e strumento insieme, di un velo apparente cioè, che consenta il distacco e la compenetrazione necessari alla cognizione di quel troppo dolore. Di qui, una invenzione e scrittura (e un protagonista, Gonzalo) materiata di dolore e cognitiva di esso, nel momento

stesso in cui (Gadda)

se ne difende: ne sono espressione intrinseca, tra l’altro, il travestimento sudarzericano, ben al di là di una misura tattica e/o elitaria presa di distanze nei confronti della censura e del regime fascista (che resterebbero comunque ragioni secondarie e accessorie), e lo stesso manzonismo come ricorso a un magistero di chiarezza e funzionalità in un così arduo processo (già nell’Apologia: « Il sarcasmo e il dolore risuonano nelle forme di una stupenda semplicità. »: To 26). Di qui, inoltre, l’alta e fonda tragicità che attraversa i vari « tratti » e i loro differenti e contrastanti livelli, in una successione di cui si può dare soltanto una traccia sommaria: dal divertimento paradossale al comico-grottesco al nero e ghignante sarcasmo, che si vengono affilando e dissimulando in un racconto rallentato e pensoso, gravido di sottintesi oscuri e di allusioni a « verità » inattingibili; e ancora, dal tono dolente, sospiroso, appenato, al tormentoso, ansioso, affannato, dalla rabbia allo strazio, dalla recriminazione alla pietà.

SH

Sono questi anche i momenti interagenti di una sperimentazione ben nota, presente qui con sempre nuove

soluzioni. Ne abbassamento e caricaturale terepattolesi,

andrà sottolineato almeno il processo di di un livello alto in un contesto ironizzante (i plenipotenziari del Maradagàl e le ragazze i ricorsi al Supremo Collegio e « il tabaccaio

sul cantone », le tombe dei re incas e i baffi del ministro: cdp 45-7, 67), e di innalzamento del livello basso in un contesto analogo (gli « attavolati » e « ossibuchivori » con la « fronte, onnubilata di cure altissime »: 198-201). Mentre in tutto l’incontro e dialogo tra Gonzalo e il medico, i due processi si intrecciano in una infinità di

variazioni, tra ipetbolizzazione colta della banalità quotidiana e derisione (con qualche fugace compatimento, come si è detto) dell’inadeguatezza 106, 108, 119), e così via.

della

« scienza » (73, 84,

Ma è significativo che qui Gadda torni, in tutta l’opera, a quella prosa colta con essenziali scarti e contaminazioni che spesso caratterizza i momenti di suo più diretto, intimo, turbato e personale coinvolgimento (certe pagine della Madonna dei filosofi, la prima parte del Castello di Udine, il finale di San Giorgio in casa Brocchi, e il primo testo dell’Ada/gisa, nella quale per contro la prevalente contaminazione ha anche un ruolo di mediazione critica e cognitiva): arrivando, nel quinto « tratto » pet esempio, alla sostanziale eliminazione di ogni forma dialettale o peregrina, e a un’accentuazione delle voci auliche o desuete in cui si esprime la solennità e gravità di una materna angoscia e disperazione. Un contenimento dello sperimentalismo plurilinguistico-deformante, che qui poi assume un significato ulteriore: come aspetto di quel più generale distacco dalla mediazione letteraria delle opere precedenti. Ma l’intera operazione, come si è visto, reca in sé una difficoltà di fondo: il troppo dolore, con tutte le sue 98

implicazioni, può arrivate a rompere in un incontrollato delirio. L’equilibrio in sostanza, tra scrittura narrativa e autobiografia è inevitabilmente precario. Il che spiega anche l’apparente contraddizione di una stesura fatta « di getto » e al tempo stesso segnata da ritardi e travagli (Les 78, 80-1. LT 142. IDM

progetto

19), e quasi incerta nel suo

di « racconto » o «romanzo » (LT 127,

132.

LGS 78, 84, 98), con due pause tra l’altro, nel corso della pubblicazione a puntate su « Letteratura », che preludono a una vera e propria interruzione. Il settimo « tratto » termina infatti con un « continua » che non avrà seguito: smentendo così lo stesso annuncio, dato nella pubblicità

del numero datato al luglio 1938, l’opera nelle edizioni della rivista. in volume e i frammenti pubblicati possibili ipotesi sulle ragioni di

della pubblicazione delMa saranno le edizioni in rivista, a consentire fondo (interne a quel

troppo dolore) di una interruzione e incompiutezza

coin-

cidenti sostanzialmente con la morte della madre di Gonzalo, in una versione violenta e tragica del motivo autobiografico che era stato all’origine dell’opera. Il processo preparatorio al delitto e alle congetture sull’assassino, si delinea chiaramente nei « tratti » riproposti e proposti da Gadda con le due edizioni in volume. Dalla nebulosa ottusa e farneticante delle voci dei subalterni, affiora anzitutto la « paura » della madre per il figlio, che avrebbe

minacciato

« di ammazzarla » (cdp 92, 97).

Il figlio stesso « sogna » poi la morte della madre (120121), mentre si viene adombrando la situazione di pericolo in cui la donna vive: la villa facilmente violabile, la

mancanza di protezione durante la notte, i brillanti, i malviventi (93-4, 121, 127-9, 131-2, 167 sgg.). Il risvolto dell'edizione 63 fornisce un primo completamento della vicenda interrotta e un primo scioglimento del mistero: la madre « veniva assalita » e uccisa dalle guardie della vigilancia para la noche, « mentre atroce le si insinuava 99

nell'animo il sospetto che ad organizzare l’aggressione fosse stato proprio il ‘tristo figlio’ Gonzalo ». Nei due « tratti » inediti aggiunti con l’edizione ’70, il processo preparatorio continua. Un furto (possibile rappresaglia del Nistitio de vigilancia nei confronti di un finanziere che come Gonzalo ne aveva rifiutato i servigi: 227 sgg.) ripropone implicitamente l’ipotesi del risvolto °63. Tornano i riferimenti alla villa indifesa, in cui la madre si vien batricando « ogni sera, con una angoscia inimmaginabile » (234, 259, 265-6). Tornano, direttamente profferite questa

volta, le minacce di Gonzalo: « scannerò te e loro » (253). Si infittiscono altri indizi e congetture, che fanno affiorare anche il nome del peone (264, 267, 269), in una suspense

da autentico giallo, fino alla scoperta della madre morente. Già da questa descrittiva appaiono i segni di un evidente travaglio di incertezze e conflitti nella conclusione dell’opera. Gadda infatti pubblica l’ottavo e nono «tratto» solo nell’edizione ’70, con una serie di varianti rispetto a certe anticipazioni parziali in rivista (Citati cdp 39-41) e con una nota di accompagnamento che li presenta invece come immutati rispetto alla stesura originaria del ’41 (cdp 224; sembra meno

verosimile l’ipotesi opposta, che

le varianti riguardino cioè le anticipazioni). E d’altra parte questi stessi « tratti », per la loro stesura vagamente provvisoria (come appare per esempio dalle ripetizioni che vi ricorrono), e per la confermata non-conclusione, accentuano ulteriormente quella trasparenza di indecisioni, ripensamenti,

irrisolutezze.

Più

precisamente

ancora,

se

nel risvolto °63 si parlava di una progettata e « non scritta conclusione » che prevedeva la vigilancia come colpevole, nei due « tratti » aggiunti essa è soltanto e molto implicitamente

sospettata,

mentre

tutta

una

serie

di note

e

frammenti inediti pubblicati da Gian Carlo Roscioni nel 1969 (e risalenti sostanzialmente al periodo compreso tra gli inizi della stesura e la pubblicazione su « Letteratura ») 100

mostrano che Gadda aveva pur scritto qualcosa, e di diverso, ai fini della conclusione stessa. Senza considerare poi, a complicare ulteriormente il quadro, l’anticipazione dei due «tratti» in edizione inglese, nello stesso ’69 (Roscioni cdp 98). Ma tutto il succedersi e accavallarsi di scelte e nonscelte, di decisioni e incertezze, di rinvii e contraddizioni, sembra implicare qualcosa di più profondo e inconfessato, che viene svelato proprio da quegli inediti. Gli appunti più antichi di Gadda prevedono la « morte naturale » e « supposta uccisione della madre ». Il delitto gli appare « troppo disgustoso », e più ancora il sospetto del matricidio: « Meditare molto [...] se il figlio agli occhi della plebe debba essere incolpato o no, sospettato o no. Comunque preparare gli alibi. » (88) In un frammento inedito infatti, Gonzalo viene spiato e visto gridare «la scannerò! » (ivi): affermazione che Gadda riprende nell’ottavo « tratto », come si è detto, ma correggendola fin quasi a negarla: « Questa frase non aveva senso, ma la pronunziò realmente [...].» (cdp 253; dove l’accentuazione autobiografica sembra battere con particolare forza). È, in sostanza, come se Gadda si proponesse e si rifiutasse continuamente di inserire la « nota orribile » del matri-

cidio; come se cercasse di persuadersi che Gonzalo, « il figlio », non ha potuto commetterlo. Egli cerca perciò altri possibili colpevoli nel peone licenziato dallo stesso Gonzalo, in un commerciante di stoffe, e soprattutto nella guardia del Nistitto Manganones, in consonanza anche con i sottintesi politici dell’opera. (Roscioni cdp 88, 96-7) Ma nessuna di queste ipotesi gli appare credibile, tanto che nell’edizione ’70 (« tratti » aggiunti e risvolto) tutto rimane indefinito e sfuma in « una cagione malvagia operante nell’assurdità della notte » (cdp 275); mentre si avverte del resto anche una loro non-credibilità di fatto,

non soltanto per le possibili ragioni dei supposti assassini, 101

ma soprattutto perché Gadda cerca disperatamente in essi un alibi esterzo a quello che è in realtà il problema interiore di Gonzalo. Perfino negli inediti in cui il figlio viene esplicitamente scagionato, Gadda non può ignorare e tacere il tormentoso sospetto. Da un appunto più remoto:

« Il senso tragico del matricidio deve essere soltanto nel terrore degli ultimi momenti della madre, che pensa al figlio come all’esecutore: ma poi esclude lei stessa, morendo. E nell’angoscia del figlio che pensa che la madre abbia potuto sospettare di lui. » (Roscioni cdp 89) Da una nota più recente: « In una scena terribile la signora è assalita dal Manganones [...]. Ella crede il figlio. [...] In una terza scena si ha l’agonia e la morte della Signora — che crede nel delirio di essere stata uccisa dal figlio. Il dolore eterno. » (88) Una controprova

si ha nel fram-

mento del « tratto » conclusivo (97-8), dove gli inoppugnabili alibi esterzi, dello stesso Gonzalo questa volta, lasciano il suo problema interiore inesplorato e irrisolto, in un alone di mistero (la madre sopravvive ma non parla, nulla vien detto sul delitto e sull’attentatore) che lascia

tutto più che mai sospeso. In queste note o frammenti e nel risvolto *63, Gadda si muove perciò su due piani separati, che nell’opera sono invece intimamente fusi: la trama narrativa e il momento nevrotico-esistenziale, autoanalitico-biografico. Più precisamente, mentre nell’opera il primo piano è sempre funzionale al secondo (soprattutto perché si realizza come rapporto tra lo schermo-strumento della scrittura e il troppo dolore), qui Gadda sembra voler cercate appunto

in un vero e proprio intreccio, nella logica del giallo (con o senza sfumature politiche), dei colpevoli alternativi e un’assoluzione esterza a quella che si viene delineando,

sull'altro piano, come Gonzalo,

il suo

la colpevolezza non

pensiero

inconfessabile.

consumata

mentre nell’opera le congetture degli altri su Gonzalo 102

di

Analogamente,

o

di Gonzalo su se stesso si esercitano sempre, con superficialità crudele o impietosa autoanalisi, sulle « celate verità », qui esse tendono invece ad accantonarle. Già questo spiega, strutturalmente, l’impossibilità di un finale, di una conclusione, cercata su un piano formale ed elusiva della sostanza di fondo: cercata cioè su un piano che ha perso ormai ogni intrinseca funzionalità. Ma c’è dell’altro. In una delle sue note Gadda esplicita proprio quel motivo di una non consumata colpevolezza. L’« autoritratto » di Gonzalo che si guarda allo specchio, « deve esprimere: a) il senso di colpa e di rimorso preventivo. b) il carattere delirante e meramente immaginario della sua vendetta./ Gnoseologicamente:/ Forse a lato della realtà fisica, meccanica, bassamente stereometrica, bassamente

storica =

corre una trama spa-

ventosa e vera, uno spaventoso pensiero. E la cosa o l’atto pensato è più vero dell’accaduto e dell’eseguito. [...] Egli si sentiva perduto, vedeva che l’esser venuto tra le imagini era solo un antefatto della propria rovina. » (90, 99).

Dove quel parallelismo e separazione tra i due piani dell’opera, sembra riproporsi nei termini di «realtà » e « immaginazione » (ivi), ma dove al tempo stesso l’immaginazione precede e sopravanza la realtà stessa. Anche se Gonzalo in sostanza, può venir scagionato del tutto da quegli alibi o colpevoli esterni, egli è di fatto e comunque colpevole nei suoi pensieri e deliri. Logica strutturale dell’opera e logica interiore del protagonista devono fondersi in questo punto: il vero colpevole non può essere cercato in un intreccio che prescinda dalle sue immaginazioni e deliri, ma in un intreccio che sia funzionale ad essi. Il vero colpevole allora, non può che essere Gonzalo. Il matricidio insomma (se non attuato, immaginato e pensato) rimane la sola conclusione coerente, anzi addirittura

il solo finale possibile dell’opera, l'inevitabile epilogo scaturito dalla fusione dei due piani e radicato nella fatale 103

« verità » del delirio. Gadda lo sa bene, e arretra inorridito, ricaccia continuamente da sé quella conclusione, perché si sente interamente coinvolto nel personaggio di Gonzalo, e non può in alcun modo ammettere l’idea stessa di un tale delitto (un motivo, come si è visto, anticipato da Novella seconda). Ma

quest'idea torna

ossessiva, ine-

sorabile; e Gadda riprende ogni volta la sua tormentosa ricerca di alibi e scagionamenti. Qui dunque, in questa assoluta impossibilità ad accettare l’unico finale possibile, sembra nascondersi la vera ragione dell’interruzione e incompiutezza della Cognizione del dolore; e la ragione perciò di tutta la laboriosa e confusa e vana ricerca di soluzioni alternative, del travaglioso iter di stesure, revisioni e pubblicazioni parziali e protratte. Tra le tante ipotesi possibili, questa si presenta come la più intrinseca all’intero processo autoanaliticonarrativo e la più criticamente esaustiva dei vari elementi in gioco. Si può dire perciò che l’incompiutezza della Cognizione, così drammaticamente vissuta, così profondamente radicata in una rivisitazione profonda crudele impudica della « vicenda umana » più inconfessabile, e così intimamente partecipe della crisi terminale dell’equilibrio narrazione-autoanalisi che sorregge e consente quella stessa rivisitazione, diventa quasi paradossalmente una specificità dell’opera complessiva, considerata nei suoi « tratti », note e frammenti: la ulteriore prova della sua grandezza, verificata proprio nel fallimento di un tentativo portato fino all’estremo limite. Tutto questo significa altresì che quel processo liberatorio, scontrandosi con la possibilità anche soltanto immaginata del matricidio, non può avere il suo compimento. Sembra quasi anticipare tale difficoltà, alla luce dell’ipotesi qui formulata, il « sogno » di Gonzalo: la madre morta, l’amore perduto, il tempo ormai interamente consumato. Sulla strada di quel processo liberatorio, la figura materna 104

si leva « altissima, immobile, velata, nera.... », come. un ostacolo insormontabile, come un simbolo indecifrabile. (cdp 115, 119-22, 168. Roscioni cdp 95) La chiusura di conti totale che il processo sottintendeva e cercava, non è possibile. Gadda dovrà perciò ricorrere periodicamente a reticenze o rimozioni. Così, per esempio, in un’autobiografia pubblicata nel ’63, egli parla elusivamente di non precisati turbamenti familiari negli anni di avvio e stesura della Cogrizione (AAG 1053); la dedica alla madre delle Meraviglie d’Italia 1939, cade nell'edizione ’64; in

un'intervista °72, dopo aver definito la madre « la persona che ha contato di più » nella sua vita, a chi gli chiede « perché? » risponde evadendo in un « Mi si polverizza la memoria....» (rrv 369). Analogo significato può forse avere una variante riguardante sempre la madre. La « Signora » della Cognizione 1938-41, diventa la « signora » nella Cognizione ’63 e ’70: quasi per il bisogno di attenuare il « valore dolorosamente ironico » della parola, da lui stesso dichiarato (ipM 19), e di allontanare da sé un

nodo non risolto. Un piccolo, incerto indizio, che non si può tuttavia non rilevare. E tuttavia, la fase più acuta e straziante di quel processo si è in qualche modo conclusa. Gadda anzi, talora, riuscirà anche a oggettivare il motivo della madre all’interno del suo discorso: nel Pasticciaccio, in Eros e Priapo,

e in certi saggi e racconti. Ma soprattutto egli potrà iniziare una nuova e ulteriore fase di ricerca, come si vedrà. La cognizione del dolore, dalla sua genesi alla sua impossibile conclusione, richiama trasparenti sottintesi psicoanalitici e freudiani, di cui Gadda esplicita un motivo fondamentale in una delle sue note inedite (chiarendo ancor meglio, tra l’altro, il senso dell’avarizia e possessività di Gonzalo): il figlio « era avaro per odio e per complesso edipico. » (Roscioni cdp 98) Significativamente infatti, dopo certe anticipazioni non sempre attendibili (lo stesso 105

riferimento a Freud in Novella seconda, potrebbe essere una variante successiva), dopo riferimenti ancora legati alla psicologia e psichiatria prefreudiana nella Madonna dei filosofi, e dopo tracce psicoanalitiche ancora vaghe nel Castello di Udine e in un quaderno inedito del 1931-35 (Roscioni pp 63-4), è proprio dalla data fatale del 1936 che Gadda vien mostrando più consapevoli interessi e più precise conoscenze in questo senso: con pagine che confluiscono nelle Meraviglie d’Italia e nell’Adalgisa, e altre ancora, da Eros e Priapo ad alcuni saggi. Assumendo appunto quella data come riferimento più ideale che cronologico, come momento di precipitazione e chiarimento di conoscenze anche precedenti, si può aprire la serie con Una tigre nel parco, pubblicata circa due mesi dopo la morte della madre e compresa nelle Meraviglie: dove tra l’altro Gadda stabilisce un esplicito rapporto tra la psicoanalisi e la sua biografia. Non si potrà ignorare poi il significato di implicita polemica verso il regime, che la frequentazione gaddiana della psicoanalisi viene ad assumere negli anni Trenta. Gadda stesso parlerà più tardi di fenomeni « proibitissimi dal fascismo » (IA 195). Il 1939, che è uno degli anni cruciali nell’iter della Cognizione (il primo salto nella pubblicazione a puntate su « Letteratura », le « calamità catastrofizzanti » d’Europa con riflessi nelle lettere, e così via), è anche la data di

avvio e di riferimento non estrinseco delle favole, che pur coprono,

tra prime

stesure

e rifacimenti

e aggiunte,

un

lungo arco di anni (PLF 87-8, 100). Sono moralità, apologhi, epigrammi, « nugae », che muovendosi tra la rielaborazione fantasiosa della favola tradizionale e la mimesideformazione della cronaca o storia (privata e pubblica) contemporanea, in un fiorentino antico beffardo con punte di severità, evocano motivi o colpiscono bersagli ben noti: la grande guerra, la retorica, la madre, la famiglia, le donne, i letterati, e così via. Tornano anche Hitler, « belva 106

sinistra » e i suoi « zelatori » e « seguaci » (12), mentre appartengono già a una successiva stagione certe varia-

zioni sul Mussolini priapesco: il « capro barbacucco » fecondatore delle madri italiche, « Mascella d’asino Maltone », « Minchione Ottimo Massimo », « Minchiolini », « la scienza demografica del Merda » (56, 58, 60, 64, 83).

Ma il legame con la emblematica data del ’39 si avverte soprattutto in quelle favole che, trattino esse di piante o di animali, di oggetti o di uomini, mettono in luce con pensoso

sarcasmo

costumi,

situazioni,

prove

di insensa-

tezza, inesplicabilità, pochezza, insipienza, cecità, illogicità, stupidità, demenza (10, 16, 19, 20, 22, 26, 29, 36-7, 41, ATA 603,382)

Capitolo nono *

IL PARRUCCONE

DI INGRAVALLO

Il periodo fiorentino (1940-50) vede dunque Gadda definite via via la sua posizione nella repubblica delle lettere e la sua attività di autore, pur tra ben noti mali privati e comuni difficoltà, personali insofferenze e problemi materiali, anozzalie intellettuali e dolori familiari (anche per i traumi e complicazioni della guerra e del dopoguerra), che ancora una volta contribuiscono in vario modo a impedirgli la conquista di una vera e propria professione di scrittore (LT 149-51. L6s 154-7, 161, 165, l'69-72: 176, 178. LeC'64-5, 67, 72, 19° LAMODLISVMERLO)I

Gadda abbandona comunque e definitivamente l’ingegneria, collabora ad altre riviste (tra cui « Primato, « La Ruota », « Il Mondo» di Firenze: su quest’ultimo anche con articoli e recensioni teatrali), scrive una serie di racconti che raccoglierà insieme ad altri più tardi, cerca di estendere le sue relazioni editoriali (da Einaudi a Vallecchi, da Longanesi a Mondadori a Bompiani, tra progetti non realizzati e reiterate inadempienze: LGS 157. LEV 1-4. LGc 70, 74. Arch. Einaudi), pubblica opere e traduzioni in volume (presso Bompiani, Parenti e Le Monnier), e cinque puntate del Pasticciaccio su « Letteratura »

(1946). Aspetti assai diversi di questa sua stagione pos-

* VM

Psicanalisi

e letteratura

(1946)

108

e Il Pasticciaccio

(1957).

sono essere: da un lato, la pubblicazione in rivista di circa la metà dei saggi destinati a essere raccolti più tardi nei Viaggi la morte (da cui, anche, una diffusa presenza di fiorentinismi); dall’altro, un premio attribuitogli dall’Accademia d’Italia nel ’42, e alcune timide sortite che lo vedono membro di giuria e oratore per premi letterari e mostre d’arte (in appendice a Bdc 216-7. vm 243 sgg. TO 189 sgg.), o presente a un convegno del Pen Club (LGc 75). Che non smentiscono peraltro il suo atteggiamento polemico nei confronti dei « semidei delle ‘ Giubbe ” » e delle corporazioni intellettuali in genere (LT 146, 151. EeGk65, 67-83, /3-5)),

Ma, anche nel quadro di una città che con la guerra e dopo la guerra vien decadendo come centro culturale rispetto ad altre, Gadda incontra difficoltà pratiche sempre più gravi. Molto lavoro e poco guadagno, con relative privazioni, umiliazioni, durezze: è questo un leitmotiv delle lettere e di altre pagine (LT 150, 152. Les 159, 173-6. LEV 1-2. LGc 68, 72-5. LAM 58. vm 118). « Sto sempre [...] in una povera e bombardata soffitta: col coinquilinato forzoso ‘di rompicorbelli piccinini e puntigliosi [...].», scrive nel 747 (Lec 65), e parla spesso anche in seguito delle insufficienti remunerazioni « di radio e di articoli » (77). È insomma

un periodo di « nera povertà », che lo

costringe tra l’altro a chiedere

aiuto al « principe degli

amici » Mattioli, a cercare collaborazioni cinematografiche,

perfino a vagheggiare talora un ritorno all’ingegneria (LGS lo:0162.

173)

1767.

Leo:69:10,

Anc=:1053)

-Gaddasgsi

vede precipitare proprio in quella bohème reale che aveva sempre detestato insieme alla bohème letteraria, in nome dello « spirito pratico » (di cui gli amici milanesi gli rimproverano ora la « mancanza »: L6c 68. Les 173) e delle « buone scarpe » che tornano, anche letteralmente, come motivo ricorrente nelle lettere di questi anni. A questa sua condizione complessiva di malattia e di 109

angoscia, di miseria e di privazione, Gadda attribuisce altresì certe discontinuità, improduttività, inadempienze del suo lavoro letterario creativo, indicando così peraltro motivi contingenti o parziali che rimandano pur sempre a qualcosa di più profondo. L’avvenimento comunque che sta al centro, non soltanto cronologicamente, di questo decennio fiorentino, è la maturazione ed esplosione di un crescente furore nei confronti del fascismo e di Mussolini (in coincidenza con la guerra e la sua conclusione), e l’avvio della stesura delle due opere che più direttamente ne sono espressione, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana ed Eros e Priapo. Del Pasticciaccio Gadda pubblica dunque su « Letteratura » nel ’46, quelle cinque puntate che con riduzioni, aggiunte e varianti, costituiranno i primi sei dei dieci capitoli del romanzo nell’edizione Garzanti 1957: ai quali tutti Gadda lavorerà praticamente lungo il relativo decen-

nio (vm 117-8). Opera di una piena e alta maturità, il Pasticciaccio è il vero capolavoro gaddiano, come si cercherà di motivare con un’analisi adeguatamente diffusa. L’edizione ’57 si apre e si chiude nel nome e sull’azione del giovane dottor Francesco o don Ciccio Ingravallo (Ingràvola, in « Letteratura »), che è il protagonista dichiarato delle vicende del romanzo, in una Roma 1927, e che è forse il personaggio più felicemente risolto di tutta la produzione gaddiana. « Venuto da poveri, duri anni, dallo scarno monte Matese a le procedure e a le scartoffie de la legge », uomo di precoce esperienza e di delicato sentire, ammiratore celibe non fortunato dell’altro sesso, Ingravallo è una originale figura di poliziotto-filosofo, lettore di « libri strani » (« questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti ») e dei « due grandi erotologi » Douglas e Lawrence (QP 8, 71, 213). Tutto questo alimenta la sua

cultura e la sua pratica investigativa, innestandosi senza 110

traumi nel tradizionale originario fondo molisano, tra naturale saggezza e istinto scaramantico (130, 197). Dietro la sua aria « di silenzio e di sonno », le sue timidezze e

complessi, Ingravallo è un « predace » e « pertinace indagatore dei fatti, o delle anime » (6, 48, 53, 71, 82, 89, 114, 132); ha una « memoria pronta, anzi infallibile: una

memoria pragmatica »; e sa far buon uso del suo efficace e funzionale linguaggio, « contaminando napolitano, molisano, e italiano » con quella singolare « terminologia » (78, 10, 226). Ingravallo ha poi una trasparente insofferenza verso il regime, che Gadda tende a esplicitare maggiormente all’interno di un brano di «Letteratura » poi espunto («i cefft e i propositi che lo infastidivano.... e le omertà e le indulgenze che lo preoccupavano.... »: QPL, II, 60), e a motivarla invece indirettamente

nell’insieme

del romanzo, come irritazione e rabbia per gli scarsi mezzi di cui la squadra mobile può disporre rispetto alla squadra politica (QP 58, 196, 332-3):

forse per accentuare

così in

Ingravallo, più che la generica reazione umoral-moralistica, l'individuazione di un concreto nesso tra inefficienza e repressione, incompetenza

e malgoverno.

Non è certo difficile ritrovare nella sua diversità alcuni tratti di Gonzalo: il celibato, i complessi di inferiorità, le « filosoficherie », i « libri strani », l’incomprensione e invidia di colleghi, superiori e subalterni (8), via via fino

alla morte del fratello in guerra e al dolore della madre (63). Aspetti che insieme ad altri lo avvicinano tout court anche a Gadda. La sua apparente indolenza e reale capacità pratica inoltre, sottintende la gaddiana avversione pet la vuota retorica e per l’esibizionismo inconcludente, mentre nel suo linguaggio si personalizza il gaddiano ideale di un plurilinguismo efficace e vivo. Ma Ingravallo reca in sé molto di più: egli sembra incarnare

un

produttivo

equilibrio

tra filosofare

e fare,

competenza e realizzazione, cultura ed esperienza, e porsi 111

così come una versione antieroica di quel lord Kitchener che Gadda aveva tanto ammirato nel diario. La sua convinzione che un « fattaccio » sia sempre il risultato non di una sola causa ma di « una molteplicità di causali convergenti », nasce da un forte senso di specificità e complessità e concretezza, e si traduce in un esercizio pragma-

tico della « ragione », in un’attenta e paziente analisi e sintesi delle « evidenze [...] disgiunte » (7, 77-9). Ingravallo è animato da una strenua tensione cognitiva, senza presunzioni e senza pregiudizi, ed è ben consapevole del « groviglio » in cui deve indagare e operare, degli inevitabili scherzi del « caso » e dei precisi limiti del proprio io (7, 227; con echi della Meditazione milanese: la molteplicità delle cause, 1’« indestricabile groviglio di relazioni », il ridimensionamento dell’io). Così dice tra sé un suo subalterno vedendolo pensare: « Analogie strane [....], occulte agli altri, erano a lavorare in quel cervello. Non c’era nesso apparente, ma chissà poi non ci fosse, chissà Ingravallo non lo divinasse, muto e nero sul suo riflettere et»

200))

Ì

Con le sue meditazioni e illuminazioni, sotto « il parruccone [...] riccioluto e compatto » (6, 322), Ingravallo è insomma l’umile e tenace e silenzioso indagatore e ordinatore dentro il disordine (disordine e ordine che in quel « riccioluto e compatto » sembrano quasi, rispettivamente, materializzarsi). Nel romanzo

infatti, le nume-

rose « causali » da cui consegue il « fattaccio » e a cui bisogna risalire per spiegarlo, si presentano sempre come «nodo o groviglio o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo », e che Ingravallo chiama « gliuommero » nel suo linguaggio contaminato (7). E proprio questo è il leitmotiv delle instancabili indagini cognitive e ordinatrici del commissario, accompagnate e segnate da una serie infinita di sinonimi, che connotano anche situazioni, dettagli, atteggiamenti, dialoghi, pensieri 122

apparentemente marginali ed estranei, in un coinvolgimento totale: « arruffio », « pasticcio », « guazzabuglio », « tortuoso rigirio », « impiccio », « intrico », « imbruoglio », con tutte le relative derivazioni e variazioni (5, 9, 16,36, 40; 42, 44, 57,163, 86, 99, 114, 139, 147, 169, MO ORZ2037209-1073255#284-6,0328:9, 341);

Ingravallo si può considerare perciò la prima compiuta e oggettivata realizzazione letteraria di tutti gli ideali e tensioni di ordine, funzionalità, concretezza, equilibrio, da Gadda sempre perseguiti e sognati (e frustrati). La sua è in certo senso una diversità positiva, rispetto a quella di altre figure smarrite, ferite, malate, impotenti, e più esplicitamente autobiografiche, come il ragazzo di Cinema, l'ingegner Baronfo o Gonzalo. Ingravallo ha tuttavia una parziale ma interessante anticipazione in un personaggio minore della Cognizione: quel colonnello medico Di Pascuale che smaschera la finta sordità di un piccolo profittatore (cdp 151-63). Modello di rigore etico e deontologico, efficienza non verbosa, pignoleria ben finalizzata, acuto e puntiglioso spirito inquisitorio, aspirazione a un

ordine che viene generalmente stravolto, il Di Pascuale è anche uno dei pochi rappresentanti militari elogiati nell’opera gaddiana, a partire dal diario, oltre che il risvolto positivo dell’altro medico della Cognizione. Gadda lo tratteggia con una simpatia umana venata di lieve ironia, che si accentua e arricchisce successivamente nei confronti di Ingravallo (partecipe il dottor Fumi, suo diretto superiore nell'indagine), con una tendenza tutta implicita e intermittente ma assai forte, a far suo il personaggio, a proiettarvisi nel momento stesso in cui lo oggettivizza. Non si può

trascurare poi che tutti, Di Pascuale, Fumi e Ingravallo, sono di origine molisana o campana e comunque meridionale: il che potrebbe sottintendere, oltre a certe suggestioni dei precedenti soggiorni romani di Gadda e alla scelta di un dialettalismo centro-meridionale nel romanzo, 113

una piccola coda delle sue vendette antiambrosiane, unita alla scelta di campioni sociali e culturali privi di dirette implicazioni ed echi autobiografici. Che è anche un altro aspetto del suo contraddittorio milanesismo e nordismo. Il primo « groviglio » che nel giallo gaddiano Ingravallo si trova a dover (mentalmente) dipanare, riguarda le numerose

serve e « nipoti » che passano e scompaiono

da casa Balducci (probabili surrogati della impossibile maternità della signora Liliana, e verosimili prede dell’intraprendenza maritale), e il bel signorino Giuliano, cugino prediletto della signora medesima. Cui seguiranno ben più concreti e drammatici « grovigli », della rapina prima e del delitto poi. Il delitto, in particolare, si presenta appunto come lo sconvolgimento di un « ordine abituale », come una prova crudele della insensatezza e « cattiveria del mondo » (QP 61, 76). È questo il motivo

ricorrente: « A don Ciccio pareva che ogni forma del mondo si ottenebrasse [...]. » (75) « la morte gli apparve [...] una decombinazione estrema dei possibili, uno sfasarsi di idee interdipendenti, armonizzate già nella persona. » (77) Il bellissimo corpo di Liliana Balducci, infatti, violato ed esposto nelle sue intimità e misteri, viene descritto come una « unità » armoniosa, delicata, dolce, gentile, luminosa, elegante, come un meraviglioso ordize

ferocemente oltraggiato dai colpi e spaventosamente bruttato di sangue: « un pasticcio! » (62-3, 76-7). Oggetto ora

quel corpo, da parte di Gadda-Ingravallo, di ammirazione dolorosa, affascinato ortore, rattenuta passione, amorosa pietà. C'è qui una prima rilevante serie di novità rispetto al

passato, legata anche alla scelta tematica che Gadda ha compiuto e può ora compiere. Mentre i precedenti gialli, come Novella seconda e il finale della Cognizione, avevano come delitto reale o presunto un matricidio, e vedevano Gadda ritrarsi turbato o inorridito da ogni possibile sua 114

identificazione con l'eventuale assassino, nel Pasticciaccio la donna uccisa è una donna senza maternità (il motivo, molto sfumato in donna Elsa, diventa qui centrale). Nono-

stante i connotati autobiografici insomma, qui non c’è nessun figlio e nessun matricidio, ma soltanto un detective e un delitto. Sono possibili perciò sia l’oggettivazione di Ingravallo che quella di Liliana; sia la sintonia-simpatia di Gadda con il primo, sia l’adorante disvelamento del corpo violato della seconda, in un ambito abbastanza riparato da personali dolori e disordini. Ha certamente qualche significato poi, che qui la disposizione misogina e antifamilistica di Gadda, pur ben presente

e talora teorizzata

(125-6,

153), non

arrivi alla

furia indiscriminata e totale: a riprova di un autobiografismo più controllato e mediato. Mentre c'è nel romanzo una presenza di bellezze muliebri molto più diffusa che nel passato. Fin dall’inizio Gadda, nello spazio di poche righe, incarna il suo mito in Liliana Balducci, in una serva e in una delle « nipoti » (9-10), e lungo tutto il romanzo

indugia su di loro e su altri corpi e volti di giovani popolane, che vengono quasi a far corona alla splendente signora. Fin dall’inizio, ancora, il personaggio di Liliana presenta anch’esso ulteriori intrinseche novità. Certo, anche in lei come in donna Elsa c’è una diversità di fatto rispetto al contesto (qui cattolico, fascista e borghese) in cui vive: l'impossibile maternità (che in tal senso fa da pendant al celibato di Ingravallo: il 1927, tra l’altro, è l’anno in cui viene inaugurata ufficialmente la campagna demografica), una gentilezza e generosità, « fraternità » € purezza, « nobile malinconia » e compostezza, che ne fanno anche una « donna quasi velata ai più cupidi » (12, 14, 20). Ma Liliana non reca e non provoca più quelle implicazioni e complicazioni direttamente autobiografiche, che tra risarcimenti e rimpianti avevano caratterizzato e accompagnato i precedenti miti muliebri, popolari e borghesi. 106)

Appare abbastanza chiaro perciò, il nesso tra la realizzazione letteraria degli ideali gaddiani di concretezza e di equilibrio (Ingravallo), e quella di un mito muliebreborghese sostanzialmente liberato (Liliana); e in Ingravallo stesso, tra quegli ideali, la tensione cognitiva e ordinatrice dentro il disordine del delitto, e il disvelamento ammirato-inorridito dell’armonioso corpo di lei, del suo mirabile ordine violentato. Un processo coerentemente preceduto

dalla

discreta,

rispettosa,

devota

ma

intensa

attrazione che il commissario sente per la bella e misteriosa donna. Gadda in sostanza, può oggettivare tutto questo, volta a volta partecipandone o distaccandosene senza esserne coinvolto e sconvolto. Una piccola conferma di questo atteggiamento, sembra venire da un altro personaggio, il commendator Angeloni, colto, goloso, timido, solitario, malinconico, celibe (il celibato è un motivo ricorrente e quasi programmatico nel romanzo, anche al di là di Ingravallo e Angeloni: vm 114115), su cui Gadda proietta alcuni tratti autobiografici, già presenti in Gonzalo. Del commendator Angeloni Gadda fa un ritratto molto vivace e divertito, e oggetti vato, controllato, che sembra continuamente e sia pur vagamente alludere a una sua possibile omosessualità: le reticenze sui garzoni che gli portano in casa prosciutto e carciofini, e i relativi timori di scandalo, sempre dirottati più o meno implicitamente dallo scrittore sul pericolo di un coinvolgimento giudiziario del rispettabile funzionario. Quasi che Gadda riesca qui addirittura a giocare con quei

sospetti di una sua personale omosessualità, dai quali altrove sembra invece difendersi, o riesca comunque a difendersene con più sorridente distacco. L’indagine di Gadda-Ingravallo dentro il disordine del delitto e dentro l’universale insensatezza che vi è racchiusa,

viene dunque scoprendo un mondo popolare e borghese nato e segnato dalla degradazione, corrompimento, disso116

luzione di ogni tradizionale virtù, valore, raziocinio, con tutte le connotazioni (in parte note) che ne derivano, e che trovano la loro costante in una fondamentale stupidità. Un mondo fatto di colpevoli, complici, conniventi, o di spettatori, comparse, vittime più o meno innocenti, con una gamma infinita di variazioni, interazioni, interscambi. Gadda si muove qui tra un’ironia partecipe, che può diventare anche simpatia, compatimento o pietà, esercitata tendenzialmente verso il mondo popolare (la « collettività fabulante » dopo la rapina, la prostituta dilettante Ines Cionini, tutta una serie di figurine minori, certi paesaggi e interni di miseria: QP 30 sgg., 69, 174-5, 178179, 195 sgg., 269, 278-9

e passim), e una

satira feroce,

accentuata talora dalla deformazione fisica, nei confronti del « generone » e dei « signori novi de commercio », dei « pescicani » e dei « pescecanucoli » (il Balducci, la Me-

negazzi, il coro dei parenti di Liliana rimescolante cupidigia e lacrime, « ori » e memorie, e altri ancora: 10, 22, 24-5, 36, 103-4, 118, 129 e passi), o nei confronti altresì dei rappresentanti subalterni più sordidi, avidi, be-

stiali, che ne sono l’espressione degradata e il livello estremo: le « nipoti » e il loro retroterra sociale e familiare, la Zamira, Diomede, e perfino certe controfigure animali, come la gallina guercia o il cane « indemoniato idiota » (118-9, 160 sgg., 179 sgg., 216 sgg., 253-4, 269273, 278). Un

mondo

miserabile

e abietto

che diventa

anzi alla fine l’immagine speculare del concupito e mitizzato « Palazzo degli Ori » (QPL, I, 54). In tutte queste pagine tornano anche i motivi della. personale « vendetta » gaddiana, intrecciati al suo rigore etico, che tuttavia sono stati già ampiamente se non esaustivamente svolti, nel-

l’Adalgisa e la misoginia. e femminili, sero bersagli

nella Cognizione: e questo vale anche per I suoi bersagli borghesi e subalterni, maschili rimandano perciò ad altro, ormai, quasi fosapparenti o comunque secondari. ftL7

Tutto il furore, infatti, tende a scaricarsi soprattutto

su Mussolini, che Gadda coglie nel ’27, riverberando però su di lui anche quanto sarebbe venuto in seguito. Mussolini diventa così l’emblema assoluto dell’insensatezza del mondo e della stupidità degli uomini. Gadda lo viene descrivendo come una creatura deforme, animalesca, tarata, idiota: « co quele braccette corte corte de rospo, e queli dieci detoni che je cascaveno su li fianchi come du rampazzi de banane [...]. Gli occhi spiritati dell’eredoluetico oltreché luetico in proprio, le mandibole da sterratore analfabeta del rachitoide acromegàlico [...].» (QP 58, 109). I celebri e inventivi epiteti gaddiani fanno dell’uomo che domina l’Italia e già volge il suo sguardo al mondo, prendendo e preparando tante decisioni dissennate e inutili tragedie, un rimbombante, vacuo, pagliaccesco, stupido esibizionista:

« Mascellone

Testa

di Morto

in bombetta,

poi Emiro col fez », « gallinaccio », « pavone », « Pupazzo », « Facciaferoce col pennacchio », « Testa di Morto in pernacchi », « Predapiofezzo in cornice », « maccherone », « Emiro de sàbet gràss », « Gran Balcone », « Buce », « Truce in cattedra », « Onnivisibile fetente », « Dindo », « Quer Tale [...] nato scemo », e altri ancora (53, 58, 81, 1057107,

(109-105 159-607 17871303184589 14001

238, 286, 330, 333). Cui fa da significativo e implicito contrasto il « Baffobelva » tedesco (118), anche in altre pagine: (VMId.I. LEGGERO Chiri MOLA) Mussolini, del resto, scandisce continuamente il racconto: sproloquia sul delitto e sull’assassino, occhieggia dai ritratti nelle scuole e nelle questure, sentenzia con i suoi slogan « su riscialbate muriccia » (QP 101, 110, 159, 193-4, 330). Lo evocano più o meno esplicitamente le

censurate cronache « di pretta marca neo-italica » sui delitti (80); l’arrivo dei treni in orario (99); il proposito di «‘ adoperare’ l’avvenimento » per qualche « penna di pavone » in più, così anticipando «il caso Pirroficoni » 118

(che è poi Girolimoni in « Letteratura »: cfr. oP 107-10 e QPL, III, 40-1), e così esplicitando quella speculatità tra « demente politico esibito » e « moltitudine pazza » (QP 108); e ancora, il bel Diomede, che « La difesa della razza » più tardi « avrebbe recato a testimonianza di aria-

nesimo splendido » (204). In generale poi, anche altri campioni di virilità fortunati in amore, come il volgare e infedele Balducci con la sua « voce maschia e baritonale » (11, 13) o il cugino di Liliana bello e arrivista (18-9, 72, 83 sgg.), o il maresciallo Santarella con il suo gineceo familiare ed extrafamiliare (188-92), rimandano al maschio e « gallinaccio » per eccellenza, di cui Gadda vede già invaghirsi tutte le donne d’Italia (59, 159-60). Su di lui perciò scatena il suo violento disprezzo e furore, esercitando invece un’assai più mediata deformazione sarcastico-grottesca su quelle che ne sono le proiezioni minori; e la stessa differenza di atteggiamento e di tono vale per la relativa e conseguente misoginia, che scopre le sue punte più acuminate e velenose sempre a proposito di Mussolini. Con una sorta di gioco delle parti, va aggiunto: ogni volta che entra in scena Mussolini in sostanza, Gadda finisce per scavalcare Ingravallo, quasi lasciando al suo giudizio più disincantato e filosofico, alla sua antipatia e rabbia e gelosia più rattenuta, il compito di occuparsi degli altri (cfr. anche 131lo

1338-41,

143, 201-2,

205, 214).

La presenza ritornante, ossessiva di Mussolini, sembra poi ricondurre a lui, a « chillo carugnone » (53), perfino

il delitto, come a un responsabile occulto e oscuro: il coltello, scrive a un certo punto Gadda, cancellato dalle cronache del regime, ricompare « sulla panza delli eroi funebri » (81), quasi fossero loro i veri assassini. Il delitto insomma, nel momento in cui rimanda all’insensatezza del mondo, rimanda altresì a chi ne è il sinistro e grottesco eroe. Il Mussolini di Gadda del resto, oscilla sempre LS

tra l’immagine dell’esibizionista sbruffone e quella del cialtronesco criminale, come facce solo apparentemente contrastanti.

Il delitto e le relative indagini di Ingravallo fanno anche luce via via, pur in un perdurante « groviglio » di ambiguità ed enigmi, congetture e piste, incredulità e riluttanze (139), sulla complicata contraddittoria sfuggente verità di Liliana Balducci. Attraverso la mente, gli occhi. e il cuore del commissario, vengono anzitutto delineati i tratti di una bellezza inaccessibile e vietata, di una fedeltà coniugale sofferta quanto rigorosa, di una disinteressata negazione della proprietà come culto familiare o dissipazione narcisistica: « Quel dare, quel regalare », perfino alle possibili « concorrenti » e « rivali più giovani » (14, 62-3, 124, 157). Gadda sembra insomma voler separare, distanziare, recuperare Liliana dal contesto volgare, cot-

rotto, avido, turpe del « generone » di cui è pur figlia e beneficiaria, per farne un’eccezione, quasi attribuendole un’inconscia e segreta vocazione di martire innocente dell’insensato mondo borghese, subalterno (e fascista) in cui

sostanzialmente vive. La sua carnalità e voluttà e desiderabilità infatti, appare quasi fatalmente destinata a immobilizzarsi e spegnersi e purificarsi nel gelo e nel buio della morte, e il suo splendido corpo straziato viene descritto e avvolto in un fittissimo velo di variazioni sul motivo del candore e del bianco (61-2). E ancora: « Rivestitala e ricompostala, ne venne fasciata la gola: con bian-

che bende: come d’una carmelitana distesa nella morte [...]1.» (100) Scriverà più tardi Gadda: « Aperto appena il racconto, la pietà di cui nella inesaudita speranza della prole si conforta la donna: e insieme il presentimento e quasi l'inconscio desiderio del cielo. Gli agi, gli averi, gli ori la circondano: le gemme che la naturale invidia della gente e la cupidità e la rapina raggiungeranno. Donde il crimine orrendo. » (IP 4. Cfr. anche QP 120

123).

Ma le indagini di Ingravallo vengono altresì svelando nella vita di lei, al di là di tutto quel candore culminato nel sacrificio, un

fondo

vischioso

e verminoso

che l’ha

condizionata e coinvolta fin quasi a contagiarla e sporcarla suo malgrado (un po’ come è accaduto per il suo corpo ucciso): basta pensare all’ambiguo viluppo di sentimenti e di rapporti con il marito, il cugino « campione della razza » e il mondo torbido delle « nipoti », e alla rela-

tiva mascheratura patetico-retorica, cattolico-benpensante e patriottico-fascista del testamento (118-21, 126, 131-3, 135, 138-9, 142). In generale poi, l’affettività morbosa,

ossessione, follia, in cui è degenerata la sua insoddisfatta ansia religiosa di maternità (123-7, 135, 139, 150-1, 157158. IP 4), oltre che apparire come una incolpevole e al tempo stesso perversa conferma della incipiente forsennata campagna patriottico-demografico-razzista (QP 59, 121, 139), finisce quasi per diventare (in lei vittima) rovescio eguale e contrario di quella universale insensatezza e stupidità: con la quale finisce per convergere paradossalmente la sua stessa disposizione al « dare », che di quella insoddisfatta ansia è diretta manifestazione ma che al tempo stesso è un aspetto qualificante della sua figura eccezionale e diversa. Ingravallo (e con lui Gadda stesso, si direbbe) vive la contraddittoria condizione di Liliana con turbamento,

stupore, disagio. In questo senso l’espunzione della IV puntata di « Letteratura » dall’edizione in volume potrebbe essere dettata, oltre che da motivi di intreccio e di suspense (vm 113), dall’esigenza di non alterare il delicato equilibrio tra le diverse connotazioni e sfumature del personaggio. Gadda elimina infatti lo scabroso interrogatorio del Balducci, dal quale Liliana risulta più chiaramente, anche se non meno innocentemente, coinvolta nella sordida storia del ricatto di una delle « nipoti »: preferendo così lasciare la parola al ben più riguardoso e pru120

dente teste don Lorenzo Corpi (op 156 sgg.). Ingravallo del resto, non se l’era sentita di partecipare a un precedente interrogatorio del Balducci, paventando « disgustose crudezze » (110).

Il mito della bellezza muliebre-borghese dunque, sostanzialmente oggettivato e liberato dalle implicazioni e complicazioni autobiografiche, resta prigioniero della logica di dissennatezza, violenza, infelicità che regola una intera classe, società, storia. Gadda sembra cercare perciò un'alternativa o un’evasione ai livelli più bassi e subalterni, che appartengono a un’altra storia o preistoria, anche se poi finiscono per subire quella stessa logica, diventandone spesso i rappresentanti più degradati e brutali. Gadda cerca anche qui l’eccezione della vittima innocente, nella bellezza povera, sudicia e « dogliosa » e nella umanità elementare, disarmata e offesa di Ines Cionini, i cui « occhi-gemme, di pupa » enunciano «il nome d’una felicità tuttavia possibile; d’una gioia, d’una speranza, d’una verità superotdinata alle cartoffie, ai muri squallidi, alle mosche secche del soffitto, al ritratto del Merda » (176-9). Dove si può misurare, tra l’altro, una significativa distanza rispetto ai « rimpianti [...] d’una irripetibile gioia del vivere » evocati da donna Elsa (L’A 326). Dalle pagine sull’interrogatorio di Ines in questura, vien dunque affiorando una vitalità primordiale («il senso vero e fondo della vita dei visceri, della fame: e del calore animale. »: QP 178), estranea e ostile allo squallore e crudeltà dell'ordinamento sociale e politico in cui la donna è costretta, e da cui subisce una incomprensibile violenza (206-8): emergendo alla fine, dalla sporcizia e dagli stracci, e dalla stupidità di cui è pietosa espressione, come una eroina umile e altera. « Nella stanchezza, nel pianto, eretta, da

ultimo, dentro la mucida luce del camerone aveva parlato risplendendo: i cigli, biondi, rivolti ad alto, irraggiavano sopra la serietà luminosa dello sguardo: le lacrime ave22

vano deterso le iridi, castano scure, le due gemme turchesi che le racchiudevano. » (224)

Questa mitizzazione pietosa e ammirata di Ines, è del resto il punto centrale di un alone che arriva a sfiorare altri personaggi e situazioni (femminili) popolari, riscattandoli in parte dall’universale condanna, secondo una ben nota ambivalenza. Si può anche dire che qui Gadda ripropone in termini più complessi, maturi, adulti, oggettivati, quel motivo di un felice disordine, vitalità, libertà popolare a lui negato, che nella Madonna dei filosofi era ancora un « sogno » giovanile, momentaneo, precario, con-

dizionato, e ben presto sconfitto dalla personale esperienza del « male ».

Capitolo decimo * MALEDITO

MERDONIO DICTATORE IMPESTATISSIMO

Tutte queste considerazioni valgono soprattutto, anche se non soltanto, per i capitoli di « Letteratura » e per il VII successivo, che sembrano ricollegarsi in modo abbastanza diretto al processo biografico-creativo degli anni Trenta: processo che è perciò, almeno in parte, all’origine delle novità via via più o meno esplicitamente indicate, e delle scelte ad esse relative. L’Adalgisa in sostanza, conclude la lunga ricerca di una non-tradizionale unità narrativa; ricerca condotta attraverso tentativi falliti di romanzo, una progettualità frammentata in direzioni diverse e ricomposta in raccolte, e così via. Nell’Adalgisa inoltre,

Gadda proietta la sua esperienza privata (vendetta e riscatto) su una realtà esterna, con una forte mediazione STO

Nord-Sud, ancora (in «Il Mondo », Firenze, 6 ottobre 1945), I tre imperi (ivi, 15 giugno 1946),

Conforti della poesia (in « La Fiera letteraria », 17 luglio 1949), La battaglia dei topi e delle rane (in «L’Illustrazione italiana », novembre 1959). VM

Il mondo

Emilio

di ieri (1945),

e Narcisso

Pasticciaccio

(1949),

Come

(1949),

(1953),

Il

(1957).

Archivio Garzanti, lettera inedita di Gadda 1957 da Roma a L. Garzanti, Milano.

Roscioni DE

lavoro

L’egoista

G.C. Roscioni, La disarmonia naudi, Torino 1969.

124

del 25

settembre

prestabilita,

Ei-

letteraria che si vale di un plurilinguismo cognitivo, critico, polemico. La cognizione del dolore interrompe quel discorso (che nell’Adalgisa ha un momento culminante ma non necessariamente definitivo), ritornando all’inizio, alle più private radici, con una tensione 4utocognitiva, senza più vere proiezioni esterne né vere mediazioni. Nella Cognizione, in tal modo, il conflitto tra ordine e furore (dolore)-tocca il suo punto più alto e irrisolto, la tensione liberatoria non attiva al suo compimento. Al tempo stesso però, con queste due opere la fase più acuta si può considerare passata. Nell’Adalgisa i conti con la borghesia sono stati in gran parte fatti, e con La cognizione lo stesso problema-madre è stato scontato nelle sue implicazioni più

crudeli e segrete. Gadda può così riaprire il discorso interrotto, in una prospettiva nuova. Anche se nella vita pratica egli risente pur sempre di un equilibrio precario, come conseguenza di quella liberazione non completata, nel Pasticciaccio riesce a controllare molto più che nel passato il suo autobiografismo e la sua misoginia. La proiezione all’esterno poi, è qui fortemente provocata: dagli orrori e dalle catastrofi della guerra nazista e fascista (Lcc 64-5. LGS 154-5, 161. VM 211, 215), e in particolare dall’avvilimento estremo della patria e degli antichi valori, che nel romanzo e in altri scritti Gadda attribuisce tout court a Mussolini, in una esplosione di vecchi e nuovi risentimenti e rabbie. La prorompente ricerca di personali vendette si arricchisce e complica di motivazioni ulteriori. La stessa insistenza sulle « catastrofizzate speranze » e sul « cataclisma di tutta una vita » (L6s 154. Lec 64), richiama la caduta di più

generali illusioni e aspirazioni, determinata da un’esperienza di guerra e di sconfitta che Gadda sente di aver vissuto « nel dolore e nello strazio comune » (ivi).

Tutto ciò porta allora, sia, ai processi di oggettivazione descritti, sia al furore antimussoliniano: vedendo Gadda, 25

in questo ambito specifico (come si è osservato

già), me-

diare attraverso Ingravallo nel primo caso, e intervenire più direttamente nel secondo, con tutte le inevitabili interazioni e interscambi tra i due livelli, naturalmente. Ma non c’è un vero contrasto in questo duplice atteggiamento. Gadda anzitutto, sembra compiere una scelta precisa e consapevole, scaricando e liberando il suo più esteso, esclusivo e talora incontrollato furore, in certe note al romanzo (tutte le note di « Letteratura », soppresse nell’edizione in volume salvo una, fusa nel testo relativo, saranno da lui stesso attribuite a « una sotta di incontenibile ed esplosiva urgenza del suo animo 1945-46 »: vM 114. Si veda in particolare QPL, I, 68-71), in certe recensioni del ’46 (To 176-9), in certe lettere del ’47 (LAM 50-1, 56. LGc 66), e soprattutto in Eros e Priapo la cui elaborazione accompagnerà per un certo periodo quella del Pasticciaccio; e altresì facendo del suo antimussolinismo il ricorrente livello sarcastico-furente e vendicativoingiurioso di un romanzo largamente caratterizzato da una tensione oggettivante e da una struttura più solida e al tempo stesso flessibile che nel passato, con una stretta funzionalizzazione

e

intima

compenetrazione

reciproca

tra

quel livello e questa struttura complessiva. Il che si può in parte dire, con i necessari adattamenti, di molte pagine saggistiche che accompagnano la lunga lavorazione del Pasticciaccio, all’interno della raccolta I viaggi la morte (1958). Del resto, queste stesse pagine saggistiche e l’aggiunta di inserti politici più riflessivi nella stesura dell'edizione del romanzo in volume (il più rilevante è in QP 91-3), che fa anche da pendant all’abolizione di certe

note, sembrano confermare quella precisa scelta. Nella vendetta antimussoliniana dunque, vengono a fondersi motivi sparsi o solo in parte convergenti all’interno della precedente o contemporanea produzione gaddiana, e riconducibili comunque a due filoni, a due mo126

menti fondamentali del suo furore etico e viscerale. Gadda in particolare, riaprendo anche un discorso sostanzialmente interrotto o deviato dalla totale furia asociale e aclassista della Cognizione, vede in Mussolini (come si è anticipato in parte) il massimo traditore e tralignatore, il principale responsabile della corruzione e degenerazione della miglior tradizione liberale-borghese, e al tempo stesso la suprema incarnazione di tutti i vizi di narcisismo retorico, profetismo

istrionico,

criminosa

insipienza,

brutale

opportu-

nismo, greve supponenza, che egli era venuto condannando e satireggiando in tante figure di vati, generali e borghesi: con l’accentuazione nuova ed esasperata di una esibita virilità, in cui si concentra tutta la sua più direttamente autobiografica misoginia. Due volti variegatissimi perciò, di un intermittente ma compiuto ritratto, che meritano più diffuse considerazioni. Moralizzatore della cronaca nera e in realtà ladro «a tutte le genti » (80-1, 175, 184. vM 211, 215), Mussolini riassume ed esalta la volgarità, falsità, immoralità del

« generone » e dei nuovi ricchi, corrotti e corruttori delle classi subalterne con il « loro oro del diavolo » (QP 10, 22, 79). Ma soprattutto egli segna con il suo avvento,

l’inizio di un totale stravolgimento e involuzione dello Stato democratico-borghese e della vita italiana, tra prevaricazione, iniquità e servilismo. Gadda dedica in particolare alcune pagine alla fusione e confusione dei « ‘ tre poteri’ » in « un’unica e trina impenetrabile e irremovibile camorra » (91-3, 196), ma l’intero romanzo è attraversato da spunti analoghi. Assai ricorrente tra gli altri, il motivo doloroso-irridente e sarcastico-risentito della patria come valore calpestato, svuotato, ridotto a vacua retorica o strumentale pretesto di malgoverno e sopraftazione, di ladrocinio e delitto (75, 91, 119, 184-5, 251. vm 25). Ne è investita con particolare violenza in una

nota di « Letteratura », « la bella guerra » di Mussolini, 227

in esplicito contrasto con l’« artra guerra »: « Le polpette di carne umana servono pure a qualcosa: la profusione der sangue: la cadaverica dovizie che tanto entusiasma ogni battezzata e cresimata patriottessa. » (QPL, III, 70. Cfr. anche vm 12, 25) Ma il Pasticciaccio recupera in termini nuovi anche

quella distinzione passato-presente che nella Cognizione era stata sostanzialmente liquidata. Gadda istituisce infatti in modo esplicito una periodizzazione che, in una sorta di interminabile, furiosa, paradossale, irridente recriminazione, imputa al « Nero Personaggio », all’« era dell’egira » e all’« impero imminente » la comparsa della jella e della « migragna », e la scomparsa o adulterazione di quanto di meglio c’era stato in passato: oltre alla libertà e alla buona amministrazione, i marenghi d’oro, la sicurezza dei buoni quinquennali, la bistecca di filetto, il

pecorino di montagna, e così via, non senza qualche trasparente riferimento autobiografico minore a certe sue piccole golosità o a certe sue sfortunate operazioni finanziarie (QP-58; 105; 111-2; 128, 170,.180,.184,.190,

286-7552064

334). Da quanto si è detto fin qui perciò, si può trarre un primo bilancio dell’atteggiamento di Gadda nei confronti del fascismo: quello che gli era sembrato l’unico possibile ordine rispetto al disordine dell’altro dopoguerra, gli appare ora come l’eversore e distruttore definitivo di quell'ordine borghese che pur tante offese e tradimenti ha già subìto al suo interno, e altresì come il tristo campione di quel totale disordine, di quella universale insensatezza e stupidità che dalla Cogrizione al Pasticciaccio è venuta trovando e ritrovando i suoi ben definiti referenti sociali minori: subalterni e borghesi, laide megere e giovani lenoni, « pescecani » o « pescecanucoli di stomaco ardente » e gentiluomini di presunta « normalità », e così via (10, 22. vM 24-5). Di qui appunto il furore e odio verso Mus128

solini e i suoi « stivaluti briganti » (215), e per reazione (anche e soprattutto nelle lettere) un soprassalto di conservatorismo nostalgico-borghese, che nella seconda metà degli anni Quaranta lo porta a difendere « la ‘ borghesia milanese ’ », a esaltare « il liberismo, specie economico », a rievocare il clima « di gentilezza, di signorilità, di pathos italiano e di malinconia che emana » dai luoghi e dalle opere

pucciniane

(To 233-40.

LGc

66-7,

73, 76). Rien-

trano in questo atteggiamento le invettive contro il « Mascellone Autarchico » (oP 333) o contro il « Barbanera antimassone antinglese antiborghese antigiudeo antilei » (in un brano poi espunto: QpL, II, 59. Cfr. anche QP 184), che rovesciano molte sue convinzioni di un tempo.

Su questa strada Gadda arriva a risentirsi polemicamente di tutto quanto rimette in discussione il vecchio mondo e mito anche da posizioni opposte a quelle del fascismo. Significativa in questo senso la sua contrarietà verso i partigiani, come elemento di nuovo disordine (LGC 62-3); gli stessi suoi riferimenti alla tragica fine di Giorgio Labò restano nell’ambito degli affetti e dolori privati (LGS 153-5). E significativo altresì il suo rifiuto delle novità politiche e culturali del dopoguerra (LGC 67, 76), con violente esplosioni di rabbia nei confronti delle conversioni antifasciste e antiborghesi, come manifestazioni di incoerenza, opportunismo, confusione di posizioni e di ruoli (66). Questo atteggiamento, per certi aspetti particolari, si può ritrovare anche in altri intellettuali italiani, ma resta comunque decisamente minoritario in questi anni, soprattutto nelle più accentuate punte di Gadda: saldandosi, tra l’altro, alla sua dichiarata misantropia, scontrosità ed estraneità ai partiti e alla corporazione politicoletteraria (LT 151. Ls

161. LGC 67-8, 73), e concorrendo

così ancora una volta a sottolineare la sua personalità e collocazione anomala. Un conservatorismo borghese e nordista di fondo caratterizzerà comunque le prese di posi129,

zioni politiche di Gadda anche nei successivi decenni, esprimendosi volta a volta in un sottaciuto antimeridionalismo, nella firma del « ‘ manifesto liberale ’ », in certi spunti anticlericali e in ricorrenti nostalgie monarchiche, non senza contraddizioni contingenti, ed esprimendosi altresì in un’accentuazione del proprio isolamento polemico verso l’intellettualità aperta 4 sinistra (80, 86, 112, 114115. To-233 ‘sgs. Cattaneo er .23% 28, 34-87, 42,169 Mo,

91-3, 99). Si è già detto come Gadda faccia confluire nel « gallinaccio co la faccia fanatica » (QP 81) e « profeta forlimpopolo » (vm 268) quei vizi di esibizionismo, narcisismo, retorica

(ritradotti

anche

in chiave

violentemente

miso-

gina) che erano stati un leitmotiv delle sue polemiche e delle sue rabbie. In generale poi le pagine di Gadda, soprattutto dagli anni del Pasticciaccio, sono letteralmente disseminate di questo polivalente motivo, con significative diramazioni. Oltre e più che D'Annunzio (« Divo » deriso fin dal 1922 e via via nei successivi decenni:

LB 70,

cdp 65-7. vm 264. rRQP. IA 209-10), bersaglio ricorrente è Foscolo, « istrione », « Poeta Iperbolico », narcisista, che ha la « specialità [...] di inneggiare alle vergini e andare a nanna con le maritate » (205-6. Cfr. anche QP 272, 338. To 195-8). Dove tra l’altro le «basette » e l’« irsuto petto » del vate conquistatore, sembrano fare da grottesco pendant al « parruccone » dell’antiretorico e sfortunato Ingravallo. Su Foscolo Gadda scriverà un pamphlet teatrale in cui gli stessi motivi torneranno dilatati e insistiti, anche nel quadro della gaddiana liquidazione di una letteratura declamatoria, rimbombante, arbitraria (cASP 22, 24, 36). Se il « basettone » Foscolo si può considerare soprattutto la controfigura retorico-priapesca di Mussolini, il « Nano » Napoleone ne è in certo senso quella fisica, sociale e politica: sgraziato nel corpo, volgare nei modi, tiranno-parvenu, non senza qualche venatura di virilità 130

ammirata dalle donne (L’A 24, 68 sgg. PLF 42. vm 17, 264. TO 66-7. GASP 17. cdp 32-3). In certi saggi poi, tutti questi motivi

si intrecciano

in un nesso

strettissimo,

ri-

proponendo le varie analogie vate-Napoleone-Mussolini, anche nel segno di un’esaltazione mistico-retorica dello « spirito » contro la « materia » (vm 17. Cfr. anche AG

253. GASP 23) o di un teorizzato e compiaciuto « egotismo » (vm 13-4, 262-6, 268, 288-95) che ricorda l’« io

saputello » della Meditazione milanese e l’«io.... pimpante.... eretto.... impennacchiato » contto cui Gonzalo avventa la sua ira di azomzalo figlio, proprietario, cittadino, intellettuale (cdp 124-6). Questo intreccio di motivi trova poi nel Mussolini del Pasticciaccio

(come

si è anticipato in parte) una

grande

ricchezza di sfumature e significati. Così, molti epiteti ne sintetizzano e colpiscono i connotati di prevaricazione, millanteria e virilità ostentata (« Maledito [Maledicto?] Merdonio dictatore impestatissimo », « Smargiasso impestato », « Toro in tribuna »: QP 109, 178, 185), mentre la « voce maschia » e « maschia barba » (in una sorta di pilifera consonanza con Foscolo) e in generale la parola

e l’opera del priapesco e volgare esibizionista, esprimono al tempo stesso, secondo la ricorrente e coerente oscillazione gaddiana: l’aggressività sbruffona del sedicente guerriero e la criminalità del brigante maramaldo, la minacciosa impotenza del tiranno fantoccio e 1’ attività pseudoetica » del « demente politico », la tronfia inettitudine e la cieca violenza, l’opportunistica inefficienza e la brutale repressione, il falso patriottismo e la demagogia demografico-familiare

(59, 80-1, 101, 108, 110, 159-60,

ORSO TIO 41961235: 2384274, Cfr. anche vm 268).

28609307339

9A

C'è una pagina im particolare, che sintetizza con rara efficacia quasi tutti i connotati fondamentali del Mussolini gaddiano, in un quadro grottesco e tragico di velleitarie doll

ambizioni e disastrose prospettive future: « C'era di gran visite di plenipotenziari dell’Irak e di capi di stato maggiore del Venezuela, in quei giorni, un andirivieni de gente piena de patacche [....]. / Ereno i primi boati, i primi sussulti, a palazzo, [...] del Testa di Morto in stiffelius, o in tight: ereno già l’occhiatacce, er vommito de li gnocchi [...]. I radiosi destini non

avevano

avuto

campo

a

manifestarsi, come di poi accadde, in tutto il loro splendore. [...] Lui s’era provato in capo la feluca, cinque feluche. Gli andavano a pennello. [...] già principiavano invulvarselo, appena discese d’altare, tutte le Magde, le Milene, le Filomene d’Italia: [...] sognando fasti e roteanti prodezze del manganello educatore. [...] Le opinioni del mascelluto valicavano l’oceano, ia mattina a le otto ereno già un cable [...]. ‘ La flotta ha occupato Corfù! Quell’uomo è la provvidenza d’Italia.’ La mattina dopo

er controcazzo [...]. Pive ner sacco. E le Magdalene, dài: a preparar Balilli a la patria.» (oP 58-9) Ora non c'è dubbio che la rappresentazione-deformazione sarcastico-grottesca di Mussolini e delle sue illustri controfigure, rechi in sé motivi di personale risentimento: talora altrettanto privati e segreti di quelli considerati già. Rivela pur qualche sottinteso ulteriore in questo senso, nella parte amputata di Cizerza, più ancora che la descrizione del fortunato rivale dell’autobiografico protagonista («un giovane aitante, dai lineamenti massicci dalla capigliatura foltissima »), l'amara considerazione

relativa:

« la

gente rozza dai capelli folti sulla fronte concava e bassa, che solo conosce i corti pensieri e deve baciare le donne col mento sporgente, pungendole con la barba, aveva tanto ardire e Dio li proteggeva così palesemente.— » (c 279280) Gadda traccia qui le prime vaghe e implicite linee di un contrasto che trova ben altra pregnanza e complessità nella Cognizione, a proposito di Gonzalo: « Germanico era in [...] certo rovello interno a voler risalire il 132

deflusso delle significazioni e delle cause, in certo disdegno della superficie-vernice, in certa lentezza e opacità del giudizio, che in lui appariva essere inalazione prima che sternuto, e torbida e tarda sintesi, e non mai lampo-raggio color oro-pappagallo. » (cdp 87) Mentre in pagine ancor più recenti e già considerate in patte, Gadda rievoca le sue dolorose esperienze di ragazzo timido e gentile, pensoso e sognante, e « inetto a vivere »: le « indelebili ingiurie » patite « nella vita, da ‘criminali narcisisti’, dai ‘ pavoni delinquenti’ », e le durezze di « donne-educatrici » ispirate dal modello di maschi « baritoni » tanto perentori a dettare quanto inadempienti a osservare « il dettato proprio e bischerrimo » (vM 21-2). Anche al di là delle assonanze più evidenti dunque, nel ritratto di Mussolini e delle sue controfigure, Gadda vendica una sua personale diversità di sconfitto e frustrato in un mondo di stupidità vincente, i cui eroi sono anzitutto (coerentemente con la sua complicata e radicata misoginia, che potrebbe recare in sé perfino esperienze biografiche di innamorato sfortunato o respinto: si vedano certe lettere agli amici milanesi, ancora Cizema, lo stesso Ingravallo, eccetera) i maschi narcisisti campioni di una volgare avvenenza e virilità irresistibile (ha forse un senso polemico e punitivo, il fatto che nel costruire i suoi miti di bellezza muliebre Gadda tenda a privilegiare e simpatizzare pet le malmaritate o adultere?). Solo scrivendone Gadda può far sì che il suo rovello tormentoso attraverso oscurità e lentezze, si rivalga sulla superficialità appariscente ed esibita. Anche perché alla sua vendetta è sempre sottesa una forte carica ideale ed etica, che trova del resto esplicite e specifiche dichiarazioni. Nella lettera del 28 agosto 1931 già citata, Gadda indica l’altra osservazione che lo aveva colpito nel saggio di Glauco Natoli dedicato al Sorel di Stendhal: « il raccostamento a Nietzsche, [...] che (mi permette?) io avevo fatto già per mio conto, 133

pensando al gran canalone della ‘ volontà per la volontà’ cioè della ‘ volontà a tutti i costi’ che è il canchero del1800: anche Napoleone in fondo è un volere per volere, un dominare per dominare [...]. La traccia Stendhal Nietzsche-[D' Annunzio] [la prima di queste due parentesi quadre è naturalmente di Gadda] si contrappone alla concezione etico-finalistica della vita, dove la volontà è mezzo subordinato ad un fine morale: (Corneille, Manzoni, anche Kant). » E molto più tardi sottolinea tra i vizi e colpe di egoismo, egotismo e narcisismo, il disinteresse per la condizione di « necessaria convivenza » e certi oscuri e pubblici « delitti » commessi dal tiranno o nel nome del tiranno (282, 293). Ma è in Eros e Priapo che Mussolini diventa il bersaglio-protagonista unico e assoluto della vendetta gaddiana, con una ripresa e dilatazione e complicazione di tutti i motivi considerati fin qui, all’interno di un nuovo contesto visceral-problematico, e con un furore incontenibile e totalizzante che arriva a investire quasi ogni atto e comportamento umano durante il ventennio fascista: avendo «i crimini della trista màfia [...] permeato [...] ogni latèbra del sistema italiano » (EP 11). Gadda natu-

ralmente, pur concentrando quasi di proposito in questo libro il suo antimussolinismo più esclusivo e violento, cerca di organizzare il discorso in un ordine logico, in uno sviluppo consequenziale e coerente,in una distaccata compostezza e sentenziosità di linguaggio colto, aulico, antico (che talora può ricordare le favole); e cerca altresì di dare alla sua tesi di fondo una motivazione teorica. Ma la struttura non regge alla piena torrentizia della rabbia, sdegno, disprezzo, risentimento, dolore (o al contrario, talora, liberatoria comicità), con punte e rotture estreme che trovano

spesso espressione nel dialettalismo fiorentino o nell’invenzione-deformazione verbale. Dove il ricorso al linguaggio alto sembra assumere una funzione tendenzialmente 134

mediatrice, contrastata e contraddetta dall’eruzione dialettale e deformante: in una sorta di rovesciamento del relativo rapporto, nel quadro generale dello sperimentalismo

gaddiano. Ne deriva un’opera che vede prevalere al suo interno il processo centrifugo su quello centripeto, e che tuttavia ha una sua marcata originalità, al di fuori di ogni definizione di genere. Un’originalità che può ricordare in questo la Meditazione milanese, ma che ha tutt'altra specificità: muovendosi appunto tra saggio e delirio, requisitoria e confessione, autoritratto e pamphlet. La sua stesura attraversa un ventennio e forse più, se si considerano le tracce lasciate da Gadda qua e là: non si capisce bene se intenzionalmente o meno, come evidenziazioni di fasi diverse di elaborazione, o come spie di una incapacitàimpossibilità a rifonderne pienamente i risultati. In una delle quattro puntate del Libro delle furie pubblicate su « Officina » tra il 1955 e ’56 (e completamente rielaborate in Eros e Priapo), Gadda data implicitamente un passo al 1944-45 (LF 123), e nell’edizione in volume ricorrono almeno due riferimenti alla prima metà degli anni Sessanta: uno esplicito al ’63 e uno implicito alle fortune calcistiche di Mazzola junior (EP 101, 162). Nel ribollente e polemico libro confluiscono perciò nuovamente il privato risentimento e la condanna morale. Il primo si manifesta più trasparentemente in alcuni punti dell’autoritratto che Gadda vien delineando tra le righe, ma non soltanto, servendosi anche dello schermo di un personaggio o autore fittizio, Alì Oco De Madrigal: le umiliazioni (anche materne) di un’infanzia e giovinezza vulnerabile e sfortunata, la paura della folla, una « ten-

di idolatrie,

denza

indagatrice » scevra

critica

e una costante beffa della scemenza

E--:N(151-2-(157;

161,164,

176-7,

altresì l'appartenenza al « gruppo 135)

185;

« un’attitudine

umana », ec01997 7212);re

etico dei maschî pen-

santi », « portatori o gestori d’altri e più aggrovigliati perché meno bambineschi sistemi di idee », e perciò anche timidi, problematici, incerti, ai quali le donne preferiscono di gran lunga il maschio « mascelluto, stivaluto », autoritario e ignorante, grintoso e vacuo, « babbione e istrione », portatore della sua sola immagine di « verro » narcisista (54-8, 204). Richiamandosi così le analoghe pre-

ferenze e predilezioni di madri, balie e educatori « per i regazzini svegli e ben messi (ben vestiti) oltreché belli, aggressivi », e le relative « durezze e mortificazioni ai timidi, ai bruttini, ai debolucci, agli ineleganti » (164). Contestualmente erompe la condanna di Mussolini per aver precipitato l’Italia nella vergogna e nella rovina (9,

12) con la sua velleitatia e « teatrata possanza », rumorosa aggressività di « furioso babbèo », vana e criminosa ambizione di grandezza, brigantesca e « fanfaronesca gestione », viltà menzognera ammantata di patriottismo, e (con più esplicita consapevolezza e novità di tratti) alterigia, prepotenza, volgarità di ex agitatore e piccolo borghese pervenuto: un Mussolini su cui Gadda scarica un’altra e più lunga serie di epiteti ferocemente inventivi, dei quali si ricorderanno qui « Ejettatore », « Bombetta », « inturgidito Modellone », « Batrace tritacco », « Cupo nostro », mentre tornano altresì i riferimenti al « socio di ferro » tedesco o al « coronato nano » Napoleone (10-20,

DIREI

o)

Gadda sembra voler cercare un nesso tra i due livelli,

ancora una volta, nella sua tensione cognitiva. Fin dall’inizio infatti, egli si dichiara mosso da una necessità di conoscenza e « dispietata analisi » e « giudizio del male », e in particolare dall’esigenza di illuminare « le secrete vie della frode camuffata da papessa onoranda », di esplorare « que’ modi e que’ procedimenti oscuri, o alquanto aggrovigliati e intorti », impulsi prerazionali o arazionali, « animali », che « hanno tanta e talora preminente parte 136

nella bieca storia degli òmini » (11, 22-8). Gadda intende vivere e praticare questa istanza conoscitiva profonda come

riscatto e « resurrezione » personale, e al tempo stesso come « minima contribuzione » a una possibile resurrezione e presa di « coscienza collettiva » (11, 35): che egli vede peraltro e soprattutto affidata ai « profughi, perseguitati, carcerati, oltraggiati e congiunti e figli di deportati e di fucilati » (9-10, 78). Sono queste le pagine in cui la requisitoria è più lucida e sorvegliata, in cui l’antifascismo gaddiano è più convinto e consapevole, distinguendosi anche da quell’antimussolinismo più scatenato e viscerale, che tuttavia ben presto prende il sopravvento con il suo fermentante e travolgente disordine. Gadda sembra provare poi un profondo senso di vergogna e di colpa per aver aderito a suo tempo al fascismo e per aver preso chiara posizione contro di esso soltanto

alla fine della guerra; se è vero che cerca di spiegare o giustificare il suo silenzio di allora, servendosi anche dello schermo di De Madrigal (14, 134. Cfr. anche vm 115. LGC 140), e di spostare in qualche modo all’indietro la sua « disperata conoscenza », arrivando addirittura a parlare del « rospaccio che gli ha oppilato lo stomaco trent'anni » (EP 21, 29, 107). Retrodatazioni e autogiustificazioni altrettanto e più ancora ingenue, si ritrovano del resto nel risvolto al Pasticciaccio, che anticipa l’avvio della lavorazione del romanzo al ’38 (data indicativa tutt'al più di incubazioni e suggestioni lontane ed esterne alla vera sostanza di esso), e in alcune dichiarazioni più tarde che datano Eros e Priapo al ’28 e la presa di coscienza del fascismo al ’34 o addirittura a prima del delitto Matteotti (IpM 17. Cattaneo GL 93). Mentre, come si è visto, Gadda sembra maturare contraddittoriamente un certo distacco dal fascismo soltanto negli ultimi anni Trenta. Nelle lettere, del resto, non c’è nessun riferimento esplicito al fascismo almeno fino al ‘47. 157

In Eros e Priapo Gadda cerca poi di dare al suo antimussolinismo e alla sua « dispietata analisi », una base e motivazione

feorica attraverso

un assai personale freu-

dismo, complicato e contaminato con il suo darwinismo, e con altri sconfinamenti disciplinari (la pedagogia, la medicina) a livello problematico e linguistico. Eros, dice in sostanza Gadda, è alle radici degli impulsi, appetiti, atti umani. Ne è manifestazione fondamentale l’« autoerotia » o narcisismo, che quando non sia infrenata o sublimata da necessità morali e tecniche, degenera in « follia autoerotica » e « iper-erotia narcissica » criminale (EP 30-1, 34, 141-2,145, 148-9; 154, (166-9191201). Ilventennio

fascista appunto, « segna il prevalere di un cupo e scempio Eros sui motivi di Logos ». « ‘La causale del delitto ’ » è questa (40), dichiara Gadda

(con sottili richiami al Pa-

sticciaccio e all’oscuro, simbolico colpevole di quel delitto e dell’universale insensatezza che esso racchiude). Un Eros

senza Logos in sostanza, non è altro che un Priapo esibizionista e irresponsabile al quale Gadda vien riattribuendo, con le nuove e ulteriori implicazioni della sua teoria, tutti i caratteri e connotati

mussoliniani.

L’aber-

rante « autolubido » e « autofoja » determinano nel « folle narcissico »: l’impossibilità a conoscere gli altri, la « incapacità alla costruzione etica e giuridica », « la inettitudine e la indegnità pedagogica », « la morbosa tendenza a innalzarsi (sic), ad eccellere (sic) in forma scenica e talora delittuosa », la menzogna come espressione irruente e incontrollata, la caparbia insistenza nell’errore, la masche-

ratura etica delle proprie azioni, il superficiale e vanitoso sfoggio di idee contrastanti, la totale assenza di drammi interiori, l’identificazione tra le prestazioni dell’ingegno e quelle del sesso, «la esibizione del corpo » e perciò di tutto quanto può esserne l’esaltazione, armi finte, arti adulatorie, berci, eccetera.

È insomma

(170-89)

l’« Io-minchia », l’« Io-Fallo », che pro138

prio con la sua « priapesca [...] vantardigia », magniloquenza guerriera, e prepotente scempiaggine (29, 65-6, 82, 171, 189), riesce a conquistare «l'io collettivo », «un poppolo frenetizzato » e demente (13, 15, 32-3, 3738, 94). Perché la folla, « la moltitudine [....] è femmina »,

dice ancora Gadda, e Mussolini « Io-Fallo » conquista in realtà l’Italia proprio attraverso l’idolattia, soggezione, « minorità », isterismo, libidine delle donne italiane, attraverso la loro « ninfomania politica » (14, 42, 48-61, 65, 86-7). Il « super-maschio », « il mastio de’ mastî » impennacchiato e torvo, diventa così l’« io Patria» di tante « patriottarde Sofonisbe », generatrici di figli per lui e per le sue guerre (42, 45, 53, 57-9, 65, 67, 121-2,

130-3). Gadda scatena qui la sua più violenta misoginia: le donne sono via via descritte e insultate come irrimediabilmente stupide, passive, vane, dipendenti, ottuse, recettive, animalesche. Con incroci e composti verbali di rara crudeltà e perfidia: « psico-fiche riceventi », « canto ginecofesso », « vagovulvacea Vispofarfallesca guerra », « ficoborsa

o vulvomarsupio », e così via (59-60,

108,

127).

È comunque interessante notare, a riprova della fermentante

contraddittorietà

dell’opera,

la convivenza

tra

una misoginia così totale e indiscriminata, e una più pre-

cisa ed esplicita consapevolezza delle classi in gioco, rispetto agli altri scritti gaddiani. In Eros e Priapo infatti, non c'è soltanto l’alta e sdegnata pietà per i morti, per le vite sacrificate a « una storia mancata », agli insensati « destini dello ’mpero », a maggior gloria del Priapo (1920, 37, 44, 122). Ci sono anche riferimenti non infrequenti alle alleanze, collusioni, complicità tra Mussolini e la borghesia italiana: « le sovvenzioni del capitale » e in generale l’appoggio dei « padroni de le industrie », « la cupidità della guerra-buon affare », eccetera (17-8, 94, 101-2, 120). Cui si contrappone una accentuata e dichia159

rata comprensione e solidarietà verso gli strati sociali più umili e angariati e oppressi: la « povertà delle mondatrici e ripiantatrici in risaia », il « pane della fatica », il lavoro e la sofferenza di contadini e operai e altri strati popolati, per i quali (e per la loro « abilità di mestiere » e linguaggio) Gadda-De Madrigal esplicita appunto qui le sue « forti simpatie istintive » (72, 81, 93, 152). Si può dire

della « demenza totale d’un poppolo recupera un « popolo » che rovescia demenza in « atto logico e inspiconsapevole dignità delle fatiche e delle opere (15, 81, 152). Talora questo recupero riguarda le stesse « povere e macre spalle di una gente sudata, con-

che dall’interno stesso frenetizzato », Gadda oggettivamente quella rato dal Logos », in

vocata birrescamente

[...] a’ rostri delle future isconfitte,

incitata alle acclamazioni obbligative », o le « sciagurate moltitudini di denutriti e di malarici aspiranti statali », e perfino gli statali o parastatali impegnati a non far nulla per uffici e ministeri: pur essi innocenti e vittime, in definitiva (13, 63-4). Sono anche questi aspetti di un antifascismo di fondo, che se ha le sue manifestazioni più meditate e consapevoli nelle prime pagine del libro, riesce a filtrare altresì attraverso il più violento e incontrollato antimussolinismo. Aspetti di un antifascismo maturato in coincidenza con la guerra e la Liberazione: che trovano poi qualche riscontro, per quanto riguarda in particolare la simpatia verso gli umili e diseredati, in un trattamento cinematografico tratto dal Pasticciaccio e intitolato I/ palazzo degli ori, la cui stesura si colloca tra il 1947 e il ’48 (come risulta da una lettera inedita del 1957 a Livio Garzanti). Certo, Eros e Priapo avrà lunghe rielaborazioni in seguito, ma il segno della presa di coscienza antifascista resterà. Eros e Priapo sollecita un’ultima importante notazione. Vi sono presenti dichiarazioni più o meno esplicite di religiosità laica, che spesso tendono a connotate i valori 140

etici,

razionali,

tecnici,

violentati

e

stravolti

dall’Eros

senza Logos (10, 40, 45, 81, 168, 176, 183, 212). È forse

questa la più coerente e relativamente compiuta versione della religiosità gaddiana, che ne conosce comunque anche altre, da quella di ispirazione scientifica di cui si è detto a suo tempo, a una sorta di religiosità pagana, classica, riconducibile al motivo del « popolo degli alberi », e talora contrapposta alle adulterazioni industriali e edilizie (se ne veda una

ricca campionatura

in Roscioni DP 56).

Capitolo undicesimo *

QUATTRO

PIEDI

APOSTOLICI

Il decennio circa della lavorazione del Pasticciaccio sembra dunque caratterizzato da un maggior equilibrio e controllo intellettuale, che vede appunto Gadda amministrare quasi il suo furore, tra l’irruenza di Eros e Priapo e l’organizzazione del romanzo. Forse non è casuale a questo proposito, in un saggio del 1945 su Belli, la sottolineatura di motivi come l’« autodisciplina », il « ‘ realizzo’ positivo », il « tirocinio », il « magistero », la «‘ scuola’ » (vm 164). Mentre significativa di una fase più riflessiva e distaccata sembra essere nello stesso decennio, una produzione saggistica vasta e al Pasticciaccio

Una

TO

buona nutrizione (1945), La domenica (1945), Socer generque (1947), La sposa di campagna (1949), La cenere delle battaglie (1951), Accoppiamenti giudiziosi (1958). I grandi uomini (in « Letteratura/Arte contemporanea ». novembre-dicembre

VM

1950), Lettera

[a Leonardo

Sinisgalli]

(in «Civiltà delle macchine », marzo 1953), Quartieri suburbani (ivi, novembre-dicembre 1955), Manzoni diviso in tre dal bisturi di Moravia (in « Il Giorno », 26 luglio Lo Nata col secolo (in «Pirelli », settembre-ottobre 5) Arte del Belli (1945), Anime e schemi (1945), « Agostino » di Alberto Moravia (1945), Psicanalisi e letteratura (1946), Fatto personale... o quasi (1947), Emilio e Narcisso (1949),

Intervista al microfono (1950), II faut d’abord étre coupable (1950), Je meurs de seut au près de la fontaine (1951), Il Pasticciaccio

(1957).

142

assai funzionale (produzione in gran parte qui citata via via e comprendente tra l’altro scritti su Belli, che continueranno anche dopo: se ne veda la bibliografia in To 278), o intesa a riprendere in un contesto

problematico

generale alcuni dei motivi più conflittuali e difficili del passato. Gadda torna per esempio sui temi della macchina e del Progresso, superando le fobie e liquidazioni di un tempo, in un atteggiamento che va dall’adesione di principio all’analisi dei pro e dei contro a certi personali fastidi mascherati di ironia divertita: e questo anche al di là della verosimile committenza di certi scritti (214, 217222, 227-8, 241-50). Ma Gadda vien soprattutto riconsiderando, spesso in chiave psicoanalitica, con frequenza, regolarità, continuità, e attraverso l’analisi di numerose opere e biografie classiche e moderne, le difficoltà del rapporto genitori-figli, i traumi dell’infanzia e adolescenza, i pericoli e dolori del processo educativo e formativo, il ruolo materno, il complesso edipico, e così via (vm 47,

50, 56-8, 142, 162, 227-8, 230, 234-5, 261-3. Cfr., più

tardi, To 33). Sono di questo periodo anche la più lucida analisi dell'esperienza infantile e militare come momenti fondamentali della sua poetica e della sua opera (vm 9 sgg.), e una serie di riflessioni tanto più ferme, oggettivate, filtrate (attraverso Genet), quanto più trasparentemente allusive a personali problemi: « La gioia del furto, è talora, in lui, rivalsa, è ‘ vendetta’. Dacché la società si identifica nel delitto della madre, che ha tradito, cioè abbandonato, il bambino. Altre volte egli ‘ama’ e ‘insegue’ nella disperazione la madre [...]: la sconosciuta e pressoché metafisica entità da cui è disceso alla fame, ai turbamenti della carne. Ma il sistema totale degli interessi, degli appetiti, dei pruriti, dei sogni, di tutti gli stati e i moventi psicologici (ed etici) del vagabondo giovinetto si coagula, in realtà, in una bruciante passione [...]: che 143

è quella, altresì, che fu di ser Brunetto e [...]. » Segue un lungo e puntiglioso catalogo di omosessuali illustri che, pur riproponendo un procedimento tipico in Gadda, sembra quasi assumere il senso di una implicita legittimazione di quella diversità, per la quale egli sente solidarietà e simpatia (e della quale si vede spesso considerato partecipe). Mentre

ciò che aggiunge

in nota può sottin-

tendere una risposta personale e polemica a teorizzazioni ritenute schematiche e insufficienti: « Le ricerche de’ pedagogisti e psichiatri hanno di molto annaspato sulla correlazione tra i mancati affetti familiari e le deviazioni omoaffettive. Con più lena, e speriamo con più sagacia, avranno

a lavorare in futuro. » (vM 234-5)

Sono poi di questa fase (1945-58) alcuni racconti, nei quali si può misurare tutta la lontananza di Gadda dalla misoginia specificamente antiborghese dell’ Ada/gisa. Una buona nutrizione per esempio, è l’ironizzazione molto attenuata di una sorta di gineceo borghese in clima di guerra: quasi una tarda prova di maniera (AG 209 sgg.). Mentre in Socer generque un analogo motivo e atteggiamento trova nuove ed efficaci sfumature, tra sarcasmo antimus-

soliniano, autoitonica phobie du mariage e risarcimenti letterario-ancillari (245 sgg.). La phobie du mariage torna più o meno esplicitamente, in forme e contesti molto diversi, all’interno di altri racconti trasparentemente autobiografici, come

La domenica

(datata al ’45 ma

forse ri-

fatta su una più antica stesura), La sposa di campagna (1949) e La cenere delle battaglie (1951):

sempre

e co-

munque con una chiara capacità di distacco e di controllo della sua misoginia antiborghese. Nel racconto del ’51 anzi, Gadda sembra perfino abbandonarsi a una sorta di affermazione vittoriosa e liberata del proprio status di diverso: senza professione precisa, senza moglie, senza famiglia, vero « anomalo psichico » (335). Anche qui con un’allusione forse, e una sfida, alle voci sulla sua omosessua-

144

lità. Il racconto

Accoppiamenti

giudiziosi

(1958)

infine,

sembra quasi l'eccellente traduzione di un possibile testo dell’Adalgisa in una visione meno deformante, meno risentita, e più divertita, del pur satireggiato mondo borghese lombardo. Sì che alla fine il vero bersaglio diventa Foscolo, con accenti e motivi ben noti (401-3). Si avverte perciò una certa consonanza tra l’atteggia-

mento generale di Gadda nel decennio del Pasticciaccio e alcune caratteristiche fondamentali del romanzo, che ne richiamano poi altre analoghe. C’è infatti in esso un rapporto stretto e funzionale tra una forte spinta oggettivante (da cui, anche, la costruzione e il significato dei personaggi di Ciccio Ingravallo e Liliana Balducci), una meno disturbata ricerca di ordine, una tensione cognitiva meno intrisa di personali dolori, e in generale uno sviluppo complessivamente più equilibrato, misurato e distaccato della narrazione. Che significa altresì un deciso e quasi programmatico

ritorno

al romanzo

come

intreccio, come

strumento di rappresentazione e interpretazione della realtà, e in particolare al giallo come indagine dentro il disordine, come processo di ristabilimento di un ordine, oltre che sottogenere eminentemente popolare (i due antichi interessi per giallo e cinema sembrano poi convetgere nel suo trattamento cinematografico mai realizzato del Pasticciaccio, Il palazzo degli ori). Tutto ciò, a compimento di un lungo processo di dichiarate predilezioni e tentativi e teorizzazioni che, talora contrastato o contraddetto da troppo diretti e urgenti problemi personali, attraversa in diverso modo l’esperienza e produzione gaddiana, dai primissimi scritti al Racconto italiano di ignoto del Novecento, dalla Meccanica a Novella seconda, dalla Madonna dei filosofi alla Cognizione. « Mio desiderio di essere romanzesco, interessante, Conandoyliano [...] con fare intimo e logico. [...] interessare an«che il grosso pubblico. E cioè arrivare al pubblico fino 145

attraverso il grosso [...].» (Ns 163): il suo progetto di tanti anni prima viene ripreso ora con agguerrita maturità

e nuove implicazioni, come allora partendo da un fatto di cronaca nera e giudiziaria segnalatogli da Giorgio Zampa nel ’46 (Po 106; sul Gadda lettore di resoconti processuali, cfr. Cattaneo GL 86 sgg., mentre è da ricordare altresì un suo progetto di dodici racconti gialli nel ‘45: LM

42).

Nel romanzo-indagine perciò, si intrecciano anche la scoperta polemico-beffarda di una realtà occultata dal fascismo

e lo smascheramento

dei delitti (del delitto)

di

Mussolini. Ed è all’interno di quel complessivo processo e progetto, che il dirompente furore gaddiano trova una struttura abbastanza resistente per fezerlo. Prove più intrinseche di quanto si è detto fin qui su struttura e svolgimento del Pasticciaccio, si possono considerare: l’articolazione di livelli e atteggiamenti meno divaricati e distanti, e comunque operanti, tra sarcasmo e pietà, ira e grottesco, su una forte e prevalente base di ironia divertita (e con un z2inor dolore); e anche un certo

ritrarsi dell’autore, che si manifesta per esempio in una maggior discrezione dei commenti e intrusioni, o in un complessivo e tendenziale abbassamento della sua prosa, nella quale le diffuse contaminazioni dei dialetti e del linguaggio burocratico sono affidate soprattutto ai dialoghi e al discorso libero indiretto. La stessa abolizione delle note come appendici fortemente personali (vm 114), che sia dettata o meno da ragioni editoriali, va nella stessa direzione, contribuendo qui anche a una certa compattezza. Tutte le novità del Pasticciaccio, dal ruolo dell’intreccio come indagine alla sperimentazione plurilinguistica, si evidenziano soprattutto nei confronti della Cognizione, dove la trama è sempre condizionata dal troppo dolore, sia che si risolva nello schermo-strumento della scrittura sia che venga assunta come alternativa o alibi; dove la 146

divaricazione tragico-comico o pietà-furore è spesso fortissima; e dove opera diffusamente quella scelta del livello alto che caratterizza i momenti di più diretto, intimo e turbato coinvolgimento di Gadda. Nel Pasticciaccio il linguaggio si fa ricercato, colto, e il tono solenne, grave, quasi esclusivamente in certe pagine di più sofferta rappresentazione dell’umanità offesa: il corpo violato di Liliana, o la violenza inquisitoria dell’intertogatorio di Ines; il « gelo del sarcofago, e delle taciturne dimore », o la « soma greve, eterna: impostale da libito antico della Natura » (QP 62-3, 178, 206-7). Quasi che Gadda senta, moralmente, di dover prendere la parola. Mentre per contro nelle stesse pagine egli passa al dialetto, in funzione distanziante e sdrammatizzante, quando la descrizione di quel corpo tocca i dettagli più raccapriccianti e crudeli, o si accentua il senso di oppressione dell’interrogata: « la carotide, la jugulare, buttaveno come due pompe de pozzo [...].» « No strazzio, la giustizzia. Mejo piuttosto la fame [...].» (63, 74, 207-8) Con una diversa funzione mediatrice perciò, del suo dialettalismo. Coerentemente poi con quella tensione ordinante e oggettivante, e con quell’atteggiamento più equilibrato e controllato, nel plurilinguismo investigativo e cogritivo del Pasticciaccio l’intervento deformante (oltre che generalmente intrusivo) dell’autore, appare meno diffuso e accentuato che nell’Adalgisa, e tende a concentrarsi naturalmente nelle pagine della vendetta antimussoliniana, ritornante lungo il romanzo. In un saggio del ’47 del resto, Gadda contrappone la « funzione etica » della maccheronea, intesa estensivamente come deformazione popolare o colta del linguaggio, la sua carica di concretezza e di libertà, all’imbecillità e al conformismo, e in definitiva alla retorica e prepotenza del « Mascellone » (vm 101-5). Nell’insieme del romanzo dunque, Gadda rappresenta e giudica un complesso e articolatissimo mondo sociale e 147

linguistico (tra « Palazzo degli Ori » e questura, Zamira, Balducci e « Nero Personaggio »), dal suo stesso interno, muovendosi appunto a quei due livelli complementari ed esercitando gli atteggiamenti relativi (dall’ironia prevalente al sarcasmo, dalla rabbia alla pietà e così via) attraverso e sulla più vasta gamma di dialetti e linguaggi che si possa trovare concentrata in una sua opera: romanesco anzitutto e napoletano, molisano, veneto, lombardo, linguaggio colto, gergo burocratico o giudiziario, slogan fascisti, terminologia tecnica o scientifica, greco antico, latino e altro ancora. Esempio efficacissimo di un processo ironico-cognitivo portato dentro un disordine fonicoverbale che è anche reale, si può considerare la telefonata del capitolo VI con relative interferenze, in un « guazzabuglio » di comunicazioni su una spedizione di parmigiano, un ammiraglio in clinica e un indiziato del furto di via Merulana, che arriva a costruire un microcosmo di straordinaria mobilità ed emblematica insensatezza (QP 168-9). Il plurilinguismo inoltre, è nel Pasticciaccio molto più direttamente, continuativamente, e anche consapevolmente

funzionale alla costruzione dei personaggi, che di quella tensione oggettivante

e romanzesca

sono

espressione fon-

damentale. L’accostamento alto-basso per esempio, è ricorrente nella costruzione ironico-simpatetica di Ingravallo, attraverso i suoi pensieri o gesti: il sistema tolemaico e il « signorino » (« culo » in oPL, I, 51) della serva, la

« psiche » e la « scarogna » della Menegazzi (e altri accostamenti psicologico-popolareschi), o le dita «a tulipano » come « ipotiposi digito-interrogativa tanto in uso presso gli Apuli » (QP 12, 26-7, 60, 101-2, 214). Ma ac-

costamenti analoghi riguardano un po’ tutti i personaggi, sempre attraverso le loro riflessioni, parole, mimica (tipica in questo senso la napoletanità del dottor Fumi), e lo

148

stesso

« epos » costruito

dalla « collettività

fabulante »

sulafurto!!(23: 52).

Della tensione

oggettivante

e indagatrice del Pastic-

ciaccio, con relative implicazioni antimussoliniane, il freu-

dismo gaddiano è componente intrinseca e fondamentale, come già in Eros e Priapo. Nei saggi Gadda esalta infatti, in polemica con i pregiudizi dell’« accademia » e con gli occultamenti retorico-fascisti, la psicoanalisi come « lume » disvelatore dei « più reconditi movimenti della attività organica, del meccanismo psicologico (o addirittura biologico) », dell’« aggrovigliato complesso di cause e concause biologiche e mentali » (vm 41-4, 47, 218. To 148); e nel romanzo fa di Ingravallo il tenace « indagatore dei fatti, o delle anime », delle « concause affettive (lui diceva anzi erotiche) degli accadimenti umani », di ciò che lega la

« psiche » individuale alle « tensioni psichiche esterne », «le immediate reazioni fisiche e fisiognomiche » o le « psicosi » alla meccanica del « fattaccio » (QP 15, 26-7, 71, 101-3, 125, 157). Dove si evidenzia anche l’originale

nesso tra indagine psicologico-esistenziale dentro il disordine e giallo come ristabilimento di un ordire; e dove si rivela forse una motivazione gaddiana assai profonda alla stessa scelta del giallo, fin dagli anni prefreudiani dei suoi interiori disordini giovanili. Si è già detto come tutto questo discorso sul Pasticciaccio riguardi soprattutto, anche se non soltanto, i primi sette capitoli. Qualcosa infatti cambia, almeno a partire dall'VIII: passando cioè Gadda, da una stesura provocata, di getto, e al tempo stesso oggettivante, ordinatrice, a una lunga e alla fine inconclusa elaborazione. Dove già si possono cogliere certe analogie con la Cognizione, ma in un processo molto diverso, che si manifesta fin dai modi stessi del cambiamento. In particolare, in questi ultimi capitoli del Pasticciaccio la scrittura tende a farsi

149

più colta, alta, preziosa; aumentano i diretti interventi o intrusioni dell’autore (un esempio tra molti: « della puttanicizia, direbbe il Belli »: 250); analogamente tornano un paio di note (245); e si moltiplicano le divagazioni non strettamente funzionali allo svolgimento del romanzo e dell’indagine, si tratti del « malefizio rosso e nero » della Zamira (262-3), o del passaggio del treno (« il feffe-feffe, a tutta faffa », con contorno di animali: 270-6), della « repubblica erbaria » e degli imbonimenti del venditore di porchetta (315-8, 321), o dell’accostamento alto-basso come gioco fine a se stesso (la cacca della gallina sulle scarpe del brigadiere: «un cioccolatinone verde intorcolato alla Borromini »: 254), e così via. Tutte novità che sottintendono quanto meno una crisi di quella tensione oggettivante e cognitiva: confermata poi dalla progressiva diminuzione di riferimenti alla vita politica e sociale italiana. Di particolare rilievo, in questo quadro, il « sogno » del brigadiere e il celebre brano sugli alluci: se ne daranno qui due possibili ipotesi interpretative. Nel primo caso Gadda sembra giocare sull’idea-parola del topazio (furto) e del giallo (indagine), in una serie lunghissima di composti, deformazioni, variazioni, eccetera (« topazzo », « topaccio », « topo-topazio », e « giallazio », « vetrone girasole », « pere gialle », eccetera: 236-7), rimescolandoli in un ideale mutevole caleidoscopio, quasi a voler significare una sostanziale indistinzione ormai tra disordine del delitto e indagine ordinatrice. Nel secondo caso la chiave di lettura sembra da ricercarsi nel ricorrente gaddiano motivo delle scarpe, come immagine di ordize e concretezza e operosità, volta a volta associate alla professione di ingegnere come condizione di equilibrio limitato ma reale (le « buone scarpe » in LB 117), o alla solida e compatta figura di don Lorenzo Corpi: « Du scarpe nere nere lustre lustre, lunghe e forti », che « sembravano conferit 150

valore alla testimonianza: un tale impiego di brill, un così energico intervento del gomito (di chicchessia), non ponno sovrapporsi alla menzogna e al disordine » (QP 115, 157, 163-4). Si può ipotizzare allora che nelle pagine sui due apostoli (241-4) Gadda metta a nudo i piedi, e in particolare i superbi alluci, che nelle scarpe erano stati saldamente chiusi e nascosti come i nuclei segreti di quell’ordize (« l’Idea-Pollice »), per proiettarli in un lungo, paradossale gioco di analogie, divagazioni, variazioni: nel disordine, insomma.

Un altro e diverso aspetto di quel cambiamento è facilmente avvertibile in certi ritorni di misoginia insistita e violenta, con ritratti improntati a oscenità o laidezza: nel sogno stesso, o nell’incontro con la Zamira (236 sgg., 246 sgg.).

In generale perciò, dall'VIII capitolo, quella tensione cognitiva e ordinatrice, quel complessivo atteggiamento di distacco, sembra scomporsi, cedere, fin quasi ad abbandonarsi al disordine e a perdersi nel « groviglio », risolvendosi anche in una narrazione più frammentata, con frequenti stacchi. Come se Gadda, proprio quando arriva a scoprire in questi ultimi capitoli il mondo miserabile dei Due Santi o del Divino Amore, a completare la rappresentazione-deformazione del suo universo di stupidità e insensatezza, avvertisse una sorta di incapacità e impotenza a portar oltre l’indagine oggettivante, e vi rinunciasse per una più o meno disinteressata, divertita, o al contrario cupa, risentita soggettività: risvolto l’una dell’altra, e convergenti comunque in una rinuncia definitiva a capire. Con il procedere del racconto anzi, compassione e furore tendono come a confondersi, a perdere via via i loro precisi riferimenti e bersagli. In una campagna desolata e perduta, in un mondo di miseria e abiezione, corruzione e stupidità irredimibili, il giudizio diventa ambiguo, senza nette distinzioni tra innocenze e colpe. Ne 151

è un esempio la Mattonari Camilla, nella quale si incontrano e alternano repulsività fisica, vistosa ottusità e mestizia di donna vessata, chiusa in un’indigenza estrema (276-8102384

9290-1582973829923.00)2

L’indagine insomma, sfuma nella constatazione di una insensatezza indecifrabile, quasi soprannaturale: presenze e visioni magiche e diavolesche punteggiano continuamente la pagina, coinvolgendo indifferentemente investigati e investigatori

(246, 252,

258,

262, 272,

284,

292-3,

300,

309-10, 313). « Il male » diventa qualcosa di indefinito, impalpabile, diffuso, onnipresente: gli stessi splendori e colori e tepori di un armonioso paesaggio, sembrano opporre una vana resistenza al delitto e all’orrore (233, 239-

240, 266, 289). « Il male [...] sembrò esistere: a maturare i giorni e gli eventi: da sempre: muta forza o presenza in un pandemonismo della campagna e della terra, sotto cieli o nuvole che non potevano far altro se non rimirare, o fuggire. » (292) In questi ultimi capitoli del resto, Ingravallo scompare progressivamente dalla scena, per ricomparire alla fine, inutilmente lanciato con i suoi uomini, in un’automobile « volonterosa e bernoccoluta », attraverso la campagna (331, 340-5). L’indagine, e con essa il romanzo, resta inconclusa. Eppure, come già in esperienze passate, Gadda vuole chiudere. Lo dice lo sviluppo complessivo del romanzo e lo stesso finale tronco, con Ingravallo proteso nella sua vana ricerca; e lo conferma la lunga fase di elaborazione successiva alla pubblicazione in « Letteratura », coincidente almeno in patte con una tensione di compiutezza e riguardante soprattutto e proprio gli ultimi capitoli. Fase travagliatissima, che va appunto dal 1947 al ’57, con propositi continuamente dichiarati di completamento del romanzo, tra consulenze dialettali e sollecitazioni garzantiane: cui si intrecciano anche le vicende editoriali o creative altrettanto tormentate di altre opere, da Eros e 52

Priapo al volume di racconti, dal Racconto italiano di ignoto del Novecento al Primo libro delle favole (LGS 157, 176, 198-9. LEv 1-4. Lec 70, 73-4, 86, 88, 90-2. vm

117-

119). Ma questo stesso travaglio conferma anche l’incapacità di Gadda a portare fino in fondo il suo programma di completamento pur tanto protratto. Eppure, ancora nella IV puntata di « Letteratura », espunta, Gadda ha ben chiaro lo scioglimento finale, o quanto meno la pista relativa: che chiarisce e sviluppa pienamente del resto, nel Palazzo degli ori (po 82, 84, 86, 93, 95 sgg.). Lo stesso fatto di eliminare la puntata nell’edizione in volume per motivi di suspense (vm 113), apportando anche tagli e varianti in altre parti relative alla meccanica delitto-indagine, conferma l’intenzione di non anticipare un intreccio e una conclusione che si vuole comunque realizzare a tempo debito. L’annuncio inoltre, fin dalla III puntata, dell’edizione in volume del romanzo, appare verosimilmente avallata dall’autore e sottintende un proposito di completamento. Perché allora Gadda non porta avanti in questa stessa edizione la pista già tracciata nella rivista? Perché, naturalmente, il Pasticciaccio non è soltanto un giallo; ma anche e soprattutto petché ogni scioglimento dell’intreccio con la chiave della Virginia (anticipata appunto nella IV puntata) o altra analoga, alla fine svelerebbe esclusivamente la parvenza o vistosità di un’insensatezza, disordine, « male » che si va facendo sempre più oscuro e indecifrabile. Lo stesso Gadda allude forse anche a questo (pur dichiarando il romanzo consapevolmente e « letterariamente concluso ») quando per spiegare il « trauma » del finale dice di non aver voluto dilungarsi inutilmente e pedantescamente, « come certi gialli artificiali », o di aver voluto concludere un « racconto che tendeva a deformarsi » (ip 5. 1AM 3. IpM 19). L’indagine sul filo del delitto e del giallo in sostanza, la tensione cognitiva sottesa all’in155

treccio, si imbatte via via con misteri sempre più profondi, e sembra anzi contribuire a complicarli, anziché a

risolverli. Ingravallo alla fine « capisce chi è l’assassino » (ivi), ma è più che mai lontano dalla vera radice del « male »; la « molteplicità di causali convergenti » (QP 7)

si smartisce e confonde. Il Pasticciaccio perciò, da questo punto di vista, è un

po’ il pendant della Cognizione. Se nel romanzo di allora Gadda, per sfuggire al « male » che sentiva crescere dentro di sé, cercava disperatamente una soluzione qualsiasi (un alibi, una fuga) in un intreccio che non poteva fornirgliela; qui l’intreccio stesso e la tensione indagatrice che esso reca con sé, gli appare impotente a spiegare il « male » universale che lo circonda. Essendo insomma sempre nell’opera di Gadda funzionale ad altro, l’intreccio da solo non può concludere: perché in entrambi i casi dovrebbe eludere o ignorare troppe cose. La vera conclusione alla fine e al fondo, non è diversa nei due romanzi: la rinuncia alla prosecuzione dell’autoanalisi converge con la rinuncia alla prosecuzione dell’analisi; la congetturalità di Gonzalo e la congetturalità di Ingravallo intorno al « male », convergono su troppo «celate verità » (cdp 187).

Si può ricordare a questo punto, che nelle precedenti opere gaddiane quello dell’incompiutezza o contraddittorietà è soprattutto un problema di controllo della propria « vicenda umana »: odioamore, dolore, nevrosi, vendetta, riscatto, che possono essere al tempo stesso fondamento del suo discorso narrativo e ostacolo alla conclusione delle sue opere. La cognizione ne è espressione

altamente

em-

blematica. Certo, anche nella crisi della tensione oggettivante e ordinatrice del Pasticciaccio si può vedere un ritorno incontrollato di nevrosi o comunque un abbandono all’interiore disordine. Si direbbe, anzi, che Gadda prenda alla fine ùn completo sopravvento su Ingravallo, 154

anche al di là dei furori antimussoliniani, nella direzione della misoginia esasperata o dell’ossessione visionaria o del delirio ludico: dove tra l’altro egli arriva a forme di funambolismo verbale fine a se stesso, diffuse e insistite come raramente in passato. Gadda compare perfino di persona:

« nevrastenico

ingegnere

del piano sotto », sve-

gliato dalla « levata attivistica » di Ingravallo (QP 322). In sostanza, anche il Pasticciaccio viene a partecipare del conflitto di fondo che attraversa l’intera produzione gaddiana: tra ordine e furore, « ‘registrazione di eventi’ » (vm 110) e ossessione nevrotico-esistenziale, struttura nar-

rativa e autobiografismo, sistema e caos, cognizione e dolore, opera chiusa e incompiutezza, e perciò anche giallo senza finale, indagine senza conclusione, senza cioè la scoperta del colpevole, lo scioglimento del « groviglio », il ristabilimento dell’ordize, e ancora romanzo che alla fine non riesce più a fezere.

Ma il Pasticciaccio, per almeno sette capitoli su dieci, presenta rispetto alle altre opere la descritta e fondamentale caratteristica di una struttura e sviluppo romanzesco complessivo di insolito controllo ed equilibrio: mantenendo poi una sostanziale coerenza perfino nella sua nonconclusione, per un altro tipico paradosso gaddiano. Alla fine infatti, non ci sono lacerazioni o rotture profonde, così come non c’è naturalmente una chiusura tradizionale. Tutto sfuma nel non detto, non scritto, non dicibile. La stessa spinta centrifuga del delirio o del furore assume una qualche sua vaga, indefinita, sfumata appunto e paradossale, compostezza.

Capitolo dodicesimo *

IL SILENZIO

DI VIA BLUMENSTIHL

Si può dire che già negli anni fiorentini, con Pasticciaccio ed Eros e Priapo, Gadda abbia praticamente scritto o definitivamente impostato quasi tutto. Negli anni successivi verranno, salvo poche eccezioni, testi minori, com-

pletamenti, edizioni. Molte e complesse certo, le ragioni: tra le quali, forse, un crescente atteggiamento di rifiuto del mondo, tanto indiscriminato quanto improduttivo; un rifiuto segnato da stanchezza, svuotamento, senso di senilità e di morte, che già si comincia a cogliere nelle lettere del 1947-49 (Les 169-70, 178. LAM 56-8), e che pervaderà sempre più diffusamente quelle dei decenni futuri. In particolare,

dopo le chiusure

di conti e le vendette,

le autoanalisi e le indagini più o meno compiute nei confronti dell’esperienza familiare e bellica, del mondo femSSETO

VM

Lettera [a Leonardo

Sinisgalli] (in « Civiltà delle

macchine », marzo 1953) e Processo alla lingua italiana (1961). Intervista al microfono (1950) e Il Pasticciaccio (IISS7A}

Archivio Einaudi, lettera inedita di Gadda del 26 novembre 1942 da Firenze a G. Einaudi, Torino (pubblicata parzialmente in Cinquant'anni di un editore. Le edizioni Einaudi negli anni 19331983, Einaudi, Torino 1983, p. 27) e lettera inedita del 13-14 maggio 1955 da Roma allo stesso, Torino. Contini GF

G. Contini, Prefesto novecentesco

Giovanni Faldella, cit.

156

sull’ottocentista

minile e borghese, di Mussolini e delle sue controfigure; dopo tutto questo dunque, Gadda sembra non disporre più di veri bersagli per il suo furore e di veri obiettivi per la sua cognizione. Egli sembra quasi identificarsi in un Gonzalo

« valetudinario,

nevrastenico,

ultramisantropo »

(56), ma disinteressato o incapace di continuare

a « inve-

stire la vicenda umana » sua e degli altri (vm 110). In

questo senso il Pasticciaccio è anche l’ultima manifestazione di una ricerca di ordine e al tempo stesso di un furore mirato, e la sua crisi di compiutezza è anche un aspetto specifico di quella crisi di produttività e di interesse per il mondo. Gadda può così concludere il saggio che dedica al romanzo nel ’57, quasi consegnandosi con ironia nera, « a quel silenzio, che farà la migliore delle opere » (119). Solo due anni prima, inviando a Einaudi, « una rosa di titoli » per quello che sarebbe stato I sogni e la folgore, proponeva tra l’altro I segni e il silenzio e I sogni medicati dall’aurora, commentandoli così: «(I segni sono le immagini [giuste o sbagliate] della vita: il silenzio è la cessazione delle sollecitazioni percettive e dell’opera dello scrittore.) » e « (L’aurora è la cessazione dei sogni dolorosi di questa vita, la ragione liberatrice, e anche la morte, il dissolvimento,

ecc.) » (lettera inedita).

Il Gadda degli anni Quaranta perciò, ha scritto quasi tutto, ha definito la sua posizione nella repubblica delle lettere, ma nonostante ciò è « autore isolatissimo anche nei rispetti [...] commerciali, con una clientela ristretta », come

viene autorevolmente

dichiarato

(Contini GF 582).

Anche la sua fortuna critica non ha fatto sostanziali progressi rispetto agli anni Trenta, e continua anzi a scontare vecchie e nuove incomprensioni e avversioni, freddezze e silenzi. Si può dire infatti che almeno fino a tutti gli anni Quaranta vengano alternandosi in questo, diverse correnti: al rondismo e novecentismo, alla tradizione monolinguistica (e antidialettale) e all’idealismo, si aggiun157

gono uno storicismo e un (neo)realismo che si dichiarano in contrasto con quel passato, ma che spesso finiscono per convergere

più o meno

surrettiziamente

con

esso.

Lo

stesso test Gadda ne è una prova non secondaria. Si rifiuta o non si comprende in particolare, dagli uni e dagli altri, la radice umana, etica del suo sperimentalismo furente o divertito: non senza sottintese riserve (a)politiche, che vedono in Gadda un intellettuale o troppo coinvolto o troppo conservatore. È questa una situazione che (con le sue rare eccezioni) continua a caratterizzare la critica gad-

diana nella prima metà degli anni Cinquanta, tra tenaci sopravvivenze dell’orientamento novecentesco e vistose affermazioni di un orientamento storicistico-realistico sempre più irrigidito in un ideologismo e contenutismo complessivamente sordo e chiuso alla problematica individuale e alla complessità stilistica, e in generale alle ragioni e implicazioni della crisi. Un orientamento inoltre, che rappresenta in certo senso l’esprèssione più riduttiva del diffuso recupero di una tradizione ottocentesca attualizzata, nella narrativa italiana di questi decenni. ‘ Gadda insomma dovrà aspettate ancora qualche anno per uscire dalla sua condizione di isolato e incompreso. Nel 1950 intanto, l’interessamento di Angioletti e altri amici gli consente di uscire dalla « stasi (di miseria) » in cui si trova a Firenze: viene cioè assunto ai servizi culturali della Rai e si trasferisce a Roma (LGc 78). Alla Rai rimane cinque anni, durante i quali, nonostante le insofferenze per il nuovo lavoro, le crescenti ossessioni (tra le quali, la phobie du mariage) e malattie (« nervi, cuore, stomaco, circolazione »: 91), che sono tra i motivi ricor-

renti di tutte le lettere, è piuttosto operoso, put nei limiti detti. Oltre a lavorare al Pasticciaccio, a Eros e Priapo e ad alcuni racconti, scrive una serie di testi per la Rai: I Luigi di Francia (incompiuto), in cui profonde il suo amore per i cronisti, memorialisti e storici francesi (Saint158

Simon in testa), e il gusto aneddotico-etudito

e storico-

inventivo tipico delle sue note; le Norzze per la redazione di un testo radiofonico (pubblicate come opuscolo ano-

nimo a uso interno), in cui traduce con acuta sensibilità e lieve ironia i criteri di funzionalità, chiarezza, concre-

tezza di tante sue pagine dedicate alla lingua scritta e parlata; e altre cose. A Roma poi, pur nel quadro della ben nota difficoltà a costruirsi e praticare una vera professione letteraria, tra

misantropia e disordine, amplia i suoi contatti intellettuali (godendo anche dell’amicizia e aiuto di Cattaneo, Citati, Parise, Pasolini, Leone Piccioni, Roscioni, e altri).

Alle tradizionali collaborazioni letterarie si aggiungono interviste radiofoniche e scritti su commissione (« Epoca », in particolare) riguardanti il suo lavoro o argomenti di varietà e di costume, e la rappresentazione a Urbino di un suo collage teatrale da Bandello (Gonnella buffone). Ma ha soprattutto inizio la lunga stagione delle raccolte, edizioni o riedizioni in volume di testi e opere scritti o pubblicati nei precedenti anni e decenni: una stagione che continuerà fino alla morte e anche dopo. Escono così tra il 1952 e il ’55, II primo libro delle favole (Pozza), le Novelle dal Ducato in fiamme (Vallecchi), il Giornale di guerra e di prigionia (Sansoni) e I sogni e la folgore (Einaudi), comprendente Madonna, Castello e Adalgisa. Sono anche anni di premi: un ex aequo al Taranto per un racconto, un posto in cinquina allo Strega e il Viareggio per le Novelle, con primi flash e servizi di rotocalco (LGC 82-3). Per la fortuna complessiva di Gadda comunque, questa è soltanto una fase di passaggio. Certo, la cerchia dei suoi amici ed estimatori si allarga, insieme al loro impegno promozionale; si manifesta verso la sua produzione un crescente interesse da parte di un’editoria compresa tra sigle provinciali e di punta; si avvertono i primissimi 159

segni di una affermazione di immagine, come collaboratore ed entro certi limiti come personaggio. Ma non si può parlare di un suo ingresso nella grande editoria e nel mercato (con l’eccezione parziale di Einaudi), mentre il suo status è sostanzialmente quello di un lavoratore dipendente con impegni editoriali esterni che non riesce a onorare (quello dei ritardi e delle inadempienze è stato e sarà in ogni caso un leitmotiv delle sue lettere e della sua vita), e mentre la sua fortuna critica è ancora lontana da una vera svolta, pur nel quadro di un interesse recensorio abbastanza diffuso. La premessa pratica, per così dire, della vera esplosione di un caso Gadda, sul piano editoriale e critico, e del relativo successo, è la proposta da parte di Livio Garzanti, nel luglio del 1953, di terminare e pubblicare il Pasticciaccio, « con argomenti non del tutto inefficaci anche per un’anima eletta, [...] insediata, per ora, in un corpo nutricando a pane » (vm 118). È questo indubbiamente un notevole merito dell’editore, che pubblicherà molte altre opere di Gadda, anche se nell’insieme le sue edizioni risentitanno di un’approssimativa cura testuale, non senza qualche più o meno involontario contributo, va detto, da parte del multiforme disordine dell’autore. Il Pasticciaccio esce nel giugno 1957, due anni dopo che Gadda ha lasciato la Rai « per raggiunti o addirittura superati limiti di età » (ivi), e ha cambiato casa per ridurre le spese del suo bilancio (Lc 87-8: ma nell’« alloggetto » di via Bernardo Blumenstihl 19 resterà fino alla morte). Il romanzo

riscuote

subito una

vastissima eco

di

critica, con giudizi contrastanti, e Gadda stesso nel novembre può scrivere che intorno ad esso « simpatizzanti e antipatizzanti hanno fatto un chiasso del diavolo », con

prevalenza comunque dei primi, « chiasso moltiplicato dall’altoparlante del valoroso e generoso Editore » (LAM 59).

Dove non si può fare a meno di chiedersi (anche se non 160

mancano meditati interventi) quanti letterati italiani, dopo aver trascurato le edizioni solariane o in rivista di Gadda, st accorgano di lui soltanto nel clamore di un caso editoriale, salvo poi magari a provarne moralistico fastidio. Gadda viene battuto al premio Marzotto, ed Emilio Cecchi con un gruppo di altri autorevoli amici (Bo, Contini, De Robertis e Montale) inventa per lui un premio riparatore, detto « degli editori » (LGc 93-4). Il caso è comunque scoppiato. Flash, interviste, mondanità assediano il sorpreso e intimidito scrittore, che viene « strascinato persino dal Presidente della Repubblica » (LAM 59). Gadda passa inoltre dalle tirature numerate di un tempo a ben più consistenti esiti di mercato. Già alla fine del ’57 scrive: «sono pervenuti a vendere circa 6.000 = seimila copie del libro, circa un milione per me [...].»

(LGS 202) A un

anno

dall’uscita, tre ristampe e

15.000 copie vendute (cifre Garzanti) vengono a suggellare un successo significativo per i tempi, vigilia del piccolo boom del romanzo italiano, e per l’opera, non certo accessibile al « grosso pubblico » cui pur Gadda mira da tempo (Ns 163). Seguirà, puntualmente, il film, riduzione assai libera di Pietro Germi, alla quale Gadda collaborerà soltanto con « qualche osservazione » (LGC 103), a dimostrazione anche di un certo suo diminuito interesse per il cinema, come confermerebbero altre notizie (Cattaneo GL 27. Po 108-9). Gadda comunque non smentirà la sua mancanza di pregiudizi aristocratici ed elitari, non solo verso il cinema, ma anche verso radio e televisione (To 98-100, 218). Alle collaborazioni con riviste e periodici, tra cui la garzantiana « Illustrazione italiana », e con la Rai, per la quale Gadda scrive tra l’altro il pamphlet teatrale foscoliano, si aggiungono intanto (oltre a un premio dei Lincei) proposte di traduzioni all’estero e di nuove edizioni in Italia, e le insistenze di Garzanti perché « finisca » il 161

Pasticciaccio,

protratte

per

alcuni

anni

(L6c

98-9,

111,

114. Cfr. anche lettere inedite dell’archivio Garzanti a partire dal 1957). Ne scaturiscono, oltre a qualche ristampa,

I viaggi la morte

(Garzanti,

1958)

e Verso

la

Certosa (Ricciardi 1961). Se questo secondo volume rappresenta soprattutto un omaggio a Raffaele Mattioli, riprendendo testi in gran parte già compresi negli Anzi e nelle Meraviglie d’Italia, l’altro è un’opera di notevole rilievo, costruita ex novo con saggi apparsi in varie sparse sedi. Un’opera infatti, che non soltanto comprende (oltre a qualche scritto minore) pagine fondamentali alle quali si è fatto tante volte riferimento nel corso del presente lavoro, ma è anche e soprattutto percorsa da un dinamismo centrifugo-centripeto tipicamente gaddiano, con ricorrenti e ritornanti temi della sua esperienza intellettuale ed

umana. Da tutto questo dunque, premi, compensi giornalistici, anticipi e diritti d’autore, e ancora dalla sovvenzione mensile della Cassa per l’assistenza agli scrittori, derivano a Gadda condizioni economiche « migliorate » (LGS 202. LAM

68).

La pubblicazione della Cognizione del dolore presso Einaudi nel 1963, con un saggio introduttivo di Contini e con una quarta di copertina che colloca Gadda « tra gli scrittori più grandi e innovatori del nostro secolo », acquista quasi il significato di una consacrazione. La cognizione apre del resto una nuova importante fase nella fortuna critica di Gadda, mentre il Prix international de littérature (alla Cognizione stessa assegnato, anche grazie all'impegno dell’editore, di Vittorini, Moravia, Piovene e

Calvino) lo proietta definitivamente in una dimensione e attenzione europea e mondiale. Einaudi è appunto l’altro grande editore di Gadda; le sue trattative per questa e altre opere iniziano almeno dal 1942, come risulta dall'archivio di via Biancamano. Le cure testuali einaudiane 162

sono e saranno complessivamente buone e in alcuni casi ottime. Presso Einaudi escono ancora le nuove edizioni della Madonna dei filosofi (1963) e dell’Adalgisa (1963: con una nota di Contini), Le meraviglie d’Italia - Gli anni (1964), le edizioni integrate del Giornale (1965) e della Cognizione (1970). Presso Garzanti inoltre, un'edizione

accresciuta dei racconti (Accoppiamenti giudiziosi, 1963, che accentua il carattere di raccolta, con testi anche minori, già avvertibile nelle Novelle), I Luigi di Francia (1964), II guerriero ed Eros e Priapo (1967), La Meccanica (1970) e Novella seconda (1971). In tutti questi anni poi, su giornali e riviste, mentre si riducono le vere

e proprie collaborazioni, escono numerosi e più o meno antichi inediti. Un'attenzione

particolare meritano comunque

Le re-

raviglie d’Italia - Gli anni, che raccolgono testi pubblicati in varie sedi, per lo più tra il 1934 e il ’60: alcuni già compresi nelle due precedenti edizioni omonime, altri in Verso la Certosa e uno riprodotto per la prima volta in volume. La diversa organizzazione di tutti questi testi e la esclusione dei brani più ideologici presenti nelle Meraviglie 1939, contribuiscono efficacemente alla novità dell’opera. Che si presenta anzitutto come una sorta di programmatico riepilogo di tanti generi, temi, luoghi, sperimentazioni, atteggiamenti gaddiani: dallo scritto autobiografico all’occasione di viaggio, dal frammento di romanzo alla divagazione erudita, dalla prosa d’arte alla nota a piè di pagina; dal Sudamerica alla Lorena, e dall’Abruzzo alla Lombardia; dall’evocazione alla polemica all’(auto)ironia; e ancora, dall’accostamento alto-basso all’elencazione. Per accennarne soltanto alcuni. Questa caratteristica di rie-

pilogo programmatico, di catalogo esteso dalla pagina alla raccolta, più ancora che la presenza di non poche pagine del maggior Gadda, costituisce forse il vero motivo d’interesse delle Meraviglie 1964: nel senso che più di ogni 163

altra edizione esse sembrano funzionali a quest’ultima fase, ponendosi anche come una sorta di risvolto produttivo dei passivi bilanci epistolari di cui si dirà. Quasi che Gadda intenda riunire qui tutta una serie di campioni e di tappe del suo curriculum biografico e letterario: come può apparire anche dalla riproduzione di una sua precedente « dedica » (le « recuperate immagini »: md 273-4) e dai criteri di partizione e raggruppamento dei materiali. Tutte considerazioni che restano ovviamente e sostanzialmente valide anche nel caso che Gadda sia stato aiutato da altri nella costruzione del libro, come è documentato per I viaggi la morte da numerose lettere inedite dell’archivio Garzanti. Ma i principali motivi sottesi a quei campioni, tappe,

immagini, eltre ad articolarsi e complicarsi ulteriormente richiamandone infiniti altri incontrati lungo il curriculum gaddiano, tendono a interagire tra loro, da una sezione all’altra, da una pagina all’altra, in una rete di rimandi di cui si indicheranno almeno quelli più significativi. Il libro si apre con « gli anni » e dolori dell’infanzia, rivisitati attraverso Freud e Virgilio (9, 23), e con le esperienze di lavoro e di solitudine nel mondo, tra nuovi ricchi e « mezzi

Indios » poverissimi

(25, 34), per continuare

con quello che diventa via via il motivo prevalente del libro: una ricognizione e cognizione attraverso « gli anni » e «le meraviglie » d’Italia, intese in senso assai lato e talora implicitamente ironico-divertito e ironico-polemico, bellezze e bruttezze, immagini di operosità e di insensatezza, e così via. Sono dapptima paesaggi naturali, storici, artistici, e interni, costumi, genti: « meraviglie » maestose

e semplici, preziose e domestiche, delicate e selvagge, che possono tuttavia riaprire inopinatamente in Gadda le antiche ferite: « Dentro di me la mia cognizione insoppottabile, quella che mi fece vivere gli anni di minuto in minuto, partecipe d’ogni dolore, d’ogni angoscia e destino 164

[...1.» (73) Sono poi gli aspetti contrastanti della Milano e Lombardia ritratta dall'ingegner Gadda negli anni di gestazione e stesura dell’Adalgisa: meritotie ricostruzioni e restauri delle cose antiche; itinerari immaginari di una città scomparsa; moderne quanto bislacche e asinesche manifestazioni di un disordinato sviluppo economico, urbanistico, edilizio; o per contro, umili mestieri e servizi

nei quali un civile e produttivo disordine (fiere e mercati) può essere il risvolto di un’ordinata e funzionale competenza

(macelli).

In sostanza, quelle « meraviglie » passate e presenti, il motivo del lavoro italiano, e il contrastato mito della macchina e del Progresso, nel loro costante alternarsi e intrecciarsi, rimandano al ben noto conflitto ordine-disordine, perizia-inettitudine, cultura-cattivo gusto, e ai valori di fondo che lo regolano, e che Gadda emblematizza nella figura di costruttore delineata un po’ per tutto il libro: capace d’« una sollecitudine architettrice ch'è nobilmente urbana e sensatamente razionale », « buon cittadino » con « anima profondamente sensitiva, onesta e cognita », « fantasioso e purtuttavia cognito macchinista » (66, 124, 219). Una figura che l’ultimo testo sembra quasi riproporre nelle vesti e nel ruolo del chirurgo (un confratello del colonnello medico Di Pascuale?): la cui sagacia, cognizione e perizia opera sul corpo del paziente come su un paesaggio misterioso e sorprendente, fino a escluderne « il male » e a ricomporvi « le ragioni della vita », portandolo a un nuovo ordine, forma e « riabilitato volume » (258-9, 266-9). È questa, in certo senso, l’ultima meraviglia. Ma riproponendo con le Le meraviglie 1964 quella figura di costruttore e di risanatore, Gadda sembra anche voler riassumere i tratti dell'ideale che è venuto più © meno esplicitamente perseguendo lungo il suo intero curriculum, e che qui ancora una volta (con l'eccezione parziale del Pasticciaccio) viene teorizzata in modo tanto più 165

completo quanto più lontano da una concreta realizza zione: se è vero che l’opera in questione risulta e rimane alla fine oggettivamente frammentata in pezzi, del resto preesistenti, che la pur ricorrente interazione di motivi e programmatica organizzazione a comporre in una vera unità.

in volume

non

riescono

Le meraviglie 1964 perciò concludono idealmente e definitivamente il curriculum gaddiano, in anni caratterizzati da pubblicazioni di opere dimenticate o inedite o integrate, nel quadro di un ormai consolidato successo e relativo benessere. E tuttavia, non sono neppur questi anni sereni per Gadda. Quell’indiscriminato rifiuto del mondo e quell’aspirazione al « silenzio », che almeno in parte può coincidere con una crisi di produttività, si è acuito progressivamente, risolvendosi ormai quasi interamente e direttamente nella confessione personale e nell’esperienza autobiografica. Il fecondo rapporto tra « vicenda umana » e produzione letteraria insomma, si rompe. Il « mondo dei pazzi » di cui Gadda parla, allora (LAM 74. LGC 121), ben lungi dal provocare i fecondi furori e dolori

di un tempo, è soltanto una nebulosa che invade ogni spazio della sua giornata e della sua esistenza. Ma sono soprattutto le lettere dell’ultimo quindicennio circa, che documentano in modo sempre più scoperto e incontrollato l'atteggiamento di Gadda. Ne è un test significativo proprio il successo, nei confronti del quale egli appare dapprima stupito, divertito, autoironico (« Sono diventato una specie di Lollobrigido, di Sofio Loren, senza avere i doni delle due impareggiabili campionesse. »: LAM 61), per diventare via via sempre più insofferente, irritato, quasi attetrito, da attenzioni, obblighi, impegni che sono arrivati ormai troppo tardi (nel ’57 Gadda ha sessantaquattro anni e nel ’63 settanta), e che lo trovano privo della necessaria salute, età, energia, curiosità e interesse (Lc 93, 103, 105, 113, 121-3. LAM 68). Questo atteg166

giamento non si può ridurre sommariamente a una programmatica reazione di estraneità e paura nei confronti delle logiche del mercato: che anzi Gadda dimostra di conoscere in alcuni aspetti non secondari, come appare dai suoi consigli a un giovane scrittore (LGc 117-8). C'è piuttosto in lui un accentuarsi della misantropia e un aggravarsi dei z4li, che sul piano contingente può anche manifestarsi come disinteresse o autoesclusione, fastidio o disgusto nei confronti (oltre che di quelle logiche) delle

querelles letterarie (sui « romanzi

dialettali », per esem-

pio: 106-7), o delle vicende politiche italiane (111), rispetto ai pronunciamenti sul neorealismo (vm 251-3) o alle dichiarazioni di voto (L6c 73) di un tempo; ma che

reca in realtà al suo interno e al suo fondo un totale distacco dalle cose, un’« estrema stanchezza », un acuto senso della fine incombente (105, 108. LAM 71, 83. LGS 221). Un po’ tutte le lettere di questi anni ne sono comunque segnate, mentre si susseguono ripiegati e sconsolati bilanci della propria vita, tra rimpianti e « rimorsi » (LGC 104-5, LIO

REAM(/2).

Può essere significativo, in questo quadro generale, che nelle sue ossessioni, nevrosi, manie, il momento della difesa prevalga ormai decisamente sull’attacco (che è anche la conferma di un’esperienza tutta risolta ormai nella biografia). Così, non soltanto la misoginia cede praticamente alla phobie du mariage (69. LGc 110. Cattaneo GL 18-9, 71), ma sempre più ricorrenti e insistenti diventano i complessi di persecuzione, le paure per sue possibili offensive allusioni, le excusationes non petitae, e così via (EGCI86

991006116)

121, 127, 131° LAM: 75, 320IDM

19. Cattaneo GL passizz. Cfr. inoltre una sua intervista in Bdc 188). Si dovranno ricordare almeno, a questo proposito, le lunghe spiegazioni e scuse di Gadda per un riferimento all’amico Ambrogio Gobbi contenuto nel Giornale, e in generale il cambiamento dei nomi di persona nel167

l’edizione 1965 di esso (LAM, XXIII-IV, 65 sgg.); e più tardi certe oscure allusioni a pericoli o accuse nei suoi confronti, di non facile decifrazione (LGc 137-8. LAM, XXV-VI,

89-90).

Ma negli ultimissimi anni anche tutti questi sterili e confusi rifiuti, irritazioni, paure, cedono al silenzio; gli epistolari si interrompono nel ’69 e in qualche caso anche prima; Gadda non esce più dalla sua casa di via Blumenstihl (L6c 122, 141-3). I 724 hanno vinto. Il 2 febbraio 1972 Gadda fa testamento a favore di Giuseppina Liberati, « in segno di affettuosa riconoscenza per l’assistenza affettuosa che ella gl; ha dato e gli darà » (archivio Einaudi). La sua vita di solitario senza famiglia si conclude sedici mesi dopo, il 21 maggio 1973.

Capitolo tredicesimo *

UNA

FORTUNA

DISORDINATA

L’ultimo quindicennio dunque, vede crescere quasi parallelamente i suoi mali e la sua fortuna. A proposito della quale si può osservare come la pubblicazione e il successo del Pasticciaccio nel 1957 e della Cognizione nel °63, non

siano certamente

estranei

al clima’ culturale di

quegli anni, caratterizzato tra l’altro dalla crisi e fine dell’esperienza storicistico-realistica e dell’alternativa novecentismo-neorealismo, da un’apertura a correnti e metodologie sostanzialmente lontane dalla tradizione italiana dominante (e portatrici, per esempio, di una nuova sensibilità per i problemi della psicologia e del linguaggio), dal progressivo affermarsi di un articolato sperimentalismo letterario,

eccetera: al quale clima naturalmente, lo stesso Gadda ha segretamente e profondamente contribuito a suo modo. A questa stagione presiedono largamente « Officina » (19551959), pur con ritardi e contraddizioni, e « il verri » (dal °56) e la nuova avanguardia, pur con tendenziosità e forzature. Riviste e gruppi diversissimi se non opposti, che tendono a fare di Gadda un riferimento fondamentale delle loro battaglie critiche e letterarie, ben al di là comunque dell’attenzione recensoria più immediata. Se « Officina » * A. Arbasino, I nipotini dell’Ingegnere e il gatto di Casa De Feo, in « il verri», febbraio 1960, pp. 57 sgg. sn | Roscioni DP G.C. Roscioni, La disarmonia prestabilita, cit.

169

infatti indica in Gadda una vera alternativa al novecentismo e a una tradizione ottocentesca via via restaurata e rammodernata, la nuova avanguardia vede in lui il modello di uno sperimentalismo negatore delle ideologie e dissacratore dei linguaggi. Atteggiamenti e motivi che si ritrovano in un’altra rivista, « il menabò » (1959-67), in-

sieme a contributi talora importanti di altre e diverse generazioni e orientamenti intellettuali, a documentare l’estendersi di un’attenzione e di un consenso. Ma è con La cognizione del dolore (1963), in queste

e altre sedi, che si apre una nuova e più meditata fase di contributi critici sull'opera ed esperienza gaddiana, con una diffusa e profonda presa di coscienza della sua importanza e anche influenza (ben al di là dei « nipotini dell’ingegnere » indicati a suo tempo da Alberto Arbasino), e con una lunga serie di ricerche e di studi che continuerà fino ad oggi. Anche l’interesse della critica e dell’editoria straniera, iniziato all'indomani del ’57, si estende e approfondisce progressivamente negli anni Sessanta, con saggi e traduzioni sempre più numerosi. (C’è da rilevare semmai, nella complessiva fortuna critica postuma, una certa contraddizione tra carenza di studi d’insieme e tendenza al virtuosismo microspecialistico, o quanto meno una sproporzione in proposito). Al centro di questa fase dunque, si colloca un saggio di Gian Carlo Roscioni (1969), che rappresenta il contributo più rilevante su Gadda dopo quello di Contini. Valendosi anche di scritti inediti, con rigore filologico e intelligenza critica Roscioni ricostruisce il complicato reticolo filosofico sotteso all'opera letteraria gaddiana, e tutte le relative e feconde trasgressioni e contraddizioni creative: tra l’altro vanificando così d’ora in poi, definitivamente, ogni approccio condizionato da pregiudiziali astrattamente formalistiche o antiformalistiche. Assai significativa è in questo senso la premessa sul « carattere di ‘ necessità” » 170

delle scelte stilistiche di Gadda nei confronti della « realtà e la vita », e sul suo « calligrafismo » come « consapevolezza della varietà e della deformabilità della tecnica rappresentatrice e dei suoi strumenti, che devono adeguarsi al processo di dissoluzione e di trasformazione della realtà rappresentata » (Roscioni pp 11, 101). Roscioni ricostruisce

questo processo fin da quella che è «la legge prima del mondo conoscitivo di Gadda »: la sua « tendenza verso una stabile organizzazione, verso una struttura totale [....]:

tendenza contrastata, a ogni livello del pensare e dell’agire, dall’imprecisione dei calcoli, dall’incompletezza delle enumerazioni, dal continuo dissolversi delle cose nelle relazioni ». Ecco allora che la sua « deformazione », « il suo pasticcio, costituiscono, di fronte a un mondo che non è ordine e ragione, ma universale, inesplicabile disarmonia, uno ‘spastico’ tentativo di sintesi e di organizzazione, un ultimo confronto con la realtà. Alla quale Gadda è disposto a lasciare l’apparenza dell’irregolarità e della confusione, anzi ad esasperarla, pur di credere, per un attimo, di esserne l’arbitro o l’artefice ». La sua « sempre rtiemergente ma sempre sconfitta razionalità » in sostanza, « lascia libero il campo alle costruzioni più temerarie, alle più ‘ barocche ’ invenzioni », nella estrema ricerca di un disordine programmato, di una « disarmonia prestabilita ». Che alla fine sarà soltanto il risvolto creativo di quella filosofica sconfitta. (45, 82, 98, 160-2) Roscioni curerà poi l’edizione della Meditazione milanese, che insieme al Racconto italiano di ignoto del novecento curato da Dante Isella (Einaudi, 1974 e 1983) rappresenterà il contributo filologico più rilevante alla fortuna postuma di Gadda, nel quadro generale di una caccia all’inedito spesso indiscriminata, editorialmente dispersiva e caratterizzata da cure molto diseguali. Sono significativi in proposito i casi estremi di due inediti minori o minimi: la cura inesistente di Gonzella buffone (Guanda, 171

1985) e

le cinque pagine di apparato filologico alla già citata letterina dello scolaro Gadda (1986). Nel quale secondo caso

non si vuole naturalmente disconoscere l’interesse documentario dell’iniziativa, ma evidenziare per contrasto i rilevanti vuoti e carenze che la circondano. Dopo la morte di Gadda escono dunque ancora, precedute spesso da anticipazioni in rivista, tutte quelle raccolte epistolari cui si è fatto costante riferimento qui. E inoltre un’edizione Einaudi cresciuta di un’appendice e con rero (1973); Tre traduzioni da e Ruiz de Alarcén, a cura di

del Castello di Udine, acuna nota di Ernesto FerQuevedo, Salas Barbadillo Manuela Benuzzi Billeter

(Bompiani, 1977); Le bizze del capitano in congedo e altri racconti, con bibliografia gaddiana (1981), e Il tempo e le opere (1982), curati da Isella per Adelphi; Un radio-

dramma per modo di dire e scritti sullo spettacolo, a cura di Claudio Vela, comprendente anche le Norme per la redazione di un testo radiofonico (Saggiatore, 1982); Il palazzo degli ori presso Einaudi (1983); scritti inediti in rivista, e la ristampa di numerosissime edizioni. Mentre sono attualmente in preparazione presso Garzanti, La Madonna dei filosofi, Accoppiamenti giudiziosi ed Eros e Priapo, con introduzioni rispettivamente di Isella, Contini e Piccioni, e una raccolta delle lettere di Gadda a Con-

tini curata dal destinatario; e presso Einaudi, un’edizione commentata e ulteriormente integrata della Cognizione, a cura di Emilio Manzotti, e le poesie 1919-21 a cura dello stesso Manzotti e di Guglielmo Gorni. Appare abbastanza chiaro da quanto si è detto fin qui che il bilancio complessivo della fortuna gaddiana risulta largamente deficitario rispetto al rilievo dello scrittore e al significato della sua esperienza. Considerando anzitutto la critica, si registrano lunghi periodi di sottovalutazione o di silenzio e momenti di affannoso recupero, che la più meditata fase conclusiva compensa solo in parte. Basterà 7/2

notare che i maggiori critici del Novecento, con l’eccezione di Contini, o se ne sono occupati in modo inadeguato, o se ne sono occupati tardi, o non se ne sono occupati affatto: salvo poi a risarcire magari Gadda con iniziative pratiche, facendolo pubblicare o premiare. Né la fortuna di pubblico (circa 200.000 copie vendute del Pasticciaccio, dall’uscita a oggi, secondo cifre Garzanti: per citare il caso più clamoroso) o l’attenzione della scuola nei suoi confronti, sono lontanamente paragonabili a quelle di cui beneficiano altri autori contemporanei, spesso decisamente minori. Si può anzi dire che l’immagine complessiva di Gadda, così come si è venuta via via formando a livello di opinione (e comunque sempre in un ambito relativamente ristretto), non soltanto attraverso la sua fortuna critica, ma anche attraverso la promozione editoriale, la veicolazione di mercato, i mass media, eccetera, sembra ripropotre su scala più vasta i tratti di isolamento, stranezza, stravaganza dei suoi esordi. Sono tutti questi del resto, i riflessi e risvolti zegativi di ciò che fa l’originalità e grandezza dell’opera e personalità di Gadda: opera e personalità difficili, disorientanti, eccentriche nel significato letterale e profondo di una distanza e diversità da ogni centralità e istituzionalità più o meno acquisita, e non nel significato riduttivo ed esorcizzante che è stato spesso

usato

nei suoi confronti.

Gadda si presenta dunque come uno scrittore troppo aperto a interessi lato sensu scientifici, per la tradizione umanistica e idealistica italiana. Come troppo viscerale, autobiografico, realistico per la tradizione formalistica, e troppo divertito, calligrafico, prezioso, e anche disorganico, per quella storicistica (mentre la critica neoformalistica non fa che rimuovere il problema); con una tensione etica e conoscitiva troppo scoperta, e con un atteggiamento troppo disimpegnato ed evasivo. Troppo dialettale

e gergale per la tradizione monolinguistica, e troppo defor173

mante e soggettivo in questa sua esperienza per la critica

che identifica le sue istanze sociali anche nel dialettalismo. Troppo compromesso con generi e motivi e linguaggi tradizionali o bassi (il romanzo, il giallo), o troppo innovatore, elitario, indecifrabile. Troppo « sgrammaticato » e troppo « pedante ». Una sorta di gioco o scambio tra

eccessi opposti, la cui elencazione potrebbe continuare a lungo, rimandando più o meno direttamente a quella che è la radice profonda della intera esperienza e produzione gaddiana: a quell’intimo e complicato rapporto tra « vicenda umana » e scrittura, tra oscurità e irzpurità della prima e funzionalità e chiarezza della seconda, e ancora tra mimesi del preesistente (reale o linguistico) e arbitrio deformante, dolore manifestato e schermo letterario nei confronti di esso, ossessione nevrotico-esistenziale e concretezza plurilinguistica: con tutte le relative interazioni e combinazioni,

compenetrazioni

e contrasti.

Gadda può apparire inoltre, spesso anche a ragione, come uno scrittore della crisi innamorato dell’Ottocento, e come il modello di un nuovo sperimentalismo. Come

un autore al tempo stesso profondamente radicato nella cultura lombarda, e proiettato in una dimensione europea e mondiale (che predilige, tra gli altri, Manzoni e Proust). Come un intellettuale di letture classiche e di interessi psicoanalitici (basta pensare allo Shakespeare e al Freud sottesi alla Cognizione). Come un filosofo irregolare e inventivo. Come un milanese che sa amare e odiare la sua città con la stessa intensa partecipazione. Gadda può apparire anche come un maestro della misura breve e del racconto, continuamente contrastato nella sua tendenza al

romanzo, o come un narratore che in questa stessa tendenza realizza contraddittorie e originali unità in cui la stessa misura breve può intrinsecamente risolversi. La sua produzione diaristica, letteraria, saggistica, epi-

stolare, riproduce tra opera e opera, genere e genere, il 174

processo centrifugo-centripeto che si ritrova all’interno di quelle contraddittorie unità narrative e anche saggistiche, in un ritorno ossessivo degli stessi motivi e in una loto incessante dispersione e modificazione e . ricomposizione. Sembrano quasi evidenziarlo alcuni aspetti esterni già considerati in differenti contesti: le complicate vicende editoriali delle sue opere, tra impegni plurimi, progetti rientrati o protratti, inadempienze, ritardi, e la loro bibliografia, con una proliferazione di stesure e ristesure, edizioni e riedizioni, in sedi disparatissime, dalle più rare alle più diffuse. All’interno di quella stessa produzione poi, si alternano, intrecciano, scontrano, rifondono, strazio e gioco, « cognizione » e « vendetta », preziosismo e passione, furore e pietà, satira e disperazione, crudeltà e affetto, misura e fantasia, severo moralismo e scatenata invenzione, interpretazione e rifiuto della realtà, e riferimenti, citazioni, allusioni, echi, ispirazioni dai più diversi e contrastanti modelli della cultura e letteratura di tutti i tempi. Gadda è di fatto un dissacratore e un nostalgico dei valori borghesi, un fautore e un nemico del Progresso, un disgregatore e un costruttore di forme, e insomma un conservatore e un eversore ai vari livelli della sua esperienza complessiva. La sua misoginia non è, almeno intellettualmente e letterariamente, omosessualità. La sua misantropia, incapacità di relazioni sociali e di strategie personali, insofferenza per le corporazioni o per i mass

media, non si definisce mai in opposizione programmatica. Il suo antifascismo è soprattutto un assai personale antimussolinismo. In generale poi la critica finisce per dare di lui tutta una serie di imzzzagini parziali e parzializzanti, spesso perfino in alcuni dei contributi migliori. Ecco allora un Gadda volta a volta umorista, bizzarro, espressionista, barocco, calligrafo, moralista, realista, ludico, tragico, scientista, razionalista, irrazionalista, sperimentale, borghese, 175:

antiborghese,

reazionario,

eversore,

antifascista,

eccetera

eccetera. Gadda è in realtà tutte le cose elencate fin qui, e tante altre ancora, come manifestazioni più o meno dirette o mediate di quel fondamentale conflitto ordine-disordine (e dolore, furore) e di quella tensione inesausta e contra-

stata a risolverlo: con tutta una serie di esiti paradossali e straordinari, soprattutto nell’ Ada/gisa, nella Cognizione e nel Pasticciaccio. Appare più chiaro allora, a questo punto, il rapporto tra ciò che rende Gadda tanto disorientante e difficile, e tanto discontinua e diseguale la sua fortuna. Il fatto stesso che la critica, anche la più agguerrita talora, lo circoscriva in questo o quello dei suoi aspetti o momenti, senza riuscire a dare un'immagine unitaria, intera, della sua produzione ed esperienza, se da un lato ne fa certamente un test privilegiato per evidenziate i limiti o le tendenziosità di questo o quell’approccio ideologico o metodologico, dall’altro ne illumina una caratteristica intrinseca e fondamentale: di autore cioè che quasi resiste, recalcitra a ogni istituzionalizzazione del personaggio e del classico, nonostante apparenti o temporanee, formali ed estrinseche consacrazioni in proposito. Gadda in sostanza proprio pet quel multiforme, fermentante, fecondo conflitto ordinedisordine, e per l’infinito incessante riprodursi di diversi e opposti risultati intellettuali e creativi che ne deriva, sembra porsi come

un autore che divide:

e non soltanto,

appunto, nella parzialità e molteplicità dei giudizi critici, ma anche e soprattutto nella valutazione complessiva della sua opera, ancora lontana da un universale riconoscimento, a differenza di altri classici del Novecento. Gadda è insomma un classico anticlassico pet eccellenza, che sembra

affidarsi inevitabilmente

al destino

di

una fortuna instabile, frammentata, discontinua, gaddianamente disordinata. 176

Indice dei nomi*

Angioletti, G. B., 158. Arbasino, A., 170. Ariosto, L., 24. Audiberti, J., 69. BacchelliMRE

2258:

Balzac, H. de, 8, 32. Bandello, M., 159.

Delli

TARE AR

150:

Benuzzi Billeter, M., 172. Be RUSSA R:8:2405 19, (G, 566 Bocelli, A., 53. Bonsanti, A., 21, 58.

Borromini, F., 150. Brocchi, V., 81.

(Casina da. (Ga (65, Calandra, E., 69. Calvino, I., 162.

Carducci, G., 25-6. RA RR20-20053: Cattaneo, C., 3. Carocci

Cattaneo,

amati,

(Gdo.

160), 62.

Einstein, A., 24.

Faldella, G., 69. Ferrata, G., 58. Ferrero, E., 172. Folengo, T., 69. Foscolo, U 10% 1301 145; Franchi, R., 21. Iran So 29 3 746, 83, 1106, 164, 174.

G., 159.

Cecchi, E., 161. @elime E =W69) (Gio ivo 05) Contini, G., 53, 58, 68-9, 161169009723:

Corneille,

D'Annunzio, G., 25-6, 82, 130, 134. Dante, 24. Darwin, Ch. R., 40, 77. De Broglie, L.-V., 24. De Robertis, D., vi. De Robertis, G., 54, 67, 161. Bossi; G, 09, Dostoevskij, F.M., 32. Douglas, N., 110.

P., 134.

* Ne sono

(Gacka, CD Gadda, E., 9-10, 37.

Gadda, L., 10. Gadda Conti, P., 22. Gargiulo, A., 53. Garzanti, L., 140, 160.1.

escluse tutte le indicazioni bibliografiche.

Omero, 24.

Genet, J., 143. Germi, P., 161.

Gobbi, A., 167. Gorni, G., 172. Guicciardini, F., 24. Hitler, A., 106.

Pareto, V., 40. Parise, G., 159. Pasolini PP S8]59: Pesa ly 150), 72. Piovene, G., 162.

Isella, D., viti, 28, 171.2.

Pitigrilli, 81. Porta, C., 26, 69. Proust, M., 174.

Joyce, J. A., 69.

Quevedo,

Kant, I., 24, 40, 134.

Rabelais, F., 69. Rodocanachi, L., 58. Roscionig GG AviInie220100) 159, 170-1. Ruiz de Alarcén, J., 172.

Labò, G., 129. Landolfi, T., 58.

Latini, B., 144.

D.H., 110. Leibniz, G.W., 21, 24, 40, 77. Leopardi, G., 8.

F. de, 68, 172.

Lawrence,

Saint-Simon, L. de Rouvroy de, 158-9.

Liberati, G., 168. Thing, Ca 22 DIL, Losa, Ag ZL

Salas Barbadillo,

Sbarbaro, C., 58. Scarpa, G., 22. Sciesa, A., 63. Shakespeare, W., 174. Spinoza, D., 24, 40. Stendhal, 32, 54, 133-4.

heal, (GI Machiavelli, N., 24. INTAnZO RRAVERRO 258

281547

174.

Manzotti, E., 172. Marcenaro, G., viti, 58. Matteotti, G. 137. Mattioli, R., 58, 109, 161. Mazzola, S., 135. Montale, E., 21, 58, 161. Moravia, A., 162. Mussolini, B., 10, 60, 107, 110,

Tesgni, 13, 8, 0, 205, 27, 53,

G200701

Tolstoj, L.N., 8. Vela, C., 172. Virgilio, 164.

118-9; 125 127534, 136, 139, 146, 157.

Napoleone

Bonaparte,

A.J. de, 68,

10723

10, 130-

Vittorini Eno

205

Whitman,

17.

W.,

SIM62I

131, 134.

Natoli, G., 54, 133. Nietzsche, F.W., 133-4.

Zampa,

G., vira,

Zoe

178

21

146.

Indice del volume

Avvertenza

VII

Abbreviazioni

IX

il

Il formidabile lord Kitchener

DE

Povero Taurus

12

III.

Un canguro nel giardino

20

IV.

Lo splendore di Zoraide

52

V.

Il ragazzo ferito

4

VAL

I conti dell’ingegnere

OY

VII.

La somaresca

TAL

VIII.

Gli alibi di Gonzalo

ID

Il parruccone di Ingravallo

X.

Maledito Merdonio

tribù

3

88 108

dictatore impestatis-

simo

124

Sale

Quattro piedi apostolici

142

XII.

Il silenzio di via Blumenstihl

156

XIII.

Una fortuna disordinata

169

Indice dei nomi

1707

ultimi volumi pubblicati

674

675

Il. Zannier Manuale del fotografo H. Reichenbach Da Coper-

676

nico a Einstein AA.VV. Cento anni Laterza.

677

1885-1985

E.H. Gombrich progresso

Arte

e

678

M. Hiddeger Kant e il pro-

679

blema della metafisica K. Lòwith Nietzsche l'eterno ritorno-

680

V. Masiello

681

Verga M. Montessori ne alla libertà

682 683

684 685

686 687 688

689 690 691

Il punto

e

su

Educazio-

A.J. Ayer Wittgenstein R. Luperini Storia di Montale G. Petronio Il punto su: Goldoni G. Grazzini Cinema '85 P. Matthiae Scoperte di archeologia orientale B. Russell Un'etica per la politica A. La Penna La cultura letteraria a Roma

Proclo

La

provvidenza

e

la felicità dell'uomo G.W. Leibniz Monadologia e Discorso di metafisica G. Caronia Ritratto di Bramante

692

Epicuro Opere, frammenti, testimonianze sulla sua vita

IIRINIULM MA

Tracciato gico

con

scrittura

e originalità

serrata,

rigore filolo-

di interpretazione,

questo

ritratto critico-biografico si presenta anche come una aggiornata guida alla lettura e allo studio di uno dei più grandi scrittori del Novecento.

UNIVERSALE LATERZA UL Gian Carlo Ferretti è nato a Pisa nel 1930. Ha

dedicato

i suoi studi soprattutto alla lettera-

tura e alla critica italiana del Novecento.

le sue opere in volume:

Tra

La letteratura del ri-

fiuto (1968 e 1981), «Officina» (1975), Pasolini: l'universo orrendo (1976), Il mercato delle lettere (1979), Il best seller all’italiana (1983).

ISBN 88-420-2857-6

lire 15000 (i.i.)

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